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DISCLAIMER: Vegeta, Bulma,
Crilin e Yamcha sono personaggi del manga Dragon ball di Akira Toriyama. Gli
altri protagonisti della storia sono invenzione della fantasia dell'autrice. La
presente storia non persegue scopo di lucro, e ogni riferimento a fatti o
persone realmente esistenti è puramente casuale.
Non
si dichiara intesa nessuna violazione delle norme riguardanti il diritto
d'autore.
E'
possibile utilizzare personaggi, trama o parti del testo solo con il consenso
dell'autrice.
CAPITOLO
1- INDIETRO
Le
fiamme lambiscono il terreno divorando piante e arbusti. Il quinto sole splende
alto e sembra voler mostrare all'universo l'accaduto.
Due
cadaveri riversi in terra, con le code tagliate che ancora si agitano
debolmente, fissano la città verso cui erano diretti quando il colpo li ha
raggiunti.
Riverso
in terra ma ancora vivo, Vegeta chiude gli occhi nel tentativo di pensare.
I
rumori gli giungono alle orecchie propagandosi nel terreno e sono rumori di
passi deboli.
Uno
scienziato si avvicina e lo prende per i capelli. Gli solleva il volto in
posizione innaturale.
-Respira
ancora- Vegeta lo sente dire, in direzione di altri passi che ora si avvicinano
anche loro.
Lo
scienziato è giovane ma ha mani esperte, lascia ricadere il volto in terra e
col lo stesso gesto gli solleva un braccio. L'arto ricade con un tonfo e Vegeta
vorrebbe urlare ma ha la bocca paralizzata.
Solo
un gemito strozzato gli esce dalla gola imprigionata nel corpo immobile e
impotente.
-Il
disgregatore di particelle ha funzionato perfettamente- dice ancora lo
scienziato. -E' cosciente ma il corpo non dà segno di potersi muovere.
Vegeta
vorrebbe alzarsi e strappargli la testa con un morso. Con un ultimo tentativo
prova a issarsi sulle gambe, ma è come se il corpo fosse fatto d'acqua. Niente
risponde ai suoi comandi.
Lo
scienziato dice ad altri uomini di sollevarlo e portarlo dentro.
Dentro
dove ha paura di saperlo.
Sente
le voci gentili ma fredde come il ghiaccio.
-Potrebbe
sempre tornarci utile.
---
La
macchina del tempo non era per niente lo scherzo che pensavo quando Trunks mi
aveva portato la copia del progetto.
-Mia
madre me l'ha dato prima di partire- aveva detto allungandomi un cilindro nero
di quelli per i progetti delle case -ha detto che ci ha messo anni a capire
come costruirla e risparmiarti la fatica poteva essere una buona idea.
Avvitai
l'ennesimo ingranaggio e uno schizzo d'olio mi colpì in centro al petto.
Il
progetto era ben chiaro, il metterlo in pratica lo era meno.
Fuori
dal laboratorio il sole splendeva nel cielo limpido di un nuovo inizio maggio.
Dalla finestra alle mie spalle la luce entrava come a voler illuminare
quell'invenzione degli dei.
Mi
sedetti sul poggia piedi della scala e mi scostai con il polso una ciocca di
capelli dalla fronte.
-Uff...
Guardando
quella macchina dalle fattezze familiari, il pensiero volò a Trunks e alla sua
impresa come un passaggio logico e necessario.
Riconoscevo
che l'essere felice mi aveva resa meno altruista della me stessa del futuro.
Avevo
aspettato anni prima di costruire quella macchina, presa com'ero dall'abituarmi
al pensiero che in un'altra dimensione sarei stata sola dopo lo scontro con i
cyborg, e invece Vegeta e i miei amici erano tutti sani e salvi.
O
meglio, quasi tutti.
Ma
un giorno di pochi mesi prima, scartabellando nell'archivio per cercare non so
più che cosa quel foglio dall'alto di uno scaffale mi era caduto in testa.
L'avevo preso con noncuranza per ricacciarlo nuovamente nell'armadio ma quando
l'occhio mi era caduto sulla dicitura del titolo "macchina del tempo"
mi ero fermata.
Guardai
fuori dalla finestra una rondine che passava.
Già,
per anni mi ero dimenticata di quel progetto.
E
il ricordo di Trunks mi aveva riscossa come una folata di vento gelido.
Gli
occhi dell'altro Trunks erano così tristi e così pieni di speranza che il solo
pensiero bastava a intenerirmi.
Non
fosse stato lui a darmi quel progetto, riconobbi che mai avrei costruito una
macchina per salvare un mondo che non era il mio.
Ma
il non ricambiare quel gesto d'amore era così meschino che persino io non
potevo esservi indifferente. Il nostro mondo era ancora in piedi grazie a una
me stessa che aveva imparato a vedere più in là della propria casa.
Della
propria dimensione, persino.
Quindi
a febbraio di cinque anni dopo la partenza di quel mio figlio che mio non era,
mi ero chiusa in quella stanza con il progetto e la determinazione di chi sa di
star facendo la cosa giusta.
E
quel giorno era la fine dell'avventura.
O
per lo meno della costruzione.
-Finalmente...
Dalla
tasca della tuta estrassi una sigaretta e l'accesi guardando fuori.
Il
giardino silenzioso diceva che non era ancora l'una e mezza. Avrei sentito
Trunks chiedere cosa c'era da mangiare, se fosse già stata l'ora della pausa
pranzo prima del pomeriggio di dopo scuola.
Scesi
dalla scale e uscii dal laboratorio.
Un
leggera sensazione mi fece voltare poco prima che lui parlasse.
-Devo
ripeterti per la millesima volta che quella roba ti distruggerà i polmoni?-
disse Vegeta passandosi un asciugamano sui capelli bagnati che avevano sempre
rifiutato phon e pettine.
Guardai
la sigaretta e mi resi conto della stanchezza che avevo in corpo dal poco
entusiasmo che provavo.
-Questa
me la devi far passare. Sto festeggiando la fine dell'impresa.
Vegeta
si avvicinò fermandosi sulla soglia del laboratorio. -L'hai finita?
Anuii
continuando a guardare la sigaretta che fumava. -Già...finalmente...
Il
mancato sonno dei tre giorni precedenti mi stava calando addosso come il
sipario di un teatro.
Smisi
di guardare la sigaretta solo quando sentii due braccia forti cingermi fianchi
e gambe per sollevarmi dal pavimento.
-Che
fai?-domandai con voce flebile.
Vegeta
si incamminò nel corridoio e riconobbi l'umido della asciugamano sulla sua
spalla sotto la mia testa. Piccole gocce d'acqua mi cadevano sulle braccia. La
sigaretta cadde in terrà e lì restò.
-Ti
porto a letto. Sembri un cadavere che cammina.
Mi
stava portando in braccio fino in camera da letto. Era una scena che poteva
essere di un film. Ancora più improbabile pensarla su di noi.
Se
l'altro Trunks ci avesse visto non avrebbe creduto ai propri occhi.
Ed
era grazie a lui e a un'altra me se tutto ciò stava accadendo.
-Il
cavallo bianco dove l'hai parcheggiato?-mormorai.
Immaginai
lo sguardo di Vegeta chinarsi su di me. -Cosa?
Appoggiai
la testa contro il suo petto. Con l'orecchio destro sentii il cuore battere.
-Niente,
era una battuta stupida.
Abbandonata
a quel suono dolce, mi addormentai tranquillamente.
---
Trunks
posò la cartella di scuola sul divano urlando un -Mamma! Sono a casa!- in
direzione della cucina. Si sfilò la giacca leggera dalla vita e l'appese ad una
sedia.
-MAM...
-Zitto
Trunks!
Trunks
si zittì vedendo Vegeta comparire all'improvviso sulle scale.
-Rimettiti
la giacca- disse Vegeta, infilandosi la maglia di una tuta. -Tua madre è di
sopra che dorme e sono tre giorni che non chiude occhio. Andiamo fuori a
pranzo.
Vegeta
uscì all'aperto senza aspettare il figlio. Giunto in cortile si fermò e guardò
l'albero cui stava appoggiato il giorno in cui aveva salutato l'altro Trunks.
La
macchina era finita.
E
lui era ancora lì.
Gli
sembrava passato un secolo da quei giorni, forse perchè nella tranquillità di
sapere di avere ancora tutto il tempo a disposizione le giornate erano scorse
un po' più lente. Per contro i tre anni in attesa di C17 e C18 erano stati
lunghi un giorno, scanditi da orari massacranti e giornate tutte uguali. Non
ricordava nulla di quei tre anni, a parte le parentesi del tempo passato in
compagnia di Bulma, mentre di quei 5 anni ricordava molte cose. Infinite gite
al mare, in montagna, giri alle giostre. Persino un giro per negozi, che non
avrebbe ripetuto.
Con
un moto di finta stizza Vegeta scacciò il pensiero delle vacanze con la
famiglia.
In
quel momento Trunks uscì saltellando e si chiuse alle spalle la porta a vetri.
-Andiamo
allo zoo?-chiese avvicinandosi, con aria speranzosa.
Vegeta
pensò a quanto quel bambino sembrasse un altro rispetto a Lui.
-Va
bene. Ma non pensare di entrare nella gabbia dei leoni come l'altra volta.
Padre
e figlio si avviarono nel vialetto.
Un
consueto ritratto familiare.
---
Il
locale in cui mi sveglio è buio e asettico come solo una prigione di Eos può
essere.
Sono
coricato su qualcosa che sembra acciaio. Caviglie e polsi fermati da quattro
anelli impernati nel piano grigio. Sul mio corpo avverto delle fasce, ma la
luce che ho puntata dritta in faccia mi impedisce di vedere.
Nel
locale sono solo.
Le
ossa sembrano rispondermi.
Ma
adesso il problema non sono loro.
Sono
davvero incatenato.
---
Quel
pomeriggio dormii profondamente e feci dei sogni che non ricordo.
Erano
le sette e mezza quando il torpore mi abbandonò e aprii gli occhi vedendo il
soffitto della camera da letto.
Indossavo
la canottiera e un paio di pantaloncini di quelli che Vegeta utilizzava per
allenarsi. Doveva avermi svestita e rivestita con quel che c'era in giro, nel
timore di svegliarmi col rumore delle ante dell'armadio.
Mi
stiracchiai sbadigliando con un sorriso sulle labbra.
Era
davvero bella, la mia vita.
Ero
tentata di non alzarmi ma il pensiero di rimanere sveglia per la notte intera
mi spinse a trascinarmi giù dal letto e buttarmi sotto la doccia.
Lasciai
che l'acqua calda lavasse via ogni residuo di sudore, stanchezza e sonno. Sotto
il getto dell'acqua bollente sollevai il viso e chiusi gli occhi.
Chi
ci avrebbe mai scommesso, che dopo sette anni saremmo stati ancora lì?
Probabilmente
nemmeno io ci avrei scommesso, quando ero rimasta incinta, infatti, non avevo
neanche considerato l'idea di chiedere a Vegeta quale fosse il suo cognome.
Era
chiaro che quel figlio sarebbe stato solo mio.
E
il tempo aveva deciso che il mio pensiero era un errore.
Mi
vestii con calma già sapendo che Vegeta doveva aver portato Trunks in giro. In
casa non si sentiva alcun rumore. Pensare a Vegeta con Trunks al parco mi
faceva ridere e sorridere al tempo stesso.
Una
scena così assurda che era troppo bella per non pensarci.
La
macchina del tempo era ancora lì, con la scala montata al lato e il mozzicone
di sigaretta nel corridoio dell'entrata.
Mi
avvicinai a piedi scalzi.
Vista
da sotto non c'è che dire, era quanto di più bello la mentre umana potesse mai
pensare. E saperne le potenzialità la rendeva davvero la macchina degli dei.
Gohan
si era proposto di utilizzarla al più presto una volta ogni 6 mesi, l'avrebbe
fatto più spesso ma quelli erano i tempi di ricarica. Chichi non aveva
acconsentito, ma su quella storia il figlio non aveva accettato nè ma nè se.
Decisi
di chiudere il portello e dare una pulita all'abitacolo, cosicchè fosse pulita
e pronta già per l'indomani.
Lasciandomi
scendere sul sedile presi uno straccio e una soluzione lucidante per il vetro.
Non
mi accorsi della macchia d'olio che aveva lasciato sul bordo della chiusura un
residuo nero e scivoloso. Solo quando il mio piede perse aderenza e caddi in
avanti aggrappandomi al portello circolare, mi resi conto della macchia.
Ma
in quel momento tutto divenne buio e svenni.
--
Jasper
stava attraversando la landa verde verso la città del Blu, quando la macchina
apparve dal nulla e si schiantò a terra con un tonfo sordo.
Dopo
alcuni secondi di silenzio, Jasper si avvicinò sperando che non fosse un altro
Sayan.
DISCLAIMER: Vegeta e Bulma sono
personaggi del manga Dragon Ball di Akira Toriyama. Tutti i fatti narrati sono
però fantasia dell’autrice. Questa storia non persegue scopo di lucro quindi
non si può intendere nessuna violazione delle norme riguardanti il diritto d’autore.
E’ possibile riprodurre parti, personaggi o trama della storia solo con il
consenso dell’autrice.
Seconda
parte: CANDIDO
La
stanza del risveglio era bianca in ogni cosa, così splendente da accecare gli
occhi. Così pura e candida da sembrare la nuvola di un paradiso artificiale.
-MMM...
Il
mio corpo sprofondava, in un tessuto morbido che non aveva un che di familiare.
Dov'ero?
Una
voce alle mie spalle mi costrinse a voltare il capo.
-Ti
sei svegliata prima del previsto...
Una
voce calma, modulata, estremamente rilassante. Una nota di perfezione nella
declinazione di termini e locuzioni.
-Dove
sono?
Quella
stanza era bianca, così bianca da non poter pensare.
E
la figura dietro e me si stagliava candida e perfetta come facesse parte del
locale stesso.
Lunghi
capelli di un azzurro che non era il mio, ma quello degli zaffiri. Delle pietre
lucenti. Con occhi il cui colore i diamanti avrebbero invidiato se fossero
stati vivi.
-Non
hai nulla da temere, sei in una camera di Ristorazione.
E
quella voce.
Calma.
Fluente.
Bellissima.
-Io
mi chiamo Jasper. Sono stato io a portarti qui.
---
La
creatura pare indenne. Le reazioni nelle pupille e lungo gli arti indicano
coscienza appannata solo da un lieve e fisiologico stordimento.
I
raggi sopra il corpo ne percorrono i moti, il battito dell'organo centrale, il
flusso dei condotti plasmatici.
La
creatura volta il capo e le iridi color cobalto mostrano intelligenza e
circospezione, nonostante la confusione.
-Dove
sono?
Una
voce morbida. Essere di sesso femminile. Essere di razza poco evoluta. Di
quelli al cui interno ancora è presente la distinzione fra maschio e femmina a
rendere difficoltoso il riprodursi.
Esseri
inadatti al potere di essere dei. Incapaci di controllare se stessi e il mondo
tramite il potere del potersi moltiplicare senza freno alcuno a parte il
proprio inconscio.
Esseri
inferiori.
Come
quelle bestie.
-Io
mi chiamo Jasper. Sono stato io a portarti qui.
Lingua
universale del quadrante settentrionale. Cadenza perfetta e modulazione della
voce in sintonia con l'atmosfera.
Calma
e tranquillità.
La
creatura non ha nulla da temere. Finchè resta lì con loro.
---
Risvegliarsi
in quel luogo bianco per un Sayan era l'inferno.
Un
inferno bianco come la luna dell'ozaru. Un inferno in ogni caso.
Vegeta
strinse gli occhi tentando invano di sollevare il braccio.
Catturato
dagli Skatos. Incatenato sopra un tavolo.
Sarebbe
stata la sua fine. Lo sapeva ed era inutile cercare vie d'uscita.
Non
si sarebbe arreso. Di sayan partiti per distruggere la città ne aveva visti
troppi. Di Sayan tornati ne aveva visti pochi.
Solo
due in venticinque lunghi anni di esistenza.
Sarebbe
morto in quella stanza.
Ipotesi
da sempre contemplata, a tempo indeterminato ma pur sempre contemplata.
Nella
mente di una scimmia.
Solo
un sayan come tanti altri. Soltanto una, di quelle mille stupide scimmie.
Stupide
scimmie, razza bastarda venuta fuori da un pianeta che nessuno ricordava. Razza
di schiavi, fin da quando l'universo aveva avuto memoria di registrarli.
Vegeta
scosse il capo prima a destra poi a sinistra.
Dannazione.
Il
rumore lento e scricchiolante delle ossa in ricomposizione suonava spaventoso e
inquietante al tempo stesso.
Perchè
un'anestesia?
In
un moto involontario la lingua percorse accanto al labbro l'estremità del lungo
sfregio che gli attraversava il volto. Un gesto familiare per una ferita
familiare.
Un
momento di riflessione, prima che tutto avesse inizio.
---
Mi
misi a sedere sul lettino continuando a fissare la creatura.
Quella
stanza mi creava confusione. Percepivo nell'aria un che di artificiale, come
una nota di purezza in più che rendeva innaturale in luogo chiuso.
La
macchina del tempo, ora ricordavo, dove diavolo ero finita?
-Io...
Cosa
potevo dire?
Che
mi ero persa nello spazio? Che venivo dalla Terra?
Che
non sapevo nulla di quel luogo?
-Io...credo
di essermi persa...
E
quella creatura che mi fissava. Gli occhi talmente chiari da sembrare rivestiti
di una lente bianca.
Davanti
a lui provavo una soggezione che era estranea anche a me stessa.
In
viaggio su Namek avevo urlato in faccia a ragazzini muniti di armi come il
miglior guerriero di un esercito terrestre. Avevo visto Freezer senza timori,
quando pure Vegeta alla sua vista si era contratto come colpito da una frusta.
Avevo
visto distruzione, morte, androidi, Sayan e alieni.
Ho
visto cose che voi umani, mi venne da pensare.
Ma
davanti a quel Jasper la parola mi moriva in gola.
In
quel volto così calmo leggevo l'espressione di un vecchio amico, di una nonna
che ti prepara il tè dopo non averti visto per lungo tempo. I suoi gesti
fluidi mi invitavo ad alzarmi in piedi, a dirgli se sentivo dolore a qualche
parte, ma quel contegno e quella dedizione mi innervosivano e spaventavano
come avessi davanti un leone intento a fissarmi.
Senza
sapere un leone cosa fosse.
Era
di una bellezza disumana, pensai fissando gli occhi candidi.
Forse
quella era la sensazione che si provava a vedere Dio.
---
La
città del Blu era così chiamata perchè il cielo ad di sopra di essa era sempre
calmo e terso. Del pianeta Eos, posizionato a nord della Cometa Rossa, solo la
città del Blu e poche altre erano abitate dagli Skatos, nonchè rese abitabili
dalla loro scienza insuperabile.
La
città del blu era anche chiamata "la città della Sfera" dagli
abitanti della galassia intera. Sulla torre centrale del campo d'istruzione,
infatti, una grande sfera rifletteva in cielo una sostanza dissipatrice,
grazie alla quale dei tre soli, due incessantemente riscaldavano gli edifici e
il popolo della città.
Gli
skatos vivevano di luce, e solo grazie ad essa la loro inumana intelligenza
poteva produrre nuove idee.
La
luce del globo intero era quindi riservata alle poche città abitate e alle
strade per collegarle.
In
tutto il resto del pianeta dimoravano i Sayan.
Nella
stanza del riposo, Jasper chiese a Bulma se provasse dolore a qualche parte,
ben consapevole che la creatura avrebbe negato, dato che le macchine dicevano
il suo corpo fosse integro in ogni punto.
La
donna negò, scuotendo leggermente il capo.
Jasper
vide un barlume in quegli occhi che gli piacque e al tempo stesso non gli
piacque.
Non
era una sayan, le chiome troppo chiare e il corpo troppo debole la rendevano
fisicamente innocua persino contro di lui, che non avrebbe saputo fronteggiare
uno scontro corporale nemmeno con un piccolo di quelle scimmie, ma il riflesso
indagatore degli occhi mostrava chiaramente una mente capace di forza critica
e razionale quanto bastava per non essere totalmente innocua.
In
ogni caso al creatura era smarrita.
E
lui conosceva bene tutto ciò che lei ignorava.
-Non
ho intenzione di chiederti da dove vieni, perchè credo tu sia ancora troppo
confusa per rispondermi. Posso chiederti però qual è il tuo nome?
Jasper
vide la donna rilassarsi un poco. Il tono con cui parlò fu la prova del ritorno
di un minimo di carattere originale.
-Mi
chiamo Bulma.
Precisa.
Corretta. Una voce decisa ma squillante, simbolo di un carattere aderente al
proprio sesso ma non per questo inferiore al maschio.
L'inflessione
dei termini gli era però totalmente estranea.
La
donna era umanoide come lui, ma non vi era razza cui riuscisse a ricondurre
quel tipo di cadenza.
Le
donne di Salem erano talvolta di quei colori, ma l'intelligenza limitata le
portava a esprimersi in modo stentato, per lo più attraverso gesti o versi. Al
contrario le femmine per pianeta 9 avevano una cadenza certe volte simile a
quella della donna, ma la più alta lui avesse visto non superava il metro e
venti, e le corna arricciate sulla sommità del capo erano requisito
indispensabile per vivere sul pianeta degli Scavatori di Rocce.
Avrebbe
indagato la provenienza della donna quanto prima, per quel momento l'importante
era che fosse innocua.
E
non mostrasse l'intenzione di nuocere ad alcuno.
-Bene,
Bulma. Ti ho chiesto il nome perchè trovo poco lusinghiero rivolgermi a
qualcuno attraverso pronomi o intercalari. Immagino tu sia ancora stordita da
quanto ti è accaduto, quindi pensavo di farti fare un veloce giro dell'edificio
in cui ci troviamo e poi mostrarti la tua stanza. Potrai riposarti quanto
vorrai. Quando starai meglio parleremo di te e risponderò a ogni tua domanda.
Il programma è di tuo gradimento?
La
donna stette un attimo in silenzio, poi, evidentemente rendendosi conto di non
avere altra scelta se non restare su quel lettino e non vedere neanche quel
poco lui volesse mostrarle in quel momento, acconsentì a seguirlo in corridoio.
Jasper
camminò sentendo gli occhi intelligenti della donna registrare ogni cosa in
quel percorso.
La
portò alla stanza quanto prima, mostrandole giusto il corridoio e il grande salone
sull'ala meridionale dell'edificio.
-Questa
è la sala principale, quando avrai voglia di parlare vieni pure qui. Se non ci
sarò io non ti preoccupare. Tutti sanno del tuo arrivo.
Vide
la donna irrigidirsi.
-Verranno
subito a chiamarmi.
---
La
camera che avevano preparato per me era bianca esattamente come l'altra, solo
un po' più grande e con un letto più grande e comodo.
Come
avevo notato prima, anche lì non vi erano finestre. La luce forte era
artefatta, proveniente da una serie di quel che sembravano tubi al neon appesi
al soffitti con fili sottilissimi.
Mi
sedetti sul giaciglio morbido continuando a guardarmi intorno.
Pensa
Bulma, pensa...
Tutti
sanno del tuo arrivo...
Al
ricordo di quella frase un brivido mi corse lungo la schiena.
Mi
fissai i piedi nudi con una sensazione di frustrante nervosismo.
Fino
a quando non mi avessero detto qualcosa in più non avrei potuto fare nulla. Ero
in balia di quelle strana creature dagli occhi bianchi.
Non
sapevo neanche se nominare i Sayan avrebbe potuto sortire qualche effetto.
E
soprattutto, in ogni caso, non sapevo se l'effetto avrebbe mai giocato a mio
favore.
---
Lo
Skatos di nome Jasper entra nella stanza sorridendo. Sento le sue labbra tirate
in un sorriso anche se la posizione mi impedisce di vederlo.
-Vedo
che ti sei svegliato.
La
sensibilità in tutto il corpo è tornata poco fa. Stringo un pugno due o tre
volte per controllare sia tutto a posto.
-La
macchina disgregatrice di molecole è dolorosa e mi dispiace, ma devi capire che
non potevo permetterti di distruggere la città.
Quella
sua voce suadente la riconosco troppo bene. Quando ammazzai suo padre il suo
urlo mi colmò di gioia. Gli Skatos sono tutti uguali, capelli bianchi e occhi
uguali. Lo stesso tono gentile da spavento. Gli stessi modi di chi crede che
chiederti scusa mentre muori possa servire a lenire il male.
Lo stesso tono da esseri superiori.
A cosa non lo sa nessuno.
-Puoi anche cavarmi gli organi uno ad uno. Non otterrai niente da me.
Sono
una scimmia ma ho uno orgoglio.
Non sarò mai schiavo di un popolo che tutto insieme non saprebbe vincermi su un
campo di battaglia.
Sono una schifosa scimmia che vive nel buio che voi avete pensato fosse bene
ritagliarle.
Ma non sarò mai schiavo di nessuno.
Capitolo 3 *** Anno 75 della galassia di Settentrione ***
LA GUERRA DEI MONDI
PARTE 3: ANNO 75 DELLA GALASSIA DI SETTENTRIONE
Essere un sayan è una condanna che nessuno nell'universo potrà mai
arrivare a comprendere.
Appartenere a una razza sconosciuta dà un senso di vuoto che le
parole non riescono a descrivere.
Una razza senza pianeta. Figli senza padri. Discendenti senza avi.
Senza una propria lingua. Nenie per i piccoli imparati nella lingua di qualche
femmina di un'altra razza.
Un popolo la cui memoria non si sa se perduta o mai esistita.
Figli forse di un mondo morto e sopravvissuti senza memoria.
Nessuno di loro ricordava le origine della propria stirpe. Non lo
ricordavano i loro genitori. La generazione di Vegeta era già la quarta a non
aver memoria, sua madre morta presto non ricordava il proprio mondo. Di suo
padre non sapeva nulla.
A che serviva, sapere di essere o meno puro nel suo essere
bastardo?
Essere figli di un mondo morto dà un senso di dolore per ciò che
si è perduto. Non sapere se essere figli o meno dà un senso di incomprensione
che può distruggere la mente.
In cui il "com'è possibile dimenticare?" può portare
alla pazzia.
Per questo ci si aggrappa a tutto. Quando non si sa da dove derivi
il proprio sangue, e si pensa che saperlo forse non sarebbe più edificante che
immaginarselo puro e limpido come quello di una razza eletta, ogni pretesto diventa
buono per aggrapparsi ad un barlume di speranza.
Per questo combattevano. Una manciata di scimmie abortite da
chissà che buco dello spazio.
Combattevano per una terra non loro e che non bramavano nemmeno.
Un sasso come un altro, era Eos per i Sayan.
Un qualsiasi posto d'inferno, per Vegeta che posti d'inferno ne
aveva visti tanti al punto di essere stufo di bramare il paradiso.
Venticinque anni di peregrinazione nello spazio, senza un posto
dove andare e nulla di buono da mangiare e una donna umanoide da scopare se non
le proprie madri e sorelle, erano capaci di far perdere il senno anche al più
saggio.
Un ragazzo appena adulto non aveva speranza di adeguarsi. La
gioventù fa bollire il sangue e non consente di accettare a capo chino.
Lui era un giovane Sayan, ma era prima di tutto un giovane.
Con il pensiero persistente di quanto non fosse GIUSTO, che loro
non avessero un pianeta.
Con la tenacia di chi continua a cadere dalla stessa pianta nel
tentativo di cogliere frutti che crede gli spettino di diritto, anche se lo
sforzo non vale il premio misero e probabilmente non ben maturo.
Vegeta era un giovane sayan. E come lui molti altri.
Per questo combattevano.
Per avere uno stupido sasso che fosse loro.
Brutto, buio, e inospitale com'era il pianeta Eos. Ma pur sempre
loro.
Perchè avevano DIRITTO, ad avere un proprio inferno personale.
La voce dello Skatos cui ho sgozzato il padre risuona morbida e
soave mentre con un bisturi mi incide petto e addome.
Al passaggio della lama il sangue cola lento, due fiumi rossi e
densi che si spandono sul piano.
I pugni serrati cozzano sull'acciaio e i denti si spezzeranno se
continuo a digrignarli così forte.
Non vorrebbe sentirmi urlare, o per lo meno non è questa
l'intenzione dei suoi gesti. Se però il mio lamento possa o meno provocargli
gaudio non ne ho idea. Sono esseri vuoti e freddi, forse non sanno neanche di
essere crudeli.
Forse vorrebbe sentirmi urlare, dico forse e potrebbe essere sì
come no.
Ma non gli darò questa soddisfazione. Non gli darò niente di
niente, a questo bastardo dagli occhi lucenti.
-Sei un essere straordinariamente tenace, sayan- dice lo Skatos
posando il bisturi in un piatto, per poi avvicinare le dita all'apertura e
infilare la mano nel mio costato.
Mi mordo le labbra a sangue per trattenere il mio dolore, ma un
rantolo strozzato risponde alla mano che mi scava dentro.
Sono un essere straordinariamente tenace.
Ma il dolore lo sento bene.
L'espressione dello Skatos è tranquilla e dolce come quando mi è
arrivato innanzi. Sentimenti non ne hanno. Nel loro essere evoluti essi bastano
a sè stessi.
Solo certe volte cambiano espressione.
Il mio nemico ha smesso quel sorriso quando uccisi il suo
progenitore.
Quel giorno ha anche urlato.
La mano esce nuovamente e il mostro se la asciuga su un panno
candido.
-L'organo chiamato stomaco è grosso pressochè due volte l'organo
chiamato cuore-dice ad una macchina che registra i suoni -Nessuna connessione
particolare con la forza fisica del soggetto. Tutt'al più, dalla funzione
dell'organo in questione, si evince che il nutrimento chiamato cibo serva come
carburante per il corpo. Esso non è però diretto responsabile della potenza
fisica.
Aggiornamento numero 4 bis...
Amore per la scienza. Un velo nero mi copre gli occhi ma resisto
stringendo i pugni.
... anno 75 della galassia di settentrione.
---
Il giaciglio che mi era stato preparato era confortevole come un
materasso di piume d'oca. Non era di tessuto, ma di una sostanza gommosa che
assomigliava al nostro lattice, solo più azzurrina e meno densa. Mi adagiai
sulla superficie portandomi le braccia dietro il capo. Davanti alla porta
sentii dei passi che però non rallentarono nè si fermarono sull'uscio del
locale.
Tutti sanno del tuo arrivo.
Cercai di ricordare su cosa fosse puntato il controller prima
della caduta.
Un anno.
Una coordinata.
Qualunque cosa.
Niente.
Di sicuro non ero nel futuro, ricordavo la lancetta degli anni
puntata a sinistra del 735 usato come riferimento per l'avanti o indietro.
All'estremità sinistra l'anno 0. La lancetta tra l'anno 0 e il
735.
Dannazione, sarei potuta essere ovunque.
Cercai anche di riflettere su se avessi già visto qualcuno della
razza di quel Jasper.
Tra gli scagnozzi di Freezer, no. Nei racconti di Crilin e Gohan
sugli scagnozzi di Freezer, nemmeno.
Le sembianze della creatura mi erano totalmente estranee, e a
confermare la riflessione la mia mente istintivamente diceva di non aver mai
registrato prima qualcosa di simile alla sua figura.
Vegeta.
Se Vegeta fosse stato lì, mi ritrovai a pensare, lui avrebbe
saputo cosa fare. Non mi era mai capitato prima di allora di sentirmi così
confusa. Non mi ero mai trovata davvero sola, in tutti quegli anni accanto a
Goku.
Nemmeno vagando sulle lande desolate di Nameck avevo avvertito la
reale sensazione che nessuno sarebbe corso in mio soccorso. Gohan e Goku o
quantomeno Crilin non se ne sarebbero mai andati, senza prima recuperarmi.
L'ostentata sicurezza dei modi era sempre stata protetta da un
qualche paio di spalle forti pronte a difendermi da ogni attacco.
Non mi ero mai ritrovata sola, in tutti quegli anni.
Negli ultimi soprattutto, Vegeta c'era sempre stato.
Eppure adesso sebbene non mi sentissi in pericolo imminente, la
tranquillità mi aveva abbandonata già al risveglio.
Se almeno Vegeta in quegli anni mi avesse raccontato qualcosa di
sè avrei saputo più o meno regolarmi.
Vivevo con quel Sayan da ormai dieci anni e non sapevo nulla di
cosa avesse fatto o chi avesse conosciuto prima di giungere sulla Terra.
Non gli avevo mai chiesto nulla.
Le cicatrici su tutto il corpo mostravano non fosse stato proprio
un bel periodo, quello passato prima della Terra.
Inoltre lui si era ben guardato dall'affrontare l'argomento.
Non avevamo mai parlato di chi era Vegeta prima dell'atterraggio
sulla Terra.
Quel Vegeta era morto ormai da anni.
Vegeta aveva sempre mostrato con orgoglio la sua appartenenza alla
razza sayan, al periodo da mercenario sotto Freezer non aveva mai accennato.
Quelle cicatrici parlavano per lui.
Non si era tuttavia mai nascosto, nelle sue cicatrici al mio
occhio curioso e indagatore. Confidava nella discrezione che forse conoscevo.
In preda a un leggero sconforto sospirai e mi guardai attorno.
Tutto quel bianco era snervante.
Vegeta avrebbe saputo cosa fare.
Io invece in quel posto ero solo una stupida terrestre.
Smisi di tentare di addormentarmi pressochè subito e rimasi
attenta.
Non intendevo rimanere in quella stanza più a lungo del
necessario, ma era necessario decidere cosa avrei detto quando quella gente mi
avrebbe chiesto di parlare.
Sulle mie origini potevo essere sincera. Ero di una popolazione debole,
e forse palesare la mia innocuità sul piano fisico non era la cosa migliore,
ma posto che mentendo non avrei potuto fingere a lungo di essere forte a
livello fisico, tanto valeva vuotare il sacco. I terrestri inoltre ignoravano
l'universo. L'esistenza degli alieni si era palesata solo con l'arrivo di
Vegeta e Napa, ma anche loro erano presto stati dimenticati come brutti
scherzi della memoria collettiva.
Era improbabile che quegli esseri avrebbero avuto qualcosa da
ridire sul fatto provenissi dalla Terra. Nel caso essa fosse stata troppo
lontana perchè una navicella potesse raggiungere il loro pianeta in un solo
viaggio, avrei potuto ipotizzare un buco nero, o ammettere io stessa di non
sapere nulla in più di loro.
Per il resto ero indecisa.
Conoscevano il mio nome e da come Jasper mi aveva studiata con
discrezione, il suo popolo era un popolo conoscitore delle galassie. Forse mi
avrebbero ricondotta loro stessi alla mia provenienza terrestre analizzando i
miei connotati fisici, ma spiegare come una donna appartenente a un popolo
ignorante potesse trovarsi su una macchina capace di certi viaggi era un
compito più arduo del previsto.
Cosa avrei dovuto dire?
Mi sarei dovuta fingere una normale terrestre suscitando sospetto
per l'inaderenza del mio racconto con i fatti, o forse raccontando quel che
sapevo Jasper e i suoi simili mi avrebbero aiutata?
Mi alzai di scatto dal mio giaciglio e portai la mano a un fianco
cercando una sigaretta nei pantaloni d'allenamento di Vegeta che neanche
avevano le tasche.
Potevo dire di conoscere i Sayan e sapere chi era Freezer?
Tutti sanno del tuo arrivo...
Stavo per uscire dalla stanza diretta verso i servizi, quando un
rumore strozzato e gutturale risuonò sotto il pavimento.
Istintivamente mi chinai, poggiai un orecchio al suono, ma non
udii nulla se non silenzio.
---
Celia e Spartack agitarono le lunghe code scrutando il cielo sulla
città. La sfera in centro alla piazza risplendeva tutt'intorno di un colore
opalescente, inondando anche la loro altura di una soffusa luce argentea.
Nonostante quella sfera a mantenere limpido la volta celeste, la
furia degli Ozaru si sarebbe risvegliata.
-Come diavolo hanno fatto a catturare Vegeta?-pronunciò Celia
sputando in terra. Il grumo biancastro mischiato e cremisi colpì un fiore che
cadde al suolo come colpito da una pietra.
Più anziano di tutti quanti, e quindi più bravo ad arrischiare
meno la pelle, Spartack sventolò la coda e scese a grandi passi verso il
terreno della battaglia.
Avevano catturato anche il ragazzo, il più forte dei guerrieri.
Erano diventati abbastanza astuti da trarre in trappola il più
valente fra tutti loro. Le loro macchine dovevano essersi evolute, e il
pensiero una razza combattivamente così debole stesse riuscendo a tenerli sotto
scacco lo irritava enormemente.
Spartack si grattò la folta chioma fissando le macchie rosse
ancora visibili sul terreno battuto dalle fiamme.
In più ora avevano catturato Vegeta. Non l'avrebbero ucciso, non
era loro prassi, ma Dio solo sa cosa avrebbero potuto fargli.
Il pensiero di veder tornare il ragazzo senza un braccio questa
volta non lo irritava, bensì lo riempiva di sgomento e orrore. E non per come
sarebbe stato arduo far convivere l'impetuoso giovane nella comunità
impedendogli di combattere, ma perchè tra tutti i componenti del loro gruppo
Vegeta era quanto più si avvicinasse a un figlio ai suoi occhi di Sayan adulto.
