Armand

di Haromi4o
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mi presento ***
Capitolo 2: *** Ricordi di Francia ***
Capitolo 3: *** Il mondo ridotto a un pigolio ***
Capitolo 4: *** Il circo dei sogni ***



Capitolo 1
*** Mi presento ***


Salve.

Il mio nome è Armand e oggi sono una mosca.

Avete anche solo una minima idea di quanto sia complicata la vita di una mosca? La continua tensione tra la ricerca di cibo e la paura di lasciarci le ali da un momento all'altro? Sempre in lotta per la sopravvivenza? No... Non è per niente facile. Soprattutto se oltre ad essere una mosca siete anche innamorati. Una mosca innamorata! Che situazione ridicola.

Claudette, è questo il suo nome. O, per lo meno, un tempo lo era. Ho passato due preziosissimi giorni della mia vita a cercarla e finalmente l'ho trovata. È lei. La mia anima gemella. Colei con cui voglio condividere tutto il resto del tempo che mi è stato concesso a questo mondo. Ma lei continua a non accorgersi di me. Non si accorge di quello che provo, non mi degna neanche di uno sguardo. Ah, com'è triste essere una mosca. Giorni e giorni che le ronzo intorno e tutto quello che mi mostra in cambio è solo rancore. Se solo fosse in grado di vedermi per quello che sono realmente...

Ormai è una fissazione. La seguo ovunque vada. Quando si sveglia, quando mangia, quando gira per la città e quando torna a dormire, io sono sempre lì. A volte resto ad osservarla da lontano, altre volte provo ad avvicinarmi ma vengo sempre respinto.

Non sempre è da sola. Anzi, spesso e volentieri la trovo in compagnia di altri che come me cercano di conquistarla. In quei momenti mi sento bruciare dalla gelosia e vorrei staccare la testa a tutti quanti, ma non posso agire, deve essere lei a scegliere. Per fortuna però non sceglie mai. Sembra che non si accorga delle attenzioni che le vengono rivolte. Forse finge di non accorgersene, o forse non vuole accorgersene e basta. Io intanto continuo ad aspettare e sperare.

Del resto chi se non me è abbastanza degno di averla? Io che oramai la conosco come la punta della mia proboscide, che so tutto di lei, che riconosco i suoi stati d'animo, che per lei sono pronto a morire più di cento volte? La fortuna non potrà non essere dalla mia parte stavolta. Dopo tutto quello che ho fatto, dopo tutto quello che ho passato, come potrà negarmi anche oggi questo mio unico desiderio?

Eppure non è ancora successo niente. Io persisto e Claudette non si chiede nemmeno il perché. La fortuna oltre che cieca deve essere anche sorda... e parecchio stupida se mi concedete l'espressione. O forse semplicemente non esiste una fortuna per le mosche. Gli umani l'hanno sempre rappresentata come una donna bendata (il che spiegherebbe perfettamente il perché non ci vede una mazza) ma mai come una mosca bendata. O come una mucca bendata. O come una gallina bendata. Pensandoci bene forse sono gli umani che non hanno capito com'è fatta la fortuna. Il che ci riporta al problema iniziale.

Ho perso il conto dei giorni. Quanto tempo è passato da che ho trovato Claudette? Quanto tempo mi rimane per farle capire che l'amo? Il tempo sembra allungarsi, le giornate paiono decenni eppure anche queste avranno fine presto e troppo presto dovrò separarmi da lei.

Urge ideare un piano. Come fare a conquistarla? Come riuscire a comunicarle i miei sentimenti? Perché diavolo la mia mente è diventata improvvisamente vuota? È inutile. SONO inutile. Sono una mosca inutile. Ecco, perfetto, suona ancora più idiota detto così.

Non che non abbia tentato qualcosa in passato. Allora di idee ne avevo. Ma non erano esattamente trovate che avrei definito “intelligenti”. E comunque non hanno funzionato. Com'era prevedibile del resto. Soprattutto quella genialata con la marmellata... Ok, preferisco non pensarci. Mai rischiato la vita in modo più stupido, giuro!

La giornata già volge al termine. Oramai fuori è buio e l'aria si sta facendo fredda. La gente chiude le finestre e spegne le luci. Anch'io mi adagio in un angolo del soffitto e mi appresto a dormire. Chissà se rivedrò il sole domani.

