I fantasmi del passato

di Hanairoh
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


I fantasmi del passato



Dolore.
Tanto dolore.
E il fuoco ardente.
Intorno a me non c’era nulla, o forse ero io che non riuscivo a vedere. Mi sentivo bruciare, come se qualcuno mi stesse iniettando dell’ammoniaca nelle vene; il dolore era insopportabile, volevo morire…Non riuscivo a capire dove mi trovassi, o cosa mi stesse succedendo…non sapevo nemmeno il mio nome. A tratti riprendevo lucidità, riuscendo a pensare razionalmente a ciò che avrei potuto fare quando il dolore fosse cessato. Durante questi momenti, sentivo delle voci che parlavano, ma non sapevo quale, o chi, fosse l’oggetto della discussione.
Dopo quella che mi parve un’eternità, il dolore cominciò a diminuire, e il fuoco a spegnersi. La mia agonia stava per terminare.
Lentamente, sentivo che le mie energie stavano ritornando. All’improvviso, avvertii una forza incredibile scorrermi dentro; mi sentivo rinvigorita, invincibile…e affamata.
Che mi era accaduto?
Cercai di aprire gli occhi, ma fui costretta a richiuderli immediatamente, c’era troppa luce. Dopo qualche tentativo, riuscii a tenerli ben aperti, e osservai il luogo in cui mi trovavo. Il divano di pelle nera sul quale ero sdraiata e la stanza che lo ospitava -più simile ad un negozio di dischi, visti gli interi scaffali di cui erano colmi- non mi erano affatto familiari. Ma ancor meno familiari mi erano quegli occhi di topazio che mi osservavano, sconvolti ed apprensivi.

 
 
 
Angolo dell'autrice:
 
'Sera! E così, Hanairoh è tornata con uno sclero di mezzanotte che spera vi piaccia. Vorrebbe leggere tante recensioni, in modo da trovare la forza di postare il primo capitolo...Vabbe', smettiamola con gli scleri, dai...XDXD
Ringrazio tutte quelle che hanno recensito SOMEBODY HELP ME e NUMB e chi le ha inserite tra i preferiti!
Un bacio a tutte,
Oriana-------> si, questo è il mio vero nome, ma se volete chiamatemi Hanairoh oppure Holly ^^

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Che bello, quante recensioni! Non me lo aspettavo proprio, ma sono felice che vi sia piaciuta! Ora posto il secondo capitolo. Commentate, mi raccomando!
 
 
 
 
 Nella stanza scese il silenzio. Edward si era voltato nella mia direzione, e mi guardava in modo strano, come se si sentisse in colpa.
“Mi…mi dispiace”, mormorò, sinceramente dispiaciuto.
I muscoli del mio corpo erano paralizzati, ma non sapevo se fosse per l’informazione appena ricevuta, o per l’assurdità della circostanza. I miei pensieri volarono immediatamente alla carcassa del cervo che ancora occupava lo spiazzo davanti alla casa. Ripensai al calore da esso emanato, alla sensazione di quel liquido caldo in gola; fissai i miei vestiti, macchiati di terra e di sangue. Del sangue che avevo bevuto.
“Tu…tu sei come me?”, sussurrai piano, sperando con tutta me stessa che quello fosse solo uno scherzo di cattivo gusto. E invece…
“Si”.
Oh mio Dio. Era un pazzo. Mi trovavo in una casa sperduta in mezzo alla foresta, da sola, in compagnia di un estraneo, e per di più pazzo; all’apparenza, sembrava un ragazzo come tanti altri, a parte la bellezza sconvolgente che avrebbe lasciato a bocca aperta chiunque. Ma sapevo che non bisogna limitarsi a giudicare dall’aspetto esteriore. Sotto quella maschera perfetta, poteva celarsi chiunque, anche un folle. Nonostante i cambiamenti che avevo subito, compresa la mia sconsiderata passione per il sangue e la straordinaria forza, mi rifiutavo di pensare che fossi io la pazza. Probabilmente non erano nemmeno eventi reali; forse avevo battuto la testa e, oltre ad aver perso la memoria, quelle non erano altro che allucinazioni dovute allo shock. Si, doveva essere così.
Dovevo fuggire, e alla svelta. Già, ma come? Non avevo niente con me. Potevo fare solo una cosa. Forse non sarebbe servita a nulla, ma, come dice il proverbio, tentar non nuoce.
Cercando di mantenere l’espressione impaurita e disorientata di prima, in modo da non insospettirlo, mi alzai lentamente e mi diressi verso l’apertura principale, ormai non più sigillata dalla porta. Vidi Edward scattare verso di me, ma, non appena comprese che non avevo intenzione di uscire –o almeno, questo era ciò che volevo fargli credere- si rilassò. Anzi, rimase seduto sul divano e chiuse gli occhi, apparentemente stanco: sembrava addormentato.
Via libera, pensai.
Con un’agilità notevole, sgusciai fuori e, più silenziosamente possibile, cominciai a correre. Come prima, mi resi conto di tenere un’andatura assurdamente veloce, ma non me ne curai; mi costrinsi ad accelerare quando mi accorsi che tentava di starmi dietro. Sentivo la sua voce chiamarmi per nome, implorarmi di fermarmi. Che stupido, a pensare che gli avrei dato retta. Sfrecciavo nel bel mezzo del bosco, evitando alberi e cespugli con facilità; respiravo regolarmente, nonostante stessi correndo da parecchio. Non sentivo nemmeno il ritmo del cuore, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Ero sorpresa, ma non ancora del tutto rassicurata.
Poi, quando fui certa di averlo seminato, osai fermarmi e guardare indietro; mi trovavo nel cuore della foresta, circondata da alberi e piante di ogni genere, il canto degli uccelli come unica compagnia. L’aria era carica d’umidità, ma anche stranamente profumata. Odori di tutti i tipi, dai più dolci a quelli più acri, giungevano alle mie narici, risvegliando in me una specie di…istinto?
Ero meravigliata per l’acutezza improvvisa dei miei sensi: tutto mi appariva più chiaro, vedevo benissimo anche attraverso la vegetazione fitta, nonostante l’oscurità. Riuscivo a cogliere anche i suoni più deboli, come lo scroscio di un ruscello a poca distanza, come possedessi un sesto senso che mi permetteva di orientarmi persino nella marea soffocante di vegetazione.
Mi sentivo…libera. Libera come non lo ero mai stata. Risi, felice.
Ma la mia spensieratezza durò poco.
Improvvisamente, sentii qualcosa muoversi nei dintorni, cercare di farsi strada attraverso le piante. Dei passi attutiti dall’erba.
Mentre mi preparavo a scappare, nel caso si fosse trattato di Edward, successe di nuovo.
Una folata di vento portò alle mie narici un profumo nuovo, diverso dagli altri, invitante…irresistibile. Un aroma dolce come una pesca matura, e acre come un limone. Dentro di me, sentii ridestarsi quell’istinto che prima avevo tentato di ignorare; qualcuno, nella mia testa, cominciò a fare le fusa, come un gatto di fronte ad un bel piatto di pesce fresco. M’irrigidii, sorpresa dall’improvvisa voglia di scoprire chi fosse il proprietario di quel fantastico profumo.
Senza che glielo ordinassi, i miei piedi scattarono in avanti e si lanciarono tra le felci, come fossero dotati di vita propria; nonostante il bosco fosse tutto uguale, sembravano conoscere la direzione.
Corsi, finché non mi ritrovai davanti ad un uomo. Doveva avere circa una quarantina di anni; gli abiti erano sporchi e strappati, probabilmente si trattava di qualche escursionista solitario. I suoi occhi glauchi mi guardavano sorpresi, come fossi qualcosa di bellissimo, ma si ricompose subito.
“Ehi, va tutto bene? Ti sei forse persa?”, mi chiese educato.
Non risposi. Il suo profumo m’intontiva, mi stordiva; all’improvviso, non riuscendo più a controllarmi, cedetti all’istinto.
Gli saltai addosso.
Persino mentre lo immobilizzavo, incurante della sua faccia atterrita, non riuscii a non pensare a quello che era successo solo poche ore prima, nel giardino di casa Cullen. L’immagine del cervo morto continuava a scorrermi davanti agli occhi, veloce. Rividi con chiarezza la scena: io che lo guardavo, bramosa, io che gli saltavo in collo, io che facevo penetrare i denti nella sua pelle…io che mi nutrivo del suo sangue. Ricordai il disgusto che avevo provato dopo. Me ne rendevo conto persino in quel momento, mentre affondavo i denti nella carne del collo dell’uomo che si contorceva, senza riuscire a liberarsi, sotto di me.
Ero combattuta, era come se dentro di me ci fossero due persone: una che rifletteva me stessa, e che ragionava con buon senso. L’altra che rifletteva il mio lato oscuro. Un mostro. Un vampiro.
Una parte di me, quella morale, mi ordinava di smetterla, di fermarmi, prima che fosse troppo tardi. Ma la sua voce si perdeva, soffocata dal mio istinto selvatico e dalle urla della mia vittima. L’altra, selvaggia e bellicosa, faceva le fusa, urlava per essere accontentata, m’imponeva di non fermarmi, di continuare, di succhiare, fino all’ultima goccia, quel nettare divino, che non aveva niente a che vedere con quello del cervo. Non c’era confronto, erano su due livelli diversi.
La seconda ebbe il sopravvento.
Perciò, senza pensare alle conseguenze, senza curarmi del dolore che gli causavo, continuai a bere il sangue dell’uomo, con più foga e violenza di prima. Le urla erano strazianti, ma non ci badai. Oramai non riuscivo a pensare a niente, a niente che non fosse quel liquido rosso e delizioso che scorreva lungo il collo, sempre più freddo, dell’escursionista. All’improvviso, proprio nel momento di estasi maggiore, due forti braccia di marmo mi afferrarono da dietro, cogliendomi di sorpresa. Con la forza, venni allontanata dal corpo ormai esanime dello sconosciuto; urlai, ringhiai, tentai di scappare, ma ogni mia resistenza fu inutile. Ero furiosa. Chi osava interrompermi? “Ferma! Sono io! Ferma!”. Era Edward.
Ero talmente inebriata dal profumo dell’uomo da non essermi accorta del suo arrivo; un ringhio rabbioso nasceva dal mio petto. Un ringhio che fece accapponare la pelle persino a me.
Ero consapevole del velo di pazzia che offuscava i miei occhi, era come se avessi un attacco epilettico. Tentai di azzannare Edward, ma morsi solo l’aria; si era scansato all’ultimo secondo. Ero ancora imprigionata tra le sue braccia, non potevo muovermi di un millimetro.
“Smettila, dannazione! Ferma!”, gridò Edward, frustrato.
Cercai di fare come mi aveva detto, ma dentro di me imperversava ancora la feroce lotta tra le due metà di me stessa. La parte razionale stava lentamente prendendo il sopravvento, ma l’istinto non era stato soffocato completamente. Contro la mia volontà, le braccia si muovevano convulse, cercando di liberarsi; scalciavo per aria, urlavo, ma non servì a niente. E poi il mio sguardo cadde sui resti della mia preda: dal collo in giù, era tutto una macchia di sangue, sangue caldo ed invitante, che non faceva altro che aumentare la mia bramosia. Ma quando vidi il suo volto, smisi di dibattermi. Era contorto in una smorfia non solo di dolore, ma anche di…stupore. Gli occhi verdi avevano perso la loro vitalità, la scintilla che li faceva brillare era stata soffocata, soffocata per colpa mia.
Che cosa avevo fatto?


