Suicide girl-Seconda vita di Ethelweiss (/viewuser.php?uid=49136)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il salotto delle offerte ***
Capitolo 2: *** Belle anime suicide ***
Capitolo 3: *** L'acqua, il Nulla, Greensleeves ***
Capitolo 4: *** Dubbio. Le bambole si separano. ***
Capitolo 5: *** "Cosa sta facendo?" "Lavo i panni." ***
Capitolo 1 *** Il salotto delle offerte ***
NOTA IMPORTANTE!!!
All'inizio i flashback sembrano disconnessi e senza logiche connessione, ma abbiate fiducia nella trama, e tutto vi sarà rivelato U_U
Ore
Polvere. Freddo. Sospiri di cori religiosi
aleggiavano nell’aria. Stantii riflessi di passate bevute ornavano il tavolo
sul quale ero distesa. Cupi portoni vigilavano severi e incorruttibili la sala.
Sala il cui fulcro era costituito dall’involontaria offerta sacrificale posta
sull’altare. Mi rannicchiai sulle ginocchia. Ero sola. Ero sola, basandomi sui
miei sensi. Ma intorno a me sarebbe anche potuta accorrere un’orda di barbari
in vena di festini, ed io sarei rimasta egualmente impassibile. Il mio volto
era caldo e umido. Sale e ferro. Lacrime e sangue. Tastandomi lentamente,
scoprii che il mio naso si snodava in un’innaturale gobba proprio a metà. Se
non fosse stato per il dolore acuto che provai nello sfiorarlo, avrei creduto
che si trattasse della mia naturale fisionomia. Non ero a conoscenza del gentil
artefice.
Dopotutto, non ero a conoscenza nemmeno del mio volto.
Non ero vittima di un’amnesia feroce. Ricordavo il
volto della donna che fino ad allora mi aveva covata e soffocata, ricordavo il
ragazzo che mi aveva tratta via dal fiume quando ero appena un’infante,
ricordavo la luce, i suoni, i colori, e tutto ciò che la mia vita era stata
fino alla settimana precedente.
Ci si può scordare delle persone, dei fatti e persino
della mamma, ma scordarsi del corpo che si abita, è prima di tutto
un’ingratitudine.
Corpo che peraltro ci aveva servito devotamente,
adempiendo alla sua funzione e obbedendo cecamente ad ogni nostro pigro
comando.
E poi, dopo anni di amicizia e amore, svegliarsi un
mattino e scordarsi di lui.
Fissare attoniti le proprie mani sconosciute, tastare
ogni curva e bozzo con meraviglia esplorativa, volgere lo sguardo sullo
specchio e perdere conoscenza.
In quel momento mi sentii minuscola, ridotta alle
dimensioni di un granello. Mi accorsi dell’orrenda verità fissando le ginocchia
spellate adagiate sotto il mio mento. Le mie gambe erano immensamente piccole. Gracili,
esili, e soprattutto corte, sbatacchiavano simili a cosce di rana. Ne afferrai una e la portai oltre la mia
testa, dove si inseriva perfettamente e senza sforzo. Feci la stessa cosa con
l’altra. Sorrisi, ebete e muta. La gioia provata mi bloccò la gola per un
attimo di intensa letizia. Attaccai a dondolare così forte che l’impeto mi
spinse oltre il tavolo, e solo la botta mi riportò in me e mi invitò a
considerare seriamente la faccenda.
La sala era ampia, larga quanto alta, con enormi
tende che occultavano qualsiasi panorama. Ogni panneggio era decorato con un motivo
di grappoli d’oro e viticci, intramezzato da punture color ruggine cucite nel
tessuto. Un leggero vento muoveva quelle cascate di stoffa, che a occhio nudo
parevano pesare quanto un uomo adulto. Dietro, si intravedevano archi a volta,
di pietra grezza e intagliata grossolanamente, grevi e opprimenti pari alle
tende. L’enorme pianura di granito che costituiva il pavimento era ammobiliata
riccamente. Un tappeto immenso ricopriva l’area, e ovunque sparsi nella stanza
secondo una logica sconosciuta, crescevano divani e tavolini di ottima fattura.
La curiosità vinse l’orrore che provavo da sempre per
i piccoli insetti annidati tra gli anfratti, e mi diressi zoppicando verso una
delle maestose custodi di drappo. Due cordoncini di lunghezza notevole
giacevano ai piedi della finestra. Alzando la testa scoprii che erano stati
recisi quasi alla base. Il taglio era netto, sicuramente provocato da un paio
di forbici. Nessun uomo sano si sarebbe arrampicato fin lassù, a circa sei o
sette metri d’altezza, solamente per amputarne le corde di apertura. Non mi
preoccupò eccessivamente. Per quanto il tendaggio fosse pesante, avrei potuto
scostarlo con facilità. Lo avrei fatto, se in quel preciso istante un fruscio
non risvegliò il mio udito sopito.