Pure Claudette sta riposando. Ci ha messo un po' per adagiarsi e si è rigirata parecchie volte prima di trovare la posizione giusta, ma ora finalmente è tranquilla. Io la osservo. È così bella e pacifica quando dorme. Le lunghe gambe raccolte, le braccia piegate accanto al viso, i morbidi boccoli che le coprono le spalle ed inondano il bianco del cuscino.

Ancora non ve l'ho detto? Forse è proprio per questo che è tutto così complicato.

Claudette è umana.

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Capitolo 2
*** Ricordi di Francia ***


Conobbi Claudette attorno al 1700 in una florida tenuta della Francia meridionale.

La mia famiglia, come molte altre, lavorava la terra del signorotto del luogo, un certo Monsieur De Bonbonheur, un tipo vivace e pericolosamente amante del vino. Si raccontava che amasse le feste e la vita di città, per questo non si era quasi mai visto dalle nostre parti, nonostante l'enorme villa di campagna con immensi giardini, stalle, cavalli, laghetti, papere, cani, gatti e uno stuolo di servitù sempre pronta a riceverlo. Chi, nel corso degli anni, per strani garbugli della sorte era riuscito a intravederlo lo descriveva come un un ometto basso, pallido e tondo come una cipolla (anche se dopo un bicchierino o due ricordava più un pomodoro), ma dalla mente affilata e l'occhio lungo. Tanto lungo da non poter lasciarsi sfuggire la delicata bellezza della splendida Mademoiselle di Beaupaon, una giovane dalla figura slanciata e la pelle di seta incontrata alla festa di primavera di chissà quale ricca famiglia di Parigi e divenuta in seguito la sua più grande ossessione. Rimaneva comunque un totale mistero come Sua Signoria l'uomo-ortaggio fosse riuscito ad aggiudicarsi la mano della fanciulla.

Quando nacqui Monsieur De Bonbonheur si era già ritirato da tempo con la sua novella sposa in una locazione più consona alla loro sfrenata vita mondana, abbandonando la villa ad una servitù sempre più annoiata e striminzita. Crebbi dividendo un grande giaciglio di paglia con innumerevoli fratelli e sorelle mentre i miei giochi erano seminare il grano e spaventare i corvi. Passavo le giornate a scorrazzare nei campi prendendomi parole da tutti quanti e a osservare mia madre mentre preparava da mangiare nella speranza di ottenere un boccone in anticipo, perché quando arrivavano i fratelli più grandi il cibo non bastava mai. Solo ogni tanto spezzavo la routine quotidiana, quando in lontananza si scorgeva il verde boschivo dei giardini della villa. Allora mi infilavo nel granaio dove potevo osservarli indisturbato e nella mia mente di bambino sognavo di partire all'avventura per esplorarli e trovare chissà quali favolosi tesori.

Non dovetti aspettare molto perché quel sogno diventasse realtà.

Alla veneranda età di undici anni i miei genitori decisero che ero abbastanza grande perché uscissi di casa e imparassi a badare a me stesso. Monsieur aveva da poco preannunciato il suo ritorno assieme alla famiglia lietamente allargata e la deperita schiera di servitori aveva bisogno di nuove braccia per rimettere in sesto la tenuta. Mentre mi accompagnava alla villa mio padre cercò di incoraggiarmi con belle parole: mi disse che era una fortuna servire il signore, che la servitù mangiava e viveva meglio tra quelle mura di solida pietra che loro poveri contadini in balia delle tempeste e delle carestie. Io non risposi. Sapevo che la verità era un'altra, che nella mia famiglia eravamo troppi e con l'arrivo della sorellina più piccola non c'era abbastanza da mangiare per tutti. Eppure non mi lamentai e cercai di mostrarmi fiero e audace mentre lasciavo la mia famiglia per l'ignoto.

Ancor oggi ricordo che gran fregatura sia stata.

Dopo il momento di estasi e stupore iniziale alla vista di quella che a me pareva la reggia del Re di Francia in persona, un secondo sguardo rivelava il degrado di anni di abbandono e la prospettiva della mole di lavoro da fare faceva vacillare.

Come previsto i primi mesi furono d'inferno. Mi alzavo all'alba e per tutta la giornata correvo da una parte all'altra svolgendo ogni tipo di mansione la mia età mi consentisse. Passavo da un servo all'altro ricevendo ordini su ordini e mai che a nessuno venisse in mente che anch'io ogni tanto avessi bisogno di cibo e non campassi di sola aria. Alla fine imparai ad arrangiarmi, intrufolandomi nelle cucine e fregando qualcosa per tirare avanti fino a fine giornata.

