The White Guy.

di Horan princess II
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno. ***
Capitolo 2: *** Capitolo due. ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno. ***


Tempest.
 
 
Trafalgar Square non è forse il posto migliore dove trovarsi all’una del mattino. In realtà, se sei da solo, non lo è mai quando fa buio.
L’ombra della Colonna di Nelson incombeva sulla piazza e io rabbrividivo all’aria fresca di quella notte di Luglio che soffiava tra gli edifici. Mi strinsi nel cappotto, tremante: cominciavo davvero a pentirmi per il vestitino nero striminzito che avevo deciso di indossare. Quanti sacrifici per una serata fuori.
Feci un salto, spaventata, ma era solo un piccione che mi svolazzava tra i piedi; intanto scrutavo le strade deserte in cerca dei miei amici. E tutto solo per uno “spuntino di mezzanotte”. Il sushi bar era a due minuti da lì; ne erano passati venti.  Alzai gli occhi al cielo: poco ma sicuro, qualcuno era già a divertirsi fra le lenzuola. Buon per loro. Perchè si sarebbero dovuti preoccupare della cara, piccola Tempest Lee?
Mi diressi verso le panchine, riparate dalle rade e scure fronde degli alberi. Liberai un sospiro e sfregai le mani sulle ginocchia per riattivare la circolazione, rimpiangendo la decisione di non essere andata con gli altri.
Un’ultima occhiata alla piazza, poi presi il cellulare e premetti il tasto di chiamata rapida. Continuò a suonare a vuoto, poi, alla fine, scattò la segreteria.
“Ciao, sono Ruby, adesso non posso rispondere, lasciate un messaggio dopo il segnale. Pace!”
Al bip della segreteria mi sfuggì un gemito di frustrazione. -Ruby, dove cavolo sei? Se sei con quel tipo, giuro che ti ammazzo! Fa un freddo cane! Richiamami appena senti il messaggio.-
Chiusi la chiamata e feci scivolare il cellulare nella tasca interna del giubbotto. Sapevo che quella telefonata era del tutto inutile: probabilmente sarebbero passati giorni prima che Ruby ascoltasse il messaggio.
Strofinai le mani l’una contro l’altra e raccolsi le ginocchia al petto per riscaldarmi un po’.
Ero combattuta, forse avrei dovuto prendere un taxi e tornare a casa. Ma se poi Ruby si fosse fatta viva, sarebbero stati guai. Ormai rassegnata a una lunga attesa, appoggiai la testa sulle gambe, in silenzio, osservando la foschia arancione che avvolgeva Londra.
Dall’altra parte della piazza alcuni ritardatari ubriachi scomparvero barcollando in un vicolo buio insieme alla loro risate roche.
Qualche minuo dopo un autobus rosso a due piani con la scritta VISITATE LA NATIONAL GALLERY stampata lungo la fiancata spuntò proprio da dietro l’attrazione che pubblicizzava.
Fece il giro della piazza, poi sparì nel dedalo di edifici vittoriani che dominavano il centro della città, portando con se il lontano brusio del traffico londinese.
Mi chiesi quale dei due ragazzi che avevamo conosciuto quella sera avesse fatto colpo su Ruby. Sentii una stretta di rimpianto, mi sarebbe piaciuto essere spensierata e, ecco, disinvolta quanto la mia amica. Ma non ci riuscivo. Non dopo Joel.
Passarono altri minuti e cominciai a sentirmi a disagio. Da un po’ per le strade non c’erano più nemmeno gli ubriachi e l’aria fredda della notte si era attaccata come un lenzuolo sulle mie gambe nude. Mi guardai intorno in cerca di un taxi, ma le vie erano vuote e la piazza deserta, fatta eccezione per la luce che saliva come schiuma sulla supercificie dell’acqua nelle due fontane ai lati della colonna,
Presi di nuovo il telefono, pensando di chiamare mio padre e chiedergli di venirmi a prendere. Poi, con la coda dell’occhio, vidi qualcosa brillare. Balzai in piedi e per poco non mi cadde il cellulare; con il cuore in gola scandagliavo la piazza cercando di distinguere il più piccolo movimento.
Niente.
Scossi la testa e cercai di calmarmi. Sarà stato un piccione. Con le dita intorpidite dal freddo iniziai a comporre il numero di casa, ma ogni secondo alzavo lo sguardo nella speranza che il respiro rallentasse.
Invece no, qualcosa si era mosso davvero.
Un’ombra era schizzata fuori da una delle enormi fontane, troppo in fretta perchè i miei occhi potessero riconoscere una figura.
