Sono forse il guardiano di mio fratello?

di RLandH
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Io sarò ramingo e fuggiasco ***
Capitolo 2: *** Perché è abbattuto il tuo volto? ***
Capitolo 3: *** Che hai fatto? ***
Capitolo 4: *** Ho acquisito un uomo dal Signore ***
Capitolo 5: *** Il peccato è accovacciato alla tua porta ***
Capitolo 6: *** Caino si allontanò dal Signore ***
Capitolo 7: *** Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore ***



Capitolo 1
*** Io sarò ramingo e fuggiasco ***


DVD

La storia è ambientata ad occhi e croce nel 79, anno più, anno meno, ovvero pochi mesi dopo il loro rientro dal Nuovo Mondo. In cui diamo per scontato che Da Vinci si è semplicemente avvicinato alla Volta Celeste e a sua madre, senza però averli trovati. Dunque pronto a ricominciare dal principio, con un Nico non più Nico ed uno Zoroastro decisamente meno prodigo a tali follie. E be, il titolo è preso dalla Genesi, così come il titolo del capitolo (e come farò probabilmente per tutti i titoli dei capitoli) di un brano legato strettamente a questa storia. Diciamo che quel Brano mi ha dato l’idea.

Buona Lettura

RLandH

 

 

 

Sono forse il guardiano di mio fratello?

 

 

Atto I: Io sarò ramingo e fuggiasco

 

(1450)

“Non è giusto che debba sempre tenerli d’occhio” s’era lamentata la bambina battendo i piedi per terra, calpestano l’erba dei giardini, aveva chiuso le mani attorno al petto ed imbronciato il viso. Sua madre s’era chinata, così da poterla guardare negli occhi, accarezzandole delicatamente i capelli in maniera così dolce, da far sciogliere il piccolo broncio della bambina. “Ma perché tu sei la più grande” le aveva detto con una voce minuta, “Ma loro sono maschi, sono loro che dovrebbero prendersi cura di me” si lagnò ancora la piccola. “Ma così sarà, bambina mia, quando sarete grandi, loro saranno forti e ti proteggeranno, sempre” le aveva assicurato sua madre, “Ma … ora devi prenderti tu cura di loro” aveva detto toccandole il naso con l’indice in un lieve buffetto, il suo sorriso era di miele. La bambina aveva annuito, silenziosa, non del tutto convinta. Ma era scappata per ricercare i suoi due piccoli fratellini. Lei aveva nove anni, era una piccola donna, i suoi fratellini avevano sette ed due, la mamma diceva che doveva occuparsene lei e così avrebbe fatto. Trovò il mezzano seduto sull’erba, incurante del macchiarsi gli abiti che li avevano a forza infilato, con i capelli spettinanti, sulle gambe teneva il minore, mentre lì mostrava quello che doveva essere una lumaca.  “Mamma dice che devo tenervi d’occhio”  aveva detto con un fare superiore, non guadagnando comunque nulla più che un’occhiata disinteressata dai fratellini, più interessati alle lumachine. Lei li aveva guardati, aveva mosso il viso e si era sforzata di restare calma, perché erano piccoli ed era normale che non capissero, non era neanche importante che lo facessero, tanto c’era lei lì ad assicurarsi che andasse tutto bene.

 

 

 

(1479)

Filippa era finalmente riuscita a prendere sonno, chiudendosi sotto le coperte del suo lettino. Quello era da notti la prima volta che riusciva ad addormentarsi nella sua piccola stanzetta, negli alloggi della servitù. Era tornata la madonna della casa ed era disdicevole che una serva dormisse nelle stanze del signore, anche perché quasi sicuramente i due avrebbero condiviso il letto. A volte a guardarli Filippa aveva l’impressione si amassero davvero molto, o almeno si prendessero cura l’uno dell’altra,  anche se le loro nozze erano state organizzate ed i due sposi non s’erano mai visti fino all’annunciazione del fidanzamento, sembrava avessero costruito una solida affinità. D’altronde avevano condiviso non solo una non minima porzioni di tempo assieme, ma anche un figlio. Nessuno l’aveva mai detto a Filippa, ma lei stessa aveva l’impressione il signore si svuotasse in lei quasi per bisogno che per interesse nella sua persona.

Chiuse gli occhi e finalmente fu pronta a concedersi al dolce bacio del sonno, quando un forte picchiare sul legno della porta, la costrinse a schiudere le palpebre. Scivolò fuori dalle coperte, con solo la vestaglia di lino a coprirla ed aprì la porta. Stagliato sulla porta c’era un imponente uomo, dalla stazza d’un orso, vestito , con forse il doppio dei suoi anni, con un grosso naso schiacciato tumefatto a causa di tutti i colpi che aveva ricevuto ed occhi ombrosi, “Lele” mormorò abbastanza preoccupata, “Che succede?” domandò poi, non ottenendo dall’uomo neanche un sussurro, “La madonna vuole parlarti” aveva detto quello, prima di andarsene, attendendo il suo solito grugno sul viso.  Filippa aveva appena aperto la bocca, abbastanza impreparata. La signora voleva vederla? A quell’ora di notte? Neanche tre ore che fosse tornata dal suo viaggio? Possibile che quella donna non avesse neanche il bisogno di riposarsi?

Seguì Lele fino alle porte della camera della madonna. Si arrestò lì davanti, bussò in maniera delicata, fino a che non udì il permesso di entrare. Allora aprì la porta e si infilò dentro. “Chiudi la porta” le disse imperiosa la signora, lei annuì e se la chiuse alle spalle, posando la schiena su essa, intimorita leggermente. La madonna era seduta sul letto, non indossava ne l’abito da notte, ne quello comodo con cui era arrivata qualche ora prima alla tenuta. Ma indossava una lunga maglia morbida di lana, fermata sulla vita da una cintura di cuoio scuro, pantaloni di lino scuro e stivali di pelle.  Non era una donna bella, ne una donna brutta, aveva un viso spigoloso ed un naso vagamente importante, la sua carnagione non era chiara come la perle, ma sempre brunita, il viso era incorniciato in capelli lunghi e lisci, d’un nero così scuro come l’inchiostro più corvino, ma ugualmente più chiari degli occhi, così scuri come  schegge di pece bruna, da sembrare il vivo sguardo d’un satanasso.  “Ho intenzione di partire questa notte” aveva commentato, afferrando dalla postazione cui era abituata farsi la toletta, una spazzola. “Certo signora” disse Filippa con un tono ossequioso, “Ma non si dovrà sapere” aggiunse, prima di sistemarsi davanti lo specchio, finemente istoriato e ponendo l’oggetto verso la cameriera, che con un passo lento l’aveva raggiunta, cominciando a pettinare i capelli. “Da domani sarà noto, che dal mio ultimo viaggio io sia stata colta da una febbre” aveva comunicato, mentre Filippa faceva passare i denti tra i fili di capelli, “Partirai con me, insieme al buon Michele” aveva stabilito ferrea. “Intrecciali e raccoglierli in cima, in modo che stiano sotto un capello” le ordinò, prima di riprendere il discorso sulla partenza, “Non portare nulla di quello che non sia essenziali, partiremo con tre cavalli questa notte, nelle cucine stanno già preparando le scorte” aveva impartito, la cameriera aveva annuito, mentre chiudeva con degli spilli i capelli sulla sommità della nuca della sua madonna. Avrebbe voluto chiederle dove erano dirette e perché avesse scelto proprio lei, ma non era prerogativa dei signori rispondere alle domande della servitù. La madonna fissò il suo collo, dove svettava un crocifisso grande come un palmo d’un argento brillante, l’aveva preso ed infilato nell’orlo della maglia, lasciandola nascondere sotto gli abiti, cosa che inquietò Filippa non poco, non era abitudine della signora nascondere i suoi oggetti più preziosi e quello, ne era certa, lo era.

“Ultima cosa” le disse, mentre sistemava il capello per nascondere i capelli, “Vestiti in maniera discreta” le impartì, prima di congedarla ed avvertirla di essere nel cortile ad un ora da quel momento. Filippa chinò il capo in maniera distinta e si mosse a prepararsi. Il suo guardaroba non era fornito, non possedeva abiti vistosi ne da viaggio. Era una serva, le uniche cavalcate che aveva fatto erano state per accompagnare i signori le poche volte che le era stato richiesto e spesso le era evitato il dorso d’un equino. Non aveva pantaloni o stivali, ne farsetti, l’abito meno femminile e più anonimo che avesse era una bisaccia ed un saio che una volta aveva preso ad un giovane francescano disgustato dalla sua stessa veste, che aveva intrapreso quella strada più per volere paterno che per illuminazione. Il frate s’era preso il vestito del coppiere che prontamente Filippa s’era guadagnata e lei aveva acquisito un saio, che di fatti non le era stato mai molto utile, se non nell’occupare  un piccolo spazio nella sua già modesta stanza. Alla fine indossò una lunga veste di lana nera, che coprì con una mantella nocciolo di mela, che arrivava fino a terra. Aveva infilato delle bende nella bisaccia e della stoffa nella biancheria, dopo che contando i giorni s’era resa conto che il suo sangue era prossimo. Si chinò ed infilò le mani sotto la sua brandina su cui dormiva, pigiò tra le mattonelle fredde per cercare quella che scricchiolava e quando una si sollevò appena, Filippa la tirò fuori; scostata quella, infilò la mano piccola nel fessura del pavimento ed afferrò l’oggetto morbido che era riposto dentro. Impolverato si trovò tra le dita un panno gialliccio annodato, che sfasciò con movimenti frettolosi, esso era custode d’un legnetto piatto, attraversato da due barre orizzontale nella parte superiore, la seconda era più lunga, c’era una terza più bassa, obliqua, v’era rappresentato un uomo crocifisso. Era vecchia, il dipinto sempre più pallido ed il legno più marcio. Ma Filippa non ne era toccata affatto, ne baciò il centro con dedizione, come un affamato alla vista d’un tozzo di pane, poi l’avvolse ancora nel panno, con movimenti lenti, delicati, curati  e la sistemò nella bisaccia, tra le bende per il flusso ed i vestiti per qualche giorno. Non si sarebbe mai sentita sicura senza, mai nella vita, era l’unico appiglio che le restava di quella vita così lontana. Era un ricordo, un ancora per la sua anima. Era perduta senza. Ripose la mattonella, per chiudere la fessura con movimenti molto meno frenetici di quelli usati per estrarla. Si sollevò dalla posizione inginocchiata ed infilò la bisaccia con la corda di traverso, nascondendola sotto la mantellina.

Quando si presentò ai giardini, Lele era l’unico ad essere lì, indossava gli stessi abiti con cui l’aveva visto un ora prima. Teneva le redini di un grosso stallone maculato ed alcuni scudieri preparavano due giumente già sellate, una era Dalila, la cavalla della signora, l’altra, quella più piccola e sottile, doveva essere quella che spettava a lei. “Non sali, Ippa?” aveva domandato Lele, con quella voce greve, che metteva sempre in soggezione la cameriera, quella annui, tirò su l’orlo della gonna fino all’inguine, non vergognandosi di mettere in mostra le calze blu spesse ed infilando la pianella scura nella staffa ed issarsi di forza, rischiando di scivolare giù ed aggrappandosi al collo della cavalla. Lele l’aveva afferrata per la vita ed issata di forza, prima che scivolasse a terra e si portasse a terra anche la puledra. “Grazie” disse lievemente in imbarazzo.  Lele non accennò un sorriso, ne nulla, il suo viso rimase un granito grugno e continuò a fare ciò  che faceva prima, aspettare la madonna nel più completo dei silenzi. Mentre Filippa cercava di prendere confidenza con la puledra, provando ad accarezzarne in collo con movimenti lenti,  Lele sembrò accorgersi di nuovo di lei, “Sai che questo viaggio è diverso dagli altri” le disse con un tono disinteressato, lei lo guardò mordendosi il labbro appena, “Certo … l’avevo capito dalla fretta” aveva mormorato dopo diversi, interminabili, minuti. La verità era che non se n’era minimamente curata, le era stato insegnato che ad una serva non era richiesto pensare o parlare, solo servire. L’aveva imparato con le legnate, i calci ed i pugni. Se la tua madonna ti chiedeva di rammendare tutti i fazzoletti lo facevi, così come alzavi la gonna se il signore l’ordinava. Era stata per Filippa genuina curiosità chiedersi perché la madonna avesse scelto proprio lei, ma non aveva dato fiato ai suoi pensieri, su dove andassero, non era suo interesse, era solo suo dovere andare.

La signora arrivò poco dopo, con una falcata imperiosa,  era esattamente come  la cameriera l’aveva lasciata,  l’unica differenza era una lunga cappa, del colore del manto della notte, ad oscillarle  sulle spalle, fino alle caviglie, legato al collo, ma aperto sul davanti. Alla sua schiena c’era il Signore della casa e qualche altro scudiero frettoloso. Il padrone aiutò a salire la moglie su Dalila. Poi le aveva passato la sua sacca, che la donna legò alla sella del cavallo, il tutto in un silenzio spettrale ed angosciante.  “Fa attenzione” cedette alla fine lui, con un tono apprensivo. Filippa sollevò lo sguardo e l’osservò: era un bell’uomo, pensò, aveva i capelli di miele, striati di grigio, e gli occhi scuri come le querce, l’aspetto poteva apparire alquanto anonimo, ma aveva una bella bocca, carnosa ed una dentatura perfetta.  Filippa avrebbe voluto baciarlo quando la prendeva ma non ne aveva mai avuto coraggio. “Non posso più aspettare, Antonio, io devo sapere” disse con un tono basso, ombrato d’un’incredibile dolore e rabbia la donna, stritolando le redine con i pugni, tante che le nocche erano divenute livide come la neve, “Non posso più vivere, senza sapere”. L’uomo annui, piccolo in confronto a quella donna,  le prese la mano coperta dal guanto e la spogliò, lambì la nuda pelle del dorso con la bocca, un bacio dolce e carico di reverenza. “Tornerò Antonio” lo tranquillizzò la donna, il marito sorrise “Torni sempre” concordò affabile , a quel sorriso in grado di sciogliere qualsiasi cuore anche la madonna rise, non aggiunse altro, batté i talloni sul ventre della creatura e partì a galoppo, seguita immediatamente dalla prodezza di Lele e da una più impreparata Filippa, cui dovettero tirare uno schiaffo sul deretano della puledra perché questa partisse, la cameriera afferrò le redini quasi per miracolo.

 

“Devo restare in questa posizione per quanto tempo ancora, Maestro?” domandò Yana, mentre cercava di calmare la creaturina tra le sue braccia, una capretta che non ne voleva sapere di star ferma, così come la straniera che cercava anche di abituarsi a quei vestiti mondani e civilizzati che sembravano starle alquanto scomode. E Leonardo spezzò la punta del gessetto sulla tela, chiedendosi dove fosse stato possibile trovare un abbinamento donna-capra tanto ostico.  Vanessa avrebbe fatto star calma tra le sue braccia anche una tigre, la prova era che appena stava tra le sue braccia il suo bambino taceva i suoi vagiti. Ma sfortunatamente, madonna Orsini l’aveva privato della sua modella più esperta, rettificando che quel bambino era un De Medici ed anche sua madre era ora membro di quella famiglia ed una donna d’alto borgo non se ne andava in giro per le taverne con un artista squattrinato, che Leonardo fosse l’ingegnere di Firenze e condividesse lo stesso sangue di Lorenzo, per Clarice Orsini era relativo.

“Sta ferma” impartì nervoso. Non aveva affatto voglia di star a disegnare quella donna, non che avesse qualcosa contro Yana, ma Andrea – vecchio pazzo –  l’aveva minacciato di sfratto se non si fosse dedicato ad altro che non fosse la Ricerca della Volta Celeste o la guerra contro Roma, almeno per un pomeriggio; Verrocchio lo faceva per farlo distrarre, almeno così diceva.  Yana ringhiò qualcosa a denti stretti e non ci serviva Zoroastro per tradurre il senso di quel che avesse detto. Con il carboncino sfumò appena il profilo preciso della ragazza, cercando di darle un aria divina, una modella come Lucrezia sarebbe stata più adatta, ogni sua espressione era da immortalare o Ima, ancora ora a distanza di tempo, si sentiva ambiguo nel pensare alla sacerdotessa del nuovo mondo. “Ritorna a guardare obliquo” ordinò a Yana, quando questa aveva inclinato il capo; sbuffò e tornò alla sistemazione originale, cercando di non far cadere la capretta che continuava a dimenarsi. “Oh maestro siete incredibile” disse una voce adorante, Leonardo si voltò,  alle sue spalle c’era un ragazzo con meno di vent’anni, la carnagione olivastra ed un indomita criniera di ricci e sorrideva quasi adorante, era vestito con un abito semplice, ma di colori sgargianti, “Grazie Lorenzo” borbottò Leonardo tornando alla sua amica che sembrava aver cominciato una faida con la pecora, intenzionata a mangiarla arrosto, come stava dicendo in quel momento.

“Avete un tratto così preciso, Botticelli è mosso solo da invidia, Maestro” aveva detto languido. Leonardo vide un sopraciglio di Yana sollevarsi e sul viso tatuato tingersi un espressione profondamente ilare e irrisoria, “Non cambiare espressione” le impartì, ignorando apertamente le parole di Lorenzo, completamente  perso per lui.  La ragazza s’era impegnata per non cambiare espressione, mentre l’artista cercava di immortalarla, “Ma Nico e Zoroastro?” domandò alla fine lei,  Leonardo non le rispose, continuando a ritrarla, anche mentre la capretta le stava mangiando i capelli, nonostante la ragazza fosse stata completamente ignorante di questo. Lui era solamente frustrato, trovava un enorme perdita di tempo, stare a disegnare, quando altre mille idea s’affollavano nella sua testa. “Maestro ho trovato la sua Annunciazione, ho notato che non è completa” aveva mormorato Lorenzo con un tono di voce bassa. Leonardo lo guardò, “Puoi farlo tu” disse disinteressato, di qualsiasi quadro stesse parlando, difficilmente lui l’avrebbe finito, quando perdeva interesse in qualcosa non era sua abitudine portarlo a termine, come quel dannatissimo carboncino che stava facendo in quel momento, che avrebbe volentieri voluto accartocciare  e far sparire da qualche parte.

Yana posò la capretta a terra, “Mi sono stufata, Leonardo, preferisco fissare le stelle” disse infastidita, sollevando la gonna lunga per camminare più comoda, totalmente infastidita da quegli abiti che Zoroastro e Leonardo le avevano fatto infilare a forza quando aveva messo piede sul suolo italiano. “Andrò  a pregare per i miei avi” stabilì lasciando da solo l’artista con il giovane. “È molto bella” aveva commentato Lorenzo, “Ha inciso con un pugnale la parola giocattolo sul petto di Alfoso di Napoli” aveva spiegato Leonardo, in una maniera contorta di spiegargli che era meglio stare lontano da Yana il più possibile.  Il ragazzo annui, sembrava disorientato, forse non era interessato alle carni della straniera. Leonardo lo guardò un attimo con mero disinteresse, prima di notare il profilo quasi scultoreo del ragazzo, afferrò il mento di quello e lo studiò con una rinnovata attenzione,  quello divenne paonazzo sulle gote, ma prima che potesse dire qualsiasi cosa, Leonardo aveva già sorriso.

Leonardo

La voce arrivò distante, ma Leonardo spalancò gli occhi lo stesso, non era steso nel suo letto, ma su qualcosa di freddo e resistente, come la pietra. Si rese conto non vi fosse luce. Era limitato alla pietra, pareti che li si chiudevano sui fianchi ed un soffitto che distava quasi una testa, premette le mani, nella speranza di sollevarlo, l’aria era stantia, irrespirabile. Uno spiraglio di luce appena, ed il mondo tornò a mostrarsi, il soffitto era stato spostato, Leonardo si sollevò cauto, rendendosi conto di trovarsi in una cripta e quella dove era sistemato era una tomba. “Cos …” non riuscì a finire, era stato investito come da mille luci, li parve di vedere il Turco, il Conte,  un viso senza dettagli, se stesso, Lucrezia, il papa ed alla fine era rimasto un ragazzino. “Dove siamo?” domandò, “Non dove, quando” lo corresse quello, aveva una risata divertita, era minuto, sparuto, dai capelli annodati e neri, aveva occhi castani stranamente amichevoli. “Quando siamo?” chiese, ma il ragazzino rise, “Siamo tutti di tempo diverso, io, te, il luogo” aveva risposto alla fine, sedendosi in bilico sulla tomba cercando di non caderci, “Ho sempre trovato meraviglioso che voi figli di Mitra poteste farlo” aveva spiegato.

Leonardo l’aveva guardato, “Chi sei?” aveva chiesto alla fine, “Un’altra abbeverata alla fonte della conoscenza” aveva risposto, mostrando i palmi delle mani, cui erano tatuati i fiori dei figli di Mitra, “O solo un capriccio” aveva spiegato ed i fiori s’erano liquefatti fino a divenire i simboli delle chiavi, li stessi che gli indigeni della terra sconosciuta portavano tatuati sul petto. Poi era saltato giù dalla tomba ed era corso fuori dalla porta della cripta, un apertura che Leonardo non si era accorto fosse presente. L’aveva inseguito svelto. Ma il ragazzo era scomparso nel giardino, una donna piangeva disperata aggrappata ad un tronco, il viso era liquefatto dal dolore ed i capelli strappati, rovinati, trincianti dalla disperazione, così come il vestito a brandelli, le unghia scarnificate dal troppo graffiare sul legno. Un passo verso di lei e già non esisteva più, di fronte a lui si erigeva spettrale Girolamo Riario, ma il viso tradiva confusione.

“Maestro”

Aprì gli occhi di nuovo, e su di lui s’era aperta la mappa di quella terra lontana, ricavata dalle pagine del libro dell’ebreo impiccato. Fu per un attimo spaesato, poi riconobbe la martellante voce di Lorenzo al suo fianco, che lo chiamava ripetutamente. Si voltò incrociando il ragazzino nudo steso al suo fianco, colmo di sudore e con un espressione allarmata. “Era un sogno” disse sbrigativo tirandosi sulla schiena e guardandosi in torno per metabolizzare dove fossero finiti i suoi vestiti, vista la fretta con cui il ragazzino  li aveva tolti, con l’impeto di saziare i propri ardori.  Infilò le braghe, afferrò una maglia, prima di rendersi conto fosse quella di Lorenzo e non la sua, la lanciò verso il ragazzo, ma questi non la prese al volo,  ricominciando a cercare i suoi vestiti. L’occhio cadde sulla Pietà che Lorenzo aveva trovato accatastato tra gli oggetti vecchi del Verrocchio. Quando Leonardo lasciava un lavoro, difficilmente riprendeva l’interesse, ma  il giovane artista aveva insistito così tanto che alla fine s’era convinto a rivederlo. Lo fissò per una serie di interminabili lavori, prima di ricordarsi che i Figli di Mitra avevano la precedenza. “Dove va  maestro?” domandò il ragazzo, sollevandosi, senza vergogna della sua nudità, guardando l’altro uomo di suo pari,  Leonardo sollevò la mano per zittirlo, afferrò con quella stessa la nuca del ragazzo e lo baciò con vigore, “Finiremo quel quadro assieme” lo rassicurò, prima di baciarlo ancora e fuggire via, animato da troppe perplessità da poter essere sfogate semplicemente in un letto in compagnia di una vigorosa compagnia. Prima di tutto doveva trovare Zo e Nico,  poteva immaginare dove potesse essere il primo, ad una qualche locanda.

Con la fretta d’uscire dalla bottega,  Leonardo quasi si lanciò in strada, travolse un indistinta macchia azzurra, che finì per ruzzolare al suolo,  “Figlio di una cagna!” rantolò la figura, da sotto un cappuccio chiaro, era emersa una chioma di ferrugine, che nascondeva un viso pallido ed infuocato, “Scusatemi signora” disse affabile allungando la mano verso la fanciulla che ora riversava sul suolo, la donna, anzi ragazzina, realizzò Leonardo, non più giovane di Nico o Lorenzo,  tese il braccio con l’intenzione di afferrare la sua mano, ma al contrario, ne schiaffeggiò la superficie, “Farei più attenzione a chi colpisco bifolco” mormorò infastidita, togliendosi la polvere dal mantello azzurro, sul collo la stoffa era fermata da una spilla d’argento istoriato, dalla forma di drago serpente, “Sparisci dalla mia vista” disse infuocata. Leonardo aveva troppa fretta per discutere con la madonna e lasciò semplicemente perdere, più interessato a trovare la tomba, il giardino, la donna urlante, il conte ed avvicinarsi al libro delle lamine ed ovviamente a sua madre, Caterina. “Questi artisti, non hanno mai  la testa sulle spalle” si lagnò, digrignando i denti la madonna e quella fu l’ultima cosa che Leonardo ascoltò uscire dalla bocca della ragazza.

Lorenzo collassò sul letto, sbuffante, dell’improvvisa fuga dell’uomo con cui aveva condiviso la carne, ma poi fu rallegrato dalla promessa di disegnare insieme, strinse tra le dita la stoffa intenzionato ad aggrapparsi a qualsiasi cosa per il ricordo e dopo essere sprofondato tra le lenzuola di Da Vinci, per odorare ciò che erano stati, si sollevò per osservare meglio la stanza che lo circondava, pieno di tutti quei disegni e progetti per cui neanche tra mille anni, Lorenzo avrebbe potuto essere in grado di comprendere. E si sentì così piccolo, eppure così desideroso di imparare. Lui non era come Botticelli, lui riconosceva la sua inferiorità, desiderava come lui migliorarsi a tal punto da essere un giorno in grado di superare quell’uomo, ma non era mosso da una logorante invidia, quanto da ammirazione, genuina e totale. Sandro era bravo, Lorenzo lo riconosceva, bravo come davvero pochi potevano essere a quel mondo, molto più bravo di lui, eppure nutrendosi di rancore avrebbe finito solo per rovinare la sua arte.

Guardò la stanza per crogiolarsi in quelle grandezze e notò l’abbozzò d’un viso d’una donna, il disegno era un tratto chiaro, insicuro, preciso, ben diverso dai progetti che aveva visto fino allora. Il viso non era delineato, non v’era che un abbozzo di naso e capelli ondulati. Ne rimase grandemente colpito, “Cosa vi sfugge, Maestro?” domandò retorico, inclinando appena il capo, osservando quelle linee disperate, alla ricerca d’un immagine che lo stesso autore non doveva avere. Che fosse anche Leonardo, come loro, alla fine un’anima persa? Che anche lui non vedesse sempre tutto chiaramente.  Sorrise davanti quella debolezza e se possibile si sentì più innamorato. Lasciò le stanze dopo tempo, rivestendosi in tutta calma, saggiando l’odore impresso in ogni oggetto di quell’uomo inafferrabile, fuggito di fretta e furia, con una promessa che probabilmente non avrebbe mai mantenuto.

Incontrò Benedetto mentre si dirigeva al laboratorio, “Cercavo proprio te, Lorenzo” disse con un sorriso amichevole, “Andrea ti chiama  nella sala all’aperto” spiegò immediatamente il conciatore, Lorenzo sorrise e lo ringraziò prima di correre nella sala in questione. Il primo viso che vide fu quello dell’amica di Da Vinci con il viso tatuato, che seduta sopra un tavolo da lavoro osservava una scena. Il Maestro Verrocchio aveva al suo fianco Sandro, una mano sulla schiena del ragazzo, sorrideva orgoglioso, mentre parlava con una fanciulla dai capelli di rame. Il maestro lo vide e sorrise anche a lui, “Oh Lorenzo, eccoti finalmente” esclamò sorridente, prima di invitarlo ad avvicinarsi, “Signora, lui è Lorenzo di Credi, insieme a Botticelli, uno dei miei migliori talenti” aveva esclamato l’uomo. La ragazza lo aveva guardato, lui non aveva mai trovato il gentil sesso attraente, ma quella di fronte lui doveva essere Venere sorta dalle acque, “Ma non i migliori” aveva detto, la sua voce era tagliente e spigolosa, “Il migliore madonna è il più incostante, purtroppo”  giustificò Verrocchio, parlava di Leonardo, si rese conto Lorenzo, “Uno di loro andrà meravigliosamente” aggiunse, battendo una mano sulle spalle di ambedue i ragazzi. La donna lì guardò con mera sufficienza,  molto infastidita dalle parole dell’artista. Era venuta per Leonardo Da Vinci, tutto del suo sguardo lo tradiva, ed invece aveva trovato loro, che non erano nulla in confronto quell’uomo.

 

Girolamo Riario aveva avuto un sonno inquieto. Nei suoi sogni c’era Da Vinci. Zita aveva preparato un infuso per farlo calmare, ma nulla era valso per tacere i suoi tormenti. Aveva pensato di scrivere una lunga lettera a Nico, per sapere cosa l’artista stesse facendo, per tranquillizzare i suoi tumulti ed anche perché era sempre meglio sapere su che cosa tenesse le mani quel folle d’un artista. Certo non pensava che il ragazzo avrebbe tradito il maestro che seguiva con tanto ardore, ma sperava che inavvertitamente, per  la vita che gli doveva, potesse lasciarsi sfuggire qualche indizio, anche minimo.  Girolamo si concentrò nel sogno trascorso: stava inseguendo qualcosa nel suo sogno, o era inseguito da qualcosa? Non lo ricordava! Era in un giardino, aveva sentito una donna urlare, un lamento quasi famigliare, cercandola, aveva trovato Da Vinci, con lo sguardo spaesato e perso. Aveva avuto la sgradevole sensazione che l’uomo fosse veramente lì, che non fosse un mondo fittizio.  “Va meglio conte?” domandò gentile la donna, massaggiandoli le spalle, l’uomo annui lentamente,  “E’ buono” commentò, guardando la tazza fumante del denso liquido, “È una formula  Abissina?” domandò stranamente incuriosito, la donna mosse il capo in senso di negazione, “Signore” disse con un tono basso, “La contessa lo ha creato” aveva mormorato, con un tono leggermente a disagio.

Girolamo sorrise appena, Caterina il suo tedio quotidiano, detestava trascorrere tempo con lei quanto la stessa detestasse stare con lui, provavano una profonda infelicità nella reciproca compagnia, composta da molti attimi di silenzio angosciante, tagliente come mille spade. Eppure, talvolta, Caterina lo cercava in maniera quasi ossessiva.  La notte che era tornato a Roma, dopo essere stato nella terra aldilà del mare, lei lo aveva aspettato nella sua stanza, con i capelli sciolti ed il vestito da notte, s’era slacciata la vestaglia ed era rimasta nuda davanti a lui, nel suo corpo spigoloso ed acerbo, Girolamo era stato con lei quasi per dovere, il meno possibile, ma quella sera, a Caterina non erano importate della stanchezza, delle ferite, del suo animo logorato, aveva voluto unirsi a lui oltre ogni cosa. Ed era sto così per due lunghe settimane, poi come un belva selvatica s’era rinchiusa in se stessa, passando il più delle giornate ad ignorarlo e dedicarsi ai dolci fasti della capitale. “Mi chiedo come stia facendo ora ad Imola” commentò assente, non realmente interessato, non aveva detto nulla quando sua moglie aveva espresso il suo desiderio di allontanarsi un poco dal ritmo frenetico della città. Lo aveva baciato davanti la carrozza, prima di salire e con la mantella stretta si era voltata. Era stata un azione meccanica, fredda, eppure in qualche modo Riario ci aveva trovato qualcosa, era come se Caterina cercasse qualcosa da lui, che il conte, così come la contessa stessa, non riuscivano a capire.  “Non dovete essere in pena, la contessa è molto forte” disse Zita, scambiando forse l’assenza di Riario per preoccupazione, il conte le aveva sorriso, “Caterina è una tigre, non sono per nulla angustiato per lei” disse sterile. Aveva altri problemi, altri dubbi e tormenti. Come il suo sogno, era una cosa che non faceva mai, i suoi sogni erano d’un buio come l’inchiostro, solo da bambino gli era capitato di sognare qualcosa, immagini contorte e malate.

“Zita, devo farti una richiesta” disse con voce fredda, serrando gli occhi. Se ne sarebbe pentito.

 

 

 

 

 

 

Allora, precisazioni dovute :

 L’ordine cronologico delle scene, la prima è la prima, poiché è un ricordo, dunque, ufficialmente la prima scena è di fatti quella di Leonardo che dipinge Yana, la seconda è il sogno di Leonardo che si svolge in piena notte, assieme all’improvvisa partenza di Filippa e la sua combriccola, la seconda scena di Leonardo (Quando scappa dopo la promessa) è la terza, il primo frammento di quella di Lorenzo, la terza di Leonardo(l’incontro con la fanciulla) e quella di Girolamo sono contemporanee è sono la quarta scena. Il secondo frammento di Lorenzo chiude ufficialmente questa porzione. Tutti i capitoli saranno presentati con una scala temporale scomoda.

Lorenzo Di Credi è uno dei miei artisti preferiti ed il quadro a cui fanno riferimento spesso lui e Leonardo è un quadro che ancora oggi ha dubbia paternità tra i due. È abbastanza noto che i due artisti si siano influenzati tra loro nel dipingere; Se Leonardo ammette di non avere confini, il mio Lorenzo invece li ha ed è perdutamente invaghito del maestro. Quando commenta la bellezza di Yana era per scoprire se fosse o meno l’amante di Leonardo, mentre quando rimane incantato dalla madonna, è una cosa puramente platonica.

Girolamo che scrive a Nico è qualcosa di apparentemente OOC, ma tra il Nico della prima stagione e Machiavelli c’è di mezzo un abisso, che si sta sempre di più accorciando, abbiamo visto qualcosa nel finale della prima stagione ed insomma Girolamo ha detto che Nico li ricorda lui e che lo vorrebbe formare lontano dalla Grazia e come abbiamo visto nell’ultimo episodio Nico ha tentato di evitare che Zo picchiasse Girolamo; quindi avevo pensato che il loro rapporto non è destinato ad interrompersi fino alla morte del conte, in modo che il Giovane Nico possa diventare Machiavelli. Oltre a ciò essendo questa storia ambientata più o meno nel 79, pochi mesi dopo il loro ritorno in patria, immagino anche Riario non intenzionato a sbarazzarsi di Leonardo, ma comunque timoroso del suo operato. E si i sogni di Girolamo e di Da Vinci si sono toccati (?).

Caterina Sforza, non lo so, ho voluto dare una spiegazione a perché non fosse apparsa nella serie. O vero un’intolleranza tra lei e suo marito, che rende il loro matrimonio  ostico. Forse cambierà, forse no … Ciò nonostante oltre essere un’abile cacciatrice,  una brava stratega, Caterina era anche un erborista molto abile.

Filippa si ritiene una donna senza volontà! Sarà vero? Comunque sia si sforza di mantenere delle radici, conservando la sua croce “particolare”.

Be Grazie mille a chiunque è arrivato fin qua giù :D

RLandH

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Capitolo 2
*** Perché è abbattuto il tuo volto? ***


DVD

Precisazione doverosa: Non mi sono fidata di Chemical lady, dunque la MIA Zita è ancora viva! Riario ha trovato il modo di salvarla (per ora … ù.ù), anche perché per questa storia mi serva, non che abbia un gran ruolo, ma insomma ne ho scritto parzialmente uno per lei … Dunque … Non mi sembrava carino eliminarla così …

Ho cercato di seguire i vostri consigli e fare frasi più brevi con più o meno virgole a seconda dei casi(?) ma sono un caso fallimentare, prometto di migliorarmi! Non possedendo ancora una Beta e non essendo riuscita a costringere la mia vicina di banco a correggerlo (ma ci sto lavorando! Ho dei dannatissimi occhi da cerbiatto! Posso farcela!), fino a quel momento non esitate ad essere spietate e date bandierine dei colori che volete.

Il resto delle precisazioni a fondo pagina.

Con amore, RLanH.

Sono forse il guardiano di mio fratello?

 

 

Atto II: Perché è abbattuto il tuo volto?

 

 

(1479)

Yana osservava quasi divertita i due giovani, mentre se ne stavano reclini quasi affetti da gobba per cercare di creare il disegno migliore, che avrebbe potuto permetterli di vincere la competizione per poter ritrarre la madonna che era venuta qualche giorno prima a richiedere un suo ritratto. Lei voleva Leonardo Da Vinci, da quello che aveva capito, ma s’era dovuta accontentare degli altri due, aveva detto loro che chi avesse creato il dipinto più bello avrebbe vinto la commissione ed anche la possibilità di incassare la ricompensa. Non che Yana capisse questa cosa, nella sua cultura le era stata insegnata che l’arte era il linguaggio degli dei, non un mero vanto degli uomini, per questo quelli che erano artisti erano incaricati di disegnare i tratti sacri degli dei sulle pelli.

“Ed è una bella donna?” aveva domandato Amerigo Vespucci, che quella mattina era venuto a trovarla, vestito di tutto punto ed elegante come un nobil uomo, ora famoso grazie alla sua America. Tra i due era nata una sorta di affinità, cresciuta nei tre mesi passati ad aspettare Leonardo e Zoroastro sulla spiaggia, mentre quelli erano persi tra divinità lontane e maledette. All’inizio Yana aveva trovato quanto mai sgradevole la presenza dell’uomo, ma alla fine si era abituata. E vederlo tutto ben vestito le piaceva anche di più, peccato che da quando avesse scoperto la nuova terra, Amerigo fosse sempre meno disponibile. “E’ una bambina” aveva detto Yana freddamente, la verità era che non le era piaciuta per niente la ragazzina, aveva lo stesso sguardo duro degli schiavisti, lo stesso furore di Alfonso. S’era sentita in profondo disaggio davanti quegli occhi. “Una bambina ricca” aveva mormorato Amerigo, chiudendo le dita sul mento, “Quanti uomini di scorta?” aveva domandato, “Non-la-deruberai” aveva detto  con voce schietta, incrociando le braccia al petto,  con sguardo truce verso l’uomo, quello aveva riso divertito, “O piccola Yana, non era a quello che puntavo” aveva aggiunto, non riuscendo a cancellare dalla donna l’espressione infastidita.

Yana si avvicinò ai due ragazzi, non capiva quella loro arte, non ci riusciva, aveva trovato nei disegni di Leonardo qualcosa di inspiegabile ed inconoscibile, ma in quegli artifizi ben organizzati erano sterili, non avevano nulla di bello. Guardò i due lavori, senza distrarre in alcun modo gli artisti, cercando di trovare qualcosa che le era sconosciuto. Amerigo le era venuto dietro, lodando di belle parole, quello che era Botticelli, “Siete proprio bravo” aveva detto gentile, “Lo so” aveva risposto l’artista senza preoccuparsi neanche di sollevare lo sguardo, troppo preso dall’immagine che stava disegnando. “Signora …” mormorò Lorenzo con voce gentile, la donna sollevò un sopraciglio a quell’appellativo, “Non sono una signora io” disse fredda, “Potrebbe tornare dove era prima?” chiese innocente, mostrando sulla tela l’immagine del viso d’una donna, Yana sbattè più volte le palpebre prima di sorridere amichevole  e tornare dove era prima, in modo che Lorenzo potesse finire. “Qualcuno si è invaghito di te, piccola Yana” disse profondamente divertito Amerigo, “Non di me” rispose la ragazza, pensando alle gote arrossate e gli occhi rapiti che il ragazzo pochi giorni prima aveva mostrato per Leonardo.

Verrocchio era venuto a supervisionare i lavori, sempre seguito da quel conciatore dal viso carino. Aveva dato qualche consiglio a Lorenzo su come dovesse alzare di più le sopraciglia e per tutto il tempo non aveva fatto altro che far saettare lo sguardo dal foglio a Yana, poi era passato a Botticelli, aveva stretto una mano sulle sue spalle e non aveva detto nulla, aveva sorriso orgoglioso. Il ragazzino l’aveva notato ed aveva sogghignato a sua volta.  “Quindi ho finalmente l’onore di conoscere Amerigo Vespucci” commentò  Andrea alzando le mani verso l’ospite, in piedi accanto alla straniera, “L’onore è mio” aveva detto con falsa modestia l’altro uomo.  “Sa ora che sono così famoso credo di meritarmi un ritratto” aveva aggiunto Amerigo, sollevando le braccia come ad innalzarsi alla divinità, Yana aveva mosso il capo sconsolata, sperando che il buon Verrocchio non decidesse di dargli corda. “Maestro!” aveva detto Benedetto, chiamandolo, quello aveva volto il viso nella direzione del suo conciatore, trovandolo di fianco una giovane donna, “Posso aiutarla signorina?” domandò cortese, la ragazza aveva annuito, aveva dei ricci scuri, come il manto delle pantere, ed una carnagione olivastra, un naso allungato e labbra sottili, coperta da una lunga mantella scura. Aveva un viso dolce, tondo, onesto. “È greca” sussurrò Amerigo nel suo orecchio, “A me non sembra diversa da voi Italiani” aveva mormorato Yana in risposta, le sembrava uguale alla maggior parte delle signore incontrate nella penisola italica, “Fidati, ho conosciuto molte donne, lei è greca” commentò, prima di avvicinarsi, quel malandrino nella speranza forse di sedurla.

“Cercavo un artista” mormorò con voce gentile la greca,  “Siete nel posto giusto” si intromise Amerigo, anticipando Verrocchio, “Qui troverete tutti gli artisti che volete” aggiunse, prima prendendo la mano della ragazza e baciandola elegantemente, “Io sono Amerigo Vespucci, si come lo scopritore dell’America, effettivamente sono io” disse orgoglioso e ammiccante. La ragazza rimase qualche istante stordita, cercando di realizzare quel fiume di parole, “Filippa Demopulo” mormorò lei con un tono di voce basso, “Cercavo Leonardo Da Vinci” aggiunse con più coraggio, guardando il proprietario della bottega. Sandro Botticelli s’era alzato dal suo sgabello irritato, “Per l’amore del cielo! Perché mai cercando tutti quel folle?” sputò fuori infastidito, guardando negli occhi Filippa quasi a bruciarla, la ragazza deglutì pesantemente, sentendosi oppressa da quello sguardo. “Sandro!” lo sgridò Andrea, “Sei stato maleducato con la nostra ospite” disse, prima di tornare il viso verso la fanciulla cercando di apparire gentile, “L’ardore della giovinezza offusca il giudizio del buon Botticelli”  aveva detto cercando di giustificarlo. Le dita di Filippa s’erano strette al petto,  “Lei è Alessandro Filipepi!” aveva esclamato quasi animata d’ardore, “Ho visto alcuni suoi quadri davvero meravigliosi” aveva aggiunto, sorridendo meravigliosamente, Sandro arrossì fino alle punte dei capelli.  “Credo che Sandro possa andarvi bene lo stesso” aveva detto Verrocchio, ma Filippa aveva fatto segno di diniego, “No, signore” aveva sussurrato, estraendo da una bisaccia che aveva sotto i vestiti una moneta d’argento dipinta di nero, Yana lo aveva guardata un attimo, quando avevano fatto ritorno alla spiaggia dopo il lungo soggiorno sulla isola, Zo aveva fatto rifornimento di molti piatti d’oro con quei simboli, lo stesso disegno sulle chiavi di Leonardo, guardò Amerigo ed anche lui sembrò capirlo, “Il Turco mi ha mandato” disse solamente, posando la moneta sulla mano di Verrocchio, “Se  Leonardo Da Vinci vuole sapere dove è la cripta, deve venire  al Cane Abbaiante (*) e chiedere di Aclima Lysimacus” aveva rivelato, “Presto però, lei rimarrà fino a domani” spiegò prima di andare via a passi svelti.  Yana abbandonò il suo posto, non che Lorenzo badasse a questo, s’era alzato anche lui per osservare la moneta, la straniera afferrò la moneta dalle mani del proprietario ed  prego nella lingua dei suoi avi, che gli dei li proteggessero.

 

Filippa crollava dal sonno, quando finalmente la sua Signora aveva stabilito che smontassero da cavallo definitivamente. Avevano viaggiato ininterrottamente per due giorni ed una notte, sulle vie meno battute per non essere notati, sotto le calze, tra le cosce, la pelle della serva era rovinata da piaghe ed irritazioni, senza contare che era stata anche di fatto colta dal suo sangue, cosa che aveva costretto i tre ad una lunga pausa lungo un piccolo fiumiciattolo. Lì avevano avuto la sfortuna di essere aggrediti da dei briganti, Lele aveva tranciato il braccio all’uomo che aveva osato metterle le mani addosso, prima di sgozzarlo come un maiale. La madonna d’altro canto aveva piantato nel femore uno stiletto all’uomo che aveva osato allungare le mani su di lei. Filippa era stata la sola a non poter far nulla, incapace, era stata la causa del loro attacco e non aveva potuto neanche dare una mano per difenderli. La sua signora l’aveva guardata con uno sguardo di mera sufficienza, mentre puliva la sua arma sul vestito del morto, la serva s’era chiesta dove avesse imparato una nobildonna ad uccidere. “Sai cosa succede ai deboli?” aveva domandato retorica, prima di impartire a Lele di gettare i cadaveri nel fiume e ripartire. L’uomo aveva annuito imperturbabile, aveva frugato nelle loro tasche aveva trovato delle monete ma le aveva lasciate lì, perché nessun uomo rubava ad un morto, anche se criminale e ladro, lasciò i corpi nel fiume, prima di voltarsi verso Filippa immobile sull’ansa guardare l’acqua macchiata di rosso. “Alle cameriere non è richiesto sapere uccidere” disse solamente, prima di allungarle quello che aveva tutta l’aria di un pugnale, “O i padroni avrebbero paura di loro” aggiunse. Filippa aveva preso l’arma delicatamente, dal manico, sentendola improvvisamente pesante, sull’elsa vi era un sigillo ma non ne aveva riconosciuto il luogo, poi si era allontanato per salire in groppa allo stallone. L’arma era finita nella bisaccia assieme ai vivere, i vestiti e la sua ancora.

Alla prossimità di una porta,  di quella che pareva essere una città fiorente e popolosa, la signora aveva detto: “Da ora, noi siamo viaggiatori” – smontando da Dalila – “Rivolgetevi a me come Aclima” il suo tono era stato secco, “Senza cerimoniali ed io vi chiamerò Lele ed Ippa” aveva aggiunto, prima di impartire anche loro di scendere. L’uomo aveva eseguito senza esser turbato da un minimo battito di ciglia, ma la ragazza quasi era svenuta quando aveva toccato terra, le sue gambe sembravan fatte d’argilla molle. Lele l’aveva ripresa per la vita e tenuta su come non fosse altro che un fuscello.  “Benvenuti nella Libera Repubblica di Firenze o come piace chiamarla a me : La decima bolgia dell’inferno” gracchiò la signora,  prima di dirigersi verso le guardie, con una mano teneva strette le redini con cui guidava il cavallo,  con l’altra mano giocava con una moneta d’oro.

“Nella vostra compagnia, comanda una donna?” aveva notato una delle guardia, osservando attentamente la figura della signoria poi quella di Lele, ignorando apertamente quella di Filippa. La donna aveva annuito, “Pensavo che voi Fiorentini foste più aperti, in assenza del Magnifico so che la città era stata tenuta da una melanzana bastarda ed una donna romana” disse con un tono irrisorio, prima di posare una moneta sulla mano di una delle guardie, questa l’aveva osservata attentamente, “E’ una moneta di Gerusalemme” commentò, “Sempre oro è” si lagnò la signora, ma ciò bastò a pagare il pedaggio per tutti e tre. Filippa vedeva Lele camminare al suo fianco, l’uomo nascondeva tutto  dietro il suo viso ma capiva che doveva essere animato da un certo numero di perplessità.

La signora sembrava conoscere le strade che percorreva alla perfezione, come se Firenze fosse stata la sua città natia. La curiosità di chiederle quanto spesso avesse percorso quelle vie le era quasi montato, ma alla fine aveva taciuto la sua curiosità seppellendola in se stessa, perché ad una serva non era concesso chiedere. La signora scivolava tra la gente, muovendosi svelta come una gatta, s’era arrestata solo quando aveva riconosciuto le guardie della città, con le monete sonanti, simbolo della famiglia De Medici.  Aveva spinto Dalila davanti a lei in modo che potesse nascondersi dietro di essa, quando le guardie erano scivolate accanato a loro. Lo sguardo di Lele s’era fatto sospettoso, ma la donna non se n’era curata continuando la sua traversata. “Siamo diretti ad una osteria” aveva comunicato agli altri due, mentre li guidava lungo le viuzze, senza neanche voltarsi per vedere se effettivamente i due la stavano ascoltando, non che questo non fosse mai accaduto, Lele era sempre diligente e Filippa non avrebbe mai osato distrarsi.

L’osteria che avevano trovato non era lontana dalla piazza principale e conteneva anche una stalla dove poter sistemare Dalila e gli altri due cavalli. La madonna aveva zittito ogni domanda dell’Oste porgendoli una manciata di monete d’oro, tra scudi, testoni e fiorini. “Viaggiate molto” commentò quello, mordendo la moneta, la donna lo aveva guardato con mera sufficienza accarezzando il muso della sua cavalla con un gesto quasi ritmico, “Voglio una stanza doppia” disse imperiosa, “Ed un pasto che possa essere chiamato tale. E non mi importa che non sia ora del pranzo” aggiunse schietta uscendo dalla stalla, seguita dal locandiere e dai due servi. “Certo, signora” aveva detto ossequioso l’oste, “Chi devo registrare?” domandò, mentre entravano all’interno della locanda, che non sembrava nulla di diverso da una normale taverna, come quella nella città da cui venivano, di cui di tanto in tanto i servi andavano a bere. “Aclima Lysimacus” disse con un tono schietto, osservando la piuma bagnata di nero dell’uomo bloccarsi a mezz’aria prima di toccare il foglio. Filippa vide le spalle della signora irrigidirsi, “Che sia ebreo o cristiano il denaro è sempre denaro” disse con un tono disgustato, posando una moneta d’oro sui fogli delle camere. Il Locandiere sembrò riprendersi dal suo tepore e scrivere il nome della madonna sui suoi documenti, con una mano vagamente tremante. “Perché pensi voglia passar per giudea?” domandò a voce bassa Lele, soffiando nell’orecchio della serva, che aveva alzato le spalle, da un lato disinteressata, se quelli erano i voleri della padrona le non doveva commentarli, ma d’altro canto comprensiva, il loro viaggio era un segreto, era normale che la signora avesse scelto un altro nome. Lele si chiedeva perché ebreo? Perché no? Chi mai avrebbe cercato una cristianissima madonna papista dietro le spoglie di una arricchita semita? La vera domanda, Filippa la sapeva, era un’altra: Da chi si stavano nascondendo?

La signora aveva firmata accanto al nome che aveva scritto l’oste, con estrema naturalezza da sembrare il suo vero nome. Filippa aveva osservato la scena in silenzio, guardando lo scorrere della piuma sulla carta in quei caratteri che non era riuscita mai a comprendere. Non era insolito che una serva fosse analfabeta, anzi era degno di nota il contrario, ma Filippa era diversa, suo padre le aveva insegnato a leggere e scrivere, solo non in quella lingua. “Ed ora vorrei il mio pasto” disse secca, prima di dirigersi ad un vecchio tavolo di legno. S’era seduta, ed il modo in cui l’aveva fatto aveva stupito la sua serva, la madonna s’era slaciata il mantello, lasciandolo afflosciare sulle ventre prima di appallottolarlo sul tavolo, mostrando un abbigliamento prevalentemente maschile, aveva sfilato il capello e lasciato scivolare una lunga treccia sulla spalla e sulla morbida maglia di lana, la sua postura era stata scomposta, stravaccata quasi sdraiata sulla sedia, ben diversa dalle solite pose granitiche che le aveva visto prendere durante i sontuosi banchetti. Eppure pensò per un attimo che la sua signora fosse molto più bella in quello stato, che agghindata di monili, polveri per il viso ed abiti d’alta sartoria. “Ippa, Lele sedetevi anche voi” impartì loro, mantenendo il gioco dei nomi, “Si mia sig …” stava rispondendo Filippa, “Certo Aclima” l’aveva anticipato l’uomo, sedendosi di fronte la donna, che aveva chinato il capo e l’aveva guardata eloquente, così la serva s’era seduta, nel mutismo assoluto, al loro tavolo.

Mangiarono pasticcio di piccione, assieme ad una zuppa di semi e vino con il miele. “Quasi aceto” commentò a mezza bocca Aclima prima di mandar giù un'altra sorsata; una smorfia si era dipinta sul viso.  Filippa aveva mangiato tutto, afferrando il pasticcio con le mani e bevendo la ciotola direttamente dalla scodella, anche la signora l’aveva imitata, tradendo comunque in quei minimi gesti un disgusto ed una nobiltà che non appartenevano ad una persona del ceto che fingeva di essere. La serva era stata completamente esaurita dalle minime scorte di cui si erano dovuti nutrire che quel ben di dio era sto più che luce per i suoi occhi e delizia per la sua pancia. Lele non era stato da meno, sfoggiando caratteristiche da maiale, tanto era stata la fretta di rimpinzarsi e buttar giù vino, che era finito per colargli giù lungo la gola. I servi, o le guardie, osservavano i signori consumare il pasto, ma non mangiavano mai con loro e fu quello che realizzò Filippa mentre sfregava il polso nudo sulla bocca per pulirla dalla sporcizia, davanti lo sguardo della sua signora. “Non scusarti, Ippa” disse angustia Aclima, tornando a sorseggiare il vino che la schifava tanto.

Erano rimasti attorno a quel tavolo a continuando a bevicchiare, non che la ragazza avesse una grande capacità di sopportazione alcolica. La signora aveva estratto dalla sua sacca un'altra moneta, era di ferro chiaro e non perfettamente tonda, la fece ruotare sul tavolo, davanti gli altri due. Filippa aveva osservato le strane immagini che c’erano sopra, quando questa arrestò il suo girotondo, cadendo con una faccia rivolta verso il soffitto. “Ippa, prendilo” impartì la donna, ammiccando alla moneta, la ragazza titubante la prese, osservandola con timore, sembrava il viso d’una bestia, la inquietò parecchio, “Un toro” mormorò a disaggio. Aclima la guardò, “Conosci molti miti, Filippa?” domandò, facendo ticchettare le dita sul legno, la ragazza aveva mosso il capo con un sospiro,  “Sono nata nel cinquantotto,  era già proibito parlare della nostra cultura” aveva mormorato la ragazza,  “C’erano scuole nascoste” aveva sussurrato passandosi la moneta tra le dita, “Quindi non sai nulla del culto di Mitra?” domandò la signora avvicinandosi alla sua serva. Filippa strinse la moneta tra le dita e si morse inevitabilmente un labbro, “No” mentì.  Dio è divenuto uomo affinché l’uomo possa divenire Dio, le era stato insegnato questo, non ve era peccato nel cercare la conoscenza, ma i figli di Mitra, Filippa l’aveva imparato, volevano l’oltre, volevano svelare i misteri di Dio, non volevano elevarsi, volevano atterrire il Signore, renderlo un idolo. Suo padre non aveva mai buone parole per gli ossequiosi osservatori di tali culti. Guardò ancora il viso sulla moneta, la volse e le parve di vedere un labirinto, “Non importa” borbottò la donna.

Aclima si passò una mano sul petto, dove Filippa sapeva aver nascosto la sua croce, “Ora devi ascoltarmi attentamente, ho una missione per te” disse con un tono sterile, giocando con le dita sul tavolo, la serva aveva annuito, “Tutto mia sig … Aclima  mormorò nervosa, posando la moneta sul legno della tavola, vicino la scodella vuota di zuppa, la sua signora aveva mosso la mano,  “Dovrai recarti in un posto” l’aveva informata, prima di trascinare con l’indice sul tavolo la moneta per metterla al centro, “E fare tutto quello che ti dirò” aveva aggiunto, “Soprattutto dovrai ripetere le mie esatte parole” aveva aggiunto, fissandola penetrante con quegli occhi neri come quelli d’un demonio. Filippa aveva annuito, ma sotto il tavolo una mano aveva raggiunto la gambe di Lele ed aveva stretto la stoffa dei calzoni, cercando lo stesso appiglio che di solito cercava dalla sua croce.

