Anch'io avevo le mie illusioni

di Alessandro Picarelli
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***



Capitolo 1
*** I ***


I
Sognava, il mio piccolo, sognava senza ancora … e faceva bene. Glielo dicevo sempre. Infondo era l’unica cosa che avrebbe potuto realmente fare. Correre. Tirare un calcio ad un pallone. Uscire con gli amici. Andare a scuola. Visitare città, paesi. Erano questi i suoi desideri, i suoi sogni ardenti, per nulla difficili da realizzare se non si fosse trovato in quelle condizioni. Erano queste le speranze  con cui il mio piccolo Enrico trascorreva le sue lunghe, interminabili giornate, sotto il calore delle coperte del suo letto che mai aveva abbandonato nei suoi diciassette anni di vita, rivolto alla grande finestra della sua camera che altro non sapeva dirgli che il tempo che faceva fuori. Infondo, mi diceva ogni  volta che distoglieva la mente dai suoi complicati pensieri, che senso aveva il tempo per lui? Non era mica uno di quei tanti fighetti che aspettano l’estate per mostrare i loro bicipiti scolpiti da ore e ore di palestra; e neanche un appassionato di sci che aspetta con ansia la stagione invernale per andarsene a divertire con gli amici. Per lui, l’unica forma di tempo di cui era a conoscenza, era quella che inesorabilmente, senza che nessuno potesse fermarla, gli aveva invaso sempre più il corpo e senza nessun motivo lo aveva fatto crescere, spuntare la barba, e quella stupida  peluria che per lui non aveva nessun senso …                                                                                                                                  
Così molte volte veniva tentato dalla decisione di far ritornare il letto nella sua sistemazione iniziale: rivolto verso la porta della camera che per la maggior parte del tempo vedeva sempre chiusa. Ma per fortuna, e ringraziava Dio per questo, ogni volta che si soffermava su questo pensiero, un altro più forte lo fermava, lo bloccava, infrangendolo in una miriade di piccole schegge che pian piano si sarebbero però ricongiunte: la convinzione che quella era una delle poche cose su cui si centralizzava la sua vita. Grazie a quella finestra era entrato a conoscenza di molte persone e ogni giorno continuava a scoprirne di nuove, dai volti mai visti prima che, seppur da quella posizione e dal terzo piano della sua casa, riusciva a inquadrare molto bene: erano ormai tre anni, per esempio, che conosceva l’anziana signora del palazzo accanto, che ogni mattina alle sette e mezza si recava, ricurva su se stessa e sorretta da un bastone, a comprare una pagnotta calda e un sacchetto di taralli per i suoi nipotini; sapeva così bene inoltre, il motivo per cui il baccano del pescivendolo sotto casa sua ogni mattina alle cinque in punto lo svegliava: il suo rifornitore abituale si presentava sempre con scatole di pesce contenenti più chili di quanti ne fossero stati richiesti e a volte ne portava alcune contenenti merce addirittura fuori ordine.  
Dio. Che grande fede aveva per Dio il mio piccolo Enrico! Non gliel’ho mai detto realmente, ma come faceva ad averne così tanta? Io stesso non ne avrei avuta in quelle condizioni. Ma come faceva? Sicuramente era più forte di me, più forte di chiunque. E ogni volta che mi soffermavo su questi pensieri, il mio piccolo Enrico mi leggeva nella mente e con quest’ultima sembrava accarezzarmi. Mi fissava intensamente negli occhi e poi mi rispondeva: ‘Dio mi vuole bene, credimi. Mi ha tolto tutto, è vero, ma non le cose più importanti. Il fatto che io possa parlarti ha già dello straordinario.’ E in quelle parole che ormai erano diventate poesia, riuscivo a cogliere tutto il coraggio e la forza del mio piccolo Enrico. 
Nella stanza di Enrico, le ricordo così bene, c’erano molte foto, che principalmente - mi spiegò un pomeriggio lui stesso, quand’ero andato a fargli visita e a tenere compagnia più a me che a lui - si suddividevano in due categorie: alla prima facevano parte quelle foto di lui assieme alla sua famiglia, foto a cui lui non preferiva degnare neppure uno sguardo, poiché ogni volta che le osservava lo rigettavano puntualmente nella sua realtà e nella sua camera. Di certo in giro per casa c’erano molte foto di quel tipo, ma lui non lo sapeva per certo, poiché, a dirla tutta, non sapeva neppure com’era realmente fatta la sua casa; alla seconda categoria facevano parte quelle decine e decine di foto appese senza un preciso criterio, che per molti - compreso io - sarebbero parse inutili e insignificanti, ma che per lui volevano dire molto: rappresentavano infatti il suo salotto, i suoi bagni, il suo balcone, la vista che si godeva da quest’ultimo, le case dei suoi parenti, i luoghi che avrebbe sempre desiderato vedere, foto di sconosciuti con cui aveva ormai fatto amicizia e con cui si dilettava a conversare quando si sentiva particolarmente solo, ma anche paesaggi mozzafiato, costiere marittime, montagne imbiancate … ed erano queste immagini con cui, nel più semplice e possibile dei modi, Enrico teneva in attività la sua mente.