La tenda sostava incorruttibile –si è mossa si è mossa oddio
sièmossal’hovistasièmossacomepotrebbe-. l’idea che comunicava era dinfinita
e pacata staticità, come se nessuno da secoli l’avesse sfiorata. Stranamente,
non emanava un cattivo odore, il profumo che si sprigionava da essa proveniva
da fuori. Un’aria leggera, guizzante, striata di note di umani umori. Tenendo il
braccio, mi ritrovai ad osservare la mia mano.
Un bambino ne avrebbe potuto vantare le stesse
dimensioni. Era paffuta, tozza, le unghie annegavano nel mare di carne che
erano le mie dita.
E mi accorsi con orrore di un’altra cosa. Il mio dito
mignolo era scomparso.
Scomparso non era forse una parola giusta. La parola
scomparsa implica pulizia e silenzio, muta sparizione senza disordini. Il mio dito
era tutt’altro che scomparso. Era stato scarnificato.
Dal mozzicone rimarginato cresceva un frammento di osso perlaceo, che si
spezzava brutalmente a metà. Mi accarezzai il viso. Fu come se la mano della
nonna tornasse dal freddo Ade per portarmi via con sé.
La nonna. La nonna Ava. La nonna bianca. La nonna
buona. La nonna ricca. La nonna che improvvisamente un giorno morì. La nonna
che si permise di morire mentre in casa non c’era nessuno. Mentre in casa c’era
la sua nipotina di sei anni. Sei anni. Sei primavere.
La nonna soffrì. La nonna soffrì molto. Il suo corpo
scheletrico e ansante si contorse per quarantotto ore prima di spirare.
Sudore dappertutto.
-Flora, Flora, Flora, fiorellino di primavera, vieni
dalla nonna.- sorriso di un teschio. Il letto era una pozza di sudore. I capelli
della nonna si aprivano sul cuscino, metà biondi, metà bianchi, metà verdi,
striati dal vomito. Una grottesca parodia di un pagliaccio.
Ogni centimetro della sua pelle era teso e guizzante,
come se stesse per staccarsi e arrotolarsi su sé stessa come pergamena. I denti,
bianchi e accecanti mi ammiccavano, famelici. In quel momento, ricordo che
cominciai a recitare la favola di Cappuccetto Rosso.
-Che denti grandi che hai, nonna.- mormorai. Lei
rise, folle e cadaverica, e la sua bocca si aprì ancora, come se non aspettasse
altro che inghiottirmi come il lupo cattivo. Fu a quel punto che cominciò a
scuoiarsi. Letteralmente. Sembrava che durante quegli anni avesse conservato
tutta la forza per liberarla in quell’istante.
Si portò le unghie al volto. Le dita cominciarono a
grattare, ciecamente e in modo forsennato, una talpa impazzita. Ben presto
rivoli di sangue scivolarono sul cuscino e sul mio grembiule. Con i denti
agguantò il dito indice. Lo gustò per un
attimo, tronfia come un vecchio rospo, e infine ne raspò via la poca carne
aggrappata all’osso.
Me lo offrì, generosamente.
-Lecca lecca lecca per Flora che brava bambina gnam
gnam gnam!!-
Lo morsi. Non sapevo che altro fare. Non lo sapevo. Non
volevo, non potevo e non dovevo. Ma lo assaggiai. Alla nonna piacque. Me lo cacciò
ancora più a fondo in gola, ululando di piacere. Vomitò ancora.
L’anima
abbandonò il suo corpo.
La salute mentale abbandonò il mio.
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Capitolo 2 *** Belle anime suicide ***
Suicide girl
Insicura sul mio precario stato di solitudine, decisi
per il peggio, e osai attraversare l’arco di pietra che sostava impassibile sul
fondo della sala.
L’oscurità mi avvolse quasi istantaneamente.
Rimasi assai sorpresa dall’odore che aleggiava nell’aria.
Perché in realtà, nessun aroma riempiva l’atmosfera. Da un soffitto così alto e
da mura così antiche si sarebbe dovuto sprigionare un odore di secoli, di vite
passate, di bevute, risate, pianti e cibo.
Inspirai di nuovo. Aria. Non avrei potuto
classificare quell’essenza diversamente.
Cominciai a singhiozzare convulsamente. Il mio petto
da uccellino si alzava e si abbassava freneticamente, impazzito. Mi sentii
piccola, insignificante, incapace di prendermi cura di me stessa. Una sottana. Una
sottana a cui aggrapparmi. Braccia calde che mi elevano al proprio livello. Baci.
Carezze.
Potei quasi percepire una mano velata posarsi materna
sulle mie spalle. Non era così, ovviamente. Eppure, un respiro caldo stava
effettivamente scaldando il mio collo.
Due piccole braccia si avvinghiarono ai miei fianchi,
stringendomi disperatamente, come ultimo baluardo della propria salvezza. Sentii
un rivolo umido di saliva bagnarmi dentro il colletto.
