Adore you.

di foreverwithyou
(/viewuser.php?uid=418441)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** I. ***
Capitolo 3: *** II. ***
Capitolo 4: *** III. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***




Prologo.
 
“You’ve got every right to a beautiful life”
 
 
Fa un caldo bestiale in California, mamma aveva ragione. I miei inseparabili jeans non mi rendono giustizia! Anche gli adorati e venerati anfibi, per i quali ho girato mezza New York solo per trovarli, stanno iniziando a darmi sui nervi. Mi strapperei i vestiti di dosso e camminerei nuda, ma non voglio finire in carcere per atti osceni in luogo pubblico il primo giorno di “vacanza”. Onestamente non so se “vacanza” sia il termine giusto da attribuire al mio soggiorno qui a Beverly Hills che durerà più o meno un anno. Già, la mia cara mammina ha accettato un importante offerta di lavoro in Cina e io, da minorenne con i genitori divorziati, devo stare dal mio onorevole padre finchè lei non torna. Quando me ne parlò, circa due settimane fa a cena, nella nostra umile dimora nella periferia di New York, non ci volevo credere: già mi vedevo imbalsamata in un abito tradizionale rosa con tutti i cinesini che mi cantavano attorno ingurgitando riso. Oh no! Non avrei potuto assolutamente fare quella vita, sebbene solo per un anno. Non mi persi d’animo e mi ricordai di avere anche un padre, uno molto ricco che vive a Beverly Hills. Mi catapultai in camera mia per chiamare mio padre e dirgli che avrei preso un volo verso la fine del mese di marzo.
Alla ricerca della villona di papà, mi trascino il trolley rosa di una pesantezza assurda. Dentro ci ho messo tutto, tutto quello che serve per sopravvivere un anno! Vedo una luce. Oh porco Buddha! I caratteri che sono impressi sul cartello davanti a me formano il nome della strada che ho segnato sul mio bigliettino spiegazzato. Sono arrivata!
 



 
Spazio autrice
Buon pomeriggio. Innanzitutto grazie per non aver ignorato queste poche righe che fungono da prologo, ma di averle lette. AW
È la mia prima storia in questo fandom, quindi siate clementi nel giudizio -semmai ne lascerete uno-
Il primo capitolo è pronto quindi non tarderò a pubblicarlo, ma gli aggiornamenti non saranno frequenti. Ve lo dico!
La frase in cima al capitolo è della canzone "Who says" di Selena Gomez.
Per spoiler o altro, c'è il mio fake su
 Facebook

foreverwithyou

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** I. ***




I.
 
“I can never be brave 'cause you make my heart race”
 
