La Belle Époque - Lumière noire

di BigMistake
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGUE: Dans l’adieu. ***
Capitolo 2: *** CHAPITRE I: La cage. ***
Capitolo 3: *** CHAPITRE II: L'ange et la Mort Rouge. ***
Capitolo 4: *** CHAPITRE III: Le larmes des anges. ***
Capitolo 5: *** CHAPITRE IV: Le vieux monde. ***



Capitolo 1
*** PROLOGUE: Dans l’adieu. ***


Avviso: La seguente long fiction è il seguito di una mia precedente ff - ormai targata 2010 - pubblicata su EFP al seguente link: Lumière Noire 

Molti fatti e episodi sono ricollegati ad essa ed è pertanto consigliabile la lettura. Per altre precisazioni ci vediamo in fondo al prologo! ^^


 


PROLOGUE: Dans l’adieu

 

Le immagini si affastellavano vorticosamente una ad una, sperando che in quel sogno ci fosse un fondo di verità. Seduta accanto alla porta, attendeva che il dottore uscisse dalla stanza, arrivare di corsa e dichiarare il miracolo. Un sogno alterato dalla realtà di un uomo canuto, dall’aria rassegnata di chi già conosce l’epilogo di quel sogno innaturale quanto provato dal desiderio di una figlia, dalla vana speranza che la vecchiaia e la malattia non vincessero mai e poi mai su quel corpo che aveva smesso di lottare.

 

Lei non era mai stata una stolta e sapeva che la speranza moriva nella consapevolezza. Nei giorni che avevano preceduto quell’istante, quel dannato istante in cui tutto si stava esaurendo, lo aveva osservato e negato allo stesso tempo, a sé stessa, a lei che giaceva supina ancorata al letto o alla sua poltrona. Lo negava persino quando il suo sguardo volgeva a quel bastone che non le era più un sufficiente sostegno e giaceva abbandonato in un angolo della sua stanza.

 

Ma come poteva sostenere il contrario, quando i suoi occhi di giovane donna si posavano su quel suo sorriso stampato tra le rughe del tempo, stanco, ancora sarcastico nonostante non fosse più quella fiera donna di tempo.

 

In esso c’era il suo spirito, impresso come un marchio fino alla fine.

 

Abbiamo guadagnato un altro po’ di tempo …

 

In fondo era questo che chiedeva.

 

Solo qualche altro giorno, che tutto non scorresse, non la investisse.

 

Non così in fretta.

 

Porquoi …

 

Lei la amava, la amava così tanto. Tanto da non sentire più il sangue pulsare se non nelle tempie, nella mente e attraverso le dita formicolanti che si contorcevano in un impulso nervoso.

 

Porquoi maman?

 

«Christine!» non riusciva ad alzare lo sguardo. Aveva gli occhi ottenebrati dal dolore che le stava lacerando il petto. Le lacrime stentavano ad uscire, ma bruciavano come lava e al sentire il suo nome, non riusciva a fare a meno di stringersi il pizzo che le adornava il petto. «Christine, sono venuto appena ho saputo …»

 

Cercava di convincersi ad alzare il mento. Quell’uomo percorreva trafelato il corridoio con grandi falcate, il cappotto ancora sulle spalle e il cappello inculcato sul capo per la troppa fretta di raggiungerla. Meritava un minimo di educazione.

 

L’educazione che stentava a venir fuori e si nascondeva tra le pieghe delle emozioni che la stavano piegando nonostante la sua resistenza. Quasi saltò quando venne toccata sulle spalle. La poltroncina era diventata scomoda e il corridoio stretto.

 

 «Oh, Christine …» quel tono. Quel tono le faceva ancora più male.

 

La stanza giaceva in un assordante mutismo. Lei era lì fuori e forse non sarebbe più riuscita ad entrarvi. Ma lui

 

Lui era rimasto con lei, non voleva andarsene. Quello era l’unico posto, l’unico posto in cui voleva stare anche se le articolazione gli dolevano e il cuore si spezzava su quel corpo sempre più freddo.

 

E lei?

 

Lei se ne stava lì, immacolata come una statua, senza lacrime, immobile ed eterea.

 

Si voltò verso l’uomo che le era venuto incontro, anche solo per non pensare che quello poteva essere il luogo sbagliato in cui stare.

 

Vide il suo viso.

 

Il suo sguardo era un abito che non voleva sentirsi addosso: quel misto di sconforto, commiserazione e costrizione per un dolore che non poteva condividere.

 

Si accarezzò la fronte e guardò verso di lui ricambiandolo con un freddo biasimo. Le iniziava a mancare l’aria. Strinse i pugni lungo i fianchi, girò il volto a nascondere quella lacrima che le pungeva lungo le ciglia. Le pareti stavano ricadendo su sé stesse e il senso di oppressione cresceva esponenzialmente con il dolore che le permeava tra le ossa.

 

Fissò il vuoto per qualche altro secondo inspirando profondamente, sembrava sul punto di svenire.

 

«Vieni Christine, andiamo in giardino. Sei pallida …» in quella carezza sulla gota una piaggeria forzata, spinta oltre un confine che cercava di custodire come una perla dentro il suo guscio.

 

Le sue sensazioni non poteva condividerle, nonostante sapesse che tutto questo era inevitabile e tentava di mantenere un’ordinaria apparenza. Eppure non riusciva a rispondere se non con un’algida espressione. I suoi occhi color della giada, quegli occhi che riflettevano il genio artistico di suo padre ora spenti come lo specchio d’acqua di una pozzanghera stantia.

 

Percorsero la strada in silenzio. Lui la sorreggeva, ma nella sua mente c’erano solo quelle mani calde che la sostenevano ancor prima che potesse cadere. In una stanza a Coney Island stava finendo un’era. Il secolo si consumava in una manciata di secondi.

 

O semplicemente stava finendo quel tempo che aveva visto mutare da bambina ad adulta.

 

Aveva le mani fredde. L’incarnato cereo.

 

Arrivarono alla veranda e lei superò l’uscio inspirando avidamente la fredda aria del mattino.

 

Si aggrappò al primo appiglio che sentì fra le sue mani, una bianca balaustra di marmo che dava sul prato. L’uomo alle sue spalle l’aveva lasciata libera, in quel maldestro tentativo di non essere invadente.

 

«Christine, ti prego dì qualcosa. Non torturarti reprimendo … reprimendo tutto …»

 

Purtroppo bastava la sua presenza per esserlo.

 

Per lei era tutto così sbagliato e fuori posto.

 

Non posso evitarlo…

 

«Io …» soffocò nelle prime parole che aveva pronunciato da quando si era risvegliata. «Io …» ripeté come se cercasse un modo convincente in cui non sembrasse regredita di anni. Si voltò solo per osservare il mondo alle sue spalle. Vide il suo gusto in quelle modanature scolpite e nei finti capitelli del porticato, vide il suo modo di vivere sfarzoso e sobrio. Vide lei scegliere le tende che si intravedevano dalle finestre. La vide e la respirò come solo chi ha intravisto un’anima può farlo.

 

«Io devo tornare a Parigi!» 




Note dell'autrice: Bonsoir madame et monsieur! Per chi non mi conoscesse con questo nuovo nick io sono Mally. Benvenuti in questa mia riesumazione come autrice. È da molto che non scrivo, ho pensato quindi per riprendere la mano, di pubblicare una piccola ideuzza che avevo già in mente agli albori della ff sul nostro fantasmone precedente a questa. Non prevedo moltissimi capitoli, anche se conoscendomi farei bene a non fare delle previsioni azzardate, comunque volevo ricollegarmi ad un'altra scena del film del 2004. Con questo spero di acquisire sia nuove che vecchie lettrici di questa storiella, che forse è un po' difficile da comprendere visto la particolarità della stessa. Comunque spero che vi piaccia davvero io mi metto al vostro servizio per qualsiasi chiarimento.


Nell'avviso mi sono permessa di indicarvi il link della ff a cui questa si ricollega, sia per darvi il senso di continuum sia perché magari vi ispira e mi lasciate un'opinione anche lì  ^^.


Sono aperta a qualsiasi vostra domanda.


Vi auguro un buon viaggio con me e con la mia fantasia ...


 

I remainGentlemen. Your obedient servant.


Mally/BigMistake


 

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Capitolo 2
*** CHAPITRE I: La cage. ***


CHAPITRE I: La cage.

 

La guardava, alienato da quella dichiarazione così improvvisa. Sguardo perso, bocca socchiusa, fronte aggrottata. Braccia lungo i fianchi e i palmi delle mani rivolti a lei in attesa che quella spiegazione si posasse su di esse. 

Smarrito. 

Si tolse il copricapo facendolo scivolare tra i guanti candidi.

Parigi. Non era mai stato argomento delle loro conversazioni. Non aveva nemmeno mai menzionato la Francia, mai un accenno a viaggi o voglia di visitarla. Soprattutto non ricordava che lei ci fosse mai stata. Perché aveva detto che doveva tornarci? Non ora che doveva essere lì per la sua famiglia ormai ridotta ad un uomo, seppur in forze, anziano e sfigurato.

