Roger! (Non ho capito un piffero)

di Blam_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** Litigio e alghe ***
Capitolo 7: *** Le nove. ***
Capitolo 8: *** La partenza ***
Capitolo 9: *** 9. Se Maometto non va alla montagna, mi dispiace Maometto, ma la montagna non si muove. ***



Capitolo 1
*** I ***


Non è importante sapere chi sono, i miei segni particolari o se amo o meno la Nutella. Sono qui solo per raccontare una storia. La mia. 
Ho deciso che pur non essendo una persona famosa o qualcuno degno di una certa fama, la mia storia voglio raccontarla comunque. Credo che ogni racconto, fiaba, ricordo, merita di essere raccontato a prescindere dalla sua banalità. La critica è per coloro che cercano disperatamente di avere un posto nel mondo e che sfogano la loro rabbia con un filino di invidia sul lavoro degli altri. Io più di tutti ne facevo parte. 
Quindi ora non mi importano le conseguenze che nasceranno da questa storia, cerco solo un modo per sfogarmi innocentemente, potrebbe anche essere interessante.
Sono nato 73 anni fa in una vecchia dogana abbandonata  su una montagna, Tra Italia e Austria. Mia madre era ed è sempre stata ,anche dopo la morte, una specie di vagabonda giramondo con una casa ben precisa: le piaceva viaggiare e conoscere ,così i miei nonni le finanziarono i primi viaggi affinchè potesse capire meglio che la vita di un senza meta è priva di agiatezze e certezze che solo un focolare può dare, a patto però che una volta all'anno, per una settimana, tornasse a casa. Tutta questa psicologia inversa non fece che aumentare lo spirito d'avventura di mia madre che considerava tutto un "viaggio avventuroso", anche 'entrare in un bar e prendere un caffè. 
Era un tipo stravagante mia madre, aveva un carattere burbero e solare allo stesso tempo...forse era anche un pò lunatica. Parlavamo a sguardi e ci intendevamo a gesti. Eravamo così in sintonia che le partite a scopa finivano sempre in un pareggio o con una mia mostruosa sconfitta causata dalla mia iperattività. 
Era un essere così insolito e frenetico che non si accorse nemmeno di star per partorire in piedi, intenta a filmare i pendii delle Alpi e a non calpestare il concime naturale fornito dagli animali. Quando capì che suo figlio non avrebbe sopportato un minuto di più dentro quell'inferno, strozzato da una corda viscida e nutrito con grilli fritti e canederli, si diede una pacca sulla pancia credendo che mi avrebbe fatto uscire più in fretta. In realtà la mia testa sfiorava già le sue mutande quando si degnò di controllare. 
Uscii da quel buco troppo stretto grazie a un fotografo che mia madre si era portata con se, mi pulirono con della birra diluita e mi infagottarono nella giacca di pelle del mio presunto padre, l'unica cosa che mia madre non bruciò di lui perchè le piaceva e perchè non aveva mai avuto una giacca di pelle. 
La mia nascita non cambiò lo stile di vita di mia madre anzi, era convinta che un giorno grazie al mio vagabondare avrei trovato un mio stile di vita e sarei diventato un grande uomo. 
Continuò a gironzolare per il pianeta, aprendo attività fruttifere in un luogo e  donando tutto ai medici africani, rincorrendo una mamma canguro e cercando di sfrattare il piccolo mettendo me al suo posto. Imparai ad accendere un fuoco con lo sterco secco di mucche milka in Svizzera, a costruire una zattera per pescare in Thailandia e a fare igloo con la neve in Russia. Imparai a fare il contabile per la mamma, la fine arte della finanza per aiutare mamma nella sua raccolta fondi al fine di continuare i suoi viaggi e imparai che i bambini di 8 anni di solito giocano con altri bambini.

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Capitolo 2
*** II ***


Ero sempre solo. Il mio carattere timido e solitario non migliorava le cose. Facevo sempre fatica a relazionarmi con altri bambini di altri paesi ma non per le differenti lingue bensì per il semplice fatto che amavo la solitudine ed ero impacciato nella vita sociale di un essere umano. Così presi l'abitudine di giocare con me stesso, di parlare a me stesso e di vivere per me stesso. Diventai un vero e proprio re della solitudine con tanto di corona. Iniziai a vivere in una reatà solo mia, feci in modo di crearmi un mondo interamente soggettivo dove io non ero il protagonista degli eventi ma una comparsa, un individuo come tutti gli altri che lottava per imprimere una propria impronta agli altri, per rendersi immortale con la semplice magia del ricordo. Cercavo infatti in ogni modo di farmi riconoscere, sopratutto con gli adulti. Già da piccolo sviluppai una notevole capacità oratoria che mi diede il soprannome di Cicerone perchè mi infilavo in ogni discorso politico ed economico, ogni disputa ideologica tra mia madre e il gruppetto di turno. Ero una faina che si cibava del sangue delle galline con l'intento di farsi notare. Non ero egocentrico o un inguaribile esibizionista. Io odio l'esibizionismo. Cercavo solo un modo per sfogarmi, per esprimermi, per fuggire dal mio mondo dove in nessun modo riuscivano a capirmi e che mi stava rendendo schiavo di un'illussione. Fuggivo da un'illusione per entrare i un mondo illusorio come scoprii poco dopo. Con il passare del tempo appresi che per essere notati bisognava essere se stessi poichè ognuno di noi è diverso pur essendo uguale ma purtroppo molti preferiscono essere altri creando così una grande e grigia massa di imbecilli. Quindi io potrei definirmi l'originale di turno con le mie idee rivoluzionarie pessimistiche e il mio fare da intellettuale schizzato con tanto di abbigliamento..emh...inusuale e immaginazione sclerica. Capii che potevo esplodere su una tela bianca grazie a mio zio o sui tasti di un pianoforte grazie a mia nonna. Già, perchè anche dopo 13 anni di viaggi estremi, dopo l'annullamento dei fondi che riceveva da mio nonno, mia madre continuò a tener fede alla promessa che la vincolava a tornare una volta ogni anno dai suoi viaggi a quella che io continuerò sempre a chiamare casa. E' lì che cercai il mio posto e sempre lì mi fu dato. Quando mia madre comparve per la prima volta con me in braccio davanti gli occhi dei suoi genitori, la loro reazione fu " Mio dio! Ma come lo hai vestito?!". Nessun avviso, nessuna lettera in cui mia madre spiegava che aveva partorito. Si presentò ai miei nonni con me che sbrodolavo saliva in un bellissimo giorno primaverile, almeno così ho potuto constatare da una foto in cui i quattro fratelli di mia madre mi litigano davanti un ciliegio fiorito. Nessuna domanda riguardante il padre, il come, il perchè. Mi accettarono e basta. Ormai esistevo che bisogno c'era di fare una sceneggiata da sop-opera? Devo però dire che la mia famiglia è sempre stata strana. Ognuno aveva ereditato un difetto e un pregio dai defunti antenati: zio Diego era sveglio ed intelligente e orribilemente furbo, sembrava uno stratega militare quando giocava a scacchi o a dama e nessuno era mai riuscito a batterlo in una partita di RISIKO; zio Ennio invece eccelleva nelle materie umanistiche ma aveva un unico difetto che lo rendeva insopportabile: era troppo presuntuoso. Mia zia Tania sembrava un ippopotamo: amava dormire in apnea. Era così pigra che a volte non trovava nemmeno la voglia di respirare e si faceva venire l'asma però ha sempre avuto un'abilità pazzesca nel trovare la risposta a piccoli e grandi indovinelli, anche in quegli più assurdi la cui risposta poteva essere qualsiasi cosa. La sua capacità logica compensava il suo bisogno di stendersi e dormire profondamente. L'unica che aveva più difetti che pregi era mia zia Celìa: amava il gossip, fare la spia e impicciarsi nei più segreti affari di tutti, inoltre parlava prima di pensare e a volte nei pranzi di famiglia, quando si scontravano numerosi pareri diversi di quello o di questo, lei veniva zittita a priori. Però sapeva raccontare bene le storie. Mi ricordo ancora del mito di Euridice ed Orfeo raccontato con il suo tono dolce e deciso che ti cullava dolcemente nello spirito del racconto e che infine ti faceva sprofondare con la esta sul cuscino in un sonno populato da fantastiche avventure epiche, di dei e guerre tra semidei e capre alate. Mia nonna era stata una pianista, aveva manualità anche nella pittura ma era egocentrica e lunatica mentre mio nonno....mio nonno era uno di qui nonni che si siedevano sule poltrone con una pipa in mano e ti guardavano finchè le pupille non ti diventavano rosse e non ti addormentavi con gli occhi aperti. Mio nonno era la persona che amavo di più in quella gabbia di matti. Era sadicamente burbero, pigro. Aveva un amore insano per la filosofia e l'insegnamento: quando andò in pensione ricordo che ebbe un periodo da medioevo, buio e depresso. Ma lo amavo o stesso perchè era 'unico che riusciva a descrivere la realtà come veramente era, una qualità rara. Ogni anno aspettavo quella settimana da Dio che mia madre organizzava sempre in un giorno diverso ogni anno, fino al mio 11esimo compleanno perchè comprese che mi serviva un'educazione professionale che un eremita induista non avrebbe mai potuto darmi;purtroppo la ragion di spirito non è ben vista da coloro che hanno la ragione radicata nei soldi. Così ho iniziato ad avere un'identità precisa e radicata a partire dai miei 11 anni quando mi stanziai in definitiva a casa, costringendo mia madre a starmi vicino e a tutelarmi poichè io le appartenevo. Dapprima fu un putiferio tra carte per la cittadinanza e l'istituto delle anagrafe, le notti in bianco per cullare i neo-nati di mio zio Ennio, due gemelli che amavano fare baldoria di notte tra le tette della loro arcigna madre, e le proteste di quelli che già avevano usato quelle culle e che si apettavano una notte tranquilla.

