Belle & The Beast

di Aretusa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Assoluzione ***
Capitolo 2: *** Questione di scelte ***
Capitolo 3: *** Colpa e desiderio ***
Capitolo 4: *** Il fascino del Diavolo ***
Capitolo 5: *** Il potere della mente ***
Capitolo 6: *** Verità Crudele ***
Capitolo 7: *** Nel cuore del demone ***
Capitolo 8: *** Il grido della bestia ***



Capitolo 1
*** Assoluzione ***


Tratto da City of Glass

 
Simon parlò senza pensare. — Lui e Isabelle... C'è qualcosa tra di loro? Questo fece ridere Alec. — Isabelle e Sebastian? Difficile. Sebastian è un bravo ragazzo. A Isabelle piace uscire solo con ragazzi assolutamente inadeguati, che i nostri genitori non potrebbero mai sopportare: mondani, Nascosti, piccoli truffatori...

***
 
 
La notte negli occhi e il fuoco dentro al cuore. L’orgoglio e la risolutezza che solo pochi Shadowhunters possedevano davvero. Uomini, per di più.
Isabelle.
Era bella. Oh, se lo era. I capelli lisci e lunghi le accarezzavano la schiena come un mantello di raso del colore della notte più nera. Il suo corpo era flessuoso, attraente,la pelle bianca e immacolata celata sotto lo strato pesante della divisa da cacciatrice che lasciava esposta la zona vulnerabile del collo e le morbide rotondità dei seni punteggiate da dolci sfregi di luna. Cicatrici di battaglie passate che invece di deturparla la rendevano ancora più bella.
Bella e, ne era sicuro, altrettanto letale.
Una vita di cicatrici e morte. Dopotutto, era questo il destino dei figli degli angeli.
Una lacrima le si staccò dalle ciglia e iniziò la sua caduta, posandosi poi sulle labbra, soffici e rosse come i petali di una rosa in boccio. Lei ci passò sopra con la lingua, senza curarsene, poi fece un sorriso ironico, come se si stesse prendendo gioco di se stessa.
 

 

1

ASSOLUZIONE

 
 

La confessione di tutti i suoi  peccati e la totale assoluzione da ogni colpa.
Il torto più grande di tutti. Il suo peccato originale: essere nato come il figlio di suo padre.
 Neanche nei sogni più luminosi avrebbe immaginato che un crimine del genere potesse essere soppresso dal perdono.
Il perdono.
Una parola vuota, priva di ogni significato, un insieme di lettere senza senso sentiti per caso, qualcosa che conosceva soltanto per averla appresa dalle pagine di un vocabolario.
Fino ad allora.
Chi mai avrebbe detto, che un giorno, proprio lui, si sarebbe ritrovato in quella situazione? Era di fronte ad un istituzione che, fino dai tempi in cui era ancora in fasce, gli era stato insegnato a disprezzare.
Lui. Jonathan Cristopher Morgernstern, figlio di Valentine, si era inchinato al cospetto dell’intero Conclave riunito nella sala degli accordi ed aveva chiesto di essere perdonato. Non si era mai nemmeno sognato che la sua supplica fosse anche solo presa in considerazione. La realtà che rincorreva l’immaginazione, superandola. Tutta la sua vita non era stata altro che il continuo susseguirsi di macchinazioni e soprusi da parte di persone che avrebbero dovuto amarlo e che alla fine lo avevano abbandonato. Sua madre, suo padre, Lilith…
E poi c’era stata lei.
Clarissa, sua sorella. La prima volta che l’aveva vista aveva pensato che si trattasse di un sogno. Quella ragazzina era esattamente come l’aveva sempre sognata, ogni notte, da quando era venuto a conoscenza della sua esistenza.
Clarissa.
Il motivo per cui adesso si trovava li.
Era merito suo se avevo deciso di provarci.
Di provare ad essere diverso.
Di provare ad essere libero.
Libero.Quella parola continuava a rimbombargli nelle orecchie come l’eco di qualcosa di troppo lontano, per poter essere raggiunto. Sebbene lui stesso faticasse a crederci, le espressioni sui volti degli Shadowhunters che avevano preso parte al consiglio non lasciavano spazio ad alcun dubbio. Il console aveva deciso. Il verdetto era stato dato.
Assolto.
Erano  stati sua sorella e Jace a giocare il ruolo decisivo in quella difficile decisione. Entrambi avevano testimoniato a suo favore.
L’avevano salvato.
Lui e Jace erano stati legati l’uno all’altro per settimane, i loro corpi e i loro pensieri erano arrivati ad essere quasi un tutt’uno, e nonostante all’inizio aveva creduto di essere lui la metà più forte, quello che sarebbe riuscito a dominare l’altro, in realtà era stato Jace a cambiare lui.
Il sangue dell’angelo che scorreva nelle vene del suo fratellastro, aveva messo a tacere il demone che da sempre aveva albergato all’interno del suo corpo. Corrodendogli l’anima.
Ma poi qualcosa era cambiato.
Lui, era cambiato.
I suoi pensieri avevano iniziato a prendere direzioni diverse, a considerare cose che prima aveva dato per scontato, sentimenti di cui fino a quel momento aveva ignorato persino l’esistenza.
La gioia di una famiglia, la fiducia, l’amore di qualcuno che avrebbe fatto qualunque cosa, pur di rimanergli accanto. Era questo, più di ogni altra cosa, ciò che Clary e Jace gli avevano insegnato nel poco tempo trascorso nella gabbia invisibile di Valentine. Non avrebbe saputo dire con certezza quale fosse stato l’esatto momento in cui aveva iniziato a desiderare qualcosa di più che la sola vendetta, ma ad un certo punto, qualcosa dentro di lui era cambiato. Forse era stato proprio il giorno in cui Clary aveva seguito Jace all’interno della piega interdimensionale, pur sapendo i rischi che avrebbe corso, o quella volta a Praga, in cui tutti e tre avevano combattuto insieme contro quei demoni all’interno della bottega, dopo essersi appropriato dell’adamas, o ancora a Parigi, quando quella testarda di sua sorella si era messa in testa di seguirlo di nascosto e si era poi ritrovata a dover combattere contro ben cinque demoni, rischiando la vita. Quella volta avrebbe potuto lasciarla li a morire, infondo, il solo fatto che lo stesse spiando era la prova che non avrebbe potuto fidarsi di lei, che non avrebbe dovuto, fidarsi di lei. Eppure quando l’aveva vista li, stesa per terra, ricoperta di veleno e sangue, non ci aveva pensato due volte, prima di accorrere in suo aiuto. In un certo senso, quella era stata la prima volta, in cui aveva pensato a Clarissa come a sua sorella, il suo stesso sangue da proteggere, qualcuno che avrebbe potuto amarlo davvero.
E poi, quasi per caso, si era ritrovato ad ascoltare quella conversazione. Le parole sussurrate piano dietro alla porta chiusa di una stanza, credendo di non essere ascoltati.
 
Era stato allora che aveva capito che quelle settimane trascorse con Clary e Jace, all’interno di quella casa, credendo di aver trovato finalmente una famiglia, non erano state altro che un illusione. Il sogno di un pazzo convinto di poter costringere qualcuno ad amarlo con la forza. A loro non importava nulla della ricchezza, del potere, del lusso in cui aveva concesso loro di vivere solo per avere qualcuno accanto. Clary e Jace volevano tornare a casa, volevano tornare dalle loro famiglie, dai loro amici, da coloro che li amavano.
Sarebbero scappati, l’avrebbero abbandonato, e lui sarebbe rimasto di nuovo solo.
Questa volta per sempre.
E lui, cosa voleva lui? Ultimamente aveva iniziato a pensare sempre meno spesso al piano di Lilith. Si, perché quello di trasformare quanti più Shadowhunters possibili in guerrieri oscuri, creati dando loro da bere il suo sangue e quello di Lilith dalla nuova coppa mortale che fatto realizzare da Magdalena, una ex Sorella di Ferro che viveva in Francia, era un piano ideato da Lilith, e lui aveva accettato solo per compiacere la donna che molto tempo aveva considerato sua madre, solo per non restare da solo. Una parte di lui era quasi felice di poter finalmente avere qualcuno di tanto simile a lui.
Metà Demone, metà Shadowhunters.
E poi era arrivata Clary. E lui aveva capito, guardando come lei guardava Jace, come Jocelyn aveva guardato lei, che quello di Lilith, allo stesso modo di quello di Valentine, non era amore. Non lo era mai stato.
Fin da prima ancora di nascere, non era stato altro che un esperimento, un mezzo, l’arma per poter vincere una guerra.
Lui, Jonathan Christopher Morgenstern, non era mai stato amato da nessuno al mondo, e se avesse continuato in quel modo solo per compiacere qualcuno che in realtà l’aveva soltanto usato, e poi abbandonato, le cose non sarebbero mai cambiate.
Jace, libero, anche se temporaneamente dal controllo esercitato dal legame di sangue che aveva con lui, si sarebbe consegnato al Conclave, facendosi ammazzare, piuttosto che rimanere con lui. E allora, che cosa ne sarebbe stato di lui? Sarebbe morto, seguendolo. Che altra scelta gli rimaneva? Per un attimo nella sua mente era balenato il pensiero di impedirgli di andarsene con la forza, ma in fondo, non era questo, ciò che voleva. Non voleva costringere qualcuno a rimanere con lui con la violenza, quello non sarebbe mai stato amore.
E poi Clarissa gli aveva chiesto di seguirli.
«Vieni con noi, Sebastian».
Sebastian. 
Clary non l’aveva mai chiamato Jonathan. Il solo pronunciare quel nome doveva farla sanguinare dall’interno. Il ricordo di qualcuno che non c’era più, che per lei non c’era mai stato, il fratello che gli era stato negato, la sofferenza della madre.
Sua madre.
Jocelyn.
In realtà era stata sempre e solo la madre di Clary, non la sua.
«Che cosa stai dicendo?».
«Ti sto chiedendo di costituirti, di rinnegare Lilith e consegnarli volontariamente al Conclave».
«Sai che non posso farlo. Sarebbe un suicidio. Tanto vale che mi uccidiate voi adesso».
«Ma se dici a loro ciò che hai detto a me, che i demoni stanno invadendo il nostro mondo in massa, che non sei come Valentine, che vuoi solo proteggere gli umani…»
«E pensi che loro crederebbero ad una sola delle parole che esce dalla mia bocca? Non essere ridicola, quello che stai dicendo è assurdo! Non mi crederebbe nessuno».
Neanche lui, avrebbe creduto alle sue stesse parole.
«Io però ti credo!».
«Cosa?»
«Io ti credo, Sebastian. Mi fido di te. Dimostrami che non mi sbaglio, che non sono solo un illusa».
Lo era. Oh, se lo era. Ma era così bello sentire quelle parole, che per un attimo, uno soltanto, si concesse di illudersi anche lui.
«Non è un’idea del tutto assurda», aveva detto Jace,  «folle si, ma non assurda. E’ già successo in passato, infondo, che il Conclave concedesse la grazia a qualcuno che avesse infranto la legge. I miei genitori adottivi, Marise e Robert Lightwood ne sono un esempio, e Hodge, il mio tutore, facevano tutti parte del Circolo di Valentine».
«Ma io sono il figlio di Valentine. Lui ha fatto di me ciò che sono ora. E sono in parte demone, il sangue che scorre nelle mie vene è avvelenato, maledetto. Io non andrò mai bene, non sarò mai come te».
«Ma tu puoi ancora scegliere. Puoi scegliere di essere chi vuoi, di essere te stesso. Non devi essere per forza il figlio di Valentine, non devi più di quanto non debba io, o Jace. Puoi essere semplicemente Sebastian».
«Sebastian Verlac è morto. Non esiste più. E sono stato proprio io a ucciderlo».
«Allora sii Sebastian e basta. Non importa quale sia il tuo cognome, la cosa importante è il modo in cui vivi, le azioni che compi. Puoi scegliere di fuggire per sempre, oppure puoi scegliere di venire con noi, mostrarti davanti al Conclave e chiedere di essere perdonato… solo tu puoi decidere chi essere. Tu e nessun altro».
 
Perdono.
Così era iniziato tutto.
Così era iniziata la nuova vita di Sebastian.

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Capitolo 2
*** Questione di scelte ***


2

QUESTIONE DI SCELTE

 

 
 
«E’ assurdo!», disse Isabelle per la settima volta da quando avevano messo piede fuori dalla sala del consiglio.
Avevano lasciato Idris immediatamente, grazie al portale aperto da quello stranissimo stregone impiastrato di glitter e lustrini dalle discutibili preferenze modaiole, oltre che sessuali.
Il Conclave aveva concesso a Sebastian un periodo di  prova, durante il quale sarebbe dovuto rimanere sotto la tutela e la responsabilità dell’istituto di New York, mentre il nuovo inquisitore, Robert Lightwood, indagava sullo svolgimento dei fatti. Sua moglie Maryse, che al momento gestiva da sola l’intero istituto, avrebbe dovuto invece fare rapporto sul suo comportamento con cadenza mensile, in modo da tenere la situazione sotto controllo mentre il Conclave svolgeva le sue indagini.
Sebastian sapeva bene che, tutta quella messa in scena era stata architettata dal Conclave con il solo obiettivo di scoprire qualcosa di più sui piani di Lilith. Avevano ascoltato la sua confessione e deciso di concedergli una possibilità di redenzione, ma non gli credevano affatto, la verità era che credevano di poter scoprire grazie a lui dove si trovasse Lilith in modo da stanarla, riportarla completamente in vita e poi, eliminarla una volta per tutte.
Definitivamente.
Al momento lui non era altro che uno strumento nelle loro mani.
«Izzy…»,  provò a dire Jace, ma lei girò i tacchi e gli piazzò un unghia laccata di rosso sul petto.
«Izzy un accidenti! Non pronunciare mai più il mio nome, razza di traditore… Sei solo un…».
«Isabelle. Adesso basta», la rimproverò Marise Lightwood, che fino a quel momento non aveva osato proferire parola. Aveva i capelli neri accolti in uno chignon scomposto, con alcune ciocche ribelli che uscivano da tutte le parti, incorniciandole i lineamenti affilati, spigolosi. «Jace, credo che dovresti andare da Clary. Avrà bisogno del tuo sostegno, e immagino che Jocelyn sarà…turbata». Pronunciò quella parola come se fosse perfettamente consapevole di stare usando un eufemismo, ma non potesse dire l’aggettivo adatto per paura che dalla bocca le uscisse qualcosa di troppo.
A Sebastian vennero in mente almeno una decina di termini più adatti.
Sconvolta, distrutta, scioccata, traumatizzata…
Jace annuì impercettibilmente e posò lo sguardo su Sebastian, come avvertimento, prima di congedarsi.
 «E’ stata una decisione del Conclave», disse poi Maryse, a nessuno in particolare, mentre il ragazzo si allontanava, «e le decisioni del Conclave non si discutono». Il suo tono di voce era fermo, deciso, duro. Sembrava volesse auto convincersi che quella fosse la verità. Si percepiva che non condivideva affatto quella decisione, ma allo stesso tempo era perfettamente consapevole che nessuno di loro avrebbe potuto fare nulla, per contrastare il Conclave. Erano solo le pedine di una scacchiera, i pezzi sacrificabili per un obiettivo comune molto più grande.
Isabelle incrociò le braccia sul seno e strinse i pugni, nervosa. «Lo so», disse, voltandosi verso Sebastian e lanciandogli un’occhiata truce, carica di odio e disprezzo, «la legge è dura, ma è legge».
«La legge dice un sacco di grandissime stronzate», intervenne Alec, con il viso paonazzo per la rabbia. Isabelle e la madre si voltarono verso il ragazzo, colpite. Non era cosa da tutti i giorni sentire parlare Alec Lightwood in un modo tanto avventato. Forse la sua frequentazione con il sommo stregone di Brooklyn stava davvero iniziando a cambiarlo. «Non vivrò sotto lo stesso tetto dell’assassino di mio fratello».
Colpito.
Sebastian sussultò e affondò le mani dentro alle tasche della giacca di pelle, affondando le unghie all’interno della carne dei palmi. Alec aveva ragione, nonostante tutto doveva riconoscere che anche per uno come lui sarebbe stato troppo da sopportare. Se avesse potuto sarebbe andato via all’istante, aveva vissuto solo per molto tempo, e anche quando Valentine era in vita non aveva mai ricevuto da lui l’affetto che un figlio dovrebbe ricevere da un padre. Forse avere una famiglia non era tutta questa gran cosa, come Clarissa sosteneva. Infondo, non avrebbe di certo potuto soffrire la mancanza di qualcosa che non aveva mai avuto veramente.
Ma non poteva.
Non poteva andarsene.
Questa era la sua unica possibilità di essere libero, di dimostrare che non era veramente un mostro, che anche  lui poteva avere un cuore.
Erano arrivati davanti al portone d’ingresso dell’istituto, quello che, agli occhi dei comuni Mondani sembrava solo una vecchia Chiesa dismessa e in rovina, con l’erba alta che cresceva dappertutto, rendendo invisibile il cemento e i licheni che si arrampicavano su per i muri ricoprendo ogni cosa, come in una giungla.
«E dove vorresti andare?», chiese Isabelle con le sopracciglia contratte. Era chiaro che stava cercando di parlare in un tono calmo per non irritare ulteriormente il fratello.
Non voleva che lui se ne andasse da un’altra parte, ma non poteva neanche dargli torto. Perfino Sebastian lo capiva: chi avrebbe mai voluto vivere con un mostro?
Anche lui si sarebbe odiato al posto loro.
A volte si odiava gia.
«Rimarrò da Magnus fino a quando questa storia non sarà stata chiarita e lui», disse, senza guardarlo, «sarà sparito definitivamente dalle nostre vite». Poi, presa lamano della sorella e disse: «Puoi venire con me, se vuoi».
Lei strinse la sua mano tra le proprie e per un attimo rimase a fissarle, incantata. L’intreccio delle loro dita, dal colore di pelle estremamente simile, ma dalle diverse dimensioni, mani da Cacciatori, segnate dall’ombra di vecchi marchi ormai sbiaditi e cicatrici di battaglia. La ragazza sembrò sul punto di scoppiare a piangere, o di tuffarsi tra le braccia del fratello implorandolo di portarla via con lui, ma non fece niente.
Non era possibile.
Non per lei.
Invece rivolse lo sguardo alla madre, piccola e immobile come una bambina sulla scalinata di pietra davanti al portone d’ingresso e fece un respiro. Lento, profondo, calcolato.
«No», disse, lasciando cadere le mani del fratello, «non posso».
Gli stampò un bacio frettoloso su una guancia e salì anche lei le scale d’ingresso.
Appoggiò la mano inanellata di piccoli cerchietti dorati sul portone e sussurrò qualcosa, una preghiera, forse, dopodiché il portone di legno si spalancò sotto il suo palmo.
«Andiamo!», disse a mo di ordine, senza voltarsi, quasi che per un attimo Sebastian ebbe l’impressione che stesse parlando al vento, o a se stessa. «Ti faccio vedere la stanza dove dormirai». Ma l’astio e la ruvidezza della sua voce non lasciavano dubbi sul destinatario di quell’ordine.
Sebbene avrebbe dovuto esserne toccato, o offeso, il suo tono di voce e l’espressione furiosa del suo viso, i capelli neri, lunghi e selvaggi che le si insinuavano dappertutto per via del vento, lo fecero sorridere.
Era come assistere alla scena di un cucciolo di pantera che cerca di dare ordini al suo domatore.
 
