Just the way you are di Switch (/viewuser.php?uid=619656)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Back home ***
Capitolo 2: *** Something is wrong ***
Capitolo 3: *** Questions, ninjitsu and troubles ***
Capitolo 4: *** Leonardo-san ***
Capitolo 5: *** Doctor Jekyll and Mister Hyde ***
Capitolo 6: *** Gotcha! ***
Capitolo 7: *** I don't love you/I should not love you ***
Capitolo 8: *** For the first time in my life ***
Capitolo 9: *** The struggle of the eldest ***
Capitolo 10: *** Can I hope? ***
Capitolo 11: *** I'll be happy ***
Capitolo 12: *** You are who you choose to be ***
Capitolo 13: *** At the edge of darkness ***
Capitolo 14: *** Fall deep in the dark ***
Capitolo 15: *** Wonder and Wander ***
Capitolo 16: *** The strongest bond of Brotherhood ***
Capitolo 17: *** Escape from hell ***
Capitolo 18: *** Thanks and Sorry ***
Capitolo 19: *** Who's the Mysterious Hero? ***
Capitolo 20: *** Reckless move ***
Capitolo 21: *** Bloodthirsty night ***
Capitolo 22: *** Vengeance is like a splinter... ***
Capitolo 23: *** Just a little kiss ***
Capitolo 24: *** Fight me, Forgive me, Forget me ***
Capitolo 25: *** Who the shell are you? ***
Capitolo 26: *** Flames in the memory ***
Capitolo 27: *** Our missing part ***
Capitolo 28: *** Challenge ***
Capitolo 29: *** Matter of heart ***
Capitolo 30: *** To reach you... with all my might ***
Capitolo 31: *** ...It gets under your skin and can poison your life ***
Capitolo 32: *** Humans and Mutants ***
Capitolo 33: *** The real you ***
Capitolo 34: *** I love you... just the way you are ***
Capitolo 1 *** Back home ***
Sequel di "September in the rain"
"Sono
annoiato. Annoiato, annoiato, annoiato!”
riecheggiò una voce
petulante dall'alto del cielo oscuro di New York. Scese giù
dal
tetto di un immenso palazzo, perdendosi poi tra le stradine
sottostanti, inghiottito dal caos notturno.
“Te
lo giuro, Mikey... quant'è vero che adesso sono una
tartaruga
paziente, che se non la smetti ti uccido. Lentamente.
Dolorosamente!”
rispose un'altra voce, bassa e minacciosa, pronunciata così
di petto
da non riuscire nemmeno ad arrivare oltre il parapetto della
costruzione.
“Oh
sì, Raph. Proprio paziente. Quasi Buddha, direi”
soffiò ironica
la prima voce, allontanandosi di poco dall'altra.
“Già.
Per esempio ti picchio meno di quanto meriteresti. Molto meno. E
ricordiamoci che tu sei dannatamente fastidioso”
asserì
quest'ultima con sufficienza, come se le sue parole fossero ovvie.
“Ma
mi annoio! È una settimana che non succede nulla! Nessuna
scazzottata, nessuna emergenza, niente!”
“E
io ti sembro forse il tuo giullare?”
Michelangelo
lo guardò con un grosso sorriso stampato in volto e Raphael
si
chiese cosa nell'universo trattenesse il suo pugno dallo schiantarsi
sulla testaccia verde del fratello. Certo, era indubbiamente
diventato più controllato e meno impetuoso, grazie
all'età e agli
ultimi avvenimenti successi, ma il sarcasmo e le sue provocazioni
avevano sempre e ancora il potere di farlo uscire dai gangheri,
instillandogli il desiderio di colpirlo per farlo tacere.
In
quel momento stava ghignando della sua espressione seccata, con
quell'aria furba e svagata che da tutta la vita gli aveva visto su
quel viso spensierato.
Sospirò,
rassegnato.
Lo
ignorò e continuò invece a correre, saltando sul
tetto del palazzo
di fronte, assorto nel pattugliare le strade brulicanti di vita al di
sotto. Riusciva a sentire alla perfezione il brusio e gli schiamazzi
che arrivavano dalla strada, composti da gridi, chiacchiere urlate ad
un volume decisamente troppo alto, musica che fuoriusciva da locali
ogni qualvolta le porte venivano aperte e persino il cigolio di un
camion della nettezza urbana che scivolava per le strade per compiere
il proprio lavoro.
Di
problemi, guai o richieste di aiuto nemmeno l'ombra.
Rallentò
appena l'andatura per osservare con interesse una coppia che mangiava
un fresco gelato all'uscita dal cinema, sorbendolo con
avidità e
desiderio.
Quanto
avrebbe voluto un buon gelato, ghiacciato quel che bastava a
combattere l'afa che si era abbattuta sulla città in quella
primavera insolitamente rovente.
Era
il mese di Maggio più torrido che riuscisse a ricordare, da
che
aveva vita. Alte temperature da record, senza un alito di vento, con
un'umidità stantia che si incollava alla pelle e ai vestiti,
soffocando il respiro. Durante la notte la situazione migliorava
leggermente, perché il sole battente scompariva e la
frescura delle
stelle riusciva a dare loro un po' di tregua; ma il fatto di correre
rendeva comunque insopportabile tutta la situazione.
“Sto
morendo di caldo” si lagnò infatti Mikey, tirando
il colletto
della tuta per fare entrare un po' d'aria. “Vorrei un bel
gelato
gigante.”
“Non
possiamo. Leo e Don ci aspettano. Muoviti.”
Ripresero
la loro corsa, diretti verso l'appuntamento coi loro fratelli, anche
loro in pattuglia a coppia. Vide che erano arrivati ben prima di
loro, in attesa sul parapetto in pietra del grattacielo su cui si
erano dati appuntamento.
“Allora,
cosa vi ha trattenuti?” domandò Leonardo non
appena atterrarono,
dopo una scalata dal palazzo vicino.
Il
leader li stava occhieggiando con rimprovero, impettito e con le
braccia conserte.
“Mikey.
È dannatamente una palla al piede.”
“È
per quello che lo lasciamo a te” rispose Donatello,
ridendosela tra
sé.
“Ehy!
Non parlate di me come se fossi un pacco indesiderato!”
“Ma
lo sei, Mikey! Lo sei!”
“Ma
solo perché mi annoio! È tutto così
noioso. Non c'è nulla da
fare, nessun nemico da battere, nessun progetto malvagio in atto. E
se non abbiamo nessun avversario, che cosa siamo?”
“Tu
di sicuro un piantagrane” gli rispose scocciato il fratello.
“Ragazzi,
adesso basta. Rapporto” li interruppe Leo, con uno sguardo
tagliente.
“Come
Mr. Pacco indesiderato ha detto prima: non c'è nulla da
fare, nessun
nemico da battere. Non abbiamo trovato traccia di attività
sospette
e non c'era nessun segno di loro” rispose Raph conciso,
riportando
con infinita noia il rendiconto della sua nottata di ronda con Mikey
il piantagrane. Che si era voluto fermare per coccolare un gattino
abbandonato che Raph non gli aveva fatto adottare, che si era
allontanato per andare a occhieggiare con desiderio una vetrina di
dolci, che aveva insistito a tutti i costi per prendere una pizza dal
locale all'angolo grazie alle loro tecniche ninja, lasciandosi
ovviamente i soldi dietro, per correttezza.
A
volte si sentiva come se fosse suo padre e non suo fratello. Salvo il
fatto che lui, con un figlio come Mikey, sarebbe uscito completamente
di testa.
“Non
è possibile” esalò Leo, preoccupato.
“Un mese intero senza più
un segno o una traccia... non è da loro!”
“Sembra
quasi che tu sia dispiaciuto. Ti manca il vecchio Hun, Leo? Mh? Senti
nostalgia di quel vecchio, viscido scimmione?” lo
canzonò Mikey,
con un'alzata di sopracciglia derisoria.
“Se
non sai dov'è il tuo nemico è più
difficile sapere le sue mosse”
esclamò il leader, assorto.
“Bella
massima, Splinter junior. Ma non credo che Hun sia davvero sparito. È
di certo nascosto da qualche parte, il bastardo” disse
Raphael,
storcendo la bocca in un un ghigno arrabbiato.
“Sono
d'accordo con te. Il problema è: dove sono finiti lui e i
Purple
Dragons? E cosa stanno tramando, nell'ombra?”
domandò Leo,
scrutando la città, sovrappensiero.
New
York sembrava insolitamente minacciosa, più del solito,
velata da
quel mistero che non riuscivano a dipanare. Per quanto sembrasse
bello da credere, nessuno di loro riteneva vero che un'organizzazione
criminale, potente e temuta come loro, sparisse nel giro di una
notte, senza lasciare alcuna traccia, senza nessuna spiegazione
plausibile.
Erano
come evaporati. La loro base era vuota, un guscio completamente
svuotato se non per le carcasse di moto abbandonate, spranghe
arrugginite e vecchi fustoni di ferro dove avevano bruciato
documenti, a giudicare dall'enorme quantità di cenere
trovata al
loro interno. A rafforzare la convinzione che ci fosse qualcosa di
strano, tutti i graffiti della banda per la città erano
stati
cancellati, sepolti sotto pennellate di vernice, come se non fossero
mai esistiti.
Era
ovvio che c'era qualcosa sotto. Ma cosa? Si erano trasferiti per
perpetrare le loro malefatte in una nuova città? Era stata
una nuova
organizzazione a scacciarli via? Stavano tramando nell'ombra,
raccogliendo forze in vista di un grosso attacco? O semplicemente Hun
si era utopisticamente ritirato dalla malavita, trascinando con
sé
tutta la sua organizzazione?
Nessuno
di loro riusciva a venirne a capo e pattugliare le strade era l'unico
modo che conoscevano per avere informazioni. Eppure per un mese non
avevano fatto altro che girare in tondo come un cane che si mordeva
la coda.
“Ok,
per adesso cerchiamo solo di tenere occhi e orecchie bene aperti.
Sento una minaccia imminente, ma non so quando o dove
attaccherà.”
I
tre fratelli annuirono alle parole del leader, cariche di
preoccupazione. Lo seguirono per un giro a quattro, l'ultimo prima di
ritirarsi al rifugio.
L'alba
non era lontana; un leggero e tiepido lucore in lontananza ad Est
annunciava che non mancavano che poche ore al sorgere del sole,
perciò avrebbero fatto un giro davvero veloce, giusto per
essere
sicuri che non ci fosse niente di sospetto in giro.
Girarono
da tetti a terrazze, saltando su cisterne e fili tesi tra i palazzi,
dal grattacielo più alto all'appartamento più
infimo, concentrati e
silenti, invisibili e silenziosi come ombre nell'oscurità.
Michelangelo ogni tanto spezzava il silenzio con una battute delle
sue, Donatello ne rideva mentre Raphael lo sgridava, tutto sotto lo
sguardo a tratti esasperato a tratti serio di Leonardo.
Non
si poteva certo dire che i rapporti tra di loro fossero rimasti
esattamente quelli di un tempo, per certi versi era meglio per altri
peggio, ma nell'ultimo periodo tra loro si respirava un'aria di
coesione, di lavoro di squadra pulito ed efficiente. Forse
perché
finalmente Leo e Raph avevano smesso di litigare come cane e gatto e
collaboravano molto più volentieri. O meglio, litigavano
ancora, ma
meno spesso e meno violentemente di prima; Raph sembrava essere
maturato abbastanza da sottostare agli ordini di Leo con più
accondiscendenza.
Apprezzava
gli sforzi del fratello di guidare al meglio la squadra e riconosceva
il duro lavoro e la forza che effettivamente ci voleva per essere un
buon capo, per cui, il più delle volte, anche se non era
d'accordo
con ciò che il leader diceva, semplicemente inclinava il
capo e gli
dava fiducia, senza contestare.
Mai
avrebbero creduto che sarebbe arrivato quel giorno. Avevano sempre
tutti pensato che Raph sarebbe arrivato ad autodistruggersi prima o
poi, consumato dalla sua rabbia fino all'osso, probabilmente in
qualche rissa che avrebbe cercato da solo, pieno di alcol fino a
scoppiare.
E
forse sarebbe successo davvero se non fosse stato per lei.
I
ninja corsero verso la direzione della zona industriale, nel quale
non si aggiravano da tempo. E se le loro vecchie conoscenze si
fossero trasferite in uno dei grossi magazzini in disuso nel
'Meatpacking district'? Potevano avere fortuna e trovarli con le mani
affondate in qualcosa di losco. E allora avrebbero potuto prendere
Hun a calci nel suo sederone flaccido, che era sempre un buon
antistress per loro.
Si
fermarono in prossimità delle prime file di magazzini,
scrutando
l'area attorno. L'aria era permeata da un vago sentore dolciastro di
carne andata a male, ma non si preoccuparono più di tanto:
la zona
era stata in passato un grosso centro di lavorazione della carne e
benché si fosse trasformato col tempo in un quartiere famoso
e
rinomato anche per i locali, non era strano che dai vecchi depositi
provenisse ancora l'odore di carne stantia, soprattutto con
temperature calde come quelle a cui dovevano sottostare in quel
periodo.
Decisero
comunque di dare un'occhiata ai posti più sospetti.
“Attenti,
giù” esclamò secco Leo, riparandosi
dietro il parapetto del tetto
del basso palazzo su cui si trovavano.
Sentirono
il vociare sgraziato e vagamente alcolico di un gruppo di ragazzi che
usciva da un locale all'angolo, con un'insegna veramente brillante e
faretti che illuminavano le strade e il cielo notturno.
“Come
pretendono che possiamo essere invisibili se non fanno altro che
mettere insegne e lampioni ad ogni dove?” si lagnò
Mikey una volta
che le voci del gruppetto festivo si furono allontanate.
“Non
che non sia d'accordo, ma non credo che i gestori dei locali tengano
conto dei ninja quando pensano all'illuminazione stradale, sai? Solo
al benessere dei propri clienti” intervenne Don, rialzandosi
insieme agli altri.
“Non
so se sia un bene o un male. Sembra che le strade siano più
sicure,
dato che si vede meglio ciò che succede, ma allo stesso
tempo tutta
questa luce distoglie l'attenzione dalle stradine buie appena
più in
là, dove può succedere di tutto.”
Donnie
annuì, concordando con le parole del leader. Poi quando
quello si
gettò in una corsa verso un magazzino poco distante si
accodò alla
sua scia, insieme agli altri.
Un
flebile rumore metallico arrivò alle loro orecchie, spezzato
di
tanto in tanto da qualche parola. Si bloccarono, prestando attenzione
a ciò che stava accadendo sotto i loro piedi: un grosso via
vai di
muletti carichi di casse che uscivano da un magazzino immerso
nell'oscurità e finivano nel retro di un enorme camion.
C'erano
almeno una ventina di persone. Due di loro coordinavano i lavori,
dieci guidavano altrettanti carrelli elevatori e gli altri facevano
una gran fatica a caricare e scaricare casse, con poche parole e
molte parolacce gridate per imprecare per lo sforzo.
“Pensate
che siano Purple Dragons?” bisbigliò Mikey.
“Io
non vedo nessun tatuaggio, né una toppa a forma di dragone.
Piuttosto, cosa ci sarà dentro le casse?”
esclamò Don,
pensieroso.
“Non
so cosa ne pensiate voi, ma per me basta andare giù,
prenderli a
calci e aprire per scoprire” intervenne Raph con un sorriso
predatore.
“No.
Non sappiamo ancora se sia una cosa illegale. Non possiamo picchiare
chiunque ci sembri sospetto o avremmo già fatto fuori mezza
New
York!”
Raph
abbassò le spalle alle parole del leader, ma con le mani
ancora
strette a pugno, mentre sembrava combattere contro sé
stesso. Lasciò
perdere con un sospiro.
“Va
bene. Per adesso li teniamo solo d'occhio”
acconsentì, con un tono
di voce che sembrava più un ringhio.
Rimasero
in attesa, seguendo il via vai di quei volgari e piccoli uomini che
come formiche si affaccendavano dal magazzino al camion e viceversa,
ininterrottamente.
Mortalmente
noioso.
Mikey
sbadigliò. Don si passò una mano sul collo
intirizzito, mentre
l'altra teneva il binocolo con il quale continuava a tenere d'occhio
di sotto; Raph si dondolava da un piede all'altro, spostando il peso
a volte a destra, a volte a sinistra.
Solo
Leo si manteneva perfettamente immobile, con le braccia conserte sul
petto, senza muovere un muscolo.
Poi,
un guidatore di un muletto fece una brusca sterzata, troppo
avventata, e le casse che trasportava si ribaltarono, rovinando a
terra con un secco rimbombo: le assi della prima si spaccarono con
uno schiocco e il contenuto rovesciò a terra, tra le
imprecazioni
generali.
Don
rise.
Mentre
continuava a guardare la scena con il suo binocolo. Una risatina
leggera, ma davvero sentita.
“Cosa?
Cosa c'è?” domandò curioso Mikey,
provando a strappargli lo
strumento di mano. Don glielo passò di sua spontanea
volontà.
Michelangelo
osservò attraverso le lenti con scrupolo, girò le
rotelle per
regolare lo zoom, una, due, tre volte, sempre più
velocemente... poi
scoppiò in una fragorosa risata. Così forte che
rimbombò dal
tetto fino a sotto, allarmando gli uomini affaccendati a riparare al
danno.
“Mikey!”
lo sgridarono contemporaneamente i tre fratelli, ma senza tuttavia
riuscire a spegnere le sue risate.
Al
di sotto, intanto, gli uomini si erano resi conto della fonte del
rumore e, fermati i lavori, stavano tutti con le facce
all'insù,
guardinghi e furiosi.
“Mikey!
Ci hai fatto scoprire!” gridò Leo, mentre il
fratello continuava a
ridere, semi accasciato contro il parapetto.
“Scu...
scusa. Ma... ma... Pucci!” continuò a ridere,
balbettando le parole
per il troppo ridere.
“Eh?”
esclamarono Leo e Raph, confusi, mentre Don ridacchiava.
“Sono
borse contraffatte di Gucci. Ma contraffatte male... c'è
scritto
Pucci” rivelò il genio, suscitando nuove risatine
nel fratellino.
Dalla
strada arrivarono urla e strepiti, con toni minacciosi.
“Bene,
adesso grazie a Mikey e alle Pucci dobbiamo per forza combattere...
per delle borsette!” si lagnò Raph, incredulo.
“Beh,
il contrabbando e la contraffazione sono comunque reati”
constatò
Don.
Leo
sospirò rumorosamente, quasi un po' affranto.
“Va
bene. Senza armi, ragazzi. Non voglio certo che malmeniate troppo un
gruppo di idioti” esalò, mettendo un piede sul
parapetto, seguito
a ruota dagli altri.
Si
gettarono tutti e quattro nel vuoto, gioendo delle facce sconvolte
degli uomini via via che si avvicinavano al terreno. Mikey
atterrò
alla destra di Don e alla sinistra di Leo, più in
là c'era Raph: i
loro avversari li guardarono con tanto d'occhi, sorpresi e
pietrificati.
“Mostri!”
strillò uno di loro, a cui mancava un dente, in preda
all'isteria.
“Io...
ho sentito parlare di loro. Sono quattro mutanti verdi che escono di
notte a battere i malviventi. Sono veloci, sono forti, sono
spietati”
balbettò un altro, un ragazzetto minuscolo, probabilmente di
nemmeno
quindici anni.
“Hai
dimenticato bellissimi” intervenne Raph, compiaciuto.
“Quindi
siamo una leggenda metropolitana. Forte” chiosò
Mikey,
elettrizzato.
“Sanno
parlare!” gridò lo stesso uomo col dente mancante,
ormai
completamente fuori di sé.
Gli
altri compari erano rimasti in silenzio a valutare la situazione,
occhieggiando preoccupati il loro aspetto e le armi che spuntavano
dalle loro schiene o che pendevano dalle loro cinture.
“Allora,
avete due opzioni: o vi consegnate alla polizia spontaneamente, e ci
evitate un po' di rogne, o ci vediamo costretti a ripassarvi per bene
e poi a mandarvici con la forza” spiegò loro Leo,
con tono
bonario.
“Io
personalmente preferisco la seconda. Scegliete la via dura,
vigliacchi, fatemi divertire” sibilò Raph,
provocandoli.
“Io
non ci torno in galera” esclamò uno del gruppo,
facendosi avanti
con una spranga di ferro nelle mani.
“E
via che si comincia!” esultò Mikey, gettandosi
nella mischia.
“Sono
venti... se la matematica non è un'opinione, e so che non lo
è,
abbiamo cinque avversari a testa” constatò Don,
preparandosi a
combattere.
Un'orda
di uomini si riversò dal magazzino nello spiazzo dove si
trovavano,
tutti armati con mazze e spranghe, alcuni addirittura con coltelli.
“Dicevi,
genio?” soffiò Raph, con i pugni già
alzati.
Leo
stava già combattendo, colpendo i primi due al viso con un
doppio
calcio al volo. Mikey stava scorrazzando di qua e di là,
evitando
colpi alla testa e al viso, centrando nel contempo le loro gambe,
atterrandone quanti più possibile.
Don
lottava da sempre con il Bō,
perciò era abituato ad un tipo di lotta a distanza, ma per
una volta
si gettò a testa bassa, colpendo duro, sentendo le nocche
delle mani
scontrare contro la loro carne, con un primitivo e di certo non
razionale piacere.
La
tattica di Raph era un po' più brutale. Niente schivate.
Nessuna
corsa. Solo pugni chiusi e attacchi forti e decisi, come un incontro
di boxe. Dava persino loro modo di difendersi, sempre che ne fossero
capaci. Di sicuro c'era solo che li buttava giù uno dopo
l'altro,
con sua somma soddisfazione.
Rimase
in piedi solo il ragazzo di quindici anni, tremante, ma ancora ritto
e vigile.
Raph
gli si fece incontro, a grandi e lenti passi. Poi si
inchinò, perché
lo sovrastava di almeno trenta centimetri e il ragazzino doveva
torcere il collo per poterlo guardare in viso.
“Cosa
ci fai qua, moccioso?” domandò, stringendo gli
occhi a fessura.
L'altro
tremò appena, ma non rispose affatto.
“Ti
ho chiesto che cosa ci fa un moccioso come te, di notte, in mezzo ad
un traffico illegale con degli uomini indubbiamente equivoci!”
“Raph,
lo stai terrorizzando!” intervenne Leo, facendo dei passi
verso di
loro.
“Silenzio!
E tu, rispondi!”
“Io...
mio padre si è ammalato e lo hanno licenziato. Io sono il
più
grande dei miei fratelli e devo guadagnare soldi o ci butteranno
fuori di casa” replicò alla fine il ragazzino,
sconfitto.
I
quattro ninja sollevarono le sopracciglia, sorpresi. Raph
sospirò,
stancamente, rialzando la schiena.
“Questi
uomini andranno in galera. Tu invece fili dritto a casa. Domani
mattina andrai alla pizzeria all'angolo tra Kenmare e Mott e ti farai
assumere come lavapiatti. E voglio che continui ad andare a scuola.
Non voglio più vederti in giro di notte, non voglio
più trovarti a
compiere azioni illegali. E stai certo che se sgarri anche solo una
di queste cose io lo verrò a sapere e ti farò
passare le pene
dell'inferno. Sono stato chiaro?”
Il
ragazzino tremolò mentre annuiva, poi sparì come
un
fulmine,
senza nemmeno voltarsi.
“Ci
sai davvero fare coi ragazzini. Chissà perché non
fai l'educatore”
lo canzonò Mikey.
“Come
sai che lo prenderanno al lavoro?” domandò Don,
mentre si dava
un'occhiata distratta attorno, controllando le casse e il contenuto
per essere certo che non contenesse altro, oltre le borsette
contraffatte.
“Uno
dei soci del locale è amico di Casey e so che cercava
qualcuno. Lo
chiamerò e gli chiederò un favore. Almeno quel
moccioso non dovrà
fare cose del genere.”
I
tre fratelli lo guardarono con un sorrisino compiaciuto.
“Che
c'è?”
“Ma
che tenerone il nostro Raphie. Posso chiamarti papà Raphie?
Mh?”
Mikey
si beccò un pugno alla spalla, di rimprovero.
“Ragazzi,
ho finito con la telefonata anonima alla polizia. Possiamo
andare”
si intromise Leo, riportando la calma.
Don
li rassicurò sul fatto che non ci fosse nient'altro nelle
casse al di
fuori delle borsette contraffatte, perciò attesero di
sentire le
sirene delle auto e poi si dileguarono nelle ombre, sparendo nel
primo tombino disponibile.
Percorsero
stancamente le fogne, con sonori sbadigli. Mikey pensava ad infilarsi
nel letto alla velocità della luce. Raph avrebbe di certo
fatto lo
stesso. Leo l'integerrimo sarebbe corso al dojo a meditare.
Don
fu il primo ad entrare al rifugio e si fiondò alla
postazione del
computer, iniziando a digitare alla tastiera come un matto. Gli altri
tre, benché avessero decisamente altri piani, andarono a
controllare.
“Che
fai?” chiese curioso Mikey.
“Sto
annotando tutti gli spostamenti sospetti che abbiamo scoperto
nell'ultimo mese e sovrappongo i dati con quelli raccolti dei Purple
Dragons. Non so se ci sia connessione tra la loro sparizione e i
nuovi gruppi che sembrano spuntare agli angoli delle strade, ma
intendo scoprirlo.”
“Ancora
con Hun. Perché non lo lasciamo stare dove sta?”
si lagnò il
fratellino, di colpo meno attento e svogliato.
“Perché
ovunque sia, lui di certo non ci lascerà perdere”
replicò Leo,
che invece seguiva gli schemi al computer con interesse.
Una
sirena spezzò di colpo il silenzio, un lamento lungo e
prolungato,
mentre una luce rossa lampeggiava proprio sopra la loro testa.
Don la
osservò sconvolto poi le sue mani volarono sui tasti,
componendo
codici ad una velocità prodigiosa: una cartina di rette e
linee che
si intersecavano, si svolgevano, si dipanavano in ogni dove apparve
al posto della cartina di New York che c'era prima.
“Don,
che succede?” esclamò Leo, preoccupato. Il sensei
apparve dal dojo
e gli porse la stessa domanda, alzando la voce per sovrastare il
rumore.
“Un
intruso nel perimetro di sicurezza” esalò il
genio, seguendo con
apprensione un piccolo puntino luminoso sullo schermo, che percorreva
le linee, le fogne della città, con velocità.
“Figliolo,
disattiva almeno la sirena, per favore” pregò il
maestro, le cui
orecchie erano di certo ancora molto sensibili nonostante
l'età.
Don
pigiò un paio di pulsanti e il terribile suono
cessò, ma non la
pulsante luce rossa, che li metteva in guardia.
“Non
sarà Casey? O April o Angel?” provò
Mikey, titubante.
“No.
Loro sanno che devono inserire il codice all'inizio del perimetro di
sicurezza.”
“Potrebbe
anche essere solo un addetto alla manutenzione che è sceso a
riparare una tubatura rotta” continuò il
più piccolo, per cercare
di spezzare la loro tensione.
Riusciva
a sentirla. Riusciva a capire che erano tutti tesi, preoccupati che
qualcuno avesse scoperto ancora una volta il loro rifugio. Le
immagini dell'ultima volta in cui era stato distrutto gli passarono
davanti agli occhi. Non voleva che succedesse ancora.
Il
piccolo puntino continuò a scivolare tra le fogne con
precisa
sicurezza, avvicinandosi sempre di più.
“A
me sembra proprio che stia venendo qui” sibilò
Raph, serrando la
mascella. Sperò che non fosse uno di quegli uomini battuti
prima,
che magari li aveva seguiti senza che loro se ne accorgessero.
“Sensei,
piano di fuga o piano di lotta?” domandò Leo, con
urgenza. Lo
sguardo scivolò verso il loro padre, provando a leggere sul
suo viso
la risposta, ma il saggio ratto sembrava impassibile come sempre.
“Non
voglio abbandonare la nostra casa, per una minaccia fantasma. Vediamo
prima di cosa si tratta.”
Rimasero
in silenzio ad osservare il puntino avvicinarsi sempre di
più, con
una sottile ansia.
Quando
non mancavano che pochi metri, si staccarono dalla piattaforma e si
avvicinarono cautamente alla porta.
“Dovremmo
almeno aprire, no? Non voglio che ce la facciano saltare in
aria”
sussurrò Mikey, come se temesse di poter essere udito.
Leo
annuì, d'accordo con lui, ma prima che potesse dare il via a
Don per
aprire, l'enorme porta del rifugio si sollevò da sola,
lentamente.
Le
mani corsero alle armi, inconsciamente, e i muscoli si tesero allo
spasmo in una silenziosa difesa.
“Avevo
pensato di mandarvi una lettera, ma non credo che il postino vi
avrebbe trovati” esclamò la voce dell'inatteso
ospite.
I
suoi occhi scuri scivolarono sui loro volti, poi ridacchiò,
una
risata improvvisa e delicata, che solleticò le loro menti.
Raphael
conosceva quella risata. L'aveva sognata. Aveva bramato di sentirla
in tutto quel tempo, una volta ancora, una sola.
Ma
non poteva essere vera.
“Isabel?”
soffiò sconvolto davanti al suo sorriso.
Note:
Salve!
Sono
felice di essere tornata.
La
fine della prima storia mi ha fatto sentire piena di soddisfazione,
ma anche triste. Non so spiegarvelo. E l'inizio di una nuova mi
emoziona.
Qui
ci sono complotti, un cattivone, sentimenti, azione e molto altro
ancora. Pronti?
Ringrazio
già fin da ora tutti coloro che la leggeranno.
A
presto!
Abbraccione!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Something is wrong ***
“Isabel?”
soffiò sconvolto Raphael davanti all'apparizione
dell'inatteso
ospite.
Era
lì, davanti a lui, incorniciata dall'enorme porta del
rifugio, in
attesa delle loro reazioni, ma non riusciva ancora a crederci. Non
poteva. Era andata via, anche se l'aveva pregata di restare, con
tutte le sue forze.
Per quale motivo sarebbe tornata indietro? Per
lui? Per vivere con lui nelle fogne per l'eternità?
Ridicolo.
Eppure, anche nell'incredulità, nell'agitazione, nel
tremore delle mille domande che gli affollavano l'anima, non riusciva
a staccare gli occhi da lei.
E Isabel non era mai stata più
bella. Col sorriso più splendido mai visto, che le
illuminava il
viso di felicità nel vederli.
“Isabel!”
strillarono sorpresi i suoi tre fratelli, correndo incontro alla
donna, che spalancò gli occhi dalla sorpresa.
Si trovò stretta
in un mega abbraccio, così appassionato che quasi
faticò a
respirare, mentre le voci si sovrapponevano l'una sull'altra, tra
domande ed esclamazioni euforiche.
“Ragazzi... ragazzi, mi state
soffocando!” strillò suo malgrado, seppure tra le
risate. I ninja
la lasciarono andare, ma ancora sorridevano.
Raph
era l'unico che si era tenuto in disparte.
Lei era lì, a qualche
passo di distanza. Era lì, in carne e ossa, non una fantasia
della
sua mente, non un misero sogno ad occhi aperti dei tanti che aveva
avuto in quegli otto mesi da che si erano salutati.
Otto mesi. In
cui la sua mancanza l'aveva quasi mandato alla pazzia, ma in cui non
aveva fatto altro che ripetersi che lei se n'era andata per sempre,
che non sarebbe mai più tornata.
E invece era davvero lì. Bella,
radiosa, coi capelli lunghi raccolti in una coda, la figura snella
eppure tonica, in forma e in salute, come se nell'ultimo tempo si
fosse dedicata solo alla cura di sé stessa. E avrebbe voluto
correre
come un pazzo, abbracciarla e non lasciarla andare mai più,
sussurrandole quanto gli fosse mancata, quanto fosse felice di
vederla.
E tuttavia sollevò solo una mano in segno di saluto.
Perché i suoi sentimenti si erano come bloccati tra il petto
e la
bocca, incastrati nella foga di volerli esprimere tutti assieme:
erano troppi, erano troppo complessi ed enormi per riuscire
facilmente a districarli.
Isabel gli sorrise, timidamente,
abbassando lo sguardo mentre arrossiva. Come diamine poteva essere
così bella?
“Quando
sei tornata? Perché sei tornata? Ti fermi qui?
Cos'è successo? Sei
diventata regina? Oh, cielo: sei una regina!?”
continuò a
strillare Mikey a pochi passi da lei, sempre più
emozionato.
“Lasciala respirare! Se la asfissi di domande non
saprà nemmeno da che parte è girata” lo
rimproverò Don, tappando
la bocca al fratello.
“Grazie mille, Donnie. Ho mille cose da
raccontarvi! Ma prima... è un piacere rivederla,
maestro.”
Isabel
si inchinò davanti al saggio ratto, chinando la testa
più che poté
in segno di rispetto; Splinter allungò una mano e la
afferrò sotto
il mento, sollevandole il viso perché potesse guardarla,
poi,
inaspettatamente, l'abbracciò.
“Bentornata” le sussurrò
sentito, mentre Isabel si commuoveva, per l'impensato slancio
d'affetto.
“Devi essere stanca. Vieni a sederti e raccontaci
come è andata e cosa ti ha ricondotta da noi”
propose saggiamente
il maestro, facendole strada verso l'angolo relax.
Isabel
sorrise con gratitudine e si lasciò guidare, osservando con
nostalgia e dolcezza il rifugio, fin nei suoi più piccoli
angoli;
era stata lei a rimetterlo a nuovo, con l'aiuto delle pietre della
luna di cristallo degli Y'Lyntian, ma ritrovandosi nuovamente
lì per
la prima volta dopo così tanto tempo, era come se lo vedesse
per la
prima volta. E non era solo perché nel frattempo che lei se
n'era
andata, loro avevano arredato con mobili nuovi, con una complessa
postazione multimediale e uno spazio tv decisamente esagerato. Era
perché si era dimenticata quanto fosse grande e spazioso, e
luminoso; come l'aria fosse pulita e senza odori, nonostante fossero
nelle fogne, come tutto sapesse di casa.
Forse perché era lì con
loro. E loro erano casa, per lei.
Il
suo sguardo scivolò ancora una volta su Raphael,
fugacemente, ma si
scostò in un istante quando lui voltò gli occhi
verso di lei, forse
perché si era accorto di essere osservato. Sentiva che c'era
qualcosa che non andava, ma sperò che fosse solo una sua
impressione
dovuta alla stanchezza del viaggio o all'emozione per averlo rivisto
dopo tutti quei mesi.
Si
sedette sul divano, con Mikey alla sua destra e Don alla sinistra, e
il maestro le portò una tazza di tè, con
cortesia. Attesero che
bevesse, in rispettoso silenzio, senza pressarla con le domande che
volevano farle. Isabel sorrise, dolcemente.
“Sono andata nel
regno dei maghi. Non è stato facile trovarlo, ma dopo un
paio di
settimane e un'indagine nella mente di Gregor ho scoperto
l'ingresso”
iniziò a raccontare davanti ai loro visi curiosi.
“Non
hanno creduto subito alla mia storia. Una mezza strega, che aveva
vissuto per tutta la vita fuori da regno, seguita e torturata dal
reggente? Mi hanno riso in faccia, la prima volta che ho parlato
davanti al concilio. Ma non ho vacillato. Ho presentato le mie
memorie come prova. Tutte. Da quelle coi miei genitori, per provare
la mia ascendenza, a quella battaglia a Central park. È
stato
veramente lungo ed estenuante, con interrogatori giornalieri,
dibattiti e contro prove. La voce si è diffusa presto tra il
popolo
e la loro curiosità mi ha impedito di mettere piede fuori
dal
castello. È durato cinque mesi. Cinque mesi per dimostrare
che razza
di infido e vigliacco Gregor fosse, per dipanare tutte le sue trame,
i suoi omicidi. Ma sono stata aiutata: Michelle, Jervis e tutti
coloro che lo avevano servito minacciati dal suo potere si sono fatti
avanti, comprovando la mia testimonianza. E così li ho
convinti. Il
concilio ha riconosciuto Gregor colpevole di tradimento, omicidio,
Regicidio e persecuzioni e torture nei miei confronti, ed è
stato
condannato.”
La
sua voce suonava così leggera, così felice, come
se tutti i
fantasmi del passato fossero scomparsi nel momento in cui quel
fantomatico concilio dei maghi aveva dichiarato il suo aguzzino
colpevole. Non potevano sapere delle lacrime silenziose che la notte
aveva lasciato cadere, sentendosi sperduta e sola, lontano da loro.
“Allora
è morto?” domandò con voce bassa Mikey,
come se fosse timoroso di
svegliare qualcosa se lo avesse chiesto con un tono più alto.
“No.
I maghi non hanno la pena di morte. Non è una punizione
morire,
perché le tue pene terminano e non puoi evolvere.
È stato
trasformato.”
“Trasformato?” ripeterono più voci, con
lo
stesso tono sorpreso.
“Sì. In un lombrico di terra. In questo
modo potrà essere utile all'ecosistema e nello stesso tempo
rimuginare sui suoi errori, fino alla fine della sua vita. Sperando
che possa così migliorare.”
Le
facce sconvolte dei suoi amici erano davvero ilari. Si era aspettata
che non capissero appieno la cultura dei maghi; perfino lei si era
trovata stranita, la prima volta in cui si era imbattuta in quella o
quell'altra tradizione o forma di pensiero, così diverse da
quelle
degli umani. I maghi erano così eterei, più
spirituali che fisici e
materiali e non sempre aveva capito immediatamente i loro
comportamenti o le loro parole o le loro dottrine. Ma poi, con
pazienza, le aveva accettate come proprie, perché erano una
parte
del suo essere, tanto quanto la cultura umana.
“Trovo
che sia un'ottima dottrina di vita” mormorò
colpito Splinter,
sorridendole incoraggiante.
“Sì, ma poi? Cos'è successo
dopo?”
domandarono Mikey e Don assieme, che si erano appassionati al
racconto.
“Dopo hanno iniziato a studiare i miei poteri,
perché
sono un po' differenti dai loro. Forse a causa della mia natura
doppia. E mi hanno pazientemente insegnato ad usarli a mio piacere,
senza farli più scoppiare fuori in caso di pericolo. E
quando ho
capito come padroneggiarli appieno, mi hanno chiesto di aprire la
camera del tesoro, se ne fossi stata capace.”
Si
interruppe in una pausa ad effetto, che non fece altro che accrescere
la curiosità nei suoi interlocutori, che si struggevano per
sapere.
“Allora? L'hai aperta?”
La voce di Michelangelo era
appena un sussurro.
Lei bevve un altro sorso di tè, prima di
rispondere.
“Sì, la camera si è aperta”
rivelò con un
sorriso enigmatico. I più trattennero il fiato, colpiti.
“Sei
diventata la regina” continuò Donnie, con un
sospiro.
Isabel
annuì, poggiando la tazza di tè sul tavolino.
Raphael seguì
ogni sua mossa, con una pressante angoscia acquattata sullo stomaco,
che gli inacidiva l'animo e ogni cellula. Era davvero diventata la
regina del regno dei maghi. Riusciva ad immaginarla benissimo,
fasciata in sontuosi abiti e con una corona a cingerle la fronte,
bella e potente, al comando di un regno. Allora cosa diamine era
tornata a fare? A sbattere loro in faccia la sua felicità?
“Allora
non sei tornata per restare” esalò un po' affranto
Mikey, che ci
aveva sperato davvero.
“In realtà... sono la regina, ma solo di
nome. Non governo io il regno” rivelò Isabel, con
un sorriso che
prometteva grandi rivelazioni.
“Cosa?” chiese Mikey,
basito.
“Tu non sei... cosa?” seguì a ruota Don,
confuso.
“Sono stata nominata regina, ma ho rifiutato di
rimanere a governare. È il mio reggente ad occuparsi delle
parti
burocratiche, nonno Jervis.”
“Eh?”
Ad
ogni secondo passato, e ad ogni parola che pronunciava, non faceva
altro che creare caos e confusione nelle loro menti, che ormai non
erano altro che un turbine di domande.
“Non è davvero mio
nonno, è il nonno di Michelle. Ed era uno dei consiglieri di
mio
padre. Gli ho parlato e gli ho espresso i miei dubbi. E lui ha
acconsentito alla mia richiesta di governare al posto mio.”
“Ma...
perché?” domandò Leo.
“Perché non ho mai desiderato
essere una regina. Mio padre sarà anche stato il loro re, ma
per me
era solo mio padre. E non mi ha cresciuta come una principessa, ma
come una bambina normale, con sogni normali. E adesso ho sogni solo
miei e non mi importa di avere tutto il potere o il denaro che
possono offrirmi, se devo rinunciarci.”
Si era infervorata ad
ogni parola, perché di sicuro quell'argomento le era caro e
le era
stato chiesto anche laggiù, in quel fantomatico regno
nascosto, al
momento in cui aveva scelto di non rimanere a regnare.
“E
come l'hanno presa?”
“All'inizio male. Hanno cercato di
convincermi con tutte le argomentazioni possibili e immaginabili. Ma
alla fine si sono dovuti arrendere. E la mia presenza non è
davvero
necessaria, devo solo tornare una volta l'anno per un rito di potere;
nonno Jervis continuerà a mantenere il regno prospero e in
ordine al
posto mio, con l'aiuto del concilio, con la clausola che mi permette
di rientrare in caso di abuso di potere o di necessità. Ma
so che
entrambi i casi sono fuori questione.”
