Arabian Nights

di Leyla
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima parte ***
Capitolo 2: *** Seconda parte ***



Capitolo 1
*** Prima parte ***


Arabian Nights

Una favola dalle Mille e una notte

 
Se anche vivessi per mille anni, non potrei mai scordare quel giorno.

Pianti e lamenti risuonavano nella nostra casa, di solito così allegra. Non passava settimana senza che dessimo qualche ricevimento o banchetto; mio padre era un uomo molto rispettato e benvoluto, a corte, e la gente non mancava mai.
Ma di quel giorno non ricordo musica e sorrisi: ricordo solo i drappi neri alle pareti, il viso affranto degli schiavi e mia madre che piangeva nelle sue stanze, sorvegliata dalle ancelle.
Chiunque ci avesse visitati, quel giorno, avrebbe di certo pensato che si stava preparando un funerale, in casa nostra.
Ma non avrebbe mai indovinato di chi.
Perché il funerale era il mio. 

Tutto era cominciato un mese prima. Mio padre aveva dato un grande ricevimento in occasione del matrimonio di mio fratello maggiore, e aveva invitato il re, in qualità di suo gran visir, ad intervenire nella nostra umile dimora. Il re, che stimava tantissimo mio padre, aveva accettato con piacere. Avevo pensato che mio padre ne sarebbe stato contento: la presenza del re in casa nostra avrebbe aumentato moltissimo il suo prestigio. Per questo non riuscivo a capire la sua aria contrariata e gli sguardi cupi che mi rivolgeva quando mi vedeva.
La sera prima del banchetto mi chiamò nel suo studio.
«Sharazad» mi disse, guardandomi tristemente. «Fino ad oggi ho sempre considerato la tua bellezza un dono di Dio. Ma ora non mi sembra altro che una maledizione».
Di fronte al mio sguardo interrogativo, sospirò. «Non posso raccontarti nulla. Significherebbe tradire il mio re, e io sono un uomo d’onore.
«Ti dico solo questo» riprese, con un altro sospiro. «Domani non farti vedere dal re. Cerca di passare inosservata, tra gli invitati. Se sarò costretto a presentarvi, non dire nulla e tieni la testa bassa».
«Come desiderate, padre» risposi, sempre più stupita.
Alla mia occhiata sembrò invecchiare all’improvviso. Distolse gli occhi dai miei e si morse il labbro. «Devi capire che sono stato costretto a invitarlo. Sono il suo gran visir, si sarebbe offeso se non l’avessi fatto. Ed è meglio non fare arrabbiare il re…». Rabbrividì. Poi tornò a guardarmi. «Io ti voglio bene, Sharazad» aggiunse, osservandomi con affetto. «In altre circostanze, saresti stata uno dei miei orgogli più grandi. Sei bella e saggia. Chiunque sarebbe fortunato ad averti. Ma ora temo per te».
«Anch’io vi voglio bene, padre» dissi guardandolo con occhi pieni di lacrime. «Non so perché siete così preoccupato per me, ma vi prometto che non mi accadrà niente».
«Questo non puoi saperlo» sussurrò tristemente. Per un lungo momento mi fissò. Poi sembrò riscuotersi. «Non dimenticare quello che ti ho detto. Ora va’, figlia mia».
Scombussolata da quell’insolita conversazione, uscii dallo studio, riflettendo sulle cose che mi aveva detto mio padre. Aveva paura del re. Forse temeva che vedendomi mi avrebbe voluta nel suo harem. A quel pensiero rabbrividii. Ma era impossibile che mio padre temesse una cosa del genere. Chiunque sarebbe stato orgoglioso che la propria figlia sposasse il re. Semmai quella che deve temere qualcosa sono io, mi dissi, pensando al carattere crudele e arrogante del re. Ma non trovavo risposta alle preoccupazioni di mio padre, nemmeno dopo una notte insonne passata ad agitarmi nel mio letto. 

