Arabian Nights di Leyla (/viewuser.php?uid=47807)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima parte ***
Capitolo 2: *** Seconda parte ***
Capitolo 1 *** Prima parte ***
Arabian
Nights
Una
favola dalle Mille e una notte
Se
anche vivessi per mille anni, non potrei mai scordare quel giorno.
Pianti
e lamenti risuonavano nella nostra casa, di solito così
allegra. Non passava
settimana senza che dessimo qualche ricevimento o banchetto; mio padre
era un
uomo molto rispettato e benvoluto, a corte, e la gente non mancava mai.
Ma
di quel giorno non ricordo musica e sorrisi: ricordo solo i drappi neri
alle
pareti, il viso affranto degli schiavi e mia madre che piangeva nelle
sue stanze,
sorvegliata dalle ancelle.
Chiunque
ci avesse visitati, quel giorno, avrebbe di certo pensato che si stava
preparando un funerale, in casa nostra.
Ma
non avrebbe mai indovinato di chi.
Perché
il funerale era il mio.
Tutto
era cominciato un mese prima. Mio padre aveva dato un grande
ricevimento in
occasione del matrimonio di mio fratello maggiore, e aveva invitato il
re, in
qualità di suo gran visir, ad intervenire nella nostra umile
dimora. Il re, che
stimava tantissimo mio padre, aveva accettato con piacere. Avevo
pensato che
mio padre ne sarebbe stato contento: la presenza del re in casa nostra
avrebbe
aumentato moltissimo il suo prestigio. Per questo non riuscivo a capire
la sua
aria contrariata e gli sguardi cupi che mi rivolgeva quando mi vedeva.
La
sera prima del banchetto mi chiamò nel suo studio.
«Sharazad»
mi disse, guardandomi tristemente. «Fino ad oggi ho sempre
considerato la tua
bellezza un dono di Dio. Ma ora non mi sembra altro che una
maledizione».
Di
fronte al mio sguardo interrogativo, sospirò. «Non
posso raccontarti nulla.
Significherebbe tradire il mio re, e io sono un uomo d’onore.
«Ti
dico solo questo» riprese, con un altro sospiro.
«Domani non farti vedere dal
re. Cerca di passare inosservata, tra gli invitati. Se sarò
costretto a presentarvi,
non dire nulla e tieni la testa bassa».
«Come
desiderate, padre» risposi, sempre più stupita.
Alla
mia occhiata sembrò invecchiare all’improvviso.
Distolse gli occhi dai miei e
si morse il labbro. «Devi capire che sono stato costretto a
invitarlo. Sono il
suo gran visir, si sarebbe offeso se non l’avessi fatto. Ed
è meglio non fare
arrabbiare il re…». Rabbrividì. Poi
tornò a guardarmi. «Io ti voglio bene,
Sharazad» aggiunse, osservandomi con affetto. «In
altre circostanze, saresti
stata uno dei miei orgogli più grandi. Sei bella e saggia.
Chiunque sarebbe
fortunato ad averti. Ma ora temo per te».
«Anch’io
vi voglio bene, padre» dissi guardandolo con occhi pieni di
lacrime. «Non so
perché siete così preoccupato per me, ma vi
prometto che non mi accadrà
niente».
«Questo
non puoi saperlo» sussurrò tristemente. Per un
lungo momento mi fissò. Poi
sembrò riscuotersi. «Non dimenticare quello che ti
ho detto. Ora va’, figlia
mia».
Scombussolata
da quell’insolita conversazione, uscii dallo studio,
riflettendo sulle cose che
mi aveva detto mio padre. Aveva paura del re. Forse temeva che
vedendomi mi
avrebbe voluta nel suo harem. A quel pensiero rabbrividii. Ma era
impossibile
che mio padre temesse una cosa del genere. Chiunque sarebbe stato
orgoglioso
che la propria figlia sposasse il re. Semmai quella che deve
temere qualcosa
sono io, mi dissi, pensando al carattere crudele e arrogante
del re. Ma non
trovavo risposta alle preoccupazioni di mio padre, nemmeno dopo una
notte
insonne passata ad agitarmi nel mio letto.