 
Questi jeans mi stanno davvero massacrando. Fortuna che sono arrivata. Oh miei Dei, fate che papà o quella insignificante cosa siano in casa! Questo è uno dei quartieri più in di Beverly Hills. Mi sento come in 90210! Pensare che poche ore fa ero ancora nella Grande Mela a piangere sui miei guai..
Qui ci sono delle abitazioni pazzesche: ville faraoniche con piscine, saune e tutto ciò di cui un essere umano ha bisogno. Magari becco pure qualche vip. Troppo bello per essere vero!
E la mia stronzaggine mi porta –ovviamente- a darmi un pizzicotto sul braccio per rendermi conto se sto sognando o meno. Non l’avessi mai fatto! A parte il bruciore atroce e il paradiso circostante che è ancora intorno a me –prova che tutto questo è reale- ho la zona superiore all’avambraccio arrossata e, dato che, la mia pelle è di un colore rosa pallido come il culo di uno scimpanzé, si nota da un miglio di distanza!
Sbuffo cercando di individuare quale possa essere la villa di mio padre. Salgo sul marciapiede e prima di entrare nel giardino di una villetta molto sobria e carina, sfilo il cellulare dagli anfibi –lo so che è un posto alquanto ambiguo dove mettere il cellulare ma, prima di qualsiasi pregiudizio, lasciate che vi spieghi: i jeans hanno le tasche finte e ho una valigia pesantissima da trascinarmi dietro, non potevo portare pure la borsetta!- e cerco in rubrica il numero di mio padre per farmi dare delle indicazioni costruttive.
Ho parlato troppo presto: non so per quale infame scherzo del destino mi trovo bagnata fino al midollo.
«Porca troia» dico scuotendo ripetutamente il mio blackberry inzuppato.
Mi giro di scatto non appena sento degli sghignazzi. Alzo un sopracciglio contrariata: qualcuno sta dando una festa.
«Stai bene?» dice un ragazzo ben piazzato, moro con indosso solo un adorabile costumino color rosa fragola «Sai, stavamo facendo una battaglia e..»
«Non me ne frega un emerito cazzo della vostra battaglia. Mi avete bagnata tutta!» sbraito senza sentire ragioni.
«Non sei di qui, vero?» sentenzia il ragazzo passandosi un dito sotto il mento e sorridendo in modo beffardo.
Lo guardo sconvolta.
«Ma come sei perspicace! Come la mettiamo col mio blackberry? Dovevo fare una telefonata urgente»
«Se vuoi te lo ricompro»
Uh, quasi dimenticavo: sono nella città d’oro, è ovvio che un individuo che nemmeno ti conosce decida di ricomprarti il cellulare che ti ha praticamente distrutto.
«Cos’è? Il gergo del posto?» dico alzando le braccia al cielo lasciando che lui mi guardi stupito «Senti, lascia perdere!» dico arrendevole.
Fa le spallucce dopodiché si avvicina un altro ragazzo dalla pelle olivastra, gli occhi color cioccolato e un ciuffo laccato, sparato in aria, nero pece.
«Ti sembra questo il momento per metterti ad abbordare, amico? Stiamo per iniziare il secondo round: Kate starà sulle tue spalle stavolta. Ti tocca!» dice dandogli del colpetti sulla schiena per poi dileguarsi.
Fai pure come se non ci fossi, bello! Questi sono proprio dei cafoni. Meglio scappare.
«Devo andare, spiacente di non averti aiutata» dice allontanandosi, passandosi una mano tra i capelli ancora umidi e cercando di lanciarmi occhiatine sensuali.
Conati di vomito in arrivo, me lo sento.
«Certo! La povera Kate non può aspettare» dico agitando la mano con espressione a dir poco inorridita. «Ma vaffanculo» sussurro, poi, tra me e me.
Mi siedo sul marciapiede con la speranza che Buddha mi mandi un segno e quindi attendo. Per ammazzare il tempo giocherello con il pendente della catenina regalatami da mamma prima di partire: ha detto che in questo modo l’avrei sentita più vicina.. Vaffanculo donna! Ma come osi accettare un lavoro in Cina e spedirmi in questo posto popolato da lussuriosi, festaioli, indelicati energumeni. Dovrei picchiarti a sangue, ma sei troppo lontana affinché io possa farlo.
Sbuffo di nuovo. Oggi non è proprio giornata.
Sento una musichetta, improvvisamente. Strabuzzo gli occhi incredula. Assurdo: il mio blackberry da segni di vita! Sta squillando!
«Pronto? Papà, sei tu? Cristo, dove diamine sei? Non trovo la tua casa» dico scattando in piedi, manco avessi una molla in culo.
«Sono proprio dietro di te, bimba»
«Ehi, dove sono finiti i capelli? Eh, mandrillo di un Marshall!» dico saltandogli letteralmente addosso.
«Non ti vedo da tanto! Santo cielo quanto sei cresciuta!» dice stringendomi tra le sue braccia muscolose.
«Mi sei mancato tanto, Bruce!» dico ritornando coi piedi per terra e lanciandogli un occhiolino.
«Anche tu, bimba. Sei sempre più bella, somigli a me!»
«Almeno io ho i capelli!»
«Comunque casa mia è questa, tesoro. Eri a pochi metri di distanza e non te ne sei accorta!»
Di fianco alla casa dei festaioli. E che sfiga è mai questa?! Spero solo di non doverli incontrare mai più.

 


 
Spazio autrice
Buon pomeriggio, ragazze. Grazie tante per aver letto il primo capitolo -seppure breve- di Adore you.
Spero in qualche recensione, pure piccina!
Il carattere della protagonista si sta mostrando pian piano: abbiamo capito, però, che è una tipa tosta e che non saranno di certo un
gruppetto di lussuriosi, festaioli, indelicati energumeni -così li ha definiti lei stessa- a metterle i piedi in testa!
Per il prossimo aggiornamento, c'è da aspettare un po'.
Ah, la frase in cima al capitolo è della canzone "One thing" dei One Direction..
Spoiler nel mio profilo fake di 
Facebook

foreverwithyou


Selena Gomez è la prestavolto di Emma Marshall

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** II. ***




II.
 
“Don’t let them in, don’t let them see. Be the good girl you always had to be”