Christine non parlava. Come se i pensieridell'uomo si fossero materializzati davanti ai suoi occhi si limitava a fissarlo negli occhi quasi a sfidarlo. Non aveva paura di lui, non attendeva una risposta. Non era una richiesta di permesso. Lei doveva andare a Parigi, un sentimento tanto impulsivo quanto violento che le vibrava tra le membra. Lei doveva vederla con i suoi occhi. Parigi.

Non solo la città, ma tutto quello che era avvenuto lì nel 1870.

Doveva sapere.

«C-cosa?» il silenzio venne interrotto dall’uomo. Non riusciva a capire, non avrebbe potuto. Sosteneva a malapena il suo sguardo. Christine non era una di quelle donne che pendono dalle labbra di un uomo, non si conquistava la sua fiducia facilmente, tanto meno imponendole il proprio pensieroper quanto assennato fosse. In quel momento lui temeva di camminare su di un prato di vetro. «Christine …» sospirò. Prese un respiro in più prima di calpestare a piedi nudi gli steli d’erba tanto sottili quanto appuntiti. Abbassò il viso quasi nel preludio della sconfitta. Qualsiasi cosa avrebbe proferito, poteva essergli ritorto contro. Tutto si poteva dire di quella donna, ma non che non fosse estremamente intelligente ed era questo l’aspetto più ammaliante di lei. «Christine, perché vuoi andare a Parigi proprio ora?»

Lei era così.

In cima alla montagna osservava il mondo intorno a sé. Lo giudicava.

Lo biasimava con il distacco di una superiorità che si avvertiva a pelle su di lei.

In quello sguardo, mutato nel colore di un mare in tempesta, rivedeva il genio maledetto di quell’uomo che l’aveva accolto nel piccolo gioiello europeo di Coney Island. Poteva leggerci l’orgoglio, la fermezza, la stessa stoltezza di un gesto tanto avventato quanto folle come il voler attraversare l’oceano solo per...

Dio solo poteva sapere per qual motivo lei era decisa ad andarsene.

Osservò il suo viso trasfigurarsi in un cipiglio irritato. Era evidente che le parole non le aveva soppesate abbastanza per i suoi gusti. 

Nonostante la prudenza era caduto in errore. In realtà qualsiasi fosse stato il modo in cui si fosse posto, lui avrebbe sbagliato. Non c’era un modo davvero corretto di parlarle in quel momento. La conosceva a sufficienza per sapere che non accettava l’essere contrastata. Spesso l’aveva definita dal carattere impossibile, caparbia fino all’esasperazione eppure, oltremodo, affascinante.

Si era invaghito di lei da quando aveva ottenuto quel posto nell’Orchestra del teatro di suo padre e non senza difficoltà era riuscito a ottenere quantomeno di avvicinarla. La corteggiava da tempo, ma Christine non si era mai lasciata conquistare. In fondo sapeva che un’amicizia era molto più di quello che avrebbe davvero potuto ottenere.

Nonostante provasse benevolenza nei suoi confronti ora era davanti a lui, rigida, con le braccia chiuse sul petto e lo sguardo turgido e severo. 

«Ho detto …» marcò quell’ultima parola come se fosse un imperativo «… che devo andare a Parigi, il prima possibile.»

Le parole saettarono come spilli lanciati contro il viso. Incassò il colpo. Il tono che aveva usato, il modo in cui si era posta era quello di chi non vuole l’approvazione di qualcuno. Piuttosto era una dichiarazione, o un saluto.

O un addio.

«Christine, sei sconvolta e lo capisco, ma ti prego ragiona …» la donna inspirò ferina. Sebbene fosse minuta, nel momento in cui l’ira prendeva il sopravvento il suo aspetto mutava. Il lieve rossore delle guance, gli occhi sempre più intensi e la postura quasi intimidatoria di una belva pronta ad azzzannare al collo, la dipingeva in una antica divinità della vendetta. La guardò spaesato e sconfitto, a quel punto non gli restava che giocare d’azzardo e provare persino a toccare tasti che con lei non si era mai permesso. «Vuoi lasciare tuo padre qui, da solo, alla sua età e in un momento come questo?»

Gli occhi di lei trasmutarono in un cielo grigio.

Lo mortificarono con la sola potenza muta della loro espressività.

Freddi e lapidari come la nuda pietra sepolcrale. Come solo loro sapevano essere.

Lei e suo padre avevano la stessa capacità di annichilirti senza proferire parola. Si avvicinò all’uomo, placida e impettita, mascherando quel dolore che la piegava in due.

Marciava.

E la sua bocca andò quasi a sfiorare l’orecchio dell’uomo.

«Non dovresti parlare di ciò che non sai …» il suo sibilo serpeggiava sulla lingua come quella di un serpente ingannatore che ha una conoscenza impossibile da percepire. Si scambiarono un ultimo sguardo.

La mano di lei scivolò dalla spalla di lui.

Non se ne era nemmeno accorto che fosse in quel punto che lo stesse toccando. Così leggera e così spaventosa in un certo senso.

Un brivido lo fece tremare.

Era la sua presenza a farne da padrone, in questo ancora simile all’uomo che l’aveva generata.

La sua piacevole quanto terribile presenza. Un intelletto troppo arguto rispetto alle altre sin da quando era una giovane donna e ora, con l’esperienza, ancora più astuto.

Molti la temevano.

Molti l’ammiravano.

Raramente le si avvicinavano.

E a lei questo non aveva mai dato fastidio.

In qualche modo sentiva che il mondo le doveva qualcosa: rispetto forse. Lo avvertiva nelle sue viscere come il sangue che le scorreva nelle vene.

Era come se ogni giorno cercasse una vendetta.

Ora capiva.

Se non tutto, capiva cosa la spingeva a quella rivalsa nei confronti di chi la venerava se non per le sue qualità personali, per quelle finanziarie. Nonostante fosse convinta delle sue scelte vacillava di fronte al dilemma che le era stato posto. In un momento così duro persino per lei, cercava di mascherare i suoi dubbi, ma la domanda le si ripercuoteva come una grancassa.

Potrò davvero lasciare mio padre qui, ad affrontare tutto questo da solo?

Solo uno sguardo attento e anche l’uomo che aveva di fronte avrebbe captato il dibattito interiore albergare nei suoi occhi color della giada. Forse lo sguardo attento di una madre, lo avrebbe percepito ancor prima che ella potesse davvero rendere palese.

Mon Dieux maman, porquoi?

«Ho apprezzato la tua presenza, Claude, ma è ora che tu vada.» inghiottì il suo nome con freddezza. Non sentiva alcun bisogno né, tantomeno alcun dovere nei suoi confronti. Le sue parle cozzavano con l'espressione distaccata che stava mostrando. L’uomo perse a quel punto ogni speranza che ci ripensasse. L'unicacosa che gli stava lasciando era quello strano vuoto. Non un grazie, non un abbraccio cercato con passione. Solo questo. «Ti faccio accompagnare alla porta …»

Christine era pallida e fredda davanti a lui, gli occhi stanchi e lividi di un pianto che non sfogava.

Era vicina eppure lontana infiniti passi.

E continuava a scacciarlo come se fosse solo un sasso davanti ai suoi piedi lungo la strada.

Iniziava a esser stanco. Non solo del momento, ma di tutto. Era una stanchezza insana di quelle che assorbe ogni stralcio di vitalità rimasta.

Glielo avevano detto in molti, ma, Dio! Lui non poteva credere che fosse davvero così.

«Condoglianze Christine, spero che a Parigi troverai ciò che cerchi …» fu lui a tirare un passo indietro, cercando quella distanza ormai divenuta incolmabile con poche semplici parole.

Incomprensibile, bellissima e spietata.

Così la definivano.

Dio solo sa quanto Claude ci avesse provato a comprenderla.

Per Christine non c’era posto per lui. Non c’era posto per nessuno se non per sé stessa.

Non aveva bisogno di un uomo forte al suo fianco che la guidasse, che la sorreggesse quando il suo delicato animo veniva provato. Lei non era un fragile fiore dallo stelo morbido e i petali morbidi.

Una rosa irta di spine, con un nastro nero ad adornarne lo stelo.

Bella, bellissima dal color del sangue.

Da ammirare da lontano.

Conosco la strada, dammi quell’ultimo brandello di dignità e lasciami andare via da solo …

Indietreggiò ancora. Un ultimo sguardo come se fosse una sorta di addio.

La speranza che lo fermasse.

Non lo fece e non gli rimase altro che chinare il capo in segno di ossequio, indossare il cilindro e allontanarsi definitivamente.

Incrociò una delle cameriere che si rivolse a lui con un leggero inchino. Gli occhi bassi in segno di deferenza e una pugnalata al cuore.