“Ma
allora... sei tornata per restare?”
“Sono tornata per
accettare l'offerta che mi fece il maestro e diventare una sua
discepola, se lo vuole ancora.”
Splinter le rivolse uno sguardo
affettuoso.
“Certo che lo voglio. Ti ho giurato che ti avrei
insegnato e ti avrei amato come una figlia, se mai avessi accettato.
Perciò puoi anche iniziare a darmi del tu, Isabel.”
“Oh sì!
Avrò una sorellina tutta mia? Ho sempre sognato di avere una
sorellina!” strillò fuori di sé Mikey,
sporgendosi per
abbracciare Isabel con uno slancio caloroso.
“Una sorellina da
abbracciare, con cui giocare, da proteggere, con cui
parlare...”
“È
questo che vuoi essere? È questo il tuo sogno? Essere una
kunoichi?”
domandò interessato Don, interrompendo i vaneggiamenti di
Mikey.
Lei
sollevò un angolo della bocca, in un mezzo sorriso di
soddisfazione,
ancora stretta nell'abbraccio di Michelangelo. Sembrava trovare
divertente la loro sorpresa.
“Quello è solo una parte. Voglio
studiare medicina e diventare la prima dottoressa specializzata nel
curare mutanti” rivelò nel silenzio attonito che
la sua
affermazione suscitò.
La
faccia di Leo era sorpresa. Quella di Don piacevolmente attonita.
Quella di Mikey, che ancora la teneva stretta, era scioccata. Quella
di Raph completamente sconvolta. Il maestro invece continuò
ad
osservarla con i suoi occhi saggi e penetranti.
Lei voltò gli
occhi da uno all'altro, aspettandosi che qualcuno dicesse qualcosa e
che spezzasse l'innaturale silenzio, che la stava mangiando viva per
l'agitazione.
“Non volevi aprire un negozio di fiori?”
riuscì
a dire Mikey, lasciandola finalmente andare per guardarla in
viso.
Isabel aggrottò la fronte, spiazzata, poi cercò
lo sguardo
di Raphael, con rimprovero per aver rivelato quel suo segreto. Non
sapeva che lo avevano visto nel viaggio tra i suoi ricordi, quando
l'avevano aiutata a tornare in sé.
“Quello era solo un sogno di
una bambina. Di tanti anni fa. La Isabel di adesso vuole
altro”
attestò convinta, muovendo come sempre le mani attorno a
sé per
l'agitazione.
“Perché proprio una dottoressa per
mutanti?” le
chiese Splinter, con semplice curiosità.
“Perché so guarire. E
nessuno più di me sa cosa voglia dire essere ferito e non
avere
nessuno che possa curarti. Posso imparare a curare coi metodi
tradizionali e unirli alla mia magia, offrendovi finalmente
ciò che
non avete mai avuto e che meritereste: la sicurezza di ricevere le
cure adeguate, soprattutto dato il genere di vita pericolosa che
vivete.”
“Ma... non possiamo chiedertelo. Vorrebbe dire
sacrificare tutta la tua vita dietro a noi. Non vuoi vivere
normalmente, ora che puoi?” esclamò Leo, lusingato
dall'idea di
Isabel, ma anche preoccupato per la sua scelta.
“No. Questa è
la normalità, per me.”
Il
discorso era chiuso. Si poté capire dal tono asciutto e
secco che
Isabel aveva usato. E se non fossero stati così scioccati da
tutte
quelle rivelazioni si sarebbero accorti certamente che Raph non era
mai intervenuto, nemmeno una volta. Che si era tenuto in disparte,
mentre i più disparati e conflittuali pensieri gli
invadevano la
testa e il cuore.
Avrebbero dovuto accorgersi dell'aura spessa e
densa che emanava. Avrebbero dovuto accorgersi che c'era qualcosa di
strano, dell'oscuro e torbido sguardo che aveva in quel momento. Ma
non lo fecero. Troppo assorti nell'interessarsi a lei non si erano
accorti della mancanza di reazioni in lui, che non faceva presagire
nulla di buono.
L'alba
era ormai sorta da ore, anche se lì sotto non potevano
vederla. Il
maestro suggerì a tutti loro di riposare, per ritemprare le
membra e
la mente: i suoi figli erano spossati dal giro di ronda e Isabel per
il lungo viaggio. E tutti per l'emozione.
Fu Mikey ad
accompagnarla fin al piano di sopra e a mostrarle la camera, tra la
sua e quella di Leo, e non Raphael, come si era immaginata. Finita la
discussione lui si era voltato ed era sparito nella sua stanza, senza
un cenno o una parola, ghiacciandole il sangue nelle vene per la
freddezza e il suo atteggiamento distante.
“Ecco
qui” le disse Mikey con allegria, aprendo la porta e
mostrandole
l'interno della camera: era molto più spaziosa e luminosa di
quanto
pensasse ed era già arredata con un mobilio essenziale e
spartano.
C'era perfino una finestra magica che rifletteva il tempo della
superficie.
Stava osservando assorta il letto ad una piazza,
quando Mikey le passò un cambio di lenzuola per poterlo
rifare.
“Se
hai qualche cosa da chiedere, io ci sono. Benvenuta in
famiglia” le
mormorò con un grosso sorrisone entusiasta, prima di
stringerla in
un nuovo e frettoloso abbraccio affettuoso.
Rimase attonita, anche
quando lui se ne fu andato e a lei non rimase che guardare la porta,
con un misto di gioia e imbarazzo.
Ecco, quella era una reazione
che le faceva piacere. L'affetto e la premura di Michelangelo la
sconvolgevano, era vero, ma erano mille volte meglio della totale
freddezza di Raffaello.
Non si era certo aspettata che la baciasse
davanti a tutti, urlandole quanto l'amasse e gli fosse mancata, ma
nemmeno l'assenza di emozioni che aveva mostrato. Sembrava quasi che
lui non la volesse lì, che il suo ritorno non fosse gradito.
Strinse
nella mano la pietra viola della collana, sospirando.
Possibile
che Raffaello avesse smesso di amarla? Nonostante lei non avesse
fatto altro che pensare a lui, ogni istante? Anche se aveva sentito
la sua mancanza come una pressione costante sul cuore per tutto quel
tempo ed era quasi morta di felicità nel rivederlo?
A ben
pensarci Raffaello non aveva mai detto di amarla. Lei lo aveva
presunto, dedotto, dal suo comportamento nei suoi confronti, da
quella notte assieme, ma lui non le aveva mai detto un “ti
amo”.
Però, quando stava per lasciarlo, lui l'aveva stretta con
forza,
supplicandole di non andare, chiedendole di restare con lui per
sempre.
Allora cos'era cambiato in quegli otto mesi?
Forse
aveva fatto male a tornare. Forse avrebbe dovuto informarlo dei suoi
progetti, chiedere il suo parere.
Si affrettò a rifare il letto
con le lenzuola fresche di bucato e poi si lasciò cadere
sopra,
appallottolandosi su sé stessa, confusa e molto meno felice
di come
si era aspettata.
Non sapeva che non era l'unica a pensare al suo
ritorno e che non era l'unica a non esserne felice.
La
notte era scesa presto, inghiottendo domande, pensieri ed emozioni. I
quattro ninja erano scivolati via dal rifugio presto, per varie e
diverse ragioni, e non avevano visto Isabel che per pochi istanti.
“Hey!”
esclamò Mikey raggiungendo i fratelli sul tetto del palazzo
su cui
avevano appuntamento.
“Eccoti qui! Era ora, ritardatario” lo
sgridò Don, scuotendo la testa con disapprovazione.
Il
fratello gli rilanciò un sorriso di scuse.
“È che Carl è così
carino! Non puoi smettere di giocarci solo perché hai altro
da
fare!”
“Che
dice Casey?” si informò Leo.
“Dice che si informerà da
alcuni suoi vecchi amici che sono stati nel giro dei Purple Dragon.
Ha detto che non crede nemmeno lui alla sparizione di Hun e che vuole
essere informato se scopriamo qualcosa” riportò
Mikey, con
insperata velocità e senza fronzoli.
Leo acquisì le nuove
informazioni con un sospiro, meditabondo.
“Oh,
ehy, Casey mi ha detto di dirti che il ragazzino ha ottenuto il
lavoro e che si comporta bene, per ora” continuò
Mikey rivolto
verso Raphael, che si limitò ad alzare leggermente le spalle
per
fargli capire che lo aveva sentito.
Se il piccolo di casa si fosse
accorto o no del suo essere strano non era certo. E non gli
importava.
“Sarà meglio che continuiamo a
pattugliare” ordinò
Leo, iniziando a correre verso il cornicione.
Non
credevano che sarebbe successo niente di così strano come la
sera
prima, ma era evidente che si sbagliavano. Quando mai avevano ragione
su questioni del genere?
Fu vicino a Chinatown che si imbatterono
nella prima stranezza della nottata. Un convoglio di uomini che uscivano
dal retro di un take away, con facce circospette e un sacco nelle
mani ognuno, che tenevano stretto al petto come se fosse il loro
figlio primogenito.
“Ok. Diamo un'occhiata?” propose Don con
in mano uno Shuriken a quattro punte.
Lo lanciò nella notte con
un sibilo morbido.
Il sacco del primo uomo si ruppe con uno
strappo secco, che si sentì fin lassù,
seguito
dall'imprecazione del possessore.
Mikey
rise, esattamente come la sera prima.
“Che c'è? Altre Pucci?”
chiese svogliatamente Raph, piuttosto contrariato.
“Sapete,
credo che ci sia una connessione tra la stranezza di ieri e quella di
oggi. Ma che io sia dannato se ho capito quale sia”
esclamò
incredulo Don, continuando ad occhieggiare di sotto.
“Questa
volta sono dei gioielli 'Toffani'”
ridacchiò Mikey, che trovava
la cosa esilarante.
“Oh, andiamo! Non mi batterò contro un
altro gruppo di idioti!” ringhiò Raph
allontanandosi da lì.
Il
rumore di una mitragliata gli arrivò alle orecchie,
facendolo
voltare: Mikey, Don e Leo si erano allontanati dal bordo giusto in
tempo per evitare le pallottole.
“Mh, forse posso farlo,
invece.”
Si
gettò in una corsa, pronto a gettarsi di sotto.
“Aspetta,
Raph!” strillò Leo, anche se troppo tardi ormai.
Il fratello era
già in discesa, bersagliato da continui colpi che per fortuna
riusciva
ad evitare.
“Sì, come se potessi fermarlo! Deve scaricare
l'emozione di riavere la sua ragazza a casa!”
esclamò Mikey con
una risata, affrettandosi a seguire il fratello.
Leo
osservò lui e Don che saltavano nel vuoto, con un sospiro e
un
ghigno obliquo. Ma era davvero l'unico ad essersi accorto che c'era
qualcosa che non andava?
Note:
Salve!
Scusate
il ritardo nell'aggiornare, il mio pc mi sta abbandonando. Non so
quanto continuerà a resistere e ne sono spaventata. Non mi
abbandonare, pc!
Comunque,
voglio ringraziarvi. Tutti quei commenti e i preferiti, in un solo
capitolo! Wow, che fiducia! Non vi deluderò, lo prometto.
Allora,
c'è un perché per tutte queste contraffazioni e
questi gruppi di
idioti? Sì, c'è. Più avanti si
scoprirà perché spuntano fuori
come funghi.
Scommetto
che vi aspettavate che Raphael stringesse Isabel in un abbraccio e le
declamasse il suo imperituro amore, ma purtroppo non fa mai quello
che ci sia aspetta da lui, perciò...
Vi
mando un mega abbraccio!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Questions, ninjitsu and troubles ***
Mikey
si abbandonò al suolo con un rantolo e un sospiro. I
Nunchaku
caddero al suo fianco con un lieve rumore sordo. Prese degli ampi
respiri, gli occhi fissi sul cielo, il torace che si alzava e
abbassava con foga, il corpo completamente ricoperto di sudore.
“Sono...
sono alla frutta” esalò a fatica.
Da
qualche parte arrivarono i grugniti di approvazione dei suoi
fratelli, anche loro totalmente sfiancati.
Per
parecchi minuti nessuno parlò, troppo concentrati a
riprendere
fiato, tutti sdraiati a pancia in su sull'asfalto, incuranti dei
corpi disseminati attorno a loro.
“Basta!
Giuro che se ne appare anche solo un altro mi faccio sparare con
sollievo” mormorò Don, sollevandosi sui gomiti con
una smorfia per
i muscoli doloranti.
Mikey
sorrise e annuì, Leo scosse la testa sollevando gli occhi al
cielo,
mentre Raph stava in silenzio, con un avambraccio poggiato sul viso,
prendendo grossi respiri. Era quello che si era battuto con
più foga
di tutti, fino a che le forze lo avevano retto.
Dieci
gang.
Avevano
lottato contro dieci differenti gang, in una sola notte. Spuntate una
dietro l'altra, nei posti più assurdi e disparati della
città,
mentre trafficavano le cose più assurde e disparate, con
livelli di
stupidità e pericolosità crescenti: erano passati
dal primo gruppo
che lottava solo con spranghe e bastoni, agli ultimi con pistole,
fucili e mitragliatrici. Per tutta la notte erano dovuti correre da
una parte all'altra di New York, e fino a quel momento, quando oramai
non mancavano che pochi minuti all'alba, si erano battuti contro
almeno cinquecento persone.
“Io
sono convinto davvero che l'ascesa di aggressività sia stata
voluta.
Così come sono convinto che tutte le bande fossero in
qualche modo
connesse tra loro” continuò Donnie, riuscendo
infine a mettersi
seduto.
“Ma
davvero, genio? Se non ce l'avessi detto non avremmo capito che
è
tutto collegato. D'altronde, come potremmo sospettarlo? È
perfettamente normale trovare dieci bande che commerciano roba
contraffatta male come borsellini Prado, abiti di Bolentino e orologi
Polex. Sembra che ci sia un convegno di aspiranti criminali idioti in
città!” ringhiò stancamente Raph,
tirandosi su.
Mikey
scoppiò a ridere, contorcendosi sul pavimento come
un'anguilla.
“I...
i miei preferiti son stati gli accessori Dolce e Babbana!”
strillò
tra le risate, ormai completamente andato dalla stanchezza. Si
dimenò
per qualche minuto, finché le risa non scemarono e si
rilassò, con
ancora un grosso sorriso a stirargli le labbra.
“Non
c'è niente da ridere. Saranno anche stati gruppi di idioti
con
mercanzia tarocca, ma le loro armi erano tutto fuorché
finte” lo
riprese Leo, osservando distrattamente lo squarcio nella tuta che
attestava il colpo di striscio che aveva preso al bicipite.
Mikey
ne aveva ricevuto uno sulla spalla, Don e Raph almeno un paio
ciascuno, tutti per fortuna solo superficiali. Non era nemmeno sicuro
di come avessero fatto ad evitare quel diluvio di proiettili: ad un
certo punto della nottata c'erano state talmente tante persone a
sparargli contro, che l'aria era diventata completamente grigia,
satura di pallottole fino a scoppiare.
Erano
vivi per puro miracolo. Continuava a scorrere freneticamente con lo
sguardo sui suoi fratelli per assicurarsi che non avessero ricevuto
danni più gravi, ma a parte la stanchezza che stirava i loro
visi
sembravano stare bene.
“Hai
ragione. E sono preoccupato proprio per la combo
stupidità-armi. E
per la progressiva evoluzione nell'armamentario. Cosa dovremo
aspettarci la prossima volta? Un cannone?”
Raph
si era voltato alle parole accorate di Don, con un'espressione cupa.
“La
prossima volta? Potrebbe esserci una prossima volta?”
domandò
scioccato, con la vena che pulsava tra i muscoli del collo.
Il
fratello fece spallucce, senza rispondergli direttamente. Sapevano
perfettamente che ci sarebbe stata una prossima volta. E forse anche
una dopo ancora. Non era possibile che una situazione del genere, che
aveva tutta l'aria di essere solo la punta di un gigantesco e
problematico iceberg, potesse risolversi da sola, magicamente.
“E
se avesse a che fare con Hun?” domandò d'un tratto
Leo,
seriamente.
“Ancora?
Quel grosso gorilla è stupido, ma non così
stupido da mettersi con
gente del genere!” sbuffò Raph, incredulo e
seccato.
“No.
Non hai capito. Intendo: se la sparizione di Hun avesse portato alla
formazione di queste gang improvvisate? Con la scomparsa dei Purple
Dragons una grossa fetta della criminalità cittadina si
è
volatilizzata nel giro di una notte sola. E se qualcuno stesse
cercando di approfittarne e prendere potere, ma fosse troppo
inesperto e stesse facendo solo casini?” suppose il leader,
spiegando ciò che gli frullava nella testa da qualche ora,
ma che
non era riuscito a dire nella foga delle continue lotte.
I
suoi fratelli lo ascoltarono attentamente, valutando la cosa.
“Una
nuova organizzazione?” mugugnò Raph, soppesando le
parole del
fratello, come se trovasse l'idea un po' azzardata.
“È
una valida teoria. Potrebbe anche essere giusta”
constatò sorpreso
e compiaciuto Don, che non aveva affatto pensato a
quell'eventualità.
Aveva formulato almeno un centinaio di teorie, ma proprio quella non
l'aveva tenuta in conto.
“Dobbiamo
interrogare qualcuno di questi e scoprire di più”
disse Raph,
occhieggiando gli uomini svenuti attorno con sguardo predatorio.
I
quattro osservarono i loro ultimi avversari, -una cinquantina di
persone,- riversi a terra senza conoscenza, in pose scomposte e con
grossi lividi per tutto il corpo. Nessuno era ferito in maniera
davvero grave. Forse. Dopo una notte passata a lottare senza sosta
forse la mano gli era un po' scappata verso la fine, ma niente che
non potesse essere trattato in un qualunque pronto soccorso senza
troppe conseguenze.
“Ok,
quale scegliamo? Quello mi sembra meno svenuto degli altri”
esclamò
Mikey puntando il dito contro un uomo grosso come un armadio che
giaceva supino schiacciato da almeno altri cinque uomini.
“Mh,
non so. Chi ci garantisce che ci diranno la
verità?” titubò Don,
scettico.
“La
minaccia di un'altra ripassata?” rispose Raph scrocchiando le
nocche, minaccioso.
“Allora
che si fa? Ne prendiamo uno e lo portiamo al rifugio? È
quasi l'alba” propose Mikey, guardando in su verso il cielo
che
cominciava a schiarirsi.
“È
fuori discussione. Non porteremo nessuno da nessuna parte!”
asserì
categorico Leo, scuotendo la testa davanti alla faccia di Mikey.
Si
erano ormai alzati tutti in piedi e avevano raccolto le armi da
terra, pronti a scomparire in un lampo ora che avevano ripreso fiato
e si erano un po' riposati. Ma ancora non sapevano come fare per
venire a capo del loro problema: non potevano rimanere a lungo
all'aperto, perché entro pochi minuti le strade si sarebbero
riempite di persone e avrebbero potuto essere visti, ma non potevano
nemmeno prendere uno di quegli idioti e portarlo al rifugio, col
rischio di scoprirsi troppo.
“Io
ho un'idea migliore. Il ragazzino di ieri.”
I
tre ninja si voltarono verso Raph, che aveva parlato con un ghigno
soddisfatto in viso, parzialmente illuminato da un primo raggio di
sole.
“Vuoi
rapire il ragazzino?” strillò sconvolto Mikey,
sollevando un po'
la voce.
“No,
idiota. Andrò a parlarci!”
Leo
storse appena la bocca, sovrappensiero. Non gli sembrava una buona
idea lasciare quel ragazzino nelle mani di suo fratello.
Probabilmente lo avrebbe strapazzato e lo avrebbe terrorizzato al
punto da ottenere l'effetto contrario.
“Andrò
io. Stasera. È
meglio
andarci piano con lui, d'accordo?”
Raph
sembrò lievemente contrariato, ma fece spallucce e
acconsentì senza
ribattere, anche se l'idea era sua. Riusciva a capire cosa suo
fratello stesse pensando e avrebbe desiderato che capisse che non era
più l'aggressivo Raphael di un tempo. Non così
tanto almeno.
Con
il nuovo piano in mente si decisero finalmente a tornare a casa,
stanchi e malandati, con il proposito di coricarsi il prima
possibile. Si diedero un'ultima occhiata attorno, sul cumulo
scomposto di uomini al suolo che sarebbero stati presto trovati da
una pattuglia opportunamente avvisata con una soffiata anonima, poi
scomparvero nel primo tombino disponibile, in tutta fretta.
Mikey
sbadigliò, stiracchiando le braccia doloranti per il troppo
roteare
dei Nunchaku con un cupo cigolio che ben poco si addiceva alla
giovane età. Si bloccò con gli arti in aria, come
preso da un
pensiero improvviso, poi sorrise dispettoso.
“Ah,
come invidio chi ha la fidanzata a casa che aspetta il suo
ritorno”
esclamò a voce alta nel condotto che stavano attraversando,
che fece
riecheggiare il suono in maniera sinistra.
Raph,
che camminava di fronte a lui, non si voltò all'affermazione
né
rispose, anche se aveva sentito perfettamente; socchiuse appena gli
occhi dalla stanchezza e dal magone e accelerò l'andatura,
cercando
di distanziarli.
Non
potevano capire. Nessuno di loro. Nemmeno lui riusciva davvero a
capirsi, o forse sì, ma preferiva far finta di no per non
dover
davvero pensare a tutta quella situazione. Lasciò andare un
sospiro.
“Sì,
corri pure! Non scappa mica, sai?” lo rincorse la voce di
Michelangelo, che gli diede i brividi.
Isabel
si alzò alle prime ore del mattino, piuttosto frastornata.
Aveva
dormito sul letto ancora fatto, con i vestiti addosso, in una posa
particolarmente scomoda. Aveva sognato? Ricordava un confuso ammasso
di immagini scollegate tra loro, ma che chissà
perché le davano una
spiacevole impressione.
C'era
di mezzo Raphael, quello lo ricordava bene. La sua freddezza della
mattina prima le aveva lasciato addosso una sensazione sgradevole,
uno sconforto che la riportava a pensare come la sua vecchia
sé,
piena di dubbi e paure.
Stiracchiò
con un sospiro affranto i muscoli del collo e il corpo intorpidito e
poi passò alla toeletta, per sciacquarsi la faccia e lavare
i denti.
Dopo essersi rinfrescata, aver legato i capelli e indossato il
completo da palestra, scivolò fuori dalla stanza, silenziosa
senza
una vera ragione apparente.
Si
diede un'occhiata intorno circospetta poi, constatando che non ci
fosse nessuno in giro, si piegò in avanti, compiendo un paio
di
capriole a mezz'aria, fino ad arrivare al bordo del pianerottolo:
rimase in verticale con le mani sul cornicione, guardando il vuoto
sotto, in bilico, con un delizioso capitombolo al centro dello
stomaco. Si lasciò cadere di schiena, compiendo torsioni
durante la
caduta, e infine atterrò ammortizzando il contraccolpo con
un
piegamento di ginocchia e sollevando le mani in alto come una
ginnasta alla fine del suo esercizio, soddisfatta di sé.
Di
certo l'applauso fu meritato, ma anche così inatteso che
sobbalzò.
Leo le batteva le mani con un'espressione compiaciuta in viso,
qualche metro davanti a lei.
“Sei
stata davvero bravissima. I miei complimenti” le disse con un
sorriso, continuando ad applaudire.
Isabel
arrossì violentemente e avvicinandosi bloccò le
sue mani.
“Non
credevo che ci fosse qualcuno. Che vergogna”
mormorò a mo' di
scusa, imbarazzata da morire.
“Mi
scuso per non aver manifestato la mia presenza, allora. Vecchio
difetto da ninja.”
“Cosa
fai in piedi così presto? Non siete tornati tardi dal giro
di
ronda?” gli chiese Isabel, iniziando ad incamminarsi verso il
dojo.
Leo
inaspettatamente la seguì.
“Non
sono nemmeno andato a dormire, a dire il vero. La ronda di stanotte
è
stata un po'... strana” le rivelò andandole dietro
con falcate
sciolte, senza entrare troppo nei dettagli di quella sfinente e
assurda notte.
Lo
sguardo di Isabel si poggiò distrattamente sullo squarcio
della tuta
sul suo braccio, con un luccichio timoroso.
“Qualcuno
di voi si è ferito?” domandò con voce
apparentemente calma.
“No,
tranquilla. Stiamo tutti bene, solo un po' stanchi” la
rassicurò,
capendo che quel 'qualcuno' pronunciato da Isabel era riferito
soprattutto a Raphael.
Quanto
era fortunato quell'idiota ad avere qualcuno che si preoccupasse in
quel modo per lui?
Erano
arrivati alla porta del dojo e Isabel si era fermata ad ammirare gli
intarsi e le incisioni dall'aspetto quasi reale, nel legno lucido
color mogano.
“Allora
non sarebbe meglio che tu riposassi?” sussurrò
apprensiva, ancora
assorta.
“No,
a prescindere da tutto, mi alleno sempre di prima mattina con il
sensei. Sonno o non sonno” le confessò aprendole
la porta del
dojo, mostrandole come era cambiato da quando lo aveva creato e
mostrato loro: alle pareti c'erano degli arazzi di un bel colore
rosso acceso con ideogrammi giapponesi in bianco, che spiccavano
nitidamente; all'altro lato della stanza vi era un espositore con
ogni genere di arma, da Katana antiche a Shurinken da tre a sette
punte, pugnali, Bō, Sai, Naginata, Tonfa e mille altre ancora, tutte
lucide e ben riposte in un ordine quasi maniacale.
Il
maestro Splinter era già arrivato e sedeva in posa da
meditazione al
centro del dojo.
“Buon
giorno” esclamarono i due a voce alta, inchinandosi con
rispetto.
Il
topo mutante aprì gli occhi e si voltò a
guardarli con un sorriso
bonario sulle labbra.
“Buon
giorno a voi, miei amati discepoli.”
Si
alzò, aiutandosi col fidato bastone al suo fianco, e li
raggiunse a
piccoli passi felpati. Era un errore credere che il bastone indicasse
la sua vecchiaia o l'impossibilità a muoversi,
perché sapeva essere
veloce più del vento, se lo desiderava.
O
quando c'erano in gioco le vite dei suoi figli.
Leo
si era rimesso dritto e sorrideva al maestro, ma Isabel rimase con la
testa china, in silenzio e con la schiena tesa.
“Isabel?”
la chiamò Splinter con apprensione.
“Io...
voglio ringraziarti per il grande onore, sensei. Non so come
esprimere la gratitudine e il senso di rispetto che provo nel cuore.
Farò del mio meglio per non deluder...”
La
mano del vecchio saggio si poggiò sulla testa della giovane,
con
affetto.
“Siamo
una famiglia. Non abbiamo bisogno di tante parole e non hai bisogno
di sforzarti per dimostrarci nulla, figliola.”
La
schiena della ragazza tremolò appena, mentre un tenue
sorriso si
faceva strada sulle sue labbra e un vago pizzicore invadeva gli
occhi. Non si era mai sentita così, prima. Non si era mai
sentita
così amata, avvolta dall'affetto in maniera così
totale.
Sentiva
di non meritarselo. Ma anche di amare quel calore nel cuore che la
faceva sentire al settimo cielo e parte di qualcosa.
Si
ricompose, anche se i suoi occhi rimasero lucidi di un velo di
lacrime trattenuto. Leo le mandò un mezzo sorriso di
incoraggiamento, mentre Splinter si spostava sotto allo stendardo col
simbolo del clan Hamato: un fiore di peonia a cinque petali, il fiore
preferito di Tang Shen, il cui centro era uno yin yang, in onore del
maestro Yoshi.1
Per
prima cosa il maestro li fece sedere di fronte a sé a gambe
incrociate e schiena dritta, per meditare.
“La
meditazione è il primo passo per imparare il ninjitsu. La
lotta
comincia dalla mente. Se questa non è preparata, nemmeno il
corpo lo
sarà. Non importa quale livello di potenza un guerriero
possa
arrivare a raggiungere, senza la guida di una mente allenata alla
perfezione non sarà altro che una nave in balia della
tempesta,
ingovernabile e destinata ad affondare miseramente. Mente e corpo
lavorano all'unisono, sono un tutt'uno, le stesse facce di una sola
moneta” mormorò quieto, mentre loro bevevano ogni
sua parola, in
silenzio.
Isabel
annuiva di tanto in tanto, completamente assorta, ignara del sorriso
che le incurvava le labbra, che era nato nel momento in cui aveva
pensato che Splinter le ricordasse un po' suo padre: dolce e gentile,
saggio e fermo, mescolati nella giusta dose.
“Prendere
dei grossi respiri è uno dei sistemi migliori per liberare
la mente
e rallentare il battito cardiaco e favorire lo svuotamento dei
pensieri, al fine di raggiungere uno stato di quiete, base dal quale
iniziare la meditazione” continuò lui, chiudendo
gli occhi e
inspirando a pieni polmoni.
Nel
dojo si sentirono solo profondi respiri, lenti, ponderati; all'inizio
disomogenei e cacofonici, perché ognuno aveva un proprio
ritmo,
infine divennero uniformi e armonici, regolati all'unisono.
Era
come se respirassero allo stesso ritmo del mondo.
“Hai
un'ottima preparazione, Isabel” affermò il maestro
nel silenzio,
con un flebile tono che non desse fastidio o spezzasse la
concentrazione.
Lei
sorrise appena, senza aprire gli occhi, deliziata dal suo
complimento.
“La
meditazione sta anche alla base della magia. Senza, non riuscirei ad
usarla a mio piacere e verrei sopraffatta e spazzata via”
spiegò
lei, nella sua postura rigida e severa, con le spalle tirate verso
l'esterno, il mento alto, le mani poggiate a palmo in su contro le
ginocchia con i pollici e i medi a toccarsi.
Anche
se la concentrazione di Isabel era adeguatamente allenata, Splinter
insisté che non era mai troppa, per un buon ninja, e pretese
quindi
che ogni lezione iniziasse con almeno un'ora di meditazione
collettiva, per rafforzare la coesione e lo spirito del gruppo. Si
lamentò solo per pochi secondi sul fatto che gli altri suoi
figli
avrebbero perlomeno dovuto presentarsi alla prima lezione, -e su una
cupa punizione per tutti loro,- poi ritornò nel mondo
mentale, per
testare le difese e le parti lacunose, se mai ce ne fossero state.
La
sua voce guidò i loro pensieri e le loro azioni, con calma e
fiducia, un passo alla volta.
Fu
un'ora piuttosto strana, per Isabel. Aveva sempre meditato in
solitudine e connettere la propria mente con altre persone non le
risultò semplice, perché era molto meno intimo;
non riusciva ad
aprirsi ancora a quel genere di intrusione esterna e continuava ad
innalzare le sue difese, sbattendo fuori e di malo modo i suoi
compagni.
Se
il maestro era stato comprensivo e rassicurante, Leo aveva mostrato
attimi di insofferenza e frustrazione, velocemente dissimulati da un
sorriso.
Isabel
aveva sospirato di sollievo, alla fine, mezzo scombussolata per le
continue intromissioni mentali. Aveva ancora davvero tanto da
imparare.
Per
le successive due ore il maestro testò le basi
dell'equilibrio,
facendola stare in bilico su un palo strettissimo, ma alto solo pochi
centimetri. Il segreto era la stessa meditazione, le aveva detto
Splinter, doveva solo cercare il suo baricentro interiore.
Leo
stava su un altro palo alto almeno due metri, con una gamba sola, e
tuttavia era perfettamente immobile. Se ne stava appollaiato con gli
occhi chiusi, senza prestar loro attenzione e di tanto in tanto
cambiava gamba con un saltello.
Nonostante
la sua precaria condizione e il suo vistoso traballare, comunque,
Isabel non cadde e scese quindi con molta allegria alla fine
dell'allenamento. Le dolevano da morire i muscoli delle gambe e delle
natiche e pensò che non c'era da meravigliarsi dei muscoli delle
loro
gambe se avevano dovuto allenarsi in quel modo in tutti quegli anni.
Si
risedette con un fastidioso formicolio agli arti inferiori, dovuto
non solo all'esercizio da funambolo, ma anche alla postura
giapponese, sulle ginocchia.
“Adesso
manca solo una cosa per poter valutare appieno le tue
potenzialità:
voglio vedere come combatti” esclamò il maestro,
sorprendendo sia
lei che Leo.
Chiese
una lotta d'allenamento a mani nude tra loro due. All'inizio Isabel
pensò che stesse scherzando, -Leonardo l'avrebbe
polverizzata senza
nemmeno scomporsi,- ma quando vide il giovane inchinarsi al sensei e
portarsi al centro del dojo, in attesa, seppe di essersi sbagliata.
Facevano
dannatamente sul serio.
Si
portò quindi in posizione, con lo stomaco sottosopra.
Inghiottì a
vuoto, nervosa.
“Yoroshiku
Onegaishimasu” dissero contemporaneamente con un inchino in
sincrono, senza averlo nemmeno programmato.
Leo
le sorrise, sorpreso che lei conoscesse la formula di rito. Era certo
che non fosse stato quello zuccone di suo fratello ad insegnarglielo.
“Vacci
piano, ok?” gli mormorò tesa lei, rialzando il
capo.
“Piano?
Stai scherzando? Ti ho vista combattere contro Raph e Gregor, non hai
bisogno che io mi trattenga!”
Se
lo ricordava alla perfezione, quello stile pulito e veloce, anche
troppo per una che aveva imparato da così poco e sotto la
guida di
suo fratello. Ne era rimasto sorpreso e anche un po' stizzito, forse.
“Oh,
quello” soffiò Isabel, sorpresa che avesse menzionato quegli
scontri del passato.
“Ma
allora ho combattuto con l'aiuto della magia. E io non voglio usarla
più nei combattimenti.”
Avevano
iniziato a muoversi in circolo, spostandosi di lato con passi lenti e
ampi, studiandosi. Il sensei si teneva in disparte, seduto e
tranquillo, osservando le loro mosse, i muscoli tesi dei loro corpi,
il modo in cui differivano nell'analizzare l'avversario.
“Cosa
cambia?” domandò scettico il leader, mentre il
piede strisciava
leggero sul pavimento, con un fruscio appena udibile.
“Sensei,
posso mostrare a Leo cosa cambia se uso la magia per combattere? Ti
prometto che dopo non ne farò più uso”
esclamò Isabel, senza
staccare gli occhi dal suo avversario.
La
pressione guerriera di Leonardo era spessa e riusciva a sentirla
anche da quella distanza. Non poteva permettersi nemmeno un millesimo
di secondo di distrazione.
“Permesso
accordato” disse la voce di Splinter, rimbombando su ogni
parete
fino ad arrivare a loro.
“Ok,
Leo. Inizierò con le mie reali
capacità.”
Si
gettò contro di lui in un attacco, ma non gli fu difficile
capire
dove avrebbe colpito: alzò il braccio, parando il pugno
diretto alla
sua faccia. Isabel sollevò la gamba per colpirlo, ma anche
quello
era un attacco facile da parare. Tutta la sequela di colpi portati
dalla ragazza erano buoni e veloci, ma non abbastanza per lui;
perfino con la stanchezza accumulata in quella notte di ronda
estenuante riusciva a reggere senza fatica il suo ritmo. Era
prevedibile, lenta e perfino troppo normale, niente a che vedere con
ciò che ricordava. Certo, c'era un buon margine di
miglioramento, ma
non riusciva a percepirla come una vera avversaria.
Si
era rivelata deludente. Bloccò una gomitata con un semplice
gesto di
polso, piuttosto infastidito.
Isabel
si fermò e trasse dei respiri profondi, con piccole
goccioline che
le imperlavano la fronte e alcuni ciuffetti scappati dalla coda alta
che si appiccicavano al viso, le guance rosse. Si deterse il volto
con un asciugamano con frenesia, prima di ritornare in posizione.
“Adesso
userò la magia” attestò con un sorriso,
il tono della voce
vagamente emozionato.
O
lo aveva solo immaginato?
Non
vide arrivare il colpo di taglio diretto al viso, percepì
solo una
folata di vento improvvisa e repentina, indirizzata violentemente
contro la sua persona: sentì la maschera lacerarsi in mezzo
agli
occhi per la pressione e la velocità e cadere al suolo con
leggerezza, senza nemmeno un fruscio.
“Castano
scuro” soffiò la ragazza, avvicinandosi in un
secondo.
Poi
sparì dalla sua vista. Tremò, lievemente, di
terrore primitivo e
incontrollabile. Si abbassò per puro istinto evitando, non
seppe
nemmeno come, il calcio al volo diretto contro il suo collo.
Isabel
era diventata fulminea, precisa, letale e aggressiva. E dannatamente
elegante nei movimenti, nonostante tutto.
Lo
attaccava senza lasciare angoli ciechi, senza dargli la
possibilità
di contrattaccare: tutto ciò che riusciva a fare era
scansare,
correndo da una parte all'altra del dojo come una preda in fuga, ma
sempre con più difficoltà. Anche bloccare i suoi
colpi era escluso,
perché facevano molto più male del normale;
sentiva ancora il denso
formicolio ad un braccio per aver parato un suo pugno invece di
evitarlo.
Si
sentiva braccato e il respiro divenne perciò sempre
più corto e
urgente, quasi ansioso.
Quando
si sentì afferrare e lanciare al suolo, con un gesto fluido
e
naturale, non se ne sorprese molto e ne fu in un certo senso
sollevato: neanche il tempo di atterrare che Isabel era già
su di
lui, l'avambraccio premuto leggermente contro la sua gola, gli occhi
scintillanti di animalesca furia.
“Questa
è la differenza” sussurrò ad un soffio
dal suo viso.
Poi
si alzò e sembrò ritornare in sé: gli
tese una mano, con
un'espressione di scusa. Non era nemmeno sudata, il suo viso sembrava
fresco e il suo respiro era normale.
“Perché
non dovresti usare la magia? Il tuo livello si incrementa del
100%!”
disse Leo stizzito, alzandosi senza il suo aiuto.
Si
spolverò pieghe immaginarie della tuta, per non doverla
guardare.
“Non
mi piace. Voglio poter diventare più forte con le mie sole
forze.
Usare la magia è come barare e comunque in inverno i poteri
sono più
deboli, mi penalizzerei da sola a farci troppo affidamento.”
Si
voltò titubante verso il maestro, per capire che cosa ne
pensasse
lui.
“Sono
d'accordo. La tua base di combattimento è buona anche senza
magia e
da domani possiamo iniziare con un allenamento personale, che miri a
colmare le tue lacune e a potenziare tutto il tuo modo di
combattere”
rispose quello, quando entrambi lo raggiunsero, infine.
“Eccellente
primo giorno, Isabel” aggiunse, con genuinità.
Lei
abbassò il capo, entusiasta e lusingata.
“Ti
ringrazio, sensei.”
“Prendetevi
pure il resto della giornata. Isabel, devi ancora ambientarti,
familiarizzare con la città e i dintorni, con la casa e
tutti noi.
Vivere assieme è un'armonia che va coltivata, pian
piano.”
Isabel
si chinò di gratitudine verso di lui e verso di Leo, senza
una
parola. Non riusciva a trovarne nessuna che esprimesse adeguatamente
come si sentisse.
Poi
si incamminò verso la maschera azzurra poggiata al suolo a
centro
del dojo, striscia di colore brillante nell'uniformità scura
del
legno, e la afferrò.
Si
avvicinò a grandi passi a Leo e gliela porse, poggiata sui
palmi a
mani aperte.
“Mi
dispiace di averla rotta. Mi sono lasciata un po' trascinare.
Scusami.”
Leo
tese una mano e sfiorò il tessuto azzurro
sovrappensiero,
sollevandolo con le dita.
“È
tutto a posto. Anzi, sai cosa? Tienila, è un ottimo ricordo
del tuo
primo allenamento col maestro e dell'unica volta in cui mi potrai mai
battere” rispose pungente sottovoce, rimettendole la benda
nella
mano e chiudendo le dita di lei intorno alla stoffa.
Isabel
sollevò lo sguardo, sorpresa, e incontrò quello
indecifrabile
del leader.
“Oh,
che affermazione frettolosa, la tua. Chi ti dice che non
succederà
mai più, con le mie sole forze? Un giorno accadrà
di sicuro”
ribatté con un sorrisino e un bisbiglio, stando al gioco.
“Lo
attenderò con impazienza” la sfidò lui,
contro ogni spiegazione
razionale, contro ogni buon senso.
Era
ancora sottosopra per la trasformazione che aveva visto sotto i suoi
occhi nel modo di combattere di Isabel e in fondo, in una piccola
parte di sé, ne era spaventato e invidioso.
“Oh,
ma guarda che scena tenera! Come si tengono per mano, occhi negli
occhi... ma c'è qualcosa che non va. Quello è il
mutante sbagliato:
il suo colore è troppo chiaro, non ha problemi di gestione
della
rabbia e non russa come una motosega. Questo è quello
giusto!”
La
voce di Michelangelo era arrivata improvvisa e ironica come solo lui
sapeva essere, sorprendendoli. Lui, Don e Raph erano sulla porta del
dojo, che li fissavano.
Lo
sguardo di Raph scorse velocemente sulla loro vicinanza, sulle loro
mani unite, sugli occhi scoperti del fratello e la sua maschera nella
mano di lei, sui sorrisi che si scambiavano, anche se non sapeva
fossero sorrisi di sfida.
Isabel
si accorse della sua presenza e il suo sguardo si illuminò.
