Dark Heaven- l'ultimo Arcangelo

di Feds_95
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Look Down ***
Capitolo 3: *** At the end of the day ***
Capitolo 4: *** Hide ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo


Molti anni fa, una terribile e devastante guerra sovvertì il delicato sistema del mondo e sconvolse l’ordine naturale delle cose.

Si pensa che tutti i conflitti lasciano al loro passaggio solo distruzione e caos. Ma questo cambiò radicalmente la Terra e tutti i suoi abitanti.

Tutto ebbe inizio dall’Amore. Un amore così forte che si portò inevitabilmente dietro odio e desiderio di vendetta.

L’amore di Dio per gli esseri umani era così forte e incondizionato che offuscò quello per gli altri suoi figli, gli Angeli.

Essi, accecati dall’odio, lo riversarono sul genere umano, colpendo la terra con morte, guerra, pestilenza e carestia. La popolazione venne decimata ed i pochi superstiti vivevano nell’ombra e nella paura.

Gli Arcangeli, ancora fedeli al loro Padre, intervenirono, sferrando un tremendo attacco ai loro fratelli. Il conflitto durò vent’anni e fu così devastante che il Sole si spense e la terra tremò.

Dalle montagne uscirono fumo e fiamme, che annerirono e inaridirono la terra. I mari si alzarono, allagando le città e i villaggi. Le belve attaccarono e sbranarono donne e bambini, mentre gli uomini combattevano al fianco degli Arcangeli.

Questo susseguirsi di morte e desolazione continuò per vent’anni.

Uomini, Arcangeli e Angeli morirono insieme, bagnando la terra di sangue e lacrime.

Ma la volontà dell’uomo era debole. Essi crollarono uno dopo l’altro sotto i fendenti di coloro che una volta avevano pregato.

I difensori dell’umanità, soli sul campo di battaglia, perirono e i sopravvissuti furono costretti a nascondersi. Popolo una volta potente, ormai decaduto.

Gli Angeli aprirono le loro ali nere sul mondo, radunando sotto il loro controllo gli esseri umani ancora in vita. Alcuni si piegarono, altri vennero uccisi.
Così venne fondata la Federazione e stipulati dieci Nuovi Comandamenti, unica legge inequivocabile e autoritaria.

La popolazione venne ammassata nella città di Jericho, posta alle pendici del Grande Monte, la più grande altura esistente sul pianeta, e divisa in tre categorie:

i Santi, a stretto contatto con gli Angeli, si stabilirono nella parte alta della città, la Cittadella.

I Puri, ovvero i proprietari delle fabbriche in cui lavoravano i più poveri, gli Impuri.

L’umanità è ridotta alla schiavitù, in un mondo di industrie e ingranaggi.

Dio è morto.

E gli Angeli preferiscono essere temuti che amati.

“Nell’oscurità si udivano i lamenti delle donne, i pianti dei bambini e il clamore degli uomini…

Alcuni chiedevano aiuto, altri imploravano la morte…

Ma i più pensavano di essere stati abbandonati da Dio…

…e che l’universo fosse sprofondato nel buio eterno”

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Capitolo 2
*** Look Down ***


Look Down

 
 
Look down, look down
 Dont look them in the eye
 Look down, look down,
 You’re here until you die
Ive done no wrong!
 Sweet Jesus, hear my prayer!
-Les Miserables-


 
La nonna scrutò il termometro alla luce della piccola finestra del soggiorno.

Dietro di lei, nella pioggerella, i palazzi di Jericho si alzavano come grigie torrette di un penitenziario. Sotto, nel pozzo dell’aerazione, il bucato sbatteva nel vento, mentre topi e grossi gatti randagi si aggiravano tra la spazzatura.

La nonna mi guardò. Ero seduta sul divano strappato e puzzolente ad allacciarmi le scarpe con vuota concentrazione.

Erano settimane che guardava che quel termometro e non era normale. Di solito lo faceva una volta alla settimana, ma da quando Cathy era peggiorata lo faceva tutti i giorni, al mattino e alla sera.

Soffocato dalle grida degli inquilini del piano di sopra, il lamento di mia sorella, roco per l’influenza, non smetteva un istante.

<< Ha molta febbre? >> chiesi, alzandomi e avvicinandomi alla sedia su cui era poggiata la mia giacca.

<< Non molta >>

<< Non dire cazzate nonna >>

<< Trentanove e mezzo >>

Sospirai e mi passai una mano tra i capelli castani. Ormai era quasi un anno che andava avanti così, che la tosse di Cathy non cessava e non avevamo soldi per pagarle almeno un po’ di sciroppo per la febbre.

<< Ascolta Mallory, chiameremo un dottore. Non preoccuparti. Senti… >> iniziò la nonna con voce balbettante<< Ce la faremo. Io…io… >>

<< Tu cosa? >> il mio sguardo si fece duro e la mia voce quasi brutale, mentre puntavo lo sguardo sulla parete scrostata sopra il lavandino << Ci vuole un vero dottore, nonna. Basta levatrici con le mani sporche e l’alito che puzza di whisky. >>

Il fuoco nel caminetto, unica fonte di calore del piccolo appartamento, scoppiettava e brillava.

<< Dopo il turno vedrò di ottenere un paio di pasticche di Tachipirina e se sarà necessario mi registrerò per un’altra donazione >>

<< No! No, Mallory! >> gridò la nonna, arpionandomi un braccio, prima che potessi varcare la soglia di casa << Ne hai fatta una il mese scorso, devi riprenderti! >>

<< E perché? Male che vada ti spetterà qualcosa come liquidazione. In un modo o nell’altro, avrai i soldi per farla curare >>

La nonna non era vecchia; anzi, per avere quell’appellativo era fin troppo giovane, ma negli ultimi anni era invecchiata molto. Non solo nell’aspetto, ma anche nella mente. Era diventata fatalista e disillusa, come la maggior parte delle persone in quella fottuta città.

Indicai la camera da letto. << Ti piacerebbe vederla in una tomba per poveri, senza nome? Senza una lapide su cui piangerla? >>

Alla nonna non restò che la replica di un dolore insensato. La sua faccia si crepò e si dissolse nelle lacrime di fronte alla cruda e feroce realtà.

<< E’ quello che voglio Loro. Per la gente come noi >> dissi con un tono di voce più dolce, prendendo una delle sue mani rugose e tremanti tra le mie << Ma io non glielo permetterò, nonna. Te lo prometto: né tu né Cathy finirete come mamma e papà >>

<> disse ricacciando indietro le lacrime e lasciandomi una dolce carezza al viso, prima che aprissi la porta cigolante e uscissi.

Però prima che la chiudesse, per evitare che il freddo entrasse nella casa riscaldata a fatica, mi ci infilai in mezzo e le chiesi: << Se le cose andassero male, li prenderai i soldi? Ti prego, dimmi che non farai la moralista e che li prenderai. >>

La nonna stette in silenzio per un minuto, in cui i suoi occhi assunsero una luce più forte e decisa. Non era mai stata bella, ma in quel momento, in piedi affacciata alla porta con il vestito sgualcito marrone e i capelli grigi raccolti sul capo, sembrava bellissima… imperiosa.

<< Li prenderò >> mormorò sicura << Lo sai che li prenderò >>.

L’abbracciai goffamente, poi mi voltai in fretta e scesi velocemente le scale malamente illuminate da una ripugnante luce verde.

Feci molta attenzione a non toccare il corrimano, sempre sporco di grasso, e le pareti da cui si staccavano pezzi di intonaco. Ogni tanto si sentivano delle urla o dei gemiti provenire dagli altri appartamenti.

Due piani più sotto, la porta dell’abitazione della signora Jenner si aprì lentamente, con fare sinistro.

Ne uscì una vecchia, gobba e con il viso raggrinzito. Da piccola avevo paura ad avvicinarmi troppo perché credevo che si sarebbe sgretolata. Ora ,invece, lo speravo.

<< Cara >> mi bloccò a metà scalinata, con la voce di una serpe, sibilante e graffiante, << posso procurarti un po’ di penicillina al mercato nero, non appena avrai i soldi… poco prezzo…buona qualità >>

L’odore di manzo e dei cavoli bolliti uscì dalla sua casa come vapore e il suo alito fognato mi fece salire un conato di vomito, enfatizzato dalla vista dei suoi denti marci e ingialliti.

<< Tua sorella non durerà molto >> continuò con un ghigno malvagio << Ti conviene approfittarne >>

<< Vada al diavolo >> sputai, dandole le spalle e continuando a scendere.

Di sicuro la signora Jenner aveva preso il suo taccuino nero e aveva aggiunto una X accanto al mio nome. Una per ogni volta che lei mi “aveva offerto aiuto” e io l’avevo mandata al diavolo. Con molta probabilità aveva un taccuino solo per me.

<< Vedremo puttanella >> ero sicura stesse borbottando << Vedremo >>

Man mano che si scendevo le scale le mura erano ornate da graffiti con scritte oscene o disegni contro la Federazione, mentre i lamenti e gli altri rumori si attenuavano. Come se gli abitanti del palazzo fossero stati divisi in base alla rumorosità e non alla retribuzione.

Era così in tutti gli altri palazzi del Settore: nei piani inferiori si trovavano quelli con un rendimento più alto, mentre in quelli superiori, quasi a toccare la coltre di fumo tossico, che come un tetto ricopriva la città, vivevano i più poveri in appartamenti sempre più piccoli e freddi.

Quando uscii sulla strada, la pioggia era cessata. Il portone di metallo si chiuse alle mie spalle con un botto e sentì il rumore ferroso della serratura che si incastrava.

Il termometro dell’insegna pubblicitaria delle Donazioni dall’altra parte della strada segnava undici gradi. Dentro casa potevano essercene quindici. E Cathy aveva la febbre a trentanove e mezzo.

