La volpe di Liverpool

di aniasolary
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo e primo capitolo ***
Capitolo 2: *** Secondo capitolo. ***
Capitolo 3: *** Terzo capitolo ***
Capitolo 4: *** Quarto capitolo ***
Capitolo 5: *** Quinto capitolo ***
Capitolo 6: *** Sesto capitolo ***
Capitolo 7: *** Settimo capitolo ***
Capitolo 8: *** Ottavo capitolo ***
Capitolo 9: *** Nono capitolo ***
Capitolo 10: *** Decimo capitolo ***
Capitolo 11: *** Undicesimo capitolo ***
Capitolo 12: *** Dodicesimo capitolo ***
Capitolo 13: *** Tredicesimo capitolo ***
Capitolo 14: *** Quattordicesimo capitolo ***
Capitolo 15: *** Quindicesimo capitolo ***
Capitolo 16: *** Sedicesimo capitolo ***
Capitolo 17: *** Diciassettesimo capitolo ***
Capitolo 18: *** Diciottesimo capitolo ***
Capitolo 19: *** Diciannovesimo capitolo ***
Capitolo 20: *** Ventesimo capitolo ***
Capitolo 21: *** Ventunesimo capitolo ***
Capitolo 22: *** Ventiduesimo capitolo ***
Capitolo 23: *** Ventitreesimo capitolo ***
Capitolo 24: *** Ventiquattresimo capitolo ***
Capitolo 25: *** Venticinquesimo capitolo ***
Capitolo 26: *** Ventiseiesimo capitolo ***
Capitolo 27: *** Ventisettesimo capitolo ***
Capitolo 28: *** Epilogo ***
Capitolo 29: *** Another people in another places #1 ***



Capitolo 1
*** Prologo e primo capitolo ***


nat Faccio un respiro profondo, inserisco la chiave nella serratura e giro. Più semplice di quel che pensassi. Con un enorme valigione fra le gambe – non accetto doppi sensi, gente –, non ho intenzione di fare niente di male.
Sto per scappare di casa.
Apro la porta.
Oh mio Dio, sto scappando di casa! Spingo di poco la valigia fuori, attenta a non fare rumore, e mi volto un’ultima volta verso il postoin cui ho vissuto diciannove, orribili anni della mia vita.
Ciao ciao, mami. 
Ciao ciao, papi.
Natalie spicca il volo.
… non intendevo in senso letterale!
La porta si richiude all’improvviso, spintonandomi dentro come l’indecente schiaffo di un buttafuori sul mio adorabile sedere. Cado di faccia a terra e il suono dell’allarme, simile alle sirene dell’ambulanza, mi invade le orecchie. Spalanco gli occhi e mi sollevo: raggi infrarossi invadono la stanza come una ragnatela. Manco fossi in una gioielleria, serrande di cui non ero a conoscenza si abbassano, rendendo inaccessibili le finestre. L’enorme televisore di fronte al divano si accende, rivelando il volto di un poliziotto con una voce robotica.
“Resta fermo. Sei circondato. Non puoi fuggire.”
Piano fallito.
Mi inventerò una scusa, nel frattempo mi sollevo: trovarmi sdraiata con il sedere all’aria non è fra i tanti sogni della mia vita. Alzandomi, sfioro una mensola e il cappello mi si abbassa sul viso.
«Mani in alto!» La voce di mio padre e il rumore del caricatore di una pistola.
Oh Signore Gesù Cristo Santa Maria Benedetta.
«Ba…»
«Mani in alto o sparo! »
Alzo le mani come mi ha chiesto. «Fomo Matalie,» grido, ma il cappello di lana mi copre la bocca.
«Che cosa? »
«Fomo Matalie, babà!»
Mi sfugge un singhiozzo.
Mi sento toccare la testa, finalmente il cappello cade a terra e così incontro gli occhi azzurri e furibondi di mio padre, con un pigiama rosa di spugna e la maschera da notte poggiata sui capelli grigiastri.
Gli rido in faccia.
«Che cosa volevi fare, signorina?» chiede, agitando la pistola.
Non mi viene più tanto da ridere, adesso.
«Buford! Buford, l’hanno rapita! L’hanno rapita, nella sua camera non c’è! » urla mia madre dalle scale.
«È qui.»
Mio padre mi indica con la pistola.
Aiuto.
«Oh Signore Gesù Cristo Santa Maria Benedetta,» esclama, correndo ad abbracciarmi con i bigodini fra i capelli e le ciabatte a forma di orso. «E i ladri? È già arrivata la polizia?»
Papà si avvicina al tavolino accanto alla poltrona, solleva il suo premio di lancio di giavellotto e rivela un pulsante. Non avevo la minima idea che esistesse! Lo preme e le serrande si alzano. Se solo l’avessi saputo…
«Il ladro è Natalie, pare. Mi spieghi, signorina, perché hai provato a uscire nel bel mezzo della notte? »
«… nel bel mezzo della notte? » gli fa eco mia madre.
«Sono le tre, Tracy cara, » le risponde papà con dolcezza e poi si rivolge a me, con gli occhi accesi di rabbia. «Allora, Natalie? »
Sono davvero le tre di notte?
Sospiro.
E l’unica cosa che viene fuori dalle mie labbra è un gran sbadiglio.

j

Sdraiata, cerco con tutte le mie forze di rimanere immobile, trattenendo al massimo la mia inquietudine.
«Ferma, Nat, o con lo smalto farò un pasticcio,» mi rimprovera lei, seduta a gambe incrociate di fronte a me.
Sbuffo.
«Nessuno guarda i piedi della gente, Pam.»
«Non è vero: una volta su Ask un tipo mi ha chiesto la foto dei miei piedi. Avevo lo smalto fucsia evidenziatore con le stelline.»
Non riesco a trattenere lo shock a lungo, per questo la guardo di traverso e non riesco a capire come a Pamela ogni cosa strana del mondo possa sembrare normale: per questo è la mia migliore amica dalla seconda media.
«Credevo che facessi la modella per il mascara della profumeria di tua zia, non per i piedi.»
Pamela mi fissa con i suoi grandi occhi verdi e le ciglia lunghissime, e poi sorride in quel modo caldo e allegro che la rende bella in modo imbarazzante, come se l’avere le gambe lunghe e le tette e i capelli biondi e ricci naturali non fosse sufficiente. «Non si può mai sapere nella vita. Un altro minuto e la tortura finirà.» Pamela passa un'altra pennellata di smalto blu. «Ti hanno mai detto che hai le dita da pianista?»
«È un modo carino per dire che suono il pianoforte con i piedi? Non è carino da dire, Pam, sai quanto ci tengo…»
«Io riesco a muovere solo il ditone, ad esempio.» Sono felice che tu sia qui, Pam. «Vedrai che la punizione non durerà molto.»
«Oh, certo.»Tossicchio e imito la voce di mia madre. «Natalie Hanna Truman, non uscirai di casa per un mese intero se non per buttare la spazzatura nel bidone. Così sì che desidererai scappare, signorina.»
«Sei un’attrice nata!» Ride.
«Oh, no, solo un’imitatrice. Non ho abbastanza talento per fingere al meglio di essere qualcun altro.» Scuoto la testa. «Che sarà mai un mese di ufficiale prigionia? Il mio orario di ritirata era fissato per le nove… se solo avessi dato una controllata all’allarme! Come potevo sapere che funzionava anche dall’interno? Con il pulsante sotto il premio di lancio di giavellotto di mio padre…» Sono ancora sconvolta per questo.
Pamela si passa un ricciolo dietro l’orecchio. «Mi dispiace tanto, Nat. Vedrai che non sarà così per sempre.» Si viene a sedere accanto a me. «E se non potrai raggiungere le feste estive, sarò io a portare le feste estive da te.»
«Oh, magari! Ellen Darcy organizza sempre spettacoli di spogliarellisti cubani!» Gli occhi di Pamela assumono la luminosità di una super nova.
Salto sul mio posto.
«Davvero? »
«Sì! »
Pamela ride e si alza in piedi sul letto.
«Si spogliano e ballano, passano da un tavolo all’altro e muovono il loro fantastico sedere…»
«Così? » Fa un tentativo a metà fra la danza del ventre e quegli strani balli russi, la schiena le resta ferma come se avesse una stecca che la mantiene. Non è mai stata molto agile in queste cose.
«Pam, che cos’è questo? »
«Un ballo di seduzione! E poi si danno anche gli schiaffi… lì! »
Mi alzo anch’io sul mio posto e cerco di imitarla. Oddio, credevo fosse più semplice. «Sul davanti o sul di dietro?»
«Da entrambe le parti, credo.»
«E parlano in spagnolo!»
«Dio, sì! »
«Te gusta, segnorita?» Ondeggio il bacino e mi do uno schiaffo dietro. «O te gusta mucho altro? Scusa, sono una frana con lo spagnolo!» Continuo ad ondeggiare, sempre con più ritmo. «Io mucho caliente.»
Apro il pantalone della tuta sul davanti e continuo a ondeggiare in maniera spropositata.
«Natalie… »
«Pamela, io muy caliente… »
«Nat… »
«…Arrrrrrrrriba!»
«Natalie Hanna Truman, che cos’è questo?»
Mi immobilizzo sul posto.
Con lo sguardo fisso verso il vuoto, mi sistemo i pantaloni della tuta e mi volto verso mia madre che mi guarda con un’espressione di disgusto.
«Pamela Anderson.» Mia madre si rivolge a Pam.
«Jefferson, » la corregge lei.
«Sai dirmi che cos’è questo?»
«Vorrei saperlo anch’io.»
«Diciannove anni sprecati, » borbotta mamma.  «Mettiti qualcosa di decente addosso, Natalie. Stasera a cena c’è Arthur Benkison.»
***
«Ahi!»
Pamela mi tira i capelli per legarli.
«Quindi tua madre intendeva quell’Arthur Benkison? »
«Sì, Pam. Conosci qualche altro Arthur Benkison? »
«Non si può mai sapere nella vita. »
«Ma questo è risaputo»
«Intendi il fatto che una volta faceste il bagnetto insieme nella vasca dei tuoi? »
«Oh, Dio.» Mi sento le guance infiammate. «È il sogno erotico di tutta la mia vita.»
Pamela sistema le forcine fra le mie ciocche ribelli. «Intendi anche il fatto che è stratosfericamente bellissimo e sette anni più grande di te?»
Fisso il mio volto nello specchio. Con i capelli alzati si notano ancora di più le guance piene, e le lentiggini sul naso sono evidenti anche se ci ho messo fondotinta e fard.
«Anche quello è risaputo. »
Continuo a guardarmi: i miei occhi mi piacciono. Di un marrone così scuro che mi fa sentire protetta da me stessa, da quella che ci può essere dentro di me. Pamela dà un’altra spazzolata alla mia coda arancione, ed il fatto che si veda la mia ricrescita castana è voluto.
«Ed intendi anche il fatto che ti chiama… »
Il rumore di un clacson attira le mie orecchie e mi giro di scatto.
«È qui!»
***
Pamela è uscita dalla porta sul retro ed io me ne sto nel corridoio del piano di sopra, appoggiata al muro. Le scarpe alte mi fanno male alle caviglie, lo smalto si è rovinato ma tanto i piedi non li guarda nessuno e il vestito è troppo corto e aderente e mi si vedono troppo le gambe. Le accarezzo affranta. Dio, dovrei dimagrire…
«Oh, Arthur, bello come il sole!» sento mia madre che parla.
Dio… le calze sono rotte.
«Oh, ma certo che Natalie è qui! » alza ancora di più la voce. «Natalie cara? C’è Arthur! Sta venendo a portarti giù!»
Oddiooddiooddio. 
Corro in stanza, mi alzo il vestito, mi abbasso le calze, slaccio i cinturini di entrambe le scarpe, lancio via le calze, metto una scarpa, allaccio il cinturino. Yuppi!
Toc toc.
Prendo l’altra scarpa. «Chi è? » La mia voce viene fuori tremante.
La porta si apre ed entra l’essere più meraviglioso presente in quest’universo.
Sorride scuotendo di poco la testa, in modo che i capelli biondi e ondulati lunghi fino al mento si spostino per non dargli fastidio. Ha un sorriso che mi fa sentire sul punto di cadere giù da un burrone. «Solo Arthur.»
Solo Arthur.
La sua fossetta sul mento. Il viso abbronzato ma naturale, con le guance rosee. Gli occhi più verdi che io abbia mai visto.
Ma questo è risaputo.
Intendi il fatto che una volta faceste il bagnetto insieme nel tuo bagno?
Alto più di un metro e novanta, dal corpo slanciato, proporzionato, perfetto, avvolto in uno splendido completo d’Armani grigio, arriva davanti a me e si mette in ginocchio.
Intendi anche il fatto che è stratosfericamente bellissimo e sette anni più grande di te?
«Arthur.» Sospiro. «Ciao. »
Spero di non sembrare la ragazza più tonta sulla faccia della terra.
Mi sfiora la pelle delle caviglie e mi infila la scarpa e lo guardo e potrei morire. Spero davvero che non guardi il mio smalto orribile!
«Che è successo alle tue unghie? »
«Oh… niente, è uno smalto sensibile, sai.» Mi mordo le labbra. «Cambia con l’umore… quelle scalanature indicano la felicità.»
«Oh, che strano!»
«Eh già! »
«Solo tu potevi metterti una cosa del genere.»
Evito di guardarlo negli occhi e mi allaccio il cinturino, quando torno a guardarlo lui sta fissando me.
Mi porge la mano.
Ed intendi anche il fatto che ti chiama …
 «Trottolina.»
… Ecco.
Arrossisco.
«Dovresti smetterla di chiamarmi così. »
Mi fa camminare facendomi appoggiare al suo braccio. «Quand’eri piccola trotterellasti giù dalle scale come una palla da bowling per venirmi e salutare e cadesti di faccia terra.» Si vede dove è cominciato tutto… «Ora non lo fai più.»
No, lo faccio ancora, credimi.
«Be’, Arthur.» Mi gonfio un po’. «Sono cresciuta, sai.»
Faccio per chiudermi la porta della mia stanza alle spalle ma lui mi ferma, fissando i suoi occhi nei miei; potrebbero cedermi le ginocchia.
«Si vede che sei cresciuta, Nat,» sussurra.  Mi incanto a guardarlo… quanto può essere sexy. «Per questo dobbiamo parlare.»
Ohibò. 
«Non stiamo già parlando?»
«Intendo da soli.»
Doppio ohibò.
«Vedi qualcuno nei paraggi?»
Ride: ha una risata che condensa l’aria, mi stordisce, è incredibilmente solare. «Ma al piano di sotto ci sono i tuoi genitori e i miei. Sentirebbero le tue urla.»
Ohibò alla decima.
Spalanco la bocca per replicare quando «Natalie cara?» mi chiama ancora mia madre, ed io vorrei replicare, e non avere una faccia da cretina e trovare la mia sensualità repressa.
 
A cena Wanda, la nostra cameriera, serve Canapè Primavera, Dartois agli Champignons e pomodori da Insalata Ripieni al Roquefort. 
«E alla fine abbiamo vinto la causa, » dice papà.
«Be’, non mi sarei aspettato niente di diverso, » constata il signor Benkison, un Arthur con trent’anni in più, ma pur sempre affascinante. Accanto a lui sua moglie taglia il carpaccio con una lentezza esasperante, sembra che la carne desti in lei sospetti da detective. Da lei Arthur ha preso gli occhi, decisamente, anche se questa donna ha un’espressione arcigna non solo quando guarda la carne, ma anche quando guarda me. Sarà per il fatto che sono fatta di carne anch’io, credo.
«Abbiamo capito, Buford, ma non dovresti parlare di lavoro a cena,» la mamma rimbecca papà sorridendo.
«Signora Truman, siete sposata con l’avvocato più famoso di Liverpool, mi sorprenderei se parlasse di sport.» Arthur si inserisce nella conversazione, disinvolto e sereno. Io vorrei solo ficcargli la forchetta sulla mano – dalle dita lunghe e agili, come quelle di un musicista – perché è decisamente troppo a suo agio, mentre io vado in corto circuito con le sue parole nella testa.
«Oh, ti sbagli! Parli da economista, ragazzo!» Ride papà. «Io gioco a golf. »
«Ma non riesce mai a centrare la buca. » Mamma scuote la testa.
«Be’, pare che questo sia un gran problema per un uomo,» afferma il signor Benkison. «Chi dobbiamo ringraziare per la nascita di Natalie?»
La mamma fa la sua risata finta, secca e inceppata come un vecchio disco.
«Ringraziare qualcuno? » La signora Benkison fulmina suo marito. «Se potessero andrebbero da quel qualcuno e lo prenderebbero a sprangate. Natalie li delude un giorno sì e l’altro anche. »
Cado dall’universo di nuvole in cui mi sono rifugiata e mi ritrovo qui, sulla sedia rossa dell’elegante sala da pranzo di quella che è sempre stata la mia casa, con la signora Benkison che mi guarda con disgusto e la vergogna sul volto dei miei genitori.
«Mamma…» la chiama Arthur.
«Che… che cosa? » chiedo, alzando la voce.
«Scherzava.» Arthur mi sorride.
«Scherzare, io? » La signora Benkison posa il tovagliolo sulla tavola come se volesse uccidere un insetto. «Scappare di casa in piena notte dopo tutto quello che ha fatto... è una vergogna. »
Arthur china il capo, le guance gli diventano rosse e stringe le mani a pugno. «Non ne ho avuto il tempo, l’avrei fatto senza di voi. »
«Che cosa? » grido. «Mamma, gliel’hai detto?» mi volto verso mia madre.
«Natalie, tutto il vicinato ha sentito l’allarme, » risponde papà.
«Non significa niente! » grido e vorrei solo scappare per sempre, scavare una buca nel pavimento e andare sempre più a fondo e dare vita ad una civiltà sotterranea: difficile, ma molto più divertente che stare qui. «Poteva essere stato un errore! Perché non mi lasciate mai vivere la mia vita senza che tutti i vostri amici la conoscano e mi giudichino? Mi bastate già voi! »
«Natalie, non urlare,» mi dice mamma a denti stretti.
«Arthur, » la signora Benkison lo chiama. «Le hai parlato? Avevi detto che l’avresti fatto. »
Arthur mi lancia uno sguardo dolce ed io vorrei che contasse solo questo, il suo sguardo.
«No, » le dice. «Aspettavo che fossimo soli.»
Mi alzo dal mio posto senza dire niente, per poco vado a sbattere contro Wanda e il vassoio con il salmone, passo dalla cucina per uscire dalla porta sul retro, inciampo sulla scopa, la ciotola con le patatine salta all’aria e mi appoggio alla mensola per non scivolare.  Il contenitore delle mandorle tritate finisce sulla torta alla fragola. Oddio. Prendo la panna e la ricopro tutta, almeno questo è rilassante.
Sto per aprire la porta quando sento qualcosa stringermi il braccio: è Arthur.
«Natalie, mi dispiace,» mi dice, e so che è dispiaciuto davvero. Forse è l’unica persona che, insieme a Pam, è sempre stata sincera con me, senza chiedermi qualcosa che non potevo dare. «Non ne parliamo più, va bene?»
«Non ne parliamo più? Ah, sì? E che cosa mi volevi dire di carino? »
Arthur sbuffa. «Ecco perché volevo che fossimo soli. Quando ti arrabbi gridi sempre. »
Che vergogna. «Quindi… prima parlavi di queste urla? »
Ed io che avevo già immaginato l’orgasmo stratosferico che mi avrebbe fatto vibrare tutta… povera illusa.
«La rabbia ti tappa le orecchie. »
«Mi tappa cosa? »
Arthur si indica con le mani. «Le orecchie, trottolina. E dopo mi spiegherai perché hai cercato di fare questa follia.»
«Non è una follia!» gli urlo contro. «È la cosa più intelligente che mi sia venuta in mente da quando sono nata! A diciannove anni mi trattano come una bambina, li deludo anche respirando… perché non dovrei andarmene? »
«Sei solo arrabbiata. »
«Sono arrabbiata da anni. »
Profuma di pino e del miele caramellato che aromatizzava il tacchino, fra le sue braccia tutto diventa intenso, tutto ha un sapore esagerato e sconvolgente. È Arthur che mi bacia sulla fronte.
Rabbrividisco.
«Si risolverà tutto.»
Come può farmi così male senza rendersene conto?
«Non si risolverà mai,» gli dico, sicura. «Arthur, tu uscirai da questa casa, e ti lascerai alle spalle i problemi di Natalie e dei suoi genitori. Ma io resto qui e, se resto, qui niente cambierà mai.»
«Troveremo una soluzione, te lo prometto.» Mi sposta una ciocca di capelli sfuggita all’elastico dietro l’orecchio. «Wanda sta servendo il salmone e dopo c’è il dolce, andiamo?»
Non riesco proprio a godermi la cena, anche se Wanda cucina benissimo. Spero di rifarmi sul dolce… le mandorle renderanno tutto più originale. Wanda arriva trafelata.
«Mi spiace, signori,» dice. «Non sono riuscita a decorarla per bene.»
… Che peccato.
«Le fragole sono meravigliose,» dice Arthur, addentando un pezzo di torta.
Sorrido fra me.
«C’è qualcosa di croccante, » dice il signor Benkison.
«Noci?» chiede la mamma.
Mi volto verso Arthur e mi cade la forchetta di mano. Con il volto rosso si porta una mano alle labbra, ora gonfie e arrossate, con gli occhi verdi pieni di lacrime. «Mandorle…» dice tossendo.
«Oh no!» esclama la signor Benkison. «Arthur è allergico!»
Arthur scivola sul pavimento ed io corro verso di lui, gli stringo la mano mentre con l’altra mi porto il telefono all’orecchio per chiamare l’ambulanza. Sono. Un. Completo. Disastro.
«Oh Signore Gesù Cristo Santa Maria Benedetta!» grida mamma.
Attento alla vita del ragazzo che amo da sempre!
Chiudo la telefonata.
«Stanno arrivando,» gli dico, cercando di sorridere. «Mio Dio, mi dispiace…»
«Non è colpa fua… froffolina.»
Quanto mi prenderei a randellate sulle gengive. 
*
*
*
*
Ciao a tutti, lettori! :D Per chi non mi conoscesse... sono Ania, scribacchina a tempo perso e guadagnato :). Seguo sempre l'ispirazione, ed è per questo che mi sono trovata a scrivere l'inizio di questa storia. Una ragazza combina guai, un amore impossibile di cui conoscete ancora troppo poco e una vita che vorrebbe cambiare.
Spero tanto di avervi strappato un sorriso.
Ringrazio tanto cenerella per aver betato questa mia cosina :3 Ed Emi, per la sua benzina sul fuoco :*

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Capitolo 2
*** Secondo capitolo. ***


2.

Sono innamorata della mia città.
Liverpool è un’esplosione di luci, misticismo, barboni e gente che si veste da barbona per abitudine. C’è vita e musica ovunque tu guardi, che sia qualcosa di eccessivo o discreto. Se non fossi sempre stata un’infelice cronica a partire dall’infanzia, non penserei a lasciarla con così tanta freddezza. Contemplerei gli spazi, farei foto da postare sui social e immaginerei me stessa fra dieci anni a passeggio fra queste strade illuminate.
È passato almeno un anno da quando non passo di qui: tutta colpa della scuola e dei vari casini della mia vita, punizioni e giorni in cui mi sono disgustata talmente tanto di me stessa da non concedermi nemmeno un insignificante piacere come questo.
«Nat, è questo il posto? »
«È un altro posto, Pam.»
«Be’, allora andiamocene, che fai là ferma come un salame affumicato? Ci manca solo Wanda con il vassoio.»
Pamela mi fissa sconcertata ed io le sorrido, a volte è veramente troppo scema. «È così che si chiama. Another place. Sei sicura di essere nata a Liverpool? »
«Oh… è vero! Mi è sfuggito, non passo di qui da anni, insomma lo sai, a chi è che interessa…»
«Hai preso un brutto voto in storia e cultura contemporanea, lo so.» Fisso la statua che mi è di fronte, in ghisa, marroncino chiaro. Ce ne sono cento, posizionate qua e là nel mare su dei piedistalli di metallo distanti fra di loro. Quando c’è la bassa marea, le statue si possono raggiungere e vedere da vicino, come oggi. La suola delle converse si sarà imbrattata di sabbia, ormai, ma non fa niente.
«Da bambina venivo sempre qui con Arthur. Ci correvamo intorno, ed Arthur controllava quanto gli mancasse per diventare alto quanto quelli che chiamavamo colossi.  Una volta per essere alto quanto la statua mi fece salire sulle sue spalle… dovevo avere quattro anni. A sedici lui era già riuscito a superarli, mentre io non ce l’ho fatta... E lui sorrideva in un modo…»
Ha sempre sorriso guardando queste statue, fino a quando…
«Natalie, ma l’orario delle visite all’ospedale non è dalle cinque alle sette?»
«Sì.»
«Sono le sei e mezza.»
«Porca puzzola!»
***
Arriviamo in ospedale tutte sudate. Evito di guardarmi allo specchio ma sono certamente un disastro, quindi mi affido all’ignoranza per non averne una percezione totale.
«Ti aspetto qui!» mi dice Pam.
«Okay! »
Entro in ascensore, raggiungo l’ottavo piano, corro per il corridoio e mi fermo davanti a quella che deve essere la sua stanza. In lontananza, una voce mi arriva alle orecchie.
«È terminato l’orario delle visite!»
Oh, merda.
Mi catapulto dentro.
Arthur è al centro della stanza, con il braccio sinistro lungo il fianco e gli occhi chiusi: un filo di barba gli copre il mento e il gonfiore si è lenito moltissimo. È bello in un modo così doloroso che stare qui a guardarlo è un po’ come ricevere un pugno nello stomaco, forte e preciso, che mi fa mancare il respiro. È la prima volta che mi appare vulnerabile da quando lo conosco – troppo tempo per accettare che non sia ancora cominciata una relazione amorosamente e sessualmente attiva tra di noi.
Mi siedo accanto a lui, sulla sedia in metallo.
«Ciao, Arthur,» dico a bassa voce.
La stanza è pulita e ordinata, per questo spicca moltissimo il quadro storto della madonna che sta sul muro nella stessa parte in cui tocca la testiera del letto. Non che Arthur sia così tanto collegato alla religione… solo mia madre è cattolica. Deve averlo messo qualche parente di un paziente precedente, ma messo così mi fa venire l’ansia. E se gli cadesse addosso?
Mai sia!
Mi alzo e allungo il braccio, ma non riesco nemmeno a sfiorare la cornice. Sono alta un metro e sessantatré, non mi sono mai sentita tanto nana, ma ora sì. In realtà ogni volta che Arthur mi è accanto, ma lui è troppo bello per farmi pensare a quanto vorrei essere diversa. Saltello. Il quadro si inclina ancora di più.
«Madonna!» borbotto.
Direi che ci sta.
Pare che questo sia l’unico modo: un giusto prezzo per salvare il bellissimo viso di Arthur.
Salgo sul suo letto e mi metto, lentamente, in piedi: un piede da una parte e l’altro da quella opposta, con in mezzo Arthur addormentato. Sistemo il quadro, ora è perfetto, lascio ricadere le mani sui fianchi e lo guardo: il quadro torna inclinato, pende a sinistra come se fosse una bilancia.
«Ma che cazzo… »
La porta si apre.
Trattengo un urlo.
Cado su Arthur come Spiderman.
Gli occhi verdissimi e assonnati di Arthur mi scrutano, le sue mani mi tengono strette i polsi e non so come sia successo, non so come io non abbia potuto sentirlo prima.
«Natalie?»
«Eh-eh.»
Volto la testa: la porta è aperta.
«Sì, cara, sto controllando le stanze! Va’ a pulire il bagno della stanza 421, metti una molletta sul naso per non sentire la puzza! » L’infermiera guarda dietro di sé.
… non mi ha ancora vista!
Scivolo giù dal letto alla velocità della luce e mi ci nascondo sotto.
«Signor Benkinson,» dice l’infermiera, improvvisamente affabile. Vedo le sue scarpe di gomma avanzare sul pavimento di legno plastificato. «Come sta? »
«Oh, bene, infermiera Pharrel. Mi sono svegliato adesso.»
«Questi farmaci procurano sonnolenza, immaginavo che avreste dormito anche per più tempo. Ho avvisato tutti i suoi parenti, sono tornati indietro per non disturbarla. »
«Li ha avvisati tutti? »
«Certamente. Se avete bisogno di qualcosa sono là fuori, basta suonare il campanello. »
«Vi ringrazio.»
«Di nulla, caro.» Le scarpe gommose si allontanano e la porta si chiude. Mi lascio andare ad un respiro di sollievo e, piano piano, faccio venir fuori la testa dal lato sinistro del letto.
Trovo Arthur a fissarmi.
«Che cosa stavi facendo?» mi chiede, sorridendo.
«Cercavo… di raddrizzare il quadro.»
Arthur ride, in quel modo improvviso e dolce che mi fa sentire leggero il cuore.
«Sei riuscita a raddrizzare qualcos’altro, direi.»
Oh, santa Maria.
Deglutisco.
«Oddio, allora è vera quella teoria dei ragazzi che quando si svegliano…»
Arthur mi sfiora il viso con le dita e mi accarezza i capelli, sento il viso di fuoco.
«Parlo del ciuffo dei tuoi capelli.»
Scivolo fuori completamente e cerco di ordinare i capelli.
Voglio morire.
«Che ti è successo?»
«È un po’ tardi.» mugugno. «È finito l’orario delle visite. »
Mi prende la mano. «Non preoccuparti, sto molto meglio. »
«Davvero? » Lo guardo, per la prima volta dopo questa pena totale. «Ti sei gonfiato tutto? »
Mi do uno schiaffo sulla fronte. Ma che cazzo di domanda è?
«In che senso? »
«Nel senso… il tuo viso si è gonfiato completamente oppure c’erano delle parti… che si potevano gonfiare ancora, ehm… »
«Non credo… non sono un medico, trottolina. Mi sono laureato in economia. »
Sospiro e rido al tempo stesso.
«Lo so. Insomma, sei il manager più giovane fra i più famosi di Liverpool.»
Tiro la sedia sotto il sedere per mettermi seduta ed Arthur mi lascia la mano. Quando torno a guardarlo ha un sorriso stanco, eppure incredibilmente luminoso. «Non mi aspettavo che dicessi questo.»
Ohibò. «Che cosa ho detto di sbagliato? »
«Niente, solo… ti sta bene che ti chiamo trottolina? »
«Ovviamente no! » ribadisco.
«E allora perché non me l’hai detto? »
«Te lo dico sempre, Art. »
«Lo so, Nat. »
«Quindi smettila. »
«No.»
Scuoto la testa. «Sei un bambino. »
«Tu di più, trottolina.» Si mette a ridere. È incredibile come possa stare bene anche con il camicione dell’ospedale. «A che ora devi tornare a casa? »
«Non sarei mai dovuta uscire, in realtà. Ho pagato Wanda… Sono in punizione… »
«Oh mio Dio, allora devi andare! Non vorrei mai averti sulla coscienza. »
«Eh, a chi lo dici! »
«Cosa? »
«Cosa? »
Ops.
Mi incammino verso la porta.
«Non correre troppo. »
«Io volo! »
La porta si apre all’improvviso e mi fa cadere sul contenitore metallo della flebo con un rumore assordante.
«Signorina!» mi chiama l’infermiera. «Che cosa fa qui? L’orario delle visite è terminato da un pezzo!»
Ma che problema hanno le porte con il mio culo?
***
«Natalie, sono molto strani i tuoi capelli,» dice la mamma, servendosi di purè.
«Colpa del phon, » dico masticando.
«Natalie,» mi chiama mio padre, mentre mia madre gli passa il sale da mettere sulle patate. Infilzo con la forchetta una polpetta di carne e faccio per addentarla. «Dobbiamo parlare.»
Resto con la bocca aperta, così.
Metto giù la polpetta.
«No volevo farlo! E poi l’ho pagata, non avreste dovuto saperlo!» grido.
«Cosa?» chiede la mamma.
«Cosa?» chiede papà.
«Cosa?» chiedo io.
Ops.
Certo che se non mi metto nei guai non sono mai soddisfatta.
Papà scuote la testa e si passa la mano fra i capelli grigi. Ha sessant’anni, e questi sono i momenti in cui sembra più vecchio: quando chi vorrebbe non riesce a capirlo. Be’, in realtà anche lui non capisce me, quindi siamo pari.
«Mi ha deluso molto il tuo comportamento.»
Non penso che mangerò più quella polpetta.
«Vuoi ancora andare via, Natalie?» chiede la mamma.
La fisso.
La sfumatura dolce della sua voce mi ha lasciato un sapore aspro che mi immobilizza, come se avessi assaggiato un frutto esotico con la raccomandazione di averlo già mangiato, solo quando ero troppo piccola per ricordarmene ancora.
Ma non sono più una bambina.
«Sì. »
La vedo appassire sotto i miei occhi, un fiore rosa dai miei stessi occhi. Dovrei sentirmi in colpa, vorrei, ma non ci riesco: ci siamo sempre fatti male a vicenda, e ognuno ha le sue colpe.
«Bene,» sospira papà. «Allora va’, Natalie. Spicca il volo. » Si alza e fissa i suoi occhi nei miei. «Pensi di esserne capace?»
Mi alzo anch’io. Saltello. Piroetto. Mi sento leggerissima, yu-ù! Apro la finestra e guardo fuori, rido.
«Sì, papà!» Guardo i piccioni volare. Spero di essere un po’ più carina di loro. Un piccione lascia il suo gruppo di amici e vola verso terra, velocissimo. Vola verso la finestra, mio Dio santissimo! Riesco ad allontanarmi solo di qualche centimetro quando puh – povera creatura – il piccione va a sbattere contro la vetrata.
Avrà riconosciuto un suo simile! E sarà andato incontro alla morte per dare a me la sua linfa vitale…
«Forse è meglio se cammini,» dice papà.
 
Due ore dopo, alle nove in punto, mi ritrovo spintonata fuori di casa, le mani di mamma sul mio fantastico di dietro. Mamma ha la mano piena di anelli, forse ho delle chiappe che sono anche delle calamite ed io non l’ho mai saputo.
Ecco spiegate le mani morte dei tamarri in discoteca!
«Mamma! So camminare per conto mio, non ho bisogno che… »
«Allora, Natalie, rispondi alle mie domande,» mi dice, incrociando le spalle al petto. Così sembra davvero una professoressa, di quelle che a guardarle sembrano delle streghe. Non ho studiato, non chiamare me, giuro che oggi pomeriggio studio. «Hai messo le mutandine nella valigia? »
«Shhh! Mamma!»
«Rispondimi.»
«Certo che le ho prese.»
«Bene. Hai preso la tua carta di credito?»
«Certo!»
«Bene. Sappi che tra una settimana non potrai più utilizzarla perché la farò bloccare. » Spalanco la bocca. « Sì, Natalie Hanna Truman. Dovrai trovare una casa e un lavoro. Se non ce la fai in sette giorni, puoi tornare a casa e non ne riparleremo più. »
Spalanco ancora di più la bocca.
Mi ha fregata.
«Chiudi la bocca, entrano le mosche. » Fa per chiudere la porta, dietro di lei papà agita la mano in segno di saluto.
Lo stomaco mi si chiude in un vortice di disgusto che non riesco ad accettare.  «Mamma… »
«Sai camminare da sola, è così?» Annuisco. «Be’, attenta a non inciampare e a non schiacciare gli escrementi dei cani. La puzza è rivoltante.»
«Oh, grazie per il consiglio. »
«Di niente. E…  lunga vita alla regina! »
«E che c’entra?»
«Siamo inglesi.»
«Hai origini italiane e sei cattolica! Ormai invoco i santi come te a furia di sentirti!»
Prendo la valigia in mano e la trascino giù per le scale senza guardarmi più indietro.
Da oggi si fa a modo mio.
*
*
*
*
*

 
Un grazie più che speciale a Reiv Nastenka Gray jakefan Ari_C screaming_underneath Hanna Lewis Patrice Walsh <3 per aver accolto questa storia con un entusiasmo che mi ha riempito di gioia. Non immaginate quanto sono stata felice di leggere dei pareri così positivi. Ho in servo per voi delle sorprese e spero tanto che continuerete a leggere la storia di Natalie. In questo gruppo potrete trovare tutte le novità riguardanti la storia :)
Giusto per darvi un’idea di un altro posto, anche se spero di avervi fatto capire com'è, eccolo qui:

Grazie mille a tutti voi, lettori <3
Quest’anno ho la maturità, ma spero di riuscire ad aggiornare tra due settimane; incrociate le dita per me :D
Un bacio
Ania : )

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Capitolo 3
*** Terzo capitolo ***


3.

Sono le nove di sera ed io vago per le strade di Liverpool come avrei fatto una notte di qualche giorno fa. Devo sembrare una scappata di casa, ma questa volta sono stati i miei genitori a mandarmi via,  con il solo intento di sfidarmi e vedermi tornare a casa con la coda fra le gambe.
«Oh mio Dio, Natalie? Che cosa fai in giro con quella giacca fucsia abbinata a quei pantaloncini rossi?»
Seguo la voce e la prima cosa che vedo è una massa di capelli biondi ribelli eppure splendenti.
«Pamela? Che fai qui?»
«Mio fratello ha voglia di gelato e sono scesa a comprarlo. Si può sapere che cosa fai vestita in quel modo… oddio, stai di nuovo scappando?» Ride forte, in un modo un po' secco, come se le fosse andata l'acqua di traverso. Con il tempo ho capito che è solo il suo modo di ridere di fronte alle cose incomprensibili.
«No, i miei genitori mi hanno dato il permesso. Cioè, mi hanno dato il permesso e mi hanno scacciata fuori. Solo che non so dove andare.»
Pamela scuote la testa come se avessi detto la cavolata più enorme del secolo. «Nat, sei impossibile,» mi dice, prendendomi per il braccio, e dalla sua voce traspare una durezza che scorgo solo quando sta per scoppiare in lacrime per rabbia e frustrazione. La mia Pam è forte come una vecchia corteccia, passa il tempo e lei diventa sempre più resistente, anche con le menate del vento. «Io a cosa ti servo?»
Abbiamo sempre avuto problemi molto diversi, ma lei è stata sempre capace di affrontarli meglio e non ha mai avuto vergogna di chiedere aiuto. Le manca l’orgoglio, ma non la gratitudine, l’altruismo sfrenato, e quella bizzarra allegria immotivata che la rende insopportabile ma unica, unica per sempre: la mia migliore amica.
«Pam, siete sette figli.»
«Mia madre è cattolica, come la tua.»
«Non c’entra, non c’è spazio. I pigiama party si fanno sempre da me, no?»
«Be’, staremo più stretti. È un motivo in più per continuare la dieta, » assente sicura.
«Tu a dieta?»
«Sì, per queste cosce qui.»
«Ma se sei praticamente perfetta! Fai addirittura la modella…»
Pamela sgrana gli occhi. «È una cosa amatoriale e sul mascara. Chi è che diventa famosa a fare la modella di mascara? Mi sento le ciglia tutte appiccicate per tutto il tempo passato a non chiudere le palpebre… per un momento ho creduto che sarei rimasta con gli occhi aperti per sempre…»
«Pamela civetta! »
«Ah, che simpatica!» Mi guida verso il marciapiede opposto. «Vieni con me, trottolina, non vorrei che tu finisca per trotterellare lungo la discesa.»
Questo è un colpo basso.
***
 «Natalie… non pensi che restare a Liverpool sarebbe più semplice? » mi chiede Pam mentre si passa sul viso una maschera rigenerante, assomiglia al grinch.
Mi rigiro sul letto, attenta a non schiacciare nessun marmocchio che mi dorme intorno. La mamma di Pamela è un abile sarta, e sul pigiama di ogni piccolo sta scritto il loro nome. Io sono fra l’angelo biondo Jess e la piccola peste Mara. Sul soffitto, Nick dei Backstreet Boys mi guarda in un modo seducente e al tempo stesso sereno. Pamela ha un’anima da adolescente anni novanta, anche se siamo cresciute negli anni duemila.
Io ascolto sempre Metal, invece. Mi sentirei fuoriposto ovunque e in qualunque epoca, eppure credo che mi vada bene così.
«No. Cioè, sì. Ma non mi va che mia madre possa venire a prendermi in ogni momento,» dico, scorrendo i titoli del giornale. «Cameriera. Si richiede ragazza intorno ai vent’anni per servizio ai tavoli.» Continuo a leggere. «Di bella presenza e… con una quinta di seno per riempire il grembiule.» Penso che mi stia per cadere la mascella. «Oddio, allora è vero quando dicono che trovare lavoro è difficile.»
«Non dovresti prima trovare una casa? » mi chiede, mettendo una rotella di cetriolo sull’occhio dentro. «Non vorrei che diventassi una barbona, e poi puoi usare la tua carta di credito per una settimana. Approfittane. Io lo farei.»
«Tu che faresti? »
«Cercherei di spendere tutti i soldi in una settimana facendo la bella vita con spogliarellisti cubani. »
«Tu vai sempre al dunque. »
«Tesoro, trova una casa. Un piccolo appartamento. Poi cerchi dei coinquilini. Londra è piena di persone che stanno messe male come te. Appena decidi ti accompagno alla stazione.»
«Grazie. »
«Anche peggio di te. »
«MA GRAZIE.»
***
È la terza volta che sono a Londra. La prima avevo sei anni: uno spettacolo magico a teatro, la mano di mamma sulla mia spalla per farmi restare al mio posto e tanto grigiore che sembrava vivo: strano e timido come un estraneo che ti guarda, e ti invita a fare qualche passo verso di lui, e sai che vuole solo raccontarti una storia. Fra la nebbia e i clacson, i biscotti alla cannella con il tè e il fish and chips, tra la ruota panoramica e il palazzo reale, Londra vuole sempre raccontarti una bella storia.
«Buonasera!» dico, e non riesco a non essere felice, anche se la mia vita qui non è ancora cominciata. Il locale quasi periferico è tutto in disordine, sedie ribaltate, donne sulla cinquantina che puliscono a terra con straccio, scopa e detersivo e una piccola tv che trasmette il nuovo video di Madonna.
«Sei tu la ragazza di Liverpool?» mi chiede una signora da dietro il bancone. Indossa una camicia fiorata e grossi orecchini dorati come l’eyeliner che ha sugli occhi.
Annuisco.
«Oh, bene. Sono la signora Faryland. Avvicinati e fatti guardare.» Mi avvicino a passi felpati, senza capire il vero motivo della sua richiesta. Poi la donna si mette gli occhiali e stringe gli occhi: cieca alla talpa maniera. 
Mi tasta le chiappe. 
Oddio, mi tasta le chiappe! 
«Mhm, sei ben messa.»La signora mi mette le mani sotto il mento. «Il posto è tuo.»
***
Il grembiule è rosso e tutto ricamato: non lo riempio con il seno – misera seconda dai tempi della prima media – ma tutto sommato non mi fa sentire orribile. Sono la più giovane, e qui siamo tutte donne. Ancora mi chiedo che importanza abbia il mio sedere, perché i clienti sono tantissimi anche se a prendere le ordinazioni è Nonna Paullina, sulla novantina di sicuro, e il fatto che questo abbia influito mi ha ferita. Non sono mai stata così bella, solo molto normale all'apparenza. Mi sono sentita stupida tante volte nella mia vita, ma andandomene di casa pensavo di dimostrare una volta per tutte di non esserlo affatto. Di essere Natalie Hanna Truman, e di diventare un po’ orgogliosa di me stessa, ma se devo affidarmi a questo vuol dire che la strada è ancora molto lunga.
«Natalie, le patatine al tavolo due. »
«Corro! »
Sono molto veloce, mi mancano solo i pattini. La signora Faryland ci osserva tutti con quei suoi occhiali che le fanno diventare gli occhi grandi come quelli di una mosca e sembra che ogni cosa in questo posto la disgusti, da noi che serviamo ai tavoli ai clientii.
«Non correre troppo, ragazza di Liverpool. »
«Natalie.»
«… di Liverpool. »
Qui i nomi non esistono.
«Uno sgarro e sciò sciò,» dice con un sorriso, imitando il gesto che si fa per scacciare le mosche. Penserà mai che nella mia testa sta scacciando una copia di se stessa?
«Figlia mia!» dice nonna Paullina, aggrappandosi al mio braccio. «Figlia mia! »
«Nonna Paullina,» dico, incerta. «Sono Natalie, vostra figlia è qui.»
Nonna Paullina, i capelli bianchi raccolti in una treccia ed enormi occhiali, slitta di poco verso destra e afferra il braccio di Suzanna, quarantenne dai corti capelli castani e lo sguardo dolce; si lamenta sempre di suo marito, un bambinone affezionato alla birra. Qui ognuno racconta la sua vita fantastica. «Figlia mia, ora svengo! Portami dal dottore!»
«Sono Suzanna, signora…»
Nonna Paullina prende la scopa accanto a Suzanna. 
«Figlia mia! Portami dal dottore! Madonna, quanto sei magra, ne hai bisogno anche tu! Oh, la pressione…»
«Oh, mamma. » La signora Faryland le si avvicina. «Sempre nei momenti meno opportuni, è quasi mezzogiorno! Andiamo… ragazza della montagna, controlla la ragazza di Liverpool, è nuova. Un aumento se tutto va bene! Quando torno mi racconterai.»
«Mi chiamo Suzanna!»
«Mi chiamo Natalie!»
La signora Faryland si chiude la porta alle spalle.
Suzanna sospira. «Lavoro qui da dieci anni e mi chiama ancora così. »
Sussulto. «Dieci anni?»
«Si, Natalie. Non è passato nessun bel ragazzo a salvarmi da questo lavoro, non siamo mica le ragazze del coyote Ugly.»
Scuoto la testa. «Pe me Ugly sì, ma coyote no.»
Una folla di persone anima il locale chiedendo cibo e bibite, come se l’assenza della signora Faryland avesse provocato chissà quale segnale di pace. La pace non c’è perché non si capisce più niente e regna il caos, sbaglio almeno due volte a portare le ordinazioni e sudo cascate di liquido d’ansia interiore. Un adorabile bimbo ricciolino mi blocca la strada, sul vassoio porto un piatto fondo colmo di zuppa al pomodoro fino all’orlo. «Scusa, piccolo, » gli dico sorridendo, per poi evitarlo e raggiungere il tavolo dieci. Ma il bambino si aggrappa al mio grembiule e si intrufolo fra le mie gambe. 
«Tu mutandine belle! Farfalle colorate sulle mutandine belle! » Mi si gela il sangue mentre il bambino mi tira giù il tessuto e oddio mio, il vassoio mi scivola dalle mani e cade a terra con un tonfo metallico e la zuppa al pomodoro sembra la prova lampante di un omicidio passionale.
«Natalie!» grida Suzanna.
«Mammina! » grida il piccolo, e corre fra le braccia di Suzanna mentre io lo guardo senza credere davvero a ciò che vedo, vorrei soltanto tornare a casa dalla mia, di mamma. 
Ma io non ho tre anni.
«Oh, Nat, che disastro… scusami, mio marito avrebbe dovuto tenerlo. Ora vado a pulire, Claire prepara dall’altra zuppa, tu vai a portare le patatine al tavolo tredici. »
Sospiro. Ho sonno e voglio andare a casa. Ma… non posso tornare a casa. Ho preso in affitto una pensioncina, e la lascerò presto per l’appartamento dove dovrei andare a vivere.
Vado in cucina, l’odore di fritto e grasso mi travolge, prendo il vassoio ed esco per andarlo a consegnare. Lo sporco a terra non c’è più, Suzanna tiene suo figlio in braccio e gli parla a voce bassa ma autoritaria, ed il bambino la guarda con le manine sotto il mento e gli occhi grandi ad ascoltarla. È evidente che sin da piccoli certi uomini hanno una naturale tendenza a togliere le mutandine.
Mi dirigo verso il tavolo tredici.
Ci è seduto un ragazzo dalla carnagione abbronzata e corti capelli neri; sta leggendo un giornale e una maglia a maniche corte gli lascia scoperte le braccia dai muscoli tesi.
«Ecco a lei la sua ordinazio…»
Scivolo sul pavimento bagnato che credevo fosse asciutto, perché non era qui che era caduta la zuppa e per favore qualcuno mi seppellisca qui sul posto, grazie.
Alzo la testa. Il mio capitombolo degno dell’ultimo volo del piccione che si è schiantato contro la mia finestra ha fatto andare tutto all’aria. La mia gonna, prima di tutto, mettendo il mostra le mie stilosissime mutandine blu con sopra disegni di farfalle esotiche: abbasso subito il grembiule, sentendo le guance in fiamme. E il vassoio delle patatine, dritto dritto sul pacco del ragazzo, che mi fissa con due occhi scuri che vogliono friggermi molto più di quanto lo siano state le patatine. Il piercing sul suo sopracciglio destro riflette la luce del sole, accecandomi.
Ho le lacrime gli occhi.
Sotto la nebbia del mio sguardo, tutto il locale mi fissa… Suzanna mi fissa. Suzanna, con due figli e un marito e un lavoro umile, Suzanna che aspetta un aumento da quando è stata assunta, e che potrà trovarlo solo raccontando la verità su di me. Perderò il lavoro e non avrò niente con cui pagare l’affitto di una casa e cominciare la mia vita e anche solo per respirare nel mondo degli adulti.
«Ehi… hai battuto la testa?» La sua voce  è interrotta da un caldo respiro; è bassa, come se fosse rimasto in silenzio pertanto tempo.
Mi irrigidisco fra le sue braccia; mi aiuta a sollevarmi e non lo aspettavo, non lo volevo, vorrei dargli la colpa per la mia distrazione, ma la do solo a me. Solo a me, perché ho pensato come una ragazzina, come qualcuno che ha lasciato davvero tutto alle spalle.
«No, no,» dico. Sospiro. «Sto bene. »
Mi aiuta a mettermi in piedi. Sono blu, i suoi occhi: un blu scuro che sembra nero, impenetrabile e al tempo stesso placido, come il mare dianother place.
Gli ho sporcato i jeans, proprio . Certo che ho una mira davvero fenomenale.
«Mi dispiace così tanto.»
«I jeans si lavano. Ne ho un altro paio di riserva,» sorride, a metà. Sembra che una parte del suo viso resti scontrosa, mentre l’altra, dai lineamenti duri come incisi nel legno, si illumina come l’alba e mi raggiunge ed è per me.
«Ragazza di Liverpool! » La voce della signora Faryland mi fa sussultare. «Ho dimenticato le chiavi della macchina, torno indietro… e trovo questo! »
Ora muoio.
«Non è come sembra…» dice il ragazzo accanto a me.
Un momento… che cosa? Il ragazzo mi lancia uno sguardo complice.
«Infatti, non è come sembra.» Faccio un profondo respiro. «Il ragazzo ha fatto una scommessa con… il figlio di Suzanna, sì. » Mi volto ed indico il bambino. «Vinceva chi avrebbe avuto il coraggio di mangiare delle patatine buttate a terra per mostrare di essere coraggiosi, molto di più di capitan Uncino che ha paura di un coccodrillo!»
Il ragazzo tossisce. 
«Io ho perso.»
I figlio di Suzanna sorride. «Io coraggioso, io vinco!» Corre verso le patatine per terra, si inginocchia e fa per metterne una in bocca. Gli fermo il polso appena in tempo. «No, è cacca!»
«Cacca su patatine?» chiede il bimbo.
«No, tutta cacca,» dice Suzanna, prendendolo in braccio da dietro.
«… oh,» esclama la signora Faryland. La sua espressione si indurisce. «Che aspetti, ragazza di Liverpool? Pulisci.»
«Certo,» sussurro, incapace di dire altro.
Suzanna mi passa un panno ed io comincio a raccogliere le patatine cadute e, appena alzo gli occhi, il ragazzo mi mette il vassoio in mano.
«Se vuoi qualcos’altro cerco di dartelo di nascosto e gratis,» gli sussurro.
Ora sorride con tutto il volto. «Sei molto furba, ragazza di Liverpool
Inclina la testa ed io perdo il respiro.
 «Non è il soprannome giusto, però, per una ragazza come te.»
Scuoto la testa. Raccolgo tutte le patatine e le butto nel cesto e, veloce, prendo il panno bagnato per pulire il pavimento, per la seconda volta in questa giornata.
«E qual è il soprannome giusto per una come me?»
Alzo gli occhi.
Ma lui è già andato via.
***
Sera inoltrata. Arrivo nel Southwest della città che sono quasi le dieci, ma il turno oggi è stato estenuante, una ragazza è uscita prima e, dopo il casino che ho combinato, non mi è sembrato molto furbo lamentarmi. Da lontano distinguo l’alto palazzo grigio in cui andrò ad abitare; il portone è tutto ricoperto da scritte di bombolette, parolacce, qualche numero di telefono e epiche dichiarazioni d’amore. Non riesco a fare a meno di sorridere di fronte a quest’idiozia e di fronte alla mia, perché sono qui, e perché l’essere qui mi sembra la cosa più divertente del mondo. Suono il campanello e il portone si apre, trascino dentro la valigia e mi avvicino all’ascensore, circondato da sbarre di ferro tutte arrugginite.
«Ah-ah! Ascensore non funzuona, devi prendere scuale, ragazzua di Liverpooul.»
Mi volto e, dalle scale, un uomo magrissimo, con il volto arrossato e i capelli biondi mi guarda con un sorriso che traballa dal divertimento alla stanchezza; è abbastanza brillo, di sicuro.
Trascino la valigia e comincio a salire le scale, l’uomo mi guarda senza muovere un dito.
«Sì, sono Natalie Truman di Liverpool.»
«Io ruesso. Zot, di san Pietrobuergo. »
Riesco a raggiungere il piano e l’uomo mi porge la mano libera… l’altra tiene una bottiglia di vodka.
«Un gueccio?»
«No, gruazie.»
Il signore mi accompagna al mio appartamento, fortunatamente al secondo piano. Apre la porta e mi fa entrare per prima: mobili semplici e chiari, un po’ rovinati, di sicuro vecchi. Ci sono due camere da letto, entro in quella di sinistra: un semplice letto in ferro battuto, una scrivania tutta colorata e un armadio a ponte. Alla finestra da cui mi affaccio per vedere la strada su cui cala la sera, una tenda dal merletto bianco, come l’abito di una bambola di porcellana, si vede che Londra d'estate non dorme.
«Affituo in anticipuo.»
«D’accordo, li prenderò dalla mia carta, » rispondo. «Ma ho intenzione di trovare almeno un’altra coinquilina. »
«Buona fortuona.»
Sospiro.
«Ne avrò bisuogno.»
*
*
*
*
Ciao a tutti, lettori! :D Prima di tutto, ringrazio le fantastiche ragazze che sono state gentilissime a darmi il loro parere nello scorso capitolo <3 E grazie mille a chi inserisce la storia tra le Seguite, le Ricordate e le Preferite *-*
Sopravvissuta alla seconda prova, eccomi qui ad aggiornare :) Spero di non avervi deluso e che vi sia piaciuto, sapete che accetto sempre suggerimenti e consigli!
Rivedremo il ragazzo dagli occhi come il mare di another place?
Lo scoprirerete! :D
Grazie mille, a tutti voi.
Un bacione,
vostra Ania :3
 

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Capitolo 4
*** Quarto capitolo ***



4. Tra la spalla e l'orecchio faccio in modo che il telefono non scivoli a terra contro la forza di gravità e, nello stesso istante, passo il panno sul bancone per pulirlo.
«Racconta, tesoro, com’è l’appartamento?»
«Carino, mamma.» Sospiro. «Un po’ spoglio, ma non mi lamento. Sto abbastanza bene, devo dire.»
«E i tuoi vicini? »
Mi sfugge una risata. «Molto corduali e astemui
Mia madre deve aver sputato da qualche parte la sua sorsata di tè verde. «Che cosa?»
«Molto cordiali, davvero. »
E molto amanti della vodka, ma meglio che me lo tenga per me.
«Meglio che ti ricordi che tra esattamente due giorni scade la tua carta di credito.»
«Non potrei mai dimenticarlo, mamma.» Sbuffo. «Le cose meno piacevoli sono quelle che non dimentico mai.»
Dall’altra parte del telefono solo silenzio, il silenzio e il suo respiro, la stranezza di non ricevere un pronto rimprovero, una risata di scherno, una prova di disgusto per la ragazza diversa che vorrebbe che fossi.
«Puoi tornare a casa quando vuoi, Natalie.»
«No grazie, sto bene qui. »
«L’iscrizione all’università è pronta, manca solo la tua firma. »
«Per fare l’avvocato come papà? Questo pensiero mi fa sclerare male, non ci penso proprio. Ora devo chiudere, mamma, ho un datore di lavoro molto severo. Ciao.»
«Natalie, aspe…»
Chiudo la telefonata e metto il cellulare in tasca, alzo il viso e di fronte a me, con un vassoio in mano, Suzanna mi fissa con una sguardo attento da genitore.
«Sei una figlia difficile da domare, eh, Natalie?» chiede.
«Di certo non sono un cavallo.» Sbuffo. «Ma se lo fossi… sì, sarei uno che scalcia.»
Suzanna ride, fa il giro del bancone e mi raggiunge; continuo a passare il panno sul bancone quando il cappello mi cade di proposito a terra e mi ritrovo con i capelli tutti scompigliati, le mani fredde e screpolate di Suzanna che mi sfiorano le guance.
«Ho un altro figlio oltre al piccolo Ben. Si chiama Leonard ed è solo di un anno più piccolo di te. So come siete fatti voi ragazzi, sono stata giovane anch’io. Volete scappare e scappare e crescere dal giorno alla notte, essere padroni della vostra vita all’improvviso, con il mondo in pugno. E voi già ce l’avete, il mondo in pugno. Ma fin quando c’è la mamma a ricordarvi di svegliarvi a un orario decente e a sgridarvi per le vostre varie cavolate giovanili, vi sembra di stringere aria.» Mi sorride con un’aria saggia e si china a raccogliere il mio cappellino. Me lo porge ed io non riesco che a guardarla con un moto di aspettativa a farmi contorcere lo stomaco. «Non è così?»
Scuoto la testa. «Non conosci la mia famiglia.»
«No, non la conosco, è vero. Chissà quanto ha sbagliato, chissà quante volte avrai pensato brutte cose… ma tua madre ti ha chiamata, vuol dire che qualcosa di te le interessa, no? Ed io direi non solo qualcosa. Stava anche per dirti altro…»
Forse.
Storco la bocca come se avessi appena assaggiato un frutto marcio.
Guardo dritto di fronte a me.
E poi sento il cuore piombarmi in gola come se nel petto avessi una fionda. Mi sento cadere sulle ginocchia, le labbra secche come carta vetrata; respiro come un cane con la lingua da fuori.
«Natalie,» mi chiama lui, splendido nella sua camicia bianca e jeans, alto, irraggiungibile, è lui ad avvicinarsi a me.
«Arthur,» riesco a dire, e il suo nome suona sospirato, come se non aspettassi altro che lui fosse qui per chiamarlo. E mi sento così stupida e quasi anche spaventata, quando mi accorgo che non è felice di vedermi.
Un’espressione arrabbiata gli oscura la solarità del volto e gli occhi sono ridotti a due fessure.
«Sì, Arthur. Sono il terzo numero per ordine alfabetico sulla tua rubrica. Sono tra Asilo Multicolor e Azalea Strause.» Ridacchio nervosa, mentre Arthur alza di un altro tono la voce. «Perché non mi hai chiamato?»
«Vuole ordinare?» si intromette Suzanna.
«Suzanna, tranquilla, è un amico… » asserisco io, e ho la voce che trema. Come faccio a dire a Suzanna di stare tranquilla quando il mio stomaco gira nella mia agitazione quasi fossi una trottola?
«Già, un amico. Natalie Hanna Truman, ti conosco da diciassette anni, e quando ti sei trasferita per la prima volta nella tua vita, e hai trovato il tuo primo lavoro nella tua vita, ed io ero in ospedale pensando che ti avrei trovata girando l’angolo… »
«Art… » Non credevo che sarebbe stato possibile. Ferirmi il cuore con le mie stesse mani, ferendo qualcuno che non sono io, inconsapevolmente.
«Buongiorno. Ha già richiesto un tavolo? » chiede la signora Faryland, entrando a grandi passi dalla cucina. Arthur la guarda interdetto per un attimo, si rabbuia, interrotto nel suo discorso di delusione nei miei confronti, ma pare che capisca subito che ora è meglio trattenere il suo fiume in piena.
«Sì, proprio ora la signorina Natalie mi stava accompagnando. »
La signora Faryland sgrana gli occhi. «Chi? »
Arthur mi indica, visibilmente sorpreso dalla domanda; almeno questo l’ha distratto da quello che mi stava dicendo.
«Oh, la ragazza di Liverpool! » esclama la signora Faryland. «Che cosa aspetti? Muoviti,» mi ordina.
Faccio il giro del bancone e mi dirigo verso il primo tavolo libero che vedo, Arthur mi cammina a fianco. «Tua madre non ti ha detto che ero qui a Londra?»
Tossicchio.
«Io… abbiamo parlato poco, al telefono, ho dovuto… »
Sono un’idiota.
Non è un dovere, ma tant’è.
«Portami quello che vuoi, Natalie,» dice, prendendo posto. «Va bene qualunque cosa. »
«Il tè freddo è finito, perciò… »
«Portalo caldo, quello che ti pare.»
Scrivo sul taccuino che porto sempre con me e trattengo le lacrime.
«Torno subito.»
Mi occupo personalmente del tè, cercando di non piangere, perché non ho bisogno di una laurea in Giurisprudenza se sono già specializzata a rovinare tutto. Non ho chiamato Arthur, è vero, non gli ho detto nulla di quello che avrei fatto. Pensavo che fosse una mossa stupida, da bambina; e vorrei che lui mi vedesse come una ragazza che di anni ne ha diciannove, quasi venti, impaziente di vivere, e che ha appena cominciato a farlo. Ma forse è una definizione troppo in gamba per una combinaguai come me. Ed io sono troppo combinaguai per pretendere che succeda qualcosa con uno come Arthur… Arthur.
Poggio il vassoio con la teiera, la tazza e i biscotti sul suo tavolo, senza guardarlo.
«Mi dispiace, Natalie.» Ho un nodo alla gola. «Mi dispiace, io… la verità è che quando sono andato a casa dei tuoi e non ti ho trovata è stato come se mi cedesse la terra sotto i piedi.»
Alzo lo sguardo ed incontro lui, e i suoi occhi, e una sincerità che mi attraversa il cuore con la freddezza di una lama affilata insieme alla dolcezza della mia sorpresa.
Arthur mi prende la mano libera e la stringe alla sua, ed io vorrei solo abbracciarlo quando la signora Faryland, dal bancone, nonostante la sua miopia avanzata, butta l’occhio su di noi.
Lascio che la mia mano scivoli via dalla sua e deglutisco nel nervosismo.
«Perché non mi hai lasciato nemmeno un messaggio?»
Faccio un sorriso forzato, pensando che la signora Faryland non smetterà di fissarci, prendo la teiera e comincio a versare il tè. Poi abbasso la voce. «Credevo di infastidirti.»
«Infastidirmi? Natalie, che cosa ti salta in mente? » Mi prende per il polso e mi attira a sé e il suo respiro mi lascia una nuvola di calore sul petto per cui potrei anche ribollire in me stessa. Scotto come se avessi la febbre. Arthur sospira rumorosamente.
«Dio, è bollente! » esclama, alzandosi all’improvviso, e il tè che stavo versando senza accorgermene sulla sua camicia cade sul pavimento.
«Oddio…»
«Ragazza di Liverpool! » grida la signora Faryland.
Oh no.
Arthur, con la camicia bianca bagnata e l’espressione sconvolta, parla ancora prima che io possa trovare un modo per giustificarmi.
«Colpa mia,» dice.
Mi volto verso la signora Faryland, che mi guarda interdetta, e poi guarda Arthur che continua a parlare. «Il tè lo pago ugualmente ma posso usare il bagno?»
La signora Faryland annuisce paonazza e fa per rientrare in cucina. «Pulisci, ragazza di Liverpool!»
Ma Arthur mi tira per il polso e mi spinge nel bagno, deciso, per poco vado a sbattere contro il lavandino.
Mi respira sul collo.
Ha il fiato caldo e accelerato ed è la prima volta in cui per motivi diversi da un abbraccio mi è così vicino.
Vorrei solo che mi facesse voltare e mi baciasse fino a farmi soffocare nel mio respiro.
Mi fa girare, mi guarda negli occhi e mi accarezza il viso e non dovrebbe toccarmi perché ovunque mi tocchi sento la pressione che ogni mio desiderio di lui ha su di me.
Qualcuno bussa. «Natalie?» mi chiama Suzanna.
«Suzanna, va tutto alla grande! » le rispondo.
«Ti prego, non dirmi che stai provando tutto il kamasutra! Non è il momento! »
Oddio, che vergogna.
«Credo che tu mi abbia in pugno, Natalie.» Sorride appena. «Il più giovane e promettente manager di Liverpool che va in giro a Londra con la camicia bagnata di tè caldo in pieno agosto.»
«Perché sei qui? »
«Per te. Mi sono inventato un’importante questione d’affari… devo tornare stasera. A che ora finisci il turno?»
«Alle sette,» sussurro.
«Okay, aspetterò.»
***
Poi siamo io ed Arthur, siamo io ed Arthur come non siamo mai stati prima, perché camminiamo fra le strade di Londra in un silenzio imbarazzato spesso interrotto da qualche frase di circostanza, ed io sento la mia insostenibile voglia che la distanza si disperda fino ad essere assente per poterlo abbracciare e dargli il bacio dei miei sogni. Nonostante i guai che riesco a provocare, non sono mai stata così coraggiosa da buttarmi a capofitto sui miei desideri.
Li vedo passarmi davanti, li vedo andare via, li vedo vivere senza che si accorgino di me.
«E così qui è dove hai trovato casa? » chiede Arthur, allontanandosi di qualche metro dal portone per osservare il palazzo. La macchia sulla camicia gli dà un’aria trasandata che non è da lui, sembra più giovane ed incredibilmente bello con quei capelli un po’ scompigliati.
«Sì, non è tanto male, no?»
«Porca di quella puttana di tua zia, » esclama Arthur.
Lo guardo sconvolta.
«Perché sul tuo portone c’è scritta una roba simile? » chiede, a metà tra l’essere basito e divertito.
Mi lascio andare a una risata. «Quando mi sono trasferita non c’era. »
«Chi è che si mette a insultare la zia? »
«Magari si tratta… di una bella zia, » butto lì.
«Una zia sexy, » conferma Arthur. «Se tua madre viene a trovarti e la legge sviene. »
«Vuoi salire? » gli chiedo, troppo veloce per qualunque essere umano. Digrigno i denti nella mia stupida impazienza. «Per vederla. Devo ancora sistemarla, però. »
«Speravo che potessi fare le cose con calma… ehm.» Si sistema il ciuffo biondo che gli ricade sugli occhi. È così strano vederlo così, con il volto sudato dal caldo e i capelli che gli ricadono sulla fronte come un comune ragazzo ventenne. Deglutisco. Non ho idea di come possano farsi le cose di fretta, nemmeno con calma. Ho avuto un ragazzo, nella mia vita, e nonostante i sette mesi di intensa relazione ho avuto sempre l’impressione che qualcosa non andasse bene. Ci siamo lasciati, infatti. Ora fa il suo secondo anno di Spagnolo e fa una vita strabella con ragazze strabelle. Un ragazzo semplice, lui; a parte il macchinone e il padre importante. Ma non ho avuto il tempo di amarlo seriamente: come si fa, con Arthur Benkinson in testa, nei sogni, nei pensieri sul futuro? «Intendevo, speravo che mi accompagnassi alla stazione, » si corregge.
«Certo, » gli rispondo subito, incamminandomi. Arriviamo alla stazione con molto anticipo. È uno dei posti più belli di Londra, per quanto mi riguarda; mi ricorda la mia infanzia e le storie della mia infanzia, un maghetto con gli occhiali tondi e tanta voglia che la vita diventi magia.
«Mi chiedo ancora come hai potuto pensare di darmi fastidio. Ti avrei aiutata a trovare una casa migliore. »
«È un posto da me. Facciata trasgressiva su una vita tranquilla! È un palazzo di vecchio stampo, ci vivono molte persone anziane a parte il russo del primo piano.»
«Be’,» comincia, mettendo le mani nelle tasche dei jeans. «Ti avrei dato una mano a trovare un lavoro. Non mi piace come ti tratta quella strega.»
«La signora Faryland, già.»
«Te ne sei andata anche a Londra, almeno a Liverpool sarebbe stato più semplice. »
«No, Art, non lo sarebbe stato! Non volevo stare vicino a mamma e papà, e questo era l’unico modo. Londra è stupenda, no?»
Arthur sbuffa e sorride, scuotendo la testa. «Non ti interessa proprio stare senza di me, mhm? »
«E tu non ti farai mai una ragione del fatto che Natalie è cresciuta, mhm? »
«È proprio questo il punto, che sei cresciuta. E questo mi lascia… interdetto.»
«Interdetto? »
«Sorpreso? »
«Preso in contropiede? »
«Mi fa sclerare.»
Scoppio a ridere.
«Parli come me! »
«Mi sei mancata da impazzire e non ho fatto che ricordare ogni cosa, anche la più stupida, e solo così mi sono reso conto che…» Si blocca. Fa un respiro profondo. Ed io ho l’impressione che anche il mio cuore respiri, si affanni, come una persona, come il ragazzo che è qui davanti a me.
Il treno in arrivo fischia.
«Che?» lo incito.
«Che…»
Il treno si sta avvicinando ed io mi preparo a salutarlo. Chissà quando tornerà, chissà quando io tornerò da lui dopo tutte queste strane parole, battiti di cuore improvvisi, ansia di aspettativa che mi logora nelle mie fantasie.
Non parla più, Arthur.
E quando alzo il viso e mi rassegno a non sapere che cosa ha pensato, lui avvicina il suo viso al mio in modo così veloce che chiudo gli occhi per paura, con il respiro trattenuto in gola.
Quando mi accorgo che mi ha dato un semplice e leggero bacio sulla guancia, riprendo a respirare.
Non credo che una ragazza più stupida di me sia mai esistita prima.
«Okay. » Apro gli occhi. «Quindi Arthur ci vediam… »
È un sogno. Uno dei miei tanti sogni. Ma è più caldo di quanto lo sia mai stato durante il sonno, ed io tremo come una foglia, una bambina che ha la febbre, qualcuno che teme di morire, con Arthur che posa le sue labbra sulle mie con gli occhi chiusi e le sue ciglia a sfiorarmi e le sue mani sui miei fianchi rapito da una forza che conosco qui per la prima volta.
Mi sta baciando.
Io lo sto baciando.
Ci muoio qui, adesso.
E così il treno è arrivato.
Stordita, non riesco a fare a meno di sospirare, poggio la testa sulle sue spalle e non so bene che cosa sento, a che cosa penso, ma lui mi stringe a sé e allora so che cosa bene.
Pare che tentare di scappare di casa sia stata la prima cosa intelligente che mi sia mai capitata di fare.
Mi sento così leggera che potrei davvero spiccare il volo, letteralmente.
«Questa è la parte in cui… perdi il treno per passare tutta la notte con me?»
Alzo lo sguardo e, inaspettatamente, Arthur mi guarda in un modo che ha l’ultimo effetto che avrei sperato. I suoi occhi parlano. I suoi occhi verdi che non riesco a togliermi dalla testa da anni, insieme a quel sorriso disarmante e le sue perfette spiegazioni di matematica ripetute all’infito per farmi capire, mentre io ero impegnata a capire me, che mi innamoravo di lui e quella sua calma nel fare ogni cosa e del football in cui non è mai stato davvero bravo anche se non ha mai smesso di provarci. Nessuno che valga veramente qualcosa smette mai di provarci. È il motto dei Benkinson. La mia famiglia ne ha mai avuto uno? Dovrebbe, in fondo è una delle più importanti della mia città.
Arthur mi mette le mani sulle spalle per allontanarmi.
«Arthur… »
«Non posso,» dice, la decisione nella voce, il suo sguardo a trafiggermi.
«Che… cosa?»
«Forse tu puoi, ma io no,» ribatte secco. «Non avrei dovuto. Non avrei assolutamente dovuto. Che cosa mi è saltato in testa? Ho di nuovo sedici anni? Diciassette? Ridicolo. »
«Non è ridicolo, Art…»
«Sei sconvolta. È stata solo colpa mia. Non lo volevi nemmeno tu, credimi.»
«Crederti? Chi sei tu per parlare al mio posto? Io lo volevo, lo volevo da così tanto che… Arthur, credi di essere l’unico ad avere paura? »
Sale sul treno. Non è l’ultimo, ma non è nemmeno il primo, ed evita il mio sguardo. È un codardo, come me. Come me cerca di non pensare a quello che fa più male, a quello che non vogliamo dimenticare solo perché vorremmo che non sia mai esistito, mai accaduto.
«Abbi cura di te, Natalie.»
Le porte si chiudono.
Non credevo che avrei mai desiderato tanto dirti lo stesso.
Pare che per Natalie Truman le cose non finiscano mai bene, nemmeno dopo un bel bacio con l’amore della sua vita.
Non è mica una commedia romantica, questa.
*
*
*
*
Ciao a tutti, miei bellissimi lettori :D Ecco qui un nuovo capitolo su Natalie, vi aspettavata un risvolto del genere? Come mai Arthur si sarà tirato indietro e il dolore su cui riflette Natalie chi riguarderà? Spero di non avervi deluso, ho in servo delle piccole sorprese <3
Grazie mille alle meravigliose persone che seguono, preferisocno e ricordano e, in particola modo, un grazie speciale alle splendide ragazze che recensiscono <3 Il vostro parere è tanto importante per me :)

Presto la maturità sarà finita e potrò tornare a recensire *-* (è una specie di minaccia, lo so xD)

Un bacio,
vostra Ania :3

 

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Capitolo 5
*** Quinto capitolo ***


5.
  Tiro il lenzuolo per coprirmi fino al mento; è estate, Londra è fresca, eppure io ho freddo dentro, mi copro sempre fino alla testa proprio per questo. Nel buio della notte, il freddo che nascondo dentro me stessa si propaga gelandomi il sangue.
Stesa su un fianco, dell’aria calda mi carezza la nuca.
Mi volto di scatto e mi si secca la gola.
«Arthur? »
Qui, nel mio letto.
Deglutisco.
Tante domande mi si affollano nella testa e stanno per venir fuori, quando Arthur mi prende per il polso e sbatto contro il suo petto. Le sue mani scendono suoi miei fianchi e le sue labbra trovano le mie. Il calore mi travolge e il cuore mi batte così forte che ho paura di aprire gli occhi, ho paura di non riuscire a controllare niente di ciò che fa parte di me.
«Arthur…»
«Natalie, io non ce la faccio…» Mi solleva la maglia del pigiama e mi bacia sulla pelle sotto il sole, tra le scapole. «Non avrei dovuto farlo, ma l’ho fatto… e ora non posso più tornare indietro. » La sua voce si spezza.
Gli prendo il viso tra le mani e rivelo un coraggio, una forza che sa tanto di irresponsabilità nel dirgli, piano, «Non tornare indietro».
Mi bacia ancora, gli sbottono la camicia, mi gira la testa; Arthur cerca di staccare i gancetti del reggiseno, invano. Ride e la sua risata mi attraversa come se io fossi un fantasma, nient’altro che aria e bianco vapore.
Rido anch’io con lui, fin quando non mi accorgo che la sua mano scende, e lui scende, e l’ambiente si ovatta e c’è solo lui e quella sensazione…
«Scommetto che vuoi sapere come ho fatto a entrare. »
Quella sensazione…
«Oddio, ti prego… »
«Lo vuoi sapere, vero? » mi grida Pamela, facendomi aprire gli occhi. Ecco cos’era, un sogno! Mi metto ancora sotto il lenzuolo, stringendo le palpebre come se così i miei desideri potessero risucchiarmi nei miei sogni. Un sogno, ecco cos’era! Un fottuto sogno!
In senso letterale.
«Natalie, io non ti capisco. Ti trasferisci in una città nuova, da sola, e la cosa più intelligente che fai è mettere la chiave sotto lo zerbino? » Apro di poco gli occhi, di nuovo, e me la ritrovo davanti con le mani sui fianchi e un’espressione impietosita; nei miei confronti, certo. «Seriusely?» chiede, imitando l’accento di Londra.
Non riesco a fare a meno di sorridere.
Mi si sdraia accanto senza complimenti. «Hai la bava alla bocca, lo sai?» aggiunge.
Mi porto la mano alle labbra e mi rendo conto che ha ragione, purtroppo. «Anche tu sei uno schianto al mattino, Pam. »
«Ma non mi chiedi perché sono qui? »
«Perché sei qui? »
«Be’, prima di tutto è una scusa per essere a Londra, secondo di tutto a Londra ci sei tu, che sei la mia migliore amica, e Liverpool è un inferno senza di te. È la città di sempre, ma senza di te. Ed io sento che non ci sei, ovunque io sia. Anche, che ne so, quando sono in bagno per defecare, ed è normale che tu non ci sia, be’, anche in quel momento sento… »
«… La puzza? »
«… della tua assenza! » Mi dà un pizzicotto sulla pancia ed io mi lascio scappare un verso fin troppo evasivo.
Scalcio via la coperta ridendo. «Mi sei mancata anche tu, Pam. »
«Renderò il tuo giorno libero indimenticabile, sappilo. »
«Oddio. Devo avere paura? »
«Ovviamente. »
***
Apro la scala che mi ha gentilmente prestato il signor Zot, poi prendo il pennello e il contenitore del fissante. Al lato opposto della cucina, Pamela fa lo stesso, con in testa il mio cappellino del lavoro.
«Bene, Nat, una volta che avremo finito di passare questa roba trasparente… »
«Fissante…»
«… questo liquido trasparente piuttosto stalker, che colore vuoi metterci sopra per porre fine una volta per tutte ai suoi sguardi indiscreti? »
Mi lascio andare a una risata. «Rosso. »
«Che cosa? » grida Pam.
«Rosso, » ripeto.
Pam fa finta di tremare. «Mi sa tanto di omicidio. »
Scuoto la testa. «Dai, non esagerare. »
«Mi sa tanto di mestruo abbondante. »
«Ma che schifo! » Spero di non mettermi a vomitare. «Mica è quel rosso! Intendevo un rosso-arancio, ma più rosso che arancio.»
«Non ho capito bene, come la coda dei tuoi capelli? »
Do un’altra passata con il pennello. «Un po’ più scuri.»
«Sono stranissimi i tuoi capelli, comunque. Hai la ricrescita castano scuro e poi all’altezza dell’orecchio il colore diventa improvvisamente più chiaro, tipo schatush ma non è schatush. Quando ti fai la coda di cavallo… sembra veramente una coda di cavallo! »
«Mi stai dicendo che ho la testa che sembra un culo di cavallo? Sei la seconda persona che mi paragona a quell’animale per motivi diversi, e menomale che ho la faccia tonda!»
«A lavoro non ti chiamano “ragazza di Liverpool”? »
«Sì, e se continuiamo così mi chiameranno “il cavallo di Liverpool”? »
«Oh porca paletta, suona malissimo! »
«Grazie al cielo. »
***
Io e Pamela passiamo il pomeriggio fra i negozi più belli di Londra, senza comprare niente però. Pam è abbastanza squattrinata ed io ho solo il mio stipendio da cameriera appena assunta, che non è chissà che, e non posso certo comprare quella tenerissima borsa a forma di papera cannibale. Incredibile, non ho mai avuto la passione per comrpare roba costosa, e ora che non posso mi è venuto il pallino. Dannazione. È proprio vero che quando non puoi avere più qualcosa che è sempre stata ovvia ti si attorciglia lo stomaco per il fastidio. E questa è solo una carta di credito. Quando succede con le persone, invece, è amplificato al massimo.
Dopo il nostro shopping simulato e un tentativo piuttosto fallimentare di diventare una bomba sexy, tentativo che a Pamela viene sempre meglio, ce ne andiamo a ballare. Almeno tre ragazzi cercano di baciare Pam ma lei è bravissima a rifiutarli tutti con stilose mosse di ballo. Anche a me si avvicina qualcuno, ma credo di avere uno sguardo simile a Medusa, perché se ne vanno via tipo pietrificati. Pam mi trascina sulla pista, facendomi volteggiare anche se la musica dovrebbe indurci solo a saltare; comincia a fare delle mosse da “Febbre del sabato sera” ed io la imito, mandando all’aria anche solo l’intenzione di mantenere una buona reputazione anche in questa città. Alle cinque di mattina, dopo quattro drink, mi sento la testa e il petto incendiare, con Pamela che mi mantiene tenendomi per il fianco.
«Nat, appoggiati. »
«Dove andiamo? »
«A casa tua, non credi? »
«Ma sono le quattro e mezza, tu parti alle cinque! »
«No lascerò che la mia migliore amica ubriaca mi accompagni alla stazione. »
«Non sono ubriaca. » Sbatto gli occhi, cammino un po’ incerta sui tacchi. «Sono solo un po’ brilla.» Mi tolgo le scarpe e continuo a camminale, mentre Pamela mi lancia uno sguardo truce.
«Sei davvero folle, Nat. » Si ferma sul posto ed io la supero.
«Allora, non vieni? » le chiedo.
«No, non mi muovo. » Incrocia le braccia al petto. «Anzi, anche a costo di perdere il treno, io ti accompagno a casa. »
«Ma Pam! » La mia voce è una cantilena. «Hai prenotato, se lo perdi… perdi anche i soldi. »
«Be’, mentre io sono su quel treno, e tu vaghi alle cinque per Londra mezza ubriaca, qualcuno potrebbe rapirti, non è peggio?»
«Pamela, non fare la bambina…»
«Non sono una bambina. Sono la tua migliore amica. E sono venuta a trovarti per farti divertire ed è giusto che tu abbia ballato, ed è giusto che tu abbia bevuto, è giusto che tu abbia riso tanto fino a piegarti in due, ed è giusto che oggi, con me, tu sia stata la mia Natalie di sempre, quella che mette da parte le cose tristi perché qualunque cosa succeda bisogna sempre risollevarsi. » Pamela si avvicina e mi mette una mano sulla spalla. «Arthur è un babbuino senza cervello, anche se all’apparenza ti è sempre parso un ragazzo sexy più grande di te. » Rido, ma la mia è una risata che non si scosta più di tanto dal suono che si emette durante un pianto isterico. Poggio la testa sulla sua spalla e ne approfitto per guidarla dove dico io, verso la stazione. «Voglio dire, ti bacia, » continua a dire. «Anzi, ti slinguazza abbondantemente, e poi ti dice che non può? Ma non può che? Prima lo fa e poi dice che non può? Ma che è un gambero, fa le cose al contrario? Boh. Idiota. Tutto lui, laureato con il massimo. Laureato in stupidologia, altro che economia.»
La lascio continuare per un po’. È vagamente esaltante sentire le critiche su un ragazzo che ti ha mollata, ti fa sentire un po’ meno senza speranze. Anche se non siamo mai stati insieme, ci siamo solo baciati. Anche se, in realtà, è stato lui a baciarmi. Con la lingua. E poi io ho risposto. Con la lingua anch’io.
Forse bacio male, è per quello che mi ha detto che non può. Il mio ex non si è mai lamentato, ma poi ci siamo lasciati, quindi non saprei.
«Sai, Pam, » esordisco, interrompendola. «A volte vorrei essere lesbica, con le donne sarebbe più facile. »
«Oh, Nat, » dice lei, e poi si siede sulla panchina. «Anch’io lo penso. I ragazzi pensano tutti col pipino tra le gambe. Il punto è che… li trovo così sexy. Le donne non mi fanno quell’effetto. Sono dannatamente etero.»
«Già, anch’io li trovo sexy. Non tutti, ovviamente, ma una buona parte, di solito irraggiungibile.»
Il treno arriva fin troppo presto. Non sono così brilla come pensavo, perché mi sento fresca, anche se sono sicura che, appena tornerò a casa, dormire per molte ore di seguito.
Arthur mi ha baciato in questo punto esatto, al centro del marciapiede. Ora che sono con Pamela, sarà facile offuscare il ricordo di quel giorno con quello che accade adesso. Pam mi abbraccia forte, quasi soffocandomi, e poi mi dà un bacio sulla guancia.
«Natalie, non pensare lui,» sussurra.
Sorrido. «Con te intorno è stato facile. »
«Non posso trasferirmi a Londra, Nat.»
«Perché? » La guardo negli occhi. «Come nei film, le due migliori amiche che vivono insieme. Non sarebbe stupendo? »
Gli occhi le si fanno lucidi, e così anche i miei. «Lo sarebbe, ma non posso. Non posso lasciare la mamma da sola. » Sospira, cerca di trattenere le lacrime. «A volte… mi manca mio padre. » Comincia a ridere, ma poi resta immobile, una lacrima che scende sulla sua guancia. «Non si amavano più, ma noi… noi siamo così tanti e la mamma è da sola, da sola, un sabato in villa non è niente in confronto al resto, vorrei odiarlo ma non possiamo dividerci, noi… dobbiamo stare insieme ed è… estenuante, e ci sono solo io.»
«Non è che ci sei solo tu, Pamela. Ci sei tu. E per come sei, per le decisioni che prendi… ogni cosa diventa più bella. A Liverpool non ci sono più io, ma da qui a un minuto tu non sarei qui, ed io lo sentirò, sentirò la tua mancanza. Londra non è mai stata bella con noi due che camminavamo abbracciate per le strade, lo sai. Soprattutto perché tu sei strabella, certo. » La punzecchio.
Mi abbraccia di nuovo, più piano. «Anche tu sei strabella. »
«Non è poi tanto vero, ma grazie. »
«Se fossi lesbica, mi metterei con te. »
«Che complimento cazzuto, wow! »
«Oh, sì! » dice, salendo sul treno, e poi si volta verso di me, i capelli biondi e mossi che danno colore al grigio metallico del treno. Mi ricorda Arthur, Arthur che mi guarda per l’ultima volta dicendo non posso. «Corri a casa, ora! Non voglio che ti rapiscano. »
«Io non corro, volo! » dico, volteggiando; Pamela me l’avrà sentito dire chissà quante volte.
«Non inciampare, mi raccomando. »
«I tacchi li porto in mano! »
«Scelta intelligente.» Sorride, e i suoi occhi sorridono insieme a lei.
«Ciao, amica mia. »
***
I bar vicino alla stazione sono già aperti, io corro con i tacchi in una mano e la borsa nell’altra, scalza; a Londra tutte le persone sembrano comparse di un film, nessuno ti guarda, e tu non sai se sei anche tu una comparsa o se una qualche storia, forse, si sta svolgendo nella tua vita. Anche se ogni vita è una storia e ogni comparsa può essere un protagonista, deve solo provare a scappare,, a fermarsi un attimo, smettere di guardare in alto o a lato o per terra e incontrare lo sguardo di qualcuno. Un estraneo, forse. Un estraneo che si accorga che ci sei, e vivi anche tu.
E poi è questo che accade. Io mi sto guardando intorno, filosofeggiando sul senso della vita, anche se a scuola sono sempre stata una schiappa cronica, e qualcuno, seduto a terra, stiracchia le gambe. Strano come tutto ti appaia chiaro come una scena a rallentatore, solo dopo che, ovviamente, sei caduta su quelle gambe battendo il mento per terra.
«Porca merda! » impreco. Volto di poco la testa. Le mie scarpe alte, argentate e super iper mega costose, sono finite in mezzo alla strada. «No, » sussurro, quando un camion le travolge, rompendo il tacco di una delle due. «Le mie scarpe! Merda!» grido, cercando di tirarmi su.
Sento due mani sulle mie spalle. «Poco scurrile, ragazza di Liverpool. » Una calda risata mi fa smettere di respirare. Mi metto in piedi e sento come di essere a Liverpool davvero, con quegli occhi come il mare a fissarmi, e le sua mani vicino al mio collo e un mezzo sorriso – mezzo, non intero – su quel volto tanto familiare quanto stranamente bello.
«Tu? »
«Sì, io! »
«Mi hai fatto inciampare! » gli urlo contro. «Mi hai fatto inciampare e le mie scarpe sono volate in mezzo alla strada e si sono rotte per sempre! »
«Meglio le scarpe che te, non trovi? » quasi ringhia. Resto allibita, incapace di parlare. Si appoggia al muro e poi, come una specie di cucciolo, sbadiglia mettendo la mano davanti alla bocca troppo tardi. Indossa la stessa maglietta che aveva quando l’ho visto la prima volta, ma i jeans sono diversi, più scuri.
«Hai fatto le ore piccole? »
«Di sicuro non quanto te,» dice, la voce roca, quasi infastidito dalla mia domanda. «Il sole mi sveglia sempre, a quest’ora. »
«In che senso? » inclino la testa, per guardare oltre lui. Dove prima doveva essere, seduto, o sdraiato, è sistemato un cartone con un lenzuolo, e un borsone aperto con qualche lattina. Sento un vuoto nello stomaco che sembra risucchiarmi, in me stessa e nella mia superficialità. «Oddio, tu… dormi lì? » chiedo, e la mia voce è stridula.
Il ragazzo che mi sta davanti cerca di svegliarsi passandosi la mano sul viso.
«Tu… tu sei un barbone?» continuo.
«Be’…»
«… sei un barbone. » Mi aggrappo alle sue spalle, prendendolo per la maglietta a metà tra l’inscenare una minaccia o un’implorazione. «Sei un barbone senza casa e senza soldi e chissà con cosa volevi solo un po’ di patatine dopo giorni e giorni di zuppa in scatola ed io… »
«Sei inciampata e mi hai scaraventato il vassoio in un punto strategico. Ricordo benissimo, ragazza di Liverpool,» mi soffia contro. Arrossisco e lascio la presa. Ma cosa mi è preso? «Ora, se non ti dispiace, dormo un altro paio d’ore.»
Deglutisco.
«No, non puoi. »
Sbuffa, sembra proprio che io lo stia esasperando.
Faccio un respiro profondo.
«Potresti accompagnarmi a casa?»
«E perché dovrei? »
«Perché, mister gentilezza, ho bisogno di un coinquilino e non puoi rifiutare. Quindi muovi il culo.»
*
*
*
*
Miei carissimi lettori, lascio a voi i commenti :'') Spero davvero che questo capitolo vi sia piaciuto :3 
Se vi va di leggere qualcos'altro di mio, vi propongo la mia prima storia originale, di genere young adult con elementi sovrannaturali e di mistero che da poco ho cominciato a revisionare. Per leggerla, basta cliccare sul banner della storia qui sotto :)



Al prossimo capitolo,
vostra Aniasolary <3

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Capitolo 6
*** Sesto capitolo ***



6. Il ragazzo senza nome si guarda intorno in quella che da poco più di una settimana è casa mia: ha sul volto un’espressione a metà tra lo smarrimento e il disprezzo più totale. Mi lascio cadere sul divano dall’altra parte della stanza, e mi ritrovo ad osservarlo spudoratamente. È piuttosto magro, ma la maglia che gli scende bene mostra le spalle larghe che così si notano ancora di più. E, questo non posso proprio fare a meno di notarlo, ha un di dietro di quelli da incorniciare.
«La mia camera da letto è quella di sinistra. La tua è a destra,» comincio.
«Ehi, calma…»
«Sono molto disordinata, lo so, ma sono qui da poco, sai.»
«Non volevo dire questo, solo…»
«Cosa?»
Si volta verso di me, esasperato, e il piercing sul sopracciglio destro riflette le luce del sole, finendogli negli occhi, arrivando a me.
Sbuffa, si passa una mano fra i capelli. «Insomma, potrei essere un criminale, un drogato…»
Sgrano gli occhi.
«Sei un criminale?» chiedo, e la mia voce si alza di un’ottava.
«No.»
«Sei un drogato?» chiedo ancora, a tono più basso.
«No.»
«E allora perché dovrei pensarlo?» chiedo, l'esasperazione nella voce.
«Be’, sai, quando la gente vede piercing e tatuaggi pensa che possa essere uno spacciatore.»
«Hai tatuaggi oltre al piercing?»
«Già, uno.»
«Me lo fai vedere?»
«Lo sai che è un fantastico doppio senso, vero?»
Arrossisco violentemente.
«Non intendevo dire questo.»
«Non ho soldi per pagare l’affitto,» aggiunge, incrociando le braccia al petto. Ecco qual è il problema.
«Avevi intenzione di fare il barbone per sempre?»
Inclina la testa. «Non per sempre.»
«Trovati un lavoro, allora.»
«Che lavoro dovrei fare, sentiamo?»
«Non lo so, un lavoro qualsiasi!»
«Tipo il gigolò?»
«Se quella è la cosa che ti viene meglio.» Evito il suo sguardo. «Che c’è, non sei abituato a lavorare per vivere? »
«Sono abituato eccome,» quasi ringhia. Si arrabbia presto e con foga, anche se non se lo può permettere.
«Okay. Devo dipingere casa. Fin quando non lo trovi, tempo fino al mese prossimo, mi dipingi casa, d’accordo? Ho già messo il fissante, qui.»
«Tutto questo perché al bar ho impedito che venissi licenziata?» chiede, alzando la voce.
«Be’, mi hai aiutato a non perdere il lavoro al mio primo giorno!»
«Già, l’ho fatto.»
«E perché l’hai fatto? »
Si avvicina e si siede accanto a me, sollevo lo sguardo e lui mi fissa, improvvisamente serio, ma non ostile. Sembra… comprensivo. «Perché avevi la faccia di chi sta per perdere tutto. Ed io conosco bene quella sensazione.» Sospira. «E tu? Perché mi stai offrendo il tuo aiuto, adesso?»
Faccio un respiro profondo. «Perché non si dovrebbe mai stare da soli, quando si hanno dei problemi. E soprattutto, bisognerebbe avere un tetto sulla testa.»
Sorride, a metà, come la prima volta in cui l’ho incontrato. Sembra che quello che prima era fastidio, rabbia, ora svanisca in sorpresa e un piccolo stralcio di gratitudine. «Non hai paura di pentirtene?»
«Non sai dipingere una parete?»
Scuote la testa, ridendo. «Certo che lo so fare. Mio padre fa l’imbianchino ed io ho lavorato con lui tantissime volte.»
«Allora non credo di potermene pentire. Un imbianchino professionista, wow! E quando mi capita più?»
Continua a ridere, ora più forte. Mi si scioglie un nodo in gola, come se del ghiaccio mi bloccasse le corde vocali, e la voce che è venuta fuori finora fosse solo uno strano vapore; eppure non riesco a non sentirmi tesa, nervosa.
«Non ci siamo ancora presentati, ti rendi conto?» continua lui.
«Già.»
«Di solito inviti la gente a dividere casa con te senza nemmeno conoscerne il nome?»
«No, questa è la prima volta che lo faccio. La prossima farò più attenzione, promesso.»
Mi sorride. Che è un modo carino per dire che attenta alla mia vita soltanto con un naturale movimento delle labbra che mostra la sua dentatura con il canino un po’ storto a sinistra, ma che non riesco nemmeno a vedere come imperfezione perché là, alla guancia destra, si forma una fossetta. Brillano, i suoi occhi: dello stesso colore del mare di Another place.
Mi avevi detto di non essere un criminale, bugiardo.
Mi porge la mano per stringere la mia. «Allora io sono Ewan. Ewan Lynch.»
 ***
Ho agito senza riflettere, eppure ho agito pensando. Non c’è molto da capire, in fondo; è che quando vedi te stessa in una persona che non sei tu, hai solo due alternative: condannarla più severamente di chiunque altro o aiutarla come tu hai sperato che facesse qualcuno con te.
Nei miei dolori, nella mia rabbia, nei miei disagi, non sono mai stata sola. C’era Pamela, e da quando c’è anche quello che è successo prima che io e lei diventassimo amiche si è dissipato nei ricordi con la forza del nostro affetto. Guardando Ewan, ho capito che lui era solo. Forse lo è ancora, ma adesso un po’ meno. «Lo so che tieni tanto a recuperare le tue zuppe in scatola, ma le mangi solo tu, okay?»
«Non preoccuparti, ragazza di Liverpool,» sbotta Ewan. «Non te le avrei cedute per niente al mondo.»
«Mi chiamo Natalie.»
«Lo so.»
Arriviamo nel punto in cui è accaduta la svolta di stamattina.
Da quella parte del lenzuolo che credevo coprisse solo una parte rialzata del cartone, viene fuori la testa di un uomo barbuto dagli occhi azzurro chiaro, con tanto di cappello. La gente dorme col cappello?
«Buongiorno, mon cherie,» dice con voce strascicata. «Hai fatto conquiste, ragazzo!» E si gira dall’altra parte.
«Lui è Reginald. Mi ha concesso di mettere il mio cartone vicino al suo, in cambio di una birra che gli ho ceduto.» Ewan sospira. 
«E perché lui…»
«Oh, lui si ubriaca sempre con i soldi della mini-pensione di suo fratello. È una scelta di vita. Spera ancora di ritrovare l’amore della giovinezza, perché l’ha incontrato qui a Londra, e allora ha mollato la Francia ed è almeno un paio d’anni che sta qui. Lo so, strappalacrime. Non gli ho chiesto io di raccontarmi la sua vita. Io non gli ho raccontato la mia.» Ewan prende in una mano un suo borsone e con l'altra si sistema un fodero che sembra contenere qualcosa di piatto ma di considerevole lunghezza, tipo una tavola da surf, sotto il braccio. Ma a che serve una tavola da surf, a Londra? Verrà da qualche paese di mare?
«Di dove sei, Ewan?»
«Dublino.»
«Oh, irlandese! » Batto le mani. «Non l’avrei mai detto. »
«E perché?» chiede, divertito chissà da cosa.
«Di solito gli irlandesi sono tutti coi capelli rossi e le lentiggini.»
«Stupidi luoghi comuni,» sbuffa, come offeso.
«Di solito gli irlandesi sono sempre sorridenti. Tu sei suscettibile come Cocoon di Pocahontas
«Pocha che?»
«Pokèmon. No, scusa, intendevo Pocahontas, l’indiana d’America del film Disney, che tra l’altro è anche esistita davvero.»
Mi guarda sinceramente sconvolto. «Non lo sapevo proprio.»
«Ora lo sai. Allora mi accompagni a lavoro?»
«Ma per chi mi hai preso?»
«Per un ragazzo per bene. Non per un criminale, ovvio.»
«Che stronza che sei.»
«Ehi!»
«Molto furba, lo devo ammettere. »
Sto leggermente gongolando. Camminiamo l’uno accanto all’altra, io sorrido come una bambina al luna park e lui sembra un fratello maggiore costretto ad accompagnarmi. «Come sei finito a fare il barbone?» gli chiedo, quasi saltellando.
«Sono scappato di casa, » mugugna. Mi fermo sul posto. Ewan si accorge subito che non gli sto camminando accanto, anche se, parlando con me, guardava ovunque tranne la sottoscritta. Mi lancia uno sguardo curioso. «Che c’è?»
Sospiro. «Anch’io sono scappata di casa.»
«Non ci posso credere,» sussurra.
Nemmeno io. È incredibile che accanto a me, ora, ci sia qualcuno che è passato sui miei stessi cocci rotti, o almeno simili; mi ritrovo ad accorgermi, improvvisamente, di quanto pesi ogni motivo che mi ha portata ad andare via.
«Tu perché sei scappato?» gli chiedo.
«Storia lunga,» conclude, ed io sospiro di delusione. Dovevo aspettarmi che mi raccontasse la sua vita per consolarci a vicenda? No, non dovevo, non potevo. Non devo e non posso. «E tu?»
«Scommetto che la mia storia è più lunga della tua.» Lo rimbecco.
Continua a camminare, guardandomi di traverso. Sembra quasi che lui, invece, non si aspettasse che lo rispondessi chiudendo subito la questione, come ha fatto lui.
«Senti, hai per caso il telefono fisso?»
«Certo, è sul ripiano della cucina, non l’hai visto?»
«Mi è sfuggito. Posso fare uno squillo a Dublino? Sai, è per la mia ragazza.»
La delusione si ammassa alla delusione precedente. Stupida Nat, casco sempre nella stessa trappola, il territorio spinato in cui sosta il più problematico dei sentimenti. Deglutisco e mi stampo in faccia l’espressione neutra più fasulla del mondo.
 «Ma certo.»
Non ho avuto nemmeno il tempo di sperarci, in fondo.
***
È una serata fiacca, questa. Sarà che è appena passato il fine settimana, quindi me ne sto appoggiata al bancone guardando MTV.
«Che cosa ti è successo?» mi chiede Suzanna.
«Niente di importante.»
«Con quel tuo ragazzo biondo?»
«Niente di importante,» preciso, ma la mia voce si fa stridula. Perché il fatto che l’amore della tua vita ti baci e ti faccia capire che non accadrà mai più non è assolutamente importante, vero Nat?
«In generale?»
«Niente di importante,» ripeto, con la voce ferma. Devo sembrare un cubetto di ghiaccio fatto a persona, di sicuro.
«Sei il ritratto della gioia di vivere,» dice, dandomi un buffetto sulla guancia. «Il sorriso attira i ragazzi migliori, sappilo.»
«Sorridevi quando hai incontrato tuo marito?»
«Ero al funerale di mio zio, tesoro.»
Chiamasi umorismo inglese. Suzanna entra in cucina ed un ragazzo che deve avere la mia mia età, con i pantaloni larghi, uno skate sotto il braccio e una lunga frangia castana a coprirgli gli occhi si ferma davanti al bancone.
«Ciao, cosa ti porto?»
Ha un bel viso, nonostante tutto di lui sia trasandato.
«Mia madre.»
«È sul menu? » chiedo. Il ragazzo mi guarda sconcertato, con due grandi occhi color nocciola.
«Sono Leonard, mia madre è Suzanna Clark.»
«Oh, certo, è in cucina,» gli dico.
«Grazie, bambolina.» Mi fa l’occhiolino.
Mhm? No, ti prego, non sono in vena.
«Mamma, mi dai cinque sterline?» lo sento dire.
«No, Leo, ieri me ne hai chiesti dieci.»
«E dai, ma’!»
«Ma come ti sei vestito?»
«I jeans li porto così, okay?»
«Ti sei cambiato le mutande?»
Scuoto la testa. Non essere l’unica che si ritrova in situazioni imbarazzanti anche inconsapevolmente mi consola.
«Ragazza di Liverpool,» mi chiama la signora Faryland, dalla cassa. «Sabato prossimo offriamo un servizio catering per un’agenzia di moda e servono altre cameriere.»
«Lavoro extra?»
«Sì, ma il tuo non verrà pagato,» precisa.
Il primo impulso che fatico a trattenere è quello di buttarle addosso il panno pieno di candeggina nel secchio accanto a me, ma stringo i denti e cerco di recuperare tutta l’educazione che mi è stata insegnata. «Ma, signora Faryland…»
«Per le patatine e il tè sul bel ragazzo biondo. Dovresti ringraziarmi per essere ancora qui.»
***
Torno a casa correndo con lo stato d’animo che ha la fantastica denominazione di incazzata nera. Apro la porta e il mio coinquilino fidanzato con una tipa di Dublino, nel piccolo salottino, se ne sta senza maglietta a passare il fissante, sulla scala che mi ha prestato Zot. Senza maglietta, lui. Con una schiena abbronzata e i muscoli tesi e... piantala!
«Ciao, Natalie.»
Distolgo lo sguardo.
Mi lascio andare sul divano, accendo la tv e metto su real time.
«Non dormi, la notte?» gli chiedo.
«Sono quasi le sei di mattina. Sembra che tu abbia passato un turno di lavoro da schifo.»
«Oh, grazie mille per averlo notato!» Mi volto a guardarlo, giusto il minimo indispensabile perché i miei occhi finiscano sul torace ben definito e un accenno piuttosto marcato di addominali. Lo guardo negli occhi.
Pare che io lo stia guardando troppo, quindi è meglio che me ne vada a dormire.
Fa per scendere le scale. «Natalie…» mi chiama.
«Buonanotte.»
Mi chiudo la porta della mia stanza alle spalle.
Quanto me ne tornerei a Liverpool dalla mamma. Mi butto sul letto. No, non questo. Quanto vorrei risvegliarmi in un posto in cui ho già trovato la mia strada.
Sospiro. Il torpore del sonno mi travolge, mentre un pensiero, vago ma al tempo stesso definito, mi fa chiudere gli occhi: devi trovare la tua strada da sola.
*
*
*
*
Salve a tutti, miei lettori stupendi. Ewan Lynch è il nuovo coinquilino di Natalie, come andranno i loro rapporti? Abbiamo visto che non hanno dei caratteri che combaciano perfettamente: si scontrano molto bene però.
Spero di avervi incuriositi e spero che la storia non vi deluda. Nel caso, spero che possiate darmi dei consigli **