 

“Quindi il tuo piano è trovare la cripta” aveva detto Zoroastro, con le mani ai capelli per quella follia, Leonardo era stato per due giorni a disegnare i dettagli del suo sogno, continuando a farlo all’impazzata, tanto che il suo intero taccuino ne era invaso. Aveva guardato Nico in cerca d’appello ma quello non faceva altro che star a scrivere qualcosa su dei fogli volanti e si chiese quale divinità avesse offeso per ritrovarsi quei due. “Si, ma non so dove trovarla” aveva commentato quasi arreso il giovane artista, guardando i palmi delle sue mani chiedendosi come potesse trovare quel ragazzino, sperando che l’unico modo non fosse passare per Girolamo. “Nico non hai davvero nulla da dire?” domandò Zoroastro cercando almeno un po’ d’appiglio, quando Leonardo sollevò lo sguardo, osservando il mercato attorno a lui, “Quel vaso” mormorò avvicinandosi ad un mercante di antiquariato, sul tavolo Zo aveva visto che Da Vinci aveva messo le mani su un vaso, “Mnemosyne” mormorò, mostrando che sul vaso c’era l’immagine di una fonte, sotto quella scritta in greco antico. “Bello, ti è utile?” domandò Nico, crucciando le sopraciglia, Leo aveva storto la bocca, pensando attentamente alla risposta, “Memoria” spiegò frettolosamente, “La fonte della memoria” aggiunse, prima di chiedere al commerciante quanto venisse il vaso, “due fiorini” rispose quello, Leonardo guardò nelle sue tasche prima di posare le monete sul bancone e portarsi via il vaso. “Fantastico ora si è dimenticato della cripta” mormorò Zoroastro esterrefatto. Peccato che quel prezioso orcio fosse finito pochi attimi dopo sul  suolo fiorentino; quando Leo era finito dritto contro una figura.  Zoroastro aveva visto il suo amico cadere nelle ginocchia per terra, cercando di raccogliere i cocci, con un espressione attonita sul viso. Chi lo aveva urtato era ai suoi piedi, una ragazza sotto una mantella azzurra, fermata al collo da un spilla dalla forma di belva: un drago serpente. Una ciocca ruggine scivolava sotto il cappuccio, “La fanciulla dell’altro giorno” mormorò Leonardo, guardando la ragazza dal basso verso l’alto, con un espressione alquanto stupita.  “Non è possibile” aveva mormorato la fanciulla, chiudendo le mani sul seno, inevitabilmente aveva stretto il vestito, cui era apparso inevitabilmente una forma più rotonda al ventre.

Leonardo l’aveva guardato, “È incinta” commentò indicando il ventre della ragazza, “Mi disgustate bifolco” aveva commentato con voce insofferente,  prima di guardare gli altri due, Zoroastro era rimasto intimorito, quella non era che una bambina, ma con occhi davvero spaventosi. Nico era rimasto muto, come se lei lo lasciasse senza fiato. “Chiudi la bocca” li sussurrò Zo. Leo s’era sollevato dalla posizione genuflessa, “Vi chiedo scusa se vi ho arrecato qualche danno la volta prima” aveva mormorato l’artista, fissando quasi ipnotizzato il ventre di quella che era forse poco più di una bambina.  Lei sollevò un sopraciglio abbastanza scombussolata,  “Sono sicuro di poter rimettere apposto il vaso” aveva detto Leonardo amichevole, cercando di tranquillizzarla, “Non mi riguarda” disse perentoria la signora, guardando di sbieco i cocci per terra, “Ma potrei farne arrivare uno da Milano,  a mio zio non creerà impiccio” disse a denti stretti.

Una guardia s’era avvicinata, era vestito d’un ciano pallido, con istori argentei, sul petto v’era cucito il blasone sforzesco, “Madonna questi uomini la hanno minacciata?” aveva domandato l’uomo, con voce cavernosa, “Grazie signor Adelchi, grazie alla vostra prontezza se questi uomini avessero voluto uccidermi, io sarei già cadavere da ore” disse infastidita e stizzita la ragazzina, chiudendo di più le mani sotto il seno e guardo infuocante la guardia. Zoroastro era attonito da quegli occhi, non sapeva deciderne il colore, non capiva se fossero castani, verdi o schegge gialle, sembravano tutti insieme e tutti diversi, erano occhi in grado di metterlo in soggezione. Aveva visto Clarice Orsini, i suoi occhi erano in grado di zittire qualsiasi uomo al mondo, eppure quella bambina aveva un potere maggiore. Erano occhi di brace, ardenti e selvatici, come d’una belva feroce.

La fanciulla aveva sollevato gli occhi e s’era accorto dell’uomo che la guardava, “Adelchi, questo bifolco è un artista a cui ho accidentalmente rotto un vaso” aveva spiegato disinteressata, “Dagli due fiorini” aveva impartito muovendo la mano per sminuire la faccenda, “Dovrebbero bastare” . Adelchi aveva eseguito il comando, estraendo da sotto il farsetto un sacchetto porpora da cui aveva tirato fuori le monete che aveva posto a Da Vinci. “Il mio amico è un indovino, signora, gli permetta di vedere il sesso del nascituro” disse d’un tratto Nico, mentre la madonna s’apprestava ad allontanarsi, tediata dalla loro presenza. Zoroastro lanciò all’amico uno sguardo accusatore e decisamente preoccupato. La ragazza dai capelli di ferrugine, sollevò lo sguardo stranamente intrigata, “Non credo in queste cose” aveva cominciato, mentre guardava Nico, “Ma per una volta” aveva aggiunto con un sorriso sardonico sul viso. E Zoro astro aveva odiato il suo amico molto, specialmente quando il biondo l’aveva indicato, ottenendo su di se lo sguardo della signora con il drago serpente.

“Userai i tarocchi?” domandò la fanciulla, “No, signora, un suo pendente, se possibile” aveva mormorato Zoroastro, davanti quegli occhi di belva. Quella aveva annuito lenta, prima di abbassare il cappuccio, scoprendo una nuca ferruginosa,  aveva sfilato dai lunghi capelli sciolti quella che sembrava una catenella d’ottone scuro, con un pendaglio d’argento dalla forma d’una croce, nel centro dove le braccia si incontravano c’era una piccola gemma d’un verde brillante. “Adelchi, se quest’uomo per qualsivoglia ragione volesse sottrarmi la collana, uccidetelo” aveva detto alla sua guardia con un sorriso raggiante, “Siete un po’ estrema” commentò Zoroastro dopo aver deglutito, “Solitamente si taglia una mano” aveva commentato con tranquillità Leonardo, “Non secondo la mia giustizia” aveva risposto quella, “Ho rotto il tuo vaso, ti ho risarcito. Sottraimi qualcosa ed io farò lo stesso” commentò con voce secca, glaciale come una lama di ghiaccio, “Si sa poi, taglia la mano ad un uomo è potrà ancora rubare con l’altra” aggiunse con un sorriso enigmatico. “Avete una visione della legge estrema” commentò Nico, quasi incantato da quella risolutezza, la madonna batté le palpebre, “Mio zio ha sempre detto avessi un concetto di giustizia, sin da bambina, netta” – aveva fatto una pausa – “Ma dopo il matrimonio ha detto sono peggiorata” aveva commentato, con disgusto per quella parola che non riteneva vera, “Mi ricordate qualcuno” commentò Nico, perdendosi altrove nei pensieri, anche se i suoi amici pensavano di sapere decisamente chi.

Zoroastro cauto, sotto l’attento e vigile sguardo di Leonardo prese la mano della signora, senza osare guardarla in quegli occhi mortali. Adelchi aveva la mano sull’elsa della spada, pronto a sguainarla per eviscerare il ragazzo. Posò il pendente sul palmo della madonna ed improvvisò lo sollevò, lasciandolo oscillare sulla mano, “Se oscilla avanti e dietro è maschio, circolarmente è femmina” aveva spiegato, sollevando appena lo sguardo, osservando la ragazzina guardando attentamente il gioiello, “Si muove verticalmente” commentò con voce a mezza bocca, “Avrete un maschio” esclamò Nico con un sorriso amichevole. La signora sembrava stranamente soddisfatta di se stessa, afferrò il pendente in aria e quasi lo strappò dalle mani di Zoroastro, “Se dovessi aver ragione indovino, ti farò recapitare un testone”  aggiunse, con un sorriso sardonico sul viso,  prima di rivolgere un occhiata di fuoco a Leonardo e poi volgere il viso a Nico, che divenne rosso come una barbabietola, “Mi piacciono i tuoi capelli” aveva commentato, prendendo tra le dita sottili una ciocca dei riccioli biondi del ragazzino, la cui cute stava diventando melanzana causa il non respirare per l’emozione. La signora tirò con forza e strappò il crine, “Grazie” disse.

“Feticista e pazza” commentò Zoroastro, guardando il suo amico che sembrava riprendere un colorito umano, prima di volgere lo sguardo verso Leonardo, le cui dita stavano muovendo nel vento, come suonasse un immaginario clavicembalo od uno strumento simile. “Meravigliosa” sospirò Nico, posando la testa sulla sua spalla, “Tranquillo” disse Leo con un sorriso da pazzo, “Ha ordinato un quadro alla bottega,   si stano sfidando per la commissione Lorenzo Di Credi e Botticelli” aveva spiegato Da Vinci, prima di proseguire per la sua strada, “Come fai a saperlo?” aveva domandato abbastanza perplesso Zoroastro, era stato negli ultimi due giorni solo a parlare della cripta, della tomba e del ragazzino, che non aveva dato segni, “Lorenzo me lo ha detto” aveva spiegato brevemente, prima di sollevare lo sguardo al cielo preso da altro, sminuendo la cosa in fretta. “Hai passato del tempo con lui?” aveva domandato abbastanza perplesso Zo, guardando Nico, chiedendosi come mai il biondo non avesse detto niente, ma quello aveva lo sguardo sognante perso altrove; Leonardo aveva passato i due giorni dietro la cripta e l’altro giovane artista era stato impegnato nel dipingere molto,  non credeva che i due avessero avuto modo di stare assieme in qualche modo e soprattutto che lui non sapesse niente. Raccolse i cocci del vaso e propose di tornare alla bottega.

 

Lucrezia aveva un viso delizioso, tondo come quello d’una bambola, incorniciato in capelli di grano ardente, stretta in un abito casto d’un colore delicato cipria, aveva pochi anni in più di Caterina Sforza, ma appariva più grande, bella, leziosa  ma meno intrigante. Quando era entrata nel Urbe, tutti avevano detto che la belva milanese fosse una delle più incantevoli fanciulle mai viste, non che Girolamo avesse visto qualche sorta di bellezza nella sua compagna, una donna magra, livida ed acerba. Lo stesso Santo Padre che non aveva mai nascosto la voluttuosità verso le donne, aveva mai allungato l’occhio nella misera scollatura di quella ragazzina. Lucrezia Normanni aveva diciannove anni e l’avvenenza di una fanciulla della sua età. “Allora Conte, dov’è la cara Caterina?” aveva domandato con dolcezza la signorina, mentre beveva vino al miele, guardando il capitano generale della Santa Chiesa Romana. Girolamo Riario la guardò con misto di mera indifferenza, “È ad Imola” aveva commentato sterile, “Si sentiva frastornata dal caos cittadino” aveva aggiunto, “Da quanto è via?” aveva insistito la matrona romana con interesse, “Quasi quattro mesi” aveva risposto Raffaele, tagliando un pezzo del suo stufato con movimenti lenti, guadagnando uno sguardo dallo zio, che annui annoiato, il giovane cardinale, coetaneo dell’altra commensale, aveva la sana abitudine di ricordare sempre tutto, di nutrirsi di dettagli. Una cosa che avevano in comune, oltre la passione per gli scacchi. Come Francesco della Rovere si era occupato di Girolamo, insegnandoli la strategia, il conte s’era accollato lo stesso peso per il giovanissimo cardinale di San Giorgio di Velabro. “Ma è troppo tempo” aveva detto Lucrezia quasi sconvolta, chiudendo la mano sul petto florido, “Dovreste andare da lei” aveva aggiunto quasi accusatoria. Girolamo si ripeté alla mente perché non le avesse ancora tagliato la gola con il coltello da dolce dopo tutto quel tempo che la conosceva.

Quando bussarono alla porta, Lucrezia fece notare per l’ennesima volta l’assenza della cameriera, “Ma dov’è finita l’abissina?” domandò con voce innocente,  “C’è qualcuno il cui Dove non ti tange, cara Lucrezia?” domandò ostico il ragazzo, sorridendo arcigno. Un garzone, o nulla di troppo diverso, era entrato quando il conte aveva dato il consenso di entrare nella loro sala da pranzo. “Signore c’è qui suo cugino, il cardinale Della Rovere” annunciò, “Lo aspettavamo” disse asettico, prima di tornare alla loro cena, il garzone annuì, ritirandosi, lasciando sull’uscio vestito di porpora  il cardinale Della Rovere Giuliano.  “Perché ceniamo a Palazzo Orsini anziché Castel Santangelo?” domandò con un sorriso finto l’ultimo arrivato, mentre prendeva posto proprio accanto a Lucrezia, sfiorando con un dito il polso sottile della ragazza, “Perché voi due vivete di luoghi?” domandò  sornione Raffaele, continuando a mangiare. “Il santo padre non aveva interesse nel cenare con noi” aveva risposto annoiato Girolamo, bevicchiando dell’ottimo vino, “Poi non avremo potuto godere della compagnia di questa cinciallegra” mormorò il più giovane, guardando con gli occhi scuri la donna che sedeva di fronte lui. Lucrezia gonfiò le guance infastidita, tingendo le gote di fuoco. “Io adoro le vostre chiacchiere, signora” aveva mormorato suadente Giuliano, prendendo la mano della fanciulla e baciandone le dita affusolate. Il viso della ragazza era rimasto tinto di rosso, ma da rabbioso era scemato ad un cremisi imbarazzo. Girolamo li guardò, quella s’era la condotta dissoluta di suo cugino, pendeva più verso le dolcezze d’una donna che i passatempi fiorentini, stranamente.

“Peccato che il Buon Prefetto sia partito così presto sta mani, sarebbe stata una cena di famiglia perfetta” aveva commentato con voce spinosa Raffaele. La lingua lunga e biforcuta, da rendere ogni sua frase velenosa, era un eredità materna, talvolta Girolamo non vedeva altro che una versione maschile di sua sorella maggiore. “Senza Madonna de Montefeltro e Madonna Sforza, sarebbe stato noioso” aveva scherzato Giuliano, Lucrezia aveva sogghignato, nascondendo le labbra dietro le dita sottili, “Certo senza La Muta e La Tigre” aveva aggiunto Raffaele prima di ridere grassamente. Le mogli dei cugini erano coetanee, una era una terzogenita nobil donna urbinata, sempre ossequiosa, reverente, pia, sempre dedita alla volontà del marito e giustamente sottomessa, certo sprovvista d’una particolare bellezza, ma come la sua personalità caratterizzata da una bellezza anonima, riguardo l’altra: bastarda, nata dalla lussuria, e non dedita alle consuetudini pudiche, quanto sostenitrice delle nuovi corrente, d’altro Caterina non era che la figlia del più pingue maiale mai nato su suolo italiano, Maria Galeazzo Sforza che aveva accolto nel suo letto innumerevoli donne ed uomini, talvolta insieme, e chi sa quante altre nefandezze.

Giuliano continuò a scherzare dei membri della sua famiglia con Raffaele, non smettendo di palpare la sua giovane compagna, finché semplicemente non ne venne a noia. “Mi è stato riferito che la tua serva abissina quest’oggi si fosse diretta nel ghetto Ebraico, caro cugino” disse stranamente famelico al conte, Girolamo posò il bicchiere di vino ormai vuoto sulla tovaglia,  “Ed ecco che ricominciamo con i Luoghi” mormorò Raffaele sollevando gli occhi al soffitto. “Hai fatto seguire la mia serva, cugino?” aveva domandato di rimando Riario, “No è stato un caso” aveva mormorato per sminuire la questione, “Dunque un tuo servitore ha visto la serva di tuo cugino ed ha ritenuto importante dirlo?” aveva domandato Lucrezia, sollevando le sopraciglia, “Certo, voglio sempre sapere che chi è intorno alla mia famiglia sia fidato” disse il cardinale Della Rovere, mangiucchiando una purea di piselli, “E cosa ci faceva un tuo servitore nel ghetto Ebraico?” domandò Raffaele invece con un sorriso malandrino in viso. “Tacete, avevo cominciato io” disse infastidito Giuliano, “Seguiva i miei ordini cugino” disse semplicemente Girolamo, versandosi altro vino. Forse quella sera aveva esagerato, ma non voleva rischiare di sognare ancora, quando beveva molto, la sua mente vagava in un buio silenzioso senza difficoltà. “Ed il tuo?” domandò piccata Lucrezia.

Il resto della cena trascorse come  d’un sogno ad occhi aperti. Tra una risata di Giuliano, una chiacchiera sciocca della sua compagna ed un mellifluo commento di Raffaele. Girolamo sarebbe potuto esser dall’altra parte del mondo e nulla sarebbe stato diverso da quella sera. Quando i suoi cugini lasciarono la sua dimora per tornare agli alloggi che erano stati donati nel palazzo papale come cardinali. Lucrezia era invece tornata alla casa Normanni, dopo un brusco litigio che aveva avuto con Giuliano, dopo aver appurato che vicino al ghetto ebraico, viveva un tale amante del cardinale che quelli aveva nel meriggio fatto chiamare di proposito per una compagnia. Lucrezia s’era infervorata come un’arpia a quello, gelosa in quella maniera morbosa che Girolamo nella sua vita aveva visto una sola volta, s’era porto una mano al collo, dove improvvisamente aveva sentito una stretta così forte da soffocarlo quasi. Ed aveva ricordato qualcosa di sepolto nel suo passato, qualcosa che lo aveva condizionato, aveva quattordici anni ed era stato il primo segno della sua intrinseca natura, qualcosa che aveva permesso di rendersi conto del marcio dentro di lui. Ed il sogno della notte precedente lo aveva ricordato, quando aveva sentito quell’urlo di donna ed aveva avuto l’impulso di seguirlo, come …  “Mio signore” la voce di Zita era stata come un eco lontano, sollevò lo sguardo, dietro la porta chiusa di legno scuro, la musicale chiamata della donna arrivava, “Entra” disse con un rantolo, faticando a ritrovare l’aria nella gola.

Zita era avvolta in un panneggio scuro, tra la mantella, la pelle ed i capelli non sembrava nulla più d’un ombra inconsistente. Vista la lampada ad olio che il conte teneva sul tavolo, spense la candela che le aveva fatto da luce e la stanza sprofondo lievemente nelle ombre. “Un servo di Giuliano vi ha visto” aveva commentato il conte con voce mesta, “Ed io ho visto lui” rispose Zita, “Era Artemisio, nei dintorni della casa d’un  macellaio”  aveva risposto la serva, sbottonandosi la mantella e rimanendo con i pesanti abiti invernali. “Si, Giuliano ha ammesso tutto” aveva commentato timoroso il conto. Suo cugino conosceva più di qualche scheletro nel suo armadio e per quanto curioso di natura, sapeva quand’era meglio tenersi lontano, ma Raffaele sarebbe stato presto mangiato dai dubbi, Girolamo lo conosceva abbastanza di immaginare che avrebbe passato la notte fissando il soffitto chiedendosi che mai volesse il suo grande cugino da qualcuno in un ghetto ebraico. C’erano tante cose di lui che aveva gelosamente custodito dalla mente del ragazzino, non mentiva dicendo che Raffaele avrebbe dovuto sapere, prima o poi sarebbe stato, ma finchè era possibile Girolamo voleva mantenerlo innocente e sotto la Grazia.

“Cosa ha detto ?” domandò alla fine, cominciando a svestirsi degli abiti che aveva indossato l’intero giorno,  Zita fece un passo verso di lui, cauta, “Ha acconsentito ad incontrarvi” aveva mormorato, mordendosi le labbra. Girolamo le sorrise esausto. A nessuno a Roma era concesso il tale lusso di poter decidere se riceverlo o meno,  solo al papa. Eppure il conte era consapevole che tale persona si sarebbe accaparrata quel diritto, perché sapeva d’esser indispensabile, perché se Girolamo s’abbassava a chiedere tale aiuto, era quasi palese fosse disperato. Ed un uomo furbo sa quanto vale la disperazione. “Ha detto di incontrarlo domani” aveva mormorato Zita, cominciando a togliersi il grembiule, “Sceglierò io il quando” aveva impartito secco lui. Quello ancora gli era dovuto e l’altro sarebbe stato alle regole, perché quanto sapeva d’esser importante, era consapevole di non esser indispensabile, specie se adirato il conte l’avesse deciso. S’avvicino alla sua serva e le diede un profondo bacio, mentre ella si liberava degli ultimi residui di vestiario. Aveva bevuto, sperava di non sognare ed aveva bisogno di conforto o la sua stessa gola si sarebbe soffocata, tormentato da ricordi che s’era impegnato a sopprimere.

 

Guardò la Yana disegnata sulla tela, ne studiò i dettagli e quasi la stracciò,  guardò La Madonna che aveva avuto Vanessa come modella, con quel suo viso delicato, con un infante tra le braccia e si chiese dove fosse finito tutto il suo talento. La signora vestita d’azzurro non avrebbe mai assoldato lui contro Sandro, aveva visto in quadro che aveva preparato negli ultimi due giorni, era stato meravigliosamente studiato,  meraviglioso, nonostante non fosse che un mero disegno, lui aveva pitturato e stracciato tutte le tele. Yana era la tavola migliore, con quella sua fiera espressione feroce, domandata da abiti mondani, ma non era abbastanza. Aveva bisogno di qualcosa che lasciasse la signora quasi senza fiato. Aveva bisogno di qualcosa di così innovativo da far sembrare l’eleganza di Sandro una semplice e volgare trufferia.

Un bacio lo colse di sprovvista, dietro il suo orecchio. Lorenzo sussultò, estraendo il pugnale dalla cintola e voltandosi nel tentativo di cogliere alla sprovvista il suo assalitore, ma si ritrovò semplicemente al muro con il polso ferrato tra le mani più abili che avesse mai incontrato ed il viso di Leonardo a meno d’un palmo dal suo. Divenne paonazzo in viso. “Come siete entrato?” aveva domandato, tornando a respirare e calmando il cuore impazzito, mentre il maestro lasciava la presa dal suo polso. Sistemò lentamente l’arma alla cintola, aspettando paziente le parole dell’uomo. “Dalla porta, Lorenzo” disse disinvolto quello, indicando appunto l’uscio spalancato, preso dal tormento l’aveva lasciato aperto? O il maestro l’aveva aperto? “Non vi ho sentito” aveva ammesso, prima di confessare fosse preso troppo dalla sua arte.

Leonardo gli carezzò il viso, come avesse davanti la cosa più delicata al mondo. “Ho bisogno del tuo auito” commentò, prima di riversarli sul letto quelli che dovevano essere frammenti d’un orcio in pezzi, “Che è accaduto?” chiese con un tono confuso, “La sua signora con il drago serpente” commentò Leonardo con un ghigno sul viso. Lorenzo di rimando sorrise semplicemente, cominciando a raccattare i frammenti, speranzoso di poter aiutare, avrebbe dovuto pensare solo alla sua arte, ma era come impossibilitato da Dio in persona di negare qualcosa al maestro. “Memoria” mormorò, riconoscendo la parola greca, “Quante lingue conosci?” domandò Leonardo, mentre univa due frammenti della base, “Poche” ammise il ragazzo, “Ho studiato latino e greco, ma non eccello molto nella seconda, conosco i fondamenti del francese d’Oil” commentò a voce bassa, con un sorriso divertito sulle labbra. Ed alla seconda volta che si riferiva a quella lingua antica a Lorenzo tornò in mente Filippa Demopulo, con quel suo fisico snello ed i polsi fini come spighe di grano, “Domani andrai al Cane Abbaiante ad incontrare Madonna Lysimacus?” domandò serioso, mordendosi il labbro. Leonardo teneva due cocci che scivolarono dalle sue dita, “Come?” chiese, sul viso s’era dipinto, per la prima volta, da quando Di Credi lo aveva veduto, un espressione confusa. “Non ti hanno detto nulla?” domandò perplesso, ottenne un diniego come risposta.

Lorenzo spiegò bene a Leonardo, con minuzia di dettagli, l’avvenimento del meriggio, quando una donna sotto investitura del turco era venuta a portare una moneta per Da Vinci. “Somigliava a questo il disegno?” domandò Leonardo, tirando fuori da sotto i suoi vestiti quello che sembrava una spilla per capelli di donna, era d’oro, acuminata come un ago, con una pietra a cerchio sul disopra in cui v’era dipinto da un lato un viso da belva e dall’atro quadrati neri tondeggianti, in circolo. “Sembra proprio la moneta” commentò, pensando alle dita di Yana strette intorno al’oggetto, mentre pregava i suoi dei di salvarli. “Amerigo, Yana e Verrocchio sapevano di questo?” domandò Leonardo, recuperando il fermaglio dai capelli del ragazzo, “E questa Filippa ha detto di essere mandata dal Turco e di presentarmi domani al Cane Abbaiante se voglio sapere della cripta” aggiunse retorico, i suoi occhi saettavano per la misera stanza di Lorenzo, popolosi di qualcosa a cui era negato al fanciullo l’accesso. Da Vinci era animato da qualcosa, lo capiva dallo sguardo, dalle dita frementi nell’aria, come d’un disegno che non poteva essere rappresentato. “Lorenzo” disse rivolgendosi a lui improvvisamente, “Domani devi venire con me” disse con voce secca, il ragazzino annui, perché non avrebbe mai potuto negare nulla a quell’uomo. Leonardo lo baciò, prima di sollevarsi dal letto e raccogliere con mogio disinteresse i frammenti del vaso, improvvisamente privi di interesse. Il ragazzo saltò su con lui, mettendosi dritto con la schiena per guardarlo negli occhi e non s’era sentito mai così pavido, mise le mani sulle sue guance e tentò di baciarlo, “Ogni bacio manda un messaggio, il mio era un buona notte” disse Leonardo, “Il mio è un ti prego resta” rispose a tono Lorenzo.

 

(*) Cane Abbaiante: La Locanda citata nel 01x05 dove Jacopo è andato ad ubriacarsi/festeggiare dopo la notte con Da Vinci, citato da Piero durante il processo.

 

In primis: Chi l’ha vinta? Lorenzo o Leonardo?

Comunque sia, ordine cronologico: Riario è tutta sua la prima scena (visto che è ambientata nello stesso capitolo di quella dello scorso capitolo, abbiamo visto prima la mattina, ora la sera), poi c’è quella di Filippa che è comunque sciolta nel tempo, in seguito quella di Yana, che potrebbe essere contemporanea a quella di Zoroastro o poco prima o poco dopo, a chiusura c’è quella di Lorenzo.

Nico: Vi avevo promesso un Machiavelli ed invece vi ho dato un tonno, succede in presenza di belle fanciulle. Riguardo alla Pazza che hanno avuto modo di conoscere, sarà spiegata la scena dei capelli ed un sacco di altre cose di lei, riguardo al suo modo di vedere la vita a mo di Legge del Taglione, quella è inclinazione naturale. Ora su di lei si sono già vagamente indizi di chi sia, Da Vinci badate bene l’ha capito, diciamo che il fatto che dispensi Fiorini ma parli di Testoni la dice lunga, così come i suoi occhi e la sua spilla, e si il blasone che ha la sua guardia, oltre ovviamente il colore della manta. Comunque come se ben capito la rivedremo!

Filippa sa bene cosa accade a chi è debole, ma nessuno le ha mai dato una spada, perché nessuno ha mai preteso sapesse difendersi, la sua signora è solo un po’ atipica. Riguardo al suo carattere,  non è ignorante, sa leggere e scrivere, conosce anche l’arte. Sa di molti miti, perché sono cose carine, non crede in loro, ma è molto devota alla sua religione, comunque sia nonostante non sia ignorante ed assolutamente non stupida, le è stato insegnato a temere i misterici, di qualunque genere e perciò non si fida dei figli di Mitra. Ma … ma nulla!

Yana, ha passato tre mesi su una spiaggia con quel marpione di Vespucci, non c’è bisogno di commenti! I SHIP THEM SO MUCH! E si tutti la disegnano perché è una bellezza atipica.

Botticelli ora si impicca se qualcun altro entra cercando Da Vinci.

Su Verrocchio, Yana ed Amerigo che non dicono nulla, io taccio!

Girolamo, questa nota sarà tanto – tanto – lunga. Girolamo stava per rivelare qualcosa ed invece non l’ho fa! Si ciò che lo tormenta di più è l’urlo e non Da Vinci. Si la persona con cui Girolamo deve incontrarsi è una persona che sa il fatto suo e tutto a suo tempo, si può permettersi di fare il comodo suo con il capitano generale della Santa Romana Chiesa. Riguardo all’allegra famigliola di Riario, abbiamo modo di conoscere un nipote che ama come un figlio e a cui sta cercando di salvare l’anima, il suo degenere cugino, a cui alla fine è legato, e la sua giovane amante Lucrezia Normanni, non che unica amante femmina che probabilmente Giulio II abbia mai avuto e per amor della famiglia Girolamo non l’ha ancora uccisa. E Riario ama follemente la sua famiglia, la prova è che va a trovare ancora suo zio, che voleva salvare Amelia, che cerca l’approvazione di suo padre e che non s’è mai sforzato seriamente di uccidere Lucrezia. Riguardo alle sue continue critiche su sua moglie ed il confronto con Giovanna Feltri( o da Montefeltro?) è ancora un dettaglio sul suo rapporto roccioso con sua moglie, il fatto che a suo cugino sia toccata una moglie come si deve, mentre a lui è toccata una belva bastarda, in realtà non è detto ma non è per Caterina che ha rancore in quel passo quanto per la sua stessa natura, Girolamo è un bastardo che non può chiamare Padre il suo stesso padre (e come Jon Snow insegna, nessun bastardo è mai contento) a cui per beffa è stata data una moglie esattamente come lui, solo che Caterina che tutti s’anno essere bastarda, può anche permettersi di chiamare suo padre con tale appellativo. In più i due hanno in comune molto di più di quanto abbiano mai pensato. Ma non voglio dire niente su Caterina, Girolamo e tutta la sua allegra famigliola!

Riguardo a Giovanna e Caterina, Muta e Tigre sono i soprannomi che si sono presi più avanti negli anni, che sicuramente non avevano nel ’79, ma che comunque rispecchiano le loro personalità (forse, non ho idea di che tipo fosse Giovanna) perciò Raffaele le chiama così.

La Signora con il Drago Serpente

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Lorenzo

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Filippa

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Lele

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La Madonna

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Capitolo 3
*** Che hai fatto? ***


DVD

Volevo aspettare che finisse la serie per non sentirmi condizionata, ma  … alla fine …

Ci tenevo a ringraziare tutti coloro che hanno recensito il capitolo precedente e quello prima ancora. Davvero vi adoro,  ogni vostra recensione mi riempie il cuore di gioia, anche perché dite cose troppo dolci e poco veritiere.

Il titolo è sempre tratto dalla genesi, si non è un granché, ma è quello …

Allora il capitolo presenta una scena Slash, la prima che scrivo e quindi prendetela con le pinze, non che con la scena Het me la sia cavata meglio, dovrei tornare a scrivere di morti ammazzati, mi viene molto, molto, meglio.

E questo capitolo doveva avere molto Verrocchio, ma mi faceva troppo male scrivere di lui, rimedierò con il prossimo D: O ANDREA PERCHÉ? * Va a piangere in un angolino*

Buona Lettura, RLandH

Ps- Ha vinto Lorenzo!

 

 

 

 

Sono forse il guardiano di mio fratello?

 

 

 

Atto III: Che hai fatto?

 

 

 

 (1471)

Si sentiva così incredibilmente piccola in quelle stanze. Gli appartamenti cardinalizi erano antichi, finalmente decorati con opere di incredibile bellezza e raffinatezza, molto più eleganti di quanto era mai state le sue camere. Ed erano meravigliose, da lasciarla con l’aria spezzata in gola. Era vestita di tutto punto, con l’avvento dell’inverno e l’arrivo della celebrazione del natale, aveva commissionato alle sarte abiti precisi, curati e magnifici. Era quell’anno speciale, era finalmente venuto il loro momento. Una serva le aveva portato del vino caldo speziato con estrema reverenza, s’era accomodata lei su una poltrona di velluto rosso ed aveva aspettato con ansia la porta. Non vedeva l’ora che i suoi fratelli arrivassero,  erano passati solo pochi mesi dal loro ultimo incontro, ma lei parevano anni. Si ricordava ancora quel giorno, nel giardino, quando sua madre le aveva promesso che se si sarebbe presa cura dei suoi fratelli un giorno loro avrebbero fatto lo stesso. Ed ora erano grandi, erano forti, e lei si sentiva il cuore colmo di fierezza per loro. Era già passato il tempo in cui solo lei si occupava di loro, ma in quel particolare giorno, aveva come la sensazione di liberarsi d’una trave infuocata dal petto.  Il primo ad arrivare fu il minore, ed era un uomo, con un filo di barba ed i capelli scuri, portati lunghi fino alle spalle e disordinati, ma lei lo vedeva come un bambino con le dita insozzate di miele. Sorrise nel vederlo, si sollevò, lasciando cadere la coppa di vino disinteressata, correndo verso di lui, stringendosi in quelle braccia forti che non avevano più nulla delle molli carni del piccolo arto che si tendeva verso di lei. “Non trovi, mi doni questo colore?” aveva domandato con orgoglio, esibendo soddisfatto, la lunga veste carminia. Lei annui, sentendo premere sulle palpebre lacrime di gioia e d’orgoglio.

 

(1479)

“Alla fine ho vinto io” ruggì Lorenzo, baciandoli le labbra, poi passò alla mascella e scese lungo il collo, fermandosi un attimo alla clavicola, “Sei stato più convincente” aveva concesso l’altro, mentre il più piccolo ricominciava la sua discesa di baci lungo il petto nudo, assicurandosi di lasciare anche qualche morso, arrivato al cavallo era tornato su. “Ho piegato dunque alla mia volontà Leonardo Da Vinci” aveva detto con voce grossa, posandoli un altro bacio umido sulle labbra, quello aveva ghignato, prima di ribaltare le posizioni, rotolandosi tra le lenzuola, ponendosi poi sopra, “Ora, giovane Lorenzo, non esagererei” aveva commentato, baciandolo con foga, infilandoli le mani tra i capelli. Il più piccolo s’era allontanato, sorridendo sornione, prima che con uno slancio ribaltasse ancora le posizioni e nella loro ruzzolata quasi non erano caduti giù dal letto di Di Credi, “Ha comandato per due notti di fila lei, maestro” notò il ragazzo, posandoli una dito sulle labbra, prima d’avvicinarsi al lobo e succhiarlo, “Ora comando io” soffiò suadente. “Non ti facevo così attivo” commento smaliziato Leonardo. Lorenzo rise fresco e cristallino,  “Sono un artista io, devo essere versatile” aggiunse, mettendosi a cavalcioni e strusciando il suo bacino su quello dell’altro. Da Vinci rise compiaciuto, mentre sentiva ancora le labbra di quello sul suo corpo, “Ma devi sapere …” gli disse, sollevandoli appena il viso, “Che io non amo i limiti” aveva sussurrato, sollevandosi e portando evidentemente anche l’altro a fare lo stesso. Lorenzo si credi si morse le labbra in maniera pudica ed innocente, per quanto un ragazzo nudo con un accenno d’erezione potesse esserlo, “O maestro, non l’avevo notato” scherzò.

 

S’era svegliato dal suo torpore, con ancora la luna alta nel cielo, aveva sentito il respiro di qualcuno sul suo collo,  aveva voltato lo sguardo, osservando le labbra di Lorenzo non distanti dalla sua clavicola, aveva un espressione serena d’un sogno che doveva piacergli molto o forse il ricordo di ciò che era appena avvenuto. Ed una visione così candida, fu quasi inevitabile ricordargli chi di candido non lo era, vide Lucrezia Donati sorridere in quella maniera sbarazzina, maliziosa ed intrigante, che amava. Avrebbe voluto toccarsi il collo e sentire il suo pegno, ma sarebbe stato forse troppo doloroso. La odiava e l’amava insieme, l’avrebbe voluta stringere tra le sue braccia e soffocare il suo fiato con le sue stesse mani. Non vedeva Lucrezia da più di un anno, non ne aveva avuto alcuna sua notizia, sarebbe potuta essere morta … E no! Non era così, se lo fosse stato, lui l’avrebbe saputo in qualche modo, nel profondo. “Leonardo” la voce del Turco venne improvvisa, come d’una folata d’aria gelata in una calda estate, si era voltato ed ancora una volta se era trovato steso in un luogo diverso rispetto il letto, sulla nuda terra, circondando da alte pareti di pietra bianca, deturpate da rampicanti appassite. Il Turco era davanti a lui, con un candela, altre mille ombre si muovevano nella notte. “Dove?” domandò, sperando che questa volta non fosse quando la risposta, “Nel labirinto” aveva spiegato con voce calma Al-Rhaim, il fuoco era ondulato, come scosso da un forte vento, ma non un solo filo d’aria animava il luogo.  “Seguimi, Leonardo” disse, allungando verso di lui la cera. L’artista s’era sollevata dalla posizione supina e s’era messo in piedi, trovando il Turco porgerli ancora la candela. La prese un attimo, sentendo sui polpastrelli un gelo inspiegabile. “Il Libro delle Lamine è qui?” domandò Leonardo, affiancando il Turco, “Non ne abbiamo cognizione” aveva risposto l’uomo, svoltando in un corridoio che lo aveva inghiottito in un oscurità così profonda da sembrare una tela, Leonardo lo seguì, non trovandolo,  rischiando di precipitare giù, lui era sull’orlo d’un precipizio, che s’apriva sulla montagna della Volta. Lui era tornato nel Nuovo Mondo? “Oh mio sognatore” aveva sentito Ima chiamarlo, ma non aveva avuto il coraggio di voltarsi, aveva sentito il respiro della donna sul collo, “Ci hai uccisi tutti” la sua voce era bassa, velenosa, le sue mani si erano posate sulla sua schiena e l’avevano spinto giù, con una forza inumana.

Era rotolato sul suolo, aveva sentito un dolore allo sterno e alle costole, sulla superficie cui era atterrato, s’era steso con la schiena al suolo ed aveva provata a respirare, trovandolo incredibilmente faticoso. “Spesso è complicato tenere separati i luoghi ed i tempi” aveva sussurrato una voce, Leonardo l’aveva cercata, intorno a lui, cominciava a disegnarsi una struttura e quando con fatica si era sistemato sulle ginocchia, aveva notato trovarsi in un lungo corridoio, sia a destra che a sinistra c’erano sbarre, era in una prigione, o almeno l’aveva pensato all’inizio, si era poi reso conto fossero gabbie. Adatte agli animali, non agli uomini. “Chi ha parlato?” domandò, la fiamma della candela sembrò farsi più vibrante, più maestosa e per un attimo, Leonardò ebbe l’impressione di vedere tutti quelli che erano nascosti nelle gabbie, era salito anche un vociare, ombre che s’erano rifuggiate per nascondersi dalla luce. “La tua sete di conoscenza ragazzo è forte” la voce che aveva parlato era stata la stessa di prima, l’aveva seguito e s’era avvicinato ad una gabbia, dove una figura sotto un manto nero era emersa, “Ma la Luce non appartiene a questo luogo” aveva sussurrato, la fiamma s’era assopita, diventato nulla più che una scintilla, ed allora la figura s’era avvicinata alle sbarre, non era che un vecchio, come tanti altri, con i capelli canuti ed i solchi sul viso. La schiena era curva, causa la piccolezza della gabbia. Leonardo aveva cominciato a cercare una serratura da poter scassinare, ma si era accorto, poi, fosse assente. “Sono sbarre di ignoranza ed oscurità” era stato l’amaro commento dell’uomo, “Non hai ancora la sapienza per spezzarle” aveva spiegato calmo il vecchio. L’artista l’aveva guardato, “Non posso aiutarti?” aveva domandato il giovane, l’uomo aveva mosso il capo in segno di diniego, prima di sorridere vagamente amichevole, “Non ora, almeno” aveva tentato di rassicurarlo, ma la cosa non aiutò, anche l’abissino l’aveva rassicurato, dicendogli che l’avrebbe salvato, eppure non era stato così. Non voleva che succedesse ancora, non voleva che i suoi limiti costassero la vita a qualcun altro.

“Quello che ti sta per accadere giovane, è ciò che ne sarà il tuo destino” aveva ripreso l’uomo, “In passato hai dovuto scegliere tra la Volta e Firenze” aveva ripreso l’anziano, Leonardo aveva annuito, quella volta, lui aveva cambiato il destino, era riuscito ad ottenere entrambe le cose, sia la Volta sia Firenze. Nessuno lo aveva predetto, ma Leonardo era riuscito a torcere il suo futuro, come aveva ampiamente capito i figli di Mitra erano in grado di convertire il tempo al loro piacere e poi, quando era entrato nel regno dei morti, il suo alterego li aveva fatto promettere di farlo ancora, di cambiare ancora il destino e non fallire. Leonardo annuì, “Ci salverai tutti, giovane, puoi star tranquillo” aveva sussurrato l’uomo, con un sorriso, “Devi però trovare il libro” aveva spiegato con voce distante, “E questo deve essere la tua sola ragione di vita” aveva ripreso, l’artista aveva annuito, “Senza quel sapere, neanche la tua intelligenza potrà essere luce nel labirinto” aveva spiegato. Il labirinto, a quella parola, Leonardo tremò,  nel labirinto risiedevano i nemici dell’uomo, quelli che mai avrebbero dovuto trovare il libro, sembrò per un attimo vedere una creatura amorfa, ma scomparve nel buio. “Come …?” provò a parlare, ma il vecchio lo mise a tacere, “La Cripta è il prossimo passo. Trova la Cripta, trova il libro, affronta il labirinto” aveva detto l’uomo, “Spezza le catene dell’ignoranza” aveva aggiunto, “Il tempo delle titubanze è cessato” la voce dell’uomo sembrò perdersi, la fiamma della candela si illuminò come raggi del sole, tanto da costringerlo a chiudere gli occhi. Quando si riprese era in un giardino.

Vide la stessa donna del sogno precedente, era una ragazzina, aggrappata alla corteccia d’un albero, con le unghia scarnificate, i suoi capelli erano annodati, pendii di foglie ed il viso era sporco di terra bruna e sangue, il suo viso era segnato da una profonda disperazione, “Fermatevi” aveva urlato, con lacrime salate a stritolarle le guance arrossate, raschiava il tronco continuando a ferirsi. Da Vinci cercò con lo sguardo ciò che stava implorando finisse, ma non trovò che il Turco nello stesso luogo dove l’aveva conosciuto la prima volta. Aveva ripreso la candela e la fiamma s’era aizzata un'altra volta, “Da quando sei uscito dalla Volta, il tempo è furioso” aveva detto spettrale, prima di condurrò lungo il corridoio coperto d’erba marcia, fino ad incontrare un bivio: alla sua sinistra c’era un corridoio lugubre spettrale, ma ciò che Leonardo scorgeva nel fondo era l’interno della cripta in cui era stato; alla sua destra c’era una prigione ed una donna dietro essa, aveva ricci castani e mani strette sulle sbarre, “Lucrezia” aveva  sussurrato.

Il tempo delle titubanze è cessato.

 

Quando aveva aperto gli occhi, Leonardo s’era accorto d’esser nudo in solitudine sul letto di Credi, Lorenzo era sorprendentemente sveglio, che nudo dalla cintola in su, era seduto su uno sgabello di legno e disegnava su una tela, con quello che sembrava un tratto leggero di grafite. “Ben sveglio, maestro” disse con una risata allegra, “Hai trovato un soggetto?” domandò Leonardo sollevandosi dalla posizione supina, il ragazzo sorrise appena, tornando alla sua arte. I suoi occhi ardevano più di passione in quel momento, di quanto non fosse stato nelle notti precedenti, se Da Vinci definiva se stesso un artista ed un inventore, Di Credi doveva annoverarsi solo nella prima categoria. Leonardo dovette combattere l’impulso di arraffare un foglio e ritrarlo in quello stato, era d’una bellezza sopraffina,  ampiamente più bello di chiunque altro avesse visto  nella vita, forse più di Lucrezia. Ed il pensiero di quella fanciulla, lo fece ripiombare nei sogni.

Si alzò, baciandoli la nuca, tra i capelli,  sentì il ragazzo ridacchiare, “Oggi mi accompagnerai al Cane Abbaiante?” domandò, Lorenzo si voltò, i suoi occhi sembravano essersi spenti del fuoco della passione, ma animati da altro, “Certo Maestro” disse mesto, sorridendo in maniera innocente, Leonardo sorrise, accarezzò il ragazzo tra i capelli, sotto l’orecchio, si chinò e diede un altro bacio, osservando il quadro, sulla tela vi erano tre figure senza dettagli, tratti distintivi. Il vecchio aveva ragione: il tempo delle titubanze era cessato, aveva imboccato la strada a sinistra, nonostante il suo cuore puntasse a destra, aveva come l’impressione che questa volta non sarebbe riuscita a salvare tutti. “Cos’è?” domandò, “L’ho sognato questa notte” rispose il più piccolo divertito, “Hai anche trovato il tempo di sognare?” lo prese in giro il più grande scompigliandoli i capelli, confinando in un angolo della testa la sua esperienza onirica, “Devo solo trovare un viso, per la mia signora”  aveva ripreso con una certa inquietudine, “Se fosse donna, sarebbe lei, maestro” aggiunse. Leonardo sorrise un ultima volta, prima di raccattare i suoi vestiti sparsi per la stanza ed uscire. Adesso aveva da fare alcune cose decisamente più importanti che godersi la gentile compagnia di Lorenzo, prima tra queste scoprire perché Vespucci, Yana e Verrocchio non avessero detto nulla della moneta.

 

 

Dall’ultima volta che aveva visto Carola Norsa, Girolamo Riario era cosciente fossero passati troppi anni, perché potesse esserci anche solo un accenno di memoria in quel viso. La donna era piccola, delicata, più giovane di lui, aveva la carnagione chiara come la polvere di luna, un fisico così esile da sembrare cristallo, aveva capelli castani, con una scriminatura nel mezzo, che scendeva lungo le spalle fino alle anche, sul petto si mostrava una spilla dalla forma d’una stella di Davide. Li accolse lì in un silenzio tombale, aveva occhi verdi d’un morto, vacui, senza espressione. Vestita d’un abito morbido, non pregiato, d’uno spettrale pallido, era sembrata nulla più d’uno spirito dietro la porta di legno, aveva guardato Girolamo come se non lo vedesse veramente, il Conte s’era goduto solo metà di quel viso, Carola aveva meccanicamente spostato lo sguardo verso l’abissina. Aveva poi aperto la porta e s’era fatta da parte lasciandoli entrare.

Girolamo e Zita s’erano allontanati dal Palazzo Orsini, un ora prima che sorgesse il sole. L’avevano fatto stretti in cappe scure, con cappucci che ne coprivano il capo, a piedi, premunendosi di non farsi scoprire dai due cugini cardinali di Girolamo, Giuliano e Raffaele. Non c’era stata nessuna guardia con loro,  non che Riario ne avesse avuto bisogno, avrebbe potuto eliminare qualsiasi uomo avesse intralciato il suo cammino. Avevano attraversato Roma con la costante paura d’esser seguiti, tormentati dalle più indicibili timori, avevano percorso le vie più malfamate, con nient’altro che coltellacci nascosti sotto i vestiti ed un vaso antico, con dei fiori tra le mani. Fino al Ghetto la strada non era stata difficile, ma come da anni a quella parte, nei quartieri giudei Girolamo aveva sentito la vertigine nel percorrere quelle strade ed un forte senso di disgusto, aveva fatto salire la bile fino a percepirne il sapore sulla lingua, ma aveva tirato dritto fino alla casa dove erano diretti, quella dove viveva Carola Norsa, dove giusto un paio di giorni prima aveva accolto la sua serva. Così in quella dimora, erano stati ricevuti dalla fanciulla, la signora e seconda moglie del padrone della casa, noto come l’uomo che erano venuti ad incontrare.  .

Forse era stato proprio il signore che dovevano incontrare, un buon decennio prima, a dirgli che Carola Norsa non parlava, non che Girolamo fosse mai stato particolarmente interessato a qualsivoglia donna ebrea, ma era rimasto ugualmente inquietato dal silenzio che aleggiava per il corridoio dalle pareti di legno rovinato, lungo le scale  scricchiolanti. Riario era stato abituato alle urla, ai singhiozzi, non c’era nulla che lo inquietasse più del silenzio. Forse perché la così tanta abitudine, l’aveva portato a soffocarsene.  Forse perché lo faceva sentire morto e gli ricordava quanto Dio fosse armai sordo ai suoi appelli. Guardò ancora la donna, tra Carola ed un morto, v’era il respiro come differenza. Zita aveva allungato la mano ed aveva afferrato la sua, Girolamo l’aveva guardata e senza controllarlo un sorriso era sorto sul viso. Carola aveva bussato delicatamente ad una porta di legno scheggiato, dopo aver sentito il permesso d’entrare, l’aveva aperta, dopo aver voltato lo sguardo ancora una volta verso Girolamo, s’era fatto da parte. Riario era entrato, Zita aveva provato a seguirlo,  ma Carola aveva posto il braccio delicatamente sul ventre di Zita, quasi ad invitarla di non procedere. “Tranquilla” le disse lapidario, guardandole la gonna, dove la schiava teneva un coltello per necessità, poi entrò, sentendo la porta chiudersi alle spalle.

Carola Norsa era la seconda moglie d’un uomo, che era stato figlio d’un allibratore, non era  però mai stato tanto bravo – differentemente dal padre – in tale ignobile lavoro, ciò era stato purtroppo la condanna del vecchio che s’era ritrovato unicamente lui tra tutti i suoi figli a veder un età maggior a dispetto da quella della fanciullezza. Ed era tale uomo un grand’amante d’oggetti misterici o talvolta semplicemente singolari. Non servivano monete per comprare il suo tempo, per certe questioni. Un ebreo fuori dalle righe, Girolamo non faticava ad ammetterlo. L’uomo lo guardò, aveva una carnagione bronzea e capelli remeggianti, vestiva di blu scuro e se ne stava chino su una sedia, mentre leggeva un libro con estremo interesse. “Eliseo” disse richiamandolo dai suoi comodi, l’uomo sollevò gli occhi e guardò l’uomo, nelle iridi scure scintillava qualcosa di perverso che l’aveva sempre caratterizzato anche da bambino. “Conte!” esclamò con voce carica d’affetto, che non nascondeva una menzogna all’apparenza. Sollevandosi per accoglierlo come si deve, sul farsetto blu, scintillava cucita in argento una piccola effige d’un fiore. Eliseo non fece commenti sul tale motivo per cui Girolamo si fosse presentato due giorni dopo la data concordata con l’abissina, perché Riario sapeva, l’uomo conoscerlo bene.

Girolamo non disse nulla, allungò all’uomo il vaso che s’era portato dietro dalle sue stanze, un anfora antica, dipinta con l’accurata scena d’una battaglia antica, ricolma di terra, cui uscivano due fiori dagli ampi petali bianchi ed un bocciolo giallo dal centro; erano fiori che aveva trovato nel Nuovo Mondo. Eliseo sembrò studiarli un po’, decisamente colpito, mordendosi un labbro, “Grazie del pensiero” aveva aggiunto raggiante, cogliendo il vaso dalle mani dell’uomo e sistemandolo su un tavolo di legno e ferro dipinto d’oro, assieme ad altri di quel genere. Eliseo era l’unico ebreo che avesse mai conosciuto che non provava interesse nell’oro ed era così da quando erano ragazzi, dopo aver lasciato Savona a quindici anni, l’uomo che aveva al suo fianco era stata la prima persona che avesse conosciuto a Roma e senza di lui non avrebbe mai scoperto dove erano le due chiavi.

“Un giorno mi racconterai dove l’hai trovata?” domandò, carezzando i petali pallidi dei fiori, “No” rispose secco Girolamo, non aveva voglia di far sapere al mondo del suo fallimento nel trovare il libro delle Lamine, l’uomo lo guardò con quella verve di cattiveria e malizia che il Conte aveva imparato ad ignorare. Eliseo aveva fatto strada attraverso il ciarpame fino ad una scrivania di legno scheggiato, cui erano presenti due sedie ai lati opposti ed una serie di registri con molti numeri ed una candela ormai usurata. Era lì che s’occupava di prestiti e pegni l’ebreo, nello stesso posto in cui lo aveva fatto suo padre prima di lui e Girolamo ricordava ancora il giorno in cui avesse di fatto conosciuto l’allibratore, erano già quattro anni che conosceva Eliseo, ma non era mai entrato in casa sua ne mai aveva pensato l’avrebbe fatto, per quale ragione di fatto un signorino cristiano sarebbe mai dovuto entrare nella casa d’un ebreo allibratore? Ma era abitudine di  Violante non stare alle regole e quando le aveva chiesto di recarsi con lei dall’uomo per una sua necessità, s’era sentito in dovere – quasi costretto – ad accettare. Aveva solamente diciannove anni e non ricordava poi molto di quel momento, se non che l’uomo aveva sorriso, dietro folti baffi sale e pepe e l’aveva invitato a restare fuori, assieme ad Eliseo, dove ora sostavano Zita e Carola. “La tua deliziosa serva l’altro giorno, mi ha riferito dei sogni che ti tormentano”  aveva cominciato Eliseo, spostando con accuratezza le carte da lavoro, in una zona ai margini del tavolo, assieme ad altri vecchi registri impolverati.  “Si, sei l’unica persona che conosco che pratica arti occulte” disse il conte rigido, quasi sputando quell’ultima parola, l’altro sorrise arcigno, “Certo in qualità di nipote del papa, temerebbero tutti una condanna al rogo” aveva detto sfrontato. Eliseo era sicuro, certo d’aver quella sua pellaccia ebra sicura, ma doveva ricordarsi di non giocar troppo con il fuoco, di non esser così indispensabile o il rogo l’avrebbe visto lo stesso, solo che invece della piazza legata ad un palo, Girolamo si sarebbe assicurato di bruciarlo nel suo stesso letto, con la sua donna muta e tutta quella paccottiglia di misterici oggetti.

Eliseo aveva aperto un cassetto, ed aveva estratto un oggetto di ferro da un cassetto, aveva quatro piedi che culminavano in un anello, c’erano delle foglie finamente lavorate in rame a decorarlo, lo aveva posato su un piatto di terra cotta, cui vi era l’immagine d’una tauromachia. Aveva infilato le mani nel farsetto e ne aveva estratto una chiave, pallida come le ossa, era semplice l’unga, con due denti ed un anello a fondo, aveva mosso alcuni oggetti sinistri dal tavolo, poi aveva pigiato le mani fino a spostare un quadrato di legno, da questo aveva visto una zona di pietra, con una fessura, sistemata la chiave, la pietra s’era sollevata da sola, mostrando una scatola, Girolamo era stupefatto come nella stessa Volta, Eliseo aveva rimosso il coperchio e ne aveva estratto una candela cocciniglia, che aveva sistemato nel quattropiedi, aveva accesso un fiammifero ed aveva donato alla cera la fiamma. Non era una candela come le altre, Girolamo l’aveva capito subito, c’era qualcosa di profondamente conturbante nell’ondulato movimento del fuoco,  per un attimo lì parve di vedere due ombre nere accucciate parlare. “Raccontami cosa hai sognato, amico mio” disse amichevole Eliseo. Ed il conte raccontò tutto.

“Il giardino rappresenta la stabilità e la fertilità in una donna” aveva spiegato l’ebreo, “Ma un giardino tetro ed incolto, l’esatto opposto, la confusione” aveva aggiunto, “Dunque o tu sei molto confuso o presto avremo piccoli Riario scorrazzare per il Palazzo Orsini” aveva scherzato Eliseo forse per alleggerire la tensione dopo il racconto di Girolamo. Il conte quasi si sentì male all’idea di esser padre e che una donna come Caterina potesse avere un loro figlio di lì a poco o in un prossimo futuro, ma poi pensò a Zita e si chiese se non avesse potuto inconsapevolmente avere un bastardo in ventre e quel pensiero lo fece sorridere. “Non ricordi come era il giardino?” chiese Eliseo, ma ottenne una negazione, per quanto si fosse sforzato di ricordare i più minimi dettagli, anche scrivendoli, il sogno era scemato poco a poco dalla sua memoria. L’ebreo andò oltre, “L’essere inseguiti, vuol dire invece la consapevolezza della fuga” aveva continuato,  “Nel tuo passato c’è qualcosa che devi risolvere, qualcosa che ti sta opprimendo” aveva aggiunto. C’erano così tante cose che avrebbero dovuto soffocarlo per quanto si sforzasse di nasconderle, vedeva il sorriso perverso d’Eliseo ed era conosco che lui sapeva. Perché una creatura maligna come lui sapeva sempre, forse era stato il diavolo a prenderlo da bambino,  quando una volta a sedici anni aveva raccontato che da infante aveva rischiato di morir d’un male senza nome, forse per la sua salute il demonio s’era preso lui. “Trovarsi un nemico di fronte, rappresenta l’immediato pericolo” aveva aggiunto Eliseo, “Temi per la tua vita?” aveva domandato, guardando il rosso fuoco ballare. “La donna urlante?” domandò Girolamo, “Non è ovvio?” aveva chiesto divertito l’ebreo, “Esiste una donna da qualche parte cui tu desideri l’assoluzione” aveva detto, con occhi malefici. Troppi visi erano comparsi.