Con non curanza mi appoggiai al muretto di mattoni vicino all’entrata per aspettare Paxton, che come sempre era in ritardo.

Fortunatamente il portico del palazzo vicino l’aveva riparato dall’acqua, così non mi sarei sporcata l’unico paio di pantaloni buoni che avevo.

La settimana scorsa avevo dovuto vendere alcuni miei vecchi vestiti per poter comprare qualcosa da mangiare, dato che la mia paga era stata diminuita per far fronte alle perdite causate dagli attacchi dei briganti nel Deserto.

Non sapevo cosa ci fosse esattamente oltre le mura di Jericho e non conoscevo molte persone che avevano avuto l’opportunità di oltrepassarle, ma, già dal nome, non mi sarei aspettata di trovare altro se non un’immensa distesa di sabbia e roccia, spoglia e baciata dal sole cocente, che qui era un lusso raro.

In diciott’anni l’avevo visto solo tre volte, sempre parzialmente coperto dalla nebbia, quasi sempre aveva seguito un evento che avrebbe cambiato per sempre la mia vita: quando nacque mia sorella, quando il cadavere di mio padre fu riportato a casa dagli Agenti e quando mia madre esalò l’ultimo respiro sul suo letto.

Un topo trotterellò pigramente sull’asfalto crepato. Il portone strillò e l’enorme figura di Paxton ne uscì, mentre si infilava goffamente la giacca, logora e ricucita malamente. Le strade erano spettrali, mentre dalle case cominciavano ad uscire uomini e donne, in silenzio, pronti per un’altra giornata di lavoro.

<< Ce l’hai fatta >> dissi scendendo con un salto dal muretto, l’acqua di una pozzanghera schizzò sotto i miei piedi, coperti da un paio di scarpe nere.

<< Si, scusa >> rispose, avvicinandosi e tirando fuori dalla tasca una pacchetto di tabacco di bassa qualità, l’unico che si poteva permettere.

<< E’ per questo che hai fatto tardi? >> ammiccai verso il sacchetto di polvere marrone, che stava accuratamente spargendo su un pezzetto di carta che poi arrotolò con maestria e chiuse con la saliva.

<< Sai com’è fatto il mio vecchio. >> sbiascicò mentre accendeva la sua sigaretta << Non gli va a genio quando gli prendo il fumo. >>

<< Soprattutto se lo fai senza dirglielo >>

Il suo viso si allargò in un sorriso, la cicatrice sulla guancia si incurvò e i suoi occhi grigi risero.

Molte donne al lavoro dicevano che era un peccato che un volto così bello come il suo fosse stato rovinato da quello sfregio che gli percorreva tutta la gota destra.

Se l’era procurato sei anni fa: mentre stavamo aggiustando una macchinario guasto un tubo era esploso e un pezzo di lamiera gli era volato addosso, conficcandosi nella sua carne. Pochi centimetri più su e avrebbe preso l’occhio.

Ci avviammo in silenzio verso la fabbrica “Harper per la lavorazione dei metalli e materiali da costruzione”, una delle tante del Settore 4, famoso per l’alta percentuale di fabbriche e di fatiscenza.

Dall’altro lato della strada c’era la carcassa di Humber del 2069, appoggiata sui mozzi delle ruote. Era stata saccheggiata completamente, perfino dei cuscinetti delle ruote e dei supporti del motore, ma la Vigilanza non l’aveva portata via.

I poliziotti ormai si avventuravano raramente nel nostro Settore, specialmente a sud del Canale. Washington era un quartiere infestato dai topi, fatto di parcheggi, negozi deserti, campi giochi asfaltati, palazzi ammassati gli uni sugli altri e fabbriche.

E pensare che, molti anni fa, Washington era stato un grande generale e il primo presidente di un paese chiamato America. Invece ora il suo nome era sinonimo di ”sporco”  e “ripugnante”.

La legge, qui, erano le bande di disoccupati in motocicletta che vivevano col pizzo dei poveri e vecchi negozianti, troppo disperati e spaventati per chiudere ed andarsene. E tutte le notizie sull’intrepida polizia di Washington erano solo una montagna di balle.

Solo nell’ultimo mese, si vedevano elicotteri sorvolare il quartiere e camion blindati aggirarsi velocemente per le strade, per poi sparire di nuovo.

<< Ancora non hanno trovato quello che cazzo stanno cercando >> disse Paxton con voce profonda, buttando fuori una boccata di fumo, riferendosi al mezzo scuro e senza finestrini visibili che ci passò accanto sulla strada, alzando schizzi d’acqua.

<< Secondo te di cosa si tratta? >> domandai.

Paxton aveva molti amici nelle bande che si contendevano il controllo della zona e perciò era sempre informato sui traffici di droga, di cibo extra o su cosa accadesse negl’altri Settori.

<< Xevo dice che ha sentito di un prigioniero fuggito da una delle prigioni dei piani alti e rifugiatosi qui. >> mi spiegò non curante degli orecchi che avrebbero potuto cogliere quell’informazione << Invece Davon e Wayne dicono che si tratti solo di controlli, nulla di preoccupante. Tant’è che non hanno interrotto gli scambi, ma li hanno intensificati >>

E quelli erano solo alcuni dei nomi di “ragazzi cattivi” che conosceva. Grazie alla sua abilità nel procurarsi oggetti di solito introvabili si era fatto parecchie amicizie e conoscenze favorevoli, che lo avevano portato ad essere ben voluto da alcuni e temuto da altri.

Ma io ero l’unica con cui si confidava. Con cui aveva un vero rapporto d’amicizia, almeno secondo lui.

Ci eravamo conosciuti quando avevo 10 anni e lui 13, il giorno in cui andammo a sottoporci al test di smistaggio, che ci avrebbe assegnato ad un’occupazione con un ruolo specifico. Si trattava di un test delle facoltà fisiche ed intellettive cui tutti, una volta lasciata la scuola, si dovevano sottoporre. Lasciai la scuola dopo la morte di mia madre, una volta che io e Cathy fummo affidate alla nonna, e Paxton dopo che il nuovo uomo di sua madre se ne andò, lasciandola con tre figli a cui badare, di cui lui era il maggiore.

Fino ad allora non seppi neanche che abitavamo nello stesso palazzo. Una volta mia nonna mi mandò a chiedere del sale a sua madre e allora lo riconobbi. Da allora cominciammo ad andare in fabbrica insieme, dove venimmo assegnati alla stessa mansione: manutenzione e controllo dei macchinari.

Paxton ed io camminavamo in fretta, senza pensare, senza guardarci intorno, abituati a quell’ambiente e ricordando a memoria la strada per la fabbrica Harper.L’aria era sulfurea, pesante e calda.

Quattro moto ci sfrecciarono accanto, rombando e rivolgendo un cenno di saluto al mio amico, che ricambiò con un’alzata di mano, e ci scagliarono addosso pezzi d’asfalto. Li schivammo agilmente.

Grattacieli, case popolari, recinti di rete metallica, parcheggi vuoti a parte qualche carcassa; frasi oscene e disegni tracciati sull’asfalto con il gesso stavano sbiadendo.

Quella era la nostra vita, la nostra realtà.

Vetrine in frantumi, topi, sacchetti della spazzatura gettati sui marciapiedi, su cui si gettavano gli orfani o i senza tetto, in cerca di qualcosa di commestibile. Una volta io e Paxton ci avevamo trovato delle ciambelle con lo zucchero a velo, vecchie di appena un giorno. Ci eravamo ingozzati e poi ce le eravamo suddivise e portate a casa.

Cathy fu così contenta quando gliele portai che si riempì così tanto da scoppiare. E ne diede una intera al suo topolino, Mr. Beaver.

<< Hey, guarda quella. E’ nuova >> esclamò Paxton, indicando col braccio un graffito scarabocchiato sul muro.

Durante il percorso per andare a lavoro, ci divertivamo a leggere le nuove, e sempre più fantasiose, scritte vandaliche.

PELATI LA BANANA.

TAGLIATI I PELI DEL CULO.

TOMMY E’ UNO SPACCIATORE DI MERDA.

TUA MADRE HA LE PULCI.

Ce n’erano di tutti i tipi, forme, colori e dimensioni. Per non parlare della varietà di parole utilizzate.

<< ”Tua madre ha le pulci” l’ho detto il mese scorso a Victor! >> gridò con finto scandalo << Dovrò chiedere i diritti a quel sacco di merda >>

<< Non credo sia una cosa di cui vantarsi, Pax >> lo presi in giro.

Si voltò minaccioso ed i suoi occhi grigi si puntarono nei miei. Grigio contro grigio. Cemento contro cemento. Ma non riuscì a mantenere l’espressione seria molto al lungo e scoppiò in una risata allegra e chiara. Non potendo trattenermi lo seguii anch’io.

Per un attimo mi sentii più leggera, come se con quella risata un po’ del peso che portavo sulle spalle se ne fosse momentaneamente andato. Permettendomi di respirare.

Paxton era il fratello maggiore che non avevo mai avuto.

Non solo perché con la sua grande statura e la sua possenza fisica mi trasmetteva sicurezza, ma perché caratterialmente mi aveva temprata, aiutandomi a prepararmi al mondo, specialmente a quello che avrei trovato nel Settore 4. Mi aveva insegnato a pensare prima di tutti a me stessa e alla sopravvivenza della mia famiglia.

Guarda giù. E sopravvivrai.

Era questo il motto del Settore. Quello che ci ripetevamo la mattina appena alzati e la sera prima di addormentarci.