Il
giorno dopo era tutto pronto per il ricevimento. La nostra casa era
affollata
di invitati. Mio fratello Alì e sua moglie erano
nell’ingresso a ricevere le
congratulazioni e gli auguri di felicità. Di sicuro per lei
erano superflui.
Era destinata ad essere un oggetto, una macchina che sfornava figli,
relegata
nella parte di casa destinata alle donne. Fu lì che mi
nascosi dagli sguardi
degli estranei. Non volevo diventare un oggetto – anche se
‘reale’ – anch’io.
Ma
il mio desiderio non poteva essere esaudito. Ero nelle mie stanze da
neanche
mezz’ora quando sentii un gran vociare fuori, interrottosi
rapidamente in un
pesante silenzio. Poi un suono di flauti e una voce stentorea che
annunciò: «Il
re, inviato di Dio, Sua Maestà Shariyar».
Rabbrividii.
Non so neanche perché. Forse fu un presagio di
ciò che sarebbe avvenuto.
Dopo
qualche minuto entrò trafelata una schiava.
«Giovane padrona, presto,
venite. Il re ha richiesto di essere presentato a tutta la famiglia del
gran
visir».
A
malincuore fui costretta a raggiungere gli invitati nel giardino. Al
centro
però si era creato un vuoto attorno alla figura del re e del
suo seguito di
dignitari, schiavi e danzatrici.
Fu
lì che lo vidi per la prima volta. In realtà
quasi non lo guardai, spaventata
dagli avvertimenti di mio padre del giorno precedente. Mi ero coperta
con un
velo e tenevo gli occhi bassi. Ma non potei evitare di lanciargli un
fugace
sguardo. Così sollevai la testa e gli gettai
un’occhiata, e scoprii che anche
lui mi stava guardando. Ci fissammo per il più breve degli
istanti, poi io
abbassai nuovamente la testa.
Quel
fulmineo scambio di sguardi mi aveva scosso. Il re era più
giovane di quanto
immaginassi: non doveva avere più di trent’anni.
Quelle poche cose che avevo
colto guardandolo – la barba nera e corta, le membra robuste
e proporzionate,
le mani forti scintillanti di anelli – mi erano rimaste
impresse nella mente.
Ma più di tutto, so che non scorderò mai il suo
sguardo, i suoi occhi neri e
ardenti fissi nei miei, che mi avevano incendiato, trasmettendomi il
fuoco che
divampava in lui.
Mio
padre stava facendo le presentazioni. Mi avvicinai alla mia famiglia
– e a lui
– rimpiangendo ogni passo. Arrivata, mi rifiutai di alzare
gli occhi, che
rimasero ostinatamente fissi a terra, finché un paio di
stivali, di fattura
ricchissima e dalla punta rialzata, non entrarono nel mio campo visivo.
«Permettetemi
di presentarvi la mia adorata figlia, Sharazad». Udii la voce
di mio padre
accanto a me. Mi inchinai, piegando la testa modestamente.
«Una
perla rara, senza dubbio. Siete fortunato ad avere nella vostra casa un
simile
gioiello». Sentii i suoi occhi
trafiggermi, e cercai di non mostrare
alcuna reazione. La sua voce era profonda ma pacata, e
m’incuriosì. Sentivo che
voleva suonare sincera, ma c’era un fondo di amarezza che non
era riuscito a
reprimere del tutto.
«Vi
ringrazio, Maestà». Mio padre
s’inchinò a sua volta, poi riprese: «Il
banchetto
comincerà tra breve. Se volete degnarvi di seguirmi, vi
accompagnerò nel
salone».
«Molto
bene» rispose il re, e finalmente si allontanò.
Quando
se ne fu andato, sospirai di sollievo.
Al
banchetto mi premurai di sedere il più lontano possibile dal
re. Rimasi per
tutto il tempo zitta e con gli occhi bassi. Non ero l’unica a
comportarmi così:
molte giovani ragazze sembravano nervose ed evitavano di guardare in
direzione
del capotavola. Continuavo a chiedermi perchè il re fosse
così temuto.
Il
ricevimento sembrava interminabile, ma alla fine fu il momento per
tutti di
tornare a casa. Restai accanto a mio padre mentre presentava i suoi
omaggi e
ringraziamenti al re. Prima di montare sulla portantina, Shariyar mi
lanciò
un’ultima occhiata.
