Help me stand

di Shusei
(/viewuser.php?uid=525888)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1: prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2: Ponendo le basi ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3: Anniversario e Richieste di lavoro ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1: prologo ***


Note dell'autrice:
Questa fanfiction è molto più un progetto personale che altro; una realizzazione ricca di emozioni per me, ma immagino che la condividerò qui comunque. Questa è anche la prima volta che scrivo qualcosa in prima persona invece che in terza!
Se siete sensibili all’autolesionismo, allora vi consiglio di non leggerlo, dal momento che è incentrato su questo.



Note della traduttrice:
Salve lettori! Allooooora.... Spero che apprezzerete questa fanfiction tanto quanto me, perché merita, davvero. ;)
Tradurre non é mai una cosa semplice: pensare alle parole, ai termini più appropriati da inserire, riformulare le frasi... Lasciando intatti i significati e le emozioni che il testo originale ti trasmette. Non si può tradurre al meglio qualcosa senza amarla con tutti se stessi. E io amo questa fic :)
Ho dato (e sto dando ancora) del mio meglio per condividere con tutti voi questo testo. Vi posso assicurare che ogni parola tradotta non è messa lì a caso. Spero che apprezzerete i frutti del mio lavoro e quello dell'autrice. :)
se cercate la versione originale in inglese la potete trovare qui. L'ultima cosa che voglio dirvi è che aggiornerò una volta a settimana (anche di più se possibile).
Buona lettura! ;)

Capitolo 1: Prologo
Non sapevo se ero cosciente o no; ero nel bel mezzo di un sogno?
Il dolore esplose come un vulcano dentro di me; l’agonia devastava tutto il mio corpo. Era distruttivo, molto. Sarebbe mai andato via il dolore? Non riuscivo a pensare in modo lucido; c’era solo dolore agonizzante. Non c’era una fonte nel dolore che sentivo; era dappertutto. Era il mio essere. Poteva un sogno sembrare così realistico? Non riuscivo a pensare chiaramente dal momento che avevo perso il concetto di realtà rispetto a illusione. Quelle erano sirene della polizia? Perché erano così rumorose, così terribili da sentire? Stavo tentando di dormire per scacciare via il dolore; non potevano fare silenzio per un momento, cazzo?
Dove mi trovavo, comunque? Che cosa cavolo stava succedendo?
Faceva caldo, molto caldo. Una calda e umida notte d’estate. Probabilmente ci sarebbe stato un temporale più tardi.
Avevo tentato di dormire, ma diventò subito ovvio che con la polizia intorno sarebbe stato impossibile. Fottuta polizia, pensai.
Aprii lentamente gli occhi, con calma. Era una buona idea? Probabilmente no. Ma avevo bisogno di sapere cosa stava succedendo. Cercai con tutte le mie forze di rimanere a galla, di non affondare sotto lo schiacciante muro di dolore che cercava in tutti i fottuti modi di spingermi giù. Le mie palpebre erano pesanti; combattevano contro di me, pregandomi di avere pietà di loro e di me stesso. La vista che spettava ai miei occhi non sarebbe stata piacevole. Nemmeno un po’. Non capivo come facevo a sapevo pur non conoscendo quello che stava succedendo.
Sapevo cosa stava succedendo? Forse si. Mi resi conto che c’era una assurda familiarità in quella situazione. In uno sforzo di concentrazione, lasciai le mie palpebre vincere la battaglia e rimanere chiuse per un momento. Sapevo cosa mi aspettava? No. Mi sentivo come se lo avessi già saputo a un certo punto, ma me lo ero dimenticato. Non c’era tempo per pensare. Il dolore era insopportabile. Dovevo star morendo. Era impossibile che potessi superarlo. Le sirene della polizia mi facevano infuriare; non mi aiutavano a tenere il filo a malapena esistente dei miei pensieri. State zitti, state zitti, per l’amor del fottuto cielo, fate silenzio, cazzo. Nessuno ha chiesto la vostra presenza, comunque.
Mi sentivo paralizzato. Sarei riuscito a muovere la gamba se avessi tentato? Avevo paura di provare. E se fossi stato paralizzato? Sarebbe stato una merda. Sarebbe stato davvero, davvero una merda in realtà. Ma aspetta, perché sarebbe stato così una merda? Soprattutto se questo era un sogno, allora non sarebbe stato importante. Perché poi mi sarei svegliato. Ma mi sarei davvero svegliato?
Perché era così fottutamente difficile tenere un filo di pensieri coerente?
Forse dovrei riprovare ad aprire gli occhi. Questa volta si aprirono con poco sforzo; il che era stupido visto che prima mi ero sforzato tanto ma senza risultato. In ogni caso... Perché tutto il corpo mi faceva così male? I miei occhi si adattarono lentamente prima di mettere a fuoco la scena che mi si parava davanti. Le luci accecanti delle macchine della polizia si proiettavano direttamente nei miei occhi da ogni angolo. Se non fosse stato per loro il cielo sarebbe stato nero come la pece. Averi voluto che le luci se ne andassero; mi faveva male la testa. Mi faceva male tutto in realtà, ma capii che molto del dolore era concentrato in testa. Incredibile.
I poliziotti erano ovunque. Circondavano la macchina; a quanto pare ero in una macchina. Aveva senso, credo. Per quale altro motivo la polizia avrebbo dovuto circondarmi? Non lo sapevo. La polizia era stupida, comunque. Non avevano niente di meglio da fare. Non c’era bisogno che stessero qui; andate a rompere qualcun altro. Una fresca stilettata di nuovo dolore mi attraversò e serrai nuovamente gli occhi. Porca miseria. Dovevo scoprire che cosa stava succedendo.
Controllai se le mie dita funzionavano ancora, perché non ne ero sicuro ovviamente. A quanto pare erano apposto. Mi stavo aggrappando a qualcosa? Sotto le punte delle dita sentivo una superficie levigata di cui prima non ero consapevole. Aprii di nuovo gli occhi. Le mie dita si trovavano sul volante di una macchina. Avevo guidato? Sembra di sì. Del sangue mi copriva le dita. Più i miei occhi indugiavano e più notavo la quantità di sangue che copriva l’interno dell’auto e il mio stesso corpo. I poliziotti si urlavano contro a vicenda; che mucchio di animali. Calmati, va tutto bene.
Solo un po’ di sangue. Ecco il dolore, ed era intenso, oh dio mi avrebbe ucciso probabilmente, ma non importava. Nulla importava. Non era reale dopotutto. Oppure si. Entrambi. Non importava. Lasciateci in pace, cazzo.
Lasciateci? No, mi sbagliavo. C’ero solo io. Stavo guidando da solo, giusto? Non mi ricordavo. Ma con questa confusione e angoscia pregai fossi stato da solo. Nessun altro meritava di soffrire in questo modo; mi sarei addossato tutto io piuttosto. Se morire ora era il mio destino, finché ero solo io, mi andava bene. La mia visione divenne nitida non appena la nebbia nella mia mente iniziò a diradarsi. Il dolore non si era affievolito ma stavo tornando ad essere coerente.
Ricordi di quella notte affluirono di nuovo; avevo passato la serata ad un party. Era uno di quei soliti party delle scuole superiori con bicchieri di plastica rossa e coppie che si appartavano in ogni angolo buio. Pensavo che l’idea dei party in generale fosse stupida, davvero, ma la disponibilità di alcolici era troppo allettante per lasciarsela scappare. Tutti andavano, a meno che la loro posizione sociale non fosse terribile. La mia era abbastanza marginale ma a nessuno fotteva un cazzo di quello che facevo; ero libero di parteciparvi se volevo. Così, si, ero stato ad un party. Dovevo essermi ubriacato di brutto, il che spiegherebbe la nebbia che aleggiava nella mia mente. Mi ricordavo vagamente di essermi fatto delle foto con un gruppo di altri ragazzi della scuola. Tipiche cose da venerdì sera.
Quando esortai il mio cervello a ricordare di più della serata, mi ricordai che ero andato al party con Armin. Ci eravamo andati insieme, certo. Oh, giusto. Mi ero offerto di guidare io al ritorno visto che ad Armin non piaceva guidare quando era ubriaco; aveva esitato a lasciarmi guidare ma alla fine aveva accettato riluttante quando gli avevo assicurato che sarebbe andato tutto bene e che avevo guidato tantissime volte dopo aver bevuto. Il che non era una bugia. Avevo chiesto ad Armin di fidarsi di me quella sera ed, essendo il ragazzo perfetto, lo aveva fatto. Mi stavo ricordando tutto ora; avevo continuato a guidare, non ero riuscito a mettere bene a fuoco, una forte luce era improvvisamente piombata su di noi e tutto era diventato nero a quel punto, finché non mi sono svegliato confuso, che è quello che sta succedendo adesso.
