CHAPITRE II: L'ange et la Mort Rouge.
Era accanto a lui. Bella come l’aveva vista fino alla fine. Bella, ma di quella bellezza che non si può definire. Una bellezza formata dalla luce che si infrangeva sul pallido viso. Bella, come la ricordava. Non erano necessari occhi per poterlo affermare. Dovevi respirarla, viverla e conoscerla prima di poter dire quanto davvero fosse radicata in lei la bellezza.
Lei era il suo angelo nero, la sua Lumiére Noire.
Non era stata sufficiente la malattia e la vecchiaia per renderla meno bella di quanto non fosse.
Erik continuava a vederla giovane, con quello sguardo infinito e liquido.
Con la pelle tesa, morbida, profumata.
I lunghi capelli in una cascata dolce di miele di castagno.
La bocca per metà arcuata nel suo solito sorriso di scherno.
Lui non poteva far altro che starle accanto, con lo sguardo rivolto verso l’esterno, su quella finestra che dava al giardino.
L’autunno si stava avvicinando.
Gli alberi iniziavano a perdere le foglie, alcuni dei rami spogli tendevano le loro braccia verso il cielo.
Piccole colline dai caldi colori venivano ammonticchiati ai lati. Da lontano l’oceano occhieggiava con la sua aria salmastra e pungente, ora decisamente ristorante dopo la torrida estate che si era schiantata sulla baia. Il verde melograno mostrava fiero i suoi ultimi fiori cremisi. Alcuni frutti ancora acerbi pendevano dalle sue dita sottili.
Ricordi quella sera? La notte in cui …
«Sì…» le rispose, una calma irreale nella sua voce. Una calma tra l’onirico e la realtà che si rimestavano nella sua mente ottenebrata dal dolore. Un dolore che tardava ad esplodere o che forse si sarebbe sopito nella consapevolezza della sua incapacità ad arrendersi. Quella sera la ricordava, vivida come una di quelle foto che scattavano lungo le strade.
La ricordava, come se camminasse a metà tra il sogno e l’incubo.
Le più grandi paure materializzate sotto i suoi più torbidi desideri.
La notte era sempre stata propizia, una consigliera, il sussurro che gli dettava le musiche più intime, più oscure e al contempo i suoi più grandi capolavori. Il Don Juan aveva preso vita con i suoi pizzi, le sue note, la sua magnificenza attraverso le orme oscure delle tenebre, danzando al suono del suo organo fino a farsi sanguinare le dita.
Lui era la Morte Rossa e il suo genio trionfava attraverso quella composizione che all'epoca ritena perfetta.
Prima che il suo Angelo lo tradisse, lo abbandonasse ad un destino infame.
Prima che il suo spirito mutasse così rapidamente da perdersi in un equilibrio a cui non era abituato.
Quella sera.
La ricordava fin troppo bene, quella sera. Dimenticarne il frutto sarebbe stato impossibile. Come dei grani di melograno che una Lucia sorridente gli faceva assaporare ogni autunno dalle proprie dita, non poteva dimenticarne il sapore, il profumo e l'aspro senso di amarezza che si stava scagliando su di lui come una maledizione.
Tutto poteva sopportare.
Non quello che stava accadendo quella sera.
Non il suo genio bloccato. Non quel senso di impotenza e frustrazione che gli stava attanagliando viscere, mente e cuore.
Perché anche un genio può essere debole, ma Erik non lo accettava.
Non era possibile.
Non poteva accadere a lui.
Proprio a lui.
Erik non aveva mai avuto altro se non quello. La sua musica, la notte ad indicargli la via come un faro. Invece era stato abbandonato e la sua rabbia non era contenibile. Si traduceva in note scomposte, in pergamene accartocciate che si stendevano a tappeto sotto i suoi piedi. Si sentiva perso, tradito da quella che era stata la sua amica più fedele.
Era chiuso tra le mura di una casa, le mura di un castello di carta.
Aveva vissuto saltimbanco e teatrante per una vita intera, ma mai si era sentito così…finto.
Da quanto vivevano così? Cinque mesi? Eppure quella non era la sua vita, era quella di un estraneo.
Mulheim non esisteva. Non era reale.
Lui era sempre stato solo Le Fantôme e non aveva altri nomi, altre maschere se non quella bianca che indossava sempre.
