The Fearless

di Makar
(/viewuser.php?uid=632926)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** One ***
Capitolo 2: *** Two ***
Capitolo 3: *** Three ***
Capitolo 4: *** Four ***
Capitolo 5: *** Five ***
Capitolo 6: *** Six ***



Capitolo 1
*** One ***


Mi guardo intorno, con la testa fra le mani.
Appoggiato sul banco v’è un foglio bianco, affiancato da una biro blu, che quasi mi sussurra Usami, Danaë. Disperazione è dir poco per descrivere ciò che sento dentro.
Un vortice d’emozioni prende a girare troppo velocemente nello stomaco, finchè tutta quella confusione non mi fa venire lo sforzo del vomito.
Mi sfrego gli occhi con una mano, e coraggiosamente con l’altra riprendo in mano la penna, cercando di buttare giù qualche cosa.
E’ meglio se scrivi qualcosa se non vuoi beccarti una F.
Annuisco dando ragione alla coscienza con enorme riluttanza, ed ingoiando un boccone terribilmente amaro che mette decisamente fuori gioco il mio orgoglio spropositato.
Perché poi sia di quelle misure, non l’ho mai capito. O meglio, da anni ho la risposta sotto al naso ma mi manca sempre il coraggio per accettarla, per arrendermi.
E’ così semplicemente perché il mio comportamento non ha fatto altro che nutrirlo e perciò farlo crescere a dismisura, impedendomi di inchinarmi passivamente alla vita che trascorro qui, a Seattle. Ed in effetti, in questi ultimi giorni ci sto davvero riuscendo.
Sto vivendo un po’ come gli animali, in base agli istinti: quando ho sete bevo, e quando ho fame mangio, tuttavia, quando mi lanciano sfide, non ne posso sapere di arrendermi.
In me ho qualche strano gene che mi dice di non mollare mai e combattere fino alla fine, perciò decido di non pensarci più e di scrivere tutto ciò che mi salta per la testa.
Tengo stretta la penna troppo forte, e sono sicura che se in mano avessi avuto una matita si sarebbe già spezzata. Penso a cosa devo scrivere, mentre ogni tanto butto l’occhio sull’orario che segnano le lancette dell’orologio.
L’ansia mi divora, il che mi fa pensare che sarei la persona meno adatta a dover affrontare situazioni in cui essa si destreggia senza problemi, dato che mi farei prendere dal panico nel giro di qualche secondo. Ricordo per un attimo le parole di mia madre quando qualche anno prima, in un tema assegnatoci da un mio professore, mi avevano talmente spaventato da non farmi parlare per qualche giorno: «Sai, ti ci vedrei molto come vigile del fuoco! Tu che esci dalle fiamme con un corpo in mano, mentre tutti ti acclamano e i tuoi colleghi spengono l’incendio… oppure anche come poliziotta, mentre sei sfortunatamente partecipe ad una sparatoria e ti sacrifichi per il bene comune… sì, saresti perfetta!».
Solo ora mi rendo conto di quanto volesse terrorizzarmi, e di come ci sia riuscita.
Ridacchio il più silenziosamente possibile, e ritorno sul brano che devo scrivere entro la fine di quest’ora. Non appena leggo cosa dovrei scrivere, rido un po’ troppo rumorosamente, dato che i miei compagni si girano per osservarmi curiosi.
Avvampo e leggo nuovamente la consegna: scrivere il mestiere che si sarebbe desiderato svolgere.
Comincio a scrivere freneticamente, con un sorriso imbarazzato stampato sul volto, e il mio cervello si perde nella vagonata di pensieri che arrivano tutti in una volta.
 
*****
 
Sono seduta su una delle tante panchine davanti alla scuola quando Ellie mi raggiunge con il suo solito passo senza un briciolo di grazia e femminilità.
Rido inevitabilmente sotto ai baffi, pensando a quando l’avevo incontrata per la prima volta in prima elementare, quando ancora era una bambina timida e silenziosa, mentre ora i ruoli si sono invertiti completamente: ora, sono io quella senza midollo.
Ellie si siede vicino a me e sbuffa sonoramente, per poi legarsi i capelli ricci in un concio e fissarmi con un’espressione truce, silenziosa. «Dal tuo comportamento direi che tutto ti sta andando a gonfie vele.» mormoro sorridendo, mentre lei comincia a mangiucchiarsi l’unghia dell’indice destro inquieta «Come no! Dire che me la sto spassando è poco.» ringhia ironica, riducendo gli occhi a delle fessure e digrignando i denti.
«Sarei felice di sapere cosa ti è successo.»
«Ho preso una F in chimica e mia sorella è tornata dall’Università. Resterà per qualche giorno.» sospira, sconsolata. Le poggio una mano sulla spalla, con un’espressione corrucciata; ovviamente, non posso fare a meno di riflettere sulla mia situazione familiare: anche io ho una sorella, ma mia madre ha sempre pensato a trattarci allo stesso modo e a non “preferire” una al posto che l’altra. Gliene sono grata.
La madre di Ellie ha sempre posto i suoi tre figli su piedistalli di altezza minore, e in questo caso lei combatte per aggiudicarsi se non altro il secondo posto: ciò non fa che farmi provare solo del dispiacere per la mia amica, la ragazza più spontanea che abbia mai conosciuto. Lei, come me, è capace solo di elencare i propri difetti ed ingigantirli esageratamente, il che riduce notevolmente la sua autostima, ma per gli altri ha sempre una parola buona. Effettivamente, credo che si comporti così solo perché crede fermamente nel karma, ma soprattutto perché desidera essere trattata allo stesso modo.
La capisco, perché come lei anche io faccio così. Ma non sempre vengo ripagata con la stessa moneta; so che è una forma d’estremo egoismo, ma in questi ultimi anni non mi sono mai sentita così povera di speranze come adesso, e necessito sentirmi dire qualcosa di carino, o per lo meno qualcosa che mi faccia sentire meglio con me stessa, con il mio corpo.
Mia madre non riesce a capire perché io sia così insicura di me, delle mie capacità, e neanche io me lo spiego. So solo che quando mi guardo allo specchio, non vedo quello che vorrei vedere, ma d’altronde, cosa posso aspettare da me stessa? Non lo so, ma sono consapevole che non potrò mai cambiare come per magia, che non ci sarà mai per me la fata dei desideri che realizzerà tutti miei sogni con la sua bacchetta.
Osservo Ellie mentre si gratta le gambe, imprecando «Odio questo vestito! E’ scomodissimo, ma mia mamma ha insistito per farmelo mettere.»
«Andiamo in biblioteca, devo prendere un libro.» esclamo, tirandola per un braccio.
Poso lo sguardo sui miei piedi, che indossano delle scarpette nere, e lo faccio scorrere fino ai femori, ben coperti da una gonna nera e leggera che svolazza ogni volta che saltello.
Ellie mi fissa quasi con disprezzo mentre io cammino tranquilla e lei si gratta ad ogni passo che fa, ma non mi interessa così tanto perché so che la sua ostilità non si prolungherà troppo: probabilmente, terminerà non appena arrivate in biblioteca.
E così è.
Quando entriamo, il silenzio regna indisturbato e lo sguardo irritato del bibliotecario ci trapassa come una lama. E’ un uomo tarchiato, stempiato e non riesco a comprendere perché ogni volta che qualcuno entra qui dentro lui sembra molto arrabbiato; scuoto la testa, sconfitta, e seguo Ellie con passo pesante, sedendomi sulla sedia di fronte alla sua.
«Vado a cercare.» mormoro, mentre lei è già immersa nella lettura di Jane Austen; mi alzo dalla sedia e mi reco nel reparto “Classici”, osservando tutti gli scaffali e i nomi dei libri, finchè non trovo quello che desidero: Uno, Nessuno e Centomila., il libro preferito di mia madre. Faccio spallucce e mi giro per andarmene, quando sbatto contro qualcosa.
E’ gelido, ma stranamente è rivestito da un tessuto morbido. Ma che cazzo…
Alzo lo sguardo e scopro che, al contrario di ciò che pensavo, ho sbattuto contro qualcuno.
E questo qualcuno mi sta osservando incuriosito, con la testa leggermente piegata.
Decido di osservarne il fisico, partendo dalle estremità e scendendo: ha capelli corti e castani scuri spettinati, occhi  d’un azzurro chiarissimo –quasi grigio- e due enormi spalle, in contrasto con la vita molto stretta. E’ altissimo, e noto con gioia che gli arrivo più o meno alla clavicola; Vittoria! Penso, per poi distogliere lo sguardo immediatamente non appena mi accorgo che lo sto fissando un bel po’ di tempo.
Arriccio il naso, non riuscendo a capire il perché della sua temperatura troppo bassa, ma abbozzo un sorriso e mormoro delle scuse che riuscirei a sentire solamente io.
Sorride anche lui, poi dice «La mia faccia è qui.» obbligandomi ad alzare gli occhi, per guardargli il viso, e distoglierli dalle mie scarpe.
«Scusami ancora.. non volevo..» mormoro avvampando, e noto che sulla sua bocca si forma un sorriso divertito, di estremo scherno. La mia Me interiore impreca.
Possibile che con un figo del genere debba fare sempre le tue solite figure? grida furiosa, mentre cerco di zittirla, ma invano.
D’un tratto lo vedo abbassarsi velocemente e rialzarsi con un libro fra le mani.
Ah sì, il mio libro. Me ne ero completamente dimenticata, ma d’altronde, quegli occhi magnetici mi avevano portato in un altro pianeta di fiori e caramelle.
La sua voce profonda mi riporta alla realtà «Pirandello! Questo è il mio libro preferito.»
«Anche quello di mia mamma.» dico, grattandomi la testa imbarazzata, mentre una vocina mi rimprovera a gran voce Seriamente? Gli hai davvero detto che quello è il libro preferito di tua madre? Sei una causa persa, Danaë.
Quella vocina, purtroppo, ha ragione, e io sono tremendamente delusa di me stessa, della mia stupidità. Ovviamente, ho sempre rovinato quasi tutte le occasioni che mi si presentavano per conoscere qualcuno del sesso opposto che fosse fisicamente attraente, ma ormai ci avevo fatto l’abitudine, ed avevo imparato semplicemente ad evitare soggetti di tale livello, consapevole di non poter mai concludere qualcosa, con loro.
Lui, infatti, mi guarda con un’espressione decisamente confusa, ma nei suoi occhi trovo più che altro una sfumatura di delusione, il che mi deprime ulteriormente.
Possibile che tutto si sgretoli, ogni volta che si trova fra le mie mani? Prima, quando ancora avevo una personalità forte, una cosa simile non avrei mai potuto immaginarla, e tutto ciò non fa che peggiorare la mia situazione emotiva. L’hai deciso tu, di esser così.
Annuisco impercettibilmente, mentre constato che, alla fine, di essere così l’ho scelto solo io, ma perché? Forse, per non dover imbattermi in eventi più grandi di me, che non potrei mai affrontare a muso duro, e per giunta da sola; no, non potrei. Perciò, anche così stavo bene lo stesso, senza problemi troppo gravi o soprattutto grandi.
No invece, stai proprio male.
Zittisco la mia coscienza e continuo ad osservare il ragazzo, silenziosa, finchè non mi invento una scusa per dirgli arrivederci (o meglio addio) e tornare da Ellie.
Non appena la raggiungo, decido di non raccontarle niente per evitare che anche lei mi faccia sentire una persona orribile, ed insieme ci incamminiamo verso le nostre abitazioni.
Il pensiero del ragazzo vortica ancora nella mia mente, e mi sembra di ricordare che quando, un’ora prima, l’ho salutato, lui sembrava abbastanza contrario.
Solo a pensarci mi viene la pelle d’oca dall’emozione, ma questo benessere svanisce non appena mi accorgo che non so nemmeno il suo nome: non mi interessa, finchè mi ricordo alla perfezione il suo volto, che sembra quello d’un dio.
Mi sdraio con ancora il suo viso stampato nel cervello, e spero con tutta me stessa di poterlo incontrare nuovamente, un giorno. Magari domani.
E quando cado nel sonno, penso di non dormire così bene da quando ero una bambina.





