'Half Past Eleven'

di Diamond_91
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** - Angelica ***
Capitolo 2: *** - Entro e non oltre le 23:30 ***
Capitolo 3: *** - La scelta ***



Capitolo 1
*** - Angelica ***


 
 





Capitolo 1.

 - Angelica -

Voci. Rumori opprimenti che fiatavano veloci sull'aria. Il solito caldo di metà luglio che rimbombava prepotentemente in ogni angolo. Le mie dita scivolano veloci sulla tastiera del computer per imprimere su un documento le testimonianze che giungevano incisive e potenti dalla bocca del Capitano.
- Si trovi un lavoro degno di lei invece che continuare a battere sul marciapiede... -
Il silenzio. Potevo scorgere imbarazzo e timore dietro il silenzio minaccioso della giovane donna che mi dava le spalle. Negli occhi del Capitano Guidotti il più assoluto disprezzo.
- Mi ha capito, signorina? -
Nessuna risposta, solo un leggero soffio di vento che cadde delicato sulla sua pelle, scoprendole appena la canotta mostrando il laccio fucsia del reggiseno.
- Ancora mi chiedo come possano darle l'affidamento di due bambini. Questa volta farò cambiare io idea al Tribunale... -
- No, la prego... -
Alzai gli occhi dallo schermo del computer puntandoli verso la voce che aveva appena ammazzato il silenzio. Nel suo tono incertezza e supplica. Lo sguardo puntiglioso del Capitano non avrebbe ammesso nessuna preghiera. Guidotti era così: assoluto. Teneva il potere nelle sue mani, evitando di cospargere sentimenti nell'aria. I muscoli della donna cessarono di opporsi. La debolezza delle sue parole la si poteva notare anche senza aver percepito nessun suono uscire dalla sua bocca. 
- Ho solo loro e loro hanno solo me... -
Le mie mani cessarono di scrivere, appoggiandosi con poca finezza sulla tastiera del computer. Parole. Parole che si susseguivano ad altre parole. Pena. Tenerezza. Sofferenza. Quella stanza era un insieme di emozioni, opposte tra loro, a tratti incomprensibili, sotto altri aspetti totalmente indecifrabili.
- Non sono qui per raccogliere la sua elemosina, signorina. Le ho detto che ci penserà il Tribunale e così sarà. -
Il tono del Capitano non ammetteva repliche. Fissai confuso la donna davanti a me. Le sue spalle caddero verso il basso mentre si lasciava scivolare sulla sedia, strisciando come un serpente contro lo schienale di legno. I suoi capelli lunghi le ricadevano perfetti sul corpo, lasciando intravedere piccole macchie di pelle: delicate come la sua voce. 
- Ora, se vuole scusarmi, ho cose più importanti a cui dedicarmi... -
Le pratiche si sovrapposero le une sulle altre, mentre il respiro della giovane donna si faceva sempre più teso e apatico.
- Mazzino, ci pensi lei ad accompagnare la signorina, grazie. - 
Nessuna stretta di mano tra loro. Nessuno sguardo di comprensione da parte del Capitano. Era come se entrambi avessero costruito una barriera invalicabile per proteggere i propri ideali e i propri diritti. Con un cenno del capo obbedii senza aggiungere nulla, e allungando una mano verso la schiena della giovane donna, la invitai a lasciare l'ufficio, dandole così un motivo valido per ritornare a respirare. 
I suoi passi: incerti e precisi che ricalcavano il corridoio. Le sue mani che ricadevano pesanti lungo i suoi fianchi. I suoi occhi che fissavano senza tregua il pavimento, mentre i capelli castani le ricadevano delicati sul viso, coprendolo appena. Era muta ma parlavano i suoi movimenti. Conversavo con il suo silenzio rispondendole con il mio. Non la conoscevo, non l'avevo mai vista prima, ma era come se tra di noi ci fosse alchimia. Un contatto diverso, meno sporadico, più naturale. Un atterraggio di emergenza; una lacrima sudata che ricadeva inerme in una pozza d'acqua. Le aprii il portone della caserma, sorridendole appena. Il sole era caldo al di là del muro, lo si poteva notare dai raggi che illuminavano un innocuo angolo di strada dinnanzi a noi. Abbassai lo sguardo sperando di poter incontrare almeno una volta i suoi occhi, rapendoli coi miei, di confondermi con il suo spirito per poterla rassicurare, per regalarle un altro motivo per vivere, per donarle l'attenzione che meritava.