***
 
Dopo aver lasciato Sebastian e le sue valige davanti alla porta di una delle stanze vuote dell’aria residenziale dell’istituto, Isabelle Lightwood se ne andò in camera sua e si chiuse la porta alle spalle con un calcio che avrebbe anche potuto spaccare in due il legno pesante di cui era composta, se non avesse controllato la sua forza per paura delle ripercussioni di sua madre.
Aveva una voglia indomabile di rompere qualcosa, l’armadio, i vetri delle finestre, le teste di Jace e Clary, il letto.
Il letto.
Senza fermarsi a riflettere recuperò il suo cellulare dalla tasca della divisa da cacciatrice e compose a memoria il numero di Simon. Il telefono squillò a vuoto un paio di volte prima che lui rispondesse.
«Pronto?».
«Ho bisogno di vederti», esordì.
«Isabelle?», la voce di Simon, dall’altro capo del telefono sembrava sorpresa.
«Non sembri contento di sentirmi. Ti aspettavi che fosse qualcun altro?».
«No», rispose lui, «è solo che pensavo… insomma, stai bene?».
«Benissimo!», fece lei, «perché non dovrei stare bene?  Voglio dire, un mostro psicopatico dalle idee folli si è appena trasferito nella mia casa, ma a parte questo direi che va alla grande».
«Sebastian…».
«Non ho voglia di parlare di questo, ora», disse secca.
Simon tacque per un momento. «Ok, di cosa vuoi parlare allora?»
Isabelle, sbuffò contro il telefono. «Non voglio parlare, Simon», disse esasperata, alzando lo sguardo al soffitto decorato con i vortici di vernice dorata che lei stessa avevo dipinto qualche anno prima.
«Ah».
Ah. Ah? Ma che razza di risposta era? Gli aveva appena proposto di venire a letto con lei e quell’idiota non aveva altro da dire? Non che pretendesse chissà cosa, certo, ma poteva almeno mostrare un po’ più di esultanza. Insomma, lei era Isabelle Lightwood, e gli aveva appena offerto il tuo corpo. Quella non era esattamente la risposta che si era aspettata.
«Allora, quando possiamo incontrarci?», disse spazientita, cercando di passarci sopra. Dopotutto, era pur sempre con Simon che stava parlando, che altro poteva aspettarsi? Se lo immaginò nel soggiorno di Jordan, stravaccato sul divano malconcio e intento a giocare a qualche videogioco idiota di cui lei non aveva mai sentito parlare.
«Ecco», mormorò Simon, esitante, «il fatto è che sono da Clary. Sai, tutta questa storia di Sebastian ha sconvolto sua madre e pensavo di passare qui la notte, nel caso avessero bisogno di qualcosa».
Clary.Isabelle sospirò silenziosamente. Sempre Clary. 
«Credevo ci  fosse Jace con Clary».
Non aveva intenzione di fargli una scenata di gelosia, poteva capire la situazione, in parte, e comunque aveva superato quella fase da un pezzo ormai.
«E’ qui, infatti. Ma non me la sento di lasciarla da sola. Ha bisogno di me».
Ma non è sola, pensò Isabelle, io lo sono. 
Io ho bisogno di te.
Simon.
«Ma certo!», sbottò lei, senza nascondere l’irritazione nella propria voce. «Lei ha bisogno di te. Io me la caverò benissimo da sola. Andrò a cercare qualcun altro con cui parlare».
Che cavolo! Quella sembrava proprio una scenata di gelosia, invece. Avrebbe voluto mordersi la lingua. Accidenti a quel vampiro, lei era una Cacciatrice, e lui òa faceva trasformare in una stupidissima ragazzina insicura. Per di più, gelosa della migliore amica del suo ragazzo.
Poteva esserci qualcosa di più patetico?
Ah, gia. Il fatto che oltretutto, Simon non fosse nemmeno il suo ragazzo.
«Ma… hai appena detto che non volevi parlare».
«Simon Lewis!», grugnì furiosa, «tu sei davvero il vampiro più ottuso che mi sia mai capitato di incontrare, oltre che il mondano più mondano che esista in tutta New York!».
Riattaccò e chiuse con foga lo sportellino del telefono, lanciandolo sul letto disfatto.
Fuori dalla finestra, il cielo di New York iniziava a tingersi di scuro, passando velocemente dal celeste grigiastro all’azzurro intenso, ma le luci dei grattacieli e delle strade rendevano i colori fin troppo slavati, come un quadro ad acquarelli su cui si passa un pennello intinto troppo spesso nell’acqua.
A Idris il cielo era diverso. Tutti i colori erano diversi. L’azzurro del cielo, il verde acqua dei laghi e quello più scuro e intenso dei prati, il rosso, il giallo e il rosa dei fiori e persino il bianco delle nuvole, sembrava più bianco.
Idris. La patria dei Cacciatori. La loro casa.
Al contrario di Jace che era cresciuto li fino all’età di dieci anni, per Isabelle non era mai stato veramente così. L’unica cosa di più simile ad una casa in cui avesse mai vissuto era l’istituto. Quella era casa sua, in realtà. Non aveva mai sentito un particolare attaccamento per quel posto, sebbene non poteva negare che fosse un luogo meraviglioso e quasi incantato… magico.
Per Alec era diverso. Lui era nato li, infondo. Ma lei preferiva di gran lunga i colori sbiaditi di New York, a quelli intensi di Alicante, il traffico assordante della metropoli a qualsiasi or del giorno e della notte alla quiete silenziosa dei piccoli borghi illuminati dagli antichi lampioni alimentati dalle stregaluce.
Eppure, nonostante tutto, in quel momento avrebbe dato qualsiasi cosa per andarsene via da quel posto. Lontano da casa e da quell’abominio che sarebbe stata costretta a vedere ogni maledettissimo giorno. Ma non poteva farlo, non poteva andarsene semplicemente via come aveva fatto Alec e lasciare sua madre completamente sola.
Non poteva.
Non lei.
Non. Lei.
Quello che avrebbe potuto fare però, era stringere la sua frusta dorata intorno al collo del mosto che dormiva a poche stanze dalla sua e guardarlo morire mentre soffocava lentamente.
L-e-n-t-a-m-e-n-t-e… 


***Note dell'autrice***

Anche il secondo capitolo è terminato.  Mi rendo perfettamente conto che questi due qui potrebbero essere completamente fuori luogo, insieme - voglio dire, sono fuori luogo ognuno per conto suo, figuriamoci come coppia - ma credo davvero che in fondo, qualcosa in comune c'è l'abbiano... molto in fondo, ecco. Bisogna scavare bene, insomma ^-^ eh eh. 
Che dire, è la prima FF che scrivo e sono ancora una principiante, ma spero con tutto il cuore che possa piacervi.
Chissà cosa accadrà tra la fascinosa Isabelle e l'enigmatico, crudele e pazzo Sebastian\ Jonathan. O come ho iniziato a chiamarli segretamamente io... La mia Bella e la mia Bestia?
Lo scoprirete alla prossima puntata!!!

P.s: Questa sapeva tanto di telenovelas di vecchia generazione.

Baci.
_RosaSpina_

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Capitolo 3
*** Colpa e desiderio ***


“Aveva visto Sebastian guardare Jace, e anche se stessa, e sapeva che c’era qualche parte di lui che risuonava così sola come il vuoto più nero dello spazio. La solitudine lo aveva guidato molto più che il desiderio di potere, la solitudine e il bisogno di essere amato senza alcuna comprensione parallela che l’amore era qualcosa che si guadagnava.”

 

Tratto da Città delle Anime Perdute.

3

COLPA E DESIDERIO

 

 

Il sangue colava lentamente dalla ferita, denso e scuro come melassa e si espandeva sulla maglietta creando macchie astratte dalle strane forme. Le braccia reggevano un corpo piccolo e gracile, di bambino. Aveva gli arti magri come rami d’albero e le ginocchia ossute, le mani, che fino a poco prima avevano stretto tra le dita dalle unghia mangiucchiate un piccolo libricino tutto colorato, ora erano lasciate inermi e penzolanti come quelle di un pupazzo di pezza. 
Respirava ancora. Poteva ancora sentire il flebile battito del suo piccolo cuore stanco che arrancava tra i sospiri e i singhiozzi. Gli occhi grandi e scuri erano chiusi e fremevano impercettibilmente dietro agli occhiali dai vetri rotti, che poggiavano sbilenchi sul naso, erano seminascosti dai ciuffi di capelli scuri, che cadevano mosci sulla fronte, impastati del suo stesso sangue.
Sangue.
Sangue dappertutto.
Si mischiava alle lacrime, sporcando di un rosso slavato ogni cosa.
Il piccolo si strozzò con un singhiozzo prima di esalare il suo ultimo respiro.


 

 

***

 
«No!».
Sebastian si svegliò di soprassalto, mettendosi a sedere bruscamente sul letto. Le lenzuola attorcigliate attorno alle gambe raccontavano sogni inquieti e per un attimo, nella semilucidità della mente offuscata dal buio e dagli incubi, si aspettò di trovarvi chiazze rosse ad insozzarle. La maglietta bianca che aveva indossato prima di addormentarsi era umida e aderiva alle pelle appiccicosa di sudore come una seconda pelle, fastidiosa e sgradevole quanto quella del sangue che imbrattava di cremisi i suoi sogni.
Non era abituato a sognare, e di sicuro non aveva mai fatto quel genere di sogni, prima.
Non gli piaceva.
Non gli piaceva affatto.
Gli era gia capitato di sognare in passato, sebbene per uno come lui non fosse qualcosa di frequente, ne di necessario. Ma qualche volta, specie quando era bambino, aveva visto se stesso spargere il sangue di qualcun altro dappertutto. Straziargli la pelle e i muscoli sotto di essa con la lama argentea di una spada angelica, e mettere lentamente fine ad una vita. Lo aveva sognato e lo aveva fatto davvero, e mai, mai, mai una sola volta era stato vittima del senso di colpa.
Si era sentito orgoglioso, invece, soddisfatto per l’appagamento di un desiderio che non si preoccupava di tenere nascosto.
Nel profondo aveva sempre saputo di essere un abominio, ma la verità era che non gli era mai importato davvero.
Ultimamente, invece, era perseguitato dagli incubi.
Non faceva che rivivere quella maledettissima scena. La notte in cui, all’interno della casa dei Penhallow, a Idris, aveva tolto la vita ad un bambino innocente.
Max Lightwood.
Era questo il suo nome. Si trattava del minore del figlio minore di Maryse e Robert, il fratellino di Alec e Isabelle.
Isabelle.
Il ricordo dei suoi occhi color carbone puntati su di lui. L’odio furente del suo sguardo, era qualcosa che lo turbava incredibilmente.
Nel profondo.
Gli era subito stata simpatica, fin dalla prima volta in cui si erano incontrati. Era così bella e non faceva nulla per nasconderlo, non fingeva autocommiserazione per sembrare migliore, ne per ricevere complimenti da qualcuno. Era bella e lo sapeva. Usava la sua bellezza come un’arma, e ne andava fiera. Ogni tanto diceva qualcosa che la faceva apparire un po’ svampita, ma non era stupida, solo estremamente sincera, diceva tutto ciò che le passava per la testa, senza filtri o altro genere di macchinazioni. Non si preoccupava abbastanza dell’opinione che la gente poteva farsi di lei. Non le importava affatto. Per quanto potesse sembrare strano agli occhi di chiunque si fermasse ad osservare il suo aspetto fisico, era incredibilmente ingenua e spontanea.
Pura.
La sua freschezza lo aveva stuzzicato immediatamente, ma al tempo era troppo impegnato a servire la causa di suo padre per perdere tempo dietro a quelle futili sensazioni.
Al riparo tra gli argini di quel cuore che non aveva mai pensato di avere doveva pur esserci qualcosa. Il piccolo seme di qualche strano fiore che qualcuno si era dimenticato di annaffiare per bene, così da assicurarsi che germogliasse come doveva. Di sicuro anche la cavità dentro al suo petto doveva essere occupata da qualcosa, fosse anche solo un pezzo di carne del tutto inutile se non allo scopo di pompare il sangue dalle vene fino al cervello; qualcosa che non avrebbe mai avuto la necessità di usare, se non per le mere necessità anatomiche.
In realtà era sempre stato più che certo che il suo cuore non funzionasse a dovere.
D’altronde lui non era mai stato come gli altri.
Non c’è nessun altro come te.
Le parole di suo padre gli riecheggiarono nella mente, così lontane eppure così vere da essere scolpite come l’epitaffio sul marmo di una tomba.
Era come una maledizione.
La sua condanna.
Sarebbe stato solo.
Per sempre.
Un tempo aveva sperato in Clarissa. Aveva voluto credere che lei avrebbe potuto capirlo, amarlo, forse. Infondo condividevano lo stesso sangue. Il sangue orgoglioso e corrotto dei Morgenstern. Ma mentre quello di sua sorella era stato perfezionato con il sangue dell’angelo, il suo era stato contaminato da quello di un demone.
Non c’è nessun altro come te.
Sebastian scacciò via malamente le lenzuola che gli avvolgevano le gambe e si alzò da letto. La soffice lana del tappeto accolse i piedi nudi e freddi mentre cercava di non barcollare per l’improvviso cambio di posizione. Quei sogni lo lasciavano sempre esausto, stanco fino all’inverosimile e arrabbiato.
Terribilmente arrabbiato.
Con Valentine, con Lilith, con Jocelyn e Clary, con quel dannato ragazzino, per essere stato così fragile e non aver resistito alla sua forza come la sorella maggiore, e con se stesso. Con se stesso, più di chiunque altro.
Se non fosse stato così stanco avrebbe potuto mettere a soqquadro l’intera stanza, distruggere persino l’istituto, forse. Ma sapeva che lasciare senza un tetto sopra la testa le persone che lo avevano accolto – seppur costrette dal Conclave – non sarebbe stato un buon modo per mettere a posto le cose.
Decise di farsi una doccia, per togliersi di dosso il sudore freddo e la sgradevole sensazione di senso di colpa e frustrazione che lo attanagliava come acido su una ferita ancora aperta.
Si spogliò dei pantaloni e della maglietta che aveva indossato per dormire  e s’infilò sotto la doccia senza aspettare che l’acqua si fosse scaldata.
Era gelida e bruciava contro i muscoli contratti delle spalle, confondendosi con le cicatrici bianche dei marchi. Chiuse gli occhi e gettò la testa all’indietro, contro la parete di vetro, lasciando che l’acqua fredda lavasse via ogni cosa spiacevole. Pur sapendo che neanche il sapone avrebbe potuto ripulire la sua coscienza, ne purificare la sua anima. I suoi peccati non se ne sarebbero andati via tanto facilmente.
Forse davvero non c’era speranza per lui.
Dentro di se, Sebastian sapeva che Valentine aveva ragione.
Lui era diverso.
L’esatto opposto di quello che avrebbe dovuto essere, ciò che lui stesso avrebbe dovuto voler distruggere, se non fosse venuto al mondo come il figlio bastardo di un demone, partorito dalla lucida follia di suo padre. L’esatta essenza del male, qualcuno che persino la propria madre aveva rinnegato. Un mostro. Una abominio.
Una bestia.

Chi avrebbe mai potuto amare una bestia?
 
***
 
La frusta di elettro schioccò in uno scintillò dorato avvolgendosi intorno alle braccia con un rumore secco. Isabelle ruotò il polso attorno all’impugnatura e tirò per consolidare meglio la presa, mentre con la mano libera lanciava un  pugnale kindjal in direzione del cuore. Il corpo cadde a terra inerme contro la tensione esercitata dalla frusta.
Stava per piantagli una spada angelica nella schiena, quando qualcosa ai margini del suo campo visivo la distrasse. Un movimento. Un lampo fulmineo di nero e oro chiaro.
Chiarissimo.
La porta di legno della sala d’addestramento era semi aperta e appoggiato allo stipite, come lo spettatore inopportuno di una rappresentazione teatrale al quale non era stato invitato, vi era Sebastian. Se ne stava a braccia conserte, alcune ciocche di capelli color platino lasciate cadere svogliatamente sulla fronte, a nascondere il nero assoluto dei suoi occhi. Indossava una leggera maglietta nera e aderente che gli fasciava i muscoli del petto e degli avambracci e un paio di pantaloni della tuta grigi che gli cadevano perfettamente sulle ossa dei fianchi.
I piedi erano scalzi e pallidi, quasi bianchi, come del resto qualsiasi altro pezzo di pelle sul suo corpo.
Non appena Isabelle si accorse della sua presenza, voltandosi verso di lui, irritata, lui si riscosse dai propri pensieri e sorrise appena, sciogliendo le braccia per applaudire pigramente.
«Che ci fai tu qui?», chiese la ragazza, con fare accusatorio, mentre con un movimento apparentemente casuale faceva roteare la spada angelica per impugnarla più saldamente.
Il sorriso di Sebastian scomparve così come era apparso, dissolvendosi in una scrollata di spalle. «Pensavo di allenarmi».
«Adesso?», fece lei con diffidenza, come se dubitasse delle sue parole, «nel cuore della notte?». Il suo sguardo era affilato, aggressivo, e non aveva niente dell’ impertinente spensieratezza che l’aveva colpito nella ragazza che aveva conosciuto a Idris, quando ancora si spacciava per Sebastian Verlac.
Il fatto che la colpa di quel cambiamento potesse essere sua, suscitava in lui uno strano misto di emozioni, rabbia verso se stesso, per il dolore causatole, e orgoglio per aver avuto un ruolo tanto importante nella vita di qualcuno da provocare un mutamento.
«E’ un reato forse? Ci sono degli orari prestabiliti da rispettare, per allenarsi qui?». E nonostante non fosse nelle sue intenzioni, si ritrovò ad ascoltare una leggera punta di sarcasmo nel tono della sua voce. Se lui era colpevole, di certo lei non lo era di meno, visto che si trovava nello stesso posto alla medesima ora.
Isabelle si irrigidì, la mascella contratta per la rabbia, i piccoli denti bianchi affondati nella carne tenera delle labbra, tanto che per un attimo lui temette di vedere uscire del sangue.
Indossava una canottiera nera, scollata e con le spalline sottilissime sopra ad un paio di pantaloni aderenti che le arrivavano al polpaccio. Non era la tenuta da combattimento,ma qualcosa di decisamente più comodo che lasciava scoperta buona parte della sua pelle ricamata di marchi bianchi e sottili come ricami di pizzo.
Era evidente che la sua sola vista le provocava fastidio. Un misto di irritazione, dolore e disgusto che aveva visto anche nei lineamenti della sua madre biologica.
«Non riuscivo a dormire», ribatté lei, cercando di ostentare una sicurezza di se stessa che il battito del suo cuore tradiva, grazie all’analisi attenta del suo orecchio allenato.
O era solo la fatica per l’allenamento?
«Lo stesso vale per me», disse lui, con aria di sfida, sorridendo soddisfatto.
Si guardarono per un lungo minuto, Isabelle con i lunghi capelli neri umidi di sudore che le si incollavano alla pelle candida e scoperta del seno e lui, con le punte che gli sfioravano la nuca che gocciolavano ancora sulle spalle della maglietta dopo la doccia.
Per un momento Sebastian si immaginò il groviglio dei loro capelli insieme, il petrolio e l’oro chiaro, le tenebre e la luce, il male e il bene… beh, non necessariamente con questa corrispondenza, ovviamente. Ma durò giusto un battito di ciglia, giusto il tempo di rendersi conto dell’assurdità della cosa.
«Ma certo, come no, non riesci a prendere sonno per via del letto scomodo? E scommetto che ti sei ritrovato in una stanza piena zeppa di armi per pura coincidenza», lo accusò, camminando lentamente verso di lui e facendo ondeggiare la spada.
«Potrei dire la stessa cosa di te, non credi?».
«Oh, potresti», rise lei, «peccato che questa sia casa mia e che io non sia uno psicopatico malato di mente e assassino di bambini».
Assassino di bambini.
«Quindi sei il tipo da due pesi e due misure», ribatté lui, con durezza. «Mi sembra quantomeno scorretto, non credi?».
Sapeva di non avere il diritto di dire niente del genere, ne di pretendere qualcosa di remoto ed improbabile come il suo perdono, ma non riuscì a fare a meno di dirlo ne,  segretamente, di sperarlo.
«Tu, vieni a parlare di scorrettezza a me?», latrò lei, e la sua voce assunse una sfumatura talmente macabra da non riuscire più a distinguere se stesse ringhiandogli contro o ridendo dell’assurdità della cosa. «Mi hai fregato una volta, Morgernstern, non accadrà di nuovo».
«Non ho nessuna intenzione di fregarti», chiarì Sebastian, e per qualche assurdo motivo sperò che gli credesse. «E quello che è accaduto a tuo fratello…».
«Non osare parlare di lui!», gridò Isabelle trattenendosi a stento per non rischiare di svegliare la madre, che probabilmente dormiva al piano superiore. «Tra qualche mese verrà indotto un nuovo consiglio, e quando chiederanno a me ed alla mia famiglia di fare rapporto riguardo al tuo comportamento, giuro sull’angelo che ti fotterò per bene, Sebastian!».
Speranza vana.L’ultima illusione di chi chiede di ricevere il perdono. Ora lo capiva. Una cosa era essere stato assolto per le colpe di suo padre dal Consiglio, un’altra pretendere di essere perdonato dalle persone a cui aveva causato dolore e sofferenza.
Nonostante tutto, non poteva lasciare che lei lo odiasse. Non voleva.. In un modo o nell’altro, non lo avrebbe permesso. Se c’era qualcosa che suo padre gli aveva insegnato era combattere per ciò che si vuole. Qualcosa dentro di lui si tese fino al limite del suo petto. Una strana sensazione di vuoto alla bocca dello stomaco, angoscia e desiderio.
Lui la voleva.
Orgoglio, desiderio o semplice smania di possedere qualcosa che non era possibile avere.
Il fascino del proibito.
La voleva. Voleva che fosse sua e, non importava a che prezzo, lo sarebbe diventata.
Sua.
«Un giuramento sull’angelo», commentò lui, impassibile, senza lasciar trapelare minimamente la sua trepidazione, «non dovresti fare promesse del genere se non sei sicura di poterle mantenere».
«E questo cosa dovrebbe significare?», fece lei, spazientita.
«Oh, Isabelle, è molto semplice», sussurrò piano, spingendosi più vicino a lei fino a quando la spada che aveva puntata alla gola non gli sfiorò la pelle nuda. «Significa che quel giorno tu non testimonierai contro di me. Non dirai niente che possa aggravare la mia posizione, ne nuocermi in alcun modo».
Sollevò una mano e la portò vicino alla lama, poi la afferrò con lentezza, stringendola con una leggera pressione. Il sangue gocciolò piano attraverso il pugno chiuso e gli scivolò giù per l’avambraccio, fino al gomito, prima di stillare in piccole gocce simili a delicati petali di rosa sul legno scuro del pavimento.
Isabelle le fissò sorpresa e deglutì disgustata. Si era sempre immaginata che il sangue di Sebastian fosse nero, come quello dei demoni che era abituata ad uccidere ogni giorno da quando aveva ricevuto il suo primo marchio, invece le striature sbavate che gli macchiavano la pelle, erano rosse.
Semplicemente rosse.
Come quelle di chiunque altro cacciatore o essere umano.
 «E’ una minaccia?», chiese mentre lentamente tornava a fissarlo negli occhi.
«Nessuna minaccia, tesoro», pronunciò con dolcezza lasciando andare la lama della spada angelica, «una semplice constatazione piuttosto».
«Tu hai più problemi di quanto pensassi».
«Può darsi», disse Sebastian, piegando la testa di lato. Fece un passo indietro e poi si voltò per andarsene. «Ma per quel giorno, mia cara Isabelle, tu sarai talmente innamorata di me che farai di tutto per proteggermi».


 
***NOTE DELL'AUTRICE***
 
Con estremo ritardo, eccomi di nuovo qui a rompervi gli scatoloni con un nuovo capitolo di questa storia!
Sono piuttosto contenta della piega che sta prendendo la mente contorta del mio Sebastianuccio, speriamo che la sua smania di pos(sesso) non lo porti a fare stronzate XD ahahahaha no vabbé, si sa che gli uomini spesso dimenticano di usare il cervello in favore di altre parti corporee e sembra che gli ormoni stiano prendendo il sopravvento anche su Seb! Chissà come reagirà la bella Izzy a questa dichiarazione???
 
Commentate, commentate e commentate, vorrei davvero tanto conoscere i vostri pareri al riguardo.
 