«Madame, il dottore …» furono le ultime parole che Claude riuscì a udire prima di giungere all’atrio. La ragazza era al servizio dei Mulheim da ormai due anni e in quel momento non ricordava nemmeno il suo nome «… chiede di voi, nello studio di vostro padre.»

 

 

Percorse di nuovo il corridoio come se i suoi piedi non toccassero terra. Le mani incrociate sul ventre.

La luce naturale penetrava con lame fitte attraverso i vetri delle finestre e le stanze, filtrata da una nebbia di polvere sottilissima.

Dal piano superiore un muto e innaturale silenzio, assordava i timpani fino a farli scoppiare.

Quella casa non era mai stato il regno del silenzio. La sua casa non poteva esserlo.

I ricordi della sua infanzia, della sua fanciullezza erano pieni di musica e di poesia.

Della vecchia cameriera mulatta, che cantava degli oramai lontani campi di cotone del Sud dove era stata segregata. 

Degli artisti, pochi eletti allievi di suo padre, i quali non facevano tacere i loro strumenti o le loro ugole.

Di suo padre stesso che, seduto al pianoforte, componeva le superbe opere. Suo padre che mai faceva tacere quelle stanze, mai. Non quando era nel pieno della sua virtù e lasciava che le note fluissero leggere da lui agli spartiti, non quando era la sua voce piena, baritonale, che riecheggiava attraverso le mura fino a sentirla nel cuore, nel ventre, nella mente.

Per chi davvero cantava? Per chi lo avrebbe fatto ora?

E quella casa era piena della voce di sua madre che leggeva ed interpretava come un’attrice la Divina Commedia di Dante, sostituta da lei stessa quando i suoi occhi erano diventati troppo affaticati per leggere.

-Basta Christine, sono stanca, puoi smettere ...-

Sua madre era orgogliosa.

Quanto le sarà costato chiedermi di leggere per lei?

Ed era come una stilettata al petto, che le squarciava il costato lungo il torace e le strappava il cuore. Christine si prendeva cura di lei fino all’inverosimile. Era diventata i suoi occhi, le sue gambe in alcune occasioni, l’accudiva come se fosse stata una bambina. Quasi le faceva piacere avere quel potere su di lei, vivere a parti invertite mentre la malattia la stava consumando.

Mentre la malattia la stava uccidendo.

Era una donna così forte, aveva tenuto testa anche ai più colti degli uomini che aveva incontrato. L'aveva sempre vista così curata e ammirata che non le sembrava vero che ora fosse davvero lei ad aver bisogno di assistenza. Eppure non aveva mai voluto l’aiuto di nessuno. In realtà nemmeno il suo.

Non le aveva mai chiesto di trattarla come una bambina.

Ad un tratto aveva solo smesso di impedirglielo.

Era iniziata con qualche colpo di tosse, un’influenza poco curata.

Poi le prime difficoltà a fare le scale, il non riuscire più a sostenere le loro lunghe passeggiate a Central Park, a preferire la propria casa all’esterno.

Un lento degrado.

Il bastone, il primo passo verso il declino. Non riusciva a camminare senza. Il cibo sembrava di pietra e le ossa iniziavano a vedersi attraverso la pelle sottile. I lunghi capelli ormai quasi del tutto canuti che non riusciva più ad intrecciarli in complicate acconciature, ma solo a raccoglierli con un fermaglio di osso dietro la nuca.

Consumata piano, piano.

Infine quell’orribile oggetto, quella disgustosa sedia con le ruote che non riusciva a spingere da sola, schiacciato contro la parete che l’attendeva anche per spostarsi dal letto al tavolino vicino alla finestra durante i suoi pasti ormai solo liquidi. Persino deglutire l’acqua era divenuto un trauma da superare.

Aveva rifiutato infermiere, dottori, a malapena si faceva assistere dal marito e dalla figlia, ma da quando le era stato precluso il semplice camminare tutto il suo corpo era diventato una gabbia.

E verso la fine rifiutava persino suo marito.

-Se lo deve fare qualcuno, preferisco che sia tu, Christine …-

Per Christine c’era solo un sadico godimento nell’essere lei stessa quella madre dolce e affettuosa che la proteggeva da bambina.

Sua madre, quella donna forte e indipendente, che aveva bisogno di lei anche per poter indossare la camicia da notte pulita. Non vedeva le mani nodose irrigidite, il sangue che tossiva quando i suoi polmoni le chiedevano di cedere, lo sguardo spento di chi questo mondo l’ha visto e vissuto abbastanza da non volerne più sentirne parlare.

In quel suo bisogno inconscio, l’aveva costretta a vivere così a lungo che le stava mancando il fiato …

Quanto ti sentivi umiliata in questo? Quanto hai resistito così, maman?

Doveva accorgersi che la stava perdendo. Doveva farlo quando le aveva donato il suo diario, quel terribile e bellissimo quaderno di pelle nera che le aveva chiesto di leggere. Era il loro segreto, era il loro segreto …

Dio perché mi fai questo? Perché mi tormenti così?

Se solo non fosse stata così piena di sé, se solo non fosse stata così crudele con sua madre avrebbe potuto vivere di più con lei quegli ultimi istanti che le erano stati concessi.

Conoscerla davvero senza il bisogno di attraversare l’Atlantico come ultima spiaggia.

Lei non c’era più.

La regina quella casa, non c’era più e quella casa sarebbe morta con lei, con la sua voce affievolita solo da vecchi ricordi.

-Se vuoi ho qualcosa da farti leggere …-

 Quella voce che le risuonava ancora nelle orecchie era scomparsa.

 Non esisteva più.

 -Resta qui, accanto a me, ma non leggere ad alta voce. Io ho solo voglia di guardare fuori dalla mia gabbia …-

La sua gabbia, non era la casa o il letto. Era quel corpo che le tratteneva lo spirito. Adesso era libera, libera da quella prigionia. La immaginava giovane e in forze in un prato fiorito vestita con una camiciola leggera, di seta bianca. Lo sguardo allegro e sarcastico, il suo sorriso a mezza bocca. No, non sarebbe più tornata. Lei, la sua guida, il suo faro. Colei che le stava dicendo quanto avesse sbagliato.

Avvrebbe potuto godersi di più gli ultimi giorni della sua vita invece di cercare di assomigliare a Lei.

Christine non era in grado di sostituirla. Christine non sarebbe mai stata come Lei.

Le girò la testa. La nausea la fece ripiegare su sé stessa, lì accanto a quelle scale sempre più mute, sorretta dalla sottile balaustra in finto stile vittoriano. Fu solo allora che riuscì a piangere. Una prima lacrima che scese lenta, mentre scivolava sotto il peso di tutto quello che le era accaduto in pochi attimi. Un macigno che la schiacciava a terra, con la spalla contro la ringhiera e le ginocchia a terra.

Il suo cuore in frantumi.

Una seconda lacrima. Bruciava più della prima sulla pelle del volto.

La giovane cameriera che la seguiva rimase per un attimo rimase colpita da quello stralcio di debolezza che la sua signora stava mostrando. Non sapeva che fare.

Si guardò attorno spaesata come se non sapesse a chi rivolgersi, se chiedere aiuto …

«Madame?» provò ad accennare incerta. Le spalle di Christine si scossero in un singulto. Poi un altro. «Madame, vi sentite bene?»

Non le rispose. Continuò a singhiozzare come una bambina e a piangere.

«Lascia stare Lily, torna a pulire la cucina …»

Christine alzò gli occhi e la vide come una luce in fondo al tunnel buio che stava attraversando. In esso proiettati i suoi pensieri le ricadevano addosso senza che lei potesse rialzarsi. Le macerie la stavano seppellendo, ma eccola: una di quelle voci che riepivano quella casa. Era la sua voce, quella che le raccontava dei campi di cotone e della schiavitù. Era quella signora giunonica, alta e dalle braccia forti che la sorvegliava in assenza di sua madre quando ancora era una semplice cameriera. Era con loro da così tanto tempo che aveva dimenticato come era entrata nella sua vita. Con la voce. Mentre la spiava nelle sue faccende, mentre l'ascoltava origliando il suo canto. 

Maryam era il nome dato dalle sue terre, dal ventre di sua madre. Mary era il nome dato lei dall’uomo bianco, quello con cui tutti la chiamavano tranne sua madre.

-Mary … qual è il tuo vero nome?-

-Mia madre mi ha chiamato Maryam …-

-Non ti spiacerà se ti chiamo anch’io così, allora.-

«Oh, Mary!» le bagnò il petto, stretta al suo vestito, cullata dal suo seno. Christine era una donna, ma si sentiva una bambina in quel momento. Confusa, arrabbiata.

E triste.

Così triste da starsene aggrappata alla sua governante mulatta, seduta a terra a piangere.