- ... Pensi che stia sbagliando tutto? - 
La sua voce. La sua voce come un tuono in piena estate mi attraversò il corpo. Alzai il volto fissandola senza fiatare. Era bellissima. Il verde dei suoi occhi richiamava la speranza e il rosso acceso del suo rossetto mi ricordava il fuoco, la passione con cui poteva domarlo. Rimasi immobile sulla soglia del portone. Una domanda che implicava infinite risposte. Infinite domande che si celavano dietro ad una sola domanda. La guardai ancora, forse con più profondità che in precedenza. La osservai per scrutarne il senso, per capirne la paura, per affondare la verità nel suo sguardo.
- Gli errori si possono sempre perdonare, basta trovare la giusta spinta per andare oltre. -
- ... Ho paura. Non riuscirò mai ad uscire da tutto questo e... E i bambini li voglio tenere, mia sorella ha bisogno di vivere con me, con l'unica persona che le è rimsta. Sono la sua famiglia e lei è la mia. Combatto da sola ogni giorno per loro. Non posso rinunciarci. -
Una lacrima che lenta vagava sul suo viso cercando un punto di arrivo, un traguardo diverso. Sincerità. L'aria si era mescolata con lei, con i suoi timori e le sue incertezze. I suoi occhi chiari si socchiusero con debolezza, come se non ci fosse nulla che potesse aiutarla; come se si fosse abbandonata al suo destino.
- E non lo farai. -
Abbassai il viso, cercando di scorgere il suo sguardo. La mia mano si mosse puntuale sul suo volto, bloccandole la lacrima che veloce le attraversava la pelle. Un altro contatto. Forse più intimo rispetto al precedente o forse, solamente più vero, più reale.
- Combatteremo insieme. Ti aiuterò io, se me lo permetterai. -
Una nota di malinconia caratterizzò le mie parole. Agire contro il volere del Capitano non rientrava nei miei parametri, ma per quella donna mi sarei spinto oltre. Lo avrei fatto per poter regalare a lei e alla sua famiglia un futuro migliore, la possibilità di un lavoro vero, di una fiducia maggiore verso sé stessa, di distruggere le paure alimentando le speranze. 
- Grazie Brigadiere. -
Complicità. Tra di noi c'era una legame nascosto, lo potevo percepire a pelle, sentirlo vagare inesorabile nei nostri occhi. 
- Lei è davvero un uomo speciale... - 
Il suo ultimo sguardo prima di scendere con eleganza gli scalini allontanandosi da me. Il suo ultimo sguardo prima di essere rapita dal sole. Il suo ultimo sguardo prima di voltarsi definitavemente verso l'orizzonte mostrandomi ancora una volta le sue spalle snelle. Il suo ultimo sguardo che mi catturò l'anima incendiandomi lo spirito.
- Aspetta! -
Uscii dalla caserma urlando quasi silenziosamente. La camicia blu che indossavo attirava il sole lasciando penetrare il caldo dei raggi che leggeri e soavi camminavano sul mio corpo. 
- Il tuo nome! Voglio sapere il tuo nome. - 
I suoi occhi si calamitarono ai miei. Sapevo come si chiamava, lo avevo letto precedentemente sui documenti nell'ufficio del Capitano, ma volevo sentirlo dire da lei, volevo che il suo nome uscisse dalla sua bocca. Ero curioso di vedere con quale passione ardente lo avrebbe pronunciato. 
- Angelica. Il mio nome è Angelica. -
Rimasi immobile sulla porta osservandola camminare. Ne seguii i passi anche a distanza. Sorrisi senza un motivo logico. Sorrisi fissandola allontanarsi da me. La distanza che ci separava rimaneva solo consapevolezza, nulla di più. 
- Ciao Angelica. - 

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Capitolo 2
*** - Entro e non oltre le 23:30 ***











Capitolo 2.