Il giorno dopo era tutto pronto per il ricevimento. La nostra casa era affollata di invitati. Mio fratello Alì e sua moglie erano nell’ingresso a ricevere le congratulazioni e gli auguri di felicità. Di sicuro per lei erano superflui. Era destinata ad essere un oggetto, una macchina che sfornava figli, relegata nella parte di casa destinata alle donne. Fu lì che mi nascosi dagli sguardi degli estranei. Non volevo diventare un oggetto – anche se ‘reale’ – anch’io.
Ma il mio desiderio non poteva essere esaudito. Ero nelle mie stanze da neanche mezz’ora quando sentii un gran vociare fuori, interrottosi rapidamente in un pesante silenzio. Poi un suono di flauti e una voce stentorea che annunciò: «Il re, inviato di Dio, Sua Maestà Shariyar».
Rabbrividii. Non so neanche perché. Forse fu un presagio di ciò che sarebbe avvenuto.
Dopo qualche minuto entrò trafelata una schiava. «Giovane padrona, presto, venite. Il re ha richiesto di essere presentato a tutta la famiglia del gran visir».
A malincuore fui costretta a raggiungere gli invitati nel giardino. Al centro però si era creato un vuoto attorno alla figura del re e del suo seguito di dignitari, schiavi e danzatrici.
Fu lì che lo vidi per la prima volta. In realtà quasi non lo guardai, spaventata dagli avvertimenti di mio padre del giorno precedente. Mi ero coperta con un velo e tenevo gli occhi bassi. Ma non potei evitare di lanciargli un fugace sguardo. Così sollevai la testa e gli gettai un’occhiata, e scoprii che anche lui mi stava guardando. Ci fissammo per il più breve degli istanti, poi io abbassai nuovamente la testa.
Quel fulmineo scambio di sguardi mi aveva scosso. Il re era più giovane di quanto immaginassi: non doveva avere più di trent’anni. Quelle poche cose che avevo colto guardandolo – la barba nera e corta, le membra robuste e proporzionate, le mani forti scintillanti di anelli – mi erano rimaste impresse nella mente. Ma più di tutto, so che non scorderò mai il suo sguardo, i suoi occhi neri e ardenti fissi nei miei, che mi avevano incendiato, trasmettendomi il fuoco che divampava in lui.
Mio padre stava facendo le presentazioni. Mi avvicinai alla mia famiglia – e a lui – rimpiangendo ogni passo. Arrivata, mi rifiutai di alzare gli occhi, che rimasero ostinatamente fissi a terra, finché un paio di stivali, di fattura ricchissima e dalla punta rialzata, non entrarono nel mio campo visivo.
«Permettetemi di presentarvi la mia adorata figlia, Sharazad». Udii la voce di mio padre accanto a me. Mi inchinai, piegando la testa modestamente.
«Una perla rara, senza dubbio. Siete fortunato ad avere nella vostra casa un simile gioiello». Sentii i suoi occhi trafiggermi, e cercai di non mostrare alcuna reazione. La sua voce era profonda ma pacata, e m’incuriosì. Sentivo che voleva suonare sincera, ma c’era un fondo di amarezza che non era riuscito a reprimere del tutto.
«Vi ringrazio, Maestà». Mio padre s’inchinò a sua volta, poi riprese: «Il banchetto comincerà tra breve. Se volete degnarvi di seguirmi, vi accompagnerò nel salone».
«Molto bene» rispose il re, e finalmente si allontanò.
Quando se ne fu andato, sospirai di sollievo.
Al banchetto mi premurai di sedere il più lontano possibile dal re. Rimasi per tutto il tempo zitta e con gli occhi bassi. Non ero l’unica a comportarmi così: molte giovani ragazze sembravano nervose ed evitavano di guardare in direzione del capotavola. Continuavo a chiedermi perchè il re fosse così temuto.
Il ricevimento sembrava interminabile, ma alla fine fu il momento per tutti di tornare a casa. Restai accanto a mio padre mentre presentava i suoi omaggi e ringraziamenti al re. Prima di montare sulla portantina, Shariyar mi lanciò un’ultima occhiata. 