 
«Bruce non mi aveva detto che eri così bella! È un vero piacere conoscerti, Emma»
Spalanco la mia bocca in un bellissimo sorriso di copertura. Questa vocina stridula mi stava già sulle palle durante le videochiamate tramite skype, figuriamoci dal vivo. Mi astengo nel dare un altro giudizio sull’eccentrica Tanya, la venticinquenne che affianca quella testa pelata di mio padre da più o meno due anni.
Cosa ci troverà mai in lui, oltre il conto in banca che vomita dollari? Io non lo so. Ha la trippetta che gli si appende sulla cinta che sorregge i pantaloni, il cranio che gli si intravede e quasi cinquant’anni.. Parliamoci chiaro: mio padre non è proprio Brad Pitt! Quindi non capisco come possa una ragazza così maledettamente young & beautiful stare con un uomo così. C’è da dire però che, per me, è l’uomo migliore di questo Mondo e che non lo cambierei con nessun’altro. Anche se è mancato negli anni più importanti della mia vita, alle feste di compleanno, a Natale e Capodanno.. chi se ne frega? È pur sempre mio padre e una sua chiamata, pure in ritardo di qualche giorno, mi rendeva allegra.. Ero al settimo cielo e mi sentivo la bambina più felice del pianeta!
Le tendo una mano. In questo momento è l’unica cosa educata che mi incita a fare il mio cervello malconcio! Neanche il tempo di un boccheggio che mi ritrovo spiaccicata contro la quarta abbondante del seno di Tanya. Mi viene voglia di imprecare! Quante operazioni deve aversi fatto per arrivare a tale mostruosità?! Sono dure come il marmo!
Mi stringe forte a se pronunciando delle frasi degne di una Biancaneve sotto ecstasy.
Per non parlare del suo Chanel n°5 che mi penetra nelle narici fino ad arrivare all’apice della mia testa. Si è spruzzata tutta la boccetta o cosa?!
Bruce capisce che è ora di mettere fine a tutto questo teatrino e mi invita a vedere la mia camera. Mollo Tanya che, tutta euforica, saltella sulle sue zeppe progettando grandi mattinate di shopping e chiacchierate pomeridiane, tra me e lei, per passare il tempo.
Io e lei?
«Il mio attico è ancora danneggiato a causa degli alluvioni di quest’ultimo anno, quindi ho dovuto spostare la tua camera nel lato ovest della casa, spero non ti dispiaccia!»
Scuoto il capo con fare deciso: basta che ho una branda dove dormire sonni tranquilli e una finestra semmai qualcosa nel mio intestino dovesse andare storto..
Rosa. Rosa ovunque.
«I colori li ha scelti Tanya»
«Due pollici bene bene in alto per i suoi gusti così principeschi!» Dico mimando il gesto con le mani, accompagnati sempre dal mio sorriso di copertura.
Da quando ho messo piede in California, questo sorriso del cazzo non ne vuole sapere di abbandonarmi: sembro una via di mezzo tra un ornitorinco con una paralisi facciale e una winx alcolizzata.
Papà mi lascia un po’ d’intimità presupponendo che io adesso disfi il mio bagaglio. Sbuffo sonoramente mentre mi avvicino alla finestra, nascosta da un’ingombrante tenda rosa. Il paesaggio che copre quest’orripilante pezzo di stoffa monocromatico è.. come dire.. fa proprio schifo: è un cazzo di muro con una cazzo di finestra!
In compenso, se mi sporgo verso destra c’è una strada, la stessa che mi ha condotta qui.
La stanza, però, è molto spaziosa e dotata di qualsiasi cosa un’adolescente abbia bisogno. Mi ricorda un po’ la mia vecchia stanza, a parte per il rosa barbie delle pareti e della maggior parte degli oggetti. C’è perfino un laptop della Apple poggiato sulla scrivania.. Da quando il mio si è scassato, l’unica piattaforma per le chat la trovavo nella sala informatica della scuola –sempre se gli insegnanti non erano in giro- ,e il mio prezioso blackberry che quegli idioti patentati mi hanno bagnato.
Non capisco come la gente possa essere così ipocrita e subdola. Se vuoi te lo ricompro. Mi viene voglia di strozzarlo a quel bamboccio con il costumino color fragola. Uh.
Se non avesse usato quei modi così barbari e sfacciati, l’avrei giudicato in un altro modo.. Perché, in fin dei conti, era davvero carino con i suoi capelli bagnati e brillanti alla luce del sole, i suoi occhi color caramello e quel dannato sorrisetto infame.
Tiro un respiro di sollievo che sembra riecheggiare in questa silenziosa stanza, mi avvicino al mio trolley e lo poggio sul letto. È tempo di svuotarlo e di cominciare ad adattarsi, il mio anno a Beverly Hills è appena cominciato!
Ripongo i miei jeans e le mie canotte colorate nell’apposito armadio bianco latte –finalmente qualcosa che non mi ricordi quella squinternata di Barbie-. Tutto si è sgualcito durante il viaggio. Che iella!
Ci penserò poi, ora devo svuotare l’altra metà del trolley. Per essere un soggiorno di un anno, ho portato davvero poche cose.. Beh, non è che a New York navigavamo proprio nell’oro. Io e mamma abitavamo in un modesto bilocale in periferia, io andavo al liceo e, a volte, rassettavo casa mentre mamma faceva degli extra a lavoro. Ha sempre lavorato come rappresentante, da quando ha finito il college. Negli anni ho realizzato che il suo lavoro deve piacerle proprio tanto se non l’ha mai cambiato. Ha perfino accettato una proposta assurda in Cina! Se lei è felice, anch’io lo sono.