Se vi va di iniziare nuove letture: consiglio una splendida storia Fantasy-storica, L'orologio di sangue della mia cara amica Hanna Lewis. Mai letto niente del genere scritto così bene *-*

Grazie mille a tutti voi, lettori <3 Il vostro sostegno è fondamentale, mi fate sentire così felice <3
Un bacione,
vostra Ania :3

 

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Capitolo 7
*** Settimo capitolo ***



7. Quando apro gli occhi credo di sognare. Non può essere che un sogno, questo, perché il suono che mi ha svegliata – anche se sto ancora dormendo, lo so – è quello di un pianoforte, un pianoforte che canta malinconico una canzone che non ha bisogno della voce perché il pianoforte è già la voce. La voce, che chiama la luna, chiama la luce, chiama chiunque la ascolti; per questo, mi ritrovo a camminare verso la porta, a piedi scalzi, ancora assonnata, ma rapita.
Seduto al tavolo della cucina, Ewan è seduto e mi dà le spalle. Il suono sembra provenire proprio da lui, mi avvicino, non respiro. Viene dalle sue mani, e dalla tastiera di fronte a lui. L’ho raggiunto, forse senza accorgermene, forse perché la musica mi trascinava e mi trascina ancora, e quando Ewan si accorge di me resta un attimo sospeso – a metà tra la sorpresa e qualcosa che non riesco a definire, strana soddisfazione, una specie di orgoglio – a guardarmi, e l’attimo dura minuti, minuti splendidi in cui non smette di suonare, e non smette di guardarmi in una muta sfida, un avvertimento, qualcosa che io sostengo solo con lo sguardo nel disperato tentativo di restare vigile con le mie emozioni. Le mie emozioni. I mie ricordi.
«Allora, la riconosci? » mi chiede Ewan. Dalla sua espressione a metà tra un ghigno e un sorriso, devo dedurre che non è la prima volta che me lo chiede.
Gli lancio un’occhiata di traverso. «Con chi credi di avere a che fare? » ribatto. «Ovvio che la riconosco. È la moonlight Sonata.»
«Beethoven,» precisa.
«Lo sapevo già. »
«E allora scusa, » dice, poi prende il fodero e fa per mettere la tastiera all’interno. Ecco cos’era, e non una tavola da surf.
«Scusa per cosa? »
«Non so, per cosa vuoi che ti chieda scusa? Per averti svegliata? Per averti contraddetta? »
«Tu hai problemi seri. »
«Anche tu, visto che mi hai offerto il tuo aiuto eppure ti comporti da acida mestruata. »
Metto le mani sui fianchi in una posa da madre incazzata.
«Come ti permetti… »
«Senti, » dice, alzando le mani, come se gli avessi puntato contro una pistola. «Tregua. Possiamo provare ad essere amici, se vuoi. Sai, per un momento mi è passata per la mente l’idea che mi volessi sedurre, ma visto che, se lo stai facendo, non sta dando i suoi frutti, pare proprio che tu mi odi. Che ne pensi di… finirla qui e provare a stare un po’ più tranquilla? »
«Davvero credevi che volessi portarti a letto? » chiedo sconvolta.
«Sai, sembrava. »
«Idiota! Amo un altro. »
Silenzio.
E il suo sguardo, da lontano così scuro, da vicino così simile al blu del maee quando il sole tramonta.
«Amo, » ripete, con enfasi, in un suono di gola. «Strano che una parola del genere si trovi sulla bocca di una ragazzina senza che canticchi una canzone. »
Assottiglio gli occhi.
Ewan riesce a passare da un’offerta di pace a un giudizio universale nel tempo di qualche secondo. Non riesco a capire se è un bravo ragazzo o uno che vede il divertimento nello schernire gli altri, e quando non parla è ancora più difficile capirlo, perché a seconda della prospettiva da cui lo guardi lui sembra diverso.
«La ragazzina che ti sta davanti ha diciannove anni. E tu quanti ne hai, nonno?»
Si mette a ridere. «Ventuno, e non ti scaldare. Non sapevo avessi qualcuno, potevi dirmelo prima.»
Mi viene l’impulso di fulminarlo. «Io sono libera. Cioè, sono fatti miei.» Deglutisco. Cerco di pensare a qualcosa di brillante da dire, perché non sono nemmeno nella friendzone ma nella nonpossozone, che di sicuro è anche peggio. Ma non mi viene in mente niente.
«Va bene, allora.» Mi porge la mano, sorride. «Tregua, ragazza di Liverpool?»
Lo guardo incerta. Sinceramente non so bene perché mi sto comportando così con lui; dovrei, non so, fare la carina, invece sembra davvero che stia facendo di tutto per fargli desiderare di dormire in strada piuttosto che qui. La verità è che mi ispira cose non proprio da ragazza educata sotto i principi della morale cattolica. Devo sfogare le mie pulsioni, in qualche modo.
«Tregua.» Stringo la sua mano. «Ma devi chiamarmi Natalie.»
«Perfetto. » Lascia la mia mano. Passiamo qualche secondo così, a guardarci intorno come se non conoscessimo l’appartamento in cui viviamo. Poi Ewan posa di nuovo gli occhi su di me ed io mi ricordo che, comunque, sono in pigiama, il mio pigiamone larghissimo e antisesso.
«Allora,» riprende. «Ti piace il pianoforte?»
Ci ho lasciato il cuore.
«No,» rispondo invece, troppo veloce. Faccio un respiro profondo. «No, mi spiace… posso chiederti di suonare con le cuffie? Così non sento.» Ewan sbatte le palpebre per un attimo, come se qualcuno l’avesse spinto all’indietro improvvisamente, e invece sono state solo le mie parole. Per un istante, mi succede lo stesso: dentro di me qualcosa si sposta, come sospinta da una forza di cui non conosco la provenienza, qualcosa che mi fa sentire in colpa, perché il dolore è uguale per tutti, ma noi ci ostiniamo ad apparire diversi, indifferenti, inumani. Non mi avvicino a d una tastiera o un pianoforte da quasi dieci anni.
E dopo dieci anni, l’unico a farmici avvicinare è stato Ewan Lynch.
«D’accordo.» Ewan sospira. «Metterò le cuffie. »
***
«Oh, sono così contenta che tu abbia trovato un coinquilino! Spero per te che non sia un cesso,» mi dice Pamela dal telefono.
«No, Pam, non è un cesso. Anzi, se devo dirti la verità, è sexy a livelli cosmici. »
«Pretendo una descrizione accurata.»
«Occhi azzurro scuro. Capelli neri molto corti, tipo militare. Un bel fisico ed abbronzato, alto. Un sedere da paura.»
«Santa Maria benedetta, dimmi il suo nome così lo cerco su facebook!»
«Ewan Lynch! » le dico. Aspetto alcuni secondi e poi Pamela continua a parlare.
«Santa Maria Benedetta, che grandissimo pezzo di figo. »
Annuisco. «Non ti posso contraddire, anche se caratterialmente non ci troviamo tantissimo.»
«Fattelo. Scopatelo. Ballaci il mambo orizzontale. Ripassa anatomia con lui. Come altro vuoi che te lo dica che DEVI farti Ewan Lynch? »
«Pamela, sei sola a casa? »
«Sì.»
«Altrimenti non si spiegava il linguaggio vietato ai minori di diciottenni.»
«Ti prego impara il kamasutra con questo Ewan. Poi si chiama anche come l’attore di Moulin Rouge! »
«Ewan come? »
«Ewan Mcgregor. Come fai a non ricordarlo?»
«Lui lo ricordo, ma il film è troppo smielato.»
«Oh ma piantala di fare sempre la dura!»
«Quell’Ewan è una meraviglia in quell’altro film! Madonna, lì veramente quanto me lo farei…»
«Natalie, mi hai chiamato? » È la voce brusca, un po’ roca e inconfondibile di Ewan.
Salto dalla sedia, cado di sedere a terra con un tonfo simile al rombo di un vecchio motore, con la sedia all’aria e il telefono per terra. Grazie al cielo era il cordless.
Sto per sbattere la testa, quando qualcosa me lo impedisce. Ewan che, letteralmente, mi salva il culo tutte le volte in cui ne ha la possibilità.
Ridacchio.
 «Ho sentito il mio nome… credevo mi chiamassi.»
«No, parlavo con la mia amica al telefono dell’attore. Ewan Mcgregor. »
«Ah sì. Scusa allora.» Accenna un sorriso.
«Non preoccuparti.»
Sì, sono stata davvero gentile questa volta, è un miglioramento. Se non mi salva il culo mi salva la testa, è incredibile. Riprendo il telefono.
«Pamela? »
«Sono qui, tesoro. Ha anche una voce sexy. FATTELO SUBITO. »
«Vai a farti una doccia fredda, Pam. »
«Credo davvero che lo farò.»
Forse ne avrei bisogno anch’io.
La saluto, chiudo la telefonata e metto i Metallica a tutto volume.
***
Oggi ho il turno di pomeriggio, quindi pranzo a casa con Ewan. Apro il frigorifero e sento il panico invadermi le viscere; a parte qualche pomodoro e del burro non c’è niente di lontanamente commestibile. Sarei dovuta uscire per fare la spesa ma me ne sono dimenticata, la conversazione con Pamela mi ha coinvolto troppo e poi mi sono messa a saltare sgraziatamente sulle note dei Metallica, quindi le ali di pollo sono svanite dalla mia mente.
Sento il rumore della serratura, corro verso la porta di ingresso e vedo Ewan con in mano una busta.
«Ti piace mangiare Messicano?» mi chiede.
Mi avvicino a lui e mi lascio scappare un sospiro di sollievo.
«Oh, adoro.»
«Che cosa, me o il messicano?»
«Sarei tentata di dire entrambi…» Gli prendo la busta dalle mani. «Ma sarebbe una bugia.» Gli lancio un sorrisino.
«Allora suppongo che adori solo me.»
Gli faccio il verso, corro in cucina e mi siedo. «Ho troppa fame per rifiutare, ma con quali soldi hai comprato questa roba? I tuoi pochi risparmi?» Prendo i tacos dalla busta, una porzione per me e una per lui, seduto di fronte a me.
«No, Natalie, ho trovato un lavoro e questo è il mio anticipo,» dice, quasi scocciato.
Resto a bocca aperta per un secondo. «Oh, è fantastico!»
«Sì, devo suonare al parco per una cosa di beneficienza, ma mi pagano.» Gli si illuminano gli occhi.
«Che cosa suoni? »
Ride. «Non i Metallica, di sicuro.»
Lo fulmino con lo sguardo. «I Metallica sono fantastici.»
«Infatti, sono d’accordo,» risponde, e sembra davvero serio. «Ma stai parlando con un ragazzo che ha studiato al conservatorio per dieci anni, quindi suonare Chopin per me va più che bene.»
«Più di dieci anni? Praticamente sei…»
«Stai per dire pianista professionista?»
«Sì. »
«Be’, non si direbbe, no? Alla fine ho solo una tastiera, per forza di cose.»
«Hai sempre suonato sulla tastiera?» Mangio un po’ di Tacos, ma lui non ha ancora toccato niente.
«No, a casa mia, a Dublino, ho un pianoforte verticale. Ma è troppo pesante perché me lo potessi portare fino a Londra, quindi l’ho lasciato lì. »
«Mi dispiace,» dico sinceramente. «Devi averci lasciato il cuore lì, nel pianoforte, a Dublino… »
Un tempo c’era un pianoforte, lì, nel salotto della grande casa dell’avvocato Truman. Da bambina pensavo alla mia vita come a una favola, mi divertivo a raccontarla a me stessa, a dare amore con le parole a tutto l’amore che mi circondava. Era lì, il pianoforte. Era lì, lei, a suonarlo.
«Natalie, la riconosci? » mi chiedeva, ridendo. Rideva come in un sogno, il nostro sogno.
«L’ho fatto davvero.» Si passa una mano tra i capelli cortissimi e si sporge verso di me, pochi centimetri a separarci. «Ero un bambino tremendo. Li ho assillati fin quando non mi hanno fatto provare in una scuola di musica e per esercitarmi a casa cantavo nella mente la melodia e suonavo su una tastiera di carta. Poi ho avuto una tastiera piccola… a quindici anni il pianoforte verticale. Abbiamo messo i soldi da parte per anni, ma alla fine è stata una vittoria.» Sorride a quel modo che gli illumina una parte del viso e gli oscura l’altra metà del volto, come se insieme ci fossero i due opposti, la felicità e la tristezza, la luce e l’ombra, il bianco e il nero. Gli occhi blu e neri, di entrambi i colori o solo uno a seconda della distanza, non riesco a capirlo. Forse è uno strano ceruleo? Qualcosa che cambia in base al tempo o alle sensazioni?
Squilla il mio cellulare ed Ewan sussulta, a pochi centimetri da me.
«Il telefono, Natalie.»
«Mhm. » Sono ancora persa a guardarlo.
«Il tuo telefono… squilla. »
«Ah… ah sì.» Mi alzo in piedi e vedo il numero del locale. Rispondo: «Pronto? »
«Ragazza di Liverpool,» mi apostrofa la signora Faryland dall’altro capo del telefono. La sua voce grave è sempre riconoscibile. «Stasera lavoro extra, te lo ricordi? Scriviti l’indirizzo. William e Kate hanno organizzato quella festa per far conoscere George ai  reali svedesi e tutti i catering di Londra sono stati prenotati, tranne noi, ovviamente, quindi per la sfilata di questi tipo ricco ma non come la regina Elisabetta dobbiamo lavorare noi e nessun’altro, ci sarà molto lavoro da fare. »
Quanto vorrei rifiutare e passare tutta la sera a guardare la maratona di tutti i film di Guerre Stellari e mandare tutto all’aria.
« Hai combinato almeno due disastri e lavorare senza che ti paghi è un gesto misericordioso da parte mia. Alle nove voglio trovarti lì, e sii puntuale.» Chiude la telefonata ed io resto a bocca aperta, mi mordo l’interno della guancia per l’irritazione e faccio un respiro profondo per calmarmi.
«Porca di quella puttana di tua zia!» Impreco.
«Che ti ha fatto mia zia? » mi chiede Ewan, incerto.
«Niente,» mugugno. «Stasera devo lavorare e non verrò pagata. E se non vado perdo il lavoro in generale.»
«Ma che… »
«Per le patatine… e per il tè. »
«Il tè? »
«Ho sporcato la camicia a un ragazzo versando il tè. Sono stata sempre difesa, ma la signora Faryland ha notato qualcosa di strano, evidentemente. »
Ewan mi guarda con un sorriso che sembra conoscere tutto. «Mhm, quindi non sono stato l’unico? »
«Sei stato il primo, se lo vuoi sapere.»
«Be’, lo andrò a sbandierare in giro allora.» Gli do uno schiaffo sul braccio ma non posso fare a meno di mettermi a ridere. «E non dovresti farti trattare così.»
«Non ho bisogno dei tuoi consigli, so cavarmela benissimo da sola.»
«Si è visto quanto sei brava. C’è sempre un ragazzo figo a salvarti.»
«E il ragazzo figo saresti tu?»
«Anch’io lavoro stasera. Volevo invitarti a sentirmi suonare. So che ti dà fastidio, non per altro. Ma visto che sei impegnata… sarà per un’altra volta. »
«Sì, potrai torturarmi un’altra volta,» ribatto. «Almeno questa volta l’ho scampata. »
***
La sfilata si terrà in quest’ambiente unico enorme, in cui al posto del muro ci sono dei pannelli a specchio, quindi sono costretta, ogni due per tre, a guardarmi. Una tenuta davvero seria: pantaloni neri, camicia bianca, gilet nero. Solo a guardarmi mi viene sonno. Quando cammino veloce, però, i capelli arancio che ondeggiano sulla schiena raccolti da un elastico mi danno un po’ di colore. Mi ricorda la coda di un animale, la coda di un…
«Ehi, cameriera? Ci porti dello champagne?»
Ci penserò un’altra volta.
Mi sto davvero impegnando molto. La dinamica sorridere-chinare il capo-porgere-salutare è piuttosto monotona, ma semplice. E la signora Faryland, seduta al bar con in mano un cocktail, non ha nulla da ridire.
«Ragazza di Liverpool, che fai lì impalata?»
Come non detto.
«Nessuno qui gradisce delle tartine! »
«E allora va’ dietro le quinte, consumale tutte! Se rimane qualcosa poi non mi pagano tutto.»
Quanto la farei rotolare giù da una collina per farla finire in mezzo alla cacca delle mucche di un pascolo irlandese. Okay, non lo farei davvero, ma sarebbe davvero divertente. A denti stretti, mi dirigo verso i camerini.
Qualcuno mi tocca il braccio. «Tesoro.» È Suzanna, a disagio in questo completo anche più di me. «Tieni duro.»
Scuoto la testa. «Lo sto facendo.»
«Lo so.» Mi sorride, attenta a mantenere il vassoio con i flute di spumante in equilibrio.
Sorrido anch’io, sorrido dentro, perché sono ancora impegnata ad insultare la zia senza colpa di qualcuno. Faccio un respiro profondo e apro la porta del camerino. Ragazze alte e sinuose, in piedi sui loro tacchi altissimi, se ne stanno ferme mentre la sarta fa gli ultimi ritocchi agli abiti. Abiti che splendono con strass e pailettes, lunghi, corti, di tutti i corti e bellissimi, ma non particolarmente originali.
Tutte le ragazze, nello stesso istante, si voltano a guardarmi.
«’Sera.» Tossicchio. «Gradite un rinfresco?»
Facce disgustate si alternano a profonda preoccupazione. Una modella si avvicina a me, ha i capelli neri e il volto da bambolina, due occhi scuri truccati alla perfezione e un’altezza spropositata. «Che c’è dentro? »
«Cetriolini, maionese…»
«Uh! » mi interrompe. «Vuoi per caso uccidermi?» mi chiede, con gli occhi spalancati.
«Ehm… no, no…»
«A me sembra di sì,» dice, annuendo forte con il capo. «Senti, carina. Fa’una cosa buona per tutte. Sparisci.»
Fa per allontanarsi. Ma qualcosa è andato storto, nel modo più preciso che poteva accadere, ed io me ne accorgo solo mentre accade. Il suo bracciale d’oro si è impigliato nel manico del vassoio. Con la velocità e la forza che mette nel volersi allontanare da me, si tira il vassoio e le tartine addosso, che si aprono completamente, spiaccicandosi sul suo vestito.
La ragazza grida come se fosse stata pugnalata al cuore. «Nooooo! Toglietemelo di dosso!» urla. «Toglietemelo di dosso!»
Nessuno si muove.
«Toglietemelooooo,» continua a gridare, isterica. Non riesco a immaginare che cosa le prende. Comunque, la aiuto a togliere il vestito. «Aaaaaaaaagh!» urla ancora come un ossessa. Riesco ad abbassarle la zip del vestito dalla parte della schiena e lei lo scalcia via con qualche colpo di tacco.
«Ma che ti è preso?» le chiedo, ho la fronte sudata. «Mi aspettavo di dover chiamare un esorcista.»
«La… maionese,» sospira la ragazza. «… sul vestito. Poteva raggiungermi la pelle ed entrare dai pori fino… all’interno.»
Resto senza parole per un paio di secondi. Non riesco a credere a quello che ho sentito.
«Davvero credi che il processo osmotico possa accadere con la maionese e il corpo umano?»
«… forse volevi dire omofobo? » chiede la ragazza, con il tono di voce di una bambina di quattro anni. «Io non ho nulla contro i gay, carina. Che cosa vuoi insinuare, mhm? E comunque, stasera non potrò sfilare! Quando lo vedrà la mia stilista andrà su tutte le furie!» grida, e si solleva. Indossa un completino intimo assolutamente striminzito. «Me ne vado a casa. E lo farò presente alla responsabile del servizio catering! Cameriera incapace!» Se ne va via ancheggiando sui quei tacchi altissimi mentre io bollo nella paura. Perderò il lavoro. Perderò il lavoro. Perderò il lavoro.
Deglutisco.
Perderò il lavoro. Raccolgo il vestito, prendo un fazzoletto e tolgo tutti i refusi della maionese, poi lo apro dalla parte sottostante e lo inverto dalla parte della cucitura, dove è dorato e brillantinato. Molto meglio da questo lato, direi, anche se molto appariscente.
«Che stai facendo, carina?» mi chiede un’altra modella.
Mi alzo in piedi e mi sento Dio.
«Non puoi nemmeno immaginare. »
Vado dietro il separè per cambiarmi; mi spoglio e indosso il vestito al contrario. Okay, ci sono.
«Ragazze, scusate, avete visto la cameriera? » sento la voce di Suzanna.
«Suz, sono qui! » dico, saltando.
Suzanna apre il separè e mi fissa, un espressione sconvolta in volto. «Natalie! Ma che vuoi fare vestita così? »
Sorrido, mi sento tanto joker di Batman, ma senza sangue.
«Voglio sfilare,»  dico, sicura.
Suzanna mi guarda sconvolta. «Ne sei sicura?»
 «Assolutamente.»
«Ma proprio sicura?»
«Suzanna!» sbotto, mi sta esasperando. «Non farmi cambiare idea!»
Scoppia a ridere in un modo fragoroso, coprendosi la bocca con le labbra, dondola un po’ in avanti. «Okay, tesoro. Sei davvero pazza.»
***
Dai camerini si sente la musica house graffiare le orecchie.
«Dov’è la mia modella? Dov’è? » chiede una ragazza che sembra la figlia della signora Faryland. Deve essere… la stilista.
Resto in silenzio.
La ragazza bellissima e altissima che introduce le modelle si rivolge a me. «Come mai non ti accompagna il tuo stilista?»
«Perché io sono la mia stilista.»
«Ah,» dice lei, mostrando un dente d’oro. «Si vede.»
Le farei la linguaccia se potessi.
«Come ti chiami, carina?»
«Natalie Truman.»
Scorre i nomi sulla lista e assottiglia gli occhi. «Non ci sei, carina.»
«Forse, carina, l’organizzazione di quest’evento è così puerile che inconcepibilmente parlando non è ammissibile il processo distrettuale secondo cui il simposio e l’artistica mostra del confluire degli abiti dovrebbe avvenire, no?»
Mi guarda strizzando gli occhi.
Si mette una mano sul fianco.
Non ha capito un emerito cactus!
«Va bene, Natalie Truman. Vai.»
Oh merda.
Ora mi è salito il panico.
I riflettori mi puntano e per un attimo non vedo niente: solo il bianco più assoluto. Non c’è nessuno, ma solo io, e la passerella, come se fosse il percorso di un tunnel. Sollevo le braccia e salto. Ho studiato danza classica, ma non mi piaceva. Ho studiato danza moderna, e non mi piaceva. Ho fatto kick boxing, e mi esaltava. E ho fatto atletica, e mi sono divertita un mondo. Come mi diverto un mondo adesso.
Faccio tre ruote, tutte di seguito, poi un’ultima capriola, mi rimetto in piedi respirando una volta sola, mi sciolgo i capelli a cui ho attaccato delle extecions verde foresta, in realtà striscioline di plastica staccate da uno spolverino che ho trovato nel ripostiglio, e ai miei lati esplodono delle piccole scintille, che mi toccano come se io stessa fossi fuoco. Questo è tutto merito di Leo: Suzanna l’ha chiamato e lui è corso qui per aiutarmi con la scenografia. È un tipo che fa preoccupare la madre per la sua fissazione per gli esplosivi, ma lui adora le cose artistiche.
Il rumore dell’applauso mi porta ad alzare il viso e allora, in questa grande sala piena di specchi, trovo il mio riflesso. Una ragazza con un vestito scintillante lungo fino al ginocchio tagliato a zig zag sull’orlo, a tratti ricoperto da una bomboletta una rossa – di quelle che usano per i dolci, l’abbiamo trovata in cucina – un grande nastro dorato – io e Suzanna l’abbiamo preso dalle decorazioni.
Scalza è stato semplicissimo, sembro esser venuta fuori dalla foresta di un tempo lontano.
Quando scendo dalla passerella sono circondata da persone. Alcuni sono addirittura giornalisti.
«Come le è venuta l’idea per quest’abito? Da quanto tempo lavora nel settore? Ha utilizzato il velluto per l’interno?»
Sorrido come un’ ebete. «Segreto professionale. Rispondo solo in presenza del mio avvocato.» Un avvocato è mio padre, ma non c’è. Quindi ciao. Sto per scappare via ma lo sguardo truce della signora Faryland mi blocca. «Oh!» aggiungo. «Il servizio catering è fantastico, è a cura della signora Faryland, per cui lavoro, e la ringrazio per il supporto.»
Tutti si girano verso di lei, applaudendo, e la signora Faryland, interdetta, tenta di sorridere anche se viene fuori solo una smorfia un po’ inquietante.
Al bar ordino un paio di cocktail.
«Mio dio, sei la sorella di Moogly? »
Mi volto, tenendo in mano il mio Margarita. «Credevo che fossi ignorante in materia film Disney.»
«Dai, Natalie, non ho avuto un’infanzia così infelice. Un Jack Daniel’s per me.» Ewan, una camicia bianca con il colletto largo e i polsini sollevati a mostrare la parte inferiore delle braccia, un profumo maschile che mi stordisce un po’, si siede sullo sgabello accanto a me, poggia il gomito sul bancone e si volta a guardarmi. Resta senza dire niente per quei secondi di troppo che mi fanno tamburellare le dita sul bancone aspettando parole che non arrivano, mentre lui continua a sorridere.
«Com’è andato il concerto?»
«Che cosa hai combinato stasera?»
Ci guardiamo per un secondo, giusto il tempo di renderci conto che abbiamo parlato nello stesso istante. Guardo il soffitto dove brilla il lampadario di cristallo, improvvisamente interessante.
«Prima le signore,» dice Ewan, indicandomi con la mano come se volesse chiedermi di ballare.
«Be’, mi sono trovata nei casini e me ne sono tirata fuori… alla grande,» butto lì, poi sorseggio un po’ del mio drink. Arriva il jack daniel’s per Ewan. «Ed ho sfilato con… questa roba addosso fingendomi un’aspirante stilista al posto di una modella che ha mollato il suo vestito, e allora con qualche modifica…»
«Caspita, quanto sei pazza.»
«È stato divertente.» Sto praticamente gongolando. «E poi… così mi sono salvata il lavoro… da sola. Senza l’aiuto di alcun figone
Ewan prende il bicchiere con il whiskey e lo fissa, inarcando le sopracciglia. Poi mi guarda, ed ora i suoi occhi sembrano davvero chiari, blu e brillanti, con le ciglia nere e lunghe. «Sei davvero in gamba, Natalie.»
«Non ho le gambe lunghe due metri come tutte le altre modelle ma ehi…»
«Sei… Furba. E visto il tema “da foresta” e i capelli arancio… come una volpe.»
«Una volpe? »
«Sì, la volpe di Liverpool. »
Ci rifletto su per qualche secondo. Ricordo il mio riflesso nello specchio, un’esplosione di colori boschivi e i miei capelli tenuti alti con l’elastico, da cui veniva fuori una coda di ciocche arancioni. «Mi piace.»
*
*
*
*



Si ringrazia la fantastica Mary Misty che, in uno dei tanti momenti di estasi sclerante nel gruppo dedicato alla volpe di Liverpool, ha realizzato questo tributo ad Ewan, detto affetuosamente Mr. Patato per la sua esperienza ravvicinata con le patatine a causa della nostra Natalie :'') In quel gruppo ci divertiamo un mondo ed io devo solo ringraziare voi, che vi lasciate trasportare dalle vicissitudini di Natalie con me, sorridete con me e sognate con me. Io, che scrivo una commedia per la prima volta e ne vedo per la prima volta gli effetti, posso dire che è un'esperienza stupenda, che auguro a tutti coloro che amano la scrittura.
Quindi, ringrazio infinitamente tutti i miei lettori e lettrici, quelli che recensiscono, quelli che seguono, ricordano, preferiscono, quelli con cui interagisco nel gruppo, in cui siete tutti i benvenuti <3. Grazie, infinitamente *-*
Wow, che note lunghissime oggi, caspita o.o 
Spero, comunque, che il capitolo vi sia piaciuto *.*

Un grande bacio,
vostra Ania <3

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Capitolo 8
*** Ottavo capitolo ***


8. Si torna alla normalità. Ordini ai tavoli, lattine di birra e cocacola da aprire e pavimenti da pulire. Quando ho cominciato questo lavoro ero animata dalla foga di fare tutto bene, ma senza riuscirci. Ora non penso più a fare le cose bene: mi sento più tranquilla, a mio agio, e tutto viene decisamente meglio. Sono quattro giorni che non rompo e non sporco niente!
Davvero un record.
Si sente il campanellino che si muove dopo che si è aperta la porta a vetri. Una donna con i capelli raccolti e vestita con un tajer si avvicina al bancone e vi poggia un foglietto tutto ricamato.
«Buongiorno, desidera?» chiedo, incerta.
«Lei è Natalie Truman?»
«Sì. »
«Saremmo felici di averla come ospite alla sfilata di un nuovo marchio, sabato prossimo alle otto.»
Acciderbolina!
***
Vestito rosso o vestito blu?
Capelli sollevati o sciolti?
Tacchi o scarpe basse?
«Agh!» impreco, mandando tutto all’aria nel salottino della mia casetta. Sono in crisi, letteralmente. È solo un invito, Natalie, non ti cambierà la vita. Sospiro.
È solo un invito, Jade, non ti cambierà la vita, soffia la mia voce di bambina, dal passato. Dal passato torna lei, ancora seduta a quel pianoforte, i suoi occhi azzurri e grandi, il volto pallido e tondo e bello come la luna, con i lunghi capelli castani che le scendono ad onde sulle spalle.
Comunque vada, sussurra lei, con le labbra dischiuse, aprendo le braccia in una muta richiesta di tenerezza. Comunque vada avrò sempre te.
Quando le corro incontro e le sue braccia mi avvolgono, il sogno si infrange. Lei non c’è, ed io non sono più una bambina di Liverpool ma sono a Londra, nel mio appartamento.
«È passato un tornado?»
La voce di Ewan mi fa voltare. Lui è lì, appoggiato allo stipite della porta con un’espressione disgustata in volto. Guardandolo, torno al presente con una facilità che non porta dolore.
«No,» dico, mettendomi a gattoni. «Sono solo io.»
«Stiamo apposto.» Sbuffa.
Gli lancio una scarpa contro ma lui è veloce abbastanza da sviarmi.
«Che vuoi?»
«È il mio salotto, vorrei guardare master chef se non ti dispiace. »
«Ma che programmi vedi? »
«Sono fatti miei, hai problemi?»
«Sì, ho problemi!» Mi alzo, in una mano ho la gruccia con il vestito blu e nell’altra quella con il vestito rosso. «Quale preferisci tra i due?»
Li guarda entrambi per qualche secondo. «Il più scollato.»
«Non ho intenzione di mostrare a tutti la mia balconata.»
«E allora scusa, sei meglio tu.»
Inarco un sopracciglio. «Quindi metto quello rosso. E i capelli?»
«Sono maschio, non so se l’hai notato.»
«Oh giusto, sto parlando con un cretino. Errore mio.»
«Oh, e va bene! Che palle. Portali sciolti. »
«Bene. Li terrò alzati.» Gli sorrido con tutto il volto. «Grazie, Ewan, senza di te non so che farei!»
Mi fa il verso. «Nemmeno io!»
***
Arrivo nel posto della sfilata. Mura bianche e nere, e gente vestita in banco e nero. Mostro il mio invito.
Il ragazzo mi guarda storto. «Perché è vestita di rosso? È una serata Black and White, c’era scritto sull’invito. »
Ops.
«Ehm… scusate, ecco io… io sono un’anticonformista e mica faccio come tutti gli altri! Ma per chi mi ha presa! Io sono stata invitata in quanto stilista.»
«E allora scusi.» Il ragazzo si allontana. Un cameriere mi passa davanti con le tartine. Ne prendo tre e mi siedo su una poltroncina a forma di cubo. Dopo un quarto d’ora, il cameriere passa di nuovo. Prendo altre due tartine. Dopo cinque minuti passa di nuovo, ne prendo solo una. «Senta,» mi dice. «Visto che sta mangiando solo lei lascio il vassoio qui.» E se ne va.
«Wow, che fantastica botta di culo!»
«Natalie?»
Mi volto, con ancora la tartina in bocca.
Sto per sputare il boccone.
 
Esiste qualcosa, nel periodo dell’infanzia, che fa tacere la tristezza, muta strega dalla bocca cucita che non può pronunciare i suoi incantesimi. Quando torno a quell’età, lo ricordo: la tristezza è silenziosa mentre la felicità parla anche nel mio silenzio. Eccomi: sono lì, sdraiata sul lettino sotto l’ombrellone con un paio di occhiali da sole molto più grandi del mio viso, i capelli castano scuro sparsi sulle spalle e il costumino azzurro.
Accanto a me, sull’altro lettino, proprio come due ragazze famose nei telefilm, c’è Jade. Con i miei stessi capelli castani lisci, un po’ coperti da un cappello di paglia largo e qualche centimetro in più un po’ dappertutto. Ha sedici anni, lei. Ci teneva tanto a queste vacanze al mare, ed io con lei. Jade mette in borsa le barbie con cui abbiamo appena finito di giocare e comincia a leggere qualcosa.
«Jadie,» la chiamo. «Andiamo in mare?»
«Ho appena preso in mano il libro, Natie.» La voce di Jade è dolce e cantinelante. «Dopo aver fatto sposare Barbie e Ken per l'ennesima volta me lo merito, no?» 
Sfoglia un'altra pagina del suo libro.
«Ma Jadie, nuotare mi piace di più! Per favoreeee.»
«Oh, Natie, sei assolutamente impossibile.»
«E tu incredibilmente noiosa, Jade Felicity.» La voce che ha pronunciato queste parole non è mia. È familiare, conosciuta e adorata dalla sottoscritta.
«Arthur!» grido, voltandomi. Arthur, con indosso solo il costume da bagno, mi sembra strano come ogni maschio sulla terra, tranne il mio papà. E ammetto che, tra tutti i maschi della terra, solo dopo il mio papà, è quello che preferisco. Mi lascio stritolare e baciare sulla testa da lui, che mi tiene in braccio; sono sempre stata una bambina stile-stecchino.  Quando Arthur mi fa scendere e mi giro, incontro gli occhi azzurri di Jade con le sopracciglia arcuate e l’espressione contrita. Riesce ad essere bella anche quando non pensa di esserlo.
«Sparisci, pidocchio,» soffia lei, guardandolo.  «Non sei nessuno per chiamarmi anche con il secondo nome.»
«… pidocchio?» Arthur scoppia a ridere. «Sei ancora arrabbiata? Sinceramente l’ho fatto per te, visto che hai il primo nome di una Bratz. Natalie ne ha un mucchio.»
«Arrabbiata? Per aver rovinato il vestito più bello che avevo buttandomi della vodka addosso la scorsa estate? Ovvio che lo sono.» Chiude il libro e schiocca la lingua sul palato. «E poi davanti a Natalie non dico parolacce, ma ho una buona lista di insulti per te.»
«E se ti chiedessi di nuovo scusa?»
«Non cambierebbe niente,» dice Jade a denti stretti.
Arthur mi prende la mano e fa per allontanarsi. «Porto io in mare Nat, almeno noi ci divertiamo. »
«Dai, Jade, vieniiiiii.» 
«Divertiti, Natalie,» dice Jade fissando lo sguardo sul libro.
«Che leggi? Marx? Oh mio dio, sei noiosa davvero,» aggiunge Arthur.
«Io voglio fare l’avvocato, da grande. Parla quello che si legge tutti i trattati di economia che ci sono al mondo.»
«Ma non in vacanza.» Arthur mi fa l’occhiolino, cominciando a correre verso la riva ed io lo seguo. Arthur mi fa fare tantissimi tuffi, e mentre io faccio il morto lui mi nuota da sotto. Poi si solleva all’improvviso e mi fa salire di nuovo sulle sue spalle, almeno per la dodicesima volta.
«Natalie, dobbiamo andare a pranzo!» mi chiama Jade dalla riva.
«Che cosa?» grida Arthur.
Jade entra in mare a grandi falcate, quasi si bagna la mutandina viola del costume. «Arthur, per favore, fa’ scendere Natalie, dobbiamo andarcene.»
«Per forza?» chiedo io.
«Sì, Natalie, per forza. Ti prometto che domani gioco alla sirenetta con te.»
«Evvai!» Batto le mani.
«Se magari Arthur ti fa scendere,» accenna lei, infastidita.
«Con piacere,» fa Arthur. Mi fa saltare in modo così veloce che quasi non me ne accorgo e sono già finita in mare. L’istinto mi porta a tapparmi il naso con la mano appena in tempo. Quando riemergo, vedo Jade bagnata dalla testa ai piedi, i suoi capelli prima lisci e lavati solo la sera prima ora gocciolanti. Jade mi si avvicina e mi prende la mano, poi volta la testa verso Arthur. «Ti odio, Benkinson!»
 
Guardo fisso davanti a me.
«Arthur? » Lui è qui, con uno dei suoi abiti che gli stanno a pennello, che sembrano esaltare tutte le cose belle che ha. «Che ci fai qui?» gli chiedo.
«E tu?» La sua voce sembra un sussurro.
«Io… sono stata invitata. »
«Anch’io. Cioè… in veste di accompagnatore.»
«E chi accompagni?»
«Me, carina.» Seguo la voce e la guardo ed io non posso crederci. Con lunghi capelli neri e un vestitino bianco inguinale, la modella che si è buttata addosso le tartine il giorno in cui sono diventata la volpe di Liverpool si avvicina ad Arthur e gli mette una mano sulla spalla. «La conosci, amore?» gli chiede.
Amore?
Deglutisco.
«AMORE?»
«Natalie.» Arthur tossicchia. «Vorrei presentarti la mia fidanzata, Emanuelle Marchand.»
Emanuelle mi porge la mano e me la stringe. «Mashànd, con l’accento sulla A e la D appena udibile. Il mio Arthur è così british,» mi soffia all’orecchio.
«Ma guarda, » dico io, e la mia voce è stridula. «Io invece ho origini italiane. »
«Be’, io vengo dalla città della moda e dell’amore…» Emanuelle mi lascia la mano e abbraccia Arthur di lato. «E tu invece… dal paese degli spaghetti.»
Ora le lancio addosso tutte le tartine del vassoio.
Di nuovo.
«Ehi, tu…» faccio per dire.
«Emanuelle,» la chiama Arthur, staccandosi da lei, per poi stringerle la mano. «Io e Natalie ci conosciamo da anni. Siamo praticamente… quasi parenti.»
«… o quasi fratelli,» finisco io per lui, con la mascella serrata. «Ora scusatemi, ma devo parlare con tante altre persone.» Mi volto e mi dirigo veloce verso il bar. Ho bisogno di un drink molto forte.
«Nat.» Arthur mi prende per il polso. Ha la voce bassa, profonda, addolorata. «Io posso spiegarti.»
Ma voglio solo che lui vada via. «Con chi vai a letto non è affar mio.»
«Aspetta.»
«Tu mi hai baciato e poi mi hai detto che non potevi. Siamo quasi parenti, no? Quindi immagino che per te il nostro sia… quasi incesto?»
«Che cosa? No, ascolta… sarei venuto a trovarti a lavoro.»
«Pensi che siamo i nuovi Lannister?» faccio io. «Adoro Game of Thrones, sai. Dovresti vederlo anche tu. »
«Non è questo il punto,» mormora lui.
«E allora qual è?» gli chiedo io.
E incontro i suoi occhi, verdi, con le iridi così definite da sembrare linee di elettricità che fluiscono nel suo sguardo. Ma sono io ad andare in corto circuito, mentre lo guardo e mi do della stupida, perché il tempo passa ogni giorno ed io ancora non smetto di amarlo, anche se voglio odiarlo. Anche quando mi sembra di odiarlo e vorrei solo non vederlo, mi ritrovo a sguazzare nell’acqua gelida del mio amore per lui, e a vederlo e a riconoscerlo per tutto quello che è. Il ragazzino intraprendente che assomigliava ad un principe e mi ha visto crescere come io ho visto lui diventare uomo; ho amato l’uomo dal primo istante in cui è diventato parte di lui, anche se è ancora un ragazzo, un ragazzo di ventisei anni che ride con me mentre guardiamo un vecchio cartone animato, il ragazzo che mi fa l’occhiolino alla cene noiose dei nostri genitori, il ragazzo che si è impuntato a farmi capire Matematica fino all’ultimo giorno di scuola, il ragazzo che mi risolleva da terra quando tutti pensano che mi merito, invece, di restare nel fondo.
È lui, quel ragazzo. Quello che mi ha sempre salvato e che, adesso, non permette a me di salvare lui.
«Il punto è che,» continua. «Il punto è che dobbiamo dimenticarlo, tutti e due. Per Emanuelle. E poi per…»
«Signorina Truman? È lei, vero?» mi chiama una voce.
«Sì, sono Natalie Truman,» rispondo alla ragazza che mi ha chiamato. È la stessa che mi ha portato l’invito.
«Ho una proposta per lei,» mi dice, porgendomi un foglio. «Uno stage pagato in Vogue per stiliste emergenti. L’abbiamo selezionata alla scorsa sfilata. Lei ha per caso una qualifica? »
«Ehm-ehm… io veramente… ecco… ecco… no,» finisco con un filo di voce.
«Non importa. Il talento non richiede qualifiche. Oh, e verrà pagata, certamente. Vogue è sinonimo di serietà.»
«Oddio, io sclero, fighissimo!» esclamo.
Arthur, accanto a me, ride. Gli do uno schiaffo sulla spalla.
«Dovresti tornare dalla tua francesina,» gli dico. «Potrebbe sentirsi trascurata.»
Ho dato il due di picche ad Arthur, mi sento sexy come non è mai successo prima. Anche se di solito essere sexy vuol dire attirare i ragazzi, non allontanarli: be’, ognuno ha il suo punto di vista.
***
No, non è vero che sono sexy. Sono una ragazza che si ammazza di gelato al cioccolato mentre guarda la tv.
«Che stai guardando?» mi chiede Ewan, e si siede accanto a me, sul divano. Si veste sempre con jeans e maglietta; da quando lavora, gli ho visto addosso qualche colore diverso dal bianco e dal nero. Adesso ha una maglietta rosso sbiadita, che sembra usata da tanto tempo. Addosso a lui le cose perdono gli anni, non c’è che dire.
«Amici di letto.»
«Ti piace?» mi chiede, e nella sua voce colgo – non è che l’ho solo immaginato? – una sfumatura maliziosa.
«Sì, molto.» Lecco un altro po’ di gelato dal cucchiaio e volto lo sguardo a guardare Ewan: mi sta fissando.
«Tu… che ne pensi di un rapporto del genere?»
«Ehi, per chi mi hai presa?» Gli punto contro il cucchiaio. Un ragazzo impegnato non dovrebbe fare queste domande. «Mica vado a letto col primo che mi capita a tiro! E poi tu non sei mica Justin Timberlake!»
«Ehi, e tu non sei mica Mila Kunis!»
«Non avresti speranze,» ribatto subito.
«Perché mi stai insultando? Non ti ho chiesto di diventare la mia amica di letto, ma che ne pensi in generale.»
Ops.
«Be’, penso che nei film va bene, ma nella mia vita no.»
«Perché sei religiosa?»
«Rivendico pienamente i diritti sulla mia vagina, è diverso.»
«Contenta tu.»
*
*
*
*
Ciao a tutti, miei lettori meravigliosi *-* Ecco a voi un nuovo capitolo, che non commento perché lascio a voi la parola. Voglio rigraziare tutti voi che mi recensite, leggete, preferite, ricordate, seguite. In particolare ringrazio le ragazze che sento praticamente ogni giorno grazie al gruppo... mi sostenete ogni giorno, ridete con me, date l'anima ai personaggi a cui ho deciso di regalare la vita. Un grazie speciale, a voi tutti <3

Un bacione,
vostra Ania :3
 

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Capitolo 9
*** Nono capitolo ***


9.
In bagno c’è lo specchio più grande e quello con la lampadina in alto, per questo io ed Ewan ci troviamo qui insieme a specchiarci.
La presenza di Ewan, in casa, qui ed ogni giorno, è ingombrante e al tempo stesso silenziosa, impossibile da non notare ma abbastanza versatile da riuscire a nascondersi nell’ombra senza farsi sentire. Passa del tempo per conto suo e all’improvviso mi piomba contro, con domande, alla ricerca di risposte, senza darmi modo di conoscere di lui più di quel che concede. E quel che mi concede è un ragazzo che sorride poco, e che quando lo fa è come se riuscisse a soffocarmi con un filo invisibile, risucchiandomi il respiro. Un ragazzo che parla tanto un momento prima e se ne sta zitto e in disparte il momento dopo.
Strano, mugugno tra me.
«Non mi chiedi più consigli sui vestiti?»
E con la naturale tendenza ad infastidirmi.
«No,» dico, sistemandomi un braccialetto di bigiotteria intorno al polso. «Ho gusti ottimi e non ho voglia di scocciarti, adesso. E poi devo solo andare a comprare un detersivo.»
«Dovrei ringraziarti?»
«Se vuoi.»
«Va bene. Sei libera domani sera?» mi chiede. Lo guardo, sconvolta.
«Suono. Se ti va di sentirmi. So che odii il piano ma stavolta suono in un gruppo, la tastiera. Musica di ogni genere,» precisa.
«Ah… oh…» Mi gratto la testa ed evito il suo sguardo, per scemare l’imbarazzo. Forse è meglio che rimanga a casa, forse è meglio che passi il tempo a prepararmi per lo stage, forse è meglio che… «Mhm… sì, dai.»
Devo avere il ghiaccio al posto del cervello.
«Allora ti lascio il biglietto per entrare, Nat.»
«È gratis?» butto lì.
«Un privilegio per le coinquiline eccentriche.»
Alzo gli occhi al cielo. «Dovrei ringraziarti? »
«Se vuoi.»
«Allora no.» Il suo sguardo blu mi stordisce. «Non ho nessuna intenzione di ringraziarti. »
***
Prendo posto tra le sedie posizionate nel parco; al centro del prato c’è un piccolo palco, con sopra apparecchiature e diversi fili di corrente. Ewan mi vede da lontano, mentre io stringo la borsa al petto. Mi fa un cenno con la mano, un sorriso che fa il rumore di un strappo. Si è strappato qualcosa, in me. Forse un muscolo? Alzo la mano a salutarlo, giusto per non deluderlo prima dell’esibizione. Le sedie presto si riempiono. Ragazzini, bambini, giovani sui vent’anni. Accanto a me – spalanco gli occhi – si siede il mio vicino di casa, con la bottiglia di vodka in mano e il viso rosso.
«Zot! Che ci fai qui? » gli chiedo.
«Ewuan mi ha invituato al conciuerto.»
«Oh certo,» sussurro. «Che carino.»
Sono allo stesso livello del mio vicino ubriacone.
«Sì, sì, muolto carino.»
«Agh, Zot, piantala!» Sbuffo.
«Tu arrabuata? Tu nervuosa?  Ho dettuo qualcosa di muale?»
«No, Zot, niente.» Sospiro. «Ho un carattere orrendo, per poco non mi sopporto nemmeno io.»
«Ma non è vuero. » Zot ride e mi dà un pugnetto sulla spalla, assomiglia più una carezza. «Tu sei una raguazza davvero aduorabile.»
Lo guardo e scorgo nel suo sguardo azzurro, nonostante i suoi occhi siano arrossati, così tanta tenerezza che il cuore mi si gonfia di commozione. Nessuno, oltre la mia famiglia, mi ha mai detto una cosa del genere. Mi hanno definito testarda, antipatica, rude addirittura, una ragazza della giungla. «Oh grazie, Zot.»
«E anche muolto bella. Non ho cattive intenzioni, sono suolo sincero.»
Gli sorrido. «Lo so, Zot. Sei davvero gentile, anche se sempre ubriaco.»
«Ubriaco e contento, sobrio e scontento, cosa è megluio, Natalui?»
Lo guardo. Per la prima volta, in lui, riesco a scorgere qualcosa in più, qualcosa che i suoi sorrisi non mostrano, perché i suoi sorrisi nascondono qualcosa. E quel qualcosa porta dolore con sé.
«Essere sobri, scontenti, ma andare avanti.» Sospiro. È quello che mi ripeto sempre. È quello che guida la mia vita, anche se non sempre ci credo. «Magari così puoi raggiungere la felicità.»
«Molto difficile.» Zot annuisce.
Guardo verso il palco. «Amo le cose difficili.»
Un ragazzo con i capelli rossi, sul palco, picchietta il pollice sul microfono. «Prova… prova… oh ciao ragazzi, che pubblico stupendo! » Tutti applaudono ed urlano, ma io resto ferma, riesco solo a sorridere appena di fronte all’entusiasmo di tutti. Ho un rapporto strano con la musica: riesce a sollevarmi e ad abbattermi, con la stessa intensità. «Io sono Robbie e canto! Ed ecco il chitarrista…» Li indica tutti e li presenta, scatenando altri applausi. Poi indica la tastiera. «Ed ecco… Ewan Lynch. Tastierista è riduttivo, lui ha un talento che non si trova da nessuna parte.» Scoppia un altro applauso, e questa volta rimango coinvolta anch’io, e non posso fare a meno di battere le mani e, visto che Zot insiste con qualche leggera gomitata, mi lascio scappare anche qualche urletto. Oddio, ma non sarà mica Justin Timberlake. «Ci fai un assolo, Ewan? Forza, comincia tu, quello che vuoi, improvvisa! » Ewan arrossisce, arrossisce. E sento crescermi dentro una voglia inspiegabile di essere lì, accanto a lui, per dirgli che può farcela, perché se è su quel palco un motivo c’è, il motivo è lui. Il motivo è lui e la musica e il suo pianoforte.
La prima nota è un do. Un accordo di do maggiore.
 
Il mio pollice è fermo nell’accordo di do maggiore, mentre Jade procede nei suoi virtuosismi di Strankisky. Cambio accordo e Jade mi sorride, stiamo andando davvero bene. Senza parlare, sappiamo cosa fare, dove andare, come muoverci, come se il pianoforte fosse l’intermediario delle nostre parole. Amo suonarlo, anche se ho cominciato a studiare da pochissimo. Jade lo suona da quando aveva la mia età, per questo ora è così brava. Spero di essere brava quanto lei, quando sarò grande. Il brano finisce troppo presto e nel salotto l’applauso mi fa svegliare da questa specie di anestesia totale in cui la musica mi aveva rapita. Papà, con in una mano un bicchiere di Champagne, riesce a coprire gli applausi di tutti con la sua voce. «Buon Natale, amici.» Poi si avvicina a noi e bacia sulla fronte Jade, e poi me. Ho il papà migliore del mondo. Lui manda in prigione i criminali e aiuta le persone buone. È un vero eroe! Anche se ha la pancetta e non indossa la tutina, ma la giacca e la cravatta.
«Sei stata fantastica, Natalie!» Jade mi abbraccia forte. «Buon Natale e Buon onomastico, piccola.»
«Buon ono-che? »
Jade mi ride all’orecchio. Ha una risata leggera, ma alta, simile alle note più lontane del pianoforte. «La mamma è cattolica, Natie, non te ne dimenticare. »
«Oh, giusto. Oh, Jadie! » La tiro per il braccio e avvicino la bocca al suo orecchio. «Verrà anche il tuo fidanzato o è solo in ritardo? »
«Oh, Natie, non è andato proprio bene quell’appuntamento. Ma ne sono felicissima, era davvero uno stupido, come tutti. »
«Stupido come Spongebob o come Arthur? » chiedo, seriamente interessata. «Perché sono due cose diverse. »
«Natalie diventa sempre più intelligente ogni volta che la vedo. »
Arthur, con un mazzo di rose bianche in mano, un completo elegante blu addosso, resta sempre un maschio e per questo resta strano, ma nella sua stranezza appare migliore di tutti gli altri che io abbia mai visto. Gli occhi verdi luccicano, come le gemme magiche delle fiabe, ed ha un sorriso bello come quelli che si vedono in televisione. Arthur prende una rosa bianca e me la porge. «Buon Natale e buon onomastico, » mi dice. Poi si rivolge a Jade: «A te solo buon Natale, sai com’è. Tua madre ti ha messo il nome di una pietra.»
Jade schiocca la lingua sotto al palato. Lo fa tutte le volte in cui qualcosa la irrita. «Festeggio Felicity, infatti.»
Arthur assottiglia gli occhi. «Be’, io ho un solo nome, ma è il nome di un re. Quindi non mi interessa di non avere il secondo.»
«Intendi… intendi il re Artù, quello con i cavalieri della tavola rotonda?» chiedo io, ricordando la storia che mi hanno raccontato a scuola.
«Sì, proprio quello.»
«Ed hai anche una regina?»
Arthur resta in silenzio, inaspettatamente. Si ferma anche il suo sorriso, come se fosse stato catturato in un’istantanea eterna, questo momento, come tanti altri con Jade, tante istantanee di memorie che tornano vivide, per poi presto sbiadirsi.
«Comunque, Jadie,» continua Arthur. Jade sgrana gli occhi. La chiamiamo così solo io e papà, quindi Arhur è il primo maschio sulla terra ad usare questo soprannome per lei. «Suoni da Dio. Anzi, suoni da Avvocato del Diavolo, per corrompere tutti quelli che stanno dalla parte di Dio.»
 
Rabbrividisco.
«Natalui… che succiuede? »
Apro gli occhi e Zot mi appare sbiadito, dai bordi tremolanti come una figura disegnato sul vetro. Sto solo piangendo.
Non ce la faccio, a stare qui.
Non ce la faccio a sentire le note di quel pianoforte lontano.
***
Qualcuno bussa alla porta. Chissà che ore sono, chissà quanto tempo è passato; nonostante sia estate, sono qui sul mio letto avvolta da una lunga coperta e tanti ricordi. Vado ad aprire la porta e mi ritrovo davanti Zot.
«Stuai bene?» mi chiede.
Esco sullo zerbino. «Sì, era… un calo di pressione, credo.»
«Un calo d’umore, fuorse.» Zot mi riserva un sorriso, timido ma al tempo stesso fermo. «Tu sobria e scontenta, vuero?»
«Bingo.»
Sospiro.
«Ewuan si è preoccupato. È sceso dal pualco mentre il batterista faceva l’assolo e ha chiesto di te.»
«Sul serio?! » domando. «Non pensavo che gli importasse tanto della mia presenza.»
«Tu gli importi muolto, invuece. Ha suonato con tutto il tempo con una ruga qua.» Zot si indica un punto in mezzo alla fronte. «È la zona del viso che si piega quando si piega anche il cuore.»
«Natalie? » Ewan, di una decina di metri dietro a Zot, mi chiama come se solo così potesse liberassi di un peso che gli spezzala schiena. Si avvicina correndo, non riserva nemmeno un saluto a Zot.
«Buonanotte, raguazzi,» dice Zot.
Ewan mi spinge dentro casa e chiude la porta, la coperta che portavo sulle spalle mi scivola dietro e mi sento spoglia e inerme di fronte al suo sguardo, ora scuro, preoccupato.
«Sto bene,» dico.
«Non avevo intenzione di chiedertelo.» Ewan fa un passo verso di me, lento, come se fosse stanco più di ogni altra sera, come se una parte della sua energia fosse persa per sempre. Mi carezza il viso con un leggero tocco dei polpastrelli e tremo nella sorpresa. «Le persone rispondono sempre con una bugia quando gli chiedi come stanno. Io non sono da meno. E nemmeno tu, che menti ancora prima che te lo chieda.» Il suo sguardo affonda in me, nero e sincero, acque trasparenti che mi cullano con una serenità che non mi appartiene, e non posso fare a meno di sentirmi inquieta, più di quanto lo sia mai stata in tutta la mia vita.
«Era solo un calo di pressione.»
«Ti guardavo, mentre suonavo. E improvvisamente sei scomparsa in te stessa… il pianoforte ti fa così schifo? Non penso proprio,» dice, con l’inizio di una risata a storcergli le labbra. Il calore della rabbia oscura la mia vista.
«Sì, Ewan, mi fa schifo. Mi repelle! » Mi allontano da lui, brusca. «E tu mi repelli! Quindi non toccarmi.»
«Non credo a nessuna delle due cose.»
«Bene, non crederci. Non mi importa. Non sei nessuno per me.»
«Sono qualcuno, Natalie. Sono una persona
«Sei uno qualunque.»
«Uno qualunque che ha capito tante cose,» sussurra. «Il pianoforte ti mostra dei fantasmi di cui hai paura.»
Mi fanno male gli occhi, le lacrime premono e respiro con la bocca aperta, l’aria non mi basta più. «È sbagliato avere paura? »
«È sbagliato far finta che le paure non esistano, anche quando si tratta di ricordi. Più cerchi di dimenticarle, più non ti abbandonano mai.»
«E come fai a dirlo? Tu non mi conosci.»
«Ti vedo e ti parlo ogni giorno. Non sei l’unica, qui dentro, ad essere scappata di casa.»
«Non conosci i miei motivi,» ribatto.
«Come sai che non sono più seri dei miei? »
«Non posso saperlo,» grugnisco.
«Ora te lo dico, visto che ci tieni.» Si avvicina di nuovo a me, prende una ciocca dei miei capelli – arancione splendente – e me la sistema dietro le orecchio. «Io non accetto di perdere qualcuno che amo, mai. E non accetto che qualcuno faccia soffrire qualcuno che amo, mai.» Sospira. Si allontana di nuovo. Dandomi le spalle, continua a parlare. «Io non sono figlio unico. Ho una sorella, si chiama Claire, cinque anni più grande di me. Abbiamo sempre reso orgogliosi i nostri genitori, io con la musica, lei con i successi a scuola. Si è laureata in Spagnolo e Francese con il massimo dei voti. Io mi sono messo con Danielle quando avevo quindici anni, Claire non ha mai portato a casa nessun ragazzo. È sempre stata circondata da ragazzi, certo, è ovvio, lei… è bellissima, e dolce e buona. Mi ha sempre trattato come un suo pari, mai come il più piccolo, ed io l’ho sempre trattata come si meritava, perché per me sarà la migliore sorella del mondo. Per questo, è venuta da me quando è successo. » Ewan si volta verso di me ed ha gli occhi fatti a scintille. Luci blu, lucide di lacrime che non scendono. «È venuta da me quando si è innamorata. E c’ero io, quando ha deciso di dirlo a mamma e papà.» Si ferma. Si guarda intorno, respira forte, torna a guardarmi.
«E poi?» lo incalzo.
«Poi? » La voce di Ewan si smuove, ha una sfumatura che non è rabbia né nervosismo. È dolore, atroce. «Ho visto mio padre buttarla a terra con uno schiaffo così forte che la sua mano sulla guancia di Claire ha fatto boom! Come una bomba.» La sua voce si spezza. «Perché Claire si è innamorata di una donna, una donna come lei.» Perdo il respiro. Cerco la sedia dietro di me, per sedermi. «Mio padre le ha detto… le ha detto “Era meglio che non nascevi. Ti preferivo morta. Per me sei morta.”  Mia madre è stata a guardare, piangendo. Ma non ha detto niente. E quella notte Claire mi ha detto di volersene andare.» Fa un respiro profondo. «Ora è a Liverpool con la sua ragazza. Ed io sono qui, con una casa, grazie a te. Perché non sopportavo di vivere con delle persone del genere e preferivo starmene per strada piuttosto che con loro, allora ho lasciato tutto. Claire ha preso il treno per Liverpool ed io quello per Londra. Ed ora sono qui, grazie a te. E ho ricominciato a suonare.» Mi sorride, per la prima volta in questo frastuono di voci spezzate e memorie. «Questo è il mio fantasma, Natalie. E il tuo qual è?»
***
Porto il vassoio vuoto sul bancone e poso il foglio con le ordinazioni. «Al tavolo due un Hamburger e una porzione di crocchette.» Porgo il foglietto a Suzanna.
«Perfetto, lo porto il cucina. »
«Grazie.»
Suzanna fa per allontanarsi, poi si ferma all’improvviso, si liscia le pieghe del grembiule e guarda verso di me. «Natalie, che altro c’è? »
Deglutisco. «Che vuoi dire? »
«Credevo che… » Suzanna si gratta un attimo la nuca. «Credevo fossi felice che la signora Faryland ti abbia cambiato il turno a part time per lo stage. »
«Lo sono.» La mia voce traballa.
Suzanna scuote la testa ed entra in cucina. Mi appoggio al bancone e faccio un respiro profondo. Non è possibile che una persona estranea si accorga che qualcosa non va. Perché stanotte non ho chiuso occhio, e non ho nemmeno pianto. Sono rimasta sveglia a guardare il soffitto bianco per poi addormentarmi all’alba, quando ho sentito i passi di Ewan che usciva dalla sua stanza.
Non sono riuscita a guardarlo in faccia.
Non sono riuscita a guardarlo negli occhi.
Suzanna torna indietro. «È colpa di quello biondo? »
«Arthur? No, stavolta… è solo colpa mia.» Sospiro. «Ho solo bisogno di mangiare qualcosa di davvero calorico per riprendermi. Al diavolo la linea, grazie al cielo sono magra comunque.»
Suzanna scuote la testa, ride un po’, mi carezza la spalla un po’ a scatti, come l’ho vista fare con suo figlio, come tante volte ormai fa con me. «Ma piantala. E goditi il cibo messicano che ti offre il tuo coinquilino.» Mi volto, veloce, fisso il televisore che trasmette un programma di cucina e spero che Suzanna non badi al fatto che così non può proprio guardarmi in viso. «Lui sì che è un ragazzo a modo. Ti piace? »
Boom! «No! » Mi scoppia una bomba nel cuore. «No, no e no! » Indico Suzanna con l’indice. «Non dirlo mai più! Sacrilegio.»
Suzanna mi lancia uno sguardo di traverso.
«Ha già la ragazza,» aggiungo.
E il petto mi brucia, come se avessi un forte raffreddore che mi ferma il respiro, mi fa respirare solo con la bocca, affannata, cercando aria come se potessi afferrarla con le unghie e infilarla in gola, ingoiarla, trovare finalmente un po’ di pace.
Ewan non può piacermi.
«Ah, Natalie… Natalie…» Suzanna mi riserva un sorriso triste, trasuda tenerezza, dolcezza. «Vedrai che prima o poi andrà bene.»
«Facile come leccarsi il gomito,» sussurro.
Il piccolo Ben, seduto allo sgabello davanti a me, tira fuori la lingua e la avvicina al braccio. Gli scompiglio i capelli e Suzanna si lascia andare a una risata. «No, Ben, non riuscirai a leccarti il gomito… è impossibile.»
Il bambino mi fissa, ostile. «Tu detto facile.»
«Sì, piccolo principe,» dice Suzanna, e lo prende in braccio da dietro. «Spesso quel che sembra facile è la cosa più difficile. »
«Mhm,» mugugna il bambino. «Mami, io fame. Io gelato?»
«Tu gelato, » risponde Suzanna, nella stessa semplicissima lingua di Ben, che parla ancora senza verbi giustamente coniugati e problemi di tempo.
*
*
*
*
Ciao a tutti, miei lettori meravigliosi! *-* Pubblicare questo capitolo è stato un po' difficile: per la prima volta nella storia l'atmosfera si è fatta più inquieta, con il passato di Ewan con è di certo tutto rose e fiori. L'omofobia è una brutta piaga e in un contesto del genere, quando la storia si è sviluppata, ho creduto che parlarne fosse giusto. La vita è fatta di tante cose, e in quello che scrivo, anche se cambio genere, ci metto sempre un po' di quella vita che vedo, vivo, di cui sento parlare. Spero che il capitolo vi sia piaciuto e se avete consigli non esitate :3
Che ne pensate di Natalie ed Ewan? :D
Vi ringrazio infinitamente ed ora vado a rispondere alle vostre fantastiche recensioni ** Sono fortunatissima ad avere lettori come voi <3
Un bacione,
vostra Ania :33

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Capitolo 10
*** Decimo capitolo ***


10.  
Arthur profuma di rose bianche. Sono le preferite della mamma, quelle che le ha regalato papà quando le ha detto per la prima volta che era bella, e Arthur gliele regala sempre ad ogni festa.
 Arthur mi ride addosso, mentre io mi aggrappo al tessuto della sua giacca. «Quanto sei bella, piccola.» Mi accarezza il viso e mi sorride. Ho il cuore che fa tum! Che strano. «Pronta per i fuochi d’artificio? »
«Sì!» esclamo.
«E per i balli?»
«Anche!»
«Oh, ancora tu.» Sento la voce di Jade dalle scale; mi giro e la vedo, è appoggiata alla ringhiera, un vestito rosso un po’ corto e i capelli castano scuro tutti da un lato.
«Mi hanno in invitato,» dice Arthur.
«Hanno. Non sono stata io,» ribatte Jade, e comincia a scendere. Le gambe sembrano lunghissime con quelle scarpe nuove e alte.
«Vuol dire che starò con la donna Truman della mia vita.» Arthur mi prende la mano. «Oh guarda, è partito il rock ‘n roll, fighissimo!» Arthur mi trascina tra la folla e mi fa volteggiare. Anche Jade si mette a ballare con qualche sua amica, ed è ora che penso che sia bellissima, la più bella di tutte. Jade odia Arthur, ma sbaglia. Arhur è, dopo papà, il miglior maschio sulla faccia della terra. Balla con me, gioca con me e pensa a me. È gentile e mi fa divertire. Ma non è un fratello, e non è nemmeno un papà… è un'altra cosa. Un’altra cosa, sì. Dopo tanti balli – con Arthur, la mamma, papà e Jade – mi addormento sul divano. Ho visto solo il primo fuoco.
Mi sveglio al mattino, quando l’orologio in alto indica le cinque e venti. È stato papà, a insegnarmi a leggere le ore. Dice che il tempo è il più importante dei tesori, anche se non ci apparterrà mai. Ma lo si può controllare, a volte.
Sbadiglio, mi stiracchio e poi mi dirigo al piano di sopra. Molto meglio dormire nel letto. Ancora un altro sbadiglio.
Poi una risata: un’unione di risate. La più strana, perché insieme non le ho mai sentite.
«Jade, aspetta…»
Arthur.
«Attento!»
Jade.
La porta si apre – è quella della stanza di Jade – ed io mi appiattisco al muro. E vedo Arthur uscire, con la camicia spiegazzata, dondolante nel tentativo di infilarsi una scarpa mentre si tiene in equilibrio con l’altra gamba. E poi Jadie – la mia Jadie – che gli si scontra addosso. Non può essere altro che uno scontro, un odio fatto di corpo, l’unica possibilità per cui lei potrebbe essergli vicina, così vicina. Ridono insieme, ancora, ed io smetto di respirare. Perché d’un tratto anche la risata scompare e rimangono loro, a guardarsi. Non c’è sorriso, non c’è espressione. Ci sono le labbra di Arthur – veloci, chiare – che coprono quelle di Jade, che allunga le braccia attorno al suo collo ed ho paura che gli faccia del male, che uno dei due si faccia male, perché sembra tanto più amore che odio ed ho l’impressione, per la prima volta, che l’amore faccia più male dell’odio.
E penso che tutto sia troppo strano, da capire, per una bambina come me.
***
«Ewan, non ho capito: che cosa hai scritto qui?» chiedo, sporgendomi in avanti dal tavolo della cucina con un taccuino in mano. Ewan, con i capelli ancora bagnati per via della doccia, mi raggiunge trafelato con l’asciugamano sulle spalle, qualche goccia a bagnargli la maglietta grigio scuro.
«Passata di pomodoro.»
Aggrotto le sopracciglia. «Perché la tua P sembra una Q?»
«Perché non era previsto che Natalie Truman leggesse la mia lista della spesa.» Mi sorride, mostrando tutta la dentatura come un bambino pestifero dopo aver fatto un dispetto.
«Scusa se volevo essere gentile!»
Natalie, sento la mia voce che parla per la mia coscienza, non sei credibile nemmeno a te stessa.
«Tu? Ma se sei acida come uno yogurt andato a male.»
«Aaagh. La spesa per te non la faccio più, compro solo per me.»
Faccio per alzarmi ma Ewan mi ferma.
«No, la faccio io al posto tuo, per tutti e due. Oggi non hai il turno di pomeriggio?»
«Tra due ore.»
«E allora non ti stressare. Emani ansia solo a guardarti. »
Gli spalmo il foglio sul petto con forza e lui sussulta. «Tu mi rendi nervosa.» E imbranata, e ancor più strana, inquieta, impaziente.
«Non è la prima volta che me lo dice una ragazza.»
«Sparisci!» sbraito, corro nella mia stanza e mi chiudo la porta alle spalle.
Lo specchio mostra la mia immagine: una ragazza strana dal viso tondo e i capelli arancioni sta sorridendo.
***
Odio il mio specchio.
Odio me.
Ed odio quelli che io chiamo brufoli ansiogeni. Sono dei foruncoli sottopelle di cui senti inevitabilmente la presenza – facendo degli strani sospetti su cosa possa significare questo fastidio – fino quando non sfiori anche leggermente il punto in cui si percepisce il pizzicore: allora eccolo, completamente infiammato, brutto, enorme, mostruoso brufolo ansiogeno.
«Tesoro, non ti agitare. Correttore, fondotinta e passa la paura.» La voce di Pamela, in videochiamata su skype, è dolce e rassicurante, mi rimbalza addosso come una pallonata, perché sto bollendo nel mio nervosismo e quel che dice non mi sembra una buona soluzione.
La fisso nello schermo. «Pam, devo stare con correttore e fondotinta tutto il giorno?»
Pam fa una smorfia epica.
«Quindi ti vergogni a farti vedere da Ewan con i brufoli ansiogeni?»
«N-no, non intendevo questo…»
«Ti importa di Ewan!»
«Piantala!» grido, e la mia voce viene fuori fin troppo tirata, come distorta in quelle strane cover nightcore delle canzoni rock. «No, è solo colpa dello stage. I brufoli ansiogeni mi sono venuti per quello. Non sono preparata. Sono giorni che guardo video su youtube sulla moda, su come si disegna un vestito e roba varia.»
«Nat, non fare la scema: sei sempre stata creativa. Arte era la tua materia preferita.»
«Era una materia facoltativa. E poi non mi ho imparato a disegnare i modelli dei vestiti… comunque, qualcosa credo di averlo afferrato.»
«Bravissima! Sono orgogliosa di te.» Pamela mi riserva un sorriso estasiato.
Scuoto la testa, sento i brividi nello stomaco. «No, Pam, non dirlo. Mi fai andare in ansia da prestazione.»
«Con Ewan?»
«Per lo stage! Solo per lo stage!» ribadisco per l’ennesima volta.
Le faccio la linguaccia.
Chiudo la chiamata; spalmo correttore e fondotinta, metto una leggera linea di matita, indosso un paio di jeans e una maglietta a righe incrociate di tutti i colori… spero solo che vada tutto bene.
***
Arrivo sul posto con le gambe che mi tremano. Non avrei dovuto mettere le scarpe alte. Non avrei proprio dovuto. Non avrei mai dovuto. Arrivo alla reception, mostro il mio biglietto e l’uomo seduto alla scrivania – in giacca e cravatta – alza lo sguardo su di me.
«Salve, sono Natalie Truman e sono qui per lo stage.»
«Uhhhh,» esclama. «Ciao mia cara, ti aspettavamo tutti con ansia, » dice l’uomo, si alza dal suo posto – è il più alto e più magro che io abbia mai visto – e mi arriva di fronte. Con lui davanti mi sento un tappo di sigaro, ma con quei suoi occhi castano chiaro, gli occhiali da vista, e il sorriso affabile, mi sembra simpatico. «Uhhh, e questo stile da bimba sexy?» Mi prende la mano e mi fa fare una piroetta.
Mi sento stordita. «Bimba sexy?»
«Mhm, no, in realtà. Hai uno stile trend e giovanile. È che hai un sedere che veramente con i tacchi che ti sei messa risalta benissimo. Solo un cieco non ci vorrebbe fare un giro.»
Impallidisco.
«Ehi, per favore, scusa ma…»
«… non mi sono presentato!» Mi prende la mano e la stringe. «Derek Price. Segretario di quest’agenzia. E prima che tu me lo chieda, non sono gay.»
Inarco le sopracciglia. «Sì?»
«Sfatiamo lo stupido luogo comune secondo cui tutti gli uomini che lavorano per l’estetica siano gay. Comunque io guardo le donne più mature, parlando di anni ovviamente. E tu, cosa preferisci per fare un giro?»
«A tutti gli estranei fai domande sulle loro preferenze sessuali?»
«A lavoro sì! Siamo nel mondo della moda, tesoro.»
«Okay.» Gli lascio la mano. Mi sento stranamente esaltata e rido come un’isterica. «A  me piacciono i maschi.»
«Maschi, mhm.» Derek mi fa l’occhiolino. «Che denominazione animalesca. Devi essere un tipo passionale. »
«Parecchio,» mugugno. Rido fra me. Quando lo dirò a Pamela morirà per le risate. A mamma non lo dirò mai: mi verrebbe a prendere e mi trascinerebbe a casa con una gru.
«Vieni, ti accompagno su.» Derek mi accompagna all’ascensore e preme il tasto dell’ultimo piano. «Avrai il tempo di imparare qualcosa per un’ora al massimo, usano gli stagisti per portare i caffè e il pranzo. Per il resto, osserva. Osserva e non dimenticare niente e pensa ad una tua linea. Alla fine del tuo stage presentala. Non ti pagheranno, ma se ha successo sì, tesoro. Quindi non avere paura di farti il culo, tanto ce l’hai già bello di tuo. E il tuo abito alla sfilata era una bomba.»
Fisso Derek. «Grazie,» dico sinceramente. Non ai complimenti sul sedere, però.
«Di niente. Sei fidanzata, comunque?»
«Incasinata,» rispondo prontamente.
«Vai così, sorella.»
Mi inoltro nella stanza, bianca e moderna: da un lato ci sono scrivanie e computer portatili, gente che risponde al telefono e tanti post it attaccati ovunque. Dall’altro lato, cilindri in metallo a cui sono appese tantissime grucce con altrettanti vestiti.
«Natalie Truman, benvenuta a Vogue.» Mi si avvicina una ragazza, magra e sproporzionatamente alta. Ha i capelli biondi, corti fino al mento e schiacciati, il volto che ricorda una paperella. «Mi chiamo Kendra Caronne e sarai la mia assistente. Stamattina ti mostro come si realizza il modello di un vestito. In modo sintetico perché siamo alle prese con il delirio e non accetto errori, carina.» È proprio come i tipi che ho incontrato alla sfilata. «Vieni, forza.»
Quello che mi fa vedere è molto simile a quel che ho visto su you tube – solo spiegato molto peggio, un caos tra misure e linee, ritagli e stoffe – con un’aria di superiorità irritante che mi fa saltare i nervi.
«Scusami, non ho capito una cosa…»
«Non c’è tempo. Poi magari ci ritorniamo su. Ora per favore meglio che tu scenda a prenderci un po’ da mangiare.»
Pare che dovrò guardare e imparare da sola.
Be’, almeno la cameriera so farla bene: se verso qualcosa impropriamente mi prendo a randellate sulle gengive.
***
La mia scrivania, a casa, è piena di fogli e schizzi: non credevo che disegnare potesse mancarmi eppure, con la matita in mano e un’immagine nella testa, ho trovato quello che è il mio respiro.  Una boccata d’aria in tutto il mio casino, qui a Londra da più di un mese come a a Liverpool. Sono sempre stata una studentessa svogliata, soprattutto al liceo, dal secondo anno in poi: non che non mi piacesse studiare, c’erano argomenti che mi interessavano più di altri. A un certo punto, però, è stato l’unico modo per dare veridicità alle delusioni che mia madre continuava a vedere in me. Era diventato l’unico modo per dire mamma, è vero, sono una delusione. Sei contenta, ora? guardami!
Ci sono io, esisto!

Hai ancora me.
Qualcuno bussa alla porta e mi tolgo le cuffiette; la musica dei Muse ora si sente a malapena, leggera, mentre mi volto ed Ewan è sulla soglia della mia camera. «Ehi.» Fa qualche passo verso di me. «Io sto andando a letto. »
«Okay. ‘Notte.» Mi volto di nuovo per continuare a disegnare.
«Che stai facendo?» chiede ancora lui, alle mie spalle, posando le mani sulla spalliera della sedia.
Sussulto e mi spalmo sulla scrivania con petto e braccia nel disperato tentativo di raccogliere – e nascondere – tutti i miei disegni. «Niente!»
Ma Ewan riesce ad afferrare un foglietto rimasto fuori dalla mia presa. Mi alzo all’improvviso e faccio per prenderlo. Ewan sorride come un ragazzino che ha appena rubato un lecca-lecca. Ha quella faccia da delinquente e quel profumo di dopo barba che mi stordisce, riesco a sfiorare appena la sua mano senza ottenere nulla e lui sorride ancora di più.
Abbassa gli occhi su di me, la luce della lampada – fioca – gli solca gli zigomi e lo fa sembrare un dipinto ad olio, un dipinto che avrei voluto anche solo pensare io. Dio, devo avere davvero sonno.
«Come sei brava, Nat,» mi soffia all’orecchio. «A te importa dei vestiti e a me importa di toglierli. Divertente, eh?» Mi lancia uno sguardo malizioso.
Ewan mi lascia il mio foglio.
«Tu non capisci un fico secco.»
«È arte. Anche la musica è arte.»
«Giusto.» Mi siedo di nuovo alla scrivania. «Dopo la frase saggia del giorno puoi lasciarmi in pace.»
«Natalie, è notte. È l’una. Domani devi alzarti alle sei per lavorare.»
«E tu che ne sai? »
«Ho letto il tuo post-it sul frigorifero.»
«Ahhh! » Gli lancio uno sguardo assassino. «Stalker!»
«Avevi messo il post-it con la mia calamita a forma di pinguino. Quella era la mia calamita a forma di pinguino.»
Lo fisso.
Mi fissa.
Lo fisso.
Mi fissa.
Quanto tempo passa? Un minuto, forse due. È strano, ma ne approfitto per guardarlo. Ha un’espressione così irritante e beffarda e sicura che mi mangerei le mani. Inarca il sopracciglio un secondo, quello con il piercing, e arriccia le labbra in un’espressione stranita: è così buffo che lo disegnerei davvero.
Scoppio a ridere.
«Ho vinto io,» dice subito.
«In che senso?»
«Al chi resiste di più senza ridere.»
«Non mi hai detto che stavamo facendo questo!»
«Ma tu sei stata al gioco.» Fa l’occhiolino. Gli lancio addosso una matita.
«Idiota!» Ma rido ancora. Rido di gusto e spensieratezza come poche volte mi è successo nella vita, e sempre grazie a Pamela.
«Senti, anch’io dovrei suonare. Pensavo di svegliarmi prima domani ma… facciamo che restiamo alzati insieme, d’accordo?»
«Per solidarietà?»
«Sì, solidarietà. Spero davvero che tu abbia successo, Natalie Truman, almeno da tutta questa tortura potrò guadagnare qualcosa.»
«E lo spero anch’io per te, Ewan Lynch. Spero che tu diventi un pianista famosissimo e ben pagato, almeno da questa tortura guadagnerò qualcosa anch’io.»
Sorride, in un modo che gli stende il volto come se stesse ricordando qualcosa di bello del passato, o immaginando il futuro.
«Metto le cuffie, Nat.» Ewan esce dalla stanza.
Il cuore mi batte forte, mi mordo le labbra, sospiro. «Ewan?» lo chiamo.
In pochi secondi è di nuovo qui, a sporgersi con la testa nella mia stanza. «Mhm? »
«Puoi stare anche senza cuffie. Sentirti suonare non è così male.»
Un espressione soddisfatta gli si modella sul viso. «Oh, immagino che questa sia la cosa più vicina a un complimento che potevi dirmi, giusto?»
«Sì.»
Si passa una mano fra i capelli, fa il pensieroso. «Dai, anche abitare con te non è così male, in fondo.»
«Hai fatto un affare, eh?»
Ewan scuote la testa, ride. Un brivido mi parte dalla schiena e scoppia sulla nuca, rabbrividisco. Mi chiedo se ho lasciato la finestra aperta.
Ma non voglio pormi domande difficili.
«Un affare di quelli che ti cambiano la vita,» risponde, sorridendomi.
*
*
*
*
Ciao, meraviglie <3 riservo a voi i commenti, l’unica cosa che posso dirvi è che questa storia mi ha preso tantissimo. A seconda che i capitoli siano ordinari o più emotivi, ogni capitolo ha qualcosa: indizi, informazioni, uno stralcio di quotidianità, evoluzione di rapporti o ricordi o persone. Un pizzico di sorrisi.
Voglio ringraziare con tutto il cuore Delilah, che ha segnalato la storia per le scelte *-* (<3 ) e tutti gli altri lettori, avete un posto speciale nel mio cuore **
Grazie davvero,
vostra Ania :3
 
Qui il link del gruppo.
Qui il link del trailer della storia.

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Capitolo 11
*** Undicesimo capitolo ***


11.
Ci amavi, eri amato,
sapevi
di essere amato.
Posso chiederti una cosa?
gli dico, vorrei imparare a separare
i ricordi
dal dolore. O per lo meno una parte di essi,
per quanto è possibile, perché non tutto il passato
sia così intriso di dolore.
In questo modo potrei ricordarti ancora di più,
capisci? Non avrò paura ogni volta
del bruciore dei ricordi.

"Caduto fuori dal tempo", David Grossman
 
Pamela trascina il suo trolley in casa con un sorriso che le taglia il viso in due; i suoi occhi sono due pozzi di luce e la maglia azzurra che indossa le fa sembrare gli occhi, chiarissimi, di una sfumatura che sfocia nel celestino ma che termina in un verde brillante.
«Posso dirti una cosa, Nat?» mi chiede.
«Certo che puoi. »
«Le videochiamate di skype sono carine,» dice, inclinando la testa. «Ma dal vivo sei molto meglio.»
«Anche con il mio pigiama antisesso?»
«Soprattutto!» grida, molla il trolley e mi prende le guance con entrambe le mani, modellandomi la pelle per farmi fare smorfie a suo piacimento.
«Le tue guanciotte tenerissime!»
«Pam,» sospiro, con la bocca tirata. «Mi ricordi una mia vecchia zia. Scmettila, per favore.»
«E va bene.»
Ma Pam non ha ancora lasciato le mie guance quando Ewan esce dalla sua camera catturando il mio sguardo con un solo rumore di passi. Mi stacco da Pamela con la speranza che non abbia visto la mia faccia. Indossa una maglietta beige, dei jeans scuri; i suoi occhi, nell’ombra, sembrano scuri. Si trascina dietro il suo borsone senza il minimo sforzo.
«Nat, sei ancora in pigiama? » mi chiede, con un’espressione divertita che gli accentua le rughe sulla fronte.
«Buongiorno anche a te. E poi sono solo le nove.»
«Mah. Tu sei solo dormigliona.»
«E tu stai sempre sveglio, zombie.»
«Non sapevo che le volpi andassero in letargo come le marmotte.»
«Le volpi sono degli animali molto affascinanti e fanno quel che caspita gli pare.»
«Proprio tutto quello che gli pare?»
«Qualunque cosa.»
«Le volpi sono capaci di qualunque cosa?»
«Mi dispiace molto interrompere la vostra tensione sessuale repressa, ma mi sento molto in imbarazzo ad ascoltare questo discorso pieno di sott’intesi,» si intromette Pam. Vorrei lanciarle uno sguardo di rimprovero ma lei guarda solo Ewan, si avvicina a lui e gli stringe la mano. «Io sono Pamela, la migliore amica della tua coinquilina volpina.»
Sbuffo.
«Questa è bella,» dice lui. «Sono Ewan.»
«Ovviamente so chi sei, » lo liquida subito Pam. Metterei la testa sotto terra come uno struzzo, altro che volpe. «Comunque, vedo che hai un borsone, parti? »
«Sì, torno a Dublino per il week end.» Ewan mi lancia un’occhiata veloce. «Ci vado con l’auto usata che sono riuscito a comprarmi con i risparmi.»
«Capisco. Hai due minuti? »
«Anche tre,» risponde Ewan.
Pam si volta verso di me e mi fa l’occhiolino, mi si avvicina e continua a parlare. «Anche lui è meglio dal vivo,» mi sussurra. «E com’è gentile!» aggiunge, alzando la voce.
Roteo gli occhi e la seguo nella mia stanza.
«A Nat non piace la disposizione della stanza, me lo dice sempre,» dice Pam, e incrocia le braccia sotto il seno con un’espressione seria in volto.
Ewan la guarda in certo.
Io la guardo, trovando in me solo perplessità. «Ma cos…»
«Natalie,» continua Pamela, naturale come la nebbia a Londra, «si vergogna a chiedere il tuo aiuto. Però sarebbe molto meglio spostare la scrivania a destra, in modo che la luce della finestra la raggiunga direttamente.»
«Natalie si vergogna?» chiede Ewan, e si nota che sta trattenendo una risata. «Ma se si fa vedere con il suo pigiama antisesso.»
Mi metto le mani fra i capelli e sento bene il calore angosciante che mi fa capire, sempre, che sto arrossendo.
«Non pensi che qualcuno dovrebbe strapparglielo di dosso? » Pamela si gratta il mento con un’espressione da filosofa. «Dovrei cercare un volontario per farlo.»
Sollevo il viso, finora basso visto che ero impegnata a crogiolarmi nell’ imbarazzo. Lo sguardo di Ewan viene attraversato da un guizzo, uno stralcio di malizia che riesce a farmi fermare il cuore.
«Comunque, ciancio alle bande e bando alle ciance,» continua Pam. «Ti dispiace spostare la scrivania fino a lì?»
«Non mi dispiace,» dice Ewan, con un’alzata di spalle. Si avvicina alla scrivania e riesce subito a spostarla, mentre si muove la maglietta gli si solleva da dietro a mostrare la pelle tesa della schiena, il mio sguardo scende.
«Natalie,» mi chiama Pam a bassa voce, e mi mette una mano sotto il mento. Riesce a sollevarlo. «Sei spudorata.»
Cerco di ricompormi, mi mordo la lingua.
«Così va bene? » chiede Ewan.
«No, no. » Pamela scuote la testa con disapprovazione. «Prova a metterla dall’altra parte della stanza, magari lì la luce arriva meglio.» Pam mi lancia uno sguardo che cerca approvazione, invece. «Nat, sei d’accordo?»
«Veramen…»
«Certo che sei d’accordo!»
È passata quasi mezz’ora, Ewan si porta una mano alla fronte, gocce di sudore gli colano sulla maglietta; lui sbuffa, di sicuro cercando di trattenere il fastidio. Quando si volta, la maglietta chiara gli si è appiccicata al corpo e la mascella sta per cadermi a terra, conferendomi un’espressione da perfetta cretina, ne sono sicura.
«Mhm, forse stava meglio prima,» fa Pam.
Ewan sbuffa, riporta la scrivania e il mobiletto al posto iniziale senza dire nemmeno una parola e si incammina verso il corridoio. «Comincio ad andare.»
«Tranquillo, vai!» grida Pamela.
Scuoto la testa nella disperazione.
«Pam, tu non sei normale.»
«Carino sudato, eh? » Mi dà una gomitata leggera e scoppia a ridere a quel suo modo scattante, forte e al tempo stesso femminile.
Povero Ewan.
Oddio, l’ho pensato davvero?
«Pamela, sembri la protagonista di un film per adolescenti in crisi ormonale, e tu mi hai messa in mezzo, rendendo la mia vita una specie di film su un’adolescente in piena crisi ormonale, anche se devo fare vent’anni!»
«Ma Nat, io sarò sempre un’adolescente! Forever young! E tu con me, così almeno la smetti di essere così acida.»
«Quanto caffè hai bevuto? »
«Ho bevuto caffè e tè. »
«Si vede. »
***
Pamela, seduta sul mio divano, fissa il televisore con attenzione.
«Pam,» la chiamo. « Stasera c’è la finale dei mondiali, è vero, ma l’Inghilterra ha perso da un pezzo.» Alla tv, il cronista intervista i veri tifosi con le facce esaltate ed emozionate.
«Oh, tesoro,» cantilena lei. «Che cosa importa? E poi secondo me vince la Germania: me lo sento dentro.» La telecamera inquadra i calciatori della nazionale tedesca: caspita se non sono sexy.
«Te lo senti dentro, eh.» Mi siedo accanto a lei e le do una gomitata. «Ti piacerebbe.»
«Come a te piacerebbe quello di Ewan. »
La ciotola con le patatine mi cade dalle mani in un puff!
«È fidanzato!» ripeto per la milionesima volta.
«Anche Arthur lo è, Natalie. Se ne va con modelle francesi dopo averti illusa, mentre Ewan vive con te. E non parla mai della sua ragazza, non è così? »
«Pamela, in questo momento Ewan è a Dublino. Di sicuro per la sua ragazza e a me non importa niente di lui,» ribadisco, sicura. Sicura.
Sicura di star fingendo.
Mi importa di Ewan. Mi importa come di pochi. Mi importa perché giorno dopo giorno da estraneo si è trasformato in un ragazzo di cui sognavo di conoscere il nome, poi ho scoperto che è un insopportabile esemplare di fusto maschile, odioso ragazzo dotato di occhio lungo per il mio umore, amico solo per poi essere una figura quasi sempre ambigua, ma indispensabile nella mia quotidianità. Sospiro.
«Te ne importa così poco,» sussurra Pam, per poi darmi una piccola spinta con la spalla. «Che non ti manca per niente, mhm?» Ride.
Per caso qualcuno mi ha scritto sulla fronte INNAMORATA RIFIUTATA CONFUSA?
«Smettila! Guardiamo questa partita!»
Pamela fissa lo schermo. «Sì, Natalie, lo sento dentro.» Annuisce sicura. «Che vince la Germania. Non altro.»
***
Alla fine la Germania ha vinto veramente e Pam ha suonato con le trombette almeno per un’ora.
Le porte scorrevoli si aprono con Pam a seguirmi. «Buongiorno, Derek,» dico, passando dal lato della scrivania. Derek, impegnato tra carte che gli coprono anche la tastiera del computer, alza gli occhi. «Ciao, dolcezza.» Sorride affabile. Mi allontano quando, di nuovo, lo sento chiamarmi: «Aspetta! Aspetta!»
Mi volto e lo vedo corrermi incontro. «Chi è lei?» chiede, indicando Pamela che, incerta, rimane ammutolita. Sono stata io a trascinarla qui, in modo che vedesse all’interno la sede dell’agenzia. Porta i capelli sciolti, ricci e voluminosi, non grazie alla schiuma economica che utilizza sempre, ma per fortunata inclinazione naturale. E gli occhi verdi, velati d’incertezza.
«Un’amica,» rispondo, tirando Pam per il braccio. «Pamela, lui è Derek.»
«Natalie, ascolta,» comincia Derek. «Lei non può salire. Se è venuta qui per accompagnarti, dovrà aspettare qui… le faccio compagnia io.»
«E perché mai? » chiedo, con tutto lo sdegno nella voce.
«Vogue è una rivista e agenzia di moda famosissima, nessuno che non sia dipendente può raggiungere gli stabilimenti senza un permesso. Quando non c’è uno stagista e chiamano il Mcdonald per il pranzo, i sacchetti vengono lasciati a me, pensa un po’. »
Faccio un respiro profondo e metto il cervello in moto. «Be’, dove vado io va anche Pam.»
«Dove verrà sepolta Nat, sarò sepolta anch’io,» continua Pam.
«Che?! » fa Derek.
«Scusala, Dek, Pamela ama i sentimentalismi delle saghe Urban Fantasy, come darle torto… la verità è che Pam deve venire con me perché lavora con me.»
Derek arriccia il naso nell’incredulità.
Pamela scuote la testa e mi dà un leggero schiaffo sulla spalla in una muta richiesta di spiegazione.
«Pamela è la mia modella personale,» dico, sicura. «Sono una stilista, vuoi che non abbia una modella?»
«Alla sfilata hai sfilato tu, però. Ho visto il video.»
Pamela mi dà una piccola spinta con la spalla e ride; ride come ogni volta in cui capisce tutto. «Io non so fare la ruota, Natalie sì. E poi quel giorno avevo la febbre.»
La guardo, le sorrido. Ben fatto, amica.
«Okay, allora può salire. »
Sono un genio.
«Oh, comunque… ottima scelta per la modella!» aggiunge.
Io e Pam raggiungiamo l’ascensore ridendo ai limiti della decenza.
«Era un eufemismo per dirmi che sono carina?»
«No, che sei strafiga.»
***
Alla fine del turno, la sarta mi ha insegnato come mettere i punti a macchina e a mano, anche se non è prerogativa di una stilistastilista, non si sa mai. E poi io ho insistito, e non si può dire di no a Natalie Truman. No, okay, non è vero. Sono io che mi impongo e ora tu mi insegni come si mettono questi fottuti punti, ne vale la mia vita. Okay? Okay.
E Pamela mi ha aiutato a portare il pranzo per tutti.
«Pare proprio che dobbiamo salutarci, Natalie,» dice quella a cui avrei dovuto fare da assistente, ma che ha richiesto la mia presenza solo per mangiare, come se tra stage e lavoro normale non ci fosse differenza.
«Già, Kendra. Comunque, visto che grazie a te ho imparato tantissimo… » Sì, come no. «… sono riuscita a realizzare una linea.» Le porgo la cartellina con tutti i miei modelli. Nel momento il cui le sue mani toccano la plastica verde chiaro che compone l’involucro, mi sento mancare l’aria: mi sembra di cedere un pezzo di polmone, un po’ del mio respiro. Spero solo di non aver sbagliato tutto ancora una volta.
«Lo mostrerò al mio capo. Ti farò sapere. Comunque, sei stata una brava stagista.»
«Non ho mai fatto versare il caffè.»
«Sei la prima in assoluto.»
«Tutta questione di esercizio,» mugugno.
«Forse è solo talento naturale: c’è chi nasce con la vena artistica, chi con la vena servile,» mormora, per poi sedersi alla scrivania. Vena servile? Sei portata per portare il caffè alle persone importanti, non per essere importante. Mi sporgo sulla sua scrivania, poggiandoci entrambe le mani.
«C’è chi vale qualcosa e chi non vale niente. E ti assicuro: non dipende dal posto che occupa ad una scrivania. Buona giornata.»
Pamela mi aiuta a pulire casa, passiamo questo pomeriggio tra negozi e gelati, quando devo accompagnarla alla stazione è sempre troppo presto, anche se sono passati tre giorni. Resto a guardare il treno che va via per due minuti che mi sembrano eterni, mentre nella mia mente la sua voce vaga come se mai mi avesse lasciata, tra gli insulti per Kendra, mugugni per Arthur, parole per Ewan. Non sono nella tua testa, Natalie. Ma se ignori una questione importante facendo finta di non vederla, ci andrai a sbattere contro con più forza di sempre, come il Titanic contro l’iceberg: alla fine la nave è affondata.
Quando arrivo a casa mi sembra più tardi del solito, e il pensiero di aver mandato tutto all’aria con quelle parole a Kendra mi divora: mi divora perché sono convinta di aver fatto la cosa giusta. Per tutti gli anni passati è come se avessi passato la vita su di una tribuna, mentre gli sfortunati erano quelli che giocano in campo, lottando per qualche punto in più. Ed io, nata tra i privilegiati, quando ho capito che gli altri non erano come me – gli altri non avevano le stesse cose che ho io: un padre avvocato e ricco, una madre professoressa con buone possibilità, una grande villa in cui vivere ed ovvio benessere – tutto mi è sembrato sbagliato. Sbagliato che anch’io non potessi scendere in campo con loro. Sbagliato che anche loro non potessero salire in tribuna. Sbagliato che non si potesse salire ancora più in alto o scendere in basso, a guardare più da vicino. A cominciare dall’inizio, da me stessa: a costruire una casa dalla prima pietra, e non dal tetto.
«Buonasuera, Natuali.»
«Zot!» Gli sorrido, mi fa sempre piacere vederlo. Mi si avvicina con la solita bottiglia di vodka in mano.
«Oggi un casuino. Un vero casuino! »
«Perché? » chiedo.
«Camuon grosso arrivato. Ha lasciato robua in garage.»
«Davvero? »
Dalla tasca, Zot prende un foglietto ripiegato e me lo porge. Lo apro e leggo ad alta voce: «Ordine per Ewan Lynch.»
«Ti aveva detto che sarebbe arrivuato qualcosa? »
«Veramente no… strano, è a Dublino, non si sarebbe mai fatto mandare qualcosa sapendo di essere fuori città. Sarà un errore?»
«Boh. Con il camuon è arrivata anche un signora, con due grandi occhi blu. Poi se n’è andata. Io ho suonno, buonanotte, Natuali.»
Una signora dai grandi occhi blu.
A me il sonno è passato.
Corro al garage, sollevo la serranda e accendo la luce: si tratta di una grande stanza, scura e impolverata, con le lampadine che pendono dal soffitto attaccate ai fili. C’è un piccolo divanetto, una scarpiera di metallo e, accanto, una grande scatola di cartone, larga almeno un metro e alta fino al mio collo. La scatola si apre in orizzontale, al centro c’è un’apertura che permette l’incastro di due pannelli. Metto le mani all’interno e il cartone intrecciato in se stesso si stacca, permettendomi di allargarlo per vedere cosa c’è all’interno, come se stessi allargando due ali.
La polvere mi arriva in viso, tossisco.
La polvere mi arriva agli occhi, me li copro.
Li apro di nuovo.
Respiro.
E vedo il pianoforte.
Un pianoforte verticale. Nero, impolverato. Ci lascio passare sopra il dito, sotto lo strato di polvere la superficie è lucida ma, a tratti, presenta qualche graffio. È usato, di anni.
Sotto la parte della tastiera, c’è un piccolo sgabello, nero e rivestito in pelle, rettangolare e abbastanza grande da sostenere il peso di due persone. Lo tiro verso di me, come se lo avessi desiderato, come se ci avessi pensato anche solo per un istante, mi ci siedo. Sollevo la copertura nera e i tasti mi appaiono, rivestiti da una striscia di plastica trasparente per non far andare la polvere anche lì.
Ricordi, Natalie?
Ricordo.
La musica non si ricorda, si legge.
La devi leggere dentro di te.
La leggo dentro di me.
 Leggo il mare e un pianista.
Leggo another place e me.
Leggo…
«Oh, Natalie, quanto sei leggera! Che cosa vedi da lì?»
«Tutto!»
«Tutto?»
«Il mondo!»
Il mio mondo. Quel che è all’età di nove anni, bassina e magra per la mia età, un peso di piuma, sulle spalle di un sedicenne che cresce. Arthur.
«Arthur! Così siamo più alti delle statue.»
«Caspita, è vero.» Arthur si accosta alla statua marrone chiaro, una delle tante presenti sulla spiagge, ed io posso osservare la testa dall’alto. «Grazie, Natalie, per farmi arrivare dove non riesco a farcela da solo.»
Arthur mi fa scendere. Le mie scarpine creano orme sulla sabbia. La figura di Arthur proietta un’ombra altissima, snella, ed io guardo l’ombra di Arthur allungare una mano verso la mia, di ombra, e la mia ombra risponde, stringendogliela, perché Natalie sono io, una bambina, una persona, corpo ed ombra. Jade dice il tuo nome, mentre sogna. Jade ha la testa tra le nuvole, cammina in punta di piedi quasi stesse per volare, volare via, le braccia che diventano ali, i capelli una striscia di vento nel cielo.
«A che ora Jade finisce la sua lezione di pianoforte?» chiede Arthur.
«Alle otto,» rispondo prontamente.
Ti ama. Ti ama. Ti ama.
 Come non ha mai amato il papà e la mamma, come non ha mai amato me.
Voglio amare anch’io come lei, da grande.
Qualcuno come te, Arthur.
Un giorno.
Torniamo a casa al suono dell’ultima nota della melodia di Jade.
«Oh, Arthur!» lo chiama la mamma. «Come si è comportata la nostra piccola? »
«Benissimo, è una vera signorina.» Arthur mi scompiglia i capelli.
«Ti va di bere qualcosa? Vieni in cucina, tuo padre ti aspetta.»
Lascio che la mamma si porti via Arthur, mentre io raggiungo Jade che si alza dal pianoforte e mi corre incontro. «Come sei contenta, Natalie! Si vede da lontano un miglio,» sussurra Jade al mio orecchio, mentre mi abbraccia.
«Sì, Arthur mi ha portato ad another place
«Fantastico… »
«Com’è?» le chiedo, l’impazienza nella voce.
«Che cosa?»
«Amarlo
Jade sgrana gli occhi: azzurro turchino, mare che lascia vedere il fondo, come quelli di papà.
«Natalie, ma come…»
«I baci si danno a chi si ama. Quando si ama si cambia. Ti ho vista dargli un bacio, a capodanno. E sei un po’ cambiata.»
«Gioco sempre con te e suoniamo insieme… »
«Sei sempre più felice, ogni giorno.»
Jade sospira. Deglutisce. Mi lascia una carezza sulle spalle. E poi, lanciandomi uno sguardo veloce, sorride.
«Si vede così tanto? » chiede, come dispiaciuta.
Le rido in faccia. «No! Non l’ho detto a nessuno, poi.»
«Ti adoro. » Mi abbraccia forte, spezzandomi il respiro. «Amarlo è strano. Sfiancante, improvviso, incoerente. Inaspettato. Eppure è così.»
«Ed è una cosa bella?»
«È facile e difficile. Bella e brutta. È ogni cosa che esiste al mondo, ribaltata, vista nella prospettiva in cui non l’avevi mai guardata, perché prima non l’amavo ancora. Guardi le cose per la prima volta. Le conosci per la prima volta. Le ami per la prima volta. Come adesso: sei qui, e anche se ti vedo ogni giorno da quando sei nata perché sei la mia sorellina, ho scelto il nome per te, ed ho pregato per te, ti vedo di nuovo, ma per la prima volta. Ti conosco per la prima volta. Ti voglio bene per la prima volta, di nuovo e ancora.» Ha gli occhi lucidi, ride tra sé, il mio piccolo corpo è scosso dal suo riso.
«Ti voglio bene anch’io, Jadie.»
Jade si allontana da me, di poco. «Ti va di suonare un po’ con me? Al pianoforte, tutte e due, insieme?»
Insieme.
Insieme.
 «Natalie…»
Ewan.
In garage.
Dietro di me.
Mi alzo, in modo così veloce che lo sgabello mi cade quasi all’indietro. Con l’affanno, fisso Ewan, e gli occhi di Ewan, le braccia tese di Ewan, le sue mani chiuse a pugni.
«Suoni? Tu… suoni al mio pianoforte?» mi chiede, a bassa voce.
«È arrivato oggi mentre ero via. Sono scesa a vedere.»
«Tu suoni,» sussurra, prendendomi per le spalle con quella che sembra violenza ma, al suo tocco, pare solo forza, ardore. Respiro a fatica.
«Non ti interessa sapere perché il tuo pianoforte è qui?» dico io.
«Sarà stata mia madre, ne sono sicuro. »
«Zot ha detto che quando è arrivato il camion c’era anche una donna.»
«È stata lei.» Ewan scuote la testa, i capelli neri che gli sfiorano la fronte aggrottata. «Non sarei mai tornato a casa. Non è per i miei genitori che sono tornato a Dublino in questi giorni.» Torna a guardarmi e mi stringo nelle mie braccia. «E tu suoni.»
«Suonavo,» riesco a dire soltanto.
«Dio, Natalie!» sbraita. «Quanto è grande il dolore che hai dentro, per non venire mai fuori?»
Resto immobile.
«Quanto, Nat? » continua.
«Troppo, per ricordarlo.» La mia voce si frantuma: tanti piccoli pezzi di memorie. «E raccontarlo.»
«Troppo grande per ricordarlo e raccontarlo,» ripete Ewan. Si avvicina di nuovo a me, a un centimetro dalle mie labbra. «Allora spezzalo. Spezza il dolore, Natalie Truman, o ti spezzerà lui.» Mi carezza la spalla, tremo. «Così, verrà fuori un po’ alla volta.»
Faccio un respiro profondo.
«Non lo so.»
«Che cosa non sai?»
«Più niente,» sussurro.
«Chi ti sta parlando?»
«Che cosa?»
«Il mio nome, lo conosci?»
Sono presa dall’incertezza, cerco di immaginare il perché di questa strana domanda.
«Ewan Lynch. »
«Esatto. E il tuo? »
«Natalie Truman,» rispondo senza pensare. «Natalie Hanna Truman.»
«La mia Natalie Hanna Truman,» mormora, prima di sfiorare le sue labbra con le mie. «Sai chi sei. Sai chi sono. Non conta altro.»
All’inizio mi sembra solo che faccia male, che questo sia un nuovo modo per ferire, che mi graffi con i denti, e che la sua bocca mi avveleni. Perché brucia, e quando penso di spingerlo via e gli poso le mani sul petto lui le stringe – dita lisce da vero pianista – ed io voglio dirgli smettila ma la mia bocca si apre e il bacio cade nell’abisso, mio e suo, e muoio solo un po’ di più.
Muoio un po’ di più di quanto non accada ogni giorno della mia vita.
Il calore asfissiante è scomparso, sostituito da una fredda sorpresa: gli ho dato uno schiaffo.
«Basta,» sussurro. «Basta farmi del male.»
«Non voglio farti del male.»
«L’hai fatto.»
«Ti ho baciato.»
«Con una ragazza a Dublino! Tu hai una ragazza a Dublino…» La mia voce si spezza in un’umiliazione che è solo mia, anche se dovrebbe essere sua soltanto.
«La ragazza di Dublino resta a Dublino e non vuole seguirmi. Non voleva farlo prima e non vorrà farlo mai. Sono tornato solo per chiarire tutto… lasciarsi al telefono non è da persone mature!» La sua voce si alza. Vorrei essere sorda. Vorrei non sentire più niente. «Forse tu sei troppo immatura per ascoltare e capire.»
Perdo il respiro.
«Non me l’avevi detto.»
«Tu non me l’hai chiesto. E ora sono davvero stanco.» Scalcia via il cartone che rivestiva il piano con forza, si passa una mano tra i capelli. «Dormirei anche qui.»
Io so solo che non riesco a sopportare la sua vista.
«E allora dormici!»
«E allora lasciami da solo!»
Mi allontano per raggiungere l’uscita, mentre la mia vista si offusca e immagino sia nebbia, immagino di fuggire in una Londra lontana in cui nessuno sa chi sono.
«Me ne vado, Ewan Lynch.»
*
*
*
*
Puntuale come un orologio, ecco a voi un nuovo capitolo *-* Non riesco mai a commentare questa storia… però riesco a scriverla, e credo che questa sia una cosa buona XD Che cosa vi posso dire? State attenti a quel che cominciate a scrivere, altrimenti vi ritrovate come me: ad amare una storia che credevo non avrei mai scritto… ma se non si fanno in periodo maturità le pazzie, quando si fanno? XD
Quindi nel complesso: se vi viene in mente una pazzia scrittoria, fatela. La lettura e la scrittura sono prima di tutto intrattenimento e non solo. Scrivete quel che vi rende felici.
Grazie mille a tutti voi per leggermi, perché leggendo date vita a Natalie e a chi la circonda *-* Grazie a chi recensisce, segue, ricorda e preferisce : )
Un pensiero speciale a Mary, ora in Spagna *.* Ha fatto conoscere La volpe di Liverpool a due ragazze americane e bilingue… queste cose mi fanno veramente commuovere *-* tesoro mio, grazie :**
Un grazie speciale alle ragazze che fangirlizzano con me nel gruppo **
Una domandina per voi: preferite che continui ad aggiornare una volta alla settimana, oppure che aggiorni direttamente a settembre? Fatemi sapere con una recensione o un messaggio ^^
Grazie ancora,
Ania :3
 
p.s buon ferragosto a tutti **

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Capitolo 12
*** Dodicesimo capitolo ***