Quel mezzo volto che lo scherniva, lo denigrava, lo derideva.
La sentiva viva come non lo era stata da tempo.
Tu stai diventando un debole e piccolo giunco!
Sopita per troppo tempo aveva deciso di risvegliarsi nel momento meno opportuno, quando tutto sembrava così errato e fuori luogo.
Pensavi che un nuovo nome e un nuovo paese ti cambiasse Erik?
Sei e sarai sempre il mostro che tutti conoscono.
Provava ad ignorarla, ma più cercava di tradurre in musica ciò che lo circondava più la maschera acquistava forza.
La sua forza creativa risucchiata dal fantasma del Fantasma.
Scriveva quella notte.
Scriveva, ma il nulla mutava in ulteriore nulla, accatastandosi un’enormità di vuoto.
Parigi. Era ormai così lontana che sembrava svanirgli tra le dita dissolvendosi in un ricordo che si offuscava nell’ira.
Il suo ambiente così ricco e frizzante, il suo teatro.
L'arte che trasudava attraverso le sue mura.
Attraverso ogni sua pietra.
Il corpo rispondeva a quel suo stato. Rispondeva al suo turbamento mentre i muscoli delle braccia si inturgidivano sotto la morbida stoffa della veste da camera di perfetta fattura. Il viso si contraeva in una smorfia quasi di dolore, mentre la sua maschera, foriera di sventura, gli suggeriva quanto fosse ridicolo tutto quello che stava facendo.
Lui non era fatto per una vita normale.
Lui era un fantasma.
Il Fantasma.
Non un nome falso, una bella casa, una donna che gli sedeva accanto avrebbero cambiato questo.
Lo ripeteva, quella maledetta voltafaccia che si fingeva amica, glielo ripeteva cercando di spingerlo nell'abisso. Nel vortice di paura da cui era riuscito ad emergere a fatica pensando che ciò che più desiderasse era quello che tutti avevano.
Lui non poteva essere altro che il Figlio del Diavolo.
Quello che creava e uccideva con le stesse mani.
Lucia osservava. Era così che aveva fatto per tutta la sua vita. Lei era un’osservatrice silenziosa. Studiava prima di aprire bocca, prima di fare qualche mossa. Erik questo lo aveva compreso appieno solo quando aveva preso a imitarlo osservando anche lui, ma non attraverso uno di quei magici specchi che adornavano il suo teatro.
Attraverso quella che sarebbe diventata la sua esperienza di vita.
Lei lo guardava. Lo vedeva.
E capiva.
In quasi una vita intera passata assieme, Lucia ed Erik avevano avuto milioni di momenti in cui erano stati tanto vicini. Non servivano parole, non servivano languide carezze. Per loro ogni gesto, anche quello più insulso si traduceva in ciò che li legava. Vicini anche da lontani.
A quell’epoca era difficile capirlo per entrambi.
Potevano vantarsi di essere nel pieno della loro vita, eppure erano inesperti e incoscienti come due giovanissimi ragazzi.
Lei già donna. Lui uomo in pieno del suo vigore.
Vigore che si traduceva nella piuma spezzata fra le sue mani e l’inchiostro che macchiava le sue dita in segno di scherno.
La maschera continuava a deriderlo in quella notte orribile.
In quell’incubo infinito in cui sembrava essere piombato.
E i fogli volarono, la sua furia divampò. Un urlo agghiacciante irruppe nel silenzio della casa.
Il suo urlo. La sua frustrazione.
Altri fogli presero a piovere sul pavimento. Le sue braccia spazzarono il pianoforte su cui stava cercando di dar vita a delle note che invece se ne stavano mute e stonate in fondo a quell’ispirazione volata nel vento, che si era fermata nell’oceano che avevano attraversato.
Sì, tutto era sbagliato.
Quella casa non era umida, i suoi abiti erano asciutti, c’era troppo silenzio e si sentivano le carrozze e i cavalli che passavano attraverso le strade all’esterno. Le pareti troppo strette. Non c’erano le gocce della sua grotta, la cristallina voce di una giovane soprano ad ispirarlo. Quel pianoforte aveva un suono troppo dolce e non quello gutturale e profondo del suo organo. Non c’era più odio, non c’era più amore. Il suo animo era troppo quieto.
Troppo semplice.
E lei che lo guardava, che non reagiva lo rendeva ancora più nervoso.