«Piangi bambina mia, piangi pure …»



Note dell'autrice: Eccomi qui! Lo so, lo so la tiro per le lunghe. Come al solito. Però ci sono dei passaggi necessari per raccontarvi un po' di più quello che riguarda Christine e la sua famiglia. Quelli che hanno letto la mia storia precedente probabilmente già avranno intuito più o meno dove voglio andare a parare eh eh, (o no?) per quelli che invece che non l'hanno fatto il prossimo capitolo sarà sicuramente più esplicativo. Comunque io spero che questa storia sia apprezzata anche da pochi ma che almeno piaccia un pochino. Se non altro se avete qualcosa da dirmi anche di negativo mi va bene qualsiasi recensione, io sono qui e accolgo tutti i vostri dubbi e i vostri apprezzamenti.

Che altro dire. Vi ringrazio comunque che mi leggiate anche se passate semplicemente di qui!

Al prossimo capitolo

I remain gentleman, your obedient servant.

BM

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Capitolo 3
*** CHAPITRE II: L'ange et la Mort Rouge. ***


CHAPITRE II: L'ange et la Mort Rouge.

Era accanto a lui. Bella come l’aveva vista fino alla fine. Bella, ma di quella bellezza che non si può definire. Una bellezza formata dalla luce che si infrangeva sul pallido viso. Bella, come la ricordava. Non erano necessari occhi per poterlo affermare. Dovevi respirarla, viverla e conoscerla prima di poter dire quanto davvero fosse radicata in lei la bellezza.

Lei era il suo angelo nero, la sua Lumiére Noire.

Non era stata sufficiente la malattia e la vecchiaia per renderla meno bella di quanto non fosse.

Erik continuava a vederla giovane, con quello sguardo infinito e liquido.

Con la pelle tesa, morbida, profumata.

I lunghi capelli in una cascata dolce di miele di castagno.

La bocca per metà arcuata nel suo solito sorriso di scherno.

Lui non poteva far altro che starle accanto, con lo sguardo rivolto verso l’esterno, su quella finestra che dava al giardino.

L’autunno si stava avvicinando.

Gli alberi iniziavano a perdere le foglie, alcuni dei rami spogli tendevano le loro braccia verso il cielo.

Piccole colline dai caldi colori venivano ammonticchiati ai lati. Da lontano l’oceano occhieggiava con la sua aria salmastra e pungente, ora decisamente ristorante dopo la torrida estate che si era schiantata sulla baia. Il verde melograno mostrava fiero i suoi ultimi fiori cremisi. Alcuni frutti ancora acerbi pendevano dalle sue dita sottili.

Ricordi quella sera? La notte in cui …

«Sì…» le rispose, una calma irreale nella sua voce. Una calma tra l’onirico e la realtà che si rimestavano nella sua mente ottenebrata dal dolore. Un dolore che tardava ad esplodere o che forse si sarebbe sopito nella consapevolezza della sua incapacità ad arrendersi. Quella sera la ricordava, vivida come una di quelle foto che scattavano lungo le strade.

La ricordava, come se camminasse a metà tra il sogno e l’incubo.

Le più grandi paure materializzate sotto i suoi più torbidi desideri.

La notte era sempre stata propizia, una consigliera, il sussurro che gli dettava le musiche più intime, più oscure e al contempo i suoi più grandi capolavori. Il Don Juan aveva preso vita con i suoi pizzi, le sue note, la sua magnificenza attraverso le orme oscure delle tenebre, danzando al suono del suo organo fino a farsi sanguinare le dita.

Lui era la Morte Rossa e il suo genio trionfava attraverso quella composizione che all'epoca ritena perfetta.

Prima che il suo Angelo lo tradisse, lo abbandonasse ad un destino infame.

Prima che il suo spirito mutasse così rapidamente da perdersi in un equilibrio a cui non era abituato.

Quella sera.

La ricordava fin troppo bene, quella sera. Dimenticarne il frutto sarebbe stato impossibile. Come dei grani di melograno che una Lucia sorridente gli faceva assaporare ogni autunno dalle proprie dita, non poteva dimenticarne il sapore, il profumo e l'aspro senso di amarezza che si stava scagliando su di lui come una maledizione.

Tutto poteva sopportare.

Non quello che stava accadendo quella sera.

Non il suo genio bloccato. Non quel senso di impotenza e frustrazione che gli stava attanagliando viscere, mente e cuore.

Perché anche un genio può essere debole, ma Erik non lo accettava.

Non era possibile.

Non poteva accadere a lui.

Proprio a lui.

Erik non aveva mai avuto altro se non quello. La sua musica, la notte ad indicargli la via come un faro. Invece era stato abbandonato e la sua rabbia non era contenibile. Si traduceva in note scomposte, in pergamene accartocciate che si stendevano a tappeto sotto i suoi piedi. Si sentiva perso, tradito da quella che era stata la sua amica più fedele.

Era chiuso tra le mura di una casa, le mura di un castello di carta.

Aveva vissuto saltimbanco e teatrante per una vita intera, ma mai si era sentito così…finto.

Da quanto vivevano così? Cinque mesi? Eppure quella non era la sua vita, era quella di un estraneo.

Mulheim non esisteva. Non era reale.

Lui era sempre stato solo Le Fantôme e non aveva altri nomi, altre maschere se non quella bianca che indossava sempre.

Quel mezzo volto che lo scherniva, lo denigrava, lo derideva.

La sentiva viva come non lo era stata da tempo.

Tu stai diventando un debole e piccolo giunco!

Sopita per troppo tempo aveva deciso di risvegliarsi nel momento meno opportuno, quando tutto sembrava così errato e fuori luogo.

Pensavi che un nuovo nome e un nuovo paese ti cambiasse Erik?

Sei e sarai sempre il mostro che tutti conoscono.

Provava ad ignorarla, ma più cercava di tradurre in musica ciò che lo circondava più la maschera acquistava forza.

La sua forza creativa risucchiata dal fantasma del Fantasma.

Scriveva quella notte.

Scriveva, ma il nulla mutava in ulteriore nulla, accatastandosi un’enormità di vuoto.

Parigi. Era ormai così lontana che sembrava svanirgli tra le dita dissolvendosi in un ricordo che si offuscava nell’ira.

Il suo ambiente così ricco e frizzante, il suo teatro.

L'arte che trasudava attraverso le sue mura.

Attraverso ogni sua pietra.

Il corpo rispondeva a quel suo stato. Rispondeva al suo turbamento mentre i muscoli delle braccia si inturgidivano sotto la morbida stoffa della veste da camera di perfetta fattura. Il viso si contraeva in una smorfia quasi di dolore, mentre la sua maschera, foriera di sventura, gli suggeriva quanto fosse ridicolo tutto quello che stava facendo.

Lui non era fatto per una vita normale.

Lui era un fantasma.

Il Fantasma.

Non un nome falso, una bella casa, una donna che gli sedeva accanto avrebbero cambiato questo.

Lo ripeteva, quella maledetta voltafaccia che si fingeva amica, glielo ripeteva cercando di spingerlo nell'abisso. Nel vortice di paura da cui era riuscito ad emergere a fatica pensando che ciò che più desiderasse era quello che tutti avevano.

Lui non poteva essere altro che il Figlio del Diavolo.

Quello che creava e uccideva con le stesse mani.

Lucia osservava. Era così che aveva fatto per tutta la sua vita. Lei era un’osservatrice silenziosa. Studiava prima di aprire bocca, prima di fare qualche mossa. Erik questo lo aveva compreso appieno solo quando aveva preso a imitarlo osservando anche lui, ma non attraverso uno di quei magici specchi che adornavano il suo teatro.

Attraverso quella che sarebbe diventata la sua esperienza di vita.

Lei lo guardava. Lo vedeva.

E capiva.

In quasi una vita intera passata assieme, Lucia ed Erik avevano avuto milioni di momenti in cui erano stati tanto vicini. Non servivano parole, non servivano languide carezze. Per loro ogni gesto, anche quello più insulso si traduceva in ciò che li legava. Vicini anche da lontani.

A quell’epoca era difficile capirlo per entrambi.

Potevano vantarsi di essere nel pieno della loro vita, eppure erano inesperti e incoscienti come due giovanissimi ragazzi.

Lei già donna. Lui uomo in pieno del suo vigore.

Vigore che si traduceva nella piuma spezzata fra le sue mani e l’inchiostro che macchiava le sue dita in segno di scherno.

La maschera continuava a deriderlo in quella notte orribile.

In quell’incubo infinito in cui sembrava essere piombato.

E i fogli volarono, la sua furia divampò. Un urlo agghiacciante irruppe nel silenzio della casa.

Il suo urlo. La sua frustrazione.

Altri fogli presero a piovere sul pavimento. Le sue braccia spazzarono il pianoforte su cui stava cercando di dar vita a delle note che invece se ne stavano mute e stonate in fondo a quell’ispirazione volata nel vento, che si era fermata nell’oceano che avevano attraversato.

Sì, tutto era sbagliato.

Quella casa non era umida, i suoi abiti erano asciutti, c’era troppo silenzio e si sentivano le carrozze e i cavalli che passavano attraverso le strade all’esterno. Le pareti troppo strette. Non c’erano le gocce della sua grotta, la cristallina voce di una giovane soprano ad ispirarlo. Quel pianoforte aveva un suono troppo dolce e non quello gutturale e profondo del suo organo. Non c’era più odio, non c’era più amore. Il suo animo era troppo quieto.