D’altro canto, essendo Impuri, non potevamo aspettarci più di quello che avevamo già. Da una parte, personalmente parlando, eravamo anche fortunati: molti non avevano un lavoro, né una casa e vivevano rovistando tra la spazzatura. Noi, invece, avevamo un lavoro decente, un tetto sopra la testa e riuscivamo a portare alla nostra famiglia almeno due pasti al giorno.

Poteva andarci peggio.

<< Guarda >> disse improvvisamente Paxton, ammiccando verso un palazzo grigio e ricoperto da graffiti alla base. In quel palazzo ci viveva Margareth, un’operaia della mia fabbrica, insieme ai figli. Il portone era spalancato e tutti i condomini si erano riversati sulla strada.

<< Che sta succedendo? >> domandai, fermandomi di colpo e Paxton mi finì addosso. Non si era accorto che mi fossi fermata, troppo concentrato a prepararsi un’altra sigaretta.

Quando alzò lo sguardo dal suo lavoro, un grido disperato si levò dall’interno dell’edificio e due Vigilanti ne uscirono tenendo per le braccia un uomo sulla trentina, che avevo visto un paio di volte al Circolo. Mi era sembrata una brava persona.

Dall’abitazione continuavano a provenire rumori di legno e vetro rotto e tonfi pesanti, come se qualcosa di pesante fosse caduto a terra.
I due poliziotti si fecero largo tra la folla, che abbassò subito gli occhi puntandoli a terra, verso un camion blindato. Alla guida si trovava un altro Vigilante, che giocherellava con non curanza con un elastico.

Una donna si fece largo tra la folla impassibile piangendo e gridando: << Steve! Steve! No! Non portatelo via! >>

Uno dei Vigilanti lasciò il braccio di Steve e si avvicinò minaccioso alla donna, che sembrava più una ragazza della mia età, con fare minaccioso, poggiando la mano sul fodero della pistola.

A quel punto un’altra figura, un ragazzo, molto simile a Paxton, emerse e prese la ragazza per le spalle ,accostandola al petto con l’intento di calmarla.

<< Ci penso io >> disse rivolto al poliziotto, che si abbassò la visiera dal casco di protezione e tornò ad arpionare il braccio di Steve, che non oppose resistenza quando gli misero le manette elettriche e lo costrinsero a salire.

Quando se ne andarono, i condomini rientrarono in silenzio nel palazzo, per sistemare il casino che dovevano aver lasciato quei Vigilanti.
Fuori restarono solo i passanti, che si erano fermati a guardare la scena e poi avevano ripreso il cammino, e i due giovani abbracciati.

Il ragazzo accarezzava dolcemente i capelli della ragazza, i cui singhiozzi sembravano non voler cessare. Solo allora, osservandola meglio mi accorsi del pancione che si frapponeva fra lei e il petto dell’altro.

<< E’ incinta >> sussurrai. Non sapevo se essere addolorata o sorpresa.

Di scene come quelle ne avevo viste molte e alla fine erano finite per diventare parte della mia quotidianità, ma vedere una ragazza così giovane in quelle condizioni mi aveva…colpita.

Chissà cos’aveva fatto quello Steve per essere portato via in quel modo.

Di solito i Vigilanti facevano controlli a casaccio nei palazzi, ma non avevano mai portato via nessuno, almeno non mettendogli le manette elettriche.

Le usavano solo per i veri criminali.

<< Forza. Faremo tardi a lavoro, andiamo >> mi prese per le spalle Paxton, spingendomi via.

Lasciandomi alle spalle la scena, entrambi riprendemmo il nostro cammino in direzione della fabbrica, a passo svelto e deciso.

Con lo sguardo basso.

Guarda giù. E sopravvivrai.


 
Look down, look down
 You'll always be a slave
 Look down, look down
 You're standing in your grave. 

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Capitolo 3
*** At the end of the day ***


At the end of the day
 
 
At the end of the day you're another day older
 And that's all you can say for the life of the poor
 It's a struggle, it's a war
 And there's nothing that anyone's giving
 One more day standing about, what is it for?
 One day less to be living.
-Les Miserables-
 

Camminammo per quasi due chilometri, e i negozi di liquori, le fumerie, prima degradati e vandalizzati, si fecero più decenti e curati.

Poi cominciarono le Sexy-case, con le finestre sbarrate, i banchi dei pegni, gli Empori della linfa.

Le vecchie lampade installate anni prima erano ormai vittime cieche di infinite sassaiole. Nessun tecnico sarebbe venuto a riparla, pensai. I tecnici vivono nei quartieri alti.

<< E’ bella la vita nei quartieri alti >> Avevo sentito dire una volta da una vecchia al Circolo, mentre svuotava su un tavolo il contenuto ferroso di uno scatolone. Ma non prestavo mai troppa attenzione alle voci che circolavano sugli altri settori o sulla Cittadella. Non avevo il tempo di immaginare.

I marciapiedi erano pieni di mozziconi di spinelli, come fiocchi di neve. Su ogni panchina c’erano degli Spacciatori, pronti a venderti un grammo di Scag per dodici dollari, la Pseudo-Push per venti a tavoletta, che poi dovevi sminuzzarti a casa.

Più ci avvicinavamo al Canale e più i palazzi erano bassi e con l’intonaco esterno intatto. Si riusciva a vedere anche la Cittadella, che si ergeva come un faro argentato e lucente tra i fumi delle fabbriche.

Lì vivevano i ricchi, quelli dei piani alti: I Santi. Che non erano altro che i proprietari della fabbriche o Agenti di Alto Livello della Federazione.

Nessuno di noi Impuri era mai riuscito neanche ad avvicinarsi alle alte e imponenti mura di metallo che la circondavano. Di guardia c’erano sempre pattuglie e pattuglie di Agenti, armati fino ai denti. Per non parlare della torrette di guardia, che con i loro occhi luminosi scandagliavano tutta la zona.

Xevo diceva che il cancello era elettrificato e che dall’altra parte, prima di arrivare alla vera Cittadella, c’erano chilometri di terreno disseminato di mine anti-uomo e cani randagi che non aspettavano altro se non affondare i canini in un bel pezzo di carne. E che se ti andava bene, riuscivi a vedere in lontananza l’ombra sfocata delle case, prima di venire incenerito dai lanciafiamme installati negli alberi o ingoiato dalle sabbie divoratrici.

Attraversammo il Canale, un enorme solco largo e profondo del terreno.

Una volta era un acquedotto, mentre ora vi scorreva solo il liquido di scarico velenoso delle fabbriche, l’unico collegamento tra il Settore 4 e l’altra parte di Jericho.

Avevano costruito quel ponte per sicurezza ,dopo le Insurrezioni del 2045, iniziate dagli operai del mio settore. Così i Santi e gli Angeli decisero di separarci, abbastanza da poterci impedire di assediare gli altri settori e per poterci tenere comunque sotto controllo. Infatti tra le lastre di legno e lo strato di cemento portante erano stati inseriti degli esplosivi comandati a distanza.

Dall’altra parte, a controllare il transito stavano impalati due Agenti, fermi come statue, con il calcio dei mitra appoggiato a terra. Per un occhio attento il loro lieve tremolio risultava più che evidente.

Alcuni lavoratori passandogli davanti ridacchiavano e gli gettavano a terra mozziconi di sigarette ancora fumanti.

<< Guarda un po’ >> dissi dando una leggera gomitata a Paxton << Hanno messo due “bambolotti” a controllare il ponte >>

<< Ahahahah! >> scoppiò a ridere lui, avendo notato gli occhi dei due che guizzavano velocemente da un viso ad un altro.

<< Che idioti >> sussurrò, ed io scoppiai a ridere, attirando su di me lo sguardo di alcune donne che mi camminava affianco.

Il Ponte era lungo meno di un chilometro, con ringhiere arrugginite e traballanti, su cui erano ancora attaccati pezzi delle corde degli impiccati.

Nell’ultimo anno, del Settore 4, si erano suicidati in quel modo solo 20 persone: meno degli anni precedenti. Tra di loro c’era anche il signor Peterson, che abitava due piani sopra di me, nell’appartamento vicino a quello di Paxton.

Al Circolo c’erano ancora i suoi mobili in vendita, pronti per uno scambio.

Tenendo gli occhi fissi sui due Agenti raggiugemmo la fine del ponte e Paxton, abbassandosi per arrivare alla mia altezza, bisbigliò:<<  Sta a guardare >>.

Si allontanò andando a mischiarsi tra la folla vicino alla ringhiera e con passo lento, coperto da un gruppo di minatori, che capirono le sue intenzioni e stettero al gioco.

Paxton, con passo fin troppo leggero per la sua stazza, si posizionò alle spalle di uno dei giovani , quando questo stava osservando attentamente il gruppo di minatori, scrutandone con cura i volti. In cerca di qualcosa.

All’improvviso gli si parò davanti la faccia gridando come un animale selvatico e con le braccia in aria.

Il ragazzo lanciò un grido così acuto che sembrò quello di una donna e lasciò il mitra cadere a terra con un tonfo.

Intorno a lui si levò una grande risata, alcuni si appoggiarono al muretto, altri si reggevano tra loro. Io dovetti fermarmi per riprendere fiato, prosciugatomi dalle risa. Solo lui era capace di farmi ridere in quel modo, incontrollato e genuino.

Nella mia vita non avevo avuto molte occasioni per ridere. Ma con Paxton non era così.

Riusciva a trovare qualcosa di esilarante o positivo anche nelle situazioni più brutte, in cui ci trovavamo ogni giorno.

Persino all’altro Agente sfuggì una lieve risatina, che poi tornò un ghigno serio, tipico del riso che stava cercando di trattenere.

L’altro giovane si guardava intorno con aria smarrita, come se tutto quel rumore l’avesse svegliato da un sogno ad occhi aperti. Si guardava i piedi e cercava gli occhi del suo compagno, trovando solo quelli della gente in delirio. Arrossì.