12. Da ormai cinque anni, un pianoforte non c’è più nel salone di casa Truman. La finestra aperta al freddo vento di novembre riflette una distorta immagine di me. Natalie, quindici anni, ingrata ragazzetta figlia del più importante avvocato della città che, come se non bastasse, le organizza una festa di compleanno.
Odio il rosa. Il mio vestito è rosa. Odio le collane. Porto una collana. Odio i miei capelli. Castano scuro – forse belli, forse una volta – come quelli della mia Jade. Oh, Jadie, salvami. Pamela è con un ragazzo che le piace ed io vorrei solo correre nella mia stanza…
Qualcuno suona il campanello. Nonostante la musica house che rimbomba dalle casse del DJ, riesco a sentirlo. La festa è iniziata già da un’ora, chi è che arriverebbe adesso?
Wanda, la cameriera, apre la porta.
Ed Arthur, con un mazzo di rose bianche, una camicia azzurra e gli occhi come stelle, mi viene incontro. Mi abbraccia forte, come io non mi sarei mai aspettata di essere abbracciata. Ha un profumo che punge le narici, maschile e buono.
«Buon compleanno, Natalie,» mi sussurra all’orecchio. «E queste sono per te.»
«Odio i fiori.»
Sgrana gli occhi e ride. «Dio, non immaginavo.»
«Ti perdono solo perché sei Arthur Benkinson.»
«Allora menomale che mi chiamo Arthur Benkinson. »
Non ti chiami. Sei. Arthur mi dà un bacio sulla guancia, mi si gonfia il cuore e il trasporto è tale che sento tremare anche il sangue. Tremo anche nel sangue.
Porgo a Wanda le rose.
La musica, in salotto, cambia.
«Vuoi ballare un po’, Natalie?» La voce di Arthur è pacata, rassicurante.
«Puoi restare molto? » gli chiedo.
«Per te resterei mesi interi. Anni.»
Mi prende la mano. E il sangue a tremare, ed io a sorridere, ed Arthur a stringermi – oh Jadie mi dispiace, mi dispiace, non so da quando, non so perché, non so cosa mi sia preso – ed io a ballare con lui.
«Natalie,» mormora Arthur. E tutti ci guardano, perché Arthur è bello, non possono sapere che è il figlio di un caro amico di papà, e ogni vacanza è stata con lui, ogni Natale con lui, tante domeniche con lui… «Come ti senti, con un anno in più?»
E un peso sul cuore in più?
«Più felice, ogni giorno,» rispondo, nascondendo il viso sulla sua spalla.
E più in colpa ogni giorno.
***
Ewan è in cucina; lo vedo, di spalle, mentre si versa il latte nella tazza insieme ai cereali. Ho imparato, vivendo con lui, che al mattino preferisce mangiare in piedi come se, sedendosi, ci fosse il pericolo di riaddormentarsi. Così, invece, è vigile, con i pensieri e i nervi all’erta.
Un solo mio passo e lui si volta a guardarmi.
«Puoi anche salutarmi,» mi dice.
Apro il frigorifero e prendo una mela. «Buongiorno, Ewan.»
«Buongiorno, Natalie. Dormito bene? »
«Da schifo, e tu? »
«Da schifo anch’io. »
«Quante belle cose in comune,» sbuffo.
«Davvero.»
«Davvero.» Sciacquo la mela sotto un freddo getto d’acqua e do un morso. Il nervosismo mi attanaglia le viscere. «E devi essere davvero una persona orrenda, per aver anche solo pensato di baciare una ragazza come me.»
«Perché sei una stronza?» mi chiede, con un ghigno sul volto.
«Non sono solo stronza. Ingrata, cattiva, opportunista. Immeritevole…» Lo guardo negli occhi, la voce mi si inceppa nella gola, disco nuovo ma inaccettabile, stonato, incompleto. «Immeritevole di qualunque attenzione.»
«Natalie. » Il mio nome. Un sussurro. Un richiamo. Un’implorazione. Le mani di Ewan a tenermi il volto. «Di’ qualcosa.»
«Sto parlando!» gli grido. «Sono un mostro di persona. Uno schifo di persona. Non una criminale, non una drogata: sobria e cattiva.»
«Non stai parlando, ti stai solo insultando.»
«Con la verità.»
«Allora raccontami la verità.»
Una lacrima scende, bagna leggermente il pollice di Ewan e mi sento umiliata dal giudice più severo che possa esistere: non mio padre, non Jade, non Dio.
Me.
E le parole provengono da un'agonia che non riesco più a tenere dentro. «Mia sorella è morta in un incidente stradale di ritorno da una festa quando aveva diciassette anni. E ha fatto così male che i miei genitori hanno deciso che il dolore non esisteva, hanno fatto in modo che  Jade non fosse mai esistita. Foto nascoste. Pianoforte venduto. Lo stesso pianoforte che amavo suonare anch’io, lo stesso pianoforte che io e Jade suonavamo insieme. Senza pensare che Jade era morta, ma c’ero ancora io. Ci sono ancora io, che ho cominciato a crescere. E poi ho perso un anno a scuola, perché per la mamma ero una delusione e allora ho deciso di esserlo per davvero, mentre morivo dentro perché… mi sono innamorata dello stesso ragazzo che amava mia sorella morta.» Chino il capo, perché bisogno di asciugare le lacrime che cadono sullo scempio del mio viso da sola, con Ewan di fronte a me, Ewan che adesso – strano incastro, caldo e sicuro – mi stringe tra le braccia. «Il ragazzo di mia sorella morta. Io. Io…»
«Nat… »
«Io le volevo bene. Io le voglio ancora bene. Sogno che lei sia ancora con me. La sogno ben vestita e bellissima, la sogno pianista e avvocato, la sogno bambina e anziana, la sogno in quello che è stata e in quello che non potrà essere mai. Ed io voglio che lei sia ancora in vita ma poi mi sono innamorata di lui, lui…» Singhiozzo. Cerco dei fazzoletti. Mi siedo sul pavimento. Dopo minuti interminabili di lacrime, alzo il viso verso Ewan, che mi guarda dall’alto. Lui in tribuna, io in campo per la prima volta, contro le mie paure.
«Sai, Natalie… non è vero che sei un mostro e tutte le altre stronzate che hai detto su di te. Sei una persona che sa cosa vuol dire perdere qualcuno.»
«Darei l’anima per riaverla,» mormoro.
«Lo so.» Ewan sospira. «Lo direi ai miei genitori, che hanno cacciato una figlia perché viveva, mentre i tuoi hanno smesso di vivere perché tua sorella era morta, e così hanno fatto vivere di meno anche te.»
«Ed io ho fatto come loro. Ho ignorato Jade.»
«Non è vero, hai detto che ci pensi e…»
«Questo succede da quando sono a Londra. » Faccio un respiro profondo. «Mi succede da quando ci sei tu.»
Ewan sorride appena. «Perché?»
«Tu non volevi raccontare il tuo passato perché ti appartiene, è tuo e privato, non perché vuoi ignorarlo. Io non volevo perché lo ignoravo. Ma con te che facevi tutt’altro, mi è stato impossibile continuare a fare il contrario.»
Ewan mi accarezza il viso. «Dio, questa è la cosa più vicina a un complimento che tu mi abbia mai detto, lo sai?
»
Rido. Incredibile, ma riesco a farlo. «Non ti ci abituare.»
«È impossibile abituarsi con te.»
Mi stacco da lui.
Stargli così vicina, addosso, mi mette a disagio.
«Ora va meglio,» dice Ewan.
«Come?»
«Un po’ per volta, il dolore se ne andrà. Non dimenticherai niente, ma starai bene. È un po’ come ricominciare a scrivere una melodia, ma senza cancellare le note precedenti. Con l’esempio del vecchio, puoi metter su davvero qualcosa di nuovo e migliore.»
Qualcosa di nuovo e migliore, senza cancellare il vecchio.
«Come una gonna vintage?»
«Ognuno con la sua arte.» Guardo la mela a cui ho dato un piccolo morso; mi si è chiuso lo stomaco, non ho più fame, eppure mi sento energica. «Prima di te, pensavo che tutti quelli che si occupano di moda fossero superficiali e idioti. Ma…»
«Ma?» lo incalzo.
«Ma tu sei la ragazza più complicata che io abbia mai conosciuto.»
***
Dopo il primo, estenuante turno dalla mattina alla sera dopo la settimana dello stage, arrivo a casa e trovo Ewan che scarabocchia su dei fogli. Faccio per salutarlo – i suoi occhi nei miei, uno sguardo che sembra non chiedere nulla perché conosce già tante cose – quando il telefono fisso squilla.
«Rispondi tu, Nat. Nessuno mi cerca a questo numero di telefono, è per te di sicuro.»
«Sì,» mormoro. «Io vengo cercata in ogni dove.» Sollevo la cornetta e premo il tasto per attivare la chiamata. «Pronto?»
«Signorina Natalie Truman?» chiede la voce di un uomo, dall’altra parte del telefono.
«Sì, sono io.»
«Sono il direttore della rivista Vogue ed ho visto i suoi elaborati.» Un colpo di tosse. «Può spiegarmi come è potuto succedere? »
Vedo tutto bianco. Apparizione angelica nell’appartamento di Nat.
«Che-che cosa? » balbetto. Cosa talmente insolita da far sollevare di nuovo lo sguardo ad Ewan.
«Ho trovato la sua cartellina nel cesto dell’immondizia accanto ad una scrivania. Come le è saltato in mente di buttarlo senza una visione esperta? »
«Io, io ve-veramente… » Ewan mi si avvicina, per ascoltare meglio. «Ma fatti i fatti tuoi! » riesco a sussurrargli. Ewan scoppia a ridere.
«Signorina, mi sta ascoltando? » mi chiede ancora il direttore di Vogue. Il direttore di Vogue!
«Sì, mi scusi. Non so come sia potuto succedere.» Faccio un respiro profondo. «L’ultimo giorno del mio stage ho lasciato la cartellina a Kendra, la ragazza a cui ho fatto da assistente.»
Il cuore incalza. I neuroni in corto circuito fino a poco fa si attivano, strana macchina sono io, apparecchio di carne ed emozioni.
Kendra ha buttato la mia cartellina… Oh, Dio…
«Fortunatamente non lascio passare mai nulla, signorina Truman, e chiunque ci provi ha chiuso con il sottoscritto. Le fisso un appuntamento per parlarle, perché sono seriamente interessato ai suoi modelli.»
Gli angeli cantano.
«C-certo.»
«Buona serata, signorina.»
Chiude la telefonata. Le mano mi trema e i miei neuroni si addormentano nuovamente. Apparizione divina a me: il direttore di Vogue mi ha contattata per i miei schizzi.
«Il direttore di Vogue mi ha contattata per i miei schizzi,» sussurro.
«Già,» dice Ewan, ed incontro il suo sorriso e gli rispondo a mia volta con un sorriso, senza vergogna, rimorsi, qualunque tipo di imbarazzo: lo abbraccio.
«Sei una forza,» mormora al mio orecchio.
E tu sei fantastico. Mhm? Menomale che questa volta non ho parlato. Ridacchio, isterica. «Il direttore è un vero genio. Come ha fatto a capire subito che si trattava dei disegni della stagista?»
«Il direttore non è un genio, Natalie.» Ewan mi sposta una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Mi respira addosso. «Sono stato io. Mentre dormivi, ho messo un bigliettino con il numero di casa tra i fogli.»
«Che cosa? »
«Il mondo è spietato. Bisogna mettere addosso qualche corazza. E tu non pensi per niente a cose del genere.»
«Ewan,» lo chiamo. Lo guardo negli occhi e potrei anche sciogliermi in una poltiglia perché il suo sguardo, divertito e soddisfatto, riesce a riscaldarmi. «Perché?»
«Perché ti meritavi qualcosa di bello.»
Mi riscalda. Con gli occhi e il sorriso, una mano sulla mia spalla, che scende sul fianco, una mano sul mio collo, che sale sul viso. E la bocca – il fiato di menta, caramelle che si sciolgono sulla lingua – a pochi millimetri dalla mia.
Chiudo gli occhi.
«Non ti bacerò, Natalie.» Misi attorciglia lo stomaco, torno a guardarlo come un fulmine. «Hai un gancio destro degno di un pugile. Non ho voglia di provarlo di nuovo.»
Lo spingo via, subito, e mi volto dall’altra parte. «Idiota. Non volevo assolutamente che tu mi baciassi. »
«Se lo dici tu.»
***
Derek mi accompagna nell’ufficio del direttore come se fosse la prima volta che mi inoltro negli immensi corridoi della rivista Vogue.
«Kendra era antipatica a tutti, » comincia, dopo un silenzio che non avevo nemmeno notato.
«È morta?» chiedo, in ansia.
«No, è stata licenziata.»
Ohibò.
«Incredibile,» sussurro.
«No, non lo è. Aspettavamo tutti quel momento. Raccomandata del cazzo.»
Non so davvero come sentirmi. La bomba Natalie che esplode in tutti i suoi ricordi, il bacio di Ewan, la chiamata del direttore. Contemporaneamente, nella mia immaginazione appaio com’ero, come sono e come sarò: ne viene fuori qualcosa di caotico e semplicemente incomprensibile, sentimenti e razionalità, desideri e certezze. Ed ora Kendra, una donna licenziata a causa mia, ma per uno sbaglio suo.
«Raccomandata?» chiedo.
«Se la faceva con il vicedirettore. Solo che poi abbiamo scoperto che aveva un’altra amante ancora.»
«Auch.»
«Mai avere una relazione con un capo. »
«Oh, qui sono tutti troppo vecchi per me, non è possibile che io trovi attraente un ragazzo al di sopra dei trent’anni, a meno che non si tratti di Jhonny Depp e Brad Pitt.»
«Io ho trentun’anni.»
«Tu sei già fuori, baby.»
Ci ritroviamo davanti alla porta del direttore. L’angoscia sale ed ho terribilmente paura di fare una figura pessima. Non è richiesto che gli stilisti siano belli d’aspetto, ma se c’è qualcosa di cui sono sempre stata insicura, pur piacendo a me stessa con difetti e il resto, è di non piacere a chi sta di fronte a me. Per tutto. Aspetto, carattere, risata. Con mia madre, mio padre, amici di famiglia, il ricordo di Jade, mi sono sentita inadeguata la maggior parte delle volte.
«Devo ammettere che mi hai offeso,» dice Derek, ridendo un po’. «Ma sta’, tranquilla, Natalie. In bocca al lupo.»
«Grazie.»
«Volevi dire crepi? »
«Ovvio che no,» sbotto sdegnata. «Quando ti dicono in bocca al lupo, tu devi rispondere grazie. Non sei tra le fauci del lupo per essere divorato, le fauci del lupo sono quelli della mamma lupo che trasporta i suoi cuccioli così, senza far loro male, per allontanarli dal pericolo. È una cosa dolcissima. Perché dovrei dire crepi a mamma lupo?»
«Oh mio Dio, non ne avevo idea.»
«Persone degenere. Ora lo sai.»
«Ed ora lo so anch’io.» La voce pacata e ferma del direttore. Volto la testa e vedo un signore distinto, con un abito grigio, una cravatta scura, calvo ma alto e con un fisico slanciato, un sorriso che ispira simpatia. «Prego, signorina.»
Mi fa entrare e poi accomodare sulla poltrona. L’ambiente è elegante e curato, un insieme di colori tra il rosso, il nero e bianco.
«Sono Gabriel Roman, il direttore di Vogue, e voglio che lei lavori per me. Lei lo vuole? »
Oh mio Dio. «Sembra una proposta di matrimonio.»
Il signor direttore ride di gusto. «Lei è fenomenale.»
«Fenomenale? Uno dei prima a parlare di fenomeno fu il filosofo Immanuel Kant, riferendosi alla realtà che noi possiamo toccare e vedere e che è separata, assolutamente, da ciò che è immateriale come l’anima, Dio, la religione, che lui chiama noumeno. Quindi la moda potrebbe essere considerata come la proiezione di quest’essere divino visto che è fenomeno-realtà ma bello come di sicuro solo il noumeno-divinità può essere.»
Non riesco a respirare e so solo che sto dicendo un mare di cazzate anche se, voglio dire, la filosofia non è una cazzata, è bella, mi piace, quanti svarioni mentali, facciamoci le canne, oh sì…
«Mia figlia è laureata in Filosofia,» dice il signor direttore. «Ma è la prima volta che ne sento parlare nel mio ufficio dedicato, secondo la mia bambina, a scopi superficiali. Se le presento la signorina Natalie Truman, cambierà di sicuro idea.»
Sorrido. Credo che mi si illuminino gli occhi.
«Grazie, signor direttore.»
«I suoi modelli sono bellissimi. Manca solo una cosa.»
Ecco.
Sospiro.
Dovevo aspettarmi una mazzata, non può andare tutto bene nella vita di Natalie Truman, anche quando sembra che le cose stiano andando per il meglio. Be’, se meglio è: scoppiare a piangere davanti al tuo coinquilino che ti ha baciato il giorno prima ma che tu hai schiaffeggiato per poi raccontargli i tuoi traumi infantili e usare la sua maglietta come fazzoletto ed essere chiamata dal direttore della rivista più famosa del mondo con grandi speranze solo per schiacciare quelle speranze è il meglio, allora sto messa male davvero.
«Il nome della linea.»
«Come? »
Il cuore mi batte forte.
«Il nome della linea, signorina. Ci sono i modelli. Il biglietto con il suo nome e il numero di telefono…» Ewan. Grazie ad Ewan. Il direttore fa scorrere le mani tra dei fogli e riconosco i miei disegni. «Ma non abbiamo ancora il nome della linea.»
Rido a quel modo che sembra un sospiro, di sollievo e gioia, consapevolezza e pace. Perché, improvvisamente, mi appare la soluzione a questo strano enigma, me stessa in questi disegni, me stessa in ogni luogo, me stessa in ogni tempo. Una Natalie più libera, finalmente alle prese con la sua vita, ma anche un po’ orgogliosa perché, a poco a poco, i passi lunga questa strada vanno sempre più avanti.
«La volpe di Liverpool,» dico, sicura. «Il nome della linea è La volpe di Liverpool.»
*
*
*
*
Un capitolo di passaggio ma di svolta, in cui il passato di Natalie si svela mentre si sviluppa il suo presente. Spero che vi sia piaciuto <3
Direi che adesso c'è una sola cosa in sospeso: Natalie ed Ewan.
Come andrnno le cose tra i due?
Lo scoprirete nella prossima puntata XD forse...
Un bacione a tutti e buone vacanze :3
Vostra Ania :3

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Capitolo 13
*** Tredicesimo capitolo ***


A Mary, perché è speciale a quel modo che sa rendere veri i sogni.
13.
Lavoro per Vogue.
Mi sembra incredibile, lo è ancora. Ho telefonato alla mamma per dirglielo e non ci ha creduto fin quando non le ho mandato un selfie con Kate Moss, visto che non sa chi siano Nina Dobrev e quella dolcezza di ragazzo che è Dylan O’Brien. Sì, è venuta l’altro giorno a trovare il direttore e ci siamo presentate, e ho fatto la figura della cretina chiedendole una foto per la mamma. Comunque, adesso ho una scrivania tutta mia, colori tutti miei, tanti fogli, un pc portatile personale e un tavolo da lavoro.
Squilla il telefono. «Sì, Derek?»
«Natalie, hai ordinato un cheeseburger?»
«Non si dice mai di no a un cheeseburger. » Incontro sguardi estasiati da una parte della stanza e contrariati dall’altra. Pare che tutti ascoltino le mie conversazioni. Abbasso la voce. «Perché?»
«Perché questa signora vuole salire a portartelo personalmente.»
«E allora falla salire. »
«Ma è contro il regolam…»
«Mento in su, pancia in dentro, sguardo dritto. Derek, alzati e portami la signora per favore, per favore.»Dopo qualche minuto li vedo venirmi incontro, Derek con uno sguardo tra il preoccupato e l’imbarazzato e Suzanna, la mia Suzanna con un sorriso accecante, un pacchetto del McDonalds in una mano mentre tende entrambe le braccia verso di me.
Mi alzo dal mio posto e la abbraccio fortissimo.
«Ciao, Suze.»
«Ti ho portato il pranzo,» dice con voce emozionata.
«Non ce n’era bisogno, non stai lavorando.»
«Fare la cameriera per una vita diventa, poi, uno stile di vita.»
«Non è vero. » Poso le mani sulle sua spalle. «Non è vero, Suze. Quindi, ti proibisco di portarmi il pranzo. Puoi venirmi a trovare quando vuoi.»
«Natalie,» mi chiama Derek, pochi passi dietro Suzanna. «Non può venire quando vuole, purtroppo. Conosci le regole.»
«Ma, Derek…»
«Ti metterai nei guai…»
«Saprò uscirne,» dico.
«Ed io e Natalie potremo vederci fuori per un caffè.» Suzanna mi lancia un sorriso e uno sguardo complice. «Hai il mio numero, quando ti va ci sono. Sono venuta giusto per salutarti perché devo accompagnare mio figlio dal dottore.»
«Natalie!» Il mio nome viene gridato dalla ragazza alta, magra, con una massa di liscissimi capelli neri sulla soglia. Corre a stringermi in un traballante abbraccio.
«Emanuelle?» esclamo.
«Come sono contenta di vederti!» dice lei.
«Io no.» Ops. «Ehm, veramente… »
«Signorina, non può stare qui,» le dice Derek. «La accompagno giù insieme a Suzanna. Che giornataccia.»
«No!» sbraita Emanuelle. «Io sono qui per Natalie.»
«Tutti siamo qui per Natalie,» aggiunge Suzanna.
«Ma io…» Emanuelle si volta verso di me. Due grandi occhi marrone scuro mi cercano e mi intrappolano in una morsa di dolcezza. «Io ho bisogno di un lavoro.»
«E vieni a cercare me? Dovresti avere una lista di persone a cui chiedere aiuto prima di me.» Ogni riferimento ad Arthur è puramente intenzionale.
«La mia agenzia mi ha licenziata.» China il capo. «Non pretendo ti tornare a fare la modella, ma… tutti hanno un’assistente e potresti chiedere al direttore…»
«Pensi che io sia abbastanza importante da avere un’assistente?»
«Sei sulla bocca di ogni rivista, ogni agenzia! » I suoi occhi luccicano di lacrime. «La volpe di Liverpool rapisce Londra. Rapisce tutti.» Ride tra le lacrime. È come se avessi il cuore imprigionato in un grande artiglio. Tutte le volte in cui faccio qualcosa contro la mia volontà l’artiglio lo stringe, ferendolo sempre un po’ di più. Me lo sono ferita tante volte da sola, fingendo che la cotta per Arthur sarebbe subito passata mentre cresceva ogni giorno; seguendo gli ordini di mia madre, dicendo le cose come lei voleva, facendo le cose come lei voleva, studiando come lei voleva. Ora Emanuelle smette di ridere. «Mi dispiace per quello che ti ho detto alla sfilata… è ovvio che l’Italia non è il paese degli spaghetti. Insomma, si cucina tante altre cose!» Stai ancora sbagliando qualcosa. «E poi c’è il Colosseo.» Meglio.
«Sono davvero una brutta persona,» dico, voltandomi. Prendo in mano una penna, la schiaccio nel fluire dei miei pensieri. «Davvero cattiva.»
Silenzio assoluto, degno di un cimitero.
«Parlerò con il direttore, Emanuelle.»
Emanuelle lancia un risolino, mi stringe fortissimo e poi batte la mani. Okay, imparerò a tollerare queste cose.
«Io… ero sicura che sei diversa da lui. »
«Da lui? » chiedo, perplessa.
«Arthur. » Il suo nome rimbalza dalla sua lingua fino a me, al mio cuore, al mio cervello. «Ci siamo lasciati. »
***
In metropolitana mi perdo tra gli sguardi degli estranei, sguardi curiosi, altri diffidenti.
«La volpe di Liverpool,» sento sussurrare qualcuno.
Non la mia linea.
Ma io.
Io, che sarò anche furba a volte, perché l’istinto di sopravvivenza è anche più forte dell’imbranataggine, ma non abbastanza. Non abbastanza perché se così fosse non sopravvivrei, ma vivrei. Il pensiero di Arthur smetterebbe di ferirmi, visto che anche il ricordo di ciò che è accaduto con lui mi sembra rivestito di nebbia come l’inverno a Londra. Smetterei di pensare al bacio di Ewan tra un modello e l’altro, la scelta di una stoffa e una telefonata con Derek. Nell’ufficio di Vogue, per strada, in metropolitana, Ewan ritorna, di carne e di sangue, e le sue labbra sulle mie mi fanno girare la testa anche solo nei sogni.
Il fatto che Arthur non stia più con Emanuelle non cambia niente: io resto sempre Natalie, la ragazza che ha lasciato alla stazione con un non posso tra le labbra.
Con Ewan sono la stessa Natalie, ma non esiste alcun limite: alle litigate, alle brutte parole, al passato, a quel che sono ed a quel che è lui. E questo mi chiude lo stomaco, mi affanna i battiti del cuore che cominciano a inciampare su se stessi quando so che lui è nell’altra stanza, quando lo sento suonare fuori dalla porta del garage, quando si prepara la colazione e lascia un po’ di caffè nella macchinetta per me, ed ogni cosa è tornata come prima anche se io non sono più come prima. Non ignoro più nulla.
Non posso ignorare Ewan Lynch.
«Buonasera, » dico, aprendo la porta. Sento il suono della televisione accesa, ma nessuno mi risponde. Dal bagno, sento il detto dell’acqua della doccia. Sono tremendamente stanca, un dolore martellante alle tempie. Poso la borsa, mi tolgo le scarpe, mi sdraio sul divano e chiudo gli occhi. La testa mi pesa ed ho anche freddo.
«Natalie. » È la voce di Ewan. Pare così lontana.
Apro gli occhi.
Ewan ha i capelli bagnati, qualche goccia gli cade sul viso e su tutto il corpo, coperto solo da un asciugamano in vita.
«Non ti senti bene?» mi chiede.
«No, sto morendo.»
Mi si avvicina e mi tocca la fronte con una mano, sussulto.
«Hai solo la febbre, piccola melodrammatica.»
Mi sorride e i suoi occhi hanno il potere di mandarmi una luce che sembra venire dal sole, riscaldarmi e guarirmi.
Qualche goccia gli cade sul petto e sull’addome.
«Potrei avere un infarto, porca paletta
«Aspetta un attimo.» Si mette dritto e si posa una mano in vita, sul punto in cui l’asciugamano è legato. «Ti porto a letto.»
«Porca di quella puttana… »
«Di tua zia, ho capito. »
Ewan si allontana ed io mi crogiolo nella mia follia. Dio, come ho fatto ad ammalarmi? Un colpo di vento? La pioggia di stamattina? Sono arrivata in ufficio con i capelli elettrizzati dicendo che la farò diventare una nuova moda ma non è vero, stavo malissimo. Oh, mamma, se mi devi dare lo sciroppo almeno che sia alla fragola. E poi qualcosa mi stringe, qualcosa mi trasporta: è l’abbraccio di Ewan, che mi solleva dal divano e mi tiene vicino a sé.
No, mamma, resta a Liverpool.
«Ewan? »
Non capisco più niente.
Ewan mi aiuta a coprirmi con il lenzuolo fino al mento per forza di cose, riesco ad aprire di nuovo gli occhi e incontro il suo viso dall’espressione apprensiva.
«Natalie, dovresti spogliarti,» mormora. «E metterlo in bocca.»
Boccheggio.
Agita una piccola asticella di metallo. «Il termometro. Così vediamo quanta febbre hai. Dai, ti cambi dopo al massimo.»
«Ma non si mette sotto le ascelle il termometro?»
«Ci sono anche quelli che si mettono nelle orecchie, se è per questo.»
«E perché proprio quello che si mette in bocca?»
«Perché mia sorella l’ha comprato e messo nel mio borsone. È nuovo, tranquilla.»
«Non lo voglio.»
«Forza.»
«No.»
«Su.»
«No.»
«Oh, sembra proprio che tu sia tornata a connettere,» ghigna. «Sei già tornata a rompere le scatole.»
«Dammi quel termometro, idiota.»
Mi sento ancora accaldata – è la febbre, non altro. Okay, febbre aggiunta ad altro – ma almeno riesco a starmene con gli occhi aperti. Andrò al lavoro anche con la febbre, non se ne parla, sono appena stata assunta, ho appena trovato qualcosa che mi piace davvero fare e…
«Perché così imbronciata?»
«Fono daffero una s-figata.» Il termometro mi fa inciampare nelle parole.
«Ma piantala.»
«Fpero mi paffi prefto.»
«Ma sì.»
Mi prende di nuovo il termometro. «Caspita, trentanove! Fai sempre le cose alla grande, Nat.»
«Grazie per il complimento.» Sto per addormentarmi, non ce la faccio più. «Ewan… »
«Mhm? »
«Mi hai baciato perché ti piaccio? »
Di sicuro sto già dormendo. Da sveglia non sono mai così scema.
Credo.
«Mi fai perdere la testa, volpe di Liverpool.»
Buonanotte a tutti.
***
Ho chiamato il signor direttore per informarlo del malanno.
Io ci volevo andare, a lavoro. Mi sono vestita e anche truccata, ma Ewan ha fatto da barriera umana. Se mi fosse stato ancora addosso, sarebbe stato un gran pericolo per la mia vagina, cosa davvero frustrante visto che non mi bacia ancora.
Comunque, Emanuelle è ufficialmente la mia assistente. Mi manda messaggi per informarmi delle cose importante e sta ricopiando al pc i numeri di tutta la gente che mi ha chiamata. È vero, non sa che cos’è l’osmosi. Io non ero brava a matematica, a scuola, magari lei non ha mai capito scienze.
Può succedere.
Ed ora mi sono ufficialmente trasferita sul divano per vedere tutte le puntate di Beautiful.
«Certo che Brooke se li è fatti proprio tutti,» constato. «Come si fa a essere così? » Sgranocchio una patatina.
«Non ne ho idea.» Ewan prende qualche patatina dalla mia ciotola e mi si siede accanto, i capelli ora un po’ più lunghi pettinati all’indietro. «Seguirà la filosofia del carpe diem.»
«O carpe penem.»
«Può essere.»
***
Dopo due giorni di delirio misto a sonno e episodi di Beautiful, mi siedo di nuovo alla mia scrivania. Emanuelle, professionale con la sua cartellina, mi informa su tutti gli sviluppi della mia assenza.
«Ieri il signor direttore è venuto tardi in ufficio, credo che abbia litigato con la moglie altrimenti non si spiega la cravatta messa in modo strano, quella dietro di noi si è addormentata verso le quattro di pomeriggio, stanca dopo l’addio al nubili lato del’amica e…»
«E? »
«Stasera una riunione per organizzare la sfilata della volpe di Liverpool, con idee di catering, suggerimenti sul posto e gli ultimi dettagli sui vestiti. Sei tornata appena in tempo.»
«Grazie al cielo.» Accendo il pc e la guardo. «E grazie per aver supervisionato tutto.»
«Sono la tua assistente, no? » Mi posa un bicchiere di carta colmo di caffè sulla scrivania.
«Sì, lo sei.» Sorrido e comincio a sorseggiarlo.
«Quando hai tempo…» comincia Emanuelle, un po’ incerta. «Potresti spiegarmi che cos’è il processo omosmotico?»
Affogo nella mia risata mista a caffè.
«Osmotico?»
«Sì, quello.»
«Okay.» Mi pulisco le labbra con un fazzolettino. «Sarà davvero entusiasmante: prendi una barriera, metti acqua da un lato e dall’altro, l’acqua  di una parte attraversa la barriera ed alza il livello dell’acqua, mentre il livello dell’altra si abbassa.»
«Uaohhh. Non lo saprei spiegare ma sembra carino. »
«Be’, sì, se lo dici tu.»
«Comunque, ecco il giornale di oggi, quello che mi hai chiesto. » Me lo posa sulla tastiera e si allontana.
Finisco di bere il mio caffè e poi leggo vari articoli sulla moda. Tutti sono in ansia di vedere la linea della volpe di Liverpool il cui nome dell’ideatore non viene ancora rivelato pubblicamente, anche se le agenzie ne sono informate. Quanto mistero. Poi giro la pagina e mi sento il caffè andare di traverso.
«Arthur sul giornale,» sussurro.
«Che cosa? » chiede Emanuelle, tornata a pochi metri da me per buttare una carta nel cestino. Mi viene accanto e comincia a leggere ad alta voce. «Arthur Benkinson, brillante manager della città di Liverpool, è responsabile della svolta dell’agenzia di moda Istyle, quasi sui livelli di Vogue. Vogue dovrà preoccuparsi?»
«Ma che c’entra Arthur con la moda?»
«Lo odio,» fiata Emanuelle, il risentimento nella voce. «Lo odio con tutto il cuore.»
Deglutisco. La guardo perplessa, con tutta l’intenzione di non far emergere la verità. Avrei tanto voluto odiarlo anch’io, ma non ci sono mai riuscita.
«Che cosa è successo tra di voi?»
«Scusa se te lo dico, so che siete tipo fratelli.»
«Sì.» Storco la bocca. «Tipo.»
Momenti ravvicinati con la lingua a parte.
«Ha un’altra in testa.»
«Un’altra?» sussurro.
«Per quanto ci provi, non vorrò nessun’altra che non sia lei, ecco cosa mi ha detto.»
Sospiro.
«Nessuno che valga mai veramente qualcosa smette mai di provarci.»
«Come? »
«È il motto dei Benkinson, la famiglia di Arthur.» Torno a guardare il pc e apro la cartella dei miei modelli scannerizzati per rifinire i colori. «Evidentemente si è disconosciuto da solo.»
«Probabile. »
E non riesco a fare a meno di essere triste per lui. «Arthur ha avuto tantissime ragazze. Nessuna per più di due mesi… a parte una. Niente di personale, davvero.» Torno a guardarla. «E tu sei molto bella, una modella. Ne troverai di migliori.»
«Grazie, Natalie,» mi dice, sembra che si stia per commuovere. «Sei davvero una bella persona.»
«Ehi, non esagerare, adesso.»
«Sei davvero dolce.»
«Ehi, ehi, ehi, calma. Non è vero. Sono un’acida mestruata perenne.»
«Va bene. Comunque mi porto sempre gli assorbenti nella borsa, se ne hai bisogno.»
«No, grazie, per ora solo mestruo invisibile.»
***
Ho una fame terribile, stasera. Ho ordinato una pizza perché non mi va di cucinare ed Ewan non c’è, anche se credo che tornerà a momenti dopo le prove dello spettacolo.
Suona il campanello.
Ewan, spera una parte di me. Una parte di me che supera i bisogni della fame e della sete.
Apro la porta.
Non è Ewan.
Non è il ragazzo della pizza.
Non è nemmeno Zot che mi offre della vodka.
È una ragazza.
«E tu? » chiedo, spiaccicando la gentilezza la muro come lo sputo di un lama.
La ragazza, con capelli ondulati e castani, occhi grandi di un castano tendente al verde, di qualche centimetro più alta di me, si stringe nelle spalle, mostrando imbarazzo.
«Abita qui Ewan? » chiede, con una voce sottile.
Nonononono.
«Ehm… » NATALIE! «Ecco… » Datti un contegno. «Sì. » Sorrido, e lo faccio come se sulle spalle portassi una tonnellata di mattoni che mi fa sforzare anche l’ano.  «Vuoi entrare?»
La faccio passare.
«Vivete insieme?» chiede.
Cammino dandole le spalle. «Siamo coinquilini.»
«Oh! Mi ero già fatta tutto un film.»
Mi siedo al tavolo della cucina e lei si siede di fronte a me.
«Che genere di film? »
«Molto a luci rosse.»
«Oddio,» esclamo.
«Alyssa?» chiama Ewan, ora sulla soglia con la nostra pizza in mano. Cioè, la pizza che io ho ordinato per entrambi, visto che tante volte lui ha ordinato anche per me. Ha un’espressione a metà tra la rabbia e la sorpresa. Oh Dio, lei deve essere… «Che ci fa la mia ex nel mi appartamento?»
«Ehi,» gli dice lei, con dolcezza, come se lui l’avesse accolta con dei cioccolatini. «Mi sei mancato, Ewan.»
«Be’, quando due persone si lasciano è normale che sia difficile all’inizio.» Tossicchio, mi alzo dal mio posto ed apro il frigorifero  per bere un po’ d’acqua.
«Oh! » esclama Alyssa, avvicinandosi a me, anzi, al frigorifero. «La tua calamita a forma di pinguino.» Alyssa ridacchia.
Ho il cuore in gola.
«Comprare pillole per i dolori mestruali e cotton fiock,» legge ad alta voce. «Ewan, da quando hai il ciclo?»
«Quel post-it è mio,» grugnisco.
Alyssa mi riserva il primo sguardo da quando Ewan è entrato nella stanza. «Ma la calamita a forma di pinguino è di Ewan.»
«Ed ora appartiene a Natalie,» dice Ewan, sicuro.
Oh Dio.
Questo sì che è romantico.
«Sì, il pinguino è tutto mio. Ah-ah. »
Sono forte, oh sì.
«Che cosa ti porta a Londra, Alyssa? » le chiede Ewan.
Alyssa si volta verso di lui. «Te.»
L’aria sembra solidificarsi, stringersi attorno ala mia gola per impedirmi di respirare, fermare l’acqua che stava per scendermi nello stomaco per farla scoppiare in un’ondata di tosse.
Entrambi si voltano verso di me.
«Va tutto be-bene,» riesco a dire.
«A casa mia c’erano altre tue cose. Un orologio costoso e… altre calamite, hai sempre avuto la passione per le calamite.»
«Quando avevo quattordici anni. »
«Infatti è da quando avevamo quattordici anni che ci conosciamo. Ci siamo fidanzati quando ne avevamo diciannove. Io prima stavo con Howard…»
«Infatti, quando sono tornato a Dublino, ti ho vista seduta sulle ginocchia del fratello di Howard.»
«Avevamo già deciso di lasciarci. »
«No tu hai lasciato me perché non sopportavi l’idea di me a Londra, lontano. Dai, Lyssa, io non capisco che cosa…»
«Ewan,» lo chiama lei. «Vediamoci domani, ti do le ultime tue cose che ho trovato a casa. Ci siamo salutati male la scorsa volta, io vorrei…» Quasi si aggrappa alla sua maglietta con una carezza felina. «Vorrei fare le cose per bene.»
Mando giù un altro po’ d’acqua. Mi sento lo stomaco di ghiaccio, mi chiedo se è l’acqua troppo fredda o io troppo calda nella furia che sto trattenendo.
Spero con tutto il cuore che Ewan la cacci via a calci.
«Va bene, Alyssa. Ci vediamo domani.»
Ma ora voglio solo prendere a calci lui.
*
*
*
*

Salve, lettori! <3 Come procedono le vostre vacanze? Spero che la storia di Natalie riesca a intrattenervi tra un giorno al mare e l'altro *.* Ewan e Natalie sono un po' in stallo, nessuno dei due si decide a fare una mossa decisiva, almeno da cosciente. 
Ma il momento dovrà pur arrivare, no? Comunque in questo capitolo ci sono state altre novità, cosa vi aspettate? :3
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e grazie a voi tutti per leggermi :3
Un bacione,
Ania <3

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Capitolo 14
*** Quattordicesimo capitolo ***


14.
La mia canzone preferita alla radio: Sail, degli Awolnation. Il ritmo iniziale ricorda il battito di un cuore, i passi di qualcuno che ha il potere di controllare quei battiti; la cosa innervosisce ed esalta al tempo stesso.
È la terza volta che provo a mettermi l’eyeliner ma mi viene sempre qualcosa di improponibile, la mano mi trema. Sarà per l’agitazione.
«Nat, hai finito?» Ewan bussa per l’ennesima volta.
Sarà per Ewan che ho cacciato fuori da bagno.
Prendo tutti i trucchi e mi scaravento fuori dal bagno, sorpassandolo senza riservargli nemmeno uno sguardo.
«Natalie, con l’occhio a quel modo sembri un panda.»
«Uh, grazie.» Mi stropiccio la palpebra. «Io sono dark inside
«Non mi sembravi.»
«Tu fai emergere tutta la mia oscurità.» Lo fulmino con lo sguardo. Indossa una camicia bianca col colletto sbottonato, dei jeans molto scuri. «Non ti serviva il bagno? Vai, forza.» Mi allontano per raggiungere la mia stanza.
«Sei gelosa di Alyssa?»
La sua voce si prende il diritto e il potere di immobilizzarmi: mi volto e trovo il suo sguardo fisso su di me, blu e dispersivo, mentre il cuore mi batte forte salendomi in gola.
«Oh, certo, io sarei gelosa di Alyssa-lisca-di-pesce-ficcata-ingola. Alisca
«Cosa?»
«Vai a cacare, Ewan,» sbraito.
«Non ho lo stimolo ora, scusa,» ghigna.
E si chiude dentro.
Davanti allo specchio della mia camera cerco di rendermi decente. Stasera c’è quella riunione importante e devo cercare di fare una buona impressione. Arrivo alla redazione e Derek mi accompagna nella sala riunioni, dove c’è già Emanuelle ad aspettarmi.
Indossa un tubino nero e porta i capelli sollevati. «Stasera sarà una grande serata,» mi dice.
«E perché mai?»
«Lo sento nell’aria,» sussurra, arricciando il naso.
«Be’, non sarà come sentirlo dentro, ma bisogna accontentarsi a volte.»
«Cosa?»
«Niente, cose senza senso.»
«Oh, sono arrivate le tartine!» esclama Emanuelle. «Non fare più la modella ha i suoi pregi.» Si allontana ancheggiando.
Mi stringo nelle spalle e sento una mano sulla schiena. «Cara Natalie, ho saputo che ti sei ammalata,» mi dice il signor direttore. «Stai meglio?»
«Benissimo, signor Roman.» Che dolce a chiedermelo. «Sarei venuta a questa riunione anche con la febbre.»
«Che ragazza!»
«Una forza della natura,» conferma una voce. Una voce. Deglutisco. La voce di Arhur che si avvicina a noi con in mano un bicchiere di champagne.
«Oh, Natalie, non ho avuto modo di informarti. Oltre alla tua linea ci sarà anche la linea di Istyle, per dimostrare che non siamo case di moda nemiche, per lavorare insieme,» mi spiega il signor Roman.
«Questo non è ancora stato deciso,» aggiunge Arthur, sorridendo appena; sorridendo come chi sa tutti i segreti del mondo ed ha già deciso di non rivelarli mai.
«La faremo cambiare idea, signor Benkinson,» continua il signor Roman, per poi  sparire dalla mia vista.
Sospiro.
«Sono contento di vederti,» mi dice Arthur, a quel modo dolce con gli occhi leggermente socchiusi. «Perché non ci ho pensato prima? Sei sempre stata particolare, originale. Ecco la tua strada.»
Incrocio le braccia. Tante cose sono cambiate dall’ultima volta in cui abbiamo parlato o forse no, nulla è cambiato. Ho solo accettato, con tutta la forza e il dolore che ne è derivato, quello che è successo nella mia vita per essere quel che sono oggi.
«Ed ora è diventata anche la tua?» gli chiedo.
«Ho solo preso al volo un’occasione.»
«Anche il bacio che mi hai dato era un’occasione.» Mi sorprendo di non sentire alcun male al petto mentre sembra che lui sia stato colpito allo stomaco. «È per Jade che non puoi, giusto? Non potevi, non puoi e non potrai mai
Ma questo farà male per sempre.
Il suo viso diviene pallido: dai lineamenti morbidi, bello in quel modo ingiusto che ti fa chiedere come può, un uomo, farti sentire sotto terra mentre lui sembra provenire da un posto che non ti appartiene.
«Natalie,» sussurra, con un tono di ammonimento, rimprovero, implorazione.
«No, Jade. Da quanto tempo non dici il suo nome ad alta voce? Forse da quanto quel pomeriggio abbiamo visto il sole che tramontava sulla terra sotto cui c’era lei, per l’ultimo saluto.» Faccio un passo verso di lui e mi accorgo che le gambe mi tremano. «Stupido, muto accordo con i miei genitori. E con me, indirettamente, perché anch’io ho sempre fatto come loro, come te, come voi. Non ti accorgi che fingendo che non sia mai accaduto, continuerà ad accadere?» Ed ora è la mia voce, ad implorarlo. «Non ti accorgi che continua ad accadere? È successo ieri, succederà di nuovo stanotte, succederà domani…»
«Natalie, smettila.»
«E invece è successo nove anni fa. Una parte di noi è ferma lì, a quella notte di festa finita in un incubo, e non è mai tornata indietro. Io sì. Io sono tornata…  Io l’ho ammesso. » Deglutisco, trattengo le lacrime. «Jade, mia sorella, è morta.» Mi spezza la voce. «E tu la amavi.»
Arthur distoglie lo sguardo da me.
«Natalie, stiamo per cominciare. Vieni a sederti?» mi chiede Emanuelle e poi guarda verso Arthur. «Oh mio Dio, tu qui? Che altro vuoi?»
«È qui per lavoro, poi ti dico meglio,» le spiego. La tiro per il braccio e prendiamo posto su una delle sedie attorno al grande tavolo rettangolare.
Istyle è una rivista nuova, seconda a Vogue ma che sta effettuando molte vendite: potrebbe superarci, quindi il direttore vorrebbe creare una società. Il direttore di Istyle ovviamente, pensando al suo prestigio, è restio così come lo è anche Arthur. L’unico interesse comune sono io, la volpe di Liverpool, che è diventata così celebre su internet senza che sia stato fatto il mio nome che si prospettano guadagni assurdi. Ovviamente, il direttore di Vogue non vuole cedermi, quindi alla fine è Istyle a cedere. Lavoreremo insieme, almeno per questa volta.
Mi alzo dalla sedia e mangio qualche tartina. Sono buone e mi sembra di averne già assaggiate di questo tipo. Ma certo… sono quelle del catering della signora Faryland. Devono aver ascoltato la mia pubblicità quando mi intervistarono ed io cercai di salvarmi il lavoro dicendo cose carine su di lei.
Ed eccola lì, improvvisamente sorridente a guardarmi, mi fa l’occhiolino.
Brrrrr.
Arthur è di nuovo vicino a me.
«Non fidarti di Emanuelle,» mi sussurra.
«Perché è una tua ex?»
«Perché è una stronza.»
«Tu non sei un santo, Arthur.»
Torno al tavolo. Mentre rifiniamo gli ultimi dettagli le cameriere ci servono i dolci. Cerco Suzanna con lo sguardo ma purtroppo non c’è.
Emanuelle è in piedi e, sul vassoio in cui ci sono dolci bianchi, la vedo armeggiare con una polverina chiara.
Droga?
«Natalie, contenta dei risvolti?» mi chiede il direttore.
Continuo a guardare Emanuelle che, dopo aver passato la polverina sulla fetta di dolce, la copre con della panna prima che una cameriera venga a servirla.
Polvere di mandorle.
Oddio.
Ad Arthur.
Che sta per mangiare un boccone di quella torta maledetta.
«No!» Mi sporgo in avanti, salto sul tavolo come una volpe, mi sporco la parte del vestito che mi copre la pancia della crema dei dolci vicini e riesco a rubargli il piatto. Sospiro di sollievo. Sono al centro del tavolo con le gambe all’aria e un piatto con della torta stretto al petto.
«Natalie, che fai?» fa il sognor direttore con voce indignata.
«La torta, le mandorle… » riesco a dire, mettendomi di nuovo seduta. Mi volto verso Arthur. «In questa torta ci sono le mandorle, il signor Benkinson sarebbe finito in ospedale. Prima l'ho sentito parlare della sua allergia.»
«Natalie, il signor Benkinson l’aveva già fatto presente, il dolce che gli hanno dato deve essere per forza senza.»
«Controllate sotto la panna allora.»
Un signora sulla cinquantina prende la sua forchetta e toglie uno strato di panna. «La ragazza dice il vero.»
Sbuffo. «Com’era ovvio.» Scendo dal tavolo. 
«Natalie ha salvato la vita al mio manager,» dice il direttore di Istyle, calvo e piuttosto in carne. «Datele un cambio e una promozione!»
«Lei è la volpe di Liverpool,» dice qualcuno.
«Come?»
«Lei è l’ideatrice della volpe di Liverpool! »
Arthur mi si avvicina, mentre nella stanza regna il caos.
«Togliti quel vestito il prima possibile.» Okay, questa frase dalle sue labbra mi fa un effetto particolare, ma viene presto portato via da qualche ragazza prosperosa che vuole consolarlo per qualcosa che non è successa. Arrivo a casa con un vestito di Vogue addosso non mio – non sono mai stata così figa, me lo sento dentro. È sicuro che domani chiamerò Emanuelle per discutere su quello che ha cercato di fare. Arrivo a casa, apro la porta e mi fermo. Sento dei rumori strani provenire dal salotto.
Sento… dei gemiti.
Ewan.
Potrei vomitare.
Ewan e Alyssa.
Corro in camera mia tappandomi le orecchie. Voglio solo scoppiare a piangere ma non lo farò: mi sono messa il mascara e se piango sembrerò un panda per davvero.
Prima mi strucco.
Qualunque cosa si faccia, la si deve fare con classe.
***
Mi sveglio alle dieci. Ieri sera mi sono addormentata tardissimo e ho ancora la testa pesante del sonno, il macigno di quel che ho sentito. In un film, un personaggio diceva che più va bene il lavoro, più fa schifo la vita privata. Di certo non è una legge assoluta, ma funziona quasi sempre.
Con me sta funzionando alla grande.
«’Giorno,» mi dice Ewan, seduto al tavolo della cucina.
Decido di non guardarlo. Apro il frigorifero e riempio una tazza di latte.
Comincio a parlare solo dopo qualche minuto. «Ewan Lynch,» lo chiamo solenne. «Ti proibisco di fare sesso in questo appartamento quando io potrei tornare da un momento all’altro.» Mi volto a guardarlo, per vedere se gli è chiaro il concetto.
Incontro la sua espressione perplessa, gli occhi azzurri assottigliati. «Che?»
«Ieri… vi ho sentiti, tu e lisca di pesce,» preciso. Ricordarlo mi repelle. Il bacio di Ewan mi repelle. La mia speranza mi repelle.
«Che ore erano?» mi chiede, concentrato.
Questa domanda mi lascia interdetta. «Forse… era l’una.»
Ewan sorride improvvisamente, come se avesse appena trovato un tesoro che non ha alcuna intenzione di dividere con me.
Si alza dal suo posto, mi viene di fronte e mi riserva uno sguardo strafottente, silenzioso eppure fastidioso ai limiti della sopportazione. «La gelosia acceca.»
«Non sono gelosa.»
«Pare che renda anche un po’ sordi.» Continua a guardarmi, beffeggiandosi delle mie reazioni. «Non lo sapevi che sul canale 69 della tv satellitare fanno le repliche di Game of Thrones? Devi essere tornata al momento della solita scena mezza porno.» Perdo tutta l’aria che ho in corpo. Boccheggio. « La prossima volta puoi guardarlo con me, visto che ti piace tanto. Non sono andato a letto con Alyssa. Mi sono fatto ridare il mio orologio.» Solleva il polso per mostrarmelo. «E… non hai notato le nuove calamite sul frigorifero?» Giro la testa a guardarlo e mi accorgo che è vero. «Stai proprio fatta, Nat. Non solo ho dovuto rifiutare la mia ex in calore dopo mesi di astinenza, le ho anche dovuto dire di nuovo che era finita, mi sono sorbito i suoi insulti, le sue lacrime di coccodrillo perché quando ancora niente era deciso si è consolata con un altro ammettendolo spudoratamente. Pensavo che tutto questo stress fosse finito ed ora ci sei tu, ad accusarmi di cose inesistenti quando vorrei solo dimenticarmi di Alyssa e degli inutili due anni di tira e molla che ho avuto con lei. Ed eccomi qui, a raccontarle e a ricordarle, di nuovo, grazie a te.»
Sospiro. Mi sento dipingere le guance di rosso, il rosso della vergogna e dell’imbarazzo. Sono stata troppo avventata, cieca… e sorda.
«Mi dispiace, Ewan.» Chino il capo. «Se… se vuoi parlarne…»
«Non ho bisogno di una psicologa, ce la faccio da solo a superare i miei traumi sentimentali.»
«Okay, però tu… tu hai fatto un po’ lo psicologo con me…»
«Che vuoi fare, è la sensibilità dell’artista che capisce cose che altri non capiscono.» Ewan mi accarezza i capelli. «E sai cos’altro capisco? Che sei gelosa.»
Mi scosto. «Perché dovrei esserlo? »
«Perché non fai altro che pensare a quello che è successo in garage. Vuoi che succeda di nuovo?» Torna a toccarmi, carezzandomi la guancia. Il suo pollice scende fino a sfiorarmi la bocca e sussulto, Ewan fa un respiro profondo e dischiude le labbra. La sua mano scende sul mio fianco, mi attira sé, non riesco a respirare. Sollevo lo sguardo su di lui ed Ewan mi posa una mano sotto il mento.
Ho il cuore che batte così forte che ho paura che smetta di farlo, all’improvviso.
E poi il suono del campanello ci fa allontanare come se tra di noi ci fosse una molla.
«Ma chi è?» grugnisco, appoggiata al lavello.
Ewan si gratta la nuca ed ora è lui ad essere imbarazzato, mentre va ad aprire sotto i miei occhi. Sull’uscio appare un ragazzino di circa otto anni, biondino e con un paio di occhiali rotondi.
«Ewan!»
«Buongiorno, Michael.» Ewan lo fa entrare, posa una mano sulla sua spalla e si volta verso di me. «Natalie, questo giovanotto è Michael, un altro, aspirante musicista.»
Michael, con due grandi occhi celestini, mi fissa con uno sguardo spiritato, come se stesse cercando di analizzarmi con la forza del pensiero.
«Uhhh,» riesco a dire. «Un altro aspirante musicista
«E tu chi sei?» mi chiede.
«Te l’ha appena detto Ewan. Sono Natalie.»
«Come fai di cognome?»
«Truman.»
«Hai un secondo nome?»
Riprendo la tazza in mano e bevo un po’ di latte.
«Hanna.»
«Qual è il tuo numero di scarpe?»
«Trentasette. Ma…»
«Tu ed Ewan siete sposati? »
«Oh mio Dio, no.»
«Tu ed Ewan fate sesso? »
Il latte mi va di traverso e tossisco, quasi sputando verso il ragazzino.
Ewan ride a scatti. «Michael, sei sempre così curioso. Scendiamo in garage e cominciamo la lezione.»
«Evviva!» grida Michael.
Evviva.
***
Quando arrivo al bar dove ho sempre lavorato, la signora Faryland mi stringe la mano estasiata e mi ringrazia della mia presenza come se fossi la regina Elisabetta, mentre Suzanna mi guarda dal bancone ridendo. Nonna Paullina sonnecchia con la testa poggiata al polso e il gomito sul bancone, seduta a uno sgabello.
«Ti aspettavo, tesoro,» mi dice Suze. «E comunque, io ho sempre saputo nel profondo di me stessa che sarebbe successo qualcosa con quell’ Ewan.»
«Shhhh!» mormoro. «Non è successo niente.»
«Un bacio, due quasi baci e tanta tensione.»
«Sì, ma ne parliamo dopo.»
Si sente il rumore del campanello sfiorato dalla porta che si apre. Emanuelle, altissima e indifferente a qualunque sguardo umano, si avvicina a me e prende posto sullo sgabello.
«Un caffè lungo,» dice a Suze, ammiccando. «Ma senza zucchero.»
«Subito,» le risponde Suzanna, mi lancia uno sguardo compassionevole e si volta verso la macchina del caffè.
«Bene, lasciamo perdere i soliti preamboli perché mi annoio.»  Mi rivolgo ad Emanuelle, abbassando la voce. «Perché hai messo la polvere di mandorle nel dolce di Arthur? So che vi siete lasciati e ce l’hai con lui, ma l’avresti mandato in ospedale!»
«Ma che bella questa giacca a righe!» esclama Emanuelle, passandoci sopra la mano. «Turchese e rosso. Che abbinamento!»
«Emanuelle, ascoltami!» le grido contro. «Arthur è importante per me
«Sì, Arthur è importante,» dice Suzanna, poggiando sul bancone la tazza con il caffè. «Ti ha baciata, se n’è andato, ora è ritornato. Ma mia cara Natalie…»
«Suzanna.» La fulmino con lo sguardo.
Suzanna resta interdetta mentre io mi metto le mani tra i capelli.
«Un momento, Arthur ti ha baciata?» mi chiede Emanuelle, cacciando fuori un urletto.
«Non se n’è fatto nulla,» dico, la disperazione nella voce. «E non se ne farà mai nulla ma, per favore, non provare di nuovo ad ucciderlo.»
«Okay,» risponde semplicemente, poi comincia a sorseggiare il caffè. «Altro che parenti.»
Scuoto la testa. «Be’, se pensi ai Lannister…»
«Come?»
«Nulla, sono solo un’imbarazzante telefilm addicted.»
***
Dopo il caffè, Emanuelle se ne va via ancheggiando, mentre io spruzzo il ketchap sulle patatine che ho ordinato.
«Natalie, scusami,» mi dice Suzanna, affranta. «Non immaginavo che…»
«Non immaginavi che il mio bacio con Arthur fosse qualcosa di top secret,» dico per lei, continuando a spruzzare il ketchap. «È stata colpa mia, avrei dovuto dirtelo.»
«Pensavo fosse tua amica.»
«È la mia assistente. Forse col tempo saremo amiche. Ci ha fatto soffrire lo stesso ragazzo, penso sia qualcosa di inevitabile quando due persone stanno vicine, tipo l’osmosi.»
«Tipo tu ed Ewan.»
Sollevo gli occhi e faccio un respiro profondo. L’immagine di Ewan, le sue mani sul mio viso e la sua bocca a pochi centimetri dalla mia, mi fa venire il mal di testa.
«Ve-veramente…»
«Balbetti anche.» Suzanna ride. «Sei tenerissima.»
«Be’.» Prendo il contenitore della senape. «Non è quello che dovrei essere, per indurre Ewan a baciarmi di nuovo. Dovrei... almeno essere un po' sexy. O almeno bella , molto bella.»
«Non ti bacerà di nuovo, Natalie.» Sento un colpo secco al cuore. «Devi baciarlo tu.»
Un altro spruzzo. «No!»
Suzanna mi toglie il contenitore dalle mani. «Sì, perché quando lui ti ha baciato tu l’hai schiaffeggiato e accusato di cose inesistenti. È orgoglioso, un po’ come sei tu. Quindi sì, Natalie, se vuoi un suo bacio, prenditelo.»
Sospiro. Non sono sicura di potercela fare. Sarebbe come dire sì, Ewan, penso sempre a quel che è successo in garage, penso a quel che sarebbe successo se io non ti avessi fermato, penso a qualcosa che mi fa girare la testa anche se è solo frutto della mia immaginazione. «Della serie se vuoi qualcosa va a prenderla?»
«Sì.»
Penso che non sarai mai solo un amico per me, anche se lo sei. Quando ne ho bisogno, lo sei.
«Per qualcosa va bene… qualunque cosa?»
«Natalie!» dice, sconvolta.
«Parlavo di altra senape,» dico con un filo di voce.
Anche se non mi dispiacerebbe altro.
«Natalie, stai bene?»
«Ho solo bisogno di una doccia ghiacciata,» dico, affondo la forchettina in due patatine fritte e le addento.
«Non ci posso credere,» sento sussurrare Ewan. «Spegni il telefono per andare a ingozzarti di patatine?»
Le patatine mi vanno di traverso, mi volto e lo fisso. Ewan al suo solito stile a metà tra il trasandato e l’induzione a scaraventarlo al muro.
Per picchiarlo, non altro.
«Ewan?»
«Ti ho chiamato, non rispondevi. Ho chiamato l’ufficio, ha risposto Derek, ha detto che eri qui per fare qualcosa di importante.»
Rimango con la forchettina a mezz’aria. «Be’, mangiare schifezze è importante per il mio fabbisogno energetico,» specifico.
Incontro il suo sguardo perplesso. «Ci tieni davvero così tanto da spegnere il cellulare?»
«Una giusta dose mi aiuta a stare bene con me stessa e con gli altri.»
«Ah.» Si siede sullo sgabello accanto a me, quello che prima occupava Emanuelle. Il suo viso è attraversato da un ghigno beffardo, la luce del piercing si aggiunge a quella del suo sguardo. «Un po’ come il sesso.»
Deglutisco.
«Oh, mi scusi,» Ewan si rivolge a Suzanna. «Può portare delle patatine fritte anche a me?»
Scuoto la testa, cercando di nascondermi il viso fra i capelli.
«Spero che lei non sbagli mira,» mi sussurra Ewan.
Volto la testa di scatto.
«Ewan, perché mi cercavi?» mi ritrovo a chiedere.
«Perché stasera suono. Una cosa improvvisa.»
«Vuoi che venga a sentirti?» Mi piace sentirlo suonare. Mi piace guardarlo. Mi piace che sia proprio lui e nessun altro.
«No, non puoi. Non ho il pass, a meno che tu non voglia pagare.» Ewan parla velocemente, come se non ci fosse alcun pericolo di ferirmi, di toccare corde che ho nel cuore solo con le parole. «Ma dopo c’è un after concerto. Vieni e ti faccio conoscere i ragazzi che suonano con me, sono simpatici.»
Sorrido senza volerlo.
«Magari qualcuno di loro ti piace,» continua.
«Oh, ma piantala.» Scoppio a ridere. 
«Oh, giusto, a volte me ne dimentico,» dice, prendendo una patatina dal piatto e infilandosela in bocca. «Tu vuoi solo me.»
***
Il locale è pieno di gente che mangia, beve, balla. Mi sento terribilmente a disagio, la pancia mi fa male e la testa mi pulsa, ho la gola chiusa e vorrei non conoscere il perché. Ewan è lì sul palco montato nel locale, apre una bottiglia di spumante e tutti applaudono. Indossa una camicia blu di una tonalità più scura dei suoi occhi quando li colpisce la luce del sole. Mi chiedo se la smetterò mai, nei momenti  più importanti della mia vita, di sentirmi inadeguata.
Questo è importante?
Ewan mi lancia uno sguardo.
Lui lo è.
Mi viene di fronte, versando lo spumante in un bicchiere di plastica.
«Sei venuta, alla fine.»
Mi stringo nelle spalle. «Ci vuole qualcuno che duri molto.»
«Come? Scusa, la musica copre la voce.»
Scuoto la testa ridendo come un’ossessa. «Dicevo, pensavo che il concerto durasse molto!»
«Tieni.» Mi porge il bicchiere e avvicina le labbra al mio orecchio. «Sexy con questo vestito.»
Ma dai! Sospiro e il fiato mi muore in una risata. «Ma sei ubriaco per caso?»
«Non ancora.» Mi fa l’occhiolino.
Ho bisogno d’aria.
«Ciao!» Una ragazza si avvicina ad Ewan. «Complimenti, suoni benissimo! Fantastico!»
«Grazie mille,» le risponde Ewan con il sorriso sulle labbra, guardando in basso, come le poche volte in cui è in imbarazzo.
«Posso fare una foto con te?» chiede quella.
«Posso farla anch’io?» chiede un’altra.
Scoppio a ridere. Nessuno si fa le foto con pianisti sconosciuti, a meno che non siano famosi. È solo una scusa per fare una foto con Ewan, perché è uno strafigo da paura. Testuale.
«Fatto,» dice Ewan, dopo aver finito.
«Ehi! Posso fare una foto con te?» Si avvicina subito un’altra ed Ewan la guarda incerto.
«Fa’ pure,» gli dico io. «Ti aspetto al bar.»
Sorseggiando un Cosmopolitan, penso proprio a questo. Ewan è davvero bello – in un modo bizzarro e al tempo stesso canonico. Bizzarro forse per me, abituata a vedere gli uomini ordinati in camice ed abiti e le donne con completi tutti uguali e collane di perle, prima di cominciare a fare il lavoro che faccio adesso.
Ed Ewan, con quel piercing al sopracciglio destro e le maglie sbiadite dal tempo mi era sembrato strano, fuori come io mi sono sempre sentita dentro. E poi il canone: le regole che ho capito di seguire nel riconoscere la bellezza solo guardandolo, una bellezza che nessun ghigno o espressione arrabbiata riesce a sfaldare, così come la sfacciataggine e l’ostentata sicurezza di certe volte. E i suoi occhi. I suoi occhi.
Eppure non è solo questo. Se lo fosse, be’, sarebbe come uno dei tanti modelli che ho visto ultimamente; belli sì, ma non abbastanza da ricordarmi di loro quando torno a casa sfinita.
Come ora.
Me ne sono andata senza farmi vedere. Dopo tutte quelle ragazze, ho visto che ad Ewan si è avvicinato un uomo sulla cinquantina che gli ha stretto la mano. Aveva tutta l’aria di lavorare per un’industria discografica.
Non mi piace essere d’impiccio: spesso l’impiccio sono proprio io.
Credo che Ewan avrebbe fatto lo stesso. Può sbagliar tutto, apparire ingrato, irritante, infantile forse e poi, negli eventi più importanti, fa sempre la cosa giusta. Ti racconta la sua storia quando hai bisogno di sentirla. Non ti dà quel che vuoi e così capisci che lo vuoi davvero. Ewan Lynch è entrato nelle mia vita così, fra paure e disagi, e così anche le paure e i disagi si sono trasformati. Sono diventati armi e cimeli, cose che mi rendono forte. Mi rendono me.
«Nat? Nat, ehi.»
«Mhm.»
«Natalie.»
Apro gli occhi. Ewan è seduto accanto a me, di fronte al tavolo della cucina, e proprio su questo tavolo io mi ritrovo con tutto il busto in avanti.
«Ehi,» dico, strizzando le palpebre. «Mi sono seduta, ho chiuso gli occhi un attimo e…»
«Ti sei addormentata,» finisce per me, tenendo tra le dita una ciocca dei miei capelli arancioni. Sorrido guardandolo e il cuore comincia a battermi così forte che mi alzo all’improvviso. Ewan resta un attimo interdetto, con il nulla tra le mani.
Lentamente si alza anche lui e, ancora più lentamente, mi viene di fronte.
Il suo sorriso stanco riesce a farmi increspare il cuore in me stessa, in quella parte che lo cerca disperatamente.
Il suo petto schiacciato sul mio.
Smetto di respirare e smetto di pensare.
Lo faccio piano, tenendomi sulle punte perché Ewan è più alto di me, poggiandomi al tavolo dietro con entrambe la mani. Dopo qualche secondo di calore intensissimo, il cervello torna a funzionare, riportandomi la cronaca delle mie azioni.
Sto baciando Ewan Lynch.
Nel tempo di un sospiro allontano le mie labbra dalle sue, fissandolo in attesa. Ewan ha uno sguardo perso e blu, l’acqua del mare di notte, tremante e animata dal vento. Resta in silenzio ed io vibro di nervosismo.
«Ewan, di’ qualcosa,» gli chiedo, senza il coraggio di guardarlo ancora.
Mi posa una mano sulla guancia. «Non dirò nemmeno una parola,» sussurra, per poi fissare i suoi occhi nei miei – un brivido mi raggiunge la nuca – per poi finire a guardarmi le labbra. Sposta le sue mani sui miei fianchi e mi attira sé, scende a toccarmi sotto le cosce e mi solleva. Ricordo la sua presa in garage: aveva la stessa forza e impazienza, ed io mi chiedo come possa essere velata di profonda dolcezza. Mi aggrappo alle sue spalle in un istinto irremovibile di non allontanarmi mai più da lui ed Ewan china il volto e la sua bocca è sulla mia. Gemo nel mio desiderio perché non avrei mai creduto di volere tanto quello che ho ora, non avrei mai creduto di sognare la notte questo ragazzo che un tempo aveva il nome di another place, il posto dove mi sono sentita più al sicuro a questo mondo, perché c'è il mare, blu e implacabile, e ci sono quelle statue, ferme, inermi eppure ferrose, resistenti ad ogni intemperia. I tratti del volto di quegli uomini in ghisa un giorno potranno scomparire, ma dentro saranno sempre gli stessi: nonostante tutto resteranno in piedi, stringendosi dentro la loro anima di ferro. Ed io resto in piedi di fronte al mio destino, di fronte a quel che potrà accadere. Affronterò la calma e le onde stringendomi dentro l'anima, pesante come il più duro dei metalli,  per essere sempre me. Per essere la ragazza che ha trovato il coraggio di prendere quello che voleva e ammettere di volerlo: il mio futuro, il mio passato, i miei sogni.
Ewan.

Schiudo le labbra e lui mi stringe a sé, facendomi sedere sul tavolo: la sua lingua mi sfiora e il cuore manda fuori battiti inceppati, veloci, che inciampano su se stessi, su di me, su me e lui. Quando si stacca da me per riprendere fiato tremo. Non può essere amore, non ancora. Poggia la fronte alle mia e sorride come non ha mai fatto, come se lo aspettasse da un milione di anni. Eppure so che non lo fermerò. Mi sfiora il labbro inferiore coi denti e poi lo copre con le labbra, succhiando; le sue mani risalgono lungo le gambe, finendo sotto il vestito.  Mi sembra di essere attraversata da una lastra di ghiaccio sostituita a fuoco un secondo dopo. Gli sbottono la camicia con una foga che non ho mai avuto e la lascio cadere sul pavimento, carezzandogli la schiena ampia. So che io non mi fermerò, e forse questo spiega tutto. Forse il mio corpo ha iniziato ad amarlo ancora prima che con la mente potessi accorgermene.
«Natalie,» sussurra.
Con gli occhi chiusi cerco la sua cinta.
«Pensavo che non avresti detto nemmeno una parola.» La mia voce si rompe.
«Il tuo nome sì.» Scende a baciarmi il collo. «Natalie.»
Il rumore della serratura mi fa aprire gli occhi.
«La… la porta?»
Ewan mi guarda incerto e si stacca da me. Il rumore continua.
«Sarà un ladro.»
«Oddio.»
Ewan apre la credenza e prende una padella, oh mio Dio anche Rapunzel insegna, sento il cigolio della porta che si apre, passi e qualcosa che viene trascinato.
«Se ti toccano gliela do in testa.»
Le luci si accendono. «Chi sei tu mezzo nudo con la mia bambina? Farabutto! » grida mio padre dalla soglia della cucina, vestito di tutto punto con un espressione da scimmia infuriata. I suoi occhialini gli danno sempre e comunque un'aria raffinata che riesce a farmi esasperare. La mamma gli è accanto, vestita completamente in color pesca, e tiene in mano una chiave. La mia chiave.
Papà si scaraventa su Ewan.
«No, papà, è il mio coinquilino! Papà!» gli urlo, cercando di staccarli.
Papà lascia il collo di Ewan e mi guarda. «Perché è mezzo nudo?»
«È estate e lui è irlandese, lui…»
«Perché siete ancora svegli?»
«Spuntino notturno,» mugugna Ewan, agitando la padella con uno sguardo rabbioso.
«Già, spuntino notturno,» confermo io. «Ma perché cavolo di motivo siete qui?» domando. Okay, forse sono stata troppo brusca ma…
«Tesoro, è per la tua sfilata. Ti avevamo detto che saremmo arrivati,» mi dice la mamma.
«E come avete fatto a entrare?»
La mamma mi mostra la chiave. «La chiave sotto lo zerbino. L’hai lasciata tu per noi, vero?»
Chiudo gli occhi, presa dal senso di colpa.
«Natalie, sei un genio,» mi apostrofa Ewan.
Scuoto la testa, affranta. «Okay! Me n’ero completamente dimenticata.»
«Di noi o della sfilata?» chiede la mamma, sembra ferita.
«Ehm… di tutto quanto, tutto tutto,» dico ridendo isterica. «Ora è tardissimo quindi…»
«Dormiamo sul divano? » chiede papà.
«Potete andare nella mia stanza, il letto è a una piazza e mezza e ci vanno due persone,» dice Ewan, rimettendosi la camicia addosso. «Non mi serve, io dormo sempre da solo... sarà così ancora per molto,» continua con un ghigno.
Faccio un respiro profondo.
Ti odio, gli sillabo senza voce.
*
*
*
*
Sono molto felice di aggiornare :D questi giorni ho avuto un problema con la tastiera e non ho potuto scrivere, ma ora è tutto risolto. Ho amato molto scrivere questo capitolo <3
... E so che, forse, ora siete arrabbiati un po' con me :p

Grazie a voi che leggete, di cuore. Spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Un bacio,
vostra Ania :3

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Capitolo 15
*** Quindicesimo capitolo ***


15. Pamela, lunghi capelli biondi a onde,gli occhi verdi socchiusi dalla smorfia del suo viso, mi ride in faccia con una spontaneità repentina che ha l’effetto del ruggito di un leone: mi fa andare i capelli all’indietro, mentre lei mi afferra il braccio con entrambe le mani.
«Natalie, non ci posso credere. Stavi per fare sesso con Ewan sul tavolo,» mi mormora.
«Okay, Pam, ma non è successo,» ribatto, in imbarazzo come quando mia madre mi scopriva nel bel mezzo dei preparativi di uno scherzo epico, senza ovviamente permettermi di mandarlo in porto.
«Vai, Natalie, vai!» mi grida, e poi mi stampa due baci sulla guancia. Fortunatamente nessuno si volta a guardarci, due amiche esageratamente affettuose sedute su una panchina. «Sei fortissima, sexyssima! Tu puoi!»
«Pamela, dai, al massimo sono carina.» Le sorrido.
«Be’, di sicuro, se qualcuno ti cerca su facebook e ti vede, sì, pensa che sei carina. Ma avere a che fare con te è un’altra cosa. Spiri vita da tutti i pori. Chiunque ami vivere poi finisce per amarti.»
Mi mordo la lingua nella commozione. Pamela è sempre stata così, schietta in modo innocente e spontaneo come possono esserlo solo i bambini. Eppure è vero che una parte di noi non cresce e resta lì, nell’infanzia: è quella parte di noi che ci rende persone sopportabili, piacevoli.
Migliori di altre.
«Ora piantala di dirmi certe cose.»
Pamela schiocca la lingua, come offesa. «Finiscila di fare la di più solo perché lavori per Vogue, okay? Che amica cretina che ho.»
Mando indietro la testa mentre rido. «Ehi!» Le do uno schiaffo sul braccio. «Potrei cambiare idea e non farti più sfilare.»
Mi fulmina con il suo sguardo verde chiaro, profumo di menta al solo guardarli. «Colpo basso,» dice alzandosi.
«Sono furba, lo sai.»
Ci dirigiamo verso la sede di Vogue. Pamela indosserà l’abito su cui ho lavorato con più dedizione. Se lo merita, anche se non è di questo che vuole fare la sua vita. Si tratta solo di camminare su una striscia di plastica e cemento con i tacchi alti e lei non si fermerà di certo a questo. Quando arriviamo in sede l’ufficio è pieno di persone: modelli e modelle di tutte le età a partire dall’infanzia fino alla cinquantina.
«Natalie,» mi chiama Pam, sfiorata da due bambini che si rincorrono. «Disegni anche per i piccoli?»
«Per tutti e per tutte le taglie, » le spiego. «Siamo tutti diversi. L’importante è essere in salute, solo così si può essere belli veramente.»
Pamela scuote la testa sorridendo. «Come hai fatto a convincere il direttore?»
«Le novità piacciono, no? Soprattutto quando sono fuori dagli schemi. E comunque, va’ a provare i vestiti, abbiamo un sacco di lavoro da fare.»
Mi tolgo via la sciarpa dal collo con lentezza, stanca anche se sono all’inizio di questa lunga giornata. Stamani Ewan mi ha salutato con un buongiorno, volpe zombie. L’ho incenerito con lo sguardo, come fanno le volpi solo in antiche leggende cinesi.
Pamela mi lancia un sorriso falsamente infastidito.
«Sì, capo.»
***
Torno a casa per il pranzo e dalla cucina proviene un profumino che mi fa parlare lo stomaco. Poso la borsa con le chiavi all’ingresso e raggiungo mia madre, che prende una teglia dal forno e la poggia sui fornelli. Mi chiedo perché continui ad indossare un tailleur: la fa sentire a suo agio come a me accade con la tuta.
«Ho cucinato l’arrosto, Natalie.»
«Oh, il mio piatto preferito, grazie!» Vivere da sola ed essere una schiappa in cucina è un’accoppiata molto difficile, lo è stata per molto. Fino a quando Ewan non è diventato il mio coinquilino. «Ciao papà,» lo saluto, lui è già seduto a tavola. Mi guardo intorno incerta. «Dov’è Ewan?»
«Qui.» La sua voce mi fa voltare.
Mi gratto la nuca tanto per fare qualcosa, mi aspettavo che fosse uscito.
«Ciao, Ewan.»
«Ciao, Natalie. Come va?»
Mi lancia un sorriso che istiga a spogliarlo.
«Bene, a te?»
«Bene,» risponde, mi dondolo sui talloni. Smettila di sorridermi in quel modo o ti disconosco.
«Ehm… Mangi fuori? »
O ti sbatto al muro.
«Veramente l’ho invitato a restare con noi,» dice papà. Mi sale la bile in gola.
«Per scusarsi per ieri sera,» aggiunge la mamma dolcemente.
Scoppio a ridere. Una reazione spontanea, reagenti chimici che non possono stare insieme senza causare uno scoppio rumoroso. Finisco in un violento attacco di tosse.
Corro in bagno a lavarmi le mani e mi guardo allo specchio. Sono uno spettacolo pessimo: la matita sbavata sugli occhi e il rossetto color corallo su un incisivo. Devo ancora passare dall’estetista per sistemarmi le sopracciglia, solo Cara Delevigne può essere uno schianto anche con dei peli che sembrano dei furetti morti poco sopra gli occhi.
Quando torno a tavola sono già tutti seduti; mentre mi siedo papà mi prende la mano. Sussulto.
«Sono stato troppo duro con Ewan,» mi dice mio padre, a quel modo serio che usa anche con i suoi clienti. «Purtroppo devo ammetterlo… mi sono spaventato molto. Tu sei sempre la mia bambina.»
Ewan ridacchia sotto i baffi che non ha.
Infilzo un pezzo di carne con la forchetta, mettendoci fin troppa forza. «Sì,» mormoro. «Grazie per aver capito.»
«Magari, se ce l’avessi detto al telefono non ci saremmo presi un colpo quando siamo arrivati, » continua la mamma.
«L’ho dimenticato…»
«Natalie si dimentica un sacco di cose,» fa Ewan. «È per questo che il frigorifero è pieno di post-it.»
Lancio ad Ewan uno sguardo assassino. Sembra un così bravo ragazzo, con la camicia da boscaiolo leggermente aperta, i capelli ben pettinati, forse davvero ordinati per la prima volta.
Lo sembra soltanto, infatti.
«Meno male che ci sono i post-it,» grugnisco.
«E meno male che ci sono le mie calamite. Quella a forma di pinguino è la mia preferita.»
Roteo gli occhi.
«Inoltre, mi sono assicurato che si comportasse bene,» continua papà.
«In che senso? » chiedo, e comincio a mangiare.
«La prova della macchina della verità.»
Mi cade la forchetta di mano. «Che cosa?»
«Quella cosa che fa tuo padre quando partecipa agli interrogatori,» dice la mamma. «Sai, fa  domande e vede se si allarga la pupilla dell’occhio, come quel telefilm… come si chiama?»
«…Hannibal! » finisco io. «Dio santissimo! Siete suonati o cosa? »
Bollo di rabbia e vergogna insieme e non so se strangolare Ewan per il suo sorrisino, me per questa mia reazione spinosa o papà che scuote la testa come se ricordasse un evento della sua infanzia. Papà dà una pacca sulla spalla ad Ewan.
«Natalie, è stato forte,» dice Ewan, contento come un bambino al luna park. Qui nessuno è normale.
Bevo un po’ d’acqua.
«Sono esaltanti soprattutto le risposte, » aggiunge papà.
«Tipo? » chiedo con un filo di voce.
«Signor Ewan Lynch, lei è mai andato a letto con mia figlia?» dice la mamma.
Sto per sputare l’acqua addosso a qualcuno.
«Ma la risposta è no,» dice papà, continuando a mangiare.
Ewan mi fa l’occhiolino. Dopo pranzo, mentre mamma e papà parlottano tra loro, lo raggiungo mentre guarda master chef.
«Sei un bastardo,» gli soffio contro. «Loro sono i miei genitori. Le persone più apprensive e iperprotettive del mondo. E tu ti diverti alle loro spalle. Ti diverti davanti a me
«Dovrò pur trovare un modo per intrattenermi. Michael è in vacanza dai nonni in campagna ed io avrò la prossima esibizione tra più di una settimana.»
«Puoi, per favore, smetterla di rendermi la vita ancora più impossibile di quanto tu non faccia di solito?»
Ewan mi riserva un mezzo sorriso. «Ti rendo la vita impossibile?»  Mi posa una mano sulla coscia. «Sono stato solo sincero, visto che non siamo stati a letto insieme. Non credo che ce l’avrei fatta, ieri sera, a trasportarti in camera mia.» La stringe. «Eri troppo presa.»
Mi viene fuori un mugolio.
«Natalie? » mi chiama la mamma.
Salto dal divano come se avessi ricevuto una scossa.
***
Fortunatamente passo poco tempo a casa. Stasera si terrà la sfilata e il mio nome, Natalie Truman, creatrice de La volpe di Liverpool, è stato reso pubblico insieme ad una mia piccola biografia – grazie al cielo non sono mai stata popolare, altrimenti sarebbe stata ricca di aneddoti imbarazzanti. Ad esempio, è pubblico che Arthur Benkinson, manager della casa di moda nemica-leale, sia un caro amico di famiglia. Si parla di tradimento, sdegno e antipatia nei miei confronti. A me viene solo da ridere. Mamma e papà lo adorano sempre e comunque.
«Sul serio l’hanno scritto?» chiede la mamma, per poi lasciarsi andare ad una risata. Annuisco, al centro tra mamma e papà, nella limousine che ha messo a disposizione il direttore.
«Eh già.»
«Se sapessero che invece siamo stati noi a chiedergli di tastare il terreno!» continua la mamma.
La fulmino con lo sguardo. «In che senso?»
«Tesoro, non prendertela,» dice la mamma. «Volevo solo vedere come te la cavavi.»
«Parlarmi non ti bastava?  Sentirmi al telefono per almeno un’ora?» ribatto, inacidita.
«Tracy, sapevi che non ero d’accordo,» si inserisce papà.
«Ma dai, Buford, Natalie adora Arthur, pensavo che ne sarebbe stata felice.»
«Sono felice come un macaco spiaccicato di cacca e ortiche.» La limousine si ferma.
«Natalie, il linguaggio! » mi richiama mia madre. Ma io scuoto la testa senza risponderle, voglio solo vivere questa serata  senza pensare alla mamma che non si fida di me o a papà che teme qualunque essere maschile sulla terra a parte Arthur Benkinson. Quando arrivo vengo circondata da giornalisti e fotografi. I flash mi accecano e mi viene da starnutire e grattarmi il naso.
«Il vestito che indossa è di una linea Vogue o Istyle?»
Non riesco a guardare in faccia il mio interlocutore. Troppe luci a cui non sono abituata. «Boh.» Starnutisco. «E chi si ricorda.» Tante risatine mi colpiscono le orecchie.
«È fidanzata, signorina Truman? »
Ora sono io a scoppiare a ridere. «Mica lo dico a voi.» Tutto questo è imbarazzante. Non sono mica un’attrice della saga di Twilight.
«Che ne pensano i suoi genitori dell’inizio brillante della sua carriera? »
«Per loro sono sempre una bambina stile-stecchino e stile-scoiattolo-saltellante, la coda dello scoiattolo sarebbe… be’, la mia coda arancione.» Mi sfioro i capelli e mi sento davvero scema. «Anche se preferisco le volpi agli scoiattoli.»
«Com’è nato il nome la volpe di Liverpool?»
Il mio sorriso resta sospeso a mezz’aria. Non immaginavo che le domande a cui non voglio rispondere sarebbero arrivate così presto, eppure sta già accadendo; mi si rivolta lo stomaco nell’acido del mio nervosismo. Ewan, grazie ad Ewan.
«Non posso dirlo. È top secret. E non provate a corrompermi. Mio padre è un avvocato.»
***
Arrivo nei camerini. Pamela in mutandine, reggiseno e ancora i bigodini in testa mi raggiunge e mi abbraccia. «Ti ho appena visto in tv!»
«E tu sei ancora in mutande! »
«La sarta sta togliendo gli spilli.» Si mette a braccia conserte. «Non trovi che questo reggiseno mi faccia sembrare le tette più grosse?»
«Ma tu le hai già grosse, Pam.»
«Natalie!» È la voce amichevole di Suzanna a farmi voltare.
«Suze!»
Suzanna indossa un vestito rosso scollato e aderente che le mette in risalto il seno abbondante, la collana di perle bianche le dà luce. La abbraccio con trasporto e con lei c’è anche Leo, a cui lancio uno sguardo veloce, abbastanza per vederlo spalancare la bocca di fronte a Pam che, appena mi giro verso di lei, recupera un asciugamano per coprirsi.
«Suze, Leo, questa è la mia amica Pamela, la mia modella principale.»
Pamela è diventata tutta rossa e guarda per terra tutto il tempo, anche quando stringe la mano a Leo, bofonchiando qualcosa. Trattengo una risata.
«Scusate, vado a sistemare gli ultimi dettagli,» dico sorridendo, portandomi via Pam a braccetto.
«Voglio morire,» sussurra lei.
«Ora sai come ci si sente.»
«Ewan non ti ha mai visto nuda per sbaglio.»
«Ma non eri proprio nuda! Mutandine e reggiseno non è essere nuda, è un po’ come stare al mare.»
Pamela sbuffa. «Piantala di dire scemenze o la prossima volta ti affogo nel mare di Another Place.»
Sospiro alla ricerca di un’altra giustificazione. «Ti voglio bene anch’io.»
***
Dietro le quinte supervisiono gli abiti di tutti. Raccomando ai bambini di non correre e agli adulti di sorridere sempre. Pamela sarà l’ultima a sfilare: l’abito rosa antico ha un modello a sirena con uno strascico di velo dai brillanti indefiniti dietro e una scollatura a cuore. Non mettete Nicky Minaj come sottofondo, vi scongiuro.
«Resta con le braccia lungo i fianchi e poi…» comincio a dirle.
«Sì, Natalie, me l’hai detto tante volte.»
«Allora vai.»
Non posso guardare Pam che sfila. Tutti noterebbero la mia testa rossa che sbircia tra le tende bianche e, anche se sono stata io a disegnare tutto, la gente finirebbe per guardare me che faccio la figura della bambina. Per questo guardo Pamela dal piccolo schermo del televisore che manda la sfilata in diretta. Non è un segreto che Pamela sia bella. Lo era quando correvamo per raggiungere l’autobus al liceo, con il sudore che le colava dalla fronte e i capelli disordinati e gonfi per la pioggia. Anche più di Emanuelle, che ho odiato quando l’ho vista abbracciare Arhur con le sue lunghe gambe e il volto da bambola e anche più di Alyssa, che stava con Ewan. Ma io non invidio Pam: è una delle poche persone che riflettono la preziosità che hanno dentro anche all’esterno. Quando arriva a metà del percorso solleva le braccia, proprio come io le ho detto di fare, e il velo traforato dai colori che vanno dal rosa chiaro a più scuro fino a raggiungere il verde e l’azzurro comincia a muoversi, smosso dal vento artificiale che ho detto di istallare, mentre Pamela continua a camminare, gira lentamente per poi tornare a guardare davanti a sé, mentre il velo pare la bandiera di una vittoria unica dai colori della primavera. Pamela sembra una farfalla umana, sorridente e con gli occhi lucidi. Non sta solo sfilando: sta facendo vivere il mio vestito.
È la mia migliore amica anche per questo.
Poi la tenda si apre all’improvviso e vedo Pamela chiamarmi a gesti.
Tutti applaudono ed io ridacchio, in preda all’ansia.
Mi sono rincretinita.
Vieni qui, forza, dicono le labbra di Pam.
Ed io decido di ascoltarla, camminando con le gambe tremanti.
Qualcuno porta un microfono a Pam e lei parla. «Ecco la vera volpe di Liverpool!»
Finalmente riesco a sorridere. Tra la gambe sinistra e la destra un filo di corrente.
Che si solleva.
«Oddio!»
Inciampo.
Natalie Hanna Truman, nata a Liverpool il 18 novembre 1994, frequenta la scuola elementare a un paio di isolati dalla sua casa e cresce serena… così comincia l’articolo di giornale su di me. Si sono dimenticati di scrivere che sono la persona più sfigata sulla faccia della Terra. Con il culo calamita per le cadute e la faccia che attira, in questo momento, la panna stesa sulla torta con la scritta La volpe di Liverpool.
Sì, cado sulla torta, maschera rigenerante impropriamente spiaccicata sul mio viso, densa e vischiosa.
Non si sente nemmeno un respiro. Solo il mio, un gemito esasperato di dolore e vergogna.
«Natalie!»
«Signorina! »
«La stilista! »
«Oh santa Maria Benedetta! »
Qualcuno mi solleva mettendomi le mani sotto le braccia. Riesco a togliermi la crema dagli occhi.
«Natalie, ti sei fatta male? » Scuoto la testa. È’ la voce di Arthur, apprensiva e preoccupata, così come il suo sguardo adesso. Accanto a lui Pamela, che si copre la bocca con le mani.
«No, sto bene.»
«Ma chi cazzo è che alza i fili quando la persone più importante qui dentro ci sta ancora camminando? Chi cazzo è? » Mi tolgo la crema anche dalla guancia e volto la testa. Ewan sbraita e grida vestito di tutto punto, additando i tecnici che alzano le mani come a dire che loro non ne sanno nulla. Non riesco a fare a meno di sorridere, perché Ewan sta attirando tutti gli sguardi finora puntati su di me a lui. Sembra davvero arrabbiato… infuriato come mai ho avuto modo di vederlo prima.
Pamela mi prende la mano e mi fa alzare. «Vieni, ti cambiamo il vestito e ti sistemiamo. Cavolo, Natalie…»
«Non dire mai più che invidi la mia sfiga.»
***
Quando torno per il rinfresco tutti gli occhi sono puntati su di me. Indosso uno degli abiti di scorta, nero e lucido, e sorrido come se non fosse accaduto niente. Una giornalista mi ferma.
«Natalie, come si sente?»
«Come sempre. Ubriaca. Tracanno una bottiglia di whiskey ogni mezz’ora, sa com’è.» La mollo così. Tanto non lo prenderà sul serio.
Raggiungo la mamma e il papà che parlano con Arthur ed io li interrompo posando le mani su una spalla di entrambi.
«Bene,» comincio. «A parte l’imbarazzante caduta alla fine – altrimenti non sono io – che ne pensate dei vestiti? »
La mamma si volta verso di me con le lacrime agli occhi.
«Mamma,» dico allarmata. «Che ti succede? »
«Sono bellissimi,» risponde con le labbra tremanti. «Sono veramente bellissimi, Natalie. » E mi abbraccia forte. Tutte le volte in cui mia madre ha provato ad abbracciarmi da qualche anno a questa parte io mi dimenavo per scappare e quando ero io a cercarla la mamma starnutiva di rimando. La mamma profuma di gelsomini. Profuma di lenzuoli puliti e inchiostro asciutto di alunni svogliati. Rispondo al suo abbraccio stringendola appena, troppo sorpresa per mostrare entusiasmo. Incontro lo sguardo di Arthur che mi guarda come se provasse ammirazione, non so per cosa. Indossa un abito gessato e chiunque potrebbe confonderlo con un modello senza esitazioni. Papà mi guarda con la sua espressione bonaria. La mamma mi lascia andare ed io mi rivolgo a lui: «Papà, e tu che mi dici?»
«Eh, sai che non capisco molto di questa roba. Ma so riconoscere che è roba buona.»
Scoppio a ridere. «Papà, sembra che tu stia parlando di traffico illegale.»
«Sei la solita. Tracy, andiamo a bere qualcosa? Sono troppo vecchio per restare ancora sveglio a quest’ora.»
La mamma si mette a braccetto di papà e se ne va con un sorriso serafico sulle labbra.
Ora ci siamo solo io ed Arthur.
«Complimenti davvero, Natalie,» mi dice.
«Arthur, lascia perdere le formalità.»
«Dico sul serio, » ribatte. «Sei brava  e voglio che tu lasci Vogue per passare ad Istyle.» Perdo il respiro. «Voglio che tu lasci Vogue per avere un ruolo di primato ad Istyle. Istyle potrebbe annullarsi per far esistere te, la volpe di Liverpool.»
Non riesco a rendermi davvero conto di quello che mi ha chiesto. «Io… non so che dire.»
«Pensaci, Nat. Il prima possibile.»
Quasi non riesco a parlare. «Arth… perché? »
Fissa il suo sguardo nel mio. Per un istante, siamo io e lui nella purezza di chi non ha un passato, di chi non è nessuno pur avendo un nome. Natalie ed Arthur. Senza Jade. Senza età. Senza alcun bacio che non poteva essere dato.
 Mi carezza il viso con i polpastrelli. «Perché voglio che tu abbia il meglio. Solo a una condizione.»
Gli prendo la mano per togliermela dal viso. «Viva le complicazioni.»
«Devi licenziare Emanuelle,» continua, glaciale. «Non deve mettere piede ad Istyle con te.»
Sbuffo. «Arthur, smettila.»
«Non mi fido di lei.»
«Tu non ti fidi di nessuno.»
«Quando si tratta di te non mi fido più di nessuno e non guardo in faccia nessuno, è vero,» ribatte, brusco. Si ricompone subito, il senso di colpa negli occhi. «Ma non posso obbligarti… non ti obbligherei mai.»
Annuisco. «Mi… mi dispiace che non sia andata bene con Emanuelle. »
«Lo sapevo dall’inizio.» Sospira, passandosi una mano tra i capelli. «Continuo a vivere ma ho il cuore fermo a casa Truman.»
Gli poso una mano sul braccio e lo stringo, lo richiamo, lo riporto indietro. «Arthur.»
«Hai lo stesso modo di increspare le labbra che aveva Jade.» Per un attimo si ferma anche il mio cuore. «Sì, lei. Ma come sorridi tu… nessuno, nessuna. Il resto è solo tuo.»
Gli sorrido proprio ora. «Non parlavi di lei da anni.»
«Sto imparando a ricordare che è esistita, che è una parta di quel che ero, che è anche per lei se sono quel che sono. Non è stata colpa nostra, non è stata colpa di nessuno.» Un attimo di silenzio. «Accettare i propri dolori e superarli ti rende una persona migliore. La persona migliore che sei tu. La persona migliore che posso essere io. Sei cresciuta molto prima di me, Natalie, non c’è che dire. Ma non penso che sia una vergogna riconoscere che ho bisogno di te.»
Mi fa male lo stomaco. Qualcosa vibra, nelle vene, nel sangue. Sorrido al pensiero che se Arthur mi avesse detto una  cosa del genere sei mesi fa sarei caduta fra le sue braccia.
«E Vogue ha una fortuna incredibile,» continua. «Ha te. Almeno per ora.» Mi sorride piano. «Ora devo andare. Ci vediamo presto, trottolina. »
Roteo gli occhi.
«Natalie! »
«Natalie.» Mi asseconda. «La stilista Natalie Hanna Truman.»
***
Trovo i miei genitori seduti al bar. Papà sta sorseggiando del liquore e la mamma mangia dei salatini.
«Avete visto Ewan? » chiedo.
«No, ma ha assistito alla sfilata. In realtà l’ho visto correre fuori quando siamo venuti qui e ti abbiamo lasciata a parlare con Arthur,» risponde la mamma.
«Aveva una faccia preoccupata,» aggiunge papà. «In realtà ha perso le staffe quando sei caduta, ha fatto l’interrogatorio a tutti i tecnici, davvero intrattabile. È’ corso via non so per cosa.»
«Va bene.» Ma niente va bene. Sono così nervosa che potrei vomitare anche quello che non ho mangiato.«Vado a casa, potrebbe essere successo qualcosa.»
«Ti accompagniamo allora, non intendevamo restare molto. L’età per queste cose è passata.»
«No, voi non vi preoccupate. Vado da sola, mi accompagna Derek.»
«Noi torniamo presto, comunque,» dice la mamma, dando tanta enfasi al presto. Ma non mi interessa. Voglio solo correre a casa e vederlo e capire. Quando arrivo lo trovo con il suo vecchio cellulare tra le mani, quasi inutilizzabile ma ancora capace di ricevere chiamate. Ha la testa bassa, i gomiti poggiati sul tavolo con le maniche della camicia alzate a mostrare la tensione che gli anima il corpo. Ha la mascella serrata.
«Che cosa c’è?»
Ewan sussulta al suono della mia voce.
«Non volevo rovinarti la festa,» mormora, lascia il telefono sul tavolo e si volta a guardarmi. Ha gli occhi arrossati.
Mi avvicino a grandi falcate. «Ewan…» Gli avvicino una mano al viso e lui la ferma con la sua, chiudendola nel suo pugno.
«Stai bene? Meno male che non ti sei rotta niente altrimenti avrei fatto male a qualcuno.»
«Sto bene.»
Ewan sospira di sollievo, solo questo riesce a sciogliere un po’ della sua tensione.
«Chi ti ha chiamato? Hai un aspetto orribile.»
Fissa i suoi occhi nei miei. Il suo è uno sguardo forte che sembra  quasi cattivo. «Nessuno,» risponde, troppo veloce.
«Nessuno? »
Mi lascia la mano ed è come sentire freddo, un cambio di temperatura improvviso che mi farà ammalare. «Nessuno che meriti la mia considerazione. »
Annuisco. «Raccontami.»
«Non c’è molto da raccontare.»
«Ma io tengo a te. » Ewan assottiglia gli occhi ed io continuo a parlare. «Puoi parlare con me.»
Ho ignorato quanto fosse bello con i miei genitori nei paraggi, circondata da invitati alla sfilata, ed ora realizzo con ancor più sorpresa, ancor più inquieta gioia quanto il suo aspetto, la sua vicinanza mi faccia mancare il fiato.
Respira profondamente. Le sue ciglia creano ombre lineari sui suoi zigomi e i suoi occhi sono umidi. «Mio padre mi ha chiamato. Mia madre ha avuto un incidente. Mi ha chiesto di tornare a Dublino ed io gli ho detto di no.»
Mi gira la testa. «Ewan,» lo chiamo, aggrappandomi al colletto della sua camicia. Essergli così vicina dopo questi giorni di soli sguardi e sorrisi mi fa rabbrividire, eppure il mio cervello non si spegne, perché devo aiutarlo. «Devi andare.»
«Non andrò,» risponde con una tranquillità sorprendente.
Questo riesce a ferirmi.
«Ma lei potrebbe…»
«Per me è già morta.»
«Ewan! »
«Avrebbe potuto chiamare tutti e due i suoi figli. Mio padre ha il numero di Claire. Chi sono io, come posso essere superiore a mia sorella? Solo perché mi sto innamorando di te, Natalie Truman?» Ewan poggia la schiena al tavolo mentre io resto immobile, con le braccia attorno al suo collo. Con una mano mi sposta i capelli dal collo e mi respira addosso. Io potrei sciogliermi nelle mie stesse viscere. «Brillante quanto casinista, brava nel lancio di se stessa e altro oltre a se stessa quanto bella.» Mi lascio sfuggire una risata, sembra provenire da un sogno che è solo mio. «Che cosa mi stai facendo?»
«Niente,» riesco a sussurrare. «Va’ a Dublino.»
«Non sono il massimo nel dire a parole quel che sento, ma devo essere davvero un disastro che se mi cacci via.»
«Ti prometto che ne verrà la pena,» mormoro. «Ti prometto che quando tornerai, non riuscirai più ad andare via.» Mi sfiora il collo con le labbra ed io mi stacco di lui per il bene degli occhi dei miei genitori, che torneranno a momenti. «Magari potresti cambiare le cose.»
«Io? » chiede, intrecciando la mano alla mia.
«L’influenza delle persone a cui vuoi bene è sempre importante.»
«Grazie Gesù,» sento dire la mamma, che sbatte la porta. Io ed Ewan ci allontaniamo. «Anche a quest’ora c’è il traffico, incredibile.»
«Mamma? Papà?» li chiamo.
«Eccoci,» dice papà, apparendo sulla soglia. «Tutto bene voi due?»
«Tutti interi,» rispondo io.
«Tu, ragazzo? » papà si rivolge ad Ewan.
«Bene, signore. Non sono un tipo da feste.»
«Be’, è una cosa buona,» fa la mamma. «Ewan, ti posso chiedere una cosa? »
«Certo, signora.»
Ho paura.
«Ma perché ti sei fatto quel buco al sopracciglio? »
Rido forte.
«Natalie, fammi rispondere,» ride anche Ewan. «Comunque, il buco al sopracciglio si chiama piercing. Me lo sono fatto appena diplomato. Mi piaceva e allora l’ho fatto.»
«Eppure tu non sei un delinquente, che strano,» constata la mamma.
«Mamma!» esclamo, esasperata.
«Già, non sono un delinquente. È solo… questione di moda. Non sono uno che la segue, ma mi piace, quindi va bene.»
«È che la maggior parte dei delinquenti hanno i piercing e i tatuaggi.»
«Non tutti, evidentemente,» dice papà.
«Già, non tutti,» preciso. «E di sicuro non Ewan.»
«Oh, di questo me n’ero già accorta! » dice la mamma, come infastidita. «Si vede che Ewan è un ragazzo d’oro.» Sorrido come un ebete. «Lui almeno è ordinato con le sue cose, al contrario tuo, Natalie!»
«Ma per favore! »
«Ora che la sfilata è passata facci più attenzione. Mentre non c’eri ho pulito tutta la casa.»
«Mamma, domani devi partire alle sette, che ne dici di andare a dormire?»
«Infatti, andiamo a dormire, Tracy.» Papà sbadiglia. «Buonanotte, ragazzi.» Papà va in bagno e la mamma raggiunge il balcone stringendosi nelle spalle per togliersi le scarpe.
«Io credo che partirò alle sei, » sospira Ewan. «Mi aiuti a fare la valigia? »
«Odio fare la valigia.»
«Anch’io! »
«Wow! »
«È la prima volta che andiamo d’accordo o cosa? »
«Credo di sì.»
«Okay, questo giorno me lo segno sul calendario.»
Reprimo in me il desiderio sfiancante di baciarlo.
*
*
*
*
Scusatemi tanto per il ritardo, ho avuto il pc proprio stasera. Spero che sia valsa la pena aspettare *.* <3
Che ne pensate della sfilata? Dei genitori di Nat e del suo rapporto con Pamela, Arthur ed Ewan? 
Arthur avrà guardagnato dei punti in questo capitolo? :3
Grazie mille per aver letto e spero che il mio ritorno vi abbia fatto piacere *-*
Un bacio e a presto,
Ania <3