Troppo semplice.

E lei che lo guardava, che non reagiva lo rendeva ancora più nervoso.

Era lì sull’uscio, come se fosse voluta entrare e stesse solo aspettando qualche segno.

Placida e tranquilla come se fosse adagiata a guardare un fiume in piena senza curarsi che stesse straripando.

Era lì e non accennava a muoversi. Come se anche lei  fosse un fantasma, un alone, con quella sua veste di pizzo nero e il corpetto che le stringeva la vita.

Era come lei la notte dell'Annibale.

No, non come lei.

Lei, Lucia, era l’opposto di lei.

Ricordi quella sera…

Ripeté, mentre Erik viaggiava stordito da un tempo all'altro.

Loro due. Insieme.

Ancora non sapevano quanto questo li avrebbe condizionati l’un l’altra. Eppure lo sapevano. Il presente era evaporato attraverso le nubi del passato.

Sentì la mano di lei sfiorare la sua appoggiata al pomello del bastone da passeggio, il suo viso accarezzare la sua schiena in uno di quei rari momenti in cui lei si spogliava della donna che mostrava di essere e tornava ad essere semplicemente la sua Lucia.

Sentiva la sua voce ora, come se fosse ancora con lui, come se la malattia non gliela avesse strappata via. Palpitante, accogliente come la propria casa. Sentiva quella voce lambirgli la pelle, penetrargli le spalle fino a fondersi con lui stesso riflesso nel vetro più giovane, pieno di forze, nel suo panciotto di velluto cremisi e nella sua camicia di batista. La maschera sul volto bianca come una macchia.

E non era davvero lì.

Era a quella notte.

Era in quella strana notte in cui Lucia si era avvicinata a lui, ancora livido di rabbia per l’ispirazione mancata. In piedi, cercando di accordare il pianoforte in preda all'isteria, con le macchie d’inchiostro e i fogli sparsi per la stanza.

In quella notte in cui voleva ignorarla, come una mosca fastidiosa.Voleva ignorarla, ma non ci riuscì quando la sua mano, piccola in confronto alle sue, le fermò con la decisione e la forza di una volontà di ferro al pari della sua.

Fu quel gesto a sovrapporre presente e passato. Lo stesso gesto che nel sogno di una di lei ancora viva e giovane, stava ripetendo.

Ricorda Erik, ricorda e io non sarò stesa in quel letto, senza vita, ma sarò qui con te …

Ed esplose ancor più impetuoso, il sogno, la realtà e il passato ormai in un tutt’uno, come se qualcuno stesse versando della vernice alle pareti e tramutasse tutto in quella notte.

Più di prima. Fino a riviverla.

Ora basta, Erik!

Erano state le uniche parole che aveva pronunciato fino a quel momento.

Poi silenzio.

Questa volta era lui a essere soggiogato, incantato, stranamente rilassato.

Ed era bastato un tocco, il suo tocco.

Il tocco esperto di una persona che sapeva cosa stesse provano, comprensiva e stranamente complice.

E il suo nome ... Dio! Il suo nome, spesso lo dimenticava. Anche ora da uomo anziano, ora che nessuno faceva davvero caso alla sua deformità. Ora che erano abituati a vederlo girare vestito di tutto punto e con una maschera bianca, come un eccentrico e geniale artista ormai sulla via del tramonto.

Erik.

Quel nome che non aveva sentito più suo fino a quella notte. Fino a che quelle labbra non l’avessero pronunciato nel silenzio di quella casa, di quella stanza, di quell’angolo di mondo.

Erik.

Aveva chiuso gli occhi inconsapevolmente, inconsciamente. Affamato di quelle mani che lo stavano toccando, che risalivano con una carezza gentile sulle braccia, fino al collo, lungo quei tessuti ancora gonfi della tensione accumulata in quelle ore di ostinata rassegnazione ad una vita muta, in cui la musica sembrava lo stesse abbandonando così come aveva fatto la sua Musa.

Ne fu incantato. Frastornato.

Un tocco che sopiva improvvisamente la rabbia e la trasformava in ardore.

Poi l’inaspettato. Un altro ricordo doloroso, spaventoso.

Christine che guardava il mostro. Christine la sua musa che strappava la sua maschera.

Lucia e le sue di mani sulla sua maschera.

Prima che potesse farlo, prima che le sue dita sottili la sfilassero si ritrasse come una bestia ferita.

Una bestia tradita.

Anche da lei.

Non s’infuriò, se non con un muto sguardo indulgente.

Lucia abbassò di poco le mani. Gli occhi lucidi al debole bagliore del fuoco che dal camino illuminava la stanza. La bocca semiaperta, in un’espressione quasi sorpresa.

Sorrise. Con quel suo modo di fare. Mezzo angolo della bocca inclinato.

Sorrise. E lui fu confuso.

Mi hai visto uccidere a sangue freddo un uomo e hai ancora paura di questo?

Una semplice frase. Buttata in quel momento come un secchio di acqua fredda in una gelida notte invernale.

Dall’effetto ridondante dell’eco.

Rimasero dei secondi a fissarsi l’un l’altro.

Christine gli aveva tolto la maschera, vero, ma era avvenuto come se lo avesse colpito alle spalle.

Non era la stessa cosa.

Lucia lo stava affrontando a viso aperto. Erano uno di fronte all’altra e lui era cosciente, sapeva che voleva toglierla, che si sarebbe svelato per quello che era: un mostro deforme, ma che lei conosceva bene. Che voleva guardare. Che voleva toccare senza disdegno.

Lucia era così lontana da Christine.

Il nero della sua sottoveste che lasciava intravedere la pelle, la vestaglia le ricadeva pigra lungo il corpo non più acerbo, le curve sinuose del seno e dei fianchi le serpeggiavano indosso con la naturalezza della femminilità che sembrava indossasse come un guanto, i capelli scarmigliati di chi stava per prepararsi ad andare a dormire. Sul viso ancora i belletti che indossava durante il giorno, gli occhi e le labbra leggermente truccati, non come quelli di una donna di volgo, nemmeno naturale come una scialba aristocratica.

Lei era semplicemente sé stessa.

Non era l’algida e virginale Christine, non era la fanciulla che pendeva dalle sue labbra, incantata, affascinata, asservita al suo Angelo. La fanciulla che l’aveva seguito attraverso lo specchio e che sottostava ad un gioco di cui non conosceva le regole, con l’inesperienza delle poche stagioni della sua vita.

Lei era Lucia. Calda e sensuale, come il fuoco di una lanterna dalla luce tenebrosa. Misteriosa nella sua complessità di donna formata.

Erik si arrese e lei lo lesse nei suoi occhi senza aggiungere altro.

Non erano mai stati così vicini, il Destino lo sapeva.

Non lo erano mai stati davvero se non come in quell’istante quando Lucia gli aveva tolto la maschera.

Sul suo viso non c’era disgusto, non c’era altro che loro due.

Quella notte Erik concepì e compose una delle sue più grandi opere.

Lumière Noire.

Il debutto del gioiello europeo di Coney Island.

Una delle opere migliori che il suo genio avesse partorito.

L’Angelo della Musica era tornato da lui. In forma diversa, strana, adesso andava a braccetto con l’Angelo della Morte, una Morte dal manto Rosso che si ditorceva su di una scalinata durante un ballo.

L'Angelo e la Morte Rossa di nuovo insieme ed insieme avevano partorito la più altisonante e scandalosa opera.

E quella notte concepirono anche la loro Christine.

«Papa?» fu proprio la sua voce a farlo ritornare. La voce di quella figlia che era nata assieme alla sua nuova vita.

Lucia svanì alle sue spalle, il suo riflesso tornò quello del presente e Christine non poteva nascondersi a lui, anche se tentava di farlo.

Si voltò e vide i suoi occhi tumefatti, il suo volto stravolto.

Lei che le assomigliava così tanto e che ora si sentiva vuota e persa.

Era una figlia dopotutto. Sua figlia.

Una figlia che anche se ormai donna voleva sua madre.

Erik improvvisamente si sentì stanco e spossato. Per quanto ancora fosse in forze, la sua età non gli permetteva di restare in piedi oltre il tempo necessario. Si appoggiò mollemente al suo bastone, voltandosi verso la poltrona che distava pochi passi. Si adagiò su di essa con calma, con gli occhi verdi che la sua Christine, la vera sua Christine, gli aveva rubato.

«Papa, ho …» tentennò. Fece un passo avanti ingoiando amaro e ricacciando ogni debolezza.

Ricordami, sempre.

Lui trovava la forza in questo. Forse avrebbe dovuto suggerirlo anche a lei.

Ma tanto, come se fosse stata Lucia stessa davanti a lui, sapeva che qualsiasi cosa le avrebbe detto non le avrebbe dato il giusto conforto e non le sarebbe stato di sostegno.

