Against Time

di Spica_ONeal
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I. ***
Capitolo 2: *** Capitolo II. ***
Capitolo 3: *** Capitolo III. ***



Capitolo 1
*** Capitolo I. ***


Ogni tanto non avete il forte presentimento che Madre Natura ce l’abbia con voi? 
Ma pesantemente, intendo.
Tipo quando inizia a piovere come se non ci fosse un domani ed è l’unica volta che non avete l’ombrello a portata di mano, puntualmente.
Oppure (per le ragazze) quando vi siete appena sistemate i capelli in un modo fantastico e inimitabile, uscite di casa e BOOM: tempeste, tornado, tsunami, terremoti, eccetera. 
Bene. 
Quello che mi sta succedendo ora è molto peggio. Per me, almeno. 
Una delle poche volte in cui decido di mettere panni lavati ad asciugare sul terrazzo invece che in lavanderia, cosa succede?
I Quattro Venti si danno alla pazza gioia e sembra che da un momento all’altro pure io possa prendere il volo. 
Il vero problema però, è che sono stati i miei vestiti a volare via.
E sono allegramente atterrati nel giardino del vicino di sotto.
Con che faccia mi presenterò a casa di uno sconosciuto per dirgli qualcosa del tipo: “Mi scusi… Vede, la mia biancheria intima è finita nel suo giardino. Non è che me la andrebbe a prendere?”

"Non ce la posso fare… Ma DEVO farlo. Oltretutto c’è anche la mia muta da surf assieme al resto. E non posso permettermene un’altra."

Decido di scendere; prima si risolve meglio è. 

Di fronte a me ora c’è la porta. Quella porta che sarà la rovina della mia reputazione. 
Busso una volta e aspetto che qualcuno mi apra. 
Niente. 
Busso un’altra volta, più forte. 
Sento qualcuno che brontola qualcosa dall’altra parte e con passi pesanti si avvicina. 
La porta si apre. Lentamente. Troppo lentamente.

Ma lo fate apposta a torturarmi in questo mo… 

Non ho tempo di finire la frase mentalmente che davanti a me si presenta in tutta la sua gloria un ragazzo alto, muscoloso e abbronzato. E io rimango a bocca aperta, letteralmente. É a petto nudo e indossa dei pantaloncini da basket. Non lo guardo nemmeno in faccia. 
«Chiudi la bocca o ci entreranno le mosche. » Mi dice, tra uno sbadiglio e l’altro.

"Voglio sotterrarmi. Ora."

Cerco di riprendermi e dico: « E-Ecco… Vedi, mi sono cadute delle… cose nel tuo giardino. Posso andare a riprenderle… Per favore..? » 
«Ok. » Si limita a dire. Almeno non mi ha chiesto cosa mi è caduto. 
Mi dirigo verso il giardino e noto che lui mi sta seguendo. 
Male, molto male. Ma non posso dirgli niente. É casa sua.

Arrivata alla portafinestra che si affaccia al giardino, faccio uno scatto e corro a riprendere tutto. 
O almeno, quello che riesco a vedere. Eppure c’è qualcosa che manca alla lista. Mi guardo attorno, ma non vedo nulla. Mi giro per tornare indietro quando vedo il ragazzo che si allunga per prendere qualcosa sulla siepe. 
Le mie mutandine.
E io sento il forte bisogno di suicidarmi. 
Vedo che lentamente se le porta vicino al viso per osservarle meglio. Sembra quasi che le stia analizzando per filo e per segno. 
« Cercavi queste? » Vedo che arriccia le labbra in un mezzo ghigno. 
« I-Io… »  Non sono più capace di compiere una frase di senso compiuto e mi sento esplodere le guance. Fantastico.
« Dammele. » Sputo infine, rossa come non mai. 
« Prego. » Me le porge. Faccio per prenderle, ma prima che riesca anche solo a sfiorare il tessuto lui le lancia in aria. Seguo la traiettoria delle mie amate mutande e vedo che finisco sopra un albero. 
Mi giro verso di lui e lo guardo sconcertata. 
« Tutte tue. » Sembra una sfida.
E io non perdo mai a una sfida.