Mi dispiace solo non averla potuta affiancare in questa nuova, esaltante esperienza. Mamma però lo sa, gliene ho parlato: io e l’Asia non leghiamo proprio. L’idea di stare lì un anno mi rendeva ansiosa, sebbene stessi con lei. E poi, erano anni che non vedevo mio padre e la sua nuova residenza qui a Beverly Hills, nella quale si è trasferito da qualche tempo. Era l’occasione giusta per riabbracciarlo e tentare di gettare le basi per quel rapporto padre-figlia che non si è mai creato.
Mi tuffo su questo bel lettone duro e invitante e sniffo l’odore di detersivo ai fiori di loto –almeno credo che siano fiori di loto- che emana la federa del cuscino gonfio e morbido come un sufflè.
«Tesoro, è pronta la cena» Dice papà una volta fatto il suo magnifichevole ingresso in camera.
Mi trascino giù dal letto a mo’ di zombie e seguo la Pelata fino alla sala da pranzo. Durante il tragitto faccio una specie di visita guidata. Il mio piano, da come ho notato, è una zona notte; invece, la zona giorno è di sotto con salone, cucina, biblioteca e solo Dio sa cos’altro. Il pavimento di quasi tutta la villa è in marmo opaco e il soffitto è spesso contornato da luci a led, bianche e soffuse.
Arriviamo a destinazione e al centro della stanza regna un grosso tavolo con ben otto posti a sedere!
«Ti piace la casa, Emma? Abbiamo anche un giardino meraviglioso. Dopo cena, facci un salto» Domanda Tanya prendendo posto alla sinistra di mio padre, seduto a capotavola.
«Non è troppo grande per sole due persone?»
La mia apparente ingenuità fa ridere Tanya e Bruce di gusto che mi guardano compassionevoli. Cosa avrò mai detto di buffo?! «Dico sul serio» Sussurro permettendo alle loro risate di sovrastare il mio tono quasi inudibile.
Mi accomodo anch’io, facendo aderire perfettamente le mie chiappe al cuscino morbido e spugnoso della sedia. Spero solo di non rimanere il segno.
«Benvenuta a Beverly Hills, Emma!» Dice Tanya atterrendomi con i suoi occhi grandi e tondi, del colore del ghiaccio.
Non so se ringraziarla o chiamare aiuto, quindi distolgo lo sguardo e lo punto sul mio piatto ancora vuoto, rimanendo in religioso silenzio.
Dopo pochi istanti, una donna di mezz’età con i capelli scuri raccolti in una crocchia, il corpo massiccio e un’affabile sorriso cattura la mia attenzione. Dal grembiule che indossa e il vassoio che ha ben saldo tra le mani, queste ultime coperte da graziosi guanti bianchi, credo che sia una cameriera.
«Emma, lei è Joanne Talisse, la nostra governante»
La donna si sfila un guanto e mi tende una mano regalandomi uno sguardo sorridente, vivo e di un colore verde bosco. Ma solo io ho gli occhi di un emerito color diarrea?
Joanne ci serve la cena e, non appena mette piede fuori dalla sala, Bruce e Tanya iniziano a mangiare.
«Qualcosa non va, tesoro?» Domanda mio padre con la bocca ancora occupata a masticare la carne ancora fumante.
«Nulla.. è che io e la mamma eravamo abituate a ringraziare Dio prima di cena»
«Perdonaci, Emma. Non lo sapevamo. Abbiamo fatto la figura dei barbari, ci dispiace» Dice Tanya adagiando le posate sul bordo del piatto e mettendo le mani giunte.
«Non dovete farla con me, assolutamente! È solo che-»
Papà mi guarda, mi sorride e annuisce comprensivo.
Okay, questo è senz’altro il momento più imbarazzante della mia vita. Non mi aspettavo che loro non avessero quest’abitudine, credevo che, nell’euforia di avermi qui, se ne fossero dimenticati! Lo davo per scontato, insomma!
Dopo qualche secondo di raccoglimento, iniziamo a mangiare. Per tutta la durata della cena, il senso di colpa per aver obbligato papà e Tanya a fare la preghiera con me, mi logora quindi rimango in silenzio ad ascoltare le loro frasi che, di volta in volta, riempiono l’ambiente. Io annuisco, ogni tanto, ma vorrei essere risucchiata in un buco nero.
Al termine della cena Tanya mi confessa di volermi conoscere un po’ meglio e che avremmo tempo per farlo. Sicuro! Abbiamo trecentosessantacinque giorni da passare insieme. Ce la spasseremo come non mai..
«Guarda un po’ che ora si è fatta» Constata la Pelata «non dovresti andare a letto, signorina? Domani hai scuola»
Afferro papà per la manica della camicia e guardo il suo orologio appuntato al polso che segna già le dieci.
«Mamma sarà già arrivata ad Hong Kong, devo chiamarla!» Esclamo dileguandomi di sopra, in camera mia.
Socchiudo la porta e mi siedo sul letto, sfilando il blackberry malconcio dagli anfibi.
Il tuo credito è esaurito.
Panico. Come chiamerò quella sciacquetta di mia madre, adesso? Dai, blackberry del mio cuore, hai superato la doccia che ti hanno fatto prima quei bifolchi, vuoi mollarmi proprio adesso?
Continuo a premere qualsiasi tasto, in preda alla più totale disperazione, finchè non lancio un urlo strozzato.
«Emma, tutto bene?» Accorre papà.
Mi aggrappo disperatamente alla sua camicia, mentre una lacrimuccia insulsa si sofferma su una ciglia.
«Bruce, non riesco a mettermi in contatto con Hong Kong, mannaggia.. in più il mio telefono è KO. Cosa faccio adesso?»
«Se vuoi ti presto il mio cellulare internazionale, lo uso quando chiamo all’estero per i miei business»
C-cosa hai detto? «Magari»