La situazione migliorò con l'arrivo di Sua Signoria con moglie e figlie al seguito. Il grosso del lavoro era fatto, rimanevano le mansioni di genere quotidiano e si poteva finalmente tirare il respiro. Ma solo con la definitiva assegnazione alle stalle come garzone, dopo aver girato per più di tre volte l'intera villa prestando servizio in cento e più diversi compiti, riuscii a crearmi una routine con la concessione ufficiale di pause per i pasti.

Il lavoro era lungo e faticoso, ma semplice. Consisteva fondamentalmente nello spazzolare e nutrire i cavalli, lustrare adeguatamente i finimenti e tenere pulita la stalla, il che presupponeva una serie di operazioni che vi risparmierò. Neppure l'odore era dei migliori a vivere a contatto con quei bestioni, ma alla lunga ci si faceva l'abitudine.

 

Fu un giorno come un altro in cui ero intento a muovere montagne di foraggio dal fienile alla stalla e poi ancora, avanti e indietro con il solo ausilio di una carriola di legno cigolante, che scorsi la nobile famiglia in libera uscita nel parco della villa.

Doveva trattarsi di una normale passeggiata all'aria aperta ma aveva più l'aspetto di una processione, con la nobildonna al primo posto tutta vestita di pizzi e ricami di un bianco abbagliante seguita da una fila di mini copie in ordine del tutto impeccabile. Ricordava molto un'anatra con la prole a seguito. Ed ecco poco distante, il brutto anatroccolo della situazione.

Si distingueva subito dallo sguardo felino e l'indole tutt'altro che composta, nonché dal fatto che fosse l'unica ad aver gettato all'aria il parasole ed essersi messa a correre come una matta tra le pozzanghere lasciate dall'ultima pioggia suscitando gridolini scandalizzati e rimproveri dal resto del gruppo. La più piccola delle figlie De Bonbonheur aveva capelli scarmigliati e schizzi di fango che arrivavano fino alla vita del bel vestitino una volta candido, ma sopratutto una risata incurante e cristallina che sovrastava le voci delle sorelle e si fondeva col cinguettio degli uccelli e i suoni della natura.

Nonostante la spossatezza del duro lavoro mi ritrovai a sorridere alla scena e con ancora quel suono nelle orecchie tornai a spingere la mia carriola un po' più allegro.

 

Non dovetti aspettare molto perché Mademoiselle De Bonbonheur tornasse ad allietare le mie giornate. Scene di selvatichezza e irriverenza avevano cominciato a susseguirsi sempre più frequenti nelle settimane primaverili, in cui la famiglia spesso si concedeva pranzi e passeggiate all'aperto, puntualmente stravolte da quel piccolo uragano che di nobile aveva solo il cognome. Dalla mia postazione io avevo una discreta visuale sul tutto e non erano rare le volte in cui sgusciavo dalla stretta sorveglianza dello stalliere per godermi lo spettacolo con un po' più di calma.

Certo, ritenendo che sarebbe stato alquanto sconveniente attirare l'attenzione di Sua Signoria ridendogli in faccia, mi mantenevo sempre a debita distanza dalla mia intrattenitrice preferita. Questo almeno fino al giorno in cui la madre non la perse di vista e me la ritrovai accovacciata nella stalla, intenta ad osservare da MOLTO vicino gli zoccoli di una cavalla non esattamente tranquilla.

Passato il momento di shock iniziale districai le mani che si erano automaticamente andate a infilare nei capelli e mi lanciai sulla ragazzina, proprio mentre l'animale caricava il colpo.

Per un soffio, riuscii a sollevare Mademoiselle da terra un attimo prima che il calcio partisse e con litri di adrenalina ancora in circolo cominciai a controllare che non fosse ferita, chiedendole se stesse bene e se i suoi genitori sapessero che si trovava lì. Lei mi rivolse uno sguardo calmo come acqua stagnante, degno di un eremita dei boschi, e si limitò a chiedermi:

-Non fa male quel ferro attaccato al piede?- indicando con il dito lo zoccolo che l'aveva quasi centrata in fronte.

-Certo che fa male!- le risposi esterrefatto -Se la colpiva l'avrebbe anche potuta uccidere, Mademoiselle!-

Lei scossè la testa impaziente.

-Non a me, a lui!- replicò semplicemente indicando ancora la cavalla, del tutto incurante del pericolo corso.