Lei era troppo simile a loro per accettare quello che non veniva dalla sua mente.

Era il loro complemento. Era il loro connubio.

Ed aveva le caratteristiche di entrambi.

Era tutto ciò di buono che avevano fatto.

E sapeva che, dopo quella notte, l’avrebbe persa. Eppure non provava quel senso di malinconia che si aspettava.

Non provava paura della solitudine.

«… ho parlato con il dottore. Voleva confortarci dicendoci che è … che ci ha lasciati nel sonno …» non riusciva, non riusciva proprio ad accettare che fosse morta e dirlo lo avrebbe solo reso più concreto. «… non ha sofferto.»

Abbassò gli occhi cercando di distinguere i disegni del tappeto. Erik osservava quel suo modo di fare che la rendeva più piccola e fragile di quanto non fosse. Si stava perdendo, lo vedeva, lo percepiva. Era un mistero come Erik e Christine fossero legati.

Padre e figlia, divisi e indissolubili insieme. Un rapporto strano e contorto che era di difficile comprensione per chiunque fosse al di fuori del loro piccolo cerchio di tre persone. Forse per questo la bambina, la ragazza e poi la donna che si era venuta a formare era diventata così restia ai veri ed autentici rapporti umani.

Erik rimase in silenzio.

La guardò intensamente senza dire nulla.

La esortò solo con un cenno di assenso, mentre ogni oggetto nella stanza sembrava avesse assunto un improvviso tono interessante.

 «Ho mandato a chiamare l’impresa di pompe funebri.»

Elencava ogni cosa con la freddezza con cui si decide il colore del tendaggio. Innaturale e inspessita dalla situazione.

Incrociarono i loro sguardi per un attimo, ma Erik sapeva che questo forse avrebbe complicato la loro conversazione. Si volse alla finestra da dove la luce irrompeva irrispettosa, con lame che quasi sentiva tagliargli la pelle.

«Papa …» un altro punto della lista. E quel modo di pronunciare "papa" aveva lo stesso suono di un vetro che s’infrange al pavimento.

Erik chiuse gli occhi.

Il momento era arrivato. Il suo corpo aveva vibrato come un violino sfiorato dall’archetto.

Inspirò profondamente, contemporaneamente con sua figlia.

Lei sapeva che era ingiusto, che quello che stava per pronunciare avrebbe cambiato molto.

No, tutto.

Era davvero pronta a questo?

«Io vado a Parigi!» fece un passo in avanti allungando quella frase come una corda di seta e ritirandola verso di sé. Adesso i suoi occhi non erano più alla ricerca di qualcosa.

La vide.

La mano di Lucia era ancora lì. Stringeva le dita di quello che di fatto era suo marito. Non c’era stato bisogno di cerimonia. Bastava qualche documento falso per i più scettici.

Lucia era con loro e anche Christine se ne accorse quando si accorse della mano del padre stringere il vuoto.

Stava dando loro una forza nuova.

Una forza necessaria.

La forza della separazione.

Lo sguardo di Erik si abbassò.

Il melograno è in fiore.

Il pensiero volò fino all’Europa, a Parigi, alle atmosfere che c’erano sempre state. Sapeva che quel richiamo sarebbe giunto. Sapeva che un giorno Christine lo avrebbe ascoltato.

Il giorno era quindi arrivato. Poteva essere un giorno qualunque, tanto valeva che fosse quel giorno.

«Cosa ti ha raccontato tua madre?»

E sapeva anche che era stata Lucia a volerlo.

«Mi ha raccontato abbastanza …»

«Abbastanza non è sufficiente.» rispose lapidario

«Cosa devo sapere allora?»

Lo scambio di battute avveniva più in fretta. Padre e figlia di nuovo a confronto. Christine chiuse un pugno e lo strinse all’altezza del ventre dove sentiva lo stomaco rivoltarsi. La sua testa era invece leggera ora che vedeva suo padre rivolgergli lo sguardo. In fondo era il suo desiderio più profondo quello di riuscire a catturare l’attenzione di quell’uomo sempre troppo attento alla sua arte.

«Tutto!»

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Capitolo 4
*** CHAPITRE III: Le larmes des anges. ***


CHAPITRE III: Le larmes des anges.


Quatre-vingt-dix-sept, quatre-vingt-dix-huit, quatre-vingt-dix-neuf…

Contare. Non le era rimasto che questo da due giorni. Contare chiusa in un atteggiamento morboso. In modo che il pensiero non si affacciasse nuovamente a ciò che suo padre le aveva rivelato. Confidato. Come definire in fondo quello che si erano detti?

Chi sei? Chi era davvero quella donna che mi ha cresciuta?

Non si era mai sentita così vuota e piena allo stesso tempo.

Aveva ascoltato ogni particolare attentamente. Estranea e al tempo così coinvolta da osservarsi fuori dal proprio corpo, con le braccia che cercavano di contenere la nausea che la stava attanagliando. Ormai erano passati due giorni da quando ogni cosa, ogni dettaglio della vita dei suoi genitori a Parigi le era stata rivelata.

L’irrealtà del momento si descriveva con il tumulto che poteva creare una tragedia sull’orlo della ribalta.

Non riusciva. Non riusciva ad immaginarsi ciò che davvero fosse successo tanti anni prima.

Ma aveva ascoltato, senza interrompere. Con il fiato corto e la repulsione che pulsava in gola.

Cent-cinq, Cent-six, Cent-sept…

Contare era l’unica cosa che riusciva a tenere fuori tutto questo dalla sua mente. Contare la polvere, contare i fili d’erba, contare le gocce di pioggia che si infrangevano sul vetro della propria stanza.

Contare quante pale di terra erano necessarie a ricoprire la bara.

E quella presenza che la stava fissando, mai come allora si rivelava sconosciuta.

Spaventosa.

Non per il suo aspetto che tanto lo aveva tormentato. Per tutto quello che era accaduto.

Su di sé lo sguardo attento e distratto di un padre che aveva fatto delle sue ossessioni una ragione di vita fino al punto di …

E le bruciavano le viscere, si sentiva mancare, le gambe le tremavano e la testa le sembrava alleggerirsi fino a sprofondare in un baratro troppo nero per una qualsiasi sopportazione umana.

Come se il passato si fosse improvvisamente voltato su sé stesso, sovrapponendo avvenimenti, date ed episodi, creando una piega che permetteva di avere il quadro completo di due vite tanto fittizie quanto tremendamente tangibili.

Sembrava una menzogna.

Un inganno di cui lei era stata l’inconsapevole vittima fin dall’infanzia. Guardava l’uomo che aveva davanti a sé, oltre quella fossa che li divideva. Guardava quegli strani occhi di giada troppo uguali ai suoi e si sentì improvvisamente persa nel vortice che la stava investendo.

Non sapendo più chi fosse quell’uomo.

Non sapendo più chi fosse la donna che stavano seppellendo.

La terra riversata sul legno laccato di nero aveva l’aspetto di un manto oscurante, che portava seco un segreto dal sapore di fiele. I maestosi intarsi d’oro, sporcati dal fango perdevano ogni importanza e ogni bellezza.

La donna che chiamava madre era celata ben oltre il suo ultimo letto di seta.

Si era nascosta per così tanto tempo ai suoi occhi che le parve di vederla, lì dentro, al buio del suo riposo eterno, con il suo sorriso a metà che le diceva come non tutto poteva essere come i propri sogni, ma i sogni potevano trasformarsi facilmente in incubi.

Gli incubi non sono tuoi nemici. Gli esseri umani sono fatti di paura e non provarla significa che hai smesso di vivere.

Ora capiva le sue parole.

Per quanto sua madre era stata un incubo? Per quanto suo padre aveva tormentato quella povera gente all’Opéra Garnier?

Dio, cosa sono stati?

E suo padre continuava a fissarla, con quel suo sguardo indecifrabile.

In quel momento lo scappare era un desiderio tanto anelato, quanto impossibile.

Non le restava che riprendere a contare…

Un, deux, trois …

Ma quegli occhi continuavano a fissarla in una morsa di ghiaccio, quegli occhi che tanto amava da figlia, ma che ora sentiva alieni.

Oltreoceano.

Adesso Christine, puoi tornare a Parigi sapendo quello che troverai …

Tornare.

Era lo stesso vocabolo che aveva usato lei con Claude, il giovane violoncellista.

Tornare.

Perché Parigi aveva sempre fatto parte di loro. Parigi, l’Europa, Palais Garnier.

Loro appartenevano al vecchio mondo era così evidente, che mai si era posta il vero problema di chi fossero prima del loro approdo nel nuovo di mondo. Sembrava troppo naturale vederli alle prese con il teatro, con gli impresari, con gli inservienti, con i domestici della loro casa.

Ricordava suo padre chiuso nel suo studio, con il pianoforte a comporre e sua madre nel salotto ad intrattenere il mecenate di turno mentre lei, ancora bambina, li guardava con l’ammirazione che si riserva a due eroi da palcoscenico.