Eppure nella piazza non c’era nessuno. Alcuni piccioni spaventati si alzarono in volo. Scossi di nuovo la testa, premendomi il cellulare all’orecchio. La linea gracchiò e suonò debolmente, saltava in continuazione.
Battei il piede impaziente. -Dai...- Un’occhiata al display, c’era campo.
Continuavo a osservarmi intorno mentre il telefono squillava a vuoto.
Il mio sguardo si fermò sulla Colonna di Nelson che si stagliava per decine di metri sulla piazza. I riflettori che ne illuminavano la cima sfarfallavano come fiamme scosse dal vento, poi la luce tornò stabile e intensa come prima.
Un altro brivido, non di freddo questa volta. Pregavo che qualcuno rispondesse, ma la linea gracchiò ancora una volta e, dopo un ultimo pietoso squillo, cadde.
Fissai il telefono con gli occhi spalancati, infine l’adrenalina cominciò a scorrermi nelle vene e l’istinto prese il sopravvento.
Mi sfilai una scarpa con il tacco, lo sguardo incollato alla colonna, osservando incredula l’ombra che avevo visto pochi istanti prima sfrecciare al di la della statua per poi svanire all’improvviso, così come era comparsa. Armeggiai con il cinturino dell’altra scarpa e mi tolsi anche quella, le presi entrambe tra le mani e cominciai ad avanzare. Dopo appena qualche passo, però, mi bloccai.
Un gruppo di uomini, tutti in soprabito marrone e con in mano lunghi bastoni da passeggio appuntiti, stavano scendendo i gradini alla base della colonna.
I loro volti erano scuri e segnati dalle interperie, pieni di cicatrici, avevano tutti un’espressione tesa e risoluta. Si avvicinavano a passi pesanti, battendo una marcia irregolare che mi rimbombava nelle orecchie.
Ero sbalordita. Indietreggiai nell’oscurità, accuciandomi in silenzio dietro alla panchina. Non osavo nemmeno respirare. Cercavo di farmi più piccola possibile per non essere vista, e intanto guadagnavo il limite della piazza.
L’uomo alla testa del gruppo abbaiò qualcosa e gli altri si sparpagliarono, disponendosi in una linea che si allungava da una fondata all’altra, occupando l’intero diametro della piazza. Dovevano essere almneo una trentina. Si fermarono davanti alla colonna, quasi  fossero una cosa sola, immobili, con i soprabiti che si sollevavano e si gonfiavano al vento.
Dagli alberi non arrivava nemmeno un fruscio di foglie.
Ognuno di loro guardava dritto avanti a se, concentrato e risoluto, in attesa.
Lanciai un’occhiata alla sommità della colonna, ma la statua era illuminata come al solito, le uniche ombre erano quelle degli uomini e degli alberi sotto cui mi ero riparata. Qualche foglia fluttuò languida per poggiarsi sulla panchina accanto a me.
Poi accadde.
Una serie di movimenti frenetici, e d’un tratto la piazza prese vita.
Qualcosa spuntò fuori da dietro gli alber, levandosi il volo e schizzando alta sopra la mia testa. Atterrò sulla pietra dura, vacillando appena, a una decina di metri da me.
Battei le palpebre, non riuscivo a credere che quanto avevo appena visto potesse essere una persona, ma prima che potessi guardare meglio, quella cosa, qualunque cosa fosse, scomparve.
Colti di sorpresa almeno quanto me, gli uomini indietreggiarono di qualche passo, impauriti.
Quelli alle due estremità della linea si spostarono verso l’interno, finchè colui che credevo essere il capo non ristabilì l’ordine alzando una mano.
Tirò fuori dal soprabito un bastone d’argento, un’estremità affilata in una punta letale.
Con una torsione del polso lo allungò del doppio. Lo brandì in aria un paio di volte, quasi volesse ammirare il modo in cui brillava catturando la luce.
Le sue labbra si incresparono in un sorriso soddisfatto, poi rimase immobile, ancora una volta in attesa.
Il capo era alto, magro e piuttosto giovane, vent’anni al massimo; diversamente dai suoi uomini non aveva cicatrici sul viso.
I capelli corti erano chiari, in netto contrasto con la lunga giacca di pelle e la carnagione scura.
Il suo sorriso si allargò e gli occhi fiammeggiarono verso la figura che era atterrata a poca distanza da me.
Trattenni il respiro.