-don't read me-
Eccomi con la mia seconda fanfiction. Premetto di non essere così sicura come con la prima (strano, dato che solitamente dovrebbe essere il contrario), ma avevo quest'idea che mi stuzzicava da un bel po' di tempo perciò, alla fine, ho deciso di scriverla comunque.
Scusatemi se ci sono tanti errori, ma è la prima volta che scrivo in prima persona, ma soprattutto in presente indicativo. Chiedo venia! Se ci sono errori di questo genere (ma anche di altri) vi supplicherei di avvisarmi, e poi, di dirmi cosa ne pensate :) Grazie per aver visionato la FF ma anche questo angolino magggico ahahahahahah 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Two ***


Sono giorni che non rivedo quel ragazzo, ma la cosa non mi turba.
Non eccessivamente, per lo meno.
Mi sento decisamente fortunata ripensando all’incontro con lui, all’incontro con i suoi 0cchi freddi come il ghiaccio, e dello stesso colore. Probabilmente, sono stati quelli ad ipnotizzarmi e a stordirmi in tale maniera, oltre, ovviamente, ai suoi muscoli.
La Danaë interiore mi tira uno schiaffo, rimproverandomi del mio comportamento.
Questo affronto mi fa riflettere; come posso essere così superficiale? Mai e poi mai ho dimostrato di essere superficiale, e probabilmente, anche se lo fossi, non potrei mai permettermelo. Ritenendomi una ragazza non proprio carina, ho sempre avuto poca autostima in me –il che è sfociato in una noiosissima timidezza– e non ho mai osato criticare o anche solamente trovare dei difetti in qualcuno.
Forse perché io ne sono piena zeppa.
Tuttavia, ho da sempre una sorta d’ambizione, nel mio animo, che mi spinge a desiderare le cose che non potrei mai meritare: un bel ragazzo, una bella vita, l’amore verso sé stessi.
Tutte cose irraggiungibili, ma me ne ero fatta una ragione, alla fine. Non tutti possono sempre ottenere ciò che desiderano, e questa cosa la capisco.
Solo, non posso opprimere i miei sentimenti per l’eternità, e so che un giorno, prima o poi, verranno fuori e nessuno sarà in grado di fermarli e di rinchiuderli di nuovo al loro posto.
Se penso a quando ero una bimba, mi viene da piangere. Ero così piena di vita e di coraggio, così felice con me stessa; mentre ora sono solo una ragazzina timida e senza personalità che desidera cose che non potrebbe mai permettersi, ma che sotto tre dita di polvere ha nascosti i suoi pregi –o difetti, dipende dal punto di vista– come il coraggio e la decisione, nonché la prontezza di riflessi.
Forse, sotto sotto, posso anche essere una persona interessante, ma finchè mi comporto così, come un fantasma, non potrò mai cambiare positivamente.
L’unico vero momento in cui posso essere veramente me stessa è quando scrivo: in quegli istanti sono davvero molto sicura di me, e non so se a donarmi quella sicurezza sia la matita che tengo fra le mani o semplicemente il mio cervello che tifa per me.
Non lo so, e non voglio pensarci. So solo che mi piace, essere così determinata, e che non smetterò mai di esserlo, ogni volta che resterò sola con me stessa.
Solo mia madre mi conosce per davvero, forse perché ho passato la mia vita al suo fianco, ma non ha quasi mai moltissimo tempo per me, e quando ce l’ha, è troppo impegnata col lavoro, o con la cucina, la sua vera ed unica passione.
Quando sente parlare di pentole e ricette, quella donna si accende come una stella e si rilassa per un attimo, sorridendo costantemente: io, quel sorriso che parte da un orecchio e termina dall’altro, penso di non averlo mai sfoggiato in pubblico, e per questo invidio mia madre, perché a lei i sorrisi vengono spontanei anche in mezzo a tremila persone.
Mentre penso, ignoro completamente il fatto che sono in compagnia di Ellie, che, con il novanta percento delle probabilità, mi sta parlando dei vestiti che si è comprata.
Anche Ellie mi conosce, ma non abbastanza da cogliere tutti i miei cambi d’umore, dovuti al mio essere estremamente lunatica e decisamente instabile.
«Dan, mi stai ascoltando?» la voce della mia amica mi riporta alla realtà, con i piedi per terra e la testa salda sul collo, e balbetto un sì definitivamente privo di decisione.
«Non ne ho voglia di ripeterti il discorso. Cambiamo argomento: come va con il figo? L’hai rivisto?» domanda, gli occhi che luccicano e bramano informazioni.
«No, non l’ho rivisto. Ma che domande sono, poi? Non so nemmeno il suo nome!» esclamo, sospirando sconfortata. In effetti, mi dispiace non averlo più rivisto, ma è normale, per una come me: avevo fatto il danno, e ora ne ripagavo le conseguenze.
Nella mia mente sfrecciano ad alta velocità immagini di me, incredibilmente vecchia e mal vestita, in compagnia di una trentina di gatti, tutti sovrappeso.
Rabbrividisco e scaccio quell’incubo all’istante, mentre ascolto Ellie.
«Dovremmo riempire questo vuoto con un po’ d’alcol, eh?» propone, fissandomi dritta negli occhi. I suoi sono scuri, mentre i miei sono molto chiari, ma d’un colore vago.
Non chiari come quelli del ragazzo della biblioteca, ma belli comunque: i miei occhi, quelli mi piacciono per davvero, anche se a volte sono troppo espressivi.
«Non ho intenzione di ubriacarmi, o ancora peggio di doverti trascinare di peso mentre tu sei ubriaca. Preferisco la morte!» rispondo ridacchiando, mentre Ellie mi da un buffetto sulla spalla e mi blocca. Alzo lo sguardo e noto che siamo arrivate in centro prima del previsto; osservo l’orologio che ho attorno al polso e leggo l’ora: 16:35.
«Stasera Mike e suo fratello danno una festa, e guarda un po’..» disse con eccitazione mentre le mostrò un messaggio sullo smartphone «Siamo state invitate!».
Inarcai un sopracciglio sorpresa, mentre un sorriso compiaciuto si dipinse sul mio volto; un invito ad una festa era una cosa più o meno nuova, ma la cosa non mi dispiaceva per nessun motivo, e anzi mi interessava particolarmente. Ellie, ovviamente, non è capace di nascondere la propria felicità e comincia a saltellare allegramente.
Scoppio a ridere, e dopo poco anche le sue risate si accomunano alle mie. Mi piace stare, con Ellie, perché è abile nel tirare su di morale le persone, ma soprattutto perché condivide con me la maggior parte delle sue passioni.
Non appena finiamo di ridere, decidiamo di andare nel negozio più frequentato dai ragazzi di Seattle, solitamente della nostra età, e prima di comprare qualcosa per la festa, dentro al negozio ci passiamo un’ora, se non di più.
 
 
*****
 
Quando mi guardo allo specchio non sono nemmeno capace di riconoscermi.
Vedo una ragazza molto magra –forse troppo- con lunghi capelli castani che incorniciano un viso ovale truccato abilmente. Il rossetto rosso esalta gli occhi della figura riflessa, e il vestito –dello stesso colore del rossetto-, stretto sulla vita, ricade svolazzando.
Quella ragazza è molto bella, e in un certo senso la invidio.
Guarda che sei tu, cretina. mi ammonisce la vocina dentro la mia testa. Sorrido pensando che quella ragazza sono proprio io, e che così bella non lo sono mai stata; provo ad indovinare la reazione di Ellie quando mi vedrà camminare dentro a questo vestito, e scommetto che fischierà sorpresa e mi prenderà in giro per tutta la serata usando parole come “Pupa” o “Monella”. Scuoto la testa divertita ed indosso il giubbotto di pelle, cercando di non cadere sui miei tacchi altissimi. Nonostante il disagio che provo essendo conciata in quel modo, così mi piaccio, e voglio continuare a piacermi.
Non appena scendo in salotto, vedo mia madre che dorme sul divano e mi avvicino, sedendomi accanto a lei e sorridendo, riflettendo.
Quanto mi volesse bene quella donna, era una cosa che non si poteva nemmeno immaginare: mi aveva cresciuto, aveva assistito a tutte le mie cadute e mi aveva aiutato a rialzarmi, ed ora riusciva persino a sopportarmi. Sì, mi voleva davvero bene.
Per quanto riguardava mio padre, lui non c’era mai. Non perché non mi accettasse come figlia, ma perché era sempre impegnato col suo lavoro da commerciale estero, il che comportava dover stare lontano dalla casa e, in questo caso, dalla famiglia per tantissimo tempo. Non lo vedo da sette anni, perciò da quando ancora frequentavo la scuola primaria, ma ormai ci ho fatto l’abitudine. Più che altro, ho fatto l’abitudine alle scuse di mia madre a proposito del suo ritorno: è da anni che afferma che lui tornerà, ma della sua sagome ancora non s’è vista l’ombra. Perciò, abbiamo deciso di non parlare più di mio padre.
Spesso, io e la mamma, ci sentiamo davvero molto sole, ma basta stare avvinghiate in un abbraccio che dimentichiamo la nostra tristezza, ed è questo che ci rende unite.
Il fatto che insieme potremmo affrontare qualsiasi problema e risolverlo sempre insieme.
Dopo qualche minuto mi alzo e la copro con una coperta appoggiata sul divano, per poi uscire di casa e chiudere la porta chiave; Ellie mi aspetta già davanti al cortile, appoggiata al cofano di un SUV nero, e reagisce come mi aspettavo: fischia e poi scoppia a ridere.
Scuoto la testa sorridendo e apro la portiera posteriore della macchina, salutando la sorella di Ellie, Eve, che è al posto dell’autista. Anche lei mi saluta con un cenno della testa, e osservando le sue gambe noto che indossa un vestito nero molto aderente che le arriva al ginocchio. «Vai anche tu ad una festa?» chiedo guardandola sullo specchietto retrovisore.
«Sì, vengo con voi.» mi risponde, spingendo il piede sull’acceleratore per partire una volta che anche Ellie sale nel sedile anteriore, al fianco della sorella.
Le due sorelle, fisicamente parlando, sono praticamente identiche, se non fosse per Eve, che è più alta di una decina di centimetri rispetto alla sorella. Per quanto riguarda il carattere, sono completamente diverse: Eve è molto più fredda e distaccata, mentre Ellie è più amichevole ed ha uno spiccato senso dell’umorismo, ma meno intelligente.
Ellie si volta per guardarmi e notando la mia espressione confusa, dice «Non ci sono solo liceali, da Mike. Da quel che ho capito, il fratello di Mike ha organizzato il tutto, e lui frequenta l’università. Quindi, anche lei è stata invitata, insieme ad altri suoi compagni.»
Inarco le sopracciglia sorpresa, arrossendo, e rimaniamo in silenzio finchè non arriviamo davanti ad una casa gigantesca, troppo grande per sole quattro persone.
Eve ci fa smontare per andare a parcheggiare altrove, e io ed Ellie ci avviamo verso l’ingresso; prima di suonare il campanello ascoltiamo la musica e gli schiamazzi che escono dalle finestre, e quando premiamo il tasto del campanello, Mike ci apre la porta.
Essendo il capitano della squadra di basket, è sottinteso che sia alto ed abbia due spalle enormi, e dopo qualche secondo, giusto il tempo di capire chi siamo, ci sorride e ci apre la porta, per poi abbracciarci entrambe. Io, ovviamente, avvampo, e ancora una volta la Danaë interiore mi rimprovera per essere sempre così timida e stupida.
Ellie ed io ci spostiamo, lasciando i giubbotti ad una ragazza che si presenta come la cugina di Mike, il che non mi convince, ma decido di lasciarmi andare quando Ellie me lo consiglia –o meglio, me lo ordina-.  Ci facciamo guidare in una stanza dove la musica regna indisturbata e dove gli invitati ballano come degli scatenati, mentre io e la mia amica sorridiamo e decidiamo di unirci a loro.
Dopo qualche minuto, siamo entrambe piene d’alcol, ed io non riesco più a ragionare razionalmente. Non del tutto, per lo meno. Se non altro, mi sento del tutto me stessa, solo perché è risaputo che l’alcol disinibisce le persone, le rende più spontanee, ma soprattutto, le rende meno coscienti, più confuse.
I miei pensieri non sono nitidi, ed alcuni sono piuttosto stupidi, ma mi rendo conto che, alla fine, l’alcol non è poi così male, perché mi fa felice, solare.
Decido così, finalmente, di divertirmi, finchè Mike non si avvicina e mi dice di seguirlo.
Curiosa, accetto e cammino finchè non mi accorgo di trovarmi dietro alla villa, nel cortile, insieme ad altre persone, sia maschi che femmine.
 