Per
le quattro settimane seguenti la vita scorse tranquilla. Dopo i primi
giorni di
tensione anche mio padre si rilassò e sembrò
convinto che il re si fosse
dimenticato del banchetto in casa nostra. Io avevo cercato di porgli
delle
domande sul motivo della sua preoccupazione, ma si rifiutò
sempre di
rispondermi.
Quel
giorno camminavo per il bazar, accompagnata da due
schiave, acquistando
alcuni alimenti necessari per quel giorno. Avevo intenzione di passare
alla mia
bancarella preferita, che vendeva veli bellissimi, di seta e ricamati
d’oro e
d’argento. Ma la tenda che ospitava le stoffe era chiusa da
un drappo nero, e
le donne che passavano lì davanti si scambiavano sussurri e
sguardi di
compatimento.
Il
banco di fronte era tenuto da una vecchia amica di mia madre. Ordinai
alle
schiave di aspettarmi fuori, poi mi avvicinai a Maryam.
«Buongiorno»
esordii sorridendo. «Mia madre vi porge i suoi saluti. Come
state?».
«Buongiorno,
Sharazad!». Il suo sguardo s’illuminò.
«Diventi sempre più bella. Ricambia i
saluti di tua madre. Qui si tira avanti… per fortuna Dio ha
concesso la salute
a me e alla mia famiglia».
«Sono
contenta di sentirlo» risposi. «Fossero tutti
così fortunati». Gettai
un’occhiata al velo nero sulla tenda di fronte. Maryam se ne
accorse, perché
replicò: «Hai ragione. Eppure a volte accadono
cose che non ci si aspetterebbe.
La volontà di Dio è imprevedibile».
La
guardai incuriosita. Lei fece un cenno con il capo verso la tenda e
disse
pacata: «Sua figlia è morta ieri».
«No!
Safiya è morta?». Sconvolta, portai una mano alla
bocca. «Cos’è successo? Una
malattia?».
«No.
Non ho mai conosciuto una ragazza bella e in buona salute come
Safiya» disse
Maryam con aria cupa. «Magari fosse stato un malanno. Avrebbe
reso tutto più
sopportabile». Sospirò. «È
stata chiamata dal re».
Non
capii il nesso di ciò con la sua morte. «E allora?
Le è successo qualcosa a
palazzo?».
«Buon
Dio, Sharazad» esclamò la vecchia gettandomi
un’occhiata strana. «Non sai cosa
accade a una ragazza se viene chiamata dal re?».
«Viene…
uccisa?» sussurrai incredula.
«Perché?».
«Allora
non conosci la storia del re Shariyar?». Maryam mi
scrutò con uno sguardo
talmente stupito che, se la situazione non fosse stata mortalmente
seria – era
proprio il caso di dirlo –, probabilmente avrei riso. Invece
la guardai
spaventata.
«Raccontatemela,
vi prego» la implorai. Ora capivo perché mio padre
era così preoccupato, perché
avesse cercato di mettermi in guardia. Temeva che il re Shariyar mi
convocasse
a palazzo e mi uccidesse. «Perché odia le donne in
questo modo?».
«Tu
forse non te lo ricordi» iniziò Maryam
«ma circa tre anni fa il re conobbe
Nadira, la figlia di un visir, una fanciulla di rara bellezza. Se ne
innamorò e
la sposò. Ma la ragazza amava un altro giovane, e di
nascosto da tutti continuò
a vederlo. Un giorno il re li scoprì: folle di rabbia,
ordinò che entrambi
fossero giustiziati. Da allora si convinse che tutte le donne,
specialmente
quelle belle, fossero perfide e astute come serpenti. Così,
ogni volta che
conosceva una fanciulla, la sposava e la faceva uccidere
all’alba della prima
notte di nozze. Sono tre anni ormai che continuano questi
delitti». Maryam
scosse la testa, poi mi guardò. «Sharazad, tu sei
bellissima e sei la figlia
del gran visir. Devi stare attenta. Il re è sempre alla
ricerca di qualche
ragazza giovane e bella come te».
Ero
immobilizzata dal terrore. E così, la mia sorte era segnata.