Assottiglio gli occhi e lo fisso. 
Lascio cadere i vestiti che ho in mano e mi sposto verso il tronco dell’albero. 
Noto con mio piacere che è alto e robusto e ci sono dei rami a circa due metri da terra. 
Salto e mi aggrappo al ramo più basso con entrambe le braccia. Mi do uno slancio con le gambe e con una mi aggrappo a una fronda leggermente più in alto. Mi tiro su col busto aiutandomi anche con le mani e ora riesco a afferrare un altro ramo. 
Inizio ad arrampicarmi senza difficoltà per altri due metri fino a raggiungere la stessa altezza delle mutandine. 
Mi allungo per cercare di prenderle, ma sbaglio a mettere un piede e scivolo ritrovandomi appesa ad un unico ramoscello. 
Mi avvicino ancora scorticandomi le mani e finalmente riesco a prenderle. 
Guardo in basso e capisco di trovarmi a circa quattro metri di altezza. 
In quell’istante vedo il ragazzo che corre sotto di me e tende le braccia in avanti. 

« Lasciti andare, ti prendo io! »
« Scordatelo, non ho bisogno del tuo aiuto. » Ed è vero. Sono sempre stata una brava atleta e saltare da quattro o cinque metri non mi spaventa per niente.
« Sì, invece. Vuoi romperti una gamba? » É ancora fermo alla stessa posizione. 
« Ti ho detto che non mi serve il tuo aiuto. Ora spostati, veloce! » Iniziano a farmi male le braccia e la presa si fa sempre più debole. 
« E va bene. Ma poi non ti lamentare se… » Non gli lascio finire la frase e mollo il ramo.
Atterro prima sulle punte dei piedi per poi appoggiare i talloni e accovacciarmi toccando terra con le mani graffiate. Mi volto a guardarlo e vedo che ha gli occhi sgranati. Solo ora lo guardo realmente in faccia. 
Ha i capelli neri e corti tenuti in una cresta disordinata. Un occhio è più chiaro dell’altro. Uno è verde misto blu mentre l’altro è completamente verde. 

Eterocromia. Penso tra me e me.

« Come… » Tenta di dire qualcosa, ma sembra… Emozionato?
« Te l’avevo detto che ce la potevo fare da sola. » Faccio, irritata. Mi spolvero le mani togliendo i residui di terra incurante dei taglietti, vado a prendere il resto dei vestiti ed esco degnandolo solo di un “Ciao”. 
« Aspetta! » Mi segue a ruota e mi blocca per un braccio.
« Io sono Jay Miller. Tu sei..? » 
« Cora O’Neil. » Rispondo atona mentre mi dirigo verso l’uscita.
« Ah, dimenticavo… » Aggiungo poco prima di chiudere la porta di casa sua, mi fermo rimanendo di spalle, mi giro appena appena e sorrido compiaciuta.
« Uno a zero per me. » E me ne vado definitivamente.

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Capitolo 2
*** Capitolo II. ***


Il senso di libertà che si prova quando sento il vento tra i capelli è qualcosa che mi riempie fino a mozzarmi il fiato. In particolare quando al vento si unisce l’acqua.
Riuscire a cavalcare un’onda di proporzioni gigantesche ti fa credere, anche se per pochi istanti, di poter controllare il mondo. 
Il surf è sempre stato qualcosa che mi ha ammaliato per la prima volta da bambina. Quando andai al mare all’età di cinque anni, vidi alcuni ragazzi ridere, scherzare e lanciarsi con le loro tavole luccicanti contro onde di ogni grandezza. 
Ai tempi mi sembrava di avere difronte tanti eroi coraggiosi pronti a sfidare tutto e tutti. Ne ero rapita. 
A sette anni iniziai a prendere lezioni con altri bambini della mia età. Non erano lezioni private, chi voleva unirsi si univa, nessuna spesa, nessuna restrizione. 
Molti dei miei compagni, dopo un mese o due, se ne andavano perché lo ritenevano troppo faticoso e pericoloso. 
Ma io no. 
Ho continuato per undici anni assieme ad altri due amici; Peter e Baylee. Eravamo diventati così bravi da perdere parte alle competizioni estive e vincerne alcune.
Poi smisi. Tagliai i ponti con tutti e mi trasferii, da sola.
Abbandonai il surf per quasi tre anni. 
Mi limitavo a stare in spiaggia da sola e ad osservare altri surfisti.
Odiandomi.
Fino allo sfinimento. 
Per tre interminabili anni. 

***

Appena entrata in casa, guardo l’ora e mi rendo conto che è davvero tardi e se non mi sbrigo rischio di non arrivare a lavoro per il turno. 

“Non mi va di sentirne su ancora una volta da José. Mi basta quello che è successo oggi.”