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Capitolo 16
*** Sedicesimo capitolo ***



16. Apro gli occhi, mi rigiro tra le coperte e cerco di prendere di nuovo sonno, invano. Alla fine sono costretta ad alzarmi, a non capire perché adesso anche il mio cervello non mi ascolta. Arrivo in cucina dopo dieci minuti da zombie passati in bagno. Mi stropiccio gli occhi eppure distinguo la schiena che copre il lavello, è inconfondibile.
«Già sveglia?» mi chiede.
Faccio un sospiro. «Ho aperto gli occhi e non riuscivo più a riaddormentarmi.»
«Frustrante,» mi dice, si volta, sorseggia il caffè dalla sua tazza rossa. «Voler fare qualcosa e non riuscire, per forza di cose, a farlo. » Il suo sorriso manda un bagliore strano, riesce a farmi svegliare completamente e ad animarmi lo stomaco, alle prese con una migrazione di volatili rumorosi. Non possono essere delle farfalle, ne sono certa.
Distolgo lo sguardo e fisso l’orologio. Sono le cinque e mezza.
«Be’, ho fatto il caffè. Ne vuoi?»
Mi faccio forza e raggiungo il lavello accanto a lui che, mentre si muove per versare il caffè nella caraffa, mi sfiora il braccio. Vorrei solo che mi toccasse, che mi toccasse davvero, solo per un secondo. «Non c’è bisogno di ringraziare,» dice, porgendomi la tazza, mentre io sono immersa nei miei pensieri.
Roteo gli occhi. Ewan è bravo a scorgere la presenza dei segreti, ma per un certo tipo di segreti è bravo a fare ironia e a fingere che vada tutto bene. Gli faccio il verso e mi siedo al tavolo della cucina. Lui si siede di fronte a me, fissando la sua tazza già vuota; mi chiedo se stia cercando di leggersi il futuro nelle macchie di caffè sul fondo – no, aspetta, quella cosa si fa con le foglie del tè…
Poi il suo sguardo si posa su di me, stanco, blu, tranquillo. Mi si accartocciano cuore e stomaco insieme. Distolgo il mio, di sguardo, analizzando da lontano le sfumature della cravatta attorno al collo del pinguino calamita. Poso la tazza sul tavolo e torno a guardarlo.
Faccio un respiro profondo. «Perché mi guardi così?»
«Oh, niente.» Sbatte le palpebre e si passa una mano tra i capelli. «Mi ero incantato.» Fa un po’ di tosse. «Cioè mi ero incantato perché stavo pensando alla strada che devo fare per arrivare prima a Dublino…»
Trattengo un a risata in gola e giocherello con una ciocca di capelli. Mi ricordo che non mi sono nemmeno pettinata, sono ancora col mio orribile pigiama grigio topo a righe rosse e la mia carnagione senza fondotinta deve richiamare il verde smorto. Una specie di figlia di Shreck adolescente, ed io non riesco a  capacitarmi di come possa apparire quanto meno carina abbastanza da essere guardata in quel modo, come se si stesse bene così e non si cercasse che questo, quello che ci sta davanti.
«Non ridere di me,» sbotta. «Inoltre… inoltre ce l’ho con te.»
«Ah sì? » Inarco le sopracciglia.
«Mi hai finito tutto il bagnoschiuma al muschio e sono stato costretto ad usare quello alla fragola. Mi sento un orsetto di gomma, adesso.» Sbuffa. «Non mi piace la fragola, okay?»
«Non sei per niente credibile,» ridacchio.
«Oh ha parlato Natalie nonsonopernientesensibileaidesideridelcorpo Truman.»
Gli sorrido. Sento un brivido dentro che mi fa stringere le spalle alla ricerca di un po’ di calma che ho perso in quest’euforia. «Siamo disastrosi.»
«Parla per te,» schiocca, si alza dalla sedia, continua a sorridere. «Io dovrei andare.»
«Oh, oh giusto. Certo.» Deglutisco. Mi passo una ciocca di capelli dietro l’orecchio e mi impongo di essere misurata nelle mie emozioni, perché Ewan sta partendo per fare una cosa giusta, e lo sta facendo grazie a me.
«Mi accompagni alla porta?»
«Caspita Ewan, abitiamo insieme da più di tre mese e ancora non sai la strada? » Scuoto la testa, mentre lui sbuffa come infastidito.
«Ho un borsone in una mano e la tastiera nell’altra, come apro la porta? Sei un genio, Nat.»
Arrossisco nella mia idiozia.
Una volta arrivata davanti alla porta inserisco la serratura, che scatta dopo qualche giro. Ewan fa qualche passo oltre l’uscio, poggia quel che stava trasportando a terra e si volta a guardarmi.
Mi gratto la testa. «Bene.»
«Bene,» fa lui.
«Okay,» faccio io.
«Okay. »
«L’hai visto anche tu “Colpa delle stelle?”»
«Sì, in streaming. Hai pianto, vero?»
«No che non ho pianto.»
«Non ci credo. » Ride, manda indietro la testa, io mi sento vibrare l’anima dentro e mi passo una mano tra i capelli e non so come fare. Non so davvero come fare, con questa cosa che mi cresce dentro.
«Vieni fuori, Nat.»
Assottiglio gli occhi. «Perché dovrei?» Ewan sbuffa.  Mi mordo l’interno della guancia. «Be’, con quel piercing al sopracciglio che hai, c’è sempre il pericolo che tu sia un criminale. E poi io sono sempre stata difficile con te.»
Dopo qualche passo me lo ritrovo davanti, il suo sguardo a immobilizzarmi, il calore del respiro contro il viso.
«L’importante è che lo sai, quanto sei difficile.»
Mi afferra la mano e mi spinge fuori quasi strattonandomi e socchiude la porta, tremando. Mi circonda il viso con entrambe le mani, la mia schiena appoggiata ai vecchi pannelli di legno che rivestono il muro.
Ogni cosa si schiude, dentro e fuori di me, mentre quella che sembrava una carezza fatta di labbra diventa un doloroso affondo fatto di calore e bisogno, bisogno e calore. Cerco aria in questo frangente in cui non si può respirare, non c’è tempo di respirare e divento debole. Le ginocchia mi tremano, la forza di gravità si infittisce ed io resto qui, con la mani tra i suoi capelli, inerme e al tempo stesso cosciente. Debole. Eppure l’amore rende forti. Mi chiedo che cosa ci sia di sbagliato in me, per sentirmi così. Resistente come il ferro di fronte a ogni situazione che abbia mai attraversato, ma malleabile come creta tra le sue braccia finendo, nel primo respiro di cui riesco ad appropriarmi, per ritrovarmi sempre tutta intera, ma con qualcosa in più che posso solo sentire.
«Quindi io…»
Il mio è un sussurro. «Sei un criminale, Ewan Lynch.»
Apro gli occhi.
Ewan mi fa un mezzo sorriso. «Per così poco.»
Gli do un pugno nella pancia.
«Ehi, non fare chiasso,» continua. Ride piano, a quel modo ruvido che mi accarezza tutto il corpo, dappertutto, anche se è solo una voce senza parole.
Mi aggrappo alle sue spalle e lo abbraccio, respirando il suo odore di caffè e menta. Ewan mi circonda con le sue braccia e si strofina contro il mio collo. «Non saltarmi addosso davanti ai tuoi, Natalie.»
«Non c’è bisogno che me lo dici tu, genio,» mugugno.
«Te l’ho detto così, per sicurezza. Nel caso posso sempre usare una padella.»
Gli rido contro il petto. «Quanto sei scemo.»
«E tu quanto sei bella quando ridi,» mi sospira all’orecchio. Gli do un altro pugno. «Ma non uccidermi.»
«E allora smettila di dirmi bugie,» sussurro.
«Non sono bugie.» Mi posa una mano sotto il mento e i suoi occhi mi tolgono il fiato. «Quando ti ho conosciuto mi hai fatto incazzare, ma ti ho sempre trovata bella. E sai qual è la cosa peggiore? Che non sei solo bella. Sei tante altre cose, a pieno, senza un soltanto davanti.»
Inclino la testa, sospiro, il cuore mi si riempie di una gioia che non riesco a controllare.
«Tutto sommato non sei un cattivo ragazzo.»
«Non esserne così sicura.» Mi lascia con un sorriso che  mi si conficca nel cuore. «Ciao, Natalie.»
***
Guardo Londra oltre il finestrino dell’auto di mio padre. È grigia, con la leggera nebbia delle sette di mattina ad abbracciarla come uno spirito protettore. È settembre inoltrato; non c’è stata nessuna vacanza al mare, quest’anno, ma ne è valsa la pena.
Papà accosta.
«Natalie, ricordati di ritirare i vestiti in lavanderia,» dice mia madre.
«Me lo ricordo sempre.» Sbuffo. «Secondo te me ne andare in giro senza le mutandine? Non sarò religiosa come te ma ho sempre avuto un’educazione cattolica.»
La mamma si volta, mi mette le mani sotto il mento e lo solleva con un colpetto come quando, da piccola, voleva controllare che mi fossi davvero lavata la faccia.
«Io e tuo padre siamo davvero orgogliosi di te.»
«Confermo,» dice papà.
«Mamma.» Un moto di profonda emozione mi travolge completamente. «Grazie.»
Mi sporgo per darle un bacio sulla guancia e così faccio anche con papà. Non davo un bacio a mia madre di mia spontanea volontà da anni, e lei da anni non mi diceva una cosa del genere.
Come al solito, appena apro la porta del bar un campanellino tintinna, facendo girare tutta la popolazione presente e sveglia del locale. Un mostro dai denti larghi mi si ferma davanti.
«Natalie! Come va?»
Rabbrividisco. «Uh!»
«Ti senti bene?»
«Oh, sì, signora Faryland. È che ho ancora sonno.»
«Un caffè ti aiuterà,» dice la signora Faryland.
«Di certo.»
«Un caffè aiuta sempre, » precisa la nonna Paullina, seduta di fronte alla cassa. «Quando devi cucire la sera, quando aspetti che torni tua figlia scapestrata e per vari tentativi di restare sveglia la notte per fare figli.»
La signora Faryland arrossisce. «Mamma!»
«Mi dovevo impegnare di più, figlia mia!» La signora Faryland la trucida con lo sguardo ed io ne approfitto per allontanarmi. Mi siedo al bancone e prendo il menu, con Suzanna che lava varie tazze con uno sguardo vuoto. Resto un attimo perplessa, sarà successo qualcosa?
«Suze?» la chiamo.
Suzanna volta la testa. «Oh, Natalie! » esclama, e per poco una tazza le cade dalle mani. «Non ti ho vista arrivare, ero sovra pensiero.»
«Va tutto bene?»
«Mio figlio,» sospira. «Non è tornato a dormire stanotte.»
«Auch,» dico, giocherellando con qualche bustina di zucchero. «Mia madre mi avrebbe messo in punizione per mesi.»
«È quello che farò,» conferma, sicura.
Ops.
«Ehm, no, Suze, meglio di no. Meglio che ci parli. Poi… magari decidi.»
«E cosa dovrebbe dire? »
«Be’, forse c’è… una ragazza…»
Suzanna scoppia a ridere. «È un bambinone. Impossibile. Avrà passato la notte a fare bravate con i suoi amici. Comunque caffè?»
«Caffè.»
Qualcuno spiaccica sul bancone un giornale come se volesse uccidere una mosca. «’Giorno.» È Leo. Mi guarda con due occhi castani vivaci seppur assonnati. La lunghezza delle sue ciglia mi sconvolge. «Volpe di Liverpool in prima pagina.»
Mi tuffo sul giornale, mentre Suzanna prende a sgridare Leo con la forza nella voce degna di un’eco lungo le cascate del Niagara.
Hanno messo la foto in cui ho la faccia ricoperta di torta, ma c’è anche quella iniziale, in cui sono stranamente carina. Leggo l’articolo, dove la caduta viene spiegata da un eccessivo uso di alcol. La signorina Truman ha affermato di bere frequentemente whiskey. Scoppio a ridere come un’ossessa.
«Nat! » mi chiama Pamela, che entra lasciandosi dietro un’altra scia di campanellini. «Sei sul giornale! »
«Incredibile ma vero,» mugugno.
Dopo aver finito il mio caffè, Pam mi accompagna in sede saltellando per il mio racconto di stamattina, ma va subito via per fare un po’ di shopping. Nella hall Derek non c’è; forse è ancora a dormire, stanco dopo la serata di ieri. Faccio una strana giravolta mentre mi dirigo in ascensore. Pare che solo io sia iperattiva. Penso che non riuscirò mai a crescere davvero: mi innamoro sempre allo stesso modo.
Le porte dell’ascensore si aprono e mi dirigo verso la mia postazione. La stanza è piena di persone, intravedo Derek, il direttore e – oddio – la polizia.
 «Derek,» dico, avvicinandomi a lui. «Cosa è successo?»
Derek mi riserva uno sguardo disperato.
«Natalie,» riesce a sussurrare.
«Natalie Truman?» chiede un uomo con la divisa da poliziotto, magro e con il volto severo.
«Sì,» rispondo sicura.
Poche cosa ho negato, in tutta la mia esistenza, e il mio nome non è tra questi. Mi chiamo Natalie Hanna Truman, sicuro come lo è la presenza del Tamigi a Londra, di Notre Dame a Parigi, di San Pietro a Roma e del museo dei Beatles a Liverpool.
Sono Natalie Truman.
«Lei è in arresto,» mi dice il poliziotto. «È meglio per lei rimanere in silenzio, ogni cosa può essere usata contro di lei in tribunale.»
Sono così sotto schock che non riesco a muovermi, a parlare, a gridare.«Perché? » riesco finalmente a sussurrare.
«Possesso di droga.» Un altro poliziotto fa cadere una delle cartelline che conservo nel cassetto della scrivania per gli abbozzi dei modelli, la apre e all’interno c’è una bustina trasparente piena di polvere bianca.
Mi si riempiono gli occhi di lacrime e volto la testa. Emanuelle, con le braccia conserte e la testa inclinata, tutta in rosa si sta guardando le unghie.
«Emanuelle!» la chiamo. «Tu sei la mia assistente, lo sai. Mi conosci e puoi dirlo, sarò un po’ strana ma...»
Emanuelle sbuffa. «Piantala,» replica, tagliente come un pezzo di vetro. «Io non ti conosco affatto e non sei mia amica.»
Mi si infiammano gli occhi, ma le lacrime non scendono. Si cristallizzano nella delusione e nel panico, con la mia rabbia disperata e la mia speranza frantumata. Allora le lacrime mi tornano dentro, amalgamandosi come un impasto per poi radunarsi nel petto, dove la collezione di tutti i miei drammi si sussegue nella vetrinetta umana che fa parte di me.
«Mi spiace che le manette siano così squallide, grigie e metalliche.» Emanuelle assottiglia gli occhi. «Forse le preferivi più colorate e vivaci. Preferivi che ti mettesse le mani addosso un certo Arthur, magari con un frustino.»
Mi faccio scappare un gemito di disgusto. «Non sono un tipo da bondage, cretina.» Potrei anche sputarle in faccia. «E Arthur cosa c’entra? Chiunque sia il prossimo povero figlio che ti andrà dietro, spero che ti faccia risalire il frustino su per il culo.»
La bocca di Emanuelle assume la  forma di una O.
«Qualcuno le ha già detto che in tribunale ogni cosa può essere usata contro di lei?» sento dire qualcuno.
Scuoto la testa e mi lascio trascinare verso il mio destino.
***
Mi hanno chiusa in una cella e sono seduta su un materassino verde scomodissimo, le mura grigie e sporche. Sono in carcere.
Lo aggiungerò nel curriculum.
E nelle varie esperienze di vita che per disperazione mi porteranno a diventare eremita. Una guardia apre la cella e mi conduce fuori, mi fa sedere a una sedia di fronte a un tavolino di metallo che riflette me stessa. Questa tuta arancio smorto che mi hanno fatto indossare è un’offesa al mio lavoro. Mi hanno dato la possibilità di fare una sola telefonata e in quel momento un turbine di pensieri mi ha soffocato nelle varie possibilità.
Tra cui non ho saputo scegliere.
Quindi ho fatto, forse, la scelta sbagliata.
E la persona che mi viene incontro è quella scelta. «Natalie, cazzo.» Arthur che dice le parolacce? Caspita! Con il suo completo grigio che gli sta a pennello e i capelli biondi scompigliati per la corsa non è per niente credibile.
«Scusami, non sapevo chi chiamare.»
«No, hai fatto bene a chiamare me.» Arthur posa la valigetta a terra e si siede di fronte a me. «Devi dirmi se ti droghi.»
«Arthur, non ho manco mai fumato una sigaretta!»
«Dio, Natalie.» Dice il mio nome mordendosi il labbro. «Devi ascoltarmi.»
«D’accordo,» mormoro. Aspetto che mi illumini con la sua saggezza.
«Avresti dovuto ascoltarmi! » sbraita. «E licenziare Emanuelle. Sono certo che c’è il suo zampino e lo farò presente.»
Arthur si lascia andare sulla spalliera, stanchezza da giovane uomo con il manager lasciato indietro, vicino a me quasi quanto la mia famiglia per tutti questi anni e ancora adesso, nonostante tutto. «No, scusami. Tu non c’entri niente. Sono sempre stato io. È stata colpa mia.»
Scuoto la testa, spero che un po’ di saggezza venga fuori da me. «Non è stata colpa di nessuno,» mi convinco. Gli prendo la mano, gliela stringo. Ha le mani grandi, le dita affusolate, e non riesco a fare a meno di pensare che avrebbe potuto suonare il pianoforte con una maestria invidiabile. «Anche questa volta, di nessuno.» E mentre chiudo gli occhi in un sospiro, rivedo Ewan. Rivedo la maestria assoluta, il sentimento e la passione nello sfiorare e premere i tasti. Rivedo il ragazzo che mi ha fatto tornare indietro per conoscermi per poi tornare al presente consapevole della persona che sono.
«Natalie,» mi chiama Arthur, e apro gli occhi. «Ti tirerò fuori da questa situazione, a qualunque costo. I tuoi genitori stanno tornando indietro,» continua.
Boccheggio. «Come?»
«Tuo padre è l’avvocato migliore di Liverpool, Nat. La fortuna a tuo favore devi usarla tutta.»
Ed ecco papà che entra dalla porta, con i vestiti di stamattina e una valigetta in mano, seguita dalla mamma con un’espressione preoccupata che le mostra tutte le rughe. Lei lo supera e mi viene incontro.
Mi alzo in piedi. «Mam…»
E ricevo uno schiaffo in pieno viso che mi fa voltare la testa; mi resta nella mente l’espressione infuriata di mia madre, la bocca schiusa pronta a gridare rimproveri e sentenze. «Natalie Hanna Truman! Sei una delusione, la delusione peggiore che mi potesse mai capitare. Per droga, ci rendiamo conto? Uno spreco umano! Finiamo con questa farsa e poi te ne torni subito a casa, a Liverpool!» La guancia mi pizzica dopo il colpo e non riesco ad aprire gli occhi. Mi fanno un male assurdo e non voglio piangere, non voglio assolutamente farlo. Eppure, nel momento esatto in cui lo penso, una lacrima scende bagnandomi la pelle. Qualche ora fa i miei genitori mi hanno detto di essere orgogliosi di me.
Ora vorrebbero che non fossi mai nata.
«Signora Truman!» la richiama Arthur. «Natalie non si è mai drogata ed è solo stata incastrata da qualcuno di invidioso.» Guardo Arthur: non è mai stato così arrabbiato in vita sua, ed ora lo è per me. Si rivolge a mio padre. «Buford, la difenda al meglio come sa fare, Natalie se lo merita.»
A mia madre tremano le labbra. «Arthur Benkinson…»
«Jade non c’è più, ma Natalie sì. Natalie c’è ed ora questo è l’importante. Non tutte le persone che amiamo si possono salvare, ma quando si può bisogna lottare fino in fondo.» Arthur volta la testa verso di me. Ho gli occhi aridi di lacrime ma mi sento così felice da tremare. «Ci vediamo presto, Nat.»
Un minuto di silenzio pesante viene interrotto dalla arrivo di Pamela, che mi corre incontro e mi abbraccia piangendo, gridando al mondo che non ho mai voluto fare un tiro nemmeno quando fu lei a provare a fumare le Malboro del padre, a quindici anni, perché il fumo mi fa un po’ schifo. Poi arriva Suzanna, che mi stringe forte e grida al mondo che sono una ragazza bravissima, simpaticissima e dolcissima. Incredibile, la gente mentirebbe davvero per salvare i proprio cari. Leo la segue, annuisce e dice semplicemente, questa Natalie è una ragazza con le rotelle a posto. Lo prendo un complimento, ma Pam lo fulmina con lo sguardo.
Poi arriva Zot. «Natualii! Sono assuolotamente scuonvolto. Tu ragazza bruava, tu mai druogata. Tu fantastica vuolpe di Liverpool.»
Lo abbraccio. Puzza di fumo e di vodka, ma non mi dà fastidio, mi sono ormai abituata ed è come abbracciare un caro, vecchio zio.
«Grazie davvero, a tutti.»
«Nuatali,» mi sussurra Zot all’orecchio. «Vuoi che chiami Ewan?»
Mi immobilizzo. «No, no, no, Zot. È tornato a Dublino per un problema grave, meglio non disturbarlo.»
Zot mi riserva uno sguardo incerto. «Va buene, come vuoi tu.»
Non è vero.
Sospiro.
Voglio che Ewan sia qui con me. Voglio che mi abbracci forte e mi dica che ce la farò anche questa volta.
Ma non è così che andranno le cose.
***
I miei genitori, seduti di fronte a me, mi fissano. Tutti se ne sono andati per lasciarci soli, visto che il tempo delle visite sta per scadere. Può restare per più tempo solo papà, per il suo ruolo di avvocato. Guardo la mamma: ci somigliamo in un modo assurdo, anche se lei ha il viso un po’ più scavato sotto gli zigomi e uno stile da Jackey Kennedy che non fa per me. Gli occhi sono due pozze scure allungate verso l’esterno, come un animale selvatico.
«Non dovevo darti quello schiaffo,» dice la mamma, veloce, abbassando gli occhi. «Sono stata troppo impulsiva.»
«Ora ho capito da chi ho preso,» sbuffo. Cerco di sorridere ma mi viene fuori una piccola smorfia.
«Piccolina, » mi chiama papà. «So che dici la verità e ti tireremo fuori. Ti faremo fare le analisi e le useremo come prove e poi…»
«Papà, mi fido di te. Sei il migliore.»
«No, non lo sono,» precisa papà, sistemandosi gli occhiali sugli occhi azzurro mare. Jade li aveva esattamente di quel colore. Il pensiero di lei mi dà speranza, mi fa pensare che, se fosse qui, sarebbe una delle persone che credono in me. «Io e la mamma abbiamo sbagliato molte cose. Noi… quel che ha detto Arthur ci ha spiazzato.»
Sospiro. «Papà… »
«Erano così piccoli. Si può amare a sedici anni?» La voce della mamma si spezza.
«Si può imparare a crescere, credo.» Il cuore mi batte forte, a quel modo velocissimo e incalzante di quando si scappa dal pericolo. Buttare addosso il passato ad Arthur è stato più semplice: ero arrabbiata con lui per quello che era successo tra noi due. Con i miei genitori, invece, è più difficile.
E se invece di tornare indietro e poi restare, si ferissero mortalmente per sempre?
Il passato ci rende quel che siamo oggi. Ma un figlio che muore non è un dolore legittimo: solo un’ingiustizia impunibile dall’uomo, causata da un’unione di eventi crudele. Molto più semplice e normale sapere di litigare con i propri genitori solo perché sono nati in una generazione diversa. Mia madre mi ha sgridato il doppio di quel che meritavo per la figlia che non c’era, ignorando che c’era stata. Mio padre mi ha coccolato il doppio di quel che doveva, per qualcun altro.
Mi hanno portato via il pianoforte, perché lo suonava Jade, ed io non potevo essere lei.
«Be’, è strano che lo pensi, Tracy.» La voce di papà mi fa mettere da parte i pensieri. «Quando ci siamo conosciuti avevamo sedici anni.»
«Sul serio? » chiedo io.
«Sì. Me ne innamorai dal primo istante.»
«Papà, il colpo di fulmine non esiste,» dico convinta.
«Non sarà stato un colpo di fulmine, fatto sta che comunque mi sono innamorato.»
«Le ragazze antipatiche piacciono sempre di più,» continuo io.
La mamma sbuffa ed io sghignazzo.
«Tua madre è sempre stata raffinata, ma quello sguardo da volpe dove altro l’avrei trovato? Lo rivedo solo in te.» Mi dà un buffetto sul naso. «E poi era la sola a non prendermi in giro per il mio nome. »
Ridacchio. «Buford.»
«Il nonno Fred aveva dei gusti molto strani, sì. Tu, Natalie, hai avuto molta più fortuna.»
Sorrido. «Fu Jade a deciderlo,» dice la mamma.
«Sì. Lei. I regali più belli si possono avere anche se non è Natale. Natale può essere sempre.» Papà ha gli occhi lucidi. «Natalie.»
Mi alzo dal mio posto e li abbraccio forte. Mio padre profuma di aghi di pino e acqua di colonia.
«Pensavo che Arthur avrebbe fatto per sempre come facevamo noi. Pensavo che avrebbe finto per sempre che non fosse mai successo,» sussurra la mamma.
«Gli ho parlato io,» ammetto. «Ero stanca, io… io non potevo essere davvero me, senza ricordarmi di lei.»
«È vero, Natie. » Mi dà una piccola pacca sulla spalla. «Sei la più piccola eppure la più grande, non è così? »
«Sempre un metro e sessantatré. Dopo i quattordici anni non sono più cresciuta. »
«E vai benissimo così, Natalie.»

*
*
*
*
Ciao, lettori! <3 Eccomi qui ad aggiornare con questo capitolo in cui la storia ha preso una piega un po' inaspettata, sbaglio? Ma è stata occasione di chiarire un po' di cose, credo. Spero che la storia vi coinvolga e vi emozioni. Se ne volete parlare con me, avete consigli o dubbi, io sono qui :3

Un bacione,
Ania <3

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Capitolo 17
*** Diciassettesimo capitolo ***


I miei occhi sono dipinti di rosso
La tela della mia anima
si sta lentamente rompendo, ancora.
Oggi ho ascoltato le notizie
Le storie stanno diventando vecchie
Quando ne vedremo la fine?
Dei giorni, dove sanguiniamo per ciò di cui abbiamo bisogno
Per perdonare, dimenticare, voltare pagina
Perché abbiamo

Una vita da vivere
Un amore da dare
Una possibilità per evitare di cadere
Un cuore da spezzare
Un anima da prenderci
Che non ci abbandoni,


Alex Band - Only one

 
Buford Truman non è solo l’avvocato migliore di Liverpool. Un nome buffo, seguito da un cognome e una gran carriera fa tremare anche i lottatori di wrestling.
L’avvocato migliore di Liverpool, quando c’è in ballo sua figlia, che cosa può fare?
Ho passato dei momenti in cui mi struggevo, fermamente consapevole di non riuscire bene in niente come mio padre riusciva a salvare le persone da accuse ingiuste, la mamma nello spiegare le poesie di Garcia Lorca alla sua classe e Jade a suonare il pianoforte. Quando ho scoperto che quel in cui riesco meglio e sono riuscita a trarne soddisfazione, sono finita qui. Troppo presto, per dire fine a una carriera sudata al prezzo di zero tempo libero tra lavoro, corsi, studio ed aggiornamenti. Ed io spero con tutto il cuore che  ogni cosa non sia perduta.
«Ricapitolando,» mi dice Pam, lisciandomi la camicetta che mi sono messa per andare in tribunale. Color lavanda, sobria ma elegante. Da brava ragazza. «Le analisi dicono che non hai mai assunto droghe. Infatti tu sei accusata di possesso, non di averla prese. Le tue impronte digitali, però, non sono presenti sulla busta. Ci sono delle impronte estranee.»
«Hai studiato,» confermo, sorridendo. Potrei strapparmi tutti i muscoli per la tensione. La notizia è arrivata a tutti, e i giornali hanno confermato il mio essere poco stabile in seguito alla caduta in pubblico durante la mia sfilata, aggiungendo che di sicuro è successo perché avevo bevuto e avevo assunto sostanze stupefacenti. Ho passato delle notti insonni in cui non era necessario avere gli incubi, perché ci ero finita dentro senza addormentarmi.
Devo mostrarmi tranquilla, perché se in tribunale vanno con il sorriso gli assassini, gli innocenti possono permettersi di non avere paura. Ma io ne ho tanta. Anche se prima di entrare papà mi abbraccia forte e Pamela mi stringe la mano per rassicurarmi.
Pamela. L’ho vista in ansia solo il primo giorno, impaurita quanto me; poi è tornata la ragazza di sempre, quella che fa credere a tutti che le speranze non sono vane, ma necessarie. Come resteremmo in vita, altrimenti?
Arthur mi lancia uno sguardo apprensivo che sembra gridarmi che non devo preoccuparmi. Eppure io tremo.
Qui seduta, ascolto tutti i testimoni: comincia Pamela, poi Zot, Suzanna, Leo, il direttore, Arthur, e poi Emanuelle.
Mio padre la interroga. «Signorina Marchand, ha notato qualcosa di strano nel comportamento della signorina Truman?»
«Oh, sì,» dice Emanuele, rigirandosi una ciocca ondulata tra i capelli. «Natalie è tutta strana. Arrivava in ufficio ubriaca, all’inizio non lo dava a vedere ma poi chiudeva il separé tra le varie scrivanie e si addormentava.»
«Non è vero!» grido. Si sta veramente inventando tutto. Quella brutta stronza sta dicendo un mare di stronzate.
«Natalie.» Papà si gira verso di me e le sue labbra mimano un lascia fare a me.
«La mia cliente è molto agitata,» dice papà. «Continuiamo.»
«Dicevo questo, quindi. È vero, le analisi che lei ha presentato dicono che Natalie non ha mai assunto droghe, ma questo non vale per l’alcool e per una certa instabilità. E poi non serve essere drogati per spacciare.»
Mi mordo le labbra per non gridare.
«Le impronte digitali di Natalie non sono presenti sulla busta incriminata.»
«Usava sempre i guanti per i suoi spacci.»
«Ci sono, però, delle impronte estranee.»
«Saranno di un ulteriore venditore.»
«Proprio i venditori, ogni giorno nella malavita, prendono più precauzioni possibili.» Papà poggia le mani sulla ringhiera di legno. «Non le dispiacerà, vero, la verifica sulle sue impronte digitali?»
Emanuelle ride e sembra davvero un serpente. «Non ho alcun problema. Per giustizia dovrebbe farlo a tutti i lavoratori di Vogue.»
«Per giustizia, lo farò con tutti i lavoratori di Vogue,» conferma papà. «Ma di certo, lei è l’unica, tra i lavoratori di Vogue, ad aver avuto una relazione amorosa con il signor Arthur Benkinson, menager della rivista Istyle.»
Emanuelle sbianca. «Non c’entra nulla con questa questione, avvocato.»
«C’entra a causa della sua gelosia nei confronti della signorina Truman, in quanto il signor Benkinson dimostra in più occasioni di avere a cuore la signorina e non, invece, lei.»
«È ridicolo!» sbraita Emanuelle. «Prendete le mie impronte, io non ho fatto niente.»
«Un video dalle telecamere nel luogo in cui si è svolta la sfilata mostrano il responsabile della caduta della signorina Truman.» Papà si volta verso i posti a sedere e solleva il braccio. Indica qualcuno. Una persona. «Signorina Kendra Caronne, che per impedire l’assunzione di Natalie Truman a Vogue aveva gettato i suoi modelli nella spazzatura. Si unisca a noi, per favore. Me lo concede, vostro onore?»
«A che pro, avvocato?» chiede il giudice.
Mi volto e vedo Kendra, pallidissima.
«Io non conosco questa donna,» dice Emanuelle.
«Falso,» replica mio padre. Prende un telecomando e sul panno bianco per il proiettore ci viene mostrato un video. «Avete parlato alla fine della sfilata, fuori dallo stabile: le telecamere lo mostrano, così come mostrano che lei, signorina Kendra, ha dato un sacchetto a mani nude alla signorina Marchand, che l’ha preso con i guanti. Emanuelle, in quanto assistente della signorina Truman, era l’unica che poteva entrare da sola nell’ufficio e lei, in quanto licenziata, non poteva far nulla.» Papà si rivolge al giudice. «La signorina Caronne, avendo trovato nella signorina Truman la causa della perdita del suo lavoro e la signorina Marchand, gelosa del rapporto della sua ex fiamma con la signorina Truman, si sono alleate per incastrarla.» Papà sospira. «Ma pare che qui sia successo il contrario. Per sicurezza, possiamo procedere alle impronte digitali.»
«Solo quelle della signorina Caronne, per favore. Non perdiamo tempo.»
E dopo un tempo in cui il cuore riesce a battermi persino negli occhi per l’ansia, arriva il verdetto.
Le impronte digitali sono veramente quelle di Kendra Caronne.
Ed Emanuelle l’ha aiutata ad incastrarmi.
Emanuelle viene portata via da una guardia, lei si fissa intorno spaurita, sconvolta. Quando finalmente scende incontro i suoi occhi scuri che mi avevano ricordato una bambola. Ha passato la sua vita a non essere nient’altro che quello, una bella bambola, e quando ha deciso di applicarsi in qualcosa che non fosse l’aspetto ha scelto di ferire Arthur, ferendo me. Appena mi arriva di fronte si ferma, finendo a sbattere con una guardia di schiena. Il suo sguardo inizialmente tagliente si ammorbidisce in quello che sembra solo rimorso verso se stessa; fa per dire qualcosa ma le sue labbra finiscono solo per fare da cornice a un sospiro che diventa un singhiozzo.
La portano via.
***
Il sole del primo pomeriggio mi acceca ma non posso fare a meno di sospirare di sollievo.
Pamela improvvisa un balletto, volteggiando e saltando. «Kendra carogna incastrata! Emanuelle ma-che-rottura-di-maron indagata!» Corre ad abbracciarmi ed io mi lascio stringere. «Natalie finalmente libera!» Eppure, non mi sembra vero.
Avevo seriamente paura di non riuscire a farcela e di restare in quella cella per molto più tempo. Di poter vedere i miei genitori e Pamela solo attraverso le sbarre.
Di non rivedere più Ewan.
Presto il nostro abbraccio viene interrotto da flash e passi che si fanno sempre più vicini. Giornalisti.
«Vieni, Natalie.» Arthur mi posa una mano sul braccio. «Prendiamo l’altra uscita.»
Io e Arthur torniamo all’interno dell’edificio e lui mi conduce all’uscita di sicurezza. Faccio per spingere la maniglia verso il basso quando mi sento prendere la mano; è Arthur che intreccia le sue dita alle mie e senza alcuna domanda, né con gli occhi, né con la voce, mi attira a sé e mi stringe piano tra le braccia.
Sono tesa, dura come legno, poi la mano di Arthur si ferma sulla mia nuca scoperta e chiudo gli occhi alle prese con un brivido che sa di memorie e sogni. Sotto la sua carezza i miei muscoli si rilassano, profumo il suo odore di vestiti puliti e dopobarba al limone. Ricordo un’estate in cui mi rotolavo sulla sabbia ed Arthur, teso in un corpo in procinto di lasciare l’adolescenza per stendersi all’età adulta, si bagnava i piedi nel mare, chiamandomi Natie, con quella voce che già mostrava la sfumatura forte che ha adesso.
«Natalie,» quasi a quello stesso modo, sussurrando.
Mi stacco da lui. Sorrido nel bel mezzo del mio respiro. «Dobbiamo correre a casa. Non vuoi che i giornalisti scoprano dove abito, vero? Ci vediamo là con mamma e papà.»
«Comandi tu.» Mi sorride a sua volta.
In auto parte una canzone di Britney Spears un po’ sconcia. Qualcuno ha mai notato che gli orgasmi di Britney Spears nei suoi video sembrano quasi veri? È imbarazzante.
Abbasso il volume.
«Certo che, comunque,» comincio. «Finire in carcere per una questione di gelosia è una delle tante cose che credevo non mi sarebbero mai capitate.» Mi mordicchio le labbra. «Io… io volevo aiutarla. Cioè, non è bello quando ti spezzano il cuore – non voglio insinuare nulla – e perdere il lavoro nello stesso istante, io credevo… che fosse una brava persona.»
«Non si è comportata da brava persona,» dice, serio. «Tu invece sì, e non te ne devi pentire.»
Annuisco. «Posso farti una domanda?»
«Certo.»
«Ma a te piace farlo sadomaso?»
Arthur frena all’improvviso e quasi vado a sbattere contro il vetro. Aho.
«Natalie… che…»
«Quando sono arrestata, Emanuelle ha detto qualcosa su-sulle manette, su-sui frustini…» balbetto.
Arthur mi guarda stranito. «No, a me piace farlo normale.»
Scoppio a ridere, nascondendomi il viso con le mani. Non posso credere che sto parlando di questo con Arthur Benkinson.
«Avrà letto quel nuovo best seller… ecco perché! Il fascino dell’uomo giacca e cravatta tipo quel Grey… ottimo direi!»
«Quale best seller?»
«Non è il tuo genere secondo me. Nemmeno il mio in realtà.»
«In effetti la sera in cui l’ho mollata voleva fare qualcosa di innovativo, ma non mi andava proprio. Caspita, Nat, non dovremmo parlare di certe cose.»
«Non mi scandalizzo, tranquillo. Non sono mica nata ieri. Anche io preferisco normale comunque.» Arthur mi riserva uno sguardo che non riesco a comprendere, a metà tra l’incuriosito e l’incredulo. Arrossisco e rido forte. «Andiamo a casa per favore.»
***
Appena esco dalla macchina la mamma mi viene incontro, con lo stesso passo veloce che aveva quando aveva intensione di prendermi a schiaffi. Questa volta, però, mi abbraccia dolcemente.
«Quando vuoi tornare a Liverpool lo sai che ci fai felici, anche solo per un week end.» Mi accarezza i capelli. «Io e papà abbiamo intenzione di tornare alle origini.»
La guardo incerta. «Come?»
«Una sorpresa per quando tornerai, » dice papà alle spalle della mamma. Corro tra le sue braccia e lui mi stringe a quel modo avvolgente che mi ha sempre ricordato un orso buono e gigante. Chiudo gli occhi e faccio un respiro profondo, mi imbevo di tutte le cose belle che posso prendere, dai ricordi, dal presente, da questo abbraccio, da quelli precedenti, da quelli che ci saranno. Perché potrai essere anche un disastro, ma se qualcuno ti vuole bene, a questo mondo, significa che nonostante ci sia sempre l’intenzione di migliorare, mantieni l’equilibrio delle cose.
«Grazie,» mormoro.
«E di cosa, piccolina.» Papà mi dà un bacio sulla fronte.
«Una sola cosa,» aggiungo, sciogliendo l’abbraccio. «Niente più metodi da macchina della verità. Con nessun ragazzo.»
Papà sbuffa. «Ma dai, se lo facevo con il tuo ex era meglio.»
«L’ho lasciato io, papà.»
«Natalie, papà l’ha fatto solo con il tuo coinquilino perché essendo un estraneo gli è venuto un colpo… con Arthur, per esempio, non ci ha mai provato,» continua la mamma.
Guardo Arthur, che sorride forzatamente mentre si stira la giacca con le mani. «Un coinquilino?» chiede.
«Arth, non lo sapevi?» fa papà.
«Veramente no.» Il sorriso di Arthur resta fermo. «Poi me lo presenti, eh?»
Scoppio a ridere. «Certo…  sono sicura che andrete d’accordo
«Perfetto.» La mamma batte le mani. «Arthur, non è un problema accompagnarci in stazione, vero? Così Natalie si riposa un po’.»
«Naturalmente.» La voce di Arthur è intrisa di una dolcezza ruvida, una spontaneità ad aiutare gli altri così vera da farmi sorridere senza controllo. Si volta a guardarmi. «Riposati, Natalie.»
«Lo farò. »
Mi ricordo che è per attimi come questo che l’ho amato.
Quando entro in casa esalo un sospiro di sollievo. Mi metterei anche a dormire, ma Pamela mi ha promesso una serata di alcool e fantasticherie. Dio, quanto mi era mancata questa catapecchia. Mi stendo sul divano a fiorellini e sorrido come una bambina. La televisione vecchia che ci sta di fronte riflette la mia immagine, risponde al mio sorriso. Ricordo i vari film e i programmi di cucina che mi sono dovuta sorbire da quando Ewan vive con me, la sua espressione concentrata mentre i giudici di master chef assaggiano i piatti dei concorrenti. Mi manca così tanto. Il sonno mi passa al pensiero di lui, perché non lo sento da una settimana, ho deciso di non chiamarlo e non ho avuto modo di farlo. Mentre io ero alle prese con l’assurdità di quel che mi era accaduto, lui era tornato dalla famiglia che aveva deciso di lasciare. Prendo dalla borsa il telefonino che mi hanno restituito subito dopo il processo e lo accendo.
Il cuore mi sale in gola.
Ewan ha chiamato sette volte.
Una chiamata al giorno, dopo due giorni dalla sua partenza. Me lo immagino sperare in una mia risposta e poi non riprovare fino al giorno dopo per orgoglio, un po’ di delusione, invenzione di scuse miste a rabbia ogni giorno di più.
Ewan, comincio a scrivergli un messaggio. È successo un casino abnorme. Mi dispiace di non averti risposto, non avevo il telefono con me e il telefono giusto una volta e non era con me quindi un casino. Quando torno ti racconto tutto. Come sta tua madre sta bene?
Oddio, sospiro. Ho anche disimparato a scrivere. Correggo dove mi è possibile e lo invio. Non penso che riuscirò davvero a divertirmi, nonostante l’influenza piena di vita di Pamela. Intanto meglio che pulisca un po’ la casa o si formeranno le ragnatele e diventerà come l’antro di Ursula della sirenetta.
Mi metto qualcosa addosso e prendo la strada per raggiungere il bar della signora Faryland. È tardi, Pamela dovrebbe essere lì ad aspettarmi, ma quando arrivo trovo la serranda semi abbassata. Sono già pronta ad insultarmi da sola quando sento la sua voce provenire dall’interno e mi rilasso. Spero davvero che mi perdoni per il rifiuto che sto per darle, ma non sono proprio in vena.
Voglio solo dormire per tre giorni di seguito.
Mi abbasso per entrare e mi sento risalire il poco cibo che ho mangiato.
Se visto in un grande schermo e al buio tutto questo potrebbe apparirmi addirittura romantico: di sicuro sto dormendo in piedi, perché Pamela Jefferson, mia migliore amica dalla seconda media, non si farebbe mai palpeggiare il seno destro mentre bacia con tanto di lingua – non è colpa mia se si nota –
 e trasporto Leo, il figlio di Suzanna.
«Madonna mia santissima,» mi viene fuori. «Questo è il sogno più assurdo che io abbia mai fatto. Mi sono addormentata sul divano o tutto questo è vero?»
Pamela apre gli occhi e spinge via Leo, che cade all’indietro su degli scatoloni aperti, facendo rotolare via dei bicchieri di plastica.
Pam si liscia la maglietta, rossa in viso come se avesse esagerato con il fard. Rido forte, tipo la strega di un cartone, indicandoli entrambi come una bimba maleducata.
«Nat,» mi chiama Pam, tutta rossa in viso. «Piantala e non giudicarmi
«Nessuno mi può giudicare nemmeno tuuuu!»
«Cosa?» chiede Leo, stralunato.
«Una vecchia canzone italiana che ascoltava mia nonna,» rispondo io, ancora ridendo. Mi avvicino a Pamela e le metto le mani sulle spalle, sospiro e smetto di ridere, anche se con sforzo. «Io ho una vita sentimentale assurda quanto un pinguino che prende il sole alle Bahamas. Ovvio che non ti giudico. Leo è carino e un bravo ragazzo. Sei contenta?» sussurro.
Pam annuisce, quasi sconvolta.
«Allora va benissimo. Quando è successo?»
«Che cosa?» chiede Pamela, come se mi stesse parlando con una radiolina dal mondo dei sogni.
«Il terzo giorno che eri in carcere,» dice Leo, e si rimette in piedi con un balzo.
Pamela fulmina Leo con lo sguardo.
«Oddio, aspettate. Vi siete messi insieme o vi siete baciati o avete fatto…?»
Pamela ha un forte attacco di tosse.
«Sai com’è, eravamo in un bar e lei aveva ordinato un sex on the beach.» Leo le fa l’occhiolino. Mi copro la bocca con entrambe le mani e Pamela si mette le mani tra i capelli.
«Non è successo quello,» mi dice Pam.
«Vado ad aiutare mamma in magazzino, potrebbe tornare da un momento all’altro,» fa Leo, e si dirige verso il ripostiglio in cui tante volte ho recuperato scopa e paletta.
Pamela sbuffa. «Non sapevo come dirtelo.»
«Non c’è tanto da dire…»
«Sì… noi ci siamo baciati, quella sera. Ed è stato bello,» fa la voce sognante. Dio, è qualcosa di abominevole e al tempo stesso tenero.
«È stato davvero bello?» chiedo incerta.
«Memorabile,» dice Leo, alzando la voce, dopo aver aperto la porta.
«Che cosa?» chiede Suzanna, seguendolo con delle buste.
«L’ultimo film di Spiderman.» La voce di Leo è ferma e sicura. Ci sorride come se avesse ricevuto un regalo che desiderava da tempo.
«Oddio,» esclama Suzanna. «Pamela è una santa, se l’è sorbito per tutto il tempo mentre parlava di roba nerd. Lei l’ha anche accompagnato in fumetteria.»
«Pam è paziente,» confermo io. «E poi è nerd anche lei, nonostante non ne abbia l’aspetto.»
Leo sistema uno scatolone sul bancone. «Gli stereotipi sono solo delle invenzioni.»
Mi rivolgo a Pamela. «Pam, io penso di non uscire, sono stanca morta. Ti dispiace se, ecco, rimandiamo la nostra serata da ubriache? »
«Non preoccuparti.» Mi sorride. «Mi troverò qualcos’altro da fare per stasera.»
Dietro il bancone Leo, che sistema le varie posate nei cassetti, pare molto esaltato. E penso che quel ragazzo con il sorriso e l’occhiolino facile sia stato molto fortunato, molto più di quanto chiunque sulla faccia della terra potrebbe essere. Perché Pamela non è solo la mia migliore amica, è la persona migliore che conosca ed ha bisogno di qualcuno che sia alla sua altezza. Qualcuno che, in un silenzio inaspettato, si intrufola nei suoi pensieri, diventando la ragione di un sorriso appena accennato, l’inizio di un desiderio.
Come accade ora.
«Bene,» dico. «Allora buona serata.»
«Tesoro, stiamo chiudendo,» aggiunge Suzanna. «Ma se ti va qualcosa da mangiare, per te facciamo un’eccezione. »
«Qualcosa con il ketchap?»
«Certo.»
Mi avvicino al bancone e mi siedo allo sgabello. Rido e Suzanna mi sorride beatamente, mentre Pamela e Leo sono impegnati a non scambiarsi nemmeno uno sguardo.
«Le calorie danno senso alla vita,» mormoro.
«Anche il sesso,» dice Leo.
«Tu,» lo richiama Suzanna. «Smettila di fare il trasgressivo di fronte alle belle ragazze.»
«Oh, e va bene. Il signore degli anelli dà senso alla vita.»
Suzanna sbuffa. «Non tutti potrebbero essere d’accordo…»
Gli occhi verdi di Pamela diventano due stelle accecanti di ammirazione.
Questo è l’inizio di un’epica storia d’amore.
***
E così, arrivata a casa, mi addormento ad una velocità mai conosciuta, quella della stanchezza e del bisogno fisico di staccare completamente dalla realtà. Per quelle che sembrano ore e forse sono solo minuti e secondi, vago in un buio avvolgente, caldo, per la prima volta rassicurante. Acquisto lucidità solo quando, nell’assenza di senso, mi accorgo che questo è lo stesso scuro colore di cui mi parvero gli occhi di Ewan la prima volta che lo vidi e che mi sorprese quando lui, dopo essersi avvicinato a me, mi tolse il fiato con uno sguardo di rimprovero e al tempo stesso apprensione, non più nero, ma blu marino.
Sospiro svegliandomi. Apro gli occhi, subito, rigirandomi tra le coperte. La porta è socchiusa – mi mostra il corridoio, l’inizio del divano nel salotto – e il panico mi assale. La porta era chiusa, ieri sera. Mi metto seduta e guardo dai fori della tapparella. Il tramonto cala su Londra, infondendo una luce arancione che si riflette sulle finestre dei palazzi grigi.
Ho dormito per un giorno intero.
Scosto la tenda e il rumore di un cigolio mi fa voltare, la luce che proviene dalla cucina si espande man mano che la porta si apre.
«Ewan,» sussurro.
Con una lentezza esasperante, senza guardarmi, spalanca la porta fino a farle sfiorare il muro. Indossa una maglietta nera a maniche corte e la tensione dei suoi muscoli pare quasi muoversi a guizzi sotto la pelle. La mascella è serrata e il volto duro, pietra tagliente i suoi lineamenti. Mi pesano addosso tutti i giorni passati lontani, gli avvenimenti che hanno sconvolto la mia settimana, quello che potrebbe aver fatto nella sua, e il primo impulso che sento dentro di me è quello di corrergli incontro e abbracciarlo.
Ma è un impulso che trattengo.
Il livido che si staglia sgraziatamente sul suo viso mi interrompe un battito di cuore, spezzandolo in due nel suo tempo.
«Che ti successo?» riesco a chiedergli.
Ora mi guarda – il tempo di un secondo e i suoi occhi hanno trovato i miei, e la durezza che gli imbrattava il viso si trasforma solo in smodata stanchezza.
«Niente di importante.» La sua voce è roca, come se non parlasse da giorni. «Tu, piuttosto, raccontami. Ho letto un giornale a una fermata. Tu arrestata? »
«Non ho fatto niente, io…»
«Ho già letto tutto. L’ho letto una settimana dopo che è successo.» Sospira bruscamente. «Ti sembra normale?»
Mi alzo dal letto e mi avvicino a lui. Non riesco più a guardarlo. «Ewan, non ho avuto il coraggio di chiamarti. Mi dispiace.»
«Dovevi farlo, Natalie, dovevi perché non c’è stato un giorno in cui non ti abbia pensata, un solo giorno in cui non abbia voluto lasciare tutto e tornare qui. Un giorno, uno solo. Potevi chiamarmi e dire sono viva, nei casini. Farmi chiamare da qualcuno almeno.»
Sapevo che sarebbe arrivato questo momento e, come immaginavo, ho così paura che potrei scoppiare in un pianto disperato. Faccio un respiro profondo.
«Non potevi lasciare tutto e tornare qui perché dovevi stare vicino a tua madre.» Faccio un altro passo verso di lui e mi tremano le gambe. «E questo segno che hai in faccia?» Gli sfioro il viso con i polpastrelli: la sua pelle è bollente.
«Mia madre si è svegliata, sta meglio,» dice, quasi strascicando sulle parole. «E questa specie di ematoma è colpa di mio padre. Ci siamo presi a pugni.»
Mi si chiude la gola.
«Stavo difendendo Claire.» Si scosta da me e si inoltra nel corridoio.
«Ewan, aspetta.»
«È solo un bastardo, nient’altro che un bastardo senza cuore.»
«Ewan!»
«È vero!» urla con rabbia, voltandosi. «È vero, Natalie, perché altrimenti non si comporterebbe in questo modo, non cercherebbe di far cambiare idea a me.»
«Aspetta, forse possiamo cercare di capire come…»
«Natalie, io non voglio il tuo aiuto. Anche tu mi hai deluso. Tutte le persone a cui tengo, prima o poi, lo fanno.»
Scuoto la testa, cerco di trovare le parole giuste per spiegare quel che è vero. «È che ci hanno insegnato che solo una cosa è giusta.» Faccio un respiro profondo. «Ci hanno insegnato che una famiglia è formata da un uomo e una donna. Ci hanno insegnato che è quello l’amore. Ce l’ha insegnato la chiesa ce l’ha insegnato il mondo da quando esistono i re e le terre. E tante persone sono ferme lì, a quei dogmi. Vedono il diverso come sbagliato, indegno, vergognoso. Credono in regole che nessun Dio ha dato e che ha messo su l'uomo, e non pensano. Non pensano che una famiglia è dove ti accettano e ti vogliono bene per quello che sei. Non pensano che l’amore non lo fanno un uomo e una donna perché sono uomo e donna, lo fanno perché sono persone, lo fanno le loro anime e coscienze: non si tratta di credere in Dio o no, non si tratta di questioni politiche o biologiche. L’amore lo fanno le persone. Ed una persona può essere un uomo o una donna, e può amare un uomo o una donna, essendo un uomo oppure donna. Un giorno potranno capirlo, Ewan.» Gli prendo le mani e le stringo alle mie. «Un giorno potranno imparare a pensare.»
Ewan mi fissa, il suo sguardo trema, velato d’acqua. Lacrime. Il mio stomaco si ribalta e il cuore mi batte forte, forte come un acquazzone che rompo i vetri in mille schegge di vetro.
«Mi dispiace di averti deluso,» mormoro. «Avevo solo tanta paura.»
Lo abbraccio.
Ewan mi respira addosso.
«Io ero arrabbiato con te, Natalie Truman.»
Sto tremando. «Ora non lo sei?»
«Sono troppo impegnato ad amarti per essere ancora arrabbiato con te.»
In punta di piedi lo stringo ancora di più, presa da un’incontrollabile frenesia. Quasi non riesco a respirare, inspirare ed espirare, la cassa toracica che si riempie d’aria e poi la manda fuori.
Ewan ride contro il mio collo. La sua risata calda, lenta, che resta anche quando lui non c’è.
Ma ora è qui, e mi bacia a quel modo che ferma la vita, anche se al tempo stesso la fa scorrere ancora di più, rompendo la diga del controllo. Percorro una strada fatta di labbra, ci muoviamo, camminiamo, ma il bacio non si interrompe, diventa forte, frenetico, impaziente.
Dio, non è così che doveva andare. Non ho nemmeno vent’anni. Ho avuto esperienze relazionali d’ogni tipo ma mai d’amore e non c’è nessun adulto responsabile che ci metta a bada dalla follia dei nostri sentimenti. Perché non può essere che follia, questa.
Prende fiato. «Se andiamo avanti così non tornerò più indietro,» mormora.
Non conoscono più nemmeno il nome della cosa contro cui dovrei combattere.
O resistere.
«Non lo farò neanch’io.» Anche se ho paura. Dio, non ne ho mai avuta così tanta, non ho mai temuto me stessa e quel che provo a questo modo terribile,  non mi sono mai fidata di qualcuno come con lui.
Perché il mio bacio si ferma, ma il suo continua. Scende sul mio collo, mentre le mani sbottonano quel pigiama orribile che mi ostino a mettere e che lui sfila.
Mi solleva, mettendo le mani – ruvide, calde – sotto le mie cosce. Mi si mozza il respiro e in un tempo così veloce da sembrarmi inesistente mi ritrovo sul letto della sua camera.
Un suo sospiro sulla pelle mi fa chiudere gli occhi. Resto in silenzio.
È che quando la vita mi travolge perdo la voce: lascio che accada, inevitabilmente.
Ewan si toglie la maglia. Mi scosta i capelli dal viso e trovo le sue labbra e il tocco è intenso, il calore insopportabile, eppure lo desidero fermamente. Come la fiamma di una candela senza un alito di vento, poso il dito sul fuoco e mi beo del bruciore. Per non farmi male, diverrò io stessa una grande torcia.
Ewan mi toglie la biancheria ignaro dell’effetto delle sue mani dove poche volte, in vita mia, sono mai stata guardata. Ho avuto un solo ragazzo, nella mia vita. L’unica volta in cui una persona mi è piaciuta e ho cercato, con sforzo, di provare amore. Con la luce spenta gli permettevo tanto, ma me ne sono pentita tanti anni fa. Non è mai contato davvero.
Ora, invece, conta. Il tramonto di Londra, attraverso la tapparella semi abbassata, ci raggiunge con la sua luce fioca.
Mi bacia di nuovo, toccandomi. Labbra e labbra, i miei gemiti chiusi in gola, alla ricerca di un modo per mantenere viva la coscienza, la mente ora in subbuglio, il cuore che rimbomba. Rabbrividisco, lo accolgo, stringo le mani al suo collo ed Ewan resta immobile, sdraiato su di me, respirando. Il peso del suo corpo preme, mi soffoca e mi copre, spazza via il freddo e ogni carezza aggiunge altro calore. Prende a muoversi. Dopo quel che sembra poco il trasporto è tale che gli conficco le unghie nella carne, geme. Mi sfida. Scende a baciarmi il seno, un accenno di barba a graffiarmi la pelle, spingendo più forte. Mi infiammo completamente quando comincia ad andare veloce, sempre più veloce e forte, e sto per gridare di smetterla perché non è altro che una tortura ed io sono stata sempre ferita, io non ho mai fatto l’amore nella mia vita ed Ewan spinge, Ewan mi guarda ed io vorrei scomparire perché sono debole, pronta ad essere ferita ancora e ancora. Sono imprigionata in me stessa, ed Ewan ha fatto altro che affondare nella mia prigione. Non sta facendo altro che liberarmi.
Liberarmi, mentre anche i suoi respiri diventano rochi, si mischiano al mi affanno, liberarmi mentre esala il mio nome. Tra le sue labbra, in una ricerca che si trasforma in dolore anche qui.
Natalie.
Sospirando.
Chiudendo gli occhi.
Stringendoci.
Le sue labbra sulla mia guancia un attimo prima di vibrare in gemito di assoluta sorpresa, in un esaurirsi di un moto che si dirama piano, stanco. Ewan posa il capo sul mio petto, ci resta per un tempo che pare non avere fine e poi torno a guardarmi. Appare sbiadito, eppure non è mai stato così bello per me.
«Perché stai piangendo?»
Rido, mi asciugo le lacrime con la mano, volto la testa.
«Perché ti amo.»
Non l’avevo mai detto a nessuno. Continuo a sospirare. L’ho detto a Ewan Lynch.
Solleva lo sguardo a sorridermi. «Oh, meno male. Perché per un momento ho pensato che non fosse stato abbastanza bello.»
Cerco di spingerlo via, ridendo, ma la sua presa è troppo forte ed io non lo sono abbastanza per lasciarlo andare.
Mi bacia ancora.
Io amo Ewan Lynch.
*
*
*
*
La vostra autrice universitaria spera che questo capitolo vi sia piaciuto *.* Riservo a voi le parole, io non ne sprecherò nemmeno una XD
Se vi va di leggere qualcos’altro di mio per ingannare l’attesa del prossimo aggiornamento, ecco a voi una one-shot scritta per un contest :D
Un bacio e a presto, grazie mille a tutti voi,
 
Ania :3

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Capitolo 18
*** Diciottesimo capitolo ***


18. Pamela, di fronte a me, manda giù un po’ del suo frullato al cioccolato con gusto. Chiunque lavori per la mia linea non deve privarsi di nulla: un piacere quotidiano è sempre concesso.
Io sorseggio il mio cappuccino.
«La cosa è pericolosa,» dice Pam, quasi tra sé. Ha le guance arrossate per il freddo familiare e pungente di Londra, le labbra poco contornate di cioccolato come la linea imprecisa di un rossetto scuro.
Per me è come cadere dalle nuvole. «Cosa?»
«Tu… ed Ewan.»
Mi ricordo dei sogni detti a voce con lei, la mia migliore amica da quel giorno piovoso in cui, dopo la lezione di danza, fummo le sfortunate compagne di corso a finire bagnare dall’acqua piovana di una pozzanghera rovesciata dalla corsa di una macchina. Mi ricordo di quando a quindici anni sognavamo il ragazzo perfetto, a come sarebbe stato stare con lui, attraversare la strada sulle strisce pedonali e pensare ai Beatles, camminando mano nella mano. Mi chiedevo se quel ragazzo dei miei sogni avrebbe mai apprezzato quel che sono fuori e quel che ho dentro.
Pamela immaginava, io sapevo: io vedevo qualcuno che non ho mai potuto amare davvero, perché l’amore non è univoco. L’amore è una carezza reciproca, non una sola; una stretta di mano, non una presa prepotente; un bacio restituito, non solo dato. Ed io, impegnata a saltare, ridere, arrabbiarmi, cacciarmi nei guai, non ho mai dato importanza più del dovuto a quel che ho avuto modo di provare solo pochi giorni fa.
Quel che ho provato.
Quel che provo.
Quel che proverò.
Ne ho così paura.
Mi viene fuori una risata che mi fa sentire una deficiente. «Ah-ah. No… Pam, ti stai facendo dei film inutili.»
Mi riserva una smorfia scettica. «Tu dici?»
 
Mi sveglio stordita, mi stiracchio e mi rigiro tra le coperte del tutto intorpidita.
Un bacio sulla spalla. «Buongiorno,» la sua voce sussurrata sulla pelle.
Mi volto, lentamente, e non riesco a fare a meno di sorridere:  devo avere una faccia da vera idiota. Con il sua sguardo su di me, però, riesco subito a svegliarmi.
«Ewan, io credo…» Mi porto entrambe le mani alle tempie, carezzo la pelle vicino al cuoio capelluto. «Credo che dovremmo parlare di quel che è successo.»
«Ti va di ricordarmelo?» La linea delle sue labbra si muove a formare un sorriso che sa di ricordo, soddisfatto sfinimento. Gioca con una ciocca dei miei capelli, acceso arancione tra le sue dita da pianista.
«Non dovrà più succedere,» dico in un soffio.
Il suo sguardo fermo si posa su di me, finisce nei miei occhi, mi attraversa.
«Stai dicendo… che sei pentita di stanotte?»
«Sì.»
Ewan resta in silenzio, un silenzio carico di tensione; il mio corpo teso coperto solo da un lenzuolo, separato da Ewan solo da questo sottile strato di stoffa.
Non riesco a respirare.
E scoppio a ridere.
Mi copro la bocca con le mani. «Ti ho fatto prendere un colpo, vero?»
Il viso di Ewan è attraversato da un’espressione sconvolta che si trasforma subito in un ghigno. Continuo a ridere, sempre più forte, non smetto nemmeno quando Ewan mi prende le mani e chiude i miei polsi nella sua presa. I nostri nasi si sfiorano, il suo respiro diventa anche il mio.
«Tu lo sai che,» comincia. «Se noi fossimo i protagonisti di un film, o un libro, tutti quelli che guardano, o leggono, vorrebbero ucciderti, adesso?»
«Davvero?»
Sospira. «Davvero.»
Inclina la testa e prende a baciarmi il collo, piano.
«Hai fame?» mi chiede, tra un bacio e l’altro. «Vuoi fare colazione?»
«Una doccia, prima.»
Ewan mi carezza il braccio con i polpastrelli e mi viene la pelle d’oca, sospiro.
A un centimetro dalla mie labbra, le sue: «Una doccia con me».
 
« Mio Dio! Mio Dio! Mio Dio!»
«Pam!» La zittisco con lo sguardo.
«Naaaaatalieeeee!»
«Sì, okay… Pamela, io… io… non ero dispiaciuta.»
«Ma come esserlo! Come essere dispiaciuta!» Pamela prende il menu del bar e comincia a tirarsi il vento. «Tanto io ho sempre saputo che sarebbe finita così.»
Quasi mi viene da piangere. Vorrei solo abbracciare la mia Pamela, che ha letto i miei sentimenti ancor prima che Ewan fosse capace a dar loro voce, ancora prima che io li riconoscessi. Lei è il mio specchio: anche se non mi riflette, afferra le immagini di tutto quello che sono e provo.
Sono stata così fortunata a trovarla.
Già, ogni tanto posso esserlo anch’io.
 
***
Arrivo in ufficio in ritardo perché con Pamela il tempo vola, si accorcia eppure passa più in fretta, strana maledizione delle gioie che, quando accadono, si restringono come se seguissero una crudele legge fisica. L’atmosfera è pesante, come se qualcosa fosse bruciato e aleggiasse ancora della cenere. Da quando sono qui, lo stress per far sì che tutto fosse perfetto e la presenza di Emanuelle mi hanno impedito di interagire come avrei fatto normalmente. A scuola ero quella che gridava parolacce, si voltava e incontravo lo sguardo costernato di un professore; quella che faceva un commento senza peli sulla lingua sul sedere di un ragazzo e poi se lo trovava accanto. Io e le figure di cacca siamo amiche quasi quanto me e Pamela.
Ora che Emanuelle non c’è, non ho nemmeno il tempo di provare pace. Gli sguardi ostili che mi circondano mi fanno rimpiangere una presenza – una qualunque, non ha importanza – che non mi facesse sentire sola.
Mi metto alla scrivania con il pc davanti e, sulla tastiera, trovo il giornale del giorno. Ci sono io, ovviamente.
Natalie Truman, povera vittima della gelosia di una top model fallita, è in realtà una ragazza impeccabile, sensibile e raffinata.
«What?»
Nessuno mi ha mai visto mangiare l’arrosto della mamma, evidentemente.
Incredibile quanto possa ingannare una camicetta violetto.
«Capisco la tua faccia sconvolta, Natalie,» mi dice il signor direttore, ridestandomi dalla mia sorpresa. «Immagino che tu ci aiuterai a risolvere la situazione. »
«Risolvere la situazione? » gli faccio eco.
Il direttore mi prende il giornale dalle mani e comincia a leggere. «La buona reputazione della stilista Truman non giova alla rivista Vogue. Come la sua partecipazione ipotizzata alla droga aveva aumentato le vendite, così la sua smentita le ha fatte diminuire. Si sa che ai giovani piace chi esce dagli schemi: la forza di vita della volpe di Liverpool, evidentemente, non è sufficiente. » Mette giù il giornale e torna a fissarmi con uno sguardo duro.
Fatico a respirare. Questa situazione è ridicola e insensata, ed io ci sono finita dentro dalla testa ai piedi, mummificata in questa follia ancor più folle di quanto io possa mai essere. «Direttore… io… io posso pensare a delle novità…»
«Non si tratta più di novità. Si tratta di fare quel che agli altri piace. Ai giovani piace che chi è trasgressivo superi chi conduce una vita normale. Trasgressivi erano i Rolling stones quando c’erano ancora i Beatles, trasgressivo è spiattellare l’intimo nel pubblico. Fare quello che gli altri non hanno il coraggio di fare per pudore, galateo, il più delle volte semplicemente buon gusto.»
Scuoto la testa, interdetta. Quando comincio a parlare la mia voce è isterica. «Che cosa dovrei fare? » La mia voce trema. «Diffondere un video porno, correre nuda inneggiando ai diritti dei transessuali, farmela con tutti gli uomini di Londra?» Fatico a respirare. Mi gira la testa e sento di aver sbagliato, esagerato.
«Non sono necessari tutti.» Il direttore assottiglia gli occhi. «Vuole davvero farmi credere che tra lei ed Arthur Benkinson ci sia solo amicizia? »
Boccheggio, convinta della risposta.
«Lo conosco… io lo-lo conosco da quando ero solo una bambina…»
«L’intimo nel pubblico. È la cosa più vergognosa che ti possano chiedere, Natalie, ma questo mondo la pretende. Questo mondo è il peggiore.»
Respiro a fatica. «Non ho intenzione di… fingere qualunque cosa con Arth… con il signor Benkinson, io non posso…»
«Signorina Truman…»
«Io non voglio, non vorrei mai. Non nego che Arthur sia importante… negare? Lo ammetto! Arthur è importante, non esiste un momento nella mia vita in cui lui non lo sia stato, lo è. Ma questo è troppo…»
«Girano voci…»
«E girassero! Che cosa succede nella mia vita è affar mio.»
«Non è più così. Quel che succede nella sua vita è affar mio, affare dello spazzino in fondo alla strada, di una ragazzina dall’altra parte del mondo. Lei è famosa, e questo è il prezzo. Sa cosa succede a chi si ostina a nascondersi, nonostante tutto? Che ti creano un’altra vita, e la spacciano per vera. Diventi un personaggio nelle mani delle fantasie di giornalisti, conoscenti…»
Sospiro. «Basta così.»
«Trovi un’altra soluzione alle vendite, non sarò io a dirle come. Se questa situazione non recupera in un paio di mesi ci saranno delle conseguenze.» Sembra dispiaciuto, eppure fermo in quella è sempre stata la sua decisione dall’inizio. «Vogue ha un’immagine. Vogue non verrà penalizzata per lei, signorina Truman. Una modella, un altro manager, ci sono tanti modi per attirare l’attenzione. Se lei non ci riesce più, non ha ragione di restare.»
«Allora perché mi ha assunta?»
«Perché lei è un caso. È brava, ha fatto vendere, ma ancora di più lo ha fatto la sua immagine. Nessuno che faccia la stilista è diventato ricco prima dei vent’anni.»
Stringo le palpebre per un attimo, come mi volessi rinchiudere nel buio di un sogno.«Io… non volevo diventare famosa. Io volevo lavorare, diventare indipendente, farlo con la cosa che mi piace di più… e credevo che lei apprezzasse i miei lavori.»
 Sorride piano. «Li apprezzo ancora.» Il sorriso svanisce, presto. «Ma non basta. Ora che è qui, però, si metta a lavoro. Ci sono dei modelli da finire e sono sicuro che non mi deluderà.»
Lei mi ha deluso, invece. Accendo la stampante e mordicchio la matita che avevo poggiato sull’orecchio. Tutto di questa storia mi ha deluso.
***
Mi sbatto la porta di casa alle spalle e butto le chiavi sul mobiletto accanto allo stipite. Accendo la luce della cucina, apro la borsa e prendo i fogli con i modelli da finire. Che rabbia, la prima linea viene storta. Che schifo, non era questo il verde che dovevo usare. Che odio, Natalie. Che odio.
Mi lascio andare sulla sedia.
Non mollare. Non adesso.
Mi rimetto a lavoro.
La luce della cucina si fa improvvisamente più fioca. Sollevo lo sguardo e noto che adesso la lampadina funziona ad intermittenza e, quando il panico mi intrappola come un grande artiglio, la luce è già spenta.
Il cuore mi batte smodatamente.
Apro la porta.
«Zot? Signor Zot?»
Zot mi sente subito e infatti apre la porta del suo appartamento, un canottiera bianca molto larga e  il solito viso arrossato per le sue bevute.
«Ciao, Natalui!»
«Scusami se ti disturbo. La luce da te funziona?»
Annuisce. «Ciuerto.»
«Non riesco a capire,» dico. «Da me si è spenta in tutta la casa.»
«Hai puagato la buolleta, vero?» Ammicca.
Resto immobile per un secondo di troppo, ripercorrendo le varie raccomandazioni e le liste di cose da fare che ho stilato da quando sono a casa – tre giorni pieni, afosi, tremendamente pieni di vita.
Saluto Zot con una scusa incomprensibile e mi chiudo di nuovo in casa. Scalcio il borsone di Ewan, ancora in corridoio con qualche jeans che emerge dall’apertura della cerniera. Sono le dieci e potrei finire per strapparmi i capelli, presa da un’assolutamente giustificata smania omicida. Mi fa male la pancia la testa, ho fame, sonno, devo disegnare i modelli e per favore, qualcuno mi porti alle Fiji e non mi faccia più tornare.
La mia crisi rabbiosa è ancora in atto, immobile ma alimentata, quando Ewan torna a casa. Appena entra in stanza mi alzo dal divano e mi avvicino a lui, che mi sorride a quel modo da istigare l’arresto, gli occhi blu di mare ad abbracciarmi ancora prima che possano farlo le sue braccia.
Il cuore mi fa male e lo ignoro.
Mi scosto.
«Perché sei al buio, Nat?»
«Perché non hai pagato la bolletta, idiota,» gli grido contro. «Toccava a te, ci siamo divisi i compiti.»
Si gratta la nuca, come se si fosse appena svegliato da un sonno profondo. Il suo sguardo dispiaciuto riesce a trapassarmi, aggiungendo uno smisurato senso di colpa alla rabbia che ho dentro. Ha dimenticato di pagare una bolletta dopo una settimana di problemi, e quando ha avuto modo di accantonarli non abbiamo fatto altro che incontrarci e rincontrarci, scoprirci e riscoprirci. Senza sosta, trovando a mala pena il tempo di mangiare qualcosa.
Ci siamo divorati a vicenda, credendo di non farcela più, capendo che invece non era ancora abbastanza. Forse è perché sono giovane – lo sono ancora, per lo meno. Forse perché ad amarlo mi scoppia il cuore, è l’ultimo pensiero che mi attraversa la mente, sempre, prima di stringere la coperta con le unghie, mordermi le labbra per fermare un grido, rabbrividire per il fiato di Ewan dietro di me, davanti a me, ovunque sulla mia pelle.
Sospira. «Natalie, sei troppo agitata. Potresti sputare fuoco da un momento all’altro,» continua, con la delicatezza sotto i piedi. «… Dracarys!»
Perché non cambieremo mai, in fondo.
«Ti sembra il momento di fare il cretino?» sbotto. Il senso di colpa si mette subito a tacere. «Sputerei fuoco su di te.»
«Sei arrabbiata,» continua, incrociando le braccia al petto.
«Da morire, Ewan. Da morire
«E te la prendi con me?»
Mi sto infervorando ancora di più. «È colpa tua se la luce non c’è! »
«Ma che ce ne frega della luce, abbiamo passato più tempo a fare l’amore che a respirare,» dice con una naturalezza che mi sconvolge, e mi fa arrossire in un modo imbarazzante che lui nota subito. «Domani vado a pagare e ci torna, che problema c’è?»
«Tutto! » sbraito, con tutta la buona intenzione di ignorare l’effetto devastante che continua a farmi solo parlare con lui. «Tutto, tutto è un problema e tu non hai fatto altro che ingigantirlo.»
«Che cos’altro ho fatto?»
Ho l’anima in subbuglio, un caos infernale dentro, il respiro mozzato sul tuo nome. E i problemi si infittiscono, perché volevo diventare grande ed ecco qui la mia vita da adulta.
«Sto male,» continuo, perdendo enfasi nella voce.
Ewan fa qualche passo verso di me. Mi riserva un sorriso che mi abbaglia di luce. «Forza, racconta.»
Sospiro e cerco di parlare in modo sensato, ma riesco a pronunciare giusto qualche frase sconnessa. Ewan mi accarezza il viso, mi scosta via i capelli e qualcosa dentro di me esplode, non so se è ancora rabbia o quella parte di me che risponde, smisuratamente, ad ogni suo contatto.
Mi sento una bambina.
«Allora avvisa il direttore, un giorno in più può aspettare per avere i modelli.»
«Ewan, che cosa ne sai? Non posso sbagliare. Dopo quello che è successo non posso sbagliare
«Ehi.» Mi inchioda sul posto con i suoi occhi azzurro mare. «Tu sei stata incastrata. Non c’entravi niente.»
«Ma questo ha influito negativamente sull’immagine della rivista. Perché sono apparsa come una povera, giovane ragazza nei guai,» dico, con tutto lo sdegno che ho dentro. «Secondo il direttore dovrei attirare l’attenzione facendo…» Mi blocco, inciampando nelle mie stesse parole, come terrorizzata.
«Cosa?»
Dovrei stare con Arthur Benkinson, che un tempo amavo.
«Niente,» taglio subito.
«Natalie… » Ewan sbuffa. «Io non ti chiedo di farmi un monologo con tutta la tua vita. Ma se c’è qualcosa di importante, se c’è qualcosa di impossibile da ignorare, qualcosa che io, visto che sono il tuo ragazzo…» Caspita, suona così bene. «… dovrei sapere, allora devi dirmelo.»
Faccio un respiro profondo, lo guardo negli occhi.
Parlarti di Arthur Benkinson, dopo tutto quello che è successo per Arthur Benkinson, adesso? Continua a carezzarmi i capelli. Parlarti di Arthur Benkinson, che sono costretta a incontrare quasi ogni giorno da quando Istyle è entrata nella compagnia, adesso? Scuoto la testa.
Rovinare tutto adesso?
«No,» mormoro. «Cioè, niente che io voglia fare. Dovrei ricostruirmi un’immagine, un’immagine che piaccia di più…»
Il sorriso di Ewan si fa più largo. «Se tu mi piacessi più di ora morirei
Mi passo una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Dovrei essere più trasgressiva.»
«Ah, perché, non lo sei?»
«Non pubblicamente.» Sbuffo. «Se Vogue non torna a vendere come prima mi cacceranno.»
«Avranno perso un talento immane.» La sua voce è ferma, leggermente roca, intensa.
«Ed io potrei buttarmi giù da un ponte.»
«Ed io te lo impedirei. Venderai, perché sei davvero brava, ci metterei la mano sul fuoco. Ora devi solo sbollire la rabbia,» continua Ewan. Fa qualche passo indietro, allontanandosi, senza smettere di guardarmi.
«Come?» Sospiro.
Ewan si siede sul divano e mi lancia un cuscino che afferro subito, con i riflessi a mille.
«Prima di tutto la soluzione c’è: la luce è giù in garage, io suono e tu disegni, sempre se non ti dà fastidio sentire i pezzi dei Coldplay senza la voce di Chris Martin,» spiega. «Ma prima, per sfogo, c’è sempre la lotta con i cuscini.»
Un sorriso, quasi impercettibile.
«Mi prendi in giro?»
«Non essere la noiosa che non sei.»
Tutto questo è assurdo, oltre i limiti, da pazzi patologici. Eppure un sorriso mi nasce dall’interno, esigendo questa presenza e facendomela percepire con una giusta tensione della pelle. Lo colpisco sul petto e poi sul viso. L’adrenalina sale, sale anche la forza, inspiro, espiro, inspiro, espiro, ed ho perso il conto dei vari colpi di cuscino che ho dato e di quelle che ho ricevuto, ora che sto ridendo senza alcun tipo di rimorso.
Un altro respiro, un cuscino premuto sulla mia guancia.
«Non te la prendere, vinco sempre a questo gioco.»
Sbuffo, rido. «Hai cinque anni e non me n’ero accorta?»
«Se avessi cinque anni mi limiterei a fare solo questo.» Sposta il cuscino, avvicina la bocca al mio orecchio. «Ma non ho cinque anni.»
Gli faccio un sorriso tirato. «Mentalmente sì.»
«A cinque anni ho deciso cosa fare della mia vita. Altro da dire?»
Ridacchio. «Si vedeva già di che stampo sei fatto.»
Ewan poggia la sua fronte contro la mia, chiudendo gli occhi, respirando, ed io avverto quel che ho sempre sentito, reprimendolo a forza dalle prima volte in cui ho avuto a che fare con lui.
«Ti stai lamentando di me?»
«Non me la sento proprio, di lamentarmi.»
Quando mi è così vicino, io perdo la condizione di quel che sono e divento qualcosa che non so riconoscere, ma che riesco ad ammirare. Eppure l’adrenalina non è svanita dal mio corpo, mi circola nel sangue, pompandomi il cuore, mentre Ewan scende ad accarezzarmi la schiena e a stringermi a sé. Mi carezza la pelle sotto la maglietta ed io chiudo gli occhi, mi lascio cullare dal rumore del suo respiro, dal tocco ruvido e amato che mi percorre mentre mi perdo.
Quando apro di nuovo gli occhi incontro i suoi, blu scuro, profondi eppure trasparenti, che esprimono una chiarezza che solo lui, nonostante si sia spesso mostrato enigmatico, ha sempre mostrato.
Gli sfioro le labbra con le mie, attraversata da un brivido, mentre la sua presa diventa più forte.
Lo sfioro delle mie labbra diventa carezza e poi tocco deciso, un cercarsi indenne, inevitabile. Un bacio che mi riempie di calore. Su di lui, le sue gambe tra le mie gambe, rabbrividisco prendendo fiato. La frenesia ci travolge, è mia e sua, ci guida insieme a quello che abbiamo scoperto insieme. Ewan guida le mie mani su di lui, trattiene i gemiti sul mio petto. Come se il tempo ci potesse cadere addosso in una ventata di dolore, qui troviamo il modo di appartenerci. Mi muovo lenta e ogni cosa ha le sembianze dell’agonia, perché l’amore ha sempre un po’ di dolore dentro, ma guarisce in se stesso. Il controllo mi sfugge e cerco la velocità, la forza nell’affanno dei respiri, nel tocco di Ewan, e per un istante chiudo gli occhi – le palpebre si fissano – e sto per gridare, il fiato brucia nella gola e il dolore scompare, si trasforma in un fuoco vivo che non si spegne, le cui fiamme si ingrandiscono, si infrangono, poi scoppiano.
Mi accascio su Ewan. Lui ancora trema e, nel suo tremore, mi bacia di nuovo.
«Tu, tu mi distruggi.»
Gli morsicchio l’orecchio. «È un modo per dire che non mi puoi resistere?»
«Ehi, non puoi parlare così.» Mi fa stendere sul divano e mi viene addosso. «Il figo della situazione sono io. E il figo della situazione è quello che fa domande del genere.»
«Ma se fossi tu a fare domande del genere sarebbe banale.» Gli passo una mano tra i capelli. «Facciamo che questa storia è diversa, okay? »
Ride, un ruvido sussurro sulla mia pelle.
Mi bacia il collo. «Be’, è una storia degna di te.»
*
*
*
*
Un buon pomeriggio speciale a tutte le mie volpi (che siete voi! : ) )
Come al solito mi ritrovo senza cose sensate da dire su quello che ho appena pubblicato, spero solo che vi piaccia la piega che sta prendendo la storia. Nonostante le cose tra Ewan e Natalie si siano chiarite – relativamente – la vita della nostra protagonista non è esente dai problemi.
Mi è piaciuto tanto scrivere questo capitolo e spero che vi siate sentiti un po’ come Natalie.
Vi ringrazio tutti per leggermi, in particolare un pensiero speciale a chi mi regala un po’ del suo tempo lasciandomi due parole, sia qui come recensione che per messaggi su facebook.
Siete i benvenuti nel gruppo dedicato alla storia, in cui c’è tanto fangirling compulsivo <3
Siete stupendi.
P.s ora rispondo alle vostre splendide recensioni *-*
Un grande bacio
Vostra Ania <3

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Capitolo 19
*** Diciannovesimo capitolo ***


Dedicato a Maria Rita D.