Mi pietrificai.
-Non lasciarmi, per favore. Non lasciarmi, non
lasciarmi. Uccidimi se vuoi ma non lasciarmi. – mormorò una bocca piccola e
carnosa contro il mio collo.
Lentamente, mi decisi a voltarmi e a fissare negli
occhi quello che poteva rivelarsi il fautore del mio destino.
Ma a specchiarsi nei miei fu solo il riflesso spaurito
di una bambina.
Non la si poteva certo definire graziosa. Gli occhi
azzurri e sporgenti simili a quelli di una rana impazzita sotto il sole
rendevano il suo volto pallido e spettrale.
Flosci capelli le scendevano fino alle caviglie,
sporchi e arruffati. Il volto era chiazzato di rosso e marrone, e il labbro
tremante era spaccato in due.
-No, no, no, no, no, no, no, no, no, adesso cosa vuoi
farmi? Perché mi vuoi fare del male? – era ormai ridotta alla disperazione più
totale, e si accasciò a terra mugolando e reggendosi la testa ciondolante.
-Io non ti voglio fare del male, guarda…- mostrai il
mio volto alla luce, ma subito dopo mi accorsi di aver commesso un grande
errore. Non conoscendo le fattezze dei miei tratti, sarei potuta essere il più
orribile dei mostri, terrorizzando a morte la bambina.
Eppure, smise di contorcersi. E mi fissò, con quei
terribili occhi.
-Bambine! Piccole! Venite, venite!- urlò a figure
alle sue spalle che solo in quel momento si avvicinarono furtive. Quattro piccole
testoline la aiutarono a rialzarsi, mute e guardinghe. Dopodiché, si disposero
in un fila perfetta, e la bambina centrale fece cenno verso di me.
-Vieni, andiamo nella piccola stanza.- ordinò. Sì. Non
chiese, non domandò. Semplicemente, imperativamente, mi ordinò di seguirla. E in
mancanza di scuse, in mancanza di qualsiasi altro appoggio, la seguii.
La piccola stanza era in realtà ciò che rimaneva di
una lavanderia, piena di mastelli in pietra e legno, con spazzole di varia
grandezza appese alle pareti. Notai immediatamente che tutto lo sfarzo e la
disincantata bellezza della sala precedente aveva ceduto il passo ad un
ambiente modesto, servile, nel quale aleggiava povertà e sottomissione. Il brusco
cambiamento di armonia mi turbò molto, seppure non visibilmente.
Intanto, le piccole cinque si erano adagiate ognuna
dentro il proprio mastello, che fungeva da fortino individuale. Quella che mi
aveva ordinato di seguirla si alzò dal suo, nell’inconfondibile imitazione di
un capo di stato che si appresta a fare un discorso alle folle.
Notai che anch’essa non brillava per gradevolezza dei
tratti: sul collo tozzo era appoggiata una testa squadrata, adorna di due occhi
piccoli e lucenti incorniciati da capelli corti e castani. Mi indicò di nuovo.
-Chi sei?-
-Io…. Non credo di ricordare bene… mi sono svegliata
qui e…-
-Chi sei? Parla. Chi ti manda? Cosa vuoi farci?- il
tonò diventò severo e innaturale per un corpo così infantile e minuscolo.
-…Mi sono risvegliata su un altare di pietra e poi…-
Lei mi fissò. Lanciò una breve occhiata alle altre.
Sospirò.
-…un altare di pietra.. Poi hai scoperto di essere
una bambina. E poi, tristemente, di non ricordare più il tuo aspetto. –
concluse.
-Si.- ammisi, stringendomi nelle mie spalle
ristrette.
-Come ti chiami?- il suo tono si addolcì, materno.
-Flora.-
-e…- azzardò –quanti anni hai, Flora?-
-Ventisette. Ne ho diciannove. – chinai il capo quasi
fino a terra.
Le bambine si lanciarono altre brevi occhiate. La
bruna parlò di nuovo.
-Mi chiamo Caterina. Ho quarantasei anni. – affermò.
Sembravamo fantasiose bambine lì radunate, che
giocavano ad infantili drammi di simulazione, infilandosi le collane delle
madri e bevendo finto vino da brocche rubate alla cuoca. Eppure ciò suonava
crudamente vero.
La piccolina terrificante che si era aggrappata a me
si alzò dal suo mastello, e si presentò, ancora palpitante.
-Io mi chiamo Maria. Ho compiuto diciotto anni lo
scorso Aprile.- si guardò intorno, spaurita, magari aspettandosi che le altre
le dassero contro “no no no” “bugiarda”.
-Io sono Costanza. Sto per compiere trentadue anni. –
affermò una vivace biondina tutta boccoli e fossette.
-Il mio nome è Vera, e ho cinquantanove anni-
chiocciò una nanerottola dal viso paffuto e dall’ardito taglio alla paggetta.