“Con onesta, Girolamo, i sogni sono solo sogni” aveva detto Eliseo, “La gente che viene qui, spera che nei suoi sogni ci sia il futuro” aveva aggiunto, “Ma per lo più cercano solo ciò che vogliono o solo ciò che temono” aveva bisbigliato, con un sorriso di sfinge sul viso, “Forse sei solo preoccupato per il tuo passato, sai di dover fare qualcosa e questo minaccia il tuo futuro” aveva bisbigliato, posandosi su un palmo su una guancia e pressando il peso su un gomito. Girolamo aveva annuito, “Ma a volte le cose non vanno così” aveva bisbigliato, “Nel momento in cui mi hai detto che desideravi trovare Il Libro delle Lamine, Girolamo” aveva bisbigliato Eliseo, “Ho capito che il mondo degli uomini non ti bastava più” aveva esposto.  Per un attimo Girolamo s’era ritrovato adolescente, quando per la prima volta Francesco Della Rovere – quand’era ancora cardinale – aveva parlato del libro delle Lamine. Ricordava quanto aveva fremuto Giuliano, ma era stato Riario a farne la sua ragione di vita. “Quindi?” chiese Girolamo, “Da Vinci è la domanda e la risposta” aveva detto enigmatico Eliseo, spegnendo la candela con  un fiato. Il Conte aveva annuito, mentre osservava l’ebreo con movimenti misurati rimuovere la candela, ma invece di inserirla di nuovo nel meccanismo l’aveva allungata a quello, “Una luce nell’oscurità serve sempre” aveva detto amichevole. Girolamo aveva preso la candela sospettoso.

S’era alzato dalla sedia e diretto alla porta, “Sei stato seguito” aveva detto Eliseo, bloccandolo con la mano sul pomello della porta, Girolamo l’aveva guardato, “Da un nemico prossimo” aveva spiegato disinteressato, con quel sorriso malato e perverso, il conte aveva forzato un sorriso, “Un giorno t’aprirò un sorriso da orecchio ad orecchio” disse divertito, pensato che sarebbe stato l’unico sorriso che avesse tollerato ancora su quel viso. “No” aveva risposto  l’ebreo, “Io posso vedere molte cose, ti ricordo” aveva cantilenato. Girolamo s’era voltato verso di lui, perché non dire le cose tutte insieme divertiva troppo l’uomo e dopo anni, Riario aveva imparato il gioco, “C’è altro che desideri dirmi?” aveva domandato sospettoso, Eliseo aveva passato la mano sul tavolo con estremo divertimento, “Questa scrivania nasconde molti misteri” aveva commentato, “L’ha progettata e costruita una donna che tornava da una terra lontana” aveva detto divertito, battendo tre dita sul legno. La madre di Leonardo! Era stato il suo primo pensiero, “L’ha costruita per mio padre in cambio d’un libro e d’un nome” aveva risposto con voce seria, “Non ricordo il titolo del libro” aveva commentato con voce tetra, quasi disgustato dal suo fallimento, “Ma ti consiglierei d’andare dal Macellaio fuori dalle porte del ghetto, il buon Bartolo, ha un tale apprendista che potrebbe sapere qualcosa” aveva commentato divertito. Girolamo rimase per un attimo senza fiato, un apprendista d’un macellaio vicino il ghetto? Giuliano! L’amante! Uscì di fretta dalla stanza, afferrando Zita per un polso e trascinandola da via, da qualche parte nei suoi ricordi una donna urlava, con il viso arso dalle lacrime.

 

Filippa aveva versato l’ultimo secchio d’acqua nel catino, mentre osservava con sguardo imbarazzato la sua madonna spogliarsi degli abiti maschili che aveva portato tutta la giornata, senza particolare vergogna, sebbene la serva sapesse la donna non usasse mai farsi vedere nuda, se non da messer Antonio e Betta, una delle cameriere impiegate nel servizio della dimora da più anni, Filippa aveva sentito fosse venuta al servizio di quella casata assieme alla madonna quando aveva sposato il signore. La greca rimase senza fiato, quando la madonna si voltò verso di lei, il ventre con un filo di grasso, era attraversato da una linea bianca, che risaltava mortalmente tra la pelle bronzata, da sotto il seno all’ombelico. I capelli neri erano ondulanti lungo la schiena, anziché lisci come la seta, dovuti alla treccia che aveva portato negli ultimi giorni.  Lo fissò con gli occhi scuri, neri come quelli d’un satanasso, duri e levigati come le pietre focaie. Aveva sempre sospettato la sua signora non stesse a nessuna regola. Ma ora non poteva che chiedersi, nonostante le fosse stato insegnato a non farlo, cosa nascondesse veramente: le cicatrici, le arti combattive, la segretezza del viaggio ed i figli di Mitra.  Il pensiero di questi ultimi, le fecero correre brividi lungo la schiena, suo padre non aveva mai avuto buone parole per i membri di quella setta, ma uno degli ultimi discorsi con sua madre erano virati per quella direzione, le aveva sempre detto di starci lontana. E lei lo aveva fatto,  fino a che la sua stessa signora, di cui aveva imparato a non discutere mai ordine, la aveva condotta proprio da loro.

A svegliarla fu il rumore dell’acqua spostata e voltandosi aveva trovato la donna, con le ginocchia al petto dentro il catino, Filippa aveva preso il sapone e con delicatezza dopo averlo bagnato aveva cominciato a passarlo sulle braccia della signora. Aclima aveva gli occhi serrati, quasi fosse in uno stato di dormiveglia; la serva s’accorse che tra i seni spiccava la croce argentata l’unico oggetto che si era lasciato, quando era passata con il sapone lì.  Era passata alla schiena, poi quando la donna s’era sollevata aveva insaponato le gambe ed il basso ventre, cercando di non distrarsi nel guardare la cicatrice, poi quando era tornata nella posizione accucciata, aveva passato oli profumati tra i capelli scuri. Riempito un'altra bacinella d’acqua e rovesciato sul capo della donna che da sola s’era massaggiata la cute. “Ti stai chiedendo della cicatrice, vero?” aveva domandato la signora, posando la schiena sulla superficie ed i gomiti  sull’orlo laterale, con un sorriso sardonico sul viso, con gli occhi scuri pieni di rabbia. Filippa mosse il capo in senso di negazione, “Non mettermi” aveva detto sterile la donna, “Avevi la stessa espressione di Antonio quando m’ha veduta gnuda alla prima istanza” aveva risposto con voce piena di rammarico. Che nessun’altra persona avesse visionato la nudità della signora oltre lei, Antonio e Betta? Che dietro quella cicatrice vi fosse altro? “Puoi uscire Ippa, finisco da sola” disse la madonna poi, dopo un lungo sospiro. Filippa annui ed eseguì il comando, quasi priva d’una sua volontà.

Uscì dalla sala da bagno, ma s’arresto appena fuori l’uscio, posando la schiena sul legno della porta, timorosa di compiere i passi che mancavano alla loro camera, con le vertigine alle gambe, perché una cameriera doveva sempre essere a disposizione della sua signora. Alzò lo sguardo e trovò Lele, con gli indisciplinati capelli scuri lunghi fino alle spalle, lasciati liberi, privo del soliti abiti scuri o dell’armatura grigio salgemma, ma con null’altro che una maglia morbida chiara di lino ed i calzoni scuri , era un uomo alto, impostato, dai muscoli marcati, dalla mascella marcata, coperta da peluria, e gli occhi caldi, sebbene una cicatrice attraversasse il viso e lo sfregiasse, aveva sui quarant’anni, il doppio di quelli di Filippa, eppure era a modo suo attraente. Era sistemato dall’altro lato del corridoio rispetto lei, aveva la schiena contro il muro,  le braccia conserte al petto, il piede destro era piantato sul legno del pavimento, il sinistro sulla calce del muro. Il viso era costretto in un espressione boriosa e gli occhi a mezza palpebra, aveva l’aria assente ma se qualcuno si fosse lanciato contro di loro con un coltellaccio, avrebbe perso la mano prima che Filippa avesse trovato la voce nella sua gola per urlare. “Mi piace Firenze, Ippa, sai?” disse gentile, cogliendola anche un po’ di sorpresa, con quella voce cavernosa che lo contraddistingueva, “Voluttuosa, libertina e peccaminosa” aveva ripreso, con un sorriso di sufficienza sulle labbra, “Eppure mi sembra autentica”” aveva bisbigliato, eppure sembrava parlasse d’altro.  Filippa annui, con un sorriso divertenti, eppure contemporaneamente amaro di consapevolezza. O certo che era vera! Firenze non si nascondeva! Non era marcia, come il luogo dove vivevano loro, dove uomini e donne nascondevano la loro ipocrisia dietro polveri, ori, oli e merletti. Dove si elogiava la purezza ed il candore, ma i piaceri del corpo erano sovrani. L’Urbe quello era, l’ossimoro per eccellenza. “Da quanto tempo vivi a Roma, Lele?” aveva chiesto, osando per la prima volta dar sfogo alle sue curiosità, sentendosi frizzante e vagamente divertita da quella trasgressione;certo Lele non era un nobile, ne un padrone, era una guardia, un servitore, nulla di diverso da lei infondo. L’uomo sollevò gli occhi castani, stupito dal fato che lei avesse formulato una questione, abituato ai suoi lunghi silenzi, “Due decadi” rispose, incrociando le braccia al petto, “Venti lunghissimi anni” aveva aggiunto seccato, “Da dove vieni?” aveva continuato lei, elettrizzata da tutta quella confidenza che nessuno le aveva mai permesso, Lele poi alla fine non era neanche un signore, era concesso far domande, “Da un paesino di montagna, m’ero stufato di far il montanaro a vent’anni sono venuto a Roma per veder i miei servigi” aveva commentato con voce triste. Filippa sorrise, “Non hai una famiglia da qualche parte?” chiese innocente, osando forse troppo, Lele sembrò bruciarla con gli occhi. “Un fratello” aveva risposto, “È rimasto a fare il pecoraio” aveva risposto, “Se sposato con una donna riccioluta ed hanno una figlia poco più grande di te” confesso gentile, sorridendo, con gli occhi lucidi a quel pensiero. Forse aver fatto la guardia non doveva esser stato ciò che aveva sempre desideravo, forse s’era pentito di non esser rimasto sulle montagne e non averla sposata lui la donna riccioluta.

“Tu?” aveva domandato Lele, “Da dove vieni?” aveva chiesto, Filippa aveva sentito i brividi lungo la schiena, rendendosi conto che per la prima volta da tanto tempo  qualcuno le aveva chiesto qualcosa di lei, era capitato che il Signor Antonio, le chiedesse se per caso conoscesse qualche preghiera, perché ne era profondamente divertito dalle culture straniere. “Sono nata a Zacinto” aveva confessato, cercando di ricordare qualcosa di quella terra lontana, ricordava il tavolo di legno d’acero su cui sua madre sbucciava le pere, la capretta che avevano, che le mordicchiava sempre i riccioli, quando da bambina lei s’appendeva alle orecchie flosce e la spiaggia, chiara, da cui s’estendeva una distanza d’azzurro brillante, che per quanto spingesse gli occhi lontani, Filippa non distingueva il mare dal cielo. “Ma quando avevo sette anni siamo andati via” aveva aggiunto, malinconica. L’immagine di quel grande mare s’era liquefatto nella sua mente, come la neve al primo sole. Non ricordava nulla dell’ultimo giorno a Zacinto, ricordava le lacrime sulle guance. Nessuna tomba e nessun resto era rimasto per celebrare e ricordare coloro che non c’erano più, sua madre aveva portato via lei ed i suoi fratelli più grandi, dopo la morte di suo padre e del fratello maggiore.  Represse un singhiozzò, avrebbe volentieri voluto continuare a parlare della sua vita, perché finalmente potesse parlare con qualcuno, ma il pianto che l’era venuto, aveva lasciato intendere a Lele che non ne avrebbe mai avuto la forza.

Taciuti i singhiozzi, Filippa aveva omesso gran parte della sua vita, aveva rivelato fosse venuta solo un lustro prima con uno solo dei suoi fratelli nella penisola italica.  “Io e mio fratello ci vediamo spesso, anche lui viveva a Roma” aveva spiegato, sfregando il polso sugli occhi per fermare le lacrime,  prima di sorridere, rassicurata a quel pensiero, che almeno avesse ancora qualcuno, qualcuno che respirava, che aveva calore, sangue e vita, non solo un pezzo di legno marcito ed un dipinto sbiadito. Quasi rise, con una punta d’isteria “Sono sicura mi nasconda un segreto” aveva detto con un sorriso, cercando di divertirsi ai segretucci amorosi o meno che suo fratello potesse gelosamente seguire e a quel sorriso sbarazzino che adorava, quando si vedevano per occupare le giornate assieme. Vide il viso di Lele crucciarsi, quasi volesse chiedere altro, ma la voce della loro signora li aveva distratti dalla loro chiacchierata,  la Madonna aveva chiesto a Filippa di entrare per aiutarla a prepararsi per la notte.

 

Sandro Botticelli non s’era mai innamorato, aveva di tanto in tanto sfogato le pulsioni del corpo, questo si, ma l’amore, quell’idea di completezza, era stato un sentimento che aveva provato solo par la sua arte. Non poteva semplicemente concepire che Da Vinci fosse più bravo di lui, un uomo sempre distratto, disorganizzando, irrazionale e folle,  metodico si, ma che non s’era mai preso un solo minuti per guardare il proprio operato o quello altrui con occhi innamorati. Sapeva d’esser migliore di Leonardo, perché l’arte era la sua unica ragione di vita. Ma questo non lì impediva di temere Lorenzo di Credi e le sue pennellate pignoli, maniacali e curate.  Era stato due giorni a dipingere, cercando di richiamare alla sua mente l’ormai trapassato volto di Simonetta Vespucci, la cugina di quell’otre ambulante di Amerigo, una donna davvero incantevole, che la tisi s’era presa troppo presto. Sandro non aveva mai amato nessuno – uomo o donna – come aveva amato la sua arte, ma Simonetta aveva il viso d’un serafino ed i capelli d’oro, quando sorrideva era bella come la primavera, ma con l’espressione crucciata era sublime, come Venere dalle acque. Botticelli aveva sfiorato la sua pelle poche volte, per posizionarle il viso, l’aveva fatto come un innocente, davanti la Vergine Maria, senza un solo briciolo di malizia o lussuria nel suo atteggiamento. Eppure a distanza di quattro anni, non sapeva spiegarsi perchè continuasse a sentire quel malore nel petto, peggiorato, quando impegnandosi nel dipingere il volto di Simonetta si faceva più distante. La vedeva ridere,  ispirando l’odore d’una zalea con gli occhi castani brillanti. E se non avesse ricordato quel viso, la madonna dai capelli di rame, avrebbe scelto Lorenzo per il suo ritratto. E Sandro se ne rendeva conto, quel viso non era il viso di Simonetta, non era una dea che andava immortalata, era pallida come una candela, ma non candida, aveva capelli vivi e rossi, come il ferro, come la battaglia,  i ricci di Vespucci erano imbevuti del sidro del sole e quel viso, Sandro fremeva nel pensarci. L’aveva veduta nuda tante volte, che era un ragazzino e si chiese se l’avesse vista in quel momento, che era uomo,  avrebbe vinto l’amore per l’arte o l’amore per Simonetta.

Yana la straniera, lo guardava da uno sgabello lontano, aveva il vestito del giorno prima, i capelli sciolti ed il corpetto allacciato alla buona ed il fiero aspetto d’una belva della foresta. Il pomeriggio prima, dopo l’arrivo di Filippa, era stata più di un’ora con Amerigo ed il Maestro chiusi dentro l’ufficio a discutere su qualcosa, Sandro e Lorenzo avevano provato ad origliare, ma Benedetto gli aveva trascinati via tirandoli per un orecchio. Dopo ancora agitata la straniera se n’era andata con Vespucci sottobraccio ed era stata fuori l’intera notte, era tornata solo alle prime luci dell’alba ed era stata nella medesima posizioni da ore, come d’una belva che su un alto piano, spia la zona cercando la sua preda. E Sandro aveva cercato di ignorarla per concentrarsi solo sulla sua arte, che l’aveva tenuto sveglio tutta la notte, mentre si impegnava a riempire le figure di colore, cercando di richiamare alla memoria la sua musa e cercava al contrario di soffocare le grida di quel sodomita di Lorenzo, che s’era assicurato che per la terza notte di fila chiunque nella bottega sapesse cosa avesse fatto, particolarmente Sandro, la cui stanza era a sole due porte di distanza.

“Leonardo!” strillò Yana, sollevandosi dallo sgabello e tirandosi su la gonna, mostrando le gambe senza vergogna, correndo proprio nella direzione dove era comparso Da Vinci, di tutta fretta, rifilando la maglia morbida, “Qualcuno mi deve delle spiegazioni” ruggì, l’amato prodigio di Verrocchio e Sandro stabilì che se avesse ascoltato la sua voce per altro tempo ancora avrebbe battuto ripetutamente la testa al muro di proposito, perché anche impegnandosi non riusciva minimente a tollerare tale oscenità di uomo. Lasciò perdere il quadro recuperò la sua bisaccia ed uscì dalla bottega, inventando ad un ragazzo che stava cercando di plasmare un busto di dire al Maestro che andava a comprare degli ingredienti per un colore. Mandò giù la bile che era salita, odiava che Da Vinci fosse così schifosamente geniale, eccelso e talentuoso, la sua arte era sì un’abilità innata, ma che Sandro aveva coltivato, con il sudore ed il tempo, dipingendo ogni giorni, fino a che non v’erano stati altro che calli sulle sue dita e non riuscisse a stendere il palmo senza provare dolore.

Andò alla fine davvero al mercato, cercando davvero qualche componente da poter sciogliere per cercare un colore più brillanti, gli sarebbe davvero piaciuto trovare un oro così intenso da non poter esser guardato, come la luce del sole, così da poter permettere al mondo che non l’aveva mai veduta la grandiosità che Simonetta era stata. Ma tutto ciò che trovò fu il castano scuro, come di tronchi d’albero, composto nei riccioli indomabili della greca. Mentre osservava un vaso finemente disegnato d’una tauromachia, con la coda dell’occhio aveva veduto la donna che era stata il giorno prima alla bottega. Indossava un abito prugna, lungo fino ai piedi, le maniche strette, il corpetto aderente, senza una sola organza o ghirigoro, tremendamente semplice, come d’altronde Filippa Demopulo si presentava al mondo, un viso di donna, senza particolare beltà, due occhi, una naso e labbra fine, l’unica cosa che sembrava renderla diversa era la matassa di ricci informi, da sembrare un gomitolo di spaghi. Teneva tra le braccia un cesto colmo di viveri vari, tra cui della frutta. Sandro la stava guardando quando era caduta, ma forse era stato per la sinuosità dei capelli, che s’era distratto e non aveva capito come, se era inciampata nell’orlo dell’abito o qualcuno l’aveva maldestramente spinta. La cesta s’era rovesciata ed il contenuto era rovinosamente rotolato per terra, Filippa s’era fatta svelta nel raccoglierlo e quando una mela era arrivata fino ai piedi di Sandro, lui s’era chinato e l’aveva aiutata.

“Signora” aveva detto, posando la mela e quanti altri viveri avesse raccolto lungo la strada che li divideva nel cestino riposto sulla strada, “Non c’è giovane motivo per chiamarmi così” aveva detto allegra Filippa, prima di ringraziare, senza aver il coraggio di sollevar però lo sguardo, “Filippa Demopulo, vero?” aveva bisbigliato Sandro, cercando conferma, non che ne avesse bisogno, non aveva mai saputo perché, ma ogni immagine che vedesse nella sua vita, rimaneva impressa nella sua memoria come fosse stato un dipinto e Filippa non era stata un eccezione. La Greca aveva sollevato il viso, incrociando il suo volto, “Ma lei … lei è …” aveva bisbigliato, poi la bocca s’era aperta in un sorriso, “Maestro Alessandro” strillò, quasi avesse avuto davanti a lei  la santa trinità con santi annessi e connessi. Sandro s’era sollevato dalla posizione genuflessa tenendo la cesta tra il braccio sinistro ed il fianco ed aveva allungato la mano libera alla donna, che s’era aggrappata, usandola come leva per sollevarsi. Filippa lo guardava adulante, come se al suo posto ci fosse stato un quadro del Brunelleschi e dopo tempo, Sandro sentì una sorta di calore al petto, ricordando quando la Greca aveva esclamato d’amare i suoi quadri.

 

 

“Avete detto a Leonardo Da Vinci il messaggio?” aveva domandato Filippa poi, mentre tirava la cesta via dalle mani di Botticelli, la bontà di Sandrò s’era impiccata, “Io di certo no” aveva detto infastidito, “Del Maestro, Yana e Vespucci non ne ho idea” aveva aggiunto, ma poteva immaginare che Leonardo allontanarsi furioso e la straniera inseguirlo potessero essere una prova del loro silenzio, forse, “Ma sono sicuro che tra un “Più forte” e “Si Maestro!” Lorenzo avrà avuto modo di dirlo” aveva aggiunto cattivo, incrociando le braccia al petto. Gli occhi di Filippa s’erano spalancati sconvolti e solo dopo aver realizzato ciò che aveva detto Sandro s’era sentito mortificato della sua lingua lunga, più per Di Credi che per Da Vinci. “Sodomita?” aveva domandato abbastanza confusa, fissando il cesto di viveri che teneva tra le sue mani, “È stato anche processato per questo” aveva continuato, tanto aveva già fatto danno, non poteva tornare indietro e poi era noto anche ai sassi che Da Vinci aveva certe usanze, come mezza Fiorenza in fin dei conti, lui compreso. “Non credo questo cambi le cose” aveva detto dopo averci meditato un poco , la fanciulla dai riccioli scuri, tornando a fissare Sandro, prima di sorridere in maniera amichevole,  aveva distolto lo sguardo per ammirare il vociare di Firenze. Filippa annui, poi disse: “Aclima” –  il modo in cui pronunciò il nome fu strano –  “ha bisogno di lui a prescindere” aveva, prima di perdersi in altri pensieri. “Siete un’amante dell’arte, Filippa?” domandò allora, Sandro per spezzare il silenzio che s’era venuto a creare tra i due, a quella domanda la greca aveva sollevato lo sguardo, tornando a guardarlo, “Si” aveva mormorato, con le gote un po’ arrossate.

 

La carrozza si fermò davanti un vicolo, come era stato concordato. Lorenzo attese che il cocchiere scendesse per aprire l’anta, per un attimo ricordo quando quella meretrice e traditrice di Lucrezia lo incontrava. Quando la figura ammantata era entrata, per un attimo, il Magnifico aveva davvero pensato di veder scivolare fuori dal cappuccio scuro dei riccioli castani. Ma quando aveva visto quel viso, s’era rivelato una figura posata, matura, dalla chioma biondo incandescente. Un sorriso malandrino e vagamente cattivo. “Vita mia” aveva sussurrato Ipolita Sforza, prima d’aver chiuso le dita affusolate delle sue mani sulle gote dell’uomo e chiudendo le sue labbra con un bacio fremente. “Ero così animato quando mi è arrivato il tuo messaggio” aveva detto Lorenzo, approfondendo il contatto,  stringendo le dita sul corpetto della milanese, “Quanto mi sei mancato vita mia” aveva sussurrato Ipolita, arpionando con le dita il colletto e spingendolo su di lui, cercando di sollevar la gonna e di stringere il bacino dell’uomo con le gambe. “Non vuoi un posto più comodo, amore mio” sussurrò Lorenzo. Ma il sorriso voglioso di Ippolita non lasciava dubbio alcuno, infilando le dita tra i capelli, dandogli un altro bacio. “Ho giaciuto troppo allungo con Alfonso, riprenditi ciò che è tuo” aveva sussurrato la Regina di Napoli, prendendo una mano dell’uomo e spostandola dal seno alla sua femminilità.

Era stato come tornare ragazzini, impacciati e scomodi, ritmati da movimenti scoordinati. Ma ugualmente meraviglioso, come di quelle volte vicino al fiume, con i capelli di Ippolita biondi come l’oro, sparsi sull’erba fresca e fiori di campo a profumarla. Il modo in cui anche dopo aver fatto l’amore, nuda come la terra, si copriva la bocca con la mano per trattenere una risata scomposta e le gote rosse. E si sentiva come un ragazzino a guardarla in quel momento che cercava di ricomporsi e rivestirsi dopo l’atto consumato, con quei capelli d’orati, così diversi dai riccioli neri di Clarice. Scacciò di forza il pensiero del viso severo di sua moglie, ma che con il tempo era venuto ad apprezzare, c’erano volte in cui si chiedeva se provasse solo affetto per lei o amore e se amasse Ippolita o se fosse lussuria, a volte dubitava d’averla amata davvero, almeno una volta, da fanciulli.

“Cosa hai detto a tuo marito?” aveva domandato Lorenzo, infilando i bottoni d’oro nella fessura della camicia rossa, “Di essere ad Imola da mia nipote Caterina” rispose Ippolita, trafficando con i lacci del corpetto con movimenti calmi e misurati. Il Magnifico annui, ricordando vagamente la nipote in questione, era la figlia bastarda dell’ormai defunto Duca Sforza, il suo pingue maiale preferito, che aveva segnato con la sua morte la fine dell’equilibrio con Roma. Caterina dai capelli rugginosi, l’ultima volta che l’aveva vista era una bambina assai più giovane di sua figlia Maddalena. Qualche anno prima s’era maritata non ancora fanciulla con quella serpe di Girolamo Riario. “Alfonso non sarà così stupido d’avvicinarsi alle terre del Conte Riario senza un valido permesso” aveva detto con disinvoltura la donna, prima di sorridere, “E son sicura che non dubiterebbe mai con il conte della buona parola della sua mogliettina” aveva aggiunto con voce solare. Lorenzo aveva ridacchiato davanti quel sorriso scanzonato ed un po’ folle; la baciò ancora.

Ippolita gli accarezzò il viso, “Ma per quanto rivederti, vita mia, sia stato il mio primo pensiero” sussurrò la milanese, avvicinandosi a Lorenzo, “Ero davvero ad Imola da mia nipote” aveva mormorato, “Qualche mese fa è fuggita da Roma” aveva spiegato con voce raschiata, Lorenzo le passò una mano tra i capelli, “Ora è qui” aveva risposto con voce insicura. De Medici s’era fatto di pietra, pensando al fatto che nella sua bella repubblica si fosse insidiata una serpe come la nipote putativa di Sisto, “Hanno provato ad ucciderla” aveva spiegato Ippolita, “Ed il sicario veniva da Fiorenza” aveva spiegato, “Mia nipote ha avuto l’idea di sbarazzarsi del committente” aveva detto la madonna con un sorriso d’approvazione sulle labbra.

 

 

 

Note varie, di dubbio gusto:

Ordine Cronologico: Girolamo Riario ed il suo simpatico amico, il giorno precedente. Leonardo e Filippa si svolgono nello stesso tempo invece, durante la notte ambe-due, Sandro invece è metà mattina, così come Lorenzo Il Magnifico è nel pomeriggio.

Ippolita è un personaggio difficile da spiegare, è una nobildonna, ma è una stratega ed è inquietante e pazza, forse anche un po’ sadica ed ossessiva-possessiva, probabilmente anche parecchio infoiata. Tutte caratteristiche che vi assicuro condivide con quella gioia della nipote, che è meno esagerata per certi versi più per altri. Sono sicura sia comunque OOC. Comunque sia nella storia non ha mai avuto il Titolo di Regina di Napoli, ma visto che nella serie lo è … E poi su era famosa per essere fedele e pudica, abbiamo accettato tutti che questa Ippolita non è quella storica.

Aclima è una donna dai molti segreti(?), quello che vi posso assicurare è che non è una madonna qualsiasi.

Sandro, il suo pezzo è dannatamente inutile, l’ho scritto per inerzia, per divertimento, perché se fossi una sceneggiatrice o produttrice di DVD darei molte più parti a Sandro Botticelli. Che per inciso se Zoroastro si farebbe il mondo, Leonardo le persone belle e Lorenzo Leonardo (poverino è Leonardosessuale), Sandro ama l’arte e solamente l’arte. L’amore che prov(av)a per Simonetta è una questione puramente artistica, era la sua Venere e la sua Primavera.  Giusto per l’appunto, Simonetta Vespucci era la cugina dell’inimitabile Amerigo (che si ha passato la notte con Yana), è morta nel ’74 e se fosse stata viva non sarebbe stato necessario introdurre nella storia nessuna Vanessa Moschella, visto che Simonetta Vespucci era l’amante di Giuliano.

Si, Caterina Sforza ha spudoratamente mentito a Girolamo (e ad Alfonso), lui se ne va in giro per il ghetto a risolvere misteri, lei per Firenze a commettere omicidi. Dio li fa, il Diavoli li accoppia! (In questo caso Il Diavolo in questione lo conosceremo bene)

Il fiore che Girolamo porta ad Eliseo, è un fiore di patata, sono davvero belli. Detto ciò il motivo per cui Eliseo è così tranquillo ed irriverente con Girolamo è perché si conoscono da ragazzini, non crede possa seriamente fargli del male, oltre i suoi poteri che da questo capitolo non si capisce bene in cosa consistono. Si Carola è inquietante.

L’interpretazione del sonno è alla buona, non ho mai fatto psicologia ed odio il signor Freud (unico filosofo che ho studiato parlasse dei sogni) quindi forse sono solo boiate, ma non sono importanti alla fine. Eliseo l’ho dice, forse Girolamo era solo molto minacciato o forse il suo sogno ha qualcosa di più. Tipo l’essersi incontrato con Leonardo. Ed Eliseo ha parlato d’un nemico … mmm …

Filippa è sfigatissima, la sua storia non è finita, così come quella di Lele.  Lei potrebbe essere attratta da Messer Antonio così come da Lele ma non essere innamorata di nessuno.

Come si è notato le descrizioni cambiano da persona a persona. Filippa è delicata per Lorenzo e Niente di Che per Sandro, così come La Madonna del Drago Serpente.

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Capitolo 4
*** Ho acquisito un uomo dal Signore ***


DVD2

Allora … Sono tornata, chiedo scusa per non aver aggiornato, ma ero in pausa per maturità. Ma ora sono una donna libera e dal due pomeriggio che lavoro su questo capitolo, non ne sono molto contenta, particolarmente la parte di Madonna Aclima, ma spiegherò meglio sotto perché questo taglio OOC. In questo capitolo ci priviamo di uno dei personaggi principali, che vi prometto avrà tanto – ma proprio  tanto – nel prossimo. Il titolo come sempre è tratto dalla genesi.

Vorrei ringraziare tutto coloro che hanno recensito (Sapphire41, Verdeirlanda e Chemical Lady), grazie di cuore ed anche tutti coloro che hanno letto silenziosamente, chi preferisce, segue e ricorda. Grazie di cuore a tutti.

Buona Lettura

RLandH

 

 

Sono forse il guardiano di mio fratello? 

 

Atto IV: Ho acquistato un uomo dal Signore

 

Il ragazzo era magro, ma non da sembrare rachitico, era snello ed anche molto più alto di lei, aveva una carnagione livida ed i capelli biondo palliericcio, ordinati con una scriminatura laterale, un espressione mogia in viso, che lei vedeva dipingersi ogni volta che si voltava verso di lei. Non era bello, c’era qualcosa che stonava, che lo rendeva scialbo alla vista. Indossava un vestito semplice tortora, compreso di una casacca e dei calzoni. E mangiava una mela che aveva rubato dalla sua cesta.  Anche se in modo strano, le ricordava un ragazzo che aveva conosciuto a Corcira, che lavorava come manovale per un fabbro, non si somigliavano molto, quello era un uomo cesellato, dai capelli indomabili e rossi. Ed aveva quattordici anni ed un giovanotto così non faceva che renderle molli le gambe. Ma era per il modo di fare, con quello sguardo distante e l’attenzione per il dettaglio. Quando il ragazzo di Corcira, guardava il metallo raffreddarsi d’una lama ben curata, aveva avuto la stessa espressione che quel ragazzo aveva avuto tutto il tempo parlando della sua arte. Soddisfazione, amore, devozione.

“Non credo possiamo entrare, maestro Alessandro” aveva bisbigliato la ragazza, affiancandolo, “Tranquilla” aveva risposto lui, muovendo due dita delle mani per calmarla, “Preferisco Sandro o Botticelli” aveva detto, con una smorfia sul viso.  Filippa aveva annuito diligente, osservando il giovane morsicare i resti della mela che i soldi della sua signora avevano comprato. Era già più d’un’ora che era via, la sua padrona si sarebbe infuriata come una belva ed il buon Lele si sarebbe preoccupato? E se non fosse tornata per tempo all’arrivo di Da Vinci? Sandro proseguì dritto fino ad una porta imponente, cui davanti vi era un uomo vestito d’uno scuro blu, come la notte. “Filippino Lippi sta lavorando ad un quadro giusto?” domandò, quello annui, “Ditegli che ici vi è Sandro Botticelli” disse con più calma, ma per nulla affabile, senza sforzare un sorriso. Filippa era come sconvolta da tutta quella onestà, aveva come l’impressione il ragazzo non volesse nascondere nulla.

Avevano aspettato sotto la porta, fino a che non era venuto un tale, un ragazzo vestito di rosso, dai ricci crespi e gli occhi castani, insozzato dalla testa ai piedi. “Botticelli hai interrotto la mia vena artistica” disse con un tono irritato, prima di notare lei che se ne stava impacciata con il suo cesto di frutta vicino al giovane artista, “Oh” disse spalancato la bocca, prima di sorridere affabile, “Non esiste di fatti nulla di più romantico che guardare i quadri di casa De Medici” gracchiò, prima di colpire con un buffetto l’altro sulla schiena. “Taci Lippi” rispose con un tono sostenuto Sandro, facendo ridacchiare l’altro, “Capiti a fagiolo, avevo giusto bisogno d’una mano esperta per un dipinto” aveva mormorato, “Sempre se tu non possa lasciar sola la tua signora” aveva detto malizioso  Filippino, “Fate pure” mormorò Fillippa, arrossendo sulle gote, un po’ perché desiderava vedere l’arte prendere forma, un altro po’ perché era stata definita la signora di Botticelli. Sandro roteò gli occhi, “Sei un’offesa all’arte, Lippi” rispose a denti stretti, prima di seguire Filippino dentro la residenza De Medici. Forse sbagliava Filippa, ma nonostante il giovane non si stesse mostrando più cortese rispetto come era stato con lei o con chiunque avessero incontrato dal mercato alla tenuta, aveva l’impressione che tra i due vi fosse una genuina amicizia, era un pensiero dovuto alla leggere allegria con cui Lippi rispondeva a tutte le mal parole di Sandro.

“Che sciocco uomo,  non mi sono presentato” aveva detto il giovane pittore, mentre percorrevano un corridoio, illuminato da vetrate dall’alto e candele, “Ne il nostro Sandro ha provveduto” disse piccato, ma Botticelli preferì ignorarlo continuando per la sua strada. “Filippino Lippi da Prato” allungandole una mano, lei rise un poco, dall’imbarazzo d’esser trattata con così tanto riguardo, cosa che abitualmente nessuno le rivolgeva mai. Non che se ne stupisse, per qual motivo qualcuno doveva essere galante con una cameriera d’altronde? “Filippa Demopulo da Zacinto” aveva risposto, stringendo la mano lievemente pavida, ma se possibile il sorriso del ragazzo s’era aperto ancora di più. “Una Filippa per un Filippo” aveva canticchiato, prima di guardar con la coda dell’occhio il terzo membro. Sandro li aveva degnati di uno sguardo stizzito, concentrandosi più sui decori degli arazzi che suoi due essere umani al suo fianco. Lei era brava a capire le persone, aveva imparato dopo ogni frustata come interpretare gli atteggiamenti delle persone, per non sbagliare più, per non dover essere punita. E Sandro Botticelli era come un libro aperto, aveva visto i suoi quadri, la delicata dedizione che doveva averci concentrato, i pigmenti di colore lucente, il dettaglio, un uomo che riversava tale interesse nell’arte non aveva tempo di guardare gli uomini. “Non so dove tutta abbia trovato questa venere, Botticelli, ma non la meriti” disse Lippi, baciandole le dita; Filippa fu colta di sorpresa, così  presa a studiare la secca figura di Sandro che non s’era accorto che l’altro artista aveva continuato a tenere la sua mano tutto il tempo fino a che non aveva sentito le labbra sulla pelle. A quel punto Botticelli li aveva guardati,  lo sguardo era stato di fastidio, “Filippa vuole Da Vinci” disse piccato e lanciò uno sguardo significativo a Lippo, Filippino la guardò, mosse il viso sconsolato e con la mano libera carezzò il dorso della sua, quella che aveva appena baciato, “Ti spezzerà il cuore e lo getterà giù dalla torre del campanile” disse sconsolato. E lei rise a quello sguardo di finta rassegnazione, cosa che fece sogghignare anche l’altro.

 

S’erano arrestati davanti un ampio quadro, da occupare l’intera parete d’una stanza, Filippa aveva sentito le vertigini farsi strada, un numero impressionanti di figure erano ritratta a matita ed altre prendevano forma nel colore, “La morte di Lucrezia, giusto?” domandò Sandro, per la prima volta perdendo dal viso l’espressione annoiata, “Si, ti avevo accennato che m’era stato consegnato tale virtuoso tema” aveva risposto l’altro, piazzando orgoglioso le mani sulla cintola, “Solo che il tuo arrivo m’ha spento la verve” mormorò con fasullo rammarico, “Prepariamo un salasso” commentò Sandro, “E purifichiamo il sangue della tua vena artistica” aggiunse, prima d’avvicinarsi ai colori che Filippino doveva star usando prima. Demopulo rimase qualche passo indietro, in disparte, sconvolta, affascinata, la vita sembrava essere sbocciata sul viso di Sandro con l’irruenza d’un papavero che sorgeva in tutta la sua beltà facendosi strada tra le fessure dei mattoni delle vecchie acropoli. Aveva detto che Botticelli non era bello, ma mentiva, era l’uomo – o meglio giovane uomo – più bello che avesse mai visto, o almeno lo era, con il riflesso d’un dipinto negli occhi e l’ardore sul viso. E quando i due ragazzi si misero a dipingere non si sentì affatto in voglia di disturbarli in alcun modo ne di andare via, s’accomodò per terra, con la cesta sulle gambe e li guardò, la madonna e Da Vinci erano sprofondanti lontano in un angolo della sua mente. Esistevano solo Filippino, Sandro e la loro arte.

Botticelli si voltò un attimo verso di lei, aveva una striscia ciano sulla guancia ed i capelli pagliericci insudiciati di rame verdastro, il vestito tortora era maculato di magenta vivo, sembrava essersi trasformato anche lui in un dipinto, suggestivo e magnifico. Per un attimo Filippa sentì chiaramente le gote colorarsi di fuoco, ma Sandro non le aveva che rivolto uno sguardo disinteressato, tornando ben presto alla parete che stava dipingendo insieme l’altro artista. Era stato come se avesse voluto semplicemente accertarsi che fosse ancora lì. Filippa si strinse il cesto al petto, mordendosi un labbro. Posò la testa ad una colonna e continuò ad osservare l’operato dei due artisti con vivo interesse, fino a che non la sentì, una sensazione di insofferenza all’altezza  del ventre. Una percezione maligna. Qualcosa che le era già capitato più volte, spesso quando era bambina. Molte dimeno da quando era cresciuta, l’ultima volta era stato a quindici anni, quando aveva cominciato a lavorare per la sua signora. S’era trovata a camminare per le scale della tenuta, portando un secchio d’acqua, seguendo le istruzioni di Betta, che portava un corpetto stretto ed i capelli fermi in un ferretto dall’aspetto di farfalla, troppo nobile per il suo rango. Aveva visto dalle ampie finestre il parco, la madonna era ferma nei giardini, camminava con un’ampia gonna azzurra criscolla, un corpetto damascato  d’un vibrante giallo limone, i capelli neri raccolti con perle bianche. Teneva sottobraccio quel figlio, che era dovuto andare poi via, per la sua strada. E rideva la madonna, Filippa ricordava che cinque anni prima, la sua signora rideva ancora.  S’era voltata verso di lei, occhi scuri come l’ematite, neri come quelli d’un satanasso, la stritolarono la gola, poi l’aveva sentita, quella orribile sensazione, che aveva avuto prima di andar via dalla Grecia. Come di qualcosa che s’arrampicava sulla schiena e poi lo scricchiolio, una voce profonda e Filippa, la sgradevole e tonante sensazione che qualcuno l’avesse chiamata.

La madonna s’era concentrata di nuovo verso il figlio, aggiustandoli i capelli scuri così simili.  Ma Filippa aveva continuato a sentire lo sgradevole sensazione d’un fiato sul suo orecchio, una piccola voce stridente, che s’era poi ingrossata come d’un urlo.  Il secchio l’era scivolato via dalle dita nodose, che s’era rovesciato sul pavimento. Betta s’era volta, con gli occhi scuri ed intimidatori. “Che seccatura” aveva detto, ma all’ora alle orecchie di Filippa non era venuta che un suono stridulo d’una lingua che non sconosceva ancora. Per l’ultima volta la voce l’aveva chiamata ed ignorando i rimproveri di Betta, lei s’era voltata, ma nessuno pronunciava il suo nome.  “Io l’ho detto, prendiamo un’italiana” aveva ringhiato la signora alle sue spalle, con i pugni ai fianchi, “Questa neanche capisce quello che dico” s’era lagnata ad alta voce.

“Filippa” la voce la riportò al suo tempo, pensò qualcuno la stesse chiamando, ma di fronte lei, impettito ed insozzato di vernice c’era Sandro, “Mi ero persa in un ricordo” aveva ammesso a voce bassa, sollevandosi sulle sue gambe, sentendole molle come l’argilla.  Il cesto di cibo, le era scivolato dalle dita, rovesciandosi nuovamente sul pavimento, “Hai le stigmati alle mani” aveva detto con un tono secco Sandro, lo stesso che aveva la vecchia Betta quando le parlava. Filippa era caduta sulle ginocchia e s’era messa a raccogliere i viveri e questa volta, il fischio sulle sue orecchie fu forte, come qualcuno cantasse appollaiato alle sue spalle. Filippa, una voce greve, sussurrata, una voce che un tempo le dava il buongiorno, prima di finire inghiottita nella memoria, che era poi riapparsa più e più volte nella sua vita, nei momenti più imprevedibili, quella di suo padre. Bisbigliò qualcosa, ma la gola s’era fatta secca; Sandro s’era chinato al suo fianco, aiutandola a raccogliere i viveri, ignorando Filippino e gli altri membri della servitù medicea. L’aveva toccata alla spalla, “Sei pallida” aveva mormorato, Filippa aveva sollevato il viso, sentendolo sciogliersi come la cera e la voce di suo padre era echeggiata ancora, non nelle mura, nella sua testa, “io … io …” sussurrò, prima che il palmo che la sorreggesse, scivolasse, lasciandola cadere a terra.

Quando aveva aperto gli occhi si era trovata stessa sulla terra arida, Stretta tra alte pareti pallide di marmo crepato, con edera rampicata. Si ritrasse come un riccio, estraendo dalla gamba il pugnale che le aveva donato Lele, quello con l’effige di cui non conosceva la provenienza. “Filippa vieni” la voce di suo padre la chiamava,  s’era sollevata dalla posizione cucciata e s’era alzata, cercando di capire dove fosse, da dove provenisse. Era in greco che la chiamava. “Padre” bisbigliò in quella lingua che le apparteneva,  “Dove sei?” chiese, proseguendo lungo il corridoio, da dove la voce sembrava farsi più forte. Non le interessava sapere dove fosse lei, ma ritrovarlo. Corse a perdifiato, con il coltello tra le mani sottili.

Incontrò un bivio e le sue orecchie furono sorde alla voce. Un mosaico s’apriva davanti ai suoi occhi, un toro ucciso da un uomo, “Teseo” bisbigliò, ricordando la leggenda Ateniese del labirinto, “No” si corresse, Teseo aveva affrontato il minotauro, non il toro. Chi aveva ucciso il toro? Pensò, le venne in mente suo fratello maggiore, il secondo, che era rimasto in Grecia e s’era convertito ad Allah ed era diventato Mullah, quando erano bambini parlava sempre dei miti, Teseo uccise il minotauro, aveva detto, con una voce di cristallo, che nei suoi ricordi si spezzava. Il Toro! Urlò Filippa nella sua mente, a suo fratello, Chi ha ucciso il Toro?  Sua madre era un’ombra sul muro, aveva riccioli neri e la sua pelle abbronzata, “Chi ha ucciso il toro?” domandò a sua madre, senza neanche curarsi fosse lei lì, sua madre sorrise, in maniera sporca, un ghigno, che mostro i denti piccoli e giallognoli, “Mitra” rispose. Mitra aveva ucciso il toro, l’uomo sorto adulto dalle pietre. Ricordava la leggenda e le dita callose di sua madre sui capelli. Si voltò per tornare indietro, perché non v’era bivio guidato da Mitra che  valesse … E l’aveva trovata: su un altare di pietra levigata d’onice nero nebuloso, su cui una donna era sistemata, come un sacrificio.

Non aveva catene ed era stesa come se dormisse,  le mani dipinte strette al petto, indossava un abito a veli, dai colori più disparati, neri e rossi, senza pizzi, un velo viola sulla testa a coprire i capelli scuri ed un espressione serena.  E Filippa la conosceva, non sapeva il suo nome, ma conosceva il suono della sua voce, era invecchiata, eppure era lei, ne era certa. Toccò la guancia con il palmo, fredda come la neve d’inverno. Quando era bambina, suo padre prima di scomparire nel buio, la teneva per mano, una mattina, delle più calde d’estate a Zanta s’era presentata, vestita di veli leggeri e pallidi, i capelli castani lunghi fino alle anche ed un sorriso candido. Dopo che lei era venuta, sua madre aveva spaccato vasi di coccio per il pavimento e suo padre era andato via nel buio, il più grande dei suoi fratelli poco dopo. Una mattina cercandolo, aveva trovato il suo giaciglio freddo e nulla di lui. “Pensa siano morti” aveva detto sua madre, chiudendo il fazzolò sul capo, come fosse stata la vergine Maria a lutto, vestita di nero. Quando aveva quattordici anni, aveva chiesto alla madre se per caso suo padre gli avesse traditi per quella donna, “No” aveva risposto, “Lui ha tradito il buon Gesù, solamente” aveva detto con voce spezzata, Filippa s’era fatta rigida, “Tuo padre era un peccatore, si” aveva spiegato sua madre, passando le mani tra i nodi, “Ed ha pensato di espiarsi dal suo colpa con un’altra” aveva aggiunto, distante. Quando aveva provato a chiedere altro, sua madre le aveva schiaffeggiato la guancia, perché aveva risposto fosse meglio non sapesse. Aprì gli occhi la donna, “Sei cresciuta” mormorò con voce bassa. Filippa arretrò di qualche passo e cadde.

Quando si sollevò si rese conto d’esser stesa lei sull’altare, solo che mentre la donna era libera, i suoi polsi erano stretti in catene di ferro nero, provo a divincolarsi ma scoprì con orrore che anche le caviglie lo erano. “Va tutto bene” sussurrò una voce, una mano spazzolò tra i capelli scuri, un viso era comparso nel buio, era quello d’un uomo, il suo viso sapeva di memoria, il viso bronzato, capelli ricci ed occhi bruni, “Tu sei …” le parole le morirono sulla lingua, strozzandosi  nella gola, “Tuo fratello” aveva mormorato quello, accarezzandoli il viso, “Vivo” soffiò Filippa. Sua madre aveva detto fossero morti, lui e suo padre, ma aveva mentito. Suo fratello annui, “Che significa?” domandò, cercando di sollevarsi sul busto, ma le catene e le mani di lui premute sulle spalle la bloccarono. Neanche s’era accorta di star parlando in greco, “Noi siamo le corna dell’increato” sussurrò nel suo orecchio. “Nemici dell’Uomo” strillò lei, ricordando quella formula, era quella del Labirinto, una volta suo fratello, il Mullah, l’aveva detto. L’uomo annui, “I Demopulos lo sono da generazioni” aveva spiegato, “Ma siamo stati traditi, nostro padre ci ha traditi” la voce suo fratello si fece eco e le sue manette fumo. Filippa si scostò trovando la donna che aveva portato via suo padre sveglia fissarlo, “Tuo padre voleva salvarvi” le disse, l’italiano risuono nelle sue orecchie. Filippa ascolta la mia voce, tuonò suo padre, nella sua testa, Ignorali tutti, ruggì sua madre. La donna si perse nel buio. E tutto sprofondò nell’oscurità.

Una flebile luce di candela s’accese, prima fu solo la fiamma, poi venne il resto, la cera nera e suo fratello la guardava sorridere mesto, “L’ordine deve essere mantenuto” aveva detto, allungandole la mano, “Devi aiutarci” aveva aggiunto. Era suo fratello, Filippa prese la mano, ma nella sua mente entrambi i suoi genitori urlarono, lì parve di vederli nel fuoco della candela nulla più che due ombre storpiate. “Il nostro nemico è troppo per te” aveva bisbigliato, guidandola in un giardino che aveva preso forma lentamente intorno a loro, d’una natura ingloriosa, abbandonata ed incolta, “Ma non chi lo succederà” aveva mormorato,  “Uccidi colui che avrà la forza di domare il toro” aveva detto, “Ora che è ancora inerme” aveva aggiunto, prima di continuare lungo il giardino. Filippa percepiva la sensazione di paura rampicarle lungo la schiena che qualcosa non andasse per il verso giusto, che ciò che l’era chiesto era immondo, perché le parole di sua madre vibravano nella sua memoria, non fidarti mai, aveva detto.  “Devi abbandonare la tua signora” aveva ripreso il fratello, “Noi siamo i Nemici dell’uomo” aveva ruggito,  e loro erano nemici dei figli di Mitra e la sua signora aveva la moneta del toro, quella che lei aveva fatto recapitare a Da Vinci ed era stato il turco ad avvicinarla, sulla via del ritorno per Roma, prima che trascinasse Filippa e Lele fino a Firenze. “Lei è una figlia di Mitra” non era stata una domanda, ma una glaciale affermazione, “No” aveva risposto suo fratello, “Non lei” la fiamma della candela era traballata, quando s’erano arrestati davanti ad una cripta.  La sua signora l’aveva mandato dall’artista proprio per la ricerca d’un ossario.

La porta era socchiusa, ma suo fratello la spinse dentro lo stesso. Anziché trovare una bara o quel che c’era in una cripta, s’era trovato in una tenda da battaglia. Un uomo semistempiato vestito di scuro, era seduto attorno ad un tavolo che rappresentava lo stivale dell’Italia, aveva un sorriso sornione, mentre toglieva un drago serpente dal tavolo, era una piccola statuina che mischiava l’azzurro ed il giallo.  “Quella puttana d’una Sforza è caduta” aveva detto un’altra voce, sogghignante, Filippa s’era voltata incrociando occhi scuri, incastonati in un viso cereo, appuntito con i zigomi alti, i capelli lunghi e scuri, sul blasone v’era cucito un toro cocinigna, “Caterina sempre così testarda” mormorò l’uomo, guardando il drago, sul viso serpeggiava un sorriso caustico, d’una soddisfazione che andava ben oltre la misera vittoria d’uno scontro. Un uomo era entrato nella tenda da battaglia, vestito di ferro lucido e nero, “Mio signore, Madonna Sforza la prega di riceverla” aveva con tono basso. “Che si fotta” rispose il ragazzo con il toro, versandosi del vino, un sorriso superbo solcava il viso. L’altro uomo, aveva inclinato il capo di lato, guardando ancora il drago serpente, “Mio buon principe” aveva detto adulatorio, “Giulio Cesare aveva sempre rispetto per i nemici sconfitti” aveva aggiunto, l’altro aveva roteato gli occhi, “Consideratelo il desiderio d’un condannato” aveva aggiunto mellifluo, prima di ricordare che tale signora sarebbe presto stata sottochiave. “D’accordo” disse lamentevole, bevendo del vino, che Filippa intuì sembrargli amaro, “Scopriamo cosa vuole questa puttana” disse inferocito.

Nella tenda erano stati presto in quattro, Caterina era al fianco di Filippa, ma non la vedeva, indossava abiti pregiati, rovinati dal sangue e dal fango, i polsi erano stretti, da corte, che quasi tagliavano la pelle, una cascata di capelli ruggine, macchiati d’un grigio senile, il viso era austero ma gli occhi ruggivano come quelli d’una belva. Caterina non guardò il giovane, guardò l’uomo che teneva la statua tra le dita, lo guardò come se avesse avuto il potere di incendiarlo, “Macchiavelli” la voce uscì sibilante, come d’un mostro. L’uomo sorrise, come se fosse stato elargito il compliemento più grande di sempre, “Mia signora” disse, squisito sollevandosi. Il ragazzo del toro, che s’era stato in disparte a bere vino, s’era alzato imponendo la sua presenza, era ben più alto sia di Caterina sia di Macchiavelli, ed era lì imperioso su di loro. “Qual è l’ultimo desiderio, madonna?” disse saccente il giovane, Caterina lo guardò appena, come se non fosse stato nulla più che un insetto, “Lascia parlare gli adulti, Borgia” s’era lagnata, concentrandosi di nuovo su Machiavelli. Lo schiaffo del ragazzo con il toro, l’aveva colpita a pieno sulla guancia, fino a farla cadere sulle ginocchia e farle sanguinare un labro. Caterina non si toccò il viso, ne provò a fermare il sangue, colante rosso sulle labbra, s’era sistemata di nuovo in piedi, fiera ed eretta. E Filippa s’era accorta di averla già conosciuta madonna Sforza, nei vari pomeriggi tra le madonne Romane che si organizzavano nelle ville, lei l’aveva veduta, più infantile di lei, ma con quegli stessi occhi carichi. “Rodrigo avrebbe dovuto riempirti di botte da bambino” aveva ringhiato, “O quando te ne stavi appollaiato sulle mie ginocchia avrei dovuto strangolarti”, quello provò a colpirla di nuovo, ma Machiavelli lo placò per tempo. “Lascia che una tigre morente, arruffi il pelo per l’ultima volta” bisbigliò enigmatico, i suoi occhi erano colmi d’un amore martoriato. Caterina continuò a fissarli con mero disgusto, “Ti nutri d’un illusione, Cesare” aveva mormorato, sollevando entrambe le mani, legate tra loro, per pulirsi le labbra dal rosso, era al più giovane che si rivolgeva “Uomini più capaci di te, hanno fallito” aveva aggiunto, il suo tono era spento, così come i suoi occhi, lì chinò al rosso impresso sulle sue dita, poi spostò gli occhi su Machiavelli, “Direi Caterina” cominciò, “Di lasciare la politica ai politici” aveva terminato derisorio, prima di allungare una coppa di vino alla donna, che l’aveva presa malamente, specchiando gli occhi ormai stanchi nel bianco spumato del bicchiere, “Alla buon anima di Girolamo” aveva detto, alzando un calice appena riempito, anche lei l’alzò meccanicamente, prima di lanciare uno sguardo venefico a Cesare Borgia, “A Leonardo” mormorò lei in risposta, bevendo il vino.

Cesare aveva guardato quel brindisi come mogio disinteresse, “Bene” aveva ringhiato, posando il bicchiere sul tavolo, “Ho vinto io” aveva mormorato con un sorriso raggiante, posando le mani sui fianchi, Caterina aveva roteato gli occhi, “Tu marcirai a Roma, io avrò l’Italia intera” aggiunse, squisitamente esaltato. La signora Sforza aveva vuotato il bicchiere e le sue labbra s’erano curvate in un sorriso narcisista e divertito da quella stessa frase, “La politica ai politici, i misteri ai misterici” disse compiaciuta. In un modo contorto, Filippa intuì, Caterina si considerava vincitrice, guardò ancora Machiavelli, nei loro occhi c’era scritta una conversazione, cui ne lei ne Cesare poterono avvicinarsi, “Date i miei omaggi a quel folle d’un artista” bisbigliò, quando Borgia ordinò alle guardie di mandarla con una scorta a Roma. “La sua sola presenza mi disgusta” confidò il ragazzo del toro guardando Machiavelli, che rise, “Cesare” disse, quando il riso aveva abbandonato il suo viso, “Vorrei dare un’occhiata ai manoscritti della villa” aveva chiesto cortese, l’altro l’aveva accordato, guardando bramoso la tavola su cui erano sistemati le statue di quel gioco politico, più interessato ad avere il dominio che una sorta di cultura, “Ed anche una delle cameriere” aveva aggiunto Machiavelli, Cesare l’aveva guardando, crucciando le sopraciglia, “Violante Ricci”, l’altro aveva sollevato le spalle con disinteresse, “Prenditela” aveva sminuito la faccenda.