Suo padre così alto e austero. Un genio dai mille volti, celati dal mistero di una maschera che non toglieva quasi mai.

Sua madre così affabile e intelligente, che usava la persuasione come arma tra le sue dita sottili.   

La vedevo così bella nei suoi abiti di seta e di organza, mentre sfilava il borsellino di quegli uomini dai facili guadagni.

Così seducente, così intelligente e caparbia.

In grado di ottenere qualsiasi cosa volesse anche solo per un capriccio, un fondale nuovo o velluti più comodi.

E volevo essere lei.

Tutto era così illusorio, un castello di carta edificato sul fango. Persino il loro matrimonio, un piano congeniato per destare meno sospetti e malumori della folla. Dei documenti falsi per i più scettici.

E mentre il loro gioco s’intesseva negli anni, lei cresceva sotto un’ombra di falsità.

Nemmeno sapeva più chi fosse quella lei.

Definiva sé stessa come una terza persona.

E non riusciva più nemmeno a contare.

Chi sono allora?

Quale pedina ero nel loro disegno?

Alzò lo sguardo convinta di sentire ancora il peso sul petto di quello dell’uomo che aveva di fronte.

No, non c’era più.

Non lì davanti a lei.

Per un attimo si sentì spaesata e confusa più di prima, come quando la bestia feroce scompare dalla tua vista prima di attaccarti alle spalle.

Così fu.

Si strinse una mano al petto, voltandosi lentamente e suo padre era lì. Si reggeva al suo bastone da passeggio mentre una fitta pioggerella gli cadeva sul cilindro. Si fissarono a lungo senza nemmeno curarsi che il becchino avesse finito di ricoprire la tomba di Lucia prima di congedarsi.

In un attimo si sentì minuscola e impotente.

Annichilita dalla forza muta di quello sguardo impossibile da tradurre.

Un attimo così infinito da chiudere il proprio respiro in un pugno e non lasciarlo andare.

Christine si sentì soffocare dalla sua presenza, da quello che stava vivendo nella piena coscienza di un attimo. Smise persino di pensare.

La sua mente era così annebbiata che la ragione sembrava essersi abbandonata alla follia.

Così quando la mano di suo padre si porse a lei, non poté fare altro che allungare la propria, così piccola e bianca, amplificando ogni sensazione sulla sua epidermide ustionata da quel contatto intenso e prolungato.

E la pelle dei guanti neri di suo padre non era mai stata così fredda e morbida prima di allora.

E i suoi occhi non erano mai stati così liquidi e dalle sfumature variopinte di un mare in tempesta.

Era come se non l’avesse mai visto.

Come se lo conoscesse per la prima volta.

Soggiogata dal semplice fatto che fosse lì, per lei e che le stesse chiedendo di seguirla, scelta nell'ombra dell'oscurità che li stava sempre più dividendo. Come se non potesse rifiutarsi di fare tutto ciò che le avrebbe chiesto in quel momento.

Come se sentisse un grave colpa da renderla schiava di quell'uomo-

L’aria sottile dalla tenue pioggerellina, sembrava essersi addirittura rarefatta attorno a loro come in un sogno. Ogni freno inibitore si era perduto nell’oblio di quello strano incantesimo edificato come un castello. Eppure, in un istante di lucidità, Christine si ricordò di tutto quello che era venuta a sapere dalle sue stesse labbra, esternando il suo disagio in una smorfia appena percettibile del viso.

Teneva la mano di suo padre mentre la conduceva fra le tombe, in una sorta di passeggiata quasi onirica. L’erba dei sepolcri cresceva rada fra le lapidi, interrompendosi laddove la terra era stata smossa da poco.

Passeggiavano nella solitudine voluta dalla volontà di Lucia.

Si era chiesta più volte il perché, ma non aveva mai osato chiederlo a lei.

«È tutto così …»

«Mostruoso?» Christine venne scossa da quel termine, come se fosse un’accusa di tradimento perpetuata nei confronti di chi le stava camminando accanto. Si sentì oltremodo vulnerabile, della stessa natura fallace di quella vita che aveva creduto sua.

«Desolato.» La voce le si era sopita tra labbra, imitando un sospiro.

«Christine …» mai come allora le era sembrato che suo padre proferisse davvero il suo nome. Eppure lo aveva sentito così tante volte e le era sempre piaciuto sentirlo pronunciare da lui e dal suo melodioso tono grave. «Siamo molto diversi da allora, eppure non siamo mai cambiati …» Erik si pronunciò come se riprendesse un discorso appena terminato, ma che in realtà era stato interrotto due giorni prima. Si ritrovarono immersi nelle cripte famigliari, piccoli altari alzati a nomi sconosciuti. Il luogo forniva una scenografia lugubre e Erik la sentiva su di sé vivendo il ricordo di quando Lucia gli aveva aperto gli occhi in una piccola cappella abbandonata.

Da soli contro un mondo così crudele da trasformali in quei mostri che tanto temevano.

Da soli contro le proprie paure, contro i propri incubi.

Da soli, ma per la prima volta insieme.

Le loro mani si separarono mentre gli occhi di Christine caddero su di un Angelo scolpito nel marmo grigio. Un viso liscio, con le labbra leggermente arcuate in un accenno di espressione piangente, una lacrima sulla guancia e due occhi vuoti che sembravano seguirla.

Erik era di fianco a lei, in quel silenzio che tuonava tra di loro.

Sentiva il peso degli anni gravargli oltremodo sulle spalle. Sentiva la solitudine in cui l’aveva appena abbandonato quella che era la compagna della sua vita.

Ed anche lui osservò quelle grandi ali piumate di fredda pietra riflettersi in una pallida ombra del terreno.

Il mio Angelo della Morte,

La mia Lumiere Noire …

Dove sei ora Lucia? Dove sei, quando ho più bisogno del tuo conoforto?

Sentiva quel silenzio, il silenzio, e mai come allora gli sembrò rompergli i timpani. Non c’era la voce di quella donna che non lo aveva mai compatito. Non c’erano quei consigli velati che gli insegnavano come muovere i passi nel mondo vero. Non c’era più nulla.

Nemmeno quella voce.

La voce della maschera.

La voce di Christine. Non della loro Christine.

Di quella che un tempo considerava la sua Christine.

Per quanto ancora l’aveva sognata? Per quanto il suo ricordo l’aveva tormentato?

A ora ogni sensazione era un triste lascito impolverato nel cassetto dei ricordi. Christine, la voce cristallina che nell’oscurità l’aveva cullato non era altro che un sogno sbiadito, come impresso su di una vecchia fotografia.

A ora ogni forza si stava spegnendo in un pugno in cui era racchiusa una rosa da ormai trent’anni.

Tutto quello che avevo chiesto era non ricadere nel baratro della solitudine, tutto ciò che avevo chiesto era di non rimanere nel silenzio.

Invece ora non ho più nulla.

«Oh Christine …» sembrò ripeterlo sulla sponda di un lago dorato, guardando quella nera imbarcazione dalle fini rifiniture allontanarsi nel fuoco della disfatta. «Christine …» questa volta era su di un tetto, sorvolando una Parigi innevata mentre due giovani innamorati attendevano una carrozza. Alzò lo sguardo e per un attimo l’immagine della loro Christine si sovrappose a quella di una incantevole soprano che aveva reso una sontuosa Regina dell’Opera Garnier.

Per un attimo un intenso profumo di rose permeò l’aria pugnalandogli il petto dall’interno.

Christine rimase attonita, quasi immobilizzata da quanto il padre le stesse rivelando senza proferire alcun suono se non quello del suo nome.

Paralizzata da quella sofferenza che leggeva nei suoi occhi anziani. Tremendamente stanchi.

Tremendamente soli.

«Christine …» e sembrava che non avesse imparato a dire alcun’altra parola, che non sapesse articolarne oltre. Era come se tutto si stesse immobilizzando, persino la pioggia che ormai aveva smesso di pungere la terra.

Una lacrima cadde incontrollata, senza che lei sapesse dire da dove provenisse, se dal cielo o dalle sue ciglia.

«Non siamo noi i veri mostri, Christine. Lo capirai, lo capirai solo quando vedrai con i tuoi occhi …»

Non disse altro.

Un passo e le sembrò che l’aria fosse sempre più dolce, sempre più dal sapore floreale delle rose.

Un altro passo di suo padre e lei smise di respirare.

Il terzo non poté che essere il suo per andargli incontro.

Non si accorse nemmeno dei loro gesti. Poteva solo fissarsi intensamente nei suoi occhi, nella sofferenza che faceva naufragare ogni convinzione in un mare di incertezze.

Christine non capì cosa stesse davvero accadendo finché non sentì tra le dita un oggetto dalla forma strana.

Abbassò solo allora il suo sguardo, quando ancora la mano del padre si chiudeva sulla sua.

«Tua madre non l’ha mai voluto. Era destinato a te, mia piccola Christine. Lo è sempre stato.»