Solo quando fui più vicina notai quanto effettivamente fosse giovane, avrà avuto si e no la mia età. E già era un poliziotto. Probabilmente non era neanche originario dei piani alti. Quelli avevano la superbia e la vanità nel sangue, di sicuro non sarebbero arrossiti per così poco. Anzi, avrebbero già legato Paxton ad un palo e frustato davanti a tutti.

Quando la folla si fu diradata ed ebbe ripreso la marcia verso le fabbriche, notai che il mitra giaceva ancora a terra, abbandonato come un vecchio bastone da passeggio. A nessuno sarebbe mai venuto in mente di prenderlo ed usarlo come arma contro gli Agenti. A nessuno che avesse santità mentale.

Provai una sensazione strana difronte a quel ragazzino, che solo così si poteva definire. Come una morsa che invece di farmi provare dolore, mi trasmise tristezza.
Nonna diceva che questa sensazione aveva un nome una volta e che era molto comune.

Teneda...Tenera...Tenerezza!

Provai Tenerezza per quel ragazzo.

Mantenendo il contatto visivo con Paxton che si era allontanato e mi stava aspettando sotto un lampione, funzionante, mi avvicinai all’Agente, vicino all’arma a terra. Sentì l’altro puntare gli occhi sulla mia schiena, pronto ad intervenire ad un mio passo falso.

Aspettai che alzasse la testa e puntasse i suoi occhi scuri, tipici dei Puri, nei miei grigi, tipicamente Impuri. Notai che erano velati di lacrime. Come quelli di Cathy, durante un attacco di tosse così forte da toglierle il respiro.

Mentre lui tremava, intimorito forse dal mio sguardo duro e impassibile, mi abbassai lentamente e raccolsi il mitra. L’altro Agente mi puntò subito la sua arma alla schiena e abbassò appena il grilletto.

<< Mettila giù >> gridò con voce infantile cercando di mettermi paura << Mettila giù. Adesso >>

Intorno a noi la folla si era fermata nuovamente, circondandoci in un semicerchio. Vidi i capelli scuri di Paxton farsi largo tra la gente, probabilmente per venire ad aiutarmi.

<< Ho detto che devi- >>

<< Metterla giù, ho capito. >> lo interruppi << Non sono mica sorda >>

Senza distogliere gli occhi dal ragazzo avanti a me, che tremava visibilmente più di prima, con uno scatto veloce inserii la sicura e voltai il calcio verso di lui, aspettando che lo prendesse.

Il giovane allungò le braccia muscolose verso di me e con presa flebile si riprese l’arma.

<< Ti conviene inserire la sicura >> gli consigliai mentre andavo verso Paxton, che emerso dalla folla aveva assistito alla scena con un ghigno divertito << Se non vuoi rischiare di spararti in faccia >>

La folla rise di nuovo alla faccia sconvolta e sbalordita del giovane Agente, per poi dissiparsi velocemente.

Si era fatto tardi.

<< Grandissima Mal! >> si congratulò il mio amico << Hai visto la faccia di quel bifolco quando gli hai dato il mitra? E quella dell’altro era anche peggio! >>

Rise a crepapelle, asciugandosi una lacrima.

<< Sai com’è: non ho voglia che la paga mi venga dimezzata perché uno di quei cretini si spara da solo e poi da la colpa a noi >> ridacchiai, passandomi una mano tra i lunghi capelli.

<< Non me ne parlare! >>

Continuammo a camminare, ridacchiando e scherzando, come due veri fratelli. Come due normali ragazzi senza una storia dolorosa e una famiglia da mantenere sulle spalle.

Il suono lontano della sirena di inizio turno risuonò per la strada.

<< Cazzo >> sussurra Paxton con rabbia.

L’orologio della Farmacia segna le sette e quarantanove. Il nostro turno inizia alle otto in punto.

Nella mia testa echeggia il nono comandamento, pronunciato da uno dei Cavalieri.

Il ritardo è negligenza. La negligenza è disordine. Il disordine è il seme della discordia.

Arrivare a lavoro in ritardo è proibito. Qualunque ritardo è proibito.

Perdi il posto, perdi ogni diritto. Spesso, perdi anche la vita.

<< Porca merda >> dissi, non riuscendo a staccare gli occhi da quelle lancette, che stavano per firmare la mia condanna.

<< Corri! >> gridò, lanciandosi in una corsa disperata verso i cancelli della fabbrica, che sicuramente si stavano già chiudendo.

Presi un profondo respiro e con uno scatto secco iniziai a correre.

Le case sfrecciavano rapide, fino a diventare quasi una continua linea grigia. La figura di Paxton era pochi metri davanti a me, protesa in avanti, che schivava agilmente ostacoli e passanti.

Probabilmente erano tutti quelli che, avendo compiuto i quarant’anni, avevano il Turno d’Onore, che andava dalle quattordici alle ventidue. Dovevo ancora lavorare molto per meritarmelo. Questo ci ripetevano, giù in fabbrica.

Ma non ero così sicura che il verbo “meritare” fosse adatto, in questo caso.

Spinsi con i piedi sull’asfalto. Le cellule del mio corpo non dovevano pensare ad altro che a salvarsi.

Dal ponte alla fabbrica ci volevano venti minuti a piedi, se non meno. Correndo avrei potuto dimezzarli e dimezzare il mio ritardo. Correndo mi sarei potuta salvare.
Vedevo già i cancelli della fabbrica, mancavano poche decine di metri.

Potevo ancora farcela. Paxton era quasi arrivato. Era alto almeno quaranta centimetri più di me, la mia testa non superava di un pelo le sue spalle.

Il cuore mi rimbombava nel petto, nelle tempie, raschiava la gola assetata. La mia vita dipendeva dai miei piedi, dai miei muscoli. Avevo diciott’anni, tutta la forza necessaria per superare questa distanza. Mi potevo salvare.

La sirena era sempre più vicina. Il ferro dei cancelli cigolò, la lastra iniziò a scorrere. Le mie scarpe sembravano di cemento, non riuscivo a correre più di così ed ebbi l’impressione che invece di accorciarsi il terreno si espandesse.

Mancavano due metri, ma la fessura era stretta, ci sarebbero potuti passare due bambini abbracciati. La placca di metallo continuava a muoversi ed io mi sentivo già morta, un cadavere che corre.

Dall’altra parte c’era Paxton che mi chiamava.

<< Mallory! Mallory! Mallory! >>

Un altro metro, la fessura era lì, di fronte a me. Mi lanciai, braccia tese in avanti, il resto del corpo che seguiva.

Ero dentro?

Tenni le palpebre chiuse, strette in una morsa di speranza e disperazione, non avevo il coraggio di aprire gli occhi, ma dovevo.

Lo scarpone di Paxton mi apparve davanti. Non ero mai stata così felice di avere i suoi piedi in faccia.

<< Allora dovrò cominciare a prendere a calci questa tua faccia da stronza fortunata! >> rispose, aiutandomi a rimettermi in piedi.

Pulii via la polvere dai miei jeans, che si erano strappati appena su un ginocchio. Perfetto.

Ci avviamo all’entrata dell’edificio, verde e con una grande vetrata al piano superiore incredibilmente immacolata, con quattro camini sul tetto, da cui usciva fumo nero e pesante. Sembrava che facesse addirittura fatica a salire.

HARPER- INDUSTRIE PER LA LAVORAZIONE DEI METALLI

Nel cortile, ordinati in due file, tutti gli operai. Noi addetti alla manutenzione dobbiamo restare indietro, ultimi all’appello e alla distribuzione del pranzo.

La fila sembrava un enorme serpente. Dopo un po’ cominciò a muoversi.

La registrazione era iniziata. Era quello il modo in cui ci controllavano: ognuno doveva  riportare il proprio codice identificativo sul pannello di controllo all’entrata e dalla fessura sottostante usciva un sacchetto, di solito contenente un pezzo di pane e una bottiglia d’acqua. A noi manutentori consegnava anche il cinturone con gli attrezzi e la lista dei macchinari da riparare. Il tutto tenuto sotto controllo da quattro veri Agenti, posti ai lati della porta.

<< Fortuna >> sospirò sollevato Paxton ,allacciandosi la grossa cintura di cuoio da cui pendevano una chiave inglese, dei cacciaviti di varie dimensioni, una sacca di viti, un trapano e alcune punte.

Nella mia avevo dovuto fare cinque buchi in più, per quanto mi era larga.

<< C’è mancato poco >> risposi, afferrando il sacchetto del pranzo e passandogli la lista.

<< Che la cosa non capiti più. La prossima volta lascia il fucile a terra e che quel tipo si spari nel culo >> aggiunse con tono più autorevole, calandosi nella parte del Manutentore-Capo << Vediamo che cuccioli ci toccano oggi >>

E insieme ci dirigemmo verso la sala di saldamento dei bulloni, dove la saldatrice si era bloccata, mandando all’aria la produzione.

Dietro di noi riecheggiò l’eco del portone che si chiudeva.

                                                                                             
                                                                                               ******
 

La sirena di fine turno suonò alle diciassette in punto. Non sbagliava mai.

A quel punto tutti gli operai lasciarono ordinatamente le postazioni e si tolsero i camici, depositandoli in un cesto vicino all’entrata.

Quel giorno c’era stato parecchio lavoro da fare, almeno per noi manutentori. Avevamo aggiustato sette macchinari e sostituito i pannelli di due forni, lavoro non da poco.
Avevo le mani arrossate e doloranti, ma c’ero abituata perciò non ci feci troppo caso.

In silenzio, dopo essere usciti dalla fabbrica, stavamo tornando verso il ponte, dove poi ci saremmo separati.