Prima che Filippa potesse dire qualcosa, una crepa sotto i suoi piedi l’aveva inghiottita e poi era caduta. S’era arrestata, rotolando sulla terra, quando aveva aperto gli occhi era in un corridoio di pietra levigata, cui entrambi i lati v’erano gabbie per animali. “Filippa” non era nella sua testa, suo padre la stava chiamando davvero, da dietro le sbarre, cercò di ritrovare la voce, da quale loculo venisse. Dietro spesse sbarre, una sagome si nascondeva nell’oscurità, troppo curva per poter stare in piedi, “Tellina mia” aveva mormorato, con una voce tremolante, avvicinandosi, quel tanto che i dettagli di quel viso divenissero appena visibile, ma non era che una voce nella più profonda oscurità. “Che bella che sei” aveva mormorato, dita fredde le avevano accarezzato il viso, “Papà, che sta succedendo?” aveva chiesto confusa, l’uomo s’era ritratto, sprofondando nell’oscurità, “Ero un nemico dell’uomo” aveva cominciato. Tuo padre era un peccatore, si, aveva detto sua madre, “Ma ho tradito la mia causa per i figli di Mitra” aveva confessato,  Ed ha pensato di espiarsi dal suo colpa con un’altra, la voce della sua genitrice era tonate nelle sue orecchie. “No” disse Filippa, ritraendosi un poco, “Mio padre era un uomo di fede, non un misterico” strillò, rigida. L’uomo mormorò qualcosa, “So di averti deluso, tellina mia, i tuoi fratelli, tua madre” , la sua voce era d’un uomo pieno di rimpianti, “Non so ancora dirti, se le mie azioni sono state corrette o meno” aveva mormorato, così che Filippa s’avvicinasse ancora, “Ogni mia azione è stata per voi” aveva confessato, “Giusta o sbagliata che sia stata” aveva aggiunto. Filippa aveva annuito,  quando aveva quindici anni, non ricordava chi era stato, tra i suoi fratelli a dirgli che non esistevano uomini senza peccati, ricordi la parabola dell’adultera? Le venne in mente quella domanda, nessuno dei presenti era innocente. Quello era l’insegnamento affinchè fosse noto che davanti a Dio si era uguali, ma a Filippa, suo fratello, aveva insegnato che nessun’anima era pia, sbagliare era concesso a chiunque. 

“Mi stai chiedendo di non assecondare i Nemici dell’Uomo?” chiese, cercando gli occhi di suo padre, nel buio, “Mai” aveva rispsoto quello, “Tellina mia, ti chiederei qualsiasi cosa” aveva bisbigliato, “Io ho fatto le mie scelte, tuo fratello le sue ed anche tua madre” aveva aggiunto. A Filippa era venuto in mente il viso di sua madre, coperto di lacrime e dolore, quando l’aveva mandata via. “E tu farai le tue” aveva detto, “Per i figli di Mitra il tempo è un fiume circolare” aveva spiegato, “Per i nemici dell’uomo, un reticolato” aveva aggiunto, “Ciò che conta è che possibile attraversarlo più e più volte e nulla è mai definitivo” al voce era gentile ed oltre le sbarre nel buio, Filippa vedeva la sua mano porgersi verso di lei, l’afferrò con delicatezza inusuale, “Per chi ha lungimiranza, almeno” aveva detto gentile, “Leonardo Da Vinci potrebbe aiutarti a capire la tua strada” aveva sghignazzato, “Non potevamo essere una nromale famiglia, greca?” s’era lamentata Filippa, prima di sentire la sua stessa pelle liquefarsi.

Spalancò gli occhi, trovandosi davanti due vistosi lenzuoli di tela, tenuti insieme con dei bastoni, che ricordavano  le ali d’un pipistrello. “Ben sveglia, fanciulla” disse una voce greve, nessuno che conoscesse, si alzò immediatamente, registrando fosse in quello che parea un caotico studio, “Sto ancora sognando?” gracchiò, poco prima di cadere giù da un amaca che era sospesa dal soffitto, “No” disse una persona entrando nel suo campo visivo, aveva capelli corti, sconvolti ed un accenno di barba sulle guance, occhi castani ma belli, era vestito in maniera bizzaro e sovversivo, come ogni fiorentino che lo fosse di nome e di fatto. “Sandro?” domandò, rendendosi conto che prima della sua avvenuta onirica era con Botticelli nei palazzi Medicei, “E che ore sono?” aggiunse, ricordando che era uscita sul presto quella mattina, “È stato lui a portarti qui” aveva risposto con mero disinteresse l’uomo, “Mi detesta, ma riconosce sia molto più abile di lui nelle scienze umane” aveva detto orgoglioso. “Sei svenuta per un bel po’ di ore” aveva spiegato, “Botticelli aveva pensato fossi caduta in una morte vivente” aveva detto,  prima di allungarle quella che era una tazza d’un liquido fumante, “Ma ho capito subito che non eri veramente qui” aveva spiegato, invitandola a bere, Filippa s’era sollevata dalla posizione accucciata, fino ad essere sorretta di nuovo dalle sue gambe, sentendole molle come l’argilla, “Chi sei?” domandò, quasi temendo la risposta, “Leonardo di Ser Piero da Vinci” rispose, mostrando una fila di denti bianchi lucidi.

 

 

Lorenzo si imbrattò anche le dita per rifinire i capelli della sua madonna, cercando di dare volume ai ricci. Aveva troppe idea per la mente, fino alla notte prima, aveva passato i due giorni precedenti a sforzarsi per vincere la competizione contro Sandro ed ora tutto quello che riusciva a pensare e quando Leonardo sarebbe irrotto nella sua stanza per chiederli di accompagnarlo da Filippa Demopulo ed Aclima Lysimacus. Neanche, si curava più della madonna dai capelli ferrugine e pensare che quando l’aveva veduta la prima volta aveva immediatamente immaginato come sarebbe stato imprigionare quello sguardo fiero in una tela destinata a perdurare. La vita degli uomini era breve, l’arte eterna (*), ma cosa importava dell’eternità, se nell’immediato aveva Da Vinci e quel sorriso in grado di scogliere qualsiasi cuore.

Aveva lanciato uno sguardo al quadro che Sandro aveva lasciato incompleto sul cavalletto, Benedetto aveva detto fosse fuggito di fretta e furia per cercare un colore e questo aveva fatto ridacchiare Lorenzo, perché era una cosa che riusciva davvero ad associare a quel compagno. Nel bel mezzo d’un dipinto, animato dall’estro creativo, Botticelli  poteva divenire estenuante ed intollerabile se non trovava quella precisa tonalità cromatica che la sua mente creava. Ma non doveva temporeggiare, anche senza quella precisa combinazione, Sandro avrebbe potuto fare un dipinto migliore del suo, senza neanche impegnarsi, quasi.

“Cerco il Maestro Verrocchio” aveva sentito alle sue spalle, Lorenzo s’era voltato, illuminata dalla luce del sole, che filtrava dai lenzuoli che Andrea aveva fatto stendere per coprire la luce intensa del lucernario e parare dal freddo di dicembre, c’era una donna delicata, dalla gonna ambia ed un corpetto stretto che con tutti i lacci le schiacciava anche il seno, aveva capelli ceneri ed occhi azzurri e luminosi. “Nel suo studio” aveva risposto Lorenzo con mero disinteresse, mentre indicava il corridoio per entrare all’interno della bottega, una Yana appena giunta, studiava al ragazza con discreto interesse, “Buon lavoro artista e grazie” rispose, chinando il capo gentile, prima di incamminarsi nella direzione; Yana aveva seguito la straniera preoccupata, non che Lorenzo c’avesse badato poi molto.

Leonardo era tornato da una sua passeggiata solo poco prima dell’ora di pranzo, Lorenzo aveva fatto una pausa e mangiava una mela, l’unico frutto reperibile in quella stagione, assieme a Benedetto che preoccupato riferiva della fanciulletta che s’era presentata alla porta del maestro. “Quando Verrocchio l’ha vista” aveva borbottato piccato, “Figliola mia ogni giorno diventi più bella” aveva ringhiato il conciatore, citando le parole che l’uomo probabilmente aveva usato.  Sandro Botticelli era invece ancora nella città, forse la sua ricerca del colore aveva superato di gran lunga la meticolosità abituale. Allora era tornato Leonardo, ancora infastidito, seguito a ruota dai suoi ormai celebri compagni, Zoroastro e Nico. Il secondo quando l’aveva visto aveva sorriso, venendo immediatamente verso di lui, mentre il primo braccava l’artista per parlare di qualcosa di venefico, “Lorenzo!” esclamò, con un sorriso solare, il ragazzo lo guardò, “Come va, la competizione?” chiese interessato, nel riflesso dei suoi occhi castani c’era altro, “Bene” disse imbarazzato Lorenzo.

Leonardo aveva ignorato Zoroastro ed era venuto verso di loro, “Pronto?” aveva domandato, guardandolo con un sorriso amichevole, Lorenzo aveva annuito, lievemente arrossato in viso, ben disposto ad accompagnare quell’uomo anche nelle terre del Catai. “Io lo so, sarà una pessima idea” aveva stabilito il tartaro, chiudendosi una mano sul viso,  “Dove è la novità?” aveva detto divertito Nico, con una vena di malizia. Anche Leonardo aveva un sorriso estremamente divertito, che aveva il potere di sciogliere il cuore di Lorenzo. “Almeno mangiamo prima” aveva sussurrato Zoroastro, esprimendo che se fosse dovuto morire, sperava di farlo a pancia piena.

Avevano mangiato intorno ad un tavolo nella stanza di Leonardo. “Quindi voi due passate molto tempo insieme?” aveva mormorato Nico,  Lorenzo era arrossito vistosamente, mentre deglutiva, Zoroastro aveva un espressione infastidita sul viso, ma non era per lui, era al suo amico che regalava occhiate gelate, “Si, Nico” aveva risposto il maestro con un bel sorriso, “Io e Lorenzo siamo molto in affinità” aveva spiegato, mangiucchiando qualcosa dal suo piatto, con un tono di totale malizia sul viso. “Molta” aveva detto ridondante, pensando alle notti che erano passate.  O si, avevano decisamente molte affinità, poi Lorenzo non aveva difficoltà ad ammettere che sembrava trovare strepitosa ogni cosa di quell’uomo, per prima cosa il suo modo di guardare il mondo, Da Vinci lo guardava con molta più luce e chiarezza di chiunque altro, nessuno avrebbe mai convinto di qualcosa di diverso. “Quindi oggi, andremo a trovare questa Aclima Lysimacus?” aveva detto Zoroastro lamentoso, scoccando uno sguardo di fuoco a Leonardo, “Poi probabilmente Girolamo Riario deciderà davvero di ucciderci” aveva borbottato, infilzando un po’ di carne nella sua forchetta, “Il Conte non ci farà nulla” aveva detto convinto Nico, “Ma è di sicuro coinvolto” aveva ribattuto Zoroastro, “O questa sarà una qualsiasi altra ebrea di nome Lysimacus che cerca Leonardo” aveva mormorato a mezza bocca, ma non aveva destato in alcun modo l’amico,  Lorenzo aveva capito che qualsiasi cosa Aclima Lysimacus avesse da offrire, doveva essere d’una gola indescrivibile per Da Vinci, “L’ha mandata il Turco e può condurmi alla cripta” aveva stabilito Leonardo, quel tanto bastava perché s’avvicinasse alla signora.

S’erano incamminati dopo pranzo verso il Cane Abbaiante, Leonardo con un sorriso estremamente malizioso, Lorenzo al suo fianco convinto e alle loro spalle i due compari di Da Vinci con espressione granitica. “La madonna del Drago Serpente” aveva esclamato Nico, sorpassandoli e superandoli, ammiccando ad una figura davanti loro, aveva una gonna a piega cerulea, con una cinta legata sotto il seno, un ben evidente ventre gonfio, i ruggenti capelli di rame, erano sciolti e non coperti dalla solita mantella, la signora di cui doveva fare il ritratto. Al suo fianco c’era un uomo alto, vestito di scuro, con i capelli d’un pallido biondo, “Insieme al signor Adelchi” borbottò Zoroastro, guardando insistentemente la spada che questi portava al suo fianco.  Leonardo s’era fatto d’un momento ombroso sul viso, “Oggi posso viver senza di lei” aveva stabilito, proseguendo per la sua strada; “Vorrei sapere il suo nome” mormorò invece Nico, con un sorriso smaliziato sul viso. La madonna con il drago serpente, s’era voltato un attimo verso di loro, occhi verdi screziati di giallo, come quelli d’una belva, ma sembrò non guardare minimamente lui, fissò Leonardo, lo sguardo che ebbe in cambio non fu che poco più d’un minimo interesse. Da Vinci proseguì la sua strada, “Devi essere più attento Nico”  aveva detto Da Vinci, con un sorriso imperlato sul viso, il biondo l’aveva guardato serio, poi s’era voltato indietro, ma i capelli ruggine della madonna con il drago serpente era scivolata tra la folla fiorentina. “Milanese” aveva stabilito Nico, richiamando l’accento del nord, che di fatti aveva avuto, “Incinta e pericolo” aveva invece richiamato Zoroastro, facendo riferimento a quando aveva fatto intuire che aveva un concetto della vita molto estremo, da legge del taglione.

Il Cane Abbaiante era poco più di una bettola, ma Lorenzo la trovava unica, ricordava la prima volta che era ceduto all’ebbrezza del buon vino. Sorrise, ma questo si congelò sulle sue labbra, quando osservò il viso contrito di Leonardo, i suoi occhi scuri erano altrove, già dentro la locanda, focalizzato su qualcosa a cui gli uomini non erano pronti, Da Vinci guardava avanti, più di tutti gli altri, e a fissare quegli occhi, Lorenzo temeva poter rimanere troppo indietro. Leonardo lo superò, scomparendo dietro la porta di legno marcito, i tre s’apprestarono a seguirlo, con il lamento di Zoroastro convinti che questa volta sarebbero davvero molti. Di Credi sentiva i brividi arpionati alle sue spalle, timoroso di Aclima Lysimacus ed i suoi segreti, che  Leonardo, l’uomo più incredibile del mondo, ne era bramoso. Nella locanda, nonostante l’aria invernale, si respirava un clima caotico ed un vociare diffuso. La prima persona che Lorenzo notò era Jacopo Saltarelli attorno un tavolo che civettuolo provava ad avvicinarsi ad un uomo dai capelli scompigliati e scuri, che nonostante una cicatrice sul viso aveva lo stesso un’aria affascinante. “Vedi Filippa Demopulo?” domandò Leonardo nel suo orecchio,  così in tutta confusione cercò di trovare i ricci scuri e polsi sottili, ma non vide il viso della greca svettare da alcuna parte. Non che questo contasse qualcosa, Leonardo aveva già mosso i primi passi in un direzione, verso una donna sistemata su un tavolo che teneva i palmi intrecciati sotto un mento appuntito ed i gomiti puntati sul legno; poteva avere intorno ai quaranta, la sua età non era nascosta da una falsa giovinezza o dalle polveri del trucco, aveva rughe leggere che ne segnavano i caratteri, un viso che non era bello, ma intrigante, una carnagione pallida come ad una nobil donna s’addiceva, capelli scuri e lisci, come seta nera, scivolosi, su un farsetto da uomo in lana bianca, ed occhi spaventosi, come pozze di inchiostro. Le labbra sottili si arcuarono in un sorriso di chi la sapeva lunga, “Tanti anni fa, ti ho sognato” disse con voce musicale.

 

Nei suoi sogni una ragazzina troppo giovane per essere donna, aggrappata ad un albero, scarmiglia e coperta di sangue e fango, implorava a qualcosa – qualcuno – di smetterla. Di quella pallida ragazza, non era rimasta che una tetra donna, che Leonardo aveva davanti. “Anche io, mia signora” rispose con un sorriso irrisorio, sentendosi rigido davanti il sorriso perverso di Aclima Lysimacus, che il Conte rientrasse in quella storia sembrava quanto mai palese in quel momento, la stessa maniacale perfidia ed incuranza luccicava negli occhi. Il cognome non poteva essere una casualità. “Siete uguale ai miei ricordi” bisbigliò sottile, la sua voce era come quella d’una lama, emanava la stessa preoccupazione d’un pugnale nascosto in una veste, come se all’improvviso avesse potuto uccidere.  Aclima s’era sollevata dalla posizione seduta, fino a raggiungerlo in poche falcate, era piccola di statura, aveva seni sodi che non potevano essere nascosti e curve giunoniche, in un modo perverso e sbagliato, rianimarono nella sua memoria qualcuno.

Le dita affusolate erano fredde, quando Leonardo le sentì sulle guance, “Il vostro viso m’è rimasto dipinto” aveva mormorato. Il Da Vinci di ora, aveva incontrato nei sogni l’Aclima d’allora. Pareva follia, il solo pensarlo, ma era vero; cercò di ricordare se nelle sue suppliche in alcun modo, la donna avesse dato segno di aver visto il suo spettro nei sogni. Leonardò s’allontanò d’una passo, per sottrarsi alla mano, che rimasta a mezz’aria, si ritrovò presto stretta in quella dell’artista, che fintamente educato si presentò, lasciando la moneta con il toro sul palmo. “Aclima Lysimacus” rispose mogi lei, osservando la moneta che aveva tra le dita, “Voglio sapere della cripta” aveva detto secco. Perché il ragazzino dai capelli scuri, aveva fiori di gelsomino dipinti sulle mani, che mutavano, perché lui era un’altra abbeverata alla fontana della conoscenza, perché Leonardo era divorato dal desiderio di sapere.

Aclima lasciò il sorriso appassì sulle sue labbra ed in un attimo sembrò più vecchia di vent’anni, “Ed io voglio delle risposte” aveva detto con voce sterile la donna,  prima di voltarsi verso un uomo dal viso sfregiato, che abbandonato le chiacchiere di Jacopo Salterlli, s’era sistemato al loro fianco, un armatura lucente ed una grossa spada appesa al fianco. “La tua prodezza con il sangue è nota in tutta l’Italia” sussurrò Aclima, con tono basso, “La vita del Magnifico” precisò. Leonardo ebbe quasi la sensazione di sapere quali precisamente fossero nel suo corpo le gocce di sangue appartenenti a Lorenzo. Estranee e fastidiose in quel momento.  Aclima mise delle distanze, i capelli scuri ondularono sulla schiena si voltò verso l’uomo dal viso sfregiato e sorrise accomodante, “Lele, di all’oste di mettermi in conto tutto ciò che questi buoni uomini consumeranno” aveva detto, adocchiando i tre compagni di Leonardo, prima di invitarlo a ritirarsi nella sue stanze.

 

Aclima Lysmicus dormiva in una stanza con due letti duri, separati da un giaciglio sistemato per terra, su un talamo c’era sistemata una bisaccia. Lele, l’energumeno rimasto al piano di sotto, doveva dormir per terra, in un letto doveva esserci la misteriosa Filippa Demopulo, l’altro della signora. Aclima si sistemò su un letto, quello senza la bisaccia, incrociando le gambe in una posizione fiera. Non sembrava la ragazzina coperta di sangue in quel momento,  “È romana vero?” aveva domandato superfluamente Da Vinci, l’accento la tradiva. Aclima sorrise amaramente, “Sono più di vent’anni che vivo a Roma” confessò con voce bassa, chinando gli occhi, “Ma il mio cuore è legato alla mia casa natale” aggiunse con un imperlato sorriso di malinconia. Leonardo si sedè sul letto con la bisaccia, inchiodando i gomiti alle ginocchia ed osservandolo profondamente intrigata. Aclma respirò, come se cercasse d’organizzare un discorso, che le parole che s’era preparata si fossero sciolte sulla lingua? “La vostra mente è la più brillante che il mondo abbia mai visto,  da Ipazia di Alessandria” aveva sputato poi fuori, con un tremore di incertezza. “Vorrei tu studiassi un cadavere” aveva detto perentoria, Leonardo aveva annuito serioso, “Vorrei tu stabilissi se sia stata una morte naturale o …” non servì finire la frase, Aclima lo fissò un attimo, poi continuo, “Cerchi la cripta, il Turco me l’ha detto. Io posso essere la tua chiave” aggiunse, “Ma tu devi risolvere questo incomodo” aveva  detto schietta. “Si” aveva acconsentito l’uomo.

Il sorriso di Aclima s’era fatto per un attimo vero, “Chi era?” aveva domandato Leonardo incrociando le braccia al petto, il sorriso della finta ebrea s’era appassito, “Il morto della cripta” rispose schietta lei, “Chi era per te?” domandò Leonardo, non voleva immischiarsi in una storia senza conoscere il tutto, quasi per un desiderio personale che per informazione, “Il suo amato? Il suo amante?”, “Qualcosa di più” seccò il discorso la donna, sollevandosi dalla posizione seduta, da sotto la felpa aveva estratto una lama corta ed aveva mostrato la lama lucente, “Ciò che c’è nella cripta, può portarti più vicino a qualsiasi cosa tu voglia” aveva confessato, chinandosi in ginocchio davanti a lui. Aclima era una nobil donna, tutto lo diceva, il suo portamento, il suo aspetto, la sua voce, ed in quel momento era genuflessa a Leonardo, svestendolo del ruolo di bastardo e vestendolo di quello di salvatore, “Cosa troverai in quel cadavere, darà a me ciò che voglio” confidò, chiuse il palmo sulla lama e la percorse nella lunghezza fino ad insozzarla di sangue, “Giurami che sarai mio alleato, Leonardo” aveva detto, allungando la lama verso di lui, Da Vinci la fissò,  strinse il ferro, macchiandolo di lui e pattuì con Aclima. L’impressione d’aver venduto a Mefistofele la sua conoscenza. Adesso il sangue di Lorenzo De Medici, non era mischiato solo a quello di Leonardo Da Vinci.

 

“Io partirò per Roma domani” aveva confessato la donna, avvolgendo in un lenzuolo la promessa di sua e di Leonardo, “Sempre se Filippa decida di tornare” disse infiammata da quell’impudenza, “Ci incontreremo tra una settimana alla Locanda di Vannozza Cattanei” aveva detto arrestando la sua camminata, osservandolo attentamente, “Il luogo più famoso di Roma?” aveva domandato retorico Leonardo, sollevando un sopraciglio, Aclima rise, “Non c’è posto più sicuro di nascondere le cose, che metterle davanti gli occhi di tutti” aveva spiegato, Leonardo aveva annuito, era una follia forse? Ma questo non faceva che riempirlo d’orgoglio, non vedeva l’ora di farlo, della dissennatezza uno come lui se ne nutriva. “Una domanda, da quanto tempo è morto?” domandò, riferendosi al cadavere di cui Aclima bramava i segreti; lei lo guardò un attimo, “Cinque anni” aveva detto, “Ma confido delle tue capacità” aveva sussurrato, avvicinandosi lasciva. Sarebbe stato davvero problematico trovare le cause di morte d’un corpo di così tanti anni, ma se voleva entrare nella cripta, doveva assolutamente trovare quella strada ed ormai aveva giurato.

Si sollevò, avrebbe voluto chiedere ad Aclima, cosa in quella storia riguardasse Girolamo Riario, perché il cognome Lysimacus non mentiva, ma aveva la screanzata impressione l’avrebbe presto saputo. “Il vostro vero nome?” aveva domandato poi, rendendosi conto di non averlo chiesto, era certo quello con cui si fosse presentata fosse una menzogna, era si giudea nei dettagli reconditi del viso, d’un eredità che le andava stretta, ma nei modi, nella postura, nella croce che spiccava da sotto i vestiti, tradiva la sua verità, “Per ora è meglio, Leonardo di Ser Piero Da Vinci che il mio nome resti in un dubbio” aveva risposto secca, legando una mantella alle spalle, il cui orlo arrivava alle caviglie. Aprì la porta ed uscì, invitandolo a seguirla, con un passo signorile, ma duro, come d’un vecchio soldato addestrato alle armi, che d’una madonna della classe nobiliare. Il resto del tragitto fino alla mensa della locanda, dove i suoi compagni e la sua guardia l’attendevano, Aclima era stata in un silenzio pesante. Quando erano stati avvolti dal chiassoso vociare della locanda, Leonardo aveva ritrovato i suoi amici, Zoroastro aveva ormai abbandonato il suo nervosismo, con le gote arrossate ed una risata frizzantina, l’uomo dal viso sfregiato, Lele, pareva aver rilassato vagamente gli istinti, ben consapevole di dover proteggere una madonna che probabilmente era più letale di lui, Nico cercava di trascinare in un qualsivoglia discorso Lorenzo. Il giovane artista d’altro canto guardava esattamente dove era lui, come se avesse aspettato fino a quel momento di vederlo arrivare, una cosa che lo fece sorridere.

Leonardo non aveva voluto parlare per quella giornata, della promessa con Aclima, aveva solo detto a Zoroastro che aveva intenzione di chiedergli ancora una volta un famoso. Ancora avvolto dall’ebbrezza dell’alcool, quello si era appeso alla sua spalla ed aveva acconsentito. Sobrio probabilmente avrebbe negato inizialmente ancora l’aiuto a Leonardo e poi sarebbero partiti assieme. Perché Zoroastro era sempre stata la persona su cui lui aveva potuto contare, per qualsiasi cosa. E forse senza di lui sarebbe stato perso. “Non vuoi raccontarmi?” aveva detto Lorenzo, poi sedendosi sul letto del maggiore, Da Vinci gli aveva dato le spalle, mettendosi a ricostruire il vaso, che la signora pregna aveva mandato in frantumi il giorno prima, “No” aveva risposto con voce sterile. Di Credi era l’innocenza, la sua mente era ignorante di quelle sette e quelle cospirazioni e Leonardo non aveva voglia d’esser per l’ennesima volta causa d’una dannazione.  Lorenzo s’era alzato, l’aveva sentito dal rumore, aveva avvolto le sue braccia attorno alle sue spalle e baciato i suoi capelli, in un morbido gesto d’affetto. Da Vinci non aveva mai amato nessuno, mai, forse Lucrezia, una volta; ma sapeva di non voler cominciare, non in quel momento. Neanche se la bocca di Lorenzo s’era sposata dai capelli all’orecchio. S’era voltato per accogliere quelle labbra così acerbe, quando … “Messer Da Vinci” dalla porta era entrato trafelato un ragazzino, più giovane ed allampanato di Lorenzo, con capelli castani e riccoluti, intrecciati come un nido di rondini, aveva il fiatone, come d’una corsa, le mani premute sulle ginocchia, ed il fisico snello, ma leggermente emaciato, era stretto in un vestito azzurro dai gigli dorati, con una cintura rosso infiammato, “Si signor …?” aveva accennato Leonardo, ma subbito dietro di lui, era venuta una signora, di corsa che l’aveva spostato senza troppo riguardo.

Madonna Vanessa Moschella era entrata nei suoi alloggi, con i capelli in disordini, con un resto d’una non molto arzigogolata pettinatura crollata nel mentre d’una corsa, con indosso uno scialle di lana ed un vestito di rovinato sul fondo, d’ocra con istoriato di porpora. “Oh Leonardo” esclamò quasi rallegrata, accennando un sorriso vedendolo e tranquillizzando il suo affanno. L’inventore scattò via dalla sedia, divincolandosi senza cattiveria dalle braccia di Lorenzo, “Vanessa dimmi” esordì ponendo le mani sulle spalle dell’amica, “Non sarà successo qualcosa a Giulio?” domandò, sentendo il cuore scalciargli nel petto. Per ogni bastardo Da Vinci sentiva empatia, ma per quel piccolino percepiva un sentimento simile all’amore paterno, così almeno gli era stato detto, Verrocchio gli aveva insegnato che si poteva amare come un padre, anche senza avere un figlio, loro ne erano la prova, Giulio anche. “No! No!” lo tranquillizzò Vanessa, comunque con voce squillante, “Artista, non le è concesso tale confidenza con  Madonna Moschella” strillò il ragazzino, prima di ricomporsi, con quel cenno di superiorità che brillava negli occhi di tutti i ricchi “O santiddio Giovanni! La mia integrità se le presa lui” aveva risposto esasperata la donna, “Direi che può avere tutte le confidenze che vuole” aggiunse piccata, prima di voltarsi verso Leonardo. Lorenzo s’era avvicinato, titubante.

“Vanessa vuoi dirmi che succede?” chiese allora l’artista, guardandola negli occhi, “Una fanciulla è svenuta, non si sveglia. Il cerusico non ha soluzioni” aveva detto tutta trafelata. Prima di spiegargli che una compagna di Sandro Botticelli, che l’aveva accompagnato da Filippino Lippi, s’era sentita male al castello. All’inizio s’era pensato ad uno svenimento, sostenuto anche dalla fatica dei primi giorni del fiore rosso, ma poi per l’intera giornata non s’era ripresa. Vanessa in mancanza di Lorenzo aveva il compito d’amministrare il castello e toccata l’aveva fatta visitare dal medico personale della famiglia medicea, ma quello aveva detto che la donna era caduta nel sonno dei cadaveri, senza alcun ragionevole motivo. “Ma mi avete preso tutti per medico?” aveva esclamato Leonardo, incrociando le braccia al petto, quando Vanessa aveva confidato avevano portato la donna lì; prima Aclima voleva che lui studiasse un cadavere per capire non si sa cosa, ora Vanessa voleva desse la coscienza ad una ragazzina addormentata, non era un cerusico lui! Era uno scienziato, un inventore, non un medico. “Lo so!” strillò Vanessa, con le guance rosse, afferrandolo per le gote, che strinse nelle sue piccole mani, “Nonostante l’incoscienza lei ha bisbigliato qualcosa” aveva precisato la donna, “Deliri secondo il medico” aveva spiegato distrattamente Vanessa, “E non ho idea di cosa abbia detto” aveva precisato, “Ma …” – il suo tono s’era fatto basso – “Ti ho visto tante volte” aveva detto, da capire quando qualcuno stava attraversando quei sogni, comprese Leonardo. “La vedrò” stabilì.

Sandro Botticelli non l’aveva mai amato, così come lui d’altronde, ma in quel momento lo stava guardando dritto negli occhi, le labbra serrate, ma tremolanti, era sporco di vernice, ma tra le braccia sosteneva una fanciulla dormiente, con una cascata di capelli neri come la coltre notturna e dalla carnagione olivastra. Il suo viso non pareva beato, quanto tormentato qualcosa, qualsiasi immagine si stesse animando nella sua mente, doveva tormentarla e torturarla come poche. “Filippa Demopulo” la voce di Lorenzo venne distante e storpiata.  Leonardo la guardò, questo spiegava perché era assente. La prese dalle braccia di Sandro, che non si risparmiò uno sguardo turpe, che poi soffocò, “Svegliala” non era una supplica, un imperioso comando, che lo stoico Botticelli si fosse infatuato?

 

 

Il suo signore era rimasto nella città nobile a torturare l’uomo che l’ebreo aveva indicato. Aveva impedito a Zita di vedere per non turbarla. Qualcuno li stava osservando da giorni, questo era tutto quello che Girolamo aveva ottenuto, prima di mandarla via dai palazzi vaticani per un’altra commissione. Era stata anche l’unica cosa che avessero scoperto effettivamente, l’uomo aveva resistito alle torture per lungo tempo e quando s’era finalmente detto disposto a collaborare, con la punta della piuma, con cui voleva scrivere un testamento, si era aperto uno squarcio nella giugulare. Un uomo notevole aveva constatato Riario con un tono sarcastico, bevendo del vino, come se fosse stato aceto, disgustato da tale mansione.

Zita, d’altronde quella mattina, era stata mandata di nuovo presso il ghetto ebraico, ma dal conciatore di pelle dove aveva incontrato Artemisio tempo prima e dove lavorava d’altronde l’amante del cardinal De La Rovere. Entrò nella bottega del macellaio, cercando di reprimere l’odore di morte e sale che l’aveva impresso le narice. L’uomo dietro il bancone l’aveva guardata appena, con i suoi occhi porcini. Zita non ne era stupita affatto, gli uomini non avevano alcun rispetto per le donne, particolarmente quelle come lei, per questo una delle guardie giurate di Girolamo l’avevano accompagnata, Zita non s’era ancora abituata a lui, aveva impiegato anni a convivere con il capitano Grunwald e trovarsi a che fare con un nuovo la metteva a disaggio. Si chiedeva spesso, che fine avesse fatto quell’uomo?

“Il conte Girolamo Riario desidera parlare con il suo apprendista” aveva detto Zita con estrema cortesia, fissando negli occhi porcini l’uomo, che d’altro canto aveva voltato lo sguardo verso l’uomo, “Non sono abituato a parlare con le bestie” aveva detto l’uomo, l’attimo dopo il comandante l’aveva colpito così forte d’aver spaccato il labro del macellaio che era finito in ginocchio, “Non hai sentito la signora?” domandò ruggente. Dal retro erano spuntati due ragazzi, un allampanato quindicenne dalla carnagione nivea ed i capelli castani, assieme ad un taurino giovane uomo, dai riccioli neri e l’incarnato olivastro. “Siamo qui” strillò il più piccolo, afferrando una mannaia, ma l’altro l’aveva bloccato con un polso, “Prima anche solo di avvicinarti abbastanza, ti ritroveresti aperto da parte a parte” aveva detto con voce ferma.

Zita aveva visto il maggiore chinare il minore, “Cerchiamo l’apprendista” aveva detto tranquilla, guardandoli entrambi, “Lo siamo entrambi” aveva stabilito il più grande, “Dracone Demopulos e Silvano Vertisanti” aveva aggiunto con voce grezza, indicando prima se stesso, poi l’altro; “Quale volete?” aveva domandato tagliente. Zita rimase muta, il conte l’aveva mandata a prendere un apprendista, nessuno aveva parlato di due apprendisti; Girolavo aveva indovinato che l’amante del cardinale De La Rovere, doveva essere  lo stesso uomo da cui Eliseo l’aveva spedito, ma quale dei due era? Il più piccolo, Silvano, era certamente più carino ed efebico e forse più confacente ai gusti del cardinale Giuliano, ma con quale certezza? Poi non era neanche sicuro se effettivamente la medesima persona corrispondesse. Uno poteva essere l’amante del cardinale e l’altro poteva essere l’uomo che cercavano. “Entrambi” stabilì alla fine con voce sicura. Silvano guardò ancora la mannaia che aveva tra le mani, ma Dracone posò una mano sulla spalla per tranquillizzarlo, “Andrà tutto bene” lo tranquillizzò, prima di sorridere, il riso si perse quando guardò ancora Zita negli occhi, “Una volta un ebreo mi disse che la morte sarebbe venuta in inverno ed avrebbe avuto la pelle negra” rispose con voce sottile, “Sei tu la morte, dunque?” aveva chiesto, abbozzando un sorriso.

 

 

 

 

(*)La vita degli uomini era breve, l’arte eterna: Citazione(all’incirca) di Seneca.

 

Le solite Note:

Tempo: Filippa continua esattamente da dove si era fermata il giorno precedente e si estende per tutta la giornata, coprendo tutte le altre vicende e chiudendo di fatti il giorno;  Lorenzo prende un po’ della mattina ed il pomeriggio, Leonardo è ovviamente dopo Lorenzo (ed il pomeriggio dopo rispetto il capitolo precedente, che era invece di mattina),  Zita svolge nel medesimo pomeriggio.

 

Abbiamo finalmente conosciuto meglio la famiglia Demopulos (nota in particolare, i cognomi greci femminili sono senza S, per questo Filippa è Demopulo, però se fosse nata in Italia, anche se Greca avrebbe dovuto avere la S). Detto questo abbiamo capito che i Demopulos hanno molteplici segreti. E non ho intenzione di dire altro effettivamente su di loro, lasciandoli alla storia. Ultima cosa, all’inizio Filippa parla di un ragazzo di Corcira, nonostante lei sia originaria di Zacinto, perché come ci ha ampiamente detto, dopo aver lasciato la sua casa e prima di essere venuta in Italia, ha vissuto altrove. Sui due suoi fratelli comparsi non esprimo nulla. Riguardo i nomi, nonostante tutto i nomi dei Demopulos sono ancora tutti misteriosi, tranne Filippa e Dracone, che vi comunico sono ispirati a Filippo il Macedone e Dracone L’Ateniese.

La prolessi, Filippa vede una prolessi subito dopo la caduta di Forlì, dove si incontrano Caterina Sforza, Niccolò Machiavelli e Cesare Borgia (perdonatemi per il modo in cui ho dipinto quest’ultimo), oltre ad avere vari indizi su come proseguirà la storia, l’interpretazione che in futuro Filippa potrebbe dare a questa visione potrebbe essere ovvia, ma le cose ovvie non piacciono a nessuno, no?

Aclima, da badass per eccellenza si è chinata davanti a Da Vinci, per quanto OOC questa scena possa essere, ci sono dietro più ragioni di quante non siano state dette. Aclima aspettava da sei anni di avere delle risposte, il Turco le ha assicurato Leonardo può dargliele; lei non è una persona che scende a compromessi, ma era disposta a farlo per il Morto.

Riguardo Caterina che parla di Cesare tenuto sulle sue gambe e riferimento che Rodrigo Borgia (tutt’altro che sciocco) era molto amico della famiglia Riario-Sforza, a tal punto che era padrino di Ottaviano, il primo figlio di Girolamo, così con una certa licenza poetica mi sono immaginata, magari Caterina tenere Cesare in braccio.

Nico avrà a che fare con Caterina, come d’altronde si è intuito.

Riguardo alla sconosciuta che ha parlato con Verrocchio, vedremmo bene chi è, sebbene non sia così importante ai fini della trama.

Ultima nota: Il padre di Filippa è l’uomo con cui Da Vinci ha parlato.

La Donna Adultera a cui nessuno poté scagliare la pietra, rappresenta per la cristianità che si è tutti uguali, ma Filippa e suo padre la intendono come Nessuno è innocente. Insomma per Filippa questo manda a malora, tutto quello che lei aveva pregato e saputo.

Filippino Lippi era un apprendista di Sandro Botticelli, che nella storia era molto più vecchio rispetto com’è nel telefilm. Ormai si sa che glia autori del telefilm si sono drogati pesantemente per età e timeline, che non commentiamo neanche. Mi sono adeguata: sono amici.

Ultima nota: La storia si sta svolgendo in un imprecisato giorno di Gennaio del 1479.

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Capitolo 5
*** Il peccato è accovacciato alla tua porta ***


DVD2

Grazie a tutti quelli che seguono, leggono, commentino, ricordino e preferiscano questa storia. Davvero vi ringrazio, credo sia la seconda storia in tutta la mia vita cui mi occupo in maniera totalitaria, cercando di strutturare tutto in maniera diligente in modo che non ci siano bizze vario. Spero possiate perdonare il mio ritardo, ma ho passato un inverno a servire pesce e scrostare piatti, ed i pochi giorni liberi gli ho spesi cercando di prendere la tintarella al male e ricamando quindici minuti al giorno per dare senso alle parole di questa storia. Ringrazio ancora tutti e chiedo scusa ancora.

Il capitolo di questa settimana è meno prolisso e meno noioso del precendente, ho spezzettato la storia ed eliminato la questione onirica, che nello scorso capitolo mi ha preso la mano. Vedrò di spezzarlo è modificare l’atto IV in due parti …

Buona Lettura

RLandH

 

 

Sono forse il guardiano di mio fratello?

 

 

Atto V: Il peccato è accovacciato alla tua porta

 

(1459)

Chiuse le ginocchia pallide al petto così da incastrare il naso tra le rotule. Suo fratello le accarezzò il crine, con una finta gentilezza che mai aveva fatto parte del suo animo e certamente da un anno a quella parte lo aveva abbandonato completamente. “Tu sei più forte di questo” bisbigliò con voce profonda, infilando le dita nei capelli e separando i nodi che s’erano andati a formare. Fece emergere il volto dalle ginocchia, fissando il fratello, il secondo della famiglia, il maggiore dei maschi, l’erede.  Perché per tutti lei non era che una femminuccia. “Non voglio sposarmi” aveva detto con voce sottile, sentendosi schifosamente stupida, fragile ed inetta, come mai non era stata. Le sue mani tremavano. “Non voglio un uomo, non più, ho voi mi bastate” aveva detto, cercando di racimolare il coraggio nel fondo del suo petto. Aveva l’impressione di sentir il dolore dell’anno prima sulla pelle. “So che temi il tuo marito sia violento” aveva detto suo fratello, circondando le sua schiena con le sue forti braccia, “Mi avrai sempre” le aveva confidato, “Tu ti sei presa cura di me ed io ora mi prendo cura di te” le ricordò , mentre si intrecciavano le loro dita, in quello sguardo si sentiva sicura, annuì, calmando i tremori, che l’avevano animata da che i loro genitori le avevano parlato del matrimonio. Ad una donna non era concesso ribellarsi alle autorità paterne, ne al marito, se fosse stato violento, si sarebbe dovuta far forza e stringere denti, incassando i colpi, odiava la debolezza del suo sesso, Dio era stato ingiusto a non averle dato la dignità di essere uomo. “Se mai dovesse farti del male, sorella” aveva parlato poi suoi fratello, “Io lo ucciderò” aveva aggiunto, non era un gioco, lei lo capiva, suo fratello era serio, quello era un giuramento, avrebbe davvero ucciso qualcuno che le avesse fatto del male, ne era certa, non per la cieca fiducia fraterna, ma perché l’aveva già fatto prima. Sedici anni e già le mani sporche d’una morte, tutt’altro che innocente. Si sentiva in colpa lei, che avesse condannato l’anima di uno dei suoi fratelli per l’incapacità di proteggersi da sola? Avrebbe dovuto impararlo, per salvare le due persone più importanti della sua vita, dall’inferno. Perché era lei la più grande, era suo dovere proteggerli.

 

(01-1479)

“Potresti anche mostrarti contento del mio arrivo a Napoli” aveva detto infastidita sua sorella Eleonora,  dondolava la piccola Sancha sulle gambe, regalandole uno sguardo materno, “Sono sempre contento quando tu o Beatrice venite a trovarmi” aveva risposto lui in tono velenoso. Era vero, per lo più, era davvero allietato quando le sue sorelle tornavano – almeno più dei suoi fratelli – ma devastava orribilmente quando cominciavano a far le signore e padrone. Particolarmente in quel momento, che il regno di Napoli era suo. “Devo dire che Sancha è proprio bella” aveva commentato, accarezzando i capelli della bambina di appena un anno, “Come una gazzella” lo prese in giro, guardandolo con occhi sinistri, cattivi, come quelli di loro padre. “Perché non sei così affettuosa anche con i miei figli legittimi?” aveva domandato Alfonso esasperato, mentre si sistemava meglio sulla tavola, “Ho una passione per i bastardi” disse cattiva, pizzicando le guance di Sancha che rise.  Il re ordinò che venisse servita la cena a lui e alla sua dolce sorella, “Poi odio quella sgualdrina Sforza” aveva aggiunto, giocando con i capelli neri della bambina. Eleonora l’aveva poi guardato prima di sorridere in maniera piccata, “A proposito dov’è la mia amata sorella?” aveva domandato, mentre servivano del pasticcio di piccione, “Da sua nipote” aveva risposto sterile Alfonso, cominciando a nutrirsi del suo pasto.

“Mila, riporta Sancha a Trogia” aveva impartito Alfonso ad una cameriera, che aveva annuito, strappando dalle braccia la piccola bambina per riportarla dalla madre. “Se Sancha mangiasse con noi, dovrei permettere a tutti i miei figli di essere qui” disse Alfonso tra una portata e l’altra. E già era complicato sopportare Eleonora, figurarsi con bambini urlanti a destra e manca. La donna alzò le spalle e si godè la cena con distaccato interesse. Ferrara l’aveva cambiata, di Eleonora D’Aragona non era rimasto che un briciolo, visibili nell’aspetto, si chiedeva se sotto quei bei vestiti e quei monili luccicanti ci fosse ancora quella sadica amante della danza dei coltelli. Beatrice era l’intelligente della casa, ma Eleonora era il piccolo orgoglio di Re  Ferrante, non le aveva mai detto in tutta la sua fanciullezza di star zitta, come faceva con lui, aveva anche mostrato un segno di tristezza, quando Eleonora era partita per Ferrara, subito dopo essersi maritata.

Da bambina Eleonora lo vinceva sempre nelle competizione, Alfonso ribatteva che perdeva perché da bravo fratello adorava lasciarla vincere, ma non era vero. Eleonora era forte e cattiva, il solo pensare alla sua infanzia, gli portava dolore al petto, dove quella troia caucasica aveva inciso la parola giocattolo  in quella sua stramaledettissima lingua, immaginava quanto irrisoria sarebbe stata la risata di Eleonora se l’avesse scoperto, immaginò il suo viso contratto dal divertimento e gli occhi azzurri ruggenti. “Immagino tu non sia venuta qui solo per una visita di cortesia” disse Alfonso, che ormai la sua famiglia la conosceva bene, “Mi mancavi” commentò con voce divertita, leccandosi le labbra. “Non ti credo” aveva risposto seccamente quello. Dopo la presa di Otranto, Eleonora aveva scritto solo una lettera per la compianta morte di suo padre, scusandosi di non poter venire al funerale, con una scrittura distratta, veloce ed impersonale, non sua ma di suo marito, in basso, sul fondo, con quella grafia piccola, minuta e calcata che la rappresentava, aveva scritto dei complimenti per aver fatto qualcosa di concreto per una volta. Eleonora sapeva sempre tutto, Alfonso era certo si riferisse al parricidio del loro padre che alla tenuta della città.

Mangiò un po’ dello stufato di piccione che avevano portato, sentendolo stopposo nella bocca, era davvero la cena melliflua o la compagnia? Eleonora sorseggiava acqua con letizia, perché chiunque nascondesse qualcosa non poteva perdersi nell’ebbrezza d’anche un solo bicchiere di vino e la madonna di Ferrara era un’abile prestigiatrice nell’arte della menzogna. “Ti spiegherò tutto, fratellino” aveva concesso alla fine, posando il calice orato sul tavolo, prima di concedersi anche lei allo stufato, per riscaldarsi il ventre, “Ma tu dovrai organizzare una festa in maschera in mio onore” aveva detto con un sorriso depravato sul viso, gli occhi azzurri luccicavano di malizia, a guardarla Eleonora D’Aragona sembrava l’innocenza e la dignità cucita sul viso d’una donna, con abiti eleganti, tutt’altro che volgari ed una croce al petto simbolo della sua buona fedeltà a Dio, ma Alfonso sapeva fosse nulla più che una becera sirena. “Così che tutta Napoli possa ridere dell’assenza di mia moglie?” aveva detto lui infastidito, era una scusa insulsa, ma difendibile, per tutto il regno si chiacchierava della relazione che v’era stata tra il Magnifico e Ippolita Sforza e non era affatto sua intenzione farsi ridere ancora dietro, lasciando al popolo la chiacchiera su dove fosse sua moglie. “Trogia sarà contenta di sostituirla” aveva risposto a tono sua sorella, “Potrà fingere per una notte d’esser regina di Napoli” aveva aggiunto, quasi intrigata, “Non solo renderai lei felice” aveva ripreso, “Ma anche la tua adorabile mogliettina morente d’invidia” aveva detto Eleonora. Una maledetta sirena.

 

“Padre”  aveva provato ad esordire, “Santo padre” l’aveva corretto disgustato l’uomo, standosene con un sorriso tirato sul suo trono d’oro massiccio, “Santo padre” ripeté a tono basso quello, “Io starei …” aveva ricominciato, ma era stato interrotto un’altra volta, dall’alzata di mano di Sisto, che aveva anche dato l’impressione bruciarlo con gli occhi, piccoli e cattivi, sistemandosi poi meglio la tiara papale sul capo, seduto mollemente sul suo trono, Sisto pareva immensamente distante da ciò che Pietro doveva essere, nulla più che un Re terreno, ornato d’oro  e gioielli, vittima consapevole del peccato. “Non ci importa” – aveva imperato quello – “Cosa tu e la tua puttana stiate combinando nel ghetto ebraico, Girolamo” il suo tono era maligno, irremovibile come fosse stato di stoica pietra, lanciando uno sguardo snaturato, ma con una malcelata esasperazione, al nipote, “Accompagnerai Lupo e Giuliano a Bologna, siamo noi ad ordinartelo” aveva impartito, sollevandosi dal suo trono, puntando l’indice abbellito con un anello d’orato, con un diadema vermiglio come il sangue. Sembrava in quel momento Dio in persona giudicatore, pronto ad aprire una voragine sotto i piedi di Girolamo e mandarlo al giudizio di Minosse, in un girone infernale, tra i caini per aver tradito il proprio padre.  “O osi opporti a noi? Noi che siamo Pietro, che facciamo le veci di Dio in terra?” aveva aggiunto con un tono imperioso, di chi non avrebbe ammesso insubordinazione. Girolamo era minuscolo davanti quel vecchio, non aveva potere, non aveva dignità, “No” rispose succube,  torturandosi a sangue un labbro; il papa lo aveva poi scacciato con nulla più che un movimento della mano, quasi fosse stato un misero insetto.

Onora il padre, dicevano le scritture, ma a Girolamo era venuto, di quei tempi, quanto mai difficile rimanere legato a quel comandamento; quale padre doveva onorare? Quello che rivendicava il sangue? O quello che rivendicava la fede? O quello che rivendicava l’educazione? Avrebbe dovuto seguire Alessandro Della Rovere? Franceso Della Rovere? O Paolo Riario? E perché mai sentiva nel suo petto i cancelli di Pietro chiusi e ferrati, quasi il buon Dio avesse smesso d’ascoltar le sue preghiere.  Era davvero chiuso fuori dalla Grazia? Scacciò quelle malsane idee dalla sua testa, costringendosi a rimanere diligente alle direttive dell’ebreo, al libro, ai suoi sogni e alla sua colpa, qualunque essa fosse. Prima di rendersi conto di dover nuovamente accantonare tutto per svolgere in nome d’un Dio che aveva smesso di assistergli, una missione per il volere degli uomini, che nulla aveva del cielo. Era per la terra, alla terra, che lo allontanava ogni istante di più dalla beatitudine.

 

Girolamo sentiva la rabbia fluirgli in ogni parte del corpo, come fosse stato il suo stesso sangue, mentre osservava  una diligente Zita preparare i suoi bagagli, con una meticolosa cura nel piegare perfettamente i suoi indumenti. Odiava di dover partire di fretta e furia, non essendo ancora venuto a capo, dei misteri di cui la sua mente era stato insidiato dalle parole di Eolo; aveva avuto in custodia Dracone e Silvano per due giorni ed una notte, cavando poco più che un ragno dal buco. Aveva certamente scoperto che il greco fosse l’uomo che Eliseo aveva indicato, visto quello che aveva detto a Zita sulla morte, e nonostante l’aspetto masculino era certamente lui l’amante del cugino. Silvano alle torture aveva piano e strillato, dicendo di non sapere niente, ma Dracone era stato irremovibile, quasi il dolore non lo toccasse, aveva urlato, ma al parlare la sua lingua s’era fatta annodata, aveva semplicemente guardato Zita e chiesto ancora una volta se lei fosse la morte. Poi  Giuliano gli aveva scoperti per caso, o forse era stato quell’abile osservatore d’Artemisio e parlare al suo signore dei loro ospiti. Quando suo cugino aveva visto Silvano ed il suo viso d’angelo, aveva battuto gli occhi disinteressato e Girolamo s’era complimentato per la sua capacità di mentire, ma suo cugino s’era tradito quando aveva visto l’altro uomo in catene, Dracone aveva riso, animato da una qualche perversa consapevolezza, quasi divertito da tutte le torture che aveva subito e Giuliano era rimasto immobile, quasi Dio l’avesse trasformato in una statua di sale.  Appurato Silvano fosse nulla di più che un innocente spettatore, Girolamo s’era sentito vagamente incolpa quando aveva deciso di metter fine alla sua vita, consapevole di essere causa ed artefice della morte del ragazzo, aveva scelto qualcosa di veloce, che permettesse al giovane d’abbandonar quel mondo in maniera tutt’altro che brutale, un riguardo che Girolamo non avrebbe avuto per quasi nessuno al mondo. Raffaele aveva insistito per salvarlo, aveva pensato suo cugino fosse divenuto o troppo tenero di cuore – cosa che Violante non gli avrebbe mai permesso – o eccessivamente schiavo dei suoi istinti – altra cosa per cui sua sorella lo avrebbe volentieri preso a legnate – cosa che aveva ugualmente perplesso Girolamo. Ma il giovane Riario aveva trovato per l’apprendista del macellaio una fine anche peggiore quella che il conte aveva programmato, una misericordiosa morte, l’aveva donato al Santo Padre e poi aveva scommesso con i suoi cugini su quanto sarebbe durato, il sorriso oscenamente divertito, di pura cattiveria; nonostante tutto Girolamo non godeva del male d’un innocente e non aveva partecipato al gioco, Giuliano aveva la mente ossessionata dal suo amante ed ugualmente s’era sottratto, così Raffaele s’era costretto a dover aspettare il rientro di Giovanni.

“Non puoi venire come ne” disse a Zita, quando lei ebbe chiuso la sua sacca. La donna lo guardo allungo, stringendo le labbra, “Sarei perduta senza di voi” disse, ricordandoli il discorso che avevano fatto prima della partenza per il Nuovo Mondo, “Lo so” aveva ribadito quello, “Ma ho bisogno che qualcuno di cui posso fidarmi resti qui” aveva aggiunto, accarezzandole il viso. Giuliano sarebbe stato a Bologna con lui, ma i suoi poteri cardinalizi continuavano a macinare anche in sua assenza, sebbene le persone di cui si fidassero fossero poche, era un uomo furbo suo cugino, se si fosse trattato di qualsiasi altro amante l’avrebbe scialacquato lui stesso, concentrandosi sul prossimo con un sorriso onesto sul volto ed il disinteresse di cui era padrone, ma Girolamo  aveva l’impressione che la fine della sua relazione con Dracone fosse ancora molto lontana dalla fine. Non di certo per la sua abominevole passione o l’amore – per l’amore del cielo, Giuliano ignorava un tale sentimento –  ma perché era l’uomo che Eliseo gli aveva indicato ed ovunque Dracone avrebbe potuto condurre Girolamo, avrebbe fatto strada anche a Giuliano.

L’unica cosa che lo rattristava era la possibilità d’aver suo cugino come nemico, non che questo lo stupisse, aveva imparato, davanti lo sfortunato cadavere di Amelia Donati, che per raggiungere i propri fini si era disposti a calpestare anche il proprio sangue.  Un uomo che uccide il suo sangue è maledetto, aveva detto una volta a sua madre, l’unica che avesse mai considerato come tale, Bianca Della Rovere aveva annuito, passandoli le dita tra i capelli scuri, come Caino aveva aggiunto, il sorriso sul viso della donna era appassito come se l’autunno fosse d’improvviso esploso sul suo viso, ma gli uomini sono marci, aveva risposto sua madre. Quel giorno Girolamo aveva nascosto il viso nel ventre di sua madre ed aveva chiesto quale uomo avrebbe potuto odiare un suo fratello, ribadendo che lui non l’avrebbe mai fatto. Sua madre aveva sorriso in maniera fragile, allora Girolamo non aveva capito, ma poi era stato certo che Bianca, in quel momento, avesse pensato a Francesco ed Alessandro della Rovere; sua madre aveva baciato la sua fronte ed aveva risposto che anche lei ignorava come si potesse odiare un fratello, sua madre era così buona, secondo Girolamo, che quasi si chiedeva come potesse condividere lo stesso sangue di tutti i suoi fratelli, zio Raffaele compreso. L’ultima volta che s’erano visti, qualche annetto prima, le cose erano cambiate, Girolamo conosceva bene la lenta agonia che aveva logorato l’anima di Caino, macchiandolo poi di quel peccato immondo come il fratricidio, ma sua madre lo aveva abbracciato lo stesso, ma a suo fratello il papa, quando era stata a Roma, aveva sputato in viso, Oh Caino, neanche il marchio te concesso, aveva urlato e quella era stata la sua ultima visita a l’Urbe. Girolamo le aveva chiesto come avesse fatto a capire che i due papi erano stati sostituiti, sua madre aveva il viso anziano torturato dal dolore, “Sono i miei fratelli, credi che avrei potuto confonderli per un solo istante, bambino mio?” aveva domandato con le lacrime agli occhi, “Se tu fossi sostituito con qualcuno che ti somigli come una goccia d’acqua, Violante lo capirebbe e gli caverebbe gli occhi con un coltello da pane” aveva aggiunto, sopprimendo un lamento, lei non poteva farlo, perché come Francesco, anche Alessandro condivideva il suo stesso sangue. Poi Girolamo aveva capito che anche sua madre capiva la colpa di Caino.

Girolamo aveva baciato la fronte della sua amante, “Farò in modo che tu e Dracone siate al sicuro” aveva  risposto, nel tempo che lui fosse stato a Bologna, per occuparsi delle commissioni papali. Zita aveva cercato di nascondere sul viso un espressione pavida, sfiduciata molto dalle parole del conte e Girolamo s’era sentito impotente della sua incapacità di rassicurarla, lei che era l’unica cosa bella che aveva. “Starete da mia sorella, madonna Violante Riario Sansoni” le aveva detto il Conte alla fine, dopo un lungo respiro; per il potere Romolo aveva ucciso Remo, Caino assassinato Abele, suo padre imprigionato suo zio, ma in tutto quel marciume, quel tradimento delle famiglie, Girolamo poteva sentire la sicurezza che Violante gli dava, l’ultima certezza che aveva, oltre l’ingenuo amore per Zita. Nonostante la rabbia che aveva animato sua sorella nel loro ultimo incontro, Riario sapeva del legame imprescindibile che gli legava,  siamo come Oreste ed Eletra noi, aveva bisbigliato lei,  quando s’erano visti, c’era astio nel suo tono, ma poi l’aveva stretto ed aveva pianto sulla sua spalla, fragile come una bambina.