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Capitolo 3
*** III ***


La casa dei miei nonni era un piccolo castello con 16 stanze e troppi abitanti.
 L'arrivo mio e di mia madre sconvolse la "tranquillità" della casa perchè ogni famiglia aveva un settore: il piano terra era dedicato interamente ai miei nonni e a mio zio Diego che non aveva nessuna intenzione di sistemarsi altrove e sosteneva che la vita matrimoniale non avrebbe mai fatto per lui; il primo piano era dedicato alla famiglia di mio zio Ennio che comprendeva sua moglie Clarissa , la zia bisbetica come preferivo chiamarla, l'essere più putrido e orribile di questo mondo. Non so cosa mio zio abbia mai trovato in lei: era odiosa e vendicativa, snob e antipatica, odiava tutti e tutti condividevano questo suo odio....Una volta, dopo un brutale litigio che avevo avuto con lei, chiesi a mio zio Perchè? e lui mi rispose sinceramente Per il sorriso.A tal proposito posso confermare che l'amore è davvero cieco anzi, è privo di nervi ottici: mia zia sorrideva asimmetricamente tenendo la bocca semiaperta e facendo intravedere i suoi denti storti e gialli da fumatrice di sigari , le se labbra erano troppo pompate e sempre infangate da rossetti rosso-arancio o da lucidalabra alla fragola che tra parentesi odiavano anche i suoi figli,Due gemelli completamente identici che amavano distruggere i vasi comprati ai mercatini della loro madre che gli spacciava per originali vasi Ming, Benjamin e Gianni.
 Il secondo piano era quello che amavo di più in assoluto.
Era lo spazio delle due sorelle. Le mie due zie, Celia e Tania,vivevano insieme, ognuna con il proprio marito e i propri figli. Il loro era il piano più grande e quello più chiassoso perchè erano due famiglie completamente diverse e ognuna aveva i propri vizi e le proprie pecore nere. Le due sorelle erano completamente diverse: una amava l'ordine, l'altra passando lasciava una scia di mutande sporche e barbie rapate;una aveva figli maschi con la gonna , l'altra femmine con le palle; una aveva sposato un perfettino ex-nerd liceale, attualmente figo egocentrico, professore classico, l'altra un produttore di software, videogiochi e programmatore di PC, fascista e un pò bambino, che amava organizzare piccole gite ,tra draghi e donzelle da salvare ,con me, le sue figlie e i figli della sua cognata "adorata". In sintesi: su quel piano si odiavano tutti per principio.
Solo noi bambini riuscimmo ad alleviare la tensione che si creava ogni volta. Io e i miei cugini facevamo tutti parte di una piccola gang che si avventurava in que labirinto di stanze per cercare tesori o frugare nei bauli di nonnone, si riuniva ogni sera alle 7 per organizzare incrsioni nelle stanze proibite degli adulti e per programmare gli orari degli scherzi che distribuivamo per l'enorme casa. Gli unici che trovavano divertenti i nostri atti di baby vandalismo erano mia madre, mio zio Diego, il marito di mia zia Tania alias il programmatore mascherato da Peter Pan, zio Peppe ,che a volte prendeva parte ai nostri viaggi avventurosi, e mia nonna che faceva il doppio gioco e ci forniva gli approvigionamenti. Tutti gli adulti e i gemelli della strega Magò ci dichiaravano guerra al nostro passaggio, davano di matto se ci vedevano riuniti e iniziavano a diventare paranoici ogni volta che ci trovavano in luoghi che ritenevano "insoliti" come...il bagno! Avevano così paura di ritrovarsi scarafaggi morti nelle scarpe che ci infliggevano 10 punizioni nell'arco di un minuto e che finivano sempre per accavallarsi e che poi nessuno ricordava la loro esistenza. Alla fine fecero una tabella ad ognuno del nostro gruppo per ricordarsi delle pene in auge, quelle scontate e la loro lunghezza. Ognuno di noi poteva vantarsi di avere già la fedina penale insozzata. La prendemmo come una tabella dei Record e, alla fine, gareggiammo per stabilire nuovi traguardi in punizioni: chi ne aveva totalizzate di più in un anno si sarebbe proclamato re della squadra Zeta. Ciò significava che la dittatura dei più grandi sui più piccoli era inesistente e che vigeva la tirannia del monarca avido e vendicativo.
Ricordo che sotto il regno di mia cugina più piccola, Amelia, fummo costretti tutti a correre intorno all'orto delle patate cantando l'inno di mameli in una giornata di pioggia. Quando rientrammo tutti infangati e bagnati, infreddoliti e con un piccolo accenno di raffreddamento, a causa della regola che avevamo imposto al gruppo (Il capo di ogni atto assurdo non va mai denunciato al nemico), pagammo cara la nostra ubidienza cieca a quella piccola tiranna di 4 anni. Quindi quando mia madre decise di stanziarsi definitivamente nella sua precedente casa scoppiò il finimondo: nessuno voleva cedere il piccolo feudo su cui aveva costruito i proprio impero. Gli unici che non badarono ai letti e allo spazio con ossigeno incorporato fummo io e i miei compagni di squadra.
Di solito quando mia madre arrivava in quel breve periodo di una settimana a casa Bonaggiunta, alloggiavamo sul divano letto del piano terra ma non si era organizzati per n periodo più lungo. Erano tutti convinti che lei e io saremmo rimasti dei senza meta a vita.
Poichè la mia dolce e furibonda mammina si rifiutò categoricamente di comprare casa in quella bettola di paese dove passai il più traumatico periodo della mia vita (l'adolescenza), cacciò dal suo zaino da viaggio una tenda tedesca e ci accampammo in giardino.
 Questa strana forma di protesta continuò per due mesi, per mia fortuna estivi, quando ebbi un flash di idee concatenate che suggerivano di rendere il terzo piano accogliente e simile ad una casa per me e la ribelle con la tenda. Avremmo potuto avere un piano tutto nostro e per di più non conteso da nessuno, argomentai. Mia madre rispose con un categorico e secco no.
Come venni a sapere, grazie alle tecniche di spionaggio della squadra zeta, il terzo piano era stato in precendenza la dimora dei due defunti cani di mia madre.
 Essendo un'animalista convinta, adottò quelle due povere bastarde sottraendole alla strada quando erano ancora piccole e loro per ricambiare il favore divennero le sue due spalle pelose. Così mi spiegai il mistero di mia madre che si rifugiava al terzo piano e non faceva entrare nessuno: piangeva i bei ricordi che aveva di quelle amiche che l'avevano abbandonata ,felici di averla potuta servire con il loro amore canino e fedele.
Ma c'era anche un altro motivo per cui non voleva che ci stanziassimo lì: l'appartamento non era mai stato finito...anzi non era stato neppure iniziato; aveva solo il tetto e le aperture tra i muri per le finestre. Ovunque c'era cacca di piccione, nidi di rondine e trappole per topi. Il pavimento come le pareti erano incomplete e rivestite di cemento grezzo, c'erano lattine di vernice ovunque e scie di colore acrilico anche sulle cacche di piccione. In più la mansarda, come chiamavano il terzo piano, era na sorta di ripostiglio in cui mia nonna accomulava tutti i ricordi inutili della famiglia e che non si decideva mai a buttare. Una sorta di accaparratore incallito e psicotico con la faccia di un'adorabile nonnina. Poichè si avvicinava settembre e l'inizio della mia entrata nelle scuole publiche, minacciai mia madre di andare a vivere con la strega del primo piano e di diventare un coso snobboso come lei, se non si fosse mossa dal giardino e non avrebbe trovato un'appartamento per l'inverno.
Lavorai così per tutta l'estate alla costruzione di un posto su cui avrei potuto mettere le mie radici come mia madre, aiutato da tutta la squadra zeta che trovò una nuova disciplina in cui cimentarsi: il collezionare cacca di piccioni. Avevo 11 anni e mi apprestavo ad entrare negli anni bui di ogni essere umano. All'essere gidicato, etichettato, distrutto e riplasmato dai miei coetanei; mi preparavo ad entrare in quel mondo dove avevo promesso di non farne mai parte. Ogni minimo cambiamento mi spaventava.
Stavo per perdere la mia libertà da innocente con la fedina penale sporca e una tabella che lo confermava. Anche se fui sempre troppo furbo per farmi beccare dal nemico....

 

 

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Capitolo 4
*** IV ***


La squadra zeta lavorò al darmi una casa per due ragioni: per fuggire ai compiti estivi e perchè un compagno non si lascia mai senza un bagno.
In tutto eravamo cinque se si esclude mia madre che faceva di tutto tranne aiutarci: lei gridava ordini militari (Forza soldati, su con quelle assi poppante, voglio che sudiate come maialini d'india in un forno a microonde...etc..etc..). 
I più piccoli, Amelia e Jordan, venivano impiegati nell'abbellire gli interni mentre i più grandi, Giuly,Dante e io,raschiavano le superfici dallo sterco dei volatili e trasportavamo, assemblavamo e ci davano sui piedi tutto ciò che c'era di più pesante. Naturalmente fummo incaricati anche di aiutare i veri muratori, gli elettricisti e gli idraulici di turno che davano una forma all'appartamento. 
Furono tre mesi di eterna sofferenza ,giorno e notte.  

Continuavamo a dormire in tenda perchè nessuno ci voleva tra i piedi. Quella fu un'estate equatoriale quindi meno si era insieme meglio era. 
Mia nonna non ci portò nemmeno in vancanza: ogni estate trasferiva  tutti i nipoti al mare per due settimane e per me che già all'età di cinque anni avevo  visto tutto il litorale greco, quella spiaggia piena di cicche e di fazzoletti usati che si rigettava come vomito in quell'acqua piena di assorbenti e creme solari, sembrava bellissima. 

Alloggiavamo sempre nella stessa casa che Nonnone affittava. Era Blu. Ironico, il blu significa tristezza, nostalgia e ogni volta che ce ne andavamo qualcuno piangeva e per qualcuno intendo io...scoppiavo in suppliche e lacrime, poi avevo uno stadio di rabbia epiclettica e mi gettavo a terra cingendo le gambe di mio nonno che mi guardava ridendo:non volevo partire. 
Per noi della zeta andare al mare significava libertà: dovevamo autogestirci, non avevamo i nostri genitori che ci ponevano dei limiti, il limite eravamo noi. Ciò significava che dovevamo imparare da soli ciò che era giusto o sbagliato per condividere in maniera pacifica un appartamento ,sotto naturalmente la vigilanza ,nei primi tempi,di nonnone, che ci dava una mano a pulire ognuno le proprie stanze, e nonna che insegnò a cucinare a tutti tranne che a me poichè mi riteneva un piromane: una volta feci saltare in aria il micoonde e un'altra volta ancora presi fuoco infornando le pizze di fine estate nel forno a legna di zia Celia. 
Con il passare del tempo e  la nascita di nuovi piccoli fagioli smocciolanti ci dividemmo le mansioni. Io ero adepto alla disinfestazione (era sempre pieno di ragni, zanzare e scorpioni che si infilavano nei letti) e al lavaggio dei piatti. In più mi affidarono Jordan, quei bastardi. 