Oh, che carino questo cellulare: sembra essere uscito da una puntata di Star Trek.
Compongo il numero di mia madre e attendo che lei risponda.
«Pronto?»
È bello sentire la sua voce, però è meno bello sapere che non proviene dalla stanza accanto o dal corridoio, ma dall’altra parte del mondo.
«Madre! L’aereo non è decollato nel posto sbagliato, sono sollevata»
«Emma?! Ma da quale telefono stai chiamando?»
«Da quello del capitano Kirk»
«Cosa?»
«Lascia perdere. Piuttosto, dove sei ora?»
«Sono appena arrivata in albergo, ma tra qualche giorno mi trasferisco in una vera casa dato che la permanenza è lunga. Hong Kong è bellissima, tesoro.  Farò tante foto e le posterò su facebook, metti tanti mi piace e lascia tanti commenti, okay?»
«Come sei moderna, mamma. Santo Iddio!»
«Tutto bene da te? Com’è Beverly Hills? Fatti delle selfie con papà, voglio vedere com’è diventato in questi anni»
«Non ho visto ancora nulla, il viaggio dall’aeroporto alla casa di papà è stato veloce. Lui è sempre lo stesso, a parte la calvizie!»
«Conosciuto qualche ragazzo carino?»
«Ma ti pare, mamma? Sono qui da nemmeno sette ore»
«Chi lo sa cosa ti riserva il destino, figliuola!»
«Madre, sei la vergogna»
«Portami rispetto, mocciosa! Ora ti saluto, ho un meeting di benvenuto tra poco più di due ore. Ti chiamo stasera»
«Già è sera, mamma»
«Non qui a Hong Kong, tesoro. Ti voglio bene»
«Anch’io»
Stacco il telefono e mi ficco sotto le lenzuola che sanno di fresco e pulito.
Mamma aveva un tono così sereno, menomale! Non vorrei che non riuscisse a reggere la lontananza. Fai un buon lavoro, mammina e torna presto.
«Posso entrare?» Dice papà sulla soglia della porta, destandomi dai miei pensieri.
Mi tiro a sedere e annuisco.
«Grazie per il cellulare, è stato molto utile» Dico indicando il gigante aggeggio poggiato sul comodino di fianco al letto.
Papà sorride e si siede accanto a me «Posso farti una domanda?»
«Anche due, Bruce!»
«Da quando fai la preghiera prima di cena?»
Il mio cuore perde di un battito. Tengo il suo sguardo per un po’, poi lo sposto altrove, nell’angolo meno illuminato della stanza.
È vero, non mi importa molto se lui non ci è stato in tutti questi anni e che il nostro dialogo è stato pari a zero, però il mio desiderio di avere una certezza, una guida, una protezione nella mia vita c’è sempre stata. Quando lui e mamma divorziarono io andavo ancora all’elementari. I primi tempi furono tragici: non vedere più papà a colazione, in giro per l’appartamento, rientrare la sera dopo una lunga giornata di lavoro.. era dura.
Dovevo sopportare quell’enorme vuoto che aveva lasciato in me e che nessuno, nemmeno mamma con tutti i suoi sforzi negli anni, è riuscito a colmare.
Per lui ero scricchiolo, o bimba. Mai Emma.
Mai.
Diciamo pure che mi stava bene quando lui faceva ancora parte della mia quotidianità, ma quando poi se n’è andato, quella mattina.. beh, le cose sono un po’ cambiate.
Non ero scricchiolo, o bimba. Ero Emma.
Emma e basta.
Per quanto cercassi il risvolto positivo in tutto ciò che facevo senza di lui, non lo trovavo. Mi auto-convincevo che le cose andassero bene, per il verso giusto, ma nessuno sa le pene che ho patito. Nessuno e, fino a poco tempo fa, nemmeno io.
Sono fortunata, però: io un papà ce l’ho ancora, lo vedo, lo tocco, lo sento mentre c’è chi non può fare nulla di queste cose perché un padre non c’è l’ha.
«Chiedimi il perché, piuttosto»
Il suo sguardo curioso e limpido diviene perplesso e muto. «D’accordo.. Perché, allora?»
«Prego perché così posso, per un solo istante, pensare a tutto quello che la vita mi ha tolto e mi ha dato durante gli anni e che continua a fare tutt’oggi. È un gioco abbastanza sporco il suo, ma è necessario per crescere»
Il mio visino pallido viene colorito da una smorfia di malinconia mista all’orgoglio. No, non era una bugia.
La prima sera senza papà, mamma cucinò delle ali di pollo fritte. Come se fosse ieri! Apparecchiò il tavolo e mi disse di prendere posto senza toccare nulla. Obbedì senza discussioni anche perché il mio stomaco rifiutava tutto quel giorno, come se fosse pieno. Sì, pieno.. pieno di dolore. Mi accomodai e poco dopo mi raggiunse anche mamma, mi guardò e disse che da quella sera in poi avremmo pregato tutte le sere prima di riunirci per la cena. Non capii le sue parole, ero troppo piccola e la mia casa non era mai stata sorretta dai comandamenti di Dio.. Almeno fino ad allora.
«In poche parole, non ho vinto il premio come migliore padre dell’anno!» Scherza alleggerendo il peso delle mie parole. «Ho capito e mi dispiace. Avrei dovuto cercarti di più»
Punto di nuovo gli occhi su di lui. L’ultima cosa che volevo è fargli pesare i suoi errori. Mi getto sulla sua spalla, abbracciandolo forte. Il momento che stavo aspettando.
«Ti voglio bene» Mugugno sulla sua camicia, in preda alla frenesia.
Papà abbandona la mia stanza promettendomi di rivederci la mattina seguente, felice come uno scolaretto. Mi giro e rigiro tra quelle profumate lenzuola finchè non cado in un sonno profondo, sconfitta dalla stanchezza di nove ore di viaggio e di tutto ciò che ha portato a galla il mio oscuro passato una volta visto il mio splendido presente!