“Ssssh, calma, Bella, calma. Non è successo niente”, disse Edward, offrendomi un fazzoletto per asciugare il sangue che macchiava il mio viso. Avrei voluto che servisse ad asciugare le lacrime che, purtroppo, non avrei mai più potuto versare.
Gli lanciai un’occhiataccia. “E tu questo lo chiami niente?”.
Eravamo seduti sul divano del suo salotto; dopo aver sopportato, per un quarto d’ora, le mie grida isteriche e i singhiozzi –si fa per dire- incessanti, non mi aveva affatto rimproverata. Anzi, stava facendo di tutto per non farmi sentire in colpa. Per non farmi sentire un mostro.
“Be’, guarda che è successo a tutti di…inciampare, sai”. Sembrava a disagio.
Lo guardai, più sollevata di prima. “D-davvero?”.
“Si”.
Ma questo non bastava a calmarmi. Provavo ribrezzo per me stessa, per quello che ero diventata. Nulla avrebbe potuto placare il disgusto che ormai invadeva ogni fibre del mio essere.
Per distrarmi, parlammo.
Di un po’ di tutto. Mi raccontò della sua famiglia, di come fossero stati trasformati in…vampiri –ancora non riuscivo a pronunciare quella parola ad alta voce. Venni a sapere che esisteva un modo per convivere con il proprio istinto, cacciando animali; come avevo fatto io, poco dopo il mio risveglio. Ero strabiliata: esisteva, dunque, un modo per non sentirmi un mostro, continuando a vivere a contatto con…gli umani –era strano pensare a loro come un’altra razza, diversa dalla mia- e frequentandoli senza metterli in pericolo?
Scoprii che nessuno di loro aveva scelto spontaneamente questa vita. Chi avrebbe voluto barattare la propria anima in cambio dell’immortalità, una vita fatta di schiavitù e menzogne? Mi raccontò di quel poco che ricordava della sua vita passata; dell’epidemia di spagnola che si era diffusa a Chicago, la sua città natale, e di come fosse stato trasformato dal il capo del clan dei Cullen, Carlisle,. Parlò di come quest’ultimo fosse stato cambiato, quasi per errore, solo per essere stato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Di come Esme, compagna di Carlisle, si fosse suicidata per la morte del suo unico figlio, per poi essere salvata –se salvezza era- da lui. Di come Rosalie, una delle sorelle di Edward, fosse stata strappata dalla vita dall’uomo che amava. Di come il marito, Emmett, fosse stato trasformato da Carlisle. Di come Alice e Jasper, suoi fratelli adottivi, si fossero presentati alla loro porta, molti anni prima. E più parlava, più il suo racconto mi affascinava.
“E questo è quanto”, concluse.
Una domanda mi sorse spontanea, ma preferii tacere. Non mi sentivo ancora in grado di affrontare un argomento simile, almeno non prima di essermi completamente abituata alla mia nuova vita. Ma lui notò la mia espressione afflitta.
“C’è forse qualcosa di cui vorresti parlare, Bella?”. Si morse il labbro.
Scossi la testa. Non mi sentivo pronta.
“Dai, a me puoi dirlo, lo sai”.
Respirai a fondo, tentando di controllarmi meglio.
“Chi mi ha ridotta così?”, mormorai, non molto ansiosa di sapere la risposta. Che cosa importava, sapere chi mi aveva trasformata? Ormai il danno era stato fatto, non potevo mica tornare indietro. Ma la sua espressione mi incuriosì. Sembrava di nuovo in difficoltà con le parole. Stavolta fui io, a spingerlo a proseguire.
“Ecco…noi…noi…non lo sappiamo”. Prese a fissarsi le punte delle scarpe.
“Noi…vi abbiamo trovati nel bosco, non molto lontano da qui. Lui…era sopra di te, e non appena ci siamo resi conto di chi fosse e cosa ti stesse facendo, te lo abbiamo levato di dosso, ma ormai era troppo…”.
Dire che ero sconvolta sarebbe riduttivo. Ero talmente incredula da non sentire il rombo di un motore di una macchina che stava arrivando. Lui s’irrigidì appena.
“Eccoli, sono loro”, annunciò.
Lo guardai, confusa. Come faceva a sapere chi fosse?
Edward notò la mia espressione interrogativa. A mo’ di spiegazione, disse: “Ehm, sai, il fatto è che io ho una specie di…potere. Posso leggere nel pensiero”.
Adesso ero veramente colpita. Poteri? Lettura del pensiero? I vampiri possedevano delle doti? Questo non lo sapevo. “Be’, la versione hollywoodiana non è molto veritiera, sai”, aggiunse, in risposta, forse, ai miei pensieri.
Avrei voluto rivolgergli un’altra domanda, ma in quel momento sentii delle voci nel giardino. Era la sua famiglia. D’un tratto, divenni tesa. Avevo paura di un loro rimprovero per quello che avevo fatto, anche se, stando a quello che Edward mi aveva raccontato, era capitato quasi a tutti.
Se ne accorse. Mi prese la mano e mi sorrise, per incoraggiarmi. La sua stretta m’infondeva sicurezza, e il suo sorriso bastò a sciogliermi. Abbassai lo sguardo, imbarazzata. Avevo l’aria di una bambina sorpresa a fare una marachella.
“Su, non preoccuparti. Sono sicuro che comprenderanno”.
Annuii, ma la tensione non accennava ad allentarsi. Tenendomi ancora la mano, mi guidò nel giardino. Appena misi il piede fuori, respirai migliaia di profumi diversi, da quello dell’erba fresca a quello dei fiori. M’irrigidii appena quando sentii il profumo invitante degli animali, ma riuscii a resistere; l’esperienza che mi ero lasciata alle spalle era stata sufficientemente traumatica.
In quel momento, dalla jeep parcheggiata non molto lontano, scesero sei figure, arruffate e con i vestiti imbrattati di sangue secco. Rimasi a bocca aperta.
Il conducente, un ragazzo muscoloso dai folti capelli neri, stava ridendo assieme ad una ragazza; era il genere di bellezza che distrugge l’autostima delle donne. Bella, formosa e con dei lunghi e fluenti capelli biondi. A giudicare da ciò che Edward mi aveva detto, doveva trattarsi di Emmett e Rosalie. Contemporaneamente, dall’altro lato dell’auto, scesero una ragazzina dai corti capelli corvini e un giovane alto e biondo.
“Alice e Jasper”, mi comunicò Edward, in risposta alla mia domanda inespressa.
Per ultimi scesero Esme e Carlisle. Lei era molto piccola e minuta, più rotonda dei figli; i soffici capelli color caramello le conferivano un’aria materna ed affettuosa. Carlisle, invece, era molto diverso: il volto tradiva la sua saggezza ed esperienza. I capelli erano di un biondo particolarmente chiaro.
Non si somigliavano affatto, eccezion fatta per Rosalie e Jasper, che avrebbero potuto passare per fratelli. Gli unici tratti comuni erano la pelle pallida e marmorea e le occhiaie profonde sotto gli occhi; e, ovviamente, tutti possedevano una bellezza sconvolgente, ma solo in quel momento capii a cosa fosse dovuta. Io non reggevo di certo il confronto. Quando mi ero vista per la prima volta allo specchio –quello che avevo mandato in mille pezzi- mi ero sembrata persino bella, ma ora dovevo ricredermi. In confronto a loro, dovevo apparire sciatta e normale.
Tutto d’un tratto, mi accorsi che Alice, la ragazza dai capelli corti, mi stava fissando, e così pure tutta la famiglia. Sostenni il loro sguardo inquisitore, mentre stringevo spasmodicamente la mano di Edward. Allentai la presa solo quando un gemito da parte sua mi fece capire che gliela stavo stritolando.
“Stai calma”, mormorò lui. “Non hai fatto nulla di cui tu debba sentirti in colpa”.
Avrei tanto voluto crederlo anch’io.

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Capitolo 3
*** Capitolo 1 ***


Wow! Non mi aspettavo tutti questi complimenti! Vorrei potervi ringraziare una ad una, ma non ne ho il tempo, quindi mi limito a postare il primo capitolo. Spero vi piaccia!