Zita aveva sorriso rincuorata, baciandolo di sorpresa. Girolamo l’aveva allontanata lentamente, “Andrete da lei, questa notte, vi porterà Raffaele” aveva aggiunto, suo nipote era un ragazzo furbo, che sapeva sempre quand’era opportuno chiedere e quando no; si era anche offerto d’estorcere tutto quello che poteva da quel sodomita, Zita avrebbe dovuto presenziare a tutti gli interrogatori per esser certa della veridicità. “Partirete domani mattina, mio signore?” aveva domandato Zita, anche se la risposta a quella domanda, la conosceva assai bene, l’uomo aveva mosse il capo in segno d’assenso, allora la donna l’aveva baciato ancora, con ardore e passione, pareva quasi animata dalla paura che quella fosse la loro ultima notte. Girolamo l’aveva stretta sentendo anche lui l’ardore del non volersi allontanare, del desiderio di volerla tenere stretta, quanto avrebbe voluto sciogliere il suo caustico matrimonio e sposare quella donna davanti agli occhi del signore, così che si sarebbero potuti amare in maniera candida. Spinse Zita sul letto cominciando a spogliarla dei suoi abiti, ricambiato dalla donna che s’impegnava, tra un bacio ed una risata di fare la stessa cosa, non più un ombra ruggiva nei suoi occhi. Baciò ogni porzione della pelle che vedeva scoperta, discendendo lungo quel ventre scuro, pensando alle parole di Eliseo, sulla sua paternità, sarebbe stato così orribile se avesse impalmato Zita quella notte? Si sentì profondamente egoista. La baciò sulle labbra, assaporando la dolcezza di quelle labbra, per guardarla negli occhi,  “Mio Re Salomone” sussurrò lei, quasi divertita,  Girolamo la baciò ancora, mentre con una mano raggiungeva la sua femminilità, umida.

 

Lucrezia Normanni era uscita dalla vasca da bagno come Venere era sorta dalle acque, con i capelli biondi impregnati d’acqua, che gocciolava sul suo corpo gnudo. Giuliano aveva spesso disdegnato la morbidezza d’un corpo femminile, trovando nelle illustrazioni sconce sempre più appagante osservare Ares che la sua amante. Ma Lucrezia era un eccezione, dovuta più al carattere della donna, che ricordava più quello d’un esotico animale delle savane che d’una delicata matrona Romana. “Vai a Bologna?” aveva domandato Lucrezia, camminando scalza sul pavimento del suo bagno, fino a raggiungere la sua camera da letto, incurante dell’aria gelida di gennaio che filtrava dalle imposte,  invece della sua veste notturna, la donna l’aveva sbeffeggiato indossando la sua veste cardinalizia. “Cosa vuoi da me, Giuliano?” aveva chiesto, la stoffa s’era impregnata d’acqua aderendo al suo corpo tondo, mostrando le sue vergogne sotto la tunica porpora. Un osceno, quanto meraviglioso sacrilegio. Eppure davanti tale beltà, Giuliano immaginò che nudo come era venuto al mondo ci fosse stato Dracone, lui però non sarebbe rimasto a farsi guardare come faceva lei, con il narcisismo tipico delle donne, quello si sarebbe già avventato su di lui, per baciarlo, martoriarli le labbra, la pelle e lo spirito. Giuliano non aveva mai amato nessuno dei suoi amanti, trovando quel sentimento nulla più d’un veleno, piacevole, meraviglioso, ma ugualmente mortale. Eppure sarebbe stato  una menzogna, a Dio, agli uomini, a se stesso, se non avesse ammesso di aver ardito d’amore per Lucrezia e Dracone, aveva spesso di continuo fantasticato d’averli nel suo letto assieme, nudi e pronti per l’amore, a volte aveva immaginato d’osservarli e basta, mentre s’amavano loro, vedere le due persone di cui s’era infatuato far l’amore con lui a guardarli, l’unioni della bronzea carnagione di Dracone con il pallore di Lucrezia. I loro gemiti, che sarebbero stati per le sue orecchie musica.

Accarezzò le guance rosate di Lucrezia, con delicatezza, “Non esiste al mondo, persona di cui ora mi preoccupi più di te” mentì, perché c’era anche Dracone, che era da qualche parte nelle segrete di quella Gomorra travestita da Eden. “Sarebbe meglio se per tutta la mia assenza, restassi nella tenuta dei Normanni” aveva detto, infilando le dita nei capelli bagnati, “Che dovrei venire a fare qui, in tua assenza, scusa?” aveva riposto piccata lei, “Compagnia al santo padre?” aveva detto impudente.  Giuliano aveva riso, profondamente divertito, “Certo certo” sminuì la faccenda, non prima d’averla colta di sorpresa con un bacio tenero sulle labbra, Lucrezia sorrise in maniera tremendamente seducente, “Così mi tentate, eccellenza” rise, allacciandoli le braccia al collo ed avventandosi sulle sue labbra. Eppure per quanto la lingua della donna si insidiasse in lui, la mente di Giuliano non riusciva a privarsi completamente dell’immagine di Dracone in catene, con uno zigomo completamente distrutto ed il viso coperto di sangue. Per quanto, per una volta  il desiderio di salvare qualcuno fosse nobile, non poteva dirsi innocente, era vero il rapporto che s’era formato tra i due, era vera la loro passione e le sue labbra, ma il motivo per cui si era avvicinato a lui, non aveva nulla di leggero. “Non starai pensando ancora al tuo giovane macellaio” aveva detto irrigidita lei, scostandosi appena, con le sopraciglia crucciate; dalla cena da Girolamo, Giuliano aveva impiegato davvero del tempo per assicurare la sua amante che lei era l’unica, che con chiunque altro avesse avuto qualcosa, non era stato altro che uno sfogo d’istinti. Una menzogna meravigliosa, amara come l’aceto, che Lucrezia aveva inghiottito assieme ai suoi baci ed alle sue parole fatte di miele. “No, mia bella” disse,  assaporandola ancora le sue labbra, “Sono preoccupato per la partenza di domani” aveva risposto e per il compito che aveva affidato al suo fidato Artemisio, salvare Dracone.  La bocca di Lucrezia s’era costretta in un cerchio, sul viso solitamente stizzito era dipinta un espressione imbarazzata e preoccupata. S’avvicino a lui, portò la bocca all’orecchio, “Ora ci penso io” bisbigliò, prima di succhiare il lobo, s’era allontanata, tenendo sulle labbra un sorriso, poi s’era chinata sulle ginocchia.

 

“La prego Dragonetti, ditemi che avete notizie di Madonna Orsini?” aveva domandato Vanessa, mentre dava ancora una volta disinteressatamente un’occhiata alle lettere che la maggiore delle figlie di Lorenzo aveva scritto al padre e a lei, ripetendo ancora una volta di non avere notizie della madre. Giovanni era al suo fianco per correggere le sue cadute letterali, non avendo ancora la fanciulla preso pratica nella lettura e preferiva di gran lunga la compagnia del giovane Nico. “No, mia signora” disse spento l’uomo, chinando il capo, tenendo il capello tra le dita al petto, in una forma di rispetto che Vanessa trovava ancora faticoso abituarsi. “O santo cielo” bisbigliò, chiudendo tra le mani il viso. Aveva desiderato per tutta la vita un minimo di considerazione, ma era passata dall’essere una suora deflorata che si faceva le ossa in una locanda alla Matrona di Firenze. Erano mesi che non riusciva a cogliere un solo momento con Giulio tutto per loro, dovendo sempre apparire al meglio al fianco di Lorenzo, per mostrare quando la famiglia De Medici, fosse forte; non era neanche riuscita a salutare, prima che partissero, Leonardo e Zoroastro, Nico quella mattina le aveva detto avessero lasciato Fiorenza in piena notte, non aveva neanche capito per quale meta, sperava solo di rivederli, qualunque follia stessero architettando, sapeva di potersi fidare di Leo, perché non l’aveva mai delusa, ma non poteva che sentire l’ansia annidata nel ventre .

 “Ser Piero è arrivato” aveva comunicato Dragonetti, dopo che aveva compreso Vanessa non avrebbe detto altre parole, “Giusto … Il pranzo” bisbigliò la donna, sollevandosi dalla sedia, dandosi della sciocca per essersene dimenticata, afferrò la cappa di pelliccia e la chiuse attorno alla gola, nascondendo il vestito arancio scuro, prima di salutare Giovanni con una riverenza e ricordagli che a metà del pomeriggio sarebbe arrivato il giovane Machiavelli, “Si” aveva risposo il giovane facendole un inchino.  “Lorenzo ha ritenuto questo pranzo così importante” aveva detto, uscendo fuori dal piccolo studiolo, seguita da Dragonetti.

Nella sala da pranzo, la tavola era pienamente apparecchiata, con tutti le vettovaglie lucide, della buona portata, anche Pietro era lì, vestito di tutto punto, senza aver però osato sedersi. La prima volta che aveva visto quell’uomo dal viso imbrunito, ne era stata quasi spaventata, era venuto alla locanda per una strigliata a suo figlio. Leonardo l’aveva guardata, imponendole con gli occhi di non immischiarsi, per non urlare a Pietro quanto meraviglioso fosse il suo ragazzo, Vanessa aveva conficcato le unghia nel bancone con così tanta forza da spezzarle. Ma quando Leonardo era partito, aveva detto a Pietro di essere con quel bastardo una persona migliore di come era stato con lui e così era stato, in Vanessa ed in Giulio aveva trovato la sua espiazione. Sorrise appena la vide, “Ti trovo splendida quest’oggi, signora” disse, chinando appena il capo in maniera signorile, Vanessa ricambiò con una riverenza, che le ancelle della casa De Medici le avevano insegnato.

La tavola era imbandita per sei persone, Vanessa ricordava Lorenzo le avesse accennato dei preziosi ospiti che avrebbero avuto quella sera, ma non ricordava se avesse per caso rivelato le loro identità, oltre questo, in quel momento alla cena erano presenti solo in due, lei e Piero. Si stava giusto chiedendo dove fosse Lorenzo, quando un servitore era irrotto ancora una volta nella sala, “Signori” aveva detto con un momento di imbarazzo, prima di sistemare una seconda persona con lui, un giovane uomo,  forse coetaneo di Vanessa, dall’aspetto gradevole, anche se un po’ trasandato, nella barba incolta ed i capelli lunghi, era pallido come un lenzuolo e portava un abito ricco d’un colore vivace, si sosteneva grazie ad un bastone di legno chiaro, dall’impugnatura nera e rifinita. Vanessa aveva vissuto abbastanza tempo tra il popolo per riconoscere un mercante arricchito, “Il signor Morgante Ricci” aveva presentato con voce squillante, accennando al nuovo venuto, “Ser Piero Da Vinci e madonna Vanessa Moschella” aveva ripetuto presentando gli altri uomini. Il sorriso di circostanza che era stato sul viso del padre di Leonardo, cosa che Vanezza aveva notato, s’era congelato, “Benvenuto” aveva mormorato, mostrando un finto tono accogliente, “Il Magnifico aveva invitato mio padre per il pranzo” aveva detto Morgante, “Ma per un affare era assente dalla nostra amatissima Repubblica, che ha pensato di mandare me, il suo primo figlio” aveva esclamato; muoversi gli dava una certa fatica e strisciava con la gamba sinistra. Aveva sorriso Morgante quando l’aveva notata, “Una vecchia caduta da cavallo” aveva mormorato, mostrando comunque un espressione allegra, quasi per niente incupito da quello.

“Ma l’uomo più amato di Firenze dove è?” aveva domandato Morgante, osservando attentamente Piero. Vanessa non poteva dire fosse un uomo sinistro, ma c’era un luccichio nei suoi occhi che non le rendeva sentirsi perfettamente a suo agio in sua compagnia. “Starà arrivando” aveva risposto l’altro uomo cercando di contenere un minimo nervosismo. Vanessa aveva guardato i piatti lucidi di ceramica sistemati sulla tovaglia turchina, tanta riverenza per chi? I Ricci erano una famiglia che s’era fatta un nome si, negli ultimi  anni di Firenze, una nota e ricca famiglia Mercantile. Spesso aveva visto il detentore degli affari della famiglia, il padre di Morgante, un uomo tutto d’un pezzo,  canuto sul capo, con le rughe sul viso, vestito in maniera impeccabile, tenere al suo braccio una donna dai capelli grigi ed un espressione affievolita. “Per la gioia del cielo, mi ha concesso la visione di tale bella creatura” aveva detto il giovane, con un sorriso solare, ammiccando a Vanessa, che s’era stretta maggiormente al corpo la cappa, le guance si erano colorate, fino a sembrare mele. Da quel momento nella sala da pranzo era caduto uno strano silenzio, accompagnato dall’espressione imperturbabile ed arcigna di Piero ed un sorriso serafico di Morgante. Vanessa s’era chiesta se non avesse dovuto condurli alla tavola, come da brava padrona di casa, ma si sarebbe sentita sciocca ed impudente, se poi i piani di Lorenzo fossero stati altri. Il silenzio durò ancora.

 

Fu Lorenzo De Medici stesso a romperlo, quando era entrato nella sala, aveva sul viso sfoggiato un sorriso come fosse stato un monile di pietruzze lucenti, vestito in maniera elegante, con un giacca di pregiata stoffa rossa, con bottoni di giada, dal decoro di fiori, aveva il giglio d’orato di firenze appuntato al petto. Ordinato, sagace, ben curato. Vanessa sorrise nel vederlo. Lorenzo era meno bello di quanto fosse mai stato Giuliano, meno appariscente, interessante, all’apparenza più mediocre, ma molto più astuto e diligente. Per quanto lei non avesse mai parlato con il suo compianto amante del fratello, per quanto Lorenzo De Medici fosse stato nulla più di un estraneo steso sul tavolo di Leonardo, ora Vanessa si sentiva rischiarata sempre dalla sua presenza; forse perché s’erano fatti compagnia nella solitudine che albergava in quella tenuta e dietro la fortezza di impegni che s’erano costruiti attorno i due. Lorenzo viveva per Vanessa in un costante stato di gratitudine, per donare al palazzo De Medici non solo una presenza femminile, ma per aver donata a Firenze intera l’erede che avevano trepidamente atteso. Lei per lui provava famigliarità, perché Vanessa non poteva ignorare che il sangue che animava quell’uomo, fosse lo stesso degli uomini che aveva amato di più nella sua vita, Giuliano e Leonardo. Uno era in grazia al signore e l’altro Vanessa temeva sempre di perderlo.

Dopo Lorenzo era entrata una donna, era magra, alta e d’aspetto vispo, aveva una lunga cascata di capelli luminosi, due trecce  strette dalle tempie s’univano sul retro della nuca, fasciandole il crine come una corona spessa d’oro intrecciato, tra i fili di capelli c’erano fiori pallidi e perle bianche. Il corsetto era stretto, pieno di lacci, da gran dama, indossava un abito ambra, con frange vermiglie e decori neri, uno smeraldo lucente come monile, stretto in fili d’oro nero sul collo magro. “Sua maestà” aveva bisbigliato timoroso Ser Piero. “Vanessa, mia cara, posso presentarti  la Regina di Napoli Ippolita Sforza?” aveva detto suadente Lorenzo, predendo le mani fini della donna e baciandole, sebbene la postura fosse quella tipica dei galantuomini, Vanessa riconosceva negli occhi lui, amore nudo e vero come poche volte aveva visto e negli occhi di lei devozione come d’una suora a dio. “Sua maestà, il buon Piero lo conosci, la madonna qui è Vanessa mia cognata ed il nostro ospite …” aveva ripreso Lorenzo ammiccando a Morgante, “Non è messer Goffredo Ricci” aveva detto spezzando la sua lingua. Vanessa s’era sentita come se la sua stessa pelle le fosse stretta, quando Lorenzo l’aveva alzata così di grado da farla moglie di Giuliano, lei che non era stata altro che per l’uomo una morbida fuga dai suoi doveri, se l’avesse dovuta sposare forse quell’uomo l’avrebbe odiata, Vanessa l’aveva vista la donna che le sarebbe spettata, piccola, minuta e colpevole del disonore d’un cognome che non s’era scelta, ma così bella e fresca, che al confronto Vanessa s’era sentita usurata.

Morgante non aveva perso il sorriso restando con il bastone ben piantato a terra, davanti i falsi sorrisi fermi sulle labbra dei due, “Perdonatemi Magnifico e sua Meastà, mio padre si scusa, ma era lontano da Firenze per affari ed ha pensato fosse meno sconveniente mandare il suo primogenito che rifiutare l’invito” aveva detto con una galanteria così fine Morgante che per qualche istante Vanessa aveva pensato fosse sul serio un nobile e non il figlio d’un mercante arricchito.  “Un Ricci è un Ricci” aveva detto Ippolita con una risatina divertita, allontanandosi appena da Lorenzo, per allungare la mano verso il giovane, dove svettava un anello d’argento con una pietra rossa come il sangue, “Morgante Ricci, mia regina, incantato” aveva detto l’uomo, baciando le dita. “Accomodiamoci allora” aveva detto Lorenzo riprendendo il suo solito carisma, “Manca un ospite” era stato proprio Morgante a farlo notare, lanciando uno sguardo allo scintillante piatto da portata che sarebbe rimasto senza commensale, “Non temete” –  lo rincuorò la Regina Ippolita – “Arriverà”, il suo tono era stato calmo, misurato e le sue labbra quasi squarciate in un sorriso. Vanessa aveva avuto l’impressione che quelle parole fossero più una minaccia che una rassicurazione.

Lorenzo sedé, come da tradizione, a capo tavola, alla cima opposta s’accomodò la regina di Napoli, con le dita incrociate sul ventre. Vanessa s’accomodò alla destra del Magnifico, alla sua destra s’accomodò Piero, ritrovandosi così alla sinistra di Ippolita. Morgante sedé all’altro fianco di Lorenzo, sotto richiesta stessa di quest’ultimo, lasciando il posto vacante tra lui e la Regina, di fronte Piero. Erano stati serviti vini con miele e sidro di mele frizzante. La prima portata era stato del pane soffiato con del formaggio erborinato, poi era stato il formaggio giallo con i datteri ed altre – troppe – portate fredde s’erano succedute. Vanessa era quasi arrivata alla nausea, quando era arrivato la zuppa di porro. L’aveva mandata giù quasi a fatica, osservando invece gli altri commensali non disturbati da tutto quel cibo, poi s’era ricordata fossero tutti di nobili natali o quasi, che nessuno di loro probabilmente aveva dovuto nella vita neanche per un istante far la fame, prima dell’entrare in collegio, Vanessa aveva sentito fin nelle ossa la mancanza di cibo.

“Non potremmo gustare questo buon pranzo senza tuo padre” aveva detto Lorenzo orgoglioso a Morgante, “Tuo padre è un moderno Marco Polo” aveva  bisbigliato, quello aveva annuito, “Anche lui adora definirsi così” aveva detto gongolante quello, con un tono squillante di voce, profondamente soddisfatto di quei comportamenti. “Davvero?” aveva domandato Ippolita, sbattendo gli occhi,  “Certo mio padre è un mercanti di ogni genere” aveva spiegato divertito Morgante, “Da tutto il mondo conosciuto” aveva aggiunto. Vanessa aveva osservato al mercato i loro importi, era vero s’occupavano di tutto, da vasi, cibarie e probabilmente anche persone. “Anche se ultimamente si stanno avendo problemi per la via della seta” aveva commentato risentito. “Ed è un’attività di famiglia?” aveva domandato incuriosita la donna, prima di bevacchiare un po’ di vino e mangiucchiare del cibo, “Si, sono stati mio padre e mio zio ha fondarla,  più di un ventennio fa” aveva  cominciato a spiegare, “Anche se mia zia non ha mai permesso al suo sesso di limitarla negli affari” aveva aggiunto. “Giocasta certo” aveva detto Lorenzo, “Ci siamo incontrati ad una festa” aveva spiegato con un tono sbrigativo, “Ha sposato un uomo bretone giusto?” aveva ripreso, al ché Morgante aveva annuito, “Mio padre non ne era molto contento all’inizio” aveva rivelato con un tono basso, “Sperava potesse sposare un nobile altolocato italiano” aveva bisbigliato, prima di rivelare che s’era augurato quell’augurio anche per lui Morgante, visto che Goffredo era stato costretto a sposare una donnicciola figlia d’una piccola famiglia ormai da tempo decaduta, che di nobile non aveva altro che il nome. Vanessa era stata quasi sconvolta dalle parole di Morgante, quell’uomo non aveva avuto una sola volta un tono gentile verso la donna che era sua madre. Le era scivolata la forchetta, se un giorno Giuliano avesse parlato di lei a quel modo? Come una donnaccia che aveva avuto la fortuna di stendersi sotto un uomo dal ceto sociale più alto. “Tutto bene?” aveva bisbigliato Ser Piero toccandole la spalla, “Si, mi è solo scivolata la forchetta” aveva bisbigliato lei, cercando di fingere imbarazzo, recuperando la posata.

Ippolita aveva continuato a tenere il sorriso serafico sul viso, “E tuo zio?” aveva domandato, inclinando il capo, sul palmo della mano, un  gomito puntellato sul tavolo. Il viso di Morgante s’era fatto ombroso,  come se quella domanda fosse stata una spada in pieno petto, “Mio zio è morto” aveva detto quello con voce secca,  quasi rabbiosa, “Che dio abbia in gloria l’anima del buon Domenico” aveva annuito Lorenzo, con voce bassa, aveva poi rivelato fosse capitato che a qualche festa data dal buon Cosimo partecipassero i Ricci, tra cui proprio il compianto Domenico. “Alla sua buon’anima” aveva  detto Morgante sollevando un bicchiere di vino, “Io quasi non lo ricordo” aveva confessato, “E neanche mio cugino, Reginaldo, suo figlio bastardo” aveva detto il giovane con voce bassa. Vanessa aveva osato chiedere della madre del bastardo, visto la sua affinità verso gli illegittimi.  “Vive ancora a Pisa, ha un mulino” aveva confidato con voce civettuola Morgante, rivolgendosi proprio a lei con un sorriso scanzonato sul viso, “Reginaldo la vede spesso” aveva confidato, prima di portarsi alle labbra del vino e macchiarla di rosso violaceo. Ippolita aveva continuato a tenere su un sorriso davvero divertito come se l’intero discorso fosse il suo più grande svago, Vanessa la guardò appena, era come se negli occhi ci fosse un fondo di cattiveria. “Ma non si è mai sposato?” aveva indagato battendo le ciglia, prima di dedicarsi nuovamente al suo pranzo, “Voleva” aveva spiegato Morgante, “Ma le cose erano complicate” aveva spiegato, Ippolita aveva sollevato le sopraciglia pallide, “C’è stato lo sfortunato incidente che ha messo fine alla sua vita” aveva ampliato il ragazzo, posando i calici sul tavolo.  “Incidente?” aveva domandato Ser Piero indagato anche lui, il suo viso s’era fatto serioso e così anche Vanessa aveva capito che più informazioni avessero carpito da Morgante e dalla sua famiglia, più avrebbero fatto il gioco di Lorenzo. Ricci era in panciolle quasi assuefatto da tutto quell’interesse dell’alta gente per lui, figlio d’un mercante; “Così è stato detto” aveva detto lapidario. O lei le capiva quelle frasi, quelle circostanze, così è stato detto, diceva Morgante, così è stato fatto passare, urlava in realtà.

Dragonetti era arrivato al momento del prosciutto piccante, reso così da una qualche spezia arrivata dall’oriente. Vanessa aveva sollevato lo sguardo, sorridendo gentile, “Mio signore” aveva detto serio l’uomo chinando il capo a Lorenzo, “L’ultima ospite” aveva rivelato, prima d’essersi fatto da parte. Vanessa aveva osservato con interesse la porta da cui era apparsa una figura piccola.  Era una ragazzina travestita da donna, con una veste morbida d’azzurro intenso, stretto sul petto e scollato, non indossava un corpetto, ma diveniva improvvisamente morbido, come le antiche romane, l’attaccatura del seno, agghindato da tre cinta di perle di mare, ma sul petto erano state cucite pietre brillanti, assieme a merletti pregiati che sbuffavano da sotto la veste,  richiamando un bavero, al centro dei seni c’era un drago-serpente d’argento lucido. Le maniche erano di velluto morbido gonfio, blu pavone. Sul ventre spiccava un tonda prominenza, fecondo d’un bambino, lungo le spalle scendevano ciocche di capelli ferruginosi. Era piccola, s’era resa conto Vanessa, ma non più piccola di lei, quando aveva trovato un folle in stato di semi incoscienza poco lontano dal convento.  Aveva ali sulle spalle, ossa di legno spezzate e pelle di tele rovinata, era stata follia, ma Vanessa aveva pensato fosse un angelo, forse aveva avuto ragione, Leonardo era un angelo, precipito dal paradiso e costretto ad un inferno che non conosceva soluzione, personale ed angosciante, così da non poter permettere a nessuno di salvarlo. Leonardo era un po’ Lucifero ed un po’ Icaro – l’aveva sentito spesso di parlare dei peccati di Dedalo, ma Vanessa avrebbe voluto dirgli che erano quelli di Icaro che pendevano sulla sua testa – era tutto quello, sacro e profano. Un uomo che le aveva promesso la luce e le aveva regalato il buio, un’oscurità così stretta da esser soffocante, di cui ora non avrebbe voluto mai liberarsi. La fanciulla non era più piccola di quando Vanessa aveva amato per la prima volta un uomo.

Il viso di Morgante s’era fatto bianco come ossa, come se la sola presenza l’avesse potuto turbare al punto da privarlo del suo sangue. “Signori, ho il meraviglioso piacere di presentarvi la Contessa di Imola” aveva detto Lorenzo sollevandosi dal suo posto, prendendo la ragazza per il braccio in maniera galante, “Caterina Sforza” quando aveva pronunciato quel nome, accompagnato dall’inchino della signora, Vanessa aveva sentito Piero irrigidirsi al suo fianco. La Regina Ippolita s’era sollevata ed aveva baciato la ragazza sulle gote e sulle palpebre, prima di stringerla in un abbraccio quasi materno, poi la scortò personalmente fino al posto vuoto, proprio al fianco di Morgante. “Contessa” aveva detto Lorenzo, “Loro sono Ser Piero dotto il legge, mia cognata Vanessa e il signor Morgante Ricci, il figlio del mercante Goffredo Ricci” aveva ripreso presentando i commensali.  Caterina Sforza non aveva accennato neanche un minimo sorriso di circostanza, come se l’intera sala la indisponesse. “Scusate il ritardo” aveva detto la ragazzina con un tono perentorio, prima di giustificare il suo ritardo a causa di un malore, nel farlo s’era toccata il ventre tronfio. “Di cosa si discuteva in mia assenza?” aveva domandato poi, mentre una cameriera le serviva il brodo, cercando di ricacciare indietro l’istinto di vomito, cosa che Vanessa ricordava bene; “Di morti” aveva risposto Ippolita quasi divertita.  L’argomento aveva fatto strisciare sul viso della contessa un sorriso.

“Di morti è sempre pieno il mondo” aveva detto la ragazza dai capelli rossi, bevendo dell’acqua chiara, “Giusto un brutto cadavere è stato trovato a Roma, vero cugina?” aveva domandato Ippolita alla ragazzina, con voce divertita. Caterina aveva annuito, prima di ingurgitare un po’ di minestra, “Carlo Mondella” aveva spiegato, “L’hanno ritrovato nel Tevere” aveva rivelato la ragazzina. Morgante aveva riso divertito, “Il Tevere d’oggi giorno è come lo Stige” aveva detto, Caterina aveva riso alla battuta, “Concordo più cadaveri che pesci” aveva risposto la Contessa, con voce dura. Vanessa aveva osservato i suoi occhi erano d’un verde maculato di castano, da risultare gialli, come quelli d’un qualche felino. “Lo hanno aperto come un maiale e buttato nel fiume, i pesci ne hanno mangiato gli occhi e mordicchiati gli organi” aveva detto tremendamente divertita Caterina. Vanessa s’era chiesta come potesse mentre mangiava parlar di cadaveri con così tanta disinvoltura, incinta come era, lei che avrebbe volentieri in quel momento vomitato nel vaso lì di fianco. “Avevo sentito avessero appuntato anche qualche dito, non mi avevi accennato questo, cara” aveva ripreso Ippolita, davvero orgogliosa di continuare quell’argomento. Vanessa era sul punto di alzarsi e congedarsi da quell’ispida cena, mentre osservavano il maialino da latte con il miele, che veniva servita al centro del tavolo.

“Tortura” aveva spiegato Caterina, “Qualcuno voleva risposte” aveva detto la ragazzina, “Forse le ha ottenute” aveva detto Morgante rigido. La Contessa aveva sorriso in maniera superficiale, ma era calato il gelo sul suo viso, “Certo che le ho ottenute” aveva detto poi, con voce gelida. Tutti gli occhi della sala erano concentrati su di lei, ma quelli gialli di Caterina guardavano il commensale, “Quindi la mia domanda, signor Morgante, è perché la sua famiglia mi voglia morta” aveva commentato, prima di guardare il suo ventre, “Ci voglia morti” aveva aggiunto, toccandosi con le mano sottile il grembo. Morgante aveva mantenuto il suo sorriso sbarazzino, “Dunque questa è una trappola” aveva detto esasperato, “O direttamente la mia condanna?” aveva chiesto a Lorenzo De Medici, “Perché mai se mi è concesso il Magnifico si occupa della contessa di Imola?” aveva domandato rabbioso. Poi era avvenuto tutto in fretta, Morgante aveva afferrato il suo bastone da passeggio ed aveva provato  a colpire Caterina dritta sul ventre, Lorenzo l’aveva afferrato per le spalle cercando di bloccarlo, ma Ricci lo aveva colpito sull’addome con un gomitata, Vanessa aveva urlato, “Guardie” aveva strillato Piero, mettendosi tra lei ed il resto del mondo.

Ippolita era schizzata in piedi ed aveva afferrato il braccio della parente per tirarla indietro, ma Caterina s’era già lancia su Morgante armata d’un coltello da burro, lui le aveva messo le mani alla gola zoppicando appena. Lorenzo era finito per terra, s’era alzato respirando a fatica, afferrando il bastone da passeggio, aveva colpito Ricci alla gamba offesa; nonostante la poca aria alla gola, Caterina aveva infilzato con il coltello l’avambraccio di Morgante. L’uomo aveva urlato e lasciato il collo bianco della ragazzina, il rosso aveva macchiato le vesti, il tavolo ed il viso di Caterina. Morgante era caduto per l’urto alla gamba e s’era sfilato il coltello schizzando ancora rosso, che s’era riverso sotto di lui. Dragonetti era entrato di tutta furia, assieme alla guardia cittadina ed un uomo dai capelli biondi, “Contessa” aveva detto questo afferrando per le spalle Caterina, questa era fuggita recuperando il coltello sporco di rosso, prima che riuscissero a fermarla, l’aveva già piantato tra gli occhi di Morgante. “Caterina, sant’iddio il bambino” strillò Ippolita  circondandole il petto con le braccia per tirarla indietro, “Adelchi aiutami” ringhiò al biondo, che aveva aiutato  la regina e spintonare Caterina senza però urtare in alcun modo il grembo, “Contessa” ripeté, “O per la gloria di Dio, Adelchi! La tua incompetenza mi farà finire al creatore prima del tempo”  aveva detto riprendendo fiato.  Dragonetti aveva aiutato Lorenzo ad alzarsi, “State tutti bene?” aveva domandato immediatamente il Magnifico; a causa di tutte le urla che aveva gettato, le si era spezzata la voce nella gola. “Si ma io non ho avuto le mie risposte” aveva detto Caterina, liberandosi delle mani che la teneva ferma,  Lorenzo De Medici la guardò critico, quasi disgustato, non che Vanessa avesse guardato loro, osservando solo il coltello tra gli occhi sbarrati di Morgante, non aveva avuto così paura dalla presa della città da parte del duca d’Urbino. S’accasciò per terra quasi esangue, Piero le venne dietro per sorreggerla, “Certamente ora abbia un nemico comune, contessa” aveva detto duro Lorenzo, “Giocasta e Goffredo Ricci non faranno di certo passar liscia questa morte” aveva commentato con voce tetra. Caterina aveva sorriso, “Io non li temo” era stata la lapidaria risposta della ragazzina. Piero aveva tenuto Vanessa su con le sue mani, cosa di cui le gli fu infinitamente grata, “Impudente giovinezza” aveva bisbigliato sprezzante lui.

 

“Io vengo” aveva detto Lorenzo, mentre osservava Leonardo buttare a casaccio vestiti o quant’altro in una bisaccia, “No” aveva ribadito Da Vinci. Andavano avanti da almeno un paio d’ore e nessuno dei due aveva ancora deciso di ritornare sui suoi passi. “Ho sempre desiderato vedere Roma” aveva detto vago Di Credi avvicinandosi all’uomo con un sorriso che Leonardo avrebbe definito schifosamente adorabile, “Visitare Roma con me e come girare con un cappio al collo nella speranza qualcuno scelga di annodarlo da qualche parte” aveva risposto serio l’altro. Anche se avrebbe davvero gradito la compagnia di Lorenzo, averlo introno l’avrebbe primariamente distratto dalla sua missione ed in secondo luogo l’avrebbe messo in un grave pericolo, pur di ferirlo, il papa avrebbe fatto a quel ragazzino cose orrende e Riario non sarebbe stato da meno pur di scoprire cosa stesse macchinando. Aveva deciso anche di non portare Nico, sia perché era sempre utile a Vanessa, qualche esperto di legge, sia perché sarebbe stato quantomeno inutile nascondere che l’influenza del conte aveva segnato in maniera indelebile il ragazzo.

Lorenzo gli aveva toccato la guancia, “Io non temo Roma, Leonardo” aveva risposto, rubandoli un bacio, “Non temo papa Sisto, ne la gloria di Dio in persona”  aveva aggiunto sicuro di se. “Mi piace questo tuo cieco ottimismo” aveva detto Leonardo, “Mi ricorda me” aveva detto orgoglioso quello, dandoli un bacio leggero, Lorenzo era una creatura meravigliosa, tutto di lui lo diceva, aveva un viso sottile, dai tratti infantili ed i riccioli bruni, serpentini, come quelli d’una figura antica. “Ma la risposta è ancora no” aveva stabilito ancora una volta Da Vinci, “Non verrai a Roma con me” aveva risposto. Il viso di Lorenzo s’era tinto di rossa rabbia, gli zigomi erano infuocati come se fossero stati accessi da tizzoni ardenti; forse avrebbe dovuto dirgli che era per il suo bene, ma la verità era che se avesse detto quello Lorenzo avrebbe passato le notti con occhi sbarrati contando i giorni e le ore, si era innamorato quel ragazzino, Leonardo lo comprendeva, ma non aveva la forza di spezzare un cuore, non così bello come quello di Lorenzo, era un’anima innocenza che non aveva voglia di sporcare, ne di illudere. Non era certo che un giorno sarebbe stato in grado di poter concedere il suo cuore a qualcuno di diverso di Lucrezia Donati, un’anima nera come lui, con un cuore secco ed un dolore nel petto. Gli sarebbe piaciuto poter essere così folle da amare qualcuno in maniera innocente. Lorenzo gli picchiò le mani sul torace. “Sei pronto? Ho fatto sellare i cavalli” aveva esclamato Zoroastro entrando nella stanza di Leonardo, con i ricci scomposti ed un vestito molto sobrio in confronto al suo solito, “Si” aveva risposto Da Vinci, “No” Di Credi, “Io non sono ancora pronto” aveva commentato, Zoro aveva inclinato il capo, guardando il ragazzo più giovane tra l’esasperato ed il divertito, “Se così è, vado a sellare un quarto cavallo” aveva detto alla fine con un sorriso soddisfatto, prima di voltarsi. “Quarto?” aveva domandato Leonardo andandoli dietro, “Avevo detto a Nico di non venire” aveva ribadito, “O Leonardo, adoro quando sei così autoritario, ma non puoi controllare tutti”  aveva borbottato Lorenzo alle sue spalle. Zoroastro aveva riso tremendamente divertito scompigliandosi ancora di più i capelli riccioluti, “Ma Nico ha detto che resterà con Vanessa, anche se è tremendamente abbattuto” aveva commentato, “Botticelli mi ha detto che sarebbe venuto con noi”. Leonardo aveva arrestato la sua camminata improvvisamente, Lorenzo le era finito addosso, mentre Zoroastro aveva terminato la sua avanzata, voltandosi verso di lui, quasi per gustarsi la sua espressione.

Leonardo aveva trovato Botticelli nella sua stanza, stava sistemando le sue ultime cose, cioè valutava se dovesse portare il pennello di tasso o quello di coda di scoiattolo. “Per quale assurdo motivo vuoi venire a Roma con noi?” aveva domandato Da Vinci entrando nella stanza di Sandro. Il ragazzo aveva sollevato gli occhi,  se ne stava in panciolle sul suo letto, indossava soltanto la calzamaglia e gli stivali neri lucidi, standosene a petto nudo, era magro come un chiodo, “Non con voi” aveva ribattuto, posando i pennelli sul tavolo da lavoro, “Solo il viaggio, vado a Roma per tutt’altre questioni” aveva ribattuto, voltandosi verso Leonardo, del tutto turbato dalla sua seminudità, nonostante fosse tutt’altro che abituato a starsene in quello stato di fronte una persona. “Ti ricordavo più muscoloso, Sandro” aveva detto Lorenzo sbucando dalla porta, “Non voglio che nessuno di voi due venga” aveva strillato Leonardo decidendo di ignorare quella battuta, che aveva colorato di rosso le gote di Botticelli. “Adoro quanto tu sia deciso, Leo” aveva esclamato Lorenzo,  con un tono divertito, come se le parole dell’uomo non avessero alcuna importanza, “Ma io verrò con te” aveva aggiunto, stringendoli le braccia al petto, Leonardo s’era allontanato, “Sarebbe davvero pericoloso” aveva ripetuto con un tono quasi funereo.  “Apriti cielo, le vostre manfrine sbrigatevele altrove”  s’era lamentato Sandro, afferrando una camicia cipria dai bottoni in legno lucido; “Io verrò comunque” aveva stabilito l’artista, “Non mi riguardano le vostre facezie” aveva detto sicuro di se Botticelli, chiudendo i bottoni della camicia.

Da Vinci avrebbe volentieri ucciso entrambi i giovani, tra Sandro le cui motivazioni rimanevano mistero e Lorenzo che s’era incaponito non c’era stato verso di dissuaderli. “Cosa ci vuoi fare, sono gli artisti” aveva detto Zoroastro ridendo di lui, mentre dava dei semi al cavallo, Nico al suo fianco rideva divertito da quella battuta, “Tu cerchi di convincerli che quello che fanno è un azione suicida, ma loro lo fanno lo stesso” aveva ripreso, mantenendo un sorriso sardonico. Dopo aver passato l’intero pomeriggio ad urlarsi con quei due non era decisamente dell’umore per badare all’ironia del tombarolo. Yana era venuta da loro, ad ogni suo passo la gonna le si gonfiava di continuo, portava una borsa di traverso, “Dimmi che non vuoi venire anche tu” aveva quasi supplicato Leonardo, la ragazza aveva sollevato un sopraciglia, “Una sola vita non mi basta per sopportare un altro viaggio con lei, maestro” aveva risposto Yana, lasciandoli cadere la borsa sulle braccia, Da Vinci l’aveva aperta scoprendo che era ricolma di viveri, “Verrocchio vi manda la sua benedizione” aveva detto Yana prima di andare via. Leonardo s’era sentito così piccolo, da che aveva scoperto della taciuta visita di Filippa Demopulo, non aveva più parlato con il suo maestro. “Dovresti andare, Leo” gli aveva consigliato Zoroastro, perché per quanto Leonardo si sentisse offeso, ciò che Andrea faceva era ciò che ogni padre faceva nella speranza di proteggere il figlio. Aveva annuito e s’era diretto verso l’interno della Bottega.

Andrea era nel suo studio, faceva una cosa che Leonardo non gli vedeva da fare da anni, dipingeva alla luce d’una candela, era un quadretto piccolo, che prendeva fino al seno quello che erano i primi segni d’una figura femminile, un incarnato pallido screziato di bronzo, con capelli scuri con fili chiari. “Non aspetterete domani mattina per partire” aveva detto Verocchio, immergendo ancora il pennello nei colori che aveva sulla tavolozza, voltandosi appena verso Leonardo, anche i suoi baffi erano tinti di vernice. “Sebbene viaggiare al buio sia pericoloso, alla luce potrebbe esserlo di più” aveva risposto chiaramente Leonardo, sarebbe stato stupido negare che il suo nome non comparisse sulla lista nera di fin troppe persone, Verocchio rise, era un immagine soffusa, alla luce crepitante d’una candela. “Sii prudente” s’era raccomandato il vecchio, ben conscio di parlare ad un muro, prima di tornare alla figura morbida che rappresentava;  sul tavolo c’erano sparse delle carte, a cui Leonardo non aveva dato poi così tanta importanza, “Era molto che non dipingevi” aveva constato, sedendosi su una sedia di legno con cuscini colorati, “Forse troppo” aveva riposto l’uomo, lasciando i pennelli, era diventato stanco per dipingere di notte. Così si era accomodato accanto a Leonardo.

 “Non mi piace questa storia” disse Andrea, “C’è di mezzo il Turco” aveva detto evasivo Leonardo, cercando una mera giustificazione, “Per questo” aveva aggiunto Verrocchio,  appallottolando la pergamena da un lato della scrivania, davvero spaventato da quello; “Ragazzo mio, l’ho capito da quando tuo padre si è presentato alla mia porta che eri speciale” aveva cominciato Andrea dopo un lungo sospiro, “Avevi quegli occhietti vispi” aveva ripreso il maestro, accompagnando l’azione con ampi gesti delle mani, che fecero ridere Leonardo, gli occhi di Andrea erano stanchi, vecchi, ma ancora lucidi della meraviglia, che brillava solo nei giovincelli, “Ho capito che avrei dovuto esser sempre vigile, per impedirti di finire dei guai” aveva ripreso Verrocchio, con una risata genuina sul viso, che Leonardo aveva volentieri accordato, Andrea aveva fallito, in un modo o in un altro, Leo aveva sempre trovato il modo di finire in qualche problema, nonostante tutti gli sforzi di Andrea.

“Nonostante ormai mi sia abituato a vederti in catene da qualche parte” aveva commentato con un tono di voce basso, con le palpebre semi-chiuse, “Non posso fare altra cosa se non preoccuparmi” aveva commentato, le dita nodose si erano fermate sulle vecchie pergamene. Leonardo gli aveva messo una mano sulla spalla, avrebbe voluto rassicurarlo sul fatto che sarebbe tornato, ma sia lui sia Andrea erano ben consapevoli di quanto raramente i piani di Leonardo seguissero la via stabilità; avrebbe potuto rincuorarlo dicendoli di conoscere perfettamente l’anno della sua morte, ma il tempo ed il destino erano un fiume circolare, che cambiava sempre, un Leonardo aveva perso il libro delle Lamine, lui non avrebbe compiuto lo stesso errore. “Puoi fidarti di me?” aveva domandato alla fine guardando l’uomo che era suo padre, quello che lui almeno sentiva come tale, Verrocchio aveva annuito, “Sempre, ragazzo mio” aveva risposto quello, prima di nascondere quelle pergamene ingiallite, percorse da inchiostro rugginoso in un vecchio cassetto squassato della scrivania. Leonardo le aveva guardate appena, chiedendosi cosa ci fosse scritto, dopo il viaggio avrebbe indagato. “E ora che vada” aveva detto Da Vinci sollevandosi dalla sedia su cui si era accasciato, ricordandosi di dover ancora convincere quegli altri due di non venire, “Mi raccomando Leo, sii prudente” lo pregò il maestro, consapevole sella sua stessa illusione, Leonardo aveva chinato il capo prima di defilarsi, Si padre, aveva pensato.

Nelle stalle, Nico aveva sistemato la borsa di viveri su un cavallo dal manto scuro come il fumo d’un incednio ed il crine nero come il carboncino. “Abbiamo fatto serrare tutti i cavalli, Maestro” lo aveva rassicurato Nico, passando la mano segnata dalle lacrime di vedova, sul muso dell’animale, in un misurato gesto d’affetto. Dire che il giovane non nascondesse un risentimento sarebbe stato sciocco, il suo viso era come sempre colorato dalla semplicità, ma Leonardo scorgeva negli occhi un venato rimprovero a se stesso, probabilmente Nico si dava la colpa per non essere stato considerato nel viaggio, lui che lo aveva accompagnato fino in Valacchia. “Assicurati che Vanessa sia sempre sicura” aveva detto Leonardo; tutta Firenze sarebbe morta per proteggere Giulio, ma la sua amica? Difficilmente. Nico aveva annuito, “Certamente” aveva ripreso prima di osservare Zoroastro che si avvicinava, Leo notò continuava ad essere vestito in maniera sobria ma indossava un mantello violaceo con stelle argentate, era seguito da Botticelli con una sacca alle spalle vestito di cipria con i risvolti argentei e Lorenzo di Credi, conciato come suo solito con colori sfavillanti e qualche balza, non avevano decisamente idea di come si viaggiasse di nascosto. Sospirò affranto, cosa che aveva fatto ridere Zoro ed anche Nico.

Lorenzo si era avvicinato a lui, lo aveva baciato in maniera gentile continuando a tenere sulle labbra un sorriso, “Ma chi si occuperà ora del quadro della Madonna con il drago-serpente?” aveva chiesto il biondo, infilando una mano tra i riccioli biondi. Botticelli aveva mosso la mano disinteressato e questo aveva stupito parecchio Leonardo, non era mai capitato che Sandro mettesse qualcosa davanti la sua arte, qualsiasi cosa, compreso se stesso. Lorenzo s’era morso le labbra, “Non importa” aveva confidato poi, stringendo le sue dita a quelle di Leonardo, che sapeva avrebbe dovuto scostarle, ma non l’aveva fatto, poi aveva sollevato gli angoli della bocca in un sorriso vagamente dolce, quasi scaldato nel cuore da quell’affetto. Avrebbe probabilmente rotto lo spirito di Lorenzo e questo l’avrebbe perseguitato a vita, così come aveva sfinito l’anima di Jacopo e tutti quelli prima, solo Lucrezia era rimasta in piedi, con quegli occhi ammaliatori e rovinosi, tentatori come quelli del serpente nel giardino dell’eden, ma lui non era Adamo. “Andiamo, su su” aveva detto Zoroastro, ricordando che Leo aveva un appuntamento con una tale madonna ad una locanda davvero famosa, quindi dovevano andare, qualsiasi cosa dovessero fare gli altri due. Dovevano incontrare Aclima Lysimacus da cinque giorni da quel momento alla locanda di Vannozza Cattanei, non avrebbero impiegato tutto quel tempo per arrivare a Roma, ma era meglio fare in fretta. “Certo che deve essere davvero importante, Sandro, da rinunciare ad un quadro” aveva detto Lorenzo, mentre tirava le redini di un cavallo per condurlo fuori dalla stalla, Botticelli era già saluto sulla staffa, aveva sollevato appena lo sguardo, prima di sistemarsi sulla sella, con il viso marmoreo, senza degnarsi di rispondere, “Adorabile come sempre” commentò Leonardo accarezzando il crine del cavallo.

 

Filippa aveva le cosce strette attorno alla sella e le redine del suo cavallo così annodate ai polsi da ferirli quasi, nel terrore di perderle, sul viso, Lele poteva vedere un espressione quasi funerea. Erano stati a Firenze solamente due giorni, eppure gli era orribilmente chiaro che entrambe le sue compagne di viaggio avessero avuto un mutamento. Aclima s’era privata della smorfia altezzosa e dello sguardo autoritario che la segnava, il suo viso era cereo, perso in pensieri che non potevano essere sfiorati dagli altri. Riguardo Filippa, su quel bel volto che a Lele tanto piaceva guardare albergava una distinta confusione e stanchezza, occhiaie scure come mezzelune segnavano gli occhi neri.  Filippa era stata fuori un’intera giornata e quando era tornata pareva così provata, come se fosse scesa nell’inferno e poi tornata. Qualsiasi cosa avesse commesso durante quel giorno di silenzio, forse Lele non avrebbe mai più rivisto l’impacciato sorriso che aveva avuto da che la conosceva.

Il passo dei cavalli era veloce, la sua signora era impaziente di tornare a Roma. Per arrivare dall’Urbe a Fiorenza avevano impiegato tre giorni, viaggiando per lo più di notte, probabilmente questa volta avrebbero impiegato due giorni. Lele riconosceva quell’impazienza. Aveva accompagnato nell’ultimo ventennio la sua signora ovunque lei avesse voluto. Perciò Lele era certo di scorgere l’urgenza, quando sorgeva sul viso della sua signora, come quando di ritorno dall’ultimo viaggio avevano incontrato quello strano uomo dagli occhi contornati di nero. Lui ed Aclima s’erano parlati, serrati e stretti, da cui Lele non aveva potuto scorgere una parola. Aveva temuto fosse un pericolo, aveva tenuto la mano guantata sull’elsa della spada pronta ad estrarla, ma non era servito, separatosi, la sua signora aveva gridato che era impellente tornare a casa. E Lele aveva annuito, perché il suo compito era seguirla e proteggerla.  Era stato parte dei suoi accordi lavorativi, la richiesta fondamentale che il signor Antonio aveva fatto, il giorno che s’erano incontrati la prima volta. Lele era sceso dagli Appennini ed aveva attraversato lo stato pontificio fino alla marcia urbe, lì aveva fatto ciò che ogni buon mercenario fa, aveva offerto la sua spada e la sua arte a chiunque avesse monete sonanti da offrire. E poi era arrivato messer Antonio, era un uomo di poco più vecchio di lui, con i capelli biondi e vestito in maniera impeccabile, aveva  dato una moneta d’oro a Lele e l’aveva assunto, per quanto tempo s’era trovato a chiedere lui, “Finché non ne verrò a noia” aveva risposto l’uomo, tenendo sul viso un sorriso enigmatico. Alla sua tenuta, non poi così magnifica, dispetto quanto avesse immaginato, Antonio aveva fatto sfoggio di sua moglie e se Lele s’era aspettato un gioiellino dall’aspetto incantevole e tremendamente fragile, aveva fatto mali i conti. Aclima, era quasi coetanea di suo marito, ma aveva un aspetto  rigido, con il viso severo, aveva lunghi capelli scuri come la seta nera ed occhi cattivi come quelli di un silvano, “Devi assicurarti che lei sia sempre al sicuro” aveva detto Antonio. Lele aveva pensato fossero fortunati, erano quasi coetanei – aveva visto di giovani ragazzine di undici anni sposare uomini della sua età – e nel vederli s’era reso conto non fossero due estranei costretti a convogliare a nozze, erano come uniti da un sentimento pericolosamente simile all’amore. Aveva pensato fossero stati innamorati e le famiglie avessero acconsentito, per un fortuito caso, a fargli sposare; si era sbagliato, Antonio e la madonna erano stati due sconosciuti che si erano trovati. Non gli aveva mai visti  scambiarsi affettuosità, se non con il figlio che avevano avuto. Poi a Lele era stato ovvio che Aclima non aveva bisogno che qualcuno impugnasse un arma per lei, ma che qualcuno gliene desse una. E Lele le aveva dato una spada, quando aveva capito era ciò che la madonna anelava. “Nessuno pretende che una signora sappia combattere” aveva borbottato,  quando si era ritrovato nel cortile con la sua madonna davanti, acconciata come calzone e camicia, chiusa sotto una parziale armatura grigio scuro, quella aveva roteato gli occhi, nerissimi come l’onice, “Io si” aveva risposto prendendo la spada dalla cintola ed impugnandola malamente. Era stato un caso esasperante all’inizio, ma ben presto, Lele aveva scoperto nel sangue di Aclima l’arte della battaglia.

Erano stati costretti a fermarsi per dare pace ai cavalli e rinfrescarsi. La madonna aveva usato come scusa il doversi cambiare le bende di sangue di Filippa, frase alla quale la ragazza aveva annuito, con le gote colorate di rosso. Così si erano apprestati ad un fiumiciattolo, lo stesso dove qualche giorno prima avevano lasciato che le correnti si portassero via il corpi dei briganti. Aclima s’era sfilata gli stivali di cuoio svuotandoli di alcuni sassolini e fili d’erba che si erano infilati all’interno, sedendosi sulla terra, poi si slacciò il mantello scuro in modo che s’afflosciasse sull’erba, poi aveva recuperato un capello dalla valigia e l’aveva messo in testa, nascondendo la treccia sotto di lui. Da dove veniva lui, una donna come Alcuma non sarebbe mai stata capita, sarebbe stata considerata una strega e Lele si rabbuiò obbligandosi a privarsi di quei nefasti pensieri. Lontana, come un eco, nella sua memoria s’era aperto il viso d’una donzelletta, con i capelli mossi come le onde del mare, d’un castano scuro, occhi grandi e chiari come la rugiada ed un sorriso così dolce d’esser miele.

Filippa aveva sollevato le gambe, sfilandosi sia le pianelle che le calze blu, rimanendo con le gambe nude all’aria invernale di gennaio e Lele pensò fosse ancora più strano, visto fosse nata in terre molto più calde.  Era entrata nel fiume, tenendo sollevato l’orlo così da bagnarsi i piedi fino alle caviglie, si mosse un po’, come presa dai brividi di freddo. A Lele ricordò sua moglie, Giuliana quando si tuffava nei laghi nuda come la terra, con i riccioli sparsi nell’acqua sotto un sole freddo, uno spettacolo così sconvolgente e perfetto che nessun artista avrebbe mai potuto intrappolare. L’essere così libera, aveva condannato la sua bella Giuliana. “Non ci pensare, buon Michele” aveva detto Aclima stiracchiando le ossa, Lele guardò la sua signora, ma quella non aveva dato cenno di voler continuare quella frase, proseguendo ad osservare il panorama agreste che si schiudeva davanti a loro in quel pacato meriggio. Filippa era uscita dal fiumiciattolo, non era riuscita a salvare l’orlo della gonna dall’acqua e questo gocciolava,  aveva le gambe zuppe filo al ginocchio e gocciole rosse le erano scivolate sulle gambe, ma lei l’aveva pulito, infilando nella borsa altre pezze e gettando, sistemando in una sacca che teneva all’interno della bisaccia delle bende bagnate, che aveva lavato. Si era asciugata le gambe ed aveva di nuovo indossato le calze.

Aclima aveva sbuffato ancora una volta, poi si era infilata nuovamente gli stivali, s’era sollevata dalla posizione seduta ed aveva cominciato a dirigersi verso Dalila, non curandosi del mantello che era rimasto sull’erba, che Lele s’era premurato di raccogliere. La signora aveva accarezzato il manto della puledra sul collo, con un gesto delicato, con il palmo scoperto senza esitazione, senza i guanti. Che la sua signora fosse diversa da ogni matrona che Lele dopo vent’anni era chiaro come l’acqua cristallina. Sembrava sempre curarsi massimamente di ciò che teneva. Non era una persona affettuosa e neanche brava a dissimulare. Quando le matrone si incontravano nei giardini,  la sua signora restava rigida come una stecca, accomodata sui cuscini a bere infusi senza accennare un minimo di gioia, se non in compagnia di qualche particolare matrona che garbava un poco, ma dopo vent’anni Lele aveva visto quanto fosse tenace a prendersi cura delle cose che amava; come in quel momento che accarezzava ritmicamente il collo della sua cavalla. Quando suo figlio a nove anni era stato colto da una febbre del diavolo,  aveva passato giorni interi con lui, cercando di raffreddarlo, di farlo mangiare, pregare per lui, tenendogli sempre la mano. Aclima Lysimacus poteva essere tante cose – ed alcune di queste non belle – ma certamente nessuno in tutta l’Urbe avrebbe potuto dire non fosse una buona madre.  Era stato Messer Antonio a dirglielo una volta, esagerato con il vinello, gli aveva detto che una donna così era fatta per amare e che non avrebbe saputo fare altro, però le era stato insegnato a non farlo. Nello spirito della sua signora, c’era qualcosa di spezzato.