-E io sono Carolina…
Notai con rinnovato interesse che quella che stavamo
formando, sia dalla loro disposizione che dai loro modi, somigliava già
vagamente ad una democrazia.
Era dunque questo l’istinto umano? Razionalizzare,
disporre, ordinare per non impazzire? Delle bambine di età non superiore ai
nove anni che formavano già un comitato gerarchico del potere?
-…. E ho trentasei anni. – la piccola lady –dai modi
si capiva istantaneamente il suo rango, composta, educata e in qualche modo
posata e tranquilla nel caos- si risedette con garbo e con le altre aspettò un
mia reazione.
-Perché?- chiesi.
Caterina continuava a fissarmi. –oh, cara.- posso
chiamarti cara, vero, sei molto più giovane di me stando a ciò che affermi-
vedi, io non parto da presupposizioni azzardate, solitamente. Ma devi sapere
che nella mia mente annebbiata spicca un altro audace ricordo, correggimi se
non è anche il tuo. Vedi, piccola, io ERO MORTA.-
Le altre bambine annuirono. Di nuovo, un tuffo nell’imminente
passato.
-Che
buio, Flora. Che buio meraviglioso. – un sorriso di un angelo biondo, tutto per
me.
-Sono
così felice, Flora, sono così felice. Sono così felice che beh… si… muoio…- un
altro angelo biondo, sempre per me. Mi stringe la mano. Mi dice che mi ama.
-Anche
io ti amo Flora.- un’altra mano afferra la mia vuota.
-E
io amo te, Nerea. E amo anche te, Numa.- un bacio. Un altro bacio. La ragazza
mi abbraccia. Il ragazzo ci stringe entrambe.
-Amo
anche te, Nerea. – il ragazzo la bacia. –Ti amo, Numa.- lei lo afferra per la
vita.
Ci
sfioriamo tutti e tre per l’ultima volta. La mia bocca si chiude prima su
quella di Numa, poi su quella di Nerea. Siamo di nuovo per mano. Saremo sempre
per mano. Non diciamo niente prima di saltare nel buio. Solo, le nostre teste
si appoggiano. Chiudiamo gli occhi. Spicchiamo il volo.
-…. Nella vasca. L’acqua penetrava ovunque. Nei miei
occhi, nelle mie orecchie, nel mio cervello…. Fino a che… non fui acqua anche
io…. E poi, io non ricordo nulla, solo un grande vuoto…. – Caterina scuote la
testa, amareggiata.
-Tutte noi abbiamo qualcosa in comune riguardo la
nostra morte.- precisò Carolina. –Siamo tutte morte suicide. Io mi sono tagliata le vene nel labirinto d’erba.- non un’ombra
attraversa i suoi occhi chiarificatori. –Morte suicida e violenta, per giunta.-
-Maria è morta impiccata. Costanza si è lasciata
travolgere da un treno in corsa. Vera si è amputata la lingua ed è morta
soffocata – continuò Caterina. Vera sospirò, timida e colpevole.
-è successo anche a te, Flora? Sei morta suicida?-
chiese educatamente Costanza.
Per un po’ non riuscii a parlare. Ero così felice di
volare verso la fine con le due persone che amavo. Ero così sicura di me per la
prima volta in vita mia. Ero certa che di lì a poco mi sarei risvegliata al
loro fianco, per sempre insieme e felici, così illusi e incantati dalla nostra
risolutezza ciechi e inconsapevoli che il nostro piano non avrebbe avuto buon
fine. Forse l’aveva avuto, forse Nerea e Numa giacevano assieme in eterno, ma
io no. Perché? Perché nemmeno nella morte avevo ottenuto ciò che più volevo? La
rabbia e la frustrazione mi assalì.
Piangevo ormai. Piangevo senza ritegno, mi
contorcevo, strillavo, lacerata da un dolore più grande di me, cominciai a
graffiarmi come la nonna, e forse mi sarei anche amputata tutte le dita se
Costanza e Vera non mi avessero bruscamente afferrata e immobilizzata.
-VOGLIO MORIREEEE u…uccidimi uh.. uccidimi strappa la
mia a..ah…animaaah da q..quiiii nn..noooon voglio vivere non provo niente, non
sento più nulla o..ddiohhh AAAAAAAAAH ti p…preeg…oohhhh… s…sono m..mooorta…. è
l’inferno q…questo?- mi chiesi –è L’INFERNO? DOVE SONO Numa e Nereahh perché io
e basta!!?- mi dibattei con più furia che mai, ma erano due ed io ero troppo
piccola e gracile. Cedei.
Maria mi porse un po’ d’acqua in una ciotola, e mi
spruzzò il viso. Continuai a singhiozzare, muta. Espirai dopo un secolo. Loro erano
rimaste in silenzio, complici nel dolore. Tutte noi avevamo creduto di trovare
una risposta, una salvezza. Tutte noi avevamo trovato il caos, l’assurdo.