Quando mi offrono una sigaretta, comincio a sudare freddo: la mia coscienza è più che contraria, mentre la me ubriaca non vuole altro che provare, vivere.
Fino ad ora, non ho mai vissuto veramente –esclusa forse la volta che ho incontrato il ragazzo dagli occhi di ghiaccio- ed è normale che ora, abbia voglia di divertirmi un po’.
Speranzosa, accetto e prendo la sigaretta in mano, per poi accenderla con l’accendino che mi passano. Prima di fumare, osservo la gente che mi sta fissando divertita, ridendo della mia inesperienza, e mi sento piuttosto ridicola. Se fossi sobria, me ne andrei, ma siccome quasi mezzo litro di vodka sta prendendo a pugni il mio cervello, rido anch’io, arrossendo.
Perciò, metto la sigaretta fra le labbra e faccio ciò che non avrei mai fatto se non fossi stata così stordita come in questo momento. Wow, ora nei tuoi polmoni c’è del catrame. Sei così geniale, Danaë. dice con sarcasmo la mia coscienza, mentre io comincio inevitabilmente a tossire per poi scoppiare a ridere, insieme a tutti gli altri.
Sebbene sia ubriaca, sono consapevole che le loro risate sono di puro scherno, ed in effetti sono piuttosto offesa, ma non mi interessa: mi sento bene, libera, e non mi importa se gli altri stanno ridendo di me, finchè sono felice con me stessa.
Dopo un po’ di conversazione a proposito della festa, quasi tutti se ne vanno, tranne me; decido di sedermi sugli scalini davanti alla porta sul retro, tenendo la sigaretta fra le dita.
Effettivamente, la mia coscienza ha ragione, ma probabilmente aveva esagerato, dato che era una sola sigaretta, e non tutto il pacchetto. Già, continua così, e vedrai dove finirai.
Alzai gli occhi al cielo, godendomi il dolce suono del silenzio, che riempiva il mio udito senza far entrare nessun altro rumore, oltre a quello del sangue che scorreva nel mio corpo.
E’ così confortevole restare soli anche solo per qualche minuto che mi basta inspirare e respirare per una volta che mi sento davvero rilassata ed in pace con me stessa: posso, finalmente, prendere una pausa dalla vita frenetica che ho trascorso fino ad adesso.
Chiudo gli occhi, sentendo le guance terribilmente calde per l’alcol, quando una mano sulla spalla mi obbliga a riaprirli e a sobbalzare, girando la testa velocemente.







-don't read me-
Rieccomi con il secondo capitolo! Inizialmente, era mooolto più lungo, ma era eccessivo, perciò l'ho diviso in due parti: l'altra parte la pubblico domani lol
Che dire, aspetto le vostre recensioni per sapere cosa ne pensate e se avete qualcosa da commentare in maniera positiva o negativa.
Ciao :)

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Three ***


Mike mi sorride e si siede accanto a me, sospirando. Poche ore prima, non sarei nemmeno stata capace di parlarci, ma ora mi sento capace di tutto.
«Che fai qui? Non entri?» mi chiede, con una voce roca.
Scuoto la testa e sorrido, facendo un tiro dalla sigaretta.
«Si sta bene qui fuori.» constato, per poi guardarmi intorno, in cerca di qualcosa da bere. Avevo la bocca secca ed in più ero vicina ad un ragazzo terribilmente carino, perciò avevo bisogno di imbottirmi nuovamente d’alcol. «Hai qualcosa da bere?» gli domando.
Senza proferire parola, mi passa la sua birra –ormai mezza vuota- ed ho la geniale idea di scolarla tutta d’un fiato, per poi alzarmi in piedi. La testa comincia a girare e sono sicura che da un momento all’altro potrei cadere. Fortunatamente, Mike riesce ad acciuffarmi prima che sia per terra, e tutti e due scoppiamo a ridere.
«Sei molto bella stasera.» alle sue parole, avvampo violentemente. Mike Evans mi ha appena fatto un complimento? Il mio corpo freme di una strana sensazione, ma non ci presto troppa attenzione. Rido nervosa, dicendo «Smettila, sei ubriaco.».
Lui mi fissa divertito «Sei tu quella sbronza, piuttosto.» e mi da una leggera gomitata nel fianco, ridendo. «Sono contento di essere qui con te.»
Strabuzzo gli occhi impressionata, e mi rendo conto che da quando questa conversazione è cominciata, non l’ho ancora guardato negli occhi. Ecco perché non funziona con gli altri.
Zittisco la me interiore, e lo guardo negli occhi, sorridendo.
Ho le mani sudate quando lo vedo avvicinarsi col suo volto verso il mio, e comincio inevitabilmente a tremare. Ho paura, ma di cosa? Di Mike?
Con una mano mi prende il viso, e io socchiudo gli occhi, non sapendo cosa fare; tuttavia, qualcosa lo ferma, e lui toglie immediatamente la mano, lasciandomi in quel modo.
Non appena sento delle voci e vedo delle ombre, mi rendo conto che non siamo più soli.
Mike si alza in piedi e io faccio lo stesso quando vediamo spuntare un ragazzo più vecchio di noi di qualche anno, che assomiglia molto a Mike. Suo fratello.
Quando ci vede, ci viene incontro allegro e abbraccia suo fratello, dicendo «Hey! Mike, la tua ragazza ti cerca, è meglio che tu vada.».
Mike mormora un ok e mi guarda con espressione triste, per poi andarsene e lasciarmi da sola con quel ragazzo, con un alito che sapeva da birra. Non che io ne avessi uno migliore.
«Io sono Blake, piacere.» esclama, porgendomi la mano «Danaë.» replico, stringendogli la mano con vigore. «Tu sei il fratello di Mike, giusto?» chiedo, stringendomi nelle spalle.
«Sì, ma non ci assomigliamo. Per esempio, non sarei andato dalla mia ragazza con una più bella qui.» risponde, senza preoccuparsi di ciò che ha detto.
Wow, due in una sola notte. Fai progressi ragazza.
Sorrido imbarazzata, rendendomi conto che tutto ciò che sta accadendo non ha nessun senso. Suppongo, quindi, che sia tutto merito dell’alcol, se ho adescato due ragazzi.
«Tuo fratello mi ha detto una cosa del genere, sai.» dico, lanciando la sigaretta per terra e pestandola con il tacco, per poi farmi coraggio. Le battute non sono il mio forte, ma di fronte ad un ragazzo del genere, che sembra una statua, non mi faccio problemi.
«E’ colpa del sangue. Siamo famosi per fare i deficienti con le donne, noi Evans!»
Sentendo queste parole, scoppiamo entrambi a ridere, finchè lui non mi fa una domanda.
«Quanti anni hai?»
«Presto diciotto.» finalmente, vorrei aggiungere. Tuttavia, mi limito a stringermi nelle spalle e a sorridere allegramente, mentre lui riflette.
«Con questo vestito ne dimostri almeno venti.» constata lui, indicando l’abito rosso che indosso comodamente. Ti paragonano addirittura ad un’adulta, ti stai superando. Spera solo che non sia un pedofilo.
Scuoto la testa, cercando di zittire la mia coscienza invano, ma non so come rispondere; tra di noi cala il silenzio, ed io comincio a dondolare sui miei piedi.
«Caspita, è tardi. Sono le tre.»
Spalanco gli occhi, visibilmente preoccupata, e lui se ne accorge, perché successivamente mi chiede «Hai bisogno di qualcosa? Ti serve un passaggio?»
«Sì, grazie.» rispondo, per poi seguirlo fino alla macchina parcheggiata davanti alla villa.
Entrambi saliamo, e quando lui mette in moto la macchina mi prendo il permesso di osservarlo per bene. Ha capelli castani chiari e corti, tenuti in disordine, mani gigantesche ed è più alto di me di almeno una dozzina di centimetri. E’ proprio bello, più di Mike.
«Che c’è?» mi chiede, accorgendosi che lo stavo fissando da un paio di minuti.
Sono così imbarazzata che vorrei sotterrarmi, ma purtroppo non ne ho la possibilità e l’unica cosa che posso fare è voltare la testa verso il finestrino.
«Scusa, non volevo fissarti.»
«Non ti ho detto di smettere.»
Il cuore smette di battere per un secondo, e la bocca mi si prosciuga immediatamente.
L’ha detto davvero, o l’ho solo sognato? Spero che sia la prima opzione, ma d’altra parte spero d’essermelo immaginato, forse perché anche in questo caso, ho paura.
Quando la macchina si arresta, siamo davanti a casa mia, che non è illuminata, dato che mia madre è sicuramente già fra le braccia di Morfeo. Poco male.
Scendo dalla macchina, e sento anche i suoi passi, dietro di me. Mi sta accompagnando alla porta? Sono perplessa, ma stranamente molto felice.
Quando mi giro, lui ha le mani nelle tasche dei jeans e mi sta guardando sorridente. Ha un sorriso bellissimo, e sentirlo vicino a me mi manda in palla il cervello.
«Grazie mille davvero Blake. Ti devo un favore.»
«10 cifre.» risponde lui, facendo spallucce. Inclino leggermente la testa, confusa, e corrugo la fronte cercando di capire cosa intende.
«Il tuo numero!» esclama ridendo, schiarendomi le idee. Torno seria dopo poco, e la mia coscienza dice Lo conosci appena, non dovresti.
Prendo il telefono che mi ha allungato e gli scrivo le dieci cifre tanto desiderate, zittendo definitivamente la mia coscienza, trionfante.
«Grazie, miss.» dice, inchinandosi e rialzandosi quasi immediatamente con la faccia verde.
«Se ti chini ancora così tanto poi vomiti.» dico ridendo, per poi guardarlo sorridere.
«No, ti sporcherei l’ingresso! Se lo facessi, non vorresti rivedermi più.»
«Non credo.» dico, senza riuscire a controllarmi. L’ho detto davvero io, perché oltre a me e a lui non c’è nessuno. Solo il bagliore fioco della luna che ci osserva dall’alto.
Hai pure scelto un’ambientazione romantica, geniale.
Lui si china verso di me e mi stampa un leggero bacio sulla guancia, e io riesco a biascicare solo un fievole “Buonanotte” e rinchiudermi in casa, con la schiena sulla porta.
Con la mano mi sfioro la guancia toccata dalle sue labbra, e per poco non grido come una pazza nel salotto dall’eccitazione. Salgo di corsa le scale e, una volta raggiunta la mia camera, chiudo la porta e mi lancio sul letto all’ultimo cielo.
Sono così felice che non penso a niente, se non al viso di Blake, e alla sua espressione costantemente sorridente. Qualcosa nel mio stomaco si stava muovendo, ma più forte rispetto a quando avevo conosciuto il ragazzo della biblioteca.
Sì, questa volta era cento volte più chiara e “violenta”.
Mi tiro su dal letto, seduta, e mi rendo conto di non aver ancora sentito il rumore della macchina di Blake partire ed andarsene. E’ ancora qui.
Corro ad affacciarmi alla finestra, che da sul giardino, e lo vedo, seduto sul marciapiede. Vorrei gridare il suo nome, consapevole di svegliare tutti, ma non ce n’è bisogno, perché lui si gira verso di me, verso la finestra da cui sono affacciata, e mi vede.
Lo saluto ridendo e lui saluta me, con la sua mano, e non potrei sentirmi più felice di così.
Purtroppo però, i miei occhi reclamano riposo, e sono costretta a chiudere la finestra e a tirare le tende, concludendo perciò quella nottata da sogno.
Indosso il pigiama in men che non si dica e dopo qualche minuto sto già dormendo serenamente, grazie alla quantità industriale d’alcol che ho ingerito.
E sono sicura che se fossi stata del tutto sobria, probabilmente non avrei dormito ripensando a tutto ciò che mi era capitato, sorridente.
Finalmente sorridente, oserei aggiungere. E’ come se, finalmente, la fortuna avesse deciso di aiutarmi, di darmi una mano per uscire dal mio involucro di timidezza ed insicurezza, e non potrei esserle più grata. D’un tratto, un soffio d’aria fredda si insinua fra le mie coperte, facendomi rabbrividire e sognare una coperta che mi tenga al caldo.
Mi ricordo, poi, che anche all’ingresso della porta stavo rabbrividendo, ed una lampadina si accende nella mia testa, riempiendomi di una gioia inspiegabile.
Ho lasciato il mio giubbotto di pelle nera a casa degli Evans, e questo significa una sola cosa.
Rivedrò Blake.
Senza rendermene conto, sorrido e il mio cervello si spegne, spazzando via i pensieri.