Era stato il medico a consigliare ai suoi genitori quel tipo di attività - forse l’unica che sarebbe stato in grado di fare senza coinvolgere altre parti del corpo o altri sensi a lui non disponibili - questo lo sapeva bene e lo accettava soprattutto per il semplice fatto che il suo sistema nervoso da ormai qualche anno era stato infettato da una malattia che i medici ancora non erano riusciti a capire come, e soprattutto in quelle condizioni, fosse potuta subentrare nel ragazzo: l’Alzheimer. Così puntualmente Enrico perdeva la memoria, credeva di essere qualcun altro e si scordava persino chi fosse e dove vivesse. Ma per qualche strano motivo – che mai sono riuscito a spiegarmi – non si scordava mai di me …  
Il  fatto che Enrico fosse figlio unico, a prescindere, dalle mille e più opinioni della gente, non era affatto un fattore positivo per quello che si sarebbe potuto definire il suo ultimo, lento periodo di crescita maturata. Nel quartiere c’era chi riteneva giusta la scelta dei genitori del ragazzo che, per dedicarsi esclusivamente al figlio, avevano preso l’assai dura decisione di non averne più; altri invece non approvavano assolutamente quel tipo di decisione che per bocca di molti veniva definita come ‘azzardata e menefreghista’.
Ma qualunque fossero state le diverse opinioni della gente – e ancora oggi, ogni tanto mi frastornano la testa - una soltanto era vera e rispecchiava in pieno i due: lo stato di profondo e irrimediabile terrore in cui alla nascita del piccolo erano caduti i genitori, impauriti dal sol pensiero che un altro dei loro figli potesse nascere con le stesse problematiche di Enrico. 
In quel pomeriggio, dove credo sia doveroso cominciare a raccontare per filo e per  segno la storia di questo tanto misterioso quanto simpatico ragazzo – con il suo cespuglio di capelli rossi arruffati che smentiva il suo stato d’animo più di ogni altra cosa - non accadde però nulla di estremamente particolare: Milly - la sua cameriera, nonché una graziosa donna africana che da quattro anni lavorava per il mio piccolo Enrico - entrò in camera per far arieggiare l’ambiente chiuso dalla sera prima; qualche ora più tardi il babbo del ragazzo – un’importante direttore bancario dall’aspetto solenne - si addentrò di tutta fretta nel suo calmo e al quanto insolito stato di riflessione, per avvisarlo che si sarebbero rivisti l’indomani poiché era stato chiamato improvvisamente per ragioni di lavoro; e per ultima, a dargli l’ormai antico, ma ben voluto bacio della buona notte – che certe sere anch’io preferirei avere - fece capolino la madre, che con i suoi modi dolci - che mascheravano perfettamente il suo stato d’animo nero ogni volta che vedeva il figlio -  gli domandò cosa avrebbe preferito mangiare l’indomani. E fu solo allora, dopo qualche ora, che Enrico finalmente si addormentò, inconsapevole, quasi quanto me, di quello che gli sarebbe successo la mattina seguente.