Rimasi a fissarla interdetto per alcuni secondi, poi la tensione si sciolse in una risata e con calma (ma soprattutto a distanza di sicurezza dal quadrupede) le spiegai il perché e il per come dei ferri di cavallo.

 

Da quel giorno la giovane De Bonbonheur diventò un ospite abituale della stalla. Voleva sapere tutto sui cavalli, mi seguiva ovunque e non mi dava tregua finché non rispondevo alle sue interminabili domande. Dapprima volle sapere ogni cosa sui bestioni con cui lavoravo, poi cominciò ad interessarsi all'utilità degli attrezzi di legno e di metallo, poi volle sapere tutto sul fieno, sui corvi e i tempi di semina del grano, per non parlare dei cicli della natura e il viaggio del sole nel cielo, in pratica tutto quello che le veniva in mente. Mi aveva eletto a suo maestro di vita e non passava giorno senza che riuscisse ad eludere la sorveglianza materna per venirmi a cercare.

Sebbene all'inizio questa situazione non mi lasciasse del tutto tranquillo (non osavo immaginare la reazione di Monsieur all'idea della figlia bazzicatrice di stalle e frequentatrice di garzoni), dopo le prime settimane la straordinaria capacità della ragazzina di farla sempre inspiegabilmente franca mi rasserenò e cominciai ad apprezzare quelle adoranti attenzioni, divertendomi un mondo a inventare le spiegazioni più strambe e arzigogolate a domande che sinceramente non sapevo neppure come le venissero in mente.

Passarono i mesi e il nostro stare insieme divenne sempre più naturale man mano che le giornate si susseguivano. Lei appariva sempre all'improvviso dal nulla, silenziosa come un gatto e scompariva con altrettanta rapidità nel momento in cui qualcuno si avvicinava. Ricordo ancora ora come mi correva intorno mentre lavoravo, raccontandomi le comiche delle sue sorelle, con la sua risata di cristallo che riempiva l'aria, o i suoi grandi occhi nocciola che mi osservavano, ancora più enormi e attenti quando era il mio turno di parlare e spiegare i perché del mondo. A volte, quando l'eccitazione della giornata era stata troppa anche per lei, poggiava la testa sulle mie ginocchia e si addormentava immediatamente, bella e pacifica come un diavoletto tramutato per magia in angelo.

 

Poi arrivò la pestilenza.

 

Nei campi i contadini cominciarono a cadere come mosche e fin troppo presto il male superò le mura di cinta della villa mietendo le prime vittime tra la servitù.

Nessuno sapeva da dove venisse o come si trasmettesse, il panico cominciò a dilagare e Monsieur De Bonbonheur non perse tempo in investigazioni di sorta. Una mattina radunò la famiglia e partì veloce come la luce, probabilmente diretto in città o comunque il più lontano possibile dalla pestilenza, lasciando la villa e tutti i suoi abitanti al più completo sbaraglio.

Quella mattina vidi la carrozza sparire in lontananza sotto ad un cielo plumbeo e in quel momento seppi che era finita. Non più ordini da eseguire, non più tre piatti al giorno né un letto caldo in cui dormire. Anche la servitù superstite stava raccogliendo i pochi averi per andarsene il prima possibile. Il terrore di un futuro incerto e della malattia che strisciava subdola mietendo vittime attorno a me mi lasciò sconcertato e in quel vuoto l'unico pensiero concreto che riuscì a formulare fu che non avrei più rivisto la piccola Claudette.

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Capitolo 3
*** Il mondo ridotto a un pigolio ***


Quando riaprii gli occhi per la prima volta ero immerso in un caldo buio e avevo le orecchie piene di un infernale pigolio. Cercai di girarmi per capire cosa stesse succedendo ma i miei movimenti erano goffi e l'equilibrio vacillava. Sarei senz'altro finito a terra se non fossi stato circondato da grandi cose morbide e, come mi resi conto rabbrividendo, VIVE.

Preso da un attacco di ansia cominciai ad agitarmi nel buio sbattendo le cose morbide e frementi a destra e a manca, cercando una qualsiasi uscita da quell'inferno. Inferno... Probabilmente si trattava di quello. Perfetto! Ero morto e mi ero ritrovato all'inferno! Un inferno claustrofobico e assordante, non doloroso ma senza dubbio deleterio per la mia povera mente già provata da giorni o forse interi anni di oblio confusionario.