Non esiste separazione definitiva finché esiste il ricordo.​
Paula, Isabel Allende

 
19.
Che la mia storia sia degna della sottoscritta non sarò io a dirlo. Intanto va così, ed io non posso che impegnarmi per far sì che Ewan non si dimentichi di pagare la bolletta della luce un’altra volta, che il frigorifero non resti vuoto e che il pavimento sia sempre pulito. Nonostante l’evidenza ho continuato ad essere ostinata. Non assomiglio alla mamma. Con i suoi stessi occhi oblunghi, la carnagione olivastra che si accentua d’inverno ma che prende quel colorito vicino al bronzo nei posti esotici, la magrezza più o meno innata, alimentata dalle tante cose da fare. Le volte in cui mi sono ritrovata a ordinare la casa da sopra sotto è vergognosa, proprio come faceva mamma quando la facevo arrabbiare tanto da farle rizzare i capelli in testa, anche se ero gentile abbastanza da non combinare cose che le facessero venire i capelli bianchi. È il mio antistress quando Ewan è impegnato con le prove e le parole del direttore di Vogue mi ronzano in testa, incapaci di lasciarmi in pace. In ufficio non sono ancora riuscita a farmi degli amici, escludendo Derek. Mi vedono a metà tra un fenomeno da baraccone e una ragazzina, opinione che si fomenta nonostante sia scappata di casa, abbia trovato un lavoro da cameriera e mi sia fatta sette camice per arrivare fin qui.
Ma la gente non conosce la  verità.
La relazione lesbica con Pamela l’ho smentita in un batter d’occhio, anche se ho passato tre giorni a ridere senza sosta con Ewan a metà tra lo perplesso e l’essere intrigato da quell’improbabile visione di me. Non c’è voluto molto per dimostrargli che non avevo cambiato gusti. In ogni caso, quest’assurdità su di me e la mia migliore amica ha mantenuto l’equilibrio per un po’, non facendo cadere Vogue e me nel dimenticatoio.
Questo mi dà il potere di fare quello che ho intenzione di fare adesso.
Busso alla porta dell’ufficio del direttore e subito mi raggiunge la sua voce. «Prego.» Entro con la forte intenzione di sembrare impenetrabile, in modo che il signor Roman non capisca o intuisca quanto la mia opinione di lui sia profondamente cambiata. «Natalie, che piacere! Siedi. Come mai qui?» Mi sorride a quel modo languido che ho avuto modo di considerare falso più volte. È così che mi ha accolto il primo giorno, così accoglie tutti coloro che possono dargli un guadagno e le modelle che possono assicurargli molto di più di una sfilata. Sono costretta a trattenere un conato di vomito.
«Dieci giorni di ferie,» dico d’un fiato.
Il sorriso che poco fa attraversava il viso del direttore si dissolve, veloce. «Ferie?»
«Dieci giorni,» preciso. «Pagate, » pretendo. «Com’è ovvio,» aggiungo. Lo sto facendo di proposito, lo ammetto: quando si stancherà il direttore di avere ha che fare con una giovane stilista che di buono ha il solo fatto di essere giovane? Il talento è secondario, ormai è chiaro, ma io sto ancora pensando a cosa fare per resistere al meglio.
«Siamo a novembre, non ce n’è motivo…»
«Ho delle cose da fare.»
«Ma la rivista…»
«Quella cazzata su me e Pamela non le è bastata?»
«Signorina Truman.» Fa un sorriso tirato. «Non può che ammettere che è stato un colpo di genio.»
«Quindi questa continua pressione può bastare. »
«No. Una storia d’amore vera attira le vendite come api sul miele.»
«Peccato che quel che lei si è immaginato su di me ed il signor Benkinson non sia vero,» continuo, e spero solo che questa pagliacciata finisca al più presto, mi tremano le mani. «Devo tornare a casa per un po’.»
«Ci torni, allora. Ma potrà essere brava quanto vuole, quel paio di mesi che le ho concesso sta per passare e non abbiamo ancora recuperato il guadagno di quel mese di calo.» Il direttore si carezza la testa pelata. «Sappia che fin quando non otterrò quello che voglio avrà vita difficile, qui dentro. Se non regge la pressione rimarrà schiacciata.»
Mi alzo in fretta, mi sbatto la porta alle spalle e la furia che sto trattenendo dall’inizio della conversazione mi fa tremare da capo a piedi. Respiro forte per ricacciare indietro le lacrime che mi si assestano sul cuore.
***
Ewan mi ha dimostrato di volermi male in molti modi: quando gli viene l’ispirazione si mette a cucinare dei dolci, che ho dovuto spesso assaggiare anche se senza pentirmene, accettando che lui mi sporcasse i vestiti di proposito per togliermeli ad uno ad uno tra un bacio al sapore di cioccolato e sospiri. Abbiamo litigato un giorno sì e l’altro in maniera altrettanto peggiore, perché se non è la bolletta della luce sono le tazzine del caffè che ha dimenticato di lavare quando toccava a lui, ma alla fine lo perdono come lui ha perdonato me per aver bruciato il pollo per la terza volta, sussurrandomi un sei disastrosa  con un sorriso sulle labbra.
Siamo entrambi disastrosi, ma così diminuisce il male di vivere.
«Okay, io ho preso tutto,» confermo, trascinando il trolley in corridoio. «Ewan, ci sei?»
«Stavo aspettando te, sei una ritardataria cronica come al solito.»
Indossa un giubbotto di pelle da motociclista, il piercing a brillare e il solito sorriso da delinquente, mentre prende la valigia con una mano e con l’altra si appoggia al muro.
Squilla il telefono ed io sbuffo. «Ce la faremo mai ad andare a Liverpool? Avevo già detto alla mamma che…»
«Credo sia per me.» La voce di Ewan è bassa ma ferma mentre si volta.
Lo aspetto in corridoio, senza origliare nonostante la fremente la  curiosità. Passo da sola solo un paio di minuti, poi Ewan è di nuovo alle mie spalle, trafelato.
«Possiamo andare,» dice veloce.
«Chi era?»
«Nessuno.»
Mi mordo la guancia dall’interno e mi carezzo il mento con fare da filosofa. «Ulisse?» chiedo, col tono sorpreso di una finta tonta. Ewan mi riserva uno sguardo perplesso. «La mamma insegna Letteratura. Te l’ho detto, no?»
«Sì, me l’hai detto. Mi hai parlato anche della sua frase preferita.»
«Mhm?»
«Diciannove anni di vita sprecati!» la imita.
Sbuffo. «Quanto sei romantico.»
«Ho mille risorse.»
«Grazie eh.»
«Andiamo? »
«Chi era?»
«Andiamo…»
«Chierachierachiera?»
«Natalie!» sbotta. Mi fissa, lo fisso, scuoto la testa per fargli capire che io non ho proprio capito niente e non ce ne andremo fin quando non avrà parlato. Ewan si passa una mano sulla fronte e sospira. «E va bene, era il manager della Sony.»
«Cosa?»
«Il manager della Sony, quello  che venne a sentire la band a quel locale quella sera in cui anche tu… venisti a trovarmi prima della sfilata,» spiega, con l’affanno.«Ha detto che è riuscito a combinare un incontro con il direttore per fargli sentire un mio pezzo. Ovviamente…»
«Oh mio Dio!» Mollo il trolley per saltare.
Vibro di emozione.
«Solo sentire…»
Gli salto addosso senza pensarci due volte.
«Ti amerà.» Non potrei mai non crederci, non potrei mai non sperarci, non potrei mai non sentire quanto speranza e certezza siano vicine, almeno questa volta.
«Nat…»
«Ti amerà come io ho amato te.» Sospiro contro la sua fronte. «Cioè, non esattamente come me,» mi correggo. «Voglio dire, quel che facciamo noi due lo facciamo solo noi due, lui… solo in senso platonico.»
Sorride in imbarazzo. «Se il pezzo gli piace vorrà vedermi per firmare un contratto di registrazione. Lo studio di registrazione è a New York,» dice tutto in un soffio.
Sollevo il viso  verso il suo volto e trattengo una scheggia di dolore nel cuore. «Realizzeresti il tuo sogno.»
Il suo sorriso si spiega in una smorfia, come se la scheggia che brucia in me si fosse conficcata da qualche parte anche in lui. «E ci sarebbe un oceano a separarci.»
Lascio che sia la ragione, a parlare. «Che importa un oceano― Non potresti mai dire di no a un’opportunità del genere.»
Ewan mi stringe di più a sé, mi sfiora l’orecchio col il naso facendomi leggermente il solletico. «Facciamo che è una mia scelta, okay?» Lo dice con così tanta dolcezza da farmi infervorare ancora di più di quanto avrei fatto se mi avesse parlato con ostilità.
«Scherzi?» Mi allontano da lui. «Se ti chiama tu devi dire di sì,» gli dico col tono di chi non accetta repliche.
Ewan assottiglia gli occhi. «Non puoi dirmi che cosa devo o non devo fare. Io non devo. Io ho una coscienza e faccio quello che sento di fare e la cosa peggiore che una persona possa fare per me è decidere per me. Chiunque quella persona sia.»
Cala un silenzio pensante e non so nemmeno trovare le parole per scusarmi. Per cosa, poi? Non sono dispiaciuta. Lo sono solo pensando a me stessa, ma ho smesso di essere egoista, forse non lo sono mai stata.
«Anch’io ascolto la mia coscienza,» mormoro. «E voglio il meglio per te.»
«So decidere il meglio per me da solo, non credi?» Mi fa un mezzo sorriso. «Guardami: da barbone a musicista, ora in viaggio per Liverpool con una ragazza sexy e super ricca.»
Volto la testa a incrocio le braccia, Ewan sa comportarsi come un bambino che fa i capricci: allora anche i suoi ventun’anni sono sprecati anche più dei miei diciannove. «Sexy e super ricca. Hai messo super solo davanti al secondo aggettivo, ma apprezzo la tua sincerità.»
«Ho detto solo sexy perché non volevo essere volgare.»
«Tu menti.»
Mi afferra da dietro e mi sfugge un grido.
Mi dà un bacio improvviso, ruvido e caldo.
In cui mi perdo.
***
La mia città, bella come lo era solo nei ricordi, è ora un concentrato di odori di mare, fritto, dolci, pesci, albe che colorano l’acqua del porto, la mia infanzia e gran parte della mia vita, domeniche passate a dormire fino a tardi e corse al pullman per andare a scuola. Fuori dal finestrino dell’auto guardo il paesaggio verde alternato ad asfalto e palazzi che mi passa davanti agli occhi, mentre Ewan guida.
Arriviamo a Liverpool più tardi del previsto.
Camminando per Church Street, la via centrale e più trafficata della città; Ewan mi cinge il fianco con le braccia e fa un respiro profondo tra i miei capelli. Non parla da almeno dieci minuti ed ha uno sguardo profondo che affonda solo nei suoi pensieri. Che mese strano, è stato questo. Essere noi stessi insieme, stare insieme, viverci. Poche volte ho visto Ewan alle prese con le sue fragilità – la delusione per la sua famiglia, i ricordi che gli cadono addosso senza che lui voglia ricordare –, ma lui le ammette senza vergognarsi, prendendole per quello che sono: stonature. Le persone al mondo sono come cantanti che non hanno mai studiato a scuola, a volte gli viene un acuto perfetto, a volte steccano. Ci ritroviamo sul palco senza preavviso, non sappiamo nemmeno quale musica ci accompagnerà. La cosa peggiore che può accadere è restare in silenzio ed Ewan, oh Ewan, sta zitto poche volte: deve sempre dire la sua, ridere di me e se stesso, commentare tutto, imprecare contro il televisore contro una partita di calcio o una mossa imprevista da parte di un personaggio di un telefilm.
Per questo mi sorprendo.
«Silenzioso, Ewan Lynch?»
Ewan sorride. «Niente, pensavo che… A Dublino me ne andavo sempre a Wilndmill Lane. È un vecchio palazzo ormai abbandonato, ricoperto di graffiti, con una scala anti incendio. Mi mettevo sempre lì a scrivere, alla stessa altezza della scritta U2.»
Gli sorrido anch’io. «Allora scrivevi sotto una buona stella.»
«Era il mio posto preferito, ti ci porterò. Tu mi farai fare un giro ad another place, no?» mi chiede.
Arriccio la bocca, pensando intensamente alla risposta. «Non è lì che vanno le coppiette ad amoreggiare. E poi dobbiamo passare da casa di Pamela per aiutarla con il fratellino a,,,»
Mi stringe di più a sé. «Che altra scusa vuoi usare?»
«Ho usato una qualche scusa?»
«Nat, non cambierai mai… ti era mancata la tua città?»
Lo guardo negli occhi e vedo il mare di another place.
«No,» rispondo con un’alzata di spalle. «È come se non l’avessi mai lasciata.»
Mi dà un bacio sulla fronte, leggero, che punge del filo della sua barba.
«E questo cos’era?» gli chiedo.
«Un inizio del distacco,» risponde, accennando un sorriso tirato. «Visto che mi hai chiesto di comportarmi come se niente fosse successo davanti ai tuoi genitori.»
Scuoto la testa e faccio un alzata di spalle. Invitabile, voglio dire. Inaspettatamente inevitabile. «Ewan, lo sai che se mia madre lo sa si immaginerà scene di sesso violento.»
«Non sbaglierà.»
«E sverrà.»
Ewan si lascia sfuggire una risata stanca. «E quando hai intenzione di dirlo?»
«La prossima volta che  i miei verranno a Londra,» gli dico. «E so benissimo che mamma mi prenderà in disparte e mi dirà che devo cambiare casa perché vivere con un ragazzo con cui ci si è appena messi insieme non è normale.»
Ewan sbuffa. «Non è colpa mia, sei stata tu a invitarmi a prendere casa con te.»
«Ma io non avevo intenzione di sedurti.»
Ewan ride forte. «Non ci crede nessuno.»
«E che palle… Mi dici cosa dovrebbe importarmi del parere di Ulisse?» Gli do una forte gomitata ma lui ride solo un po’ di più, come se non l’avessi ferito per niente, né con le parole, né con questo colpo. Ewan trasporta la sua valigia e con la mano libera stringe la mia, così camminiamo lungo il marciapiede: con la sua presa salda ma naturale, la mia mano piccola tra le sue dita di pianista. È un gesto intimo eppure pubblico: ci amiamo in silenzio eppure tutti possono vederci.
«Hai detto che Claire abita al numero quattro?»
«Sì.»
Fisso la casa che mi è di fronte, a due piani, dai mattoni rustici che vanno dal marrone al rosso, una scaletta che conduce al portico e un piccolo giardino ornato dalla presenza di qualche pianta qua e là.
Vedo la porta della casa che sta per aprirsi ed io lascio la mano di Ewan, con tanta velocità quanto sforzo. Sulla soglia appare una ragazza dai lunghi capelli neri, bassina e dai dolci lineamenti orientali. Mi guarda con un’espressione curiosa e, quando posa lo sguardo su Ewan, lei stessa si illumina come se fosse fatta interamente di luce.
«Il fratello di Claire,» dice, senza preoccuparsi di salutare, ma correndo subito da lui per dargli un improvviso ma affettuoso abbraccio. Lo fissa con intensità. «Gli stessi occhi,» mormora. Ha la voce sottile, ricorda una sfumatura infantile ma che è femminile nel più puro dei modi.
Abbraccia anche me, come se fossimo sempre state amiche.
«Hatomi, è arrivata la posta?» chiede una voce decisa dall’interno della casa.
«C’è di meglio,» risponde la ragazza ora di fronte a me, sorridente, che ci fa entrare in questa casa piccola ma accogliente, con libri qua e là sui mobili; mi sembra di fare un tuffo nel passato e nella magia, nella serenità e al tempo stesso nella continua ricerca della felicità.
Seduta sul divano in tessuto color ocra è seduta una ragazza a gambe incrociate, con un libro in mano. Con il viso basso e i lunghi e lisci capelli neri, la pelle chiara con le gote rosee; quando alza il viso su di noi incontro gli occhi di Ewan nei suoi e non ho più dubbi.
«Oh, Dio, ce l’avete fatta ad arrivare!» Le scappa un risolino. Ha un viso dai lineamenti così delicati, così chiari, da sembrare una donna d’altri tempi. Corre tra le braccia di Ewan e mi rendo conto che è alta quasi quanto lui, la felpa a ghermirle le forme. Claire gli dà due baci sulla guancia e se lo stringe forte a sé, ed improvvisamente Ewan mi sembra più giovane e Claire più grande e penso che essere fratelli è così, è avere sempre qualcuno che ti aspetta e perdona, anche se passa tanto tempo, anche se non hai mai chiesto scusa.
Mi ricordo di quando Jade lo faceva con me e trattengo un singhiozzo silenzioso che mi si protrae nel petto, mi oscura la mente, mi fa chiudere gli occhi in quel dolore improvviso e intenso che viene quando sento, inevitabilmente, la sua mancanza.
«Finalmente ti conosco,» mi dice Claire subito dopo aver lasciato Ewan. Mi guarda con un sorriso morbido, gioioso, e mi porge la mano per stringerla. «La volpe di Liverpool, non è così?»
«Natalie va benissimo.»
C’è gioia e frenesia nella sua stretta di mano, un’impazienza finalmente soddisfatta animata dal modo in cui i suoi occhi brillano. «Ewan mi ha parlato tantissimo di te! Ma quando ti sei accorta che ti piaceva?»
Sussulto.
«Claire…» la chiama Ewan.
«Ewan,» io chiamo lui, con la voce che trema un po’. «Ma non avevamo deciso che…»
«Scusa, Claire sa di te da sempre… da quando non sapevo che doveva restare segreto.»
Lo fisso, senza essere arrabbiata davvero; come Pamela ha saputo tutto del primo istante senza che io glielo spiegassi, così è accaduto anche con Claire ed Ewan.
«Io ed Hatomi non ne faremo parola. Capisco i problemi con i genitori,» continua Claire. Per un attimo i suoi occhi blu si offuscano fino a scurirsi – assenza di luce, assenza di comprensione, assenza d’amore.
«Certo,» conferma Hatomi, si avvicina a Claire e le prende la mano. «Manterremo il segreto insieme.» Le sorride come se non ci fosse niente di più bello al mondo. È uno dei più veri incantesimi che possono esistere nell’universo, l’amore, in ogni sua forma, in uno sguardo celato, in un sorriso accennato, nel non dire nulla gridando tutto. E allora mi chiedo come possiamo credere alle regole che hanno dato gli uomini tanti anni fa, appellandosi a un Dio in dubbio, di fronte a tutto questo. Di fronte alla gioia semplice di stare insieme, svegliarsi al mattino senza provar vergogna di amare, riconoscere di amare e riconoscere, in questo modo, se stessi.
Guardo Ewan e penso a come le persone potranno non accorgersi di quel che sento per lui.
***
Sono uscita di casa di corsa, inventando una scusa poco credibile, sicura di tornare presto indietro. Non devo fare molto, in fondo, e non sono riuscita a trattenermi: qualche fermata della metropolitana e sarò là, dove il sole è tramontato sulla terra portandoci via tutto. Moriva il sole, piano, lanciando piccoli e caldi stralci di luce. La lenta agonia della fine del giorno.
La lapide è semplice e chiara, ed io riesco a respirare a mala pena. Nella foto Jade sta sorridendo, guarda altrove, cerca qualcosa.
Avrà mai trovato quel qualcosa?
«Scusami per i fiori finti, Jadie.» Scuoto la testa. «Da quel giorno non ne sopporto l’odore… la casa ne era impregnata, era insopportabile,» sussurro.
Ci sono fiori freschi. Mi chiedo che Arthur ha trovato il coraggio di passare di qui. Non avrei dovuto essere arrabbiata con lui, perché io sono stata la prima ad essere codarda e per questo sono imperdonabile.
Sono imperdonabile per averti dimenticata. Sono imperdonabile per essere venuta a trovarti dopo quasi dieci anni. Sono imperdonabile perché vorrei essere una persona migliore e somigliare a te.
Jade.
Hai trovato il modo di non perdere mai l’ardore dei tuoi sogni, il candore del tuo affetto, i desideri che nascondevi in uno sguardo sfuggente, in parole ora dolci ora taglienti. Vive e vere, com’eri tu. Resistente e splendida, un fiore inciso nella pietra.
Non sei appassita, vero? Passi il dito sulla polvere della lapide con indifferenza, perché niente ti ferisce più, niente può cambiarti.
Tu avrai diciassette anni per sempre.
Il singhiozzo che mi si era nascosto nel petto, discreto e rispettoso, mi esplode in gola. Il tempo di un respiro ed una lacrima mi raggiunge le labbra, salata, amara, disgustosa eppure, eppure sono costretta ad ingoiarla. Ad ognuno spetta la propria dose di dolore, la sorte te la fa prendere ficcandotela a forza tra i denti come una medicina cattiva di cui hai bisogno per guarire, ma che in realtà ti fa ammalare. Pochi si salvano. Io non mi sono salvata.
Non sono riuscita a salvarti.
Un alito di vento, brividi sulla schiena, mi stringo tra le braccia. Oh, Natie.
Jade…
Natie…
Ho così tanto bisogno di te…
«Devi andare per forza a questa festa?» chiedo, rotolandomi goffamente tra le coperte azzurre del letto di Jade, tanto sono piccolina e posso fare tutte le capriole del mondo senza cadere. Sì, io non posso cadere, posso volare.
«Sì, Natie,» sospira Jade, bellissima nel suo vestito verde smeraldo, una margherita tra i suoi lisci capelli castani. «Aiutami a scegliere il rossetto… Rosa o corallo?»
Faccio una smorfia da mostriciattolo. «Jadie… per favore!»
«Cosa?» mi chiede, lanciandomi uno sguardo perplesso.
«Puoi portarmi con te?» chiedo, facendo vedere bene il labbro di sotto mentre la guardo.
Jade scoppia a ridere. Un suono di campanelli e cristalli che cadono a terra, pioggia di pietre preziose, Jade che ride, Jade, Jade, Jadie… «È una festa per grandi.»
«E quando sarò grande abbastanza?»
«Lo saprai e soprattutto lo saprò io, perché dovrai raccontarmi tutto!» Ride e mi attacca con un riuscito tentativo di farmi il solletico. Rido a squarcia gola, il suo vestito di raso tra le mie gambette magre fasciate dal pigiama di Winnie the Pooh. «Tu, piccola Natie, mi racconterai di ogni tuo primo giorno di scuola, di ogni amico. Mi racconterai del primo ragazzo che amerai, e del secondo e chissà, chissà quanto amerai Natie!»
Jade dice un sacco di cose strane ultimamente. «Veramente?»
«La vita è tropo lunga e difficile per amare una volta sola. E già si vede che sei brava a complicarti le cose.»
Sbuffo e prendo a saltare sul letto con le ginocchia. «Jaadie,» la imploro. «Chi mi suona la ninnananna prima di dormire?»
«Una sera senza che cosa sarà?»
Mi stropiccio gli occhi, sbadiglio, ho già sonno. Ma se starò con Jade sono sicura che resterò sveglia, sicurissima. «Una sera triste.»
«Ma ognuno deve imparare a suonare la propria canzone, Natie. Sono sicura che ci riuscirai.»
«Non puoi portarmi con te?»
«Non è il momento.»
«Ti prego…» Mi fermo per convincerla con l’ennesimo sguardo dolce.
Jade mi accarezza i capelli e mi dà un bacio sulla guancia, per l’ultima volta. «Non è il momento…»
Il momento non è mai arrivato.
Non è mai arrivato il momento in cui mi avresti accompagnato lungo la strada che lascia indietro l’infanzia. Non è mai arrivato il momento in cui ti saresti seduta sul letto a gambe incrociate accanto a me e avresti ascoltato la mia storia, mentre ancora si svolgeva. Non è mai arrivato il momento in cui avresti capito solo guardandomi che ero innamorata.
Jade si alza dal letto, schiude le labbra davanti allo specchio, ci passa sopra il rossetto corallo che mi ricorda il mare, i nostri giochi, Arthur Benkinson.
Il momento si è dissolto quando la vita ha distrutto ogni possibilità.
Jade indossa il suo cappotto nero, mi sorride, ha gli occhi socchiusi, sospinti dalla felicità. «Buonanotte, sorellina.»
Sono cambiate tante cose e questa non cambierà mai.
Chiudo gli occhi e sospiro, sono così tanto stanca. «Ciao, Jadie.»
Continuo a pensare a te.
Continuo a immaginare che tu non sia mai andata a quella festa.
Continuo a fare sogni in cui ci sei.
Ci sei e puoi ascoltarmi, puoi vedermi, puoi lasciarmi una carezza tra i capelli.
Puoi essere qui, di fronte a me, accanto a me, con me, e allora io creo il mio momento.
«Avevi ragione tu. Hai sempre avuto ragione,» sussurro. «Ti voglio bene, Jadie.»
Sempre ti vorrò bene e sempre mi mancherai.
E ti prometto che anch’io mi impegnerò. Ti prometto che imparerò a suonare bene la mia canzone.
*
*
*
*

In questa storia un minuto prima sto ridendo e il minuto dopo sto piangendo. Spero che riesca a coinvolgervi e che la vita di Natalie porti qualcosa di bello, una speranza, un sorriso, nella vostra.
Presto rispondo alle vostre splendide recensioni, siete meravigliosi, tutti, un ad uno, e questa storia non sarebbe la stessa, questa storia non potrebbe vivere nel modo magico che voi le conferite se non leggendola come solo voi la leggete.
Grazie, di cuore.
Un grande bacio,
vostra Ania.

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Capitolo 20
*** Ventesimo capitolo ***




20.
Lascio questo luogo in cui raggiunge la pace solo chi non c’è più. L’aria si è fatta molto fredda, pungente; mi asciugo le ultime lacrime dagli occhi per scacciare via la nebbia del dolore dal mio sguardo e riuscire a vedere dove cammino. Londra mi ha seguita fin qui, un po’ come Liverpool è sempre stata anche a Londra. Ogni posto in cui vado e vivo mi resta dentro, ed io resto un po’ lì anche se vado via. Sbatto le palpebre quando mi accorgo che è davvero qui.
Ewan mi cammina incontro, senza fretta. Per un attimo perdo il respiro, sprofondando nella vergogna. Mi passo una mano sul viso per asciugarlo al meglio delle mie possibilità, ringraziando l’invenzione del mascara waterproof.
Quando me lo ritrovo davanti evito il suo sguardo.
«Come sapevi che ero qui?» riesco a chiedergli.
Uno sbuffo. Ewan mi prende la mano e mi conduce all’esterno, mi fa entrare in auto, dove io mi lascio cadere sul sedile con un sospiro stanco.
«Io so come sei, Natalie.» Ewan risponde alla mia domanda, la sua voce è bassa, mormorata. «Potrai anche avere i tuoi spettri a congelarti dentro, ma io so come sei.»
Trovo il coraggio di guardarlo: prima fissava dritto di fronte a sé, volta la testa nello stesso istante in cui lo faccio io.
Non ho modo di prepararmi a questo sguardo. È arrabbiato e al tempo stesso pregno di tenerezza, dolorosamente dolce. «Anche se continui a nascondere i tuoi spettri.»
Scuoto la testa.  «Ewan…»
«Non devi più nasconderti con me.»
«Ma a cosa pensi?» Rido istericamente. «Va tutto bene, sono giusto passata a portare dei fiori…»
«Hai gli occhi rossi: hai pianto.»
Storco la bocca nella delusione.
Ewan respira forte. «Pensi che non capisca quando stai bene o stai male? Quando sei felice o triste? Quando vuoi tornare indietro nel tempo e far finta che il presente non esista?» dice, tutto d’un fiato, la sua voce intensa che mi vibra nell’anima. «Non devi vergognarti. Io ho una sorella e tu hai perso la tua, ed io vorrei tanto colmare quel vuoto, Natalie, e non posso fare a meno di amarti, e amarti e amarti, anche se non sarò mai il tuo passato, perché il passato resta indietro ed io sono qui adesso. Adesso io ti amo.» Sospira. «Non devi giustificare il tuo dolore di fronte a me.» Mi prende il viso tra le mani. «Non devi giustificare, sminuire, nascondere niente delle cose che fanno parte di te.»
Mi appoggio con la fronte alla sua, chiudo gli occhi. «Sono stanca di sentirmi così.»
«Così come?»
«Bloccata,» sussurro. «Pensavo che raccontandoti tutto sarei potuta andare avanti normalmente, ma non ci riesco, non ancora.»
«Hai bisogno di tempo.» Ewan sorride, lo sento dal suo respiro. «Devi solo passarlo a vivere.»
Apro di nuovo gli occhi. Una tempesta mi scoppia dentro mentre lo guardo e penso al tempo, penso a noi, penso a quei fantasmi che mi raggiungono col loro freddo in ogni parte del mondo. Pronunciandoli ad alta voce potrò, forse, finalmente scacciare il loro gelo?
La morte di Jade.
Le incomprensioni con mia madre e mio padre.
L’amore per Arthur.
Deglutisco.
L’amore per Arthur… C’è davvero mai stato? Scuoto la testa. Perché rischiare di distruggere tutto per qualcosa che ora mi appare così lontana che forse fa parte davvero solo della mia immaginazione?
Poso la mano dove l'ha posata lui, sulla mia guancia. «Come fai a stare con una ragazza come me?»
Ewan si mette a ridere. «Non lo so, io mi scelgo sempre ragazze difficili.» Sbuffo, volto la testa, Ewan ora mi stringe con un braccio intorno alle mie spalle. Mi sfiora l’orecchio con le labbra. «Mi piaci anche con il trucco colato sulle  guance.»
«Cazzo, sulla confezione c’era scritto che il mascara waterproof!»
Faccio un ringhio arrabbiato ed Ewan mi abbraccia, ridendo.
***
Ewan guida fino a casa mia, seguendo tutte le mie indicazioni per il quartiere residenziale mentre io mi pulisco il viso con un fazzoletto. Vorrei piombare a casa e ammetterlo subito, dire Ewan è il mio ragazzo, un sott’inteso banale per raccontare che mi sono innamorata, di giorno in giorno, nonostante cercassi stupidamente di allontanarlo.
Non so quanto resterà segreto un segreto che so di non poter mantenere.
«Caspita,» dice Ewan mentre parcheggia. «Sembra un castello.»
«È solo una villa.»
«Sei davvero ricca da far schifo.»
«Ti assicuro che non basta, per essere felice.» Sbuffo. Poggio la testa sulla sua spalla e faccio un respiro profondo. «Ti farò invitare a cena.»
«Ne sei sicura?»
«Certo che ne sono sicura. Non vuoi vedere con me la nuova puntata di Doctor Who?»
«Certo che voglio. E se tuo padre fa quella cosa inquietante tipo macchina della verità? »
«Rimarremo entrambi molto fregati.»
Lo bacio con il sorriso sulle labbra.
***
Wanda mi accoglie con un fortissimo abbraccio e mi carezza la testa come se fossi un cagnolino di razza. Presto la segue mamma, che mi abbraccia e mi respira insieme, allo stesso modo di come io abbraccio e respiro lei, che profuma di sapone e gelsomini.
Mi riserva un sorriso pieno di emozione.
«Natalie, con chi sei venuta fino a qui?»
«Con Ewan.»
Mia madre mi lancia uno sguardo sconvolto. «Sei venuta con Ewan?» esclama.
Non rispondo.
«Siete venuti insieme?» continua mamma, che si mette a braccia conserte e mi fissa con un’intensità che mi inquieta.
«Sì,» dico, con la profonda intenzione di scemare l’imbarazzo che non posso mostrare. «La sorella di Ewan vive qui a Liverpool e lui è andato a trovarla, quindi abbiamo fatto il viaggio insieme.»
«Oh, che caro,» dice sognante. «Peccato per il piercing, lo fa sembrare un ragazzaccio.»
«Quando si mette sì che è un ragazzaccio.»
Avere pensieri vietati ai minorenni di fronte alla propria madre non è mai stata una buona idea.
«Come? »
Tossicchio. «Ragazzaccio? No, mamma, Ewan è così bravo
***
In cucina Wanda prepara il pranzo insieme a mamma, io mi offro di aiutarle e loro mi guardano male. Metto le mani sui fianchi e le fulmino con lo sguardo.
«Insegnatemi qualcosa, porca paletta! Non può sempre cucinare Ewan.»
La mamma si mette una mano sulla fronte, fa un sorriso da teenager innamorata. «Che caro ragazzo,» sospira.
Nella mia stanza mi lascio cadere sul mio letto dal copriletto verde chiaro, ricoperto da vari cuscini, tra cui anche quello dell’epica e scandalosa fissazione per i Tokyo Hotel, a cui mi abbraccio ancora affondando il viso nel tessuto scuro. A me piaceva tanto il fratello del cantante, quello col piercing.
Ecco.
«Natalie! » grida la mamma, entrando. Apro leggermente gli occhi e vedo papà che la segue di soppiatto, quindi si siedono entrambi sul bordo del mio letto, la mamma da un lato, papà dall’altro.
Mi sento a una seduta dallo psichiatra.
«Tesoro,» mi chiama papà. «La mamma ha un’idea.»
«Una fantastica idea!» precisa lei.
«Che bello,» mugugno.
«È bella quanto è vero che mi chiamo Theresa Ronchetti.»
«Le origini italiane ci sono solo nel cognome e nella cucina,» dico io.
«E nei santini,» aggiunge papà.
«Oh, finitela,» continua mamma, con le mani a lisciarsi i capelli castani e espressione serissima che si illumina d’un tratto. «Per il tuo compleanno, Natalie, facciamo una festa.»
La gravità si manifesta con intensità: percepisco lo sconvolgimento che mi appesantisce la mascella e mi conferisce di sicuro, come la maggior parte delle volte in cui accade qualcosa che non mi aspetto, un’espressione da babbuino rincretinito.
Con tutto il rispetto per i babbuini.
«Vedi com’è contenta, Buford? » la mamma si rivolge a papà. «Si vede dalla faccia.»
Ho la vista appannata. «Vi prego, no.»
«Ma Natalie, perché no?»
«Non mi piacciono le feste di compleanno.»
«Non è vero, le adori.»
«Adoro quelle del compleanno degli altri, non le mie.» Mi alzo dal letto, esco dalla stanza e comincio a scendere le scale. Sbattendo le palpebre resto immobilizzata a guardare il muro che prima non avevo notato, travolta dalla stanchezza. Quando ho lasciato questa casa per trasferirmi a Londra nessuno avrebbe pensato, senza conoscere il nostro passato, che un tempo questa casa era abitata anche da un’altra persona. Ci sono le foto della nostra infanzia, io appena nata con una Jade di sette anni che mi tiene tra le braccia. Noi due, sorelle, che cresciamo insieme. Una mia foto singola, in cui emergo in tutta la mia goffaggine con un sorriso storto, incerto, e accanto alla mia un’altra foto incorniciata.
Jade come la ricordo, come la sogno, sorridente e con gli occhi acqua marina lucidi di gioia.
«Le abbiamo messe appena siamo tornati,» dice la mamma con un filo di voce. «Era giusto.»
«Sì, era giusto,» riesco a dire, e vorrei correre nella mia stanza, tornare ad abbracciare il mio cuscino, immaginare che Jade sia qui con me. Immaginarla a gambe incrociate sul mio letto mentre ascolta la mia vita.
Dovrei sentirmi ingrata: ho dei genitori che hanno imparato a capirmi meglio, un ragazzo che amo, una migliore amica che c’è sempre per me, un lavoro per cui stravedo.
Eppure io desidero solo quello che non potrò mai avere.
Mia sorella.
Rivoglio indietro la mia Jade.
«Natalie.» La voce dolce e ferma di mio padre. «Ti vogliamo bene e vogliamo fare qualcosa di bello per te.»
La mia Jade, che non potrà mai, mai tornare. Che io posso solo ricordare, e questo la rende unica, vicina e lontana al tempo stesso. Jade, nella sua assenza, è ancora qui.
Anche se la sua assenza continua a ferirmi.
«Anch’io vi voglio bene, ma…» Mi interrompo. «Ma questo non serve.»
«Invitiamo solo chi vuoi tu. Per favore, Natalie,» dice la mamma. «Ti prometto che sarai contenta.»
Sbuffo. Rido piano. «Se vedo che non mi piace, posso scappare? »
Mamma si alza nelle spalle con un sorriso che le si dipinge sulle labbra, prepotente.
«Discretamente, va bene?» dice papà. Esulto improvvisando un balletto.
Mamma e papà mi passano davanti per scendere, resto in silenzio quasi senza respirare. Quando i tacchi della mamma picchiettano sul parquet del piano di sotto, le loro voci vengono fuori in un inevitabile sospiro.
«Conosci Natalie, non poteva essere diversa,» sento dire papà.
La voce della mamma è sicura, scende morbida. «Non l’ho mai voluta diversa.»
***
Stendo il foglietto a righi sul tavolo della cucina, mentre Wanda spazza per terra e la mamma si versa del succo di frutta nel bicchiere. Papà, seduto accanto a me con gli occhiali sulla punta del naso, legge dei documenti.
«Ho finito l’elenco degli invitati,» dico, senza guardare nessuno in particolare. La mamma si avvicina a me e mi prende il foglietto dalle mani, comincia a leggerlo e la sua espressione cambia ogni pochi secondi, come se fosse una trasformista del circo.
«Chi è Leonard?»
«Leo. Il ragazzo di Pam.»
«Oh ma guarda, tanti auguri. Chi è Suze?»
«La mamma di Leo.»
«Chi è Zot?»
«Il mio vicino ruesso
«Mhm?»
«Russo. Il mio vicino russo.»
«Chi è Claire?»
«La sorella di Ewan.»
«E Hatomi?»
«La sua fidanzata.»
La mamma posa di nuovo il foglio sul tavolo, resta in silenzio, fissa la superficie in legno come se le sue striature ricoperte di vernice lucida fossero improvvisamente importanti. Io desidero solo non arrabbiarmi, non per questo, perché l’affetto per i miei genitori è costante anche se noi, quando ci allontaniamo, traballiamo. E so che se le parole della mamma mi deluderanno, io mi allontanerò di nuovo.
«Claire è stata cacciata di casa per questo. Suo padre le ha detto che la preferiva morta.» La mia voce è un sussurro.
«Oh, santo cielo, no,» sospira mamma.
«Da pazzi,» grugnisce papà.
«Io ho sempre solo voluto che i miei figli fossero felici. Le mie figlie.» La voce di mamma trema. «Mia figlia.»
«Tracy,» papà la richiama dal suo torpore di dolore. « Ti ricordi quando abbiamo visto Arthur e Jade che si baciavano in giardino?» le chiede.
«Oh, come dimenticare. Mi venne un colpo.» La mamma ride, china la testa, fa in modo che io non veda la tristezza nei suoi occhi, ma che scoppia nei miei.
«Pensava che tutti noi dormissimo.»
«Nessuno dormiva,» riesco a dire io.
«Arthur però ci è sempre piaciuto,» dice la mamma, sedendosi. Torna a sorridere.
Ho un attacco di tosse improvviso.
«Io in quel momenti gli avrei voluto spezzare le gambe, ti dico la verità,» aggiunge papà.
Sei epico, papi.
«Anche mio padre a te, ai tempi,» continua la mamma.
 «Oh, lasciamo perdere. Natalie.» Papà mi posa una mano sul braccio. «Ti piacciono le ragazze? Perché se così fosse, non importa. Cioè, se per te va bene, va bene anche a noi.»
«È così,» aggiunge la mamma.
Wanda, nel suo silenzio, annuisce convinta.
Potrei scoppiare di commozione. «Mi rendete felice. Però mi piacciono i ragazzi. Mi piacciono proprio un sacco,» dico tutto d’un fiato.
«Che tipo di ragazzi, esattamente?» chiede la mamma, gesticolando. «Ti è passato il periodo dei metallari, vero?»
Scuoto la testa veloce. «Più o meno,» riesco a dire. Trattengo le risate mordendomi la lingua, non è proprio il momento giusto di tradirmi.
«Ti dispiace se invitiamo anche la prozia Mandy?»
«E chi è?» le chiedo.
«E lo zio Frank?»
Sbuffo.
«Okay, aggiungi chi vuoi, mamma. Più gente c’è, minori sono le possibilità che si accorgano che sono fuggita.»
***
«A me piace molto “La casa dei fantasmi”,» dice Pamela, seduta al lato destro del mio letto. È qui a Liverpool da almeno una settimana, ed io sto solo aspettando un momento perché lei mi racconti come procedono le cose con Leo.
«Sinceramente preferisco “Una serie di sfortunati eventi”,» le risponde Ewan, seduto al lato sinistro del mio letto. «Mi piace, è più dark e mistery.»
«Lo so,» sbuffa Pamela. «Ma non è Disney. Avevamo detto “serata film Disney”.»
«Allora vediamoci “Il re leone”. »
«Ma è un cartone non un film! C’è anche “Come d’incanto”.»
«Non vedrò il lieto fine dell’amante del marito di Daisy del grande Gatsby con il dottor stranamore,» sbotta Ewan.
«Mhm,» mugugno tra i cuscini, non riesco a trattenere una smorfia mentre penso a tutte le stagioni di cui è composta Grey’s Anatomy, il telefilm in cui compare il dottor stranamore e che non riuscirò mai a recuperare se non prima di dieci anni.
«Natalie?» mi chiama Ewan. Quando apro gli occhi mi ritrovo il suo viso a pochi centimetri dal mio, con la ruga della preoccupazione sulla fronte. «Ti senti un po’ meglio?»
«Ti sembra una domanda normale da fare a una ragazza in uno stato di salute del genere?» sbotta Pam. «Se stesse meglio ora sarebbe in giro a saltellare com’è normale per lei.»
Ma Ewan continua a guardarmi paziente, con il silenzio dell’attesa nel suo sorriso appena accennato.
«A volte penso… che forse non è semplicemente un inevitabile problema mensile,» comincio. «Forse sto solo morendo.»
Ewan mi scompiglia i capelli e si fa una strana risata. Di fronte a queste questioni i ragazzi si ritrovano ingenuamente allibiti.
«Forza, Nat.» Pam si stende accanto a me. «Alla fine dovresti essere contenta di essere in questo stato, visto tutto il sesso che hai fatto.» Le butto addosso un cuscino.
«Ehi, io faccio sesso sicuro,» precisa Ewan.
«Ah sì?» fa Pam, stranamente interessata.
«Ovviamente,» ribatte Ewan, si alza dal letto e la porta si apre. Riconosco, nell’ombra che si proietta sul pavimento, l’ombra di mia madre con il suo classico cappellino da passeggio.
Sto per urlare. «Ewan…»
«Natalie, non mi zittire. Io uso i preservativi. Io amo usare i preservativi.» Comincia a contare sulle dita di una mano. «Durex, Control, Akuel, Pamitex e ho pensato di provare anche l’Hatu,» continua sicuro.
«Bene.» La mamma, dalla soglia, tossisce. «Volevo chiedervi se volete qualcosa da mangiare,» dice la mamma con poca voce, pallida in volto.
Quasi quanto Ewan.
Gli lancerei addosso il cuscino con la faccia di Bill Kaulitz, altroché.
«No, grazie, signora,» le risponde Pamela, sorridente. «Dopo ordiniamo messicano.»
«Perché… comunque, lui ha sempre sostenuto quell’associazione contro le malattie sessualmente trasmissibili, per questo parlava in quel modo, lui,» improvvisa Ewan, lanciandomi uno sguardo di richiesta d’aiuto.
«Oh ma guarda,» dico io. «Che bella persona, lui
La mamma fa un sospiro di sollievo. «Buona serata, ragazzi.»
«Ciao, mamma!» le grido.
«Arrivederci, signora!» fa Ewan.
Lo guardo, Ewan mi guarda: il suo viso si apre in un sorriso. Alla fine il cuscino glielo lancio veramente. «Ti ucciderei,» gli dico.
Pamela sghignazza.
«Parli così solo perché sei in quei giorni lì, non sai quello che dici,» mi risponde Ewan.
Si sporge e mi dà un bacio sulla guancia.
«Piantatela,» ci richiama Pamela. «Alla fine che film guardiamo?»
«Dirty dancing,» dico io.
Pamela mi guarda come un cucciolo minacciato di botte. «Ma non è Disney.»
«Certo che non lo è. C’è Patrick Swayze, pace all’anima sua. Ma che gnocco.»
«Natalie!» Ride Pam.
Ewan schiocca la lingua e mi dà le spalle, come offeso.
«Ehi tu, non prendertela. Ho visto che hai le foto di Naya Rivera sul tuo cellulare.»
Ewan mi guarda di traverso. «Le aveva messe mia sorella.»
«Sì, come no. Accetta le mie cotte epiche ed amami comunque, io faccio già lo stesso con te.»
Riesco a farlo sorridere.
Pamela fa finta di vomitare arcobaleni. «Siete sdolcinati in maniera assurda! Se continuate così per tutta la sera io me ne vado.»
Non pensavo che qualcuno mi avrebbe mai detto una cosa del genere.
***
Ho fatto poche promesse nella mia vita, ma quelle poche sto imparando a mantenerle. Quindi porto Ewan alla scoperta della mia Liverpool, la città in cui sono nata. Liverpool non è Londra, non è Manchester, non è Bristol: non è l’Inghilterra come la conosce il mondo, ma una sua parte, cristallina e psichedelica, mistica.
«Sai che paragonano Liverpool a Napoli in Italia?» dico ad Ewan. «Per il mare, il porto, la gente. I Napoletani hanno qualcosa che gli Italiani non hanno: la gente di Liverpool ha qualcosa che la gente inglese non ha.»
Ewan ride a quel modo caldo e tranquillo che ha sempre quando siamo vicini. «Sei una vera *scouser.»
«Negli anni ottanta era un insulto,» preciso.
«Sì, ma non lo è più. Si dicono le stesse cose anche degli irlandesi, come se fossimo gli unici a fare casini quando vogliamo divertirci.»
Lo spintono con una mossa di spalla. «A me gli irlandesi sono sempre stati simpatici. Quanto  vorrei a vere i capelli rossi naturali!»
«Non si può avere tutto dalla vita, Natalie Truman.»
Lo abbraccio, sento l’odore della sua pelle aggiunto al naturale profumo di muschio. «E così tu facevi baldoria a Dublino? Seriamente?» gli chiedo, lo scetticismo nella voce.
«La finiamo con questo luogo comune sui pianisti perfettini?» mi dice all’orecchio. «Penso che tu abbia capito che mi godo la vita.»
«Ti sto sfottendo, genio.» Gli do un pugnetto sull’addome che risponde duro, per niente scalfito. «Ma tu sei suscettibile. »
«Bugia.»
«No che non è una bugia!»
«Te la faccio pagare prima o poi per tutte queste sentenze.»
«No, perché adesso vedrai un posto che ti piacerà e mi ringrazierai.»
Dopo un po’ di strada a piedi, raggiungiamo il porto – se una qualche magia fantastica esistesse e fossimo catapultati duecento anni indietro, sarebbe probabile che le nostre vite e le nostre anime sarebbero in serio pericolo. «Il porto dell’Albert Dock era in più malfamato di tutta l’Inghilterra.» Lancio uno sguardo ad Ewan. «C’erano assassini e prostitute.»
«Della serie vogliamoci bene
«Ma adesso ci sono tanti musei. Come cambiano le cose, eh?»
«Incredibile di cosa è capace di fare il tempo.»
Il tour per cui ho prenotato dura due ore. Ci ero già venuta quando facevo il liceo, facendo finta di non essere per nulla interessata, perché con la musica ho sempre avuto un rapporto che definire malsano è riduttivo, ora in un certo senso più sereno. Per questo, mentre la guida parla e ci mostra foto e cimeli, io mi perdo a guardare Ewan, Ewan che ha fatto della musica la sua vita, Ewan che è tornato a vivere con la musica, Ewan che mi ha aiutato di nuovo a credere nel potere dell’armonia delle note, Ewan che ha riportato indietro il mio passato e l’ha cucito su di me, gli aghi le sue dita, i fili i tasti di un pianoforte, mentre io diventavo completa.
Siamo nel museo della storia dei Beatles.
I suoi occhi sono lucidi di emozione e mi ritrovo a immaginare la sua infanzia, quel che è stato, quel che l’ha reso il ragazzo che amo. La persona che ha lasciato la casa dei suoi genitori per il male che avevano fatto a sua sorella, perché se non puoi credere più in qualcuno non ti restano altro che i tuoi princìpi; il ragazzo che mi ha aiutato a spezzare il dolore per farlo venire fuori, un po’ per volta, e renderlo più sopportabile perché una vita senza dolore non esiste, ma lui mi ha portato gioie, sorrisi, sorprese, notti insonni di rabbia e d’amore, e allora ho imparato a guardare i miei fantasmi senza tremore, senza timore.
«Nat, hai sentito?» Ewan mi distoglie dai miei pensieri ma, con la sua voce chiara a chiamarmi, li fa diventare ancora più veri.
«Mi sono distratta un secondo.»
Il suo sorriso mi fa sospirare il cuore. Con la mano destra mi indica una direzione, la seguo. Un pianoforte a coda bianco, splendente nonostante l’usura del tempo. John Lennon non fu un santo in vita; chi più chi meno, nessuno di noi lo è o lo è mai stato, eppure in tutto questo biancore mi viene spontaneo immaginarlo in un posto annuvolato, con i suoi occhiali rotondi e un sigaro in bocca, mentre suona per il mondo che lo capiva.
Immagino mia sorella, lontana, che ascolta la sua melodia.
«Un giorno anche tu ne avrai uno così bello,» riesco a dirgli.
Ewan non risponde, mi stringe la mano forte eppure delicato. Accenna un sorriso, metà del suo volto in ombra, l’altra metà in luce, come la prima volta in cui l’ho incontrato. «Grazie, Natalie.»
Ora la luce è su tutto il suo volto.
***
Tra preparativi, liste di dolcetti e stuzzichini, il diciotto novembre si è affacciato alla mia vita come una vecchia signora dai passi pesanti, che ha impiegato un anno per aprire la finestra e farsi vedere da me, per poi lanciarmi un sorriso sarcastico.
Vent’anni, è il mio pensiero quando apro gli occhi e mi rigiro tra le coperte.
Sono travolta dagli auguri dei miei genitori, quelli silenziosi di Wanda e da vari messaggi sul telefonino. Mi mordo le labbra perché non sopporto le feste del mio compleanno; il tipo di feste in cui miei parenti e miei amici sono nello stesso posto, e non ne ho mai potuto avere di diverse.
All’entrata accolgo tutti gli invitati sorridendo in modo perenne, come Ken di Barbie.
«Mamma, non conosco nessuno,» dico a denti stretti.
«Tesoro, sono sorelle e fratelli della prozia Mandy. »
«Santa Maria Benedetta. E quegli altri?»
«Non ti vedono da quando sei nata.»
Sbuffo. «Stupendo. Già li sento, “come sei cresciuta, piccola Natalie”. In confronto a com’ero, la mia seconda di tette sembrerà addirittura una maggiorata.» Lascio la mamma all’ingresso e mi verso un bicchiere di vino, comincio a bere presto per mia salvezza personale. Sto attenta a non far andare via il rossetto: mi ha truccato Pamela, con cura e dedizione; è tornata a casa solo per diventare la solita bomba sexy della festa, visto che Leo arriverà a momenti.
Non sono ancora arrivati a quel punto, ha avuto il tempo di dirmi. A volte Pamela è capace di uno stoicismo incorruttibile, mi sprona a fare cose che lei non farebbe mai, in cui poi mi ritrovo dalla testa ai piedi.
In confronto a lei sono una lussuriosa con un biglietto di sola andata per l’Inferno.
A volte mi sento proprio così.
«Ah, eccola, finalmente.»
Ewan.
Mi volto a guardarlo.
Lui, per la prima volta in abito – ma senza cravatta – prende un flute di champagne dal vassoio di Wanda, che glielo porge. Lui ringrazia con un sorriso e mi si avvicina, la sua mano sul mio fianco, le sue labbra vicino all’orecchio.
«Posso darti un bacio o è vietato?»
Sorrido come stordita. «Ewan, siamo circondati da gente.»
«Chi non sa niente pensa che ti sto facendo gli auguri.» Mi fa l’occhiolino. «Auguri, volpe di Liverpool.»
«Grazie.»
Mi dà un bacio sulla guancia, mi fa chiudere gli occhi.
«Questo vestito non l’hai disegnato tu, vero?» mi chiede. Mi appare l’immagine di me stessa allo specchio poco fa: io, con i capelli sollevati in una semplice acconciatura, un vestito blu notte stretto ma lungo fino ai piedi con, alle spalle, dei risvolti in velo che quasi sfiorano il pavimento.
Scuoto la testa. «No, è di Valentino. Non ho avuto il tempo di disegnarne uno mio.»
Ewan fa un sospiro. «Ma sotto porti il reggiseno?»
«Ewan!»
«Ci vediamo in giro.»
Lo lascio allontanare e faccio un respiro profondo.
Torno ad accogliere gli invitati: arrivano Suzanna e suo marito, un uomo bruno e in carne che pare simpatico, Leo – con un abito rigato rosso e bianco – e il piccolo Ben.
«Ne approfittiamo per fare una piccola vacanza,» mi dice Suze, sorridendo.
Per mia sorpresa, si presentano anche la signora Faryland e nonna Paullina, la prima in tutto il suo inquietante stile vedovale e la seconda in colori sgargianti come una bimba di cinque anni. Nonna Paullina si fa prendere a braccetto, la accompagno verso il divano in modo che possa consumare comoda il rinfresco.
Pamela appare dall’entrata che si affaccia sul giardino. Il vestito rosa confetto che indossa la fa sembrare una caramella: è bella in un modo dolce che riesce a farmi sciogliere il cuore. Si avvicina a Leo, che le prende la mano. Si sorridono.
Appena Suzanna si allontana, Leo l’attira a sé le dà un bacio degno di censura.
«La decenza!» gli grido.
«Questi giovani,» sospira nonna Paullina. «Ma li capisco, mio marito da giovane era un fustacchione. E tu, Natalie, ce l’hai un fustacchione? » Nonna Paullina mi fa l’occhiolino da sotto gli occhiali.
«Diciamo…» Ridacchio, presa dalla frenesia.
«Te lo dobbiamo trovare,» fa lei, e si abbassa la montatura degli occhiali per guardare da lontano. «Quanti vecchi, mon dieu.»
«Conosce il francese, nonna? »
«Eh, ho avuto una storia da ragazza. Che ricordi,» dice. Ewan mi passa davanti, mentre parla con il marito di Suzanna. «Uhhh, lui mi piace!» esclama la nonna, indicandolo.
E ti pareva.
«Davvero, nonna?»
«Non per te, per me.»
Scuoto la testa nel misero tentativo di trattenere una risata, poi la signora Faryland mi si avvicina e lascio che nonna Paullina resti con lei.
Mi alzo in piedi. «Finalmente si mangia, porca trota.»
«Natalie!» mi chiama la mamma, alle spalle. «Non si dicono le parolacce.»
«Non era nemmeno una parolaccia vera, mamma.»Mi alzo nelle spalle e guardo la tavola che il servizio catering sta imbandendo. «Almeno c’è il salmone.»
Mangio diversi tramezzini senza farmi alcun tipo di problema, quando mi sento piena mi lascio andare sul divano come se avessi una pancia di cinquanta chili e facessi la camionista nel tempo libero.
«Tesoro,» mi chiama papà. «Ti ricordi di zio Rufus? » chiede, e poi mi indica il signore accanto a lui, con i capelli bianchi e le lenti degli occhiali spessissime.
«No, papà.»
«Ma come sei diventata grande! » dice l’uomo, spupazzandomi il naso.
«Bleah,» mi sfugge dalla gola.
Papà mi fulmina con lo sguardo ed io trattengo il fiato. «Vado a incipriarmi il naso,» dico, in modo da allontanarmi. Faccio per raggiungere le scale e, appoggiato alla ringhiera, trovo Ewan.
La sua bocca si apre in un sorriso.
«Ti stai divertendo?» mi chiede.
 «Piantala di fare il simpatico. » Roteo gli occhi. «Pam limona con Leo, nonna Paullina ha più spirito di me e sono circondata da parenti sconosciuti. La mia comitiva di Liverpool è sempre stata ritardataria quindi viva gli over cinquanta.»
«Natalie, ascolta,» comincia Ewan. «Se vuoi scappare per un po’ sai a chi chiedere,» dice, a voce più bassa.
«Potresti anche risparmiarti di avere quell’aria sexy alla mia festa di compleanno. Siamo circondati da parenti.»
«Potrei dire la stessa cosa di te.»
«Non è vero.»
«Sì che è vero.»
Deglutisco. «Vado a prendere un po’d’aria.»
«Scappi da me? »
«Scappo da te, hai capito bene.»
«Caspita, devo essere davvero irresistibile, stasera.»
Non riesco a fare a meno di lanciargli un sorriso che mi nasce dal profondo di me stessa, per poi allontanarmi.
Mi piace camminare in giardino, mi piace quando sono da sola. Qui giocavo a nascondino con Jade. Qui abbiamo sempre fatto le feste di compleanno di papà, che è nato a Primavera. Qui… dietro a questo cespuglio, mi nascondevo con il tentativo sempre fallito di spaventare Arthur.
Un ragazzo qualunque.
Un amico.
Il ragazzo di Jade.
«Natalie?» chiama una voce.
Nient’altro.
Tremo.
Non riesco a venir fuori da questa siepe alta, come se in questo modo ne rompessi la magia.
«Natalie?» chiama ancora la voce.
Faccio un respiro profondo.
Mi preparo a insultare mentalmente chiunque voglia vedermi proprio in questo istante di solitudine, ma la voce si fa sempre più vicina – Natalie? – forte e distinguibile, - sei lì? –  familiare e rassicurante.
Arthur, con un pacchetto regalo nella mano destra, mi sorride con sollievo; i suoi occhi splendono.
Rispondo al suo sorriso.
«Ti stavo cercando dappertutto,» comincia a dire.
«Sono uscita… a prendere un po’ d’aria.»
Arthur mi cammina incontro con addosso un abito grigio scuro, rigato, che gli fa risaltare la figura slanciata, le spalle definite, l’altezza imponente ma proporzionata. Quando mi arriva davanti, non passa nemmeno il tempo di un respiro perché sono già qui, travolta dal suo abbraccio.
«Scusa il ritardo,» mormora. «E buon compleanno.»
Ridacchio.
«Grazie per gli auguri.» Mi passo una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «E non preoccuparti per il ritardo, insomma, signor manager, lei è molto impegnato per il suo lavoro e sono davvero lieta della sua presenza alla mia festa di compleanno.»
Arthur ride; una risata roca pregna di dolcezza.
Anch’io rido, presa dall’imbarazzo; presa, nella lucidità che sono riuscita a riacquistare, dalla sua disarmante bellezza.
«Ti ho portato il mio regalo,» mi dice dopo poco.
«Oh, c’è un tavolino apposta per i regali.  Mettilo e lì e lo apro alla fine.»
«Va bene. È che devo chiederti un’altra cosa.»
«Oh, mi dica, manager Benkinson.» Lo prendo a braccetto e mi dirigo verso l’entrata, lentamente.
«Non c’è bisogno che mi chiami così, trottolina.»
«Oddio, allora non chiamarmi trottolina.»
«Affare fatto.»
«Grazie, Arthur.»
Arthur sorride piano. «Devo partire per Shanghai. Credo che sarà il viaggio più importante della mia vita,» spiega. «Vieni con me, Natalie.»
Mi immobilizzo. Come se avessi un batuffolo di cotone in gola, non riesco a dire nemmeno una parola, mentre Arthur svia dalla mia presa e stringe la mia mano nella sua.
Tutto diventa improvvisamente evanescente.
«Shanghai?» riesco a domandare.
Arthur mi mette una mano sotto il mento e fissa i suoi occhi verdi nei miei. «Con me.»
Deglutisco. Ha questo suo modo di chiedere le cose, di entrarmi dentro quando in realtà c’è sempre stato, che mi lascia sempre interdetta. Sorpresa. Priva di parole.
Impaurita.
«Per Istyle. Unire la moda occidentale a quella orientale. Era una cosa riservata solo ad Istyle, ma visto che siamo soci e visto il calo di vendite di Vogue… perché non farti partecipare? Sei tu il talento,» continua.
Faccio un respiro profondo, sommersa dal sollievo.
Che film ti fai nella testa, Nat? E quali film, poi?
Non c’è mai stato niente.
«Waaaaaaa, che bello! Sclero!» È la cosa più intelligente che riesco a dire. «Cioè, in Cina! Che figo!»
«Allora è un sì?» mi chiede, in attesa.
Arthur sorride con il sole negli occhi ed io non posso non dirgli sì.
***
Dopo mezzanotte il DJ comincia a riscaldare l’atmosfera mentre io e Pamela improvvisiamo balli saffici come nostro solito alle feste. Il signor Zot attua coreografie russe anche se non c’entrano nulla, ma quell’abito blu che indossa lo fa sembrare davvero affascinante. Ewan, nella mia visuale, mentre mi guarda ballare con Pamela si allarga il colletto della camicia. Nonna Paullina non gli toglie gli occhi di dosso e alla fine balla con lui tutta Summer di Calvin Harris.
Mi scateno, liberando la parte più selvaggia e imbarazzante di me stessa.
All’ennesima – improponibile – canzone di Nicky Minaj, mi avvicino ad Ewan e gli carezzo le spalle. Incontro il suo sguardo incerto.
«Perché il mio coinquilino mi ignora alla mia festa di compleanno?» gli chiedo, alzando la voce in tutto questo baccano.
«Non sono mica il tuo fidanzato, volpe,» risponde lui, riservandomi un sorriso storto. Mi prende le mani e mi fa fare una giravolta veloce per poi farmi finire tra le sue braccia, a mezzo metro dal pavimento, a pochi centimetri dal suo viso.
Improvviso una mossa egizia mentre Ewan muove il bacino in qualcosa che secondo me è illegale. Aggiungo qualche passo alla Raffaella Carrà, di cui mia nonna è sempre stata una fan accanita. Cambio programma cominciando a saltare come una forsennata al ritmo della musica house, poso le mani sulle sue spalle e rido come una bimba che sale sullo scivolo per la prima volta. Quando la musica termina non riesco a non abbracciarlo, beandomi della sua presenza nel più semplice dei modi.
Quando apro gli occhi vedo Arthur dall’altro capo della sala, sulle scale. Dritto e composto nella sua figura, mi sembra improvvisamente fragile; non riesco a distinguere la direzione del suo sguardo.
Ewan mi fa fare un’ultima giravolta.
Riesco a trovare un equilibrio sui miei altissimi tacchi.
«Tu sai ballare e non me lo dici?» gli chiedo.
«So divertirmi e sono irlandese,» ammicca.
Roteo gli occhi.
«Tesoro,» mi chiama la mamma, a pochi metri da me. «È il momento dei regali.»
Seduta sul divano, sono circondata da pacchetti e mi rendo conto dei lati positivi dell’essere nata: i miei parenti mi hanno regalato solo soldi ed io mi sento la pronipote volpina di zio Paperone.
«Questo di chi è?» chiedo, prendendo un pacchetto rosa rettangolare della stessa ampiezza di una bottiglia.
«Mio!» fa Pamela, e batte le mani.
Quel che pesco dalla scatola è: un baby doll blu scollato ai limiti del possibile, una giarrettiera, delle manette, un frustino.
«Oh mio Dio,» mormoro, con la mamma che sta per svenire e papà che la regge. Pamela continua a battere le mani, Leo sghignazza accanto a lei, il piccolo Ben continua a chiedere “A cosa serve quella mazzetta di pelle?”, Suzanna fa per coprirgli gli occhi, Arthur ride di gusto ed Ewan mi fissa attento.
«Dai, Nat, fattela una risata!» mi dice Pam. «Signora, Natalie non è nemmeno fidanzata… è solo un regalo scherzo,» continua lei, rivolgendosi alla mamma. «Il vero regalo è un buono di cinquanta sterline da spendere in libreria.»
«Grazie al cielo,» le risponde.
La signora Faryland e la nonna Paullina un ricettario che fa illuminare gli occhi di Ewan.
Prendo un piccolo pacchetto, incartato ma senza fiocco. «E questo?»
«Mio,» dice Ewan, con un piccolo cenno.
Sorrido tra me e sento il cuore battere più forte. Non mi è passata per la testa l’idea che lui mi facesse un regalo e nemmeno che cosa potesse regalarmi: lo scopro in questo istante, quando estraggo dalla scatola il peluche di un pinguino con un fiocco rosa sotto il collo, grande la metà di me.
«Così l’altro pinguino, a casa, avrà compagnia,» mi dice, e si avvicina a darmi un bacio sulla guancia.
«Grazie, » dico alzando la voce. La abbasso: «Non pensi che potrebbe essere complicata una relazione tra un pinguino calamita e un pinguino peluche?»
«Le coppie tutte cuori e caramelle non mi piacciono, scusami se è poco.»
«Un pinguino?» chiede Arthur, seduto accanto alla mamma.
«Sì… io adoro i pinguini! » esclamo io. Solo ora mi rendo conto di chi ha fatto questa domanda e a chi l’ha fatta. «Arthur… Lui è Ewan.»
Arthur si alza in piedi dal divano ed entrambi si stringono la mano.
«Arthur Benkinson. Manager di Istyle.»
«Ewan Lynch. Pianista.»
Duello all’alba.
«Amico di famiglia da sempre.»
«Coinquilino da quasi sei mesi.»
«Okaaaay,» ridacchio isterica.
«Te ne intendi dei bilanci condominiali dell’Irlanda?» chiede Ewan, ed Arthur gli risponde con un cenno sicuro.
«Certo, ci ho fatto un esame solo su quello. La percentuale degli affitti è nettamente più alta delle vendite e…»
«Infatti, è proprio di quello che volevo parlare, i prezzi spesso non sono accessibili per i giovani.»
«Ragazzi, Natalie deve finire di aprire i regali,» li richiama papà.
Prendo una piccola scatola, blu e rettangolare, grande quanto la mia mano.
«Sì, manca il mio,» dice Arthur.
Quando lo apro non percepisco più i battiti che mi risuonano nel petto; la lucentezza dell’argento e la luce della pietra mi accecano, mi fanno tremare le gambe anche sono seduta, mi disciolgono in un’essenza sorpresa e basita di me.
«Ti piace?»
È un bracciale d’argento da cui pende un piccolo ciondolo. A forma di volpe, con due pietre bianche a formarne gli occhi.
«Moltissimo,» riesco a dire.
Tutti si alzano e parlottano tra loro; approfitto di questa distrazione dilagante e mi avvicino ad Arthur, gli do un bacio sulla guancia. «Grazie,» gli dico, e spero che capisca quanto sono sincera. Tutto è perfetto. Tutto va al meglio delle nostre possibilità.
«Grazie a te, per ogni cosa.» Mi carezza con il suo sguardo verde.
«Arthur, devo rubartela,» dice la mamma, e mi prende la mano. «Manca un ultimo regalo.»
«Mamma, i pacchetti erano finiti,» preciso.
«Oh, Natalie.» Mi scuote il braccio con un’emozione che si mostra negli scatti dei suoi movimenti, nel sorriso energico. «In un pacchetto non ci stava.»
Wanda, da lontano, mi lancia un sorriso e si volta ad aprire la vetrata che porta al giardino; due uomini portano su una pedana a ruote qualcosa coperto da un lenzuolo fino al centro della stanza. Mio padre mi raggiunge e mi stringe le spalle con un solo braccio, forte.
«Questo è il nostro regalo,» dice la mamma, con voce tremante. Tira il lenzuolo insieme all’involucro di plastica che non ne faceva intuire la forma e lascia cadere il tutto a terra.
Il regalo dei miei genitori è un pianoforte a coda, nero, lucido, sinuoso come la più bella delle donne che cantano amore e dolore.
La mamma mi stringe a sé.
«Non so cosa dire,» mormoro. Sto tremando.
«Spero solo che tu riesca, un giorno, a perdonarci,» mi dice piano.
Trattengo le lacrime in un moto di forza che mi nasce da dentro solo perché sono circondata da persone che non conosco bene, non tutte. «Vi ho perdonato, mamma.»
Mi carezza il viso con le sue mani sempre sporche d’inchiostro, intransigente quando corregge i temi su Flaubert.
Abbraccio papà e lui mi dà un bacio sulla fronte, leggero.
«Nat, ci suoni qualcosa?» chiede Pam, abbracciata a Leo.
Mi allontano da papà e scuoto la testa. «Non suono il pianoforte seriamente da anni. Io… io non me la sento ma…» Faccio vagare gli occhi su tutta la sala e mi fermo al nord a cui punta il mio cuore. «Ewan,» lo chiamo. «Ti dispiace suonare per me?» gli chiedo.
Attraversa tutta la sala a passo lento, quieto. «Non mi dispiace per niente, lo sai,» mi dice, e qualcosa nella sua voce vibra e mi fa rabbrividire. Ed io non potrei essere più felice al pensiero che il primo a toccare, a suonare, a far vivere il mio pianoforte con l’incanto della musica sia lui. Non potrebbe esserci nulla di meglio, anche in questo mondo in cui non si sa cos’è la giustizia e nessun metro è affidabile.
Ewan seduto al pianoforte è etereo, eterno, fermo nel tempo eppure in ogni luogo.
Allora io lascio che lui mi prenda per mano – la prima nota – e imprima sulla mia pelle una carezza – la seconda nota – e mi respiri sulla pelle – il terzo accordo – e perda il respiro – la prima pausa – e mi baci piano – altre note – poi forte – altre note – e mi faccia volteggiare come se non potessi mai inciampare – altri accordi – e mi faccia cadere tra le sue braccia – una nota – un’altra carezza – pausa – uno sguardo all’orizzonte – la musica, difficile e semplice insieme. Incantevole, delicata e forte, triste e gioiosa insieme, veloce e poi lenta, un’unione di diversità che crea un perfetto, melodioso equilibrio.
Quando finisce tutti applaudono. Io resto immobile nella magia, perché mi sembra di vedere Ewan per la prima volta. Mi sembra di riconoscerlo, ancora e di nuovo; ogni cosa mi sembra appena nata o forse sono appena nata io, perché Jade mi abbraccia, nella mia mente e nei miei ricordi, etornano le sue parole: torna il suo timbro a metà tra la dolcezza e la sferzante irriverenza. Perché amarlo è ogni cosa che esiste al mondo, ribaltata, vista nella prospettiva in cui non l’avevi mai guardata. Guardi le cose per la prima volta. Le conosci per la prima volta. Le ami per la prima volta. Come adesso: sei qui, e anche se ti vedo ogni giorno da quando sei nata perché sei la mia sorellina, ho scelto il nome per te, ed ho pregato per te e ti vedo di nuovo, ma per la prima volta.
Ti conosco per la prima volta.
Ti voglio bene per la prima volta, di nuovo e ancora.
Mi avvicino ad Ewan, tremante d’emozione. «Che cos’era questa musica?»
«Questo è il tuo vero regalo di compleanno.» La sua voce è una scia di luce nel suo sorriso. «Si chiama another place.» Mi prende la mano, come qualunque amico potrebbe stringere una sua amica, ma io sento il suo amore anche in questo gesto. «Ci sono andato, ho capito perché ti piace così tanto. Quel posto è tuo, questa musica è tua.»
Tutti si complimentano con Ewan, Claire – meravigliosa nel suo lungo vestito rosso – lo abbraccia forte con le lacrime agli occhi e poi viene ad abbracciare anche me.
«Sta’ attenta, Natalie,» mi dice con un sorriso che mi ricorda suo fratello.
«A cosa?»
«Tutti guardavano Ewan ma io ho guardato un po’ te… ed ho riconosciuto quello sguardo.»
Sbuffo. «Sguardo da… pesce lesso? »
«Sguardo innamorato
Sorrido e spero di non essere risultata ridicola. «Allora somiglio un po’ a te e ad Hatomi.»
Le si illuminano gli occhi, così simili a quelli di Ewan.
«Claire, è appena arrivato il taxi,» dice Hatomi, avvicinandosi a noi. La saluto con un abbraccio.
«Grazie per essere venute.»
«Ewan ti aspetta fuori,» continua Hatomi, rivolgendosi a me. Mi sorride. «Ha detto di stare attenta a non farti scoprire.»
Mentre mamma e papà sono impegnati a salutare la signora Faryland e nonna Paullina, esco dalla porta sul retro e raggiungo Ewan. Mentre siamo in viaggio ricevo la chiamata di papà, ma io mi invento che sono andata via con Pamela, presente anche quando è assente.
Ewan mi fa il solletico sulla pancia mentre rispondo, con la mano libera. Quando chiudo la telefonata lo minaccio con tutti gli epiteti che conosco.
Parcheggia. Apro lo sportello, mi tolgo le scarpe e mi metto a correre: la frescura della sabbia mi fa venire i brividi sulla schiena. Corro, corro e corro – e rido, senza respiro.
Mi fermo davanti alla prima statua che mi trovo davanti; mi fissa sempre con la stessa espressione seria e saggia, che guarda fisso davanti a sé, cercando di scavare nell’orizzonte.
«Salve,» Ewan si rivolge alla statua, ci si appoggia con il gomito. «Come butta?»
Solo ora mi accorgo che sta sorgendo l’alba.
Lo adoreresti, Jade. Rideresti di me, che lo amo così tanto, che sono diventata grande anche se ho ancora tanta strada da percorrere a piedi e con le scarpe alte, perché per chi nasce donna le cose vanno così.
«Scusa la sabbia, ragazzo, non mi aspettavo visite,» dico io, cercando di fare la voce grossa, così piccola in confronto a queste statue in ghisa ed in confronto ad Ewan, senza i tacchi ai piedi.
Ewan manda indietro la testa, il suono roco della sua risata mi carezza la pelle laddove la tocca anche la brezza marina, fresca e pungente.
Chiudo gli occhi all’ennesima, leggera folata di vento.
«Nat, per favore, non ammalarti,» fa Ewan, con una voce a metà divertita a metà apprensiva. Apro gli occhi e lui è qui, di fronte a me, che si toglie veloce la giacca e me la posa sulle spalle. Un sorriso mi si scioglie sul volto come miele appena fuso.
«Oh cazzo, fa veramente freddo,» esclama.
Scoppio a ridere. «È novembre, che cosa ti aspettavi?» Inclino la testa. «Rivuoi la tua giacca? Non vorrei che ti ammalassi anche tu. »
«Ma tu mi hai già fatto ammalare.» Mi fa alzare il viso verso di lui con due dita sotto il mio mento, mi guarda negli occhi. «E poi ho imparato a riscaldarmi.»
«Io agli scout ho imparato come accendere un fuoco.»
Mi bacia con dolcezza, abbracciandomi, avvolgendomi, scacciando l’aria fredda.
Resto con gli occhi chiusi.
«Mi pare di capire che non sei andato agli scout.»
La sua bocca sul mio collo. «Ma so riscaldarmi bene comunque, scommettiamo?»
Cerco di spintonarlo via, ma con le scarpe in mano riesco a fare davvero poco; alla fine mi scivolano via e mi lascio andare ad un ringhio.
«Ecco, vedi, ancora una volta per colpa tua mi si sono rovinate le scarpe,» mugugno.
«Sì,» ammette, torna ad abbracciarmi e le sua mani scendono sui miei fianchi. «Va bene, è sempre colpa mia.»
«Per le scarpe.»
«Per le scarpe.»
«La mia salute mentale.»
«La tua salute mentale.»
«Per il modo in cui vedo le cose.»
«Per il modo in cui vedi le cose.»
Metto il broncio ed Ewan mi abbraccia ancora, mi carezza la schiena che lascia scoperto il vestito, sotto la giacca. E allora io lo stringo a me, lo stringo a me quanto posso e la sua camicia si sporca del mio rossetto e si imbratta del mio respiro. Bevo dal suo affanno quando il suo viso si avvicina al mio, e mi sporgo – in punta di piedi, piano – e le mie labbra sono sulle sue.
E poi le parole sono poche, e adesso ci ammaleremo per davvero. Non mi importa, non me n’è mai importato, altrimenti non sarei qui, non lo amerei, non risponderei al mio nome ed al mio bisogno di lui. E allora la sabbia non è più fredda e la giacca mi accoglie il capo quasi senza rumore, perché i nostri respiri bastano al silenzio di questa notte che si rischiara nel rosa dell’aurora.
Avviene con urgenza. In un modo che another place non sia parole immaginate e musica ma che sia altre parole, altra musica. E allora mentre mi aggrappo alle sue spalle alla ricerca del segreto di quel che si smuove nel mio corpo, Ewan mi ruba un bacio che rivela ogni nostro sogno.
Mi rivela che another place, oggi, ora, anche se questo tempo si esaurirà in se stesso come ogni giorno del mondo, ha l’eternità.
*
*
*
*
Buonasera, miei carissimi lettori <3 Mi piaceva l'idea di pubblicare questo capitolo, che termina nella data del diciotto novembre, nel vero diciotto novembre, visto che questa storia è ambientata proprio nel 2014 :3
Per qualunque cosa, chiacchiere, considerazioni, salotto e biscotti, ecco qui il link del mio gruppo dedicato a "La volpe di Liverpool".
Spero che vi sia piaciuto e di avervi fatto vivere un diciotto novembre speciale, in qualunque giorno vi capiti di leggere questo capitolo.
Un bacio e grazie di tutto, siete meravigliosi.

 
Ania <3
 
Pubblicità: poche persone a quindici anni scrivono bene e con passione come l'autrice di questa storia. Passate e non ve ne pentirete! :D

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Capitolo 21
*** Ventunesimo capitolo ***



21.
Questo capitolo è dedicato a Marika e Michela.
Buon viaggio alla scoperta di Londra, carissime <3

Il mio telefonino squilla al ritmo incalzante dell’ultima canzone di Rita Ora, che mi fa aprire un solo occhio alla ricerca di una motivazione importante per alzarmi dal letto. Non devo per forza rispondere.
Perché mai dovrei rispondere...
«Natalie,» farfuglia Ewan, la bocca contro il cuscino. «Il tuo telefono.»
«Mhm.»
«Rispondi.»
«MHMMMMM.»
Ewan si rigira nel letto e mi decido ad aprire anche l’altro occhio, sbatto le palpebre. «È il tuo telefono,» continua lui. Non ricordavo che si fosse addormentato senza maglietta: questa è una provocazione, io non dormo mai in biancheria. «Se non rispondi, chiunque sia a cercarti chiamerà Pamela.»
«Oddio, ma io non sono con Pamela.»
«Sei a letto con me a casa di mia sorella, se sei ancora troppo intontita per capirlo.»
«Tonto sarai tu,» sbotto. «Come se non fosse la prima cosa che ho capito aprendo gli occhi. Dov’è il mio telefono?» Mi metto in piedi, improvvisamente sveglia, e comincio a guardare ovunque con il panico che il telefono smetta di suonare. E che, chiunque sia a cercarmi, scopra che non ho passato la notte a casa della mia migliore amica.
«Forse è nella borsa,» sospira Ewan.
Apro la borsetta e trovo il mio S3, la cover con la faccia di David Tennant a sorridermi; esalo un respiro di sollievo ed Ewan si tira il lenzuolo sulla testa. 
«Pronto, mamma?» rispondo, senza nemmeno leggere il nome sul display.
«Nat, sono Arthur.»
Per un attimo resto ferma, imbambolata come un prosciutto in salamoia, lascio passare qualche secondo: deglutisco e trovo la forza di rispondere con tutto l’entusiasmo che ho in corpo. 
«Ciao, Arthur! Il fantastico, super manager di Istyle!» esclamo, e mi stendo accanto ad Ewan.
Arthur, dall’altra parte del telefono, ride. 
«Nat, sono solo Arthur.» 
Solo Arthur.
Giocherello con il ciondolo a forma di volpe che pende dal braccialetto che mi ha regalato, lo porto ancora al polso. «Volevo darti tutti i dettagli per la partenza,» continua.
«Partenza?» fa eco Ewan, totalmente sveglio, con uno sguardo a metà tra il curioso e il sorpreso.
Gli tappo la bocca con una mano.
«Natalie, tutto bene?» chiede Arthur.
«Sì,» dico io, mentre mimo ad Ewan di restare in silenzio. «Ho la televisione accesa, ho appena impostato su mute
Ewan mi fulmina con i tuoi occhi azzurro scuro, lucenti del sole che picchia dall’esterno – raggi luminosi delle dieci del mattino – e ci raggiunge attraverso la finestra.
 
Quando chiudo la telefonata, Ewan si è già messo addosso maglietta e jeans e mi fissa appoggiato allo stipite della porta. Quella parte del suo viso colpita dal sole pare quasi traslucida: è l’effetto dell’acqua, dopo essersi sciacquato il volto per svegliarsi completamente.
«Shanghai?» domanda, ed ho l’impressione che sia un sussurro ma in realtà il suo tono è forte, interrogativo ma quasi incerto, tentennante.
Mi stringo nelle spalle e non so se è giusto che io mi senta in colpa, ma è quel che accade: in bocca ho il retrogusto amaro di un dispiacere che non può che derivare da questo. Quando Arthur mi ha chiesto se volessi andare con lui, non ho avuto alcun dubbio sulla mia risposta. Il modo in cui mi ha guardato, il modo in cui mi ha sorriso, mi ha solo convinto ancora di più che fosse una cosa giusta, incredibile, meravigliosa, che non potevo perdere. Per me stessa e per la mia carriera.
Ed Arthur mi è sembrato così felice.
Così tanto…
«È per lavoro,» mi sbrigo a dire, ed è la verità. Non potrebbe essere altrimenti.
«Wow,» dice, si passa una mano tra i capelli. «Be’, cerca di divertirti e di non lavorare soltanto.» E sorride. Così, semplicemente, come se fosse inevitabile guardarmi – sollevare lo sguardo, cercarmi, trovarmi – e regalarmi quest’istante in cui lui è qui e mi fa questo sorriso – splendido, imperfetto, il canino storto a notarsi, una spontaneità che mi fa mozzare il fiato, nessun difetto ai miei occhi –, lo fa come se non fosse un regalo. Come se fosse scontato. Ma qui nulla lo è: nulla che riguardi Ewan potrebbe mai esserlo.
Nulla, da quando Ewan è nella mia vita, può essere previsto.
«Sai che senza te e Pamela non riuscirei mai a godermi questo viaggio per davvero,» comincio a farfugliare. «E quando diventerai famoso e sarai in tour, tu come farai senza me, il signor Zot e mio padre che cerca di farti il gioco della macchina della verità?»
«Non credo che diventerò famoso, Natalie. Ma non importa, io sto bene così. Anzi… sto bene? Io… io non lo dico perché dirlo è da sfacciati. Ma io sono sfacciato, non mi vergogno di niente, tanto meno di questo quindi ecco: io sono felice. Io non potrei avere di più da questa vita se non quello che ho ora.» Si siede accanto a me, sul letto.
«Sono felice se tu sei felice,» dico e penso nello stesso momento. È forse per questo che mi trema la voce? Che non riesco più a guardarlo negli occhi? Che ancora non riesco ad abituarmi al modo in cui Ewan Lynch sa amarmi?
«Tu sei l’inizio della mia felicità.»
Eppure lo affronto: come provo e ho provato a fare con le mie paure, i miei spettri, i miei dubbi che lui stesso ha fatto emergere. Cerco il suo sguardo e lo trovo e il cuore mi scoppia – sono un’esplosione di emozione, adrenalina, incredulità.
Eslpodo, implodo, vivo ogni giorno e momento in cui scopro infinite volte – davvero infinite – che quello che sento per lui è quello che lui sente per me.
«Sto per dire qualcosa di davvero diabetico. Voglio dire, è l’unica cosa che posso fare.» Mi mordo le labbra. «Con Claire ed Hatomi in casa non mi sembra il caso di… ecco, hai capito. Quindi… Sei pronto?»
Ewan ride piano. «Sono pronto.»
Cerco di fare la voce impostata, come nei migliori film romantici di sempre. «Questa volta è Shangai. Col tempo, chissà quale posto sarà, ma su una cosa non accetto discussioni. Io non sarò mai lontana dal tuo cuore, Ewan Lynch.»
Ewan mi prende tra le sue braccia. «Caspita, questa roba è davvero sdolcinata. Che cosa è successo alla mia volpe? Che cosa le hanno fatto?»
Scuoto la testa, ridendo. La sua fronte contro la mia, mentre la risata si fa sempre più lieve. «Accettami per quello che sono e dammi un bacio.»
«Ma ti pare che devi chiedermelo?»
«Che cosa?»
«Di accettarti per quello che sei. Io ti amo per quello che sei.» I nostri nasi si sfiorano e per la sua bocca è sulla mia, in un bacio che è anche un sorriso.
«Nemmeno tu scherzi in quanto a sdolcinatura, Ewan.»
«Be’, con Claire ed Hatomi in casa non mi sembra il caso di… hai capito. Ti stai lamentando?»
«Non potrei mai lamentarmi.»
***
Ewan apre la porta della cucina e mi fa passare per prima. Claire, in una vestaglia rosa shocking, solleva lo sguardo da una tisana rossa fumante.
«Buongiorno! Ewan, non dormivi fino a quest’ora dal capodanno 2003,» dice, e si lascia andare ad un risata leggera.
Guardo Ewan di traverso. «Allora non sei sempre stato mattiniero.»
«Dipende da chi ho nel letto,» precisa. «Mi avevano regalato il pigiama di Batman a Natale ed era la prima volta in cui lo avevo messo. Questa volta, be’…»
«Ewan,» lo richiamo.
«… Avevo solo sonno.»
Sospiro di sollievo.
«Non sono nata ieri, fratellino, ma potresti anche avere la cura di non ammetterlo spudoratamente.»
Le mie guance vanno in fiamme. «Tranquilla, Claire, lo sistemo io. Ha dormito davvero come un ghiro.»
Hatomi, seduta sul divano mentre mordicchia una barretta di cioccolato, ridacchia. «Ewan, Claire mi aveva detto che eri sfacciato ma non credevo così tanto.»
«È anche peggio,» diciamo io e Claire contemporaneamente.
Ewan sbuffa, vistosamente contrariato; credo che poche cose mi divertano al mondo come Ewan messo in difficoltà.
Da tre donne, poi. Perché può succedere che, con le stesse possibilità degli uomini, siamo anche capaci di superarli.
Potere al femminismo!
«Ewan, fai sempre colazione con latte e deliziosi cereali Cheerius oppure hai cambiato dieta?» gli chiede Claire mentre si alza dalla sedia.
«Non mi va di fare colazione oggi,» mugugna.
«Ogni tanto osa con i cereali al cioccolato,» rispondo io. «Assolutamente no quelli con le fragole, però. Non gli piacciono le fragole.»
Claire prende una tazza dalla credenza e si volta a guardarmi, occhi blu di un mare profondo quando il sole è già andato via. «Conosci mio fratello come le tue tasche, volpe di Liverpool.»
Potrei gongolare come un pupazzo con la testa mantenuta da una molla di ferro. «Be’, devo per forza conoscerle per cucirle. La qualità della stoffa e la forma e la capienza…»
«Ora comincia a parlare in nerdese da barbie passione stilista, non ascoltatela,» si intromette Ewan. Lo fulmino con lo sguardo e lui mi fa l’occhiolino, devo assolutamente trovare qualcosa da lanciargli in testa. «Claire, Nat fa colazione con una tazzona di caffè, altrimenti durante il giorno si addormenta mentre cammina e inciampa sui tacchi.»
«Traditore!» esclamo.
«Sei sexy,» mi dice.
«Ma piantala!»
«Davanti a tua sorella,» ride Hatomi.
Claire scuote la testa. «Che faccia di bronzo.»
Ewan si mette a braccia conserte, ignorando bellamente i nostri sguardi. «Hatomi,» la chiama lui. «Natalie andrà a Shangai per un po’. Le insegni qualche parola?»
«Oh, saresti gentilissima,» mi aggrego, guardandola. Non so se le volpi possano fare uno sguardo da cucciolo nello stile del gatto degli stivali di Shrek, ma io ci provo.
Hatomi inclina la testa, i lunghi capelli neri che sembrano allungarsi ancora di più verso il pavimento. «Mi dispiace ma io sono giapponese,» dice, con un sorriso tirato.
«Oh…» sussurro.
«Merda,» mormora Ewan.
«Non mi avete offesa, tranquilli,» aggiunge lei. «Ma in Cinese conosco solo le parolacce, non credo possano servire.»
«No, no insegnamele, ti prego!» mi agito.
Claire, Ewan ed Hatomi mi fissano senza dire una parola.
Vorrei scomparire.
«Va bene,» assente Hatomi.
«Le voglio imparare anch’io,» dice Ewan.
Claire lo riprende. «Ma a te non serve!»
«Ma è figo!» controbatte lui.
Claire si mette una mano sulla fronte. «Ma che fratello ho?»
Ewan le si avvicina e comincia a farle il solletico. Claire cerca di sviarlo ma Ewan è più veloce, più forte, più deciso. Claire ride forte, chiudendo gli occhi, e nel momento in cui si rassegna Ewan le dà un bacio leggero sulla fronte.
Il viso di Hatomi è attraversato da un sorriso ampio, traboccante di tenerezza.
Assomiglia all’inizio della felicità.
***
Ho salutato mamma, papà e Wanda, con la promessa che cercherò di tornare almeno per il prossimo mese e la loro minaccia, nel caso in cui non riesca a mantenere la mia promessa, di essere raggiunta da loro. Hanno salutato Ewan come se fossero più affezionato a lui che a me.
Ha superato la prova: è, di sicuro, il primo ragazzo che mamma guarda come se anche lei si fosse presa una cotta per lui, dopo i tempi di Arthur Benkinson.
Arriviamo a Londra, Ewan parcheggia la macchina in garage. Lascio il mio posto e, senza sapere perché, assecondando solo questo strano impulso, mi avvicino al suo pianoforte. Lo guardo soltanto, senza alcuna intenzione. Ewan merita di più.
Ewan merità un pianoforte a coda come il mio.
Ewan merità che il suo sogno non sia più solo un sogno.
«Allora, volpe, quando vuoi cominciare?» mi chiede, alla mie spalle.
«Che cosa?»
«Le lezioni,» mi risponde con un sorrisino. «Se proprio vuoi pagarmi, non in denaro.»
«Aspetta,» dico, il tempo di incepparmi nel mio respiro. «Tu-tu vuoi darmi lezioni di pianoforte?»
«Be’, sì, i tuoi te ne hanno regalto uno, perciò…»
«Lo faresti? Voglio dire, hai le prove con gruppo e poi i tuoi pezzi, ed io… io devo cominciare ad attrezzarmi per la prossima collezione Primavera-Estate…»
«Quale altra scusa vuoi inventare?» continua, e mi carezza il collo infilandomi una mano tra i capelli.
Faccio un respiro profondo.
«Non sarò mai brava come una volta,» sospiro. «Non lo sarò perché ho poco tempo, non lo sarò perché non sono com’era Jade.»
«Non devi essere come Jade.» Mi fa voltare. «Prendi quello che ti ha insegnato, ricorda, onora tua sorella, ma sii Natalie. Io sono innamorato di Natalie ed è lei che aiuterò a suonare il pianoforte.»
Sbatto le palpebre. Mi perdo nel mio sguardo imbevuto ora di lacrime che non voglio far scendere, perché non ho bisogno di nessun uomo nella mia vita, ma da quando Ewan c’è ho bisogno di questo ragazzo che rende tutto e sempre un’implacabile sfida. Ho bisogno di questo ragazzo perché lo amo: perché è quello che mi mette di fronte ai pericoli peggiori da cui non posso fuggire, ma è sempre pronto a prendermi la mano ed accompagnarmi in questo percorso. È pronto a salvarmi quando non riesco a farcela da sola.
Lo attiro a me e lo bacio, trattengo tutta il fiato nei polmoni e rubo la sua aria, gliela restituisco nel tempo un respiro anche se sarà sempre mia.
Mi arriverà al cuore insieme al sangue.
***
Non esiste tempo o impegno che tenga quando vuoi fare qualcosa con tutta la forza che hai in corpo, anche se sei esile, alta un metro e sessantatré, con pochi muscoli nelle gambe ed appena vent’anni di vita alle spalle.
«Aspetta, aspetta,» mi richiama Ewan. «Quando vai a suonare il la, usa il pollice e fallo andare sotto il palmo… così.»
In garage, seduti al suo pianoforte verticale, la Primavera di Vivaldi per pianoforte armonizza il silenzio dei nostri respiri.
«Va bene, riprovo.» Mi passo una ciocca di capelli dietro le orecchie. «Ma questa parte secondo me è un po’ troppo difficile.»
«Nat, ho constatato il livello, sei già avanti. Ti spaventa una semicroma qua e là?»
Sbuffo. «Ha parlato quello diplomato al conservatorio,» gli dico, e lo spintono con un colpo di spalla.
Ewan ride a quel modo roco e profondo che è solo suo. «Non vuoi più che ti insegni a suonare?»
«Lo voglio, voglio imparare,» dico subito, sicura. «Voglio tornare brava come una volta.»
«E ci riuscirai, sarai anche meglio.» Gli sorrido, un muto grazie per la sua fiducia in me, per lo sguardo pieno d’amore che riconosco.
Dopo alcune incertezze riesco a suonare l’inizio della Primavera di Vivaldi in modo più o meno decente e questo mi rende orgogliosa, esaltata.
«Ci siamo quasi,» dice lui, e sposta i fogli dello spartito.
«Ewan,» lo chiamo. «Hai lo spartito di another place
«Certo che ce l’ho, ma non ho intenzione di dartelo,» ghigna.
Storco la bocca. «E perché?»
«Perché ti ho dato il cd con la musica e anche il file mp3.»
«Sì, infatti me lo sono messa sull’ipod.»
Ewan sgrana gli occhi. «Veramente?»
«Certo, così posso ascoltarla durante il viaggio.»
Sorride, un movimento di labbra pieno di felicità, imbarazzo, orgoglio. «Ho capito, ma quello è il mio regalo,» precisa. «Quindi quando la vuoi sentire dal vivo, te la suono io.»
Sbuffo. «Sei il solito.»
«Anche tu.»
Mi appoggio alla sua spalla con il braccio e sfoggio la migliore espressione tenera della mia faccia. «Quanto mi mancherai?»
Rotea gli occhi, incapace di trattenere un sorriso. «Natalie…»
«A chi darò fastidio?» Mi aggrappo alla sua maglietta. «Come farò?»
Ewan mi prende il viso tra le mani, quelle che solo poco fa sfioravano il pianoforte. «Non ti preoccupare.» Mi riserva un sorriso appena accennato. «Se non saremo insieme a  Shanghai o qui, saremo insieme in un altro posto.»
***
L’ascensore è ancora rotto, quindi io ed Ewan saliamo le nostre tre solite rampe di scale per rincasare. Ewan prende le chiavi dalla tasca e un rumore, proveniente dal lato opposto del pianerottolo, attira la mia attenzione. Una porta che sbatte e una donna, trafelata, con la camicia bianca del lavoro abbottonata male e le ciglia attaccate per il mascara che non deve aver tolto ieri sera prima di coricarsi – per far cosa, mi chiedo – è ora sulla soglia dell’appartamento del signor Zot di San Pietroburgo.
«Uao,» mi viene fuori. «Su-zanna?»
Suzanna alza il viso tra di me e i suoi occhi si riempiono quasi in un istante di lacrime.
«Nemmeno una parola, Natalie,» mi intima. «Anche tu, nemmeno una sillaba,» si rivolge ad Ewan.
Ewan alza le mani in segno di resa. «Io mi faccio solo i fatti miei.»
«Anch’io,» continuo. «Ma, Suze…» Mi avvicino a lei e la prendo gentilmente per il braccio; ha lo sguardo ferito di un animale in gabbia. «Puoi fidarti di me. Entra in casa, ti sistemi un po’ e mi racconti tutto.»
Suzanna annuisce e si lascia guidare in casa. Mentre le lascio usare il bagno, preparo tre tazze di tè e le metto su un vassoio, accompagnate da qualche biscotto.
Ewan mi viene vicino, mi parla a bassa voce.
«A cosa stai pensando?»
«A niente,» sussurro. «Mi sto sforzando di non pensare.» Sospiro e mi accorgo che sto tremando. «Suzanna è sposata, è la madre di Leo, è una persona stupenda e so che comunque sia andata non poteva essere evitato.»
«Non puoi evitare di smettere di amare qualcuno.»
«Non puoi evitare di amare qualcuno, anche non avresti mai pensato di amare quel qualcuno.» Prendo il vassoio e mi dirigo in salotto. «Ognuno parla secondo le proprie esperienze.»
«Sì.» Ewan fa un profondo respiro. «Nat, non penso che serva parlare dei nostri ex o cotte passate, tu già sai che quando ti ho conosciuto non amavo più Alyssa da tanto tempo.»
Poso il vassoio sul tavolino davanti al divano e mi volto a guardarlo. Ewan continua a parlare. «Non è finita quando ho capito che si era stancata, quando non si faceva problemi a cercare in altri cose che poteva avere da me, ma quando ha smesso di essere onesta con me. Ed io non voglio niente di più di questo da te.» Mi guarda dritto negli occhi. «Quindi sì, avevo già smesso di amarla. Averti ogni giorno davanti agli occhi mi ha fatto capire che per me c’era ancora una possibilità di sentire qualcosa di bello, e di assomigliare un po’ a Claire.»
Faccio un respiro profondo.
Alyssa non era più onesta con lui.
«Ewan…»
Suzanna esce dal bagno col viso pulito, ma da un’espressione di rimorso, rassegnazione, colpa.
«Io vado a fare una passeggiata,» conclude Ewan.
Prendo una tazza di tè e la porgo a Suzanna, che la accetta senza guardarmi negli occhi, vergognandosi. Si sente la porta che sbatte e finalmente Suze mi guarda: è una donna splendida e la sua età non fa altro che renderla davvero donna.
«Quante cose brutte penserai adesso, di questa povera cameriera?» mi chiede, devastata nell’aspetto e nella voce.
«Nemmeno una,» dico sicura. «Soprattutto perché non sei  solo una cameriera. Sei mia amica. Ora siediti e beviamo questo tè.» Ci sediamo entrambe sul divano. «Dici che dobbiamo correggerlo con un po’ di vodka? »
Suze scoppia a piangere.
Mi metto le mani tra i capelli, non l’avessi mai detto.
«Io non ne ho idea,» singhiozza Suzanna. «Non ho idea di come sia potuto succedere. Sono sposata con mio marito da vent’anni. Ed è vero, lui… si è lasciato andare, aveva i suoi problemi sul lavoro, i suoi amici, e poi i bambini… penso sempre ai miei bambini. E alla tua festa di compleanno pensavo che finalmente avremmo potuto stare più insieme, divertirci, fare un po’ come quando eravamo più giovani.» Tira su col naso. «E quando Zot si è avvicinato a me per chiedermi di ballare mio marito non ha fatto una piega. “Sì, prenditela, almeno la finirà di scocciarmi con questa roba da mocciosi”. Ed io ho ballato con Zot. Ed è stato davvero bellissimo, perché un uomo non mi guardava così da quando avevo diciassette anni.» Le porgo un fazzoletto, aspetto qualche minuto e poi Suze continua a parlare. «Ed avevo deciso di evitarlo per tutta la vita, ma non ci sono riuscita.»
Non riesco a capire che cosa sento: non so se sono triste per questa fine o felice per quello che potrebbe essere un nuovo inizio. Perché Suzanna sta piangendo, eppure quando pronuncia il nome di Zot i suoi occhi paiono luci.
«E non dovrò vederlo mai più. Tutto questo non accadrà mai più,» dice risoluta. «Ti prego, Natalie, non dirlo a nessuno.»
«Non lo dirò a nessuno, sta’ tranquilla. Suze… tu ami ancora tuo marito? »
«È mio marito.»
«Ma questo non c’entra.» Mi stringo le mani in grembo. «Essere legati da un vincolo a volte non basta per amarsi per tutta la vita.»
Suzanna sospira. «Natalie Truman,» mi chiama con enfasi. «Quando sei giovane puoi scappare, puoi ancora crescere, puoi cambiare. Ho quarant’anni, due figli, un lavoro che a malapena mi fa comprare un paio di jeans per il mio semplice piacere personale. Non posso fare come hai fatto tu.»
«Suzanna…»
«Ho sbagliato. Ho fatto un enorme sbaglio.» Suzanna si alza in piedi, i suoi capelli corti fino alle spalle, bruni e lisci, in uno scatto le nascondono il viso. Eppure io posso immaginare la sua espressione, l’essenza di dolore che invade i suoi occhi scuri.
Faccio un respiro profondo e la seguo mentre lei si avvicina alla porta. La apre e, di fronte a noi, il signor Zot ci offre la sua schiena mentre chiude a chiave la porta di casa sua. Suzanna si irrigidisce e Zot si volta.
Suze si gira a guardarmi in un nanosecondo. «Ho saputo di Shangai, Natalie. Fa’ buon viaggio e manda qualche cartolina.»
Mi stringo nella spalle. «Di sicuro.»
Suzanna scende le scale senza salutarlo.
Gli occhi azzurro chiaro del signor Zot la seguono ed io mi accorgo, sorprendendomi, che il suo viso è di una carnagione chiara, arrossata solo sulle guance, nella norma.
Non ha bevuto.
«Signor Zot…» lo chiamo, e vorrei tanto dirgli qualcosa per consolarlo.
«È cuosì, Natalui. Speriamo in qualcuosa e poi quella spueranza muore,» sospira. «Vodkua salva.»
«Già… la vodka salva,» gli faccio eco io.
Arriva il momento in cui può salvarci solo qualcun altro.
Arriva il momento in cui dobbiamo salvarci da soli.
***
Sono in ritardo, come al solito, nei momenti meno opportuni. E non ho nemmeno fatto colazione. Salutare Ewan mi ha richiesto più tempo del previsto e mi sono ritrovata ad uscire con due linee di eyeliner tremolanti sugli occhi e lo stomaco vuoto. Mi fermo davanti al primo bar che incontro trascinandomi dietro il trolley.
«Un ciambella, per favore,» chiedo con il respiro affannato. «Con tanto cioccolato, quella con più cioccolato.»
«Certo, gradisce anche un caffè?» La voce melodiosa che si inceppa su un’eccessiva morbidezza della erre mi fa sollevare il viso dalla vetrina dei dolciumi.
Con una divisa a righe bianche e rosa da cameriera mi fissa dall’altra parte del bancone. Porta i capelli legati in un chignon da cui viene fuori qualche ciocca, con un cappellino rosa.
Il viso chiaro da bambola e due grandi occhi scuri.
«Emanuelle?» chiedo, senza crederci davvero.
Emanuelle distoglie lo sguardo dal mio, veloce. «Se vuoi un caffè, chiamami.» Fa per allontanarsi ed io poso la mano sulla sua.
«No, aspetta.»
«Non c’è il veleno nella ciambella, se è quello che ti stai chiedendo.»
«N-non me lo stavo chiedendo,» riesco a dire. «Sono solo… sorpresa. Come mai sei qui? Ti hanno fatto uscire?»
«Sei cieca? Se lavoro qui è perché sono uscita.»
Mi irrigidisco, presa in contropiede. Allontano la mano dalla sua. «D’accordo,» dico, storco la bocca fissando lo sguardo sulla ciambella.
«Oh, bordel de merde,» sbotta. «Possibile che qualunque cosa faccia devi farmi sentire in colpa?»
Decido di ignorarla. «Voglio solo mangiare questa ciambella e, sì, vorrei anche un caffè.»
«A me dispiace,» continua. E decido di sollevare lo sguardo. «Mi sono davvero pentita di quello che ho fatto e non perché sono stata messa dentro: perché sei una brava persona e non te lo meritavi. Ma stavo perdendo tutto.» Fa un respiro profondo. «Ho scelto dall’inizio di andarti contro: avevo fatto un accordo e questo si è rivelato un circolo vizioso da cui non sono potuta uscire. Quindi, se non l’hai capito, mi sto scusando
Non so che cosa dire. Non mi aspettavo di incontrarla così presto, tanto meno di sentire queste parole – queste scuse – anche se velate da quest’acidità e altezzosità sfrontata.
Ma così è Emanuelle Marchand.
«Be’, ti sei scusata… è sempre qualcosa.» Do un morso alla mia ciambella.
È deliziosa ed è vero, non c’è veleno, perché sono ancora viva.
«Non mi mandi nemmeno a fare in culo?» Emanuelle fa schioccare le labbra.
«Non so, tu hai dei gusti sessuali particolari, come faccio a sapere se è un insulto o un invito ben accolto?»
Emanuelle scuote la testa. «Caspita, Natalie… sai sempre come salvarti, vero?»
«No, non lo so mai,» rispondo.
Emanuelle inclina la testa. «Dovresti imparare una strategia. Sarai anche una volpe, ma se non stai attenta potresti finire in una qualche trappola. Se ti prende le zampe sarà difficile uscire.»
Finisco la mia ciambella e le porgo i soldi che le spettano.
«Grazie per il consiglio.» 
*
*
*
*
Ciao, miei lettori meravigliosi! <3 Questo è un capitolo di passaggio, ma con degli spunti importanti che svilupperò più avanti. Natalie sta per partire per Shangai con Arthur. Vi aspettate qualcosa da questo viaggio? :3
Grazie, grazie di cuore a tutti voi. Spero di non risultare banale o troppo sentimentale quando dico che mi regalate una grande gioia attraverso le vostre emozioni e riflessioni. Siete stupendi.
Mi permetto di linkarvi una storia con cui sono arrivata terza al carinissimo contest La vita è una rete di piccoli, invisibili appuntamenti di OttoNoveTre, si tratta di una one-shot, Gli occhi gialli di Ernesta Mancina.

