About Jam and Mind

di Sherlocked_96
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO


Non riuscivo a capire se stesse scherzando. Ricevevo segnali di evidente probabilità, ma non ne avevo la totale certezza. Perché quel John Watson – palesemente ubriaco – che mi si stava dichiarando non poteva certamente avere un barlume di lucidità in testa.
Stranamente dovetti fare io l’adulto quella volta e lo feci sdraiare, ma quando mi tirò per un polso per farmi restare vicino a lui, non so cosa mi successe.
Rimasi folgorato. Nel muro di indifferenza che avevo alzato attorno a me era comparsa un’impercettibile crepa, e questo non andava bene per niente, sapevo benissimo che una crepa col tempo può far crollare la struttura.
In ogni caso, riuscii ad andarmene e a lasciarlo solo in balia del sonno e di una post-sbronza non da poco.
La mattina dopo lo vidi strascicarsi in salotto mentre leggevo. Si grattava la testa perplesso.
- Sherlock… cos’è successo ieri sera?
- Sei tornato a casa ubriaco, hai farfugliato cose senza senso – non ad un livello mentalmente più elevato dei tuoi standard, comunque – e sei andato a dormire.
- Ho farfugliato cose? – sembrava confuso, io ho annuito – Cose… di che tipo? – ha continuato.
- Niente d’importante, me ne sono già scordato.
Gli è sembrato sufficiente ed è andato lentamente verso la cucina in cerca della colazione. Ma io non avevo affatto dimenticato ciò che mi aveva detto.
“Sherlock… Sherlock!” aveva esclamato precipitandosi su per le scale.
“John?”
“Sherlock, questa sì che è – hic - una sbronza, credo – hic - di essere ubriaco fradicio”
“…Mi sembra una corretta deduzione”
“Allora tanto vale che te lo dica ora – hic -, che sennò poi quando mi ricapita, che cioè – hic - di solito, io, cioè, già…” barcollava per la stanza e ho deciso di posare il violino e avvicinarmi per assicurarmi che non cadesse.
Lui si è aggrappato a me e, fissandomi negli occhi, ha gioito: “Credo proprio di avere una – hic – gran bella cotta per te, Sherlock Holmes!” e subito dopo è scoppiato a ridere “Ce l’ho fatta, ora sì – hic - che mi sento realizzato! Penso che potrei andare a coltivare pecore – hic – assieme a te!”.
Al ché l’ho ovviamente messo a letto.     
Ho scacciato il flashback infastidito.
- John… sai niente su come si coltivano le pecore?
- Penso che le pecore non si coltivino, Sherlock, a quanto ne so si allevano.
- Ma se si coltivassero avresti voglia di cimentartici?
- Mah… credo proprio di no… Ma da dove spunta fuori questo discorso? – ha chiesto affacciandosi dalla cucina con in mano un cucchiaino e il naso sporco di marmellata.
- Così – ho alzato le spalle.
- Uhm. – è tornato in cucina.
Ho ripreso la lettura di un libro sulle abitudini delle api, ma non riuscivo a concentrarmi. Cosa diamine mi prendeva? Le mie facoltà mentali non si erano mai opposte al mio volere, e se io volevo che si concentrassero sulle api non potevano divagare sulla coltivazione di pecore! Be’, non proprio su quello. Più sulla strana entità che dalla cucina mi chiedeva se quel pomeriggio potessi passare a comprare il latte.
- Va bene.
- Va bene? – si è nuovamente affacciato in salotto, incredulo. Stavolta in mano aveva un panino, chiaro risultato del cucchiaio e del naso sporco.
- Sì, va bene, lo prenderò.
- Come… da dove viene tutta questa disponibilità?
- Oggi Lestrade mi ha chiesto di passare per la sua divisione per risolvere un caso di omicidio, ma mi sembra già chiaro dai verbali che sia stato il giardiniere. Comunque ci andrò lo stesso, così al ritorno potrò passare a comprare il latte.
Lui parve stupito. – Questa è sicuramente una cosa che non ci si aspetterebbe da te, sai?
- Ho solo accettato di passare al miny-market qua sotto.
- Lo Sherlock che conoscevo prima sicuramente non avrebbe acconsentito – sembrava divertito, ma iniziava ad infastidirmi.
- Preferivi lo “Sherlock che conoscevi prima”?
- Ma no, intendevo… non ti sarai mica offeso?
- E perché mai dovrei essermi offeso?
- Uhm, no, appunto. Comunque puoi stare tranquillo, di sicuro ti preferisco adesso che vai a comprare il latte.
Un debole brivido mi attraversò mentre il mio coinquilino saliva in camera sua per cambiarsi. Perché mai, con tutti gli animi umani con cui ero a contatto, l’unico che non riuscivo a controllare doveva essere proprio quello di John Watson?
Nel pomeriggio – confermata la mia teoria sul giardiniere omicida – passai al miny-market. Comprai anche un barattolo di marmellata alle ciliegie.
- Ecco John, hai visto che ce l’ho fatta? – ero piuttosto fiero di me mentre risalivo le scale – Ti ho preso anche qualcos’altro, magari riesci a dedurre di cosa si tratta senza che… Oh. – il mio entusiasmo scomparve di colpo alla vista del mio coinquilino e della sua attuale ragazza che pomiciavano sul divano. Sul MIO divano.
- Sherlock, aehm, non ti aspettavo così presto – ha balbettato John staccandosi dalla fidanzata.
- Avevo immaginato. Ma non preoccupatevi per me, vi lascio alla vostra… intimità – ho bruscamente posato la busta di plastica contenente marmellata e latte e sono salito di corsa nella mia stanza.
Non ho neanche fatto in tempo a vedere l’espressione di John.
Mi sono seduto sul bordo del letto e mi sono passato le mani sul viso, per tentare di controllarmi. Avevo il fiatone e il battito cardiaco accelerato, ma ero sicuro che non centrassero niente con i pochi scalini saliti velocemente.
Dovevo calmarmi. Da quando mi lasciavo condizionare dai sentimenti? Solo perché la sera prima il mio coinquilino – con lo stomaco pieno di alcol – mi si era scherzosamente dichiarato, stavo andando in tilt. Non era accettabile.
Ovviamente non era stato il primo a “confessarmi il suo amore”, ma ero sempre riuscito a scansare elegantemente storielle e sentimenti. Perché con lui non succedeva? No, no, doveva star succedendo. Mi ero solo lasciato prendere dal momento, nulla più. Non provavo nessun sentimento amoroso o quantomeno passionale nei confronti di John Watson.
Mi faceva rabbia piuttosto che la sua attuale preda fosse una cameriera di origini americane – con non poche relazioni puramente carnali alle spalle – e con un’evidente dipendenza dall’alcol. Magari si erano conosciuti la sera prima. Tuttavia non avevo dati certi in proposito. La mia capacità di deduzione si riduceva notevolmente – scoprii in quel momento – quando ero condizionato dai sentimenti. Ma che mi mettevo a pensare! Non ero affatto condizionato dai sentimenti, no.
Mi girava la testa. Senza accorgermene, mi addormentai.

Quando riaprii gli occhi tutto mi apparve confuso e mosso; probabilmente avevo dormito troppo per i miei standard, ma non potevo permettermelo: c’era un caso ben più interessante di quello del giardiniere a cui mi stavo dedicano; avevo bisogno della mia dose di eroina o sarei andato in astinenza; dovevo trovare un modo per evitare che Mycroft rivelasse a mia madre che avevo ripreso a drogarmi; se non ci fossi riuscito avrei dovuto escogitare un modo per non essere rinchiuso in un centro di riabilitazione, e…
Improvvisamente, tutti i miei pensieri vennero cacciati via. E sostituiti da un altro, fastidioso e prepotente quanto incredibilmente forte e vicino. John.
Aveva una mano sul mio braccio. Era in piedi vicino al letto.
- Ben svegliato, Sherlock – quando ebbi il tempo per mettere a fuoco il mondo attorno a me, notai che mi stava sorridendo – Stavo per ordinare la cena al ristorante cinese, prendo qualcosa anche per te?
- La digestione… mi rallenta. Che ore sono?
- Quasi le otto.
- Le otto?? – mi sono alzato di scatto e sono quasi caduto in avanti.
- Sì.            
- Da quant’è che dormo?
- Non saprei… appena sei arrivato e sei salito in camera Hanna se n’è andata, non so bene quando ti sei addormentato, ma quando sono salito, verso le cinque e mezza, lo eri già.
- Ho dormito troppo – mi sono passato una mano tra i capelli, in un gesto nervoso che speravo e non credevo che John notasse.
- A proposito, grazie per aver preso il latte. E anche la marmellata. Quella di ciliegie era finita – il suo sorriso era incredibilmente largo e candido. Ho distolto lo sguardo.
- Figurati.
- Be’, io ti ordino un paio di involtini primavera, poi se non li mangi li finisco io – ed è sceso giù per le scale.
Ho guardato la sua figura allontanarsi aggraziata prima di seguirlo in salotto. Lo strano brivido persisteva lungo la mia spina dorsale. Avrei fatto meglio a guarire da quella cosa, o la mia vita sarebbe diventata un inferno inconcludente.
A cominciare dal fatto che mi aveva costretto a mangiare un involtino disgustoso e a vedere uno stupido film alla tv. Merda, il mio caso non poteva aspettare, il mio cervello fremeva alla prospettiva di lavorarci. Ma pareva fosse andato momentaneamente in stand-by.
Ho gettato uno sguardo a John, seduto vicino a me, che ridacchiava per una battuta idiota del film. Sembrava così dannatamente felice. E per un attimo, forse, fui felice anch’io.
Fu allora che lo sentii. Un dolore proprio al centro della testa. Insopportabile, lancinante. Mi accasciai a terra. Non poteva essere overdose, non avevo preso la mia dose quel pomeriggio.
L’ultima cosa che vidi fu uno John molto sfocato che si precipitava su di me. Il mio medico, il mio John.
Persi i sensi.