Per le quattro settimane seguenti la vita scorse tranquilla. Dopo i primi giorni di tensione anche mio padre si rilassò e sembrò convinto che il re si fosse dimenticato del banchetto in casa nostra. Io avevo cercato di porgli delle domande sul motivo della sua preoccupazione, ma si rifiutò sempre di rispondermi.
Quel giorno camminavo per il bazar, accompagnata da due schiave, acquistando alcuni alimenti necessari per quel giorno. Avevo intenzione di passare alla mia bancarella preferita, che vendeva veli bellissimi, di seta e ricamati d’oro e d’argento. Ma la tenda che ospitava le stoffe era chiusa da un drappo nero, e le donne che passavano lì davanti si scambiavano sussurri e sguardi di compatimento.
Il banco di fronte era tenuto da una vecchia amica di mia madre. Ordinai alle schiave di aspettarmi fuori, poi mi avvicinai a Maryam.
«Buongiorno» esordii sorridendo. «Mia madre vi porge i suoi saluti. Come state?».
«Buongiorno, Sharazad!». Il suo sguardo s’illuminò. «Diventi sempre più bella. Ricambia i saluti di tua madre. Qui si tira avanti… per fortuna Dio ha concesso la salute a me e alla mia famiglia».
«Sono contenta di sentirlo» risposi. «Fossero tutti così fortunati». Gettai un’occhiata al velo nero sulla tenda di fronte. Maryam se ne accorse, perché replicò: «Hai ragione. Eppure a volte accadono cose che non ci si aspetterebbe. La volontà di Dio è imprevedibile».
La guardai incuriosita. Lei fece un cenno con il capo verso la tenda e disse pacata: «Sua figlia è morta ieri».
«No! Safiya è morta?». Sconvolta, portai una mano alla bocca. «Cos’è successo? Una malattia?».
«No. Non ho mai conosciuto una ragazza bella e in buona salute come Safiya» disse Maryam con aria cupa. «Magari fosse stato un malanno. Avrebbe reso tutto più sopportabile». Sospirò. «È stata chiamata dal re».
Non capii il nesso di ciò con la sua morte. «E allora? Le è successo qualcosa a palazzo?».
«Buon Dio, Sharazad» esclamò la vecchia gettandomi un’occhiata strana. «Non sai cosa accade a una ragazza se viene chiamata dal re?».
«Viene… uccisa?» sussurrai incredula. «Perché?».
«Allora non conosci la storia del re Shariyar?». Maryam mi scrutò con uno sguardo talmente stupito che, se la situazione non fosse stata mortalmente seria – era proprio il caso di dirlo –, probabilmente avrei riso. Invece la guardai spaventata.
«Raccontatemela, vi prego» la implorai. Ora capivo perché mio padre era così preoccupato, perché avesse cercato di mettermi in guardia. Temeva che il re Shariyar mi convocasse a palazzo e mi uccidesse. «Perché odia le donne in questo modo?».
«Tu forse non te lo ricordi» iniziò Maryam «ma circa tre anni fa il re conobbe Nadira, la figlia di un visir, una fanciulla di rara bellezza. Se ne innamorò e la sposò. Ma la ragazza amava un altro giovane, e di nascosto da tutti continuò a vederlo. Un giorno il re li scoprì: folle di rabbia, ordinò che entrambi fossero giustiziati. Da allora si convinse che tutte le donne, specialmente quelle belle, fossero perfide e astute come serpenti. Così, ogni volta che conosceva una fanciulla, la sposava e la faceva uccidere all’alba della prima notte di nozze. Sono tre anni ormai che continuano questi delitti». Maryam scosse la testa, poi mi guardò. «Sharazad, tu sei bellissima e sei la figlia del gran visir. Devi stare attenta. Il re è sempre alla ricerca di qualche ragazza giovane e bella come te».
Ero immobilizzata dal terrore. E così, la mia sorte era segnata. Prima o poi il re avrebbe richiesto la mia presenza a corte. Mi avrebbe sposata e la mattina seguente mi avrebbe fatta uccidere.
Avevo solo sedici anni. Trascorrevo i miei pomeriggi ricamando, cantando, leggendo. Non ero pronta per sposarmi… e per morire.
«Maryam» dissi, più tranquillamente di quanto mi aspettassi. «Se… quando accadrà, cosa potrò fare per evitare di essere giustiziata?».
«Ti sconsiglio di difendere la tua causa parlando con il re. Questi anni di omicidi lo hanno trasformato, rendendo il suo cuore crudele e insensibile alla pietà. Non è molto incline ad accettare consigli.
«Sharazad» continuò, stringendomi la mano con gentilezza. «Non posso dirti cosa fare. Ma una cosa la so: tu sei una ragazza intelligente e di grande saggezza. Di certo saprai trovare una soluzione. Prega Dio e confida nel tuo istinto. Segui il tuo cuore e ti salverai. Ne sono certa».
«Grazie, Maryam» dissi, commossa e riconoscente. «Ti ringrazio per le tue sagge parole. Ora devo tornare a casa. Addio».
«Addio, Sharazad» rispose. «Che il buon Dio ti protegga».
Probabilmente chi di dovere non udì queste parole.
Ero appena rientrata a casa che una schiava corse verso di me, il viso ricoperto di lacrime.
«Giovane padrona». Cercò di mantenere ferma la voce. «Vostro padre desidera parlarvi. È nel giardino».
Mentre attraversavo il salone ed entravo nel cortile, seppi cosa stava per dirmi mio padre. Lo seppi ancor prima di vedere i suoi occhi umidi, la sua espressione addolorata, le sue labbra contratte. Il mormorio della fontana, il cinguettio degli uccelli, la brezza sul viso… sembravano improvvisamente cose irreali, appartenenti a un mondo che non era più il mio.
Era appena arrivata una lettera. Ero attesa a corte per l’indomani.
Non potei impedire a una lacrima di scivolarmi lungo il viso.