XOXO Gossip Gi...ehm... _RosaSpina_

 

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Capitolo 4
*** Il fascino del Diavolo ***


4

IL FASCINO DEL DIAVOLO

 


 
L’odore intenso e pungente del caffè caldo si espandeva per tutti i corridoi dell’istituto saturando  l’aria fresca di Novembre di un delizioso aroma speziato che s’insinuava a forza fin sotto le porte delle camere da letto al piano di sopra.
Isabelle raccolse un paio di jeans sbiaditi dal mucchio infondo all’armadio e ci abbinò sopra un cardigan bianco dalla scollatura a V piuttosto profonda che smorzò con una sciarpa. Infilò i piedi in un paio di anfibi con la suola spessa che aveva recuperato da sotto il letto e che – ricordò distrattamente – aveva prestato a Clary la notte in cui avevano conosciuto Magnus Bane e in cui Simon era stato trasformato in un topo a causa di un cocktail azzurro che probabilmente era opera di qualche stupida fata che non aveva niente di meglio da fare che trasformare i suoi amici in piccoli roditori.
Sorrise al pensiero di Simon con le orecchiette rotonde e i baffetti che tremavano dallo spavento mentre Clary cercava disperatamente di raccoglierlo da sotto un tavolo. A pensarci adesso, poteva sembrare divertente, ma al tempo ricordava di essersi sentita tremendamente in colpa per aver lasciato che gli accadesse qualcosa del genere.
Rovistando in mezzo alle lenzuola aggrovigliate sulla quale aveva passato la notte completamente in bianco – in tutti i sensi – trovò il cellulare che la sera prima aveva lanciato li da qualche parte dopo aver litigato proprio con lui.
Il display registrava venti chiamate perse, oltre ad una decina di messaggi che la ragazza si premurò a cancellare ancora prima di leggere.
Non voleva sentire le sue patetiche scuse.
In quel momento era talmente infuriata che avrebbe anche potuto chiedere a Magnus di cercare un incantesimo che lo trasformasse in un pipistrello, tanto per fargli provare una volta per tutte l’ebbrezza di essere un vero vampiro, consacrato al sangue e al sesso, invece che ai videogiochi per nerd e alla consolazione di problematiche amiche dai capelli rossi con tutto il resto della famiglia al seguito.
Accidenti, in cosa credeva di essere stato trasformato? In un orsetto di peluche pronto per essere coccolato?
Era un vampiro, per l’Angelo!
Si cacciò il cellulare nella tasca posteriore dei jeans e scese a fare colazione, chiudendosi la porta alle spalle.
Dal piano di sotto, in prossimità della sala da pranzo, si udiva un denso brusìo di voci che facevano da sottofondo alle stoviglie e alle porcellane che venivano battute tra loro prima di essere adagiate con un tonfo secco sul legno di quercia robusto del tavolo. Isabelle si fermò un attimo ad ascoltare dietro la porta, prima di entrare. In realtà non sapeva bene cosa avrebbe potuto trovare dentro a quella stanza, ma di sicuro aveva le idee molto chiare su quello che invece sarebbe stata felice di trovare: Sebastian legato ad una delle sedie mentre qualcuno – sua madre, forse – gli bruciava la pelle di tutto il corpo con un attizzatoio bollente.
Sebastian.
Che una maledizione lo potesse colpire come un fulmine in piena testa!
Era colpa sua, se quella notte non era riuscita a chiudere occhio.
Sarai talmente innamorata di me che farai di tutto per proteggermi.
Come cavolo gli era venuto in mente di dire una cosa del genere?
Pazzo! Sebastian Morgenstern era maledettamente pazzo!
L’unico interesse che lei avrebbe mai potuto avere nei confronti di quell’individuo poteva essere quello di prenderlo a colpi di frusta e poi squartarlo lentamente, possibilmente evitando di fargli perdere subito i sensi, così che sentisse il massimo del dolore possibile. Portarlo in punto di morte e poi guarirlo disegnandogli iratze sulla pelle scorticata, e poi ripetere tutta l’operazione daccapo, ancora, e ancora, e ancora…
«Isabelle».
La voce calma e seria di Maryse dietro di lei, la ridestò dai suoi pensieri omicidi appena un attimo prima che la porta della cucina si aprisse dall’interno e la testa di Jace non spuntasse fuori come un fungo. Il ragazzo aveva i capelli dorati arruffati in una massa disordinata, come se si fosse appena svegliato dopo aver dormito dentro ad una lavatrice.
«Alla buon ora!», disse il fratellastro, rivolgendogli un cenno col mento a mò di saluto, poi si rivolse a Maryse. «Buongiorno», la salutò, sorridendo  debolmente, come se fosse imbarazzato.
Sua madre rispose con un oscillazione del capo, mentre Isabelle sollevò un sopracciglio, incuriosita. Jace imbarazzato era uno spettacolo più unico che raro, una specie di fenomeno soprannaturale, come il sole che sorge a mezzanotte o Church che si mostrava affettuoso con qualcuno.
Non che ci volesse una laurea in psicologia per capire che il suo comportamento fosse dovuto al fatto che la presenza dell’assassino di un membro della loro famiglia all’interno della loro casa fosse in parte colpa sua, ma era comunque strano vedere un espressione del genere sulla sua faccia da schiaffi. Non che Maryse c’è l’avesse in qualche modo con lui per quello, solo era sempre stata una persona piuttosto pratica, non troppo incline alle manifestazioni d’affetto o a tutto ciò che considerasse superfluo. Era fatta così, c’era poco da fare, la cosa positiva era che raramente rimaneva arrabbiata per più del tempo necessario.
«Vi va di fare colazione?», chiese Jace, spalancando la porta della cucina con un sorriso speranzoso che insieme al profumo invitante di pastella rendeva praticamente impossibile rifiutare quell’invito.
Isabelle fece per entrare nella stanza, con sua madre alle spalle, ma si bloccò non appena si rese conto della scena che le si era parata davanti.
Ancora più assurdo del sole notturno, o di Jace intimidito, o di qualunque altra cosa assurda che qualcuno con un minimo di sale nel cervello avrebbe potuto immaginare: Sebastian armeggiava davanti ai fornelli con una grossa padella, e sopra la sua testa, un paio di frittelle roteavano in aria come piccoli dischi volanti mollicci. Clary era accanto a lui, poggiata con le anche sul bancone, con un’enorme scodella in una mano e una frusta da cucina nell’altra, indossava un grazioso grembiule addobbato con gale e balze bianche e rosa, si era fatta le trecce e, se avesse indossato anche uno di quei cappelli triangolari poteva essere scambiata per la figlia dodicenne di un gelataio. Non appena la sentì entrare si voltò verso di lei, la faccia sporca di pastella e un sorriso sbilenco, ma felice.
«Ehi», le disse, a mo di saluto.
«Che succede qui dentro?», chiese Isabelle fredda, mettendosi le mani sui fianchi per darsi un certo tono.
Clary la guardò sbattendo le palpebre, confusa. «Prepariamo la colazione», disse semplicemente. «Non hai fame?».
«L’avevo», ribatté, usando di proposito il verbo al passato mentre spostava lo sguardo in modo più che eloquente sulla schiena di Sebastian.
Prima di vedere il diavolo in persona preparare frittelle nella cucina di casa mia.
Quella era un’esperienza che, con ogni probabilità, avrebbe fatto passare l’appetito a chiunque.
Come se lui avesse percepito il suo sguardo, si voltò lentamente, prendendo al volo un paio di frittelle con un piatto  e impilandole come un giocoliere esperto.
«La colazione è il pasto più importante della giornata», intervenne Sebastian, posizionando il piatto sul tavolo e versando sulle frittelle una cucchiaiata di miele. «nessuno dovrebbe saltarlo. E tu sei una cacciatrice, hai bisogno di energie per far fuori i demoni cattivi a colpi di frusta, Belle».
Le rivolse un sorrisetto malizioso, e un barlume di divertimento gli accese l’oscurità degli occhi nerissimi.
Come osava proprio lui dare a lei dei consigli su come cacciare i demoni?
Isabelle lo fulminò con lo sguardo sopprimendo la strana sensazione alla bocca dello stomaco che aveva provato sentendogli pronunciare il suo nome.
Belle. 
Nessuno l’aveva mai chiamata così.
E comunque che cavolo era quella storia? Avevano deciso di giocare tutti insieme alla famigliola felice?
«Ho l’impressione che ci vorrà ben altro che un paio di frittelle», borbottò bruscamente sedendosi davanti al piatto fumante, pensando che, se non fosse stato per sua madre, in piedi rigida e con un espressione disgustata davanti alla porta, quella sarebbe anche potuta sembrare la cucina dell’allegra famiglia di una pubblicità di biscotti. Così, invece, ,non sembrava altro che un osceno paradosso. La parodia di qualcosa che non sarebbe mai più potuto essere.
Non senza Max.
Isabelle ripensò ai tempi in cui era una bambina e tutto sembrava più semplice, alle lezioni di Hodge in biblioteca, che somigliavano più a sermoni biblici che a insegnamenti di demonologia, e a Jace che le tirava gomme da masticare nei capelli mentre Alec dormiva su una poltrona con la faccia conficcata in un libro che fingeva di leggere. All’epoca era capace di addormentarsi dappertutto, un abitudine che aveva assunto anche Max, parecchi anni dopo. Ripensò agli addestramenti con le spade di legno, quando ancora erano troppo piccoli per tenere in mano delle vere spade angeliche e al dolore dei primi marchi. Rivide i suoi genitori che si scambiavano il bacio della buonanotte dopo averle raccontato una storia, prima di metterla a dormire, e Jace che la prendeva in giro quando lei si era messa in testa di imparare a cucinare da sola perché sua madre si era rifiutata di farlo, mentre suo padre e Alec fingevano di mangiare con gusto ogni cosa per non ferire i suoi sentimenti.
Non sarebbe mai più stato così. Isabelle aveva la tremenda sensazione che non sarebbero mai più riusciti a ridere di vero cuore, che non avrebbero mai più mangiato tutti insieme come una vera famiglia. Non era possibile, con suo padre lontano a svolgere il compito di inquisitore e sua madre che si chiudeva nel suo studio e camminava per la cucina con lo sguardo assente come quello di un fantasma. E con Max, che non c’era più, e Sebastian che, come nel peggiore degli incubi, sembrava aver preso il suo posto nella loro famiglia con la stessa tranquillità con la quale aveva preso il suo posto e la sua sedia a tavola.
Tutto ciò era irreale, e il fatto che Clary fosse tutta contenta di aver ritrovato il suo legittimo e psicopatico fratello, e che Jace continuasse a comportarsi come se tutto ciò fosse normale, rendeva il tutto ancora più ridicolo, oltre che disgustoso e inquietante.
Senza dubbio, Valentine aveva istruito bene suo figlio a recitare la parte del bravo ragazzo, come tutti loro avevano già avuto modo di scoprire la prima volta che l’avevano incontrato, a Idris, quando ancora fingeva di essere l’amabile e premuroso Sebastian Verlac, ma dopo aver scoperto la sua vera natura, e ciò di cui poteva essere capace, il fatto che tutti loro si facessero ancora infinocchiare da lui era semplicemente inammissibile.
Quei due si erano bevuti il cervello. O forse l’amore glielo aveva fottuto completamente. Se era così, doveva necessariamente rivolgere una preghiera di ringraziamento all’angelo Raziel, per avergli risparmiato quell’atroce destino fino ad allora.
Certo, con Simon si trovava bene, era dolce e carino, anche se spesso si comportava da imbecille, tipo quando preferiva giocare alla consolle piuttosto che strofinarsi con lei su un comodo letto, e ogni tanto faceva della battute un po’ stupide, che probabilmente solo Clary poteva capire, ma infondo era un tipo apposto, ed era anche piuttosto innocuo, anche se al momento avrebbe voluto vederlo appeso al muro per la giacca di pelle con un pugnale a serramanico.
Ma non poteva certo dire di esserne innamorata.
In realtà non poteva essere del tutto certa neanche del contrario, non essendolo mai stata prima ma, se era questo l’effetto che faceva l’amore, allora sperava di non innamorarsi mai.
«Caffè?». La voce di Jace, calda e come sempre un po’ sarcastica, la fece tornare alla realtà. Aveva una caraffa colma di caffè fumante in mano e Isabelle stava già per mandarlo a quel paese perché immaginava che quella del caffè fosse solo una battuta per dirle di svegliarsi, ma lui glielo versò in una tazza e dedicò tutta la sua attenzione a Maryse che con la sua tazza fumante in mano uscì dalla cucina così come era entrata, senza proferire parola.
Isabelle fece una smorfia, non le era mai piaciuto il caffè nero, ma pretendere che qualcuno tra loro se ne ricordasse era pura follia, era suo fratello Alec, l’unico di quella famiglia che prestava attenzione a certe cose, peccato che fosse troppo arrabbiato per la storia di Sebastian, per mettere anche un solo piede all’istituto. Se lo immaginò con i capelli scompigliati dal sonno mentre, ancora mezzo addormentato e a piedi nudi, portava la colazione a letto al suo fidanzato, e per più di un attimo rimpianse di non essersene andata via da quell’incubo insieme a lui.
Perfino il Presidente Miao, il gatto di Magnus, era di gran lunga più simpatico di Church.
Isabelle cercò di ignorare il nodo alla gola che le chiudeva lo stomaco, concentrandosi sul colore del caffè che andava schiarendosi per via del latte, ma senza volerlo notò che anche Sebastian aveva aggiunto un po’ di latte nella sua tazza. Il fatto che anche lui il caffè piacesse macchiato le faceva uno strano effetto. Non che avesse mai pensato a lui che bevesse caffè, ovvio, ma se l’avesse fatto l’avrebbe immaginato di sicuro mentre beveva caffè nero.
Nero e amaro come veleno.
Probabilmente lui doveva essersi accorto che lei lo stava fissando da dietro il bordo della sua tazza, perché alzò la testa e la inclinò di lato, incuriosito, e le sorrise impercettibilmente.
Fu una di quei sorrisi appena accennati, di quelli che la gente fa contro la propria volontà, senza riuscire a trattenersi, ma lei lo vide. Lo vide bene, e nonostante intendesse ignorarlo liberamente e fingere che lui non fosse li, o magari che non esistesse, non poté fare a meno di fare un’espressione sorpresa.
Perché quello… quello era un sorriso vero.
Uno di quelli che oltre alla bocca coinvolgeva anche gli occhi.
Uno di quelli che sembrava dire: “Vedi? Noi siamo più simili di quanto pensi. Ci piacciono le stesse cose”. Sembrava parecchio divertito, tanto che, per un attimo, la sua espressione riuscì a farle dimenticare quanto lo odiasse.
Per un attimoebbe persino l’impressione che fosseumano.
I demoni sorridevano? Erano capaci di provare sentimento alcuno?
Non ci aveva mai fatto caso prima, ma i suoi occhi, seppur all’apparenza neri come la pece, avevano uno strano riflesso che li rendeva particolarmente luminosi, o forse era solo la luce del sole che filtrava dalle finestre della cucina a dargli questa impressione? Infondo gli occhi delle persone malvagie non avrebbero dovuto essere vuoti e inespressivi come pozze infinite di buio? Ricordava di aver sentito dire qualcosa del genere proprio a proposito di Sebastian da Clary, o forse da Jocelyn, non molto tempo fa. A lei però non davano quell’impressione. Anzi, se si riusciva a non pensare al soggetto in questione, avrebbe potuto definirli persino belli, caldi; il marrone scurissimo e quasi nero del caffè che stava bevendo, con le ciglia bionde e incredibilmente lunghe che proiettavano ombre scure sugli zigomi alti e perfettamente scolpiti,  e che davano al suo viso l’aria sprezzante e altezzosa di un principe delle tenebre. Stranamente, sembrava molto più cattivo ora, con i capelli  biondissimi come quelli di un angelo, rispetto a quando si era tinto di scuro per impersonare il vero Sebastian Verlac. Di sicuro comunque, nessuno poteva dubitare che quello fosse il vero figlio di Valentine Morgenstern, e Isabelle riusciva quasi a comprendere come la madre di Clary avesse potuto sposare quell’uomo malvagio.
I Morgenstern possedevamo quel tipo di fascino e di bellezza solenne che poteva spingere un angelo persino a rinnegare il paradiso, solo per poterla ammirare da vicino.
Sotto molti punti di vista, lui e Jace si somigliavano molto più di quanto si ci potesse aspettare, considerando il fatto che quei due non avevano una sola goccia di sangue in comune. Beh, senza tener conto del sangue dell’angelo, naturalmente.
Peccato che quello di Sebastian fosse corrotto da quello di demone, e che fosse un maledetto stronzo, anche se questo non toglieva il fatto che fosse decisamente carino. Molto più che carino, in realtà.
La prima volta che l’aveva visto, con i capelli tinti di nero e gli occhi che brillavano come la pece,  aveva pensato che quello fosse uno dei ragazzi più attraenti che le fosse mai capitato di vedere. Aveva fascino e carisma da vendere anche allora, anche se, a quel tempo, fosse troppo immerso nella parte del bravo ragazzo nel tentativo di fregarli tutti quanti come si deve, perché lei lo trovasse davvero interessante.
E Dio sa quanto fosse stato bravo a farlo.
Che infame, bugiardo e manipolatore.
Accidenti a lei, quello era il demonio, l’incarnazione stessa del male, che cavolo le passava per la testa?
Il male non era carino, Sebastian era per metà demone, ed in quanto tale semplicemente disgustoso.  
E lei lo odiava. Lo avrebbe odiato, per tutti i secoli dei secoli. 
Amen!
«Sei molto pensierosa oggi», commentò Clary, mentre si rimpinzava tra un boccone e l’altro. Doveva avere molta fame, oppure era solo entusiasta di mangiare qualcosa cucinata dal fratello. Dio, stentava ancora a credere come fosse possibile che quel mostro fosse il vero fratello di Clary, la cosa che più la stupiva era il fatto che, per la prima volta da quando aveva scoperto di avere un fratello, sembrava davvero felice di averlo. Non come quando tutti erano convinti che fosse Jace e lei sembrava sul punto di volersi strappare il DNA ogni qualvolta si guardava allo specchio.
«Hai una faccia orribile stamattina», commentò Jace, gentile come sempre. Il tatto in persona.
«Non ho dormito bene, stanotte», disse senza alzare lo sguardo dalla sua tazza. Non voleva incontrare di nuovo lo sguardo malizioso di Sebastian che le ricordava quello che era successo quella notte.
Sarai talmente innamorata di me…
Isabelle si ficcò un pezzo di frittella in bocca e inghiottì senza masticare. Per l’angelo, se era buono! Com’era possibile che quell’imbecille sapesse cucinare?
«L’insonnia deve averti messo parecchio appetito», disse Sebastian guardandola mangiare, «considerando con quanta voracità stai divorando quello che hai nel piatto. Pensavo avessi detto che ti fosse passata la fame».
«E io pensavo che tu avessi detto che se intendevo far fuori qualche demone bisognava che facessi scorta di energie», ribatté lei, «come vedi è quello che sto facendo!».
«Isabelle!», fece Clary indignata, capendo al volo a quale demone in particolare si stesse riferendo.
«Che c’è?», disse, «il fatto che lui sia il tuo caro fratellino non lo rende meno pericoloso di qualunque altro demone. E poi, pensavo che anche tu lo odiassi, dopo quello che ha fatto a Max e a Jace, e invece stai qui a difenderlo come se non fosse mai successo niente? Tutto questo è ridicolo!».
«Sebastian ha detto che quello che è successo con Max… è stato un incidente. Non voleva che finisse così».
«Ma davvero? E tu gli credi?». Isabelle puntò i suoi occhi scuri su quelli verdi di Clary, e ve li affondò come coltelli roventi.
«Io… io voglio crederci».
Izzy fece una faccia nauseata e distolse lo sguardo. «Sembri il suo avvocato», mormorò.
«Lui è mio fratello».
«Già», fece Isabelle, «appunto! E Max era il mio. Cristo santo, non aveva neanche dieci anni, l’avete dimenticato?».
«Non l’abbiamo dimenticato», intervenne Jace, sollevando lo sguardo al soffitto. «So che per te è difficile, è una situazione difficile per tutti, ma non puoi provare a dargli almeno un briciolo di fiducia?».
«Non ci posso credere che lo stai dicendo davvero», lo accusò Isabelle, indignata, «questo non sei tu. E’ quel maledetto legame che ti ha fatto il lavaggio del cervello».
Jace la guardò calmo, come se tutto ciò non lo toccasse personalmente, e scosse le spalle. «Il legame non funziona così. Non sono il suo burattino, non più almeno. Riesco a pensare con la mia testa adesso, sai? Sto solo dicendo che tutti meritano una seconda possibilità».
La ragazza alzò le mani, in segno di resa. «Va bene», disse, «fingiamo che vada tutto bene, giocate pure alla bella famigliola felice mentre lui probabilmente pianifica di sterminare l’intera razza umana e quella dei Nephilim dalla faccia della terra».
«Mia piccola e diffidente Isabelle, la tua tenacia è disarmante. Se mettessi la stessa determinazione che hai nel dubitare di me per dare la caccia ai demoni… beh, ho la netta impressione che potrei essere davvero finito come il mio caro padre. Morto. Invece…».
«Invece lo saresti, se la tua premurosa mamma demone non ti avesse riportato in vita con la magia nera legandoti al mio fratello idiota», sbottò Izzy, rivolgendo ad entrambi un occhiata acida come veleno.
«Oh, giusto», disse Sebastian, dandosi un colpetto in fronte. «Quasi me ne dimenticavo, ma… ehi, non sarei qui se non fosse stato per il sangue del tuo fidanzato diurno. A proposito, ringrazialo per me».
«Ringrazialo da solo, se ci tieni tanto», ringhiò la ragazza.
«Puoi anche ringraziare me, se vuoi», fece presente Jace, sospirando come se si stesse annoiando. «Tecnicamente si è trasformato in un diurno grazie al mio sangue».
Sebastian non gli prestò attenzione, continuando ad importunare la ragazza.
«Non state più insieme?».
«Questi non sono affari tuoi», sibilò lei, stringendo la forchetta tra le dita fino a farsi sbiancare le nocche. Non aveva intenzione di cedere alle sue provocazioni. Non l’avrebbe fatto.
«Ma dovrebbero essere affari miei», intervenne Maryse, brusca, in piedi davanti alla porta. Tutti i presenti si voltarono a guardarla, sorpresi. Nessuno di loro si era accorto che fosse tornata. «Cos’è questa storia? Tu e quel vampiro…»
«Si chiama Simon», ribatterono in coro Clary e Isabelle.
Maryse le ignorò. «Lui è il tuo ragazzo?», chiese, con il mento sollevato e le sopracciglia aggrottate.
«No mamma, non è il mio ragazzo», sbuffò la figlia. Lasciò andare la posata contro il piatto, producendo un tintinnio fastidioso e incrociò le braccia davanti al seno. «Non più, almeno».
«Bene», fece Maryse, andando verso la macchina del caffè e dandole le spalle per chiudere lì il discorso.
«Stai dicendo che avete rotto?», chiese Clary balzando dalla sedia, «lui lo sa?».
«Bene?», ripetè Isabelle a sua madre, fingendo di non aver sentito Clary. Non c’era proprio niente che andasse bene, in realtà.
«E’ un nascosto Isabelle», disse Maryse con semplicità, come se ciò bastasse a chiarire la sua opinione in merito, «non puoi stare con un nascosto, lo sai».
«In realtà posso eccome! Gli accordi non… ».
«Gli accordi non hanno nulla a che vedere con questo», chiarì la donna. «Sono io che te lo proibisco».
«Ma Alec sta con Magnus. Anche lui è un nascosto. E la madre di Clary e Luke…».
«E’ diverso», la interruppe la madre.
Isabelle si alzò dalla sedia, spingendola indietro con le gambe, con furia. «Perché Simon è tecnicamente morto? O perché prima di essere un vampiro era un mondano?»
«Secondo me è perché somiglia ad un furetto», mormorò Jace con la bocca piena, nel malriuscito tentativo di allentare la tensione. «Non è strano che un vampiro somigli ad un furetto?».
«Jace!», sbottò Clary. «Taci».
«Tuo fratello ha diciotto anni, Isabelle.  E’ un adulto ormai, e per quanto io non approvi la sua decisione… non spetta certo a me dirgli ciò che può o non può fare. Per quanto riguarda Jocelyn, beh, Luke era uno di noi, un tempo. Lo erano entrambi, ma lei non è più una Cacciatrice, ha smesso di esserlo anni fa, non deve più rispondere all’opinione che il Conclave ha di lei, sempre che gliene sia mai importato qualcosa. Ma tuo padre è l’inquisitore, adesso,  abbiamo una reputazione da tutelare e tu sei mia figlia, sei una Lightwood e sei minorenne, per cui farai quello che ti dico».
«Ma mamma…».
«Il discorso è chiuso», la zittì Maryse. «Ci sono questioni più urgenti da discutere adesso».
Isabelle avrebbe voluto correre via piangendo e sbattere la porta, come quando aveva dodici anni e Jace e Alec la facevano arrabbiare dicendo che una donna non sarebbe mai potuto essere un buon Cacciatore come un uomo. Ma non era più una bambina, non poteva più sbattere i piedi e andarsene via. Doveva affrontare la questione da adulta, da donna. E l’avrebbe fatto, se un giorno ce ne sarebbe stato bisogno. Ma adesso… che senso aveva lottare per qualcuno che non sapeva neanche quello che voleva? Qualcuno che con ogni probabilità l’avrebbe messa sempre in secondo piano, preferendole un’altra?
«Di che si tratta?», chiese Jace. «E’ successo qualcosa?».
«Nulla di rilevante, ancora», disse Maryse, lanciando una rapida occhiata alla figlia e distogliendo lo sguardo, come se non sopportasse di guardarla. «Ho ricevuto un messaggio dalla città di Ossa. Un gruppo di Fratelli Silenti sarà qui in mattinata, per discutere di alcune importanti questioni. E’ probabile che vorranno farvi delle domande, quindi dovrete essere tutti presenti». Maryse fece una breve pausa e incrociò le mani in grembo. «Con tutti intendo anche Jonhatan, naturalmente».
 «Come ho gia detto preferirei mi chiamaste Sebastian», disse il ragazzo, tranquillo.
«Il tuo nome è Jonathan Cristopher Morgenstern», ribattè la donna, senza tuttavia guardarlo. «E’ l’unico modo in cui ti chiamerò».
Sebastian alzò le spalle, con rassegnata nonchalance, poi Clary disse: «Che genere di questioni dovremmo discutere? Si tratta di mio fratello? Vogliono cacciarlo?».
«E’ probabile che vogliano discutere di lui, certo», disse Maryse, «ma non credo intendano cacciarlo».
Purtroppo.
Quella parola rimase sospese a mezza’aria, come se tutti loro la pensassero, ma nessuno avesse il coraggio di pronunciarla ad alta voce.
«Lasciare che rimanga qui è un modo come un altro per tenerlo d’occhio», aggiunse la donna. Il suo tone era glaciale, autoritario, e quello aveva tutta l’aria di essere un avvertimento. «Inoltre, i fratelli Silenti stanno studiando insieme a Magnus Bane un modo per rompere il legame senza che venga fatto loro del male».
«Intendi senza che a Jace, sia fatto del male», la corresse Sebastian. «Puoi anche dirlo, non mi offendo mica. Non sono così ingenuo da pensare che al Conclave importi qualcosa di me, dopotutto. Se esistesse un modo per separarci senza che il mio fratellino rischi qualcosa, l’avrebbero già fatto, anche se questo dovesse significare la mia morte».
«Non è vero!», proruppe Clary, afferrando il braccio del fratello. «Non permetterò loro di farlo. E neanche Jace. Non ti faranno del male», aggiunse, «non è così, Maryse?».
La donna fissò lo sguardo in quello della ragazza, poi per la prima volta da quando aveva messo piede all’istituto, probabilmente, guardò Sebastian. «Non spetta a me decidere quale sia la sua sorte», disse con la voce dura e affilata come una scheggia di vetro. «Ma non permetterò che mi sia portato via un altro figlio». Puntò gli occhi azzurri come quelli di Alec, in quelli dorati di Jace, poi senza aggiungere altro, imboccò la porta.
 
