Go Not Gently

di Guardian1
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Transferred Malice ***
Capitolo 2: *** Those With Black Faces ***
Capitolo 3: *** Bleeding From His Mouth ***
Capitolo 4: *** Halfway Down Already ***
Capitolo 5: *** No Angel ***
Capitolo 6: *** Not Knowing ***
Capitolo 7: *** Run From Me ***
Capitolo 8: *** Sins Of The Fathers ***
Capitolo 9: *** On Stopping ***
Capitolo 10: *** Leaving You Behind ***
Capitolo 11: *** You Can’t Go Home Again ***
Capitolo 12: *** Straining Towards Apocalypse ***
Capitolo 13: *** Like We Could Die ***
Capitolo 14: *** The Difference Of Existing ***
Capitolo 15: *** And How They Lived ***



Capitolo 1
*** Transferred Malice ***


NdA: la solita solfa la conoscete già; appartengono alla Square, non a me, e io sono una poverina che non sa quello che fa. E lo faccio perché è un sacco che volevo scrivere su Eiko, perché ammiro le piccole “donne” bambine che sanno esattamente quello che vogliono all’età di sei anni.

Divertitevi. Io di sicuro mi sono divertita a scriverla!





prologo
cattiveria trasferita



And death shall have no dominion.
Dead men naked they shall be one
With the man in the wind and the west moon;
When their bones are picked clean and the clean bones gone,
They shall have stars at elbow and foot;
Though they go mad they shall be sane,
Though they sink through the sea they shall rise again;
Though lovers be lost love shall not;
And death shall have no dominion.


E la morte non avrà più dominio.

I morti nudi saranno una cosa

Con l’uomo nel vento e la luna d’occidente;

Quando le loro ossa saranno spolpate e le ossa pulite scomparse,

Ai gomiti e ai piedi avranno stelle;

Benché impazziscano saranno sani di mente,

Benché sprofondino in mare risaliranno a galla,

Benché gli amanti si perdano l’amore sarà salvo;

E la morte non avrà più dominio.


- dylan thomas (brano della poesia tradotto da ariodante marianni)



Per il mio decimo compleanno, papà mi regalò dei nastri per capelli e della cioccolata e un nuovo set di chiavi e la possibilità di guidare un’aeronave senza Erin al volante come copilota. Per il suo dodicesimo compleanno, Vivi ricevette una nidiata di bambini morti e ci lasciò con un piccolo biglietto molto gentile e se ne andò e si Fermò.

Perché?

Papà sembrò sapermelo spiegare meglio di tutti. « Mio piccolo amore, non accusarlo per il suo ragionamento. Se un giorno tornassi a casa e ti trovassi morta, e trovassi morta anche Hilda, e scoprissi che la mia intera città è diventata fredda e glaciale, come potrei continuare ad abitare da solo in questo mondo desolato? »

Per come la metteva lui, non potevo prendermela con Vivi per il suo comportamento. Non potevo rimproverare un ragazzino che aveva visto ogni altro singolo mago nero attorno a lui Fermarsi come un giocattolo a orologeria e che aveva lavorato così duramente per creare i suoi piccoli figlioletti, dei piccoli maghi – oh, Vivi, padre a nove anni! – solo per guardarli svanire, nuvole nei venti dissipatori. « Avresti preferito che vivesse così, tutto solo? » mi disse mia madre, dolcemente. No, mamma, no, non avrei mai voluto che fosse triste.

Ma non importa quanto poco volessi che Vivi soffrisse, questo non impedì ai rabbiosi fiumi di lacrime di scorrere sul mio cuscino, né attutì l’impetuoso lamento vulcanico che spaventava a tal punto i miei preziosi moguri che nessuno di loro riusciva mai a trovare il coraggio di entrare nella mia camera per cercare di placare i miei singhiozzi, e lo stesso valse per alcune domestiche, quando in una finale e violenta distruzione, il mio menar testate nella parete vi lasciò un buco dentro. Anche se eravamo stati separati per molti anni, non riuscivo a sopportare il velato tradimento del mio amico d’infanzia.

Cenere alla cenere…

Un mondo senza maghi neri. Niente più cappelli che andavano su e giù, niente più occhi lampeggianti luce artificiale, Vivi sparito per sempre. Ricordo ancora le mie lacrime salate sulla spalla di Gidan, e le sue sui miei capelli.

Polvere alla- nebbia alla nebbia, Vivi, così è più adeguato?

Forse mi dimenticai di lui l’anno seguente, o quello dopo ancora? Accesi puntualmente una candela per lui ad ogni suo compleanno. Trovammo- beh, non lo si può chiamare corpo, con i maghi neri non si è mai potuto parlare di nulla del genere, ma Gidan trovò il suo cappello, e lo mise su uno spaventapasseri all’entrata dell’orto caotico che erano le tombe di tutti quei tanti che si erano Fermati prima di lui. Vivi con i suoi figli e i suoi fratelli e… e mi dispiace tanto di essermene dimenticata.

Mi dispiace tantissimo. Tanto, tanto, tanto.

Ecco, come al solito anticipo le cose e ingarbuglio la matassa. Papà lo scrive alla fine di tutti i miei articoli che intende pubblicare nei giornali d’aeronave, i miei trattati sul cuore delle macchine.

Respiri profondi, donna. Puoi farcela. Dannazione, padre, avremmo dovuto controllare che fossero tutti morti.

Oh, Vivi. Avrei tanto voluto che tu fossi stato lì a vederlo.



« Eiko Hildegarde Carol! »

Mi paralizzai, un piede ancora a mezz’aria, nel tentativo di confondermi con il paesaggio. Una parte molto decorativa del paesaggio. Una parte del paesaggio che assomigliava terribilmente ad Eiko e che era unta di olio.

Ovviamente, il mio piano di mescolarmi con la tappezzeria fallì miseramente. « Sì, mamma? » chiesi, candida.

Mia madre mi squadrò dalla testa alle punte sudicie dei piedi, notando con lugubre perspicacia lo sporco depositato sotto le mie unghie, la macchia d’olio sulla mia guancia e i rumorosi stivali da lavoro ancora indosso. Lei invece era impeccabile, molto avanti con la sua cinquantina ma all’apparenza la stessa di quando aveva trent’anni; i capelli grigi erano l’unica cosa che testimoniasse la sua effettiva età. « Ho forse bisogno di domandarti perché mai non sei ancora pronta per il banchetto con il Ministro dell’Ingegneria e il Sindaco di Tolosa? »

« Viene Yucky? Grande » commentai con entusiasmo, nominando il mio amico Ministro.

« Devi proprio chiamare il ministro Yucata in quel modo? No, no, non mi interessa che l’altra volta lui abbia riso fino alle lacrime. Non rientra nell’etichetta. » Mia madre era affettuosa. Era premurosa, raffinata e gentile. Ma se veniva costretta a ricorrere ai famosi estremi rimedi era infernale, e tremo al pensiero di come dovesse essere quand’era una giovane maga rossa molto dotata. Lo dico a beneficio di ogni cittadino che si sia chiesto chi fosse veramente al potere dietro la Reggenza. « Hai ripreso a lavorare sulla tua aeronave? »

Chinai la testa. « Non ho fatto caso all’ora. Scusa. »

« Davvero, cara? » disse allegramente papà da dietro la spalla di mia madre, sistemandosi la cravatta e facendo immediatamente in modo che lei gliela strappasse di mano per raddrizzarla nuovamente. « Sei riuscita a mettere a posto il sistema di refrigerazione? »

« Il problema non è il sistema di refrigerazione in sé, padre, è il motore che è troppo potente e consuma troppo carburante in pochissimo tempo per poter essere conveniente da un punto di vista economico- »

« Al diavolo! Avremmo dovuto capirlo dall’inizio. Però, fintanto che la ricerca continua, noi- »

« Eiko. Vestiti. Ora » ordinò mia madre, uno scintillio d’acciaio negli occhi, e mentre uscivo di corsa dalla sala lasciando impronte d’olio al mio passaggio riuscii a sentirla borbottare: « Sangue o no, Cid, è figlia tua. »

« Avevi qualche dubbio? »

La mia risata risuonò per tutto il corridoio.



Questa è una storia su Vivi, e sull’eredità di Vivi, e sui figli di Vivi, e su di me, in minuscola parte.

E cominciò davvero quando avevo diciannove anni ed ero prossima ai venti, ero l’ingegnere-capo di tutti i prototipi di ricerca personali di mio padre e, per quanto riguardava i nomi stampati sui testi accademici, mi firmavo Eiko Fabool. Non c’erano state guerre per oltre dieci anni e i calli sulle dita me li ero procurati a furia di stringere attrezzi di ingegneria, non di magia. Magia bianca? Ero davvero fuori esercizio. L’evocazione? Ancora peggio, anche se pregavo Madein ogni notte della mia vita e tappavo le orecchie per avere qualche possibilità di sentirla bisbigliare nel mio cuore. Avevo passato la maggior parte della mia adolescenza con la testa sepolta tra grasso e diagrammi, mi legavo i capelli perché mi sfiorassero appena le spalle e non si infilassero nei congegni, sapevo quale forchetta usare quando mangiavo le pere di Alexandria e non ero più stata baciata dall’età di dieci anni. Ero felice e serena e mi incamminavo verso lo strapiombo.

È dura… adattarsi, come dicono. Sono cresciuta per i primi anni della mia vita con mio nonno in una pianura completamente selvaggia, e l’unica regola della mia infanzia è stata, e sono seria, “non farti ammazzare.” Amavo in modo selvatico e vivevo in modo altrettanto selvatico, e poi sono stata messa in questa enorme città dove la magia del futuro viveva nel rumore che facevano le tubature quando cigolavano nelle grandi aeronavi. Anni di pazienti insegnamenti del mio padre adottivo e dei suoi ministri ampliarono così tanto la mia mente che vi insidiai dentro il cielo e tutto ciò che lo solcava. Puoi sottrarre la ragazza alle rovine, ma puoi instillare la città nella ragazza?

… Ho un problema: giro intorno agli argomenti come un’aeronave guidata da mani inesperte vira aggressivamente nel cielo, senza mai ritornare alla pista principale. Lasciamo perdere-

Primo bacio? Volete sapere del mio primo bacio? Il mio primo bacio è stato di Gidan, ovviamente, il pre-principe consorte Gidan, un goffo, esuberante bacio a fior di labbra dopo il quale mi aveva sollevato per la collottola, mi aveva agitato un po’, e poi mi aveva intenerito chiedendomi cosa avrebbe pensato Daga se l’avesse visto baciare una ragazza così carina. Il mio primo bacio è stato con Vivi, e non era neanche sulla bocca: mi aveva riavviato i capelli dietro le orecchie e aveva strofinato nervosamente qualcosa che ricordava tanto un paio di labbra contro la mia fronte prima di cominciare a balbettare tanto forte da dare quasi l’impressione che degli yan gli stessero infestando la gola con i loro soffi di morte; ma qualsiasi cosa fosse stato, bruciava come fuoco sacro. Gli adulti lì intorno, ovviamente, si erano concessi un gran numero di “hmmm” e di “awww,” quasi fossimo due rari esemplari di scroccamao in amore. Chi si era accorto di quanto fossero diventate rosse le mie guance aveva probabilmente attribuito la cosa ai possibili germi di imbarazzo.

Ecco, quello è stato il mio primo bacio. O meglio. I BacI. Ma tanto solo uno dei due contava davvero.

Sarei stata io la reggente una volta che mio padre fosse morto o doveva essere eletto qualcun altro? Dopotutto, tradizionalmente, il successore avrebbe dovuto essere un Cid, ma mio padre era stato abbastanza inopportuno da non avere un figlio maschio- o un figlio in generale; io ero adottata ed ero l’unica. Non desideravo assolutamente diventare reggente, e non osavo nemmeno pensare che qualcuno mi avrebbe voluto come tale. Ero molte cose, ma non una leader, e avrei probabilmente portato rancore al titolo.

Hades, portavo già abbastanza rancore per essere una “principessa,” ora che ero venuta a conoscenza degli oneri che comportava.

« Non pensi che i tuoi capelli abbiano bisogno di una spazzolata? »

Mi fermai nel mezzo della mia spugnatura convulsiva, abbastanza a lungo da perdere il sapone ed iniziare ad annaspare freneticamente per riprenderlo. « Prima devo lavarmeli, i capelli. Grandi maledetti Dei lassù, assomiglio a una che è passata a forza attraverso il retro di un motore! » Me l’aveva detto una volta uno dei miei assistenti; deliziata, mi ero affezionata a quell’espressione.

Mogara, cui era stato rivolto questo commento, svolazzò con grazia verso la finestra, lasciandosi sfuggire un sommesso kupò di disapprovazione. « Hai dell’olio sulla fronte. »

« Si abbina al contesto. Ho dell’olio anche sulla schiena. »

« Tua madre andrà su tutte le furie. »

« È lei quella appassionata di vestiti, non io. Io non sono una gran bellezza. O una papera, se è per questo. » Strofinai con maggiore vigore; la mia piccola moguri aveva ragione riguardo all’olio. « Dici che devo portarmi gli occhiali da lettura? »

« Credi che il Ministro metterà in mezzo qualche progetto? »

« Non dovrebbe, ma so che muore dalla voglia di discutere dell’Excelsior con papà. Me li metterò nella tasca, così mamma non potrà rompere. »

« Ti creeranno un rigonfiamento, sai. »

« Oh, me li infilerò molto semplicemente sul davanti assieme al fazzoletto, così a mamma verrà letteralmente la bava alla bocca. » Afferrai la spugna gonfia e sfregai furiosamente, scoprendo presto un rosa poco attraente. « Perché Garnet non ha mai avuto di questi problemi? Accidenti! »

Non sono mai stata un individuo estremamente pulito. Questo non dipende da un odio viscerale per i bagni o i vestiti freschi di bucato, dato che mi capita spesso di sprofondare in una vasca e ignorare beatamente la realtà per tutto il tempo che mi pare. Ma già quand’ero una bambina della stazza di un dito mignolo, avevo la tendenza a impiastricciarmi la faccia con tutto quello che mi capitava sotto mano; adesso ero un’esile giovinetta ricoperta di olio e di grasso con una faccia cotta a vapore.

Com’è comprensibile, tutto ciò faceva meraviglie per la mia carnagione, e avevo delle guance perennemente arrossate, ma sono stata sempre magra invece che formosa, sebbene durante la pubertà mamma mi avesse fatto bere un bicchiere di latte ogni giorno nel vano tentativo di aiutarmi a riempire i vestiti nei punti giusti. Avevo smesso da tempo di formulare pensieri sul diventare bella, mi ero arresa, e avevo deciso di essere un’ingegnere piuttosto che una splendida principessa. Se mai mi fossi sposata, mio marito sarebbe stato un tizio tozzo con la vista brutta quanto la mia, che avrebbe potuto aiutarmi a leggere i miei piani di lavoro e si sarebbe occupato dei bambini quando io ne studiavo altri. Dei, come vanno strani i sogni.

« Farai tardi » mi sgridò Mogara. « E poi tua madre inveirà contro di te fin quando non verrà servito il pranzo e tossirà in maniera significativa non appena entrerai. »

Saltai in fretta e furia fuori dalla vasca e tracciai una scia di impronte bagnate mentre mi asciugavo, dimenticando volutamente un paio di sottovesti che non mi piacevano e pensando che Yucata non avrebbe notato la differenza. Sbattendo le alucce e sfoderando un’espressione impensabilmente ipercritica per un moguri, Mogara mi abbottonò il retro del vestito, dando nel frattempo voce alle sue preoccupazioni e cercando di pettinarmi mentre mi infilavo le scarpe. Ho avuto modo di scoprire che quando hai un corno da sciamana, non c’è da stare in pena su come diamine ti stanno i capelli: nessuno li noterà con quel palo piantato in testa.

Molti capelli tirati o staccati e diversi ansiti dopo, quando finalmente mi vidi nello specchio, sembravo… Beh, mi ero vestita in cinque minuti, ed ero troppo disgustosamente in ritardo per badarvi. Mi allacciai la parte frontale del vestito mentre correvo lungo il corridoio, con le guardie che cercavano il più possibile di non sembrare divertite, e fui costretta a tornare indietro perché mi ero completamente dimenticata gli occhiali, e li persi pure un’altra volta anche dopo essermeli messi sul naso; poi presi a correre così rapidamente verso la sala blu che superai quasi la velocità del suono.

Per arrivare, ovviamente, davanti una porta chiusa.

« Mamma- » cominciai, tetra, rivolgendomi alla guardia di servizio.

« Lady Hilda mi ha detto di riferirle che sarete convocata al banchetto una volta che il Granduca avrà finito i suoi discorsi, sua grazia » recitò quella, monotona.

Io sbottai in una parolaccia e pestai i piedi per terra. La guardia parve ipercritica quanto prima lo era stata Mogara, e così mi diressi furiosamente verso l’ascensore. Non sarei rimasta immobile nella mia stanza per la mezz’ora successiva mentre la mia moguri mi faceva una partaccia. Depressa e imbarazzata – perché doveva succedere sempre a me, ero quasi adulta che più non si poteva – sgattaiolai fuori.

Ad anni di distanza, mi chiedo ancora se sia stata una buona idea.



Ho sempre trovato molto arduo imbronciarmi quando ho la possibilità di guardare il traffico. La prima volta che approdai rispettabilmente a Lindblum per trasformarla nella mia casa dal momento che Garnet mi aveva fatto delicatamente notare che siccome io ero orfana e Cid e Hilda non avevano bambini forse potevamo aiutarci a vicenda visto che già andavamo d’accordo, Cid mi portò in cima al Gran Castello, perché era bellissimo e perché mi sentivo soffocata e nervosa e avevo nostalgia di casa (e facevo la ribelle per sopperire al tutto). La danza delle aeronavi mi scosse nell’anima – come potevano stare tutte in cielo nello stesso momento! – e da allora la amai, nel profondo. Con aria sognante mi riabbottonai frettolosamente le maniche fin sopra le braccia e scrutai il cielo, appoggiando la testa sulla fredda pietra della parete.

Dimenticai troppo presto il mio broncio vergognoso e mi persi nel fiordaliso di cristallo, nel lontano sapore di olio e nell’odore degli ingranaggi a vapore. Alla fine ero diventata una sognatrice, ma con tutta l’astuzia di quando avevo sei anni a tramutare i miei sogni in realtà. Questo aveva fatto di me un’ottima ingegnere.

Facevo la damigella, sapete, al matrimonio di Gidan, insieme a Vivi, anche se lo presi insensibilmente in giro per il fatto che pure lui era una damigella. Ero convinta che il mio cuore si stesse spezzando a vedere Gidan che si sposava, ma fu un evento troppo felice, e fu terribilmente difficile rimanere in quello stato di pura e angosciante infelicità. La regina Garnet, sposata a Gidan! Tutti conoscevano la loro storia d’amore da fiaba, e ora sarebbe stata suggellata con un grande “E vissero per sempre felici e contenti.” Tra cesti pieni di petali di rose che spuntavano ovunque, io e Vivi attraversammo a saltelli tutta la navata, io in rosa che cavalcavo la compiaciuta onda di approvazione per il fatto che ero assurdamente carina e lui in grigio che cercava di non inciampare nei suoi enormi piedoni. (E inciampò. Lo aiutai ad alzarsi e lo rimbrottai in un virulento bisbiglio, strattonandolo per il resto della sfilata. Daga, guidata da Cid, dopo ridacchiò praticamente per tutto il tempo.) E quella fu probabilmente l’ultima volta che lo vidi veramente vivo, ora che ci penso.

Persa nei miei sogni e nei fortissimi rumori che provenivano da ogni dove, quando arrivò la prima esplosione non me ne curai più di tanto. Nella città di Lindblum ci sono esplosioni di continuo, specialmente dalle fabbriche sperimentali.

Ma quando mi riscossi dalle mie fantasticherie e guardai a sud, il cielo era in fiamme.

Balzai in piedi, fissandolo stupidamente: un ruggito aveva sovrastato improvvisamente qualsiasi altro rumore perché un rottame, un cargo, era esploso e stava ora piovendo in forma di morte ardente sul terreno. Tutto il cielo si era tinto di rosso per le fiamme. Un edificio venne tagliato in due come se colpito frontalmente da un missile, invece di accartocciarsi su se stesso scoppiò, e schegge di ogni tipo si sparsero dappertutto-

E un’altra! Verso ovest, un’altra aeronave era stata ridotta in tanti piccoli pezzettini con un basso, lugubre, tonante boom; orrore su orrore, dolore su dolore, tormentato metallo fuso che si riversava come una cascata sulle grida che salivano dal basso. Ero fuori di me dalla paura e dalla rabbia. Non si trattava di ordinaria amministrazione; Lindblum era sotto attacco. Riuscii a sentire la magia, ad assaporare il suo sapore argentato sulla lingua, ed ecco che in un lampo, prima ancora di rendermi realmente conto di cosa stessi facendo, stavo rientrando di corsa nel castello con le sirene d’allarme nelle orecchie e il panico dilagante che mi circondava.

Non si fa saltare la gente di Eiko Carol nella città di Eiko Carol!

Regnava il caos anche dentro, e mi fu facile sgusciare nell’ascensore e digitare a pugni il codice segreto per raggiungere il ponte. (Certo che lo sapevo. Era praticamente il mio ponte.) Fui la prima a salire a bordo di una skimmer, le lustre e levigate mini-aereonavi che conoscevo a menadito perché grazie a Fenril le avevo progettate in larga parte da sola, e pigiai sull’acceleratore con tutta me stessa, sparandomi in cielo prima che si potesse dire wow.

Ripiegai la gonna fino alle ginocchia e me la spianai addosso, socchiudendo gli occhi in risposta al fumo denso e soffocante quando sentii il sapore del fuoco. Mi sentivo male per la rabbia, quasi fosse una malattia, e cercai disperatamente di richiamare i miei Eidolon – ma era come se ricevessi spiritualmente tutti pollici versi, e me ne diedi la colpa.

Altre esplosioni. Ora veniva preso di mira tutto, dal cielo agli edifici, al Gran Castello – oh, madre! – e mi concentrai sul flusso magico, oltrepassando il traffico e allontanandomi velocemente dalla zona più a rischio con una manovra che avrebbe reso Gidan fiero di me. Accelerai ancora di più, per dissipare il fumo, e poi lo vidi. E il mio cuore si congelò.

Dalla cima della torre di controllo vicino alle porte della città, appollaiata come un corvo, una sagoma solitaria sferruzzava magie con le mani che volteggiavano potenti e impetuose in direzione di Lindblum. Oh, ma non avevo già ascoltato molte racconti che me la descrivessero? Aveva un cappello, e dei rozzi vestiti neri, e due consunte ali d’ebano che spuntavano da dietro le spalle. Stava accadendo tutto troppo in fretta – mi vennero in mente le calde notti alla luce del fuoco che trascorsi inginocchiata davanti a Garnet, lieta di aver allontanato il suo pettine dai miei capelli, mentre Gidan, virtuoso narratore, ci parlava dei Valzer Neri. Ne esistevano tre, come i passi della danza, e assomigliavano a Vivi – ti ricordi, eh, Vivi? Gliel’abbiamo fatta vedere, ora non tremare – e agli altri maghi neri, solo che erano più… cattivi. Alti, e cenciosi, e molto morti.

Non potevo mica permettere che si portassero via Daga, insomma, no? Fa’ silenzio, ammasso di latta.


Allora chi era questo brivido dal passato, con tanto di enormi occhi d’oro e mani ammantate di pelle di drago? Le urla e l’inarrestabile demenza generate da quel… quel coso mi riportarono alla realtà, e puntando la skimmer contro di esso mi preparai a un ennesimo scatto. Quantomeno questo lo distrasse dai suoi incantesimi!

Perché non mi ero portata il Flauto d’Angelo? Almeno ora avrei potuto lanciargli un po’ di Sancta, e ridurre quel bastardo in dieci milioni di piccoli maghi neri. Stupida, stupida Eiko! Anticipa sempre tutto, perché no! Divenni improvvisamente ed enormemente conscia del pericolo in cui mi trovavo: fino a che non fosse arrivata la Guardia del Granduca, ero un’inerme maga bianca, nonché sciamana, che non aveva nemmeno il suo bastone e non riusciva a trovare le parole per Chiamare le sue evocazioni assopite. Disperata, suicida, accelerai comunque, i capelli che mi sferzavano il viso.

Pigramente, lui – perché nella mia testa era già un lui per il primordiale bisogno inconscio di catalogare qualsiasi cosa di rovinoso sempre sotto il genere maschile – discese dalla torre e si innalzò velocemente con qualche battito delle ali potenti opportunamente spiegate. Io virai così rapidamente che mi batterono i denti, e l’inseguimento iniziò.

Mi ero rammollita. Ero stata la bambina dalla pelle scura più povera e più abituata al deserto che fosse mai cresciuta a Madain Sari; mesi di avventure con Gidan a mangiare il cibo che mi preparavo da sola (bleah!) mi avevano rafforzato ulteriormente, ma ero stata indebolita da tredici anni di sontuosi pasti e di mamma, che mi aveva costretto a mangiare anche il più piccolo pezzettino di quello che mi veniva messo nel piatto ricordandomi di tutte le persone povere che morivano di fame. Essendo un’ingegnere, la freddezza non mi era ancora sfuggita dalle mani, ma per il fatto stesso che obbligavo il cervello a ragionare quando tutto attorno a me bruciava, io ero disarmata e il colpevole se la stava squagliando, mi sentii una smidollata. Credo che le uniche cose che mi sostennero in quei minuti fossero la mia collera e il mio odio.

Colta in fallo senza un’arma. Freija mi avrebbe giustamente tirato le orecchie se l’avesse saputo.

Lui frenò così rapidamente che lo superai, e mi costrinse a sterzare con tanta forza che vidi delle macchie rosse davanti agli occhi, le palme delle mani che diventavano scivolose per il sudore. Il fumo delle fiamme mi avrebbe raggiunto presto, e sarei morta soffocata; non m’importava. Non potevo far altro che fissarlo, lui e quei malevoli occhi d’oro, curvati a mezzaluna e completamente privi di emozione dietro quella maschera nera come il fumo. Si voltò per contemplare la città, precipitata nello scompiglio più totale, e poi tornò a me, come a dire: « Beh? Ti è piaciuta la mia opera? »

Io strillai tutta la mia frustrazione. « Bastardo, sei, sei un assassino, ti ucciderò oltre cento milioni di volte e ti farò desiderare di non essere mai nato! »

« Io esisto solo per uccidere. » recitò semplicemente. Aveva la voce profonda, un tono piatto, caldo e polveroso. Notai un paio di corna scure da diavolo sul suo cappello. Oh, ricordai, ricordai con un improvviso scroscio di chiarezza i vecchi maghi neri posseduti che seguivano Kuja senza avere alcun tipo di coscienza, e il semplice pragmatismo con cui uccidevano.

Non potevo morire. Nonno, Alexander, Vivi, non potevo.

« Ah sì » sbraitai, incapace di escogitare un appunto adeguatamente tagliente. « Allora avrai un assaggio della tua stessa medicina! »

« Io esisto solo per uccidere. » Continuò a librarsi lì, catturato dalla calda corrente ascensionale, e mi tese una mano quasi a volermi offrire qualcosa; una fiamma gli si formò tra le dita, rovente e ustionante, fino a nascondere completamente la mano nel vacillante nembo di magia. Riuscivo a sentire la magia che emanava in tacite onde, mentre il fumo si addensava e inquinava l’aria. Sembrava che non usasse la voce da anni. « Io sono giunto per distruggere. Io sono il castigo. Io esisto- »

Non continuò mai quella frase, dato che gli andai di nuovo addosso con la skimmer. Sentii il fragore distante e instabile della altre aeronavi che mio zio Oltania doveva aver schierato per arginare i danni. Ah. Sei fregato, ragazzo mio. Non poteva assolutamente andare più veloce delle macchine – non con delle semplici ali.

Il mago parve pensare lui la stessa cosa e improvvisamente schizzò – su! Nella più stupida, impulsiva e sconsiderata reazione della mia vita, premetti di nuovo l’acceleratore a rotta di collo, e quando gli fui abbastanza vicina mi gettai addosso a lui.

Eravamo in alto, sopra la città.

Tremendamente in alto.

Non volavo da anni, e non avevo neanche le ali di mio nonno, che si trovavano invece in fondo al mio armadio, riposte al sicuro e amorevolmente nella carta velina. Se fossi caduta, sarei diventata l’ingegnere più spiaccicata di questa parte del Fossil Roo. E rimanere lì sospesa era terribilmente complicato, visto che il mio obiettivo e appiglio si stava agitando e stava piroettando come un chocobo in calore che cercava di espellere il tafano azzeccato alla sua schiena, e cioè io.

Il mio veicolo si fermò, avendo installato l’autopilota nel momento in cui aveva perso il mio peso; con i muscoli della sua schiena che pompavano nel tentativo di aiutarlo a sbarazzarsi di me, affondai le unghie negli strati più superficiali dei suoi abiti. Tenevo molto alla mia pelle, ed entrambi salimmo a spirale sempre più su mentre lui dimenava le braccia e urlava; il mio intervento non gli impedì di lanciare magie, il suo incantesimo fu troppo rapido perché io potessi anche solo pensare a un Dispel, ed entrambi ci schiantammo a capofitto nel Portale che aveva fatto apparire sopra di noi. Tutto si fece nero.

Pessima mossa strategica da parte sua, senza contare che le signorine non si trattano affatto così!





Nota della traduttrice (Youffie, sì): hm, i beta-reader a questo capitolo sono stati tre (l’allora kar85, Frances e infine la_vale), per il semplice fatto che ogni tanto rileggevo, cambiavo tutto e dovevo risottoporla al giudizio di qualcuno :| Come anche la stesura della storia originale ha impiegato anni, sono secoli che sto traducendo Gently, perché non è per niente facile, ma nonostante tutto continuo a pensare che ne valga la pena. Anche se FFIX è una sezione così desolata. Anche se arriverò alla fine tra trecento anni o più. I miei bisnipoti la continueranno per me.
Però, ne vale la pena, dai.
Per le traduzioni delle poesie: solo riuscita a trovare una traduzione che mi soddisfacesse (o anche solo a trovarla – e a trovare il nome del traduttore che l'ha realizzata) solo nel caso di questo prologo. Il resto l'ho tradotto io, ma non aspettatevi chissà cosa: non so niente di metrica, non so niente di poesia, non so niente degli autori – e certe cose non si imparano da un giorno all’altro.
Alcune sono molto fedeli, altre, nel mio piccolo, ho provato ad interpretarle, pensando soprattutto alla storia e al capitolo a cui si riferivano. È solo e soltanto per dare un’idea generale a chi non è espertissimo di inglese.
Anche i titoli dei capitoli sono tradotti all'interno della storia, spesso in maniera abbastanza libera, pensando più alla musicalità che alla fedeltà letterale.

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Capitolo 2
*** Those With Black Faces ***


capitolo uno
quelli con le facce nere



"somewhere it is Spring and sometimes
people are in real:imagine
somewhere real flowers,but
I can’t imagine real flowers for if I

could,they would somehow
not Be real"
(so he smiles
smiling)


"in qualche posto è Primavera e qualche volta
le persone sono vere:immagina
un posto con fiori veri,ma
io non riesco a immaginare fiori veri perché se

ci riuscissi, in un certo senso
non Sarebbero veri"
(e sorride
sorridendo)

- ee cummings



Fu un po’ come il secondo in cui ci si sveglia di soprassalto da un incubo e non si riesce a ricordare con precisione cosa riguardasse, e poi il secondo dopo si ricorda tutto; solo che stavolta, al terzo secondo, mi resi conto che non avrei potuto scacciare i miei demoni.

Ero stata maledettamente rapita.

Dovunque mi trovassi era buio e stantio, e sotto il mio corpo c’erano delle assi di legno che andava a male; sopra di me c’era una coperta di soffice cotone ma umida e vecchia come tutto quello che mi circondava di quel posto orribile in cui ero finita. Ero evidentemente svenuta per il trauma di essere stata trascinata nel Portale di qualcun altro, il cui marchio aveva schiacciato la mio. Okay, non era stata mia intenzione eppure in un certo senso mi ero rapita da sola, però – cavolo cavolo cavolo!

I miei occhi si abituarono all’area attorno a me, e per qualche strana ragione mi sembrò familiare. Ero in una stanza dal soffitto molto alto, con le travi scure che parevano incombere su di me, l’aria densa per gli anni che aveva. Densa, ma secca; avevo già sentito il sapore di quella secchezza. Era fresca quanto un fastidioso brivido di freddo quando non c’è il sole – poca umidità nell’aria, pensò asetticamente la mia mente – forse ero in qualche posto in mezzo alla neve (ma in quel caso la temperatura avrebbe dovuto essere più bassa), o in qualche luogo sopra il livello del mare-

Bastardo di un clima, dove diamine ero?

Saltai in piedi, presa dai capogiri e con il cuore che mi batteva forte, e la mia mano afferrò un oggetto vicino a dov’ero stata distesa – un tavolo. Le mie dita perlustrarono inutilmente il legno, avvinghiandolo; il pavimento era cosparso di pezzi di pergamena, pagine strappate da libri scritti in lingue che non riuscivo a riconoscere del tutto ma che mi diedero l’impressione di una confusione piuttosto recente, a differenza del disordine annoso e antico che un po’ mi aspettavo. Però c’era una puzza, quasi come se qualcuno fosse morto lì dentro, odore di sangue e-

Di fronte a me si accese una candela, una fiammata improvvisa e vagamente sibilante nella stanza lunga ed enorme; era impugnata da una mano coperta di cuoio scuro, e andò a illuminare di un fioco arancione un paio di logore ali d’ebano e un cappello. Ancora più luminosi erano gli occhi d’oro che ardevano da dietro quella superficie buia che contraddistingue i maghi neri, abbastanza lucenti da farmi ghiacciare ulteriormente il sangue nelle vene.

Penso di essermi sentita come doveva essersi sentita mamma, come mi aveva raccontato – la prigioniera di Kuja, che affrontava faccia a faccia il suo rapitore. « Per un istante mi domandai di cosa potessi mai aver paura » aveva ricordato a bassa voce. « Aveva un sorriso talmente grazioso. »

Un po’ di cera gli colò sulle dita. « Dimmi » intonò, « perché non dovrei ucciderti. »

Io rizzai la schiena. « Sono la principessa Eiko del Casato dei Fabool » scoppiettai contro di lui, imperiosamente. « Uccidermi sarebbe un grave errore da parte sua, signore. »

« Sono Lady Hilda Fabool, ministro e moglie del Reggente di Lindblum – e le consiglio di non avvicinarsi. »

« Perché prenderei a calci il tuo scarno deretano da mago nero, lurido assassino figlio di puttana. »

(Quando il tempo raccoglierà tutti i discorsi eroici e stimolanti delle donne di tutte le ere, le mie parole non saranno prese in considerazione.)

Per un momento lui si limitò a fissarmi, sollevando la candela. Ora riuscivo a vedere i libri che riempivano gli scaffali, alcuni semi-vuoti, altri ancora completamente ricoperti di grossi tomi; mi trovavo chiaramente in una biblioteca, in una biblioteca con le finestre totalmente celate da iuta pesante e spessa. Era tutto buio come la notte.

« Dubito che troverebbero il corpo. » La sua voce non era nemmeno minacciosa; stava soltanto asserendo un fatto, con praticità. « Saresti soltanto una delle tante vittime di ciò che è successo alla tua città. »

Oh. Oh. Mi si riempirono gli occhi di lacrime: la mia città, la mia terra, la mia gente. Quante persone erano morte in quelle esplosioni? « Perché? » ringhiai. « Perché? Stai tentando di scatenare una guerra? Perché dovevi assassinare tutti quei civili? Perché non te la sei presa con la nostra milizia, invece che- che- che con i rimorchiatori? » Sentii la mia voce raggiungere una nota di isteria. Tremavo. « Perché? »

« Negli impianti militari ci sono meno persone. »

« Allora volevi che morissero in centinaia! »

« Io esisto solo per uccidere » rispose, con semplicità.

Quello mi fece infuriare. La mia voce era scossa dalla rabbia, e in parte dalle lacrime. « Garnet. La regina Garnet di Alexandria ti troverà e ti ucciderà per questo, è solo una questione di tempo. Non importa se io muoio, lei e Gidan ti strapperanno le piume dalle ali, una per una, e ti tortureranno fino a- »

« Gidan non farà nulla » sbottò, nella voce il primo sintomo di una qualche emozione. Aguzzò le mezzelune d’oro degli occhi. « Le persone muoiono. Il ciclo continua. Loro dormono, si fa tanto rumore, ma nel giro di dieci anni si ridurranno a fantasmi di ricordi. Verranno dimenticati dalla tua città e dal tuo Gidan. »

« Che ti importa di Gidan? »

« Traditore-bastardo-jenoma » Se avesse avuto delle labbra, si sarebbero curvate. « Spero che i suoi bambini abbiano tutti la coda e non siano in grado di sopravvivere senza le vasche di Branbal. Spero che muoiano tutti. Spero che semini sale nel grembo di sua moglie ogni volta che scopano. »

Anche gli altri Valzer erano stati così? Non c’era da stupirsi se Gidan li aveva uccisi tutti e tre in rapida successione. Un sorriso quasi lascivo di compiaciuta superiorità s’insinuò sul mio volto con la stessa facilità con cui mi avvamparono le guance mentre lo guardavo negli occhi, cercando a tastoni dietro di me un qualche oggetto. Forse c’era un’arma con cui avrei potuto uccidere quel ratto con le ali. Qualcosa. Qualsiasi cosa. « Hanno due bambini » iniziai dolcemente. « La regina partorirà il terzo quest’estate. La principessa Cornelia – ha otto anni, è la maggiore ed è bellissima, e tu non la toccherai mai, stronzo. »

Lui saltò in volo e coprì la distanza che ci separava, la candela alzata e pronto ad attaccare. La mia mano aveva trovato un libro pesante e glielo buttai in faccia nello stesso istante in cui la sua mano si abbassò; riuscii a diminuire la forza del pugno ma mi giunse comunque un doloroso manrovescio, le sporgenze di metallo che aveva sulle nocche del guanto mi tagliarono la guancia e mi spinsero contro il tavolo. Ci andai a sbattere forte, sussultando per il dolore, mentre anche lui incespicava all’indietro e faceva cadere la candela, che si ridusse a un soffice ammasso di cera sulle assi di legno. La luce già flebile si affievolì sempre di più durante un altro lungo silenzio; l’unico suono udibile era il mio respiro. Avrebbe potuto andare peggio. Diamine, ero un’ingegnere – ero sopravvissuta a risse sbronze da bar di gran lunga peggiori, benché quelle fossero cessate non appena compiuti i diciott’anni in seguito alla minaccia di mia madre di tagliarmi i viveri. Portai una mano alla guancia e chiusi di nuovo gli occhi, la ferita mi bruciava in maniera incredibile. Non proveniva alcun rumore neppure da lui.

« Allora » ripresi, dopo molto. « Dimmi. Perché non mi uccidi? »

Cadde un silenzio che durò ancora più a lungo, fino a che non sentii una cosa che ricordava molto un profondo, tremante respiro. « Perché il tuo cuore batte » mormorò. « Perché il tuo cuore batte e io sono – così solo qui – tanto solosolosolosolo nessunomaimai- » Un altro sospiro tremante e un singhiozzo, ed ecco che stava piangendo.

Il mio viso si contorse di disgusto. Un assassino. Un assassino frignone. « Uccidimi, ora » comandai, la voce carica di disprezzo. « Preferisco morire piuttosto che pensare che un magico passerotto lamentoso abbia ucciso tutte quelle persone. Preferisco morire piuttosto che starmene seduta qui ad ascoltare te. Mi toglierò la vita da sola se non la finisci. »

Il pianto s’interruppe quasi tanto repentinamente quanto era cominciato. Mi resi conto che, con tutta probabilità, mi ritrovavo con un mentecatto che aveva tanto bisogno di un manicomio. Non ne sarei rimasta sorpresa. Tutti i maghi neri – e questo doveva esserne un discendente – erano dei giocattoli ad orologeria abbastanza fuori di testa, esseri senzienti solo grazie alla loro bellezza.

Questo esemplare rifuggiva totalmente il concetto di bellezza, e probabilmente stava danzando nel suo piccolo mondo con metà delle luci accese e l’altra che lampeggiava di buffi colori. « Forse lo farò » disse. « Forse sto giocando con te, come fanno i gatti, e dopo ti mangerò. »

« Bene. È un sollievo. » Incrociai le braccia, il flusso del sangue aveva rallentato fino a fermarsi. Forse non avevo un bastone, ma la magia curativa scorre tra i polpastrelli di un mago bianco come acqua. « Sono scheletrica. Prima potresti dover bollire la carne. »

Un altro lungo silenzio. La testa stava cominciando a farmi male.

« Voglio andare a casa » ripetei. « Guarda, ti propongo un patto onesto. Tu mi bendi, mi riporti a casa, e poi sarò io a dover darti la caccia per ucciderti. Mi ci vorrebbero, oh, solo altri cinque minuti. »

« Siamo un po’ petulanti, vero, Principessa? » Un pizzico di… qualcosa si mosse nel suo tono. « Se sei qui è solo colpa tua, ragazzina, perché sei tonta e stupida come tutti gli altri esseri umani di questa terra e guardi le cose come se fossero sfere di vetro – non riesci a vederci attraverso a dovere, cogli soltanto il tuo riflesso distorto. »

No, una predica no. Non avevo bisogno dei suoi brontolii da pazzo. Avevo osato troppo nel crederlo lucido anche solo per un istante. « Senti. Va’ a declamare i tuoi pretesti a quella vecchia stufa nell’angolo, non me ne potrebbe fregare di meno delle tue ragioni. Chi sei? »

Un fruscio. Recuperò la candela, ma non l’accese; la sfumatura che aveva colorato la sua voce poco prima si era accentuata, ed ora il suo tono traboccava di amara ironia. « Tango. »

« Cosa? »

« Tango. Tango Nero. » Un brusio – si alzò, facendo lo stesso rumore di uno stormo d’uccelli – e accese nuovamente la candela con le sole dita, raddrizzando lo stoppino. Emanava ancora magia come una stella emana calore, e solo allora capii che era più pericoloso di quanto non avessi immaginato – era una creatura lucidamente folle, non un giocattolo.

Ero allibita. « Dimmi che mi stai prendendo in giro. »

« No. Io mi chiamo- »

« Cioè, è il nome più stupido che abbia mai sentito. D’accordo, capisco i tre tempi e il Valzer, ma che c’entra Tango? Come si chiama tuo fratello, Hokey-Pokey Nero? Swing Nero? Samba Nero? Chocobo Dance Nero? »

Ci fu un altro silenzio senza fiato, e poi Tango rise. Non era un suono felice, ma rise.

« Mi piaci » disse alla fine. « Non ti ucciderò stanotte. »

« Grazie mille. »

« Rimarrai qui » bisbigliò. « Alle volte porto delle cose vive qui perché mi piace il battito del loro cuore, ma dimentico apposta di nutrirle e muoiono. Tutto muore. Alle volte è anche più premuroso non nutrirli, così non soffriranno per la vita. Non credi anche tu? »

« Io credo che tu abbia bisogno di una giacca che ti avvolga dal davanti al dietro e di cinghie di cuoio che ti leghino a un letto » risposi io, Eiko “Gentile E Premurosa E Non Irritabile Con Gli Squilibrati” Carol.

« Fai anche le battute. » Si allontanò, lasciando la candela sul bracciolo di una poltrona alle sue spalle. « Forse sarà per domani notte. »

No. Non volevo domani notte. Volevo mia madre e questa creatura mi stava stritolando il cuore. « Io ti odio » scoppiai, stanca, turbata e disperata.

« No » disse Tango. « Io ti odio più di quanto tu potresti mai immaginare, Eiko Carol. »

Raggiunse a grandi falcate l’altra parte della biblioteca, e spalancò una porta. Immediatamente un soffio di aria calda e un lampo di luce intensa inondarono la stanza, lasciandomi sul volto un’aria inebetita; non era una porta, era un’enorme finestra improvvisata, e riuscii a scorgere solo della sabbia gialla. Il vento caldo sospinse nella stanza persino qualche granello; ci trovavamo molto in alto, da quel che potevo intravedere. Senza neanche degnarmi di uno sguardo, lui balzò fuori dall’apertura.

« Buonanotte » mi salutò, ad ali spiegate, richiudendosi l’anta alle spalle e sprofondandomi nel buio prima di sparire.

Io mi sedetti, e mi chiesi dove fossero i piccoli cadaveri, e tremai per l’eco della sua voce che pronunciava il mio nome.



Quand’ero piccola e i miei genitori mi insegnarono di nuovo a leggere – mio nonno aveva fatto tutto il possibile, ma dopo la sua morte mi ero impigrita e arrugginita incredibilmente con le parole lunghe – mia madre mi regalò prontamente un’enorme pila di libri che pensava sarebbero piaciuti a una bambina e me li fece sfogliare. Questi libri trattavano sempre gli stessi tremendi temi – giovani, romantiche damigelle in difficoltà che incappavano in giovanotti pieni di buona volontà in groppa a chocobo bianchi e non erano in grado di salvarsi da sole nemmeno se presentavi loro la fata madrina e lasciavi in giro un manuale di istruzioni.

All’inizio pensavo fosse quello il motivo per cui io non sarei mai stata una brava principessa. Non ero brava a sbattere le ciglia e a svenire. Certo, ero un asso nell’innamorarmi in maniera melodrammatica, ma non riuscivo proprio a immaginarmi rapita e imprigionata in una torre alta, tenuta in ostaggio per un probabile riscatto.

Poi mi dissi, “Ehi, Daga non ha dovuto mai fare tutte 'ste minchiate,” riposi le novelle romantiche e tornai a leggere “La fisica del volo” di Sextans Zazaria. In effetti, penso che questo illustri gran parte della mia vita preadolescenziale con i miei nuovi genitori.

Così, costretta in una torre plausibilmente alta centinaia di metri, con una candela tremolante a guidarmi e nella testa la promessa di un bastardo alato appassionato di genocidi e senza dubbio Un Po’ Tocco che aveva un pessimo gusto per i nomi, non me ne sarei di certo stata seduta a piagnucolare come una principessina tanto, tanto carina. Già era imbarazzante anche solo essere rapita, se si aggiungeva che era pure colpa mia… Ma che cazzo.

« Bene, Eiko, ragazza mia » mi incoraggiai allegramente, la mia voce un miserabile nulla nell’opprimente, buia biblioteca circolare. « Vediamo di farti scendere da qui, e andrà tutto da favola. » Se Tango non mi becca. Se un antoleon o qualche altro mostro nascosto nella sabbia non mi mangia appena sarò arrivata in fondo.

E una volta laggiù, come diavolo sopravvivo in un deserto? E se ci trovassimo a milioni di miglia nel nulla? Probabilmente siamo a un milione di miglia nel nulla! Siamo in un deserto!


« L’evocazione » mugugnai tra me e me. « Giusto. Sai evocare. Ora ti metti d’impegno e ripeti la storia del bastoncino-cerchio-salmo, e immagino che persino Madain sarà incazzata e si sarà sentita trascurata in tutto questo tempo, ma loro sanno che li amo comunque anche se non ci Chiamiamo da un pezzo, giusto? »

C’era un silenzio terrificante in quella biblioteca. C’era anche un’agghiacciante oscurità, quasi famelica. Era una stanza circolare, con delle mensole che rivestivano praticamente ogni centimetro di muro e qualche tavolo sparso, quasi sempre coperto da libri aperti. E c’erano tanti libri fatti a pezzi, fogli di carta strappati che dovevano essere stati consultati invano, e scorsi ovunque dozzine di candele sciolte. Afferrai rapidamente un paio delle più grandi e le accesi con la candela che aveva portato Tango, che (miracolosamente) non si era spenta quando era uscito. Non rischiararono granché, ma mi avrebbero permesso di vedere dove mettevo i piedi.

Allungai il collo, vagando con una mano nel vestito in cerca dei miei occhiali avvolti in una stoffa ricamata, prima di accorgermi – con mio sommo orrore – che non li avevo. Facendo la danza che ogni persona che porti gli occhiali fa immediatamente in questi casi – tastare la faccia, tastare la testa, tastare invano il collo – notai con non poca angoscia che erano spariti. Dopo tutto quel casino per vedere dove mettevo i piedi. Oh, beh; tanto mi servivano solo per leggere, e per quanto utili avrebbero potuto essermi per avere una visione definitissima della stanza avrei dovuto arrangiarmi. Inoltre, forse non morivo esattamente dalla voglia di vedere cosa giacesse negli angoli.

Tango Nero. Solo l’ennesimo mostro della schiera dei migliaia che avevo incontrato nella mia breve vita. Il modo in cui parlava mi dava sui nervi, però; c’era qualcosa di saldamente senziente nei suoi pigolii sulla solitudine, nel modo in cui parlava, nella maniera in cui mi aveva insultata. Sentii una vampata di calore salirmi di nuovo alle guance quando ricordai la sua imprecazione incredibilmente cruda e veemente su Gidan e Garnet; fu abbastanza per mutare ogni mia perplessità in semplice odio.

E se stava pensando di attaccare Alexandria, ora? Il mio cuore saltò un battito al solo pensiero. Esplosioni nel castello, Daga impossibilitata ad agire in tempo, o forse sarebbe riuscita ad evocare tempestivamente Alexander per affogare quell’oscena cornacchia appiccicosa nella magia sacra-

Tremai infelicemente, fui costretta a sedermi su uno dei tavoli e da lì feci saettare lo sguardo per la stanza alla ricerca speranzosa di una qualche arma, di un pezzo di metallo o di una fune. Niente; il resto di niente. Il mio stomaco brontolò – avevo sete e non avevo fatto colazione e veramente non vedevo l’ora di un bel pranzo.

Passaggio segreto. Forse c’era un passaggio segreto.

Balzata in piedi, con la gonna pesante che sibilava tra le mie caviglie – dannato vestito! – mi misi a condurre una minuziosa ispezione dell’area. Tango mi aveva detto almeno una cosa vera: al posto delle proficue uscite d’emergenza, continuavo a inciampare su minuscoli cadaveri, scheletri imputriditi e soffici fagottini di carne in decomposizione. Repressi l’impulso di vomitare, la fame ormai dimenticata, e proseguii nella mia inutile ricerca. Il pavimento era di legno, cosa strana per un’area deserta, e c’era qualche occasionale frammento di assi che dovevano essere state sgretolate dal tempo. La stanza puzzava di morte vecchia.

Cercai in lungo e in largo finché non trovai finalmente quello che mi serviva, una maniglia, e dopo aver sfregato attentamente, il vecchio contorno di una porta quadrata segreta. Con tutta la forza che avevo in corpo, spinsi e tirai immediatamente l’impugnatura di ferro, ma quella non si sarebbe smossa per nulla al mondo. Ovviamente, con mio feroce disappunto, era stata serrata dalla ruggine. Iniziai un’altra vana ricerca per trovare qualcosa in grado di forzarla, ma non c’era nulla; il resto di nulla. Solo libri, candele e oscurità.

E freddo, nelle ombre. Mi rimisi la coperta sulle spalle e mi sedetti su un tavolo, non volendo star vicina ai vecchi “amichetti” di Tango. Neanche avevo l’incontrollabile bramosia di diventarne uno. Dopo qualche minuto di agitata indecisione, andai alla porta da cui era uscito Tango, e l’aprii con uno spintone.

Un’immediata raffica di vento mi scosse, e temetti per la mia carissima vita; c’era una lunga, lunga, lunga parete scivolosa e nessuna scala.

La richiusi. Maledizione, dannazione, per tutti i dannati Inferi maledetti. Potevo solo aspettare; aspettare qualcuno che forse non sarebbe mai arrivato. Non potevo neanche tentare di uccidere Tango; lui era la mia unica via di scampo da quella torre. Garnet, mio padre e Gidan sarebbero venuti a prendermi. Prima o poi. Dovevo soltanto sopravvivere fino al momento in cui non fossi riuscita a scappare, o fino a che loro non fossero riusciti a trovarmi.

Tremai. Avevo sempre avuto paura del buio. Non era una di quelle inspiegabili paure dell’infanzia che provengono dalle profondità del subconscio; era una paura venuta dopo, una paura allevata attorno alle ceneri di un focolare quando ero raggomitolata sotto una coperta da viaggio e mi chiedevo se sarei sopravvissuta ai mostri della notte. Infilavano sempre me e Vivi nella stessa tenda – nonostante io protestassi per stare vicino a Gidan – e dovevo passare la notte schiena a schiena con lui. Imparai in fretta che Vivi, da piccolo stregone carino qual era, aveva il corpo più caldo di tutti noi, e che più stavo vicino a lui più il freddo si dissipava. Quando Mogu era ancora con me, rannicchiata nella tasca frontale della mia tuta, c’erano tre cuori che battevano fermamente all’unisono. Lui addormentato e io curvata dietro di lui, e ogni tanto osservavo attraverso un risvolto della tenda chi si accostava al focolare per il suo turno di sentinella notturna. Ricordo con chiarezza, ancora oggi, come si muovesse Amarant quando perlustrava l’accampamento affilandosi gli artigli, e il modo in cui Quina girasse le patate che stava cucinando sulle braci con la sua forchettona.