Se siete curiosi sul dietro le quinte di questa storia, sono stata intervistata - è incredibile, lo so - in questo bellissimo blog <3
Al prossimo capitolo.
Un grande bacio,
vostra Ania <3

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Capitolo 22
*** Ventiduesimo capitolo ***



22.

*Would you hold my hand
If I saw you in heaven?
Would you help me stand
If I saw you in heaven?
I'll find my way through night and day
'Cause I know I just can't stay here in heaven

Time can bring you down, time can bend your knees 
Time can break your heart, have you begging please, begging please

Beyond the door there's peace I'm sure
And I know there'll be no more tears in heaven
Tears in heaven – Eric Clapton
 
La prima classe della British Airways offre i migliori servizi, ma io mi agito al solo pensiero che dovrò starmene qui seduta per dodici ore. Guardo fuori dal finestrino e aspetto la partenza; fin da quando ero bambina mi è sempre piaciuto osservare le nuvole da vicino. Su questo mezzo saremo al massimo dieci persone: ci ignoramo con cordialità e di questo sono felice, perché mi fa pensare che le riviste di Gossip non siano le uniche cose da leggere ad essere vendute.
Arthur, accanto a me, dopo l’ultima avvertenza ripetuta in almeno cinque lingue diverse, indossa la cintura. Porta un maglione leggero con uno scollo a V, verde, di una sfumatura di almeno tre toni più scura dei suoi occhi.
«Ho preso il posto accanto al finestrino, ti dispiace?» gli chiedo.
«No, per niente,» risponde subito, come se gli avessi chiesto una vera scemenza. «Piuttosto, tu stai bene? Hai bisogno di qualcosa?»
«Non ho paura di volare,» gli dico, e sorrido. Non vedo l’ora di arrivare a Shanghai e fare tantissime foto; con i soldi che mi hanno regalato i miei parenti per il mio compleanno sono riuscita a comprare una macchina fotografica da vero sclero.
«Be’, questo è scontato.» Arthur si stringe nelle spalle, sorride anche lui. «I tuffi che volevi fare da piccola al mare erano davvero spericolati.»
Mi metto a ridere. «Sono sempre stata pazza.»
«Già.» Arthur scuote la testa, continua a sorridere. «Ma non potrò mai dimenticare le tue corse ad Another place.»
«Stiamo per decollare, signori,» dice l’hostess, e mi salva dall’imbarazzo di guardare Arthur mentre una moltitudine di immagini si affollano nella mia mente, perché è incredibile come due parole ne possano richiamare altre mille, come possano richiamare, adesso, un solo ricordo. Anche se Another place nel passato è stato mio, poi mio e di Arthur, ora non riesco a fare a meno di pensare a me e ad Ewan.
A metà del film in cui Julia Roberts interpreta la regina cattiva di Biancaneve – uno dei tanti che trasmette la televisione della nostra fila – cado in un sonno profondo, come se io stessa avessi addentato la mela della fiaba. L’unica cosa che ricordo è il respiro di Arth – quasi si trattasse del mio – per il contatto delle nostre braccia vicine, sul bracciolo del sedile; e il ciondolo a forma di volpe del mio braccialetto, che brilla.
Mi accorgo di essere dall’altra parte del mondo senza aprire gli occhi: la prima voce metallica a informarci dell’arrivo parla una lingua che non è la mia.
E poi…
«Natalie.» La voce di Arthur. «Siamo arrivati.»
Apro gli occhi e incontro il suo sorriso. Prendiamo il taxi per arrivare all’hotel ed io perdo respiro e capacità intellettiva di fronte alle luci rosse e gialle che illuminano la magia fatta di vita e leggende che è Shanghai; strade asfaltate percorse da persone con gli occhi a mandorla, altissimi grattacieli si alternano a strade più piccole in roccia, da lontano si distinguono i templi con un’architettura che mi ricorda i cappelli messicani che indossa Pam, ma fini e mistici.
Arthur apre la portiera per farmi scendere dalla macchina. Mi porge la mano ed io non posso fare a meno di afferrarla, ancora persa a guardare e ad immaginare. Ci sono ragazzi con i capelli turchini, ragazze dalla chioma corvina, altre con i capelli rosa e uomini anziani dalla barba bianca vestiti di abiti lunghi che emergono in tutta la loro antica eleganza. Ogni tanto si scorge un trattorino trasportato da un ragazzo con un cappello in paglia, che delinea la forma della testa e continua piatto e rigido. L’autunno non è mai arrivato: i fiori dei giardini, i petali per strada, brillano come le lanterne appese a tutte le abitazioni.
«Xièxiè,» dice Arthur al taxista e gli porge delle banconote.
«Conosci il Cinese?» gli chiedo.
«Ho fatto un corso quando andavo all’università e questa è la quinta volta che vengo in Cina. Con la globalizzazione il Cinese è secondo solo all’inglese.»
«Lo sapevo ed è una figata!» esclamo.
Arthur risponde con un sorrisino, guardando per terra mentre ci avviamo verso l’entrata.
Arthur prende la chiave,  ci dirigiamo verso il corridoio in cui si trovano le nostre camere – il facchino ci porterà le valige.
«Conosci anche le parolacce, in Cinese?» gli chiedo, non riesco proprio a non farmi prendere dall’entusiasmo. «Perché io qualcuna sì ma… una che mi interessa tanto tanto, no.»
Arthur mi guarda di traverso, ma il sorriso resta. «Che cosa vuoi sapere?»
«Porca di quella puttana di tua zia.» Sfrego le mani come una mosca. «È troppo importante, non posso non saperlo.»
Non ho avuto il coraggio di chiederlo ad Hatomi.
Arthur rotea gli occhi e se li copre con una mano mandando indietro la testa. La sua risata, spontanea e inevitabile, risuona in tutto il corridoio.
***
In Doraemon il protagonista del cartone, Nobita, passava la maggior parte del tempo a fare riposini su un materasso sottile che si avvolgeva su se stesso. Era la fine degli anni sessanta, quindi non so se sentirmi delusa o sorpresa per la presenza di un letto a una piazza e mezza assolutamente normale.
Prendo il cellulare e comincio a fare selfie a tutto spiano, vicino alla tenda, vicino all’armadio, vicino alla pianta di bambù, con la lingua di fuori, la bocca a fare smorfie stane e tentativi mal riusciti di sorrisi, ma alla fine sono troppo sfinita anche per fare la cretina, quindi mi addormento senza nemmeno essermi cambiata.
A svegliarmi è la voce di Arthur che chiama il mio nome, ma non capisco da dove. Mi alzo ancora stordita e scosto le tende per aprire la vetrata che si erge sul balcone.
Ma non è solo un balcone.
A sinistra c’è una piccola scaletta per  scendere e, di fronte a me, una piscina rettangolare con tanto di sdraie. Arthur mi è di fronte, oltre la piscina; la sua stanza è di fronte alla mia.
Rispondo al suo saluto con la mano. «Oddio, abbiamo una piscina!»
«Anche bella grande,» precisa Arthur, avvicinandosi. «Tu non sei ancora pronta?»
«Pronta? Usciamo?»
«C’è la riunione, l’hai dimenticato?» mi chiede Arthur, inclinando la testa.
«Stasera?!»
«Be’, siamo qui per lavoro…»
«Giusto,» mugugno. «Me n’ero già scordata.»
Mi sorride, non fa altro: è un modo antico che ha sempre avuto per rassicurarmi – i sorrisi lanciati da una parte della stanza all’altra, quando ero bambina, quando sono cresciuta, quando sono diventata la persona che sono adesso. «Ce ne andiamo all’Huangpu River.»
***
Mentre salgo sullo yatch il vento mi fa svolazzare il vestito rosso che ho deciso di indossare, spero solo che non mi si vedano le mutandine. Il fiume Huangpu è così blu che mi ricorda il mare, gli occhi di Ewan, al contrario del Tamigi a Londra che ha un colore che varia dal verde al grigio. Il quartiere del Bund, dove si trova anche il nostro hotel, è ben visibile da qui, splendente, con i suoi grattaceli che trafiggono le nuvole.
Prendo il cellulare dalla borsa.
«Vuoi che ti faccia una foto?» mi chiede Arthur.
«Oh! Sì, grazie.» Non avevo ancora avuto modo di guardarlo bene: indossa un modello Armani blu notte, i capelli gli cadono leggermente ondulati sulla nuca ed è così a suo agio – ogni cosa è così giusta – che non posso fare a meno di restare sorpresa.
Poggio le mani sulla ringhiera e sorrido con la buona intenzione di venire bene. Scatta.
«Bellissima,» dice, il vento che gli scompiglia i capelli senza intaccare minimamente alla sua bellezza.
«Evvai! Di solito non sono più fotogenica di un tricheco.»
Mi siedo al tavolo delle riunioni, mi si affianca l’interprete della rivista Vogue – un ragazzo piuttosto in carne e con il viso gentile – mentre Arthur mi si siede accanto, al lato destro. Una donna occupa presto il posto vuoto che affianca Arthur, lei gli sorride con il languore dei suoi lineamenti orientali. Cominciano a parlare in Cinese e a ridere. La sala si riempie di persone di varie nazionalità orientali, indiani, coreani, ma anche occidentali.
«Ehi, caro interprete che mi salverà da situazioni imbarazzanti,» mi rivolgo al ragazzo accanto a me. «Come ti chiami?»
«So-sono Julian, signorina Truman,» mi dice, balbettando. «Io… io adoro la vostra linea!»
«Davvero?» gli chiedo, e non riesco a non farmi travolgere da un moto di gioia.
Il ragazzo si gira e mi mostra il piccolo logo con la scritta La volpe di Liverpool; come ho fatto a non riconoscere la sua maglietta a righe incrociate?
«Ho trovato la mia taglia senza problemi, è stato stupendo,» continua, e mi guarda con gli occhi che luccicano. «E ho comprato dalla tua linea anche i jeans per mio figlio. In saldo.»
Trattengo le lacrime a stento. «Grazie… grazie di cuore, Julian.»
«Ma grazie a voi, volpe di Liverpool.»
Arthur mi posa una mano sul braccio. «Cominciamo, Nat. Vorrei presentarti Suzuko, la manager della rivista  giapponese più famosa al mondo, la Yoi seikatsu.»
Susuko china la testa a mani giunte nel suo chimono verde elettrico. È pallidissima, un insieme di nero e bianco: troppo strafiga per starmi simpatica, almeno a pelle; potrebbe smetterla di fare gli occhi dolci ad Arth anche mentre mi saluta.
«Mai sentita nominare,» mi scappa.
«Mio piacere conoscerti,» dice lei con un sorriso stampato in faccia, come se le avessi fatto un complimento. «Stilista non potuta venire ma io portato modelli,» continua, e mi porge una cartellina. Quando sto per sfogliare i lavori mi si avvicina un cinese che comincia a parlarmi senza sosta, Julian traduce qualcosa inerente all’onore e al piacere di avermi qui e mi porge altri modelli. Unire l’occidente all’oriente, questo è l’obiettivo. Immagino un kimono bianco perla con su il disegno di una volpe di profilo – il muso sulla spalla, la coda a finire sul fianco – a motivi acquerello, per poi metterci sotto una minigonna nera.
Appunto tutte le mie idee.
«Arthur,» sussurro. «È assurdo che ci siano solo manager e non altri stilisti.»
«Natalie, il talento sei tu.»
«Piantala, Arth, mi fai sentire una Mary Sue. Potrei fare schifo. Capita, sai.»
«Se capita mi prendo la colpa,» conclude.
Bene, ora sono più tranquilla.
Passa un cameriere e ci porta dei flutes di champagne; Arthur, dietro di me, sta parlando con Julian, quindi mi ritrovo accanto a Suzuko.
«Cin cin.» Mando giù una sorsata ed incontro lo sguardo sconvolto di Suzuko, che si alza e se ne va come se le avessi insultato la zia preferita.
Arthur non ha voluto rispondere alla mia domanda, prima.
Secondo me non lo sa dire.
Nel frattempo la sala è scesa nel silenzio. Faccio un respiro profondo.
«Che cosa ho fatto?» mormoro, e non so bene a chi faccio questa domanda.
«Cin cin non è una bella cosa da dire a una Giapponese,» mormora Arthur.
«Che vuol dire?» chiedo a denti stretti.
«Pene-pene,» risponde Julian. «È come se le avessi detto vaffanculo.»
Mi lascio andare sul tavolo.
Parlo sempre nel momento sbagliato.
«Porco cin cin,» sussurro io.
***
La volpe di Liverpool in Cina.
La volpe di Liverpool in Corea.
La volpe di Liverpool in Giappone.
La volpe di Liverpool in India…
Lo yatch percorre l’Huangpu river; lascio che il vento mi scompigli i capelli. Sono sola, ho lasciato la sala dopo il secondo flute di champagne, visto che ho completato tutte le firme: tutto questo dopo l’interminabile discorso in cinese  che è stato noioso anche in Inglese, quando Julian me l’ha tradotto.
Ma ci sono dentro.
Sono diventata una stilista vera.
Contemplo questa Shanghai notturna con la speranza di non aver immaginato tutto in un attimo di follia con la mia Pamela.
«Eccoti,» mi dice Arthur, cambiando la mia condizione da che me ne importa se ho i capelli come la criniera di Mufasa, tanto non mi vede nessuno alla parte in cui porca puzzola, mi sta guardando uno proprio a caso.
Mi sposta una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Le volpi conquisteranno il mondo.»
«Tipo il pianeta delle scimmie?» chiedo. «Caspita, è inquietante.»
«Non è inquietante, Nat. È l’inizio di qualcosa di grande… gli stilisti più famosi ancora in vita voglio conoscerti, parlarti, complimentarsi con te.»
Resto immobile. Fisso le lucciole che girano attorno alla lanterna rossa poco sopra la testa di Arthur. «Eh?»
«Ecco, diciamo che Donatella Versace è ancora un po’ scettica… ma con Armani non ci sono dubbi. Sei dentro… Natalie, hai capito quello che ti ho detto?»
Sbatto le palpebre e, nel tempo di qualche secondo, la voce di Arthur torna nella mia mente a svelare il mio futuro, persone importanti, gratificazioni, riconoscimenti. «Oh… mio Dio.»
«Vuoi fare qualcosa per festeggiare?»
Dirlo ad Ewan, balbettare al telefono e sentirlo ridere.
«Io… io non lo so.»
«Hai provato la cucina cinese, vero?»
«No.» Scuoto la testa. «In Inghilterra mai. Ma visto che sono a Shanghai…»
Il ristorante è piccolo ma accogliente.
Arthur mi è di fronte ed io non riesco ancora a trovare una posizione comoda ma decente per sedermi su questo cuscino – per terra è veramente scomodo – senza far vedere le mie mutandine nere, in pizzo, provocanti e senza alcuna utilità qui.
«Arth, tu che prendi?»
Arthur sta per rispondermi quando al nostro tavolo si avvicina un gruppo di uomini e donne cinesi. «Good evening,» dicono quasi all’unisono.
«Oh, in Inglese grazie a Dio,» mormoro.
Prendono posto sui cuscini accanto a me e accanto ad Arthur senza fare complimenti ed io sorrido quasi senza respirare, in modo che non percepiscano la mia perplessità.
Ma chi sono questi?!
«Natalie, loro sono degli amici, mi sono occupato di un affare con loro lo scorso anno,» mi spiega Arthur.
«È un grande onore…»
«… immenso piacere…»
«… grande privilegio…»
«… Conoscerti.»
Parlano quasi contemporaneamente, chinando la testa con le mani giunte; l’unica cosa che riesco a fare è imitare il loro movimento e dire solo piacere.
Almeno parlano in Inglese, Nat.
Almeno puoi capirli.
Ridacchio. «Che cosa si mangia?» chiedo.
Occhi a mandorla mi fulminano con lo sguardo.
«Ehm… Natalie voleva dire, caro Lang,» Arthur si rivolge all’uomo più anziano. «Vuole darci il piacere di ordinare?»
Porca puzzola, si rispetta la gerarchia anche al ristorante.
Prendo le stesse cose che prende Arthur: presto il mio spazio viene occupato da wafton fritti, involtini primavera, gnocchi di riso e ho ordinato anche nuvole di drago, ma non le vedo.
«Dove sono i draghi?» esclamo.
«Non sono veri draghi,» mi dice la ragazza accanto a me, in perfetto inglese. «Le nuvole di drago sono sfogliatine fritte ai frutti di mare.»
Comincio a mangiare, non ho mai usato una bacchetta in vita mia: un involtino primavera mi cade con un plaff nel bicchiere del vino rosso, facendo schizzare tutto sul cinese di fronte a me e sulla sua camicia bianca.
Splatter!
«Mi scusi,» tossicchio.
Arthur si gira per non farsi vedere mentre ride.
Tutti mi guardano storto ma io penso solo cin cin e buoni gli involtini primavera.
Esco dal ristorante con la pancia piena ma ancora insoddisfatta.
«Natalie, non avevo idea che sarebbe andata così, io volevo festeggiare in maniera diversa…»
«Arthur.» Mi aggrappo alla sua giacca. «C’è un negozio in cui posso comprare un po’ di vodka?»
***
Rita Ora canta nella mia testa.
Quando apro gli occhi mi rendo conto che mi canta solo vicino all’orecchio: la sua voce proviene dal telefonino, appoggiato sul comodino basso.
Sul display lampeggia un nome che riesce a farmi scoppiare di gioia.
«Pamela!»
«Nin hao,» dice lei dall’Inghilterra.
«E che cazzo, in Cinese anche qui!»
Pam ride sguaiatamente. «Abbiamo solo due minuti di conversazione. Mi manchi tanto, Nat. Com’è Shanghai?»
«Anche tu, Pam. Shanghai è bellissima. Ieri sono andata al ristorante cinese per festeggiare – era tutto molto buono ma il McDonald è la mia ragione di vita, lo sai. E tu come te la passi? Dove sei?»
«Be’, sono a Londra, dormo da Leo, ma non pensare male… voglio dire, lo sai. Ben fa talmente tanto casino che quando dorme vuoi solo dormire anche tu. Mentre… tu… Festeggiare? Festeggiare cosa?»
Quasi non riesco a dirlo. «Ehm… ehm il su-successo della vo-volpe di Liverpool… nel mondo.»
«Oddio! Allora la riunione è andata benissimo!»
«S-sì, cioè, c-credo…»
«Nat sta balbettando?» chiede una voce che non appartiene a Pamela, e mi fa saltare sul mio posto e quasi scivolare il cellulare dalle mani.
«Ewan!» esclamo.
«Te lo passo,» fa Pam.
Non riesco a respirare.
«Come sta la mia volpe?» chiede lui.
«Non potrebbe stare meglio.» Sospiro.
Mi rotolo sul letto come un gattino.
«Sto aspettando delle foto, mettile su facebook almeno.»
«Tranquillo, ti invierò una cartolina. Un giorno ci dovremo venire insieme, qui. Prima di addormentarmi in taxi sono riuscita a comprare una vodka cinese!»
«Zot sarà orgoglioso di te, sempre che la vodka non faccia schifo.»
«Dopo la assaggio.»
«Non ti ubriacare… o devo forse essere geloso di quel Benkinson che sta con te?»
Fa un effetto così strano, sentire queste parole. Ewan geloso di Arthur. Arthur che mi accompagna sempre, ad ogni passo importante della mia vita.
«Sono una brava ragazza, che hai capito?»
Ewan assiste, ora, anche ai passi più piccoli, insignificanti, brevi del mio cammino, che portano poi a quelli grandi.
«Ma se ti sei addormentata in macchina come ti sei ritrovata in camera?» mi chiede.
Qualcuno bussa alla porta; mi alzo e guardo nell’occhiolino, è proprio Arthur.
«Non mi ricordo,» dico. «Ma deve essere stato…»
«Agh, no… Nat, sta per scadere il tempo della conversazione.»
«Oh…»
«Ci sentiamo stasera, intanto… Wǒ ài nǐ.»
«Uffa, in Cinese anche tu!»
Ewan ride dall’altra parte del mondo, ma non è mai abbastanza lontano per non farmi rabbrividire nel calore della sua risata.
«Vuol dire ti amo, Nat.»
Un altro colpo alla porta.
Ho le lacrime agli occhi e mi sento tornata a quando avevo quindici anni e piangevo un giorno sì e l’altro pure per un ragazzo che non riusciva a guardami come la donna che sentivo di diventare.
«Wǒ ài nǐ,» dico anch’io.
Cade la linea e contemplo il display del cellulare.
«Natalie?» mi chiama Arthur. «Ci sei?»
Forse è ora che gli apra la porta.
«Mi sono appena svegliata,» dico, lasciandomi andare a uno sbadiglio. Lo faccio entrare e mi stiracchio.
«Ti ho sentita parlare in Cinese.»
Mi stropiccio un occhio. «Giusto qualche parola mentre parlavo con Pamela al telefono.»
«Wǒ ài nǐ dice Arthur. Apro gli occhi definitivamente: indossa una maglietta grigia a maniche corte e un paio di jeans; l’outfit più sportivo che io gli abbia mai visto addosso, e gli sta d’incanto. Si volta verso di me. «Ti amo,» continua, traducendo quel che ha appena detto.
«Sì,» dico io. «Della serie… Natalie Truman che cerca di imparare sempre le cose più facili. Studentessa pigra in ogni caso, eh?»
«È solo una frase essenziale da sapere, per vivere davvero, in qualunque lingua.» Mi sorride. «Da oggi in poi siamo liberi, a parte qualche incontro veloce. Ti va di uscire?»
«Certo! E spero di arrivare al mio letto senza addormentarmi in taxi.»
«Non preoccuparti, sei un peso piuma,» mi tranquillizza. «Addormentata sembri una bambina.»
Non hai mai visto più di una bambina, in me.
Con te, forse, posso ancora esserlo senza sentirmi fuori posto.
«Una bambina pestifera?»
«Anche i bambini pestiferi quando dormono sembrano angeli.» Si mette le mani in tasca e si dondola sui talloni, fa un sorriso che sembra catturare ogni cosa intorno a lui: sguardi, aria, luce.
«Sono abbastanza furba per farlo credere,» dico io.
***
A Shanghai il tempo passa, sono passati i secoli, eppure ho l’impressione che questa città sia attraversata da un’aria antica che non l’abbandonerà mai, come se ci fossero ancora imperatori e solo agricoltura a sfamarla. Io ed Arthur passiamo questi giorni in giro per la città, spesso accompagnati da Julian, il nostro interprete. Resto incantata dall’Yuyan Garden, una casa grigia e imponente dello stile dei samurai, circondata da un giardino in cui i colori della primavera cinese fluiscono come tempere sulla tela di un pittore – acqua verde attraversata da pesci arancioni, petali rosa sulla terra, sculture in pietra. È incredibile come la cucina italiana giunga in tutto il mondo: a colazione ordino sempre un cappuccino. Ricordo le estati della mia infanzia passate in Campania dalla nonna Anna, che si innamorò di nonno George quando aveva ventitré anni e già tutti la davano per zitella; ma lei fuggì col turista inglese dalle lentiggini che io ora ho, lasciando le sue compaesane alle prese con ricami e preghiere alla madonna.
Al pensiero che domani mattina dovrò partire comincia a salirmi un po’ di malinconia.
«Nat, per di qua,» mi dice Arthur.
Io lo seguo nella stradina da cui, da lontano, riesco già a vedere il tempio di Buddha. La statua crisoelefantina sembra guardarmi con la sua espressione pacifica e al tempo stesso lontana che hanno i saggi, anche quando vengono scolpiti. Smorzano l’atmosfera i gadget che si vendono intorno e il tavolo basso che ci sta di fronte – tra noi e la statua – su cui sono posate delle cartoline. Ne prendo una a caso.
 «Buddha deve essere stato una persona simpatica. Io sono per lo più agnostica ma… quel che diceva questo tipo mi piaceva,» dico. «L’ho studiato a scuola.»
«Predicava equilibrio,» risponde Arthur. «Pace, serenità, stabilità. Che equivale al raggiungimento della felicità. Eppure più passano gli anni, più mi sembra di raggiungere una forma perfetta di disquilibrio e instabilità
Inclino la testa e lo guardo. «Arth, parli tu che sei la persona più stabile mentalmente che io abbia mai conosciuto. Io non ho ancora imparato bene a camminare sui tacchi, altro che equilibrio.»
Ride un po’, non mi guarda, mi parla. «Riesci sempre a vedere le cose dal lato in cui fanno meno male.»
«Ci sono dolori peggiori di una caviglia slogata, tu lo sai.»
«Sono ateo,» precisa Arthur stringendosi nelle spalle. «Non credo che cambierò idea e non amo vivere nell’incertezza.»
Usciamo dal tempio e percorriamo le scale. «Infatti sei sempre stato bravo in Matematica. I numeri sono una certezza.»
«I numeri sono più certi di altre questioni ma sono infiniti e niente, per quanto sembri, è certo.»
Scendo le scale a braccetto con lui. «Un equazione ha di certo più certezze di un possibile luogo dopo la morte,» mormoro.
«E se l’equazione è impossibile?»
«Forse è solo un’equazione anticonformista. Magari un modo per risolverla c’è e voi ancora non lo conoscete. E dovete immaginarlo.» Gli sorrido.
«Se non si riesce a immaginarlo?»
Scendiamo in strada.
«Forse è solo un’equazione che non vuole essere risolta, e sta bene così.»
Arthur si ferma. Forse avrà visto qualcosa che gli interessa e mi volto di nuovo a guardarlo, visto che mi ero persa ad osservare questa stradina di Shanghai. Ma Arthur sta guardando solo me e, senza alcun preavviso, mi stringe a sé. Le manifestazioni d’affetto di Arthur sono sempre state così: inaspettate e delicate, timorose e al tempo stesso spontanee.
«Vorrei essere come te,» sussurra.
«No, non vorresti.» Ridacchio. «Non immagini quanti brutti voti ho preso a scuola, roba da far venire i capelli bianchi a tua madre.»
Mi stringe ancora di più, quasi le mie parole non avessero più alcun potere sulle sue azioni. Ha un profumo piacevole, che carezza le narici, trasforma il sangue in miele.
«Tu riesci a immaginarla dopo?» sussurra.
Mi scosto di poco da lui ma resto fra le sue braccia. Non è vero che vedo le cose dal lato in cui fanno meno male: le vedo e basta, nel loro insieme, ed è per questo che mi devastano. Perché ne riconosco l’ingiustizia, il dolore, e allora nasce il rancore, il rifiuto. I momenti in cui penso a come sarei diversa se mia sorella fosse ancora viva.
«La immagino in un posto che non riesco a definire bene, ma so che la mia Jade è lì. Jade sorride e suona il pianoforte e continua la melodia che non ha potuto finire qui. Jade mi guarderà arrivare, si alzerà dal pianoforte e mi prenderà tra le sue braccia. Non so quanto sarò grande quando la incontrerò di nuovo, ma lei sarà sempre mia sorella maggiore. Sarà sempre la mia Jadie.»
Arthur sorride ma nel suo sguardo non vi è alcuna luce: uno sforzo contro il rimpianto e la tristezza ma, quando torna a guardarmi, il sorriso diventa vero.
«Grazie.»
«Per cosa?»
«Per avermi dato qualcosa in cui credere.»
Mi passo una ciocca di capelli dietro l’orecchio e le mie converse diventano improvvisamente interessanti.
Continuo a camminare e poi comincio a correre e, se non avessi un minimo di autocontrollo, salterei. Riesco a pensare a Jade senza cadere nell’abisso del dolore: ne raggiungo il precipizio, ne percepisco la forza ma non mi ritrovo ad essere trascinata giù, non più.
Non adesso.
***
Fuori dalla mia stanza è già notte, eppure io non riesco a dormire. Ho preparato la valigia, ho messo in ordine i miei modelli ed ora aspetto solo di addormentarmi. Ma non accade.
Esco a prendere un po’ d’aria, la piscina di fronte a me.
Natalie, non dovresti.
Stringo le mani sulla ringhiera.
Non dovresti proprio.
Cinque minuti dopo, con il mio costume portato giusto per scorta, sono sul trampolino a improvvisare un tuffo epico.
La panciata, però, non era prevista.
Pluff.
Come le frittatine ai frutti di mare catapultate per sbaglio nel vino rosso, al ristorante cinese.
«Aho,» mi viene fuori, quando risalgo in superficie. L’acqua è fresca e piacevole sulla pelle, ma il pizzicore allo stomaco è comunque fastidioso.
«Nat!» Arthur si sporge dal suo balconcino a guardarmi.
«Va tutto bene.» Gli faccio sogno di okay.
Arthur scuote la testa. «In piscina alle undici di sera, l’ultima notte?»
Comincio a nuotare a rana. «Sono stata sempre impegnata, non è colpa mia, io dovevo farlo.» Nuoto all’indietro, è davvero fantastico. « E poi non sai cosa ti stai perdendo.»
Faccio qualche tuffo stile-delfino ma credo che venga fuori qualcosa stile-foca o stile-pinguino.
Dovrò raccontarlo ad Ewan.
Un rumore improvviso mi fa voltare: è Arthur che si è tuffato e viene subito fuori dall’acqua, scuotendo la testa per i capelli che ora gli coprono gli occhi. Ha la carnagione chiarissima: ricorda quella di papà, quella di Jade, bianca d’inverno ma rosea in viso, al mio contrario: olivastra, tra il verde e il grigio in inverno. Ho preso dalla mamma e dai suoi geni italiani, lentiggini a parte.
Sorrido al pensiero che Arthur mi abbia seguito nella mia pazzia e mi lascio andare all’indietro, con gli occhi chiusi, nuotando. Mi dà una sensazione di pace che non ho mai provato da nessuna parte. Quando comincio a sentire freddo cerco di rimettermi in piedi, ma non riesco a toccare la superficie: ho raggiunto la parte più profonda.
«Natalie, ce la fai?»
«Sì, so nuotare… un po’.» Uso lo stile-cane, di certo non è il più elegante ma funziona. Riesco ad arrivare a un punto in cui riesco a toccare terra, anche se con l’acqua alla gola.
Arthur nuota fino a me e mi porge la mano, mi appoggio a lui e riprendo a respirare senza affanno.
«Quand’è che hai fatto nuoto?» mi chiede.
«Mhm… quando avevo quattro anni.»
«Si nota.»
Mi stacco da lui e gli schizzo un po’ d’acqua, così sprofondo di nuovo ma lui riesce presto ad afferrarmi per farmi appoggiare a lui. Mi lascio andare a una risata e lui mi stringe, ride insieme a me.
«Non vuoi vendicarti buttandomi un po’ d’acqua in faccia?» gli chiedo.
Arthur gioca con i miei capelli bagnati, mi fissa.
«Sono un po’ impegnato adesso.»
«Perché?»
«Perché sto guardando quello che mi stavo perdendo.»
Non ho mai avuto molte certezze nella mia vita, ma le poche che ho  mi sono sempre bastate.
Mi chiamo Natalie Hanna Truman, sono nata il diciotto novembre millenovecentonovantaquattro.
La mia sorellina di sette anni ha scelto il nome per me.
Per questo quel che è veloce diviene lento: ogni attimo passato a guardarlo con un peso insormontabile sul cuore, accanto a una ragazza che non ero io, accanto al ricordo pressante e schiacciato di Jade; ogni abbraccio di cortesia ed ogni momento di vero affetto, velata complicità, piccoli frammenti di sogni alimentati da desideri passati che si mischiano a questo presente, appesantendolo di aria rarefatta. Non riesco a muovermi. In tutto questo disordine appaio com’ero, come sono; Arthur appare com’era, come ora è. Non è possibile, stavo imparando a ignorarlo, a credere che non fosse mai accaduto. Allora non riesco a fermarlo e chiudo solo gli occhi nel tremore di questa assurdità, un’equazione impossibile che non sarò mai capace di risolvere ma che si svela, nel suo essere irrisolvibile, sulle nostre labbra; nel suo tocco dapprima dolce, poi rude.
Ogni mia certezza traballa.
Mi chiamo Natalie Hanna Truman, sono nata il diciotto novembre millenovecentonovantaquattro.
La mia sorellina di sette anni ha scelto il nome per me.
Ho amato Arthur Benkinson.
Riprendo a respirare. Mi stacco da lui e nuoto fino al bordo, trovando in me una forza nel fare qualcosa a cui non sono abituata, per il semplice bisogno di sopravvivere.
Amo Ewan Lynch.
Esco dall’acqua in silenzio.
«Natalie...»
Correndo.
«Natalie!»
Scappando.
Jade, non riesco a vedere più niente. Jade, vorrei che tu fossi qui.
«Nat…»
Se tu fossi qui riuscirei a salvarmi.
Mi si mozza il respiro: il rumore è simile a quello di uno strappo, una lunga stola rossa tirata da due parti con rabbia e forza, un piano infinito che credevo stabile e che è crollato.
Vedo tutto buio.
Il dolore alla testa è lancinante ed io voglio solo svegliarmi in un altro posto.
*
*
*
*
Ciao a tutti! :3 Mi riservo di dirvi una cosa: se volete farmi fuori, non saprete mai come continua la storia della nostra volpe. Quindi che ne dite di avere un po’ di fiducia in me? *.*
A parte gli scherzi, questo capitolo è molto importante: era necessario per Natalie e lo svolgimento della storia. Mi sento strana a dire che io non ho preso nessuna decisione, perché i personaggi si muovono da soli.
A causa di esami imminenti potrei ritardare la pubblicazione del prossimo capitolo di massimo un mese. In tal caso, vi faccio gli auguri di un sereno Natale e Buon Anno in anticipo <3
Grazie a voi tutti, di cuore! Ogni volta che uno di voi legge ed entra nella storia de La Volpe di Liverpool mi fa un grande regalo.
Un bacio,
Ania :3

p.s ecco a voi la traduzione di questa bellissima e toccante canzone di Eric Clapton. Credo che ci stia benissimo con il dialogo di Natalie ed Arthur davanti alla statua di Buddha.

*
Ricorderesti il mio nome se ti vedessi in Paradiso?
Sarebbe lo stesso se ti vedessi in Paradiso?
Devo essere forte ed andare avanti
Perché lo so, io non appartengo qui, al Paradiso
 
Mi terresti la mano se ti vedessi in Paradiso?
Mi aiuteresti a stare in piedi se ti vedessi in Paradiso?
Troverò la mia via attraverso la notte e il giorno
Perché lo so, io non posso restare qui, in Paradiso
 
Il tempo può buttarti giù; il tempo può piegarti le ginocchia
Il tempo può spezzarti il cuore, farti implorare pietà, implorare pietà
 
Oltre la porta c'è pace ne sono sicuro
E lo so non ci saranno più lacrime in Paradiso
 
Ricorderesti il mio nome se ti vedessi in Paradiso?
Sarebbe lo stesso se ti vedessi in Paradiso?
Devo essere forte ed andare avanti
Perché lo so, io non appartengo qui, al Paradiso
Perché lo so, io non appartengo qui, al Paradiso


 

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Capitolo 23
*** Ventitreesimo capitolo ***




*The power of youth is on my mind
Sunsets, small town, I'm out of time
Will you still love me when I shine
From words but not from beauty
My father's love was always strong
My mother's glamour lives on and on
Yet still inside, I felt alone
For reasons unknown to me

But if you send for me, you know I'll come
And if you call for me, you know I'll run
I'll run to you, I'll run to you
I'll run, run, run
I'll come to you, I'll come to you
I'll come, come, come

Lana del rey – Old money

 
La voce di John Lennon si mischia a quella di Paul McCartney ai tempi in cui tutti i membri dei Beatles erano in vita: proviene dalla mia radiosveglia sul comodino.
«Love, love she do,» canticchia papà dopo essere entrato. «Piccolina, non ti svegli? Sento già l’odore della pancetta.»
«Devo proprio?» mugugno.
Dopo qualche minuto passato ad aprire le palpebre con gran fatica, scendo come uno zombie appoggiata a papà con la sua vestaglia a scacchi a coprirgli il pigiama; percepisco il suo sguardo tenero sotto gli occhialini poggiati sulla punta del suo naso.
«’Giorno,» dico, prima di lasciarmi andare ad uno sbadiglio.
«Buongiorno.» La voce della mamma è dolce ma carica di rimprovero. «Sei andata a dormire tardi ieri, vero?»
Sbatto le palpebre. «C’era la carrellata di Doctor Who… le puntate con David Tennant.»
«Davvero?» chiede papà, si siede accanto a me e comincia a leggere il giornale. «Non ne avevo idea, avresti dovuto chiamarmi.»
Addento un po’ di pancetta e mia madre comincia a parlare. «Buford, ti sei addormentato alle nove e mezza ieri sera. E a mezzanotte, quando ho finito di correggere i compiti dei ragazzi, Natalie ancora saltellava per casa.»
«Ma…» cerco di spiegare.
«Ho capito, c’era la tua serie tv preferita,» finisce la mamma. «Ma almeno ieri potevi fare un sacrificio… visto quel che dobbiamo fare oggi, no?»
La porta della cucina si apre con un rumore discreto eppure io mi volto come se avessi sentito il colpo di un cannone.
Attraversa la stanza con indosso un tajer color crema, tacchi alti e beige che sembrano far parte della sua anatomia, i lunghi capelli castani dai riflessi di sole raccolti in una treccia che scende di lato. Gli anni l’hanno cambiata poco.
«L’hai visto davvero il tuo dottore, non è così?» mi chiede, con un sorriso ampio ad attraversarle il volto.
Colta alla sorpresa anche da me stessa, mi alzo dalla sedia e le corro incontro, lo farò sempre. La abbraccio forte, trattenendo il respiro in gola, e riconosco il suo profumo alle rose, l’aroma alla ciliegia del suo lucidalabbra preferito, la morbidezza delle sue mani che mi carezzano il capo.
«Jade,» sussurro, a occhi chiusi.
Come se avessi creduto di non rivederla mai più in questo mondo.
«Sì, sono io.» Ride, – una risata fatta di cristallo e ricordi di schizzi di mare – posa le mani sulle mie spalle e mi guarda negli occhi. I suoi sono di quell’azzurro chiaro che ricorda la pietra di cui porta il nome. «Sicura di stare bene?»
«S-sì… credo.»
Torno a sedermi e Jade beve il caffè in piedi. «Devo finire di firmare dei documenti in tribunale, ma per l’ora di pranzo dovrei aver finito tutto,» dice alla mamma. «Questa causa è stata estenuante.»
«Ma l’hai vinta,» fa la mamma. «Sei il miglior avvocato divorzista della zona.»
«Buon sangue non mente, » dice papà, e le fa l’occhiolino.
Io ho l’impressione che il mio sangue sia un tantino bugiardo, invece.
Dall’entrata della cucina Wanda accompagna un uomo di circa trent’anni dai capelli neri lunghi fino al mento, abbronzato come noi inglesi possiamo solo sognare.
«Buenas dias.» Ha la voce roca, è piacevole sentirla.
«Buenas dias, chico,» dico io.
Conosco lo Spagnolo?!
Jade posa la tazza sul lavandino e si lascia abbracciare da lui.
Marcus, certo. L’ingegnere navale che abbiamo conosciuto in crociera due anni fa.
Finiamo la colazione tutti insieme, Jade mi saluta con un bacio per poi allontanarsi con Marcus, papà li segue per raggiungere il suo studio ed io apro il libro di diritto penale. Solo a guardarlo mi viene mal di testa. Devi essere paziente, Nat, paziente come papà, come Jade. Comincio a sottolineare con il mio immancabile evidenziatore arancione.
«Natalie.» Mia madre apre la porta. «Sto andando a scuola, tu resti a casa?»
«Studio, mamma.»
La mamma mi sorride a quel modo dolce che riserva solo alla fatica. «Non crucciarti, se studi un po’ per volta andrà benissimo.» Si mette a braccia conserte. «Un altro avvocato nella famiglia Truman. Ci pensi?»
«Se ci arrivo, a diventare avvocato.» Sbuffo.
«Oh, ma smettila con questi brutti pensieri.»
Roteo gli occhi. «Me la sto tirando, così succede il contrario. Solo che se continuo così io non mi laureo più e tu fai ritardo a scuola.»
Si avvicina alla mia scrivania, i tacchi che picchiettano sul parquet. «Quanto sei strana.» Mi dà un bacio sulla guancia.
Me lo dice sempre come se fosse un complimento.
Il rombo del motore dell’auto di mamma raggiunge le mie orecchie mentre passo al paragrafo successivo. Se ci arrivo, a laurearmi: intanto sono già al secondo anno di università. I miei voti sono discreti anche se non eccellenti: memorabile fu l’esame sui diritti delle donne nel mondo, litigai con il professore che mi rimandò indietro e, quando ritornai e a valutarmi fu una professoressa che forse non aveva nemmeno quarant’anni, presi il massimo. Forse per la prima volta nella mia vita gli altri mi hanno guardato con ammirazione ed invidia insieme.
No, non è stata la prima volta.
Era lo stesso sguardo di quando, alla festa di Natale di due anni fa, Arthur Benkinson mi invitò a ballare con lui.
Il campanello suona.
Scendo ad aprire, visto che è giovedì e Wanda è uscita per la sua mattinata libera. Resto interdetta sulla soglia, senza respiro, con lui a guardarmi.
La pioggia cade su Liverpool, gli ha bagnato leggermente i capelli e la giacca ma lui sorride.
«Posso entrare?»
Mi sposto per farlo passare. «Certo.»
Chiude l’ombrello e lo lascia cadere nel contenitore apposito. «Salve!» dice.
«Wanda non c’è.» La mia voce trema. «Nemmeno la mamma e papà. Nessuno.»
Il suo sguardo si accende. «E me lo dici così?»
«Non sapevo come altro dir…»
Mi bacia a quel modo improvviso che pare inevitabile, intenso e vibrante, stringendomi in vita come se fossi ancora una bambina ed io lo ricordo, lo ricordo quando ero davvero bambina e lui mi prendeva in braccio, mi faceva salire sulle sue spalle in acqua e giocavamo a fare le smorfie alle statue di Another place.
Sospira, la sua fronte contro la mia. «Arthur…»
Quando Jade ha chiuso con lui avevo undici anni. Mi chiedevo perché Jade piangesse ogni giorno se era stata lei a lasciarlo e, al tempo stesso, mi chiedevo come non potesse amare più un ragazzo come lui.
«L’amo ancora,» aveva sospirato Jade. «Ma l’amo come amo te, che sei mia sorella.»
«E non va bene?»
«Non può andare bene, Nat…»
L’avrei capito più avanti.
Il mio primo e unico ragazzo, conosciuto in famiglia come Kol il metallaro, mi suscitava reazioni molto diverse dagli abbracci con Jade. Ad una festa di non-compleanno, con tutto il suo fascino da chitarrista che suona al cospetto di Satana, pallido in volto ma con lo sguardo vivido, durante un ballo sulle note di Christina Aguilera avvicinò il viso al mio e sentii la sua lingua che schiaffeggiava la mia nella mia bocca: doveva essere un bacio, credo, anche molto spinto.
Merda, pensai nel tragitto di ritorno, in auto con Pamela accanto a me, quanto è stato appiccicoso: spero almeno di non prendere la mononucleosi.
Arthur era una presenza lontana e costante. Per anni l’ho guardato senza che lui mi riservasse più di un sorriso di circostanza, una bimbetta qualunque alle tante cene noiose che organizzavano i nostri genitori. Quando si traferì a Londra per studiare ad Oxford mi sembrò quasi di aver sognato tutto.
Rividi Arthur qualche anno dopo la sua laurea, alla vigilia di Natale di due anni fa. Picchiava il sole – stranissimo, per essere Natale – e lui uscì dalla sua Mercedes con quell’aria irraggiungibile e elegante sotto cui riuscii a scorgere il suo sorriso. Sembrava un principe. Quel tipo di ragazzo che può spezzarti il cuore con un solo sguardo, e tu glielo lasceresti fare.
Gli corsi incontro, gli saltai addosso e lui, come se non richiedesse alcuno sforzo mi strinse.
Quando mi mise giù e si tolse gli occhiali, incontrai i suoi occhi verdi incerti su un sorriso che era diventato perplesso.
«E tu sei...?» fece.
Non lo vedevo da anni: prima era stato solo un ragazzo, ora era un uomo di venticinque anni.
Non mi vedeva da anni: prima ero stata solo una bambina ed ora, nonostante potessi ancora esserlo, ero una ragazza di diciannove anni compiuti. Una ragazza di diciannove anni compiuti che si era comportata come una bambina di nove, come al solito.
«Natalie!» Risi. Nascosi il risentimento dentro me stessa. «Non ti ricordi di me?» mi venne fuori con un’aprezza che non avevo previsto.
Il suo sorriso si allargò. «Oh… Dio. Certo che mi ricordo di te. Sei…» Mi chiedo ancora come poté riservarmi uno sguardo che mi abbracciò dalla testa ai piedi anche se mi sembrò solo che continuasse a guardarmi negli occhi. «… sei cambiata.»
Sbuffai, ridendo. «Capitan ovvio. Non sono mica un vampiro.»
«Che cosa?»
«Niente, ogni tanto sclero. Resti a pranzo da noi?»
«Sono a Liverpool per le vacanze, è per questo che sono qui ad importunarti.»
«Avevo idea che stessi viaggiando molto… dove sei stato quest’anno?»
«Shanghai.»
«Wow! Che figo!»
Alla sera lo raggiunse la sua fidanzata, una modella danese che guardai a bocca aperta, facendo una delle mie tante figure di cacca. Avevo curato nei dettagli la mia acconciatura – una treccia spessa quanto un indice intorno alla testa – e adoravo il vestito verde chiaro che avevo deciso di indossare. Guardandomi allo specchio mi ero sentita una specie di ninfa dei boschi ma, guardando quella biondona, mi sentii una spazzina seduta accanto alla regina Elisabetta.
I miei racconti sui primi mesi di studio a Giurisprudenza – scelta su cui non sono mai stata davvero tanto convinta, ma se non avessi accontentato la mamma e il papà sarebbe stato un vero disastro – sfiguravano di fronte alle esperienze di Arthur, che si era laureato ad Oxford, aveva girato il mondo, conosceva tante lingue, si era divertito ed aveva ben superato la relazione con Jade. Assistetti alla loro conversazione: una freddezza iniziale seguita poi da un moto di complici risate.
Il tempo fa diventare tutti amici.
La cena di Natale del giorno dopo aveva tutti i presupposti per essere più interessante; eppure, circondata da parenti che chiedevano “E il fidanzatino?”, mi sentivo fumare il naso come il drago della desolazione di Smaug, purtroppo senza la voce sexy del mio Sherlock Holmes preferito.
Il tutto peggiorò quando una voce sconosciuta disse sai, Jade, tua sorella ha proprio la faccia da brava ragazza, di quelle che non bevono… non fumano… escono poco la sera… hanno avuto proprio fortuna, i tuoi genitori.
Chi dovevo incenerire?
«Ehi, bellissima,»mi chiamò un’altra voce. Mi immobilizzai, me lo trovai davanti con una naturalezza tale che mi mancò il fiato. «Ti va di ballare?»
Lo sguardo degli amici e delle amiche di mia sorella fu impagabile – in particolare delle amiche, che mi avrebbero ucciso con la forza del pensiero. Povere stolte, figuriamoci se Arthur guarderebbe mai una come me, è solo gentile.
Figuriamoci se mi guarderebbe mai come io guardo lui.
La magia terminò insieme allo scemare della voce di John Legend.
Poco dopo saltavo come una gazzella per la casa con ai piedi i tacchi di mia sorella ed imploravo mio padre di versarmi un bicchierino per superare l’eccitazione di quel ballo che non aveva avuto alcun significato, ma che ancora mi faceva tremare di felicità. Riesco sempre a convincere mio padre: le sue doti di avvocato svaniscono sotto l’effetto della voce delle sue figlie. Mi allontanai dal salotto, tutta presa dal mio liquore; non che non avessi mai bevuto, ma volevo farmi notare da un certo amico di Jade che mi vedeva come una suora. A furia di cercarlo mi venne il torcicollo e andai a sbattere contro il muro: il whiskey si rovesciò sul parquet e il bicchiere si frantumò.
Per la musica alta nessuno si accorse di nulla, ma la sola delusione verso me stessa mi fece venire le lacrime agli occhi.
Forse non sarei mai davvero cresciuta e la migliore impressione che potevo fare a un ragazzo più grande era sembrargli di buona morale cattolica.
Mi inginocchiai, nel panico.
«Natalie, stai bene?» Qualcuno mi fece alzare.
Mi aspettai il peggio. «Io… io credo di aver rovinato…»
«Ho chiamato Wanda per pulire, non se ne accorgerà nessuno. Tranquilla, okay?»
Arthur mi stringeva la mano. Mi riservò uno sguardo comprensivo e mi sorpresi di non trovare in lui né pietà né tenerezza. Era un inspiegabile trasporto, e dipendeva da me.
Mentre io cercavo un altro, Arthur guardava me.
Mi rintanai in camera mia con la scusa di non sentirmi bene e non scesi fino all’indomani.
Quella notte sognai di baciarlo per la prima volta nella mia vita. Mi diedi della stupida con una severità che non avevo mai trovato in me stessa e non ebbi il coraggio di raccontarlo a Jade, che conosceva tutti i miei respiri e quelli di chi mi circondava. Temevo con tutto il cuore di non passare certi esami solo perché avevo la testa piena di larve che dovevano solo morire in se stesse. L’anno che non avevo perso per il professore stronzo di matematica al liceo l’avrei perso adesso. Pamela, alle prese con la profumeria di sua zia, era ben disposta ad ascoltare i miei deliri, ma io sapevo che parlarne era solo un modo per alimentare quell’assurdità, come i disegni immaginari che mi ritrovo a buttare giù quando non ho sonno e non posso suonare il pianoforte.
La calma mi invase quando riuscii a superare quei mostri sacri di esami di diritto.
Arthur era partito per il Brasile ed io non avevo pericolo di rivederlo. Passarono dei mesi spensierati in cui ridevo delle mie paure appena passate.
Quando lo rividi, a fine Agosto, un tremore allo stomaco mi fece allarmare. Il solo guardare Arthur da lontano mi annientava il cervello, mi sentivo una nonna demente, una mammoletta senza ossa, un’adolescente alle prese col primo ragazzo bello delle riviste che avesse mai visto. Arthur era bello da mozzare il fiato ed io non riuscivo a tollerarlo. Ricordavo i suoi racconti, i posti che aveva visto; immaginavo le donne che aveva avuto nel suo letto, rammentavo la stretta delle sue mani quando ero presa a maledirmi per la mia sbadataggine ed era ben impresso l’abbraccio repentino dato senza pensare dopo anni di assenza.
Sperai con tutto il cuore che nessuno si accorgesse di me e che quel pomeriggio passato a bere il tè nel nostro salotto, ascoltando le chiacchiere della mamma e della signora Benkinson, passasse in fretta.
Uscii dalla stanza con la scusa di prendere i biscotti al cioccolato.
«Non sono alle mandorle, vero?»
Sussultai.
Arthur era alle mia spalle.
Sfoggiai uno dei miei tanti sorrisi da ebete. «Cioccolato purissimo. Ne vuoi?»
«No, era solo una scusa per seguirti e stare da solo con te.» Si sistemò i polsini della camicia bianca che indossava, il suo profumo a giungermi alle narici anche se a un metro di distanza. Sollevò il viso su di me i suoi occhi verdi brillarono come una scintilla di fuoco, erba e rugiada che bruciano in una calda fiamma. «Sai che non dovremmo. Sei la sorellina di Jade. Io non posso… è dall’ultima volta che ti ho vista che la mia vita è bloccata. Tu non puoi… tu hai diciannove anni…»
Non riuscivo più a respirare. «Di cosa stai parlando? »
Fece un sospiro esasperato. «Mi stai dicendo che ho sognato tutto?»
Tremavo. «Che cosa hai sognato, Arthur?» gli chiesi, lentamente. Non arrivò nessuna risposta. Chiusi gli occhi. «In ogni caso sono maggiorenne,» aggiunsi. «Non sono una bambina! Diciannove anni, diciannove! Non tre!»
«Diciannove…» sussurrò. «Una splendida donna di diciannove anni…» parlò con rassegnazione.
Non so quale forza mi impedì di farmi cadere la scatola dalle mani per la sorpresa, l’ansia, l’assurda gioia. Non riuscii concentrarmi su quel che fece dopo. Il modo in cui si mosse. Se aveva fatto un respiro profondo. Se per caso aveva parlato.
Le sue labbra erano sulle mie, a cercarmi, ed io gli diedi modo di trovarmi.
Dopo furono solo incontri fugaci, alternati alla mia vergogna, all’esaltazione di Pam, alla mia incapacità di aprire bocca con Jade.
Ogni contatto fisico era veloce e rubato al tempo, come se non ci spettasse. Ed io ci credevo, non mi spettava. Come poteva un uomo di ventisei anni trovare anche un poco interessante una ragazzina di appena diciannove che gli muore dietro, quando ha avuto modelle e donne brillanti e bellissime e potrebbe averne ancora altre?
Di fronte a un frappè alla fragola, nel freddo pungente di fine ottobre, Arthur mi rapiva con la sua voce. Uscivamo insieme e, se avessimo incontrato qualcuno che conoscevamo, avremmo detto che ci eravamo incontrati per caso. Liverpool non è così grande, dopotutto.
E noi fummo fortunati. Non incontrammo nessuno che ci conosceva e, anche se qualcuno ci avesse visti insieme, non ci sfioravamo nemmeno le mani. In quei mesi di chiacchiere in cui entrambi siamo tornati adolescenti, ho conosciuto il vero Arthur: cinico e sprezzante. Capace di deridere e ammirare con lo stesso sorriso, ma a parole diverse. Grato di tutto quello che ha.
Io inciampavo più spesso del limite consentito dal galateo, ridevo quando ero travolta dal nervosismo, mi facevo cogliere a fissarlo spudoratamente e gli raccontavo la mia vita nei dettagli, includendo Pam, la disavventura con Kol, il pianoforte, lo studio noioso, la voglia di vedere il mondo proprio come fa lui.
Era una sera d’ottobre, il freddo pungeva; lo sentivo nelle ossa nonostante fossi in auto. Arthur parcheggiò a pochi isolati da casa mia, in modo che facessi un po’ di strada da sola per non scatenare alcuna domanda. La sua mano mi carezzò la coscia; portavo i jeans e sotto le calze, il freddo che mi tormentava svanì sotto il suo tocco.
«Non so quanto potrò andare avanti in questo modo,» disse, guardando altrove.
Sospirai. «Non so come dirlo a Jade. Non so come potrebbero prenderla i miei genitori… oh mio Dio, hai sette anni più di me ed il fatto che sia maggiorenne a casa mia non conta, nessuno mi lascia mai aiutare Wanda a portare i piatti in tavola perché sono sicuri che li farei cadere come tre Natali fa…»
«Che cosa tre Natali fa?»
«Il tacchino mi scivolò dal vassoio con un pluff! Con il fiocco rosso sopra e le zampe aperte sembrava che stesse facendo lo scatto di un calendario sconcio.»
Arthur rise forte. «Oddio, Natalie…»
«Sono pessima, lo so.»
Arthur scosse la testa e la sua risata andò scemando. «Sei incredibile e… Io ti amo, Natalie. Io ti amo.»
Rimasi congelata sul posto, anche se non sentivo più freddo.
***
Sapevo cosa sarebbe successo quella sera: mi lasciai rapire dopo la festa del mio compleanno, lasciando credere ai miei genitori che stessi andando a continuare il festeggiamento con altri amici. Cominciammo a baciarci sul pianerottolo e una volta in casa non gli permisi di accendere la luce. Non ero mai andata più in là di un bacio ed ero molto più in ritardo delle ragazze nella media. Ne avevo già parlato con lui ma non potevo fare a meno di avere paura. Arthur mi baciò a lungo. Cominciò a spogliarmi lentamente fino a quando non mi ritrovai impaziente. La vergogna di farmi vedere senza niente addosso si assopì quando cominciò ad amarmi a quel modo che io ancora non conoscevo. Fu di una tenerezza che mi commosse. Mi aggrappai alle sue spalle mentre scoprivo quanto una carezza potesse perdere tutta la sua innocenza. Quel che mi scosse il corpo mi sorprese tanto da lasciarmi sfinita, eppure Arthur continuò e  il mio corpo lo cercava prima che lo chiedesse la mente, contro ogni regola che imponeva la scienza.
Dopo fui ancor più stanca, ma vedere Arthur alle prese con qualcosa che aveva appena preso me, attraverso me, mi procurò una gioia che non riuscivo a spiegare.
Fu dopo aver ritrovato il respiro regolare che glielo chiesi, senza pudore.
«Io non ci credo che mi ami,» gli dissi, coprendomi col lenzuolo. «Sono piccola, sbadata, non sono particolarmente intelligente, inesperta sul sesso.»
Arthur rise.
«Perché?» ripetei.
Arthur allungò una mano verso di me. «Perché non tornavo a casa mia da anni e in quegli anni ho visto tutto, ho avuto tutto. Volevo rivedere Jade perché è la prima ragazza che io abbia mai amato davvero. E mentre cercavo lei ho dimenticato che cosa stavo cercando perché mi sei apparsa tu. Non mi ricordavo che ti conoscevo già, che eri la mia Natalie.» Prende a carezzarmi i capelli. «Erano anni che non incontravo qualcuno, uomo o donna, che non avesse secondi fini. La prima è stata Jade e dopo anni sei stata tu: quando ti guardavo, Nat… tu che hai appena compiuto vent’anni e sei tanto più grande di molti della mia stessa età… tutte le volte a venire in cui ti ho guardata e mi hai parlato, mi hai sorriso, hai riso con me non mi sono mai sentito più me stesso che in quei momenti, grazie a te. Grazie a te sono Arthur Benkinson non come dovrebbe essere, ma come davvero è.»
Mi morsi le labbra e voltai la testa, in modo che non vedesse i miei occhi lucidi, perché nessuno mai mi aveva detto una cosa del genere, nessuno mai mi aveva amato.
Ed Arthur l’aveva detto, l’aveva fatto.
Per questo ora, tra le sue braccia, tutto mi torna alla mente e al cuore. Gli tolgo la giacca mentre lui mi fa stendere sotto di lui, sul mio letto, ed io ho già mandato al diavolo il tomone di Giurisprudenza che avrei dovuto cominciare a studiare. Lo bacio e lascio scendere la mia mano ad una carezza che un tempo avrei definito audace.
Ad Arthur si mozza il respiro. «Nat…»
«Mhm?»
«Quand’è che eri… inesperta sul sesso?»
«Un mese fa, all’incirca, prima che attentassi alla mia virtù. Ho imparato bene?» Non smetto.
«Fin… troppo.» Sospira.
Ma a casa mia è sempre così: intenso, maconsumato in fretta come una piccola brace. E la gioia iniziale viene sostituita dalla mia solita, pressante inquietudine.
Arthur, seduto sulla punta del letto, fa per mettersi la camicia e mi lancia uno sguardo preoccupato.
«Non ne hai ancora parlato con Jade, giusto?»
Mi mordo l’interno della guancia. «No.»
«Nemmeno un accenno?» continua lui, e finisce di abbottonarsi la camicia. «Nemmeno, che ne so, Jadie, ho conosciuto un tipo.»
«Io già ti conoscevo…»
«Jadie, ho capito che mi piace un tipo…»
«Uno qualsiasi…» continuo.
«Non spaventarti…»
«… È soltanto…»
«Arthur Benkinson,» finisce lui. Mi viene addosso e comincia a farmi il solletico. «Che sarà mai?»
Non riesco più a sorridere. «Solo il suo ex ragazzo.»
«Nove anni fa. Quando tu eri molto più bassa ed io collezionavo film horror.»
«Non guardi più gli horror?»
«Certo che li guardo, il film che abbiamo visto l’altra sera era horror.»
«… Non ho avuto il tempo di capirlo.»
«Vero.» Ancora solletico, mi lascio abbracciare, poggio la testa sulla sua spalla.
«Ho paura di deluderla,» sussurro.
«È una paura insensata, Jade è tua sorella e non potrebbe mai smettere di amarti.»
Chiudo gli occhi.
«Jade è mia sorella e non potrebbe mai smettere di amarmi,» ripeto. Comincio a vestirmi lentamente.
«Stasera ci vediamo direttamente lì, allora.»
«Sì, parto con la mamma,» gli dico. «Ci saranno anche Jade e Marcus.»
«Passerò di lì per caso.» Mi fa l’occhiolino ed io roteo gli occhi perché mi ritrovo puntualmente ad arrossire. Mi alzo la cerniera della giacca della tuta.
«Ora devi studiare?» mi chiede.
«Non mi va più,» mugugno. «Quasi quasi comincio la stagione con Amelia Pond…»
«Cosa?»
«È un personaggio di Doctor Who
«Ah, quel telefilm che ti piace?»
«Sì! Ti va di vederlo con me?»
«Be’, ho la mattinata libera…»
«Arthur, io ti amo!» Corro ad abbracciarlo.
«Il ti amo di fronte a una dichiarazione d’amore no, di fronte a una mattinata di episodi di un telefilm sì: solo tu.»
«Solo io,» confermo.
***
Arthur è dovuto andare via per la solita, fastidiosa precauzione di non farsi trovare qui nel caso di un imprevisto. Indosso il vestito che la mamma mi ha comprato per l’occasione: beige, dritto fino al ginocchio con un piccolo fiocco in vita, il ritratto della sobrietà. Non l’avrei mai scelto, se mi fosse stata offerta una scelta. Mi chiedo se ho mai avuto la possibilità di scegliere davvero nella mia vita. Non ho scelto nemmeno di amare Arthur: è successo e basta, una tempesta da cui mi è stato impossibile fuggire come un temporale improvviso in una strada senza balconi, e così la pioggia mi è caduta addosso ed è riuscita a perforarmi il cuore.
Ma c’è qualcosa che ho scelto, di questo sono sicura.
Il pianoforte.
Sfioro i tasti senza suonarli, un piccolo gesto scaramantico che non so dove mi porterà. Non ho mai dimostrato un particolare talento: la mia forza di volontà deve essere sostenuta dall’esercizio e, da quando c’è in ballo l’università, non fa altro che diminuire. Per fare tutto quello che amo fare devo rubare il tempo alle cose che devo fare.
Andiamo a Londra in macchina, guida papà. La mamma mette nello stereo il suo cd preferito di Elthon John. Ho la mente vuota per tutto il viaggio, come se la mia ansia mi impedisse di pensare anche alle cose più stupide.
Dopo un’ora e mezza ci troviamo con la macchina di Marcus. Jade scende, porta un cappotto nero che non riesce a coprire il vestito rosa ed elegante che indossa. Ha le sopracciglia aggrottate, una ruga a incresparle la fronte lattea. Quando mi avvicino a lei, quella che sembrava smorfia si trasforma nel più sincero dei sorrisi.
«Vi porto via Natalie per un po’,» esclama, e mi si mette a braccetto. Mi è difficile starle al passo, visto che sui tacchi continuo ad essere in difficoltà nonostante i miei vari esercizi. «Scusami, Natie.» Jade mi riserva uno sguardo colpevole mentre entriamo in metropolitana.
Mi siedo accanto a lei. «Jadie, che c’è?»
«Devo passare da un orfanotrofio. Per un caso che mi è stato assegnato, è in periferia… a qualche isolato c’è un bar, quindi tu puoi fermarti lì. Non mi andava di dirlo a Marcus.» Sospira. «Pensa che, essendo così presa dal mio lavoro, mi stanchi troppo.»
Mi metto a braccia conserte. «Non è che ha paura che tu ti innamori di un altro del tuo ambiente?»
Jade scoppia a ridere, lo fa in quel modo sorpreso e tenero che contrasta con le forme di donna che si sono insinuate in lei dalla prima adolescenza. «No, Natie. Sì, Marcus è geloso, ma lo è perché anch’io lo sono di lui. Ci fidiamo l’uno dell’altra… non avrei potuto desiderare qualcosa di migliore, per me.»
Distolgo lo sguardo. Jade parla d’amore in maniera così naturale che mi è impossibile continuare a far finta di niente senza sentirmi soffocare. Io e lei siamo sempre state circondate da questo: l’amore di mamma e papà, l’amore dei nostri amici – per me Pamela, in particolare, escludendo le varie oche che mi prendevano in giro alle superiori – l’amore di un fidanzato dopo anni di incontri bizzarri e attese. L’amore che Jade mi ha riservato senza remore da quando sono venuta al mondo.
Non voglio più mentirti, Jadie, stringo gli occhi.
Ma come faccio a dirti la verità?
«Ho visto delle foto di quest’orfanotrofio, » continua Jade. «Non mi era mai capitato di averne a che fare, le donne che mi si sono rivolte sono tutte benestanti ma questo caso… mi sono sentita male, Nat. Non abbiamo avuto tutto, noi?» Si passa una mano tra i lunghi capelli lisci e castano scuro come i miei. «Lo studio di papà, il suo successo, il mio di conseguenza…»
«Non hai avuto successo per papà,» le dico, turbata. «Hai avuto successo perché sei brava di tuo.»
«E allora le vacanze, il pianoforte, una famiglia unita…» Scuote la testa. «Siamo fortunate, Natalie. Più di tante altre persone. Ogni cosa… è andata al suo posto.»
Non mi sono mai sentita fortunata. Mi sono sentita felice, a volte, ma la maggior parte delle volte la sensazione che mi ha attraversata non era altro che inadeguatezza.
Eppure io e Jade abbiamo lo stesso destino. Le vacanze, lo studio, il lavoro che fa e che io farò. Ma qualcosa nel mio cervello si accende e, quando mi rendo conto di cosa si tratta, va in corto circuito riempiendomi di disagio.
Le scelte di Jade coincidono, per sua gioia, con quelle della mia famiglia.
La metro si ferma e noi usciamo.
Ma non le mie.
«Solo un quarto d’ora, Natie.» Jade mi sorride si allontana, a suo agio sui tacchi alti.
Io lotto ogni giorno contro la mia inclinazione naturale a scelte diverse, sbagliate, per non deludere nessuno.
Cammino per un po’, piano e senza meta: senza fretta forse riesco ad avere un po’ di grazia. Mi fermo a guardare i portoni dei vari condomini con la strana curiosità di leggere i vari nomi. A casa mia il nostro cognome nemmeno è scritto, tutti sanno che è la villa dell’avvocato Truman.
Mi trovo davanti un palazzo grigio con il portone tutto imbrattato, ci sono disegni di murales e scritte sconce che farebbero svenire la mamma. «Porca di quella puttana di tua zia,» leggo, incredula. «Ma a chi verrebbe mai in mente un insulto del genere?»
Se avessi potuto scegliere forse l’avrei fatto. Avrei scelto che cosa fare della mia vita: che cosa amo di più fare? Il pianoforte mi rilassa, mi fa sentire in pace eppure non sarei abbastanza per dare concerti tutta la vita. La notte, quando non ho sonno, non mi va di studiare e non posso suonare il pianoforte, prendo un foglio dal cassetto della scrivania, la mia matita, vecchi colori e…
«Vuenuta per l’affuitto?» Il portone si apre all’improvviso ed io sussulto indietro. Sulla soglia appare un uomo biondo con viso arrossato, magro, con il sorriso simpatico che dà tutta l’aria di essere brillo.
«Ehm… no, scusi, stavo solo… passando per caso.»
«Cuaso eh? Io non credo al cuaso. Io credo che quello che dueve accadere, alla fine, accuade.» Mi porge la mano. «Zot, di San Pietrobuergo.»
M viene fuori un sorriso tirato. «Natalie, di Liverpool.»
«Londra è buella, ragazza di Liverpool. Se cerchi un appartamento, io ci suono. Non è ancuora passato nessuno a vuederlo.»
«Vedrà che prima o poi qualcuno arriva.»
«Lo spuero.»
«Buona serata, signor Zot.»
Lo sconosciuto russo si chiude il portone alle spalle ed io perdo un po’ di tempo a leggere i nomi sul citofono: persone semplici, che non vengono riconosciute per strada. Sono conosciuta, a Liverpool, come la figlia più piccola dell’avvocato Buford Truman.
Verrò mai ricordata per quel che sono io?
Faccio per voltarmi ma mi blocco, poco prima di andare a sbattere contro il ragazzo che mi blocca la strada. Il suo profilo è lineare, dai tratti decisi; nonostante lo veda da una sola parte del viso mi accorgo che è concentrato. Sta leggendo l’annuncio dell’appartamento in affitto e, nonostante si tratti di una cifra esigua, il ragazzo scuote la testa, sembra demoralizzato.
E si volta a guardami.
«Ti interessa l’appartamento?» mi chiede, la voce è bassa e forte, scorre fluida, ha un accento che non riesco a definire. Il piercing al sopracciglio destro fa luce sugli occhi. Da lontano sembrano neri ma, quando mi avvicino di più, riconosco che sono azzurro scuro, mi ricordano qualcosa che riesce a gonfiarmi il cuore di emozione.
«N-no… io dovrei passare.»
Il suo volto è attraversato da un ghigno. «Non è che è tanto stretto, questo marciapiede.»
Sbuffo e sospiro allo stesso istante, posando una mano sul davanti del mio Montgomery. «Sbruffone,» mugugno, distogliendo lo sguardo.
Seguo le indicazioni che mi ha dato Jade per raggiungere il bar, mangerò qualcosa lì. Appena entro guardo l’orologio, sono le sette: mancano due ore. Una signora con gli occhiali e orecchini dorati che sembrano pesanti mi passa davanti, dando ordini alle cameriere. La sala è piena e mi guardo intorno, presa dall’ansia. I suoni mi arrivano ovattati e mi tremano le mani.
Mi passa accanto il ragazzo con gli occhi azzurro scuro che ho appena incontrato e si siede all’unico tavolo vuoto. Mi lancia uno sguardo strafottente.
«C’è un solo tavolo libero. Puoi anche sederti con me, non mi offendo,» mi dice. La sua voce riesce a devastarmi con una dolcezza sconosciuta, credo di stare impazzendo.
Mi siedo al tavolo quasi senza rendermene conto. Arriva la cameriera, una signora sui quarant’anni con i capelli castano scuro e corti, un sorriso amabile che riesce a tranquillizzarmi come se fossimo amiche.
«Cosa vi porto, ragazzi?»
Alle gambe della  donna si aggrappa un bambino di circa tre anni. «Fa’ il bravo, Ben,» gli dice.
«Patatine,» dice il ragazzo di fronte a me.
Non ho la forza di pensare. «Lo stesso per me. »
La donna si allontana. Voglio morire. Voglio scappare. Voglio tornare a Liverpool. Sono così agitata che potrei saltare dalla sedia.
«Tu… suoni il pianoforte?» mi chiede il ragazzo di fronte a me.
Volto la testa a guardarlo, colta dalla sorpresa. «Perché me lo chiedi?»
«Stavi picchiettando i polpastrelli sul tavolo, eri così precisa che sembrava suonassi su una tastiera immaginaria.» Fissa i suoi occhi nei miei e mi sento ancora più nervosa. «Dio, non guardarmi così. Emani davvero tanta ansia solo a guardarti.»
Lo fulmino con lo sguardo. «Sei uno sconosciuto, perché dovrei accettare che mi parli in questo modo?»
«Esibizione pubblica, vero?» chiede, con un sorriso che sembra conoscere ogni cosa. «È normale sentirsi così, io la prima l’ho fatta a sei anni.»
«Sì,» confermo. «Esibizione pubblica, concorso a cui mi ha iscritto mia madre l’anno scorso e a cui non più voglia di partecipare. E tu, invece, sei un pianista?»
«Diciamo che me la cavo,» risponde con un sorrisino.
«Io sono una dilettante. E vado all’università, sono impegnata, io…»
«Tu? »
«Io amo suonare solo per me stessa, non per gli altri,» ammetto. «Non è per vantarmi con gli sconosciuti, è per stare bene. Essere felice senza dare conto a nessuno, per il tempo di una melodia. Non posso avere nemmeno questo?»
«Certo che puoi averlo,» mi dice, e ogni nota di derisione è scomparsa. «È un tuo piacere, puoi comportarti di conseguenza senza farti obbligare dalla tua famiglia. La tua famiglia non è te. Tu sei tu,» continua, quasi con foga, la voce leggermente roca.
«Natalie,» sussurro, quasi senza accorgermene. «Mi chiamo Natalie.»
«Natalie,» ripete. «Tu sei Natalie.»
È tutto così assurdo. La cameriera porta i nostri piatti eppure non riesco a far a meno di fissare questo ragazzo di fronte a me, come se ci fosse qualcosa in sospeso, come se già lo conoscessi, come se potessi prevedere i suoi gesti. Come se non mi bastasse altro che conoscere il suo nome e nient’altro.
Non conterebbe altro.
«E tu…?» comincio.
«Natie!» La voce di mia sorella mi interrompe. «Ho appena finito, andiamo? Puoi mangiarle fuori le patatine. Sai che c’è anche Arthur? È appena arrivato, pensava di trovarti con me.» Jade mi guarda trafelata: il trucco non è più così preciso come mezz’ora fa, deve aver pianto. Deve aver pianto pensando alla sua fortuna di fronte all’infanzia rubata di quei bambini dell’orfanotrofio. Eppure, guardandola, un moto di emozione che non riesco a definire mi pulsa dentro, qualcosa simile al rimorso, al rimpianto. È una sensazione di perdita, come se Jade stesse per scomparire per sempre dalla mia vista.
«Vengo subito.» Mi alzo e prendo la porzione di patatine, mi allontano senza guardare indietro, senza posare lo sguardo sul ragazzo-pianista che è riuscito ad innervosirmi e a tranquillizzarmi al tempo stesso.
Come se già lo conoscessi.
***
Arthur mi accoglie con un casto abbraccio.
Dalla platea Pamela, biondissima e deliziosa, mi lancia un bacio di incoraggiamento. Si sono esibiti quattro ragazzi prima di me, tutti molto bravi, ed il panico continua a salirmi.
«Spacca i culi, Natalie!» grida Pamela.
Tutti si girano verso di lei.
Non è quel che si dovrebbe dire, a un concerto di musica classica. Faccio un sospiro. È solo un concorso, mi correggo, e riconosco Arthur seduto accanto alla mamma, Jade ora più serena accanto a Marcus, e papà.
Mi siedo e comincio a suonare. Le note della Primavera di Vivaldi vengono fuori bene, come se i miei polpastrelli non aspettassero altro che suonare questo pezzo. Immagino il ragazzo che ho appena incontrato, a cui non posso dare un nome suonare per me, suonare accanto a me. Se suona da quando aveva sei anni deve essere davvero bravo. Ma il nervosismo è nemico della perfezione e sbaglio due note. Contate. Spero solo che non si sia notato molto, perché suonare mi è piaciuto. Tutti applaudono e, tra i vari battiti di mani, distinguo la voce di Pamela. «Ha spaccato! Ha spaccato!»
Ma non proprio.
Non riesco a raggiungere il podio, però arrivo sesta su venti persone. È comunque un bel risultato, anche se suono da quando avevo otto anni. Scendo dal palco con in mano il mio attestato, finalmente tranquilla. Il risultato è discreto anche se non eccellente; la mamma non si potrà vantare in giro ma non dovrà nemmeno vergognarsi, è già qualcosa.
«Non male.»
Seguo la voce: appartiene al ragazzo-pianista, col piercing al sopracciglio destro e il sorriso che a volte pare strafottente, a volte solo puro come quello di un fanciullo.
Ed ora riconosco che cosa mi ricordano i suoi occhi.
«Quando devi suonare la nota la, fa andare il pollice sotto il palmo, è più semplice,» mi spiega. «La prossima volta non sbaglierai.»
Another place.
Ha gli occhi come il mare di another place.
La voce mi trema. Dove ti ho già conosciuto? Perché ti ho già conosciuto, vero? «Grazie…»
«Natalie!» mi chiama Marcus. «Molto brava, chica.»
Sorrido brevemente a Marcus e poi volto il capo a cercare il ragazzo che mi stava parlando: è scomparso ed io sento un vuoto dentro.
Qualcosa che non è mai accaduto in questa vita.
***
Non dovrei festeggiare, in realtà, ma stasera è il compleanno di un amico di Jade che dà una festa in piscina e siamo stati tutti automaticamente invitati. Quando non andai alla festa di sua sorella sembrava che gli avessi fatto un torto enorme, ha detto lei. Come se quella sera sarebbe successo qualcosa di irripetibile che avrebbe cambiato la vita a tutti.
Io mi sento strana, inquieta: Jade è quel tipo di persona che annoierebbe in un libro perché è equilibrata e volenterosa; piace, forse, solo  quando è coinvolta a un destino avverso. Ma la vita non è un romanzo, tanto meno  una commedia romantica di quelle che mi piacciono tanto.
Jade è una brava persona. Una persona da ammirare.
Ed io vorrei tanto essere come lei.
Arthur mi lancia qualche sguardo da lontano. Lo ignoro persa nel mio ruolo di ragazzina per mantenere la buona facciata che io, per una volta, ho scelto. Perché Jade è tanto migliore di me, eppure mi vuole bene lo stesso. Mi vuole bene nonostante la mia voglia di stravaganza, la mia fissazione per i capelli tinti – arancioni, Jade! È così che li voglio! Con quel colore mi sento più me stessa, più Natalie –, i capricci che a volte faccio chiedendo vestiti strani.
Jade, invece, è come se avesse sempre saputo e sapesse sempre tutto ed oggi, per la prima volta, l’ho vista fragile. Credevo che rivedendo Marcus si fosse acquietata eppure ora, in un angolo della stanza, lontana della piscina, se ne sta con un cocktail in mano a guardare il vuoto. La sensazione che ho provato al bar, guardandola, mi è ancora chiara.
Non posso ignorarla.
Non posso ignorare la mia Jadie.
«Ehi.» Le poso una mano sulla spalla e lei sussulta. «Che cosa ti succede?»
Jade assottiglia gli occhi; sembra quasi che stia per rimproverarmi, come quando da piccola ruppi una bomboniera della nonna Felicity. Ma quando le lacrime scintillano in quella parte che le palpebre non coprono, mi si spezza il cuore.
«Jadie…» la chiamo, stringendola forte.
«Mi dispiace, Natie
«Di che cosa? Perché?»
«Di deluderti,» dice, staccandosi da me, poi posa il cocktail su un tavolino vicino, non lo berrà.
«Deludermi?» chiedo, senza crederci davvero. «Tu non potresti mai deludermi.»
«Io ho sempre cercato di fare del mio meglio,» comincia a dire, sussurrando.
«E lo fai.» Le prendo entrambe le mani. «Lo fai. Sei buona e gentile. Una bellissima persona e mia sorella.» Mi tornano in mente le parole di Arthur, mi si imprimono addosso come una gentile carezza di vento. «Ed io non potrei mai smettere di amarti.»
Mi accarezza i capelli, continua ad abbracciarmi. Contro il mio orecchio sussurra, a voce spezzata, ho fatto un casino.
Le prendo la mano. Torno bambina, cerco la stretta di mia sorella maggiore, mi appresto ancora una volta a fare quel che sono: una sorella, un’amica.
Ci sediamo sugli scalini della porta d’uscita.
«L’ho scoperto due settimane fa. Non ne ero sicura ma… non te ne ho parlato perché mi vergognavo. Mi vergogno.» Sospira.
«Sta’ tranquilla.»
«Sono incinta,» dice nel tempo di un respiro. «Sì, anche se sto con Marcus da cinque mesi appena. Sì, anche se ho detto per anni che non avrei avuto figli prima dei trentacinque. Ma è la prima cosa che fa paura. Che farà svenire la mamma e infuriare papà. Deluderli tutti. Deludere te, che sei la prima che ascolta i miei monologhi sull’improtanza di usare i contraccettivi.»
La fisso. Non riesco ancora a credere a quel che mi ha detto. E l’unica cosa che mi viene fuori in questo momento non è nient’altro che una risata.
«Ridi, Nat?» mi chiede lei, ma tra le lacrime sorride.
«Sì, perché sei fantastica.» Le do un bacio sulla guancia. «E non mi deluderesti mai per una cosa del genere. Mi dovresti deludere solo perché hai vissuto, solo perché stai vivendo?» le chiedo. «È questo quello che voglio per te. Che tu sia felice. E per esserlo, tu devi vivere… Allora vivi, Jadie
Jade ricomincia a piangere, ma non credo che sia per il bambino, per Marcus, per quello che diranno la mamma e il papà.
«Natalie,» singhiozza.  Ride.  Tira su col naso. «Mi è colato tutto il trucco… Forse… forse è meglio che vada in hotel con Marcus e poi magari appena arriviamo… glielo dico.»
Annuisco.
«So che posso fidarmi di te. Se tu non ci fossi, niente avrebbe senso.» Fissa i suoi occhi, azzurro mare sotto il sole d’estate, nei miei. «Tu sei la ragione di tutto.»
Mi si riempiono gli occhi di lacrime. Penso al mio segreto, ad Arthur, alla mattina dopo il mio compleanno in cui ho evitato tutti per non permettere che leggessero nei miei occhi che avevo fatto l’amore per la prima volta.
«Poi mi racconterai di quel ragazzo,» continua.
«Come?» le chiedo, e mi torna alla mente il pianista che ho conosciuto oggi, di cui non so nemmeno il nome, e il cuore mi batte forte.
«Pensi davvero che non abbia capito cosa ti sta passando per la testa? Quello che deve succedere, alla fine, succede.»
Faccio un respiro profondo.
Esigo, da me stessa, coraggio. Lascio che salga in superficie.
«Io dovrei dirti…»
«Nat!» mi chiama Pamela, dalla piscina. «Com’è possibile che tu non abbia ancora fatto un tuffo?»
«Vai,» mi sprona Jade. «Parliamo dopo, okay? »
Si volta senza aspettare una risposta: è quel che succede quando è serena, quando sa che va tutto bene.
Eppure mi invade una sensazione di gelo terrificante, miliardi di aghi di ferro che mi penetrano il cuore, mozzandomi il respiro senza uccidermi. Jade comincia ad allontanarsi. Non andare, vorrei dirle. Non andare via.
Come se la stessi perdendo.
Come se sapessi che questo momento – Jade che si avvicina a Marcus, lui che la guarda con le stelle negli occhi, loro che si avvicinano all’uscita abbracciati – fosse la fine di qualcosa.
«Natalie?» mi chiama ancora Pamela. Scemenze, mi ritrovo a pensare. La tua testa fa strani scherzi, ragazza di Liverpool.
Mi liscio il vestito sobrio che indosso, lo tolgo da sotto. Tremo completamente mentre mi chino a slacciare il cinturino dei tacchi.
Salgo sul trampolino e mi tuffo, abbracciandomi le ginocchia con gli occhi chiusi. Il fresco dell’acqua mi avvolge, mi accarezza, mi porta pace. Mi appesantisce la testa, mi trapassa. Apro la bocca senza volerlo, l’acqua mi entra dentro.
Jade, chiamo, ma non può sentirmi.
È lontana.
È andata via.
Apro gli occhi e l’acqua si prosciuga. Un bruciore intenso mi porta a chiudere di nuovo le palpebre e, quando torno a guardare, non riconosco la piscina della festa.
Non riconosco Londra.
Non riconosco Liverpool.
Sono a Shanghai.
Una lacrima mi taglia la guancia in due, mentre prendo coscienza di essermi svegliata nella vita vera, quella in cui sono scappata, sono inciampata, ho battuto la testa, sono tornata indietro.
Quella vita in cui mi sono innamorata del ragazzo dagli occhi di Another Place.
*
*
*
*
*
Quante volte ci chiediamo "E se le cose fossero andate diversamente?", ed io allora ve l'ho mostrato attraverso un sogno che, pur essendo tale, può far capire tante cose del modo di essere di Natalie. Se vi chiedete se questo è stato un espediente per temporeggiare non posso negarlo, ma prima di tutto volevo che vedeste quest'universo alternativo in cui anche qui certe cose sono state inevitabili e quello che deve succedere, alla fine, succede. Questo è il mio regalo per voi per uno splendido anno nuovo. Che vi accompagni sempre il coraggio e la voglia di vivere, in tutte le vostre scelte, e non abbandonate mai i vostri sogni.
Ed io vi ringrazio per quest'anno, perché ci siete stati, con me e con La volpe di Liverpool, e mi avete regalato delle gioie enormi e insostituibili.
Al prossimo capitolo,
Ania <3
 
*Il potere dei giovani è nella mia mente
Tramonti, piccola città, io sono fuori dal tempo
Mi amerai ancora quando brillerò
Per le parole ma non per la bellezza
L'amore di mio padre era sempre forte
Il glamour di mia madre vive ancora e
Eppure ancora dentro, mi sentivo sola
Per ragioni a me sconosciute

Ma se mi inviti, tu sai che io verrò
E se mi chiami, sai che correrò
Corro da te, io corro da te
Corro, corro, corro,
Verrò da te , verrò da te
Verrò, verrò, verrò
 

 

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Capitolo 24
*** Ventiquattresimo capitolo ***