Butto sulla poltrona i vestiti e corro in camera a prendere borsa, chiavi della moto, casco e giacca. 
Non posso andare in bici con questo tempo e di certo non riuscirei ad arrivare in tempo. 
L’unico modo è usare la moto di Shane. Una fiammante Honda Tiger del 2009 nera con linee oro lungo il motore accuratamente disegnate dal suo proprietario.
Uso questa bella creatura il meno possibile, anche se Shane tempo fa mi disse che posso considerarla mia. Il punto è che non voglio considerarla mia.
Indosso la giacca, il casco e metto sul dentro il sedile la borsa. 
Riscaldo la moto poco prima di lasciare il garage.
Sento ruggire il motore e il suono si propaga per tutto il sotterraneo. 
Parto, incurante della pioggia che bagna me e la moto. Mi sento così bene quando sfreccio spensierata sulle strade vuote e buie. 
Devo percorrere parecchi chilometri per poter arrivare al Wave War, il locale sulla spiaggia dove lavoro. 

Dopo un buon quarto d’ora, arrivo cinque minuti prima dell’apertura. 

“Grazie al cielo…”

Scendo dalla moto, prendo il necessario assieme al telo nero che in genere uso per nascondere la moto.
Con il motore spento, la sposto nel mio solito vincolo per non farla vedere in giro. Attira una certa attenzione. Preferirei che rapissero me piuttosto che rubare la Tiger. Le lancio il telo sopra ed entro dalla porta sul retro. 

« Jo, sono arrivata! » Grido per farmi sentire. Ma non sento alcun rumore o voce. 
« Jo, ci sei? » Ancora nulla. 
Accendo le luci dell’angolo bar e vedo un foglio sotto un bicchierino. 

Tesoro, io e Lenny oggi siamo abbiamo avuto un contrattempo e ce ne staremo via fino a domani sera.
Tranquilla, non ti lasceremo da sola. 
Verso le nove, arriveranno due ragazzi che ti daranno una mano. Fino ad allora sarai tu il capo. 
Ti dico solo di NON aprire il locale, prima che arrivino loro. Io e Lenny non vogliamo che ti succeda qualcosa. 
Mi raccomando, ci fidiamo di te! 

Jo.

P.S: Sophie oggi è malata. Non riuscirà a venire quindi dovrai fare tutta da sola. Ma almeno sarai in compagnia di due bei ragazzi! 


Sbuffo, prendo il bigliettino, lo piego e lo metto in borsa. Guardo di nuovo l’orologio che segna le 20.32. 
Inizio a preparare i vari stuzzichini, do una lucidata al grande bancone in marmo nero per poi passare ai tavoli. 
Mentre metto via gli stracci, sento bussare alla porta d’ingresso ancora sigillata. 
Mi precipito a vedere chi è e vedo la sagoma di due persone alte e abbastanza robuste. 
« Chi è? » 
« Siamo i due sostituti di José e Lenny.  » Dice una voce dall’altra parte.
« Ora vi apro. » Inizio a far scattare tutte le serrature e apro. E mi pietrifico sul posto. 
« … Tu. » Sibilo, assottigliandi gli occhi fino a ridurli a due fessure.
« Che caloroso benvenuto. Da quanto tempo! » Sfodera un sorriso a trentadue denti. 

“Quanto vorrei prenderlo a sprangate sui quei denti.”

« Vi conoscete? » Mi giro a guardare il suo compagno per la prima volta e vedo un ragazzo dai capelli a spazzola biondo cenere con gli occhi . Ha un viso quasi tenero e questo mi solleva molto. 
« Scusa, mi presento. Mi chiamo Cora O‘Neil. » Gli porgo la mano e lui la stringe, sorridente.
« Non è giusto, con me non sei stata così gentile. » 
« Questo vale anche per te, Miller. » Gli lancio un’occhiataccia. 
« Comunque… Ryan Lee, piacere! » E io mi blocco. L’unica cosa che ho sentito è il nome del nuovo ragazzo; Ryan. Impallidisco e mi sento mancare l’aria.

"Ryan…" Tremo al ricordo di quel nome.

« Ehi, tutto bene? » Mi chiede lui. 
« S-Sì, scusatemi… » Indietreggio.
« Venite, vi mostro il locale. Siete capaci di preparare drink, vero? »
« Ovvio, altrimenti non saremmo qui. » Rispondono in coro.
« Perfetto, il vostro compito sarà quello di stare al bar allora. » Loro annuiscono e io vado in magazzino a prendere la loro divisa. Gliele porgo e loro mi guardano inarcando le sopracciglia. 

“Ma lo fanno apposta a dire e fare le stesse cose contemporaneamente?”