Prima o poi il re
avrebbe richiesto la mia presenza a corte. Mi avrebbe sposata e la
mattina
seguente mi avrebbe fatta uccidere.
Avevo
solo sedici anni. Trascorrevo i miei pomeriggi ricamando, cantando,
leggendo.
Non ero pronta per sposarmi… e per morire.
«Maryam»
dissi, più tranquillamente di quanto mi aspettassi.
«Se… quando
accadrà,
cosa potrò fare per evitare di essere
giustiziata?».
«Ti
sconsiglio di difendere la tua causa parlando con il re. Questi anni di
omicidi
lo hanno trasformato, rendendo il suo cuore crudele e insensibile alla
pietà.
Non è molto incline ad accettare consigli.
«Sharazad»
continuò, stringendomi la mano con gentilezza.
«Non posso dirti cosa fare. Ma
una cosa la so: tu sei una ragazza intelligente e di grande saggezza.
Di certo
saprai trovare una soluzione. Prega Dio e confida nel tuo istinto.
Segui il tuo
cuore e ti salverai. Ne sono certa».
«Grazie,
Maryam» dissi, commossa e riconoscente. «Ti
ringrazio per le tue sagge parole.
Ora devo tornare a casa. Addio».
«Addio,
Sharazad» rispose. «Che il buon Dio ti
protegga».
Probabilmente
chi di dovere non udì queste parole.
Ero
appena rientrata a casa che una schiava corse verso di me, il viso
ricoperto di
lacrime.
«Giovane padrona». Cercò di mantenere ferma la voce.
«Vostro padre desidera parlarvi. È
nel giardino».
Mentre
attraversavo il salone ed entravo nel cortile, seppi cosa stava per
dirmi mio
padre. Lo seppi ancor prima di vedere i suoi occhi umidi, la sua
espressione
addolorata, le sue labbra contratte. Il mormorio della fontana, il
cinguettio
degli uccelli, la brezza sul viso… sembravano
improvvisamente cose irreali,
appartenenti a un mondo che non era più il mio.
Era
appena arrivata una lettera. Ero attesa a corte per
l’indomani.
Non
potei impedire a una lacrima di scivolarmi lungo il viso.
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Capitolo 2 *** Seconda parte ***
Arabian Nights - 1
Quello
fu il giorno più lungo della mia vita.
Incaricai
gli schiavi di preparare una portantina e un baule con i miei oggetti.
Cose
inutili che non avrei mai usato, per salvare un’apparenza che
non esisteva.
Mia
madre era sepolta nelle sue stanze e piangeva. Cercavo di consolarla,
ma lungi
dal rassicurarmi, quella scena mi deprimeva ancora di più,
così rinunciai e mi
rifugiai nel giardino, nel mio padiglione personale, assieme a un libro.
Era
il mio preferito: un libro di fiabe di quando ero piccola. Ero
cresciuta
sognando di essere una delle eroine che lo popolavano. Il volume era un
tipo
raro, con una copertina splendidamente rilegata e preziose miniature al
suo
interno.
Se
solo avessi potuto addormentare il re con una fiaba e non farlo
svegliare che
la notte seguente… Sorrisi tristemente. La realtà
era molto diversa dalle
favole, e io stavo per impararlo a mie spese.
La
sera seguente non piansi, quando salutai la mia famiglia. Abbracciai
mia madre,
mio padre, mio fratello e sua moglie, le mie schiave personali; ma non
versai
una lacrima. Volevo mostrarmi coraggiosa e serena di fronte al mio
destino, ma
dentro di me ero terrorizzata.
Nella
portantina scostai le tende quando avvistammo il palazzo reale, per
vederlo
meglio. Era splendido e maestoso, come ogni volta che ci passavo
davanti. Buffo
come le cose fossero cambiate: allora avrei dato chissà cosa
pur di dare
un’occhiata al suo interno. Ora avrei preferito mille volte
non mettervi mai
piede in tutta la mia vita.
Di
ciò che successe in seguito non ricordo granché.
Arrivata, fui truccata e
profumata dalle schiave assegnatemi, che mi vestirono con un sontuoso
abito e
mi velarono con stoffe pregiatissime. Quasi non mi guardai allo
specchio.