E Claudette?

Claudette dov'era?

Cominciai ad urlare il suo nome ma la mia voce si perse in quel babelico chiasso pigolante assieme ad ogni speranza di ritrovarla.

Che cosa avevo mai fatto...

 

D'improvviso il cielo si aprì e una cascata di luce inondò tutto accecandomi.

Come ricominciai a recuperare la vista mi trovai circondato da pulcini GIGANTI, grandi quanto un uomo, che si agitavano alla luce pigolando disperati e con i corpi che tremavano a un ritmo cardiaco improvvisamente accelerato. Momentaneamente pietrificato e con gli occhi enormi di terrore, alzai piano lo sguardo e una faccia enorme comparve dal quadrato di luce sopra di noi.

Ecco, quello doveva essere il giudizio eterno, ero fregato.

L'enorme faccione in controluce rimase fermo a contemplare gli esseri che mi circondavano poi sembrò sorridere e scomparve così com'era arrivato, lasciando il posto ad un cielo pieno di aquiloni.

Ero sempre più confuso.

Ben strana rappresentazione dell'aldilà mi era capitata! Se io mi ritrovavo all'inferno allora quello là in alto doveva essere il paradiso. In quel caso mi augurai con una fitta al cuore che Claudette si trovasse lassù a volare tra gli aquiloni.

 

Il pigolio, per quanto forte, venne presto sovrastato da un vociare allegro e da risate di bambini.

Mi guardai intorno alla ricerca di quelle voci umane, fortunatamente ignorato dai miei compagni di cella, ma quello che vidi furono solo alte pareti completamente lisce. Il mondo sembrava svilupparsi infinito oltre il bordo di quelle mura, là dove il cielo riempiva la visuale, ma era impossibile da raggiungere.

Se si trattava di un'altra tortura psicologia io...! Niente, non avrei potuto fare niente... Ma avrei ampiamente preferito le proverbiali fiamme con i diavoletti assatanati che inseguono i malcapitati peccatori con i forconi, accidenti! Almeno avrebbe avuto più senso per me di quello che stavo vivendo in quel momento...

Mi accovacciai serrando gli occhi e cercando disperatamente di pensare a quello che era successo. Doveva esserci una logica in tutto ciò. Come era capitato? Cosa avrei dovuto fare adesso? Dove avrei potuto trovare Claudette?

Dopo quelle che mi parvero ore intere senza che la mia mente avesse risolto un granché alzai nuovamente lo sguardo ed ecco ricomparire il faccione gigante, accompagnato da una mano che calò e prese con delicatezza una delle creature piumate, portandola al di là delle pareti mentre quella pigolava terrorizzata.

Sgranai gli occhi mentre il cuore aveva cominciato ad agitarmisi in gola: “Salvezza o tortura?” mi domandai non senza una certa preoccupazione. Presto la mano ridiscese portando via con sé un altra creatura terrorizzata dal mucchio. Sarebbe venuta anche per me?

Confuso ed agitato continuai ad osservare con preoccupazione la mano che calava e portava via i miei compagni pigolanti. Il cuore continuava battermi come un tamburo nelle orecchie e picchi di panico mi gelavano il sangue a ondate.

Salvezza o tortura?

Cominciai a pensare che l'una o l'altra che fosse sarebbe stata sicuramente meglio che stare lì in mezzo in perenne attesa. Inoltre dovevo vedere se Claudette era da qualche parte la fuori, non mi sarei arreso così presto. In fondo cosa mai avrebbe potuto capitarmi di peggio se già ero morto?

Forte di quei pensieri raccolsi tutto il coraggio che mi rimaneva e non appena la mano ricomparve mi buttai sulla sua traiettoria scansando i pulcini giganti che ricominciarono a pigolare ancora più forte.

La mano sembrò titubare sospesa sopra di me, per un istante pensai che non mi avrebbe preso, o che mi avrebbe schiacciato... e il cuore ricominciò a battere all'impazzata. Ma fu solo per un istante, poi la mano mi afferrò senza troppi complimenti.

Mi sentii sollevare e il cuore continuò ad accelerare per la paura, mai avrei creduto che un cuore umano potesse battere ad una tale velocità. Che poi, se ero morto come facevo a sentire i battiti del mio cuore? C'era qualcosa che non andava in tutto ciò e la testa doleva galleggiando nella più completa incomprensione.