Banner di Rebirth <3
Every sailor knows that the sea
Is a friend made enemy
Every shipwrecked soul knows what it is
To live without intimacy
I thought I heard the captain's voice
But it's hard to listen while you preach
Like every broken wave on the shore
This is as far as I could reach
If you go
If you go your way and I go mine
Are we so
Are we so helpless against the tide?
Baby, every dog on the street
Knows that we're in love with defeat
Are we ready to be swept off our feet
And stop chasing every breaking wave?
Every Breaking wave – U2
Prendo coscienza di essermi svegliata nel mondo in cui Jade non c’è più.
Mi stropiccio gli occhi e torno a vedere: non sono sola, nella mia stanza. Una ragazza dai lunghi capelli neri e un grembiule bianco si volta verso di me e mi sorride piano. Mi ricorda Hatomi, ha quell’espressione saggia e tranquilla che non ho mai visto addosso ad un occidentale, forse perché noi siamo troppo impegnati a misurare l’intensità del nostro dolore piuttosto che a trovare il modo più giusto per continuare la nostra vita.
«Buonasera, miss. Avete battuto la testa e siete svenuta, ma non è niente di grave. Vi siete svegliata presto.»
Mi metto seduta. Mi accorgo di indossare un accappatoio, sotto devo essere ancora in costume.
«Mi è sembrato di dormire per una vita intera.»
Una vita diversa.
«Vi lascio riposare,» mi dice, sempre sorridendo. Apre la porta e fa per chiudersela alle spalle; quando io non posso più vedere cosa c’è oltre, la sua voce mi arriva alle orecchie, chiara e preoccupata.
«Sì è svegliata?» chiede Arthur.
«Sì, proprio adesso,» gli spiega la ragazza.
La porta si apre di nuovo ed appare lui. I capelli biondi sono leggermente scompigliati, gli occhi verdi stanchi. Guardarlo – nient’altro che questo – dopo il sogno che ho fatto mi fa scaraventare il cuore in gola.
Fa per avvicinarsi ma la mia voce lo ferma.
«Non fare un altro passo,» mi ritrovo a mormorare.
E invece fa un passo verso di me.
«Ti ho chiesto di non avvicinarti,» ribadisco. Mi faccio indietro sul letto, prendo un cuscino, lo stringo con le unghie fino a graffiare il tessuto e lui è così bello – e non è abbastanza – così bello e in un’altra vita io gli ho sfilato quella maglia, e ho gridato quando lui è entrato in me e ho graffiato la sua pelle, ho chiamato il suo nome, nient’altro che il suo nome… – era un’altra vita, un’immaginazione, un sogno!
Non è mai accaduto.
«Devo dirti delle cose,» sussurra.
Non è mai accaduto.
«Tu non avevi nessun diritto,» sibilo. «Nessun diritto di prenderti questo! Ho vent’anni! Riesci finalmente a guardarmi per quello che sono, Arthur?» Un altro passo verso di me, gli lancio contro il cuscino anche se so che questo non lo allontanerà, niente lo allontanerà da me.
«Sei patetico ed egoista,» gracchio, serro le palpebre. «Un uomo di quasi ventisette anni che va dietro a una ragazzina. Non sono nient’altro che una ragazzina. Non sono mai stata che questo mentre tu… sei codardo. Sei bugiardo. Sei solo,» fiato. Un ultimo respiro. «Sei codardo. Sei bugiardo. Sei solo
Apro gli occhi e mi accorgo che non riesco quasi più a respirare. Non so di cosa siamo fatti: carne, anima, coscienza. Qualunque cosa sia quella di Arthur è dilaniata. Ed io tengo in mano il coltello, che cade a terra con un rumore metallico perché io non posso aver detto queste cose, non posso averle pensate davvero e tremo, sono l’epicentro del terremoto di questo strazio. Codardo, bugiardo, solo, eppure il mio primo amico, il mio primo amore.
Lo odio, pensa una parte di me. Ma non posso odiare davvero qualcuno che mi ha tenuto a me da quando sono nata.
«Tu non lo sai, Nat,» dice semplicemente, senza guardarmi; china il capo. «Volevo solo che tu avessi tutto quello di cui hai bisogno…»
«E ce l’ho?» Odialo. Ho l’affanno. Un singhiozzo. Odialo e andrà tutto bene. «Ce l’ho? No! Ridammi mia sorella.»
Si porta una mano alle labbra, le dita lunghe e tese, la sua voce che riempie gli spazi tra le sue dita. «Natalie…»
«Ridammi mia sorella!» grido. «Puoi riportarla indietro? Tu non sei mai stato lei, non potrai mai riempire il vuoto che lei mi ha lasciato, non l’hai mai riempito!» Non riesco più ad avere il controllo di me stessa. «La tua presenza ha solo scavato un altro vuoto, e tu sei lì. Ti sei solo insinuato in me…»
Fatica a respirare eppure mi parla tutto d’un fiato, con la voce rotta. «Non sai quante volte sarei voluto essere morto al posto suo. Non sai quante volte vorrei non esistere e non sentire niente, perché lei ci sia e tu possa averla accanto e non ci sarebbe dolore, più dolore nella tua vita
Così mi rompo io. Lo odio, pensa una parte di me, e nello stesso istante la stessa parte mi rivela qualcosa che non è mai stato un segreto, l’ho amato tanto. Non esiste vita che io non abbia passato ad amarlo, non esiste universo in cui suoi occhi su di me, i miei occhi su di lui, non avrebbero fatto divampare la fiammella sulla candela della mia infantile incoscienza, inconscente amore.
Quindici anni.
Diciannove.
Venti.
Fa davvero differenza, adesso?
«Ci sarebbe stato dolore in ogni caso, Arthur,» mi ritrovo a riconoscere.
«Non ti ho baciata per sfizio, non ti ho baciata per gioco. Niente che ti riguardi è uno sfizio o un gioco. Ed hai dovuto lasciare Liverpool, perché lo capissi. Sono dovuto restare lontano da te e poi rivederti, perché lo capissi. Ed io ti ho vista crescere,» sospira. Comincia a camminare per la stanza avanti e indietro. «Ti ho vista quando sei nata: eri di cinquantadue centimetri, dormivi nella tua culla con un solo ciuffo di capelli in testa e Jade ti guardava dall’alto, con le mani ad appoggiarsi alla tua culla. Ignorare che Jade ci sia stata nella mia vita mi ha impedito di amare dopo. Ignorare Jade non mi ha permesso di legarmi a qualcuno. Ignorare Jade doveva salvarmi dal dolore e invece mi ci ha scaraventato dentro. Ma tu…» Si volta a guardarmi. «Tu mi facevi dimenticare il dolore, Natalie. Quando te ne sei andata la terra mi è mancata sotto i piedi e sono caduto in quella voragine. Hai fatto risalire il passato perché lo superassi ed io ti sarò grato per sempre. Ho capito che il miglior modo per superare il dolore è affrontare il dolore. E così ho capito…» Si avvicina di nuovo a me. «… che ho amato Jade con tutta l’anima che avevo a diciassette anni e ho trovato il coraggio di fare quello che tu hai fatto prima di me. Sono stato sincero con me stesso e sento che adesso, adesso… da tanto tempo, per tutto quello che sei, per tutto quello che non sei, per tutto quello che fai e non fai, per essere te stessa io ti amo
Mi prende il viso tra le mani ed io continuo a tremare. Mentre scappavo da lui, nella mia mente, chiedevo a Jade di salvarmi. Non sapevo che in qualunque caso, in qualunque vita, non mi sarei mai potuta salvare da Arthur Benkinson.
Singhiozzo.
«Natalie.» Mi accarezza il viso, piano. «Non devi piangere…» Ed Arthur fa quel respiro che si ritrae in se stesso, dannato, dolcemente grave. È quello della troppa vicinanza, del bisogno incontrollabile, del desiderio che fa disperdere l’aria intorno a noi.
I nostri vestiti via ed io ad aggrapparmi ai suoi capelli mentre le nostre lingue si sfregano in un bacio da traditori. Perché non siamo stati nient’altro che questo, in ogni attimo. La sua testa sul mio petto, il suo respiro pesante, la sua  mano sulla mia bocca per intrappolare il mio grido quando entra in me. E si muove, Arthur, tra l’aria e me, tra me e il mondo, tra il mondo e se stesso. Non gridare, dice, anche se lo so che è questo che vuole, sentirmi gridare ti amo anche se non è giusto e resta qui con me anche se dovrebbe andare via e fai l’amore con me anche se non può amarmi…
In un'altra vita è successo, è un ricordo vago di qualcosa che è troppo lontano per essere davvero esistito.
«Non devo piangere?» mormoro tra le lacrime, Arthur tiene ancora il mio viso tra le sue mani.
In questa vita non può succedere.
Il cuore mi si è stretto in se stesso ed ho paura che scompaia, ho paura di non sentire più niente a questo mondo. Ma non accade. Perché i battiti si sono annodati in se stessi alla ricerca di una sola verità.
Allontano le mani di Arthur dal mio viso e lo fisso senza distinguerne davvero i tratti, perché le lacrime continuano a scendere.
Perché quella vita non è mai accaduta.
Perché Jade è morta.
Perché io sono una persona diversa.
«Mi hai spezzato il cuore solo guardandomi ogni giorno della mia vita ed io te l’avrei fatto fare un altro milione di volte, per quanto ti ho amato. Per anni. Senza che tu ti accorgessi di me, senza che tu vedessi oltre la ragazzina che ti aspettava con gioia sulla soglia di casa dei Truman. Ma io non ho avuto quindici anni per sempre. Sono cresciuta e ti amavo e ti ho amato ed ora, ora non posso.» Mi alzo, stringo le palpebre, mi trovo davanti alla finestra: è notte fonda.
«Non puoi?» sussurra.
«Mai più.» Un taglio netto. Non c’è nemmeno una stella, in cielo, ed è strano, così tanto strano… come può la vita proiettarsi su uno sfondo nero? Il dolore è un terreno fertile perché noi, persone, non possiamo fare a meno di vivere anche se vogliamo morire, anche se da vivi moriamo già. Ed è così strano, perché vedo me stessa nel cielo, mi vedo ridere mentre un ragazzo con una punta di luce sul sopracciglio destro mi guarda di traverso, appoggiato allo stipite della porta, ed io canticchio una melodia sul divano, a gambe incrociate, e lui mi dice che non so cantare eppure mi invita a continuare, vorrei insultarlo e mi sorride ed io splendo dall’interno, il cuore mi si è trasformato una stella appena nata…  perché lui sa che devo imparare a suonare la mia canzone.
«Perché io amo Ewan.»
Mi asciugo le lacrime, mi soffio il naso, ignoro che lui mi stia guardando. Non ho più paura perché non c’era altra risposta che potessi dargli. Quello che deve accadere, alla fine, accade.
«Ewan?» chiede, come se non avesse sentito. «Il tuo coinquilino, lui…» Si passa una mano tra i capelli, fa qualche altro passo nella stanza, il suo respiro si fa affanno. Ed c’è sempre quel respiro che si ritrae in se stesso, dannato, dolcemente grave. È quello della troppa vicinanza, del bisogno incontrollabile, del desiderio che fa disperdere l’aria intorno a noi. I nostri vestiti via ed io ad aggrapparmi ai suoi capelli mentre le nostre lingue si sfregano in un bacio che ha fede. Perché non siamo stati nient’altro che questo, in ogni attimo noi abbiamo creduto. La sua testa sul mio petto, il suo respiro pesante, la sua  mano sulla mia bocca per intrappolare il mio grido quando entra in me. E si muove, ed è Ewan, sono i capelli neri e la sua pelle che richiama il bronzo, sole irlandese che splende nell’inverno di Londra, gli occhi di mare notturno che bagnano il legno del bosco di cui sono fatta, lui che si muove tra l’aria e me, tra me e il mondo, tra il mondo e se stesso. Non mi chiede di non gridare, non lo faccio: ha capito che nel mio ostinato silenzio vedo la vita scorrere, anche se si rompe in ansimi che mi bruciano dentro, non mi sente gridare ti amo perché lo sussurro senza deciderlo e non dico nemmeno resta qui con me, lui è già qui e non dico fai l’amore con me, perché accade anche senza toccarci…
È un ricordo.
È la vita vera.
«Ma certo. Certo. Io dovevo… accorgermene, il modo in cui ti guarda, il modo in cui tu guardi lui…» Scuote la testa. «Io non ho voluto vedere.»
«Arthur…»
«Da quanto tempo?»
«Saranno… due mesi.»
«Due mesi,» ripete, e nella sua voce scoppia una disperazione repressa, di cui ha vergogna. «Due mesi che ignoro te e lui. Mesi e mesi in cui ho ignorato quello che sentivo per te. Anni in cui ho ignorato Jade,» sospira. «Finirò per ignorare anche me stesso.»
«Arth, non dire…»
«È vero, non ho nessun diritto su di te. Sono solo io, patetico e e egoista e codardo e bugiardo e solo, e non posso ridarti Jade anche se lo vorrei, Dio, lo vorrei...»
Mi trema la voce. «Non volevo dirti quelle cose, mi sono arrabbiata, quello che hai fatto era troppo, io…»
«Io ti amo, capisci? Io ti amo. Era questo che volevi. Che io ti amassi. Che io lo ammettessi. E sono stanco perché più ho cercato di non sbagliare, più ho sbagliato. E ti ho persa.»
Resto dove sono, lo guardo soltanto. «Io ho fatto come te. Siamo simili nei nostri errori ma, se ho capito qualcosa da quando vivo a Londra, è che uno sbaglio può segnarti, il dolore può segnarti, ma non è questo che ferma i nostri sentimenti.» Faccio un passo verso di lui. Mi tornano alla mente i momenti di gioia al mare, a casa, vicino al pianoforte, a giocare sul tappeto del salotto con i dinosauri di plastica, le corse sulla spiaggia di another place, mentre io crescevo e lui cresceva, e Jade non c’era più e noi continuavamo a vivere zoppicando, ignorando, per poi diventare come siamo ora, zoppicanti, ma senza ignorare nulla. «Tengo a te. Tu sei importante, lo sarai sempre. Sarai sempre una delle persone più importanti della mia vita.»  
Arthur fa un respiro profondo.
«Anche tu. Anche tu sarai sempre una delle persone più importanti della mia vita,» dice tutto d’un fiato. Si copre gli occhi con la mano, sospira esausto.
Arthur esce dalla mia stanza, ma non uscirà mai dalla mia vita.
***
Mi sto ancora mettendo il correttore sotto gli occhi quando il telefono squilla; non voglio rispondere ma il nome di Pamela sul display mi fa cambiare idea all’istante.
Quei secondi che impiego per sfiorare il tasto verde con il pollice mi sembrano eterni.
«Pam? Mi sto preparando, tra un’ora parto… Oddio, non puoi immaginare…»
«… Che cosa è successo ieri, Nat,» dice Pam, con la voce sottile di quando è nervosa. Mi vedo inarcare le sopracciglia nello specchio, i capelli tenuti su dall’asciugamano per faciliare i vani tentativi di rendermi presentabile. «Io e Leo… insomma io e lui… io… con lui… noi…»
«Oh mio Dio.» Pamela. Diciannove anni compiuti a giugno. Sole e gioia e saggezza. Davvero innamorata per la prima volta nella sua vita. «È… è successo?»
«Sì, è successo,» mi risponde. «E so che sto spendendo tanti soldi per questa telefonata ma non potevo aspettare per dirtelo io… io avevo così paura che stavo per farmela sotto.»
Scoppio a ridere. «Ma… Ma Leo si è comportato bene, no?»
«Be’, sì. Gli ho chiesto di tenere la luce spenta così non vedevano le smagliature.»
«Pamela…»
«Ha fatto male all’inizio,» dice veloce. «E nella mente mi sono detta ehi! Hai aspettato per tanto tempo, hai detto di no a tanti altri, perché qui? Perché adesso? Perché lui? Poi mi ha baciato, ed è andato piano ed io ho capito perché qui, perché adesso, perché lui… ed è stato bello. È stato bellissimo.»
Mi vedo sorridere nello specchio e ringrazio silenziosamente Pamela per avermi regalato un po’ della sua felicità. Ne avevo davvero bisogno.
«Natalie, mi stai ascoltando?» mi richiama lei.
«Sì, Pam… ti voglio davvero bene.»
«Anch’io ti voglio bene.»La sicurezza nella sua voce. «E nessun ragazzo mi porterà via dalla mia migliore amica. Nessun ragazzo allontanerà la mia migliore amica da me.»
Sospiro. Mentre continuo a guardarmi allo specchio capisco che non potrò fare niente per apparire migliore, non posso nascondere la vera me. Ho pietà del credito telefonico della mia amica ed io, per questa volta, aspetterò a fare i miei soliti, balbettanti sproloqui.
«Lo hai detto, Jefferson.»
***
Il volo di ritorno.
Arthur mi riserva uno sguardo veloce e pieno di sensi di colpa, che mi ferisce.
Sono solo una persona qualsiasi in un mondo di miliardi di esseri umani.
Chi è che non potrebbe amarti, Arthur? Sei di buon cuore e tutti possono sbagliare.
Riconoscere di sbagliare ci fa diventare grandi.
Ed è questo il momento in cui scelgo.
«A cosa sta pensando, volpe di Liverpool?» mi chiede Julian, facendomi ridestare da uno sguardo incantato verso il finestrino dell’aereo, ad osservare le nuvole.
«A qualcosa da cui non potrò più tornare indietro.»
Dopo tutto quello che è accaduto, dopo tutto quello che sono, dopo tutto quello che mi ha dato questo viaggio, io posso permettermi di fare questa scelta.
***
La prima emozione – sensazione, sentimento – ad attraversarmi appena metto piede su suolo inglese è la gratitudine. Sono grata alla certezza che, anche quando il tempo sembra non trascorrere mai, qualunque cosa accada, chiunque tu sia, ovunque tu sia, non è vero: i minuti e le ore sono pesanti, ma si muovono avanti lo stesso. Allora il tempo non ti aspetta quando vorresti fermarti. Si sofferma a guardarti con attenzione quando vorresti solo – con le lacrime agli occhi, con tutto il cuore – che le lancette dell’orologio ruotino veloci, come se un bambino stesse giocando con la rotella degli ingranaggi. In questo viaggio aereo il tempo è stato particolarmente osservatore, irritante e invadente, mentre cercavo in ogni modo di prendere sonno accanto a Julian e riuscivo a riconoscere, seppur la fila fosse occupata da una ventina di persone, il respiro costante del sonno di Arthur.
Una volta mi sono addormentata tra le sue braccia, le sue carezze tra i miei capelli: avevo quattordici anni.
Cercavo con tutte le mie forze di non ammettere che mi stavo innamorando di lui.
«Allora,» comincia Arthur, siamo appena usciti dall’aereoporto. «Tu come torni a casa?»
«Chiamo un taxi.»
«Se hai bisogno di un passaggio…»
Accenno un sorriso, ma è un tentativo inutile. «Sei molto gentile, come sempre, ma non ce ne’è bisogno.» Mi volto, quasi avessi avuto uno scatto muscolare, verso il marciapiede di fronte.
Ewan, in un giubbino nero e i jeans chiari di sempre, solleva la mano a farmi un cenno.
Rispondo al suo cenno e faccio per attraversare la strada, presa da una frenesia e forza che non riesco a controllare. È bellissimo, a un modo che mi distrugge e mi fa sentire al tempo stesso forte; guardarlo mi fa male, è come fissare mille stelle che esplodono e muoiono a occhio nudo.
Ewan…
«Ormai sai cavartela da sola.» La voce di Arthur riesce a richiamare il mio sguardo su di lui.
Mi sembra di scorgere l’inizio di un suo sorriso, ma riesco a vederne presto solo la fine, accecata dal flash di una macchina fotografica. Vengo spinta in avanti, sommersa da un biancore di luce alternato a macchie giallognole con Arthur che mi prende per il braccio.
«Che succede?» sbraito.
«Volpe, sorrida!» dice qualcuno. Non ho nessuna voglia di sorridere e mi viene fuori una smorfia. «Come stanno i due piccioncini?»
«Ma che…?»
«Vieni,» sentenzia Arthur. Davanti a noi si ferma un taxi ed io continuo ad essere accecata dai flash delle macchine fotografiche. Mi dimeno non per scappare, ma per vedere Ewan un’altra volta, assicurarmi che sia qui, che sia lì, che sia venuto per me.
Ma ci sono troppe persone e non riesco più a capire dove sia. Finisco solo per coprirmi gli occhi con le mani come se non volessi  vedere qualcosa di brutto.
«Puoi salire in macchina,» mi dice Arthur, mi apre lo sportello. I suoi occhi si assottigliano nel dispiacere. «Scusami.»
Dico al taxista il mio indirizzo e riprendo a respirare. Mi massaggio le tempie alla ricerca di un po’ di calma. Voglio solo tornare a casa mia. Voglio solo ritrovare il calore dell’abbraccio di Ewan. Voglio solo passare il mio tempo con lui.
Quando scendo dall’auto Ewan è lì ad aspettarmi, seduto sui gradini che portano al portone di casa. Si alza in piedi, fa un passo verso di me ed io corro. Forse volo. Non è camminando che si arriva all’amore, si trova troppo in alto. Bisogna trovare le ali che teniamo nascoste nella nostra schiena.
Lo abbraccio, sospiro, mi bagno delle lacrime che avevo trattenuto e che vengono fuori, ora, come unica conseguenza dell’unico sollievo che provo da ventitré ore.
Ewan mi posa le mani sulle spalle, e lo fa per allontanarmi. Non mi ha abbracciato, sono stata io ad abbracciare lui. Io gli sono corsa incontro, mentre lui ha fatto un solo passo dettato dalla curiosità, da quel che ora leggo nei suoi occhi: sfida mista a risentimento, delusione. Prende la mia valigia e la porta su senza dire una parola; mi chiudo la porta dell’appartamento alle spalle ed Ewan finalmente parla.
«Ho visto anche che ti sei divertita molto.» Dalla tasca estrae un foglio piegato su stesso almeno sei volte; quando riesce a spiegarlo me lo spinge sul petto, lo stringo per non farlo cadere.
Non riesco più a respirare. Ogni forza vitale si annulla nel movimento di allontanare il foglio per leggerlo, guardarlo. Chiudo gli occhi e l’immagine resta impressa nella mia mente: io ed Arthur; Arthur che mi bacia in piscina.
Torno a guardare Ewan, incapace di pronunciare qualunque parola. Una scusa, una giustificazione, un’imprecazione. La lingua sembra essersi atrofizzata in un nodo stretto.
«È lui?» mi chiede. È il vento che soffia su Another place nei gelidi giorni d’inverno. «Il ragazzo che stava con tua sorella. Il ragazzo che hai amato per anni. È lui?» continua. «È Arthur Benkinson?»
Il suo nome riesco a pronunciarlo. «Ewan…»
«No… Natalie,» mormora. Solleva le mani quasi a misurare le parole, gli tremano. «Tu devi rispondere a questa domanda.»
Deglutisco.
Lo fisso, accetto la sua sfida: non lo faccio per coraggio o stupidità, ma perché è inevitabile. Perché non posso negarmi a quest’altra dose di dolore che la vita mi costringe a prendere.
«È lui.»
Un sussurro, le mie parole.
Sono solo così stanca.
«Grazie, Natalie.» Mi mostra il più doloroso dei sorrisi. «Non ho bisogno di sentire altro.»
Ewan si allontana, io resto ferma in una mutezza di ghiaccio. Sono assiderata nei miei errori mentre Ewan viene di nuovo fuori con in mano il suo borsone da viaggio e la tastiera. La sua tastiera, la sua musica, another place. Fa per avvicinarsi di nuovo alla porta ma io lo blocco.
Il panico mi avvelena, riesce a farmi svegliare, a sciogliere il ghiaccio mentre il dolore, implacabile, mi fulmina i nervi.
«Aspetta,» riesco a dire. Non riesco a trattenere più le lacrime. «È stato solo un bacio, non è niente per me. Mi sai leggere meglio di chiunque altro… Fallo adesso.»
Ewan sospira. «La prima cosa che è ho provato per te è stata ammirazione. Poi è venuto il rispetto e, solo dopo, ti ho amata,» dice sistemando il borsone, senza guardarmi. «Pensi che sia stato un bacio a distruggermi?» È come ricevere uno schiaffo in pieno viso. «C’è una foto, a casa tua. È il tuo quindicesimo compleanno e balli con Arthur Benkinson. Non guardi l’obbiettivo, guardi lui. Tua madre ci è passata davanti, ha detto “quel ragazzo è nella nostra vita da sempre”. Ma se fosse stato lui, quel ragazzo, tu me l’avresti detto. Certo che l’avresti fatto! Lo vedevi almeno ogni settimana per il gemellaggio della rivista, non dirmelo non sarebbe giusto… Nat me lo direbbe, ho pensato. E invece hai nascosto qualcosa che ti rende la persona che sei. Non ti sei mai davvero fidata di me. Io l’ho fatto, io ti ho dato tutto quello che sono, quello che odio, quello che vorrei cambiare. Ti ho dato me, sempre.» I suoi occhi si induriscono. Un’altra pausa. «Ti chiedevo una sola cosa e pensavo di meritarla: che tu fossi onesta con me.»
Soffriamo per gli eventi che ci cadono addosso. Soffriamo per una reazione provocata da una persona al di fuori di noi. Soffriamo per i sogni infranti. E soffriamo, a volte, solo per colpa nostra.
Continua a parlare. «Non lo sei stata.»
Riconosco il volto del mio carnefice, mi guarda dal riflesso della finestra alle spalle di Ewan, mi punta il dito contro.
Sono io.
«N-non… non puoi andare… dove andrai, cosa farai, dove…»
Sono io.
«Natalie, smettila.»
Sei tu sei tu sei tu.
«Per favore…»
«Fammi passare.»
Sei tu sei tu sei tu.
«Ewan, non capisci?» grido. «Mi dispiace! Mi dispiace fino a strapparmi l’anima! Ma non capisci che è l’unico modo che ho per resistere? Non capisci che solo così sono in grado di proteggermi dal totale disastro, vergogna, fallimento che è la mia vita?» Vibro, una corda di pianoforte percossa per quattro tempi, otto, dodici, continui, che non riesce più a emettere suono, sentimento, musica. «Non capisci che questa sono io?»
La sua voce ha il potere di congelarmi. «Io so come sei.» Le sue parole una forte percossa sulle mie labbra, mi fanno ammutolire come le sue mani, che mi spingono contro la porta, mi immobilizzano. Continua a parlare. «So che adesso non ce la faccio a vivere nella stessa casa con te.» Piano, vicino al mio orecchio, con rancore.
«Mi odii,» sussurro.
«Non so più che cosa sento.»
«Non tornerai più?»
«Non so se tornerò.»
Non piango più. Non so come lo guardo, ma l’effetto delle sue parole su di me corrisponde a quello che ha il mio sguardo su di lui. Entrambi schiaffeggiati, infuriati, disgustati. Non riesco più a parlare, non ho più forze, non ho più volontà.
Ed io rinuncio.
Allontano il suo viso dal mio.
Rinuncio a lui e a me stessa.
Smetto di toccarlo, faccio un respiro profondo, abbasso lo sguardo.
Rinuncio ai giorni che ho avuto, che potevo avere.
Faccio in modo che Ewan Lynch scompaia dalla mia vista.
«Vado via, Natalie.»
Dalla mia vita.
Finisce così, con un rombo di motore. Un singhiozzo forte e sgraziato. Lacrime continuano a scendere. La foto di un vecchio desiderio trasformato in disastro, strappata a forza.
Uno sguardo sui fogli che volano via come io non posso volare più, con il nulla tra le mani.
***
Qualunque cosa accada, qualunque cosa io faccia, Pamela Marie Jefferson è dietro la mia porta di casa dopo un quarto d’ora l’invio del mio messaggio.
«Che cosa hai combinato, guastafeste?» mi chiede, facendomi l’occhiolino. L’abbraccio chiudendo gli occhi, percependo solo adesso quanto è teso il mio corpo, rigido come se fossi fatta di ferro, come una statua di another place. Il mio racconto è balbettato, anche se non sto piangendo. Ogni cosa è sussurrata, quasi così potesse esserci la possibilità che sia meno vera.
Mentre mi addormento, la voce familiare di Pamela mi rassicura su risvolti da favola.
Ma io non ci credo.
Non ho più possibilità.
Solo realtà.
***
Il mio ritorno a Londra era segnato, anche se solo nella mia mente. Ho fatto questa scelta prima di partire, quando ero ancora a Shangai; ne avevo paura allora e quello che è successo con Ewan non mi farà sentire meno fragile di quello che già sono.
Ormai niente più potrebbe trafiggermi, niente più potrebbe sfinirmi, niente più potrebbe cambiare le cose. Arrivo in ufficio senza guardare in faccia nessuno. Mi dirigo nel corridoio che porta all’ufficio del direttore ed apro la porta senza bussare.
«Natalie…» Mi accoglie con il suo solito sorriso. «Triplicare! La volpe di Liverpool ci ha fatto ben triplicare…»
«Mi licenzio,» dico subito. «Lei ha finito con me. La volpe di Liverpool sono io e do conto a me stessa. Ho firmato con il Giappone, l’India, il Canada, gli Stati Uniti, l’Irlanda, la Scozia, l’Italia, la Grecia, la Turchia, la Russia, ed ho firmato in quanto Natalie Hanna Truman. Né a nome della sua rivista, né a nome di Istyle. Ho chiuso con Vogue ed ho chiuso con lei. Una parola… su di me nei vostri articoli…» Mi sporgo sulla scrivania. «E si ricorderà che la volpe è un animale carnivoro.»
Ed il modo in cui il direttore mi guarda mi fa sentire così.
Pronta a sputare le sue ossa dalla bocca.
***
«Natalie,» esclama Suzanna, con voce sorpresa, immobile dall’altra parte del bancone. «L’hai fatto veramente?» Mi stringo nelle spalle, fisso un attimo per terra e poi torno a guardare su. Pamela, Leo, il piccolo Ben, Suzanna, nonna Paullina e la signora Faryland mi fissano con la bocca spalancata.
Sono arrivata in fretta e in furia per comunicare il fatto a Pamela; ho parlato a voce così alta che tutto il locale si è girato verso di me. Chissà quale sarà il primo giornale a parlarne.
«Certo che l’ho fatto veramente.»
«Bene, allora brindiamo, no?» propone Leo, abbracciando Pamela.
«Brindare a cosa?» chiede Suzanna.
«A Natalie, che si è finalmente tolta dalle palle quel bastardo.»
«Bastardo,» ripete Ben con una voce piccola piccola.
«Leo!» lo richiama Suze. «Quante volte devo dirti di non dire brutte parole davanti a Ben?»
«Andiamo a prendere questa bottiglia di spumante, » si intromette la signora Faryland. «Va’, ragazza della montagna, forza.»
Suzanna e la signora Faryland si allontanano nel magazzino, io poggio il gomito sul bancone e mi mantengo la testa con la mano. Nonna Paullina mi fa l’occhiolino, seduta accanto a me. «Ben fatto, volpe.»
Riesco appena a sorriderle.
Una carezza sulla spalla mi fa voltare di poco il capo. Pamela mi guarda, fa domande senza usare parole, aspetta la mia risposta. Ewan è tornato, stanotte?
Nemmeno io uso parole né voce.
Il dolore emerge nei suoi occhi verde prato, accompagnato da quella delusione amara che si infittisce quando quel che è accaduto ha colpito qualcuno a cui vogliamo bene.
«Va tutto bene,» mormoro, posando la mia mano sulla sua.
Pamela scuote la testa, ferma nella sua ostinazione. «Nat…»
«Ci siamo?» La signora Faryland ci richiama all’ordine. Apre la bottiglia di spumante e versa il contenuto in diversi bicchieri di plastica, me ne porge uno.
«Brindiamo a…» Mi fa segno di parlare.
Resto ferma, persa a pensare a qualcosa, decisa a non apparire debole in nessun modo.
«Ai miei errori.» Sollevo il bicchiere e scelgo, dentro di me, di credere alle mie parole. «Perché mi hanno portato fin qui.»
Perché non c’è altro che io sappia fare bene se non sbagliare.
Mi sento vibrare il cuore: ora è un castello di carta smosso dal vento, l’ennesimo colpo sta per farlo crollare ma io sono la regina e do un ordine ben chiaro.
Chiudere i cancelli per lasciarli chiusi.
***
Approfitto dell’assenza di Pamela, che si è allontanata a dare una mano a Suzanna in magazzino, per andare via. Chiedo a Leo di mandarle un saluto al mio posto.
Resto immobile di fronte alla porta del mio appartamento e non ho il coraggio di infilare la chiave nella serratura ed aprirla. Piuttosto resterei qui sul pianerottolo a vita. Mi siedo su uno scalino, i gomiti sulle ginocchia, entrambe le mani sotto il mento.
Le orecchie mi ronzano come se avessi battuto la testa. Cerco di respirare, inspirare, espirare, a occhi chiusi, occhi chiusi, Nat. Ma resta comunque difficile. Perché quando finalmente ho il controllo del mio respiro ricordo l’emozione assurda che ho provato – ancora provo mentre ricordo – quando Ewan mi ha baciato per la prima volta nel nostro garage impolverato, di fronte al suo pianoforte. Quando mi era sembrato di respirare anche se avevo il fiato trattenuto nei polmoni.
È stato quello, il momento. L’attimo in cui l’onda ha raggiunto la riva, ha distrutto i castelli di sabbia che io credevo in cemento, mi ha fatto vedere che cosa, davvero, avevo costruito: che cosa era nato in me.
Ed ora, signori e signori, pago le conseguenze della mia immaturità, i miei capricci da grande in un cervello da bambina. Pago le conseguenze dell’ennesimo errore e voglio dare, con tutto il cuore, la colpa a qualcuno.
«Natalui, sei rimasta chiusa fuori?»
Sospiro, mi volto alla voce familiare e grave del signor Zot, che mi osserva nella sua solita tenuta da casa, con il volto arrossato ed un’espressione incerta.
«Voglio restare fuori,» dico, la mia voce è rauca come se fossi stata per mesi in silenzio. «Almeno per un po’.»
Zot scuote la testa, si avvicina e si siede accanto a me. Lo accompagna un gesto gentile, prevedibile quanto agognato: mi offre la sua bottiglia di vodka ed io, quasi non aspettassi altro, la accetto per la prima volta da quando vivo qui.
Ne ingurgito una bella sorsata e mi sento bruciare gli occhi.
«Soffrire per un ragazzo è da stupidi, vero?» chiedo, non so bene a chi. «Io sono stupida. La più grande contraddizione vivente… una volpe stupida. O forse non una volpe, perché potrei cominciare a pensare a come sistemare le cose nel mio lavoro, passare il tempo con Pamela… eppure voglio solo piangere. Quindi sono una ragazza come tante, niente di più, tanto di meno. Che cosa potrei fare se non piangere? L’ho cercato qui a Londra, ieri notte, ovunque. Ho girato ogni borgo, associazione, ponte. Sono passata da ostelli, sobborghi, parchi. In tre giorni ho avuto modo di vedere e conoscere Londra a modo tale che potrei scrivere una nuova versione di Oliver Twist. Ma lui non voleva che io lo trovassi, e così è stato.» Finalmente mi scende una lacrima, la fermo subito ancora prima che mi raggiunga uno zigomo. «Resterò per sempre con questo senso di sospeso insostenibile. Vivrò sapendo di non essere riuscita a fargli capire quanto lo amo. Avrei rinunciato a qualunque cosa al mondo, ma non a lui. Avrei rinunciato a me stessa, se fosse stato possibile, ma non a lui.»
Mi nascondo il viso con le mani, vorrei solo scomparire: per almeno un attimo vorrei solo non esistere.
«Non è stupido, piccola Nat,» sospira Zot. «Ho amato una donna per trent’anni della mia vita. Ho continuato ad amarla anche quando ha sposato un altro uomo. Ho scoperto che la donna che ora è nel mio cuore non considererebbe mai di cambiare vita per me. Che cosa resta, se non lacrime e vodka?» Fa una pausa, come se aspettasse una risposta dall’alto, da me, dai muri che ci circondano. «Restare. Vivere. Percorrere la nostra strada. Il tuempo non si ferma per nuessuno, nuemmeno per un cuore spuezzato.» Mi cinge le spalle con un braccio ed io poso la testa sulla sua spalla. «Se pensi di essere rimasta un po’ indietro, sono certo che tu sei abbastanza veloce da andargli al passo. Non è così? Le volpi corrono veloci.»
Ed io sono circondata da cani da caccia, Emanuelle aveva ragione: senza una strategia sono finita in trappola, con le zampe spezzate.
Mi stropiccio gli occhi, faccio un respiro profondo e non posso che riconoscere che Zot ha ragione.
Che Zot, attraverso il vetro della sua bottiglia di Vodka, riesce a vedere la vita com’è davvero.
*
*
*
*
Ciao a tutti, lettori! *.* 
La mia amica Cherry vorrà farmi fuori appena mi incontra :D (spero sia andato tutto bene :*)
Un capitolo molto intenso emotivamente, almeno per quanto concerne la scrittura. Qui ho avuto il fiato trattenuto in gola e mi è scesa anche qualche lacrima ed io spero che la storia di Nat vi lasci delle emozioni. Spero che nonostante tutto continuiate ad avere fiducia in me, perché siete i lettori migliori del mondo e non potrei chiedere di più se non sperare che continuerete ad esserci <3 E se mai un giorno arriverò da qualche parte con la scrittura, lo devo a voi.
Voglio fare tanti auguri di buon compleanno alla mia migliore amica Stefania, che oggi compie vent’anni <3 Ti voglio tanto bene :****
Grazie di cuore a tutti voi, siete speciali *.* <3
p.s questa è la traduzione della canzone degli U2, vi consiglio di ascoltarla perché è bellissima *.*
Ogni onda che si rompe sulla battigia
dice alla successiva “ce ne sarà una in più”
ogni giocatore d’azzardo sa che perdere
è il motivo per cui sei veramente lì
D’estate ero senza paura
ora parlo in una segreteria telefonica
come ogni foglia caduta nella brezza
l’inverno non la lascerà da sola, da sola
Se vai
se vai per la tua strada e io per la mia
siamo
siamo così disperati contro la marea?
baby, ogni cane in strada
sarà che siamo innamorati della sconfitta
siamo pronti a farci travolgere
e smettere di cercare ogni onda che si rompa?
Ogni marinaio sa che il mare
è un amico che diventa nemico
ogni anima naufraga sa che cosa significhi
vivere senza intimità
Ho creduto di ascoltare la voce del capitano
ma è difficile ascoltare mentre preghi
come ogni onda si infrange sulla battigia
questo è quando di più possa ottenere
Se vai
se vai per la tua strada e io per la mia
siamo
siamo così disperati contro la marea?
baby, ogni cane in strada
sarà che siamo innamorati della sconfitta
siamo pronti a farci travolgere
e smettere di cercare ogni onda che si rompa?
Il mare sa dove le rocce
annegano nell’oceano
sai dov’è il mio cuore
nello stesso posto dove è stato il tuo
sappiamo di aver paura del vento
ed è tutto ciò che abbiamo prima di cominciare
prima di cominciare
se vai
se vai per la tua strada e io per la mia
siamo
siamo così disperati contro la marea?
baby, ogni cane in strada
sarà che siamo innamorati della sconfitta
siamo pronti a farci travolgere
e smettere di cercare ogni onda che si rompa?
Al prossimo capitolo,
vostra Ania <3

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Capitolo 25
*** Venticinquesimo capitolo ***



Almeno torna indietro e inventati un addio.
Facciamo finta che ci sia stato.
Clementine, da “Spotless of the sunshine mind”
Tu lo vedi, sorella: io sono stanca,
stanca, logora, scossa,
come il pilastro d’un cancello angusto
al limitare d’un immenso cortile;
come un vecchio pilastro
che per tutta la vita
sia stato diga all’irruente fuga
d’una folla rinchiusa.
Oh, le parole prigioniere
che battono battono
furiosamente
alla porta dell’anima
e la porta dell’anima
che a palmo a palmo
spietatamente
si chiude!
Ed ogni giorno il varco si stringe
ed ogni giorno l’assalto è più duro.
E l’ultimo giorno
– io lo so –
l’ultimo giorno
quando un’unica lama di luce
pioverà dall’estremo spiraglio
dentro la tenebra,
allora sarà l’onda mostruosa,
l’urto tremendo,
l’urlo mortale
delle parole non nate
verso l’ultimo sogno di sole.
E poi,
dietro la porta per sempre chiusa,
sarà la notte intera,
la frescura,
il silenzio.
E poi,
con le labbra serrate,
con gli occhi aperti
sull’arcano cielo dell’ombra,
sarà
– tu lo sai –
la pace.
La porta che si chiude – Antonia Pozzi
25.
Liverpool.
Sollievo.
La mia vecchia casa.
Sono arrivata con un mezzo privato per assicurarmi un minimo di tranquillità durante il viaggio, anche se la tranquillità è ormai completamente scomparsa dal mio organismo. I paparazzi hanno scoperto dove abito. Scendere in pigiama per buttare la spazzatura e ritrovarmi un flash in faccia non è mai stato il sogno della mia vita, e quello che prima ne aveva la fattezze si è trasformato solo in un incubo dissacrante.
Mi bastava solo questo per decidermi: riconoscere di avere il bisogno di passare un po’ di tempo in un posto familiare che non evochi dei ricordi che, con la loro assenza, mi trafiggono. Per questo eccomi: trascinando un piccolo trolley sul vialetto di casa, cammino verso l’entrata di villa Truman con Wanda e mamma a guardarmi sulla soglia, senza nemmeno l’inizio di un sorriso.
Mi lasciano entrare senza una parola.
«Ehi,» comincio a dire. «Sono tornata prima che passasse un mese. Non solo ho mantenuto la promessa, l’ho rispettata anche prima dei tempi!» dico, ostentando un entusiasmo che in realtà non c’è.
Mio padre, che mi dà le spalle seduto sul divano, si alza dal suo posto per guardarmi, anche lui serio.
«C’è qualcosa che non va?» chiedo, senza capire.
«Dovrei essere io a farti questa domanda, signorina,» risponde lui.
Mi mordo l’interno della guancia: mi chiama signorina solo quando è arrabbiato, solo quando faccio qualcosa di davvero sbagliato e, quanto è ironico tutto questo, ormai ho perso il conto di tutti gli errori che mi porto dietro.
Wanda va in cucina e chiude la porta del cucinino: ora ci siamo solo io, mamma e papà.
«Arthur Benkinson?» fiata mia madre, con una voce che semplicemente soffia; è una tramontana che mi travolge e mi graffia col suo gelo che dice, in un solo respiro, quel nome.
Arthur Benkinson.
«Oh, mamma…» comincio a dire, e mi mordo le labbra, mi passo le mani tra i capelli e faccio un passo indietro, avanti e giro, la testa gira, sono una trottola che non riesce a spostarsi dal punto in cui balla perché circondata da ostacoli, intrappolata in un foro invisibile del pavimento. Che cosa posso dire, ai miei genitori?
«Io lo uccido,» conclude papà. «Andrò in prigione per omicidio premeditato anche con la migliore delle difese, ma non importa: io lo uccido.»
Spalanco gli occhi.
«Papà,» sbotto. «Ma sei impazzito?» Mi manca il fiato.
Gli occhi azzurro chiaro di mio padre mi catturano in uno sguardo di rimprovero e dolore. «Si è preso già una delle mie figlie. Nessuno mi restituirà la nostra Jadie. E lo so che non è stata colpa di Benkinson se non è più qui… lo so che non ha avuto nessun ruolo in quel che è successo! Ma nel primo modo che esiste a questo mondo ce l’ha portata via comunque. È stata la prima cosa a portarcela via. Perché anche te, Natalie? Dio, non ha senso, perché…» Si passa una mano tra i capelli – bianchi di vecchiaia, pena, troppi pensieri – e finisce per coprirsi le palpebre.
«Buford…» lo richiama mamma, si avvicina a lui e lo abbraccia forte. «Natalie è qui con noi. La nostra Natie è qui,» la sento sussurrare.
Un sapore di bile mi invade la bocca. Guardo in alto, cerco aiuto nel cielo che non posso vedere perché con lo sguardo trovo solo il soffitto, un lampadario di cristallo che vorrei mi cadesse addosso per finire tutto così. Ma non è me, che vuole. I miei genitori soffrono non perché non ci sono, ma per il contrario.
«Siete così stupidi,» mi ritrovo a dire. «Pensate davvero che Arthur si debba interessare a me? Era tutta una bugia, pubblicità di marketing, finzione!» Distolgo lo sguardo da loro e mi spreco in un ultimo sussurro. «Siamo solo vittime di tutto questo.»
Corro verso le scale per raggiungere la mia camera prima che mamma e papà sciolgano l’abbraccio e possano guardarmi.
Prima che si accorgano che sono alla deriva.
***
Mi faccio portare il pranzo in camera da Wanda, mamma e papà non vengono a fare domande. Credo che siano troppo imbarazzati per la reazione che hanno avuto, per le cose che papà ha detto. Io mi sto prendendo solo del meritato riposo: non disegno, non leggo, non guardo la televisione.
Ma respiro. Sdraiata a letto lancio contro il soffitto una pallina da tennis – uno dei tanti sport che ho lasciato – contando i secondi che passano mentre lo stereo manda l’ultimo live dei Paramore.
Qualcuno bussa alla porta ed apre senza aspettare la mia risposta.
«Non mi pare di aver detto “avanti”,» farfuglio.
«Ti ho già vista nuda negli spoiatoi di danza, sono passati un po’ di anni ma la misura delle tette è rimasta la stessa. Vuoi che aspetti che tu mi dica “avanti”?»
Faccio un sospiro, non so se di sollievo o di fastidio, ma so che sono grata della sua presenza anche quando non riconosco di esserlo. «Pam.»
«Hai capito benissimo,» ride e si sdraia accanto a me. Quando la pallina di tennis torna indietro dopo l’ennesimo lancio, leggermente deviata verso destra, è lei ad afferrarla.
«Credevo restassi a Londra anche questo fine settimana,» le dico. «Per stare con Leo.»
Pamela lancia la pallina contro il soffitto e questa volta la afferro io, la rilancio, torna indietro e Pamela la riprende.
«Non potevo,» dice, sicura. «Non posso lasciarti sola adesso.»
Pam lancia la pallina, quella colpisce il soffitto, mi arriva, la rilancio.
«Ma io sto bene.»
Pamela afferra la pallina e non la lancia più: la lascia cadere lungo il suo fianco. «Ed io sono mago Merlino.»
La guardo di traverso, lascio andare indietro la testa e chiudo gli occhi. «Allora fa’ un incantesimo, ti prego.»
«Che tipo di incantesimo?» mi chiede.
«Cambia il passato,» sussurro. «Dammi un’altra vita. Ci sono tanti motivi per cui dovrei essere grata a quella che ho ma altrettanti per mandarla al diavolo.»
«Natalie…»
Mi stropiccio gli occhi. «Pamela, perché mi lasci pensare? Vengono fuori queste cretinate. Forza, dimmi qualcosa di divertente. Ho passato tutta la settimana tra annunci e cataloghi. Ho trovato un appartamento per il nuovo ufficio, ho già dato acconto e conferma.. anche se per uscire di casa, Dio! Paparazzi ovunque e quelle loro frasi del cazzo! Volpe sorrida un corno! Come sta il suo fidanzato? ‘Sto cacchio! Ho scritturato Derek come segretario, chiamato designer per gli interni, messo annunci per grafici, esperti del web per la mia rivista… una rivista tutta mia…»
«E questo è fantastico,» mi dice Pamela. «Ma Ewan…»
«Non voglio parlare di lui,» dico subito.
«Vuoi davvero finirla qui?» esclama con una voce che tende all’isterismo. «Voglio dire, sul serio? Dopo tutto quello che è successo?»
«Be’, devo farlo,» mormoro. «Non è tornato la notte dopo, la notte dopo ancora, la notte ancora dopo…»
«E lo accetti?»
«A Londra l’ho cercato ovunque, non l’ho trovato, se n’è andato, l’ho chiamato, il telefono non dà segni di vita…  non vuole che io lo trovi,» continuo. «Pensa che io gli abbia sempre mentito anche se non è vero e questo rimarrà sempre irrisolto… ma non posso fare niente di più di quello che ho fatto. Ho perso tutto e devo farmene una ragione.»
Apro finalmente gli occhi, sono davvero stanca: Pamela si mette a braccia conserte e mi guarda con uno sguardo pieno di inquietudine. «Stai sbagliando. Non hai perso tutto ma, se ti rassegni così presto, lo perderai davvero.»
Così stanca.
«So come ci si sente quando si perde qualcuno. Tu, Pamela Jefferson, evviva la vita, oh ma quanto è luminoso il sole, oh quanto sono strafiga, che cosa ne puoi sapere?»
Gli occhi di Pamela, verde chiaro, foglie di limone, luci di primavera, mi fissano immobili perché lei non respira.
«E tu, Natalie Truman, oh quanto sono sfigata e bruttina e incapace, come puoi dirlo?» ribatte con foga. «Sfigata? Hai sempre avuto dei genitori uniti, che si amano, pronti ad aiutarti quando ne avevi bisogno; sei ricca, vivi in una villa che sembra un castello, hai un conto in banca da capogiro… bruttina? Arthur Benkinson ed Ewan Lynch si sono innamorati di te perdutamente e non sono ragazzi qualunque…  incapace? Hai creato una linea che sta facendo il giro del mondo!» Scoppia in una risata amara. «Ti prego, fammi essere sfigata, bruttina e incapace come te,» sbotta.
«Tu dici?» le sputo contro. «Ma certo! Dovrei essere la ragazza più felice del mondo per quello che ho, hai ragione! Ma ho perso la prima persona che io abbia mai amato, Jade è la prima persona che io abbia mai amato e non importa quanto ho avuto, quanto ho, quanto avrò! Ne sentirò sempre la mancanza e allora io sarò sempre, sempre infelice!» La mia voce si incrina su se stessa come dentro mi incrino io: sono stata contruita male, ho le fondamenta di sabbia, i pilastri non reggono e non reggeranno mai quello che sono diventata.
«Ed io sono la tua amica superficiale, giusto?» mi chiede, la voce aspra. «Oh, la mia vita fa schifo, andiamo da Pamela, se è sempre allegra è solo perché è un’oca…» Scuote la testa, la lacrime a spezzarle le ciglia, a caderle sul viso. Si alza dal letto, velocissima, e si avvicina alla porta.
Che cosa sono diventata?
Mi alzo anch’io, resto in ginocchio sul materasso, tremo.
Non anche lei.
«No, Pamela… Pam… Era tutto un mare di stronzate. È perché non mi funziona il cervello, il cuore, il metabolismo... Sono a pezzi.» Ed è a pezzi anche la mia voce. «Vorrei solo essere te, per un solo secondo. Bella e saggia e matura e forte come te. Così saprei di farcela. Così saprei di valere il tempo di qualcuno.»
Pamela corre indietro e mi abbraccia così forte che mi mozza il respiro, voglio che non se ne vada mai.
«Sei così scema a volte, Nat,» mi sussurra sulla spalla. «Non posso nemmeno tenerti il broncio, adesso, ti rendi conto? Io… ti voglio così tanto bene. E voglio solo che tu sia felice.»
Inclino la testa, soffio per togliermi il ciuffo di capelli che mi è caduto davanti agli occhi e qui, adesso, mi rendo conto di come stona quello che ho detto con tutto questo.
«Non è vero che ho perso tutto. Sei la mia migliore amica, è senza di te che non potrei mai essere felice.» Mi avvolge nel suo abbraccio fatto di respiri e profumo di balsamo al cocco – ricordi d’infanzia, poster di cantanti, risate, pianti miei e suoi. Pamela è il nord della mia bussola. Non importa che cosa può succedere nella mia vita, con lei so sempre dove andare.
«Grazie,» sussurro contro la sua spalla.
«E di cosa?»
«Di essere la sorella che io non ho più.»
***
Avevo sei anni.
Mi ero divertita a farmi spingere sull’altalena da papà, che discuteva di cose che non potevo capire con il signor Benkinson. Per raggiungere lo scivolo dovevo salire delle scale di legno ed attraversare un ponte traballante, a un metro e mezzo da terra. Una sciocchezza, direi ora, eppure quel metro e mezzo per me era un abisso. La risata di mia sorella Jade mi fece voltare la testa, fece ridere anche me, riconobbi gli elastici rosa chiaro che le raccoglievano i capelli mentre si chinava a raccogliere le margherite nel prato.
In quel momento caddi.
Senza respiro mi aggrappai al primo pannello di legno che trovarono le mie mani; ci misi tutta la mia forza, scorticandomi le unghie, ma non fu abbastanza.
«Natalie!» gridò Jade nello spavento. Aveva tredici anni, indossava la maglietta dei Backstreet Boys e lasciò tutto per corrermi incontro.
Persi la presa.
Mi slogai solo il polso; niente di grave a parte la paura di cadere nel vuoto, la paura di cadere e basta.
La sera stessa mi accorsi che, aggrappandomi al legno, nel polpastrello dell’indice della mano destra si era insinuata una scheggia. Provai a toglierla ma il dolore intenso che sentii mi suggerì di lasciar perdere.
La me di sei anni preferì imparare a convivere con quella scheggia.
Una settimana dopo il dito indice mi si gonfiò: si era infiammato e doleva il triplo.
«Avresti dovuto dirlo, così l’avremmo strappata all’istante,» mi disse papà.
«Ma faceva troppo male.»
«Devi ferirti fino in fondo, per imparare a guarire
Sono sicura che si impara da ogni esperienza, legata all’infanzia o alla vita adulta, e la cosa che più desidero al mondo adesso, la cosa più vicina al possibile che posso avere, è imparare a guarire.
Mi siedo al mio pianoforte.
Dormivi.
Avevamo spostato la televisione in camera tua, ti era venuta l’influenza, mi avevi imposto di restare sulla sedia per non attaccarmi i germi. L’ultimo concerto dei Nirvana trasmesso sull’emittente satellitare ti aveva fatto venire i lucciconi agli occhi. E così ora dormivi, col respiro pesante, stanco, il volto rilassato eppure sempre contratto, i tuoi lineamenti marcati che a volte percorrevo solo per avere la tua impronta dentro, come se non fossi già riuscito a lasciarmi il segno di te ad ogni parola, litigata, sorriso.
Tu dormivi, Ewan Lynch. Ed è allora che l’ho fatto.
È allora che ho cercato e ho trovato lo spartito della tua another place.
Ti sei rigirato tra le coperte, ho avuto paura che ti svegliassi, che ti arrabbiassi con me.
Ma non è successo, sorridevi nel sonno, sognavi qualcosa di bello.
Potrai anche essere andato via, ma questo mi resterà sempre. Quel che siamo stati mi resterà sempre.
Suono, dapprima intensa, poi più decisa, con foga, trasporto, e chiudo gli occhi. Devo lasciarli chiusi, per vederti.
Another place mi apparterrà sempre.
La scheggia che devo strappare si trova sotto la superficie.
Mi chiedo ancora quando hai cominciato ad amarmi, mi chiedo ancora perché; mi chiedo quando ho cominciato a farlo io, e riconosco il perché.
Riconosco che hai fatto venir fuori tutto il peggio che avevo dentro per schiacciarlo, per far spazio al meglio, eppure non immaginavi che ci fosse così tanto male in questa ragazza dai capelli arancioni, alta un metro e qualche tappo di sugaro, appassionata di sogni.
Tu non potevi saperlo, Ewan, e mi dispiace.
Mi dispiace di averti fatto cadere insieme a me.
Lascio che tu mi prenda per mano – il ritornello – e imprima sulla mia pelle una carezza – la seconda nota – e mi respiri sulla pelle – il terzo accordo – e perda il respiro – la prima pausa – e mi baci piano – altre note – poi forte – altre note – e mi faccia volteggiare come se non potessi mai inciampare – altri accordi – e mi faccia cadere tra le tue braccia – una nota – un’altra carezza – pausa – uno sguardo all’orizzonte – la musica, difficile e semplice insieme. Incantevole, delicata e forte, triste e gioiosa insieme, veloce e poi lenta, un’unione di diversità che crea un perfetto, melodioso equilibrio.
L’ultimo pezzo…
Devo dirti addio. Siamo a casa nostra, tu mi guardi, stai per andare via: i tuoi occhi blu a guardarmi, velati e brucianti.
«Non so se tornerò.»
Nella mia mente ci sei ancora: non hai ancora fatto quel passo, non hai mosso la mano verso la maniglia, il tuo corpo schiaccia il mio anche senza toccarmi.
«Lo sai, invece, devi solo dirmi addio. Hai il coraggio di dirlo?» ti sussurro. «Una parola. Addio.»
Un sorriso impercettibile, da chi ti ha sempre in pugno, da chi conosce ogni segreto. Da chi non può più essere ferito. Sei un’immaginazione, no? Posso almeno pensare che qui tu non stia soffrendo come me.
«Dillo prima tu, Natalie. È solo una parola, no?»
Un’altra nota.
La gola mi trema in un singhiozzo, le parole si sfaldano nell'inizio di un pianto, non riesco a parlare.
Devo dirti addio, Ewan…

«Oh, Natalie.» È la voce di mia madre, ancora una volta forte e soffiata, un vento pacato questa volta ma pieno d’emozione. «Sei… sei diventata così brava…»
«No, mamma, non così tanto.»
«È la stessa musica che ha suonato Ewan al tuo compleanno, non è vero?» mi chiede, mi si siede accanto, sospira. «È splendida… L’ha scritta lui, giusto?»
«Sì,» mormoro.
L’ha scritta per me.
Mia madre fa un’alzata di spalle, resta in silenzio qualche secondo e sbuffa. «Natie, vuoi dirmi che succede?»
Volto la testa di scatto, mi mordo le labbra, lascio che l’accenno di lacrime – quelle fastidiose vibrazioni in gola – si esauriscano in se stesse. Ho gli occhi asciutti eppure li chiudo ancora una volta, la gola continua a vibrare e mi rendo conto che non sono solo lacrime. Sono parole fatte di lacrime e per questo più pesanti, che scendono sulla lingua, sfiorano i denti, spingono sulle labbra ed io devo farlo – per non soffocare, per sopravvivere, perché è un altro modo per strappar via quella maledetta scheggia – e lo faccio.
Parlo.
«Amo Ewan ed ho rovinato tutto ed è tutto finito,» dico tutto d’un fiato.
Mamma trattiene il respiro.
«Lo sapevo,» sussurra.
Torno a guardarla. «Che cosa?»
«Sei mia figlia, Natalie Hanna Truman, vuoi che non mi accorga di certe cose?» esclama con irruenza. «Il modo in cui l’hai guardato mentre suonava il pianoforte… Natie, sarò anche di un’altra generazione, ma nella mia vita mi sono innamorata anch’io. Perciò…»
«Perciò nulla, mamma.»
«Non ti chiederò se ci sei andata a letto.»
«Mamma!»
«Non voglio saperlo.»
«Dio mio…»
«Ma tanto so che è successo, non pensare di prendermi in giro.»
«Porca puzzola, mamma!»
«Non vuoi raccontarmi? Togliendo la parte che non voglio sapere.»
Scuoto la testa, forte.
«Non voglio ignorare niente, voglio riconoscere che è accaduto, ma adesso devo strappare questa scheggia.»
La mamma storce la bocca, inclina la testa, per la prima volta mi sembra che sappia tutto quello che io ho bisogno di sapere.
«Ed Arthur?» chiede.
Roteo gli occhi. «Ho sempre saputo che era impossibile.»
«Ma ci hai sperato.»
«Certo che ci ho sperato! Come sarei sopravvissuta senza sperare?» sbotto. «Era un inferno per tutti, mamma. È stato inevitabile, si trattava… di Arthur.»
« Ed era impossibile perché eri una bambina. Tu sarai sempre la mia bambina, ma per il mondo oggi sei una giovane donna. Questo ha cambiato tutto.»
«So solo che… se è andata così, è perché  non sono ancora abbastanza grande per l’amore.»
Mamma sbuffa. «Non lo sarai mai abbastanza. È l’amore ad essere troppo grande per tutte le persone del mondo messe insieme,» ribatte lei. «Crescerai ancora, e te ne accorgerai ancora. È una guerra con armi diverse: tante volte non si vince niente e si perde e basta. Ma poi arriva il momento in cui, quando perdi, non sei sola. Non lo sei mai, qualunque cosa sia successa, accada e accadrà. E l’amore è quello.»
Non riesco a risponderle.
***
Wanda ha cucinato per cena l’arrosto con l’intento di migliorarmi l’umore e, nel suo sguardo, ho visto così tanta dolcezza che mi sono impegnata a farle credere che ci fosse riuscita.
Seduta alla mia scrivania con un foglio a righi davanti a me, batto la matita contro la superficie in legno di faggio.
La volpe di Liverpool.
Sbuffo.
Devo trovare un altro nome, la volpe di Liverpool non sono io: la volpe di Liverpool è la ragazza bella, brillante, intraprendente che Ewan credeva che fossi. Questa convinzione è caduta da entrambe le parti.
Due colpi leggeri contro la porta della mia stanza.
Sollevo la testa. «Wanda, il pigiama per la notte alla fine l’ho trovato… Sono vestita, puoi entrare.»
So che la porta si è aperta, anche se non ha emesso alcuno scricchiolio; mi accorgo della presenza di qualcuno grazie all’ombra che la sua figura proietta sul muro con la luce soffusa della lampada.
E la sagoma scura che si proietta sul muro non è quella piccola e magra di Wanda, quella della mamma che più somiglia a me, quella di papà con il suo accenno traslucido di occhiali da vista.
Riesco a riconoscerlo anche nell’ombra.
«Arthur…» 
L’essere più meraviglioso presente in quest’universo canta un mio vecchio pensiero. Quando non ero ancora riuscita a fuggire, quando le catene mi tenevano ancorata qui, quando non potevo che amare lui e nessun altro.
Mi sembra di essere tornata indietro nel tempo, proprio a quel momento. Io, un vestito nero preso a caso dall’armadio, lo smalto rovinato sui piedi, il respiro trattenuto in gola e lui, che sorride scuotendo di poco la testa, in modo che i capelli biondi e ondulati lunghi fino al mento si spostino per non dargli fastidio. Ha un sorriso che mi fa sentire sul punto di cadere giù da un burrone.
«Sì, solo Arthur,» dice.
Mi alzo dal mio posto, mi metto a braccia conserte e trovo il coraggio di continuare a guardarlo negli occhi senza frantumarmi l’anima.
«Non sarai mai solo Arthur.»
Ma sembra che così si frantumi la sua, di anima, perché distoglie lo sguardo dal mio.
«Non mi aspettavo di trovarti qui.»
«Non mi aspettavo che papà ti facesse salire in camera mia.» Riesco addirittura a sorridere, piano, a fatica, a metà.
«Non ci sono i tuoi genitori. C’è solo Wanda, stava per andare a letto… scusami per essere qui adesso. Ma oggi mi sono licenziato daIstyle e ho saputo che anche tu hai lasciato Vogue, me l’ha detto il direttore… il signor Roman. Ti cercavo e il signor Zot mi ha detto che eri tornata a casa.» Torna a guardarmi. «Ma credevo che volessi passare del tempo con il tuo ragazzo dopo il viaggio.»
Faccio un respiro profondo, mi passo una mano tra i capelli, vorrei solo diventare invisibile e sparire e non trovarmi qui ora.
«È vero, avrei voluto,» mormoro.
Arthur solleva la testa di scatto. Altra sorpresa, altra incertezza nel suo sguardo. «Come…?»
«Non c’è bisogno di altre parole, non so nemmeno dove sia adesso,» sentenzio. Prendo il dolore, lo comprimo, me lo annido nel cuore in modo che si noti meno, anche se riesco a sentirlo.
«Non dirmi che Shanghai ha influito su questo.»
Sbuffo; e non so se è l’inizio di un pianto che riesco a bloccare subito o l’inizio di una risata che si esaurisce ancor prima di vivere.
«Arth… sarebbe così facile darti la colpa di tutto, ma ho imparato a essere sincera con me stessa: è stata colpa mia. È dipeso solo da me, non da te.» Mi trema la voce. «Perché mi cercavi?»
«Perché volevo vederti felice,» mi risponde, quasi senza pensare. La delusione nei suoi occhi. «E non è quello che vedo adesso.»
Non riesco a crederci ma dovrei, perché Arthur è sempre stato così. Ha sempre pensato al bene degli altri prima del suo, anche se ha sempre vissuto nello stesso mondo falso che io ho abbandonato. Ha sempre pensato al mio bene prima di chiunque altro.
«Allora dovresti andartene ed essere contento.» Stringo le palpebre, respiro lentamente, mantengo il controllo di me stessa. «Ti ho spezzato il cuore, non me lo merito?»
«Per quanto tempo?» mi chiede, veloce, improvvisamente travolto da un calore rabbioso. «Per quanto tempo io ho spezzato il tuo senza che me ne accorgessi? »
L’aria diminuisce, io non riesco più a prenderla, parlo con un filo di voce. Era vicino il mio quindicesimo compleanno, ricordo, quando Arthur entrò da quella stessa porta ed io lo guardai e e fu come vederlo per la prima volta, anche se lo conoscevo da sempre, fu come se ogni cosa al mondo non l’avessi mai davvero capita perché ora vedevo, per la prima volta, chi era Arthur Benkinson per me. Chi desideravo che fosse. Chi sognavo che fosse.
«Cinque anni… cinque anni e mezzo, forse,» sussurro. Gli anni più belli, potrebbe pensare qualcuno, ma non lo sono mai stati davvero per me.
«Allora puoi farlo.» La voce di Arthur è forte e decisa eppure mormorata, intensa, mi imbroglia le budella. «Hai tutto il diritto di spezzarmi il cuore, Natalie Truman.» Si avvicina, mi prende il viso tra le mani. «Spezzami il cuore quante volte vuoi,» continua.
Respiro forte. «Non sai quello che dici.»
«Tu non sai cosa farei con te in questo momento.» Le sue mani tremano a mantenermi il viso, il suo sguardo è acceso, mi risucchia via. «Ma non lo farò: ti amo, sono sincero con me stesso e non mi approfitterò di te. È successo quello che doveva succedere: sei diventata grande, hai vissuto e ti sei innamorata di un altro ragazzo.» Fa un respiro profondo. «Ed ora devo chiederti di fare una cosa.»
Chiudo gli occhi. Non so cosa sta per chiedermi, ma so che non potrei rifiutarmi. So che farei semplicemente qualunque cosa mi chieda.
« Non sarai più felice con me, ho scelto che le cose andassero in questo modo… prima ancora che capissi quanto tutto questo importasse. Ma tu non ti arrendere. Scegli che cosa vuoi, Natalie. Non lasciare niente in sospeso. Trova quel ragazzo.» Mi sfiora la fronte con le labbra. Sto tremando. Un sussurro tra i miei capelli. «Sii felice.»
*
*
*
*
Dopo due settimane, eccomi qui! ^^ Mi rendo conto che si tratta di un capitolo di passaggio, ma era necessario per Natalie e tutte le persone intorno a lei, tutte consapevoli di qualcosa di nuovo e di quello che è stato. Adesso la nostra volpe deve scegliere tra rassegnarsi o non arrendersi, e vedremo il non arrendersi che cosa comporterà per lei, se farà questa scelta. La citazione all’inizio del capitolo è del film Eternal sunshine of the spotless mind, uscito in Italia con il titolo Se mi lasci ti cancello che, detto così, può farci pensare ad una commedia romantica… ma in realtà è tutto il contrario. Si tratta di uno dei miei film preferiti <3 La poesia è della splendida Antonia Pozzi, una poetessa italiana poco conosciuta ma meravigliosa.
Spero di aggiornare con puntualità, nel frattempo per chiunque fosse interessato, se vi va di chiacchierare con me questo è il mio profilo facebook : )
Vi ringrazio di cuore per leggere. Non immaginate quanto mi rendete felice con questo, grazie, grazie mille *_________*
 
Un bacione e a presto,
Ania <3

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Capitolo 26
*** Ventiseiesimo capitolo ***



 
Il tuo ricordo emerge dalla notte in cui sono.
Il fiume riannoda al mare il suo lamento ostinato.

Abbandonato come i moli all'alba.
È l'ora di partire, oh abbandonato!

Sul mio cuore piovono fredde corolle.
Oh sentina di rifiuti, feroce tana di naufraghi!

In te si accumularono le guerre e i voli.
Da te innalzarono le ali gli uccelli del canto.

Tutto hai inghiottito, come la lontananza.
Come il mare, come il tempo. Tutto in te fu naufragio!


Le risate dei bambini si diffondono nell’atrio dalle finestre aperte. La struttura della Liverpool Elementary School, la stessa che anch’io ho frequentato, è imperiosa, solida, imponente. Quando mi affaccio al corridoio delle prime classi, al primo piano, le voci si fanno più forti anche nella loro limpidezza.
Suona la campanella.
ISeguo le indicazioni che mi ha dato la segretaria all’entrata: quarta classe sulla sinistra – mi avvicino alla porta silenziosa, quasi avessi paura di essere notata per un rumore di troppo in questo chiasso gioioso – e lì la maestra Claire Lynch è china su un bimbo dalla testa scura.
«Bravo, James, disegna mentre aspetti la mamma.»
«Sì,» fa il bambino, concentrato; solleva lo sguardo e mi accorgo di quanto siano luminosi i suoi occhi, azzurri. «Disegno te, miss Lynch, perché sei veramente bella e buona, la più bella e la più buona di tutte le maestre.»
Claire abbassa lo sguardo sorridendo, le guance le diventano più rosse e la sua bellezza si fa solo un po’ più lontana, ancor più eterea di quanto già non lo sia. «Adulatore. Non dovrò mettermi le mani nei capelli quando correggerò la tua verifica di Francese, vero?»
Claire gli accarezza i capelli, delicata, veloce e al tempo stesso affettuosa, ed a quel punto il bambino mi nota. Il suo sguardo curioso cattura quello di Claire, che lo segue e incontra il mio.
Ho avuto il privilegio di conoscerla e di piacerle, ed ora sono su tutti i giornali tra le braccia di un ragazzo che non è suo fratello.
Potrebbe andarmi meglio?
«Ciao,» dico. Mi vergogno così tanto. «Io… io so che non dovrei neanche aver dovuto pensare di venire qui a scocciarti,» continuo tutto d’un fiato.
Claire si stringe al petto i fogli che tiene in mano e mi sorride, a modo semplice, inevitabile, come tante volte ha fatto Ewan. E questo mi strazia.
«Non preoccuparti.» Mi si avvicina, mi posa una mano sulla spalla, non mi odia. «Sai, quando mi avevi parlato di come nel tuo lavoro fosse importante la pubblicità anche della vita intima non mi aspettavo, dopo quei divertentissimi rumor su Pamela, che ti avrei vista sul giornale con Arthur Benkinson.» Si mette a ridere, con dolcezza. «Immagino che Ewan sia stato geloso… Dio, è sempre stato geloso! Delle sue cose, di me, di te… sembra proprio che non cambierà mai, mh? Se ci aspetta fuori puoi andare con lui, Hatomi è già a casa, io devo aspettare che la madre di James venga a prenderlo,» continua, ed indica il bambino seduto al banco.
«Claire,» sussurro, e c’è solo vergogna, rimorso, inadeguatezza nella mia voce. «Ewan non è qui con me. Ewan… se n’è andato.»
Spalanca gli occhi. Le ciglia lunghe e nere sembrano strisce di petrolio che stanno per inquinare il mare notturno che sono le sue iridi. Le cadono i fogli di mano.
«Ewan è andato via?» chiede, ne fa il labiale ma non è la sua voce che mi arriva: solo aria che attraversa la gola, infiammando i miei sensi di colpa
Mi abbasso per aiutarla a raccogliere i fogli. «Sì,» dico. «E speravo,» sei così stupida, Natalie, così stupida… «Che fosse venuto da te.»
Claire scuote la testa in segno di dissenso, senza parlare.
«… Oh che almeno ti avesse avvertita,» sussurro.
«Non ne sapevo niente,» dice, e si alza, continua a fissarmi. Il suo è uno sguardo muto alla ricerca di risposte che non posso darle, e allora guarda da un’altra parte – destra, sinistra, in basso – per non guardare me, per non farmi vedere che sta trattenendo le lacrime.
Mi prende per il braccio – mi sorprendo della delicatezza del suo tocco – e mi conduce fuori dalla classe; lascia la porta aperta per il bambino che sta disegnando.
«È stata colpa mia,» dico in sussurro. «È stata colpa mia, Claire, abbiamo litigato e mi dispiace…»
«È una cosa normale, litigare.»
Scuoto la testa. «Non questa volta, io… Mi assicurerò che stia bene, che abbia almeno un tetto sulla testa, farò in modo che tutto nella sua vita torni a posto anche senza la mia presenza. Perché lo rispetto, lo ammiro, lo amo.»
Claire fa un respiro profondo, le tremano le labbra e improvvisamente. «Natalie...» Claire sospira. «Quando è venuto a trovarmi insieme a te era il ragazzo più felice del mondo. Non so quanto questo possa essere cambiato, ma io ti devo tutto per essere entrata nelle nostre vite.»  Claire ha gli occhi lucidi, blu, splendidi. «Credi che quando si ama tanto non capitino inconvenienti, problemi, incidenti di percorso? Deve succedere, sono prove che si devono superare. Quando l’amore è forte le supera. E se conosco bene mio fratello… è andato in un posto in cui non sarebbe mai tornato di propria volontà se non adesso che non vuole vedere nessuno. Adesso che non vuole essere cercato, è andato dove chiunque penserebbe di trovarlo: a Dublino.»
***
Tornata a casa, ho subito informato mamma e papà sul da farsi. Mamma è rimasta immobile, papà ha sbuffato. «Stai giocando a Pechino Express, Natie?» mi ha chiesto.
«Ho messo le mete orientali da parte per un po’,» gli ho detto io, mentre con un messaggio mi sbrigavo a informare Pamela.
E Arthur.
Quando arrivo a Dublino la prima cosa che noto sono i colori. Toni tenui e pastello mischiati a sfumature accese e vivaci, piccole casette con i tetti e strade strapiene, nella zona centrale di Temple Bar, di gente che suona, canta, balla. Con le luci natalizie del Natale che si avvicina, Dublino è di una magica bellezza, a metà tra la dolcezza e l’euforia. Mi si appesantisce il cuore al pensiero che Ewan è cresciuto in un ambiente del genere: come poteva non vivere per la musica? Immagino un bambino di cinque anni che pesta il piede a terra, con due grandi occhi blu e una massa disordinata di capelli neri. Io voglio suonare il pianoforte. Voglio farlo per tutta la vita. Capito?
Con Claire che gli accarezzava i capelli, sua complice per una silenziosa ricerca della felicità.
«Notizie di Ewan? È qui con te? Se è qui con te, per favore, puoi dirgli che l’ho cercato?» Sempre la stessa litania, ripetuta fino allo sfinimento dalla dieci di mattina fino alle quattro di pomeriggio di questa domenica, alla ricerca di qualcosa o qualcuno che mi porti da lui, fra tutti i nomi e gli indirizzi che mi ha dato Claire.
Ho dovuto sopportare anche qualche richiesta fuori dal comune.
Oddio, sei la volpe di Liverpool.
Così si dice.
Puoi autografarmi una chiappa? 
Facciamo la mano, d’accordo?
Mi sento davvero una stupida di fronte a questa porta, l’ennesima, ma me la sento di tentarle tutte.
Alyssa inarca le sopracciglia, sorpresa dalla mia presenza, si stringe nella giacca per il freddo mentre si socchiude la porta di casa alle spalle. «Natalie. Oh mio Dio, io ti ho conosciuta ancora prima che diventassi famosa!» Mi sorride, le labbra carnose e rosse come ciliegie, ma credo che questo sia il sorriso più falso che mi sia mai capitato di vedere.
«Sto cercando Ewan,» sospiro, meglio togliermi la spina dall’inizio. «Sai se è per caso nei dintorni?»
Alyssa resta interdetta per un attimo, poi scuote la testa. «Non ne ho praticamente idea.» Si prende qualche secondo di silenzio, come se stesse pensando a qualcosa in particolare. «Hai provato con “chi l’ha visto?”» ridacchia, i capelli mossi e castani le si agitano mollemente. Come la prima volta in cui l’ho incontrata, vorrei solo che la smettesse di essere così dannatamente carina e ironica su cose che fanno ridere solo lei.
Sbuffo. «Mi sei stata di molto aiuto.» Faccio per andarmene, almeno non avrò il rimpianto di non averci provato e, per questa volta, non mi darò la colpa di un altro fallimento.
«Quando Ewan non vuole essere cercato, sparisce,» continua Alyssa, le lancio uno sguardo e mi accorgo che mi sta fissando. «Ci sei caduta anche tu, non è vero?»
Cadere nel burrone nell’amore. Cammini per strada, incampi, uno dei bei tacchi che stringevi tra le mani ti sfugge via. Un auto lo travolge e imprechi e lui ti aiuta ad alzarti: sembrava solo una buca che avresti scavalcato così facilmente eppure ti rendi conto che sei caduta in uno strapiombo… “meglio le scarpe che te, non trovi?” Lo chiede con rabbia e, poco dopo, un sorriso nascosto. Sa che dentro di te si è capovolto l'Universo che sei, anche se non ha idea di come sia potuto succedere.
Assottiglio gli occhi. «Non sono affari tuoi.»
Scuote la testa, gli occhi verde scuro e tendenti al castano a scrutarmi.
«È insopportabile, non è vero?» mi chiede, ed il suo sorriso deritore scompare. Si passa una ciocca di capelli dietro l’orecchio ma poi quella le cade di nuovo sulla fronte. «Il modo in cui ama... Intenso, forte, completo. Non riesci a sopportarlo. A un certo punto ti rendi solo conto che è troppo… volevi solo avere una persona che pensasse a te in questo casino ma non lo meriti… non sei degna,» sospira. «Esiste a questo mondo una ragazza degna di Ewan?»
Sono io a restare interdetta, questa volta. Basita, incapace di articolare un discorso, addirittura di mentire.
Esiste al mondo una ragazza degna di Ewan?
Volto l’angolo della strada e mi perdo in un mormorio che posso sentire solo io. «Sicuramente non sono io.»
***
Si è alzato il vento. Mi arriva alle narici l’odore delle mandorle tostate che vende un omone in fondo alla strada, mentre mi stringo nel mio cappottino. Mi sistemo il basco russo che ho deciso di indossare, quello che Zot mi ha regalato per il mio compleanno; mi prendo la libertà di considerarlo un piccolo portafortuna, io che non voglio più credere alla fortuna, io che credo in poche cose ormai.
Casa Lynch è la terza di queste strutture a schiera. A due piani, dal colore lillà, un piccolo stagno in giardino e una bicicletta rossa e arrugginita appoggiata al muretto.
Senza decorazioni natalizie.
Busso alla porta, che si apre dopo qualche minuto che passo a sfregare una mano contro l’altra per il freddo. Appare una donna che sembra Claire con vent’anni in più, un po’ più in carne, con gli stessi occhi dei suoi figli.
«Sei la terza oggi che passa a vendere cosmetici,» fiata, con una voce ruvida che non mi aspetterei per un volto così delicato.
Faccio un colpo di tosse. «No, signora, in realtà…»
Fa per chiudere la porta.
«Sono qui per Ewan,» dico subito. I suoi occhi sembrano ingrandirsi, sopraffatti da un vortice di emozioni intense che non riesco a decifrare e che finiscono, tutte, con la stessa forza e intensità, in una soltanto.
Dolore.
Apre di nuovo la porta, si fa da parte con movimenti bruschi. Mi invita a entrare senza parole e, mentre mi perdo ad osservare le foto di famiglia sulla mensola poco sopra il televisore, la signora Lynch armeggia sul piano della cucina.
Posa sul tavolo un vassoio con due tazze e una teiera.
«Siedi.» Mi sorride per la prima volta da quando sono qui. Ha un incisivo storto. Ewan è una sua versione maschile e sconvolgente. «Stavo per bere il tè, potrai farmi un po’ di compagnia.»
I suoi occhi hanno la luce di mille lacrime.
«Certo,» mormoro.
Faccio per sorseggiare un po’ di tè.
«Come sta Ewan?» mi chiede la donna, con impazienza, foga.
«Signora Lynch…»
«Puoi chiamarmi Meghan.»
Poso la tazza sul piattino. «Meghan,» sospiro. «Ewan è stato mio coinquilino per un po’.»
«È stato con te per tutto questo tempo?» continua. Mi ritrovo esasperata di fronte a questa donna una decina d’anni più giovane di mia madre, con la velicità a domandare simile a quella di una bambina felice, ma che come bambini sembra non sapere che quel che vogliamo non appare quando lo chiamiamo.
«Lui… sì,» rispondo incerta. «Sì. Più o meno dalla metà di giugno.»
«Quindi da sei mesi…» Così pochi. Le persone riducono tutto al Tempo Padrone: guaritore di ferite, custode libertino di ricordi, capo di dimenticanze. Eppure in una grigia estate londinese, nell’inizio dell’autunno piovoso, vicina a un inverno di gelo ho amato profondamente, e ho capito che l’amore è oltre il Tempo, oltre la Vita, oltre la Volontà di ognuno: ho capito che ottiene tutto anche quando tutto è perduto.
«Sì, ma non so dove sia in questo momento.»
Meghan Lynch poggia la tazza sul suo piattino, un rumorino di striscio è l’unico suono in questo silenzio, mentre trattengo il respiro. «Sono venuta a cercarlo,» aggiungo. «È successa una cosa, lui… io… voglio solo che lui stia bene.» Faccio un respiro profondo, mi perdo nell’eco della mia voce, sembra così lontana. «Voglio solo che lui stia bene.» Essere sincera mi dà una leggerezza che nessun tipo di alcol mi ha mai regalato, vulnerabile e invicibile al tempo stesso, che cos’altro potrebbero mai portarmi via? Intanto mi resta la dignità, cucita su di me, meglio dell’ombra che Peter Pan si trascinava dietro volando dalla sua Wendy. Perché non voglio altro. Non voglio chiedere ad Ewan di tornare con me e perdonarmi e vivere come se il mio passato non esistesse. Sarebbe impossibile, insensato e sbagliato. Dovrà solo ascoltarmi dire la verità, nulla di più.
Un tocco duro e freddo sulla mia mano, le dita della signora Lynch sul dorso, quasi lei volesse confortare me. «Mi mancano i miei figli,» dice piano, gli occhi azzurro scuro che tremano quasi fosse acqua sospinta dalla corrente. «Mi mancano entrambi, allo stesso modo.» Lascia la mia mano e mi si siede accanto.
«Claire,» sussurro, nel momento esatto in cui penso a lei.
«La conosci?» esclama.
«Certo.» Trovo la forza di sorriderle. «Lei è… fantastica.»
«Sta bene? » chiede, le rughe le si increspano a formare un sorriso grandioso. «È felice?»
Abbozzo un sorriso che è solo un’imitazione del suo. «È tanto felice, signora Lynch.»
«Non chiamarmi signora Lynch.» Si incupisce. «Il mio cognome da ragazza è Picult. Mi sono separata da mio marito.» Incapace di dire qualunque altra cosa, Meghan Picult continua per me. «Ho fatto il grandissimo errore di non fare nulla ed Ewan non me lo perdonerà mai.»
«Non far nulla? »
«Stare a guardare,» mormora. «Stare a guardare e piangere. Non dire una sola parola di difesa o di verità. Omettere i miei pensieri.» Le labbra le tremano. «Amo mia figlia. Amo mio figlio. Amo i miei figli. E niente me li farà amare di meno, tanto meno la persona che scelgono di amare a loro volta.» Scuote la testa, qualche ciocca di capelli neri misti a grigio le sfugge dalla crocchia. Dopo aver tenuto il viso basso per qualche secondo finalmente mi guarda. «Mio figlio,» continua. «Ha la tendenza naturale a sacrificarsi per difendere idee e principi. Quando si sente solo e abbandonato, idee e principi sono l’unica cosa in cui vuole credere, e li porta avanti anche se significa soffrire. Tutta la sua  vita, tutto se stesso, diventa sacrificio.» Dagli occhi le cade una lacrima che asciuga subito con il palmo della mano. «L’ha fatto per Claire. Dio, la mia Claire,» sorride, ride. «Fin da quando è nato Ewan, l’ho immaginata grande, l’ho immaginata donna, l’ho immaginata madre. A volte Ewan si calmava solo in braccio a lei. Ho sempre temuto che Claire sarebbe stata una madre migliore di quanto possa mai esserlo stata io… ma non ho capito che, quando Ewan è nato, è successo qualcosa di altrettanto magico: io sono diventata madre per la seconda volta e Claire è diventata una sorella, sua sorella. Essere una sorella fa parte di lei. E come una sorella è una sorella con i fratelli che non sono vicino a lei, così io, per punizione, sono una madre senza figli.»
Io sono una sorella, senza sua sorella.
Fremo, il volto di Jade appare nei miei pensieri. Lei che mi fa giocare con un carrillon; lei che, piano piano, si avvicina per prendermi in braccio; lei che mi culla e canta, le labbra posate poco sopra il mio orecchio, Natie… la mia Natie.
«Sarà sempre così, anche se gli è lontana,» sussurro.
«È vero,» conferma Meghan. «Ed io vorrei tanto aiutarti a trovare Ewan. Vorrei tanto che i miei figli tornino a casa. Non sono più riuscita a guardare mio marito dopo quello  che ha fatto e, da quando i miei figli se ne sono andati, ogni cosa è rimasta distrutta e rimarrà distrutta. Forse non vorranno mai tornare a casa ma… che almeno siano felici.» Il suo sguardo è pieno di speranza. «Felici entrambi.»
Faccio un respiro profondo. «Io… cercherò Ewan come posso.» Mi alzo in piedi, rido di me stessa solo nella mia mente. «Non mi fermerà niente.»
Mi stringe di nuovo la mano: io do conforto a lei e lei dà conforto a me.
***
Il conforto si dissolve quando sono fuori di casa, a camminare con lentezza, perché ho la certezza di non arrivare da nessuna parte. Mi chiedo se non sto ingannando me stessa, anche questa volta. E nel pieno di questo pensiero il mio telefono squilla.
«Pronto?»
«Ciao,» dice Arthur. Chissà se è a Londra, chissà se è a Liverpool, chissà quanto più grande dovrebbe essere il mondo per impedire che ci condizioniamo a vicenda. «Buone nuove?»
Stiro le labbra in una smorfia. «No, nemmeno una.»
Un attimo di silenzio dall’altra parte. «Ed ora dove andrai?»
«Vagherò per Dublino senza una meta, credo.» Rido di me stessa, della mia capacità di ridere ancora, di trovarmi divertente anche nella disperazione più assoluta.
«Hai cercato dappertutto? Tutti gli amici, i genitori…?»
Sospiro, stanca. «Sì, Arthur.»
«Deve esserci un altro posto,» dice subito, con trasporto. «Pensaci.»
Rimango un attimo interdetta, immobile, bloccata nei ricordi. Ewan me ne parlò con entusiasmo e nostalgia negli occhi, anche solo richiamare quei momenti con la mente mi provoca un fremito doloroso che mi fa sentire stupida e impotente.
A Dublino me ne andavo sempre lì. È un vecchio palazzo ormai abbandonato, ricoperto di graffiti, con una scala antincendio. Mi mettevo sempre lì a scrivere, alla stessa altezza della scritta U2.
«Wilndmill Lane,» sussurro.
«Va’ a mangiare qualcosa, Nat. Poi fai un ultimo tentativo.»
Annuisco, convinta.
«Chiunque valga veramente qualcosa non smette mai di provarci, no?» gli dico, e mi sento così ridicola, perché Arthur è nel mio mondo, io sono nel suo, e nessuno scienziato ha mai studiato un pianeta che nasconde, al suo interno, un satellite che non sa dove andare. Cieco e perduto, ma con la forza di allontanarsi.
Posso quasi vederlo sorridere, anche nella tristezza e nel dolore che infrange i sogni, le speranze, le immagini del futuro in cui rietravo anch'io.
Qualcosa sotto i denti come un’automa ed eccomi a guardare quell’edificio dai mattoni grigi, imprecisi, pieno di murales, con due scale esterne, di legno e con le ringhiere di ferro. Ewan non è qui, naturalmente: non sono così fortunata e nemmeno la protagonista di una commedia romantica. Se lo fossi, Ewan sarebbe qui, avrebbe oltrepassato la siepe che ora oltrepasso, percorso prima di me i gradini che percorro – della scala più bassa –, e si sarebbe seduto, prima di me, dove adesso mi sto sedendo io. Faccio un respiro profondo, poggio la testa vicino al muro e resto così per un po’, a fissare la grande scritta, nera e tondeggiante, del nome del gruppo dei fenomenali U2. Era proprio qui che Ewan si metteva a comporre, quando viveva ancora in questa città.
Allora scrivevi sotto una buona stella.
Prendo la borsa, la apro, prendo il mio block notes e una matita e comincio a scrivere.
Natalie.
Che. Scemenza. Stai. Per. Fare.
«Allora.» Stendo bene il foglio e comincio a scrivere, dettandomi le parole. «Signor Ewan Lynch, questa è una lettera di scuse, non una di quelle solite lettere d’amore che si vedono nei film e si leggono nei libri. Io non l’ho mai sognata, una lettera d’amore, anche se sono romantica da far schifo – porca puzzola, vorrei tanto non esserlo –  piango per quei film e per quei libri e, insomma… non sono qui per rivelare i miei segreti più oscuri.
Li conosci già.» Faccio un respiro profondo. «Dio, tutto questo è così terribilmente da commedia romantica! Se io ci sono in mezzo, è sicuramente pessima, patetica e insensata… Di quelle che forse tu eviteresti come la peste, cambiando canale su Mtv Classic. Ma ormai ci sono dentro dalla testa ai piedi, quindi lo faccio.
Ti chiedo scusa per lo schiaffo che ti ho dato quando mi hai baciato per la prima volta.
Ti chiedo scusa per gli spoilers della quarta stagione di Game of Thrones e di Doctor Who. Per il pollo con le patate che ho bruciato, per aver colorato di pois rosa la tua maglietta bianca. Ti chiedo scusa per quando sfogavo la mia rabbia su di te, solo perché avevi la sfortuna di capitarmi davanti.
Ti chiedo scusa per i baci coi denti, per i graffi sulla schiena, i morsi, ti chiedo scusa per il tiramisù che avevi lasciato in frigo e che ho finito al tuo posto, ti chiedo scusa per aver comprato il bagnoschiuma alla fragola anche se non ti piace, ti chiedo scusa per aver lasciato la finestra aperta quella notte e ci siamo svegliati entrambi con il raffreddore. Ho potuto baciarti senza avere paura di ammalarmi, tanto sono già malata da far schifo e non specificherò di cosa per non farti venire il diabete. Ci manca solo questo, visto quanto ami i dolci! Devi darti una regolata, Ewan, o tra trent’anni dovrai sostituire lo zucchero con l’insulina.
Adesso passiamo alla fase “scheletri nell’armadio”. Andiamo. Ti chiedo scusa per non averti detto che il ragazzo che ho desiderato per tutti questi anni è Arthur Benkinson. Da quando ci sei tu – ci sei, in ogni parte di me che può essere riempita – avevo deciso di ignorare che fosse mai accaduto. Perché non accetterò mai che la vita sia andata avanti in questo modo così assurdo dopo che Jade se n’è andata. Non accetterò mai che lei mi abbia lasciato davvero e mi odio, per questo. Sono una bambina capricciosa e incosapevole dei Grandi Forse, a cui un giorno hanno regalato un per sempre con te e quello dopo l’hanno sostituito con un mai più.
Ci sono due cose per cui puoi voltare le spalle a qualcuno, Ewan: i tuoi ideali e principi ed altre persone che ami e ti amano a tua volta. Se non ti rispettano tu ti accartocci su te stesso per dare onore a te stesso.
Per questo io ti ammiro. Perché non mi hai messo al primo posto e questo mi ha fatto capire il valore delle volte in cui invece l’hai fatto. Ti rispetto e per questo accetto la tua scelta. Non voglio niente da te, solo che tu sappia che ho fatto altro oltre a ferirti: c’è qualcosa che ancora continuo a fare e non devi sentirti in debito con me per questo.
Quello che sento per te mi ha bucato le ossa, ha raggiunto il fondo della mia persona, mi ha inondata. Nonostante la mia vita, nonostante Arthur, nonostante il disastro che sono, inevitabilmente io ti amo. (Caspita, che schifo, come altro posso scrivere questa roba? Neuroni, si accettano suggerimenti.)
Ed il modo in cui mi hai amato mi resterà dentro per sempre. (Perché non so esprimere decentemente i concetti più importanti? È per caso qualcosa di tossico che ho ingerito per sbaglio? Dio mio, non farò mai la scrittrice! E se commento ogni schifezza che scrivo un solo foglio non basterà, devo regolarmi.)
Ti chiedo scusa, perché sto cercando un rimedio a tutto questo, a quel che non ho detto, a quel che sto dicendo adesso, a quel che sapevi già e a quello che non saprai mai. Perché non tornerai mai più da me ed io non potrò mai consegnarti questo pezzo di carta in cui, confusamente, sto mettendo me stessa.
Ti chiedo scusa per aver rubato il soprannome che mi hai dato usandolo per la mia linea. Non è stato giusto, quindi ti darò i diritti d’autore, se mai vorrai farmi causa o roba del genere. In effetti La Volpe di Liverpool è troppo geniale perché fosse una mia idea. Ho cercato di convincermi di non essere una volpe, sai, ma mi sono resa conto che ci hai visto bene: la volpe è furba – a volte lo sono stata – veloce – a tredici anni sono arrivata terza a una gara di corsa, ero bravina, poi ho mollato perché alla fine mollo tutto – nelle leggende antiche si trasforma in una bella ragazza – qui hai toppato, non è che tutte le volte in cui me l’hai detto mi stavi solo sfottendo? E la volpe è anche ipocrita, ingannatrice, sleale. Ed io lo sono stata, io… io sono davvero la Volpe di Liverpool e sto cercando di imparare ad essere una volpe solo nelle sue qualità migliori.
Eppure amarti – e qui non accetto discussioni, pianista squattrinato che non sei altro – è stata la cosa più sincera che io abbia mai fatto, i mesi che ho passato con te i più vivi della mia vita, e non potrai mai farmelo negare.
Che cosa strana: io mi ritrovo a pensare alle immagini, tu trovi i titoli perfetti, dai il nome all’essenza delle cose. Mi leggi dentro anche se non è con le lettere che si mostrano gli esseri umani, ma con quella roba che sono i sentimenti, le emozioni, le sensazioni, quel brivido intenso che riesci a scatenare in me e in chiunque ti ascolti, ogni volta che mi hai amato, ogni volta che suoni il pianoforte.
Sì, gli esseri umani sono fatti di una musica bizzarra e tu la capisci.
Tu hai capito la mia, sei un musicista completo: sai scrivere la musica, sai leggere la musica, sai suonare la musica. Traduci la realtà in musica e così puoi decifrarla, ci riesci: così hai fregato tutti, così fregherai il mondo.
(Ehi, questa era davvero una frase ad effetto, sto migliorando!)
Non so che altro dire e questa è una conclusione orribile per una lettera, ma visto che non è una lettera d’amore mi giustifico così.
Ti aspettavi davvero una lettera d’amore?
Ti chiedo scusa, Ewan, per non averti scritto una lettera d’amore.
Tua Natalie Hanna Truman.
(Tua?)
Mia. Appartengo a me stessa e ti amo come me stessa (Povera scema! Com’è che anche tu hai amato me?).
Solo Natalie Hanna Truman
Faccio un respiro profondo e sbuffo, incapace di ignorare il fastidio, perché devo eliminare le parentesi, sistemare molte frasi e ricopiare tutto. Consegnare – non accadrà mai, ma pensarlo mi dà forza – un foglio a quadretti sarebbe davvero penoso: per le lettere ci vogliono i fogli a righi, no? O dei fogli completamente bianchi con inchiostro blu…
«Signor Ewan Lynch… non sarà un po’ troppo formale?» Una voce roca, che lascia una carezza pesante sulla pelle. «Un semplice Ewan va bene.»
Sei tu.
Lo sto abbracciando.
Sei qui.
Perché nonostante il tremore, nonostante non mi aspettassi di trovarlo a questo punto del mio viaggio, nonostante non sarò mai degna di Ewan Lynch, sono dovuta correre da lui.
Il suo profumo, cuoio di cinta e menta, mi fa chiudere gli occhi tra le lacrime.
«Ehi… » sussurra.
«Ti chiedo scusa.» La mia voce si rompe. E dove sei stato, mi hai fatto morire, nemmeno una telefonata a Claire, l'avresti uccisa, hai ucciso me, hai ucciso tutti noi, ragazzino, sei un ragazzino, non ho dormito la notte pensando a dove fossi e sei qui, Dio, sei qui, e non ho nessun diritto di essere arrabbiata, lo so bene... per questo ti urlo solo con la mente e, con la voce, ti chiedo scusa. 
Ha le braccia forti, mi cingono in modo fermo, è l’abbraccio di un uomo che cerca di restare immobile di fronte al tornado che passa, con il cuore che batte come un cavallo al galoppo: lo sento dalla vena che gli pulsa sul collo, dal respiro che trattiene, dalla mano che stringe – una stretta silenziosa che si chiude disperatamente, non andrò via, Ewan, non andrò via – ancor più forte stringe la  stoffa del cappotto che mi fascia la schiena. Gli fermo al petto il foglio con le strane cose che ho scritto e finalmente lo guardo negli occhi. Sono Another place ovunque io sia.
Londra, Liverpool, Shangai.
Dublino.
«Oh Cristo,» sospira. I battiti del mio cuore si concentrano nelle mie orecchie, nell’atto inevitabile di seguire la sua voce. Ewan poggia la fronte contro la mia e questo mi fa fremere il sangue. Mi guarda fisso, ma le sue labbra tremano in un ardore che non posso spiegare a parole. Sembra che voglia dire tante, tante cose: sulla fronte gli si formano quelle linee d’espressione che ha quando corregge una melodia sullo spartito, quando suona un pezzo che lo travolge nella sua difficoltà, quando pensa a tutte le cose che non vanno come vorrebbe nel tentativo di cambiarle, trovare una soluzione, una speranza nel buio.
«Che cosa mi hai fatto?»
Deglutisco, non so che cosa rispondere, non so che cosa vuole sapere davvero. Non ho risposte per le domande che pongo a me stessa e non ne ho per le sue. Sono un’ancora maledetta: non fermo la nave in un posto, la trascino con me nel fondo dell’abisso del mare. Sempre più nel nero, con nessuna risposta.
Faccio per allontanarmi. Ewan si mette il foglio in tasca senza nemmeno piegarlo mentre io faccio un passo indietro, mi dico respira, Natalie, hai corso solo per cinque metri, respira...
Un altro passo indietro ed Ewan mi prende per il braccio, piano eppure la sua stretta punge, la sua stretta mi arriva fin dentro la carne, mi squarcia il cuore in un dolore che brilla, affonda nell’abisso e nel nero e lo taglia ed ecco uno spiraglio luminoso – si disgregano le tenebre, si aprono come nuvole in cielo, non piove più.
La sua bocca – calda, un filo si barba a toccarmi appena appena, le sue ciglia a carezzarmi la tempia. Ancora una volta, mentre chiudo gli occhi: «Che cosa mi hai fatto?»
Mi sfugge un sospiro.
Resto in silenzio.
Perché il mio respiro è anche il suo, le sue labbra a portarmelo via – baciami – l’aria è altrove –  dischiudi le labbra, ti accolgo, mi accogli – e a ridarmelo mentre ci divoriamo furiosamente – respira da me, respira da me. Solo da me. La sua mano tra i miei capelli, a tenermi vicina a lui, a fermarsi sulla mia nuca, a intrecciarsi, a tirare – mi spezzerai – tirare – sono già spezzata – tirare – ti sei aperto un varco, in me, con la tua forma.
Ewan si stacca da me, ansimando. Ferendomi. Sei lontano e mi ferisci, sei sulle mie labbra e mi ferisci, continua a ferirmi. Mi prende la mano, mi fa salire la rampa di scale più alta, ci fermiamo di fronte a un’entrata a vetri, Ewan prende delle chiavi dalla tasca, le mani gli tremano.  
Apre la porta, entro, la chiude, è tutto buio.
Si accende una piccola lampadina, manda una luce fioca. Mi guardo intorno e due mani si fermano sulle mie spalle, il suo respiro sul mio collo, io di schiena al muro. Dio, Ewan, Ewan, Ewan, che nome dolce hai
E respira, sulla mia pelle, a cercare una spiegazione, una risposta, una visione che possa dare senso a quel che cosa mi hai fatto? Mi mordo la lingua, Ewan, tu che cosa mi hai fatto…
Tu che cosa mi hai fatto? E solleva il volto, gli occhi blu e intensi a incastrare i miei, a dire colpita! Presa! In trappola! Come se avesse sentito davvero la mia domanda, pronunciata con rassegnazione solo nella mia mente.
Ma lui non è come me… lui mi risponde.  
Mi strattona via il cappotto, facendomi voltare. Faccio per girarmi ma mi blocca con un una gamba tra le mie, deglutisco. Solleva il vestito, scivolano le calze di nylon, non posso credere a tutto questo, non può esserlo: lo cerco solo col tatto come lui, con le sue mani, mi raggiunge: gli carezzo la schiena, frenetica e coi palmi aperti, e lui musicista trova il do in me e passa al re bemolle in me, dal mi al re diesis e torna al mi, dal fa va al sol bemolle e dal si al la diesis, di nuovo, tornando indietro, andando avanti, indietro e avanti, indietro e avanti e – smettila – un gemito – non farlo non farlo non farlo – stringendo la sua mano – lascia che mi salvi, salvami –, stringendo la sua maglietta – Natalie, Dio, Natalie– , affondando le dita nella sua pelle – sei qui – sì, qui – qui  – Natalie…  – respiri inceppati –  continua a ferirmi –, ancora – continua –, ancora, - sempre – di nuovo nella sua pelle e grido, da libera mi dimeno e grido – ad amarmi.
C’è un materasso, a terra, di poco rialzato. Mi ci fa stendere mentre mi spoglia, con rabbia, forza, disperazione. Non ho più fiato, sono già finita, sono in balia della più totale incoscienza e solo Ewan ha senso, solo lui che mi attira a sé, fino all’orlo del materasso, con una brutalità che non credevo di avere lo spoglio, lui con le ginocchia in terra, la sua bocca sul mio collo e poi sul seno, sul collo e di nuovo sul seno mentre mi aggrappo a lui e voglio che mi sia vicino, la sua pelle, il suo corpo, il suo cuore, più vicino, gli occhi gli splendono, blu e umidi, schiuma di mare, mare di Another place. Muove le labbra a formare una nuvola d’aria, stringendo le palpebre mi entra dentro. I nostri respiri sono fatti di voci e nomi a dire è reale, sei reale, sei qui, sono qui, la testa all’indietro, non voler chiudere gli occhi, il suo fiato come vento mentre mi stringo alle sue spalle e lo cerco e lo trovo e lui mi cerca e mi trova ed è un continuo volare, correre in volo, continuare a correre... In apnea e il fiato graffia quando viene fuori, graffia quando raggiunge i polmoni dalle labbra dischiuse, graffia la pelle che tocca quasi fosse unghie. Le mie unghie. Le nostre mani intrecciate, un calore che pare disumano ad attaccarci, a dividerci, a riunirci, come tasti su corde percosse di pianoforte. Dobbiamo allontanarci e riabbracciarci per dare senso a questa musica.
Ewan trattiene il respiro, lo manda fuori, inarco la schiena, chiudo gli occhi, la voce si spezza. Ed è il buio e sono le stelle che muoiono e ancora si formano nella sequenza in cui rinasco. E respiro, con fatica. Apro gli occhi, con fatica. Torno al mondo, con fatica.
Geme ancora. «Natalie,» sospira. Gli ho morso le labbra in un bacio troppo avventato. Natalie, Natalie, Natalie…
Mi permetto di ridere un po’, la mia bocca sul suo collo. «Scusami.»
Mi prende il viso tra le mani, i suoi occhi mi bruciano.
«Ti scuso,» sussurra, mi bacia.
Mi sforzo di non piangere di nuovo. «Davvero?»
«Sì. Ma mai più, per favore, bagnoschiuma alla fragola.»
Era l'ora felice dell'assalto e del bacio.
L'ora dello stupore che ardeva come un faro.

Ansietà di nocchiero, furia di palombaro cieco,
torbida ebbrezza d'amore, tutto in te fu naufragio!

Nell'infanzia di nebbia la mia anima alata e ferita.
Scopritore perduto, tutto in te fu naufragio!

Ti attaccasti al dolore, ti aggrappasti al desiderio.
Ti abbatté la tristezza, tutto in te fu naufragio!

Feci retrocedere la muraglia d'ombra,
andai oltre il desiderio e l'atto.

Oh carne, carne mia, donna che amai e persi,
te, in quest'ora umida, evoco e canto.

Come una coppa albergasti l'infinita tenerezza,
e l'infinito oblio t'infranse come una coppa.

Era la nera, nera solitudine delle isole,
e lì, donna d'amore, mi accolsero le tue braccia.

Era la sete e la fame, e tu fosti la frutta.
Erano il dolore e le rovine, e tu fosti il miracolo.

Ah donna, non so come hai potuto contenermi
nella terra della tua anima, nella croce delle tue braccia!