NOTE DELL’AUTRICE
Salve a tutti e grazie per aver letto fin qui!
Questa è la prima ff che scrivo su efp, per cui mi scuso in anticipo se ci sono errori di ortografia o di altro genere.
In realtà ho già scritto tutta la storia – oltre al prologo ci sono altri 5 capitoli –, per cui se vi piace fatemelo sapere e inizierò ad aggiornare frequentemente e con regolarità.
Sono ben accetti critiche, commenti e quant’altro, grazie in anticipo a tutti coloro che recensiranno!
Un saluto, al prossimo capitolo.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


Capitolo 1

“Mycroft, giochiamo ai pirati?”
“Non sono in vena, Sherlock”
“Per favore, ti lascio fare il capitano se vuo!”
“… Va bene. Il capitano puoi farlo tu, comunque, sei molto più bravo di me”
“Lo so. Te lo dicevo per poter organizzare l’ammutinamento”
“Se non stai attento te l’organizzo io un ammutinamento. Qual è la rotta sta volta?”
“Edimburgo!”
“Non si arriva in nave ad Edimburgo, mio stupido fratellino”
“Non sono stupido. E dico che ad Edimburgo ci arriviamo in nave!”
“Va bene, ma…”

Mi svegliai in un letto d’ospedale. Avevo molti tubi attaccati al mio corpo e una gran confusione in testa. Le lenzuola erano ruvide e calde, il panorama terribilmente bianco.
Avevo sognato me da piccolo e un Mycroft meno piccolo di me ma comunque giovane e insopportabile almeno quanto il se stesso da adulto.
Mi scoprii a pensare che sarebbe stato bello giocare ai pirati un’altra volta. Che cosa smielatamente rivoltante.
Mi guardai intorno, ero solo nella stanza d’ospedale. In isolamento. Centinaia di possibilità su cosa mi fosse successo e quale patologia o malattia mi avessero colpito mi passarono come una lunga lista davanti agli occhi. Mi fermai su una delle ipotesi, che in seguito scoprii essere quella corretta. Non la dirò ora, comunque.
Se ero in isolamento significava che solamente i parenti potevano venir a farmi visita. O meglio, significava: Mycroft non voleva allarmare mia madre e quindi probabilmente non le aveva ancora detto nulla, ma sarebbe arrivato prima o poi. Era l’ultima persona che avrei voluto vedere in quel momento.
L’unica presenza che volevo attorno a me era quella di un dottore. Ma non di un dottore qualunque, piuttosto DEL dottore. Il mio dottore. John.
Non feci in tempo a formulare il pensiero che la porta si aprì lasciando entrare Mycroft. Eccolo lì. Merda.
Rimase in piedi per un po’, in silenzio, e io mi augurai che se ne andasse in fretta.
- Goodmorning, little brother.*
- Mycroft, per un attimo ho sperato che non saresti venuto.
- In qualità di fratello è mio dovere venirti a trovare.
- Non è vero. Cosa sei venuto a dirmi in realtà?
- Ero preoccupato per te, mio stupido fratello – mi ha ricordato molto le conversazioni di quando giocavamo ai pirati.
- Non sono stupido – ho quindi risposto per restare in tema. Lui si è seduto a peso morto sulla sedia davanti al letto e si è portato le mani al viso.
- Non hai detto ancora nulla a nostra madre, vero? – ho continuato. Lui ha alzato la testa.
- No.
- Lo  immaginavo.
- Ma prima o poi dovrò dirglielo.
- Che ho un tumore al cervello? Probabile. Ma tenta di farlo dopo che sarò uscito da qui, o me la ritroverò intorno ogni santo giorno.
Ha annuito.
- Sherlock... sei consapevole, per quanto tu possa crederlo impossibile, che sono preoccupato per te?
Ho alzato le spalle.
- Non sono riuscito a diagnosticarmi il tumore fino in fondo: di che tipo è?
- È un medulloblastoma.
- Meraviglioso, a ventisette anni sono rari gli individui che lo riscontrano, il 70% dei casi si presenta in età compresa tra i due e i diciassette – ho fatto un sorriso tirato – Sicuramente mi darà la possibilità di studiarlo a fondo. Quando mi dimettono?
Mycroft ha cercato una posizione più comoda sulla sedia.
- Tra qualche giorno, credo, vogliono vedere se il tuo organismo è stabile e la gravità del tumore… Ma, Sherlock… poi vorranno iniziare la cura farmacologica. E in seguito ti richiameranno per la chemio. Sai cosa significano, i farmaci per questo tipo di tumore?
Ho sentito un groppo salirmi dallo stomaco alla gola e la prima ondata di panico provata in vita mia: - Non glielo puoi permettere – scoprii con fastidio che la mia voce tremava.
- Ho già provveduto a farti ricoverare nel miglior ospedale di Londra, con un medico esperto e fidato, ma non c’è niente da fare. Ci dovrà essere una cura farmacologica.
- E per cosa, per un paio di anni in più di vita? – l’ho quasi urlato – Lo sai che i soggetti che, superati i 21 anni, riescono a viverne altri cinque sono solo l’80%? Non li voglio i farmaci, non… - ho sentito un forte dolore al centro della testa appena un poco più attenuato di quello provato a Baker Street piegarmi in due.
- Sherlock! – Mycroft si è alzato e stava per andare a chiamare un dottore, ma io sono riuscito ad afferrargli una manica e a sussurrare un nome, solo un nome: - John.
Ero sicuro che avrebbe capito. L’ho visto sfocato annuire, prima di cadere nell’incoscienza.