 

 

 

 

Immobile, davanti a me, c’era un ragazzo. Doveva avere circa la mia età
–non ricordavo quale fosse precisamente, ma di sicuro sui sedici, diciassette anni- e mi scrutava con un’espressione preoccupata. La cosa più sconvolgente era la bellezza struggente del suo viso, al cui confronto persino quello di un modello avrebbe sfigurato. La sua chioma rossiccia si era voltata nella mia direzione nel preciso istante in cui avevo aperto gli occhi. Profonde occhiaie violacee marcavano gli occhi color miele, creando un netto contrasto con la pelle bianca come il marmo.
“Finalmente”, mormorò con voce melodiosa e sollevata.
Io non dissi una parola, benché dovessi sembrare scortese e distaccata. Non capivo nulla.
“Ti prego, non avere paura”, continuò lui in tono dolce, come a volermi rassicurare. “E’ tutto finito, sei al sicuro, adesso”. Fece per avvicinarsi. D’istinto, mi alzai di scatto e indietreggiai rapidamente.
Troppo rapidamente.
Guardai quello strano e bellissimo ragazzo, stupita e ansiosa di scoprire cosa diavolo mi fosse successo. Ma lui non colse la mia silenziosa domanda, o forse fece solo finta.
“Comprendo il tuo smarrimento”, disse accennando un altro passo avanti. “ma non hai nulla da temere. Tutto ti sarà spiegato a tempo debito…”.
Risposi senza pensarci.
“Ma perché continui a dirmi di stare calma?”.
Rimasi sbalordita: non ricordavo nulla, eppure ero certa che quella che aveva appena abbandonato le mie labbra non fosse la mia vera voce. Era dolce come il miele degli occhi del ragazzo che mi stava di fronte, e melodiosa, un soprano.
Lui mi guardò triste.
“Isabella, non hai idea di cosa sia successo”.
La sua voce sembrava lontanissima. Per me, quelle erano parole senza senso…tranne una.
Isabella. Quel nome continuava a riempirmi la testa, come un disco che va avanti ininterrottamente.
Isabella, Isabella, Isabella, Isabella, Isabella…
All’improvviso, delle immagini cominciarono a scorrermi davanti agli occhi, nitide e precise come fotografie.
Vidi una ragazza seduta su di un divano, in un soggiorno, che leggeva un libro dalle pagine malconce e spiegazzate. I lunghi capelli castani le incorniciavano il viso a forma di cuore; la pelle color avorio assumeva una strana sfumatura sotto la luce che filtrava dalla finestra.
Ma ciò che mi colpì maggiormente fu il suo sguardo. Gli occhi color cioccolato, profondi ed espressivi, erano così ansiosi di leggere quelle pagine, così veloci da apparire sfocati.
Prima che potessi cogliere altri particolari, l’immagine sparì, lasciando il posto ad un’altra.
Vidi la stessa ragazza, solo lo scenario era cambiato: si trovava alla guida di una vecchia auto –lo si capiva dalla vernice rossa scolorita- che aveva un che di familiare. Molto familiare.
Ero tutt’altro che fanatica di macchine, ma di quella sapevo tutto: era un pick-up Chevy del ’53.

Ancora una volta, l’immagine sfumò. Ne seguirono altre, stavolta in sequenza rapida, tipo delle diapositive.
Una casa a due piani, isolata ai confini di un bosco…una marea verde di alberi, l’aria carica d’umidità…un edificio di mattoni rossi che sapevo essere una scuola…una sala mensa affollatissima e rumorosa…cinque ragazzi seduti ad un unico tavolo isolato…cinque ragazzi bellissimi, dalla pelle bianca e dagli occhi color ocra…gli stessi, medesimi occhi cerchiati da profonde occhiaie…tra di loro c’era anche il ragazzo che mi ero ritrovata di fronte dopo il mio risveglio…

Fu come ridestarsi da una specie di trance. Un attimo prima vedevo quelle immagini, e quello dopo mi ritrovai a fissare impaurita il ragazzo dai capelli rossi.
Adesso ero veramente spaventata; non solo mi trovavo in una casa che non conoscevo in compagnia di un perfetto –letteralmente- sconosciuto, ma avevo anche delle visioni!
“Si può sapere che cavolo è accaduto?”, urlai dopo aver racimolato quello che restava del mio coraggio. “Dove sono? Chi sei tu?”.
‘E chi sono io?’, aggiunsi mentalmente.
Avevo voglia di piangere, ma non ci riuscivo. Era come se…non avessi più lacrime da versare.
Il ragazzo sospirò e si avvicinò a me. Cercai di fare un passo indietro, fuggire da quella strana casa, ma lui non me ne diede il tempo; con un gesto fulmineo, mi aveva afferrato il braccio, e me lo teneva stretto, impedendomi di scappare.
“Lasciami andare, lasciami!”. Mi divincolai, urlai e tentai di spingerlo via, ma non me lo permise. Anzi, aumentò ancora di più la stretta, senza però farmi male. Avendo l’altro braccio libero, gli diedi uno schiaffo in pieno viso…e restai di sasso.
Il mio colpo lo aveva scaraventato dall’altra parte della stanza, con un volo di quattro metri. Atterrò sulla pila di CD accanto allo stereo, facendo cadere tutto per terra; quando si rialzò, notai che il suo respiro era irregolare. Sconvolta, mi voltai e corsi fino alla porta, ma lui mi afferrò per la vita.
“Ehi, calmati, calmati! Non c’è motivo di avere paura!”, continuava ad urlare, nel tentativo –vano- di calmarmi. Io, per tutta risposta, mi liberai con uno strattone, e lo feci cadere a terra, con una mano stretta al petto e una smorfia di dolore sul viso. Evidentemente, gli avevo fatto molto male, perché non riuscì a rialzarsi.
Mi ritrovai a correre per uno stretto corridoio che conduceva ad una rampa di scale; ma mentre passavo davanti ad uno specchio dalla cornice dorata, mi guardai.
Ero ammutolita.
La mia pelle era di un inquietante pallore, innaturale; i capelli ricadevano morbidi sulle spalle, come quelli di una bambola. Profonde occhiaie purpuree solcavano i miei occhi…neri. Ero bellissima…e allo stesso tempo terrificante.
Ma, esaminando più attentamente gli occhi, mi accorsi che, attorno alla pupilla, la sfumatura era diversa, più chiara.
Era rossa. Rossa come il sangue.
Lanciai uno strillo di orrore. Sentii il ragazzo urlare qualcosa dalla stanza, ma ero talmente impaurita che non gli badai. Scesi le scale ad una velocità impossibile; neanche un secondo prima ero nel corridoio, e adesso…

Raddoppiai la velocità, ma mi accorsi della porta d’ingresso chiusa solamente quando mi ci scontrai. Alzai le braccia, pronta all’impatto…che non avvenne. La porta era stata letteralmente scardinata, sfondata; di essa non rimaneva altro che un cumulo di schegge che, per quanto taglienti fossero, non riuscirono a scalfire la mia pelle.
“Isabella! Isabella!”. Sentii il ragazzo scendere le scale; arrivato lì, fissò ciò che rimaneva della porta. Mi afferrò per le braccia e mi trascinò di nuovo in casa.
Non provai nemmeno a opporre resistenza. Ero troppo sconvolta per scappare.
“Che mi è successo? Dimmelo, ti prego”, lo supplicai. Senza che potesse rispondermi, scoppiai a piangere…ma dai miei occhi non usciva nessuna lacrima. Potevo solo singhiozzare, niente di più.
Lui sospirò.
“Va bene, ti spiegherò tutto quanto. Ma tu prometti di non scappare?”.
Mormorai un flebile “si”. Mi fece accomodare sul divano nel soggiorno, tenendomi la mano.
“Allora…prima di tutto, le presentazioni. Io sono Edward. Edward Cullen, e tu ti trovi, in questo momento, in casa mia”.
Aprii bocca per dirgli il mio nome, ma solo per ricordarmi che non lo conoscevo. Avevo forse perso la memoria?
“Ti direi volentieri il mio nome, ma non posso”.
Edward mi guardò, sorpreso. “E perché no?”.
Lo guardai, afflitta e spaventata. “Perché…perché non me lo ricordo”.
Pensavo che si sarebbe messo a ridere, che mi guardasse con scetticismo; invece si limitò a dire: “Mi dispiace”.
Ora era il mio turno di essere sorpresa. “M-.ma come? Non sei…convinto che stia mentendo?”.
“No, perché so il motivo dei tuoi buchi di memoria”.
Mi alzai di scatto e lo fissai, speranzosa. Edward mi conosceva? Strano, non lo avevo mai visto in vita mia; forse avevo davvero perso i miei ricordi.
“Quindi tu mi conoscevi?”, esclamai. Lui annuì.
“E…ne devo dedurre che tu sappia anche il mio nome, giusto?”.
Annuì di nuovo.
“Dimmelo, ti prego!”.
Lui non rispose; si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro, come se non volesse dirmi nulla. Pazientemente, aspettai che si decidesse a parlare, ma Edward non diede segno di volerlo fare. Si era seduto sul tavolino del pianoforte che solo in quel momento avevo notato. Era collocato sopra un rialzo del pavimento. Dovevo ammettere che era uno strumento davvero elegante, sicuramente d’epoca. Era perfettamente lucidato e, a giudicare dal suono che i tasti d’avorio producevano al tocco di Edward, ben accordato.
Dopo cinque minuti di silenzio, interrotto solo dal suono argentino delle note, cominciai ad averne abbastanza. Non mi ero ancora ripresa dallo shock. Rabbrividii ripensando ai miei occhi rossi; chissà, forse me l’ero soltanto immaginato, confusa com’ero. O meglio, lo speravo. Improvvisamente, sentii bruciarmi in gola; mi sentivo come se avessi qualcosa di acido in bocca, qualcosa che sembrava colare…dai denti? Mi portai le mani alla gola, disgustata.
Essendosi accorto del mio cambio di posizione, Edward smise di suonare e mi affiancò, nient’affatto turbato.
“Scusami, immagino che tu abbia sete”.
Scossi violentemente la testa, boccheggiando e cercando di ignorare quell’acido che ormai m’invadeva la gola. Oltretutto, non avevo nemmeno capito a cosa si riferisse.
“N-no…è come s-se…a-avessi…qualcosa in gola…sembra acido, o roba simile…”. Mi sentivo come se stessi per dare di stomaco da un momento all’altro.
Con mia grande irritazione, lui sorrise, anche se un po’ forzatamente. “E’ normale, sai, tutti ci sentiamo così, non appena ci svegliamo…”.
“Che cosa vuoi dire?”, tossii, cercando di sopportare il fastidio causato dall’acido.
“E poi, che c’è da sorridere?”.
Smise all’istante, e mi guardò con serietà. Sembrava di nuovo in tormento.
“Forse è meglio che ti siedi…prima di conoscere la verità”.
Obbedii, e lui fece lo stesso. Mi sentivo stranamente inquieta; non riuscivo ancora a capire, e ciò mi disorientava non poco. Fece un respiro profondo, poi cominciò a raccontare.
“Il …tuo nome era…era Isabella. Isabella Swan, ma ti facevi chiamare Bella. Eri la figlia dell’ispettore Charlie Swan, e ti eri trasferita qui per poter stare con lui. I tuoi sono separati, ma non sanno ancora quello che è…”. S’interruppe, in palese difficoltà.
Ancora non capivo. Perché aveva usato l’imperfetto? Ero ancora viva, dopotutto. Anzi, per quel poco che avevo compreso, mi era parso di capire che era grazie ad Edward se lo ero.
“Perché…perché hai detto ‘ero’? Sono ancora viva, anche se non ricordo niente”.
A questa domanda, Edward mi guardò, abbattuto; mi spaventai. Doveva essere successo qualcosa, ne ero sicura, ma lui non voleva dirmelo.
Perché? Cos’era potuto accadere di tanto grave? Con lo sguardo, lo supplicai di andare avanti, ma lui scosse la testa.
“Non sarò io a dirtelo, Bella”. Notai l’uso del soprannome con il quale –secondo ciò che mi aveva raccontato- ero conosciuta.
Sentii un’improvvisa collera dentro di me, e insieme un’incredibile flusso d’energia, la stessa che avevo percepito al mio risveglio. Senza riuscire a trattenermi, lo afferrai per il colletto della camicia, il viso a pochi centimetri dal suo. Era sbigottito, e cercò di divincolarsi, ma non lo lasciai andare.
“Che significa? Dimmelo, ho il diritto di sapere! Dimmelo, Edward! DIMMELO!”.
Uno strappo risuonò nell’aria; la camicia marrone che tenevo stretta tra le mani si lacerò, scoprendo l’addome scolpito di Edward, il quale mi fissava preoccupato, e non spaventato, come avrebbe dovuto essere.
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Mi accasciai a terra e cominciai a singhiozzare, sempre senza piangere.
Che diamine stavo facendo? Prima lo avevo scaraventato dall’altra parte di una stanza, poi avevo fracassato la porta d’ingresso, e infine gli avevo strappato la camicia come fosse stata carta!
Poi c’era il mio aspetto, troppo bello per essere il mio.
E quegli occhi…
Corsi al piano di sopra, nel corridoio, e mi guardai nello specchio appeso alla parete.
Credevo di aver avuto un’allucinazione. Credevo di essermi solo immaginata quella sfumatura rosso sangue attorno alla pupilla. Eppure, eccola lì, chiara e distinta, una chiazza creava un incredibile contrasto con il nero dell’iride.
Sfiorai la superficie liscia dello specchio; mi aspettavo di trovarla fredda, e invece era calda, come se fosse stata esposta al sole per tante ore. Lentamente, percorsi il profilo del mio volto, il naso piccolo e regolare, le labbra violacee e carnose, la guancia rotonda e perfetta, l’incavo degli occhi color sangue, cerchiati da marcate occhiaie, che ormai avevano assunto una tonalità più spettrale, un miscuglio di viola e rosso.
In più, il bruciore alla gola era diventato quasi insopportabile.
In un impeto di collera e paura, afferrai lo specchio e lo scagliai dall’altra parte del corridoio.
Dove si sbriciolò contro il muro.