Il più piccolo dei cugini era allergico alla natura, all'erba, al polline, alla polvere, alle punture di formiche rosse, alle noccioline e all'ambiente e ciò comportava lo stare attenti a tutto ciò che infilava nella sua boccuccia ingrata e fetida e al sangue che gli usciva puntualmente dal naso per il troppo starnutire. Era emofobo: appena notava una un pallino rosso sulla sua maglietta ,che poteva benissimo essere sugo o gelato al lampone, il suo preferito, vomitava o sveniva. Così se sentivo riecheggiare uno starnuto tra le pareti blu, mi fiondavo verso il suo epicentro con un secchio e un rotolo di carta igenica. Alla fine diventai paranoico e delle notti le passai in bianco. Quell'ingrato non mi ha mai ringraziato anzi, se la rideva ogni volta che asciugavo il suo vomito dalle mie infradito. 
Neanche Jordan però riusciva a guastare l'immagine che avevo dell'andare al mare.

Non avevamo una sveglia fissa, il primo che alzava le sue chiappe dal materasso preparava la colazione per tutti e puliva la sua stanza nell'attesa. Naturalmente la prima persona che si svegliava era mia nonna. Si svegliava come un fantasma, fluttuava verso la cucina e silenziosamente metteva a scaldare il latte sul fornello, preparava l'enorme tavolone in sala e alla fine si sedeva in cucina a guardare i primi raggi fiochi del mattino. Non si accorgeva nemmeno quando prendevo una sedia e mi posizionavo lì vicino. Eppure io non avevo la sua stessa grazia quando mi svegliavo; il mio era un sonno leggero e scomodo, il mio risveglio pesante e lumacoso. Quando la mattina camminavo verso mia nonna, la terra tremava. Ogni volta che poggiavo il più leggermente possibile, a mio parere, un piede a terra facevo lo stesso rumore di una mandria impazzita di bufali in calore. 
Una volta poi che tutti erano svegli  con i letti fatti e la pancia piena, indossavamo il costume e andavamo verso il mare prendendo per mano i più piccoli. Attraversavamo la strada e percorrevamo placidamente il breve tratto di marciapiede che ci separava da quel paradiso inquinato in cui noi ci divertivamo da pazzi. La mattina, poichè il sole picchiava molto forte, ci limitavamo ad aspettare vicino l'ombrellone l'ora prestabilita per tuffarci in acqua. Grazie a questa scusa ,mia cugina per ammazzare il tempo mi trascinava con se a fare lunghissime passeggiate. Non fu del tutto tempo perso: eravamo molto legati e il passare molto tempo da soli quelle mattine ci legò ancora di più. Io le raccontavo i miei viaggi con la mamma, le persone buffe che incontravo e le mie papere causate dalla mia goffaggine da oca ubriaca; lei si limitava ad ascoltare e a sorridere. Aveva un sorriso bellissimo anche quelle volte che lo forzava, inclinava un pochino gli angoli della bocca e la sua faccia si tramutava in un piccolo eden. Era uno di quei sorrisi ottimistici che hanno il potere di convertire un emo nella persona più felice della galassia, come una pillola d'estasi. Era placido e rassicurante ed era mio. 
A volte invece mi rimproverava per delle cretinate che commettevo, come l'uccisione involontaria di una gallina investita da una carriola in Brasile, o del mio isolarmi con me stesso perchè mi riteneva carismatico e molto intelligente. "Ma io non sono così...lo sono con te perchè mi piaci." 
"Lo sei anche con tutti gli altri cugini e con zia e con i nostri nonni. Posso dialogare con te come se fossi un ragazzo più grande e ci portiamo 3 anni di differenza! Perchè non fai conoscere al mondo queste qualità? Perchè le sigilli?" 
"Perchè...perchè non tutti mi meritano. Oh."  Scoppiò a ridere.
"Ah, questa poi! In realtà sei solo un misantropo egoista!" 
"Misantropo?"
"Vuol dire che odi il genere umano"
" Ma io non ti odio!"
" Lo spero, fessachiotto" 
E continuavamo finchè non eravamo arrivati agli scogli delle tartarughe da dove ci tuffavamo e facevamo immersioni. Amavo tuffarmi molto vicino agli scogli perchè erano sempre pieni di alghe verdi, innocue, che però facevano un solletico tremendo e rilassante. Mi lasciavo portare dalla corrente tra le rocce e mi strusciavo lì vicino; la sensazione delle alghe sulla pelle mi rizzava i peli sulle braccia. Era come se tante mani si contendessero il mio corpo galleggiante e privo di qualunque essenza vitale, morto. Mi accarezzavano morbosamente le piante dei piedi e le gambe, mi sorreggevano sul pelo dell'acqua come in un concerto e ti lasciavano alla corrente. Ogni dolore, provocato dall'urto del mio corpo tra gli scogli, era quasi inesistente mentre mi ubriacavo dell'amore che quelle sirene invisibili avevano per me. Mi ungevano la pelle con i loro tocchi morbidi dalle mani setose sfiorandomi dolcemente.
Quando uscivo dall'acqua ero sempre pieno di lividi ed escoriazioni con la pelle d'oca e una gobba tra le gambe. Giuly lo attribuiva al freddo ma io inconsapevole continuavo a masturbarmi mentalmente tra le rocce. Rimanevamo lì fino a mezzogiorno. Una volta mentre mia cugina si stendeva sul bagnasciuga e io facevo immersioni per trovare delle tartarughe marine, mi imbattei in una piccola cavità nella roccia. Incuriosito, mi avvicinai e fui risucchiato dentro quel cunicolo buio e bagnato. Cominciai ad aggrapparmi agli spuntoni di roccia che trovavo ma la corrente era troppo forte e mi risucchiava sempre più dentro. Avevo due possibilità: morire incastrato o affogare nell'altra estremità perchè se c'era corrente voleva dire che doveva esserci un'altra cavità nell'interno. Così mi lasciai andare, almeno così avrei risparmiato la vista del mio corpo blu a Giuly. Dopo secondi che mi parvero interminabili, sbucai in una piscina naturale con spiaggia e tartarughe. Arrivai alla conclusione che negli scogli c'era una caverna. La luce filtrava dai piccoli buchi nelle rocce che lasciavano passare la luce del sole e io potei trovare un'uscita in quella che sarebbe potuta essere la mia tomba. Mi arrampicai tra gli spuntoni delle pareti e riuscii ad infilarmi in uno di quei buchi luminosi solo che rimasi incastrato. Iniziai ad gridare aiuto e sentii il mio nome ripetersi dalla riva. Mia cugina gridava da più di un'ora credendo che fossi affogato o che avessi sbattuto la testa tra gli scogli; quando mi vide con mezzo busto di qua e mezzo di là per poco non mi prese a calci. Mi voleva bene ma il mio egocentrismo, come lo definiva lei, che in realtà era solo pura curiosità, la faceva andare in bestia. Cercò di tirarmi fuori senza mozzarmi il tronco o una gamba che già non riuscivo a sentire più. Venti minuti, trenta quarantacinque, io sudavo in preda al panico e Giuly, tra insulti e bestemmie, cercava di tirarmi fuori. 
Sentendo le sue grida e vedendo me a metà, si avvicinò il figlio del bagnino del lido lì affianco, Biagio che ci fissò entrambi e ritornò da dove era venuto.  Poco dopo tornò con una tanica d'olio, del burro e un calzante. Mia cugina lo capì al volo e tutti e due strofinarono il burro sul buco da dove cercavo di uscire e mi fecero colare addosso l'olio; il calzante lo tennero per ultima e disperata risorsa perchè già non entravo io, figurati il calzante! 
Poi si divisero le mie braccia e iniziarono a tirare verso l'esterno, alla fine mi presero per le ascelle. Dopo molto tempo, diciamo quanto basta per cuocermi come del riso fritto all'extra vergine di oliva, riuscirono a farmi sgusciare fuori. Appena uscito non ebbi nemmeno il tempo per riprendere fiato perchè mia cugina aveva iniziato a lanciarmi  i suoi famigerati fendenti a mano doppia: tirava con l'intenzione di uccidermi. 
Mentre lei cercava di mettere fine alla mia inutile esistenza da rompipalle, Biagio la osservava. Mi piacerebbe dire "ci" osservava ma in realtà io facevo parte dello sfondo su cui aveva posizionato Giuly. 
A nove anni iniziai a provare gelosia per una donna. 
Ero geloso e seccato che lei mi usasse per arrivare agli scogli delle tartarughe ogni mattina solo da accompagnatore. Dapprima non le importava, lo vedeva solo come n compagno di giochi che ci sorprendeva a nuotare tra gli scogli. Poi però iniziò a piacerle quel piccolo -infimo- stronzo -ruba -cugine. Lo rivedemmo infatti l'anno dopo nel pieno della pubertà: aveva cambiato voce, era più alto di una spanna e i suoi lineamenti ,già delineati dai muscoli dell'atleta per i suoi lavoretti estivi da aiutante bagnino, si maschilizzarono. Ne venne fuori un modello di intimo maschile con l'acne. Aggiungendo anche il suo carattere smielato e determinato, alla fine delle due settimane gli sorpresi a baciarsi in acqua. Era un bacio da prima volta, inesperto, erano timorosi di toccarsi e sorpresi di poterlo fare con le labbra. A riva c'erano le loro asciugamani e un cestino da pic-nic con sopra una rosa. 
Era un pomeriggio bellissimo, l'acqua era calma e c'era l'alta marea, in pratica era la giornata perfetta per fare immersioni. Non vedendo arrivare Giuly in spiaggia con gli altri cugini credevo che fosse già andata verso gli scogli e avesse avuto la mia stessa idea. Ero particolarmente felice non solo per la giornata, ma anche perchè quella stessa mattina Biagio e lei avevano litigato per non ricordo quale stupida ragione...ah, si! Gli avevo fatto sbattere la testa contro uno scoglio e Giuly mi aveva difeso. 
Felice ma con l'anima appesantita dal senso di colpa, andai verso gli scogli per una nuotata e per scusarmi con la mia adorata cugina. 
Quello che vidi mi fece salire del vomito misto a rabbia. Come si era permesso quel lurido verme bastardo figlio di una cagna di toccare un fiore così puro con un sorriso angelico?! Non riuscivo a fare mente locale, il demone della gelosia mia aveva invaso e io gli avevo permesso di dominare il mio corpo e tutte le sue funzioni motorie, tanto che andai verso il cestino da pic-nic e lo aprii: dentro era ancora tutto intatto, l' impazienza di baciarsi gli aveva invasi completamente, il cestino era una sorta di ornamento all'appuntamento, una scusa per vedersi. Ci cagai dentro e sulla sabbia umida, lontano dalle onde insaziabili del mare scrissi "goditela finchè puoi". 
Me ne andai soddisfatto. 