Avevo ripreso conoscenza, ma mai come in quel momento ho avuto bisogno di auto-commiserarmi. La cura farmacologica significava una riduzione considerevole dell’attività lavorativa del cervello. L’unica cosa che avevo da sempre temuto. Credevo che avrebbero potuto farmi di tutto, ma mai togliermi il pensiero. Non sapevo che fare. Sicuramente non avrei accettato di passare un paio d’anni come un allunato per viverli.
Il pensiero della morte mi ha spaventato per la prima volta. “Tutti dobbiamo morire” ho pensato, ricordandomi di cosa Moriarty mi aveva detto anni prima in una piscina deserta: “È quello che succede alle persone!”. Mi trovavo d’accordo.
Una nuova controllata ondata di panico mi travolse, dovuta forse alla mia persistente inattività. Ho cominciato a rigirarmi nel letto; forse mugugnavo, non saprei.
- Sono qui – la voce mi arrivò calda e confortante, mentre avvertivo una mano forte prendermi il polso.
- Cos… John? – ho aperto gli occhi. Era a pochi centimetri da me, seduto vicino al letto. Il suo sguardo serio e preoccupato lasciò il posto a un largo sorriso candido quando mi vide. Aveva gli occhi arrossati, quei suoi occhi così belli tra l’azzurro e il verde.
- Che bel disastro che mi combini. Sono quasi sicuro che sia stata colpa degli involtini primavera e del film dell’altra sera. Troppa demenzialità tutta insieme per i tuoi standard.
Per la prima volta da quando mi trovato in quel luogo – un paio di giorni, mi pareva d’aver capito – ho riso. John mi è venuto dietro. Solo con lui riuscivo a ridere davvero.
- Come è riuscito Mycroft a farti entrare?
- Mi ha fatto passare per il tuo fidanzato.
- Uhm – quell’informazione mi turbava in maniera non poco considerevole. Ma anche John, notai, sembrava imbarazzato.
- I medici dicono che ti dimetteranno tra tre giorni. Dovremmo tenere la soluzione sotto controllo e stare attenti, ma pare che tutto si stabilizzerà dopo un po’.
- Dovremmo? Hai… hai intensione di restare al 221B, quindi?
- Come… sì, ma certo, cosa ti fa pensare che me ne andrei?
- Credevo che un coinquilino con un tumore non fosse una cosa particolarmente piacevole con cui convivere.
- Ma sei tu il coinquilino col tumore. Non posso mica abbandonarti proprio ora che hai bisogno di un dottore – il suo sorriso si è allargato ancora, ma non era di quelli falsi che fanno le persone quando vanno a trovare i malati. Era un sorriso vero. – Sempre che tu mi voglia, ovviamente.
- Certo che ti voglio, John. – restammo in silenzio per un paio di secondi, dannatamente intensi, dannatamente lunghi. Non me ne fregava più niente della malattia, c’era solo John con i suoi occhi arrossati per causa mia, il sorriso candido e la mano che continuava a stringermi il polso.
- Sai, ti ho portato un paio di cose. – ho alzato un sopracciglio mentre lui si abbassava per rovistare in una ventiquattr’ore nera – Ecco qui. Credo che le odierai, ma comunque.
- Dovrei preoccuparmi?
- Appena un po’ – ha iniziato col posarmi tre riviste bianche e nere sul comodino.
- Cosa sarebbero?
- La “Settimana enigmistica”**! 
- Dio, non farai sul serio.
- So che non è granché, ma ho pensato che potesse in qualche modo tenerti attivo. Ma non è finita qui.
- Ah no?
- No.
- Ci stavo sperando.
- Sherlock!
- Scusa. Cos’altro mi hai portato? – mi augurai che non notasse il mio divertimento.
- Un nintendo DS con dentro un gioco del “Professor Layton” – cominciò allegro posando un dispositivo elettronico sopra le riviste. Ci avevo visto giocare i bambini, ogni tanto.
- Un che cosa?
- Un gioco del professor Layton. È un giallo virtuale in cui si risolvono i crimini. Era della figlia di mia cugina ma lei non lo usa più.
- Probabilmente perché ha superato i sette anni…
Lui ha incrociato le braccia, scherzosamente imbronciato, e io gli ho rivolto un sorriso storto.
- Su, sono proprio curioso di cos’altro sei riuscito a trovare per disgustarmi.
- Antipatico. Il prossimo ti piace per forza: è il libro sulle api che stavi leggendo.
- Ah, uhm, grazie, questo va bene.
- Credevo che avresti avuto da contestare anche su quello. Be’, ma c’è anche un’altra cosa: – “che il cielo mi aiuti”, pensai – Un libro d’approfondimento sul silicio!
- Mi aspettavo peggio. Grazie, davvero, per queste cose inutili e noiose. Sono serio. – credo di non essere riuscito a convincerlo.
- Ero sicuro che non ti sarebbero piaciute. Così ho portato Mr Trangupesce per farti compagnia!
- Trangupesce? Ora sì che sono nauseato – ma, ora posso ammetterlo, ero anche vagamente curioso. John riusciva sempre a stupirmi, in un modo o nell’altro.
Ha lentamente alzato la mano per creare un po’ di suspence, e infine mi ha aperto il palmo per lasciarci scivolare una minuscola lontra blu di peluche.
- Ma cosa…?
- La regalavano con una rivista al giornalaio. Ho pensato ti somigliasse. – non potevo dirgli quanto quel regalo mi disgustasse e allo stesso tempo mi colmasse di gioia. Penso di essere sembrato solo un po’ scettico.
- È… interessante – ho detto.
- Mr Trangupece è un tipo fastidioso come te, credo che andrete d’accordo.
- John, non sono un bambino.
- Lo so. Pensi che avrei regalato una lontra di peluche chiamata Trangupesce, ad un bambino? 
Ho riso di nuovo. Ma quando ho gettato uno sguardo all’orologio da polso che portava mi sono accorto che si stava facendo tardi.
- Forse dovresti andare, Hanna vorrà vederti – ho fatto notare in tono fin troppo neutro.
- Penso di no, considerato che l’ho lasciata ieri.
- Cosa? Davvero? – come avevo fatto a non accorgermene? Avrei dovuto dedurlo dal dopobarba e dalla camicia a quadretti, insomma!
- Sì, sai… credo non facesse più per me. Sono ufficialmente single.
Ho provato soltanto un’inspiegabile euforia. Fra tutti, quello era probabilmente il regalo più bello che mi avesse portato. Ma mi sono quasi subito sentito uno stupido. Quali speranze pensavo di avere? Nessuno vuole mettersi con un malato terminale. E fra l’altro io non amavo affatto John Watson. O così avevo tentato di credere fino a quel giorno, quando tutti i miei sospetti vennero spazzati via dall’assoluta consapevolezza di essere fregato.
Il dolore alla testa è tornato, ma prima di perdere i sensi ho fatto in tempo ad avvertire il mio coinquilino dirmi di riposare e lasciarmi un delicato bacio tra i capelli. Dolce, impercettibile. Forse ero troppo stanco per rinnegare il piacere di quel gesto. Sapeva della marmellata di ciliegie che avevo comprato.
- Torna presto a Baker Street, Sherlock.
“Tornerò presto, John”.   
 

*Nella versione inglese Mycroft  dice spesso “little brother” parlando con Sherlock e ho preferito mantenerlo, perché in italiano non mi suonava per niente (fra l’altro non ho mai visto la versione tradotta, ma forse è meglio così perché dicono che fa sanguinare le orecchie).
**Non sapevo qual era il corrispettivo inglese e ho deciso di lasciarlo in italiano xD