Ancora più che Celia e Talos, che suoi figli lo erano davvero.
Fermatosi in centro al campo, Spartack aspettò Celia che lo
raggiunse poco dopo.
-Hanno usato una nuova macchina- proferì indicando il suolo -Non
ci sono segni di lotta o sangue, a parte che nelle zone dove abbiamo trovato i
cadaveri. Devono aver costruito qualche nuova arma.
Una macchina capace di bloccare i movimenti di un sayan, se non
anche di un Ozaru.
Celia fissò lo spiazzo calciando un sasso con un piede. In
disordine sul terreno, parte dell'erba calpestata esalava ancora odore di
sangue marcio. Decine di sagome lasciate. Una per ogni sayan morto quel giorno.
Due o tre compagni, decine di terze classi buone a nulla.
Celia si avvicinò ad una figura familiare, lunga circa un metro e
settantacinque, e con una parte pressata più lievemente per dieci centimetri
buoni oltre il capo.
Avevano catturato anche Vegeta.
Quegli esseri inferiori che governavano il pianeta erano riusciti
a catturarlo, lui, con un coefficiente di diecimila contro il poco più di venti
del più forte di quei mostri.
Celia disintegrò un grosso mollusco che stava tentando impunemente
di andare a lasciare la sua bava sulla sagoma di Vegeta.
Dovevano liberarlo.
Non potevano lasciarlo là.
Non Vegeta.
-Dobbiamo chiamare qualche terza classe e attaccare la città. Non
possiamo lasciarlo lì dentro.
Era una guerriera giovane e inesperta al confronto del proprio
padre, che comunque non superava i quarant'anni a voler essere impietosi, per
questo non si osava lanciarsi in combattimento senza prima un'espressa autorizzazione.
Le gerarchie andavano rispettate.
Quando il tuo superiore in qualità di progenitore aveva anche
tutto il diritto di pestarti fino a non farti più riuscire a parlare era ancora
più intuitivo, che le gerarchie andavano rispettate.
Spartack in ogni caso non l'aveva mai pestata, come capitava ad
altri giovani, senza un motivo che rendesse la punizione strettamente
indispensabile.
-Punirti è umiliante per te che non ti sei saputa comportare come
per me che non sono stato capace di educarti a rispettare il mio volere, quindi
non mi costringere a farlo più di quanto non sia necessario.
Celia si passò una mano sul braccio dove aveva impresso un taglio
per ogni punizione ricevuta. Ne contava solo quattro. Le terze classi ne
avevano l'avambraccio pieno.
Vegeta, il migliore tra loro, neanche una.
Dovevano salvarlo.
Una terza classe era una cosa.
Lasciare lì Vegeta un'altra.
---
Il salone in cui mi accolsero era gremito di esseri uguali a
Jasper. Avevo sostato a lungo davanti al portone che sembrava d'oro, cercando
di carpirne le parole o anche solo per convincermi non avessero intenzione di
farmi del male a tradimento.
Ma non potevo mostrarmi debole, vuoi perchè Bulma Brief non si
mostra MAI debole, vuoi perchè sapevo che andare lì con l'aria da animaletto
impaurito avrebbe solo eccitato la loro sete di violenza, qualora ne avessero
avuta una.
Ricordavo bene il clima dei primi amplessi con Vegeta, quando la
mia espressione timorosa di un istante poteva costarmi ore di seppur piacevoli
sevizie. Questi esseri sembravano ben diversi dai sayan, ma la prudenza non era
mai troppa.
Decisi quindi di simulare una sicurezza che non avevo. Così, fatto
un bel respiro, spinsi una delle ante ed entrai.
All'interno del locale solo un essere davanti a me parve
interessato al mio arrivo. Vedendomi sulla soglia, inclinò leggermente il capo
e sollevò un sopraccigio in segno di saluto.
Sorrisi tranquillamente e mi avviai verso il centro della stanza.
Respira Bulma...
Di Jasper non c'era traccia.
Gli altri esseri gli erano quasi uguali, ma per ognuno c'era
qualcosa, una forma o un particolare, di così diverso da farmelo distinguere.
Erano tutti alti uguali, con capelli azzurri e occhi bianchi, la
stessa carnagione argentea e la stessa tunica bianco latte.
Ma c'era qualcuno con il naso adunco, la fronte più spaziosa, il
mento più sporgente o le spalle meno larghe.
I terrestri erano più facili da distinguere, ma anche per questa
razza riconoscersi tra loro doveva essere molto facile.
Notai subito che erano tutti uomini.
Non c'erano donne o esseri che sembrassero del mio sesso, quindi
immaginai fosse una società poco evoluta, nonostante l'apparenza di grande
progresso tecnologico.
L'aspetto che mi colpì di più di quella stanza, fu tuttavia un
grande schermo posizionato in centro su un grande tavolo. Al momento era spento
e chiaro, ,ma forse veniva usato per comunicare con l'esterno. Non essendoci
finestre, era plausibile pensare ci trovassimo sotto terra.
-Salve, mi chiamo Bulma Brief- dissi rivolgendomi a un essere alto
e con gli occhi molto piccoli -Un vostro amico di nome Jasper mi ha detto di
dire a qualcuno di chiamarlo quando fossi venuta qui.
Il mio tono era squillante, tranquillo come mi stessi annunciando
ad un tè di una qualche amica. L'essere davanti a me fece un cenno con la mano
e al suo fianco un suo simile gli porse un aggeggio quadrato con un piccolo
registratore.
-La creatura si è svegliata-si limitò a dire nell'apparecchio, poi
lo ripose nuovamente nelle mani del sottoposto e mi sorrise con aria calma.
-Jasper sarà qui a momenti. Spero che la camera sia stata di tuo
gradimento.
-Oh sì, non ho mai dormito su qualcosa di più comodo.
L'essere continuò a sorridere poi, d'improvviso scosse il capo
come si fosse appena ricordato di qualcosa.
-Io mi chiamo Lektar, piacere di conoscerti.
Pensai potesse esssere un buon gesto, così gli tesi la mano in un
gesto che lui non capì.
-Io mi chiamo Bulma- mi fissai il palmo, simulando confusione- Oh,
scusa, è un saluto che si usa sul mio pianeta. Probabilmente non lo conoscete.
La disinvoltura con cui parlavo mi veniva naturale. Anni di cene
con l'azienda e false spiegazione sul perchè non mandassi via Vegeta e cosa lui
facesse nella vita mi avevano insegnato che mentire è un'arte. Bastava
esercitarsi.
Lektar mi fissò la mano come studiando ogni falange.
Titubava a partecipare a quella stretta, e registrai
l'informazione.
Stavo per chiedergli qualcos'altro quando Jasper varcò l'entrata.
-Perdonami il ritardo, Bulma- disse, avanzando con passi calmi -ma
avevo un piccolo compito da terminare.
Tutti i presenti si scostavano impercettibilmente, quando lui si
avvicinava per passare. Era come se evitassero il contatto, notai che tra tutti
quanti nessuno toccava nessun'altro.
Era tanto affabili quanto distanti, e non riuscivo a comprenderne
il motivo.
In ogni caso Jasper pareva il capo. Quando mi fu vicino mi sorrise
affabilmente mostrando un' arcata di denti splendidi tra le labbra color
avorio.
-Hai dormito bene?-domandò.
Sorrisi a mia volta mantenendomi tranquilla. -Benissimo - mentii.
-Ne sono felice. Non sapevo come fossero i giacigli sul tuo
pianeta così ti abbiamo dato quello il più morbido che avevamo. Non ci sembravi
un essere che ha bisogno di dormire sulle superfici dure per non decomporsi.
Annuii con gratitudine. Che quelle premure fossero o no sincere
poco importava.
-Detto questo- disse Jasper, allargando le braccia in un invito
-vuoi sederti e raccontarci qualcosa di te? Non sentirti sotto pressione, è che
siamo un popolo di scienziati e gli esseri che non conosciamo ci rendono
curiosi.
Il tono di voce era modulato per essere sincero, ma qualcosa mi
diceva quella non fosse la piena verità.
Esseri che non conoscevano, ecco in quale categoria mi facevano
rientrare.
Non sembravano intimoriti, ma essendo io stessa una donna di
scienza comprendevo l'ambivalenza di sentimenti di fronte a qualcosa di mai
visto prima. La curiosità di comprendere da un lato, il timore di avere di
fronte qualcosa di dannoso, dall'altro.
Erano un popolo di scienziati, su questo non dubitavo, quindi se
non altro potevo sperare non mi avrebbero assalita per chissà quali impulsi
primordiali.
Notai che Jasper mi indicava un cubo bianco, evidentemente adibito
a sedia quando gli esseri attendevano per lungo tempo in quella stanza.
-Certo. Anche se sono piuttosto confusa credo che parlarvi un po'
di me e farmi dire qualcosa di voi possa essere utile ad entrambi.
Mi accomodai seguendo Jasper e solo allora mi resi conto di come
tutti mi stessero ascoltando.
La creatura che prima si era presentata come Lektar stava in piedi
al mio fianco destro, non così di lato al punto io non fossi in grado di
vederlo. Gli altri esseri nella stanza ora stavano tutti nei miei pressi,
sempre ben divisi fra di loro ma voltati contemporaneamente nella mia
direzione.
Jasper fece portare a sè un altro cubo e si sedette di fronte a
me.
-Bene, posso cominciare ponendoti una domanda?
Intrecciai le mani in grembo, resistendo all'impulso di torturarmi
la maglietta larga come facevo sempre sotto pressione. -Sì. Chiedimi pure.
Jasper si lisciò i capelli con una mano. -Come si chiama il
pianeta da cui provieni?
-Si chiama Terra. E' situata in quello che noi chiamiamo
"Sistema solare". Vicino ci sono pianeti che si chiamano Marte,
Giove, Saturno, Mercurio, Nettuno, Venere e Plutone.
Vidi sul volto di Jasper un'espressione che non compresi. -Hai
detto Terra...- disse, continuando a passarsi una ciocca setosa tra le dita.
-Sempre nella nostra galassia di settentrione o in un'altra galassia?
La NOSTRA galassia di settentrione. Ok. Per lo meno non ero
dall'altra parte dell'universo.
-Sì, nella galassia di settentrione.
-Era ovvio. Del resto parli la nostra lingua con una cadenza che
non è accademica. Mi sarebbe sembrato strano se tu avessi imparato a parlare
così una lingua non tua.
Tranquillizzata dal fatto fossero un popolo di scienziati dotati
di cervello, decisi di poter ammettere la verità. -Non so molto dell'universo.
Il mio popolo non crede nemmeno che esistano altre popolazioni a parte la
nostra, quindi la lingua che parlo è l'unica che so.
Jasper non parve sorpreso. Doveva aver intuito qualcosa di simile,
e ciò mi rendeva un essere meno pericoloso del previsto.
-Eppure, se quello che dici corrisponde a verità, non si spiega
come tu sia capitata qui...
Nelle loro mani c'era la mia macchina del tempo. Rendendomene
conto, potevo mentire solo fino a un certo punto.
-Non so come sono arrivata qui. Stavo lavorando ad una macchina
che forse era di provenienza aliena, e sono scivolata cercando di pulirne
l'abitacolo. Non so che macchina fosse, ma volevo studiarla.
Vidi Lektar sollevare un sopracciglio.-Studiarla?
Mi voltai verso di lui. -Sì. Sul mio pianeta sono anche io una
scienziata.
-Eppure non mi sembri così spaventata dall'aver scoperto che
esistono gli "alieni".
Quello era il momento della finzione. -Sì, questo è vero. E' solo
che studiando i macchinari più strani ritrovati sul mio pianeta io non ho mai
creduto che il mio popolo fosse il solo ad abitare l'universo.-Guardai Lektar
con un sorriso. -Ho sempre immaginato che gli alieni esistessero.
Jasper richiamò la mia attenzione tossicchiando leggermente. -Una
macchina aliena dici...
-Già, non so di che pianeta- mentii -ma suppongo servisse per
viaggiare nello spazio-tempo.
Lo sguardo di Jasper si illuminò per la prima volta dall'inizio
del dialogo. -Crediamo anche noi che serva a viaggiare nello spazio-tempo.
Adesso è nei nostri laboratori con alcuni tecnici.
Parlando della macchina l'amore per la scienza traspariva dai loro
volti.
Non potevo avere dubbi. Il loro era autentico amore, verso quelli
che per i più non sono altro che pezzi di metallo saldati insieme.
La presenza della macchina nei loro sotteranei li eccitava di più
che la mia presenza in quella stanza. Le macchine erano studiabili, gli umani
molto meno interessanti.
Ricambiai lo sguardo di Jasper e poi mi voltai fingendo di
guardare il locale. In realtà scrutai ad uno ad uno i volti di quegli esseri
bellissimi. Non c'era occhio che non brillasse come in preda a un rapimento nel
pensiero di quel macchinario da scoprire.
-Ora posso farvi io una domanda?
Jasper sorrise ancora. -Certo, chiedi pure.
Trattenni il fiato alcuni istanti.
-In che anno ci troviamo?
Girare attorno era inutile e snervante. Avendo entrambi capito lo
scopo del macchinario non porre quella domanda avrebbe solo creato sospetti.
Un anno a caso tra lo 0 e il 735.
Un anno a caso e un posto a caso.
Jasper si riavviò gli splendidi capelli e si alzò con un movimento
fluido.
-Ci troviamo nel 75.
Cercai di restare calma.
-E credo che per te non sia una bella notizia.
Continuai a respirare piano.
-Il pianeta di cui ci hai parlato è attualmente disabitato.
Prima
i maschi anziani, poi i maschi giovani, poi le donne anziane e infine le donne
giovani.
Non
ci sono eccezioni, ogni uomo combatte perchè è l'unica cosa che può fare. Le
donne, per contro, hanno invece una doppia strada.
Ci
sono le fattrici, che curano la prole e mantengono le case, e le guerriere, cui
è vietato riprodursi fino all'età di quarant'anni.
La
società sayan aborre la debolezza e non concepisce la pieta. I bambini deboli
che superano l'infanzia vengono mandati come esche negli attacchi. Bocche in
meno da sfamare e buoni diversivi negli avanzamenti per trovare cibo.
Tra
i guerrieri maschi e femmine hanno pari ruolo. Solo la forza discrima le prime
dalle seconde e le terze classi.
Nella
terza classe risiedono i più deboli e i meno svegli, atti a fare numero nelle
avanzate in gruppo, nella seconda i guerrieri più potenti.
Non
bastano forza e potenza per essere prime classi. In questa ristretta cerchia,
infatti, risiedono solo coloro che oltre a forza e potenza posseggono
intelligenza e astuzia, doti molto rare per un appartenente alla razza sayan.
Nell'anno
75 della galassia di settentrione, prima del dominato di Cooler e Freezer, e prima
ancora della nascita del pianeta Vegeta, la struttura della società sayan era
una forma embrionale di quella sopra descritta.
Non
vi erano città stabili, in quanto la mancanza di un pianeta impediva ai
guerrieri di porre radici, e le divisioni in classi erano più informali che
formali.
All'interno
della prima classe, in ogni caso, vi erano solo tre elementi, a testimonio che
l'intelligenza fosse una dote rara.
Dei
tre elementi il capo branco era Spartack, sayan di anni trentanove e più di
cento battaglia sulle spalle. Subito a suo seguito c'erano un maschio e una
femmina di anni venticinque e diciotto.
Celia,
giovane guerriera figlia di Spartack, e Vegeta, di padre ignoto e madre
fattrice.
Nessuno
dei tre era di puro sangue Sayan.
---
La
sala dello schermo rimaneva silenziosa mentre gli esseri continuavano a
fissarmi.
-Il
pianeta di cui ci hai parlato è attualmente disabitato.
Ero
tornata indietro, così indietro da provenire da un pianeta senza vita.
Jasper
e i suoi compagni mi guardavano curiosi. La mia reazione li stupiva, cercavo di
trattenere ogni emozione ma al tempo stesso non sapevo come sentirmi.
Che
la Terra fosse vuota mi spaventava? Sì e no, o meglio non mi spaventava come
avrebbe potuto spaventarmi il fatto di sapermi nel campo base di Freezer o di
qualche altro mostro.
Era
desolante sapermi sola in mezzo all'universo, ma la cosa non mi preoccupava più
di tanto.
Ero
comunque su un altro pianeta, cosa poteva importarmi che la Terra fosse abitata
o meno?
Non
sarei mica potuta andare sulla Terra a dire che venivo dal futuro e farmi
aiutare ad aggiustare la macchina del tempo, se anche il pianeta fosse stato
abitato.
Meglio
essere su un pianeta abitato da scienziati e aggiustare la macchina il prima
possibile, che finire sulla Terra e farmi prendere per una strega uscita
dall'inferno.
Alla
fine sì, non era stato tanto male finire così indietro.
Jasper
spostò il cubo e si voltò verso i suoi compagni.
-Bene,
direi che adesso sarebbe meglio lasciare questa povera creatura un po' in pace.
Tornate pure ai vostri lavori. Come avete visto non avete nulla da temere
compagni.
Ad
uno ad uno gli esseri leggiadri lasciarono la stanza, in uno sventagliare di
tuniche e rumori sommessi di passi.
In
quel momento capii perchè Jasper mi aveva fatta andare in quella sala. Avevo
letto negli occhi di quegli esseri una sottile preoccupazione, come se
temessero che dicessi o facessi qualcosa che non riuscivo a inquadrare.
Quelle
creature così belle e così inquietanti avevano paura di quel che avrei potuto
fare. E pensare che in nessun modo mi ritenevo "inquietante" nei miei
panni di terrestre.
A
parte che con le urla non possedevo alcuna forza, eppure il loro era timore.
Quando
tutti furono usciti mi accorsi che solo Lektar e Jasper erano rimasti nella
stanza.
-E
con questo possiamo essere sicuri che nessuno di loro ti farà del male con le
nostre macchine- disse Jasper con un sorriso -sai, non ci capita spesso di vedere
femmine aliene cadere dal cielo a bordo di una macchina del tempo. Volevo solo
che ti vedessero in modo che fossero tranquilli.
Mi
strinsi nella maglietta. -Ce ne vuole per avere paura di me- dissi con
sarcasmo.
Jasper
era di sicuro il capo in quel luogo, con lui fingere era impossibile. I suoi
occhi così attenti sembravano scrutarti dentro, come se nei miei occhi stesse
fissando gli ingranaggi di un macchinario.
Eppure
io non riuscivo a vedere nulla, nelle espressioni del suo volto.
E
la cosa non mi piaceva.
Notando
la mia smorfia Jasper rise leggermente. -Mi piacerebbe trattenermi ancora, ma
fino a questa sera ho dei compiti da svolgere.
Mi
guardò fissa negli occhi. -Desideri riposarti ancora?
Se
avessi dormito ancora sarei morta d'inedia. -Non sono stanca.
Jasper
si voltò allora verso Lektar. -Lektar, se dico a Calisia di dispensarti dalle
lezioni ti spiacerebbe tenere compagnia alla nostra ospite fino a cena?
Guardando
verso Lektar notai un che di familiare nei due volti delle creature. Erano
fratelli. La confidenza era palpabile.
Con
un sorriso largo e placido Lektar strinse gli occhi e anuii con la testa.
-Certamente. Non c'è nessun problema- Poi si voltò verso di me -sempre che alla
nostra ospite, Bulma giusto?, non dispiaccia...
Quegli
occhi bianchi come quelli di Jasper avevano un nota diversa, più umana di
quelli del fratello. E il sorriso era reale, come se fosse contento veramente.
-Certo
che non mi dispiace-dissi, dando poco peso al fatto Lektar dovesse rinunciare
ai propri compiti per passare il tempo insieme a me.
Ero
o non ero un'ospite?
Jasper
si allontanò mostrando una certa fretta -Allora siamo d'accordo.
Notai
nella tasca della tunica un piccolo macchinario con uno schermo lampeggiante.
Lo stavano chiamando da qualche parte.
Jasper
notò la direzione del mio sguardo. -Il lavoro chiama-sorrise ancora-adesso
scusami.
E
detto ciò sparì oltre l'uscio della sala.
Voltandomi
verso Lektar e notando la nota umana del suo sguardo, nota che in Jasper era
completamente assente, mi sentii inquieta da una parte e tranquilla da quella
opposta.
Lektar
non mi inquietava, al contrario mi ispirava simpatia.
Jasper
invece non mi piaceva.
Neanche
un po'.
---
Poco
lontano dalla città del Blu, Spartack arrivò al villaggio seguito dalla figlia.
Il
tono degli umori più che basso era sommesso, tutti si occupavano delle proprie
faccende in silenzio e senza i consueti screzi o litigi. Le perdite erano state
grandi, ma per lo più di terze classi, quindi nulla di irreparabile. Spartack
sapeva che le uniche vere perdite erano quelle delle prime e seconde classi, le
terze altro non erano che soldatini in un esercito.
Non
c'erano legami fissi tra le terze classi, raramente maschi e femmine si
accoppiavano per poi mantenere un qualsivoglia tipo di rapporto, quindi nessuno
di loro veniva pianto troppo a lungo.
Solo
fra le prime e le seconde classi le unioni erano forti. Il maschio più potente
sceglieva il più delle volte o la donna più prolifica o la guerriera più
potente, e con essa rimaneva fino alla fine dei propri giorni.
Le
prime classi dovevano assicurare continuità alla forza, quindi non potevano
permettersi legami inconcludenti.
Potevano
scoparsi le terze classi, ma quando si parlava oltre che di mischiare il sangue
di educate i cuccioli non c'erano eccezioni.
Una
serie di mancate nascite o di educazioni raffazzonate potevano portare
all'estinzione della razza.
Per
questo di educare Vegeta si era occupato personalmente.
Spartack
attraversò il villaggio diretto al proprio anfratto.
La
tensione era palpabile
Avevano
catturato Vegeta, e anche i più anziani sapevano che quel ragazzo era la loro
unica speranza di salvezza.
Celia
dietro di lui camminava prendendo a calci ogni oggetto incrociasse il suo
cammino.
Spartack
rise amaramente di quel gesto.
Era
una ragazza intelligente, ma nascondere l'inquietudine non era stato mai il suo
forte.
La
capanna costruita d'arbusti e fango pressati assieme teneva il caldo come la
bocca dell'inferno, ma aveva bisogno di stare solo. Doveva riflettere sul da
farsi.
Nel
cielo buio e ricoperto di nuvole dense, Spartack notò un bagliore familiare. La
luna degli Ozaru splendeva tiepida dietro la coltre di condensa.
-Celia?
La
ragazza si fermò alzando di scatto il capo in sua direzione. -Sì, padre?
Spartack
indicò il cielo con il capo. -Vatti a fare un giro e scarica la tensione.
Continuò
a guardare il cielo.
-Prima
che la luna cada andremo là a portarlo via.
---
Il
volto di Lektar e le sue movenze erano quanto di più simile alle mie avessi
visto in quelle ore.
Camminava
con una strana consistenza, premendo sul pavimento come se fosse dotato di peso
proprio, al contrario di Jasper che sembrava galleggiare in aria. Mi
trasmetteva un senso di calma, come se fossi sulla Terra e non in un pianeta
alieno in compagnia di un essere alieno.
Attraversando
il corridoio in direzione a me ignota mi rilassai e iniziai a parlare.
-Dove
stiamo andando?
La
creatura mi guardò con uno sguardo di simpatia. -Di preciso da nessuna parte.
Pensavo di farti visitare l'edificio. Così se vorrai andare in giro saprai cosa
fare.
In
silenzio mi mostrò tante camere una più bianca dell'altra.
-Posso
chiederti come mai c'è tutta questa luce?-dissi, entrando nell'ennesimo locale
illuminato più che a giorno.
Lektar
stette in silenzio alcuni istanti come studiando se rispondere o meno alla
domanda.
-C'è
tanta luce perchè è grazie ad essa se possiamo lavorare alle invenzioni.
Affascinata
mi guardai intorno. -Vi nutrite di energia?
Lektar
sorrise un poco. -In parte. Diciamo che il nostro corpo si nutre di cibo come
il tuo, ma la nostra mente di nutre di luce.- Esitò un istante. -Non riusciamo
a lavorare se siamo anche solo un po' al buio.
Immaginai
che quella risposta contenesse un segreto che non avrei dovuto conoscere.
Leggevo
il timore di Lektar dai movimenti, da come mi parlava calibrando le parole e
studiando ogni frase prima di parlare.
C'erano
cose che non sapeva se rivelarmi. Era come se pensasse di non potersi fidare
del tutto. Come se qualcosa gli dicesse di non farlo.
Non
potevo biasimarlo. Ero un'aliena del futuro.
Molto
debole, ma un'aliena in ogni caso.
-Posso
chiederti qualcosa sulla tua gente?-dissi, davvero curiosa su mille cose.
Lektar
mi fisso esitando. -Sì... dipende da cosa mi vuoi chiedere.
Sorrisi
toccandogli un fianco con il gomito. - tranquillo, non ti chiederò di svelarmi
le vostre invenzioni.
Fu
la reazione al mio gesto più che alle mie parole, a lasciarmi esterrefatta.
Quando
l'osso del mio gomito sfiorò la tunica bianca e soffice, Lektar fece un salto,
non un sobbalzo di sorpresa, un vero salto verso destra.
Con
le pupille dilatate mi fissò contraendo il volto in una smorfia.
Era
autentica paura.
-Io...cioè...
scusa...-cercai di dire sotto shock.
Nei
suoi occhi c'era terrore. Come fosse stato un agnello tra le zanne di un leone.
Mi
guardai intorno imbarazzata.
Lektar
si ricompose e mi tornò affianco col capo chino. -Scusami, mi hai colto di
sorpresa.
Proseguimmo
in silenzio nella stanza fino all'uscita nel corridoio.
Stavamo
per varcare un'altra soglia quando Lektar parlò di nuovo. -Scusa per la
reazione di prima. E' che noi non siamo abituati al contatto fisico.
Lo
guardai incuriosita. -Vuoi dire che non vi toccate mai?
Lui
entrò prima di me. -No, cioè, non c'è alcun motivo per cui dovremmo farlo.
Questa
volta fui io e restare lì interdetta. -Come non ce n'è bisogno? E come fate
a...
Cercavo
un modo poco invasivo per esprimere il mio pensiero.
Come
potevano riprodursi o avere un qualsivoglia rapporto senza avere mai contatti
fisici?
Non
riuscivo neanche a immaginare come potesse essere vivere così, sempre soli
anche in mezzo agli altri.
Senza
il conforto che una mano amica riesce a darti quando sei in difficoltà.
Lektar
tornò a fissarmi come leggendomi nel pensiero. -Oh, bhe. Credo che nel mio
popolo le cose funzionino diversamente dal vostro...
Com'era
possibile che sapesse cose su un popolo mai esistito?
Com'era
possibile che sapesse cosa intendevo?
-Diversamente
dal nostro?
Lektar
mi mostrò la stanza. -Questa è camera da letto di Jasper. Come vedi è la più
grande.-poi chinò la testa- Nel nostro mondo non esiste quella che voi chiamate
"riproduzione per copula".
Lo
guardai instupidita. Continuavo a non capire.
-Per
farla breve noi Skatos non abbiamo due sessi distinti. Siamo esseri come si
dice..."asessuati"...non come voi.
Pensai
a Junior e alla riproduzione su Nameck. Ma un particolare non tornava.
-E
come fate a riprodurvi? Io pensavo che tu e Jasper foste fratelli...
Lektar
mi fece cenno di uscire dalla stanza.
-In
un certo senso è così. Non siamo fratelli come possono esserlo due creature
della tua razza, ma lo siamo nel nostro senso.
Chiuse
la porta azionando un controller che la fece scorrere a tenuta stagna.
-Io
e Jasper siamo il frutto della scissione di uno stesso essere, per questo ci
assomigliamo. Nel mio popolo quando una creatura di trova in punto di morte può
scegliere se morire o scindersi in due nuovi esseri.
Senza
rendercene conto eravamo arrivati alla cucina.
-E
ognuno dei due esseri si appropria di una parte dei comportamenti e delle
qualità del predecessore, ma non in maniera calcolata. C'è chi prende molto e
chi prende poco, a volte anche uno che prende i pregi e l'altro che prende le
mancanze. Il nostro progenitore era il più intelligente della nostra razza.
Infatti Jasper adesso è il più valente fra gli scienziati. Un po' come i vostri
"figli" certe volte assomigliano molto a uno dei genitori e molto
poco all'altro.
Lektar
conosceva sugli umanoidi molte più cose di quanto mi aspettassi.
Pensai
che poco per per volta gliene avrei chiesto anche il motivo.
In
ogni caso forzarlo non era saggio. Meglio procedere con calma.
-E
tu cos'hai ereditato dal tuo predecessore? Sei molto diverso da tuo
"fratello"...
In
quel momento il volto di Lektar cambiò espressione. Dal racconto di
informazione una nota di dolore e rabbia penetrò le sue parole.
Emozioni
che non avevo visto in nessuno, in quelle ore a contatto con gli
"Skatos".
Stava
pensando se rispondermi, quando un altro Skatos comparve nella sala.
-Lektar...
L'essere
in questione era più simile a una donna, che non a un uomo come quelli che
avevo visto fino ad allora. I capelli anzichè azzurri erano violacei, un po'
più scuri di quelli di Trunks e dello stesso liscio ordinato, solo molto più
lucenti.
Doveva
essere più anziano, ma la sua bellezza toglieva il fiato.
-Calisia-
disse Lektar - come vedi non mi sono assentato delle tue lezioni per andare a
guardare la grande sfera.
Mi
indicò con il capo e il volto dell'altro Skatos si inclinò in un sorrisò
obliquo.
-Ero
certo che tuo fratello non mentisse. Ma so altrettanto bene che il tuo amore
per le macchine è ben minore del tuo amore per gli altri alieni, quindi ho
pensato bene di venirti a ricordare dei tuoi compiti verso le NOSTRE attività.
L'occhiata
che Calisia lanciò a Lektar era tanto ambigua quanto mirata verso qualcosa che
entrambi sapevano ma di cui io ero all'oscuro.
Lektar
non si scompose e sorrise affabilmente.
-Hai
fatto bene a rammentarmi i miei compiti Calisia, ma ora se non ti dispiace ho
ancora molto dell'edificio da mostrare alla nostra ospite.
Ci
allontanammo dal locale ritornando sui nostri passi e ripercorrendo la strada
già fatta prima.
Lektar
rimaneva silenzioso.
In
confronto a Jasper e all'altro Skatos, Lektar mostrava comportamenti che lo
facevano sembrare appartenente a un'altra razza, non fosse stato per l'aspetto.
In
lui c'era qualcosa di incomprensibile, ma forse il sentirlo così più simile a
me e così meno meccanico nell'animo lo rendevano più normale e quindi meno
inquietante.
Quell'alieno
era un puzzle. Di quelli con tanti pezzi in cui si inizia dalla cornice.
In
cui i colori lasciano intuire dove andrà ogni pezzo del dipinto.
In
confronto ai suoi compagni che erano come progetti di macchine da costuire,
Lektar sembrava un puzzle.
Era
difficile da risolvere, ma in quella casa della mia dimensione avevo finito un
puzzle ben più arduo di quello Skatos.
Il
volto di Vegeta mi apparve in mente e mi sfuggì un sorriso al suo pensiero.
Ero
sola in quel posto alieno.
Ma
se avevo risolto il principe dei sayan, quale altro puzzle non avrei potuto
ricomporre?
----
Celia
si sedette sull'altura in direzione della città sventolando la lunga coda al
vento.
Detestava
stare male. Non era un sentimento che si addiceva a una sayan, lo stare male non
per i pugni.
Avrebbe
voluto dissipare le nuvole nel cielo e trasformarsi e andare a prendere Vegeta,
ma sapeva che se fosse sopravissuta l'avrebbe pagata cara.
Vegeta
l'avrebbe uccisa, se avesse fatto una cosa simile.
-Questo
non cambia niente.
Quelle
parole. Il fiato di Vegeta sul collo mentre era ancora dentro di lei. La
rabbia, la disperazione, il desiderio.
-Questo
non cambia niente.
Ossia
ti ucciderò, se per questa cosa farai stronzate.
Il
bene del gruppo è la prima cosa.
Celia
uccise un anfibio che malauguratamente le stava passando davanti ai piedi.
Il
bene del gruppo è la prima cosa.
La
prima.
Sopra
ogni cosa.
Le
donne erano deboli, suo padre lo ripeteva sempre. Per questo per lo più
passavano la vita sfornando figli e la guerra rimaneva affare da uomini.
Suo
padre pensava lei fosse diversa. L'aveva creduto anche lei, fino a quando non
era stata abbastanza grande da sentire lo stomaco rivoltarsi per un desiderio
del tutto nuovo.
Il
desiderio che aveva sentito un giorno qualunque trovandosi a fare il bagno
troppo vicina a Vegeta.
Sette
anni di differenza, passavano tra loro.
Vegeta
venticinque, lei diciotto appena fatti.
Diciotto
anni in cui Vegeta l'aveva picchiata talmente tanto da farla diventare la
ragazza più potente dell'intero gruppo.
-Se
vuoi difenderti da loro, l'unico modo è picchiare più forte.
L'aveva
resa la migliore, con quelle botte date forte.
Le
aveva insegnato a difendersi, invece che cercare protezione.
-Non
sarai mai libera con un uomo che ti procura il cibo. Se vuoi essere libera
impara a cacciarti il tuo cibo da sola.
Suo
padre le aveva insegnato a vedere il lato buono delle cose.
Vegeta
a combattere quello cattivo.
Suo
padre a cercare di ragionare prima di giungere alle mani.
Vegeta
a picchiare forte, quando ragionare non bastava.
Suo
padre l'aveva cresciuta da figlia.
Vegeta
da donna guerriera.
-Questo
non cambia niente.
E
ora lei non poteva fare a meno di pensare che l'unica cosa le importasse
davvero era rivedere quel volto sfregiato.
Il
volto di quel sayan che a dodici anni era tornato dalla città del Blu con una
lunga serpentina rossa a percorrergli il volto.
E
che a nessuno aveva raccontato come essa fosse stata fatta.
Celia
voleva combattere, ma non irrazionalmente come avrebbe fatto per quel
sentimento che la ripugnava e attraeva al tempo stesso.
Voleva
combattere aspettando l'ordine di suo padre, arrivando dagli Skatos con aria
trionfante e portando Vegeta in salvo.
Percorrendo
il candido corridoio in direzione della sala da cui eravamo partiti, mi
impegnai a studiare l'edificio come non avevo fatto prima per via della
conversazione con Lektar sulle abitudine della sua gente.
Le
stanze si aprivano a distanze regolari su ambo i lati del passaggio, con un
controller accanto a ogni porta e un piccolo pannello che immaginai essere un
lettore di impronte digitali. Non sapevo se gli Skatos possedessero impronte
digitali, ma ricordavo vagamente la figura di Lektar che per farmi entrare
nella stanza di Jasper aveva passato il palmo su uno di quegli schermi.
Le
pareti erano di un materiale simile al teflon, ma ero quasi sicura non fosse
nulla di presente sulla Terra. Non vi erano orpelli od ornamenti appesi ai
muri, solo delle piccole bocchette che immaginai necessarie essere dei condotti
di aereazione.
Potevamo
trovarci sottoterra come in un piano rialzato, la mancanza di finestre rendeva
quel luogo come isolato dal mondo esterno.
Ero riluttante, in ogni caso, a pensare di trovarmi interrata viva, non ne
conoscevo bene il motivo, ma avevo la sensazione di trovarmi al livello del
terreno ma soltanto in un luogo privo di finestre.
Studiavo
quei locali cercando di mantenermi su un piano puramente tecnico. Il conoscere
quel luogo mi sarebbe potuto servire in ogni caso.
Anche
per una fuga, se ne avessi avuto la necessità.
Benché
non mi sentissi molto a mio agio in presenza degli Skatos, tuttavia, in
compagnia di Lektar non mi sentivo in situazione di pericolo.
Spiandolo con la coda dell’occhio, pensai che non sapevo per quale motivo, ma
avevo la sensazione di non avere nulla da temere finchè rimanevo in sua
compagnia.
A
giudicare dalla sua espressione, tra noi due il più pensieroso in quel momento
era lui.
Quanto
aveva detto lo Skatos chiamato Calisia continuava ad aleggiare nell’aria
depurata.
Ma
dato che il tuo interesse per le nostre macchine è di gran lunga inferiore di
quello per gli altri alieni ho pensato di richiamare la tua attenzione verso i
NOSTRI compiti.
L'alieno
dalle chiome violacee aveva vistosamente calcato su quel NOSTRI, e benchè il
suo volto non fosse mutato dalla solita espressione calma e cortese, la frase
era suonata fin troppo bene come un rimprovero.
Con
la coda dell'occhio scrutai nuovamente l'espressione di Lektar accanto a me.
Più
gli camminavo accanto e più la sensazione che in lui ci fosse qualcosa di
diverso si acuiva.
Ciò che più mi incuriosiva era che Lektar nel parlare cambiava espressione come
un qualunque essere umano, non manteneva il sorriso stereotipato che avevo
visto nei suoi compagni. Persino il tono della voce, che negli altri Skatos
manteneva sempre una nota neutra e pacatamente bassa, in lui variava con il
variare delle emozioni che gli si muovevano nell'animo.