La vide
sorridere nella sua direzione, ma non le rimandò un sorriso
o un
cenno in risposta. Si incamminò invece verso la fine della
stanza,
richiamato dal sensei insieme ai suoi fratelli.
Nel
petto gli bruciava un sentimento di gelosia, totale e spiazzante, che
fece molta fatica a nascondere. Un'orribile, orrida sensazione e la
presa di coscienza definitiva, che fino a quel momento aveva solo
rimandato.
Isabel
doveva andarsene. Doveva sparire dalla sua vita. Prima fosse stato,
meglio per tutti.
Note:
1:
Non c'è un vero stemma degli Hamato. Nel fumetto originale
non viene
mai mostrato nulla del genere e nella serie del 2003 Yoshi non ha
davvero un clan, in quanto orfano, perciò non ne ha mai
avuto uno.
Però, pur essendo stato adottato dall'antico, ha mantenuto
il suo
cognome che si è poi tramandato a Splinter (o che se
n'è appropriato!
XD)
Comunque,
ho immaginato che Splinter abbia creato uno stemma ad un certo punto,
per onorare le due persone grazie alle quali è diventato
ciò che
è:
La
peonia per Tang Shen, che lo ha salvato e adottato. Perché
nell'episodio “Tale of master Yoshi”, in cui si
racconta la vita
del maestro, lei viene mostrata con un fiore in mano che a me pare
una peonia. Anche la sua tomba sembra circondata dagli stessi fiori,
mi piace pensare che fossero i suoi preferiti.
La
peonia ha anche un bel significato per un guerriero: l'immagine
della peonia tatuata incarna coraggio e audacia, come un giocatore
che affronta la partita con lo spirito che potrebbe essere l'ultima o
come, in un'altra interpretazione, i guerrieri Samurai affrontavano
ogni giorno come se fosse quello conclusivo della loro vita.
Lo
yin Yang centrale
per Yoshi, una sorta di padre per lui. Nello stesso episodio di
prima, a Yoshi viene data una medaglia, da parte degli utrom: al
centro c'è uno yin yang, simbolo di forze contrapposte ma
unite.
Penso che rappresenti bene gli insegnamenti che Splinter dispensa.
Sotto
c'è uno
schizzo che ho fatto al volo per farvelo immaginare.
Tutto questo ha
rilevanza ai fini della storia? Forse. O forse no. Volevo rendervi
partecipi dei mille dettagli che penso ogni volta che creo una
storia.
Allora:
Leo
è infastidito
da Isabel. Raph vuole che se ne vada. Ci sono decine di nuovi gruppi
di idioti pericolosi in città. Mikey è sempre
adorabile.
Mi rendo conto che
la trama sembra assurda, anche un po' sconclusionata forse. Ma
abbiate pazienza, sapete come sono, devo creare prima una base per
poi sviluppare tutto!
Vi assicuro che la
storia sarà un crescendo!
E dopo questa nota
chilometrica, e anche abbastanza inutile, vi lascio con un abbraccio!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Leonardo-san ***
Leonardo
saltò sul cornicione del palazzo di fronte, con scioltezza.
La
notte aveva l'odore denso di smog stantio e caldo che, dopo aver
asfissiato le vie della città durante la rovente giornata,
risaliva
fino al cielo, saturando l'aria. Si infilava nelle narici con
prepotenza fino ad arrivare alla gola, attaccandosi alla lingua.
Gli
sembrava quasi di poter sentire il sapore dei fumi ed era davvero
sgradevole. Deglutì un paio di volte per cercare di mandarlo
giù,
ma rimaneva sempre attaccato al palato.
A
volte gli mancava l'aria pulita e fresca che si respirava nella
giungla. Senza sapore, senza odore. Solo ossigeno, genuino e in gran
quantità, che riempiva i polmoni e la testa con leggerezza,
rendendo
tutto migliore.
A
dover essere sincero non gli mancava solo l'aria più pulita,
della
sua permanenza nell'Amazzonia: gli mancava il senso di
libertà, il
non essere legato a dogmi e doveri; gli mancava dormire tra le fronde
lussureggianti degli alberi; gli mancavano le sere passate a pescare,
seduto con tranquillità sulla riva di un fiume, le notti
trascorse a
guardare le stelle e la luna piena, astri vividi e splendenti come
non li aveva mai visti; gli mancava la semplicità delle
giornate
trascorse.
Gli
mancava non doversi nascondere costantemente.
Per
quanto amasse New York, non c'era giorno che non pensasse anche solo
per un istante di ripartire e scomparire nelle profondità
della
giungla, nascosto tra la rigogliosa vegetazione fino a non essere mai
più visto da occhio umano.
Forse,
però, a lungo andare si sarebbe sentito solo. Forse sarebbe
stato
bello partire con qualcuno e dividere una vita semplice e spartana,
eppure felice.
Si
fermò d'improvviso, scrutando i dintorni. Era un secolo che
non
passava per Little Italy.
Era
stato talmente concentrato nei suoi pensieri, mentre correva, che non
si era nemmeno accorto che l'odore nell'aria era diverso, pieno di un
delizioso aroma di vari cibi che si mescolavano con gentilezza, senza
prevalere l'uno su l'altro; riusciva a distinguere facilmente il
familiare e fragrante profumo di pizza, quello dolce della
pasticceria alla fine della strada, quello speziato della gastronomia
"da Alberto's", in cui April ogni tanto comprava le lasagne per tutti
loro.
Sorrise
con gratitudine, dato che tutti quei gustosi profumi avevano
annullato il saporaccio di smog che fino a pochi istanti prima gli
aveva invaso la bocca.
Lo
stomaco brontolò, con un ululato indignato. Gli aromi di
Little
Italy avevano un effetto deleterio sull'appetito. Forse era per
quello che Mikey amava così tanto andare di ronda da quelle
parti.
Ignorò
la fame con uno sbuffo stizzito del naso. Era un ninja, lui. Non si
piegava a fame, dolore, paura o cose del genere. Era rigoroso e
allenato a sopportare qualsiasi cosa con stoicismo e indifferenza.
Era
pur vero che era umano anche lui, in un certo senso. Umano per quanto
possibile per un mutante. Di certo della razza umana avevano preso le
debolezze e per ciò era ancora più difficile
cercare di resistere.
Lui ci riusciva con allenamenti. Centinaia diventati poi migliaia,
accumulati in milioni. Giorno dopo giorno dopo giorno ancora, fino
allo stremo.
Per
dimostrare a sé stesso che non erano inferiori agli umani,
ma che
potevano essere addirittura meglio.
Occhieggiò
con trepidazione i dintorni, cercando con meticolosità la
sua meta.
Le sfavillanti luci a neon delle insegne dei locali erano
particolarmente fastidiose, si infilavano con forza nella retina, coi
loro mille colori accecanti.
Gli
ricordarono stranamente Isabel. Fastidiosa e accecante.
Perché quei
due aggettivi gli erano venuti alla mente insieme al suo nome?
Lo
sguardo si fermò infine sul locale che cercava: la piccola
eppure
affollata pizzeria di “Bel mondo”, ormai parecchio
rinomata. Non
aveva aperto da molto, un paio di anni al massimo, ma era diventata
ben presto una delle più famose e consigliate della
città.
Il
proprietario era un italiano sposato da pochi anni con un'americana,
che aveva messo su l'attività con Joe, un vecchio amico di
Casey,
che lui aveva faticosamente riportato sulla retta via dopo anni
passati da delinquente per le strade.
Ed
era stata una vittoria. Ogni sera il locale era colmo da scoppiare e
almeno venti fattorini facevano il viavai per consegnare pizze in
ogni angolo di New York.
Riusciva
a vedere la fila cicaleggiante all'ingresso del locale che aspettava
il proprio turno per entrare, una moltitudine di gente delle
più
svariate etnie.
Ma
a lui non interessava l'ingresso del locale. Era nel retro che sapeva
di trovare ciò che cercava.
Saltò
sul filo teso tra i due palazzi e lo attraversò con
leggerezza e
stabilità, sicuro di sé, poi percorse velocemente
i metri che
separavano l'entrata del locale dall'uscita sul retro, nello stretto
e angusto vicolo in cui sostavano i bidoni dell'immondizia.
Si
sedette sul cornicione, in attesa, osservando la piccola finestrella
che dava sulla cucina del locale. Fuoriusciva tanta luce, che
illuminava un pezzetto di strada sporca e grigia con la sua
luminescenza gialla e calda.
Ogni
tanto qualcuno ci passava davanti e oscurava tutto per qualche
istante e il vicolo tornava nella soffusa penombra; poi scivolava via
dritto per la sua strada e la luce fuoriusciva di nuovo splendida e
avvolgente, catturando la sua attenzione.
Non
appena si accorgeva di essersi distratto, tornava di nuovo a
concentrarsi con maggiore impegno, dandosi dello sciocco.
Da
quando la sua mente si disconnetteva da un proposito con
così tanta
facilità?
Attese
per ore. Con la schiena ritta e le spalle tese, silenzioso e
invisibile nella notte.
La
piccola porta si aprì e un gran vociare uscì
fuori, insieme ai fumi
della cucina.
“Sbrigati,
ragazzo! Ci sono almeno venti sacchi! Ed è già
l'una!” urlò una
grossa voce, cavernosa e possente.
“Sì,
signore! Subito!” rispose una vocina con sussiego, sparendo
quasi
tra rumori di pentole e scalpiccii frettolosi.
Un
ragazzino uscì a fatica, trascinandosi dietro due enormi
sacchi
neri. Aveva un grembiule scuro sui vestiti sportivi e i capelli
biondi spettinati dal vapore.
Sbuffava
per lo sforzo.
Arrivò
a fatica davanti ai cassonetti e aprì il coperchio con una
mano,
prendendo poi lo slancio per riuscire ad issare il sacco oltre il
bordo con un solo lancio.
“Ehilà,
ragazzino.”
Il
giovane trasalì e sobbalzò, lasciando andare il
coperchio che
sbatté con un tonfo cupo, allarmandolo se possibile ancora
di più.
Gli occhi azzurri e sbarrati di paura scivolarono con ansia attorno,
mentre il respiro accelerava.
Incontrò
lo sguardo del mutante acquattato nell'ombra. Se possibile i suoi
occhi si ingrandirono ancora di più e
indietreggiò spaventato.
“Io...
io... sto rigando dritto, sto lavorando, sto andando a scuola, non
esco, non sto per strada, non...” sciorinò tutto
d'un fiato, senza
quasi respirare mentre il colorito lo abbandonava piano piano.
“Tranquillo.
Non voglio farti del male” esclamò tranquillamente
Leo, facendo
qualche passo lento e calcolato verso di lui.
Il
ragazzino lo occhieggiò con sospetto. Le Katana erano nei
foderi
sulla sua schiena, ma sapeva benissimo che non aveva bisogno di armi
per fargli del male.
“Do...
dov'è quello alto e grosso?” domandò
con una vocina acuta e
sottile, guardandosi attorno come se temesse che spuntasse d'un
tratto alle sue spalle per aggredirlo.
Quello
alto e grosso. Raphael era solo qualche centimetro più alto
di lui e
solo appena più muscoloso, non c'era davvero bisogno di
chiamarlo
quello alto e grosso. Lo faceva sentire come se in confronto fosse
piccolo e insignificante.
Si
ricordò con nostalgia di quando erano tutti alti uguali.
Identici in
ogni aspetto, tranne per il colore della pelle. Sarebbero potuti
passare tutti e quattro per gemelli. Poi avevano iniziato a
sviluppare in maniera diversa, anche a causa del tipo di arma scelta
o del tipo di allenamento o dalla frequenza. Raphael, che si allenava
più di chiunque altro, aveva finito per diventare
più muscoloso e
Dio solo sapeva perché anche il più alto.
Ma
era comunque fuori luogo chiamarlo quello alto e grosso. Nemmeno
fosse stato Hulk.
“Sono
venuto da solo. Voglio farti qualche domanda” disse con voce
rassicurante, sedendosi su uno dei bidoni e incrociando le braccia al
petto.
Il
ragazzino sembrò pensarci su, poteva quasi vedere il suo
cervello
che cercava di capire se potesse fidarsi o meno e quali conseguenze
avrebbe dovuto affrontare nel caso in cui fosse scappato a rotta di
collo per la stradina per cercare di seminarlo.
Leo
sperava davvero che non ci provasse, perché sarebbe stato
inutile
oltre che un enorme spreco di tempo.
Con
un sospiro il giovane smise di agitarsi e fissò lo sguardo
nel suo,
piuttosto deciso per essere uno scricciolo del genere.
“Perfetto.
Io sono Leonardo. Come ti chiami?” iniziò,
cercando di farlo
sentire a suo agio.
“Steve.
Steven Gregson” rispose l'altro con un pigolio.
“Bene,
Steve, molto piacere. Credo che tu sappia che cosa voglio
domandarti.”
Il
ragazzino annuì lentamente.
“Prima...
prima io voglio chiedere una cosa” esalò tutto
d'un fiato,
prendendo il coraggio da chissà dove.
Leo
roteò gli occhi al cielo, velocemente. Se l'era aspettato.
“Sono
un mutante. Una tartaruga mutante con addestramento ninja. Ho
indovinato la tua domanda?”
Steve
annuì vigorosamente. Stava di certo assimilando le
informazioni.
Delle strane e inusuali informazioni, lo sapeva bene.
“Allora,
adesso che ho soddisfatto la tua curiosità tocca a me. Come
sei
finito nel brutto giro dell'altra sera? Chi ti ha reclutato?”
“Jack
Tracey, un vecchio amico di papà. Quando erano giovani,
entrambi
facevano parte di una gang e facevano un sacco di 'lavoretti' non
proprio puliti. È venuto a trovare papà per
proporgli qualcosa di
grosso, ma lui lo ha cacciato via in malo modo. Io non volevo
seguirlo, so che è sbagliato, papà non fa che
dirci che si è
pentito di essere stato un delinquente da giovane, ma è
molto
malato. E non abbiamo abbastanza soldi per poterlo curare come merita
o per andare semplicemente avanti. E così io sono andato da
Jack,
proponendomi al suo posto.”
La
confessione sembrava avergli tolto un grosso peso dal cuore. Sapeva
di aver sbagliato, ma sapeva che aveva agito così
perché non aveva
altre scelte. A soli quindici anni si era trovato con un padre
malato, due fratellini da curare, bollette e debiti. Era stato
costretto a prendere la via facile e sbagliata.
E
l'avrebbe rifatto, se fosse servito a proteggere i suoi cari. Ma non
ne andava fiero.
“Dopo
mi dirai esattamente dove hai incontrato questo Jack. Adesso mi
interessa sapere cosa ti ha detto” dichiarò Leo,
strappandolo alle
sue riflessioni.
Steve
gettò lo sguardo verso la porta della cucina, in silenzio,
ascoltando i rumori dei lavapiatti che si affaccendavano per
sbrigarsi e andare finalmente a casa. Da quanto era lì
fuori? E se
qualcuno fosse venuto a controllare perché ci stesse
mettendo così
tanto e avesse visto Leonardo? Sarebbe scoppiato il finimondo.
“Non
adesso e non qui. Tra mezz'ora finirò di lavorare. Aspettami
qua
fuori e ti racconterò ogni cosa”
esclamò con molta più baldanza
di quanto avesse dimostrato fino a quel momento. Sembrava perfino
autoritario, quasi.
“E
non è una scusa per cercare di scappare?”
ipotizzò Leo con
un'alzata di sopracciglia dubbiosa.
“No,
promesso. Grazie a voi ho un lavoro e il signor Joe mi ha
già dato
il mese in anticipo per poter pagare i debiti di papà e
alcune cure.
Vi devo molto.”
“Io
non c'entro nulla. Ha fatto tutto mio fratello Raphael. Quello alto e
grosso.”
Steve
gli sorrise, inaspettatamente. Forse perché nel suo tono era
trasparso il fastidio nell'usare quegli aggettivi per suo fratello.
“Aspettami, ok? Vi
aiuterò come posso” concluse Steve, inchinandosi
per raccogliere i sacchi e gettarli nei cassonetti.
Leo
lo osservò per qualche istante mentre con ogni sforzo
cercava di
sollevare il grosso sacco oltre il bordo, con infruttuosi risultati.
Con un sospiro si avvicinò e gettò i due sacchi
con facilità, con
una mano sola.
“A
dopo” mormorò prima di saltare sul coperchio e
sparire sul tetto,
confuso tra le ombre.
Non
doveva aspettare molto, in effetti. Anche se era comunque noioso
dover attendere. Guardò svogliatamente il via vai di Steve
dalla
cucina ai cassonetti con due o tre sacchi alla volta e i suoi
patetici tentativi di gettarli. Santo cielo, non aveva un minimo di
forza fisica.
A
quindici anni lui e i suoi fratelli erano già colossi di
muscoli e
tecniche ninja. Certo, essendo stati allenati dall'età di
tre anni
non c'era neanche da meravigliarsene; forse se fossero stati dei
normali ragazzi come Steve sarebbero stati così a quindici
anni.
Forse non avrebbero avuto bisogno di allenarsi prima ancora di saper
scrivere o parlare propriamente per potersi difendere dall'esterno o
per essere pronti a reclamare vendetta.
Chissà
come sarebbe stato essere dei semplici umani. Chissà come
sarebbe
stato andare a scuola come dei semplici ragazzi.
Donnie
sarebbe stato un nerd, Mikey un buffone e Raph un bullo? E lui, cosa
sarebbe stato?
Quali
erano alla fin fine le sue caratteristiche particolari?
Steve
uscì dalla porta sul retro esattamente all'una e mezza,
salutando
con un gran vociare gli altri che ancora si attardavano nella cucina.
Si
incamminò verso la fine del vicolo a grandi passi, con il
naso verso
il cielo. Si avvicinò alla scaletta anti-incendio e si
issò,
scalandola fino sul tetto velocemente, sperando di non essere visto.
“Sono
qui” esalò una volta in cima, scrutando
nell'oscurità per cercare
di mettere a fuoco.
“Non
sei scappato. Bravo” lo raggiunse la voce di Leo.
Se
ne stava seduto su un vecchio condizionatore, con un sorriso
compiaciuto e anche un po' sorpreso.
“Potresti
essere anche un po' meno stupito. Ho detto che non lo avrei fatto! Un
minimo di fiducia!” replicò Steve mezzo seccato,
raggiungendolo
con pochi passi.
“Sì,
va bene. Scusa” concesse Leo con un'alzata di spalle
“Pizza?”
chiese il ragazzo senza nemmeno ascoltarlo, tirando fuori dallo
zainetto che portava in spalla un cartoccio fumante.
“Porto
sempre via gli avanzi dalla cucina. Tu mangi pizza?”
continuò,
ignorando l'espressione sul viso di Leo al vedere che si era portato
la cena dietro, ad un interrogatorio, seppure informale.
Senza
una parola il ragazzo iniziò a mangiare, porgendo poi
perché anche
il mutante se ne servisse. Leo allungò una mano con un po'
di
titubanza.
Finirono
per mangiare quasi tutto in pochi minuti, con voracità.
“Ok,
adesso vuoi raccontarmi cosa sai?” esclamò Leo
d'un tratto,
ricordandosi del motivo per cui si trovava sul tetto con quel
ragazzino. Di certo non era lì per mangiare pizza assieme.
Steve
si pulì le mani sui pantaloni e incrociò le
gambe, sporgendosi in
avanti.
“Jack
è un tipo piuttosto chiacchierone”
iniziò a raccontare con un
sussurro a malapena udibile.
“Basta
che beva abbastanza e ti racconta anche il suo numero di conto
corrente. Mi ha detto che il lavoro era stato commissionato da un
uomo molto potente e pericoloso. Non ha detto il nome, ma solo
perché
non lo sapeva. Ha detto che ha nelle proprie mani la maggior parte
dei disperati e delinquenti della città e che se ne sta
servendo
come scudo.”
“Come
scudo?” ripeté Leo, interessato.
“Sì.
Gli ho chiesto che cosa volesse dire e come pensasse che trafficare
roba così palesemente tarocca potesse essere di qualche
guadagno, ma
lui è tornato in sé e mi ha detto solo di tenere
a freno la lingua
e di lavorare senza domandare niente. Mi ha fatto capire che ci
sarebbero stati molti lavori del genere per chi si fosse mostrato
meritevole” finì Steve, facendo spallucce.
Leonardo
sembrava assorto.
“Questo
Jack, era con te la notte che vi abbiamo scoperti?” chiese
sovrappensiero, ragionando velocemente.
“Sì.
L'avete picchiato due volte. Una tu e una tuo fratello alto e grosso.
Credo che gli siano saltati via due denti... non è uno che
capisce
quando deve desistere.”
“Allora
è in prigione e io non posso interrogarlo”
constatò con un ghigno
deluso Leo.
Forse
Jack senza due denti sapeva più di quanto avesse detto e gli
sarebbe
stato utile farci due chiacchiere. Magari insieme a Raph, giusto per
spaventarlo un po'.
“Oh,
no, è fuori! Sono tutti fuori!” esclamò
Steve con un tono
sorpreso, come se pensasse che lui dovesse saperlo.
“Tutti?”
“Sì!
Sono usciti il pomeriggio stesso. Qualcuno ha pagato le
cauzioni.”
“Qualcuno
ha... come fai a saperlo?”
Quel
ragazzino sembrava sapere ben più di quanto pensasse
all'inizio. E
cominciò a venirgli il dubbio se potesse fidarsi o meno. E
se tutta
quella storiella gli fosse stata fatta imparare apposta?
“Jack
è venuto a cercarmi quella notte. Voleva sapere come avessi
fatto a
scappare dalla cattura e dal pestaggio. Pensava che avessi fatto la
spia” rivelò con un sussurro Steve, con le
sopracciglia aggrottate
di rabbia e tristezza, al ricordo.
Riuscì
a vedere il suo viso anche nella penombra che le luci del palazzo
vicino gli fornivano.
“Ti
ha minacciato? Ti ha picchiato?” domandò con un
solo respiro,
dandosi dell'idiota per aver pensato male nemmeno che pochi secondi
prima.
Il
ragazzo scosse le mani in agitazione, accortosi della sua premura.
“No,
no. Beh, non dico che non ne avesse l'intenzione. Ma gli ho rifilato
una bugia e gli ho detto che sono scappato non appena siete spuntati
fuori dal nulla. Ci ha creduto e mi ha proposto un nuovo lavoro per
quella sera, ma ho rifiutato” si affrettò a
spiegare, in
imbarazzo.
“E
ti ha lasciato andare così?”
“Mi
ha 'chiesto' di tenere la bocca chiusa, altrimenti qualcosa di brutto
sarebbe successo alla mia famiglia. Dopo è sparito nella sua
scia
alcolica e non l'ho più visto.”
Leo
ascoltò con un leggero magone nel petto. Non aveva pensato
che Steve
sarebbe stato preso di mira. Quella notte non l'avevano picchiato
perché era giovane e visibilmente spaventato, si vedeva che
era
capitato in mezzo a quei delinquenti per caso e che si stava
chiedendo il perché, con disperazione.
Non
pensavano di certo che gli uomini battuti sarebbero usciti di prigione
così presto. Non pensavano che qualcuno potesse andare a
fargli
domande o a minacciarlo.
Eppure
avrebbero dovuto. Che grande errore.
“Ok,
senti che cosa facciamo: tu righi dritto, come stai facendo. Non
cerchi di investigare, non giri con brutta gente, non fai niente di
niente. Io e i miei fratelli ci occuperemo di questi strani traffici
e verremo ogni tanto a darti un'occhiata. E avrai un numero da
chiamare in caso di necessità” suggerì
Leo, con la sua mistica
aura di calma, che aveva il potere di rassicurare chi lo ascoltava.
Steve
annuì con gratitudine, con un sorriso.
Leo
si fece raccontare ancora qualche cosa, poi lo riaccompagnò
a casa,
assicurandosi che nessuno li stesse seguendo.
Aveva
una strana inquietudine addosso e non sapeva ancora il
perché.
La
notte era stata così tranquilla da risultare perfino noiosa.
Se la sera prima si erano dovuti battere contro tutte quelle bande una
dietro l'altra, quella era stata di un piattume unico. Nessuna
emergenza, nessun furto o delitto, solo silenzio, strano e piuttosto
innaturale.
Ritornò
comunque al rifugio per ultimo, dato che gli piaceva essere sicuro e
controllare ossessivamente per le vie della città, ancora e
ancora,
fino allo stremo.
Mikey,
Don e Raph lo avevano avvisato almeno mezz'ora prima di essere
già
tornati a casa.
Lui
si infilò per le fognature che era ormai quasi l'alba, ma
non era
stanco e avrebbe affrontato l'allenamento mattutino con molta voglia
di combattere. Chissà, magari se la sarebbe presa con
Isabel. Con
lei e i suoi occhioni da brava ragazza.
Gli
facevano venire voglia di punzecchiarla e darle fastidio, fosse solo
per vedere ancora una volta quella parte feroce e aggressiva che
avrebbe fatto paura anche a Shredder. Lui voleva prendere a calci
quella Isabel sin troppo perfetta.
Lo
raggiunsero delle voci nella tubatura, ma rimbombavano talmente tanto
che non riuscì a capire una parola.
“Aspetta”
riuscì a sentire, anche se non sapeva chi lo avesse detto.
Un'ombra
si avvicinò e riuscì a distinguere Raphael, solo
dopo alcuni
istanti: camminava a grandi passi, le spalle rigide e le mani strette
a pugno.
“Ehi!
Sono andat...”
Raph
lo ignorò e tirò dritto, sparendo in pochi
secondi per il condotto.
E
pensare che voleva raccontargli del ragazzino che avevano aiutato. Ma
perché si meravigliava ancora delle stranezze di Raph?
Avrebbe
dovuto esserci abituato ormai. Anche se quel tarlo nel cervello non
lo voleva abbandonare da giorni: c'era qualcosa di davvero strano in
suo fratello e non riusciva ancora a capire cosa fosse.
Entrò
al rifugio sicuro di trovarlo vuoto e invece rimase interdetto nel
vedere Isabel, di spalle. Lei sentì il rumore dei suoi passi
e si
voltò verso l'ingresso, con uno sguardo di gioia ed emozione
che si
infranse nell'istante in cui lo identificò.
Cercò
di dissimulare in fretta l'aria triste e delusa, con un sorriso sin
troppo forzato.
In
quel momento non aveva niente di fastidioso e accecante e sembrava in
un certo senso sbagliato.
Leo
sospirò, con ancora quell'inquietudine nel petto. Forse non
avrebbe
infierito per quella giornata.
Note:
Ciao a tutti!
Questo
capitolo è incentrato tutto su Leo e dalla sua ottica.
Ammetto
che quando lo scrissi mi piacque molto mettermi nei suoi panni,
così
inusuali. Si tende a vedere Leo come un essere perfetto, che non
sbaglia mai, che sa fare tutto con maestria, una sorta di santo. Il
mio Leo è invece più “umano”,
ha cattivi pensieri, fastidi,
dubbi, si annoia. Sembra quasi un po' meschino.
Spero
che non risulti OOC. Nel caso, ditemelo.
Il
ragazzino è tornato. Steve è uno dei miei OC che
avrà ancora i
suoi spazi all'interno della storia, spero che vi piaccia.
Voglio
ringraziare di cuore tutti i nuovi preferiti e seguiti. Sono
felicissima che la storia vi stia prendendo! Grazie a chi commenta,
mi fa sempre tanto piacere leggere i vostri messaggi!
Vi
mando un abbraccio enorme e affettuoso!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Doctor Jekyll and Mister Hyde ***
Passò
una settimana.
Intensa,
piena e affollata. Come mai le era capitato prima in vita sua.
Isabel
si era alzata ogni mattina all'alba per allenarsi con Leo e il
sensei, migliorando con pazienza le sue tecniche. Il maestro era una
persona calma, saggia, ma potente: una vera guida, che la seguiva nei
suoi progressi con costanza e affetto, le mostrava ogni giorno le
tecniche migliori e la osservava con orgoglio mentre diventava sempre
più forte, sempre più brava.
Leo
invece si presentava al dojo alla sua stessa ora, per allenarsi,
diceva. Si era preoccupata che continuare a seguire il suo livello di
combattimento lo avrebbe solo rallentato, ma Leo l'aveva rassicurata,
dicendole che non gli pesava darle una mano; le faceva continuamente
da partner, per la lotta in meditazione e per quella fisica.
Mikey
sembrava essere sinceramente e totalmente felice della sua presenza.
Quando andava in cucina, dopo gli allenamenti, l'attendeva con la
colazione pronta per lei: le preparava ogni volta qualcosa di diverso
e la trattava come una principessa, abbracciandola ogni volta che
poteva, chiamandola la sua sorellina. Le insegnava a giocare coi
videogiochi, cercando anche di farla vincere di tanto in tanto, dato
che Isabel era proprio una frana, e ridevano assieme ad ogni stupido
errore che lei commetteva nei livelli di gioco.
Don
era un pozzo di conoscenza e sembrava trovare meraviglioso che
qualcuno volesse attingerne; lei passava ore intere ad ascoltarlo
parlare e si faceva insegnare tutto quello che non sapeva e che
assorbiva come una spugna. Lui e Leather Head erano diventati i suoi
insegnanti personali ed entrambi erano visibilmente lusingati dalla
sua dedizione e attenzione.
Il
grosso e peloso Klunk la seguiva quasi dovunque e benché
fosse certa
di chiudere la porta della camera, ogni notte, ogni mattina si
svegliava con il pesante micio acciambellato sulla pancia che le
faceva le fusa felice.
Era
uscita spesso con April e Angel, quasi ogni giorno. Quando aveva
reincontrato l'amica, il giorno dopo essere ritornata, era stata una
delle scene più emozionanti e spassose che avesse mai
vissuto: si
era presentata al 'second time around', in un momento in cui il
negozio era particolarmente pieno; April aveva salutato con un
cortese buon giorno, ma non le aveva prestato particolare attenzione,
troppo presa dalla moltitudine di persone che vagavano tra gli
scaffali e le vetrine, poggiando incautamente le mani su preziosi
reperti e antichità. Splinter le aveva detto che il piccolo
Carl
ormai andava all'asilo, per permettere ad entrambi i genitori di
lavorare.
Isabel
era rimasta in un angolo, con un grosso sorrisone, in attesa che lei
e Casey si accorgessero della sua presenza. Ad un tratto l'uomo le
era andato a sbattere contro, con la sua solita sbadataggine, mentre
trasportava un grosso scatolone di porcellane cinesi che per fortuna
non aveva rotto.
“Oh,
mi dispiace tantissimo, Isabel. Spero di non averti fatto
male” si
era scusato distrattamente, afferrando per bene i bordi della scatola
e rafforzando la presa, per evitare che gli scivolasse via. Aveva
fatto qualche passetto verso il bancone, attento e vigile, prima di
bloccarsi e dare un'occhiata sorpresa verso la moglie, che l'aveva
sentito benissimo, nonostante il trambusto. I due si erano voltati
verso di lei, poi si erano guardati nuovamente l'uno con l'altra,
come a chiedersi muta conferma di aver visto bene.
Con
uno strillo sorpreso April aveva lasciato su due piedi una anziana
signora che stava servendo e le era corsa incontro, abbattendo nel
tragitto Casey, che per miracolo aveva salvato la mercanzia che
teneva in braccio: il suo abbraccio era stato emozionante e completo,
soffocato di domande e risate felici.
Da
quel momento non c'era stato giorno che non avesse visto lei ed
Angel: uscivano a fare shopping, a prendere un caffè, a fare
lunghe
passeggiate col piccolo Carl al seguito e lunghe chiacchierate, e
perfino al cinema e cene tra sole donne; le piacevano, le piacevano
così tanto che si ritrovava a sorridere tra sé
quando ripensava
alle loro uscite assieme, alle battute che si scambiavano, alle loro
frecciatine, al loro affetto: non aveva mai avuto delle amiche e
amava il rapporto di fiducia e complicità che stava
instaurando con
loro.
Era
felice, era serena.
Padrona
della sua vita, delle sue scelte, dei suoi spazi e del suo futuro,
secondo dopo secondo. Libera di costruire la sua felicità
con le
proprie mani, senza costrizioni e paure.
Ma
nell'idillio di quell'ultimo periodo non tutto era andato per il
verso giusto: Raffaello.
Non
le aveva mai rivolto la parola ed era più di un semplice
malinteso o
di necessità di tempo per digerire il suo ritorno: la stava
evitando.
Tutto
era stato fin troppo chiaro da quella mattina di una settimana prima,
in cui aveva provato a parlargli, lo aveva pregato di aspettare, ma
lui era comunque andato via. Eppure, anche se l'indifferenza nel suo
sguardo l'aveva ferita, non aveva smesso di provare a cercare di
confrontarsi con lui.
Aveva
cercato in ogni modo possibile di capire perché, aveva
cercato di
parlargli, aveva cercato di trovarsi da sola con lui per metterlo
alle strette, ma tutto era stato vano: se entrava in una stanza, lui
ne usciva senza una parola; se cercava di attirare la sua attenzione,
girava il viso, facendo finta di non averla vista; se gli rivolgeva
una domanda si limitava a rispondere a monosillabi, allontanandosi
prima che lei potesse continuare.
Erano
ormai giorni che non dormiva bene, assillata da domande a cui non
aveva risposta.
Perché Raffaello si comportava in quel modo?
Si
aggiustò la maglietta, tirando il bordo verso il basso.
Nella foga
degli allenamenti continuava a salire su, mostrando la pancia. Leo le
mandò un'occhiata accondiscendente, aspettando che finisse
di
mettersi a posto. In realtà sistemarsi era solo una scusa
per
riprendere fiato, con ampi respiri e i muscoli doloranti, e lui lo
sapeva benissimo.
Erano
ormai tre ore che si allenavano. E il suo compito per quella mattina
era mettere a frutto gli insegnamenti sulle proiezioni, ovvero
cercare di schienare Leo, il suo partner di lezione, con poche
semplici mosse.
Semplici.
Schienare
Leo non era per niente semplice. Innanzitutto lui se l'aspettava. E
perciò era il doppio più guardingo e attento. E
poi era veloce e
preciso e lei, il più delle volte, non riusciva nemmeno ad
afferrarlo.
Erano
più le volte in cui lei finiva al tappetto di quante fosse
riuscita
ad atterrare lui. Che poi era zero.
“Su!
Questo lo chiami il tuo meglio? È davvero
patetico” le disse d'un
tratto, con un sorriso beffardo in viso.
La
stava canzonando.
Era
una cosa che aveva notato. Leo era parecchio pungente durante gli
allenamenti. E per quanto poco lo conoscesse, aveva pensato fin da
subito che fosse una cosa strana. Aveva chiesto conferma a Don e
anche lui le aveva assicurato che mai e poi mai Leo avrebbe deriso un
avversario in nessun modo.
Allora
aveva iniziato a pensare che ce l'avesse con lei per qualche cosa.
Forse la trovava fastidiosa e continuava ad allenarsi con lei solo
per rispetto verso il suo sensei e padre. Forse era ancora
infastidito per la volta in cui lo aveva battuto usando la magia,
anche se si era scusata in ogni modo possibile. O forse era il suo
personale modo di cercare di spronarla a migliorarsi.
Di
certo sapeva che era un continuo altalenarsi tra gesti di cortesia e
frecciatine, come se avesse a che fare con un dottor Jekyll e mister
Hyde mutante.
“Va
bene, sono pronta. Attaccami!” gli disse, annuendo.
Divaricò
appena le gambe e abbassò il baricentro, con i nervi tesi
per poter
reagire al momento giusto.
Leo
le sorrise. In una maniera strana e inquietante. Poi, veloce e
repentino, le si scagliò contro con il pugno alzato.
Isabel
seguì la traiettoria con apprensione, tesa e concentrata, la
fronte
era completamente imperlata di sudore: allungò le mani e
afferrò il
suo braccio, vittoriosa ruotò il busto per poter fare leva
sui
muscoli dorsali per lanciarlo, ma si bloccò con uno
strattone
violento, il cui contraccolpo la riportò indietro, dove
sbatté con
la schiena contro il piastrone di Leo.
Sollevò
la testa, mentre ancora tratteneva il suo braccio sulla spalla, e
incontrò il suo sguardo cinico.
“Non
avrai pensato davvero di riuscirci” le sussurrò
lui, alzando un
sopracciglio derisorio.
“Certo
che sì! Sono riuscita ad afferrarti, finalmente! E a
quest'ora tu
dovresti essere guscio a terra, dopo un bellissimo volo!”
ribatté
lei piccata, provando a tirare il braccio per smuoverlo. Non lo
spostò nemmeno di un millimetro.
“Oh
sì. Beh, ci sarei, se tu fossi stata più veloce.
Tra il momento in
cui mi hai afferrato e quello in cui hai cercato di lanciarmi, ho
avuto tutto il tempo di spostare il centro di gravità
più in basso,
contrastando il tuo mesto tentativo” le spiego con
sufficienza,
stirando appena le labbra con arroganza.
Isabel
arricciò il naso, lievemente infastidita.
“Sì?
Allora evita di farlo, grazie!”
“Ma
dai, credi che un qualsiasi avversario ti agevolerebbe, lasciandoti
tutto il tempo che vuoi per lanciarlo al suolo?”
continuò lui,
sempre con quel tono accondiscendente che le stava facendo perdere la
pazienza.
“No,
ma se sono anche solo un pochino più simpatici di te non mi
verrà
voglia di farlo, garantito” soffiò sarcastica
Isabel, lanciandogli
un sorriso che sembrava una paresi.
“Non
so se sia peggio la tua prova di ninjitsu o il tuo sarcasmo”
gli
sentì dire, sottovoce. Spalancò la bocca,
sorpresa e attonita,
spiazzata dalla sua cinica uscita.
“Ah
sì, ninja
superallenato-sono-il-più-bravo-solo-io? Allora fammi
vedere tu cosa sai fare!” replicò, mentre stava
quasi cedendo al
pensiero di usare la magia per ripagarlo con la stessa moneta.
Leo
non le diede il tempo di muoversi e con un piede spazzò i
suoi dal
terreno, facendole perdere la presa col suolo: Isabel cercò
di
aggrapparsi più forte al suo braccio che ancora teneva, ma
le mani
scivolarono sulla manica della tuta, le unghie graffiarono il tessuto
senza forza e cadde. Chiuse gli occhi, aspettando il contatto con il
pavimento.
Che
però non avvenne: una mano si poggiò sotto la sua
schiena, frenando
la caduta. Aprì gli occhi, titubante, sul viso di Leo che le
ghignava in faccia.
“Si
fa così” le sussurrò, continuando a
tenerla a mezz'aria, come in
uno statico casqué. Isabel osservò il dojo a
testa in giù,
contrariata, per non guardarlo in faccia.
“Capirai
che fatica. Deve essere difficile atterrare una donna di
cinquantatré
chili” sibilò cinica, decisa a non dargli
soddisfazione.
“Ti
piacerebbe. Almeno sessanta, direi” ribatté Leo
divertito,
esagerando di proposito.
Isabel
risollevò lo sguardo, affilato e tagliente, poi si
rialzò,
riguadagnando contatto con il pavimento e l'equilibrio.
Si
lisciò invisibili pieghe nella maglia e nei pantaloni, per
prendere
tempo.
“Sai,
non avrai mai successo con le donne, se parli loro in questo
modo”
gli disse dopo qualche minuto, in cui lui aveva incrociato le braccia
al petto, in attesa della sua sfuriata.
La
sua reazione tranquilla sembrava averlo quasi deluso.
Gli
piaceva dare fastidio ad Isabel. E doveva ammettere che lo rilassava,
anche. Quando vedeva quello sguardo infastidito nei suoi occhi di
colpo gli veniva da ridere: più lei si arrabbiava,
più lui ne
trovava giovamento. Perciò quella sua reazione pacata non
gli dava
alcun piacere.
“Me
ne ricorderò per quando dovrò parlare con una
donna” asserì,
quasi senza pensarci.
Isabel
sbatté le palpebre per qualche istante, confusa. Non era
stata una
gaffe o una distrazione, Leo aveva detto quello che aveva detto
coscientemente, con un mezzo ghigno e uno scintillio nello sguardo.
Perché?
Quel
fastidioso cinismo e atteggiamento pungente a cosa era dovuto? Forse
perché lei era la
quasi-non-capiva-ancora-bene-se-fosse-ancora-ragazza di suo fratello?
Come se il fatto che loro due fossero stati assieme l'avesse resa una
sorta di essere senza definizione che poteva trattare come un
fratello. Sì, doveva essere così... Leo la vedeva
come un compagno
di allenamento, senza genere, mentre lei, che si aspettava si
comportasse gentilmente perché era una donna, non aveva
capito
inizialmente il suo atteggiamento.
Era
tutto così chiaro!
Allungò
un braccio e gli diede un amichevole pugno sul bicipite, fiera della
sua illuminazione.
Leo
sciolse le braccia conserte per strofinarsi perplesso la parte lesa,
confuso dalla contentezza sul viso di Isabel, quasi come se avesse a
che fare con una pazza. Fece per aprire la bocca per ribattere.
“Figlioli!”
chiamò la voce del sensei, interrompendolo proprio prima che
esalasse un solo suono.
Isabel
sorrise della sua espressione mezzo seccata, mentre entrambi si
avvicinavano al saggio ratto, che sedeva sulle ginocchia sotto lo
stendardo di famiglia; si inginocchiarono con rispetto.