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


~~CAPITOLO 2

- Dannato bastardo, come puoi assentarti durante un caso così impegnativo? – tornare a casa dopo quasi una settimana d’assenza e trovare un alterato Greg Lestrade seduto sulla mia poltrona non era proprio nei miei programmi.
- Dio, quanto mi hai fatto preoccupare! – ha esclamato, abbracciandomi con un insensato cambiamento d’umore. Non aveva apparente intenzione di staccarsi, fra l’altro. Ci mancava solo questa.
Stavo perdendo l’equilibrio, i medici – anche se ne ero perfettamente a conoscenza – mi avevano spiegato che avrei avuto dei problemi motori e di controllo del mio corpo.
- Dovresti essere ancora preoccupato, Lestrade, considerando che la maggior parte dei soggetti non supera i primi due anni dalla diagnosi.
- Positivo come al solito, vedo – In qualche modo apprezzavo la sdrammatizzazione dell’ispettore – finalmente staccatosi da me -, sempre meglio della commiserazione.
- D’ora in poi avrai bisogno di una vita con abitudini alimentari corrette e orari regolari, Sherlock – mi ribadì John, uscendo dalla cucina con tre panini. Me ne porse uno. – Devi mangiarlo. – disse, come se non l’avessi capito.
- Non ne ho alcuna intenzione.
- Non ci sono altre opzioni. Mangialo. – pareva estremamente determinato.
- Ho già mangiato stamattina, grazie.
- Sherlock!
- John?
- Non farmelo ripetere, maledetto idiota, o te lo farò ingoiare a forza.
Non dissi nulla perché sapevo benissimo che non mi avrebbe davvero obbligato a mangiarlo. Lestrade ci fissava con un sopracciglio alzato, mentre addentava il sandwich che dei tre era quello destinato a lui.
- Dai, c’è dentro la marmellata che mi avevi portato, è stato preparato da me con molta fatica per non abbondare e non renderlo stucchevole… per favore.
Mi agitava il panino davanti al naso come se mi stesse minacciando. Apprezzavo molto la cura da John impiegata per farmi vomitare, ma non avevo intenzione di assecondarlo. Per la prima volta nella mia vita, lanciai all’ispettore uno sguardo disperato. All’inizio si strinse nelle spalle, poi accorse in mio aiuto.
- Facciamo così – disse, prendendo il panino che John continuava a sventolarmi vicino e staccandone una parte. Prese con sé la più piccola e mi porse quella leggermente più grande: - Adesso si può fare?
Sembrava che quei due mi considerassero un bambino. Ma comunque sì, si poteva fare. L’ho preso molto poco convinto.
- Ce l’abbiamo fatta! Chissà che lotta sarà per tutti gli agli altri pasti… - esclamò John. Sembrava veramente contento che io avessi accettato di mangiare.
Diedi un morso alla parte di panino che mi spettava. La marmellata era dolce e potevo sentire tutta la cura che John aveva messo nello spalmarla.
Tutto sommato, non fu un’esperienza sgradevole e riuscii a non vomitare.
- Allora… vi siete messi insieme, insomma? Finalmente, tutta la mia divisione si interrogava su quando sarebbe successo – disse Lestrade dopo un po’.
- Cos… No, no, assolutamente no – il dottore scuoteva la testa, imbarazzato.
- Chi te l’avrebbe detto? – ho domandato, anche se conoscevo già la risposta.
- Mycroft. Gli ho chiesto come mai a John era concesso farti visita e mi ha spiegato che vi eravate fidanzati.
- Ah, uhm, è stata la versione ufficiale, sì – ha balbettato il mio coinquilino.
- Avresti dovuto vedere Molly, Sherlock! Sai, c’era anche lei, e quando l’ha scoperto si è quasi messa a piangere.
- Per il tumore o per la notizia del mio fidanzamento? – la piega che quella conversazione stava prendendo cominciava a turbarmi.
- Tutt’e due, credo.
Un forte giramento mi costrinse a sedermi. – Sto bene! – gridai ai due uomini che si stavano precipitando su di me. Odiavo quella mia debolezza, se pur dovuta ad una malattia. Non sarei riuscito a vivere così.
- Dovrei andare adesso, si sta facendo tardi. Sherlock, non fare cose stupide e non sforzarti troppo. Ti proibisco di venire in divisione per almeno due settimane. Devi riposarti e stabilizzarti – disse Lestrade avvicinandosi alla porta.
- Ma che stronzata è mai questa! – ho esclamato balzando in piedi. John mi guardò in tralice. Non era mio solito essere volgare. Ero terribilmente adirato, e quando si è adirati è facile perdere il controllo di sé.
- Lo so, Sherlock. Non sono felice neanch’io, sai? Come faccio senza il mio miglior consulente investigativo!? Saremo tutti nel panico. Quindi, anche per il mio bene, tenta di riposare. A presto John, a presto Sherlock. – e la porta si richiuse con un dolce tonfo alle spalle dell’ispettore.
Sentii la signora Hudson salutarlo mentre usciva. La signora Hudson sarebbe stata insopportabile, o l‘avrei quantomeno percepita tale, dopo due settimane – due settimane! – senza scene del crimine. Ero arrabbiato, maledettamente arrabbiato. Forse avrei finito per trovare insopportabile anche John passando tutto quel tempo in casa.
- Mycroft mi ha detto che verrà questo pomeriggio. – mi comunicò il mio coinquilino. La mia rabbia non poté che aumentare.
Infatti, dopo un’oretta, ecco il mio puntuale ed odioso fratello fare il suo ingresso nella stanza con l’ombrello sempre appresso.
- John, potresti lasciarci? – ha chiesto. Il mio dottore ha annuito posando il giornale ed è salito nella sua stanza. Non si preannunciava affatto una cosa piacevole: se l’aveva mandato via significava che mi avrebbe parlato di cose serie e noiose.
Mycroft si sedette sul divano davanti a me. Lo fissavo in silenzio.
- Gliel’ho detto; a nostra madre, intendo.
- Lo supponevo.
- Non l’ha presa bene.
- Supponevo anche questo.
- Stava già preparando i bagagli per raggiungerti qui a Londra quando le ho spiegato che avevi bisogno di riposo e che la sua presenza ti avrebbe messo in agitazione.
- Non verrà, quindi?
- Non ancora, ma credo che non riuscirò ad impedirglielo, tra un po’. Da quando il giardino ha cominciato a seccarsi ha deciso di dedicarsi a noi molto di più.
- Quale gioia.
- Dovresti tentare di capirla, Sherlock, è preoccupata.
- Non sono più un bambino.
- Lo so.
Siamo rimasti in silenzio per un po’, io tenevo lo sguardo fisso fuori dalla finestra, perforato da un terribile mal di testa al centro del cranio, mentre Mycroft sembrava molto interessato al tappeto.
Decisi di fare io la domanda che tutti e due stavamo aspettando.
- Le hai detto, invece, della mia ripresa…
- …con la droga? – mi ha anticipato – No, ovvio che no, era già abbastanza in ansia così. Dobbiamo risolvere questo problema, Sherlock. Drogarti nella situazione attuale è l’ultima cosa da fare.
- Oh, capisco, nella “situazione attuale”. Mycroft, ho un tumore! Sono un malato terminale e, sì, cazzo, non voglio passare i miei ultimi due anni di vita come una cavia da imbottire di farmaci! – credo di aver urlato.
- Non è detto che siano due anni, potrebbero…
- Oh, già, potrebbero essere cinque, nel migliore dei casi! Di che cosa stiamo parlando? Mi sarei aspettato mancanza di logica da tutti, ma da te! Non voglio poter vivere un’altra manciata di anni da passare come un manichino!
- Non sei un manichino, sei mio fratello, e voglio che tu viva! – non avrei mai immaginato Mycroft perdere il controllo, non lo aveva mai fatto. Si passò una mano sugli occhi.
Di nuovo, rimanemmo in silenzio.
- Perché hai detto a Lestrade che ero fidanzato con John?
- Era quello che avevo appena comunicato all’infermiere, non avevo voglia di lanciarmi in spiegazioni più lunghe. E poi ti piace, è così?
- Non ti riguarda, questo. Non credo siano finiti qui i motivi, tuttavia.
- Spiegameli tu, allora – mio fratello intrecciò le mani sotto il mento e posò i gomiti sulle ginocchia, classica posizione in cui si metteva da ragazzo quando ascoltava la mia versione dell’analisi degli indizi. Non persi tempo, perché la verità mi era balzata alla mente con una rapidità impressionante.
- Tu… sei innamorato… di Lestrade, è così?
- Adesso sono cose che non riguardano te.
- Ma non è finita qua – unii i polpastrelli davanti alla bocca – Non avresti avuto ragione di dirglielo, dopotutto. Il vero problema è che a lui, a Lestrade, piaccio io, è così? Allora hai pensato bene di fargli sapere del mio “fidanzamento” con John, e tu avresti avuto molte più possibilità.
Si è rigirato nella sedia, infastidito, come faceva quando lo battevo nelle deduzioni.
- Non ti immischiare in questa storia, Sherlock. Vorrei che Greg fosse felice, davvero sarei contento se riuscisse a mettersi con te. Ma a te piace John. Quindi perché illuderlo?
- Non avrei mai ritenuto possibile che ti saresti fatto intaccare dai sentimenti.
- Lo stesso vale per te. Dov’è finita la nostra natura da Holmes?
- Questo davvero non lo so. Guardaci: io ho un tumore che non mi permette d’indagare  e il governo inglese ha mentito ad una vecchietta perché non si preoccupasse per suo figlio. Come la vedi?
Ha sorriso. Forse davvero voleva soltanto tornare a quando giocavamo ai pirati da piccoli. Ma non sarebbe stato possibile, non più, non dopo quello che mi aveva fatto anni prima.

- John! – chiamai in preda ad un attacco di panico, ritrovandomi sul pavimento freddo.
- Sherlock! – accorse lui. Mi vide, prese un profondo respiro per calmarsi e mi aiutò a risedermi sul divano dal quale ero cascato.
Non sapevo di preciso quando mi fossi addormentato. Il plaid con cui il mio dottore doveva avermi coperto giaceva a terra desolato.
- Mi sento patetico. Non riesco neanche a rialzarmi.
- Eri in stato di confusione.
- Da quello che capisco sono ancora in stato di confusione. Non riesco ad essere autonomo, ho dovuto chiedere il tuo aiuto, ho…
- Sherlock, ascoltami attentamente ora – mi ha guardato dritto negli occhi e io sono stato zitto – Qualunque cosa ti serva, qualsiasi cosa ti occorra, anche una cretinata, tu dovrai chiamarmi, intesi? Sono sempre qui, non vado da nessuna parte. Sono riuscito a programmare turni di solo mezza giornata all’ospedale per un po’, e di mattina ci sarà sempre la signora Hudson. Ma se hai bisogno, contattami anche al lavoro - cellulare, telefono, come preferisci – e io arriverò subito. Va bene?
Ho annuito, ero paralizzato da quegli occhi terribilmente verdi.
- Alla fine le ho finite le “settimane enigmistiche”, sai.
- Ah sì? Ti sono state utili?
- No. Sono di una banalità disgustosa.
- Felice che ti siano piaciute – ha sorriso. Io l’ho guardato e un brivido mi è salito lungo la schiena.
Non rifiutavo più la certezza di amarlo, la mia vita si preannunciava terribilmente breve e non avevo intenzione di negarmi John.
- Lo odio. Odio avere un tumore – ringhiai. Sapevo perfettamente che lamentarsene non era logico, ma del resto la logica in quel momento poteva andare anche a farsi benedire.
- Non posso dire di capirti, perché ribatteresti che no, non posso capire. Posso solo dirti che, in tutta probabilità, sono moto più spaventato io di te alla prospettiva della tua morte. – capiva che non aveva senso evitare l’argomento “morire”, con me. Non ne avevo paura, infatti. Ma quello che disse mi lasciò perplesso.
- Intendi che io sono un misantropo menefreghista della vita o che ti dispiace?
- Che mi dispiace, cretino. Ma non è dispiacere e basta. Ho qualcosa che mi logora, Sherlock.
- E cosa sarebbe? – ho chiesto con voce tremante, anche se lo sapevo benissimo. Avvertii un’altra ondata d’incoscienza stare per travolgermi, ma riuscii a ricacciarla indietro. Non era proprio il momento, quello.
- Amore, Sherlock. È amore.

    

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO 3
 
Posai la lattina di vodka sul tavolo sporco. Anche il pavimento era sporco. Tutto il locale era sporco.
Mi trovavo in uno dei quartieri più poveri e squallidi di Londra, nel primo baretto che avevo trovato e con le idee molto confuse sul perché ci fossi finito.
Sentii il cellulare vibrarmi in tasca. Lo presi, era John.

03/dicembre 23:48
Sherlock, dove diavolo sei? Non è divertente, torna subito o chiamo la polizia.