-don't read me-
Come promesso, ecco il terzo capitolo! Con questo, si aprirà un mondo di novità lol. Ringrazio di cuore Alexya per le sue recensioni, e anche Crow17, e che dire? Al quarto capitolo, e a presto (spero!). :)

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Four ***


Uno spiraglio di luce entra dalla finestra e mi stuzzica le palpebre, obbligandomi ad aprire gli occhi e a svegliarmi parzialmente. Mi giro nel letto, osservando l’ora sulla sveglia.
Sono solamente le sette del mattino, e siccome è sabato, posso dormire fino a tardi.
Tiro le coperte fino sopra il naso, annusando il profumo della scorsa sera che ancora non se n’è andato. Sto per ricadere nel sonno quando il mio telefono comincia a vibrare senza sosta, e dopo qualche grugnito disperato, rispondo.
«Pronto?» mugugno, ancora semiaddormentata.
«Danaë, dove sei?» strilla l’inconfondibile voce di Ellie, infuriata come non mai.
«Io.. sono a.. c-casa.»
«Sarà meglio che tu mi venga a prendere immediatamente se hai intenzione di parlarmi ancora.» piagnucola, stizzita.
«Dove sei?»
«Dagli Evans. Sbrigati!» dice, per poi riattaccare bruscamente.
Affondo la faccia nel cuscino e strillo esasperata, per poi alzarmi a fatica, trascinandomi verso le scale ed arrivare in cucina, sbadigliando a bocca spalancata.
Mia madre è già seduta al tavolo e sorseggia una tazza di caffè, con gli occhi puntati sulla televisione, che sta trasmettendo il solito giornale del sabato mattina.
Osservo meglio i suoi lineamenti: ha i capelli di un castano cioccolato uguale al mio, e il mio naso è la copia esatta del suo. Se non fosse per gli zigomi, la forma del viso e gli occhi, potrebbero scambiarci per sorelle, ma avendoli ereditati da papà, sono semplicemente sua figlia. Il volto è invecchiato, ma preserva tuttavia la sua solita bellezza giovanile.
«Ciao, figlia.» mi saluta, riportandomi coi piedi per terra, mentre mi siedo davanti a lei.
«Ciao ma’.» rispondo, acciuffando un waffle che trovo nel suo piatto e azzannandolo come un animale, per poi masticarlo con vigore, forse con troppo vigore.
«Divertita ieri sera? Chi ti ha portato a casa?»
Il terzo grado. Dovevi aspettartelo, ingenua.
Guardo mia mamma, impallidendo, e comincio a balbettare senza sicurezza, cercando di distrarla mentre cerco una scusa valida. Alla fine, decido di dire la verità.
«Un amico.» sussurro, mentre avvampo con violenza. Ho paura di ricevere una sgridata ed una ramanzina sulle solite cose –come il sesso sicuro, di cui mi aveva parlato a soli dodici anni- ma invece, la donna ignora completamente ciò che ho appena detto.
Ti ha sentito, ma ha preferito non commentare. Meglio così.
Stimo mia madre per non essersi soffermata su quell’argomento, ma soprattutto perché non è mai stata iperprotettiva con me in situazioni simili e non. La madre di Ellie, per esempio, non avrebbe mai tollerato che la figlia tornasse a casa dopo l’una di notte.
Ora, effettivamente, temo seriamente per l’incolumità della mia migliore amica, che è rimasta addirittura a dormire a casa di un maschio, con un maschio.
Scuoto la testa, chinandola, ma le parole di mia madre mi costringono a rialzarla per guardarla negli occhi «Non era venuta a prenderti Ellie?»
Deglutisco ed abbasso lo sguardo, e mia madre afferra al volo la mia risposta: Non parliamone. Mi schiarisco la gola e mi alzo dalla sedia, per correre in bagno e prepararmi in fretta, prima che Ellie possa chiamarmi di nuovo più arrabbiata di prima.
Infilo alla svelta un paio di bluejeans aderenti, una maglietta bianca scollata e larga con una felpa grigia, e dimentico di pettinarmi i capelli, spostando di volta in volta le ciocche all’indietro.
Prendo il telefono e le chiavi dell’auto di mia madre –una vecchissima Mercedes degli anni Ottanta- e in pochi minuti raggiungo la casa degli Evans, il cui giardino è stato ripulito da cima a fondo dalla scorsa sera. Mi chiedo quando lo abbiano pulito se la festa è finita da circa quattro ore, se non di meno, ma non mi interessa molto, non adesso.
Scendo dalla macchina e suono il campanello, e non ci vuole molto tempo prima che Blake mi apra la porta. Sorrido radiosa nel vedere il suo viso, ma la gioia si spegne subito, notando che lui è estremamente serio, e freddo. Glaciale.
Non saluta nemmeno, perciò decido che dunque tocca a me cominciare a parlare.
«Ciao, Ellie è in casa?» domando con voce flebile, mentre stringevo i pugni, tentando di non arrossire.
Lui annuisce ed apre un po’ di più la porta, permettendomi di vedere cosa v’è dietro di lui, ma soprattutto, com’è vestito lui.
I miei occhi scendono dal suo viso fino a soffermarsi al petto, coperto solo da una maglietta che lascia intravedere i muscoli scolpiti. Socchiudo la bocca, esterrefatta.
Era così bello, così perfetto, ma terribilmente lontano e freddo. Il mio cervello si pone una domanda importante: cosa gli ho fatto per meritarmi questo trattamento?
Fino a poche ore fa, quel ragazzo era così interessato a me che quasi stentavo a crederci, mentre ora è del tutto indifferente alla mia presenza, come se davanti avesse un postino.
Il mio cuore si crepa un po’, e tutto si ripete di nuovo: ogni occasione che colgo, la spreco miseramente. Allora è solo colpa tua, incapace.
Non posso che dare ragione alla Me interiore, che in un certo senso si diverte nel vedermi soffrire così tanto, per colpa mia. Scuoto la testa, grattandomi un gomito, ma la voce squillante e familiare innegabilmente femminile mi riporta al mondo dei vivi.
«Sei arrivata, finalmente.» sbotta, per poi uscire dall’abitazione, localizzando immediatamente la vecchia Mercedes ed accomodandocisi dentro.
Non sapendo cosa dire, sussurro un “Ciao” senza convinzione e ritorno nella macchina, osservando il portone di legno, nella speranza di vederlo ancora lì.
Ma lui non c’è.
Sospiro sconsolata, ed una volta accesa la macchina, so per certo che Ellie vuole ricevere domande su ciò che le è successo stasera. Ovviamente, solo per essere superiore.
«Tu hai molte cose da spiegarmi.» dico, senza distogliere lo sguardo dalla strada che stiamo percorrendo.
«Ehm, sì. Beh, ieri ho conosciuto un ragazzo, un amico del fratello di Mike, ed eravamo entrambi ubriachi, perciò.. puoi immaginare cos’è successo.» esclama, agitandosi nel suo sedile con un sorriso stampato sulla bocca e stringendosi nelle spalle.
«Tua madre?» chiedo, con un pizzico di soddisfazione nella voce.
Dopo qualche secondo, mi accorgo di ciò che ho provato nel farle quella domanda. Sono davvero soddisfatta nel sapere che la mia migliore amica è nei guai?
Si chiama gelosia, Danaë. mi dice la coscienza, mettendomi a tappeto.
Al sentire quelle parole, Ellie si irrigidisce all’immediato «Le ho detto che ho dormito da te. Spero non sia un problema..» mormora mortificata, grattandosi la nuca.
Faccio spallucce e le riferisco che non c’è nessun problema, finchè lei non mi chiede «E tu, ieri? Hai combinato qualcosa?» e mi spiazza completamente.
Sono confusa e totalmente indecisa se dirle la verità o inventarmi una bugia: se le dicessi la verità, non farebbe che pormi un sacco di domande, e se le dicessi una bugia, sono sicura che non mi chiederebbe ulteriori informazioni. Ovviamente, punto sulla bugia.
«Niente di che. Sinceramente, non ricordo molto.» rispondo, sfoggiando l’espressione più naturale possibile. Ellie sembra convinta, e ringrazio Dio per non aver intralciato i miei piani. Quando arriviamo davanti a casa sua, mi dice grazie e rientra in casa, mentre io spengo l’auto e mi accascio sul volante, chiudendo gli occhi e pensando a ciò che è successo qualche minuto fa, quando ho parlato con Blake.
Ieri sera avevo fatto qualcosa di male, probabilmente, per essere tratta in quel modo, ma non ricordo di avergli fatto qualche torto. Forse, quando ero ubriaca, posso avergli fatto o detto qualcosa che gli abbia dato fastidio, perciò estraggo il cellulare dalla tasca e controllo se per caso gli ho mandato qualcosa: nulla.
Ma allora, perché si è comportato così? Sbuffo esasperata, rilassandomi per qualche secondo. Forse Mike lo sa, ma dopo il quasi bacio di ieri sera, non credo di avere ancora il coraggio di rivolgergli di nuovo la parola. Sono un completo disastro, penso.
Sobbalzo non appena sento qualcuno bussare sul finestrino della macchina, e quando alzo la testa per vedere chi è stato, quasi non riesco a crederci.
Due occhi azzurri e freddi, i tratti spigolosi e due spalle enormi.
E’ il ragazzo della biblioteca, l’hai trovato! esclama la Me interiore, applaudendo estasiata, mentre io tiro giù il finestrino, la bocca socchiusa dalla sorpresa.
«Tutto bene?» mi domanda, inclinando leggermente la testa. Annuisco, arrossendo leggermente, mentre scendo dalla macchina, seguendo un istinto quasi primordiale.
«Penso di conoscerti, ma non ricordo bene chi sei.» constata lui, spostando in continuazione lo sguardo da me al catorcio che ho alle spalle. Prima che possa suggerirgli la mia identità, lui ha già intuito chi sono, ed esclama «Ah sì, tu sei quella che mi è venuta addosso!»
Questa volta, avvampo violentemente, mentre comincio a dondolarmi sui piedi nervosamente e mi chiedo perché la gente riesca a demolirmi con una sola frase.
«Sì, scusami ancora, non ero attenta..» mormoro timidamente, mentre sposto lo sguardo in tutte le direzioni tranne che nella sua. Quegli occhi mi spaventano, ma mi attraggono, e non voglio esserne vittima di nuovo, di quell’incantesimo così pericoloso.
«Come ti chiami?» mi chiede seccamente, arrivando direttamente al sodo.
«Danaë.» rispondo, cercando di smascherare lo stupore di quella domanda e di allontanare tutte le domande a riguardo: perché vuole sapere il mio nome? Gli interesso io, oppure me l’ha chiesto solo per un normalissimo gesto d’educazione?
Non conosco la risposta, perciò ignoro completamente questi “drammi” per ascoltare cos’ha di nuovo da dirmi «Io sono Joe.» e per stringergli la mano che mi ha posto.
Ha la mano gelida, e solo quel contatto fisico mi provoca la pelle d’oca, riportandomi al primo giorno in cui l’ho incontrato: anche allora era freddissimo.
Che fosse una coincidenza? Qualcosa mi suggerisce di no, ma cerco di non rimuginarci eccessivamente, probabilmente perché adesso non mi interessa davvero la sua temperatura corporea. «Io devo andare.» balbetto, mentre lui continua ad osservarmi dritto negli occhi.
«E’ stato un piacere.» replica lui, sogghignando. Ora, più che essere attraente, è spaventoso.
Salgo in macchina alla svelta e guido velocemente fino a casa, cercando di porre la distanza maggiore fra me e Joe, quel ragazzo così bello ma al contempo così inquietante.
Ma soprattutto, così freddo –fisicamente parlando-.
Scendo dalla macchina con ancora il suo ghigno stampato a fuoco nella memoria, quando davanti alla porta v’è una figura che mi da le spalle e che indossa dei jeans ed una semplice t-shirt. Mi chiedo chi sia, e per scoprirlo mi avvicino sempre di più.
Senza che debbia chiedere qualcosa, la figura si volta per guardarmi e quando la riconosco, mi cadono le braccia. E’ davvero lui?
Sì Danaë, è proprio lui. mi conferma la Me interiore, alimentando la mia curiosità.
«Ciao Danaë» mormora la sua voce roca e tranquilla, mentre il mio corpo freme e la mia testa sta per scoppiare. E’ lui.