Appena richiamai alla mente che Armin era nella macchina con me, un agonizzante senso terrore iniziò a sopraffarmi. Avevo paura di spostare il mio sguardo sul sedile dei passeggeri, paura della visione che i miei occhi avrebbero incontrato. La familiarità della situazione mi trafisse come se un pugnale mi stesse attraversando il cuore. Il mio subconscio aveva capito cosa stava succedendo ma io non ancora, e non avevo esattamente fretta di scoprirlo. Quando riaprii gli occhi scoprii che la polizia era ancora più vicina ora e che avrebbero aperto le porte della macchina da un momento all’altro. Potevo vedere le loro bocche muoversi rapidamente mentre si sputavano ordini l’un l’altro. I finestrini erano aperti ma per via dello squillante lamento delle sirene non riuscivo a sentire cosa si stavano dicendo. Un’altra stilettata di dolore si propagò in me ma feci del mio meglio per ignorarla. Il dolore era ancora lancinante ma non credevo più che quelli fossero i miei ultimi attimi.
La mia macchina si era schiantata; non c’era dubbio a riguardo. Analizzai l’area direttamente di fronte ai miei occhi per vedere se riuscivo a individuare l’altra macchina coinvolta, ma era fuori dalla mia visuale. C’era un lampo nel cielo che non era una delle luci sulle macchine della polizia; era iniziato un temporale. Pensai di aver udito un tuono sovrastare il suono delle sirene ma potrei averlo immaginato, credo. Non ero ancora sicuro se fossi bloccato in un sogno o nella realtà, ma me ne sarei preoccuparo dopo. Conclusi che avevo solo un minuto o due prima che la polizia mi tirasse via dalla macchina, dovendo aprire le portiere molto probabilmente danneggiate. Fuori iniziò a diluviare; era come se un’enorme secchio di acqua ci fosse stato semplicemente gettato addosso. I poliziotti stavano ancora trafficando e io sentii il suono di una nuova sirena unirsi alle altre. A quanto pare era entrata in scena anche l’ambulanza.
Non avevo più tempo e non potevo più evitare di guardare il sedile del passeggero. Girai molto lentamente la mia testa dolorante per affrontare il sedile a me adiacente. Inspirai pesantemente non appena i miei occhi si adattarono a qullo che stavo vedendo.
Urlai. Era più forte di me.
Il corpo senza vita di Armin era piegato in modo grottesco e c’era sangue ovunque; molto di più di quello che era sparso attorno a me. Si poteva affermare che era morto sull’impatto. L’angolo e la forza di collisione aveva colpito Armin in modo tale che non avrebbe superato la notte neanche se l’impatto non lo avesso ucciso. Stavo urlando, urlando più forte che potevo, incapace di elaborare ciò che stava succedendo. L’agonia mi lacerava e potevo percepire le lacrime di isteria iniziare a sgorgare dai miei occhi sul mio viso. Non poteva essere Armin; non poteva essere il mio dolce, premuroso ragazzo che si era fidato di me nonstante il suo buonsenso. Quel corpo orribilmente deformato di fronte a me non poteva essere Armin. Semplicemente non poteva. Guardai li suo viso; il sangue stava scorrendo sopra i suoi occhi chiusi. Occhi che non si sarebbero mai più aperti per vedere la luce. La sua bocca era aperta e il sangue scorreva anche da essa. Non avevo mai visto nulla di così terrificante in vita mia. L’immagine del corpo del mio ragazzo mi avrebbe perseguitato per sempre.
Ero vivo. Ce l’avevo fatta.
Io ero il guidatore.
Io avevo causato l’impatto; era impossibile che non fossi stato io.
Il che significava che era totalmente colpa mia.
Ero io la ragione per cui il mio ragazzo sedeva senza vita nel sedile accanto al mio.
Cercai freneticamente di separarmi dalla cintura così da poter raggiungere Armin; un vano tentativo di salvare quello che era già andato. Le mie dita stavano tremando visibilmente e feci fatica anche solo per premere il bottone che mi avrebbe liberato della cintura. Alla fine raggiunsi il mio obbiettivo e mi gettai sul corpo di Armin, avvolgendo disperatamente le mie braccia attorno al corpo insanguinato. Una parte del mio subconscio si rendeva conto che stavo ancora urlando a squarciagola anche quando mi ero aggrappato a quello che fino a meno di un’ora prima era stato il mio magnifico, vivace Armin. Visto che sebbene il tempo in cui ero stato seduto lì in macchina mi sembrava essere durato ore, in realtà era passata solo una mezz’ora dall’impatto. Le mie lacrime non smettevano di sgorgare dal mio viso; alcune caddero sul corpo immobile di Armin e si mischiarono con fiotti di sangue fresco per creare una inquietante parodia annacquata della sostanza cremisi.
I poliziotti si erano finalmente dati una mossa, e sentii la portiera dal lato del guidatore venire smontata da un agente. Non mi girai verso di lui; mantenni la mia attenzione sul corpo spezzato cullato dalle mie braccia. Dopo una breve pausa sentii la voce dell’agente.
“Signore, deve uscire fuori dalla vettura.”
Non mi mossi. Continuai a protendermi dal sedile del guidatore a quello del passeggero. Continuai a singhiozzare e guardare il mio ragazzo a malapena riconoscibile. Non riuscivo più a sentire dolore nel mio corpo; c’era ancora, ma era l’ultimo dei miei pensieri. Il poliziotto sospirò alle mie spalle prima di avanzare a carponi nella macchina per riuscire ad afferrarmi. Scorrevo le dita sui biondi e morbidi capelli di Armin che ora erano arruffati e macchiati di rosso cremisi quando sentii l’agente avvicinarsi a me. Un paio di mani ferme mi afferrarono la vita e io tentai vanamente di spingerlo via per non lasciare li fianco del mio amore.
Mi stavano tirando via da Armin e io urlai, “lasciatemi cazzo! Non lo lascio!”
Dalla voce dell’agente trapelava compassione, “Sono terribilmente dispiaciuto, ma se ne è già andato. Non c’è più niente da fare.”
Continuai a contorcermi, cercando di tirare pugni all’uomo senza motivo. L’uomo tolse una delle sue braccia da me e lo usò per staccare le mie dal corpo di Armin. Non ero forte abbastanza da riuscire a iniziare la lotta richiesta per fermare l’agente, e non mi rimase nessuna altra scelta se non quella di strillare di dolore mentre perdevo il contatto con il corpo di Armin. Mi rifiutavo di staccare il mio sguardo dal mio ragazzo senza vita anche quando l’uomo mi sollevò e mi trasportò fuori dall’auto.
-x-
Mi svegliai dal mio incubo urlando e i movimenti che stavo facendo nel mio sogno si erano trasformati in reltà. Il mio braccio si scagliò sulla superficie del comodino di fianco al mio letto e sbattè contro gli oggetti che vi tenevo sopra; una bottiglia tondeggiante di pillole cadde sul pavimento facendo rumore assieme al rasoio.
Era stato un incubo, ma un incubo che rievocava l’evento che aveva determinato la mia imminente caduta in basso dall’essere un essere umano decente.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2: Ponendo le basi ***


Sommario:
Un breve sommario della vita di Eren dopo l’incidente.
Note:
Canzone suggerita (suggeritami da un lettore, e penso sia perfetta) : Schism dei Tool.
(guarda alla fine del capitolo per ulteriori note.)
Capitolo 2: Ponendo le basi
Il mio nome è Eren Jeager, e per dirlo senza mezzi termini, sono dipendente dall’autodistruggermi.
Un sospiro amaro mi sfugge dalle labbra sottili non appena sento il pungente bacio del rasoio contro la carne del mio braccio. Un familiare senso di sollievo mi inonda quando fisso le goccioline cremisi che zampillano dalla linea che mi sono appena scavato nella pelle. Il mio braccio è già ornato con una delicata rete di linee simili a questa, che variano da un rosso brillante a un bianco pallido. Sposto leggermente il braccio e guardo mentre una goccia di sangue comincia a scivolare giù dalla mia ferita. Se non muovo nuovamente il braccio questa cadrà sulla trapunta blu chiaro distesa sul mio letto. Non posso disturbarmi a muoverlo in tempo; nessuno viene in camera mia, in ogni caso. È da tempo che le persone hanno smesso di avvicinarmisi. Mikasa stessa era nel suo mondo, ritirata da tutti, incluso me. Mio papà non c’era mai, comunque, e mia madre è ignorante in modo inquietante sulle vite dei suoi figli. Per quanto la riguarda sta tirando su due adolescienti perfettamente felici che si sono elegantemente ripresi dopo la morte del loro migliore amico d’infanzia.
