As Real As A Dream Can Be

di Gumball
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chapter I - (Not) In the Dark ***
Capitolo 2: *** Everything falls (not) in place ***



Capitolo 1
*** Chapter I - (Not) In the Dark ***


Chapter I
(Not) In the Dark
 
Erba. Solo questo appariva davanti ai suoi occhi. Erba verde, di quella così profumata che quando respiri ti penetra fin nelle ossa e tu non puoi fare niente per far sì che ciò non avvenga. Ma in fin dei conti era una sensazione che a Ciel* piaceva. Si sarebbe letteralmente tuffata su quel manto soffice… se solo non avesse saputo che tutto quello che la circondava in quel momento non era reale. Sapeva che stava sognando. Chissà come, riusciva sempre a distinguere il sogno dalla realtà. Non è da tutti. Di solito quando siamo completamente immersi nel sonno, perdiamo la concezione della realtà e non sappiamo più cosa sta davvero succedendo e cosa è solo frutto della nostra immaginazione; ma Ciel era speciale in questo campo.
Aveva imparato ad osservare i dettagli e a saper distinguere la realtà dalla fantasia. Era stata costretta ad insegnarselo, nel momento in cui si era resa conto che stava cominciando ad impazzire.
I suoi sogni infatti erano sempre stati così particolari, così impegnativi, così… incredibilmente reali; di quelli che nel momento in cui ti svegli sei così sottosopra, così scosso, che l’unico sentimento che riesci a provare è rabbia. Ciel aveva sempre provato una forte rabbia verso se stessa. Era per questo che al mattino era sempre così acida. Perché si odiava. Odiava il fatto di essere una persona così semplice e contemporaneamente così complicata quando si trattava delle sue notti. Notti in cui dormiva profondamente e in cui perdeva il controllo sul proprio corpo, sulla propria fisicità, sulla propria anima. In effetti, sembrava proprio che fosse questo ad allarmarla. Si sentiva come se qualcuno si avvicinasse di soppiatto e piano piano cominciasse a staccarle, lembo dopo lembo la propria anima dal corpo. Provocava un dolore atroce e le succedeva tutte le notti, nel suo letto.
Fino ad ora. Non era notte, non era nel suo letto… e stava comunque accadendo.

Appena si era resa conto di aver perso conoscenza aveva avuto paura; si era ritrovata sola nel solito stanzino costruito dalla sua mente: un antro completamente buio, non si vedeva niente né si sentiva alcun suono; poteva percepire, solo il freddo la struttura della sedia di metallo sulla quale si trovava seduta, completamente nuda. Sapeva che da un momento all’altro sarebbe arrivato,  il butcher**, come lo chiamava lei. Aveva sentito la sua presenza avvicinarsi, aveva percepito i brividi, con cui negli anni aveva fraternizzato, scorrerle lungo la spina dorsale; aveva sentito i battiti del proprio cuore accelerare, il respiro trattenuto dai suoi polmoni dilatati  che lasciava spazio a quello affannoso di quella creatura in avvicinamento. Non l’aveva mai visto in volto, ammesso che ne avesse uno. In verità non sapeva neanche se esistesse o se fosse frutto della sua immaginazione, così come tutti i rumori che lo accompagnavano. I passi sempre più strascicati le avevano fatto capire che mancava poco. Ciel aveva strizzato gli occhi. Non voleva vedere, non aveva mai voluto farlo. Si era sentita afferrare, non era in grado descrivere da cosa,  e d’istinto si era conficcata le unghie nelle cosce. 
Aveva iniziato a sentire l’attaccatura dei capelli staccarsi lentamente, centimetro per centimetro, fino a lasciare il cranio nudo e indifeso. Dire che faceva male come se un leone la stesse dilaniando sarebbe stato un eufemismo.  Si era morsa il labbro fino a farlo sanguinare, pur di non gridare. Subito aveva portato una mano alla testa, ma i suoi capelli erano ancora lì e non c’era niente ad afferrarli, proprio come sempre. Eppure si era sentita già più vuota. Non aveva avuto il tempo di formulare un pensiero sensato, che il polpaccio sinistro aveva cominciato a pulsarle, i muscoli contratti e il sangue che pompava come non mai. A quel punto non era più riuscita a trattenersi, aveva spalancato la bocca e aveva lanciato un grido carico di rabbia e dolore.
Nello stesso istante in cui l’urlo aveva lasciato le sue corde vocali si era pentita di averlo fatto; immediatamente il processo di separazione era aumentato, si  era sentiva cadere a brandelli una parte dopo l’altra: guancia, fronte, schiena, coscia, unghie. Aveva sentito le lacrime scorrerle sul volto, bruciando come un fiume di lava sulla sua carne viva senza protezione, ma sapeva che era tutto frutto della sua immaginazione, e ne avrebbe avuto la conferma se solo avesse avuto le forze di alzare il braccio e toccarsi il viso, ma la sola cosa che era riuscita a fare era crollare sulle ginocchia.