L’odore. Ricordo l’odore di tutti loro. Vivi profumava di ceneri, e di fumo, e di lamponi.

In qualche modo riuscii a dormire. Accovacciata scomodamente sulla punta del tavolo per la troppa paura di dormire sul pavimento umido, vacillavo dalla coscienza al sonno senza sosta e conforto. Mi accorsi anche di un terribile bitorzolo sulla testa; probabilmente si era formato quando Tango mi aveva picchiato. Quando finalmente tornò, ero acciambellata e mezz’addormentata. Mi sedetti e sbattei le palpebre verso di lui, come un gufo, mentre lui chiudeva la porta dietro di sé. Fuori era buio.

« Non è questo il luogo in cui deve dormire una signora » disse. O almeno, disse una voce – le candele si erano spente e lui era invisibile nell’oscurità, vedevo solo un paio di occhi.

« Chi l’ha detto che io sono una signora? »

Sembrò divertito. « Non è questo il luogo in cui deve dormire una donna, allora. Non puoi restare qui, Principessa- »

« Schifosamente giusto, non posso stare qui! Voglio andare a casa! »

Mi ignorò abilmente. « Ti porto giù. Non so ancora cosa fare con te, Eiko Carol. Ucciderti no, non ancora. L’ora della tua morte non è ancora giunta. »

L’ora della morte. Rabbrividii. « Dove sei stato? » domandai. « Assediavi la mia città? Assediavi Alexandria? »

« Alexandria? » Rise, una risata vuota. « No. Mai-non-ancora. Devo essere più forte. »

Pensava di poter diventare ancora più forte? Dopo quella esibizione?

« Tanto Garnet ti ucciderà comunque. »

« Io esisto solo per uccidere. » Non di nuovo – ma poi aggiunse, dolcemente: « Ed esisto solo per morire. Non può farlo lei, no, non senza difficoltà. »

Io indietreggiai al suo tocco, ricordando quanto fosse più fuori di un passerotto che ha battuto la testa. « Non voglio che mi porti da nessuna parte. Dov’è “giù?” »

« Non qui. » Davvero illuminante. « E no, non puoi più rimanere quassù. Stai interrompendo il mio lavoro. »

« Oooh, non sai quanto mi dispiace essere così inopportuna! » Avrei dovuto bruciare i libri quando ne avevo l’opportunità, sorvolando sul tabù di non distruggere la conoscenza. Feci un altro passo indietro quando lui raggiunse il bordo del tavolo. Oh dei, aveva delle ali enormi! « Ti scriverò una scusa formale! »

I suoi occhi si strinsero, calcolatori. « Ti spavento? »

Cosa rispondere? , lui spaventava me, Eiko, l’ingegnere con i nervi a fior di pelle, Eiko, che non si sporcava le mani di sangue da anni e ne era molto lieta. Avevo dimenticato il terrore che assale chiunque di fronte a una possibile morte e oh, che sapore amaro che aveva. « Spaventata? Da te? Non farmi ridere. I miei sandwich mi hanno fatto più paura. »

« Bizzarro. » Bizzarro? La sua voce era bizzarra. Non era come quella degli altri maghi neri, uniforme, dolce, calda, strane inflessioni- era lucida, tagliente ed espressiva. Questo Tango Nero mi stava profondamente confondendo. « Di solito si spaventano tutti, agitano i piccoli artigli, gli uccellini sbattono le ali – a volte se le rompono, le ali, sai, e si fanno del male. »

« Tu » dissi in tono piatto, « non fai paura. Tu sei soltanto malato. »

« Sì, sì. Malato. Sono sempre stato malato. Tutto il mondo è malato. Tu sei malata. »

Portai gli occhi al cielo e crollai in avanti, accasciandomi sul pavimento. L’azione improvvisa lo fece sobbalzare come un gatto terrorizzato; i suoi nervi erano messi peggio dei miei, evidentemente. « D’accordo. Sono stanca di questo posto. Portami dove cavolo ti pare. »

« Come desidera, milady » rispose sardonicamente Tango, schiaffeggiandomi col dorso della mano con disinvoltura e con tanta di quella forza che tutto si incupì in una rossa esplosione di nulla.

E questo è tutto quello che ricordo di quel momento.

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Capitolo 3
*** Bleeding From His Mouth ***


capitolo due
gli esce il sangue dalla bocca



O God, my dream! I dreamed that you were dead;
Your mother hung above the couch and wept
Whereon you lay all white, and garlanded
With blooms of waxen whiteness.


Oh Dio, che sogno! Ho sognato ch’eri morto;
Tua madre piangeva e s’impiccava sul divano
Ove tu giacevi bianco, e inghirlandato
Di fiori di un cereo bianco.

- amy levy



Si prende un certo ritmo quando ci si addormenta per due notti di fila grazie a due fortissime botte in testa. Avevo un livido che avrebbe potuto farmi salire sul podio di un concorso di ecchimosi, e un mal di testa che come minimo avrebbe ricevuto diversi bigliettini di congratulazioni.

Seguitemi un attimo: quante principesse vengono picchiate? Di solito vengono confinate al genere di romanzi d’amore che leggevo quand’ero più piccola per farmi sconvolgere da emozioni di carta, oppure si chiamano Garnet. Non ero neanche particolarmente furiosa quanto confusa, stordita e un po’ spaventata dal trattamento che stavo subendo; era come se lui mi avesse messo un cappio al collo, quel folle giocattolo ad orologeria che era-

Seduto sul cassettone di fronte al mio letto, quando mi svegliai.

Decisi di alzarmi con molta tranquillità, qualche passo alla volta.

Mi trovavo in una camera da letto. A differenza della biblioteca, quella stanza scintillava di pulito, e al posto dell’odore di sangue secco e stantio aleggiava nell’aria un leggero profumo di sapone e cera. Le pareti erano cosparse di crepe, e le coperte sottili e rattoppate mi pizzicavano ruvide la pelle nu- pelle nuda. Ero stata spogliata durante la notte, e dato che nelle vicinanze non c’erano altri mentecatti di cui sospettare, tutte le dita erano puntate su Tango Nero.

Troppi traumi. Ero nuda, ero in un letto. La camera era illuminata da una luce morbida e delicata che evidenziava la calce dei muri, la pietra fredda in una stanza asciutta quanto la torre. Ero ancora nel deserto. Rannicchiato con le ginocchia deformi strette al petto e avvolto per metà dalle ali quasi come da un mantello, il mio carceriere mi stava guardando intensamente – un ammasso di cuoio nero sormontato da un cappello a punta e forato dalle mezzelune scure degli occhi.

Ancora mezza sdraiata sotto le coperte, passai al vaglio le possibili ragioni per cui lui potesse volermi. Me lo aveva insegnato zio Oltania nelle sue lezioni di politica. Politica era una delle lezioni più interessanti che seguissi, tutta pugnalate alle spalle, avidità e crudeltà, proprio come una storia coi fiocchi.

Ostaggio. No. Non voleva contrattare, per quanto non avessi idea di quale fosse il suo scopo. Se fossi riuscita a scoprirlo, allora forse avrei potuto gettare più luce sulla mia situazione. Il suo unico obiettivo apparente, tuttavia, era causare caos e distruzione e, seguendo le orme di tutti gli altri cattivoni maniaci che avevo conosciuto, l’annientamento di Gaya. Mancava di eleganza, magari, ma era determinato – bastava pensare a quello che il bastardo aveva fatto alla mia Lindblum. Ma no, niente ostaggio, nonostante le mie condizioni fossero buone.

Cibo. No. I maghi neri non avevano, per quanto ne sapessi, un debole per la carne umana, malgrado tutte le storie spaventose dei rifugiati di Burmesia. Vivi, infatti, aveva un debole per la zuppa. (La notte del matrimonio di Garnet sgusciammo nelle cucine; era così presto che stentavamo a crederci, e rubammo i rimanenti dessert sotto l’occhio benevolo di Quina. Gli piaceva la crema pasticciera, la gelatina e la panna montata. A me piaceva la torta di ciliegie. Parlammo di quello che avremmo voluto fare da grandi.)

Stupro. Forse mi voleva per i piaceri della carne. Scartai questa teoria quasi immediatamente, visto che se l’avesse voluto, immaginai che avrei dovuto sentire molto più dolore tra le gambe. Dopotutto mi ero spenta come una lampadina, e benché inesperta sui suddetti piaceri, sapevo benissimo che un corpo privo di sensi vale quanto uno cosciente per certi bisogni – col bonus aggiuntivo di zero grida. Inoltre, i maghi neri non erano esattamente rinomati per il loro amore verso le cose carnali, non essendo dotati loro stessi di molta carne.

Non c’era alcuna ragione per cui dovesse volermi. Ero decisamente un ospite indesiderato.

Conclusione: mi avrebbe ucciso.

Mi rizzai a sedere, tenendo strette le lenzuola, più irritata che disgustata dalla mia nudità in bella vista mentre mi coprivo. Lui non sembrò curarsene, comunque.

« Buongiorno, Principessa. » Aveva qualcosa in mano, una piccola campana che stava lucidando con un panno. Non emetteva alcun suono mentre la strofinava. « Dormito bene? »

« Potremmo saltare i convenevoli e andare dritti al sodo, Tango? Se hai intenzione di uccidermi, mi piacerebbe saperlo per potermi prima vestire. »

« Il tuo vestito è stato lavato » spiegò, con qualche esitazione. « Ti troverò degli abiti se ne avrai bisogno. Non che a qualcuno interessi, non qui. Niente battutine spiritose per me? Mi piacciono le battutine spiritose, sai. »

« Non hai niente di meglio da fare? » gli chiesi, stizzita. « Qualche altra città da devastare, o Lindblum da finire? »

« Quanto successo a Lindblum è stato solo un giro di prova. » Alzò una spalla, posando la campana e arruffando piano le piume. « Io punto ad Alexandria, la prima città che ridurrò in polvere, e ai suoi abitanti, le prime persone che ridurrò in poltiglia tra le mie dita. Dopodiché… sarà tutto molto più semplice. »

« Senti. » Mi ributtai sul letto e lo studiai, ricavando un certo sollievo dai cuscini freschi. Dei, quanto mi faceva male la testa. « Hai già fatto due degli errori più cretini che potessi fare. Uno, mi stai raccontando il tuo piano. Due, non mi hai ucciso. »

I suoi occhi si strinsero in due fessure. Puoi capire a cosa sta pensando un mago nero soltanto attraverso i suoi occhi; i suoi erano trasparenti come il vetro. « Cosa ti fa pensare che non lo farò? »

« Perché non l’hai ancora fatto. »

« Forse ti sto facendo ingrassare. » I suoi occhi cambiarono: la rabbia mutò in un divertimento straordinariamente agghiacciante. « Forse non mangio da taaanto, tanto tempo. »

« Quella battuta ha smesso di essere divertente due secondi dopo essere stata inventata, Tango. »

« La vita ci ha messo molto meno, Eiko. »

Petulante, petulantissimo, ed era la prima volta che usava soltanto il mio nome; sale e succo di limone, vendicativo come uno sputo. Ebbi un’altra fitta alla testa. Mi avevano addestrata a trattare con cattivi belli, calmi e impersonali, interessati con tutta probabilità ai miei soldi, o con dei signori muniti di baffetti da attorcigliare e pazzi in un modo che almeno avrei potuto comprendere. Tango non aveva baffi, e qualunque cosa stesse attorcigliando, mi stava facendo venire le vertigini.

« Allora dammi un indizio. Cosa hai intenzione di farmi? In che modo faccio parte del tuo magnifico piano? »

Scivolò giù dal cassettone e si portò al centro della stanza. Era una camera stranamente sontuosa, ora che la guardavo meglio; i tappetini sul pavimento un tempo dovevano aver avuto grande valore, i mobili erano di un legno duro pregiato, l’oro che patinava ogni cosa non era finto. Perfino i fili del mio copriletto rammendato erano di seta.

« Io volevo » disse lentamente, « ucciderti. »

« Non dirmi che hai avuto pietà di me. » La pietà non avrei potuto sopportarla.

« No. » Le sue parole erano asciutte e completamente, assolutamente vere. « Avevo intenzione di ucciderti, Principessa di Lindblum. Avevo intenzione di squartarti e sparpagliare le tue interiora per tutta la tua città come pesanti ceneri intrise di sangue. » Sembrava piuttosto coerente ora, benché ripugnante. « Ma tu non rappresenti alcuna minaccia, e sei divertente, e il tuo cuore batte. Non puoi scappare nel deserto, e non puoi essere salvata; le difese di questo luogo sono troppo potenti perché tu possa spezzarle, principessa linden-bloom*, così nessuno potrà vederti quando i tuoi occhi saranno rossi di lacrime. Potresti essere un giocattolo perfetto per i momenti in cui mi manca l’ispirazione. »

« Un giocattolo. » Ero sbalordita. Che umiliazione. « Tutto qui quello che sono per te? »

« Persone migliori sono stati giocattoli di padroni migliori, Carol » mormorò. « Sarai un buon giocattolo e mi parlerai e respirerai, quando vorrò che tu sia un buon giocattolo e mi parli e respiri. »

« No! » Era anche peggio della pietà. « Tu esisti solo per uccidere, no? Uccidimi. Preferisco morire piuttosto che esistere solo per il tuo piacere perverso. »

Balzò accanto al letto in un lampo e strinse le mani inguantate di cuoio attorno alla mia gola sottile. Riuscivo a stento a parlare; riuscivo a stento respirare. « Scegli me » sibilò, « o scegli di morire onestamente, qui e subito. »

Vorrei aver avuto abbastanza coraggio da scegliere la morte. Vorrei aver avuto abbastanza coraggio da mordergli le dita. Ma io sono debole, e la vita era dolce, e la morte amarissima; sentendomi soffocata, capii immediatamente che c’erano cose di gran lunga peggiori di essere tenuta in vita in qualità di bambola parlante di Tango, quando c’era la speranza di liberarsene.

« Te » sussurrai, la voce schiacciata quasi fin nell’oblio, gli occhi chiusi per la paura che aperti sarebbero scoppiati. Ora la mia gola eguagliava per colore le mie guance di lavanda scurita, lo sapevo senza bisogno di uno specchio. « Scelgo te! »

Allentò la presa. Indietreggiò, apparentemente non più calmo di prima, ma le sue mani ricaddero flosce ai fianchi, e mi fece un breve cenno del capo prima di nasconderle dietro la schiena come un bambino disubbidiente. Le sue ali si gonfiarono appena, facendo lo stesso rumore di una coperta che si spiega prima di posarsi su qualcosa, e lui chiuse gli occhi; ora sotto le falde del cappello c’era solo buio.

« Così sia, milady » replicò a bassa voce Tango. « Questa stanza è sotto osservazione, pertanto ti raccomando di non lasciarla ancora. Ti porterò dei vestiti puliti. Verdi » aggiunse, risoluto, prima di aprire la porta e richiuderla dietro di sé.

Voltai la testa nel cuscino che ancora tremavo per la violenza appena subita. Una parte di me voleva piangere per il mio incerto futuro da incubo, ma le mie guance rimasero asciutte come la sabbia che fuori avvolgeva tutto.



Mi fece pensare a Vivi.

Non per la personalità, ovvio. Tango era malizioso, e lunatico, aveva molte rotelle fuori posto ed era chiaramente affetto da problemi che potevano essere curati solo con una doppia dose di Flare. Vivi… il Vivi che io avevo pungolato, stuzzicato, arrogantemente comandato quand’ero piccoletta non c’entrava niente, da questo punto di vista. Lo amavo, come amavo Garnet e Freija e anche quel vecchio schifoso di Amarant, ma non sapevo come esprimere quello che provavo. Non sapevo come esprimere il mio affetto per nessuno a quei tempi, fatta eccezione per la mia cotta assurdamente melodrammatica per Gidan. Tutto l’amore che avevo nutrito nella mia infanzia era morto con mio nonno, era morto con Mogu, tanto che ero solo capace di stringere forte e appassionatamente i miei moguri – e a volte non sapevo come dimostrare niente neanche a loro. Fu solo in seguito, grazie alla gentile guida di mia madre e mio padre, che imparai a dire i miei esitanti ti-voglio-bene.

Dicevo; sì, mi fece pensare a Vivi, mentre ero rannicchiata sotto quelle coperte con la gola che mi faceva male. Non meritava di morire in quel modo. Come disse Gidan, forse avremmo potuto soltanto rimandare l’inevitabile se lo avessimo dissuaso (i maghi neri non vivono mai a lungo), ma questo non voleva dire che il pensiero ci consolasse. E io mi sentivo particolarmente orribile. Ero stata scortese con lui in modi che avrebbero potuto apparire vendicativi, e ora non avrei mai potuto chiedergli scusa.

Maghi Neri. Non vivevano mai a lungo. Tranne forse i Valzer? Forse Tango aveva i giorni contati? Oh, che cosa carina. Magari avrei potuto dargli una mano a velocizzare il processo.

Mi assopii, e mi risvegliai poco dopo quando sentii la porta cigolare. Mi tirai su, aspettandomi di vedere Tango, ma entrò nella stanza una figura molto più bassa.

cappelli ballonzolanti l’intero villaggio popolato da dolci arnesi-di-guerra-trasformati-in-agricoltori per favore per favore per favore

Un mago nero. Un po’ più piccolo di me, ma ancora riconoscibile per quello che era. Oh, Dei, le lacrime mi punsero gli occhi. Un mago nero.

Strascicò i piedoni nella stanza, richiudendosi la porta alle spalle. Era vestito di blu, rosso e verde; il suo cappello era di cuoio marrone, e aveva gli occhi dorati e caldi come un raggio di sole. Ripose ai piedi del mio letto la camicia verde che teneva sul braccio.

« Qual è il tuo nome? » gli chiesi gentilmente, la voce tremante per la trepidazione.

Il mago alzò lo sguardo per incontrare il mio; sì, mi aveva sentito, sì, mi aveva capito! Armeggiò con i guanti e mi sbirciò da sotto l’orlo del cappello, raddrizzandoselo distrattamente. « Ah, sua altezza » mormorò dopo un po’. « Nome? »

« Sì, il tuo nome. » Sei un mago nero, puoi aiutarmi ad uscire di qui anche se lavori per Tango. Oh, spero che ce ne siano altri come te, io posso salvarvi, possiamo portarvi da Mikoto- « Come ti chiamano gli altri. Tutti i maghi neri hanno dei numeri. »

« Cinquantasei » replicò subito. « Ma non è mai stato il mio nome, sua altezza. »

« Chiamami Eiko. » Lo guardai incuriosita. Un numero molto basso. Una volta avevo conosciuto un Cinquantasei. Lui era senz’ombra di dubbio di una nuova sfornata; ma com’era possibile? Il mio cuore saltò qualche battito. Nebbia. Non si possono fare dei maghi neri senza la Nebbia. « Allora come ti chiama Tango Nero? »

« Il Signore? » Sembrò ancora più allarmato, come se si fosse appena ricordato della sua esistenza. Ah, allora era stato lui a farli. « Lui… lui mi chiama e basta… »

Era chiaramente a disagio, così scossi la testa con decisione. « Non importa » dissi, affabile. « Posso darti io un nome? Per chiamarti? »

Il mago piegò la camicia, lisciando tutte le grinze. Io mi alzai immediatamente e me la infilai sopra la testa: mi arrivava alle ginocchia. Allacciai in tutta fretta i bottoni rimasti. « Se lo desidera » acconsentì, incerto.

« Bene. » Mi avvicinai alla finestra, scostando le tende. « Quanto tempo fa sei stato creato? »

« Quattro mesi e sessantasei giorni e tredici minuti e ventotto secondi » fu l’immediata risposta.

Una sfornata molto recente. « Hai fratelli e sorelle? »

« Ce ne sono cento come me al momento. » Evidentemente Tango non l’aveva avvertito di non rispondere alle mie domande. « Ce ne sono sempre così tanti. »

« Cosa, cento? » Ero perplessa. « Perché non di più? »

« Ci Fermiamo dopo un anno, Sua Alt- Principessa. »

« Eiko. » Annuii lentamente. « Da quanto tempo Tango si trova qui? »

Lui sbatté gli occhi lentamente. « Io… io non lo so, Eiko. Da molto molto tempo. Credo. Da più tempo di noi. Da più tempo di quando siamo cominciati noi. »

Maghi neri che vivevano per anni e anni di seguito, con ali da corvo e un’aspra, arida sete di vendetta. Avremmo dovuto controllare, Gidan; mai lasciare i demoni dormienti dove sono, se c’è anche solo una possibilità che si possano risvegliare.

« Allora qui era estate, quando sei nato. »

« In estate piove » mi raccontò in tono grave. « Dobbiamo asciugarci tutti quanti i vestiti ogni volta che si bagnano, altrimenti marciscono. »

« Ti chiamerò Rain, allora » dissi, perché dovevo aver frequentato senza rendermene conto la Scuola dei Soprannomi Creativi di Garnet Til Alexandros. « Se a te non dispiace. »

« No. » Sembrava contento; gli brillavano gli occhi. « Non mi dispiace. »

« Come chiami gli altri maghi neri attorno a te? »

Rain socchiuse appena gli occhi. « Solo… fratello. » rispose, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Mi mancava Mogara. Volevo mia madre. Volevo mio padre. Volevo il mio set di chiavi inglesi e le mie aereonavi. « Bello » bisbigliai.

Non penso che avesse capito; continuò semplicemente ad aprire le finestre, a raddrizzare cose e a spianare le coperte sul letto. « Il Signore ha detto che non saresti saltata dalla finestra » mi spiegò laboriosamente. « Ha detto che è molto alto qui e che c’è la fossa di un antoleon nelle vicinanze, che gli eviterebbe l’incomodo di doverti mangiare, ha detto. »

Improvvisamente mi venne in mente una cosa. Alzai le mani per tirarmi gli occhiali sul naso prima di accorgermi che non c’erano, e imprecai. « I miei occhiali! Dove sono i miei occhiali? »

« Non lo so » ribatté Rain a mo’ di scusa, saltellando nelle sue grandi scarpe. « Mi dispiace tantissimo. Non ho portato via le tue cose. »

« Ne ho bisogno » sbottai. Non era vero, mi servivano solo per leggere qualcosa senza portarmelo al naso, ma senza mi sentivo nuda. « Potresti riportarmeli se li vedi? »

« Certo. »

Così dolce, obbediente, amichevole. Il mio cuore si lacerò al pensiero di un cimitero pieno di cappelli marciti e di un chocobo di nome Bobby Cowel. « Rain? Questo posto ce l’ha un nome? »

« Sì » ribatté immediatamente. « È la Reggia del Deserto. »

La Reggia del Deserto.

Adesso si spiegavano molte cose. Era uno dei pochi letamai di Kuja che non avevamo toccato; c’era sempre stata troppa magia, troppe trappole poste da un vendicativo jenoma per eventuali viaggiatori estranei… Era una dimora troppo cucita sulla misura del suo defunto padrone. La pace porta pigrizia.

Sollevai la mano per toccarmi lentamente il corno, sentendo la familiare radice vellutata dell’osso. « Kuja. »

Rain s’irrigidì. « Noi non pronunciamo il nome del Gran Signore. »

« Gran Signore? Vuoi dire che avete veramente qualcosa a che vedere con quel bastardo di Kuja? » Se dentro di me avevo nutrito qualche speranza che la situazione in cui mi trovavo fosse indipendente dal mio passato e che non ci fossero altre connessioni con i jenoma o con Tera o con uomini che erano più graziosi delle donne, s’infransero tutte. In realtà dubito di averne mai avute anche prima di quel momento.

« Noi riveriamo i morti » disse cerimoniosamente Rain, con appena un pizzico di compassionevole disapprovazione. « Non pronunciamo il suo nome. Ci sono molti nomi che non pronunciamo, ma non pronunciamo soprattutto quello del padre del Signore. »

Okay, le cose stavano diventando molto stupide.

Una cosa è essere rapiti. Un’altra è essere rapiti da un mostro di una categoria che si supponeva debellata anni prima. Un’altra ancora è scoprire che il mostro in questione sembra essere il figlio di un altro mostro che casualmente era il clone e il fratello estremamente squilibrato di un tuo caro amico che è quasi il tuo fratellastro, quel simpatico mostro che ha causato un mare di distruzione e gli incubi senza forma che fai ogni tanto. Sentii arrivare un’altra emicrania.

Notando la mia angoscia, Rain mi prese gentilmente per mano e mi fece sedere su una sedia. Non riuscii a non stringerne distrattamente i bordi, fissando il vuoto. Kuja non aveva figli. Certo, essendo un Valzer Nero di sua creazione, era comprensibile che Tango potesse sentirsi legato alla cara Bella in Viola da una perversa relazione paterna. Rimaneva comunque una cosa incredibilmente stupida, punto.

« Rain? » sussurrai. « Rain, se mi aiuti ad uscire di qui, potrei portarti in un posto davvero stupendo dove prima vivevano i vecchi maghi neri. »

« Il Villaggio dei Maghi Neri. » La tristezza nella sua voce era palpabile, e il fatto che sapesse già di cosa stavo parlando mi sorprese. Non era certamente un bambolotto privo di mente. « Non è un luogo adatto a me o ai miei fratelli, Eiko. No, è meglio restare qui, meglio stare con chi ci ama. La vita non è altro che una candela corta, quando sei un mago nero. »

« Come ti ha trovato lui? Ti ha creato lui, no? Nessuno c’è mai riuscito, l’ultimo è stato Vivi, e anche lui ha fallito – ti prego, Rain- »

Scosse la testa, muto. « No » disse alla fine. « Per favore, no, basta così. E- c’è un altro nome che non pronunciamo. Noi non pronunciamo il suo nome. Noi non pronunciamo il nome di altri jenoma, noi non pronunciamo la parola jenoma. » Sembrava veramente dispiaciuto per essere stato costretto a dirlo.

« Perché? » chiesi, frustrata. « Perché tutto questo silenzio? »

« Perché finisce tutto nel dolore » rispose lui con semplicità. « Dolore, e una morte più rapida. Lui – lui non lo desidera – ma ha un temperamento che… »

Sapevo chi fosse quel lui. Dannato Tango. C’erano di mezzo anche nebbia, stranezze, e segreti. Forse avrei potuto sfruttare a mio vantaggio il fatto che Tango fosse un pazzo furioso – anche se, con i lividi che ancora mi coloravano le guance e la gola, pensai che non ostacolarlo sarebbe stato comunque saggio.

Rain emise un colpetto di tosse, attirando la mia attenzione. « Rimani in questa stanza e ti porterò un po’ di cibo. »

Il mio stomaco brontolò placidamente a quelle parole. « Grazie » dissi, e sorrisi. Lui sembrò teneramente sollevato, quasi s’illuminò per la fine del mio interrogatorio. Non lo avrei inflitto al povero Rain. Lo avrei piuttosto inflitto a Tango. Se la fortuna era dalla mia, Rain avrebbe potuto procurarmi un po’ di legno, oppure avrei potuto rompere da sola un pezzo del cassettone; ore di preghiere e consacrazioni avrebbero fatto di quel bastoncino un’utile bacchetta, e allora avrei potuto spedire quel figlio di puttana (insulto da prendere abbastanza letteralmente) all’inferno. Poi Fenice avrebbe potuto riportarmi a casa, ora che sapevo dov’ero. Sollevata, mi rianimai: finalmente avevo un piano! « Sarebbe meraviglioso, Rain. Credo che aspetterò qui. »

« Il Signore tornerà a momenti. Ti porterò da mangiare e cercherò i tuoi occhiali. Cerca di non addolorarlo, Eiko; la sua ricerca lo stanca- »

Attesi che il piccolo mago nero uscisse, strascicando i piedi. Non so cos’avrei dato per sporgere la testa fuori dalla porta e studiare i paraggi, ma mi resi conto che se l’avessi fatto mi sarei istantaneamente messa alla disperata ricerca di una via di fuga. Ero troppo stanca, troppo sconquassata, e avevo troppa fame per un’impresa di quella portata.

Piuttosto, aprii immediatamente il cassettone e cominciai a frugare, anche se non c’era quasi niente. Ero convinta che la mia reclusione alla Reggia del Deserto – ah, la Reggia del Deserto! – non sarebbe durata più di qualche giorno ora che avevo il mio superbo piano.

Ero una tale sciocca.





*linden-bloom: visto che persino qualche anglofono ha avuto difficoltà a capire il gioco di parole, posto qui la traduzione della spiegazione a opera della stessa Guardian1: « Tango pensa di essere straordinariamente spiritoso, e ha giocato un po’ con il nome della città di Eiko per crearle il nomignolo. Lei è la Principessa di Lindblum, e “blum” potrebbe essere una corruzione di “bloom” (=fiore) – poi c’è “Lind,” che si traduce in maniera piuttosto naturale in una pianta, il linden (=tiglio). Pertanto, Tango adopera tutta la sua sagacia e il suo fascino e la chiama “linden-bloom” (A Eiko non fa ridere). » Lo specifico fin d’ora perché verrà usato spesso in futuro, e trovare un equivalente italiano è pressoché impossibile :3

youffie

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Capitolo 4
*** Halfway Down Already ***


capitolo tre
già a metà della strada che va giù



I am exhausted, I am exhausted ----
Pillar of white in a blackout of knives.
I am the magician’s girl who does not flinch.


Sono esausta, sono esausta ----
Colonna di bianco in un nero di pugnali.
Sono la ragazza del mago che non si ritrae.


- sylvia plath



Rain mi portò qualche panino senza la crosta e del brodo di pollo, e la cosa che mi confuse un po’. Non solo perché aveva tolto le croste, e io mangio i panini così da quando avevo cinque anni, ma per l’essenza stessa della pietanza. Non ti danno dei panini e del brodo quando ti rapiscono. Ti danno acqua e farina d’avena.

C’era persino del latte. « Dove hai preso il latte? » chiesi incuriosita, squadrandolo. Insomma, eravamo in quello stramaledetto deserto. Sembrava normale, bianco e perfettamente bevibile. Forse era latte di antoleon, anche se avevo sentito dire che era verde, melmoso e corrodeva le assi di legno.

Lui parve quasi imbarazzato mentre posava piano il vassoio sul mio letto e procedeva alla risistemazione dei cuscini. « Magia nera- »

Quasi mi strozzai col mio panino, che era farcito di carne di yan, mostarda e lattuga. « Magia nera! Non si può fare il cibo con la magia! Sarebbe troppo incorporeo! È troppo complicato- »

« Il Signore è sempre stato molto bravo a creare. » Nella sua voce c’era come un sorriso. « Secondo te noi come facciamo ad esistere? Ad essere sinceri, col cibo abbiamo dovuto fare dei collaudi e siamo incappati in qualche errore, ma alla fine siamo giunti alla conclusione che fare gli ingredienti separatamente era molto meglio che cercare di creare piatti con troppa roba dentro. »

Lo fissai. « Ti rendi conto che questo potrebbe completamente rivoluzionare il resto del mondo? Se si può creare il cibo si potrebbe – si potrebbero nutrire gli affamati – si potrebbe eliminare la povertà – e se poteste essere in grado di creare altre cose? E se poteste creare l’acciaio? »

« Noi non possiamo creare metalli. » Rain era fermo. « È meglio seguire il corso della natura, anche se è magia nera. » Sospirò. « E anche se potessimo salvare il mondo, siamo troppo pochi per riuscirci – e non c’è la motivazione. »

Presi un sorso di latte. « Non c’è la motivazione? »

« Il mondo è un luogo crudele, stupido e indegno. »

Quasi sussultando, voltai immediatamente lo sguardo verso il corridoio. Rain arrossì violentemente come se avesse fatto qualcosa di male, e Tango Nero annuì seccamente verso di lui, facendogli un gesto con la mano. Il mago nero più piccolo mi fece un inchino e sgambettò via, praticamente inciampando sui piedi grandi mentre usciva.

Pensa a mamma. Con eleganza, feci spazio sul letto, trascinando con me il vassoio. « Ti unisci a me? »

Con uno sguardo profondamente sospettoso, lui piegò le ali in modo che gli coprissero la schiena come un mantello. Dei, ogni volta che lo guardavo mi faceva ancora venire voglia di farmela sotto. Era una massa di nero, cuoio e borchie antiche, come se fosse stato dissotterrato da una bara. Anche le ali mi terrorizzavano, quelle ali da angelo nero.

Gli offrii un panino. Lui lo prese e se lo rigirò un po’ distratto tra le mani prima di staccarne un morso. Misi a tacere l’impulso di scoppiare a ridere, perché mi venne in mente Vivi, mi venne in mente che gli davo da mangiare anche solo per il fatto che era stranissimo vedere quel cibo sparire nel nulla.

Povero Vivi. Mangiava sempre quello che gli davo. Era sempre stato molto educato al riguardo. « È b–buonissimo, Eiko » diceva, semi-soffocato.

« È cibo vero? » domandai, assaggiando con cautela un sorso del brodo. Dal sapore sembrava vero; mi aspettavo una specie di retrogusto, una traccia di magia. Non soltanto sembrava vero: aveva anche un sapore meraviglioso e io stavo crepando di fame.

Lui mi guardò, poi tornò al panino. « Sì. »

« Fatto con la magia? »

Giocherellò con l’infarcitura, colpendo la carne con un dito ricoperto dal guanto. « Sai, Principessa di Lindblum, ci sono libri che narrano di un mondo in cui c’erano milioni di maghi neri, e di città che si poggiavano esclusivamente sulla magia. E i Maghi Bianchi e i Maghi Neri convivevano, e nessuno era mai solo nessuno mai… »

Gli diedi qualche istante per ricomporsi, fondamentalmente perché ero certa che mi avrebbe staccato mezza faccia se avessi interrotto il suo spot con un qualcosa che ricordasse anche solo vagamente un risolino cattivo provocato dalla sua infermità mentale.

« Ci hanno ucciso tutti, sai. » Ritorno alla lucidità asciutta. Niente lacrime. « Hanno lasciato sopravvivere la tua stirpe soltanto perché voi eravate utili. Quelli con le facce nere avevano fin troppo potere, in fin dei conti. No, Carol, io e i miei non faremo nulla per salvare il mondo. Non ci ha mai concesso un briciolo di misericordia. »

« Cosa vuoi, Tango? »

Mi guardò, lentamente, con quei suoi occhi dorati che brillavano come lune crescenti, calcolatori e impenetrabili. Odorava di braci spente. « Voglio che i miei bambini vivano. »

E mi immobilizzai di botto.

Mi immobilizzai perché non si trattava di un commento in malafede e pensato; non aveva esitato, e non c’erano secondi fini. Era una madre qualunque con i suoi figli, era un genitore qualunque, con sulle spalle però la maledizione dei Maghi Neri. Io volevo la mia libertà. Lui voleva molto di più. Il mio cuore fin troppo tenero praticamente scoppiò a piangere, per una ragione sola, per un ricordo e per un ragazzo-

Vivivivivivivivi-

« E voglio che muoiano tutti gli altri » concluse, rovinandomi tutta l’atmosfera. Divorò tutto il panino per aggiungere enfasi.

« Perché? »

« Credi che i maghi neri possano vivere in questo mondo? » Scosse la testa. « Non ha mai ma proprio mai funzionato, linden-bloom. Ci hanno ucciso e ucciso e ucciso, e ora l’unica cosa che è rimasta nei loro ricordi è il pensiero dell’esercito che invase Burmesia e Cleyra. La paura è a un passo dall’odio. Fanculo le persone. Fanculo i sorci. Che vadano tutti all’inferno, perché gli unici che meritano di vivere vivono qui. »

« Il vostro mondo a scapito del nostro? »

Mi fissò, molto divertito. « Non sarebbe un mondo migliore? »

« C’è bisogno di equilibrio. »

« Il nero genera grigio che genera bianco » replicò, fastidiosamente criptico.

« Beh, ti sei appena dato la zappa sui piedi » brontolai. « Tormentare Lindblum – distruggere roba – Gidan a quest’ora ti starà dando la caccia. Se c’è mai stata una qualche speranza perché esistesse un mondo in cui avreste potuto vivere entrambi, tu l’hai disintegrata. »

« Allora li ucciderò tutti, no? »

Finii il latte in silenzio e appoggiai il vassoio per terra. Momento buffo per le buone maniere, Eiko. La pacata convinzione della sua voce e quello in cui avrebbe potuto tradursi mi facevano tremare le mani. Che spreco. Che spreco abominevole. « Non te lo permetterò. »

Si voltò verso di me; nei suoi occhi c’era pietà. « E come mi fermerai, Principessa? »

Come d’abitudine, gli diedi un pugno forte nello stomaco.

Dopotutto, non sono un’ingegnere per nulla. Fa parte del piano di studi andare a bere con altri ingegneri in bar loschi dove ci sono tipi enormi e squadrati che fanno sembrare Amarant quasi innocuo e che di solito cercano di abbordarti con frasi tipo “Bene bene, cosa ci fa una pupattola come te in un posto come questo?” o “Ehi, carina, il tuo segno stellaziale?”, istigandomi a prenderli a parolacce che culminavano poi in rissa.

Evidentemente, tutte quelle risse mi avevano tenuto in ottima forma perché, inaspettatamente, lui trasalì e grugnì, stupito e dolorante. Dopo aver visto la morte in faccia saltai in piedi e corsi verso la porta.

Lui si riprese quasi immediatamente. Ero appena uscita – trovandomi di fronte un corridoio vastissimo pieno di spifferi, con vicino una scalinata a chiocciola per i piani inferiori e tutto intorno tante di quelle stanze da dare il capogiro – quando lui si mise all’inseguimento, saettando con spaventosa rapidità per un mago con delle grosse ali sgraziate. Si alzò in volo e mi afferrò da dietro, facendomi atterrare con un tonfo sui resti di un tappetino che ricopriva il freddo pavimento di pietra. Il piagnucolio che emisi fu indotto più che altro da uno straziante spavento puerile.

Si tolse di dosso – un peso strano, fatto di cuoio e di piume – e mi voltò rudemente con le mani. Io gli lanciai un’occhiata truce, arrabbiata e sconcertata e adesso volevo soltanto casa mia, mentre lui mi fissava dall’alto.

Alla fine si rialzò, sfilò un paio di occhiali dalla giacca e me li buttò sul petto. In completo silenzio, volteggiò sul bordo del corrimano delle scale e, spiegate le ali, sparì dalla mia vista.

Quello fu il mio primo tentativo di fuga.



« Allora, che vuoi fare da grande? »

Un cucchiaio pieno di crema pasticciera e panna interrompe il volo verso la bocca invisibile, che prima l’aveva divorato. « Non lo so. Tu che vuoi fare? »

« Vi-vi! Te l’ho chiesto prima io! Questo è barare! »

« Beh, io s-sono già adulto » dice ragionevolmente, stringendosi il cappello alla testa in un’azione familiare come il fuoco. « Ho dei bambini. »

« Beh? »

« Solo gli adulti hanno i b-bambini. »

« Però li fanno in maniera diversa. » Superiore e altezzosa. « Ci sono di mezzo dei baci. Per te è stato più simile a come fanno le cicale. Quindi cosa vuoi diventare da grande? »

« … Un p-pompiere? »

« VIVI! »

« S-sarei un buon pompiere. »

« Tu non vuoi essere un pompiere! »

« B-beh, sono terribilmente o-ordinati. »

Effettivamente. « Ma tu non vuoi essere un pompiere. »

« Io voglio essere… felice. Come Gidan e Garnet. »

Una fetta di torta di ciliegie viene divorata sovrappensiero. « Felice è facile. »

A sorpresa, « No, non è vero. »

Ha ragione e lo sappiamo entrambi. Abbiamo visto e sentito troppo in questi ultimi anni per pensarla altrimenti, specialmente lui, specialmente io. « Cos’altro vuoi essere oltre che felice? »

« Sarò un mago nero. »

« Sei già un mago nero. Doh. » Siccome appare immediatamente ferito, mi degno a mettergli un braccio sulle spalle, assorbendo il suo calore. « Puoi fare il mago nero e anche qualcos’altro. Mia madre è una maga rossa, è una moglie ed è una reggente. »

« … Q-questo voglio. U-una famiglia. »

« Hai Bibi e i tuoi altri bambini e gli altri maghi neri. E hai Gidan e Garnet e Amarant e Freija e Quina e Steiner e hai me. E avevi un nonno, proprio come me. È una famiglia molto più grande di quella che hanno molte altre persone. »

« … Non ho u-una madre, però… »

« Sarò io tua madre » mi propongo subito, deliziata. « E posso vestirti e svegliarti al mattino e cucinare per te- »

Orrore immediato e il felice risucchio di un’altra cucchiaiata di zuppa. « Eiko, non puoi essere mia madre. Sei più piccola di me. M-mi spiace » si scusa.

« Hmph. » Osservo le gambe di Quina agitarsi per la cucina. « Beh, Mr. Noia, io sarò una donna bellissima. Diventerò la signora più bella del mondo. »

« E Garnet? »

« Lei è una regina. Io sarò una bellissima signora. E non mi metterò nemmeno le gonne. »

« Ma le donne bellissime portano le g-gonne. » C’è solo un pizzico di presa in giro nella sua voce.

« … Okay, hai vinto. Scemo. Farò il pompiere! »

Ed entrambi ci sciogliamo in risatine.




Ricordo la rabbia, di quando lui morì. Avrebbe potuto almeno dirmi addio in parole migliori che d’inchiostro.



Se avevo sperato anche solo un po’ che dopo la mia piccola bravata Tango Nero mi lasciasse marcire in pace, fui brutalmente disillusa. Rain mescolò rimproveri a sospiri per il resto della notte, sottintendendo il messaggio: ringrazia che non ti abbia ucciso.

Odiavo la paura che avevo di lui. Odiavo l’improvvisa solidarietà che provavo in certi casi, solo perché mi ricordava Vivi. Lui non era Vivi, e non avrebbe mai potuto essere Vivi Orunitia per me; avevo bisogno di tenerlo bene a mente. Era uno dei Valzer, confuso e ben oltre la soglia della morte che avrebbe dovuto coglierlo prima, un mostro. Capace di ragionare, ma determinato a uccidere. Peggio di Kuja, per un certo verso; Kuja voleva soltanto assecondare i proprio capricci, non era concentrato sul suo mezzo ruolo di Angelo della Morte. Tango Nero era talmente concentrato su quella parte che la sua mente non era semplicemente a senso unico, ma piuttosto un’enorme aereostrada unidirezionale con tanto di freccione che gli indicavano il “traguardo.”

Quando quella volta se ne andò tremai per una mezz’ora buona.

Alla fine, comunque, convinsi Rain che non mi sarei suicidata buttandomi dalla finestra a causa della cosa orrenda che mi era appena capitata e se ne andò anche lui, lasciandomi alla meditazione e al bastoncino che avevo estratto dalla parte retrostante del cassettone. Se avessi cominciato a santificarlo allora, forse sarei riuscita a prepararlo in tempo per la luna piena seguente che mi avrebbe consentito di cominciare a fare gli incantesimi veri e propri; una volta ero stata una dei maghi bianchi più potenti del mondo, e la magia doveva essere come pilotare un’aeronave: non si scorda mai. Mi ero riempita la testa di diagrammi, progetti e matematica e avevo dimenticato la magia. Volevo la mia bacchetta, volevo mia madre e volevo mio padre.

Stanca e sfinita dallo scontro, dalla giornata, da tutto quello che dovevo assimilare, strisciai a letto e mi rimboccai le coperte. Il mio sonno fu agitato; comprensibilmente, dato che circa un’ora dopo aver chiuso fermamente gli occhi ed essermi consegnata alla notte, mi risvegliai e vidi i fari d’oro di Tango Nero che se ne stava pazientemente seduto accanto al mio letto. Ero così impietrita, esausta e confusa che non cercai neanche i miei occhiali, rimanendo a fissarlo e a chiedermi se non fosse una specie di strano incubo.

« Tango? » borbottai.

« Torna a dormire, linden-bloom. » disse dopo un po’.

« Non mentre tu mi guardi. »

Ci fissammo per qualche minuto, come due bambini appena nati messi uno di fronte all’altro che capiscono che anche l’altra palla informe è umana.

« Tango. »

« Linden-bloom. »

« Perché sei seduto qui? »

« Mi piace guardarti dormire. » Drizzò il capo. « Inspiri ed espiri e scalci i piedi da sotto le coperte, e ti contorci come una larva e ti si aggrovigliano i capelli. È una cosa molto… viva. Il sonno fa pensare alla morte, ma non le somiglia. »

« Allora tu dormi? »

« Quanto può dormire un mago nero. »

« … Tango. »

« Linden-bloom. »

« … Sapevi di Vivi? »

Un altro lungo silenzio, stavolta gelido, ed ebbi il timore di aver offeso Tango per l’ultima volta; avevo troppo sonno per badarvi, persa nel dormiveglia, e se fossi morta non me ne sarei neanche accorta. Sarebbe stato facile morire in quel letto.

« Quel prototipo è stato creato prima di me. »

« Oh » replicai, stupidamente.

« Ma so chi era » aggiunse inaspettatamente. « Lo so fin troppo bene, so del segreto, so che era uno stupido zerbino che amava l’umanità. »

« Vivi non era uno stupido. » Richiusi gli occhi. « Era intelligente, e meraviglioso, e dolce, e – non era come te. I maghi neri non sono fatti per uccidere. Lui questo lo sapeva. »

« I maghi neri sono sempre esistiti per uccidere e per la morte e per distruggere. Perché credi ci abbiano chiamato neri? »

« Allora perché non pronunciate il suo nome? »

« Noi non pronunciamo i nomi dei dannati » ribatté seccamente. « Niente sfere nere, niente bambini che sognano ad occhi aperti senza ali e senza morte, morire, morire, creare qualcosa dal nulla, stupido e sciocco e la distruzione inconsapevole – di tutto – tutto è sempre stato distrutto e creato per svanire nella fredda morte buia del mondo. »

« Per me devi ingerire più zucchero, Tango. » consigliai io, assonnata. Sollevò la mano e pensai che mi avrebbe schiaffeggiato, ma invece si limitò a sistemarmi le coperte sulle spalle, e sentii il calore fortissimo che proveniva da dietro i suoi guanti. Abbassò la testa e la ripose per una frazione di secondo vicino a me. Poi si alzò.

« Dormi bene, Eiko » – e suonava più come un ordine imperioso – e se ne andò.

Non trovai altro riposo per quasi un’ora, con gli occhi sbarrati e la testa in disordine, e poi mi arresi e dormii il sonno dei morti.





Note della traduttrice: non ho dimenticato questa storia :) E sì, i dialoghi di Tango sono strani e potenzialmente sgrammaticati anche nella versione originale, non sono io che ogni tanto rincretinisco. Grazie mille a la_vale per la beta-lettura rapidissima e perfetta come al solito. E poi volevo dire che non ho tradotto i nomi di Rain e dei vari maghi neri che verranno perché mi faceva strano vederli in italiano. Spero la cosa non vi dia fastidio… :D

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Capitolo 5
*** No Angel ***


capitolo quattro
nessun angelo



I thought he was dumb,
I said he was dumb,
Yet I’ve heard him cry.

First faint scream,
Out of life’s unfathomable dawn,
Far off, so far, like a madness, under the horizon’s dawning rim,
Far, far off, far scream.


Pensavo che fosse muto,
Dicevo che era muto,
Eppure l’ho sentito urlare.

Il primo flebile grido,
Per l’insondabile alba della vita,
Un grido remoto, tanto lontano, come la follia, sotto l’orlo dell’orizzonte albeggiante,
Un grido lontano, remoto, lontano.


- dh lawrence



Mi svegliai tardi e grugnii nel cuscino, avvertendo un caldo innaturale; durante la notte mi avevano messo un’altra coperta addosso, e il profumino di qualcosa accanto al mio letto alla fine tramutò il sonno in fame. Aprii confusamente gli occhi: sul mio comodino c’erano un altro bicchiere di latte e una tazza di porridge – che però stranamente si cuoceva al vapore in una fiamma azzurra. Allungai un dito per toccarla – al tatto era molto calda, ma non mi scottai. Lo divorai tutto come una belva affamata, e stavo leccando il cucchiaio quando entrò Rain.

« Buongiorno, Eiko » mi salutò allegramente. « Come ti senti? »

« Bene. » Smisi delicatamente di leccare il cucchiaio e lo riposi nella tazza. « … Però Rain, mi manca casa mia. Tango… Non capisco mai se voglia uccidermi o no. »

« Effettivamente, qualche problemino ce l’ha- »

Sbuffai in onore del vincitore dell’Eufemismo dell’Anno.

« Ma con te si sta addolcendo » continuò lui inaspettatamente, con il cappello che ballonzolava e gli occhi che scintillavano come dei lampioni. « Ho ragione di credere che… Potrebbe lasciarti andare. Prima o poi. Quando tutto sarà… finito. »

« … “Finito” in che senso, Rain? »

Lui non mi rispose. Si mise a spolverare la polvere inesistente del cassettone e a pulire i miei occhiali sulla sua manica.

« Rain, cosa sta cercando di fare Tango? »

« Lo sai cosa sta cercando di fare, Eiko » rispose evasivo, posando gli occhiali e aggiustandosi con imbarazzo il cappellone molle. « Sta cercando di fare un mondo per noi. »

« A discapito del mio? » Corrugai la fronte. « Distruggendo tutto il resto? Rain, perché non lo fermate? Comunque la si giri non è giusto. »

« Forse no. » E si raddrizzò per guardarmi, gli occhi d’oro che brillavano limpidi e sereni. « Ma è tutto ciò che io abbia mai conosciuto, Principessa, e io… gli voglio bene. Lo seguirò ovunque lui mi conduca. »

« Attraversando un mare di sangue. »

« Se necessario. »

Abbozzai un sorriso e inforcai gli occhiali, accogliendo il loro peso familiare e rassicurante. « … Avrei dovuto ricordare la lealtà dei maghi neri. »

Lui raccolse le stoviglie e sorrise, arricciando gli angoli degli occhi. « Allora capisci, Eiko! Forse io non – approvo – ma gli vorrò bene per sempre. L’amore, dopotutto, è il nucleo di tutta la magia. »

La dolcezza del pensiero mi fece scappare un piccolo gemito, ma Rain ridacchiò fra sé, trotterellando via con le mie tazze. Mi leccai qualche traccia di zucchero dalle dita e spostai le coperte, alzandomi in piedi.

« Bene, Eiko » mi dissi allegramente. « È ora di vedere cosa possiamo fare oggi. »



Era un banale pezzo di legno, lungo quasi quanto il mio avambraccio e mezzo lucido da un lato. Non sapevo neanche che tipo di legno fosse; ma era legno vero, e avrebbe funzionato.

Mi ero fatta promettere da Rain che mi avrebbe portato a una fonte d’acqua con il pretesto che volevo lavarmi – anche se gli Dei sapevano quanto avessi bisogno di un bagno. Stavo iniziando a puzzare come un vero ingegnere. Per il momento, comunque, potevo usare soltanto la luce del sole – e la Reggia del Deserto ne aveva più che a sufficienza; dalla mia finestra entravano degli aridi, grossi fasci bianco-gialli. Mi sedetti tenendomi il legnetto in grembo, artigliandolo con una mano, e cominciai a pregare.

Carbuncle, protettore sacro, vieni da me. Non ho smeraldi. Non ho pietre lunari. Non ho diamanti. Vieni da me. Sorreggo soltanto il legno della terra e l’amore del mio cuore, oh Eidolon. So che sei lì. Vieni da me. Consacrazione.

Fenril, latore di rovina, vieni da me. Sono pura. Sono vergine. So che non mi sei stato strappato, risucchiato e estratto prematuramente – ti prego, so di non averti Chiamato, ma vieni da me… Consacrazione.

Fenice, augello di vita, vieni da me. Rispondi alle mie grida. Conosci questo luogo di morte, Fenice, ci siamo già stati. Vieni da me. Consacrazione.


Da una lingua senza voce si alzarono i canti; la fatica e la forza della mia preghiera e della mia disperazione mi stavano praticamente facendo piangere. Era una richiesta forgiata da necessità e ardore piuttosto che dalla calma che mi aveva insegnato mio nonno, lo stesso tipo di disperazione di quando imparai a evocare e a strapparmi gli Eidolon da dentro come organi.

Madein – Madein, madrepadre, Mogu. Vieni da me, amore mio, avvolgimi. Oh, Madein, ti prego, ho tanto bisogno di te. Mi sento così sola. Sto provando a non aver paura, ma ne ho. Vieni da me. Vieni da me. Vieni da me.

Consacrazione.


Mi fermai, poi lo morsi; i miei denti affondarono nel legno, staccandone una scheggia, e rimasi così fino a quando non mi tagliai la bocca e sentii il sapore ramato del sangue che tinse di rosa il candore del bastoncino. Nella mia testa la preghiera non divenne che un secondo battito cardiaco, e fissando il vuoto mi strinsi convulsamente all’aspirante bacchetta, sperando, sperando, gridando con ogni cellula del mio corpo un accorato e indecente vi prego-

E poi il punto che avevo macchiato di sangue mutò, e tutto attorno crebbe una lamina di corteccia liscia. Lo toccai con la lingua, con la bocca; la ferita si richiuse, lasciando una piaga al posto di un buchetto.