Al ricordo della morte di Armin tornai nuovamente inquieto, nonostante la ferita che mi ero inferto al braccio sinistro. Un anno dopo la morte di Armin, e ancora ero incapace di venirci a patti. Le persone mi avevano costantemente ripetuto che non avrei dovuto sentirmi in colpa, che non era colpa mia. Ma nessuno può convincermi che se non fossi stato un adolescente casinista che aveva deciso di guidare mentre era completamente ubriaco Armin sarebbe morto comunque. Perche non sarebbe successo. Armin non avrebbe più sorriso raggiante al mondo, ed era colpa mia. Sarà sempre colpa mia.
Il panico cresce in me ai miei pensieri rivolti ad Armin; i ricordi di lui sono ancora troppo dolorosi da sopportare, considerando che la mia salute mentale non è particolarmente forte in questi giorni. Una macchia di sangue piuttosto grossa si è espansa sul lenzuolo mentre ero perso nei miei pensieri. Sollevo la lama del rasoio nella mia mano destra per librarlo sulla carne del braccio prima di tagliarmi volocemente la pelle, guardando mentre la fessura si apre e il sangue appare quasi immediatamente. Mi è tornata la calma; il dolore fisico ha rimpiazzato quello emozionale per poi lasciarmi seduto con la mente annebbiata, fissando i tagli sanguinanti che mi sono appena inferto.
Mi sono fatto questo periodicamente per un anno. Per un anno sono stato un mostro privo di un normale funzionamento da essere umano. Non ho più alcun amico o nessun altro a cui importi qualcosa di me; ho tagliato i ponti con tutti (in modo intenzionale e non) da un bel po’. I miei unici amici sono la mia collezione di lame di rasoi e altri oggetti utili di cui dispongo.
Non riesco più ad affrontare alcuno stress o peso emozionale; il mio primo pensiero quando qualcosa va anche solo leggermente peggio è che ho bisogno di farmi del male. Anche se è solo un graffio o una leggera scottatura, ho bisogno di dolore per superare la giornata; mi faccio del male in tutti i modi possibili. Ho bisogno di sonniferi per superare la notte; gli incubi sono diventati troppo estenuanti per riuscire ad affrontarli. Mi piace come mi sento con le droghe medicinali e mi sono innamorato della sensazione di vuoto del non mangiare per un intero giorno.
Credo che dovrei spiegare come tutto è andato a finire in questo modo così da rendervi tutto più comprensibile. Partirò dall’inizio; dal momento che confessai i miei sentimenti ad Armin Arlet.
-x-
Avevo quindici anni quando cofessai ad Armin di provare dei sentimenti per lui. Sapevo già da più di un anno che i miei sentimenti per lui andavano oltre la semplice amicizia, ma non avevo mai fatto niente fino ai miei quindici anni. Era il giorno di San Valentino, e avevo deciso che sarebbe stato il momento migliore per far sapere ad Armin cosa sentivo verso di lui veramente.
Gli avevo comprato una scatola di cioccolatini; niente di così complicato, semplicemente una normalissima scatola a forma di cuore che conteneva cioccolatini assortiti. Lo avevo invitato a casa mia dopo la scuola quel pomeriggio, e avevamo camminato l’uno affianco all’altro dopo il suono dell’ultima campanella (la Maria High School era vicina alle nostre case così che i nostri genitori ci avrebbero fatto andare e tornare a piedi finchè non avremmo preso il diploma). Indossava un maglione bianco e dei jeans chiari e scoloriti, io una maglietta grigia a maniche lunghe e dei jeans blu scuro. Armin era adorabile quano indossava i maglioni, che erano sempre leggermente troppo grandi per lui. Avevo lasciato la scatola di cioccolatini sul letto, così avrei dovuto assicurarmi di essere il primo ad entrare in camera mia per poter nascondere la scatola dietro la schiena prima di dichiararmi ad Armin. Mi affrettai davanti a lui e una volta che Armin entrò in camera chiudendosi dietro la porta, nascosi i cioccolatini secondo il programma.
Mi guardò con aria interrogativa non appena notò il mio sorrisetto imbarazzato e le mie braccia goffamente noscoste dietro la schiena. Prima che lui potesse dire anche una sola parola, gli dissi “ho una sorpresa per te.” Tirai fuori la scatola di cioccolatini e gliela porsi. Vidi un leggero colorito rosato spargerglisi lieve sulle guance mentre prese delicatamente la scatola dalle mie mani; sono sicuro che fosse l’ultima cosa che si aspettava.
Armin sembrava insicuro su cosa dire, così continuai io. “Volevo solo farti sapere che sei importante per me, Armin, ma più di un amico normale. Mi va bene se non provi anche tu le stesse cose, perché non mi aspetto che tu lo faccia, ma volevo semplicemente dirti quello che provo.” Avevo il viso accaldato e avrei scommesso che fosse cosparso di colore tanto quanto il suo. Il silenzio aveva riempito l’aria per un lungo momento prima che Armin prendesse un lungo respiro e mi regalasse il sorriso più raggiante che avevo mai visto. Mi gettò le braccia al collo con la scatola di cioccolatini ancora in mano e si protese verso l’alto così da avere il viso alla stessa altezza del mio. Il suo viso era di un rosso acceso mentre eliminava la distanza dei nostri volti, dandomi un inaspettato ma dolcissimo bacio sulle labbra. Sorrisi nel bacio, assaporando il sapore delle labbra morbide di Armin contro le mie. Il bacio era stato incredibilmente delicato, e non mi sarei aspettato nulla di meno da lui.
“Mi piacevi da un sacco di tempo, Eren.” Ammise Armin parlando così piano che dovevo sforzarmi per sentirlo. Il mio cuore si agitava pieno di gioia allo stato puro quando Armin mi avvolse le braccia dietro la schiena e mi diede il più dolce abbraccio che avevo mai ricevuto. Buon Dio, tutto ciò che quel ragazzo faceva era così fottutamente adorabile. Quando il nostro abbraccio si sciolse, ci sedemmo fianco a fianco sul mio letto a doppia piazza, adornato con la stessa trapunta blu chiaro che ora è disseminata di macchie di sangue. Armin mi disse che aveva pensato a me come a qualcosa di più di un amico già da quando aveva tredici anni (più a lungo di quando io provavo qualcosa per lui) e aveva deciso di non dirmelo per paura di rovinare la nostra amicizia. La mia dichiarazione era andata mille volte meglio di quanto pensassi; il risultato era assolutamente perfetto.
Armin divise i suoi cioccolatini con me mentre chiacchieravamo finché alla fine del pomeriggio la finimmo tutta e Armin doveva tornare a casa sua. Prima di lasciare la mia stanza, lo afferrai delicatamente e gli diedi il bacio della buonanotte. Armin ridacchiò dopo avermi spinto via e io potevo letteralmente sentire il mio cuore sciogliersi.
Pensavo che saremmo sicuramente rimasti insieme per tutto il resto delle nostre vite.
E fino al giorno dell’incidente, lo eravamo stati. Tutti i nostri amici sapevano che stavamo insieme e tutti concordavano sul fatto che fossimo una coppia perfetta. Le nostre personalità erano opposte in generale; Armin era calmo e incredibilmente intelligente mentre io sono sempre stato impetuoso e testardo. Non c’è dubbio sul fatto che sarrebbe stato Armin a fare il discorso di commiato il giorno del diploma alla Maria High School. La consapevolezza che non ne avrà mai la possibilità mi fa male.
La nostra relazione era dolce e piacevole, una di quelle in cui entrambi i membri non desideravano altro che stare seduti l’uno vicino all’altro e essere connessi da un semplice abbraccio. Io e Armin non avevamo fatto sesso finché non compimmo entrambi sedici anni; erano passati solo sei mesi dal principio della nostra relazione quando decidemmo che era il momento. La nostra prima volta era stata impacciata e goffa (dato che era stata la prima volta per entrambi) ma era stata speciale perché eravamo così totalmente innamorati che avrebbe potuto fare schifo e sarebbe comunque stato il miglior momento di tutta la nostra vita. Non dimenticherò mai quello che provavo quando i nostri corpi erano premuti l’uno contro l’altro, l’essere connesso alla persona di cui m’importava di più in tutto il mondo.