-Mi sono gettata da un ponte. Mi sono gettata da un
ponte con le due persone di cui ero innamorata. Di cui sono innamorata.- mi
corressi. –Credevo che avremmo trovato la pace e che ci saremmo appartenuti per
sempre. Ma.. ma… non… non li vedo qui.. e comincio a credere.. che non li
rivedrò mai più- crollai di nuovo in ginocchio, e Carolina mi abbracciò
fortissimo, disperatamente.
-Lo so piccola. Lo so che fa tanto male. Lo so
credimi, lo so, perché io non sono morta insieme alla mia metà. La mia anima è
morta insieme ad essa, ma il mio corpo ha sopravvissuto per dodici anni. Mi sono
detta, vivi, vivi per i tuoi figli, ma poi, le acque si sono portate via anche
loro. – sempre lo stesso sguardo posato, ma stavolta fisso, vitreo, folle nella
sua calma. –e la mia sorellina è annegata nel tentativo di salvarli, salvarli
per me.-
Caterina, provata, si gettò su noi due. Così fece
anche Maria, Costanza e Vera. Ci unimmo in un unico abbraccio sussultante. Un
unico piccolo corpo come il nostro non avrebbe sopportato da solo tutto quella sofferenza.
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Capitolo 3 *** L'acqua, il Nulla, Greensleeves ***
Acqua
Mi lasciarono andare. Avevo caldo. Molto caldo. Ero calda
e palpitante. La mia gola era in fiamme. Più che in fiamme. Il mio stomaco si
contorceva incessantemente.
Mi alzai e mi diressi di corsa verso il vecchio
lavatoio. Vomitai l’anima, a scatti violenti e laceranti. Una di loro corse
verso di me e mi sollevò con forza i capelli. Continuai a gettare conati
bollenti nel lavello per qualche minuto, finché nuove lacrime salirono ai miei
occhi ed il naso cominciò a gocciolare copiosamente.
Uno strozzato gemito mi avvertì della fine. Rimasi a
testa in giù ancora per un attimo, fissando ciò che fino ad ora aveva vagato
nelle mie piccole interiora.
Acqua.
Acqua.
C’era l’acqua.
La
corrente ci separa, ultimo ostacolo da superare, ultima prova da affrontare per
ricevere il premio finale. Non sento urla. Siamo tranquilli. Sono tranquilla. L’acqua
era deliziosamente gelida.
Mi
trascinò per un po’, poi cacciai la testa sotto. Tutto di me era acqua. Io ero
acqua. Io ero corrente. Io ero risacca, ero onda. Fino a quando persi il
respiro, la determinazione non mi abbandonò. Ma poi, eccolo, inevitabile. L’istinto
di sopravvivenza fatica ad abbandonarci.
-Voglio
vivere.-
-No,
non lo vuoi, non puoi più.-
-io
voglio vivere. Voglio respirare. Voglio amare. L’aldilà non esiste. Vivere
ora.-
-No,
zitta, la vita è tormento e dannazione. Là, è meglio di qua. –
-Ma
io…-
Cercare
di raggiungere la luce, la luce, la luce, la luce buona, la luce vitale, non
gli abissi oscuri… il tempo è scaduto, la carezza vitale mi abbandona… ho
davvero amato e vissuto… ed ho scelto il dubbio…. Ho scelto… il mio castigo….
Acqua. Acqua. Avevo vomitato la morte. Se davvero
avevo sconfitto la morte, cosa ero? Stavo vivendo una pallida imitazione della
vita, o davvero ero scesa nell’ade, buttando la posta in gioco? Acqua. Acqua.
-Va meglio?- mi chiese la piccola.
-Mmm.. mm..-
passai la manica logora sulla bocca.
-è normale, dopo tutto questo… ci sentiamo tutte un po’…-
-Un po’, Cat? Un po’? Io vorrei uccidermi di nuovo,
qui, ADESSO, vorrei essere in pace, vorrei il nero ed il buio, ma, che cazzo,
non posso riposare!!! Perché DIO MI VUOLE QUI?- ululò la biondina.
-Dio non esiste, idiota- sussurrò Carolina. –Dio non
esiste. Noi siamo sole. Noi siamo sole. Nessuno ci aiuterà mai. Questa è la
morte. Questo è l’inferno. Tutto ciò è fine. Siamo scese qua per vivere un’eternità
di dolore, dietro ogni porta c’è dolore, c’è l’infinità di sofferenza. Dio è
solo qui- le afferrò la testolina-tu odi il tuo dio per non averti presa con sé.
Tu odi te stessa per non avere trovato la forza di continuare. Ma, vedi, mia
piccola amica, il tuo dio non esiste. Il tuo dio è sempre stato solo una figura
obbediente alle tue risorse, ed ora che ha mancato la sua ultima promessa, il
tuo odio ti sta trascinando qui. Con noi. Sei morta, amore mio, ti sei uccisa,
e questo è ciò che hai trovato sotto la botola in cantina. - scaraventò il corpicino a terra, dura e
bellissima. Carol era morta dentro prima di esserlo fuori.