<< Dovrai andare a casa da sola oggi >> esclamò << Devo passare alla Cava, da Wayne e Davon >>.

<< A fare cosa? >> domandai. Il lieve tremolio della sua voce sarebbe sfuggito a chiunque, ma non a me.

<< Scambi con le bande del Settore 5. Nulla di preoccupante, puoi stare tranquilla >>

Annuii, perché mi fidavo di lui. Ma sapevo che non sarei stata tranquilla.

Era risaputo, almeno nella parte sud del Canale, che le bande del Settore 5 non vedevano di buon occhio gli altri settori. Si diceva addirittura che tra loro si nascondessero degli Angeli, il che li rendeva ancora più pericolosi.

Tra loro e la banda capitanata da Xevo non scorreva buon sangue e più volte erano ricorsi all’uso delle armi per questioni, a mio avviso, futili e insensate. E Paxton era tornato con un proiettile nel braccio.

<< D’accordo >> lo rassicurai << Tanto non andrò direttamente a casa. Prima voglio passare all’Emporio >>

<< All’Emporio?! Di nuovo?! >> disse incredulo, guardandomi con gli occhi spalancati << Ci sei stata il mese scorso Mal! Non puoi andarci di nuovo! Non te lo permetterò! >>

<< Devo farlo Pax >> sussurrai stancamente << Cathy ha bisogno di medicine e con la mia attuale paga posso permettermene appena la metà >>.

Le mie dita si strinsero attorno alla già accartocciata busta di carta che conteneva la mia paga settimanale.

Quaranta dollari. Con gli straordinari del mese scorso.

Dieci se ne andavano per l’affitto, altri dieci per la luce, l’acqua ed il gas e quindici per il cibo di tutta la settimana. Così per le medicine ne restavano appena cinque, se tutto andava bene. Riuscivamo ad aumentare la somma con i risparmi della nonna e la misera pensione di vedova di cui disponeva, ma non era abbastanza.

Potevamo comprare pasticche per dormire, sciroppi aspri per la tosse, ma niente che potesse far realmente guarire Cathy. E lei doveva stare meglio. Non avrei permesso che subisse lo stesso destino di mamma e papà.  No.

<< Te li do io i soldi che ti servono! >> si offrii, porgendomi la sua busta paga. In quel momento il mio cuore si strinse in una morsa di…gratitudine. Gli ero grata per quello che stava facendo per me, per quello che aveva già fatto. Ma non avrei mai permesso che privasse la sua famiglia di vitale denaro.

<< Sai che non puoi farlo >> la scansai gentilmente << E se anche potessi, io non li accetterei. Non potrei mai privare la tua famiglia del cibo o della luce. >>

<< Ma… >> cominciò a ribattere.

<< Ma sai benissimo come finirebbe se iniziassimo questa discussione: vincerei io. L’abbiamo già fatto. Non  è la prima volta che faccio donazioni ravvicinate e sono ancora qui. Stai tranquillo >>

Per dare forza alle mie parole, gli posai la mano sulla guancia, quella con la cicatrice. Quel tipo di contatto l’aveva solo con me. Neanche sua madre poteva toccargli quello sfregio.

Forse a me lo permetteva perché ero stata io a medicarlo. Ma non me l’aveva mai detto.

Dopo aver immerso i suoi occhi nei miei per un attimo, sospirò e disse: << Va bene. Ma quando torno verrò a controllare come stai. Non mi importa se tua nonna dorme >>

<< Va bene >> sorrisi e ripresi a camminare.

Quando giungemmo alla fine del ponte ci salutammo con una veloce occhiata e un “sta attento”. Lui andò a destra, verso la Cava, e io proseguii dritta, in direzione dell’unico Emporio vicino casa.

Lungo le strade tutti i lavoratori si apprestavano a tornare alle proprie abitazioni per trovare un po’ di riposo. Mentre altri si avviavano a svolgere il turno di notte.

Le fabbriche non chiudevano mai. Funzionavano dall’alba all’alba del giorno dopo, solo con due brevi interruzioni: la pausa pranzo di un quarto d’ora e il cambio tra turno diurno e turno notturno.

Il rumore metallico dei macchinari, dei pistoni e degli ingranaggi non cessava mai. Era così impresso nella mia testa che mi sembrava di sentirlo anche mentre dormivo, a chilometri di distanza.

A volte non riuscivo a prendere sonno e vagavo come uno zombie per la casa, oppure salivo sul tetto a guardare il cielo. O meglio la nube di fumo.

Mi chiedevo cosa ci fosse dietro, oltre al sole. L’Enciclopedia che Eva, la mia dirimpettaia, aveva trovato nel cassonetto parlava di “stelle”.

Corpi celesti che brillavano di luce propria. Dietro doveva esserci un macchinario molto complesso per permettergli di farlo.

La notte era l’unico momento in cui potevo immaginare e sognare ad occhi aperti. Anche se i miei sogni riguardavano sempre macchinari da aggiustare o da sostituire.

Ero così persa nei miei pensieri che mi accorsi ,appena in tempo per evitare un “donatore” traballante, che ero arrivata all’Emporio.

L’insegna luminosa aveva una O e la I fulminate, mentre le altre lettere lampeggiavano e stridevano.

EMPORIO- LA DONAZIONE E’ ALLA BASE DEL VIVERE

Che mucchio di merdate.

Quelle donazioni di linfa servivano solo per indebolirci, e piano piano eliminarci, per poter avere nuovi appartamenti puzzolenti da dare a coppie appena sposate e posti di lavoro in più.

La mattina facevo sempre un “gioco” mentre andavo a lavoro: ricordare chi abitava in ogni palazzo, ripeterne il nome, l’età e altre informazioni imparate di anno in anno. Il fatto era che a volte le persone scomparivano, da un giorno all’altro. Le portavano via gli Agenti e allora non le vedevi più.

Addandonai quei pensieri ed entrai. Il campanello sopra la porta suonò e una ragazza piena di piercing e tatuaggi di tutti i colori emerse da un divisore color panna spento.

<< Che vuoi? >> mi domandò, masticando volgarmente una pseudo-gum. Una vomitevole ondata di odore di fragole mi colpì al viso come una folata di vento.

<< Sono qui per una donazione >> risposi e ,al contempo, cercai di trattenere una smorfia di disgusto.

<< Aspetta >> disse e si avvicinò alla scrivania all’entrata, prendendo dei fogli e porgendomeli << Compila questo. Quando hai finito riportamelo e poi procederemo con la donazione >>

Mi sedetti su una sedia in un angolo e iniziai a leggere.

1-Cognome e Nome
Richards, Mallory Rose.

2- Età-altezza-peso
Diciotto, uno e sessantanove, cinquanta.

3-Codice e categoria
Mpr9405, Impura

4-Quoziente di intelligenza Weschler, se lo sapete, ed età in cui è stato rilevato
Centotrenta, Età dodici anni.

La piccola sala di attesa era silenziosa e l’unico quasi impercettibile rumore era quello dello scorrere delle penne sul foglio.

Clitter, clitter, clitter

Dopo di me erano entrate altre cinque persone. Una delle quali, una ragazza di ,ad occhio e croce, ventidue anni, si era seduta vicino a me.

Emanava un odore di buono, di pulito. I capelli biondi le ricadevano lunghi sulla schiena e risaltavano sulla maglia nera che indossava. Aveva le gambe lunghe, elegantemente accavallate. Le dita affusolate e curate. Il profilo rivelava un naso lungo e appuntito e degli zigomi alti.

Non sembrava una di zona, o almeno io non l’avevo mai vista. Non sembrava neanche un Impura.

5-Ultima scuola frequentata.
Istituto Primario.

6-Vi siete diplomato?
No.

7- A che età avete lasciato la scuola?
Dieci anni.

8-Per quale motivo?
Motivi economici.

9-Nome ed età di parenti in vita, se ne ha.
Teale Ward, sessantasette
Catherine Rachel Richards, dieci.

10-Avete mai usato eroina o l’allucinogeno sintetico chiamato Scag?
No.

Quando riconsegnai il documento firmato alla giovane lo controllò svogliatamente non risparmiandosi profondo sospiri.

<< Bene >> disse appoggiandolo in cima ad un’alta catasta di altri fogli di registrazione alle donazioni << Vieni con me >>

Sculettando, mi condusse nella solita stanza asettica e che puzzava di candeggina. Apparte gli strumenti essenziali la stanza era completamente spoglia. Sempre che la muffa alla pareti non si possa definire “arredamento”.

Al centro, illuminata da una lampada al neon si ergeva la seduta, con la fodera strappata e sporca, dove il “donatore” doveva sedersi ed aspettare. La finta pelle stridette sotto di me.

Intanto la “ragazza di metallo” stava preparando tutte le attrezzature necessarie. Le conoscevo fin troppo bene: laccio emostatico, macchina separatrice, che divideva il sangue dalla linfa, ago e fiala. E naturalmente quello che io chiamavo “il foratore”. Uno strumento che serviva a penetrare fin dentro l’osso per poter prelevare una maggior quantità di linfa, e di qualità migliore.

Per questa procedura servirebbe, in casi normali, l’anestesia, ma qui era un privilegio a cui tutti avevano rinunciato. Piuttosto che spendere un dollaro era meglio sopportare un po’ di dolore.

Solo ora che la guardavo mi rendevo conto del modo ridicolo in cui era abbigliata: una gonna inguinale rossa, con calze a rete e scarpe con un tacco vertiginose bianche. Per non parlare della canotta che lasciava poco spazio all’immaginazione, rivelando un seno florido e coperto di tatuaggi.

<< Dammi il braccio che preferisci >>.

Le persi il destro. Sull’altro la ferita della precedente donazione aveva lasciato un livido violaceo che ancora mi doleva, in certi momenti.