Ci furono parecchi secondi di terribile silenzio. All’improvviso, tutti sembravano troppo impegnati a fissarsi l’un l’altro, invece che parlare o finire di mangiare. Jace guardava Clary che, con le piccole dita cosparse di lentiggini era ancora aggrappata al braccio del fratello e lo guardava con un misto di ansia e preoccupazione tutta fraterna. Mentre Sebastian… Sebastian guardava lei. La studiava come se fosse una strana creatura venuta da chissà quale mondo, o come se, all’improvviso le fossero spuntate le ali. Isabelle era consapevole del suo sguardo su di lei, ma preferiva non farci caso. Non poteva pensare davvero di stare dietro ai modi bizzarri di uno che, con ogni probabilità era folle quanto il padre, e malvagio come la madre che gli aveva donato il suo sangue quando non era altro che un minuscolo esserino nel grembo materno. Isabelle si chiese se ci fosse qualcosa di Jocelyn in lui. Una volta, quando Jace era convinto di essere un Morgenstern, aveva detto che tutti avrebbero sempre visto lui come il figlio di Valentine, e Clary come la figlia di Jocelyn, ora che tutti sapevano la verità, si chiese come la gente avrebbe visto quei tre. Nonostante fosse il legittimo figlio di Valentine, lei non riusciva a vedere altro che un demone in lui. Per lei sarebbe sempre stato semplicemente il figlio di Lilith.
Nient’altro.
Cercare di venire a capo dei suoi pensieri, era un’impresa senza alcun senso, ne via d’uscita.
Mentre cercava con tutte le proprie forze di resistere alla tentazione di intimargli di smetterla di fissarla in quel modo – avrebbe significato ammettere che anche lei lo aveva guardato a sua volta – Isabelle notò la benda bianca arrotolata sul palmo della sua mano, da cui sbocciava, come un piccolo fiore rosso, una piccola macchia di sangue. La ferita che lei stesse gli aveva provocato la sera prima, nella sala degli addestramenti. Anche se, tecnicamente, era stato lui stesso a chiudere la mano intorno alla lama.
La fasciatura e con lei anche la ferita erano li, in bella vista, sotto gli occhi di tutti. Isabelle sapeva che, sebbene Sebastian avesse tutti i motivi del mondo per meritare un trattamento anche peggiore di quello da lei offertogli, ferire volutamente un compagno senza alcuna ragione, per quanto disonesto esso potesse essere, era punibile dalla legge, e lui era pur sempre un Cacciatore, in fondo.  
Se lui avesse deciso di dire a qualcuno ciò che era successo, se avesse deciso di condire la verità, piegandola a suo favore, lei sarebbe potuta incorrere in guai molto seri, e per quanto l’idea di fare a pezzettini Sebastian valesse a pieno la punizione che avrebbe potuto ricevere, Isabelle sapeva che c’erano altre persone che doveva tutelare. Non poteva permettere che il nome dei Lightwood venisse infangato per un suo gesto sconsiderato, doveva stare più attenta. Dopotutto, Maryse aveva ragione, suo padre era l’inquisitore, adesso. Non poteva permettersi di agire pensando solo a se stessa e ai suoi sentimenti.
Si voltò lentamente e fece per seguire la madre, appena uscita dalla stanza, quando Clary la chiamò.
«Aspetta un attimo. Izzy, tu e Simon avete litigato?».
«Gia», bofonchiò lei, senza tuttavia voltarsi.
«Oh… ehm.. okay».
«A quanto pare io non sono esattamente il suo tipo», spiegò la ragazza..
«Assurdo, tu sei il tipo di chiunque». Clary rise nervosamente, come se non riuscisse a credere a quello che aveva sentito, o pensasse che fosse solo un trucco per imbrogliare Maryse. «E’ stato lui a dirtelo?».
«Non proprio».
«Allora non capisco come…»
«Non c’è niente da capire, Clary». Le parole le uscirono spezzate, incerte, eppure risuonarono forte e chiare sia nelle proprie orecchie che all’interno della cucina.
 
Forse le mie gambe sono troppo lunghe, oppure i miei capelli non abbastanza rossi per lui. O forse semplicemente gli piacerei di più se avessi le lentiggini o le tette di una dodicenne. In ogni caso, non ho alcuna intenzione di essere il rimpiazzo di nessuno, io. 
 
Avrebbe voluto dirle, quelle parole, urlarle anche, così che anche Simon avrebbe potuto sentirle, dall’altro capo della città, invece le uniche parole che uscirono dalla sue labbra furono fredde e ispide come cristalli di ghiaccio, il suo tono, molto più simile a quella di sua madre di quanto avrebbe mai ritenuto possibile. «Semplicemente mi sono stancata di lui, tutto qui». Mise la mano sulla maniglia della porta, poi si bloccò e con la più indifferente delle espressioni aggiunse: «Anzi, se per caso ti capita di vederlo, digli pure di non chiamarmi più».
Poi si voltò e se ne andò, con il ghiaccio dietro di lei che si sgretolava in migliaia di pezzi, fragili come frammenti di cristallo.






***NOTE DELL'AUTRICE***

Come sempre tremendamente in ritardo, ecco qui a distanza di mesi, il 4° capitolo.
Mi ci è voluto tanto per sciverlo, o meglio, riscriverlo, dal momento che il pc lo aveva cancellato quando era ormai ultimato, ma posso dire di essere soddisfatta delle "modifiche" che sono stata obbligata a fare, causa scarsa memoria.
In questo capitolo abbiamo visto una Isabelle più risoluta che mai, e decisa a comportarsi bene per l'onore della sua famiglia. L'abbiamo vista continuare a odiare Sebastian, ma chissà se sarà in grado di seguire queste strade, nei prossimi capitoli? Seb è troppo irresistibile perchè persino l'orgogliosa Izzy possa continuare ad odiarlo! Mi piace tanto scrivere di questi due personaggi, sia insieme che separatamente. Hanno entrambi dei caratteri forti e determinati... e credo che ne vedremo delle belle grazie a loro.
Come sempre non posso che ringraziare le persone (anche se poche) che seguono la mia storia. I vostri commenti sono importanti e mi spingono a continuare. Spero che continuiate a tenervi compagnia con la mia storia, nonostante i miei ritardi cronici XD

Baci, _RosaSpina_ <3
 
 

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Capitolo 5
*** Il potere della mente ***


5

IL POTERE DELLA MENTE

 

 
 
Le tonache di stoffa color pergamena dei Fratelli Silenti ondeggiavano fluide lungo i corridoi dell’Istituto, circondandosi di passi silenziosi e parole mute sulle bocche dei Nephilim. L’orlo dei mantelli sfiorava il pavimento di marmo lucido ad ogni passo e, per un momento, Isabelle si ritrovò a chiedersi cosa ci fosse al di sotto di esse.
I Fratelli indossavano scarpe? Che tipo di indumenti portavano? In un assurdo momento di sarcastica curiosità, se li immaginò mentre facevano shopping per le vie di New York, con buste di vestiti zeppe di tonache color pergamena tutte identiche.
Poi Rinsavì.
Quello non era di sicuro il momento per dar luogo a simili pensieri, con quegli individui inquietanti dagli occhi cavati e le labbra cucite che camminavano per i corridoio della loro casa, pronti ad interrogarli su solo l’Angelo sapeva cosa, e Sebastian calmo e tranquillo che ostentava la sua indifferenza e l’espressione da vittima innocente persino di fronte a loro.
Sebastian.
Una parte di lei si chiese perché continuava a chiamarlo in quel modo, pur sapendo che quello non era il suo vero nome.
Jonathan. Avrebbe dovuto chiamarlo Jonathan. Ma proprio non riusciva ad associare il vero nome di Jace a quell’essere spregevole. Era come un insulto. Il fatto che quei due portassero lo stesso nome era la prova lampante di come tutti loro erano caduti come piccole mosche nella ragnatela di Valentine.

Salve Cacciatori. 

Le voci dei Fratelli sembravano un tutt’uno, come un coro angelico e rimbombarono nella mente di Isabelle, come in quelle di tutti gli altri presenti. Erano capaci di leggere le menti, potevano entrare dentro alla tua testa e scoprire tutti i tuoi pensieri, i tuoi sogni, le tue paure. Tutti i tuoi più intimi segreti. Isabelle non sapeva se esserne affascinata o spaventata. Erano i detentori della verità, ma la loro doveva essere una vita di silenzio e solitudine. Una vita triste. Non li invidiava per niente, ma sarebbe stato bello avere quel tipo di potere anche solo per un po’. Giusto il tempo di entrare nella mente di Sebastian e provocargli un paio di allucinazioni, così da fargli perdere il senno completamente.
Jace e Clary si staccarono dal muro per primi e andarono incontro alle figure incappucciate, con Isabelle dietro di loro che li seguiva a testa bassa. Li aveva sempre trovati inquietanti, con le loro bocche cucite, i crani calvi e gli occhi cavati dalle orbite, ma non aveva paura di loro. Sapeva che prima ancora di entrare nella fratellanza e di fare voto di silenzio quelle persone erano stati dei Cacciatori, Nephilim e figli di Raziel, esattamente come tutti loro. Tuttavia, l’idea che i suoi pensieri fossero messi completamente a nudo da loro, la metteva a disagio. Cosa le avrebbero fatto, se si fossero resi conto che l’unica cosa a cui pensava da settimane, oramai, era mettere le dita intorno al collo di Sebastian e ucciderlo? Forse l’avrebbero rinchiusa nella Città Silente, per impedirle di dare atto alle sue intenzioni o di impazzire. Quello si, che sarebbe stato un problema.
I fratelli si fermarono davanti alla porta dello studio di Maryse, attendendo di essere ricevuti; Isabelle non sapeva quali fossero i loro nomi e, ad ogni modo, i visi sotto i loro cappucci erano irriconoscibili e parevano essere tutti uguali, ma uno di loro si fermò a guardare Jace per un minuto di troppo, prima che la porta di aprisse e sua madre li invitasse tutti ad entrare, poi si voltò e seguì i confratelli con i movimenti fluidi tipici della fratellanza.
Sebastian fù l’ultimo ad entrare nello studio. Chiuse la porta e si posizionò accanto alla sorella e a Jace, mentre Isabelle andò a sistemarsi dal lato opposto della scrivania, di fronte a loro.

Siamo qui per esaminare i ragazzi.  Disse la voce di uno dei fratelli nella loro mente.

«Bene», fece Maryse, «fate pure, fratello Enoch».
Isabelle guardò di sottecchi il fratello Silente e si chiese come facesse sua madre a riconoscere di chi si trattasse. Lei non riusciva proprio a distinguerli.
Jace e Sebastian si avvicinarono verso il centro della stanza prima ancora che fratello Enoch facesse loro un cenno, per cui Isabelle immaginò che avesse parlato solo all’interno delle loro menti. Il secondo Fratello si avvicinò ai due ragazzi, fece scivolare il suo cappuccio all’indietro, scoprendo il cranio perfettamente liscio e posò le sue dita lunghe e nodose sulle tempie di Jace, che sembrò sussultare appena a quel tocco, mentre Fratello Enoch faceva lo stesso con un impassibile Sebastian.
«Ma si», disse Jace, «facciamolo. Rovistate pure nelle nostre teste, sembra divertente».
Isabelle alzò gli occhi verso il soffitto e quando li riabassò colse l’espressione preoccupata di Clary mentre guardava il fratello e si chiese se anche lei apparisse così in ansia per Jace. Distolse lo sguardo, giusto il tempo di riuscire a riguadagnare un espressione neutra, ma in quel momento entrambi i ragazzi sussultarono come se avessero appena preso la scossa, e Isabelle si morse il labbro, facendolo sanguinare.
«Che cosa gli state facendo?», inveì Clary, a voce un po’ troppo alta e con gli occhi spalancati per il terrore.

Silenzio, ragazzina. Io e fratello Jeremiah non possiamo entrare nelle loro menti senza la giusta concentrazione.

Clary serrò le braccia, incrociandole davanti al petto, risentita. Isabelle sapeva quanto odiasse essere chiamata ragazzina e poteva anche capire la sua agitazione. Aveva sperimentato in prima persona cosa volesse dire avere dentro la propria mente i fratelli silenti, quando avevano cercato di eliminare il blocco che aveva apposto Magnus sotto richiesta di Jocelyn. A giudicare dalla sua espressione di adesso, non doveva essere stato piacevole. Tuttavia Clary si sforzò di rimanere in silenzio, per non interferire con la procedura.
I minuti passavano lenti e lunghissimi, e dopo quello che a Isabelle parve un tempo eccessivamente lungo a guardare i fratelli che affondavano le dita nella testa di Jace e Sebastian, qualcosa parve cambiare.
L’espressione di Sebastian non era più impassibile come lo era stata inizialmente. Le lunghe ciglia bionde tremolavano, sfiorandogli gli zigomi e la mascella era contratta in modo rigido, come se stesse serrando i denti. Jace invece appariva sereno. Sebastian sussultò di nuovo e, all’improvviso spalancò gli occhi, fissandoli su di lei mentre la ragazza faceva un passo indietro per la sorpresa.
Poi Fratello Enoch parlò.

Il legame è forte, non può essere spezzato con l’ausilio del potere della mente,  ne con un semplice incantesimo, ne tantomeno con la forza, se non si vuole rischiare di ucciderli entrambi. Nel migliore dei casi, almeno uno di loro perirebbe, e solo l’Angelo può dire quale dei due sia il più forte. Quale delle loro coscienze prevaricherà l’altra, alla fine. Se mai sopravvivrebbero entrambi potrebbero non essere più loro stessi. 

«Che significa che potrebbero non essere loro stessi?», chiese Clary.

Le loro coscienze sono fuse insieme, al punto da non capire più dove cominci l’una e dove finisca l’altra. Potrebbe accadere che l’uno conservi dei residui della coscienza dell’altro, e viceversa.  Non sappiamo l’entità del danno che potremmo provocare, forzando la separazione.

«Questo significa che rimarranno così per sempre?». Isabelle stringeva i pugni lungo i fianchi, e le unghie le si conficcavano nei palmi, ma non le importava. Niente importava se Jace sarebbe rimasto legato a quel mostro per tutta la vita. Non sarebbe più stato il Jace che conosceva, non sarebbe più stato suo fratello.

Non per sempre. Il legame sta già cambiando, è in continua mutazione, potrebbe dissolversi da solo, ma nessuno può affermare con certezza quanto tempo di metterà e, a quel punto, potrebbe essere troppo tardi.

«Troppo tardi per cosa?», ribatté Isabelle, con un nodo enorme che le occludeva la gola. Non poteva perdere un altro fratello. Non lo avrebbe permesso.

Per salvarli da loro stessi.

«Non capisco che significa», disse Maryse. La sua voce di solito fredda e sicura, sembrava incrinata, adesso, e gli occhi azzurri vacillavano dalle figure incappucciate a Jace. «Se non facciamo niente… mio figlio morirà?».

No. Non morirà, nessuno dei due morirà. Ma sembra che uno di loro stia già prevalendo sull’altro, questo potrebbe cambiarlo per
sempre.