Rimasi lì impalata a fissare ciò che rimaneva della cornice –un mucchietto di polvere dorata- con gli occhi sbarrati, in un moto d’orrore e ansia.
Era troppo.
Mi precipitai al piano di sotto, e trovai Edward in piedi al centro della stanza che mi fissava compassionevole, quasi con pietà. Era ancora a torso nudo, le due metà della camicia giacevano abbandonate sul divano. Scattai verso quella che un tempo era stata la porta principale, ma lui riuscì, chissà come, a trattenermi per un braccio.
Ormai il bruciore alla gola era tale che mi sentivo soffocare, come se avessi qualcosa che non riuscivo a sputare.
Ero fuori di me, non riuscivo più a controllarmi, mi dibattevo e urlavo, come una pazza, di lasciarmi andare. Sembrava che avessi una crisi isterica.
“Va bene, va bene, ti dirò tutto! Ma tu calmati, per favore! D’accordo?”. Anche lui sembrava convinto che fossi pazza. Magari lo ero davvero.
Cercai di fermarmi, ma il mio corpo era scosso da mille tremiti, come se non rispondesse più agli ordini del cervello; a pensarci bene, non ero sicura di volermi fermare.
“Calmati!”, urlò.
“N-non…non ci…riesco!”. Aumentò la stretta, ma io, per tutta risposta, mi dibattei ancora di più. Era come se fossi uscita di senno, pur rimanendo lucida. Cercavo di smetterla, di trattenermi, ma senza risultato.
All’improvviso, senza che fossi preparata, accadde qualcosa di orribile.
Mentre urlavo e mi dimenavo, sentii qualcosa premermi prepotentemente sul naso. Qualcosa di dolce e incredibilmente delizioso. Un odore. Un profumo.
Smisi all’istante di agitarmi, e voltai la testa, in cerca della fonte di quella fragranza irresistibile. Annusai l’aria, e m’investì di nuovo. Era come se quell’ aroma potesse saziarmi come una bibita; ormai non esisteva più niente, né Edward né la casa…c’ero solo io. Io e il piccolo cervo che ci scrutava dal margine della foresta che circondava l’abitazione. Ci fissava con i suoi occhi scuri, curioso e, chiaramente, affamato.
A quella vista, non ragionai più.
Con un calcio, mi liberai dalla stretta di Edward, e corsi fuori nel giardino. Udii appena il rumore del vetro infranto quando scaraventai il ragazzo contro la vetrata, dall’altro lato della stanza. In un attimo, mi ritrovai di fronte all’animale, che ormai non mi guardava più con curiosità, ma mostrava i denti in un’evidente espressione minacciosa. Senza pensarci due volte, mi avvicinai ancora di più…e gli saltai addosso.
Accadde tutto in un attimo. In seguito, mi sembrò di aver visto tutto al rallentatore. La mia presa ferrea sul suo collo, i suoi tentativi –vani- di opporre resistenza e di azzannarmi, il mio viso vicinissimo alla sua pelle, calda e palpitante di vita; potevo persino vedere le vene pulsare sotto il manto scuro e folto.
Dentro di me, sentivo risvegliarsi un’altra persona, un estraneo smanioso di mettersi alla prova…e assetato. Assetato di sangue.
Un mostro.
Non potevo resistere a lungo. Con una barbarie inaudita, affondai i miei denti in quel collo morbido e tenero come il burro, nonostante cercassi di tenere a freno quell’istinto.
All’istante, sentii un liquido caldo scendermi giù per la gola, rinvigorendomi e nutrendomi ad ogni goccia; ma, anziché fermarmi, continuai a mordere qualunque parte riuscissi a raggiungere. Il collo, l’addome, le zampe, tutto. Potevo percepire il battito cardiaco –ormai flebile- dell’animale; dopo pochi secondi, durante i quali mi staccai dal suo corpo seviziato, non udii più nulla.
Contemplai con disgusto ed orrore lo scempio che avevo appena compiuto. Era come se il tempo si fosse fermato; restai lì, inginocchiata vicino a ciò che rimaneva del cervo. Ogni centimetro della sua pelle fredda era ricoperto di tagli che avevano la stessa forma dei miei denti; tante piccole mezzelune scarlatte, in un intreccio fitto e complesso.
Il mio respiro era corto e irregolare, come se avessi corso per chilometri; il bruciore alla gola si era attutito, fin quasi a sparire del tutto. Restava solamente un fastidioso pizzicore. Ero consapevole di avere un aspetto tremendo, con gli abiti macchiati di sangue e gli occhi spiritati, in un’espressione di ribrezzo e nausea verso me stessa.
Non mi accorsi di Edward finché non scoprii di essere seduta sul divano del soggiorno, mentre lui mi teneva la mano, pronunciando parole di conforto.
“Bella? Stai bene? Come ti senti?”, domandò ansioso, ma anche, per qualche strano motivo, sollevato.
Avrei voluto urlargli di smetterla, di lasciarmi in pace, rispondergli, magari in tono sgarbato, che stavo benissimo, ma non ci riuscivo; era come se mi mancasse la voce. La mia testa era invasa dal pensiero del povero cervo che avevo ammazzato senza un motivo.
Si, perché ero stata io, io lo avevo ucciso, io avevo fermato per sempre i suoi battiti cardiaci, io lo avevo strappato alla vita. Io.
“Ti prego, di’ qualcosa. Rispondimi, almeno!”.
Scossi violentemente la testa per scacciare quell’immagine dalla mente. Il mio corpo era ancora scosso da tremori e brividi, ma non era a causa dell’istinto che aveva preso il sopravvento solo pochi minuti prima. In quel momento avevo solo paura, un’indescrivibile ed immensa paura; paura di me stessa, di quel che avevo fatto…e di quello che avrei potuto fare ancora.
Il salotto era semi distrutto: la porta che avevo scardinato –ancora non riuscivo a credere che fossi stata io- era nel bel mezzo della stanza, mentre la vetrata contro cui aveva scaraventato Edward era stata ridotta in mille pezzi, sparsi un po’ dappertutto sul pavimento.
Edward mi teneva stretta, ancora non si fidava a lasciarmi andare, ma la presa era molto meno forte.
“Forse è meglio che ti racconti tutto…dall’inizio”.
Annuii, senza smettere di tremare. Ma cercai di prestargli un po’ d’attenzione; quella era l’occasione giusta per scoprire cosa fosse successo.
“Ma, sta’ attenta, potresti rimanerne scioccata”. Come se esistesse qualcos’altro in grado di turbarmi, dopo il rivoltante spettacolo nel giardino! Ma preferii tacere, e lo invitai a continuare.
“Prima, di sopra, ti sarai, senza dubbio, meravigliata della tua…forza. Be’, c’è un morivo, ed è perché…perché…”.
Trattenei il fiato, e non lo lasciai andare prima di qualche secondo, quando mi accorsi che non avevo bisogno di respirare, Lo fissai, ansiosa.
“…perché, vedi, Bella…tu sei…morta”.