« Beh, che c’è? » 

« Non credi che siano un po‘ troppo strette per noi? » Ridacchia, Jay.
« Sono le taglie più grandi che abbiamo. » Mi stringo nelle spalle.
Si lanciano un’occhiata a vicenda e io gli mostro lo “spogliatoio“ dei maschi. 
Io corro a mettere la mia “divisa” che consiste in una minigonna in jeans attillata e una canottiera, anche quella attillata, fluorescente con il logo del locale in grande sul retro. L’odio. 
Ricordo ancora le parole di Lenny quando gli chiesi il perché del fluo.
« Tutti devono sapere chi sei, Cora. Tutti devono sapere di te! Qual’è il metodo migliore per farsi riconoscere al buio se non questo?» 
Detto così sembrava che fossi una specie di star.

Una volta uscita dal mio spogliatoio, vado a preparare la playlist per la musica. 
Con mia enorme sorpresa, José se n’è già occupato. Collego l’impianto al computer e faccio partire la musica. Tanta. Tanta. Tanta musica elettronica e dance. Passo alle luci e i vari led sotto divani e tavoli. 
Non è un posto grande, ha circa una dozzina di tavoli tranquelli dentro e fuori, ma la gente che viene qui lo fa per la musica e per i fantastici drink di Jo e Lenny. E per la pista da ballo. Una grande pista con una modesta fontana al centro.
Una fontana di liquido fluorescente. Assurdo. 
Man mano che la folla inizia ad arrivare, saluto tutti i conoscenti mentre prendo le ordinazioni dei vari drink. 

Mi giro a dare un’occhiata ai due ragazzi al bar e sembra che ci sappiano davvero fare. Rimango a fissare Jay per qualche secondo di troppo e lui se ne accorge perché mi rivolge un sorriso quasi compiaciuto. Faccio finta di nulla e torno alle ordinazioni.
Dopo due ore di corsa tra la folla e tra un tavolo e l’altro, mi fermo per qualche minuto a prendere fiato.
Inizia a farmi male la testa e mi si mozza il respiro. Inizio a tossire e sento il sangue risalirmi la gola. Mi dirigo verso il bagno riservato balcollando e senza farmi vedere. 

“No, non ora… E’ troppo presto.”

Cerco di sputare tutto il sangue che mi sento in bocca. Inizio ad ansimare, ho il respiro irregolare. 
Mi sento soffocare. Guardo le chiazze di sangue sul lavandino bianco e la mia bocca si contrae in una smorfia di disgusto.
Poi alzo la testa, mi guardo allo specchio e vedo la mia figura in questo stato. 
Di nuovo.
Cora O’Neil. 
Una ragazza di 23 anni. 
Una ragazza dal fisico snello.
Una ragazza mora dai capelli lunghi. 
Una ragazza dagli occhi grigi. 
Una ragazza dalle labbra sottili. 
Una ragazza che corre contro il tempo.
Contro il suo tempo.



Angolo autrice:
Ho cambiato font perché mi sono accorta che quello del primo capitolo era piuttosto fastidioso dal mio punto di vista. Purtroppo non ho tempo per modificare anche il font del Cap. 1 così ho deciso di lasciarlo così, per il momento. Sistemerò tutto appena ho un po' di tempo da dedicarci.


Spica.

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Capitolo 3
*** Capitolo III. ***


JAY 

Mentre preparo l’ennesimo Cosmopolitan della sera, mi guardo attorno per tenere d’occhio Cora. Guardo Ryan che sta pulendo il bancone e vedo che anche lui sta perlustrando il locale con gli occhi. Per quanto buio ci possa essere e con tutta la folla che c‘è, è difficile non notare quella canottiera fluorescente. 

“… E stretta. Terribilmente stretta.” Scuoto la testa per scacciare il pensiero. 

« Jay, non la vedo. E dire che fino a poco fa era da queste parti. » Annuisco e inizio a scrocchiare le dita per abitudine. 

« Vado a cercarla, tu rimani qui e continua a servire. » Mi tolgo il grembiule nero e inizio a chiedere informazioni alle persone più sobrie che vedo. 
Nulla. Nessuno l’ha vista. Sembra che si sia volatilizzata. 
Corro a vedere fuori, magari ha deciso di prendersi una boccata d’aria, penso tra me e me. 
Il vuoto. Solo gente che ridacchia e beve. 
Provo a guardare di nuovo dentro il locale, non è nemmeno lì. 
Decido di provare sul retro. 
Vuoto. 
Poi sento qualcosa provenire dal bagno privato. 
Spalanco la porta senza pensarvi due volte. E la trovo lì. Con le mani appoggiate ai lati del lavandino. 
Ma quello che cattura la mia attenzione è l’enorme chiazza di sangue. Perdo un battito.
Alzo lo sguardo e trovo il riflesso dei suoi occhi che mi fissano. 
Metallo fuso, puro ferro incandescente.
Mi trapassano da parte a parte, con disprezzo. E io rabbrividisco. Sembra pronta ad uccidermi da un momento all’altro. 
Mi riprendo, vedendo che dalle sue labbra scivola una goccia di sangue e le atterra su una mano. 