Era lì sull’uscio, come se fosse voluta entrare e stesse solo aspettando qualche segno.
Placida e tranquilla come se fosse adagiata a guardare un fiume in piena senza curarsi che stesse straripando.
Era lì e non accennava a muoversi. Come se anche lei fosse un fantasma, un alone, con quella sua veste di pizzo nero e il corpetto che le stringeva la vita.
Era come lei la notte dell'Annibale.
No, non come lei.
Lei, Lucia, era l’opposto di lei.
Ricordi quella sera…
Ripeté, mentre Erik viaggiava stordito da un tempo all'altro.
Loro due. Insieme.
Ancora non sapevano quanto questo li avrebbe condizionati l’un l’altra. Eppure lo sapevano. Il presente era evaporato attraverso le nubi del passato.
Sentì la mano di lei sfiorare la sua appoggiata al pomello del bastone da passeggio, il suo viso accarezzare la sua schiena in uno di quei rari momenti in cui lei si spogliava della donna che mostrava di essere e tornava ad essere semplicemente la sua Lucia.
Sentiva la sua voce ora, come se fosse ancora con lui, come se la malattia non gliela avesse strappata via. Palpitante, accogliente come la propria casa. Sentiva quella voce lambirgli la pelle, penetrargli le spalle fino a fondersi con lui stesso riflesso nel vetro più giovane, pieno di forze, nel suo panciotto di velluto cremisi e nella sua camicia di batista. La maschera sul volto bianca come una macchia.
E non era davvero lì.
Era a quella notte.
Era in quella strana notte in cui Lucia si era avvicinata a lui, ancora livido di rabbia per l’ispirazione mancata. In piedi, cercando di accordare il pianoforte in preda all'isteria, con le macchie d’inchiostro e i fogli sparsi per la stanza.
In quella notte in cui voleva ignorarla, come una mosca fastidiosa.Voleva ignorarla, ma non ci riuscì quando la sua mano, piccola in confronto alle sue, le fermò con la decisione e la forza di una volontà di ferro al pari della sua.
Fu quel gesto a sovrapporre presente e passato. Lo stesso gesto che nel sogno di una di lei ancora viva e giovane, stava ripetendo.
Ricorda Erik, ricorda e io non sarò stesa in quel letto, senza vita, ma sarò qui con te …
Ed esplose ancor più impetuoso, il sogno, la realtà e il passato ormai in un tutt’uno, come se qualcuno stesse versando della vernice alle pareti e tramutasse tutto in quella notte.
Più di prima. Fino a riviverla.
Ora basta, Erik!
Erano state le uniche parole che aveva pronunciato fino a quel momento.
Poi silenzio.
Questa volta era lui a essere soggiogato, incantato, stranamente rilassato.
Ed era bastato un tocco, il suo tocco.
Il tocco esperto di una persona che sapeva cosa stesse provano, comprensiva e stranamente complice.
E il suo nome ... Dio! Il suo nome, spesso lo dimenticava. Anche ora da uomo anziano, ora che nessuno faceva davvero caso alla sua deformità. Ora che erano abituati a vederlo girare vestito di tutto punto e con una maschera bianca, come un eccentrico e geniale artista ormai sulla via del tramonto.
Erik.
Quel nome che non aveva sentito più suo fino a quella notte. Fino a che quelle labbra non l’avessero pronunciato nel silenzio di quella casa, di quella stanza, di quell’angolo di mondo.
Erik.
Aveva chiuso gli occhi inconsapevolmente, inconsciamente. Affamato di quelle mani che lo stavano toccando, che risalivano con una carezza gentile sulle braccia, fino al collo, lungo quei tessuti ancora gonfi della tensione accumulata in quelle ore di ostinata rassegnazione ad una vita muta, in cui la musica sembrava lo stesse abbandonando così come aveva fatto la sua Musa.
Ne fu incantato. Frastornato.
Un tocco che sopiva improvvisamente la rabbia e la trasformava in ardore.
Poi l’inaspettato. Un altro ricordo doloroso, spaventoso.
Christine che guardava il mostro. Christine la sua musa che strappava la sua maschera.
Lucia e le sue di mani sulla sua maschera.
Prima che potesse farlo, prima che le sue dita sottili la sfilassero si ritrasse come una bestia ferita.
Una bestia tradita.