Nel silenzio assoluto, i rintocchi del pendolo risuonarono per tutta la casa, mentre fuori il sole faceva capolino da dietro le nubi, rischiarando la stanza. Sbattei più volte le palpebre, fissandolo incredula e divertita; poi mi lasciai andare ad una risata un po’ isterica.
Ero piegata in due dal ridere, ma Edward mi guardava serio, come se non apprezzasse la mia reazione.
“Non c’è niente da ridere, Bella. Sei morta”.
A quelle parole, risi ancora più forte. Tra una smorfia e l’altra, cercai di parlare.
“Ah ah ah! Che…spiritoso! Ah ah ah! Sarei…morta, eh?”.
Lui annuì.
“E allora come spieghi questo?”. Indicai me stessa, ma ormai avevo smesso di ridere. Cominciavo a temere che il pazzo fosse lui. Santo cielo, ero in compagnia di un folle che credeva fossi morta, pur parlando con me!
“Sono viva, respiro, il mio cuore batte…sarei morta?”.
“Si”. Non scherzava; era serissimo.
Stufa di quell’atteggiamento evasivo, lo osservai, diffidente.
“Provamelo, allora”.
“Ascolta il tuo cuore”.
Per poco non misi di nuovo a ridere. ‘Ascolta il tuo cuore’ era il classico giochetto psicologico a cui venivano sottoposti i bambini delle elementari quando si trattava di convincerli a fare qualcosa. Ma con me, non attaccava.
“Guarda che non ho più sei anni, questo gioco non funziona con me”. Ridacchiai.
“No, io intendevo in senso letterale; prova ad ascoltarne il battito”. Si alzò e prese qualcosa da una valigetta sotto il divano. Me lo tese.

Uno stetoscopio. Riluttante, lo afferrai e lo appoggiai sul cuore.
Mi aspettavo di sentire il mio battito cardiaco, magari un po’ accelerato a causa del gran ridere a cui mi ero lasciata andare prima.
E invece non sentii niente. Non c’era battito, nemmeno un flebile movimento, niente. Lo stetoscopio mi cadde di mano e finì per terra, ma non lo raccolsi. Il mio cervello si rifiutava di accettare ciò che aveva appena visto, o meglio, sentito.
Il mio cuore non batteva. Ero…ero…morta.
Edward si accorse della mia espressione vuota ed incredula; mi mise gentilmente una mano sulla spalla e parlò con voce esitante ed incerta.
“Mi…mi dispiace. Non volevo che lo scoprissi così”.
“Che scoprissi cosa, Cullen? Che ero morta, e non me n’ero neanche resa conto?”, gli dissi pungente, ancora sotto shock. Non riuscivo a credere a ciò che avevo appena sentito, ma una vocina dentro di me insisteva nel dire che fosse tutta una messinscena. Forse era un trucco; lo speravo.
Scosse di nuovo la testa. C’era qualcos’altro? Ne avevo avute abbastanza, per quel giorno, ma lui non accennava a volerne parlare.
“Rispondi alla mia domanda, per favore”.
Prima di dare la risposta, fissò, evidentemente in un moto d’indecisione, una scheggia di vetro che giaceva sul pavimento. Non era contento di rispondermi, ne ero certa.
Poi spostò il suo sguardo ammaliatore su di me.
“Che ormai sei un vampiro”.

 

 

 

 

Ringrazio ancora chi ha messo questa storia tra i preferiti! Mi raccomando, però, fate clik su quella scritta blu che vi sorride con gli occhioni stile emoticon...

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Scusate il ritardo, ma le valigie impegnano il doppio del tempo che m'ero predisposta. Ora la cara Hanairoh va in vacanza, e non vi romperà più per due settimane, se non riesco a trovare un collegamento Internet lì a mare. Voi continuate a commentare. Un bacio!
 
 
Il capofamiglia, Carlisle, si staccò dal gruppo e ci venne incontro, aggraziatissimo come Edward. La sua espressione era calma e pacifica, e non accusatoria come avevo temuto.
“Non sentirti in colpa per quello che è successo, Isabella”, disse.
Lo fissai, in cerca di una spiegazione.
“A tutti può capitare, sai”, continuò. “Non è facile resistere, te lo dico per esperienza personale. Hai cercato di controllarti, ma per voi vampiri giovani, è più difficile. Col tempo, ci riuscirai”, concluse, dandomi una pacca sulla spalla. Non sapevo come facesse a sapere del mio…piccolo incidente, ma preferii non indagare. Ero ancora in attesa del rimprovero.
Che non arrivò. Tutti mi guardavano con gentilezza, invece che con il disprezzo che meritavo.
"Tutti ci siamo passati, abbiamo avuto i nostri momenti di debolezza...Eppure guardaci ora". Indicò sè stesso e la sua famiglia. A parte la bellezza inumana, sembravano degli esseri umani civili. Io, invece, con quegli occhi rossi cerchiati da occhiaie dovevo apparire mostruosa. Scossi la testa.
"Credimi, è così", insistette Carlisle.
A quel punto non ce la feci più. Da troppo tempo lottavo contro il dosprezzo che nutrivo verso me stessa, e lasciai che scivolasse fuori. Scoppiai in singhiozzi. Edward, che nel frattempo era rimasto in disparte, si avvicinò e mi passò un braccio attorno alle spalle.
"Isabella, non devi pensare questo di te", disse Carlisle. Il tono era quello di un padre che cerca di rassicurare la figlia che ha paura del buio. "Hai solo...hai solo fatto uno sbaglio".
Cercai di controllarmi meglio, con risultati positivi: smisi di singhiozzare, ma ancora guardavo quell'angelo biondo con disperazione.
“E quindi…quindi che ne sarà di me?”, chiesi tremante. Il momento della verità era arrivato.
“Dipende da te. Potresti andare per la tua strada…oppure..."
Lo guardai in attesa, respirando a malapena.
"...oppure restare a vivere con noi”.
Il primo impulso fu quello di abbracciarlo di nuovo. Se mi stava offrendo una simile opportunità, significava che la mia umanità non era andata del tutto perduta.
“Ma, semmai decidessi di proseguire da sola, ti pregherei di seguire la nostra alimentazione, almeno finché caccerai nei territori di Forks”.
Ero indecisa. Sapevo di dover fare una scelta importante, e volevo che fosse quella giusta. Già, ma quale?
“Potrei avere un giorno per pensarci?”, chiesi, esitante.
“Ma certo”, rispose subito Edward. “Tutto il tempo che ti servirà”.
“Grazie”, mormorai, sorridendo tristemente.
"Perché non la portiamo dentro?", sussurrò Esme. La sua voce era dolce e materna. "Deve essere sconvolta, povera piccola".


Mi condussero in casa. Non appena videro il disastro che avevo combinato –la vetrata del salotto sfondata, lo specchio ormai ridotto ad un mucchietto di polvere e i CD scaraventati in mezzo alla stanza di Edward- mi sorrisero, anziché sgridarmi. Evidentemente, la forza sovrumana doveva essere il minore dei mali. Alice, invece, mi scrutava con aria critica. Non guardava me, ma i miei vestiti. Immaginavo che, sporca di terra e sangue com’ero e con i capelli ridotti ad un ammasso fangoso, non dovevo essere un bello spettacolo.
“Ti servono dei vestiti”, dichiarò. “E una bella doccia, anche”.
Prima che potessi ribattere, mi aveva presa per mano e mi aveva, letteralmente, trascinata nel bagno, una stanza enorme e completa di accessori, benché non ne avessimo affatto bisogno. Alice stava riempiendo la vasca d’acqua calda, la cui superficie si stava lentamente coprendo di una candida schiuma. L’odore non era per niente gradevole, anzi, mi fece arricciare il naso; lei sorrise quando se ne accorse.
“Lo so, è fastidioso”, disse. “ma poi ci farai l’abitudine, vedrai”.
Quando la vasca fu piena, mi levai i vestiti e m’immersi nell’acqua. Il sollievo fu istantaneo: il calore accarezzava la mia pelle gelata, era una sensazione piacevole. Intanto, Alice mi strofinava i capelli con una soluzione dall’odore acre e spiacevole; secondo l’etichetta, era una shampoo a base di olio di mandorla. Immaginavo che da quel momento in poi, qualsiasi cosa non fosse viva e non possedesse sangue, avrebbe avuto, per me, un profumo disgustoso. Una volta uscita dalla vasca, Alice mi avvolse in un asciugamano di cotone bianco per asciugarmi. Mi guardai attorno: oltre alla vasca, il bagno ospitava un lavandino e vari armadietti, dove, mi disse Alice, c’erano trucchi e cose varie. Non capivo quale utilità potessero avere per la nostra pelle dura come il diamante.
La piccola vampira mi passò un paio di jeans e una camicia di lino blu, dopodiché uscì perché mi vestissi da sola.
Mentre m’infilavo i pantaloni, meditai sulla decisione che dovevo prendere; certo, avrei voluto continuare per i fatti miei, ma avevo paura di non riuscire a trattenete la mia sete e di uccidere qualcuno. E poi, se me ne fossi andata, dove mi sarei potuta rifugiare? Non conoscevo nessuno, non ricordavo nemmeno i volti della mia famiglia; non che avessi potuto frequentarli senza rischi, comunque.
La mia non era di certo una situazione facile, tutt’altro. Restare con una famiglia di estranei era da incoscienti, ma non potevo neanche andarmene ed andare avanti con la mia vita come se nulla fosse accaduto. E poi i Cullen mi erano sembrati delle persone di fiducia. Quindi, decisi, sarei rimasta. Almeno finché non fossi stata in grado di vivere a contatto con gli umani.
Mi pettinai i capelli umidi con le dita, cercando di sbrogliarli; il fango li aveva resi secchi e doppi. Dopo essermeli asciugati, mi guardai nello specchio sopra il lavabo.
Lo specchio a tre ante rimandava una triplice immagine di me, minuta ed esile, con indosso dei jeans e una maglietta. Be’, pensai, sempre meglio che avere i vestiti sporchi di sangue.
Scesi giù nel salotto, e trovai tutta la famiglia al completo. Esme, Alice e Rosalie guardavano la TV, ma non sembravano particolarmente interessate; Edward, Emmett, Jasper e Carlisle, invece, erano seduti sul divano a discutere. Di cosa, lo ignoravo. Tuttavia, prima che si accorgessero della mia presenza, riuscii a cogliere qualche brandello di conversazione.
“È assurdo…”.
“Come possono credere che sia colpa nostra?”.
“Non siamo stati noi, non possono…”.
"Qualcuno deve spiegare loro come sono andate le...".
Emmett stava per aggiungere qualcosa, ma a quel punto si erano accorti di me, quindi tacquero. Non volevano che sentissi.
Nemmeno io volevo sapere: ne avevo avute abbastanza. Accennando appena un saluto, mi sedetti tra Esme e Rosalie. La prima mi guardava comprensiva, materna, come se comprendesse in mio stato d’animo; Rosalie, invece, mi squadrava da capo a piedi, sprezzante. Non le badai, ma non potevo non chiedermi il motivo di tanta avversione. Per un poco, nessuno di noi disse una parola. La tensione nell’aria era tangibile, ma gli altri preferirono stare zitti, e gliene fui grata.
“Senti, Bella”, disse Alice ad un tratto, rompendo il silenzio. “mi chiedevo dove volessi la stanza”. La guardai, basita. Parlava come se già fosse a conoscenza della mia decisione.
“Ma di che parli?”.
“Della tua stanza. Se resterai qui, avrai bisogno di una camera, no? Certo, non potrai dormirci, ma almeno avrai un po’ di privacy, no?”.
Una stanza tutta mia? La proposta era allettante, certo, ma ancora non riuscivo a capire come sapesse che avevo deciso di rimanere a vivere con loro.
“Cosa ti fa credere che abbia intenzione di restare?”, le chiesi.
Lei mi guardò, confusa. “Perché, non è così?”.
“Certo, ma come fai a sapere che…?”.
A quel punto, parlò Edward. “Sai, anche Alice ha delle…doti. Può vedere il futuro”. Era chiaro che non apprezzava quella qualità della sorella.
Ero rimasta a bocca aperta. Alice poteva davvero vedere il futuro? La distanza tra me e loro si stava facendo sempre più incolmabile.
“Non proprio”, aggiunse lei. “Posso solo vedere le conseguenze di una decisione definitiva, non la causa che la scatena”. Sembrava compiaciuta di se stessa.
“Ma è tutto molto impreciso”, continuò Edward. “Il futuro cambia, a seconda delle decisioni degli altri”.
Ero affascinata. Non avrei mai immaginato una cosa del genere, nemmeno nei miei sogni più vivaci. Forse avrei dovuto abituarmi a non lasciarmi più sorprendere da niente. Ma c’era ancora una cosa che volevo sapere.
“C’è qualcun altro che possiede…delle doti speciali?”.
Si guardarono in faccia l’un l’altro, evidentemente incerti se rispondermi o meno.
Poi, nel silenzio assoluto venutosi a creare, qualcuno parlò. Era il ragazzo biondo, Jasper.
“Io”, disse. “posso…percepire le sensazioni altrui e manipolarle a mio piacimento. E sento che in questo momento sei molto confusa e spaventata”, aggiunse guardandomi comprensivo. Annuii, cercando di mascherare la mia sorpresa. Chissà se anche io, come loro, possedevo qualche abilità particolare. Per quanto riguardava i miei sentimenti, non avrebbe potuto descriverli con parole migliori.
Nessuno parlò per il resto della serata. Ad un certo punto, Esme e Carlisle si ritirarono nella loro stanza, ovviamente non per dormire; era palese che fossero marito e moglie. Anche Emmett e Rosalie e Jasper ed Alice seguirono il loro esempio; con un sorriso di scuse sulle labbra –tranne Rosalie- uscirono silenziosamente dalla stanza, lasciandomi da sola con Edward. Eravamo entrambi troppo imbarazzati per parlare, così continuammo a guardare la televisione, ma sapevo che nessuno dei due vi era realmente interessato.
“A cosa stai pensando?”, chiese Edward all’improvviso. Continuava a tenere lo sguardo fisso sulle figure che si muovevano sullo schermo, ma la sua attenzione era rivolta a me.
“Ma non mi leggevi nel pensiero?”.
Sospirò, frustrato. “No, non ci riesco”.
Ero sorpresa, ma anche sollevata: non aveva sentito i pensieri che avevo formulato su di lui al mio risveglio, ma temevo che ciò significasse che qualcosa in me non andava.
“È strano, è come se non stessi pensando a nulla”, continuò Edward, sempre con aria irritata. “Non sento altro che silenzio”.
Non potei fare a meno di sorridere, vagamente lusingata. Era seccato, ma in questo modo potevo almeno dichiarare di essere un po’ diversa da loro.
“Eri così anche da umana, sai”, mormorò dopo qualche minuto.