Sbuffai. Senza il mio aiuto la polizia non sarebbe riuscita neanche a trovarmi. Volevo rispondere a John, fargli sapere che stavo bene e magari chiedergli di raggiungermi – perché in quel momento, davvero, avrei desiderato essere con lui -, ma non lo feci.
Mi presi la testa fra le mani, la vodka scadente non accennava ad entrare in circolazione. Quel giorno era stato davvero un bel disastro.
Di mattina avevo litigato con John, perché sarei voluto uscire. Lui mi aveva fatto notare che i medici sostenevano che fossi in una pericolosa fase di squilibrio motorio e che avrei dovuto aspettare un po’. Ma a me non andava affatto di aspettare; mi sentivo un adolescente messo in punizione e segregato in casa. Era già quasi una settimana che passavo così e un altro giorno mi sarebbe stato fatale.
Così, uscii lo stesso. John aveva provato a chiudermi dentro, ma avevo una chiave di riserva nascosta dietro a dei barattoli contenenti le dita dei piedi che mi servivano per gli esperimenti. Sapevo che il mio coinquilino non avrebbe mai guardato lì in mezzo.
Corsi – per quanto il mio “squilibrio motorio” lo consentisse – mi diressi a Scotland Yard. Lestrade quasi sputò il caffè che stava bevendo, quando mi vide.
- Sherlock, cosa diamine…? Ti avevo detto appena l’altro ieri di riposarti! – quasi gridò.
Io gli spiegai che non m’interessava affatto riposarmi e che avevo bisogno di andare sulla scena del crimine di cui l’ispettore mi aveva parlato prima della diagnosi del tumore.
Sapevo che Lestrade non avrebbe potuto negarmi niente, infatti prendemmo la sua macchina fino a Finsbury Park, dove tutti gli alberi erano stati abbattuti nel cuore della notte senza un permesso, e senza che nessuno se ne accorgesse. Oltre al come, la domanda più ovvia era: perché? Non mi sembrava infatti un semplice atto di vandalismo. Un vandalo brucia una macchina o una panchina, non abbatte tutti gli alberi di un parco.

Arrivati lì, la vista che ci si prospettava era molto diversa da quella che mi sarei immaginato, ma soprattutto da quella che Lestrade si ricordava: sui tronchi abbattuti erano state incise delle frasi. Capii che non erano presenti prima dalla reazione dell’ispettore.
- Cristo – ringhiò.
- Quand’è stata l’ultima volta che sei venuto qui? – chiesi mentre scavalcavo il “recinto” di fasce di plastica bianche e rosse messe dalla polizia.
- Subito dopo esserti venuto a trovare, credo – rispose Lestrade, ancore palesemente sconvolto.
Mi guardai intorno. Solo su tre degli alberi erano state incise le frasi. Mi avvicinai per leggere meglio.
“Ne è passato di tempo, vero, Sherlock?” sobbalzai alla prima scritta. Subito, capii chi ne era l’autore. Ma come poteva essere possibile? Era morto, ne ero sicuro, era…
Corrugai la fronte e mi avvicinai al secondo tronco passando una mano sul primo.
“Gradirei che lasciassi perdere questo caso, non devi stancarti, la soluzione te la do io: è stato tutto per attirare la tua attenzione”.
Accarezzai anche il secondo albero caduto, prima di arrivare al terzo.
“So che ormai avrai capito chi sono. Come posso fare, Sherlock? Ho sempre pensato che sarei stato io ad ammazzarti, non ho affatto intenzione di farmi battere da uno stupido tumore”.
Avvertii un nodo alla gola. Doveva esserci un altro messaggio, che trovai composto da sassolini disposti a formare tre lettere: “I O U”.
Mi afferrai i lati della testa che aveva cominciato a dolermi e girai intorno ai tre tronchi per tentare di dare una spiegazione a quello che mi si stava presentando.
Come aveva fatto a scoprire del tumore? O meglio, come mai era vivo? Rilessi più volte i messaggi girandoci attorno rapidamente.
Lestrade osservava la mia frenetica danza senza capire.
Un senso d’eccitazione incontenibile prendeva pian piano il posto della confusione all’interno della mia mente.
The game is on!” pensai fremendo alla prospettiva d’indagare di nuovo come si deve. Perché sì, per quanto possa essere stato crudele, nessuno ha mai stimolato la mia attività celebrale come lui.
E del resto la prospettiva di morire per un caso era decisamente migliore del morire per un tumore.
Il disquilibrio motorio si fece sentire e l’ispettore corse verso di me prima che potessi cadere, ma lo evitai balzando nuovamente oltre la barricata di fili di plastica bianchi e rossi. Non mi sentivo così in forma da giorni.
- Sherlock, da dove viene tutta questa vitalità? Cos’hai scoperto? – mi domandò raggiungendomi.
- Non puoi neanche immaginare. Devo indagare da solo, Graham, e…
- Greg.
- Come preferisci.
- Non posso permettertelo, John mi ucciderebbe e morirei comunque dal senso di colpa.
- O, ma insomma!
- No, Sherlock! Fra l’altro sei tenuto a dire a Scotland Yard quello che scopri, vieni, ti offro un caffè e mi spieghi cos’hai capito.
Non riuscii ad oppormi e mi trascinò nel bar più vicino. Era decisamente tardi per un caffè, non mancava molto all’ora di pranzo – che John non sarebbe riuscito a non farmi saltare, quella volta – e non avevo assolutamente intenzione di farmi offrire alcunché.
- Vuoi qualcosa?
- No.
- Lo immaginavo.
Mi fece sedere ad uno dei tavoli, mentre pagava il suo cappuccino.
- Allora, mi spieghi la faccenda? – domandò raggiungendomi.
- La faccenda non è una faccenda. La faccenda ha un nome che credevo non avrei più sentito ed è importante non far sapere della sua rientrata in scena.
- Quale sarebbe questo nome?
- Moriarty.
Quasi sputò il cappuccino. Di nuovo. Mi fissò con gravità.
- Come??
- Non può essere che lui, sono certo.
- Era morto!
- Pareva lo fosse, sì. Ma del resto non posso affidarmi a voi di Scotland Yard, quando ho dovuto lasciare Londra dopo aver finto la mia morte non ho controllato il cadavere di persona, quindi potrebbe essere successa qualunque cosa con tutto il tempo che avete lasciato passare prima di ritrovarlo.
- Le analisi dell’obitorio sembravano esatte.
- Le aveva fatte Molly Hooper? – Lestrade annuì e un strano dubbio mi arrivò. Dubbio che non espressi.
L’ispettore bevve un sorso del cappuccino con lo sguardo fisso nel vuoto. Poi lo alzò e chiese: - Se è tornato… significa che tenterà di ucciderti di nuovo?
- Ottima deduzione.
- Non sei preoccupato?
Mi strinsi nelle spalle. – Meglio che morire di tumore – spiegai.
Contro ogni logica, Lestrade rise. Non credo di averlo davvero divertito, infatti la risata si trasformò presto in un unico singhiozzo. Non pianse, niente del genere, si premette solo una mano sulla bocca mentre guardava nel vuoto. Non ero abituato a quel tipo di reazioni e rimasi in silenzio.
- Sai, quando… Quando hai finto la tua morte, ecco… non credevo che sarei riuscito ad andare avanti – disse dopo un po’ a bassa voce – Poi… sei tornato e ho pensato che niente sarebbe potuto andare meglio. E adesso, di nuovo… Già una volta ti ho perso. Come… posso, io, affrontare ancora… per un’altra volta… io… - s’interruppe, la voce gli tremò.
- Immagino che andranno peggio le indagini senza di me, sì.
Alzò lo sguardo su di me con un’unica lacrima a solcargli la guancia.
- Non me ne frega un cazzo delle indagini, Sherlock – si allungò sul tavolino e premette le sue labbra sulle mie.
Questo era inaspettato, sì. Non le avrei mai fatte così morbide, appena un poco pungenti per il velo di barba. Per un istante, rimasi immobile, mentre il bar e il resto del mondo scomparivano. Poi il mio cellulare vibrò impercettibilmente nella tasca del cappotto. Ricordai chi ero, dov’ero, chi amavo. Mi tirai indietro.
- Greg, no.
Si portò le mani a coprire la fronte e abbassò il viso.
- Volevo capire che effetto faceva. Almeno una volta, dovevo farlo. So che non sono John Watson. Mi dispiace se ne sei stato disgustato.
- Non lo sono stato. Sono lusingato e anche tentato. Ma per il momento la mia fedeltà va ad un altro.
- Sì, lo so. – rimase in silenzio per qualche secondo, poi rialzò il viso con un debole sorriso: - Ma dovrai sbrigarti a dirglielo, credo che non siano poche le sue pretendenti.
- Credo anch’io.
Era una delle rare volte nella mia vita in cui mi potevo dire imbarazzato. Mi alzai, posai una mano sulla spalla di Lestrade e dissi: - Fammi sapere se ci sono novità a Scotland Yard, io ti terrò informato sulle indagini.
Lui annuì appena e io uscii, lasciandomi lui e il bar alle spalle. Guardai il display del cellulare che si era fatto sentire proprio al momento opportuno. Neanche a farlo apposta, era John.

03/dicembre 11:56
Sto tornando, passo io a prendere il latte, tu non azzardare a muoverti da casa.

Non avevo una pista precisa da seguire e decisi che tornare a Baker Street fosse la cosa migliore da fare al momento, ma ero fermamente deciso a non farmi convincere da John a pranzare. Mi sarei dovuto sbrigare, tra l’altro.
Vicino casa pensai a Molly Hooper. Aveva già falsificato i risultati delle indagini del mio ipotetico cadavere all’obitorio, avrebbe potuto farlo anche per quello di Moriarty. Sarei dovuto tornare sulla faccenda.
Ero quasi davanti al numero 221B quando sentii una siringa conficcarsi nella mia spalla. Persi i sensi, cosa a cui ero comunque molto abituato negli ultimi tempi.