“Sai dove siamo?” aveva domandato Aclima con un tono di voce basso, “Conosco chi ti direbbe, che siamo tra Babilonia e Gerusalemme” sussurrò, guardando prima con gli occhi silvani la direzione che s’erano lasciati alle spalle, poi guardò ciò che gli attendeva, la strada per l’Urbe. “Più Sodoma e Gomorra” rispose con scanzonata onestà Lele, pensando alle due città, la fama di peccatrice di Firenze, null’altro che una smaliziata diceria per coprire la libertà, che le altre città italiche non erano in grado di comprendere, ne sarebbero mai state in grado di anelare. E la verità che nascondeva Roma, la pia città, che sotto il velo d’un candore nascondeva il marcio. La sua signora rise, divertita, “E che Dio le punisca entrambe” aveva aggiunto, continuando a tenere prigioniere tra le labbra il riso, l’impazienza sembrava essersi sciolta, così come la melanconia o la preoccupazione, la sua signora sembrava animata d’improvviso dal buon umore, “Ma io non so cosa Firenze sia”aveva confidato, con voce meditabonda la donna, “Se sia davvero l’ultima bolgia dell’inferno, se sia il giardino dell’eden o  Semirare l’altra testa del mondo” aveva aggiunto, guardando con gli occhi d’onice l’indistinto confine di mura che s’andavano a perdere all’orizzonte. Poi voltò lo sguardo a Roma che gli attendeva, “Ma so cosa Roma è” aveva aggiunto, il suo tono era aspro come il ferro, rugginoso e venefico, “Roma è Enoch” aveva aggiunto angustiata. Lele aveva annuito, “Io non sono molto esperto …” aveva risposto con un leggero imbarazzo, lui era un mercenario, alla catechesi nel suo paese i frati avevano insegnato ai bambini ciò che il buon Gesù diceva, i dieci comandamenti e ciò che rendeva la gente un buon cristiano. Cosa che faceva sempre ridere oscenamente Giuliana, così da rimediarci anche qualche schiaffo da quella vecchia ciabatta di suor Maddalena. Provò un moto di rabbia per quella suora, rabbia nera, da desiderare di nuovo di rendere il suo viso violaceo, come i lilla che Giuliana intrecciava nei suoi canestri; ricordò la sensazione della pelle di suor Maddalena, delle unghia scheggiate che graffiavano le sue mani nel tentativo di liberarsi, gli occhi spauriti e la bocca spalancata, incapace di urlare e prender l’aria. Aveva soffocato una suora Lele, vent’anni fa, e non ne provava pentimento. San Pietro aveva chiuso i suoi cancelli per lui, così lui che portava il nome dell’arcangelo era certo avrebbe scontato la sua vita all’inferno, con Giuliana.

La signora aveva chiamato a gran voce Filippa, così la fanciulla era arrivata, indossava una veste marrone come le castagne, si sollevava d’un poco ad ogni passo, con il contributo d’un lieve vento, aveva stretto al petto un’altra famiglia, morbida  e bianca, spezzando così il vestiario. Il viso era ancora assorto, come se il bagno nel fiume non avesse lavato le sue inquietudine, “Cos’è Enoch?” aveva chiesto la madonna, togliendo dalle dita di Lele il suo mantello. Filippa mostrò un viso confuso, colpita da quella stessa domanda, “La città che Caino fondò, nel suo errabondare per la terra” rispose, infilando un ricciolo dietro l’orecchio.  Lele aveva pensato sempre la ragazza somigliasse a Giuliana, ma era l’aspetto, i ricci così scuri, annodati, come il nido d’una rondine, Filippa era candida, piccola e timorosa, spaventata forse della sua ombra, devota alla sua fede e così mite, Giuliana era fuoco e fiamma, sfacciata, leziosa ed indecente. Indemoniata avrebbe detto padre Geremia, se fosse stato là, ma non era lì, era da qualche parte in un bosco, null’altro che un mucchietto d’ossa. “Roma è come Enoch” aveva ripetuto la signora, annuendo, “Romolo uccise Remo per fondare l’Urbe, secondo i pagani” aveva ripreso la madonna, “Una storia assai più interessante che parlare di pescatori e pastori” aveva aggiunto sprezzante, “Se si vuol risalir ancora di più, Roma discende da Enea, che uccise Turno per riavere una patria perduta la sua” aveva commentato quasi divertita, “Roma è nata dal sangue, questo non cambia però” aveva ripetuto tenendo un tono irrisorio, “Come Enoch” aveva concordato Lele. Le fondamenta di Enoch erano state il sangue di Abele che impregnava le mani di Caino e Roma era stata costruita da quelle di Romolo,  macchiate del sangue di Remo. Aclima sorrise, un perverso sorriso che sapeva di resa, “E nel sangue finirà” aveva commentato poi, tutta la contentezza era scomparsa, era rimasto solo un tono lugubre da veglia. “A qualcuno piace pensare che quella Roma sia già morta, nel sangue di Pietro” aveva aggiunto, tenendo un tono funereo, i suoi occhi neri guardarono altrove, dove agli uomini non era concesso, “Ma sbagliano. Quella Roma, esiste ancora” aveva spiegato, “E temo cosa accadrà quando il veleno nel sangue del fratello tradito avrà roso le fondamenta dell’Urbe così a fondo, da farla sprofondare in un abisso senza ritorno e condannarci tutti” aveva detto.  Il respiro di Filippa era spezzato e questo fu ciò che lasciò Lele più di stucco, Filippa che era così devota a Dio, così cultrice di quella retta via in cui credeva, che le faceva mordere le labbra alla santa messa, così ortodossa, tacque, non disse ciò che ogni volta che negli ultimi cinque anni le aveva sentito ripetere ad ogni disgrazia, che erano le prove che Dio ci assegnava, tacque, consapevole di ciò che Lele aveva sempre saputo, quando Roma sarebbe caduta, sarebbero crollati tutti. La domanda era un’altra, quale sangue la sua signora temeva? E quanto imminente era?

“Andiamo” aveva detto poi la madonna, richiamandolo dai nefasti pensieri, “Mi sono stufata di questo abbigliamento, del viaggiare e dell’orrida identità di Aclima Lysimacus” aveva ringhiato, legando il mantello alla gola, quasi schifata da quella cosa. Sul viso s’era dipinta ancora l’espressione di stizzita altezzosità che l’aveva sempre caratterizzata.

 

 

 

Informazioni utili, se così possono essere chiamate:

Il piano temporale:  Alfonso è in ordine cronologico il primo, con il pranzo con la sorella, poi c’è Iil viaggio di Lele, Aclima e Filippa che è preso nel pomeriggio stesso, entrambi sono il giorno dopo il capitolo precedente;  Leonardo, Giuliano e Girolamo invece avvengono allo stesso momento, ora più ora meno, diciamo Riario e Della Rovere sulla sera e Leonardo in piena notte (si Verrocchio dipinge di notte),  seguito poi da Vanessa che chiude il capitolo con il pranzo, un giorno dopo rispetto gli altri.

 

Allora la prima cosa di cui bisogna parlare è in assoluto è che questo capitolo vi è un forte fattore religioso, abbiamo finalmente intrapreso l’argomento centrale di questa storia: Caino. Da Vinci’s Demons ha il suo Caino ed Alessandro De La Rovere, ha la sua Enoch ed è Roma. E tutto è collegato in maniera particolare. Aclima, i Demopulos, i Ricci, Leonardo etc … sono collegati tutti dalla colpa di Caino. Il Cardine centrale è Caino, ma anche la Famiglia. Quella sulla quale Girolamo ammette di poter passare sopra, ma a cui tenere. I Ricci, i De Medici ed De La Rovere, sono famiglie con i propri demoni e le proprie salvezze. Si quindi è tutto un legame di famiglia.

Parlando di famiglia, abbiamo scoperto qualcosa di Lele, che era spostato, che sua moglie di chiamava Giuliana ed era una persona particolare. Avremo ancora modo di parlare di lei. Il motivo per cui ho scelto Lele come voce narrante? Aclima è ancora troppo presto per poter parlare con la sua mente ed invece volevo ridare respiro a Filippa, perché la sua parte conterrà anche l’incontro con Leonardo e, soprattutto, Nico, avuto appena svegliata dalla trance. E be il suo saluto con Sandro.

Riguardo a Sandro, è andato a Roma con Leonardo, senza però aver dato spiegazioni, rinunciando anche alla sua arte. Il motivo è intuibile per i più, non per Leonardo, ma non perché non ci arrivi, ma semplicemente perché non gli interessi minimamente. Lui voleva solo avere meno impicci, con Sandro, e tenere al sicuro Lorenzo. Ma non ha fatto i conti su quanto possano essere teste calde gli artisti. Come dice il buon Zo, che prima o poi gli ucciderà tutti haha.

Riguardo ad Andrea che dipinge in piena notte, sta macchinando qualcosa anche lui. E’ una particina, fatta solo per essere commovente, ma vedrete :) Lui e Leonardo sono comunque la vera famiglia presente nella storia, senza Se e senza Ma …

Nico è rimasto a Firenze, con Vanessa, che come vedrete a bisogno di una mano, visto che un pranzo se trasformato in un omicidio. L’avevo detto che avrei continuato a scrivere di morti ammazzati, e l’ho fatto. Finalmente abbiamo scoperto l’identità della ragazzina incinta, Caterina Sforza, che come sapevamo già non era ad Imola, ma a complottare omicidi a Firenze. Ed Eliseo l’ha detto, tanti piccoli Riario in giro prossimamente!

La parte di Girolamo e Giuliano, serve proprio per mostrare quanto poco ci si possa conoscere. Girolamo dice: Giuliano non sa cos’è l’amore ed il brano dopo Giuliano afferma d’essere innamorato.  Poi sai per rendere più Pathos, il fatto che i due cugini sappiano di essere in guerra e siano costretti fuori da Roma, mentre tutti i simpatici servi sono ad operare a Roma per un garzone del macellaio. Ma come abbiamo visto i Demopulos hanno molti e molti segreti.

Riguardo Alfonso ed Eleonora, non allungheranno la trama, hanno una particina, la svolgeranno e poi continueranno con i loro affari. Era giusto per far vedere che mentre Ippolita si intrattiene con Lorenzo e con Caterina, anche suo marito non si sta girando i pollici.

Come al solito abbiamo un frammento dei soliti fratelli, la volta scorsa era la sorella con il più piccolo, ora è con il mediano.

Non dico altro, perché credo non ci sia altro da dire. Insomma tutto parla chiaramente. Aclima lo dice, sono alle soglie di una guerra, per il sangue. Il problema è con tutte questa fantastiche famiglie in guerra tra loro, di chi quale sangue si parla?

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Capitolo 6
*** Caino si allontanò dal Signore ***


Allora, chiedo scusa per il ritardo, ma trasferimenti ed università è stata dura. Vorrei anche ringraziare chi legge, preferisce, segue e ricorda; ovviamente anche chi recensisce, (Grazie Chemical Lady :D).
Ci tengo a precisare che non essendo dal mio computer, non avendo il nvu e compagnia bella, ho dovuto scrivere l’HTML a mano – e non oso immaginare il disastro combinato – quindi ho lasciato perdere le mie solite note finali.
Questo capitolo è di passaggio, davvero, vi ho praticamente fatto aspettare mesi per un non nulla, cercherò di rimediare con il prossimo, che spero possa arrivare presto
Riguardo al Tempo in cui si svolgono i fatti: Vanessa (il pomeriggio) – Il Visionario, Zita e Filippa(La notte) – Lele (il mattino dopo) – Zoroastro, Leonardo e la Muta [In quest’ordine](Il pomeriggio).















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Atto VI: Caino si allontanò dal Signore




<H3 align="center"><FONT size=4> <FONT face= “Cambria”> Atto VI: <i> Caino si allontanò dal Signore </i></FONT></FONT></H3>





(xx-01-1479)

Indossava un mantello nero, striato da nastri di fuoco, arrivava alle sue caviglie ed ondeggiava ad ogni passo, strofinando l’orlo agli stivali di cuoio e scoprendo una volta si, una volta no, l’abbigliamento scuro. Ma il suo viso era scoperto alla luce della luna, non timoroso d’esser notato, un uomo che camminava al buio di una cittadella. La stella di David d’oro lucente scintillava proprio sotto la fibbia di ferro, con la forgiatura d’una testa di volpe. Forse qualcuno avrebbe potuto pensare fosse imprudente, girare con una spilla d’oro, da solo, di notte, ma lui non temeva. Conosceva il suo avvenire. Si muoveva seguendo un determinato percorso, che conosceva già, anche se mai l’aveva visto. E come aveva a lungo profetizzato era comparso l’uomo. Indossava un mantello di lana verde, così scuro che alla poca luce d’un occhio disattento sarebbe risultato nero, ma lui vedeva bene. Gli dava le spalle, ma anche se l’avesse guardato inviso avrebbe potuto scorgere i tratti del viso, sarebbe stato come guardare in una voragine nera, l’uomo nascondeva il capo sotto un cappuccio ed il volto dietro un velo scuro. Ma lui conosceva i suoi lineamenti, delicati, androgini, percorsi da linee pallidi, d’una fanciullezza non lineare, con occhi verdi come olive e capelli rasati. Un viso comunque non celebre d’esser notato.

Lo spettro svoltò proprio dove, da lì a poco, avrebbe svoltato a lui. E così fu. Si ritrovarono a camminare insieme per i sanpietrini d’una via angustia assieme; percepiva sulla sua gamba la spada bastarda – che non brandiva mai e che sua moglie aveva insistito prendesse – premere sulla gamba e pesare sul fianco. Aumentò il passo e con ampie falacate superò lo spettro verde, lanciandoli nulla più che uno sguardo di sfuggita, questi volto il capo verso di lui, nascosto dietro un sottile velo di raso nero non scorse nulla con i suoi occhi mortali, ma intravide livida paura con i suoi altri occhi. Sorrise accomodante e continuò per la sua strada. Ad un nemico non si dovevano mai concedere le spalle, ma ad un uomo morto si poteva anche regalare un sorriso.

Camminò per altro tempo, poi si posò allo stipite d’una bottega chiusa e guardò lo spettro, “Salve” disse gentile, chinandosi un attimo in una riverenza, il saluto colse lo sconosciuto impreparato, “Sono figlio del cielo stellato” aggiunse, “E tu?” aveva domandato retorico, “Non mi dici di esser le corna dell’increato?” aveva domandato con voce tagliante, estraendo dal fodero la sua lama, piatta e lucente, rifulgeva alla luce della luna. L’uomo non ebbe la cortesia di presentarsi, estraendo a sua volta una lama, che non scintillava affatto, ma non per questo sarebbe stata meno affilata, era di ferro come la sua, ma intrisa d’inchiostro scuro. “Che maleducazione” aveva commentato, rimirando la sua lama, soppesandola tenendo un sorriso sornione sul viso, “Vorrei dire sia stato un piacere, ma non è così” aveva detto, comunque tenendo un tono gentile e rispettoso, come suo padre gli aveva insegnato. “Addio” aveva detto tremendamente sardonico. Poi le cose erano andate esattamente come aveva suonato.

Il Nemico dell’Uomo s’era fatto pronto a colpirlo, ma una lama di ferro lucide s’era fatta strada nelle sue carni, fuoriuscendo dalla sua gola e stracciando il raso. Lo spettro s’era afflosciato, perdendo quell’aria mistica e cadendo come tutti gli uomini facevano, sgraziatamente e ripidamente. Dove era stato lo spettro, c’era un uomo dal fisico slanciato, indossava anche lui un mantello, pregiato, con un collo d’ermellino, con ghirigori e ben curato, aveva guanti borchiati in cui stringeva un elsa finemente decorata, tremendamente scomoda ma d’effetto, non era un Figlio di Mitra, poiché nascondeva il suo viso dietro una maschera da teatro romano ed il capo sotto un cappuccio, tradendo però dal suo abbigliamento la sua casta, ma non era neanche un Nemico degli Uomini, non solo perché lo aveva aiutato, ma per il suo atteggiamento ed il colore argenteo del vestito. Al suo fianco spiccava una figurina, quella era la figlia di Mitra. “Neanche mi chiedo come tu faccia a saperlo” aveva detto lei, con voce sottile, come il sibilo d’una freccia, “La domanda come facevi tu” rise lui con voce divertita. Lei aveva mosso il capo, ondeggiando i capelli lunghi e scuri come un mantello, d’un castano anonimo, aveva una scriminatura nel centro della fronte ed ai lati del viso, due fila di treccioline partivano dalle tempie, riunendosi sulla nuca. Aveva un viso pallido ed ossuto, piuttosto giovane, troppo per poter mettere naso in quelle facende, le labra rosate erano state truccate di nero in una maniera singolare, in modo che richiamassero i punti del cucito e fili spessi le bloccassero.

L’uomo con la maschera s’era voltato verso di lei, la superava in altezza di almeno due palmi, “Presumo da questo punto, tu voglia andare da sola” aveva detto con voce greve, “Non sarò sola” aveva risposto lei con voce sicura, ammiccando con il capo a lui. Lui avvertì il compagno non sentirsi sicuro affatto, la ragazza sorrise in maniera rassicurante, prima di mettersi sulle punte delle sue babbucce di cervo e baciare le labbra sigillate della maschera. Poi s’era diretta verso di lui, ignorando nettamente l’accompagnatore. “Allora dimmi, amica mia, come lo sapevi?” indagò lui malizioso, allungandole il braccio, “Non eri tu ciò che conosceva ogni risposta?” aveva risposto lei, con voce calma priva di cattiveria, prima di voltarsi ancora verso l’accompagnatore che s’era lasciato alle spalle, gli mandò un bacio con una mano guantata, “Domani mattina, amore mio, quando vi sveglierete, sarò nel letto accanto a voi” lo rassicurò, sorridendo in maniera posata e gentile. La gentilezza delle persone, lui lo sapeva bene, era una raffinata maschera ben cucita, che raramente scopriva l’animo, ma quella ragazza era davvero fine e di buon cuore, come poche persone fossero mai esistite e lui trovava così bizzarro che fosse venuta al mondo dai lombi d’un uomo grezzo, privo di morale, gentilezza e finezza.

“T’ama molto, amica mia” aveva commentato lui, “C’è voluto tempo, ma si mi ama” aveva confidato con voce minuta, quasi imbarazzata da quella confessione, che forse lei considerava intima. Proseguirono lungo la strada assieme, come compagni, alla vista degli estranei, sembravano forse due giovani e libertini amanti, che osannavano il loro legame, passeggiando al buio stretti in un braccetto. La madonna aveva occhi nocciola, grandi, nascosti sotto ciglia nere e sopra gote rosate, velate d’imbarazzo. Erano figli di Mitra entrambi, avevano ereditato il ruolo da chi era venuto prima di loro, null’altro che burattini di giostrai da tempo passati, sebbene nel loro culto nulla poteva essere definita passata. Suo padre era La Volpa e lui l’omaggiava con il suo fermaglio con la testa di tale animale, che suo padre indossava ad ogni consiglio, lei era la nipote de La Persona, una maschera del teatro romano, che la donna aveva fatto indossare al marito. Loro invece non erano che il Visionario e la Muta, per questo lei aveva dipinto le sue labbra cucite.

“Tuo marito appoggia queste tue uscite?” aveva indagato lui, le aveva sollevato un sopraciglio spesso e scuro, quasi confusa da quella domanda, poi aveva sorriso, “Mio marito appoggia me. Lui ama e sostiene la famiglia ed io ne sono parte” aveva spiegato, con un sorriso nostalgico sul viso. “Se sapesse dei Figli di Mitra, però no, non mi appoggerebbe” aveva spiegato con voce distaccata. “Ci consegnerebbe tutti a sua santità” aveva commentato con voce preoccupata, “E quell’uomo è un diavolo” aveva confidato, con voce sottile, quasi spaventato. Il Visionario rise con voce allegra, “Conosco sua eccellenza, da molto prima di te” aveva confidato, “Ma non così bene” aveva replicato lei piccata, “Allora certe cose sfuggono anche alla Muta” aveva risposto lui profondamente sardonico, “Io conosco sua santità, tu conosci un abile illusionista, chiedi al Turco questa notte” aveva risposto lui, accompagnando le sue parole ad un sorriso cattivo, che aveva indispettito la ragazza. “In realtà io li conosco entrambi” aveva risposto lui con un sorriso sardonico sul viso, lei lo aveva seccato, “È questa tua conoscenza ha portato il Conte Riario a rivolgersi a te?” aveva domandato lei impudente, non perdendo però sul viso il candore, lui sollevò gli angoli delle labbra in un ghigno divertito, “Tranquilla, non ti angustiare, ciò che Girolamo cercava da me, era una rinfrescata alla sua memoria ed una lavata alla sua coscienza” aveva raccontato, chiedendosi se dovesse o meno raccontare. “Il conte è perseguitato da una Colpa, ma ne ha così tante sulle spalle da non sapere più quale” aveva spiegato, “Così gli ho detto di andare dal suo nemico” aveva aggiunto, “Troverà lì, il tormentato conte la sua espiazione?” aveva domandato incuriosità la muta, sfiorandosi una ciocca di capelli neri, “No. Ma potrebbe condurlo ad essa” aveva risposto lui, “Tu, che tutto sai, hai dubbi” bisbigliò lei confusa, perché solitamente il Visionario non sbagliava mai. “Nessuno può sapere tutto, per lo più quando si tratta di uomini straordinari” aveva risposto lui tranquillo, ma sapeva più di quanto aveva detto, Leonardo era la domanda e la risposta, aveva detto a Riario, la risposta al male di cui era inconsapevole e la domanda che tutti aspettavano qualcuno ponesse, la domanda che solo una persona aveva posto, tale Caterina e che lui avrebbe voluto ascoltare e mai aveva potuto.

Caterina era andata da suo padre, tornata dal nuovo mondo ed aveva chiesto un nome, perché lei credeva nella legge del contrappasso, che tutto fosse un equilibrio, se la Notte gli aveva traditi, il Giorno sapeva qualcuno aveva tradito i loro nemici. Suo padre aveva chiesto a lui di produrgli quel nome e quando l’avevano saputo, i loro occhi erano luccicati di qualcosa. Come a la Volpe, anche a il Visionario, piaceva dire che il Giorno era venuta ed aveva chiesto il nome ed un libro ed in cambio aveva costruito una scrivania , ma era una menzogna, lei aveva chiesto un nome e suo padre gli aveva dato in virtù d’una lunga amicizia, la scrivania Caterina l’aveva già costruita tempo addietro in promemoria d’un futuro debito ed il libro era stato il saldo, ma il Giorno non lo voleva, non all’inizio. Era un libro vecchio, che suo padre aveva comprato da una vecchia strega prima che la curia la bruciasse al rogo. Il libro, di cui diceva non ricordare il nome – menzogna, non l’aveva mai saputo – era stata la risposta alla domanda che Leonardo avrebbe posto. Il Visionario si chiedeva perché suo padre avesse mentito al Turco ed il resto della confraternità e perché avesse chiesto a lui di perpetuare quella menzogna e soprattutto l’omissione. E già, pensò, l’omissione, suo padre non aveva mai detto nulla a nessuno ma Caterina era tornata, portando una candela, una luce nell’oscurità aveva detto con un sorriso allegro, poi aveva parlato con lui – non a suo padre! A lui! – “Quando sarà il momento lo saprai” ed era stato così. Quando Riario era venuto a parlare del Libro delle Lamine e della prima chiave, lui aveva saputo che a lui sarebbe toccata la candela. Girolamo e Leonardo erano speculari ed il destino gli avrebbe messi davanti gli stessi bivi, sarebbero morti giovani entrambi? O vecchi? O l’uono avrebbe avuto l’una sorte e l’altro l’altra? E chi avrebbe avuto cosa? Era così frustrante per lui avere tanti dubbi.

“Anche io ho un dubbio, Eliseo” aveva detto lei, chiamandolo per la prima volta con il suo nome, svegliandolo dai suoi tormenti, “Perché il Giorno, dopo il tradimento de la Notte, non si è rivolta al Turco o un altro fratello, recuperato il Libro delle Lamine. Perché è fuggita via portandolo con se?” aveva chiesto d’un fiato, “Perché tradire così tanto la nostra fiducia, anche quella di tuo padre, la Volpe?” aggiunse. Il Visionario alzò le spalle, “Per la legge dell’equilibrio” disse solamente elusivo; perché non si fidava, gli aveva confidato suo padre in punto di morte, non si fidava più di nessuno, neanche di me, aveva aggiunto, ma alla fine Caterina l’aveva detto, quando aveva portato la candela dove era il libro ed aveva confidato a suo padre la sua conoscenza e suo padre se l’era portata nella tomba. Ma neanche quella era la vera verità, era solo la versione che la Volpe aveva preferito condividere con lui, perché in quel momento suo padre non s’era fidato di lui come figlio, ma come fratello e suo padre, alle spalle del Turco, s’era macchiato della colpa dell’omissione, assieme a Caterina ed altri. Forse lui stesso ora, era parte di quel culto di figli ormai privi della fiducia, ormai sconosciuti sotto una volta nera senza stelle. “Giovanna, mi rendo conto di non averti mai fatto le condoglianze per la morte di tuo padre” aveva detto, forse troppo freddo, “Non farmele” aveva detto lei, tradendo cattiveria, “Ucciso da un figlio di Mitra e da un nemico dell’uomo, compagni di battaglie” aveva detto quasi esasperato, “È giustiziato senza processo” aveva detto con amarezza, “Mio padre non era uno di noi e non lo sarebbe mai potuto essere, secondo mio nonno” aveva confidato. Un Ma aveva aleggiato nell’aria, ma era comunque mio padre, avrebbe dovuto dire la Muta, ma non lo disse, poiché era superfluo.

Avevano lasciato la città alle spalle da almeno un’ora di camminata. Si erano avvicinati ad un’ormai cisterna d’acqua romana in disuso. Era scavata nel peperino ed aveva un’altazza pari ad una persona con un’altra sulle spalle, altrettanto larga, che si infilava in un corridoio buio, dalla profondità non chiara. L’ingresso del Mitreo, “Un giorno Leonardo Da Vinci dovrebbe partecipare” aveva commentato Giovanna, sollevando la gonna porpora scura, mostrando ancora le babbucce di cerbiatto, “Vorrei conoscerlo, la mente più brillante da Archimede ad oggi” aveva confidato, “Se non si conta il Giorno, certamente” aveva detto posata, addentrandosi nella discesa di terra, contornato da pareti con intonaco di signo, sparendo poi nel buio pesto e lui la seguì. Giovana si fermò d’improvviso e lui urtò la sua schiena, “Eliseo” bisbigliò, “Si?” rispose lui, “Quale era il nome?” chiese, “Il nome che il giorno volle?” aveva rimarcato, “Di chi avrebbe tradito i Nemici degli Uomini” aveva risposto lui, lei si voltò, era poco più che un contorno pallido nel buio, “Quale era il nome?”, “Demopulos”.




Tutto ciò che Filippa fece dopo esser smontata dalla palafrena fu rinchiudersi nella sua stanzetta negli alloggi della servitù. Profondamente confusa e sconvolta da quel singolo viaggio, lei che aveva emigrato tanto. Si stese per terra, tirando fuori dalla bisaccia il panno con cui aveva stretto la sua croce ed aveva allungato il mano verso il pavimento, sotto il letto, per muovere la mattonella di coccio per poter risistemare le cose apposto, perché tornasse tutto come doveva essere. Si sistemò con la schiena per terra, con gli occhi rivolti al soffitto e strinse la croce, ora resa nuda dal panno, un legno rovinato, con un dipinto d’un cristo ormai sbiadito. Era stata sua madre a tendergliela, con i riccioli scuri nascosti sotto un velo nero del lutto. Sentì le lacrime pizzicargli sugli occhi, stritolando le dita sul legno quasi a spezzarlo. “Abbi misericordia di noi, signore, abbi misericordia di noi; mancando di ogni discolpa, questa istanza a te Sovrano noi peccatori porgiamo: abbi misericordia di noi …” e Filippa si rese conto le parole le furono nulle nella gola, come se non le ricordasse più, nonostante le avesse ripetuto sempre ogni sera da quando era bambina. Si impose di concertarsi, strinse con più forza la croce e ricominciò: “Abbi misericordia di noi … noi siamo le corna dell’increato …” si interruppé, una volta resasi conto delle sue parole, lasciò la croce e con le dita si chiuse la bocca. “No! No!” strillò, “Io sono una serva di Dio” imprecò, sollevandosi dalla posizione accucciata.

S’alzò, lasciando la croce sul letto. Slacciò la manta e si tolse il vestito, rimanendo con nulla in più dell’intimo, prima di indossare abiti più morbidi e puliti. Poi uscì dalla sua stanza, senza una particolare meta. Improvvisamente tutta la stanchezza che s’era accumulata sui muscoli s’era come sciolta, dal terrore. Si sentiva persa, ora che non riusciva a rinchiudersi neanche nelle mani di Dio, le uniche che erano sempre state disposte a sorreggerla. S’era posata con il busto ad una parete di mattoni, una di quelle che negli ultimi cinque anni aveva visto così tante volte, da forse non averla mai notata veramente. Chiuse gli occhi, per prendere un respiro, uno solo, ed invece s’erano frapposti come dipinti vividi ed atroci, sulle sue palpebre, il viso della donna che s’era portata via suo padre, egli stesso nelle ombre, suo fratello illuminato da una candela pallida, Sforza, Machiavelli, Borgia ed il mosaico di Mitra. Si colpì il viso con il palmo, strizzando le palpebre, desiderosa di cancellar via tutto.

S’era quasi strappata i riccioli scuri, quasi martoriata dal desiderio di placare quei lampi nella sua mente, ma poi aveva pensato ad Alessandro, che in quei capelli c’aveva infilato le dita, ancora macchiate della vernice del quadro di Lucrezia, di Lippi, nella tenuta de i De Medici. Quando s’era svegliata dalla sua odissea onirica, aveva trovato Da Vinci ad attenderla, con un sorriso così candido, da aver quasi fatto spezzare il fiato nella gola di Filippa ed averle quasi fatto dimenticare fosse un diavolo sotto mentite spoglie. E poi s’era ricordata che anche lei lo era, suo padre e suo fratello, tutti maledetti. Ed aveva cominciato ad urlare, con così tanta forza da credere che la sua gola si sarebbe spaccata ed a quel punto che erano accorsi tutti quegli sconosciuti.

Filippa era stata zitta solo, quando Leonardo l’aveva stretta con così tanta forza da farle mancare il fiato, l’aveva fatta respirare in una fiasca di pelle di pecora e fatto fare respiri calmi e lunghi. Era tutto un tremore lei e Da Vinci aveva avuto il gusto di non farle domande sul suo sogno, anche se fosse bene a conoscenza di che natura fosse stata.Filippa non aveva aperto bocca, sebbene suo padre le avesse che quell'uomo avrebbe potuto portarla alla sua strada. Poi le cose erano sprofondate ancora di più nel caos, quando tutti quegli sconosciuti, cui solo i visi di Lippi e Botticelli, le avevano dato sollievo, s’erano venuti ad interessare, un ragazzo fin troppo giovane, una bella fanciulla ed uno sconosciuto dai lineamenti famigliari. Filippa s’era sentita così stordita da quello, che aveva quasi vomitato, s’era accorta poi ad uno sguardo più attento, non fosse che l’uomo che aveva visto nel suo sogno. Come Caterina Sforza nel suo viaggio era stata una donna matura, dal crine ferrugine, striato d’un grigio senile ed il viso maturo, in contrasto con la ragazzina che sapeva fingersi squisita alle cene delle matrone romane, con il viso ancor di bimba ed i capelli di fuoco, anche l’uomo era più giovane. Dentro la tenda, Machiavelli era un uomo, dai capelli tirati indietro ed un sorriso da sfinge sul viso, che giocava con la statua d’un drago-serpente, profondamente soddisfatto della sua vittoria, il ragazzo che era stato di fronte a lei, era una versione infantile, con riccioli biondi sciolti, che coprivano un viso ancora timido, di chi era privo della spavalderia che Filippa aveva visto. Niccolò Macchiavelli, che presentandosi aveva detto a lei di chiamarlo Nico, sembrava profondamente infantile, le sue mani erano morbide, come quelle d’un infante, rovinate solo da una cicatrice, non quelle di un uomo che aveva fatto la guerra. Era rimasta in silenzio, se quel Nico era così giovane, Borgia non doveva essere che un marmocchio e a quel pensiero brividi le percossero la schiena come artigliate, pensando all’ordine che suo fratello le aveva affidato.

Spalancò gli occhi e si rese conto tra le dita, di tenere un ciuffo di riccioli nere, gli aveva strappato, quegli stessi che Sandro Botticelli aveva detto di trovare belli. Filippa aveva detto di voler tornare dalla sua signora, pavida come una colomba, tutta tremante e spaventata, timorosa delle urla che la signora le avrebbe urlato, sentendo sulla schiena pulsanti le cicatrici delle frustrate che avevano modellato il suo carattere e Sandro era stato la sua guardia. L’aveva accompagnata fino al Cane Abbaiante, erano stati in silenzio. Botticelli era ancora lercio di vernice e lei teneva ancora fra le dita la cesta di vimini con i viveri, come se quelle ore fossero state scandite solo dal buio e non dal sogno. A Filippa a ripensarci era venuto da ridere, alla locanda, Sandro s’era dato al bisticcio con quello che sembrava un sodomita che vendeva il suo corpo. Lei era ancora troppo persa, per aver badato a loro, non aveva ascoltato una sola parola di quello che avevano detto, aveva osservato le labbra muoversi ed i due gesticolare, come ogni volta, Botticelli aveva mostrato un atteggiamento di mortale insofferente. L’altro l’aveva, alla fine, mandato malamente al diavolo, prima di andarsene su tutte le furie. “Chi era?” aveva chiesto Filippa, anche se la cosa non le era interessata affatto, l'altro aveva mosso la mano, quasi avesse scansato una mosca e non aveva risposto.

Sandro l’aveva scortata fino alle scale per il piano superiore, nel mezzo della bolgia della cacofonia degli ubriache e d’una febbre allegra. Loro che sembravano quasi acconciati a funerale, con visi granitici, privi di gioia. Poi Botticelli s’era fatto vicino, come nessuno mai nella sua vita, le era parso. Allora aveva allungato quelle dita affusolate, macchiate di vernice rossastra e le aveva intrecciate tra i suoi capelli scuri, sul viso s’era increspato un sorriso, piccolo e minuto, che aveva scaldato il cuore di Filippa fino ad imporporarle le gote, s’era sentita così strana, aveva dimenticato per un attimo tutto l’incubo di quella giornata. S’era trovata stordita, differentemente da come le era capitato nel sogno, era stato qualcosa di più piacevole. “I tuoi capelli sono belli” aveva detto con una voce distante ed a Fillippa era parso non guardasse lei, i suoi occhi, i suoi seni, le sue labbra o il suo corpo, come era stato per tutti gli altri, Botticelli guardava i suoi riccioli e sembrava trovare la sua soddisfazione in quelli. Ed ora quei capelli che Sandro aveva trovato belli, erano prigionieri tra le sue dita, volutamente strappati dalla sua testa; doveva calmarsi.

“Dovresti dormire” aveva sentito la gracchiante voce di Betta, aveva sollevato gli occhi, incrociando l’anziana signora, che da cinque anni a quella parte, aveva sempre da imbeccarla, eppure sorrise a quel viso così austero, ma famigliare. Lasciò scivolare i riccioli sul pavimento. “Non ho molto sonno” concesse, avvicinandosi alla donna, Betta indossava una vestaglia morbida, i capelli canuti stretti nel fermaglio dalla forma di farfalla d’orata, troppo alto rispetto la sua casta. Le dita nodose della vecchia, finirono per accarezzarle le guance, “Vai a dormire” le disse, senza usare un tono dolce, ma lo stesso burbero, che adoperava nell’urlare contro i rimproveri ed i comandi. Filippa mise la sua mano giovane, sopra i nodi e la pelle fragile dell'altra, chiedendosi da quando le fosse venuto a così tanta disperazione il contato umano. Le parve di sentire da qualche parte, lontano, tra i suoi ricordi, l'odore della salsedine, le risate di bambini e le onde infrante sulla ghiaia.




Zita guardava Dracone e lui ricambiava. Non si guardavano cagneschi, come nemici, si studiavano con una punta di curiosità, privi di quei lussureggianti sguardi dei signori, che per tutta la vita, entrambi dovevano aver sentiti puntellare sulle lame. Zita era abbissina e fino a chè non era arrivato il suo signore, era stata per tutti nulla più d'una donna negra, una pantera, un animale esotico, qualcosa di bello da mirare, da possedere, ma non una persona e quel ragazzo lì, Zita aveva l'impressione aveva provato su quelle ossa spesse e pelle bronzata lo stesso. Dracone sorrideva in maniera innocente, poi, ma con gli occhi nocciola si guardava circospetto. Zita aveva passato un pomeriggio intero nel cercare di ricucirlo e tamponargli tutte le ferite che le guardie del Cardinale Riario gli avevano lasciato, non aveva fatto poi molto, ma non sarebbe arrivato nessun cerusico per lui.

"Tu sei il miele?" aveva domandato Dracone, sfacciato, mantenendo sempre quel sorriso su un viso tumefatto, coperto di macchie nere e violacee e sangue rappreso. Zita abbassò lo sguardo sulle mani, intrecciate nel ventre, "Prima sono la morte, ora il miele?" domandò, senza ironia, tenendo un sorriso timido in viso, rispettoso; Dracone rise. Raffaele Riario, s'era presto resa conto Zita, era davvero diverso dal Conte; lei non aveva mai realmente compreso che rapporto intercoresse tra il suo padrone ed il dolore. C'erano stati momenti, in cui lei aveva seriamente pensato che il suo signore anelasse al bisogno di fare del male, di provocare dolore e paura, ed altre volte aveva avuto l'impressione che il provare quei sentimenti lo turbasse e ripudiasse. Il cardinale era un giovane, più di quanto fosse lei, frizzante e non così coinvolto dalle cose rispetto la sua intera famiglia, Zita aveva visto per anni, Girolamo, Giuliano e Giovanni cercare di superarsi tra loro per lustrarsi agli occhi del Santo Padre, Raffaele era sempre stato bravo a non sforzarsi molto, aveva sempre pensato fosse un giovane tranquillo, fino a quel momento. Poi aveva cambiato idea.

Il cardinal Riario Sansoni aveva osservato ogni frustata, pugno, lama, che aveva percorso il corpo di Dracone con un sorriso, profondamente soddisfatto, eccitato da quella visione ed il suo viso per tutto il tempo era stato gemello a quella soddisfazione che animava Girolamo, che a volte spaventava anche lei. Erano uguali, pensò, Raffaele non era che una versione più giovane, che al posto di caldi occhi, ne aveva di neri, e contemporaneamente erano distanti. Ma non importava poi molto, ad ogni colpo, il sorriso di Dracone s'era fatto più ampio. Se il cardinale provava piacere nell'infliggere dolore, l'altro sembrava goderne nel riceverlo.
Ed alla fine, dalle sua labbra, non erano venuti che gemiti, nessun urlo, nessuna supplica, nessuna informazione. Dracone non aveva neanche chiesto loro perchè l'avessero preso, perchè lo picchiassero, era rimasto in silenzio, continuando a sorridere, un sorriso sornione di chi sapeva ogni cosa.

"Qual'è il tuo nome?" aveva domandato l'apprendista, sollevando appena gli occhi castani, uno sguardo seminascosto da ciuffi neri come l'inchiostro, "Zita" aveva risposto lei, avvicinandosi di qualche passo, Dracone annuì, "Un bel nome" aveva commentato sardonico, come se non lo trovasse davvero così attraente, "Nella mia lingua vuol dire Fanciulla" le confidò saccente, "A Corcira però ci appellavamo quelle donne che non voleva nessuno" aveva aggiunto, cercando vanamente di ferirla, ma Zita aveva sollevato le spalle, "Questo ti si adice molto, più del significato persiano: vergine" aveva rincarato, sul viso s'era perso quel sorriso e svettava trionfale un ghigno, che s'era posi assopito "In magiaro vuol dire felicità però" aveva terminato abbassando il tono, come a volerle dire qualcosa che non conosceva. Zita aveva inclinato il capo, i ricci scuri erano finiti tutti su una spalla ed i suoi occhi s'erano fatti confusi e a quel sentimento Dracone s'era fatto un'altra risata, "Non è il tuo vero nome, giusto?" aveva domandato, sorridendo appena, prima di muovere il viso come a scrollarsi qualcosa di dosso, "Come Dracone non è il mio nome. Mi chiamo Draco, ma questi italiani piace tantissimo chiamare le cose come vogliono loro" aveva aggiunto stizzito, scoprendo i denti come una bestia ferita. Zita la leggeva che quella ferita non era nel corpo, non era nessuna di quelle che Raffaele s'era premurato di procurargli, era una ferita più intima e profonda. Zita chiuse gli occhi, sentì in qualche modo, la sua anima sanguinare assieme a quella di Draco.

Non aveva comunque risposto, s'era limitata a schiudere gli occhi e guardarlo, privandosi di quel genuino interesse, vestendosi di un sorriso cesellato, quanto fragile, "Sei molto istruito per essere il garzone d'un macellaio" rispose pacata. Il giovane la degnò d'uno sguardo, piccolo e vagamente stizzito, s'era poi morso un labbro, già di persè rovinato, quasi consapevole d'essersi tradito in qualche modo. Zita non sapeva ancora in che modo, ma conosceva abbastanza un uomo da sapere d'averlo beffato. "No" disse solamente senza smettere di sorridere, "Non sono il miele" disse, prima di congedarsi, con un inchino forse troppo beffardo.
S'era quasi chiusa la porta alle spalle, quando lo sentì, Dracone aveva sibilato, quasi la sua voce fosse stata un sussurro, di cui Zita non poteva esser certa d'averla sentita certamente, le parole le scavarono le orecchie, fin dentro il cranio. La porta era rimasta semichiusa, con la mano posata sul legno vecchio. Il garzone aveva parlato a lei nella sua lingua. Zita aveva sgranato gli occhi, immensamente sconvolta da ciò che aveva udito, non quando per la frastornate famigliarità di quel linguaggio che a volte aveva pensato di aver dimenticato, quanto per ciò che le era stato detto. Chiuse la porta sonoramente, dando a Dracone l'impressione non l'avesse udito.


Raffaele vagabondava come uno spirito inquieto per quella stessa stanza che era stata la sua quand'era infante, la toga scarlatta scendeva sul corpo secco, ondeggiava ad ogni passo come se fosse stato fuoco ardente, o sangue. Per quanto Zita avesse trovato in quella fede una certezza, un appiglio, non era in grado di trovare altrettante fiducia negli uomini che ne erano la voce. Raffaele la guardò appena, ancora profondamente amareggiato, sul viso aveva scavata l'inadeguatezza e l'amarezza d'un fallimento, in quel momento, era come se ai suoi occhi vi fosse un Girolamo più infantile; lottò parecchio per non correre da lui ed abbracciarlo nel tentativo di dargli conforto. "Ho parlato con il prigioniero" aveva sputato fuori, cercando di scrollarsi dalle spalle l'inadeguatezza delle parole che Draco le aveva rivolto, quello che le aveva detto, l'avrebbe probabilmente perseguitata per le prossime settimane, non permettendole di chiudere gli occhi in pace una sola notte.
Il cardinale aveva arrestato la sua avanzata, voltandosi verso di lei, solo guardandolo negli occhi, Zita scorgeva l'evidente differenza che passava tra il giovane che le stava di fronte e l'uomo che amava, lo sguardo, per quanto Girolamo e Raffaele potessero essere diversi di caratteri, erano d'aspetto assai simili, ma gli occhi si che differivano. Il capitano delle guardie romane aveva occhi chiari, disperati, persi, bisognosi d'una qualsivoglia certezza, occhi smarriti, di cui Zita desiderava ardentemente essere la luce, gli occhi del cardinale erano scuri e decisi, come quelli d'un silvano. "Hai scoperto qualcosa?" domandò con voce imprecisa, non del tutto convinto quello, "Si" aveva risposto con voce calma lei, "Dracone è molto più istruito di qualsiasi garzone io abbia mai conosciuto" aveva aggiunto, spiegandoli la sua incredibile abilità nelle lingue.

Il giovane annuì, prendendo bene nota di quell'apparente insignificante informazione, "Grazie" disse solamente, prima di congedarla. Zita aveva annuito, ignorando il tono aspro e s'era allontanata come le era stato ordinato.
S'era posata con la schiena contro la porta, con un sospiro profondo. Forse sarebbe dovuta tornare da Eliseo? Forse l'ebreo s'era risparmiato molte informazioni che avrebbero potuto essere utile ... forse, ma la sola idea d'uscir da sola, la rendeva inquieta, dopo quel che Dracone le aveva detto.



Giovanna salì sulla sua carrozza, lanciando un’ultima occhiata a quella strana compagnia, in particolar modo a l’uomo con la pergamena, “Non so però quando sarà il momento giusto” disse seria, prima di chiudersi l’imposta alle spalle. Nel buio dell’abitacolo, la fiamma d’una candela illuminava l’oscurità ed Eliseo la guardava con un aberrante sorriso. “Infinitamente grazie, amica mia” aveva detto immediatamente quello, il simbolo della volpe d’argento con cui aveva fermato il mantello luccicava alla luce della candela, “Non raccontiamoci fesserie, sono io a ringraziare” aveva detto secca la fanciulla con gli occhi socchiusi, il Turco s’era tanto premurato di tenerla lontana da quell’uomo che essere riuscita ad incontrarla la riempiva di gioia. Era stato si arduo il desiderio di non ordinare la sua morte, dimenticare chi era per ricordare chi fosse, pareva strano dirlo in quel modo, ma si era dovuta scordare d’esser Giovanna contessa di Sora, per rimembrare di essere solo la Muta dei Figli di Mitra.

La carrozza riprese a muoversi, alla volta di Roma, era stata fuori per troppo tempo, aveva rassicurato Giovanni che presa la carrozza quel mattino sarebbe stata all’Urbe già per il pranzo, ma l’inaspettata piega degli eventi le aveva rubato del tempo. Dopo la chiacchierata prima dell’incontro nel mitrideo, il Visionario gli aveva chiesto un passaggio per raggiungere l’urbe e nel farlo poi l’aveva anche convinta ad aiutarla con quel tale, con l’unica succulenta ricompensa di incontrar uno degli uomini di cui desiderava ardentemente la morte. “Cosa c’era nella pergamena?” domandò alla fine lei, guardando di sottecchi l’uomo, quello rise come se Giovanna avesse fatto una battuta di un particolare spirito, “Non lo so, mio padre mi disse di farla recapitare al figlio di Caterina da Gerusalemme è così ho fatto” concesse alla fine, senza perdere quel sorriso radioso che adornava il viso quasi vi fosse stato cucito. C’era dell’altro sotto, Giovanna lo percepiva sulla pelle, come cento aghi che scavano nelle sue carni, ma anche impegnandosi non avrebbe strappato ad Eliseo nulla di più di quello che non avesse già detto, si poteva esser in gamba quanto si voleva, ma contro i doni di Dio, non si poteva nulla. Sorrise; il maestro qualche tempo prima le era apparso in un sogno, gli aveva detto di tenere sotto i suoi attenti occhi Eliseo, perché temeva potesse tradirli ed era ovvio che Giovanna avrebbe seguito le istruzioni del Turco, ma pensava ugualmente – per quanto fosse brillante lei ed ingegnoso Al-rhaim – dovesse essere assai difficile farla in barba ad un uomo che poteva sapere ogni cosa.



Caterina era semi nascosta dal fumo della tazza, Vanessa aveva raccolto la ceramica con le dita sforzandosi di non scottarsi, ma il calore le aveva mandato in fiamme i polpastrelli. Poi aveva sorriso, nulla più che un arricciamento delle labbra. Avrebbe tanto voluto chiederle lei, come riuscisse a mantenere nervi così saldi dopo aver ucciso un uomo con un coltello giusto qualche ora prima. Vanessa aveva trascorso il tempo dal pranzo dell’orrore a quel infuso pomeridiano, sconvolta, aveva vomitato un paio di volte e quando madonna Caterina l’aveva appurato, le aveva preparato quella bevanda. “Nel mio stato, fatico molto a tenere il cibo nello stomaco” aveva spiegato, ammiccando alla sua dolce attesa. La bionda s’era chiesta quanto nocivo doveva essere quell’intruglio per quella creaturina che vivevano nei lombi stretti della contessa, ma alla fine aveva lasciato perdere ed aveva ingoiato tutti i suoi tormenti nell’infuso, pregando Dio, non fosse una stregoneria mortale di quel demonio travestito da angioletto. Quasi vomitò lei, quando si costrinse ad inghiottire l’ennesima sorsata, trovando il sapore nauseante da rigetto, come quella volta che Leonardo l’aveva convinta a mangiare del garum con le sue affabili lusinghe.
Caterina sorrideva dietro il vapore della tazza, aveva un espressione più calma e rilassata, quasi diversa dalla belva che era apparsa prima. Era come un animale, pensò lei, mentre si passava la manica del vestito pregiato sulle labbra, incurante del non dover apparire molto signorile; Caterina era stata come una tigre prima, forastica e pronta a lanciarsi sulla preda ed ora come un felino se ne stava steso all’ombra a sonnecchiare, gustandosi il fausto pasto. “Com’era madonna Vanessa?” aveva domandato la contessa, con un tono di voce davvero incuriosito, l’altra aveva chinato il capo, continuando a tenere sul viso un sorriso pizzicato, cercando di mandar giù i residui di amaro sulla lingua, “Ottimo, contessa” aveva risposto. La ragazzina aveva continuato a guardarla per un attimo, con il più fittizio sorriso innocente del mondo, prima di darsi ad una risatina ironica e sarcastica, “Per l’amore di sua santità, è meraviglioso come tu non sappia mentire” aveva quasi cantato, le gote di Vanessa s’erano colorite di un rosato imbarazzo. Aveva infilato un ciuffo di capelli biondi, che s’erano sfatti ormai dalla complicata capigliatura che aveva avuto nel mezzogiorno, “Non tutti vengono istruiti nella fine arte della menzogna” aveva alla fine concesso, lei poi aveva pensato, era stata cresciuta nel lido candore della verità, lei che avrebbe dovuto indossare il velo ed essere una sposa di cristo. Il viso di Caterina s’era fatto crucciato un momento, quasi infastidita, “Ne sono consapevole” aveva commentato con leggera amarezza, “Bastarda o meno, i miei natali hanno imposto che fossi eccezionale nelle buone maniere, nel ricamo e nella menzogna” aveva rivelato, prima di indugiare gli occhi miele sulla tazza; Vanessa aveva indovinato, avesse aggiunto alle sue competenze molte altre e molto più interessanti, come le pozioni o l’uccidere.

Lorenzo si era chiuso nel suo studio, con Ser Piero e la regina Ippolita, mentre Caterina e Vanessa erano state relegate nelle stanze dell’ultima, non senza lamentele da parte della contessa, placate dalla finta compostezza della regina di Napoli. Dragonetti assieme ad alcune guardie, aveva poi appurato lei si fosse occupato di portar via il corpo; Ser Adelchi era stato posto come guardia alla loro porta. E tutto ciò che Vanessa voleva, era liberarsi della compagnia della contessa Caterina, dei suoi infusi, dei problemi che avrebbe portato e starsene seduta in panciolle con suo figlio tra le braccia, in quei momenti come mille altri desiderava ardentemente che la signora Orsini tornasse, così da poter raccogliere tutte le sue cose ed andare avanti, per la sua strada, in quella casa che aveva lasciata, sopra la locanda, con suo figlio che potesse correre liberamente, privo delle costrizioni sociali cui ora pendevano sulla sua testa. Ma era giusto? Si chiese, essere così egoista? Voler privare Firenze di un erede?
“Però lo ammetto” esordì Caterina, “Ho vissuto certamente meglio dei figli di quella buon anima di Bona” aggiunse, con un sorriso nostalgico sulle labbra, “Avevo molte più liberta” ci tenne a precisare e Vanessa si chiese semplicemente perché ne stesse parlando con lei, poi scelse di domandarsi da quanto tempo che la contessa non poteva bearsi d’una presenza amica nella sua vita; non che Vanessa si ritenesse tale. “Io e Chiara, adoravamo andare a caccia con Carlo” aveva confidato, come fosse stata una bambina che raccontava una segreto alla più intima delle amiche, “Sono i miei fratelli di sangue” spiegò poi, trovando lo sguardo confuso di Vanessa e fraintendono, la bionda non si interrogava di chi fossero quei nomi, ma perché mai gli stesse udendo.

“Mio figlio è un bastardo” disse Vanessa, versandosi nella tazza questa volta del tè dall’aroma di limone, rompendo il silenzio che s’era venuto a creare. Si morse il labbro l’attimo dopo, perché mai l’aveva detto. Caterina drizzò le orecchie a quelle parole, “Non sarà da meno delle sue cugine” aveva commentato al contessa, prendendo anche lei la teiera e rovesciando la bevanda nella sua tazza, rimasta fino ad allora immacolata, “Anzi sarà meglio” disse, profondamente soddisfatta, “I bastardi sono di natura estremamente in gamba” aveva precisato, con un sorriso malandrino sulle labbra sottili. Vanessa aveva soffiato sul tè, stramente in accordo con quelle parole, non pensava però a quel peperino di suo figlio, pensava a Leonardo e alla sue idee, ai suoi occhi che guardavano così avanti, che neanche se avesse avuto cent’anni a disposizione Vanessa sarebbe riuscita a scorgere ciò che lui aveva visto. “Non ti fidare dei preti che dicono siano figli del peccato” il tono di Caterina era stato aspro, come se fosse stato rivolto una freccia a lei medesima, “Giulio non lo è di certo” le diede manforte Vanessa. Era figlio dell’amore, genuino, libertino, come solo a Firenze poteva essere. Quel ricordo per quanto doloroso, si rese conto lei, le aveva scaldato l’animo nel petto e nel ventre, le parve da qualche parte, nei meandri dei suoi ricordi, udire la genuina risata di Giuliano come fosse stato al suo fianco.

Caterina s’era alzata per vomitare, avendo lasciato l’infuso a Vanessa anziché a lei, incapace di uscire, aveva riversato ciò che il suo stomaco teneva, nel pitale, in tutt’altro. L’impreparata matrona di Firenze aveva ascoltato i conati di vomito della signora, con mero disinteresse, continuando a contare le ore che la costringevano chiusa in quella stanza, nella speranza di poter uscire prima possibile ed impegnandosi nel non farsi condizionare dalla ragazza pregna e non mettersi a vomitare anche lei.
Caterina s’era sistemata di nuovo sulla sua poltroncina, riempiendosi il bicchiere d’acqua, non avevano concesso alle due neanche una cameriera, cosa che la contessa aveva fatto notare sprezzante, mentre trangugiava acqua come una mucca che s’abbeverava e Vanessa dovette impegnarsi per non scoppiare a ridere a quell’idea. Caterina la guardò appena, con un accenno di perplessità, “Come si chiamerà?” aveva domandato poi, Vanessa, congiungendo le mani al petto, “Se sarà femmina Bianca” aveva risposto schiettamente la contessa, l’altra avrebbe voluto far notare quanto raro fosse per la nobilita scegliere un nome femminile, “Ma un indovino ha predetto sarà maschio, forse è un ciarlatano, ma mi sento fiduciosa” aveva confessato, “Mi piacerebbe un nome importante, come Cesare od Ottaviano, ma temo dovrò combattere contro un Francesco” confidò, con una punta di veleno nella voce.

Vanessa non aveva aggiunto altro, riconosciuto il nome del papa, prima dei voti. E poi era caduto il silenzio tra le due madonne ancora una volta. Caterina se ne stava gravida accomodata sulla poltrona con le mani sul ventre ed un espressione esasperata, ora aveva riassunto tratti bestiali, pareva come una fiera in gabbia, desiderosa d’azzannar la gola del suo carceriere. “Però, mi chiedo, chi mai l’avrebbe immaginato che l’amante di Giuliano De Medici e la moglie di Girolamo Riario si sarebbero ritrovati a prendere tè insieme?” domandò colma di fastidio la contessa, stringendo le unghia sulla stoffa celestina del suo abbigliamento. Vanessa scattò in piedi come una molla, l’immagine di Morgante, con il coltello conficcato nella sua fronte, sovrapposta alle sue mani sporche del sangue di Lorenzo, prima che morisse, in quella maledetta chiesa, ebbe quasi un mancamento, ma Caterina si scompose un minimo, “Devo uscire, contessa” riuscì a formulare, con un filo d’aria, quando fu la porta ad aprirsi d’improvviso, cogliendo le due donne di sorpresa, due fanciulli erano irrotti, uno era l’ormai spina nel fianco che Vanessa era costretta a sopportarsi, Giovanni De Medici, il suo precettore, vestito di tutto punto, sebbene avesse i capelli in disordine chi s’era accapigliato ed un espressione pavida, l’altro ragazzo la rallegrò maggiormente, riconoscendo i riccioli disordinati ed il viso così amico di Nico. “Perdonatemi Madonne non sono riuscito a fermarli” si era scusato Adelchi, che aveva già estratto la sua spalla, “Dove è la novità?” aveva sputato sentenziosa la contessa, portandosi una mano sul ventre protettiva, “Non preoccupatevi ser, sono amici” rispose di netto Vanessa, sorridendo profondamente grata della presenza di Nico. Caterina s’era tirata su a fatica, “Ma certo perché preoccuparci, sono amici!” aveva detto infastidita fino alla morte, con gli occhi roteanti al cielo, “Questa volta” aggiunse risentita, “Santiddio Adelchi, se dovessi davvero dipendere da te, sarei già al creatore da tempo” aveva sbuffato Caterina, la guardia aveva abbassato lo sguardo profondamente offeso, “Contessa …” aveva provato, ma quella l’aveva zittito con un solo movimento di mano, poi aveva osservato i due giovani.
Quando Giovanni aveva sentito gli occhi di Caterina addosso s’era fatto infuocato in viso ed aveva abbassato lo sguardo, Nico non si era scomposto affatto, o meglio – Vanessa lo aveva capito – aveva finto di non scomporsi, ma le orecchie s’erano incendiate così tanto da sembrare mele, “Io vi conosco” notò Caterina, colpita, “Siete l’amico dell’indovino e di quell’impiastro di artista” commentò con accidia, chiudendo un occhio, come se dovesse concentrarsi per ricordare qualcosa. Fantastico, pensò Vanessa, la moglie del Conte Riario aveva già conosciuto Leonardo e Zoroastro! Nico schiuse appena le labbra, “La madonna con il drago serpente” commentò.