Non disse più niente riguardo la mia precedente vita, malgrado le mie suppliche. Quell’argomento sembrava delicato anche per lui, perciò decisi di concedergli un po’ di tempo. E fu così che si concluse il primo giorno della mia nuova ed insolita vita.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Con un ritardo pazzesco, ecco il nuovo capitolo. Però...ecco, so che molte di voi hanno inserito questa storia tra i preferiti, ma vorrei almeno che lasciaste qualche commentino.
Dopo questi piagnistei, ho finito. Baci a tutte!
 
 
 
Era davvero strano restare sdraiati su un divano durante la notte senza dormire. Il soggiorno era deserto, tutto era immerso nell' oscurità più totale, ma grazie ai miei nuovi sensi riuscivo a vedere e sentire tutto. Riuscii persino a scorgere una mosca che sbatteva pigramente le ali sulla lastra di vetro che un tempo era stata una vetrata. Era mezzanotte passata -il pendolo aveva appena battuto i dodici rintocchi- e dal piano superiore sentivo provenire dei rumori alquanto...Be', sicuramente i Cullen non usavano i letti per dormire o conversare. In particolare, Rosalie ed Emmett. L' unica stanza che sembrava ancora silenziosa era quella di Edward, ma dopo un po' uno stereo si accese e una dolce melodia si diffuse.
Cullata da quelle note tremendamente familiari, continuai a fingere di dormire per qualche altra ora, finché la luce del mattino non rischiarò la stanza. A quel punto casa Cullen cominciò an animarsi: sentii un movimento in cima alle scale. Era Carlisle. Indossava abiti puliti e in mano aveva una valigetta di pelle, la stessa che Edward aveva preso per usare lo stetoscopio. Ovviamente sapeva che non stavo dormendo, ma si concesse lo stesso di rimboccarmi la coperta e scostarmi i capelli dal viso.
Un gesto molto umano, che riportò alla mia memoria altre immagini; venivano da un tempo in cui il mio cuore batteva ancora, in cui avrei potuto abbracciare il mio vero padre senza rischiare di ucciderlo. Vidi me stessa da umana mentre dormivo in un letto, vidi una figura avvicinarsi in punta di piedi e ripetere il gesto che poco prima aveva fatto Carlisle.
 