Va bene, forse non era stata proprio una buona idea, e senza rendermene conto cominciai a divincolarmi rischiando di ricadere e spiaccicarmi in mezzo a quel mare di piume assordanti.

Come superai il bordo il fiato mi si mozzò. Oltre la mia prigione il mondo dell'aldilà era davvero simile a quello che avevo lasciato! Solo decisamente più grande. Prati e collinette profumati di primavera si estendevano a perdita d'occhio punteggiati da tovaglie per picnic su cui stavano sedute a mangiare e conversare allegramente intere famiglie di giganti, mentre poco più in là bambini giganti facevano volare aquiloni altrettanto giganti aiutati dai loro papà giganti.

Mentre mi guardavo attorno ancora sconcertato venni depositato in equilibrio su un palmo largo quanto una tavola ma vacillai nuovamente e caddi di lato. Il gigante mi circondò con l'altra mano impedendomi un volo di diverse decine di metri e io mi lasciai sfuggire un sospiro di sollievo mentre cercavo di rimettermi in piedi sulle mie gambe. Solo che quelle che vidi non erano gambe.

Zampe! Avevo due zampe! Zampette secche, rugose e palmate, ma pur sempre non-gambe!

In preda al panico mi guardai le mani trovando solo una massa informe di prime piume e non appena mi tastai la faccia vi trovai una grossa protuberanza liscia a forma di becco.

D'improvviso un dubbio atroce cominciò a farsi largo nella mia mente mentre una consapevolezza sempre più grande mi invadeva.

Non era il mondo a essere gigante o infernale... Ero io a essere uno stramaledetto pennuto!

 

L'uomo mi teneva con due mani mentre camminava, facendo attenzione a non sballottarmi troppo e guardandomi con occhi preoccupati. Io mi ero improvvisamente afflosciato, schiacciato da una realtà troppo grande e difficile da accettare. Ero un papero... Un papero! Che razza di vita aveva un papero?! Volevo tornare indietro, avrei dato qualsiasi cosa per riavere la mia forma umana! Avrei fatto... Poi la mia mente divenne completamente bianca.

Davanti a me una bambina dai morbidi boccoli e un piglio selvatico mi guardava con occhi estasiati.

L'uomo mi depose delicatamente tra le sue braccia e lei mi accolse con le attenzioni di una madre col suo piccolo. Mi sorrideva teneramente e io non riuscivo a distogliere lo sguardo dai suoi grandi occhi scuri.

-Sembra proprio amore a prima vista!- commentò l'uomo ridendo mentre sedeva accanto alla moglie.

-Hai già scelto un nome?- chiese quest'ultima rivolta alla figlia.

La bambina annuì convinta.

Emozioni confuse presero a vorticarmi nello stomaco e un senso di irrealtà mi avvolse la mente mentre tendendo le orecchie aspettavo di sentire il suono della sua voce.

-Martina, la chiamerò Martina!- disse lei sorridendomi soddisfatta.

 

Nell'udire quella frase così semplice eppure così dolorosa uscire dalla bocca di Claudette, le parole della strega mi divennero improvvisamente chiare.

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Capitolo 4
*** Il circo dei sogni ***


Col passaggio della pestilenza il mondo aveva cambiato volto.

La quiete irreale nelle campagne aveva l'amaro sapore della malattia mentre i roghi contro la diffusione del morbo avevano dato luogo a incendi che avevano arso buona parte dei campi circostanti. In quella triste desolazione pure il sole sembrava non riuscire a brillare più nello stesso modo.

I superstiti andavano avanti con quello che trovavano, prede dell'istinto primitivo di sopravvivenza, si erano sparpagliati nelle fattorie abbandonate spostandosi come animali randagi da un posto all'altro alla continua ricerca di cibo. Non c'erano più regole civili o morali tra quelle rovine, solo la legge del più forte regnava incontrastata mentre la voglia di rimboccarsi le maniche e ricominciare ancora stentava a sbocciare.

 

Dall'abbandono della villa anch'io avevo cominciato a vagare per le campagne svuotate in completa solitudine. All'inizio cercai di tornare in quella che era stata la casa dei miei genitori, ma fu un tentativo vano e quantomai doloroso. Non avevo più nessuno ad attendermi tra quelle mura né un altro posto in cui andare. Ero completamente solo e senza meta. Fu forse a causa di questo che senza accorgermene in un momento imprecisato della mia disperazione scivolai anch'io in quello stato d'animo comune a tutti i sopravvissuti e mi abbandonai completamente a quell'istinto primordiale con l'unico scopo: tirare avanti, un giorno dopo l'altro.