A
guardare gli Skatos mi ero fatta l'idea che fossero esseri senza sentimento,
senza quel miscuglio di sensazioni che io avevo fino a quel giorno ritenuto
necessariamente conseguenti alla vita in comunità.
Non vi era dolore, rabbia, felicità nei loro volti, e il fatto non ricercassero
il contatto fisico altro non era che lo specchio del fatto non cercassero un
contatto neanche mentale. Era come se vivessero su frequenze diverse, una
frequenza per ogni individuo, frequenze che proseguivano parallele senza
incontrarsi mai.
Non
potevano soffrire, gioire, irritarsi, perchè fra loro non vi era amore,
gelosia, invidia, comprensione.
Io stessa mi rendevo conto di come le mie emozioni derivassero imprescindibilmente
dai miei rapporti con i miei simili.
Soffrivo
per la morte di Goku, mi irritavo per una parola detta male da Vegeta, mi
intenerivo al pensiero dell'altro Trunks e giovo della vitalità del mio.
Le
mie emozioni fin dall'incontro con quel bislacco ragazzino durante la ricerca
delle sfere del drago erano state di un'intensità che mai avrei potuto
immaginare. Per questo non rimpiangevo il periodo della mia vita che avevo trascorso
all'oscuro del mondo come la normale figlia di una coppia molto ricca.
Conoscendo
Goku, poi Yamcha, poi Vegeta, avevo sofferto e mi ero irritata più di quanto
avessi mai pensato immaginabile.
Ma
al tempo stesso la gioia di vedere Goku in ospedale vivo dopo lo scontro con
Vegeta, la dolcezza degli occhi tristi di quel ragazzo venuto da un mondo buio,
la sensazione di strabordante amore la prima volta che avevo visto Vegeta
togliersi le scarpe all'ingresso per rispetto di quella casa ormai anche sua,
quelle, pensavo, quelle erano le sensazioni che valevano da sole tutte le
sofferenze e le preoccupazioni.
Pensare
che quegli esseri così perfetti non conoscessero nulla di tutto ciò mi riempiva
di tristezza e insieme mi inquietava. Il fatto di diventare freddi e
insensibili era un passo necessario per evolversi in esseri migliori?
Da quel poco che avevo avuto modo di vedere con Vegeta e prima ancora di studiare
a scuola, il non saper dominare l’istinto era prerogativa delle società poco
evolute. Le faide familiari continuavano per decenni, con assassini e ruberie protratte
talmente in là che chi li perpetrava non ne ricordava neanche più un motivo che
non fosse la vendetta.
Erano le passioni cui ero tanto legata il motivo dei più crudeli ed efferati
crimini. Era per troppo amore che si dominava una persona, per troppa paura che
la si uccideva per non perderla, per la troppa invidia che la si feriva per il
solo gusto di vederne la sofferenza.
Gli Skatos erano evoluti, il fatto di potersi autorirpodurre li rendeva immuni
da quelli che erano i comuni sentimenti degli umani come me. Non dovevano
competere con gli altri simili, ognuno di loro decideva se e come lasciare una
propria traccia nel mondo in divenire.
L’unico fine da perseguire era la sopravvivenza della città, dato che anche un
assassinio non poteva impedire a un essere di scindersi in due nuovi esseri
prima della morte.
L’unico
compito ancora vivo era proteggere l’intero gruppo, assicurarne il benessere
contro le minacce del mondo esterno.
Eppure era possibile che riuscire ad autoriprodursi rendesse davvero immuni dai
sentimenti umani?
Forse
fra loro l’invidia esisteva, benché fosse un accanimento senza sbocco dato che
un omicidio era inutile se non dannoso, oppure la loro perfezione li portava a
non sentire proprio nulla?
Non
c’era solitudine in una vita passata solo a contatto con le macchine?
La reazione che Lektar aveva avuto al mio tocco involontario mi aveva dato da
pensare. Cosa sarebbe successo se la loro razza avesse cominciato a conoscere
la piacevolezza di essere in sintonia mentale e fisica con qualcuno?
Sarebbero tornati indietro, o non avrebbero cambiato nulla?
E perché Lektar era così diverso, così più umano, rispetto agli altri?
Arrovellandomi
nel calderone dei miei stessi dubbi non mi accorsi più di nulla, finchè non
giungemmo nuovamente nella sala con lo schermo.
Lektar mi fissava con indecisione, fissando ora me ora il pannello accanto
all’ingresso della grande sala.
Lo
fissai incuriosita sollevando un sopracciglio. –A meno che tu non stia
valutando se staccarmi o no la testa ti faccio notare che non è carino fissare
una donna come stai facendo tu.
Lektar
si riscosse e mise su il suo sorriso da Skatos come tanti. –Perdonami, non mi
ero accorto di starti fissando in un brutto modo…
-Non
ti preoccupare- mi risedetti sul cubo bianco –era solo per dire qualcosa.
Lo
vidi sostare dinnanzi a me con aria dubbiosa.
Battei
le mani su tessuto del cubo facendolo sobbalzare leggermente. –Quanto manca
all’ora di cena?-domandai, con un espressione di simpatia.
Lektar
fisso il pannello per un istante poi disse: -Non molto, ma neanche poco tempo.
Si
allontanò verso lo schermo e si fermò a fissarlo un attimo.
-Serve
per vedere fuori?-tentai di indovinare.
Lektar
si voltò e sorrise lievemente. –Sì, ma si accende solo quando c’è qualche
pericolo in vista. E’ una specie di camera di sorveglianza.
-Una
camera di sorveglianza?
Quello
si che era curioso. Che pericoli potevano esserci su un pianeta abitato da
esseri che neanche si toccavano fra loro?
Che
l’invidia esistesse e alcuni usassero le macchine per nuocere ai loro simili?
Il
pensiero del dottor Gelo mi balenò in testa e strinsi i pugni sui pantaloncini.
L’altro
Trunks.
Non
potevano esserci scienziati pazzi anche fra esseri così placidi come quegli
alieni.
Non
DOVEVANO esserci futuri di distruzione anche in un popolo così evoluto.
Lektar
dissipò i miei dubbi avvicinandosi e sedendosi davanti a me dove prima era
stavo seduto Jasper.
-Non
so se Jasper sarebbe d’accordo che io ti raccontassi quanto sto per dirti, ma
credo che se vorrai restare qui fino alla riparazione della tua macchina sia
meglio che tu sappia.
Alzai
il capo incuriosita. Non dissi nulla per fargli segno di continuare.
Lektar
prese dal grande tavolo una pallina e cominciò a passarla da una mano
all’altra.
-Ti
ho detto che noi Skatos siamo in grado di scinderci in due parti distinte poco
prima della morte, e ti ho anche detto che dei due esseri che si formano ognuno
prende alcuni aspetti del proprio essere precedente.
Lanciò
in aria la pallina e la riprese al volo. –Quello che non ti ho detto, o che
meglio stavo per dirti prima che arrivasse Calisia, è che non tutti gli Skatos
della generazione del mio predecessore erano come siamo io e Jasper adesso.
Piegai
la testa di lato come se così lo potessi udire meglio.
-La
mutazione da esseri dotati di sesso ad esseri asessuati è avvenuta di colpo in
alcuni di noi, più o meno quattro generazioni fa. A quei tempi, nel caso di uno
scienziato particolarmente intelligente, si era trovato un modo di distaccarne
la materia grigia prima che morisse e da essa creare un nuovo corpo giovane e
in salute. Attraverso un fluido di nostra invenzione, infatti, il ciclo vitale
della materia grigia poteva essere allungato fino a durare anche mille anni,
non siamo sicuri della durata effettiva del ciclo così ottenuto perché nessuno
di noi è ancora arrivato ad avere quell’età.
-Per questo motivo, alcuni tra i migliori scienziati avevano deciso di dedicare
la loro vita alle invenzioni, e lasciar perdere i contatti che non fossero di
lavoro con i propri simili. Può sembrare strano, pensando che erano essere
sessuati a tutti gli effetti, ma per loro stare con le macchine era l’unica
cosa davvero gratificante, e la prospettiva di potersi ricreare in un nuovo
essere in tutto e per tutto uguale a loro li soddisfaceva più della prospettiva
di avere dei figli che soltanto probabilmente sarebbero stati simili a loro e
mai uguali.
-Inoltre
il fatto di interagire con i porpi simili toglieva tempo alle invenzioni-
intervenni –quindi avevano ben pensato che il modo artificiale di riprodursi
fosse, come dire, meno “faticoso”di quello naturale.
-Esattamente.
Dopo una ventina d’anni dall’inizio di questa pratica, nei nuovi esseri
cominciarono però a svilupparsi delle anomalie. Alcuni dei “figli” dei
predecessori perdevano improvvisamente la memoria, altri si instupidivano da un
giorno all’altro, alcuni persino cominciavano a comportarsi come se fossero stati
altre persone, con falsi ricordi e tutto il resto.
A
quel punto Lektar attirò il mio sguardo sulla pallina, che splendeva nelle sue
mani grazie alla luce che si rifletteva sulla superficie lucida. –Prova a pensare
che questa pallina sia un cervello, e che esso sia pieno di altre piccole
palline, che sono i ricordi e le conoscenze. In pratica a un certo punto della
seconda vita era come se ci fossero troppe palline perché la palla grande
potesse contenerle. Il cervello di un individuo è tarato per contenere molte
informazioni, ma è comunque tarato in base al numero di informazioni che si
pensa un individuo possa immagazzinare in una sola vita.
Lektar
tornò a fissarmi.
-In
poche parole a un certo punto il cervello degli individui cominciò a buttare
fuori informazioni, creando dei gap anche di ventenni nella memoria delle
persone o mandando in tilt il sistema mnestico.
Presi
la pallina dalle sue mani e parlai tenendo gli occhi fissi di essa. –Più o meno
come quello che succede quando particolari poco rilevanti della nostra vita
vengono “cancellati” per fare spazio ad informazioni nuove…
-Esatto.
Solo molto più in grande.
Tornai
a fissare Lektar. –Quindi in un qualche modo avete pensato che riprodurre un
essere in due nuovi esseri fosse un buon espediente.
-Già.
Lektar
rimase in silenzio alcuni istanti, aggrottando le sopracciglia con fare
pensieroso.
-Non
so bene come sia successo che gli Skatos abbiano cominciato a riprodursi
naturalmente nel nostro modo attuale dalla riproduzione sempre uguale ma con
l’ausilio della genetica, ma so che la maggior parte dei miei compagni nella
vita precedente era uno Skatos il cui predecessore era stato geneticamente
modificato per fare in modo di creare figli privi di organi sessuali e in grado
di autoriprodursi naturalmente. Per i particolari dovresti chiedere a Jasper,
io sono uno scienziato decisamente mediocre rispetto a lui.
Lo fissai lasciandogli sottintendere fossimo tornati al punto di domanda che
gli avevo porto nella cucina prima dell’incontro con Calisia, ma la spiegazione
non sembrava terminata.
-So
che ti starai chiedendo perché ti sto dicendo queste cose invece di rispondere
alla tua domanda- disse Lektar, come leggendomi nel pensiero –ma non posso
spiegare perché sono come sono senza dirti com’è successo che il mio
predecessore fosse in parte come me.
Lo
fissai senza capire, ma lui non se ne curò.
-Prima
ti avevo detto che per questi esperimenti si erano offerti volontari alcuni
scienziati, e che poi la cosa divenne una prassi anche per tutti gli altri.
Lektar
riprese la pallina. –La cosa però non divenne obbligatoria, nessuno poteva
essere costretto a sottoporsi all’intervento, e alcuni fra gli stessi
scienziati migliori decisero di opporsi. Il fatto di essere interessati solo
alle macchine non era una consuetudine come lo è ora, fra la mia gente, e non
lo era neanche tra gli Skatos che alle macchine dedicavano la vita. C’erano i
fanatici, questo sì, ma il più erano individui che giovano a stare con i propri
simili come a stare con le macchine.
-E
fra questi c’era il tuo predecessore…
-Non
proprio, ma vedo che stai cominciando a farti un’idea di questa storia.
Naturalmente alla fine tutti gli scienziati migliori già nati da una scissione
del vecchio essere cominciarono a vedere come un prassi il fatto di riprodursi
in un dato modo, ma per alcuni di loro il passaggio fu causa di grande
travaglio. La mia gente vede come bene primario quello della specie, quindi
anche chi non era d’accordo si sottopose all’intervento perché consapevole dei
benefici che questo tipo di vita poteva portare a tutti quanti. All’improvviso
finirono gli omicidi, gli stupri, le violenze sui bambini, e tutti presero ad
esempio le grandi menti che vivevano più serene sapendo che di loro nulla
sarebbe tornato polvere.
Mi
avvicinai un po’ a Lektar, poggiando i gomiti sulle ginocchia. –Però in alcuni
di voi i sentimenti non svanirono.
Lektar
mi fissò, lo sguardo pieno di tristezza.
-No,
i sentimenti non svanirono…
…anzi
sopravvissero più forti, come diventa più forte un animale, dopo che per molte
volte è scampato a una morte atroce.
----
Spartack organizzò un nutrito gruppo di sayan per fingere un attacco alla
città.
In prima fila mandò cinque terze classi, cinque maschi di grande stazza che
sapeva essere gli Ozaru più giganteschi di tutti guerrieri compresi quelli più
potenti.
Non
avrebbero attaccato, i muri della città in un qualche modo riuscivano a
individuarli e a richiamare gli Skatos con i loro macchinari.
Dovevano
solo spaventarli. In modo da permettere a Celia e a due seconde classi di
superare il perimetro murato e portare via Vegeta.
Non
potevano combatterli, non spinti da una rabbia irrazionale che poteva solo
essere nociva.
Gli
Skatos erano fisicamente più deboli di uno qualsiasi dei loro cuccioli, ma
abitavano quel pianeta da molto tempo e ne conoscevano ogni segreto. Inoltre
non sapeva bene in che modo, ma quella Sfera che svettava all’interno della
piazza influiva in maniera importante sulla forza delle loro macchine.
Quando erano arrivati su quel pianeta, i più imprudenti erano convinti che
l’unico scopo di quell’oggetto fosse mantenere oscurato il cielo sopra di loro,
al fine di evitare loro evitare loro di trasformarsi nelle notti di luna piena.
Tuttavia
gli Skatos, se da una parte temevano gli Ozaru, non erano al punto di essere
indifesi contro un loro attacco.
La
Sfera serviva ANCHE ad impedir loro di trasformarsi, ma l’attacco disastroso di
quel giorno e di mesi prima rendeva evidente che non fosse quello, lo scopo
principale.
Quel
mattino l’attacco era avvenuto sulla preda dell’isteria. Un manipolo di terze
classi si erano diretti alla città con l’idiota convinzione di essere gli unici
ad aver capito il modo esatto di sconfiggere i nemici.
Vegeta
li aveva seguiti per sincerarsi che gli Skatos non giungessero al villaggio.
Per eliminare egli stesso quelle terze classi che una volta iniziato l’attacco
avessero ben pensato di darsela a gambe e tornare a casa.
Spartack
ripensò alla sagoma del ragazzo sul selciato del campo di battaglia senza
presenza di sangue attorno.
Gli
Skatos possedevano una nuova macchina. Una macchina capace di fermare un sayan
indipendentemente da quanto fosse forte. Non potevano aver creato una macchina
tecnicamente in grado di fermare la potenza di Vegeta. Sarebbe dovuto essere
qualcosa di gigantesco come un Ozaru, o una specie di androide, ma in quel caso
ci sarebbe stato sangue sul terreno di battaglia.
No,
non avevano costruito una macchina più forte di Vegeta.
Ma
una macchina con la capacità di indebolire Vegeta fino allo stremo.
Dovevano
stare attenti lui e Celia. Per questo era necessario mandare avanti le terze classi.
Lui stesso sarebbe stato migliore come Ozaru nello spaventare i nemici, ma non
poteva rischiare di essere immobilizzato come il ragazzo e cadere nelle mani
degli aguzzini. Celia da sola non avrebbe saputo guidare gli altri guerrieri.
E lui, benché al contrario di Vegeta detestasse spargere sangue inutilmente,
era costretto a mandare avanti gli altri.
Il bene della comunità veniva sopra ogni cosa.
Anche del proprio orgoglio.
Dal
canto loro, le terze classi si eccitarono all’idea di andare a liberare il
ragazzo dagli Skatos.
Vegeta
era un mezzo sangue, lui non lo sapeva ma loro sì. Benchè Spartack avesse imposto
a tutti di non parlare dell’argomento, tutti loro sapevano che il ragazzo non
era migliore di loro in quanto a sangue.
Eppure Vegeta era un vero sayan, cresciuto con gli ideali della propria razza
esasperati fino allo spasimo come a celare la parte cattiva del suo plasma.
Spartack aveva cresciuto il ragazzo come un sayan dal sangue puro, sfruttando
la sua naturale propensione al combattimento per farne il futuro capo della
comunità.
Era consapevole dell’intelligenza del ragazzo, fortunatamente unica
caratteristica attecchita dalla razza particolarmente crudele e astuta del padre,
ma aveva preferito essere cauto nell’essere sincero sulla provenienza del
ragazzo, dal momento che all’età di cinque anni il piccolo Vegeta aveva quasi
ucciso un sayan adulto che aveva osato apostrofarlo con il termine “bastardo”.
Crescendo avrebbe imparato a farsi scivolare addosso le offese, ma se voleva
che diventasse il prossimo capo comunità era necessario che la comunità lo
stimasse.
Non poteva permettersi che una volta diventato adulto la comunità fosse
composta per lo più da persone che lo avevano apostrofato per anni come un
“arrogante bastardo mezzosangue”.
Se
c’era una cosa che Spartack sapeva bene, era che essere forti non bastava per
diventare dei capo-gruppo.
Vegeta
era convinto che ciò bastasse, ma inconsapevolmente era cresciuto attirandosi
la stima di tutti. Da parte delle prime classi e delle secondi per le sue
indubbie doti di combattente e da parte delle terze in quanto dimostrazione che
passare di classe in classe si poteva, eccome se si poteva, e che una volta
diventati forti, non aveva più importanza da chi arrivasse il proprio sangue.
Vegeta
era un ragazzo impulsivo e convinto di valere solo in virtù della propria
forza, ma per le terze classi lui era l’emblema di una rivincita sociale,
sebbene fossero troppo stupidi per essere consci di questo pensiero.
Nelle
loro teste erano fieri del ragazzo, e questo da solo bastava e avanzava.
Non
si opposero né protestarono, quindi, quando Spartack disse loro che quella notte
sarebbero tornati alla città del Blu.
Per liberare il ragazzo prigioniero.
Jasper
entrò nella sala senza curarsi di non svegliare la giovane fiera.
L'animale
era sveglio e all'erta, l'encefalogramma che si rifletteva grazie a un laser
sulla parete indicava attività frenetica nel lobo temporale destro.
Stava
pensando di scappare.
O di
ucciderlo appena si fosse avvicinato.
-Mantieni
la calma, giovane ospite. Non ho intenzione di farti del male- disse Jasper con
un sorriso, passando accanto al corpo incatenato.
L'animale
tenne gli occhi chiusi. Non poteva vedere il macchinario che stava registrando
i suoi movimenti cerebrali, quindi stava tentando di fingersi incosciente.
Proprio
come un animale di fronte ad un nemico troppo forte.
Jasper
fissò quel corpo giovane e in forze. Un’ampia mappa di cicatrici e depressioni
ricordo di vecchi traumi gli causavano una sensazione di lieve disgusto.
Il
lungo sfregio che attraversava il volto della scimmia, poi, sembrava solcare
l'epidermide come a insultare quella natura benevola che aveva dotato il
ragazzo di tratti regolati e decisamente più piacevoli di quelli dei suoi
simili.
Jasper
si fermò a fissare l'essere il cui corpo era ancora coperto di plasma rappreso.
Il
medicamento cicatrizzante stava facendo effetto, e da come il ragazzo tendeva i
muscoli benchè si stesse fingendo rilassato, anche
l'endoscheletro si doveva essere ricomposto alla perfezione.
Quella macchina
disgregatrice era davvero la perfezione, pensò Jasper, con la stessa dolcezza
con cui un padre vede la coppa del primo posto che il figlio ha vinto nella sua
prima gara.
Era bastato prendere la mira e premere un pulsante, e il Sayan
era caduto a terra come un burattino i cui fili avevano ceduto durante la
simulazione di una corsa.
Una macchina in grado di disgregare le molecole di calcio, rendendo le ossa di
quegli esseri friabili come argilla al sole. Quando non puoi diventare più
potente di un nemico, fai in modo che sia lui a indebolirsi più di te.
La liberazione da quella minaccia era sempre più vicina: dopo quattro
generazioni di lotte e perdite per difendere la propria casa, la fine della
guerra contro le scimmie appariva per la prima volta non lontana.
Troppi amici, compagni, fratelli, erano morti combattendo quelle inumane
bestie.
I ricordi di Falen, colui la cui morte aveva concesso
a lui e Lektar di vedere la luce, gli scorrevano
davanti agli occhi come proiezioni di un qualche raggio laser.
Tredici anni erano passati, dall’ultima volta in cui aveva visto quel ragazzo,
che ora giaceva inerme ma non innocuo su quella lastra di acciaio bianco. Falen, Calisto e Lypsia
erano riusciti a trasportarlo nella base, attraverso la macchina Teta che con
pochi colpi gli aveva immobilizzato polsi e caviglia con un cerchio di laser
ustionante. Ricordava ancora lo sguardo tormentato di Calisto, il suo: “non
possiamo ucciderlo, è solo un cucciolo”, pochi istanti prima che la bestia le
balzasse addosso e le staccasse a morsi i tre quarti del serico viso. E
ricordava anche la repentina scissione di essa nei due nuovi esseri Calisia e Xelian, sotto gli occhi
colmi di cieco orrore della splendente Lypsia e di Falen il capo-base.
I ricordi del sommo Falen gli riempivano il cuore di
sensazioni che non riusciva a decifrare. Le reminescenze di quegli, come si
chiamavano, stati d’animo, altro non erano che una lieve eco nella sua mente.
Una eco che era, tuttavia, impossibile ignorare.
Ricordava attraverso i ricordi del suo predecessore gli occhi pieni di
compassione della dolce Calisto, verso quello che per lei era un cucciolo che
altro non attendeva se non ricevere un po’ d’affetto. E ricordava anche la
rabbia cieca della bellissima Lypsia, che per
vendicare la sorella si era lanciata, debole e consapevole di esserlo, contro
l’animale che pur legato dai raggi laser l’aveva dilaniata con quelle stesse
fauci ancora sporche del sangue di Calisto.
Jasper emise un sospiro per esprimere non so che sensazione, forse
frustrazione, forse rabbia, o forse, solo, stanchezza.
La vita per gli altri Skatos era così infinitamente facile, da quando la genetica
e la scienza li aveva resi in grado di estraniare da sé stessi i malsani sentimenti;
ma per lui, per loro che combattevano ogni giorno con quelle immonde bestie,
ignorare il desiderio di ucciderli per il puro gusto di una vendetta era sempre
più difficile.
Per gli altri Skatos i Sayan
andavano uccisi solo per difendersi, e mai accanendosi su di loro come
avrebbero fatto quegli animali se avessero potuto catturare uno Skatos.
Catturarli, poi, era un’operazione da fare solo per studiare e comprendere i
punti deboli e la fonte della forza di quegli esseri violenti.
La loro ragion d’essere era la scienza, la somma attività tramite cui diventare
artefici di un nuovo mondo. Ed essere, così, dei di benevolenza e padroni di un
mondo perfetto.
Un mondo tanto perfetto da non contemplare l’idea di padroni e schiavi.
Ma poi erano arrivate
quelle immonde scimmie a destabilizzare il loro perfetto e splendente piano.
Erano sbarcate sul loro pianeta e si erano insidiati negli anfratti rocciosi
presso l’unica catena montuosa del globo, come covi purulenti sotto uno strato
di derma . Avevano costruito scialbe capanne di fango e arbusti, solo in alcuni
casi con mura portanti di pietre impermeabili.
Erano esseri sporchi, primitivi, la cui vita trascorreva nel soddisfacimento di
un basso istinto dopo l’altro, in una concatenazione di delitti che essi
perpetravano senza porsi scrupolo alcuno.
I predecessori del divino Falen avevano a più riprese
tentato di integrarli, inizialmente confidando che la forza fisica di quegli
esseri si sarebbe potuta rivelare utile per difendersi dalle minacce esterne.
Non concependo che presto
sarebbero state quelle stesse bestie, il pericolo esterno da cui proteggersi.
Ecco quindi che donne amorevoli e uomini sapienti di erano diretti verso uno di
quei villaggi, per cercare un compromesso che consentisse loro di avere luce
senza per questo privare gli Skatos della sfera del
grande campo. Di loro non erano tornate che le teste mozzate di netto da uno di
quei raggi che i Sayan riuscivano a creare nei propri
palmi.
Il loro errore era stato credere che i Sayan
volessero una casa.
Quando essi volevano un pianeta.
E nella loro visione i deboli e pacifici Skatos non
erano contemplati.
Cercando di mantenere sereno il volto come si conveniva a un grande capo,
Jasper continuò a fissare il giovane Sayan. Si
trovava a poco meno di un metro di distanza, e l’animale aveva smesso di
fingersi incosciente. Ora teneva sempre gli occhi chiusi, ma la lunga e folta
coda si agitava in aria con movimenti potenti e simili allo sferzare l’aria di
una spada.
Jasper si avvicinò al tavolo sopra cui gli strumenti dell’esperimento erano
stati ripuliti e riposti nelle apposite custodie.
Calisto aveva provato compassione, di fronte a quell’essere che anche da
immobile pareva pericoloso come un ordigno in detonazione. Jasper riusciva a
identificare quel sentimento, benché lui non lo avesse mai provato. I sintomi
erano, secondo i libri, la tendenza a non vedere i cattivi comportamenti della
persona verso cui è rivolta la compassione, il desiderio di essergli utile, una
cattiva valutazione del carattere dell’individuo.
Calisto non era mai riuscita a sopire in sé i sentimenti di maternità della sua
ascendente, la quale prima di scindersi grazie alla trasformazione subita con
l’intervento aveva dato alla luce un figlio attraverso copula, piccolo essere
che era morto all’età di cinque anni durante un banale gioco nel campo massimo.
Calisto aveva ereditato i ricordi dolci della maternità, ed era sempre stata
una ferma sostenitrice della necessità di integrare la nuova razza, se non
altro per il bene dei più piccoli. Ad ereditare i ricordi della rabbia, della
frustrazione e del dolore, era stata invece la sorella, Lypsia,
la quale aveva sempre sostenuto la necessità di studiare bene i nuovi arrivati
prima di tentare di integrarli. Il pungolo del dolore che l’ascendente aveva
provato alla morte del figlio naturale non le dava tregua, e l’idea di poter
vedere la morte di qualche suo altro simile la riempiva di dubbi e paure.
Jasper non aveva mai provato i sentimenti di Calisto, ma comprendeva molto bene
come doveva sentirsi la sorella Lypsia.
Anche in lui la rabbia risorgeva ogni qual volta intravedeva nei campi brulli e
bui le figure di quegli esseri, magari solo pacificamente intenti a cacciare la
selvaggina.
L’urlo che Falen aveva emesso colpito a morte dal Sayan era qualcosa che non poteva dimenticare. Nonostante
stesse facendo tutto il possibile per mantenere il bene della comunità, con la
convinzione che agire per il gusto della vendetta non avrebbe fatto altro che
renderlo simile a quegli animali.
Lo sfregio sul volto del ragazzo, però, gli ricordava quella giornata di
tredici anni prima. Una volta uccisa Calisto e ridotto in fin di vita Lypsia, il ragazzino aveva fissato per alcuni istanti il
cerchio laser che gli serrava i polsi davanti al busto. Poi, in un moto di
ferocia e paura mischiate assieme, si era chinato sul raggio e con i denti
aveva cominciato a rosicchiare il vincolo.
La materia ustionante gli si era premuta sul volto emettendo uno sfrigolio sinistro,
ma il Sayan aveva continuato nella sua opera fino ad
allargare il raggio quanto bastava per poterne sfilare una mano.
Quando infine Falen l’aveva rivisto sollevare il
volto, l’animale si era alzato in piedi, con un ghigno feroce in volto e lo
sfregio che ancora sfrigolava senza perdere sangue.
-E adesso come la mettiamo?-aveva sibilato la bestia, avvicinandosi lentamente
con la consapevolezza di essere ben più forte del suo nemico. Falen non si era mosso. Pietrificato dall’orrore per
quel ragazzino immondo, e soprattutto dalla paura.
Il ragazzo si era passato un dito sulla ferita ancora calda poi, con la punta
della lingua, aveva percorso lentamente il termine dello sfregio. Si era
avvicinato a Falen, gli aveva preso i capelli e
avvicinato il viso al proprio.
-Mi hai rovinato la faccia. Falen aveva deglutito.
-E ora la pagherai.
Nel lungo flusso di quei
pensieri, Jasper continuò a tenere gli occhi fissi sui cinque bisturi di puro
acciaio. Non vedeva il tavolo alle sue spalle, ma il rumore della coda che sferzava
l’aria gli arrivava forte e chiaro. Forza bastardo, sono ancora vivo. Non ti
vuoi divertire un altro po’? Se gli avesse fatto del male, se avesse preso uno di quei bisturi e gli
avesse cavato un organo, nessuno l’avrebbe saputo.
Nessuno poteva sapere cosa accadeva in quella stanza.
Jasper prese in mano uno degli attrezzi e ne osservò la sottile lama alla luce
dei tubi al neon. Poteva fargli cosa voleva, nessuno l’avrebbe mai saputo.
-Vuoi sapere qual è il
problema di voi Skatos?- udì improvvisamente la voce
del ragazzo arrivare alle sue spalle.
Jasper si voltò verso il tavolo. Si trovava a quasi due metri all’estremità
della lastra su cui era poggiato il capo della bestia.
L’animale teneva ancora gli occhi chiusi, un sorriso beffardo sulle labbra.
-Quale?
Jasper si avvicinò questa volta simulando il suo solito sorriso. Una mano
ancora stretta sul bisturi affilato.
Il ragazzo aprì gli occhi e voltò il capo in una posizione innaturale, fino ad
arrivare a scorgerlo con la coda dell’occhio. Le iridi voltate ai lati estremi
del campo visivo.
Jasper rabbrividì di fronte a quella maschera di ferocia. Il ragazzo sorrise,
la cicatrice a trasfigurare il volto già contratto.
-Siete talmente vuoti da
non ricordare il vostro passato.
Jasper strinse il bisturi
un po’ più forte.
Il ragazzo ghignò sonoramente.
-Io rido ancora, quando penso a come urlava quell’animale di tuo padre.
Il bene supremo era la scienza.
Il bene della comunità viene sopra ogni cosa.
I sentimenti sono malsani. Virus da debellare affinchè
un organismo sia sano e forte.
Tutte frasi fatte.
Tutte frasi per chi non ha mai visto, cos’è il vero male.
Jasper lasciò cadere in terra il bisturi, ma solo per tornare al tavolo e
prendere il martello con cui aveva tastato i riflessi del ragazzo.
Il bene supremo era la scienza.
L’animale continuò a ghignare, la coda sventolante dell’aria pura della stanza.
Continuò a ghignare anche quando Jasper si avvicinò e gli affondò il martello
in una spalla.
Cinque volte ripetutamente.
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Nella sala dello schermo, seduto su uno dei cubi bianchi di tessuto, Lektar perseverava in un silenzio colmo di dolore.
Teneva le mani strette in avanti e i gomiti poggiati alle ginocchia. Gli occhi
fissi su qualcosa di ipotetico sul pavimento dietro i miei piedi.
Avrei voluto sporgermi in avanti e stringergli le mani candide tra le mie.
Quello sguardo tormentato lo avrei ritrovato qualche anno dopo, nella notte
insonne passata in compagni di Tapion, intento a
raccontarmi della distruzione del suo pianeta.
Anche nel dolore e nel tormento, quell’essere era di una bellezza
indescrivibile. I lunghi capelli ricadevano ordinati in due liste davanti al
volto, andando a coprire parzialmente le nocche contratte nello sforzo di
stringersi a vicenda.
Mi trovavo in quel posto da poco più di mezza giornata, ma la scoperta di
queste creature faceva sembrare che fosse passato un secolo.
Mi sentivo vicina a loro, forse perché nonostante il mio egoismo non ero mai
riuscita ad essere impermeabile al tormento altrui.
-Tu hai la sindrome del principe e il povero- mi rimproverava Yamcha, quando stavamo ancora insieme e i nostri litigi su
Vegeta stavano aumentando di frequenza.
-Non riesci a concepire l’idea che la sofferenza di qualcuno possa non doverti
interessare.
Yamcha.
Lui si che aveva visto lungo.
A quei tempi non sopportavo di sentirmi rinfacciare quella che era l’evidenza.
Non avevo mai imparato ad accettarlo, a dire il vero. Mi irritavo e tagliavo
corto nella discussione, quando si arrivava a quel tipo di insinuazioni.
Perché probabilmente era vero, che in quanto ragazza fortunata mi ero sempre
sentita in dovere di aiutare chi mi pareva in difficoltà.
Ma lo facevo inconsciamente, non per altruismo palese.
In fondo, pensavo, nessuno mi aveva obbligata a offrire a Vgeeta
di restare. Non c’era alcun ragionevole motivo, per cui mi sarei dovuta sentire
in dovere verso quel Sayan.
Eppure la sindrome del principe e il povero.
Casa mia è molto grande…
Appunto, perché non
aiutare, quando si hanno i mezzi per poterlo fare?
Anche se aiutare può voler dire accogliere nella propria casa un paio di mani
coperte da guanti per nascondere il rosso scarlatto del sangue di troppe
vittime.
Mi avvicinai impercettibilmente a Lektar. –Sul mio pianeta prendiamo le mani delle persone che stanno
male tra le nostre, quando vogliamo mostrare solidarietà. Lektar sollevò lo sguardo e i nostri occhi si
incontrarono. –Solidarietà?
-Sì. Vuol dire dimostrare a una persona che capiamo il suo dolore, anche se
molto spesso non è vero. E’ un modo per non far sentire sola una persona.
Gli occhi di Lektar mostravano come nella sua mente
ci fossero ancora molte cose che non mi aveva detto. E come al tempo stesso
agognasse di parlarne e avesse paura di tirare fuori dal fangoso lido dei
ricordi immagini che avrebbe voluto dimenticare.
Mi fissò con quei bellissimi occhi bianchi. –E’ una
cosa che fa sentire meglio, lo stringere le mani di qualcuno?
Scossi leggermente il capo –Non so, dipende dalla
persona e dalla situazione. Ma in genere si. Lektar fissò le mie mani intrecciate davanti alle
ginocchia come le sue.
-Potresti stringere le mie?
Venne percorso da un leggero brivido, quando le mie mani avvolsero le sue. I
dorsi e le nocche erano freddi, ma non così tanto come mi aspettavo. Lektar invece parve stupirsi del calore dei miei palmi, e
per un attimo fu come se sentissi il mio calore disperdersi in quel corpo
splendente. Lektar mi fissò, poi chiuse gli occhi. Lentamente il
suo volto si distese. Strinsi un po’ la presa per ricordargli che ero lì. Una
donna del futuro.
Un essere inferiore, forse, ma ero lì quando i suoi simili non c’erano.
Avvicinai il mio volto alla sua fronte. –Io so cos’è
il dolore, la rabbia, i sentimenti che provi li ho provati anch’io.
I sentimenti che legavo indissolubilmente a quell’ombra sprezzante che
percorreva le mie stanze da ormai un’intera decade. A quel soldato senza terra
che aveva quegli stessi occhi, l’unica volta che aveva osato confessarmi
qualcosa del suo passato.
-Come posso capirti se non mi parli?-avevo detto dura e piena d’astio al Sayan in un giorno qualunque.
Vegeta aveva alzato gli occhi, dalla stessa posizione in cui si trovava adesso Lektar. Con quegli stessi occhi colmi di dolore, ma quelli
di Vegeta erano intrisi d’odio e frustrazione.
-Hai mai ucciso qualcuno?
Mi ero bloccata già consapevole di una sconfitta più che prossima –No, ma…
E lui si era alzato. –Allora lascia perdere.
Mi scostai di nuovo. Lektar aprii gli occhi.
-Con me puoi confidarti-terminai, sorridendogli dal cuore.
-I sentimenti non svanirono. O per lo meno non in tutti. Lektar strinse le mie mani per intimarmi di non
lasciarle.
-Io e mio fratello siamo molto diversi. Non so se ci sia una qualche regola in
quello che ci è accaduto, ma sia io e lui, che altre coppie di esseri come Calisia che tu hai già visto e la sua sorella Xelian, abbiamo ereditato caratteristiche che nel nostro
predecessore erano opposte tra loro.
-Caratteristiche opposte? Lektar scosse la testa. –Non
mi sto spiegando molto bene, ma sono cose che la mia razza concepisce a mala
pena, quindi spiegare cose che anche senza usare le parole non riesco a
comprendere totalmente mi riesce difficile.
-Per caratteristiche intendi comunque caratteristiche caratteriali? Modi di
comportarsi, ad esempio?
-Più o meno. Vedi, noi Skatos non abbiamo un vero e
proprio “carattere” come può essere nella tua razza. Quando eravamo sessuati
era così anche per noi, immagino, ma adesso le cose sono diverse. Il carattere
deriva da un determinato modo di bilanciare le proprie sensazioni.