Fratello Enoch e Fratello Jeremiah si voltarono, calandosi nuovamente i cappucci delle loro tonache sulla testa e si voltarono verso la porta, senza aggiungere altro. Il terzo di loro invece, si fermò di fronte a Sebastian e sollevò una mano verso di lui, facendo scivolare la larga manica dell’abito lungo il gomito e mostrando il polsino di una comunissima camicia bianca, da cui spuntava una mano dalle dita lunghe e sottili, con il dorso ricoperto da rune ormai sbiadite. La prima cosa che Isabelle pensò è che le sue non sembravano le mani di un Cacciatore, ma quelli di una donna piuttosto, o di un musicista. Poi il Fratello Silente afferrò gentilmente la mano di Sebastian e la espose alla luce che entrava dalla finestra dietro la scrivania e Isabelle fu costretta a trattenere il fiato, per paura che i battiti violenti del proprio cuore risuonassero fin dentro alla testa del Fratello.
«Questo?», disse Sebastian indicandosi la fasciatura sporca di sangue e rivolgendo una rapida occhiata alla mano di Jace, con la medesima macchia rossa stagliata sul bianco della benda. Isabelle sussultò e per poco non si portò una mano alla bocca per lo sconcerto. Come aveva fatto ad essere tanto stupida? Come aveva fatto a dimenticarsi di una cosa tanto importante? Oltre ai pensieri condivisi, al possibile controllo della mente e al resto, il legame significava più di tutto una cosa.
Ferisci l’uno e anche l’altro sanguinerà.
La sua lama aveva ferito la mano di Sebastian e adesso suo fratello stava sanguinando.
Sebastian sollevò lo sguardo verso di lei e le sorrise appena, poi tornò a guardare l’uomo incappucciato e sfilò la mano dalla sua con naturalezza.
 «E’ solo un taglio da coltello», disse, a nessuno in particolare. Isabelle si rese conto che il fratello aveva posto a Sebastian una domanda che nessuno di loro era stato in grado di sentire e si preparò a impiattellare una scusa decente che le impedisse di finire nei guai. Ma poi Sebastian continuò: «Mi sono tagliato ieri notte, mentre mi preparavo un panino». Sollevò le spalle con noncuranza e rivolse al suo interlocutore un sorriso garbato ed innocente. Un sorriso da Sebastian Verlac. Il ragazzo che li aveva ingannati tutti con la sua finta gentilezza.
«Avevo fame», aggiunse.
Isabelle non si accorse di stare ancora trattenendo il respiro fino a quando non si rilassò e l’aria fuoriuscì dai polmoni, distolse lo sguardo da Sebastian confusa e arrabbiata, mentre gli altri uscivano dalla stanza.
L’aveva coperta. Perché l’aveva coperta? Che diavolo aveva in mente quel mostro? Un mucchio di domande le affollarono la mente, come una nebbia densa e fitta che confondeva i contorni di ogni cosa. Ma una domanda più di tutte necessitava di avere una risposta prima delle altra. Una domanda premeva per essere posta.
«Chi?», disse Isabelle con rabbia, prima che tutti uscissero dallo studio. «Chi sta prevalendo?».
In quel momento, il Fratello Silente che si era fermato con Sebastian si voltò, con uno scatto privo della loro solita scioltezza e sollevò lo sguardo verso di lei.
Lo sguardo. Esatto. Perché a differenza di ogni altro Fratello Silente che lei avesse mai incontrato in tutta la propria vita, quello l’aveva guardata davvero come se la vedesse. Fu solo un lampo. Un’istantanea rubata alle ombre che nascondevano il suo viso sotto al cappuccio, ma lei lo vide. Ne era certa, quel Fratello Silente aveva gli occhi, ed erano scuri come pezzi di carbone.

Jonathan, 

disse una voce all’interno della sua mente, era dolce e profonda, come la melodia prodotta da un violino e, dalle espressioni degli altri mentre i fratelli si allontanavano, Isabelle fu certa di essere stata l’unica ad ascoltarla.


***Angolo dell'autrice***

Stavolta eccomi qui con un altro capitolo, prima di quanto anch'io potessi mai immaginare. Lo scritto d'un fiato e alla fine mi è venuto il lampo di genio! ahahah Vediamo chi di voi capisce di che si tratta... o meglio, di "chi" si tratta. Dopo aver terminato Clockwork Princess non potevo far riferimento ad uno dei mei personaggi preferiti delle origini. Non è SPOILER dato che non vi ho ancora svelato di chi si tratta, e forse non lo farò mai :) Ma chi di voi come me ha finito di leggerlo, saprà di chi si tratta.
Spero di ricevere le vostre recensione, perchè sono quelle che mi spingono a continuare con la storia e spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che vi abbia quanto meno tenuto un pò di compagnia. 

Baci _RosaSpina_

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Capitolo 6
*** Verità Crudele ***


6

VERITA' CRUDELE




La visita dei Fratelli Silenti, seppure breve, era stata parecchio intensa e aveva scosso un po’ tutti. Maryse si era chiusa nel suo studio dopo che erano andati via per tornare alla città di Ossa e Isabelle, Jace, Clary e Sebastian avevano preso possesso della biblioteca per discutere della cosa. Non che ad Isabelle andasse a genio il fatto di passare il suo tempo con Clary e Jace che continuavano a baciarsi e a mettersi a vicenda le mani addosso come se fossero soli al mondo, e stare nelle strette vicinanze di Sebastian la rendeva insieme nervosa e arrabbiata, ma pensare di stare da sola nella sua stanza a rimuginare sulle rivelazioni dei Fratelli Silenti era ancora peggio.
Per di più, la voce di quel fratello continuava a riecheggiarle nella testa come un disco rotto.

Jonathan, Jonathan, Jonathan…

A chi dei due si riferiva? Jonathan era il vero nome di entrambi, infondo, sebbene nessuno di loro sembrava amarlo particolarmente. Era un nome da Shadowhunters; il primo di tutti loro, portarlo avrebbe dovuto essere un onore, ma Valentine non aveva fatto altro che trasformarlo in vergogna.
«Quel fratello Silente», esordì Isabelle ad un certo punto, dopo parecchi minuti di silenzio, «quello che non si è tolto il cappuccio, non mi sembra di averlo mai visto prima». I membri della confraternita erano quanto di più simile a dei medici ci fosse tra i Nephilim, facevano spesso visita agli Istituti sparsi per il mondo per svolgere le loro funzioni, curare i Cacciatori, far nascere bambini, celebrare matrimoni e funerali e, talvolta, investigare su vicende ambigue, proprio come dei detective. Tuttavia, il loro aspetto non li rendeva particolarmente empatici tra i Cacciatori più giovani, seppure molto interessanti, quindi a meno che non fosse strettamente necessario, di solito Isabelle e i suoi fratelli avevano sempre cercato di stargli alla larga. C’erano tantissimi fratelli Silenti, anche se Valentine ne aveva fatti fuori personalmente una quantità considerevole quando si era intrufolato nella città di Ossa per rubare la spada dell’anima e lasciare Jace incatenato in una cella, ma era impossibile conoscerli tutti, senza contare che, solitamente, ogni Istituto, aveva i suoi Fratelli Silenti di fiducia, per così dire. Il fatto che fossero incappucciati e sfigurati però, non rendeva di certo facile distinguerli tra loro, così molto spesso, Isabelle non prestava molta attenzione ai loro nomi.
«Intendi Fratello Zaccaria?», chiese Clary, sollevando la testa dal viso di Jace, stravaccato su una delle consunte poltrone della biblioteca.
Isabelle le rivolse un’ occhiata curiosa. «Come fai a sapere il suo nome?». Tra tutti, Clary rimaneva quella che conosceva meno il loro mondo, essendo entrata a farne parte da relativamente poco. «Lui sembra diverso dagli altri».
«Diverso? Quelli sono tutti uguali. Abiti fuori moda, cranio pelato, occhi cavi… hai presente no?», scherzò Jace, attorcigliandosi una ciocca dei capelli rossi di Clary attorno ad un dito.
In realtà, sebbene non ne avesse alcuna voglia, Isabelle non riusciva a fare a meno di guardarli. Quando Jace e Clary erano insieme, sembravano dimenticarsi del resto del mondo, come se esistessero soltanto loro due. Era come se una particolare forma di gravità li attirasse in modo persistente l’una all’altro. Qualche volta Isabelle si era chiesta cosa si provasse ad essere vittima di un sentimento così grande e profondo, ma allo stesso tempo, non era certa che la cosa le sarebbe piaciuta. Essere totalmente in balia di qualcun altro, affidarsi completamente a lui, donarsi senza riserva… era qualcosa che non faceva per lei. Era sempre stata indipendente, aveva sempre usato i ragazzi per divertirsi, per sentirsi meno sola, o semplicemente per il piacere di usare il suo fascino ed esercitare un certo tipo di controllo su di loro, ma non aveva mai provato ne il desiderio, ne tantomeno il bisogno, di una relazione stabile. La stabilità era qualcosa di effimero, in fondo. Non si poteva fare affidamento su nessuno se non su se stessi, tantomeno su un uomo.
Non poteva fare affidamento nemmeno sul suo stesso padre…
«E’ diverso», confermò Clary, distogliendola dai suoi pensieri e dalle dita di Jace che le accarezzavano la testa. «Lui sembra… più umano», disse, alzando le spalle e incrociando le dita a quelle di Jace.
Tutti si voltarono verso di lei, fissandola con stupore. In realtà, sia lei che Sebastian, la stavano già guardando, o meglio, li stavano guardando entrambi.
«Tutti gli altri fratelli Silenti sembrano… fantasmi», spiegò Clary, visibilmente concentrata nel tentativo di trovare le parole giuste per spiegarsi, «come se non ricordassero più cosa significhi avere dei sentimenti, o amare qualcuno. Ma lui… è diverso. Una volta ho parlato con lui, quando Jace era ancora disperso e non sapevamo che fine avesse fatto. Per questo conosco il suo nome. Mi ha anche detto di essere stato innamorato un tempo… beh, no, in realtà mi ha detto di aver amato molto due persone, quando era ancora un semplice Cacciatore».
«Non ho mai pensato ai Fratelli Silenti in questi termini. Voglio dire, sembrano così diversi da noi… ma lui, non so, non sembra come tutti gli altri», disse Isabelle. «Inoltre… non so, forse è stata soltanto una sorta di allucinazione, o un gioco di luci, ma mi è parso che mi guardasse negli occhi prima, dentro lo studio».
«I componenti della confraternita non ce l’hanno gli occhi», ribattè Jace, con aria saccente, «gli vengono cavati quando prendono i voti, lo sanno tutti».
«Questo lo so anch’io, cosa credi?», rispose Isabelle, facendogli il verso. «Ma lui ce li aveva. Erano neri, li ho visti. Aveva due rune della fratellanza sugli zigomi, ma non era mutilato, sembrava un normale cacciatore della nostra età».
«Aveva anche la nostra età? Scommetto che era anche bello», la interruppe Sebastian, alzando gli occhi al cielo ed espirando dalla bocca. «Se quello che dici non fosse così assurdo penserei che ti sei presa una cotta per un Fratello Silente», la prese in giro. «Il ragazzo-topo non ne sarà contento. Persino fratello Zaccaria è più interessante di lui?».
«Qualcuno mi ricordi perché non posso semplicemente ucciderlo», sbuffò Isabelle, «nessuno sentirebbe la tua mancanza!».
Sebastian scoppiò a ridere, buttando indietro la testa e lasciando che i raggi dorati del sole giocassero con i suoi capelli e probabilmente per la prima volta, Isabelle si permise di pensare a qualcosa a cui non avrebbe mai dovuto pensare per niente al mondo. Era un pensiero folle ed effimero, ma quando si lasciava andare in quel modo, Sebastian sembrava davvero umano. Ma l’idea di un Sebastian umano, poteva essere più assurda soltanto di quella di un Fratello Silente con gli occhi ancora al loro posto, all’interno delle orbite.
«Izzy, Sebastian stava solo scherzando», fece presente Clary, catturando nuovamente la sua attenzione.
«Inoltre», le ricordò Jace, «vorrei farti presente ancora una volta che, se lui muore muoio anch’io». Sollevò la mano infortunata, ricordando a tutti che l’ultima volta che Sebastian si era ferito, lui aveva subito la stessa sorte. Isabelle provò l’impellente desiderio di sbattere i piedi a terra, come quando era bambina e qualcosa non andava secondo i suoi desideri. Se gliel’avesse tranciata, quella mano, ora non farebbero tanto gli spiritosi.
«A proposito. Qualcuno potrebbe illuminarmi sul vero motivo per cui mi ritrovo la mano affettata come un prosciutto? Non crederai sul serio che qualcuno si sia bevuto la balla del panino, non è vero?», chiese Jace a Sebastian.
Per un secondo, Isabelle guardò il figlio di Valentine Morgenstern, sicura che stesse per tradirla;  in fondo, quello era il suo segreto, il fatto che non avesse detto la verità ai Fratelli Silenti o a sua madre non significava che avrebbe fatto lo stesso con gli altri, senza contare che facendola passare come la cattiva di turno, avrebbe potuto recitare ancora più facilmente la parte del povero orfanello pentito o ancora peggio, ricattarla. Ma il ragazzo non disse nulla. Si limitò a guardarla per un lungo momento negli occhi, con la luce della finestre alle sue spalle che si impigliava tra l’oro pallido dei suoi capelli come l’aureola di un angelo o di un Santo. L’inganno più crudele che la natura potesse mettere in atto. Niente di più lontano da ciò che era in realtà.
Sebastian sostenne il suo sguardo per un lungo momento, non sorrideva questa volta, era serio e pensieroso e i suoi occhi erano penetranti come spilli conficcati nella carne tenera di un bambino. Isabelle trattenne il respiro fino a quando lui non fece un passo avanti, fuggendo dalla mandorla di luce che lo avvolgeva, per tornare ad integrarsi alla perfezione con il suo elemento naturale.
Ombra, buio e tenebre.
«Mi dispiace deluderti, fratellino. Capisco che non c’è niente di divertente nel ritrovarsi una mano affettata per colpa di un coltello da colazione, ma questo è esattamente ciò che è successo. Forse avresti preferito che tua sorella mi aggredisse con una spada angelica in piena notte?», rise Sebastian, sinceramente divertito.
Il cuore della ragazza perse un paio di battiti, prima che si rendesse conto che la sua voleva essere soltanto una battuta; cercò di coprirsi il viso con i capelli, per non mostrare il lieve rossore che sentiva salire sulle guance, ma nessuno oltre loro due avrebbe potuto capire che quella era un’allusione a ciò che era accaduto la sera prima. Sebastian era troppo bravo a mentire, perché qualcuno potesse sospettare qualcosa.
«Per lo meno sarebbe stato più eccitante», disse Jace, estraendo lo stilo dalla tasca della giacca e passandolo a Clary per farsi fare un Iratze sulla mano ferita.
«Si», sussurrò Sebastian, scoccando a Isabelle un’occhiata furtiva da sotto le lunghe ciglia bionde, «di sicuro lo sarebbe stato».
«Siete due idioti», disse Clary, esasperata da quanto potessero essere idiote le fantasie sessuali dei ragazzi. «Izzy non lo farebbe mai, non è vero, Iz?». La ragazza sollevò appena la testa dalla runa guaritrice che stava tracciando sulla pelle di Jace, e la guardò attraverso la tenda di riccioli rossi che la rendevano estremamente simile a Jocelyn e tanto diversa dal fratello.
Per fortuna.
«Gia», bofonchiò l’altra, evitando di guardarla direttamente negli occhi.


 
***

 
Gli autunni New Yorkesi erano freddi, grigi e decisamente umidi, niente a che vedere con il clima mite che c’era a Idris quasi tutto l’anno. Isabelle rabbrividì dentro il giubbino di pelle nero e si rimproverò di non aver indossato almeno qualcosa di più pesante sotto, o di una sciarpa che impedisse al vento di insinuarsi all’interno della scollatura del suo cardigan. Non aveva idea di dove stesse andando, era uscita dall’istituto con l’idea di andare a trovare suo fratello Alec, che attualmente si trovava temporaneamente a casa di Magnus Bane, sommo stregone di Brooklyn, nonché suo fidanzato. Ma in realtà l’idea di passare la giornata a contemplare loro due che facevano cicci pucci come due gattini innamorati incuranti di ciò che gli stava attorno, non la entusiasmava granché. Soprattutto visti i suoi recenti sviluppi sentimentali con Simon, che a quanto sembrava, si era già rassegnato all’idea che tra loro fosse finita, sebbene in realtà, Isabelle non sapeva bene neanche se fosse mai cominciata davvero. Non che lei si fosse premurata di rispondere alle sue chiamate della notte precedente, ma d’altronde era stato lui a comportarsi da idiota, preferendo per l’ennesima volta, la sua migliore amica a lei.
Isabelle Lightwood non sarebbe mai stata la seconda scelta di nessuno, tantomeno di un neo vampiro nerd con la fissa per i giochi di ruolo e i fumetti giapponesi.
Manganon fumetti, si corresse mentalmente, con la stessa espressione contrariata che avrebbe assunto Simon se avesse potuto ascoltare i suoi pensieri.
Forse dopotutto aveva sbagliato a dire a Clary di lasciare Simon per conto suo. Certe cose andavano dette di persona, sempre che fosse sicura di volerle dire davvero. Era sempre stata ben felice di disubbidire alle regole dei suoi genitori, frequentare ragazzi che loro non approvavano era un modo come un altro per distogliere l’attenzione dall’omosessualità di Alec, oltre che per dimostrare a se stessa che poteva usare gli uomini a suo piacimento, esclusivamente per divertirsi, o per non pensare a qualcosa di sgradevole, come il tradimento del padre nei confronti di sua madre. Una volta, quando era ancora poco più che una ragazzina di quattordici anni ed era appena venuta a conoscenza della cosa, aveva promesso a se stessa che non si sarebbe mai innamorata. Crescendo, aveva imparato che, frequentando ragazzi che la sua famiglia considerava inadeguati, era più facile lasciarli perdere prima di implicarsi sentimentalmente con qualcuno di loro. Poi era arrivato Simon. Simon che, nonostante fingesse interesse per lei, non aveva occhi che per Clary. Quella era stata la prima volta che aveva pensato di volere davvero qualcuno. Di solito era fin troppo facile far perdere la testa ai ragazzi per lei, le bastava fargli qualche stupido complimento, spostare i capelli da una spalla all’altra, inarcare le labbra in un determinato modo, cose così…. Ma con Simon era stato tutt’altro che facile, probabilmente era quello, il principale motivo per cui aveva iniziato ad interessarsi a lui. Clary era piccola e totalmente priva delle forme che una donna avrebbe dovuto avere per contratto, aveva i capelli rossi e le lentiggini, ed un carattere orrendo, eppure Simon la adorava. Era la prima volta che conosceva un ragazzo che non era interessato solo all’aspetto fisico. Anche lei, voleva sentirsi così speciale per qualcuno…
Senza neanche rendersene conto, Isabelle si ritrovò nelle vicinanze dell’appartamento che Simon divideva con Jordan, l’ex (o forse no) ragazzo di Maya. Non aveva programmato di andare da lui, ma chissà perché era li che i suoi piedi l’avevano portata. Forse era davvero il destino a volerle far pace con Simon, in fondo, a quanto ne sapeva, Clary non aveva ancora avuto modo di parlare con l’amico.
Non sapeva neanche cosa intendesse dirgli realmente, se dare retta alla volontà della madre di chiudere con lui, urlargli contro che l’aveva messa da parte ancora una volta e che non l’avrebbe perdonato, oppure buttargli le braccia al collo, baciarlo e far si che l’aiutasse ancora una volta a dimenticare tutti i suoi problemi.
Era così: voleva dimenticare il fatto che suo padre era chissà dove e sembrava essersi dimenticato di loro, che sua madre passava le giornate chiusa dentro il suo studio, dimenticandosi di rivolgerle la parola per giorni, voleva dimenticare il fatto che Clary sembrava ottenere sempre tutto quello che desiderava, il ragazzo che amava, il fratello che aveva sempre voluto, il suo migliore amico, mentre lei continuava a perdere ogni singola cosa a cui tenesse davvero. Voleva dimenticare Max, l’immagine del suo corpicino inerme ricoperto di sangue tra le braccia di Sebastian e voleva dimenticare lui, tutta la sua intera esistenza, che non aveva fatto altro che portare dolore e distruzione nelle vite di chiunque dal giorno in cui era nato.
Non fu necessario suonare al citofono, il portone era aperto, così Isabelle fece di corsa le scale fino al pianerottolo che ospitava il suo appartamento. Il marmo che rivestiva i gradini e le pareti ad altezza d’uomo amplificava il suono della suola spessa dei suoi stivali contro il pavimento, facendo rimbombare i suoi passi come rulli di tamburi ed espandendo il vociare dei condomini attraverso le porte dei loro appartamenti. Isabelle udì il cigolìo di una porta che si apriva e il rumore di altri passi, poi la voce di Simon che si spegneva spezzandosi improvvisamente e il suono di una risata femminile.
Clary? Possibile che fosse andata da lui per riferirgli la sua decisione di lasciarlo? Quando era uscita era ancora all’ istituto e lei e Jace sembravano parecchio impegnati per pensare che intendesse uscire così in fretta dalla biblioteca per andare in un qualsiasi posto che non fosse la stanza di lui. Inoltre, la risata che aveva appena sentito dava l’idea che lui non fosse così angosciato da quello che lei aveva da dirgli.
Isabelle fece gli ultimi gradini due a due e girò l’angolo che dava davanti la porta dell’appartamento del ragazzo, poi si fermò, senza fiato.
Simon aveva i capelli scompigliati di chi si è appena alzato dal letto dopo una bella sbornia e il colorito leggermente roseo che un vampiro avrebbe potuto avere solo dopo essersi appena nutrito. Indossava una delle sue solite magliette nere, che però aveva tutta l’aria di essere infilata al contrario, e sorrideva come un imbecille cercando di apparire figo nella sua tenuta da creatura della notte. La ragazza che era con lui, invece, era piccola e gli arrivava alle spalle, aveva i capelli mossi di un castano molto chiaro che tendeva al rame e stava cercando di infilarsi una scarpa con il tacco mente con l’altra mano si aggrappava al collo di Simon per tenersi in equilibrio. Isabelle li fissò immobile, dimenticandosi persino di respirare, poi lei gli gettò anche l’altro braccio al collo e sollevandosi sulle punte dei piedi lo baciò.
In quel momento, fu come se qualcuno le tirasse un pugno in pieno petto, i polmoni si svuotarono completamente e fu costretta ad espirare aria dalla bocca, emettendo un suono terribile a metà tra un grido e un attacco d’asma.
«Izzy?». Non appena la vide, Simon perse quel poco di colore che gli era rimasto in viso. Allontanò la ragazza che era con lui, prendendola per le spalle, e farfugliò una serie di parole senza senso condite da un paio di bestemmie su qualche profeta che lei non aveva mai sentito nominare. La ragazza dai capelli mossi di voltò, sorpresa, rivelando che in realtà, a parte il riflesso dei capelli e la corporatura, non aveva nient’altro in comune con Clary. Era molto carina, con il naso piccolo e sottile che terminava con una graziosa punta all’insù, le labbra piccole e a forma di cuore leggermente schiuse per lo stupore e gli occhi di un innaturale viola acceso cerchiati con una spessa linea di eyeliner un po’ sbavata, come se avesse dormito truccata.
«Isabelle… che… che ci fai qui?», domandò Simon, quasi balbettando mentre cercava di riassettarsi i vestiti e contemporaneamente tenere a distanza quella ragazza. Isabelle non rispose. Rimase immobile a fissarli, con gli occhi spalancati che le bruciavano e promettevano lacrime.
Lacrime che non avrebbe mai versato, non adesso, non davanti a loro, non per lui.
«Beh», fece la tipa dagli occhi viola, sollevando entrambe le sopracciglia, di un tono più scure rispetto ai capelli, «e tu chi saresti?».
Indossava uno strano vestito nero con la gonna larga che stava su grazie ad un cospicuo strato di tulle, le maniche leggermente a palloncino e un corsetto chiuso da nastrini rossi che pareva uscito direttamente da un film gotico. Sembrava una specie di bambola di porcellana, una bambola di porcellana dark, con la pelle bianchissima e perfetta, gli occhi enormi e le labbra leggermente arrossate dal bacio del suo ragazzo. Se Isabelle non fosse stata una cacciatrice, probabilmente avrebbe anche potuto scambiarla per un vampiro, ma gli occhi di quel viola finto e intenso dichiaravano palesemente che qualche traccia di sangue demoniaco scorreva nelle sue vene.
Una strega.
Quella ragazza era senza ombra di dubbio una strega.
Il primo pensiero di Isabelle fu che quella stronza avesse fatto un incantesimo a Simon per indurlo a stare con lei, ma il ragazzo sembrava fin troppo consapevole, colpevole e decisamente colto alla sprovvista, per poter passare per qualcuno sotto incantesimo. Inoltre, forzare la volontà di qualcuno con la magia, era qualcosa di estremamente complicato, a dispetto di quanto si pensasse nel mondo mondano.
«La conosci?», chiese la piccola strega a Simon, dato che lei non si decideva a rispondere alla sua domanda.
«Beh, io… si. Lei è… una cacciatrice».
«Una cacciatrice?», ripetè lei, spalancando i suoi grandi occhi viola. «Simon! Non avrai infranto le leggi del conclave, vero? Mi avevi detto che bevevi esclusivamente sangue di mucca». Aveva una vocetta stridula, simile a quella di una bambina, che si intonava perfettamente a quello che era il suo aspetto. In qualche angolo remoto della mente, il ricordo di qualcosa letto in un libro di demonologia riguardo ai demoni che esercitavano i loro poteri tramite la voce, venne a galla.
«E’ così, infatti. Ma lei… ecco… Leyla, lei è…».
Leyla. 
Era così che si chiamava la ragazza che Simon aveva appena baciato, quella con cui l’aveva tradita.
Ancora una volta, aveva preferito una nascosta a lei.
«Io», disse Isabelle, interrompendolo con il tono di voce più calmo che riuscisse a fingere, «sono Isabelle Lightwood. La sua ex ragazza».
Leyla scoppiò a ridere, e la sua voce argentina rimbalzò sulle pareti della tromba delle scale, espandendosi in un eco che parve infinito. «La tua ex ragazza è una cacciatrice? Non ci posso credere, è assurdo!».
«Gia», fece Isabelle, sforzandosi di ridere a sua volta, «assurdo! Soprattutto perché avevo deciso di lasciarlo giusto stamattina. Ero venuta qui apposta per dirglielo, ma a quanto pare non c’è ne affatto bisogno».
Simon sbiancò mentre Leyla la guardò per una frazione di secondo senza capire, poi schiuse le labbra, improvvisamente consapevole e si girò di scatto verso il vampiro, furiosa.
«Izzy, aspetta, posso spiegare…», esordì Simon, come il più prevedibile e vile degli uomini. «Posso spiegare tutto ad entrambe», aggiunse, vedendo l’espressione omicida di Leyla che lo fissava con disprezzo.
Patetico.
«Davvero?», chiese Isabelle, con scherno. «Chissà perché, questa frase non mi è nuova… oh giusto! Il nome Maya Roberts ti dice niente? Sai, non è la prima volta, che il nostro caro Simon si fa beccare come un idiota a giocare con ben due mazzi di carte. Abbi almeno il buon gusto di imparare a non farti scoprire, no?». Alzò gli occhi al cielo, disgustata, dopodiché girò sui tacchi e se ne andò senza aggiungere altro.