Mi sono svegliato su un divano, col classico senso di confusione che provavo riprendendo conoscenza.
- Ben svegliato, Sherlock – credevo che non avrei più sentito quella voce, e invece eccola di nuovo.
- Moriarty.
- Oh, buona deduzione. – nella penombra della camera lo vidi entrare nel mio campo visivo mentre si avvicinava al divano.
- Come? – chiesi solamente.
- Devi dirmelo tu questo, dove sarebbe il divertimento altrimenti? – incrociò le mani sotto il mento sedendosi vicino a me, col suo sorriso ambiguo. I suoi occhi erano scuri come me li ricordavo.
Dovetti fare un notevole sforzo per tornare alla giornata di tre anni prima, quando entrambi avevamo finto la nostra morte.
- Mi hai stretto la mano mentre alzavi la pistola, per non puntare la mia attenzione sull’arma – un chiodo proprio al centro della testa mi costringeva a procedere con calma – Ti sei ucciso con la sinistra, ma sei anche destro. O almeno, quando interpretavi Richard Brook eri destro, quando eri James Moriarty mancino. Volevi darmi un indizio per farmi capire che stavi uccidendo Richard?
- Molto bravo.
- Non volevi che io prestassi attenzione alla pistola perché non era carica, è così? Non ha mai sparato nessun proiettile, si è sentito solo il rumore del colpo. Ma – in stato di shock – ho creduto che fossi effettivamente morto.
- Esatto.
- Ma il sangue. Finto?
Annuì compiaciuto.
- Ti rimane soltanto la corretta analisi del mio corpo all’obitorio – mi fece notare.
- Molly Hooper?
- Uh uh.
- L’hai ingannata?
- Niente affatto, si è proposta lei di aiutarmi. Credo fosse stanca di correrti dietro senza ottenere nessun risultato, e del resto noi due eravamo già stati insieme.
- E perché avrebbe aiutato anche me?
- Sai Sherlock, non penso avesse il coraggio di rifiutarsi. L’hai sempre usata come marionetta e avrà pensato di non poterti abbandonare in punto di morte. Molto romantico. Un’altra domanda che dovresti farmi: “ehi Jim, come mai spunti fuori dopo tre anni, dopo avermi lasciato distruggere la tua rete criminale in tutto il mondo?”. Be’ Sherlock, la verità: era terribilmente noioso. Troppo semplice. Adesso c’è da divertirsi. Ho atteso per un anno, da quando sei tornato a Londra, il momento giusto per rientrare in scena, ma non sapevo decidermi.
- Immagino che tu sia tornato proprio ora perché volevi essere sicuro che non fosse qualcos’altro ad uccidermi, giusto?
- Già. È una cosa molto poco sexi morire di tumore. Fa più figo essere ucciso da un criminale tornato in vita.
- Dovrei ringraziarti, forse. La prospettiva di passare i miei ultimi due anni nella noia mi terrorizzava.
- Lo so. Fra l’altro, mi sono assentato per tre anni e sei diventato frocio. Non potevi deciderti prima? Adesso che ti ha preso Lestrade, invece…
- No, aspetta, come Lestrade?
- Sono rimasto deluso, sì. Quell’ispettore è quanto di più banale avresti potuto trovare. Ma non tentare di negarlo, vi ho visti.
- Temo tu abbia frainteso. Deduzione inesatta.
Mi guardò con un sopracciglio inarcato qualche secondo, prima di capire.
- Oh, John Watson, ovviamente.
Una nuova fitta di dolore mi attraversò la mente e mi piegai in avanti. Forse stavo andando in astinenza, il che mi fece stare ancora peggio. Come se mi avesse letto nel pensiero, Moriarty disse: - Inoltre non mi piace affatto la tua ripresa con la droga. Non è nobile per niente.
Alzai lo sguardo e lo vidi sorridere beffardo.
- Non credo di volerti uccidere oggi, sarebbe incredibilmente poco stimolante.
- Buono a sapersi – ripresi il controllo e riuscii ad alzarmi.
- Prima che tu te ne vada, Sherlock, vorrei farti sapere che sono un po’ geloso di John Watson.
Lo guardai di sbieco.
- Non mi piace che ti provi ad avvicinare a lui. M’infastidisce. Il gioco finisce, Sherlock, se ti ci avvicini.
- Cosa intendi dire?
- Lascio alla tua immaginazione.

A quel punto sono uscito, per scoprire di ritrovarmi in un punto ben lontano dal centro di Londra alle undici di sera. Ero arrabbiato. Non mi sarei fatto condizionare da Moriarty nei confronti di John, ma non potevo mettere a rischio la sua incolumità. Non avrei mai fatto nulla che avrebbe potuto portare a delle ripercussioni negative su di lui.
Ho guardato il mio cellulare. Tredici chiamate perse, sei messaggi non letti. Merda.
Sono entrato nel primo bar che ho visto, senza pensare.
Ed eccomi lì con la testa fra le mani, a leggere gli sms del mio coinquilino, a bere vodka scadente, con una prospettiva di vita incredibilmente limitata e un ben più grande problema sentimentale. Il tumore mi stava davvero dando alla testa, non avevo mai pensato ai problemi sentimentali, io.
Guardavo sconsolato il sudicio locale, quando il telefono mi è nuovamente vibrato tra le mani.

03/dicembre 23:59
Cristo, Sherlock, ti prego, torna a casa, sto per andare nel panico, come faccio senza la tua fottuta presenza?

Ho sorriso fra me, prima di rispondere.

04/dicembre 00:01
Io e la mia fottuta presenza stiamo bene. Adesso torno.

   
      
     

 

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


CAPITOLO 4

John non la prese bene quando tornai al 221B.
Mi gridò contro per un po’, credo, ma devo ammettere che non stavo ascoltando granché.
- Cosa diavolo ti è passato per la testa, di tornare all’una di notte! – notai che quando gridava la bocca gli prendeva una buffa piega – Sherlock! Mi stai ascoltando?!
Continuavo a fissargli le labbra e compresi dagli attimi di silenzio che mi aveva fatto una domanda. Alzai velocemente lo sguardo.
- Sì, sì, ma certo.
- Mi prendi anche in giro!
- Non ti sto prendendo in giro, John.
- Ah no? E cosa sto dicendo, allora?
- Varianti sul tema del mio essere un dannato bastardo per essere tornato così tardi.
- Dannato bastardo non l’avevo ancora detto.
- Già, te lo saresti tenuto per la fine.
- Insomma! Da oggi ti proibisco categoricamente di uscire senza il mio permesso!
- Cosa sei, mio padre?
- Sei fortunato che io non lo sia, altrimenti ti avrei già dato un sacco di botte.
- La vedo difficile, considerando che sei molto più basso di me.
Mi lanciò un’occhiata truce.
- Comunque, si può sapere cos’hai combinato tutto questo tempo?
- T’interessa?
- Sì, potresti esserti andato a drogare, o magari ti sei fidanzato, sarebbe una buona cosa, oppure…
- Davvero gradiresti la notizia del mio fidanzamento?
- No, non particolarmente. Cioè, intendo, sei liberissimo di fidanzarti e fare ciò che preferisci... 
- Tranne uscire.
- Tranne uscire.
Rimanemmo in silenzio, seduti vicini sul divano. Sentivo il suo ginocchio contro la mia gamba.
- Quindi… ti sei fidanzato? – chiese dopo un po’.
- No, certo che no.
- Uhm.
Guardai la notte avvicinarsi da dietro la finestra.
- Ti darebbe fastidio?
- Cos…? Ma, no, forse, insomma, sarebbe strano, ecco tutto.
Un ubriaco cantava stonato dalla strada.
- Comunque, davvero, cos’hai combinato? Giuro che non dirò niente a tuo fratello, e…
- Niente di che, è tornato Moriarty. E Mycroft non è proprio la persona giusta, al momento.
Sgranò gli occhi e il suo sussulto si perse nelle grida dell’ubriaco.
- Come sarebbe a dire… tornato? – chiese con voce strozzata.
- Che è ancora vivo; non è mai morto, in realtà.
- E… e tu… credi che vorrà ucciderti?
- Senza dubbio, ne abbiamo parlato gran parte del pomeriggio.
Si portò le mani alle tempie.
- Cristo, se facevo bene ad essere preoccupato.
- Uhm, no, era chiaro che non volesse ammazzarmi da subito.
John mi guardò intensamente, mentre altre voci si aggiungevano al coro stonato della strada.
- Sai, non c’è una versione di questa storia in cui io ne esca vivo. Ma non se ne dovrebbe fare un dramma: nessuno esce vivo dalla vita – spiegai tranquillamente.
Le mani gli erano ricadute vicino al corpo e si vedeva che stava facendo un incredibile sforzo per non perdere il controllo.
- Devi chiedere aiuto a Mycroft – disse poi.
- No.
- Perché?
- Perché molti anni fa, lui… - m’interruppi. Non mi andava di raccontarlo, non lo avevo mai detto a nessuno, neanche a nostra madre.
Il mio coinquilino capì.
- Me lo spiegherai un’altra volta.
Sembravano divertirsi davvero molto le persone in strada, anche se a me sembravano solo un branco di idioti. Non m’importava di loro, dopotutto. M’importava solo dell’uomo vicino a me e del suo respiro regolare e dei suoi occhi così verdi e azzurri e del fatto che fosse preoccupato per me.
Sarei rimasto a guardarlo per ore, ma lui disse che era ora di andare a dormire.
Di sonno non ne avevo davvero, ma lo assecondai.