-Come chi è impulsivo è perché si controlla poco nelle voglie, chi è iroso non
trattiene la propria rabbia e cose simili?
-Sì, esatto. Il fatto di non riuscire a far svanire le emozioni derivò anche da
un fattore esterno, ma di cui ti parlerò tra poco, in ogni caso alcuni dei
nostri predecessori nella loro vita tornarono a provare tutta l’intera gamma
dei sentimenti, però sempre ottemperata dal fatto che non ci fosse uno schema
di bilanciamento definibile come “carattere”. Che io sappia solo una Skatos femmina diventata asessuata grazie all’intervento
mantenne un suo carattere. Si chiamava Kasia e il suo
carattere si mantenne perché da giovane prima dell’intervento aveva avuto un
figlio tramite copula e poi l’aveva perduto in un incidente.
-Un amore e un dolore impossibile da dimenticare- convenni.
-Esatto. Io non so cosa si provi ad avere un figlio tramite copula, noi Skatos di questa generazione non siamo mai stati davvero a
contatto con il nostro predecessore, ma immagino che la sensazione di avere di
fronte qualcuno uscito dal proprio corpo sia una sensazione molto forte. Ad
ogni modo, non divaghiamo con queste cose, stavo dicendo della mancanza di
carattere. Uno Skatos in questi casi ritrovava i suoi
sentimenti ritrovandone uno in particolare, come ad esempio l’amore, il dolore
o la rabbia, ma benché rinate in lui tutte le emozioni, non c’erano delle propensioni
portate da esperienze vissute come nel caso si Kasia
o dalla genetica, dato che questi Skatos molte volte
erano già nati mappati per essere asessuati.
Nel caso mio e di Jasper è accaduta una cosa strana, ma che è accaduta anche ad
altre coppie.
Al momento in cui Falen, il nostro predecessore, ha
deciso di scindersi prima della morte, io e lui abbiamo ereditato i suoi
ricordi, ma i ricordi si sono suddivisi tra di noi come dei contenitori
sigillati per argomento. In me sono venuti i ricordi degli avvenimenti che
avevano fatto provare a Falen una determinata
sensazione, a Jasper quelli che gli avevano fatto provareun’altra diversa sensazione.
-Un po’ come se tu avessi ereditato i ricordi dolorosi e lui quelli allegri.
-Sì, il principio è quello.
Lektar tacque e tornò a fissare le mie mani.
-E tu hai ereditato dei ricordi dolorosi…-indovinai. Lektar sollevò lentamente il capo. –Quelli che hanno causato grande dolore, ma anche quelli
che hanno causato l’amore.
Lo fissai stupita. Lektar all’improvviso lasciò le
mie mani e si alzò in piedi.
-Il dolore fu causato da un tradimento-disse.
Seguii la traiettoria fluida dei movimenti dello Skatos.
-E il tradimento fa più male quando a tradire è chi si ama-dissi.
Lektar mi guardò. –Sì…
Si allontanò fermandosi davanti al tavolo con lo schermo. –Sul
pianeta Eos, il pianeta in cui viviamo noi, quattro generazioni fa sbarcò un
popolo di esseri spietati. Degli animali quasi, a giudicare dai loro
comportamenti. Tu non hai avuto modo di vedere cosa c’è là fuori, ma il globo
adesso è diviso in due regioni. Una piccola dove ci sono le nostre città, e una
più grande e più buia in cui dimorano i Sayan…
Quella parola mi colpì
come neanche un pugno avrebbe potuto fare. Non credo alle reazioni del tipo
sobbalzare o strabuzzare gli occhi, ma qualcosa nel mio volto doveva essere
mutato all’improvviso.
-Hai visto qualcosa?-disse Lektar, guardando prima me
poi lo schermo alle sue spalle. Ma lo strumento era ancora scuro com’era sempre
stato.
Avrei voluto essere in grado di tornare indietro di pochi istanti, e fingere
che quella parola non mi avesse provocato alcuna reazione.
Ero sul pianeta in cui vivevano i Sayan, ma niente
tornava in quel poco che sapevo.
-Tu sei un sayan- ricordavo la voce di Radish sull’isola del Genio il giorno in cui era comparso
per rapire il piccolo Gohan–vieni dal pianeta Vegeta… Il pianeta Vegeta…
Non il pianeta Eos… Lektar continuava a fissarmi con un’espressione
preoccupata.
–Conosci i Sayan?
La sua voce era cambiata e ora suonava dura, ben scandita, controllata.
Il mio sguardo non era stato quello colmo di terrore di una donna proveniente
da un futuro dominato dai Sayan. Non quello di una
vittima.
Nel mio sguardo doveva esserci accesa una luce diversa: contentezza, o al
limite apprensione.
Quella creatura che io fino ad allora avevo creduto così buona e innocua, era
un nemico dei Sayan.
La sua razza era nemica dei Sayan.
Ciò significava… -Sì…-dissi cercando di mantenere la voce ferma.
Che erano anche nemici miei?
---
Vegeta si rese conto che la sua provocazione aveva colto nel segno solo quando
un dolore lancinante gli scosse ogni nervo fino alla punta della coda.
Riaprì gli occhi dopo il primo colpo, l’essere di nome Jasper lo sovrastava con
il volto contratto in una maschera di puro odio.
Vide la mano bianca stringere con quella poca forza che possedeva un martello
di metallo.
E poi l’attrezzo che di nuovo scendeva, e un’altra scossa tanto forte da fargli
quasi perdere i sensi.
Così per cinque volte.
Sentendo le ossa frantumarsi sotto i cinque colpi dello Skatos,
Vegeta pensò che era esattamente come aveva sempre creduto.
Gli Skatos erano esseri senza sentimenti, ma questo
non era vero per tutti loro.
O per lo meno, Jasper sentimenti ne possedeva, forse difficili da far emergere,
ma lui era molto bravo a provocare.
Il capo degli Skatos possedeva sentimenti.
Vegeta sorrise tra sé e sémentre la
clavicola pulsava come fosse sul punto di saltar via.
Ed erano tutti sentimenti che giocavano a suo favore.
Vegeta fissò il volto stravolto di quel Dio infuriato.
Sentimenti che non lo rendevano in grado di essere sempre razionale.
E l’unica forza degli Skatos era di essere sempre razionali.
Lektar continuava a fissarmi stando in piedi davanti
a me.
Avevo scoperto qualcosa di più sulla razza che mi ospitava, ma la notizia era
stata meno gradita del previsto.
Erano nemici dei Sayan.
E i Sayan, non do quando e in che termini, avevano
causato una grande sofferenza all’essere che adesso mi stava innanzi.
Ero impreparata a quella situazione. In quel momento la sensazione di essere
totalmente impreparata che avevo provato al mio risveglio era tornata a farsi
viva.
Mi ero tradita, avevo abbassato la guardia come un’ingenua, e non riuscivo a
farmene una ragione.
Ero su un pianeta alieno con esseri alieni, come potevo essere stata così
stupida da credere che loro fossero buoni come io speravo che fossero?
Forse il fatto di essere riuscita a rendere “innocuo” un assassino come Vegeta
mi aveva resa così presuntuosa da credere che nessuno avrebbe mai potuto farmi
del male, se solo fossi riuscito ad imbonirlo con la mia solita aria
comprensiva? Lektar sembrava combattuto. Da un lato, la mia
reazione l’aveva spaventato, dall’altro era come se qualcosa dentro di lui gli
stesse dicendo che poteva fidarsi. Che non ero lì per fargli del male.
Mi guardai attorno
cercando di nascondere il mio nervosismo. Lektar si
avvicinò leggermente.
-Non so quanto sia saggio per me continuare a stare nella stessa stanza con te,
ma se ho sentito di poterti parlare senza timori credo che un motivo debba
esserci.
Nella stanza il silenzio si stava dissolvendo. Lektar
assunse un’aria seria ma non più circospetta.
-Vuoi dirmi come mai conosci i Sayan?
Mi strinsi nelle spalle indecisa. Sapevo di non poter dire la verità. Dalla
storia di Lektar era chiaro che i Sayan
erano stati una calamità per il loro pianeta, e anche se prima aveva accennato
oltre che al dolore all’amore la cosa non mi rendeva più tranquilla.
Oltre all’amore c’era stato un tradimento, e il ricordo dell’accaduto bruciava
ancora troppo nei suoi occhi, per lasciarmi intendere non fosse doloroso
parlare di quella razza.
Davanti a quegli occhi così ammalianti, per contro, non credevo di poter
fingere in modo convincente. E se mi avesse colta a cercare d’ingannarlo avrei
definitivamente infranto ogni possibilità di dialogo. Lektar sembrava leggere i miei pensieri. Mi scrutava
in attesa che dentro di me prendessi una decisione. Così decisi di mantenere una
linea il più corretta possibile.
-Non credo di poterti dire davvero come li conosco- dissi –Però
vengo da talmente avanti nel tempo che non credo di poter essere un pericolo
per voi. Io non sono una Sayan, se questo può
tranquillizzarti, ma sono sicura che l’avessi già capito. E’ anche vero quanto
ho detto prima, e cioè che la mia razza è molto debole, quindi non credo di
poter essere un pericolo. E in ogni caso io NON VOGLIO, essere un pericolo. Lektar si avvicinò di nuovo e si risedette sul cubo
bianco. –Quindi li conosci da vicino, se dici che è
per via del divario temporale che non puoi essere un pericolo. Anuii lentamente. –Li
conosco bene. Ma nel mio mondo credo che loro siano molto diversi da come credo
siano nel vostro.
-Sono esseri crudeli e sanguinari? -No.
-Allora sì, sono molto diversi.
Lektar tacque per un istante. –Loro
esistono nel tuo mondo, hai detto.- disse –Però prima
di oggi non conoscevi la mia razza… Anuii un’altra volta. –Il
popolo del mio pianeta non conosce l’universo- ribadii come avevo già detto in
presenza degli altri Skatos–Conosco
i Sayan perché sono stati loro a venire sul nostro
pianeta.
Guardai Lektar cercando di fargli capire che non
significava nulla, il fatto che io non conoscessi la sua gente.
Nel mio mondo forse il pianeta Eos esisteva ancora. Come potevo sapere cos’era
successo a quelle due razze in settecento anni di storia?
Forse i Sayan si erano solo stancati ed erano
ripartiti. Lektar appoggiò i gomiti alle ginocchia. –Sono venuti loro sul tuo pianeta….Quindi
anchetra settecento anni staranno
ancora cercando di conquistare i pianeti degli altri…
Eccolo che tornava, il dolore.
-E’ diverso-dissi. –Loro…vivono tra noi, sul mio
pianeta. Ma non ci vogliono fare del male.
Rialzai lo sguardo e incrociai quello di Lektar. –Non posso spiegarti tutto. Ma è diverso…
E anche se il mio popolo vive in pace con loro, io non voglio farti del male… Lektar continuò a guardarmi così a fondo da sembrare
volesse rubarmi l’anima dagli occhi. Non poteva volermi male, quell’essere trasudava
dolore e bisogno di vicinanza come nessun altro avessi mai incontrato in vita
mia.
Il lui non c’era la ferocia repressa che leggevo negli occhi di Vegeta. Non
c’era umiliazione. Solo dolore, come una goccia che stilla su una pietra per
centinaia di anni fino a corroderla e crearne al centro un grande buco.
Pensavo che Lektar se ne sarebbe andato. Sembrava
inaccettabile che potesse credere alle mie parole. Ma ero sincera, nel non
potergli dire che uno di quegli esseri sanguinari era il padre di mio figlio. E
che anzi forse era il più sanguinario fra tutti i Sayan,
il padre di mio figlio.
Forse i Sayan erano diversi, o forse gli Skatos non si curavano di vedere la disperazione al di là
della ferocia. La caparbia convinzione di bastare a sé stessi per non arrivare
ad aver paura di perdere ciò che si ha.
La consapevolezza di non avere nulla, se non il proprio orgoglio.
E molte volte non avere neanche quello. Lektar percepiva il flusso del miei pensieri, o
almeno fu quello che credetti quando lentamente lo vidi
tornare ad un sorriso placido e pacifico.
-I tuoi occhi sono sinceri.- disse.-E forse mi sbaglio, ma continuo a essere
convinto di potermi fidare di te, donna del futuro. -Bulma- precisai. Donna o donna del futuro non era il
mio vero nome. Neanche in quel luogo. -Bulma-ripetèLektar, come se stesse assaggiando un frutto tropicale.
Chiesi a Lektar di continuare la sua storia, e lui mi spiegò che il
suo predecessore era stato il capo più longevo di tutta la storia della loro
razza. Falen, come mi aveva accennato prima, era stato un
capo saggio e uno scienziato superbo. Era grazie a lui se i suoi allievi
avrebbero riparato la mia macchina del tempo in poco meno di quattro giorni.
A governare il pianeta in quegli anni erano stati tre scienziati: Falen, Calisto e Lypsia. Era
stato sotto il loro “governo” che la selvaggina nella foresta aveva cominciato
a scarseggiare a causa di un’annata molto rigida e i Sayan
avevano intensificato i loro attacchi alla città.
In più, sotto il governo di Falen, a capo della comunità
Sayan si era istaurato un certo Spartack,
che gli Skatos erano ormai certi non fosse un sangue
puro, dato che la sua intelligenza gli aveva consentito di diventare capobranco
a poco più di vent’anni, nonostante non fosse il più forte fra i guerrieri
Era già da due generazioni che i Sayan tentavano
attacchi alla città del Blu, la città dove mi trovavo in quel momento, ma non
essendo particolarmente intelligenti prima di quell’anno erano sempre finiti
con lo sparpagliarsi e attaccare singolarmente. Gli Skatos,
invece, erano un popolo fisicamente molto debole -Se tu mi dessi un pugno mi
romperesti il naso- disse Lektar, facendomi
sorridere, però gli interventi e il loro nuovo modo di vivere li aveva da quel
punto di vista uniti molto di più di prima. Tutti loro si adoperavano per il
bene della città, e quando era ora di difenderla grazie alle macchine erano
sempre riusciti senza problemi a fermare le immonde bestie.
-Fino a due generazioni fa- stava dicendo Lektar, che
ora parlava serenamente –non avevamo mai catturato un
Sayan vivo, perché per noi erano come dei grossi e
stupidi bestioni. Rumorosi ma sostanzialmente innocui, finchè
si limitavano a venire a ringhiare davanti alle nostre porte senza un minimo di
organizzazione.
A quel punto Lektar fece una breve pausa.
Io, dal mio canto, lo osservavo come un bambino che sta udendo una favola prima
di dormire. Ero affascinata da quel racconto che sembrava preso da un libro di
fantascienza. Sentendo Lektar proseguire nella
storia, pensavo che forse era questo quello che Vegeta aveva studiato della
storia del proprio mondo. Forse ero come tornata indietro in un punto cruciale
della storia di Sayan, e forse vivendo in quell’epoca
avrei potuto comprendere meglio i comportamenti del principe senza regno che
avevo in casa.
Mentre Lektar taceva richiamando alla mente quanti
più elementi possibile, io lo guardavo come rapita, impaziente che proseguisse
nel racconto.
Ma in quel momento lui cambio impressione. Ridivenne serio.
-Due generazione fa- esordì- però, quando Falen
divenne “capo” della comunità, ci fu una grave carestia. L’inverno su questo
pianeta è molto rigido, ma raramente la stagione dura più di un mese, un mese e
mezzo. Quell’anno invece una cometa ghiacciata passò molto vicino al nostro
pianeta, e l’inverno durò tre o quattro mesi, uccidendo gran parte della
selvaggina di cui si nutrivano i Sayan. Lektar mi fissò. –Gli
attacchi alla città divennero quindi più frequenti. Spartack
vedeva dalle esplorazioni che noi avevamo cibo in abbondanza, proprio perché grazie
agli osservatori stellari avevamo previsto che quell’anno sarebbe passata la
cometa e avevamo di conseguenza fatto scorta nei mesi estivi, e doveva essersi anche
reso conto che fisicamente non potevamo competere con loro.
Mi sollevai un po’. –Ma come facevano a sapere che
eravate deboli se non avevate mai avuto scontri corpo a corpo? Lektar si strinse nelle spalle. –Non
lo so con precisione, ma credo sia stato puro spirito di osservazione. Lektar si voltò a fissare lo schermo, poi tornò a
guardare me. –In fondo, se fossimo stati fisicamente
così forti avremmo potuto ucciderli tutti, invece di limitarci a respingerli le
poche volte che attaccavano. Inoltre è raro che razze molto potenti si
dedichino alla scienza, perché essa richiede molto tempo di dedizione, come lo richiede
la cura del corpo per mantenere i propri muscoli. E’ praticamente impossibile
passare la giornata dedicandosi molto sia all’allenamento, sia alla ricerca, e
noi passiamo quasi dieci ore al giorno con le nostre macchine.
Annuii con convinzione. Anche io passavo buona parte della giornata chiusa in
una stanza a trafficare con bulloni e computers, e
vedevo che Vegeta passava il mio stesso tempo a massacrarsi di esercizi.
Pensare di fare le due cose contemporaneamente era qualcosa di inconcepibile.
D’altro canto il ragionamento di questo Spartack era
logico e razionale. Se quanto detto da Lektar era
vero, poteva essere probabile che Vegeta fosse un suo discendente o comunque un
suo parente.
Le descrizioni dei comportamenti tipici dei Sayan e
della singolare intelligenza del capo-branco, bene si adattavano alla
contrapposizione Goku-Vegeta. Goku discendeva da una
classe inferiore, e il suo comportamento era spontaneo per i terrestri solo
perché da piccolo aveva picchiato la testa, ma se fosse stato un Sayan probabilmente sarebbe stata una bestia impulsiva e
violenta.
Vegeta, per contro, discendeva da quello che doveva essere la famiglia regnante
sul suo pianeta, e mi sembrava ben plausibile che a capo dei Sayan ci fossero esseri che oltre alla forza fisica
sapevano usare e anche molto bene la materia grigia.
Non era un mistero che Vegeta fosse di un bel po’ più intelligente del suo
nemico Goku.
Era anche infinitamente più testardo e orgoglioso, ma questa era un’altra
storia.
Certo, il fatto giocava a mio favore. Se fossi finita nelle mani dei Sayan e questo Spartack fosse
stato ancora in vita, probabilmente non mi avrebbe uccisa senza prima
accertarsi che non potessi essere utile in alcun modo.
Sarei potuta essere utile in molte brutte maniere, però. Ma ciò era un rischio
implicito, che i Sayan fossero bestie o no. Lektar attese che finissi di riflettere. –Come stavo dicendo, comunque, quell’anno ci fu una grande
carestia, e i Sayan spinti dalla fame cominciarono ad
attaccare con una frequenza sempre maggiore. Riuscimmo a resistere piuttosto a
lungo, ma un giorno successe un fatto inaspettato.
Fece una pausa enfatica per assicurarsi che fossi ben attenta.
-Un giorno una giovane Sayan arrivò supplicando ai
nostri cancelli. Era stremata dalla fame e dal freddo, e stette per tre giorni
e tre notti a implorarci di aiutarla, mostrando che non sé aveva un bambino di
poco più di due anni, semicongelato e affamato quanto
lei.
Una madre disperata, pensai. Un’orgogliosa Sayan, ma
pur sempre una madre disperata.
-Aveva abbandonato la comunità?-domandai. Lektar si raddrizzò sollevando gli occhi al cielo. –Lei disse di sì. E in ogni caso la cosa poco importava.
Fatto sta che Calisto, la cui ascendente aveva avuto un bambino tramite copula
e aveva trasmesso i ricordi dell’amore per il bambino a lei, accolse la donna
tra le nostre mura, intenzionata a curarla e a ucciderla se si fosse mostrata
aggressiva.
Mi strinsi le mani. –Calisto voleva che il bambino
non morisse, indipendentemente da cosa fosse successo alla madre- dissi. Lektar annuì. –Esatto. Lei
provava un sentimento di attaccamento verso il bambino, ma che la madre vivesse
o meno le era indifferente. E non potevamo sottrarre il bambino con la forza
alla madre, non eravamo abbastanza forti. Così Calisto convinse Lypsia e Falen a potare entrambi
nella città.
A quel punto si fermò di nuovo, ma questa volta perché qualcosa attirò la sua
attenzione oltre la mia testa.
-Tra dieci minuti dovremo dirigerci verso la sala mensa- disse –Se vuoi possiamo incamminarci adesso e continuare dopo,
oppure posso terminare in fretta, poi se avrai ancora domande me le porrai in
un’altra occasione.
Volevo sapere come andava a finire quella storia, anche se visto che Falen aveva trasmesso a Lektar
ricordi di qualcosa legato all’amore e al tradimento, e quanto mi stava dicendo
Lektar sembrava essere finalmente la vicenda che mi
avrebbe voluto narrare ma non avrebbe potuto senza i dovuti contorni, riuscivo
ben a immaginare cosa fosse successo con quella donna nella città.
-Credo di aver più o meno
intuito il resto della storia.-dissi –Se ti va vorrei
continuare a sentirla fino a quando non dovremo andare.
Lektar annuii con aria grave. –Certo,
anche perché credo che non ci sia molto da raccontare, prima di arrivare alla
“fine”.
C’era molto da raccontare, si leggeva nei suoi occhi, ma tutto era così privato
e doloroso che era davvero poco, quel che restava e poteva essere capito da un
estraneo. Lektar era di nuovo indeciso. Probabilmente non
sapeva cosa dire, in quel poco tempo che rimaneva. Forse erano molte le cose
che avrebbe voluto raccontare, ma la consapevolezza che io conoscessi la razza
di cui parlava e il fatto quelli che provava fossero il ricordo di un
sentimento e non sensazione provate sulla propria pelle, rendevano tutto più
difficile.
Mi avvicinai piano e presi di nuovo le mani di Lektar
tra le mie. Lui sobbalzò leggermente, ma non si scostò e anzi strinse forte la
presa sui miei palmi.
-Il tuo predecessore, Falen, si innamorò di quella
donna?-domadai, fissandolo negli occhi. Lektar abbassò la testa.
-Sì, non sto a raccontarti di come successe per filo e per segno, ma lui si
innamorò di quella donna. Lektar parlava lentamente, la voce quasi gli tremava.
Scosse la testa come chi non riesce a darsi pace. –Ma
era tutta una finta.
Sollevò di nuovo gli occhi e questa volta il suo sguardo era velato di un
sottile strato di lacrime. –Quando Calisto ebbe
curato il bambino, perché era per quello che lei era venuta, suo figlio era
malato e sapeva che noi avevamo i mezzi per curarlo, una notte se ne andò e
rubò molti oggetti, tra cui una pianta della città.
Le mani di Lektar ora stringevano le mie con una
forza che se lui fosse stato un uomo terrestre mi avrebbe fatto male.
-E cosa ne fu di lei? Lektar si alzò di scatto. –Morì
di una qualche malattia l’anno successivo, ma lo so solo perché me l’ha
raccontato Jasper. –Fissò lo schermo. –E’ lui a ricordare il periodo che venne subito dopo la
scomparsa della donna; credo che Falen fosse
sopraffatto dalla rabbia e dall’umiliazione di essersi lasciato ammaliare come
uno stupido da quella donna. Calisto si giustificò dicendo che lei voleva
curare il bambino, e che era come se avesse sentito che il bambino stava
davvero male, se no non l’avrebbe accolta. Lektar strinse i pugni ma subito li ridistese. –MaFalen non aveva alcuna scusa. E comunque quello che io
sento è che per lui fu un dolore immenso quando la donna se ne andò.
Mi alzai in piedi anch’io e fissai lo schermo a mia volta. –Lui
pensava che lei con lui sarebbe cambiata. Che sarebbe stato diverso-dissi a mezza
voce.
Lektar si voltò e le lacrime erano sparite, lasciando
spazio ad un sorriso colmo di dolore e sofferenza.
Per un attimo mi parve di non essere più con Lektar
in quella stana, ma con Falen. La sofferenza di quei
ricordi lo facevano sembrare un altro. Il volto aveva acquistato lineamenti
segnati, i capelli ricadevano come rami di un salice piangente sulla schiena
ricurva dalle troppe notti passate a chiedersi perché.
Conoscevo quella sensazione.
L’avevo provato quando Vegeta mi aveva detto che era affar mio, se ero rimasta
incinta.
In quella stanza pensai che io ero stata dannatamente fortunata.
Avevo giocato alla roulette russa col destino. Falen, dagli occhi di Lektar,
mi sorrise amaramente. -Sì…
E avevo vinto.
-…pensavo sarebbe stato diverso…
Lui no.
Quando entrammo nella sala
da pranzo, tutti si voltarono a fissarmi. A parte Calisia,
lo Skatos che avevo visto prima, tutti sorridevano
pacificamente. Lei, o lui, o quel che era, invece, sorrideva lo stesso, ma con
un’espressione tirata di malcelata antipatia.
La sala da pranzo non era nulla di ciò che mi aspettavo. A giudicare dalla
cucina che avevamo visto poco prima, e che era bianca, candida e silenziosa
come tutto il resto dell’edificio, quel locale era composto da quello che avrei
definito un arredamento moderno terrestre. I tavoli di acciaio erano circondati
da lunghe panche dello stesso materiale dei cubi su cui mi ero seduta nella
sala con lo schermo, e le posate, i piatti, e i bicchieri erano metallici e all’apparenza
inossidabili.
Più che una sala da pranzo sembrava una grossa mensa spaziale, dove ognuno si
serviva presso delle vetrine situate in fondo alla sala dove stavano delle
inservienti del tutto simili a quelle delle scuole sul mio pianeta.
Il silenzio che aveva fino ad allora segnato la mia permanenza in quel luogo
sembrava lontano mille miglia. Lungo le enormi tavolate tutti parlavano non
animatamente ma senza neanche mantenere volutamente basso il livello della
voce. Parlavano in modo calmo, pacato, nessuno cercava di prevaricare la voce
di nessuno, ma il risultato eraun
vociare diffuso simile al ronzio di un motore a basso regime.
Immobile accanto a Lektar, che si era fermato sulla
soglia per non catapultarmi subito in quel marasma di alieni, scrutai la sala e
fui colpita da come tutti sembrassero amichevoli nei miei confronti.
Con disinvoltura, quindi, precedetti Lektar verso
quello che avevo visto essere il carrello dei vassoi, presi uno dei piccoli
piani di metallo, o no, alluminio, erano troppo leggeri, e andai allo
sportello.
-Buongiorno!-dissi
sorridendo all’inserviente.
L’essere che sembrava essere stata una donna (Lektar
mi aveva spiegato che gli esseri sul suo pianeta erano asessuati, ma
mantenevano comunque degli aspetti tipici del sesso dell’essere che era stato
modificato prima di dare vita a loro) mi sorrise amabilmente.
-Buongiorno- disse.
Porsi il vassoio come avevo visto fare agli Skatos in
fila davanti a me. –Mi potrebbe dare qualcosa di…nonso… ortaggi? Frutta?
Qualcosa che non abbia perso sangue, possibilmente.
Prima di arrivare alla mensa, Lektar mi aveva
spiegato che il loro cibo era molto simile al nostro: esistevano gli ortaggi e
la carne, ma non conoscendo i loro animali era meglio che mi astenessi dal
mangiare esseri sconosciuti.
Come vedendo nella mia mente l’immagine delle grosse larve striscianti che
avevo avuto il terrore, fortunatamente infondato, di vedere sul bancone, lo Skatos mi porse un ortaggio o un frutto grosso quasi quanto
un melone e di colore viola scuro.
-E’ molto dolce e nutriente.-disse la creatura –E’
sempre piaciuto a tutti, e non ha mai avuto sangue.
Presi dell’acqua da bere e quello che sembrava essere un pezzo di pane da un
cestino. Poi, nuovamente indecisa, mi fermai e aspettai Lektar.
Dove potevo sedermi?
Lektar riapparve al mio fianco col suo vassoio e
qualcosa che sarebbe potuto essere arrosto in un grosso piatto metallico.
-Sei un essere determinato, Bulma- disse.
Lo guardai sollevando un sopracciglio.-Perché?
Sembrò che Lektar ridesse, ma in realtà non cambiò
espressione. Solo i suoi occhi brillarono un istante. –Un
qualsiasi altro alieno mi si sarebbe appeso a un braccio come un animaletto
spaurito. Tu invece sei partita come se stessi in casa tua.
Scrollai le spalle attenta a non far cadere l’acqua. –Non
ci vuole una scienza per chiedere da mangiare-dissi, consapevole di essere
andata spedita dall’inserviente proprio per dimostrare che BulmaBrief non era, neanche lontanamente, un animaletto
spaurito.
Nel mentre di quel breve scambio di battute, io e Lektar
ci eravamo diretti verso un tavolo, al contrario degli altri insolitamente
vuoto a parte Calisia. Lektar si sedette e io feci lo stesso. Solo allora
notai che tutti gli Skatos erano tornati a guardarmi,
ma solo da quando avevo preso posto accanto a Lektar.
-Non ti preoccupare-disse Lektar, notando che io
avevo notato quel cambio di atteggiamento.
Fu la voce di Calisia a impedire a Lektar di continuare. –Sei seduta
al posto di Jasper-disse, senza alzare gli occhi dal
suo piatto.
La guardai senza accennare a spostarmi da quel posto.
Non capivo il motivo di quell’ostilità, e non mi importava nemmeno di capirla.
Sapevo solo che non mi sarei mossa, solo perché lei voleva che lo facessi.
Fissai la testa di capelli color lavanda e l’espressione altezzosa dell’essere
che mangiava ignorandomi di proposito.
Chi diavolo si credeva di essere?
Sotto il tavolo sentì il piede di Lektar sfiorarmi
appena il polpaccio destro.
Mi voltai di lato pensando che fosse stato un gesto involontario, ma non appena
apparve nel mio campo visivo, mi resi conto che Lektar
mi stava fissando.
-Lascia stare- dicevano i suoi occhi.
Con un moto di disappunto tornai a fissare il mio lauto pasto e mi resi conto
che non avevo le posate.
Stavo per alzarmi per andarle a prendere, quando Jasper fece il suo ingresso
nella sala.
Sembrava un angelo, ma qualcosa nella sua entrata comunicava stordimento e
stanchezza.
E quando venne a sedersi accanto a me, mi resi conto di una piccola macchia
rossa sul lato interno di una manica.
-Vedo che la nostra Tesys ha ascoltato il mio consiglio-disse Jasper, fissando
il frutto nel mio piatto. Tesys doveva essere l’inserviente, e in fin dei conti
era sembrata preparata, al mio arrivo per prendere la cena.
Nella sala, all’ingresso di Jasper tutti di erano voltati. Lui aveva sorriso
benevolo, poi aveva fatto un cenno con la mano e tutti erano tornati alle
proprie cene e discussioni.
Solo a guardarlo da vicino il suo aspetto sembrava insolito, e non appena di
sedette vidi Calisia irrigidirsi, forse per aver
notato il mio stesso particolare. Lektar al contrario non sembrò sorpreso. –E’ esplosa un’invenzione?-disse, sporgendosi sul tavolo affinchè Jasper potesse vederlo nonostante io fossi seduta
fra di loro.
Jasper bevve un lungo sorso d’acqua. –No, ma ho
temuto che lo facesse. E’ stata una giornata pesante. Lektar tornò a mangiare e mi porse il suo coltello:-Devi
tagliarlo in metà e mangiare la polpa all’interno- mi spiegò, come avrebbe
fatto un padre nei confronti della figlia.
Masticando la polpa dolce e gommosa del frutto viola, fissai la macchia che
Jasper aveva sulla manica.
Si vedeva poco, la tunica era composta da due strati di tessuto, ma era
abbastanza estesa da essere una macchia e non un semplice schizzo.
Era un alone rosso familiare.
Sangue.
Che Jasper aveva tentato di lavare via ma aveva lasciato un alone
rosa-rossastro.
Stavo per dire qualcosa per spezzare quel silenzio, quando Jasper mi fissò di
colpo e indovinò la traiettoria del mio sguardo.
-Mio fratello ti ha raccontato cose interessanti della vita qui, Bulma?-disse, sorridendo in quel modo che riusciva a
mettermi i brividi.
Con la coda dell’occhio vidi Jasper sistemarsi la manica per nascondere la
macchia, Calisia emettere un “humpf”
sarcastico, e sulla mia schiena sentì la leggera pressione di un gomito di Lektar a intimarmi di tacere le nostre confidenze.
Stavo per dire che avevo imparato molte cose, quando un rombo assordante fece
quasi crollare la sala e le luci si spensero.
DISCLAIMER:
Vegeta, Bulma, Crilin e
Yamcha sono personaggi del manga Dragon ball di AkiraToriyama. Jasper, Lektar, il popolo degli Skatos,
Spartack, Celia e il Vegeta
del passato sono invece personaggi frutto della fantasia dell’autrice. La
presente storia non persegue scopo di lucro, e ogni riferimento a fatti o
persone realmente esistenti è puramente
casuale.
Non
si dichiara intesa nessuna violazione delle norme riguardanti il diritto
d'autore.
E'
possibile utilizzare personaggi, trama o parti del testo solo con il consenso
dell'autrice.
PARTE
OTTAVA: …VEGETA…?
Spartackdiede l’ordine alle terze classi di avvicinarsi alla
città dal lato ovest, distruggendo tutto ma restando a debita distanza. Dalle
retrovie il Sayan riusciva a vedere gli Ozaru avanzare scompostamente in direzione della città,
emettendo raggi dalle grosse fauci e battendosi i pugni sui petti
possenti. Accanto a lui Celia agitava la coda con impazienza. Spartack attese che gli Ozarufossero a pochi metri dall’ingresso. -Puoi
andare-disse a Celia, continuando a fissare le grandi scimmie senza alzare gli
occhi al cielo. Non poteva trasformarsi, doveva restare
lucido e controllare. La ragazza annuii con la
testa, poi sparì nella vegetazione senza alzarsi in volo, diretta verso la porta
a Est della città. Con un po’ di fortuna sarebbe entrata senza
problemi. Ma Spartack non riusciva a essere calmo. Aveva paura che la figlia e il ragazzo non si
sarebbero limitati a scappare, finendo poi con essere
ammazzati dalle macchine degli Skatos. Se Vegeta
fosse stato in forze avrebbe fatto una strage, e Celia l’avrebbe seguito. Erano
intelligenti, ma erano giovani, e questo bastava per essere un
pericolo. Spartack pensò a cosa avrebbe potuto fare
Vegeta se fosse stato abbastanza in forze da stare in piedi. Allora sperò che
il ragazzo fosse vivo, ma che fosse abbastanza debole da non poter far altro che
lasciarsi condurre in salvo. Spartackdiede l’ordine di lanciare una sfera d’energia davanti al
cancello ovest quando vide la chioma nera della figlia rannicchiata davanti
all’entrata est. In pochi secondi un gruppo di Skatos apparve sulle mura in direzioni degli Ozaru. Spartack sperò che
fossero tutti lì, perché se qualcuno fosse rimasto a
controllare le camere di sorveglianza sarebbe stato impossibile ignorare la
figura snella e nervosa che scavalcava le mura e spariva nella
città. Guardando la figura della ragazza sparire, Spartack strinse i pugni e agitò la coda. -Distruggete tutto!-urlò poi, in direzione degli Ozaru.
Nella
mensa nessuno di mosse, quando ci fu la prima esplosione.
Solo tutti tacquero, e una trentina di individui tra
cui Jasper e Calisia si
alzarono in piedi, dirigendosi ordinatamente verso l’uscita. Quando andò via la corrente, invece, la sala cadde nel
caos. Dall’altro lato della stanza proruppe un urlo tanto lancinante da
sembrare quello di un animale preso intrappola. Sentii la mano di Lektar strisciare sulla panca e raggiungere la mia, esitare
un istante poi, stringerla con forza. -Non ti muovere-disse, avvicinando le
labbra al mio orecchio affinchèCalisia, che alzandosi si era spostata e ora stava a pochi
centimetri da me nel buio, non potesse
sentirlo. Sembrava di essere in mezzo a una mandria
di animali imbizzarriti. Gli Skatosche fino a
pochi istanti prima mi sorridevano benevoli, ora correvano scompostamentein direzione dell’uscita. Tutto intorno
a me c’erano corpi che sbattevano tra loro, si spingevano e rovesciavano
stoviglie che rimbalzavano sul pavimento con assordanti rimbombi
metallici. -State calmi, compagni. State calmi!-urlava inutilmente Jasper, ordinando allo stesso tempo a qualcuno vicino alla
porta di sbarrare l’uscita. Lektar mi portò la mano
sulla schiena e mi spinse in avanti con decisione. Capendo la sua intenzione, mi
spinsi in avanti con le braccia andandomi a sedere sul pavimento nel buco tra la
panca e la gamba centrale della tavolata. Sentii Lektar sedersi accanto a me. Non eravamo al sicuro, ma
almeno non rischiavamo che qualcuno ci calpestasse. O peggio ci dividesse. Lektar
con un braccio mi circondò una spalla e mi trasse a sé. Sopra
di noi qualcuno sbattè contro la panca proprio dietro
alla mia schiena. Il tessuto smorzò il rinculo, e io riuscii a non finire
con la testa contro la gamba del tavolo. -Reagiscono
così perché senza la luce non riescono a pensare razionalmente- mi urlò Lektar in un orecchio. –Aspettiamo che si attivino i
generatori di emergenza e si calmeranno. Non pensai
di chiedergli come mai lui fosse lucido, ma intuii che essere tra gli individui
a capo della comunità voleva dire probabilmente essere superiori agli altri. E
quello poteva essere un contesto in cui
mostrarlo. Sentii la voce di Jasper ordinare
qualcosa a Calisia, poi il rumore di una grossa leva
tirata verso il basso, e pochi secondi dopo una luce debole e sfarfallante
illuminò la sala, diventando più forte e stabile man mano che avanzava il
tempo. Gli Skatossi
immobilizzarono all’istante, separandosi gli uni dagli altri come avesse
poggiato le mani su delle pietre arroventate.