 

La salvezza sopraggiunse sotto forma di un colorato e rumoroso tendone da circo in una fredda mattina di inizio inverno.

 

Il mio errare mi aveva portato nei pressi di una cittadina ancora affollata e ridente che non sembrava aver subito le influenze venefiche della pestilenza. Quel posto era ricco di cibo e di vestiti e di tanti altri oggetti di cui nessuno notava la mancanza e non fu difficile per me, piccolo e svelto come ero, imparare a soffiare sotto il naso di fornai rubicondi e massaie indaffarate ogni genere di mercanzia. Mi ero fin creato un rifugio sotto una vecchia stalla in disuso con l'obiettivo di fermarmi in quel paese della cuccagna il più a lungo possibile.

Ma non avevo tenuto conto dell'inverno.

Le gelate che fino ad allora avevano risparmiato la mia vita da vagabondo cominciarono a presentarsi repentine una notte di metà dicembre, cogliendomi impreparato nel sonno. Coi piedi congelati e la tosse che mi scuoteva i polmoni sempre più di frequente mi resi conto che le uniche cose che mi avrebbero salvato, un posto caldo e asciutto e un buon guaritore, non potevano essere rubate.

 

La mattina in cui arrivò il circo ambulante di Madame Petunia la temperatura era addirittura più bassa del solito. Il gelo delle notti precedenti mi era penetrato fin nelle ossa e la febbre mi gonfiava la testa come un pallone. Sapevo che non avrei resistito un'altra notte e quel grande radunarsi di gente distratta dalle esibizioni dei saltimbanchi era forse l'unica occasione che mi era rimasta.

Entrai di soppiatto nel circo mentre le persone erano rapite dalle evoluzioni degli acrobati e cercando di tenere a freno i colpi di tosse cominciai a tagliare borse e tasche facendo scivolare in silenzio monete di tutte le forme e dimensioni nella mia saccoccia. Ero concentrato al massimo per conservare abilità e velocità contro gli effetti debilitanti della febbre. Troppo concentrato.

Una mano grande come una padella calò su di me e mi sollevò da terra come se non pesassi niente. -Qui non si ruba!- tuonò con accento russo la voce possente del suo proprietario, un uomo grande e grosso con tanti muscoli che sembrava avesse solo quelli. Mi tolse la refurtiva di mano e la consegnò al pagliaccio al suo fianco mentre il suo sguardo severo non mi si scollava di dosso. Io non opposi alcuna resistenza, avevo gli occhi sbarrati dal terrore e con tutti i muscoli improvvisamente molli mi sentivo uno straccio appeso che stava per essere strizzato.

L'omone mi portò nel retro rinchiudendomi in una puzzolente gabbia per animali in attesa della mia punizione. L'ultimo pensiero che formulai fu la viva speranza che non arrivassero animali feroci a farmi compagnia, poi la febbre ebbe la meglio e tutto divenne buio.

 

Mi risvegliai sotto calde coperte morbide in una stanza di tende color del sole.

Avevo un panno fresco sulla fronte e nell'aria aleggiava un profumo di zuppa che non sentivo più da molto molto tempo. Mi alzai faticosamente con le ossa che dolevano ad ogni movimento e mi guardai intorno spaesato alla ricerca dei miei ultimi ricordi. Una delle tendi cangianti si mosse rivelando un donnone tanto largo quanto alto, dall'espressione truce su un volto barbuto ma dalla voce di burro.

-Vedo che va un po' meglio.- mi disse con un sorriso dolce che stonava con il resto della faccia porgendomi una ciotola di zuppa fumante.

Senza rispondere agguantai il cibo offerto e lo trangugiai con una voracità animalesca.

La donna attese con pazienza che avessi finito (non che dovette aspettare molto), poi con fare materno riprese la ciotola vuota e mi ripulì con un fazzolettino.

-Io sono Madame Petunia, matriarca e direttrice di questo circo. Come ti chiami e perché stavi derubando i miei ospiti?-

Rosso di vergogna non seppi cosa risponderle fin quando assieme a lacrime troppo a lungo trattenute venne fuori tutta la storia di malattia e solitudine che mi aveva accompagnato negli ultimi mesi.