Aprì quindi le dita lentamente e ciò che vi trovò le fece mancare un battito.

Pietre preziose avvolte da un cerchio argentato.

Un piccolo fiore cesellato.

Un anello.


Note dell'autrice: Buonasera, bentrovate fantasmine. So, so che questo Erik non è il solito, ma considerato che dovrebbe avere 70 anni l'ho immaginato come un vecchio leone che ha acquisito una sorta di saggezza fiaccata dall'età. Comunque ricordo che questa storia è solo un lungo epilogo della mia prima storia sul fantasma dell'opera "Lumiere Noire" che trovate a questo link. Mi spiace comunque vedere che è poco seguita, io comunque cercherò di fare del mio meglio per concluderla (ripeto non saranno molti capitoli conto di farne il doppio di questi se non meno) un po' per lanciare una sguardo a quello che è avvenuto dopo la mia storia principale.

Spero di avere qualche parere in merito, anche critiche negative sono bene accette! 


al prossimo capitolo!

BM

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Capitolo 5
*** CHAPITRE IV: Le vieux monde. ***


 

 

 

CHAPITRE IV: Le vieux monde.


Un anello. Splendente sulla pelle candida della sua mano, mai sostituito con nulla. Non esisteva nulla che in realtà potesse davvero sostituirlo. Christine l’aveva capito da tempo ormai e la sua solitudine, così cercata e voluta ne era la prova inconfutabile.

Lei era il loro messaggio.

Di un uomo che si era chiuso nella sua mostruosità, esiliato da sé stesso.

Di una donna a cui l’innocenza era stata privata.

Tutto in un disegno superiore di cui lei era la firma, dopo anni e anni.

Parigi 1919.

L’orizzonte non era mai stato così lontano. Mai. Nemmeno quando i suoi occhi, studiavano l’oceano sognando un giorno di poterlo scavalcare per conoscere l’ignoto al di là di quella distesa azzurra, oltre la quale mille volti e mille culture l’attendevano.

E mentre lei ancora bambina restava a guardare silenziosamente, sua madre affianco le stringeva la mano. Forte.

Quasi a spezzarle le dita.

Gli occhi umidi di un pianto che tratteneva.

Maman, andiamo a vedere cosa c’è lì …

Una domanda innocente, che aveva il sapore dell’infanzia e della consapevolezza che solo i bambini hanno in certe occasioni. Una lieve crudeltà ingenua che trapassava da parte a parte un cuore straziato dai ricordi e dal dolore di una vita passata e rinnegata.

Una vita che però era appartenuta a Lucia, che suonava come il canto della sirena.

Ora Christine capiva.

Capiva cosa si celava nello sguardo che sua madre le aveva riservato quella volta, lo stesso che suo padre le aveva dedicato prima che partisse ormai quasi quindici anni prima. Un tumulto di ricordi ed emozioni che avvolgevano le loro spire nello stomaco, fino a farle mancare il fiato.

Per loro un richiamo più forte di quello che provava Christine, con l’esilio in quella terra straniera come condanna.

Loro desideravano tornare a Parigi. Probabilmente nel 1919. Probabilmente nello stesso luogo in cui ora si trovava lei.

Era tornata. Questo le suggeriva la voce che sussurrava lungo il suo collo.

Come se si appartenessero.

Lei, Parigi. L’Operà Garnier.

Mai era riuscita a sentirsi tanto piena e completa da quando ogni giorno si sedeva in quel bistrot, all’ombra della facciata del gigante sfigurato che tanto le ricordava Lui.

Suo padre. Il suo sangue.

Sedeva ed osservava come il lento ed inesorabile trascorrere del tempo lo stesse logorando, lo stesse facendo appassire.

Esattamente come il tempo stava lentamente portando via Erik. Nella menzogna in cui la sua leggenda si era trasformata. Di uno scrittore che aveva costruito false verità su di racconti di povere nobildonne spaventate e gente che del teatro, dell’esasperazione dei fatti aveva fatto la sua vita.

E quella cicatrice deturpante era diventata tra le parole di un libro, il volto sfigurato della Morte stessa. Una delle tante menzogne.

Christine aveva convissuto con quel volto sfigurato ogni giorno della sua vita e non era mai stato quello descritto. Per lei quel volto non era nemmeno orribile. Anzi.

Era ciò che lo distingueva. Era la cicatrice che portava anche lei, sotto il suo orecchio fino al mento.

Suo padre non sarebbe stato lui senza la sua metà corrosa dal genio che continuava a consumarlo.

Erik non è morto.

No, non ancora perché la sua umanità lo stava strappando al mondo, ma ancora era vivo, nella sua casa a Coney Island in attesa di ricongiungersi alla sua Lucia.

Forse di incontrare di nuovo la sua Christine.

La Christine diventata un epitaffio su di un’elegante lapide di marmo.

E un ritratto a ricordarne i bei lineamenti, solo rimembranze della giovane donna che suo padre aveva…

... amato?

Dio solo sa, come si potesse definire quel sentimento. In quindici anni lei stessa non era riuscita a trovare per sé una risposta a quella domanda. E si era chiesta tante, tantissime volte, cosa li legasse con quella catena così pesante da portare anche lei quel nome odiato e amato.

E non aveva mai avuto il coraggio di andare dalla cantante a parlarle.

«Bonjour Christine …»

Quel giorno era arrivato. Troppo tardi per ricevere delle risposte.

Forse perché le conosceva già quelle risposte. Forse perché sapeva inconsciamente molto più di quello che realmente rivelava a sé stessa. Forse perché voleva solo essere ascoltata. O forse perché voleva subire anche lei l'incantesimo che lo aveva trascinato nel baratro.

Ed aveva scelto quel giorno.

Non aveva visto rose più belle dal fioraio. Con il loro fusto lungo e sodo, i petali vellutati di sangue.

Mentre gli sciacalli iniziavano il loro banchetto con la carcassa dell’Opera.

Quindici lunghissimi anni.

Il tempo impietoso che l’aveva vista invecchiare pensando di essere invincibile, come pensava che lo fossero i suoi genitori.

«… eppure siamo anche noi umani Christine …»

Si guardavano negl’occhi. Una foto inanimata. Una donna un tempo smarrita.

Tutto sembrava essere già scritto, fino a farla giungere nel cimitero quel giorno. Come avrebbero voluto loro.Una rosa tra le mani, un anello splendente sull’anulare sinistro.

Le due Christine del Fantasma.

«… prima o poi ci saremmo dovute incontrare …» e un sorriso, amaro che sfiorava il disegno delle labbra. Gli occhi che di tanto in tanto cercavano aiuto nel terreno o nelle altre lapidi attorno a lei.

Perché voglio incontrarla? Se l’era chiesto più di una volta.

Perché devi farlo.

La risposta era arrivata due anni prima, su di un giornale sgualcito trovato su di un marciapiede, dove con dolore la famiglia annunciava la scomparsa della Contessa De Chagny, amata moglie e madre.

Christine era morta nel 1917.

E lei era viva, nel suo nome.

Con il suo anello che stonava su quel dito.

Forse pesava.

Troppo.

Doveva essere restituito, sfilato.

Legato ad una rosa rossa listata con un nastro nero.

Lasciato sul marmo freddo che la costudiva.

Mentre gli occhi fissi della foto osservavano i suoi movimenti. Ancora.

Ancora in quella manciata d’istanti in cui era rimasta in silenzio ad osservarla. Ancora.

Pensando a come vite così distanti si intrecciavano e si contorcevano nella genialità di un uomo che il destino aveva relegato a ruolo di reietto e come egli era riuscito a sopraffarlo, fino a rendersi protagonista assoluto di quella grande opera che aveva compiuto.

Lui a cui era serbato un ruolo marginale nella società, che si era macchiato di sangue pur di esternare quel talento che lo logorava fino al midollo, fino alle ossa e alla linfa vitale che scorreva dentro anche sé stessa.

Lui aveva scritto con il sangue il suo nome nell'eterno firmamento del suo macabro estro.

E mai mai nessuno avrebbe potuto fermarlo.

No, il libro si sbagliava.

Il Fantasma dell’Opera non poteva essere morto.

Erik non poteva morire.

«Erik, non morirà mai …»


Note dell'autrice: Eccoci qui, adesso la storia è davvero conclusa. Volevo che le due Christine si incontrassero e credo di esserci riuscita in qualche modo. Come già accennato più che una storia questa manciata di capitoli sono una sorta di Epilogo alla storia precedente quindi, non vogliono sembrare frettolosi (anche perché frutto di una lunga riflessione), ma sono semplicemente coincisi per chiudere un cerchio. La scena finale del musical in questo caso è ripresa per far quadrare i conti.


Ho tratto ispirazione dal finale di un'altra ff "Save me from my solitude" di Alkimia, che ringrazio.


Ringrazio quei pochi che sono passati qui per leggere. Ringrazio chi ha voluto lasciare un piccolo segno.


I remain, Gentlemen. Your obedient servant.


BM


 

 

 

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