Quando
tornò il silenzio a parte le esplosioni, mi tolsi le
mani dalla testa. Lektar allentò la presa sulla mia
spalla sotto il tavolo. Senza rendermene conto mi ero rannicchiata contro il suo
petto in posizione fetale come un cucciolo con la mamma. Quello sì che era stato un comportamento da animaletto
spaurito. Mi scostai bruscamente, guardandomi attorno per nascondere
l’imbarazzo. Sentii Jasper salire su uno dei
tavoli. –Tornate ai vostri tavoli! La cena non è finita. Ubbidienti gli Skatos tornarono ai propri posti, raccogliendo i piatti e
posate che erano caduti come se niente fosse. Io e Lektartornammo a sederci sulla
panca, ma un altro rombo esplose in lontananza. Guardai Lektar sperando che anche lui come Jasper, Calisia e quegli altri 30
Skatos dovesse alzarsi e andare a controllare cosa
stava succedendo, ma lui non si mosse. Mi guardò con un’espressione mista fra
imbarazzo e indecisione. Jasper gli aveva ordinato di
tenermi lì in caso di un attacco, perché quello era un attacco, ci avrei scommesso quei pochi vestiti che avevo
indosso, ma lui capiva benissimo che io non avevo intenzione di ignorare ciò che
stava succedendo. -Non posso portarti fuori-disse Lektar, quando il mio sguardo alla “bhe, e allora?” gli divenne insostenibile. –Tu non dovresti
neanche sapere cosa sta succedendo. Mi guardai attorno per controllare che
nessuno ci ascoltasse. Tutti erano tornati a mangiare e conversare, e chi aveva
rovesciato il piatto era tornato allo sportello, ma il nervosismo era
palpabile. O meglio non sembrava nervosismo, nessuno
di loro pareva avere paura di ciò che stava succedendo. Al contrario quello che
sentivo era impazienza. Voglia di andare alle macchine per
combattere le immonde bestie. Tornai a fissare Lektar. –Non ti aspetterai che faccia finta di niente mentre fuori succede il finimondo, vero? Non sarei
rimasta lì, con o senza il suo consenso. Lektar
cambiò espressione e aggrottò la fronte. -Non andrai a vedere i Sayan, quindi che ti piaccia o no
torna a mangiare il tuo frutto-disse, con un tono autoritario che suonò poco
credibile tanto a me quanto a lui. Fu in quel momento che mi resi davvero
conto di essere una prigioniera. Se non avessi convinto Lektar a confidarsi con me non
avrei saputo nulla di quel pianeta, e avrei passato le giornate a pochi metri
dai Sayan senza saperlo. Per loro ero una minaccia,
ero comunque una donna del futuro, per di più
fisicamente più forte di loro. Ospite un corno. Anche se sapevo di non
poter essere utile volevo uscire da quella stanza.
Volevo vedere cosa stava succedendo. Non m’importava nulla di salvare o aiutare
gli Skatos, ma nessuno dice a
BulmaBrief che cosa può o
non può fare. Con rammarico, perché sapevo che lui non ne poteva nulla,
pestai con forza un piede a Lektar, e benchè io fossi a piedi nudi e lui
indossasse degli stivali che sembravano di pelle, sotto la pressione del mio
tallone Lektar emise un gemito di dolore, sgranando
gli occhi dalla sorpresa. Attorcigliai un polpaccio su una
sua gamba affinchè non potesse muoversi.
–Adesso tu mi fai uscire di qua, non m’importa se poi
mi accompagni o vai a chiamare le guardie, ma mi fai uscire di qua. Parlai
fissandolo dritto negli occhi, conl’aria minacciosa che solo la
cocciutaggine riusciva a farmi assumere. Non avevo vissuto dieci anni con un
Sayan per farmi dire da un debole capellone cosa potevo fare. Non avevo vissuto con un Sayan per farmi dire da NESSUNO, cosa potevo fare. Capendo che volevo solo che mi facesse uscire dalla
sala, e poi sarebbe stato libero di farmi ricatturare,
Lektar annuii lentamente con la testa. Allentai
leggermente la stretta sulla gamba e la pressione sul piede. –Non voglio che tu
venga con me- aggiunsi, tornando al mio tono di voce
normale. –Ma ho il pessimo difetto di non riuscire mai a farmi i fatti miei, e
non posso restare qua a mangiare frutta mentre fuori
infuria una guerra. Mi dispiaceva metterlo in quella scomoda posizione, ma
non potevo farci nulla. Dal primo momento in cui aveva nominato i Sayan il mio desiderio era stato
quello di vederli, come avevo desiderato vedere Freezer sentendo i racconti
pieni di timore di Gohan e Crilin. Ero una scienziata. Ogni cosa,
anche la più pericolosa, era interessante sotto almeno un punto di
vista. Avevo trascorso la mia esistenza, confutando questa
frase. E non sarebbe stato Lektar a farmi cessare di essere BulmaBrief. Lo Skatos mi guardò per un lungo istante come sperando che
cambiassi idea. Io in tutta risposta cominciai di nuovo a premere sul collo del
suo piede. Con il volto contratto dal dolore, Lektardisse un –Va bene, va bene-
finchè io non lasciai la presa. In quel momento lui
si alzò e mi fece un cenno con la testa in direzione dell’uscita. Lo seguii
in corridoio sotto gli sguardi curiosi dei suoi compagni.
Celia
volò giusto il necessario per scavalcare il muro color cobalto. In lontananza
sullo sfondo del cielo la sfera del campo centrale brillava in un’enormità
ridicola. Non si sarebbe trasformata osservandola. Non emetteva radiazioni, solo
una stupida luce che dissipava le nuvole su una volta celeste azzurra come una
bestemmia. Il rumore delle esplosioni giungeva attutito alle sue orecchie,
benché il suo udito fosse il migliore tra tutti quanti, compresi Vegeta e suo padre. Si guardò attorno, studiando le tre
vie che da davanti alla porta dove stava lei si snodavano nel territorio ostile.
Due costeggiavano le mura nelle due direzioni opposte, una,
più larga e ben tenuta, portava direttamente al campo della sfera. Sul
fondo della via di destra, incastrato tra essa e quella
centrale, lo spuntone dell’edificio dei laboratori svettava impunemente sul
terreno. Celia riconobbe l’edificio dai disegni che Spartack le aveva mostrato poco
prima. Un semi ovale, che terminava sottoterra e non
possedeva finestre. L’entrata era sul lato ovest, quindi esattamente dietro al
lato che stava osservando lei. Cercando di essere più silenziosa possibile, Celia si avvicinò
all’edificio, ben consapevole che nessuno l’avrebbe vista. -Quando partiranno
gli allarmi-le aveva detto Spartack-i cittadini si
rintaneranno nei seminterrati delle proprie case. Se non ti farai vedere
scavalcando le mura nessuno ti disturberà fino
all’edificio degli esperimenti. Celia costeggiò l’ovale trovando l’entrata
dell’inferno. Un pannello dinnanzi a lei chiedeva di poggiare il palmo destro
per identificare il richiedente. Con un colpo silenzioso e ben assestano, Celia
scardinò il pannello, e con una piccola onda d’energia ruppe il dispositivo che
avrebbe azionato la sirena. Era
andato tutto a perfezione, ora non le restava che trovare Vegeta e andare
via. Come se fosse stata una cosa facile.
Lektar mi condusse fuori dalla sala mensa senza osare
guardarmi in faccia. Il suo volto era un misto di rabbia e frustrazione. Non
sarebbe venuto con me, ma sentivo il desiderio che aveva di seguirmi, di essere partecipe delle attività che quel fratello gli
precludeva. Lektar era l’emblema dei terrestri
figli minori, di quelli che stavano sempre in seconda fila, vuoi perché il maggiore desiderasse proteggerli, o perché
semplicemente non li giudicasse in grado di combattere. Mi ricordava quel
Trunks che ormai era così lontano di
essere solo più un fantasma nei miei ricordi, perché mio figlio ogni
giorno nelle sue certezze gli assomigliava sempre meno. L’espressione di
Lektar mi ricordava terribilmente Trunks, e sentire di star giocando col suo non essere in
grado di nuocere ad alcuno mi faceva sentire una persona orribile, benché
cercassi di non mostrarlo essendo grata che non mi stesse guardando e così non
dovessi fingere. Mi ricordava Trunks quando vedeva Vegeta
andare ad allenarsi senza aspettarlo, quando lo sentiva parlare di Goku e aveva gli occhi di chi rimpiange di non riuscire a
suscitare sentimenti così forti in qualcuno. Sentimenti d’odio, magari, ma comunque sentimenti. Mi ricordava quanto avevo odiato
Vegeta in quel periodo, quanto avevo trascorso il tempo
con Trunks sia per amore che per cercare di non fargli
notare l’indifferenza di quell’animale. Di quanto Trunks avesse dovuto ripetermi
tre volte come aveva reagito Vegeta alla sua morte, prima che io cominciassi
anche solo a considerare il fatto di potergli credere. Mi rendevo
conto che quel camminare nel corridoio era il preambolo di un addio, comunque fosse andata quella sera, il nostro legame era ormai
rotto. Lektar mi aveva porto la catena che aveva al
collo, e io l’avevo tirata per piegarlo al mio volere. Mi sentii meschina, ma
sapevo di non poter fare altrimenti. Non potevo fingere in eterno che stare
con quelle creature fosse una cosa accettabile. Non volevo arrivare al punto di
dover far del male a un antenato di Vegeta per non
tradire la fiducia degli Skatos. La mia vita erano
i Sayan, non le creature che cercavano di
sterminarli. Le guerre non sono mai contro buoni e cattivi, ma dovevo scegliere da che parte stare. E volevo tornare a casa, con gli Skatos sarebbe stato semplice aspettare quei quattro giorni
prima della riparazione della macchina, ma volevo avere il coraggio di guardare
in faccia Vegeta, quando sarei tornata. Gli Skatos
mi vedevano come una minaccia, e forse la cosa migliore era far vedere loro che
non sbagliavano. Lektar mi condusse fino alla sala
dello schermo. Di lì vidi la sagoma di cinque grosse scimmie che avanzavano
verso quello che doveva essere uno degli ingressi della città.
La
vista di quegli animali mi stranì. Fissai
lo schermo per alcuni istanti come una persona che va a
riconoscere un cadavere e si rende conto di essere di fronte al corpo di una
persona diversa da quella che si aspettava. Erano anni che non vedevo una di
quelle scimmie, e pensare che uno di loro potesse
essere un antenato di Vegeta mi riempiva di un disgusto che mi lasciava piena di
dubbi.
Guardando gli animali avanzare verso l’obbiettivo dello schermo,
mi resi conto di cosa dovevano essere i Sayan per
Lektar e i suoi simili. Degli animali feroci, delle
bestie. Niente a che vedere con lo scontroso ma pur sempre umano Sayan che io avevo in
casa. L’avevo anche convinto a tagliarsi la coda, perché l’evidenza di quella
diversità mi disturbava al punto di rendermi nervosa ogni qualvolta mi si
avvicinava sventolando quella cosa che ostinatamente continuava a ricrescere.
Eppure i Sayan erano loro, quelli che vedevo riflessi in quello schermo. Non Goku o il Vegeta che conoscevo
io. Se quelli erano i Sayan, chi era il padre di mio figlio?
Era
quella la natura di Vegeta prima di arrivare sulla Terra? Improvvisamente
pensai che non ero più tanto sicura di voler conoscere
il passato dei Sayan.
Lektar mi guardava con un’espressione che non riuscivo a
decifrare. -Sono diversi da come li conosci tu?-disse, con un tono neutro da
perfetto estraneo. Annuii sentendo un’esplosione in lontananza. –Sì...molto
diversi… Lektar sentiva il mio turbamento. Era
combattuto tra il desiderio di cacciarmi via con quelle bestie che sembravano
interessarmi tanto e l’istinto di tenermi lì, debole e cocciuta, al riparo dai
Sayan. Credo che dentro di lui si agitassero emozioni che non riusciva a decifrare, come un
cieco per la volta con gli occhi funzionanti davanti al mondo e ai suoi
colori. Non riusciva a volermi male, ma al tempo stesso temeva i danni che
avrei potuto arrecare a lui e alla sua gente. Vedendo che la mia
determinatezza era scemata con la mia risposta, si
avvicinò e lentamente mi prese una mano tra le sue. –Non so che gesti usate sul tuo pianeta in queste situazioni. Ma non sei costretta ad andare. Possiamo tornare indietro e
dirò che dovevi solo andare in bagno. Era più una
supplica che una proposta.
Ti
prego, cambia idea…
In quel breve pomeriggio, ero
diventata un’amica che non voleva abbandonare. Una persona da significasse qualcosa in più di una fredda e insensibile
macchina. Mi aveva mostrato la catena che portava al collo. E anche se l’avevo tirata, ero l’unica a conoscerlo
davvero. Stavo per dirgli che quanto avevo visto mi
bastava, che non avrei avuto nulla a che spartire con i Sayan del suo tempo come non avrei avuto nulla a che
spartire con i primati terrestri da cui la mia razza era discesa. Che potevamo tornare indietro. Avevo visto
abbastanza. Ma in quel momento sulla soglia della
sala comparve il ragazzo la cui vista mi colpì come una bastonata in pieno
viso. -E’ qui lo schermo! Ce… Il ragazzo si interruppe vedendo me e Lektar
nella stanza. Con il petto coperto di sangue raggrumato, una spalla lasciata
penzoloni in maniera innaturale accanto al corpo e un lungo sfregio ad
attraversargli il viso e quasi tagliargli gli occhi ardenti di febbre e ira, un
giovane Vegeta ci stava fissando come un leone avrebbe
fissato una gazzella ben pasciuta.
Vegeta
fissò lo Skatos e subito lo riconobbe. La
somiglianza con lo scienziato che pochi minuti prima
gli aveva distrutto la clavicola era impossibile da ignorare. Accanto a lui
c’era una donna. Non una Skatos, una
vera e propria donna. Nel lungo istante in cui i tre rimasero a
fissarsi, Vegeta registrò un gran numero di
informazioni. Primo: né lo Skatos né la
donna avevano armi in evidenza. La donna non ne portava
di sicuro, indossava solo una maglia mezza stracciata e dei pantaloni aderenti,
la protuberanza di qualsiasi oggetto sarebbe stato più
che evidente. Aveva inoltre un livello combattivo molto basso. Lo Skatos indossava la tunica d’ordinanza, quindi doveva stare
attento, non sapeva cosa potesse nascondere sotto il
tessuto immacolato. Secondo: la donna non era una Skatos, ma non era una Sayan, non
era di nessuna delle razze che Spartack gli aveva descritto nelle lunghe lezioni sull’universo nei cinque
anni d’insegnamento da bambino. Era più vecchia di lui, non molto alta, un
corpo le cui rotondità forse potevano significare che
aveva avuto figli, ma non poteva dirlo con certezza. Non costituiva una minaccia
in ogni caso. Lo guardava con un’espressione talmente stranita che pareva di
fronte a un morto. O non aveva mai visto un Sayan coperto di sangue, o ne aveva
visti, e sapeva che la parola Sayan non significa mai
nulla di buono. Terzo: gli Ozaru erano quasi
arrivati alla porta della città, in pochi minuti avrebbero smesso di avanzare e
gli Skatos avrebbero capito che si trattava di un
diversivo. Doveva muoversi ad andarsene. Tutte queste informazioni gli
attraversarono la mente nonostante la febbre stesse cercando di annientarlo.
Vegeta cercò di mantenersi lucido e di ignorare la clavicola fratturata che
pulsava prepotentemente, in conseguenza alla corsa che
aveva appena compiuto. Dovevano andarsene. L’idea di uccidere quello Skatos e quella donna non lo attirava come si sarebbe
aspettato da sé stesso. Aveva atteso e sopportato troppe ore legato a quella lastra per mandare tutto in fumo
giocherellando con due esseri così deboli e inferiori per qualche minuto prima
di essere ammazzato dagli Skatos. Un ben gioco
sarebbe stato avere il tempo di torturarli e essere abbastanza in forze da poter
godere di ogni gesto, essere abbastanza lucido da poter prendere il viso dello
Skatos tra le mani e guardarnegli occhi terrorizzati. E poi divertirsi
anche con quella donna, che per inciso non era proprio
niente male, nonostante fosse vestita come un giocattolo sbrindellato e
pettinata anche peggio. Vegeta distolse gli occhi dai due esseri e fissò lo
schermo, non l’avrebbero attaccato, e lui doveva capire bene dove si trovavano
gli Ozaru. Accanto a lui, Celia varcò la soglia
della stanza. -Ma guarda un po’ chi abbiamo
qui-disse la ragazza con un sorriso ferino in volto. –Due animaletti in
trappola, direi. Vegeta non si mosse mentre Celia
varcava la soglia. Era stata in gamba, doveva ammetterlo, ma non potevano
permettersi di staregiocare con quelle insulse creature. Vegeta ricordò la macchina
con cui gli avevano disintegrato le ossa prima di catturarlo. Non poteva
restare lì. Non sarebbero mai usciti se fossero arrivati dei
rinforzi. -Lasciali perdere Celia,-disse-dobbiamo andare. La ragazza si bloccò voltandosi a
fissarlo. Probabilmente non riusciva a credere che lui non volesse restare per
vendicarsi su quei due, nemmeno lui l’avrebbe mai
pensato. Spartack avrebbe definito il
restare a trastullarsi un’occupazione da cuccioli egocentrici. E anche se era vero che era giovane, Vegeta non era
stupido. Per quella giornata era già tanto essere riuscito a portare in salvo
la pelle e avere ancora tutti gli arti attaccati al corpo. Non c’era bisogno di
sfidare ulteriormente il fato. Sarebbe stato per un’altra volta, perché ce ne
sarebbero state altre e lui sarebbe stato in forze e incattivito
dall’attesa. Celia continuava a fissarlo per capire se stesse dicendo sul
serio. Vegeta venne scosso da un brivido febbrile e la
vista gli si appannò per un istante.
-Muoviti!-ringhiò,
appoggiandosi allo stipite dell’entrata con il braccio buono. Celia gli si
avvicinò e fece per mettersi sotto il suo braccio per sorreggerlo, ma lui la
scansò e uscì dalla sala cercando di non barcollare più dello stretto
necessario. Probabilmente fu in quel breve istante che lui passò strizzando
gli occhi e cercando di resistere al pulsare frenetico della spalla, che lo
Skatos estrasse l’arma e gliela puntò
contro. Percepì il rumore dell’aria sferzata dall’anello radioattivo troppo
tardi, solo quando il colpo venne silenziosamente
esploso fuori dall’arma, e anche se l’avesse percepito in tempo non sarebbe
riuscito a scansarsi, era troppo debole per farlo. Celia invece se ne accorse, con una sfera di energia cercò di colpire il
raggio ma questo si divise e le colpì il polso da cui aveva scagliato l’onda,
spingendolo verso il basso e inchiodandolo al pavimento.
Vegeta
vide l’anello viaggiare nell’aria ad altezza d’uomo. Ad
altezza di Sayan, ad altezza sua. Venne sbalzato indietro contro la parete e l’anello gli si
serrò attorno alla gola conficcandosi alle estremità nella parete del corridoio.
Sentì un plop leggero e solo allora si rese conto che
quella non era l’arma con cui l’avevano catturato tredici anni prima. A
tenerlo spalle al muro e imprigionato alla gola era un anello metallico, una
specie di collare che nel momento in cui si era conficcato nella parete aveva
esploso la piccola camera d’aria che separava la sua pelle dal nudo acciaio.
Adesso tra l’epidermide e il cerchio restavano solo un
paio di centimetri. Senza riflettere Vegeta pensò di reagire. Ma stava per
dare uno strattone contro l’anello per cercare di scardinarlo, quando una voce
irruppe nel corridoio. -NO! NON FARLO! Vegeta si bloccò giusto in tempo
per vedere Celia che, bloccata a terra dall’anello che le fermava il polso, non
ascoltava la voce e dava uno strattone al vincolo di
acciaio. E un cerchio di denti aguzzi che al contatto della pelle contro
di esso saettavano fuori da piccole fenditure
lacerandole la carne fino all’osso. Celia lanciò un urlo che a Vegeta ricordò
quello degli animali quando li colpivano agli arti per
non far colare il sangue sulla carne viva. Come un animale di fronte a un laccio, Vegeta tirò indietro la testa contro la parete,
la gola il più lontano possibile dall’anello.
Da
quella posizione lo sguardo andò alla stanza dello schermo. Sulla soglia la
donna con gli aderenti pantaloni blu lo guardava con gli occhi sgranati di
paura. Accanto a lei lo Skatos era ancora immobile
con l’arma puntata verso il suo volto. Vegeta fissò la donna, gli occhi pieni
di stupore per il colpo e per l’aiuto inaspettato. Era stata lei a urlare.
Dallo sguardo pieno di stupore dello Skatos Vegeta capì che lei l’aveva fatto per impedirgli di
ammazzarsi, non per catturarlo vivo. La donna si
incamminò verso di lui tendendo le mani in avanti e mormorando qualcosa
che non comprese. Vegeta continuò a fissarla ad ogni
passo.
Quella donna gli aveva salvato la vita. E non per
catturarlo.
Le donna si fermò davanti a lui e
gli guardò il volto e poi il petto coperto di sangue. -Non ti muovere…-disse,
avvicinando piano le mani all’anello metallico. Dietro di lei lo Skatos le urlò di fermarsi, ma lei lo ignorò. Vegeta la
sentii poggiare due dita sul lato inferiore dell’anello, percorrerlo
delicatamente e poi fermarsi. Con il tocco leggero di un attimo l’anello
scattò da contro la parete e rotolò in terra. Vegeta non si mosse mentre la donna chinava lo sguardo e gli osservava la
depressione delle fratture all’altezza della clavicola. -Cosa ti hanno
fatto… Stava per attaccarla e scappare, quando lo Skatos fece per avvicinarsi e toccare una spalle alla donna,
ma lei senza voltarsi urlò: -NON MI TOCCARE! e lo Skatos si bloccò. Stava per attaccarla ancora, quando la
donna alzò gli occhi, e mormorò una frase stupida da dire a un essere che vive in guerra, ma con un’ultima parola che
non gli consentì di colpirla a morte.
-Che cosa ti hanno fatto… Vegeta non si mosse e lasciò che la mano di
lei arrivasse quasi a toccargli il petto. Aveva gli occhi azzurri come il
cielo sereno e senza nuvole. E velati di lacrime come il
cielo coperto, prima della pioggia.
Era una sensazione che conoscevo,
l’orrore che provavo guardando quegli sfregi e il dolore che mi annientava
immaginando la loro genesi.
Era una sensazione che provavo spesso, in quegli ultimi anni prima di arrivare
sul pianeta Eos.
Era una sensazione che mi coglieva sempre alla sprovvista, sia che comparisse sia che non comparisse. Non riuscivo a prevedere quando quei solchi sulla pelle mi sarebbero
sembrati solo delle semplici abrasioni, o quando la consapevolezza del loro
significato mi avrebbe invece serrato lo stomaco. Certe volte la sensazione nasceva
da un gesto, da una frase, da un’immagine improvvisa. Certe volte invece mi
aspettavo di sentirla arrivare, ma lei restava muta.
Era una sensazione che si nutriva di silenzio, di attimi,
di sguardi. Una sensazione che nasceva dal vedere Vegeta
fare una smorfia particolare durante gli allenamenti, dal vederlo certe volte
poggiare male una caviglia quando cambiava il tempo, come se anche il cielo
della Terra volesse ricordargli il suo passato. Dal vederlo passare in sala e
buttare un occhio a un film di guerra e subito andare
via.
All’inizio della nostra storia, o della nostra
coabitazione per meglio dire, mi ero avvicinata a lui per puntiglio. Vegeta mi
ricordava gli adolescenti finti-problematici che
popolavano la mia scuola, quegli sbruffoni che pensavano unicamente a come
sembrare più cattivi e potenti possibile. Credevo che
Vegeta simulasse la sua arroganza, ma solo per nascondere una segreta pochezza
d’animo. Lo vedevo come un bullo dello spazio, nulla di più che uno sbruffone
alieno.
Mi ero avvicinata a lui per sfida, perché lui capisse che in casa mia ero io a
dettar legge, e che lui poteva anche essere l’imperatore dell’universo, a casa Brief comandava BulmaBrief.
Non mi interessava sapere chi fosse, da dove venisse o
cosa avesse fatto prima di me, come alle donne generalmente non interessa
sapere del passato dei propri uomini più di quanto non sia necessario a
trastullare il loro orgoglio. Normalmente le donne non vogliono sapere chi ha
spezzato il cuore al proprio uomo, di chi l’ha fatto piangere, vogliono sapere
chi c’è stato prima, ma solo per dire che l’adesso è
meglio.
Per ribadire un senso di possesso, non perché
interessi davvero sapere certe cose.
A me non interessava sapere cosa fosse Vegeta prima
della Terra, perché ai miei occhi lui era solo un idiota pieno di supponenza.
L’avevo accolto in casa mia con quella prospettiva.
Un animale stupido e feroce da addomesticare come nessuno era
riuscito a fare prima.
Ma poi le cose si erano complicate. Non avevo considerato che in 24 ore
in casa non si poteva sempre litigare, e che in ogni
caso lui non era il tipo con cui si potesse litigare. Al
limite scambiarsi frecciatine, ma non litigare nel
senso di avere un qualsivoglia dialogo.
Alla frecciatina di un istante erano subentrati i
silenzi di altri istanti, e le frecciatine
erano brevi e pungentii, i silenzi densi e
interminabili.
Era stato tutto in unico mese, che mi ero resa conto che su Vegeta avevo sbagliato in pieno.
Era stato un novembre anomalo e buio, freddo come la morte, in cui ero stata da
sola nel laboratorio mentre lasciavo godere ai miei
genitori un po’ di vacanza in un qualche atollo tropicale. Lavoravo alle
invenzioni con passione e concentrazione, ma quando il lavoro finiva ero sola, Yamcha mi raggiungeva qualche sera, ma il più delle volte ero sola. E in casa c’era lui, che usava ancora la tuta estiva
perché non voleva chiedermi di dargli dei vestiti più pesanti. Che ogni tanto mi diceva di cambiargli le lenzuola, anche se sapeva
che la donna delle pulizie lo faceva ogni tre giorni. Che aveva avuto il raffreddore per dieci giorni, ma non mi aveva
mai chiesto neanche un’aspirina
In quei trenta giorni l’avevo pian piano avvicinato, qualche volta urlando
qualche volta per semplice bisogno di parlare.
Non eravamo diventati amici, e non eravamo diventati amanti, il nostro primo
bacio avvenne quasi un anno dopo, ma quando vedevo l’aria rilassata che poco
per volta stava assumendo nel girovagare per casa mia pensavo che sembrava tutto meno che un assassino sanguinario.
Nel modo in cui certe volte uscendo dal trainer sollevava gli occhi al cielo e
sembrava cercare qualcosa nello spazio leggevo solo una grande solitudine.
Era la persona più insopportabile che conoscevo.
Ma se avessi dovuto dipingerlo con un colore avrei
usato un blu nostalgico. Un colore primario.
Indipendente da ogni altra tinta.
Indipendente e solo.
In quelle sere buie
trascorse ogni tanto a dirci qualcosa e il
più delle volte a stare separati prestando tuttavia attenzione a far rumore per
confermarci a vicenda la nostra presenza, la sensazione aveva cominciato a
venirmi a trovare come una eco lontana. Quando si toglieva la tuta e me la lanciava con un
gesto di sfida, vedevo le cicatrici. Quando esplose la camera gravitazionale, vidi le
cicatrici.
Quando per la prima volta lui affondò la testa nell’incavo del mio collo dopo
lo spasimo dell’orgasmo, vidi le cicatrici.
Ma quella sensazione mi strinse davvero nella sua morsa solo anni dopo, dopo i
cyborg, dopo Cell, dopo la partenza di Trunks e i primi passi di Trunks
e la prima parola di Trunks.
Fino ad allora era stato un desiderio di sapere,
raggelato durante il giorno dagli atteggiamenti scostanti e molte volte crudeli
di Vegeta. Delle notti pensavo che avrei voluto capirlo, ma poi di giorno avrei voluto mandarlo al diavolo, invece che capirlo. Ma quando Trunks era partito
tutto era cambiato. Era stato vedere Trunks morire, a
fargli realizzare la realtà.
A fargli capire che anche se giocavo a fare la nemica, la puttana, la
ragazzina, la prepotente, non ero nessuna delle maschere che indossavo.
Ero la madre di suo figlio. E mischiare il sangue non
è una cosa che si fa per caso. Specialmente quando sei cresciuto rimpiangendo che a qualcuno
non sia venuta l’idea di abortirti e gettarti via.
Dopo la partenza di Trunks Vegeta aveva capito molte
cose, e quello che prima era la doccia, il laboratorio, il divano, il pavimento
lo era diventato il letto.
Il nostro letto.
Non un campo di battaglia.
All’inizio era stato il desiderio di capirlo, poi fu il dolore di sapere che non
sarei mai stata capace di farlo.
-Come posso capirti se non mi parli?
-Quante persone hai ammazzato in vita tua?
-Nessuna.
-Appunto.
Quel dialogo prima della partenza di Trunks aveva
posto dei paletti. Tu non puoi capire Bulma. Fattene
una ragione.
Ma la sensazione, quella sensazione che ora provavo di
fronte a questo ragazzo così simile a Lui era stata frutto di un amore
profondo, un amore profondo che mi portava a desiderare di sapere tutto di
Vegeta. Sapere cosa sognava quando gli incubi lo
tormentavano. Dal desiderio di risucchiargli via i brutti ricordi con un bacio.
Di dirgli che non importava quello che era stato, io
non mi sarei mossa dal suo fianco.
La sensazione di morte che provavo a vedere quelle cicatrici
mi assaliva alla sprovvista, in un momento in cui il silenzio governava la mia
mente.
Era molto simile all’impotenza, come quella di una persona costretta a vedere
la persona che ama consumata da un male incurabile.
Era molto simile al dolore, quello profondo che scava l’anima, che fa piangere anche persone che hanno sempre reputato stupido
reagire ai problemi con le lacrime.
L’avevo provata per la prima volta forte
e chiara tre anni prima, una notte, guardando la schiena di Vegeta. Nel buio di
quella camera che era una zona franca per entrambi, la pesantezza di quei segni
mi aveva attaccato il cuore. Cosa ti avevano fatto Vegeta?
Avevo bagnato di lacrime il cuscino soffice ed enorme.
Cosa potevi aver fatto per meritarti tutto questo?
Quella notte, quando avevo sentito la morte mangiarmi il cuore da quanto avrei
voluto fargli sparire quegli sfregi, mi ero stretta alla sua schiena e avevo
pianto fino ad addormentarmi.
Lui si era svegliato, ma non aveva detto nulla. Solo mi aveva preso una mano e
l’aveva stretta forte.
Mi avvicinai a quel ragazzo cercando di
controllarmi, ripetendomi che quello non era il mio Vegeta.
Che era un ragazzo come tanti, che probabilmente mi avrebbe uccisa appena ne avesse avuto l’occasione.
Che era uno di quei Sayan che Lektar
mi aveva raccontato, e che ero sicura che lui fosse
sincero. Ma quelle ferite erano qualcosa che non potevo
sopportare.
Avevo visto chiaramente le fenditure nell’anello poco prima che esplodesse la camera d’aria. Un ragionamento di pochi
istanti mi aveva portata dal chiedermi perché ci fosse quella piccola bolla alla
consapevolezza nascondesse qualcosa di ben più atroce del rimanere inchiodati
per il collo a un muro.
Avevo urlato per riflesso condizionato, perché non c’era tempo per pensare ma sapevo che in un qualche modo quel ragazzo era
parte del mio Vegeta. Trunks sarebbe stato così, se fosse stato simile a
suo padre.
Non mi ero più accorta di Lektar fino a quando non avevo ormai liberato il ragazzo dall’anello.
-Ogni trappola ha un meccanismo per disinnescarla, proprio per evitare che chi
l’ha creata ne divenga vittima.
Avevo tastato l’anello fino a trovare una piccola depressione. Premendola
l’anello era rotolato in Terra.
Avevo salvato la storia di Vegeta.
Forse era grazie a una me del futuro se Vegeta
esisteva ancora nel mio mondo. Con un po’ di cattiveria avrei pensato che fantastico,
adesso dovevo dividere il mio uomo non con il fantasma
di un’altra me, ma con DUE fantasmi di un’altra me.
Ma le condizioni in cui era ridotto quel ragazzo erano
quanto di più spaventoso avessi mai visto.
La clavicola era frantumata sotto la pelle, aveva il
volto lucido e i capelli sudati, la febbre alta.Il corpo magro e nervoso
coperto di cicatrici, sangue raggrumato e lividi. E poi quello sfregio in volto, lungo, da una tempia fino al
lato opposto della bocca. Qualcosa di terribilmente doloroso.
Era come rivedere il mio Vegeta. Quello che era prima della Terra. Un guerriero ancora ragazzino.
Una mappa geografica di sofferenza.
Avvicinandomi non pensai nulla, neanche che avrebbe potuto uccidermi e non mi importava. Solo mi avvicinai, e
come se fosse stata la cosa più naturale alzai la mano fino a quasi toccargli
il petto, all’altezza delle ossa fratturate.
Sentii me stessa mormorare quella frase dopo aver
urlato a Lektar di non toccarmi.
Come potevano avergli fatto questo?
Erano in guerra, ma come potevano aver
ridotto in quello stato un ragazzo così giovane?
Per me la guerra non giustificava ogni cosa. Ero troppo terrestre per pensare che la guerra potesse giustificare ogni cosa.
Non avevo quella logica. Davanti a me non c’era un guerriero, un nemico, ma un
ragazzo che aveva forse solo qualche anni in più di Trunks quando era andato via.
Come si poteva ridurre così un ragazzo così giovane?
Come potevano Lektar
e il suo popolo, così placidi e pacifici, essere capaci di tanto orrore?
Il ragazzo continuò a
fissarmi restando perfettamente immobile, poi strizzò gli occhi come per
allontanare un velo davanti alla propria cornea. Aveva la febbre alta, aveva bisogno di andare via e
ricevere cure.
Un’esplosione in lontananza irruppe nella sala e il pavimento tremò
leggermente, poi improvvisamente calò il silenzio.
Il ragazzo si voltò nella direzione da cui provenivano le esplosioni, poi
guardò qualcosa alle mie spalle.
Mi voltai e vidi la ragazza inchiodata a terra, ricordandomi all’improvviso della
sua presenza.
Il sangue stava colando velocemente fuori dal polso
lacerato. Bisognava liberarla subito, o sarebbe morta.
Allontanandomi dal ragazzo mi piegai verso di lei. La giovane Sayan mi fissò con un sguardo
carico d’odio e cercò di spostarsi il più lontano possibile da me, ma così
facendo i denti di metallo penetrarono la carne ancora più in profondità.
-Non ti muovere o entreranno ancora- le dissi, avvicinando una mano al suo
polso coperto di sangue. -Se stai ferma ti libero.
La ragazza non mi ascoltò, al contrario si contorse in
una posizione innaturale per tentare di darmi un calcio. I denti si serrarono
ancora e lei ricadde in preda ai singhiozzi.
Cercai di avvicinarmi, ma se fosse riuscita a colpirmi mi avrebbe
uccisa tanto era forte e terrorizzata.
Non potevo aspettare che perdesse conoscenza, non volevo che una volta libera
rimanesse in balia degli Skatos perché in stato
d’incoscienza.
Cerca di nuovo di avvicinarmi. La ragazza ringhiò di nuovo. Ma
una voce alle mie spalle disse:
-Fa come ti dice, Celia!
Il ragazzo era ancora appoggiato al muro e la ragazza improvvisamente smise di
opporre resistenza. Tastai il lato inferiore dell’anello e trovai la
depressione.
-Non ti preoccupare, non ti farà ma…
In quel momento schiaccia il pulsante. I denti si ritrassero nelle fenditure
uscendo violentemente dalla carne. La ragazza lanciò un urlo lancinante, ma era stato troppo attenta alle parole che stavo dicendo prima,
per rendersi davvero conto di cosa stava succedendo.
In un istante l’anello rotolò in terra e la ragazza si ritrovò il polso libero.
In lontananza nel corridoio sentii dei passi avvicinarsi di corse. Sollevai gli
occhi verso Lektar e vidi che era accanto al pannello
della sala. Il pannello lampeggiava di una luce rossa intermittente.
Adesso si che mi avrebbero uccisa. Lektar mi guardò con gli occhi candidi pieni di
tristezza.
–Mi dispiace- mormorò.