Era un passo veramente piccolo, ma prima di fare quel passo non avevo neanche le gambe.



Più tardi Rain mi portò a scegliere qualche vestito per il bagno. Ero un po’ delusa; oltrepassammo soltanto qualche sinuoso corridoio privo di tratti distintivi, di certo poco adatti a una potenziale ricerca di vie di fuga o mezzi di trasporto. Il piccolo mago nero mi condusse in una stanza in cui c’erano solo armadi, un enorme specchio bordato d’oro all’altro capo della stanza, e alcuni dipinti complicati appesi alle pareti; magnifica nella sua spudorata opulenza.

« Prendi tutti i vestiti che vuoi » fischiettò. « Sono tutti puliti. Teniamo lontane le tarme. Li usiamo per farci i vestiti, anche per i nuovi. I vestiti sono terribilmente importanti per i maghi neri. »

« Sì, eh? » Sogghignai fra me, ricordando il grosso soprabito di Vivi e tutta la cura che gli dedicava. Mi avvicinai a una delle ante scorrevoli e la aprii, sentendo il pesante odore di cannella, lavanda e canfora che si occupava delle tarme. Gli abiti non avevano nulla da invidiare allo sfarzo della stanza: velluto, seta e raso, nonché i tessuti fini e incredibilmente leggeri di cui si rivestivano i nobili del deserto. « Sicuro che non vi dà fastidio se prendo qualcosa? »

« Sicurissimo. » Rain si schiarì delicatamente la gola. « Poi Eiko, se vuoi della biancheria la trovi nei cassetti di quell’armadio lì, però… »

« Però? »

« Non sembra per donne. »

Presi qualcosa e ne osservai il taglio: maschile, sgargiante. Mi diressi verso l’armadio che Rain mi aveva indicato e aprii con cautela un cassetto con intagli molto elaborati; tirai fuori una cosa grottesca che riconobbi come un minuscolo paio di pantaloncini, e poi mi resi conto di star frugando tra le mutande di Kuja.

Frugare tra le cose indicibili del tuo vecchio nemico ti mette al suo livello. Scoppiai in risolini incontrollabili, sollevando un altro paio e guardando schifata il tanga di seta verde che mi ritrovai tra le mani. Allora era questo che indossava il jenoma sotto la gonna. I risolini si trasformarono in una risata isterica non appena ne localizzai una con discreti – ma cazzo comunque – fiorellini ricamati.

« Io, uh, ti lascio a questa roba…? » domandò Rain, profondamente confuso, e mi lasciò a quella roba – “roba” che si rivelò la più grande, grassa risata degli ultimi mesi.

Quando le mie lacrime di ilarità si placarono, infilai i fiori verso il fondo del cassetto facendo il voto di non riprenderli mai più, per paura di immagini mentali. I vestiti di Kuja da soli erano molto più divertenti di quando li metteva lui; Kuja aveva un’aria di colta raffinatezza, di una bellezza che andava oltre il genere sessuale, e il fatto che fosse strano e stravagante quanto il suo vestiario non aveva mai attenuato il pericolo che rappresentava. Era un uomo, ed era un uomo con dei fianchi molto carini per un uomo, e gli piaceva metterli in mostra – ma aveva un potere tale da ustionarti la lingua.

Però. Santi numi. Fiori. C’era pure un foretto per la coda che aveva tenuto decorosamente nascosta sotto i vestiti. Come avrei mai potuto avere altri incubi che lo riguardassero?

Indecisa se indossare (orrore degli orrori) la biancheria di Kuja o andare in giro senza, optai infine per la comodità e presi una di quelle che sembravano le meno scomode. Poi presi una maglia color fiordaliso, che malgrado la vita scoperta e i bottoni che terminavano proprio sotto lo sterno mi sarebbe bastata; c’era anche un ampio foulard dorato di cotone da potermi annodare addosso come un sarong. Andava bene così, potevo muovermici senza inciampare, la prima necessità dell’ingegnere. Se avessi continuato ad esplorare gli abiti dell’uomo avrei perso tutto il giorno.

« Tutta l’acqua corrente della Reggia la prendiamo da delle sorgenti calde » spumeggiò Rain, facendomi strada nell’ennesimo corridoio mentre un’enorme vetrata colorata dipingeva un arcobaleno su di noi. « C’è un’oasi proprio qui accanto – creare l’acqua a volte è difficile se ne serve tanta – perciò non abbiamo bisogno di nulla. »

Avrebbe dovuto fare la guida turistica.

« Rain? » chiesi pensierosamente, prima che iniziasse a sproloquiare sul numero di camere da letto della Reggia o sull’amenità dell’ubicazione. « Dove sono tutti i mostri? »

Si fermò. « Mostri? »

« Prima nella Reggia del Deserto c’erano i mostri. Le guardie di Kuja. »

« Ah, li abbiamo spazzati via » spiegò in tono sbrigativo. « Nidi e tutto. A volte si riproducevano nelle cantine, nei vecchi laboratori, ma li abbiamo presi tutti. Non abbiamo mai toccato i guardiani della Reggia – non ci fanno del male – ma non hai nulla da temere, Eiko, non preoccuparti. »

« A parte il capo-mostro che controlla tutto quanto. » borbottai.

Per educazione lui fece orecchie da mercante, ignorando la mia affermazione. Quando dicevo cose del genere ai politici finivo sempre nei guai con mamma. Invece, fece un cenno a un’altra figura che stava attraversando il corridoio con le braccia piene di libri; era un altro maghetto nero, il doppione di Rain con vestiti rattoppati diversi.

« Ciao, fratello » lo salutò affettuosamente mentre passavamo; il mago mi guardò con deplorevole curiosità prima di rispondere con un tardivo, « Ciao! » mentre proseguivamo.

« Quanti siete? » bisbigliai.

« Un centinaio. » Si risistemò il cappello, pensandoci con attenzione. « Circa. Mago più, mago meno perché ci Fermiamo. »

Io deglutii. « E così Tango non è ancora riuscito a neutralizzare quel problema. »

Nella voce di Rain c’era un sorriso gentile. « Ci prova. Ci prova da anni. Ma non si può Fermare il Fermarsi, secondo me. Non credo che sia così che debbano andare le cose – ma se mi sbagliassi, lui ce la farà. »

Non si può Fermare il Fermarsi. Non si può uccidere la morte. « E allora lui… continua a creare nuovi gruppi, all’infinito? »

« Più o meno. » La voce di Rain era vaga e velatamente prudente; cambiò argomento trascinandosi giù per una piccola scalinata di pietra, aprendo delle porte pesanti e accendendo con la mano una torcia vicino all’entrata. « Qui, Principessa. Qui puoi farti il bagno. »

Più che una vasca era una piscinetta, ampia e rettangolare, e dall’acqua scura usciva un po’ di vapore; non riuscivo a capire da dove provenisse l’acqua, ma improvvisamente non m’importava. Dopo ci sarebbe stato abbastanza tempo per studiare e risolvere il mistero delle tubature. C’erano alcuni asciugamani piegati e una saponetta, e d’un tratto mi sentii più sporca che mai.

« Ti lascio. » disse lui con delicatezza, anche se avevo già scaricato i vestiti sul bordo e stavo testando l’acqua con la punta di un piede. Non gli risposi nemmeno, troppo occupata a scivolare e a immergermi completamente nell’acqua calda. Lui chiuse le porte, e io assaporai quel lusso.

« Beh » sospirai, « non è poi così male. »

Mi trattavano molto bene, un po’ come venivo trattata a casa. In alcuni momenti mi sembrava quasi di essere in vacanza; in altri ero mortalmente spaventata. Comunque, le mie mani attive e la mia testa attiva mi garantivano che essere un giocattolo non mi avrebbe soddisfatto per molto tempo, rapita com’era stata rapita mia madre a sua volta, e con davanti a me giornate costituite solo dalle coccole di – un affettuoso, bisogna ammetterlo – Rain e dalle minacce di Tango. Dovevo completare la bacchetta, evocare qualcuno, e andarmene da lì.

Ma prima volevo scoprire un bel po’ di cose.

Scesi fino al fondo della piscina e mi misi distrattamente alla ricerca di tappi o buchi di ogni tipo. Ne trovai uno; troppo piccolo e inutile per essermi utile in alcun modo; abbandonai quel tiepido tentativo di sgusciare nelle condutture e tornai a galla prima di cercare alla cieca il sapone. Me lo passai generosamente tra i capelli prima di ributtarlo in acqua con un sospiro di sollievo. C’era una brezza leggera che s’insinuava dalla finestra aperta assieme a un arido raggio di sole; produceva un dolce contrasto con l’acqua calda della vasca.

Frena, finestra aperta?

« Sei davvero graziosa, linden-bloom. »

Il sangue mi si ghiacciò nelle vene. Mi abbassai lentamente fino al collo; poi mi voltai. Tango era seduto nella nicchia vicino la finestra, le ali ripiegate e le mani sulle ginocchia. Un liquido rosso e appiccicoso gli colava dai guanti sproporzionati. Lentamente, mi costrinsi a rimettermi eretta e a ignorare quasi totalmente la sua presenza mentre mi insaponavo la gola.

« Io devo lavarmi come fanno gli uccelli » illustrò in tono conversevole. « Mi rotolo nell’acqua e mi rotolo e rotolo e rotolo e poi scaccio la polvere dalle ali. Non mi piace l’acqua. Mi si possono vedere le ossa. »

« Non mi piace che tu mi guardi, Tango. »

« Perché no? Tu sei mia e io posso guardarti. »

Repressi un brivido profondo. Che si facesse tutte le illusioni del mondo se queste potevano salvarmi la pelle. Riuscivo a scorgere il mio riflesso nell’acqua increspata: l’area dove aveva stretto le mani il giorno prima era tutta violacea. « Comunque non mi piace. »

« Il lavoro mi annoia » continuò, come se io non avessi parlato. « Odio i numeri. Mi marciano in mente come piccole formichine. Non come formiche grosse, gli antoleon, quelli sono come i mal di testa. Ce n’è uno nella sabbia sotto di noi – riesco a sentire il suo grido. Grida, grida, grida. »

« Ma ci sei o ci fai? » chiesi io acidamente, strofinandomi le braccia. Il sapone profumava di cannella e camomilla. « Per me è quasi sempre un mistero. »

Lui rise basso, diede un colpetto al suo cappello e si rilassò un po’ contro la parete. « Lo è anche per me, Eiko Carol. Probabilmente ci sono e ci faccio. A volte fa male così tanto che non riesco a stare dritto, e poi quando mi sveglio mi ritrovo a sanguinare di nebbia e sangue. »

« Ma proprio non ci riesci a dire qualcosa che non mi faccia paura? »

« Non pensavo di farti paura. »

« Infatti non me ne fai, però- » Il compiacimento crudele della sua voce mi fece emettere un verso frustrato. « Se hai intenzione di startene lassù a guardarmi mentre mi lavo, almeno applicati a fare una conversazione interessante! »

« D’accordo » mi accontentò Tango Nero, inaspettatamente. « Parlami di Cornelia. »

Decisamente spaesata, lo fissai per qualche istante; non poteva certamente riferirsi all’unica Cornelia che conoscevo. « La figlia di Gidan? »

« Sì. » Aveva la voce carica di un’emozione che non riuscii a decifrare. Si trattava di un territorio che dovevo calpestare con cura.

« Qualche mese fa ha compiuto otto anni. » Gli diedi la schiena, tornando lentamente in acqua e sciacquandomi i capelli. Non badava neanche tanto a me, o al fatto che fossi nuda; dubitavo mi avrebbe mai violentato. « Lei – lei somiglia a Garnet. Garnet ha dei lunghi capelli neri e dei grandi occhi cas- »

« Lo so com’è fatta la figlia della scrofa » sbuffò. « Va’ avanti. »

« Però Cornelia ha gli occhi azzurri. Noi la chiamiamo Elia. Lei – lei vuole diventare un cavaliere, un po’ come Beatrix. » Chiusi gli occhi, ricordando la mia quasi-nipote, strofinandomi il sapone sullo stomaco e sui piccoli fianchi ossuti da ragazzo. « Ha una coda, il corno da sciamana è un po’ piccolo ma tanto dovrebbe esserle utile più avanti. Le interessano soltanto le spade. È molto dolce. »

Ci fu un silenzio, allora. « È sana? »

« Come un chocobo. »

« Ed è bella? »

« Bellissima. »

Avrei dovuto dire che era brutta, malaticcia e in punto di morte.

« Mi sono chiesto spesso » riprese Tango lentamente, « perché Gidan non si è mai Fermato. Ku… Kuja si è Fermato. Pensavo che – pensavo, magari è stato fatto in maniera diversa, il jenoma superiore. Forse lui aveva qualcosa dentro di sé che l’ha fatto morire più facilmente. »

« Ed è così? » chiesi mio malgrado. Non volevo pensare a un Gidan che si fermava, che moriva; occupava ancora una delle parti più tenere del mio cuore di bambina, un eroe tanto amato.

« No. » La sua voce era profondamente amara. « Kuja e Gidan hanno avuto la stessa carne e lo stesso sangue. E pure i Valzer, e pure i maghi neri. Kuja è morto mentre Gidan è sopravvissuto perché la vita è fottutamente ingiusta, ingiusta sempre. »

Tango, dacci un taglio. Ma non riuscii a trattenere una leggera fitta di dolore. « Perché lo odi così tanto? Non ha avuto altra scelta che essere quello che era. Se non fosse stato per Gidan, Gaya adesso sarebbe infestata da- »

« Dai maghi neri. »

Continuai. « E poi alla fine non voleva neanche che Kuja morisse. Me l’ha detto lui. » Non volevo che morisse nessuno, alla fine no, Eiko, mi aveva mormorato una volta. L’ho visto morire e ho sentito le sue dita fragili tra le mie e… Avrei voluto che le cose fossero state diverse, sai. Completamente diverse.

« Credi che sia per Kuja che voglio la testa di Gidan? » Il mago sbuffò di nuovo. « No. Mai. Non voglio che Gidan muoia per quello era, Carol; voglio che muoia per quello che non è stato. Per me non c’è stato nessun angelo di compassionevole morte. Non c’è stata giustizia. Non ci sono stati i germogli del lieto fine. Ucciderò sua figlia di fronte a lui e mi godrò la faccia che farà. »

L’odio gli ribolliva dentro, cupo e verminoso. Tutto doveva iniziare e finire sempre con lui, la sua vendetta, il suo dolore. Come avevo potuto pensare che forse lo faceva per le sue creazioni, per i suoi maghi neri, per Rain? « Ti odio, mostriciattolo demoniaco » ringhiai amaramente. « Sei ancora peggio di tuo padre. »

Tango si avvicinò a me, si inginocchiò sul ciglio della piscina e mi alzò il mento con una mano, lasciandomi una cosa appiccicosa sulla parte inferiore del collo. « Lo so » confermò teneramente. « È per questo che mi ha creato. Alla prossima, linden-bloom. Devo tornare ai miei numeri. »

Si girò bruscamente e saltò fuori dalla finestra, dispiegando le ali con uno schioppo come faceva sempre; lo seguì il grido di un antoleon, e tremai nell’acqua della vasca che di colpo si era fatta fredda.

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Capitolo 6
*** Not Knowing ***


capitolo cinque
senza sapere



I force silence down the throats of mutes,
down the throats of mating-cries of animals who know they are extinct.
The chameleon’s death-soliloquy is your voice’s pulse;
your scorched forehead a constellation’s suicide-note.

A phonograph needle plunges through long black hair,
and stone drips slowly into our veins.
The earth has been squandered by the meek.
And upsidedown in the earth a dead man walks upon my soles when I walk


Costringo al silenzio le gole dei muti,
le gole di animali che si accoppiano sapendo di essere estinti.
Il soliloquio di morte del camaleonte è la cadenza della tua voce;
la tua fronte scottata è la lettera di suicidio di una costellazione.

L’ago di un fonografo si tuffa tra lunghi capelli neri,
e la pietra ci cola lentamente nelle vene.
La terra è stata sperperata dai mansueti.
E sottoterra quando cammino un uomo morto cammina a testa in giù sulle mie suole


- bill knott



I secondi divennero ore, le ore divennero giorni, i giorni divennero settimane.

Passavo la maggior parte del tempo nella noia più nera e disperata percorrendo ogni centimetro del pavimento della mia stanza mentre progettavo alacremente piani di fuga. Ogni tanto parlavo con Rain, che era gentile, buono e premuroso e mi portava nelle enormi cucine della Reggia, dove mi faceva sedere su una delle credenze per controllarmi come una bambina piccola. Mi preparava sempre dei dolcetti con cannella e zucchero, e io li mangiavo lasciando tracce calde e appiccicose sulle dita mentre parlavamo della vita, del tempo e dei chocobo. Parlavo anche con altri maghi neri, dolci cose mai ingenue con i cappelli grossi e gli occhi gialli, e in una botta di originalità li chiamai Cloud, Sun e Tide. Un altro lo chiamai Rainbow Moonshine Seaspray, ma tutti si confondevano quando cercavano di ricordarsi quel nome e alla fine optammo per Shiny.

Alle volte mi terrorizzava il misto di tenerezza e violenza con cui Tango Nero trattava i suoi maghi, i suoi piccolini. Poteva tanto accarezzare loro il cappello e pronunciare parole d’affetto quanto prenderli a calci nei fianchi, riuscendone a tollerare a stento la vista quando li superava in tutta fretta. Faceva lo stesso con me, un bastardo dal temperamento burrascoso che però ogni tanto si sedeva al mio fianco e rimaneva in silenzio per molto tempo come se non sapesse bene cosa dire.

Nei giorni di pioggia si appollaiava in cima alla torre della biblioteca, e dalla mia camera lo osservavo disintegrare con Fire dopo Fire gli antoleon che uscivano a farsi un bagno. Avrebbe potuto polverizzare una città intera senza alcuno sforzo. Avrebbe polverizzato una città senza alcuno sforzo. Ti prego non Lindblum, ti prego non Lindblum, ti prego non Lindblum…

Quando la caldaia si rompeva scendevo a ripararla per Rain, ma ci volevano sempre ore di suppliche per convincere Tango a darmi gli strumenti adeguati. Una volta, dopo aver finito, mi ero infilata una chiave inglese nei pantaloni, con le palme sudaticce per la paura e i dubbi: avrebbe potuto tornarmi utile. Quando ero uscita lui era lì ad aspettarmi, e mi aveva stracciato i pantaloni a mani nude per farla venire fuori. L’aveva sollevata, e io ero trasalita, preparandomi al colpo; poi però si era voltato verso Rain e l’aveva colpito con una violenza tale da sbalzarlo contro il muro. Mi ero allontanata con il maghetto tra le braccia, sotto il suo sguardo.

Tu sei mia, linden-bloom, aveva detto. Non ho bisogno di farti male con le mani per ferirti.

« Stronzo » sibilai in seguito in camera mia, tra le lacrime. « Figlio di puttana, bastardo, succhia yan – Ti odio, ti odio, ti odio, ti odio! Muori! Fermati! Sanguina! »

« Va tutto bene » gracidò Rain dal mio letto, la voce ridotta a un sussurro. « Eiko, non fa niente. »

« Ti ha picchiato! Ti ha picchiato con una chiave inglese! » Era così piccolo, così dolce. Nella mia mente c’era soltanto l’immagine di lui che sbatteva sul muro, e poi il cappotto, il cappello e le sue scarpe si tramutavano in quelle di Vivi, e lui diventava Vivi-

« Mi riprenderò. » Emise un sospiro. « Lui si arrabbia, Eiko. Lui – lui non riesce a fermarsi. Dopo si dispiace. »

« E se ti avesse ucciso? » ruggii io. « E se fossi morto? »

« Lui – dopo se ne sarebbe dispiaciuto. »

« Se ne dispiacerà adesso. »

« Non avrei dovuto farti prendere la chiave inglese. »

« Santo cielo. » Mi inginocchiai sul letto e posai il mento sul materasso, stringendo gli occhi e sentendomi immensamente colpevole. « Oh, Rain. È colpa mia. Non avrei dovuto cercare di prendere la chiave inglese. Avrei dovuto immaginare che ti avrebbe fatto qualcosa. Se ti avesse ucciso la colpa sarebbe tutta mia. Voglio soltanto tornare a casa. Non ce la faccio più a stare qui. »

« Lo so » sussurrò lui in tono rassicurante. « Lo so. Ma devi, Principessa, devi, finché lui non ti lascerà andare. »

O finché non l’avessi ucciso gonfiandolo di Sancta. L’avrei ucciso. L’avrei ucciso. L’avrei ucciso.

Scorgendo l’odio sul mio viso, Rain fece un cenno di diniego col capo. « Datti pace, Eiko. Noi ti vogliamo bene. »

« Vi voglio bene anch’io. » Ed era già vero. Piansi nel suo guanto.



Voler bene a quei maghi neri faceva male come un pugnale, e suppongo di aver iniziato a volergliene per un motivo che più sbagliato non si può: volevo Vivi da ognuno di loro e non lo trovavo. Avevo perso Vivi per sempre, sempre, era morto, non c’era più, e non avevo mai elaborato la cosa. Mia madre aveva detto che i bambini sono resistenti, che mi sarei ripresa presto, ma non fu così. Nessuno che avesse conosciuto Vivi si era mai ripreso del tutto, in un piccolo anfratto del proprio cuore. L’ingiustizia di quello che era accaduto, il dolore, l’orrore, e l’affetto si mischiavano tra loro e logoravano talmente tanto che bisognava ficcarsi il tutto in qualche andito del cervello; ci si limitava a piangere quando arrivava la notte del suo compleanno e si sussurrava alle tenebre, « Avrebbe compiuto quattordici anni- » « Avrebbe compiuto sedici anni- » « Avrebbe compiuto diciott’anni- »

Era venuto al mio compleanno, al mio primissimo compleanno con mamma e papà, e c’erano anche Garnet, Freija, Steiner e tutti quanti. Quina mi preparò un tè speciale e persino Amarant si fece vivo. (Il regalo di Amarant puzzava un po’ di compere dell’ultimo minuto: una borsa di caramelle, qualche gil, un calamaio vuoto e il suo vecchio set di Poison Knuckle. Freija gli mollò uno schiaffo e gridò, « Non puoi fare un regalo del genere a una bambina, imbecille! » Quindi si misero a combattere, evento che trovai eccessivamente divertente per l’età che avevo. Attaccai gli artigli alla parete a dispetto della costernazione di mamma, e attesi trepidante il set dell’anno seguente. Mi regalò altre caramelle e un paio di pozioni, fatto tanto inspiegabile quanto deludente.)

Vivi però mi portò un pacchettino incartato e un mazzo di fiori selvatici. Il cappello ballonzolava in tutte le direzioni e aveva una voce imbarazzatissima, ed era la prima volta che ricevevo dei fiori; faceva molto “persone adulte.” Il suo regalo non era nulla di eclatante: una collana di perline, verde e carina, che però non tolsi fino ai quindici anni, quando la persi. Mi trovavo sul ponte, stavo lavorando a una turbina e mi si sciolse, precipitando in città. Ebbi una mezza crisi isterica e piansi convulsamente per la collana di perline, per il dono di Vivi. Grande e grossa com’ero, strisciai a singhiozzare sul grembo di mia madre.

Vedete, è strano, ma io sono sempre stata una sentimentale. Non avrei dovuto esserlo. Per troppi anni della mia vita ho vissuto nelle terre rocciose insieme ai moguri, rubando il necessario per sopravvivere e mangiando certe cose, d’inverno, che oggi solo a ripensarci mi viene la nausea. Non avrebbe dovuto esserci spazio per i sentimentalismi. Ma c’era, c’è sempre stato, e aspettavo quasi ossessivamente che un bellissimo cavaliere bianco venisse a prendermi e rendesse la mia vita perfetta come lo era stata quando mio nonno era vivo. Il cavaliere che arrivò era molto più grigio, sporco e ghignante delle mie previsioni. Amavo e amo ancora Gidan – nel senso originario inteso dalle bambine, lui sarà sempre il mio idolo scintillante. Ma non penso che fosse lui il mio cavaliere.

Pochissime persone hanno un cavaliere tutto per loro. Preferirei essere come Beatrix o Freija e farmi da cavaliere da sola piuttosto che dovermi affidare a qualcun altro.

Questa volta non sto anticipando le cose; le sto posticipando, faccio un riepilogo del mio passato. Male lo stesso. Andiamo avanti.

Imparare di nuovo gli incantesimi era come incidere su un tatuaggio sbiadito: era un processo lento e meticoloso, un’agonia che si trasformava in un trionfo sanguinoso ogni volta che un’Energia mi usciva dalle dita. I miei Eidolon non mi parlavano – anche se il rumore dei loro bisbigli reboanti s’intensificava ogni giorno di più – ma la magia a poco a poco stava rifiorendo. Allestii qualche piccolo percorso a ostacoli in camera – avevo troppa paura di lavorare con esseri viventi più grandi degli insetti, i maghi neri l’avrebbero riferito a Tango in un battibaleno – e mi esercitai. Non dovevo imparare da capo come si lancia un incantesimo, visto che quella parte la conoscevo come le mie tasche; dovevo recuperare la mana che risiedeva nel mio corpo e riconcentrarmi. La maggior parte delle volte finiva tutto in lacrime, frustrazione e scintille sibilanti.

Gli spiriti sarebbero giunti per tempo. Avevo superato i sedici anni, pertanto quei maledetti avevano avuto la libertà di sgattaiolare via dalla mia presa – ma non mi erano stati estratti, se mi fossi protesa abbastanza avrei potuto toccarli. Mi capitava spesso di rimanere sveglia di notte a fantasticare sulla faccia che avrebbe fatto Tango quando avrei evocato le magie distruttive di Fenril e sarei scappata su Fenice portando con me tutti i maghi neri. Poi sarei tornata con un’aereonave e avrei bombardato la Reggia del Deserto fino a ridurla in polvere.

Ero assetata di sangue. Non ero la figlia di mia madre.

Sulla bacchetta erano fioriti dei germogli, cosini piccolissimi di un rosa scialbo, semplici gemme che profumavano di mele. Di notte la nascondevo sotto il cuscino, sotto le coperte, di modo che Tango non la vedesse quando entrava dalla finestra come un grande pipistrello nero. L’odore era fragrante, ricco, e mi dava, se non bei sogni, quantomeno il vuoto, un nulla delizioso, nessun incubo popolato da figure nere non del tutto formate che si stagliavano nel crepuscolo.

La mia prigione era arida, polverosa, e conteneva un cimitero di arazzi per le regge; non ero nuova ai deserti – Madain Sari era un affioramento roccioso abitato da pazzi – ma avevo una voglia di alberi e corsi d’acqua come non l’avevo mai avuta. Neanche in città, a Lindblum, ne avevo sentito tanto la mancanza. Forse perché adesso non potevo averli, mentre normalmente mi sarebbe bastato alzare la testa dai diagrammi per potermi ritrovare dopo poco a stringere aghi di pino tra le dita.

« Ehi » bisbigliai alla bacchetta. Le foglie frusciarono come mosse da un vento inesistente, il legno liscio come seta mi palpitava tra le mani. E pensare che una volta faceva parte di un cassettone. « Come va? »

La bacchetta non rispose. Non ero ammattita abbastanza da aspettarmi che lo facesse. Piuttosto, presi un coltello da cucina – quello Tango non me lo aveva trovato tra le scorte, era un lucido coltellino per tagliare le verdure – e mi preparai a un altro spinoso round del rito che avevo denominato Corpo Scongiurante.

Sancta. Sancta. Volevo saltare a piè pari tutti gli altri passi come se stessi barando al gioco della campana, mi serviva la magia sacra. Mi serviva quello che arrivava dopo che l’anima richiedeva in un grido tutto ciò che vi era di buono, vivo, puro e bellissimo al mondo.

« Ecco il sangue della mia falange. » Mi tagliai il dorso della mano, attendendo con impazienza che la linea rosso cremisi iniziasse a scorrere per strofinarla sul legno e macchiarlo. « Ecco il sangue della mia gola… »

Ecco il sangue del mio occhio e della bocca. Ecco il sangue della mia gamba e della testa. Ecco il sangue del mio cuore. Ecco le mie lacrime, più dolci del sangue…

Dicono che non si dovrebbero mai toccare la bacchetta, la racchetta o l’asta di un altro mago; ne si contaminerebbero la magia e le vibrazioni. In realtà, se tutti conoscessero le pratiche di purificazione, la voglia di toccarle passerebbe comunque – su questi bastoni si sputa, si starnutisce, si sanguina, si piange, e molto di più. Tutte le peggiori schifezze che una bacchetta possa sperare di sostenere per raggiungere un buon livello. Dimenticate le Aste di Fuoco e di Ghiaccio – qui stiamo parlando delle Magiche Aste dell’Influenza definitive.

Permeatemi di qualcosa che sia meglio di tutto ciò, che sia più pulito dell’acqua e scotti più del fuoco, che dal nero più nero della magia nera diventi il nero puro e vellutato del cielo notturno. Prendete il mio verde, prendete il mio bianco. Offrirei perle, ma non ne possiedo-

Lui interpretò diversamente le cicatrici alla gola, ai polsi e alla spalla. Le toccò e rise, « Oh, Principessa, no. È un modo tanto tanto sudicio per morire. Se vuoi una morte rapida e indolore, toccami qui- » E indicò il buio che aveva al posto del viso. Io gli diedi uno spintone, nauseata, e in seguito mi chiesi quale morte vorace tenesse in serbo accanto ai suoi occhi.

La prima neve vergine; la prima rosa sul primo cespuglio di rose sbocciata nel primo giorno di Gaya. Il primo respiro…

Uno dei germogli rosa si aprì in un silenzio tombale. Una cosa che sembrava ghiaccio strisciò sui petali e li sbiancò; il fiore buttò della polvere di stelle in aria e vibrò. Scomparvero il sangue, gli sputi e la saliva.

Esitai, poi baciai la bacchetta con le labbra tremanti e la abbassai. Avrei voluto saltellare in piedi e mettermi a ballare per la stanza al grido di: « Un urrà per me! Un urrà per me! Chi è la regina del mondo? EIKO è la regina del mondo! », ma avrei attirato curiosità sgradita. Tra l’altro non avevo più sei anni.

… Beh…

« Ma chi è la regina del mondo! Io sono la regina del mondo! »

In quei giorni andavo in visibilio anche per le cose più piccole. Probabilmente avevo solo bisogno di aggrapparmi a qualcosa.



« Cosa c’è nella stanza sotto l’ala ovest in fondo a tutto, Sunny? »

Stavo facendo ciondolare le gambe dal bancone della cucina, nude, libere; solo le cosce erano fasciate da un paio di pantaloncini che ricordavano un po’ delle succinte, voluminose culottes viola. Mi divertivo ancora come una matta a trafficare nel guardaroba di Kuja. Avevo anche trovato un boa di piume in uno dei suoi armadi, e l’avevo annodato alla colonna del mio letto a baldacchino. Tango pareva impensierito dalla sua presenza.

Sun si fermò e mi guardò, i tondi occhi d’oro spalancati, sistemandosi distrattamente il cappello di cuoio grigio. Stava impastando qualcosa; i poveri maghi neri avevano sempre una fame adorabile. Poco prima avevo visto Rain creare della farina, e vedergliela colare dalle mani fu ancora più bello della prima evocazione di Alexander.

Le cose che avrebbero potuto fare per dar da mangiare agli affamati-

« Ala ovest in fondo a tutto? » mi fece eco. « Ah. »

« In fondo a tutto » ripeté Shiny, infilando qualcosa nel forno. « C’è… Principessa, non ci pensare. »

« Non pensarci. »

« È meglio così. »

« Assolutamente. » Sun mi passò un po’ di pasta; io saltai a terra e cominciai a stenderla con un rullo per farne la base di un dolce. Rimasi girata verso di loro, però; i loro volti erano preoccupati, rigidi.

« Pensate che lui mi farebbe del male se ci andassi? » chiesi all’improvviso, traducendo l’esitazione dei loro faccini. « Mi ucciderebbe? »

Ci fu un mezzo sospiro. Si fece avanti Shiny, che si stava togliendo la farina dai guanti con movimenti lenti. « Il Signore… fa delle cose, Eiko. E tu lo fai arrabbiare. »

« Preoccupare. »

« Soffrire. »

« Intristire tantissimo. » Sun scosse la testa; il cappello dondolò con lui. « Si tiene per un po’ tutto dentro la pancia, e poi lo vomita. »

« È pazzo » borbottai, cospargendo la pasta di zucchero. « Ha bisogno di aiuto. Aiuto a palate. Preferibilmente accompagnato da scosse elettriche. »

« Quando tutto sarà finito » disse Shiny in tono sognante, « lui starà di nuovo bene. Ci costruirà delle case dove tutto è verde e erboso, e non si vestirà più di nero, e ballerà e canterà. E non si arrabbierà più, e non sarà più triste, e non ci sarà più nessuno che possa ferirlo o che lui possa ferire. »

« Quando tutto sarà finito. » L’altro mi fissò raggiante, con gli occhi d’oro che brillavano. « Staremo tutti insieme, Eiko. »

C’era qualcosa nella loro gioia che disgustò una parte di me. Continuarono a mescolare, caldi e flemmatici, e io indietreggiai. « Devo, devo andare in bagno » mi scusai, prima di andarmene in tutta fretta.

La pelle mi si tingeva di rubino, topazio e smeraldo mentre superavo di corsa le vetrate colorate da cui deflagrava la luce del sole. Il top legato alla nuca che avevo sgraffignato tentava di scivolarsene via, troppo grande, cucito per un’altra taglia: ero molto più minuta di Kuja, delicato ma forte. Me lo avvinghiai addosso senza fermarmi, oltrepassando i corridoi tetri e le finestre oltre le quali fischiava il vento e urlavano gli antoleon, spingendomi fino alla fine dell’ala ovest.

La porticina semplice avvolta dalle ombre che mi si presentò davanti non era chiusa. L’aprii con una spinta, senza far rumore, senza difficoltà.

Dentro, c’era un giardino.

Il soffitto era di vetro trasparente; la stanza sembrava calda, umida e accogliente. Il pavimento terminava bruscamente in favore di una vasta distesa di erba che sfavillava soffice, verde e liscia come seta ai miei piedi scalzi. Il prato era punteggiato da fiorellini selvatici viola, rossi e blu in parte recintati da aiuole luminose radunate su un lato, e in fondo c’erano degli alberi.

Per un attimo pensai che, appesi ai rami, ci fossero i cadaveri dei maghi neri; si trattava invece solo dei cappelli, dei vestiti, delle loro scarpe. Sotto le foglie chiare e multicolori spuntavano dei frutti luccicanti che contenevano qualcosa di blu.

Tango, come un corvo, era seduto nell’erba proprio sul limitare del boschetto. Aveva le ali ripiegate sulla schiena come un uccello, e seduto lì a giocherellare con qualche filo d’erba pareva più grosso, nero e innaturale del solito. Come in un sogno, quasi accecata, mi avvicinai a lui.

Non si girò. Continuò imperterrito a rotolarsi un filo d’erba tra le dita fino a ridurlo in poltiglia. « Linden-bloom » salutò infine.

Fissai lui, gli alberi, i frutti e i vestiti. « … Questo è un cimitero, vero? »

« Un posto molto carino per la morte. Un tempo pensavo che la morte fosse carina. »

M’inabissò una potente onda di pietà. Maledetto, maledetto, maledettissimo cuore. « Tango… »

« Una volta l’ho vista. » proseguì, in un fruscio strampalato. « Famelica. Silenziosa. E il vuoto sarebbe nero? È blu, tutto blu, tutto… blu. » Piegò di scatto il capo. « Lo rincontrerò. »

Non mi uscivano le parole. Il silenzio che mi avviluppava quando ero vicina a Tango somigliava troppo spesso a un incantesimo: le mie corde vocali diventavano come gonfie e maldestre, incapaci di emettere suoni di senso compiuto.

« Lo farò cadere sul ginocchio solo, stavolta » La sua voce era come un terribile sorriso. « In ginocchio. Gaya sarà il mio altare, completamente zuppo di sangue. Poi lo strangolerò con le mie promesse, e non camminerà più in mezzo a noi, in mezzo a tutti i miei piccini. Niente più blu. Solo nero, oro e verde. »

Muta, lo guardai stiracchiarsi, appiattire l’erba con i guanti di cuoio, inclinare la testa all’indietro e ululare. Era una nota lunga, funebre, aliena, e mentre guaiva il suo canto batté i palmi delle mani sull’erba.

Crollai in ginocchio al suo fianco. Tango era un mago nero con la forma sbagliata. Non era basso e tozzo come la proverbiale teiera; era alto, sottile e si curvava male, quando stava seduto si accartocciava su se stesso come un ramoscello. Puzzava di marcio e cuoio, e di vecchia legna arsa e poi spenta, un odore deciso e pungente. « Tango » bisbigliai, quando la nota morì.

« Meglio Fermarsi » mormorò, roco, dimenando la testa in modo quasi spasmodico. « Perchepercheperché? Meglio. Perché non riesco a Fermarmi? »

Inorridita, gli poggiai lentamente una mano sulla spalla, titubante e riguardosa. Nonostante il calore e il cuoio, al tatto era fredda. Tango si voltò verso di me e la sua espressione mutò; mi afferrò il polso e me lo strinse fino a farmi scricchiolare le ossa.

« Non toccarmi, Eiko Carol. Tu non sai, non hai mai-saputo. Ancora non capisci. »

« Tu non mi dici mai niente! » strillai, la voce alta e spaventata resa acuta e tesa dal dolore. « Lasciami andare, maledetto! Sai soltanto fare male! »

Lui mi liberò subito. Mi cullai immediatamente il polso in petto; faceva un male cane, ma non doveva essere rotto. Era solo una leggera distorsione. Per fortuna.

Tango sollevò la mano e io mi ritrassi, certa della morte; ma lui mi sfiorò le spalle con le dita, accarezzando la seta cascante della maglietta troppo larga fino al mio sterno, quando io mi ritrassi di nuovo. Mi prese il polso tremulo e se lo portò al volto nascosto dal buio per baciarlo. Bruciava.

« Vattene, linden-bloom » ordinò, con un tono distaccato che non ammetteva repliche. « Vattene. »

Io mi rimisi in piedi, traballante, senza sapere cosa dire. Le uniche parole che di solito avevo per lui erano insulti amari, ed era questo che si aspettava.

« Ti odio » riuscii a biascicare, senza emozione. Poi tornai in cucina con il polso che penzolava mollemente – dopo sarebbe stato coperto di lividi – per consumare in silenzio il dolce ormai pronto. Sun e Shiny non dissero nulla e mi medicarono la mano ferita; ebbero perfino la premura di parlare d’altro, mentre mangiavo e delle grosse lacrime mi rigavano le guance.

« Se ne dispiacerà, dopo » mi mormorò alla fine Shiny, e questo mi fece soltanto piangere di più, e non sapevo perché.





Note della traduttrice: Le angst. Eccovi la traduzione letterale o quasi dei nomi dei maghi neri:
Rain: Pioggia. (uohohooo)
Cloud Strife: Nuvola.
Sun/Sunny: Sole.
Tide: Marea.
Rainbow Moonshine Seaspray/Shiny: Spuma-di-mare-chiaro-di-luna-arcobaleno/Brillantino (questo è un aspirante Mary Sue XD).
Ricordate solo che quando parlano di pioggia potrebbero riferirsi a Rain, okay? : D

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Capitolo 7
*** Run From Me ***


capitolo sei
fuggi via da me



Where shall I look for comfort? Not to you.
Our worlds are drawn apart, our spirit’s suns
Divided, and the light of mine burnt dim.
Now in the haunted twilight I must do
Your will. I grasp the cup which over-runs,
And with my trembling lips I touch the rim


Dove cercherò conforto? Non in te.
I nostri mondi sono separati, i soli del nostro spirito
Divisi, e la luce del mio si è affievolita.
Ora al crepuscolo tormentato devo esaudire
La tua volontà. Prendo la tazza che è avanzata,
E ne tocco il bordo con le labbra tremanti


- amy lowell



Mi svegliò a mattino inoltrato.

Quella notte avevo dormito da schifo; era passata una settimana, forse di più, e la mano mi faceva male quando mi sdraiavo sul letto e cercavo di chiudere gli occhi. Stava guarendo bene – era solo una piccola distorsione – ma i giorni si stavano mescolando tra loro come le cose che cucinavo. Mi decisi a cominciare un calendario, per contarli, ma ero quasi terrorizzata dallo scorrere del tempo.

Da quanto tempo ero lì?

Per quanto tempo vi sarei rimasta?

Mia madre e mio padre mi stavano cercando? Beh, sì, ovvio, che domanda idiota – sempre che non fossero morti. Avrebbero potuto tranquillamente perdere la vita nell’attacco a Lindblum, in uno qualsiasi dei seguenti attacchi a Lindblum – non avevo la più pallida idea di dove andasse o stesse Tango, e lui non si dilungava mai a spiegarmi cosa facesse quando partiva. E nemmeno Rain, Shiny o Tide.

Non potevo sapere. Non potevo chiedere. Se aveva ucciso i miei genitori, era un mago morto. Era comunque un mago morto, perché una volta che gli avessi fatto tutto quello che dovevo-

Si sedeva spesso sul mio davanzale, di notte, nascondendo la luna, e perdeva lo sguardo nelle sabbie desertiche come se celassero un qualche mirabile significato che io non riuscivo a intuire. Ogni volta rizzavo la schiena e lo osservavo, e lui scuoteva la testa; gli occhi d’oro erano mezzelune imperscrutabili. Così mi abituai a sdraiarmi di nuovo sul materasso, e imparai ad abituarmi a quella situazione, e inspiravo il suo odore di polvere e piume. Di tanto in tanto mi toccava le dita, e me le piegava leggerissimamente all’indietro come per spezzarle, lasciandole quando vedeva il candore delle mie nocche. Una volta lo guardai, dopo che si era tuffato fuori dalla mia finestra, e lo seguii con gli occhi mentre fluttuava distrattamente e si librava in aria come una lucciola prima di rilasciare sfere di fuoco di un delizioso rosso cremisi verso le fosse degli antoleon sotto di lui. La notte puzzava di carne carbonizzata, e a volte Rain veniva da me e si acciambellava al mio fianco, sopra le coperte.

Tango mi svegliò a mattino inoltrato, scuotendomi per una spalla con la mano rivestita del guanto ruvido finché non mi strofinai gli occhi ed emisi i miei soliti versetti arrabbiati, sintomi del mio risveglio. Poi si ritrasse con un fruscio e si mise a camminare come un uccello e poi a percorrere freneticamente la stanza avanti e indietro. Le sue ali sembravano piene di polvere, e i suoi abiti neri erano come strinati, riportavano delle bruciature. Sul pavimento ricadevano mucchietti di fuliggine. Due maghi neri erano accalcati nel corridoio a guardare, visibilmente intimoriti.

Stringeva qualcosa in mano. Borbottava in modo quasi febbrile, a bassa voce, poi si gettò a terra, si accovacciò, e con le mani formò una culla per quell’oggetto. La folle esibizione quasi animalesca stava iniziando a innervosirmi, perché ero spaventata quanto i maghi. Girai le gambe nude nel letto e le poggiai a terra, cercando a tastoni una maglietta da infilare.

« Tango? Tango, cosa sta succedendo? »

« Bellissima » bofonchiò lui. « Bellissima, bellissima, bellissima. »

« Cosa? Cosa è bellissima? »

Lui si alzò in piedi di scatto, la mano ancora serrata su quella cosa; ebbi solo il tempo di vedere di sfuggita che brillava. « Bellissima è la mattina, linden-bloom. Bellissimi sono i tuoi occhi di cucciolo in trappola. Bellissimo è il sangue- »

« Non cercare di prendermi per il culo » fu il mio ruggito di avvertimento; avevo superato da tempo la paura che mamma voltasse l’angolo da un momento all’altro e venisse a tirarmi l’orecchio perché mi aveva sentito usare il linguaggio degli ingegneri. Magari l’avesse fatto. « Cosa c’è che non va? »

Lui ricominciò a fare il giro della stanza, il lungo redingote di cuoio che gli ondeggiava attorno alle caviglie. Tango era sempre vestito da spaventapasseri, e non credo si cambiasse mai: lunghi pantaloni di cuoio nero, un cappotto vecchissimo costellato di palline di ferro freddo a mo’ di ornamento, una camicia nera, e un panciotto nero, e una cravatta nera, e strati su strati di nero come se stesse cercando di ingigantire la propria forma. Anche gli stivali e i guanti erano neri. E poi c’era il grosso cappello nero. Nessun colore, nemmeno uno, a parte quelli delle macchie sbiadite. « Piccolissima » disse, come sovrappensiero. « Piccolissimissima. »

Il mio sangue da freddo era diventato gelido per l’ansia: in cosa diamine si era cacciato quel lurido mentecatto? Era ferito?

E perché diavolo mi stavo preoccupando per la sua salute, pensai vagamente, quando ogni giorno aveva nuove ferite e nove volte su dieci se l’era procurate da solo. Rain mi aveva raccontato del sibilo delle lamette da barba, e delle piume rotte e insanguinate che ritrovavano sul pavimento, e di Tango che giaceva rivolto a terra-

Scossi furiosamente la testa, allacciandomi il sarong attorno ai fianchi; ora avevo quel minimo di decoro che mi consentiva di afferrargli il braccio e sbatacchiarglielo un po’. Ormai non avevo più paura di farlo. Mi ero abituata da tempo agli schiaffi, ai manrovesci e ai pugni nello stomaco. Il suo braccio si afflosciò, e la cosa luccicante cascò a terra. Come un gatto, lui fuggì e sfrecciò lontano da me, premendosi in un angolino. Io mi chinai a raccogliere l’oggetto.

Era una collanina.

Un ciondolo della Casa Reale di Alexandria, per essere precisi. Ne riconobbi la fattura. Simile all’Artiglio di Falco di Lindblum, ma con una forma differente; io, mio padre e mia madre possedevamo tutti gli Artigli di Falco. Anche Garden e Gidan avevano i loro rispettivi gioielli, e così Cornelia. Il suo però era un po’ diverso; aveva una stella di diamante al centro, per qualche ragione sentimentale che avevo dimenticato-

Era macchiata di sangue. Con le dita rigide, pulii il liquido rosso che mi si appiccicò umido alle mani, svelando il diamante rivelatore.

« Dove l’hai preso. » Non era una vera domanda; la mia voce non tremava.

« Dal suo piccolo collo. » La sua voce risuonò di nuovo limpida e trasognata. « Ho dovuto toglierglielo, linden-bloom. Lei stava prendendo il colore dei non ti scordar di me. »

« Elia. »

L’aveva preso a Elia. La volpe era entrata nel pollaio e aveva sbranato i pulcini, la mia nipotina. Io ero sua zia Eiko. Interpretavo con piacere il ruolo della zia simpatica, quella che le passava le caramelle di nascosto – ma presto sarebbe stato il suo compleanno – Cornelia-

« Non mi avevi raccontato della codina. » Le sue ali frusciarono, agitate. « O del piccolo corno – sembravi proprio tu, quando avevi la sua età… »

Non stavo ascoltando. Aveva toccato mia nipote. Probabilmente aveva ucciso mia nipote. Era stato al Castello di Alexandria; perché Garden non si era occupata di lui, e Gidan? Eravamo talmente tanto indifesi? Non c’era proprio speranza?

Era passato ai bambini. « Chiudi la bocca! Chiudi quella cazzo di bocca! Perché? Perché! Come puoi aggredire dei bambini quando ne hai di tuoi? »

Tango Nero si voltò e mi guardò, sollevandosi, trascinandosi alla sua massima altezza. Non aveva lineamenti, ma si sentiva che sulle sue labbra c’era un sorriso: malato, largo, delicato. « Perché potevo, Principessa. Volevo vederla. E poi potevo. Cosa ci vuoi fare, amore? »

Fu come se qualcuno avesse azionato un interruttore. Mi ribollivano le viscere, il sangue mi si era ghiacciato; avevo voglia di singhiozzare, ma poi capii cos’era successo. Non provavo quella sensazione da tantissimo tempo; erano passati anni, no? Tutti i miei organi mi sembravano come tramutati in minerale. Respirando a fatica, mi sforzai di completare il cambiamento di fronte agli occhi affascinati di Tango; caddi in ginocchio e mi arresi alla marea crescente, guardandomi le dita sfavillare e colorirsi di un bianco glaciale screziato di verde, come se mi stessi accendendo da dentro. Effettivamente era proprio così. Oh, Dei, era bellissimo, mi sentivo potente, era una liberazione, e le lacrime volevano scendermi per la furia e per la gioia. Sentii spuntarmi qualcosa dalla schiena, accompagnato da un pizzico di dolore: due ali bianche di piume color perla. Non avevo mai avuto bisogno delle ali di mio nonno, dopotutto.

I maghi neri – Tango e i due alla porta (uno dei due era Tide?) – mi guardarono, sgomenti, mentre mi rimettevo barcollante in piedi, in Trance. La mia fronte sembrava molto più pesante: il corno da sciamana, al colmo della sua magnificenza.

Un rumore; era stato Tango, un sospiro, come se fino a quel momento avesse assistito a uno spettacolo pirotecnico e si fosse ricordato solo ora di respirare. « Oh, Eiko » piagnucolò. « Sei assolutamente deliziosa. Non costringermi a farti del male. Per favore. Per favore. »

« Oh, sparisci » sputacchiai, allungando una mano sotto il materasso e brandendo la bacchetta che mi ero costruita. Quando la impugnai emise un piccolo sprazzo di polline; me la rigirai tra le dita, la agitai, tesissima. Ero talmente stanca di sentire dolore che avrei potuto accasciarmi a terra. « Sarò io a fare del male a te, mostro, una volta per tutte. »

La sua espressione era strana, e per un attimo pensai che non avrebbe fatto nulla; poi però si avviò alla finestra ed estrasse un bastone corto dal soprabito. Aveva un ghirigoro sulla punta, nell’antico stile dei maghi neri; non era come le aste grosse che avevo visto al loro Villaggio, che all’estremità portavano sfere d’oro reticolate e traforate. Mandò in frantumi la finestra con un colpo e si accucciò sul davanzale mentre il vento soffiava nella stanza, arido e caldo. « Prendimi, Principessa » mi gridò, e si alzò il volo.

« No! » strepitò Tide quando scavalcai anch’io il davanzale, notando vagamente che i capelli mi si erano tinti di un verde brillante. « Eiko, no! Ti prego! »

« Ti voglio bene » gli assicurai. « Di’ agli altri che voglio bene anche a loro, intesi? »

« No! » strillò. « Eiko! Eiko! »

Saltai dalla finestra rotta. Non avevo mai volato veramente in vita mia.

Gli antoleon stavano urlando, e io ero in caduta libera. Le mie nuove ali sbatterono all’impazzata, e a un tratto venni catturata da una corrente che mi trascinò verso l’alto; facevano male tutti quei nuovi muscoli, quelle sensazioni strane. Tango svolazzava serenamente in cielo, le ali sue ali sbattevano con grazia e senza sforzo; io venivo buttata a destra e manca come un passerotto in una tempesta. Mossi la bacchetta, le foglie mi sfiorarono la mano tremante, e lanciai un levita.

Tombola. Le mie gambe scovarono un punto d’appoggio nell’aria rarefatta e ripresi l’equilibrio; ora dovevo solo trovare il modo di impedire ai venti caldi del deserto di strapparmi i vestiti di dosso.

« Come hai fatto a portarti quella bacchetta? » La sua voce era un grido pigro. « Ti ho spogliato io, linden-bloom! Non puoi aver portato nulla dentro! »

« Stai zitto! » urlai di rimando. « Sono stanca di sentirti parlare, parlare, parlare! »

Buttò la testa all’indietro, il cappello a punta un’aureola nera allungata, e ruotò le mani: vidi formarsi il fuoco prima ancora che mi scagliasse addosso quell’enorme onda di calore rossa. La mia mente correva, le mie dita spillavano magia: il dolore e l’adrenalina erano una chiave migliore delle ore e ore di forzato ricordare. Shell, uno scudo contro la magia, la bolla che avrebbe attutito il colpo – mi acquattai comunque, le mani strette rigidamente alla bacchetta, quando la sfera ardente si spiaccicò sul mio guscio. Forse mi sarebbe rimasto qualche segno leggero sui polpastrelli. Non mi importava.

« Principessa, tutto qui quello che sai fare? Uno Shell? Io assorbo tutta la magia bianca, mio fiore. La stingo di inchiostro nero. La riconsegno al nulla. »

« Preparati a seguirla, allora. »

« Solo se vieni anche tu. »

Ci scontrammo senza alcuna eleganza. La forza delle sue ali enormi e consunte mi scaraventò in una rapida capriola all’indietro; non precipitai solo grazie al levita, ma le mie nuovissime alucce scaturite dalla Trance sbattevano debolmente – ma sempre più forti – e mi trasportarono di nuovo da lui. Gli diedi una gomitata nello stomaco. Gli ficcai la bacchetta nel petto. Lo presi a calci, a morsi, a graffi, e mi dimenai come un’indemoniata, e alla fine il suo bastone di legno accartocciato ricadde nel deserto quando gli avvinghiai la testa con un braccio e presi a martellargliela.