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Capitolo 2
*** Seconda parte ***


Arabian Nights - 1

Quello fu il giorno più lungo della mia vita.
Incaricai gli schiavi di preparare una portantina e un baule con i miei oggetti. Cose inutili che non avrei mai usato, per salvare un’apparenza che non esisteva.
Mia madre era sepolta nelle sue stanze e piangeva. Cercavo di consolarla, ma lungi dal rassicurarmi, quella scena mi deprimeva ancora di più, così rinunciai e mi rifugiai nel giardino, nel mio padiglione personale, assieme a un libro.
Era il mio preferito: un libro di fiabe di quando ero piccola. Ero cresciuta sognando di essere una delle eroine che lo popolavano. Il volume era un tipo raro, con una copertina splendidamente rilegata e preziose miniature al suo interno.
Se solo avessi potuto addormentare il re con una fiaba e non farlo svegliare che la notte seguente… Sorrisi tristemente. La realtà era molto diversa dalle favole, e io stavo per impararlo a mie spese.
La sera seguente non piansi, quando salutai la mia famiglia. Abbracciai mia madre, mio padre, mio fratello e sua moglie, le mie schiave personali; ma non versai una lacrima. Volevo mostrarmi coraggiosa e serena di fronte al mio destino, ma dentro di me ero terrorizzata.
Nella portantina scostai le tende quando avvistammo il palazzo reale, per vederlo meglio. Era splendido e maestoso, come ogni volta che ci passavo davanti. Buffo come le cose fossero cambiate: allora avrei dato chissà cosa pur di dare un’occhiata al suo interno. Ora avrei preferito mille volte non mettervi mai piede in tutta la mia vita.
Di ciò che successe in seguito non ricordo granché. Arrivata, fui truccata e profumata dalle schiave assegnatemi, che mi vestirono con un sontuoso abito e mi velarono con stoffe pregiatissime. Quasi non mi guardai allo specchio.
Dopodiché mi portarono in una grande sala, sfarzosamente addobbata come tutto il resto. Com’era possibile che il re vivesse in un tale lusso, quando per le strade la gente moriva di fame e miseria?
Le porte dorate in fondo alla sala si spalancarono e il re fece il suo ingresso. Non alzai gli occhi per guardare il mio carnefice. Ci inginocchiammo su un tappeto davanti all’imam, che cominciò a leggere un brano del Corano. Non ascoltai nemmeno una parola. Mi sentivo troppo vuota perfino per pregare.
Infine, l’imam posò le mani sulle nostre teste e proclamò: «In questo giorno Dio unisce queste due anime in una sola. Che ciò rimanga tale finché morte non vi separi».
Finché morte non vi separi. Ero talmente vicina a una crisi isterica che quasi mi lasciai sfuggire una risatina. Riuscii a mordermi la lingua e a rimanere zitta. Naturalmente l’imam era a conoscenza del fatto che il re sarebbe rimasto vedovo il giorno dopo: chissà quante volte aveva ripetuto quelle stesse parole nella stessa sala. Perfino lo sposo era lo stesso. L’unica cosa che cambiava era la sposa. Io.
La cerimonia era finita e il re se ne andò. Non ci eravamo detti una parola. Non ci eravamo scambiati uno sguardo. A parte l’imam e gli schiavi, la sala era deserta. Questo non fece che acuire la mia aridità interiore.
Mi fu concesso di andarmene dove mi pareva, a patto che restassi all’interno del palazzo. Scelsi di rifugiarmi sulla terrazza più alta, da dove potevo vedere la luce soffusa del tramonto bagnare d’oro la città e far scintillare di bagliori aurei la cupola della moschea.
Non avrei mai più visto uno spettacolo simile. Mi restava una notte; dopodiché sarei stata cancellata. E la stessa cosa si sarebbe ripetuta a centinaia di ragazze dopo di me.
Ormai ero praticamente riuscita ad accettare ciò che mi sarebbe accaduto. Ero in pace con me stessa; di quel poco che avevo vissuto, non rimpiangevo nulla.
Ma come potevo permettere che altre giovani ragazze facessero la mia stessa fine? Dovevo cercare d’impedirlo. Dovevo parlare con il re, farlo desistere da quella follia malvagia e insensata.
Ma le parole di Maryam continuavano a farsi strada nel mio cervello. Questi anni di omicidi lo hanno trasformato, rendendo il suo cuore crudele e insensibile alla pietà. Non è molto incline ad accettare consigli…
Mi sarei inventata qualcosa, allora. Ma in un modo o nell’altro questa disumana tradizione doveva cessare. 