Avevo conosciuto cosa fosse la felicità. La felicità era stringere la mano di Armin mentre camminavamo tranquillamente nel parco. La felicità era accarezzare la sua pelle morbida mentre era disteso fra le mie braccia, semplicemente godersi la compagnia l’uno dell’altro. Quell’anno passò in un batter d’occhio, e a volte sembra che nulla di questo sia mai realmente accaduto. Ogni tanto, ho ancora il dubbio che la nostra relazione sia avvenuta realmente. Sono giorni in cui mi sento insostenibilmente distaccato da tutto (beh, più del solito).
Armin era il mio tutto. Certo, era importante anche Mikasa visto che era mia sorella e la mia migliore amica, ma non ero perdutamente innamorato di lei. Tutto di Armin mi faceva sciogliere, dai suoi capelli biondo miele lunghi fin sotto le guance che raccoglieva in un codino nelle giornate calde. Era lui quello che non perdeva mai la pazienza con me, che non si era mai scocciato eccessivamente di affrontare le mie stronzate. E c’è molto da dire sulle persone che riescono ad affrontare le cazzate degli altri senza eccezioni. Non mi innamorerò mai di una persona come mi sono innamorato di Armin. In primo luogo, io sono un inutile pezzo di merda che non merita amore, comunque, ma ne parleremo dopo.
Ero sempre stata una persona elastica; solitamente riuscivo ad affrontare qualsiasi porcheria la vita tentasse di rifilarmi. Armin solitamente era la ragione principale del mio essere capace di affrontare qualunque problema. Con Armin al mio fianco, ero invincibile. Credevo che ci fosse un futuro ad aspettarmi, che la vita valeva la pena di essere vissuta. Tutto ciò si era frantumato dopo l’incidente.
-x-
Avevo pregato costantemente Dio di farmi tornare alla notte fatale del party, avevo pregato Dio di prendere me e non il mio Armin. Uno sforzo inutile; non esistevano cose come seconde chance nella vita reale, ora lo avevo capito. Una volta che sei fottuto, sei fottuto, cazzo. E io ero davvero fottuto.
Il funerale di Armin era stato uno dei due momenti peggiori della mia vita, secondo solo al reggere tra le braccia il suo corpo sanguinante e senza vita mentre pregavo di non essere portato via da lui. Potevo sentire gli sguardi accusatori della famiglia di Armin; mi avevano detto che non era colpa mia ma si capiva bene che non intendevano veramente le parole che uscirono dalle loro bocche tormentate. Armin era stato talmente straziato dall’incidente che la sua bara era rimasta chiusa durante tutto il funerale. Mi distruggeva completamente la consapevolezza che l’ultimo ricordo che avevo di lui fosse il suo viso angelico insanguinato e menomato e non mentre mi assicurava con serenità che avrebbe superato con successo tutto ciò che lo avrebbe atteso nell’aldilà. Mikasa mi stette vicino lungo tutta la cerimonia, cercando di darmi conforto; non piangeva. Fissava lo spazio davanti a lei in modo assente, che sarebbe diventata la sua espressione tipo per tutto il resto dell’anno seguente.
Lacrime calde e terribili mi scorrevano sul viso durante tutto il funerale e continuarono a scendere abbondanti anche a casa la sera. Mia madre mi teneva come un bambino, cullandomi nel suo grembo mentre piangevo. Ero stanco di piangere, cazzo; le lacrime non aiutano. Piangere non fa tornare in vita le persone morte a scapito dei tuoi futtuti errori. In quel momento non volevo altro che fermare le lacrime, anche solo per qualche momento. Quella notte per la prima volta mi feci del male da solo apposta; un tormentoso momento di disperazione che mi avrebbe portato a molte più cose di quanto mi sarei aspettato.
Non ho iniziato a tagliarmi da subito; ci avrei impiegato un paio di mesi per arrivare a quel punto. Quando mi sedetti nella stanza chiusa, non avevo a disposizione nessuno strumento che si sarebbe potuto dimostrare utile. Quindi ciò che feci fu alzarmi la manica sinistra della felpa nera che stavo indossando (mi ero cambiato dopo il funerale e anche se era ancora estate da allora mi sono sempre sentito freddo fin nelle ossa), ho poggiato la punta di un’unghia su un lembo di pelle per poi trascinarla bruscamente su quest’ultimo. Le mie unghie avevano bisognio di essere tagliate, infatti erano abbastanza taglienti dal momento che grazie a loro riuscii a graffiarmi per bene il braccio. Una solo movimento non era stato abbastanza; si era formato un segno rosso ma non sentivo nemmeno un po’ di dolore. Così riportai l’unghia sul punto che avevo graffiato e lo feci ancora e ancora finché anche gli ultimi brandelli di pelle non erano stati strappati via dal vigoroso avanti e indietro dell’unghia, lasciando una chiazza di pelle viva che bruciava al tocco. Premetti le dita sulla ferita ovale, focalizzado tutta l’attenzione su quanto pizzicasse subito dopo il contatto.
Avevo smesso di piangere. Mi ero distratto dal dolore delle mie emozioni e avevo sospirato di sollievo quando il dolore fisico aveva rimpiazzato la mia tortura psicologica per qualche minuto. Quadrava tutto perfettamente. Meritavo di provare dolore. Meritavo di soffrire per essere stato dal lato del guidatore quella notte. Mi ero ripromesso che farmi del male non sarebbe diventata un’abitudine, comunque. Lo avrei fatto solo in situazioni estreme come oggi. Armin non avrebbe mai voluto questo per me, anche se lo meritavo del tutto. Avevo tutte le intenzioni di rendere l’autolesionismo un’occasione rara, e credevo veramente che ne sarei stato capace. Se qualcuno avesse notato il graffio sul mio braccio, tutto ciò che avrei dovuto fare sarebbe stato dire che avevo graffiato il braccio da qualche parte. Nessuno avrebbe avuto motivo di dubitarne, perché sembrava un graffio che ci si fa quando si cade dal marciapiedi e si struscia la pelle sull’asfalto.
Visto che era ancora estate da quando Armin se ne era andato, avevo tempo prima di dover affrontare nuovamente la scuola. Se non altro, il bisogno di distrazioni giornaliere e interazioni sociali si sarebbe dimostrato più d’aiuto delle lunghe giornate seduto da solo a piangere nella mia stanza e fissare il muro mentre la realtà continuava a schiaffeggiarmi in viso con il ricordo che il mio ragazzo non avrebbe mai più avuto la possibilità di camminare in terra. Nonostante ciò, mantenni la mia decisione di non farmi del male se non assolutamente necessario. Tuttavia, dopo il mio isolamento autoimposto, persi in fretta la capacità stringere relazioni sociali, e ritornare a scuola fu brutale.
Mi irritavo facilmente; molto più facilmente di quanto avessi mai fatto prima. Le parole di consolazione della gente che avrebbero dovuto confortarmi non facevano altro che farmi incazzare. Stavo bene e dovevano smettere di cercare di aiutarmi. Non ero un poveraccio. Assicuravo tutti che stavo venendo a patti in modo normale con la morte di Armin come tutti, e le persone sembravano essere felici di ciò. Il che mi faceva incazzare, perché stavo mentendo in modo così ovvio. Le persone credono troppo in fretta a tutte le stronzate che escono dalla mia bocca. Stai bene? Certo, dico mentre gli occhi mi bruciano, le lacrime minacciano di uscire dai miei occhi e mi tremano le labbra facendomi a malapena farfugliare. Oh, bene! Dicono; sono contenti di sentirsi dire che tutto sta adando al meglio.
Onestamente, non so se sono davvero così fottutamente stupidi e ignoranti o se semplicemente non gliene fotte un cazzo. Probabilmente entrambe le cose insieme. Non me ne fotte un cazzo in realtà, finché non lasciano in pace me.
Ho fatto in fretta a spingere via tutti i miei amici e isolarmi ancora di più dal mondo. Hanno cercato di farmi distrarre dalla mia tristezza; hai voglia di vederti un film insieme, Eren? No, in realtà, non ne ho proprio voglia, cazzo, qiundi lasciami in pace e fammi andare a casa a chiudermi a chiave in camera mia per il resto della notte. Nonostante la preoccupazione dei miei amici fosse più vera di quella degli altri, non ha comunque mai smesso di farmi incazzare. Ho addirittura quasi iniziato una rissa con uno dei miei vecchi amici e gli avevo dimostrato di essere l’ultimo dei loro pensieri. Mi hanno detto che avevano tentato pazientemente di aiutarmi con il mio dolore, ma se avevo intenzione di prendermela con loro fino al punto di arrivare a picchiarli, non avrebbero potuto continuare a essere miei amici. Gli sibilai sputacchiando che lo volevo anche io, comunque, quindi potevano smetterla di sprecare tempo con me e stare fottutamente fuori dalla mia vita. Senza contare che ero considerato una causa persa. La cosa che fa più schifo è che non riesco neanche dimostrargli il contrario; sono veramente una causa persa in un mondo di merda.