Dopodiché
mi portarono in una grande sala, sfarzosamente addobbata come tutto il
resto.
Com’era possibile che il re vivesse in un tale lusso, quando
per le strade la
gente moriva di fame e miseria?
Le
porte dorate in fondo alla sala si spalancarono e il re fece il suo
ingresso.
Non alzai gli occhi per guardare il mio carnefice. Ci inginocchiammo su
un
tappeto davanti all’imam, che cominciò a leggere
un brano del Corano. Non
ascoltai nemmeno una parola. Mi sentivo troppo vuota perfino per
pregare.
Infine,
l’imam posò le mani sulle nostre teste e
proclamò: «In questo giorno Dio unisce
queste due anime in una sola. Che ciò rimanga tale
finché morte non vi separi».
Finché
morte non vi separi. Ero talmente vicina a una crisi
isterica che quasi mi
lasciai sfuggire una risatina. Riuscii a mordermi la lingua e a
rimanere zitta.
Naturalmente l’imam era a conoscenza del fatto che il re
sarebbe rimasto vedovo
il giorno dopo: chissà quante volte aveva ripetuto quelle
stesse parole nella
stessa sala. Perfino lo sposo era lo stesso. L’unica cosa che
cambiava era la
sposa. Io.
La
cerimonia era finita e il re se ne andò. Non ci eravamo
detti una parola. Non
ci eravamo scambiati uno sguardo. A parte l’imam e gli
schiavi, la sala era
deserta. Questo non fece che acuire la mia aridità interiore.
Mi
fu concesso di andarmene dove mi pareva, a patto che restassi
all’interno del
palazzo. Scelsi di rifugiarmi sulla terrazza più alta, da
dove potevo vedere la
luce soffusa del tramonto bagnare d’oro la città e
far scintillare di bagliori
aurei la cupola della moschea.
Non
avrei mai più visto uno spettacolo simile. Mi restava una
notte; dopodiché
sarei stata cancellata. E la stessa cosa si sarebbe ripetuta a
centinaia di
ragazze dopo di me.
Ormai
ero praticamente riuscita ad accettare ciò che mi sarebbe
accaduto. Ero in pace
con me stessa; di quel poco che avevo vissuto, non rimpiangevo nulla.
Ma
come potevo permettere che altre giovani ragazze facessero la mia
stessa fine?
Dovevo cercare d’impedirlo. Dovevo parlare con il re, farlo
desistere da quella
follia malvagia e insensata.
Ma
le parole di Maryam continuavano a farsi strada nel mio cervello. Questi
anni di omicidi lo hanno trasformato, rendendo il suo cuore crudele e
insensibile alla pietà. Non è molto incline ad
accettare consigli…
Mi
sarei inventata qualcosa, allora. Ma in un modo o nell’altro
questa disumana
tradizione doveva cessare.
Appena
la sera era scesa, le schiave mi erano venute a cercare e mi avevano
preparato
per la notte. Poi mi avevano lasciata sola, dicendomi che probabilmente
il re
sarebbe tornato nelle sue stanze solo molto tardi, essendo abituato ad
intrattenersi con amici e ballerine tutta la sera. Così
attendevo, tormentando
l’orlo della vestaglia di seta, che il re Shariyar rientrasse
nei suoi – nostri
– appartamenti.
Ma
non potevo evitare che orribili pensieri mi attraversassero fulminei la
testa.
E se fosse ubriaco? E se fosse violento? E se…
No,
mi rimproverai con fermezza. Non cederò allo
sconforto. Continuerò a essere
ottimista.
Mentre
continuavo a incoraggiarmi mentalmente, sentii la porta cigolare. Mi
irrigidii
automaticamente e tutta la preparazione precedente andò in
fumo.
Il
re Shariyar fece ingresso nella stanza, accompagnato dal suo
immancabile
seguito: chi gli portava un bicchiere di cristallo pieno di succo di
tamarindo,
chi gli faceva aria con piume di struzzo, che gli apriva le porte e
toglieva di
mezzo qualsiasi ostacolo sul suo regale percorso. Non potei fare a meno
di
guardarli a metà tra il divertito e il compassionevole.
Probabilmente
lui dovette cogliere il mio sguardo, perché
ordinò: «Andate».