Appena la sera era scesa, le schiave mi erano venute a cercare e mi avevano preparato per la notte. Poi mi avevano lasciata sola, dicendomi che probabilmente il re sarebbe tornato nelle sue stanze solo molto tardi, essendo abituato ad intrattenersi con amici e ballerine tutta la sera. Così attendevo, tormentando l’orlo della vestaglia di seta, che il re Shariyar rientrasse nei suoi – nostri – appartamenti.
Ma non potevo evitare che orribili pensieri mi attraversassero fulminei la testa. E se fosse ubriaco? E se fosse violento? E se…
No, mi rimproverai con fermezza. Non cederò allo sconforto. Continuerò a essere ottimista.
Mentre continuavo a incoraggiarmi mentalmente, sentii la porta cigolare. Mi irrigidii automaticamente e tutta la preparazione precedente andò in fumo.
Il re Shariyar fece ingresso nella stanza, accompagnato dal suo immancabile seguito: chi gli portava un bicchiere di cristallo pieno di succo di tamarindo, chi gli faceva aria con piume di struzzo, che gli apriva le porte e toglieva di mezzo qualsiasi ostacolo sul suo regale percorso. Non potei fare a meno di guardarli a metà tra il divertito e il compassionevole.
Probabilmente lui dovette cogliere il mio sguardo, perché ordinò: «Andate».
Immediatamente loro si dileguarono, chiudendo silenziosamente le porte.
Mi lanciò una brevissima occhiata, che però bastò a farmi sentire attraversata da parte a parte. Non abbassai lo sguardo, anzi ricambiai fissandolo apertamente. Visto che mi rimaneva una notte di vita, i falsi pudori erano perfettamente inutili. Lui distolse lo sguardo e sembrò non degnarmi più della sua attenzione.
Di nuovo mi stupì la sua giovane età. Era alto e forte, con un bel viso fiero; la mascella squadrata era ombreggiata da una corta barba, e i lunghi capelli neri, che cercava continuamente di scacciare agitando la testa, gli ricadevano immancabilmente sugli occhi e sulle spalle. I suoi occhi erano strani. Neri e scintillanti, sarebbero potuti facilmente sembrare minacciosi, ma l’unica cosa che mi aveva fatto scorrere un brivido giù per la schiena, quando li avevo fissati, era il fuoco che ardeva in essi. Non era affatto quello che mi sarei aspettata. Nel giardino di casa mia non l’avevo guardato granché, e comunque mi aveva dato un’impressione totalmente diversa, con le sue vesti sontuose e il seguito sorprendente dietro. Qui sembrava semplicemente… un uomo. Certo, il portamento regale si faceva vedere in ogni suo gesto, ma non era più così sconcertante. E mai, mai avrei detto che dietro quel viso si nascondessero le efferatezze di cui mi aveva narrato Maryam.
Poi lui parlò all’improvviso, tanto da farmi sobbalzare. «Non ami la compagnia delle schiave?». Non mi stava guardando. Si stava cambiando; mi stupii che lo facesse da solo.