***NOTE DELL'AUTRICE***

Okay, vi concedo di lapidarmi. Sono imperdonabile, lo so! Vi ho fatto aspettare davvero davvero tanto, stavolta, altro che 12 anni ad Azkaban, chiedo venia, ma non sempre l'ispirazione arriva al momento giusto, e quando arriva sto sempre facendo qualcos'altro che mi impedisce di scrivere, così quando trovo il tempo per scrivere, dimentico cosa volevo narrare :( Che brutto circolo vizioso!
Or dunque, spero che leggerete comunque questo capitolo, e che continuerete a seguire la storia, sebbene sembri che io non riesca ad essere puntuale, vi prometto che non abbandonerò la storia fin quando non sarà completa. Quindi ogni tanto fate un salto, chissà che non troverete un nuovo capito a tenervi compagna. Prometto comunque di fare il possibile per postare almeno un capitolo al mese :)
Ora entriamo nel vivo della storia, nella parte più interessata. Ora che la storia con Simon è definitivamente chiusa, (su questo non credo ci siano dubbi XD) Isabelle dovrà vedersela con i suoi sentimenti e con iol lato "umano" di Sebastian, che anche se ben nascosto, vi assicuro che c'è eccome!
Bene, che dire, spero che leggiate il capitolo e che commentiate per dirmi cosa ne pensate, ci tengo davvero molto.

Baci <3 _RosaSpina_

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Capitolo 7
*** Nel cuore del demone ***


7

NEL CUORE DEL DEMONE

 



Il gigantesco orologio a pendolo che occupava un intero angolo della biblioteca batté le 20.00 nell’esatto momento in cui il campanello dell’istituto iniziò a suonare.
Sebastian, sdraiato supino sul freddo pavimento di marmo in cui era raffigurato l’angelo Raziel che usciva dal Lago Lyn con la spada e la coppa mortale, abbassò il libro che stava reggendo con una sola mano a testa in giù, così da non perdere il segno, e si alzò a sedere con un grugnito. Aveva passato l’intero pomeriggio li dentro da solo, dopo che Isabelle era andata via e Jace era sparito chissà dove insieme a sua sorella. Ritrovatosi da solo e annoiato, dal momento che la mano ferita non gli permetteva di allenarsi a dovere, si era messo a sfogliare qualcuno dei libri che rivestivano gli scaffali della biblioteca, giusto per ammazzare il tempo.
Quello era un grande cambiamento, in effetti, considerando che, non molto tempo prima, per sconfiggere la noia passava il tempo ad ammazzare qualcos’altro: uccelli, insetti, piccoli roditori… persone.
In realtà, se avesse davvero voluto allenarsi avrebbe potuto benissimo disegnarsi un iratze che facesse sparire completamente la ferita alla mano, così come aveva fatto Jace, ma quando aveva preso in mano lo stilo e si era tolto le bende, esponendo il taglio provocato dalla lama angelica di Isabelle, aveva scoperto di non averne nessuna voglia. Le rune guaritrici, avevano l’incredibile potere di guarire totalmente qualsiasi tipo di ferita, cancellandone, oltre che il dolore, anche il segno della loro esistenza.
Nessuna cicatrice.
Nessuna testimonianza che, gli eventi della notte precedente fossero realmente accaduti.
La sua pelle sarebbe tornata liscia e immacolata come se nulla l’avesse mai scalfita.
Era patetico, lo sapeva fin troppo bene, e la cosa lo faceva ridere di se stesso, ma per qualche stupida ragione, non voleva che quella ferita guarisse totalmente.
Voleva tenersela. Voleva che gli restasse il segno.

Il suo segno.

Il segno indelebile dell’odio più che giustificato che lei provava nei suoi confronti.
Idiota.
Il campanello suonò di nuovo e, per un attimo, Sebastian rimase seduto in attesa che qualcuno scendesse ad aprire. Di certo, chiunque fosse stato, non avrebbe gradito che fosse proprio lui ad accoglierlo, e poi in realtà quella non era neanche casa sua.
Non davvero.

  Alla fine, dato che nessuno si decideva ad aprire a quel povero disgraziato che stava disintegrando il campanello e il portone a colpi di pugni, si alzò e scese al piano di sotto. Quando aprì, si ritrovò di fronte quell’imbecille di un vampiro diurno, che altri non era che il miglior amico di sua sorella, il ragazzo che, per tutti quegli anni, aveva occupato quello che per diritto di nascita avrebbe dovuto essere il suo posto, e che nel caso quella semplice constatazione non fosse già più che sufficiente a renderglielo assolutamente sgradevole, era anche l’attuale ragazzo di Isabelle.
Preferito ad uno sfigato vampiro nerd che trangugiava sangue di mucca e si vestiva come un Nephilim per cercare di sembrare più interessante. Sebastian non poté fare a meno di provare pena per se stesso.
Simon era attaccato al campanello come se ne valesse della sua stessa vita e, non appena lo vide, spalancò gli occhi, sorpreso, e fece un impercettibile passo indietro, rischiando di scivolare sulla scalinata dell’Istituto e di rompersi l’osso del collo. Sebastian non si mosse di un millimetro per impedire la caduta, infondo era immortale e, al contrario della poveretta di turno –isabelle, in quel caso- che si ritrovava a dover vedere ogni giorno la sua brutta faccia – Jace non aveva tutti i torti quando diceva che somigliava ad un furetto – la sua vita non era sul serio in pericolo.
 «Tu…», fece Simon, cercando di rimettersi dritto, forse per sembrare più alto.
«Io?», ribatté Sebastian, con un sopracciglio alzato, appoggiandosi allo stipite del portone per darsi un tono rilassato.
«Sebastian».
«In persona», disse lui, senza accennare a muoversi da dov’era. «Beh, tecnicamente non è proprio così, ma insomma… fa lo stesso». Sventolò una mano con fare spiccio. «Che vuoi, diurno?».
«Isabelle», strascicò Simon, mettendosi davanti a lui, come se intendesse entrare. Invece era ovvio che non poteva farlo. L’Istituto sorgeva su un terreno consacrato e, per quanto immune alle caratteristiche della sua specie, lui rimaneva pur sempre un vampiro ed in quanto tale, era dannato da ogni luogo sacro.
«Isabelle è dentro?».
Il modo in cui pronunciò il suo nome,  provocò a Sebastian un moto di stizza mista a qualcos’altro di completamente sconosciuto che non riuscì a catalogare, e che gli fece venire un gran voglia di prenderlo a calci. O forse, era semplicemente il suono del nome di lei, su quelle labbra, a dargli fastidio.
«Isabelle?», ripeté Sebastian, assaporando con cura ogni sillaba, giusto per il gusto di pronunciare anch’egli il suo nome.
«So che è arrabbiata, e probabilmente io sono l’ultima persona al mondo che vuole vedere, ma se potesse asc…».
«Non è in casa», lo interruppe Sebastian, con freddezza.
«Significa che non è ancora tornata? Ho provato a chiamarla un milione di volte, ma ovviamente non vuole saperne di rispondere, così ho pensato…». Simon si fermò, emettendo un sospirò profondo ed evitando di guardare Sebastian in faccia. «Volevo solo accertarmi che stesse bene».
«E per quale motivo pensi che non dovrebbe stare bene?», volle sapere Sebastian, che senza sapere perché iniziava ad innervosirsi.
«Beh, senza offesa, amico, ma non credo siano fatti tuoi».
In quel momento, Sebastian fu lì lì per tirargli un pugno sul naso, salvo poi essere interrotto dai passi di qualcuno dietro di lui.
«Che succede qui sotto?». Clary, seguita a ruota da Jace era sbucata dalle porte dell’ascensore con l’aria scocciata di chi è stata disturbata mentre si stava divertendo parecchio. «Simon! Che ci fai qui? Sei stato tu a suonare in quel modo? Ci hai spaventati».

Come no, eravate così spaventati che vi siete precipitati di sotto in un batter d’occhio. Sebastian respinse l’istinto di fare quei due una bella ramanzina e, già che c’era, anche una bella lezione sul sesso sicuro e sui contraccettivi, salvo poi ricordarsi che quello, non era esattamente il momento per iniziare a comportarsi da fratello maggiore. «Credo che faccia da furetto, qui, abbia un bel paio di cose da dirci».
 
***
 
Dopo che Simon ebbe finito di raccontare brevemente quello che era successo, ripetendo, tra una frase e un’altra e ad intervalli di almeno cinque minuti, quanto fosse dispiaciuto – se per quello che aveva fatto, oppure per essere stato scoperto, non si era ancora capito – i ragazzi concordarono all’unanimità che dovesse considerarsi fortunato, ad essere ancora tutto intero.
«Simon Lewis, tu sei il più idiota degli idioti, lascia che te lo dica». Dichiarò Clary alzando lo sguardo verso un cielo nuvoloso che andava ad imbrunirsi velocemente.
«Grazie tante», bofonchiò lui, imbronciato, infilando le mani dalle dita lunghe e pallidissime dentro le tasche della sua giacca di pelle. Era ormai il tramonto e, se lui non avesse avuto la straordinaria capacità di sopportare così bene la luce del sole, a quell’ora starebbe aspettando impazientemente che il sole sparisse del tutto dietro l’orizzonte, così da poter finalmente mettere piede fuori di casa. Invece, per sua fortuna, e nonostante il rammarico degli altri membri della sua specie, poteva andarsene in giro dove gli pareva a qualsiasi ora del giorno, il che, per uno che aveva ancora seri problemi ad accettare di essere una creatura della notte, era una gran bella cosa, tanto che spesso tendeva a  dimenticare – o per lo meno ci provava – quanto la sua vita fosse cambiata dopo essere stato trasformato in vampiro.
E poi c’era la questione dell’immortalità, quella si che era davvero dura da accettare. La sua anima era dannata e, per quanto fosse in grado di toccare tranquillamente i simboli sacri come le croci, o riuscisse ormai a pronunciare senza problemi il nome di Dio, quella era qualcosa che non sarebbe mai cambiata.
Dato che Simon non poteva entrare all’interno, si erano tutti riuniti fuori dall’Istituto, istituendo una specie di riunione sulle scale di pietra che si estendevano davanti all’ingresso.
«Cosa pensate di fare, quindi?», esordì Sebastian,  annoiato. Che faccia da furetto – si, doveva ammettere che il soprannome datogli da Jace gli calzava a pennello – fosse un completo imbecille, era ormai stato accurato e almeno su quello, non credeva potessero esserci dubbi. Rimaneva il fatto che nessuno di loro sapesse dove si fosse cacciata Isabelle. A detta del vampiro, erano già passate alcune ore, da quando era andata via dal suo appartamento, e ancora non aveva fatto ritorno a casa. Non che avessero motivo di preoccuparsi, insomma, Isabelle era pur sempre una cacciatrice, andarsene in giro per le vie di New York di notte non avrebbe dovuto essere un problema, per lei, ma sconvolta com’era, non c’era da stupirsi se al momento fosse ad attaccare briga con qualche nascosto, cosa che, naturalmente, avrebbe potuto essere considerato un problema per loro, essendo più o meno vietato dalla legge.
«Per prima cosa», propose Clary, «dovremmo avvertire Maryse».
«Ottima idea», considerò Sebastian, «sempre che tu sia disposta a rimettere insieme gli arti del tuo amico, dopo che la signora Lightwood lo avrà fatto a pezzettini. Si, sembra divertente. Io ci sto!».
«Scusa tanto, Morgenstern, ma nessuno qui ha chiesto il tuo parere», ribatté Simon. Sebastian lo guardò di rimando, con gli occhi neri socchiusi, come se si stesse trattenendo dallo sbattergli la testa contro le sbarre del cancello. Quegli istinti violenti non erano affatto una cosa sana, per la sua mente. La cosa assurda era che non riusciva a spiegarsi per quale motivo avrebbe dovuto farlo, oltre al fatto che era un completo imbecille, naturalmente, ma quelli non erano comunque affari suoi. Si chiese, non per la prima volta, se le sue reazioni iniziassero in qualche modo ad essere condizionate dal suo legame con Jace. Era lui a dover essere arrabbiato con Simon, visto che aveva appena annunciato di aver tradito sua sorella.
«Però ha ragione», disse Jace, «Maryse già ti odia per il fatto che sei un vampiro ed un ex mondano, oltre che il ragazzo che cerca di rubarle la sua preziosa bambina, ledendo la sua reputazione. Inoltre sa bene che sei quello che sei per aver bevuto il mio sangue, cosa che implica il fatto che tu mi abbia azzannato alla gola. Direi che non ha bisogno di un motivo in più per farlo».
«Gia, beh, dovrebbe essere contenta allora, no? La reputazione di sua figlia e il buon nome della vostra famiglia non saranno più messi a rischio dal sottoscritto, dal momento che con ogni probabilità Isabelle non vorrà più vedermi, ne sentire il mio nome».
«E di chi sarebbe la colpa? Non puoi certo darle torto». Sebastian si avvicinò di qualche passo a Simon, e senza neppure rendersene conto alzò il tono di voce di un paio di ottave. «Hai praticamente fatto a pezzi la sua autostima»
«Almeno io non ho ucciso suo fratello!», sbottò Simon, con aria di sfida, come se fossero in gara per chi meritasse di più il suo odio.
«Okay», fece Clary, ponendosi nel poco spazio che era rimasto tra i due ragazzi che, a giudicare dall’espressione di Sebastian, avrebbero finito ben presto per mettersi le mani addosso, «ora basta. Smettetela!». Sbuffò, lasciando che una piccola nube di condensa si formasse vicino alla bocca a causa del freddo. «Si può sapere che problemi hai?», chiese, rivolgendosi a Sebastian. «Neanche ti piacciono, i Lightwood».
«Io non ho alcun tipo di problema», rispose lui, incrociando le braccia davanti al petto e digrignando i denti. «A parte il fatto che mia sorella sembra avere dei gusti assurdi, quando si tratta di scegliersi gli amici. E comunque, invece di rimanere qui impalati a morire di freddo, perché non chiamate il vostro amichetto stregone. Magari Isabelle è soltanto andata a trovare suo fratello per convincere il suo fidanzato a trasformare questo idiota in un pipistrello, e noi siamo qui a preoccuparci per lei come imbecilli». Sebastian si accorse solo un secondo più tardi, di aver usato noi, includendo automaticamente anche se stesso, ma ormai era troppo tardi. Clary lo fissò per un attimo interdetta, con un sopracciglio alzato a metà, dato che non era mai riuscita a sollevarlo del tutto, poi per fortuna Jace lo salvò involontariamente da quegli occhi verdi che sembravano voler scrutare dentro di lui.
«Finalmente qualcuno che ha un’idea decente. Sicuro che non abbiamo neanche un po’ di DNA in comune, vero?», disse Jace, inclinando la testa di lato. «Comunque, credo sarebbe meglio andare a controllare di persona: conoscendo Izzy, non mi stupirei se fosse andata lì per chiedere a Magnus di ritrasformarti in topo. E chissà che lui non accetti di buon grado, infondo è suo cognato, no? Magnus pende praticamente dalle labbra di suo fratello, e credimi, Alec sa essere davvero protettivo, quando si mette in testa di fare il fratello maggiore». Il ragazzo si guardava le unghie, in cerca di una qualche imperfezione su quelle mani che, invece che ad un Cacciatore, sarebbero potute benissimo appartenere ad un musicista. Alzò lo sguardo e lo puntò verso Simon, con un’espressione che nascondeva solo a metà il sorriso che aleggiava sulle sue labbra. «Sul serio, Simon, non vorrei davvero essere nei tuoi panni, al momento».

 
***

Alla fine fu deciso che Clary e Jace andassero a Brooklyn da soli, a controllare che Isabelle si fosse davvero rintanata li, e suggerirono a Simon di tornare a casa, dato che in ogni caso, lui sarebbe stata l’ultima persona che lei avrebbe voluto vedere in quel momento, a meno che non stesse progettando di gettargli addosso dell’acqua santa.
Sebastian fu costretto a rimanere a casa. Ovviamente non sarebbe stato il benvenuto, a casa dello stregone, poiché, giustamente, il suo fidanzato lo odiava anche più di quanto avrebbe odiato Simon non appena fosse venuto a conoscenza di cosa aveva fatto a sua sorella. Inoltre, qualcuno doveva pur rimanere a far da guardia all’istituto, dal momento che Maryse continuava a starsene rinchiusa dentro al suo studio, come se non ci fosse un domani. E forse per lei non c’era davvero. Aveva perso un figlio, era stata praticamente abbandonata dal marito.