Prese “il foratore” e me lo conficcò nella carne, senza un minimo di grazia. E senza laccio emostatico. Del sangue fuoriuscì dal buco, mi morsi il labbro per non  gridare. Con il laccio avrebbe fatto mano male.

Accese la macchina e questa con un po’ di fatica prese a funzionare, aspirando un liquido rosso con piccoli accenni di viola: la linfa.

Nessuno sapeva cosa gli Angeli ci facessero né perché ne avessero così bisogno, tanto che negli ultimi tre mesi la richiesta era aumentata. Così anche la retribuzione, e questa era la cosa che ci interessava.

<< Possono anche infilarsela nel cazzo con una cannuccia. Basta che mi paghino. >> diceva sempre Paxton, durante ogni donazione. Mentre la ragazza che se ne occupava di solito lo guardava con sguardo languido e malizioso.

Seduta in attesa cominciai a pensare a quello che avrei dovuto fare una volta tornata a casa: andare in Farmacia a prendere le pillole per Cathy, mandare al diavolo la signora Jenner, aggiustare il lavandino, fare una doccia, mangiare qualcosa e andare a letto. Ed erano solo le otto e venti, stando a quanto segnava l’orologio arrugginito e pericolante appeso al muro difronte a me.

La ragazza si era appoggiata con noncuranza al ripiano di metallo, limandosi le lunghissime unghie leccate di rosso. Bleah… che schifo. Nelle orecchie rimbombavano il ronzio della macchina al mio fianco e della lima.

Dopo quarantacinque minuti di trattamento, che mi fruttarono ben dieci dollari, le dissi di staccare tutto e una volta firmato un  altro documento che non persi neanche tempo a leggere, uscii e mi diressi verso casa, premendo un cerotto sulla ferita. La sala d’attesa era piena e la ragazza bionda era ancora seduta allo stesso posto a completare il test.

La testa mi pungeva leggermente; probabilmente a causa del poco dormire e del duro lavoro, cui si sommavano il poco mangiare e la donazione.

Si aprii il campo di battaglia. I lampioni accesi facevano luce sul mondo delle tenebre del Settore 4, un mondo fatto di perversione e droga, di lussuria e passione consumata in un angolo.

Le Sexy-case aprivano al pubblico con le loro 24 PERVERSIONI TUTTE DA GUSTARE, gli spacciatori uscivano dai loro buchi per vendere la loro merce e le bande si riunivano in stretti cerchi di motociclette.

Mi chiesi  cosa stesse facendo Paxton, come si stesse svolgendo l’incontro con quelli del Settore 5. Ma lui era un tipo furbo, se le cose si fossero messe davvero male sarebbe riuscito a svignarsela. Almeno speravo.

In lontananza scorsi il piccolo muretto fuori dal mio palazzo, davanti un barbone aveva piazzato il suo cartone e si stava preparando per sopravvivere a quella gelida notte.

Quando li vedevo, poveri e con i calzoni bucati, mi ritenevo fortunata ad avere quel che avevo, anche se mi costava fatica e sangue.

Tra tutti i rumori della notte, gemiti, rombi di motori e risate, giunse al mio orecchio un altro suono, più rauco e profondo, come di una tosse secca. Proveniva dal vicolo vicino casa e nessuno sembrava essersene accorto. Probabilmente era un drogato in piena estasi che di sicuro non voleva essere disturbato mentre si sballava.

Avevo imparato a mie spese quanto potessero essere violenti se osavi interromperli quando si facevano.

Feci per ritornare sulla mia strada, quando il rumore tornò. Questa volta più chiaro e definito.

Era un lamento, un gemito di dolore soffocato dalla tosse. Mi avvicinai, la stradina lievemente illuminata dalle luci delle finestre dei palazzi, e mi parve di scorgere dei piedi sbucare fuori da dietro un cassonetto, volti verso l’esterno. La puzza della spazzatura fresca accecava.

Poteva trattarsi di una trappola. Forse erano una banda di delinquenti che, sapendo che avevo fatto una consistente donazione, aveva intenzione di derubarmi attirandomi con questo stratagemma “della persona bisognosa” in un luogo buio e isolato.

Ma quando mi voltai per andarmene di nuovo, quel suono si fece sentire ancora. Questa volta capì cosa stesse dicendo.

Aiutami

Senza pensarci due volte mi gettai nell’ombra. Poteva essere Paxton o uno della banda, non avrei potuto lasciarli lì.

Col respiro pesante, che lasciava trapelare ansia e spavento, mi avvicinai alla figura seduta a terra. E quello che vidi mi lasciò senza fiato, il cuore si fermò e il mio cervello cercò di realizzare ciò che gli occhi gli inviavano.

Un ragazzo.

Con le mani sporche di sangue.


 
At the end of the day there's another day dawning
 And the sun in the morning is waiting to rise
 Like the waves crash on the sand
 Like a storm that'll break any second
 There's a hunger in the land
 There's a reckoning still to be reckoned and
 There's gonna be hell to pay
 At the end of the day!

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Capitolo 4
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Come in sir for you are weary
And the night is cold out there
Though our lives are very humble
What we have we have to share
There is wine here to revive you
There is bread to make you strong
There’s a bed to rest till morning
Rest from pain and rest from wrong
-Les Miserables-
 

Aiutami. Ti prego.

La supplica di quel ragazzo mi giunse debole e rotta. Il movimento delle labbra impercettibile.

Nessuno nei pressi del vicolo sembrava essersi accorto di lui. Le bande salirono in sella alle loro moto per svanire in una nuvola di polvere e pezzi di asfalto. I primi clienti si apprestavano ad entrare nelle Sexy-case.

Circospetta mi avvicinai al giovane. La testa  ciondolava in avanti, mentre le braccia giacevano abbandonate lungo i fianchi. Sotto di lui si intravedeva un pozza di sangue rappreso, coperto dalla sua corporatura massiccia.

Era svenuto. Oppure morto.

In ogni caso, problemi suoi.

Mi voltai e uscii dal vicolo, andando verso il portone del mio palazzo. Avevo fame e non vedevo l’ora di farmi una tanto sudata doccia, nell’attesa del ritorno di Paxton.

Sarei volentieri andata con lui, se non avessi già progettato di donare. Ma me l’avrebbe impedito, come sempre.

<< Non è un posto per te, Mallory >> si giustificava, facendosi subito serio.

Come se non avessi mai visto una sparatoria, uno scontro tra bande o un omicidio. Di quelli ne erano stati celebrati fin troppi nella Grande Piazza, poi trasmessi in tutti i settori nei maxischermi delle piazze.

Celebrare… come se vedere dei poveracci venire sbranati da cani come bestie o costretti ad uccidersi l’un l’altro come antichi gladiatori fosse uno spettacolo.

Ma per gli Angeli era così: volevano che fossimo grati per aver dato la giusta punizione a quei “disertori”, il cui unico vero crimine era stato l’istinto di sopravvivenza. Per la maggior parte erano ladri o rapinatori inesperti che si erano lasciati catturare facilmente. Lasciandosi alle spalle famiglia, moglie e figli.

Così come scattò la criminalità come arma contro la fame, allo stesse modo scomparve la… la…

Cavolo, la nonna lo diceva sempre… Avevo letto qualcosa a riguardo anche sull’Enciclopedia…

La… la… la… soli… solidarietà!

La solidarietà e l’altruismo si potevano definire estinti. Ormai ognuno si preoccupava della propria prosperità, di sopravvivere un altro giorno. Un altro giorno.

Guarda giù. E sopravvivrai.

Con la mano sulla maniglia, appena abbassata, l’odore di chiuso e di muffa che imbrattava l’edificio era così penetrante da stordirmi i sensi. Rimasi bloccata sulla porta a pensare.

Valeva davvero la pena? Valeva davvero la pena soffrire e sudare sangue per degli avanzi? Rischiare di morire ogni giorno per poter rivivere la stessa incertezza il giorno dopo? Andare avanti sapendo che quello sarebbe potuto essere l’ultimo della nostra vita?

Poche volte in tutta la mia vita mi ero posta quegli interrogativi: ero nata e cresciuta in quel mondo, in quell’industria eliminatrice di vite, e ormai sapevo che nulla mi avrebbe strappata a quelle mura, ogni secondo sempre più alte e insormontabili.

La Federazione è vita, è amore, è morte.

Questo recitava il Primo Nuovo Comandamento, stipulato dai Santi alla fondazione della Federazione.

Significava che tutto ciò che avevamo lo dovevamo a loro, agli Angeli e ai Santi. Come se tutta la merda in cui ci trovavamo a sguazzare fosse qualcosa per cui dire “grazie”. Un privilegio…

Gioisci, popolo di Jericho, perché da oggi è in funzione il quarto depuratore salino realizzato sotto l’illuminata guida dei nostri Angeli.

Gioisci, popolo di Jericho, perché da oggi aumentano le razioni di acqua che i nostri Santi inviano a ogni cittadino.

Ogni giorno, in tutte le fabbriche e i tutte le case, al mattino la solita voce metallica trasmetteva messaggi sui progetti e i traguardi raggiunti dalle nostre industrie, sotto il controllo della Federazione.

Più volte ho dovuto trattenere Paxton dal lanciare la sua chiave inglese contro l’alto parlante, nel vano tentativo di farla smettere di gettarci addosso merda su merda.

Lui sopportava meno di me il regime tirannico degli Angeli; suo padre era stato uno dei criminali giustiziati pubblicamente e lui e la sua famiglia dovettero assistere all’orribile scempio che i mastini dei Santi operarono sul suo corpo, smunto e martoriato dalle innumerevoli torture cui venivano sottoposti.