Gli insegnanti del terzo anno di scuola superiore erano stanchi della mia svogliatezza nel fare i compiti. Mi avevano dato la possibilità di essere in lutto, ma avevano deciso in modo unanime che due mesi erano abbastanza e che la morte del mio migliore amico non era più una scusa tollerabile per non fare niente. Mia madre riceveva spesso chiamate con la comunicazione che avrei dovuto iniziare a impegnarmi. All’inizio, trattò le chiamate con preoccupazione e si assicurava di parlarne seriamente con me ogni volta che ne riceveva una, ma si arrese col tempo. La mia mancanza di intresse per ogni singola situazione ha fatto arrendere anche lei, con la speranza che avrei trovato da solo un modo per uscirne, perché solo io potevo riuscirci ora.
I professori mi stanno ancora attaccati al culo, ma difficilmente si proccupano di tentare di farmi fare qualcosa, perché sanno che probabilmente non lo farò. Ora come ora, mi domando se qualche college al quale potrei iscrivermi mi potrebbe accettare. Ma comunque... che importa il college quando posso rimanere seduto da solo nella mia stanza per il resto della notte a guardare il sangue scendere dal mio corpo?
Credo che dovrei sforzarmi un po’ di più a spiegare l’autolesionismo che ho praticato dall’incidente fino a ora. Da quel primo graffio ho resistito un paio di settimane prima di iniziare a sentire la prurigginosa voglia di dolore fisico. Ho provato a trattenermi dal farlo di nuovo per non deludere Armin, ma una notte dopo una chiamata di mio papà, non ce l’ho più fatta. Aveva tentato di essere un “papà amorevole” dopo la perdita di Armin. Ma da quando io sono diventato più distante, lui è diventato più frustrato. Quelle telefonate sono presto diventate una scusa per dirmi che razza di pezzo di merda sono, che dovevo piantarla con tutte quelle stronzate e iniziare a lavorare seriamente per diventare un funzionale membro della società. Non so nemmeno perché facevo ancora lo sforzo di tirare su la corentta; tutto ciò che mi diceva erano cose che sapevo già. Confermava solo il mio disgusto verso me stesso, e lo rendeva ancora peggiore.
Dopo che una delle chiamate di papà mi aveva lasciato più sconvolto del solito, prima che potessi anche solo elaborare quello che stava accadendo, stavo già grattando con furia le mie unghie avanti e indietro sulla superficie della mia pelle. Una gocciolina di sangue si formò sulla ferita; mi ero graffiato abbastanza forte da sanguinare. Fissai la ferita come intontito. Bruciava. Oh dio, bruciava così bene. Questo tipo di ferite rendevano le doccie del giorno dopo un inferno; un’esperienza che faceva proprio al caso mio. Mi meritavo di sentirmi bruciare come se stessi all’inferno. L’acqua bollente mi scorreva sempre sulle ferite fresche e il dolore mi trapassava da parte a parte, chiudevo gli occhi e lasciavo che il dolore lavasse via il mio intero essere. Una sensazione che crea dipendenza.
Ero ancora deciso a non diventare dipendente dal dolore, anche solo per il volere di Armin. Ma Armin non era più qui, e questa consapevolezza affondava sempre più profondamente in me al passare del tempo. La mia determinazione vacillò, e il mio braccio sinistro venne coperto di larghe ferite ovali dovote al mio stesso graffiarmi. Alla fine, anche quelli smisero di saziare la mia sete di dolore tangibile. Mi impossessai di un accendino e presi a posare il braccio direttamente sulla fiamma, lasciando la mia carne bruciare mentre sospiravo di sollievo. Potevo controllare il mio dolore, era bellissimo.
-x-
La mia discesa nell’autolesionismo è stata così veloce che ero stato a malapena in grado di elaborare in che casino mi ero cacciato. Un paio di mesi di scuola ed ero limitato alle maniche lunghe; avevo troppe cicatrici e bruciature da poterle far passare per incidenti. Finché era autunno, le felpe facevano parte dell’abbigliamento standard e nessuno faceva domande sul mio evitare le maniche corte. Non che a qualcuno fottesse un cazzo. Ma comunque il punto è che quello fu l’inizio della mia vita in cui letteralmente non ho mai mostrato le braccia in pubblico. Non avevo mai realmente capito che privilegio fosse quello di avere l’opzione di indossare una maglia a maniche corte fiché non me lo ero tolto. Nonostante questo tecnicamente avrei potuto indossare ancora magliette a maniche corte se davvero avessi voluto, ma preferivo essere io l’unico a chiamarmi mostro. Nessun altro poteva capire che il dolore era un meccanismo di difesa per me, un modo per affrontare i demoni che davano la caccia alla mia anima in ogni momento della giornata.
Il mio autolesionismo mi faceva capire quanto ero solo al mondo, e quanto lo sono ancora.
Dopo pochi mesi di graffi, scottature e occasionalmente colpi o morsi sulla pelle, la mia curiosità sul come doveva essere provare sollievo con la lama di un rasoio era troppo forte per resistere. Avevo avuto una giornata di merda a scuola; i professori avevano passato la giornata a farmi la predica sul come mi sarei rovinato completamente il futuro se non avessi cambiato qualcosa al più presto. Per quanto mi riguardava, era stato rovinato nel secondo in cui avevo causato lo schianto che aveva portato Armin via da me. La chiamata di papà la notte prima era stata abbastanza dura da farmi tremare di rabbia dopo avergli attaccato in faccia senza salutare; l’intera conversazione era letteralmente stata lui che mi diceva quanto cazzo sono inutile ed è arrivato a dire che avrebbe voluto che fossi morto anche io nell’incidente. Oh, come vorrei essere morto anche io assieme ad Armin. Mi sarei risparmiato questo inferno autoinflitto con cui mi ero ossessionato. Ma mi aveva comunque scosso sentirmi dire una cosa simile dal mio stesso papà; non eravamo mai andati molto d’accordo, ma non era mai stato così crudele prima. Anche la beata ignoranza di mia madre mi irritava; come faceva a non notare che c’era qualcosa di terribilmente sbagliato nei suoi figli?
Essenzialmente, faceva schifo tutto e la vista del mio stesso sangue non era mai stata tanto invitante. Così per la prima volta, dopo l’ultima campanella, non sono tornato subito a casa. Mi sono fermato al primo ferramenta e ho comprato una piccola scatola che conteneva alcune larghe lame di rasoio, infilato nella tasca dei jeans nella via del ritorno. Mamma era a casa quando sono arrivato; doveva essere uscita da lavoro prima. Mi aveva sorriso e non appena mi aveva visto oltrepassare la porta di casa mi aveva chiesto come era andata la giornata. Evitai i suoi deprimenti occhi inconsapevoli e borbottai che era andato tutto bene prima che scendessi dal letto, chiusi la porta dietro di me. Anche Mikasa era già in camera sua.
Mi sedetti a gambe incrociate sul letto e pescai la scatoletta dalla tasca. Indossavo una felpa bianca quel giorno; aveva un paio di ali ripiegate stampate sul retro ed era sempre stata una delle mie preferite. L’avevo comprata insieme ad Armin e quando l’avevo provata aveva battuto le mani e aveva detto che mi calzava a pennello. Alzai lentamente la mainca, esposi in mio braccio pieno di cicatrici all’aria ed aprii la scatola di rasoi. Ne afferrai uno e me lo rigirai diverse volte nella mano, ammirando il suo brillare maligno prima di abbassarlo sul braccio. Lo affondai nella superfice del mio braccio più in fretta che potei; il freddo taglio del metallo aveva pizzicato più di quanto credessi e guardai la mia pelle aprirsi. Il sangue arrivò dopo solo un secondo, riversandosi oltre i confini del taglio e scorrendo giù dal mio braccio. Mi innamorai all’istante della bellezza grottesca che avevo appena creato. La ferita non era molto profonda ma faceva davvero male, cosa della quale ero grato. Avevo imparato che guadarti sanguinare era calmante, tranquillizzante nel suo orrore.