-don't read me-
Ho approfittato del tempo libero per postare -finalmente!- il quarto capitolo. Ero un po' a corto d'immaginazione, ma mi ero imposta di finirlo entro oggi e finirlo decentemente. Spero lo sia lol Vi prego di farmi sapere tramite recensione la vostra opinione, e non smetterò MAI di ringraziare Alexya_ per le sue puntuali recensioni! Grazie di cuore, veramente!
Detto questo, alla prossima (: 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Five ***


Il mio mondo crolla mentre ho l’impressione che il tempo si fermi per qualche minuto.
Il cuore ha raggiunto la mia gola, e sono certa che da un momento all’altro potrei svenire, ma qualcosa mi blocca tutti gli arti, e le mie corde vocali non hanno intenzione d’agire.
Ho la bocca impastata e sento del sudore ghiacciato bagnarmi la schiena, sebbene un vento tipicamente autunnale fuori raffredda le strade e rinfresca le persone; sono così nel panico che qualsiasi parola a cui pensi mi risulta illogica e un attacco di nausea mi immobilizza.
Davanti a me ho un uomo che ha più o meno quarant’anni, ma che ha un incredibile fascino, probabilmente dovuto a quella sua smorfia , molto misteriosa che assomiglia ad un sorriso, e che, come me, ha occhi di un verde confuso e zigomi alti, un po’ spigolosi, ma pieni.
Ha un’espressione divertita, e potrei dire che è sano come un pesce fisicamente, se solo non fosse per tre lunghe cicatrici, causate come da un graffio, che partono dalla base del collo e scendono lungo le clavicole, per poi essere coperte dalla T-Shirt leggera che indossa.
«Ciao.» mormoro dopo un tempo che mi sembra infinito, evitando di incrociare i suoi occhi attenti e scrutatori, che sembra vogliano leggermi la mente, scoprire i miei pensieri.
Lui fa un sorriso comprensivo, intuendo che io non abbia la forza e il coraggio di aggiungere altro, e semplicemente mi abbraccia, permettendomi di appoggiare la testa sul suo petto.
Senza rendermene conto, una lacrima che racchiude mille emozioni mi riga le gote e in men che non si dica, ho già cominciato a singhiozzare, stringendomi ancora di più a lui.
«Papà…» singhiozzo, senza mollarlo per paura che, anche questa volta, potesse lasciarmi di nuovo e scomparire dalla mia vita in una nube di mistero e incredibile malinconia.
D’altro canto, lui si limita ad accarezzarmi il capo e a cercare di nascondere il suo battito cardiaco molto veloce facendo respiri lenti e molto lunghi.
«Danaë, con chi stai parlando? E’ dieci minuti che…» squilla la voce di mia madre, brontolando, ma non riesce a terminare la frase non appena vede la scena.
Senza indugi, anche lei scoppia a piangere e si aggiunge al nostro abbraccio, ancorandosi, come me, alla speranza che l’uomo della nostra vita non ci lasci mai più.
Il mio pensiero ricade su mia sorella, che in questo momento è a Newcastle a studiare medicina ed è completamente ignara del ritorno di nostro padre, ma sono troppo emozionata per pensarci a lungo e decido che più tardi la avviserò di tutto ciò.
Tutti e tre entriamo in casa, io e mia madre con le lacrime agli occhi ed il sorriso sulle labbra, ed insieme, siamo pronti a ricominciare. Prima però, devo scoprire a cosa sono dovute quelle cicatrici.
 
*****
 
Mia madre, anche se con indecisione, permette a me e a mio padre di stare un po’ soli, e lui mi propone di andare a prenderci qualcosa da bere nel suo bar preferito. Noto che ora, per lui, Seattle è completamente diversa da quando l’aveva abbandonata sette anni orsono, e il suo sguardo è del tutto rapito dai colossali palazzi che vigilano sulla meravigliosa città.
Quando entra nella vecchia macchina che qualche ora fa avevo guidato, riesco a notare quanto sia teso ed insicuro nel maneggiare quell’auto, e dubito che si ricordi come si faccia a guidare quel ferro vecchio, che ormai era il quinto membro della famiglia.
«Lascia, guido io.» dico ridacchiando, aspettando che lui fosse sceso prima di prendere il suo posto di autista e mettere in moto il pezzo d’antiquariato.
«Tu guidi?» mi domanda lui, sinceramente incuriosito. Si gratta la nuca, come solito.
«Ho quasi diciotto anni, papà, posso guidare le auto. Probabilmente la tua memoria si è fermata a quando ancora giocavo con le barbie.» esclamo io, partendo dopo aver acceso i fanali ed aver controllato che la strada fosse libera per poter passare.
Essendo autunno, è ovvio che la felpa è un indumento indispensabile per non morire di freddo, ma mio padre non si preoccupa di indossare una semplice maglietta di cotone, il che equivale alla seminudità, qui a Seattle. E mentre passiamo sotto le luci dei lampioni delle strade esterne, i suoi occhi si spostano frenetici da un lato all’altro del posto, iperattivi.
Mi diverte vederlo così curioso, come un bambino che vuole conoscere il mondo, e noto con soddisfazione che John non si è accorto del mio sguardo che a volte si punta su di lui.
«Vai a destra, poi sempre dritto.» mi informa dopo qualche minuto, indicandomi una via stretta la cui fine non si nota, illuminata solo da qualche lampione dalla luce blu fastidiosa.
Proseguo per quella strada quando la fila di lampioni termina senza motivo, e la strada è completamente buia, il che mi fa preoccupare a proposito dell’alta probabilità di perderci.
Tuttavia, mio padre non sembra nervoso, e anzi il suo sorriso si è allargato sempre di più mentre si agita impaziente sul suo sedile. «Sicuro che sia questa la strada?» chiedo, farfugliando un po’ dubbiosa. «Sicuro, ora gira a destra, subito!» esclama ridendo, mentre io effettuo una virata veloce e molto brusca che mi ricorda a tutti gli effetti un film poliziesco.
Non appena la macchina si stabilisce correttamente sulla strada, vedo una specie di baita illuminata da tanti lampioni e piccoli faretti che emettono una luce giallognola.
Intorno a questo locale, ci saranno almeno una dozzina di moto e di SUV e di uomini che parlano animatamente, mentre stringono una bottiglia di alcolico in mano.
Quest’ambiente mi ricorda vagamente la festa a casa di Mike e Blake, e non appena ripenso a quest’ultimo il mio sorriso scompare, ricordando giusto la mattina stessa.
«Siamo arrivati.» esordisce John, con gli occhi che brillano d’eccitazione. In poco tempo usciamo dalla macchina e, dopo averla chiusa, ci avviciniamo all’entrata: mio padre in testa, e io dietro di lui, con lo sguardo chino sul suo passo sicuro.
Non appena alzo lo sguardo, noto che gli uomini hanno smesso di parlare tra loro per osservare increduli John, che nel frattempo mi ha circondato le spalle con il suo braccio.
Lo osservo, notando quanto mi assomigli, e la sua espressione mi nasconde qualcosa: sembra estremamente fiero di sé, ed ha assunto una postura diversa, più autoritaria.
Faccio spallucce, cercando di allontanare le domande dal mio cervello –già abbastanza disturbato così– ed insieme entriamo nel locale, mentre un odore di whiskey e birra ci pervade l’olfatto, sollevandoci. Lui, notando la mia reazione non appena quell’ondata di profumo mi ha investito, mi chiede «Hai mai bevuto?» ridendo.
«Più di quanto tu possa immaginare.» gli rispondo arrossendo, mentre lui toglie il braccio dalle mie spalle e mi guarda incredulo, ma comunque divertito.  
Ebbene, mio padre s’era lasciato scappare l’opportunità di poter crescere la propria figlia, di poter rendersi conto di quanto potesse crescere di giorno in giorno, ma non ce l’avevo con lui per questo: dopotutto, senza lavoro, come avremmo potuto continuare a vivere?
Tuttavia, quelle cicatrici non mi sembravano una cosa normale per essere un semplice commerciale estero, e se anche gli fosse successo qualcosa, non credo non ci avrebbe informato anche con un messaggio o un telegramma scritto in fretta e furia.
In quei marchi, c’è qualcosa che non va bene, c’è qualcosa che mi puzza fin troppo, ma preferisco parlarne più tardi, perché una massa di uomini e ragazzi lo hanno già investito.
Tutti urlano sorpresi il suo nome, mentre lui ride spensierato, gustandosi il sapore del rimpatrio e delle feste dei suoi compagni, che non avevo mai visto prima.
Mi sembra normale, dato che l’ultima volta che l’hai visto avevi sette anni.
Un uomo dalla folta barba ispida e rossastra sale sul bancone del locale, e notando il suo vestiario, intuisco che è lui il capo di quel posto così particolare ma anche così familiare.
«Compagni, Fox è tornato, è di nuovo con noi! Alzate i vostri bicchieri, le vostre bottiglie, e brindate al ritorno del nostro Amico!» grida a squarciagola, senza nascondere il proprio accento tipicamente britannico. Sorrido guardando quanto tutti siano contenti del ritorno di mio padre, quando ad un certo punto mi accorgo di come l’hanno nominato: Fox.
Lancio un’occhiata interrogativa a mio padre, che si è allontanato da me per abbracciare tutti i suoi “compagni”, e di tutta risposta lui fa spallucce sorridente, finchè non vedo due volti familiari avvicinarsi a lui e stringergli la mano vigorosamente, dicendogli qualcosa nell’orecchio per cercare di farsi sentire sotto quel baccano. Quando uno di questi si gira verso di me, i suoi occhi mutano da allegri a freddi, e non posso ignorare quello sguardo e fare a meno di riconoscerlo: Blake Evans è presente, e se ne sta andando. Prima di poterlo perdere fra la folla, prendo a spintoni un paio di persone e lo seguo fuori dalla baita, chiamandolo a gran voce. Siamo solo noi, dato che gli altri sono dentro, da “Fox”, e per una volta mi sento fortunata ad essere con un ragazzo sola, al buio.
«Blake, ehi. Blake!» dico ad alta voce, impedendogli di proseguire verso la strada non illuminata. Lui si volta a fissarmi, con uno sguardo di ghiaccio, che mi congela dentro.
«Che vuoi?» chiede seccamente, avvicinandosi a me, con un’espressione impassibile.
«Sapere perché diavolo ce l’hai con me. Non mi sembra di averti detto niente di offensivo, e ignorarmi è un comportamento da bambini immaturi. Cosa ti ho fatto?» gli domando nervosamente, mentre le mie guance diventano paonazze.
Lui non sembra intenzionato a darmi una risposta, perché si limita a stringere i pugni e a distogliere lo sguardo dal mio, riducendo gli occhi a due fessure.
Il mio cuore batte all’impazzata ed ho sinceramente paura di quello che mi dirà, che arriva senza preavviso «Quando sono tornato a casa, mio fratello era seduto sul divano, e gli è saltata in mente la bellissima idea di dirmi cosa aveva fatto quella sera. Una delle tante cose che ha fatto è stato quasi baciare “la ragazza figa che avevo vicino sul retro”, che ho poi riconosciuto come te.» sibila adirato, mentre si porta una mano fra i capelli.
In effetti, quella sera Mike aveva tentato di baciarmi ed io non avevo opposto resistenza, ma non avrei mai pensato che un gesto simile  avesse potuto urtare suo fratello maggiore.
E’ colpa tua, idiota! mi rimprovera la Me interiore, mentre mi sento veramente uno schifo.
«Mi hai preso in giro, Danaë. Prima, ci hai provato con Mike, e poi con me? Con chi credi di avere a che fare? Non sono un giocattolo, con i miei sentimenti non puoi giocarci. Volevo piacerti, e mi sono fatto avanti, ma evidentemente non sono abbastanza, no?» aggiunge, guardandomi finalmente negli occhi. Sebbene i suoi occhi siano freddi ed apatici, il suo sguardo è di fuoco e mi sta facendo molto male, e sotto di esso mi sento piccolissima.
Vorrei piangere, ma trovo il coraggio di dire la mia opinione «Io non ho intenzione di giocare con i tuoi sentimenti, Blake, e non l’ho mai avuta. E credimi, sei più che abbastanza, sei anche troppo. Tuo fratello ha cercato di baciarmi, ma ero ubriaca, non capivo, e sinceramente, se non fossi stata brilla, non mi sarei nemmeno avvicinata a lui.».
«Quindi, quando hai parlato con me, eri sbronza? Grazie mille.» ringhiò lui, aggrottando le sopracciglia sempre più arrabbiato.
Smettila, ti prego. gli chiedo mentalmente, sperando vanamente che possa leggermi nella mente e cessare quella tortura, ma lui non vuole smettere, come se gli piacesse.
«No, no. Con te ero lucida, e se fosse per me, ti sceglierei ancora. Ti sceglierei sempre.» mormoro, avvampando nell’arco di un nanosecondo, non riuscendo a capacitarmi di ciò che ho appena detto. Fatto sta che sono riuscita a zittire tutte le voci insistenti dentro la mia testa, e nella mia mente aleggia un silenzio imbarazzante.
Blake, dal canto suo, mi fissa basito, anche lui senza parole.
Se solo mia madre fosse qui, mi farebbe un enorme applauso: non è da tutti i giorni dire frasi di questo tipo ad un ragazzo molto attraente, soprattutto per me, quella timida.
Ci guardiamo per qualche secondo, senza sapere cosa dire, finchè lui non si avvicina pericolosamente al mio viso e fa l’inaspettato. Mi bacia.
Io, come sempre, vengo colta alla sprovvista, ma questa volta il tutto risulta meno forzato, più naturale e senza spinte. Chiudo gli occhi, godendomi questo momento e il calore delle sue mani che mi tengono il viso, mentre il mio cuore si scalda, come il mio volto.
Mi piace così tanto che resterei così tutta la serata, ma per qualche motivo Blake si stacca da quel contatto fisico così intenso e se ne va senza dire nulla, scomparendo nella notte buia.
Sinceramente, sono un po’ delusa dalla sua fuga, ma non posso lamentarmi perché, poco dopo, mio padre mi chiede di portarlo a casa dalla mamma.
Senza indugi, salgo in macchina e, una volta partiti, ripeto la strada di prima, però al contrario, e dopo un quarto d’ora siamo a casa. Mio padre si è accorto che non ho parlato da quando siamo saliti in macchina, ma non mi chiede il perché, perciò mi faccio mille paranoie sulla probabilità che lui mi abbia visto col ragazzo.
Decido di rilassarmi e mi sento finalmente bene, anche se non ho ancora risolto la questione delle cicatrici di mio padre, dato che lui è stato tutto il tempo dentro al locale, con i suoi compagni che sembrava conoscesse dalla nascita. Mi prometto, poi, che domani gli chiederò ulteriori informazioni sul suo viaggio, per scoprire se c’è qualcosa che non quadra veramente in lui e nella sua storia; ma prima di poter riflettere nuovamente, mi addormento, troppo stanca per affrontare la mia coscienza.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Six ***