Il profumo del caffè riusciva in qualunque modo a lasciarmi interdetto: troppo forte, intenso, vivo più di qualsiasi altra cosa. Le dita tamburellavano pesantemente contro il volante dell'automobile. Il volume basso dell'autoradio arrivava vibrante e pesante alla mente e l'odore nausente della maionese e dei gamberetti rendeva l'aria pesante ed intrisa.
Non avevo mai provato molta simpatia per gli appostamenti notturni: rimanere in macchina ad osservare ogni minuscolo movimento di ogni millimetro quadrato di strada era snervante, faticoso se fatto dopo le 23:00. 

- Ah Diè, qui non esce nessuno. Il bastardo ha deciso di farci aspettare stasera... - 

Alzai lo sguardo dal cruscotto per poi appoggiarlo serio al di là del vetro. I lampioni illuminavano i parcheggi che ricoprivano l'intera via e le voci graffianti provenienti dalle varie televisioni rimbombavano, penetrando attraverso i vetri pesanti della vettura.

- Non lo so. -

Scrollai la testa ripetutamente per poi appoggiare la fronte alla pelle morbida del volante. La stanchezza quella sera era a tratti disarmante.

- ... Chi è? - 

La voce di Fabio mi colpì improvvisamente, come uno schiaffo durante una carezza. Lo fissai confuso per poi spingermi all'indietro, toccando con la nuca il sedile.

- Chi è chi? - 

Gli occhi di Fabio mi osservarono in silenzio. Sarebbe riuscito a leggere ciò che provavo in quel momento anche se evitavo di pronunciarmi. Fabio non era solo un collega per me, era il mio migliore amico. Il ragazzo con il quale ero cresciuto, con cui avevo frequentato il Liceo e l'Università, con il quale mi ero arruolato nei Carabinieri per far trionfare un sogno, forse l'unico che avevamo in comune. Sapeva leggere i miei silenzi, tradurre i miei urli, capirmi con la forza di uno sguardo. Era un mago della parola: riusciva a coglierne il senso anche se questo era intricato in spiegazioni indecifrabili. 

- Non ti chiederò di più, mi hai già risposto... -

Un piccolo sorriso compiaciuto non tardò ad arrivare sulle sue labbra. Fabio non aveva mai sbagliato. Fabio conosceva più me di quanto conoscesse sè stesso e sarebbe stato sempre pronto per affiancarmi in ogni mia decisione.

- Si chiama Ang... - 

Passi. Passi pesanti ed esperti. Tra di noi cadde il silenzio. I nostri occhi si calamitarono verso la sagoma scura che si presentò davanti a noi: jeans scuri attillati, maglia bianca che ricadeva perfetta sulla cintura di borchie. Pelle ricoperta da tatuaggi, barba incolta, occhiali scuri per ripararsi dalla luce tenue della Luna. Il rumore sordo della portiera della vettura che si richiudeva. Il motore acceso. Una sgommata fastidiosa che spezzò la tranquillità.