« Cora, cosa… » 
« Vattene. » La sua voce è incrinata. E tossisce, sputando sangue che va a schizzarsi sullo specchio. 
« Scordatelo, hai bisogno di aiuto. » Tiro fuori il pacchetto di fazzoletti che ho in tasca e ne estraggo uno. 
Mi avvicino a lei, ma lei si allontana di un passo. 
« Non ti avvicinare. Ora sto bene. » Trema, sembra pervasa da spasmi continui. 
« No che non stai bene. Forza, vieni. » Esita per qualche secondo, poi capisce anche lei che ha bisogno di una mano e mi prende il fazzoletto. Inizia a pulirsi il sangue sulle labbra e sul collo. 
Poi ne prende un altro e un altro ancora, li bagna e pulisce lo specchio. 
Butta via i fazzoletti sporchi e inizia a lavarsi le mani bagnando anche tutto il lavandino in modo da non lasciare tracce. 
« Cora, devi andare in ospedale. Ormai è ora di chiudere, avverto Ryan e poi ti accompagno in macchina. » La vedo irrigidirsi.
Scoppia in una risata fragorosa, ma che non coinvolge gli occhi. 
« In ospedale dici? » Si ferma e prende fiato calmandosi. 
« Non serve, mi basta tornare a casa. »
« Bene, ti ci porto io adesso, allora. »
« Come sei cortese oggi. Comunque, no grazie. Non posso. »
« Sì, invece. Non puoi tornare da sola in questo… Stato. » La guardo da capo a piedi e le lancio un’occhiata d’intesa. 
« Non guardarmi come se fossi un animale ferito! » Sputa tutto d’un fiato. Sussulto.
« Tu non sei nessuno e quando dico che non posso, un motivo c’è. » Sospiro passandomi una mano tra i capelli, esasperato.
« Dimmi perché, almeno. » Indica con un cenno della testa la porta e mi incoraggia ad uscire. La seguo dietro un vicolo cielo e vedo un telo nero. Lei si avvicina e lo toglie, piegandolo con cura. 
Mi sorprendo nel vedere che una ragazza come lei vada in giro con un gioiellino del genere. Intuisco dalla sua espressione che non ha intenzione di lasciarla qui nemmeno per una notte. Poi mi illumino. 
« Senti… Posso portarti a casa con questa. E lascio a Ryan la mia macchina, tanto siamo coinquilini. »
Lei sbarra gli occhi, poi sospira.
Fa qualche passo e passa la mano sul sedile della moto. 
« Mi dispiace… Sarà solo per questa volta, promesso. » Sussurra con un sorriso amaro.
« Vado ad avvertire Ryan, aspettami qui. » Annuisce e io corro ad avvertire il mio amico. 

Ho lasciato che fosse lei ad indossare il casco, essendocene solo uno. 
« E’ tua questa moto? » Grido, mentre sfrecciamo in autostrada. Sento la sua presa su di me stringersi. 
« No… É di Shane. » Farfuglia.
« Il tuo ragazzo? » 
« No. » La sua presa non si allenta. Ha paura, forse? 
« Shane è… Mio fratello. Uno dei due. » Dice riluttante.
« Come si chiama l’altro? » Passa qualche istante, ma lei non fiata. 

“Perché non risponde?” 

Arriviamo sotto il vialetto del palazzo e fermo la moto, scendendo. Lei rimane su e prende il mio posto. 
« Grazie, vado a portarla in garage. Ciao. » Mormora freddamente.
« Non hai risposto alla mia domanda. » 
Passano un paio di interminabili minuti senza che lei apra bocca. 
« Ryan. » Soffia e parte senza lasciarmi il tempo di chiedere altro. 
A quel nome mi torna in mente la sua reazione, quando Ryan le si è presentato. 
Un mucchio di punti interrogativi inizia a farsi strada nella mia testa.

“Non le ho fatto nulla per meritarmi tutto quest'odio, oltre la cose delle mutandine. 
Perché è così diffidente?  Ma soprattutto... Perché ha reagito in quel modo a quel nome? Nemmeno le avessero dato un pugno nello stomaco.” 

Prendo le chiavi di casa ed entro ritrovando al buio. Mi cambio e mi lascio cadere sul letto.

“Che cosa nascondi, O'Neil? ” 


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