Spazio autrice

Buongiorno, mie care. Come avete potuto notare, questo capitolo è stato molto più lungo dell'altro. Spero che non vi abbia annoiato.
Fatemelo sapere tramite una recensione. Non ho assolutamente idea di quando riuscirà a battere il prossimo capitolo -spero oggi, mi sento ispirata-
Ma non temete: non appena l'avrò scritto, revisionato, letto e riletto, lo pubblicherò! Parola di lupetto aw.
Per spoiler o altro, c'è il mio fake di
Facebook.
La frase in cima al capitolo è della canzone "Let it go" di Demi Lovato.

foreverwithyou

 

La camionista del mio cuore: Emma Marshall
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** III. ***




III.
 
I know he's playing my heart and I ain't got no choice. There's just something about the boy

 
«Mugugno versi strani mentre l’abbagliante luce del sole si sofferma sul mio viso, riscaldandolo. È già mattina.
«Buongiorno, signorina» esordisce una voce roca e femminile nella stanza.
Scatto a mo’ di molla e mi metto seduta sul letto. «Oh sei tu, Joanne»
La donna, conosciuta la sera prima mentre ci serviva la cena, mi regala un dolce sorriso e, prima di abbandonare la stanza, mi informa che sono già le sette e che la colazione sarà in tavola tra poco.
Balzo giù dal letto e mi stiracchio sbadigliando come una morta di sonno. Ho dormito profondamente anche se il materasso era abbastanza duro. Con gli occhi ancora incollati tento di raggiungere, nel migliore del modi, la porta. Barcollo come un’ubriacona. Ma cosa diamine mi è successo?
Arrivo in bagno con fatica. Butto un occhio ancora assonnato sulle lucenti mattonelle del pavimento e le creme per il corpo costose che si vedono in tv poste sulle accurate mensole in alto. La mia grande amica alias la doccia, mi aiuterà a scrollarmi di dosso questo sonno che, per me, è peggio del diavolo tentatore.
Mi tolgo i vestiti del giorno prima –sì, nella foga ho dimenticato di mettere il pigiama ieri sera- e, dopo aver fatto la conoscenza della tazza, entro in questa cabina di vetro opaco. Porca troia, è bellissima. A New York avevamo una vasca arrugginita color senape con la fontana che spruzzava acqua da tutte le parti. Questa è una doccia, invece. Una vera doccia con tutti i confort. Lascio che il getto d’acqua repentino e tiepido mi bagni i piedi mentre mi raccolgo i capelli in una cipollina trasgressiva. «Che meraviglia!» esclamo in preda all’ecstasy.
Canticchio qualcosa mentre mi strofino energicamente con una spugna di colore rosa –avevate dubbi?- mentre il bagnoschiuma al cocco mi percorre il corpo/tavola da surf, per me è uguale.
Esco dalla doccia e mi copro con un asciugamano mentre passo una mano sullo specchio posto sopra al lavandino leggermente appannato. Mi sciolgo i capelli e prendo una delle tante spazzole poste su un mobiletto per iniziare una sanguinosa battaglia contro i nemici nodi; raccolgo, poi, la quantità eccessiva di capelli color castano scuro in una treccia a spina di pesce –almeno, si ispira a quel tipo di treccia-. Non sono mai stata brava ad acconciarmi i capelli o truccarmi in modo adeguato: per me una treccia spennata e del fard buttato a caso sulle guancie è okay.
Ritorno in camera, ancora avvolta nell’asciugamano azzurrino, per vestirmi. Apro l’armadio dove, ieri sera, ho riposto tutti i miei capi e inizio a guardarli con cautela. È il primo giorno di scuola, sono la ragazza nuova e non posso sembrare sciatta. Inizio ad avere dei crampi allo stomaco e a sudare freddo: non so se è la fame o l’ansia per le nuove esperienze che dovrò affrontare in questa ricca città.
Il mio buon gusto mi aiuta a scegliere dei comodi jeans a sigaretta e una canotta bianca con sfumature colorate. Ci abbino, ovviamente, degli anfibi fucsia e la mia inseparabile felpa grigia. Tracolla mimetica, blackberry più morto che vivo in uno degli anfibi e via, dritti di sotto.
Sento vociferare dalla cucina, così mi avvicino e vi entro. La classica famiglia americana di prima mattina: papà, seduto su uno sgabello, che con una mano sorregge un quotidiano e con l’altra un caffè; Tanya dedita a spalmare la marmellata su una fetta biscottata; e il sole che illumina la scenetta invitante.
«Buongiorno» mi annuncio facendo il mio impacciato ingresso.
I due si destano e mi guardano accogliendomi con degli affabili sorrisi.