Le braccia di Tango cercavano nervosamente un supporto. Registrai lontanamente il suo grido di dolore e sorpresa mentre lo colpivo con tutte le mie energie. Rotolammo rovinosamente verso il basso per dodici metri o giù di lì prima che lui riuscisse a centrarmi abbastanza bene nell’addome con un piede, scalciandomi via.

Sanguinavo, da qualche parte. Sentivo il rivolo caldo del sangue sulla pancia, i lividi sulla testa. Non me ne curai, la Trance m’incendiava ancora come un fuoco d’artificio.

Cornelia. Cornelia. Garnet e Gidan, come avete potuto far entrare il lupo? Perché siamo tutti così impotenti contro di lui? Perché sta facendo tutto questo? Perché a loro, perché a te? Perché a me?

« Sei diventata più forte » ansimò.

« Quando mai sono stata debole? »

« Ho stretto le tue mani tra le mie e ti ho quasi rotto i polsi, Principessa. Ti ho immobilizzato il corpo e ho fatto scricchiolare le ossicine- »

« Va’ a farti fottere da un antoleon » sbottai, e mi preparai a sferrare un altro assalto.

Lui sollevò le mani e bloccò quasi immediatamente il mio attacco: fece breccia nel mio Shell, e ogni dente che avevo mi vibrò nella testa quando il Thundaga mi attraversò, caldo, ardente, con un perforante rombo elettrico nelle orecchie. Sulle mie dita non c’erano più semplici graffietti, ma artigliai comunque la bacchetta, arcuandola davanti a me mentre ricadevo barcollante all’indietro. Lui stava ridendo, e mentre le sue mani ripetevano altri gesti magici io lanciai un Reflex – e venne inghiottito dal suo stesso Blizzaga. Il gelo della magia contrastava in maniera impressionante con l’aria calda del deserto.

L’urlo di Tango non fu musica per le mie orecchie. Era penetrante, il guaito di un animale calpestato, morso, e quando le sue ali vacillarono, appesantite dal ghiaccio, non gli rimase che sprofondare sempre più giù. Se lo scrollò via, contorcendosi in volo; le mie ali riuscirono a rimettersi in un moto traballante.

« Avrei dovuto ucciderti, Eiko Carol. »

Mi era rimasta abbastanza magia? Sì. Che la grazia di Madein mi accompagni; non mi stai ascoltando, amore mio, vita mia, ma benedici lo stesso i miei incantesimi- Alzai la bacchetta, sentendo il vento accarezzarmi le guance. Vento, terra, fuoco, acqua, legno, metallo, buio.

« Avrei potuto ucciderti, Eiko Carol! »

Il verde si schiarì e divenne bianco. Me n’era rimasta a sufficienza. Riuscivo a stento a vedere Tango tra le onde nebulose di magia che cominciavano a circondarmi: era un piccolo corvo spelacchiato, un gabbiano nero che veleggia al vento, sorretto da ali costrette a un ritmo spezzato.

« Ma non l’ho fatto – padre, mi dispiace, dispiace tantotanto, non ci sono riuscito, mi comporterò meglio, mi comporterò meglio, stavolta non fallirò, ho tante piume tra le dita padre perché sanguinano tanto non dovrebbero sanguinare- »

La mia voce si sollevò in uno strillo acuto, incrinato, proprio mentre lui si ergeva lentamente, le ali ferme che lo scortavano nella discesa, e poco prima che mi colpisse liberai tremante il potere dell’incantesimo. Sanctulizzati, Tango.

Mi afferrò per la vita, ma venne comunque inghiottito da un’onda bollente di luce più bianca del bianco. Il suo balzo improvviso allontanò l’aria, e insieme disseminammo perle magiche sulla nostra scia. Stavamo scivolando in un arco, verso la Reggia, e lui si si fece scudo col mio corpo prima che la forza cinetica ci rigettasse – lui in fiamme, io senza più forze – nella vetrata colorata del corridoio inferiore.

Crollammo sul duro pavimento di marmo nel turbine di rubini, crisoliti, lapislazzuli e topazi che andarono in pezzi. La schiena mi faceva un male cane, sentivo il fuoco bruciare tagliente come vetro sulle spalle, sulle gambe e sui piedi e mi afflosciai a terra completamente inerme, come una bambola di pezza. Tango Nero scottava ancora, persino mentre ruzzolava via da me, gemendo come consumato dal fuoco. Continuò a contorcersi anche dopo che il mio incantesimo sacro abbandonò i suoi abiti.

La mia Trance era finita; mi aveva sottratto ogni forza. Le ali erano sparite nel nulla e la sfumatura verde dei capelli era sbiadita di nuovo nel viola. A stento in grado di concentrare il mio potere, dovetti stringere la bacchetta tra i denti per lanciare un Dispel sulla stanza. Stavo per svenire, ma almeno la mia barriera era sparita, lasciando campo libero a una patetica Energia che poté chiudere giusto qualcuno dei miei centinaia di tagli. Perdevo ancora sangue, ma almeno potevo tenere gli occhi aperti.

Tango era un relitto piagnucolante a un paio di metri da me, raggomitolato su se stesso in un letto di piume mentre con le mani cercava disperatamente di scacciare qualcosa che se n’era andato da tempo. Mi alzai, strascicai i piedi sul pavimento, e gli diedi un calcio a tradimento nel fianco. Caddero a terra anche gli ultimi brandelli della mia maglia: i miei vestiti ben si addicevano al mio corpo.

Lui non fece che appallottolarsi di più. Gli diedi un altro calcio.

« Come ci si sente ad essere quello a terra? »

« Non farlo » gracidò.

Gli diedi un altro calcio, più forte, anche se zoppicavo e presto sarei caduta. « Perché dovrei avere pietà di te? »

« No… »

« Già. » Gli calpestai il bacino. Volevo che scricchiolasse e si crepasse. Il potere era dolce quant’era amaro il dolore, e sapeva di sangue. Lui emise semplicemente un altro patetico cinguettio di dolore.

« No- »

Sentii degli scalpiccii. I maghi neri. Avrei dovuto pensare di più a loro; Immaginatevi la scena: io che picchiavo a morte loro padre davanti ai loro occhi, impietriti, combattuti tra chi dovevano temere di più. La stanza era velata da ombre. Almeno Tango non ci aveva fatti sprofondare in uno dei seminterrati, di quelli gremiti di mostri. Ero mezza morta e stavo prendendo a calci un mago morto per tre quarti.

Gli diedi un calcio alla testa. Il lungo cappello a punta slittò sul marmo scheggiato. Ne uscì qualcosa di bianco, dei fili bianchi. Tango provò ad appiattirsi la testa contro il petto e i fili chiari gli ricaddero sulle spalle e sui vestiti.

La sua voce era uno strillo smorzato, quasi di bambino, come un vagito. « Non toccarmi! »

Non c’era nero. Mi aspettavo del buio. Dov’erano finite le tenebre? Lui singhiozzava, incontrollabile, il suo corpo si torceva ancora come se il cervello fosse morto. « NontoccarmiDispelnontoccarmi… »

I fili chiari si sollevarono come una cortina quando alzò la testa, mostrandomi il volto libero dalla nebbia.

Ebbi il buon senso, quantomeno, di scappare.

Non una semplice fuga: una corsa. Mi misi a correre senza meta verso il buio, e per un attimo intravidi anche i maghetti spaventati pigiati contro il muro. La paura e l’adrenalina mi incalzavano, ma le gambe mi cedettero e caddi a terra, sanguinante e impotente.

Sapevo già tutto quando Tango barcollò nel corridoio dietro di me, il cappello calcato sulla testa (come se potesse dargli una qualche protezione!), inciampò, e tutti i fili chiari gli si riversarono di nuovo addosso. Cercò a tastoni il cappello che aveva perso di nuovo, ma poi preferì mettersi a sedere, scuotendo la testa come per scacciare degli insetti. Quei fili chiari erano capelli.

Non era la prima volta che vedevo quei capelli. Un tempo erano curati in maniera impeccabile, pettinati alla perfezione, scolpiti apposta per ricadere in punte morbide su un volto altrettanto immacolato. Ritrovata un po’ di forza, Tango strisciò verso di me, la mia morte che ora desideravo perché sapevo e dovevo smetterla di piangere, mi si stava appannando la vista.

Il suo viso era sporco e imbrattato di sangue. La sua pelle aveva il biancore delle cose che vivono sottoterra e non vedono mai la luce del sole. I suoi occhi erano quelli di un pazzo, non si concentravano a dovere su nulla, scivolarono in tutte le direzioni prima di posarsi finalmente sulla mia faccia. Appoggiò le mani deboli e molli sulle mie spalle, come per costringermi a stare giù. Eravamo due zombie ambulanti, dei composti chimici inerti. Provai ad allontanare gli occhi, il corpo, ma era tutto inutile perché lui era .

Quel viso non era cambiato. Zigomi alti, niente cipria, le guance o le labbra non erano imbellettate da bacche schiacciate. Era più ossuto. Emaciato, sottile, selvaggio, bellissimo, terribile, disgustoso. Gli occhi, quelli sì, erano cambiati: erano d’oro come soli imbruniti, come metallo battuto, come quelli che aveva da mago nero, ambrati come quelli dei lupi. Aveva le labbra spaccate e screpolate.

« Non toccarmi » ansimai, e adesso sapevo perché, non avrei dovuto toccarlo, oh, madre, mi aveva vista nuda- « Stronzo, stronzo, stronzo- »

« Eiko. » Perché non avevo ascoltato la sua voce? Ero forse tanto cieca?

Iniettai nella mia voce tutto il veleno che avevo. Se avessi potuto, gli avrei anche sputato la morte di fuoco in bocca, gli avrei lanciato un incantesimo con la lingua. « Kuja. »

« No, Eiko » – e all’improvviso piangeva più forte di me – « Sono Vivi. »





Nota della traduttrice: TADAAAAAAAAAAAAAAAH! OH FINALMENTE EH *come se fosse colpa di qualcun altro se si è arrivati al 2010 per questo capitolo*
Siamo ufficialmente a metà storia, whoopieeeeh! In un certo senso, si potrebbe dire che qui e col prossimo capitolo di transizione finisca la prima parte. Ovviamente la seconda è la mia preferita, ed è il motivo per cui ho deciso di tradurre Go Not Gently. Credetemi, vale da sola tutta la fic. *risata malefica*
Hmmmmm, potrei chiedervi una cortesia? Nel caso remoto in cui vi venga voglia di lasciare sempre graditi commenti e recensioni, potreste evitare di fare spoiler su questo minuscolo particolare, magari continuando a chiamare “Tango” col nome di “Tango?” : D Grazie in anticipo, e alla prossima!
and caaaan yoouuu feeeeeeel theeee aaaaangstt toooniiiighttt

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Capitolo 8
*** Sins Of The Fathers ***


capitolo sette
i peccati dei padri



missing is a pain
in everyplace
making a toothache
out of a day.
But to miss something
that never was:
the longest guilt
the regret that comes down
like a fine ash
year after year


la nostalgia fa male
dappertutto
dà il mal di denti
per tutto il giorno.
Ma provare nostalgia per qualcosa
che non è mai esistito:
i sensi di colpa più lunghi
il rimpianto che viene giù
come cenere sottile
anno dopo anno


- marge piercy



Che scuse che mi inventai.

Lui non è Vivi, è un mostro-specchio, è Kuja che è tornato, è un mimic, è un mimo, è un lurido imbroglione, è un Valzer, è Tango Nero, è una cosa orribile che è strisciata dalle viscere del mondo e, e, e forse sono morta, forse sto sognando, non può essere vero, può essere vero tutto ma non questo, lui non è Vivi-

Mi trasferirono in un’altra camera, perché dovevano riparare la finestra della mia stanza precedente, e le manine premurose di Rain curarono tagli, ferite, e la mia brutta distorsione alla caviglia. Mi si avvicinò e si sedette accanto a me; Shiny, Tide e gli altri lo imitarono, spostando delicatamente le umide ciocche viola che mi si erano appiccicate alla fronte sudata. Io però rimasi in silenzio. Fissavo il soffitto, una bambola di vetro in una culla, gli occhi vitrei e la bocca una muta incisione sanguinante.

E la aprii soltanto quando venne lui.

« Vattene. »

Era ancora il vecchio Tango Nero. Agitava freneticamente la testa, come un uccellino terrorizzato e in fin di vita, sbatacchiando distrattamente braccia e gambe come se avesse dimenticato a cosa servissero; aveva caritatevolmente riattivato l’incantesimo, e al posto del suo viso era tornata l’ombra nera dagli occhi d’oro.

Mi aveva detto una bugia. Lui non era Vivi. Era prevedibile che Tango mentisse; mentiva e mentiva come un orologio rotto, avrebbe fatto di tutto per trapanarmi la testa, per infilarmi un dito in gola e farmi vomitare. Di tutto. Bugia. Bugia. Bugia.

Bugia.

« Eiko. »

Il mio nome non toccherà più le tue sudicie labbra. « Vattene. »

« Linden-bloom. »

« Vattene via, Tango. »

« Tu non sai. Non hai mai saputo. Non avevi idea. Tu non hai idea. Ve ne state tranquilli nei vostri palazzi e ogni anno tu vai lì e riponi dei fiori ma non conta niente, la mia gente non è che un sogno e una teoria nei libri di testo, e dov’ero io, dov’ero io, lui mi aveva promesso che ci sarebbe stato sempre per me- »

« Vattene via. »

La sua frase terminò in un urlo lungo e vacillante. Quando parlò di nuovo, le sue parole erano asciutte, il tono misurato: un’inaspettata lucidità.

« Non è mai stata mia intenzione portarti con me, Eiko Carol. Se sei entrata in questo inferno devi ringraziare solo te stessa. »

La mia voce non era che un rantolo incrinato. « Vorrei che mi avessi ucciso. Vorrei che avessi ucciso tutti quanti. »

« Rinunceresti alla vita » – ma se l’avevo già fatto? – « solo per il ricordo di un ragazzino? »

« Vattene via. »

Mi sferrò un colpo violento prendendomi quasi solo le mani, che però già facevano male e si sarebbero semplicemente coperte di un secondo strato di blu violaceo. Mi ero già abituata ad essere picchiata. « Continui a non capire, linden-bloom. »

Lui non era Vivi.



« Eiko, devi mangiare. »

Rain mi pulì il porridge dalle labbra. Quella volta mi stavo rifiutando di aprire la bocca; semplicemente, lo trovavo uno spreco tremendo. Forse, se avessi smesso di mangiare sarei morta, e morire sembrava l’alternativa giusta.

« Non guarirai se non metti qualcosa sotto i denti. E poi guarda là, la tua caviglia è già tutta un’altra cosa rispetto a ieri. » Tentò una piccola risata che terminò in un sospiro. « Oh, Eiko, se solo usassi la tua magia bianca- »

« No. »

Con maestria, Rain mi ficcò la cucchiaiata in bocca proprio sul “no;” sputacchiai, indignata, qualcosa mi colò sul mento e lui dovette asciugarmelo nuovamente.

« Rain. »

« Eiko, devi mangiare » ripeté caparbiamente. « Non è bene che ti comporti così. »

Mi rizzai a sedere, a distanza di sicurezza dal cucchiaio prepotente, per evitare che lui mi infarcisse la bocca ad ogni parola. « Perché? Perché no? »

« È inutile tenere in ostaggio il Signore. » Alzò ancora il cucchiaio, la voce flebile e calda come la cenere, come sempre. « Lui… lui farà delle cose, Eiko, per costringerti a mangiare. »

« Non è mai riuscito a fare niente per costringermi a fare niente. »

« Può farci del male di fronte a te. » Spinse con la punta del cucchiaio sulle mie labbra. « Può ucciderci di fronte a te. Tutti quanti. Solo per costringerti a mangiare. »

Completamente sconvolta, lo fissai. Tango non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Non avrebbe potuto. Ma in fondo, non era esattamente questo il ragionamento che avrebbe fatto? Ferire gli altri per sottomettermi al suo volere. Come con Rain e la chiave inglese. Come con tutto.

« Forse… forse sarebbe meglio così. »

« Adesso stai cominciando a ragionare come lui, Principessa. » Gli occhi di Rain si fecero seri. « Ti prego, mangia. »

« Rain? »

Lui teneva ancora il cucchiaio sollevato, e le mie labbra si separarono involontariamente per accettare un piccolo sorso del fumante purè d’avena caldo. « Sì, Eiko? »

« Potresti toglierti il cappello? »

Rain tentennò, appoggiandomi la scodella calda in grembo prima di accontentarmi, lasciandomi a quel buio, ai quei suoi lineamenti intrecciati alle ombre. Infilai una mano nelle tenebre, provai a toccarle. Erano glaciali. Non c’era niente, lì.

Si rimise il cappello, e questa volta, sorrise. « Ti voglio bene, Eiko. »

Io ingoiai il boccone. Se anche le mie lacrime gocciolarono sul cucchiaio mentre dischiudevo le labbra screpolate per mangiare, lui non parve notarlo né fece commenti. Rain avrebbe potuto essere il figlio di Vivi.

Ma lui non era Vivi.



Venne a osservarmi nella vasca. Non sapevo se la cosa mi importasse più. Non lo guardai, e mi accovacciai nell’angolino; di tanto in tanto sbatteva le ali contro le pareti per spolverarle, mentre io mi insaponavo, mentre l’acqua calda mi carezzava la pelle. I capelli stavano crescendo, scomposti; Tide si era offerto di tagliarmeli, ma io avevo detto di no. Prendermi cura di me mi sembrava uno sforzo troppo gravoso.

Mi era quasi piaciuto, quando era stato soltanto Tango Nero. Di certo avevo provato pietà. Il mio amore per Vivi aveva offuscato il mio giudizio.

Il mio amore per Vivi aveva sempre offuscato il mio giudizio.

Un vento caldo rombava all’esterno. Contemplai l’idea di sprofondare nell’acqua sterile e bollente e lasciarmi morire, ma ero troppo scoraggiata e fiacca persino per quello; ero rotta, gli ingranaggi e le leve si erano arrugginite, la mia bocca e le mie labbra erano sigillate nel silenzio.

« Tango, puoi smetterla qui » dissi all’improvviso. « Non c’è bisogno di mentire. »

Lui si voltò, proiettando delle ombre sulle fredde pareti di pietra; i granelli di polvere gli danzarono attorno creando un alone luminoso. « Carol, sei una codarda. Sei una stupida. Sei un’ignorante. »

« La tua faccia. » Immersi la mano nell’acqua, e la lasciai filtrare tra le dita. « Non devi più nasconderti dietro quella nebbia. Non sei nemmeno un mago nero, è così? Sei uno dei residui di Kuja. Sei un jenoma. Sei, sei una cosa che ha lasciato qui nel seminterrato, e sei cresciuto, come muffa. O un fungo. Un micete. Una malattia. »

« Eiko… »

« Sei pazzo. Ne sei consapevole? Allora sei ancora più pazzo. Sei disgustosamente e merdosamente fuori, e credi di essere Vivi- »

« … E-Eiko… »

« -Vivi non l’avrebbe mai sfiorata, e non avrebbe mai sfiorato Lindblum, e non avrebbe mai sfiorato Gidan e Garden, e non avrebbe mai sfiorato- »

« Perché ero nato. »

Mi fermai e mi girai verso di lui. La sua voce si librava nell’aria, tenue, una piuma.

« Quanto volevo vivere… »

Erano parole semplici. Me le sarei ripetute all’infinito.

« Linden-bloom, quante dolcissime sciocchezze sdolcinate. Quello che abbiamo fatto insieme sarà stato davvero tanto coraggioso? Gidan camminava in mezzo a noi come un angelo della morte, in quei luoghi oscuri, il suo cuore era un verme menomato di nero peggio di quello di Kuja. Peggio di Garland. Danzava la danza della morte e tutto quello che toccava si polverizzava, linden-bloom. Siamo andati ad Alexandria e quella è esplosa. Siamo andati a Lindblum e quella è esplosa. Siamo andati a Burmesia e quella è esplosa. Siamo andati a Cleyra e quella è esplosa. Siamo andati a Tera, il pianeta morto, e quello è morto. Davvero sai cos’ha fatto Gidan, lì, giù, giù, nel buio, con le sue mani, i piedi e la bocca? »

« Gidan era un eroe. Devi stare zitto, zitto! »

« Gidan era un bugiardo! » Sputò quelle parole come se fossero magma. « Era un attore che recitava la parte dell’essere umano! “Vivere la vita al massimo!” Non vale quando non hai una vita da vivere, linden-bloom, quando sei un mostro come me e i miei bambini! maghi neri? Puah. Mi ha insegnato che la vita non dura per sempre, e la lezione l’ho imparata bene soltanto adesso. Mi rifiuto di starmene con le mani in mano, linden-bloom, mi rifiuto di Fermarmi, mi rifiuto di restare solo nella mia sofferenza! Lui ne pagherà il prezzo! »

Cadde il silenzio. Stava riprendendo fiato; io rimasi in acqua, in punta di piedi per sentire il fondo. La mia voce era un bisbiglio morto.

« Allora che intenzioni hai, Tango? »

Lui scrollò le spalle, come se fosse una stupidaggine. « Conferire con la Morte. Il suo nome è Trivia. Il fatto che tu lo sappia non significa niente per me. Meno che niente. »

« No, no, intendevo… » Cosa intendevo? Il mio tono era piatto. Il mio sangue sembrava troppo caldo per le vene in cui fluiva. Era diventato troppo, scorreva in troppe direzioni, dovevo metabolizzare troppe cose. Trivia? Trivia se n’era andato per sempre. Non avrebbe potuto riportare indietro Trivia; a volte lo rivedevo nei miei incubi peggiori, ma era sparito. Ma Trivia, il sogno della morte, dell’annichilamento e del male, non era questo il punto, il punto era- « Perché continui a mentire? Avresti potuto trovare una lettera di Vivi dovunque. Gidan l’ha incorniciato nella sala grande del Castello di Alexandria. È morto. Tu stesso hai detto che è morto. »

Lui si stava spogliando del cappotto. Sotto c’erano altri vestiti, soprabiti su soprabiti, vesti; stava sbottonando tutto. Era esile come mai avrei pensato, e si tolse guanti su guanti fino a rivelare le mani, bianche come il ventre delle creature che vivono a chilometri sottoterra.

« E non ho detto il falso, Principessa. È morto. »

« E allora perché? » La mia voce tremava di lacrime. Non avevo dormito. « Perché mi hai detto- »

« Cosa diventano i bruchi, mia gioia, quando escono dal bozzolo? »

« … Farfalle. Tango, smettila di giocare con me- »

« E cosa diventano, piccola mia, quando crescono? »

Io chinai la testa di lato per guardarlo. Si stava sbottonando l’ultima vestaglia, e intravidi un lampo di pelle diafana; irritato, lui si levò il cappello, e la nebbia si dissolse nel nulla. Il suo viso era bellissimo e orrendo; elegantemente rifinito e cesellato, come un angelo in un quadro, le sopracciglia chiare e le ciglia ancora più chiare e un paio di enormi occhi d’oro incastonati in un volto smunto e famelico. Era rivestito di cicatrici, come se un animale selvaggio avesse cercato di strappargli la faccia. Unghiate.

Delle ciocche fradicie gli ricaddero sulle guance mentre lui continuava la sua opera; il resto era goffamente legato in una coda alta arrabattata dietro la testa. Doveva avere un sacco di capelli, per giunta lunghissimi, ma erano untuosi, sporchi di polvere e di sangue raggrumato. Sembrava una cosa selvaggia. Lo era.

« Diventano piccoli ingegneri ruvidi » mormorò. « Diventano spigolosi topi di biblioteca, malevoli, disincantati, e gli cresce la lingua biforcuta. »

Una grossa cicatrice gli fioriva sul petto, da quel poco che potevo vedere; si aprì la camicia e si inginocchiò, le ali frusciarono come il vento fuori mentre gli si ripiegavano sulla schiena. Era la vecchia cicatrice di un ustione, vecchia, scintillante e raggrinzita.

« È qui che il Terzo mi ha toccato. »

Il Terzo? Il Valzer Nero numero Tre. Pigiai le braccia su un lato della vasca, per osservare meglio, e notai che c’erano dei bernoccoli ovunque. Non gli avrei creduto. Non era lui. Aveva detto che non era lui. La terra mi si sgretolava sotto i piedi.

« Ma tu non c’eri. » La sua voce era quasi gentile. « Non eri ancora con noi. »

« Quella cicatrice avrebbe potuto fartela chiunque. Qualunque cosa. Avresti potuto fartela da solo. »

« … Vuoi ancora diventare un pompiere, Eiko? »

Alzai di scattò la testa.

« Un ragazzino svestito. » La sua voce si fece cantilenante come al solito, come se le sue parole facessero parte di una nenia, leggera, ritmica, e totalmente folle. « Un ragazzino svestito, che si è lasciato i panni alle spalle – il cappotto, i pantaloni, il cappello, tutto quello che ha toccato la morte inarrestabile delle cose che gli sono fuoriuscite dalle sue stesse mani. Ha corso nudo e ha gridato nella foresta per allontanarsi da tutte le cose morte, e si è gettato nel fiume, e non è morto. E ha mangiato veleno, e non è morto.

« È scappato nei deserti e ha mangiato cose strane e ha bevuto l’acqua che dimorava dietro i loro occhi. Gli sono cresciuti dei grossi bozzi sulla schiena, e si è rotolato nella sabbia, e si è grattato e grattato e poi sono sbocciati due germogli neri di uccello d’odio e li ha usati per volare. E poi è volato ad un tempio, dove è stato accolto come figlio ed erede, e il suo cuore è marcito ed è morto e la sua mente è venuta via come gli strati di una cipolla finché non ha capito cosa fare. Il ragazzino svestito si è vestito di nero e ha danzato la danza della morte, e dalla danza ha scelto il suo nome; e si è creato dei bambini, preparandosi alla mietitura del mondo per la quale era nato. Esiste solo per uccidere. Esiste solo per uccidere. Esiste solo per uccidere.

« Chi è quel ragazzino, Eiko?

« Sono nato come Vivi il bruco » – e il suo sorriso era glorioso e terribile – « Adesso sono la farfalla, e sono morto. »

I miei ricordi diventeranno parte del cielo…

Le lacrime mi rigarono le guance. Afferrai il ciglio della vasca per trovare un appiglio, tremante, in preda agli spasmi, la fronte abbassata quel tanto che bastava per sfiorare la roccia e la mia voce un lamento strozzato di dolore. Il mio corno cigolò sui mattoni. Vivi. Vivi. Vivi. Oh, Dei, una volta era stata una preghiera, e adesso era una maledizione che mi usciva dalle labbra. « Ti amavo. Ti amavo. Ti amavo tantissimo. »

« E ora? » La sua voce era di nuovo quella del bambino; acuta, incerta.

Non riuscivo a parlare senza digrignare i denti, il volto premuto nel granito. « E ora ti odio tantissimo e vorrei che la terra t’ingoiasse e non ti lasciasse andare mai più. »

È Vivi, è un mostro-specchio, è Kuja che è tornato. È Vivi impazzito, Vivi morto nella testa. E adesso per te è morto due volte.

Oh, Madein, quanto soffriamo! Soffriamo e soffriamo.


« E ora conosci il mio desiderio. » Le sue dita mi stavano accarezzando i capelli umidi. « Quasi ogni giorno, Eiko, l’odio è più grande dell’impulso di precipitare nel nulla. »

I miei singhiozzi rimbombarono sui muri, i vagiti di un bambino infelice, e non mi preoccupai del fatto che mi stesse toccando o di qualsiasi altra cosa. Non c’erano forze onnipotenti in quella stanza, quel giorno, non per me.

« Odiami, amore. » Perché doveva essere così tenero? Era peggio di una tortura. « Odiami nel mio vero nome. »

« Ti odio, Vivi! » piagnucolai. « Ti odio! »

Piansi nel grembo di Vivi Orunitia mentre lui canticchiava e vezzeggiava i miei bagnati capelli viola. Avevo diciannove anni. Lui ne aveva ventidue. Aveva l’odore della polvere, e delle cose morte, e di cenere, e io gridavo per anni di fiducia infranta, per un’innocenza perduta molto più importante della verginità, per i peccati dei padri che erano ricaduti sui figli.

Le bugie erano state immensamente più dolci della verità. La verità era un incubo livido che sanguinava.

Lui era Vivi.



Mi tenne la testa e le spalle finché si fece buio, le grida notturne degli antoleon risuonavano per le pianure silenziose. Avevo smesso di piangere già da tempo, la mia bocca una fessura screpolata, tutto il mio intero corpo un mal di testa.

Vivi fece scivolare dal mio collo le mani umide, gonfie per l’acqua, raccogliendomi da sotto le ascelle e posizionandomi sul bordo freddo della vasca. Se anche Rain fosse passato di lì e se ne fosse andato, non avrei potuto saperlo, e lui non disse nulla; eravamo soli, il mago nero pazzo ed io, e lui avvolse fastidiosamente un asciugamano intorno al mio corpo scosso dai tremori. Non avevo la forza di alzarmi e rimasi seduta, serrando i pugni sul tessuto ruvido.

Lui mi toccò il corno da sciamana, e fu come una scarica di Thundaga; rabbrividii, fragile come la migliore porcellana di mia madre, e lui si allontanò per dirigersi alla finestra.

« Sai dove vanno i maghi neri » disse di lì a poco, « quando muoiono? »

Avevo sempre presunto che andassero in paradiso. Garnet mi aveva fatto accoccolare nel suo grembo e avevamo parlato del posto migliore in cui era andato Vivi, dove andavano gli spiriti buoni, e decidemmo che si sarebbe trovato con suo nonno, i suoi bambini e gli altri maghi neri.

Che grandissima stronzata.

« No. »

« Nello stesso posto in cui andrei io, se morissi, linden-bloom. » Cominciò a ridere. « Da nessuna parte. »

Tango Nero – Vivi – rise e rise e rise, incontrollabile, e per fermarsi dovette sbattere la testa contro il muro con tanta violenza che pensai che si sarebbe spaccato il cranio, e mi aspettavo un suono simile a quello di un melone umidiccio che viene martellato. Lui fece semplicemente spallucce, si raddrizzò, e mise un piede sul davanzale.

« Non l’ho uccisa, sai » sussurrò. « L’ho lasciata con qualche livido e slogatura sul pavimento, ma quando me ne sono andato e sono arrivate le guardie, il suo cuore batteva. »

« Cosa? » Mi pareva di avere una commozione cerebrale. « Chi? »

« Cornelia. » La voce di Vivi era amara. « L’odioso premio e successo di Gidan. Tua nipote. Io sono figlio del fratello di Gidan, fatto dalle stesse mani di Kuja. Questo non fa di lei mia cugina? »

« Elia? » Ero come rinata. « Elia non è… »

« Il suo cuore batteva, linden-bloom. » Un altro passo sul davanzale, le sue mani stavano tornando nei guanti e si stava riabbottonando tutto. « La mia vita sembra risolversi attorno a piccole donne che non muoiono. »

Si buttò dalla finestra. Il cuore mi salì in gola finché non rividi la sua figura stagliata sulla luna, le ali che sbattevano e lo trascinavano lontano.

« Come? » bisbigliai, mentre le lacrime rifacevano la loro comparsa e le dita si chiudevano per terra. Avevo pianto lacrime che avrebbero potuto riempire oceani, laghi e fiumi ma avevo ancora abbastanza acqua per versarne di nuove. « Come diamine siamo arrivati a questo? »





Note NECESSARIE (?) della traduttrice: so. Much. ANGST. DX Ed è solo un capitolo di transizione :DDD
Però dai, è la mia prima e forse unica traduzione su FFIX, uno dei protagonisti non poteva non essere Vivi, siamo seri XD Anche se è un Vivi completamente fuori di testa. Vivi, il personaggio più tenero e dolce della storia dei Final Fantasy. ;_; And there goes my childhood ;O;
Mentre processate queste nuove informazioni, due parole. E un link, per chi volesse approfondire. Beneath è un’altra storia di Guardian1, che precede di circa un anno Go Not Gently. Ufficialmente non sono collegate, che io sappia, ma nella pratica potrebbero tranquillamente esserlo. Interessanti sono le frasi, che traduco rapidamente: “Perché lui era stato l’ultimo dei quattro [Valzer ndt], e Kuja aveva voluto la perfezione. Oh, quanto aveva riso; era stato di ottimo umore quando aveva creato il quarto mago. Tutti e quattro avevano il suo viso, le cui condizioni variavano a seconda dell’umore di cui era stato quel giorno.
Tutto considerato, tenendo presente che i Valzer sono uno migliore del precedente, che in definitiva Vivi è più forte di loro e di tutti i maghi neri incontrati nel gioco, che sempre Vivi sembra effettivamente un prototipo particolare anche solo dalla forma e che Kuja, il loro creatore (Vivi e i tre Valzer sono sicuramente antecedenti ai maghi creati da Brahne), era leggermente vanesio…
Insomma, personalmente non credo che il gioco avesse di questi sottotesti, specie dal momento che il finale, per quanto aperto, sembra già indicare la morte tutto sommato serena di Vivi – ma è un’ipotesi intrigante e per giunta verosimile. Soprattutto per una fic. Soprattutto perché “Yay! VIVI È SOPRAVVISSUTO, FIGO, GANZ– oh, è impazzito ed è diventato uno sterminatore di massa. Vivi. Oh. E picchia Eiko e odia Gidan. OH.”
Comunque. Via. Mi sono dilungata decisamente troppo. Sono solo contenta che siamo arrivati fin qui. <3 Se ho aggiornato straordinariamente presto, però, è tutto merito della mia carissima beta, la_vale. Andate ad adorarla, perché mi ha betato cinque capitoli in una botta sola. Ora devo finire di tradurre un paio di cosette prima di concludere la storia, ma spero di non metterci molto.
Alla prossima. :)

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Capitolo 9
*** On Stopping ***


capitolo otto
del fermarsi



Let
me keep fury
to stay against
pain; if it
is given me
to learn I mean
to know it all
the way, to bear
it like a woman.


Fammi
trattenere la rabbia
per contrastare
il dolore; se mi
viene dato per imparare
voglio conoscerlo
fino in fondo, per
sopportarlo
come una donna.


- phillip booth



Mia madre una volta mi aveva detto che odiare era come essere innamorati. Era lo stesso scricchiolio del cuore, lo stesso calore alle guance, lo stesso dolore lancinante che persiste in corpo e sfrigola le giunture degli organi; ma ciò che provavo io era freddo come un pezzo di ghiaccio, che si ispessiva e si muoveva dentro di me crepandosi sempre di più ogni volta che lo guardavo.

Avevo letto le favole. Il giovane che scompare poi cresce e diventa il forte, vigoroso e bellissimo principe; è nobile, un salvatore, ha i muscoli guizzanti e una lunga chioma liscia di capelli color carbone che ti scorre tra le dita come acqua. Non diventa un lurido pazzo sporco di sangue e scurrile con i capelli unti e gli occhi da mentecatto che sui tralicci del tetto alterna pianti a canti stonati e rotti che a stento sono comprensibili e che parlano di ricordi. Se anche lo facesse, il giovane principe non dimenticherebbe il testo inserendo parole a casaccio a metà strada.

Poi, magari, la bambina tratta in salvo dai pericoli del deserto diventa di solito una libera, bellissima principessa. È pudica, gentile, e ha la pelle chiara come farina di riso. Non ha i capelli corti, non è un’ingegnere spigolosa tutta ossa e zero curve che traccia calcoli matematici nella polvere con la punta delle dita.

Non avevo la minima idea di come comportarmi in quei giorni, nelle settimane che seguirono il ritrovamento del dolce maghetto della mia infanzia nell’assassino dagli occhi animaleschi del presente. Ero smarrita e lui lo sapeva; si crogiolava nella mia confusione. Scappare? Avrei potuto; avevo ancora la mia bacchetta, e se c’era abbastanza potere in me da richiamare una Trance allora ce n’era pure per evocare Fenril in mio soccorso. Ma una cosa del genere avrebbe significato lasciare Rain e gli altri, e avrebbe significato lasciare Vivi.

Non sapevo cosa volesse dire lasciare Vivi. Forse significava abbandonare la vendetta nei confronti di un traditore e un omicida. Forse significava disertare il capezzale di un uomo perso. Forse significava entrambe le cose.

A volte posavo lo sguardo fuori dalla mia finestra e piangevo; in quelle occasioni mi ripetevo caparbiamente che era tutta colpa del ciclo, che i miei ormoni erano armati e ruggivano in compagnia dello stress. Però il mio ciclo ormai era irregolare e scarso; poteva andare bene un mese, e poi mancare quello successivo, e poi piegarmi in due dal dolore in quello dopo ancora, mentre Tide e Sunny cercavano affannosamente una cura alle erbe. Mi sentivo sgualcita, fuori forma.

Principe? Era più che altro un demone, uno spirito furioso che mi costringeva a ballare una danza vivace senza che io potessi reagire in alcun modo: un classico. Non ci andai piano. Volevo potere. Volevo rompergli ripetutamente qualcosa in faccia, volevo farlo sparire, volevo farlo tacere, volevo immobilizzarlo. Muori, Tango, muori-

Era sempre a Tango che auguravo la morte. La prima volta che assaporai la parola muori accostandola al suo nome mi si gelò il sangue nelle vene; desideravo che Vivi morisse?

Ero sentimentale e stupida e non potevo farci niente.

Oh, le favole. Eccovi il vostro principe e la vostra principessa. Lunga vita al Re dei Mostri e alla Regina della Disperazione!

Posso riavere quei libri, mamma?



« Come ti ha creato? » chiesi un giorno.

Eravamo in cucina. Lui stava appollaiato come un corvo sul tavolo dove mangiavano i maghi neri; passava dal Tango coperto di cenere al Vivi dal volto perlaceo con lo stesso atteggiamento veloce e confusionario con cui mio padre si toglieva e rimetteva gli occhiali quando si svegliava strano. Rain ci aveva preparato il pranzo. Io accarezzavo la mia zuppa col cucchiaio, mentre lui mangiava la sua direttamente dalla scodella. Tra di noi cadde un lungo silenzio; sembrava titubante su cosa dire, e in quel periodo stavo perdendo la mia capacità di giostrarmi con le parole. Comunicavamo, ma eravamo monotematici.

I suoi occhi si illuminarono; era umano, almeno in quell’istante, e riuscii a scorgere i suoi enormi occhi d’oro da sotto il cappello. (Mangiava come un maiale. Faceva rumore mentre beveva, e di tanto in tanto emergeva una lingua rosa a leccargli la crema verde dai contorni delle labbra. Era disgustoso.) Completamente esposto alla luce, aveva gli occhi più strani che avessi mai visto: svelavano un colore viola, l’ambra della sua forma da mago nero cedeva il passo a quel profondo, bellissimo viola dei fiori dei prati. L’avevo già visto, quel viola. « Linden-bloom, sapevi che la pelle contiene delle annotazioni? Se ti graffiassi il braccio, anche poco, potrei usare la pelle che ne ricaverei per far crescere piccoli pezzi di te in un piatto. Kuja aveva diversi figli-piatto. Io sono stato il quarto, tesoro. »

Quarto. Valzer Nero numero Uno, Valzer Nero numero Due, Valzer Nero numero Tre. E poi Vivi.

« Se ti coltivassi, poi avrei una nuova Eiko Carol, piccola e luccicante. » Mi squadrò, con fare calcolatore. « Potrei avere una piccola Eiko bambina se lo volessi. Tutta per me. I tuoi capelli di quand’eri bambina, la tua faccia di quand’eri bambina… »

Io rabbrividii.

« … i tuoi raccapriccianti vestiti di quand’eri bambina… »

« Che cosa? » Sollevai lo sguardo, infuriata. « Cosa avevano di male i miei vestiti? Me li sceglievano i miei moguri. »

« Si vedeva » ribatté ambiguamente Vivi prima di bere un altro sorso della sua zuppa. Immerse un dito con tutto il guanto per acciuffare un pisello spiaccicato; mia madre sarebbe svenuta. « Giallo, Carol? Una salopette gialla senza la parte frontale? »

« Sei veramente una creatura di Kuja » sbottai. « Schifoso bastardo. »

Come se lui potesse parlare. E poi cosa c’era di tanto brutto nei miei vestiti? Garnet se n’era andata in giro con una tuta senza maniche del colore delle arance marce, e nessuno aveva mai avuto nulla da ridire su di lei.

Lui si strinse nelle spalle, sogghignando; mi ero irrigidita, in attesa forse di un piatto lanciato alla testa. Invece le sue ali palpitarono mentre le risistemava dietro la schiena.

« È così che hai fatto i maghi neri? »

Shiny, Sun e Tide stavano pulendo pentole tutti vicini nel fondo della stanza, il più lontano possibile da noi. Le espressioni agonizzanti con cui di solito mi guardavano ogni volta che sbraitavo contro il loro Signore mi straziavano il cuore; il modo in cui le loro mani tremavano quando mi picchiava faceva ancora più male. Tide stava asciugando una padella, e le sue mani si stavano afflosciando; gli era venuto mal di schiena, nell’ultimo periodo, e avevo notato che spesso gli altri gli massaggiavano furtivamente le spalle da sopra al cappotto doppio. A giudicare dal modo in cui Tango spintonava indiscriminatamente i suoi bambini per i corridoi, ero sorpresa che gli facesse male solo la schiena.

È buffo. Quando ero arrabbiata con lui, per me era sempre Tango. Quando – quando dentro di me mi accorgevo di non essere arrabbiata – solo allora poteva essere Vivi.

Ci fu un lungo silenzio. Vivi – così diverso, nuovo, strano – rivolse lo sguardo alla sua zuppa, come se fosse una palla di cristallo. Non sapeva come svuotare d’espressione i suoi lineamenti; il suo viso si contrasse, trasformandogli la fronte in un reticolato di rughe di preoccupazione prima che la collera cedesse il posto alla – rassegnazione? « No. »

« Come- »

« Fai domande stupide, Carol » mi interruppe bruscamente. « Non ripeterle più. »

« Io faccio ogni stramaledetta domanda che mi pare, e lo sai anche tu. »

Il mago rise; nonostante ridesse di frequente, non lo faceva quasi mai perché era divertito. Ogni tanto rideva di me come se gli facessi ridere sul serio, come se mi reputasse una barzelletta esilarante, e non sapevo mai se ridere insieme a lui o spezzargli subito le rotule con qualcosa di pesante approfittando della sua distrazione.

Portò la scodella alle labbra, prosciugando quel che rimaneva della zuppa prima di rimetterla sul tavolo. Con le mani vuote, dopo poco prese a muoverle e si tolse il cappello per pungolare qualche buco sul bordo di cuoio. Ora potevo vedergli pienamente il volto, e le profonde cicatrici infiammate che glielo solcavano da orecchio a orecchio, dalla fronte al mento. Aveva ancora qualche graffio rosso dalla volta che eravamo saltati fuori dalla finestra. Il nastro che gli legava i capelli era solitamente molto stretto, ma le pinze che doveva essersi messo stavano cedendo da settimane. La coda di cavallo era sprofondata all’altezza del collo, e lunghe ciocche morbide, sudicie e grasse gli sfioravano le guance. Non avevo idea di quale dovesse essere il colore originale; erano castano chiaro come una macchia di caffè, e avevo la sensazione che in origine non fossero così.

Finii anch’io il mio pasto, incapace di staccare gli occhi dai suoi capelli. Sciolti e arruffati com’erano stavano riprendendo rapidamente la loro piega naturale; c’era persino una grossa ciocca soffice in cima che stava prendendo le sembianze di una cresta.

« Senti » esplosi, finalmente. « vieni qui. »

Vivi sbatté le palpebre come un uccellino. Aveva delle ciglia lunghissime e trasparenti. « Linden-bloom? »

Per essere l’uomo che mi aveva scaraventato dall’altro lato della stanza senza preavviso, fu docile al mio tocco. Lo strattonai giù dal bancone, le mani ferme sui suoi polsi; con i maghetti completamente sconvolti a guardarci, lo trascinai dall’altra parte della cucina, verso la pompa dell’acqua. « Da quanto tempo non ti lavi i capelli? Fermo, scommetto che non ti lavi – ma quanto tempo è passato da quando ti è piovuto addosso? Oh, santi numi, siamo in un deserto, direi mai- »

Cominciò a starnazzare immediatamente come una cornacchia patetica, come un uccello marino terrorizzato. Lo ignorai, sbottonandogli il cappotto di cuoio e buttandolo a terra con disgusto. « Carol! No- »

Pinze? Quali pinze? I suoi capelli erano talmente untuosi che si reggevano da soli. Afferrai il nastro scricchiolante e lungo chissà quanto e iniziai a srotolarlo dal nodo. « Ma è disgustoso. » Finalmente lo sciolsi; me lo lanciai alle spalle, inorridita, e il pasticcio di capelli gli scrosciò giù sulla schiena, in mezzo alle ali. Scoloriti, scarmigliati, ingarbugliati oltre l’ingarbugliabile, assomigliavano a un cespuglio di rovi e gli arrivavano fino alle ginocchia. Provai a infilarci un dito, ma era impossibile pure quello. Arricciai il naso. « Avete delle forbici? »

« Eiko! »

Qualcuno frugò in un armadio; in un battibaleno, Shiny me ne porse un paio luccicante e affilato. Tango gli recapitò un’occhiataccia, e il mago si ritirò nel suo angolino. Infilai di nuovo le dita, stavolta con maggiore ferocia; Vivi provò a girarsi per vedere quello che stavo facendo, ma era troppo tardi: avevo già afferrato una grossa manciata della sua zazzera.

Alla mia forbiciata a un paio di dita al di sotto delle sue scapole seguì l’elaborato rumore di qualcosa che si lacera, e metri di capelli bianchi caddero al suolo.

« Ecco. Così va già meglio. » Per tutta risposta lui aprì e richiuse la bocca come un pesce. Prima che potesse riprendersi, io abbassai la manovella della pompa e gli spinsi la testa sotto il flusso di purissima acqua fredda. Lo osservai con notevole soddisfazione mentre sbatteva convulsamente le ali e emetteva grugniti incoerenti.

Anche i maghi osservavano lo spettacolo assolutamente attoniti. Avevano smesso tutti di lavare le pentole. Feci loro un cenno allegro del capo.

« Sunny? Amore, mi passi il sapone? »

Lo tirai via dal getto, ma lo costrinsi a tenere la testa bassa per passargli una più che gradita saponetta tra i capelli. Canticchiai perfidamente mentre gli pettinavo i nodi meno mostruosi di prima con le dita; lui stramazzò lentamente in ginocchio, bagnandosi i pantaloni. Penso fosse in stato di shock.

« Ho una mezza idea di farti un bagno » Non aveva i pidocchi, per fortuna, ma era davvero una delle persone più sporche che avessi mai incontrato. Mentre lo strofinavo con il forte sapone da cucina, mi pareva quasi di averlo immerso nella calce. La sua pelle chiara si schiarì ulteriormente quando lo pulii furtivamente dietro le orecchie, sentendomi un po’ mia madre; era bianco come il ventre di un pesce morto. Bianco su bianco. « Non riesco a crederci. Sei sporco da far schifo. »

« Sapone » si lamentò lui debolmente, come se fosse appena sceso dalla sedia elettrica. « Negli occhi. »

« Sciocchezze! » Era un castigo profondamente primordiale, e all’improvviso ricordai il perché. Era capitato tantissime volte che, nei vecchi giorni delle nostre avventure, Garnet e Freija avessero fatto il bagno a me. Lo trovavo molto ingiusto, dato che i bagni erano delle torture e la Principessa di Alexandria si prendeva particolare cura delle mie ginocchia.

Vivi invece non si doveva mai fare il bagno. Un paio di volte mi ero offerta di farglielo io, ma lui se ne scappava sempre urlando: « I maghi neri non si FANNO il bagno! »

Col cavolo che non se lo fanno. Eh, eh, eh.

Si voltò bruscamente fino a spostare la faccia al livello del mio stomaco, allontanando le ali dal freddo pungente dell’acqua. Cercò di pugnalarmi con un’occhiataccia torvissima. Io mi limitai ad abbassargli la testa e a radunare un po’ d’acqua tra le mani per sciacquare via il sapone. « Non ti senti meglio, pulito? »

Ci fu un gorgoglio. Con tutta probabilità, si trattava di un “no.”

Gli strizzai allegramente i capelli, liberandogli il collo del loro peso. Aveva un bel collo, ora che era pulito. In generale era cinquanta volte più gradevole, adesso, e profumava un po’ di sapone. Mi domandai di colpo perché l’avevo fatto; aveva coinvolto troppo contatto, mani calde, acqua fredda e sapone sulla pelle. Indietreggiai e lui si raddrizzò, rizzando le ali e fissandomi ancora con qualcosa di molto vicino allo sgomento.

« Perché l’hai fatto, linden-bloom? »

« Avevi i capelli sporchi. Adesso sono abbastanza carini – dovresti vederti allo specchio. »

« Non ci sono specchi, qui. »

« Beh, i tuoi capelli sono quasi bianchi. » Afferrai una ciocca bagnata e gliela portai davanti agli occhi. In silenzio, lui non mi fermò. « È un miglioramento. »

« Perché mi guardi? »

Ci fissammo. Mi si stavano accaldando le guance. Non riuscivo a capire perché mi stesse guardando in quel modo, come se lavargli i capelli fosse stato un gesto più significativo di quanto non lo avessi inteso io. Disegnò lentamente una linea umida e calda dalla mia tempia fino al collo, fermandosi sulla vena alla gola e premendo il dito sul mio battito. Il suo tocco scottava.

Improvvisamente, tremai; rossa di rabbia e di vergogna, scacciai la sua mano e feci un passo indietro. « È difficile camminare a occhi chiusi. »

« Signore? » Una voce interruppe la tensione fredda; era Shiny, esitante, incerto. « Dobbiamo far sdraiare nostro fratello? »

Tide si stava dondolando avanti e indietro, oscillava, come se non riuscisse a stare in equilibrio. Immediatamente in ansia, accorsi subito da loro, allontanando Tide da Shiny e Sun e desiderando con tutta me stessa di poter mettere una mano sulla sua piccola fronte, dovunque si trovasse. « Stai bene? »

Domanda stupida. Certo che no. « S-sì » balbettò. « Ho solo – le vertigini, Eiko- »

Perché Vivi se ne stava lì impalato? Che stronzo. Insinuai la mano in quella del mago nero. Anche attraverso tutti quegli strati di vestiario, era un po’ troppo freddo. « Vieni, angelo, siediti. »

« Lascialo. » Tango. Si era ritratto nella sua forma da mago nero così in fretta che appena me ne resi conto, schiacciandosi il cappello sulla testa prima di raggiungerci in un baleno. C’era una strana sfumatura nella sua voce, monotona, scolpita nel ghiaccio. « Dallo a me- »

Con mani impetuose buttò quasi per l’aria me, Sun e Shiny, e avvicinò Tide a sé prima di sedersi sul pavimento con un tonfo privo di grazia. L’adorazione negli occhi del maghetto era identica a quella che si accendeva in tutti gli altri quando il Signore mostrava loro anche solo un briciolo di amorevolezza. Appoggiò la testa sulla spalla di Tango che, dal canto suo, cominciò a cullarlo, lentamente. « È tutto finito » cantò, sommesso. « Presto sarà tutto finito. »

Incapace di stare lontana, strisciai verso di loro. Gli altri due mi seguirono subito, trotterellando dietro di me. « Che vuoi dire? » chiesi, turbata. « Che cos’ha che non va? È malato? »

Lui mi allontanò con una mano, veloce come un lampo, e mi avrebbe sicuramente colpito sulle ginocchia se Sun e Shiny non mi avessero strattonato indietro in tempo. Non alzò lo sguardo nemmeno per guardarmi cadere sul sedere; aveva gli occhi fissi in quelli di Tide. I maghi dietro di me tremavano, in maniera quasi convulsa. Stavo iniziando a spaventarmi; Tango stava accarezzando delicatamente la spalla di Tide mentre lui gli si curvava in grembo, disegnava cerchi su cerchi col pollice. « È quasi finita. Poi potrai dormire. »

Tide sorrise, gli occhi ridotti a due mezzelune felici, sdraiato mollemente su di lui. « Grazie, padre. »

Fu come se le sue luci si fossero spente; i suoi occhi – i suoi occhi sibilarono, come quando si butta l’acqua sul fuoco. Prima scintillavano come pezzi incandescenti di carbone, poi non ci fu altro che buio. Era la prima volta che vedevo qualcuno Fermarsi, e un urlo incredulo mi uscì dalla gola. La mano di Shiny si serrò con più forza sulla mia quando cercai di scagliarmi su di lui.

« No! » mi disse, e le lacrime che gli risuonavano nella voce mi spezzarono il cuore. « Fermati, Eiko, dev’essere ancora- »

Si zittì quando strillai per l’orrore. Tango aveva affondato la mano dentro la faccia senza vita e senza occhi di suo figlio; sibilava, tirava, torceva, e il suo braccio risplendeva come se aggredito dalle lucciole. Alla fine, trovò quello che cercava.