Era iniziato un temporale. Sdraiato sul mio letto, potevo sentire la pioggia battere rapida e regolare oltre la finestra. Dalla strada non si udivano più le grida dell’ubriaco.
Lasciai passare un paio ore; poi, il più piano possibile, uscii dalla mia stanza. Il parquet scricchiolava appena sotto i miei piedi nudi, non vi prestai attenzione. Attraversai il pianerottolo e sgusciai nella camera di John.
Nella penombra lo vidi adagiato sotto le coperte. Sembrava così calmo, mentre dormiva. Come un bambino. Potevo sentire il suo odore, dopobarba e caffè, riempire lo spazio attorno a me, e mi ci abbandonai.
Sapevo che non avrei dovuto aver bisogno di vederlo, che era sbagliato trovarmi lì, ma non ne potei fare a meno.
Rimasi a contemplarlo fin quasi al mattino.
Aveva smesso di piovere e cominciava a schiarire. La luce bianca e debole si specchiava sulla sua pelle candida. Mugugnò appena e si girò tra le coperte. Decisi che quello era il momento giusto per andarmene.
Mi sdraiai sul mio letto in uno stato di dormiveglia per le poche ore restanti di sonno.
Mi svegliai verso le sette e mezza. Scesi in salotto, già pervaso dall’odore del tè, dove trovai un sorridente John Watson ai fornelli.
- Buongiorno! Sto facendo un tè.
- Ho notato.
- Ne vuoi?
- In realtà…
- Era una domanda retorica, Sherlock, te lo sto già preparando – mi fulminò prima che potessi dire nulla.
Accettai la cosa con rassegnazione, afferrando la tazza calda che mi porgeva.
Si sedette davanti a me.
- Sai che giorno è?
- Non ne ho la minima idea.
- Domenica. Oggi non vado all’ospedale.
- Mhm, bene.
Credo di non essere sembrato molto convinto. Ma ne ero felice per davvero. In quella pallida mattina, sebbene non presentasse stimoli intellettuali di alcun tipo, mi crogiolavo con un certo torpore. Era da tanto che non provavo un momento di tranquillità come quello, e avrei voluto goderlo fino in fondo assieme a quegli occhi verdi e azzurri che mi sorridevano dall’altro capo del tavolo.
Come al solito, mio fratello rovinò tutto. Il mio cellulare squillò e vidi il nome di Mycroft illuminare il display. Risentito lo afferrai.
“Perché non me lo hai detto?” sembrava arrabbiato.
“Che cosa?”
“Di Moriarty”
“Non ritenevo importante che tu lo sapessi, Mycroft”
“Stupido, avrei cominciato da prima ad aumentare il livello di sicurezza attorno a te!”
“Te l’ha detto Lestrade?”
“…Sì.”
“Non provarci subito, avrai molte più possibilità lasciando passare un po’ di tempo”
“Non è di questo che volevo parlarti! È una cosa seria, sei in pericolo, e…”
“Come se non stessi comunque per morire. Buona mattinata Mycroft” e ho attaccato, cominciava davvero a seccarmi.
- Tuo fratello? – chiese John.
Io annuii. Lui non fece altre domande e si limitò ad intaccare le uova strapazzate. Chissà come faceva a mangiare così tanto di prima mattina, io avrei vomitato subito.
Il giornale piegato in una mano, il cellulare stretto nell’altra, guardavo nel vuoto.
- Ah, Sherlock, stasera…
- Ho sempre trovato Mycroft insopportabile – lo interruppi, alzando lo sguardo su di lui – Ma cominciai a detestarlo intorno ai quindici anni, dopo la morte di nostro padre.
- Uhm. – John posò forchetta e coltello e incrociò le mani sotto il mento.
- Mi aveva mentito, sai. Mi aveva detto che non aveva nulla di grave, che era in ospedale solo per un controllo. È morto due settimane dopo per carenza cardiaca. Non ho potuto neanche salutarlo, non pensavo che fosse una cosa grave. Avevo litigato con lui la mattina precedente al suo ricovero. Non me lo sono mai perdonato, mi sarei dovuto scusare con lui, fargli sapere che gli volevo bene, e… - m’interruppi; non l’avevo mai raccontato e non pensavo che potesse fare ancora tanto male – Mycroft  pensava di farlo per proteggermi dal dolore, mentirmi, sai. Mi considerava ancora un bambino. Be’, non ero un bambino. Avevo diritto a vederlo un’ultima volta. Mia madre ebbe un crollo emotivo e psicologico dopo la sua morte e la dovettero ricoverare in un centro di riabilitazione. Mycroft era già maggiorenne, se n’era andato da casa. Io venni mandato in un college in campagna. Dio, quanto odiavo quel posto. Non ho parlato con mio fratello per diversi anni, finché non ho terminato gli studi e mi sono trasferito a Londra.
John rimase in silenzio, con lo sguardo basso.
- Mi dispiace, Sherlock. Non cambierebbe molto se ti dicessi che ha mentito credendo di farti del bene, vero?
- No.
- Già.
La mia placida mattina si era intristita solo grazie ad una chiamata. John si era intristito. Provai un terribile rimorso, non avrei dovuto raccontargli quella storia.
- Prima… sai, prima che mi spiegassi… volevo chiederti se, ehm…
- Sì?
- …se ti andasse di venire a cena, stasera, con me. Alle otto. Non da Angelo. Ho trovato un bel posto, a Dover Street, volevo provarlo.
Un nodo mi salì alla gola. Tentai di deglutire, ma non funzionò. John mi stava invitando a cena. Proprio me, malato terminale minacciato da un pericoloso criminale apparentemente tornato dall’oltretomba.
L’eccitazione mi montò nel petto, aspettavo da molto tempo un’occasione del genere. Ma poi mi tornò alla mente quello che Moriarty mi aveva detto e l’immagine del cadavere di John Watson mi balenò per un istante davanti agli occhi. Tutta l’eccitazione sparì, lasciando posto all’amarezza.
- Io… non posso, John, mi dispiace, è che…
- Oh, certo, non ti preoccupare, ho capito – si grattò nervosamente un occhio e tentò di sorridere, ma la bocca gli si distorse in una smorfia. L’avevo deluso, l’aveva preso come un rifiuto.
- Davvero John, io…
- No, no, fa niente. Ormai ho prenotato, ci andrò da solo, sì, nessun problema. Scusa, vado a fare due passi, torno subito.
Non feci in tempo a dire niente che la porta si richiuse dietro di lui. Merda.
Merda, merda, merda!
Mi arruffai i ricci per tentare di pensare. Perché l’essere umano non è logico? Cos’ha di sbagliato? Perché non può essere dedotto come una scena del crimine?
Camminai avanti e indietro per il salotto. Notai che mi stavo mordicchiando un’unghia. Io non mi ero mai mangiato le unghie.
Non ne potevo più, decisi di uscire a prendere un po’ d’aria. Andai al miny-market, la marmellata di ciliegie era finita e la ricomprai. Risalii a casa, posai il barattolo sul tavolo e ci lasciai sopra un pezzo di carta con su scritta una parola, “Scusa”. Non ero bravo in quelle cose, proprio per niente.
Ridiscesi le scale.
- Oh Sherlock, cos’è tutto questo andirivieni? – mi chiese la signora Hudson all’ingresso.
- Niente, mi ero scordato una cosa di sopra.
- Sei sicuro di poter uscire, caro?
- Sicurissimo. 
Nel pomeriggio vagai per le strade di Londra. Da ragazzo amavo perdermi tra i vicoli, ma adesso li conoscevo tutti con tale precisione che sarebbe stato impossibile. Tuttavia quella città continuava ad esercitare un’inspiegabile fascino su di me. A volte anche una cosa conosciuta può essere amata.
Avevo spento il cellulare, ma ero sicuro che se l’avessi acceso mi sarebbero arrivati numerosi messaggi d’avvertimento per le chiamate perse da John Watson.
Iniziò ad imbrunire senza che io avessi dato ancora un senso a ciò che stavo facendo. Il dolore alla testa sembrava avermi lasciato in pace, quel giorno. Alle sei piovigginò appena e io mi tirai più su il colletto del cappotto per ripararmi le orecchie.
Verso le sette e mezza, credevo di aver esaurito le strade. Avevo tentato di evitare Dover Street e tutta la zona che la circondava, ma alle sette e tre quarti non riuscii più a trattenermi.
Era chiaro quale fosse il posto adocchiato da John: un luminoso ristorante al centro della strada. “Da Menphis” si chiamava.
Alle 19:58 vidi il mio coinquilino vestito di tutto punto con giacca e cravatta entrarvi. Rischiai di avvicinarmi un altro po’ e lo osservai da dietro la vetrata prendere posto ad uno dei tavoli all’entrata. Non mi notò. Sembrava nervoso. Forse aveva invitato qualcun altro o, peggio, qualcun’altra. Guardava spesso l’orologio, in maniera quasi maniacale.
Alle otto e venti non ressi più. “Che si fotta, Moriarty”. Ed entrai a passo deciso nel ristorante.
Appena mi vide, John mi mostrò uno dei suoi sorrisi più belli. E sollevati. Credeva che non sarei venuto. O forse sì, visto che mi aveva aspettato per ordinare.
- Ti sei fatto attendere?
- Ho avuto problemi col traffico, sai.
Presi posto davanti a lui. Non riuscivo a fare a meno di sorridere come un idiota.
- Ho trovato la marmellata. Grazie, mi ha fatto piacere. Perché non rispondevi al cellulare?
- Era scarico.
- Uhm?
- Uhm.
Non ero bravo a mentire. O meglio, ero molto bravo a mentire, ma non con John.
- Vorrei che sapessi – iniziai con voce leggermente tremante – Che dal primo momento in cui me l’hai proposto sarei voluto venire a cenare con te, ma…
In quel momento arrivò il cameriere, che chiese con voce neutra e nasale: - Siete pronti per ordinare?
- Non può passare più tardi, non vede che siamo impegnati? – devo essere suonato altamente scocciato, perché il cameriere si allontanò subito mentre John ridacchiava.
- Stavi dicendo?
- Sì, dicevo. Sarei voluto venire da subito, ma non potevo. Moriarty ha minacciato di farti del male, se mi fossi avvicinato a te. – John schiuse la bocca, incredulo – Volevo che lo sapessi. Ora che ne sei a conoscenza so che non vorrai cenare con me, quindi me ne vado anche subito, se vuoi… - ma la sua mano afferrò la mia prima che io potessi alzarmi.
- Non ho nessuna intenzione di farmi condizionare da Moriarty, Sherlock Holmes.
La sua mano calda e la sua presa solida rischiarono di mandarmi in tilt.
- Quindi…
- Possiamo essere tutto quello che vogliamo, Sherlock. Moriarty può fare ciò che vuole, io non ho intenzione di lasciarti andare.
- John… sai che sono un malato terminale, sì? Probabilmente morirò fra due anni o poco più.
- Non m’importa, non m’importa affatto. E se è così questi saranno i due anni più belli della tua vita. Chi se ne frega del tumore e di Moriarty. Siamo io e te, va bene?
- Va bene, sì, credo di sì – la bocca mi si storse in un sorriso sbilenco. Non riuscivo a credere che fosse vero, che quel dottore stesse dicendo quelle cose proprio a me.
Il cameriere dalla pronuncia nasale minacciava di venire di nuovo verso di noi con aria arcigna.
- Vieni, scappiamo – disse John alzandosi e continuando a tenermi per mano.
Sgusciammo fuori dal ristorante e corremmo – sempre per quanto il mio “squilibrio motorio” lo permettesse – per la strada. Pioveva un poco e mai come in quel momento mi sentii vivo.
Non prendemmo taxi, Dover Street era molto vicina a Baker Street. Entrammo nel 221B ridendo e salimmo in fretta le scale.
- Insomma, cos’è questo baccano? – chiese la padrona di casa dal piano terra.
- Niente, signora Hudson! – gridammo in coro.
In salotto finalmente ci fermammo, bagnati di pioggia e col fiatone. Fissai i suoi occhi azzurro/verdi nei miei e non esistette nient’altro. Quelli furono i due secondi più lunghi della mia vita, ma in futuro niente sarebbe stato meraviglioso e carico d’emozioni come quella breve attesa.   
Lo baciai e i nostri corpi iniziarono la loro danza armoniosa, mentre ci toglievamo i cappotti e ci slacciavamo le camicie.
Quella notte fu lunga e calda e al mattino, quando mi risvegliai nel torpore del letto di John col mio coinquilino che dormiva sereno e nudo al mio fianco, pensai che non ci fosse niente, a questo mondo, in grado di competere con quella sera.  