«Penso che abbiano di meglio da fare che assistermi quando non faccio niente. Non risulta utile né a me né a loro». Cercai di mantenere un tono di voce basso ed educato.
«Perciò trovi superflua la quantità di schiavi che si occupano di me». Non era una domanda, perciò preferii non rispondere, anche se in cuor mio ero d’accordo con lui.
Finalmente indossò la vestaglia – molto più ricca e lussuosa della mia – e si accomodò sul letto, non troppo vicino a me, guardandomi.
«Sharazad, la figlia del mio gran visir Hussein ibn Rashid» disse, sorprendendomi. Non mi ero aspettata che sapesse chi fossi. Ormai doveva aver perso il conto di tutte le giovani mogli che aveva avuto.
«Al ricevimento nella tua casa non ho potuto osservarti bene. Ma vedo che sei ancora più bella di come ricordavo». Mentre parlava s’incupì. Probabilmente pensava alla perfidia che secondo lui nascondevo.
Feci uno sforzo per celare l’irritazione e risposi: «Il mio signore mi onora. Non pretendo di essere migliore di qualunque ragazza del vostro regno».
«Sciocchezze». Liquidò la mia frase con una mano. «So bene quanto voi donne siate vanitose e avide di lodi. Oggi ti sei trovata bene nel mio palazzo? Ti hanno fatto mancare nulla?».
«Al contrario, mio signore, vi ringrazio» risposi, dissimulando il risentimento. «Penso anzi che ci siano talmente tante ricchezze in questo palazzo che sarebbe difficile che manchi qualcosa, anche se tutta la popolazione del regno vi abitasse».
«Parli come se non fossi cresciuta in un palazzo anche tu» disse, sarcastico.
«È vero che la mia famiglia è ricca, ma non abbiamo mai vissuto in eccessi di lusso. Mio padre ha pochi schiavi e molto del suo denaro lo distribuisce ai poveri». Mi pentii di aver tirato fuori quel discorso. Sembrava che stessi facendo una ramanzina al re. E poi parlare di mio padre mi faceva male.
Lui però sembrava interessato. «Ma non pensi che essendo il re questo lusso mi spetti di diritto?».
Alzai le spalle. «Non saprei» risposi. «Voi siete un sovrano nobile e giusto e sicuramente le vostre ricchezze sono la ricompensa di Dio ai vostri meriti».
Le lusinghe fecero effetto, perché sorrise compiaciuto.
Io però non avevo finito. «Ma credo che finché ogni lanterna in ciascuna casa non si trasformerà nella lampada di Aladino, sia meglio non sprecare le proprie ricchezze ma usarle per migliorare la vita dei propri sudditi».
Il re Shariyar aggrottò la fronte. «La lampada di Aladino? E cosa sarebbe?».
«Non conoscete la storia di Aladino e della lampada incantata?» chiesi, sinceramente stupita.
«No» rispose. «È una storia interessante?».
«Certamente» dissi sorridendo. «È una storia magica e meravigliosa».
«Allora raccontamela» propose, e si mise comodo. E fu allora che mi venne in mente un’idea, che forse era folle, ma proprio per la sua follia poteva funzionare.
«Come desidera il mio signore». E cominciai a raccontare.