Maria riprese a piagnucolare, devastata e vuota.
-Sei perfida. Sei peggiore di quanto immaginassi. –
la accusò Vera, in un tono di rimprovero da vecchia signora.
-Oh, davvero? E cosa pensi di fare, lurida vecchia,
uccidermi forse? IO SONO MORTA! Tu sei morta! Perciò riponi quello sguardo con
me, anima in pena, perché questo è soltanto l’assaggio di ciò che stiamo per
patire!- ghignò Carol, deliziosamente folle.
-Cosa te lo fa pensare? – chiese Costanza, che finora
era rimasta muta ad osservare.
-Come?-
-Cosa ti fa pensare che stiamo per soffrire?- ripetè
timidamente.
Carol sorrise di nuovo, sicura e ferma.
-Bambolina, bella bambolina, non dirmi che non hai
sentito chi sussurra dietro le tende quando hai aperto quei bei occhietti
azzurri e hai scoperto che, oh oh, non eri tra le nuvole con ali e aureola a
suonare la tua arpa, ma eri finita in un blutto,
blutto sogno cattivo!!!-
Tutte noi ci guardammo. Vidi il panico serpeggiare di
volto in volto, i piccoli occhi spalancarsi per l’orrore, e un comune senso di
rinnovata paura.
-Volete dire che…-
-Sentite anche voi…-
-Quello che…-
-Le finestre! Le finestre! Non sono riuscita ad
avvicinarmi…-
Ci voltammo tutte quasi istantaneamente verso la
grande tenda. Corremmo con tutta la forza che le gambe ci permettevano, ed io
mi aggrappai alla tenda, provando di nuovo un disagio fisico, uno sgradevole
rimestio nelle interiora, finché non sgusciai aldilà di essa, annegando
nuovamente nel mare di panno. E vidi.
-Cosa vedi, Flora?-
-Dove siamo? In collina, su una roccia… dove ci
troviamo?-
-Flora?-
-Cosa vedi?-
E vidi. Vidi. Non credevo. Tutti i miei insegnamenti
si rifiutavano di credervi. Ma fu così che accettai ciò che vi era aldilà della
finestra. Ho sempre rinnegato gli insegnamenti che ho ricevuto.
Deglutii.
-Nulla.-
Di nuovo polvere. Polvere bianca. Ma niente nuvole. Niente
ali e niente arpe, niente tonache svolazzanti. Eravamo sedute sul davanzale, a
fissare il nostro presente.
Un vuoto.
Nessuna ebbe il coraggio di dire nulla. Non c’era
bisogno di parole. Tutto quello che c’era da dire aleggiava nell’atmosfera di
eternità davanti a noi. Era bella. Tiepida, accogliente. Era il coma. Era il
punto di non ritorno. Era il tunnel. Non era buio.
Il tunnel era bianco.
Soprattutto. Non c’era alcuna luce. La luce sembrava
non esistere. Forse non esisteva davvero. Il castello costituiva una bolla a
parte. In viaggio. In arrivo. O in partenza. Oppure, per sempre ferme. Per sempre
timide boe galleggianti nel mare dell’oblio.
Tenendoci tutte per mano, cominciammo a cantare.
La nota aria salì alle nostre gole prima che avessimo
il tempo di realizzare ciò che stavamo motivando. La canzone si chiamava Greensleeves.
Alas my love you do me wrong
To cast me off discourteously;
And I have loved you oh so long
Delighting in your company.
Greensleeves was my delight,
Greensleeves my heart of gold
Greensleeves was my heart of joy
And who but my lady Greensleeves.
Greensleeves, Greensleeves significava La Vita.
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Capitolo 4 *** Dubbio. Le bambole si separano. ***
Le strade si separano
B-R-U-T-T-O. Una parola di sei lettere che impariamo
non appena siamo in grado di articolare suoni comprensibili. Qualcosa che ci
sgrida, è brutto. Qualcosa che ci fa male, è brutto. Brutto non fa distinzioni
con cose o persone. Se qualcosa è brutto, è brutto.
In cuor mio sento di dover ammettere che tutto ciò
era brutto. Eravamo brutte noi, deboli e folli imprigionate nell’incubo della
via di mezzo, era brutto il castello, immenso e sarcastico nella sua infinità,
era brutto. Era brutto il modo in cui Maria guardava se stessa. Come se volesse
strapparsi la pelle di dosso e gettarsi con essa nel vuoto.