Madre, madre, non ha mai avuto una madre, avrei voluto fargli io da madre ma non saprei come fare la madre nemmeno se mi si regalassero diamanti – mamma-

Vivi strinse la mano inguantata su qualcosa, plasmandolo con le dita. Era già in piedi e stava andando via, le ali chiuse vicino al corpo. Lasciò la cucina. Solo allora Shiny e Sun mi liberarono; lo seguirono.

Io caddi in ginocchio accanto a quello che era rimasto di Tide – i suoi vestiti, principalmente; e mi dondolai avanti e indietro, gridando.



Era davvero come fermarsi. Fermarsi. Ora capivo perché l’avevano chiamato così. Un motore che si disattiva. Un momento prima era lì, il minuto successivo le luci erano sparite. Sapeva così tanto di fine.

Il mio cuore si ruppe ancora, e con le crepe di prima non era rimasto quasi più niente per ricostruirlo.

Poveri piccoli maghi, sempre buonissimi con me.

Poveri, poveri piccoli maghi. Oh, Tide. Un giorno sì, e poi non più.



Riuscii a singhiozzare solo per cinque minuti, ma bastò. Raccolsi il suo cappello, caldo e spesso tra le dita, e poi corsi fuori dalla stanza con la velocità concessami dai piedi scalzi; in qualche modo, mi condussero all’ala della sezione ovest della Reggia, verso la porticina nel buio, e le vetrate colorate mi macchiarono ancora una volta la pelle lungo il tragitto. Una era ancora rotta; un soffio d’aria calda mi bagnò quando le passai davanti.

L’erba era ancora di quel verde intenso e sfavillante. Sun e Shiny erano all’ombra del primo degli alberi dagli strani frutti; con loro c’erano anche altri, ora. Riuscii a riconoscere Cloud. Tango Nero era rannicchiato in cima all’albero come un corvo maledetto; nero su verde. Tra le mani teneva un bellissimo frutto blu brillante, e lo stava riponendo sul ramo più alto.

Quello era Tide?

Mi avvicinai ai piedi dell’albero. Shiny mi guardò, e poi si mosse per offrirmi le sue spalle; vi salì sopra e mi appesi al primo ramo. Gli alberi avevano un odore familiare, che mi sembrava di aver già sentito; la mia mente accelerò mentre mi arrampicavo, attenta a non disturbare i frutti quando la mia pelle li sfiorava. Pensa, Eiko, pensa-

Ci sei salita insieme a loro, ti sei raggomitolata alla sua base. L’hai guardato mentre richiedeva Gidan per quella che credevi sarebbe stata l’ultima volta. Un antichissimo paradiso tra le pianure del deserto che vomitava Nebbia-

Piccoli alberi di Iifa. Raggiunsi la vetta, la mia testa affiorò accanto a lui. Mi ero spellata sulla corteccia e ansimavo; lentamente, porsi il cappello a Vivi.

Lui lo prese, e se lo rigirò all’infinito tra le mani.

« È di questo che sono fatti i maghi neri, linden-bloom » bisbigliò all’improvviso. « Vestiti, polvere e anima. » Un dito ammantato di cuoio toccò la parte frontale della sfera, bella come un gioiello. « Non sono mai riuscito a creare un guscio di carne per loro, piccola mia. Quando ci ho provato, sono nati gli un-due-tre, i Valzer, orrendi e atroci e li ho schiacciati subito tra le dita. No, Carol, questi sono i materiali dei miei figli. » Se la cullò in una mano, e cominciò a ridere. « Il frutto delle mie mani. »

Rise, e rise; e poi singhiozzò. Posò il cappello sulla punta dell’albero, e mi asciugò le lacrime dalle guance calde e sporche di polvere.

“Voglio fermare questo processo, amore. » Il mago si tolse il cappello, e tornò ad essere Vivi: era di nuovo la morte in mezzo alla vita, bianco, sorridente, e gli occhi dalla parte sbagliata della follia. « Fermerò tutto. Niente più lacrime, niente più morte. Adesso mi odi ancora così tanto, Eiko Carol? Adesso che hai visto cosa diventano i miei bambini, dopo pochi anni? Lui sapeva che stava per morire. Sapeva che stava per morire dal momento in cui è nato. È troppo chiedere un mondo dove posso avere dei figli, e dove i miei figli possono avere dei figli, e non degli scheletri appesi agli alberi? »

È sbagliato, Vivi mi morì sulle labbra. Con gli occhi che pungevano incontrai i suoi, agguantai un paio di rami e provai ad avvicinarmi a lui meglio che potei. « Non ti aiuterò a distruggere il mondo. »

« Di quella parte posso occuparmi io, linden-bloom. Me ne occupo io. »

« Lascia che pensi a qualcosa di meglio. » Mi tirai su, sul ramo vicino al suo, poggiando i piedi sul legno duro. Ero quasi due teste sotto di lui, e lo fissavo in volto; i suoi capelli erano ancora umidicci, qualche ciocca color crema gli si arcuava sul viso. Ero disperata. Devo farlo, devo farlo, ti prego- « Lascia che ti aiuti. »

« Imparerai anche tu, mio cucciolo » La sua voce era infinitamente triste. « Che potremo avere una foresta nuova solo bruciando gli alberi vecchi. »

« Dev’esserci un altro modo. Un modo migliore. » Mi leccai le labbra. « Tide non avrebbe mai voluto che delle persone morissero per il suo bene, e lo sai anche tu, Vivi Ornutia. »

« Un altro modo? Migliore? » E stava ridendo di nuovo, una risata fredda e limpida. « Se ne trovi uno, sarò lieto di ascoltarti, linden-bloom. Tagliati la testa e dimmi che idea ne vien fuori. Imparerai presto. »

Aggrottai la fronte, e iniziai la discesa. Dopo poco lui cominciò a guaire, urlando tutto il suo tremulo dolore, e i maghi neri sotto la pianta emisero piccoli suoni dolci insieme a lui. Io riuscii a fare solo il ruggito di un drago morente, il ringhio di dolore di un animale strozzato.

E poi me ne andai.



Come la maggior parte delle risposte, mi giunse nel cuore della notte, mentre non riuscivo a dormire.

Rimanevo spesso insonne a cercare di sentire, quelle notti. Nei primi giorni, volevo sentire Fenril, Carbuncle, Fenice. Volevo essere salvata dai miei spiriti d’evocazione. Non sapevo come salvarmi da sola. Quando avevo avuto finalmente i mezzi per farlo, non ci ero riuscita. Ero stata risucchiata troppo a fondo in quel mondo, in quella situazione. Lacrime sul cuscino per Tide. Lacrime sul cuscino per Vivi. Lacrime sul cuscino per me.

Mio nonno mi aveva detto che uno sciamano è collegato ad ogni cosa. Gli sciamani dei tempi antichi erano temibili e potenti; alle loro Chiamate non rispondevano solo i mostri del mondo. Quando si evoca, ci si trova come sull’orlo di un profondissimo abisso. E lo Chiami, Chiami il nome del tuo Eidolon, il nome che hai trovato scritto nel tuo ventre.

Non Chiami le cose senza nome. Ci sono molte cose in quello strapiombo, e se venissero Chiamate, strapperebbero le viscere del folle e le userebbero a mo’ di sciarpa appariscente.

Gli sciamani dei tempi antichi sapevano chiamare qualunque cosa avesse un nome.

Il pensiero mi accarezzò spontaneamente, e mi fece sudare le mani.

Eiko, sei pazza. No, ancora peggio, sei stupida. Ti sopravvaluti, proprio come ti ha sempre detto tuo padre. È come tentare di costruire un’aereonave senza possederne il motore. Non può funzionare, non funzionerà, e metteresti tutto in pericolo solo per egoismo, stupidità e stoltezza-

Io sono stupida, egoista e stolta! Fammi godere il mio momento!


Mi alzai; mi infilai la camicia da notte, che era grande, piena di bottoni e fatta di lino fresco. Avrebbe dovuto essere blu, ma nel buio era grigia, e nonostante sotto non avessi niente aprii la porta senza far rumore. Mi rimboccai le maniche fino alle spalle e scesi le scale.

Nemmeno lui era andato a dormire. Si trovava sulle travi del piano inferiore, e canticchiava dolcemente fra sé, stonato e inquietante.

« … nei miei ricordi più cari… »

I miei piedi non produssero alcun suono sul tappeto consumato dei gradini.

« … te lo ricordi che mi hai ucciso… »

I versi facevano sempre cagare.

« Vivi? »

« … credo ancora che tu sappia chiamare – Carol? »

La sua voce era ingrossata dalle lacrime, come se avesse pianto fino a quel momento. E probabilmente era così. Dentro di sé conteneva più lacrime di intere città, quasi ogni giorno, solo che invece di versarle gli ribollivano dentro e uscivano sotto forma di vapore.

« So come possiamo fare » dissi.

Non avevo gli occhiali; ai miei occhi lui non fu che un’ombra vaga che piombava dal soffitto finché non mi si avvicinò. Il suo viso era coperto, i suoi occhi erano i soliti spicchi d’ambra. « No che non lo sai, linden-bloom, non c’è nulla su cui non abbia riflettuto più e più e più volte. »

« Fammi evocare Trivia. »

Vivi mi fissò. Nessuno riesce a fissarti come un mago nero: grandi, lucenti occhi privi di pupilla che ti fissano senza lasciarti scampo. Poi scosse la testa, una volta sola, liberandosi della nebbia nera e togliendosi il cappello. Non si era ancora legato i capelli, e si erano finalmente asciugati; una ciocca corposa, ribelle e soffice si era alzata nel mezzo. Al buio, con gli occhi d’ambra tramutati in viola, era Kuja ridisceso in terra.

« Linden-bloom, non puoi. Non riesci nemmeno ad evocare i tuoi Eidolon. »

E lui questo come lo sapeva? « Dammi un po’ di tempo. »

« Carol, l’hai visto Tide sì o no? Il tempo non è una cosa che abbiamo. »

« Sei mesi » supplicai, disperata. « Posso farcela se mi dai sei mesi. »

« Non sai più evocare e pensi di riuscire a portare qui colui-che-divora in un paio di mesi? » L’espressione di Vivi era piattissima. « Non essere sciocca, Eiko, ti facevo più intelligente. »

Io pestai il piede, perdendo la calma. « Tango, un tempo ero una delle più potenti sciamane di Gaya! Ero più forte persino di Garnet, e lo sai anche tu! Ed ero solo una bambina! Sì, wow, ora ho perso il mio potere. Ma indovina un po’? Sono stata un pochino-ino stressata di recente! Se dico che faccio qualcosa lo faccio, e lo evocherò! Per cui non osare mai più darmi della sciocca! »

« Come puoi anche solo pensare di potercela fare? »

« Lui ha un nome » spiegai, cupamente. « È stato abbastanza stupido da dircelo. »

Lui si mordicchiò il labbro inferiore. Si era screpolato di nuovo, e sanguinava. Qualche ciocca bianca gli nascose la fronte, alla luce della luna; le scansò con una mano per togliersele dagli occhi. « … Cinque mesi, linden-bloom. »

« Sei. »

« Quattro. »

« Vivi! »

Indietreggiò, tornando nel buio; il suo viso ben definito, quasi duro e spigoloso, fu oscurato da un’ombra. Vivi era molto più vorace, slanciato e sgraziato di Kuja, che aveva addolcito i propri lineamenti fino a renderli deliziosi a forza di trucco, ciglia lunghe, guance incipriate e labbra di rugiada che non si sarebbe mai permesso di mordere.

« Cinque » ripeté dopo un po’ in un tono che non ammetteva repliche, prima di riavvicinarsi. « Eiko, evocheresti la Morte per me? La chiameresti e la combatteresti? Se fallisci, il prezzo che il mondo pagherà sarà lo stesso del mio metodo. Distruggerebbe tutto, e Gidan è troppo vecchio e rammollito per essere ancora l’eroe di Gaya. »

« Lo farò. » Alzai lo sguardo per incrociare il suo, lasciando cadere le braccia da conserte attorno ai fianchi. « Ma non per te, Vivi. Lo faccio per loro. »

« Tu lo fai per me » – E mi afferrò i polsi; prima che avessi anche solo il tempo di pensare, mi aveva premuto contro il suo corpo. Il cuoio dei suoi vestiti era freddo come la neve, e mi diede i brividi. Le sue labbra erano ancora più fredde mentre mi accarezzavano innumerevoli volte le guance. « E io ti ringrazio. » Allontanò la bocca da me, incollandomi gli occhi addosso. Mi diede un bacio su naso. « Grazie. » E un altro, sul mento. « Grazie. » E poi-

L’interno della sua bocca era molto più caldo delle sue labbra, un vero inferno. Era stato tutto troppo repentino perché potessi ricordarmi di chiudere la mia. Sapeva di sangue e di lingua e di un qualcosa che poteva essere tanto vomito quanto zucchero; le sue mani strinsero tanto forte le mie braccia che le sue dita divennero lividi e la sua bocca una preghiera. Mi spinsi via da lui con veemenza, troppa veemenza, e slittai all’indietro fino ad atterrare sul freddo pavimento di mattonelle. Era come se la gola mi si fosse riempita di aghi; mi rimisi in piedi, e sputai come una bambina piccola.

Nemmeno mamma si era mai drizzata in piedi con una tale freddezza e una tale dignità. « Non ti ho ancora perdonato, né penso che lo farò mai. Quindi non baciarmi mai più, Tango Nero, o m’impadronirò delle tue maledettissime rotule. »

Non lo guardai negli occhi. Mi fiondai in camera mia, serrai la porta a chiave, e mi trascinai nel letto tra i singhiozzi isterici.

Mia madre una volta mi aveva detto che odiare era come essere innamorati. Non ho la più pallida idea di che cosa abbia provato lei.





Note della traduttrice: dove io ho tradotto “non ci andai piano” l’originale è: “I did not go gently.” : D

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Capitolo 10
*** Leaving You Behind ***


capitolo nove
abbandonati



Night holds Hippolytus the pure of stain,
Diana steads him nothing, he must stay;
And Theseus leaves Pirithoüs in the chain
The love of comrades cannot take away.


La notte detiene Ippolito il senza macchia
Diana non gli dà giovamento, è costretto a restare;
E Teseo abbandona Piritoo tra le catene
L’amore tra compagni d’arme non può scioglierle.


- a. e. housman



Feci un sogno.

C’è un campo, con erba verde e lussureggiante e collinette diseguali e piccoli edifici ordinati costruiti tutti nello stesso stile a strati tenue, tenero e sgangherato che caratterizzava le casette dei maghi neri del Villaggio del Maghi Neri. Il vento soffia tra le case e tra i vasi di fiori poggiati sui davanzali delle finestre e accanto alle porte. Qualcuno mi stringe la mano; abbasso gli occhi e vedo un bambino dai capelli scuri che mi sorride. Si alza il sole, e cala la luna e spuntano le stelle nello stesso istante in cui si alza il sole.

All’erba è mischiata la sabbia – un po’ come quella che si trova vicino ai grandi corsi d’acqua – e vago con lo sguardo fino a quando non vedo un lago scintillante, che riflette una luce verde blu e bianca sulle acque danzanti. Da una delle case esce Vivi ridendo; ha un paio di pantaloni semplici col laccio alla vita e una camicia di lino, i capelli legati dietro in una treccia stretta, e il sangue che gli cola da bocca naso e orecchie.

« Non preoccuparti » dice, prima ancora che io apra bocca; prima ancora che possa pensarci. « Finisce sempre presto, linden-bloom. »

« Adesso siamo felici? » chiedo. « Cosa abbiamo fatto? »

Alla mia domanda fa un sorriso raggiante. « Una casa nel deserto. Qualcosa dal nulla. Il nulla era dappertutto. Dovremmo essere fieri di noi. »

È il Gran Lago, il Gran Lago di Alexandria; laggiù è rimasto qualcosa del vecchio porto, al centro c’è un naufragio vecchio antico e marcio. Sotto di me ci sono pezzi di pietra.

« Ma ora c’è solo sangue » dico, perché il sangue ha tinto l’erba di rosso.

« Abbiamo dovuto bruciare gli alberi per fare spazio al pascolo. »

Il bambino si libera della mia mano e sale su un albero. Provo a farlo scendere ma non ne vuole sapere; Vivi si avvicina e mi prende la mano, ma è ridiventato Tango Nero, con i vestiti neri e gli occhi d’oro. Gli tolgo il cappello e provo a tastargli la faccia ma non trovo niente, come con Rain; mi si mozza il fiato, ma poi lui riappare, ricoperto di cicatrici e sangue.

« Non guardare indietro » dice Vivi, e poi mi dà un bacio violento e lungo, e mi bacia fino a quando non mi fanno male le ossa e mi si arricciano le dita dei piedi sull’erba alta. Quando riapro la bocca distruggo un fiore di lavanda, carino e delicato. Sembra tutto sbagliato, e so di aver dimenticato qualcosa; fisso il fiore nella mia mano, ancora bagnato della mia saliva.

« Te l’avevo detto che non dovevi guardare » dice, e poi cala il sole e si alza di nuovo la luna ed esplodono le stelle.


Quando mi svegliai mi venne in mente Branbal, e non sapevo perché. Mi vennero in mente il buio delle condutture, i jenoma dagli occhi vuoti e il fuoco che si accese quando Kuja fece esplodere tutto quello che lo circondava, coriandoli di un rosso vivo di morte che si spargevano su un mondo morente. Poi tornai a dormire, e non sognai più.



Rain mi portò la colazione; me lo misi sulle ginocchia e la mangiammo insieme. Sembrava che non gli desse affatto fastidio essere tenuto in braccio, né il toast tagliato in tanti soldatini, né in generale essere trattato come un bambino piccolo piuttosto che come un piccolo mago nero. Era pimpante come non mai, ma se fosse stato umano so che avrebbe avuto gli occhi rossi e le guance rigate dalle lacrime. Soffriva ancora per Tide; tutti soffrivamo per Tide.

« Come hai dormito? » chiese con la bocca piena di pane e burro.

« Oh, ho dormito bene. » Doveva aver capito che stavo mentendo; i miei capelli somigliavano a un pagliaio viola ingarbugliato, e sotto gli occhi avevo delle occhiaie vistose. I capelli ormai erano troppo lunghi: mi arrivavano fino alle scapole e mi svolazzavano davanti al corno da sciamana, ingombranti e bisognosi di un nastro. « Credo che stanotte abbia piovuto. »

« Forse è stato il Signore. » Mi zuccherò il porridge, passando il dito inguantato lungo il bordo della tazza, che ancora una volta fumava allegramente sulla piccola fiamma azzurra a campanula. Lo ringraziai e la sollevai, mangiando qualche cucchiaiata di avena calda. « Non è ancora la stagione delle piogge. »

Lo solleticai sotto un braccio fino a farlo dimenare tra le risa. « Boh, secondo me ogni giorno è la stagione di Rain. »

« Ei-ko! »

Gli scompigliai talmente tanto il cappello che alla fine cadde; nel tentativo di fare l’indignato se lo schiacciò in testa e si divincolò da me per scendere, leccandosi i guanti striati di burro. Mentre ancora ridacchiavo del suo broncio solenne, inclinai la tazza di porridge e lo bevvi avidamente, tanto da macchiarmi la bocca, il naso e le guance. Adesso mangiavo pure come Tango. Mamma mi avrebbe frustato fino a farmi perdere la vista.

« Oggi cosa vuoi fare? » domandò, raccogliendo il vassoio con tutte le cose della colazione, impilandosele con attenzione sulle braccia e sulle maniche pesanti per non farle cadere.

« Lavorerò un po’ » risposi riluttante, alzandomi in piedi. Indossai i pantaloni larghi che avevo trovato nell’armadio di Kuja – grazie agli Dei, anche se parevano più che altro mutande di lana – e non mi disturbai a cambiare la maglia. Abitando nella casa di un uomo che non si lavava dalla pubertà piena di maghi maschietti, stavo cominciando a trascurare la mia igiene un pochino troppo la mia igiene. Non che fossi stata esattamente pulita quand’ero un’ingegnere (tanto di quel tempo fa: i mesi ormai sono anni), ma tendevo a lavarmi e a indossare vestiti puliti. Mi asciugai la bocca sulla manica. « C’è un posto dove posso andare a lavorare? Una bella stanzona vuota? »

« Scendi giù, usa una delle sale da ballo » suggerì prontamente. « Vado a controllare con i miei fratelli se ce n’è una pulita- »

« Non importa che sia pulita! » gridai alla sua schiena. Troppo tardi: era già saltellato via, scalpitando sulle mattonelle di marmo con gli stivaletti pesanti, diretto da qualche parte ai piani inferiori.

Mi inginocchiai a terra e aprii le ante. Non sapevo perché avevo nascosto la bacchetta; Vivi sapeva della sua esistenza, ma non me l’aveva ancora spezzata in due sulla testa. Non sapevo se si fidasse di me. Non credo, o almeno quasi mai. I fiorellini, lenti e animosi, rilasciavano ancora delle scintille bianche che ricadevano sulla fodera mezza marcia del fondo del cassetto, facendola brillare. Me la infilai nella parte superiore dei pantaloni e richiusi l’armadio. Lasciai gli occhiali.

Beh, avevo fatto colazione, ero vestita. Ora dovevo solo immergermi profondamente nel tessuto della realtà sciamanica ed evocare la Morte stando attenta a non farmi staccare impetuosamente lo scheletro dalla pelle. Tutto in un giorno solo, dalla vostra Eiko Carol-Fabool. Urrà. Evviva.

Fine dei festeggiamenti.

Quando il mondo era più giovane e gli sciamani vivevano tutti insieme, mi raccontava sempre mio nonno, estraevano d’ufficio gli Eidolon da tutti gli sciamani più piccoli; così facendo, questi venivano alienati dal flusso dell’essere, e turbinavano nell’abisso in cui andavano tutte le creature di cui si era a conoscenza. Per ottenere le ali, lo sciamano doveva Chiamare i suoi Eidolon per mettere alla prova il proprio potere. È sempre più facile convincere gli Eidolon nati con te, quelli che hanno condiviso un grembo con te.

Chiamare gli Altri è tutta un’altra storia. E quando non riesci neanche a chiamare i Tuoi, oh beh.

Lavoravo con diagrammi d’ingegneria; lavoravo con cose certe, confortanti, concrete, linee, angoli, equazioni matematiche. Evocare era come macchinare un sogno. Non sapevo da che parte cominciare.

Allora cominciai, in una delle sale da ballo di Kuja (per chi indicevi i tuoi balli, Kuja? Chi invitavi?), sfatta, impolverata, con le tende in broccato che marcivano. Da quelle parti le cose o marcivano o seccavano. Rain era un piccolo figlio del deserto, quasi quanto lo ero stata io, teneva le maniche gonfie legate ai polsi per non far entrare la sabbia; ne stava spazzando via dall’entrata quando era arrivato Sunny a portarmi giù.

« È in condizioni tremendamente buone » illustrò suo fratello, raggiante. Rain amava la pulizia; amava pulire, amava le cose nuove, amava tutto ciò che non stesse morendo o fosse già morto. Volevo tanto mostrargli Lindblum fino a fargli cadere gli occhi per tutto il vapore e lo splendore. « Come la maggior parte della Reggia. Abbiamo perfino riparato la finestra da cui ti sei buttata tu, perché stavano entrando le lucertole. Al Signore non piacciono le lucertole. »

Pensai a Vivi, che giocava con una lucertola in un piccolo pezzo di terra illuminato dal sole; non giocava mai con le mani, guardava soltanto. Odiava quando molestavo le formiche, i ragni o i centopiedi con un ramoscello; gli piaceva osservare quello che facevano. Pensai a Tango, che squarciava una lucertola, ne masticava le interiora e ne beveva le orbite.

Abbiamo sbagliato, Gidan. Avremmo dovuto controllare. Avremmo dovuto trovarlo. Avremmo dovuto, avremmo dovuto, avremmo dovuto. I sensi di colpa si attaccano stancamente alla pelle-

« Rain, ti spiace se chiudo la porta? » Forse, se avessi perso contro un mostro dell’abisso, quello mi avrebbe mangiato e si sarebbe scatenato nella Reggia del Deserto. Volevo che Rain e gli altri fossero al sicuro.

« Non c’è nulla con cui chiuderla, Eiko. » Guardò mestamente le doppie porte. « Non si chiudono bene; la porta destra è umidissima e sporge. »

Merda. « Accidenti. E va bene. » Mi avvicinai a lui, lisciando amorevolmente le pieghe del suo cappello. « Rain, se senti qualcosa – di strano, per esempio io che grido, magari sangue che scorre da sotto le porte e organi che vengono sbattuti contro il muro – tu corri a prendere tuo padre senza guardarti indietro. »

Corri, prendi tuo padre. Era loro padre. Era l’unico padre che avrebbero mai avuto. A pensarci era strano. Lui strinse gli occhi, fece una smorfia; poi, alla fine, annuì. « Sì, Eiko »

« Guarda che dico sul serio. » Gli diedi una pacca sulla spalla. « Vabbè, sparisci. Cosa c’è per pranzo? »

« Torta » rispose allegramente. « una grossa torta rustica di carne. »

L’avrei lasciato alle sue grosse torte rustiche, alla sua pulizia, al lucido, ai suoi fratelli e a suo padre. « Rain, ti voglio bene. »

« Anch’io ti voglio bene, Eiko. » Trotterellò via, attento a non inciampare con i piedoni sulle mattonelle incrinate della sala da ballo. Chiuse le porte dietro di sé, indugiando su quella umida e spingendola tanto da riuscire quantomeno a incastrarla contro l’altra.

Bene.

Basta con la misericordia.

Con ampie falcate arrivai al centro della stanza. Era grande, spaziosa e arieggiata; le tende non coprivano le ampie finestre di vetro per far sì che entrassero i forti raggi di sole. Meravigliosamente adatta al mio scopo. C’era un vento caldo che si insinuava da qualche crepa e mi agitava i vestiti. Il cotone che mi sferzava la pelle era soffice come le nuvole; Kuja aveva molto gusto per i materiali.

« Fenice » dissi ad alta voce, innalzando la bacchetta. « Fenril. Carbuncle. Madein. »

Abbassai la bacchetta al fianco e iniziai a percorrere un cerchio lento e misurato, disperdendo la consacrata polvere di fiore per terra; una sillaba a passo. « Madein. Carbuncle. Fenril. Fenice. »

Sulla mia scia comparve presto pulviscolo brillante; le mie dita si contrassero quando riconobbi le indicazioni, muovendo la testa in ogni grado. Tre e sessanta; due e settanta; novanta; nord, sud, est, ovest. Concentrati, ragazza, concentrati; sei sul campo di battaglia con Garnet. State evocando; le ti fa quel sorrisetto che fa sempre, quello lontano quanto gli altri pianeti, e tu senti il potere che emana come una ventola di energia. È bellissima, è la tua anima sorella; ricordati di quella sensazione, di lei che ti faceva sentire come se la tua magia fosse una supernova arroventata e tu stessi esplodendo più forte che mai. Non hai una pietra pomice al collo; non ti serve. « Fenice. Fenril. Carbuncle. Madein. »

Ritmo e battiti cardiaci. Mi voltai dall’altra parte e continuai a camminare, affrettando il passo. « Madein. Carbuncle, Fenril, Fenice- »

Più in fretta, ora. A voce più alta. « Fenice. Fenril. Carbuncle. Madein! »

Dondolai da ferma, senza neanche più collegare la bacchetta a terra; non ce n’era bisogno. Stava eruttando scintille bianche di luce come un bricco che versa il tè, come una brocca d’acqua. Sfavillava alla luce del deserto, elettrizzata.

« Madein! »

madeinmadrepadreterrafirmameteosismamadeinmaduimaduinmadein

« Carbuncle! »

carbunclecarbunclerubinosmeraldopietralunarecandoredidiamanteardentecarbuncle

« Fenril! »

fenrilragnirfamelupoirasismicaerosionemillenariaventomelodiasottolalunafafnirfenril

« Fenice! »

feniceaugellodivitapiumedangelonuovorespirophoenixfenice

Voce più alta.

« FENICE! »

steiner sta morendo, sta morendo – garnet riesce a malapena a trattenere il respiro; sull’armatura si è formata ruggine di sangue, e non riesce neanche più a ruggire, perciò dagli del fuoco

« FENRIL! »

hai sempre odiato i terremoti; a madain sari ce n’erano di troppi e troppo forti che appianavano la terra e le davano dei denti: ora i denti sono tuoi, nella bocca di un lupo

« CARBUNCLE! »

splendore di rubino; a volte hai paura, quando t’inghiotte il fuoco e sulla pelle hai solo la luce dell’eidolon di cui non ti puoi fidare quando sei stanca e hai freddo e il colpo arriva solo per te. dalla grande bambina di sei anni che eri ti saresti fatta pipì addosso se ti fosse rimasta un po’ d’acqua in corpo

« MADEIN! »

c’è una ragazza dai lunghi capelli verdi che non riesce a vedere a causa dei tremori e delle troppe lacrime; c’è qualcosa di bianco e viola che si muove attorno a lei, e allora ricordi (anche se non l’avevi mai saputo): mogu non è mai stata semplicemente tuo padre

Non venivano.

« MADEIN! »

Avevo attribuito all’assenza degli Eidolon il silenzio del mio cuore; adesso percepivo qualcosa di molto più sinistro, il mutismo di bocche che non volevano aprirsi. Mi riempii di rabbia; crollai in ginocchio, sbattendo la parte inferiore della bacchetta sul pavimento, smuovendo le particelle sottili che mi vorticavano attorno.

« MADEIN! »

Non venivano.

Non ce l’avrei mai fatta; non avrei salvato Gaya. Tango Nero si sarebbe posto sulla cima di una montagna e avrebbe distrutto tutto e tutti mentre rideva, rideva e piangeva, e poi sarebbe venuto Trivia e avrebbe distrutto se stesso. Neanche Vivi poteva far nulla contro la Morte, non da solo, neanche con me al suo fianco. Non ce l’avrei mai fatta.

Non venivano.

E così feci una scenata.

« Dove siete! » urlai, strillai, lasciando perdere la bacchetta e accasciandomi a terra, picchiando il pavimento con le mani e i piedi. Vedevo rosso, rosso, rosso. « Dove siete, figli di puttana, vi sto CHIAMANDO! Dovreste VENIRE! Non ho fatto niente di male, nononono, perciò venite da me, venite da me e subito, vi odio tutti, viodiotutti, nonnofallivenire, venite venite venite- »

Ero soffocata dai singhiozzi, di quelli arrabbiati, riuscivo a stento a parlare e enfatizzavo le parole dando alle mattonelle pugni tali da ferirmi le nocche. Il mio petto palpitava contro il pavimento.

« Io sono vostra, voi siete miei, miei miei miei, arrivate adesso, non capite, ho bisogno di voi, bisogno più che mai, troie, stronzi, stupidi, stupidi- » La mia voce si alzò in un guaito. « Non volevo, non volevo che – perché mi avete abbandonato, voglio mia madre, voglio mio padre, voglio papà – voglio, qui, voglio Madein- »

Eiko.

La voce era imperiosa; rimbombò per la sala da ballo fino a toccare il fioco lampadario di cristallo, che fissai con occhi rossi e stupiti.

Eiko, non verremo.

« Madein? » sussurrai. « Madein – vi prego » Ricominciai a piangere, per la disperazione. Ormai avevo il naso rosso, la faccia gonfia; non esattamente il ritratto della dignità sciamana. « Madein, io ho bisogno di voi. »

Non verremo.

E Carbuncle: Non lo faremo.

Con Fenril: È un abominio.

Poi Fenice: Siamo d’accordo; non verremo, non ti aiuteremo in quest’impresa.

« Ma- » La mia bocca era asciutta; avevo un disperato bisogno di bere. « Ma devo farlo, devo fermarlo. È Vivi; e i maghi neri, loro non hanno mai fatto nulla di male, vogliono solo vivere- »

Lo facciamo perché ti amiamo, Eiko. Era la mia madrepadre. Lascia che ciò che è morto muoia. Proseguire lungo la strada verso cui ti stai incamminando porterà rovina-

Distruzione.
Fenril.

Apocalisse. Carbuncle.

Morte. Fenice.

« Ho già affrontato Trivia. » Digrignai i denti, un brutto vizio. (« Ti verranno i denti rovinati come a una cucitrice » diceva sempre mamma.) « Se la mia vita è perduta, che così sia. Non m’importa più. Non m’importerà mai più. »

Chi chiami Trivia è incatenato, declamò Fenril. La sua voce era un ringhio basso, lacerante, come l’ululato di un tornado. Se lo facessi scioglieresti le catene.

Non è incatenato per nulla
, intervenne Carbuncle. Avevo sempre avuto voglia di allungare una mano e accarezzarlo, di toccare quella piccola meraviglia che risplendeva come un gioiello. Divorerebbe tutto ciò che sia mai esistito, una volta libero dalle catene. Non fidarti del mago; non può farcela, e non puoi farcela neanche tu.

Non vogliamo vederti divorata, Eiko.
Ancora Madein. Eiko. Eiko. Non lo vedi il pericolo? Se fossi Bahamut o Ashura ti direi la stessa cosa.

« Non potete resistere per sempre » mormorai. « Lo so che siete lì. »

Ci costringeresti? Fenice. Ci dilanieresti? Siamo i tuoi fratelli e sorelle in schiavitù; la porta del mondo degli spiriti non ti si aprirà senza di noi.

« Voi non capite! » Qua e là mi veniva qualche altro sporadico attacco. « Tango – Vivi – lui morirà, non capite, e così Rain, e Sunny e tutti gli altri – si Fermeranno proprio come Tide. Non posso lasciare che ne muoiano altri. Non posso. Devo tentare; vi prego, vi prego, devo tentare. Oh, Dei, devo tentare o non riuscirò più a vivere la mia vita. »

In questo sentiero dimora la follia, Eiko.

« Madein, sono già mezza pazza, diamine. »

Lo ama. Era Carbuncle, accusatorio. Lo Ama; non vedete, è pazza di lui. L’ha detto lei stessa.

Chi mai potrebbe amare quello?
Fenril. Non lo ama. È terrorizzata, turbata, facilmente manovrabile. Lei ama i bambini, non ama lui.

« Preferirei che la piantaste di parlare di me come se io non ci fossi! »

Tacquero immediatamente.

La voce di Madein. Più gentile. Avvertiva la mia spossatezza, la mia disperazione. Che cosa vuoi, Eiko?

« Sai una cosa? » sbottai meccanicamente. « Mi piacerebbe fare un bagno caldo senza sentire le grida degli antoleon, o gli antoleon che si accoppiano, o quello che diamine fanno quando urlano. Mi piacerebbe sentire il suono di un’aereonave. Mi piacerebbe riavere il mio letto. Voglio mia madre e mio padre e Gidan e Garnet ed Elia e tutti gli altri. È questo che voglio. »

Ci fu un silenzio, come se stessero bisbigliando.

Questo, Eiko, lo esaudiremmo volentieri. Vorresti tornare a casa?

Volevo tornare a casa?

Volevo lasciare i maghi neri e il loro piccolo, solitario cimitero a un padre che li uccideva a mani nude? Senza neanche la minuscola protezione che potevo offrire loro? Abbandonarli a Tango Nero, impazzito e inferocito dal dolore e dalla solitudine, un bambino che una volta avevo amato con tutta me stessa e per cui avevo combattuto e perso sangue? Volevo davvero abbandonare tutto ciò?

« Sì » risposi.

E poi arrivò Fenice, che si impennò sulle zampe posteriori, inondando la camera di una luce abbacinante e di calore sbattendo le ali maestose. Scompigliò la polvere che mi attorniava; infilai ancora una volta la bacchetta nei pantaloni e tra qualche scivolone mi arrampicai disperatamente su di lui fino a raggiungere sana e salva la sua schiena. Fenice se ne infischiava delle porte: mandammo in pezzi il soffitto, e coprimmo centinaia di metri in pochi secondi.

L’ultima cosa che vidi, mentre mi aggrappavo il più possibile alle piume del mio Eidolon, fu un piccolo, logoro spaventapasseri con le ali ripiegate dietro la schiena, che ci guardava dall’alto di una delle torri della Reggia del Deserto. Poi Fenice spiccò il volo veloce come il vento e mi portò ad Alexandria.

Casa. Lontano da lì. Ero libera.

E l’unica cosa a cui riuscissi a pensare era: ho lasciato lì gli occhiali.





NdT: Alexandria! Finalmente rivedremo un paio di vecchie conoscenze… : D
La poesia che Guardian ha scelto per questo capitolo è in realtà la traduzione inglese di Housman di un’ode di Orazio. Ero mezzo tentata di usare una traduzione dal latino, mediamente reperibile, ma alla fine ho tradotto personalmente dall’inglese. Mandando a benedire le rime, ma tant’è xD

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Capitolo 11
*** You Can’t Go Home Again ***


NdT: hm, un chiarimento. In realtà nei precedenti capitoli Eiko aveva fatto qualche tentativo di comunicare con gli Eidolon, ma era troppo fuori esercizio per riuscirci. Prima che andasse in Trance (che in un certo senso l’ha “sbloccata”) riusciva a stento a fare delle magie di primo livello, un’evocazione era fuori dalla sua portata.
La questione degli spiriti verrà comunque approfondita nei prossimi capitoli, questo è poco ma sicuro. Buona lettura :D

NdA: Questo capitolo è dedicato a Gabi, a Tobu Ishi e a Aishiteru per aver trasformato le cosette che scrivo in alcune delle più spettacolari fanart (poi ve le mostrerò ndt) su cui abbia mai posato gli occhi. Grazie per le bustarelle, per il calore, e per l’infinito sostegno.





capitolo dieci
non puoi tornare a casa



Seven years, three lands.
Stone loaves, iron shoes, and mountains of glass.
Three transformations, three gifts, three nights.
For one mistake, one second of doubt.
The equation hardly adds up.
The punishing denominator outweighs the offending numerator.
This was not an eye for an eye.
It was a limb for a finger.


Sette anni, tre terre.
Pani di pietra, scarpe di ferro, e montagne di vetro.
Tre trasformazioni, tre doni, tre notti.
Per un errore, un secondo di dubbio.
L’equazione fatica ad avere senso.
Il denominatore castigatore supera il numeratore oltraggioso.
Non è stato occhio per occhio.
È stato un agnello per un dito.


- a.m. cousins



Non riesco mai a ricordare con precisione quello che accadde subito dopo.

A quanto pare le fiamme mi hanno lambito (leggasi “ustionato”) i piedi e Fenice mi ha fatto cadere tutta moscia sul tetto del Castello di Alexandria. Io deliro; sono troppo stanca per capire, non so dove mi trovo, non so chi sono. Ho volato per ore, le lacrime si sono asciugate prima che potessi versarle.

A quanto pare stanno chiamando a gran voce la Regina dal momento in cui sono precipitata; non riescono neanche a toccarmi, le guardie di vedetta, la mia pelle è così calda che apre delle vesciche nei loro guanti di cuoio mentre mi rotolo agonizzante sulle mattonelle fredde. L’unica a toccarmi è Garnet, e la brucio, e le lascio della cenere sulla candida vestaglia da sera color avorio mentre cerco freneticamente le sue guance con le mani ancora fumanti.

E riesco soltanto a mormorare, e Garnet dopo mi avrebbe detto che erano state le mie parole a gelarla più di tutto il resto:

Sta arrivando, sta arrivando, sta arrivando. Io non posso fermarlo.



Era piuttosto presto quando mi svegliai con un sobbalzo, prima che si alzasse il sole, allo svanire degli effetti dell’erba sonnina. Credo che fosse stata colpa del letto: lenzuola soffici e cuscini che profumavano di acqua di lavanda e lavaggi costanti, il materasso alto e morbido, i polpastrelli sporchi di grigio che insudiciavano il copriletto di seta ricamato.

Pulito, dolce. Non importava che la testa mi pulsasse e che la gola mi sembrasse roccia vulcanica. Mi misi a sguazzarci dentro.

« Zia Eiko? »

Mi sedetti e mi strofinai con un polso gli occhi assonnati e gonfi, fissando l’apparizione al centro della stanza illuminata dalle candele. Era la mia pseudo-nipode che mi guardava intensamente, la spada corta stretta prudentemente in una mano, la camicia da notte di pizzo blu stipata in un paio di pantaloncini. Rinfoderò la spada nella cintura alla sua vita con un brivido d’acciaio, assumendo una posizione di riposo all’erta che avevo spesso visto fare a Beatrix.

« Sono la Guardia Permanente della Principessa » mi annunciò Cornelia Til Alexandros, solenne come un gufetto. « Ti proteggo dallo Strangolatore di Lindblum. Quando verrà qui farò così- » Estrasse la spada, fluida, descrivendo un arco con la lama sibilante. I lunghi capelli scuri erano ancora sistemati in treccine per la notte, la coda si dimenò sotto di lei pregustando l’azione quando agguantò la spada con entrambe le mani. Dietro di lei, le ombre danzavano. « E poi lo farò a pezzettini da qui, dalla pancia alla gola, e poi potremo fare colazione. » Avendo finito di sbudellare il suo nemico invisibile sul tappeto, rimise la spada al suo posto, voltandosi verso di me. « Oh, zia Eiko, perché piangi? Non sei felice di essere a casa? »

All’improvviso mi ritrovai la Principessina tra le braccia e le spinsi la faccia sulla spalla, sentendo la moquette pesante sotto le dita dei piedi quando tolsi le gambe dal letto. Per un attimo i nostri corni cozzarono tra loro, il suo era così piccolo e smussato, e le toccai le braccia e le gambe lunghe da bambina di otto anni per accertarmi che fosse realmente reale.

« Pensavo che non ti avrei più rivisto » bisbigliai, la voce bassa e roca. « Pensavo che fossi morta. Mi dispiace tanto, Elia. Mi dispiace tanto. Pensavo che ti avesse uccisa, anche se mi aveva detto di no, ma – oh, Cornelia."

« Non mi ha ucciso » assicurò, coraggiosa, leale, talmente simile a suo padre nei vezzi che mi venne voglia di ridere dietro lo spesso velo di lacrime. « Una notte è venuto in camera mia, e io ho gridato e gridato e io stavo per ucciderlo con la spada ma lui mi artigliava. Poi Steiner è entrato nella stanza e quello mi ha lasciato andare, e ha lanciato un Fire a Steiner e ci sono ancora delle grosse bruciature per tutta camera mia, e poi è saltato fuori dalla finestra e se n’è volato via. E tutto » concluse indignata, « per fregarsi la mia collana! »

E allora risi, la gola un crepitare secco. Non voleva la tua collana. « Te la riprenderemo, Elia. »

« Abbiamo riavuto te » disse, i grandi occhi azzurri sinceri. « Non è il regalo migliore che potessimo ricevere? »

« Non sono tornata neanche da cinque minuti e già mi corteggi per le caramelle. Ti si carieranno i denti prima dei nove anni. »

« Zia Ei-ko! » Si allontanò, il fodero che oscillava. « E comunque ho già nove anni. »

Mi alzai, cercando disperatamente una vestaglia; i miei abiti erano tutti sbrindellati. Cornelia me ne porse servizievolmente una appesa allo schienale di una sedia, aiutandomi a metterla perché le mie braccia erano intorpidite e lente. Maledetta erba sonnina. Era come se avessi la testa piena di grasso. Quanto tempo era passato? « Mi sono persa il tuo compleanno. »

« Sì. » Me la legò alla vita, le dita rapide e ordinate come non mai. « Ma, indovina un po’, è venuto zio Amarant e mi ha dato- »

Mi ricordai del mio nono compleanno, con Amarant. « Un po’ di antigelo, una pozione e un servizio da tè giocattolo? »

« Quasi » rispose con praticità, con l’aria di qualcuno che era cresciuto con i regali di “zio” Amarant. « Due pozioni, un pacco di strisce di liquirizia, e una specie di bomba incredibile che madre mi ha confiscato. Ma padre dice che possiamo andare a detonarla al lago quando il tempo sarà più fresco. »

Ero a casa. Venni colta di colpo da una certa sensazione di familiarità, nel bel mezzo di una delle suite di Alexandria, con quell’odore conosciuto di lucido e con il vento che soffiava dal lago. L’odore delle candele in cera vergine con un pizzico di limone, fragrante, era molto diverso dai candelotti affusolati e segosi fatti con petali di rosa che evidentemente Kuja aveva preferito. Mi sommerse una potente onda di profondo, sgradito rimpianto.

« Elia, non dovresti essere a letto? »

« Madre e padre mi hanno permesso di sorvegliarti. » Sembrava smoderatamente compiaciuta dalla cosa. « Mentre loro prendevano disposizioni eccetera – come per esempio dire alla prozia Hilda e al prozio Cid che sei qui, e adesso stanno venendo, e madre era pure tentata di chiamare Freija e gli altri – non so perché visto che ci siamo io, Beatrix e Steiner, e quando lo Strangolatore sarà qui – poh, slash, me la vedo io! »

« E cos’è che avresti dovuto fare quando la zia Eiko si svegliava? »

La voce dolorosamente familiare che proveniva dal corridoio mortificò la bambina; mi tremolavano le ginocchia al pensiero di quanto mi fosse diventata estranea. « Scusa, papà. »

Non riuscii a trattenermi. Corsi da lui. Mi avvinghiai a Gidan Tribal – Gidan Til Alexandros, il principe consorte Gidan, Gidan l’uccisore della morte, l’eroe Gidan – e piansi per la terza volta in una sola notte. Ormai avevo acquisito dimestichezza con le lacrime, e tremai e singhiozzai istericamente contro il suo petto mentre lui mi abbracciava come se avessi ancora sei anni. Cornelia rimase immobile accanto alla porta mentre lui mi cullava, calmo e forte; le braccia strette attorno a me erano una promessa intrinseca di protezione.

« Shhhhh » mormorò. « Oh – mi caverai un occhio con quel coso se continui a muovere così tanto la testa. Sono qui, Eiko. Ora non preoccuparti. Con noi sei al sicuro. È finita. È durata anche troppo per te. »

« Merda. No, no, non – non permettermi di piangere – non posso permettermelo, Gidan. Lui sta arrivando. »

« Dove ti hanno nascosto gli stronzi, Eiko? » Mi afferrò per le spalle, guardandomi in faccia; i capelli d’oro gli ricaddero come piume sulla fronte. « Ti avevamo quasi data per morta prima che quello stronzo cercasse di far fuori Elia, e abbiamo perlustrato di nuovo mezzo mondo, l’abbiamo messo sottosopra- »

« Eravamo nel deserto, ma non importa- »

« Chi è? » Gli occhi azzurri ardevano. « Steiner ha detto che era un Valzer Nero, vero come non mai- »

« Gidan. » Fermai lui e il nostro discorso balbettante, tentando di mettere a fuoco la situazione. « Come stanno i miei genitori? Sono… » Sono vivi, Gidan?

Si intenerì. « Cid e Hilda? Sono vivi e vegeti. » Grazie agli Dei. Grazie a te, Madein. Grazie per aver esaudito le mie preghiere. « Certo, Cid si è rotto un braccio quando Lindblum è stata attaccata, ma per il resto sta bene. Però… »

Mi preparai al peggio. Un braccio rotto. « Voglio sapere tutto. »

Gidan si morse il labbro, poi tornò a scrutarmi, facendo scivolare una mano callosa nella mia. Non si era chiaramente cambiato per andare a dormire, né aveva fatto in tempo a riposare; sembrava stanco, tormentato e d’improvviso – vecchio. Ricordai le parole di Vivi, e punsero. Gidan è troppo vecchio e rammollito per essere ancora l’eroe di Gaya. « Oltania – Oltania è morto nell’attacco. Abbiamo perso troppe brave persone quel giorno. Mi dispiace. »

Fissai senza batter ciglio il vuoto sopra la sua spalla. Appesantito dal dolore di entrambi, lui mi accarezzò la schiena e si alzò in piedi, mettendosi a camminare avanti e indietro in un’azione familiare mentre la sua coda si agitava come quella di un gatto. « Lo uccideremo, Eiko » mi garantì, grave, in quel tono freddo e aspro che gli avevo sentito usare di rado. Ricordai improvvisamente i gelidi tunnel sotterranei di Branbal. « Gliela faremo pagare per tutto quello che ha fatto. »

Ce l’avevo sulla punta della lingua: È Vivi, Gidan, perché non lo vedi? Perché io non lo vedevo? Come abbiamo fatto a non capirlo? Ma mi morì sulle labbra. Aprii la bocca e la richiusi.

« Sta arrivando » La mia voce era alta e strana nel silenzio della notte. « Stava arrivando già sei ore fa. »

« Mer – Meringa. » L’epiteto si modificò a metà strada quando l’occhio esausto gli cadde sulla figlia. « Maledizione. Bisogna dirlo a Garnet. Ti senti abbastanza bene da venire con me? Ha richiamato tutta la cavalleria, gli uomini e i cavalli migliori, e ho sentito che addirittura Quina sta affilando tutte le forchette delle cucine e ha chiesto se questo tipo è saporito. Stiamo discutendo della strategia in una delle stanze di Garnet e ora come ora potresti veramente esserci utile. In quanti verranno? »

Quasi scoppiai a ridere, dimenando la testa avanti e indietro, un sorriso infelice in viso che aveva un che di orgoglio e un che di dolore. « È sempre e soltanto lui, Gidan. Nessun altro. »

Questa volta toccò a lui rimanere a bocca aperta, prima di richiuderla come un pesce. « Maledizione » sibilò lentamente. « Tu resta seduta qui, okay? Cornelia, tu va’ a letto- »

« Papà! »

« -ripensandoci rimani ferma qui anche tu, zucchero. » Corse stancamente verso il corridoio, ma fece dietrofront quasi all’istante.

« Eiko? »

« Sì? »

Sorrise, tenero. Per lui sarei sempre stata una bambina; e io ero lieta di essere quella bambina. Gidan mi avrebbe voluto bene per sempre. « Sono contento che tu sia tornata. »

Poi se ne andò, abbaiando ordini alle guardie mentre la sua voce spariva tra i corridoi di pietra. « Raddoppiate il numero delle guardie qua fuori! Metteteci la Squadra Plutò, va bene? E qualcuno mi vada a chiamare Beatrix! »

Mi risedetti sul letto. Volevo un bagno caldo, un pasto caldo, volevo tornare a dormire e risvegliarmi al mattino, quando sarebbe finito tutto per incanto. Il ciambellano Oltania. Vivi aveva ucciso Olty.

Cornelia si sedette accanto a me, muovendo le mani in grembo come farfalle prima di stringersi alla sicurezza rappresentata dall’elaborata fodera nera al suo fianco. C’era silenzio; io con la mente ero da tutt’altra parte.

« Come si chiama? »

Lei mi riportò su Gaya, e sbattei le palpebre. « Chi? »

« L’uomo. Che mi ha strangolato. » Non incontrava i miei occhi. « Ha detto che ero… la bambina più bella che avesse mai visto. Mi è sembrato un po’… triste. Poi però ha cominciato a strangolarmi. Io dico che è pazzo. »

« Si chiama Tango Nero. »

Lei ci pensò per un po’. « È un nome stupido. »

Questa volta, sorrisi. « Lo sa anche lui, tesorino mio. Lo sa anche lui. »



Cinque mesi, due settimane e tre giorni. Mi aveva rubato quasi mezzo anno della mia vita. Le settimane si erano allungate in mesi. Mezzo anno. Non c’era da stupirsi se mi avevano spacciata per morta.

Metà anno. A me erano sembrate tre settimane; tre mesi al massimo. Addirittura mezzo anno.

Ed era tutto passato in poche ore. Erano le quattro del mattino; corsi a farmi un bagno caldo e per venti minuti mi concessi di fingere di essere tornata alla Reggia del Deserto con i vestiti asciutti che Rain mi aveva pazientemente piegato sul marmo freddo. Gli asciugamani lanuginosi e vaporosi ruppero l’incantesimo. Mi vestii senza prestare particolare attenzione al mio aspetto.

La mia bacchetta di fiori era sul tavolo, dove me l’aveva lasciata qualche anima pia. Emetteva delicatamente piccoli sbuffi di polvere scintillante e s’impregnava allegramente dell’aria umida di Alexandria. L’acciuffai e me la misi nella sottoveste senza farmi vedere da nessuno prima di prendere Cornelia per un braccio e salire barcollante le scale fresche che conducevano alle stanze di Garnet.

Ogni soldato mi salutò mentre passavo; strano, perché quella notte ero quanto di meno eroico ci fosse al mondo.

O quella mattina. Il sole si stava levando quando entrai finalmente nella stanza prescelta per la discussione; mi sedetti vicino a Garnet, che mi tenne la mano, che era quasi troppo bella da guardare. Cercai disperatamente di protrarre ciò che seguì: il tenero, delizioso bentornato della Regina, tutti che si rifiutavano di lasciare il mio fianco, la protezione, il calore, l’affetto.

Lì dentro c’erano solo Garnet, Gidan, Beatrix e una manciata di soldati, oltre all’ostinata Cornelia che lottava con il sonno nella sedia dura accanto a me. Sembrava che tutti si stessero preparando a una guerra senza esclusione di colpi; diedi un colpetto nervoso al porridge che qualcuno mi aveva portato per colazione. Quello di Rain è più caldo.