“Avete
lavorato abbastanza bene, anche se vi perdete molto in chiacchiere...
di cosa parlavate?” domandò il sensei curioso,
trattenendo un
sorriso bonario, per mantenere la sua aria seria e composta.
Isabel
spostò appena lo sguardo alla sua destra, velocemente,
occhieggiando
Leo, che si era irrigidito. Il leader odiava essere ripreso, anche
indirettamente.
“Leonardo
mi stava illustrando i modi più semplici per migliorare la
mia
pratica, sensei” mentì lei, tranquillamente.
Sapeva
che Leo aveva una faccia sorpresa anche senza guardarlo e
sperò che
il maestro non la vedesse; il vecchio maestro aveva un sesto senso
per le menzogne, anche quelle innocue come quella, in genere.
Splinter
sorrise, contento della sua risposta. Se aveva capito che era una
bugia non ne diede segno.
“Devi
lavorare ancora sulla tua velocità, Isabel. I tuoi movimenti
sono
ancora un po' impacciati, hai un secondo di titubanza dopo aver
afferrato l'avversario: devi essere sicura e decisa. Devi focalizzare
il proposito e lasciare che il corpo esegua quell'obiettivo.”
Isabel
annuì, deferente. Era la stessa cosa che le aveva detto Leo,
più o
meno, ma il maestro riusciva ad esprimerlo in un modo così
zen, così
fiducioso, che le dava voglia di impegnarsi al suo massimo per
riuscire. Tutto il contrario del cinismo del suo compagno di
allenamento.
“Sono
certo che Leonardo continuerà a darti dei buoni
consigli” continuò
Splinter, saggiamente, facendola quasi scoppiare a ridere.
Si
morse l'interno della guancia, cercando di rimanere seria.
Annuì
ancora, con più vigore.
“Bene.
Adesso faremo una pausa. È
ora di colazione e sono certo che Michelangelo sarebbe contrariato se
la sua sorellina non assaggiasse tutti i pancakes che le ha
preparato” soffiò semi esasperato il sensei,
strappando un
sorriso ai suoi discepoli.
“Riprenderemo
l'allenamento fisico più tardi, conto di rivedervi tra
un'ora per la
meditazione” concluse, congedandoli.
I
due inchinarono il capo con rispetto, poi si alzarono e si diressero
verso l'entrata.
“Oh,
sì, conto di vederti alla meditazione, Leo... non vedo
l'ora” lo
punzecchiò Isabel, quando erano arrivati quasi sulla porta e
il
sensei non poteva più sentirli.
Leo
serrò appena la mascella. Sapeva che Isabel gliel'avrebbe
fatta
pagare durante la meditazione, dove lei era più forte. E
quella era
una cosa che lo faceva uscire dai gangheri. Forse proprio per quello
si rifaceva su di lei nella lotta fisica, dove sapeva di poter
vincere. Era in competizione con Isabel e davvero, nemmeno lui capiva
appieno perché.
Odiava
veramente così tanto perdere?
“Saresti
meschina ad approfittarne” le sussurrò, provando a
far leva sul
suo senso morale. Ma non era poi lui, il primo ad essere un po'
meschino?
Lei
sorrise divertita, spiazzandolo. Isabel non reagiva praticamente mai
come si aspettava facesse, era così difficile da leggere e
anticipare.
“Oh,
andiamo. Sai che non sono il tipo... forse”
replicò lei, con
un'occhiata per nulla pulita, sorpassandolo per correre fuori dal
dojo.
Varcò
la soglia.
Stava
stiracchiando i muscoli indolenziti delle spalle, quando lo vide:
Raphael stava entrando nel rifugio, ad un'ora così tarda.
Dove
poteva mai essere stato in pieno mattino?
I
loro sguardi si incontrarono, nel silenzio. Erano ai lati opposti del
rifugio, eppure era come se ci fossero solo pochi centimetri, tra
loro: gli occhi erano negli occhi, fermi e vigili.
Isabel
rimase tesa, congelata nella postura che aveva preso, con le braccia
tese, mentre Raphael era rigido e ritto sulla porta, immobile. Forse
nessuno di loro due stava respirando.
Quante
cose aveva da dirgli. Troppe, tante da non saper neppure da dove
iniziare. Si erano accumulate giorno per giorno negli otto mesi in
cui era stata lontana, si erano assiepate dietro le sue labbra in
quei pochi giorni da che si erano ritrovati, senza riuscire ad
esprimerli per mancanza di tempo o per paura o perché lui
non voleva
sentirle.
Ma
da qualche parte doveva pur cominciare a rompere quella assurda e
ingiustificata distanza, doveva insistere finché il divario
tra loro
non si fosse colmato e un qualcosa fosse infine venuto fuori. Un
dialogo. Anche un litigio. Qualcosa.
Ma
non silenzio, indifferenza e angoscia.
Il
suo corpo si tese verso di lui, i suoi piedi la stavano trascinando
nella sua direzione, la sua mano si era sollevata come se avesse
presagito cosa sarebbe successo e stesse cercando inconsciamente di
evitarlo e fermarlo: fece per aprire bocca, ma lui voltò lo
sguardo,
il busto, poi tutto il corpo, ritornando sui suoi passi.
Uscì in
fretta dal rifugio, senza una parola.
Isabel
occhieggiò ferita la porta, con le parole che le morivano in
gola,
in mezzo alla frustrazione e alla rabbia.
Abbassò
lievemente la testa e lasciò andare le spalle, con un
sospiro
sofferto. Avrebbe voluto piangere, lacrime di collera, ma non era sua
abitudine mostrarsi debole.
Mai,
mai, mai piangere di tristezza o dolore.
“Si
sente il profumo delle frittelle di Mikey” esclamò
una voce,
sorprendendola.
Si
voltò, incredula: si era dimenticata di Leo, completamente.
La vista
di Raphael aveva cancellato ogni altra cosa, dov'era, con chi, cosa
stava facendo.
Leo
aveva visto tutto? Poteva sperare che fosse tornato indietro per
qualche motivo e si fosse perso quella scena orribile?
Lo
guardò, spaesata.
“Andiamo
o no a fare colazione?” domandò lui tranquillo,
dandole certezza
che non avesse visto il tetro siparietto tra lei e Raffaello.
“Preferirei
la doccia, prima” gli rispose con una voce che
sforzò di far
suonare normale, sperando di riuscirci. Voleva affogare sotto il
getto, senza dover trattenere l'espressione di tristezza che il suo
viso premeva per mostrare.
Leo
spalancò la bocca, sconvolto.
“Andare
a fare la doccia assieme?
Ma sei
una screanzata!” le urlò, fintamente turbato, con
gesti teatrali.
Isabel
sgranò gli occhi, osservò il volto di lui
diventare sempre più
paonazzo, poi scoppiò a ridere, senza freno, tanto che si
dovette
tappare la bocca con le mani per non farsi sentire.
“Ecco,
è meglio quando ridi di quando fai quella faccia
depressa” le
disse, dandole una pacca affettuosa sulla testa, col viso girato per
non mostrare il rossore per quella battutaccia, così poco da
lui.
Isabel
si riprese, meravigliata da quella uscita dell'amico.
Allora
Leo aveva visto il suo patetico tentativo di parlare con Raffaello e
la fuga di lui. E aveva cercato di farla sentire meglio, anche se con
una tremenda e orribile battuta. Avrebbe dovuto imparare un po' da
Mikey. Eppure, nonostante non fosse il più buffone e ilare
tra i
quattro, era riuscito a farla ridere.
Gli
sorrise, grata della sua premura e fu quasi spinta ad abbracciarlo.
Ma non lo fece.
Leo
e Don erano diversi da Mikey.
Se
il più piccolo di casa amava da morire abbracciarla in ogni
occasione, gli altri due, i maggiori, erano più seri e
compassati e
Isabel non sapeva mai se potesse permettersi di farlo. Non che
volesse o avesse pensato di provarci, -aveva passato una vita senza
contatti umani e ancora faceva fatica ad abituarcisi, e non imponeva
mai la presenza fisica se non era necessario,- ma sentiva che loro
erano comunque restii a manifestazioni di affetto.
La
pacca che Leo le aveva dato sulla testa era stata quasi un miracolo.
Di
Leo dottor Jekyll, ovviamente. Leo Mr. Hyde probabilmente le avrebbe
dato un pugno al braccio.
Non
cercò di affogarsi sotto la doccia dalla tristezza, la
battuta e il
viso di Leo le tornarono alla mente, facendola ridere talmente forte
che rischiò di bere l'acqua più volte.
Arrivò
in cucina, strofinando i capelli per asciugarli, rinvigorita e
affamata.
“La
mia sorellina!” la investì un uragano verde, che
intravvide appena
sotto il bordo dell'asciugamano.
Mikey
la strizzò in un abbraccio affettuoso, totale.
“Hai
dormito bene? Com'è andato l'allenamento? Leo ci
è andato piano con
te? Hai fame? Ah, profumi di lavanda” sparò a
raffica con la
guancia premuta contro la sua testa, mentre lei ridacchiava.
“Come
un ghiro. Sto imparando le proiezioni. Leo potrebbe farsi schienare
ogni tanto, anche per finta per darmi un po' di fiducia. E
sì, ho
fame, tanta. Grazie, tu sai di frittelle e marmellata di
arance”
rispose in successione lei, senza dimenticarsi nemmeno un dettaglio,
facendo scoppiare a ridere Mikey.
“Leo
non ti renderà le cose facili e non si farà
schienare per farti
piacere” la raggiunse la voce del leader, seria, mentre era
impossibilitata a muoversi e cieca per l'asciugamano in faccia.
Mikey
la lasciò andare e lei sollevò il tessuto,
incredula, occhieggiando
Leo seduto al tavolo, che faceva colazione con un piatto di uova e
bacon e una tazza di caffè.
“E
da quando Leo parla in terza persona? Manie di grandezza? Complesso
di narcisismo? Dissociazione mentale?” domandò,
iniziando a
chiedersi se davvero non fosse pazzo.
“Da
quando ho a che fare con te... probabilmente”
soffiò stanco lui,
alzando gli occhi al cielo.
“Leo!
Ritira ciò che hai detto alla mia sorellina! Quasi non ti
riconosco
più! Non sei così antipatico nemmeno con
Raph!” la difese Mikey,
minaccioso, con ancora addosso il suo grembiulino rosa per cucinare,
con il disegno di un cuore pieno di fronzoli e spalline a sbuffo.
Isabel
sussultò alla menzione di Raphael, poi si
irrigidì. Leo riportò
gli occhi su di lei, forse per valutare le sue reazioni. Mikey era
perfettamente ignaro della cosa, ma si era accorto dello sguardo
preoccupato e si era messo a girare la testa da uno all'altra
leggermente inquieto.
“Mikey...
sai che quel grembiule ti dà un'aria davvero
sexy?” soffiò fuori
Leo, serio, sorseggiando il suo caffè. Il fratellino
spalancò gli
occhi, sorpreso e confuso, con un'espressione comica in viso.
Isabel
iniziò a ridere e perfino Leo sorrise dietro la tazza di
caffè.
Mikey li guardò, mezzo offeso, per lo meno con il fratello,
come se
si sentisse preso in giro. Poi si allontanò, ancora
sconcertato, per
prendere la colazione di Isabel.
“E
due” sussurrò lei al leader, poggiando
l'asciugamano alla
spalliera della sedia. Un miagolio annunciò l'arrivo di
Klunk, che
con arroganza ed eleganza saltò sulle sue gambe,
rivendicando la sua
proprietà su di lei.
“Due
cosa?” fece il vago Leo, giocando con i rebbi della forchetta
sul
cibo: il tuorlo dell'uovo all'occhio di bue si ruppe, spargendosi
sulla pancetta e lui osservò il tutto, contrariato.
“Due
casi in cui mi è saltato alla mente di aggiungere Psicologia
ai miei
corsi... c'è qualcuno in questa stanza che ne ha decisamente
bisogno” ribatté Isabel, con gli occhi al cielo
per la stranezza
di quell'uomo.
Mikey
intanto si avvicinava con una pila di frittelle ben impiattate.
“Non
è carino parlare delle stravaganze di Mikey! Noi gli
vogliamo bene
così com'è!” replicò mezzo
serio Leo, mentre lei, attonita,
scoppiava a ridere.
“Beh,
che c'è? Stamattina siete decisamente strani”
esalò con sforzo il
più giovane, poggiando il piattone sul tavolo, davanti alla
faccia
esterrefatta di Isabel.
Klunk
allungò il nasino roseo, annusando l'aria con famelica
attenzione.
“Oh,
santo cielo, Mikey! Sono bellissime e appetitose... ma non vorrai
davvero che le mangi tutte da sola?” esclamò la
ragazza,
occhieggiando la montagna di cibo con apprensione. Riusciva a
malapena a vedere Leo al di là della tavola.
“Pesa
già abbastanza così, credimi” lo
sentì dire dietro la pila di
frittelle.
“A
cuccia, Mr. Hyde!” gli rispose per le rime.
“Mikey,
siediti a fare colazione con me! E ne diamo qualcuna anche a Leo,
magari si addolcisce... o magari lo rallenta un po' negli
allenamenti” continuò poi, con un mezzo sorriso.
Donnie
arrivò dopo qualche minuto, con un'espressione sorpresa nel
trovarli
tutti e tre lì ad abbuffarsi di frittelle, scambiandosi
battutine e
frecciatine.
Stava
trascinando una lavagna posta su una base a rotelle, che cigolava ad
ogni movimento e ondeggiava precariamente. Ci aveva attaccato una
cartina di New York, fissata ai bordi in legno con del nastro
adesivo.
“Oh,
bene. Non ci siamo tutti, ma almeno i cervelli funzionanti ci sono.
Ovviamente non parlavo con te, Mikey” esclamò il
genio, afferrando
al volo una frittella, prima che il fratellino provasse a pestargli
la mano con indignazione.
“Voglio
la vostra attenzione, qui! Cosa vedete?” continuò,
puntando con il
pollice verso la lavagna.
“La
cartina della città” constatò l'ovvio
Mikey.
“Almeno
un centinaio di puntine rosse” aggiunse Leo, guardando i
punti
disseminati per tutta la mappa.
“Esatto.
Ogni puntino indica esattamente il luogo in cui abbiamo combattuto
contro uno dei gruppi di contraffattori nei dieci giorni da cui
questa storia è iniziata. Come ci ha detto Steve, il
'lavoro'
prevede che si impegnino per due notti di seguito e che poi stiano
fermi per i seguenti cinque, in un circolo continuo. Perciò,
nelle
quattro notti in cui li abbiamo incontrati, finora, ci siamo
scontrati con loro settantuno volte. Quindi, cosa possiamo
capire?”
domandò il genio, con sussiego.
“Che
non importa quante volte li picchiamo, tanto qualcuno li toglie fuori
di prigione e ci tocca rifarlo?” scherzò
Michelangelo, mangiando
frittelle con gusto.
Don
si limitò ad un'occhiata di rassegnazione.
“C'è
uno schema dietro. Un disegno specifico” indovinò
Leo, guardando
con più attenzione.
Mikey
sembrò interessarsi di colpo: lo videro alzarsi e prendere
uno spago
da uno dei cassetti della cucina, poi avvicinarsi alla lavagna e
provare ad unire i punti, con la concentrazione a mille.
“Non
quel genere di disegno!” lo sgridò Donnie,
schiaffandosi una mano
in faccia di incredulità.
Mikey
sorrise.
“Lo
so. Ma guarda che bel cagnolino è venuto fuori!”
sentenziò
felice, indicando la lavagna con gesto teatrale.
Isabel
rise del loro siparietto comico. Seppure fosse ormai praticamente una
routine, non poteva fare a meno di trovarli spassosi. Sapeva quanto
Mikey si divertisse a fare uscire fuori di testa i suoi fratelli.
“Io
ho capito cosa c'è dietro” la sentirono dire non
appena ebbe
smesso di ridere.
Si
trovò i loro occhi puntati addosso e se avesse saputo di
avere la
bocca sporca di zucchero a velo probabilmente si sarebbe risparmiata
il sorriso compiaciuto.
“Ma
ve lo dirò solo se mi porterete con voi la prossima volta
che sapete
che usciranno allo scoperto” finì, lasciandoli
basiti.
“Te
lo sogni! Non riesci nemmeno a schienarmi, non puoi venire con
noi!”
intervenne Leo, visibilmente arrabbiato.
“Ma
sono degli idioti! L'avete detto voi!”
“Sì,
ma sono armati. E ad ogni nuova volta in cui li incontriamo, il loro
armamentario cresce” spiegò Mikey, che era
stranamente diventato
serio.
Isabel
si scontrò contro il loro muro compatto di disapprovazione.
Sembravano essersi dimenticati che in passato era uscita di ronda con
loro, anche se per poco. Ma soprattutto sembravano aver dimenticato
che non era una ragazza che amasse farsi proteggere e che in
realtà
era perfettamente capace di badare a sé stessa. Gliene aveva
dato
ampia prova, nella lotta contro Gregor.
Si
erano abituati decisamente in fretta al ruolo della sorellina da
vezzeggiare e tenere al sicuro.
Eppure,
non era nelle sue corde demordere. Non più.
Si
alzò decisa, mentre Klunk la guardava con sguardo
contrariato per
essere stato sfrattato.
“Allora,
vediamo un po', mancano cinque giorni alla prossima certa apparizione
dei misteriosi gruppi di contraffattori: se riuscirò a
schienare
Leo, -senza usare la magia, si intende,- mi porterete con voi al
posto dove si nasconde in realtà il vero mistero. Affare
fatto?”
propose con uno scintillio nello sguardo e una mano tesa.
I
tre si guardarono con sospetto e sorpresa per la sua sicurezza. Leo
sembrava combattere contro sé stesso con ogni fibra del suo
essere.
Non voleva cedere al ricatto, ma lei sembrava davvero essere certa di
ciò che sapeva.
Ma
poi, a ben pensarci, non era assolutamente possibile che lei
riuscisse a gettarlo a terra in cinque giorni. Nemmeno in cinque
settimane ne sarebbe stata capace. Ne aveva di strada da fare. E non
era nemmeno detto che sapesse qualcosa, magari stava solo bluffando.
Sorrise
tra sé, soddisfatto, e allungò una mano per
stringere quella di
Isabel.
“Portarti
dove?” chiese.
Isabel
si avvicinò alla lavagna e puntò un dito sulla
carta.
“Al
porto. L'unico posto in cui nessuno dei gruppi ha mai operato. Anzi,
ci si sono tenuti davvero alla larga, perché erano solo un
diversivo” espose con certezza, mentre i tre osservavano
stupiti il
cumulo di puntine distante parecchi centimetri dalla sua falange, che
al momento copriva una porzione di Manhattan.
Rimasero
a bocca aperta, perché non avevano fatto minimamente caso al
vuoto
attorno all'area del porto. Non c'erano arrivati.
“Nessuno
ci dice che sia effettivamente così, ma andremo a dare
un'occhiata.
Tra cinque giorni” concluse Leo accondiscendente, come se le
stesse
facendo una concessione.
Tanto,
non c'era davvero possibilità che lei riuscisse a
schienarlo.
Nemmeno una in un milione.
Note:
Buona
sera a tutti!
Come
va?
Sono
felice di trovare sempre così tanto seguito.
Leo,
lo ammetto, pensavo sarebbe stato criticato. Ero convinta di averlo
reso troppo diverso e che tutti mi avrebbero detto che non piaceva...
che sorpresa. Siete state tutte unite nel dire che il carattere
decisamente umano vi è piaciuto.
Beh,
c'è ancora da vedere cosa ne penserete più
avanti. Perché il mio
Leo non è tutto qui. * risata malefica in sottofondo *
Per la storia di Jekyll e Hyde, per chi non la sapesse:
http://it.wikipedia.org/wiki/Lo_strano_caso_del_dottor_Jekyll_e_del_signor_Hyde
Rinnovo
i miei ringraziamenti a tutti coloro che seguono, che hanno messo tra
i preferiti e che commentano. Grazie di cuore.
E
grazie anche a chi continua a leggere September in the rain e a
preferirla, anche se è finita! Stragrazie!
Vi
abbraccio tutti con immenso affetto
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Gotcha! ***
Isabel
aveva preso la promessa in maniera terribilmente seria.
Nei
giorni seguenti aveva dato fondo a tutte le sue energie per
raggiungere il suo proposito, ma per quanto si sforzasse, non era
riuscita nemmeno a smuovere Leo, figurarsi schienarlo.
Il
sorrisino che lui le rivolgeva ogni giorno a fine allenamento,
trionfante, era davvero frustrante.
Le
dava sui nervi e le faceva seriamente venire voglia di ritrattare la
parola data e di usare la magia pur di batterlo e toglierglielo dalla
faccia.
Ma
tra il desiderare e il riuscirci sul serio c'era un abisso. Doveva
prendere atto delle sue limitazioni: non era ancora al livello di Leo
e non sapeva se in effetti ci sarebbe mai arrivata.
Eppure,
anche se nel profondo ne era conscia, non era da lei lasciar perdere.
La sua testardaggine e il senso d'orgoglio plasmati nel corso degli
anni le imponevano di non arrendersi.
Ecco
perché si spaccava letteralmente la schiena per cercare di
migliorarsi. Aveva “assaggiato” il pavimento lucido
del dojo
almeno un centinaio di volte ormai, aveva ingoiato la rabbia e
cercato di sopperire alle sue mancanze, infruttuosamente.
Quattro
giorni dalla promessa, meno un giorno alla notte di ronda in cui loro
sarebbero andati al porto a controllare che la sua intuizione fosse
esatta.
Poteva
ancora farcela.
Incontrò
la dura superficie legnosa prima con il sedere, poi ci
sbatté sopra
anche la schiena, con un tonfo allarmante. Rimase sdraiata a guardare
il soffitto bianco latte, prendendo dei grossi respiri dolorosi, con
le vertebre che chiedevano pietà.
Passò
una mano sul torace, giusto per assicurarsi di essere ancora tutta
intera e sentì il battito sofferto del suo cuore sottoposto
allo
sforzo. E alla sconfitta.
Nel
suo campo visivo apparve il ghigno di
mister-sono-perfetto-solo-io-e-tu-non-riuscirai-a-schienarmi-te-lo-puoi-scordare.
Anche
senza dire una parola era davvero, davvero irritante.
“Non
sei stanca?” domandò serafico, come se si stesse
riferendo solo a
quella sessione di allenamento.
In
realtà le stava chiedendo se non fosse semplicemente ora di
lasciar
perdere nel provare a batterlo. Non era così stupida da non
capirlo.
“No!”
soffiò fuori decisa, puntellando i gomiti per rialzarsi.
L'avrebbe
sbattuto a terra. Oh sì che l'avrebbe fatto. E poi gli
avrebbe
sogghignato in faccia tronfia e vendicativa. Leo riusciva decisamente
a tirare fuori il peggio di lei.
Si
stava rialzando sulle gambe stanche e doloranti, quando il maestro si
avvicinò, a piccoli passi.
“Sei
migliorata davvero molto, figliola, ma ancora c'è
incertezza. Eppure
la tua determinazione di questi giorni è stata di sicuro
perfetta.
Si può quasi pensare che stessi cercando di uccidere
Leonardo”
disse con un sorrisetto incredulo, scherzando con loro.
Isabel
non mosse il capo, ruotò solo gli occhi per guardare un
secondo
verso Leo, sbuffando lievemente dal naso per esprimere una risatina
trattenuta.
Quasi.
A volte aveva avuto davvero l'impulso di fargli male, a quel cinico,
altezzoso, borioso e spocchioso compagno di allenamento, che non solo
non le dava alcun consiglio o aiuto, ma che quando la gettava al
suolo lo faceva senza alcun riguardo. E sospettava anche che si
divertisse.
“Se
continuerai con questa energia riuscirai ad eseguire una proiezione
perfetta già tra qualche settimana”
continuò il sensei, sicuro di
rincuorarla con le sue parole.
Il
realtà il morale di Isabel era appena sceso sotto i piedi.
Lei non
aveva qualche settimana. Sapeva che era sbagliato forzare il suo
addestramento in quel modo, e per una scommessa tra l'altro, ma
desiderava uscire di ronda con loro con tutte le sue forze.
Innanzitutto
le mancava uscire di notte e correre per i tetti di New York: era una
delle sensazioni più belle del mondo, di libertà
totale. Poi, se
fosse uscita assieme a loro, avrebbe avuto un'occasione preziosa per
poter finalmente parlare con Raphael e non intendeva rinunciarci
così
facilmente.
E
in ultimo, c'era una piccola parte di lei che trovava intollerabile
ricevere dei divieti così secchi e categorici. La sua parte
Raffaello, testarda e indipendente.
“Grazie,
sensei. Farò del mio meglio” mugugnò in
risposta, con tutta la
cortesia possibile.
“Bene,
per oggi è tutto. Riprenderemo gli allenamenti domattina,
grazie per
il duro lavoro” continuò l'anziano, congedandoli.
“Grazie
per aver condiviso la tua saggezza” replicarono in coro
inchinando
il capo, seguendo un rito prestabilito di cortesia ed etichetta.
Il
sensei uscì dal dojo e Isabel si trovò di nuovo
di fronte quel
sorrisino compiaciuto di Leo.
“È
quasi ora di cena. Faresti meglio a sbrigarti a pulire il
dojo”
sibilò contento, iniziando ad incamminarsi verso la porta.
Isabel
arricciò il naso, arrabbiata. Dovevano pulire il dojo
assieme, come
avevano sempre fatto, ma da quando c'era in atto quella scommessa,
Leo se ne approfittava, lasciandola da sola a provvedere a tutto.
“Quando
ti batterò dovrai pulire tutto da solo per una
settimana!” gli
urlò dietro con stizza.
Lui
rise divertito e il suono si amplificò nello spazio vuoto,
con una
flebile eco.
“Se
mi batterai. Se succederà sarà talmente un
miracolo che farò tutto
quello che vuoi!” rispose senza nemmeno voltarsi.
Isabel
sorrise. Gli avrebbe fatto rimangiare quella superbia e lo avrebbe
rimesso a posto. Parola di strega.
Ci
mise un'ora a ripulire tutto e dato che era ormai tardi, si
recò in
cucina senza fare la doccia, stanca e arrabbiata.
“Ecco
qui la mia adorata sorellina!” strillò Mikey con
un sorrisone
felice non appena la scorse, correndole incontro per abbracciarla.
Isabel alzò le mani per fermarlo, velocemente.
“Non
mi sono ancora fatta la doccia, Mikey. Sono sudata” gli disse
sottovoce.
Lui
le sorrise e inaspettatamente l'abbracciò lo stesso.
“Sei
sempre bellissima e profumata. Sai di... cera per pavimenti e spray
per legno al miele. Un nuovo profumo?” le sussurrò
all'orecchio,
facendola ridere.
“Si
chiama eau di sconfitta. Non sono ancora riuscita a schienare
quell'antipatico di Leo e mi tocca pulire il dojo da sola”
rivelò
staccandosi da lui, dando un'occhiata intorno.
In
cucina c'erano già tutti: Don ai fornelli, preparava
qualcosa che
profumava di melanzane e patate, mentre Raph apparecchiava la tavola.
Leo era già seduto e la osservava con quello scintillio
irritante
nel fondo dello sguardo; si limitò a rimandargli uno
stiramento di
labbra che sembrava tanto un augurio di dissenteria fulminante.
“Tutti
a tavola!” esclamò Don, allegro.
Si
sedettero nel solito ordine e incominciarono a mangiare: Isabel si
sentiva affamata, una sensazione orribile che le ricordava i
patimenti che aveva vissuto durante la sua vita. Non lo provava da
molto, per grata fortuna, era finalmente riuscita ad avere un po' di
stabilità e normalità, ma in quegli ultimi giorni
dava fondo ad
ogni energia, quasi fino allo stremo e si stancava come una volta.
Quando
il suo corpo si accasciava senza forze in un vicolo, dopo aver corso
come una pazza nelle ombre.
“Ehi,
che appetito. Piano, non scappa” scherzò Mikey,
mentre lei si
infilava forchettate di cibo in bocca e masticava voracemente.
“Scusa,
muoio di fame” rispose una volta che ebbe inghiottito, con la
forchetta già colma di una porzione di pasticcio.
Si
chiacchierò del più e del meno per tutto il corso
della cena.
Almeno, loro cinque parlarono per tutta la cena, Raph aveva il viso
incollato al piatto, senza guardare né parlare con nessuno,
come
aveva fatto ad ogni pasto.
Solo
quando il sensei si alzò congedandosi per primo per poter
meditare
prima di coricarsi, Isabel si ricordò di qualcosa, mentre
mangiavano
il sorbetto al limone.
“Maestro,
domani è possibile spostare o annullare l'allenamento delle
tre? È
per quell'impegno di cui ti ho parlato” esalò
tutto d'un fiato
prima che lui uscisse dalla cucina.
Il
sensei poggiò la mano alla porta e girò appena la
testa.
“Alle
tre? Va bene, ma voglio che ti impegni di più di mattina,
d'accordo?” propose furbo, strappandole un cenno positivo.
“Buona
notte, figlioli.”
“Notte,
sensei.”
“Ehy,
dov'è che vai domani alle tre?” domandò
Mikey allungandosi lungo
il tavolo, curioso come non mai.
“Vado
all'università a portare la mia iscrizione”
rivelò contentissima,
con un sorrisone, smontando tutta l'attenzione nel giovane.
“Le
lezioni iniziano a Settembre, devo assicurarmi un largo anticipo per
essere sicura dei corsi scelti.”
“Ma...
è così che funziona normalmente?”
domandò Leo.
“No.
In genere si passa dalla scuola superiore, controllano la media di
uno studente che fa richiesta, fanno dei colloqui, degli esami per
valutare preparazione e quoziente intellettivo, ci vogliono lettere
di raccomandazione e tanto altro ancora. Ma io ho qualcosa che gli
altri non hanno...”
“La
magia” continuò Mikey con un tono di voce
cospiratorio, agitando
le mani con mistero, come un mago che cerca di ammaliare il pubblico.
“Ma
non è un po' come barare?” si intromise Don, con
le sopracciglia
piene di rimprovero.
“No,
non faccio nulla di male. Non tolgo il posto a nessun altro studente,
ne creo uno nuovo per me. E, senza modestia, mi merito di andarci.
Posso recidere il ventricolo di un cuore a occhi chiusi, senza
danneggiare nessun altro organo od osso nella procedura, e ripararlo
coi miei poteri in un batter d'occhio.”
“Oh,
beh... allora ok. Magari potresti insegnarmi qualcosa, non appena le
lezioni si faranno interessanti” mormorò Don, con
un mezzo sorriso
speranzoso.
Isabel
lo fissò, pensierosa.
“Donnie...
ti piacerebbe frequentare medicina con me?”
Il
mutante spalancò gli occhi, meravigliato dalla domanda, con
la
forchetta ancora in mano bloccata a mezz'aria vicino alla sua bocca.
“Io...
io non posso venire all'università”
balbettò titubante,
constatando l'ovvio.
“Ma
io posso fare un'iscrizione a tuo nome e posso videoregistrare tutte
le lezioni. La sera potremmo studiare assieme e posso fare in modo
che tu possa dare gli esami... cosa ne dici?”
L'amico
rimase in silenzio, senza staccare lo sguardo dal suo. E forse non
respirò nemmeno in tutto quel tempo in cui rimase assorto,
preda di
mille pensieri. Perfino Raph aveva alzato lo sguardo dal piatto per
guardarlo, per sapere cosa avrebbe detto.
“Puoi
davvero farlo? Farmi prendere una laurea, col mio nome sopra? Valida,
vera... un vero attestato?” domandò il genio
incredulo, col tono
di voce più dolcemente insicuro che lei avesse mai sentito.
Gli
sorrise, resistendo all'impulso di abbracciarlo.
“Vero
davvero! Vuoi tu, Donatello Hamato, diventare mio collega di
università nei terribili anni a venire, sopportando crisi
isteriche
pre esame e sessioni di studio avvilenti e complesse, motivandomi
quando deciderò di sbattere la testa al muro per farci
entrare le
nozioni a forza e sostenendomi se mai prendessi qualche brutto voto,
come io prometto di fare con te?” domandò con fare
solenne,
alzandosi in piedi con fare teatrale.
“Certo
che lo voglio!” strillò fuori di sé
l'altro, completamente in
balia dell'emozione. Mikey fece finta di asciugarsi gli occhi col
fazzoletto, tirando su col naso.
“È
stata la più bella proposta che io abbia mai sentito. Come
crescono
in fretta questi bambini” soffiò con fare
melodrammatico, come una
mamma orgogliosa.
Raph
si alzò, grattando la sedia rumorosamente contro il
pavimento.
“Troppe
cretinate per una stanza sola” mormorò a voce
alta, girando loro
la schiena e allontanandosi
a grandi passi.
Leo
stava per alzarsi e dire qualcosa, quando la mano di Isabel lo
bloccò, poggiandosi sulla sua spalla per farlo rimanere
seduto. I
suoi occhi non erano diretti verso nessuno di loro in particolare,
perché sapeva che tutti stavano guardando verso di lei.
Sorrise,
al nulla, come se non fosse successo niente di importante. Ma quello
scintillio ferito era difficile da nascondere.
“Allora,
Donnie, domani creeremo il tuo primo documento di identità.
Emozionato?” chiese, infondendo nella sua voce tutta
l'allegria
possibile.
Doveva
assolutamente parlare con Raphael. Doveva rimanere da sola con lui
abbastanza a lungo per chiarire la situazione, capire cosa non
andasse e sicuramente prenderlo a calci per il suo comportamento.
Quando
dopo cena Isabel si fiondò a fare a doccia con gratitudine,
Leo si
alzò da tavola, percorrendo la stanza a grandi passi:
uscì nel
grande ingresso e con un agile salto arrivò al primo piano,
fermandosi davanti alla stanza del fratello.
Bussò,
secco.
“Raph?”
chiamò quando non ricevette risposta.
Nessuno
rispose da dentro. Bussò più forte, con
insistenza.
“Raph!
Lo so che ci sei!” urlò a voce più alta.
Non
ci fu comunque risposta. Abbassò la maniglia ed
entrò cautamente:
la stanza in penombra era vuota. Richiuse con un colpo secco,
poggiandosi contro la porta.
Cosa
diamine stava succedendo a suo fratello? Perché non era
contento che
Isabel fosse tornata? Avrebbe creduto che averla di nuovo nella sua
vita l'avrebbe reso folle di gioia e invece non solo l'aveva
spudoratamente ignorata, ma le poche frasi che le aveva rivolto erano
state cattive o acide. E lui non riusciva a tollerare lo scintillio
ferito che gli occhi di Isabel cercavano di nascondere ogni volta,
mentre forzava un sorriso. Poteva ingannare Mikey, forse persino Don,
ma non lui: si erano allenati ogni mattina, l'aveva sfidata con la
mente durante la meditazione, con il corpo durante l'allenamento, ed
era entrato più in sintonia con lei; capiva quando mentiva,
quando
era imbarazzata, quando era delusa o arrabbiata, benché lei
non
mostrasse quelle emozioni apertamente.
E
Isabel era turbata, sempre più spesso, a causa di Raph.
Vederla
in quello stato a causa di quell'idiota lo faceva arrabbiare.
Maledetto
Leo Mr. Hyde.
Isabel
si fece la doccia, con un cupo scricchiolio di sottofondo delle sue
povere ossa martoriate. Di nuovo, maledetto ghignante Leo Mr. Hyde.
L'aveva lanciata ovunque per il dojo senza pietà.
Si
asciugò e rivestì, con calma e cura, e si mise
due gocce di profumo
dietro le orecchie, pronta per uscire.
Venne
intercettata alla porta dell'ascensore da un uragano verde e arancio.
“Dove
va la mia sorellina?” squittì Mikey,
approfittandone per
abbracciarla. Isabel ridacchiò, affettuosamente rassegnata
all'irruenza del mutante.
“Tutta
in tiro e profumata e bella e...”
“Ho
un appuntamento, Mikey” soffiò misteriosa, prima
di staccarsi da
lui e correre verso l'interno dell'ascensore.
“Ah,
sì? Ti tengo d'occhio!” le urlò mentre
le porte si chiudevano.
Isabel riuscì a vedere il suo sorriso e l'occhiolino che le
mandò.
Arrivata
in superficie si sistemò bene il manico della borsetta sulla
spalla
e uscì dal garage, con un'occhiata un po' triste e
malinconica verso
la moto nera di Raphael. Le suscitava dei ricordi così belli
da
essere anche troppo dolorosi.
Camminò
per le strade già abbracciate dalla luce rossastra del
tramonto e
canticchiò tra sé e sé per tutto il
tragitto, mentre lo sguardo
scivolava tra i mille volti, su sorrisi e ghigni tristi, sul viso
felice di una bimba che gustava il gelato coi genitori, sul cagnolino
scodinzolante dall'altra parte della strada.
Occhieggiò
in lontananza gli ombrelloni rossi del bar. Una mano
sventolò in
aria, facendole segnali.
“Isabel!
Siamo qui!” urlò la voce familiare di April.
Lei
e Angel sedevano al tavolino all'aperto, davanti a due coppe di
gelato, mentre Carl, seduto nel passeggino, sbrodolava una coppetta
sul visino e tutto intorno.
“Carl!
Tesoro, come sei bello” si complimentò lei, che
non aveva
occhi che per lui. Il bimbo ridacchiò nel gelato, ormai
completamente rosa e giallo, con le mani, la faccia e la tuta
impiastricciati di fragola e banana. Era da quando era cominciata
quella scommessa con Leo che non vedeva le sue amiche e il bambino,
troppo presa ad allenarsi.
Si
chinò a dargli un bacio sulla fronte e lui ne
approfittò per
toccarle la guancia con una mano appiccicosa.
“Ja
Shabé” strillò il frugoletto, felice di
vederla.
“No.
Prova a dirlo bene: Zia Isabel” provò lei,
staccando le sillabe e
allungando le vocali.
“Jaa
Shabeé” ripeté imperterrito lui,
piuttosto concentrato. Lei rise
alla sua faccina buffa, rinunciandosi.
“Sì,
Ja Shabè: hai ragione tu, piccolo!”
“Ehy,
ci siamo anche noi qua, Miss ritardataria!”
protestò April,
richiamando l'attenzione. Isabel si tirò su e prese posto
nella
sedia tra di loro.
“Scusate,
davvero davvero. Sarei arrivata prima, ma Leo mi ha sbattuta a terra
una ventina di volte, solo stasera” si scusò,
mentre con un
braccio richiamava l'attenzione di un cameriere.
“Isabel!”
ammonì Angel, arrossendo.
“Non
in quel senso! Angel!” ribatté mezzo sorpresa,
prima che il
cameriere interrompesse la conversazione per prendere il suo ordine.
Metà
del cervello era concentrata nello scegliere il suo drink, mentre
l'altra pensava con un po' di ilarità agli assurdi
fraintendimenti
che Angel riusciva a percepire in ogni sua frase.
Quando
era tornata, lei e April l'avevano messa al corrente di cosa fosse
successo in passato, della storia di Gregor, della sua relazione con
Raphael, pur senza entrare nello specifico, e dello scontro avvenuto
otto mesi prima. Angel aveva completamente saltato la parte in cui
lei e Raphael erano quasi morti nella battaglia, per un punto
più
cruciale che l'aveva sconvolta nel profondo: il fatto che avessero
avuto una relazione.
Non
che lei le avesse detto che ci aveva passato la notte assieme, che
avevano fatto l'amore, ma anche così, senza dettagli di
sorta,
quella era la cosa che aveva più di tutte colpito Angel.
Come se
l'idea fosse semplicemente troppo assurda per poter essere concepita
nel suo cervello. E da quel momento tutto ciò che le diceva,
anche
se non era coinvolto Raphael, ma uno dei suoi fratelli, Angel
fraintendeva.
Doveva
sedersi con lei prima o dopo e spiegarle le cose per bene.
Più dopo,
che prima, possibilmente.
“Il
sensei mi sta insegnando le proiezioni e devo schienare Leo. Ma tutto
ciò che ottengo è di finire io al suolo. Leo
è intransigente e
punzecchiante e si diverte da matti a guardarmi da sopra a sotto
mentre sono a terra, sconfitta” raccontò con calma
una volta che
il ragazzo si fu allontanato con la sua ordinazione.
Angel
prese un altro cucchiaino di gelato, pensierosa.
“Uhm,
è strano. Anche io ho imparato le proiezioni e anche a me
Leo ha
fatto da partner, ma non si è mai comportato
così” ricordò la
ragazza, raccogliendo col dito una goccia di cioccolato che correva
per il bordo della sua coppa.
“Nemmeno
con me” si intromise April, stringendo le spalle nel delicato
cardigan smanicato color ciliegia, che si intonava sin troppo ai
suoi capelli color fiamma.
Entrambe
le sue amiche erano state allenate dal sensei, in passato. La prima
era stata proprio April, -di ben nove anni più grande di
lei,- che
in combattimento prediligeva l'uso della Katana. Poi c'era stata
Angel, addestrata anni dopo, più piccola di Isabel di un
anno, e che
ormai combatteva con i Tonfa. Entrambe avevano dovuto ricevere un
addestramento adeguato, dato che facevano parte dell'assurda e
variegata famiglia dei mutanti e che dovevano essere sempre pronte a
tutto.
Erano
straordinarie. La sua ammirazione nei loro confronti era senza
limiti.