Lele era seduto al tavolo delle cucine, finalmente spogliato degli abiti di cuoio per il combattimento e la cavalcata, amabilmente insaccato in vestimenti morbidi caldi, l’unico capo saldo era la cinta di corame alla vita, con la fibbia d’orata, che teneva su i calzoni di lana. Era stato quanto mai piacevole passare una notte nel suo letto, in nulla più che un giaciglio di lenzuola e paglia morbida, ma ugualmente migliore del pavimento dell’osteria o della terra gnuda, quasi provava vergogna ad ammetterlo, ma stava invecchiando, si che stava invecchiando. “Giusto mi chiedevo che fine avessi fatto” aveva trillato una voce lì di fianco, un ragazzo era stagliato sulla porta, era alto come una pertica, magro e sgraziato, era stipato in un farsetto di miserabile fattura, senza ghirigori e pizzi, con stivali lucenti e pantaloni zigrinati, “Felice” disse lui, sollevando gli occhi dalla sua zuppa di porri, tutto quello che era riuscito a convincere il cuoco a preparargli. Il ragazzo era entrato nella cucina, tenendo tra le mani una caraffa vuota, sporca di gocciole violacee, “Che intendi dire?” aveva domandato confuso, aggrottando le sopraciglia, certo che non s’erano visti, era tornato giusto ieri notte dal suo viaggio. Felice aveva strabuzzato gli occhi verdi, come due olive, “Stai cercando di farmi fesso?” aveva domandato infastidito, posando la brocca vuota sul tavolo, “Per un bel po’ di giorni, ne te, ne quella grecola vi siete visti” aveva detto, mentre riempiva con altro vino rosso, la caraffa vuota, aveva uno sguardo offeso e vagamente piccato, “Svolgevamo affari per la madonna” rispose con voce seccata, dando l’idea a quel ragazzo si smetterla di impicciarsi. S’era completamente dimenticato che la sua signora aveva lasciato trapelare che fosse stata male e se con fatica tutti potevano credere fosse nelle sue stanza – Lele scommetteva che il padron Antonio e la rispettabile Betta si fossero adoperati perché tutti lo credessero – la sua assenza e quella di Filippa, forse sarebbe passata inosservata da chiunque cercasse di nascondersi la madonna, ma di fatti nella casa la sparizione di due servi, dagli altri poteva essere notata.

Felice sorrise, sollevando con le braccia secche la caraffa, “Giusto della signora, la grave malata, sta mattina, un fiore pare, per quanto poco uscisse temevo sarebbe morta nelle sue stanze” aveva commentato quello maligno, prima di incontrare gli occhi acuti e severi di Betta, non servì che l’anziana donna dicesse neanche una lettera, perché l’altro uscisse veloce della cucina. L’anziana guardò lui, aveva un cipiglio sulle fronte grinzosa, le sopraciglia spesse sale e pepe crucciate, ma alla fine non disse nulla, limitandosi a sollevare le mani callose e macchiate di vecchiaia, “I giovani d’oggi, così sfacciati e scansafatiche” si lamentò, continuando a camminare verso la cucina, per prendere il cibo che andava servito in tavole. A Lele quella donna inquietava, erano vent’anni che la conosceva e non ancora gli era chiaro quanti anni avesse, aveva l’impressione Betta fosse sempre stata vecchia e contemporaneamente ringiovanisse nello spirito ogni anno.

Restò a chiacchierare con il cuoco poco, prima di lasciare le cucine per sollazzarsi in qualsiasi altro modo, non aveva nulla da fare in fin dei conti, la signora lo aveva licenziato la notte prima con estrema velocità e d’altro canto il signor non aveva chiesto di lui. Lungo i fini corridoi della tenuta aveva incontrato Filippa, aveva sorriso gentile lei, gli occhi scuri erano segnati da profonde occhiaie violacee, di chi non s’era concessa neanche un momento per riposarsi. Teneva tra le dita d’una mano un secchio d’acqua, nell’altra un panno per pulire. “Sembri esausta” fu il suo saluto, Filippa se s’era indispettita lo nascose bene, limitandosi ad un sorriso vagamente imbarazzato, “Non ho dormito molto bene” aveva commentato , stringendo le spalle, i riccioli neri erano stritolati in una cuffia arrotolata sulla nuca da cui scendevano due code, una sola ciocca sfuggiva all’incarcerazione, scivolando dalla fronte fino al naso importante. “Cattivi sogni?” indagò lui, la ragazza si finse per un attimo pavida, piccola e fragile, come la carta, poi annui, timorosa, come se fosse sul punto di rivelare un segreto, le labbra piccole serrate, come se un singolo suono avesse potuto ucciderla. “Ti direi di andare dal giudeastro, Ippa” aveva buttato lui lì, la ragazza aveva spalancato quegli occhi scuri così belli, “Da chi?” aveva chiesto, “Un ebreo che legge sogni” aveva risposto vago, senza parlare del fatto che prestasse anche soldi e dove li trovasse solo iddio – o il diavolo – lo sapevano. Filippa era comunque ancora confusa, si rese conte Lele e solo allora immaginò che una tale santa fanciulla, doveva preferir tapparsi le orecchie pur di non sentire parlare di stregoni ed altri adoratori dei silvani. Il che lo fece un po’ ridere, perché lui poteva non rivolgere la sua gratitudine a Dio, ma poteva farlo in quei cialtroni, in alcuni di quelli, così aveva conosciuto Giuliana, perché lei diceva d’aver avuto quel potere per divina concessione, che era malata e che di luce lo spirito santo s’era unito a lei; Lele l’aveva amata, ma era lei pazza, ne era stato certo, ma vedeva e sapeva cose che tutti gli altri uomini ignoravano. Era nella capitale, quando Giuliana era comparsa nei suoi sogni e lui ne era stato così immensamente felice, perché temeva ogni giorno, ogni anno, ogni momento di dimenticare quel viso di andare dall’Ebreo. Quando l’aveva visto aveva capito fosse uguale alla sua amata, nel modo di guardarlo l’aveva intuito, era lo stesso di Giuliana, guardava il mondo con un misto di amorevole tenerezza e rammaricata consapevolezza.

“Molti vanno dal giudeo” aveva poi spiegato alla ragazza, lui c’era andato perché un sogno glielo aveva detto, ma aveva poi capito, quanto molti, anche quei finti bacchettoni moralisti delle alte cariche, erano tal volta finiti sotto lo sguardo attento della muta, accanto a gente povera ed in cerca di talenti. “Potrebbe darti una spiegazione ai tuoi sogni” le disse, battendole una mano sulla fine spalla, Filippa strizzò gli occhi, poi mosse sconsolata il capo, quasi amareggiata da qualcosa che Lele non riusciva a comprendere, “Temo un licenzioso miscredente, non potrà aiutarmi” aveva detto amara, continuando per la sua strada. Lele rimase fermo nel corridoio, osservando le pieghe della gonna della ragazza ondeggiare ad ogni passo e si rese conto che tra tutti in quel viaggio, Filippa ne era stata la più provata, in quella giornata in cui nessuno l’aveva vista, quando loro avevano conosciuto il famigerato Leondardo Da Vinci, alla fanciulla era capitato qualcosa.



“Non ho ancora capito per qualsivoglia ragione tu sia qui, Botticelli” aveva detto Leonardo, infastidendolo ancora, mentre continuava a stargli affianco. Zoroastro aveva sospettato che la cavalla di Sandro dovesse essersi innamorato di quello di Leonardo e fosse ricambiata, perché non c’era verso che i due animali volessero camminare a due andature diverse, no, continuavano a fiancheggiarsi a passo cadenzato. “Di chi dovremmo seppellire il corpo?” aveva domandato divertito Di Credi, Zoroastro avrebbe davvero voluto ridere a quella battuta, se fosse stata una battuta, perché lui era dannatamente certo che prima di Roma si sarebbero dovuti fermare da qualche parte per sbarazzarsi di un qualche cadavere già, perché di questo passo o sarebbe morto lui suicida o avrebbe ucciso i due artisti. Ma alla fine rise, perché in fin de conti, era solo colpa sua, se proprio non riusciva a dire di no a Leonardo; lo sapeva che prima o poi questo suo altruismo l’avrebbe ucciso, sperava solo di non morire in maniera dolorosa, come aveva rischiato di fare negli ultimi tre anni. Guardò Lorenzo, povero fanciullo, non aveva la minima idea di ciò che l’aspettava.

Sandro non aveva degnato di Leonardo in una risposta – e non perché fosse più maturo, ma perché prediligeva fingere l’altro non esistesse – continuando a tenere lo sguardo fiero puntato in avanti. Zoroastro alzò gli occhi al cielo, forse aspettando una divina benedizione alla sua pazienza, perché ormai cominciava a scarseggiare, “Sai, sono sempre stato convinto che a Sandro, Leonardo piacesse parecchio” aveva ripreso a parlare Lorenzo. Zoro non poteva dargli torto il suo provare a far conversazione, l’esasperazione rasentava livelli ingestibile, “Ho sempre pensato lo odiasse” rispose secco lui – come mezza repubblica fiorentina d’altro canto – Lorenzo aveva chinato il capo, mantenendo sul viso un sorriso di raro candore, di finta innocenza, di chi la sapeva lunga, “Ne è geloso, lo detesta, prova per lui un’invidia bruciante, questo si … però …” aveva risposto il ragazzetto, non finendo la frase, perdendosi tra pensieri sconci che Zoroastro preferì di gran lunga non sapere – ne aveva viste nella sua vita sotto o sopra dalle lenzuola di cose perverse, ma Sandro e Leonardo era uno di quegli spettacoli che avrebbero potuto animare i suoi incubi – e continuare a camminare, nella direzione di Roma. Si, moriva quasi dalla voglia di rincontrare il Conte, pentendosi quasi improvvisamente di quel pugno che gli aveva sferrato quand’erano nel Nuovo Mondo, temendo che quella sarebbe stata la volta buona che quel pazzo mantenesse quella promessa sulle voci bianche che gli aveva fatto a suo tempo, l’ultima volta che era stato in villeggiatura nella città pontificia.

Ma poi alla fine, Leonardo aveva anche ragione, perché mai Botticelli era venuto? E l’aveva perciò chiesto a Di Credi, “Non sono mica suo confidente” aveva risposto l’altro, sollevando le spalle, “Avremmo dovuto chiederlo a Filippini, sicuro lui lo sapeva” aveva aggiunto, mordendosi le labbra. Zoroastro lo guardò un attimo critico; non era di certo una bellezza celestiale, come Madonna Donati, però si, Leonardo non si smentiva mai, con il suo amore per le cose belle. Chiedere a Lorenzo perché fosse venuto, Zoro sapeva fosse del tutto futile. Si voltò in avanti, Leonardo stava dicendo qualcosa a Botticelli, a tono basso, come se fosse un segreto di cui lui e Di Credi dovessero essere tenuti allo scuro. Qualunque cosa fosse, Sandro la trovò interessante, s’avvicinò addirittura e cominciarono a confabulare tra loro. “Strano” commentò, con un cipiglio, prima di sentire una risatina divertita venire da Lorenzo. Venne da sorridere anche a lui, perché almeno qualcuno trovava in quella situazione un minimo di sollazzo. L’idilliaca pace s’andò a spezzarsi, quando Leonardo disse qualcosa che evidentemente Botticelli non doveva aver apprezzato, perché frustrato e cattivo, l’aveva malamente offeso, con qualche varia ingiuria verso il cielo ed aveva dato un secco calcio alla sua cavalla per superare l’altro. E così era andata avanti, con Sandro che bonfocchiava contro Leonardo e l’altro che si faceva grasse risate alle sue spalle. E Zoroastro si sentì incredibilmente sollevato quando riconobbe gli austeri contorni di Roma.

“C’è gente …” commentò Lorenzo, puntando gli occhi scuri poco più avanti lungo il sentiero. Una carrozza pregiata era ferma sul ciglio della strada battuta. Due palafrene, una dal manto sabbia e l’altra scura come la pece, stavano brucando l’erba lì vicino. “Fate finta di nulla” aveva repentino detto Leonardo. Sandro s’era fatto granitico e Zoroastro aveva sperato che le cose andassero per il meglio, non che ci credesse davvero, non aveva bisogno di leggere i tarocchi per saperlo. Alcuni uomini erano ai piedi della carrozza, vestivano con armature scure, sulle cui pettorine era dipinto un blasone nobiliare, un rovere oro in campo azzurro. La carrozza era d’un cipria chiaro, d’una forma quadrata, con istori bronzei che ricalcavano un motivo floreale, sul battente, proprio sotto una finestra, cui era stata scesa una tenda corallo, svettava un altro stemma un drago aureo con le ali spiegate, su uno sfondo rosso sanguineo. “Il simbolo del ducato di Sora” bisbigliò prontamente Botticelli, guardando lo stemma, con gli occhi curiosi – e pericolosi – d’un artista. Le guardie non provarono a fermargli, fu per loro prioritario aprire l’imposta, quando sentirono due tocchetti arrivare da dentro, come d’una bussata. Le guardie s’erano fatte poi premura nell’aiutare a scendere della carrozza una giovane madonna.

La fanciulla aveva capelli neri come la fuliggine ed occhi del medesimo colore, non era particolarmente attraente, quello fu il primo pensiero di Zoroastro quando indugiò sul suo viso, prima di accorgersi che il corpo magro era stretto in uno prestigioso vestito, su cui era cucito uno stemma che aveva imparato a conoscere, il blasone dell’ormai defunto duca di Urbino. La madonna lanciò loro uno sguardo, non era di fuoco, era solo una sottile occhiata, come se a stento gli studiasse, poi abbozzò un piccolo sorriso, gli uomini sfoderarono le spade ed i cavalli si fermarono d’istinto. “Non temiate, signor Leonardo non sono qui per annoiarvi” disse la fanciulla, invitandolo a scendere, solo lui, con sguardo avido, aveva occhi castani, cattivi e freddi. Chiamato in causa, l’artista smontò da cavallo, non prima d’aver lanciato un eloquente sguardo a Zoroastro, se le cose si fossero messe male, sarebbero dovuti fuggire, ma lui non aveva alcuna intenzione di lasciare il suo amico. “Giovanna da Montefeltro” disse la fanciulla, allungando la mano verso il viso di Leonardo, lui la prese e ne baciò il dorso, quasi fosse stato un galantuomo. Al suo fianco, Zoro sentì Lorenzo quasi smettere di respirare.

Leonardo s’era ritrovato costretto ad allontanarsi dai suo amici, quando la madonna gli aveva chiesto di parlare in privato, non erano di certo così distanti, con gli occhi Leonardo poteva osservare la preoccupazione dipinta sul viso di Zoro ed il pallore che aveva animato Lorenzo; questo lo avvelenò nel profondo, per quanto quel ragazzino gli piacesse, temeva di ferirlo ogni istante. “Ho tanto desiderato conoscervi” bisbigliò la ragazza con un tono basso come fosse stato il cinguettio d’un passerotto, “Ora siete stata accontentata, madonna” rispose lui con un sorriso sornione, mentre quella aveva ricominciato a camminare per i verdi, tirando su la gonna fino a scoprire i polpacci fasciati dalle calze. Camminava davanti a Leonardo, ogni passo i lunghi capelli neri ondeggiavano come un mantello di seta nera, come avesse convinto le guardie ad aspettarla, senza seguirli, non riusciva a comprenderlo. Giovanna rise, “Vorrei avere più tempo per parlare, ma non ne ho molto” aveva confidato all’uomo, fermandosi in un determinato punto, in cui l’era era stata recisa e la terra smossa, Leonardo l’aveva affiancato, “Come?” chiese, genuinamente curioso, “Aspettarvi mi ha portato via tempo, che tra Marino e Roma non avrei dovuto avere” confidò la madonna, tastando con lo stivale che portava sotto l’ampia gonna la terra smossa e bagnata, quasi volesse testare la consistenza.

“Mi state confondendo, madonna” disse Leonardo, davvero spaesato dagli strani discorsi della fanciulla, s’aspettava che la figlia del Conte d’Urbino – e moglie di uno dei nipoti di Sisto – non desiderasse altra cosa che vederlo morire da qualche parte. Giovanna rise con sarcasmo, “Eppure il Turco ti aveva dipinto come l’uomo più eccezionale da secoli” sogghignò, prima di accomodarsi sull’erba con tutto l’abito pregiato, la gonna rossa s’era macchiata di terra e d’erba. Il turco? Giovanna da Montefeltro era una figlia di Mitra? Lei alzò lo sguardo verso di lui, “Sono figlia della notte e del cielo stellato …” aveva risposto alla fine alla muta domanda che Leonardo non aveva posto. Da Vinci era scivolato accanto a lei, che strano quadretto si disse dovevano sembrare da lontano, una nobildonna con tutte i suoi strati di stoffa seduta sulla terra assieme ad un bastardo – responsabile diretto della morta del padre della fanciulla, per di più.
Giovanna cominciò a scavare con le dita pallide e secche nella terra, “La sua testa, assieme a quella di Carlo De Medici, è la seconda cosa che desidero più al mondo, artista” commentò con voce neutra lei, come se avesse fatto un commento sul tempo. Leonardo cominciò a scavare con lei, “La seconda?” chiese, se qualcuno avesse ucciso Verrocchio, lui era certo la morte di quella persona sarebbe stato il suo più grande desiderio. Giovanna annuì, “Spero anche un giorno di potermela prendere” aveva commentato; le dita di Leonardo sfiorarono quelle della fanciulla, erano freddo come la pietra. “Ma se non lo faccio ora, artista” disse, prima di allontanare le dita dalla terra, sul fondo della buca c’era quella che sembrava una pergamena, sigillata dalla cera rossa, che richiamava la testa di una volpe, “ È non lo faccio solo perché la cosa che desidero più al mondo è sapere che il libro delle lamine è al sicuro” aveva confidato Giovanna, prima di estrarre la pergamene e sorridere in maniera strana, come se fosse divertita da qualcosa, “Dannato Visionario” commentò, prima di allungarla verso di lui.

Giovanna si era alzata, “Abbiate l’arguzia di non incontrarmi a Roma, se dovesse accadere lì, dimenticherei d’esser figlia di Mitra, ma solo figlia di mio padre” disse gelida, prima di incamminarsi verso la carrozza seguita da Leonardo, che teneva tra le mani la pergamena, “Quando sarà il momento, dovrete andare da Eliseo Vitalevi” aveva commentato, prima di richiamare le guardie. L’ultima cosa che gli aveva detto era che fortunatamente non aveva idea di quando sarebbe stato il momento.

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Capitolo 7
*** Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore ***


HALLELUJA! Si, nessuno ci credeva, ma ho davvero aggiornato. Con un capitolo piuttosto lungo, piuttosto inutile – forse.
Si sono una persona orribile lo stesso. Comunque, nel precedente capitolo ho scritto dei figli di Mitra ed ora dei Nemici degli Uomini, probabilmente i miei nemici degli uomini sono completamente diversi da quelli che saranno nella serie televisiva ma mi sono divertita parecchio a scrivergli.
Oltre questo, sebbene questo capitolo sia sprovvisto di due figure particolare e centrali, questo capitolo riunisce un po’ delle storie che sono state presentate. E se fosse una partita di Burraco sarebbe l’ultima scesa, per andare al pozzo. Sarà a volo o a chiusura?
Oltre questo vorrei fare un ringraziamento speciale a Lechatvert che non sono è stata così gentile a fare la Manip di copertina per la storia (Grazie ancora!) ma anche per essersi messa a tradurre espressioni bibliche in ebraico.
Grazie anche a chi segue e preferisce, chi legge solamente ed ovviamente chi commenta: Verdeirlanda(che credo sia la persona che segue questa storia con più costanza, grazie ancora) e Chemical Lady (All’interno del capitolo c’è una dedica per te, vedi se riesci a trovarla).
Buona Lettura.







 
Sono forse il guardiano di mio fratello?
 




Atto VII

Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore


(1458)


Sua madre l’aveva fatta lavare nell’acqua bollente. Non aveva detto niente, neanche una parola, aveva scacciato le serve fuori dalle stanze da bagno. Poi l’aveva guardata, con lo stesso sguardo che si da ad una animale ferito. Aveva afferrato una spazzola di fero per pettinarle i capelli, grovigli di riccioli sporchi di terra e foglie. La porta s’era aperta ed un ragazzino s’era introdotto nella stanza. Si sarebbe dovuta coprire, se avesse avuto un minimo di pudore, ma lo aveva perso, ogni senso. Guardò suo fratello più piccola guardarlo con occhi grandi e preoccupati, “Che è successo?” aveva urlato, “Fuori!”  aveva gridato la loro madre, puntando verso di lui la spazzola di ferro, aveva occhi rabbiosi, di chi non ammetteva contraddizioni. “Io voglio sapere!” ruggì il ragazzetto, lei sollevò appena gli occhi, avrebbe davvero voluto dirgli di andare fuori, ma i suoi fratelli, loro erano tutto ciò che aveva e soprattutto ciò che voleva. L’altro suo fratello entrò nella stanza, aveva ancora addosso l’abito del pranzo macchiato di terra e sangue, “Per l’amor del Cielo, lavati e cambiati” strillò sua madre esasperata, lui annui, funereo in viso, afferrando il minore per trascinarlo fuori. L’altro s’era divincolato fino allo sfinimento, urlando di voler sapere chi aveva fatto del male a sua sorella. Il maggiore le lanciò uno sguardo, sostenne un attimo e poi abbassò il viso, come a chiederle scusa. Ed era a lei a doversi scusare. Sua madre le accarezzò i capelli, quando il tonfo della porta riecheggiò nella sala da bagnò, “Sistemeremo tutto” aveva detto materna. La guardò, cercando disperatamente negli occhi di lei, la sicurezza di quelle parole, ma le venne solo da piangere di più. Sua madre le aveva detto, quando era bambina, di prendersi cura dei suoi fratelli, eppure si sentiva in quel momento così fragile da non potersi prendere cura di alcun che, neanche se stessa.


(XX-01-1979)


“Una donna può essere o angelo o sirena” esordì Lupo, dopo un lungo viaggio in cui non aveva detto mezza parola, avendo lasciando ai cugini il tempo di discutere tra loro. Girolamo aveva sollevato gli occhi per guardarlo con un espressione di confusione, “Sono certamente angeli quelle che incontreremo noi” aveva confidato Giuliano senza perdere neanche per un istante il suo bel sorrise. Lupo gli guardò, aveva uno sguardo strano, vagamente distanze, alzò le spalle e proseguì dritto, dove si stagliava nelle sue alte torri la bella Bologna. “Le clarisse suore del Corpus Domini, non possono che essere angeli” aveva dato manforte Girolamo, ricordandosi l’ultima suora di quell’ordine che aveva conosciuto in vita sua. Era allora un ragazzino, ancora sotto le cure dello zio, all’ora vescovo, ben lontano dalla realizzazione dei piani di suo padre. Girolamo schiacciava sempre quei ricordi quando affioravano nella sua mente, odiava viverli di nuovo, odiava dover percepire ancora nel petto il dissidio per l’amore per quella famiglia ed il dovere verso suo padre ed odiava in quel momento ricordare quell’innocente allegria che s’era andato a perdere poi.  Erano diretti a Bologna, anche allora, lui e Giuliano, a seguirli c’era Pietro però, con quel sorriso impertinente che Girolamo spesso sognava ancora la notte e Lucrezia Donati, con gli occhi grandi e blu rivolti all’avvenire, tutta contentezza e fanciullezza, che raccontava di quando la volta seguente avrebbero portato anche Amelia, quando sarebbe stata più grande. Giuliano che rideva del povero Giovanni costretto al letto influenzato che non era potuto venire con loro e Girolamo invece pensava a Violante, che era rimasta con suo marito a Roma,  annoiata da quella loro birbanteria giovanile, ormai troppo posate e troppo seriosa, Sono una matrona romana, sono una donna sposata, sono cresciuta, io, diceva sempre perentoria, un po’ arcigna, con i capelli perfettamente ordinati ed il sorriso caustico sulle labbra. E Pietro le faceva il verso. E Girolamo si rendeva conto, in quel momento, che di tutti, da allora, Violante era rimasta la sola che il tempo non aveva scalfito e rovinato, nessuno di loro era maturato, quest’epifania Girolamo l’aveva avuta tempo prima, mentre scavava con Lucrezia la tomba d’Amelia, erano marciti, tutti. Bologna gli fece pensare a Bebele, con le sue torri alte che svettavano oltre le mura, estendendosi così in alto da voler sfiorare Dio.
 “Sembri sovrappensiero” constatò Giuliano, affiancandolo nella cavalcata, aveva un espressione tranquilla in viso, come l’aveva avuto per tutto il viaggio, aveva accuratamente evitato di parlare di Dracone, di qualsiasi cosa, non privandosi però di frecciatine quando opportuno potevano essere tollerante, mantenendo sul viso un espressione granitica. Francesco della Rovere quando aveva indottrinato i suoi nipoti, avrebbe dovuto rendere di Giuliano un politico e di Giovanni un sant’uomo.  “Ripensavo all’ultima volta che siamo stati al Convento” aveva confidato Girolamo. No, i suoi pensiero, spesso solo al Signore gli confidava ed a Zita, nel buio della sua stanza, sotto le lenzuola scure, che nascondevano le loro pelli ed i loro oneri. Nel buio, sotto le coperte, Girolamo con la sua serva aveva l’impressione di recuperare l’innocenza perduta. Giuliano risse, chiudendo le risata sotto le labbra, Riario poteva dire di conoscere Della Rovere, spesso, ma altre volte, aveva l’impressione non avesse di lui compreso nulla. “Parli di quando abbiamo dovuto inseguire Silvia Odescalchi?”  chiese retorico quello, con gli angoli della bocca sollevati in un ghignò.  Forse, suo cugino s’aspettava si concedesse una risata, ai ricordi delle goliardie della loro gioventù, ma così non fu, il solo ricordo della madonna placò ogni desiderio di immergersi nella memoria.
 Silvia Odescalchi che da giovinetta aveva le gote rosse come le fragole, tonde e morbide, riccioli d’oro sul corpo, che da donna s’era fatta grigia, con le guance incavate ed i capelli di paglia, vestita di nero, di lutto, per la morte dell’amore stesso e della speranza. Quando Girolamo aveva rivisto Silvia, qualche anno prima ad una festa, aveva visto l’aridità dove una volta c’era stata l’innocenza, s’era poi reso conto che la donna non era stato altro che lo specchio della sua anima. “Si, me lo ricordò” confidò a Giuliano. Lucrezia rimasta nel convento, bella e dolce come una primola e loro tre impavidi per le vie di Bologna, alla ricerca di quella bella dama di cui Pietro era tanto ossessionato.  Forse fu per il suo viso, ma suo cugino perse ben presto la voglia di ricordare la loro adolescenza e continuò per la sua strada. “Fermiamoci” esordì Girolamo, “Per far riposare i cavalli qualche momento” aggiunse, scendendo dal suo destriero, consapevole che con tale vicinanza a Bolgona, era quasi una follia, ma gli altri furono costretti ad assecondarlo.
 
Non voleva dirlo Girolamo, ma l’idea dell’avvicinarsi a Bologna, lo aveva quasi gelato, quando s’era abbandonato nei ricordi, perché erano davvero anni, che non si fermava un solo momento a pensare a Pietro. E Bologna era stato con una lama che aveva scavato nella sua memoria, tranciando ragnatele e lenzuola. Giuliano non si era avvicinato, era rimasto vicino al suo cavallo ad accarezzarli il manto chiaro, come la sabbia, a guardarlo così non sembrava una cardinale, privato del rosso del sangue, vestito di cuoio nero, sembrava quasi Giovanni, con un espressione più enigmatica ed una compostezza maggiore.  Della Rovere lo guardò appena, come se non provasse il minimo interesse in lui.
Lupo s’era fatto vicino a lui, vecchio,  il mantello blu che voleva, nel vano tentativo di tenerlo fermo, lo guardò appena, con gli occhi stanchi, neanche lui sembrava così animoso di raggiungere la città dalle alte torri; il conte pensò dovesse anche Mercuri avere lasciato in quella città qualche vecchia memoria sgradevole. “Non ardi dalla voglia?” domandò di scherno Girolamo, alla fine, dopo aver atteso che Lupo stazionato al suo fianco dicesse qualcosa, osservando l’uomo che mosse il capo, con le labbra rugose sigillate, “Sono più di quindici anni che non torno a Bologna” confidò l’uomo con una punta d’amarezza nella voce.
Questa volta Giuliano s’era avvicinando, trovando forse le confessioni del vecchio Lupo decisamente più interessanti del broncio che lui aveva messo su quando avevano cominciato a parlare delle vecchie glorie. Girolamo non disse nulla, non realmente così interessato alla questione, anche se dovette ammettere, ascoltare i rammarichi  d’un altro uomo, l’aiutava a riseppellire i propri, “L’ultima volta che sono stato in quella città, fu per l’onoranze …”- tacque a lungo, come soppesasse quelle persone – “… d’una cara persona”  rispose con un tono di voce vacuo, gli occhi persi, dritti all’orizzonte, sistemati in qualche vecchio ricordo. “Ed era l’angelo o la sirena?” domandò tutto lascivo ed impertinente Giuliano, “La curiositas è una grave colpa, cugino” disse Girolamo con disappunto; Lupo non parlò per una manciata di attimi, i loro respiri furono l’unico disturbo nell’aria, poi sospirò, colto in fallo,  “Era l’angelo e la sirena” disse, vecchio dentro, oltre che fuori.
Riario non se ne rese neanche conto, ma gli sembrò d’esser per un attimo in quel momento di essere nelle sue stanze nel palazzo vaticano, sotto le lenzuola scure, immerso nel profumo di Zita, il suo angelo e la sua sirena.
 
“La prima volta che la vidi, stava ballando” balbettò Lupo, con gli occhi rivolti all’orizzonte, dove sempre più ispirata s’erigeva Bologna con le sue alte torri, Giuliano inclinò il capo incuriosito. Dopo la breve pausa cui Girolamo gli aveva costretti, non avevano detto più una parola. Riario aveva gli occhi rivolti in avanti, ma era indietro che guardava, al passato, all’ultima volta che erano andati a Bologna forse, a quel fratello di cui non parlava mai o forse, lui sbagliava in tono, Girolamo pensava a qualcosa di contorto, quella sua dannosa ossessione che lo aveva portato a scappare fuori dall’Italia e chi sa dove, tornare con una gamba rotta e vuoto, nonché fosse mai stato animato da una gran pace interiore. Certo da bambino era stato pressoché normale, forse troppo serioso, ma crescendo che s’era rovinato, da tutto serioso s’era fatto contorto, negli ultimi anni era assai peggiorato, ma dal ritorno del suo viaggio era come se ogni sua inquietudine avesse raggiunto la sua spensieratezza, succhiata via e perduta.
Ed aveva anche rapito il suo amante.
Non riusciva a scrollarsi il pensiero di Dracone, neanche per un istante, chiedendosi cosa stesse cercando di tirargli via dalle labbra Raffaele, cosa Girolamo volesse in realtà … Che suo cugino avesse scelto, come lui, di scoprire le tortuose vie dei miscredenti? Sentiva quei pensieri immensamente più leggeri, nel momento in cui, non indossava la porpora cardinalizia, l’idea del Libro delle Lamine, della conoscenza del primo frutto, del tutto, era qualcosa di ben più bramabile del semplice sangue e del corpo di cristo. Suo zio, quando Giuliano era stato più facile ne aveva parlato, della conoscenza, ne aveva parlato con lui, con Giovanni, con Pietro, con Girolamo, forse anche con Violante, con tutti gli altri, ma aveva avuto l’impressione nessuno di loro fosse mai stato così interessato.  Lui almeno non aveva avuto alcun interesse in quelle favole della buona notte per molto tempo, poteva sembrare una cosa ambigua, ma nonostante il colore della sua tunica. Della Rovere vedeva la chiesa come un mezzo e Dio come un discorso a parte, certamente credeva nel signore, nello spirito santo, sarebbe stato quantomeno sciocco e decisamente narcisista non rivolgere a lui le sue speranze, ma solo quelle, i miracoli come le magie, che fossero di Dio o di Mitra, Giuliano le lasciava ai libri.
Almeno fino a ché in viaggio a Catania, aveva incontrato l’uomo vestito di nero, qualche anno prima.
 Aveva pensato d’esser pazzo all’inizio, una figura scura nelle sue stanze, mentre Giuliano afferrava la una spada e chiamava le guardie, l’uomo l’aveva guardato, “Quante persone ci sono nella stanza?” aveva chiesto  e dopo un battito di palpebre, Giuliano s’era trovato con una spada in mano, circondato da qualche guardia e nessuna traccia dell’uomo vestito di nero.  Un nemico dell’uomo aveva scoperto poi, in cerca della conoscenza che solo il libro delle lamine poteva avere.  Come Dracone, uomini marci fino nelle ossa, lui non era tanto diverso, ma la conoscenza lo intrigava quanto il potere; il sapere è potere, diceva sempre suo padre.
 
“Aveva certi occhi” disse Lupo, “Aveva il viso d’un angelo, ma gli occhi cattivi come” – “Quelli d’una sirena?” lo interruppe Giuliano, con un sorriso sghembo, certo che avrebbe detto quello, “Si” commentò con un tono sottile il vecchio; Lucrezia era meravigliosa, bianca, liscia, ma certamente nulla d’angelico, o che potesse sembrare tale, era forse lei la sirena? No, era Dracone che cantava di canzoni che lasciavano naufragare le navi e condannava le anime all’inferno.
 “Eravamo a Ferrara” confidò Lupo, “Ero con vostro zio” aggiunse, entrambi i cugini rizzarono le orecchie a quelle parole, trovando sempre interessante sua santità nei racconti. Giuliano ricordava, quando erano giovani, Francesco della Rovere, trovava un lezioso divertimento nel raccontare della sua giovinezza, piacere che s’era privato da quando indossava la tiara sul capo, assieme a tutte quelle piccole sfumature d’allegria birbonesca, pareva quasi un altro uomo, forse era semplicemente il peso del suo ruolo o il dolore, a Giuliano non era parso più diverso da quando aveva appurato da Girolamo della morte della piccola Amelia. Non doveva esistere dolore più straziante per un padre vedere un figlio morire.
Lupo volse lo sguardo verso di lui, certo dell’andatura del cavallo, non disse nulla, tornando poi a rivolgere gli occhi al sentiero, la porta cominciava a farsi vicina, “E poi?” chiese Girolamo, con un groppo alla gola, quasi pavido, Giuliano l’avvertiva, all’idea di entrare in quella città, “Quando a Madonna Margherita venne a noia la festa, anche lei andò via” rispose Lupo. Il cardinale saettò lo sguardo verso il vecchio, “Ma come nessuna notte d’amore e passione?” domandò curioso, Mercuri rise seccamente ed amaramente, come se fosse stato punto da qualcosa, probabilmente nell’orgoglio, “Probabilmente a quella festa, lei non s’era neanche accorta di me” confidò con voce cupa, chiudendo gli occhi, seppellendo nel profondo quel dolceamaro ricordo.  Agli uomini di chiesa non era concesso potere avere una moglie – o concedersi ai piaceri carnali – eppure Giuliano tra i suoi compagni non aveva trovato uno solo di loro, smanioso di rispettare tale veto, nonostante gli animi di tutti rimanessero leggeri. Lupo pareva martoriato da quel sentimento univoco e mai sfogato, era quello a tormentarlo? L’insoddisfazione e il rammarico di non aver colto quella angelica sirena quella sera? O c’era di più?
E le sue sirene, invece? Lucrezia sola in un grande letto forse stretta ad un amante a rider di lui così preoccupate per Dracone legato con il ferro in qualche sotterraneo.
 
 
 
Costanza D’Avalos aveva il viso pulito come doveva una brava fanciulla avere, tondo e delicato, finemente chiaro come la porcellana, i capelli scomposti di chi del pettine non doveva aver un gran legame, tutti nodosi, scuri come il legno bruciato. Indossava una gonna larga giallo come un limone, con fiori damascati, d’un giallo più scuro, un bustino rosso bruno, con maniche a sbuffo, che ricordavano petali di rosa, d’un acceso vermiglio. Sembrava una sorta di fiore delicato a confronto di quella granitica e burbera creatura dal cui seme era nata.
Innico era seduto di fronte a lui, su uno scranno di legno dipinto d’orato, con un cuscino di stoffa scura imbottita; vecchio, ma tutt’altro che stanco. Aveva occhiaie e zampe di gallina, che non emanavano affatto stanchezza o debolezza, conferivano l’aria di una stoica figura da ammirare, come i vecchi busti dei savi romani. Costanza s’era avvicinata a loro, con gli occhi spalancati e curiosi, seguendo un servo che aveva depositato sulla tavola tonda che gli divideva dei calici sottili colmi di vino rosso come il sangue e dei molluschi serviti su piatti di ceramica fina. Aveva storto il naso, non era sfuggito agli occhi attenti di Innico, che s’era se possibile più steso con la schiena, esponendo il petto come un pavone, lì dove era sfoggiata la torre d’orata sulla blasone blu. “Non gradishci il peshce?” domandò a denti stretti l’uomo, con quel suo accento strisciato, che si portava dietro dalla giovinezza a Castiglia, “Non sia mai” disse rispettoso lui, cogliendo la forchetta d’argento ed animandosi per tirar via la creatura dal suo guscio. Costanza se ne stava sempre lì con gli occhi spalancati di curiosità, Innico si voltò appena verso di lei, con gli occhi non del tutto aperti, in qualche modo seccato, freddi e verdi, “La mea veda1 ” disse perentorio, “Si?” mormorò la ragazzina tutta incuriosita, neanche vent’anni, ancora bella come un fiore, senza però un marito ad impalmarla, “Và!” aggiunse schietto, con un gesto secco della mano, come scacciasse un insetto, Costanza annui, si raccolse con le dita pallide la gonna gialla, fece un delicato inchino e si ritrasse via correndo rapida come una cerva, incurante delle caviglie sottili in bella mostra.
 
“Diventa ogni anno più bella” constatò lui, mordendo la molle creatura, guardando ancora la direzione in cui la fanciulletta era fuggita – consapevole di aver in qualche modo offeso il padre. “Ja. Una flor, che shposherà un nobile italiano e non shpenderà mai due parole con una melanzana bashtarda come te” aggiunse Innico, l’altro rise, piccato ed ostile; non importa da quanto tempo lavorasse a fianco di quel’uomo,  il marchese D’Avalos lo guardava nello stesso modo superbo, arrogante e stizzoso della sua matrigna, sentì le dita formicolargli dal nervoso. “Mi auguro tu non mi abbia chiamato qui, distraendomi dalla mia ricerca, solo per denigrarmi” commentò alla fine lui, dopo aver inghiottito il mollusco, con molta meno fatica di quanto avesse immaginato, la creatura era viscida sul palato, ma piuttosto buono.  Innico sorrise in quella maniera arcigna che non voleva dire mai nulla di buono, prima di sorseggiare il vino; il viso s’era trasformato in una maschera raggrinzita,“No” disse fermo.  Del Marchese potevano essere dette molte cose, ma non di certo che avesse remore ad esser diretto. Comunque Innico si prese il tempo necessario per gustarsi ciò che v’era nel piatto prima di decidersi a parlare, “Il Sacerdote mi ha incaricato” commentò alla fine, come se quello giustificasse tutto. Lui sentì i brividi sulla schiena, nel sentire pronunciare il nome con cui era noto il loro maestro. “Innico …” cominciò senza nascondere una vaga frustrazione, l’altro uomo grugnì, “Marcheshe o Sher D’Avalosh, per te” – si pulì, con un fazzoletto, il rosso dalle labbra –  “O Rivolgiti a me come tu shai” lo interruppe, “Stratega” cominciò nuovamente lui, senza nascondere affatto un tono  infastidito ed un occhio vile Innico.
 “Mi è concesso sapere perché ho dovuto abbandonare la ricerca di Caterina?” domandò alla fine lui, con una smorfia sulle labbra. Vide nella sua memoria scolpito come un viso sulla pietra, dell’ultima volta che l’aveva veduta, scaltra come una gatta, il volto granitico, ma gli occhi furbi di chi  aveva capito già tutto, scomparire nelle ombre quasi non fosse fatta di carne. “Perché il nostro misterioso Sacerdote lo vuole, mio buon Mago” disse una voce alle loro spalle, Innico  strinse le labbra rugose. Lui, invece, si voltò di scatto, con la mano sull’elsa della spada posata alla sedia, non riconoscendo a primo acchito la voce.
Il nuovo venuto si dimostrò nel suo aspetto quanto mai famigliare; un viso fin troppo gioviale e divertito. Il Cantore, vestito di nero come il cupo mietitore, una lunga tunica, dalle maniche larghe, le braccia spiegate come ali d’uccello, pronto ad accogliere un abbraccio, “Al” disse rallegrato il Mago, prima di sollevarsi dalla comoda sedia, per stringere quello in un abbraccio come  fosse stato suo fratello, un fratello amato chiaramente.
 Al ricambiò, battendoli anche un buffetto sulla schiena, con affettò, ridendo in quella maniera da iena; “She abbiamo nomi in codice, una ragione c’è”  aveva commentato tra se e se Innico, con quell’espressione arcigna e avvizzita. Il Mago lo guardò appena, con un’espressione di mero disgusto, gli anni in cui Innico valeva qualcosa erano ben trascorsi e perché il Sacerdote si ostinasse a tenerlo lo confondeva, il camerlengo del Magnanimo era solo un vecchio, aveva perso tutto il suo glorioso fascino.
Lo Stratega aveva mosso il capo sconsolato, “Vecchio, ti preoccupi sempre troppo” aveva commentato Al con una punta d’acidità della voce, non riuscendo a trattenere la curvatura delle labbra in un sorriso arcigno. Un servo impacciato, entrò nella stanza, portandosi dietro anche le vettovaglie, affinché anche Al potesse mangiare con loro. Aveva un aspetto allampanato ed i capelli neri, sporchi; quando incrociò gli occhi con quello del nuovo ospite, divenne livido in viso, l’altro non sembrò badarci molto, agli sguardi ambigui della gente, quando veniva in Italia, doveva averci fatto l’abitudine, cosa che invece a lui non era mai riuscita, lo sguardo della gente continuava a bruciarli su quella sua pelle tanto disprezzata.  Al s’era accomodato su una delle sedie libere, accavallando le gambe, puntando un gomito sul manico della sedia, posando una guancia sul palmo; era un uomo alto e snello, dalle spalle strette, il viso d’olivastro, cappelli scuri, ondulati come il mare, intrecciati ed un alone di sottile barba sul volto, aveva occhi verde scuri, come olive. 
 
“Pensavo non ti avrei più rivisto” aveva commentato con tono dolceamaro il Mago con un sorriso incredibilmente sincero, quello aveva ghignato malizioso, “Che uomo di poca fede” scherzò, con quel suo sorriso schietto, “Neanche se dovessi divenire il califfo, Carlo, i nostri destini smetterebbero di incrociarsi”  aggiunse con beneamata convinzione. Un cameriere cercò di servire anche ad Al del vino, “Acqua, per me” disse quello, fermando la caraffa, non dando segni di disdegnare il cibo, però. “Un uomo che non beve è un uomo che ha segreti” commentò il Mago divertito, l’altro rise con vago divertimento, “Più di quanti tu possa immaginare” commentò, sollevando dal gambo un calice ricolmo d’acqua, come proponesse una bevuta. Il Marchese D’Avalos roteò gli occhi seccato dai due, insofferente come solo i nobiluomini sapevano essere  - ed i vecchi, incapaci ad abituarsi alle generazioni successive - scommetteva Carlo. “Parlando del califfato, non hai avuto ancor il ruolo di papa nero?” aveva chiesto poi incuriosito poi il Mago, bevendo una sorsata di vino, Innico non nascose un certo interesse.
Al s’era smunto del sorriso ironico che adornava il viso, “Di nero, qui ci sei solo tu” rispose piccato, prima di ghignare, “No. Il vecchio tirerà le cuoia a breve, ma quel ruolo non è ancora mio, purtroppo” aveva ammesso un poco risentito poi, posando il calice sul tavolo, “Ma dopo …” aggiunse con enfasi. Lo Stratega  lo guardò con una punta d’amarezza sul viso, “She non otterrai quel ruolo …” ringhiò, “Sarò solo un beduino e lui una melanzana bastarda?” chiese retorico Al, indicando loro due, con un tono derisorio, di chi di prendere sul serio le cose non poteva averne; anche lui si fece, d’altronde, una risata di gusto, quanto più per il viso indispettito del vecchio.  Era si ancora sensibile alla sua condizione, ma Al era più un amico che un confratello.  "Diventare Califfo è come ottenere la carica di papa" aveva aggiunto comunque stizzito il Cantore, tra se e se, ma le labbra lo stesso curvate in un sorriso sornione.
Carlo lo conosceva per quella sua incondizionata birbanteria, che quasi uno riusciva a collegarlo, alla stoica figura d’un religioso – di qualsiasi credo fosse – come invece era, figurarsi d’uno che parlava in nome d’un qualche presunto dio.
 
 Lo Stratega ringhiò, riducendo gli occhi a fessure, stritolò la forchetta dei molluschi quasi a piegarla; lo sapevano tutti quanto odiasse le beffe. Di nobili come lui, ne aveva conosciuti molti – troppi – nel corso della sua vita, quando ancora era ingenuo ed illuso giovincello, sempre alle spalle del suo grande padre. Era solo un bastardo, anche nella libertina Firenze, quel fardello contava ancora troppo, e nessuno s’era mai sognato di farglielo dimenticare, neanche per un solo istante, neanche suo padre, il grande Cosimo De Medici.  Carlo aveva smesso di mentire a se stesso da tempo, s’era sempre sentito profondamente di troppo, sbagliato ed a disagio all’interno della propria pelle, così diversa, così scura rispetto quella di suo padre. Cosimo l’aveva tenuto questo si, lui e la sua madre schiava Maddalena, senza però che incontrasse o si legasse con la sua famiglia, sempre guardato dall’alto in basso da quella vecchia ciabatta di Contessina, la moglie legittima, solo un bambino, troppo più giovane dei suo fratelli, e tenuto ben distante dai suoi cugini.
Carlo, i De Medici gli aveva odiati, tutti dal primo all’ultimo, sempre; la gioia, quando suo padre finalmente l’aveva considerato, aveva dato a lui il suo lascito per i figli di Mitra, a lui aveva presentato la brillante Caterina e svelato i segreti dietro quel mondo, regalato qualcosa che solo loro poteva essere, ma era stato sciocco, aveva dato a lui il fumo, aveva lasciato a Giovanni e Piero l’oro, la gloria, l’onoro ed il nome. A Carlo aveva lasciato sogni e basta, pericolosi, mortali ed effimeri; “Non l’hai capito che voleva solo sbarazzarsi di te?” aveva detto il  Sacerdote, il suo - futuro - maestro, mentre Caterina nell’altra stanza si preparava al viaggio, con gli occhi rigati di lacrime, per quel figlio che non poteva stringere da anni, Cosimo aveva lasciato a lui la follia, il rischio e la solitudine.
 
Prendersi i soldi di Lorenzo, vedere Firenze piangere e l’ossario di Giuliano, erano stato per lui gioia, la prima da molto tempo, da quando s’era accorto che per lui suo padre non aveva lasciato nulla. Giacere nel letto padronale, lì dove avevano dormito suo padre e la moglie, suo fratello Piero, dove abitualmente dormiva suo fratello Lorenzo, che tutto aveva avuto, con il membro piantato nella femminilità di sua moglie. Oh Clarice, il pensiero fu fugace, la visione di quella pelle, di quel corpo, d’un’altra fortuna che suo nipote s’era beato, senza ringraziare il cielo tutti giorno, come si poteva, si chiedeva Carlo, avere accanto una donna come Clarice e non lodarla ogni momento? Di tutto ciò che aveva fatto, quella donna era il suo unico rimpianto, avrebbe dovuto portarla via con lui, darle tutto l’amore che meritava e che quel suo stupido nipote non era capace. Clarice così bella, così luminosa.
Nella sua vita, in quei soli occhi chiari non aveva visto il disprezzo, una donna romana a Firenze ed un bastardo dalla pelle nera, nulla poteva essere esistito di più perfetto, avesse avuto la capacità di attraversare il tempo, che fosse un ciclo ed un reticolato, l’avrebbe portata via con se.
“Potremmo sapere, cosa il Sacerdote, preme di dirci, vecchio?” interruppe i suoi pensieri Al, senza smettere d’ostentare una certa arroganza, mista però ad un inconsueta calma, “Ashpetteremo il Cavaliere” aveva risposto lo Stratega con un tono piatto.
  L’ospite mancate arrivò dopo, con i capelli biondi inumiditi, il naso arrossato ed infastidito dall’aria salina della zona di mare, con indosso una parziale armatura, grigio scura, di ferro, su cui era dipinto un ormai scolorito leone rosso rampante, “Per trovare cvesto posto” si lamentò l’uomo, con il viso livido funereo. Il Cavaliere era alto, bianco come il latte, maculato sulle guance magre e nude di piccole lentiggini, aveva capelli biondi come spighe di grano, arrivano alle spalle, un viso bello, ma rovinato da una cicatrice livida sul naso che sfigurava il viso con una riga lievemente obliqua. “Non ti piace il mare, Hans?” aveva chiesto Carlo retorico, con un ghigno sul viso, quello gli riservò un occhiata infastidita, “No.  Io detestare cvest aria, me innervosisce” si lamentò, mentre raggiungeva la sedia lasciata apposta per lui, lanciando un altro velenoso sguardo oltre la finestra, dove lontano si intravedeva il mare salino. “Tacete” commentò Innico, osservandoli attentamente, passando gli occhi su ognuno di loro, quasi volesse folgorarli.
 
 
 
“Preshsho Orfeo shono tramandati quattro regni: primo quello di Urano, che ricevette Crono, una volta che ebbe evirato i genitali del padre” esordì allora il vecchio, “Dopo Crono regnò Zeus, che scaraventò nel Tartaro il genitore; in seguito, a Zeus successe Dioniso che, dicono, i Titani gravitanti intorno a lui dilaniarono, per una macchinazione di Era, e si cibarono delle sue carni.” continuò Al quella preghiera che sanciva l'inizio di ogni incontro tra Nemici dell'Uomo.  Pratica che Carlo trovava sciocca, non meno del rituale dei Figli di Mitra, come richiesto fece la sua parte; disse:  “ E Zeus, colto dallo sdegno, li folgorò e, generatasi la materia dalla cenere fumante da essi prodotta nacquero gli uomini” con sicurezza, ricordando quelle parole, “Infatti noi essere parte di lui, se verità che noi essere  formati da cenere dei Titani. Noi essere le corna de increato” terminò  Hans, mordendosi le labbra carnose, indisposto alla sua scarsa conoscenza delle lingue volgari.
Il marchese del castello  annuì lentamente, per la prima volta non urtato dalla loro presenza; “Fratelli” esordì, “Il Linguishta shi shta dirigendo a Napoli, in queshto momento” – il suo tono era austero, imperterrito. "Io incontrato con lui, Venezia, giorni fa" aveva rivelato il cavaliere.  Lo Stratega, come gli altri, non diede segno d'essersi curato di lui, preferendo voltare lo sguardo verso Al, “Per raccontare alla ducheshsha di Ferrara della Sherenishima e degli Ottomani” aveva aggiunto, prima di rivelare che il desiderio della madonna fosse quello di conoscere la vera condizione italiana, con l’assoluta convinzione d’aver trovato una spia su cui fare affidamento.
Carlo trattenne una risata di scherno, fidarsi del Linguista, era come consegnare un gregge di pecore ad un lupo. Aveva parlato l’ultima volta con il confratello prima di raggiungere la Signoria, per prendersi parte di ciò che gli spettava e sottrarre a Leonardo, ciò che Caterina gli aveva lasciato. Il linguista l’aveva accompagnato per metà della strada, con indosso abiti diversi, da fattore, anziché l’abbigliamento solito con cui era sua abitudine vederlo, per cui in Italia sarebbe stato guardato con sufficienza e con disgusto, come accadeva a lui in fin dei conti –  se non addirittura appeso per la gola a qualche ramo. Non avevano parlato dei Figli di Mitra o del Labirinto oppure dell’imminente missione, faceva ridere nel pensarci effettivamente: avevano parlato delle proprie famiglie, di quanto il Mago la odiasse e di quanto il Linguista l’amasse. Aveva raccontato a Carlo dalla sua bella, sciocca e fedelissima moglie – che nulla sospettava – e dei suoi fratelli, con l’orgoglio dipinto in un sorriso sulle labbra.
Carlo l’aveva seccamente invidiato.
 
Lo stratega ricominciò a parlare, “Cavaliere e Cantore andrete a Napoli” aveva detto, “Raggiungerete il noshtro fratello, sheguirete le shue direttive” aveva illustrato, rivelando che  quello tornava direttamente dall’incontro con il Sacerdote, “Dopo questo viaggio potremmo trovare un nuovo adepto o un alleato” aveva detto con un sorriso rilassato sul viso, soddisfatto in qualche modo, prima di bere un altro sorso di vino. I due annuirono, per niente turbati dall’incarico, ne dalla mancanza di conoscenze, di certi tempo era meglio conoscere le cose a tempo debito ed ignorane altre, non era mai noto chi ascoltasse, ne se si potesse fidare di ogni uomo attorno al tavolo.
“Tu, Mago” disse poi serioso, puntando gli occhi su di lui,  “Dovrai raggiungere la Mushicante” disse con un tono perentorio. Carlo annui, nascondendo abilmente l’inquietudine, interrompere la diretta ricerca del libro delle lamine lo infastidiva fin troppo, ma di incontrare la Musicante sentiva i brividi. La donna non era certamente la più pericolosa tra loro, ma aveva la stessa abilità nello scomparire nell'ombra quanto Caterina. Si spostava veloce, era il loro piccione viaggiatore. Perchè non fosse lì, lasciava Carlo interdetto. La Musicante non era mai stata una donna da restare ad attendere, con un profilo basso poteva valicare l'Italia senza che un solo uomo potesse solo accorgersene.
Quando era tornato dalle terre oltre il mare, con nient’altro che polvere tra le dita,  rabbioso e ferito nell’orgoglio, era stato raggiunto proprio dalla donna; la Musicante era scaltra, savia e pericolosa - eppure nessuno si preoccupava di lei, neanche Al-Rhaim sempre scaltro. Annui, “Dunque dove è ora la nostra consorella?”aveva domandato, chiedendosi dove fosse rintanata la consorella, "L'Urbe" aveva risposto Innico.
 