« Bene, Principessa. » Ero di nuovo la principessa Eiko; Beatrix sedeva di fronte a me, anche se sembrava che avrebbe preferito stare in piedi. « Sua madre e suo padre sono stati trattenuti a terra. »

Il mio battito accelerò, il porridge si tramutò istantaneamente in cenere nella mia bocca. Non avevo ancora digerito la morte di Oltania; non riuscivo a digerire nulla. Ogni cosa era una parata di volti preoccupati, di piccole gioie di breve durata. Il mio ritorno a casa era stato un sollievo per tutti – non ero morta, era un bel primo passo – ma per tornare a casa avevo lasciato una pista per il lupo. « Cosa? Perché? Stanno bene? »

« Delle sentinelle hanno intravisto qualcosa che volava vicino alla nave » spiegò senza mezzi termini. « Non vogliono rischiare la vita del Granduca; sono atterrati e per un po’ hanno decido di procedere a piedi. Stanno bene. Al contrario di lei. Dobbiamo sapere tutto su quest’uomo, adesso. »

Quante persone erano morte a Lindblum? Doveva essere stato una specie di massacro. Certo che era stata una specie di massacro; ero stata una stupida a credere che così non fosse. Non per la prima volta, mi venne un magone al pensiero dei morti che gravavano sulle spalle di Tango. Vivi. Tango.

« È proprio necessario? » La voce di Garnet, fievole e vellutata. « Eiko si è appena accasciata davanti a casa nostra e già la sottoponiamo a, a – a un interrogatorio. »

« Va bene » mi intromisi prima che Gidan potesse aprire la bocca per fomentare una crisi matrimoniale. « Sto… sto bene. Dopo avrò tutto il tempo per riposare. »

Beatrix annuì, approvando il mio parere. Era ancora fredda come il ghiaccio, nobile e impeccabilmente bella. I femminili capelli castani che una volta le ricadevano sulle spalle in onde lucenti erano ora legati in una treccia severa attaccata alla nuca, e aveva solo un po’ di bianco prematuro attorno alle tempie. La benda che aveva sull’occhio le aderiva così tanto alla testa che pensai che avrebbe potuto spezzarsi a ogni mutamento di espressione. « È un mago nero? »

Evidentemente. « Sì. »

« Un Valzer Nero, Eiko » mi venne in soccorso Gidan, e per poco non risi: era ovvio che lo sapevo. « Vero? »

« Sì. » Non riuscendo a tollerare le risposte monosillabiche, mi schiarii la gola. « Credo. Lui… lui è senziente, Gidan, non è un mostro. Lui… » Mi portai il caffè alla bocca, annusando il bluman macinato prima di deglutire una lunga sorsata. « Lui parla. Sa quello che fa. Lui… » È il maghetto che tanti anni fa ha dormito vicino a me, stupidi, siamo tutti degli stupidi. Passavo ore a guardarlo saltare la corda mentre delle bambine contavano, i piedi grandi straordinariamente agili e capaci di seguire il ritmo. È questo il nostro assassino. « Lui ha un piano » fu la mia conclusione zoppicante.

La mano di Garnet iniziò improvvisamente a serrarsi sulla mia, così forte che sicuramente le si erano sbiancate le nocche. « Quale piano, Eiko? Quale piano? »

« Ha dei piccoli maghi neri » borbottai nella mia tazza, sentendomi pericolosamente prossima alle lacrime. « Vuole spazzare via tutte le altre razze per poter avere una casa per loro. »

« Non può. » La voce armoniosa e limpida di Beatrix fu momentaneamente inquinata dalla confusione. « Non può essere tanto potente. »

Scommettiamo? « Invece . »

« È capace di teletrasportarsi, no? » Gidan appoggiò le mani sul tavolo, cercando disperatamente qualcosa con gli occhi azzurri mentre mi osservava mangiare tranquillamente il porridge. « Allora perché ci sta mettendo così tanto? »

« Mi sta cercando. Non sa dove sono. »

« Perché vuole lei, Principessa? » Ancora Beatrix, interrogativa. « Proprio non capisco. Cos’ha da offrirgli? »

Certi giorni me lo chiedo anch’io, Beatrix.

I deboli raggi del sole del primo mattino filtrarono dalla finestra di fronte al tavolo; fissai le lastre di vetro, sorseggiando il caffè, la voce fiacca. « Non lo so. »

Ci fu un lungo silenzio. Gidan si sedette sul tavolo, senza subire le recriminazioni di sua moglie, di Beatrix o mie, e si fissò le mani. Aveva un’aria spaventosa e torturata. « Piccoli maghi neri » mormorò. « Veri maghi neri? »

« Sono bellissimi. » La mia voce s’incrinò.

Garnet mi stava guardando, riuscivo a vederla con la coda dell’occhio. Mi tremò la mano che impugnava il caffè. Vi ci seppellii la bocca; avrei fatto qualsiasi cosa per farmi forza di fronte all’espressione del suo viso. Riusciva a vedermi dentro come se fossi trasparente quanto la finestra, ed ero sorpresa che non riuscisse a leggermi la verità scritta in faccia con inchiostro nero.

Come hai potuto, Vivi? Come hai potuto? Dei, Oltania, Olty, tutta quella gete, oh, Lindblum. Te lo meriti di morire qui, vieni nella trappola per topi, fatti spezzare il collo o – non morire, ti prego, non ancora. Non ancora. Ti prego. Non abbiamo ancora raggiunto il nostro scopo.

« Cos’è che non ci stai dicendo, Eiko? » La sua voce gentile era più letale di quella di tutti gli altri. Riuscivo a sentire la flebile marcia delle guardie fuori dal castello. Qualcuno urlava; Steiner li stava organizzando in file. « Cosa c’è che non va? »

E allora feci cadere la tazza. Finì sul tavolo, e sparse le ultime gocce sul legno laccato. Mi alzai e lo strofinai con un fazzoletto, la faccia rosso fuoco mentre asciugavo e biascicavo una scusa. Nessuno vi badò; gli occhi di Gidan e Beatrix erano fissi su di me come bottoni, inesorabili.

« Voi non capite » scoppiai all’improvviso, facendo sobbalzare la Regina e fissando tristemente il cibo senza vederlo davvero. « Voi non, voi non – oh, merda, abbiamo fatto delle grandi cazzate, noi ci siamo scavati la fossa e adesso noi dobbiamo starci. È colpa nostra, capite, è tutta colpa nostra! »

« Di cosa parli? » Garnet si alzò e mi afferrò per le spalle, incredibilmente forte. Il suo volto di porcellana era teso e tirato, più grigio che color panna, e ai miei occhi non era che una macchia indistinta mentre agitavo senza posa la testa. Quando provai a respingerla Gidan mi strinse le braccia da dietro, bloccandomi, mentre Cornelia si svegliava dal suo sonno.

« Eiko, torna in te » sibilò. Le loro parole mi arrivavano come se stessimo sott’acqua, ovattate, pesanti e poco chiare, mi si sballottavano in testa come pezzi di metallo dimenticati. « Eiko, va tutto be- Daga, non credi che sia sotto l’effetto di un incantesimo, vero? »

« Se c’è non riesco a percepirlo – Eiko, ti prego- »

Il clangore di campane mi risvegliò dal mio torpore mentale, e le mani di Garnet e Gidan s’immobilizzarono. Dopo un latrato di Beatrix, i soldati sull’attenti uscirono in tutta fretta dalla stanza, sbattendo le porte dietro di loro.

Fu solo allora che reagii, odiandomi per essermi comportata come una sedicenne. Ero un’ingegnere. Non avrei mai saputo cosa dire con la bocca.

« Di certo non è stata Freija » sbottò Gidan. Un’esplosione improvvisa scosse le tazze sul tavolo; mi si ghiacciò il sangue, e mi divincolai da loro per premere la guancia contro le pietre fredde del muro.

Sapevo che non sarebbe potuta durare.

Non so se volevo che durasse.


Strilli, ora, e grida. Cornelia era completamente sveglia, aveva la spada in mano, e si era immediatamente attaccata alla madre. Suo padre la guardò terrorizzato. « Beatrix, porta Cornelia e Garnet in un posto sicuro » ordinò subito.

« Te lo scordi » ribatté Garnet. « Beatrix, porta Cornelia in un posto sicuro. »

« Con tutto il dovuto rispetto, maestà, credo che la cosa più sicura sia rimanere qui » ribatté lei freddamente. Sguainò la meravigliosa spada a due mani, la Save the Queen, e tolse la tovaglia dal tavolo con un gran frastuono. « Credo inoltre che forse sarebbe saggio barricarsi. »

« Come se barricarci lo fermerebbe » Estrassi la bacchetta dalla camicia con un gesto esagerato. « Farà a pezzi il castello e ora come ora sta ammazzando zelantemente tutte le vostre guardie! »

Riuscii quasi a scorgere sul viso di Beatrix il pensiero a Steiner che le attraversò la mente; serrò le labbra, decisa, con una determinazione di ferro. Suo marito era lì fuori con – con Vivi, santi numi, Vivi, Vivi non avrebbe ucciso Steiner, no – con un assassino, con un distruttore di città, e lei giocava a fare la guardia del corpo.

« Se ha qualsiasi suggerimento riguardo ai suoi punti deboli, la prego di fornirceli adesso » rispose, glaciale.

Gidan aveva aperto l’armadietto vicino al muro; prese due daghe e se le assicurò alla cintura prima di lanciare un’asta a Garnet. Lei la acciuffò abilmente, come una professionista.

« Non potete. » La mia voce toccò una nota isterica. « Non potete. Vi ucciderà. Per favore, Gidan, lui vuole ucciderti! »

« Allora può mettersi in fila, no? » Esaminò le daghe. « Maledizione, ma perché ho donato l’Orichalcon a quel museo? Garnet, tesoro, fai nascondere Cornelia sotto il tavolo. »

« Io non mi nascondo sotto il tavolo! »

« Gidan- »

Si voltò rapidamente a guardarmi, sovrappensiero. « Non sei più la stessa, Eiko. Sei tornata diversa, e diamine, non ti biasimo, e non so cos’è successo, ma non abbiamo tempo e non ti abbandoneremo un’altra volta. »

Una delle porte andò in frantumi; Gidan saltò sul tavolo con le daghe pronte prima ancora che io potessi incespicare all’indietro. Una grossa mano verde armata di artiglio rimosse le macerie, consentendo così l’accesso a una graziosa guerriera di Burmesia vestita di rosso che si tolse l’elmetto, seguita dal suo enorme partner dai capelli rossi.

« Mille sentitissime scuse per il ritardo » esordì Freija Crescent sardonicamente, e le mie mani tremarono sulla bacchetta. Adesso siamo più forti di te, Vivi? « Amarant ha voluto fermarsi a mangiare. »

« Ah ah, che spiritosa. » Guardò quel che era rimasto della porta. « Gidan, tu sai che qualcuno sta massacrando le tue guardie come delle cazzo di mosche, sì? Cosa diamine ci fate qui? Ehi- » Il suo volto si schiarì e concentrò gli occhi su di me, ergendosi al massimo della sua poderosa altezza. « Marmocchia. Allora era vero che non avevi tirato le cuoia. »

« Amarant, puoi dirle dopo quanto ti è mancata. » Gli occhi di Garnet si erano posati su di me, imploranti. Fa’ che ci sia un dopo, Eiko, dicevano. Per favore, fa’ che ci sia un dopo. « Come diamine avete fatto ad arrivare qui così in fretta? »

Lui si limitò a grugnire; Freija sogghignò e raggiunse il tavolo, e lui la imitò. Era fresca come una rosa, e le mani che reggevano il Baffo di Drago erano pronte a uccidere. « Per fortuna ci trovavamo nella stessa area quando ci è arrivato il messaggio, e abbiamo camminato per ore – non è stata la scampagnata più appassionante del mondo, ma pazienza, a ripensarci poi è stato divertente. Ammazziamo questo bastardello parvenu e vi racconto i dettagli. »

Avevo notato il modo in cui si stavano muovendo: Cornelia era al mio fianco e tutti gli altri mi stavano circondando, mi si premevano addosso quasi in una formazione. Si voltarono verso i corridoi. Ora c’erano ancora più grida. « Perché io al centro? »

« Perché vuole arrivare a te, Eiko » replicò Gidan in tono asciutto; era saltato giù dal tavolo e mi ci aveva praticamente spinto contro. « Perché, piccola mia, è te che vuole. »

Ero la vittima anti-sacrificale. Sentivo il tavolo sul fianco.

« Gidan, da dove arriverà? » La voce di Freija poteva quasi paragonarsi a quella di Beatrix per sbrigatività.

« La porta destra. » Fece un cenno con la testa. « È più vicina al pozzo delle scale. »

« Siete tutti dei gran coglioni però, eh » bofonchiò Amarant, lanciando un’occhiata furtiva dietro di sé, spalla a spalla con la draghiera, mentre Cornelia strabuzzava gli occhi, deliziata per le mancate censure. Io mi ero già girata dall’altra parte, con entrambe le mani avvinghiate alla bacchetta come a massimizzare il suo potere. Lo sapevo; lui sapeva che io sapevo.

Garnet, ancora con la vestaglia. « Perché mai? »

« Perché quello stronzo vola! »

La luce dell’alba sgorgò dalla finestra assieme a Tango Nero mentre il vetro esplodeva in mille frammenti dorati. Mia nipote gridò.

Di cose spaventose ne ho viste. Ho visto Trivia. Ho visto Kuja, ho visto Kuja al culmine della sua maestosità, dell’ira e della gloria mentre portava alla rovina totale un pianeta intero. Ho combattuto mostri orrendi. Una volta ho visto un poveraccio finire risucchiato nel motore di un’aeronave e uscirne come un bell’arazzo di carne, ossa e interiora. È da quando avevo sei anni che vago nel cuore buio della terra.

Tutto ciò impallidiva di fronte a un mago nero, un mago nero adulto in Trance che si elevava dall’altra parte del tavolo con ogni piuma delle ali spiegate che sfavillava in technicolor. Non ne aveva solo un paio: sei ali lo incorniciavano di piume, e guardarlo quasi feriva gli occhi. Vivi praticamente scoppiettava e schioccava di rabbia e potenza, puzzava di sangue, fiamme e cuoio nero, gli abiti che si muovevano delicatamente al vento creato dalla sua magia.

Le sottili mezzelune dei suoi occhi non erano d’oro. Erano rosse.

Mi arrampicai sul tavolo prima che qualcuno potesse fermarmi, fronteggiandolo. La corrente d’aria scompigliò il cotone sottile del mio vestito, e il calore che emanava era quasi soffocante. Avevo la mani sudate, e riuscii soltanto a fissarlo, stupidamente.

« Vieni da me adesso, linden-bloom. » Il suo tono era dolce, persuasivo, come se nella stanza ci fossimo soltanto noi due. « Vieni da me adesso e non morirà nessun altro. »

« Hai ucciso Olty. » Ritrovai la sicurezza, arricciando le dita dei piedi sul tavolo. « Hai ucciso Oltania. »

« E allora? Ho ucciso migliaia di persone, Carol. Un’anima tra tante altre mi rende più ripugnante ai tuoi occhi? »

« Adesso basta. » Gidan, che era salito sul tavolo in mezzo a noi due, assunse tranquillamente una posizione difensiva con le daghe strette tra le mani affusolate. « Hai quasi ucciso mia figlia, figlio di puttana, a Lindblum hai ucciso diecimila persone, e ucciderai Eiko se continui con que- »

Il mago nero tese la mano; stavolta fu Garnet a gridare quando Gidan venne colpito due volte da un lampo accecante che gli contorse il corpo in uno spasmo d’agonia. Magia Nera Bis, la specialità di Vivi, sissignore, che ora stava arrostendo i bulbi oculari di Gidan nel suo teschio mentre lui crollava in un cumulo fumante sul tavolo.

« Troppo teatrale, Tribal » sibilò Tango; i suoi occhi non nascondevano più la sua terribile fame. « Erano anni che volevo farlo. »

Freija saltò. Vivi preparò le mani; io mi buttai sul tavolo e mi ci agganciai mentre tutti venivano sbalzati con forza contro il muro. Amarant acchiappò Cornelia prima che precipitasse nella porta aperta, avvicinandosela in una morsa dolorosa prima di cadere anche lui a terra.

« Non muoverti. » La sua voce era come seta. « Non mi piace quando ti muovi. »

Strappò le daghe dalle mani in preda alle convulsioni di Gidan e le gettò dalla finestra. Fritto e strozzato, il Principe Consorte di Alexandria si alzò ancora una volta in piedi, traballando un po’ prima di indietreggiare da Tango Nero per tornare in posizione. Il mago alato questa volta non si disturbò a usare gli incantesimi: gli diede una botta sulla bocca con il ramo magico, facendogli roteare la testa all’indietro.

Lui sputò una manciata di sangue che cascò come pioggia ai piedi del mago. « Ma chi sei! »

« Io chi sono? » gridò di rimando Tango. Un’altra sferzata col ramo; Gidan la bloccò, scacciandola con tutta l’energia che riuscì a radunare. « Io chi sono, Tribal, io chi sono, ecco la domanda che mi faccio, quando sono da solo la notte mi faccio: “Io chi sono? Forse Gidan lo sa – forse Gidan sa chi sono!” Qual è il senso, Gidan? Qual è il senso della mia esistenza? Ma poi esisto? Io non esisto per te, Gidan! »

« Ma chi diamine sei? » domandò lui, in tono basso, la coda che frustava l’aria. Era molto arrabbiato. « Io non ti ho mai visto! »

« Tu mi hai abbandonato! » strillò Vivi, la voce che si incrinava come vetro, così acuta che pensai che le mie orecchie sarebbero scoppiate. Si tolse il cappello; i capelli che si riversarono attorno alla sua testa come un alone erano rossi come i suoi occhi, rossi come il sangue, rossi come l’odio, rossi come il fuoco. Trance. « Tu mi hai lasciato a morire e mi hai cavato il cuore e mi hai lasciato a morire, mi hai lasciato a morire, loro sono mortimortimorti a causa tua morti tutti sempre tu sei imperfetto, imperfetto, imperfetto, esigo un nuovo angelo della morte- »

Non fu colpa di Gidan se cadde in ginocchio. Non fu colpa di Gidan se afferrò il bordo del soprabito di Vivi e lo guardò, dando voce al primo pensiero che era venuto anche a me; lo disse con un dolore talmente straziante che il mio cuore si ruppe, e poi si ruppe ancora, e ancora, e ancora. « Fratello- »

Conoscevo le reazioni di Vivi meglio di Gidan. Sollevai le mani un po’ più velocemente del mio mago impazzito, sibilai gli incantesimi prima che le sue dita potessero espellere la morte. Il fuoco divorò Gidan solo un secondo dopo che la mia magia lo aveva avvolto. Reflex; Protect; Shell. Solo un secondo, ma fu sufficiente.

Gidan ne uscì illeso. Vivi gli piantò il ramo nel fianco, scaraventandolo giù dal tavolo. Guardava solo me.

« Tu sai cos’ha fatto » sibilò, come un gatto furioso. « Tu sai cos’ha fatto, tu sai cos’ha toccato, gli taglierò il cazzo e gli strapperò il cuore a morsi e lo farò mangiare ai miei figli, come un uccellino, lo ridurrò a brandelli così saprai cos’è veramente uno spaventapasseri- »

« Vivi » dissi, a denti digrignati. « Vivi no. No. È finita. Sono morti e non è colpa di Gidan, maledizione, Bibi e gli altri sono morti e non è colpa di nessuno! Non puoi riportarli in vita uccidendo lui! Non puoi riportarli in vita! »

Il suo lamento fu animalesco, e tramutò tutte le mie ossa in ambra pietrificata. La mia Trance affiorò dalla paura come un pesce dall’acqua, affiorò dalla sua agonia che ero costretta a guardare. Recitai subito un Reflex e sollevai le mani spiegando le ali prima di venire cinta da una colonna di ghiaccio.

Le schegge del Blizzaga si sciolsero e formarono una pozzanghera attorno ai miei piedi quando me ne liberai; corsi verso di lui che brillavamo tutti e due come stelle e me lo trascinai fuori dalla finestra, dove sprofondammo assieme nell’aria e ci allontanammo in volo dalla sala. Adesso gli altri non potevano aiutarmi.

Esplodevo continuamente. Sentivo il triplice bacio del fuoco, del ghiaccio e del tuono che mi colavano di dosso come una nevicata di polvere. Le mie ali bianchissime sbattevano lentamente, e non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso. Stavamo piangendo, come bambini stanchi. Sul suo viso segnato dalle cicatrici erano comparsi dei raffinati ghirigori, come un qualche tatuaggio demoniaco e tribale che si stagliava aspramente sul candore della sua pelle. I suoi capelli sembravano tentacoli ardenti, come una specie di medusa. Non era mai stato un duello.

« Morti! » Firaga.

« Mortimortimorti, tutto morto- » Thundaga.

« -morti ovunque, tutto intorno- » Blizzaga.

« Perché non posso morire, Eiko? Fammi morire, fammi morire, fammi morire. Io esisto solo per uccidere. Io esisto solo per uccidere. Io esisto solo per uccidere- »

Vidi le sue mani alzate, vidi la sfera lucente di morte che si stava formando in mezzo a loro. Apocalisse. A quella potenza, con la sua forza, con quella velocità e quella sofferenza, avrebbe potuto smembrare il grosso pezzo di Alexandria che si trovava sotto di noi. Aprii la bocca, pronta a scatenare Sancta dalla mano, dalla bacchetta, dal mio corpo-

Un ruggito assordante ci fermò entrambi, e pensai che l’ombra che ci ammantò di colpo fosse la fine. Ma l’incantesimo di Vivi era svanito.

In piedi sul balcone c’era Garnet, la vestaglia mossa dal vento; il Re dei Draghi, Bahamut, torreggiava sul Castello di Alexandria così enorme da non poter essere racchiuso con lo sguardo. Ruggì ancora, scuotendo le fondamenta della città, scuotendo me fino alle ossa.

Vivi mi afferrò immediatamente; ci dimenavamo in aria, e quando provai a sbattere le ali contro di lui mi immobilizzò portandomi il ramo al collo. Scalciavo, impotente.

« Vivi! »

Era la voce di Garnet, angosciata, forte, chiara e disperata. « Vivi, basta! Ti prego! Vivi! »

Atterrammo in una spirale nella piazza mortalmente svuotata di Alexandria, la città a mezzaluna. La sua Trance si era spenta come una lampadina, e così la mia; quando ci schiantammo insieme sui ciottoli, i capelli che mi caddero sopra le spalle erano bianchi.

« Sono morti » singhiozzò nella mia spalla. Sentii il ramo rimbalzare per terra; mi avvolse le braccia attorno alla vita, aggrappandosi a me con tutto se stesso, cercando disperatamente un’àncora. « Sono morti morti m-morti, Eiko, non sono riuscito a impedirlo, non ci sono mai riuscito e non ci riuscirò mai! »

« No » lo calmai, avvilita. « Ce la farai. Ce la farai, te lo giuro. Te lo prometto. Ce la farai. »

Affondò i denti sulla mia spalla, più per alleviare il proprio dolore che per causarne a me. Io sibilai, artigliandomi alle sue mani.

« Rain si Fermerà tra un paio di mesi » bisbigliò sul morso. Ogni pezzo del mio corpo si sciolse, la mia anima gridò al solo pensiero. « Il tuo prezioso Rain, il tuo prezioso Sunny. La stessa sfornata, mio piccolo linden-bloom, lo stesso rallentare e cadere giù. Pioggia rossa. Il sole se ne va; muore, finisce, perisce. I miei piccoli, i miei dolcetti freschi andati a male. » Un altro guaito, penetrante e addolorato.

Io mi voltai a fatica tra le sue braccia, afferrandogli la faccia segnata. Conficcai le unghie, lasciandogli delle piccole mezzelune bianche nella carne. « Dovranno prima passare sul mio cadavere, Vivi Orunitia! »

« Forse è così che andrà a finire. Forse, forse. » Appoggiò la fronte alla mia; ormai era un giocattolo rotto. « Noi esistiamo solo per uccidere. Perché ho tanto bisogno di te, Eiko Carol? Perché sono venuto a prenderti? Quando ho mai avuto tanto bisogno di te? Tu e i tuoi capelli e il modo in cui la spina dorsale ti s’incastra nella schiena, linden-bloom, la mia buffa Eiko, la mia olmaria e la mia ginestra, il mio sangue, la mia bile e le mie ossa- »

« Torno con te. » Io ho bisogno di te da quando avevo sei anni, Vivi. « Torno a casa, e finiremo quello che abbiamo iniziato. »

Mi legai al mio destino, in quella quasi-mattina e su quei ciottoli freddi, a quel destino cui sapevo di essere stata incatenata molto prima. Credo che i miei Eidolon abbiano pianto quando lui mi baciò.



Il Portale di ritorno fu rapido; lui viaggiava su terreni familiari, non doveva più cercare. non doveva più rintracciare il mio marchio magico per le colline oscure di Toleno, Lindblum e Burmesia. La notte calò di nuovo, perché nel deserto era ancora notte, perché mi portò in una stanza dove le finestre erano mezze sprangate da assi e velate da tende spesse, e sarebbe stata notte anche se fosse stato giorno.

A giudicare dalla sua bocca, sembrava che bevesse ancora il sangue raggrumato delle cose morte. I soprabiti e le maglie nere finirono sul pavimento con un fruscio, come la pelle sgusciata di un bruco. Cinture, ben tre, annodate come viti attorno al mio vestito aperto sul collo. Quando gli toccai la pelle mi colpì sulla bocca, il labbro andò a sbattere contro i denti e si gonfiò di sangue; io gli diedi un pugno e lo graffiai come un animale, gli graffiai i pantaloni e la pelle macchiata ovunque da cicatrici. Era butterato e scalfito come una vecchia roccia che il mare non ha mai sfiorato. Se l’era procurate quasi tutte da solo. In quella stanza c’era un pugnale che non avrei mai trovato e che aveva letto il suo corpo un’infinità di volte.

Bocca sulla bocca; i primi baci che avessimo mai visto erano di Garnet e Gidan, e li avevamo dimenticati molto tempo prima. La sua bocca era gentile dove le sue mani erano violente e staccavano il cotone dal pizzo nella frenetica ricerca della mia pelle. Poi la sua bocca dimenticò la gentilezza e l’appresero le sue mani, e io lo tastai con le mie. Strappai una manciata di piume, e poi una manciata di capelli, e poi una manciata di peli da una coda che aveva tenuto nascosta per talmente tanto tempo che non avevo saputo neanche della sua esistenza.

Poi ricordo le lacrime che gocciolavano sulla mia pancia come fuoco. Nessuna parola, solo rumori spezzati: lui parlava con le mani, e le sue mani erano pazze quanto lui. La coperta puzzava di muffa e sudore e i cuscini erano andati da tempo, ma il materasso di piume era soffice e doppio. Non sapevamo quello che stavamo facendo; non volevamo sapere quello che stavamo facendo, come se avessimo ancora sei e nove anni e stessimo infrangendo un innominabile tabù. Tutto al buio; riuscivo a stento a vedermi la mano davanti alla faccia. La sua schiena aveva muscoli vecchi e duri per via delle ali, e c’erano dei tagli profondi nel punto in cui aveva provato a tagliarsele con una daga. Le sue labbra sfiorarono il corno, sfiorarono la clavicola, sfiorarono la cicatrice sulla spalla che mi ero fatta con il meccanismo di un motore quando avevo quindici anni e oh Madein il capezzolo e l’ombelico e la coscia e le nocche in un soffocante silenzio riempito solo dai respiri e la stanza era un baratro.

E poi le mie gambe sottili e brutte erano strette ai suoi fianchi sottili e brutti, e rimasi troppo esausta anche solo per muovere la bocca. Aveva ancora la mano sulla curva di un seno, la bocca sepolta nell’incavo tra la mia spalla e il collo, e le sue ali coprivano entrambi. Vivi e io. Io e Vivi. Magabianca, Magonero. Non c’era bianco in quella stanza.

Le sue prime e ultime parole furono l’unica cosa che sentii prima di soccombere al nulla.

« E ti incorono mio angelo della morte, linden-bloom. »

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Capitolo 12
*** Straining Towards Apocalypse ***


capitolo undici
il sentiero aspro che porta all’apocalisse



The stars go waltzing out in blue and red,
And arbitrary blackness gallops in:
I shut my eyes and all the world drops dead.

I dreamed that you bewitched me into bed
And sung me moon-struck, kissed me quite insane.
(I think I made you up inside my head.)

God topples from the sky, hell’s fires fade:
Exit seraphim and Satan’s men:
I shut my eyes and all the world drops dead.

I fancied you’d return the way you said,
But I grow old and I forget your name.
(I think I made you up inside my head.)


Le stelle danzano un valzer in blu e rosso,
E entra galoppando il nero arbitrario:
Chiudo gli occhi e casca il mondo.

Ho sognato che tu mi stregavi a letto
E cantavi per me come un matto, baciandomi come un pazzo.
(Credo di averti averti inventato nella mia testa.)

Dio torreggia dal cielo, le fiamme dell’inferno si attenuano:
Escono serafino e gli uomini di Satana:
Chiudo gli occhi e casca il mondo.

M’illudevo che saresti tornato come avevi detto,
Ma sono invecchiata e ho scordato il tuo nome.
(Credo di averti inventato nella mia testa.)


- sylvia plath



Le ombre di due piccole figure vengono proiettate dal fuoco modesto e fumoso di un accampamento. Hanno le pance piene di pane, carne, e formaggio, e dormicchiano fingendosi di vedetta. Garnet, che si è arresa alle loro preghiere e ha concesso loro di stare di guardia come i membri più grandi del gruppo, è seduta poco lontano per non farsi entrare il fuoco negli occhi e rammenda una canottiera. (Riesce a tenersi sveglia semplicemente per il fatto che rammendare uno strappo è completamente diverso da un ricamo, e le sue dita arrossate raccolgono e perdono continuamente i nodi dalla tela ruvida. Domattina Gidan la prenderà e le sue dita svelte danzeranno con l’ago fino a rendere invisibile lo squarcio.)

La prima viene svegliata di soprassalto dalla sensazione del cappello del piccolo mago nero che le cade sui capelli, piegato dalla gravità, e dopo un sobbalzo è attenta e ansiosa di dimostrare che non si era veramente appisolata. « È un drago? »

Anche Vivi trasalisce da sogni al profumo di cenere, socchiudendo gli occhi in preda al panico per vedere il dragone che si rivela in realtà un gufo in cerca di uno spuntino. « … È-è un uccello, Eiko. »

« … Avrebbe potuto essere un drago. Non stavi guardando bene! »

« M-ma ha le p-piume! »

« Qualche drago potrebbe avere le piume » annuncia lei nel tono compassionevole del colto rivolto all’ignorante.

« Non sarebbe b-bello » dice lui dopo un po’. « P-poi assomiglierebbero a uccelli, e non a d-draghi. »

« Potrebbero nascondersi negli stormi di uccelli » ribatte Eiko, pensosa. « Hmmm, gnam. »

« Eiko! »

Mogu si dimena nella tasca davanti della salopette di Eiko, un fagotto caldo di pelo con un pompon e due squisite alucce in miniatura rannicchiato contro la sua pancia. « Potete dormire se volete » propone generosamente. « Sto io di guardia. »

È stata una lunga giornata. Vivi si accascia indecorosamente sul suo grembo mettendo la testa vicino a Mogu, abbastanza vicino da sentire il piccolo motore del suo battito. Eiko abbassa lo sguardo. Lui le sorride, dolce e assonnato, gli occhi d’oro piccole mezzelune stanche. Vivi le dà tutto, le ha sempre dato tutto, non c’è nulla che non si toglierebbe per offrirlo a lei con le manine tonde coperte di cuoio. « Buonanotte. Ti amo » aggiunge in modo un po’ troppo zelante.

Vivi ama tutti, ma Eiko si guarda attorno con le guance rosse per controllare che nessuno abbia sentito. C’è solo Garnet che scuce i nodi; i capelli le nascondono il sorrisetto generato dalle parole del mago. « Anch’io ti amo » borbotta la maghetta bianca, la faccia accaldata. « Fondamentalmente. Più o meno. Sì. Dormi. »

Lui sta già dormendo.




Non chiedetemi perché.

Mi svegliai che era già mattina – pomeriggio – il sole era alto e non riuscivo a rimettere insieme i pezzi – con un enorme, sterile vuoto dentro di me, ampio quanto l’oscurità alla fine di ogni cosa e quanto un golfo aperto di nulla mentre cercavo disperatamente di sentire qualche emozione. Ci provai per dieci minuti: provai a disprezzarlo – privai ad amarlo – e poi chiusi gli occhi, spossata ancora una volta da quel silenzio.

Esistono parole specifiche per le ragazze che diventano volontariamente amanti dei propri rapitori, e non sono gentili. Le usai tutte contro di me fino a esaurire similitudini, metafore e lingue straniere, e mi addormentai e risvegliai ascoltando il suo respiro e il suo cuore irregolare.

Oh-

Chiamatela violenta. Chiamatela arrabbiata. Chiamatela morbosa, chiamatela perversa, chiamate quella cosa come volete – ma chiamatela volontaria, perché era questo che era. Era quasi un sollievo, in un certo senso, smettere di combattere le onde furiose e farsi finalmente risucchiare per riposare sul fondo fresco dell’oceano. Ero caduta senza volare, ma non c’era più ragione di sbattere invano le ali per contrastare il tutto.

Meglio congelare che bruciare, Eiko.

« Madre, sei tornata » disse Rain, e fine della storia.

Madre. Sì. Ero madre. Sporcata da vostro padre, dolci ragazzi, sì, incoronata vostra regina nel letto matrimoniale più violento, marcio e caldo possibile. Quando feci la mia apparizione nella sala grande a tarda mattinata si radunarono attorno a me, ancora delicati, contusi e con i piedi maldestri, dondolandosi sui miei piedi e sull’abito di cotone sfrangiato e molto poco regale.

Al mio risveglio completo e definitivo, lui aveva acceso le candele. Niente colazione a letto, niente rose, però mi aveva portato la luce. Al tremolante bagliore arancione, gli avevo afferrato la sibilante coda pelosa; quel sottile ragazzo-spaventapasseri dai capelli bianchi aveva gracchiato come un uccello, poi era scoppiato a ridere, e poi ci eravamo messi tutti e due a ridere e a ridere e a ridere come adolescenti ubriachi, rituffandoci nel profondo buio caldo e stantio, tra le coperte ammuffite che odoravano di piume. Eravamo due corpi l’uno sull’altro, piume sulla pelle e sul corno da sciamana, che si facevano il solletico e si aggrovigliavano – la risata di Vivi era stata calda e dolce e vivace e si era fermata bruscamente alla vista delle mie lacrime stanche, nate dalle risate e un po’ dal fatto che ero caduta senza lottare. Allora si era ritratto – silenzioso, freddo, l’uomo e non più il ragazzo – e se n’era andato.

Le candele si erano spente con lui.

« Ti abbiamo cercata tanto tanto tanto » intervenne Sunny, ansioso, traboccante di entusiasmo e sollievo. Nessuno di loro si era Fermato, scoprii, o morto per la rabbia feroce in cui era sprofondato Tango, o morto per avermi cercato inutilmente nelle cantine dove si celava ancora qualche creatura. Shiny era stato buttato contro il muro dal padre e si era fatto male a un braccio, che però era già stato fasciato ed era guarito in fretta. Tutte le nostre ferite e i nostri dolori vennero rinchiusi in un piccolo cofanetto: ci avremmo pensato dopo. Non siamo morti, bambini; possiamo guarire. « Non volevamo perderti, madre, ci dispiace- »

« È tornata. »

Vivi, dalle travi. Scivolò giù come un corvo con una corona, senza nebbia nera, recuperando il proprio posto accanto a me nel mare di cappelli a punta. Mi cinse la vita con un braccio e spiegò le ali, un pavone che dominava il branco. « Adesso è la Signora. »

I maghi neri pestarono i piedi quando lui mi sollevò il mento e mi baciò. Se le mie labbra si mossero sulle sue, era perché tremavano.

Bastardo del cazzo, fai tanto il gallo del pollaio-

« Tornate alle vostre mansioni » ordinò, perentorio, l’affettuoso imperatore. Kuja in persona non avrebbe saputo raddrizzarsi con tanta dignità e tanto prestigio. « Io e vostra madre dobbiamo lavorare. Saremo nella biblioteca. Figlio » Indicò Rain. « Assistimi. Voialtri, non disturbateci. »

I maghi neri mormorarono il proprio assenso. Tutti mi toccarono la gonna prima di andarsene; si sentiva il fruscio tenue del cuoio che sfiorava il cotone.

« Dobbiamo lavorare. » Il bisbiglio al mio orecchio non proveniva dal re impertinente del reame, ma dal cantilenante Tango Nero. « Adesso vieni, amore mio. Guarderai le mie equazioni per abbattere la Morte, e insieme ce la faremo. Adesso sei mia, Principessa, mia mia mia. »

Distolsi lo sguardo, sentendomi impotente, e sentirmi impotente mi dava rabbia. C’era qualcosa di simile all’odio che ribolliva tra di noi, come se lui fosse la miccia e io la pietra focaia, con le scintille che ricadevano a terra come pioggia lenta. « Hai un ego veramente spropositato, Vivi. »

« Io sono più grande » ribatté, con un tono strano da battibecco infantile. « Ho il diritto di dire le cose come stanno. Adesso baciami in maniera decente, Carol, fino a romperti le labbra. »

E lo baciai. La sua bocca era arrendevole, morbida e compiacente come quella di una ragazzina, e gli graffiai intenzionalmente la fronte col corno mettendoci la stessa forza e lo stesso dolore che imprimevo nel bacio. Io sono tua quanto tu sei mio, Tango. Quando si allontanò, il mio amore di un tempo si limitò a sorridere.

« Forza » borbottai, troppo consapevole degli occhi di Rain mentre cominciavo a zoppicarmene via. I suoi baci erano come un’onta pubblica, come se venissi spogliata e poi carbonizzata. Non era un corteggiamento. « Non abbiamo il tempo per queste sciocchezze. »

Avevo fatto solo un paio di passi claudicanti quando lui mi raccolse tra le braccia, neanche fossi un’invalida. Mi portò fino alla biblioteca in quella culla mentre Rain ci seguiva a passi felpati.

Non c’era nulla di più fragoroso del silenzio di condanna dei miei Eidolon. Gli Dei stessi mi avevano voltato le spalle.

Non so perché lo feci. Non chiedetemi perché.



Aveva la calligrafia a zampe di gallina. E ci aveva riempito libri e libri e libri per calcolare la rinascita del Dio della Morte, piccoli schemi macchiati con la penna di una delle sue ali che aveva immerso nel bell’inchiostro blu violaceo che doveva essere piaciuto a Kuja.

Io, un’ingegnere, una matematica, riuscivo a capirne solo metà. Non sapevo se la cosa si dovesse a un genio eccezionale, a una follia eccezionale, o al fatto che la calligrafia di Vivi fosse peggio di quella di un trick sparrow con gli artigli imbrattati di fango.

« Ho calcolato la Morte » dichiarò, entusiasta. Ci trovavamo in una delle vecchie biblioteche di Kuja; aveva fatto una raccolta di libri, migliaia di libri, i leggeri che ricadevano pesanti sui vecchi tomi polverosi. La scrivania a cui eravamo seduti era sormontata da una pila di volumi altissima. Erano grossi in una maniera opprimente. « L’ho misurata, linden-blum, fino al quadrante più alto, compresa la prospettiva, ho fatto la triangolazione, ho rilevato le tracciature. Tera era più piccola di Gaya. La distruzione è stata minore. Non c’è bisogno di toccare il nucleo- »

Le gradazioni di Vivi erano cariche di morte e distruzione. « Ma quanto? »

(Mi mostrò una mappa del mondo. Era quasi completamente punteggiata d’inchiostro.)

Non è solo vita, spiegò, tanto elettrizato che il cappello gli traballava sulla testa mentre pigiava le dita ossute ammantate di cuoio sulla pergamena spiegazzata. Beh, è vita. (Non capisci, Carol?) Tutto il mondo è composto di vita. I fiumi ci scorrono attraverso, e Trivia si nutre della morte di quella vita. Tu bruci in sacrificio questo, questo, questo – (bruci il mondo stesso, linden-bloom, lo ferisci, lo offri che ti palpita ancora tra le mani) – e poi questo e lui arriva-

Nella mia mente vedevo Vivi tra le fiamme che tutto vestito di nero conficcava una spada insanguinata dentro Gaya. Il pianeta si torceva e gridava, e poi viticci verdi lo afferravano per le caviglie e per i polsi e lo trascinavano giugiù-

Faceva troppo caldo. Mi asciugai la fronte, sfiorando il corno da sciamana. « Ed è per questo che non possiamo usare questo metodo, Vivi. Non possiamo distruggere così tanto. Non possiamo. È una di quelle strategie in cui fai terra bruciata e non ti rimane niente. Dove andremo quando tutto sarà morto? »

Strimpellò le dita sul legno mentre ponderava i suoi calcoli, le piume rizzate. All’improvviso mi sentii in lutto per l’intellettuale che avrebbe potuto essere; un giovanotto dai capelli bianchi con la balbuzie che girava per le università di Lindblum, tragicamente brillante e sepolto nei libri. Avremmo potuto frequentare l’università di mio padre insieme, io e Vivi, e quel pensiero particolare mi avrebbe demoralizzato per l’eternità. « Magia » mugugnò, « magia e matematica. L’evocazione potrebbe squarciare il mondo, piccola Carol. »

« Se ci troviamo davanti a un “potrebbe” e a un “sicuramente,” io provo a fidarmi del “potrebbe,” non credi? »

« Allora questa cosa facciamola insieme. » Sembrava compiaciuto, come se avesse fatto del suo meglio per arrivare a quella risposta, e affogai l’impulso di piantargli un pugno nel faccino soddisfatto. Vivi si alzò, e i cenciosi resti del soprabito gli lambirono le caviglie mentre raggiungeva uno scaffale impolverato. Sfiorò i dorsi con una di quelle dita di cuoio, quasi li accarezzò, e tutte le falangi dei miei piedi si accartocciarono tra loro in una strana reazione.

« Ho tanti libri » confidò. Ma dai. « Libri, libri, libri. C’erano delle figure. Li avevo visti- » Ne estrasse uno e lo soppesò. « Qui dentro ci sono i tuoi Eidolon, linden-bloom. Qui dentro ci sono i tuoi mostruosi genitori. »

Il tomo incredibilmente pesante atterrò di fronte a me con un tonfo scricchiolante, aprendosi. Vidi un disegno accurato – grande al massimo quanto i miei due indici messi uno dietro l’altro – di un volatile con le ali spalancate; l’inchiostro dei colori si era sbiadito in tonalità polverose di viola, ocra e zafferano, la scrittura era spigolosa, arcaica e difficile da leggere. Palliadoer, decifrai.

« Scrivi le tue lettere, Carol. » Una delle sue dita strisciò sul mio collo, rallentando per esitazione o in una promessa; a me non importava il motivo. « Prega che rispondano. »

Brontolai qualcosa che conteneva un notevole abuso della parola stronzo. La sedia raschiò il marmo quando mi tirai in piedi per andarmene, la testa imperiosamente alta, mentre Rain gironzolava tra le mie gonne inesistenti. « Studierò le mie possibilità da sola. »

Non mi chiamò quando uscii dalla biblioteca col libro pesante stretto al petto cosparso di lividi: stava già coccolando le sue preziose equazioni, tanto che non richiamò neppure Rain. Eravamo nella nebbia, intrecciati a vicenda, e avevamo i pugni chiusi per il dolore, per l’odio e per far violenza, ma perdevamo costantemente l’equilibrio a ogni passo e cambiavamo idea, inconcludenti, tornando a cercare l’altro o l’oblio.

La luna di miele era finita. Buffo, non era mai cominciata.



« Il nome di questo fa ridere » annunciò Rain, che stava pazientemente ricopiando tutti i nomi che gli dicevo dal mio anfratto del lucente pavimento della sala da ballo su cui ero sdraiata. Avevo messo un cuscinetto mezzo rotto sotto i fianchi; uno di loro stava cominciando a farmi male in una maniera terribile, come se si fosse slogato, ed ero riluttante a curarmi e bloccare in quella posizione un muscolo potenzialmente storto. Soltanto l’acqua riusciva a toccarmi le labbra aride senza farmi venire voglia di vomitare; sul latte soffocavo.

« Cosa c’è, tesoro? »

« Quet – zacoat – non riesco a dirlo. Sembra un uccello liscio senza piume e occhi. Ei governa la folgore – Lo segno? »

« No. » La mia bacchetta giaceva in una pozzanghera di sole e si abbeverava alla luce. « Tutti questi maledetti re dei tuoni, e basta! Piccolo mio, leggimi quanti Eidolon dominano il sacro secondo quel libro – il sacro lo chiamano anche goccia di diamante, o perla… »

Lui si schiarì la gola, la stessa pausa gracchiante del padre. « Alexander, Ayerith, Ragyniork, Etain, Unicorn… Hm- »

« Continua a cercare. » Aveva iniziato a venirmi mal di testa. La luce mi feriva gli occhi al punto che se mettevo gli occhiali stavo male, e senza di loro riuscivo a vedere soltanto una faccia indistinta con gli occhi viola e mani che mi facevano male ai capelli a furia di tirarli.

Ero esausta; terrorizzata da quello che avevo intenzione di fare, terrorizzata da quello che avevo fatto. Se avessi camminato con incedere solenne nel mondo tenebroso e nebuloso degli spiriti, distaccandomi con la mente dalle luci dei miei Eidolon, e avessi attraversato il velo d’ombra che copriva il tunnel che portava al nulla, avrei potuto ripiombare nella realtà con la testa risistemata su entrambi i gomiti e la carne e la pelle sparse su ogni centimetro della sala da ballo. Ero un’ingegnere; dovevo quantificare, sezionare quello che facevo in numeri e passi. Addentrati, tendi le mani, congiungile, chiama il loro nome e poi aspetta l’equazione… « Quell’orribile capitolo su Odino e Gilgablabla non aprirlo neanche, mi frigge il cervello. »

« Oh, madre » disse Rain, preoccupato. « Posso portarti un po’ di te? Ti fa molto male? Dovremmo smettere? Ti dà fastidio se ti chiamo “madre?” »

« No, Rain » risposi lentamente. « Non mi dà fastidio. » Dovrebbe, dovrebbe, dovrebbe. Sono troppo coinvolta. « Starò bene. Continua a leggere, pulcino. »

« Evocherai davvero tutti questi Eidolon? »

Chiusi gli occhi. Di nuovo il dolore ai fianchi. Era tutta la mattina che chiamavo i miei Eidolon come un’anima in pena: Fenril, Fenril, per favore, esci fuori. Madein, parlami. Parlatemi! Vi prego! Vi prego! Oh, Dio, mi sento tanto sola, non ce la faccio, vi supplico, oh mamma dio merda cazzo mamma mamma mamma me ne sono andata senza averti visto, dovevo, scusami. Sono una ragazzaccia, una ragazza orribile, lui ha alzato le coperte e mi ha toccato qui e dentro e- « Magari. No, griderò i loro nomi. Un po’ come se stessi in un lungo corridoio pieno di porte e mi mettessi a strillare per convincerli ad aprirle. »

« Non si arrabbiano? »

« Sì. » Un brivido involontario mi corse lungo la schiena. Solo gli sconsiderati, i coraggiosi o gli stupidi avrebbero potuto riuscire nell’impresa. Non potevo avere paura. Di stupidità ne avevo da vendere. « Ma – ma quando riuscirò a farmi aprire le porte degli Eidolon molto, molto vecchi, la mia mente potrà accedere ad un posto speciale. Devo avere fortuna. Devono accordarmi il passaggio. Verrò trascinata in profondità, oltre le porte, oltre i buchi, oltre ogni cosa, e alla fine potrò vedere le parole degli alberi, dei fiori, degli insetti, delle persone, delle cellule, delle cose vive e poi delle cose morte… »

« Come fai a tornare? »

Non lo so.

« Forse un po’ di tè mi farebbe piacere, tesoro » replicai con decisione, cambiando argomento e spostando il cuscino. « Per favore? Mi fa male la testa. »

E saettò via come un’ape desiderosa di compiacermi. Adesso che ero “madre” Rain mi pedinava ansioso come un cucciolo; tutti i bisogni e i desideri che potessi avere dovevano essere soddisfatti prima ancora che io sapessi di averne bisogno o di volerli. Ero indecisa se trovarlo adorabile o mettermi a piangere nel vecchio cuscinetto di damasco sotto di me.

Le prossime settimane sarebbero state un’agonia. Ero come una ballerina nelle ali di una qualche sala, che si apprestava a fare una danza di cui in realtà non conosceva i passi, e tutti gli occhi erano puntati su di lei. Potevo soltanto tendere le orecchie per accostarmi alla musica e sperare che i passi che creavo sul momento le si addicessero abbastanza da non spezzare il ritmo; spezzare il ritmo ed esibirmi in una danza fuori luogo avrebbe significato la morte. Danzare nel modo corretto avrebbe significato l’apocalisse.

Quando avevo combattuto Trivia ero una bambina piccolissima abbastanza presuntuosa da essere una vecchia zitella, e quando avevo affrontato la morte e la fine di ogni cosa avevo incanalato tutti i miei sogni e le mie speranze su Gidan. La mia paura era tale che avrebbe potuto scivolarmi giù per le gambe. Era tutto blu, e il punto d’appoggio dei nostri piedi era effimero come l’aria quando fronteggiammo la Morte urlante e disincarnata, talmente gonfia di una specie di magia che i capelli mi si arricciarono. Ricordo le mani; ricordo Amarant che mi gettava in aria quando il calore mi affondava, ricordo Gidan che sputava sangue.

La mia mente aveva gentilmente avvolto il ricordo in una tovaglia di lino bianco e l’aveva sepolto sotto le ossa del mio cranio per permettermi di svegliarmi al mattino senza gridare fino a diventare roca al pensiero di quell’immagine che mi tormentava.

Vi prego, non lasciatemi sola adesso. Qualcuno mi tenga per mano. Fallire non significa semplicemente la mia morte; fallire significa Vivi sulla cima del monte Gulgu che sparge semi di fuoco con le mani e fa esplodere i cieli, e significa terra che cigola in agonia e ogni voce del mondo che chiede pietà mentre lui offre Gaya su un piatto d’argento all’Ultimo Nulla. Immagina Rain, Sunny e Shiny accalcati sotto un letto mentre ascoltano le grida, mentre sentono gli antoleon friggere nelle loro fosse – ce la farai, ce la farai, che qualcuno ti tenga la mano o no.

Una mano rivestita di guanto toccò la mia; quando sbarrai gli occhi, risvegliandomi con un sobbalzo dalla mia fantasticheria, Vivi era inginocchiato vicino a me con una tazza colma di un liquido fragrante che odorava di pesca.

« Ti ho portato il tè, linden-bloom. »

Mi misi a sedere e i fili inutili del mio vestito squarciato si aprirono sui fianchi piatti e maschili e scoprirono le spalle morse mentre i capelli viola troppo lunghi si ingarbugliavano ai bottoni sulla schiena. Non mi presi la briga di rendermi presentabile. Lui chinò la testa in modo quasi implorante fino a sfiorarmi le braccia con quella lunga zazzera bianca; presi la tazza con entrambe le mani e la bevvi in lunghe sorsate avide, tanto che alla fine qualche rivolo caldo mi scivolò sulle guance, sulla mascella e sulla gola. Con la bocca sporca d’erba, la riposi a terra, poi poggiai la guancia sulle sue cosce magre seccate dal cuoio e così rimasi, fino a quando la luce che filtrava dalle finestre rotte della Reggia del Deserto non si eclissò.

Che qualcuno ti tenga la mano o no.

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Capitolo 13
*** Like We Could Die ***


capitolo dodici
come se potessimo morire



and how do you think I like it
when you tell me what to do
and your mouth opens
and you look straight through me?
do you think I mind
when the blank expression comes
and you set off alone
down the hall of collapsing columns?


e quanto credi che mi piaccia
quando mi dici cosa fare
e la tua bocca si apre
e mi guardi attraverso?
pensi che mi dispiaccia
quando arriva quell’espressione vuota
e tu ti addentri senza di me
nel corridoio di colonne cadenti?


- hugo williams



« Oggi? »

Era arrivata la stagione delle piogge. Stavamo spesso sdraiati fianco a fianco sotto le coperte lise, toccandoci solo con le ginocchia. Occasionalmente, allungava un lungo dito ossuto verso di me per sfiorarmi le fasciature. Altre volte torturava le ferite fino a riaprirle, io facevo una smorfia, e lui lasciava in pace la crescente fuoriuscita di sangue, e rimanevo immobile fino all’arrestarsi delle macchie mutevoli.

Parlavamo. Parlavamo tanto. A volte parlavamo di tutto e niente; a volte parlava più lui di me, un borbottio lieve e senza senso rivolto al soffitto, una nenia cantilenante che tanti anni prima doveva aver cantato a se stesso per non dimenticare la conversazione, quando ancora non aveva i maghi ed era un giovane adolescente. A volte bisbigliavamo calcoli matematici – santi numi, quant’era intelligente, penetrante come un ago – e tracciavamo i numeri in aria.