“Beh,
vi assicuro, Leo deve avere uno sdoppiamento della
personalità o mi
detesta: non fa altro che canzonarmi, punzecchiarmi e infastidirmi. E
si diverte, anche” continuò imperterrita,
allungando un fazzoletto
verso Carl per detergergli le guancette sporche. Il bimbo
afferrò il
tovagliolino e lo strofinò con foga sul visino, mostrandole
di saper
provvedere da solo.
“Oh,
no! Te lo stai spargendo anche sui capelli”
strillò inorridita
April, tuffandosi verso di lui per rimediare al danno.
Nel
frattempo il cameriere ritornò con il milkshake al melone
per
Isabel, con un sorriso cortese.
“Comunque,
sono sicura che Leo non ha problemi della personalità e non
credo
che ti detesti... perché dovrebbe?” riprese la
donna mentre era
intenta a pulire il pulibile in quel pasticcio gelatoso che era suo
figlio.
Isabel
tirò su un grosso sorso con la cannuccia, prima di
rispondere.
“Non
lo so. Ci ho pensato anche io, non sai quanto. E l'unico sgarro che
posso avergli fatto è stato quello di averlo brutalmente
sconfitto
quando, durante il primo incontro di prova, ho usato la magia per
potenziare le mie abilità.”
“Ma
no. Una cosa del genere non è da lui. Mr. Bushido non se la
prenderebbe mai perché tu l'hai battuto, né
perché hai usato la
magia o perché sei una donna. Non è mica
permaloso come Raphae...”
assicurò Angel, prima di interrompersi, accortasi di chi
aveva
menzionato.
Sia
lei che April le mandarono un'occhiata preoccupata, come se temessero
che svenisse all'istante, bloccate nelle loro pose: la super mamma
mentre stropicciava la faccia del figlio, l'altra con il braccio a
mezz'aria e il cucchiaino che colava gelato sul tavolo.
“Tranquille,
non mi verrà un infarto perché è stato
nominato. Il suo nome non è
diventato tabù, ok?” assicurò Isabel,
con un mezzo sorriso.
“Come
va?” le chiese cortesemente April, mentre poggiava sul tavolo
la
coppetta ormai vuota di Carl.
“Non
va” soffiò lei sconfitta in risposta.
Sospirò, facendo spallucce.
“Non
sono ancora riuscita a parlare con lui... ci credereste? Vivo sotto
il suo stesso tetto da due settimane, ma non riesco a parlarci. E non
è che non ci provi!”
Raccontò
loro dell'episodio di quella sera, di come lui avesse risposto mentre
andava via.
“Non
so davvero perché mi stia evitando né
perché sia palesemente
infastidito da me. Ho sbattuto la testa ad ogni muro, cercando la
risposta, ma mi sono solo venute solo più domande: l'ho
offeso? L'ho
fatto arrabbiare? Ho frainteso il suo interesse nei miei confronti?
Devo aver fatto qualcosa di veramente inqualificabile per farlo
arrivare ad evitarmi, ma cosa? Cosa ho fatto?”
April
ed Angel stavano in silenzio, ascoltando pazientemente la sua
confessione sentita e angosciosa, di donna innamorata che viveva le
tribolazioni d'amore.
“Perché
dai per scontato che la colpa sia tua?” chiese April,
saggiamente.
Isabel piegò la testa di lato, arricciando le labbra mentre
pensava.
“Non
lo so... se non avessi fatto qualcosa, perché allora
dovrebbe
evitarmi?” rispose insicura, non sapendo bene come spiegarsi.
“Oh,
ne avrei mille di spiegazioni per i comportamenti strani di Raphael.
Reagisce male a qualsiasi stato d'animo, ti ricordo. Magari
è
imbarazzato per qualcosa e ti evita. O ha fatto qualcosa e non sa
come parlartene e allora ti evita. O il fatto che tu sia lì
in carne
ed ossa, sotto il suo stesso tetto lo emoziona e quindi ti evita. Ti
sei scelta il più strano dei quattro, non puoi certo
lamentarti
delle sue stravaganze” affermò April, con
sicurezza, con un grosso
sorriso.
Isabel
lasciò andare un sospiro angosciato. La sua amica aveva
ragione e lo
sapeva. Ma come riuscire a chiarire la situazione se Raphael la
evitava?
“Uhm,
ho un'idea! Fatti trovare nuda nel suo letto... non potrà
evitarti!”
aggiunse la rossa, con un occhiolino malizioso.
Angel
tossì per una cucchiaiata di gelato andatale di traverso,
mentre
April rideva delle sue guance rosse.
“April!”
strillò infatti la ragazza, tra un colpo di tosse e l'altro.
La
donna rise delle sue espressioni e anche Isabel non poté
proprio
resistere.
“Non
puoi dire una cosa del genere!” la riprese, mentre ancora il
viso
presentava chiazzature rossastre in zona guance.
April
si avvicinò, abbassando la voce.
“Perché
no? Questa donna qui” iniziò a dire puntando verso
Isabel, “è
l'unica al mondo che sa cosa ci sia sotto quel guscio”
finì
allusiva, con un occhiolino verso di lei.
Angel
si coprì le orecchie con le mani, ormai dello stesso colore
ciliegia
della maglia di April.
Isabel
non ce la faceva più e se la rideva imbarazzata in un angolo.
“La
devi finire!”
“Oh,
Angie, non fai certo così quando parliamo di uomini,
perché con
loro è diverso?” la punzecchiò la
donna, che si stava divertendo
da matti.
“Loro
sono... come tuoi fratelli! Come puoi anche solo pensare...”
sibilò
Angel, avvicinandosi al suo viso così che nessuno potesse
sentire.
“E
come loro sorella maggiore sono fiera di poter vantare i loro fisici
scolpiti, i muscoli guizzanti...”
“Lalalà,
non ti sto ascoltando! Finiscila, finiscila!” strillava la
ragazza
premendosi le mani contro le orecchie.
Isabel
rise talmente tanto del loro teatrino che le scesero anche le
lacrime. April era davvero malefica a volte e da quando aveva capito
che Angel si imbarazzava nel sentir parlare delle tartarughe in certi
termini, ne approfittava ad ogni occasione per punzecchiarla.
E
lei si divertiva, come unica spettatrice. E si rilassava fino a
dimenticare per un po' dei suoi problemi, con quelle due.
“Ragazze...
ragazze!” riuscì a dire alla fine, attirando la
loro attenzione.
“C'è
una cosa più importante al momento: come schieno
Leo?” domandò
con sussiego, davvero concentrata e decisa.
April
e Angel smisero di punzecchiarsi e si lanciarono due identici
sorrisetti complici.
“Un
metodo c'è... non è proprio ortodosso,
però. Tu, quanto ci tieni a
batterlo?” si informò cospiratoria April.
Isabel
le sorrise, piuttosto cinica.
“Più
di qualsiasi altra cosa!” attestò convinta.
Il
dojo era immerso nel silenzio. Isabel studiava Leo, senza una parola.
Le spiegazioni di April e Angel della sera prima le rimbombavano in
testa, in un ciclo infinito; le aveva quasi sognate a furia di
ripetersele. Non aveva dormito che poche ore per ripassare tutti i
movimenti necessari.
Era
il giorno della ronda speciale. Quella notte Leo e gli altri
sarebbero andati a controllare la zona del porto, per sincerarsi
della sua intuizione. E lei doveva andarci.
“Finalmente
oggi questa storia finirà” sussurrò
lui, mentre scivolava di
lato, pronto al prossimo attacco.
Isabel
si limitò a sorridergli, certa che l'avrebbe fatto
indispettire. La
linea che apparve sulla sua fronte le rivelò che c'era
riuscita.
Sentirono
il grido del maestro che dava il via, ma per entrambi non fu che un
sibilo tanto erano concentrati in un mondo tutto loro.
Leo
si fiondò in attacco, col braccio già caricato
all'indietro, pronto
a colpire: sferrò con tutta la sua forza, certo che Isabel
l'avrebbe
comunque preso. Ed era già pronto al contrattacco.
Sentì
le dita chiudersi sul suo polso con forza e si sbrigò ad
abbassare
il baricentro, per contrastarla prima che lei ruotasse il busto per
poterlo lanciare con la schiena: ma Isabel non fece nessun gesto del
genere, rimase di fronte a lui, immobile.
Gli
stava sorridendo vittoriosa, seppur nello sforzo della concentrazione
di ciò che stava per fare.
Il
piede di lei si poggiò sul suo piastrone all'altezza dello
stomaco e
contemporaneamente vide il suo corpo lasciarsi cadere al suolo,
trascinando il suo giù con lei: fu tutto così
inatteso e veloce che
non riuscì a reagire. Isabel usò il suo peso, la
forza di gravità
e il piede per lanciarlo dall'altra parte e anche se riuscì
a
contorcersi a mezz'aria, finì comunque guscio contro il
suolo, con
un tonfo spaventoso.
Rimase
attonito a guardare il soffitto, incredulo, mentre un grido di
esultanza si diffondeva per tutto il dojo.
“Ce
l'ho fatta!” urlava a ripetizione Isabel con orgoglio e
un'incredulità pari alla sua.
“Hai
barato” esalò sottovoce, sicuro che lei non lo
sentisse. Invece la
sua voce era più vicina del dovuto quando rispose.
“Non
ho barato” la sentì dire semi arrabbiata, da
qualche parte vicino
ai suoi piedi. Mosse gli arti inferiori, con un sogghigno cinico che
si tramutò in risata quando colpì un altro paio
di gambe.
Con
uno strillo sorpreso Isabel gli cadde dolorosamente addosso, la lunga
coda che mulinava nell'aria.
“Sei
meschino! Non sai perdere!” si lamentò la ragazza,
piantandogli i
gomiti nel petto per alzare il viso.
Leo
le rise in faccia. Aveva un piccolo bozzo rosso nella fronte, nel
punto dove aveva sbattuto contro il suo piastrone.
“Non
ho perso! Tu hai barato! Non è la tecnica che ti ha
insegnato il
sensei!” rispose quando ebbe smesso di ridere.
Isabel
aveva arricciato il naso come faceva quando era infastidita. Nessuno
dei due si era accorto che Splinter si era avvicinato, troppo presi a
punzecchiarsi.
“Non
è la tecnica che conta, quanto il risultato” disse
serenamente,
sorprendendoli. Entrambi sussultarono e girarono il viso verso di
lui, che torreggiava su di loro con un sorriso bonario.
“Allora
ce l'ho davvero fatta?” chiese Isabel emozionata, ignorando
Leo che
si dibatteva sotto di lei per provare a scrollarla via di dosso.
Splinter
annuì, con uno sguardo fiero che le colmò il
cuore di gioia.
“E
prima di quanto credessi... forse è arrivato il momento di
pensare
al passo successivo” sentenziò il saggio maestro
tra sé, un po'
misterioso.
Lo
osservò allontanarsi a passetti leggeri, assorto in qualche
suo
pensiero, fino ad arrivare alla porta della saletta della
meditazione, dentro alla quale sparì senza una parola.
Isabel
rimase a fissarla mentre in sottofondo sentiva gli sbuffi di Leo, che
si stava sforzando con tutto il suo impegno per levarsela di dosso.
Lei
poggiò il mento sulle mani congiunte, a pochi centimetri
dalla sua
faccia. Aveva stampato su un sorrisetto tronfio e spocchioso, come
aveva preventivato.
“Cos'è
quella faccia? E perché non riesco a muovermi?”
urlò Leo
contrariato, provando a scrollare la parte superiore del corpo,
inutilmente.
Era
bloccato al suolo.
“Ti
ho battuto, fearless leader” lo tormentò Isabel.
Si voltò e si
sdraiò con la schiena contro il suo piastrone, la nuca
poggiata
nell'incavo tra la spalla e il collo, e i suoi capelli gli finirono
in faccia.
“E
sei bloccato dai miei poteri. Non è stato carino atterrarmi
dopo che
avevo vinto” continuò allungando le mani verso il
soffitto per
stiracchiarsi.
“Stai
usando la magia. Bugiarda. Liberami” soffiò fuori
lui incattivito,
con i muscoli tesi fino allo spasmo, anche se non riusciva a muoversi
di un millimetro.
Sentiva
il peso di Isabel addosso e fortunatamente, benché dicesse
sempre il
contrario, non pesava molto. Anzi probabilmente un paio di chili in
più non le avrebbero fatto male. Ma non gli faceva comunque
piacere
averla addosso. Non era uno a cui piaceva il contatto fisico. E c'era
caldo, in quell'inizio di Giugno afoso, perfino lì sotto, e
il
calore che emanava il suo corpo era intollerabile.
“Non
ho usato la magia nel combattimento, non ho infranto nessuna
regola”
rispose lei, la cui voce sembrava sempre più flebile e
incerta.
“E
ti libererò quando mi assicurerai che mi porterai
stasera” finì,
sbadigliando.
“Hai
barato. Non ti porto” sentenziò secco, deciso a
fargliela pagare,
incaponendosi come un bambino che non sapeva perdere.
“No,
il sensei ha detto che ti ho battuto lealmente. Quindi vengo anche
io” rispose con un sussurro Isabel,
girandosi di fianco e rannicchiandosi sul suo torace.
“Ehi!
Non ti addormentare! Guai a te se ti azzardi!”
strillò Leo sempre
più furibondo.
“Ho
dormito poco stanotte. Stavo pensando a batterti per toglierti quel
sorrisino dalla faccia” bofonchiò lei, sfregando
la testa contro
il suo mento, ormai solo mezzo conscia di cosa gli stesse dicendo.
“Non
mi importa. Scendi! E fammi muovere! E poi, perché vuoi
venire di
ronda così disperatamente?” ringhiò,
mentre provava a muovere il
collo per poterla almeno mordere.
“Voglio
parlare con Raffaello.”
Leo
smise di muoversi con un sospiro angoscioso, mentre il fioco sibilo
di Isabel si tramutava in un delicato respiro da sonno.
Sapeva
che non era semplice per lei. Non aveva nessuno al mondo. Nessuna
famiglia, nessun amico oltre a loro. E l'unica persona che per lei
contava qualcosa continuava a sbatterle metaforiche porte in faccia,
allontanandosi passo dopo passo senza una spiegazione. Eppure non
mostrava quelle preoccupazioni, mai, a nessuno di loro. Se ne andava
in giro con quei sorrisi come se non fosse nulla per cui non potesse
continuare ad andare avanti.
Forse
era arrivato il momento di smetterla di darle fastidio di proposito.
Forse avrebbe fatto meglio a supportarla, invece. Non gli piaceva
vedere Isabel triste. Arrabbiata, infastidita, quelle erano
espressioni divertenti. Ma non triste.
“Va
bene, hai vinto tu” sussurrò cedendo alla
sconfitta, anche sei
lei, addormentata seraficamente sul suo guscio, non poteva sentirlo.
Note:
Buonasera!
Dunque,
sto lavorando come una matta a correggere e pubblicare,
perché
voglio accelerare un po'. Ad agosto forse non ci sono e vorrei quindi
lasciarvi qualcosa in più adesso.
Dunque:
non c'è molto di nuovo, è vero. Don nei panni di
dottore mi ha
sempre affascinato come idea. Nella serie del 2003 non sa un acca di
medicina, lo dice lui stesso. È un ingegnere non un dottore.
Mi
piace pensare che l'idea di poter studiare veri corsi universitari lo
elettrizzi.
Per
i corsi delle università americane: mi sono informata via
internet, se ho sbagliato qualcosa
comunicatelo pure! Correggerò!
April
maliziosa mi fa sorridere. Non dimentichiamo che è di molto
più
grande di Isabel ed Angel e ce la vedo a punzecchiarle da brava
sorellona maggiore. Ed Angel mi è venuta fuori pudica, non
chiedetemi perché. Tosta sì, ma pudica.
Non
vedo l'ora di pubblicare il prossimo capitolo! Smanio!
A
presto!
E
grazie ancora con l'inchino per la vostra partecipazione e il vostro
entusiasmo!
Abbraccio
fortissimo!
p.s.:
un abbraccio sentito a MC1119 che è tornata dal suo
volontariato.
Tanto rispetto!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** I don't love you/I should not love you ***
Un
flebile suono di passi in avvicinamento riempì il dojo.
Felpati,
leggeri.
Un
colpo di tosse risuonò secco, richiamando l'attenzione.
“Salve,
sensei” esalò Leo, con l'espressione
più rassegnata che il suo
anziano padre gli avesse mai visto in viso.
Lo
sguardo di Splinter era divertito e anche curioso: osservava la
ragazza rannicchiata sul petto di suo figlio, che se la dormiva
pacificamente, mentre sembrava trattenere un sorriso.
“Non
c'è nulla da ridere, sensei” lo ammonì
il leader, che si era
accorto del suo mezzo tentativo di rimanere serio.
“Mi
ha bloccato a terra! E poi si è addormentata!”
esclamò, anche se
stranamente sottovoce.
Era
rimasto paralizzato al suolo per una buona mezz'ora. Aveva pensato
varie volte di svegliarla con uno strillo nelle orecchie, ma poi,
alla fine, aveva deciso di non farlo e se n'era rimasto immobile a
guardare il soffitto, pensieroso, con solo il sottofondo del suo
respiro.
“E
perché non l'hai svegliata?” gli
domandò sagace il saggio
genitore, come se avesse intuito il suo pensiero.
Leo
sospirò, sconfitto dalla sua furbizia.
“Ti
prego, toglimela di dosso” supplicò, non sapendo
che altro dire.
Il
maestro si inchinò e poggiò delicatamente una
mano sulla testa di
Isabel, accarezzando i capelli castani.
“Figliola?
È un po' tardi per dormire” esclamò con
dolcezza, scuotendola un
po'.
Isabel
sbatté gli occhi confusa, poi gli rivolse un grosso sorriso,
stiracchiandosi teneramente.
“Hai
intenzione di scendere, elefante?” sentì dire a
Leo, piuttosto
seccato.
La
ragazza sollevò la testa e lo guardò, assonnata e
divertita. Si
mise a sedere e allungò le gambe, poi si alzò,
levandosi finalmente
di dosso. Quando schioccò le dita verso di lui, Leo
riuscì a
muoversi e sospirò con gratitudine.
Fletté
i muscoli intorpiditi e si alzò dal pavimento, facendo
stretching
per sciogliere la tensione accumulata nell'ultima mezz'ora, con uno
sguardo cattivo in direzione di Isabel, che però,
concentrata sul
maestro, non se ne accorse.
“Dov'eri
andato, sensei?” gli chiese curiosa.
“Stavo
riflettendo. Sul tuo metodo d'insegnamento”
rivelò, sedendosi sul
pavimento, invitandoli a fare lo stesso.
Leo
si lasciò scappare uno sbuffo sottile, all'idea di essere
costretto
nuovamente in una posizione scomoda.
“Sei
brava, Isabel. Hai una buona concentrazione e impari in fretta, anche
se non sempre i metodi tradizionali. Ma un ninja non ha regole
tradizionali, in effetti: tutto è un'arma, tutto serve allo
scopo.
Non importa quale tecnica userai, se ti aiuta a restare in vita e
raggiungere il tuo obiettivo, purché sia onorevole. E tu,
forse a
causa dello stile di vita che ti ha accompagnata durante la crescita,
hai questo precetto già ben inciso nella mente.
Mi
sono convinto di poter passare ad un livello successivo. Da domani
inizierò ad allenarti nell'uso delle armi: ti
illustrerò la storia
di ogni arma, il suo utilizzo, le tecniche migliori per ognuna,
finché non le padroneggerai appieno. So che sei
già formata
nell'uso dei Sai, dato che Raphael ti ha insegnato, ma vorrei che tu
non li portassi più con te quando esci. Voglio che d'ora in
poi tu
usi i Tessen” spiegò con calma il maestro.
Isabel
spalancò appena gli occhi, elettrizzata all'idea di essere
finalmente istruita all'uso delle armi, -gli Shuriken in particolare
la affascinavano, voleva riuscire a lanciarli con precisione,- ma era
rimasta confusa dalle ultime parole del maestro.
“I
Tessen, sensei?” chiese con voce deferente.
“Sono
ventagli” rispose Leo al suo lato, mettendola al corrente.
Isabel
abbassò la testa, pensierosa. Rimase in silenzio per qualche
momento, poi alzò lo sguardo e fissò Splinter
negli occhi.
“È
perché sono una donna?” domandò con
tutto il rispetto possibile,
frenando il battito del cuore per la delusione che minacciava di
prenderla.
Non
voleva credere che fosse quella la motivazione, ma aveva paura che il
maestro le rispondesse affermativamente.
Splinter
giocherellò con la barba, quasi in stato di trance, con lo
sguardo
fisso di fronte a sé, come preso da ragionamenti
così profondi da
non poter essere espressi.
“No.
Affatto” disse all'improvviso.
“Tu
sei un'ottima discepola e combattente, Isabel. E non fa alcuna
differenza il sesso dei miei allievi. Voglio che usi i Tessen
perché
sei un'umana. Esci frequentemente nel mondo di superficie, giri in
mezzo alla gente tranquillamente e presto, quando entrerai
all'Università, avrai nuovi amici e interazioni sociali con
essi.
Non puoi portare con te i Sai, ma non voglio che tu vada in giro
senza un'arma: i Tessen sono dei ventagli da combattimento, ma il
loro aspetto esteriore sembra innocuo e normale.”
Isabel
ascoltò la spiegazione con sollievo crescente, tanto che
alla fine
un sorriso le spuntò sulle labbra. Non si era nemmeno
accorta di
aver trattenuto il fiato per tutto il tempo, sulle spine. Come aveva
potuto anche solo pensare che Splinter la volesse penalizzare? Era
stata una sciocca anche solo a dubitarne.
Sospirò,
di colpo più serena.
“Sarò
felice di imparare l'uso dei Tessen, sensei. E ogni altra cosa vorrai
insegnarmi. Perdona la mia sfiducia” si scusò con
un inchino
rispettoso.
Sentì
una pacca gentile sulla testa, dalla piccola mano ossuta dell'anziano
maestro.
“Non
è sfiducia domandare per fugare i dubbi. Tenerli dentro e
lasciarli
crescere, alimentati dalla paura... quella è sfiducia. Sarai
un'ottima kunoichi, Isabel” lo sentì dire, mentre
si allontanava
con il suo solito passo calmo e riflessivo, che lo rispecchiava
perfettamente.
“Per
oggi è tutto, figlioli.”
Il
maestro sparì dopo quelle parole e andò a
meditare nella sua
stanzetta in fondo al dojo, lasciando loro libero il resto della
giornata.
Isabel
si voltò verso Leo, che aveva assistito a tutta la scena, e
lo trovò
sorridente.
“Che
c'è?” gli domandò, perplessa, trovando
strano il suo
comportamento.
Il
sorriso di Leo si ingrandì ancora di più.
“Stavo
solo immaginandoti a combattere con i Tessen. È una tecnica
di
combattimento molto aggraziata, sarai molto carina” le disse
senza
riuscire davvero a trattenere il sorriso nell'immaginarla.
Isabel
gli allungò un pugno sulla spalla, arrossendo suo malgrado.
Era
confusa dalla strana nuova premura di Leo.
“Tu
sai combattere coi Tessen?” chiese cauta, soppesando le
parole.
“Sì,
all'inizio il maestro ci ha allenato in ogni disciplina. Siamo stati
noi a scegliere di specializzarci in una sola arma” rispose
Leo,
massaggiandosi la spalla dolorante, dato che Isabel lo aveva colpito
usando la potenza della magia.
“Perché?”
le domandò poi, sospettoso.
Lei
sorrise. Un sorriso perfino più grande e inquietante di
quello che
lui le aveva rivolto, mentre si alzava in piedi.
“Chiederò
al maestro di farti fare una dimostrazione. Sarà
interessante
vederti combattere in una maniera così... aggraziata. Sarai
molto
carino” lo canzonò con le sue stesse parole, con
la ridarella
appena trattenuta davanti ai suoi occhi spalancati.
Leo
mise su una faccia preoccupata, saltò in piedi e la rincorse
fuori
dal dojo urlandole di non azzardarsi mentre Isabel correva via
ridendo e strillando.
Il
resto della giornata fu così frustrante per Leo.
Isabel
aveva raccontato a Don e Mikey della sua vittoria e mentre il secondo
in carica si era limitato ad un sorrisino e ad un'alzata di spalle
nella sua direzione, il piccolo di casa, Mikey il rompiscatole, gli
rideva in faccia ad ogni occasione. Così, giusto per farlo
arrabbiare.
Se
ne rimase perciò nel dojo a meditare, completamente solo, in
balia
dei suoi pensieri.
Si
rendeva conto di essere strano, negli ultimi tempi. Come se fosse
arrabbiato, ma senza sapere perché. Come se si sentisse
inadeguato e
stesse combattendo interiormente con sé stesso.
Più del suo solito.
Sentiva
un grande caos dentro. E non riusciva a capirne la causa.
Isabel
era così emozionata che dopo cena iniziò a dare
il tormento a
tutti, smaniosa di uscire come non mai.
“È
ancora presto! Guardiamo un po' di tv per ammazzare il tempo”
smorzò l'entusiasmo Leo, camminando verso la postazione
video, dove
già Mikey faceva zapping per cercare qualcosa da guardare.
Il
film scelto era un thriller con toni noir, piuttosto introspettivo,
ma incalzante quel tanto che bastava a tenere l'attenzione incollata
allo schermo. Leo aveva già capito chi tra i personaggi era
il
cattivo in incognito che muoveva i fili della storia, perciò
la sua
attenzione era connessa solo a metà: era più
interessato ai
commenti tra i denti che Isabel si lasciava scappare mentre con gli
occhi divorava la pellicola.
Battute
sarcastiche e commenti ironici, esclamazioni stupite e avvertimenti
ai personaggi, conditi da insulti per le loro ovvie scelte idiote in
determinate situazioni.
“Se
vai all'appuntamento sei proprio uno stupido! È una
trappola,
imbecille!” la sentì dire al protagonista,
piuttosto seria e
concentrata.
Ridacchiò
tra sé e sé, per non farsi scoprire, ma lei era
accanto a lui e
sentì la spalla premuta contro la sua tremolare nella risata.
“Cosa?”
gli domandò sottovoce, mentre i riflessi dello schermo
brillavano
negli occhi scuri.
“Sei
davvero una tipa stramba” sibilò in risposta,
ridacchiandosela
ancora.
“Ehy,
tra poco ci muoviamo” annunciò a voce alta.
Due
grugniti di approvazione arrivarono dal divano, dai suoi fratelli
ancora assorti sullo schermo.
“Ma
Raph? Non lo aspettiamo?” domandò Mikey mentre
divorava gli ultimi
pop corn rimastigli.
Isabel
sussultò appena e quasi si tese, in ascolto. Raphael non si
era
nemmeno presentato a cena.
“Lo
avete sentito?” si informò Leo, anche se lui
stesso aveva cercato
di mettersi in contatto col fratello inutilmente. Le chiamate
finivano sempre per cadere dopo minuti interi di squilli snervanti,
senza che nessuno rispondesse mai.
“Non
risponde” gli assicurò Don.
“Ma
ha mandato un messaggio per avvisare che è già di
ronda, per conto
suo e io gli ho mandato le coordinate della zona che pattuglieremo
stanotte. Perciò lo troveremo in giro.”
Isabel
si accorse che Leo la stava osservando, con occhi vigili per valutare
le sue reazioni.
“Io
inizio a prepararmi!” strillò saltando su dal
divano con
nervosismo, correndo verso la sua stanza.
“Non
dimenticarti i Sai! Potrebbe essere l'ultima volta in cui li userai
per molto tempo” le ricordò la voce di Leo, non
seppe dire se con
sarcasmo o comprensione.
“L'ultima...
cosa?” chiese in apprensione Mikey, che si era alzato anche
lui.
“Da
domani Isabel verrà istruita nella lotta coi Tessen. Il
maestro
preferisce non giri coi Sai tra gli umani” spiegò
il leader ai
fratelli, con tono pratico.
Mikey
lasciò cadere l'espressione preoccupata e con uno strilletto
felice
corse verso Isabel e la strizzò in un abbraccio.
“Sarai
stupenda! Non vedo l'ora di vederti combattere coi Tessen, bella,
aggraziata e letale!” le urlò esaltato,
appoggiando la guancia
contro la sua fronte con affetto.
Lei
sorrise, colpita dalla dolcezza di Mikey. Era come avere un
tenerissimo e raggiante fratello maggiore, ma che si comportava come
un bambino ogni volta che si relazionava con lei: era contento di
tutto ciò che faceva, la incoraggiava e rassicurava in ogni
circostanza e si divertiva da matti a giocare e stare con lei.
“Perché
lui non si è beccato un pugno per averlo detto?”
esclamò
oltraggiato Leo, occhieggiandoli con uno strano sguardo appena sopra
il bordo dello schienale del divano, quasi seccato.
“Perché
lui non l'ha detto con quel tono derisorio che avevi tu!” gli
rispose Isabel, arricciando il naso per non sorridere davanti alla
sua faccia offesa.
“Non
avevo nessun tono... derisorio. Ero sincero quando ho detto che sarai
carina!” dichiarò con un lieve rossore.
Donnie
e Mikey spalancarono leggermente gli occhi, sorpresi; il genio del
gruppo scrutò il fratello maggiore sottilmente, pensieroso.
Forse
Leo se ne accorse o si rese conto di ciò che aveva ammesso;
si
schiarì infatti la gola, con fare serio.
“Allora...
vuoi venire di ronda o no?”
Mezz'ora
più tardi, tutti e quattro guardavano New York dall'alto in
basso,
scrutandola con premura.
“Santo
cielo, com'è bella! Lo avevo dimenticato”
sospirò Isabel,
abbracciando con lo sguardo la distesa di palazzi, dall'appartamento
più piccolo e squallido all'attico più lussuoso.
Perfino l'aria
inquinata le era mancata e dall'odore spiccatamente marcato di smog.
Indossava la vecchia tuta nera e una maschera dello stesso colore che
nascondeva i suoi lineamenti, per non rischiare che qualcuno potesse
in seguito riconoscere il suo viso. Aveva chiesto a Don di fargliela,
la notte in cui aveva scommesso con Leo.
I
tre amici la osservarono, sorridendo della sua gioia. Certo, anche
loro amavano New York, ma c'era stato un tono così tenero e
dolce
nel modo in cui lei lo aveva detto, come se fosse la città
più
bella del mondo, un fantastico e colorato mondo fatato, che non
poterono evitare di sentire una morsa al cuore di dolcezza.
Mikey
l'abbracciò con trasporto.
“Ma
come sei tenera!” le strillò in un orecchio.
“Qualsiasi
scusa è buona per abbracciarla, eh, Mikey?”
soffiò sarcastico
Don, scuotendo la testa con rassegnazione.
“Certo
che sì. Andiamo, chi non vorrebbe abbracciarla? È
così dolce e
tenera e morbida e coccolosa. Prova, Donnie! Abbraccia la mia
fantastica sorellina” rispose l'altro, passandogliela come se
fosse
un pacco.
“Vuoi
finirla?” lo sgridò non molto seria la ragazza,
che non poté
proprio impedirsi di ridere.
“Ok,
basta giocare. Siamo usciti per una cosa seria”
esclamò secco Leo,
rimettendoli in riga.
“Andremo
a controllare la zona del porto e rimarremo tutti e quattro uniti.
Silenziosi, invisibili, furtivi” incalzò con tono
quasi militare.
“Le
sappiamo già queste cose, leader” si
lagnò Mikey, grattandosi la
testa con fare annoiato.
“Voi
sì, lei no” rispose il fratello indicando Isabel.
Il
suo dito verde la indicava proprio in mezzo agli occhi, impietoso.
“Sentimi
bene, le regole le conosci già, ma ne aggiungiamo una per
sicurezza:
se le cose si mettono male usa i tuoi poteri per difenderti! Che sia
uno scudo o il potenziamento della tua forza e velocità, se
la
situazione è brutta, e per brutta intendo che siamo feriti o
morti e
tu sei in pericolo di vita, allora devi usare i tuoi poteri!”
ordinò, deciso.
Isabel
continuava a fissare il suo dito puntato contro, quasi al limite
dello strabismo. Poi lo colpì con una mano, allontanandolo
dalla sua
faccia.
“Non
c'è bisogno di essere così...
allarmista!” replicò, rimasta
negativamente colpita dalla sua eccessiva serietà.
“O
così o niente!” si sentì rispondere.
Girò
un momento gli occhi verso Don e Mikey e li trovò
stranamente
silenziosi e fermi, assolutamente decisi a non intervenire. La parola
di Leo era legge, di ronda. Il suo ruolo di leader era assoluto.
Sulle sue spalle poggiava la sicurezza della squadra, della sua
famiglia, era logico che prendesse le cose così seriamente.
Forse
per Leo non esisteva il concetto di “troppo zelo”.
“Hai
la mia parola” rispose Isabel dopo averci pensato, con una
smorfia
imbarazzata per non aver capito da subito delle cose così
ovvie.
Una
volta ottenuta quella assicurazione da lei, Leo si decise a guidare
il gruppo per la strada prestabilita, la più veloce e sicura
per il
porto.
Isabel
era concentrata, focalizzata su dove stavano andando, ma una piccola
parte della sua mente si chiedeva dove fosse Raffaello e cosa stesse
facendo in quel momento.
Perché
non era con loro?
Arrivarono
ai magazzini del porto, in totale silenzio, con le orecchie tese per
percepire rumori.
Leo
fermò la corsa e fece cenno di stare fermi e muti, mentre
dava
un'occhiata intorno. Lo videro correre con passo elegante e felpato
per il perimetro del tetto, mentre gettava uno sguardo assorto al di
sotto.
Un
nuovo cenno per farsi seguire e i tre si accodarono alla sua scia,
saltando come saltimbanchi nell'oscurità, seguendo
l'intuizione del
leader.
Si
sentiva il rumore leggero delle piccole onde che battevano contro i
pontili in legno, al di là della sottile striscia di cemento
davanti
ai magazzini.
E
poi sentirono quello che Leo aveva percepito per primo: un rumore
meccanico, ripetuto e ciclico, come una sequenza ripetuta con
minuzia.
Atterrarono
sul tetto semi spiovente di un vecchio magazzino grigio, le cui
tegole minacciavano di staccarsi da un momento all'altro: la piccola
cupola a vetri per portare luce era ricoperta di uno spesso strato di
sporco che rendeva le lastre scure, come se fossero affumicate.
Leo
si avvicinò per primo, piegato in due per non essere scorto.
Pulì
il vetro in basso strofinando la manica della tuta e diede
un'occhiata dentro.
Sorrise.
Ad
un cenno anche loro tre si avvicinarono guardinghi e scrutarono al di
là dei vetri: c'era un veloce viavai di uomini, casse e
muletti, in
una catena di montaggio senza fine e piuttosto ben organizzata. Gli
uomini erano in numero minore di tutte le altre gang mai incontrate
prima. Non arrivavano nemmeno a venti unità.
“Ok,
abbiamo trovato qualcosa, ma chi ci dice che non siano altre
contraffazioni fatte male?” sussurrò Leo, intento
a scrutare tutte
le casse per capire cosa potesse esserci all'interno.
“No...
non stavolta. Guarda laggiù, nell'angolo vicino alla porta
rossa”
sibilò Don, con le palpebre socchiuse per mettere bene a
fuoco.
Leo
distolse l'attenzione dall'ipnotico andirivieni degli uomini piccoli
come formiche e osservò nel punto indicatogli.
Trattenne
il fiato per la sorpresa.
Nell'angolo
dell'enorme magazzino più lontano e nascosto c'era un vero e
proprio
arsenale: mitra, fucili, pistole, bazooka, granate e munizioni di
ogni dimensione come se piovesse, imballate direttamente sul posto
nelle stesse casse che stava guardando poco prima, che si
apprestavano a chiudere sul momento proprio sotto i loro occhi.
“Abbiamo
fatto bingo! Come l'hai capito, Isabel?” mormorò
Mikey con gli
occhioni spalancati che non si perdevano una mossa.
“Non
sapevo fossero armi. Ma avevo capito che tutte le bande che avete
combattuto nelle scorse settimane erano uno specchietto per le
allodole. Per voi.”
I
tre ninja si indicarono sorpresi. Qualcuno aveva cercato di prenderli
in giro?
Leo
ci pensò su: Steve non aveva detto che le bande di idioti
erano uno
'scudo' usato dal misterioso capo dell'organizzazione?
Uno
scudo contro di loro?
“È
stata tutta una tattica per tenervi impegnati e fuori dai piedi,
mentre qualcuno smerciava qualcosa di molto più grosso.
Pensateci un
po' su: quale donna comprerebbe una Pucci o una collana
Toffani?”
Mikey
ridacchiò sottovoce, ma smise all'istante quando
incontrò lo
sguardo severo di Leo.
“Allora
scendiamo giù, picchiamoli un po' e facciamoci dire chi ha
architettato questo piano balordo” propose ricomponendosi.
“Non
scenderemo in una santabarbara1
piena di uomini pronti a scaricarci tutto l'arsenale addosso!
Abbiamo bisogno di un piano!” lo riprese il leader, mentre
pensava
a velocità doppia sul come agire.
Il
rombo di un motore in avvicinamento lo distolse dai suoi pensieri,
con un sorriso.
Un
colpo. Un altro. Un terzo.
La
saracinesca rimbombò sotto il bussare in codice e gli uomini
all'interno ghignarono felici.
“Ehy,
Abe, il camion è arrivato, vai ad aprire!”
strillò una voce
grossa dal fondo del magazzino, con tono secco.
Un
uomo un po' corpulento lasciò andare la cassa che stava per
prendere
e si avvicinò all'ingresso, poggiando poi la tozza mano sul
pulsante
rosso all'altezza del viso vicino alla porta: con un cigolio ritmico
la saracinesca si sollevò e le luci posteriori del camion
squarciarono l'oscurità.
“Roy!
Fai manovra!” urlò all'autista una volta che la
via fu
completamente aperta, facendo segno con la mano perché
l'uomo alla
guida capisse che poteva indietreggiare.
Il
camion rimase immobile, ma il motore ancora rombava sommesso.
“Roy!
Mi senti, razza di cretino? Andiamo! Non ho voglia di stare qua tutta
la notte!” strillò più forte, mulinando
le braccia in aria perché
capisse l'antifona.
“È
scoppiata una ruota. Dovete aiutarmi a sostituirla!”
sentì dire
dalla cabina del guidatore. Anche se la voce era stranamente
soffocata e bassa.
Abe
sbuffò e si aggiustò i calzoni in vita per
coprire la fessura delle
chiappe che sporgeva dal retro.
“Questo
idiota. Altro lavoro. Solo altro lavoro” borbottò
tra i denti
mentre si voltava verso l'interno del magazzino.
“Ragazzi,
mi serve una mano” ordinò di malavoglia.
Gli
uomini lì attorno lasciarono in sospeso i lavori per
seguirlo fuori,
costeggiando il camion con attenzione come cani antidroga ad una
retata.
“Le
ruote sono a posto, imbecille!” urlò Abe
arrabbiato, battendo con
furia contro lo sportello del posto auto.
“Infatti
è il tuo cervello che non va, genio” lo
canzonò Mikey,
aprendo lo sportello con un colpo secco che gli arrivò
dritto in
faccia, stendendolo al suolo.
I
suoi compari si accorsero all'istante della trappola e iniziarono a
correre verso il magazzino, per poter prendere le armi.
“Non
fateli scappare!” ordinò Leo, gettandosi dal
tettuccio del veicolo
proprio in mezzo a loro. Don e Isabel atterrarono ai suoi lati una
frazione di secondo dopo.
Gli
avversari li scrutarono con paura, gli occhi sulle armi lucenti e
pericolose e i ghigni sui volti dei mutanti, che incutevano terrore.
I
Nunchaku di Mikey sibilavano nella notte, roteando impazziti nelle
mani del proprietario.
“Abbiamo
delle domande. Vi spiace darci due minuti?”
esclamò scendendo dal
camion.
“Chi
li butta giù avrà soldi e potere!
Prendeteli!” gridò la voce di
Abe impastata dal sangue, che si era rialzato.
La
lotta scoppiò improvvisa.
Com'era
prevedibile, almeno per i tre mutanti, tutti quegli energumeni si
concentrarono maggiormente contro Isabel, dato che era la
più
piccola della squadra. Si gettarono in gruppo contro di lei, a testa
bassa e pugni chiusi, sicuri di avere la meglio.
Ma
Isabel era inafferrabile come l'aria.
Schivava
facilmente i loro attacchi e ne colpì lei stessa qualcuno, e
anche
se non potevano vedere il suo viso sotto la maschera nera, sapevano
tutti e tre che stava sorridendo, fiera di sé stessa.
I
tre approfittarono della distrazione che Isabel aveva creato, come
una perfetta esca, e colpirono veloci e duro, senza risparmiare
nessuno.
Don
vide con la coda dell'occhio due degli uomini fuggire in direzione
del magazzino, correndo come se avessero la morte alle calcagna.
“Non
devono tornare dentro!” avvisò verso Mikey, il
più vicino per
intervenire.
Il
fratello spiccò un salto, pronto ad atterrare i due uomini
con due
colpi secchi di Nunchaku, ma l'uomo coi capelli neri, ormai quasi
arrivato, si accorse del suo attacco.
"Tartarughe!”
urlò con le mani a coppa attorno alla bocca, un istante
prima di
perdere i sensi per il colpo alla nuca.
Dall'oscurità
del magazzino arrivò un lieve sibilo.