- Questa volta il bastardo lo prendiamo! Cazzo se lo prendiamo, Diego! - 

Le parole decise di Fabio mi misero ancora più adrenalina. Lasciai roteare la chiave nella fessura e acceso il motore, seguii la scia che 'Ciro U puorc' aveva seminato dinnanzi a noi. L'intermittenza delle luci dei lampioni era fastidiosa. La voglia di accelerare la guida per sorprenderlo alle spalle era troppa, ma avevamo degli ordini da seguire e li avremmo rispettati, senza lasciarci condizionare da nulla. 
Un pedinamento spietato tra le vie della città. Il nostro sguardo era calamitato sulla vettura che ci precedeva: ne scrutavamo ogni singolo movimento. Respirai profondamente. Non avevo paura, avevo solo timore di fallire, di non meritarmi la missione sotto copertura che mi era stata affidata dal Capitano. Con la coda dell'occhio osservavo Fabio, i suoi continui respiri, la stretta che si faceva sempre più solida sulla sua pistola, i muscoli delle gambe che si appesantivano, i suoi occhi accesi d'ira che fissavano un punto poco preciso dinnanzi a noi.

- Si è fermato, Diè! Si è fermato... -

La sua voce calante che mi invitava ad accostare sul ciglio più scuro della strada per evitare che il malvivente ci notasse. Ciro Esposito, detto 'Ciro U Puerc' non era solo coinvolto in affari di droga e contrabbando di stupefacenti, ma era a capo di un giro di prostituzione europeo: obbligava ragazze con problemi di denaro a prostituirsi, lasciando a loro credere che il futuro con il suo aiuto sarebbe cambiato. 
Strizzai gli occhi spegnendo il motore. Osservai per qualche istante la pistola sul cruscotto dell'automobile. Non mi sarei tirato indietro. Avrei combattuto fino alla fine, a costo di farmi male, male davvero. 
Seguii i passi di Ciro, che con pesantezza abbandonava il veicolo, camminando rabbioso verso il portone di una piccola palazzina. Lo notai suonare il campanello, infuriarsi contro la persona che vi era al di là del citofono, inveire infastidito. Lo osservai alzarsi la maglia e sfoderare con tutta fretta e forza una pistola silenziata.

- Cazzo Fabio. -

Mi voltai di scatto verso il mio compagno e sarei riuscito a descrivere la mia espressione sul viso in quel momento, era esattamente uguale alla sua. Senza aggiungere nulla, scattò come una molla aprendo la portiera dell'Alfa con forza e vigore. Lo seguii in silenzio, stringendo l'arma tra le mani, come se fosse quella la mia unica fonte di salvezza. Sul citofono della palazzina nessun cognome ricopriva la striscia bianca di fianco ai campanelli. Un altro sguardo complice tra di noi, mentre dalle scale interne all'abitazione, urla di donna e bambini riecheggiavano prepotentemente tra le mura.

- Veloce! -

Il suo ordine aveva un suono diverso, meno d'obbligo, si avvicinava di più ad una supplica. Iniziammo a correre velocemente divorandoci quattro scalini alla volta, per evitare di permettere a quell'uomo di fare del male ad altre persone. Al secondo piano della palazzina, alla destra del pianerottolo, una porta spalancata, una voce ruggente, urla incriminatorie. 
Caricai la pistola e portandomela all'altezza della spalla, entrai nell'appartento, irruendo con determinazione e fermezza. Dietro di me Fabio, nella mia stessa ed identica posizione.

-Ciro. Fermati e metti giù la pistola. -

Un ordine. La mia voce potente e decisa. Il mio sguardo che fu attirato dal pavimento stracolmo di vetri rotti. Sdraiata per terra, una giovane donna che copriva con i suoi capelli lunghi la piccola bambina che spaventata, provava a difendersi aggrappandosi al suo corpo.

- Ciro, non peggiorare le cose. Molla quella cazzo di pistola. -

Puntai la mia contro di lui, sperando che si girasse lentamente e che si arrendesse al mio richiamo. 

- Sbirro, complimenti. -

La sua voce apatica e strafottente. Un miscuglio perfetto di stravaganza e deformità.