-Soffriremo di nuovo.- affermò. –Ho sofferto tanto,
prima di finire qui. Prima che il mio collo si spezzasse, ho avuto il tempo di vedermi morire. Sono uscita dal mio
corpo ingrato, mi sono seduta sul caminetto, e mi sono osservata strabuzzare
gli occhi e diventare viola. L’ultimo contatto col mondo fu quella lingua
rasposa. Quel ritmico solletico ai piedi. Avevo murato con me Amber, il mio
beagle. È impossibile leggere gli occhi di un cane, lo so. Sono neri e
imperscrutabili, come tutti quegli degli altri animali. Ma Amber, nel rivolgermi quelle timide leccate, mi stava
offrendo l’occasione di ripensarci. Era una carezza. Tutto quello che mi
avrebbe potuto salvare dalla morte era una carezza. – riprese a singhiozzare,
ma con posata tristezza. –e stavo morendo, lo sapevo perfettamente che era
troppo tardi, e cercavo di ritrovare la sicurezza di prima, la fiducia nella
morte. Lo Lo aveva risvegliato in me il beneficio della scelta. Da una parte,
la corda, morte, ruvida come la sua
lingua, dubbio. E io ho dubitato. Quando dicono che la vita è l’unica cosa in
grado di ridarci speranza, sbagliano. Il dubbio è ciò che ci fa sentire vivi.
Ci fa sentire noi. La facoltà di scegliere, di meditare a lungo, se vuoi in
eterno, mette in discussione la nostra intera personalità. Ed io… non ho
dubitato. Oh, dio, non ho dubitato affatto.-
Le sue ultime parole si spensero prima di afferrarne
il significato. Scese sgraziata dal davanzale come un uccellino dall’ala rotta,
e si trascinò verso l’uscita.
-Maria! Dove vai? Sarebbe meglio non ci dividessimo… -
Lei si voltò un’ultima volta. Non ci fu bisogno di
parole. Ci abbracciò tutte con lo sguardo, e si diresse verso dove l’avevo
vista la prima volta. Nel buio.
Dubbio. Vita. Morte. Dubbio. Dubbio.
Era questo il luogo nel quale ci trovavamo? Nel quale
avremmo indugiato per sempre?
-Credo di voler andare anche io. – sentenziò Vera.
-Si, anche io. Tornerò nella sala dell’altare.-
-Si-
-Mmm.-
-E tu, Flora?-
Io? Io non credevo nemmeno di avere la facoltà di
camminare e muovermi, marionetta in quella pallida pantomima. Ciononostante,
annui, e mi immersi di nuovo nel buio.
Fu strano come le loro voci sparirono di colpo. Evidentemente, ogni stanza era un mondo a sé. Probabilmente,
le avrei riviste. O no. Sarebbero vagate come brutte bamboline di porcellana di
qua e di là, ciondolando i loro testoni e battendo le loro scarpette di vernice
e facendo sciocche domande. Poi la
bambina che le manovra si sarebbe stufata, avrebbe preso le loro estremità
cicciotte, e le avrebbe battute una contro l’altra. Finché la porcellana non si
sarebbe sgretolata, e i vitrei occhioni sarebbero scivolati giù giù giù come
pesci morti, i bei grembiulini sporchi di terra, i riccioli impiastrati di
piccoli insetti… il lato dolce ed indolore della morte…. La vita eterna dei
corpi… la porta socchiusa che lentamente lascia sbirciare attraverso…
Un passo dietro l’altro. Op, op. Una coscina di pollo
dopo l’altra.
Il corridoio sembrò cessare. Ebbi l’impressione di
passare al di sotto di qualcosa di enorme, seguita da un opprimente senso di
agorafobia. Fu come se l’immenso si
aprisse e allo stesso tempo si ripiegasse su sé stesso per mostrarsi in tutto
il suo orrore. Le pietre sotto i miei piedi furono sostituite da duri tralci
erbosi. E, bizzarro, percepii l’effluvio che si sprigionava da questo brusco
cambiamento.
Odore di acqua. Odore di fiume.
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Capitolo 5 *** "Cosa sta facendo?" "Lavo i panni." ***
Fanciulla mia...
Sulle prime, non vidi solo un ritmico movimento. Poi,
un masso. Anzi, no. Una gonna. Una gonna nera. Una gonna nera aperta sull’erba
umida. Un busto crebbe sulla gonna. Delle spalle. Una testa.
E tutt’intorno si aprì un fiume. Il fiume. soltanto
respirandone l’odore l’avevo riconosciuto. Il fiume, la mia tomba. I pesci, i
miei arcangeli. L’erba, i miei dolci fiori.
Le colline circondavano brulle e silenziose la scena.
La donna stava lavando i panni. Immergeva immensi lenzuoli grigiastri, li
sbatteva sulla pietra, li strizzava e li lasciava fluire nelle correnti
acquatiche. Sparsi, tra i lenzuoli, neonati dall’aspetto corrucciato. Una
bambina di due o tre anni, con un lungo vestitino a pizzi bianco, vegliava la
scena seduta su una pila di lenzuola. Altri neonati, nudi, emergevano qua e là.