Ero sicura che si sarebbe accorto della mia presenza. Invece no, la sua attenzione ra tutta per l’uomo che emerse da dietro le fontane.
No, non era un uomo, ma un ragazzo, non molto più grande di me.
Aveva gli occhi infossati, la carnagione di un pallore cinereo, quasi traslucido, e la pelle tesa sulle guance scavate.
Anche lui era alto e da sotto la maglietta stretta riuscii a scorgere il profilo dei muscoli.
Le braccia erano bianchissime come il resto, ma coperte di macchie rosse, come se si fosse scottato al sole, e le labbra avevano un vivido color rosso sangue, lo stesso dei capelli arruffati, che gli stavano dritti sulla testa.
Il tempo di battere le palpebre, ed era sparito.
Setacciai la piazza con lo sguardo e vidi apparire altri simili a lui, tutti pallidi e con lo stesso sguardo tirato.
Circondarono il gruppo che occupava il centro della piazza, i volti segnati da un misto di divertimento e disprezzo.
Sembravano saltare fuori dal nulla, sfrecciavano da una parte all’altra con una velocità sovrumana per poi svanire e ricomparire un istante dopo.
Mi stropicciai gli occhi: probabilmente ero solo stanca e non riuscivo bene a mettere a fuoco.
Non potevano muoversi così velocemente.
Il ragazzo con i capelli rosso fiamma apparve di nuovo e si appoggiò alla fontana come se fosse il bancone di un bar.
Accanto a lui vidi un altro tizio con i capelli biondo-sabbia, mi sembrava lo stesso che aveva spiccato il salto dietro di me.
Erano cinque in tutto, e quasi involontariamente stavano radunando al centro della piazza, come se fosse un gregge, il gruppo di uomini con le lunghe giacche marroni.
I loro volti scuri erano trasfigurati da un’espressione di paura e odio; ruppero i ranghi, indietreggiando di qualche passo con i bastoni abbassati. Solo il capo rimase immobile, e il suo sorriso si trasformò in un ghigno.
Strinse il bastone al corpo e alzò la testa .
Improvvisamente vidi un uomo precipitare dalla colonna- dalla cima, ossia da oltre cinquanta metri. Cadeva sempre più veloce verso terra, verso una morte certa.
Invece lo osservai atterrare dolcemente sulle pietre della piazza, davanti al capo della banda. Ero senza parole.
Tutto era immobile, poi per la prima volta il capo dei trenta uomini ebbe una reazione.
-Kaspar Varn, che piacere rivederti.-  disse con un accento che non riuscii a riconoscere.
L’altro, Kaspar, si rizzò in piedi, l’espressione assente e imperscrutabile.  Era alto quanto il suo interlocutore, ma aveva un fisico più muscoloso e robusto, tanto da far sembrare l’altro uomo molto più basso.
-Il piacere è tutto mio, Claude.- rispose Kaspar in tono freddo, lanciando un’occhiata a destra e a sinistra e rivolgendo un cenno veloce del capo al ragazzo dai capelli color sabbia.
Osservai Kaspar con più attenzione. Come gli altri aveva una pelle bianchissima e con sfumature giallastre, ma perfettamente uniforme, senza alcun accenno di rossore. I capelli scuri, quasi neri, avevano riflessi castani; una ciocca gli ricadeva sulla fronte.
Se possibile, sembrava ancora più stanco degli altri, il viso ancora più ombroso, come se non dormisse da giorni.
“Forse perchè non dorme mai”, mormorò una voce dentro di me.
Non appena quel pensiero mi attraversò la mente, lui sembrò fissare un punto oltre il ragazzo dai capelli color sabbia.
Inarcò un sopracciglio e io tratteni il respiro: stava guardando me. Anche se mi aveva visto, però, preferì lasciar perdere. Si girò di nuovo verso il capo, ritrovando la stessa espressione impassibile di prima.
-Cosa vuoi, Claude? Non ho tempo da perdere con te, ne con il clan Pierre.- disse il tipo coi capelli scuri rivolto agli altri.
Claude sorrise e fece scivolare un dito sulla punta affilata del bastone. –Eppure sei qui.-
Kaspar liquidò il commento con un gesto della mano –Eravamo a caccia. Non è poi così lontano, dopotutto.-
Rabbrividii. A caccia di cosa? In città?
Claude emise un risolino sinistro. –Anche noi.-
In un lampo di lanciò sull’avversario, il bastone puntato contro il suo petto.
Ma mancò il bersaglio. Kaspar afferrò il bastone e lo gettò via, apparentemente senza sforzo, quasi senza battere ciglio.