- Queste sono cose che non ti riguardano. Faccio quello che cazzo voglio con le donne che mi appartengono. - 

Una frase sincera secondo lui, ma che lasciava ad intendere quanto fosse infinita la sua malvagità.

- C'è una bambina, Ciro. Non sporcarti anche di lei... -

La voce di Fabio giunse come una guarigione alle mie spalle. Lo guardai con la coda dell'occhio: gli invidiavo la fermezza. I miei muscoli tremavano, quasi come se avessi freddo, un freddo impossibile da far esaurire. Ero teso, teso come una corda di violino, ma mi sarei sforzato per mantenere la situazione sotto controllo. Deglutii pesantemente per poi avvicinarmi di qualche passo. 

- Non ti avvicinare, sbirro. Ci metto poco a farti un buco in testa... -
- Non lo farai. - 
- Ah no? E perché? Dovresti saperlo: 'U Puerc' sa essere ancora più bastardo di così.  - 

Davanti a me la sua pistola che mi osservava silenziosa. Aspettava un ordine dal suo proprietario e poi avrebbe compiuto il suo lavoro. Mi separavano pochi attimi dal nulla e mai come in quel momento sperai di poterne trovare l'essenza giusta per mascherarmi.
Il pianto sofferto della bambina mi spezzava il cuore. La mano vigile della giovane donna che la proteggeva mi faceva rabbrividire. Loro credevano che tutto potesse avere ancora una speranza. Le urla di un neonato risuonavano nella stanza accanto. Non riuscivo più a respirare, a capire come fosse giusto comportarsi. Osservai la donna: il modo in cui stringeva la bambina, i suoi capelli lunghi e castani che sembravano difenderla dall'intero mondo, le spalle snelle, la sensualità nei suoi movimenti, i suoi respiri affannosi, i muscoli tesi. La fissai con più fermezza per poi inginocchiarmi e far scivolare la pistola sul pavimento, lanciandola delicatamente contro la finestra.

- Abbassa la pistola, Ciro. Io l'ho fatto... Datti un'altra possibilità. Dattela adesso... - 

Alzai le mani al cielo mostrandomi ai suoi occhi nudo, completamente privo di possibili difese. Sentivo pesante lo sguardo di Fabio alle mie spalle. Nulla era stato deciso, tutto era in balìa di ogni nostra scelta e io la mia l'avevo fatta.

- Che cazzo fai, Diego? -

Il suo sgridarmi era impossibile da sopportare. Aveva ragione, ma non c'eravamo solo noi in ballo in quel momento. Lo sguardo preoccupato della bambina, il pianto del neonato, le braccia forti della giovane donna piene di ferite, di graffi... C'era altro da fare in quel momento. Mi si fermò il cuore in petto. Quella donna... Quei piccoli gesti... Il suono dei suoi respiri... La guardai con occhi diversi per poi incontrare i suoi. 
L'avrei riconosciuta tra infinite persone. 

- Non ti muovere, bastardo. Io sparo. Io ti sparo davvero. - 

La voce mettalica di Fabio mi arrivava ovattata. Notai le sue dita premere lentamente contro il grilletto. Le piccole gocce di sudore che gli ricalcavano il viso. Allungai le braccia verso la donna stringendola a me, per far si che evitasse di avere paura, di tremare ancora.
Uno sparo e poi il silenzio. Uno sparo che spezzò l'aria. Mi voltai notando il sangue ricadere per terra. Fabio sdraiato che urlava e si stringeva nel giubbotto. Una pellicola di immagini si susseguirono nella mia mente. Lo fissai stravolto e confuso. 

- Ciro ha sempre ragione, ricordatelo sbirro! - 

I suoi passi, sempre più felpati e minacciosi. La sua presenza che si allontanava lentamente da noi. Si fermò sotto lo stipite della porta fissandoci duramente. 