Aaron Davis. Quarantasette anni. Impuro. Potevi sederti sul divano e parlare con lui per ore; era un genio e rispondeva sempre in modo esatto alle domande dei quiz televisivi che guardava al Circolo. Lavorava nella mia stessa fabbrica, ma venne licenziato dopo aver perso un occhio, nell’Incendio.

Scoppiò nella scuola sei anni fa, ormai abbandonata, confinante con l’hangar in cui lavoravo: quel giorno stavo per morire anch’io. Circondata dalle vampate del fuoco, annichilita dal groviglio di tubature e dai filamenti di fumo nero che tentavano di catturarmi, mi ero rintanata in un angolo e gridavo disperata, invocando aiuto. Non avevo via d’uscita, le fiamme si erano sparse in pochi istanti, accerchiandomi. Il rivestimento d’acciaio del capannone si stava surriscaldando e potevo solo prenderlo a calci, nella vana speranza che qualcuno dall’esterno mi sentisse e capisse dove mi trovavo.

All’improvviso, quando avevo quasi perso i sensi, un paio di braccia mi sollevarono per portarmi al sicuro. Una figura annerita dalla fuliggine o, forse, vestita di scuro, mi trascinò per molti metri, buttandomi fuori da una delle uscite di sicurezza. Ricordavo solo gli occhi chiari, che brillavano alla luce delle fiamme fino a sembrare gialli.

Occhi non grigi, ma…azzurri.

Avevo sempre creduto che fosse stato Paxton a salvarmi, data la chiarezza dei suoi occhi, ma lui l’aveva negato, più volte.

Chiunque fosse stato, una parte di me pensava che fosse giusto ringraziarlo. Un’altra parte, più profonda e nascosta, lo odiava per avermi salvata e a volte sarei voluta tornare a quel momento e chiedergli di lasciarmi lì, far finire tutto e subito.

Ma quando vedevo il viso della nonna rilassarsi nel vedermi tornare a casa la sera o il sorriso che si dipingeva sul volto di Cathy quando le rimboccavo le coperte prima di andare a letto, non osavo immaginare cosa ne sarebbe stato di loro se quel giorno fossi morta bruciata.

Aiuta sempre gli altri Mallory. Ogni volta che puoi. Perché un giorno raccoglierai ciò che hai seminato.

Quelle parole mi bloccarono a metà della rampa di scale, sopra di me la porta della signora Jenner.

Le ultime parole di mia madre… Prima che si spegnasse consumata dalla febbre, che in quel periodo dilagava nei bassifondi di Jericho.

Aiuta sempre gli altri Mallory.

Delle due era lei quella altruista. Quella disposata a dare una mano a tutti, finchè le forze glielo permettevano. Era convinta che ciò che lei dava agli altri prima o poi sarebbe tornato, nel momento giusto.

Io invece pensavo solo a me stessa, e alla mia famiglia. Come mio padre.

Ripresi a salire lentamente le scale, come se improvvisamente mi fosse stato caricato sulle spalle un pesante scatolone. Sicuramente era la stanchezza; mi sarebbe bastata una zuppa, una doccia e una bella dormita.

Aiutami.

Aiuta sempre gli altri Mallory.

Guarda giù. E sopravvivrai.

Ogni volta che puoi.

Aiutami.

Perché un giorno raccoglierai ciò che hai seminato.

Ti prego.

<< Dannazione! >> imprecai, e cominciai a scendere di corsa le scale, saltandole due a due per fare fin fretta.

Ma proprio a me quel tizio doveva chiedere aiuto? Non poteva aspettare… che ne so…la signora Davis o il signor Woodrow? No, aspettiamo Mallory che di problemi ne ha pochi.
 
Aprii velocemente il portone e saltai le scalette del portico, atterrando a pochi centimetri della testa del barbone.

<< Ma che cazzo ragazzina! >> gridò rigirandosi nel cartone.

Quando arrivai nel vicolo, lui era ancora lì, steso a terra. Accertandomi di non essere osservata da nessuno mi avvicinai.

Gli spacciatori erano intenti a vendere, altri a farsi. Uomini di ogni tipo entravano e uscivano dalle Sexy-case, soddisfatti e col portafogli più leggero.

Una ragazza, in tacchi a spillo e biancheria intima, si sedette sulle scale e accese una sigaretta. Probabilmente uno spinello di Scag. I lunghi capelli rossi le ricadevano lungo la schiena e la pelle bianca si confondeva con vestaglia, quasi trasparente. I motociclisti gridavano al vederla, mentre lei elegantemente soffiava fuori fumo.

Se non fossi stata assunta da Harper sarei lì insieme a lei, a vendere ogni centimetro del mio corpo per qualche dollaro. A rendere felici tutti, tranne che me stessa.

Anche l’ultima coppia di spacciatori si allontanò andando verso il Canale. La strada principale era deserta, per il momento, o quei pochi che transitavano erano troppo occupati a guardare la giovane prostituta.

Mi chinai vicino al giovane, per valutarne le condizioni. Mentre tornavo non avevo notato tracce di sangue a terra, perciò era stato ferito da un’altra parte ed era arrivato qui seguendo le strade secondarie.

Aveva una corporatura massiccia, troppo per un semplice operaio. E a giudicare dai suoi vestiti, non era neanche un’Agente. Indossava una maglia beige, dei pantaloni scuri e un paio di scarponi. Ed il fatto che fossero ancora addosso significava che non era uno spacciatore, altrimenti a quest’ora non avrebbe avuto più neanche la pelle.

<< Cazzo >> dissi, vedendo com’era ridotto.

Aveva tre tagli profondi sul braccio, come di artigli. Un altro altrettanto profondo sul sopracciglio destro, mentre la ferita al petto ancora sanguinava. La maglietta era completamente sporca, per non parlare del sangue raggrumato.

Non potevo lasciarlo lì, in quelle condizioni. Dovevo spostarlo e portarlo in un posto dove avrei potuto curarlo e fare in modo che si riprendesse.

Casa mia era fuori discussione: non avrei mai messo nei guai la nonna e Cathy portando quel tizio che sarebbe potuto benissimo essere un ladro o uno stupratore. Così come casa di Paxton: non era il caso di portarlo dai suoi fratellini e da sua madre, sempre più persa nel mare dell’alcool.

Mi serviva un luogo in cui nasconderlo, dove nessuno sarebbe mai andato a cercarlo: lo scantinato.

Nessuno si recava più lì da anni e ormai era solo un piccolo magazzino umido e polveroso. Il luogo perfetto per occultare un semi cadavere. Così lo persi per le spalle e cominciai a trascinarlo a fatica verso il retro del palazzo. Doveva pesare come minimo novanta chili, solo di muscoli, mentre io arrivavo appena ai cinquanta, vestita.

I suoi piedi urtarono un piccolo bidone che si rovesciò a terra, attirando una decina di topi.

<< Hey, cos’era quel rumore? >> disse una voce maschile dalla strada.

<< Proveniva dal vicolo >> aggiunse un’altra, maschile anch’essa.

<< Andiamo a controllare >>

Il mio cuore perse un battito e il respiro si fermò. Sentivo i passi dei due uomini avvicinarsi, ma ascoltando attentamente ne percepii degli altri, come minimo erano tre.

<< Merda >> sputai, stringendo le labbra e cercando con tutte le mie forze di trascinare più velocemente il ragazzo, almeno oltre l’angolo del palazzo, in modo da poter essere nascosti per un po’.

I muscoli delle gambe e delle braccia erano tesi, pronti a scattare in caso di bisogno: se le cose si fossero messe male, sarei corsa via. Non mi importava.

I passi dei tre uomini erano sempre più vicini. Mancava poco all’angolo. Ancora un piccolo sforzo e ce l’avremmo fatta.

Poco prima che entrassero nel vicolo riuscii a trascinare i piedi del ragazzo oltre l’angolo, appoggiandolo al muro con la schiena. Mosse leggermente la testa, emettendo un piccolo lamento: era solo svenuto. Forse stava cercando di riprendere conoscenza.

Sporgendomi un  poco presi ad osservare gli uomini. Erano tre Agenti, inconfondibili nelle loro tute bianche e stivali alti neri, con le armi in mano, pronti a sparare se necessario. Cominciarono a guardare tra i cassonetti, li gettavano a terra e i topi scappavano. Un gatto randagio soffiò ad uno degli Agenti, che gli sparò senza una parola, con naturalezza.

Sobbalzai.

<< Era solo questo stupido gatto di merda >> sentenziò << Andiamo >>

Continuando a guardarsi alle spalle e fra i cassonetti, se ne andarono e attraversarono la strada, probabilmente per controllare gli altri vicoli.

A quanto sembrava non si erano accorti della macchia di sangue, coperta dalla spazzatura caduta dal secchio. Fortunatamente per me, altrimenti nulla li avrebbe fermati dall’entrare nel palazzo e metterlo sotto sopra. Come con quello di Margareth.

<< Cazzo >> sospirai, passandomi una mano fra i capelli, che il sudore aveva fatto attaccare alla fronte.<< C’è mancato poco, amico >>.

Il ragazzo aveva la testa inclinata da una parte, svenuto di nuovo. Le braccia abbandonate lungo i fianchi con i palmi in su.

Mi chinai su un ginocchio tra le sue gambe, per osservarlo meglio.

Aveva i capelli così scuri da sembrare neri, tagliati corti. Presentava dei lineamenti duri e precisi, eppure in armonia tra loro, così il suo viso non risultava né troppo spigoloso né troppo morbido. Il collo muscoloso era lasciato libero dallo scollo della maglia, strappata e sporca. Un rivolo di sangue colava dal taglio al sopracciglio, toccando anche qualche livido sul viso.

Non erano segni di uno scontro tra bande. Se lo fosse stato, sicuramente l’avrei trovato senza un occhio, un orecchio o un dito.