Non era rabbia. Non era rabbia perché
forse anche lui aveva provato quella sensazione di orrore
a vedere lo stato in cui avevano ridotto quel ragazzo. Pensai
alla macchia di sangue sulla manica di Jasper. Lektar non sapeva nulla di questa storia. Non
sapeva nemmeno che il ragazzo fosse lì, glielo leggevo in volto. Aveva gli
occhi di chi non poteva più aiutarmi, ma sapeva bene chi era la ragione in
quella stanza.
Eppure alla sua espressione si sommava qualcosa che non riuscivo
a comprendere appieno.
Il dolore che aveva negli occhi era troppo forte perché quel ragazzo fosse solo
un Sayan qualsiasi. Lektar conosceva quel ragazzo, e vederlo in quello stato lo riempiva di tristezza.
Guardai il ragazzo che aveva anche lui notato i passi e il pannello
lampeggiante.
Stavo per dirgli di scappare quando il ragazzo cambiò
espressione, come se improvvisamente si fosse ripreso dallo shock. E con un
movimento fulmineo mi prese per un braccio e mi
costrinse a dargli le spalle, con l’altro mi serrò la gola.
-Tu adesso vieni con noi-disse, avvicinando il volto sudato al mio orecchio.
In quel momento vidi un gruppo di Skatos apparire nel
corridoio. Il ragazzo li fissò e sentii il suo volto contrarsi in un ghigno
spaventoso.
Con un debole ma pur sempre forte raggio di energia il
ragazzo fece esplodere il corridoio in cui si trovavano le creature. Dalla mia
posizione proprio con gli occhi rivolti a loro, vidi
il volto di Lektar diventare una maschera di terrore.
Poi uno strattone violento mi costrinse a girarmi e a cominciare a camminare
all’indietro. -Muoviti Celia! Andiamo!
La ragazza barcollò reggendosi il polso sanguinante. Il ragazzo compì
qualche passò, poi con violenza mi caricò sulle spalle e cominciò a correre
verso quella che doveva sapere essere l’uscita.
Passando sopra i corpi degli Skatos mutilati fui
scossa da un violento conato, che riuscii a malapena a
controllare.
Mentre uscivamo dall’edificio, poi dalla città, poi attraversavamo radure su
radure, pensai che adesso capivo perché pensare alla
genesi di quelle cicatrici mi procurava un senso di dolore a angoscia così
forte.
Io non conoscevo la guerra. Non avevo mai visto gli occhi colmi di risentimento
e crudeltà di chi combatte degli esseri che odia con tutto sé
stesso.
Vegeta combatteva Goku per orgoglio, non per
crudeltà.
Pensai che sulle spalle di quel giovane Sayan
probabilmente stavo andando verso una morte lenta e
dolorosa.
Pensai che Trunks doveva essere tornato da scuola, e
io non gli avevo neanche preparato il pranzo.
Nel corridoio cosparso di
sangue e morti, Lektar attese l'arrivo di Jasper
restando immobile accanto alla parete.
Dal corpo degli Skatos riversi in terra, colate di
plasma dense e rossastre si spandevano piano sul pavimento pulito e candido,
come fiumi di vernice fuoriusciti da un barattolo. Lektar chiuse gli occhi e soffocò un conato aspirando
lentamente.
Sentiva il sangue dei compagni lambirgli piano uno stivale, arrivare a toccare
il tessuto bianco, poi deviare e circondarlo come un nemico inarrestabile. Lektar reclinò il capo e lo appoggiò alla parete.
Tenendo gli occhi chiusi continuò a respirare. Aveva già visto quella scena.
Il volto sfigurato del giovane Sayan gli balenò
davanti agli occhi come proiettata da un raggio laser sulla parete delle sue
palpebre.
Rivide il ragazzo quando non era ancora tale. Un bimbetto di tre anni col volto
ardente di febbre e il respiro accelerato da un malanno.
Rivide nei ricordi di Falen i lineamenti di quella
donna, che in ginocchio e stremata dal freddo supplicava ai nemici di curare il
proprio figlio.
Rivide l’espressione della donna, e le lacrime che le scorrevano sul volto.
Rivide Calisto avvicinarsi e dirle che avrebbero guarito il suo bambino, e l’espressione
di lei che gli era sembrata mansueta.
Persino troppo per stare sul volto di una Sayan.
Attendendo che Jasper arrivasse e trovasse i compagni morti, Lektar ripensò al Sayan e alla
donna del futuro.
-Non mi toccare!
Pensò all’espressione disgustata che le aveva visto in volto. A quelle lacrime
di rabbia che contenevano un dolore che lui non riusciva a decifrare.
Pensò che il ragazzo si chiamava Vegeta, e quella donna lo sapeva.
Quando sentii i passi risuonare nell’edificio, Lektar
aprii gli occhi per vedere il fratello e la sua reazione all’accaduto.
Jasper si fermò all’imbocco della curva, un’espressione incredula dipinta in
volto mentre gli altri compagni non si scomposero minimamente. Calisia si avvicinò a un cadavere e si piegò a
tastarne il polso, poi sollevò lo sguardo e osservò anche gli altri corpi.
-Sarà meglio portare via i cadaveri- disse –Tra poche
ore cominceranno a decomporsi. Lektar si avvicinò a Jasper solo quando due dei
soccorritori sparirono nel corridoio con in spalla l’ultimo dei corpi.
-Dobbiamo parlare- disse, cercando di dissimulare il nervosismo che lo
tormentava.
Jasper non lo guardò, anzi tenne gli occhi fissi sul corridoio ormai rosso scuro.
-La donna è andata con loro? Lektar si sorprese di quella domanda inaspettata.
-Il ragazzo l’ha rapita.
Jasper s’incamminò nel corridoio e Lektar lo seguì.
-Non credo ci sia molto di cui parlare stanotte- disse Jasper.
Ma Lektar non se ne andò.
-Ahia!
Il ramo di un arbusto sconosciuto mi sferzò violentemente il volto, mentre il
ragazzo continuava a correre incurante delle mie grida.
La città era lontana, solo un punto in mezzo alle sterpaglie.
Dietro di noi la ragazza correva tenendosi il polso ferito con una mano, una
parte della veste strappata utilizzata a mo’ di benda.
L’andatura del Sayan diminuiva gradatamente, e se all’inizio
della corsa non vedevo quasi il paesaggio attorno, adesso sembrava che ogni
passo gli costasse una fatica immane.
Con il fianco appoggiato al volto del ragazzo potevo sentire la pelle diventare
sempre più calda.
La spalla ferita ciondolava quasi inerme accanto al corpo come un moncherino, e
benché mi stesse tenendo ferma usando soltanto la mano sinistra, la sua stretta
era abbastanza forte da non consentirmi alcuna fuga.
Non avevo idea di dove ci stessimo dirigendo, tutto intorno a me non c’erano
altro che sterpaglie e una semioscurità soffocante e spaventosa.
Allontanandoci dalla città avevo scorto nonostante la velocità un grande cielo
limpido al di sopra di essa, ma il terreno dove ci stavamo muovendo ora
sembrava la foresta nera attorno al giardino del Paradiso Terrestre.
Tentare di ricordare la strada fatta fino a quel momento era impossibile e
forse anche inutile. Il ragazzo si muoveva con la sicurezza di chi era abituato
a muoversi in quel luogo, e io pensavo che se anche fossi riuscita a scappare
non sarei mai riuscita a ritrovare la città prima di morire di stenti o
divorata da qualche bestia.
Era quasi un’ora e mezza che me ne stavo su quella spalla ossuta, e nonostante
i cedimenti momentanei il ragazzo continuava a correre come se mancasse ancora
molto per raggiungere la nostra meta.
Addentrandoci in quelle terre l’oscurità aumentava sempre. Era quasi notte
fonda, e pensai che a meno che non fossimo vicino al loro villaggio presto o
tardi ci saremmo fermati.
Il ragazzo non resisteva più. Sentivo che cominciava ad appoggiare male i piedi
e gli arbusti che ci sbattevano addosso erano segno che neanche lui vedeva più
molto bene dove ci stavamo dirigendo. Oppure soltanto che si trovava ormai sull’orlo
dell’incoscienza.
Uscendo dalla città avevamo proceduto seguendo un piano, deviando diverse volte
in punti che avevo capito essere bivi rudimentali. Vecchie pietre segnate di
sangue, una croce di legno, un albero spezzato. In quel momento invece stavamo procedendo
il linea retta da una quarantina di minuti, e più che di cosa mi sarebbe
successo se fossimo arrivati al loro villaggio, mi preoccupavo di cosa sarebbe
successo se non l’avessimo raggiunto, in quell’oscurità il loro villaggio.
La ragazza davanti a me, quindi alle spalle del ragazzo, proseguiva nella corsa
nonostante col tempo stesse assumendo sempre di più un’espressione preoccupata.
Anche se il buio mi impediva di scorgerne bene i lineamenti, ora che potevo
osservarla mi resi conto che non doveva avere più di diciotto anni, contando
che mi sembrava averne quindici ma anche Vegeta quando l’avevo conosciuto
dimostrava meno dei suoi trent’anni.
Era una ragazza robusta, dal fisico proporzionato e il volto duro ma attraente,
ogni muscolo del corpo disegnato da linee perfette come se fosse stata scolpita
nel marmo. Era una ragazza abituata ad allenarsi e combattere, una guerriera,
ma nei suoi occhi leggevo l’indecisione di chi vuole dimostrare di essere adulto
ma ha paura di commettere un errore tipico della propria età, e quindi di
tradirsi senza volerlo.
Probabilmente era la più forte tra le donne del villaggio, ma dagli sguardi
preoccupati che si lanciava intorno mentre seguiva il ragazzo senza capire dove
stesse andando, traspariva ogni anno in meno di quelli che voleva dimostrare.
Fui riscossa dai miei pensieri quando il corpo del ragazzo sotto di me cedette,
incespicando nei propri passi fino quasi a farci cadere entrambi.
-Dannazione!-lo sentii mugugnare.
Dietro di me vidi sparire una buca nel terreno, presumibilmente quella in cui
il giovane Sayan aveva poggiato un piede senza
rendersene conto.
Sul mio fianco ora sentivo che la pelle del Sayan
scottava in maniera preoccupante.
-Ti devi fermare-dissi, a voce abbastanza alta perché entrambi potessero
sentirmi. –Non riusciraia correre ancora per molto nelle condizioni
in cui ti trovi.
Il ragazzo non mi degnò di una risposta. La ragazza al contrario lanciò prima
un’occhiata piena di ostilità verso di me, poi un’altra piena di preoccupazione
alla schiena del ragazzo.
Il giovane Sayan continuò la sua corsa rallentando
sempre di più.
Ormai era allo stremo e se cercavo di voltarmi quel tanto che bastava per
vedere l’orizzonte davanti a noi, non c’era in vista nessun villaggio.
Mi resi conto di aver smesso di dimenarmi e urlare quando avevo notato i primi
cedimenti nell’andatura. Ormai tentare di scappare era inutile, eravamo
talmente lontani dalla città che mi sarei persa in pochi minuti. E poi il
ragazzo stava male, molto male, e c’erano alte probabilità che un mio calcio
avrebbe contribuito in maniera definitiva a mandarlo all’altro mondo.
Era un ragazzo così giovane, eppure la forza con cui stringeva il mio corpo
sopra la propria spalla mi ricordava i primi amplessi con Vegeta. Il modo
prevaricatorio che aveva di tenermi sotto di sé immobilizzandomi le anche.
Ora che l’oscurità più totale era calata, vidi il ragazzo bloccarsi all’improvviso
dopo una salita che era sembrata interminabile.
La ragazza si avvicinò fino ad arrivare a fianco del ragazzo.
-Il villaggio…-disse, trattenendo un sospiro di sollievo.
Il ragazzo scosse la testa prima a destra poi a sinistra. –Lancia
un’onda di energia al centro della discesa, non vorrei che ci prendessero per
degli Skatos.
Contorcendomi fino al punto di riuscire a scorgere quello che loro stavano
vedendo, mi accorsi che eravamo arrivati sulla cima di un’altura. Davanti ai
piedi del ragazzo il terreno scendeva ripido fino a una pianura poco estesa che
si chiudeva presso le pareti di roccia di una catena montuosa che non riuscivo
a scorgere bene.
Incuneate tra le rocce e gli arbusti, al lato opposto della pianura, delle
capanne rudimentali facevano da dimore a quelli che immaginavo fossero gli
altri Sayan.
-Scendiamo- disse il ragazzo, mentre la ragazza cominciava a plasmare una
piccola sfera gialla nella mano ancora integra.
Stava per lanciare la sfera d’avvertimento, quando dopo il primo passo il
ragazzo appoggiò un piede su qualcosa di friabile, il corpo si sbilanciò in
avanti, ed entrambi ruzzolammo giù dalla china per almeno cento metri.
Il terreno soffice mi aveva attutito la caduta, ma quando mi rimisi a sedere
rendendomi conto che stavo bene, vidi che il ragazzo a pochi metri da me non
accennava a fare lo stesso.
La ragazza scese correndo, mentre io mi avvicinavo e vedevo che il ragazzo
aveva perso i sensi.
Lektar e Jasper camminarono fianco a fianco nel
corridoio fino a giungere alla camera di Jasper.
Nessuno dei due parlò finchè la porta a tenuta stagna
non pose un solido confine tra loro e le orecchie dei loro simili.
Una volta sicuri di essere soli, Jasper si diresse verso il proprio letto e vi
si lasciò cadere a peso morto.
-Che giornata faticosa- sospirò, chiudendo gli occhi con noncuranza. Lektarriflettè che sarebbe
stato meglio avere un approccio diplomatico, ma quando aprii la bocca ne sentii
uscire le parole:
-Cosa ci faceva Vegeta qui?
Il fratello non si scompose, atteggiamento che Lektar
detestava, solo si scostò un braccio dal volto e si girò verso di lui.
-L’abbiamo catturato per caso mentre resistevamo all’attacco di oggi pomeriggio.
Smettila di pensare che io abbia chissà che piani per far del male a quella
scimmia.
Jasper tornò a fissare il soffitto, sgranchendosi le membra in segno di
stanchezza. Fuori era notte fonda. Avevano impiegato diverse ore a trasportare
via i cadaveri, e Lektar capii che suo fratello stava
cercando un modo gentile per mandarlo via.
Nella stanza ancora inondata di luce, dato che gli Skatos
anche di notte non permettevano al sole di tramontare e alla luce di sparire, Lektar decise che non se ne sarebbe andato senza una risposta.
-Che cosa gli hai fatto?
Jasper chiuse nuovamente gli occhi e sospirò. –Nulla
che non fosse per la scienza. Lektar rise aspramente. –Non
sapevo che rompere clavicole rientrasse nei compiti di uno scienziato.
Jasper aprii gli occhi, questa volta con un moto di sorpresa -Non sono stupido
come credi- aggiunse Lektar–Forse
puoi convincere gli altri di non aver fatto nulla. Ma io ho visto com’era
ridotto quel ragazzo, equelle non erano
ferite convenzionali.
Si avvicinò al fratello e si chinò fino ad arrivare col proprio volto a pochi
centimetri da quello di Jasper. –Se verrà a
eliminarci tutti- sibilò –Sarà in gran parte per
colpa tua. Lektar rimase immobile alcuni istanti, gli occhi
fissi in quelli di Jasper, poi con uno scattò si alzò e si diresse verso la
porta.
Stava per premere il pannello e uscire dalla stanza, quando la voce di Jasper
giunse alle sue spalle.
-Se ti ricordassi cos’ha fatto alla nostra gente, anche tu lo vorresti morto. Lektar non si voltò e davanti ai suoi occhi comparve
il volto della donna del futuro. I suoi occhi azzurri coperti di lacrime e
rancore.
Senza rispondere a quell’ultima battuta, Lektar uscì
in corridoio e lasciò che la porta si chiudesse.
Passando davanti alla sala dello schermo per andare nel proprio alloggio, Lektar ripensò a quel ragazzo e alla sua fuga di poco
prima:
Che cosa ti hanno fatto, Vegeta?
Ma non riusciva a non pensare allo sguardo sconvolto di quella donna.
All’interno della propria camera Jasper lasciò che i passi di Lektar si allontanassero poi si mise seduto sul letto.
Il ragazzo era scappato.
E con lui la donna del futuro.
Jasper si alzò in piedi e cominciò a camminare in tondo nel tentativo di
schiarirsi un po’ le idee.
Il ragazzo era scappato e questo era un passaggio che non aveva considerato.
Jasper si maledì per essersi fatto prendere dalla collera.
Ora che il ragazzo era fuggito e con lui anche la donna del futuro, si rendeva
conto che la loro situazione non era certo delle più rosee. La donna era pur
sempre una scienziata, e dalla complessità della macchina su cui aveva
viaggiato Jasper temeva che fosse persino migliore degli Skatos.
Loro non erano mai riusciti a costruire una macchina del tempo, e lui aveva
notato che lo strano marchio presente sulla macchina era lo stesso che la donna
aveva impresso sulla maglia.
Quella macchina non era di provenienza aliena come aveva detto Bulma, anzi molto probabilmente era stata lei stessa a
progettarla e costruirla.
Accendendo un piccolo schermo che mandava le immagini del mondo esterno, Jasper
non riusciva a capacitarsi di come Vegeta fosse riuscito a scappare vivo. Lektar era armato, e gli anelli chiodati erano un’invenzione
nuova.
Jasper ricordò i due anelli disattivati che aveva trovato nel corridoio.
Com’era possibile che il Sayan avesse capito come
disattivarlo nel breve lasso di tempo tra il colpo e l’esplosione della camera
d’aria?
Uno dei due anelli era coperto di sangue, ma la sua posizione era troppo
distante perché i due anelli potessero aver colpito soltanto una persona.
Qualcun altro aveva aiutato il ragazzo nella fuga.
Eppure ancora non riusciva a comprendere come potessero essere sfuggiti ai
colpi di Lektar e a un’arma sconosciuta.
Suo fratello non aveva colpa, di questo era quasi convinto. Lektar
non avrebbe sparato se avesse avuto dei dubbi, ma che avesse sparato e poi
deciso di liberare i due Sayan gli sembrava oltremodo
strano.
Jasper fissò lo schermo su cui stazionava l’immagine tranquilla della piazza
massima illuminata a giorno dalla sfera luminoso.
C’erano troppe cose che non tornavano, e l’indomani avrebbe parlato con Lektar per capire cos’era successo.
Per un attimo Jasper pensò che forse Lektar avrebbe
mentito, ma era pur sempre suo fratello, e quindi un poco si calmò.
Mettendosi a letto nella stanza illuminata, Jasper pensò ai due anelli
disattivati che aveva trovato nel corridoio.
E al fatto che Vegeta doveva aver rapito quella donna per un motivo.
Motivo che per sua sfortuna dubitava fosse soltanto l’avere una donna in più da
violentare.
La giovane Sayan si avvicinò correndo mentre anche io
strisciavo verso il corpo del ragazzo.
-Non ti avvicinare!- urlò, spingendomi via con la poca forza che ancora le
rimaneva dopo aver perso tutto quel sangue.
Caddi indietro sul terreno, e per poco non rischiai di rotolare giù dal pendio
per altri cento o duecento metri.
La ragazza si inginocchiò vicino al ragazzo e avvicinò la propria guancia alla
bocca ardente di febbre di lui.
Il petto si gonfiava debolmente.
-Non è morto- dissi alla ragazza –Ha perso i sensi.
La ragazza mi guardò con un’espressione di puro odio.
-Sta zitta!
Poi passò una mano sulla fronte del ragazzo e la ritrasse come essendosi
scottata.
-Oh mio Dio, Vegeta…-mormorò guardandosi intorno.
Per un solo lungo istante rimasi ferma a guardare i due. Il nome che aveva
usato non era stata una mia invenzione. L’aveva chiamato Vegeta davvero.
Il ragazzo strinse gli occhi riprendendo lentamente i sensi, ma anche quando si
svegliò li tenne chiusi respirando affannosamente.
Quel ragazzo era Vegeta.
Non il mio Vegeta.
Ma un Vegeta del passato. Magari il trisavolo del mio Vegeta.
Che forse se fosse morto non sarebbe nato il mio Vegeta.
Lentamente e gattonando mi avvicinai a quel corpo martoriato. Era coperto di
polvere e sangue dalla vita fino alla faccia, e le gambe di salvavano in parte perché
coperti da una pelle di qualcosa.
La ragazza mi guardò ma questa volta non mi spinse via.
Si chiamava Celia o qualcosa di simile. Ricordavo quel breve nome pronunciato
dal ragazzo.
-Celia- tentai- ascoltami.
La ragazza continuò a fissarmi con un misto di ostilità e preoccupazione per
Vegeta.
Mi avvicinai ancora al ragazzo e gli poggiai una mano sulla fronte.
-Il tuo amico è ferito e ha la febbre molto alta. Non può proseguire la corsa e
se non facciamo qualcosa potrebbe anche morire.
La ragazza cambiò espressione. A quel “potrebbe anche morire” ogni nota di
violenza sparì dai suoi occhi scuri.
-Quello è il vostro villaggio?-dissi, indicando i fuochi in lontananza.
La ragazza annuii in silenzio. Io mi avvicinai e la presi per il polso sano. –Devi andare subito a chiedere aiuto. Non possiamo portarlo
noi di peso perché se lo spostiamo nella maniera sbagliata l’osso rotto
potrebbe bucargli uno dei polmoni. Dì alla tua gente di portare qualcosa di
piatto su cui trasportarlo.
La ragazza annuì di nuovo con la testa e si alzò di scatto.
Vedendola correre giù dal pendio barcollando per la stanchezza, guardai il
volto del ragazzo e lo sfregio rilucente di sudore.
Vegeta.
Battendo la maglietta per ripulirla, usai una manica per asciugargli e pulirgli
il volto.
Il ragazzo strizzò gli occhi quando la mia mano gli toccò una guancia. Per un
attimo si irrigidì, poi si distese e si lasciò pulire.
Quella scena era molto simile a quando esplose era esploso il Gravital Trainer.
Finii di pulire il volto del ragazzo e fissai la frattura sopra il petto.
Vegeta.
Alla ragazza in lontananza urlai: -Fai in fretta- con tutto il fiato.
Ma non so se lei mi udì.
I Sayan
arrivarono a portare via Vegeta con Spartack e Celia
in prima linea.
Il ragazzo stava male, ma sia Spartack che Talora,
suo figlio e medico del villaggio, convennero che quella notte sarebbe stata
critica, ma il ragazzo aveva bisogno di riposare.
Vegeta venne trasportato in una capanna più fresca delle altre, e Celia venne
curata dal fratello come meglio si poteva.
Per Vegeta non potevano fare altro che attendere l’indomani, e tutti erano
stanchi dalla giornata di combattimento.
Sul villaggio dei Sayan poco tempo dopo l’arrivo del
ragazzo tutti quanti già dormivano.
Soltanto Bulma e Spartack
erano ancora svegli vicino a un fuoco.
La donna aveva seguito i Sayan senza parlare con
nessuno, e nessuno aveva fatto nulla per impedirle di seguirli.
Nella notte buia e senza luna del pianeta Eos, Spartack
fissò la donna che stava orgogliosamente dritta con la schiena e lo fissava
dritto in faccia.
-Celia mi ha detto che hai salvato lei e il ragazzo- disse Spartack.
La donna non si mosse e disse un: -Sì- secco e deciso.
E fu a sentire quella voce, e vedere quel lampo sveglio negli occhi chiari, prima
di scoprire che la donna aveva chiamato Vegeta il ragazzo senza conoscerlo, che
Spartack decise che quella donna poteva tornare utile
per sconfiggere gli Skatos.
Che forse quella era la parte che mancava al loro esercito.
E lui doveva proteggerla come l’arma più potente.
Quella notte quindi Bulma dormì tranquilla, in una
capanna rudimentale e molto più buia di quella degli Skatos.
Ma che nonostante tutto le sembrò meno inquietante.
PARTE UNDICESIMA: IL VILLAGGIO DEI SAYAN
Mentre l'oscurità della notte lasciava il posto alla semioscurità del giorno, nel villaggio dei Sayan, in una capanna riparata dalle rocce, Talora passò lo straccio imbevuto d'acqua sulla fronte ardente di Vegeta.
Al contatto del tessuto freddo il ragazzo non reagì.
Talora prese il polso di Vegeta tra l'indice e il pollice per sentirne il battito. Era lento e regolare, un buon segno, dato che per tutta la notte il ragazzo aveva avuto tachicardie improvvise che l'avevano quasi ucciso.
Talora lasciò il polso e si grattò la testa pensieroso. Fare una stima dei danni che il corpo di Vegeta aveva riportato non era semplice, e non riusciva a rendersi conto di quanto tempo ci sarebbe voluto prima che si riprendesse.
Talora aveva ventisette anni, era ancora un ragazzo, e benchè fosse il medico ufficiale della comunità non conosceva molte cose della medicina avanzata.
Il suo compito era principalmente curare influenze portate dal freddo, tagli e lividi da combattimento, qualche frattura. Ma non gli era mai capitato per le mani una vittima degli Skatos che fosse ancora viva dopo la tortura.
Una vittima che non si poteva permettere di far morire, per giunta.
Talora guardò la pasta di gesso che aveva applicato su parte del petto di Vegeta per immobilizzare la spalla, e sperò che durante la giornata la capanna non diventasse troppo calda, perchè se così fosse stato avrebbe dovuto toglierla rischiando di aggravare le fratture.
Vegeta aveva la febbre molto alta, e Talora era stato titubante all'idea di applicargli il gesso, perchè sapeva quanto caldo tenesse quella sostanza. All'altezza del petto, poi, rendeva anche difficile respirare.
Quando si erano trovati lui e suo padre di fronte alle ferite pulite e le fasciature applicate, con il gesso sciolto pronto per essere passato sulle fasce, Talora aveva fissato Spartack con un' espressione dubbiosa.
-Io non credo che dovremmo farlo- aveva detto -Di sicuro quando starà meglio abbastanza da muoversi glielo dovremmo togliere perchè non riuscirebbe a mettersi in piedi immobilizzato in questo modo. In più adesso di giorno fa caldo. Non vorrei che stesse peggio per colpa delle nostre cure.
Suo padre aveva fissato Vegeta con un'espressione pensierosa, le braccia conserte al petto. Talora l'aveva visto percorrere con lo sguardo ogni depressione, ogni cicatrice, ogni benda, fino a giungere al volto sudato di Vegeta contratto come in preda a terribili incubi.
-Mettigli il gesso- aveva detto Spartack.
Talora stava per replicare quando suo padre si era voltato ed era uscito dalla tenda, dicendo un: -Conoscendo il ragazzo se non lo immobilizzi appena si sveglierà si alzerà forandosi un polmone con le sue stesse ossa. Quindi meglio tenerlo fermo, se possiamo.- secco e autoritario.
E quindi adesso il mattino stava arrivando, e Talora era reduce da una notte insonne passata a controllare il ragazzo e pregare che il giorno dopo non facesse caldo.
Doveva essere passata una mezz'ora dall'arrivo dell'alba, nonostante che con il cielo oscurato fosse ancora quasi notte, così Talora decise di andare a prendere qualcosa da mangiare prima di iniziare una nuova giornata di lavoro ordinario e cure a Vegeta.
Nella capanna Celia dormiva appoggiata malamente alla parete, con un polso fasciato e le coda arrotolata tra la testa e il fango compresso. Talora le aveva detto di andare a dormire nella propria caverna, e che se Vegeta fosse stato meglio l'avrebbe chiamata, ma lei si era messa nell'unico posto del locale in cui non avrebbe potuto dare fastidio a nessuno e aveva detto che sarebbe rimasta lì, senza far rumore.
Talora si avvicinò alla sorella e la scosse con decisione.
-Svegliati ragazzina, io vado a prendere da mangiare.
La coda di Celia scivolò da sotto il volto e gli sferzò debolmente una gamba con un cenno di fastidio.
-Celia!-Talora la scosse di nuovo.
La ragazzina ancora non si svegliò.
Talora sferzò la coda in aria e si rimise in posizione eretta. Si guardò intorno alla ricerca di qualcosa con cui svegliarla nel modo più veloce possibile.
Quando individuò quello che cercava, Talora si avvicinò alla mensola dove era poggiato un recipiente di terracotta pieno di acqua ghiacciata per dare sollievo ai febbricitanti.
Ce n'era un altro apposta per Vegeta, di recipiente, così Talora pensò che svegliare sua sorella fosse una giusta causa per consumare quell'acqua.
La ragazza si svegliò di colpo ed emise un grido di sorpresa quando l'acqua gelida le cadde addosso.
-Ah! Ma che diavolo...
Talora posò il secchio e fissò l'espressione prima confusa poi furibonda della sorella.
-Bel modo che hai per stare a vegliare Vegeta, mocciosa- Talora si diresse versò l'uscita e sulla soglia si voltò di nuovo. -Io vado a prendere da mangiare. Vedi di non riaddormentarti.
Uscendo dalla capanna, Talora immaginò Celia sul punto di urlargli dietro la sua solita trafila di insulti, salvo poi ripensarci vedendo Vegeta addormentato e in preda alla febbre alta.
Allora guardò il villaggio ancora semi addormentato e si diresse verso lo spiazzo tra le costruzioni dove vedeva le braci del fuoco ardere ancora debolmente sotto la cenere.
In giro non c'era nessuno, soltanto alcune capanne lasciate aperte indicavano che il gruppo della caccia era già partito per tornare carico con il pranzo.
Le donne dormivano ancora tutte. Persino di suo padre non vi era traccia.
Talora guardò le capanne arroccate accanto alle rocce e le pelli strappate dei Sayan che si erano trasformati durante l'attacco della notte prima. Il cielo si stava tingendo del solito grigio scuro di tutti i giorni, mentre dietro l'altura argillosa davanti a lui sapeva trovarsi il cielo limpido della città di quegli insulsi esseri dagli occhi bianchi.
Talora sferzò la coda al vento e sentii uno fastidioso formicolio all'altezza del ginocchio destro, dove gli Skatos anni prima gli avevano reciso la gamba dalla rotula fino al piede, e dove da allora il suo peso era sostenuto da una brutta protesi di legno intagliato male.
Era diventato medico quando aveva visto di non poter più combattere.
E da anni il suo sogno era diventare abbastanza bravo da poter fare agli Skatos quello che loro avevano fatto a lui. Solo con dei tagli molto più precisi, e che fossero il più possibile dolorosi.
Talora prese un attizzatoio di legno bagnato e riavvivò il fuoco scoperchiando le braci ardenti. Nel fare ciò si diede cura di tenersi il più possibile lontano dalle scintille. Erano ormai due anni che aveva per protesi quel pezzo di legno malandato, ed era sicuro fosse diventata secca al punto giusto per sorreggerlo perfettamente, ma anche per bruciare in poco meno di mezz'ora.
Il fuoco si ravvivò velocemente e in poco meno di dieci minuti la fiamma era già alta e i picchetti per metterci la carne già incandescenti e pronti all'uso.
Talora si diresse quindi verso la capanna in cui tenevano le provviste, e in quel momento vide dalla capanna accanto sbucare la chioma azzurra della donna rapita da Vegeta.
Quando mi trovai di fronte il giovane Sayan con la protesi al posto della gamba mi resi conto di essere stata avventata ed imprudente.
Mi ero svegliata prima dell'alba, ancora piena di tutto il sonno forzato fatto nella base degli Skatos, e quando mi ero resa conto che nessuno mi aveva nè dato dei vestiti puliti nè portato nulla da mangiare, ero uscita dalla capanna senza curarmi minimante di guardare che non ci fosse nessuno in giro.
Riconobbi subito il Sayan che avevo davanti, e dal modo in cui lui interruppe quello che stava facendo e mi fissò per lui dovette essere la stessa cosa.
Certo, io ero una terrestre rapita dalla tana dei loro più acerrimi nemici e lui uno dei tanti sayan che avevo visto la sera prima, quindi non era ben più facile che lui si ricordasse di me che non io di lui, ma in quel momento anche se po' spaventata all'idea di aver subito incontrato qualcuno, mi resi conto che incontrare lui tra tutti i sayan era stata una fortuna.
Era un ragazzo giovane, dall'aspetto di poco più vecchio del Vegeta di quel mondo.
-Presto, caricatelo qui, e state attenti a non muovergli le spalle, ha l'osso fratturato!
La voce del ragazzo mi tornò in mente insieme alla scena di lui e Spartack che arrivavano per primi. E di lui che dava tutti gli ordini necessari per non ferire ulteriormente Vegeta.
Probabilmente era il medico del villaggio, e dato che fisicamente non sembrava più cagionevole degli altri, pensai che potesse essere per via della gamba che gli era stato assegnato quel ruolo.
Era alto e di corportura robusta, decisamente più alto degli altri Sayan che avevo visto, e il volto aveva un'espressione dura ma non violenta. Portava i capelli lunghi, legati dietro la nuca con un laccio, e il modo in cui stava camminando nell'istante in cui ero uscita lasciava pensare che fossero anni che utilizzava quella protesi.
Aveva perso la gamba per un incidente o combattendo, non per una malattia. Sembrava troppo robusto e in saluta per avere un qualche problema simile all'osteoporosi.
Vedendo che mi fissava con aria inespressiva ma comunque non ostile, decisi di avvicinarmi.
-Ciao- dissi, facendogli un cenno con la mano -Non riuscivo più a dormire e così mi sono alzata...
Mi avvicinai diretta verso il fuoco cercando di sembrare naturale. Non mi sentivo così a disagio come con gli Skatos, in ogni caso.
Il ragazzo mi fissò come se stesse cercando di studiarmi. -La stuoia era troppo dura?
-No, anzi. Solo che dov'ero prima mi hanno fatta dormire per dei secoli e non avevo sonno.
A quel mio "dov'ero prima" vidi il ragazzo cambiare espressione. Anche se con un atteggiamento incerto, lo vidi irrigidirsi e sferzare la coda nervosamente.
I Sayan erano esseri impulsivi, questa era una delle prime cose che avevo imparato in quegli anni con Vegeta, e da come il ragazzo mi stava fissando pensai che con gli Skatos potevo anche fare i miei giochetti, quel Sayan mi avrebbe tagliato la testa al minimo accenno di pericolo.
Mi stava guardando come un leone intento a esaminare uno gnu che sembra troppo grosso per essere catturato.
-Non sono una di Loro. Se è questo che stai pensando
Il ragazzo continuò a fissarmi.
-Sono arrivata qua per sbaglio. Questo non è il mio pianeta. So che ti potrà sembrare assurdo ma sono finita qui per sbaglio, e non so neanche di preciso dove sono rispetto a casa mia. Mi sono persa nell'universo e sono finita sul vostro pianeta, e non hai idea di quanto non vorrei tornare a casa. Quindi fammi il favore di smetterla di guardarmi come se fossi un mostro a due teste, ok?
Il ragazzo che mi fissava assomigliava molto a Vegeta, come atteggiamento. Stava lì con quell'espressione imperscrutabile quando tentavi di spiegargli qualche cosa, come se stesse decidendo di saltarti al collo o ascoltare cosa dicevi.
Un'espressione assolutamente irritante.
Stavo per sbraitare qualcosa in aggiunta, quando improvvisamente il ragazzo si voltò dandomi le spalle, e come se niente fosse sparì all'interno di una capanna.
Cominciavo a pensare che stare in quel villaggio sarebbe stato meno facile del previsto, e cercando di capire cosa fare mi portai le braccia al petto e rimasi ferma accanto al fuoco.
Dalla capanna provenne una serie di rumori e acciottolii, come se stesse scoperchiando dei vasi e cercando qualcosa su delle mensole, poi dopo pochi istanti vidi il ragazzo ricomparire con quella che sembrava della carne in mano.
Si incamminò verso di me diretto verso il fuoco alle mie spalle, il passo quasi perfetto nonostante la protesi. Mentre camminava continuava a guardare la fiamma dietro di me.
-Bhe, allora?-dissi.
Il ragazzo si avvicinò ancora. Era a neanche un metro e mezzo di distanza quando lo vidi fermarsi guardando il fuoco.
-Mi passi quel pezzo di legno vicino ai tuoi piedi?
Guardai accanto al mio piede destro e vidi un bastone di legno umido lasciato in terra. Lo raccolsi e glielo passai con aria ostile.
Lui si servì di quell'arnese per staccare degli spilli di metallo da accanto al fuoco e prenderli per infilarsi la carne a mo' di spiedino, e poi rimetterli piantati nel terreno.
Facendo questo io continuavo ad osservarlo, finchè lui sistemando l'ultimo spiedino non disse: -Non mi guardare con quella faccia. Non ho nessuna intenzione di ucciderti e non so se ce l'abbia Vegeta. Quindi finchè stai con me rilassati, non mordo.
Il ragazzo si sedette, a cinque metri di distanza dalla fiamma viva del focolaio.
-Comunque io sono Talora. Sono il medico del villaggio.
Non capivo se mi stesse prendendo in giro o peggio aspettando il momento per aggredirmi. In quel momento il suo atteggiamento mi confondeva, e forse perchè era stranamente calmo rispetto a come mi ero immaginata i Sayan circa settecento anni prima della nascita di Goku.
Quel ragazzo mi spiazzava.
Mi sedetti accanto a lui e incrociai le gambe nei pantaloncini ormai luridi di sporcizia. -Io mi chiamo Bulma. E non sono una Skatos.