Immediatamente
loro si dileguarono, chiudendo silenziosamente le porte.
Mi
lanciò una brevissima occhiata, che però
bastò a farmi sentire attraversata da
parte a parte. Non abbassai lo sguardo, anzi ricambiai fissandolo
apertamente.
Visto che mi rimaneva una notte di vita, i falsi pudori erano
perfettamente
inutili. Lui distolse lo sguardo e sembrò non degnarmi
più della sua
attenzione.
Di
nuovo mi stupì la sua giovane età. Era alto e
forte, con un bel viso fiero; la
mascella squadrata era ombreggiata da una corta barba, e i lunghi
capelli neri,
che cercava continuamente di scacciare agitando la testa, gli
ricadevano
immancabilmente sugli occhi e sulle spalle. I suoi occhi erano strani.
Neri e
scintillanti, sarebbero potuti facilmente sembrare minacciosi, ma
l’unica cosa
che mi aveva fatto scorrere un brivido giù per la schiena,
quando li avevo
fissati, era il fuoco che ardeva in essi. Non era affatto quello che mi
sarei
aspettata. Nel giardino di casa mia non l’avevo guardato
granché, e comunque mi
aveva dato un’impressione totalmente diversa, con le sue
vesti sontuose e il
seguito sorprendente dietro. Qui sembrava semplicemente… un
uomo. Certo, il
portamento regale si faceva vedere in ogni suo gesto, ma non era
più così
sconcertante. E mai, mai avrei detto che dietro quel viso si
nascondessero le
efferatezze di cui mi aveva narrato Maryam.
Poi
lui parlò all’improvviso, tanto da farmi
sobbalzare. «Non ami la compagnia
delle schiave?». Non mi stava guardando. Si stava cambiando;
mi stupii che lo
facesse da solo.
«Penso
che abbiano di meglio da fare che assistermi quando non faccio niente.
Non
risulta utile né a me né a loro».
Cercai di mantenere un tono di voce basso ed
educato.
«Perciò
trovi superflua la quantità di schiavi che si occupano di
me». Non era una
domanda, perciò preferii non rispondere, anche se in cuor
mio ero d’accordo con
lui.
Finalmente
indossò la vestaglia – molto più ricca
e lussuosa della mia – e si accomodò sul
letto, non troppo vicino a me, guardandomi.
«Sharazad,
la figlia del mio gran visir Hussein ibn Rashid» disse,
sorprendendomi. Non mi
ero aspettata che sapesse chi fossi. Ormai doveva aver perso il conto
di tutte
le giovani mogli che aveva avuto.
«Al
ricevimento nella tua casa non ho potuto osservarti bene. Ma vedo che
sei
ancora più bella di come ricordavo». Mentre
parlava s’incupì. Probabilmente
pensava alla perfidia che secondo lui nascondevo.
Feci
uno sforzo per celare l’irritazione e risposi: «Il
mio signore mi onora. Non
pretendo di essere migliore di qualunque ragazza del vostro
regno».
«Sciocchezze».
Liquidò la mia frase con una mano. «So bene quanto
voi donne siate vanitose e
avide di lodi. Oggi ti sei trovata bene nel mio palazzo? Ti hanno fatto
mancare
nulla?».
«Al
contrario, mio signore, vi ringrazio» risposi, dissimulando
il risentimento.
«Penso anzi che ci siano talmente tante ricchezze in questo
palazzo che sarebbe
difficile che manchi qualcosa, anche se tutta la popolazione del regno
vi
abitasse».
«Parli
come se non fossi cresciuta in un palazzo anche tu» disse,
sarcastico.
«È
vero che la mia famiglia è ricca, ma non abbiamo mai vissuto
in eccessi di
lusso. Mio padre ha pochi schiavi e molto del suo denaro lo
distribuisce ai
poveri». Mi pentii di aver tirato fuori quel discorso.
Sembrava che stessi
facendo una ramanzina al re. E poi parlare di mio padre mi faceva male.
Lui
però sembrava interessato. «Ma non pensi che
essendo il re questo lusso mi
spetti di diritto?».