Avevo ricordato di prendere uno straccio dal bagno mentre andavo in camera così che il sangue non sarebbe andato dappertutto, e lo premetti delicatamente contro la ferita, macchiandola di un po’ del sangue che si era formato. Non appena il sangue se ne andò, fu rimpiazzato da una nuova ondata.
La sostanza cremisi continuò a scorrere dal mio braccio e io lo fissavo ipnotizzato. Quel primo taglio era stato il primo di tanti altri.
Poiché non indossavo bendaggi, quando la ferita sul braccio mi si riapriva nel sonno, il sangue mi scorreva sulle lenzuola. Mi feci una nota mentale dicendomi di lavarle visto che comunque non lo facevo da un po’. Il bucato sarebbe presto diventato un lavoretto a cui avrei spesso preso parte visto che non avevo mai capito quanto potessero essere utili delle bende ed ero spesso costretto a lavare le macchie di sangue da lenzuola e vestiti. Alla fine avrei smesso di fare anche questo e avrei lasciato le macchie di sangue dove erano.
Non avrei mai creduto prima di poter arrivare a tagliarmi. Era sempre stato lo stereotipo di un taboo che gli autolesionisti fossero come meno di esseri umani agli occhi di chi non aveva mai sentito il bisogno di vedersi sanguinare. Mi ero sempre fatto beffe dell’idea, dicendo che la gente doveva essere messa proprio male per essere disposta a premere una lama sulla loro stessa pelle. E ora guarda dove sono; coperto da una rete di linee rosse lungo tutto il braccio. Sto perdendo me stesso, pezzo dopo pezzo, taglio dopo taglio. Lascio andare via il ragazzo determinato e avventato che ero. Ogni tanto un flashback doloroso mi ricorda che ero più di questo. Solitamente rimedio ai flashback con una pillola nella bottiglietta che tengo sul comodino. Tengo le mie armi a distanza di un braccio, perché odio stare separato da ciò che mi sta tenendo in vita e uccidendo allo stesso tempo.
Mi scuso del povero resoconto che sono riuscito a fornirvi, ma spero che abbiate colto il sentimento generale della mia vita da quando è avvenuta la tragedia che ha portato via da me il mio ragazzo e di aver impostato lo scenario della mia vita corrente. E così, vi lascio con questa breve storia. Sperando che potrete capire i meccanismi interni della mia mente quando inizierò a raccontarvi tutto sulla mia vita a partire da oggi.

Note dell’autrice:
ci ho messo un po’ per capire come iniziare la storia in se, e ho ricominciato tutto da capo tre volte prima di capire che il modo migliore sarebbe stato un sommario della vita di Eren prima di iniziare a spiegere la sua vita giorno per giorno. Spero abbia senso, aha.
Note della traduttrce:
Capitolo tosto ma assolutamente bellissimo. L’ho davvero amato e anche la traduzione è stata piacevole (nonostante le solite difficoltà). Non vedo l’ora di postare il prossimo capitolo. J
Spero apprezzerete! anche perchè comparirà per la prima volta Levi che è il momento che aspettavamo con ansia u.u (mi auguro di non avervi spoilerato troppo).
Fatemi sapere cosa ne pensate nei commenti se vi va! Ringrazio tutti quelli che hanno seguito, commentato, messo nei preferiti/da ricordare o anche solo letto! Vi amo ragazzi :’)
A presto!

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3: Anniversario e Richieste di lavoro ***


Note della traduttrice:
Il mio ritardo nel pubblicare è a dir poco vergognoso, chiedo venia, la scuola ha prosciugato ogni mia energia e sono riuscita ad aggiornare solo ora.
Passando al capitolo nuovo vi posso solo anticipare, per vostra grande gioia, che vede per la prima volta Levi. Spero che gradirete i cambiamenti in positivo che ci saranno. Ok, ora la smetto di sproloquiare e vi lascio alla lettura, un bacio :*
Sommario:
È l’anniversario della morte di Armin, e Eren visita la sua bara.
 
Capitolo 3: Anniversario e Richieste di lavoro
Oggi è l’anniversario della morte di Armin, e immagino si potrebbe dire che è un punto di svolta, nell’anniversario della morte mi ricordo di essere vivo. Trovo quasi impossibile credere che sia già passato un anno dall’ultima volta che ho visto il mio ragazzo vivo. La vita era passata in una confusione nebulosa di dolore e isolazione, e sebbene lo avessi già capito per tutto questo tempo, non sembrava mai reale. Ogni tanto la realtà ti colpisce in faccia di brutto; questo era uno di questi momenti. È un momento determinante per me- sono spezzato, abbattuto, sconfitto. Ma sono vivo. Inspiro ed espiro tutt’ora e mi scorre ancora sangue nelle vene, non importa quante volte lo avessi versato in camera mia di notte.
Avevo deciso che avrei visitato la tomba di Armin oggi, che è dove mi trovo ora. Prima di arrivare qui, mi ero fermato a un piccolo negozio di fiori e ho comprato il mazzo più grande che potessi permettermi (un assortimento di diversi colori, visto che Armin amava tutto ciò che era colorato e non aveva un colore preferito). Erano poggiati in macchina di fianco a me durante il tragitto verso il cimitero e li ho raccolti con gentilezza tra le mie braccia quando sono arrivato per poi uscire dalla macchina dopo aver trovato un parcheggio decente. Raramente vado da qualche parte ed è strano respirare aria fresca attorno a me. È allora che realizzo che il mondo non è finito con la morte di Armin; continua nonostante tutto. Le persone sono andate avanti con la loro vita nell’ultimo anno, e io sono rimasto bloccato nello stesso punto. Sono allarmato dai miei stessi pensieri; non avevo pensato così razionalmente da un bel pezzo.
Percorsi la strada verso la tomba di Armin a memoria, e cessai il mio avanzare quando trovai la lapide che aveva il nome “Armin Arlet” inciso sopra. Il senso di colpa mi colpsce come un fulmine, è la prima volta che lo visito dopo il suo funerale. Ero così perso nel mio mondo di disperazione che avevo mancato di onorare la sua memoria almeno per una volta e sento le lacrime formarsi nei miei occhi mentre fisso la lapide; Armin Arlet, 1995-2011. Mi lascio cadere sulle ginocchia, accogliendo la durezza delle date sulla roccia; sedici anni di vita non sono niente quando dovresti arrivare a compierne circa un centinaio. Lascio che le mie lacrime scivolino sulle mie guance mentre poggio il mazzo di fiori sulla tomba. Guardo in su e controllo lo spazio attorno a me; non c’è nessun altro in giro e posso parlare.
“Mi manchi così tanto, Armin. La vita è stata un inferno da quando te ne sei andato. Spero tu possa perdonarmi per quello che ho fatto, e spero che quando morirò tu mi starai aspettando a braccia aperte. Lo so di non meritarlo minimamente, ma spero che mi accetterai comunque.”
Sentivo la presenza di Armin attorno a me; non posso dire se fosse una sensazione leggittima o solo quello che la mia mente voleva provare, ma in entrambi i casi, era rassicurante. Era come se Armin mi dicesse che mi perdonava, il che sperai fosse vero. Per la prima volta in un anno, sento una specie di calma dentro di me senza dovermi fare del male per sentirla. Le mie lacrime erano tranquille e non bruschi singhiozzi che mi avevano devastato il corpo così tante volte dalla morte di Armin. Tutto attorno a me era tranquillo; faceva freddo per essere una giornata estiva e non mi sentivo per niente accaldato con la mia felpa blu mare. Inspirai profondamente, riempedo i polmoni dell’aria attorno a me.