Il ragazzo rise. -Neanche per sbaglio ti si potrebbe prendere per una Skatos.
Anche io risi leggermente di quella considerazione. In effetti lurida com'ero potevo sembrare qualunque cosa tranne che uno di quegli splendidi esseri dagli occhi bianchi.
Con il passare dei secondi continuai a fissare il fuoco domandandomi cosa avrei fatto durante quella giornata. Sentivo la pelle appiccicaticcia e i capelli peini di sporcizia. In quel momento desiderai davvero di poter tornare a casa.
Il volto pieno di tristezza di Lektar mi tornò in mente senza preavviso. All'improvviso mi resi conto che mi dispiaceva averlo lasciato così, e che il vedere quel giovane Vegeta ridotto in quello stato aveva reso ai miei occhi gli Skatos solo dei mostri.
Pensai al "mi dispiace" mormorato di Lektar mentre il pannello dell'allarme lampeggiava al suo fianco.
Lektar aveva lo stesso sguardo che aveva l'altro Trunks, lo sguardo di una persona intrappolata in una vita che non ha scelto.
Chissà cosa stava facendo Lektar e se stava bene?
In quel momento provai tutto lo sconforto che la frenesia delle ore prima non mi aveva permesso di provare.
Gli Skatos avevano la mia macchina, e anche se ero più tranquilla con i Sayan che con quella razza sconosciuta, sapevo che adesso tornare a casa non sarebbe stato più tanto facile.
Pensai a Trunks e a Vegeta e mi domandai se si fossero già accorti della mia sparizione.
Con in testa l'immagine di Vegeta intento a cercarmi in giro per la casa, non mi resi conto che una lacrima mi era scivolata giù da una guancia.
-Mettiti più lontano dal fuoco se il fumo ti dà fastidio agli occhi.
La voce di Talora interruppe i miei pensieri e per un attimo lo guardai senza capire. Poi, quando mi accorsi della traccia umida sulla guancia, con il dorso di una mano asciugai via la lacrima.
-No, va bene così-dissi, grata che Talora avesse fatto finta di non capire.
Il ragazzo controllava la cottura della carne spiandomi di tanto in tanto con la coda dell'occhio.
Aveva un'espressione intelligente, come un barlume negli occhi, e la cosa mi stupì. Gli altri Sayan che avevo visto arrivando al villaggio non facevano altro che urlare e dimernarsi attorno alla barella. Lui e Spartack invece erano perfettamete controllati.
Ora che ci pensavo questo ragazzo somigliava molto al capo del villaggio. Stessi lineamenti squadrati del volto, stessa statura. Persino lo stesso modo di comportarsi.
-Posso chiederti una cosa?
Il ragazzo si voltò. -Mmm?
-Tu sei figlio di Spartack?
Il ragazzo non parve colpito dalla domanda. Di sicuro doveva aver parlato con il padre per decidere come curare Vegeta, e già solo il fatto mi trovassi lì significava che in qualche modo Spartack me ne aveva dato il permesso, però ebbi l'impressione che quella domanda fu come la riprova di ciò che già pensava. E cioè che anche se ero fisicamente debole il mio cervello funzionava eccome.
-Sì, Spartack è mio padre. -Scacciò un insetto dalla protesi, poi aggiunse: -E la ragazza che era con Vegeta ieri è mia sorella Celia.
In quel momento dalla pianura davanti allo spiazzo cominciò a sentirsi un vociare confuso ed eccitato che pian piano si avvicinava.
Talora immediatamente alzò lo sguardo e strizzò gli occhi. Con uno scatto si alzò in piedi ma anche da lì sembrava non riuscire a scorgere quello che cercava.
-Non ti muovere.
Lo vidi alzarsi in volo di qualche metro e sostare un attimo dieci metri sopra la mia testa, poi ridiscendere facendo ben attenzione a poggiare bene la protesi al momento dell'atterraggio.
Anche se lui fece questi gesti con naturale noncuranza, non potei fare a meno di pensare a quanto doveva essergli costato imparare tutte quelle cautele dopo la perdita della gamba.
Talora si avvicinò a pochi centimetri da me e mi prese con violenza per un braccio.
-Forza, alzati. Il gruppo di caccia sta tornando.
Mi sentii sollevare come se ciò non gli costasse alcuna fatica, e quando fui in piedi vidi in lontanaza un gruppo di uomini avvicinarsi con in spalle delle grosse carcasse di animali.
Erano sei, tutti più vecchi di Talora, e parlavano la mia stessa lingua ma con una cadenza che la rendeva quasi irriconoscibile. Sembravano quasi sputare fuori le parole, come se esse fossero dei grumi in gola.
La stretta di Talora sul mio braccio era tanto forte da farmi male.
-Ahia!
Il ragazzo mi fissò per un attimo, poi resosi conto che mi stava ancora tenendo, mi lasciò andare e disse un -Scusa- sbrigativo.
La sua attenzione era concentrata sul gruppo di uomini, e la sua espressione era dura come la postura del corpo.
-Non parlare e non ti muovere per nessun motivo dal mio fianco, capito?- sussurrò, continuando a fissare i sei Sayan.
Non ebbi tempo di rispondere. Mentre facevo di sì con la testa mi accorsi che i sei erano ormai abbastanza vicino da poter vedere sia me che Talora.
Rimasi stordita dal vedere i loro volti. O meglio, dal vedere il volto di UNO dei sei Sayan.
A camminare verso la capanna alle mie spalle c'era un uomo quasi indentico al nostro Goku, con gli stessi lineamenti e gli stessi capelli assurdi, solo più coperto di cicatrici ed escoriazioni.
La somiglianza era talmente impressionante quanto era spaventosa l'impressione che quell'individuo riusciva a darmi.
Mentre i sei si avvicinavano, tutti uomini grandi e grossi carichi di animali morti il cui sangue gocciolava ancora sulle loro spalle, mi resi conto che Talora era soltanto un'eccezione a come erano i Sayan.
Quando mi videro, quegli individui mi guardarono con un'espressione che mi fece rimpiangere di non essere restata nella base degli Skatos.
Un gruppo di lupi davanti a una bistecca.
-Hey, Talora! Vedo che sei andato a cercar compagnia e non ci hai detto nulla!-disse il Sayan che somigliava a Goku. Fermo a pochi metri da me e voltato di tre quarti, vidi il Sayan sorridere con aria maliziosa. - Vedi almeno di lasciarcene un po' anche per noi di questo bocconcino.
Se non avessi avuto l'assoluta certezza che non stesse scherzando l'avrei mandato al diavolo. Ma faticavo persino a respirare con quegli occhi puntati addosso.
Vidi Talora avvicinarsi a me e passarmi un braccio attorno alle spalle. -Questa donna è proprietà di Vegeta, ed è mio padre in persona a occuparsi della sua custodia. Quindi vatti a cercare un'altra femmina, Bardack.
Bardack?
Quel nome non mi era nuovo.
Bardack, Bardack...
Niente, non mi veniva in mente dove potevo averlo sentito.
Forse me ne aveva parlato Vegeta in una qualche occasione, ma non ricordavo di preciso di chi stesse parlando e cosa mi stesse raccontando.
Ad ogni modo, a sentire pronunciare il nome "Vegeta", il sayan si irrigidì, e anche se il barlume ferino nei suoi occhi non sparì le risatine del gruppo e la sua aria così sfrontata sparirono all'istante.
Non sapevo se quello che aveva detto Talora fosse vero, ma in ogni caso aveva sortito l'effetto che speravamo.
Bardack guardò Talora cercando di capire se stesse mentendo poi rinunciò nella sua impresa. -Ok, Talora. Tieniti pure la tua bella aliena. Ma poi vogliamo sapere anche noi dove Vegeta è andata a prenderla.
Detto questo i sei entrarono nella capanna che ormai avevo capito essere la dispensa, depositarono gli animali e uscirono in silenzio ricominciando a vociare solo quando furono lontani.
Talora non staccò lo sguardo dalle loro schiene finchè non li vide sparire in una curva del villaggio.
Quando fu sicuro che si fossero allontanati, Talora tolse il braccio da attorno alle mie spalle e sferzò la coda con violenza.
-Hai detto che ti chiami Bulma?-domandò, tornando a fissarmi.
-Sì...-risposi, mentre ancora stavo guardando il punto in cui il gruppo era sparito.
Talora mi prese per un polso e strinse per attirare la mia attenzione. Quando mi voltai a fissarlo vidi che l'espressione autoritaria di prima non era sparita dal suo volto.
-Allora stammi bene a sentire Bulma, perchè qua c'è bisogno che tu sappia un paio di cose, se non vuoi finire nelle mani delle luride terze classi che hai appena visto, e io sono sicuro che non ti piacerebbe finire nelle loro mani.
Il villaggio stava cominciando a svegliarsi, dalle capanne provenivano rumori di gente appena alzata, acqua presa da recipienti per lavarsi e voci assonnate.
Talora si guardò intornò per essere certo che nessuno fosse ancora uscito. Poi tornò a guardare me.
-Io non so come funzionano le cose nel posto da dove vieni, ma qua se sei una femmina devi stare attenta, e per attenta intendo non andare MAI in giro da sola.
Si fermò attendendo un mio cenno. Feci di sì con la testa.
-Parlo di non essere sola in nessun caso. Quando vai a mangiare, quando vai a dormire, persino quando vai a lavarti non devi essere da sola. Questa notte hai dormito tranquilla perchè buona parte delle terze classi ieri non sono venute a soccorrere Vegeta e quindi non sanno ancora della tua presenza. Ma in questo posto ci sono 300 uomini, di cui 280 terze classi, e io posso sperare che si sparga la voce che sei di proprietà di Vegeta per dissuaderli, ma non posso contare su questa cosa.
Vidi Talora togliersi il laccio dai capelli e porgerlo a me.
-D'ora in poi indossa sempre questo ben in vista, così almeno sapranno che hai a che fare con me e FORSE alcuni desisteranno dal farti del male.
Talora mi guardò mentre mi legavo il laccio al polso. -In ogni caso da adesso in avanti starai sempre con me, o con Spartack o con Celia. Non abbiamo capito perchè Vegeta ti ha rapito e appena si riprenderà vedremo di capirci di più. Per ora la priorità e mantenerti viva e tutta intera, perchè quelle bestie ti farebbero ripiangere di essere morta se ti prendessero. Ci siamo capiti?
Vedendo lo sguardo serio ma preoccupato di Talora, mi resi conto che stare tra i Sayan non sarebbe stato facile. Non lo sarebbe stato per nulla, facile.
Mentre a poco a poco decine di occhi curiosi cominciavano a sbucare dagli uscii delle capanne, feci debolmente di sì con la testa e Talora parve rilassarsi.
Poi si voltò a fissare il fuoco e sferzò violentemente la coda in aria.
-Merda!
Mi voltai verso il fuoco con il cuore in gola al pensiero che qualche altro Sayan potesse avermi messo gli occhi addosso.
-Cosa c'e?
Talora prese il ramo umido che aveva usato prima e toccò una cosa nera infilzata vicino al fuoco.
-Sì è bruciata la carne- imprecò.
Bardack e i compagni di caccia si allontanarono in direzione delle rispettive capanne. Il puzzo del sague rappreso di quelle bestie sulla pelle era quanto di più nauseabondo avessero sentito negli ultimi anni.
-Ma sei sicuro che quegli xhari non fossero malati?- disse Satora, il più grosso di loro e quindi quello che aveva trasportato l'animale più grosso, odoradosi la spalla con una smorfia di disgusto.
-Ma certo che erano sani!-ribattè Rasia. -E poi a noi che ce ne importa? Quelle sono le bestie per le femmine, mica per noi.
-Non ce ne importa niente, ricordati questa cosa per quando le femmine avranno tirato le cuoia e verremo a divertirci con te.
-Non tireranno le cuoia. Al massimo staranno abbastanza male da smettere di urlare in continuo, il che non mi dispiacerebbe.
Bardack lasciava vociare i compagni continuando a pensare allla femmina appena visto con lo zoppo.
-Questa donna è proprietà di Vegeta...
Dannazione.
Vegeta gli avrebbe tagliato la testa se avesse anche solo osato toccarla.
Bardack pensò al volto sanguinario del ragazzo durante gli allenamenti, e a come Vegeta riusciva da solo a mettere al tappeto dieci di loro tutti assieme.
Però ....
Bardack lasciò i compagni ed entrò nella propria capanna. La femmina che aveva lasciato il mattino presto e di cui non ricordava nemmeno il nome dormiva ancora in posizione scomposta come una bestia sporca e piena di zecche.
I capelli ricadevano dalla stuoia sulla terra piena di ogni sporcizia, ma quei capelli non davano l'idea di essere più puliti della terra su cui poggiavano.
Bardack con un calcio svegliò la femmina pensando a quell'aliena dai capelli chiari.
La femmina emise un mugugnio di disappunto e si girò dall'altra parte probabilmente sperando di riuscire a fingersi addormentata.
-Smettila di fare finta, lo vedo che sei sveglia.
Bardack lanciò un nuovo calcio al costato della donna, e questa volta colpì più forte tanto per ribadire che non amava essere preso per il culo.
Mentre la donna cercava di divincolarsi e lui tenendola ferma con il proprio peso la possedeva con la forza, Bardack pensò a quell'aliena dall'aria dura e combattiva.
Non gli sarebbe spiaciuto farle passare quella smorfia di superiorità dal bel faccino liscio e pulito.
E in fin dei conti Vegeta era malato.
Spartack e lo zoppo non potevano tenerla con loro all'infinito.
L'impressione della somiglianza fra Talora e Spartack che avevo notato vicino al fuoco ebbe una veloce conferma quando vidi comparire Spartack nella capanna.
Mi ero seduta su una specie di sacco, e Talora stava controllando con attenzione le vesciche di cui erano coperti i miei piedi sporchi. La notte prima ero stata troppo stanca e stordita per rendermene conto, ma dall'altura al villaggio avevo percorso alcuni chilometri senza scarpe e su un terreno tutt'altro che liscio.
Talora mi aveva già medicato le sbucciature su mani e braccia di quando ero caduta con Vegeta giù dal pendio, e mi stava fasciando il secondo piede quando sentimmo dei passi decisi avvicinarsi e poi Spartack varcare l'uscio del locale.
-Sei qui, bene - disse, con tono serio per dissimulare il fatto che con ogni probabilità temeva di non trovarmi e che fossi sparita.
Talora lasciò un attimo la mia fascia e cambiò il panno umido sulla fronte di Vegeta. -Vicino al fuoco abbiamo incontrato Bardack e quelli che sono andati a caccia. Non mi fidavo a lasciarla là fuori da sola
-Hai fatto bene- disse Spartack. Subito dopo lanciò uno sguardo a Celia che stava appoggiata alla parete addormentata come un sasso. -Problemi con il polso?
Talora si voltò a guardare la sorella e scrollò le spalle. -Nessun problema. Ha solo perso molto sangue e ha bisogno di riprendersi. Ho provato a svegliarla prima ma quando sono tornato dormiva di nuovo. Le ho detto di andare nella sua capanna ma non ne ha voluto sapere. Ha paura che Vegeta si svegli quando lei non c'è.
Vidi padre e figlio scambiarsi un'occhiata che definire eloquente era riduttivo. Osservandò il volto della ragazza addormentata, i suoi lineamenti dura ma attraenti, la posizione con cui stava appoggiata alla parete come pronta a svegliarsi in ogni momento, non mi stupì il fatto che a salvare Vegeta avessero mandato proprio lei.
Era indubbiamente una ragazza forte e di cui loro si fidavano, e in più si sarebbe fatta ammazzare piuttosto che tornare senza Vegeta.
Anche lei era coperta di cicatrici.
Rendendomi conto che in quella stanza c'erano tre ragazzi giovani di cui uno senza una gamba, una con una mano quasi mozzata e uno mezzo morto, pensai che non mi importava della bontà di Lektar e della buona fede della sua razza.
Nella loro base non avevo visto nessuno nelle condizioni di quei ragazzi, e gli Skatos se ne stavano nella loro città illuminata a giorno mentre i Sayan vivevano tra gli stenti come animali.
Non era giusto che gli Skatos avessero tutto, nemmeno se il pianeta era loro da prima dei Sayan.
Possibile che in un globo così grande non ci fosse posto per tutti quanti?
Talora controllò per l'ultima volta la fasciatura al mio piede e si alzò finalmente in piedi, sgranchendosi la gamba sana e la schiena.
-Dobbiamo trovarle qualcosa da mettere ai piedi- disse Talora a Spartack -Se no le fasciature non faranno altro che trattenere la sporcizia.
Spartack annuì e per un attimo parve pensare ad una possibile soluzione.
-Chiederò alle femmine di fargli un paio di calzature su misura. Dalla dispensa ho sentito arrivare un tanfo terribile, quindi il gruppo di Bardack come suo solito non ha fatto altro che cacciare bestie malate. Dirò di fare alla donna delle scarpe usando quelle pelli.
Talora annuì convinto e per un attimo padre e figlio rimasero a guardarsi.
Poi, Spartack puntò la sua attenzione su di me.
-Allora, Burma...
-Bulma- lo corressi.
-Bulma- ripetè Spartack, mentre Talora pareva stupito della decisione con cui avevo corretto la pronuncia. -Cominciamo dicendo che non ho la più pallida idea del perchè il ragazzo abbia deciso di portarti qui, e non ho neanche la più pallida idea di chi tu sia dato che non sei una Skatos e non sei una Sayan. Per tua sfortuna, o fortuna a seconda dei punti di vista, hai già avuto modo di vedere con che gente avrai a che fare, e Talora dovrebbe averti dato dei consigli su come comportarti.
-Sì, mi ha detto di non restare sola.
-Non restare sola, appunto, e anche quando non sei da sola usa molta cautela, perchè le terze classi hanno paura di me e mio figlio, ma l'uomo è uomo e l'istinto rende irrazionali, se capisci cosa intendo.
-Credo di capire.
-Sono sicura che capisci.
Spartack estrasse dalla tasca cucita nella pelle che usava come indumento una specie di pillola e si voltò verso Talora.
-Dai questa al ragazzo. Sua madre mi disse di usarle per le emergenze, e questa è un'emergenza.
Spartack diede la pillola a Talora, che la guardò con aria interrogativa.
-E' una delle "loro" medicine?- chiese il ragazzo, come se in mano stesse tenendo un oggetto leggendario.
Bardack scrollò le spalle. -Sulla confezione c'è scritto "per guarire", e non credo che gli Skatos divertano a fare etichette diverse dal loro contenuto.
Io osservavo quella scena senza capire.
Quella pillola sembrava una specie di aspirina, eppure Talora lo fissava come se fosse la pietra filosofale.
Spartack notò la mia espressione incuriosita. -Anni fa la madre del ragazzo riuscii a portar via degli oggetti da una base degli Skatos. E una confezione di queste pillole faceva parte del bottino.
La madre del ragazzo?
Stavo cominciando a collegare i pezzi che avevo di quella storia, quando Talora prese la pillola e la mise sotto la lingua di Vegeta. Il ragazzo la ingoiò e l'effetto che essa ebbe fu molto simile a quello dei Senzu.
La madre del ragazzo era la donna che era entrata nella base degli Skatos perchè il figlio stava male. Molto probabilmente quel figlio era Vegeta stesso.
Ecco perchè Lektar era rimasto stordito dal vedere il ragazzo ferito nel corridoio.
Il predecessore di Lektar, Falen, aveva accolto la donna e Vegeta, salvo poi che lei e il figlio erano scappati portando via della refurtiva.
Lektar conosceva già Vegeta, e anche Jasper che del ricordo di Falen aveva ereditato la parte del tradimento.
Era stato Jasper a fare del male a Vegeta, e era del ragazzo il sangue che lo Skatos aveva sulla manica.
Ancora mi sfuggiva il motivo di tanto accanimento, ma poco per volta vedevo che i frammenti di quella storia cominciavano a ricomporsi.
Non sapevo nemmeno come si era sviluppata la fase del tradimento, ma era molto probabile che la donna avesse già avuto in mente l'idea di impietosire i nemici scienziati, e che Falen fosse cascato nel piano.
Guardai il volto del ragazzo tornare di un colore bronzeo naturale e la coda alzarsi debolmente fino a sventolare sempre più forte.
Era ancora immobilizzato dal gesso sulla clavicola, ma quando aprì gli occhi vidi Spartack sorridere e Talora fissare Vegeta con un'espressione di assoluto stupore.
Il ragazzo parve confuso. Guardò Talora, poi Spartack.
Solo quando ebbe guardato tutta la stanza, e per puro caso si voltò in mia direzione, dove evidentemente si tenevano i medicinali e di solito non c'era mai nessuno, che il suo volto divenne serio.
-Come fai a conoscermi?-disse Vegeta, con un filo di voce così familiare che mi sembrò di aver davanti il mio Vegeta venti anni più giovane.
-Come fai a
conoscermi?
La voce del ragazzo era forte e la pronuncia ben scandita, diversa dal rantolio
sofferente che avevo sentito nella base degli Skatos.
Anche i suoi lineamenti erano diversi. Senza più la contrattura portata dal
dolore e con un nuovo bagliore vitale negli occhi scuri, mi resi conto che quel
ragazzo era davvero identico a Vegeta. Mio figlio sarebbe stato così se avesse
preso da suo padre.
Lo fissai per un lungo istante senza riuscire a distogliere gli occhi dalla sua
espressione indagatoria.
Al mio fianco Spartack fissò con attenzione prima me
poi Vegeta.
-Conoscerlo?
Vegeta emise un brontolio e cerco di tirarsi a sedere, ma a causa del gesso
ricadde subito sulla schiena. In un ambito normale quel gesto sarebbe stato
divertente. Come un tartaruga che tenta di rimettersi dritta dopo essersi
rovesciata sul guscio per sbaglio. Ma in tutti quei gesti Vegeta non distolse
mai lo sguardo da miei occhi, e anzi man mano che tardavo a replicare
l’ostilità sembrava crescere.
Al contrario Spartack sembrava curioso. Non
spaventato o preoccupato, soltanto curioso e sottilmente divertito dalla scena
del ragazzo simil-tartaruga.
Mentre tornavo ad avere tutti gli occhi puntati addosso, pensai che forse era
meglio temporeggiare.
-Sì, ieri nella base degli Skatos ho pronunciato il
suo nome pur non conoscendolo. Spartack continuò a fissarmi aspettandosi che
continuassi, ma io non sapevo cosa aggiungere.
-Gli Skatos ci stanno studiando, non so come ma ci
stanno studiando per distruggerci!-proruppe Vegeta –E dannazione Talora, levami
questa roba di dosso!
All’alzata improvvisa del tono di Vegeta Celia si svegliò di colpo. La ragazza
scostò si scatto la testa dal muro e con un gesto meccanico saltò in piedi,
assumendo una strana posizione di guardia. –Cosa succede, ci attaccano?
Talora fissò la sorella e notò che in tutti i gesti non aveva mosso il polso.
–Lascia stare Celia. Siediti.
L’atmosfera nella capanna era confusa e piena di sentimenti contrastanti. Spartack continuava a fissare prima me poi Vegeta con
curiosità, Vegeta invece non smetteva di fissarmi con una diffidenza che era in
gran parte dettata dalla paura. Sembrava turbato dal mio comportamento del
giorno prima, perché gli avevo salvato la vita e mostrato un attaccamento che
non sarebbe dovuto esistere, ma al tempo stesso sapeva ciò fosse accaduto nella
tana dei suoi nemici.
Chi sei?- sembravano dire i suoi occhi.
Io nondimeno non sapevo cosa dire. Come potevo spiegare loro la verità e
sperare che mi credessero? Per quanto ne sapevano, sarei davvero potuta essere
un’aiutante degli Skatos addestrata a confondere i Sayan fingendo attaccamento nei loro confronti.
Vegeta era diverso da Talora, molto più Sayan nel
senso ortodosso del termine, rispetto al ragazzo e a suo padre.
Era in preda a una confusione che lo irritava e spaventava, esattamente come il
mio Vegeta quando si allenava pensando a quel ragazzo del futuro di cui non
conosceva l’identità. Era pronto ad attaccarmi per evitare di essere attaccato.
Ma Spartack e forse anche Talora sembravano dell’idea
di permettermi di spiegarmi.
Mentre Talora controllava il polso della sorella, poi prendeva un paio di
grosse forbici e cominciava a incidere il gesso sul petto di Vegeta, mi resi
conto che Spartack si era avvicinato al sacco su cui
stavo seduta.
-E così tu conoscevi il nome di Vegeta senza conoscere Vegeta…-
disse.
Mi fissai i piedi fasciati poi tornai a guardare Spartack.
–Esatto.
-E immagino che ci sia una buona spiegazione a tutto questo…
Un sonoro Clank precedette il tonfo del gesso che
cadeva in terra. Vegeta sembrava assorbito a realizzare se le sue ossa erano di
nuovo tutte intere, sotto la supervisione di Talora e Celia.
Tornai a guardare Spartack. –Non credo che mi
crederesti se ti dessi la mia spiegazione.
Anche Spartack si rese conto che nessuno prestava
ascolto a quello che io e lui stavamo dicendo. Con noncuranza si sedette su un
grosso sacco poco distante dal mio.
-Tu prova, ti assicuro che sono poche le cose in grado di stupirmi.
Non so per quale motivo quel Sayan mi ispirasse
fiducia, ma in quel momento provai la stessa tranquillità di quando ero uscita
dalla capanna e avevo visto Talora attizzare il fuoco. Potevano essere i
lineamenti, o l’espressione calma e non ostile dei loro volti, ma Spartack e suo figlio erano molto più simili a me di quanto
non lo fossero mai stati Goku e tanto meno Vegeta. Spartack mi studiava, analizzando gesti ed
espressioni, come io avevo studiato gli Skatos una
volta nella base.
Poteva vedere che ero innocua, forse non in generale, ma per loro non ero un
pericolo.
Dovevo farmi forza e sputare fuori la
verità. Solo se l’avessi fatto forse sarei tornata a casa.
-Io vengo dal futuro. Nel mio mondo vivo con un Sayan
che si chiama Vegeta ed è molto simile a quel ragazzo, per questo quando ho
visto che se non l’avessi fermato si sarebbe ucciso con un’arma degli Skatos istintivamente ho urlato il suo nome.-
Sospirai tra me e me.–Non sapevo che si chiamasse anche lui Vegeta. Spartack non parve sorpreso dall’udire le mie parole,
o forse se lo fu riuscì a fingere molto bene. Con un gesto naturale accavallò
le gambe e controllò Vegeta e gli altri.
-Dal futuro…
Mi fissai di nuovo i piedi. –Sì.
-Quanto futuro?
Anno 75 della galassia di settentrione. –Circa settecento anni. Spartack fissò l’uscio della capanna.
-Settecento anni…
-Sì.
-E tu vivi in una comunità Sayan?
Sollevai di nuovo lo sguardo e guardai gli occhi di Spartack.
Come potevo dire a un uomo che stava combattendo per far avere una casa alla
propria gente che anni dopo quella casa non sarebbe più esistita? Come potevo
trovarne il coraggio?
Pensai allo sguardo del mio Vegeta quando uscendo dal trainer si perdeva un
attimo a fissare il cielo.
Come potevo dire la verità? Spartack mi stava fissando come aveva fatto anche Lektar. Come se riuscisse a vedermi dentro.
Come potevo mentire?
-Nel mio mondo non esistono comunità Sayan. Il mio
pianeta si chiama Terra, e il Vegeta che conosco io vive con me tra i suoi
abitanti.
Mi fermai un attimo e guardai Spartack.
-Nel mondo gli unici Sayan rimasti sono lui e un mio
amico. Gli altri sono tutti morti.
Vegeta roteò il braccio a 360 gradi
tenendosi ferma la spalla con una mano esattamente come gli aveva detto di fare
Talora. Gli sembrava impossibile riuscire ancora a muoversi, e l’osso girava
con una facilità che gli era persino sconosciuta. Sembrava che improvvisamente
i segni delle vecchie fratture fossero spariti. Non si ricordava nemmeno
l’ultima volta in cui non aveva provato un leggere senso di fastidio nel
compiere quel gesto.
Accanto a lui anche Celia continuava a non capire. Fino alla sera prima Vegeta
era stato in fin di vita, anzi, se ci pensava, persino in quei pochi istanti in
cui era stata sveglia verso l’alba Vegeta aveva ancora la febbre alta. Eppure
adesso sembrava guarito di colpo, e persino più in forma di prima dell’attacco
alla base degli Skatos.
Com’era possibile che fosse guarito così
in fretta?
Celia guardò con la coda dell’occhio la donna dai capelli azzurri che stava
seduta accanto a suo padre. Stava con la testa china e un’espressione
preoccupata in viso che non faceva che irritarla. Magari era una Skatos e aveva dato delle medicine strane a Vegeta. Magari
quello non era neanche Vegeta ma una macchina uguale a lui costruita dagli Skatos. Celia tornò a fissare Vegeta e notò che per un
istante anche lui si era distratto ad osservare quella donna.
Quell’aliena non le piaceva.
E non le piaceva nemmeno il fatto Vegeta la guardasse con tanto interesse. Lui
non aveva mai guardato lei in quel modo.
Terminato il movimento rotatorio anche all’altra spalla, Vegeta fissò Talora
che stava inginocchiato davanti a lui. –Cosa mi hai dato?
Talora di rimando scosse le spalle e posizionò meglio la protesi in
equilibrio sul terreno. –Una delle medicine che tua madre prese dalla base
degli Skatos quando eri piccolo. Ti ha guarito in
meno di due minuti.
Vegeta chinò gli occhi a fissarsi un braccio e strinse il palmo su sé stesso,
prima una, poi due, fino a sei volte.
Si sentiva dannatamente bene, doveva proprio ammetterlo.
Eppure poco per volta insieme alle forze cominciava anche a ricordare.
Non quanto era successo con l’aliena, ma quanto era successo prima. Si vide
comparire davanti il volto dello Skatos con il
martello in mano.
Improvvisamente Vegeta sentì salire in sé una rabbia talmente forte che avrebbe
voluto essere fuori per sfogarsi picchiando qualcuno.
Aveva scoperto un punto debole degli Skatos, ma ciò
non cambiava il fatto si fosse fatto catturare come un ragazzino.
Vegeta guardò la donna che a bassa voce parlottava insieme a Spartack.
-Che cosa ti hanno fatto, Vegeta?
Chi era quella donna?
-Che cosa ti hanno fatto…
Chi era?
Vegeta lasciò cadere l’ultimo pezzo di gesso con studiata pesantezza.
-Non ti sembra il caso di parlare anche con noi, aliena?
La donna sollevò lo sguardo e piantò gli occhi azzurri dentro i suoi.
-Mi chiamo Bulma. Non aliena, VEGETA.
Scandì quel Vegeta affinchè lui potesse udirlo bene,
con un tono deciso che a dire il vero lo stupì.
Vegeta si rese conto che quella non era più la stessa donna che aveva visto
andargli incontro in lacrime, con quel suo corpicino debole e le mani protese
verso il suo petto martoriato.
Era una donna che osava correggerlo quando parlava, e sembrava persino abituata
a usare quel tono con i più forti.
Vegeta si alzò in piedi con l’intenzione di intimorirla anche se
inconsapevolmente, ma la donna non sembrò sorpresa, né impaurita dal suo gesto.
Accanto a lui Vegeta scorse Celia guardare torvo l’aliena, e Talora fissare lui
come in attesa di intervenire.
Di rimando lei continuava a fissarlo in faccia. Non distoglieva lo sguardo,
anche se nei suoi occhi non era proprio sfida quella che leggeva.
Quella donna lo confondeva, e non gli era mai capitato di sentirsi”confuso” in
vita propria.
Quella donna aveva uno sguardo che sembrava scavargli dentro. Una coltre dura
nel colore azzurro, eppure un barlume di fondo che non era cattiveria, bensì
forse un attaccamento che non comprendeva. Come la madre che sgrida il figlio
per evitare che si ferisca.
Eppure in ogni caso quella situazione lo infastidiva.
Quella donna lo fissava, e nessuna donna aveva mai osato fissarlo in maniera
così sfacciata.
Persino Celia abbassava gli occhi quando durante i loro amplessi si ritrovavano
a fissarsi. Era questione di gerarchia. Ma quella donna continuava.
Seduto accanto all’aliena dai capelli azzurri, Spartack
osservava la scena senza accennare alcun movimento.
Il ragazzo si sentiva minacciato, e lui stesso comprendeva che quell’aliena pur
essendo fisicamente così debole era dotata di un carisma che nulla aveva da
rimpiangere a uno qualsiasi di loro sayan. Spartack osservava Bulma
cercando di captarne ogni minima reazione, alla ricerca di qualcosa che la
smentisse o le desse ragione.
Era abituata a trattare con uomini forti, questo lo riconosceva, ma non era
sicuro che ciò bastasse per credere alla sua storia. Spartack considerò che forse quella donna poteva
essere una trappola. Una specie di regalino per vendicarsi dello scherzo di
anni prima, quando lui e suo padre avevano concordato di mandare la madre di
Vegeta ad abbindolare i nemici e derubarli.
Forse quella donna era solo una bella trappola, ma se era una di Loro doveva
riconoscere che bè, era nata per mentire. Spartack vide Vegeta avvicinarsi e fece cenno a
Talora di non muoversi. Il ragazzo si avvicinò alla donna e lei non smise mai
di guardarlo in faccia.
-Io ti posso chiamare come voglio- disse Vegeta, quando fu a neanche due metri
dalla donna.
E in tutta risposta lei accennò un sorriso e scrollò le spalle con sarcasmo. –Fà come credi. Io rispondo solo a chi mi chiama per nome.
In quel momento Celia scattò in piedi e si avvicinò alla donna come una furia.
-Non permetterti di parl…
-Celia!
Al rimprovero di Vegeta la ragazza si bloccò come colpita da uno schiaffo.
Senza che Vegeta dicesse nulla, Celia rientrò nei ranghi, borbottando qualcosa
che nessuno nella stanza riuscì a capire.
Vegeta non si mosse e represse l’impulso di stringere i pugni dal nervosismo.
Quella donna lo fissava.
Non smetteva mai.
In quel momento pensò che non capiva perché diavolo avesse scelto di rapirla,
rendendosi conto che quando l’aveva trascinata via con sé l’aveva fatto per
salvarla più che per farla schiava.
Si chiese se per caso non fosse stato un sogno, lo sguardo preoccupato e la
voce rotta con cui quell’aliena l’aveva chiamato e gli aveva liberato il collo
dall’anello di metallo.
Quella che adesso lo fissava non era più la stessa donna.
E lui non sapeva nemmeno come schernirla, ecco cosa lo infastidiva.
Stava per dire qualcos’altro, quando un rumore di stoviglie rotte e le urla
scomposte di alcune donne e uomini proruppe dalla piazza.
Vegeta riconobbe le voci di Bardack e Satora, e l’aliena dagli occhi azzurri parve riconoscerle
anche lei. Vegeta la vide irrigidirsi e passare a guardare Talora con
espressione preoccupata.
-Vado a vedere che succede- disse Vegeta, e senza attendere risposta lasciò la
capanna e la strana aliena.
Mentre si dirigeva verso la stupida rissa scoppiata per la colazione, Vegeta si
passò un dito sullo fregio della guancia.
Sembrava essere più caldo, tanto quella donna aveva insistito nel guardarlo.
-Non si può certo dire tu non abbia fegato, Bulma.
Vegeta era uscito da poco più di alcuni istanti, e seduto accanto a me Spartack si stiracchiò come lo spettatore di un cinema alla
fine dello spettacolo.
Sentivo sulla guancia destra lo sguardo ostile della giovane Sayan, e sebbene cercasse di stare serio, persino Talora
era divertito da quel breve scambio di occhiate e frecciatine che era avvenuta
tra me e il loro Vegeta.
Ora che non era più in fin di vita quel ragazzo assomigliava ancora di più al
mio Vegeta durante i primi tempi della nostra convivenza. Lo stesso piglio
arrogante, lo stesso senso di superiorità. Persino lo stesso imbarazzo nel
vedere che non ero per nulla debole come pensava.
L’espressione stizzita e al tempo stesso imbarazzata che gli era apparsa in
volto alla mia ultima risposta era uguale a quella del giorni in cui gli avevo
portato la camicia rosa. Quel ragazzo era Vegeta, e lo era in sensi persino più
profondi della mera somiglianza fisica.
Sarebbero potuti essere lo stesso uomo, solo in età diverse della vita.
Solo che in questo ragazzo vedevo una luce diversa nello sguardo. Non la nota
amara degli occhi del mio Vegeta, bensì gli occhi comunque di un ragazzo
cresciuto in guerra ma non da solo. In questo Vegeta non leggevo la
disperazione che vedevo negli occhi del mio. Questo Vegeta era un guerriero, ma
non l’erede guerriero di un mondo morto.
Forse anche per questo mi ero lasciata trasportare dalla mia voglia di
provocare. Rivedendolo in salute l’enorme pena del giorno prima aveva ceduto
alla vista di un ragazzo giovane e impulsivo, tanto testardo da essere
divertente da provocare.
Vedendolo uscire con il piglio del capo branco, più che amarezza mi era venuto
da sorridere, e sebbene in un altro mondo e in un altro tempo, questo Vegeta
non mi era sembrato molto diverso da Trunks quando
cocciutamente andava a sistemare i bambini che all’asilo prendevano in giro i
suoi amichetti.