 
"Torneremo verso le tre", mi disse Alice. Si era cambiata, indossava dei jeans puliti e una maglia nera che risaltava ancora di più la sua pelle bianca come il marmo. "Prima di allora, non dovrai uscire di casa se non per cacciare. Intese?".
Annuii. Non ci tenevo a ripetere quella brutta esperienza del giorno prima, e di sicuro non mi sentivo ancora pronta per la caccia.
Dopo un' ora rimasi sola. Solo Esme era rimasta con me, ma quando entrò nella stanza fu solo per chiedermi di andare a caccia con lei.
Se non fosse stato per il bruciore alla gola mi sarei categoricamente rifiutata: ricordavo fin troppo bene la sensazione di perdere il controllo di fronte al sangue, eppure Esme riuscì a convincermi ad accettare.
Una volta fuori nel giardino, mi convinsi che dovevo cacciare; ogni piccolo odore, anche quello degli uccelli che cantavano allegramente sugli alberi, mi tentava.
Esme mi condusse in un casotto di fianco alla casa; era una specie di garage, mi disse, dove c' erano tutte le loro macchine. In quel momento ce n'erano solo quattro: una cabriolet rossa fiammante, una Aston Martin e una jeep imponente e massiccia.
"Quella è di Rosalie", mi disse Esme indicando la cabriolet. Ovvio. Rispecchiava la sua proprietaria: bellissima e impossibile da non notare. "Invece quella", e guardò la Aston, "è di Edward, mentre noi useremo questa, l' auto di Emmett". Vista da vicino, la jeep sembrava ancora più grande.
"Abbiamo anche una Mercedes e una Volvo. Sono Di Carlisle e di Edward", continuò lei ingranando la retromarcia. Ci riuscì al primo tentativo. Ben presto ci lasciammo la casa alle spalle; non osavo posare gli occhi sulla lancetta del tachimetro, ma di sicuro andavamo a più di centoventi.
"Sai, Edward è un fanatico di macchine", proseguì lei. "Sia la Volvo che la Aston sono sue. Non toccargliele, se ci tieni al braccio". Sorrise ironica mentre io rabbrividivo, conscia che con la mia nuova forza avrei potuto fare lo stesso.
Esme non parlò più, e neanche io. Evidentemente chi è immortale impara a non lasciarsi spazientire; lei non sembrava avere bisogno di parlare per distrarsi. Cercai di ignorare il fuoco ardente che mi bruciava la gola e le pareti dello stomaco. Pensa a qualcosa, pensa, Bella, pensa a qualcosa per distrarti.
Grandissimo, grandissimo errore.
Un pensiero si fece prepotentemente strada nella mia testa: essendo io una vampira, non avrei mai trovato un compagno? Ero condannata alla solitudine eterna senza godere dei piaceri dell' amore?
Una vocina dentro di me rispose immediatamente di no. In fondo, anche i Cullen erano vampiri, eppure erano riusciti a trovare qualcuno con cui passere l' eternità.
Ma quanti vampiri come loro potevano esistere al mondo? Edward mi aveva spiegato che l' unica famiglia di vampiri che si nutriva di sangue animale si trovava a Denali, in Alaska, e che pochissimi al mondo riuscivano a seguire quello stile di vita.
Cosa me ne sarei fatta dell' eternità? Come l' avrei passata,da sola, senza un compagno? Pensai ai Cullen: a Carlisle ed Esme, a Rosalie ed Emmett, a Jasper ed Alice. Il loro rapporto era palese, ma io?
Io non ho nessuno, pensai disperata. Sono sola, sono condannata a questo per il resto dei miei giorni...cioè per sempre!
Di nuovo mi venne in mente la famiglia che avevo appena conosciuto. I Cullen. Tutti innamorati. Tutti sposati. Tutti tranne...
"Esme?", domandai. "Perché Edward non ha nessuno?".
Non appena vidi l' espressione affranta sul volto delizioso di Esme desiderai di non avere mai aperto bocca. Era triste, soffriva, e il perché era chiarissimo. Calò un imbarazzante silenzio, rotto di tanto in tanto dal rumore dei rami che strusciavano sul finestrino.
"Non ha ancora trovato la sua metà", disse infine."Sono passati quasi novant' anni, eppure è ancora solo. All' inizio, quando Rosalie si unì a noi, sperai che diventasse per lui ciò che Carlisle è per me. Invece non successe nulla. Entrambi si vedevano come fratello e sorella. Quando li vedevo insieme nel garage -anche Rosalie è patita di macchine, sai- speravo che nascesse qualcosa. Ma quando lei trovò Emmett e lo sposò...ho capito che era stato inutile". Rosalie ed Edward. Certamente sarebbero stati una bellissima coppia, nel senso più letterale del termine.
Non volevo addolorare ulteriolmente Esme rievocando momenti spiacevoli, perciò non feci più domande su Edward, la persona che Esme aveva più cara al mondo, dopo Carlisle, ovviamente.
Il resto del viaggio trascorse tranquillo. Solo verso mezzogiorno ragiungemmo la nostra meta, la riserva di Goat Rocks. Un' infinita distesa di alberi e sentieri sassosi circondata da imponenti montagne, le cui vette erano coperte dalle nuvole grigie e cariche di pioggia.
"Eccoci", annunciò Esme. Scese dalla macchina e si fermò ad osservare la foresta che ci circondava. Come il giorno precedente, il cielo era coperto da pesanti nuvolosi che minacciavano pioggia. Per un essere umano, quello sarebbe stato un luogo silenzioso. Invece io riuscivo a sentire ogni minimo rumore; il ronzio degli insetti, il canto degli uccelli, il frusciare delle foglie, il mormorio di un ruscello nei dintorni…Il bosco era pieno di vita, quella vita che mi era stata strappata da una bestia assetata di sangue, e che non avrei mai riavuto indietro.
“Da qui ci tocca proseguire a piedi”. Esme interruppe i miei pensieri di vendetta sul mio assassino. Se lo avessi avuto davanti, solo il cielo sapeva cosa gli avrei fatto.
“Dobbiamo correre, Bella. A circa cinque chilometri da qui c’è uno spiazzo aperto. Evitalo, per favore, potrebbero esserci degli umani, anche se non è stagione di caccia”.
Annuii e cominciammo a camminare. Dapprima a velocità umana, poi dovetti chiudere gli occhi per il fastidio provocato dal vento sulla faccia. O meglio, dal vento generato dalla mia corsa.
Come la volta precedente, correre mi diede un senso di pace e tranquillità, nonostante dovessi abituarmi al vento forte. Così, non appena arrivammo ai margini del campo indicato da Esme, affrontai la caccia con un filo di coraggio in più.
“Ora non posso più guidarti, Bella”, disse Esme, “dovrai seguire solo il tuo istinto. Io vado di là”. Indicò il ruscello, a qualche migliaio di metri di distanza. “Tu, invece, va’ nella foresta, ma non allontanarti troppo. Al massimo un chilometro. Se ci fossero degli…inconvenienti, me ne accorgerò. Siamo intese?”.
Senza aspettare la mia risposta, si lanciò verso gli alberi, lasciandomi sola.
Esme mi aveva detto di seguire l’istinto. Seguire l’istinto, seguire l’istinto, seguire l’istinto…Si riferiva forse al mostro che avevo dentro? Lasciarlo uscire fuori mi sembrava un azzardo, ma non potevo neanche non nutrirmi, o mi sarei sentita male. Fortunatamente non avevo bisogno di respirare, altrimenti sarei rimasta soffocata dall’enorme quantità di veleno in bocca; i morsi della fame mi attanagliavano lo stomaco, non era certo una sensazione piacevole. Chissà se anche gli umani si sentivano così, da affamati…
Inspirai lentamente per darmi una calmata. Me ne pentii quando mi accorsi che, così facendo, stimolavo l’altra metà di me stessa; senza pensarci due volte, senza curarmi del fatto che ero una vampira giovane ed inesperta, e quindi non sapevo assolutamente cosa fare, mossi i piedi in avanti. Un turbinio di colori, una sferzata di vento in faccia, e mi ritrovai lontanissima dal punto in cui avevo lasciato Esme. Subito fui presa dal panico. Esme aveva detto che era molto probabile che in zona ci fossero degli umani. Se aveva ragione, allora mi sarei dovuta allontanare. Per precauzione, smisi di respirare.
Decisi di ritornare al margine dello spiazzo, ma stavolta preferii camminare, invece di correre; se avessi incrociato degli umani, avrei dovuto avere la possibilità di scappare. Fortunatamente, nel bosco non incontrai nessuno: i rumori degli animali erano l’unico suono nel raggio di chilometri.
Avevo sempre più sete. Era inutile negare, avevo bisogno di cacciare. A malincuore rilasciai l’aria nei polmoni e aspettai.
Quello che successe dopo aver sentito l’odore di un orso è troppo confuso per essere ricordato: una corsa sfrenata alla ricerca dell’animale, la sete incontrollabile che prendeva il sopravvento, colori e odori che si mischiavano, la pelliccia calda che solleticava il labbro, il suono martellante del cuore dell’orso morente, macchie rosse che riempivano il mio campo visivo…e il sangue.
Rosso, caldo, profumato, squisito. Non avrei mai più potuto farne a meno.
 
 
Esme mi raggiunse mentre terminavo il pasto; dopo l’orso, avevo catturato un’ alce e due cervi. Non c’era molta varietà di selvaggina, ma avrei dovuto accontentarmi.
“Sei stata bravissima, piccola”, disse poggiando una mano sulla mia spalla destra, “Per essere stata la tua prima caccia, non mi sarei aspettata tanto. Ora torniamo a casa, devi darti una ripulita”.
Il viaggio di ritorno fu tranquillo. Esme ed io parlammo un po’ di tutto: lei mi descrisse la sua prima caccia –disastrosa. Per un colpo di sfortuna, aveva incrociato un essere umano, e neanche il tempestivo intervento di Carlisle, che l’accompagnava, aveva potuto salvare la vita della sfortunata donna. Si chiamava Céline, e aveva ventinove anni. L’avevano seppellita nel bosco appena fuori Ashland, la città dove Esme viveva prima di essere trasformata.
“Non dimenticherò mai la sua espressione”, aveva detto, “Ancora oggi non riesco a capacitarmi del fatto che abbia ucciso una persona”.
Per quanto quelle parole avrebbero dovuto inquietarmi, un po’ ero sollevata: non ero l’unica con un omicidio barbaro alle spalle.
Non mi accorsi che Esme aveva parcheggiato nel garage di casa Cullen. Eravamo a casa.
Casa…chissà se un giorno avrei potuto chiamarle così. Ma quando Edward ed Alice ci vennero incontro e mi accompagnarono nel soggiorno per farsi raccontare tutto della mia prima caccia, per quanto fossi ancora confusa e disorientata, non potei fare a meno di sorridere. Si, forse potevo ancora sperarci.



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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Ehm...salve ^^
Probabilmente non vi ricorderete di questa ff lasciata ad ammuffire nel database. Finalmente ho trovato qualche oretta libera, e così...
Buona lettura!
 
 
Buffo come il tempo passi in fretta quando si ha a disposizione l’eternità; sembravano essere passati pochi giorni dalla mia entrata nella famiglia Cullen anziché un mese. Durante il quale ricevetti tutto l’aiuto ed il sostegno possibile da parte di tutti, in particolare Edward ed Alice. Non che gli altri fossero da meno, ma loro mi stavano accanto tutto il giorno, anche durante le battute –ormai quotidiane- di caccia. Edward, poi, non mi lasciava sola un attimo: non faceva altro che seguirmi per tutta la casa come un cagnolino. Mi faceva ridere, e quando glielo feci notare rispose dicendo che faceva di tutto pur di non farmi sentire sola. Se fossi stata umana avrei pianto. Invece lo abbracciai.
I Cullen ormai erano diventati la mia famiglia, la mia guida, il mio porto sicuro. Poco m’importava della mia vecchia famiglia, tanto non l’avrei mai conosciuta: pensavano che fossi morta, dato che Carlisle mi aveva detto di aver inscenato un incidente d’auto in cui il mio corpo sarebbe rimasto carbonizzato. Che ridere pensando che neanche un tir sarebbe riuscito a farmi cadere per terra.
Con il passare del tempo il mio rapporto con i vari componenti della famiglia era andato via via consolidandosi fino a diventare affiatato e stabile. Con una sola eccezione: Rosalie. La bellissima vampira dai capelli dorati sembrava non gradire la mia presenza. Era evidente che mi considerava un’intrusa indesiderata nella sua famiglia. Al contrario, suo marito Emmett non la smetteva di ridere e scherzare con me; era simpatico e, a volte, malizioso. Il vedermi sempre insieme a suo fratello Edward aveva scatenato in lui una sorta di convinzione secondo cui noi due saremmo diventati compagni. Sapevo che scherzava, o almeno lo speravo.
Ma la cosa su cui più spesso parlavamo era la caccia. Emmett non la smetteva di criticare i miei gusti in fatto di sangue, anche se non avevo idea di come potesse scherzare su un argomento del genere.
“Si vede proprio che sei una novellina”, diceva dandomi una pacca sulla spalla che avrebbe steso qualsiasi umano, “il sangue di grizzly è il migliore, non ci sono paragoni”.
A quel punto interveniva Edward a ‘salvarmi’. Guardava in tralice suo fratello, evidentemente pensava che la caccia fosse una faccenda ancora delicata per me, e i due si mettevano a discutere su quale fosse il sangue più buono.
“Emmett, non hai proprio gusto in fatto di animali”, borbottava, “Il migliore è il puma, non certo il grizzly! Troppo acre e pesante”, concludeva storcendo il naso.
Emmett mi chiedeva sempre quale fosse il mio preferito, ma ogni volta alzavo le spalle come a dire ‘non lo so’. In realtà non me ne importava niente: il sangue era sangue, e ormai ne ero completamente assuefatta. Era come chiedere ad un tossicodipendente quale tipo di droga preferisse tra cocaina, eroina e marijuana. Non importa la qualità, purché sia droga. Per me era lo stesso. Ed era questo il motivo per cui il mio autocontrollo non si era affatto rafforzato, anzi, minacciava di andare in pezzi da un momento all’altro.
Nonostante questo, Carlisle nutriva forti speranze al riguardo. Secondo lui mi ci sarebbero voluti anni prima di riuscire a resistere al richiamo del sangue. Si comportava da padre, mi consolava e sopportava tutte le mie crisi emotive dopo le battute di caccia. Lo stesso Esme. Ormai loro due erano diventati i miei genitori, e avrei tanto voluto poterli chiamare mamma e papà, ma temevo non avrebbero gradito. Neanche Edward e i suoi fratelli lo chiamavano così, tranne in qualche rara occasione.
Ma, oltre a Edward ed Alice, chi mi stette più vicino in quel brutto periodo fu Jasper; anche lui, dopo cinquant’anni, aveva ancora problemi di autocontrollo, e poteva capirmi. Aveva vissuto più di un secolo nutrendosi di umani. Spesso ci sedevamo in soggiorno e parlavamo, dove anche Alice ed Edward ci raggiungevano. Durante i miei crolli emotivi Jasper usava il suo potere, dandomi un senso di pace e benessere che niente e nessuno riusciva a darmi.
Ed era proprio durante quei momenti di tranquillità che riacquistavo fiducia in me stessa e mi convincevo che potevo farcela. Mi ci sarebbero voluti anni, ma sarei riuscita a controllarmi. Quel pensiero mi confortava, e mi consentiva di andare avanti.
O almeno, pensai questo finché non uccisi il mio secondo essere umano.