Canzone Disperata – Pablo Neruda

 
Non ho mai riletto un capitolo così tante volte. Credo di essere arrivata alla decima lettura *rolls*. Sarà stato l’effetto dell’ultimo esame? XD (È andato bene, fortunatamente, così posso dedicarmi con tranquillità ai miei lettori <3)
È giusto che io vi informi sul fatto che quello che avete appena letto è il penultimo capitolo della storia. Il prossimo capitolo, il numero ventisette, sarà l’ultimo e poi pubblicherò l’epilogo.
Questa storia mi mancherà in un modo viscerale che non riesco a descrivere.
Ma non preoccupatevi, ho già pensato a qualcosa che possa “allietare” questa mancanza, ovvero dei missing moment con come narratori Arthur, Natalie, Ewan, Pamela, la mamma di Nat ed anche un’altra sorpresina, per cui mi piacerebbe conoscere il vostro parere.
La leggereste mai una minilong – non più di sette capitoli – con Arthur come protagonista? Mi piacerebbe conoscere i vostri parere anche su questo, perché è già in cantiere :3
Vi ringrazio davvero di cuore per essere qui a leggere questa storia, non immaginate quanto mi rendete felice.
Un grande bacio,
Ania <3
Windmill Lane :3

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Capitolo 27
*** Ventisettesimo capitolo ***



Amo per non possedere,
per lasciare andare,
per riempire di me una donna
e darle la mia voglia indomita di vivere.
Amo affinché tu sia tua,
affinché non abbia padrone.
Amo per sminuire quelli che conoscerai dopo di me.
Amo perché sono superiore al mio amore,
perché in lontananza tu sappia
che io sono qualcosa che possiedi e non che ti manca.
Tutto questo per dirti che mi manchi
e che non trovo l’antidoto.
Tutto questo per dirti che il fatto che mi manchi
non mi ferisce né mi cura.
Tutto questo per dirti che il tuo ricordo
è il male più forte che mi faccio io stesso.
Ma questo male è l’unico modo
in cui posso ancora amarmi e respirarti.
Gabriel Garcia Marquez
 
Inclino la testa ed assottiglio gli occhi, Ewan fa quella strana cosa di giocare con i miei capelli, guarda i riflessi che provoca la luce di primo mattino sulle mie ciocche arancioni. Ricordo di aver dormito, credendo di aver sognato; ricordo che ho aperto gli occhi e i miei sogni hanno continuato a farsi beffe di me; ricordo che non sono mai stata così esausta eppure impaziente di vivere, decisa a non riaddormentarmi mai più. Nei pochi momenti di lucidità che ho avuto, ho trovato negli occhi di Ewan la mia stessa ebrezza, foga e smania ed ho detto addio all’imbarazzo che in altri momenti e luoghi ho conservato quando la mia mente, il mio respiro, la mia voce, tutto il mio corpo rispondeva al modo in cui lui mi faceva l’amore. Ed io gli facevo l’amore. Insieme abbiamo fatto l’amore. Ewan mi ha scavato l’anima colmando e creando l’unico vuoto che mi è rimasto ed io ho sentito la sua, di anima, sotto le unghie come con la sua pelle della sua schiena, sul collo, sul ventre e tra le gambe con il pungere del suo accenno di barba e le carezze della sue labbra; dimenticando chi sono mentre lo ero io l’ho riconosciuto.
Ewan mi rotola addosso, mi fa perdere il respiro e scoppiare in una risata attutita dal peso del suo corpo sul petto.
«Ti sei accorta di dove siamo?» mi chiede.
«Ehm… su un vecchio, scomodo materasso.»
«In…»
«… Windmill Lane.»
Sorridendo: «Altro?»
Scuoto la testa. «Che cos’altro c’è da sapere? »
«Questo stabile era, tra gli anni settanta e ottanta, uno studio di registrazione. Su questo suolo hanno camminato e cantato gli U2, Sinéad O’Connor, Van Morrison, i Rolling Stones…»
«Caspita. Come hai avuto le chiavi di questo posto?»
«Me le ha date il professore con cui mi sono diplomato al conservatorio quando sono andato a salutarlo. Spera che io lo usi a scopi nobili, visto che non è aperto alle visite.» Si ristende accanto a me, si mette le mani sotto la nuca e sospira, gli occhi blu fissi sul soffitto. «Farlo qui dentro è sempre stato un mio sogno erotico.»
«Scopi nobili, eh!» Gli do una gomitata a cui reagisce in modo fin troppo teatrale ma lui mi torna addosso e non posso fare a meno di rispondere al suo sorriso. «Sei tremendo,» gli sussurro.
«So che apprezzi questa parte di me.» Mi fa l’occhiolino ed io distolgo lo sguardo dal suo.
Allungo una mano e prendo il vestito da terra, faccio per alzarmi ma Ewan mi blocca, la sua mano sulla mia coscia.
«Ti vuoi già rivestire?» mi chiede.
«Non ti vuoi ancora rivestire?»
Un giorno qualcuno lo metterà in prigione per il modo in cui sorride.
«Non è qui che vivi ora, vero?»
«Vengo qui per stare tranquillo, almeno la sera… Non mi sono ridotto a fare di nuovo il barbone, sto da un amico.»
«Ti ho cercato da tutti i tuoi amici.»
«Ed io ho detto a chi mi ospita di far finta di non sapere.»
Sbuffo. «Questa mossa è stata davvero scorretta.»
«Ho imparato dalla migliore.»
Lo guardo di traverso e faccio un sospiro, questo è stato davvero un colpo basso.
«Vorrei tanto fare una cosa, adesso,» gli dico.
«Con me?» sussurra.
«Sì, con te.» Sospiro. «Lascio perdere i tuoi modi da barbone, per questa volta.»
Mi stacco da lui, mi alzo dal materasso e metto addosso il vestito dalla testa.
 Incontro la sua espressione delusa. «Che cosa ti aspettavi?» gli chiedo.
Ewan sbuffa. «Di sicuro non una schweppes.» Afferra la maglietta alla sua sinistra e se la mette addosso, il piercing sul sopracciglio destro che ammicca alla luce di fuori, quella stessa luce a trafiggergli gli occhi. «La volpe di Liverpool a Dublino,» mormora ridendo.
«Mostrami la tua città, criminale che non sei altro.»
***
Probabilmente è solo semplice suggestione. Una città di mare, arte e spettacolo con la mano di Ewan nella mia e la meraviglia in ogni battito mentre corriamo sull’Ha penny bridge come bambini e mi affaccio a guardare l’azzurro fiume Liffey col vento tra i capelli e mi permetto di fare una foto ad Ewan mentre fissa lo sguardo da un’altra parte. Nelle orecchie la musica della fisarmonica, della chitarra, della pianola tre le strade del quartiere, pittoresco, luminoso, vivace che è Temple bar. Lo trascino a ballare in una folla di gente che danza senza seguire dei passi precisi. Ewan intreccia le sue mani alle mie, che cosa sa fare con quelle mani, che cosa non può fare con quelle mani.
Mi fa muovere veloce, mi fa girare, la gente ci schiaccia, siamo sempre più vicini. Un’altra giravola e cado tra le sue braccia.
«Qualcuno deve averti riconosciuta,» mi sussurra all’orecchio. «La mia ragazza famosa
Il vestito che indosso mi si solleva come un fiore dopo l’ennesimo giro e quando la musica termina e tutti applaudono e ridono mi lascio andare all’ennesimo sorriso del giorno.
«Sei la volpe di Liverpool?» chiede qualcuno alle mie spalle. Allora passo questi dieci minuti a fare foto con queste ragazze e bambini, ragazzi e genitori, a ringraziare queste dolci anime che si ricordano di me e che mi fanno vedere che indossano un capo che io stessa ho disegnato. Questo è davvero un sogno. Questo è tanto di più di quello che ho osato immaginare per me stessa.
«Allora sei andata da Robbie, Ten, Wilde, Olly, Carter…» mi dice Ewan, mentre camminiamo lungo il marciapiede.
«Sono passata anche da Alyssa, se lo vuoi sapere.»
Ewan mi abbraccia più stretta e ride. «E pensavi di trovarmi là?»
«No, per niente,» preciso, con tono da maestrina che suona fin troppo falso perfino alle mie orecchie. «Infatti sono passata da tua madre.»
«Le hai provate tutte.»
Il modo leggero in cui ne parla mi fa innervosire, anche se il motivo della mia angoscia appartiene al passato. «Avrei provato anche a cercare tuo padre.»
«I miei sono sposati da quasi trent’anni, quello che sa mia madre sa mio padre.»
La sicurezza nella voce di Ewan è tale da sconcertarmi fin dentro le viscere. Mi fa capire che non ha mai immaginato quello che invece è successo dall’ultima volta in cui ha visto i suoi genitori: i giorni si sono ammassati su se stessi fino ad annullare amore, anni, figli in uno stato di disagio, colpa e rimpianto così insopportabile da diventare la fine di un matrimonio.
«A cosa stai pensando?» mi chiede Ewan.
Guardo altrove. «A quello che sto per dirti.» Mi stacco da lui, poggio la mano sulla sua spalla e parlo veloce, in modo da sentire meno il peso delle mie parole. «I tuoi genitori si sono separati.» E non posso fare a meno di tornare a guardarlo.
Ewan assottiglia gli occhi e fa un respiro profondo in quella che credo incredulità, sorpresa.
«Ewan, io sono andata da tua madre e…» Adesso è lui a distogliere lo sguardo dal mio.
«Natalie, aspetta.  Aspetta.» Ewan mi dà le spalle e solleva la mano a passarsi il palmo sulla fronte, come fa sempre quando si trova di fronte a qualcosa di troppo difficile, irraggiungibile, irrisolvibile.
«Hai fatto bene a dirmelo,» sospira. «Ma non so che fare, perché non sento niente.» Si volta all’improvviso, in viso un’espressione sofferente che gli marca i lineamenti; è di una bellezza pungente, che mi affonda nella carne, come una spina velenosa che mi sfiora il polpastrello e su cui premo il dito, incapace di allontanarmi. «Tutto si è dissolto in nulla,» sussurra.
Scuoto la testa. Vorrei tanto trovare il modo giusto di consolarlo, di mettere le cose a posto anche se sono sempre stata una frana ad aiutare gli altri con i loro dolori, troppo presa dai miei.
Ma non posso restare in silenzio, perché Ewan non è come tanti altri.
Perché non riuscirò mai a raccontare a qualcuno che non l’ha vissuto con me quanto amarlo mi ha guarito da me stessa.
«Tua madre mi ha chiesto di dirti una cosa a cui forse tu non crederai. Ma io l’ho guardata negli occhi ed ho rivisto un po’ te, ho visto del rimpianto e un pentimento. Ho visto una persona che ha fatto un grande sbaglio e vuole chiedere perdono.»
«Non è a me che deve chiedere perdono,» fiata. «Io ho provato in minima parte il dolore che ha provato Claire.»
«Hai tutte le ragioni del mondo per essere arrabbiato,» continuo. «Ma te lo giuro, il modo in cui ha chiesto di Claire e di te, il modo in cui mi ha guardato…»
«Sono io che non riesco a guardarla, Natalie,» risponde brusco, esasperato.
«Io voglio aiutarti a stare meglio,» gli dico. «E sento che per stare meglio devi vederla, adesso. Le persone sbagliano, Ewan, sbagliano ma c’è chi capisce di aver sbagliato. Lascia stare la rabbia per un attimo e fa’ quello che fai sempre.»
Ewan mi guarda, stanco. «E cosa farei, sempre?»
Anche il mio cuore sospira. «Sai leggere le persone meglio di chiunque altro io abbia mai incontrato.»
***
Sono io a bussare alla porta, a suonare il campanello quando dopo due minuti ancora non si percepisce nemmeno l’eco lontana di un rumore di passi, sono io ad aspettare ostinata, con la forte convinzione di restare qui fino a quando la madre del mio ragazzo non apparirà sulla porta. Così accade: una donna in vestaglia, con i capelli sollevati, di una bellezza provata e gli occhi gonfi di sonno che si accendono – quasi lampeggiano – quando si posano su Ewan, accanto a me.
Meghan si porta una mano alla bocca, una lacrima scende veloce dal suo sguardo straziato quasi vedesse, guardando lui, l’inizio inevitabile della fine di ogni dubbio mentre Ewan, accanto a me, sbuffa. I suoi occhi brillano di quella lucidità che nasce da uno di quei moti dell’animo che alzano le emozioni fino a farle arrivare così in su che è impossibile respingerle, impossibile fingere. È una marea che sommerge ogni cosa.
«Dio, piantala di piangere. Non mi vedi da mesi e questo è il meglio che sai fare?»
Meghan continua a singhiozzare, non si muove quasi temesse di sbagliare qualunque cosa pensasse di fare. Allora Ewan posa le mani sulle sue spalle, veloce. Trema: la vibrazione del momento in cui si deve prendere una scelta: andare via o restare, disprezzare o capire, accusare o perdonare.
Meghan, tra le lacrime, attende come faccio io stessa.
Ewan trattiene il respiro. Solleva la mano, si posa dietro la nuca di sua madre – occhi azzurri e grandi, supplicanti – e chiude gli occhi. Li chiude mentre riprende a respirare e, piano, rende azione la sua decisione.
Il figlio abbraccia la madre.
Meghan lo stringe a sé con una forza da leonessa, quasi un avvoltoio volesse strapparle via il suo cucciolo appena tornato dopo che notti e pericoli l’hanno allontanato.
«Mamma, mi stai soffocando.»
Meghan lo allontana leggermente, ancora piangendo. Ewan si gira a guardarmi, mi prende la mano, la sua voce è ferma come la roccia quando dice lei è Natalie, e la amo. Ed io perdo il respiro perché  Meghan abbraccia anche me, lo fa come se fossi Claire, so che mi accetta come un’altra figlia sognando la sua. Ci fa entrare, sedere; ci chiede se abbiamo già mangiato, se abbiamo ancora fame; diciamo di no, ci offre lo stesso tutto quello che ha. Non chiede ad Ewan che cosa ha fatto in questi mesi, per ora sembra bastarle che suo figlio sia con lei. Mentre versa dell’acqua nel bicchiere di Ewan la mano le trema, il liquido svia il bicchiere, bagna la mano di lui.
 La voce di Meghan è bassa e nasce dal fondo come un lamento. «Perdonami.»
«Non è a me che devi chiedere di perdonarti.» Ewan abbassa il viso, si asciuga  il dorso della mano con un tovagliolo. «Chiama Claire, parlale e va’ da lei.»
Meghan resta in silenzio per un attimo che sembra infinito, annuisce, sospira.
Gli accarezza il viso con entrambe le mani, come se Ewan fosse ancora un bambino, ma poi lo guarda e nei suoi occhi avviene una magia intensa: una madre che riconosce, in suo figlio, un uomo.
«Grazie per essere tornato a casa.»
***
Ewan ha lasciato tutte le sue cose a casa del suo amico, quindi ci apprestiamo ad andarlo a trovare per recuperare tutto.
Un ragazzo riccioluto appare sulla soglia, mi fissa con sorpresa per la seconda volta e poi, quasi si risvegliasse da un sogno, fissa Ewan.
«Caramba, asqueroso,» esclama, con accento latino. «*Me has hecho echa la zorro de Liverpool y hora vuelven con ella así! Pues qué figuras de mierda me haces hacer?»
«*Por favor, Dean, basta ya de hablar en español, la mi novia no te entiende. Sono qui per riprendermi il borsone,» fiata Ewan, ed io ho capito solo la metà di quello che ha detto. «Lei è…»
«Lo so chi è! Le ho anche chiesto di autografarmi una chiappa! La volpe ha proposto la mano ma alla fine le ho dato un pezzo di carta,» continua Dean.
Ad Ewan si alza un sopracciglio, mi lascia la mano e continua a parlare con Dean. «Vuoi che ti picchio?»
Dean fa una smorfia. «Finiscila, fiero irish man che non sei altro. Non avevo nessuna intenzione di rubartela.» Dean mi lancia uno sguardo, gli occhi verde scuro a squadrarmi con allegria.
Mi stringo nelle spalle e attraverso la soglia.
«Nessun secondo fine ma te lo devo dire. Sei più figa dal vivo.» Strizza l’occhio verso di me.
«Ho la sindrome da Lady Gaga, anche se lei è il meglio. Venderai il mio autografo su e-bay? » gli chiedo, glissando sul suo complimento.
«Non sei ancora così famosa,  ma tu lavoraci su.»
Ewan riesce a far staccare Dean da me ed io ridacchio, anche se travolta dall’imbarazzo. Ewan mi guida attraverso il corridoio ed apre un’altra porta, scorgo una camera da letto e vicino all’armadio riconosco il suo borsone.
«Certo che deve essere strabravo a letto per farti sopportare il suo pessimo carattere! » sento gridare Dean.
«Non è vero!» gli risponde Ewan.
«Che sei molto bravo a letto o che hai un pessimo carattere? »
«La seconda, imbecil
«Imbecil? Parli come me adesso? Tu non hai una madre originaria di Madrid!» continua Dean.
«Mia sorella è laureata in Spagnolo oltreché Francese,» lo rimbecca Ewan.
«E tu ti sei laureato insieme a lei?»
Li lascio battibeccare in pace mentre io entro nella stanza. Mi fa stare meglio sapere che Ewan non ha passato il tempo a dormire per terra come per un po’ ha fatto a Londra solo per non chiedere aiuto a nessuno, per lasciar libera Claire e non restare sotto lo stesso tetto con le persone che l’avevano tradito. Prendo il cellulare e trovo una quantità esorbitante di messaggi di Pamela, da “spero che tu sia sulla pista giusta, fatti viva” a “oh, se non mi rispondi di sicuro l’hai trovato <3”, la mia migliore amica intuitiva e meravigliosa. Di Arthur trovo solo una chiamata.
Deve aver capito tutto, anche lui, dalla mia assenza di risposta. Una strana inquietudine mi assale e trovo, come unico modo per farla passare, quello di mettere via il telefonino.
L’ordine di questa stanza mi irrita, si vede che non è ancora passato l’uragano Natalie Truman e il suo alterego volpino. Per questo il mobile di fronte al letto attira la mia attenzione: è l’unico in cui regna un po’ di confusione, fogli che immagino essere spartiti tra la lampada e i soprammobili. Mi chiedo se Ewan conserva ancora La Primavera di Vivaldi, mi chiedo se ha ripreso lo spartito di Another place. Ma il foglio che sollevo fa parte, in realtà, di un fascicolo.
Non ci sono note musicali, ma parole stampate.
E senza riuscire a bloccarmi un attimo, leggo quelle parole.
Il sottoscritto EWAN ANTHONY LYNCH, cede i diritti dei pezzi musicali collegati all’album dal titolo ANOTHER PLACE, afferma di essere dipendente della casa discografica SONY e si impegna nel tour che verrà organizzato in seguito all’uscita del cd, con un contratto decennale per cui gli spetterà il settantacinque percento del guadagno delle vendite tra esibizioni, vendite di CD e DVD, con un compenso iniziale di 500. 000 dollari. Accetta di partecipare agli eventi e ai servizi proporzionali per la sua persona nella sezione NEW AGE, MUSICA CONTEMPORANEA, MUSICA MINIMALISTA, per album in studio e live.
L’evento che segna l’inizio di CARRIERA prevede che il signor EWAN ANTHONY LYNCH introduca il concerto di MOBY a Central Park, New York City, 25 dicembre 2014, ore 22:00.
Gli spetta secondo contratto un monolocale nei pressi della casa discografica, NEW YORK CITY, UPPER WEST SIDE, A OVEST DA CENTRAL PARK, 125sima strada.
Secondo contrat-
Ewan si chiude la porta della stanza alle spalle con forza, facendone derivare un forte tonfo.
«Dean è un pugno nello stomaco. Non è stato serio nemmeno quando gli ho parlato di mamma.»
«Ewan…»
«Lo conosco da dieci anni…»
«Una casa discografica ti ha offerto un contratto.» Mi volto a guardarlo. Mi avvicino a lui con le mani che tremano a stringere il foglio, a porgerglielo, a lasciarlo andare mentre Ewan lo stringe a sua volta e sospira. Evita il mio sguardo nel tempo in cui cerco di organizzare i pensieri, trattenere la rabbia, restare calma.
Mi guarda.
Calma.
Non riesco ad esserlo.
«Volevi che lo scoprissi da sola come è appena successo?» sbotto.
«Non possiamo stare senza problemi nemmeno per un giorno, vero?» sbuffa.
Mi mordo le labbra, mi stringo nelle mie braccia e faccio un respiro profondo.
«È tutto quello che hai da dire?» gli chiedo.
Mi lancia uno sguardo esasperato. «Che cosa devo dirti?»
«Che ci vuoi andare.» Mi si rompe la voce. «Che vi cuoi andare perché è il sogno di tutta la tua vita, perché da bambino  ti sei incantato a sentire i musicisti a Temple Bar ed hai sognato, per tutti questi anni, di lasciare Dublino per diventare grande, per diventare uomo e musicista.» Faccio un respiro profondo, ora tremo completamente, chiudo gli occhi. «Puoi cominciare da questo,» sussurro.
«Non riesci proprio a capire.» Mi stringe tra le braccia, avventato, troppo forte, senza respiro. «Ho già detto di sì.»
Deglutisco. «Perfetto, allora.»
«È tutt’altro che perfetto,» mormora. «Andrò a New York tutt’altro che contento. Se non mi fosse rimasto un briciolo di cervello strapperei quel contratto e lo butterei nel fuoco.»
«Ma sei pazzo?!» Mi sforzo a staccarmi da lui, faccio un passo indietro. «Se perdi il treno adesso non passerà più,» gli dico tremante. «La stazione dei sogni è deserta. Ci vagano i fantasmi, persone più vive che morte, ferme in attesa. Non ci sono orari né avvisi, tu sai che questo è il tuo treno,» sospiro. «Non puoi lasciarlo partire.»
Ewan mi fissa, una sfida senza pari nei suoi occhi. «Che belle parole.» La sua voce è una vibrazione che mi punge i timpani.
Mi mordo la guancia dall’interno, il sapore del sangue mi scende sulla lingua. «Ti spaventa la lontananza? Ci vedremo, verrò da te, verrai da me…» Rido esasperata. «Finirò per chiamarti nel cuore della notte dimenticandomi del fuso orario…»
«Mi ero rassegnato alla nostra fine,» sospira. «Ma poi ti ho vista a Windmill Lane, ho ascoltato la tua assurda lettera di scuse ed ho capito solo che non volevo lasciarti andare, mai più, con tutto quello che ne comporta. Tu, Nat, vali il fatto che dovrò competere per tutta la vita con Arthur Benkinson.» Scuote la testa, lo sguardo scuro e perso. «Così amandoti perdo tutto il mio orgoglio, ma solo amandoti ho dignità come uomo.»
Resto immobile. Quella consapevolezza, finora in bilico sulla cima di me stessa, rotola giù, dandomi un forte colpo alla fronte, con un lungo graffio lungo tutto il mio corpo per poi cadere ai miei piedi, in modo che possa guardarla finalmente con quello che ho.
E il solo meccanismo di difesa che uso è l’unico che io abbia mai avuto.
Ingannarmi: ma sapere di mentire a me stessa annulla ogni possibilità di riuscita.
«Non dirlo mai più.» La mia voce è rabbiosa. Mi volto, non riesco più a guardarlo. «Arthur non c’entra con tutto questo. Perché lo stai mettendo in mezzo?»
«L’hai amato per anni, è nella tua vita dall’inizio della tua, nel profondo di te stessa continuerai ad amarlo anche se ci sono io. Non posso cambiarlo, e non lo cambierei. Non saresti tu, non ti amerei. Io non sarei io ed io ti amo, Natalie, maledetto me, io ti amo.»
Mi tremano le labbra. «Tu hai avuto Alyssa e chissà chi altro ed io…»
La sua voce si fa più alta. «Alyssa non fa più parte della mia vita! Arthur ci sarà sempre per te… io sarò a New York, un oceano a separarci, e lui ti starà accanto ogni volta che lo vorrai, ed io so che lo vorrai. Lui non se ne andrà mai. Lui sarà sempre il primo. Inseguirò il mio sogno e lui sarà sempre un passo davanti a me e questo, scusami, questa volta scusami tu, mi uccide.» I suoi occhi si animano e il dispiacere che scorgo mi fa mozzare il fiato. Così si avvicina a me e mi posa una mano sulla guancia ed io gliela stringo tra le mie dita, incapace di fare altro. Ewan continua a parlare, a bassa voce ma deciso, con coraggio. «Jade non c’è più. Non sarai mai felice, Nat, me l’hai dimostrato in ogni modo e mi dispiace perché ho cercato di far accadere il contrario con tutte le mie forze. Ma anch’io non sarò mai felice, perché non dimenticherò mai quello che ha fatto mia madre, anche se l’ho perdonata. Non lo sarò perché quello che ha passato Claire non potrà mai essere cancellato. Non lo sarò perché tu mi ami, ma non sarò mai l’unico per te. E lo accetto. Sarò infelice, ma lo sarò meno se sei con me. Dimenticherò di esserlo se sei con me
Respiro piano per trattenere le lacrime. «Anch’io dimentico di esserlo se sei con me,» riesco a dire.
Per questo, con una tristezza che mi spezza la gioia appena provata in tante piccole schegge ora mortali, lo abbraccio forte. Vicina a lui, senza che possa vedermi il viso.
Ho imparato a nascondere nell’amore l’agonia.
***
Arriviamo alla pensione da cui ho preso alloggio. È tardi, il portiere sonnecchia, Ewan è stato in silenzio per tutto il tragitto, sale con me senza far rumore. Lo faccio entrare e mi chiudo la porta alle spalle, l’ambiente è semplice e accogliente, riscaldante. Ewan mi attira a sé e mi bacia in un modo che riesce subito a stordirmi.
«Sei stanco?» riesco a chiedergli.
Come puoi non esserlo, Ewan. Come puoi non desiderare di dormire, se quando sei sveglio non c’è quiete.
Ad Ewan scappa una smorfia. «Forse mi servirebbe solo una doccia, è stata una giornata molto lunga.»
«Allora vai, io comincio a prepararmi per dormire.»
Ewan annuisce, le sue mani ferme attorno al mio viso, la sua bocca che scende ancora una volta sulla mia quasi a cercare la mia forza, ad attingerne quante ne può. Mi chiedo come posso averne per entrambi, quando sento di non averne abbastanza nemmeno per me.
 Mi tolgo il cappotto, lascio cadere il basco, mi fisso nello specchio di fronte al cassettone. Non sono ancora capace di riconoscermi in quest’immagine nuova eppure sempre uguale di me stessa. Guardandomi si disvelano, come foglie di velo, le poche certezze che ho. Mi chiamo Natalie Hanna Truman, sono nata il diciotto novembre 1994, mia sorella ha scelto il nome che porto, ho amato Arthur Benkinson, amo Ewan Lynch, sono un’artista della moda. E questo non basta ad annullare la mia angoscia. Ora capisco davvero quanto la gente che sceglie la solitudine abbia il senno più alto possibile al mondo: quando si è soli si soffre solo per se stessi, quando si ama si soffre anche per l’altra persona, si diventa parte di quel qualcuno come se fosse cresciuta una seconda pelle i cui nervi sono intrecciati, legati, attaccati a quella dell’altro. Ma non c’è solo un altro, al di fuori di me. C’è Arthur, a cui darò l’unica colpa che non posso prendermi: è l’uomo della mia vita, nonostante tutto.
Nonostante Ewan Lynch.
Ewan Lynch che è l’amore della mia vita, nonostante Arthur Benkinson.
E non è giusto, perché Ewan si è messo in catene per me. Non è giusto, perché anche Arthur è intrappolato e consapevole di esserlo. Nessuno di loro vuole cambiare la propria condizione e, di fronte a questo, la mia libertà non esiste. Ho le mani libere ma sono ugualmente imprigionata, perché ho le catene fissate sul cuore, tirato da due parti diverse. L’amore ha un solo nome, ma nella mia vita risponde al nome di due persone: finirà per spezzarmi, annientarmi, farmi morire in Ewan, in Arthur, in me stessa. Ho l’anima di ferro; il cuore ne possiede lo stesso peso ma, anatomia maledetta, è grande solo quanto il mio pugno chiuso. Chi ci proteggo all’interno occupa anche lo spazio che spetta a me ed io, disperata, soffoco.
Affogo.
Sprofondo.
Alzando lo sguardo verso l’orologio in alto mi rendo conto che è passata mezz’ora, ho ancora i vestiti addosso ed Ewan è ancora sotto la doccia, il vapore che accarezza la porta socchiusa.  
Lascio cadere il vestito a terra, sfilo le calze, la biancheria.
Ewan non si accorge del cigolio della porta del bagno che si apre. Resta sotto il getto che scende lieve, gli carezza la schiena mentre lui resta appoggiato al muro piastrellato, la fronte contro la superficie, un braccio piegato sopra la testa. L’acqua si disperde in gocce che si incontrano, sulla sua pelle, e scendono insieme a formare concavità a forma di V. Mi unisco a quest’incontro posando le labbra, piano, sulla sua spalla. Il getto è bollente, lo è la sua pelle.
Ewan freme, mi riconosce senza guardarmi, si volta.
«Natalie.»
Il mio nome muore tra le sue labbra, in questo respiro trattenuto mentre mi divora in questo bacio e mi innalza e mi cura e quel che ci accade e ci è accaduto si innalza, ci cade addosso. Siamo già stati feriti. Ci feriremo ancora. Non smetteremo mai di farci male mentre le mie labbra diventano carezze, indugiano sul suo pomo d’adamo, lo tocco anche coi denti e le labbra scendono dal suo collo fino al petto, scendono in un modo che in realtà è andare in alto, perché non c’è mai stata una volta in cui quel che sento per lui non mi abbia fatto sentire così. In alto, al sicuro, con lui. I suoi gemiti si mischiano al rumore del’acqua, mi stringe i capelli, fa per fermarmi ma non c’è nulla da fermare, continuo a muovermi, l’acqua mi travolge mentre lo amo – anche le labbra abbracciano, stringono forte, ancora più forte, più volte ancora – così io lo amo.
Un suono rauco dalla sua gola, la stretta è forte sulla mia pelle quando mi solleva e il suo bacio mi graffia. Ewan mi spinge piano nell’angolo della doccia, il suo respiro sulle mie labbra, la mia gamba sul suo fianco ed io mi aggrappo alle sue spalle per non cadere, non perdermi, vivere per ricordare anche se la mente si annebbia e lui affonda, gemendo affonda e sulla schiena ho i brividi e affonda e dappertutto ho i brividi mentre affonda. Nebbia. Quel che fa mi porta a ansimare così forte che mi mordo la lingua per non gridare, e l’urlo che non si compie con la voce mi rimbomba in tutto il corpo, mi fa tremare il cuore, le viscere, il sangue. Nella nebbia lui appare, mi chiama ed io riesco a correre, a raggiungerlo, a farmi abbracciare. Il fiato non basta più in una sensazione simile al dolore sfiancante, inconfondibile, ogni volta sorprendente. Sempre più stremante.
Bellissima.
«Sono qui.» È la sua voce mentre io mi annullo.
Non mi ero accorta di aver chiamato il suo nome.
Scivolo a terra, ansimo, sospiro.
Ewan si china, mi tiene tra le braccia, acqua e pelle, pelle ed acqua ed io chiudo gli occhi. Ed è meraviglioso ed io lo amo tanto, soffoco, affogo, sprofondo ed io lo amo, così tanto, così tanto… e quanto è poco questo tanto, non è abbastanza, vorrei tanto essere abbastanza…
Non ho più idea di che cosa sia il tempo, il mondo, il reale. Percepisco le carezze di Ewan tra i miei capelli umidi, non so se è passata un’ora o solo lunghi minuti, so solo che non posso perdere un solo attimo di lui.
Allora apro gli occhi.
Mi ha portata a letto, avvolta in un asciugamano. Gli carezzo il viso, dagli zigomi alti finisco alla guancia, indugio sulle labbra calde di respiro. Non è mai stato così bello. Ogni giorno lo è di più, ogni giorno è difficile abituarmi, so che non ci sarà mai un’abitudine, non potrà mai esserci. Lo bacio mentre piango. Piano, forte, impacciata, sfrontata, posso farlo, posso esserlo, sono tutte queste cose insieme. Lo cerco con le mani, stringo le ginocchia sollevandole, lo accolgo in me e fa male e mi ritrovo a desiderare la meraviglia di questo dolore, senza freni.
«Natalie,» La sua voce è appena un sussurro. «Perché stai piangendo?»
Stringo le mani attorno al suo collo.
Ho poca voce, mi brucia la gola. «Fai l’amore con me.»
«Sto facendo l’amore con te.» Un’ altra spinta, decisa, e i suoi occhi – quegli occhi,  Another place quando scende la sera – nei miei.
«E tu continui a piangere,» dice ancora.
Trattengo un singhiozzo. «Allora non fermarti.»
Ma si ferma. Il suo corpo mi schiaccia, il suo respiro è pensante anche se non si muove e allora Ewan avvicina il viso al mio, fronte contro fronte, con un non piangere sussurrato e un sono qui, Natalie, siamo qui, sei qui, sei con me, non piangere. Ed io vorrei urlare, dimenarmi, pregarlo ma sono io, sono Natalie, Nat e Natie e sono stanca, arrabbiata, impaziente, ancora stanca. Allora lo atterro. Sono io ad adagiarmi, a sollevarmi, a tornare, ad andare, a muovermi, ad affannarmi insieme a lui come un animale selvaggio, amo come un animale selvaggio, muoio come un animale selvaggio.
«Non te lo lascerò fare.» La sua voce è decisa nonostante il respiro pesante. Mi prende il viso tra le mani e mi asciuga le lacrime con i polpastrelli. «Ho capito che intenzioni hai, Natalie, e non te lo lascerò fare.»
Me lo lascerai fare invece, sospiro. Perché ho già preso una decisione, e non posso tornare indietro.
Avevo sette anni quando cominciai a suonare il pianoforte. Jade, quattordici anni, trecce scure ed occhi di cielo, mi raccontò la storia dei grandi della musica come l’avevano raccontata a lei. Allora risi di fronte ai vizi strani di alcuni pianisti, mi commossi immaginando i loro amori e rimasi incantata quando Jadie mi parlò dell’orecchio assoluto, una capacità presente in un musicista su cinquanta, un talento nel talento: riconoscere i suoni che si librano dagli strumenti musicali per poi riprodurli anche a occhi chiusi senza spartito a guidarli. Ewan ha l’orecchio assoluto con le emozioni umane.
Ewan ha l’orecchio assoluto con me.
Il mio è un soffio che sopravvive all’aria. «Io ti amo, Ewan Anthony Lynch.» Inclino la testa. «Ma non dovrei nemmeno dirtelo, perché già lo sai… Certo che lo sai.»
«Allora tu non sai quanto ti amo io.»
«Certo che lo so. È difficile crederci, ma lo so. Non posso continuare così.» Lo guardo negli occhi, lo vedo sbiadito, resta splendido perché è come luce, perché l’oscurità assorbe tutti i raggi del sole.
Ho freddo, devo sforzarmi di pensare, parlare, finire.
Mi sfiora le labbra con il pollice, faremo l’amore ancora, non usciremo mai da questa stanza, non ci vedremo mai più, non ha importanza.
La mia voce trema. «Guarda un po’ il poco che ho capito da anni di studi: le rette incidenti si incontrano in un punto – non importa cosa accada in quel tempo che ha spazio, anche se è senza spazio e senza tempo – e poi si separano, perché va così. Le regole non le ho inventate io.»  Faccio fatica a respirare. «Le rette parallele, invece, sono vicine ma non si incontrano mai e non cambiano e crescono mai e restano uguali anche nell’infinito. E allora capisco che vivere parallela a te, senza incontrarti, avrebbe fatto più male. Tu sei la mia retta incidente, io sono una retta incidente: divisa in due, ma ho vissuto a pieno.» Chiudo gli occhi.
Mi prende per il polsi, veloce, e parla con foga. «Le persone non sono come le rette,» scandisce.
«Ed io non sono una persona come le altre.» Mi mordo le labbra, respiro forte. «Sono una volpe, no? L’hai detto tu. Tu vedi sempre le cose come sono.»
«Sì, ti vedo, Natalie. Non ho mai chiesto niente di più di quello che mi hai dato, non ti chiedo niente di più di quello che mi dai, non ti chiederò mai niente di più di quello che mi darai. Se mi vuoi veramente non farai questa follia. Se mi vuoi veramente farai l’unica cosa che ti chiedo.»
«Non posso farlo. Ho troppa pena nel cuore per amarti come meriti. Ci ho provato, ho fallito, sto fallendo, non posso prendermi questa colpa.» »
«Non hai nessuna colpa,» continua. Gli poso una mano sul viso, la barba appena accennata mi punge le dita come la puntina su un disco in vinile. La sua voce è tesa, nasconde tutta la nostra disperazione. «Nessuno ha colpa... sii quello che sei e resta con me. Se mi ami resta con me
Allora il mio amore non basta.
Non riesco a guardarlo, chiudo gli occhi, le nostre labbra si incontrano ancora.
Il mio amore non basta e mi dispiace, perché ti devo tutto.
 Perché devo dirti grazie, ragazzo dagli occhi del mare di another place.
Grazie per avermi dato un posto laddove non sono mai riuscita a trovare il mio.
*
*
*
*
Traduzione della parte in Spagnolo: - Prima mi fai mandare via La volpe di Liverpool e poi vieni con lei così? Ma che figure mi fai fare?
  • Per favore, Dean, basta parlare in Spagnolo, la mia ragazza non ti capisce.
 
Grazie mille alla mia sis Rebirth per avermi aiutato con lo Spagnolo <3
 
Leggendo questo capitolo è stato come sentire, tutte insieme, le sensazioni che mi hanno travolta nel corso di tutta la storia, anche se  in poco più di cinquemila parole.
Quando arrivo a scrivere le note perdo sempre la capacità di articolare un discorso decente, scusatemi. Spero di rifarmi la prossima volta, con l’epilogo de La volpe di Liverpool, nei ringraziamenti per voi <3
Spero che ci sarete per il finale, anche se un vero finale non sarà mai, perché non credo che Natalie e tutti gli altri usciranno mai dalla mia vita. Io spero che abbiano lasciato qualcosa nella vostra :3
Grazie, grazie, grazie.
*Si asciuga le lacrime*
Sì, mi sto davvero commuovendo… non che sia una novità XD
Un grande bacio,
 
vostra Ania <3

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Capitolo 28
*** Epilogo ***


EPILOGO
 
Chi mi parla non sa
che io ho vissuto un’altra vita –
come chi dica
una fiaba
o una parabola santa.

Perchè tu eri
la purità mia,
tu cui un’onda bianca
di tristezza cadeva sul volto
se ti chiamavo con labbra impure,
tu cui lacrime dolci
correvano nel profondo degli occhi
se guardavano in alto –
e così ti parevo più bella.
 
 
L’ascensore del mio palazzo è ancora rotto, per arrivare in alto bisogna armarsi di pazienza e camminare con le proprie gambe. Sono felice di dire che io l’ho fatto e continuo a farlo, anche con una valigia pesante che mi trascino con una sola mano. Scale in marmo, pannelli di legno rovinato sul muro, anni di usura e tempo vissuto, persone prima di me, persone dopo di me.
«La porto io.»
«Me la cavo da sola.»
«Lo so.» Uno sbuffo. «E lo so anche bene.»
Ewan mi sorride: il suo borsone in spalla, la tastiera nell’altra mano, i rumori dell’aereoporto a riempire il nostro silenzio. Nessuna voce roca che canta d’amore come sottofondo, niente roba da film: siamo solo noi.
Io e lui.
Natalie ed Ewan.
Manca giusto qualche scalino per arrivare al mio pianerottolo quando la valigia mi scivola di mano, mi mordo la lingua, faccio per afferrarla.
Inciampo e vado a finire contro il suo petto.
«Devi essere maldestra anche sulle scale mobili?»
Mi chiedo come può un sorriso essere così intenso da aprirmi il cuore in due, come con un colpo di lama affilata.
«Non sono sempre maldestra.»
«Quando sei nervosa, lo sei.»
«Quando ho paura di sbagliare.»
«E mentre pensi a non sbagliare, sbagli.»
Sono riuscita ad afferrare la valigia, da sola e con le mie forze. Un punto per me in questa marea di fuorigioco, cartellini rossi e cadute. Non so proprio giocare, non so proprio vincere.
Non so proprio vivere.
La porta dell’appartamento del signor Zot si apre ed appare lui, imbacuccato in un cappotto lungo e scuro, con una sciarpa e un cappello bianchi come neve. Fa un sorrisone che mi mostra tutti i suoi denti ingialliti da tanti anni di bevute.
«Buon Natuale, Natalui!»
«Non è ancora Natale, signor Zot,» ridacchio. «Ma auguri in anticipo. Per la vigilia torno a Liverpool quindi non ci vedremo per un po’.»
«Io torno in Ruessia e non ci vuedremo per muolto tempuo, Natasha,» mi corregge lui, e spinge fuori la valigia fino a pochi secondo fa dietro di lui. «Non ti dispuace se ti chiamo cuome si fa nella mia tuerra, vero?»
Faccio un’alzata di spalle colta dalla sorpresa. «No che non mi dispiace… ci torna per le feste?»
«Per suempre.»
La valigia mi cade di nuovo di mano, fa un tonfo sul pavimento e temo che in questo salto suicida l’abbia accompagnata anche la mia mascella.
Il signor Zot mi si accivina, apre le braccia, inclina la testa: gli occhi celestini gli brillano di una luce allegra ma consapevole, che non può appartenere alla vodka. Viene dalla sua coscienza.
«Io onuorato di avere conosciuto volpe di Liverpool.»
Mi abbraccia, profuma di tabacco e prociutto arrosto ed io mi lascio stringere, la mia vita è davvero cambiata dopo tutte queste partenze, tutti questi imprevisti e inciampi.
Dopo tutti questi addii.
«Forse dovresti smettere di stringermi,» gli sussurro contro la spalla.
Il venticinque dicembre duemilaquattordici aprirà il concerto di Moby a Central Park. Indosserà un abito elegante, una camicia bianca che gli lascerà il collo scoperto. Questi giorni di distanza cancelleranno i segni che gli ho lasciato sulla pelle. Il tempo cancellerà qualunque segno e graffio gli abbia lasciato.
«Non voglio smettere di stringerti.»
I suoi occhi nei miei, improvvisamente.
Lucidi d’acqua di mare; ciglia nere e folte, lunghe.
Mi prende il viso tra le mani e una scarica di adrenalina mi fa vibrare le vene. Profuma di caffè, lo stesso che mi preparava al mattino nel nostro appartamento di Londra; facevamo finta di non vederci, ci cercavamo con la coda dell’occhio, avevamo bisogno di sapere che non era ancora troppo tardi. Io avevo bisogno di lui per spezzare il mio dolore.
Ma non devo più avere bisogno di lui, per amarlo.
Una voce fuoricampo: volo 67589 per New York è in partenza dalla sezione sei…
Stringo le palpebre contro la sciarpa bianca del signor Zot.
Zot smette di abbracciarmi e prende in mano il suo bagaglio, si stringe nelle spalle e mi dà un bacio sulla guancia. Mi ritrovo a chiudere gli occhi, a sospirare, a ricordare qualcosa che fa ancora male.
«Addio, Natalui di Liverpool.»
Un saluto definitivo, fatto di gioia, soddisfazione e attesa.
Faccio un sospiro di dolce rassegnazione.
«Addio, Zot di San Pietroburgo.»
***
Meravigliosa, splendente Londra piena di stelle, luci, auguri. Ti fa dimenticare che la polvere brillante che invade le strade proviene dalla crepa che hai nell’anima, che anche se è fatta di ferro rimarrà sempre ferita, ammaccata, forata dai proiettili del dolore.
Entro nel bar della signora Faryland e scorgo Suzanna da lontano, con il suo solito ghembriule rosso ed un cappello da Babbo Natale a tema.
Le faccio un gran sorriso. «Suzanna!»
«Ciao, Nat!» Mi sorride anche lei, seppur con meno entusiasmo. «Scusami, durante le feste c’è davvero tanto lavoro… sì, con i cupcakes, arrivo!»
«È una cosa veloce,» le spiego, mi avvicino al bancone. «Devo solo darti il mio regalo di Natale.»
Inarca le sopracciglia. I suoi occhi si illuminano, vividi: un’esplosione di felicità accompagnata dalla voce di Mariah Carey che alla radio canta una canzone di feste.
«Ma non dovevi…»
«Era più di un dovere.» Mi siedo allo sgabello ed apro la borsa. «Sei mia amica, la prima amica che ho avuto qui… te lo meriti.» Le porgo la busta da lettere e lei, con le mani tremanti, la afferra.
«Ragazza della montagna!» la chiama la signora Faryland.
Suzanna strappa la busta e sul bancone cade il mio assegno. Suzanna lo sfiora con i polpastrelli e non riesce nemmeno a leggere il numero della cifra.
«È abbastanza per cambiare la tua vita,credo,» le dico.
Scuote la testa, sotto shock. «Natalie, io non posso accettarlo.»
«Certo che puoi accettarlo. Puoi fiondarti anche all’aereoporto, come dire, in questo preciso momento. C’è qualcuno che sta partendo e forse potrebbe rimandare…»
«Suzanna!» La signora Faryland ci viene incontro con i suoi orecchini pesanti e gli occhiali a fondo di bottiglia. «Sei per caso diventata sorda? »
«No, no, io stavo solo…» comincia Suzanna.
«Signora Faryland!» Attiro la sua attenzione. «Oh, quanto sono sbadata… ho dimenticato il suo regalo di Natale nella nuova sede della rivista.»
La signora Faryland mi fa gli occhi dolci. «Davvero?»
La trascino fuori dal locale e la faccio salire sul taxi per poi seguirla. In magazzino troverò sicuramente qualche cianfrusaglia per lei.
L’auto parcheggia, apro lo sportello e mi incammino verso il palazzo in cui avrà sede La Volpe di Liverpool una volta terminati tutti i lavori. Oltrepasso un barbone e sento il cuore fermarsi per un secondo infinito. L’uomo steso solleva il cappello e riconosco Reginald, il secondo barbone con cui ho intrattenuto una conversazione – anche se breve – nella mia vita.
Mi fa un sorrisone. «Bonne Noel, madamoiselle! » esclama.
Reginald fa una risata ubriaca, mi gratto la testa e non so cosa dire a parte Buon Natale anche a lei, Reginald, e mi chiedo dove mangerà a pranzo, se anche lui avrà una cena di Natale…
Poi volta la testa a guardare la signora Faryland e spalanca gli occhi all’improvviso. La signora Faryland ha la sua stessa reazione, le cade la borsetta in una pozzanghera e mi schizza del fango sul cappotto bianco.
«No!» esclamo. «Era Chanel, per i sette dèi!» Ci passo sopra la mano ma il cappottino mi si imbratta ancora di più. « … porca di quella puttana di tua zia…»
«Bernardine? » chiama Reginald, con una voce sognante che io non avrei mai accompagnato ad un nome del genere. «Sei davvero tu?»
«Che cosa ci fai qui?» gli chiede la signora Faryland, con la stessa voce stridula con cui tante volte mi ha gridato più veloce con quei vassoi, ragazza di Liverpool!
«Ero qui per trovare Gabriel per mia sorella… Ha detto che non l’ha mai amata ed io non potevo tornare in Francia e dirglielo così… e non sapevo dove trovarti… non sapevo se tu avresti voluto vedermi di nuovo…»
La signora Faryland si china su di lui, gli fa un sorriso che la fa sembrare addirittura bella nonostante gli anni, nonostante sia la signora Faryland.
«Che estate era, quella in cui ci siamo incontrati?» gli chiede.
«Era il millenovecentosettantacinque,» risponde subito lui. Reginald ride grattandosi la barba. «Quanto sei bella quando sorridi, Berny mia. L’ho sognato le notti che ho passato sotto la pioggia, quel sorriso…»
«Ma chi credi di avere davanti? Non mi faccio mica prendere in giro così! E poi Berny mia lo dici all’amica con cui mi hai tradito, mascalzone!» gli soffia contro.
«Non mi vuoi dare nemmeno un bacino?»
La signora Faryland alza il volto verso di me e mi sembra di guardarla per la prima volta. E forse è l’effetto dell’amore, questo: mi fa conoscere ogni cosa un’atra volta, per la prima volta; mi fa capire quanto vale tutto quello che possiedo oggi, di nuovo e ancora. Perché l’amore che porto nel cuore mi basterà per tutta la vita, vale altre mille vite.
Reginald carezza il volto della signora Faryland e lei lo allontana dicendo qualcosa come via le tue manacce da me. Poi si ricompone: «Ma quel tuo amico, quello coi capelli rossi… alla fine si è sposato?»
Mi volto per dar loro la privacy che meritano e scopro che non puoi lasciare niente alle spalle, se quel niente vuole continuare a seguirti.
Niente, eravamo noi.
Nessuno, era per me.
«Non ci diremo addio… Sarebbe troppo struggente,» gli dico.
Una persona qualunque.
Un pianista.
Il  ragazzo di cui mi sono innamorata.
Chiudo gli occhi. I suoi polpastrelli callosi contro le mie guance, il palmo aperto a mantenermi il viso, ad abbracciare il mio respiro, a cullarmi quasi stessi per addormentarmi, svegliarmi in un altro tempo, in un altro posto.
La sua voce mi avvelena nella sua sfrontatezza. «Tanto io non ti bacerò, Natalie.»
Sorrido, le palpebre leggere ma serrate, le ciglia piegate per la tensione perché il sorriso si esaurisce, finisce in una risata chiara e triste.
«Non volevo assolutamente che tu mi baciassi.» Apro gli occhi, gli prendo le mani tra le mie. E forse non saprà mai quanto lo amo e l’ho amato, non saprà mai quanto mi costa tutto questo, non saprà mai che la più grande dimostrazione d’amore di un’egoista come me è salvarlo così, salvando me stessa.
Mi sporgo sul suo petto, la mia bocca sulla sua, una scintilla di fuoco che si espande e ancora brucia, e fa ancora male.
La mia voce è bassa e incrinata in se stessa. «Dovevo farlo io.»
Solo dal suo sguardo posso capire quanto mi stia odiando, quanto odia se stesso.
Perché il nostro tempo è scaduto.
La scia del suo aereo sarà candida nel cielo terso di questo dicembre dublinese; sembrerà schiuma di latte, spuma incoerente su un mare di calma piatta.
Ewan mi confonderà con i suoi ricordi.
Io sarò la scia bianca che si lascia indietro nel suo percorso.
***
Mi abbottono il cappotto e mi guardo un’ultima volta allo specchio. Sembro quasi normale. Sembro quasi la stessa ragazza dell’anno scorso. Gli occhi marrone scuro, caffè espresso in un bar della Napoli di mia nonna, una coperta calda per proteggere ogni segreto.
«Natalie,» mi chiama mia madre, che mi appare nello specchio quasi si trovasse nello specchio stesso. «Aspettaci, così andiamo in macchina insieme.»
«Non verrò alla cena di Natale dei Benkinson.» La oltrepasso e faccio per scendere le scale. «Quest’anno no. Non ho intenzione di fare la carina con quei falsi sorrisi…»
«Ci sarà anche Arthur!»
Arthur, deglutisco. Arthur che non sarà mai solo Arthur, che mi ha guardato dormire in una culla e poi tuffarmi e nuotare in questo mare di ingiustizie.
E che non riesco a guardare in faccia.
«Fagli gli auguri da parte mia.»
Mia madre mi prende per il braccio, mi costringe a guardarla negli occhi così simili ai miei, scuri e selvatici. «Sei sicura di quello che stai facendo?» mi chiede, l’apprensione nella sua voce.
Mi si attorciglia lo stomaco, la sensazione viscida si intensifica quando si fa fredda, di ghiaccio.
La probabilità più che plausibile di non arrivare fino in fondo.
«Sto facendo del mio meglio, mamma.»
***
La porta di casa di Claire è aperta. Arrivo con una busta di pasticcini per sdebitarmi della cena che mi offriranno, a mio agio in jeans e maglioncino.
Ci sono tante persone che non mi riconoscono, non mi guardano, parlano e ridono tra loro sul sottofondo di canzoni di Michael Boublé; c’è odore di canditi, tacchino, crema alla vaniglia ed io so di essere davvero fortunata.
Claire Lynch mi ha scelto come amica.
Non ha idea di quanto sia una privilegio per me.
«Nat! » Hatomi mi viene incontro e mi lascia due baci sulle guance, il bambino che tiene in braccio mi fa dei risolini addosso.
«Ciao! Ho portato dei dolci,» le dico, indugio sul piccolino che tiene tra le braccia.
«Lui è Chikao, mio nipote.» Hatomi mi fa un sorriso appena accennato, ma accecante nel suo biancore. «Scambio equo.»
Le porgo la busta con una mano e lei fa in modo che io prenda in braccio il bimbo, una pallina bianca e nera con gli occhi scurissimi, grandi ma allungati, da giapponesino. Il bambino mi mostra le gengive a mo’ di sorriso.
«Dio, sei così carino ma ti prego non ruttarmi in faccia,» gli sussurro sul nasino. Il bambino fa dei versi incomprensibili e si mette un pugnetto in bocca, gli sfugge una risatina dalla gola. Parlo tra me e me: «Non farò mai dei figli».
«Perché lo dici?» La voce di Claire, chiara e decisa e melodiosa alle mie spalle. Mi volto, il profumo di talco e vaniglia del bambino è avvolgente e rassicurante, eppure non posso che considerarla un’illusione. Claire, sorriso furbo e un cappello di babbo Natale in testa, mi si avvicina piano.
Non ho nemmeno un fidanzato, adesso.
«Perché non smetterò mai di essere una bambina,» ridacchio, l’imbarazzo nascosto in un angolo della mia mente. «Se non cresco io come posso far crescere qualcun altro?» le chiedo.
Il sorriso di Claire si allarga mentre mi prende il bambino dalle braccia. «Be’, saresti un’ottima compagna di giochi,» ammicca.
«Dello spumante per ubriacarci per bene! » esclama Pamela subito dopo essere entrata, i capelli ricci che le vengono fuori dal cappellino, il sorriso che è una mezzaluna luminosa. Leo la segue sorridendomi a sua volta.
«Volpe,» mi fa lui.
«Salve!» esclamo io.
Pamela mi salta addosso come un felino e mi abbraccia, posso già immaginarla con gli occhi chiusi a forza come ogni volta in cui mi tiene stretta, ogni volta in cui l’ho vista abbracciare Leo. Le è inevitabile perdersi nei momenti in cui dimostra il suo amore.
«Davvero lo trasmettono in televisione?» mi chiede all’orecchio.
«Sì, Pam.»
«Diventerà famoso come te?»
Chiudo gli occhi contro la sua spalla, anche se per un motivo diverso. È che gli eventi della vita si accumulano sulle tue spalle e arriva un momento in cui pensi solo che sei stanca. Tanto stanca, eppure non puoi lasciare che sia la corrente della vita a trasportarti: devi essere tu a remare.
Parlo a bisbigli. «Si merita di andare tanto lontano.»
I nomi di chi mi si è presentato, i nomi delle persone a cui io mi sono presentata, il mio stesso nome, qualunque cosa abbia una definizione si aggrega in un punto imprecisato dello spazio: come la nascita dell’universo al contrario c’è una massa informe e incandescente che, dentro di me, implode, esplode e balena in un miraggio di nuove, brucianti stelle.
Ewan – l’abito blu scuro ed elegante dev’essere di lana vergine e chissà quanto farà freddo e Dio come si muove –  è impacciato sul palco e sorride e pare un bambino ed è il mio Ewan anche se non è più mio. Mi sporgo sulla sedia come se così potessi raggiungerlo, come se così potesse vedermi.
E lui, Ewan, suona another place di fronte a un milione di persone.
Another place raggiungerà milioni di persone nel mondo.
Another place, ancora una volta, fa liquefare la mia corazza di ferro, mi scava nel cuore, mi tocca l’anima, la attraversa e me la accartoccia e le dà un’altra forma, sempre la stessa, sempre diversa.
«È mio fratello!» esclama Claire, stritolando il braccio di Hatomi, e anche lei sembra più piccola, una bambina di fronte al suo regalo, una sorella fiera. «È proprio lui…»
Devo trattenere le lacrime.
Qualcuno suona al campanello ma io continuo a guardare Ewan, ad ascoltare.
Devo trattenere le lacrime.
«Chi può essere a quest’ora?» chiede Hatomi impettita.
«Vado io,» dico subito. Così almeno potrò distrarmi per un attimo da tutto questo.
Percorro il corridoio correndo ed apro la porta, mi ritrovo a sorridere senza motivo anche se è Natale, ed è un motivo sufficiente per sorridere in ogni parte della Terra. Sulla soglia c’è un uomo sulla cinquantina, con i capelli neri, alto e piuttosto robusto.
Solleva il viso a guardarmi e fa un colpo di tosse.
«Sto… sto cercando Claire Lynch.»
I suoi occhi da lontano sembrano neri. Ma quelli di quest’uomo sono neri davvero, ed hanno un’intensità nello sguardo che ho scorto solo in un’altra persona.
«Signor Lynch?» gli chiedo.
Annuisce, in imbarazzo.
«Ho sbagliato indirizzo?»
«Natalie, chi è?» La voce di Claire. I suoi passi che si fanno sempre più vicini. Quando mi volto è solo a pochi centimetri da me. «Bambini che cantano canzoncine?» mi chiede.
Ma poi guarda fuori e sembra congelarsi sul suo posto e pare ancora più pallida, gli occhi fatti di vene e vene intrecciate in un profondo blu.
«Papà? » chiama lei con un filo di voce, e mi viene accanto. L’uomo la guarda  per un attimo e china di nuovo il capo, si passa una mano sulla fronte, sulla fronte quella mano resta ed io penso a suo figlio, penso a quanto si può somigliare a qualcuno essendo un’altra persona.
 «Stamattina la mamma ha chiamato,» aggiunge Claire, con l’affanno.
«Arrivo sempre tardi,» mormora l’uomo.
Claire lo guarda per un attimo lunghissimo, ci passa all’interno una vita intera, dolore misto a impazienza, ai momenti in cui non sappiamo ancora chi siamo e proprio per questo possiamo fingere e sognare e essere qualunque cosa.  E poi arriva il momento in cui capiamo chi siamo, chi non possiamo evitare di essere e come vogliamo esserlo.
Il signor Lynch alza gli occhi su di lei. «So che mi odi tanto.»
Claire si morde le labbra. «Odio di più odiarti. Sono stanca di odiarti.»
Quando Claire gli corre incontro e lo abbraccia e piange, anche l’uomo ha fatto un passo verso di lei e l’ha stretta tra le sue braccia e le lacrime gli rigano il volto mentre chiude le palpebre. Il singhiozzo che rimbomba nella sua gola di uomo mi fa vibrare il cuore e sono grata che Hatomi sia dietro di me, adesso, silenziosa.
Perché sarà lei a raccontarlo ad Ewan, un giorno.
***
Ci sono tanti modi per essere coraggiosi.
È coraggioso chi resta, è coraggioso chi va via.
È coraggioso chi guarda alla verità.
È coraggioso chi ammette di avere paura.
Poche volte sono stata in casa Benkinson se non per occasioni speciali: alle cene di Natale mi ha sempre colpito lo sfarzo esagerato, il lusso sfrenato nelle decorazioni, nel cibo, nelle divise dei camerieri. In momenti del genere mi sono resa conto quanto possiamo essere ridicoli quando facciamo finta di essere felici. Perché è impossibile non essere felici, quando c’è tutto. Quando non manca niente.
Ignorando che manca qualcuno.
La domestica mi conduce allo studio in cui Arthur ha passato gran parte del suo tempo a studiare dalla prima infanzia. Mi perdo tra i corridoi di questa grande casa, immacolata e perfetta, lucida di pulito e profumata di lavoro. Come se la vita fosse la punta di mina di una matita, la signora Benkison fa in modo che ogni segno del loro passaggio venga cancellato.
Arthur è alla finestra. Con una sigaretta tra le dita, il fumo viene fuori morbido dalle sue labbra schiuse imbrattandogli il volto con una carezza.
Si volta verso di me e mi lancia uno sguardo verde e sorpreso.
«Non ti aspettavo,» mi dice, e si appresta a spegnere la sigaretta nel posacenere dorato sulla scrivania. «Scusa, so che ti dà fastidio l’odore del fumo.»
Il rumore della porta che sbatte: la domestica è uscita.
«Sei a casa tua, non ti devi preoccupare per me,» gli rispondo.
«Mi preoccupo sempre per te,» sussurra, parlando quasi a se stesso. Piccoli fili di fumo si innalzano dalla sigaretta spenta come incenso. Mi avvicino a lui con una calma forzata, misurata, così studiata da farmi tremare – forse si vede appena, forse è solo suggestione – mentre poso la mano sulla sua ed Arthur mi guarda e riconosco l’uomo della mia vita.
«Non devi più farlo,» comincio. «Da quando sono nata, questo è stato il primo Natale che non abbiamo passato insieme. Sono cambiate tante cose,» continuo. « E quel giorno, dopo il funerale di Jade, mi hai promesso che non mi avresti mai abbandonata. Hai mantenuto la tua promessa nel modo migliore e sei stato coraggioso.» Un sospiro. «Ma ora voglio che tu sia libero.»
Mi passa una mano tra i capelli, sembra che gli richieda uno sforzo immane. «Natie…»
Sarò sempre la sorellina della ragazza che amavi.
«Ora sei libero. Avevo bisogno di non essere lasciata sola, mi sei stato vicino. Sei stato tutto quello di cui avevo bisogno.» Faccio un respiro profondo. «Ma ora ho bisogno di saperti lontano, ho bisogno che viaggi e conosci e ami ancora. Ho bisogno che ti ricordi di me vivendo al di fuori di me.»
«Mi stai dicendo che non vuoi vedermi più? »
«Certo che ci vedremo, ci sentiremo, solo… metto in chiaro le cose.»
Scuote la testa, incredulo. «Perché stai facendo questo?»
«Perché è arrivato il momento di restare in piedi senza pilastri a sorreggermi. Ho bisogno di stare in piedi da sola e tu meriti lo stesso.»
È strano come i miei bisogni coincidino con il bene delle persone che più amo al mondo, almeno per questa volta.
Doveva arrivare il giorno in cui questo sarebbe accaduto.
Doveva arrivareil giorno in cui sarebbe andato tutto bene.
Lo guardo, ci impiego un attimo eterno, subdolo e indispensabile: lascio Arthur Benkinson, splendido, davanti a un mare di nuove possibilità.
 
Cosa comporta avere nuove possibilità? Sostare davanti un bivio con due strade diverse, che portano ad altre strade ed altre strade ancora in un circuito sconosciuto, imprevedibile, inatteso? Ogni cosa nella mia vita è un inciampo che non avevo previsto, un incontro non premeditato, un sogno vago. Ed oggi, nella fine di questo freddo dicembre, vengo a cercarti.
Non sei in quel cimitero, non sei nelle vecchie foto, nemmeno nei ricordi vividi che mi hai lasciato – com’è la tua voce? Squillante, dolcissima, alta eppure calda nei sussurri… a volte temo di dimenticarla e cerco una vecchia cassetta per risentirla e piango quando mi canti buon compleanno. Another place è un posto solo mio ed io qui ti trovo, sorella mia. Solo io frugavo tra le tue cose senza che tu lo volessi, ti chiedevo di giocare con me e farmi bella con i tuoi trucchi, pettinarmi con le tue spazzole e leggermi le storie dei tuoi libri di donna. Ho imparato da sola perché amavi tanto Madame Bovary, Anna Karenina, la regina Maria Antonietta…
Adesso tu frughi in me.
Disegni lasciati a metà, progetti ultimati, amori finiti, grandi speranze, sentimenti sospesi sul nastro su cui faccio l’equilibrista senza avere alcun senso d’equilibrio.
Il mio cuore è più leggero o pompa meno sangue?
Con lentezza, respiro. Oltrepasso le statue di another place, riservo loro uno sguardo distratto e ci riconosco quel che sono stata, quel che sono ancora. Mi chino sull’acqua, calma piatta di un freddo che non fa più male. Ci immergo le mani, a coppa, mi beo della sua trasparenza: mi aiuta a leggere dentro di me senza che lo faccia qualcun altro al mio posto.
Ho dato alla mia vita un’altra possibilità, liberando tutti. Ho liberato persino te, lontana, dalle mie catene di dolore. Ho trovato l’unico modo per farti tornare alla vita… mi sono fatta letto di fiume e ti ho incanalato in me stessa – sei come acqua dal colore di giada, sei giada come acqua di fiume.
Mi sono liberata.
Sono diventata l’animale selvatico con cui mi ha chiamato il ragazzo che amo. Il mio cuore non è più in gabbia, non più circondato né dai ferri dell’amore né da quelli del dolore, ma avevo bisogno di sostare in entrambe le prigioni per riconoscere a pieno la preziosità di tutto quello che c’è.
Una foresta così fitta in cui devo correre e correre per trovare il posto in cui culminano i raggi del sole. Devo correre, Jade, e ho corso. Dovevo essere sola, per fare questo salto. Per capire che non sono né speciale né comune, eppure qualcosa di unico lo posseggo anch’io.
Io ho imparato a vivere.
Essendo codarda ho imparato ad essere coraggiosa.
Odiando ho imparato ad amare.
Ignorando ho capito che dovevo conoscere.
In questa foresta, adesso, fatta di mare e città, statue e persone, alberi e palazzi, vita che viene, vita che va avanti, potrei valcare le più alte montagne – senza dimenticare gli stivali da trekking, naturalmente – tenendo conto che potrei ancora cadere, ancora ferirmi, ancora pentirmi. Allora ecco il mio avvenire: notti bianche passate a disegnare gli abiti dei miei sogni, pomeriggi incredibili con la mia Pamela, domeniche agrodolci con i miei bizzarri genitori, viaggi e lavoro, lavoro e viaggi, sarò colma di desideri compiuti e mi colmerò di nuovi desideri e, dopo agognati riposi, avrò albe rosate con nuvole ubriache di memorie, palpebre che si chiuderanno lente e pioggia sottile delle mie lacrime al pensiero dei miei amori perduti. Immagino un universo in cui sarei stata preparata a tutto quello che mi è accaduto.
Eppure non esiste vita in cui si cada, ci si faccia male, ci si penta dei propri errori.
Perché laddove si cade e ci si ferisce e si sbaglia, si vive. È un altrove che è l’unico posto in cui posso ancora sperare.
Un altro posto.
Un’altra possibilità.
E ti amo così tanto che farò in modo, attraverso me, che tu abbia tutto questo.
Il tuo posto.
La tua possibilità.
Io ti darò
«Non ce la faccio da sola!» L’orologio segna un’ora qualunque, un giorno qualsiasi in cui la realtà mi scaraventa, ricordandomi che il tempo è passato anche se, quando lo scrivo, mi sembra che accada sempre, eternamente nell’eternità. Non mi costa nulla abbassare lo schermo del mio computer portatile e correre in salotto, una parte del cuore ferma nelle parole che ho da dedicarti, l’altra per lei, perché così ho avuto davvero modo di capire che l’amore non è una gabbia.
L’amore è il modo più puro di esercitare il nostro libero arbitrio.
«Che cosa non riesci a fare da sola?» le chiedo.
«Non la capisco,» si lamenta lei, passandosi una mano sui capelli castano rossicci e ondulati che aveva mio padre quando era un giovane studente di Giurisprudenza, prima che i problemi e gli anni gli facessero venire i capelli bianchi. Mi avvicino a lei, me la metto sulle gambe con una fatica che mi impegno a nascondere e mi perdo a guardare la marea di numeri sul suo quadernino.
«Proviamo insieme, d’accordo?»
Mi guarda di traverso e mi fa una linguaccia degna di sua madre.
«Mamma, ma non sei tu che mi aiuti a fare i compiti! Non sei capace.»
«Ehi, signorina…»
«Tu sei brava a giocare! Vieni a giocare?»
Mi dà un bacio sulla guancia, il suo nasino puntellato di lentiggini contro il mio, la pelle bianca di neve come un tempo l’hai avuta tu, amore e caldi inverni di sorrisi, guance impiastricciate di colori e impasti di torte ancora da infornare tra una sfilata e l’altra, sonni pesanti di notte quando sei stanca per pensare e non per amare.
«Hai già chiesto a papà se ti aiuta lui?»
È così che scappa via. Scivolandomi via tra le braccia come se fosse un giocattolo di pezza che credevo di riuscire sempre a tenere con me, ma che poi si è rivelato di vita propria.
Ogni cosa appartiene a se stessa, piccola peste di sei anni dalla vera coda di volpe, la sua intelligenza acuta, la sua abilità a salvarsi da sola anche se le ho insegnato a non esitare a chiedere aiuto quando ce n’è bisogno.
Anche chiedere aiuto è un atto di coraggio.
«Jade!» la richiamo.
Le ho dato il tuo nome, so che lei non è te e tu non sei lei. Ma è un’altra vita, un altro posto, un’altra possibilità e tu sei qui. Ogni volta che la nostra Jade apre gli occhi e mi corre incontro e mi racconta la sua giornata e mi impedisce di finire una frase quando scrivo e mi fa lasciare un modello nel bel mezzo della sua realizzazione per riempirmi di baci e chiedermi di giocare alle principesse e raccontarle le fiabe della buonanotte e farle tenere in braccio i gemellini.
Mi alzo dalla sedia.
Clarice e Tony hanno due anni di pazza gioia di vivere e scoperte da avventurosi condottieri, splendidi e diversissimi pur essendo venuti al mondo insieme. Quando sono nati ed erano rossi del contrasto della protezione del mio ventre contro l’aria del mondo, Jade si è chinata sulla loro culla ed ha allungato le sue mani, ha lasciato che entrambi le stringessero l’indice ed ha sorriso come una donna ed è sorto il sole a notte fonda e ogni cosa ha rivelato il suo senso.
Mentre sfioro la porta del salotto con l’orecchio chiudo gli occhi ed è la piccola Jade ad apparirmi, sfuggente e meravigliosa, castagne e blu di mare, acqua salata che proviene da un ricordo e da un posto, un altro posto.
E allora la prima nota che la mano di mia figlia suona al pianoforte invade la stanza e raggiunge il mio orecchio dalla porta socchiusa. Apro di nuovo gli occhi, spingo leggermente la porta, scorgo la luce nelle ombre che prendono vita, danno corpo e anima ad Another place, a te, a me.
Arthur c’è stato, c’è ancora.Ha guardato Jade, cinquanta centimetri e mano chiusa a pugno, addormentata sul mio petto. Ti ha cercata senza trovarti eppure nel suo sguardo c’era una quiete gentile. Gli si è svelata un’altra vita senza che lo volesse, senza che decidesse, ed io sono grata a questo destino, a questo cuore che sa fare decisioni più giuste, a volte, di quelle che faremmo noi con la mente.
Una parte di me non smetterà mai di amarlo, perenne come il relitto troppo pesante di una nave sul fondo. Ma quel fondo, le pietre, l’oceano intorno, tutto quello che resta ama Ewan Lynch.
L’aria, l’atmosfera, l’Universo conosciuto e sconosciuto spettano a me stessa. Il doppio, il triplo, il quadruplo di quell’Universo è per Jade, Clarice e Tony.Un’enorme galassia per la delizia che è Pamela, la sua famiglia, mia madre e mio padre…
«Che ci fa la mia giada preziosa in sala prove?» chiede una voce calda dall’angolo della stanza. Si è fatta più grave col tempo, a poco a poco, mentre da ragazzo diventava uomo con me.
Eppure quello che siamo non è cambiato, da quel giorno a Dublino.
Mi allontano da lui.
«Prima di andare devo chiederti una cosa,» mormora. La sua voce scende ruvida sulla mia pelle eppure è così dolce. Ed io non riesco a rispondergli. Non so come fare per non rompere quest’incantesimo in cui io e lui ci troviamo nello stesso posto.
Poggio una mano sul bordo della sedia nella sala d’aspetto dell’aereoporto, le gambe mi dolgono, mi tremano, anche il mio sguardo trema e c’è lui, a guardare verso il basso, a guardare me. Devi sbrigarti ad andare, gli vorrei dire. Non puoi restare.
Si gusta bene il mio silenzio terrorizzato.
«A cosa stai pensando?» Ewan sorride a metà. «Sai già di che si tratta.»
«Mhm?»
«Che lavoro fai?»
Sbatto le palebre alle prese con la mia perplessità. «Io… la stilista. Disegno vestiti.»
«Bene, è questo che ti chiedo.»
La perplessità non mi abbandona, eppure non ho la forza nemmeno di ribattere. «Ehm. Uh. Beh. Okay.» Un vero monologo da Oscar. «Un… vestito, d’accordo, un completo… Per quando deve essere pronto?»
«Non è questo il punto.» Ewan fa qualche passo verso di me e mi travolge la cecità della paura, del desiderio mentre guardo negli occhi la sua bellezza pungente, che mi ferirà sempre. «È per te.»
Ma una volpe non resta calma per sempre. «Smettila di prendermi in giro, ti stai divertendo solo tu.» Mi ritrovo a sospirare perché quel sorriso mi ha accecato e  graffiato, è una lama fredda nel cuore ed ha agito come l’ago che fa andare in circolo una medicina, mi ha guarito ed ha annullato ogni mia folle ragione. «E potresti perdere l’aereo, scemo!»
Ride con una meraviglia che mi fa tuonare tutti i battiti del cuore, mentre ogni parte del mio corpo pulsa con dolore di fronte all’amore della mia vita.
Si avvicina, ancora e ancora, fino a quando non mi sono sento il suo respiro sulla pelle. «Per quando deve essere pronto questo vestito?» mi scimmiotta, le sue dita sulla mia pelle ed il fuoco in me, due pietre che si scontrano con forza sovrumana e così nasce una fiamma rossa e bluastra. «Con te ho imparato ad essere paziente, perché quello che sento non ha scadenza,» dice, chiaro come il mattino. «Hai bisogno di te stessa, adesso. Non di me, non di Arthur, non di Pamela, non dei tuoi genitori, non di Jade… Di te.» Resto senza respiro e lui continua a parlare, instancabile. «Pensi che non riesco a capirlo? Io so come sei. Ed hai ancora addosso gli stracci sporchi di quello che eri. Ti vanno troppo stretti per quello che sei ora e se vai avanti così non riuscirai più a muoverti, anche se potrei prenderti in braccio e trasportarti. Ma sei una volpe, santo Iddio, e le volpi scappano e corrono e tu devi scappare e correre! Scappare e correre! Non importa se vai via da me… non importa che non tornerai più da me… ma se non te lo chiedo morirò prima del tempo: torna ad amarmi, se ancora mi vorrai, quando non sarai più stretta in te stessa, » gli trema la voce, un terremoto nell’anima. «Quando riuscirai a respirare senza nessuno a schiacciarti il cuore, quando ti sveglierai e starai bene con quello che sei perché io ti amo e scusami,» continua, vicino al mio orecchio. «Scusami per essere così ostinato nei miei sentimenti.»
Chiudo gli occhi travolta dai miei, di sentimenti.
Non piangere, stupida volpe e ossimoro vivente che non sei altro!
Mi sento contorcere il viso per trattenere le lacrime.
«Ti scuso.»
Ringrazio questa vita che toglie e dà tanto per togliere e dare ancora.
Rigrazio di essere libera, perché solo senza catene avrei potuto raggiungerlo.
Correndo.
Respirando a pieni polmoni.
Dove culminano i raggi del sole sono riuscita a trovare la mia strada.
Lo devo a te.
Lo devo alla forza che ho messo nel muovere il primo passo verso tutto questo.
Lo devo a me stessa.
Così è accaduto.
Mi lascio cullare dalla musica di Jade Lynch mentre Ewan, che le si siede accanto, le scosta i capelli dal volto.
Ho imparato a suonare bene la mia canzone.
 
And I will find my strength to untame my mouth
When I used to be afraid of the words
But with you I've learned just to let it out

Now my heart is ready to burst
Cause I, I feel like I'm ready for love
Yours – Ella Henderson
O velo
tu – della mia giovinezza,
mia veste chiara,
verità svanita –
o nodo
lucente – di tutta una vita
che fu sognata – forse –
oh, per averti sognata,
mia vita cara,
benedico i giorni che restano

La vita sognata –Antonia Pozzi
***
 
Non è Natalie a parlare, adesso, ma sono io, Arianna, Ania, Aniasolary, qualunque nome tu preferisca per pensare a me, alla diciottenne che ha scritto la prima parola di questa storia e alla stessa ragazza che ne ha scritta anche l’ultima, ora diciannovenne. In quanto me stessa, lettore o lettrice che tu sia, io ti ringrazio per aver letto questa storia, perché le hai dato una possibilità ed hai dato una possibilità a me, hai dato una possibilità alla mia Natalie, alla sua vita e a tutte le persone che ne hanno fatto e ne fanno parte.
Avevo bisogno di raccontarti questa storia.
Avevo bisogno di scriverla con tutto quello di cui sono fatta.
Avevo bisogno di te perché tu, leggendo, dessi magia alle mie parole per farle vivere davvero.
Allora grazie per avermi regalato così tanto.
 
 
Stefania: sei per me quello che Pamela è per Natalie e quel che Natalie è per Pamela. Grazie per ascoltare sempre le mie parole, grazie per farlo da sette anni a questa parte, grazie per essere qualcuno in cui posso riflettermi ritrovando sempre e solo te, che sei la mia migliore amica. Grazie infinite *.* ti voglio tanto bene.
Mary: sei una delle cose più belle che questa storia mi ha portato, piccola donna e sorellina a distanza. Sei l’espressione dell’energia, dell’arte, della vita. Un vero regalo a me e a Nat. Sei davvero una ragazza fantastica, inimitabile, incredibile. Un angelo dall’aspetto da gitana <3 ti voglio bene.
Cherry: la nostra pazza scelta universitaria ci ha fatto incontrare ed io sono veramente contenta di poter condividere con te, fan dei Paramore, snowina e Lannister, qualcosa che io amo così tanto. Mi fido di te e sei tanto importante. Grazie *-*, sei davvero speciale.
Virginia: la mia mogliA, che è con me dai tempi della mia prima fan fiction, Destiny Heart. Che cosa posso dire? Sei una presenza costante, che mi rassicura, che mi scalda il cuore. Un giorno verrò nella tua Siena e potrò abbracciarti… sei stupenda e ti ringrazio per tutto <3
Delilah Boston: sono onorata di avere l’amicizia di questa meravigliosa ragazza. Condividere con te questa storia è stato bellissimo, il tuo sostegno è fondamentale e mi fai sempre sentire capita. La tua segnalazione alle storie scelte mi fa commuovere di gioia. Mi hai emozionato e dato il tuo affetto, anche se da lontano, e questo è tantissimo per me. Grazie di cuore. <3
Hanna Lewis: sei davvero talentuosa e il tuo apprezzamento per me vale davvero tanto, sei sempre dolcissima  e il tuo entusiasmo è impareggiabile. Sei una fantastica persona e sono davvero felice di averti incontrata, grazie davvero… per tutto quanto <3
Mitsy: la volpe non sarebbe la volpe se non l’avessi letta tu, che l’hai arricchita di riferimenti di certo poco ortodossi, ma caspita quanto mi sono divertita! Ed è stato bello chiacchierare in chat di tante cose, essere letta da te è stato bello.Ti ammiro tanto… grazie <3
Patrice Walsh: sei adorabile, buon sangue non mente. Mi hai scritto recensioni bellissime e mi hai fatto tanto sorridere, ti sono grata per tutto :3
Federica I: tu che hai creduto in Arthur ancora prima che chiunque altro cominciasse a farlo… hai un merito meraviglioso, di aver visto in lui tanto di quello che c’era da vedere. Sei una ragazza fantastica, grazie <3
Federica Von sexron: sei una ragazza davvero deliziosa e sono davvero contenta della tua presenza. Grazie :3
Controcorrente: mi hai letto dall’inizio e dall’inizio mi hai lasciato i tuoi sinceri e apprezzatissimi pareri. Le tue parole mi hanno sempre sostenuto, reso felice, fatto gongolare di soddisfazione. Sei una lettrice davvero speciale, grazie <3
Astrid: mi hai lasciato delle recensioni uniche. È stato bellissimo, per me, vedere te stessa in qualcosa che ho scritto io… è stato magico. Grazie per avermi regalato un po’ di te, leggendomi. Ti sono davvero grata.
Dreamwritten: quello che mi hai scritto mi ha fatto nascere un sorriso nel cuore che è durato per giorni, e c’è ancora adesso insieme agli occhi lucidi per l’emozione. Hai capito Natalie, hai capito tutto e tutti. Hai capito me, semplicemente, nonostante il velo di una storia a nascondermi. Ti ringrazio davvero tantissimo <3
Nat: sei davvero una ragazza adorabile e questo prescinde dal fatto che hai lo stesso nome della protagonista. Eppure tu me la ricordi tantissimo. Ogni cosa che di positivo lei ha, l’ho visto anche in te, ed io ti ringrazio tantissimo per il sostegno che mi hai dato <3
Lucius: carissimo imperatore, sono orata perché 1) la mia storia è stata letta da un imperatore e 2) sei il primo ragazzo che si è apprestato a leggere la mia storia e 3) ti sta anche piacendo molto e il fatto che tu sia un ragazzo e che tu abbia una visione molto oggettiva delle cose rende le tue parole bellissime un mezzo per farmi provare una gioia davvero intensa. Sei un ragazzo davvero in gamba, grazie di cuore.
Bonjovi93: quello che mi hai scritto mi ha emozionato molto, perché hai visto questa storia esattamente per quello che è, perché hai riconosciuto in Natalie tutti i suoi meriti e le sue paure, perché il dolore ci costringe a crescere ma da quella crescita si può imparare tanto della vita. Perché leggendo questa storia hai visto un  pezzo della mia anima. Ti ringrazio tantissimo **
Giovanna: sono veramente grata al fatto che tu mi abbia trovata, che la volpe ti abbia trovata, perché con le tue parole mi hai regalato dei momenti di felicità che mi resteranno sempre, insieme alle nostre piacevolissime chiacchierate. Grazie per avermi guardato nel cuore.
Catherine Gray: carissima collega <3 grazie mille per aver letto questa storia e di essere andata contro il tempo per lasciarmi le tue parole, non immagini quanto le tue recensioni e la tua lettura mi faccia piacere **
Pollon: sei una ragazza simpaticissima e brillante, che tante volte mi ha regalato dei sorrisi. Mi hai regalato dei sorrisi anche con le tue fantastiche  recensioni ed io sono felicissima che la storia della mia Nat ti abbia presto tanto, mi hai regalato tanta gioia.
Rose6: le tue parole mi hanno riscaldato il cuore, il fatto che tu abbia capito Nat così bene, che tu abbia amato il suo amore con Ewan, che tu ti sia rivista nella protagonista, tutto questo mi ha reso veramente tanto felice e ti ringrazio infinitamente per questo <3
Arianna D: sei una ragazza davvero speciale, forte, ed io sono così felice che tu mi abbia letto, sono davvero grata di aver avuto il tuo prezioso sostegno nonostante il tempo che è sempre poco. Grazie, davvero *-*
Rivka: la prima cosa che mi hai scritto è stata “adoro questa storia come il cioccolato”… sei stata la prima a recensire, la prima a dirmi qualcosa di bello che mi ha fatto commuovere per la gioia e la sorpresa. Grazie per aver sognato insieme alla mia Nat.
Maria Blackie: grazie per esserci stata, perché sapevo che c’eri ancora prima che tu me lo dicessi. Grazie perché sei una ragazza fantastica, mi regali il tuo tempo, mi regali le tue emozioni, il tuo sostegno… sei speciale e grazie per tutto quanto, per esserci dall’inizio.
Mariangela C: quello che mi hai scritto su watt pad è semplicemente meraviglioso ed emozionante, non ho potuto fare a meno di leggere le tue parole con le lacrime agli occhi. Ti auguro il meglio per tutto e grazie infinite <3 
Domenica C: sono davvero contenta che Mariangela ti abbia portato a leggere questa storia. Una delle cose più belle della lettura è condividere delle emozioni con gli altri, questo ci unisce ancora di più. Ti ringrazio di cuore per avermi dato questa possibilità :3
Free_dreams: il tuo urlo di dolore alla fine del capitolo ventisette mi ha fatto ridere sotto i miei baffi inesistenti e con le lacrime agli occhi… a te il merito di avermi fatto sentire un’autrice molto cattiva! Ma spero di essermi fatta perdonare… grazie.
Shiner: sono davvero felice che tu abbia scoperto questa storia, che ti ha portato a me, che ti ha portato alla mia Nat. Il fatto che questa storia ti abbia coinvolto tanto mi riempie il cuore di gioia, le parole che mi hai scritto sono semplicemente favolose. Ti sono veramente grata.
Angelmary90: hai letto la storia in pochissimo tempo e questo mi ha fatto tantissimo piacere, ancor di più il fatto che ti sei rivista in Nat, nelle sue gioie e nei suoi dolori. Questo per me è importantissimo e bellissimo… mi hai fatto tanto felice e te ne sono grata <3
Fox: mia carissima conterranea, grazie per esserci, per arrivare, per sostenermi.
___gaimaninthetardis: le tue recensioni mi hanno fatto camminare tre metri da terra per quanto mi hanno fatto piacere i tuoi complimenti. Grazie di cuore, davvero, e spero che anche arrivata alla fine la storia ti piaccia :3
Vieniellum: i tuoi commenti sono stati esilaranti e commuoventi, mi resteranno sempre nel cuore come ci resterai anche tu. Grazie infinite <3
Arianne Carstairs: sei una delle prime persone che ho conosciuto in questo pazzo mondo e sono grata che tu ci sia ancora… sono grata per la tua amicizia <3
Claudio: sei un ragazzo davvero simpatico e in quanto ragazzo la tua opinione positiva mi ha fatto veramente tantissimo piacere! Sono contenta di averti conosciuto in quel gruppo ed è sempre bello parlare con te :D
Aven90: un altro ragazzo! Una specie rara! Un panda! <3 grazie mille anche a te per aver dato una possibilità a questa storia :D
Elyforgotten: sei una personacina adorabile, te lo dice una Lannister d’aspetto con Stark e Martell nel cuore. Sono davvero felice che tu mi abbia letta.
Miriam: quello che mi scrivi in chat mi ha tante volte fatto toccare il cielo con un ditto per la gioia infinita, per i tuoi complimenti, per le tue emozioni, per il tempo che mi regali. Sei una ragazza fantastica ed io sono onorata dal fatto che tu mi legga <3
Jakefan: ti devo tanto, ti voglio bene, ti penso tante volte anche se il tempo è nemico. Ringrazio me stessa per aver letto la tua Rising Sun, ti ringrazio per essere mia amica, ti ringrazio per quel che è stato e per quel che è oggi. Ti ringrazio perché mentre divento a poco a poco più grande tu ci sei ed io sono con te. Ti ringrazio per condividere con me l’amore per l’immaginazione, ti voglio bene <3 <3 <3 
Noemi: sai che avevo bisogno del tuo parere per questo tentativo miseramente fallito di commedia romantica, ma il fatto che tu mi abbia dato l’okay per me significa tantissimo… grazie per il fangirling libresco, telefilmico e tutto ciò che ne comporta, ti voglio bene <3
Theskyismylimit: ti ringrazio tanto per aver dato una possibilità alla mia storia, anche se all’inizio non ti conviceva… poi la verità si è svelata e la tua opinione positiva mi ha fatto tanto piacere :3
Carmen B: ti ringrazio tantissimo per aver dato un occhio a questa mia storia nonostante il poco tempo e il tanto lavoro da fare, chi insegue i propri sogni ha trovato la via della felicità… penso a te e credo che tutto questo valga la pena. Grazie mille (di cuore!) <3
Livingmydaydream: hai letto questa storia in pochissimo tempo e questo mi ha lusingato tantissimo, davvero. Ti ringrazio tantissimo per aver sognato insieme a me <3
Ma un grazie enorme e sentito anche a Leen, Ornella, BrokeRay, Sofja, Valentina I, Addison, Claudia Fulmineo, Viola Cat, Veronika Carstairs, Beatrice, LeTempimmoble, hicetnunc95, Aeltanin, Ladymoonlight, Perfect Stranger, Shinkari, Myntha, Watchmeburn anche per una, un paio di recensioni, per qualche mi piace e chiacchierata su facebook :3
 
 
Lo so che hai cercato il tuo nome per non leggerlo tutto! E non ti biasimo per questo, ho scritto un papiro XD e ne sono sorpresa, perché mi rendo conto che siete proprio tanti.
E qui ringrazio te, lettore silenzioso, lettore che mi hai votato su wattpad o hai semplicemente letto. Sei importante per me, perché come gli altri hai fatto vivere quest’incantesimo.
Per questo grazie alle 108 persone che hanno seguito questa storia, ai 51 che hanno preferito, ai 17 che hanno ricordato… per le 4800 visite e i 211 voti su wattpad, per me sono davvero dei numeri esorbitanti.
 
Non avevo grandi pretese con questa storia, non ne ho nemmeno ora. Volevo  fuggire per un po’ dal mondo e da me stessa, eppure scrivendo ho ritrovato lo stesso mondo e tanto di quello che sono. Ho scoperto che la scrittura è un vicolo cieco travestito da strada principale, quando la imbocco mi intrappola sempre tra mura fatte di specchi in cui mi ritrovo a riflettermi. Non so se questa è la mia strada ma amo tanto percorrerla e, se alla fine di ogni vicolo cieco ci siete voi, non potrei essere più felice. Voi siete meravigliosi, speciali e importanti.
Se questa storia vi mancherà, tempo un mese e pubblicherò, subito dopo l’epilogo, dei missing moments, ovvero dei capitoli extra sul passato, sul presente, anche sul futuro, che verranno narrati da personaggi quali Arthur Benkinson, Ewan Lynch, Pamela Jefferson, la mamma di Nat e l’ispirazione mi dirà chi altro :3
Ed è in cantiere, non so se per vostra fortuna o sfortuna, un’altra storia intorno ai sette capitoli, con Arthur Benkinson come protagonista, ambientata un po’ di tempo dopo l’ultimo dialogo tra lui e la nostra volpe.
Grazie. Grazie. Grazie. Per le lacrime e i sorrisi e le risa e i sogni e i dolori e le gioie e i ricordi e qualunque emozione vi abbia travolti e mi abbia travolta.
G R A Z I E.
Aniasolary <3 ©
 
P.s Se vi farà piacere parlare con me – e contateci che a me farebbe tantissimo piacere – potete trovarmi su facebook cercando Aniasolary Finch.
Questo è il gruppo dedicato alla storia. Per qualunque cosa ci sono i messaggi privati, che potete mandarmi cliccando sull’icona a forma di lettera in alto a sinistra nel mio profilo autore qui su efp e lo stesso vale anche per wattpad :3

  Potete trovare online il prequel de La volpe di Liverpool, il passato di Arthur ed il preludio a quella che sarà la sua storia in questo presente, che prenderà il nome de La Fenice di Rio.
 

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Capitolo 29
*** Another people in another places #1 ***


Another people in another places
 
#UNO.
Arthur Philip Benkinson
Just a castaway
An island lost at sea
Another lonely day
With no one here but me
More loneliness
Than any man could bear
Rescue me before I fall into despair
Message in a bottle - Police


 
Guardo il foglio giusto il tempo di un pensiero, sette, otto, nove secondi. Nella mente la soluzione si svela semplicemente, in fasi veloci che devo solo spiegare. Dieci secondi.
«Perfetto.» Faccio un piccolo colpo di tosse. «Si esplicita, in quest’equazione, una delle variabili o in generale, una stessa quantità, ottenendo così di poter eguagliare i secondi membri che risulteranno indipendenti dalla variabile esplicitata per la proprietà transitiva dell'uguaglianza, l’abbiamo studiata la settimana scorsa, no? L'equazione così composta la potrai riscrivere al posto di una delle due precedenti, ottenendo un sistema equivalente. Facile.» Comincio a tracciare le varie fasi con la matita. «Hai capito, Nat?» Sollevo il volto a guardarla.
Natalie, quindici anni compiuti da poco, i capelli sollevati per comodità ma con qualche ciocca castana a sfiorarle lo zigomo, mi guarda con la mano posata sotto il mento, gli occhi allungati verso l’esterno, le ciglia scure che sembrano quasi perdersi – come a volte mi perdo anch’io – nel marrone profondo dei suoi occhi.
«Mhm?» Muove di poco le labbra, sottili ma a forma di cuore, lucide alla luce del lampadario.
«Natalie… ti ho chiesto se ti è chiaro.»
Sbatte le palpebre, come interdetta. «Oh… oh, certo,» fa lei.
«Allora vuoi provare tu a risolvere il sistema?»
A Natalie cade la penna di mano, come se avesse le dita di cioccolato; mentre la plastica tintinna sul legno lei si mette più composta sulla sedia. «Eh… ehm, ecco, magari se lo fai prima tu ed io guardo come fai, capisco meglio.»
Storco la bocca nell’incertezza e mi carezzo il mento. Stamattina ho dimenticato di farmi la barba, devo sembrarle davvero uno scappato di casa, attraente al massimo per un cieco. E sono un idiota, perché il parere di Natalie è l’unico che conti davvero per me e mi chiedo, chissà a cosa pensa quando le sono accanto, chissà come mi ricorda quando io non ci sono, chissà se ha davvero bisogno di me come io ho bisogno di lei. In altre circostanze le cose succedono senza che io muova un dito, senza che io l’abbia chiesto: è come star seduto a una tavola imbandita in cui una portata è più buona dell’altra ed io sono sazio, mangio ma senza gustarmi nulla, ho nausea di tutto questo cibo. Quando chiedo dell’acqua, la mia eco si diffonde per lo spazio senza che io riceva risposta. Sono circondato dal deserto: tutto quello che mi fa resistere e alzarmi da tavola e camminare  – e correre, correre a perdifiato – non è altro che il miraggio di una sorgente.
Ed io morirò di sete.
 «Ne sei sicura?» le chiedo.
«Certo che sono sicura.»
Natalie mette entrambe le mani sotto il mento, con i gomiti sul tavolo, e si solleva leggermente per avvicinare il viso al foglio; sta sorridendo come mai ha sorriso di fronte a un elenco di esercizi.
Sta sorridendo e per un attimo mi sembra di non essere più assetato.
Il ciuffo dei suoi capelli mi sfiora la fronte mentre io chino la testa per mettermi a lavoro, eppure l’immagine di lei mi resta impressa più di qualunque ragionamento logico.
Sta diventando grande ed io voglio fermare il tempo – è un uomo? Un animale? Un concetto fisico? Un tempo era Jade… Jade era tutto il Tempo che avevo – qualunque cosa sia voglio tagliargli la strada e dirgli “fermati! Ti prego, fermati! Non farla crescere… non farla crescere… succhiami via l’anima ma non farla crescere.”
Vorrei che tutto nella sua vita sia già risolto. Avere i fogli con tutti i problemi che incontrerà e darle già la soluzione.
«Ho chiesto a mamma di cucinare l’arrosto, stasera,» mormora lei, con una voce da bambina. «Sono stanca della cucina francese! Con quei piatti piccolissimi… io la sera ho fame, porca puzzola.»
Mi metto a ridere, scuoto la testa, potrei ascoltarla e guardarla per ore senza mai avvertire stanchezza.
«Ho chiesto anche di preparare la crostata alle fragole. Perché ti piace,» aggiunge.
«Non posso restare a cena stasera. Scusami, Natie,» dico, con sforzo.
Sospiro affranto.
«Hai un appuntamento? » mi chiede, con una risata acutissima, e gira la testa.
Non riesco più a vederle il volto. «Sì, ho un appuntamento,» dico tutto d’un fiato.
«Ah.» Natalie mi guarda negli occhi e mi sento indagare, da quello sguardo e da lei, nel modo più puro che esiste; eppure dentro ci colgo un disagio, un senso di malore, di sbagliato, che non riesco a risolvere. «È una bella cosa.»
Un’equazione impossibile.
«Sì,» le dico. «Magari te la presento.»
«Ed è molto carina?» mi chiede, sbattendo le ciglia, un sorriso in volto, gli occhi ora lucidi forse per il riso. «Come quelle modelle di intimo con le tette grosse che si vedono sui cartelloni? Com’è che si chiamano… gli angeli di Victoria’s Secret… anche detti assassini dell’autostima di povere adolescenti tra cui Natalie Truman…»
Rido ancora, a volte sa essere così sfacciata che non so proprio come risponderle. «Tu sei bellissima. E se è per questo, non l’ho vista in reggiseno.»
«Ma lo farai, no? Vi toglierete tutti i vestiti.»
Questo riesce a farmi smettere di ridere quasi all’istante, finisco a fare un po’ di tosse per salvarmi dal silenzio. Perché il silenzio sembra quasi l’unica alternativa, adesso.
Qualche anno fa ero indeciso se regalarle barbie magia delle feste o le monster high, adesso accenna al sesso.
«Non dovremmo parlarne,» le dico, e spero che non capisca quanto mi imbarazza glissare su un argomento che non sarebbe dovuto venire fuori.
«Perché non dovremmo parlarne?» insiste.
«Perché sono qui per aiutarti a studiare.»
«Ma non sono una bambina e so come vanno le cose.» Distoglie il suo sguardo dal mio, ha le guance arrossate. «Tanto nessuno riesce a rendersene conto,» continua, si passa una ciocca di capelli dietro le orecchie. «Okay, sei qui per aiutarmi a studiare, allora continuiamo a studiare…»
«Non sono qui solo per aiutarti a studiare,» sbotto. Vorrei tanto scuoterla per le spalle e dirle che mi ha in pugno, anche se non lo sa. Non so come può, così piccola, avere controllo, potere, così tanta influenza su di me. «Sono qui perché ti voglio bene. Ti seguirei fino all’inferno se dovessi trovarti solo lì.»
Natalie torna a guardarmi, una crepa mi si apre nel cuore. Sta diventando così bella.
«Se continuo per questa strada dovrai venirmi a prendere davvero dall’inferno,» mormora.
«E perché? »
«Se vengo rimandata in Matematica mamma mi uccide.»
La tiro verso di me, una mia mano sulla sua spalla ed ora l’altra sua spalla contro il mio petto, il suo maglioncino contro la mia camicia. Il calore della pelle. «Se lo vuole fare, io faccio da scudo umano.»
«Okay,» dice con una voce sottile sottile.
«Ehi, ti ho stretto troppo?» Sciolgo l’abbraccio, piano, finisco per accarezzarle i capelli e non mi resta altro che aria. «Scusami,» le dico con un sorriso.
«Sto bene.»
La guardo, senza la minima intenzione di dedicarmi ad altro per il resto di questo lungo minuto. «E questo è l’importante.»
Che Natalie stia bene.
***
Il mio gruppo d’uscita è di venti persone ma io parlo a mala pena con la metà di loro. Ora c’è anche un’altra ragazza – e spero che resti, spero di farcela, spero di riempire lo spazio bianco che mi ha lasciato la vita con qualcosa che di dolore ha solo il non essere: la sua assenza.
Mentre cammino tenendole la mano mi torna alla mente il pensiero di come Liverpool possa essere una città gioiosa, nonostante i vari disastri che hanno preso me e prendono tanti altri ogni giorno. È logico: lo sfondo fa sempre la sua parte nelle tragedie, tutto perché il ricordo resti vivo, immortale come solo il passato può essere.
«Eh già, dovrò proprio rassegnarmi all’idea di avere un ragazzo pensieroso.» Volto la testa verso di lei, che fa un’alzata di spalle e mi riserva un sorriso tirato. Mi piace guardarla. Non mi fa pensare a niente.
«Scusami, mi hai chiesto qualcosa?»
«Non ti ho chiesto niente, ti stavo solo guardando,» ammette.
Focalizzati. Guardala meglio. Provaci. Ha una fossetta alla guancia destra, si vede sempre; imparerò a ricordarmene. Quando mia madre mi chiederà com’è questa ragazza me ne ricorderò.
«Sei bellissima,» le dico. Lei arrossisce.
«Indovina chi suona stasera al pub?» mi chiede.
«Chi?»
«La cover band dei Police!» mi rivela, elettrizzata. «La tua band preferita, giusto?»
Per un attimo mi sento un ragazzo normale con una ragazza normale, a entusiasmarsi per nient’altro che musica. «Veramente?»
«Non ci sarà il vero Sting ma ehi, non ho la bacchetta magica!» Ride. Una risata normale.
Che dimentico appena smette.
«Come lo sai che mi piace? »
«Me l’hai detto prima di baciarmi, al venerdì universitario… ti ricordi?»
Oh, no, non mi ricordo. Avevo bevuto, non ricordo nemmeno come ti ho baciato, perché ti ho baciato, che cosa hai fatto perché io ti baciassi.
Non capisco, povera estranea innocente, vittima di quello che non mostro, non capisco come puoi darmi così tanta corda nella farsa che è diventata la mia vita.
«Oh, ma certo,» mento, e mi odio così tanto, non so davvero come faccio ad alzarmi al mattino e a convivere con quel bastardo che mi fissa nello specchio ogni giorno.
Nient’altro che me stesso.
La cingo con un braccio, sorrido mentre guardo altrove e la mia visuale abbraccia anche il mio migliore amico.
«Arthur.» Cenno della testa. I vivaci occhi a mandorla, i capelli neri sparati in un ciuffo ingombrante, la pelle marroncina, il sorriso bianchissimo.
Lui c’è.
Grazie a un Dio in cui non credo, c’è.
«Bradley.» Lo saluto allo stesso modo. Entriamo tutti insieme e ci sediamo al bancone, ordino una Henekein, lei beve alla mia destra, un mio compagno di corso alla mia sinistra, Bradley se ne sta in piedi rincorrendo un ragazzo con un cappello pieno di piume, la cover band suona message in a bottle mentre scoppiano luci psichedeliche, la chitarra e la batteria ad accompagnare le parole.
“Ancora più solitudine che qualunque uomo sia in grado di sopportare.
Salvatemi prima che io crolli nella disperazione.”
«Sono bravi, vero?» esclama lei.
“Invierò un SOS al mondo.”
Annuisco, la guardo, cerco in ogni modo di non essere ingrato.
«Sì, sono dei grandi!» fingo entusiasmo.
Mentre la musica suona e si fa più alta e lei scende in pista e mi lascia qui da solo, la gente che ci circonda ride come ratti, il barista versa drink che ci lasciano assuefatti e le luci paiono oscurarsi: le vite degli altri vanno a rallentatore – non esiste, nell’esistenza umana, il tasto rewind – e tutti sembrano marionette a fili, chi le comanda si è stancato le braccia e va a inerzia, tanto l’anima è il peso minimo che serve a farci rotolare nel mondo, senza sosta.
All’infinito.
Chi è che comanda me?
Non può essere Dio.
Dio non può esistere se permette tutto questo.
Jade?
Cancellala.
Jade?
Ignorala.
Non posso, io non posso…
Jade?
«Arthur.»
No, non è possibile.
«Per favore, guardami.»
No.
«Sei solo frutto della mia immaginazione.»
Mi carezza il viso e le sue mani sono fatte di sole, bruceranno il ghiaccio che ho dentro anche se solo per un istante. «È vero: mi stai immaginando. Non farai quello che ti hanno chiesto gli adulti, tu non mi dimenticherai.»
Perché Jade è qui, ha ancora solo diciassette anni, le sue mani da musicista a sfiorarmi il volto, gli occhi azzurro chiaro – cielo terso –, i capelli castani che le scendono morbidi e sottili – li carezzavo tra due dita, profumavano – profumano? – sempre di margherite –  sulle spalle bianche da statua greca.
«Jadie…»
La sua voce si accartoccia sulla mia pelle. «Tu mi ricordi, Arthur
«Certo che ti ricordo.» Trattengo un singulto in gola, sembra reale. «Non riesco a smettere di amarti.»
«Nel passato mi amerai sempre. Io, da dove sono, ti amerò per sempre. Ma non puoi vivere nel passato.»
La mia voce si spezza in mille frammenti di desideri che mi sono caduti per strada ma che io ho raccolto ostinato, come giocattoli rotti che un tempo amavo. Che mi ricordano chi sono stato.
«Tu eri il mio futuro,» mormoro.
«Avrai un altro futuro. Stai costruendo il tuo presente, riesci a trovare il tempo per Natalie, le dai quello che solo io avrei potuto darle… Non avrei potuto fare niente di meno se non amarti, Arthur Benkinson.» Avvicina le sua labbra alle mie.
La mano di Bradley fa svanire la sua immagine, un secchio d’acqua scaraventato su un quadro dai colori ancora freschi che ora si mischiano un’altra volta, formano la realtà.
«Amico, stai bene?» mi chiede.
Annuisco, incontro i suoi occhi profondi di tristezza, come pozzi.
Distolgo lo sguardo dal suo e faccio quello che mi aiuta a sopravvivere: fingo.
«Certo che sto bene.»
***
Bradley mi ha trascinato fuori tra musica e risate, brindisi e canti.
Abbiamo fumato insieme la nostra prima sigaretta, a quattordici anni, e continuiamo imperterriti in questo rito anche se non lo facciamo più per sentirci grandi. Io vorrei solo tornare a quel tempo in cui grande non ero, ed avevo l’ardire di pensarmi come una persona migliore in un futuro che è diventato oggi.
Prendo una sigaretta dal pacchetto.
«Che cazzo stai facendo, Arthur?» sbotta, attirando il mio sguardo su di sé. La maglietta leggermente strappata sulle spalle, gli occhi tirati e pieni di risentimento; le braccia dai muscoli tesi, aperte ad accogliere il nulla. «Non la vuoi, quella ragazza, vero? È una presenza anonima, il tuo ennesimo bastone da passeggio per sopportare meglio il peso del mondo.»
Resto un attimo fermo,un blocco nella mente e nel corpo. Perché sì, sant’Iddio, sto cercando di convincere tutti gli altri e me stesso per primo che le cose possono andare meglio. Potranno. Dovranno.
«Bradley...»
«A chi vuoi far credere che vada tutto bene? A tua madre e a tuo padre? Alla famiglia Truman? A Natalie? A me? Con me non funziona
Bradley inclina la testa, appoggia entrambe le mani sull’auto parcheggiata davanti a lui e sospira. «Arthur, ammettere di stare male è una cosa giusta. Posso aiutarti.»
«Non puoi aiutarmi.»
Scoppia a ridere, senza gioia, con preoccupazione. «Sei un campione,» sbuffa, come di fronte a un vaso rotto, è scivolato, si è rotto, non si può fare più nulla. «Delle olimpiadi di matematica. Del golf. E dell’infelicità.»
Mi cade la sigaretta nella pozzanghera davanti ai miei piedi.«Merda!» Do un calcio disperato al nulla. «Non puoi capire quello che provo, non puoi capire, non puoi aiutarmi!» mi viene fuori, insieme a tutta l’esasperazione e il disagio che ho trattenuto dall’inizio. «Non ho tempo per curarmi il dolore! La vita non ti aspetta per farti andare in terapia! Prego, signor Benkinson, si prenda il suo tempo per non soffrire e torni quando sta meglio.» La gola si secca, carta vetrata sulle corde vocali, un nodo stretto alla lingua. «Non smetterò mai di soffrire. Non starò mai meglio. Quello che è successo…»
Cancellala, Arthur.
Deglutisco.
Ignora che sia mai esistita.
«Non l’hai mai superato,» mi interrompe, fermo nelle sue parole come io sono solo nel silenzio. «Ecco perché… ecco perché non sei crollato: non l’hai ancora fatto. Andava sempre tutto bene… Andava troppo bene... Non è mai andato tutto bene.»
«Lo so.»
«E allora perché non ne parli?» continua.
«Se ne parlo ci penso, se non ci penso è come… è come se non fosse mai successo.»
«Vuoi dimenticarti di lei? Della tua Jade?»
«No!» esplodo. Jade. Jadie. La mia Jadie… «No! Mai…»
 «Allora stai solo prendendo in giro te stesso,» sentenzia, e sembra di sentire il rumore di una lapide fissata nella terra, come quel giorno, quel pomeriggio gelido anche se era estate, al tramonto del sole. «Voglio solo che tu stia bene, Arth.»
Mi passo una mano tra i capelli, faccio un respiro profondo, ingoio il rospo amaro della ragione.
Ma devo restare nel torto.
«Se ne parli, non sto bene,» insisto. «Se continui a torturarmi, non sto bene.»
«Perfetto allora. Torna dalla ragazza di cui dimenticherai presto il nome. Ma poi non venirmi a dire che io non ci ho provato.»
«Provato a far cosa?»
«A farti capire che stai vivendo nel modo sbagliato. Sei cambiato,» dice piano. «E torni te stesso solo quando ti prendi cura di una ragazzina. Se non ci fosse Natalie, ti avrei perso anni fa.»
Prendo un’altra sigaretta, l’accendo e comincio a fumare, impaziente, frenetico. Chiudo gli occhi. Tutto gira come su una giostra assassina di stomaci. Pensieri. Ricordi. «Mi dispiace.»
«È la prima cosa vera che dici in tutta la serata,» mi dice lui. «Ti conosco da quando avevamo sei anni. Prendesti un brutto voto in Inglese e all’uscita da scuola tuo padre ti parlò, ed io ascoltai, ti disse che chiunque valga veramente qualcosa non smette mai di provarci. L’ha insegnato a te, a quel suo modo strano, e l’ho imparato anch’io.» I suoi occhi sono lucidi. «Non starò a guardare il mio migliore amico che vive da morto. Non so quanto tempo ci vorrà, ma stai sicuro che un giorno vedrai quello che vedo anch’io.»
Faccio un’altra boccata, il fumo copre l’immagine di Bradley. «E che cosa vedi?»
Scrolla le spalle, una luce verde dietro le sue spalle, Liverpool città di mare, nave ferma che aspetta di partire. Deglutisco ed aspetto la sua risposta.
Arriva così, in un sussurro deciso. «Un mare di nuove possibilità.»
 
Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi. C'è sfuggito allora, ma non importa: domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia... e una bella mattina...
Così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato.

 
Il grande Gatsby – Francis Scott Fitzgerald 
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Another people in another places, altre persone in altri posti: nessun altro titolo mi sembrava all'altezza di questo per una racconta di missing moment su questa storia, spero che vi piaccia :3
Con questo capitolo extra semplicissimo su Arthur Benkinson vi voglio augurare una buona Pasqua con tanto cioccolato e tanta serenità <3 Non so quando pubblicherò i prossimi capitoli extra, ma è sicuro che la prossima volta che sentirete la voce di Arthur sarà in un altro posto, ovvero in una storia tutta sua. Ci vorranno almeno un paio di mesi per pensare alla pubblicazione e spero che ci sarete <3
Grazie di cuore a tutti voi e colgo l'occasione per ringraziarvi per le recensioni splendide che mi avete lasciato all'epilogo - a poco a poco rispondo a tutti :)
Un grande bacio,
Ania <3
 
 
Potete trovare online il prequel de La volpe di Liverpool, il passato di Arthur ed il preludio a quella che sarà la sua storia in questo presente, che prenderà il nome de La Fenice di Rio.
 

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