Claude invece barcollò all’indietro come travolto da un tir. Il bastone cadde a terra con un suono metallico che rimbombò nel silenzio.
Claude incespicò e dopo aver recuperato in modo goffo l’equilibrio si raddrizzò. Guardò il bastone poi il ragazzo davanti a lui. Le sue labbra si incresparono di nuovo  in un sorriso. –Allora Kaspar, come sta tua madre?-
Come dal nulla, la mano di Kaspar guizzò in avanti, afferrando per la gola l’avversario. I suoi piedi si alzarono dal suolo e vidi con terrore che gli occhi gi schizzavano fuori dalle orbite, mentre il volto perdeva via via il colore.
Claude tossì e sputò, le gambe a mezz’aria. Si aggrappò ai polsi di Kaspar, ma lentamente la sua presa perdeva forza. Stava diventando paonazzo.
D’improvviso Kaspar lo lasciò andare. Claude crollò al suolo, annaspando in cerca d’aria e sfregandosi con energia il collo.
Tirai un sospiro si sollievo, ma per l’uomo a terra non fu lo stesso. Il suo piagnucolio divenne una supplica e sul suo viso sembrò dipingersi una specie di consapevolezza. Alzò lo sguardo sul volto furioso di Kaspar e strisciò indietro, agitandosi e aggrappandosi al lembo dell’impermeabile di uno dei compagni, che rimase immobile.
Il torace di Kaspar si alzava e si abbassava, un’espressione folle, carica di disgusto gli segnava il viso.
Abbassò il braccio, la mano ora era serrata in un pugno.
-Hai un ultimo desiderio, Claude Pierre?- ringhiò, trattenendo a fatica il tono di minaccia.
Il capo esplose in lunghi respiri tremanti –Che tu e il tuo maledetto regno bruciate all’inferno.- Le labbra di Kaspar disegnarono un ghigno. –Ti illudi.-
E con queste parole piombò sull’avversario, affondando la testa nel suo collo.
Si udì un suono orribile, come un “crac”.
La bile mi salì in gola e quasi soffocai, d’istinto mi portai le mani alla bocca.
Avevo paura. Insieme arrivarono le lacrime, ma sapevo che al minimo rumore sarei stata la prossima.
Il corpo senza vita di Clade ricadde sul pavimento della piazza. L’istinto di sopravvivenza ebbe la meglio: ero stata testimone di un omicidio, e avevo visto abbastanza telegiornali da sapere cosa accade ai testimoni.
Devo andarmene da qui. Devo dirlo a qualcuno.
Se ne uscirai viva, precisò la stessa voce petulante di prima.
Non volevo ammetterlo, ma era così: si erano spalancate le pprte dell’inferno.
I ragazzi dalla pelle candida si avventarono contro gli avversari e scoppiò una violenta rissa.
Se di rissa si può parlare: gli uomini non ebbero neanche il tempo di usare i bastoni per difendersi da quegli assassini.
Come agnelli al mattatoio, i loro corpi scuri crollavanno al suolo schizzando sangue dappertutto.
Un conato, provai a deglutire, ma la gola mi bruciava. Incapace di distogliere lo sguardo, osservai Kaspar afferrare gli uomini, uno dopo l’altro e tirarli a se.
Pensai che avesse un arma, ma non riuscivo a vedrne nessuna.
Affondò la bocca nella carne di uno, poco sopra il colletto, lacerandola.
Per un istante mi sembrò di scorgere un nervo contratto, poi l’uomo cadde a terra urlando.
Il suo assassino si piegò su un ginocchio e appoggiò le labbra alla ferita, quasi cullando la vittima fra le sue braccia.
Il sangue gocciolò nelle crepe del selciato, scorreva nelle fessure formando un reticolo e unendosi al sangue di un altro uomo, e poi si un altro, finchè il mio sguardo non abbracciò l’intera carneficina.
Gli uomini dalla carnagione scura erano morti o agonizzanti. Tutti. Avevano il collo spezzato o sanguinante. Alcuni erano affondati nelle fontane, macchiando l’acqua di un rosso cupo. Un uomo vicino a me, disteso sulla schiena, aveva la testa così piegata che l’orecchio gli toccava la spalla.
Sei adolescenti avevano appena massacrato trenta maschi adulti.
Poggiata alla panchina cominciai a piangere, rannicchiandomi il più possibile nell’ombra  e pregando che nessuno si fosse accorto di me.
-Kaspar, dobbiamo dare una pulita o andiamo via?- chiese il ragazzo più vicino alla fontana, immergendovi una mano. In confronto al rosso intenso dell’acqua, i suoi capelli fiammeggianti sembravano chiarissimi.