 
 
 
Lorenzo sembrava cento volte più infantile, mentre dormiva, con quella pelle così morbida, odoroso di gesso e vernice. Lordato dal viaggio, dal sudore e del suo stesso odore, era ugualmente una creatura incantevole, con i ricci serpentini e quel sorriso beato di chi aveva il lusso di concedersi il riposo senza temere le angustie della propria testa. Leonardo spostò un ciuffo appena dei capelli che scendevano sulla fronte, per direzionarlo dove interessava più a lui,  si fermò a guardarlo, cauto, si sporse oltre il letto, dove per terra erano stati abbandonati d’urgenza i vestiti e gli approvvigionamenti, scosse i panni della sua maglietta, ritrovando la bisaccia, da cui si premurò di estrarre il taccuino, le pagine tenute ferme dallo spago, un nero carboncino affilato c’era legato, pronto per essere usato. Guardò ancora un istante il giovane dormiente, quasi tentandolo d’esser ritratto, quando dalla bisaccia era scivolata fuori la pergamena donata da Giovanna Da Montefeltro, ben sigillata, con la cera rossa ed il viso affilato d’una volpe. Quando la madonna gliela aveva consegnata, Leonardo s’era ben guardato da riporla via dagli occhi curiosi di Lorenzo ed indiscreti di Sandro, più per il desiderio di tenere i due giovani lontani da quegli oscuri affari, che per altro.  Desiderava ardentemente proteggere Lorenzo da quel mondo, provava dolore al petto, nel pensiero di quanto male alla fine gli avrebbe fatto.
La visione della pergamena l’aveva così preso, da dimenticare anche di voler disegnare, aveva lasciato scivolare il taccuino sul pavimento per raccogliere la pergamena. Stratta tra le dita aveva rotto la cera, pressandola, un unico secco rumore, il viso della volpe s’era spaccato in due imprecise metà, dal contorno ondeggiato e frastagliato.  La pergamena era ruvida e giallognola, era più vecchia di quanto potesse aver pensato a principio, le parole che v’erano forgiate sopra, non erano nere, ma d’un secco inchiostro rosso bruno, tremolante, come d’una mano incerta. Le scritte erano in latino, lingua che aveva appreso poi negli anni, ci mise per sua vergogna più di quanto avrebbe voluto nel decifrare quell’incerto messaggio,  “L'Erebo mitiga spontaneamente/ la sua desolazione e concede che l'eterna notte si diradi/né l'urna di Minosse volge le incerte sorti” lesse a mezza voce, confuso da quelle parole. Madonna Giovanna aveva detto lui, di dirigersi da un tale, quando sarebbe stato il momento … E perché non proprio in quel momento? Forse era follia! Ma per l’incontro con madonna Aclima i giorni erano ancora da scandirsi e per quando potesse essere irrazionale infilarsi nel covo dei serpenti, sentiva l’impulso di incontrare Eliseo Vitalevi.
Scavalcò il letto, lasciando il fanciullo dormire beato, attese un minuto, sperando l’impulso di baciarlo svanisse. Non accadde. Ma lasciò ugualmente la stanza, in silenzio, cauto come un gatto, raccogliendo i suoi vestiti ovunque, faticando qualche istante a riconoscere quale fosse la sua di giubba e quale di Lorenzo. Chiuso la porta alle spalle, pronto ad andarsene – non prima d’aver ritrovato Zoroastro, forse al pianteranno bloccato a bere con qualche vecchio amico, senza di lui, non avrebbero di certo trovato un alloggio a così buon mercato, vide Sandro. Il biondo s’era privato di quella sua espressione pulita e gli abiti cipria ben disposti, s’era vestito come un contadino quasi, con la tunica bianca, un panciotto senza bottoni e calzoni scuri. Si chiudeva cauto la porta della sua stanza alle spalle, una pira di fogli ben legati da laccetti incastrati tra il gomito ed il polso, più attento d’un ladro. “Dove vai?” indagò Leonardo, sollevando un sopraciglio, colto in fallo, Sandro emise un gemito di sorpresa ed arretrò con un brusco gesto, finendo per poco a terra, ripresosi allo stipite, alcuni dei vecchi fogli sfuggirono, piantandosi sul pavimento, come semi di frumento, a meno d’un piede da Leonardo c’era l’immagine imprecisa d’una figura femminile, imprecisa, ricoperta da foglie e dalla lunga chioma riccia. Non aveva viso la donna, “Cerchi impieghi?” domandò Leonardo. Sandrò afferrò di fretta le carte, ansioso di sottrarle alla sua vista, “Non ti impicciare, tu” disse tutto preso.
Il più anziano sollevò un sopraciglio, "Se dovessero scoprirti con me" ci tenne a precisare, "Io non ho fatto nulla al papa" aveva risposto Sandro, per nulla interessato di ciò che sarebbe successo se fossero stati beccati. "Papa Sisto non è comunque uomo da accettare rifiuti" aveva detto perentorio Leonardo, se quell'uomo avesse richiesto che Botticelli restasse a Roma per affrescare una cappella o semplicemente per sapere qualcosa su di lui, Sandro non avrebbe avuto molta scelta. E tutto sommato Leonardo si sentiva responsabile per lui, visto che l'aveva seguito - e sembrava quasi un eresia dirlo, ma provava una certa empatia. Anche Leonardo avrebbe attraversato territori in guerra tra loro per incontrare una persona amata, almeno su questo erano d'accordo.
 Solo che la sua persona, Leonardo ignorava doveva fosse - e forse era meglio così. Nei suoi sogni era arpionata a sbarre di ferro e invocava il suo nome. Aveva scelto per ben due volte Lucrezia, questa volta s'era ripromesso di resistere.
Il tempo delle titubanze è cessato. Così aveva detto il vecchio.
 
Sandro invece era partito con l'uomo che odiava di più, per cercare una donna che aveva visto due sole volte in vita sua. Una ragazzina non troppo incantevole, con il viso emaciato e negli occhi una consapevolezza più profonda. Filippa Demopulo non aveva parlato del suo viaggio con Leonardo, ma aveva compreso il mondo onirico fosse crudele con quella ragazzina quanto con lui. Abbassò lo sguardo sui veri fogli che Sandro cercava di risistemare, osservando la riccia figura vestita di fiori e foglie d'ulivo, "Dovresti vederla per disegnarla meglio" lo canzonò, proprio mentre il giovane gli dava le spalle, ingobbito ed offeso, pronto ad andarsene. S'era girato di scatto, con gli occhi scuri interessanti, nonostante cercasse di dissimulare, "Certo" aveva detto schivo alla fine, "Tra qualche giorno, forse la vedrò" aveva rivelato Leonardo. Forse, non ne era sicuro, alla locanda da Vannozza Cattanei avrebbe incontrato madonna Aclima, forse ancora una volta in compagnia della sua devota serva dai capelli scuri.
 
"Di un po' Sandro, tu hai studiato latino?" aveva indagato Leonardo, "Mio padre faceva il conciatore ed ero il più piccolo di quattro fratelli" s'era lamentato il biondo, anziché rispondere, rivolgendoli uno sguardo velenoso, come se fosse stato invidioso di lui. E di cosa? D'essere cresciuto bastardo con un padre assente per delle campagne, in cerca di attenzione? Botticelli aveva talento, molto, considerata anche la sua origine, combinato ad una buona tecnica ed una testarda tenacia, eppure lasciava che i suoi malevoli sentimenti guastassero la sua arte.
 Comunque sia, Sandro non avrebbe potuto aiutarlo con il biglietto di Giovanna Da Montefeltro.
"Devo andare da tale, non farti notare, Botticelli" disse alla fine Leonardo, lanciando un ultimo sguardo alla porta, dove era rimasto a dormire Lorenzo. Così giovane ed innocente, da non meritarsi come amante uno come lui.
 
Non si era comunque liberato di Sandro. Anzi se l'era ritrovato attaccato alle caviglie per tutta la giornata. Aveva anche arbitrariamente rinunciato a chiedersi per qual motivo una delle persone che meno lo tollerasse, s’ostinasse a seguirlo. Infondo Zoroastro lo diceva sempre: gli artisti erano creature assai strane - certo non con termini così gentili. Ma almeno era certo che in questo modo non avrebbe in alcuna preoccupazione che quello avesse la sgradita idea di farsi notare. Così nessuno l'avrebbe cercato e forse non sarebbero inciampati in lui - e in Lorenzo e Zoroastro, se fosse accaduto ai due qualcosa si sarebbe sentito in colpa per il resto della sua vita.
Sentimento che in fin dei cointi provava per buona parte delle persone che finivano ad intrecciare la vita con lui. Era una cosa a cui suo malgrado si era abituato per quanto non riuscisse davvero a superarlo, Vanessa gli aveva detto, cotta dalle febbri, che prometteva luce, ma portava buio. Ormai era più che una certezza.
 
Con il biglietto di madonna Giovanna s'era diretto dal tale Eliseo Vitalevi. Non conoscendo sfortunatamente la via, aveva dovuto chiedere in giro. "Povero diavolo" disse un uomo vecchio, rugoso come una testuggine ed i capelli radi d'un grigio rovinato, continuando poi per la sua via, come se i due giovani non gli avessero chiesto nulla, "Pare che non sia una bella persona" aveva fatto notare seccato Sandro, mentre si spazzolava con la mano una manica, che doveva aver urtato qualcosa nel corso della loro passeggiata. "Quando mai" aveva detto a mezza bocca Leonardo senza dargli tutta quell'importanza, da che aveva incontrato il Turco, tutte le altre persone che i figli di Mitra lo avevano importato ad incontrare gente tutt'altro che bella, non che prima effettivamente si portasse gente di tutt'ltro calibro. Era pur sempre un bastardo.
Non s'era arreso, provando con quella che sembrava un'onesta meretrice in pieno giorno, con un vestito scollacciato, un naso ad uncino e l'incarnato bruno. Sorrideva accattivante, "Madonna" esordì Leonardo, prendendole un polso sottile, baciandole le nocche, cortese. "Non sono una sgualdrina, ser" aveva detto la donna arricciando le labbra, togliendo la mano dalla presa,  "Mai pensato" mentì Leonardo, cercando di sorridere affabile, "Cercavo un tale Eliseo Vitalevi" aveva rivelato poi, la donna aveva portato le mani al vitino stretto, "Uno scudo" ribatté quella con uno sguardo serioso, da affarista, con un sorriso storto, sopra le labbra sottili tinte di scuro c'era una cicatrice. "Sono un pover uomo" aveva risposto lui, "Sprechi soldi per un indovino?" aveva domandato lei, con le braccia incrociate al petto, strizzando il seno, in maniera più che provocante. Leonardo alzò un sopracciglio, "O cerchi lo strozzino?" confutò lei; l'altro uomo sembrava interessato, "Un indovino e uno strozzino?" indagò, posando il gomito sul muro, standosene appiccicato alla donna, lanciò uno sguardo a Sandro, disgustato.
La donna sorrise in maniera sorniona, "Si, degna stirpe di allibratori" aveva detto disgustato quella sputando per terra, "Ma pare che il buon messer Vitalevi sia uno di quegli uomini che parlino con cespugli in fiamme" aveva detto seccata ed anche abbastanza irretita, "Un visionario, dunque?" chiese  lui, la donna rise. "Forse. Qualcuno dice che è bravo" confidò alla fine, prima di mettere una mano sulla guancia di Leonardo per studiarlo meglio, accarezzandola. "Elisabetta da Bayti Laḥmin" si presentò lei poi, "Tommaso da Peretola" inventò Leonardo, sperando che Zoroastro non se la sarebbe presa a male. Sandro s'era inserito nella conversazione - non invitato - ribadendo di voler sapere dove fosse la casa di Eliseo Vitalevi, probabilmente esasperato da quella situazione.
Elisabetta lo degnò di uno sguardo appena, prima di tornare su Leonardo, "No" bisbigliò cauta, non sorridendo affatto, gli occhi ben aperti. "Come?" domandò Leonardo, colto di sorpresa, la donna spostò la mano dal suo viso per osservare i vestiti e le mani dell’interlocutore, "Non siete Zoroastro"  disse con un occhio critico, "Quel figlio di buona donna mi deve dei soldi, però. Se volete essere lui, almeno pagatemi" rise. Osservò le mani dell'uomo con molta calma, "Siete Fiorentino, non indossate abiti nobili e le mani rovinate" aveva tenuto a precisare, "Un artigiano? No, un artista" commentò attenta. "Conoscete molto gli uomini?" chiese Leonardo sottile, Elisabetta inclinò il capo, con un sorriso mellifluo sul viso. "Leonardo Da Vinci, giusto?" chiese a bruciapelo. Si irrigidì di colpo, sentendosi colto in fallo, in pieno. Prima che riuscisse a parlare, Elisabetta aveva inclinato il capo, "L'unico artista fiorentino così in confidenza da conoscere il nome di Zoro" spiegò, maliziosa. "Voi siete quella Elisabetta" colse Leonardo, ricordandosi delle varie disavventure di cui il suo amico si era reso protagonista. La donna annuì.
"Uno scudo per la casa di Vitalevi" ripeté comunque Elisabetta e Leonardo sapeva di doversi sentire grato per non aver alzato il prezzo, saputo la sua amicizia con Zoroastro. "Non siete di certo una meretrice, ma di sicuro un'ebrea" disse sarcastico Leonardo, guadagnandoci un buffetto sulla spalla, "Voi un rozzo sodomita, ci scommetto" berciò quella tutta offesa, soffiando come un gatto. "Chiedi a Zoroastro quando lo vedi" la provocò lui, dopo aver pagato quella fastidiosa tassa - forse un'altra persona ancora e avrebbero avuto l'informazione senza dover dare compenso. Sul viso dell'ebrea s'era dipinta un espressione indignata, ma fedele a se stessa, aveva dato ai due le direttive per la casa dell'indovino allibratore.
 
Sandro camminava al suo fianco più che silenzioso. "Quindi ..." aveva esordito il biondo, dopo poco, "Non lo vuoi sapere" l'aveva frenato Leonardo con un sorriso caustico sul volto, "Zoroastro si chiama Tommaso?" aveva sputato fuori Sandro, colto incontro piede. Non voleva chiedergli quello. "Si, ma non era di certo scenografico per il suo lavoro" aveva spiegato spiccio lui, non aveva di certo voglia di spiegare le scelte della vita del suo migliore amico a Botticelli, "Certo, perchè mai un tombarolo dovrebbe chiamarsi Pietro?" chiese retorico, con gli occhi al cielo,  "Indovino" corresse Leonardo, il nome l'aveva cambiato per il lavoro di facciata. Allungò il passo, osservando attentamente le vie, pronto a scorgere l'edificio che Elisabetta si era impegnata a descrivere. "Ed Elisabetta è?" aveva indagato Sandro, "Sai, Botticelli, ti preferivo quando ti illudevi d'esser troppo in alto per curarti delle beghe altrui" aveva risposto Leonardo, monotono. Il biondo lo guardò storto - più del solito, si intende. Se anche fosse stato qualcun'altro ad interrogarlo, qualcuno più gradito, Leonardo si sarebbe ben guardato da raccontare vicende che non lo riguardassero direttamente - ed anche di quelle era parsimonioso. Anche se la storia era di per se divertente,in un modo contorto. Elisabetta - secondo le parole di Zoro - non aveva avuto altra nomina se non quella d'una piacevole giornata, passata su un letto bitorzoluto, all'insegna della curiosità. La prima donna - e persona - con cui il suo degno compare avesse scoperto i piaceri del corpo. Ed erano stati scoperti. Tolta la virtù alla bella Elisabetta, il padre della donna aveva preteso che i due oltre che il letto consumassero anche le nozze. Zoroastro però d'un cappio al collo non ne aveva mai sentito il bisogno ed ancora ragazzino, non s'era presentato in sinagoga, ma era bellamente fuggito con la dote. Elisabetta aspettava ancora che Zoro o la spossasse o le ridesse i soldi.
La casa di Eliseo era piuttosto vecchiotta, di legno e calce, con la porta fatta di imposte di legno, la porta però era in ferro nero e rugginoso, un anello pendeva dalla porta. I due avevano osservato per un attimo la porta, spettando da una timorata distanza. Una figura s'era avvicinata, un ragazzo sbarbato, dai capelli biondicci, fin troppo filiforme, indossava una veste logora leggermente rovinata. Tra le braccia teneva un vaso di terracotta bianca, con alcuni disegni a Leonardo sembrò fin troppo simile a quello che la moglie di Riario gli aveva distrutto. Leonardo s'era avvicinato, seguito a ruota da un Sandro, con il viso cucito dal disinteresse. Con occhio più attento - e vicino - lo sconosciuto era certamente meno giovane di quanto era apparso, più nervoso ed magro. Tremolava, con la mano a mezz'aria, pronta ad afferrare l'anello per annunciare la sua presenza. Si era voltato però prima di farlo verso Leonardo colto un certo velo di imbarazzo, che l'artista ammise di non riuscire a capacitare. Così fu lui ad afferrare il campanaccio per annunciare le loro presenze. Non dovettero aspettare molto, prima che la porta venisse spostata, con un sinistro cigolio, che ne sottolineava la vecchiaia. Una figura ne era apparsa dietro. "Signora Carola, salve!" aveva enunciato lo sconosciuto, con la voce tremolante; Leonardo aveva concesso la sua attenzione alla presenza. Una donnicciola, più giovane di lui, ma certamente ben lontana da essere una donna-bambina, con i capelli scuri, lisci, che cadevano su un abito povero, d'un colore spento. E gli occhi, castani e vitrei, Leonardo provo un senso di spiacere. Erano occhi vuoti come quelli di un morto. Unico monile una stella di Davide d'oro sottile.
Carola aveva mosso il volto per posarlo sul suo. Leonardo non poteva essere sicuro se lo stesse studiando, o anche solo guardando. Aveva incontrato infinite persone strane nella sua vita, aveva vissuto situazioni al limite dell'assurdo, aveva attraversato il tempo e visto luoghi che non appartenevano a quel mondo - non solo geograficamente. Aveva parlato con se stesso, con gli spiriti anche, ma non aveva mai visto un morto ancora in vita. La fanciulla non emise neanche un commento, volgendo gli occhi allo sconosciuto, abbassò il viso fino al vaso, sfiorandone appena il bordo. Spostò la mano sul petto dell'uomo, aprì la mano, posandola sulla stretta cassa, poi mosse il capo in un cenno di diniego, socchiudendo gli occhi, per un attimo sembrò assumere una qualche espressione. "La prego, devo parlare con Eliseo! Mio fratello Silvano è scomparso" aveva supplicato il ragazzo, mostrando il vaso, ma Carola lo aveva già abbandonato, invitando loro ad entrare. Lo sconosciuto aveva provato ad entrare, Leonardo aveva pensato di fermarlo, ma Carola lo aveva già colpito ad una spalla con una lama, lesta alla medesima maniera l'aveva estratta, prima di far cenno a Leonardo di aiutarsi a chiudersi la porta alle spalle, lasciando l'uomo dall'altro lato, con le mani strette attorno alla ferita, con i cocci della ceramica sparsi sulla strada.
Carola fece cenno di seguirli, stretti davanti una scala stretta, alcuni voci sommesse venivano, ma la donna aveva scoccato appena uno sguardo alla scala. "Ma non parla?" aveva domandato Sandro, con le sopraciglia crucciate, confuso, "A quanto pare" aveva risposto lui asettico, mentre la ragazza apriva una porticina chiuso a chiave, che gli aveva condotti in una stanza piuttosto piccola, dove in tre sembrava difficoltoso muoversi, una finestra aperta dava su un cortile interno, unica fonte di luce nella stanza. C'era solamente una sedia, vicino ad un cavalletto su cui era tirata una tela, su cui era stato solo in parte disegnato con un'articolata costruzione un volatile, un corvo. Ed uno scrittoio, coperto di carte e pergamene. Solo l'ala sinistra era stata appena accennata con tinte di nero, differenti. L'uccellaccio del malaugurio sembrava il tema preferito dei dipinti, visto che compariva nella maggior parte dei quadri che adornavano le pareti, uno però sopra la finestra svettava in più, la raffigurazione di una caotica torre la cui vetta scompariva nella nebbia. "Babele" bisbigliò Leonardo, curioso da quella singolare anomalia; Sandro invece aveva raggiunto il quadro sul cavalletto, per osservare il quadro, "Una buona tecnica" aveva constato, "Senza impegnarsi negli sfondi, dipingere diventa per tutti" aveva aggiunto, appena un po' piccato. Per Sandro l'arte era vita. Carola non sembrava curarsene, tra le varie tele, carte e pergamene cercava qualcosa. "Non capisco poi perché disegnare gli uccelli" aggiunse Sandro, "I corvi poi" disse, confuso, ma anche colpiti. Carola si volse verso di lui, abbozzando la piccola bocca un sorriso, porse al ragazzo dei pennelli, gentile. "Vuoi che io mi distragga mentre voi ... parlate?" aveva chiesto vagamente gentile, così in abituale per il giovane artista, Carola comunque non aveva lasciato trasparire le sue intenzione, rivolgendosi a Leonardo.
Aveva pizzicato l'artista per una spalla, mentre lo conduceva fuori dallo studiolo, lungo un corridoio stretto, senza luce, che conduceva al cortile interno, non era un giardino, aveva erbacce e fiori selvatici, l'unico albero era un grosso melo spoglio, per l'inverno. La finestrella dello studio era aperto, un perplesso Sandro organizzava i suoi schizzi della donna misteriosa, provando a colorarla. Aveva smontato la tela di Carola, sistemandocene una pulita. Leonardo era quasi ammirato dalla sua mancanza di interesse per il mondo circostante, Sandro era assorto nello studio da essersi dimenticato di tutto il resto.
 
 "Perchè Babele?" chiese alla fine l'artista alla fine, senza smettere di osservare Botticelli nel suo mondo. Non si era aspettato una qualsiasi risposta, aveva capito della madonna non fosse affatto un'amante delle chincaglierie.  Carola s'era allontanata, vicino al melo arido per l'inverno, con i capelli scuri ed il viso polveroso sembrava la dea Melione3, gli occhi spenti e le labbra sottili. Mirava una finestra ai piani superiori ben chiusa, "Lì si trova Eliseo Vitalevi?" aveva questionato. La fanciulla aveva questa volta annuito, prima d'abbracciare il tronco dell'albero, per nascondersi alle spalle. "Ti beffi di me?" aveva commentato seriamente stupito Leonardo - e non poi così urtato. S'era recato in quella casupola alla ricerca di Eliseo Vitalevi, guidati dai sapienti fili della Madonna di Montefeltro - a suo volta probabilmente marionetta del Turco - invece s'era ritrovato prigioniero dei ludi di Carola, una donna senza voce. Leonardo aveva fantastico da infante, di giocare ad inseguirsi con una deliziosa e ridente ninfetta, un po' come tutti i bambini. Quando  l'età fanciullesca era venuta a mancare, l'occasione di dedicarsi a quel ludo s'era fatto ben più che un fantasticare. Firenze aveva offerto molto di più a Leonardo della casa di suo padre, ma Carola sembrava più spettrale.
Lo guardò con gli occhi vacui, appena, con il viso torso, dandoli la schiena. Prima di ruotare su se stessa, nascondendosi sempre dietro il melo.
Aveva abbracciato l'albero, osservandolo con gli occhi scuri, spenti. E Leonardo non aveva capito cosa fosse successo, perchè s'era ritrovato ad osservare una più giovane e disperata Aclima Lysimacus, aggrappata con le unghia al tronco di un rovere, dalle foglie verdi. Il corpetto era semi smesso, un labro aperto e sanguinate, uno dei due occhi da silvano, era gonfio e macchiato di viola. Più pelle di quanto una nobil madonna avrebbe dovuto mostrare, coperta di sangue, terra e disperazione. Urlava e piangeva, le unghia rotte e scavate.
Non era più nel giardino malmesso di casa Vitalevi, ma in un parco piuttosto grande.
 
Leonardo s'era voltato, alla ricerca di ciò che gli occhi colmi di lacrime di Aclima stavano guardando. Non aveva più trovato il grande parco, ne il piccolo giardino. Era all'interno della cripta, il ragazzino con cui aveva parlato una volta, in un sogno, era seduto sul marmo bianco del sacrario, i palmi delle mani erano segnati dai tatuaggi di fiori. "Vorrei poterla aiutare" sussurrò piano il ragazzino, "Ho scelto questo momento per cavalcare il tempo apposta" aggiunse. "Chi sei tu? Chi è lei?" chiese alla fine Leonardo, confuso. Aveva le sue ipotesi, il ragazzino sollevò lo sguardo, per un attimo il viso infantile, s'era fatto più virile e maturo, per un solo attimo.
Il viso che s'era ritrovato però a fissare era quello di Carola, sopra il suo, ad offuscare un sole pallido di gennaio. Era steso sull'erba selvatica del cortile interno di Eliseo Vitalevi, i capelli lunghi della muta sfioravano il suo viso, lei era piegata su di lui. Leonardo si tirò a sedere, lanciando uno sguardo vago all'ambiente. Quella visione non aveva senso, si prospettava come una sorta di ... memorando? Come ad obbligarlo a ricordarsi le motivazioni che l'avevano spinto dall'abbandonare la sua bella Firenze per l'ostica Roma. Si tirò in piedi, notando la fanciulla non aver neanche accennato ad aiutarlo, "Ho l'impressione di non esserti simpatico" commentò, con il desiderio di lenire l'angoscia che l'aveva assalito. Carola aveva infilato le dita sottili nello scollo del vestito, estraendone i resti di un  foglio di pergamena ripiegata più volte su se stessa, che protese verso l'uomo. Leonardo aveva preso il messaggio con un due dita, quasi volesse studiarlo, l'immagine che ne era ritratta da un lato, ricordava il disegno di una torre alta. Carola arrotolò una manica del vestito scuro, mostrando l'avambraccio lucido, nella parte interna la pelle era stata scarnificata, formando una scritta nell'alfabeto ebraico e lo mostrò a Leonardo.
L'artista toccò la carne della ragazza, trovandola calda. S'era aspettato di averla trovata gelida come quella d'un morto. "Il mio ebraico è arrugginito, temo madonna" bisbigliò di primo acchito, ma l'altra non ne sembrava ne turbata, ne frettolosa. Nonostante Leonardo percepisse come uno spillo sulla pelle il suo fastidio. S'era sbagliato, confessò alla fine, Carola era più viva di quanto era apparsa all'inizio. "Col olham sepa ahat ve oto ha milhaim" lesse, raschiando nella sua memoria il suono di quella lingua, che aveva studiato per diletto da ragazzino, che nella sua missione gli era venuta sempre comodo.
Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole.
"La torre di Babele" aveva sussurrato lui, annuendo. Non ne era certo, non aveva mai avuto uno spregiudicato interesse religioso, ne nei testi sacri - non era in grado di ricordargli tutti. Ma era quasi certo che parole così incisive e semplici4 appartenessero ad un testo sacro, del vecchio testamento, di quelli che gli ebrei seguivano. E sembrava parlasse proprio della Torre di Babele, dove tutti gli uomini parlavano la medesima lingua. Forse Carola lo portava marchiato addosso, perchè non ne parlava alcuna o forse c'era dell'altro.
La donna ritrasse il braccio, facendole scendere la manica a coprire la scarnificazione.
Poi posò una mano sul ventre, la fece scivolare fino alla sua intimità, ripeté il gesto altre volte, poi si chinò, afferrando con una mano l'erba, alzò l'altra la cielo. Si risistemò guardando Leonardo, ebbe per un attimo l'idea che Carola stesse sorridendo. "Sei una figlia di Mitra?" chiese lui, la fanciulla chinò il capo, indicò ancora una volta il suo ventre, il gesto della discesa e poi il suo petto. "Tua madre?" chiese Leonardo, cercando di indicare che ventre, femminilità e seno, potessero rappresentare la maternità. Carola annuì, quella volta.
 Poi senza aspettare altro, si infilò nuovamente nella casa dalla stessa porta, che precedeva il corridoio stretto, che avevano imboccato per il cortile.
 
Ritrovandosi poi davanti la porta dello studiolo. Sandro era così assorto da non essersi curato il minimo di loro, sulla tela si evincevano, lì dove era stato il corvo, due studi di figura, una era un semplice abbozzo, linee che si intrecciavano, formando qualcosa di polimorfo, l'altra appariva una donna fin troppo fina, rispetto le madonne che venivano dipinte, con una voluminosa chioma riccia. Filippa realizzò.
Un uomo era sceso dalle scale, non molto vecchio, ma con una barba e capelli lunghi, sale e pepe, l'attaccatura dei capelli stempiati ed indosso abiti scuri con arabeschi d'orati sul fondo, di stoffe finn troppo pregiate. "Carola, bambina mia dove eri?" chiese l'uomo gentile, accarezzando il viso della ragazza, quella non cambiò minimamente il suo viso, per nulla curata da quelle dolci parole. "Volevo parlare con tuo marito, ma Eliseo ha rivelato che oggi fosse curato solo d'una persona" aveva commentato l'uomo, alche  Carola aveva annuito appena, prima di posargli delicatamente la mano sotto il gomito dell'uomo per guidarlo con gentilezza verso l'uscio della porta.
Leonardo s'era seduto sulle scale in legno, erano strette, rovinate e la sua mente da ingegnere non faceva altro che portarlo a desiderare come doverle riaggiustare. Aprì il dono di Carola, non era altro che un foglio di pergamena su cui era stato scritto qualcosa, la grafia era la stessa del messaggio di Minosse che Giovanna gli aveva consegnato. Il messaggio era stato quanto mai una delusione, semplice volgare romano, in cui Eliseo Vitalevi si scovava di non poterlo ricevere fino alla settima ora dell'antimeridiano; lo invitava ad aspettarlo in una locanda.
Non era dunque lui l'ospite cui doveva curarsi?
Carola era tornata, aveva battuto due nocche sul legno dello stipite della porta, per attirare l'attenzione di Sandro. "Dobbiamo andare via, presumo" aveva constato Leonardo, fissando la donna, era minuta, ma non sembrava per questo una persona facile - o vagamente sottomettibile - giusto qualche ora, o forse meno, prima aveva pugnalato un uomo sull'uscio della propria casa perchè aveva provato ad entrare. Carola aveva annuito, lentamente, lanciando uno sguardo a Sandro, al suo quadro, stupita, confusa ed anche piuttosto interessata. Avanzò verso di lui, osservando il suo operato. Botticelli sorrideva soddisfatto di quello sguardo, consapevole della sua bravura, il viso di Filippa Demopulo era emerso nei segni di Sandro, non priva di tutta quella consapevole epicità. "Le piace?" aveva chiesto l'uomo, sorridendo con una certa allegrezza, desideroso che il suo narcisismo e piacere venisse fagocitato. Carola allungò una mano verso la tela, toccandola - ed inorridendo Sandro - senza curarsi di sporcarsi le dita o rovinare il disegno.
Aveva tolto la mano lesta, il viso in carboncino di Filippa era una macchia indistinta; indicò con sdegno la porta.
 
"Quella mi sembra pazza e toccata di cervello" si lagnò Botticelli, piantonato al suo fianco, con le mani intrecciate al petto, un espressione boriosa sul viso. E' coinvolta con i figli Mitra, ma Leonardo si tenne il commentò per se. "Ora che facciamo?" indagò Sandro quindi, con il capo rivolto verso di lui, Leonardo l'aveva guardato, crucciando le sopracciglia, "Io ho da fare" aveva commentato, mostrando il biglietto che aveva tra le dita, "Tu torna pure da Zoro e Lorenzo" aveva aggiunto, più per il bene di Sandro che per il proprio. Non tollerava decisamente la presenza dell'altro, era vero, ma decisamente era meglio per Botticelli tenere il naso lontano dalle questioni misteriche. "Non pensarci, Da Vinci" disse secco l'altro, con un tono piccato, "Devo assicurarmi tu non abbia la brillante idea di farti ammazzare" aveva aggiunto, "Da che ti conosco hai rischiato di raggiungere il creatore, più volte di qualsiasi altro cristiano" terminò. Leonardo mosse il capo sconsolato.
Per trovare la locanda, non aveva dovuto fermare tutti i passanti per la strada, ne dovuto pagare un testone alla donna che il suo più caro amico aveva lasciato impalmata ma non sposata. Era stato piuttosto facile ritrovare il posto.
S'erano accomodati su una delle lunghe panche, che sostava davanti ad una lunga tavolata. Ne erano poche, tre in croce. A quell'ora del giorno, quasi nessuno era all'interno della locanda. Un vecchio che dormiva sotto una finestra, un giovane nervoso che contava sassi di colori variegati ed una donna. E Leonardo aveva trovato in quella figura la più interessante da studiare. Senza aggiungere fosse la più gradevole. Non era molto alta, aveva seni rotondi e fianchi ampi, un sorriso malizioso ben evidente sul volto giovanile. E beveva come un uomo - capacità che l'avrebbe resa ancora più intrigante agli occhi di Leonardo, se non fosse stato già preso abbastanza da due persone.
Sandro, che gli era mollemente seduto di fianco, non sembrava dello stesso avviso, anziché alla donna lo sguardo meravigliato era diretto solo ed esclusivamente ai fogli di carta che aveva sparpagliato per tutto il tavolo, desideroso di una qualche pesca miracolosa. Sulla carta ingiallita c'era dipinto schizzi in grigio o in nero d'una donna, tal volta dal corpo bitorzoluto, senza viso ed altre volte snella, con una criniera leonina. In alcuni scarabocchi la donna aveva viso, alternava espressioni anguste con altre più dolci.
Leonardo aveva alla fine stabilito che come nella casa di Vitalevi, tutti i disegni raffigurarselo la figura di Filippa Demopulo. Aveva faticato non poco; la Filippa di Sandro sembrava una sorta di mitologica creatura, quasi una chimera, qualcosa che s'alternava da fiera bestia e leggiadra fanciulla, senza mai perdere dal viso un'area ferina, da guerriera. La Filippa  che lui aveva conosciuto, aveva si il volto da felina, ma anziché pantera, sarebbe stato meglio vederla di gatta. Chiusa su se stessa, spaventata, con il pelo irto e gli artigli da fuori, cosciente potesse lasciare un graffio e non molto altro.
"Dunque sei infatuato?" aveva domandato Leonardo, Botticelli non l'aveva degnato di sollevare neanche lo sguardo, limitandosi a ringhiare. Decise di prenderlo come un si. Ne aveva tutte le caratteristiche. Assottigliò lo sguardo, rendendosi conto di non aver mai visto Sandro, in tutti quegli altri, preso da qualcuno che non fosse Simonetta - e ne era certo per quella donna lì, era un amore platonico. Nessuno che non fosse abbastanza ricco era all'altezza di Simonetta. Leonardo non era mai stato abituato ai rifiuti, ma Simonetta Vespucci non riteneva il talento o l'intelligenza qualità importanti in un uomo. Dopo aver conosciuto anche suo cugino, poteva ben comprendere che l'avidità doveva essere un vizio di famiglia.
Pensare a Simonetta gli era sembrato strano. Non lo faceva spesso, la donna nella sua vita non aveva significato nulla di più di un no lungo il percorso della sua vita. E la dolorosa consapevolezza della sua nascita. Simonetta lo trovava bello, brillante, ma non aveva tempo da perdere con un folle spiantato, cercava un uomo ricco, che la sposasse, che le regalasse un posto in quel mondo d'orato che tanto anelava. Era abbastanza bella da potercela fare e Firenze - che non guardava i titoli - era la città giusta. "Devo farlo prima di invecchiare. Prima di diventare brutta"  gli aveva detto una volta, dopo essersi trovata vittima dell'interesse dell'uomo giusto. Simonetta non era mai invecchiata, non era mai stata brutta, ma non aveva mai avuto la vita che sperava. Era morta giovane, ancora bella e l'uomo che l'amava ne aveva trovato un'altra ed un'altra ancora, finché non era morto in una chiesa ed una ragazzina - che per ironia voleva farsi suora - s'era ritrovata un bastardo in pancia. Il figlio maschio di Firenze. Simonetta e Vanessa s'erano conosciute un giorno, un inverno lontano, bionde entrambe e null'altro in comune. La prima aveva anelato una vita, che la seconda non era mai stata sfiorata di poter avere e ...
Vanessa aveva la vita di Simonetta.
 
"Perchè siamo qui?" aveva domandato Sandro. Perchè Carola ci ha spedito qui, avrebbe dovuto rispondere, ma si limito a ignorare le parole di Botticelli ed osservare la donna dai fianchi larghi che beveva della birra. Carola gli aveva spediti in una bettola del ghetto ebraico, non lontano dalla porta che riconduceva alla cristianissima Roma. Un posto lugubre e nauseante, lì Eliseo Vitalevi lo avrebbe incontrato. Sandro era un effetto collaterale, lui non voleva lasciarlo e contemporaneamente non poteva lasciarlo andare in giro per Roma, rischiando di attirare le attenzioni di qualche signorotto che avrebbe potuto risalire a lui - e far sapere al papà di essersi volontariamente infilato nella tana dei leoni. Però era riuscito ad ammansirlo per bene, senza il suo impegno con Madonna Aclima Lysimacus, Botticelli non aveva altro tramite per raggiungere la donna greca che occupava i suoi disegni.
La donna, quella vera, nella locanda, gli aveva guardati appena, era piuttosto giovane, con le guance rosa e gli occhi verdi, aveva sorriso balba, inclinando il capo. Interessata. Leonardo ricambiò il sorriso, quasi per cortesia. Era una bella ragazza, ma non era interessato a lei in quel senso, quasi in una maniera più analitica. Non avrebbe potuto desiderare altro con Lorenzo nudo nel suo letto, che l'avrebbe sicuramente aspettato furente. E con Lucrezia prigioniera in qualche luogo, che lui aveva deliberatamente lasciato a marcire. L'aveva detto, no, il vecchio? Il tempo delle titubanze era cessato.
"Ho un certo interesse per gli artisti" la femmina, s'era accomodata di fronte loro, lasciando genuinamente presa, sguardi alle opere inconcluse di Sandro. "Sfortunatamente qui hai solo due perdigiorno" aveva detto secco l'altro senza degnarla di uno sguardo. Lei non diede segno d'essersi offesa in alcuna maniera, "Fiorentini" aveva trillato allegra, riconoscendo i loro accenti, "Non avevo compreso foste già in buona compagnia" aveva detto allusiva, "Non ostentatelo, qui a Roma la sodomia è punibile" aveva bisbigliato, con una certa apprensiva.
 Allora Sandro aveva sollevato gli occhi dai fogli, "Piuttosto che con lui, preferire farmi evirare" disse secco ed anche un po' indignato - Leonardo valutava dovesse essere lui a doversi indignare, ma lasciò correre. Discorrere con Sandro era inutile oltre ogni misura.
La ragazza rise, chiudendosi le labbra dietro le dita sottili, divertita, "Perchè mai? E' così un bell'uomo" disse sfacciata, continuandola coprire il riso con la mano, "Tutte le donne dovrebbero essere sfrontate come voi. Il mondo sarebbe un posto più divertente" disse Leonardo, mentre Sandro alzava gli occhi al cielo, "Perchè a Firenze non lo sono?" aveva indagato la donna.
 
La donna si chiamava Angelica, anche se di tale qualità non aveva neanche l'aspetto, era meno giovane di quanto sembrasse ed era una donna che non temeva nulla. Ed era più o meno una reietta sociale, nata cristiana e vedova d'un uomo ebreo, malvista dunque da nessuna delle due partiti. "Quindi conosci bene la zona?" aveva inquisito Leonardo, alche Angelica aveva annuito, continuando ad osservare i disegni di Sandro, "Che sai dirmi di Eliseo Vitalevi?" aveva domandato a bruciapelo, al nome la donna aveva sollevato il capo stupita, "In comune abbiamo il fatto, che per la gente, adoriamo il demonio" aveva risposto sincera, con un sorriso ironico, "Solo che nel suo caso, sembra quasi vero" aveva aggiunto, prima di dilettarsi nel racconto delle sue spaventose doti oracolari. "Ciarlatano" aveva sputato fuori Sandro sentenzioso, affatto convinto di quelle storie. Leonardo ci vedeva un figlio di Mitra, che sfruttava le sue capacità per arricchirsi - se non fosse stato che a detta di Angelica, Eliseo non volesse monete. "Altrimenti starebbe già bruciando su rogo" aveva notato intelligentemente Botticelli, ma Angelica lo aveva deriso, "Neanche una settimana fa, il nipote di sua santità era da lui" aveva spiegato.
Aveva sgranato gli occhi e s'era morsa la lingua. Aveva detto qualcosa che sarebbe stato meglio tenere per se, "Potrei anche essermi sbagliata" aveva detto fredda, con le labbra tremolanti. "Nessuno ti ucciderà per averlo scoperto" la tranquillizzò Leonardo, ipotizzando fosse quello ad aver creato tutto quel panico. Angelica era rimasta pallida in viso, "Qualcuno lo dica a Francesco" aveva confessato, burbera, ed anche leggermente collerica. "Francesco?" aveva domandato Leonardo, avvicinandosi, curioso. La donna s'era allontanata appena titubante, "Un fiorentino, come voi" aveva bisbigliato facendo saettare lo sguardo da Leonardo a Sandro, "E' stato a Roma per qualche tempo, io gli ho offerto un letto " - con lei dentro, probabilmente, pensò l'artista - "Lui aveva del lavoro da sbrigare per il suo signore, che riguardava giusto il Conte Riario" aveva detto d'un fiato, "Un giorno a scoperto la serva del signore andare da Eliseo" aveva spiegato tutta presa ed animata, "Dopo tre giorni è andato anche il Conte. Francesco gli ha seguiti, il nipote del papa e la serva, dico" aveva preso un respiro, "E dopo che quelli hanno lasciato la casa dell'usuraio, di Francesco non se ne è saputo più nulla" commentò Angelica.
Bene: un fiorentino, che lavorava per un signore contro Riario, il conte ed Eliseo. Che assurda torsione degli eventi. "Non ti è passato per la mente fosse semplicemente stato ucciso perchè pedinava l'uomo più folle d'Italia?" domandò retorico Sandro, vomitando veleno e sarcasmo. Angelica sbuffò, "Mi riguarderei lo stesso, da Eliseo Vitalevi" aveva detto poi, indispettita, lasciando cadere per terra i disegni di Sandro, "C'è un macellaio fuori la porta" aveva commentato la donna, mentre osserva divertita il giovane chinarsi per raccogliere i suoi disegni, furente in viso, "Aveva due apprendisti, ma il Conte Riario se gli è presi entrambi" confessò alla fine, mentre Sandro risistemava i fogli sul tavolo; Leonardo alzò un sopraciglio.
Perchè continuasse la storia Angelica avevano dovuto offrirle altra birra – era comunque meno cara di Elisabetta. "Ma non aveva paura di essere uccisa?" aveva chiesto nervoso Sandro, "E cosa centra questo con noi?" aveva ringhiato poi, "Con te: nulla" aveva risposto schietto Leonardo, ma con lui: tutto.
 Sandro aveva avuto una specie di attacco d'isteria - lui sospettava da molto che non fosse un male solamente femminile - in cui aveva fatto ribaltare anche la sedia, prima di andarsene dalla locanda indiavolato. Leonardo avrebbe dovuto inseguirlo, era la cosa giusta, ma Angelica poteva dissetare di poco, la sua sete di conoscenza.
Era certo poi Sandro non si sarebbe allontanato di molto.
"Dunque?" esordì l'ingegnere, "Dunque" riprese la donna, "Non so chi dei due cercasse, ma sarei propensa per il grecolo" aveva detto, assaporando la birra, macchiandosi le labbra di schiuma, "Dracone è - o forse meglio dire era - una persona losca e Silvano fin troppo candida" aveva commentato. "Losca come?" aveva indagato Leonardo. Angelica aveva sollevato le spalle, prima di rivelare non avesse molte prove per avvalorare la sua tesi, solo sospetti e sensazioni. "Aveva un amante della casta alta" aveva detto la donna, "Non è così losco" aveva risposto lui, se si considerava la Donati in quel modo, anche lui doveva risultare in quella maniera, no? "Si lo so, ma incontrava anche gente sempre vestita di nero, una volta l'ho sentito parlare anche di cose blasfeme - blasfeme per me intendo! Che per altri sarebbero stati da bolgia infernale" aveva detto la fanciulla tutta d'un fiato.
No, a Leonardo di tutta quella facendo non interessava nulla.
"Poi ... Eliseo e Dracone litigavano spesso" commentò Angelica, "Quando erano insieme parevano rievocare Guelfi e Ghibellini"  sembrava orribilmente seria, "Solo  che al posto del Papa e dell'Imperatore, parlavano di Mitra e Minosse" disse.
Angelica aveva continuato a parlare quasi per se stessa, Leonardo aveva smesso di prestarle attenzione da un po’.  Angelica aveva rivelato proprio dopo che il Conte aveva portato via Dracone qualche giorno dopo essere stato da Eliseo, proprio dopo l'ultimo scontro verbale dai due. "Chi era per Minosse?" l'aveva interrotta Leonardo. Pensando al messaggio che aveva trovato Giovanna di Montefeltro, con la volpe in cera lacca, che parlava di Minosse e l'aveva portato proprio a suonare alla porta di Eliseo. Angelica ci aveva pensato su un attimo, "Dracone, mi pare" aveva rivelato turbata. Era un nemico dell'uomo! Chiaro! Sembrava ovvio! Minosse che aveva fatto costruire il labirinto per il Minotauro, sconfitto da Teseo! Minosse Re di Cnosso! Certo!
Anche Angelica sembrava aver avuto una propria illuminazione perchè continuava a cercare tra le pagine abbandonate di Sandro qualcosa. Presa una, aveva sgranato gli occhi, spaventata, "Tu sei …" aveva chiesto, schiudendo le labbra, Leonardo le aveva strappato il foglie dalle mani, senza grazia, osservando nella carta il viso più o meno definito di Filippa Demopulo. "Lei cosa ...?" aveva chiesto confuso, "Filippa! La sorella di Dracone!" disse Angelica, come se parlasse di qualcosa di ovvio. Si rese conto dall'espressione che Leonardo - era certo d'aver fatto - che non doveva esserlo così tanto.
 La fanciulla si chiuse le dita sulla bocca, prima di scappare spaventata.
"Una donna assai bizzarra, vero?" aveva chiesto una voce alle sue spalle. Leonardo si voltò, trovando un uomo, che nonostante l’aspetto particolare, l’incarnato bronzeo, i capelli ramati lisci ed una rada barba, sembrava essere il tipo d’uomo da passare inosservato.  Non anonimo o qualsiasi, solo lesto.
"Eliseo Vitalevi?" osò, "Si, puoi chiamarmi anche Visionario, Leonardo" aveva detto quello con un bel sorriso. C'era qualcosa di terribilmente famigliare in lui, che quasi infastidiva l'artista perchè non riusciva a coglierne il senso.
 
Eliseo s'era seduto al posto che era stato di Sandro, lanciando appena uno sguardo ad Angelica, che lontana riservava occhiate cagnesche. "Perdona il ritardo" disse realmente pentito, "Ma ho dovuto dire ad una persona che sarebbe morta" aveva il tono d'un uomo stanco ed amareggiato, occhi bassi e delusi. "Non ha potuto evitarglielo?" chiese Leonardo, rendendosi conto che interrogarsi su altro sarebbe stato quasi inutile, i figli di Mitra rispondevano solo alle domande che volevo loro, anzi a volte rispondevano a domande che nessuno aveva posto e deliberatamente ignoravano le altre. "Non tutti gli uomini sanno drenare i fiumi, Leonardo" aveva risposto semplicemente, "Alcuni possono solo immaginare come potrebbe essere" il suo tono era malinconico, profondamente infelice di quella mancanza.
"Quindi morirà?" si ritrovò a chiedere Leonardo, stranamente affine a quella povera anima, Eliseo tacque per qualche minuto, "Forse" ammise, "Il fatto di aver saputo della sua morte potrebbe cambiare il destino" si permise di sorridere dopo quella frase.
Un sorriso non del tutto sincero, in un tono carico di un mancato auto convincimento. Qualcuno sarebbe morto. "Se dovesse morire, il destino riprenderebbe un percorso che era stato già cambiato, però" confessò con un tono lugubre Eliseo; "Ma non é per parlare di questo che ci siamo incontrati, mio buon amico" disse l'ebreo, "Non principalmente, almeno" confessò.
 
 
 
Angelica sbuffò, mentre svuotava il pitale fuori dalla finestra, senza preoccuparsi dei malaugurati di sotto. Schioccò il collo, era tutta indolenzita. Commessa quell'azione abituale, si era diretta verso quella vecchia - e malandata - accozzaglia di coperte mangiate da tarli e fiero che faceva passare per giaciglio notturno. Neanche una settimana prima aveva Francesco almeno a rallegrare l'ambiente tetro di quella stanzuola. Un fiorentino ameno, anche un po' sciocco, ma indubbiamente fedele, oltre questo era anche un gran amatore sotto le coperte. Angelica non si era di certo invaghita, neanche per un singolo istante, ma aveva trovato nella sua compagnia una qualche leggerezza, da lasciarla in quel momento preda d'un certo fastidio, come di un vuoto. La  mancanza il suo più alto crimine. Perfino del suo insulso marito Angelica aveva provato un senso di nostalgia; aveva dovuto sposare un giudeo - con l'unica cosa più grossa del suo naso, la tirchieria - per dovere. E vederlo morire corrose dalla sua lenta tortura era stato quasi un piacere. Però scoperti gli specchi, sepolta la salma, la parte del letto che era appartenuta allungo all'uomo che aveva disprezzato s'era fatta fredda. Dracone non si era risparmiata parole di biasimo, canzonandola di quella sue debole indole, mentre con le mani rude segava ossa e carni. Angelica voleva bene anche quel superbo grecolo miscredente e l'idea che presto sarebbe morto la rattristava un poco. Ma così doveva essere, non stava purtroppo a lei decidere.
Afferrò le coperte del letto, per tirarle fin sopra il cuscino, quando un rumore alle sue spalle, la fece sobbalzare. Sciocca! Stupida! Non aveva armi a sua disposizione, se non la candela che ardeva tenue accanto al comodino.
Un piccolo fuocherello imprevisto era comunque più pericoloso d'un pugno d'una giovinetta, si convinse. Repentina come una gatta afferrò la candela, agitandola contro un'ombra alle sue spalle. La fiamma aveva lasciato nel buio, una scia appena di luce, una figura dalla barba scura e crespa appena. "Oh!" la voce di Angelica fu quasi un sussurro, nonostante le labbra spalancate, una mano ferma, le bloccò il polso, senza violenza - o eccessiva forza. "Non dovresti essere qui" disse colpita, osservando alla luce tenue della fiamma tremolante il viso d'un uomo straniero, che affondo conosceva. "Non sei contenta di rivedermi Musicante?" aveva domandato quello con un tono di scerno, le labbra carnose coperte dalla peluria crespa si incrinarono in un sorriso irrisorio, "Non era te che aspettavo, beduino" riuscì a dire lei, infiammata, tirando di forza via la mano dalla presa.
"Aspettavi me?" chiese qualcun altro, Angelica spaventata mosse la fiamma contro la voce, vicino alla finestra semi aperta, nero come un tizzone consumato dal fuoco, il Mago se ne stava appollaiato, sotto una lunga manta scura e pesante, "Ti sei lasciata cogliere di sorpresa?" la denigrò il beduino, "Carlo" disse lamentosa lei, ammiccando al Mago ed ignorando l'altro, "Ti aspettavo" aveva aggiunto.
La Storica - sua rispettabile, quanto enigmatica consorella- le aveva scritto dal suo collegio monastico qualche tempo prima rivelandole dei piani che il Sacerdote aveva in serbo per lei. Angelica era stata colta da quella lettera con un certo brivido, era passato quasi un lustro dall'ultima volta che avesse avuto contatti diretti con i suoi confratelli - se non si considerava Dracone ovviamente, aveva ricevuto l'ordine da il Re di sposare un tirchio uomo ebreo, ucciderlo ed impadronirsi della sua eredità. Cosa che non era risultata difficile. Da allora aveva ricevuto saltuarie lettere da lo Stratega, che l'aveva impegnata in un attenta osservazione di Eliseo, senza esporsi troppo.
 E dopo un lustro, la Storica che Angelica ricordava una donna pallida fatta di latte, dall'età indefinita e più granitica della pietra stessa, le aveva commissionato nuovi ordini, prima di tornare alle sue originali mansioni: cantare. Accogliere il Mago ed aiutarlo in tre semplici ordini, uno dei quali era stato già avviato, quel giorno stesso. Ma del Cantore non ne era stata fatta alcun accenno, eppure era lì, quell'infedele bastardo, davanti i suoi occhi.
Non vedeva al-Mustamsik da meno di cinque anni, questo si, ma sembravano stramente di più.
"Vuoi davvero ignorarmi?" aveva domandato il Cantore, offeso, senza però smettere di sorridere, "Abbiamo una missione da svolgere!" ringhiò Angelica, lanciandogli nulla più che becere occhiate di fuoco, prima di tornare a concentrarsi sull'altro uomo. Avevano tanto da lavorare, uccidere due uomini e corrodere un anima. Qualcosa che richiedeva tempo. Ed anche Al aveva qualcosa a cui dedicarsi, di sicuro non poteva lasciarsi distrarre da lei. Così, come Angelica non poteva da lui. E lo odiava! Forte come un fuoco che divampava in un petto! "Anche io" strillò il Cantore, "Ma per vederti ho ignorato gli ordini del Sacerdote e lasciato Hans" disse perentorio lui, guardandola con gli occhi verdi.
Alla luce rossastra della fiamma sembravano più spaventosi di quanto fossero, ma anche più belli. "Se avessi voluto vedermi Mustamsik, saresti rimasto allora" disse piano, ferita. Al rise, di lei, con veemenza e crudeltà, come solo lui sapeva fare, continuando a tenere sul viso un sorriso deforme, "Mi ricordavo una temibile compagna, non una ragazzina" la canzonò, ricevendo un colpo in pieno petto. Ignorò la bile, così come lo sguardo di Al, lo conosceva quel figlio di puttana, da sapere non fosse serio in quel momento.
"Dobbiamo uccidere un uomo" disse secca, guardando Carlo De Medici con occhi di ferro, "Vitalevi, no?" disse Carlo, con un sorriso di perle, in contrasto con la pelle scura, troppo lontano dalla luce sembrava un ombra proiettata su un muro, "No. Lui verrà dopo" disse secca, lanciando uno sguardo di monito ad Al, "Oltre me solo il Sacerdote, la Storica ed il Re ne sono a conoscenza" aveva ribadito, lanciò uno sguardo a Carlo. "Quattro persone sono decisamente troppe per un segreto, figurarsi cinque o sei" aveva fatto notare il Cantore, "Infatti" rispose secca lei, "Non parlerai finchè sarò qui?" indagò il beduino lo stesso, lei annuì. 
Carlo guardò Al, per un tempo che sembrò interminabile; il nero annui e l'altro sorrise. Angelica sollevò gli occhi al cielo, "Dobbiamo essere svelti" si lamentò, ma le sue parole erano come suonare al muro, inarrivabili. "Filistei" si lamentò, "Parlerete domani" la rassicurò Mustamsik, prima di leccarsi le dita e spegnere con essa il fuoco della candela. , Angelica s'allontanò frettolosa, "No!" disse graffiante, afferrando il bastardo fiorentino per la spalla, con la presa d'un rapace, "Parlerò con Carlo prima" disse perentoria. Non riusciva a vedere Mustamisk nell'oscurità, sperava ci fosse delusione nel suo volto, la stessa che aveva avuto lei, quella notte, che le aveva chiesto di scappare assieme, di lasciare le sette e la conoscenza ad altri e di vivere come folli, ma liberi dovunque volessero. Al aveva scelto i Nemici dell'Uomo a lei quella volta, toccava ad Angelica ricambiare. "A dopo malika2" le disse lui, avvicinandosi cauto, depositandole un bacio sulle labbra. Troppi anni erano passati. Troppi per non cedere in quel momento. Provava, la Musicante per gli uomini solo nostalgia perché non poteva che ricordarsi d'amare uno ed un solo uomo.
"Desiderava ardentemente rivederti" aveva detto Carlo accomodandosi vicino lo scrittoio, mentre Angelica accendeva di nuovo il cero, illuminando fiocamente la stanza, "Ed io lui" rispose lei monocorde, dicendo comunque il vero. Sapere che Al era stato nella sua stanza le faceva tremare le gambe, come una qualsiasi fanciulletta scialba, lei che era una Nemica. "Lo Spettro è morto, credo" confidò lei immediatamente. Carlo sollevò un sopracciglio, "Sapevo fosse diretto in una missione di spionaggio" aggiunse con un tono scialbo, non interessata realmente. Non lo conosceva lo Spettro, non l'aveva mai visto, ma Dracone aveva rivelato fosse sacrificabile. Era stato mandato a spiare un incontro in un incontro mitridatico, ma non era mai tornato. Carlo non sembrò turbato in alcuna maniera dalla notizia, che gli scivolò addosso come acqua, "Avrebbero dovuto mandare te" commentò, facendo ticchettare la mano sul legno del tavolo, Angelica sorrise orgogliosa. "Sembra che il mio ruolo sia tristemente cambiato" ammise, senza reale tristezza. "Era questo il grande segreto?" si ritenne poi in dovere di chiedere Carlo, ritrovandosi però privo d'una risposta a quella domanda.
"Oggi ho incontrato il tuo degno compaesano, l'altro bastardo" aveva detto allegra, lisciandosi la gonna con le mani,"Leonardo" il nome era stato sputato fuori da Carlo come la più pericolosa delle ingiurie."Lui ed Eliseo sono entrati in contatto" aveva detto con una certa allegrezza lei, spensieratezza che non condivideva con il suo interlocutore, "Per questo dovremmo ucciderlo" aveva ribattuto con cieca ovvietà Carlo.
Angelica arricciò le labbra appena, inclinò il capo, s'era privata dell'espressione divertita, indossandone una più consona alle sventure di cui si faceva proclama, "Sarà la prova della piccola Demopulo. Prima che uccida il Domatore, ucciderà - con il tuo aiuto - il Visionario" aveva chiarito immediatamente lei, "Meglio che legarla e torturarla con il sale" disse vagamente picca, sentendo ancora sulle cornee quella sensazione. Carlo sollevò un sopraciglio spesso, non riuscì a porsi interrogativi perchè Angelica aveva ripreso a parlare: "Il destino ci sorride, Carlo: perchè un innamorato dirà a Filippa che Eliseo Vitalevi ha portato alla morte de il Tebano" aveva bisbigliato raggiante. Così era stato ordinato dalla Storica, così era stato assunto da il Sacerdote, così doveva essere. "Nulla muove più della vendetta un uomo" aveva commentato tra se e se Carlo, senza sbilanciarsi in un chiaro giudizio. "Ma Dracone è ancora vivo. Prigioniero, si certo del Conte Riario - che è come essere morti" aveva aggiunto Carlo. Angelica aveva storto le labbra, "Lo ucciderai tu"  aveva rivelato con voce pacata.
Carlo aveva tradito i suoi compagni una volta, non era un uomo fedele; era adatto a quell'incarico.
 
 
 

 
x1 - Catalano >  (La) vita mia
x2 - arabo > Regina
x3 – Melione > Dea dei Fantasmi
x4- Il vecchio testamento è pieno di espressione abbastanza lineari, privi di artifici. Essendo scritti in latino, greco ed armaico, non era comunque accessibile a tutti.

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