A fine giornata non avevo mai l’energia sufficiente per lanciare più di una sola magia per rigenerare la pelle prima di potermi buttare nel letto di Tango e sentirmi ricucire. Lui mi baciava sotto l’attaccatura dei capelli, cercando le fratture con la bocca come un neonato con un capezzolo, radicandosi sulla mia pelle con un sorriso sulle labbra. « Sai di verde, linden-bloom » sussurrava. « Sai di eucalipto. Sai del ronzare di cellule, e di primavera, e di tagli che si rimarginano. »

Il suo viso era sempre accanto al mio. Lo fissavo negli occhi, quel gioco cangiante di ambra al buio e viola alla luce, come il cielo di un mondo alieno, fino a quando non mi girava la testa. Era come uno di quei libri che inganna l’occhio, con i colori che si mischiano fino a provocare una leggera nausea. Li vedevo brillare anche senza candele. Mi piaceva di più quando era buio e non potevo vederlo ma solo baciarlo, e spostarmi su di lui a mordere senza gentilezza la carne che poteva essere tanto quella sopra l’osso dello zigomo quanto quella sopra la giuntura che gli legava il collo alla spalla.

« Io che sapore ho, Eiko? » Era al buio che sentivo la voce di Vivi, l’uomo che era il ragazzo, quel bellissimo tenore limpido ed etereo. Assorbivo quella voce dimenticando il volto: avrei potuto mettermi a sedere e chiederne dell’altra, implorante come un cane. Mi crogiolavo nell’occasionale balbuzie, sguazzavo in ogni frase su cui esitava perché stava pensando attentamente a quello che avrebbe detto. « Mi romperai la pelle. »

« Sai di peperoni morti. »

Quando rideva, potevo fingere. Era Vivi Orunitia, il ragazzo brillante che aveva vinto una borsa di studio all’Università di Lindblum, il riverito salvatore di Gaya al fianco del principe consorte Gidan, della regina Garnet di Alexandria, e della bella ma modesta Eiko, Principessa del suo regno, con la quale danzava ai balli nonostante nessuno dei due sapesse ballare. Steiner veniva a trovarlo ogni due domeniche, perché lui voleva bene ad Adalberto Steiner, che per lui era come un secondo padre. Vivi era amato e benvoluto da tutti. Studiava cosmologia; studiava magia. Mio padre lo trovava stupendo. All’università strisciavo continuamente in camera sua anche se facevo ancora l’apprendistato da mio padre e dagli ingegneri della Reggenza. Ed era buio, come adesso, e facevamo l’amore perché era giusto e nessuno si aspettava nulla di diverso a parte mia madre, e tanto ci saremmo sposati non appena avessi costruito la mia prima, grandiosa nave ammiraglia. A nessuno importava, a nessuno dava fastidio, ed era buio e lui mi baciava e rideva-

Certo che stavo impazzendo. Solo così potevo tenere duro. Ogni giorno lottavo contro una dozzina di Eidolon, usando forza di volontà, parole, e fin troppo spesso la bacchetta, e tornavo più che mezza morta ricoperta di sangue che ancora scorreva. Non andavo più nella mia vecchia stanza: la Signora dormiva nella camera del Signore. Il letto era stato tirato a lucido e avevano rimpiazzato l’imbottitura; non volevo dormirci con la paura di incappare nelle vecchie cose di Tango. Lì dentro piangevo già troppo spesso di mio senza pulci e pidocchi.

Lui ruppe l’incantesimo, come faceva sempre. Una delle sue unghie raschiò la ferita fresca sulla mia spalla, che si spezzò e gocciolò prima che l’incantesimo di rigenerazione potesse recuperarla. Era l’alba. Succedeva la stessa cosa ogni giorno.

« Oggi? »

« Oggi no. » Chiusi gli occhi, esausta, e pregai che il sole non si levasse. Non che si sarebbe alzato; le piogge cominciavano all’alba. Il cielo sarebbe stato coperto, le nuvole avrebbero vomitato pioggia, e tutti i maghetti si sarebbero affrettati a fare tutto il dovuto per tenere fuori l’acqua. Vivi si irrigidì come sabbia in una fornace; io ero sfiorita, ammalata, mi guardavo ingrigire negli specchi elaborati di Kuja. « Forse domani. »

« Il tempo si sta accorciando. » Malevolo solo per la schiettezza. « Ixion ti ha picchiato quasi a morte, linden-bloom, petalo di principessa. Avrebbe potuto arpionarti. »

Apprensione, da parte sua? No. La sua voce era leggera, metodica, stava già misurando il mio torace appeso al corno di quel cavallo di tuono. « Però ce l’ho fatta. »

« Oggi chi c’è? »

Non lo so neanche più. « Tango, non preoccuparti di chi c’è. Non interferirò con le tue preziose equazioni. »

Lui rise, un suono secco e tenue, incurvando due dita tra i miei capelli, strattonandoli tanto da far sibilare leggermente il cuoio capelluto. « Rinfodera gli artigli da micetta, Carol. Ti sgolerai a furia di urlare contro il nulla. »

« Mi sto già sgolando a furia di urlare contro il nulla. Il grande Nulla. L’ultimo Nulla. »

Ignorò il rimbrotto vagamente lacrimoso della mia voce. Mi staccò un capello e se lo avvolse attorno alle dita, anche se più che vedere il movimento lo percepii. « Oggi chi c’è? »

Mortalmente stanca. Mortalmente stanca, mortalmente febbricitante, mortalmente patetica. Vo-v-vorresti accompagnarmi al Ballo d’Inverno, Eiko? Ho chiesto a tuo padre, non ha promesso la tua mano a nessun altro, a parte a Gidan perché ha detto che vuole bloccare il tuo carnet – – Come se andrei mai con qualcun altro, Vivi. Vestiti bene, io indosserò il vestito più bello che ho – « Come puoi fare l’amore con me ogni notte aspettando ogni giorno la mia caduta? »

Era accoccolato vicino alla mia spalla, profumava di cartilagine e sapone; il suo languido, svogliato calore si raffreddò notevolmente. Rimase a lungo in silenzio. Quando aprì la bocca aveva quella sua lucidità piuttosto sconcertante, dietro le sue parole non c’era la risata zampillante di Tango. « Linden-bloom, sapevi che quando i miei figli muoiono sento come una bruciatura? Ma non di fuoco. Di ghiaccio. Riesco a sentire che se ne vanno e mi viene sempre più freddo e freddo e freddo… »

Un brivido mi corse lungo la schiena.

« Freddo e freddo e freddo » ripeté. « Sarà un inverno freddo, Principessa. »

« Credi che non sappia che stanno morendo, pezzo di merda? » Sette piccoli maghi, senza nome ma amati, erano caduti nelle ultime settimane. In passato, arrivati a quel punto dell’anno doveva sfornarne altri, a giudicare dal modo in cui stavano andando a male i pani dagli occhi d’oro. « Non azzardarti a usare i maghi contro di me, Vivi, sai che è per loro che sto combattendo- »

« Un inverno freddo » sussurrò. C’era qualcosa di profondamente e untuosamente ripugnante nel suo tono. « Un inverno freddo d’estate. Cadrà tutta la pioggia. »

Scesi dal letto, incespicando, nuda, disgustata; andai a sbattere contro un tavolo quando mi buttai una camicia sul petto e legai un foulard sporco attorno ai fianchi. Agganciai solo qualche bottone della camicia prima di lasciar perdere per la fretta furiosa, cercando a tentoni la bacchetta dimenticata da qualche parte sul pavimento. La risata di Vivi si portò via la mia spossatezza e mi inacidì il sangue.

« Sei una stupida, Eiko » disse tranquillamente, la risata che si interrompeva tanto bruscamente come era iniziata. « Sei una stupida e a volte ti odio perché continui con questa farsa che ce la puoi fare. »

La bacchetta incuneata ai fianchi disseminava bianco ovunque mentre toglievo gli occhiali dal tavolo con cui mi ero fatta male alla spalla. « Quanto gli rimane? »

« Eiko, avresti dovuto dar retta al mio piano originale. Avrei potuto stringerti tra le braccia mentre tutto andava a fuoco. »

« Spero che i tuoi figli ti odino, schifoso bastardo, idiota insensibile, sei rivoltante e mostruoso e- e- »

Lui avvolse le braccia esili attorno alle mie spalle mentre io tremavo, ancora una volta in lacrime. Appoggiai la testa alla sua spalla in preda alla stanchezza e alla rabbia, e lo colpii impotente con i pugni chiusi. Dopo un po’ smisi, mi facevano male i polsi, e mi gettai semplicemente contro il suo corpo nudo, piangendo.

« Sei molto stanca, Carol. »

« Ti odio quando dubiti di me. »

« Io ti odio quando entri ogni giorno in quella stanza, linden-bloom. Odio il modo in cui chiudi gli occhi e ti contorci in un sonno agitato e poi ti risvegli ancora apatica, odio il modo in cui quelli ti feriscono fino a farti uscire gli organi tutti viscosi e viola e tu te li afferri con una mano e ti rimetti a posto la pelle- »

« Tango. » Mi riscossi dal pianto; non erano mai pianti veri, in quei giorni, solo semplici fitte che andavano e venivano, bagnate e burrascose. Sollevai lo sguardo ai suoi occhi, al buio, artigliandogli la pelle con le unghie. « Stai cercando di dirmi che sei preoccupato per me? »

Lui si allontanò, lanciandosi cadere senza grazia sul letto con le ali pesanti e uno humf prima di stiracchiarsi nel calore dei nostri corpi. « Tre giorni, Principessa. Forse quattro. La mia povera, piccola madre, perderà tutti i suoi bambini prima ancora di partorirli. »

Dovetti deglutire un paio di volte prima di poter parlare; quando ci riuscii e mi accovacciai sulla botola che mi avrebbe condotto fuori, la mia voce era di piombo. « Oggi combatto Terrato. »

« Non perdere, olmaria. »

« Non perderò. »



Non persi.

Una volta, a una festa, avevo mangiato serpente. Mio padre generalmente mangiava qualunque cosa, bastava che la si sbollentasse a dovere e la si adagiasse su un vassoio con un ciuffo di prezzemolo, scatenando il chiassoso disgusto di mamma, e nonostante i miei gusti non arrivassero esattamente a tanto era stato bello mangiare lumache raccapriccianti, pudding di muu, torte di ghoul e tutto quello che ci capitava di ingurgitare. Una volta mi aveva offerto del serpente; quando grosse fette di Terrato si accasciarono finalmente a terra, mi tornarono in mente le sale da ballo, le sottovesti di pizzo e i fermagli ornati di gemme. Le forme terrene degli Eidolon non duravano mai: qualunque cadavere mutilato piantassi nella sala spaziosa spariva al mattino dopo, lasciando solo il flebile odore di ossa bollite.

Quando evocavo, immaginavo sempre un lunghissimo corridoio buio fiancheggiato da freddi muri di roccia, una specie di caverna con recessi profondi. Garnet una volta mi aveva bisbigliato che, per evocare, lei doveva immergersi in uno specchio d’acqua profondo. Lo sciamano deve andare sempre più in profondità, dov’è più buio, dove c’è più melma, dove prova più claustrofobia e paura, deve accarezzare la superficie dura e irregolare per cercare a tastoni delle cavità mentre tenta di afferrare l’acqua alla cieca e il limo gli intasa il naso e poi bang-

Il contatto continuo e ripetuto con ciascuno degli spiriti ululanti quasi mi massacrava. Preferivo quando non parlavano.

dunque sei tu la sciamana – alla ricerca della catastrofe – hai avuto la meglio sugli altri – non l’avrai su di me – io sono lo zolom – non mi domerai – i nostri corpi sbarreranno la strada –

Più a fondo andavo, meno nelle sacche d’aria del mondo degli Eidolon mi imbattevo in spiriti crivellati come torte farcite di canditi particolarmente belle. Mi dimenavo come una forsennata, tentando di andare più giù, come quando nei sogni cerchi di vederti le mani – e mi ritrovavo a parlare con una montagna insanguinata o con qualcosa di altrettanto orrendo fatto di carne e occhi ma privo di testa, o con una vecchia strega ridacchiante con i gioielli che le sfavillavano sulla maschera mortuaria.

non distruggerai il mondo – il re oscuro non regnerà con la regina bianca – è vano, inutile –

Gli incantesimi venivano più facilmente, ormai. La magia sacra mi scivolava dalle dita con la semplicità e la naturalezza di quando la lingua si asciuga e si aspetta la saliva; non ero la maestra della magia elementale, a volte non cedevano immediatamente, ma velata del mio Reflex e senza neanche più rabbrividire quando artigli, denti e incantesimi si schiantavano attorno a me li colpivo, li colpivo e li colpivo fino a farli demordere. Non seguivo quasi mai grandi strategie; ci mettevo solo dosi oscene di pazienza e di resistenza. I Levita mi tenevano goffamente in piedi e mi venivano i crampi ai muscoli; di solito mi concentravo con tutte le mie forze sulla voglia che avevo di un massaggio alla schiena e di due coccole con i maghi neri. Poi ricominciavo, tornavo in quella caverna ostruita di polvere e tentavo, tentavo e tentavo di raggiungere un’oscurità che mi sfuggiva e una tensione che già conoscevo, nel profondo, dentro di me, e non riuscivo mai a entrare nel-

aarrRRGhghhHRHHGgggh

Pezzi fumanti e massicci di serpente, à la Carol. Servire per dieci.

urk

« Madre? »

Rain aveva sempre gli asciugamani pronti, dopo, oltre al borotalco da sparpagliare per la stanza per far rapprendere tutto il sangue. (Parecchio di solito era mio.) Me ne passava uno, poi buttava un po’ di borotalco e quindi si avvinghiava alla mia gamba come una piccola zecca. Con grande difficoltà me lo issai sulla schiena, e anche se per un istante esitò, rise del regalo.

« Non dovresti » protestò. « Sei ferita. »

« Ormai ci sono abituata, Rainy-Rain. »

« Credo che sia molto indecoroso. »

« Credo che tu abbia molto ragione. » Lo scaricai sul corridoio, lontano dal fetore del cadavere fresco dello spirito; stavo penetrando più in basso, sempre più giù. Riuscivo a riconoscere le linee della vita, ora. Le mie mani plasmavano il tempo, lo spazio, l’essere; chiamavo altre cose oltre ai mostri magici, che con voci scorbutiche rispondevano. Presto avrei completato il piano degli Eidolon; non avevo alcun desiderio di mettermi a dare strattoni al Bahamut di Daga, o alla regina Ashura di cui tanto si mormorava e che tanto si temeva, perciò avrei dovuto muovermi spiritualmente di soppiatto fino a toccare il fondo. Gli spiriti combattevano con maggiore tenacia a questa profondità; combattevano con maggiore tenacia o mi voltavano completamente le spalle, evento sempre sorprendente, per usare un eufemismo.

(« Non hai intenzione di combattere contro di me? » avevo chiesto a uno spirito che si occupava di guarigioni.

« Beh, no » era sbottato, spostando con un certo fastidio l’orlo delle vesti bianche ai suoi piedi dalla fanghiglia mista a sangue raggrumato lasciata da Shoat. « Ad essere brutalmente sincero, credo che tu ti sia già abbastanza fottuta di tuo, quindi prego, va’ pure avanti e pasticcia con quello stramaledetto apocalisse del piffero. Come se a me fregasse qualcosa. Tu sei la lagna di quest’anno e già mi sono stufato di te. Evocatori sanguinari, dagli un dito e ti si prendono tre braccia e due gambe. Non è mica tutto rose e fiori da queste parti, sai, uno prova a riposare in santa pace e spuntano come funghi matti danzanti, o invalide insolenti con le gambe gonfie, o gente che ti vuole imprigionare in una lampada maledetta, o… »)

Rain mi teneva la mano. La sua stretta non era più salda come una volta.

« Sai » disse, molto sovrappensiero. « Mi sarebbe piaciuto poter vedere un moguri. »

« Lo vedrai. Te ne farò vedere uno quando ti porterò a Lindblum. »

« No, non credo. » Non era amareggiato, e neanche rassegnato: stava solo affermando un fatto. « Tra tutte le cose che potevo volere, mi sarebbe piaciuto poter vedere un moguri. Non riesco a mettermi bene in testa come sono fatti solo dai tuoi racconti. »

Mi strofinai l’asciugamano sui capelli fino a farmeli rizzare tutti in testa; il sangue era una lozione che purtroppo faceva presa rapidamente. « Rain, tu – tu non- »

« Non ho paura » mi garantì cocciutamente, gli occhi come quelli di una tigre feroce al buio. « Non ho paura di morire. »

Tu non morirai.

Parole vuote.

Le nostre mani intrecciate come per poter fermare tutto, la mia mano e il suo guanto caldo come il fuoco, ci trascinammo zoppicanti lungo il corridoio. Era ancora presto ma sembrava fosse già tardi, con la luce del deserto dissimulata dalle finestre. Mentre camminavamo, un lento rimbombo esplose nei cieli, e le pesanti gocce d’acqua scesero come pallottole sul tetto. Già solo quel rumore avrebbe potuto svegliare l’intera Reggia, se solo ci fosse stato qualcuno a dormire oltre alle centinaia di maghetti neri nel cortile degli alberi sempre in crescita.

« Sono nato in questa stagione » rivelò Rain all’improvviso, inserendosi nel silenzio mentre la mia lingua cercava frasi e io tremavo al pensiero di quante altre volte avrei potuto dire no, e guardammo Sunny che trascinava un secchio enorme fino al centro del tappeto consumato ai piedi delle scalinate, preparandosi alle infiltrazioni. Grugniva, stava chiaramente bofonchiando; quando lo sistemò finalmente al posto giusto fu costretto ad appoggiarcisi contro molto stancamente, e a espirare e inspirare per un paio di interminabili minuti. « Ricordo che mi si bagnarono i vestiti. »

« Stavolta non bagnarteli. Gli Dei solo sanno come ti asciugheremmo, con questo tempo. Mi sembra di bere delle tazze di umidità ad ogni respiro! Va’ ad accendere un fuoco nella sala grande » gli proposi io, di colpo ispirata. « Di’ a tutti di venire a mangiare lì, non ce la faccio se voi state tutti a lavorare all’ora di pranzo. Forse quello stupido bastardo di tuo padre si unirà a noi se riesco a staccargli il naso dai libri. »

« Eiko, si arrabbierà- »

« Tu va’. Ormai so come prenderlo. » Se pure Tango Nero si fosse presentato con qualche corda allegata, non avrei mai saputo come prenderlo. « Magari riesco pure a convincerlo a lasciarti dormire nel nostro letto, stanotte, farà un freddo cane. Possiamo giocare a carte. Lui fa pena a carte. » (Come se a letto giocassimo mai a carte. Eravamo giovani.) « Tu assicurati che il fuoco sia bello caldo. »

Vivi era ingobbito sulla sua scrivania quando lo trovai; avrebbe potuto essere addormentato, avrebbe potuto essere privo di sensi, avrebbe potuto essere morto. Comunque fosse, sembrava malato ed esausto quanto me; eravamo creature molli, e crollavamo ogni giorno un minuto prima del precedente, senza che riuscissimo a concludere nulla. Non era neanche mezzogiorno ed eravamo già pronti a svenire. I numeri sotto i suoi guanti erano sbavati; passai un dito sulle sue equazioni, sulla curva a campana dei suoi diagrammi, sfiorai per un attimo il compasso bizzarro della sua mente e me ne andai. Vestiva troppi strati perché fosse necessaria una coperta.

(Io e lui, l’Università di Lindblum, lui distrutto per aver studiato tutta la notte, libri ovunque e una candela che tremolava al sicuro, all’ombra di lunghe maniche. Riusciremo a finire il filtro per il refrigerante, Vivi. Il motore funzionerà. Ora va’ a letto.)

« Stai diventando di nuovo sporco. Hai bisogno di un bagno. »

« No, Carol » brontolò, distintamente. « Ho bisogno di luce. »

Lo lasciai lì, lui e la sua luce; io e i maghi ci accalcammo nella sala grande, e ridemmo e chiacchierammo mangiando pane bianco, miele e mele mentre io sonnecchiavo vicino a una colonna e Shiny si infervorava in una discussione molto particolareggiata con tutti gli altri su cosa fosse meglio tra la torta e il pasticcio. Rimasi mezza addormentata durante il dibattito sulle crostate di pesche, con troppi di loro in grembo e accanto alle spalle che dormicchiavano il sonno calmo e grato degli invalidi; vederli così mi mise ansia e mi svegliai completamente, contando ogni testa, osservando ogni respiro, aspettando che qualcuno si Fermasse. Non arrivava mai con grazia per nessuno, nemmeno per i più fragili; feci un mezzo sogno sui moguri, e alla fine mi risvegliai in una sala quasi vuota con Cloud che rastrellava le braci e River che sparecchiava.

Meritavano tutti dei moguri, delle crostate di pesche e una vita in cui non avrebbero dovuto fare i domestici in una catapecchia dimenticata da Dio gremita di mostri. Non riuscivo a togliermeli dalla testa; tornai alla mia putrida sala da ballo strascicando i piedi per terra. Torte di mele col gelato; pan di marmo, petali di rosa canditi, Mogu accovacciata nella mia pancia. Tango che infilava una mano nella faccia di Rain per sradicargli l’anima. Torta di bacche capovolta. I tuoni e la monotonia gravosa dell’acqua che scrosciava sul deserto…

Non ero dell’umore ideale per l’evocazione. Dovetti fare tre tentativi prima di ottenere un cerchio funzionante; quando, con l’occhio della mente, toccai finalmente il muro scosceso, lo sentii spugnoso e atroce sotto le dita dalle unghie mangiucchiate.

Ne ho abbastanza. Ne ho abbastanza di mostri magici arrabbiati e di doverli uccidere; ne ho abbastanza di perdere tempo. Ne ho abbastanza di bambini che muoiono. Ne ho abbastanza di aeronavi. Ne ho abbastanza di tutto. Ne ho fin sopra i capelli.

La roccia sporca di muschio si sbriciolò sotto i miei piedi quando la forzai, raspando, picchiando i pugni a terra, rompendomi la pelle sulle nocche senza curarmene. Ero stanca; ero stanca e qualcosa stava cedendo, ma non sapevo se ero io o il telaio dell’universo.

Sono stanca di essere stanca.

La mia bacchetta aveva troppe schegge; mi si conficcavano nella pelle e venivano espulse durante la rigenerazione della mezzanotte, saltando fuori come bruchi dalla corteccia.

Sono stanca di fare tutto da sola. Sono stanca del giusto e sbagliato. Sono stanca di essere rapita.

Se chiudevo bene gli occhi potevo sentire il battito del mondo, chiuso a chiave e protetto anche solo dal mio tocco, inesorabile e irrequieto, la pulsazione massima. I miei piedi sprofondarono; mi rannicchiai, agitando le mani alla cieca, aspettando il formicolio elettrico alla mascella che mi avrebbe indicato la presenza di un’energia arenata inequivocabilmente sulla mia strada; avevo sgomberato i campi di neve e mi stavo immergendo sempre più giù. Scendere stava diventando sempre più difficile centimetro dopo centimetro, come se stessi nuotando in melasse che andavano indurendosi velocemente, per progredire anche solo a stento ero costretta a contorcermi e a spingermi con violenza verso il basso come una bambina in procinto di nascere e

« Chiamo il Nome della Cosa finale- »

bang

Il manto che si stava ispessendo franò immediatamente sotto il peso delle mie mani, come l’involucro di un dolce. Caddi a peso morto nel nulla, in un’oscurità rovente, incapace di arrampicarmi di nuovo sulla superficie dove avevo le gambe incrociate ed ero seduta in una putrida sala da ballo rotta con un lampadario dozzinale alla Reggia del Deserto, su Gaya, nel mondo in cui ero nata. Feci una capriola su me stessa, reperendo l’equilibrio, ritrovandomi semplicemente a fronteggiare qualcosa che per pochi attimi il mio cuore scambiò per Lui. Le mani di quel qualcosa, coperte di bende, tentavano invano di divincolarsi, incrociate davanti al petto incatenato, mentre la creatura urlava come un animale, un grido spezzato, le tenebre erano la nostra anticamera e io non riuscivo a far altro che fissarlo e fissarlo e fissarlo e gli occhi mi uscirono quasi dalle orbite mentre la testa orribile oscillava a destra e sinistra.

avverti il mio dolore

Mi dimenai inutilmente, cercando punti di appoggio senza trovarne, perdendo ogni speranza di luce mentre venivo risucchiata dalla risacca.

bang

Sfiorai una sostanza viscida e acuminata come la pelle di un sahagin. Solo la fosforescenza emessa dall’imponente massa di carne tremolante mi forniva un po’ di luce, illuminando una cosa deforme che ricordava un vaso d’argilla accartocciato su se stesso e ruotato di centottanta gradi, con pezzi di pelle rosa, lividi viola e occhi sparpagliati a casaccio. Era un monumento isterico alla pessima ingegneria, ma mi gelò dentro, rese ghiaccio il mio sangue liquido, fino a quando non gridai cataclisma e mi raggomitolai, cadendo.

bang

Mi inabissai, superando uomini e donne nudi; i corpi ammassati nascosero il buio, ma poi provai a spostarmi tra gli arti freddi e rigidi, nuotando in mezzo ai cadaveri, tra la carne attaccata e incollata insieme in certi punti, e alla fine rimasi bloccata in una bolla di persone morte e potevo vedermi attraverso le mani e la mia pelle era trasparente e

oh

Non sentivo che farfugli incessanti, e poi mi resi conto che erano i miei-

NO. BASTA.

Esplosi come una stella, fuori controllo, e vorticai verso una morte certa sul pavimento duro.

Quando rinvenni, il soffitto della sala da ballo era saltato, e ogni centimetro quadrato rimasto era rivestito di pezzi; Tango era sospeso in aria, al centro, una rapsodia di organi, e avevo tutte e due le gambe rotte. Ero uno spettro pallido e tremulo tra le sue braccia quando mi riportò alla torre, in camera sua, e mi distese sul letto, dove mi guardò balbettare incantesimi con le labbra tremanti. La mia pelle fu catturata da una rete verde, sottile e fine come i capelli di un bambino. Fissai il vuoto e piansi, le labbra bianche come la neve, zuppa fino al midollo di pioggia, sangue, e del succo pancreatico di chissà chi. Mi rigirai e vomitai copiosamente su un cumulo di, per fortuna, stracci – Vivi risolse il problema gettando prontamente quel pasticcio acre fuori dalla finestra.

« Linden-bloom » disse, e la sua voce era profondamente compassionevole, « non puoi continuare così. »

Io non risposi; i denti mi battevano. Lui mi rimise a posto le ossa delle gambe con molta calma, suscitandomi due strilli attutiti dalla più completa e totale spossatezza, e accese le candele della stanza con un gesto languido del guanto. Il letto scricchiolò quando ci si sedette, accanto a me, che tenevo gli occhi sbarrati solo per la paura di dover rivedere di nuovo il buio. Il vento fuori soffiava forte, sbatacchiando furiosamente le persiane; per una volta, gli antoleon non offrirono musica ambient di sottofondo.

« H-ho provato » tartagliai, « Ho provato a c-chiamarlo. »

« Hai fatto entrare le cose oscure, Principessa. Non la Cosa oscura ma le cose oscure, tutte svolazzanti di qua e di là, ma quando tutto il resto fallisce usa il fuoco, non credi? Tanto non mi è mai piaciuta quella sala da ballo. Sono contento che non ci sia più. »

« Vivi- »

Lui si sdraiò vicino a me e si tolse il cappello, e tutti i suoi capelli chiari e morbidi come piume di uccello si riversarono sul cuscino; mi scrutò con i grandi occhi d’oro spalancati. « Lascia che ti dica una vera verità, Eiko. Il fuoco non è una morte poi così brutta. E neanche il ghiaccio, o il tuono. Se verrà fatto abbastanza in fretta sentiranno solo il calore, una folata di vento e un gelo rapido e tagliente, e poi sarà finita per tutti, come andare a dormire, o come quando guardi il sole in una calda giornata d’estate e te lo senti penetrare la testa. Non ci sarà dolore nella nostra battaglia finale. Tesoro, Alexandria e Lindblum non sono come morte per te, ora che te ne stai qui da sola alla Reggia del Deserto? Il ricordo che hai di loro va sbiadendosi. Dopo l’incendio si cristallizzerà per l’eternità. La tua Garnet, la tua Elia. »

Mossa sbagliata. « Io non permetterò mai che accada qualcosa a Cornelia. »

Le sue dita tracciarono i contorni della mia mano, delicatamente; mi baciò con grande tenerezza il lobo dell’orecchio, solo per assaggiarlo, per assimilare con la lingua il sapore della mia pelle che si ricuciva. Quando parlò, la sua voce era falsamente leggera. « Mentre non eri con noi qualcuno si è Fermato. »

Non Rain, Mogu, ti prego non Rain. Oh, diamine, nessuno di loro, i miei piccolini. « Chi? »

« Credo che tu l’avessi chiamato Sun. Carol, lo sai quanto in fretta succedono, queste cose. »

Sunny era morto, lontano da me, mentre io ero nel buio dell’evocazione. Tango prese la mia mano scossa dai brividi; la sua voce era odiosamente pacata mentre tastava dolcemente le unghie frastagliate. « Ci ha dato il suo amore. Sono tutti dei bambini buonissimi, no? Mai una parola severa, mai attacchi di rabbia, mai impazienza. Accolgono la morte con grazia. Come sempre. Piccoli passerotti-albero, piccole creaturine magiche e silenziose acconciate da capo a piedi di nero. Lavorano e muoiono, come i calabroni. »

E allora piansi senza lacrime; le mie spalle tremavano ma gli occhi erano asciutti, e singhiozzai e m’infuriai finché le sue dita ora spoglie non mi richiusero le palpebre. Era buio; ero sfinita, nauseata, e le mie viscere sembravano pesanti come i dolci che vendevano alle bancarelle delle fiere di Toleno. Ero stata prosciugata di ogni cosa. Non ero Eiko Hildegarde Carol, non ero Eiko Fabool, non ero Ragazzina o Mia Figlia o Sua Altezza o Mocciosa. Non ero nemmeno Linden-bloom o Mamma. Ero spina dorsale, qualche rimasuglio di carne e ghiandole lacrimali, la mia intera geografia consisteva nella Reggia e in tutta la sabbia che potevo ingerire, e non potevo fare altro che nascondere il viso nella spessa giacca di cuoio di Vivi e aspettare che la fine del mondo terminasse prima ancora di iniziare.

E mi arresi. Non avrei evocato Trivia. Tango Nero avrebbe finalmente indossato le vesti rifinite e tagliate con gusto del suo predecessore: l’Angelo della Morte.

Mi sentii molle e dolorante quando lui mi prese, immobile, schiudendo solo le mie labbra per le sue; rimanemmo entrambi in silenzio, la mia mente e le mie mani erano lontane, e non ricordo neanche che finì prima di addormentarmi piccola e apatica tra le braccia dell’assassino. Il mondo puoi salvarlo una volta sola. Non puoi più tornare indietro.



Nei giorni seguenti dormii fino a tardi e vagai per le stanze come un fantasma; durante i miei sonnellini, tenevo la bacchetta scheggiata rinfoderata al sicuro nella cintura di qualunque cosa avessi addosso, mentre quella spruzzava tristemente e inutilmente delle scintille. Lo stress si era insinuato fin dentro le ossa. I maghi venivano a trovarmi quando finivano di pulire le cantine, le stanze, le scale principali, i corridoi, e mangiavamo insieme, e diminuivano davanti ai miei occhi.

Ero stata fin troppo indaffarata con le mie cose per guardarli morire, per vedere il loro passo che rallentava, per notare il respiro affannoso, per vederli ammalare. Ora io e gli ultimi rimasti mangiavamo insieme e i più deboli si sedevano vicino a me perché li aiutassi a mangiare, e ascoltavamo tutti insieme le tempeste estive. Non riuscivo nemmeno a piangere; avevo gli occhi aridi come una roccia, ed ero vivace, radiosa, ridevo, raccontavo loro le vecchie storie di mio nonno, e dicevo Cavoli! ogni cinque minuti mentre tutti cercavamo di parlarci uno sopra l’altro.

La vita è transitoria, pensai. La vita è transitoria e tutto è fugace, e qui c’è una doppia dozzina di bambini che non ha mai avuto l’opportunità di sbucciarsi le ginocchia o di mettere uno scaraburi nello stufato o di festeggiare il compleanno con mamma e papà squadrando cinicamente le scarpe in cui dovrebbero “crescere,” o di andare a scuola, o di innamorarsi, o di chiedere il permesso di avere un topo come animale domestico, e tutto questo quanto vale? La vita di chi vale di più?

« Carol » mi chiamò una voce – troppo gentile, lui non era mai così gentile se non quando- « Ora sta dormendo, presto se ne andrà. » E quello fu il primo di loro a Fermarsi.

Quelli senza nome; quelli con nome; era uno di quelli acciambellato sul mio grembo, che aveva avuto un ruolo di rilievo nella crociata “il pasticcio è meglio della torta,” che era leggero come una piuma. Non mi ero accorta che sulla stanza era calato il silenzio. Gli misi le mani sotto le ascelle e lo sollevai come se avesse due o tre anni; Tango si chinò a baciarlo, e gli prese l’anima e il cappello mentre il resto si dissipava nell’etere buio di cui era composto. Una fiamma che viene soffocata, la vasca che si svuota. Rimanemmo tutti zitti.

« Fratelli, madre » iniziò uno dei maghi, « è sbagliato avere – paura? »

« Se abbiamo paura, lui non sarà orgoglioso di noi. »

« Va benissimo avere paura. Ma non troppo. È sbagliato combatterla, secondo me. »

« Combatterla troppo, almeno. Non vorrei stancarmi troppo. Voglio sembrare carino quando verrò appeso a un albero. » Risata.

« Come se tu fossi carino. »

« Ehi! »

« Non litigate, non ora. »

« Non stiamo litigando, non esattamente- »

« Farà male, madre? »

« Ci piacerà? »

« Saremo felici, se siamo stati bravi? »

« Sarà meraviglioso » risposi. « Perché qualunque cosa accada, mie amate stelline, io e Tango Nero vi rivedremo molto presto, quindi stringetevi forte e non p-preoccupatevi, siate coraggiosi come tutti gli altri. Voi siete tutto. Voi siete il mondo, voi sete le stelle, voi siete il cielo. Voi siete meglio dei biscotti, dell’estate, e dei giri in aeronave. »

Ci fu un singhiozzo trattenuto; ed era Vivi, che era in piedi con le mani vuote ai confini creati dai nostri corpi, mentre io ero al centro come una madre chioccia circondata da tanti pulcini assonnati col cappello. Quelli che potevano incespicarono tra i propri piedi e si radunarono intorno a lui; lui toccò ciascuno di loro e mi guardò, e i suoi occhi furono come una spada che scivolò come nel burro nel mio cuore privo di difese, spegnendomi per sempre.

« Saliva e un pizzico di magia » mormorò. « E siete comunque meglio di qualunque altra cosa che questo miserabile mondo ammantato di nero abbia mai avuto da offrire, che mi abbia mai dato, che mi abbia mai dovuto dare. Miei semi, miei fiori, miei piccoli frutti. Siamo finalmente qui, e io sono orgoglioso di voi. Reciterò i vostri nomi e bisbiglierò i vostri numeri mentre distruggerò il mondo per la vostra pira funeraria, perché possiate rinascere, come fenici. Voi non marcirete. Voi non verrete dimenticati. Voi esistete solo per essere liberi. »

Ci fu un sospiro collettivo; e molti di loro si lasciarono andare in quel preciso istante, i meccanismi della loro magia che stridevano fino alla sosta finale, arrendendosi all’ultima delle luci mentre si Fermavano. I più forti – il che non voleva dire praticamente niente – caddero a terra come manichini che si siedono, bambole e anche meno. Sentii qualcuno tirarmi i capelli troppo lunghi, e guardando vidi il mio spudorato preferito che mi sorrideva. Lo raccolsi tra le braccia.

« Addio, mamma » disse. « Addio, Eiko. »

« Sono stata una pessima amica e una madre ancora peggiore, Rain. »

« Non sapevo che avrei potuto desiderare qualcosa così tanto finché lui non ti ha portato qui. Oh, mamma, sono tanto stanco. »

« Va tutto bene. Hai resistito tantissimo. Qualcuno dovrebbe darti una medaglia e una parata, con, con i festoni, e le bandiere, e una banda di ottoni – Rain, ti voglio bene. Ti voglio tanto, tanto bene. Non avrei mai potuto avere un figlio migliore. Ci rincontreremo, lo giuro. »

Stavo sprecando aria. Rain mi era morto tra le braccia, chiaramente senza un briciolo di sollievo, e guardai di nuovo Tango e lui mi guardò e l’ombra-velo si disperse con un tremolio. Il mare di cappelli, di giacche doppie e delle innumerevoli paia di guanti che si accasciavano rapidamente al suolo era riflesso nei suoi occhi, un bagliore rapido e penetrante, e gli porsi una mano che tremava in modo spasmodico.

Vivi si inginocchiò. Ciò che era rimasto di Rain si afflosciò, scivolandomi delicatamente dalle braccia fino a toccare terra come bucato; suo padre mi baciò le dita, poi mi baciò il polso, e mi baciò fino all’interno del gomito. La sua bocca era fredda e il suo corpo era scosso dai brividi. Con le labbra mi sfiorò il collo, la bocca, la punta della lingua e il fianco del naso, poi le guance, la fronte, le parti bianche degli occhi e il fianco del corno da sciamana.

« Siamo giunti alla fine di tutte le cose » esordì. Le sue mani presero le mie; il mio anulare gli scivolò in bocca, rapito, sentii la lingua liscia sull’unghia quando lui affondò i denti con ferocia alla base del dito. Iniziai a perdere sangue dal cerchio frastagliato formato dal segno dei denti. « Tu sei mia moglie, linden-bloom. Da oggi siamo sposati. Io sono il tuo nome e tu sei il mio. Siamo sempre stati Tango Nero, e benediremo il letto coniugale distruggendo ogni cosa, con fuoco e fiamme, e ghiaccio e gelo. Abbiamo salvato il mondo. Ora lo pugnaleremo. »

Cadde a terra in una pozzanghera di cuoio, e io gli finì mezza seduta in grembo; non avevo linfa, sangue, forza di volontà, dentro di me non avevo nulla, eccetto un vortice intenso che cresceva e turbinava come le bacche che si trasformano in crema. Ero bianca, vuota, avvizzita, e lui premette la mia schiena contro il suo petto, seppellì il volto tra i miei capelli. « Ultimamente profumi di follia, Carol. Lo stesso odore che avevo io un tempo. Profumi di pazzia e di quelle cose che non si possono vedere. Di ali che spuntano sulla schiena. Di antoleon. Siamo avvelenati, tutti e due, mio dolce amore, la mia rosa di macchia e la mia regina d’erica. »

Lo baciai. Il vortice girò più in fretta; ci immersi un dito, ne sentii il sapore, ne misurai le linee, ruotai gli angoli e avviai il motore. La bacchetta si era fatta strada nella mia mano, e la stavo imbevendo di sangue con la ferita al dito che scorreva liberamente. La sua bocca era la carica, io ero la batteria. Una macchina. « Vivi Orunitia » sussurrai, persa nelle sue labbra, come la metà di una nave che affonda, ogni muscolo del mio corpo svanito. « Vivi, io chiamo il Nome della Cosa Finale. Io evoco Trivia. Io evoco l’Oscurità Eterna. »

bang

La puzza di morte era sulla mia lingua, nei miei occhi, nelle mani che lui stringeva. Sentii il vortice ruggire e poi sentii Gaya urlare, sentii Madein ululare, sconfitta, sentii la pelle rabbrividire e scricchiolare. La Fine era ovunque, e teneva in piedi il mondo; avevo sbagliato i calcoli, ero andata nella direzione sbagliata: non importava quanto a fondo andassi, non avrei mai trovato la Morte. La Morte aleggiava nell’aria, nella mia saliva, negli occhi di Vivi. La Morte era nella sterilità totale del mio corpo, nella magia che di recente aveva diminuito il mio ciclo, la Morte era nel pavimento cosparso di vestiti, nei residui di bambini piccoli che si erano disfatti alla rinfusa dei propri soprabiti. Il bacio di Tango rischiò di incrinarmi i denti quando la terra prese a rombare; il mondo si mosse, leggermente, solo una volta, e il giorno divenne notte.

Notte profonda; la notte più buia dell’anno più buio dell’angolo più buio dell’oceano, piovevano ombre e fioriva carbone. Io e lui venimmo lasciati soli, senza fiato. Le finestre erano come chiazze di petrolio, e il mondo era spaventosamente muto, e il laccio che teneva legati il mio cuore e la mia testa finalmente si smembrò e si staccò, scagliandomi via.

« Arriva la Morte » disse lui. « Una volta ci siamo incontrati. Tutti i miei figli conoscono il suo bacio; io l’ho a stento sfiorata. Io non mi sono mai Fermato, Eiko. Ho desiderato a lungo questo momento. »

« Beh, eccotelo qui, impacchettato in una bella scatola solo per te. »

Lui si alzò, con me ancora tra le braccia, e frustai l’aria con le gambe, e poi tremai sul pavimento, cercando a tentoni la giacca di Rain nel freddo improvviso. Me la misi sugli splendidi abiti sciupati che aveva lasciato Kuja; le maniche mi arrivavano solo fino agli avambracci, ma mi sfiorò le cosce col suo peso confortante, e aveva l’odore di sapone, di rammendi e di mio figlio, e Vivi sfoderò un coltello dalla tasca per fargli due incisioni sulla schiena.

« Ecco. Ora sembri un vero mago. E-Eiko- »

« Ero quasi pronta a far saltare in aria Alexandria » bisbigliai alla notte, al suo viso, a ogni cosa. Non in tono inorridito, ma meravigliato. « Ero quasi pronta a far saltare in aria tutto. Volevo far saltare in aria tutto. Vivi, come siamo arrivati a questo punto? »

« L’amore » spiegò semplicemente. « L’amore. Io sono impazzito per amore; ho bevuto amore, ed era veleno che mi ha ucciso, e l’ho divorato e mi ha sostentato, mi ha donato le ali e mi ha strappato il viso. L’amore, e il desiderio struggente di una conoscenza che non potevo fare mia. La vita e la morte sono stati dei lasciti tremendamente amari. Io esistevo solo per uccidere. Esisto solo per uccidere. »

Sentii un fruscio; lui doveva aver teso la mano, perché dozzine di sfere si sollevarono a mezz’aria, con sotto gli abiti spiegazzati a fare da tristi ombre. Il loro splendore illuminò l’aria e mi bruciò gli occhi; ci proiettarono addosso un blu spettrale, dovevamo sembrare due ghoul.

« Prendi gli occhiali, Carol » ordinò, e il suo sorriso era allo stesso tempo gioioso e pieno di disperazione. « Andiamo a distruggere la Morte. »



Ci dividemmo. Io corsi. La notte era piombata su tutto il mondo; mi feci luce con la bacchetta, e cercai a tentoni i gradini, salendoli rovinosamente, e per poco non mi picchiai il mento con le ginocchia sulle scale che portavano alla mia vecchia camera da letto. Il vortice dentro di me si era stabilizzato su una nota continua, uniforme, il rimbombo delle tubature stremate e del battito del cuore di un’aeronave, la peggiore musica del mondo. Mi ficcai gli occhiali sul naso.

Eiko, Eiko, cos’hai fatto?

Madein. « L’ho fatto, Mogu. E adesso vado a distruggere la Morte. Adesso, prima che i miei figli diventino più freddi di quanto già non siano. Non lascerò che marciscano nelle loro tombe tutto fuorché caldi. »

Combattere Trivia? Nelle tue condizioni?

Mi legai tutti i foulard di seta di Kuja attorno alla vita per far riacquistare il senso del tatto ai miei fianchi gelati. Trivia bruciava, bruciava, mi bruciava nella pelle, pronto a rivestire Gaya di ghiaccio per renderla un asteroide senza vita su cui avrebbe regnato per sempre l’inverno. Un’altra maglia sotto la giacca; fantastico, veniva l’Apocalisse e io facevo la figura della barbona. Infilai dei delicati guanti di pizzo senza le dita – e per fortuna, perché tanto i miei polpastrelli erano già gonfi da morire. « Nulla che un’Energiga non possa risistemare. »

Non fare la finta tonta. Oh, mia Eiko, hai condannato il mondo e tutto quello che vi dimora. Non c’è più speranza.

« Speranza per chi? Speranza per il mondo? Speranza per i Maghi Neri? »

Le catene di Trivia sono infrante. Divorerà l’universo se ce la farà. Come hai potuto essere così cieca da perpetrare un atto di tale malvagità? Non lo senti che è lassù? Non senti il brivido dell’anima stessa del pianeta, non lo senti il grido del monte Gulgu?

« Di certo sento te che rompi le palle come una vecchia megera. »

Eiko, la tua testa non ragiona. Stai impazzendo. Ti stai ritirando dentro te stessa come una chiocciola. Lo sai anche tu.

« Tu non hai mai perso un figlio- »

Invece . La sto perdendo adesso. Per l’amore che il tuo cuore prova ancora da dentro il rivestimento del lutto, Eiko, ti imploro di fare questo: porta questa calamità lontano dal pianeta. Ormai non puoi più bandirlo. Non puoi conferire con lui.

Ragazze dai capelli verdi e Meteosisma mi affollavano la mente ed era difficile pensare. « Sai una cosa? È stato adorabile il fatto che ogni notte che me ne stavo sdraiata sul letto io ero lì ad aspettare qualcuno, una voce, da qualche parte, e ricevevo soltanto il silenzio. Non una sola parola, non un solo tocco. Soltanto lui. Porca troia, Madein, non ci provare nemmeno. Non azzardarti a tirare fuori la presunzione di potermi fare una ramanzina adesso. Non qui. Non mentre tutto sta finendo. Non quando tutti i miei bambini sono morti per sempre al piano di sotto mentre cercavano di finire il cazzo di pranzo prima che si raffreddasse- »

Portalo lontano da Gaya, Eiko.

« -e non sono riuscita ad evitare che si Fermasse, non ci sono riuscita, il mio Rain- »

Portalo lontano da Gaya e forse ti sarà concesso di stringere il tuo infante mai nato nell’aldilà.

Mi bloccai; trasalii; chiusi gli occhi e respirai unicamente dal naso. « Questo è un colpo basso, Madein. Così basso che più basso non si può. Non farmi questo. Ti amo, ti amavo. »

La verità.

« E se credi che lascerò che questa possibilità cancelli gli oltre cinquanta bambini morti che hanno potuto vivere solamente un anno, allora credi anche che io sia una marmocchia egoista di sei anni. » Vissuti, morti, concentrati in una sola, sacra benedizione. Ormai il mio cervello era una poltiglia maciullata. « Allora credi che io odi tutto. Allora credi che io sia stupida. »

Eiko-

Aprii la finestra; non trassi alcun sollievo dal nero pece delle tenebre usurpatrici, ma quello che poco prima era solo silenzio stava cambiando: in lontananza sentivo un lento urlo agghiacciante, un gemito disperato, le grida dei dannati. Il mondo risuonava, dissonante. Non c’erano stelle. Non c’era luna. Tutto si era spento. Garnet doveva essere alla propria finestra con in mano una candela, mentre gli strilli di una città sconvolta e confusa si univano al lamento straziante dell’Oscurità Eterna.

La Trance mi cinse come tè caldo in quel freddo fuori dal comune. Non c’era pioggia, non c’erano antoleon, non c’era luce. Mentre spiegavo le ali capii mestamente perché Vivi aveva fatto i due buchi, e cominciai a ridere. Al momento non riuscivo a pensare, non riuscivo a respirare, ma un dizionario nella mia testa conosceva il significato della parola isteria e mi misi a correre come una pazza, a volare come una pazza, non più Eiko, perché Eiko era stata completamente risucchiata in un qualcosa di indefinito di cui ora costituiva una parte.

« Addio, a tutto » dissi, e scivolai fuori dalla finestra. Le ali sbattevano forti per tenermi in aria e i capelli mi finirono negli occhi, e rimasi smarrita in un mare di melma nera fino a quando Tango non accese il cielo con una vampata di fuoco. Anche le sue mani erano in fiamme. Mi avvicinai tanto da bruciacchiarmi quasi le piume, e con una risatina ancora più insensata mi resi conto che in fondo non mi servivano gli occhiali: con la Trance la mia vista era perfetta. Me li tolsi e li uccisi, li buttai verso la terra troppo distante per essere visibile e feci una giravolta, libera.

« Sei pronta, linden-love? » Lui era in estasi. Eravamo matti tutti e due. « Sei pronta? »

« Sì. Sì. Sono pronta, sono pronta, sono pronta. »

« Questo è il giorno della nostra giustizia. » Catturammo il vento, poi precipitammo; mi si inumidirono gli occhi e volammo, ci rotolammo e immergemmo e sprofondammo di colpo nel buio come passeri o efemotteri o angeli vendicatori. « Non ci tradiremo. »

bang.

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Capitolo 14
*** The Difference Of Existing ***


capitolo tredici
la differenza di esistere



Where I walk out
to meet you on the
cloth of burning
fields

the goldfinches
leap up about my
feet like angry
dandelions

quiver like a
heartbeat in the
air and are
no more


Quando esco
ti incontro sul
manto degli ardenti
campi

i cardellini
mi saltellano
ai piedi come
furiosi soffioni

palpitano come un
battito di cuore in
aria e poi non
ci sono più


- yvor winters



Venne chiamata “l’ora della farsa;” niente di più sbagliato, perché è durata circa un’ora, venti minuti e cinquanta secondi, stando ai calcoli di Gaya.

In parte.

L’unica parte di cui importi qualcosa a qualcuno, alla fine, il rovesciamento del mondo, il grande Nero – e la maggior parte del tempo lo sperperammo in volo, attraversando una notte densa, buia e torrida come catrame sulla scia ardente della mia evocazione, racchiusi in un ventre che si era formato da sé. Trivia era apparso come un’arma e stava facendo ribollire i mari vicini alla piattaforma continentale, e nonostante avessi una certa, vaga consapevolezza che Lui avrebbe distrutto qualcosa se fossimo stati lenti, non avrebbe potuto fregarmene di meno. Mi dichiaro colpevole in virtù della follia e mi rimetto al giudizio di Trivia. La follia era impetuosa, e feroce, e liberatoria, e per me non c’erano più lacrime. Avevo passato gli ultimi mesi a piangere, copiosamente, e ora mi sentivo un po’ la versione redux e sfrenata di Eiko Carol Anni Sei.

Ci tenevamo per mano, strillando e schiamazzando di gioia come rondini tornate dopo l’inverno, lui un urlo lungo che perforava la notte e io grida di battaglia. Le nostre voci erano incrinate, sgradevoli, stupide, eravamo ebbri di magia, maga-bianca mago-nero nel brodo primordiale della Morte. I nostri figli erano morti. Volavamo.

« Vivi! » gridai al corvo nero immerso nel buio di morte, « Vivi- »

« Cosa c’è, linden-bloom, angelo d’amore, sposa bianca? Io voglio mangiare il cuore di Trivia. »

« Io voglio la sua lingua. »

« Io voglio i suoi occhi. »

« Io voglio la sua carne. »

« Eiko, di c-carne ce ne sarà parecchia. Metterai su la ciccia- »

« Spaventapasseri, guarda che sono più scheletrica di te! »

Volavamo sul getto delle nostre Trance e lui rotolò lentamente in aria. Io ero di schiena e lui sul davanti, le braccia e le gambe distese e allungate come stelle marine per poterci toccare le dita, e da quella posizione potevo leggere la pazzia del suo viso. Eravamo l’uno il riflesso dell’altro, persi, Tango Nero e Tango Bianco, insensibili e aggrovigliati nei rispettivi fili da marionetta. Io provavo per lui un qualcosa di simile all’amore. Io lo adoravo, lo veneravo, lo detestavo con ogni fibra del mio essere, io lo volevo, e ci avvinghiammo come serpenti e gli passai le dita tra i lunghi capelli rossi alla Kuja.

« A volte è come se fossi due ombre » mi mormorò, la bocca che sembrava il tatuaggio di un’esplosione di cicatrici, illuminata solo dall’alone di luce delle nostre Trance. Stillavamo magia che si diramava dal nostro volo in nubi affusolate di stelle arcobaleno, mentre il mio prepotente corno di perla lungo quanto quello di un unicorno minacciava di arpionargli il cappello. « Orunitia e Tango, Vivinero, che si fondono fra loro, che si toccano quando tu tocchi me, il morto e il vivo. Crisantemo, io sono un fantasma. »

È peggio di un fantasma. –

– Madein, levati dalle palle.