-Li lasceremo qui. Sarà un avvertimento per gli altri cacciatori che hanno intenzione di incrociare la nostra strada.- rispose Kaspar –Feccia.- Aggiunse, e sputò su un cadavere.
La sua voce aveva perso la freddezza di prima e ora aveva assunto un tono di profondo scherno, di soddisfazione. Lo vidi scalciare con noncuranza il braccio di uno dei moribondi che rispose con un ultimo lamento, e in me la rabbia prese il posto della paura.
-Bastardo.- Sussurrai.
Kaspar si immobilizzò e io pure.
Trattenni un respiro, lo stomaco contratto. Non può avermi sentito da quella distanza. E’ impossibile.
E invece si voltò lentamente, in tutta tranquillità, e mi fissò.
-Bene, che cosa abbiamo qui?- tuonò. Ridacchiava, le labbra increspate nel solito ghigno feroce.
Il mio istinto reagì più in fretta della coscienza e, ancora prima di rendermene conto, ero balzata in piedi e schizzata verso il lato opposto della piazza.
Avevo abbandonato le scarpe con il tacco e con i piedi nudi contro la pietra fredda, stavo letterakmente correndo per salvarmi la vita. La stazione di polizia non era troppo lontana. Avrei scommesso che conoscevo Londra meglio di loro.
-Dove pensi di andare, ragazzina?-
Finii a sbattere contro qualcosa di duro e freddo, così freddo che mi scostai all’istante. Di fronte a me c’era il ragazzo con i capelli neri.
Indietreggiai e lanciai un’occhiata nel punto in cui l’avevo visto l’istante prima. Non è possibile. Mi allontanai, agitando le mani in aria come se magicamente potesse comparire qualcuno a salvarmi. Lui rimase impassibile, come se una ragazza che va a sbattergli sul petto fosse la cosa più normale del mondo.
-D-da nessuna parte. Stavo solo...ecco..- balbettai. Il mio sguardo andava dai corpi, al ragazzo, alla strada: la mia unica via di fuga.
-Stavi andando a denunciarci?- chiese.
Sapeva già la risposta. Io spalancai gli occhi in un’espressione colpevole e lui si avvicinò tanto che potei vedere che i suoi erano di una vivida sfumatura smeraldo. La sua voce si ridusse a un sussurro: -Temo che non potrai farlo.-
Da  quella distanza non potei fare a meno di notare quanto fosse bello. Sentii uno strano rimescolio nello stomaco e indietreggiai ancora, disgustata.
-Cavolo, si che posso!- gridai, scansandolo e riprendendo la mia folle corsa.  Mi guardai alle spalle. Con mia grande sorpresa, nessuno mi stava seguendo. Presi coraggio e continuai a correre, una scintilla di speranza nel cuore.
Ero ormai a qualche metro dalla strada quando mi voltai di nuovo.
Questa volta sembrò che lui sospirasse, esasperato.
Non volevo rallentare, così tornai a guardare dritto avanti a me. Avevo ormai raggiunto l’estremità della piazza, poi mi sentii strattonare.
Una mano mi tratteneva per il bavero del cappotto. Vacillai e mi sforzai di recuperare l’equilibrio; iniziai a scalciare e a urlare, ma era inutile, Kaspar mi tratteneva senza difficoltà.
Mi girai, gli occhi in fiamme: sembravo molto più coraggiosa di quanto non fossi davvero. –Hai dieci secondi per lasciarmi andare, brutto mostro, poi ti do un calcio nelle palle così forte che ti pentirai di essere nato!-
Lui ridacchiò di nuovo. –Sei un osso duro, eh?-
Mentre rideva riuscii a scorgere i suoi canini. Erano bianchissimi e di una lunghezza innaturale.
Caccia, cacciatori.
Qualcosa nella mia testa mi disse che tutto questo non era normale. Nemmeno lontanamente normale. Ma subito la parte razionale di me liquidò la conclusione a cui ero arrivata.
Continuavo a divincolarmi, cercando di avvicinarmi abbastanza da colpirlo, ma la sua prese si fece più salda e mi tenne a distanza.
-Hai visto tutto.- Le sue parole mi raggelarono. Era un’affermazione, non una domanda, ma io risposi ugualmente.
-Secondo te?- replicai con quanto più sarcasmo riuscii a mettere nella voce.
-Secondo me tu verrai con noi.-  ringhiò Kaspar, prendendomi per il gomito e trascinandomi via.
Feci per urlare, ma lui fu più veloce e mi tappò la bocca con la mano. –Prova a gridare e giuro che ti ammazzo.-
E, tra calci e morsi, fui portata via, via dal raccapricciante bagno di sangue di cui quei pallidi mostri si erano macchiati. 