L’alba bussava delicatamente alle finestre e, senza attendere il permesso, colorava con le sue dita rosate il cielo, entrando nella stanza e facendo luce sui nostri visi. Quello del re era assorto sul mio, perché non avevo ancora finito di narrare la storia.
Un toc-toc leggero alla porta ci fece sobbalzare e l’atmosfera di magia che regnava si ruppe. Io tacqui a metà di una frase, sentendo brividi gelidi corrermi giù per la schiena.
Il re sbuffò, irritato. «Avanti» gridò.
La porta si dischiuse lentamente e un servo fece capolino. «Vostra Maestà» balbettò «il… Razoul è pronto». Chiamalo pure con il suo nome: il boia, pensai sprezzante. Lui mi lanciò nervosamente un’occhiata, quasi avesse intuito i miei pensieri, poi si rivolse di nuovo al re. «Cosa devo dirgli?».
Quasi tremavo, mentre aspettavo la risposta del re Shariyar. Sarebbe bastata la curiosità a farmi graziare per quel giorno?
Lui sembrava indeciso. Guardò prima il servo e poi me.
«Non… Puoi finire la tua storia?» mi chiese, con voce stranamente gentile.
«Mi dispiace, mio signore» risposi dolcemente. «Manca ancora molto alla fine e sicuramente voi avete molti impegni questa mattina. Inoltre non credete che sia la notte il momento migliore per narrare di spiriti e magia?».
Mi fissò per un attimo, soppesando le mie parole. Poi, quasi a malincuore, si rivolse al servo, che attendeva nervosamente sulla porta.
«Digli di rimandare a domattina».