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Capitolo 5
*** V ***


Mia cugina mi perdonò silenziosamente e finse di non aver notato il contorno che avevo depositato nel loro pranzo. Pur di non lacerare il filo che ci teneva uniti, inghiottì il risentimento e non si vendicò né mi prese a schiaffi

Nonostante  quei piccoli e brutti ricordi che avevo di quel luogo, rimpiansi di non esserci andato ma a me serviva un tetto che non avrebbe ceduto al minimo alito celeste o nelle prime nevicate di inizio inverno.  
Grazie agli aiuti extra offerti dalla zeta e alle conoscenze di mia madre, in meno di tre mesi nel terzo piano c'era acqua corrente più o meno tiepida, corrente elettrica per il frigorifero e una piccola bombola a gas portatile e temporanea per il forno. Era tutto improvvisato per non creare ulteriore disagio agli altri abitanti di quella sottospecie di condominio che già si lamentavano del continuo via vai degli operai con gli scarponi inzaccherati di calce che sporcavano le scale di ogni piano. 
Non potemmo nemmeno chiamare gli imbianchini per le stanze perchè  a maga Magò  dava fastidio l'odore della vernice sostenendo che le causava forti mal di testa. 
Grazie alla zeta, ci arrangiammo dipingendo noi le pareti. In ogni stanza ci fu un'esplosione di colori, unicorni e scheletri che ballavano il cha-cha-cha con uno smoking, in tutte tranne che ne la mia. Dovevo essere io a personalizzare quello che sarebbe diventato il mio rifugio. 
Avevo sempre desiderato una stanza tutta mia.
Quando eravamo impegnati nel nostro vagabondare da un paese ad un villaggio, io e la mamma dormivamo sempre in Motel scadenti ,dove i materassi erano pieni di sex toys abbandonati e preservativi usati nel water, o abitavamo tende e capanne indigene. Il tutto era finalizzato solo a darci un riparo per la notte in cui io cercavo di isolarmi dai nomi che sputava mia madre nel sonno per non passare l'ennesima notte in bianco.
Volevo una mia tana dove poter dormire senza ripararmi dagli spiriti che la mia coinquilina evocava nel sonno; volevo riempirla di tesori che avrei trovato durante gli anni, dalla collezione di denti da latte a quella delle zanne di una tigre delle nevi; volevo un letto con un materasso coperto da lenzuola con qualche omino strano e sopratutto sgombro da pulci o tanga macchiati; volevo poter entrare in un ambiente conosciuto durante i miei attacchi riflessivi, stendermi sul pavimento e respirare quell'aria familiare che hanno tutte le case vissute. 
Non che odiassi la vita del viaggiatore: scoprire luoghi sperduti in Canada o tesori nascosti in Africa mi affascinava ma succedeva sempre tutto troppo velocemente. Appena scadeva il nostro permesso di soggiorno o mia madre decretava che "ormai avevano visto tutto", sceglievamo la prossima meta e andavamo alla ricerca di un mezzo economico o gratis per raggiungerla. Era una vita troppo frenetica. A volte avevo attacchi di asma e altre volte non riuscivo ad andare in bagno per settimane. Viaggiare mi piaceva anzi lo amavo ma avevo anche bisogno di sedermi un attimo su una poltrona, magari una con un poggia piedi in pelle rossa, ed esercitarmi nella lettura leggendo i vecchi libri di mia madre che prendevo in prestito dalla libreria di mia nonna ogni volta che tornavo a casa in quella breve settimana. 
 Dipinsi da solo la mia tana.
La coprì di Blu.


Il 14 settembre iniziai il mio primo giorno in una scuola dove mi bollarono come l'asociale di turno. 
Quelle pareti sempre ammuffite color deserto, quei banchi pieni di scritte e gomme da masticare, il capobranco, i gruppetti di ragazzine ipocrite....odiavo tutto questo. Era una prigione sotto mentite spoglie, un buco dove i genitori lasciavano i propri figlio per non pagare una badante. In quella marmaglia erano tutti dei rincretiniti che avevano il potere di acefalizzare tutto ciò che avevano intorno. Anche coloro che avevano un minimo di capacità le sopprimevano per non farle risucchiare da quella massa di zombie sempre in cerca di cervelli freschi da mangiare. Così mi isolai.
Il primo anno fu terribile. Mi evitavano dicendo che ero strano e antipatico ma sopratutto  sostenevano  che non ero in possesso delle mie facoltà mentali essendo figlio di una pazza psicotica che si divertiva ad andare in giro per il globo facendo riti satanici e non so che altro. Una volta una ragazzina mi chiese se potevo insegnarle la danza della pioggia: le diedi uno schiaffo.
Avevo una brutta fama e il mio abbigliamento non contribuiva a darmi un'aria da ragazzo normale: indossavo sempre abiti troppo colorati o neri. Le mie maglie non avevano mai un tema preciso; potevano avere il logo di uno scheletro che si impiccava o essere semplicemente a tinta unita. I miei pantaloni erano sempre Jeans fuori moda e larghi. 
Ho e avevo la mania vestirmi con roba usata e vecchia, a volte rovistavo furtivamente nell'armadio di mio nonno per rubargli una giacca in velluto o una salopette da minatore. Ero anche molto fortunato perchè sono sempre stato più altro per un ragazzino della mia età e quindi il bottino che conquistavo con della sana pirateria d'armadi nelle mie mani fruttava; giravo comunque con le maniche delle giacche di velluto marrone rivoltate più e più volte ,tanto che diventavano pesanti e camminavo gobbo.
Il mio abbigliamento influiva anche sul mio aspetto oltre che sulla mia reputazione: avevo dei capelli mossi ma ricci, rossissimi che mi hanno sempre dato un'aria da femminuccia eccentrica. Avevo l'insana abitudine di lasciarli lunghi finchè non iniziavano a coprirmi gli occhi quando camminavo o ad entrarmi in bocca quando parlavo. A quel punto prendevo una forbice, mi facevo una bellissima coda di cavallo bassa e li tagliavo. E poi Giuly mi fece conoscere il barbiere.
Non cambiò niente. La mia reputazione da bastardo handicappato continuava ad esistere, le persone mi parlavano dietro anche quando starnutivo. Per loro ero un mistero, una sottospecie di mutante in visita nella loro realtà, mi ascoltavano parlare solo alle interrogazioni che, tra parentesi, facevano pena.
Non avevo una vera e propria vita sociale, interagivo con me stesso e i membri della zeta che però crescevano e non avevano più interesse per inventare nuovi giochi o pianificare malefici scherzi. Quella realtà a cui avevo fatto appena in tempo ad aggrapparmi lentamente scivolava tra le dita.
Nonostante però la mia pessima fama, il mio abbigliamento da hippie-punkabestia e il mio orrendo odore di ormoni febbricitanti maschili non allontanò quella ragazzina che tempo addietro avevo schiaffeggiato: mi invitava tutti gli anni al suo compleanno e quando mi vedeva per strada mi salutava sempre. Ricambiavo il saluto ma finiva lì. La reputavo come una di quelle tante ragazzine che si soffermavano sulle apparenze e si disperavano teatralmente su una piccola cotta andata in fumo o che meditavano sul grande dramma di avere un'unghia spezzata. 
Anche io non ero un padre eterno, a volte mi lasciavo alla corrente ormonale di turno e diventavo improvvisamente bipolare, ma non mi facevo tante pippe mentali come tutti: cercavo di ragionare. 
Credo di non essere mai stato depresso in quel periodo di transito, considerando che ero la prima vittima delle piccole gang di bulletti a ricreazione e l'oggetto di scherno preferito dalle oche che avevano esaurito le lacrime da dramma apocalittico e non sapevano come intrattenere il publico. 
La mia vita era bella. Avevo viaggiato più di tutti loro messi in sieme, il mio bagaglio culturale a 13 anni era pari a quello di un professore universitario e respiravo ancora. Non avevo nemici, nessuno mi odiava. Quelli che mi schernivano avevano bisogno solo di un passatempo su cui sfogare la loro oppressione e io magnanimo acconsentivo. Potevo benissimo rispondere sia con il fuoco che con il potere delle parole. Ero alto e i miei muscoli ben definiti grazie alle corse della domenica e agli incontri di pugilato con zio Diego,Perchè avrei dovuto essere intimorito da due nani con l'acne?
 e il mio orrendo odore di ormoni febbricitanti maschili non allontanò quella ragazzina che tempo addietro avevo schiaffeggiato: mi invitava tutti gli anni al suo compleanno e quando mi vedeva per strada mi salutava sempre. Ricambiavo il saluto ma finiva lì. La reputavo come una di quelle tante ragazzine che si soffermavano sulle apparenze e si disperavano teatralmente su una piccola cotta andata in fumo o che meditavano sul grande dramma di avere un'unghia spezzata. 