Anche da lei.
Non s’infuriò, se non con un muto sguardo indulgente.
Lucia abbassò di poco le mani. Gli occhi lucidi al debole bagliore del fuoco che dal camino illuminava la stanza. La bocca semiaperta, in un’espressione quasi sorpresa.
Sorrise. Con quel suo modo di fare. Mezzo angolo della bocca inclinato.
Sorrise. E lui fu confuso.
Mi hai visto uccidere a sangue freddo un uomo e hai ancora paura di questo?
Una semplice frase. Buttata in quel momento come un secchio di acqua fredda in una gelida notte invernale.
Dall’effetto ridondante dell’eco.
Rimasero dei secondi a fissarsi l’un l’altro.
Christine gli aveva tolto la maschera, vero, ma era avvenuto come se lo avesse colpito alle spalle.
Non era la stessa cosa.
Lucia lo stava affrontando a viso aperto. Erano uno di fronte all’altra e lui era cosciente, sapeva che voleva toglierla, che si sarebbe svelato per quello che era: un mostro deforme, ma che lei conosceva bene. Che voleva guardare. Che voleva toccare senza disdegno.
Lucia era così lontana da Christine.
Il nero della sua sottoveste che lasciava intravedere la pelle, la vestaglia le ricadeva pigra lungo il corpo non più acerbo, le curve sinuose del seno e dei fianchi le serpeggiavano indosso con la naturalezza della femminilità che sembrava indossasse come un guanto, i capelli scarmigliati di chi stava per prepararsi ad andare a dormire. Sul viso ancora i belletti che indossava durante il giorno, gli occhi e le labbra leggermente truccati, non come quelli di una donna di volgo, nemmeno naturale come una scialba aristocratica.
Lei era semplicemente sé stessa.
Non era l’algida e virginale Christine, non era la fanciulla che pendeva dalle sue labbra, incantata, affascinata, asservita al suo Angelo. La fanciulla che l’aveva seguito attraverso lo specchio e che sottostava ad un gioco di cui non conosceva le regole, con l’inesperienza delle poche stagioni della sua vita.
Lei era Lucia. Calda e sensuale, come il fuoco di una lanterna dalla luce tenebrosa. Misteriosa nella sua complessità di donna formata.
Erik si arrese e lei lo lesse nei suoi occhi senza aggiungere altro.
Non erano mai stati così vicini, il Destino lo sapeva.
Non lo erano mai stati davvero se non come in quell’istante quando Lucia gli aveva tolto la maschera.
Sul suo viso non c’era disgusto, non c’era altro che loro due.
Quella notte Erik concepì e compose una delle sue più grandi opere.
Lumière Noire.
Il debutto del gioiello europeo di Coney Island.
Una delle opere migliori che il suo genio avesse partorito.
L’Angelo della Musica era tornato da lui. In forma diversa, strana, adesso andava a braccetto con l’Angelo della Morte, una Morte dal manto Rosso che si ditorceva su di una scalinata durante un ballo.
L'Angelo e la Morte Rossa di nuovo insieme ed insieme avevano partorito la più altisonante e scandalosa opera.
E quella notte concepirono anche la loro Christine.
«Papa?» fu proprio la sua voce a farlo ritornare. La voce di quella figlia che era nata assieme alla sua nuova vita.
Lucia svanì alle sue spalle, il suo riflesso tornò quello del presente e Christine non poteva nascondersi a lui, anche se tentava di farlo.
Si voltò e vide i suoi occhi tumefatti, il suo volto stravolto.
Lei che le assomigliava così tanto e che ora si sentiva vuota e persa.
Era una figlia dopotutto. Sua figlia.
Una figlia che anche se ormai donna voleva sua madre.
Erik improvvisamente si sentì stanco e spossato. Per quanto ancora fosse in forze, la sua età non gli permetteva di restare in piedi oltre il tempo necessario. Si appoggiò mollemente al suo bastone, voltandosi verso la poltrona che distava pochi passi. Si adagiò su di essa con calma, con gli occhi verdi che la sua Christine, la vera sua Christine, gli aveva rubato.
«Papa, ho …» tentennò. Fece un passo avanti ingoiando amaro e ricacciando ogni debolezza.
Ricordami, sempre.
Lui trovava la forza in questo. Forse avrebbe dovuto suggerirlo anche a lei.