Alzai
le spalle. «Non saprei» risposi. «Voi
siete un sovrano nobile e giusto e
sicuramente le vostre ricchezze sono la ricompensa di Dio ai vostri
meriti».
Le
lusinghe fecero effetto, perché sorrise compiaciuto.
Io
però non avevo finito. «Ma credo che
finché ogni lanterna in ciascuna casa non
si trasformerà nella lampada di Aladino, sia meglio non
sprecare le proprie
ricchezze ma usarle per migliorare la vita dei propri
sudditi».
Il
re Shariyar aggrottò la fronte. «La lampada di
Aladino? E cosa sarebbe?».
«Non
conoscete la storia di Aladino e della lampada incantata?»
chiesi, sinceramente
stupita.
«No»
rispose. «È una storia interessante?».
«Certamente»
dissi sorridendo. «È una storia magica e
meravigliosa».
«Allora
raccontamela» propose, e si mise comodo. E fu allora che mi
venne in mente
un’idea, che forse era folle, ma proprio per la sua follia
poteva funzionare.
«Come
desidera il mio signore». E cominciai a raccontare.
L’alba
bussava delicatamente alle finestre e, senza attendere il permesso,
colorava
con le sue dita rosate il cielo, entrando nella stanza e facendo luce
sui
nostri visi. Quello del re era assorto sul mio, perché non
avevo ancora finito
di narrare la storia.
Un
toc-toc leggero alla porta ci fece sobbalzare e
l’atmosfera di magia che
regnava si ruppe. Io tacqui a metà di una frase, sentendo
brividi gelidi
corrermi giù per la schiena.
Il
re sbuffò, irritato. «Avanti»
gridò.
La
porta si dischiuse lentamente e un servo fece capolino.
«Vostra Maestà»
balbettò «il… Razoul è
pronto». Chiamalo pure con il suo nome: il boia,
pensai sprezzante. Lui mi lanciò nervosamente
un’occhiata, quasi avesse intuito
i miei pensieri, poi si rivolse di nuovo al re. «Cosa devo
dirgli?».
Quasi
tremavo, mentre aspettavo la risposta del re Shariyar. Sarebbe bastata
la
curiosità a farmi graziare per quel giorno?
Lui
sembrava indeciso. Guardò prima il servo e poi me.
«Non…
Puoi finire la tua storia?» mi chiese, con voce stranamente
gentile.
«Mi
dispiace, mio signore» risposi dolcemente. «Manca
ancora molto alla fine e
sicuramente voi avete molti impegni questa mattina. Inoltre non credete
che sia
la notte il momento migliore per narrare di spiriti e magia?».
Mi
fissò per un attimo, soppesando le mie parole. Poi, quasi a
malincuore, si
rivolse al servo, che attendeva nervosamente sulla porta.
«Digli
di rimandare a domattina».
Ogni
volta che finivo una storia facevo in modo di iniziarne subito
un’altra,
collegata alla precedente, che finiva la notte successiva. Oltre alle
storie di
principi e re, preferivo raccontare quelle di povera gente, costretta a
faticare per sopravvivere, ma che grazie al proprio talento e alle
proprie
virtù conquistava la fortuna. Cercavo di dipingere per il re
uno scenario di
vita al di fuori delle ricchezze del suo palazzo, l’unica
cosa che conoscesse
realmente: una vita di fatiche e sacrifici, che rifletteva quella della
maggioranza dei suoi sudditi. Volevo che rimanesse affascinato,
stregato, che
si sentisse di nuovo bambino e che scordasse i delitti. E ci riuscii,
sebbene
sapessi in ogni momento che il fragile equilibrio creatosi fra di noi
poteva
spezzarsi per un niente, che una qualsiasi mattina poteva stancarsi di
me e spedirmi
dal boia.
Tuttavia,
non lo fece.
Una
sera, come al solito, si accomodò accanto a me sul letto
mentre finivo di
raccontare la storia di quella notte. Ormai aveva abbandonato le
formalità e il
contatto fra di noi avveniva sempre più spesso.
Così il modo in cui si stese
vicino a me e mi circondò la vita con il braccio era
assolutamente normale. Per
lui.
Perché
naturalmente il mio cuore testardo e capriccioso aveva compiuto
l’unica cosa
che gli avevo proibito di fare, costringendomi a soffrire sempre di
più, notte
dopo notte.