Anche io non ero un padre eterno, a volte mi lasciavo alla corrente ormonale di turno e diventavo improvvisamente bipolare, ma non mi facevo tante pippe mentali come tutti: cercavo di ragionare. 
Credo di non essere mai stato depresso in quel periodo di transito, considerando che ero la prima vittima delle piccole gang di bulletti a ricreazione e l'oggetto di scherno preferito dalle oche che avevano esaurito le lacrime da dramma apocalittico e non sapevano come intrattenere il pubblico. 
La mia vita era bella. Avevo viaggiato più di tutti loro messi insieme, il mio bagaglio culturale a 13 anni era pari a quello di un professore universitario e respiravo ancora. Non avevo nemici, nessuno mi odiava. Quelli che mi schernivano avevano bisogno solo di un passatempo su cui sfogare la loro oppressione e io magnanimo acconsentivo. Potevo benissimo rispondere sia con il fuoco che con il potere delle parole. Ero alto e i miei muscoli ben definiti grazie alle corse della domenica e agli incontri di pugilato con zio Diego,Perchè avrei dovuto essere intimorito da due nani con l'acne?

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Capitolo 6
*** Litigio e alghe ***


Conducevo una bella vita dopotutto. Almeno ero felice.
A differenza di tutti i  miei coetanei ero libero, non ero oppresso dal volere di nessuno nemmeno da mia madre. Potevo svegliarmi la mattina e decidere di fare una passeggiata con la mia bicicletta per la pineta o costeggiando le rive del fiume saltando la scuola. Ero libero di prendere un martello e fracassare i mattoni accatastati in giardino, di saltare giù dal primo piano, di correre gridando il testo di una canzone per le vie principali del paese o di insultare tutti quelli che mi parlavano alle spalle. Non lo facevo, non volevo essere uno di quelli che abusano della loro libertà per diventare scimmie ammaestrate. Ero innanzitutto libero di essere me stesso e tutto ciò andava contro la mia natura subdola e pacifica.
Nessuno quindi cercava di impormi qualcosa: non l’avrei fatto per ripicca. Quando i miei coinquilini si lamentavano di qualcosa io semplicemente non sentivo ma le mie orecchie ascoltavano comunque. Non volevo essere presuntuoso o arrogante.
Mi ribellai però quando mia nonna, mia zia  e mia cugina cercarono di scegliere per  me cosa avrei dovuto frequentare dopo le medie. Mia madre sosteneva che ero abbastanza maturo per capire le mie potenzialità e fare “la scelta giusta” ma mia nonna era di un altro parere: per lei io ero ciò che la mia età anagrafica riportava, un  adolescente in piene crisi ormonali e con le idee confuse. Credevo mi conoscesse..insomma passavo più tempo con lei che con chiunque altro. Lei è stata la mia insegnante di piano, sostenitrice di scuse assurde per i miei brutti voti in matematica e narratrice ufficiale di ogni storia prima della nanna (soffrivo di insonnia. Ci rimasi così male che tutte le persone alle quali tenevo di più non mi conoscessero come io credevo: mia zia Talia , Giuly, mia nonna…non mi lasciarono voce in capitolo.
Frustrato quel giorno piansi di rabbia mentre gridavo a tute loro che non avevano alcun diritto di influire sul mio futuro, che non gliel’avrei lasciato fare e che avrei preso comunque una decisione differente dalla loro. Alla fine uscì dalla stanza vociferando un “sono deluso” e sbattendo la porta infuriato.
Sprecai un sabato a rompere cose nella mia stanza: il mappamondo cinese, il corno ungherese, tutte le frecce indù nella faretra in pelle che mi era stata regalata e confezionata personalmete da un Maori in Nuova Zelanda. Continuai ad alternare fracassamento di oggetti al cercare di soffocarmi con  un cuscino. Saltai la cena, dimenticai di dormire, distrussi ogni mia emozione, mi disinteressai completamente alla realtà che mi circondava.
 Ero arrabbiato con la mia personalità gelida e il mio pessimo modo di relazionarmi anche con le persone che mi interessavano e con quelle arpie che non riuscivano a comprendermi, che come tutti prendevano in giro la mia originalità e si beffavano del mio comportamento paziente definito con le loro parole “da fesso”. Diventai un vegetale steso a gambe larghe sul materasso , nutrito ad aria per  tre giorni e due notti finchè Giuly, venuta a sapere del mio confinamento in un buco blu oceano , irruppe nella mia stanza silenziosamente. La ignorai non perché non volessi ma perché avevo abbandonato quel mondo per rifugiarmi nel mio e continuare ad esistere lì. Si piazzò di fronte a me cercando un qualche minimo segno rabbioso o una mia reazione alla sua invasione nel mio sacro tempio a tutti sconosciuto e invalicabile, ignorando i pezzi di vetro a terra ,le punte delle frecce conficcate nel muro e la puzza di emozioni morte in decomposizione.
Alla fine si arrese alla mia apatia da bradipo morto e mi trascinò in bagno per lavarmi e per liberare la mia vescica da tre giorni di astinenza da water. Mi resi conto di dove mi aveva portato solo quando fui di fronte la tazza.
-Piscia.
-Non ne ho bisogno.
-Senti, lo so che sei lì da qualche parte. Ora torna un attimo nel nostro mondo e lavati che puzzi più del vomito di un barbone ubriaco. Piscia!
-Non hai capito: l’ho fatta in una bottiglia sotto il letto. Non ne ho bisogno.
-Bene…vado a …svuotare la bottiglia,questa è la doccia. Doccia ti presento Tom, Tom la doccia.
-Lasciami in pace.
-E dopo ordino anche un po’ di pizza. No, non ti lascio in pace.
E così dicendo iniziò a togliermi la maglietta sporca di sudore e lacrime. Vedendo il mio torace indietreggiò inorridita: i pezzi taglienti  degli oggetti che avevo frantumato che anzitempo si erano posati sullo stesso materasso dove io mi ero steso, mi si erano rivoltati contro e ora avevo minuscoli ma profondi tagli sparsi su tutto il mio corpo malato.
 Prese dall’armadietto del bagno dell’alcool e un pezzo di ovatta. Mi ordinò di spogliarmi e di entrare nella doccia, dopo si sarebbe presa cura della mia stupidità.
Uscì dal bagno, entrai nel box e iniziai a scrostare via il sangue secco dal mio torace e a detergere il resto del corpo. Mi lavai anche i capelli  dopodiché mi sedetti in quel misero spazio ristretto sotto il getto dell’acqua bollente a pensare.
L’acqua su di me ha sempre avuto lo stesso effetto di un tranquillante, potevo rimanere lì a riflettere per ore fino a mutarmi in un pesce rosso e sgusciare via per lo scarico alla ricerca del mio habitat naturale.
Non potevo: c’era una pizza che mi aspettava.
Finita la doccia, uscii avvolto in un alone di vapore e asciugamani. Fuori mi aspettava Giuly con il flacone d’alcool e  le bende. La guardai inorridito spostando gli occhi su tutti e tre.
-Se non ti fai disinfettare puoi dire addio alla pizza.
Sconfitto mi trascinai fino alla mia camera miracolosamente riordinata  e mi sdraiai di nuovo sul mio compagno di sventure appena rifatto a pancia in giù. Stringendo con le mani il bordo del materasso e mordendo il piumino fino ad avere dolore alle meningi, riuscii a sopportare quella dolorosa agonia. Mezzo frastornato, poi mi rigirai per farmi disinfettare anche il petto.
Mia cugina mi si mise cavalcioni. Mi accorsi che la sua mano tremava ogni volta che entrava a contatto con i miei tagli così cercai di sorriderle per incoraggiarla.
Chiuse gli occhi per un attimo cercando di ignorare il sangue e io feci lo stesso pregando che non vomitasse. La mia esperienza con gli effetti dell’emofobia era arrivata a livelli estremi.
-Dai basta. Si vede che ti fa schifo il sangue, faccio io…-. Feci Per alzarmi ma lei mi premette la sua mano sul petto e io caddi di schiena sul materasso.
-Fermo.-
-Hai un’espressione strana, non voglio che mi vomiti in faccia…-
-Stai zitto e fermo. Non voglio sprecare alcool.-
Rimasi fermo.
Sentivo il corpo bruciare, le ferite urlare di dolore. O ero io? La mia pelle, ogni mio nervo, i miei muscoli erano tesi. Ero diventato un elastico rigido.
Chiusi gli occhi.
Nonostante la mia improvvisa sensibilità per tutto ciò che avevo in torno non riuscii a percepire le labbra morbide di mia cugina che cercava uno spiraglio tra le mie, le sue mani, sporche di alcool e sangue secco, tra i miei ricci e il calore del suo corpo sul mio, nudo e infreddolito.
Riaprii gli occhi.
Due sfere ambrate mi fissavano, prendevano il pieno possesso di me ipnotizzato.


Risposi al bacio. 
C’era aria afosa e appiccicaticcia ma io fui letteralmente investito da una corrente refrigerante che mi riscosse i sensi e mi invitò ad agire.
Mi misi seduto, con lei a cavalcioni che pian piano si impossessava del mio corpo, e cercai di muovere le mani. Ero inesperto, impreparato e cercavo di essere più delicato possibile nel toccarla. Avevo paura di rompere l’illusione troppo reale, di far cessare l’oblio in cui ero immerso.
Scordai che fosse mia cugina, i tagli aperti che bruciavano e mia madre in salotto a fare yoga. Dimenticai chi fossi. Non era importante ora. La mia mente cercava solo di entrare ancora più in contatto con quell’essere che cercava il mio corpo, il mio calore.
Mi tuffai dagli scogli e mi lasciai trasportare dalla corrente di alghe. 

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Capitolo 7
*** Le nove. ***


Le sei  e mezza.
Dovevo alzarmi, fare colazione, lavarmi e andare alla fermata dell’autobus. Era la routine.
Ogni scelta ha una causa e ogni causa ha una conseguenza.
Io avevo scelto. Avevo scelto di frequentare il classico.
Non so il perché della mia scelta ma mi sembrava il liceo più conveniente.
Odiavo la matematica, non ero un artista da liceo “artistico”. Pensavo forse che il classico mi avrebbe aperto di più la mente.
La mia vita era un ciclo continuo: una routine infinita mossa da un movimento meccanico di tutto ciò che facevo. Ero in qualche modo cieco.
Mi alzavo, prendevo il pullman e passavo la mattinata in quell’istituto, scuola di merda.