 
 

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Capitolo 2
*** II ***


II ‘Milly dai …’ ‘Scusa … ma sono quasi le nove ed è giovedì.’ Giovedì. Il mio piccolo Enrico odiava quella parola e ancor di più quel giorno della settimana. Giovedì. Significava una sola cosa per lui: la visita di controllo del fisioterapista che come sempre si sarebbe presentato alle dieci in punto e gli avrebbe fatto svolgere quella serie di esercizi che nelle sue condizioni, e il ragazzo ne era ben cosciente, non sarebbero poi serviti ad un gran che. Sbuffò scocciato, ancora mezzo accecato dai raggi di sole che trafilavano, senza che nessuno li avesse chiamati, dai vetri della finestra. Rimaneva ancora colpito - dopo diciassette anni che viveva lì - dal modo in cui a Roma, il tempo fosse volubile come il suo carattere che non era mai riuscito a tenere veramente a bada, soprattutto con quei fastidiosissimi medici che altro non servivano che ad impregnare le pareti e ogni oggetto della sua stanza, del fastidiosissimo odore di creme, pomate, bende oleate, medicinali … Milly uscì di fretta dalla stanza. Si sarebbe ripresentata, secondo i suoi vecchi ma sempre aggiornati calcoli - che io non riuscii mai realmente capire, ma che si rivelarono sempre esatti - un quarto d’ora più tardi per fargli fare colazione. *** Dringggg!!! Il campanello di casa squillò inondando le orecchie di Enrico di un rumore metallico che il ragazzo aspettava già da diversi minuti. Anch’io lo sentii e dopo aver consultato il mio fidatissimo orologio capii chi fosse. A questo seguirono una serie di rumori regolari che erano soliti di Milly quand’andava ad aprire di fretta il portone. ‘Bon giorno dottore’ udì Enrico dalla porta socchiusa della camera ‘entrambi i genitori sono momentaneamente fori casa, se vole …’ Rumore di passi, questa volta più pesanti, che sembravano farsi sempre più vicini. ‘Non fa niente Milly, grazie lo stesso’ il tono di voce dell’uomo si fece più basso, ciononostante il mio piccolo riuscì a comprendere quanto detto, benché non fosse una novità ‘Come sta Enrico in questi giorni? Ricordo che la settimana scorsa l’ho trovato con una …’ Milly capì all’istante e prima che il medico avesse avuto il tempo di chiudere la domanda, disse: ‘Per fottuna Enrichetto non sta avendo sbazzi di memoria da più di una settimana … ma sia io che i genitori abbiamo notato come sia,sopratutto in questi giorni, annoiato e triste …’ ‘Milly chi è?’ Enrico volle chiudere quella conversazione nell’unico modo a cui era a disposizione. Questa era una delle poche cose per cui lo criticavo: era solito a voler fuggire dalle situazioni complicate e scomode, ma dopotutto lo capivo: quel tipo domande e ancor più di risposte, non facevano altro che fargli pesare ancor di più la sua malattia. Milly sospirò, tirò giù le spalle, guardò quell’uomo con cui, seppur in modo diverso, operavano insieme per la salute e il benessere del ragazzo – come facevo d'altronde io quelle poche volte che riuscivo a strappargli un tanto sofferto sorriso - e gli fece segno di accomodarsi nella stanza. ‘E’ il dottore’ disse la donna aprendo la porta. Fu allora che Enrico voltò la testa e con una piccola smorfia, tipica del suo carattere, salutò il dottore che si era tolto il cappotto ed era intento a poggiarlo sull’appendiabiti vicino l’armadio. ‘Li no!’ lo fermò Enrico seguendo i movimenti dell’uomo con lo sguardo. Il dottore strinse gli occhi dubbioso. ‘E che quell’immagine gli piace un sacco e preferisce averla sempre in bella vista’ spiegò Milly conoscendo il ragazzo quasi quanto me e ancor di più il lungo silenzio a cui altrimenti avrebbe dato inizio. Il dottore sfilò il giubbotto dall’appendiabiti e lo gettò, senza dar troppo nell’occhio, su una sedia vicino il letto. Si avvicinò ad Enrico fingendo un sorriso. Il ragazzo non ricambiò. ‘Allora’ disse tirandosi su le maniche della camici azzurra a quadroni ‘cominciamo …’ *** Un lungo silenzio inondava le mura della casa del mio piccolo. E’ quel tipo di rumore, se così si poteva definire, che sempre assocerò a lui. Ma quel pomeriggio, ad intervalli regolari, era interrotto dai suoi lunghi respiri, che come sempre, dopo una seduta di fisioterapia, restavano affannosi e pesanti per tutto il giorno. Con il senno di poi aveva proprio ragione a non volerli fare! Alle due del pomeriggio Milly uscì di casa per la sua pausa pranzo di un’ora. Enrico rimase in compagnia della madre che come sempre ebbe una presenza più leggiadra di un fantasma. Il mio piccolo si chiese più volte quando sarebbe ritornato il padre. Ora che ci penso bene, mi rendo conto come fosse molto pi attaccato a lui che alla madre; forse per il semplice fatto che fosse un uomo o, e credo sia questa la risposta esatta, perché era molto meno presente. Ma se così fosse, il mio piccolo Enrico era un vero amante della solitudine, quasi quanto me! Ed era proprio questa caratteristica che tanto ci accomunava. Come sempre il padre di Enrico rincasò alle tre e mezza. Un orario perfetto secondo il ragazzo: a quell’ora Milly smontava il suo turno e così in casa non c’era troppa confusione. Infondo che male gliene avrebbe fatta un po’? La porta della camera si spalancò. ‘E’ arrivato qualcuno?’ chiese Pasquale, il padre. Il mio piccolo fu colto di sorpresa. Voltò la testa di scatto. ‘No. Perché?’ disse curioso. Amavo così tanto le sue umili pretese. Non andavano mai oltre un ‘perché’. ‘No …’ si spiegò Pasquale riprendendo fiato e raccogliendo la giacca che dalla fretta gli era sfuggita dalle mani ‘e che aspetto un cliente. Doveva essere qui alle tre e un quarto ... Sei proprio sicuro che non sia arrivato nessuno?’ ‘Sicuro’ tagliò corto Enrico ritornando con la testa chino sul cuscino ad aspettare invano, che qualcosa accadesse. Era in quei momenti che odiava la sua vita. Mai una sorpresa … mai una soddisfazione. Anche se essere lì era già una conferma della sua piccola dose di fortuna. *** Mezz’ora più tardi il campanello di casa squillò di nuovo. Come sempre il mio piccolo non ci fece caso. Chi poteva essere di così straordinario? In tutta la sua vita non aveva ricevuto che visite dai parenti, da amici di famiglia, da medici e … gli scocciava molto ammetterlo … da Lucia. Lucia si che si poteva definire una ragazza di cuore! Ma Enrico non lo ha mai voluto ammettere. Abitava nel palazzo di fronte al nostro, un piano più altro del mio piccolo, in corrispondenza con il mio. Aveva adocchiato Enrico sin da bambina e da allora, dall’età di quattro anni, passava metà del suo tempo – quando era a casa si intende – ad osservarlo dalla finestra del suo salotto. E anche il mio piccolo la notava qualche volta, e con il suo sguardo indagatore la osservava per ore e ore, nella sua unica, scomoda posizione. Credo proprio sia stata una di quelle poche volte in cui Enrico alzava lo sguardo al cielo e veniva distratto da se stesso. Pasquale corse ad aprire. Fu in quel momento che il ragazzo si ricordò dell’incontro di lavoro del padre. Non ne sarebbe stato molto contento. Negli ultimi anni aveva maturato un ossessione incontrastata e a volte stressante, che si accentuava sempre di più col passare del tempo, per la puntualità. Guai se qualcuno si azzardava a tardare per un impegno già preso e programmato. Guai se qualche medico o fisioterapista tardava alle visite del figlio … infondo non aveva senso, mi diceva sempre più consapevole il mio piccolo, il tempo per lui non aveva misura! Aspettare non gli faceva paura, infondo visse tutta la sua vita ad aspettare un qualche, possibile miracolo … Enrico riconobbe le voci distinte del padre e di un uomo dalla voce rauca e striata, segnata dal tempo. Rumori di passi come sempre, in quel luogo mite e solitario. Fu strano riconoscere un tono di voce rilassato e in qualche modo calmo, in quello che per niente distingueva quello del padre. ‘… si accomodi …’ riuscì a scorgere il mio piccolo da quella monotona conversazione. Quella era una cosa che non lo distingueva ne da me, ne da Lucia, ne dai genitori, ne da nessun altro: quando qualcosa o qualcuno non lo interessava, semplicemente non lo ascoltava, o lo sentiva senza capirci una mazza di quello che diceva. Un rumore di porta che si chiude, un cigolio soffuso e attutito dai respiri di Enrico. Poi il silenzio. Il silenzio incontrastato su ogni cosa. Il silenzio che infondo è la cosa più normale del mondo. Il silenzio che non capisco perché così tanti si meravigliano e hanno paura di ascoltare. Infondo è sempre stato silenzio … sin dal principio … e sempre stato silenzio fin quando … Un rumore di passi, confusi e incerti, quasi quanto Enrico a sentirli. Il mio piccolo girò la testa, l’ambiente che poco fa aveva lasciato accarezzato dai raggi del sole, ora sembrava fatto di ombre nascoste e piatte … ma questo non importava: che ci facevano quei passi lì? Cosa volevano? Il padre non aveva certo accennato dell’arrivo di qualcun altro … ‘Milly sei tu?’ azzardò il ragazzo. La cameriera infatti, era solita in quel periodo a scordare in continuazione qualcosa di cui solo una volta ritornata a casa si ricordava. Ma non si era mai voltata … a meno che non fosse stato sabato. Ma non era sabato, si ricordò subito il mio piccolo, scordava in continuazione che giorno della settimana fosse, ma quello era l’unico che teneva sempre fisso nella mente a causa della seduta di fisioterapia. I suoi lunghi, interminabili flussi grigi di pensieri furono troncati dall’aprirsi della sua porta. Non seppe mai veramente quando tempo fu trascorso da quando aveva posto la domanda, ma ripeto, per lui il tempo non aveva un gran che d’importanza. ‘E’ permesso …?’ una voce insicura oltrepassò la barriera della porta. Al mio piccolo erano sempre piaciute le barriere. Per lui erano come scudi protettori che oltre a tutelarlo lo mascheravano e lo rendevano invisibile agli occhi di chiunque. Enrico non rispose. Non aveva mai sentito quella voce, a tratti molto simile alla sua. Il proprietario di quelle note tanto irrequiete si fece avanti sentendo i lunghi respiri che gironzolavano per tutta la stanza e arrivavano anche alle sue orecchie. Qualche istante dopo, alcune foto del mio piccolo, fiancheggiante alla porta, furono oscurate da un’alta figura. Era un ragazzo. All’inizio neppure io seppi se quell’incontro avrebbe giovato sul carattere del mio piccolo, ma quello di certo si sentì in forte disaggio. Restò ipnotizzato per qualche secondo ad osservare il mio piccolo. Mi innervosivo un sacco per quello: il suo corpo, seppure immobile, non era mica un oggetto, restava pur sempre un corpo … e molte persone a volte faticavano a capire questo concetto tanto semplice e a collegare il volto del mio piccolo - che forse era l’unica cosa che avevano voglia di ricordarsi di lui per diminuire il dolore - con il suo corpo. Il ragazzo tanto misterioso quanto innocuo – si perché a volte le persone più interessanti non sono quelle capaci di poter far tutto, di correre, di studiare, di laurearsi, d’intraprendere una buona professione … ma quelle che, come il mio piccolo, pur avendo poco, sanno rendere quel poco una cosa straordinaria – ritornò con lo sguardo nella vita normale. Scosse un paio di volte il capo, si guardò intorno a disagio e disse: ‘Scusa non volevo …’ e non trovando parole per terminare quell’insignificante frase - perché dopotutto non era colpa sua quella visione tanto affranta, ma in parte lo era poiché se ne sarebbe potuto stare fermo lì dov’era e non impicciarsi di fatti che non gli riguardavano – si girò e mise un piedi fuori la porta. Ricordo ancora vivamente quello strano legame, fatto solo di menefreghista curiosità, che costringeva gli sconosciuti ad osservare Enrico senza staccargli per un secondo gli occhi da dosso. Ma in quel caso, fu il mio stesso piccolo a facilitargli il gioco. ‘Rimani … ti prego.’ Non lo avevo mai sentito implorare. E mi chiesi a quel punto se la mia presenza non gli era a sufficienza. Che scemenza! Come poteva essergli a sufficienza. Persino io a volte mi scordo che Enrico era una persona vera … e quale persona vera è capace di vivere, parlare e sfogarsi con una sola persona? Il ragazzo rimase impalato davanti la porta, un piede mezzo fuori. Il mio piccolo gli fece segno con lo sguardo di farsi avanti. E lui così fece. ‘Scusa’ disse, sempre più vicino al mio tesoro imbalsamato dentro se stesso ‘ma prima ho sentito la tua voce e mi sono permesso di …’ ‘Non fa niente, non sei il primo a cui capita.’ Il ragazzo rimase in silenzio, chiunque l’avrebbe fatto. Persino io l’avrei fatto e qualche volta lo facevo quando il mio piccolo mi parlava e a quelle sue frasi senza risposta neppure io riuscivo a trovarne una. ‘Siediti.’ Il ragazzo adocchiò la sedia vuota vicino il letto del mio amico. Si ci sedette quasi come fosse fatta di fragile porcellana. In che situazione complicata si era messo! ‘Mi chiamo Tomaso’ si presentò il ragazzo. A quelle parole rimasi sbalordito. Avrei scommesso oro che sarebbe rimasto in silenzio, sguardo fisso per terra! Ma mi fece comunque piacere quel suo gesto … che forse, molto probabilmente, nella sua piccolezza, riservava una buona persona. Poi fece un gesto che chiunque avrebbe fatto se fosse stato all’oscuro, come in quel caso, della situazione: porse la mano destra al mio piccolo in segno di conoscenza. Ma il mio piccolo non ci rimase male. Era una persona buona, una delle più buone e semplici che io abbia mai conosciuto. Non vedeva il motivo per arrabbiarsi o imbronciarsi inutilmente per qualcosa di cui gli altri non erano a conoscenza. Non era mica un animale … e a lui andava bene così. Non avrebbe preferito di certo un cartello attaccato alla porta che avvisava, così come per esempio nei cani feroci, le sue problematiche! I problemi e le divergenze il mio piccolo li risolveva parlando … e così fece. ‘Proprio non posso …’ disse e in quelle parole Tommaso riuscì a intenderne il senso, ma non ne capì il vero significato ‘… comunque piacere, Enrico.’ Un lungo minuto di silenzio che servì ad entrambi per riordinare le idee e soprattutto a Tommaso per non commettere altri errori, che di certo, quella seconda volta, il mio piccolo non avrebbe tollerato. ‘Sei qui con …’ chiese Enrico non troppo curioso. Tommaso lo precedette notevolmente. ‘Con mio padre, si. Ha una riunione di lavoro straordinaria con il tuo.’ ‘E perché sei con lui?’ ‘Alle sei ho appuntamento dal dentista, devo estrarre un dente’ il ragazzo contorse il viso in una strana espressione terrorizzata ‘e per non far fare il doppio giro a mio padre sono venuto con lui.’ Di nuovo il silenzio, mascherato dal rumore delle auto giù in strada. ‘Ti piacciono gli U2?’ Enrico alzò lo sguardo, esterrefatto. La sua vita si era sempre concentrata e svolta nella sua piccola stanza. Non si era mai spinto oltre, non aveva mai avuto il coraggio di oltrepassare quelle spesse barriere da lui create. E ora che gli si presentava l’occasione, l’unica risposta che avrebbe saputo dare, sarebbe stata un ‘no’. Ma non rispose … si limitò a scuotere la testa e ad osservare lo sguardo stupito di Tommaso subito dopo. ‘Come no?’ disse e tirò dalla tasca del pantalone il suo cellulare ‘sono mitici. Certo, non tutti li conoscono, sono vecchi dell’età della pietra … mia madre me li ha fatti conoscere, ma una volta ascoltati non si ritorna più indietro! Aspetta un attimo …’ Abbassò lo sguardo allo schermo illuminato del cellulare, vi gesticolò per un po’ e dopo, quasi incantato alzò il volto che venne benevolmente accarezzato dagli ultimi raggi di sole di quella giornata. Improvvisamente un musica rimbombante e coinvolgente avvolse ogni parte della stanza, entrando nei timpani del mio piccolo che non poté far altro che sorridere a quel ragazzo tanto insolito. ‘… We can’t fall any further … if we can’t feel ordinary love … we cannot reach any higher … if we can’t deal with ordinary love!!!’ Tommaso cominciò a cantare a squarciagola i versi della canzone, sovrastando le voci originali del pezzo. Era vero, pensò il mio piccolo, quegli U2 di cui fino ad un minuto prima non sapeva neanche l’esistenza, spaccavano davvero! E alla grande … Senza alcun motivo le parole della canzone continuarono a scorrere sole e libere da qualunque tipo di disturbo. In parte fu un bene, ma quando Enrico si accorse che Tommaso stava guardando un punto fisso della stanza, anche per lui tutto si fermò. ‘Cosa c’è?’ chiese guardando a intervalli regolari il viso attonito del ragazzo e cercando di focalizzare, senza riuscirci, il punto che stava osservando. ‘E’ stupido come a volte si ignorino cose di cui forse si è già a conoscenza … o come si abbiamo cose e oggetti di cui non si sa il vero significato o la storia che li ha portati fino a noi’ disse Tommaso, lo sguardo sempre fisso alla parete di fronte al letto. ‘Che vuoi dire?’ era solito del mio piccolo voler arrivare il prima possibile al vero nocciolo della questione. Tommaso si alzò dalla sedia di scatto. Si avvicinò alla parete e indicò una foto in bianco e nero che ritraeva un uomo di colore con capelli ispidi e grandi occhi e un sorriso coinvolgente che irradiavano felicità. ‘Lo sai chi è questo?’ chiese Tommaso. ‘E’ … Nelson Mandela …’ rispose il mio piccolo ricordandosi di me in quel preciso momento, che un paio di anni addietro gli avevo regalato la foto di quel grande uomo che aveva segnato una volta per tutte la storia dell’apartheid . ‘Esatto, è proprio lui!’ confermò Tommaso, come se il mio piccolo avesse bisogno di una risposta ‘E il testo che abbiamo ascoltato … Ordinary love … bè, quel testo parla proprio di lui e del grande messaggio che ci ha lasciato! Non senti quando dice … the sea wants to kiss the golden shore / the sunlight warms your skin / all the beauty that’s been lost before / wants to find us again …? Non senti quelle parole? Non capisci cosa vogliono dirti? E’ il suo messaggio! Il suo messaggio scritto così forte e chiaro che è quasi impossibile non capirlo! Il grande messaggio di Mandela … di riuscire a trovare un sentimento comune, comune tra tutti gli uomini, che sia in sintonia con la natura. E ancor di più la band … il messaggio della band … che vuole che questo suo messaggio ci resti impresso a fuoco nel cuore!’ Tommaso smise di parlare. Riprese fiato e tolse l’indice dal vetro del quadro che ne era rimasto macchiato. Il mio piccolo lo guardò scioccato, scioccato come quando si guarda un leone che divora una preda. In quel caso Tommaso era il leone … ma lui non era capace di considerarsi preda. Tantomeno era capace di comprendere il messaggio del ragazzo fino in fondo. Forse perché lui non avrebbe potuto mai fare ciò che diceva … Non avrebbe mai potuto baciare la riva d’oro del mare … non avrebbe mai potuto sentire il calore del sole sulla pelle … riempire i polmoni della fresca aria primaverile … stare sdraiato su un prato verde a contemplare la bellezza delle stelle … ‘Tommaso, dove sei?’ la voce del padre del ragazzo risuonò per tutto il corridoio fino ad arrivare alle sue orecchie. ‘Scusa devo andare’ disse Tommaso alzando la mano in segno di saluto. Si apprestò ad uscire quando Enrico disse, sconvolgendomi: ‘Passami a trovare qualche volta. La casa la sai … e io non mi muovo mai da qui!’ Tommaso fece segno di si con la testa e dopo aver alzato un’ultima volta la mano in segno di saluto, uscì dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle. Quello che il mio piccolo capì quel pomeriggio fu la consapevolezza che molte volte la paura di sapere ci fa restare ignoranti tutta la vita.