« Certo che di stronzate ne dici » replicai, folle di gioia, e gli allacciai le gambe attorno ai fianchi, nei metri di cuoio della sua giacca e sotto le ali che si inclinarono appena all’aggiunta del mio peso. Mi appesi a lui, i fianchi rilassati, allungando le mani per poter sfiorare le nuvole con la punta delle dita e per poter scaldare i muscoli in attesa del combattimento imminente. Mi sentivo come fatta di scintille. « Vorrei che lui potesse vederci- »

« Chi? »

« Gidan, Gidan, chi se no- »

« Gli spaccherei comunque la testa e gli mangerei le cervella mentre ancora si contorcono » cantò lui al cielo, « Le cervella, le meningi, il cranio coi linfonodi – Carol, mia perfida eroina di turno, lo pregheresti di sposarti? Credi che lascerebbe Garnet per te? Ti strapperebbe i vestiti di dosso? »

« Che stronzo geloso che sei, sarebbe – sarebbe – ma poi ci sarebbe adulterio? Perché devo andare da lui? Tu ce l’hai già la coda! »

La Morte era ormai vicina. Un qualche mio organo ancora la chiamava, la possedeva, era il padrone malfermo dell’entità indomata, lo sciocco mittente pronto all’evocazione totale. Di tanto in tanto mi rannicchiavo e mi contorcevo nell’abbraccio di Tango, le ossa e la carne gelatinosa attraversate da una specie di scarica elettrica, un’epilessia spirituale azionata dal tacito latrato di derisione e trionfo di Trivia. Era stato il mio ricordo a evocarlo, lo stesso che ora mi stava sgretolando; ero già a pezzi. Sotto la spina dorsale sentivo flebilmente le mani dei miei Eidolon, che mossi da irrefrenabile amore mi spingevano avanti come se stessero portando in spalla una bara, mi spingevano verso la Morte, mi spingevano come mi spingeva lui. Il ricordo vivrà con me fino alla morte.

« Voglio che veda quello che facciamo » strillai all’improvviso, il vento che mi sferzava i capelli verdi. « Voglio che tutti vedano quello che facciamo, voglio che tutti – oh, santi numi, Vivi, se ce la facciamo possiamo tornare a casa insieme, posso presentarti a papà- »

Ciao, papà. Questo è mio marito. Ha la sua reggia e tutte le credenziali.

« -posso presentarti Elia, e tutti quanti, e puoi toglierti la roba nera, Garnie, Freija, Steiner, Beatrix, mamma, Quina, città e villaggi e colazione alla mattina, magia per nutrire gli affamati, magia per curare i morenti, possiamo fare qualcosa del resto dei nostri giorni – andrà tutto bene come prima – Vivi, tornerà mai tutto come prima? »

« Certo nero non se ne va mai via, linden-bloom. L’unico nero che se n’è venuto via da me è finito su di te. » E ci fu silenzio.

E poi ci fu

Io esisto

Le mie dita iniziarono a sudare nelle spalle del suo soprabito e le mie ali rabbrividirono al buio; rasentavamo il mare, rasentavamo il risveglio di qualcosa che mangiava la luna. Le mie interiora stridettero, avrei potuto pisciare in segno di sfida; mi aggrappai al mio mago nero come in un gesto molto più intimo e lui sibilò. Il mio cuore taceva; la pelle mi stava sgusciando di dosso, e le tenebre minacciavano di ingoiarmi tutta intera. Quando avevo avuto sei anni e lo sguardo tremolante di Trivia si era posato su di me avevo avuto paura; ora di anni ne avevo venti e la paura, la sofferenza e la lucidità erano storia vecchia. Stringevo la bacchetta tra i denti come una specie di pirata, e sputavo incantesimi: rigene, shell, reflex, doppio-reflex, levita levita levita come una piuma sul mare. t(x+v)=m, .9999999-

esclusivamente ad un unico scopo

Io esisto solo per uccidere. (Salta nel tempo, Rain, sta arrivando.)

slegato dalla dimensione finale

Io esisto solo per vivere. (Ho vissuto fin qui.)

sono divenuto il mondo zero.

Io esisto solo per creare. (Nella mia pancia c’è qualcos’altro oltre al dolore.)

Mi avete sfidato già una volta; siete degli illusi. Voi temete la morte

Io esisto solo per distruggere. (Ho rotto abbastanza cose da saperlo.)

e la vita, in un sol respiro, e vorreste chiedermi

Io esisto, non basta?

di dipanare le funi. Ogni cosa vive per perire.

È incontrovertibile, è irrimediabile, è ineluttabile e

sebbene io abbia protratto la mia esistenza confinato alle frange del tempo, sono

tornato. Io sono l’Oscurità Eterna.

Sciamana, ti ringrazio della tua avidità.

Ora posso portare a termine ciò che tu hai principiato.


« Tu conosci il mio desiderio » disse Tango, distanziandosi da me. Danzammo a mezz’aria come due granelli di polvere, il soprabito che gli si schiudeva attorno per il calore della sua voce. Eravamo illuminati e accecati dalla Sua rete a incastro, dalla macchina di morte, dal motore che si trovava al cuore dell’universo. Non c’era più Gaya; il mondo vacillava e brillava come un’onda di calore, e l’unica cosa visibile era l’oceano, tanto che sembrava che avesse sommerso di nuovo la terra. E in quell’attimo le onde si fermarono: divennero fredde, grigie e rocciose, aspre e implacabili, oltre un chilometro sotto di noi. « Tu conosci la mia richiesta. Tu conosci la mia offerta, tu conosci la mia penitenza. Tu sai chi sono, Nulla. »

Sì.

« Concedimelo subito, Nulla! »

Vuoi riavere i tuoi figli.

È un desiderio molto mortale da parte tua, Vivi.


« RIDACCI I NOSTRI FIGLI, GROSSO STRONZO BLU! » (Odio i discorsi verbosi.)

Il sangue di Kuja e le ossa di Kuja. La tua esistenza

comprova la mia teoria sulla natura dei viventi,

come la tua copia ha fatto prima di te.

Voi scegliete la distruzione. Avete sempre

scelto la distruzione, non avete mai dato

niente.


« Chi sei tu per giudicare? » lo schernì Vivi, mentre venivamo di colpo frustati da un vento crescente, come due passerotti pazzi e appena nati che stentano a non farsi trascinare dalle correnti. Gidan aveva avuto sedici anni quando aveva affrontato Trivia – era stato tanto giovane? La sua mente era stata tanto giovane? Le sue mani erano antiche, senza limiti – e io e Tango eravamo bambini soli. Eravamo le metà contro l’intero. Tanto Bianco, Tango Nero. « Chi ti dà il diritto di essere così ipocrita? Tu sei la matrice che affoga il mondo per purificarlo! Tu sei la morte, tu sei la vita, e non comprendi la natura né della prima né della seconda! Sarà mia, la vita sarà mia, la morte sarà mia, ti vincerò come ho già fatto una volta. »

Tu non hai mai dato niente, né la morte né la

vita. Tu non hai sconfitto niente, né la vita né la

morte. Ti tieni stretto ad una parodia e sei

tu stesso una parodia; tutta la tua vita non è che

una copia, magnifichi il tuo ruolo lavorando

riproducendoti e morendo. Mi hai ceduto tu stesso

ogni persona, e ogni persona è ogni cosa,

tutto per la perversione di un ricordo sotto

forma di bambole difettose.

Ma sarò clemente, poiché la sciamana mi ha offerto

questa manna;

Ti farò ricongiungere a loro.




(Il corpo retrocede dall’attacco alla Morte. L’anima chiede perdono.)

Il trucco, aveva detto Gidan, tanti anni prima, è continuare a muoversi, muovetevi, muovetevi, forza! Andate, bambini. Abbiamo fatto fuori Adegheiz. Abbiamo fatto fuori Tiamath. Abbiamo fatto fuori Shinryu. Abbiamo fatto fuori – lui – io – continuate a muovervi, andate. E Eiko e Vivi si erano mossi; ancora fumanti dal Flare della stella strangolata di Kuja, continuavano a spostarsi, il viso della bambina solcato dal sudore mentre il calore di migliaia di incantesimi rimbalzavano sul suo Reflex. Vivi rifulgeva e abbagliava come una stella, tanto che quasi le faceva paura – quasi, perché troppo inaridita dalle troppe battaglie, troppo abituata allo shock che ne conseguiva – mentre tutti gli altri avevano paura di lui, lui viveva sulla paura, andava ad abbeverarsi alla sponda del fiume con mani bianche e pensava a come ci si sentiva a essere usati come un’arma. Pensò a Steiner, e alle spade, e alla paura, e a quanta paura avrebbe avuto Steiner se la magia avesse superato la spada e si fosse intrufolata nelle viscere viscide del suo corpo nerboruto, e si spruzzò l’acqua in faccia. Eiko! Vivi! Ora!

(Ora assomiglia un po’ al mio Flauto d’Angelo, il mio bastoncino di – l’ho preso davvero da un cassettone? Sembrano passati migliaia di anni – le sue viti mi si sono avviluppate al polso, non la potrei far cadere nemmeno volendo, fior di cachi, di rosa, di tulipano, di pera. Ci muoviamo come piume al vento di poppa, scivoliamo in archi di sapone, Meteo uno-tre-cinque. Stavolta è più difficile. La coreografia dei Reflex non funziona mai esattamente come dovrebbe. Tango ha abbastanza potere da distruggere il cielo, ma limitarlo per distruggere una cosa più piccola ne diluisce la forza. Avrebbe dovuto bruciare il mondo, tendere le braccia e)

Erano gli unici che tutti proteggevano col proprio corpo. Freija scattava, col forcone alzato, per incassare una frustata tremenda sul davanti; Amarant si lasciava lavare la schiena con l’acido sbraitando imprecazioni con ingrato dolore. Quina ondeggiava in prima linea a ricevere colpi sulla sua grossa massa. Gidan era sempre lì, a spostarli, a rotolare e a schivare, ad atterrare da grandi altezze; e così Garnet, che riusciva a stento a reggere le batoste indirizzate a lei, e Steiner, che sembrava un’orchestra di latta sotto assedio. Salvate i bambini. Salvateli perché abbiano qualcosa di meglio, non che ci sia, questo qualcosa di meglio, ma perché di qui non si torna più indietro. Erano sì e no dei bambini: Eiko dal volto di pietra, Vivi dalle mani di fuoco, rumorosi, e forti, e arrabbiati, e ricoperti delle vesciche delle battaglie. Eiko ripensò al Muro dell’Invocazione, alla promessa morente di una nazione fatta a due semi, ricordò Madein che in parte era una sua creazione e in parte era qualcos’altro che aveva oltrepassato il tempo ed era tornata a mani vuote.

(friggerlo. Grazie a tutti gli Dei, gli Eidolon non hanno più bisogno di persuasioni. Fenril azzanna, ulula, potrebbe staccarmi una mano ma assale il Consumatore di Ogni Cosa; sempre intorno, intorno, intorno, ci tocchiamo le mani per rassicurarci furiosamente a vicenda, gli poggio le mie sulla schiena mentre ci uniamo fondiamo curiamo. I mari sono mulinelli tangibili di glassa scura, torbidi, velati di nebbia, densi di sale; l’aria è pressoché veleno lungo la scia della Crocifissione di Trivia. È un processo lento, laborioso, per due lucciole come noi. Siamo le donne al pozzo che lo prosciugano con un ditale, gli uomini al deserto che spalano la sabbia, la regina al telaio che disfa l’arazzo e ricomincia da)

Non avevano mai chiesto di essere lì. Non avevano mai chiesto di nascere. Senza madre; senza padre; ciascuno con un solo nonno, la ferita decadente della saggezza di un popolo, esuli morenti che avevano inviato i propri pargoli nel mondo con un sospiro e una preghiera. Erano nati l’una il parallelo dell’altro, l’uno il negativo dell’altra – Eiko aveva messo tutto per iscritto quando aveva sedici anni e rimuginava su questo genere di cose nelle lacrime mentali della tumultuosa adolescenza, pur avendo abbandonato le sue debolezze alle porte del castello e passando il tempo ad avviare i motori delle aeronavi. La sua penna si era mossa nello stesso istante di quella di Vivi, che usava una piuma che si era strappato dalle ali in rovina e riportava innumerevoli calcoli sulla matematica della vita. Lei aveva trovato dei genitori; lui aveva trovato dei figli; non erano più i mocciosi di un tempo che frugavano nella spazzatura e prendevano affetto ovunque lo trovassero, arrampicandosi sulle ginocchia di Amarant e dormendoci fino all’alba quando era troppo stanco per scacciarli con le sue mani enormi e pesanti. Erano diventati ingegneri. Erano diventati maghi. Evocavano tutti e due, ciascuno a modo suo: lei richiamava i suoi spiriti dall’etere, e lui i suoi dalla chimica della Nebbia e dalle proprie mani capaci di creare bambole. I maghi neri non erano mai stati figli suoi. Gli Eidolon non erano mai stati i suoi genitori.

(capo; il suo Firaga mi sfrigola una ciocca di capelli e la riduce a un nulla putrido, e Vivi si è rotto il polso a causa del mero scatto della velocità dell’aria rimpallata da una raffica dell’Apocalisse di Trivia dal pessimo tempismo. Me ne accorgo perché se lo tiene accanto al fianco, un po’ penzolante, storto e difficile da muovere. La magia oscura mi mette sempre un sapore di vomito in bocca. Cercare di sistemargli le ossa in una posizione che mi permetta di sanargliele è tutta un’altra storia; siamo piegati e lui ringhia, mentre tentiamo di allontanarci contemporaneamente per evitare un attacco, accecati dal blu, le piume rosse che mi sferzano le guance lacere mentre gli raddrizzo il polso. Abbandonare il mondo all’annichilamento totale con un solo Flare che inglobi la superficie non è più una delle alternative, ma l’unica strada possibile; lui succhia magia dal Nulla Finale come un neonato da un capezzolo, con una cupidigia dettata dalla disperazione.

« Maiden » piagnucolo, « Mogu, Dio, aiutateci » e i mari vengono agitati dal Meteosisma.

« Ho fatto male i miei calcoli » mi ruggisce Tango nel collo, il polso che scotta quasi al punto di fondersi tra le mie mani.

« Shhh, spaventapasseri » sussurro, mentre veniamo sballottati da venti glaciali. Adesso è calato il buio delle tempeste cosparso di fuochi fatui, ardenti e luminosi quanto le luci abbacinanti che impiantano a Toleno. « Shhh. Andrà tutto bene, un altro po’, assimila un altro po’ e affetteremo la zucca dalle ossa. »

« Ho fatto male i miei calcoli e ti ho stuprato come un pazzo » dice, e)

Il piccolo granello incandescente che risuona da qualche parte nella testa di Tango Nero, e che rappresenta lui quando era più piccolo, si interroga sui figli, e sui numeri che forse nessuno credeva si sarebbero mai aggiunti, e sulla disfatta dei Maghi Neri, il cui peccato originale era stato allontanarsi dalla simbiosi con i Bianchi. Tutto il mondo li aveva temuti, sempre; la magia nera è la più esplosiva e letale di tutte. Erano stati gli umani a tingerla per la prima volta di rosso, gli uomini. Le donne erano sempre state bianche, una stirpe dai capelli rossi che era scappata nuda dalle foreste del brodo primordiale dell’inizio della vita, che aveva aperto le mani e aveva Curato. Vivevano insieme nei loro piccoli villaggi, lontani dalla gretta quotidianità dell’umanità, una razza a sé, i mistici dal sangue puro e i maghi tinti di nero, e venivano odiati ma non li si poteva toccare. Perché i maghi erano coperti di nero? Per modestia? Perché i guaritori vestivano di bianco? Umiltà? Come si riproducevano? Come facevano? La parte più adulta di Tango Nero aveva risposto scopavano, alla fine sempre di scopare si tratta, eppure lui aveva creato i suoi bambini dall’argilla come il Dio Senza Nome e gli si erano sbriciolati davanti dopo essersi raffreddati dal forno. Lui è fatto di carne e nebbia; loro erano solo nebbia; lui è il simbionte, la chiave mancante, Eiko Carol è l’usurpatrice, il bullo, colei che lui ha abbandonato e la serratura. Forse questa cosa l’ha capita male. Non se ne stupirebbe. Lui è sempre stato imperfetto. Lui esiste solo per, lui Esiste solo per, lui esiste Per e Solo e c’è tanto altro ancora.

(mi morde la spalla fino a farmi uscire il sangue, che penetra nel cappotto doppio di Rain; il Rigene a momenti gli cuce quegli stramaledetti denti nella mia pelle, con io che guaisco senza opporre resistenza. « Ho fatto male i miei calcoli e verremo entrambi mangiati come pallidi acini di uva, il mondo come un’arancia, la luna come una mela. Tera come – T-Tera come- »

« E se pure morissimo? Moriremo insieme, noi moriamo sempre insieme – volevo morire quando tu sei morto, prima, volevo sparire e farmi mangiare e cadere in un motore e sprofondare come la mia collana, con tutte quelle perle e poco filo – non lasciarmi, Tango, vaffanculo e non osare. Tera è morta, e se dobbiamo morire, moriremo! »

Le grida dei morti eternamente torturati di Trivia hanno perforato l’oscurità; ci siamo tuffati giù e abbiamo scansato per un soffio la sua mano destra scesa per schiacciarci nella sua grinfia, virando come uccellini verso il basso sul ciglio del mare grigio. Il mio Levita ci porta alla deriva, ci fa piombare nel dolore con la frusta dell’acqua che ci raschia le ferite come una pietra.

« Tera è morta, piccola Carol » ribatte, premendosi caldo alle mie ossa. « Tera è morta e così i miei bambini, Fermati, inerti, un punto di libertà e nulla nei loro nomi. Il primo l’ho chiamato Bibi, tanti e tanti anni fa. I miei figli non ci sono più. Me l’ha detto lei. I miei figli non ci sono più. »

« Non vuoi riabbracciarli? Non pensi che io voglia riabbracciarli? »

Ci sono centinaia di pesci morti che affiorano sulla superficie dell’oceano mosso, balene morte, delfini morti, animali marini morti – Leviathan stava probabilmente urlando nella testa di Garnet – morte ovunque, morte irrefrenabile, la nostra morte. Gli occhi di Tango luccicano, oroviolarossi, orribili, distanti come un sole lontano; e poi lui scoppia a ridere. « Ti ho stuprato come un pazzo, dolceprato, sul momento sembrava una buona idea, e adesso stai morendo- »)

Io esisto solo per uccidere non si contrappone a Io esisto solo per vivere. Si contrappone a Io esisto solo per creare. Vivi ha fallito come creatore, si è ritenuto mediocre, si è ritenuto indegno. Io esisto solo per uccidere. Far scoppiare il mondo sarebbe riposante, rilassante. Sarebbe come riavvolgere lentamente le coperte prima di strisciare in un letto soffice alla fine di una giornata interminabile, togliendosi il cappello e riponendolo sul comodino, prendendo la candela e spegnendola tra pollice e indice. Spianerebbe la trapunta, e appoggerebbe la testa sui cuscini, e guarderebbe il soffitto, circondato dalla notte e dal suo sommesso respiro irregolare, dal ritrovo ronzante delle cicale fuori dalla finestra e dalle luci tremolanti dei lampioni. La morte è l’unica cosa che abbia mai voluto, che abbia mai desiderato, al di sopra e al di là del richiamo delle sfornate e sfornate di alberelli sciupati che ha allevato come la muffa nelle cantine – morte, morte, solo morte-

Io esisto solo per morire.

(Un altro colpo. Il calore scalpita sulla nostra pelle, ci fonde le ciglia, ci brucia fino a farci diventare neri come i menestrelli travestiti da maghi di una qualche commedia recitata nei villaggi. Lui mi si affloscia tra le braccia; la tensione di entrambi si è esaurita, condannata a morte e al cappio, si ritrae da noi come l’acqua da uno scoglio.

Non possiamo sconfiggerlo. La consapevolezza ci sprofonda addosso, decisiva, eterna. Non così. Così è finita.

« Per distruggere la Morte, la Cosa finale smembrata e con un nome- »

« Non posso disfare l’evocazione, Tango, non se ne andrà. Io non ho il potere, non l’ho mai avuto- »

« -io devo distruggere il mondo, linden-bloom, regina di spade, per il bene di pianeti che neanche conosciamo- »

« Spaventapasseri » dico io, con voce lenta, delicata, mentre scampiamo di nuovo e per un soffio a un Trivia non molto interessato alla distruzione di mosche come noi mentre fissa affamato la penisola del Continente della Nebbia e il cuore tenero al centro del mondo. Non è altro che una zecca, una pulce, un parassita- « Vivi, no, c’è un altro modo. Può andare tutto bene. Può andare tutto bene. Devi distruggere il mondo, per distruggere lui,)

Esiste solo per morire e qualcosa dentro di lui cerca di agguantare lei, vorrebbe squartarla, vorrebbe sentirla su di sé e divorarla. Non sapeva se chiamarlo amore, ancora non lo sa. Non sa se saprà mai cos’è l’amore. Sa soltanto che è pieno di lei, di bile al sapore di Eiko, sono diventati un essere unico; i misteri finali della verginità e del sesso e del simbiote magonero-magobianco, tutti e due Tango, tutti e due lì a danzare l’ultimo ballo. Lui esiste solo per morire, però, però, però forse può ancora salvare-

(… ma non deve essere per forza questo. »

Un’altra pausa, un’altra risata, eccezionale e dolce, e alla fine rido anch’io, e stiamo morendo, ci stiamo sporcando di sangue a vicenda e lui si è fratturato di nuovo il polso. Siamo i pezzi rotti, sgraziati e crepati di un meccanismo a orologeria. Golem. Isterici. Cieli azzurri e campi verdi e ogni cosa che vi è di buono e dolce, porridge caldo al mattino, occhiali che non si rompono, città riempite di stelle.

« Fammi fare i miei calcoli, Principessa » dice. « Fammi scrivere l’equazione nella mia testa. Facciamo che x è Tera e y è Trivia, facciamo che io sono il portale che li unisce. Facciamo che Cornelia da grande diventi Regina. Facciamo che Tribal e Garnet invecchino nei loro letti. »)

Può ancora essere un salvatore.

(« Li perdoni, Vivi? »

« No; mai; sì; credi che io possa dare il perdono, Carol? Credi che mi sia rimasto in corpo? Io sono un gomitolo di polvere. Sono un cappello nero. Sono un- »

« Tu sei mio marito » dico. « Chiudi quella cazzo di bocca. » E lo bacio.)

Può ancora salvare lei.

(Su Tera potremo ucciderlo. Su Tera, Vivi potrà prendere le mie mani, e io potrò dargli tutto ciò che ho, il mio corpo, la mia magia, la mia anima, me stessa, e lui potrà usarli e farli montare e tutto sparirà in una pioggia incandescente e definitiva, permanente, Ultima, potrei farlo per lui, gli darei tutto, lui lo sa, lui lo sa, lui lo sa. Possiamo distruggere la Morte. Noi distruggeremo la Morte. Lo faremo cadere in ginocchio e moriremo anche noi, sono pronta – non sono mai stata più pronta in vita mia – io e il bambino, non importa, alfa gamma omega. Su Tera non sarà un problema, e Cornelia potrà dormire nel suo letto, togliendosi le coperte nel sonno e tamburellando impaziente la coda sui lati del copriletto. Il mondo si aggiusterà ancora. Uccideremo un Pianeta già ucciso, un nemico che abbiamo già distrutto, e tutto)

L’ha distrutta e depredata. Lei può ancora salvare se stessa.

(si rimetterà a posto. Facciamo i calcoli, insieme, io gli correggo le cifre, do forma alle sue equazioni, mentre ci solleviamo nel manto grigio delle morbide nuvole fradicie di acqua. Non c’è luna, non ci sono stelle, non ci sono luci del sud. Non è mai stato creato un portale così grande in volo, e lo trasciniamo danzando attorno a Trivia, insieme – questa è magia che possiamo fare, squarciamo il tessuto dell’aria, stridori nella notte, come quel suo primo portale che ha fatto quando ha dato fuoco a Lindblum con io che gli stavo alle costole. Ce l’abbiamo fatta anche con le ossa rotte – Vivi era un nipote di Tera, figlio dei suoi figli, erede del mondo-tomba, e lei ha risposto alla sua chiamata. Nei suoi spasmi di morte, Gaya ha riconosciuto i suoi eroi e ci ha concesso di aprire la spaccatura ampia un miglio congiunta al cielo plumbeo di Tera, come un fulmine in una tempesta infinita.

Sì! –

Cos’è questa scioc

Gocce di pioggia si alzano e ci superano, e così le creature morte dell’oceano: tutto segue lentamente l’inesorabile discesa di Trivia nel risucchio del vortice. Nuvole. Pesci. Il buio, la luce, io e lui che veniamo trascinati lentamente sulla loro scia, le ali dislocate che si affannano per spiegarsi nella nostra ascesa verso la Morte. Io rido tra le braccia del mio mago nero, calpestando il vento, dolorosamente ansiosa di salire e lasciarmi tutto alle spalle; lui mi abbassa le braccia e ci libriamo nel vuoto.

« Spaventapasseri, dobbiamo andare, il portale ci)

Se non altro, non riesce a smettere di guardarla. I suoi capelli si sono bruciati e sono ormai strisce fragili e ondulate, verdi come i giardini, verdi come le colline, verdi come i suoi occhi, il viso sottile color cenere e il corno di unicorno più fiero di una corona. Il cappotto di suo figlio si è sbrindellato quasi del tutto, rivelando quel corpo poco femminile, e si è rotta gli alluci dei piedi. Lei lo ha stretto forte a sé come un coltello nel fianco, e gli fa male agli occhi, gli fa male guardarla.

Lei è Tango Bianco, ed è l’unica cosa che il mondo gli abbia mai dato. Voleva farla a pezzi perché smettesse di bruciargli gli occhi.

(risucchierà fino all’osso. »

Le fauci spalancate sopra di noi si contorcono, sbadigliano, languiscono. L’oceano sotto di noi ora è più azzurro, con il rifluire dell’oscurità che tutto consuma, e lui mi stringe le mani scorticate tra i guanti sfilacciati. Il suo sorriso radioso e folle è come una cicatrice sul volto rovinato, e di colpo dimostra più dei suoi vent’anni: trenta, quaranta, senza tempo, antico.

« Linden-bloom » bisbiglia, « parlami di un mulino a vento. »

« … Tango – perderemo quel cazzo di portale, idiota- »

« Sposa germoglio, parlami di un mulino o ti strappo la bocca. »

Sembra che non sappia più come dirlo; c’è una cosa vuota, spenta, che gli si dimena in gola, quel sorriso fisso come se qualcuno ce l’avesse dipinto. Il sorriso trema, si crepa, e la sua mano si serra molto delicatamente attorno alla mia gola. Chiazze di pelle ricoperta di calli si intravedono tra i buchi sdruciti del cuoio nero mentre cerco di sfrangiarli ancora di più con la mascella. « A Dali c’è un mulino » gorgoglio, patetica. « Spaventapasseri, cosa stai facendo- »

« Eiko, l’hai mai visto quel mulino? »

« No. » Ogni forza mi scivola via, vedo delle luci danzarmi davanti agli occhi, col ruggito del portale che turbina attorno a noi. Le sue labbra sono vicinissime alle mie, ormai blu; riesco a sentire il suo respiro su di esse, e all’improvviso ho paura come non ho mai avuto paura in vita mia – non di essere fatta fuori dall’ultimo colpo dello Strangolatore di Lindblum, ma di qualcos’altro, di qualcosa di peggio. Comincio a scalciare debolmente contro la sua stretta, contro il suo abbraccio, sui suoi stinchi e sull’inguine, ma le mie gambe sono come lo stelo di un fiore ammaccato. « No, Tango, non ho mai visto quel – quel m-maledetto – mulino- »)

Lei non smetterà mai di bruciare. Lei è il pugnale nel suo stomaco. Lei è la scritta nelle sue palpebre.

(E poi capisco cosa sta facendo. Le luci ci sono davvero, davanti ai miei occhi.

« No! » Con un calcio, lui lascia cadere le mani, la mia Trance viene via, e mi avvolge le braccia attorno alla vita per non farmi precipitare ora che non ho più le ali, mentre vengo lentamente prosciugata dal fuoco del suo Aspir. « Vaffanculo! Rimettimela! Io vengo con te! Non puoi farcela da solo, brutto stronzo piumato! Rimettimela! »

« Io esisto ad un unico scopo » mormora, tenue e dolce, luminoso e ricaricatosi delle mie forze, e d’improvviso vuoto come una conchiglia ripulita sulla spiaggia. « Io esisto solo per – una volta era tanto semplice, linden-love, un tempo era tanto chiaro. C’eravamo solo io, e i miei bambini, e la fine del mondo. Poi tu ti sei messa in mezzo ai miei numeri e ora cadrà tutto in rovina. »

« Tango! Non puoi farcela! Non funzionerà! Non vuoi rivedere i tuoi figli? Non vuoi stare con loro da qualche cazzo di parte? Noi siamo uno. Io sono te. Tu sei me. Rimettimela. »

Lui ride; lui ride, e ride, finché la risata non diventa un mezzo sospiro. La sua voce è di colpo molto tranquilla, misurata, e incolore. « Fanculo, E-Eiko. Le mie mani ormai sono troppo sporche per poterli abbracciare. »

« Vivi- »

« Cara » dice. « Regina germoglio, forse tu morirai e verrai sepolta in un cimitero, ma se io non avessi fatto così allora avresti potuto marcire quanto ti pareva in un buco di due metri. Sei l’unica che può continuare, Eiko Carol, sei l’unica che può vivere, perché io sono già esistito, sono dieci volte un golem e poi sei venuta tu e io ti odio. Non smetterò mai di odiarti. Non ti perdonerò mai. Non portò mai sentire il tuo nome senza sputare. »

« Io- »

« E io ti amo. »

Non mi divincolo; mi divincolo nella testa, mi divincolo con gli occhi, cade il fondo di ogni cosa, il mondo ruota, il portale è aperto, il mio cuore batte come se stesse cercando di uscirmi dal petto. « Vivi, non lasciarmi andare. »

« Pensavi che stessi espiando, angelo bianco? Era suicidio, è sempre stato suicidio. Una gloriosa morte di fuoco. Sarebbe bello andare all’inferno. »

« Non adesso. Non senza di me. Non lasciarmi andare. »

« Guardami volare, piccola Carol. » Dispiega le ali, tutte e sei; è quasi troppo caldo per stargli accanto. « Guardami lottare. Guardami mentre lo distruggo. Luce abbacinante, e poi scintille, e poi più nulla. I miei ricordi diverranno davvero parte del cielo, così come il mio corpo, il mio sangue, il mio nome, il mio mandato, tutto me stesso, guardami uccidere, guardami mentre vinco. Pensa a me. Sputa. Odiami. Odia ogni cosa. Tocca ogni cosa. Costruisci le tue aeronavi. Ricostruisci le tue città. Svegliati ogni giorno ripensando ai Maghi Neri. Questa è la mia maledizione. »

« Ti amo » dico, e lui mi bacia; mi bacia come un bambino di nove anni, mi bacia sulle labbra, mi bacia come Tango Nero e mi ustiona la bocca e i denti e la lingua come fuoco sacro, tanto che la mia saliva prende il sapore dei resti della cenere scompigliata dal vento. È il bacio d’addio.

« -Dai frutto, Eiko. »

« Vivi! »)

Lui la lascia andare, ascende. Lei cade, e a causa della gravità del portale è come se penetrasse in della melassa pastosa. Il suo soprabito nero e cencioso si apre per il calore, i suoi capelli sono un’aureola morbida e rossa, e lui non si volta a guardarla. È un piccolo corvo marcio, un puntolino sempre più nero, che brucia sempre più mentre sale e la sua molle bambola di pezza crolla senza volare nel mare freddo. Vivi Orunitia entra nel varco con le mani che ardono e gli occhi che brillano, e il volto nero, lei sulle labbra e sulla lingua; il varco si chiude, e Trivia gli viene incontro, sprizzando sdegno:

(L’anima chiede perdono.)

Lei non lo rivedrà mai più.

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Capitolo 15
*** And How They Lived ***


epilogo
e come vissero poi



lady i swear by all flowers. Don’t cry
-the best gesture of my brain is less than
your eyelids’ flutter which says
we are for each other: then
laugh leaning back in my arms
for life’s not a paragraph
And death i think is no parenthesis


signora, te giuro su tutti i fiori. Non piangere
-la miglior opera del mio cervello non vale
lo sfarfallio delle tue ciglia che dice
siamo fatti l’uno per l’altra: allora
ridi mentre ti posi tra le mie braccia
perché la vita non è un paragrafo
E la morte secondo me non è una parentesi


- ee cummings



Non l’ho rivisto mai più.

Non so come ho fatto a sopravvivere a quel volo in caduta libera. Forse devo ringraziare Madein o Fenice, perché in me non era rimasta abbastanza magia per levitare, avevo a stento l’energia per respirare. Forse si trattò dell’ultimo rallentamento dovuto al nostro enorme strappo al cielo. Forse – forse – avrebbe potuto essere qualsiasi cosa. Comunque sia, il Narciso Blu mi trovò in aria meno di un’ora dopo, in fin di vita, troppo in ritardo per una battaglia a cui non erano riusciti a partecipare.

La vita è una merda e poi si muore.

Non l’ho rivisto mai più.



Cosa si fa, quando finisce tutto?

Non ci fu un “lieto fine.” Però non ci fu neanche un “triste fine” – non era una fine, lui non mi aveva abbandonato a un per sempre. Camminai come una zombie per i due mesi successivi, senza espressione. Non riuscivo a spiccicare parola con nessuno, non riuscivo a ridere, non riuscivo a sorridere. Non riuscivo nemmeno a incontrare gli occhi di Gidan, o quelli di mia madre, o di chiunque altro. E poi, beh, comincia a venirti la pancia tonda ed è ovvio che sei in una condizione delicata che non c’entra niente con un dolce di troppo. Nemmeno ci avevo creduto fino in fondo di essere incinta. E la cosa mi aiutò a uniformarmi agli altri, perché praticamente nessun altro ci credeva, a parte Garnet. Fu lei che mi fece sedere sul suo letto e mi sbottonò il vestito, tastandomi un po’. Mi disse con un fil di voce che non dovevo tenerlo; non sarebbero stati tanto crudeli da farmelo tenere, se non avessi – e lì mi svegliai.

« No » dissi, gli occhi folli. « No. No no no. »

(Perché tutto d’un tratto era la cosa che più volevo al mondo. Io! Io che odiavo i neonati.)

Allora mi fece sdraiare, mi fece poggiare la testa sul suo grembo che profumava di lino fresco, e le raccontai ogni cosa fin quando nella stanza si fece buio e fu costretta ad accendere le candele. Povera Daga, con i lunghi capelli scuri e le lacrime negli occhi per me, senza mai recriminare, che mi accarezzava la fronte calda e piccola mentre uscivano tutte le parole. Che si ingarbugliavano: anticipavo cose, dimenticavo pezzi importanti. Mi teneva stretta.

« Eiko, va tutto bene. Adesso andrà tutto bene. » E io piansi, ma questa volta fu diverso, e quando smisi non ricominciai per mesi.

E così tutti seppero, e mi trattarono come vetro fin quando non pestai con tutte le mie forze e per tre volte il piede a Gidan. Non ce la facevo ancora a tornare a Lindblum e restai al Castello di Alexandria, con mia madre, con Garnet e Gidan, e poi venne Amarant, e facevamo spesso lunghe passeggiate sulle mura del castello. Mi disse che ero una piccola idiota del cazzo, e io finalmente risi, e lui mi abbracciò, goffo e con troppa forza, come se non avesse mai abbracciato nessuno in vita sua. (Quando facemmo la festa per il nascituro, lui mi regalò un elisir, tre pozioni, quattro matite nuove e le babbucce più orribili del mondo, pare lavorate a maglia da Freija. Credo che fosse più che un po’ innamorato di lei. Fu il regalo più bello di tutti.)

Mia madre si riprese in maniera splendida, e accettò la situazione con facilità. Lo stesso si potrebbe dire per mio padre, che sembrava un po’ più imbarazzato ma continuava a darmi pacche sulla schiena come se potesse servire a qualcosa. Dovette passare un po’ di tempo prima che io e i miei genitori riuscissimo a prenderci di nuovo per mano, prima che loro riuscissero a toccarmi senza innervosirsi, a non guardarmi più come se – quando addirittura – so per certo che Garnet aveva raccontato loro una versione epurata della fiaba.

Mamma, papà, vi voglio bene. Grazie. Perdonatemi.

In sostanza lanciavo roba per aria, grugnivo e camminavo pestando i piedi, facendo rasserenare tutti, e mi sono addirittura sposata – incredibile ma vero – una delle quisquilie sociali a cui doveva sottostare la figlia del Granduca. Era solo sulla carta, perché io persi molto più che le staffe all’idea. Il povero marito prescelto era un ingegnere aeronautico dell’accademia piuttosto allampanato che avevo conosciuto di passaggio, molto gentile e schivo, con gli occhiali spessi. Si chiama Alun. All’inizio ci vedevamo pochissimo – io ero in ansia per il bambino, e completamente avversa al matrimonio – a un secondo matrimonio – io ce l’avevo già un marito, ce l’avevo, ce l’avevo, ce l’avevo. Tango Bianco. Tango Nero. Io ero stata sposata. Ero stata sposata.

Lei nacque in estate, con la faccia rossa, urlante, con la protuberanza degli sciamani e la coda dei jenoma proprio come Cornelia. Garnet fu l’ostetrica. L’ho chiamata Vita, che nonostante le ovvie somiglianze è un nome diverso da Vivi; Vivi faceva pensare alla vivisezione, lei alla vitalità. Aveva i capelli chiari e soffici color lavanda drizzati in ogni direzione possibile e dei grandi occhi verdi. Per un bel pezzo non riuscii nemmeno a guardarla.

Mi riportarono a Lindblum. Mi comprai un nuovo paio di occhiali. Tornai a essere Eiko Fabool, con una figlia, con un marito, e Garnet li aveva avvertiti che sarebbe stato molto meglio evitare, ma mi rituffai nell’ingegneria e mi tagliai i capelli. Alcune cicatrici si scolorirono. Io e Alun avevamo camere da letto separate – pover’uomo, la maggior parte delle cose che lanciavo erano dirette a lui, credo – e io passavo il tempo libero nella mia senza neanche Vita, che aveva la sua balia personale, e guardando il balletto delle aeronavi e la mia città che veniva ricostruita fuori dalla finestra, desideravo la siccità polverosa della Reggia del Deserto. Desideravo arazzi mangiati dalle tarme. Desideravo le grida degli antoleon. Desideravo i Maghi Neri. Avevo perso tutto per sempre.

Madein, dissi una sera tinta di rosso, illuminata dal tramonto e senza più riuscire ad amare niente, Madein, sono impazzita? Sono ancora pazza? Voglio cose non dovrei volere e cazzo, non mi dispiace neanche.

Eiko
, mormorò lui, lascia che ti parli di Madonna, e ci toccammo di nuovo, e lo perdonai, e lui mi perdonò. Madrepadre. Mogu.

Dopo non è successo nulla di che, a parte le piccole cose di ogni giorno che assemblano il tran-tran della vita. Ho costruito aeronavi, ho riparato motori, ho lavorato ai refrigeranti, e di quando in quando mi ricordavo di fare la madre; di quello si è occupato in gran parte Alun, grazie a Dio, ed è a lui che si deve il fatto che Vita sia venuta su solo molto strana e non assolutamente fuori di testa. (Alun aveva un senso dell’umorismo perfidamente asciutto – alla fine mi ci sono affezionata e lo amo, non in quel senso, ma abbastanza da coesistere quanto più pacificamente possibile.)

Lei era taciturna, ed era più grande della sua età, e tanto impaziente. Le piacevano i pantaloni con le balze e i vestiti barocchi, e faceva venire solo dei leggeri infarti a Gidan quando la vedeva svoltare tutta trotterellante gli angoli come una piccola semina-panico in miniatura. Cornelia l’adorava praticamente a morte, e Vita pativa la cosa in silenzio. Le più lontane eravamo proprio io e lei.

Le volevo bene. Solo che non sapevo come toccarla. È stata una maga nera dal giorno in cui è nata, senza neanche bisogno del rivestimento nero, senza doverlo dire a nessuno. Una volta diede fuoco alle tende per sbaglio e accusò le candele, quando aveva sei anni. (L’unica cosa che mi sorprese fu la sua goffaggine. Era intelligente, perspicace, difficilmente la si poteva considerare adorabile. Per me di certo non lo era.) Avevo ventisette anni.

Sono diventata Reggente ai trenta, assumendo il ruolo che non avevo mai voluto, perché i miei genitori volevano avere finalmente la possibilità di ritirarsi. Vita aveva nove anni, ed era più strana che mai, adulta come una donna più grande di me di dieci anni. La principessa Vita. La regina reggente Eiko Fabool. Non sapevo come diamine avessi fatto a incastrarmi in quella situazione, come avesse potuto permettermelo la testa. Una parte di me danzava sulla sabbia e l’avrebbe fatto per sempre, quella parte di me che era morta nell’oscurità dello spazio. Avevo riportato il mondo sul suo asse. Non sarei mai tornata quella di un tempo.

« Madre » mi chiamò Vita una mattina. « madre, stiamo sprecando tempo – dobbiamo andare alla Reggia del Deserto. »

(Descrivere i rumori strozzati che seguirono sarebbe totalmente irrilevante; fate conto che l’abbia fatto e che le descrizioni siano durate dieci pagine, perché mia figlia fu costretta a darmi qualche servizievole botta sulla schiena per smorzarli. Nessuno aveva mai detto a Vita – quello – niente di niente. Forse era stata Garnet. Io no.)

(Solo dopo ho scoperto che uno dei suoi Eidolon era la regina Ashura, cosa che spiegava un paio di cosette, presumo.)

« Per favore, non dire cose noiose come “perché” » continuò mia figlia pazientemente. « Sarebbe stancante. Io devo andare. Tu devi venire. Non posso farlo da sola, non ho le parole per spiegare. È passato abbastanza tempo, madre. »

Io la guardai, lei e i suoi lunghi capelli chiari, la coda che sibilava come quella di un gatto alla luce a gas, calma, paziente, e completamente aliena. L’abbracciai e pensai le ali usciranno presto e partimmo per il luogo dove lei era stata – apparentemente – concepita. Gidan una volta mi aveva proposto di radere tutto al suolo per me. Io avevo pensato agli alberi di una terra senz’alberi, e avevo detto di no.

Era passata da tempo la stagione delle piogge. Pezzi del tetto ormai erano crollati; di questo passo, la sabbia avrebbe consumato il palazzo fino a lasciare solo qualche maceria. Le porte si aprirono fluidamente con un semplice tocco della mano di Vita, come se la stessero accogliendo in casa sua – come se stessero accogliendo me – e percorremmo i lunghi corridoi accanto al punto di attracco e poi quelli all’interno dell’enorme cattedrale afosa dalle scalinate principali. I miei occhi erano pieni di fantasmi; neanche mi accorsi di dove mi portò tant’ero stordita, una perfetta idiota in confronto alla sua sicurezza. Ci dirigemmo a ovest. Guardai la sala da ballo che era stata smantellata. Guardai il bagno con la finestra che non si chiudeva. Lei era in testa, l’incedere risoluto, che seguiva una chiamata, fino al cimitero dei maghi neri.

(Non le ho mai chiesto come ci sia riuscita. Non credo che me lo direbbe. In lei c’è più Kuja di qualunque altra cosa, e detto così sembra crudele ma è vero, con quel suo biancore accecante, fragile, l’atteggiamento leggermente sdegnoso nei confronti di qualunque cosa che non riesca a tenere il passo con i suoi schemi mentali. Di certo non ha un accidenti di niente di mio.)

« Vita » bisbigliai, « perché siamo qui? Hai dieci secondi per dirmi tutto, e non voglio spaccarti un labbro, perciò dammi una buona ragione, mi sono spiegata? »

« Devo adempiere a una promessa » sospirò, seccata. « Avrei dovuto farlo anni fa, ma non sapevo come. Poi ho controllato se il mio corpo è in grado, e in grado lo è. Non ho provato ma ce la può fare, lo so, non sbaglierò. »

« Non so proprio da chi hai preso questo tuo vizio di balbettare e farneticare. Oh, aspetta. Sì, lo so. »

Gli alberi erano carichi dei loro pacchetti preziosi, ancora rigogliosi e bellissimi, fiori tutti intorno alle radici che si nutrivano avidamente del suolo. Piccoli alberi di Iifa. L’aria era densa di qualcosa che forse era nebbia, e c’erano delle luci, delle luci blu, e a Vita bastò alzare le mani. Le sue dita furono come la bacchetta di un direttore di orchestra: le agitò, come se stesse per far risuonare il primo accordo che la terra avesse mai udito, e ci fu una canzone:

Le anime dei maghi neri si schiusero.

(Avevo trent’anni. Credo di essere invecchiata di vent’anni in un battito di cuore durato mezzo minuto.)

(Mi dispiace di essermene dimenticata, Vivi.)

(Mi dispiace.)

Le anime dei maghi neri si schiusero, sbocciarono, diedero frutto, e poi luccicarono e svanirono, e in un attimo gli alberi grondavano gambe, brulicavano di braccia, di suoni, di pulsazioni, mentre una buona centinaia di bambini sui dodici anni allungava le braccia sui rami. La promessa di Tango Nero, la maledizione di Tango Nero. Aprirono la bocca all’unisono; inspirarono. (Per la prima volta in vita sua, Vita Orunitia rise.)

Avevano tutti i capelli neri. Avevano tutti gli occhi d’oro. Erano tutti fatti di carne. Iniziò un chiacchiericcio confuso; sciamarono giù dagli alberi come insetti, come uccelli, come farfalle, l’equilibrio riacquisito dal nero al bianco, tutti nudi che infilavano cappotti e cercavano cappelli. Toccarono terra, un’intera tribù, e ci guardarono, piuttosto timidi. Alcuni erano smilzi. Alcuni erano paffutelli. Erano tutti diversi, come quei semi che pianti in giardino e germogliano fiori di campo, cominciarono a riconoscermi lentamente e mia figlia rideva e-



(Oh, Vivi. Come vorrei che tu avessi potuto vederlo.)



« Madre? »



(Rain mi corse incontro. Sono rinata.)






fine
















Note dell’autrice: finita.

(Ora immaginatevi me che faccio una festa privata con me stessa e mi produco in un balletto triste assai.)

Chiedo scusa per averci messo quattro anni per scrivere questa storia. Per fortuna alcuni di voi si erano evidentemente abituati ai miei ritmi grazie a Sunshine in Winter e mi hanno seguito lo stesso. È stato bellissimo scriverla, ma è stata anche l’impresa più difficile in cui mi sia mai cimentata. Le frasi non venivano. Eiko ha passato tre quarti della storia a piangere come una casalinga che si imbottisce di tranquillanti. Con i dialoghi di Tango siamo arrivati al punto che una mia carissima amica quando parla con me usa quasi esclusivamente puro tanghese. Le arachidi in salamoia mi vivono nelle ossa. Grazie, Gabi. Hai ragione. Eiko avrebbe proprio dovuto evocare la Gameshark.

Grazie al migliore beta-reader del mondo, Drew/Piett, che l’ha rinominata “storia con le violenze domestiche + sindrome di Stoccolma.” Non ce l’avrei mai fatta senza di te. Ancora una volta. (Vuole dare un biscotto premio a tutte le persone che hanno localizzato Aesculapius.)

Grazie a tutti. Se volessi elencarvi tutti non finiremmo più: Tobu, Alexiel, e tutte le disegnatrici schiave del sito che hanno la mia più profonda ammirazione, Riyuen – Gabi, e la tua Rikku psicopatica e il tuo Leviathan seduto a mangiare popcorn sacri davanti alla tv che mi hanno aiutato a proseguire, sei la cosa migliore che mi abbia regalato questa storia – la mia Angie, la mia musa. Demeter. Capperi, grazie a tutti quanti, va bene?

Ai fan di Final Fantasy IX. Ai fan di Vivi. Ai fan di Eiko. A tutti quelli che hanno pensato che fosse una buona idea far diventare cattivo Vivi. Alle mie numerose tazze di caffè. Ai miei recensori. Vi voglio bene. Doveste mai passare dalle parti di casa mia vi preparerò una torta al cioccolato, dico sul serio. Non sarà una torta al cioccolato molto buona, ma torta al cioccolato rimane. (Okay, la torta al cioccolato la facciamo fare a Gabi. Lei la sa fare. Poi Angie prepara gli spaghetti.)

Questa storia è per tutti voi!

- Guardian



Note della traduttrice:
innanzitutto, un paio di considerazioni tecniche.
Il capitolo precedente era, come avrete avuto modo di notare, molto complicato. Certi pezzi erano semplicemente folli e incoerenti, a tratti sembrava quasi un flusso di coscienza; spero di averlo tradotto degnamente e di avervi confuso quando dovevate essere confusi e chiarito i punti che invece dovevano essere chiari. Verso la fine, poi, nei frammenti del “presente dell’azione,” la narrazione ogni tanto passa dal presente al passato. Non c’è però molta coesione interna né costanza, perciò nel dubbio ho preferito lasciare tutto al presente o adottare al massimo il passato prossimo. Ho pensato fosse bene precisarlo.
Ho scoperto inoltre che Dylan Thomas, lo stesso autore della poesia utilizzata per il prologo, ha scritto anche una poesia dedicata al padre morente intitolata Do not go gentle into that good night. Potete trovarla in originale e tradotta qui, oltre che recitata da Thomas stesso. In un certo senso racchiude lo spirito della storia, ma a voi le vostre interpretazioni.

E ora…
… L’Eidolon della Gameshark XD
OH EM GEE NON È POSSIBILE È FINITA DAVVERO ;OOOOOOOOOOO; … WHO’S THE QUEEN OF THE WORLD, YOUFFIE IS THE QUEEN OF THE WORLD

No, ma voi lo sapete da quant’è che lavoro su questa storia? SINCE TWO THOUSAND FUCKING SIX. Mica dal 2008 come c’è scritto qui, tzè! Praticamente da quando ho preso in mano i dizionari (all’epoca cartacei omg) e ho cominciato a perdere diottrie (letteralmente). Ci sono passaggi su cui sono tornata e ritornata migliaia di volte. Ci sono capitoli interi che ho praticamente tradotto da capo, anche due volte. Ho avuto per anni un terrore reverenziale dello scorso capitolo, e mi sono detta spesso che non ce l’avrei mai fatta.
In questa storia ci sono quasi tutti gli strati dei miei progressi e dei miei fallimenti. Finirla mi mette quasi tristezza, ma c’è un tempo per tutto.

Go Not Gently mi ha insegnato tantissimo, e mi ha chiarito tante cose su quello che volevo e voglio fare, per chi lo faccio, e perché.
Potrei e vorrei continuare a sproloquiare sulla storia in sé, ma in questa sede lascio a voi tutte le conclusioni. Spero solo di averla resa nel miglior modo possibile per le mie capacità e anche di più, e che vi sia piaciuta almeno la metà di quanto è piaciuta a me.

Ho rivisto rapidamente e per l’ultima volta tutti i capitoli, modificando e snellendo qualche nota. Se volete salvarvela sul pc questo è il momento buono per farlo. Se tornerò su questa storia sarà solo per il piacere di rileggerla; d’ora in poi, eventuali correzioni avverranno solo ed esclusivamente tramite sempre ben accette segnalazioni, che potete inviarmi anche in via privata tramite il mio account personale.

E ora basta. Grazie a tutti coloro che hanno letto, recensito e commentato in qualunque modo nel corso del tempo, a chi l’ha messa tra i preferiti, tra le seguite, e tra le storie da ricordare. Grazie a chi mi ha corretto la grafia di alcuni nomi, alla Wiki di Final Fantasy e ai siti che riportano le guide passo per passo dei videogiochi, YouTube suo malgrado compreso. Grazie a tutti i miei beta (nell’ordine: kar85 lololol per il prologo; Frances dal prologo fino al capitolo quattro; la_vale per tutti quanti, compresi i primi. Ve l’ho detto che ha avuto varie edizioni, no?).

Ero sinceramente convinta che non l’avrebbe letta nessuno ma proprio nessuno, perché il fandom è talmente di nicchia da essere quasi disprezzato, e come se non bastasse la storia tratta di temi pesanti e scorre relativamente lenta, soprattutto nella prima parte; grazie, veramente, per avermi smentita.

Ci vediamo in giro.

youffie

(PS: l’originale è durata quattro anni, questa è finita dopo poco più di due. Poi non dite che non vi vizio.)



Fanart assortite:

Eiko:
• Fade to White
Eiko
• Give me the world on a platter, ispirata ad alcune frasi del capitolo 11.
Vivi:
Black Tango
Black Tango Unmasked
Vivi e Eiko:
Black Mage. White Mage.
Epicenter, con l’aggiunta di Rain.
Scene:
• In My Own True Name, tratta dal capitolo 7.
• Haircut, tratta dal capitolo 8.
• Cloth Dust and Souls, tratta dal capitolo 8.
• Crown Thee, tratta dal capitolo 10.
Queen of the Abyss, concettualmente tratta dal capitolo 12.
• Staring Down Oblivion, tratta dall’ultimo capitolo.

Ora ciao davvero, eh.

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