Ogni volta che finivo una storia facevo in modo di iniziarne subito un’altra, collegata alla precedente, che finiva la notte successiva. Oltre alle storie di principi e re, preferivo raccontare quelle di povera gente, costretta a faticare per sopravvivere, ma che grazie al proprio talento e alle proprie virtù conquistava la fortuna. Cercavo di dipingere per il re uno scenario di vita al di fuori delle ricchezze del suo palazzo, l’unica cosa che conoscesse realmente: una vita di fatiche e sacrifici, che rifletteva quella della maggioranza dei suoi sudditi. Volevo che rimanesse affascinato, stregato, che si sentisse di nuovo bambino e che scordasse i delitti. E ci riuscii, sebbene sapessi in ogni momento che il fragile equilibrio creatosi fra di noi poteva spezzarsi per un niente, che una qualsiasi mattina poteva stancarsi di me e spedirmi dal boia.
Tuttavia, non lo fece.
Una sera, come al solito, si accomodò accanto a me sul letto mentre finivo di raccontare la storia di quella notte. Ormai aveva abbandonato le formalità e il contatto fra di noi avveniva sempre più spesso. Così il modo in cui si stese vicino a me e mi circondò la vita con il braccio era assolutamente normale. Per lui.
Perché naturalmente il mio cuore testardo e capriccioso aveva compiuto l’unica cosa che gli avevo proibito di fare, costringendomi a soffrire sempre di più, notte dopo notte.
Mi ero innamorata del mio carnefice.
Come non farlo, dopo aver visto la sua espressione affascinata, senza traccia di ferocia, quegli occhi non più minacciosi ma sinceri e curiosi, che correvano assorti sul mio viso? Come non desiderare che il braccio forte ma gentile mi avvolgesse nel suo abbraccio ogni notte?
E così soffrivo, scorgendo sul suo viso l’interesse solo per le mie storie, e mai per me. Era un pensiero stupido: lui era il re, poteva avere tutte le donne che voleva e sicuramente ne aveva già un numero illimitato a disposizione. Perché avrebbe dovuto voler stare con me?
Quella notte incassai in silenzio i brividi che il contatto con lui mi dava e, finito il racconto, mi accinsi a iniziare un’altra storia.
Ma prima che potessi emettere un solo suono lui mi posò un dito sulle labbra.
«Sharazad» sussurrò. «Aspetta».
Mi irrigidii e lo guardai interrogativa.
«Devo dirti una cosa» rispose al mio sguardo muto. «Grazie per le tue bellissime storie. Hai reso tutte queste notti le più speciali che abbia mai vissuto. Ora però non ne ho più bisogno».
Lo sapevo. Sapevo che quel momento sarebbe arrivato, prima o poi. Non potevo continuare a incantarlo per sempre…
«Vedi» proseguì, «dopo tutto questo tempo ho finalmente capito una cosa».
E infatti mi stupivo che non mi avesse interrotta prima. Sentivo già la lama fredda del boia a contatto con la mia gola. Abbassai gli occhi per non fargli vedere le lacrime che brillavano fra le ciglia.
Uccisa dall’uomo che amavo. Poteva esserci destino più crudele?
Sentivo la sua voce lontanissima. Però il tono non era quello giusto: invece di essere adirato, sembrava stranamente gentile. Che volesse addolcire i miei ultimi istanti di vita?
«Sharazad, tu mi hai cambiato. Prima di incontrarti ero crudele ed egoista, e pensavo che tutte le donne che incontravo meritassero di essere punite per la mia sofferenza. Ho compiuto tre anni di delitti e questo non ha fatto che accrescere l’odio nel mio cuore. Ma tu, attraverso la tua innocenza, la tua dolcezza, mi hai fatto comprendere il mio errore. Capirò se sarai disgustata dalle atrocità che ho commesso e se vuoi ti lascerò tornare alla casa di tuo padre».
Alzai lo sguardo incredula. Avevo sentito male? Stavo sognando? Ma il suo viso era così vicino, gli occhi così pieni di calore. Non mi guardava come se mi stesse prendendo in giro. Mi guardava… come se mi amasse.
«Sharazad» soggiunse «vuoi restare ed essere la mia unica regina?».
Unica regina?
Come al solito indovinò ciò che mi passava per la testa.
«Se ci sei tu accanto a me» mormorò «non ho bisogno di nessun’altra».
Non sapevo cosa dire. Sperai che il mio sguardo bastasse e semplicemente annuii.
Lui dovette capire, perché avvicinò raggiante il suo viso al mio e i nostri cuori si fusero, mentre fuori il sole sorgeva su un nuovo giorno.

EPILOGO 

Sono passati anni da quella notte in cui cominciai a raccontare tutte le favole che amavo di più al mio re. Ciò che è successo si è propagato oltre le mura del palazzo come quando si getta un sasso in un lago. Ma prima o poi qualsiasi onda si calma: così è avvenuto alle dicerie e ai pettegolezzi. Dicono che abbia tenuto in scacco il re per mille e una notte… naturalmente non è così. Però ho perso il conto di quelle notti sussurrate a lume di candela. Oggi, della storia delle mie narrazioni al re, è rimasta solo la leggenda sfumata, la pallida ombra della realtà. Ma la verità è come quel sasso in fondo al lago: che si veda o no, c’è sempre. E solo io la possiedo.

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