Poteva biasimarla? No di certo, visto che la causa di almeno una delle sue perdite era proprio il sottoscritto; non c’era da stupirsi, se non voleva mettere piede fuori da quella stanza, fosse anche soltanto per evitare di incontrare lui.
Tuttavia, per quanto continuasse a ripetersi che quelli non fossero affari suoi, visto che, forse per la prima volta da quando era entrato a far parte della vita di quelle persone, non era lui la causa della sofferenza di qualcuno di loro, qualcosa da qualche parte nel suo corpo continuava a suggerirli che per lo meno, avrebbe potuto esserne la soluzione.
Quale che fosse la parte del corpo in questione, se la testa o qualcosa che stava più in basso, Sebastian non voleva saperlo.
Non fosse mai che Jonathan Christopher Morgenstern, perché infine era pur sempre quello il suo nome, con tutto ciò che ne comportava, si prendesse la briga di preoccuparsi di qualcuno che non fosse se stesso.
Forse avrebbe semplicemente dovuto prendere a pugni sul naso quell’idiota di un vampiro, giusto per sfogarsi un po’ e togliersi lo sfizio, visto che era da tempo che non ammazzava qualcuno, quello sarebbe potuto essere un buon compromesso. Rimaneva da risolvere la questione del perché odiasse così tanto qualcuno che, con ogni probabilità, si sarebbe limitato semplicemente ad ignorare nella sua vita precedente. Se non fosse stato il migliore amico di sua sorella, e se lei non lo avesse nominato almeno un paio di volte al minuto dal giorno in cui l’aveva conosciuta, neanche si sarebbe ricordato il suo nome, forse.
Sebastian considerava Simon Lewis al pari del gatto obeso che viveva in quell’Istituto e che continuava a soffiargli contro ogni volta che gli passava accanto, qualcuno la cui esistenza era totalmente priva di interesse o di significato; era così inutile che se non si fosse accidentalmente fatto ammazzare e trasformato in vampiro a causa della sua idiozia e della sua patetica cotta per Clary, con ogni probabilità sarebbe crepato ugualmente a causa di qualche stupido incidente stradale…
Nonostante ciò, non riusciva a fare a meno di pensare che c’era qualcosa che Simon aveva e lui non avrebbe avuto mai. Pensare di essere geloso di lui lo faceva infuriare ancora di più, e allo stesso tempo lo spingeva a ridere di se stesso.
Perché lui era sempre riuscito ad ottenere qualsiasi cosa avesse mai voluto. Qualsiasi cosa… tranne una.

L’amore.

E non era neanche certo che l’avesse mai desiderato davvero, prima.
Desiderare e volere erano due cose totalmente diverse, infondo.

I demoni non amano, non desiderano. Loro vogliono e basta.

Nessuno meglio di lui sapeva che certi sentimenti non facevano parte del cuore di un demone.
I demoni neanche ce l'hanno, un cuore, disse una voce vagamente simile a quella di Lilith, all'interno della sua testa.
E allora cos’era quella strana sensazione che gli stringeva la bocca dello stomaco ogni volta che pensava a lei? La nostalgia di qualcosa che non sarebbe mai stata sua… qualcosa che non avrebbe mai dovuto nemmeno desiderare.

Lo squillo improvviso del telefono arrivò a scuoterlo appena in tempo, prima che frantumasse tra le dita il fragile fermacarte di cristallo a forma di angelo che non si era accorto di aver preso dalla scrivania. Sebastian alzò la cornetta con un gesto automatico e se la portò all’orecchio.
«Pronto?», rispose, in modo istintivo. Non aveva idea di quale fosse il modo corretto di rispondere al telefono dell’Istituto di New York, ma se era per quello non sapeva neanche se lui fosse autorizzato a rispondere. Comunque, non sembrava esserci nessun altro disposto a farlo, al momento. Dall’altro capo del telefono, una roca voce maschile iniziò a borbottare qualcosa a proposito di una rissa in un locale di nascosti che necessitava dell’intervento dei Nephilim. Il ragazzo stava quasi per rimettere giù l’apparecchio mentre il tizio continuava a parlare, quando il suono di una risata e poi di una voce in lontananza catturarono la sua attenzione, sovrastando l’incomprensibile baccano di sottofondo. Sebastian memorizzò l’indirizzo del posto e riattaccò senza aggiungere altro, imboccando il portone dell’indirizzo come se avesse il diavolo alle calcagna, con l’unica differenza che, almeno per una volta, quel ruolo non spettava a lui.

Che continuasse ad essere semplicemente Jonathan, o che si facesse chiamare Sebastian, quella era una cosa che non pensava sarebbe mai cambiata. Probabilmente avrebbe dovuto essere felice per l’occasione concessagli, per la possibilità di farsi vedere da tutti sotto una luce diversa, di fare per la prima volta qualcosa di buono, di giusto.

Eppure…

Eppure, adesso non gli importava. Adesso, non riusciva a pensare a niente, se non a lei.



***ANGOLO DELL'AUTRICE****

Anche stavolta, imperdonabilmente in ritardo, sono riuscita a pubblicare il nuovo capitolo.
E' stato molto difficile da scrivere, sebbene non succeda gran chè, ma narrare i conflitti interiori dei personaggi, è sempre una gran fatica, almeno per me. Perchè rischio sempre di partire in quarta e dire più di quel che dovrei :P
Comunque sia, anche se come sempre a scoppio ritardato, spero che possiate considerarlo come un piccolo regalo di Natale :)
Ho cercato di esprimere i sentimenti contrastanti di Sebastian, che ancora conserva dentro di se dei sentimenti e dei tratti violenti della sua vita precedente, ma si sa, le cattive abitudini sono dure a morire, anche se scommetto che al momento, più che le vecchie abitudini, il nostro Sebastian vorrebbe veder morire qualcun altro XD Brutta cosa la gelosia!!!
Credo che il prossimo capitolo sia decisivo, e secondo me, anche uno dei più belli e intensi della storia... leggere per credere!!!
Spero commentiate in tante e se il capitolo vi è piaciuto aggiungiate la storia tra i preferiti.

<3 Con amore, 
_RosaSpina_

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Capitolo 8
*** Il grido della bestia ***


8

IL GRIDO DELLA BESTIA


 
 
«Altro sangue di fata!», ordinò Isabelle sbattendo il bicchiere di vetro smerigliato, ormai vuoto, sul liscio bancone di marmo grigio del locale.
«Non credi di averne bevuto già abbastanza, bellezza?», chiese il barista, rivolgendole un’occhiata ammonitrice da dietro il bancone.
L’uomo, se così poteva definirsi, aveva la pelle color cioccolato su cui rilucevano due occhi di un verde tanto intenso da far quasi male a guardarli. Sembrava piuttosto giovane, sui 25 anni al massimo, e se non fosse stato per le pupille strettissime e allungate e per la lunga e sottile lingua biforcuta che schizzava fuori dalla bocca ogni volta che pronunciava una qualche parola che comprendesse la lettera esse, sarebbe potuto benissimo passare per un normalissimo ragazzo di Brooklyn che si pagava gli studi universitari facendo il barista.
Isabelle sollevò lo sguardo dal suo bicchiere, lentamente, lasciando che i lunghi capelli scuri gli ricadessero davanti al viso, nel tentativo di nascondere gli occhi lucidi e arrossati, poi posò lo sguardo su di lui, lasciando che un sorriso languido e seducente le si disegnasse sulle labbra umide di alcool.
«Tu mi trovi bella?», chiese, cercando di mettere meglio a fuoco il viso del giovane uomo che la stava guardando.
Quello sorrise in modo complice, lasciando intravedere i denti bianchi e perfetti dietro le labbra piene. «Ti trovo bellissima, e anche parecchio sbronza a dire il vero, ma credo tu sappia bene entrambe le cose, no? Qualcuno ha forse cercato di convincerti del contrario?», chiese poi.
Isabelle fece una smorfia e si scostò i capelli dalla fronte, con aria infelice, poi tornò a guardarlo con gli occhi stretti. «Dammene un altro e basta!», borbottò, dando un leggero colpetto di unghie al bicchiere.
«Non credo sia una buona idea», disse, notando per la prima volta l’intreccio di linee scure che faceva capolino da sotto il polsino del cardigan, decorandole le braccia come un arazzo damascato. «Almeno ce l’hai l’età per bere,Cacciatrice?».
«Beh», fece Isabelle, scoppiando improvvisamente a ridere, «forse avresti dovuto chiedermelo prima, non credi?». Allargò le braccia, lasciando aprire la giacca sul davanti così da mostrare i marchi che le ricoprivano la bianca pelle del petto e del collo, sotto al pesante rubino rosso che risplendeva sul petto.
Un paio di Nascosti seduti nelle immediate vicinanze dal bancone si voltarono verso di lei, sussurrando parole che Isabelle non si preoccupò di ascoltare, qualcuno si alzò dal proprio posto e uscì dal locale, mentre qualcun altro si avvicinò al bancone per osservarla meglio.
«Forse è il caso che te vai, tesoro. Non vogliamo guai, qui dentro». Il barista si era fatto improvvisamente serio e aveva cancellato dal proprio viso l’espressione complice e vagamente amichevole di un momento prima.
«Dammene un altro e falla finita», bisbigliò la ragazza a denti stretti, sporgendosi appena verso di lui, in modo che il proprio respiro solleticasse il viso dell’uomo serpente.
In quel momento, un leggero odore di rose e sangue s’insinuò nelle sue narici e la costrinse a voltarsi nella direzione da cui proveniva. Un ragazzo dalla pelle molto abbronzata e i capelli scuri e ricci che gli incorniciavano i bei lineamenti latino americani stava in piedi di fianco a lei, con il sorriso a trentadue denti in bella vista e il mento sollevato che lasciava intravedere la cicatrice traslucida a forma di croce che gli decorava la pelle del petto, pochi centimetri sopra il cuore.
«Guarda un po’ chi abbiamo qui», disse il vampiro, ammiccando verso di lei mentre faceva scendere dalle gengive i canini appuntiti.
«Lasciami in pace, Raphael». Isabelle ringhiò, socchiudendo gli occhi per scrutarlo oltre la vista offuscata dall’alcool.
Quello scoppiò in una risata fragorosa che fece tintinnare i bicchieri e le bottiglie di vetro allineati in una fila ordinata dietro il barista, poi si appoggiò con i gomiti al bancone, sfiorandole deliberatamente il braccio con il proprio gomito e si rivolse al barista. «Dagliene un altro, Sirius. Garantisco io per lei».
L’uomo serpente spostò lo sguardo da Isabelle a Raphael con aria sospetta, poi si girò, prese alcune bottiglie di liquore e ne mischiò il contenuto in due bicchieri, spingendoli verso di loro. Raphael prese il suo cocktail e lo sollevò davanti alla ragazza, come se volesse brindare, ma lei si versò il contenuto del bicchiere direttamente in gola, senza degnarlo del minimo sguardo. Non aveva voglia di fraternizzare con altri vampiri. Non adesso e non con lui… beh, in realtà non voleva aver niente a che fare con nessuno di loro.
Mai più.
Barcollando leggermente all’indietro, fece per alzarsi dallo sgabello, e si rese conto che forse, aveva davvero bevuto troppo, soprattutto per i suoi standard solitamente bassi, ma le dita gelide e scure di Raphael si chiusero rapide attorno al suo polso, bloccandola sul posto, seppur fosse chiaro che non stesse usando pienamente la forza che apparteneva ai Figli della Notte.
«Non così in fretta», mormorò il vampiro, facendosi più vicino e sorridendo flebilmente per scoprire la bianca dentatura dai canini acuminati. «Prima ci sono alcune cose di cui mi piacerebbe discutere con te, mia piccola Nephilim».
Isabelle gettò la testa indietro e scoppiò a ridere. «Ah, ma davvero? E sentiamo, cosa ti fa pensare che io abbia voglia di ascoltarti, vampiro?». Pronunciò quell’ultima parola a denti stretti, come una parolaccia o un insulto, tanto che, tutti i Figli della Notte presenti nel locale – e solo allora la ragazza si rese conto di quanti fossero – si voltarono verso di lei. Ricacciò il brivido che le percorse la schiena da dov’era venuto e rivolse uno sguardo ostile al capo dei vampiri di New York.
«Beh, chica, non credo tu abbia molta scelta. Ti pare?». E così dicendo, Raphael fece un cenno del capo ai membri del suo clan, che sembravano tutti aspettando un suo ordine per iniziare a divertirsi. «E poi», riprese, «è proprio una bella coincidenza, il fatto che tu sia venuta tutta sola in un posto frequentato per la maggior parte da vampiri. Sembra quasi che mi stessi cercando».
«Ti sbagli! Perché cavolo avrei dovuto cercarti?».
«Perché, se non ricordo male, tu sei la fidanzatina del Diurno, e visto che, da quel che si dice, sembrano piacerti molto i nascosti, forse, avevi voglia di divertirti un po’ anche con me». Sollevò le sopracciglia, in attesa che lei capisse che la stava prendendo in giro, ma non smise di sorridere.
«Mi dispiace deluderti, ma mi diverto molto di più da sola. E Simon non è il mio fidanzato».
«Ti sei già stancata di lui? Non sembra un tipo gran che interessante, in effetti, e ripensando al modo in cui è stato vampirizzato, non deve essere neanche molto intelligente».
«Grandioso», bofonchiò Isabelle, strattonando il polso in modo che il vampiro la lasciasse andare. «Almeno su questo siamo d’accordo».
«Oh, è per questo che sei venuta qui a bere? Avete litigato?».
Isabelle non rispose, fece una smorfia e incrociò le braccia. «Si può sapere che problemi hai, Raphael? Non hai nient’altro da fare che impicciarti della mia vita privata? Oppure ti piace Simon?», chiese, con scherno. «Se ci tieni tanto posso organizzarti un appuntamento. E’ tutto tuo!».
Raphael socchiuse gli occhi e strinse le labbra, poi, prima che Isabelle potesse prevedere quello che lui stava per fare, si mosse fulmineo vicino a lei e la prese per le spalle, mettendole una mano intorno al collo. La ragazza rimase immobile e trattenne il respiro, sorpresa per quello scatto improvviso e per l’eccessiva vicinanza con quel corpo freddo e senza vita. La sua pelle era così diversa, da quella di Simon, che pur nel suo stato di morte sembrava continuasse ad emanare una debole scintilla di calore umano che l’aveva sempre fatta sentire a suo agio vicino a lui.
«L’unico motivo per cui mi interessa Simon, tesoro, è la sua straordinaria capacità di esporsi alla luce del giorno, ma questo probabilmente già lo sai», sussurrò il vampiro vicino al suo collo. Il suo respiro era freddo e le solleticava la morbida pelle del collo che lui le aveva piegato di lato, esponendole completamente la gola su cui aveva avvicinato i canini. «Ora, Cacciatrice, tu mi dirai per filo e per segno come diavolo ha fatto il vostro amico a sconfiggere la maledizione della notte, oppure, temo che non vivrai abbastanza a lungo da rimpiangerlo».
Nonostante la vista offuscata e la testa leggera per via del Sangue di Fata, la Cacciatrice si impose di rimanere immobile e di controllare i battiti del proprio cuore, regolarizzandoli con qualche esercizio di respirazione. Sapeva di essere in pericolo, eppure non aveva paura. Se anche fosse morta in quel momento, per mano di un gruppo di vampiri ubriachi, l’avrebbe fatto combattendo. Era abituata a quel genere di sensazione, alla morsa che le stringeva lo stomaco nelle situazioni di pericolo, alla possibilità neanche tanto remota di morire in battaglia, alla consapevolezza che ogni qualvolta uscivano per andare a caccia, qualcosa poteva andare storto e che le rune avrebbero potuto rivelarsi totalmente inutili, come quella volta in cui Alec aveva rischiato di morire per mano del Demone Superiore che si era impossessato del corpo della vicina di casa di Clary.
Cicatrici e morte. 
Era quella la vita di ogni Cacciatore. Era quella, la sua vita. Lo sapeva, lo aveva accettato molto tempo fa, ed era sempre stata pronta. L’unica cosa per cui aveva mai avuto davvero paura in tutta la sua vita, era quella di perdere in battaglia le persone che amava. Ma adesso era sola, poteva permettersi di mantenere la calma, di essere tranquilla, di non dover pensare a nessun’altro, mentre la frusta dorata che teneva sempre attorcigliata al braccio destro, sotto la manica della giacca, scivolava piano verso il suo polso.
Nel silenzio della taverna gremita di Nascosti, Isabelle si rese conto di più cose contemporaneamente. Dei vampiri che, disponendosi in cerchio l’avevano circondata, del barista che guardava la scena con gli occhi sgranati e immobili e nel frattempo, armeggiava con qualcosa sotto al bancone, dell’odore di alcool mischiato a sangue che caratterizzava l’alito di Raphael, e dei suoi denti freddi e caldi insieme che scendevano sul suo collo, conficcandosi in modo lento e atroce dentro la sua carne.
Con calma inumana, fece scattare il polso all’indietro e con un colpo secco lasciò che la frusta si attorcigliasse attorno alla gamba di Raphael che, sorpreso, si allontanò funesto da lei, strappandole la carne su cui aveva conficcato i denti.
Incurante del dolore, Isabelle tirò la frusta con forza, mandando il capo dei vampiri di New York a gambe all’aria mentre, tutto il suo clan le si riversava addosso con gli occhi rossi e allucinati per l’odore del suo stesso sangue.

 
 
***
 
 
Sebastian era corso fuori dal portone dell’Istituto senza neanche pensare di passare prima dall’armeria per portarsi dietro almeno qualche spada angelica o un pugnale, così adesso si ritrovava a correre per i quartieri più squallidi di Brooklyn senza nient’altro che il suo stilo infilato nella tasca interna della giacca di pelle nera. Non che la cosa lo preoccupasse, ovvio, se qualche malcapitato dei bassifondi avesse avuto la brillante idea di aggredirlo per derubarlo, si sarebbe presto reso conto che a pagarne le conseguenze, sarebbe stato lui stesso.
Fin dalla più tenera età, Valentine lo aveva costretto ad impiegare il suo tempo esercitandosi tanto con il combattimento corpo a corpo, quanto con le armi da Cacciatore, sebbene il suo destino non prevedesse di combattere contro i demoni, come tutti i Nephilim avrebbero dovuto fare.
Tuttavia, quando l’uomo al telefono lo aveva informato della rissa all’interno del locale frequentato da Nascosti sulla trentaduesima strada, nei pressi dell’Holy Cross Cemetery, Sebastian non immaginava di certo la scena che si sarebbe ritrovato davanti.
L’intero posto era sottosopra, come se qualcuno avesse improvvisamente deciso di rovesciare per terra ogni singolo oggetto contenuto in quella stanza. C’erano bicchieri di vetro frantumati e bottiglie di liquore riverse sul pavimento e sul bancone che inzuppavano di alcool qualsiasi cosa si trovasse li vicino. Sedie di legno fracassate su tavoli capovolti sopra persone - Nascosti- che le usavano come scudo, o sotto i quali alcuni sembravano essersi spiegabilmente addormentati, una bottiglia di vodka stretta tra le braccia come il biberon di un bambino e l’aria beata di chi non si rende conto di ciò che gli accade intorno.
Sebastian, scavalcò i corpi di alcuni vampiri che erano finiti sul pavimento e ne colpì uno sul naso mentre quello cercava di rialzarsi, poi individuò Isabelle, in piedi in un angolo del locale mentre cercava di tenere a bada quattro vampiri che le si erano parati davanti, la frusta dorata stretta in pugno e l’eccitazione della battaglia stampata sul viso pallido e bellissimo, su cui non c’era la minima traccia di paura. Sferzò un paio di colpi, colpendo in pieno viso quello che le era più vicino, che lanciò un urlo inumano, rannicchiandosi su se stesso con le mani davanti alla faccia, mentre un altro vampiro dalla pelle pallida ma abbronzata la afferrò prima per i capelli e poi per un braccio, torcendolo dietro la schiena e costringendola a voltarsi di lato.
I segni rossi e violacei sul suo collo bianco gli balzarono davanti agli occhi come spie luminose e mentre Sebastian si faceva largo verso di lei sgomitando e fracassando costole a colpi di pugni, fu sorpreso da una rabbia omicida che gli squassò il corpo.
Il mondo si colorò improvvisamente di rosso e il mostro che albergava dentro il suo corpo cominciò a ringhiare.  