La donna dal volto truce non batté ciglio e rimase ad ascoltare in silenzio tutto quello che avevo da dire, alla fine la sua espressione era uguale, solo gli occhi avevano un inclinazione leggermente più gentile e con mio grande stupore la sua voce di burro mi chiese se mi sarebbe piaciuto lavorare in un circo.

Accettai senza pensarci. Per la prima volta da quando avevo lasciato la villa mi sembrò di scorgere uno spiraglio di luce su quello che poteva essere il mio futuro. E non sarebbe di certo stato in una tana gelata sotto una vecchia stalla.

L'espressione di Madame Petunia si allargò in un sorriso soddisfatto, ma non meno truce, e se ne andò lasciandomi riposare in quel morbido giaciglio mentre sognavo sogni da circo.

 

Grazie alle amorevoli cure ricevute non ci misi molto a tornare in piena forma.

Come fui in grado di rimettermi in piedi venni caricato su un cavallo per mettere alla prova le mie doti ginniche e l'equilibrio. Il susseguente eclatante capitombolo fu tutt'altro che inaspettato. Ma non dovevo preoccuparmi “con qualche anno di serio allenamento diventerai un perfetto cavaliere equilibrista, hai la stoffa, si vede!” mi fu assicurato.

Ma quanto serio non l'avevo neanche immaginato.

Tutti i giorni, TUTTI, cavalcavo, cadevo, mi rialzavo e cavalcavo di nuovo. Tutti i giorni, dall'alba fino al tramonto, cambiavano il cavallo perché era stanco poverino, ma io no, dovevo continuare! Era così estenuante da farmi rimpiangere i giorni passati all'addiaccio col gelo che mi risaliva dai piedi fino alle viscere e la fame che mi contorceva lo stomaco quando non ero riuscito a procurarmi niente. Almeno quest'ultima non era più un problema. I fantastici pranzi preparati da Madame Petunia erano così celestiali da far dimenticare ogni stanchezza. La donna, che decantava sempre le proprie origini italiane, aveva il mare che le scorreva nelle vene e qualunque cosa preparasse scaldava il cuore con il suo sapore mediterraneo. Fu proprio grazie a questo che suo marito, il simpatico nano che presentava gli artisti coi loro numeri, si era innamorato di lei.

Si erano conosciuti a Verona, città di Romeo e Giulietta, mentre lui girava il mondo in cerca di fortuna. Lì contro il volere del padre di lei si erano sposati e avevano deciso di fuggire insieme tirando su qualche moneta esibendosi per strada. E proprio per strada avevano raccolto man mano tutti i membri di quella che ora era la loro grande famiglia circense.

Questo almeno fu quello che mi raccontò lui, quanto di tutto ciò fosse reale o leggenda credo che non lo scoprirò mai.

Oltre a loro c'erano i funamboli gemelli Flick e Flock, totalmente identici e assolutamente decisi a non andare mai d'accordo, dovevano quegli strani nomignoli ad un gioco che facevano da piccoli e a causa del quale avevano dimenticato i loro veri nomi. C'era Boris o il “Macigno”, l'omaccione con la testa pelata e i baffi a spazzola che mi aveva beccato mentre rubavo, nonostante l'aspetto titanico e la capacità di sollevare ogni genere di peso straordinario era incredibilmente gentile. E c'era Adrien un pagliaccio pelle e ossa con un eccezionale allegria interiore, non si struccava mai per non mostrare le cicatrici da ustione che aveva sul volto e portava sempre abiti più grandi perché fossero da incentivo alla sua pancia ad ingrassare un po'.

A completare lo strambo quadretto c'erano Ruben, giocoliere di 83 anni, Odette, cartomante sordomuta che prediceva il futuro a gesti, Lucien, che con la sua voce angelica ammansiva anche gli animali più feroci e l'esotica Tiana, la ragazza dei serpenti, una giovane di un paio di anni più grande di me, dalla pelle scura e gli occhi verdi come smeraldi incandescenti, era fuggita agli schiavisti ed era approdata non si sa bene come sulle coste francesi dove Madame Petunia l'aveva raccolta.

Nonostante la differenza dei suoi membri e l'assenza di veri legami di parentela la combriccola circense poteva vantare una coesione e una complicità in cui raramente ci si imbatteva e la cosa mi lasciò piacevolmente sorpreso.

Fu una sera di quelle, mentre a cena come sempre imperversava il delirio, che capii.

Capii che avrei passato il resto della mia vita con quella banda di fenomeni da baraccone e che li avrei amati come una vera famiglia.

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