Il petto di alzava e abbassava a ritmo lento e quasi impercettibile.

Ma chi me l’aveva fatto fare di mettermi in questo casino?

<< Ormai ti ho portato qui. Tanto vale nasconderti per bene >> mi giustificai, come se potesse davvero sentirmi.

Usando le ultime forze che avevo lo ripresi da sotto le spalle e lo trascinai verso l’entrata dello scantinato. Le scalette erano coperte di erbacce e denti di leone, che nessuno si era preso il disturbo di rimuovere, e la porta era talmente ammuffita e crepata che temetti di sgretolarla quando le diedi un calco per aprirla.

Una nuvola di polvere si alzò, tanto fitta da sembrare nebbia, e lo squittio di alcuni topi riecheggiò nella stanza. Nell’oscurità distinguevo le forme di alcuni oggetti che avevamo portato qui io e Paxton anni fa, in caso di necessità, per esempio la branda sotto la piccola finestra al livello del terreno ,che lasciava filtrare qualche squarcio di luce lunare. Non entravo lì da almeno tre anni, ma non era cambiato nulla.

<< Cavolo se sei pesante >> ansimai, quando restai a sollevare quel tizio con solo un braccio, mentre col l’altro cercavo a tastoni l’interruttore della luce.

Ero un’addetta alla manutenzione, perciò ero abbastanza abituata a spostare pesi, aprire valvole dure come marmo, ma quel tipo pesava davvero un’esagerazione.

Eppure, ad occhio e croce, gli avrei dato più o meno una ventina d’anni.

Click

Due vecchie lampadine che pendevano dal soffitto si accesero con fatica allo scattare dell’interruttore e proiettarono sul muro le ombre di sedie, tavoli o scope, ingigantendole. Come se invece che a dei semplici oggetti fossero di giganteschi macchinari.

Sempre con un calcio, e cercando di non respirare la polvere, chiusi la porta alle mie spalle e trascinai il ragazzo fino al lato della branda, cosicché ce l’avrei messo con più facilità.

<< E’ un piacere rivederla Signora >>

Una voce metallica e raschiata alle mie spalle mi fece scattare dallo spavento. Lasciai andare la presa sulle spalle del giovane, che cadde a terra, sbattendo la testa ed emettendo un lamento, sicuramente di dolore.

<< Ma che diavolo! >> gridai, voltandomi di scatto, pronta ad affrontare chiunque si trovasse alle mie spalle.

<< Uno non voleva spaventar-r-r-rla, Signora >> disse emergendo dal buio e avvicinandosi lentamente. I suoi arti grigio opaco stridevano ad ogni movimento, perché arrugginiti e poco oleati.

Uno era un robot che io e Paxton avevamo costruito anni fa, seguendo le istruzioni di un manuale che avevo trovato nella spazzatura. Con pezzi vecchi e dismessi eravamo riusciti ad assemblare un perfetto robot, che però non si muoveva. L’unica cosa che era in grado di fare era parlare, anche se alle volte restava bloccato e ripeteva sempre le stesse lettere; il filtro vocale era consumato e impolverato, di conseguenza la voce usciva raschiata e ruvida.

<< Uno? >> domandai incredula << Ma come diavolo fai a funzionare? >>

<< Me-me-merito del Signore. >> spiegò. Il viso inespressivo, tipico dei robot, aveva al posto della guancia destra un pezzo di lamiera rosso, che brillava alla luce delle lampade.

<< Ogni tanto viene a trovarmi e mi ha aggiustato >>

<< Parli di Paxton? >>

<< Siiiiiiiiiiiii >> al suono di quel nome, per un attimo, i suoi occhi scuri si illuminarono. Ma doveva essere il riflesso della luce.

<< Ah…non lo sapevo >> sussurrai.

Ero felice che Uno funzionasse, soprattutto se per merito di Paxton, ma non sapevo perché mi aveva tenuto nascosto il fatto che si rifugiasse ancora qui. Questo era il nostro nascondiglio, di quand’eravamo bambini, di quando avevamo paura, di quando volevamo essere quello che  eravamo: bambini. Dove giocavamo dopo un’intera giornata di lavoro, dove gli avevo insegnato a leggere e a scrivere.

Ecco perché non avevo trovato la branda impolverata e qualche sedia vicina alla stufetta a legna, posta ai piedi del lettuccio. Probabilmente era stato qui più di quanto immaginassi.

<< Bè…dato che funzioni vieni qui a darmi una mano >> gli ordinai, ammiccando verso il giovane steso a terra che ogni tanto emetteva versi di dolore, quasi sul punto di riprendere conoscenza << Dobbiamo metterlo sul letto e medicarlo >>

<< Uno è lieto di poter servire >>

Ripeté la formula che ogni robot deve onorare e senza sforzo prese il ragazzo per le spalle e lo issò sulla branda, poggiandogli delicatamente la testa su un cuscino. Era così alto che quando gli sollevai i piedi sporgevano per mezzo palmo dalla fine del letto.

Aveva smesso di lamentarsi, ma era ancora vivo. Forse stare su qualcosa di morbido e caldo lo fece sentire meglio del cemento freddo e ruvido del vicolo. Anche se qui sotto si gelava.

<< Accendi la stufa, mentre io gli controllo le ferite >>

Uno si diresse verso il vecchio cilindro di metallo scuro, gettandoci dentro pezzi di sedie e un fiammifero. Il fuoco si alimentò piano piano, controllato dal robot.

Io, cercando di toccarlo il meno possibile, alzai piano la maglia del giovane, incollata alla pelle dal sangue. Fui costretta a tagliarla con un coltello per poterla togliere.

Uno squarcio profondo gli percorreva tutto l’addome, da parte a parte,  mentre sul braccio destro aveva tra gravi tagli, come se glieli avesse fatti un animale. Per non parlare dei lividi e delle chiazze violacee che macchiavano la sua pelle sporca.

Sul petto aveva anche un tatuaggio. I contadini non hanno tatuaggi, o per lo meno non starni come quello.

Erano due cerchi, uno dentro l’altro. Al centro c’erano degli strani simboli, mezzelune e lettere, mentre attorno, tra i due cerchi, erano incise quelle che credetti fossero parole, anche se scritte in una lingua che io non ero capace di leggere.

Molto strano.

<< Avete bisogno che faccia qualcos’altro Signora? >> disse Uno distogliendomi dai miei pensieri << Il fuoco arde e tra poco sentirà più caldo >>

<< Non avresti per caso delle garze o qualcosa con cui fasciargli e lavargli le ferite? >>

<< Ci sono delle vecchie camicie del Signore, nell’angolo. >>  rispose << Gliele porto >>

<< Grazie Uno >> dissi flebilmente.

Il rumore del robot che rovistava tra i vari oggetti ammassati da una parte sovrastò lo scoppiettio del fuoco e poco dopo Uno emerse, in una mano delle camicie strappate e nell’altra una bacinella d’acqua.

<< Dove hai trovato quell’acqua? >> Era già raro trovarla per noi umani, figuriamoci per un robot che non usciva mai da quello scantinato.

<< E’ acqua piovana, Signora >> spiegò << Mi dispiace, ma non ho di meglio. >>

Appoggiò la bacinella vicino alle mie ginocchia e cominciò a strappare dei pezzi di camicia, che avremmo usato come garze, mentre io con l’altra cominciavo a pulire la ferita più profonda. Uno si occupò dei tagli alle braccia.

Ci volle più di un’ora per togliere il sangue e lo sporco e per fasciarlo, ma alla fine potemmo ritenerci soddisfatti: il tizio era ancora vivo e Paxton c’avrebbe rimesso solo qualche vecchia camicia troppo piccola. Lo coprimmo con una coperta e gli sistemammo un pezzo di stoffa bagnato sulla fronte, per abbassargli un po’ la temperatura.

Chissà per quanto tempo era rimasto lì fuori, ferito e al freddo. Sicuramente abbastanza a lungo perché si ammalasse.

Ormai dovevano essere quasi le dieci, se non più tardi. Dovevo tornare o la nonna si sarebbe preoccupata.

<< Io devo andare. >> dissi alzandomi da terra e pulendomi i pantaloni.

Il robot era rimasto seduto sulla branda accanto al ragazzo e non aveva smesso un attimo di guardarlo. Solo quando gli parlai alzò gli occhi verso di me.

<< Ma certo Signora >> rispose << Vuole che faccia qualcosa mentre lei è via? >>

<< No, grazie >> sbadigliai.

Mi diressi verso le scale che portavano al piano superiore, ovvero all’entrata del palazzo, con passo stanco e pesante, come se salire ogni gradino fosse come farne tre.

<< Anzi si >> mi bloccai a metà << Se questa notte dovesse peggiorare , dagli queste, ma non più di una ogni tre ore, altrimenti va in choc. E cambiagli i bendaggi, se vedi che comincia a perdere troppo sangue, chiaro? >>

Gli lanciai due delle tre pasticche rosse che avevo preso appena uscita dal lavoro per Cathy, per farle abbassare la febbre. Uno tese semplicemente il braccio e le afferrò:<< Uno è lieto di poter servire >>

<< Se dovesse arrivare qualcuno, nascondilo e fai finta di essere spento >> continuai << Se dovessero trovarlo, saremmo nella merda, ma almeno non se la prenderebbero con te >> Prima che potesse rispondere chiusi la porta e infilai il catenaccio col lucchetto abbandonato a terra.

In quel momento l’unica cosa che volevo era andare a casa, farmi una doccia e mettermi a letto. Sperando che quel ragazzo di sotto fosse solo un brutto sogno.

Aiuta sempre gli altri Mallory. Ogni volta che puoi. Perché un giorno raccoglierai ciò che hai seminato.

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