«Dormito bene?» mi domanda Tanya facendomi segno di accomodarmi su uno sgabello, accanto a lei. «Sarai affamata. Serviti pure, Emma»
Latte, cereali, succo, biscotti, cioccolato da spalmare.
Sono in paradiso.
Un po’ intimidita, afferro la bottiglia di vetro contenente il latte me ne verso un po’ in una tazza, poi ci butto dentro una manciata di cereali e inizio la mia colazione.
«Prima di andare in ufficio ti accompagno a scuola, tesoro. Vedrai, ti troverai bene, è l’istituto migliore di tutta la California» dice papà, entusiasta.
«Evviva» esulto ironica con la bocca ancora piena.
«Ti aspetto in macchina» dice baciandomi la fronte per poi dileguarsi.
Finisco di mangiare e Tanya mi accompagna alla porta.
«Buona giornata, Emma» mi saluta Tanya abbracciandomi, sulla soglia.
Ricambio l’abbraccio dandole dei colpetti sulla schiena. «Altrettanto»
Scendo i gradini e mi ritrovo nel vialetto dove dovrebbe, in teoria, esserci Bruce. Mi guardo in giro,  ma l’unica macchina che vedo è quella del dirimpettaio che sta subendo un lavaggio esemplare. Ricchi sfondati di Beverly Hills e poi si fanno il lavaggio macchina faidate.
Degli schiamazzi alla mia sinistra, catturano la mia attenzione. Mi volto e vedo un gruppo di sbarbati adolescenti che se la ridono. Si fermano davanti alla casa accanto alla mia. Incuriosita come non mai, non smetto di fissarli, sebbene la luce del sole mi impedisca di vedere al meglio.
Un altro sbarbatello esce dalla casa e raggiunge quei quattro appena arrivati.
La sua camminatura sensuale, i capelli che risplendono al sole, il sorrisetto infame.
«Il lussurioso energumeno» Dico indicandolo.
Avevo dimenticato che viveva lì. Lo scontro di ieri, il mio blackberry inzuppato, lui col costumino sexy color fragola. Ew.
La mia voce, evidentemente, riesce a farsi sentire anche da loro che si voltano sorpresi. Sgrano gli occhi e mi giro dando loro le spalle, facendo una barriera con le mani intorno al viso.
«Dio, fa che non mi abbiano vista!» prego silenziosa.
«Tu sei.. la straniera, giusto?»
Faccio per rispondergli ma il suono del clacson mi impedisce di farlo. Bruce, sei il mio Salvatore.
Lascio il broccolo lussurioso lì e salgo nel macchinone di papà che mi aspetta pimpante, indossando i suoi enormi occhiali da sole e stretto nel suo completo firmato Armani.
Nervosa, mi mangiucchio quel che resta delle mie unghie –o, per meglio dire, dei miei polpastrelli- e mi guardo le scarpe.
«Le cose ti vanno proprio bene qui a Beverly Hills, eh Bruce?» domando frenetica.
Sono pure logorroica quando mi trovo in situazioni come questa. Sì, sono disagiata mentalmente, purtroppo è la croce di chi ha sedici anni.
La realtà qui sembra, però, molto diversa.
«Questo è il tuo orario delle lezioni. Cerca la direttrice non appena entri» dice Bruce parcheggiando davanti al cancello e passandomi dei fogli spillati «Ripasserò a prenderti nel pomeriggio» conclude.
Gli do un leggero bacio sulla guancia e scendo dall’auto.
Si comincia!
Entro nel mio nuovo liceo e do inizio alla mia nuova carriera scolastica. È un edificio completamente ristrutturato e perfettamente americano: c’è chi litiga, chi si bacia, chi fa avanti e indietro per i larghi corridoi, chi prende e posa libri dall’apposito armadietto, questo di colore giallo. Tutto normale, almeno fin qua.
Dopo essermi scansata qualche scimmione di troppo che barcollava manco fosse ubriaco per i corridoi, arrivo nella segreteria e, una volta date le mie generalità, mi mandano nella classe di storia del professor Campbell.
«Buongiorno, sono Emma Marshall» dico rompendo il più fragile silenzio che regnava tra i banchi.
«E io sono a corto di aspirine. Prendi posto, Emma Marshall, che non abbiamo tempo da perdere» dice concludendo con un falso sorriso, il presunto docente.
Calmino, quattrocchi.
È un uomo molto alto, snello, occhialuto –appunto-, con i capelli neri spiaccicati in testa da una leccata di dromedario, un abbigliamento da perfetto rappresentate di pentole e un gran senso dell’umorismo.
Scuoto il capo, amareggiata, mentre cerco un posto con gli occhi dell’intera classe puntati addosso. Ne trovo uno in fondo, accanto alla finestra che affaccia sul cortile. È mio.
«Beh» sbuffo guardandomi attorno, una volta seduta «Cosa avete da guardare?»
«Sei il giocattolino nuovo, Marshall. Ci farai l’abitudine» dice il professor Campbell strizzando un occhio.