La cosa tremenda del Lunedì mattina è principalmente la scuola.
Non ne posso più di tutti quei libri e quello studio, e se penso che siamo solo al mese di Ottobre, mi viene la voglia di mollare l’impresa e fregarmene altamente del mio futuro.
Prima di arrivare al mio liceo, ho cercato di convincere mio padre a portarmi in macchina, ma era troppo stanco per via della notte precedente e necessitava del riposo.
La notte prima.
La mia schiena è attaccata da una forte pelle d’oca anche solo a qualche immagine inerente a quel contesto, e il mio cuore comincia a battere più velocemente del solito, tutto per uno stupido bacio. Ma che dico, è stato bellissimo.
Se solo Ellie sapesse che ieri Blake Evans, ragazzo bello quanto misterioso, mi ha baciato, comincerebbe ad urlare e continuerebbe finchè non le si seccherebbe la gola, per questo non gliel’ho ancora detto; so che è una cosa un po’ scorretta –lei è la mia migliore amica, e si meriterebbe di saperlo– ma penso che il suo entusiasmo finirebbe per peggiorare la situazione: magari, andrebbe da Blake a complimentarsi, o a sfottere Mike.
«Roberts. Roberts!»
Sobbalzo e ritorno nel mondo dei vivi solo quando una voce maschile chiama a gran voce il mio cognome, con una sfumatura di rabbia e irritazione. Il professor Kirk mi guarda innervosito, e mentre si avvicina al mio banco vorrei darmela a gambe e scappare da una vicinissima sgridata che, probabilmente, mi sarebbe costata parecchio.
«Roberts, è la quinta ora del lunedì, e ciò significa che dovresti essere più che sveglia. Per caso Kant ti annoia? Oppure stamattina ti hanno drogato?» dice, con un sorriso pieno di sarcasmo che emana solamente molta paura, terrore.
«Mi scusi.»
«La prossima volta che ti becco disattenta, ti spedisco in detenzione.»
Le ultime due ore sono un inferno, ma quando esco da scuola sono felice come la pasqua, e come al solito mi siedo su una panchina in attesa dell’arrivo di Ellie, che questa volta sembra è più in ritardo del solito. Incrocio le gambe, cercandola con lo sguardo, ma quando vedo una figura familiare avvicinarsi alla mia panchina, sento la gola seccarsi e vorrei solo sparire da quel posto, dal mio stato, dal mio pianeta. Vorrei sparire e basta.
D’un tratto mille pensieri cominciano ad aggrovigliarsi e le solite paranoie vengono a galla: sono vestita bene? Ho il trucco rovinato? Sono spettinata?
Mi agito sulla panchina, evitando il più possibile il suo sguardo ipnotizzante, ma quando lo sento parlare non posso continuare, e mi costringo a guardarlo negli occhi.
«Ciao Danaë.»
«Ciao Joe.»
Il famoso ragazzo della biblioteca, il cui nome non mi è più sconosciuto, si erge dinanzi a me, mentre con la sua testa copre il sole che poco prima mi bucava la retina; il ragazzo non ha abbandonato il suo sorriso terribilmente tranquillo ma inquietante, e so dentro di me che quel sorriso nasconde un mistero, il che lo rende affascinante, desiderato.
«Che fai? Ti accompagno a casa.»
«No, sto aspettando la mia amica, non posso.»
Il ragazzo sbuffa, togliendo le mani dalle tasche, e poi la sua attenzione ritorna su di me mentre lui esclama «Dài, lei la puoi vedere tutte le mattine, io ci sono una volta ogni due settimane.» e annuisce speranzoso, cercando di convincermi.
In effetti, il suo ragionamento non fa una piega, ma sento qualcosa frenarmi, qualcosa che mi consiglia di rifiutare il suo invito ed aspettare Ellie, a costo di tornare a casa il pomeriggio; tuttavia, anche il discorso del ragazzo fa acqua: la scorsa settimana l’ho incontrato due volte, il che significa che non è così assente come vuole che si creda.
Forse lo è davvero, e questa settimana è stato semplicemente più libero.
N0, non può essere così, so che sotto c’è qualcosa, e non appena mi ricordo la frase prima –“Ti accompagno a casa”– storco il naso, mentre tanti dubbi mi affliggono il cervello.
Come fa a sapere dove abito? Questo, sinceramente, mi spaventa, ma voglio sapere se c’è seriamente qualcosa sotto al suo bel visino e alle sue spalle gigantesche. Devo saperlo.
«Se proprio insisti.» esclamo, alzando ed affiancandolo mentre cominciamo a camminare verso casa mia, che dista poco dalla mia scuola, ma abbastanza da scoprire qualcosa sul conto di questo particolare soggetto, Joe, il cui cognome non mi è noto.
«Qual è il tuo cognome?» chiedo, cercando di ignorare la differenza d’altezza fra noi due.
«E’ così importante?» domanda, sbuffando mentre annuisco con vigore.
Esita un po’ prima di parlare, osservandosi i piedi, e poi proferisce «Barker.»
Dalla sua esitazione, capisco che è solo un’enorme bugia, ma non capisco perché me l’abbia raccontata, e non capisco perché non voglia dirmi il suo cognome.
Chissà cosa teme. Non sono una spia dell’FBI.
«Il tuo vero cognome.»
«Non pensavo fossi così arguta, Sherlock.»
«Hai esitato, e non mi guardavi mentre l’hai detto. Era palese che stessi mentendo.»
Mi stupisco della mia abilità nel riconoscere l’onestà della gente, e questo stupore mi riconduce inevitabilmente ai momenti in cui mia madre mi mentiva sul conto di papà, quando mi diceva che sarebbe tornato la settimana o il mese seguente. Non avevo impiegato troppo tempo per capire che la donna mi raccontava delle frottole per non ferirmi.
«Ti faccio i miei complimenti. Comunque, è Kelemen. Joe Kelemen.»
Sentendo la pronuncia completamente diversa da quella inglese di quel cognome, mi giro confusa verso il suo volto, rivolto verso la strada, impassibile e rigido.
«Non sei di qui.» constato, inarcando un sopracciglio. Wow, sei proprio un genio.
«Hai notato, Sherlock? Anche questo era palese, dài.» esordisce lui, facendo spallucce.
«Di dove sei?» chiedo secca, senza ricorrere sempre all’ironia come fa lui; credo che la usi solo per cambiare le carte in tavola, per cercare di spostare la mia attenzione altrove, ma la sua tattica, con me, non funziona. Anzi, si sta scavando la fossa autonomamente.
«Se avessi saputo che avresti fatto un interrogatorio non sarei venuto da te.»
Quando si gira verso di me e nota il mio sguardo impassibile, che non lascia trasparire alcuna emozione, capisce che il momento degli scherzi è concluso. Almeno per ora.
«Ungheria. Hai presente dov’è?»
Annuisco, visibilmente impressionata: perché mai ha fatto tutti quei kilometri per raggiungere Seattle? Non riesco a spiegarmelo, perciò deduco che questo particolare vada ad aggiungersi alla lista di cose da scoprire riguardo Joe e l’alone di misteri che ha intorno.
«Sei dello stesso posto da cui proveniva la Contessa Sanguinaria.» mormoro osservandolo con un sorriso spontaneo, mentre lui si irrigidisce e mi guarda con gli occhi sgranati, cercando di distogliere il suo debole sguardo dal mio, forte e deciso, fermo.
Sinceramente, non so perché abbia detto quella cosa, ma la sua reazione mi colpisce così tanto che non mi pento di questo riferimento alla storia di quella pazza, che ha ucciso all’incirca 650 persone per mezzo di torture inimmaginabili.
Ma prima che potessi chiedergli il perché di quella faccia, mi rendo conto che ci siamo fermati e che siamo esattamente davanti casa mia, da dove mio padre sta uscendo velocemente, nella nostra direzione. Lancio una rapida occhiata a Joe, che ora sta guardando il mio genitore e sorride in maniera terribile.
Il suo è un sorriso cattivo, malvagio e spaventoso.
«Danaë, entra! Subito, chiaro?» strillò John, indicandomi furioso; senza indugiare, ubbidisco immediatamente ed entro in casa sotto lo sguardo furente di mio padre, per poi correre alla finestra più vicina per osservare ciò che succede fuori.
«Ciao, Fox. Da quanto tempo che non ti vedo, eh! Lei è uguale a te.» sibila Joe, ghignando.
«Sparisci, Kiss, oppure non esiterò a romperti il collo appena me ne darai la possibilità. E non osare avvicinarti più a lei, altrimenti finirai male.» replica gridando mio padre, mentre stringe i pugni al punto da far diventare le sue nocche bianche e pallide.
Joe scoppia a ridere e se ne va per la stessa strada con cui è arrivato, lanciandomi un’occhiata veloce, che emana tanta rabbia che quasi mi spavento, tuttavia non posso restare a fissare il suo addio perché sento la porta sbattere, e quindi mi lancio sul divano.
Mio padre entra in salotto, con ancora i pugni chiusi, e mi dice «Non  avvicinarti più a quel tizio. Se ti vedo anche solo guardarlo, ti tengo chiusa in casa per un mese, te lo posso giurare sulla mia stessa vita. Chiaro?» estremamente serio e cupo.
«Ma perché?»
«E’ pericoloso, non fa per te. Stagli lontano, non lo conosci bene.»
Sento le mie guance bruciare, ma questa volta non è per l’imbarazzo: è per la rabbia; mio padre ha già cominciato a proibirmi di uscire con le persone che volevo conoscere meglio e che, fino ad adesso, non mi hanno ancora torto un capello e non mi hanno usata.
Si sta comportando come se fosse stato presente da sempre, ma non lo è mai stato.
Vorrei prendermi a schiaffi per questo pensiero, ma mi rendo conto che, alla fine, è quello che penso davvero, e non posso rinnegare i prodotti della mia stessa mente solo perché sono negativi nei confronti dell’uomo che mi ha dato la vita, e che poi è scomparso.
«Non conosco bene neanche te, se è per questo.» sibilo, fissandolo.
La sua espressione va dalla stravolta alla infuriata, ma non voglio farmi intimorire.
Oggi sono forte e faccio quello che voglio.
«So solo il tuo nome, e ora che ti chiamano Fox non sono nemmeno sicura che sia quello vero. Ti fiondi qui a Seattle dopo anni che hai lasciato noi da sole, e pretendi anche di dare ordini dopo che ti sei fatto una chiacchieratina con degli uomini di cui io e la mamma non sappiamo nemmeno l’esistenza? Devi avere il diritto di impormi le cose finchè non ti conoscerò per bene.» aggiungo alzandomi dal divano per avvicinarmi a lui.
Inevitabilmente, il mio sguardo si va a posare su quelle cicatrici che ho scoperto giusto ieri, ma lui non sembra accorgersene, il che mi obbliga a chiederglielo in futuro.
«Cosa vuoi sapere?»
«Tutto. Per esempio, perché ti chiamano Fox?»
Lui fa spallucce, ma non distoglie lo sguardo per non perdere la mia sfida; sembriamo proprio dei lupi, degli animali selvaggi, ma ciò non mi preoccupa minimamente.
«E’ un normalissimo soprannome, come se cominciassi a chiamarti “Dany”, non credi? E comunque, queste –e si indica le cicatrici– me le ha fatte Ginny mentre giocava con me» risponde automaticamente alle mie domande precedenti, anche se una di queste era mentale, il che mi fa capire che, poco prima, ha notato il mio sguardo dubbioso rivolto alla base del suo collo, per metà ricoperto da una barba incolta e brizzolata.
Il nome che pronuncia è quello del cane di mio zio, ma so che Ginny –una meticcia giocherellona– non è mai stata violenta con nessuno nemmeno per gioco, dunque deduco che mio padre, il cosiddetto Fox, mi sta mentendo spudoratamente.
Tuttavia, non voglio soffermarmi sulle sue bugie, ma voglio metterlo nel sacco.
«Ma se sei stato per tutti questi anni fuori per lavoro, come hai fatto a procurartela?»
«Tuo zio abita in Canada, Danaë. Sono stato in Vietnam, e credi che in Canada non ci sia stato?» dice soddisfatto a braccia conserte, demolendo la mia possibilità di fargli notare che il suo piano faceva così tanta acqua da far straripare un fiume.