Poi
un boato e una vampata di fuoco esplosero nel silenzio, correndo loro
incontro come una fiammata letale di un drago.
Rimasero
tutti e quattro pietrificati a guardare il missile avvicinarsi con
orrore.
“Isabel!
Attenta!” strillò Leo, mettendosi di fronte per
proteggerla.
“Giù!”
urlò invece lei, spingendo a terra l'amico.
La
deflagrazione fu potente: la luce intensa, il calore, il rumore, i
detriti che volavano in ogni dove; era stata di sicuro udita in tutta
New York, aveva di sicuro spazzato via ogni cosa lì attorno.
Lo
scheletro del camion atterrò nel piazzale con un fragore di
acciaio
divelto e compresso, dopo un volo di qualche metro: il fumo si
sollevava dal suo interno bruciato e nero, e della massa informe non
si riusciva più a capire la forma iniziale.
Sulla
soglia del capannone apparve un gruppo: cinque uomini che trainavano
un cannone anticarro su ruote, un M3 a gettata lunga. Se la ridevano,
dandosi pacche e pugni esultanti, osservando la cappa di fumo e fuoco
che avevano creato.
“Disinfestazione
tartarughe effettuata” ghignò uno dei
più grossi, sfigurato da
una grossa cicatrice che gli divideva la faccia a metà, che
rendeva
il sorriso sul suo volto dieci volte più grottesco del
normale.
Se
ne stettero tutti immobili ad aspettare di poter ammirare il proprio
operato.
Il
polverone iniziò a scendere e l'uomo sfregiato perse il suo
sorriso,
a poco a poco, insieme ai suoi compari: i tre mutanti erano,
sì,
sdraiati a terra, ma illesi e senza un graffio, all'interno di una
bolla protettiva; una sola persona era in piedi, di fronte a loro,
con le braccia tese: la maschera spaccata a metà sul suo
viso
lasciava intravvedere un occhio, furioso e pericoloso, sbarrato di
rabbia.
“Cosa
dia...”
L'uomo
non finì mai la frase: il fulmine colpì lui e i
suoi uomini in un
secondo, abbattendosi come un giudizio divino. Isabel rimase per un
attimo a fissarli mentre ancora si contorcevano a terra per la
scarica residua.
Un
mugolio leggero attirò la sua attenzione.
“State
bene?” domandò correndo verso gli amici,
osservando con scrupolo
che non fossero feriti.
Mikey
si era rialzato a fatica e si stava spazzolando via un po' di polvere
dalla tuta, ma venne distratto alla vista degli uomini a terra.
“Non
li ho uccisi. Sono solo svenuti. E un po' bruciacchiati” lo
rassicurò Isabel, dandogli una pacca sul guscio di
rassicurazione.
“Mi
hanno fatto un po' arrabbiare” si scusò, con
un'alzata di spalle.
Mikey
e Don stavano ispezionarono i tizi svenuti ai loro piedi per
cercare degli indizi, mentre Isabel aiutava Leo a rialzarsi: loro due erano i più vicini al momento dell'esplosione e pur
con la
bolla protettiva avevano risentito maggiormente dell'onda d'urto e
del boato.
Il
leader si fiondò su Isabel e le tolse ciò che
rimaneva della
maschera, controllando che non fosse ferita: c'era un bernoccolo
sulla fronte, ma era riuscita a sollevare lo scudo in tempo, evitando
che tutti loro saltassero per aria.
“Cosa
diamine pensavi di fare? Devi stare attenta!” la
sgridò, premendo
leggermente sulla pelle per valutare i danni.
Isabel
lasciò scappare un mugolio di dolore e afferrò la
sua mano per
scostarla.
“Sì?
Invece il tuo guscio avrebbe protetto me e te?” lo
canzonò,
arricciando il naso per prenderlo in giro. Smise immediatamente,
perché farlo le faceva male alla testa.
Era
normale che gli occhi le pulsassero dolorosamente dentro le orbite?
“Mikey,
trovato niente?” sentì chiedere a Don, mentre le
dita di Leo
tastavano la sua fronte, nonostante lei cercasse di allontanarlo.
Un
lieve tonfo troppo vicino fece voltare tutti loro, sul chi vive.
Raphael si rimise in piedi, dopo essere atterrato, scrutandosi
attorno, facendo scivolare lo sguardo sugli uomini a terra, sui suoi
fratelli, sulla carcassa fumante del camion, sui detriti sparsi
ovunque. Su Isabel.
Non
lasciar trapelare la rabbia che lo stava divorando richiese lo sforzo
di ogni singola cellula del suo corpo.
“Ho
sentito l'esplosione, da almeno venti isolati di distanza.
Cos'è
successo?” domandò con voce forzatamente atona.
“Traffico
di armi: ci sono andati giù pesanti” rispose Don,
puntando un dito
verso il cannone lasciato incustodito sulla soglia del magazzino.
“Sappiamo
chi sono?”
“Non
ancora. Ma sono arrivati a prenderci a cannonate, non devono essere
dei tipi con cui scherzare!”
“Senza
Isabel probabilmente saremmo brandelli di tartaruga nel
vento” si
intromise Mikey, tremando ironicamente all'idea.
“Però
lei si è ferita” mormorò il leader,
avvicinando nuovamente la
mano alla sua fronte.
“La
smetti di premerci contro? Sì, mi fa male, Leo! Anche senza
che tu
ci metta le dita sopra!” lo sgridò la ragazza,
schiaffeggiando la
sua mano per l'ennesima volta.
Era
dolorante, la testa era stretta in una morsa e sentiva la pelle
gonfiarsi attorno all'occhio. E lui era lì. Una serata
davvero
perfetta.
“Sto
cercando di capire se hai una frattura!” si difese il leader,
per
nulla colpito dalle sue lamentele.
“Se
continui a premerci sopra ce l'avrò per certo!”
Nel
suo campo visivo apparve Raph, all'improvviso, che scostò
Leo da una
parte: scrutò con insistenza la sua fronte, occhieggiando il
bozzo e
la sfumatura violacea che stava assumendo, fino al contorno
dell'occhio, tumefatto.
Isabel
non poté impedirsi un forte batticuore, che sperò
lui non
percepisse. C'era uno strano silenzio innaturale per la strada e
tutto quello che riusciva a sentire era il battito del suo cuore
nelle orecchie, forte e doloroso.
Poi
Raph chinò la testa, la afferrò per la nuca e la
baciò. Secco.
Deciso. Senza preavviso.
Mikey
strillò, sbalordito; Don lasciò quasi andare il
bastone, attonito;
Leo spalancò gli occhi, sconvolto: cos'era quella strana
ansia
pressante nel petto? Angoscia? Rabbia?
Raph
lasciò andare Isabel, troppo sorpresa per reagire
propriamente:
sollevò la testa e poggiò le labbra contro la sua
fronte.
Lei si lasciò sfuggire uno sbuffo di dolore, al quale
seguì
immediatamente il sollievo della guarigione. Lo sentì
scostarsi e se
lo ritrovò di fronte, molto più tranquillo di
quanto fosse lei,
preda di un tumulto interiore, con le viscere attorcigliate di dolore
e desiderio, di paura e speranza.
“Adesso
è guarita” disse semplicemente e freddamente lui,
scostandosi di
un passo all'indietro.
I
tre fratelli scrutarono la fronte di Isabel, senza più alcun
segno,
liscia e intonsa come prima dello scontro. Lei continuò a
fissare
lui, invece, tremando lievemente, arrabbiata per il tono atono e i
suoi comportamenti. Come si permetteva di baciarla in quel modo dopo
due settimane senza nemmeno una parola?
E
come si permetteva di continuare a evitarla dopo il bacio? Di non
guardarla nemmeno negli occhi?
Tutta
l'emozione di prima si era trasformata in indignazione.
“È
così che funzionano i suoi poteri di guarigione? Allora
l'altra
volta... quando era ferita... l'hai baciata dovunque?”
esalò Mikey
con un filo di voce acuto ed emozionato.
Lo
scappellotto di Don risuonò nell'aria, seguito dal lamento
indignato
del fratellino.
“Questo
è il motivo per cui una principiante non dovrebbe giocare a
fare la
vigilante” esclamò Raph con tono cattivo,
ignorando i suoi
fratelli.
Isabel
sostenne il suo sguardo, col respiro pesante di rabbia. Ma prima che
potesse replicare, con tutta la furia che sentiva dentro, Raph fece
dietro front e sparì, saltando sul tetto del magazzino.
Rimasero
tutti e quattro in silenzio, con lo sguardo perso sul punto in cui
era sparito, sorpresi e perplessi dal veloce e inatteso sviluppo di
quella nottata. Poi Isabel scattò, lanciata a folle
velocità.
“Isabel!”
esclamarono i tre, all'unisono.
“Devo
parlargli! Non preoccupatevi!” strillò in
risposta, scalando la
costruzione con leggiadria.
Corse
più del vento, usando la magia, nonostante avesse promesso
di non
farlo: ma doveva raggiungerlo, doveva fermarlo, doveva chiedere,
doveva parlargli.
Sfilò
senza peso, senza attrito, fusa con l'aria. Oltrepassò la
zona del
porto, infilandosi verso il centro della città;
superò due interi
quartieri senza fermarsi.
Lo
scorgeva, in lontananza, di fronte a sé.
“Raffaello!
Fermati!” tuonò imperiosa. Lui voltò la
testa, sorpreso nel
sentire la sua voce, ma non rallentò; anzi,
iniziò a correre con
più forza.
Isabel
digrignò i denti, seccata, spingendosi ancora più
allo stremo,
accorciando sempre più la distanza; ma sapeva che non era
abbastanza.
Un
gesto della mano e Raph si fermò in modo brusco, contro una
parete
invisibile. Si voltò verso di lei, tenendosi la testa.
“Cosa
vuoi?” la aggredì, intrappolato nello scudo contro
la sua volontà.
Ci premette i palmi contro con forza e furore, cercando di romperla,
schiacciando la pelle fin quasi a farla sbiancare.
Isabel
fermò la corsa, facendo uno o due passetti in avanti per
stabilizzare l'equilibrio, sulla terrazza del grattacielo sul quale
era arrivata nell'inseguimento, gli occhi fissi su di lui.
“Voglio
parlare” rispose con semplicità, riprendendo fiato.
“Io
no!” ribatté pronto lui, allontanandosi e
rivolgendole le spalle,
provando a premere dall'altra parte dello scudo.
“Me
ne sono accorta. Sono due settimane che non lo fai. Ma non hai molta
scelta, al momento. Se non vuoi parlare con me, perlomeno
ascolterai”
mormorò Isabel, avvicinandosi alla bolla, appoggiandoci le
mani
sopra.
Parlare
alla sua schiena era sempre meglio che non parlare affatto.
“Sono
due settimane che sono tornata. Sono due settimane che provo a
parlare con te. Sono due settimane che mi eviti. All'inizio credevo
che tu dovessi solo abituarti a riavermi attorno, credevo che ti
servisse tempo. Ma ogni parola che mi hai rivolto era una coltellata
al petto, ogni sguardo come uno schiaffo, la tua indifferenza puro
veleno. E allora ho iniziato a farmi mille domande, ma non riesco a
trovare nessuna risposta: perché non mi vuoi con te,
Raffaello?
Perché non sei felice che io sia tornata?”
Lo
vide sospirare e tirare su le spalle, come se si stesse preparando
psicologicamente ad uno scontro.
Raph
ritornò sui suoi passi e si poggiò contro lo
scudo, avvicinando più
che poté il viso, piegato nell'espressione più
acida e infastidita
che avesse mai visto prima.
“E
chi ti ha chiesto di tornare?” le soffiò con tono
maligno.
Isabel
sgranò gli occhi, perché si era aspettata tutto
tranne quello che
il suo cuore più temeva.
“Credevo
che mi volessi con te. Da quello che mi dicesti quando sono andata
via” rispose con insicurezza, che la dilaniava pian piano,
secondo
dopo secondo.
“Io
ti ho chiesto di non lasciarmi. Ma tu te ne sei andata comunque, come
hai sempre fatto. Cosa pensavi? Che sarei rimasto qui in eterno ad
aspettarti? A smaniare per il tuo ritorno?”
La
sua voce era tagliente e accusatoria, ferita e arrabbiata.
“Sei
tornata troppo tardi. Io... ho smesso di pensare a te, tempo fa. Non
provo più niente per te, Isabel. Mi dispiace. E averti
attorno è
degradante per te e fastidioso per me” aggiunse, chinando il
capo,
come se stesse cercando di scusarsi.
Rimase
attonita a fissarlo, coi palmi sullo scudo che tremavano. Poi quello
cadde, spezzato per suo stesso volere. Allungò una mano e
tirò la
maschera di Raph, sciogliendola dalla sua testa: il lungo nastro
rimase impigliato tra le sue dita per un'estremità e si
srotolò
fino ai piedi, ondeggiando mollemente nella flebile brezza notturna.
“Guardami
negli occhi e dillo ancora” sussurrò con un filo
di voce. Il
mutante sollevò lentamente la testa e fu occhi negli occhi.
“Io
non ti amo, Isabel. Non provo nulla per te. Non sei più
nulla per
me” ripeté, lentamente, senza distogliere lo
sguardo. Anche se
guardare gli occhi velati di Isabel gli fece male.
Lei
sorrise. Mordendosi un labbro, con le lacrime che minacciavano di
cadere, ma che trattenne con tutte le sue forze.
Sorrise.
E
con un altro passo fu praticamente ad un soffio dal suo viso e le
braccia furono attorno al suo collo, con la guancia calda e morbida
contro la sua: lei si ritrasse dopo due secondi, tenendo in mano la
collana dalla pietra viola che gli aveva donato.
La
collana degli amanti, che faceva coppia con la sua, che l'avvisava
quando era in pericolo. Si era illuminata anche quella notte,
avvertendolo della minaccia mortale che lei aveva evitato pochi
minuti prima.
“Immagino
che non vedessi l'ora di toglierla” esclamò
Isabel, forzando un
tono allegro, stringendo il monile nella mano, con forza, insieme
alla sua bandana.
Poi
abbassò il viso, in un gesto di resa.
“Non
posso smettere di amarti solo perché non mi ami
più, Raphael. Non è
così che funziona l'amore” soffiò
distrutta, trattenendo le
lacrime, anche se ormai la vista non era che una bruma indistinta,
una nebbia bianca di dolore che avvolgeva la sua serenità e
la
distruggeva.
Non
era possibile che stesse accadendo. Era andata via dal regno sicura,
convinta, della felicità che avrebbe costruito pian piano
con lui,
con l'uomo che amava. Perciò non poteva essere vero. Che lui
la
stesse lasciando sul tetto di un grattacielo, nella notte di New York
più cupa che potesse immaginare.
Non
lo guardò mentre le voltava le spalle. Non lo
guardò andare via. Ma
sentì comunque la sua assenza, come se la
felicità fosse sparita
con lui.
“Ti
ho cercata dappertutto! Sei sparita ore fa!” gridò
Leo, atterrando
sul tetto del palazzo sul quale era seduta. Nella mano aveva ancora
la maschera nera di lei rotta a metà e ansimava per lo
sforzo di
correre ovunque per cercarla. Non aveva smesso per un secondo,
preoccupato che potesse esserle successo qualcosa.
D'altronde
non aveva risposto alle quarantatré chiamate che le aveva
fatto,
aveva diritto di preoccuparsi per lei.
La
osservò, leggermente incurvata in avanti, seduta sul
cornicione in
pietra, i capelli sciolti che ondeggiavano pigramente quando un alito
di vento li accarezzava.
Gli
dava la schiena ed era immobile, come un gargoyle nero a cui avevano
rubato le ali.
“Tutto
bene?” le domandò preoccupato, notando l'assenza
di reazioni.
Isabel
chinò leggermente la testa.
“Tutto
a posto, grazie” rispose con un tono strano, atono, che
svanì
subito nell'aria, come se fosse leggero come una bugia.
“Hai
parlato con Raph?” insisté lui per nulla convinto,
avvicinandosi.
“Vorrei
stare da sola” disse Isabel, interrompendo la sua camminata.
Leo
sospirò, indeciso. Poteva sentire il dolore che lei sembrava
emanare, persino da quella distanza.
“Isabel,
se è successo qualcosa perché non ne...”
Lei
si alzò di scatto e si allontanò a grandi passi,
alla sua destra.
La bandana rossa che teneva nella mano sventolò pigramente
nella
notte scura, schioccando con arroganza, come arrogante era il suo
proprietario.
Leo
osservò il tessuto cremisi sventolare e intuì
cosa potesse essere
successo.
“Raph...
cosa ha fatto?” le chiese, cercando di forzare il suo
mutismo,
andandole dietro.
Sul
tetto risuonò il suono felpato dei suoi passi e il
ticchettio degli
stivali di Isabel, che facevano rumore nella corsa che lei aveva
spiccato per distanziarlo.
“Lasciami
in pace. Per favore!” lo supplicò lei,
praticamente urlando.
Leo
si lanciò in avanti e l'afferrò per un braccio,
fermando la sua
fuga. Lo strattone la fece voltare, lasciandolo impietrito: la luce
dei palazzi illuminò le lacrime che le riempivano gli occhi,
che le
rigavano le guance, che si schiantavano al suolo, goccia dopo goccia.
I suoi occhi erano specchi enormi e lucidi nei quali riuscì
a vedere
solo dolore.
La
maschera nera gli scivolò mano e cadde con un tocco acuto
sul
pavimento del tetto. Rimase a guardare Isabel per interminabili
secondi, sorpreso.
Spaventato,
arrabbiato... attratto.
Non
aveva mai visto Isabel piangere. L'aveva vista ridere, sorprendersi,
emozionarsi, arrabbiarsi, concentrarsi, indignarsi, con la faccia
ironica o sarcastica, allegra e canzonatoria, assonnata o in
meditazione, perfino sofferente. Ma non l'aveva mai vista piangere.
Perché
Isabel non mostrava mai la sua fragilità, a nessuno.
L'aveva
vista resistere alle torture peggiori mai concepite da mente umana
senza lasciare andare un fiato, chiusa dietro una maschera di
indifferenza e rassegnazione. Resistere alla sofferenza, alla
solitudine, alla paura... senza mai cedere al pianto.
Eppure
quella era la stessa Isabel.
Allungò
un dito verso la sua guancia e toccò una delle lacrime, per
capire
se fosse reale.
Era
calda. Era vera.
Lei
chiuse gli occhi e abbassò il viso, trattenendo il dolore,
perché
non lo vedesse, arrabbiata con sé stessa per essere stata
scoperta,
delusa dalla sua stessa debolezza.
Leo
la osservò un secondo, col magone, mentre ancora tratteneva
il suo
polso nella mano; e la sentì, la vergogna che provava, e lo
sentì,
lo strazio che la dilaniava, nel battito furioso del cuore che
soffriva.
Fu
improvviso e non previsto.
L'attirò
verso di sé e l'abbracciò, stringendosela contro,
prendendo parte
di quel tremore che la scuoteva per sé.
“Se
vuoi piangere, fallo pure. Nessuno vedrà le tue lacrime,
tranquilla.
Le nasconderò per te” le sussurrò
dolcemente.
Isabel
affondò il viso nel suo petto, urlando la sua sofferenza. E
si
lasciò andare al pianto, col cuore che moriva a poco a poco
tra gli
spasimi e lo strazio.
Un
fulmine cadde vicino a loro, seguito da un forte acquazzone, ma
nessuno dei due si mosse.
Leo
raccolse tutto il suo dolore. La abbracciò per ore, la
confortò in
silenzio, assorbì le sue lacrime.
E
forse quello che sentì nel cuore non era lecito, ma non
poté
frenarlo. Perché era già piantato dentro di
sé da tempo e solo in
quel momento se ne rese conto, mentre la stringeva con tutte le sue
forze, desiderando di poter fermare quelle lacrime e vederla
sorridere, invece.
Lui
non avrebbe mai permesso che Isabel piangesse a causa sua.
La
notte passò lenta, coprendo le lacrime della ragazza che non
piangeva mai e l'amore neonato del mutante che non poteva permettersi
di amare.
1:
una santabarbara è un deposito di armi e munizioni,
generalmente
chiamato anche polveriera. Prende il nome da Santa Barbara,
protettrice dal fuoco e dai pericoli delle morti violente. La cambusa
delle navi pirate in cui venivano conservate munizioni e polvere da
sparo si chiamava santabarbara.
Note:
Ciao!
Come
promesso sto lavorando come una matta per velocizzarmi.
Ci
sono un sacco di note, perciò vado:
-Il
titolo, “I don't love you” (non ti amo)
è da parte di Raph, “I
should not love you” (non dovrei amarti) il punto di vista di
Leo.
A
proposito di ciò: c'è chi lo aveva già
capito, un applauso
ragazze!
Vi
assicuro che Leo non è stata la scelta più
scontata, come potreste
pensare. In realtà, è stata l'ultima scelta.
All'inizio, quando
pensai la storia per la prima volta, era Mikey ad innamorarsi di
Isabel, per via della sua dolcezza. Però lui andava via di
casa per
via della situazione e c'era un'aria di pesantezza nella storia.
Nella seconda versione era Don a soccombere al fascino della sua
intelligenza, dato che passavano molto tempo assieme per studiare, ma
non finiva bene e non volevo far soffrire Don. Lo ammetto, io non
sopporto far soffrire Donnie.
E
alla fine è stato Leo a prendere il ruolo. Anche piuttosto
naturalmente, se devo dire. Anche nelle due versioni precedenti lui
era strano e sembrava provare qualcosa per lei, in silenzio, quindi
alla fine è semplicemente uscito fuori. Anche
perché io vedo lui e
Raph molto simili tra loro.
So
che molti storcono il naso in questa situazione, pensando che sia
prevedibile, ma datemi fiducia, ok? Finora non vi ho mai deluso,
spero, e non intendo iniziare a farlo ora.
Anche
perché ormai dovreste saperlo che non scrivo cose a caso, ma
c'è
sempre un perché e un percorso per i personaggi.
Per
i tessen: quando ho scritto la storia non c'era ancora la nuova
serie, perciò è solo una coincidenza. Anche
perché li avevo scelti
solo perché hanno un aspetto innocuo e Isabel ha bisogno di
armi che
possa portare in mezzo agli umani.
Ok,
credo sia tutto. Smetto con queste note chilometriche!
A
presto,
Un
disegno che ho fatto tempo fa e che ultimamente ho colorato con photoshop
(non sono capace di colorare e a quanto pare non sono capace ad usare
photoshop. Però mi piaceva il contrasto tra il disegno tutto
sul
bianco nero e grigio, e la fascia rossa come unica nota di colore.)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** For the first time in my life ***
Schioccò
la lingua contro il palato, frustrato. Dondolò un po' sul
posto,
cercando un migliore equilibrio, per tutto il tempo con gli occhi
chiusi, ma la meditazione era sempre carente. Con uno sbuffo
sofferto, Leo lasciò andare appena le spalle, mezzo
sconfitto.
Il
suo sospiro rimbombò per qualche secondo nel dojo
vuoto, amplificato.
Ma
chi diamine voleva prendere in giro? Come pretendeva di potersi
concentrare sul nulla, quando la sua mente era completamente
affollata dal pensiero di lei? Maledizione. Non ci aveva chiuso
occhio. Era rimasto ore a fissare il buio, con la testa confusa e
incasinata e il cuore colpevole, ma felice.
Perché
da quel maledetto secondo in cui l'aveva afferrata e aveva scoperto
le sue lacrime, tutto era cambiato: quello che aveva sentito, quello
che aveva desiderato... non era permesso. Se l'era ripetuto centinaia
di volte nella mente, mentre l'abbracciava per confortarla, anche se
il cuore aveva soffocato quella voce con facilità, con i
mille
battiti al secondo che pulsava.
Si
era chiesto che diamine stesse facendo, mentre camminava mano nella
mano con lei verso casa, con i primi raggi rosa dell'alba che
facevano capolino negli spiragli tra gli edifici, ma aveva smesso di
domandarselo all'istante: era più importante stringere forte
la
presa e bloccare il tremito che la sua mano gli trasmetteva,
perché
capisse che non era sola.
Per
non parlare dell'abbraccio in cui l'aveva stretta davanti alla porta
della sua camera: troppo sentito, troppo coinvolto, con la mano che
carezzava lentamente la schiena di lei, così piccola e
carica di
dolore, in un silenzio perfetto e intimo; il senso di colpa che aveva
provato per aver gioito di quel contatto era stato spazzato via in un
secondo dal tepore di Isabel che passava anche attraverso i vestiti
bagnati, che era dolce e rassicurante, come niente era stato prima
nella sua vita.
Perché...
perché? Non poteva essere davvero amo... quel sentimento.
Non
poteva. Lei era dolce e bella, intelligente e simpatica, seria e
appassionata in ciò che faceva, ma non poteva piacergli: era
innamorata di Raph. Anche se quell'idiota aveva avuto la faccia tosta
di lasciarla.
Non
che fossero mai stati propriamente assieme, a pensarci poi bene, ma
c'era comunque stato qualcosa tra loro; senza volerlo
ripensò alla
notte in cui li avevano scoperti nella camera di Raph e
registrò due
reazioni distinte: rabbia e desiderio; l'immagine di lui che la
cingeva e di quel succhiotto viola sul collo di Isabel lo mandarono
in bestia, mentre il ricordo della sua schiena candida, attraversata
da una rosea e lieve cicatrice lo eccitò.
Piegò
la testa di lato, aggrottando le sopracciglia, sempre più
collerico:
cosa diamine c'era che non andava in lui? Non poteva davvero pensare
a quelle cose. Di sicuro gli piaceva Isabel solo perché
nella sua
mente rappresentava un traguardo, un simbolo positivo: lei non li
vedeva come mutanti o mostri, ma come uomini. Si era invaghito
dell'immagine che aveva di lei. Parafrasando Aragorn del Signore
degli anelli: “Era di un ombra e un pensiero che si era
invaghito.”
Non
di lei.
“Meditazione
difficile?” ridacchiò d'improvviso la voce tanto
temuta, che lo
sorprese e gli mandò un forte batticuore.
“No,
non aprire gli occhi” continuò velocemente,
intuendo le sue
reazioni.
Sentì
Isabel sedersi di fronte a sé e tendere le mani, afferrando
le sue:
d'improvviso si rese conto di avere delle mani, ed erano enormi e non
sapeva che sudassero così tanto... e santo cielo,
perché tremavano?
Nella
sua mente apparve lei, con il completo da allenamento e un grosso
sorriso. Era abituato a vederla come proiezione mentale nella sua
testa, era un esercizio mattutino che compivano assieme, ma quel
giorno fu diverso: forse perché la sera prima l'aveva vista
piangere, forse perché l'aveva abbracciata con tutte le sue
forze,
forse perché aveva continuato ad asciugare via le sue
lacrime per
tutta la notte, forse perché aveva riempito di piccoli baci
la sua
fronte e la sua testa, con dolcezza.
Quale
che fosse il motivo, la sua proiezione mentale non se la
sentì di
guardarla più del dovuto. Non senza arrossire, per lo meno.
“Allora?
Qual è il problema? Avevi paura che ti battessi anche
oggi?” lo
canzonò Isabel del pensiero, provando ad avvicinarsi.
Leo
perse un battito. E d'improvviso capì. Capì
perché era stato così
fastidioso, così strano e punzecchiante, cinico e permaloso
nei
confronti di Isabel: si era comportato come un moccioso alla sua
prima cotta, che infastidiva la bambina che gli piaceva per attirare
la sua attenzione. Se l'era presa per tutte le volte in cui lei lo
aveva battuto, con la magia o nella meditazione, perché
voleva
apparire sempre perfetto ai suoi occhi; aveva continuato a
stuzzicarla per attirare il suo interesse; si era reso ridicolo
quando era triste per vedere il suo sorriso.
Come
aveva fatto a non accorgersi di quel cambiamento? Come aveva potuto
non capire che lei aveva iniziato a diventare una costante fissa nei
suoi pensieri?
“Leo?”
Continuò
a non rispondere. Non era sicuro di stare esattamente bene. Il suo
respiro era troppo veloce, per esempio, e il suo battito era troppo
accelerato... possibile che lei non se ne fosse accorta?
Si
azzardò a sollevare lo sguardo e a rivolgerle un cenno tra
il
dubbioso e l'insicuro.
“Oggi
niente lotta. Vieni con me” esclamò Isabel,
afferrandolo per il
polso, iniziando a camminare nel nulla che erano le loro menti.
“Se
arriva il sensei e ci trova a bighellonare invece di allenarci,
saranno guai. Per te. Perché tanto è ovvio che
sia colpa tua”
soffiò fuori il mutante, cercando di suonare pungente come
suo
solito.
Isabel
rise e la sua mente fu piena di quel suono delizioso, che gli
mandò
un brivido. Stava riuscendo a gestire il batticuore e a comportarsi
come al solito, per fortuna.
“Posso
sapere almeno dove mi stai portando?” domandò
fintamente seccato,
anche se in realtà era completamente in balia di lei, dato
che le
aveva concesso il controllo della situazione.
“Un
posto speciale” soffiò criptica Isabel,
continuando ad avanzare,
tirandolo con tutte le sue forze. La camminata si fermò
bruscamente,
di fronte ad una porta luminosa, che sembrava fatta di pura luce.
“Ah,
no! Mi spiace. Non metterò mai più piede in un
tuo ricordo!”
tuonò Leo spaventato, indietreggiando.
La
faccia di Isabel divenne un misto tra colpa e ilarità.
“Mi
ero dimenticata che anche tu hai guardato nei miei ricordi.
Imbarazzante. La parola che descrive il mio pensiero al momento
è:
imbarazzante! Ma questo non è un ricordo,
tranquillo!”
Leo
scrutò il suo viso, così sereno e diverso
dall'espressione di
dolore che le aveva visto la sera prima. Eppure i suoi occhi erano
gonfi e rossi, eppure nel fondo castano c'erano le pagliuzze di
sofferenza, eppure gli angoli di quel sorriso sembravano
lottare per potersi incurvare in una smorfia di dolore.
Cedette,
battuto dalla voglia di assecondare ogni suo desiderio, se poteva
renderla felice.
“Va
bene... andiamo!”
Attraversarono
l'arco luminoso, che accecò la sua vista per qualche
secondo, e
quando rimise a fuoco quasi gridò dallo stupore: davanti ai
loro
occhi si estendeva un mondo meraviglioso, una radura verde che
scendeva in una vallata, dove una piccola cascata cadeva da una irta
montagna, formando un laghetto dall'acqua chiara e limpida, poco
distante da una foresta che sembrava incantata, il tutto illuminato
dai raggi gentili di una giornata tersa.
Era
un paradiso, una fiaba che prendeva vita.
Si
voltò verso Isabel, per chiederle spiegazioni, ma rimase
invece solo
più sorpreso: la tenuta da allenamento era sparita e lei
vestiva
invece con una veste leggera, una tunica porpora dalle ampie maniche.
Solo in quel momento si accorse che anche lui non era più
vestito
con la sua tuta da ninja, ma con una Hakamashita blu e una Hakama
nera, stretto in vita da un Obi celeste1.
La
osservò, confuso, e lei sorrise, ancora più
bella, ancora più
splendida, davanti alla sua perplessità. Voleva farle mille
domande,
ma una leonessa dal manto ambrato spuntò dal folto della
foresta e
puntò diretta e decisa verso loro, con la sua camminata
regale e
minacciosa.
“Attenta!”
strillò Leo, alzando le mani per prendere le Katana: si
chiusero sul
vuoto. Controllò con ansia pressante tutto il suo corpo,
cercando le
sue armi, senza nessun esito.
“Ok,
adesso cerca di calmarti... respira lentamente. Non c'è
nessun
pericolo” disse Isabel con tono calmo, andando incontro alla
fiera
con naturalezza; la raggiunse con pochi passi e allungò una
mano,
poggiandola sul suo muso: il felino chiuse gli occhi e si
strofinò
contro, soddisfatto.
“Cosa...
dove...”
“Questo
è il mio spazio mentale, Leo. È
il mio mondo segreto, dove ogni cosa è così come
io la desidero,
una fortezza nella mia mente dove posso rifugiarmi a meditare. È
una sorta di spazio sacro delle streghe, in cui prepararsi
spiritualmente per un rito o dove andare quando si vuole stare soli,
in contatto con sé stessi e con forze superiori”
spiegò Isabel,
mostrandogli con fierezza quel posto.
Leo
ammutolì. Quel posto era quindi vero, in un certo senso?
Esisteva
nella mente di Isabel, ma era frutto e parte della sua magia?
“E
la... leonessa?” domandò, osservando
ossessivamente negli occhi
dorati della belva, ancora troppo scosso per capire appieno di cosa
lei parlasse.
Isabel
gli fece cenno di avvinarsi e quando fu abbastanza vicino prese la
sua mano, allungandola verso l'animale: il manto della leonessa era
morbido e setoso, ma dopo averle toccato la testa ritrasse la mano.
“Lei
è Luce. È
l'incarnazione
del mio “Sè” 2,
la parte
della mente più profonda e complessa. Lei controlla tutte le
altri
parti di me, vigila su di esse, le tiene in ordine.”
Leo
allungò nuovamente la mano, poggiandola sulla testa della
leonessa,
con titubanza, grattando lentamente dietro l'orecchio. Il grosso
felino inclinò il capo, chiudendo gli occhi, godendosi le
carezze.
“Quindi
Luce... sei tu?”
Isabel
sorrise, con uno strano sguardo misterioso. Leo sentì il
cuore
accelerare. Staccò lo sguardo dal suo, concentrandosi invece
sul
meraviglioso paesaggio attorno, riprendendo il controllo delle sue
emozioni, che premevano per prendere il sopravvento.
Sapeva
di trovarsi in uno stato mentale creato da Isabel, ma era
così vero
da fargli credere di essere in un mondo reale: l'aria profumava di
lavanda e i raggi del sole, seppur tenui, scaldavano la pelle,
delicatamente; respirò a pieni polmoni, in pace.
“Questo
posto è fantastico” si lasciò scappare,
forse troppo rilassato,
con un'espressione serena in viso.
“Grazie.
È
qui che vengo quando le
cose non vanno bene o sono sconvolta. Qui medito e rifletto…
e alla
fine riacquisto un po' di serenità” disse la
ragazza, inchinata
vicino al laghetto, con la mano immersa nell'acqua azzurra, creando
piccole increspature sulla superficie.
Era
lì che si era ritirata la notte prima. Lo sapeva. Poteva
capirlo dal
tono sofferente nascosto dietro le sue parole. Isabel si era
rifugiata in quel mondo dopo che quell'idiota di Raphael l'aveva
lasciata, cercando un po' di tranquillità. Aveva pianto
ancora, da
sola, in quel luogo fuori dal tempo e dallo spazio? Osservò
con
attenzione la leonessa avvicinarsi a Isabel e strofinarle il muso
contro il collo, in gesto d'affetto. Sì, aveva di certo
pianto
ancora; lo stava ancora facendo, internamente.
Si
avvicinò anche lui e si inchinò vicino a loro,
appoggiando una mano
sulla superficie fredda dell'acqua, assaporando il momento.
“Nessuno
è mai entrato qui, a parte me. Sei il primo estraneo a
vedere questo
posto e a conoscere Luce. È
per farti capire quanto ti sia grata per essermi stato accanto. Sei
stato davvero... gentile. Insospettabilmente. Grazie”
mormorò la
ragazza in imbarazzo, voltandosi per mandargli un sorriso di
gratitudine.
Si
sentì improvvisamente molto lusingato ed emozionato. Si
sentì
arrossire violentemente, di orgoglio e sorpresa, alle sue parole.
Nessuno aveva mai messo piede lì dentro, nemmeno Raphael. Ma
lui sì,
nella parte più profonda e davvero intima di Isabel. Era di
sicuro
meglio e più importante di qualunque cosa suo fratello
potesse aver
condiviso con lei.
Era
così... onorato. Più di quanto avrebbe dovuto.
Non
poteva davvero sentirsi così. Non era permesso. Non era
giusto.
Isabel era off limits in ogni senso possibile e immaginabile.
Perché
non poteva sentire verso di lei l'amore fraterno che Mikey e Don
provavano? Qualsiasi cosa fosse quella che si agitava nel suo petto
non era semplice affetto. E lui non doveva permettersi di provarlo.
Avrebbe creato caos nella sua vita, nella famiglia, in tutto
quell'ordine che aveva faticato anni a costruire, con sacrifici e
sudore.
Isabel
non gli piaceva. Era di certo solo un malinteso. Punto. Era
qualcos'altro. Simpatia. Pena, forse. O forse solo una banale e
trascurabile infatuazione dovuta al fatto di averla sempre attorno.
Sì, per certo non era niente di più di una di
quelle opzioni.
Isabel
si alzò di scatto e anche Luce sollevò la testa,
come in ascolto.
“Il
maestro... sta arrivando” annunciò la ragazza,
assorta nel
percepire l'ambiente intorno. Abbracciò la leonessa, poi
tese la
mano.
“Andiamo”
sussurrò con dolcezza.
Leo
rimase per un secondo a fissare il palmo bianco, aperto, fiducioso,
teso verso di lui... afferrarlo non sarebbe stato come cedere a quel
qualcosa che non doveva provare?
Lei
era in attesa, con un sorriso cortese, che nascondeva il dolore che
provava. Perché doveva sempre essere così dura
con sé stessa?
Perché cercava sempre di non far pesare agli altri la sua
tristezza?
Come se non le fosse concesso mostrarsi debole e umana come chiunque
altro, come se avesse paura di venire schiacciata dal dolore se gli
avesse permesso di venire fuori, di tanto in tanto.
Allungò
la mano e afferrò la sua. Pelle verde foresta su pelle
bianco avorio.
Tre dita strette a cinque. Ruvidezza e calli contro morbidezza e
calore.
E
cercò di non pensare a quanto piacere gli facesse quel
contatto,
quel camminare mano nella mano verso una realtà che nessuno
di loro
due sapeva e voleva in verità affrontare.
Si
lasciò guidare verso l'uscita di quel mondo meraviglioso,
che non
avrebbe mai più scordato, confuso come mai si era sentito
prima in
vita sua.
Aprirono
gli occhi contemporaneamente, nel dojo illuminato dalle prime luci
dell'alba.
“Buon
giorno, figlioli. È
bello
trovarvi così presto già in
meditazione” esclamò la voce di
Splinter, poco lontano da loro.
Si
guardarono, trattenendo entrambi un sorriso.
Si
sedettero in ginocchio davanti al sensei, ritto in attesa sotto lo
stendardo col simbolo del clan Hamato. Quando ebbe ottenuto la loro
totale attenzione fece dei
passi verso sinistra, raggiungendo con calma gli espositori di armi
addossati alla parete in fondo, proprio a destra della porta della
stanza da meditazione: il saggio ratto scivolò lentamente,
studiando
tutte le armi scintillanti, tranquillamente. Si sporse e
afferrò
qualcosa, poi ritornò di fronte a loro e fece avanti e
indietro, con
le mani conserte dietro la schiena.
“I
Tessen nacquero per necessità. La necessità di
portare armi, anche
dove non era permesso. Nel Giappone feudale, era consuetudine
spogliarsi delle armi quando si entrava nella magione di un
personaggio importante, per dimostrare di non essere una minaccia. Ma
era un periodo di grandi tensioni, tradimenti e agguati, anche nel
posto più impensato, anche dalla persona meno sospetta.
Perciò
i ventagli divennero armi. Ve n'erano di molti tipi: completamente in
ferro; solo con le stecche rinforzate; ventagli chiusi che in
realtà
nascondevano una lama. I samurai a volte affidavano la loro
protezione esclusivamente su queste armi e, nella storia, grandi
condottieri si sono salvati grazie alla presenza di un Tessen.
Hanno
un aspetto grazioso, ma hanno un potenziale che non ha nulla da
invidiare a qualsiasi altra arma” finì di spiegare
Splinter.
Allungò
le mani verso Isabel, porgendole i suoi doni: due ventagli neri con
decori argentati, ognuno correlato di due lunghe code nere. Lei si
sollevò un poco, prendendo con timore eppure gioia le sue
nuove
armi, iniziando a studiarle con riverenza. Erano pesanti.
Più di
quanto si aspettasse.3
Ne
aprì uno e ne osservò con attenzione i dettagli,
assorta: mentre le
stecche esterne erano nere, la base e le spesse stecche interne
scintillavano di gelido acciaio, inciso con decori di spirali e fiori
di peonia.
Erano
freddi e letali, eppure nello stesso tempo raffinati e incantevoli.
Le
piacquero. Non avrebbe mai potuto amarli come i suoi Sai, ma sapeva
che ci si sarebbe trovata bene.
“Pronta
per un nuovo passo avanti?” le domandò Splinter,
con un sorriso
incoraggiante.
Il
combattimento coi Tessen era completamente diverso da ogni altra cosa
provata prima: non aveva l'irruenza della lotta coi Sai o la
concretezza di quella corpo a corpo. Era davvero elegante, assorto e
cadenzato, come una danza di morte. Ripeté con calma e
grazia le
mosse che Splinter le insegnò, in una sequela infinita e
ritmata,
parando e attaccando con sventolii letali.
Leo
rimase seduto sulle ginocchia per tutto il tempo, in un angolo nel
dojo, riempiendosi gli occhi e la mente di quelle immagini, col petto
in tumulto. Lei stava letteralmente danzando sul cupo ritmo del suo
cuore, un battito tribale e pericoloso, in sincrono perfetta,
leggiadra e fatale. Ma solo lui ne era conscio e la cosa lo
emozionava da morire.