Erano passati esattamente 3 anni da quella notte in cui persi la verginità con mia cugina. Ormai lei faceva l’università a Napoli, facoltà di medicina.
Ogni notte dopo quella, per i successivi due anni, lei si spogliava davanti a me e io di fronte a lei. Si stendeva sul letto e io l’abbracciavo.
Mia madre non saapeva niente ma conoscendola credo che avesse una minima cognizione di ciò che accadeva quando Giuly mi “veniva a trovare”.
La nostra non era una relazione. Ci beavamo della nostra intimità mentale e fisica; oltre me lei aveva altri ragazzi e io non ne ero geloso come con Biagio. Io avevo solo lei. Ci usavamo, nient’altro.
Sentivo la sua mancanza: era la mia migliore amica, forse anche la mia “dolce metà”. Non ci davo peso ma mi mancava ogni volta che tornava a Napoli dopo una breve settimana qui da me.
Intanto io lasciavo passare velocemente la mia adolescenza in quella prigione. L’unico pensiero che mi tormentava dopo aver preso quella scelta era “cosa farò dopo?”. E’ un dubbio che ho ancora adesso.
“Cosa farò domani?”
Non ho mai saputo cosa volevo da me, dagli altri. Mai saputo quali fossero le mie capacità perché davo tutto per scontato. Avevo un’immaginazione smisurata per cose banali ma non per immaginare il mio futuro oltre il cancello della scuola.


La mia giornata era al massimo della sua mediocrità. Sprecavo il mio tempo a studiare per un domani buio e cieco, al piano e in passeggiate monotone ascoltando Bach e i miei adorati gruppi musicali sconosciuti.
Ma nonostante tutto, non avevo mai tempo per fare niente. 
Ormai ci sono così tante cose da fare in questo mondo che le persone corrono come inseguite da Mefistofele per poi non concludere niente.
“La maratona del tempo”.
L’unico momento libero per pensare era sull’autobus. Quaranta minuti andata e ritorno, ottanta in tutto. Più di un’ora.
Mentre mi beavo della mia musica pensavo. Pensavo a cosa volevo, cosa mi sarei aspettato che facessi in un ancora inesistente futuro.
In realtà ho sempre saputo cosa avrei voluto fare ma non avevo le palle per formulare quel pensiero. Avevo paura di provare e rimanere deluso. Così venivo invaso da un senso di panico e impazienza: volevo che il tempo passasse più in fretta per andarmene e cercare un lavoro adeguato alle mie aspettative: pensavo che forse libero dai vincoli dell’età minorile, sarei stato più libero. Libero dalla paura di non deludere nessuno.
 Ogni mia idea su un ipotetico lavoro veniva accartocciata come il foglio di uno scrittore bloccato. Non mi piaceva niente, reputo e reputavo tutto banale.
Volevo un’occupazione che mi facesse sentire bene con me stesso, che potesse riempire il guscio del mio corpo reputato vuoto.
La mia situazione è sempre stata una sorta di “accidia” interiore. Il peccato capitale petrachesco che ti logora l’anima nella ricerca della pace interiore.
Ero fatto di paradossi, motivo per cui nessuno riusciva ad avere una conversazione sensata con me.
Nella mia classe odiavo tutti e loro ignoravano me. Nessuna rogna, nessun complotto tra amici che si tradivano a vicenda.
Rivolgevo la parola a quei pochi che consideravo “normali” per i miei standard. Tutti gli altri erano marmaglia da ferro vecchio: mocassini e pantaloni arrovellati sulle caviglie anche d’inverno.
Odiavo la gente che frequentava quella scuola, il loro modo di vestire tutti uguali, di vantarsene, di pensare, di parlare. Non avevano niente delle cose che avevo immaginato per una persona di un liceo classico.


Il loro guscio era più vuoto del mio.
Non posso vantarmi di aver sempre avuto una “mente superiore” ma..DIAMINE! Anche la gallina di mia nonna avrebbe avuto un cervello migliore di quelli là e tutti sanno che la gallina ha un vocabolario ristretto formato da tre parole: nutrirsi, cagare uova, covare.Oltre queste tre azioni non riesce a coordinarne altre.
I primi due anni furono i peggiori lì dentro: non riuscivo ad ambientarmi, i miei voti non rendevano felice nessuno, non avevo un motivo per fare quello che continuavo a fare.
L’unica mia occupazione era suonare. Mi piaceva.


Le prime lezioni me le diede mio zio Diego, quelle basilari, poi feci da solo.
Non amavo particolarmente leggere gli spartiti, adattarmi al testo, era noioso così iniziai a comporre musica tutta mia sia per esercitarmi sia come svago personale.
Avevo una memoria uditiva e ciò mi facilitava il dover ritrovare le note di tutte le melodie che mi avevano accompagnto durante i miei viaggi per poi suonarle con la tastiera del piano.
Quello strumento diventò il mio scopo principale all’inizio: andavo a scuola con l’attesa di tornare a casa e provare il mio “nuovo giocattolo”. Poi divenne un’ossesisone:  se non suonavo al meno una volta al giorno diventavo nervoso, iniziava a mancarmi l’aria e muovevo convulsamente le dita.  Il suono melodico del pianoforte, anche di una sua singola nota, mi risvegliava.
Non poggio più un mio polpastrello su un pianoforte da tanto tempo.
Mi manca saggiare l’avorio liscio e freddo dei tasti, sentire la vibrazione di una corda finchè il suono non evapora da solo…mi manca terribilmente.
Prima era impensabile da parte mia vivere senza musica, senza suoni, ora è la realtà.
Dicono che la musica ti salvi la vita probabilmente perché è vero.
Fu grazie al mio pianoforte che riuscii ad uscire dalla tomba che mi ero costruito e ad una serie di eventi che condizionarono quella che non sono sicuro sia la mia vita.
Era un’estate caldissima. Luglio credo, facevo siesta sotto la palma del mio giardino con gli occhi chiusi. Ricordo che avevo litigato con Giuly per non ricordo quale motivo la sera prima ed ero molto nervoso, ero lì e pensavo a quanto fossi inutile sotto una palma malaticcia a sudare come un’idrante senza fare nulla quando mia cugina Amelia mi svegliò dalle mie pippe mentali con il tubo dell’acqua gelida che mi diede un rapido sollievo dal caldo prima di evaporare come era uscita.
La mia cara cuginetta dopo avermi annaffiato per bene, si mise sul mio petto accucciata dicendo che ero fresco e che mia madre voleva vedermi.
-E perché ha mandato te?
-Perché mi stava raccontando una storia e all’improvviso si è ricordata che doveva dirti una cosa.-
-E tu che ci facevi in casa mia? Hai detto che odi stare lì dentro….-
-Non è vero, sei un bugiardo!-
Detto così si alzò e torno spedita in casa. Anche da fuori, stesi in giardino, si potevano udire i suoi piedi salire impettitamente le scale.
Lentamente mi alzai anche io e mi diressi verso il portone. Salii le scale fino al nostro “attico” e spinsi la porta per entrare.
Trovai mia madre nella sua solita postazione estiva, il divano giallo in cucina.
-Hai interrotto la mia siesta, mà-


-Mmm, prepara la zavorra, la tua meravigliosa mammina ha deciso che è tempo di fare un altro viaggetto….tu hai 14 anni vero?-


-Ne ho 16! E..NO! Non voglio lasciare casa di nuovo! Ho le mie abitudini, i miei alberi e..e..i miei amici..e..-


-Quali amici, tesoro? Non iniziare a cacciare scuse inverosimili. Questo classico ti sta rovinando la tua bellissima abilità nello sviare e io che ci cacchio anche i soldi.
Tranquillo, puttanella, è un viaggietto non un viaggio, ciò significa che sarà breve e torneremo in questa gattabuia. Tempo due mesi. Voglio farti vedere l’unico luogo che ho sempre nascosto al mondo intero  fino a d ora che me lo sono ricordata.-
-Ora che ho 16 anni? Sa tanto di una “la bella addormentata” o “Cenerentola”, insomma una favola disneyana dove io sono la principessa che compiuti i suoi 16 anni manderà il mondo nella nuova apocalisse zombie dove il “bacio di vero amore dato a mezzanotte” potrà far ritornare etc…etc..-


-PREPARA LA ZAVORRA PUTTANELLA! Paratiamo alle nove di questa sera.-


 

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Capitolo 8
*** La partenza ***