 
Piccola premessa prima di continuare con la storia.
  • Questa storia è tratta da un vero e proprio libro, privo di copyright, ma questa storia, postata qui, ne è fornita, quindi, è vietato copiarla.
  • I personaggi vengono descritti in una maniera diversa da come li avevo immaginati io. Qui posterò gif e foto dei personaggi che ho immaginato io, se non volete essere condizionati dalla mia immaginazione, non scendete mai sotto l'anticipazione del capitolo seguente o l'angolo autrice.
  • Ogni capitolo verrà pubblicato quando quello precendete avrà tre recensioni, il prossimo capitolo compreso.
​Spero che la storia vi piaccia, vi aspetto anche sulla mia pagina facebook-------> https://www.facebook.com/danger.mccliffordiv?ref=tn_tnmn



Kaspar: (Secondo la mia immaginazione, per niente vicino alla descrizione del libro) 


 
HPII.

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Capitolo 2
*** Capitolo due. ***


Violet.
 
Premessa: Il nome è stato cambiato da "Tempest" a "Violet" per comodità di copiatura. 
 
Ci allontanammo dalla piazza a una velocità incredibile. Kaspar mi teneva stretta per il polso trascinandomi nella sua scia.
Le unghie affondavano nella mia carne, sentivo la pelle spaccarsi e lacerarsi.
Sussultai- era come cadere e tagliarsi a rallentatore-, ma non dissi nulla. Non gli avrei mai dato questa soddisfazione. Passammo da un vicolo all’altro, Kaspar, sempre in testa al gruppo, ci guidava lungo strade di cui ignoravo l’esistenza.
Ormai sentivo echeggiare le sirene della polizia: le vie vicine erano inondate di luci lampeggianti blu.
-Maledetti sbirri.- Sbottò Kaspar. –Aspettate qui.-.
Mi spinse conto uno dei suoi. –Fabian, tieni d’occhio la ragazzina.-Per la seconda volta in quella sera andai a sbattere contro qualcosa di duro. Anche Fabian era freddo. Balzai indietro come se fossi stata punta e persi l’equilibrio. Stavo per cadere nella canaletta di scolo accanto al marciapiede, ma non toccai mai terra. Mi guardai il braccio, trattenuto a mezz’aria da una mano bianca quasi quanto la mia.
-Attenta.- disse una voce sommessa. Seguii quel braccio con lo sguardo e stupita trovai il viso sorridente del ragazzo che aveva spiccato il salto sopra la mia testa a Trafalgar Square.
I suoi occhi blu cielo avevano un’espressione quasi divertita.
Per un breve, grottesco momento osservai i suoi capelli e il torace muscoloso, appena visibile sotto il colletto sbottonato della camicia. Poi mi ripresi e ritrassi il braccio, terrorizzata dai miei stessi pensieri.
-Mi chiamo Fabian.- disse, tendendo la mano verso di me.
Mi ritrassi per pulirmi le mani e i polsi sul cappotto nei punti in cui mi aveva toccato con le dita sporche di sangue.
Fabian aggrottò le sopracciglia, la mano destra ancora sospesa in aria.
-Non ti faremo del male, tranquilla.-
Altri occhi ci squadravano, controllando che non riprendessi la mia fuga. Ma ormai avevo perso ogni speranza. Piuttosto, speravo che Kaspar stesse via abbstanza da dare il tempo a un’auto della polizia di vederci.
-Quello che è successo..- Fabian indicò in fondo alla strada –era necessario. Ouò non sembrare così, ma devi credermi, dovevamo farlo.-
Mi bloccai. –Necessario? Non è necessario, è sbagliato. E non trattarmi in questo modo, non sono una bambina.-
Le parole mi uscirono di bocca prima che mi venisse in mente una strategia per prendere tempo.
Smisi di pulirmi le mani e mi strinsi i polsi. Parevano tutti stupiti che avessi ritrovato la parola e vidi Fabian che lanciava occhiate alle mie spalle.
-Quanti anni hai, visto che sei così esperta di morale?- Piegò la testa di lato.
Restai in silenzio, indecisa su cosa rispondere, ma allo stesso tempo sollevata che avesse ignorato il resto del mio commento. –Allora?-
Mi morsi il labbro. –Diciassette.-
-Non pensavo che oggi le ragazze di diciassette anni si mettessero vestiti così corti.-
Una voce arrogante alle mie spalle mi fece trasalire.
Mi girai di scatto facendo ondeggiare i miei capelli neri e la frangia mi ricadde sugli occhi.  Kaspar era accanto ad un lampione con le mani in tasca e i pollici fuori.
Di nuovo quel ghigno grottesco. Mi squadrò da capo a piedi ed io mi strinsi nel cappotto cercando di coprirmi.
Il suo sorrisetto si fece più ampio. –Quel rossore non si intona per niente al viola dei tuoi occhi, ragazzina.-
Sobbalzai a quel commento sui miei occhi. Tra gli occhi di un colore strano, il nome e il fatto di essere un’inflessibile vegetariana, ero abituata a schivare le frecciate.
Aprii e chiusi la bocca diverse volte. Appena distolsi lo sguardo, il sorriso di Kaspar svanì.
-Andiamo!-
Gli altri erano già spariti, inghiottiti nell’oscurità di un vicolo. Fui scaraventata con violenza contro una fila di bidoni della spazzatura e mi guardai intorno, frastornata.
L’unica fonte di luce era una bettola poco lontana, stretta tra una scala antincendio e un grosso cassone dei riufiuti.