Farlo straripare nello stesso modo in cui ora fanno i miei pensieri: come un fiume in piena, attaccato selvaggiamente da un diluvio universale, spazzano via qualsiasi cosa si trovi sotto la sua ira funesta, che non lascia il tempo di fuggire, di accorgersi di cosa stia succedendo.
I miei pensieri spesso mi fanno boccheggiare, così intricati e complessi, ma senza la capacità di pensare non sarei umana: sarei come gli animali, spinti dall’istinto.
Cogito ergo sum, nessun periodo più vero di questo. Penso quindi sono.
Se non avessi la mia mente che produce drammi a vagonate, non sarei più Danaë; sarei solamente un essere strano che vive per istinto: di bere, di mangiare, di dormire.
Se non avessi i miei pensieri, non proverei mai più emozioni sincere.
Non avrei più le palpitazioni se vedessi Blake, o non sarei interessata alla vita di Joe, che ora mio padre aveva chiamato con uno strambo soprannome: Kiss, bacio.
«Mi stai nascondendo qualcosa, John, e presto saprò cosa. Non abbiamo finito.» replico secca interrompendo il contatto visivo e lasciando il salotto per salire in camera mia e lanciarmi sul mio comodo letto, nella speranza di raggiungere “l’illuminazione” nei confronti di mio padre, abile bugiardo. Ha vinto la battaglia, ma non la guerra.
Allungo il braccio per raggiungere i miei auricolari e quando li infilo, scelgo la canzone che voglio ascoltare e la faccio partire, esternandomi dal mondo che mi circonda.
Non voglio pranzare, perciò decido di mangiare una mela che avevo per l’intervallo a scuola, e sto sdraiata ad ascoltare i Coldplay almeno per un’ora, mentre la mia mente lavora all’impazzata e mille pensieri e riflessioni vorticano in assenza di gravità.
La mia testa è una giungla, e dentro di essa persino io devo combattere per ottenere un po’ di controllo e non perire sotto la massa di queste parole ed emozioni che si uniscono in un legame indistruttibile e pesante quanto un’ancora.
Peccato che con questa ancora non riesca a rimanere coi piedi per terra.
Quindi, queste riflessioni si avvicinano più ad un’incudine che mi pesta il cuore e mi annoda lo stomaco e mi attorciglia l’intestino, tanto da farmi venire da vomitare.
Quando ormai non riesco più a stare distesa e la testa mi scoppia dall’ansia e dai dubbi, mi alzo dal letto e socchiudo la porta, sentendo se c’è qualcuno in casa o se sono tutti andati a sbrigare delle commissioni, ma ciò che odo è solo un silenzio assordante.
Esco e percorro tutto il corridoio che mi porta alle scale e quando passo davanti alla porta dello studio di John sento due voci maschili diverse, ma che hanno lo stesso tono, perciò deduco che i due uomini che sono all’interno della stanza mi abbiano sentito.
La curiosità è troppa e mi rannicchio furtivamente vicino alla porta, appoggiandoci un orecchio sopra, e cercando di captare qualche suono che mi sia utile.
«Oggi era con lei, l’ha accompagnata.» questa è la voce di mio padre, la riconosco.
Sebbene sia tornato da poco, ormai ho già memorizzato la sua voce: profonda e dura, nemmeno quando si addolcisce suona amichevole, e mette quasi sempre soggezione.
«Stai scherzando? Come fa a conoscerla?» questa voce invece mi è sconosciuta.
E’ sconcertata, e probabilmente è per quello che mi risuona strana.
«Non lo so. So solo che in qualche modo è riuscito ad avvicinarla, e la cosa potrebbe peggiorare. Se solo la tocca anche per sbaglio stermino tutto il suo clan, te lo posso giurare sulla mia stessa vita»
«Pensi che Ronnie se la prenderà? Sai che è uno violento.» questa volta la voce che ho sentito poco prima non è più sconvolta, ma è più profonda e calda.
«Dì a Ronnie di non scatenare gli altri e di lasciare che la situazioni si sistemi da sola, e digli anche che se vedo delle orme dei nostri faccio il disastro. Mi fido di te, Blake»
Sgrano gli occhi e sento che ormai la mia bocca è arida e secca, mentre cerco di capacitarmi di ciò che ho sentito, anche se la maggior parte è poco chiara; quando mi accorgo che i due –mio padre e il ragazzo che la sera prima ho baciato– si stanno alzando e probabilmente uscendo, mi fiondo fuori di casa, rischiando anche di cadere dalle scale.
Ho bisogno di pensare seriamente, perciò comincio a camminare sul marciapiede con passo lento, le mani nelle tasche, mentre fiumi e fiumi di domande mi assillano e mi sento terribilmente in colpa per non trovare loro delle risposte.
Sono più che certa che i soggetti –i cui nomi non sono stati pronunciati– trattati in quella conversazione bisbigliata di fretta, come se fosse un segreto, siamo io e Joe; ancora non comprendo perché quel ragazzo debba farmi volutamente del male, e non comprendo nemmeno perché mio padre e Blake lo temano e lo odino così tanto.
Dopotutto, non mi ha ancora fatto nulla di male, se non essersi sbattuto accidentalmente contro di me in una semplicissima biblioteca.
E se non fosse stato un incidente?
Una voce solletica il mio intelletto, tentando di persuadermi, ma sono quasi sicura di essermi urtata per puro caso contro il petto gelido di Joe e le sue spalle enormi, sono quasi sicura che sotto non ci fosse stato nessun piano segreto per farmi del male.
Sospiro, scoraggiata, e la mia memoria riporta alla luce alcune parole pronunciate da mio padre a proposito di un clan di cui, evidentemente, Joe fa parte; corrugo la fronte, notando quanto la cosa sia sciocca, ma mi rendo conto che se mio padre l’ha detta, vuol dire che ha comunque qualcosa di fondato e veritiero. E’ tutto così difficile.
Se mio padre non mi avesse nascosto niente, ora non sarei qui a sprecare le mie energie per venire a capo di questi problemi sorti appunto per colpa sua, del suo silenzio.
Delle sue bugie.
E di che orme stava parlando, poco prima? Essendo tutti delle persone aventi piedi, le orme che possiamo lasciare sono uguali, e si differenziano solo in grandezza e larghezza, perciò riconoscere delle tracce sarebbe difficile, a meno che tutti i numeri delle scarpe degli amici siano conosciuti a tutti. No, c’è qualcosa che non quadra, ed è evidente.
Le uniche orme riconoscibili, differenti da quelle umane, sono quelle animali, il che è altrettanto inspiegabile e misterioso; mi blocco istantaneamente e mi siedo sul marciapiede mettendomi la testa fra le mani, mentre cerco di evitare un eventuale attacco di panico.
«Tutto bene?» la voce preoccupata di Blake fa fremere il mio corpo mentre ricorda l’avvenimento della sera precedente, che voglio evitare per non arrossire.
«Secondo te?» ringhio, cercando di non mostrare il mio tremore non appena lui si siede accanto a me, con lo sguardo fisso sui miei capelli che mi coprono il volto.
La domanda che mi ha appena posto è tutto tranne che intelligente, e la mia aggressività –che sta salendo sempre più– non mi permette di rispondere garbatamente.
La Danaë che sta parlando adesso è quella stanca e frustrata.
«Che hai fatto?» chiede seccamente, senza smettere di osservarmi intensamente.
In uno scatto di rabbia mi volto per guardarlo in faccia e sputo «Sono stanca! Stanca dei vostri segreti, delle vostre scenate, stanca! Vi ho sentiti mentre parlavate, poco prima, e mi state nascondendo qualcosa. Vuoi vedermi allegra?» guardandolo.
Lui annuisce incerto sul da farsi, perciò ne approfitto.
«E allora parla!» strillo, ignorando le mie guance paonazze dalla rabbia.
«E’ una cosa troppo grande, Danaë, e tu sei ancora una ragazzina…» mormora lui distogliendo lo sguardo e stringendo i pugni, mentre la mia rabbia cresce sempre più.
«Ho quasi diciotto anni, sono quasi maggiorenne e merito di sapere quello che mi riguarda. Avete paura che soffra per colpa di Joe? E’ un mio amico, e finora non mi ha mai fatto del male, quindi lasciatelo in pace!»
«Kiss è tuo amico?» chiede allibito, ritornando a guardarmi negli occhi ed incatenandomi ai suoi, mentre ora ha cominciato ad alzare la voce. Mi piace litigare con lui.
«Sì, Joe è mio amico. E non capisco perché lo chiamiate Kiss, come non capisco perché chiamiate mio padre Fox. Voglio delle risposte, Blake, poi non mi avrete più fra i piedi. Scomparirò e sarò invisibile, così non avrete una ragazzina fra i piedi.»
Blake tace, e invece di parlare mi prende per un braccio e mi fa alzare, per poi scortarmi di nuovo a casa, restandomi sempre affianco e senza perdermi di vista.
Mi sta trattando come un’evasa di prigione, ma i suoi occhi addosso non mi disturbano, sebbene sia ancora arrabbiata per il suo rifiuto di proferire parola; quando arriviamo davanti al mio portone, mi dice «Controlla il telefono, fra un po’» e se ne va con la solita espressione che cela qualsiasi emozione lui stia provando.
Questa illeggibilità è un punto a mio sfavore, ma presto imparerò a captare ciò che quella smorfia nasconde dietro di sé, e presto potrò coglierlo nei momenti adatti per rubargli qualche informazione top secret.
Sono stanca di questo silenzio, necessito delle risposte vere.
Qualche ora dopo, quando sento suonare il campanello nello stesso momento in cui il telefono squilla, capisco che si può trattare solo di una persona: Blake.
Apro la porta ostentando un’espressione indifferente mentre incrocio i suoi occhi, che brillano di stupore, probabilmente perché ho già previsto le sue intenzioni e mi sono vestita apposta per l’occasione, ma in maniera semplice, non come alla sua festa.
«Andiamo» dico, uscendo di casa, ma la sua mano mi blocca.
«Dovresti dirlo a tuo padre» mi suggerisce grattandosi la testa, visibilmente in imbarazzo.
«Manderò un messaggio a mia mamma» replico facendo spallucce e finalmente uscendo dalla casa al fianco di Blake, mentre ci dirigiamo alla sua macchina.
La stessa macchina che ha usato quando mi ha portato a casa la notte della sua festa.
La notte in cui mi ha detto che ero molto carina.
Mentre un brivido mi percorre tutta la spina dorsale tento di mantenere la mia espressione dura e tirata, e sento che a volte lo sguardo del ragazzo si posa su di me, quando non sta guardando la strada illuminata dalle luci arancioni dei lampioni.
«Non mi piaci con questo broncio. Sembri uno dei sette nani» ironizza.
«Dovresti chiederti perché ce l’ho» rispondo, guardandolo.
Lui ride, buttando indietro la testa in una maniera che mi ricorda un bambino felice, ma mi obbligo a non sorridere per risultare comunque credibile e veramente arrabbiata.
Guida per un paio di minuti, finchè non parcheggia l’auto esattamente davanti ad un locale dove fuori v’è una fila molto lunga di giovani dall’aspetto particolare; quando ci avviciniamo all’entrata, riesco ad intravedere un ragazzo dai capelli verdi, e mi aspetterei di dovermi mettere in fila se Blake non mi prendesse per mano e mi facesse entrare senza dover attendere il mio turno, semplicemente parlando con il buttafuori.
Quando entriamo, la musica mi aggredisce come un leone sulla preda, ma è una musica orecchiabile e ritmica, che molto presto mi fa battere il piede al suo ritmo; senza mollarmi la mano –contatto che mi da una scossa elettrica ogni secondo che ci penso– Blake mi fa sedere ad un tavolo ai lati della discoteca. Non capendo perché siamo lì, comincio a porgli delle domande legittime «Come si chiama questo posto?»
«Ecstasy» risponde secco, stendendo le gambe e scrocchiando le dita, come se si stesse preparando ad una sfilza di domande sfiancanti. E’ proprio quello che voglio fare.