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


CAPITOLO 5

La notte stava pian piano lasciando il posto al giorno.
Contemplai il profilo regolare di John per molto tempo. Il suo calore raggiungeva ed irradiava il mio corpo freddo, potevo sentire il suo battito cardiaco lento e calmo risuonare nella camera.
Mentre ascoltavo il suo respiro soffocato dalle lenzuola, pensai che niente avrebbe potuto rovinare quel momento.
Mi sbagliavo.
Il mio cellulare vibrò dal comodino. John mugugnò nel sonno e io lo afferrai perplesso. Chi mi avrebbe scritto alle cinque di mattina? Il numero era anonimo.

05/dicembre 5:12
Molto carini, davvero.

Un brivido gelido mi corse lungo la schiena. Risposi con le dita ancora intorpidite.

Moriarty?

Molto bravo.

Lascia in pace John. Fai a me quello che preferisci, ma lui lascialo stare.

Ti avevo detto che se ti fossi avvicinato a lui ci sarebbero state conseguenze, Sherlock.

Fissai il messaggio con lo stomaco stretto in una morsa. Sapevo che se avesse avuto intenzione di uccidere il mio coinquilino non sarei riuscito ad impedirlo. Risposi dopo qualche minuto.

05/dicembre 5:18
Conseguenze poco piacevoli, devo presumere?

Dipende dal tuo punto di vista.

Posso avere molti punti di vista.

Stavolta fu lui che lasciò passare un po’ di tempo.

05/dicembre 5:21
The game is over, Sherlock.

Sentivo già i primi conati di vomito alla prospettiva del corpo freddo e morto di John, quando Moriarty tenne a fare una precisazione.

Oh, non ti allarmare. Non voglio uccidere né te né il tuo fidanzato. Ma dopo 3 anni d’assenza scopro che sei diventato incredibilmente noioso, Sherlock. Non pensavo avresti preferito i sentimenti alle indagini. Non ho più interesse a continuare il nostro gioco.

Ripresi il controllo del respiro. Ero sicuro di aver capito bene, ma volevo essere sicuro al cento per cento.

Quindi…?

Quindi, non mi vedrai più. Se sceglierai effettivamente John Watson, il nostro gioco finirà per sempre e getterò via questo cellulare. Scomparirò e andrò a causare danni in America. Ma, rifletti attentamente su questo, passerai nella noia i tuoi ultimi anni di vita. Sei convinto?

Ammetto che la prospettiva di un mondo da cui James Moriarty scompariva completamente si prospettava molto più monotono del previsto. Ma avevo preso la mia decisione.

Per quanto mi rincresca non dover avere più niente a che fare con un criminale che tenta di uccidermi, sono sicuro. È stata una bella partita, però, credo che sentirò la tua mancanza. Addio, James Moriarty.

La risposta arrivò dopo pochi minuti.

05/dicembre 5:28
Addio, Sherlock Holmes.   

Con un profondo respiro osservai il display del cellulare scurirsi. Ovviamente non potevo fidarmi ciecamente di Moriarty, ma ero sicuro che stesse dicendo sul serio. Aveva sempre tentato di darmi indizi su come continuare il nostro gioco e uccidermi in un momento come quello non gli avrebbe dato più soddisfazione che lasciarmi in pace.
Guardai John Watson russare debolmente al mio fianco. E sorrisi.
Ero libero. Libero di amarlo, e nessuno me lo avrebbe portato via.
Gli accarezzai la spalla nuda e sprofondai nel sonno assieme a lui.

Vissi felicemente per un anno al 221B di Baker Street, tra visite di Lestrade che continuava a chiedere aiuto per i casi che non riusciva a risolvere – praticamente tutti -, incursioni di Mycroft che mi scocciava ogni giorno di più – e mi chiedeva consiglio per conquistare l’ispettore -, ramanzine della signora Hudson, e quel sorriso e quegli occhi che ogni mattina mi aspettavano con una tazza di tè bollente in mano. 
Mai avrei creduto di poter accontentarmi di una vita del genere. Amavo John con ogni fibra di me, anche se a volte continuai ad esercitare la mia presenza insopportabile nel mio essere di sociopatico iperattivo, ma nonostante tutto lui continuò a stare al mio fianco. Anche durante la chemio e quando quei maledetti farmaci mi facevano sentire un’idiota.
Spesso mi faceva discorsi assurdi come sposarsi o adottare un bambino, e io gli facevo presente che nella mia condizione non sarebbe stato l’ideale. E poi sarei stato un padre tremendo, nonostante fossi sicuro che lui, al contrario, sarebbe stato perfetto.
Ma eravamo felici lo stesso, anche senza matrimonio e figli.  
Io regolarmente andavo a comprare latte e marmellata di ciliegie, era diventata la nostra tradizione. Adoravo il suo sorriso candido quando mi vedeva tornare dal miny-market e i suoi occhi azzurro/verdi venirmi incontro per intaccare subito la marmellata.

Mi piace pensare che un anno dopo, quando il tumore mi uccise definitivamente, tornato a casa dall’ospedale trovasse il barattolo che gli avevo comprato la sera prima.
Alla notizia della mia morte Mycroft, Lestrade e la signora Hudson accorsero piangenti da John, ma lui rimase là, con il barattolo di marmellata stretto tra le mani e un’unica lacrima a solcargli la guancia e a raggiungergli la bocca piegata in un sorriso.
Non la intaccò subito, quella volta.  

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