A me e mio fratello Edward –avevo ormai imparato a considerarlo in quei termini, e non più come un amico- si era unita anche Alice. Diceva di essere un po’ assetata e di volerci ‘tenere d’occhio’. Erano le dieci passate, ma del sole neanche l’ombra. Immaginai fosse una caratteristica dello stato di Washington, una vera fortuna per noi vampiri. Avevo da poco scoperto che la mia pelle, contrariamente a quanto narrato dai libri, non si scioglieva al sole ma emanava bagliori accecanti come fosse incrostata di diamanti. Uno spettacolo bellissimo a vedersi ma che non permetteva ai Cullen di uscire durante le rare giornate di sole.
Edward ed Alice si erano allontanati di qualche chilometro, ma mi avevano assicurato che mi avrebbero raggiunta se ce ne fosse stato il bisogno. Secondo Alice non avrei avuto problemi, e che nella foresta di Hoh non ci sarebbero stati umani, almeno non nel mio raggio d’azione.
Poco prima del ritorno di Edward e Alice ebbi la malaugurata idea di andare a dissetarmi un altro po’. Purtroppo, nella frenesia della corsa non mi accorsi di essermi allontanata parecchio, e mi ritrovai nel bel mezzo di uno spiazzo in cui un essere umano passeggiava tranquillamente. Ero talmente ubriaca del suo profumo da non riuscire a capire se fosse un uomo o una donna. Era una donna, ma questo lo venni a sapere solo più tardi, quando Edward ed Alice mi trovarono rannicchiata per terra a piangere lacrime invisibili sul corpo esanime della donna. Non dissero nulla, si limitarono a nascondere il cadavere sotto un albero. Prima che terminassero il lavoro, frugai nella giacca della donna e presi i suoi documenti. Ignorando le facce tristi dei miei fratelli, lo aprii e lo lessi. Si chiamava Paige Gordon, aveva ventinove anni e aveva due figli. Professione, medico specializzando allo Swedish Medical Center di Seattle.
Carlisle mi aveva detto che vedere gli umani come persone e non come cibo era di aiuto, ma io non ce l’avevo fatta.


Da quel momento avevo giurato solennemente di non uccidere più. In pochi mesi riuscii ad ottenere la forza necessaria per controllarmi di fronte ad un animale. Animali, si, ma non esseri umani. Constatare che i miei sforzi non erano serviti a quasi nulla, caddi in uno stato simile alla depressione. Quando non cacciavo, me ne stavo chiusa in camera mia –Esme ed Alice l’avevano finita in meno di una settimana- e alle richieste di Edward di accompagnarlo a caccia o semplicemente di uscire fuori nel giardino rispondevo di no.
“”Bella, vorresti venire a caccia con me?”. Non ne avevo voglia.
“Bella, è un po’ che non ti nutri, esci e andiamo nel bosco”. Non avevo sete.
“Bella, vuoi venire a prendere una boccata d’aria?”. Stavo leggendo e non mi andava di smettere.
Andammo avanti così per un mese buono; ben presto anche Alice tentò di convincermi ad uscire di lì con la scusa di farmi provare un vestito che aveva comprato nell’unico negozio d’alta moda di Forks. Al mio rifiuto si fece scura in viso e scese al pano di sotto senza dire una parola.
Una domenica mattina –non sapevo che giorno o mese fosse- la porta della mia stanza si spalancò e un Edward quanto più irritato fece irruzione.
“Adesso basta, Bella!”, esclamò avvicinandosi al divano su cui ero stesa a contemplare il soffitto. Il mio passatempo preferito era quello di contare le mattonelle del muro, ma, finite quelle, ero passata alle crepe. “Non puoi continuare così. Sono quasi sei settimane che non esci di qui se non per il cibo. Devi smetterla con questo atteggiamento depresso e malinconico!”. Vedendo che restavo immobile cominciò a scuotermi per le spalle. “Reagisci!”, urlò.
Non reagii.
Mi scosse più forte.
“Non ti rendi conto che facendo così non risolvi nulla?”. Edward mandò al diavolo l’atteggiamento cortese e composto che aveva sempre avuto e, non notando la benché minima reazione in me, alzò la mano e l’abbattè sulla mia guancia sinistra.
E, per la prima volta nella mia nuova vita, provai quello che gli umani chiamano dolore.
Il colpo mi fece cadere dal divano sulla soffice moquette del pavimento. Non avrei mai pensato che saremmo potuti arrivare a quel punto. Edward stesso sembrava stupito dal suo gesto. Rimase con il braccio alzato ad osservarmi mentre sfregavo la guancia per alleviare il dolore. Non aveva mai alzato le mani su di una donna, era cresciuto in un’epoca diversa.
Ciò che non riuscì a prevedere fu la mia reazione.
Mi alzai e gli corsi incontro, abbracciandolo di slancio; automaticamente serrò le braccia racchiudendomi in una gabbia protettiva. In un attimo scoppiai a piangere.
E non sarebbe stato facile smettere.



Per tutta la serata Edward non proferì parola. Semplicemente continuò a cullarmi tra le sue braccia mentre i singhiozzi mi scuotevano le spalle e piangevo le lacrime che non avrei mai più versato. Se all’inizio avevo pensato che la sensazione del non poter più piangere fosse fastidiosa, ora dovevo ricredermi: faceva male. Era come avere un blocco all’altezza dei polmoni e non poterlo espellere, anche se non mi era indispensabile piangere.
Non avevo idea di che ore fossero quando Edward mi scostò da se e alzò la mia testa per potermi guardare in faccia. Chissà che cosa avrebbe visto.
“Adesso va un po’ meglio?”, chiese con la sua magnifica voce. Annuii senza neanche pensarci, persa com’ero nei suoi occhi dorati, molto diversi dai miei.
Un po’ mi sentivo in colpa; avevo costretto mio fratello ad assistere al mio ennesimo crollo, e non volevo che succedesse di nuovo. Non lo meritava, non era lui a doversi fare carico dei miei problemi. Ma, nonostante questo, non ebbi il coraggio di parlare; non osavo immaginare come me la sarei cavata senza di lui, che mi era sempre stato vicino anche nei momenti più bui.
Con un movimento fluido ed elegante Edward si alzò e mi tese la mano per aiutarmi a rialzarmi. Senza lasciarla, mi condusse al piano di sotto dove trovammo Carlisle ed Esme insieme ad Alice. Non appena varcai la soglia vidi i loro occhi puntarsi su di me. Abbassai lo sguardo, imbarazzata dal modo in cui li avevo trattati nelle ultime settimane; eppure non sembravano né delusi né altro, evidentemente avevano previsto una reazione simile in me.
Carlisle ci venne incontro: sembrava preoccupato, forse si aspettava che ricominciassi. Se così era, si sbagliava. Non potevo fare questo a lui, che era come un padre, ad Esme, la mia nuova mamma, a mia sorella Alice, alla bella quanto gelida Rosalie, al mio fratellone Emmett, ad Edward, che mi aveva consolata e lasciata sfogare senza dire una parola.
Non potevo fare questo alla mia famiglia.
“Va tutto bene”, gli dissi, risoluta, “Sto meglio, non dovete preoccuparvi”. Loro però non sembravano crederci. “Sul serio”, aggiunsi.
Edward strinse più forte la mano.
“Mi dispiace di avervi fatti preoccupare”, farfugliai mentre cercavo di non pensare che, se avessi pronunciato quelle parole non sarei più stata libera di lasciarmi andare, di sfogarmi, “È che…non volevo costringervi ad…assistere, sono già un peso per voi…”. M’interruppi, la voce stava per morirmi in gola.
Carlisle mi guardò negli occhi e vi lessi una cosa che credevo di aver dimenticato: l’affetto, un immenso ed indescrivibile affetto. Rapido, mi abbracciò e, per la seconda volta da quando ero entrata a far parte della famiglia, mi sentii come se a consolarmi ci fosse il mio vero padre.
“Non pensare questo, Bella”, mormorò appoggiando il mento sulla mia testa. Era molto più alto di quanto ricordassi. “Per noi non sei affatto un peso, anzi, al contrario. Siamo felicissimi di averti con noi, e ricorda che sei libera di esprimere i tuoi sentimenti senza rinchiuderti in te stessa. Ci siamo passati tutti, vedrai che presto finirà”. Mi mise le mai sulle spalle e mi guardò come solo un padre sa fare: dolce e allo stesso tempo deciso. Si chinò a sfiorare con le labbra, per una attimo, la mia fronte. Nello stesso istante giurai di aver sentito Edward irrigidirsi, ma quando Carlisle si staccò e vidi la sua espressione composta e neutrale, pensai di essermi immaginata tutto.
“Bene!”. Alice si alzò in piedi e batté le mani allegramente, le labbra impeccabili curvate in un sorrisetto che donava al suo viso da elfo. “Tutto risolto. A chi va una battuta di caccia?”.

 

 

Angolo dell'Autrice Pazza:
 
Ringrazio, ancora una volta, tutte quelle che hanno messo questa storia nei preferiti...mi fate arrossire!

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