Cercai di riprendere fiato e ancora ansimante feci per rialzarmi, ma una mano mi tappò di nuovo la bocca mentre un’altra mi tirava su con forza, un po’ sollevandomi, un po’ trascinandomi lungo il vicolo, i piedi sudici dalla sporcizia della strada.
Appena voltammo l’angolo in fondo al vicolo le luci blu illuminarono il muro di mattoni. Un ubriacone buttato contro il cassone della spazzatura ci schivò lanciando imprecazioni che mi fecero arrossire.
Ma i suoi lamenti non riuscivano a coprire il suono sempre più forte delle sirene, ormai a poche strade di distanza.
-Devi correre più veloce.- mi disse Kaspar. Nella sua voce non c’era traccia di panico, ma lo riconobbi distintamente sul suo viso. E su quello dei suoi compagni.
Indietreggiai. –Sei fuori di testa? Dovrei correre più veloce solo perchè me lo dici tu? Sei un assassino!- Le parole mi uscivano dalle labbra senza nessun controllo. L’adrenalina era tornata, e stava scacciando la paura.
I suoi occhi brillarono di una luce pericolosa e per un momento pensai che avessero perso il loro bagliore color smeraldo.
-Non siamo assassini.- Anche se non aveva alzato la voce nè cambiato il tono, riuscì comunque a farmi rabbrividire.
Avevo la pelle d’oca.
-Allora cosa siete? E perchè avete ucciso quella gente?-
Nessuno rispose, la mia domanda rimase nell’aria mentre mi trascinavano ancora avanti. Cambiavamo spesso direzione, continuando a muoverci per i vicoli e ad allontanarci dal centro a mano a mano che la polizia, ormai vicinissima, presidiava le strade alle nostre spalle.
Londra si stava risvegliando.
Ogni finestr rifletteva il blu intenso dei lampeggianti mentre il cordone delle forze dell’ordine si allargava.
-Sbrigati.- Sibilò Kaspar, tirandomi per la manica.
-Non ce la faccio.- Gridai in risposta.
Non ce la facevo davvero, avevo una fitta alle costole e il respiro, sempre più corto, era diventato quasi un rantolo.
-Peggio per te.- Ribattè lui con freddezza.
-Non rie..non riesco a respirare.- mormorai, cercando ossigeno. Mi scese qualche lacrima, ma l’asciugai in fretta.
-Finirò per svenire, morirò.-
-Oh, che gran perdita sarebbe.- borbottò Kaspar alzando gli occhi al cielo.
-Io non c’entro niente!- Barcollavo, sentivo le ginocchia cedere. Mi chiesi perchè avesse deciso  di tenermi in vita se la mia morte non lo preoccupava minimamente.
-No, ma adesso di sei dentro anche tu, ragazzina.- urlò lui. –Non hai scelta. Quindi. Ora corri.-
Non mi mossi e continuai a massaggiarmi il petto. –Non mi chiamo “ragazzina”! Il mio nome è Violet!-
In un istante, rapido come un proiettile, Kaspar fu a pochi centimentri da me.
Mi sbattè contro ad un muro, le mani strette attorno al mio collo. E teneva un dito premuto sulla mia giugulare.
-E io sono il principe, cazzo!- mi ringhiò addosso.
Cercai di divincolarmi, ma la sua presa si fece più forte. Chiusi gli occhi, non volevo vedere la sua faccia così vicino alla mia.  Puzzava di sangue.
Un’immagine mi attraversò la mente: il corpo tumefatto e senza vita di Claude Pierre, riverso sui lastroni di pietra della piazza.
-Ci metto meno a spezzare questo bel collo che tu a strillare.- mi sussurrò all’orecchio.
-Quindi ti suggerisco di fare quello che ti dico. Non riuscirai a correre più veloce di noi e la polizia non può fermarci.-
Non sapevo cosa intendesse con “io sono il principe”, ma per il resto gli credetti sulla parola. La sincerità nella sua voce era pari alla malvagità. Chinai il capo, sconfitta.
-Così va meglio.- Mormorò lui. Mi afferrò la mano e tirò.
Mentre rincominciavo a correre scorsi un uomo scattare in fondo alla strada.
Il suo completo di un baige scialbo stonava decisamente in quelle stradine strette piene di locali sordidi e di quart’ordine.
L’uomo rallentò e si fermò, ora guardava dritto verso di noi, le braccia alzate sopra la testa come in gesto di resa.
Presi una boccata di ossigeno: lo conoscevo, lavorava con mio padre. O, meglio, lavorava per mio padre.
Esitò, poi fece qualche timido passo avanti, gli occhi fissi su di me.
Per un istante incrociai il suo sguardo, ma lui subito lo distolse e indietreggiò di nuovo. Indicò un punto alle sue spalle nel momento stesso in cui la polizia compariva da dietro l’angolo. Kaspar si girò e gli agenti rallentarono per poi fermarsi, osservandoci terrorizzati. Kaspar fece scorrere lo sguardo sui poliziotti, quasi sfidandoli. Respirò a fondo e raddrizzò le spalle, tirandomi contro di se.
Provai a divincolarmi e a gridare aiuto, ma lui mi torse il braccio dietro alla schiena.
Fu come se mi avessero conficcato una spada nel fianco e gemetti. Kaspar indietreggiò di qualche passo e tenendomi un braccio intorno alla vita mi trascinò con sè.
Si accostò al mio orecchio e ringhiò: - Vai troppo piano.-
Senza aggiungere altro mi sollevò di peso e mi caricò sulle spalle. Mi ribellai e presi a colpirlo con pugni sulla schiena ma lui non sembrava nemmeno accorgersene.
Poi tutto divenne confuso. Gli edifici mi sfrecciavano velocemente accanto e, quando alzai lo sguardo, non c’era più nessuno intorno a noi. A dire il vero, non eravamo più nemmeno nella stessa strada. Il mio cuore mancò un battito: Kaspar aveva ragione, non ci avevano inseguito. Perchè non hanno provato a fermarci?