Al
diavolo le sue teorie strampalate e la negazione ad oltranza: Isabel
gli piaceva. E non perché fosse un simbolo di speranza, un
traguardo
o un'ombra e un pensiero positivo di cui invaghirsi; Isabel gli
piaceva perché era tutto ciò che gli mancava:
sentimento e
istintività, passione e dolcezza, serenità e
allegria.
Con
lei riusciva ad essere meno severo, meno rigido, meno... Leonardo.
Ma
non doveva piacergli. Isabel era di Raphael, in ogni senso: era
persino padrone del suo cuore, anche se l'aveva rifiutata e ferita.
Per
la prima volta nella sua vita sentì una gran rabbia
riempirlo tutto,
divorarlo vivo, trascinarlo verso pensieri malvagi e di odio contro
suo fratello.
Splinter
fermò l'allenamento dopo un'ora.
“Niente
male, per la prima lezione. Sei stata brava” la
lodò, con uno
scintillio affettuoso negli occhi.
Isabel
si inchinò, lusingata, riprendendo fiato. Le facevano male
muscoli
che non aveva mai usato prima, come quelli dell'avambraccio.
“Molto...
poco aggraziata” la canzonò Leo, avvicinandosi a
grandi passi.
Ormai decise di non fare nemmeno caso al batticuore: lo accolse nel
petto con sollievo, anche se timoroso che lei potesse accorgersene.
Isabel
rise della sua definizione, sorprendendolo.
“Meno
male. Mi sarei preoccupata del contrario. Almeno so che i miei
ipotetici avversari moriranno dal ridere prima ancora che li
attacchi” ridacchiò lei, richiudendo i ventagli
con uno schiocco
secco. Stavano cominciando decisamente a piacerle.
“Leo,
puoi andare a chiamare gli altri, per favore?”
La
sua domanda titubante e inattesa lo sorprese. Così come il
tono
insicuro con cui l'aveva pronunciata, come se ci avesse pensato per
molto tempo, cercando di farsi forza. Come se in realtà non
volesse
davvero farla.
Lei
continuò a fissarlo, in attesa di una risposta, stuzzicando
l'angolo
di un labbro con i denti per il nervoso.
Leo
annuì, brevemente, dirigendosi verso la porta.
“Anche
Raphael, ti prego” la sentì dire, con un tono di
voce trattenuto,
che gli fece perdere ritmo nella camminata, per un secondo.
Se
doveva chiamare anche Raph... era certo che non fosse per una cosa
banale come mostrare a tutti le sue nuove armi, no?
Uscì
dal dojo, diretto in cucina: era certo che Mikey fosse già
lì a
spadellare una colazione per la sua adorata sorellina...
perché
diamine non poteva essere come lui? Avrebbe dato le sue Katana per
provare la dolce innocenza del suo fratellino.
Lo
trovò proprio lì, comicamente intento a sbattere
uova e mescolare
decine di ingredienti, con il suo grembiulino rosa, canticchiando tra
sé.
“Ehy,
Mikey, riunione al dojo” esclamò conciso, uscendo
all'istante
dalla cucina incasinata, per non riempirsi anche lui di farina.
Trovò
Don nel suo laboratorio, come si era immaginato, intento a lavorare
ad un nuovo sistema di difesa per il rifugio, che comprendeva
parecchie telecamere. Dovette urlare un paio di volte per farsi
sentire al di sopra dello sfrigolio della fiamma ossidrica.
“Cosa?”
gli chiese l'altro, una volta spento l'attrezzo e sollevata la
mascherina.
“Riunione
al dojo, Donnie.”
Uscì
dal laboratorio, sospirando. La parte facile era finita. Gli toccava
quella difficile. E non gradita.
Saltò
verso il piano superiore, con due balzi ben calcolati, camminando in
direzione della penultima porta a destra. Bussò e attese.
Non arrivò
nessuna risposta. Bussò più forte, con
più arroganza. E ancora
nessun rumore, né una voce rispose.
Con
uno sbuffo spazientito chiuse la mano a pugno, con forza.
“Raph!
Svegliati, dannazione!” urlò fuori di
sé, battendo furiosamente
contro la superficie legnosa in una sequela infinita.
La
porta si aprì, di colpo, e il fratello apparve, ancora mezzo
assonnato e con la maschera sul viso storta.
Non
ebbe mai così tanta voglia di prenderlo a pugni come in quel
momento, mentre se ne stava lì, appena uscito dal suo sonno
pacifico, senza curarsi del dolore che aveva inflitto a Isabel.
“Cosa
diamine vuoi? Perché strilli?”
“Al
dojo, immediatamente” rispose semplicemente, prima di
voltarsi e
andare via.
Non
voleva rimanere più del dovuto in presenza di suo fratello;
non era
certo di come avrebbe reagito e la cosa lo spaventava. Era
terrorizzato dai suoi stessi pensieri, da ciò che avrebbe
potuto
fare in un attimo di follia. Non si era mai sentito così
prima. Così
geloso, così rabbioso, così instabile.
Ripercorse
la strada al contrario, tornando indietro: nel dojo c'erano
già i
suoi fratelli, intenti a studiare i Tessen di Isabel.
“Dai!
Fammi vedere cosa hai imparato! Per favore!” la supplicava
Mikey,
senza successo, inseguendola.
Isabel
infatti arrossiva, tirandosi indietro.
“No.
Mi vergogno. Non sono brava!” rispose, nascondendo il viso
per
l'imbarazzo.
“Ma
Leo ti ha vista, non è giusto!”
“È
stata davvero terribile. Ma tutto sommato poteva andare
peggio”
rispose il leader, strappandole un sorriso.
“Se
volevi vederla avresti dovuto alzarti prima.”
Isabel
si irrigidì di colpo e Leo seppe che lui era arrivato. Lo
percepì
avvicinarsi a loro, lentamente; si sentiva sempre più
arrabbiato,
secondo dopo secondo.
Si
sedettero tutti in cerchio, quasi come se si stessero preparando a
meditare, ma ci fu un gran silenzio, che nessuno sembrava
intenzionato a rompere.
“Come
mai ci hai chiamati, sensei?” domandò infine
Mikey, dopo qualche
minuto.
Il
vecchio maestro scosse la testa.
“Non
sono stato io. Isabel ha richiesto la vostra presenza.”
Si
voltarono tutti verso la ragazza, sorpresi; era tesa, con la schiena
rigida come un fuso.
“Io...
non è semplice. E vorrei che mi ascoltaste fino alla fine,
prima di
parlare o fare domande. Vi sono grata per avermi accolta qui, come
una di famiglia. E di avermi dato così tanto affetto e
comprensione... -e colazioni e abbracci, Mikey-. Però... ho
deciso
di trasferirmi. Vado a vivere in un appartamento.”
La
sua voce era un sussurro e i suoi sorrisi così tirati, da
fare male.
Gesticolava furiosamente, in preda al nervosismo. Mikey si era quasi
alzato, con gli occhi spalancati di sorpresa, Leo si era mosso a
disagio sul posto e Don aveva teso una mano provando a prendere la
parola.
“Sto
bene qua con voi” li precedette Isabel, frenando le loro
interruzioni sul nascere. “Davvero. Non c'è posto
che definirei
casa, a parte questa, in tutto il mondo. Ma sono piombata qua
all'improvviso, sconvolgendo i vostri ritmi, le vostre abitudini...
avete bisogno della vostra privacy. Avere una donna in giro dopo anni
di vita solo uomini non deve essere facile.”
Aveva
provato a buttarla sullo scherzo, ma gli altri erano troppo scioccati
per reagire.
“Isabel...
perché?” domandò Mikey, ferito.
“Io...
continuerò a prendere lezioni col maestro. E tutti voi siete
i
benvenuti nel mio appartamento: per studiare, o giocare, guardare un
film, o anche solo per parlare. Non voglio tagliare i ponti con voi.
Voglio solo ridarvi i vostri spazi.”
Li
osservò, in attesa che dicessero qualcosa.
Leo
occhieggiò Raph, ma il fratello aveva gli occhi bassi,
imperscrutabili. Sapeva che era tutta colpa sua. Don e Mikey non
avevano saputo nulla della sera prima, -nemmeno lui era a conoscenza
di ogni particolare e di cosa Raph le avesse detto-, ma era certo che
fosse tutta colpa di suo fratello.
Le
mani poggiate sulle ginocchia si strinsero a pugno, così
forte che
le nocche sbiancarono.
Isabel
se ne stava andando. E se le cose fossero cambiate tra loro? Se lei
si fosse allontanata sempre più, fino a scomparire del tutto
dalle
loro vite? Lui non voleva perdere Isabel. La voleva con sé,
ogni
giorno. Voleva poter osservare ancora la sua camminata mezza
assonnata quando si dirigeva al dojo di prima mattina. Voleva
guardare un film con lei dopocena, stretti nel divano, e ridacchiare
sottovoce dei suoi commenti. Voleva trovarla di notte in piedi in
cucina, coi capelli arruffati e il pigiama colorato, a versarsi una
tazza di latte mentre gli raccontava uno dei suoi strani e buffi
sogni.
Voleva
avere Isabel attorno ogni secondo possibile. Voleva respirarla,
viverla. Ma non avrebbe più potuto.
Si
accorse che Mikey si era alzato, protestando la sua indignazione per
quell'idea, abbracciando Isabel e pregandola di restare. Bravo
fratellino! Gli diede tutto il suo appoggio silenzioso, sperando che
la convincesse.
“Non
vado davvero via, Mikey. Voi siete sempre la mia famiglia, anche se
non vivrò più qui!” rispose lei, con un
grosso sorriso commosso.
Leo
la osservò, chiedendosi con rabbia quante di quelle lacrime
che le
inumidivano gli occhi, e non voleva lasciare andare, fossero per
quell'idiota e ingrato di Raph.
1:
La Hakamashita
è una sorta di giacca
giapponese, quasi un kimono più corto. In genere non arriva
oltre il
bacino, perciò può essere usato in coppia con la Hakama,
un pantalone piuttosto ampio, a pieghe. L'Obi
è la cintura solitamente usata con i Kimono, per gli uomini
è molto
sottile e semplice, a differenza di quelli da donna.
2:
Vorrei spiegarvi bene la concezione del sé in psicologia, ma
mi
rendo conto che la me che aveva scritto la storia lo sapeva, mentre
ormai io ho dimenticato tutto. Mi rifaccio a grandi linee a Jung e lo
parafraso pure (se dico castronerie siete invitate a prendermi a
sassate e a correggermi):
Il
sé è la completezza psichica. L'Io, che da Freud
era in pratica
descritto come il sé di Jung, è la parte
cosciente di noi, per
Jung, e non è altro che una piccola parte del sé.
3:
I ventagli giapponesi da combattimento sono diversi: ci sono quelli
completamente in ferro o alcuni che hanno solo le parti esterne
rinforzate, altri hanno delle lamine nascoste all'interno di alcune
stecche.
I
Gunsen avevano le parti
interne di
legno, bronzo od ottone e le stecche esterne in metallo sottile, in
questo modo erano più leggeri. I Tessen
erano interamente in ferro, perciò risultavano piuttosto
pesanti.
In
realtà quelli di Isabel sarebbero Gunsen, quindi, con la
parte
interna in acciaio e quella esterna in ferro.
All'epoca
in cui scrissi la storia non sapevo le differenze, perciò
lascerò Tessen. Potrei cambiare, ma mi piace rispettare la
scrittura della me stessa di allora.
Note:
Salve!
La
rivelazione di Leo non ha scioccato nessuno, ve lo aspettavate tutte!
Eh, non sono brava a non far trapelare queste cose. Scusate.
C'è
chi ha gioito, chi già li shippa, chi si è
sentito tradito, chi non
ce li vede proprio. Non saltate a nessuna conclusione e aspettiamo
che le cose evolvano, per vedere come sarà.
Vi
posso solo assicurare che alla fine di questa storia amerete alla
pazzia Leo e fonderete un fan club solo per lui. Persino io ho un debole
per il mio Leo, e lui è l'ultimo dei miei preferiti.
Raph
ha suscitato indignazione collettiva! Ma continuo ad amarlo lo
stesso!
E
amo voi! Grazie per leggere! Grazie per i commenti che mi fanno
sorridere e a volte ghignare maleficamente al pensiero di come
reagirete nel futuro!
Sì,
sono malvagia!
Vi
adoro!
Abbraccione
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** The struggle of the eldest ***
Isabel
si trasferì quella sera stessa. Non ci mise molto a
racimolare le
sue cose, non aveva accumulato molta roba dacché si era
trasferita:
una valigia capiente fu tutto ciò con cui si
presentò a loro,
all'ingresso secondario del rifugio.
Erano
tutti lì, allineati e impettiti, senza sapere che fare o
dire. C'era
perfino Klunk, e sebbene sembrasse pazzo pensarlo, il grosso micione
muoveva la coda lentamente, come se avesse capito cosa stesse
accadendo.
Mikey
tirava su col naso, minacciando di scoppiare a piangere da un secondo
all'altro. Aveva cercato con ogni mezzo di farle cambiare idea, si
era impuntato in ogni modo, aveva opposto resistenza, ma ogni sforzo
era stato vano.
Gli
sforzi di tutti erano stati vani. Alla fine il sensei aveva spento le
lamentele generali, ricordando ad Isabel che era sempre di famiglia,
anche se fosse andata via, e che era la benvenuta se mai avesse
cambiato idea. Lei aveva sorriso riconoscente, grata che il gentile
maestro avesse compreso la sua richiesta, anche se probabilmente non
la condivideva.
Isabel
li salutò con la mano, pronta ad andare prima che Mikey
rincominciasse con la storia della festa d'addio, quando proprio
quest'ultimo la fermò, abbracciandola con trasporto.
“Non
andare via! Per favore!” la supplicò, stringendola
fermamente.
Isabel
lasciò andare la valigia e lo strinse a sua volta, con
affetto.
“Non
vado via, Mikey. Lo sai. Starò sempre qui, a New York. E ci
vedremo
ogni giorno” lo rassicurò, commossa.
Klunk
si era avvicinato ai due e si strusciava tra le loro gambe, forse per
attirare la loro attenzione, forse semplicemente per esternare la
stessa tristezza del suo padrone.
“Ma
non vivrai più con noi. Non sarai più la mia
sorellina!” continuò
lui imperterrito, come se non l'avesse nemmeno interrotto.
“Mi
stai declassando solo perché vado ad abitare da sola? Certo
che
resto la tua sorellina, se lo vuoi. E quando mi sarò
sistemata
faremo una festa con pigiama party. Pizza, videogiochi e film idioti
fino all'alba! Oh, e segreti da fratelli, ovviamente.”
Mikey
rise all'idea, poi rafforzò brevemente la presa,
trasmettendo tutto
ciò che voleva dire e non poteva, appena prima di lasciarla
andare.
“Ci
conto!” esclamò con forzata allegria, facendo un
passo indietro.
Isabel
li guardò tutti, brevemente, poi si chinò per
raccogliere la
valigia e una volta dritta fece un semplice cenno con la mano.
“A
presto” sussurrò loro, prima di voltarsi e salire
dentro
l'ascensore. Le porte si richiusero davanti al suo sorriso,
portandola via.
Ascoltarono
il lieve ronzio, in silenzio. Mikey sospirò rumorosamente.
“Tu!”
urlò Leo all'improvviso, facendo sobbalzare tutti,
fiondandosi
nell'angolo in cui Raphael aveva seguito tutto e strattonandolo per
un braccio. Lui si difese, spingendolo via, mentre gli altri si
avvicinavano sorpresi e allarmati.
Il
leader cercò di raggiungerlo di nuovo, furioso, ma venne
trattenuto
da Mikey, anche se a fatica.
“Leo,
fermati! Che c'è?” strillò il fratello,
cercando di placcare le
sue aggressioni verso Raph, che si teneva alla larga.
“È
tutta colpa sua. Di questo schifosissimo idiota...”
“Basta,
Leonardo! Che cosa ti succede?” lo riprese Splinter, attonito
davanti al suo comportamento inusuale.
Lui
rispose al richiamo, smettendo all'istante di agitarsi. Si
bloccò e
prese dei grossi respiri, continuando a guardare il fratello in
cagnesco. Doveva controllarsi, aveva ragione il sensei, ma gli
risultava davvero difficile, con tutta quella furia che gli si
agitava dentro, con quella voglia pressante di prendere a pugni suo
fratello.
“Isabel
se n'è andata per colpa di Raph. L'ha buttata fuori di
casa”
rivelò con rabbia.
Mikey
strillò, meravigliato, e si fece avanti per chiedere
spiegazioni,
già piuttosto alterato.
“Non
l'ho buttata fuori! L'ho lasciata!” ribatté
l'altro, visibilmente
seccato di dover parlare di cose private con tutta la sua famiglia.
C'era
quella vena pulsante sul suo collo, che spuntava solo quando era
arrabbiato. Che sfortunatamente era quasi sempre.
“Tu
hai... cosa?” strillarono scossi Mikey e Don.
“E
immagino il tatto con cui l'hai fatto, se questo l'ha indotta a
scappare!” continuò Leo, che non stava prestando
alcuna attenzione
agli altri.
Vedeva
solo Raph e la sua espressione noncurante ed era ciò che gli
dava
più fastidio. Come se tutto quello non gli interessasse,
come se non
lo toccasse minimamente. L'idea di aver allontanato Isabel dall'unica
famiglia che potesse esigere, sembrava non turbarlo affatto.
“È
ovvio che se ne sia andata! Questa
è casa mia, voi siete la mia famiglia! Come
può pretendere
di accamparsi qui, di fare come le pare solo per ciò che
è successo
in passato?” strillò infatti il fratello, dandogli
la certezza su
come la pensasse.
“Questa
casa non esisterebbe nemmeno se non fosse per lei e lo sai. Ha
diritto di rimanere qui quanto te!” contestò
Mikey, sempre più
arrabbiato.
“Non
avremmo avuto bisogno di una nuova casa se per colpa sua non ci
avessero raso al suolo la vecchia!” strillò Raph,
con veleno,
sconvolgendoli.
Tutti
e tre i suoi fratelli lo guardarono con amarezza.
“Non
l'ho sentito... ditemi che non l'ho sentito davvero. Nemmeno lui
può
aver detto una cretinata simile” mormorò furioso
Leo, che lo
occhieggiava malevolo.
“Isabel
non ha nessuno al mondo. Noi siamo tutto ciò che
ha” gli rispose
Don, più pacato degli altri, ma molto più
amareggiato di quanto
volesse ammettere.
“Ha
il suo magico mondo fatato dove può fare la regina. Che ci
torni!
Non voglio stare con una persona di cui non mi importa più
nulla
solo perché voi possiate giocare all'allegra famigliola
felice!”
sputò fuori con rancore, reso ancora più furioso
dalla loro
insistenza e dal muro compatto di disapprovazione che gli avevano
creato attorno.
Leo
sembrò sul punto di reagire, alle sue parole:
digrignò i denti e
strinse le mani a pugno, in preda alla rabbia. Poi prese un profondo
respiro e gli voltò le spalle.
“Stalle
lontano. Se la farai piangere ancora, non ci sarà nessuno
che ti
potrà salvare, la prossima volta.”
Raph
sbuffò strafottente, per nulla colpito dalla sua minaccia o
al
sapere che Isabel aveva pianto. Non era affar suo e non doveva essere
certo affar loro.
Eppure
sembrava che loro pensassero decisamente il contrario; iniziarono ad
evitarlo, tutti molto alterati e delusi. Mikey era l'unico che
provasse a non trattarlo come se fosse invisibile, ma quando si
avvicinava a lui si incupiva terribilmente e non riusciva a
dissimulare la delusione e la tristezza.
Perciò
prese ad evitarli di sua spontanea volontà.
Se
ne stava rabbiosamente per i fatti suoi, cupo e schivo. Stava da
solo, non parlava con nessuno, si sfogava per ore prendendo a pugni
il fidato sacco da boxe.
Se
solo avessero potuto sapere cosa si agitava dentro il suo cuore,
nessuno di loro avrebbe potuto biasimarlo.
Isabel
doveva sparire per sempre dalla sua vita.
Il sacco di
plastica nera
sobbalzava ad ogni passo, rischiando di trascinarlo giù da
quanto
era pesante. Steve sbuffò per lo sforzo, ma non
lasciò la presa,
anche se gli dolevano le mani per la forza che ci metteva per
stringere il nodo, che scivolava per via del sudore.
Ma era l'ultimo sacco per quella
notte e finalmente sarebbe potuto andare a casa. Lo aspettava una
cena fredda e una doccia e poi il letto e sonno, in gran
quantità.
Non vedeva l'ora di infilarsi nel letto e dormire, come se non ci
fosse domani.
E l'avrebbe fatto, dopo l'ultimo
sacco.
Che cadde a terra, quando vide
il mutante e capì che niente sarebbe andato come aveva
programmato.
“Sapevo
che saresti venuto
stasera” esclamò, riafferrando il sacco da terra e
continuando il
suo tragitto fino al cassonetto.
Leo
balzò giù dal portellone e
lo sollevò per lui, facilitandogli il compito. Il ragazzo
sollevò
il sacco con un solo lancio ed entrambi lo guardarono adagiarsi sul
fondo del cassone dell'immondizia. Leo lasciò andare il
coperchio,
con un sorriso stupito. Il ragazzo ci stava prendendo la mano. Se
avesse continuato a lavorare e avesse fatto qualche altro esercizio,
in breve tempo si sarebbe irrobustito un po'.
Si risedette sul portellone,
mentre Steve rimaneva in piedi, intento a pulire le mani sul corto
grembiule da lavapiatti.
“Come
facevi a saperlo?”
domandò, curioso della nota sicura che aveva percepito
nell'esclamazione del ragazzo.
Steve smise all'istante di
pulirsi e sollevò lo sguardo su di lui.
“Stai
scherzando? So cosa
avete fatto ieri, sospettavo che saresti venuto a farmi delle
domande” sbottò, sollevando le mani al cielo per
l'entusiasmo.
Leo
sollevò le sopracciglia,
completamente sconvolto.
“Tu
sai... cosa?” mormorò,
solamente.
“Tutto!
La clamorosa scoperta
di contrabbando di armi è su tutti i giornali e
telegiornali! Non li
hai visti?” proruppe il ragazzo, stupito che proprio lui, uno
degli
artefici dell'arresto, fosse all'oscuro.
La scoperta di quello che
provava per Isabel e poi la sua partenza dal rifugio gli avevano
tenuto la mente impegnata per tutto il giorno. Non aveva fatto caso
ad altro, niente di ciò che proveniva dall'esterno. Non
quando c'era
così tanto casino dentro di lui.
“Ma
i dettagli... quelli li ho
sentiti per la strada. Sussurri che volano da bocca a orecchie come
un immenso telefono senza fili, per tutta la città! Come che
per
esempio siete arrivati nascosti in un furgone e che...”
continuò
Steve, con un mormorio cospiratorio, come se non volesse essere udito
da orecchie indiscrete.
“Cosa...
voci? Quali voci? Da
chi sono partite?” domandò Leo, riprendendo infine
controllo dei
propri pensieri, sorpreso nel sentire certi dettagli, che di certo
nessuno poteva sapere tranne le persone presenti la sera prima.
E a parte la sua squadra, che
era certo non avesse parlato, potevano essere solo complici di quei
farabutti.
“Sai
come sono le voci. Non
sai da chi partono, ma si diffondono come macchia d'olio. Allora
è
vero? Eravate nascosti su un camion? E li avete attirati per non
fargli usare le armi? Ed è vero che vi hanno sparato addosso
con un
cannone anticarro?” chiese il ragazzo sempre più
emozionato.
Si vedeva che era felice di
poter avere conferma di quelle voci di prima mano, da chi c'era e
aveva combattuto di persona lo scontro tanto chiacchierato.
Annuì, suo malgrado. Non c'era
nulla di male a confermare. Per lo meno quello che si diceva in giro
era tutto vero. Per una volta. In passato erano circolate notizie ben
peggiori.
Steve
sgranò gli occhioni
azzurri con meraviglia e una punta di rispetto, come se si trovasse
al cospetto di un supereroe. Beh, dire che si è
sopravvissuti ad un
colpo di cannone di certo era un buon incentivo per far aumentar la
stima.
“Ed
è vero che c'era una
persona con voi che ha scagliato un fulmine? La chiamano 'Atena' e
le voci che parlano di lei si abbassano sempre di un ottava, dalla
paura” terminò l'umano con emozione, come se si
fosse tenuto
quella domanda per ultima, per non rovinarsi la scoperta.
“Atena?”
replicò Leo,
sorpreso dal nome. Era evidente che stesse parlando di Isabel.
“Sì,
sono andato su internet
per cercarlo: era una dea guerriera, figlia di Zeus, e come il padre
poteva usare il fulmine. I suoi occhi erano definiti splendenti ed
era terribile e fiera, temibile da trovarsi contro in
battaglia.”
Leo sorrise appena della
descrizione. Era proprio Isabel. E benché fosse uscito dal
rifugio
con l'intenzione di non pensare a lei, inevitabilmente, senza che
potesse farci nulla, il pensiero finiva per cadere sempre lì.
Isabel. Sempre Isabel. Solo
Isabel.
“Le
calza a pennello direi”
rispose, all'amico che attendeva sulle spine.
Quello
trattenne il respiro,
desideroso di fare ancora tante domande. Se l'avesse lasciato fare
avrebbe passato la notte a parlare dell'unica persona a cui non
voleva pensare. Perché tanto ci pensava già il
suo cuore a
ricordargliela ogni secondo.
Doveva assolutamente cambiare
argomento.
“Cosa
sai dei banditi che
abbiamo battuto ieri?” domandò velocemente,
porgendo la prima
domanda che gli era saltata alla mente.
Che era poi il reale motivo per
cui era finito lì quella sera. Dopo la ronda infruttuosa in
cerca di
pace dai suoi pensieri si era recato da Steve, pensando che potesse
aver saputo qualcosa.
Il ragazzo
si sgonfiò,
rilasciando il fiato.
“Niente
di interessante. Non
sapevo nulla di traffici di armi, te lo assicuro. Ma so che uno degli
uomini che avete battuto ieri era un compare di Jack Tracey, l'uomo
che mi ha reclutato per il contrabbando di borse fatte male. Era con
noi la sera in cui c'era quel carico di Pucci ed è caduto
giù coi
pugni di tuo fratello con la benda arancio”
rivelò, facendo
spallucce.
Leo si
animò un poco alla nuova
notizia, di certo la cosa migliore che fosse capitata in quella
giornata.
“Chi
è? Come si chiama?”
domandò velocemente, con già dei piani in mente.
Steve lo scrutò per qualche
secondo, come se stesse valutando qualcosa all'interno della sua
testa.
“Abraham
'Abe' Wilson, c'era
il suo nome sul giornale: basso, corpulento, stempiato, con le
palpebre pesanti e il brutto vizio di indossare pantaloni che non gli
coprono mai del tutto il fondo schiena. Un tipo alquanto
disgustoso.”
“Sì,
ho capito. Anche ieri le
ha prese da Mikey. Non sapevo che ci fosse anche quella notte... deve
sapere un bel po' di cose. Mi piacerebbe farci due
chiacchiere”
esclamò il mutante, pensando a quante cose si fosse fatto
sfuggire
la notte prima, a causa di Isabel
Si era preoccupato solo di lei e
della sua ferita, mentre il suo dovere di leader lo avrebbe dovuto
tenere concentrato sui loro avversari e il motivo per cui erano
lì.
Isabel era una distrazione troppo pericolosa, gli toglieva il
raziocinio, gli toglieva la concentrazione e lui non poteva
permetterselo.
“Se
io... se io contattassi
Jack? Se mi infiltrassi?” sentì dire a Steve, che
lo strappò
dalle sue riflessioni.
“Cosa?”
sbottò, incredulo
da ciò che aveva appena sentito.
Steve gli
fece segno di
abbassare la voce, mentre si guardava attentamente alle spalle e
scrutava verso la porta della cucina, per capire se qualcuno potesse
aver sentito qualcosa. Era vero che ormai c'erano solo lui e il capo,
il signor Giorgio, che era occupato nel controllare le vendite, ma
non gli sembrava saggio far troppo rumore.
“Jack
è un ottimo
collegamento! E io posso ritornare dalla sua parte, per scoprire
qualcosa” propose il ragazzo, con un entusiasmo palpabile.
“Ma
sei pazzo? Non esiste! Tu
non devi avere più nulla a che fare con quella
gente!” replicò
all'istante, più minaccioso possibile.
Eppure Steve non sembrava
minimamente spaventato, piuttosto lievemente deluso. E pensare che la
volta in cui l'aveva sgridato Raph aveva tremato come una foglia.
Era davvero più intimidatorio
suo fratello di lui?
“Ma
io posso aiutare! Non
avete altre piste adesso e... mi puoi insegnare il karate,
così mi
potrei difendere” insisté il giovane, davvero
motivato e sorpreso
dalla sua stessa idea.
Leo occhieggiò solo per un
secondo la secca figura di quel suo nuovo, inusuale amico e
sbuffò
incredulo.
“Ninjitsu.
E non te lo
insegnerò. E non ti metterai in mezzo a questa cosa.
È pericoloso,
ci hanno perfino sparato contro con un cannone!”
“Ma...”
“E
poi adesso devi pensare
alla tua famiglia. Come vanno le cose?” continuò
più gentilmente,
accortosi dell'aria triste che il ragazzino aveva assunto alla
menzione dei suoi famigliari.
“Bene”
rispose l'altro
appoggiandosi al muretto, vicino al cassone dove stava lui.
“La
scuola è finita e posso
fare più turni al locale, così posso pagare
più visite. Non va
tanto male” spiegò con un'alzata di spalle, che
voleva essere
indifferente, ma che invece tradiva la tristezza nel fondo che
cercava di dissimulare.
“Lavori
tutto il giorno? E le
tue vacanze? E le uscite con gli amici?” incalzò
Leo, preoccupato
per lui e quell'aria bianchiccia e stanca che c'era sul suo viso.
“Mi
piacerebbe uscire e
divertirmi, incontrare gli amici al parco, organizzare una gita al
mare... non lo nego. Ma sono il primogenito, ho doveri e obblighi
verso i miei fratelli. Non posso pensare a me, adesso”
rispose
sottilmente Steve, con voce seria e matura, che sorprese Leo.
Erano
così uguali. E non lo
aveva sospettato.
Steve era un ragazzetto senza
particolari qualità e quindi gli era sfuggito che fossero
così
uguali in qualcosa: nelle responsabilità. Che nessuno dei
due aveva
chiesto, ma che erano state poggiate sulle loro spalle e che dovevano
portare, volenti o nolenti.
Doversi costantemente
preoccupare del benessere e della felicità degli altri,
rinunciando
alla propria. Fare sempre la cosa giusta, immolarsi, anche quando
andava contro il proprio beneficio, perché gli altri
stessero
tranquilli e al sicuro.
“Quanti
fratelli hai?”
domandò, curioso.
Non gli aveva mai chiesto nulla
sulla sua famiglia nello specifico. Chissà
perché, poi.
“Due.
Patrick ha tredici anni
e mi dà un sacco di problemi, non ascolta mai quello che gli
dico. E
Olivia ha sette anni, la principessina di casa che vorrebbe tutto
quello che ha la faccia di Barbie sopra, se potesse permetterselo.
Sono dei bravi fratelli, ma è difficile stargli dietro.
Soprattutto
perché non ho molto tempo da passare a casa e
papà non può
seguirli come vorrebbe, a causa della malattia.”
Rimase un
silenzio pesante alla
fine. Benché Steve avesse parlato con tono noncurante, come
se non
fosse niente di importante o troppo grave, c'era stato un tono
lievemente amareggiato nel fondo, che Leo aveva percepito benissimo.
Perché poteva capirlo appieno.
Capiva benissimo la frustrazione
di un fratello maggiore, lo sforzo continuo e disinteressato per
tenere uniti e in salvo i propri fratelli. Anche se poi, nessuno di
loro ricambiava la premura, nessuno di loro era mai andato a
chiedergli come stesse, cosa volesse, cosa sentisse.
“Mi
dispiace per ciò che stai
passando” sussurrò sentito. “ Sei in
gamba.”
Steve spalancò gli occhi in
imbarazzo, poi sorrise, grato del suo scrupolo.
“Grazie...
allora mi insegni
il ninjitsu?”
Leo scosse la testa, incredulo,
davanti alla sua faccia furbetta.
“Ehy,
ragazzo! Steve! Dove
sei?” arrivò una voce dall'interno, con l'accento
simile a quello
di Isabel.
Il giovane saltò su come se si
fosse scottato il sedere, sul chi vive.
“Arrivo,
signor Giorgio!”
urlò precipitosamente, facendo già dei passetti
frettolosi verso la
porta sul retro.
Poi si voltò verso Leo.
“Ci
vediamo. E non metterti
troppo nei guai, ok?” si raccomandò, entrando in
cucina.
“Questo
dovrei dirlo io,
moccioso. Stai attento” sussurrò Leo, prima di
tornare nelle ombre
della notte.
Per quanto
fosse disabitato, il
sottosuolo era tutt'altro che silenzioso.
Nel suo tragitto verso il
rifugio era attorniato da ogni genere di rumore: lo scroscio
dell'acqua nelle tubature, il gocciolio di liquidi non meglio
identificati nel fiume di liquami, il sibilo di qualche perdita, da
qualche parte, il cigolio delle giunture sotto la pressione. Senza
contare il rimbombo della metropolitana in lontananza.
In effetti non c'era mai
silenzio, lì sotto, pensò Leo.
Non che gli dispiacesse. Per lo
meno aveva un po' di sottofondo per i suoi pensieri.
Pensieri che cercava di tenere
lontani da lei, perché non poteva. Doveva scordarsela, aveva
ben
altro a cui pensare.
La sua lontananza gli faceva
male, lo faceva sentire triste e allo stesso furioso, ma avrebbe di
certo mitigato quello che sentiva. Averla lontana l'avrebbe aiutato a
dimenticarla in fretta, l'avrebbe liberato da quelle sensazioni
così
sbagliate.
O almeno lo sperava.
Isabel era qualcosa che non
poteva permettersi, che non doveva permettersi. Non senza sfasciare e
distruggere la serenità della famiglia.
Arrivò
al rifugio e non era
certo di che ora fosse esattamente.
Le luci al pianterreno erano
spente, l'unico riverbero luminoso veniva dal computer nell'angolo,
al quale un Don molto stanco stava lavorando.
“Ehy,
come va?” gli domandò
una volta avvicinatosi, controllando lo schermo.
Don continuò a digitare, senza
nemmeno voltarsi.
“Come
prima. Per adesso niente
da segnalare” rispose continuando a fissare i puntini rossi
che
lampeggiavano sul monitor, su quella che sembrava la cartina della
città. Ogni puntino si trovava sempre ad almeno un centinaio
di
metri dagli altri, con un meticolosità e precisione che dava
quasi
da pensare.
“Sono
già usciti di prigione,
vero? Sei certo che non se ne siano accorti?”
replicò Leo
prendendo la sedia vicino alla sua e lasciandosi andare sopra,
stanco.
“Sì.
I microchip che gli ho
iniettato sotto pelle sono così minuscoli da essere
pressoché
irrintracciabili. Possiamo seguire ogni più piccolo
spostamento,
persino di qualche metro... dobbiamo solo aspettare che si
riuniscano, anche solo un gruppetto. E poi agire” lo
rassicurò il fratello, prendendo la tazza di tè
ancora caldo
poggiata sulla scrivania, sorbendone un grosso sorso.
“Ti
ricordi se l'hai messo
anche al tipo che Mikey ha preso in faccia con lo sportello del
camion?”
Don ci
pensò un attimo su,
assorto. Aveva portato dietro solo dieci microchip, la sera prima,
perciò aveva dovuto scegliere a chi iniettarli: cinque erano
finiti
dentro agli altrettanti uomini che avevano sparato loro contro col
cannone. Perciò gli altri cinque erano stati messi a caso.
“No,
non mi sembra. Perché,
era importante?”
“Steve
dice che c'era anche la
volta in cui li abbiamo trovati a contrabbandare le finte Gucci. E se
era in entrambe le bande, c'è un collegamento. E io voglio
saperlo”
lo informo Leo.
Don sorrise un secondo alla
menzione del ragazzino. Leo aveva proprio preso a cuore quel piccolo
combinaguai.
“Scommetto
che si è proposto
di infiltrarsi, quel teppista” indovinò, senza
nemmeno molta
fatica.
Tutti loro conoscevano ormai
Steve, anche se era solo Leo a interagire con lui; loro si limitavano
a osservarlo di tanto in tanto nell'ombra, per essere sicuri che non
gli succedesse niente.
Leo annuì alle sue parole,
dandogli la conferma dei suoi sospetti.
Poi due dei puntini rossi sul
monitor si mossero, quasi sfiorandosi, riallontanandosi velocemente,
senza un effettivo contatto; ma oramai la loro attenzione era stata
attratta dallo schermo, col sospetto che potesse succedere ancora
qualcosa.
“Come
possiamo sapere che non
comunicano tra loro?” domandò attento Leo,
valutando il quadro
generale dei dieci uomini.
“Non
lo sappiamo. Ma sappiamo
che c'è qualcosa di grosso dietro e che presto si
riuniranno. Forse
non tutti, forse la metà o perfino solo due. E noi agiremo
in quel
momento.”
Donnie si
alzò e si stiracchiò,
sciogliendo la schiena indolenzita dalle ore passate davanti al
computer.
“Ma
prima sarebbe meglio che
tu parlassi con Raph. Non possiamo stare senza di lui, lo
sai”
mormorò, voltandosi per affrontarlo.
Leo rimase seduto e sollevò la
testa verso il fratello, che lo guardava terribilmente serio.
“Ma
lui ha...” iniziò a
dire, senza sapere nemmeno lui cosa volesse dire. O meglio come
esprimerlo senza tradire i suoi pensieri.
L'ultima cosa che voleva era che
Don capisse cosa si agitava dentro di lui. Ne sarebbe seguito un
discorso lungo e tedioso che lui non voleva proprio affrontare.
“Quello
che è successo tra
lui e Isabel non è affare nostro. Anche io sono amareggiato
e triste
per ciò che è successo, soprattutto
perché non riesco a capire
come possa buttare via qualcosa di così meraviglioso in un
secondo;
ma è la sua vita. Nessuno di noi ha mai passato nulla di
simile,
nessuno di noi sa cosa voglia dire, magari c'è un
perché, c'è
molto di più dietro. Non gli abbiamo nemmeno chiesto
perché l'abbia
lasciata, né cosa provi davvero. Parlaci, Leo.”
Il discorso di Donnie era così
sensato. Dannatamente sensato. Cosa altro poteva aspettarsi dal
razionale e pratico genio di famiglia?
Ma lui non voleva essere
sensato. Anche se era assurdo e così poco... Leonardesco,
lui
non voleva essere sensato, per una volta. Voleva spaccare la faccia a
Raph, per una volta.
E trarre gioia nel farlo.
Ma era il leader, perciò
avrebbe soffocato ancora una volta tutto ciò che provava e
avrebbe
fatto la cosa giusta.
“Va
bene, ci parlerò”
esalò, sconfitto, strappando un sorriso rincuorato a Donnie.
E sperò che le cose non gli
sfuggissero di mano, ancora una volta.
Note:
Ciao!
Benritrovati!
Scusate il ritardo, avrei dovuto aggiornare ieri, ma il
mio pc non ha collaborato. Ma eccomi qua!
Continuiamo con la storia vista dal punto di vista di
Leo. E' quasi tutta dal punto di vista di Leo, in effetti. Quasi.
C'è molta rabbia in lui, notato?
Ho scatenato il putiferio con la mia frase nelle note
finali nel capitolo prima! Non lo farò mai più,
ma mi ha divertito,
lo ammetto, vedere quante teorie ne sono scaturite fuori!
Per il soprannome di Isabel: Atena
è davvero
pretenzioso, lo so. Ma mi serviva qualcosa che si ricollegasse con il
suo potere del fulmine e Atena di tanto in tanto ha il permesso di
usarli, da suo padre Zeus.
Pensate che dopo che era uscito Dragon Trainer 1, volevo
cambiare il soprannome in Furia Buia, ma poi lasciai perdere. Insomma
prendetelo solo come un soprannome, niente di più.
Non vedo l'ora di arrivare ai capitoli grossi! Siete con
me?
Grazie ancora e di cuore a tutti voi!
A presto!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Can I hope? ***
Nonostante
la promessa fatta a Don, non parlò con Raph. Non subito,
perlomeno.
Per
i giorni seguenti ci girò intorno come un avvoltoio, ma
rimandava
sempre all'ultimo secondo. Voleva parlargli, ma c'era quell'altro
Leo, dentro di sé, che lottava per non farlo ed era
incredibilmente
forte, forse più di lui. E quell'altro Leo voleva continuare
a non
parlare con Raph, perché gli dava fastidio.
Perché era geloso di
lui, anche se non avrebbe voluto.
Isabel
non si era più fatta viva in quei due giorni seguenti al
trasferimento e immaginava che fosse perché era stata molto
impegnata nel prendere possesso del nuovo appartamento e magari
procurarsi le cose che le servivano... perciò non era
preoccupato.