- ... E ricorda zuccherino, entro e non oltre le 23:30 o mi saprò vendicare. - 

La sua ultima frase prima di uscire di scena definitavamente. Gattonai impazzito verso il mio collega. Le mani che tremevano, il suo respiro che faticava ad uscire dalla bocca. Avvicinai la fronte alla sua: pelle contro pelle come non lo eravamo mai stati. Chiusi gli occhi esausto, cercando un riparo possibile tra le sua braccia. 

- Un'ambulanza. Angelica chiama un'ambulanza... - 

Voce tagliente e sofferta che si esaurì in una lacrima. Gli occhi di Fabio si incollarono ai miei. Con le sue ultime forze riuscì a regalarmi un sorriso. 

- Non puoi lasciarmi ora... -
- N-no lo farò. - 

E sapevo che non l'avrebbe fatto. Fabio non mi avrebbe mai abbandonato, nemmeno se fossi stato io stesso ad ordinarglielo. 

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Capitolo 3
*** - La scelta ***















Capitolo 3.


 
''Renditi padrone delle tue emozioni e ne capirai le scelte''
- Mio Nonno.




Avevo sempre pensato che tutto succedesse secondo una ragione precisa, studiata. Non riuscivo a concepire il fatto per cui una scelta potesse causare una reazione contraria all'aspettativa. Non collegavo un'emozione con una scelta, ma un'emozione con un'altra emozione da cui poi nasceva un risentimento, una speranza o una sconfitta.

Continuavo a fissare la parete chiara davanti a me, sperando che rispondesse a tutti i punti interrogativi che mi ronzavano in testa come zanzare rumorose. Il muro che avevo consolidato anno dopo anno delle mie aspettative, era crollato nel momento in cui i miei occhi avevano sfiorato quelli sofferenti di Fabio, del mio migliore amico. I dottori entravano ed uscivano dalla sala operatoria senza rilasciare nessuna notizia sulla sua salute. 
Odiavo l'attesa e l'odore potente del disinfettante. Odiavo stare fermo quando il Mondo continuava a ruotare intorno a me. Detestavo il silenzio, che bastardo faceva sempre più rumore, un rumore insostenibile, illogico, a tratti irrazionale. Detestavo le frasi di circonstanza, i passi senza meta... Aborrivo il mio stesso riflesso quel giorno. Abominavo persino la mia inutile presenza.

- Non è colpa tua... -

La Sua voce. Un dolce richiamo soave alla più tremenda realtà. Mi voltai nella sua direzione fissandola stranito. Notai il suo braccio muoversi, la sua mano appoggiarsi delicatamente sulla mia gamba, come se tra di noi non ci fosse distanza... Come se fossimo stati intimi da tutta la vita. Abbassai lo sguardo nuovamente sul pavimento. Non avevo forza di reagire, di guardarla negli occhi, di prendere parte a quel conflitto interiore di idee. Volevo rimanere da solo; solo col mio dolore, con la mia poca fermezza, con la mia più squallida decisione. Un respiro profondo, poi un altro... Non esistevano parole per descrivere quello che stavo provando: odio, inutilità, repulsione, sconfitta, abbandono... Socchiusi gli occhi. La scena di poco prima ricoprì la mia mente: grida, pianto, suppliche, parole, sparo, sangue... Scrollai la testa stringendo i pugni lungo i fianchi per poi scattare in piedi al centro del corridoio dell'ospedale. Era un peso troppo grande per un uomo fragile come me.

- Ehi. -

I Suoi occhi a pochissimi centimetri di distanza dai miei. Potevo specchiarmici attraverso. Il verde acceso delle sue pupille era quasi magnetico. La fissai estasiato. Il suo viso dolce e delicato, le sue labbra carnose e rosse. Era bellissima. Non mi sarei mai stancato di guardarla.

- Va a casa. -
- Senza di te no. -

La sua mano nuovamente sulla mia pelle. Le sue dita che ricalcavano i contorni dei miei occhi, come se volesse proteggermi, difendermi da tutto quello che ci circondava. Era come se i ruoli si fossero invertiti: mi sentivo spaesato e vittima del giudizio e vedevo lei forte e in grado di donarmi speranza.