 
***
 
«Lasciala andare!», ringhiò Sebastian a denti stretti, stringendo le dita della mano attorno al collo freddo del vampiro.
Isabelle aveva quasi pensato che sarebbe morta li, in quello squallido bar, divorata dai figli della Notte. Si era immaginata a terra, pallida e bianca, con i lunghi capelli neri riversi in una pozza di sangue, il suo. Si era persino immaginata il suo funerale, lei vestita con un bellissimo abito bianco e sigillata in una bara di cristallo trasparente, proprio come la principessa della fiaba che sua madre le leggeva da bambina, per farla addormentare.
Ma quando aveva visto Sebastian entrare dalla porta, i capelli di un biondo tanto luminoso da riflettere una luce accecante, come quella di un angelo vendicatore e gli occhi, neri e terribili, di un principe dell’inferno, allora aveva saputo di essere salva.
Salva.
Salvata dal suo peggior nemico. Una contraddizione vivente che non smetteva mai di sorprenderla.
Neanche nelle sue fantasie più assurde, avrebbe potuto immaginare che potesse essere proprio Sebastian, a sottrarla dalla morte. Lui che, solitamente, della morte ne era causa, adesso sembrava voler giocare a fare l’eroe. Isabelle non si era mai fidata di lui, non dopo quello che era successo con Max, almeno. Eppure era lui, quello con le mani strette saldamente intorno alla gola di Raphael e un’espressione feroce sul viso pallido che sembrava perfettamente scolpito nel marmo. Con  un guizzò veloce degli occhi le rivolse una muta domanda, quasi a volersi assicurare che lei stesse bene, e nonostante in quel momento sarebbe voluta scoppiare in singhiozzi, Isabelle annuì impercettibilmente e distolse lo sguardo da lui. Non sopportava di guardarlo negli occhi, non sopportava quella ruga di apprensione tra le sopracciglia di un viso che solitamente non lasciava trapelare alcuna emozione.
Sapeva di non poter fare alcun affidamento su Sebastian, di non potersi fidare di lui.
Era un mostro.
Un esperimento mal riuscito nato dalla mente contorta e malata di Valentine; per quanto potesse fingere bene, non sarebbe mai stato come tutti loro, eppure…
Non c’erano Alec, ne Jace a salvarla. Non era stato Simon, a trovarla, ne sua madre o tantomeno suo padre, che al momento era chissà dove, impegnato in qualcosa che forse nemmeno l’Angelo sapeva, pur di stare lontano dai ricordi.
C’era  Sebastian.
«Lasciala andare, ho detto», scandì nuovamente Sebastian, stavolta più lentamente. «Adesso!», disse stringendo più forte le dita intorno al suo collo.
Raphael allentò la presa sul braccio fino a lasciarla andare e lei fece qualche passo indietro per mettere distanza tra loro. «E tu chi diavolo saresti?», provò a dire, nonostante la voce strozzata.
Naturalmente, entrambi sapevano che era impossibile soffocare un vampiro, dal momento che, tecnicamente, non avevano bisogno di respirare, ma le mani di Sebastian, sembravano perfettamente capaci di spezzargli il collo con un colpo solo, e Raphael sembrava abbastanza intelligente da capire che il suo aguzzino faceva sul serio, per cui il terrore negli occhi del vampiro, era più che giustificato.
Nonostante la tensione, Izzy non potè fare a meno di constatare la comicità di quella domanda.
Chi diavolo saresti? 
La risposta era tanto semplice quanto scontata: nessun demone dell’inferno avrebbe potuto competere con Sebastian. Lui era peggio del diavolo stesso.
«Chi sono io?», fece Sebastian, con un sibilo a metà tra una bassa risata e un latrato. «chi sei tu, piuttosto, e che vuoi da lei?». Il cenno del mento verso Isabelle non era necessario, ma Sebastian ne approfittò per concedersi una rapida occhiata alle sue condizioni.
«Oh», sorrise Raphael, divertito, «sei suo amico? Sei uno dei tirapiedi del Conclave?».
«Solitamente ci chiamano Nephilim, ma in effetti ho sentito di peggio», ribatté Sebastian, guardando per un attimo la ragazza, che si era quasi rannicchiata contro una parete. Le rivolse un rapido sorriso, come se invece del ragazzo che teneva quasi appeso per il collo, fosse lei quella che cercasse di stuzzicare, poi tornò immediatamente a Raphael, e Isabelle percepì tutta la rabbia trattenuta nei muscoli della mascella in tensione, nelle vene che dal collo gli scendevano giù fino alle braccia e alle mani, azzurre ed in rilievo sotto la sua pelle candida. Il ragazzo strinse un po’ di più le mani e sollevò il vampiro da terra, lasciando che i suoi piedi dondolassero a pochi centimetri dal pavimento, poi lo scaraventò dritto contro il muro, lasciandolo per un paio di secondi senza fiato, ad ansimare contro la parete in cerca dell’aria che non aveva bisogno di inspirare.
«Per quanto riguarda il Conclave», disse lentamente Sebastian, «in effetti ho la netta sensazione di non godere della loro simpatia. Ma chissà, magari è per via di quelle piccole incomprensioni con mio padre, che ha praticamente cercato di sterminare la sua stessa razza, o forse ce l’hanno con la mia cara mammina per quella storia della dannazione eterna. Sai, Lilith non è molto ben vista ai piani alti».
Tutto intorno a loro si alzò un brusio di sottofondo che iniziò a ripetere il nome di Lilith come una litania, fino a quando qualcuno in fondo domandò a voce più alta: «Lilith? La regina dei demoni?».
«Io preferisco chiamarla Madre, ma se preferisci Regina… beh immagino sia lo stesso».
La gola del vampiro vibrò sotto i palmi delle sue mani, mentre Raphael veniva scosso da una violenta risata.
«Stai dicendo che tu saresti tipo… uno stregone? Un figlio di Lilith?», chiese con scherno, divertito come se fosse appena riuscito a smascherare un inganno. «E con tutti quei Marchi addosso ti aspetti davvero che qualcuno ci creda?».
Sebastian alzò impercettibilmente le spalle, senza mollare la presa. «No. Non sono semplicemente un figlio di Lilith». La sua voce era spaventosamente calma, ma in un modo inquietante. «Io sono il figlio di Lilith». Improvvisamente strinse con forza le unghie attorno al collo di Raphael, lasciando sulla sua pelle delle mezzelune insanguinate, e lo schiantò violentemente contro il muro di mattoni ruvidi. «L’unico!».
Isabelle sussultò, emettendo un gemito, e si appiattì contro la parete come un gattino. Gli occhi scuri spalancati erano fissi su Sebastian mentre si portava la mano alla bocca per impedirsi di cacciare fuori un urlo. I mormorii di sottofondo si zittirono di colpo, come se tutti i suoni fossero stati risucchiati dalle pareti. La tensione nell’aria era palpabile. Il cerchio di Figli della Notte stretto intorno ai tre si allentò visibilmente, mentre i vampiri arretravano lentamente, esitando.
Raphael raschiò con la gola nel tentativo di parlare, ma Sebastian strinse ancora più forte. «Mi prendi in giro, per caso? Lo sanno tutti che quella non ha figli. Non la chiamano forse “la signora dei bambini morti”?».
Il ragazzo parlò piano, tra i denti. «Se vuoi sapere se sono uscito dal suo ventre, sporca sanguisuga, la risposta èno, naturalmente. Ma quello che scorre nelle mie vene è senza dubbio il suo sangue».
Gli occhi di Raphael si spalancarono percettibilmente, le pupille si dilatarono fino ad assorbire quasi completamente l’iride.
«Tu sei… quello che ha infranto le difese della Città di Vetro? Sei l’esperimento di quello psicopatico di Valentine?», mormorò, tra i colpi di tosse.
«A quanto pare, la fama di mio padre mi precede», commentò Sebastian. La voce piatta, gelida quasi come il buio impenetrabile in cui affogavano i suoi occhi e un’espressione mista tra sarcasmo, sdegno e rabbia celata dietro quella maschera di perenne indifferenza. Isabelle guardò il suo viso mutare, mentre cercava di reprimere la voglia di sfogare quella rabbia contro Raphael, ma quando i suoi occhi incontrarono quelli del ragazzo, lui accennò un impercettibile sorriso.
Un sorriso di scherno, ovviamente, poiché doveva leggerle negli occhi la paura, e la muta richiesta di lasciare il collo del vampiro e di andarsene al più presto da li, ma pur sempre un sorriso. «Ora che ci siamo presentati», disse, mollando definitivamente la prese e lasciandolo cadere sul pavimento sporco come la carta spiegazzata e inutile di un cioccolatino, «ordina ai tuoi scagnozzi di ripulire questo casino e poi porta il tuo schifoso culo da parassita fuori di qui». Si allontanò di un passo e fece schioccare le dita in aria, mentre si voltava piano. «Forza!».
Isabelle si staccò lentamente dal muro, e fece per seguirlo fuori dal locale, ma non appena gli fu accanto, una risata gracchiante li bloccò sulla porta, costringendo entrambi a voltarsi indietro.
Raphael, rideva convulsamente, appoggiandosi con una mano al bancone mentre con l’altra si massaggiava la gola dolorante, sporcandosi le dita con il sangue che stillava in piccoli rivoli lungo il petto e la croce che portava al collo, dove il Cacciatore aveva affondato le sue unghie.
«Si può sapere che cosa hai ancora da ridere?», chiese Isabelle, con voce stridula, stanca ed esasperata da tutto quello che era successo. «Non ne hai ancora avuto abbastanza, forse?».
Continuando a sogghignare, il vampiro si sforzò di parlare. «Mi dispiace tesoro, ma trovo davvero divertente il fatto che voi Cacciatori vi affanniate tanto nel tentativo di affermare la vostra superiorità sociale e poi non vi facciate problemi a trastullarvi con la peggiore feccia dell’universo. Non c’è che dire comunque, hai fatto un bel salto di qualità: dalla ragazza di uno sporco Nascosto alla puttana di un demone bastardo! Devo farti i complim…».
Isabelle scoprì che, senza che se ne fosse resa conto, la sua mano destra si trovava già sulla frusta che portava al fianco, ma prima ancora che Raphael potesse finire il suo stupido teatrino, si ritrovò nuovamente inchiodato al muro dal pugno di Sebastian. La voglia che aveva di stenderlo fuori e farlo friggere per bene alla luce del sole si estinse quando si accorse del fiume di sangue che scivolava sulla parete contro cui Sebastian lo aveva appeso e scivolava piano dietro di lui fino a formare una piccola pozza sulle piastrelle a terra. Il braccio del Cacciatore, conficcato fino all’avambraccio dentro il petto del vampiro era completamente inzuppato e stillava gocce vermiglio dal gomito come una tubatura rotta.
Per un attimo la ragazza rimase immobile a guardare l’espressione stupefatta di Raphael, che fissava il punto in cui l’arto di Sebastian spariva dentro il suo torace con gli occhi spalancati. Si muoveva convulsamente, contorcendosi per il dolore ad ogni piccolo respiro del suo aguzzino e muoveva le labbra cercando di articolare qualche suono.
«Ho il tuo cuore stretto nel mio pugno», mormorò piano Sebastian avvicinandosi all’orecchio di Raphael, «lo senti, come le mie dita vi si stringono intorno? Quello che rimane della tua patetica non vita è letteralmente nelle mie mani. Quindi dimmi, Sporco Nascosto, quanto trovi divertente tutto questo».
«Sebastian!», chiamò Isabelle scioccata.
Quello si che era un bel guaio. Anche se era stato Raphael il primo ad attaccare, e lei e Sebastian si erano solo difesi, non avevano nessun mandato di esecuzione da parte del Conclave. Inoltre, lui era ancora sotto stretta sorveglianza dell’istituto di New York e quindi di Maryse. Se questa cosa fosse saltata fuori, tutti loro sarebbero stato puniti e sua madre avrebbe potuto perdere il ruolo di direttrice. Inoltre, Sebastian sarebbe stato condannato in modo definitivo.
Isabelle fu presa dal panico. Lo chiamò di nuovo, urlando, ma lui non diede segno di averla sentita e continuò la tua vendetta. La ragazza vide gli occhi del vampiro stringersi in una smorfia di dolore e la vena sulla sua fronte gonfiarsi.
«Dillo!», urlò Sebastian con rabbia attirandolo verso di lui per poi sbatterlo nuovamente contro il muro. Raphael emise un rantolo di puro dolore e il suo viso si deformò mentre i canini scendevano dalle gengive.
«Sebastian, ti prego…», implorò Isabelle disperata, «lascialo andare!».
Il suono rotto della sua voce fece infuriare ancora di più il Cacciatore. La sua mente era devastata dalla rabbia, che gli impediva di pensare lucidamente. Anche i suoni erano attutiti,  l’unica cosa chiara era la voce del mostro dentro di lui che continuava a urlare: Uccidilo, uccidilo, uccidilo…
Non sapeva se la sua collera fosse stata provocata dalle parole di Raphael, dal fatto che avesse offeso Isabelle, che al momento tentava ugualmente di risparmiargli la vita, o che l’avesse chiamato Demone Bastardo, che in realtà era l’abbinamento giusto di parole per spiegare al meglio ciò che lui era. L’unica cosa che sapeva, chesentiva, era l’istinto viscerale di mettere fine alla sua inutile vita. Non voleva più lottare per essere migliore di quello che era. Sapeva di essere un mostro, che l’oscurità dentro di lui sarebbe sempre stata maggiore del briciolo di luce che aveva assorbito da Jace attraverso il legamento. Sapeva anche che per quanto potesse provare a cambiare, ad essere diverso, più compassionevole, gentile, buono… niente di tutto questo sarebbe bastato.
Poteva anche continuare a fingere di essere Sebastian, ma in realtà sarebbe stato per sempre Jonathan.
«Jonathan Christopher Morgenstern!». La voce di Isabelle tuonò dentro di lui con la forza di un terremoto, scuotendolo dall’interno e costringendolo a voltarsi verso di lei, che adesso era al suo fianco, con la mano dalle dita sottili e pallide che stringevano il suo braccio insanguinato, nel doppio tentativo di non tremare e di fargli lasciare la presa dal cuore immobile del vampiro.
Sebastian la guardò, gli occhi umidi e le guance rigate di lacrime. Era sconvolta, ma il suo sguardo era fermo e risoluto e sosteneva il suo senza vacillare.
Per la prima volta, il suo nome non suonò poi così terribile.
«Adesso basta», ribadì lei, lentamente. «Ti ho detto di lasciarlo andare».
Per un attimo rimasero a fissarsi, immobili, occhi dentro occhi. Entrambi fermi e risoluti nella loro posizione. La mano di Sebastian pulsava ancora al ritmo del cuore di Raphael, che teneva stretto in pugno, ma lui non osava muoversi, incatenato dalla consapevolezza degli occhi neri della ragazza su di lui. Fu Isabelle a muoversi per prima, azzardando un passo avanti fino quasi a frapporsi tra lui e la sua vittima.
«Sebastian», sussurrò dolcemente. Avvicinò in modo cauto la mano al suo viso, prendendoglielo tra le dita come per costringerlo a guardarla, nonostante lui non riuscisse a fare nient’altro da molto, moltissimo tempo.
Forse, più di quanto desiderasse ammettere. 
Il suo palmo era caldo e liscio, nonostante la ruvidezza in alcuni punti per gli anni passati ad usare la sua arma preferita, e a contatto con la sua pelle sembrava quasi sul punto di prendere fuoco.
«Lascialo andare e andiamo via, non ne vale la pena». La sua voce era appena udibile, come se stesse pronunciando una preghiera. «Puoi essere molto meglio di così», disse. E in quel preciso instante, Sebastian riuscì a crederle. Senza che il suo cervello avesse inviato alcun impulso al braccio, le dita del ragazzo allentarono la presa intorno al cuore pulsante di Raphael e lui tirò via il braccio insanguinato dal suo petto, lasciandolo scivolare lentamente dal muro al pavimento.

 
***
 
Isabelle camminava lungo un vicolo stretto e maleodorante trascinandosi a stento dietro i passi di Sebastian. La luci dei lampioni traballanti che illuminavano a stento la strada davanti a loro le facevano girare la testa come una giostra e le gambe sembravano fare di tutto per ribellarsi ai suoi tentativi di continuare a mettere un piede davanti all’altro. Ad un certo punto, la ragazza fu costretta a sorreggersi poggiando una mano sui mattoni freddi e umidi del muro che costeggiava la stradina, mentre veniva assalita da un conato di vomito. Davanti a lei, Sebastian percepì che si era fermata e fece lo stesso, voltandosi indietro.
«E tutto okay?», chiese, mentre si avvicinava.
«Si», bofonchiò lei, respirando piano per impedirsi di vomitare. Ci vedeva doppio e faticava a capire bene dove puntare lo sguardo.
«A guardarti non si direbbe proprio», ribatté Sebastian, con una punta di sarcasmo. «Hai un aspetto orribile».
«Sto bene», ringhiò lei, rifiutando di darsi per vinta davanti a lui. La propria voce le arrivò lontana e distorta. Sollevò la testa dal muro e lo guardò in cagnesco, mentre faceva appello a tutte le sue forze di Cacciatrice per non crollare per terra. Si sentiva debole come non mai, e iniziava ad avere la vista appannata. Tutto quel cavolo di sangue di fata che si era scolata iniziava a fare effetto. In più aveva perso troppo sangue e si reggeva a stento in piedi, ma non aveva intenzione di rimanere li un secondo di più.
«Sei pallida e stai sudando freddo, Belle», disse Sebastian, pazientemente. «Hai perso un bel po’ di sangue e sembri a malapena in grado di camminare». Si avvicinò di un altro passo e le sfiorò appena il collo con le dita, allontanandole i capelli dalla clavicola. Isabelle si accucciò contro il muro, soffiando come una gatta e mettendo più distanza possibile tra i loro corpi.
«Non ti azzardare a toccarmi!». Mise le mani avanti, come per respingerlo. «E smettila di chiamarmi con quello stupido nomignolo, noi non siamo amici!».
Sebastian sgranò gli occhi e strinse impercettibilmente la mascella. Una contrazione talmente lieve e repentina che, se gli occhi di Isabelle non fossero stati quelli di una Cacciatrice, probabilmente non vi avrebbe fatto caso, visto lo stato in cui si trovava al momento. Facendo un passo indietro, lui si allontanò e sollevò le mani in segno di resa. Dopotutto su quello aveva ragione.
«Sei stata morsa da un vampiro», spiegò, con calma forzata, «la ferita è ancora aperta e sgorga come una fontanella, dobbiamo fermare l’emorragia se non vuoi morire dissanguata nel giro di un paio di minuti».
La ragazza si portò lentamente una mano al collo, tastando con le dita i vestiti inzuppati di sangue e se la mise davanti al viso, osservandola con gli occhi appannati. Fece un respiro profondo, affaticandosi per parlare, ma persino articolare la più semplice della frasi sembrava un’impresa da Titani.  «E’ solo un po’ di sangue», mentì.
«Certo, e io sono Jonathan Shadowhunters in persona», ribatté lui, stanco. «Senti, forse sei abituata a prestare il tuo collo per cena a quell’idiota del tuo fidanzato, ma non credo che lui ti abbia mai prosciugata fino a questo punto, o dubito sarebbe ancora vivo e vegeto, no? Anche se questa non è esattamente la definizione ideale per un non morto».
Il volto di Isabelle sbiancò ulteriormente, conferendole un aspetto ancora più malaticcio. Scosse la testa con violenza. «Lui non è… non ha mai … ti sbagli», mentì, di nuovo.
«Non importa», la interruppe Sebastian, brusco. «Ora se vuoi puoi chiudere gli occhi e contare le pecore, oppure pensare ai numeri primi e a qualsiasi altra cosa che ti impedisca di focalizzarti sul fatto che le mie mani impregnate del sangue di quel verme stiano per toccarti…», la avvertì avanzando nuovamente verso di lei mentre infilava la mano dentro alla sua giacca di pelle.
«Che stai facendo?», mormorò Isabelle, spaventata, appiattendosi contro il muro. Lui estrasse il cilindretto argentato da una tasca interna e lo impugnò, posizionandolo con la punta accanto alla faccia della ragazza.
«Ti faccio un Iratze». La sua voce era calma, ma tradiva impazienza.
«Cosa? No!», si ribellò lei, fiaccamente. Le sembrava di muoversi e parlare a rallentatore. «Non mi fido di te, non ti permetto di marchiarmi. Dammelo, faccio da sola».
Sebastian sbuffò, osservò prima lo stilo e poi la ragazza e infine allungò la mano, porgendoglielo mentre alzava gli occhi al cielo. Isabelle strinse le pallide dita tremanti intorno al freddo materiale di cui ero composto lo stilo di Sebastian e sentì l’intricato motivo di stelle in rilievo che decoravano l’oggetto sotto i polpastrelli.
Le stelle dei Morgenstern.
Per un attimo il pensiero che quei simboli potessero scottare, le attraversò la mente, veloce come un fulmine che squarcia l’azzurro di un cielo sereno. Con le mani sudate strinse il sottile cilindro più forte e se lo portò al collo, poggiandolo piano contro la pelle. Il freddo metallico dell’adamas si confuse con il calore scottante emanato dallo stilo a contatto con la pelle, mentre una scia nera e luminosa si formava sotto di esso.
Era come essere marchiata a sangue con un tizzone ardente.
 Il dolore acuto si diffuse dal suo collo fino alle membra, paralizzandola, e prima che potesse completare la runa guaritrice, le sue mani si aprirono lasciando la presa sullo stilo, che cadde a terra tintinnando come una campanella. Isabelle si accasciò sull’asfalto, tramortita, graffiandosi i le mani mentre scivolava contro il muro di mattoni ruvidi.
Sebastian scattò fulmineo, sorreggendola con le sue braccia. «Sei proprio stupida», la sgridò, mormorando tra i denti. La sollevò da terra con la stessa facilità con cui chiunque altro avrebbe spostato un giocattolo e si mise le sue braccia esanimi attorno al collo mentre la prendeva in braccio. «Se avessi voluto farti del male, perché accidenti mi sarei preso tutto il disturbo di venire qui a toglierti dalle grinfie di un intero clan di stupidi vampiri?», sbottò, ormai esasperato.
Lei si lasciò andare contro il suo petto, inerme, gli occhi scuri nascosti dietro la pelle sottile e azzurrina delle palpebre completamente immobili.
Non respirava.
Sebastian sentì il proprio cuore mancare un battito e, per la prima volta in vita sua, si rese conto di cosa fosse la vera paura.


***NOTE DELL'AUTRICE***

Ciao fanciulli :) Sono finalmente resuscitata da un lungo, lunghissimo periodo di blocco narrativo. Purtroppo ogni tanto (ogni poco in realta XD), mi capita. In tutto ciò, stavo persino pensando di cambiare Nick Name e anche Titolo alla storia, perchè tutti questi nomi in latino sono eccessivamente altisonanti, perchè, obiettivamente di latino non ci capisco una cippa (provate a tradurre i nomi dei capitoli con Google Translate e vedrete che uscirà fuori), e infine perchè, fin dall'inizio la storia è nata come una specie di rivisitazione in stile Nephilim della favola de "La Bella e la Bestia", a cui spesso faccio riferimento per denominare e identificare Isabelle e Sebastian. Quindi, conclusione di tutto questo noiosissimo monologo, vorrei chiamare la storia "Belle & The Beast". Uahahahahah XD Sono rincoglionita vero? Si si, lo so. Se avete altre idee scrivetemele nelle recensioni, mi farà un sacco piacere.
Nel frattempo, continuate a tenere d'occhio la storia perchè potrebbe cambiare nome da un momento all'altro e non vorrei rischiaste di perderla (sono terribilmente egoista, si!), e poi perchè prima o poi...più prima che poi si spera, sti due poveri disgraziati, finalmente si decideranno a CONSUMARE!!! Ebbene si, con questa bomba, vi lascio ^-^
Baci Baci :* :*
 
 

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