Il rumore delle voci si smorzò a poco a poco, finchè
l’unica rimasta fu quella del Sayan che Talora aveva
chiamato Bardack, assieme a quella di Vegeta.
Talora si era seduto a per controllare la fasciatura del polso della sorella.
Senza curarsi di ciò che stava succedendo fuori nella piazza, Spartack tornò a fissarmi alzandosi in piedi per
sgranchirsi.
-Non ho mia visto nessuno capace di zittire Vegeta, se ti interessa saperlo-
disse.
Dall’altra parte della stanza Celia sbuffò infastidita.
-Non so quanto ciò possa servirmi, dato che sto in un posto dove tutti lo
rispettano- dissi. Spartack andò all’uscio della capanna e guardò fuori
per un istante, poi rientrò e chiuse la porta.
-Non hai nulla da temere. Vegeta è un ragazzo impulsivo ma non è una terza
classe. –Mi fissò per sincerarsi che gli credessi. –Se avesse voluto ucciderti
l’avrebbe fatto prima quando stava in piedi davanti a te, quindi non hai nulla
da temere. Spartack sollevò lo sguardo in direzione della
finestra. –Purtroppo per te le persone che potrebbero darti noia sono molte di
più che Vegeta da solo, in questo villaggio.
Anche se fino ad allora non aveva più parlato, Talora distolse lo sguardo dal
polso della sorella. –Dobbiamo tenere d’occhio Bardack,
padre.
Osservando la giovane Sayan che stringeva i denti per
non mostrare sofferenza, pensai a quanto dura dovesse essere vivere lì per una
donna. Lo sguardo ferino di quel Goku malvagio mi tornò in mente
all’improvviso.
-Ma come potete tenere nella vostra comunità gente così?- mi lasciai sfuggire.
Ci fu un istante di silenzio in cui la voce di Vegeta arrivò forte e chiara
alla capanna. Come se avesse dato un ordine o un comando, poi il silenzio più
assoluto.
In quel preciso istante Bardack rise.
-Più o meno per lo stesso motivo per cui teniamo le aliene del futuro- disse.
–Siamo stati un po’ tutti rifiutati da qualche buco dell’universo.
Vegeta sedò il tafferuglio nato attorno a una carcassa mezza marcia su chi fra
il gruppo di terze classi avesse diritto alla parte meno marcia.
Quella bestia emanava un fetore orrendo, e Vegeta provò disgusto all’idea che Satora e un altro si fossero picchiati pur di mangiare
quello schifo.
A fomentare tutto neanche a farlo apposta era stato Bardack,
quell’emerita testa di cazzo di una terza classe.
Vegeta rise nel vedere l’espressione compiaciuta dell’ex compagno di
allenamenti mentre i due Sayan si prendevano a pugni
facendo cadere il proprio sangue su quello già rappreso della bestia.
-O guarda chi è tornato dal mondo dei morti!- disse Bardack
quando lo vide avvicinarsi.
Vegeta lanciò un’occhiata a Bardack, poi prese i due Sayan per i capelli facendo cozzare le loro teste una
contro l’altra.
-Dateci un taglio, razza di imbecilli! Quella bestia è talmente putrefatta che
potremmo usarla per uccidere gli Skatos!
I dueSayan
caddero in terra e Satora nell’indietreggiare
inciampò nella bestia rovinandoci sopra. Sotto il peso del suo corpo il torace
dell’animale si sfondò, e un folto gruppo di vermi e larve uscì dalla fenditura
ricoprendo la terza classe ancora stordita e riempiendo l’aria di un fetore
ancora peggiore.
-Pezzi di idioti- mormorò Vegeta allontanandosi da quella scena immonda. Bardack lo attendeva appoggiato alla parete della
propria capanna, con quell’aria compiaciuta da Sayan
convinto di aver capito il mondo.
-Mi avevano detto che eri praticamente schiattato- disse Bardack,
ponendo l’accento sul fatto lui non si fosse mosso di un millimetro in tutta
quella storia.
Vegeta si fermò pensando che avrebbe voluto spaccargli la faccia e al tempo andarcisi ad allenare assieme, con quella zucca vuota.
-Sono molto più resistente di quanto tu non creda- disse, assumendo la stessa
aria sarcastica di quello che era stato il suo rivale durante l’infanzia.
Erano rivali e amici da una vita, se in qualche modo ci si potesse definire
“amici”, in quel posto maledetto da Dio. Non avevano nulla in comune se non
l’essere stati abortiti da chissà che pianeta, eppure fin da piccoli avevano
provato un certo gusto nel picchiarsi e farsi male in esclusiva.
Vegeta poi era salito in graduatoria, diventato figlio adottivo del capo
comunità e primo guerriero nelle spedizioni. Bardack
invece era rimasto debole e in mezzo a guerrieri che non valevano neanche la
metà di lui benché lui non valesse già granchè.
Da qualche anno non si allenavano più assieme, e nessuno aveva cercato di
continuare perché il divario era ormai diventato troppo grande.
Vegeta in un certo senso era legato a Bardack, ma
allo stesso tempo comprendeva l’invidia che serpeggiava ogni volta tra di loro.
Da un po’ di tempo si tenevano a distanza, perché la loro vita era ormai così
diversa da non poter divergere in nulla di buono.
Eppure quel giorno Vegeta vide un bagliore strano negli occhi del Sayan, come se lo stesse studiando per capire quanto
effettivamente stesse bene.
Solo una volta di nuovo nella capanna, Talora gli raccontò di come Bardack aveva guardato male l’aliena dai capelli azzurri.
-Dal futuro. Certo, come no.
Celia emise una risata sarcastica finendo da sola di fasciarsi il polso.
Talora invece mi fissava in silenzio, con un misto di curiosità e timore.
Nemmeno lui era convinto che stessi dicendo al verità, e sentivo di non poterlo
biasimare.
Era stato Spartack a intimarmi di spiegare ai figli
quello che prima avevo detto a lui, e mi aveva fatto aggiungere altre
informazioni sulla mia condizione.
Come ad esempio che ero una scienziata. E che quel Sayan
di nome Vegeta che io dicevo “vivere” con me era in realtà il mio “compagno”.
Non mi avevano ancora chiesto nulla riguardo a come fossi arrivata lì, e io mi
ero ben guardata dal dire loro che sarei dovuta tornare dagli Skatos per riprendere la mia macchina.
Accanto a me, in ogni caso, Spartack sembrava l’unico
a essersi convinto della mia storia.
-Era inutile tenere dei segreti- disse lui –anche se non so quanto la tua
storia potrà esserci utile. In ogni caso tu non puoi provare di essere chi dici
di essere e noi non possiamo provare il contrario, quindi non ci resta che
tenerti qui e vedere se essendo una “scienziata” potrai tornarci utile.
Avevo maledetto mille volte in quell’ora di non avere dietro un documento o una
foto di Vegeta.
Una foto Vegeta. Più o meno come rammaricarsi di non aver portato con me un
intero armadio di vestiti.
Stavo per arrendermi all’idea di essere davanti a un vicolo cieco, quando un
insetto mi si posò sul collo e istintivamente con una mano lo scacciai. E fu allora
che mi resi conto che forse una prova ce l’avevo. -Spartack?
Il sayan si voltò incuriosito dal mio tono incerto.
–Sì?
Mi passai di nuovo la mano sul collo, sotto il tessuto della maglietta. –Forse
c’è una cosa che potrebbe provare la mia storia.
E così dicendo tirai giù la maglietta quanto bastava perché i tre potessero
vedere.
Il segno rosso dei denti di Vegeta con cui lui aveva siglato la nostra unione
dopo la partenza di quel figlio che non era nostro.
Il segno rosso sul collo dell’aliena era troppo familiare per poter essere uno
scherzo.
Vegeta entrò nella capanna giusto in tempo per vederlo, e per vedere lo stupore
dipinto sul volto dei tre compagni.
La donna si voltò sentendo il rumore dei suoi passi.
E quel segno rosso era così evidente come l’azzurro di quei occhi.
Vegeta fissò il segno e poi gli occhi dell’aliena.
Chi diavolo era quella donna?
-Quella donna vi sta prendendo in giro!
Celia staccò un pezzo di carne dallo spillone di metallo con fare molto poco
aggraziato. Era la quarta volta che ripeteva quella frase, mentre Talora e
Vegeta discutevano animatamente su quello che l’aliena aveva appena raccontato.
Stavano seduti intorno al fuoco, l’aliena e Spartack
poco prima erano andati via dalla capanna. Ufficialmente per andarle a
procurare delle nuove calzature. Ufficiosamente per parlare lui e lei da soli.
Vegeta prese anche lui dal fuoco uno spillone e addentò la carne appena cotta.
La bestia che avevano tagliato era la migliore della dispensa. Ottima per
rifocillare dei guerrieri valorosi, anche se grazie a quella strana medicina
Vegeta sentiva tutto fuorchè la fame.
-Quella donna mi irrita terribilmente- disse Vegeta –ma non credo sia una
bugiarda.
Talora bevve un lungo sorso d’acqua e osservò il cielo grigio del primo
pomeriggio. –Neanche io credo che menta.
-Senza contare che anche Spartack le crede-
puntualizzò Vegeta.
-Già.
Celia calciò un rametto proprio al centro del falò. –E con gli Skatos come la mettiamo? Vi siete dimenticati che quella
era con loro fino a ieri? Potrebbe essere una macchina studiata da quei mostri
per quel che ne sappiamo.
Vegeta e Talora tacquero e si guardarono.
Celia non aveva tutti i torti, e anche se parlava più per antipatia che per
timore, Vegeta sapeva che la sua ipotesi non era poi così irrealistica.
Vegeta richiamò alla mente la scena del primo incontro con la donna, alla
ricerca di qualche particolare che potesse tornargli utile per smascherarla. Eppure
quella donna aveva reagito in maniera impeccabile. Non poteva sapere del suo
arrivo perché era scappato senza preavviso, ma poteva essere stata addestrata a
mostrarsi colpita alla vista dei Sayan. A fingere
attaccamento verso di loro.
Vegeta ripensò a come la donna aveva pianto.
E a come l’aveva sfidato per scherzo dentro alla capanna.
Poteva essere una macchina, come ogni Sayan del
villaggio sarebbe potuto essere un accolito degli Skatos,
ma sebbene fosse sospettoso di natura non riusciva a convincersi che mentisse.
Era questione di istinto. La sua mente gli diceva di stare attento, ma la sua
pelle di stare tranquillo.
C’era qualcosa in quella donna che lo irritava ma non di quell’irritazione che
fa venire voglia di far del male. Era solo come se a lei piacesse giocare, e
avesse scelto lui come compagno di malefatte.
Era una donna troppo umana per essere una macchina. Le lacrime che aveva
versato erano così grandi e lo sguardo così sgomento, il suo tono di sfida così
deciso, il suo sarcasmo così pungente. Quella donna era TROPPO, per essere una
macchina.
Non c’era da stupirsi che fosse la compagna di un Sayan,
pensò Vegeta. Nell’ottica di averla come compagna, doveva addirittura riconoscere che il suo compagno doveva essere
un Sayan decisamente fortunato.
Una bella donna con la testa di uno scienziato e il carattere di un Sayan. Cosa si poteva volere di più?
Persino litigare in continuazione con quella donna sarebbe stato stimolante.
Vegeta si rese conto di starsi fissando i piedi e sollevò lo sguardo.
Solo allora notò che Celia lo fissava di sottecchi.
Mentre Vegeta era assorto nei suoi pensieri, Celia aveva passato uno spillone a
un guerriero appena tornato dall’allenamento, sempre seguendo con la coda
dell’occhio i movimenti di Vegeta.
A un certo punto lui aveva sollevato lo sguardo, e i loro occhi si erano
incrociati.
Nessuno dei due disse nulla, ma Celia sentì da quel contatto che lui stava
pensando a quell’aliena.
Così tornò a guardare il fuoco.
-In ogni caso- continuò Vegeta, voltandosi nuovamente verso Talora –Ha detto
che ha quel segno sul collo perché nel suo mondo è la compagna di un sayan…
Talora annuì staccando dal ferro rovente altra carne. –Già. E ha detto anche
che i sayan nel suo mondo non esistono più.
-Ma che caso- disse Celia sottovoce.
Vegeta si voltò verso di lei. –Cosa?
Celia sollevò lo sguardo. –Bè, non mi stupisce che la
nostra “razza” nel suo mondo non esista più.
Nel vedere che gli altri non replicavano, Celia pensò che detestava essere
quella a cui toccava sempre dire come stava la realtà.
-Già adesso siamo più di 300 e non riusciamo a sconfiggere quel branco di
mostri senza un minimo di forza combattiva, figuriamoci fra settecento anni in
che condizioni dovremmo essere.
Celia piantò di nuovo lo spillone vuoto accanto al fuoco.
-Mangiamo animali malati e viviamo come animali malati, sai che dramma sapere
che tra settecento anni non esisteremo più.
Talora abbassò lo sguardo a fissarsi la gamba sana e poi quella malata, mentre
Vegeta si guardò intorno. Il cielo era tanto grigio da sembrare quasi finto.
Era stata una maledizione capitare su quel pianeta.
Cosa poteva esserci mai stato di così attraente in quel luogo asfittico e
inospitale?
Vegeta, Talora e Celia guardarono insieme il misero fuoco e la carne che
cuoceva lentamente lambita dalla fiamma. Poi tutti e tre abbassarono lo
sguardo.
-Non è per un cazzo giusto…-mormorò Talora.
Vegeta sollevò lo sguardo sull’amico e vide che Talora si stava fissando la
protesi alla gamba. Quel Sayan aveva una forza
d’animo tale da metterlo in soggezione, pensò Vegeta, e forse era per questo
che erano diventati così amici. Talora era quanto di più dissimile da lui gli
fosse mai capitato d’incontrare, ma non l’aveva mai considerato un debole.
Neanche quando aveva smesso di combattere.
Anzi, forse Talora era più forte di tutti loro che combattevano e avevano due
gambe. Talora alzò lo sguardo e Vegeta fissò la protesi. Lui si sarebbe fatto
fuori se fosse rimasto senza una gamba.
I tre finirono di consumare il pasto ragionando ognuno sulla loro situazione.
Celia concluse che quella donna andava tenuta il più lontano possibile da
Vegeta, e non perché costituisse una minaccia in qualche modo legata agli Skatos.
Talora invece pensò che credeva a tutto quello che l’aliena aveva detto, e che
se era una scienziata forse avrebbe trovato un modo per fargli avere una
protesi migliore.
Vegeta, infine, concluse solo che quella donna forse era sincera.
E che, in ogni caso, se così non fosse stato l’avrebbe portata via dal
villaggio e l’avrebbe uccisa.
-Credo che sia meglio che Vegeta non sappia nello
specifico chi è il Sayan che ti ha morsa. Mi sembra
già abbastanza scosso dalla tua presenza, e anche se gioca a fare il grande
uomo è ancora un ragazzo.
Io e Spartack passammo accanto al fuoco e lo
superammo diretti verso l’altra parte della piazza. Ci stavamo dirigendo verso
una capanna sul cui uscio erano appese delle pelli pressate, per cercare di
farmi avere qualcosa da mettere ai piedi. E anche per parlare lontano dai
ragazzi.
Quello che diceva Spartack era logico. Quando avevo
raccontato la mia storia anche a Vegeta, senza pensarci avevo omesso che il Sayan chiamato Vegeta e il Sayan
del morso sul mio collo erano in realtà lo stesso uomo.
Già avevo visto lo sguardo degli altri due, alla notizia che nel mio mondo non
vi era traccia dei loro discendenti e c’era invece un discendente di Vegeta Spartack non era sembrato sorpreso, ma Vegeta mi
aveva fissata come chiedendosi perché proprio a lui fosse toccato sopravvivere.
In quell’istante avevo pensato che forse doveva essere stato quello lo sguardo
del mio Vegeta alla notizia dell’esplosione del suo pianeta.
Uno sguardo indagatore che diceva: “perché proprio io?”, consapevole che nulla
quando si è guerra viene lasciato al caso.
Io e Spartack entrammo nella capanna e una donna ci
accolse parlando con la stessa cadenza strana delle terze classi di qualche ora
prima.
-Devi cucire subito della calzature per lei- disse Spartack
indicandomi, con un tono che non ammetteva repliche.
La donna fissò la mia statura poi mi disse di sedermi. Osservandomi un momento
i piedi prese qualche misura con la mano, poi da una credenza prese una pelle cominciò
a inciderla con una specie di coltello.
In poco meno di un quarto d’ora avevo dopo due giorni di nuovo qualcosa ai
piedi, e prima di indossare le calzature Spartack
disse di ricordarmi di farmi cambiare le fasciature appena arrivata alla
capanna. Nel seppur breve tragitto fino a quel locale le bende bianche erano
diventate sporche e nerastre, e cominciavo a sentire anche la sporcizia
penetrare negli intersizi.
Una volta usciti dalla conceria, Spartack mi condusse
alla sua capanna.
-Ci sono cose di cui ti devo parlare ma che non voglio che i ragazzi sentano. Nessuno
osa avvicinarsi alla mia capanna quando sanno che sono dentro.
Ed era per davvero un locale che intimoriva. Al contrario delle altre
abitazione, la dimora di Spartack era l’unica a esser
fatta di pietre e non di terra e arbusti. Da fuori sembrava una fortezza,
rispetto alle altre case. Inoltre la stanza era più grande, quasi il doppio
dell’infermeria, ed immaginai fosse un’eccezione anche la credenza sotterranea
in cui erano conservati cibo e bevande.
Notai subito che il letto, o comunque il giaciglio sul terreno, era grande ma
non abbastanza per due persone. Del resto né Talora né Celia né lo stesso Spartack avevano accennato nulla circa la madre dei
ragazzi.
Se conoscevano il mio morso probabilmente esistevano legami stabili tra i Sayan, e mi sembrò strano rendermi conto che Spartack non sembrava avere una consorte.
Mi sedetti su una sedia davanti al letto, come lui mi disse di fare. Al
contrario Spartack rimase in piedi.
-Immagino che riguardi la mia storia, quello che mi devi dire- dissi.
–A dire il vero non proprio. Sono curioso della tua storia, ma quel che mi
preme è qualcos’altro.
Dovetti sembrare delusa dalla risposta, perché Spartack
mi fissò e aggiunse: -Perché, c’è qualcos’altro che dovrei sapere?
Ero indecisa su cosa dire. Avevo sperato in quel momento per poter vuotare il
sacco. Avevo bisogno di un aiuto, e anche se erano Sayan
giovani e forti, Vegeta, Talora e Celia erano comunque dei ragazzi.
Solo con Spartack sapevo di poter parlare. Di dover
parlare, se volevo tornare a casa.
Per un attimo lo fissai cercando qualcosa con cui cominciare.
-Gli Skatos hanno la mia macchina del tempo. Senza di
quella non posso tornare a casa.
Per un lungo istante nel locale calò il silenzio.
Non sapevo cosa aspettarmi. Non sapevo se avrei ricevuto un qualche aiuto dal Sayan. Sapevo che volevo tornare a casa, ma al tempo stesso
che riuscirci non sarebbe stato per nulla facile.
Vedendo la mia espressione dura ma amara, Spartack mi
guardò con una comprensione inaspettata.
-Gli Skatos ti hanno raccontato qualcosa di questo
pianeta?-disse, prendendo una sedia e sedendosi di fronte a me.
Era seduto esattamente come Lektar il giorno prima.
Solo che la schiena era più dritta, l’espressione meno abbattuta.
-Mi hanno detto che convivono con voi ma che questo non è il vostro pianeta. Spartack rise amaramente. –Direi che “convivere” sia
esagerato, per descrivere come viviamo. Comunque in parte hanno ragione: questo
non è il nostro pianeta.
Fuori dalla capanna arrivava il vociare confuso di un gruppo di bambini. Con
piccoli schianti di oggetti di legno che precedevano ogni grido. Bambini che
giocavano alla guerra, prima di combatterla davvero. Spartack si guardò intorno e scosse la coda in aria.
-Noi Sayan non abbiamo un nostro pianeta. Dacchè io me ne ricordi e da quello che mi hanno raccontato
non siamo mai stati su un pianeta stabile.
Un bambino scoppiò a piangere. La voce di una donna pose tregua alla battaglia.
-Su Eos siamo arrivati scappando da un altro pianeta. E ci siamo fermati perché
non sapevamo dove andare. Spartack guardò la porta poi tornò a guardare me.
-Quando siamo arrivati qua non sapevamo neanche se ci fosse aria e cibo. Però
dalle navicelle si vedevano terreni sconfinati. Finalmente siamo arrivati,
abbiamo pensato all’atterraggio.
Mi fissò dritta negli occhi e mi sentii stringere lo stomaco.
–Ma non avevamo calcolato gli Skatos. All’inizio ci
erano sembrati esseri innocui, non ce ne importava nulla di combattere con
loro, eravamo talmente stanchi di viaggiare che anche solo la prospettiva di
avere della terra sotto i piedi ci faceva sentire soddisfatti.
-Ma loro non la pensavano come voi. Spartack sferzò di nuovo la coda in aria.
-Non avevamo fatto loro nulla. Vivevamo in questi stessi posti, ci costruivamo
le nostre capanne. Davamo da mangiare ai nostri cuccioli.
-Uno di loro mi ha detto che li avete attaccati.
-Non per divertirci né per sterminarli, inizialmente. Volevamo solo cibo. Le
bestie senza luce muoiono, e quelle che sopravvivono sono quasi tutte
incommestibili o malate. Un anno ci fu un inverno particolarmente freddo, e
saremmo morti se la madre di Vegeta non avesse rubato loro qualche provvista e
qualche pillola nutritiva.
La donna del tradimento, sempre lei che ritornava.
-Ma avete fatto del male a un popolo pacifico.
Non sapevo perché li stavo difendendo, quegli Skatos
che erano responsabili da star sterminando il popolo dell’uomo che amavo.
O forse sapevo perché li difendevo.
Perché gli Skatos erano i terrestri di settecento
anni prima. Gente sempre vissuta in pace ed invasa all’improvviso.
Le vittime di un’invasione, come sarebbe potuta essere la Terra.
C’era quasi un senso di immedesimazione, nel loro modo di voler dire
“tornatevene da dove siete venuti”.
Eppure c’era quell’uomo, che aveva solo qualche anno più di me ma
un’espressione così dura e segnata in volto. Quel corpo che intravedevo a
tratti sotto i vestiti così coperto di cicatrici. Quei muscoli nervosi,
abituati a restare tesi.
Quella postura così dritta eppure l’espressione così stanca.
Il pianto del bambino nella piazza si placò e la piccola battaglia infuriò di
nuovo. Per un lungo istante Spartack tacque e sembrò
perdersi il quel rumore così infantile e al tempo stesso familiare.
Poi il Sayan tornò a guardarmi.
-Quanti siete sul tuo pianeta?
Lo fissai senza capire. -Sei miliardi. Spartack allora si alzò in piedi. Prese da una
mensola una pelle pulita e me la passò perché la indossassi.
-Sul tuo pianeta siete sei miliardi e un Sayan vive
nella tua stessa casa.
Continuavo a non capire.
-Gli Skatos sono meno di diecimila. E sono convinti
che il pianeta sia troppo piccolo per contenerci tutti.
In quello stesso istante, poco lontano nel senso
spaziale del termine, ma completamente in un altro mondo, Jasper fissava gli
scienziati che lavoravano alla macchina su cui il giorno prima era arrivata la
terrestre.
-Non credo che sia una buona idea finire di aggiustarla- gli aveva detto il
capo-gruppo soltanto un’ora prima. –Potrebbe venirla a riprendere se fosse di
nuovo funzionante.
Ma Jasper non gli aveva dato peso. Se la donna fosse tornata e avesse usato
quella macchina, sarebbe al massimo ritornata sul suo pianeta.
Prospettiva abbastanza rosea, contro l’idea di sapere il suo intelletto nelle
mani di quelle scimmie.
Jasper passeggiò avanti e indietro lungo la circonferenza del macchinario.
Quella donna era un’arma, non per loro che erano scienziati, ma per i Sayan che di tecnologia non sapevano quasi nulla. E che in
tutti quegli anni avevano posseduto alcuni loro oggetti, senza riuscire mai a
usarli per colpa della loro scarsa intelligenza.
Avrebbero dovuto riprendere quella donna, pensò Jasper osservando la fiancata
della macchina su cui con inchiostro nero era stata incisa la parola
“speranza”. Una grafia tondeggiante ma decisa, forse quella della donna, per
una parola di cui lui non comprendeva appieno il senso.
Quella donna con i Sayan era pericolosa come
nient’altro poteva essere. Un’arma in grado di pensare e costruire altre armi.
Un’arma in grado di sterminarli, se i Sayan avessero
capito in che modo poterla usare.
Jasper si maledisse per non essere mai riuscito a scoprire quali progetti di
preciso la donna Sayan avesse sottratto dai loro
uffici anni prima.
Il ricordo di quei giorni aveva una forza insopportabile, un’ incessante
pulsazione che gli faceva venir voglia di uscire fuori e urlare di rancore.
I pensieri del sommo Falen gli riempivano il
cervello. Il ricordo dell’incontro con la donna, delle notti passate a curarle
il figlio, dei giorni trascorsi nell’intento di convincerla a restare. Che lei
era diversa dagli appartenenti alla sua razza.
Che sarebbero potuti essere felici, se lei fosse rimasta.
Nei suoi ricordi quella donna aveva occhi grandi e neri come due pozze di
carburante, un’enorme e assurda chioma di capelli anch’essi neri, così selvaggi
e così diversi da quelli lisci e turchesi di Falen e
dei suoi simili.
E aveva un temperamento chiuso e ombroso, ma una furia passionale contro chi
sembrava volerle nuocere che lasciava storditi.
Era così diversa dagli Skatos, così istintiva e persino
CALDA. Così libera nell’ esprimere ciò che sentiva nel profondo, fino al punto
di fargli desiderare di poter essere come lei, libero dai vincoli di quella
calma autoimposta. Da quell’evoluzione che gli sembrava un passo indietro,
un’enorme sacrificio per mantenere una società tranquilla.
Tranquillamente immune dal dolore. E immune anche dall’amore.
Da un sentimento così scomodo, così pericoloso, anche, da poter distruggere in
un colpo solo anche il più forte di tutti loro.
Una passione incontrollata, che poteva essere gelosia, possessione e poi voglia
di redenzione.
Un sentimento così vivo, ma così torbido e inebriante da annebbiare ogni mente.
Come l’oscurità che avevano imparato a dissipare grazie alla grande sfera nella
piazza.
Per vivere sempre nella luce, e non avere dubbi o cedimenti.
Per poter essere tranquilli, appunto, come quella donna non era mai nemmeno
durante il sonno.
-Il capo- squadra mi ha detto che non hai intenzione di ascoltarlo.
Jasper si voltò pur avendo riconosciuto la voce di Calisia.
Lo Skatos lo raggiunse e osservò la macchina con
un’espressione di sufficienza.
-Sarà anche una bella invenzione, ma non s può certo dire che sia aggraziata
come aspetto.
Jasper si strinse nelle spalle e fissò la scritta in inchiostro nero. –Credo
che per il popolo della donna sia già tanto riuscire a farle funzionare, le
invenzioni. Gli ingranaggi sono ben costruiti ma è ancora una costruzione ad
energia elettrica, con il nucleare avrebbe potuto ovviare al problema di
doverla ricaricare se avesse saputo come utilizzarlo. Non credo che ne sappiamo
granchè di invenzioni questi “terrestri” di cui lei
parla. Calisia convenne con la testa e si portò le braccia
al petto. -Lektar si rifiuta di parlarmi da quanto il Sayan ha rapito la donna.
Jasper si voltò a guardare il volto candido e i capelli purpurei dello Skatos al suo fianco. Il capo comunità insieme a lui e
forse a Lektar. Dalla sera prima, dopo l’attacco, non
aveva più visto suo fratello, ed era pressoché convinto che la cosa non fosse
un caso.
Jasper fece una smorfia di noncuranza. -Lektar non è come noi. Non riesce a non attaccarsi
alle persone. Calisia lasciò che un gruppo di scienziati li
raggiungesse e poi passasse loro accanto. Solo quando gli scienziati di furono
allontanati, dopo un breve cenno di riverenza in loro direzione, Calisia parlò di nuovo. -Lektar non è l’unico a non riuscire a controllarsi.
Jasper la fissò con aria interrogativa. –Che cosa intendi?
Si scambiarono una lunga occhiata, e Jasper capì appieno a cosa Calisia si riferisse.
Calisia tornò a fissare l’invenzione. –Sei stato fortunato che sia successo
quel che è successo e nessuno abbia notato niente. Ma la prossima volta cerca
di controllarti. Calisia si scostò i capelli dalla fronte. –E’ già
abbastanza difficile avere a che fare con i Sayan solo
a causa del loro normale temperamento. Non possiamo permetterci di dar loro
altri motivi per volerci sterminare.
Jasper annuì per la prima volta con sincero pentimento. Era stato sciocco ed
avventato, a colpire il ragazzo il giorno prima, e sapeva che il fatto fosse
stato provocato non costituiva un’attenuante.
La loro era una guerra di strategia, e solo questo era stato il punto che aveva
loro concesso di non cedere durante tutti quegli scontri. Non potevano
permettersi di rendere furiose quelle bestie, perché ancora non conoscevano
quanto forti potessero essere se mosse dall’odio puro e semplice. Ma ciò che
più importava, più della pericolosità della forza dei Sayan,
più di quella donna e della debolezza di suo fratello, era che gli Skatos dovevano riuscire a mantenersi calmi.
Non potevano permettersi di lasciarsi guidare dalla vendetta, e quello che lui
aveva fatto il giorno prima ne era stata la riprova.
Forse se il ragazzo fosse stato solo un animale feroce come sempre la donna non
sarebbe fuggita, e Lektar non avrebbe esitato a
lanciare l’allarme.
Ancora non si spiegava come poteva essersi liberato il ragazzo dagli anelli, e
per questo aveva maledetto Lektar che si ostinava ad
evitarlo.
In conclusione, comunque, Jasper aveva commesso un errore.
Un errore che sebbene gli costasse molto ammetterlo, non doveva ripetersi in
alcun modo.
Jasper si avvicinò alla macchina e Calisia lo seguì.
Si fermò a guardare l’invenzione, ora che gli scienziati si erano allontanati
per consumare il proprio pasto.
Jasper sollevò una mano fino a toccare la scritta nera. Quella parola che
conosceva ma non aveva mai provato dentro di sé.
-Dobbiamo fare in modo di rendere innocua quella donna- disse Jasper,
percorrendo con un dito le lettere calcate e tondeggianti, senza sapere che
quel suo pensiero, a modo proprio, esprimeva una speranza.
-Non possiamo permettere ai Sayan di servirsi di
quella donna.
Mentre la donna si cambiava all’interno della capanna, Spartack
si appoggiò allo stipite dell’uscio e osservò il villaggio in fervente
attività.
Le carcasse malate catturate da Bardack e i suoi
erano state gettate dentro al fuoco, il puzzo era terribile ma sempre meglio
delle malattie, e alcune donne stavano sedute poco lontano dalla conceria, intente a cucire nuove pelli per i Sayan
che il giorno prima avevano perso le proprie trasformandosi in Ozaru.
Celia, Talora e Vegeta non erano più vicino al fuoco, e Spartack
sperò dentro di sè che Celia guarisse presto al polso
e Vegeta aspettasse prima di tornare ad allenarsi.
Il ragazzo stava bene, ma non avevano mai usato le pillole degli Skatos e non sapevano quanto fossero efficaci. Era meglio
attendere qualche giorno, prima di tornare a combattere come sempre.
Se Vegeta non avesse mostrato sintomi negativi avrebbe dato una pillola anche a
Celia. Avevano bisogno che si allenasse, perché dallo sguardo di Vegeta quando
era tornato mezzo morto dalla città del Blu, Spartack
intuiva bene che la fine di quella guerra era ormai più che prossima.
Qualunque cosa di bene o male ciò potesse voler dire.
La giovane, perché sebbene non avesse molti anni in meno di lui così sembrava
dalle fattezze del corpo, terrestre uscì dalla capanna con fare incerto.
La pelle che aveva indosso era palesemente troppo grande per la sua statura e
corporatura, ma lei era riuscita con una serie di nodi strategici ad appuntarla
nei punti giusti, almeno quel tanto che bastava perché l’indumento non le
scivolasse via di dosso.
Era una donna piuttosto attraente, Spartack dovette
ammettere, e benché fosse sporca ma comunque meno sporca della donna media tra
i Sayan, si vedeva che aveva fino a quel momento
condotto un’esistenza agiata.
Aveva le mani lisce, se n’era reso conto nel momento in cui le aveva sfiorato i
palmi passandole la pelle.
I Sayan che vivevano nel suo mondo dovevano essere
fortunati. Quella donna aveva lo sguardo di una persona dura ma non egoista. Di
qualcuno capace di comprendere che certe volte non esistono buoni o cattivi. -Bulma?
Lei si stava sistemando la spallina destra della pelle. –Sì?
-Quel Vegeta, il tuo compagno, perché l’hai accolto in casa?
Lei sollevò lo sguardo stupita. Lo guardò per un istante. Poi con noncuranza
scrollò le spalle e tornò ad armeggiare con la pelle.
-Casa mia è molto grande. E lui aveva bisogno di una casa.
Senza che lei se ne accorgesse, Spartack sorrise
amaramente.
Sarebbe stata una fortuna, atterrare sulla Terra invece che su Eos.
Non riuscivo a comprendere perché gli Skatos fossero
così recalcitranti a convivere con i Sayan.
Passeggiando per il villaggio mi resi conto che i Sayan
non erano come li avevo immaginati. Erano rozzi, rumorosi, ovunque c’erano
bambini che correvano e si rotolavano per terra, donne che vociavano e
chiamavano i figli, uomini che si allenavano a combattere o rimettevano in
piedi le capanne crollate per la pioggia e il vento, ma nessuno di loro sembrava
un mostro.
Erano folcloristici e inusuali, tendenzialmente violenti, ma non le bestie sanguinarie
che mi Lektar mi aveva detto.
Grazie alla tecnologia degli Skatos i Sayan sarebbero potuti vivere meglio, adattarsi nei
costumi, magari anche evolversi.
Erano sanguinari perché sfiniti dalla fame, dal buio, dal clima malsano e
asfissiante. E dalla consapevolezza che gli Skatos,
invece, vivevano tranquilli alla luce del Sole (o quel che era), con cibo in
abbondanza e delle vere case.
Sebbene fossi in quel villaggio da meno di un giorno, il dramma di quelle vite
mi toccava profondamente.I bambini
erano sporchi, coperti di cicatrici, gli adolescenti non facevano altro che
picchiarsi tutto il giorno. Era una miseria che in vita mia mi era stata
sconosciuta, la condizione di uomini costretti a vivere come animali.
Accanto a me Spartack non parlava. Ogni tanto mi
indicava qualche capanna, per dirmi dove stesse la dispensa, il bagno pubblico,
o la riserva di legna per il fuoco. Per il resto mi lasciava libera di
contemplare, e rendermi da sola conto di quanto misera fosse la loro
condizione.
Come potevano gli Skatos permettere tutto ciò? Anche
se quella era casa loro, come potevano dormire sapendo della miseria che
albergava fuori dalle proprie mura?
Pensai che forse da bambino anche Vegeta aveva avuto lo sguardo di quei
bambini, e da adolescente lo sguardo ardente e pieno di rancore dell’altro
Vegeta di quel mondo.
Era qualcosa che mi era sconosciuto. E ora che lo conoscevo faceva troppo male,
per lasciarmi indifferente.
-Perché mi hai fatto fare questo giro?-dissi a Spartack,
quando fummo giunti alla sua capanna dopo aver percorso tutto il villaggio.
Mi aspettavo una risposta vaga ma lui mi fece cenno d’entrare e di sedermi di
nuovo sulla sedia. Ubbidii con indecisione.
-Hai visto come viviamo.-disse Spartack, rimanendo in
piedi di fronte a me.
In quel locale improvvisamente mi sentii braccata in trappola. –Sì.
-Ti sembra giusta, dopo aver visto come vivono gli Skatos,
la condizione di noi Sayan?
Dovetti ammettere che: -No, non è giusto. Spartack allora si scostò, avviandosi verso una
specie di armadio per aprire una delle ante.
Ne tirò fuori dei fogli e degli oggetti che sembravano di metallo.
-Non ti ho fatto fare il giro del villaggio per divertirti, ma per farti capire
perché stiamo combattendo. Spartack prese il tavolo per un’estremità e la tirò
con forza facendolo arrivare davanti a me.
Mentre distendeva i progetti sopra il tavolo, capii il motivo di quel giro.
-Ti ho fatto vedere il villaggio perchè volevo che
capissi, prima di dirti cosa ho deciso della tua sorte.
Il progetto era di un’arma che riconobbi essere la spara anelli da cui avevo
salvato l’altro Vegeta.
–E quale sarebbe la decisione?
E Spartack mi guardò con un’espressione così
guerriera da ricordarmi il mio Vegeta.
-Che non ti uccideremo e ti aiuteremo a riprendere la tua macchina.
Fissai il progetto e poi di nuovo Spartack.
-Ma solo se ci aiuterai a sconfiggere gli Skatos.