Mi
ero innamorata del mio carnefice.
Come
non farlo, dopo aver visto la sua espressione affascinata, senza
traccia di
ferocia, quegli occhi non più minacciosi ma sinceri e
curiosi, che correvano
assorti sul mio viso? Come non desiderare che il braccio forte ma
gentile mi
avvolgesse nel suo abbraccio ogni notte?
E
così soffrivo, scorgendo sul suo viso l’interesse
solo per le mie storie, e mai
per me. Era un pensiero stupido: lui era il re, poteva avere tutte le
donne che
voleva e sicuramente ne aveva già un numero illimitato a
disposizione. Perché
avrebbe dovuto voler stare con me?
Quella
notte incassai in silenzio i brividi che il contatto con lui mi dava e,
finito
il racconto, mi accinsi a iniziare un’altra storia.
Ma
prima che potessi emettere un solo suono lui mi posò un dito
sulle labbra.
«Sharazad»
sussurrò. «Aspetta».
Mi
irrigidii e lo guardai interrogativa.
«Devo
dirti una cosa» rispose al mio sguardo muto.
«Grazie per le tue bellissime
storie. Hai reso tutte queste notti le più speciali che
abbia mai vissuto. Ora
però non ne ho più bisogno».
Lo
sapevo. Sapevo che quel momento sarebbe arrivato, prima o poi. Non
potevo
continuare a incantarlo per sempre…
«Vedi»
proseguì, «dopo tutto questo tempo ho finalmente
capito una cosa».
E
infatti mi stupivo che non mi avesse interrotta prima. Sentivo
già la lama
fredda del boia a contatto con la mia gola. Abbassai gli occhi per non
fargli
vedere le lacrime che brillavano fra le ciglia.
Uccisa
dall’uomo che amavo. Poteva esserci destino più
crudele?
Sentivo
la sua voce lontanissima. Però il tono non era quello
giusto: invece di essere
adirato, sembrava stranamente gentile. Che volesse addolcire i miei
ultimi
istanti di vita?
«Sharazad,
tu mi hai cambiato. Prima di incontrarti ero crudele ed egoista, e
pensavo che
tutte le donne che incontravo meritassero di essere punite per la mia
sofferenza. Ho compiuto tre anni di delitti e questo non ha fatto che
accrescere l’odio nel mio cuore. Ma tu, attraverso la tua
innocenza, la tua
dolcezza, mi hai fatto comprendere il mio errore. Capirò se
sarai disgustata
dalle atrocità che ho commesso e se vuoi ti
lascerò tornare alla casa di tuo
padre».
Alzai
lo sguardo incredula. Avevo sentito male? Stavo sognando? Ma il suo
viso era
così vicino, gli occhi così pieni di calore. Non
mi guardava come se mi stesse
prendendo in giro. Mi guardava… come se mi amasse.
«Sharazad»
soggiunse «vuoi restare ed essere la mia unica
regina?».
Unica
regina?
Come
al solito indovinò ciò che mi passava per la
testa.
«Se
ci sei tu accanto a me» mormorò «non ho
bisogno di nessun’altra».
Non
sapevo cosa dire. Sperai che il mio sguardo bastasse e semplicemente
annuii.
Lui
dovette capire, perché avvicinò raggiante il suo
viso al mio e i nostri cuori
si fusero, mentre fuori il sole sorgeva su un nuovo giorno.
EPILOGO
Sono
passati anni da quella notte in cui cominciai a raccontare tutte le
favole che
amavo di più al mio re. Ciò che è
successo si è propagato oltre le mura del
palazzo come quando si getta un sasso in un lago. Ma prima o poi
qualsiasi onda
si calma: così è avvenuto alle dicerie e ai
pettegolezzi. Dicono che abbia
tenuto in scacco il re per mille e una notte… naturalmente
non è così. Però ho
perso il conto di quelle notti sussurrate a lume di candela. Oggi,
della storia
delle mie narrazioni al re, è rimasta solo la leggenda
sfumata, la pallida
ombra della realtà. Ma la verità è
come quel sasso in fondo al lago: che si
veda o no, c’è sempre. E solo io la possiedo.
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