Un lampo di lucidità attraversò la sua mente, quel tanto che bastava perché Ciel alzasse lo sguardo offuscato verso il cielo. Quello le apparve limpido e azzurro, senza che neanche una nuvola andasse a disturbare quell’omogeneità.
Tutto intorno a sé vide solo questo: erba. Mosse impercettibilmente la mano, sfiorando il manto morbido. Poi vi si accasciò  sopra e, esausta, chiuse gli occhi.


NOTA DELL’AUTORE
*Ciel: si pronuncia “Sièl
**Butcher: è inglese, significa Macellaio, Massacratore

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Capitolo 2
*** Everything falls (not) in place ***


Chapter II
Everything falls (not) in place
 
Quando riuscì a separare le palpebre e a permettere ai suoi occhi di ricominciare ad osservare ciò che la circondava,  Ciel si rese conto che doveva essere passato un bel po’, dato che il tratto erboso su cui si era lasciata cadere, priva di energie, aveva preso la sua forma. Ovunque in torno a lei, la natura si esprimeva nella sua perfetta semplicità: non alcuna montagna, solo collinette , nessun rumore che lasciasse intendere la vicinanza di un corso d’acqua, non un albero con della fresca ombra sotto cui ripararsi dall’abbraccio eccessivamente caldo del sole.
 Sapeva come funzionava, ogni volta era la stessa storia: si sarebbe alzata, avrebbe girovagato per un po’ per le varie colline basse e dai dolci pendii  ricoperti del mantello verde,  finché non avesse incontrato qualcosa sul proprio cammino, qualcosa di diverso, qualcosa che avrebbe attirato la sua attenzione. Quel qualcosa cambiava ogni volta, ma la sua posizione era sempre quella: dietro una delle collinette, non importava quale, una qualsiasi; una volta era un uccellino dall’ala spezzata che non emetteva alcun suono, un’altra era un filo d’erba decisamente troppo lungo per l’idillio che caratterizzava  quel posto, un’altra ancora era un sasso.
Indipendentemente dalla forma sotto cui si si rendeva manifesto cambiasse sempre, quell’imperfezione andava ad intaccare la magnificenza del posto in cui Ciel si ritrovava ogni volta che si abbandonava alla stanchezza. Nonostante fosse diventata ormai una consuetudine per lei subire l’arrivo del butcher e vedersi catapultata lì, dove l’unica cosa che i suoi occhi limpidi e azzurri potessero notare era erba, girovagare senza meta fino a trovare quel particolare fonte di distrazione, ogni volta era come se fosse la prima: ogni volta si ritrovava altrettanto spaventata, ogni volta il dolore e la rabbia non volevano lasciare il suo corpo, e ogni volta era persa nell’indecisione di quale percorso intraprendere.
Scelse di avviarsi vero una collinetta piuttosto bassa, sperando che anche l’ostacolo che avrebbe incontrato rispettasse le proporzioni della collina. Camminò per qualche minuto, in silenzio – non che ci fosse qualcuno con cui conversare, tanto per cambiare –, cercando di svuotare la mente e di non farsi troppe domande. Quando arrivò alle pendici della collina si fermò e fece un respiro profondo:

«Ci siamo» si disse.