Assumo un’espressione inorridita. Ma dove sono capitata?!
Il professore riprende a spiegare e io faccio di tutto per cercare di seguire. Nel vecchio liceo, il programma non veniva seguito proprio alla lettera dagli insegnanti e chi ci rimetteva alla fine eravamo sempre noi alunni. Ora, quindi, mi trovo in seria difficoltà.
Bussano, improvvisamente, alla porta. Fa il suo ingresso.. No, non è possibile...
Il mio vicino di casa.
Mi metto le mani sulla fronte e prego che sia solo un incubo. Purtroppo, però, la figura del possente ragazzone si fa sempre più nitida e si avvicina sempre di più.
«Mi scusi, professore. Il coach doveva parlarmi di una cosa importante» dice il ragazzo.
«Certo, Payne. Ora siediti» controbatte il prof, seccato. Sembra una donna con le sue cose.
Il tizio dai capelli magnifichevoli si accomoda nel banco accanto al mio. Vorrei avere un guscio dove nascondermi.
Il professore, visibilmente scazzato, cerca di riprendere ancora una volta la spiegazione. Quell’uomo è proprio una donna col ciclo.
Mi sento un paio d’occhi puntati addosso. Mi giro automaticamente e incrocio lo sguardo curioso e impertinente del mio vicino. Arrotonda gli angoli della bocca fino a mostrarmi i suoi denti bianchi e perfetti.
Mi fa segno di avvicinarmi così sporgo leggermente il busto. Avvicina con cautela la sua bocca rosea al mio orecchio tanto da farmi rabbrividire tutta.
«Che ci fai qui, straniera?» sussurra in maniera quasi impercettibile.
Sento il suo dolce profumo di vaniglia che mi solletica le narici. Siamo a pochi centimetri di distanza: è davvero una distanza notevole per me che non sono qui da nemmeno un giorno!
Non ho il tempo per rispondere poiché la donna scazzata ci richiama.
La lezione termina in fretta e il professore mi da degli appunti che mi faranno mettere in pari con il programma dato che sono arrivata durante il secondo semestre scolastico.
«Ah, signorina Marshall» mi chiama prima che possa abbandonare l’aula «Dato che lei e il signor Payne sembrate essere in confidenza, svolgerete insieme il compito che ho dato alla classe. È un’eccezione solo per lei, dato che è nuova»
L’energumeno Payne? Quell’essere dal profumo di vaniglia?
«Ci deve essere un errore: io e quel fantoccio non ci conosciamo nemmeno» sbotto contraria.
«Suvvia, Emma. Prima o poi dovrai pur rapportarti con qualcuno, o vorrai rimanere sola a vita? Non ti conviene, non a Beverly Hills» dice fino a sparire trascinato dalla folla di studenti che scorrazzano per il corridoio fuori dall’aula.
Mi volto e faccio per andarmene quando vedo il mio partner, nonché vicino di banco, nonché vicino di casa. Troppe coincidenze fastidiose.
«Sono Liam, comunque» mi dice spavaldo.
«Ma quando?»
«Cosa?»
«Quando te l’ho chiesto?»
Liam scoppia a ridere di gusto.
«Ora almeno hai finito di affibbiarmi tutti quegli insulsi nomignoli, Emma»
Come lo dice bene! Le sue labbra si incontrano perfettamente mentre pronuncia il mio nome.
«Per me sarai sempre un energumeno, che tu mi abbia detto il tuo nome, è irrilevante!» dico incrociando le braccia sotto al seno che non ho.
«Sfacciata. Mi piace» dice avvicinandosi con fare malizioso «Vuoi davvero andare nel laboratorio a fare biologia?» continua poggiandomi le mani sui fianchi.
Caldo. Sento tremendamente caldo.
Devo rimanere lucida, però.
«Toglimi le mani di dosso, bifolco» dico spingendolo e raggiungendo la porta «E scordati che faremo il lavoro insieme»



Spazio autrice
So perfettamente a cosa state pensando e, prima che mi lanciate qualsiasi maledizione, lasciatemi dire solo che mi dispiace tanto!
Davvero. Sono mortificata, ma è successo che sono andata in vacanza e poi sono tornata senza nemmeno un'idea per riprendere la storia.
Questo capitolo lo avevo già pronto da diverso tempo. Ringrazio, anzi venero, la vostra costanza e la vostra gentilezza nel seguire ancora gli aggiornamenti.
Essendo presa da tutt'altro in questo periodo, non so davvero quando riuscirò a battere il prossimo capitolo.
Se avete idee, non esitate a farmele sapere tramite una recensione o un messaggio. Okay?
La frase in cima al capitolo è della canzone "About the boy" delle Little mix.
foreverwithyou
 

L'energumeno Payne. Non mi morite.


 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2641502