Non dico che sono pronto per guarire e che sto per iniziare un percorso di attiva ricerca di salvezza, perché sarebbe una bugia. I cambiamenti non avvengono da un giorno all’altro e anche se volessi cambiare il mio stile di vita, sarebbe molto più difficile che dire “adesso basta”. Solo perché sentivo che Armin mi aveva sempre perdonato per la sua stessa dipartita non significa che possa magicamente smettere di sentirmi come se fosse solo colpa mia. Non posso riversare un anno di crolli emotivi in un solo giorno di comprensione, e sarebbe stupido pensarlo. Per non parlare del fatto che io semplicemente non voglio smettere di tagliarmi. È una dipendenza, proprio come gli eroinomani o i cocainomani o gli alcolizzati. Solo perché l’autolesionismo è generalmente meno accettabile questo non vuol dire che gli effetti collaterali non siano forti come gli altri; la società sceglie semplicemente di ignorare i problemi perché fanno sentire le persone a disagio. E così, sono dipendente. Lo so. L’ho saputo dalla prima volta che ho effettivamente preso del tempo per esaminare le mie braccia coperte di innumerevoli cicatrici in diversi stati di guarigione e cicatrizzazione. Non ho alcun motivo di smetterla di distruggermi solo perché so di essere vivo. Sto sprecando la mia vita e ne sono del tutto consapevole. Le persone tendono a pensare che coloro che si fanno del male non siano consapevoli del tutto di quello che stanno facendo, e questa idea è del tutto una cagata. Ma forse, in onore della memoria di Armin, potrei fare qualcosa di più di stare sempre seduto da solo in camera mia. Mamma mi sta chiedendo da un po’ di tempo se avevo considerato di cercarmi un lavoro, avevo sempre ignorato le sue suppliche e evitato di rispondere alla domanda. Le interazioni sociali non erano state molto buone nell’ultimo anno, il che era colpa mia, lo capisco. Ma ho pochi soldi e devo pagarmi la benzina. Senza contare che anche le pillole costano denaro. Mi faccio un appunto mentale di fare il consapevole sforzo di fare un paio di domande di lavoro. Posso almeno fare questo, si spera.
Una brezza leggera mi si agita intorno e noto che avevo smesso di piangere, lasciandomi scie di lacrime asciutte sul viso. È strano sentirsi di nuovo vivi, e mi assicuro di godermi il momento, perchè non sono tanto stupido da credere che questa calma durerà molto a lungo. È come se visitare la tomba di Armin mi avesse portato una sorta di apertura che non avevo mai accolto nella mia mente. Una volta tornato a casa, sarei ancora stato nella stessa situazione di prima. Sarei stato ancora solo nella mia lotta per trovare anche solo la motivazione per scendere dal letto, e non potevo cambiare tutto da solo. Ero caduto, e avrei avuto bisogno di qualcuno che mi aiutasse a stare in piedi.
Decisi che non mi sarei tagliato (o intrapreso alcuna forma di autolesionismo, se è per questo) per oggi; mi era mancato autocontrollo in questi giorni ma volevo passare almeno oggi come se potessi avere la sensazione di poter onorare la memoria di Armin, anche solo lontanamente. Nonostante la motivazione, sentivo ancora una piccola bolla di ansia in me al pensiero che avrei dovuto evitare per il resto della giornata di procurarmi dolore. Ma ero determinato a portare a termine almeno una cosa.
Determinato. Huh. Non avevo pensato al concetto di determinazione da un sacco di tempo. Quando io e Armin eravamo piccoli, io ero pieno di determinazione. Avrei portato a termine qualunque cosa mi mettevo in testa, soprattutto quando avevo Armin al mio fianco ad aiutarmi. Sarei andato di mia spontanea volontà nelle profondità dell’inferno solo per raggiungere i miei obbiettivi. La mia determinazione era il mio tratto del carattere più spiccato, e ora era praticamente inesistente se non per la promessa a me stesso di non farmi del male per oggi. Dopo tutte le volte che avevo detto ad Armin di non arrendersi mai qualunque cosa accada, avevo ipocritamente  abbandonato il mio stesso consiglio. Perché ora mi mancava la volontà di riuscirci. Sarebbe troppo faticoso e non me ne fotteva abbastanza.
Sono stato davvero una disgrazia per Armin; ma lo avevo saputo da sempre. Ero andato troppo in là, la mia tomba era già stata scavata ora. Non appena alzai la mia testa per buttare di nuovo un occhio alla lapide piazzata nel terreno di fronte a me, sussurrai, “Mi dispiace, Armin.”
Perché ero dispiaciuto. Sono ancora dispiaciuto. Mi dispiace di non averti potuto salvare, e anzi di aver causato la tua morte. Mi dispiace di non essere riuscito a fare niente di me stesso dopo che sei morto come avresti voluto tu. Mi dispiace di non essere riuscito a lasciarmi alle spalle il senso di colpa che consuma il mio essere. Mi dispiace di non essere mai venuto una singola volta a visitare la tua tomba nella durata di un anno. Mi dispiace che non sei più parte di questo mondo. Ti amo ancora, e prego che anche tu mi ami ancora, ovunque tu sia.
Ho passato all’incirca due ore e mezza inginocchiato di fronte alla tomba di Armin, e i miei arti erano rigidi quando mi sono finalmente alzato. Dopo essermi sgranchito, buttai un’altra volta lo sguardo sulla sua tomba prima di girarmi. Non appena mi girai, dissi a voce alta, “Ciao per ora, Armin. Ti prometto che tornerò a trovarti più spesso ora, e mi assicurerò di portarti sempre dei fiori.”
Camminai con calma verso la macchina, non volevo veramente tornare a casa. Stare in casa mi avrebbe solo fatto ridiscendere nel mio stato di rabbia immotivata. Quando la macchina comparve nella mia visuale, notai che c’era una moto nera parcheggiata a breve distanza da essa. Il cimitero in cui è sepolto Armin è piccolo, così ci sono raramente più di un paio di persone in visita, e la moto era l’unico altro mezzo motorizzato nei dintorni.
Quando mi avvicinai gradualmente alla macchina, vidi un uomo avvicinarsi alla moto. Indossava una giacca scura di jeans e pelle (conforme allo stereotipo del motociclista, ma non era uno di quelli che portavano il nome di un gruppo in bella vista sul retro o adornato da una serie di toppe come molte sembravano essere), e non appena eliminò la distanza dalla sua moto, afferrò il casco che aveva riposto da qualche parte nella moto. Il casco era di un nero scintillante, l’uomo se lo infilò per poi salire sulla moto. Prima che se lo mettesse, avevo visto i suoi capelli sistemati disordinatamente ai lati della sua testa. Pensai che sembrava un po’ piccolo, ma visto che ero piuttosto lontano, mi immaginai che fosse solo l’angolatura della mia visuale. Era impossibile dire quanti anni avesse; per quello che ne sapevo poteva averne quaranta.
Poco dopo lo vidi azionare il motore e andare via, mi ritrovai a chiedermi chi aveva visitato; quale dei suoi cari gli era stato portato via. Feci spalucce al pensiero, sapevo che era una domanda inutile, visto che era un passante a caso probabilmente non lo avrei mai più rivisto.
Salii in macchina e me ne andai, viaggiando riluttante sulla strada che mi avrebbe portato a casa.
-x-
Mamma stava preparando la cene quando tornai. Si girò dai fornelli per salutarmi e chiedermi, “Hai fame?”
“No.” La mia isposta era automatica; accettavo raramente il cibo che mi veniva offerto. Ero cresciuto con l’abitudine di mangiare un solo piccolo pasto al giorno, e anche quello era forzato. La mia carenza di nutrizione mi rendeva sempre leggermente debole, ma visto che non svolgevo alcuna attività fisica faticosa non importava molto. Sembrava un po’ delusa ma sicuramente non era per niente sorpresa. Probabilmente pensò che avevo già mangiato fuori, e se me lo avesse chiesto non avrei detto di no.
Non vedevo Mikasa, ma non era una cosa nuova. Era seduta in camera sua, probabilmente a fissare la TV o qualcosa del genere. Usciva ancora a cenare, comunque. Non andavo più a trovarla in camera sua, e visto che non cenavo mai con loro, non la vedevo molto. Dal momento che mi era rimasto un po’ del mio buon umore, decisi di bussare alla sua porta. Entrai non appena sentii un “entra pure.” dall’interno. Dalla sorpresa sul suo volto, dedussi che pensava che fosse stata mamma a bussare.
“Hey, Eren.” Disse con il tono lento e distaccato che aveva sviluppato lungo il corso di quest’ultimo anno. Capii che probabilmente avremmo dovuto cercare di confortarci l’un l’altro invece che scegliere entrambi di isolarci; forse saremmo in una condizione differente in questo momento. Ancora un’altra scelta di cui pentirmi, immagino. Era seduta con le gambe incrociate sul letto, e si sentivano delle voci propagarsi dalla televisione posizioneta sul muro opposto al letto. La sua trapunta era rossa, come i suoi cuscini. Il rosso era sempre stato il suo colore preferito e portava sempre una sciarpa rossa avvolta al collo. Il suo viso sembrava vacuo, e potevo affermare che anche lei si trovava nella mia stessa luminosa posizione nella vita. Sentivo il mio cuore spezzarsi alla comprensione del suo dolore.