«La gente qui è strana» esclamo, lanciando occhiate in tutte le direzioni per osservare persone conciate in maniere assurde: chi ha i capelli colorati, chi la faccia piena di piercing oppure tutto il corpo coperto da tanti tatuaggi strani. Il locale è illuminato principalmente da due tipi di luce, blu e rossa, e il bancone è completamente accerchiato da ragazzi che si sgolano ed allungano le braccia per ordinare qualche bicchiere di superalcolici che potrebbero stendere persino un elefante, ma l’aria che circola in quel posto è profumata.
Mi piace, perché è allegro e ti puoi divertire senza ogni ombra di dubbio.
«Tutti siamo strani» dice.
«Non in quel senso. Voglio dire che non ho mai visto gente conciata così» rispondo, lanciando un’occhiata ad una ragazza dai capelli rosa e le pupille da serpente.
Saranno delle lenti a contatto.
Mi impegno a crederci, ma c’è qualcosa che mi dice di fare esattamente il contrario, di smetterla di fidarmi di Blake, specialmente quando quest’ultimo saluta la ragazza-serpente.
Qualcosa brucia poco sopra il mio stomaco, e rimango di stucco quando me ne rendo conto.
Sono gelosa. Appena Blake si volta di nuovo per guardarmi, nota la mia espressione di rabbia e ride sotto i baffi, portandosi una mano sulla bocca per fingere di grattarsi.
«Smettila. E comincia a parlare» esclamo secca, riducendo gli occhi a due fessure.
Blake rotea gli occhi con fare teatrale e si stravacca sulla sedia, chiedendo «Non possiamo semplicemente goderci la serata come due persone normali?»
Se è la guerra quello che vuole, la avrà; se il ragazzo non vuole dirmi cosa c’è sotto, farò anch’io il gioco sporco e mi comporterò come una bambina per tutta la serata.
Comincio immediatamente con il mio punto di forza: l’alcol.
Prima che Blake possa protestare, ho già ordinato e bevuto una bottiglia di birra irlandese, e sebbene io sappia benissimo che non ho un fegato invincibile, voglio spingermi poco prima del limite, per dimostrargli quanto possa godermi la serata.
Devo solamente stare attenta a non sorridergli se lui comincerà a parlarmi o a guardarmi.
«Giusto per godermi la serata –comincio sogghignando indicando il ragazzo dai capelli blu– vado a ballare» termino la frase, alzandomi dalla sedia e dirigendomi in pista.
Quando sono abbastanza vicino al ragazzo che ho indicato poco prima, comincio a ballare, e solo dopo mi accorgo che questi mi ha notato, avvicinandosi molto a me. Se continuo a ballare in questa maniera, so che presto Blake interverrà senza indugi, quindi continuo, ignorando le mani del tizio che ora si sono spostate sui miei fianchi, mentre gli do le spalle.
Sento la testa girare e potrei vomitare, ma mi obbligo a rimanere in piedi e a non rimettere non appena vedo Blake avvicinarsi a me; mi scappa un sorriso di soddisfazione, che tuttavia si volatilizza appena noto che lui non è da solo, ma con la ragazza-serpente.
Il bruciore di poco prima si fa più intenso, ma a volte si affievolisce quando noto che Blake lancia delle occhiate sfuggenti verso di me, per controllare che la situazione sia sotto il suo controllo; quando ormai non riesco più a ballare perché la nausea mi assale, esco direttamente dal locale dove la musica si sente ugualmente, potente e ipnotizzante.
Respiro un’enorme boccata d’aria fresca mentre i conati di vomito diminuiscono sempre più velocemente e il mio apparato digerente mi ringrazia, tornando al suo posto, sebbene abbia un freddo tremendo; guardo l’orario sul mio orologio da polso, sbuffando e chiudendo gli occhi, respirando a pieni polmoni il profumo di vaniglia che fuoriesce dall’Ecstasy.
Questa situazione mi riporta alla festa di Mike, solo che allora ero più ubriaca.
E molto meno disinibita con i ragazzi.
«Ehi. Prima sei scappata» esclama una voce maschile che si avvicina sempre di più, obbligandomi a voltarmi per scoprire di chi è. Mi aspetto che sia Blake, ma rimango interdetta quando al posto suo vedo il ragazzo dai capelli blu.
«Stavo per vomitare» mormoro, guardandolo mentre si siede vicino a me.
«Oh, capisco. Io sono Matt» dice mentre mi stringe vigorosamente la mano.
La sua è callosa e ruvida, di uno che ha lavorato per anni.
«Danaë. Mi piacciono i tuoi capelli.»
«Hai un odore strano.»
Sgrano gli occhi quando sento quest’affermazione, che per lui è una cosa più che naturale.
«Come?» chiedo, visibilmente confusa; tuttavia, lui non sembra notare la mia confusione.
«Che cosa sei? Hai un odore particolare» ripete lui, scrutandomi coi suoi grandi occhi neri.
Quegli occhi sono così profondi che m’impauriscono più delle sue stesse affermazioni.
«Ehm, io non so che dirti. Sono una ragazza, no?» sussurro, corrugando la fronte, ed insicura su cosa dire a quel ragazzo che, molto probabilmente, ha fatto uso di droghe.
Che mi considerasse un ragazzo per l’assunzione di ecstasy? Ora sembravo anche un maschio? Scuoto la testa disorientata, mentre le paranoie cominciano a venire a galla.
«Questo l’avevo capito –dice, facendomi sospirare di sollievo e scacciando le mie paure– ma, insomma, non sei una vampira. Non avresti questo colorito, se non altro. Ma non puzzi nemmeno di cane, quindi non sei una mannara. Che diamine sei?»
Ora ho davvero paura di Matt, quel ragazzo che poco prima mi era sembrato così normale –a parte la sua peculiare tinta– che adesso si mostrava a me come un pazzo drogato.
Ma se stesse dicendo la verità? Per qualche attimo, cominciai a crederci, ma la consapevolezza di essere ubriaca mi riportò coi piedi per terra e confermò la mia teoria sullo stato del ragazzo dai capelli blu, imbottito di chissà quali sostanze.
Prima che possa alzarmi e scappare, Blake esce dal locale e, vedendomi in compagnia di Matt, si avvicina immediatamente con passo veloce ed espressione preoccupata; probabilmente, conosce il mio nuovo “amico”, quindi sa cosa mi ha detto.
«Danaë, che ci fai qua fuori?» mi chiede serio e nervoso.
«Mi sentivo male e avevo bisogno di una boccata d’aria.»
«Blake, ciao! Non ti vedo da due mesi, cazzo!» esclama Matt, risoluto, mentre balza in piedi e saluta Blake come, solitamente, i ragazzi di adesso fanno: come dei gorilla.
«Sì, ciao. Vedo che hai conosciuto Dana» esordisce, mentre cerco di ignorare il fatto che mi abbia già dato un soprannome che, tra l’altro, mi piace davvero. Tieni duro Danaë.
«Già, già, bella ragazza, no?» Matt parla come se non ci fossi, ma la cosa non mi dispiace.
«Sì, molto carina. Cosa vuoi da lei?»
Un brivido mi passa per la schiena mentre sento proferire quelle parole da Blake, la cui espressione ora si è fatta più dura, forse per il fatto che Matt mi ha incatenato lì con lui.
«Volevo solo sapere cosa fosse. Sai, ha un odore strano: se fosse una vampira, sarebbe più pallida, e se fosse una mannara saprebbe un po’ da cane bagnato. Lei continua a dirmi che è una normale, ma io non ci credo, nono» esordisce allegramente il ragazzo dai capelli blu; noto che ora Blake non è più arrabbiato: ora è irrequieto e nervoso ed i suoi occhi si spostano velocemente in tutte le direzioni tranne che nella mia. Ha paura.
«Lei.. lei è la figlia di Fox» mormora Blake, mentre sia lui che Matt mi fissano con intensità.
Matt sussurra un “Cazzo” pieno di stupore e mi guarda come se fossi un’aliena; non capisco perché, dopo quell’informazione palese, il ragazzo dai capelli blu mi stia guardando in una maniera diversa, come se fossi una dea od una apparizione divina. Sono confusa.
«Com’è essere figlia del mannaro più stronzo di Seattle?» domanda risoluto, mentre Blake gli da una spinta molto forte, che gli fa perdere l’equilibrio ma lo avverte di tacere.
Capisco che Matt è l’unica persona che possa dirmi qualcosa a proposito di mio padre e dei suoi compagni, ma tutte queste scoperte al limite della credibilità mi stanno solo procurando più gatte da pelare del solito. Ora come ora, sto litigando con la mia mente.
Blake decide di liquidarlo con la solita frase “S’è fatto tardi” –che è assolutamente vera, dato che è l’una– e mi aiuta ad alzarmi, per poi spingermi lievemente mettendomi una mano sulla schiena, attaccata da miliardi di brividi che mi elettrizzano.
Quando, grazie alla sua macchina, siamo davanti al mio portone, decido di aprire bocca e sfogarmi una volta per tutte, dicendo «Blake, io sono stufa. Dimmi che diamine succede.»
«Avrei preferito dirtelo di persona, ma quell’idiota di Matt ha già detto abbastanza.»
«Quanto avresti aspettato ancora? Un mese? Un anno? Sono matura abbastanza da sapere le cose che mi riguardano, Blake, e desidero conoscerle.»
«Non voglio che ti incasinino la vita ancora più del dovuto. Scusa se vederti contenta mi interessa» sbotta lui, stringendo i pugni nervoso.
«Sarei più contenta se mi diceste cosa c’è sotto.»
«Non me la sento di dirtelo qui, pensa semplicemente a quello che ti ha detto Matt. Penso sia stato abbastanza chiaro e simpatico, da come ti toccava.»
Lo guardo allibita, ma dentro sono particolarmente soddisfatta. E’ geloso.
Anche se poco prima lo sono stata anche io, gioisco di nascosto perché è la terza volta che dimostra il suo affetto nei miei confronti, se non di più; Blake fa spallucce e si gira, ma non voglio che se ne vada, voglio che resti ancora, quindi lo fermo per un braccio.
Quando si gira, le sue labbra sono strette e mi sta guardando arrabbiato, ma non ho intenzione di farmi intimorire dalla sua armatura d’oro che nasconde i suoi sentimenti.
«Io… volevo dirti grazie, per essermi stato vicino. E mi dispiace se mi sono comportata da stupida, è che volevo farti arrabbiare per farti capire quanto fossi arrabbiata io. Lo so che vuoi vedermi contenta, ma che ci vuoi fare? Sono una ragazzina.» ammetto, sorridendo con fare innocente e sperando di essere “perdonata” per il mio comportamento infantile.
Anche lui sorride, con un sorriso che mi accende, come quando mi tocca la schiena o mi chiama Dana. Anche solamente la sua presenza mi provoca quest’effetto.
Quando allarga le braccia, io gli cingo la vita con le mie e lui, di tutta risposta, mi stringe forte, mentre ascolto il battito stabile del suo cuore.
Se solo sentisse il mio, che ha le palpitazioni, si spaventerebbe.
Blake profuma di deodorante e dopobarba, ed ha un fare impacciato che mi ricorda vagamente un bambino timido e costantemente imbarazzato, cosa che ora non è.
«Abbi pazienza. Saprai tutto fra un po’. Devi solo aspettare» mormora.
Non vorrei staccarmi da quella presa ferrea e sicura, ma so che è tardi e che devo tornare a casa; tuttavia, restiamo abbracciati finchè non mi fanno male le caviglie e successivamente rientro in casa, appoggiandomi con la schiena alla porta e sospirando.
E vorrei restare così per sempre, in questo calore tremendamente piacevole.
Ma il sonno mi reclama.


-don't read me-
Ci siamo col sesto capitolo, che -lo dico con profonda sorpresa- è più lungo degli altri! Mi dispiace notare che, nel capitolo precedente, non ci sia stata nemmeno una recensione, ma spero di rifarmi con questo. Perciò, vi chiedo di dirmi che ne pensate: accetto qualsiasi tipo di recensione, da positiva a negativa -l'ultima in particolare- e vi prego di farmi notare eventuali errori di cui non mi sono accorta durante la correzione finale.

Vi ringrazio comunque tantissimo per le visualizzazioni ottenute, che mi fanno sempre sorridere! Grazie di cuore, e alla prossima (spero lol)

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2588346