- Che centri tu con Don Ciro? -

Sapevo di essermi spinto oltre con quella domanda, ma avevo ancora tante cose da capire, tanti punti interrogativi a cui dare una risposta. Notai la sua mano scivolare lontana dal mio viso. L'aveva ritrata per paura, per timore che non mi fidassi di lei nè della sua presenza. I miei occhi continuavano a fissarla curioso e sospettoso aspettando una qualsiasi spiegazione. Mi bastava sapere che lei era innocente. Mi sarei fidato solo dell'espressione del suo sguardo.

- Ho sbagliato a venire qui... -

La sua voce si fece a tratti perfida e spietata. I suoi occhi scivolarono in basso, fissando senza tregua le mattonelle del pavimento. 

- Te lo avrei chiesto comunque... - 

La sua presenza mi faceva stare bene. Era quasi difficile e a tratti impossibile da spiegare, ma era così: sentivo una specie di legame fatato tra di noi, un'alchimia innata, come se fossimo legati da un filo invisibile, che ne tracciava l'essenza.

- Mio nonno mi diceva sempre che se mi rendevo padrona delle mie emozioni ne capivo le scelte e io mi sono resa padrona della mia stessa insicurezza e ne ho partorito una scelta, forse la più sbagliata, ma l'unica che è riuscita a rendermi felice anche se per poco. -

Sofferenza. Nelle sue parole c'era solo sofferenza. La fissai. La osservai profondamente per poi avvicinarmi di qualche passo. Fu la mia di mano quella volta a slittarle sul viso, raccogliendole con le dita le lacrime che silenziose le solcavano gli occhi. 

- Per proteggere gli altri fai del male a te stessa... -

Conoscevo il motivo per cui aveva iniziato quella vita: una sorella minorenne da accudire, un neonato da crescere. Angelica era un essere speciale e lo aveva confermato nel momento stesso in cui aveva deciso di donare il meglio ad altri lasciando per sè stessa il peggio.

- Vuoi sapere che cosa diceva il mio di nonno? - 

Tornai a sorridere. Pensavo fosse l'unico modo possibile per farle capire che ero lì con lei, che non l'avrei mai abbandonata. Mi fissò. I suoi occhi giganti e verdi si mischiarono con i miei. Un piccolo cenno con il capo. Le labbra si dilatarono in un minuscolo sorriso. La forza che riusciva a donarmi era immensa. L'avrei paragonata ad un tramonto d'agosto: sincero, forte, colorato, delicato, che tendeva a scomparire all'orizzonte, ma che sarebbe ritornato ogni giorno con la stessa frequenza e la stessa intensità. 

- Le persone non si incontrano per caso... C'è sempre un qualcosa che le lega, e quando si trovano si mischiano in un unico destino. -

Il mondo attorno a noi era come scomparso. Avevamo vissuto gli ultimi minuti in una cupola privata, solo nostra. 

- Io ho incontrato te e mi fido di mio nonno... Mi do una possibilità: mischio il mio destino col tuo e come inizio pongo il mio darti fiducia. - 

Le mie dita erano quasi incollate alla sua pelle. La morbidezza del suo viso e la sua delicatezza erano immense. Respirai silenziosamente. Donando una possibilità a me stesso, le avevo regalato una possibilità anche a lei, alla sua vita. Una possibilità diversa, più vera e meno cruda di quella che aveva deciso di vivere. Un altro sorriso. Le sue labbra che si schiusero formando una piccola fossetta sul mento. I capelli castani le ricadevano perfetti lungo il corpo, mettendo in risalto gli zigomi pronunciati. Mi avvicinai ancora di qualche passo. Notai la sua mano vibrare al contatto con la mia. Le nostre dita si attorcigliarono in una stretta decisa e ruggente, come se ci stessimo infondendo coraggio e fiducia l'uno con l'altra. 