Ma tanto, come se fosse stata Lucia stessa davanti a lui, sapeva che qualsiasi cosa le avrebbe detto non le avrebbe dato il giusto conforto e non le sarebbe stato di sostegno.
Lei era troppo simile a loro per accettare quello che non veniva dalla sua mente.
Era il loro complemento. Era il loro connubio.
Ed aveva le caratteristiche di entrambi.
Era tutto ciò di buono che avevano fatto.
E sapeva che, dopo quella notte, l’avrebbe persa. Eppure non provava quel senso di malinconia che si aspettava.
Non provava paura della solitudine.
«… ho parlato con il dottore. Voleva confortarci dicendoci che è … che ci ha lasciati nel sonno …» non riusciva, non riusciva proprio ad accettare che fosse morta e dirlo lo avrebbe solo reso più concreto. «… non ha sofferto.»
Abbassò gli occhi cercando di distinguere i disegni del tappeto. Erik osservava quel suo modo di fare che la rendeva più piccola e fragile di quanto non fosse. Si stava perdendo, lo vedeva, lo percepiva. Era un mistero come Erik e Christine fossero legati.
Padre e figlia, divisi e indissolubili insieme. Un rapporto strano e contorto che era di difficile comprensione per chiunque fosse al di fuori del loro piccolo cerchio di tre persone. Forse per questo la bambina, la ragazza e poi la donna che si era venuta a formare era diventata così restia ai veri ed autentici rapporti umani.
Erik rimase in silenzio.
La guardò intensamente senza dire nulla.
La esortò solo con un cenno di assenso, mentre ogni oggetto nella stanza sembrava avesse assunto un improvviso tono interessante.
«Ho mandato a chiamare l’impresa di pompe funebri.»
Elencava ogni cosa con la freddezza con cui si decide il colore del tendaggio. Innaturale e inspessita dalla situazione.
Incrociarono i loro sguardi per un attimo, ma Erik sapeva che questo forse avrebbe complicato la loro conversazione. Si volse alla finestra da dove la luce irrompeva irrispettosa, con lame che quasi sentiva tagliargli la pelle.
«Papa …» un altro punto della lista. E quel modo di pronunciare "papa" aveva lo stesso suono di un vetro che s’infrange al pavimento.
Erik chiuse gli occhi.
Il momento era arrivato. Il suo corpo aveva vibrato come un violino sfiorato dall’archetto.
Inspirò profondamente, contemporaneamente con sua figlia.
Lei sapeva che era ingiusto, che quello che stava per pronunciare avrebbe cambiato molto.
No, tutto.
Era davvero pronta a questo?
«Io vado a Parigi!» fece un passo in avanti allungando quella frase come una corda di seta e ritirandola verso di sé. Adesso i suoi occhi non erano più alla ricerca di qualcosa.
La vide.
La mano di Lucia era ancora lì. Stringeva le dita di quello che di fatto era suo marito. Non c’era stato bisogno di cerimonia. Bastava qualche documento falso per i più scettici.
Lucia era con loro e anche Christine se ne accorse quando si accorse della mano del padre stringere il vuoto.
Stava dando loro una forza nuova.
Una forza necessaria.
La forza della separazione.
Lo sguardo di Erik si abbassò.
Il melograno è in fiore.
Il pensiero volò fino all’Europa, a Parigi, alle atmosfere che c’erano sempre state. Sapeva che quel richiamo sarebbe giunto. Sapeva che un giorno Christine lo avrebbe ascoltato.
Il giorno era quindi arrivato. Poteva essere un giorno qualunque, tanto valeva che fosse quel giorno.
«Cosa ti ha raccontato tua madre?»
E sapeva anche che era stata Lucia a volerlo.
«Mi ha raccontato abbastanza …»
«Abbastanza non è sufficiente.» rispose lapidario
«Cosa devo sapere allora?»
Lo scambio di battute avveniva più in fretta. Padre e figlia di nuovo a confronto. Christine chiuse un pugno e lo strinse all’altezza del ventre dove sentiva lo stomaco rivoltarsi. La sua testa era invece leggera ora che vedeva suo padre rivolgergli lo sguardo. In fondo era il suo desiderio più profondo quello di riuscire a catturare l’attenzione di quell’uomo sempre troppo attento alla sua arte.
«Tutto!» |