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Capitolo 3
*** III ***


III Quando la malattia non aveva ancora invaso tutto il corpo del mio piccolo, all’età di otto anni, gli regalai un agenda dove gli proposi di scrivere tutto quello che gli piaceva fare e che avrebbe desiderato imparare. Fu un’iniziativa che gli piacque sin dal principio. Se gliela proponessi oggi me la sbatterebbe in faccia ... Ciononostante, se il mio piccolo avesse la possibilità di alzare il braccio per fregarmi in faccia quella stupida agenda, glielo proporrei in continuazione e me la farei tirare fin quando non mi farebbe male e diventerebbe rossa. Molti anni fa qualcuno, non ricordo bene chi, mi disse che Dio ci va vivere abbastanza per poter fare e provare almeno una volta tutto ciò che ci piace. In questo caso perché Enrico è ancora vivo? Perché Enrico continua a vivere sdraiato su un letto dalla mattina alla sera senza che possa fare niente, al di fuori di disperarsi e sperare di morire? È come un barattolo di Nutella vuoto e indurito che qualcuno, per distrazione, ha dimenticato di gettare. Lo so, non dovrei dire queste cose. Ma ogni volta che guardo il mio piccolo cerco di immedesimarmi in lui e ogni volta che lo faccio preferirei non esistere pur di stare in quelle condizioni. E ogni volta che guardo l’agenda che gli ho regalato – che mi ha voltato indietro quando la malattia si è degenerata, per la semplice consapevolezza che sarebbe restato solamente un sogno irrealizzabile – getto all’aria tutto e piango disperato per lui. Ho un dolore lacerante allo stomaco e so per certo che non è colpa del mio solito sugo scotto che mi fa indigestione. Ho un problema, lo ammetto, ma non so bene come farlo passare. Suonare la chitarra, c’era scritto al primo posto. Gliela regalai appena vidi scritte quelle poche parole. E ricordo, con piacevole nostalgia, le note stonate che strimpellava il mio piccolo che a loro volta inondavano l’intero palazzo di un suono che mai, al giorno d’oggi, spereremo di udire dalle sue mani. E poi fare il chierichetto … diventare calciatore … avere una fidanzata … avere una macchina sportiva … andare in bici … andare al mare … Fanculo a tutte queste cose! Cazzate, mi dico, sono solo cazzate che mai saranno realtà. E il mio povero Enrico resterà per sempre così, inondato dalla sua densa malinconia. Perché non a me? Perché non io? Lui è giovane e potrebbe essere forte e felice solo se non ci fossi tu … malattia, figlia di puttana! Cerco di smettere di piangere. Devo riuscirci, non è in me non avere autocontrollo, non è in me non sapere ciò che faccio e sono. Calmati … calmati … non rimuginare sull’irrimediabile … Ecco cosa devo fare. Quello che faccio sempre. Quello che faccio sempre quando mi sento così. Quando mi sento debole dentro e l’unica soluzione che mi faccia star meglio è il mio forte ma debole angelo custode all’acre odore di acqua ossigenata e medicinali. Scendo le scale più in fretta che posso. La mia salvezza abita un piano sotto di me. E anche se gli angeli, solitamente, ti vegliano da sopra, noi facciano il contrario: io sono il suo tetto, e lui, a sua volta, è le fondamenta che non mi lasciano affondare. Suono il campanello. Milly mi apre, come sempre. Mi dice che il mio piccolo sta riposando, ma mi lascia ugualmente entrare. La parola riposo per lui equivale a dire vivere. Apro la porta della sua stanza, come sempre è accostata. ‘Ehi …’ gli dico ‘come va?’ Non gli chiedo mai come si sente, o come sta, non servirebbe, la risposta l’avrei già stampata davanti gli occhi. Come va?, tutto qui. Credo lo faccia sentire meno ‘diverso’ per quanto lui non lo sia. Volta la testa, mi guarda. Accenna un sorriso, che io ricambio come sempre. Sorrido anche quando lui è triste. Gli fa bene. ‘Bene Vecchio … come mai prima d’ora.’ Aspettavo ad orecchie spalancate la sua monotona risposta. Ma mi sorprende. Il mio piccolo non smette mai di stupirmi e di cogliermi di sorpresa. Il Vecchio, mi chiama. È un’abitudine che ha già da diversi anni. Ed io sono contento di quest’appellativo … se non lo avessi significherebbe una sola cosa: che il mio piccolo non si fida e non è in confidenza con me. Dopotutto credo mi stia bene questo nome … il Vecchio … mi descrive impeccabilmente … sono vecchio infatti, ma ogni sorriso del mio piccolo non fa che aggiungermi un anno di vita. ‘Come mai?’ gli chiedo curioso. Lo guardo negli occhi in attesa di spiegazioni. Wow! Mi ci perdo in quegl’occhi … mi ci perdo irreparabilmente … in quell’oceano di sofferenza mi sento circondato da più predatori che non mi lasciano via di scampo e ai quali però non mi ribello affatto. E sono loro che mi danno la certezza e la conferma che quello è Enrico. Gli occhi racchiudono in se tutta una persona e la conservano nel tempo. Ne conservano sempre tutto, riservandone però la parte più bella. E sono quegli occhi l’unica cosa che non è cambiata in Enrico in questi ultimi anni, l’unica cosa per cui non lo confonderei con mille Enrico identici al mondo. Infondo il mio piccolo è unico al mondo … e a me va bene così. ‘Ieri’ mi racconta, uno strano sorriso stampato in faccia, riportandomi senza sforzi sulla terra dei mille dolori e sofferenze ‘mio padre aveva una riunione di lavoro qui a casa - il che non mi sorprese affatto, tantomeno ci vidi qualcosa da cui trarre felicità e spensieratezza, quella felicità e quella spensieratezza che non vedevo nel mio piccolo da tempo .- e mentre era chiuso in ufficio con questo tipo, si presenta qui un ragazzo. Ho sentito dei rumori in corridoio, così pensai a Milly, ma se n’era già andata da un pezzo. Invece era lui. Tommaso. Siamo stati insieme un po’ e abbiamo ascoltato della musica. Non ti dico il titolo del brano, tanto non lo capiresti.’ Rimasi stupito, attonito come non mai. Non fu la felicità che provai per il mio amico alla notizia che forse ne avrebbe avuto un altro, la prima sensazione che mi sfiorò la mente. Ma la stranezza e allo stesso tempo la bellezza di quel fatto che mai era capitato prima. Non potei fare a meno di chiedergli: ‘Ritornerà?’ Sperai di si con tutto me stesso, sperai che il cavaliere della felicità chiamato Tommaso, tornasse galoppando nella stanza del mio piccolo, e che con le spade affilate, che portavano l’odore malsano ma tanto buono del mondo, trafiggesse le paure e le tristezze di Enrico e gliene trasmettesse un po’. ‘Credo di si …’ rispose incerto il mio amico ‘Gliel’ho chiesto e ha detto che tornerà a trovarmi qualche volta.’ Non potei mai farci nulla. Quella era una di quelle cose che nel mio piccolo non potei mai cambiare: la convinzione che le persone vere – non so perché le chiamasse così, perché anch’io, la madre, il padre e Lucia lo siamo dopotutto – le persone vere che vivevano il mondo reale, quello fatto di felicità, di svago, di crisi, di feste, di scioperi … si allontanassero da lui dopo averlo visto per sbaglio. ‘Certo che tornerà! A come me ne parli questo Tommaso mi sembra un tipo in gamba … non credi?’ A volte ci scambiamo i ruoli io e il mio piccolo … a volte sono io a sostenerlo e a fargli da sostegno, da supporto … un supporto però troppo debole, che dopo un po’ si stanca, e ha la necessità di ritornare al suo vero posto. ‘Credo di si …’ mi butta in risposta Enrico. E a me va più che bene. So per certo che queste sue piccole convinzioni pian piano si solidificheranno e diverranno sempre più realtà … sempre più dense e compatte. Così dure che non lo lasceranno ricadere mai più nell’immenso mare della malinconia. Improvvisamente mi sembra di aver completamente digerito il mio sugo al forte odore di cipolle e con lui sembrano essersene andati via anche tutta la monotonia della vita del mio piccolo e i sassi di dolore che provo al sol vederlo.

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