“Hey.” Rispondo, e suona strano. Eravamo molto uniti un tempo ma ora eravamo tutti e due distanti; non solo l’uno dall’altro, ma dal mondo. Indossa una canotta bianca e un paio di pantaloncini di jeans, ed è un sollievo vedere che la sua pelle era ancora liscia e immacolata- non aveva scelto il mio stesso meccanismo di difesa; nonostante ciò non sono sicuro che il suo estremo distacco emotivo sia molto più sano. Quando Mikasa non dice niente penso a qualcosa da dire.
“Dunque, tu hai, uh, preso in considerazione di trovarti un lavoro?” chiesi.
 “Non molto, credo.” Rispose Mikasa, occhi incollati alla televisione.
“Hai voglia di cercarne uno insieme a me se vado?”
“Credo di sì.” La sua risposta era vuota ed ero consapevole che mi stava a malapena ascoltando.
“Ti da fastidio se mi siedo con te?”
“Prego.” Mi sedetti goffamente al suo fianco sul letto.
 “Quindi... cosa stai guardando?” chiedo, nel disperato tentativo di ricevere una risposta quasi decente.
Mikasa non risponde. Una scintilla di irritazione mi pervade e cerco di trattenermi dall’arrabbiarmi per nulla; probabilmente non mi aveva sentito.
Ripeto la domanda. Ancora nessuna risposta.
“Mikasa?” chiesi, col tono carico di frustrazione.
“Hm?”
“Ti ho chiesto cosa stai guardando.”
“Oh, non so.”
“Come fai a non sapere cosa stai guardando?”
“Non ero attenta.”
Quindi non si stava concentrando sulla TV in realtà. Era davvero persa nel suo mondo e il pensiero mi faceva intristire e incazzare allo stesso tempo. Volevo essere solo io a soffrire; Mikasa meritava di meglio che stare seduta sola nella sua stanza inconsapevole di ciò che le accadeva intorno. Provo rammarico. Avrei potuto evitare tutto ciò se solo mi fossi assicurato che stava bene. Un’altra ragione per odiarmi e un’altra ragione per l’avvento del mio prossimo taglio. Senza pensare, mi protendo verso di lei e la stringo tra le mie braccia.
Non risponde al contatto e rimane semplicemente seduta lì a guardare la TV. Sospirai profondamente prima di tirare via le braccia da lei e rialzarmi senza dire niente. Non riuscivo a reggere la visione del suo stupore attonito. Chiusi la porta alle mie spalle senza guardarmi indietro. Mentre attraversavo l’ingresso per entrare in camera mia, sentii mamma urlare a Mikasa che era pronta la cena. Lei uscì dalla sua stanza non appena io entrai nella mia.
-x-
La sera passò in modo orribilmente lento e io tentai di mantenere la concentrazione sulla televisione così da non dover pensare. Pensare era pericoloso per me quando ero solo. Potrei pensare a centinaia di ragioni per le quali sono un pezzo di merda che sarebbe inevitabilmente finito per prendere decisioni sbagliate. Potrei liberarmi delle mie preoccupazioni per stasera se solo avessi visto il mio sangue scorrere. Per poi svegliarmi al mattino seguente con pentimento e odio verso me stesso che mi scorreva dentro come veleno. Mi sarei trascinato fino alla doccia e averi sentito il calore dell’acqua bruciare sulle mie ferite della notte prima. Avrei superato a fatica la giornata per poi ripetere la routine serale. Questo è come è passato l’ultimo anno, ma stanotte ho rotto il ciclo.
Provai a immergermi nell’universo di The Walking Dead, che era l’unico programma semi-interessante che c’era a quell’ora. Provai a focalizzare ogni piccola parte della mia attenzione sui personaggi mostrati sullo schermo. Ritrovai il mio pensiero sul motociclista che avevo visto al cimitero. Pensai anche ad Armin qualche volta quella sera, e cercai di concentrarmi su ricordi felici di quando eravamo piccoli. La sera durò un tempo insostenibilmente lungo, ma alla fine si fece tardi abbastanza per poter andare a letto. Scartai l’idea di prendere una delle mie pillole per dormire, ma decisi che quella giornata era stata talmente meno orribile delle altre (apparte per l’inquietante distanza dalla vita di Mikasa che mi aveva del tutto scosso) che avrei provato ad addormentarmi senza per questa volta. Ci misi un bel pezzo ad addormentarmi ma alla fine ci riuscii senza l’aiuto delle pillole.
Mi vennero gli incubi quella notte; ero in macchina con Armin quella terribile sera, ma invece che colpire un’altra macchina, colpii il motociclista del cimitero. Alla fine dell’incubo, sia Armin che il motociclista erano morti e la vita stava scivolando via anche da me quando mi svegliai inzuppato di sudore. Mi scossi e mi rigirai per un paio d’ore finché non fui esausto abbastanza da ricadere nell’incoscienza.
Mi svegliai verso le dieci di mattina il giorno seguente. Ancora disorientato dal risveglio, ero scioccato quando non mi ritrovai ferite fresche su nessuna delle mie braccia. Non appena mi si schiarì la mente mi ricordai del mio viaggio al cimitero e la promessa che mi ero fatto di passare un giorno senza farmi del male.
Questa era la prima vittoria che avevo da un anno. Ma era troppo insignificante per farmi sentire gioioso o fiero di me per qualcosa del genere. Ci sarebbe voluto ancora un bel po’ per farmi apprezzare anche il più piccolo successo.
Decisi di vestirmi e cercare le opportunità di lavoro. Indossai un paio di jeans chiari e una felpa verde scuro su una maglietta grigio-argento prima di dirigermi in bagno a lavarmi i denti e pettinarmi i capelli e cose del genere. Una volta pronto, bussai alla porta di Mikasa. Quando mi diede il permesso di entrare le chiesi di unirsi a me. Stava ancora poltrendo sul letto in pigiama. Disse che potevo andare senza di lei, io annuii e lasciai la stanza. Cercai di pensare ai posti che sarebbero potuti essere più disponibili a permettermi di indossare le maniche lunghe; molti avrebbero potuto, ma dovevo comunque stare attento. Il modo più semplice per assicurarmi di non essere assunto da nessuno era indossare le maniche corte il primo giorno; ammesso e non concesso che qualcuno avrebbe preso in considerazione di assumermi.
Cercai di evitare i fast food, dicendomi che se  non fossi stato assunto altrove avrei fatto richiesta anche lì. Non ero neanche sicuro del perché volessi un lavoro; alla fine conclusi che volevo procurarmi una fonte di distrazione che mi avrebbe fatto passare le giornate un po’ più velocemente. In ogni caso, almeno questa era una risposta logica. Oh, e i soldi. Io posso anche odiare la vita ma nessuno odia i soldi. I soldi fanno girare questo mondo di merda, dopotutto.
Presi alcune domande di lavoro; la maggior parte erano di rivenditori e distributori di benzina. Odiavo fare richista di lavoro, e la mia incapacità di relazionarmi non aiutava per niente. Chiesi le domande di lavoro in modo grezzo e vergognoso, ma hey, almeno sono riuscito ad ottenerle. Le riempii tutte quando tornai a casa e le spedii il giorno seguente. Rimanevano almeno altre tre settimane d’estate, così non avevo niente di meglio da fare comunque. Dissi a mamma che avevo fatto qualche richiesta di lavoro, e sembrò essere piuttosto contenta anche lei. Non avevo parlato con mio padre per più di una settimana, il che andava più che bene per me. Il bastardo riusciva a lasciarmi in pace per un po’; preferivo i vecchi tempi quando non si preoccupava di chiamarmi affatto.
Non mi aspettavo di essere richiamato. Avevo quasi diciotto anni e dovevo ancora andare incontro al mio primo lavoro, e dicono sempre che hai bisogno di un lavoro per fare esperienza, ma anche che hai bosogno di esperienza per trovare un lavoro. Il che se ci pensi è  un sistema di merda. In realtà non c’è nemmeno bisogno di pensarci su. È una fottuta stronzata. Molti aspetti della vita sono fottute stronzate se ti prendi un secondo per pensarci.
Per me fu una piacevole sorpresa, comunque, quando tre giorni dopo dopo aver spedito la mia domanda di lavoro. 7-Eleven mi chiamò e mi chiese di fissare un colloquio. Strinsi il mio cellulare in una mano e il mio straccio intriso di sangue nell’altra mentre parlavo con il manager che mi aveva chiamato, mi accordai per un colloquio alle tre del pomeriggio del giorno seguente.
I poveri bastardi stavano davvero considerando di darmi una possibilità.
 
Note dell’autrice:
Avevo un bisogno intenso di un Levi motociclista, okay.
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2584674