Cominciò a costeggiare il fianco della collinetta, accelerando il passo progressivamente, fino a ritrovarsi a correre. Quando si rese conto di aver percorso un bel pezzo, si fermò ansimante un po’ per la corsa, un po’ per l’agitazione di vedere cosa avrebbe guardato questa volta per tutto il resto della notte, o giorno date le circostanze. Perché era quello che faceva. Individuava l’ostacolo, vi si avvicinava, magari lo toccava, o lo guardava e basta. Quando era qualcosa di vivo, come l’uccellino, ci parlava anche, senza sperare di ottenere risposta ovviamente, ma coglieva l’occasione di confidarsi con qualcuno, o qualcosa, che tanto non avrebbe più rivisto, di riversargli addosso tutta la rabbia che provava, tutta la sua esasperazione, tutte le sue domande senza risposta. Perché a lei? Perché doveva fare questi sogni, che più che sogni erano incubi terribili? Perché non poteva sognare scene romantiche con il ragazzo dei suoi sogni, o uscite con le amiche, o qualsiasi altra situazione degna di una diciassettenne? Era troppo voler sapere perché doveva essere condannata a questa perenne sensazione di inadeguatezza, la ragione questa continua familiarità con il termine “strana” che tutti le avevano sempre appiccicato addosso, come se fosse un cartellino, che tuttavia lei sentiva suo come nessun altro termine poteva calzarle?
Ora era lì, continuando a voltarsi alla ricerca di qualsiasi particolare che potesse evitare che si annoiasse troppo. Provava sensazioni contrastanti: una parte di lei le diceva che forse era una buona cosa quella di non trovare nulla; forse voleva dire che finalmente non c’era più nulla da fare lì, e non sarebbe più tornata; tuttavia l’altra parte sapeva bene che l’unica spiegazione possibile era che non stava osservando bene, e che sicuramente se avesse solo aguzzato un po’ di più gli occhi, avrebbe trovato quello che cercava. Perché quella routine dell’orrore era troppo perfettamente pianificata per ammettere eccezioni.
Il cervello stava quasi per scoppiarle a causa di tutti questi pensieri, quando un luccichio attirò la sua attenzione. Si avvicinò cauta, era un po’ spaventata, non era mai successo che qualcosa luccicasse lì. Dovette cercare per qualche secondo, dato che il bagliore era piuttosto tenue, ma alla fine riuscì a trovarla; era così piccola, Ciel non riusciva a credere di essere riuscita a percepirne la luminosità. Era una graffetta di metallo, di quelle che si usano per tenere uniti i fogli volanti. Tipico oggetto da ufficio, insomma. La domanda era: cosa ci faceva lì? Un oggetto artificiale in mezzo a tutta quella natura.   
«Stai scherzando? Mi stai dicendo che dovrò osservare e conversare con una graffetta? Davvero? Oddio Ciel, stai anche parlando da sola. –prese un bel respiro – Dunque, una graffetta. Benissimo. Vorrà dire che passerò le prossime ore fissando una graffetta.»
Così dicendo, si chinò sull’oggettino e allungò la mano per afferrarlo, mentre i fili d’erba le solleticavano il palmo. Ma non appena Ciel entrò in contatto con la graffetta, sentì una forte scossa e la testa cominciò a girarle vertiginosamente.

«Ma che…?», farfugliò qualche parola senza senso, per poi ritrovarsi a girare su se stessa, prima lentamente poi sempre più veloce, più veloce, più veloce... fino a che non riuscì più a distinguere il paesaggio dal cielo.
Tutto era un vortice grigio, esattamente come il disco di Newton*.
Ciel era profondamente turbata dalla situazione, detestava non avere il controllo di sé stessa; già tutto ciò che era costretta a vivere durante il sonno, per volere di non si sa chi, era assurdo. Non riusciva a formulare pensieri coerenti, come se fosse tutto disconnesso, come se tutti i pensieri che aveva in mente non fossero suoi, ma appartenessero ad altre mille persone.
Sentiva gli occhi bruciarle, e le unghie delle mani sul punto di staccarsi per quando stava andando veloce. Ma non riusciva a fermarsi. Non aveva potere su se stessa proprio nelle situazioni in cui necessitava di averlo, e questo la distruggeva e confondeva ancora di più. Improvvisamente le parve di vedere qualcosa di diverso dal grigio che la circondava ormai da diversi minuti; qualcosa di sfuggita, come un’immagine, che girava con lei, ma nella direzione opposta. Ciel non aveva la minima idea di cosa stesse succedendo, era la prima volta che le accadeva qualcosa del genere: era tutto così freddo. Era solita starsene seduta sull’erba ad osservare “l’ostacolo del giorno”, senza formulare pensieri eccessivamente complessi, anche perché le circostanze stesse e il trauma della separazione appena vissuta non lo permettevano. Invece questa volta c’era qualcosa di sbagliato. Come se qualcuno avesse manomesso il sistema di funzionamento dei suoi sogni, se così li si poteva chiamare. Questo pensiero era una costante nella sua mente, era ovvio che ci fosse qualcosa che non andava in lei; le persone normali facevano sogni diversi ogni notte, lei invece no. L’immagine sfrecciò ancora una volta davanti agli occhi di Ciel, che questa volta riuscì a distinguere qualche particolare: in una stanza, abbracciati, c’erano una donna e un ragazzo.


NOTA DELL’AUTORE
*Disco di Newton:  è un oggetto circolare, caratterizzato da spicchi di colore diverso. Nel momento in cui viene messo in moto e quindi fatto girare velocemente, l’unico colore che il nostro occhio  percepisce è il grigio.

 

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