La donna pareva non curarsene minimamente. Continuava a lavare imperterrita.
-Cosa sta facendo?- domandai stupidamente.
Quella si girò, rivelando il suo volto. Aveva una
bocca piccola e serrata, un naso insignificante e capelli trattenuti da una
retina. Non aveva occhi.
-Lavo.- la voce era atona, indifferente.
Se avesse avuto pupille, il suo sguardo sarebbe stato
vacuo e neutrale. Il gelo mi avvolse sempre di più.
Lei si girò, e continuò a sbattere i panni.
Ad un certo punto, appena fluita l’ultima coperta
nella corrente, afferrò un bambino. Lo tirò su e lo immerse nell’acqua, percuotendolo
sulle rocce.
-Ferma! Ferma, oh dio cosa sta facendo?- corsi verso
di lei, scioccata e incredula, nel tentativo di salvare il neonato. Lei si girò
nuovamente, e con un gesto brusco dell’altra mano mi spedì riversa a terra.
Riprese a lavare il bambino, sempre inerte e
silenzioso, che emetteva a intervalli piccoli colpi di tosse. Infine, lo gettò
nel fiume, come aveva fatto per le lenzuola.
-Li ucciderai! Morirà! I tuoi bambini moriranno
affogati!- gridai.
Stavolta non si diede nemmeno il disturbo di voltarsi.
Intonò, con voce monotona:
-Farò come ho sempre fatto. Sono nel giusto. Avrò la
mia ricompensa.-
Non parlai nuovamente né tentai di salvare gli altri
bambini che immerse esattamente come il primo. Uno dopo l’altro, vennero
portati via dalla corrente. A compito svolto, la donna si alzò e mi rivolse un
cenno.
-Adesso ho finito. Vado a ricevere la mia ricompensa.
Ho agito nel giusto. –
Detto ciò, cadde nel fiume, e la sua gonna restò a
galleggiare come un enorme fungo nero e malefico, per poi sprofondare senza
seguire il tragitto preso dai neonati.
In principio, non seppi cosa pensare. La macabra e
bizzarra scena mi aveva lasciata sbigottita. Non osai neppure rialzarmi, per
qualche tempo. Restai lì, lasciando che la corrente umida mi scompigliasse i
capelli. Fissavo il fiume, inutilmente. Cominciai quasi a scorgere la mia
figura gettarsi e ricordarmi del mio volto, quando un’idea si fece strada in
me.
Arrivata alla riva, sporsi la testa sull’acqua
corrente, sperando di scorgere anche solo un barlume del mio volto. Ma, nulla,
se non un tremolio di un’oscura figura. Una lunga ciocca di capelli mi cadde
sugli occhi. Era… era ispida. Di una consistenza spessa ma tagliente. Quasi, un
tralcio di vite. Forse, era davvero un tralcio. O erba. O edera. O un
rampicante. I miei capelli avevano assunto una consistenza arborea.
In quel quadro surreale e curioso, di nuovo tornavo
ad essere semplicemente una figura di sfondo, un misero e abbandonato pedone.
Mano a mano che mi incamminavo sopra il ponte, il mio
corpo si fondeva con il paesaggio. Diventai un alito di vento, un gorgoglio sommesso,
erba e cielo. Perfettamente inserita come un tassello di un mosaico.
La strada di terra portava ad un grande spiazzo,
piuttosto vasto, snodandosi in bivi uguali in modo inquietante. Sospirai,
incapace di prendere una valida scelta, e aleggiai lì intorno borbottando fra
me e me.
Poche cose mi erano ancora chiare sugli eventi.
Ricordavo un numero determinato di cose. Ricordavo
volti di altre persone, senza necessariamente collocarli al posto giusto.
Ricordavo eventi della mia infanzia, la nonna, il salto nel buio con le due
persone più importanti della mia vita.
Ero morta. Questo lo sapevo di certo, lo sapevo fin
dal momento in cui mi sono alzata nella stanza con l’altare. ero morta, senza
riserve, ero morta, la mia vita era stata spezzata nell’istante in cui la luce
è scomparsa, la luce normale, il lume
della vita e della ragione.
C’erano altre persone, come me, o forse no, forse
erano come la lavandaia, folli figure della mia mente, creta del mio pensiero.
Tutto ciò… era il paradiso….l’inferno… il purgatorio…
o qualcosa che semplicemente andava al di là di tutto questo? Qualcosa che
forse dipendeva solamente da me...
Ed io? Io potevo essere considerata tale, in quanto
priva di un’identità, bambina ed albero, umana e natura? Potevo forse ricostruire
il mio passato essere? E se anche fosse accaduto, sarei stata libera di cadere
fra le braccia dei miei angeli o di scivolare nelle pacifiche oscurità?
Eternità, mia dolce. Eternità, fanciullina mia.
Quella voce ruppe il silenzio.
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