Andai in camera mia, accessi il piccolo ventilatore sul comodino e cacciai fuori dall’armadio la mia “zavorra”, una sacca in pelle che a causa dei numerosi “viaggetti” di mia madre si presentava logora e coperta di toppe.
Spalancai ogni cassetto, anta o fessura della mia stanza per poi rivoltare il contenuto sul pavimento e sul letto.
Con mia madre bisognava essere attrezzati perché ogni volta le nostre gite turistiche si presentavano sempre nella maniera più sbagliata possibile: il “andare a vedere il gran canyon” divenne “buttarsi con il paracadute dal gran canyon” o il “fare una passeggiata seguendo il corso del Nilo” si trasformò in “sfida a chi riesce a rimanere vicino ad un coccodrillo più a lungo mentre fa il riposino LUNGO LE SPONDE DEL NILO”; a volte credevo che si volesse sbarazzare di me una volta per tutte.
Mi ritrovai a scegliere tra il portare coperte di sopravvivenza o calzoncini da mare e poiché non sapevo quale fosse la meta decisi di chiedere a mia madre un’indizio, almeno per facilitare la preparazione della zavorra.
-Che devo portare!?-
-Di tutto, il tempo è incerto da quelle parti.-
-E tu hai deciso di passare la giornata a fare meditazione sul divano? Io non te la preparo la valigia!-
-E’ già tutto pronto per me, la tengo nell’armadio da settimane. Non provare a sbirciare il contenuto. Se una sororesa è ,tale deve rimanere!-
Ritornai sbuffando verso la mia stanza ma a metà percorso mi bloccai e mi diressi verso la camera di mia madre: io non sono tipo da sorprese.
Abbassai la maniglia e spinsi la porta. Chiusa a chiave. 
Dalla cucina sentii la risata compiaciuta di quella perfida donna che mi teneva sempre più sulle spine.
Perché era così segreto questo viaggio?
Misi in valigia pile e t-shirt, tute invernali e felpe primaverili, le mutande che avevo ricevuto a natale e non avevo ancora usato, calzini da trekking per facilitarmi le interminabili passeggiate con mia madre, il mio keeway blu, la crema solare, l’accappatoio, due asciugamani, lo spazzolino, la spazzola celeste, shampoo e balsamo, una saponetta ipoallergenica, due flaconi di acqua ossigenata per essere previdenti, una scatola di cerotti, due pacchi di bende, delle fasce elastiche, del gesso fai da te, medicinali vari compresi antidolorifici e OKI, che può curare qualsiasi cosa, e il mio coltellino svizzero. L’mp3 della sony l’avrei portato in tasca, non potevo perderlo.
Iniziai a prendere a pugni il mio sacco e alla fine si chiuse quasi da solo, come se sapesse già cosa fare e non vedesse l’ora di partire.
Non ero affatto minimalista come mia madre: lei poteva arrangiarsi con un rametto secco e una mutanda, io no. Volevo sempre essere attrezzato perché odiavo gli imprevisti, le cose non programmate e gli acquazzoni immprovvisi, quelli che il meteo non potrà mai prevedere. Quando mia madre mi disse che “il tempo era incerto” mi arrabbiai ancora di più.
E’ anche vero che ogni volta che stilavo una tabella di marcia poi non la seguivo, ma almeno avevo una base d’appoggio su cui basarmi.
Quando finì erano le cinque del pomerigio, avevo ancora quattro ore a disposizione. Ciò significava che potevo fare un salto al bar, in farmacia e poi festeggiare il compleanno di Giuly che quel giorno avevo completamente dimenticato…forse era per quello che avevamo litigato.
Uscì frettolosamente e mi diressi al bar lì vicino, da Mauro, un signore che mi aveva preso in simpatia e che la mattina mi rifilava ciambelle gratis nella tasca della giacca, alto con la pelle scura e i capelli bianchi, lunghi da fricchettone. Sembrava un’indios americano.  Era suo figlio però il mio amico di infanzia, probabilmente il mio migliore amico.
Hector poiché viveva lì a fianco, nelll’appartamento che era sopra il bar, divenne compagno di giochi dei miei cugini più grandi, Giuly e Dante, prima di me che arrivai molto dopo a conoscere la mia famiglia materna.
Quando Dante scopri di avere un cugino più piccolo, mi adottò come suo fratello e mi costringeva a fare tutto ciò che voleva lui, ad essere amico dei suoi amici a parlare con le sue stesse espressioni  ma ,a  causa del mio carattere, il suo lavoro di clonazione non ebbe un esito positivo e così costrinse sua madre a sfornargli un fratellino, Jordan, ma neanche quella volta ebbe fortuna.  Dalla sua ossesisone dell’avere un gemello però guadagnai l’amicizia di Hector e l’accesso illimitato al frigobar del padre.
Era più o meno solitario come me  ma molto più sociale; aveva un’innata aura positiva che portava subito le persone a fidarsi di lui, capelli neri e carnagione caffelatte che addolciva anche le più restie ad uscire con lui. Era però troppo buono con tutti e molti ne approfittavano; io divenni come la sua guardia del corpo e gli difendevo le spalle grazie al mio fiuto per gli opportunisti essendo anche io in quella categoria. A differenza sua ,ero freddo con tutti e non mi fidavo di nessuno e la mia statura allontanava i bulli che cercavano di minacciarlo per le caramelle del bar.
Diventammo amici quando lo savai da un manrovescio che probabilmente gli avrebbe fatto saltare i denti.
Era una banda di bulletti che si aggirava sempre intorno al nostro quartiere e osservava con molto interesse Hector che usciva dal bar e veniva a casa nostra per giocare ai carabinieri con Dante.
 Ogni volta che mio cugino aveva visite, io mi allontanavo per non disturbargli poiché non mi facevano mai partecipare ai loro giochi: la scusa era che fossi prepotente ma in realtà vincevo sempre io e il gioco finiva perennemente in una rissa.
Dante veniva a casa nostra ogni sabato alle 15.00 e se non poteva chiamava per disdire. Quel giorno mio cugino lo aspettò fino alle 15.30 poi corse a chiamare me e mia cugina per formare una squadra di soccorso. Avevamo già notato quei loschi individui per le nostre strade e temavamo che avevessero aggredito Hector come era successo a Ezio, il figlio del vicino, pochi giorni prima.
Era il nostro quartiere, dovevamo proteggerlo dai loro attacchi furtivi.
Cercammo in ogni vicolo, chiamandolo a gran voce, chiedendo ai vicini. Niente. Poi Dante decise di andare a cercarlo nell’unico posto a cui non avevamo pensato: casa sua.
-Probaiblmente non è stato aggredito da nessuno e non è voluto venire.-
-Imbecille, avrebbe chiamato, no?-
-E se ha il telefono rotto?-
-Sarebbe venuta la madre come l’ultima volta.-
-Forse si è scordato…-
-Non vedo Andres e la sua banda in giro!-
-…Tom, Giuly, correte!-
Quello che ricordano i vicini fu solamente una nuvola di polvere che si alzava per la nostra corsa verso il bar di Mauro, quello che ricordo io furono svariati dolori alla milsa, i polmoni che bruciavano ossigeno e Dante che gridava impazzito il nome dell’amico. Quando arrivammo il bar era chiuso perché era domenica . Andammo sulla porta del retro per avvisare la famiglia e ci trovammo davanti Hector seduto su una scatola di bottiglie con il naso sanguinante e i pantaloni bagnati di paura, Andres che stava per colpirlo e aveva la mano alzata per lo slancio e i suoi compari che tenevano fermo il nostro amico.
Dante mi guardò e io risposi allo sguardo, ci lanciammo su Andres e io gli tirai una testata contro il suo contenitore vuoto, che in anatomia viene definito “testa”, e Dante gli bloccò il braccio tirandoglielo indietro finchè non si lussò. Giuly sottrasse Hector agli occhi sbarrati di quegli imbecilli che se la svignarono lasciando il loro capo indietro. Loro a destra, noi a sinistra.
Non partecipai mai ai loro giochi ma la nostra divenne un’allegra e salda combriccola con strani componenti dove io presi sotto la mia ala Hector e gli guardai sempre le spalle.
Quando arrivai al bar al bancone c’era Mauro e suo figlio che mi salutarono e io gli feci cenno di servirmi al tavolo poiché faceva caldo. Scelsi proprio quello con l’aria condizionata e aspettai con pazienza di ordinare.
Mi servì Hector.
-Hey, puttanella, che ti porto?-
-Una birra ghiacciata e una stecca di mentos.-
-Ora capisco perché ti sei fatto servire al tavolo, ser Pel di carota. Ti costerà un’euro in più.-
-Perché, hai aumentato l’iva?-
-Sono serio, puttanella. Numero uno, devo portarti le mentos e la birra senza farmi vedere da mio padre; numero due, ieri mi hai dato buca e ho dovuto subirmi l’amica di Clarissa che sparlava della tua buca e di quanto fossi strano. Sono andato in bianco, cazzo!-
-Spero che tu abbia accentuato le voci sulla mia stranezza con quella psicopatica, non voglio un’ammiratrice segreta e altre cazzate simili. Va bene accetto il prezzo, mi fai pena.-  
Ridendo andò a prendere l’ordine e tornò poco dopo con tutto: fece scivolare la stecca di sigarette sotto il tavolo, me la infilai nei pantaloni e mi diede la birra ghiacciata in mano, fuori dalla porta del bar.
-Che devi farci con tutta quella scorta di tabacco?
-Sta sera parto per non so dove. Al compleanno di Giuly ci vieni?-
-Si, si, il regalo chi ce l’ha?-
-In teoria Amanda ma l’ha lasciato a casa di Dante ieri sera: era ubriaca poverina.-
Scoppiammo a ridere, poi me ne andai ,zoppicando per la scatola che infilava i suoi spigoli nelle mie palle, verso la farmacia dove comprai una scatola di profilattici. Avevo deciso che in qualsiasi luogo mi avesse portato mia madre mi sarei goduto l’estate, recitando la mia parte da don giovanni. Tanto lì sicuramente non mi conosceva nessuno. 
E’ bello fingersi attori per un breve periodo e costringerci a vedere il mondo da occhi diversi; ero un gran bugiardo così come ero bravo a recitare personalità differenti e confondere le idee della gente. Adoravo anche essere me stesso perché per coloro che non ti conoscono, essere se stessi può anche essere una maschera di un’altra commedia e quindi è come recitare. Un po’ come “il mercante in fiera”: è il mercante che sa la verità e ha in pugno il cliente.
Tornai a casa per le 6.30, mi preparai per il compleanno e riuscì di nuovo con la bici alla volta del ristorante, “Il Leccese”.
Quando arrivai erano già tutti seduti e mia cugina scartava i regali.
Ventitre invitati. Un incubo.
Verso le otto e mezza, quando tutti avevano finito la pizza e avevano appena iniziato a sbronzarsi, presi da parte Giuly e le diedi il mio regalo di compleanno: una conchiglia blu, presa dalla nostra spiaggia, che avevamo cercato insieme e poi colorato. Credevo l’avessimo persa invece la ritrovai sul fondo del cassetto del comodino mentre cercavo di preparare la valigia per le nove.
Mi abbracciò.
-Che ne dici se sta sera navighiamo un po’ nel tuo letto?- mi sussurrò, sfiorandomi l’orecchio con le labbra.
-Sta sera parto, non so per dove. Starò fuori due mesi, forse anche di più. Sai che tua zia è imprevedibile?-
Si staccò dall’abbraccio e mi guardò interrogandomi.
-Non ci vediamo da tre mesi e tu oggi te ne vai? Perché non me l’hai detto prima! Avrei trascorso più tempo con te in questa settimana…-
-L’ho saputo oggi, donna. E poi non vedo come passare del tempo insieme sia così importate ora; tanto ogni volta che ci vediamo finiamo nudi nella mia camera e quando hai finito te ne vai e mi lasci lì, senza raccontarmi qualcosa, dirmi “ciao”, niente. Sei taciturna come…come il silenzio nell’universo. Sei vuota.-
-Cosa dovrei dirti?! Che ti amo e vorrei passare ogni minuto della mia esistenza con te? Un’adolescente con i brufoli sul pene?!-
-Hey, io non ho brufoli da nessuna parte, sono liscio come una pesca!-
Scoppiò a ridere e mi baciò distrattamente, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
-Prima mi parlavi delle tue giornate, di tutte quelle stronze delle tue amiche, tu non sei un tipo taciturno. Che hai?-
-Prima voglio salutarti a modo mio. Mi mancherai. E non è vero che non parliamo mai! Io ti so leggere la luce degli occhi-
-Si,si, fata turchina. Che dici? Il tuo principe rossastro può salvarti la serata?-
-Hai il tuo nobile destriero?-
-Ho una bici.-