In pochi minuti ci eravamo lasciati tutto alle spalle. Non volevo sapere a quale velocità stessimo andando; sapevo solo che mi girava la testa.
Chiusi gli occhi per fermare le vertigini e tenere il respiro sotto controllo, ma qualche istante dopo sentii che toccavo terra e ricaddi come un sacco ai piedi di Kaspar, accanto  due auto di lusso.
Battei le palpebre un paio di volte convinta di vederci doppio. Le due macchine erano identiche, dalla carrozzeria nera e lucida ai finestrini oscurati, persino i numeri di targa erano simili, salvo per una lettera.
Chi diavolo è questa gente? Belli e pieni di soldi. Peccato che siano assassini, un punto debole.
Deglutii e questi pensieri si dissolsero. Conoscevo Londra abbastanza bene da saper cogliere i segni caratteristici del crimine organizzato.
Eppure la polizia non ci ha fermato.
Il suono delle sirene in lontananza ruppe la quiete di quella via laterale. Qualcuno dietro di me mi sollevò e mi spinse sul sedile posteriore dell’auto più vicina; sbattè la portiera e fece il giro della vettura per sedersi dall’altra parte.
Era il ragazzo con gli stessi occhi smeraldo di Kaspar.
Quest’ultimo di mise alla guida e Fabian prese posto accanto a lui.
-Mettiti la cintura.- Mi ordinò il tizio vicino a me.
Lo ignorai, rigida come una tavola di legno, le braccia incrociate al petto. Gli sfuggì un sospiro esasperato, quindi si sporse e mi allacciò la cintura.
-Mostro.- mormorai. Il ragazzo ridacchiò.
-Mi chiamo Cain, non “mostro”. Sono suo fratello minore.- Mi rivelò, indicando Kaspar. Ecco spiegata la loro inquietante somiglianza. –Come hai detto che ti chiami?-
-Violet, Violet Lee.- balbettai.
Poi cadde il silenzio. Fuori dal finestrino vidi passare altre auto della polizia. Un agente guardò nella nostra direzione e mi si strinse lo stomaco per la speranza. I suoi occhi si agganciarono ai miei per un breve istante, poi lui distolse lo sguardo, come se non si fosse accorto di me.
La città era ormai alle nostre spalle, il centro lontano. Una volta sulla strada principale, l’auto prese velocità.
Controllai il tachimetro; segnava i centosessanta.
Sentii un fremito nella pancia, ma questa volta non era affatto gradito.
La testa pulsava, e avevo anocra dolorose fitte al fianco.
Premetti le mani sulle costole e provai un po’ di sollievo, ma non molto.
Mi raggomitolai sul sedile, stringendomi le ginocchia al petto e appoggiai la testa sul finestrino fresco.
Le palpebre cedevano e tutto il mio corpo implorava riposo, ma io non volevo nemmeno pensare a cosa sarebbe successo se mi fossi concessa un po’ di sonno.
Cercai di trattenere le lacrime e provai ad analizzare la situazione con il maggior distacco possibile. Ero appena stata testimone del massacro di trenta uomini nel centro di Londra. Ero stata rapita da sei ragazzi, forti e velocissimi, che sembravano non  avere intenzione di uccidermi. Almeno non subito. Non avevo idea di dove diavolo mi stessero portando, di chi diavolo fossero o di cosa sarebbe successo, nè di quanto ci avrebbero messo i miei ad accorgersi della mia scomparsa.
Cominciai a valutare l’idea di saltare giù dalla macchina in corsa, ma nel momento stesso in cui formulai il pensiero sentii un clic e lo scatto della chiusura centralizzata.
Dalle labbra mi sfuggì un gemito disperato.
Eravamo sulla M25, ora deserta; la città che amavo era ormai lontana dietro di noi. Il paesaggio intornò cambio gradualmente; piano piano la metropoli lasciò il posto alla periferia e poi all’aperta campagna, punteggiata qua e la di paesini e villaggi.
Superammo il cartello che indicava l’inizio del Kent, e cominciai a chiedermi se fossimo diretti al porto di Dover per raggiungere la Francia.
Nel mio cuore si accese un barlume di speranza. Non ce la faranno mai a lasciare l’Inghilterra. Poi anche quella speranza svanì non appena l’auto puntò non a sud, ma verso nord, in direzione Rochester.
Mi sfuggì un altro gemito e vidi Kaspar lanciarmi un’occhiata dallo specchietto retrovisore. Suo fratello Cain mi mise una mano sulla spalla e io lo fissai, gli occhi spalancati. Non sembrava affatto un assassino, era solo un ragazzo.
Mi sorrise e nella mente sentii le grida di un uomo.
Mi liberai dalla sua mano e mi raggomitolai ancora di più nel sedile, i capelli davanti al viso per proteggermi dai loro sguardi.
Tornai ad appoggiare la fronte sul finestrino e le lacrime iniziarno a scendere incontrollate, scivolando sul vetro e rigando l’alone del mio respiro sulla superificie trasparente.
Mi strinsi nelle spalle e provai a cercare risposte dentro di me.
Sapevo cosa mi ero lasciata alle spalle. La domanda era un’altra adesso: a cosa stavo andando incontro? 

 
Angolo autrice: (Sotto questo troverete le gif dei personaggi).
Ho continuato la storia nonostante mancasse una recensione, aggiornerò a tre recensioni. 


Kaspar: 



Cain: 


Fabian: 


HPII.

 

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