- Mazzino. Porta in caserma la signorina. L'avevo avvisata. Ora passiamo alle maniere forti. -
I passi ne anticiparono la voce che, tagliente e penetrante, aveva già deciso quale fosse la soluzione migliore da prendere.

- Capitano, ma... -
- Capitano niente. Questa ragazza è una disgrazia. Se non ci fosse stata a quest'ora Cuzzoli non starebbe combattendo per la vita. - 

Il suo sguardo era feroce. Guidotti era solo una divisa allacciata e tenuta pulita. Non vi era nessuna ombra di uomo al suo interno. I suoi occhi non lasciavano spazio alla dolcezza, alla comprensione; per lui esistevano solamente il comando, la reputazione e gli ordini. Nulla di più, nulla di meno. 

-No, la ragazza non centra nulla. -

Angelica rimase immobile. Mi mollò la mano con irruenza. Io non ero come lui. Le mie responsabilità rimanevano mie, di nessun altro.

- Se il Brigadiere Cuzzoli è qui, la colpa è solo mia. - 
- Diego che stai dicendo? -
- La verità. - 

Fissai Angelica che preoccupata alternava lo sguardo tra me e il Capitano. 

- Mazzino, io comando, io decido, io faccio le conclusioni. Porta questa prostituta in caserma e trattienila fino al mio ritorno. -
- No, non posso farlo. Lei è la vittima qui: è soggiogata, obbligata a prostituirsi. Mi creda, Capitano. Le sto dicendo la verità. - 

Strinsi i pugni lungo i fianchi. Sembravo drogato di coraggio e autolesionismo, ma non mi importava. Allungai la mano verso quella di Angelica stringendola con delicatezza.

- Mazzino, non dirmi che credi alle sue parole? -

Guidotti lasciò ricadere lo sguardo sulle nostre mani intrecciate. I suoi occhi castani si colorarono di un rosso vivo, in preda alla più totale delusione.

- La mignotta ti ha fatto il lavaggio del cervello. Cos'è...? Te l'ha data per potersi meritare una difesa a spada tratta da te? - 

Offensivo. Il suo tono da autoritario si trasformò in qualcosa di assolutamente offensivo.

- E lei a chi crede? Alla parola di un suo uomo o al giudizio della gente?

Un coltello invisibile. Le mie parole furono per il Capitano motivo di assoluto disprezzo. Mi guardò inferocito. Non gli diedi la soddisfazione di fissare un punto poco preciso del corridoio. Il mio sguardo puntò il suo, senza mezze misure, pulito, deciso e combattivo.

- Sei sospeso, Mazzino.  -

La conclusione più ovvia. Gli sorrisi per poi fare pochi passi verso di lui. La fiamma dorata sul cappello non mi faceva paura, nè mi trasmetteva timore. Annuii con la testa senza aggiungere altro per poi superarlo. Avrei fatto giustizia a Fabio. Mi sarei impegnato a dare ad Angelica un futuro migliore e degno di lei. Le strinsi la mano abbandonando il corridoio dell'ospedale sotto l'occhio vigile e attento di Guidotti. Potevo sentire il suo disprezzo respirarmi sulle spalle. Percepivo il suo odio invadermi il corpo completamente. 

- Perché lo hai fatto? Perché per me? -

Le domande di Angelica arrivavano come un turbine di luci colorate. Non avevo una risposta precisa da darle. Avevo solo capito che era la cosa giusta da fare. Da un'emozione nasceva una scelta, e io la mia l'avevo decisa. Lasciai vagare lo sguardo per poi appoggiarlo sulle nostre mani ancora unite. La forza con la quale stringeva le mie dita era indescrivibile. Sorrisi mentalmente voltandomi verso di lei. 

- ... E tu, tu perché mi stringi?



 

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