Ci congedammo dagli altri con la scusa che io dovevo partire e lei doveva aiutarmi a fare le valigie ma non servì a molto: erano tutti strafatti di birra e ci ignorarono completamente. Presi una bottiglia dal tavolo e la misi nel cestino della mia “fuoristrada” e aiutai la mia dama a salire.
Non presi la strada per andare a casa ma quella che portava al campo abbandonato dei fratelli Mores.
Ci addentrammo nel bosco delle erbacce, dove corremmo come cagnolini avidi di libertà e adrenalina.
Poi ci catapultammo sull’erba dove stappai la bittiglia di birra con i denti, la portai alla bocca ma poi ci ripensai e vuotai il contenuto su Giuly che mi osservava maliziosa.
Mi assalì come una belva sblaterando che le avevo insozzato il vestito e che ora puzava d’alcool ma io la zittii con un bacio trattenendo le sue mani dal conciarmi male.
Dopo quello che mi parve un secondo meraviglioso si staccò e mi guardò, divertita dalla mia espressione affamata . Ne volevo altri.
-Mi hai sporcato la camicia nuova, quindi ora sono arrabiata.-
-Ok, ma in questo momento non frega al nessuno della tua camicetta nuova! Te ne ricompro un’altra, ti prego baciami.-
Mi sporsi ma lei mi bloccò con una mano e con l’altra iniziò a sbottonarsi i jeans.
-Giuly non c’è tempo…-
-Zitto, metti questo-
-Perché hai un preservativo nei pantaloni?-
-Per le emergenze, no?-
-La domanda è: perché continuate a chiamarmi “puttanella”?
Rise e aprì la zip dei miei pantaloni, infilò la mano in quel buco nero, cercando quello di cui aveva bisogno. Infagottò il mio amico d’infanzia in quel budello di plastica, lasciando a me il compito di toglierle i pantaloni.
Era frenetica, cambiata. Non mi teneva più sulle spine, non assaporava quei piccoli momenti come prima, non mi sentivo più al sicuro nel mio letto d’alghe, ero scoperto e come lei, avevo fame anche io del suo contatto. La sua fretta mi aveva contagiato.
 --------------/
Alle nove tornammo a casa dove trovammo mia madre che caricava la macchina con la mia zavorra in pelle.
Durante il viaggio Giuly da dietro mi aveva accerezzato i capelli sossurrandomi tutto ciò che dovevo sapere, che mi aveva tenuto nascosto per due anni, dicendo “scusa, scusa” mentre mi baciava il collo.
Fu un bene allontanarmi un po’ da quella casa che mi stava opprimendo.
Credo anche che mia madre sapesse tutto e che organizzò il viaggio solo per quello.
Forse sapeva quel che faceva.
Forse era solamente una grande donna con un grande fiuto oppure il suo istinto materno.

Non la ringrazierò mai per questo.

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Capitolo 9
*** 9. Se Maometto non va alla montagna, mi dispiace Maometto, ma la montagna non si muove. ***


Durante il viaggio facemmo una sola sosta in otto ore, perchè a mia madre scappava. Il resto della nottata la passammo svegli a cantare tutta la playlist di mia madre.
Di tutte le cose che avrei preferito non ereditare , di sicuro una era l'insonnia.
Non dormivo un sonno decente da almeno sedici anni e di solito le mie "notti brave" le passavo insieme a mia madre sul divano a guardare orrendi programmi che nessuno ha il coraggio di trasmettere alla luce del giorno. 
In quel momento, non avendo una televisione, ci riducemmo a fare la cosa più ovvia: rovinare le stupende canzoni dei Ramones o dei Beatles o di qualsiasi altro gruppo uscisse dal CD. Mia madre cantava per non assopirsi, io per distrarmi.
Le parole di Giuly le avevo ancora impresse nella mente, il suo fiato ancora sul collo  che  mi provocava orrendi brividi freddi. 
Mia cugina era diventata una cocainomane e non me ne ero reso conto. 

Sapevo che era un pò strana, un pò instabile caratterialmente. 
A volte ti salutava con affetto, rimaneva a pranzo quei rari giorni in cui non doveva  studiare per l'università e veniva a farci visita, divertiva tutti con i suoi aneddoti da neo universitaria; altri in cui arrivava e si chiudeva in camera sua. In quei giorni nessuno le si poteva avvicinare , altrimenti sarebbe stato sbranato vivo dalla belva in cui si trasformava  lì dentro. Oppure aveva degli attacchi isterici e poi scoppiava in lacrime chiedendo scusa  a tutti per non si sa quale ragione in particolare.
Ricordo che una volta io e Hector le mettemmo una lucertola in testa e lei ci rincorse per una giornata intera con un coltellino svizzero.Come ho già detto: amavo mia cugina. 
 Aveva uno sguardo assassino negli occhi, una luce innaturale. Non erano i suoi occhi quelli, che mi davano sicurezza e ridevano alle mie battute. 
Occhi sconosciuti mi rincorrevano armati di coltellino svizzero con la promessa di uccidermi.
Ricordo che sognai quegli occhi la stessa sera, che mi perseguitavano, perforavano i muri. Ma non appartenevano a lei. Una figura indefinita con un impermeabile nero gli indossava e continuava a ripetere " Ti prendo, Tom. Corri, Tom". 

Non feci troppo caso al comportamento di mia cugina però. Il mio era una amore cieco, passavo su ogni scherzetto come quello del coltellino e rifiutavo di credere che fosse spezzata a metà. 
Ma la sera del suo compleanno fui riportato alla realtà. Mentre pedalavo lei mi sussurrava all'orecchio segreti e scuse. Non guardavo nemmeno le strade che percorrevo, tanto ero assorto dalle sue confessioni, e arrivai con mezz'ora di ritardo all'appuntamento con mia madre. 
Mi rivelò che negli ultimi mesi aveva fatto uso di cocaina. La calmava, diceva, la rassicurava. E riusciva a rimanere Giuly per tutta la durata dell'effetto. 
Mi disse che aveva un ragazzo. L'aveva conosciuto in un bagno di un bar, intento a farsi  una striscia e  lei, che era entrata lì per il medesimo obbiettivo, gli chiese di condividerla. 
La loro storia non iniziò con un "ciao" ma con un "Ce l'hai anche per me". 

Ogni volta finiva una frase con un "scusa" soffocato ma io non le rispondevo, "guardavo" la strada e basta. Avrei potuto sostenerla, dirle qualcosa, un suggerimento magari. Ma tutte quelle informazioni scioccanti mi avevano turbato. La verità, tutto quello che io cercavo, sbattuta in faccia così mi aveva colto alla sprovvista e in quel momento mi ripromisi di vivere nella verità, abituarmi a guardare le cose più oggettivamente possibile. 
Ma la rivelazione che mi causò una violenta sterzata con la bici, fu quando mi strinse più forte e disse:-Sono incinta.-
Non le chiesi se voleva tenere il bambino, il perchè non l'aveva detto subito o di chi era la colpa. Sterzai solamente il manubrio, mi fermai a guardare il vuoto e poi senza dire una sola parola, ricominciai a pedalare. Giuly intanto dietro di me, tratteneva le lacrime. 
Se non fosse stato per il viaggio programmato, probabile che sarei rimasto e avrei cercato di aiutarla a risolvere i suoi problemi come lei faceva con i miei,o semplicemente di alleviarle il dolore standole vicino ma in quel momento desiderai solo di scappare più lontano possibile da un individuo che a stento riconoscevo. Avevo paura di lei.
"Tanto ha sempre il tossico del suo ragazzo", mi dissi, " io sono il cuginetto tonto che usa quando torna a casa per dimenticare". 
Per una volta i viaggi di mia madre mi avrebbero salvato. Eppure una parte di me, quella forte e sicura, cercò di prevalere su quella terrorizzata e vendicativa: mi quasi costringeva a restare, ad abbandonare mia madre e le sue idee folli, ad abbracciare mia cugina e a rassicurarla. Non so ancora perchè non lo feci.

Poggiai la fronte sul finestrino gelato per rimettere a posto i miei pensieri, continuando a cantare Take me down to the paradise city, where the grass is green and the girls are pretty, mentre mia madre attaccava a gridare le strofe. 
Poi verso l'alba mi addormentai fissando le maestose Alpi che mi guardavano dai margini dell'autostrada.
-Benvenuto a casa, Tom-.
→→→¬

Mi svegliai verso le dieci e ancora eravamo in viaggio ma non sulla grigia e monotona autostrada. Sta volta attraversavamo i campi, affiancavamo un prato pieno di pale eoliche. Erano così grandi e innaturali che completavano il paesaggio che avevo di fronte, sembrava che il loro spuntare come margherite da un prato fosse la cosa più naturale che avessi mai visto: Montagne alte, boscose, la cui cima spariva nel cielo come risucchiata da esso; prati verdi, così verdi che ipnotizzavano e mucche che si cibavano di quel verde. 
Rimasi ipnotizzato da quel paesaggio, neanche sbattevo le palpebre. Mi resi conto che un mondo così mi era ignaro: nei nostri viaggi, mia madre mi aveva portato solo in posti tropicali o marittimi. Non ero mai venuto a conoscenza di questo.
E mi piacque.
La maestosità delle montagne mi dava sicurezza, come se loro fossero lì con il preciso scopo di difendermi dal resto del mondo.
Subito chiesi a mia madre:-Dove siamo?-
-Rettifica in: dove stiamo andando.-
-Ok..dove stiamo andando?- Chiesi con fare incerto, temevo le risposte di mia madre.
-Dove sei nato, ai tre confini.-
-E quanto ci rimarremo?-
-Un pò...-.

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