Ma
era ancora troppo preso da lei. Aveva creduto che non avendola
attorno l'avrebbe scordata all'istante. Che non l'avrebbe nemmeno
pensata, addirittura. E invece era stato l'unico pensiero, dominante,
in ogni secondo. Il suo sorriso. I suoi occhi. Quel modo in cui
arricciava il naso quando era infastidita. Ogni dettaglio era sempre
nella sua mente, gli aveva tolto ore di sonno, gli aveva annebbiato
il raziocinio, lo aveva reso incostante e poco focalizzato.
Ed
era così arrabbiato con sé stesso per quello. Non
era nemmeno più
lui.
Non
gli era mai successo, prima. Quando si era invaghito di Karai, non
era stato così. C'era stata l'ammirazione per lei e la sua
intelligenza, la sua algida bellezza orientale, -perfino per il suo
modo di combattere,- e mischiata c'era stata la rabbia per come si
comportava, per non prendere mai una posizione, per continuare a
seguire quel farabutto di Shredder.
Ma
anche se era stato confuso, combattuto, insicuro, quello che aveva
provato allora non poteva essere paragonato a ciò che
sentiva in
quel momento. Quell'ansia, quell'agitazione... e poi quella
leggerezza e voglia di trasgredire. Quella rabbia e quell'aspettare.
Gli
sembrava di vedere le cose con gli occhi di qualcun altro.
Così come
le avrebbe viste se non si fosse allenato da sempre per essere un
buon e affidabile leader, soffocando ogni scintilla di disobbedienza,
probabilmente.
Alle
prime ore dell'alba, Leo varcò la soglia del rifugio,
stanco. Aveva
pattugliato per tutta la notte, in un malanimo torpore, che non
riusciva proprio a scacciare; era come se qualcosa al suo interno si
fosse assopito, fosse caduto in stato catatonico, trascinando
giù
anche la sua concentrazione.
E
non gli era di nessun aiuto l'improvvisa sparizione di ogni banda,
come se New York fosse stata dichiarata di colpo città con i
massimi
sistemi di sicurezza al mondo e perciò i banditi l'avessero
abbandonata.
Perché
a lui servivano risposte alle strane cose che erano successe nelle
settimane precedenti e sarebbero state un ottimo modo per tenere
occupata la mente, tra l'altro. Avrebbe chiesto a Don se i suoi studi
sugli spostamenti dei microchip avessero dato qualche risultato. E lo
sperò con tutte le sue forze. Prendere solo borseggiatori
non era
decisamente divertente.
Si
stiracchiò, soffocando uno sbadiglio; il collo
scricchiolò con un
rumore cupo che risuonò nel silenzio.
“Sei
certo di non averlo spezzato? Dal suono parrebbe proprio”
disse
d'improvviso quella voce, bloccando ogni suo movimento.
Un
breve tremolio lo scosse.
Isabel
era sulla soglia della cucina, con una tazza di latte freddo in mano
e un grosso sorriso in volto e lo osservava. Arrossire e venire
assalito dal batticuore fu un tutt'uno; abbassò le braccia
velocemente, in imbarazzo.
“Tu...
non ti avevo percepita” mormorò, avvicinandosi a
grandi passi.
Come aveva fatto a non sentire quel meraviglioso profumo di lavanda
che emanava la sua persona ad ogni movimento?
Doveva
abbracciarla? Poteva abbracciarla? Santo cielo come
gli era
mancata. Altro che dimenticarla. Stava facendo violenza fisica su
sé
stesso per non allungare le braccia e afferrarla, come aveva fatto
quella notte per consolarla. Ricordava con precisione tutte le
sensazioni che aveva provato allora e moriva dalla voglia di
risentirle.
Ma
lui non doveva affatto provarle. Non stava combattendo per
scordarsela? Non stava cercando di allontanare da sé quel
sentimento
che era sbagliato e non doveva provare?
Certo
che sì. Certo che lo avrebbe fatto.
Isabel
piegò la testa di lato, con un'espressione furba.
“Scusa.
Vecchio difetto da Kunoichi” gli disse, canzonando una sua
vecchia
frase.
Leo
ridacchiò, sollevato. Dov'erano finite quell'apatia e quella
rabbia
che lo avevano assalito nei giorni prima? Com'era possibile che
fossero scomparse così, per magia, non appena lei era
tornata?
“Sei
tornata” constatò stupidamente, completamente
annebbiato da
tutt'altri pensieri.
“Non
sono andata veramente via. Vivo solo in un'altra casa, tutto
qui”
replicò lei avviandosi verso il dojo.
Leo
le mandò un'occhiata di sbieco, studiando il suo viso mentre
parlava. Sembrava la solita Isabel, con quel sorriso tenue e gli
occhi profondi, ma lui sapeva, poteva percepire che era turbata. Che
c'era troppa tristezza che cercava di nascondere nel fondo
dell'anima.
Aveva
di certo pianto ancora, da sola, mentre sistemava la nuova casa.
“Sei
venuta per la lezione?”
“Certo,
pensi forse che avessi intenzione di interrompere i miei allenamenti?
O forse lo speravi? Ammetti che hai pregato per non dovermi
più
vedere allenarmi coi Tessen! Ti ho visto ridacchiare la volta
scorsa!”
“Oh
sì, è stato terribile! Ma sono preparato al tuo
peggio!”
Lo
disse con una smorfia canzonatoria, mentre schivava il pugno che lei
gli tirò, di disapprovevole affetto.
Gli
piaceva comportarsi ancora in quella maniera punzecchiante, con lei;
Isabel sembrava trovarla divertente e lui era meno teso se non doveva
stare a pensare a come agire ogni secondo, per paura di tradire quel
batticuore.
“Come
stai?” le chiese con un velo di preoccupazione, tenendo la
porta del dojo aperta per lei.
Isabel
fece spallucce.
“Bene!
Ho trovato un piccolo appartamento nel Village, molto carino,
perfetto per me e mi sono divertita a girare con April ed Angel per
cercare mobili 'assolutamente adatti' per arredare”
raccontò
sfilando le scarpe all'ingresso e continuando a camminare a piedi
scalzi sul pavimento in legno.
Leo
aggrottò le sopracciglia alle virgolette che lei aveva
mimato all'
“assolutamente adatti” che di certo voleva dire
qualcosa.
“Ti
hanno trascinato per tutta la città, in qualsiasi negozio di
mobili,
senza darti tregua, vero?” indovinò facilmente,
conoscendo alla
perfezione le due donne di cui si parlava.
“E
dai rigattieri, nei negozi di seconda mano e anche alle aste!
È
stata un'epopea senza fine e adesso non ho un mobile uguale ad un
altro in casa!” sbottò lei, mulinando le mani per
enfatizzare.
“Ma
è stato divertente, lo ammetto. E un'ottima distrazione.
Sono
proprio matte” finì con un grosso sorriso
affettuoso.
Intuì
all'istante che non aveva detto nulla ad April. Ne era assolutamente
certo. Perché era certo che non volesse nessuna occhiata di
compatimento o parole di conforto e pena.
Era
fatta così, stoica fino a morirne, e non poteva di certo
negare che
gli piacesse anche quel lato di lei, anche se credeva che l'avrebbe
consumata prima o poi.
“Non
vedo l'ora che il sensei mi insegni a lanciare i Tessen come se
fossero Shuriken” disse la ragazza estraendo i ventagli dalla
borsa, prima di poggiarla in un angolo del dojo.
“Ma
se non sai lanciare nemmeno quelli” la punzecchiò
lui, tenendosi
per precauzione a debita distanza.
“Appunto!
Voglio imparare a lanciarli entrambi! Sono stupendi ambedue... ma con
un Tessen posso staccare una testa dal resto del corpo”
ribatté
lei aprendo il ventaglio di scatto, con le stecche acuminate ben
puntate contro di lui.
“Se
stai cercando di spaventarmi, non funziona. Non riusciresti a
prendermi nemmeno se avessi un bersaglio disegnato addosso”
rispose
altezzosamente, sapendo di farla arrabbiare.
Eccola
lì, l'arricciatura che tanto adorava, quelle pieghette alla
radice
del naso che spuntavano quando lui la infastidiva, rendendolo perfino
più piccolo.
Sorrise,
senza volerlo.
“Ma
se fai da brava ti insegno come lanciarlo. Ma non devi mai, mai, mai,
davvero mai tirarmelo contro. Prometti!” continuò,
avvicinandosi a
lei e prendendo uno dei suoi Tessen per poi lanciarlo dall'altra
parte del dojo con un gesto fluido.
Il
ventaglio girò ripetutamente su sé stesso con un
sibilo letale che
fendeva l'aria, poi si conficcò nell'asse centrale
dell'espositore
di armi con uno schiocco secco, nel vuoto che proprio i Tessen
avevano lasciato quando il sensei li aveva tolti.
Si
voltò verso Isabel, che continuava a guardare verso il fondo
della
stanza con gli occhioni spalancati e luminosi di eccitazione.
“Insegnami!
Per favore! Insegnami! Farò la brava! Non ti
lancerò mai, mai, mai,
davvero mai uno dei miei Tessen contro, lo giuro!”
strillò
emozionata, aggrappandosi al suo braccio e strattonandolo.
Lui
resistette un secondo all'impulso di sorridere, per tenerla sulle
spine, e lei continuò a sballottarlo di qua e di
là.
“Va
bene. Ma non userai la tecnica al di fuori del dojo, per ora”
acconsentì alla fine, facendo un finto sbuffo minaccioso.
“Allora,
prima di tutto devi capire come fermare il ventaglio”
iniziò a
spiegare, portandosi alle sue spalle.
“Chiudi
gli occhi e fai scorrere le dita nelle stecche di Guardia1...
senti una sporgenza, nella base, vicino al perno?”
domandò con
voce leggera, osservando le delicate dita di lei accarezzare il ferro
dell'arma per poi fermarsi.
La
vide annuire.
“Quello
è un fermo. Il ventaglio è mobile, è
uno dei suoi punti di forza:
deve passare da aperto a chiuso e viceversa, a seconda del tipo di
attacco o di difesa previsto, ma non può essere lanciato in
quel
caso, perché finirebbe per chiudersi. Quando vuoi farlo,
devi
premere quel fermo. Solo quando vuoi lanciarlo. Non bloccare il
Tessen se non sei sicura, perché potrebbe essere una scelta
fatale”
spiegò il leader, allungando una mano fino ad arrivare alla
sua.
Premette
delicatamente sul suo dito per spingere il fermo, che non fece
nemmeno un rumore.
“Bene,
adesso devi afferrare la base con forza, accogliendola nel palmo. Il
resto è solo un gioco di polso” finì con
la voce lievemente roca,
prepotentemente conscio della vicinanza dei loro corpi.
Isabel
era in silenzio, attenta alle sue spiegazioni, docile tra le sue
mani... come sarebbe stato semplice approfittare di una situazione
simile.
Stupidi
pensieri. Stupidi sbagliati pensieri. Non
avrebbe ceduto. Quel batticuore non esisteva. Quelle sensazioni non
esistevano.
Si
schiarì la gola.
“Fletti
il braccio e piega bene il polso... poi lancia con un colpo secco.
Così.”
Lanciarono il Tessen assieme, con uno schiocco deciso, e
lo osservarono vorticare nell'aria come un elegante uccello
d'acciaio, finché non si piantò nel bordo
dell'espositore, poco più
a destra dell'altro.
“Sì!
È stato magnifico! Non è stato
magnifico?” esultò Isabel con un
piccolo saltello entusiasta.
Si
voltò verso di Leo e lo afferrò per le braccia.
“Grazie,
grazie, grazie! È stato magnifico! Voglio lanciare i Tessen
per
tutto il giorno!” esclamò fuori di sé,
con un sorriso enorme e
gli occhi scintillanti.
Com'era
bella quando sorrideva, felice ed emozionata.
Come
sarebbe stato facile afferrarla, sporgersi e baciarla. Troppo facile.
Troppo egoista. Troppo sbagliato. Anche se era quello che desiderava.
No,
non lo desiderava. Desiderare una cosa del genere era sbagliato.
Sbagliato. Perché continuava a oscillare in un'altalena di
gioia e
colpa, continuamente, senza pace? Perché doveva provare un
sentimento così dolce e poi sentirsi sporco per quello?
“È
stato un lancio perfetto. Ma è un po' presto per questo,
figliola”
dichiarò l'autoritaria voce di Splinter, d'improvviso.
Si
voltarono entrambi verso l'ingresso, dove il ratto li osservava con
sguardo indecifrabile.
Colti
sul fatto.
“Mi
spiace, sensei, so che non avrei dov...” iniziò
contrito Leo,
prima che lei lo bloccasse.
“Sono
stata io a chiederglielo, maestro. Ma ovviamente Leo mi ha fatto
spergiurare che non avrei mai usato questa tecnica fuori dal dojo
prima che tu me la insegnassi perfettamente” si
scusò Isabel, con
una smorfia lievemente, solo lievemente colpevole.
Vide
il sensei mantenere lo sguardo serio solo per un secondo, per poi
sciogliersi in un tenue sorriso. Com'era debole contro Isabel. Forse
perché la vedeva davvero come una figlia e magari aveva
sempre
desiderato avere una femmina e mostrava un'indulgenza esagerata.
Oh,
beh, lui era il primo a non poter sindacare su una cosa del genere:
era il più debole contro Isabel, non c'era una cosa che non
avrebbe
fatto per lei. Anche parlare con Raph per provare a sistemare le cose
tra loro. Lo avrebbe fatto se lei gliel'avesse chiesto.
Osservò
con affetto il maestro salutare la ragazza e informarsi sulla sua
nuova sistemazione, con un luccichio solo appena triste nel saggio
sguardo, forse perché lei non era più con loro.
Perfino il maestro
soffriva per quella situazione.
Stupido,
idiota Raph.
Dopo
la consueta meditazione di gruppo, Isabel si impegnò
nell'esercitazione degli affondi con i Tessen, sotto lo sguardo
vigile del maestro, e lui dovette ripetere gli stessi movimenti con
un paio di Tessen di legno da esercitazione, come monito, gli aveva
detto il sensei.
Isabel
di tanto in tanto gli lanciava un'occhiatina, poi sorrideva tra
sé e
sé, davvero divertita.
Gli
si avvicinò alla fine delle due ore di lezione, scrollando
le mani
per sciogliere i muscoli indolenziti.
“Sei
stato molto...” iniziò a dire, sorridendo della
sua espressione
scocciata, come se presagisse che lei volesse prenderlo in giro,
“elegante” finì, sinceramente,
sorprendendolo.
“Vorrei
riuscire a muovermi come fai tu, ma le braccia si stancano piuttosto
velocemente. E i polsi iniziano a dolermi e scricchiolare,
senti?”
continuò con sussiego, ruotando i polsi perché
lui sentisse il
cigolio cupo delle ossa stanche.
“Con
l'allenamento costante non ci vorrà molto prim...”
cercò di
consolarla, prima che la porta del dojo si spalancasse di colpo, su
un Mikey emozionato.
“Sorellina!”
strillò con le braccia al cielo, per poi correre verso
Isabel e
sollevarla in un abbraccio sentito, mentre lei rideva.
“Mi
sei mancata” disse una volta che l'ebbe rimessa a terra.
Isabel lo
strinse a sua volta, poggiando la testa sul suo petto.
“Mi
sei mancato anche tu, Mikey.”
“Come
facevi a sapere che era qui?” domandò Leo al
fratello, con solo
una lieve punta di invidia per come riuscisse a relazionarsi
facilmente con Isabel.
Il
suo fratellino era davvero un mago nel relazionarsi con la gente. Era
espansivo, allegro, ottimista e divertente... un carattere davvero
amabile e invidiabile.
“Ho
visto le buste della spesa poggiate in cucina... e solo la mia
sorellina compra le patatine al formaggio piccante per me,
perché sa
che le adoro” rispose quello con un grosso sorriso.
Poi
iniziò a farle milioni di domande, sommergendola
completamente,
sulla casa, su come stesse, su altri mille dettagli, con una valanga
di parole.
Isabel
rideva delle facce buffe del fratello, completamente a suo agio. Cosa
non avrebbe dato per riuscire a farla ridere in quel modo. Solo se
fosse ritornata serena probabilmente avrebbe ricominciato a ridere
davvero.
“L'appartamento
è bellissimo, Mikey! Cosa ne dici se stasera facciamo la
serata in
famiglia che avevo promesso?” la sentì dire,
mentre gli occhi del
fratellino si spalancavano di eccitazione.
“Sì!”
lo sentì strillare.
“Porterò
il mio pigiama estivo con le stelle marine! E mangeremo pizza! E
prima guardiamo un film e poi giochiamo! Io, tu, il sensei
e… ehy,
Leo! Tu sei dei nostri, vero?” incalzò, iniziando
a pianificare
una nottata eccessivamente lunga.
Leo
scosse la testa, lentamente.
“No,
scusate. Ho altri programmi per stasera.”
Camminava
ormai da mezz'ora sui tetti, nell'oscurità della notte.
Era
pronto. Ci aveva pensato tutto il giorno, aveva meditato per calmarsi
e rafforzare la sua convinzione. Poteva farlo. Doveva farlo.
Scrutò
in lontananza, socchiudendo le palpebre per mettere a fuoco, poi si
lanciò in una corsa decisa, saltando da tetto in tetto.
Raph
lo stava aspettando, lì dove avevano appuntamento. Con le
braccia
conserte e le spalle tese, la mascella contratta.
Era
ovvio che si aspettasse un altro litigio, di essere ripreso, di essere
incriminato, ancora.
“Ehy!”
lo salutò, atterrando sul terrazzo in disuso che aveva
scelto per
l'incontro.
Isolato
e vuoto abbastanza per contenere possibili scatti d'ira del fratello,
anche se sperava vivamente che non ce ne fossero.
“Allora?”
esclamò d'un tratto Raph, stufo e guardingo, senza guardarlo
in
viso.
“Voglio
parlare.”
“Ma
davvero? Pensavo mi avessi chiamato per offrirmi una cena.”
Solito
sarcasmo per difendersi. Bene. Almeno era il solito Raph.
“Mi
dispiace di averti aggredito. Qualcuno mi ha fatto notare che non mi
devo immischiare nella tua vita” esalò un po'
forzatamente.
Era
vero che non dovevano essere fatti suoi, ma in un certo senso lo
erano, volente o no.
Raph
sollevò le spalle e sbuffò col naso, come se
fosse una cosa logica
e ovvia e quindi nemmeno degna di risposta.
“Perché
hai lasciato Isabel?” domandò Leo d'improvviso,
forse con troppa
urgenza.
Lo
voleva sapere. Solo il cielo sapeva quanto. E allo stesso tempo non
lo voleva. Perché forse avrebbe complicato ancora di
più le cose.
Raphael
si era voltato e lo stava osservando, sorpreso dalla sua domanda.
“Perché
ti interessa?” fu la replica cauta.
“Voglio
cercare di capire” rispose con genuinità.
Il
fratello prese un grosso respiro e lasciò andare appena le
spalle,
rilassando un po' i muscoli.
“È
semplice: non mi interessa più. È andata via e io
l'ho dimenticata.
Punto. Finito. Nient'altro da aggiungere” spiegò
con tono neutro,
un po' infastidito.
“Ma...
com'è possibile? Dopo tutto quello che c'è stato?
Dopo tutto quello
che avete passato, che lei ha passato per te. Io c'ero! E mi ricordo
sin troppo bene quello che c'era tra voi!” urlò
Leo, alterato,
perdendo parte della sua compostezza.
Sì,
quella rabbia ruggente stava premendo nelle sue vene per uscire. E
contenerla era davvero difficile.
“Che
c'è, Leo? Non eri tu a dire che umani e mutanti non devono
stare
assieme? Non sei stato tu ad urlare che era sbagliato, che ero uno
sconsiderato?” gli rinfacciò Raphael, paonazzo in
volto per la
rabbia tanto quanto il fratello.
Si
studiavano a pochi metri di distanza, con le mani strette a pugno e
le vene che pulsavano sulle tempie e il collo per lo sforzo di
urlarsi contro, ma entrambi mantenevano ancora un briciolo di
autocontrollo per non saltarsi addosso.
“Ho
cambiato idea! Posso cambiare idea?” strillò in
risposta Leonardo,
sollevando le braccia al cielo nella foga di difendersi.
“Beh,
anche io! Pensa un po' che caso! Uno scambio di
personalità!”
“Ma...
perché? Non riesco a capirti! Non... perché
rinunciare a qualcosa
di così... perché? Lei ti ama e sta
soffrendo” domandò davvero
disorientato, confuso e deluso.
“E
allora? Non posso smettere di amare una persona? È un reato?
Succede, Leo! Io non volevo ferire Isabel, te lo posso giurare.
Ferirla era l'ultima cosa che volevo, ma non posso fare
altrimenti”
confessò Raph, sentitamente.
Leo
smise all'istante di urlare, colpito dal tono provato e tormentato
del fratello. Gli credette, assolutamente, perché conosceva
sin
troppo bene Raph.
Si
calmò e aprì le mani, rilassando i muscoli e
allontanandosi di
qualche passo indietro, manifestando il suo intento di non
belligeranza; vide l'altro fare lo stesso, lentamente.
“Sai
che non ti capiterà mai più niente del
genere?” mormorò d'un
tratto, quasi sottovoce, come se quello fosse un segreto
inconfessabile, una verità scomoda e dura.
“Se
so che un mostro come me non troverà mai più una
donna che lo ami
come mi ama Isabel? Certo che lo so. Ma non è comunque un
motivo
valido per rimanere con lei, non sarebbe giusto.”
Provò
rispetto per lui, per quella presa di posizione che era in effetti
giusta, anche se dolorosa per qualcuno.
“Quindi
è finita? Se lei si rifacesse una vita con un'altra persona,
tu non
proveresti niente?” provò a chiedere, per valutare
le sue
reazioni.
Raph
non mosse un muscolo, non scattò come si era aspettato, non
tentennò
un secondo.
“Solo
sollievo. Anche io voglio che sia felice” lo sentì
replicare, in
un sussurro sincero.
Rimasero
in silenzio, presi in pensieri così diversi. Forse.
Si
sentì bene per aver parlato con Raph. Ma anche ansioso.
Perché
adesso non aveva più freni per i suoi pensieri. Se non c'era
più
l'ostacolo di suo fratello, poteva alla fine accettare i sentimenti
che provava senza farsi troppi problemi? Poteva davvero sentirsi
libero di provare qualcosa per Isabel?
“Abbiamo
delle nuove piste per quel traffico di armi. Sei dei nostri,
vero?”
esclamò tendendogli la mano, in segno di pace.
Avrebbe
pensato con calma ai suoi problemi personali, per ore, anche per
giorni. In quel momento era più importante riavere indietro
suo
fratello.
Raph
tese la mano e strinse la sua, dopo qualche attimo di esitazione.
“C'è
anche da chiederlo? Spero che ce ne siano parecchi da picchiare... ho
un po' di rabbia in arretrato da sfogare.”
Un
minimo di rapporto era stato recuperato, ma avrebbero dovuto
lavorarci ancora un po', per ritornare una squadra affiatata come un
tempo.
Se
fosse venuto fuori quello che sentiva... avrebbe affossato quel
rapporto appena ritrovato o no?
Ritornò
nel rifugio insolitamente vuoto. Ci mise solo un minuto a ricordarsi
che erano andati tutti da Isabel. Tutti tranne lui e Raph.
Non
accese nemmeno le luci. Si mosse nell'oscurità, schivando
gli
ostacoli a memoria, fin ad arrivare alla scaletta che portava al
primo piano, scalandola con stanchezza.
Arrivò
alla porta della sua camera e la aprì, con la mente
piuttosto
frastornata, prestando solo attenzione a metà a
ciò che faceva. Si
stava muovendo per abitudine, gesti ripetuti milioni di volte,
sovrappensiero. Aprire la porta, chiudere, abbassare la zip della
tuta e sfilare l'indumento e ripiegarlo in un angolo.
“Bentornato”
lo sorprese una voce nell'oscurità, allarmandolo.
La
mano corse velocemente verso l'interruttore, inondando la stanza di
luce fredda e accecante. Dopo aver sbattuto le palpebre un paio di
volte riuscì a mettere a fuoco la ragazza seduta sul suo
letto, che
gli sorrideva con la testa piegata di lato.
“Isabel?”
esclamò sorpreso e imbarazzato, con la tuta sfilata a
metà e troppo
poco spazio in quel posto per entrambi.
“Cosa...
cosa fai qua?” balbettò, mentre lei si alzava dal
letto e gli si
faceva vicino, lentamente, senza staccare lo sguardo dal suo.
“C'era
qualcosa che mancava, stasera, alla festa... non me ne sono accorta
subito. Ma c'era un vuoto. Mancava qualcosa d'importante”
disse
Isabel, sempre più vicina, tanto che lui arretrò
inconsciamente e
finì per sbattere contro il legno della porta, in trappola.
“Co...
cosa?”
Deglutì
a vuoto, col batticuore che ballava sul pomo d'Adamo.
“Tu”
soffiò Isabel, allungando una mano verso di lui e
sfiorandogli una
guancia.
Era
calda. Era morbida. Socchiuse appena gli occhi al contatto.
“Mi
sei mancato, Leo. Mi è mancato il tuo sorriso. Mi
è mancato il tuo
modo pungente di tenermi su, la dolcezza che riesci a tirare fuori
all'improvviso, quando ne ho bisogno. In questi due giorni mi sono
ritrovata a pensarti fin troppo spesso, anche se non volevo”
confessò lei, ormai premuta contro di lui.
Poteva
sentire il suo calore, il tremito lieve, il fiato caldo contro la
pelle. Aveva una morsa di desiderio ed emozione al centro del petto
che lo dilaniava, ma il suo cervello era completamente assorbito da
lei, dai suoi occhi scuri che scintillavano nel guardarlo, dalle sue
labbra sempre più vicine. Da ciò che gli aveva
appena detto.
“Mi
piaci, Leo” sussurrò, con la bocca praticamente
sulla sua.
Rispose
al bacio con tutta la sua anima, con tutto l'ardore.
Si
svegliò di colpo, sbattendo dolorosamente sul pavimento.
Aveva il
fiatone e il corpo era scosso da tremiti d'eccitazione, il cuore
pulsava dolorosamente, ad un ritmo infernale.
Un
sogno erotico. O un sogno d'amore? Che importava? Era stato solo un
sogno. Non riusciva a capire se era più arrabbiato per il
senso di
colpa che provava o per la delusione per essersi svegliato troppo
presto.
La
situazione gli stava decisamente sfuggendo di mano.
Si
alzò dal pavimento e corse verso il bagno, colpevole,
deluso,
innamorato, confuso.
Di
certo sarebbe stato difficile guardare ancora Isabel negli occhi, col
ricordo di quel sogno peccaminoso nella mente.
1:
le stecche di Guardia sono le stecche esterne del ventaglio,
più
spesse ed elaborate.
Note:
Salve
a tutti! Faccio le ore piccolissime per aggiornare. Ho promesso, sono
scrupolosa!
Allora:
ci avete creduto per mezzo minuto? Vi aspettavate stesse succedendo
davvero e non che fosse un sogno? Perverso Leo.
Lo
immagino così confuso e in un certo senso infantile nelle
questioni
di cuore, visto che non ha esperienza di alcun genere.
Spero
che lo stiate amando almeno un po'.
Io
continuo a ringraziare voi, per i commenti, i nuovi preferiti, per
tutto!
Abbraccio
mega!
A
presto
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** I'll be happy ***
“Ehy,
che faccia tirata!” sbottò Don al vederlo entrare
nel laboratorio,
il giorno dopo, sul tardo pomeriggio.
Stava
lavorando su una serie di calcoli su un taccuino, e di tanto in tanto
sollevava lo sguardo per guardare il monitor del pc di fronte a
sé,
seguendo un po' l'andamento dei puntini, poi ritornava al suo lavoro.
Leo
camminò fino alla scrivania con passo stanco, sbuffando tra
sé e
sé.
“Non
ho dormito bene” proferì tra i denti, piuttosto di
malumore,
passandosi una mano sugli occhi stanchi, cerchiati da occhiaie.
Da
quando quel sogno lo aveva svegliato non era più riuscito a
chiudere
occhio, un po' per il batticuore che sentiva ogni volta che chiudeva
gli occhi e il viso di lei riappariva, un po' per il rimorso di aver
sognato Isabel in certe circostanze, anche se era abbastanza normale.
Era un uomo seppur del genere mutante, aveva già fatto sogni
del
genere, ma non con protagonista una donna che conosceva così
intimamente; magari con l'attrice di qualche film, quello sì.
Si
sentiva così in imbarazzo da aver persino disertato
l'allenamento
mattutino con una scusa, perché non se la sentiva di
guardarla con
quel ricordo costante nella mente. Lo faceva sentire troppo...
impuro.
“Eppure
eri già a letto quando siamo tornati, sul tardi. Avevi
pensieri per
la testa?” si informò il fratello, solo mezzo
attento a lui per
via di ciò che stava facendo.
Leo
fece una smorfia senza essere visto. Pensieri... che eufemismo. Si
sedette nella sedia davanti alla scrivania, occhieggiando verso il
suo lavoro al contrario.
“Allora...
come va qua?” cambiò discorso repentinamente,
riportando la
conversazione su un terreno consono e neutro.
Era
per quello che era andato lì, dopotutto: avere informazioni
sugli
spostamenti dei microchip.
“Ancora
nulla. Ma sono passati solo tre giorni e sono certo che al momento
sono diventati più cauti, a causa della nostra apparizione a
sorpresa. Lasciamoli cullare in un falso senso di sicurezza, per ora;
faranno di certo un errore” rispose Don mentre riempiva il
taccuino
di numeri e formule.
Entrambi
rimasero in silenzio e il laboratorio era pieno di ticchettii e
sbuffi dagli angoli più improbabili, dove invenzioni e
prodotti
chimici giacevano nel loro lavoro.
“Dimmi,
invece... perché non sei ancora andato ad interrogare Jack
Tracey?
Lui ha reclutato Steve e sono sicuro che sappia qualcosa. Dovresti
averlo già fatto a quest'ora” disse d'un tratto il
genio,
sollevando il viso dal suo progetto e guardandolo con malcelata
curiosità.
Leo
si strinse la radice del naso tra le dita, cercando di scacciare un
principio di emicrania.
“Hai
ragione, avrei dovuto... ma ho avuto paura. Ho paura che se
strapazzassi quel tipo per farmi raccontare cosa sa, poi non ci
metterebbe molto a fare un collegamento tra noi che li abbiamo
picchiati quella notte e Steve che ne è uscito illeso e che
è
l'unico che potrebbe averci detto il suo nome e dove trovarlo.
Capisci... è stupido, ma perfino lui potrebbe fare una
connessione
simile! E se Steve ci andasse di mezzo non potrei
perdonarmelo.”
Donnie
sorrise con aria saputa, come se riuscisse a leggerlo sin troppo
bene. Leo aveva quella altruista predisposizione a proteggere la
gente, a comportarsi da fratello maggiore con chiunque fosse nei
guai, sobbarcandosi di preoccupazioni eccessive; e se già il
ruolo
di leader lo pressava, quella sua brutta abitudine non faceva che
rendergli le cose più difficili.
Certo
che poi non dormiva se doveva pensare ai problemi del mondo.
“Beh,
dobbiamo trovare una soluzione. Lui e Abraham 'i pantaloni mi cascano
sul fondoschiena' Wilson sembrano delle buone fonti di informazioni
che sarebbe meglio spremere. Voglio cercare di capire cosa sta
succedendo... perché New York sembra davvero piombata in una
spirale
di caos e mistero e sai che non sopporto non sapere le cose. Hai
letto il giornale, stamani?”
Il
genio si sporse all'indietro e afferrò un giornale
sgualcito,
probabilmente recuperato da qualche tombino, poggiato con distrazione
sul vecchio tostapane fuso che aspettava una riparazione da mesi; lo
allungò verso di lui, in silenzio.
Leo
lesse il titolone in prima pagina mentre Don prendeva due tazze e le
riempiva di caffè dal termos poggiato sulla scrivania,
passandogliene poi una.
“Cosa...”
esalò orripilato il leader, con il sangue ghiacciato nelle
vene. La
mano che stringeva il manico della tazza tremava.
“Una
banda di ragazzini ha assaltato una banca del Queens questa mattina
all'alba, armati di fucili, pistole e bombe a mano: sedici morti, tra
cui tre dei rapinatori, di nemmeno quindici anni. Erano tutti sotto
effetto di droghe, ancora da determinare dalla scientifica della
polizia” riassunse Don con voce incolore, anche se lui aveva
già
letto il peggio dall'articolo.
Lo
rilesse almeno dieci volte, con gli occhi che quasi sfocavano dalla
velocità con cui leggeva: si fermarono solo sulle foto di
quei volti
così giovani, rovinati o finiti per sempre.
“E
quei ragazzi erano scappati di casa, nemmeno due giorni fa, non
può
essere un caso” finì il genio, poggiando la tazza
sulla scrivania
nel solito posto, anche se non propriamente nello stesso punto a
giudicare dalle decine di aloni circolari color caffè stinto
che
formavano una sorta di spirale sul legno color noce.
“Come
fai... non c'è scritto niente del genere sul giornale.
Né della
droga, né delle armi, né che sono scappati di...
sei di nuovo
entrato nei computer della polizia?” indovinò Leo
con un cipiglio
minaccioso nello sguardo, puntandogli la sua tazza ancora piena di
caffè contro.
“Se
il dipartimento di polizia vuole tenere certe informazioni segrete
farà meglio a trovare un sistema di sicurezza migliore, che
io non
possa crackare” attestò Don senza modestia, per
una volta.
Leo
sospirò esausto, rimangiandosi una ramanzina che non era
proprio il
caso di fare. D'altronde le sbirciate di Don ai file della polizia o
del governo erano estremamente utili, solo che aveva una dannata
paura che un giorno la CIA gli piombasse nel rifugio e li portasse
via per degli esperimenti e solo perché erano riusciti a
scoprire
che suo fratello si era intrufolato nei loro computer, seguendo il
segnale all'indietro fino a loro.
E
per fortuna Donnie non era malvagio o il fatto che fosse
così
intelligente da gabbare anche i servizi di intelligence non lo
avrebbe davvero fatto dormire la notte.
“Dobbiamo
stare attenti anche a questo caso. Se fossi stato in giro questa
notte...”
Lasciò
la frase a metà, pieno di rimorso. Si sentiva sbagliato.
Avrebbe
dovuto pattugliare invece di pensare a cose stupide come
un'infatuazione. Se lui fosse stato di ronda le cose sarebbe potute
andare diversamente.
Era
stato uno stupido, egoista, meschino e fallito... come leader e come
essere vivente.
“Leo?”
lo raggiunse la voce di Don, carica di premura.
Si
accorse d'un tratto di essersi estraniato e di aver stretto tanto il
manico della tazza da frantumarlo nella mano, facendo cadere il
caffè
a terra, insieme ai cocci infranti.
Il
fratello si alzò dalla sedia e si inchinò per
raccogliere i
frammenti dal pavimento, lentamente.
“Non
hai nessuna colpa, Leo. Non iniziare a perderti nelle tue
recriminazioni contro te stesso, come: 'se avessi fatto', 'se ci
fossi stato'... non puoi essere dappertutto e non puoi fare tutto. Ma
fai già troppo e abbastanza per questa città. New
York è troppo
grande per proteggerla tutta col tuo guscio... non sentirti in colpa
se qualche volta non ce la fai.”
Donnie
si era rialzato e lo guardava in attesa, con uno sguardo carico di
fiducia che sentiva di non meritare. Ma annuì lo stesso in
risposta
al suo discorso incoraggiante, come se gli avesse fatto bene.
“Devo
andare a controllare Steve. Sono preoccupato, ci sono altre tre
sparizioni di ragazzini sul giornale e non starò tranquillo
finché
non mi sarò accertato che stia bene”
mormorò alzandosi dalla
sedia, in procinto di congedarsi.
“Oh,
ehy, hai parlato con Raph” disse Don mentre era
già quasi alla
porta. Non era una domanda, suonava proprio come un'affermazione.
L'onnipresenza
e onniscienza di Donnie era davvero frustrante a volte.
Nonché
spaventosa.
“Sì,
ieri notte, come hai...”
“Stamattina
stava colpendo il sacco da boxe, ma non così furiosamente
come gli
altri giorni. Un po' di meno” rivelò il fratello
con un sorriso
furbo.
Santo
cielo, quel geniaccio riusciva a capire un cambiamento negli stati
d'animo semplicemente da una differenza minuscola come quella...
doveva stare assolutamente attento a non tradire mai il piccolo
segreto che lo stava dilaniando.
“Sì,
abbiamo chiarito. Ha detto che non voleva ferire Isabel, ma che non
è
innamorato di lei e non voleva una relazione falsa”
raccontò per
sommi capi.
Don
annuì gravemente, leggermente scosso.
“Non
me lo aspettavo. Avrei giurato che lui... com'è possibile?
Povera
Isabel, spero che stia bene.”
“Beh,
ha bisogno di tempo e affetto.”
“Noi
ci siamo per lei. Sai, dovresti andare anche tu a trovarla al nuovo
appartamento, le farebbe piacere. Ieri ti ha nominato un paio di
volte, ha detto che le mancavi” disse Don scrupolosamente,
sicuro
di fargli piacere.
Il
suo cuore perse un battito e una veloce immagine del sogno della
notte prima gli passò davanti agli occhi, della Isabel
sensuale che
gli diceva che le era mancato, prima di baciarlo.
Era
arrossito, dannazione. Fortuna che era già alla porta e dava
le
spalle a Don, non poteva essersene accorto.
“Sì,
io... ci andrò prima o poi. Promesso”
esclamò correndo via, preda
di un turbamento troppo forte per poterlo persino spiegare a parole.
La
luce che filtrava dalla finestra gli diede un po' di sollievo e
accese contemporaneamente un senso di angoscia nel suo petto. Si
gettò sul tetto del palazzo e poi scese fino al piano
giusto, con
agilità e attenzione; infilò la mano nello
spiraglio della finestra
e sollevò il vetro a ghigliottina fino allo schiocco in alto.
La
stanza dalle tenui sfumature di giallo era assolutamente vuota, ma la
luce del lampadario era accesa, perciò entrò e
atterrò sul
tappetto color caramello, indeciso se dare una voce o meno.
E
se avesse svegliato qualcuno? Non voleva creare nessun disturbo.
Stava
quasi per andarsene, -andare lì era stata in fin dei conti
un'idea
davvero stupida,- quando la porta all'angolo si aprì
cautamente e
una donna ne uscì in punta di piedi.
“Leo?”
strillò April quando si accorse della sua presenza,
tappandosi
subito la bocca con le mani. La vide tendere le orecchie per capire
se Carl si fosse svegliato, con l'espressione assorta, e poi
rilassarsi quando non udì nessun pianto.
“Cosa
fai qui?” gli domandò sotto voce, avvicinandosi a
grandi passi.
Pestò uno dei peluche del bambino nel tragitto e si
fermò un
secondo per inchinarsi e afferrarlo, per poi spolverarlo con delle
pacche vigorose.
Ma
sì, dannazione. Cosa ci faceva lì? Era stata
un'idea scema, davvero
scema, assolutamente non da lui. April era una donna intelligente:
quanto ci avrebbe messo a leggere nell'aria che qualcosa non andava?
L'amica
aveva ancora in mano il coniglietto peluche e guardava lui in attesa,
via via più perplessa dal suo mutismo. Alcune ciocche erano
sfuggite
alla crocchia che portava alla base della nuca e sembrava un po'
stanca, ma il suo sorriso era come sempre affettuoso e premuroso.
“Io...”
tentennò un secondo, prendendo il coraggio da qualche parte
nel suo
corpo, senza molto successo.
April
capì che era in difficoltà e gli venne in aiuto.
“È
successo qualcosa? State tutti bene?” domandò un
po' in
apprensione, rilassandosi all'istante ai cenni affermativi che lui si
affrettò a farle.
“Allora
vuoi Casey? È nella doccia, se vuoi gli dico di
sbrigarsi” incalzò
la donna, muovendo già dei passi verso l'altra parte della
stanza.
La
mano di Leo si chiuse delicatamente, ma fermamente sul suo polso,
bloccandola sul posto.
“Io...”
La
voce gli mancò e dovette respirare a fondo prima di
riprovarci,
mentre April attendeva col magone e apprensione.
“Io
sono venuto per parlare con te” esalò alla fine,
col capo un po'
chino, incapace di guardarla in faccia.
Se
lo avesse fatto avrebbe visto l'amica di una vita, la sorella
maggiore che non aveva mai avuto, osservarlo con un misto di sorpresa
e preoccupazione. Perché si era accorta dell'esitazione e
del
tormento che provava, dal semplice tocco della sua mano.
“Cosa
c'è, Leo? Non spaventarmi. Stai bene?” la
sentì chiedere, mentre
tornava sui suoi passi e gli si accostava, sollevando il viso
perché
i loro sguardi si incrociassero.
Quello
di Leo scivolò a destra, a disagio.
“Sì...
sì, sto bene. È solo che... c'è questa
cosa e non so con chi
parlarne e... ho bisogno di un consiglio e tu sei la persona
più
giusta” esclamò tutto di colpo, come un fiume in
piena, senza
nemmeno respirare dall'agitazione.
“Leo,
sai che puoi parlarmi di qualunque cosa, io ci sono sempre e se ti
posso aiutare non esiterò!”
“Promettimi
che non dirai a nessuno quello di cui parleremo. Nemmeno a Casey. A
nessuno!” sbottò serio Leo, che ancora un po' si
pentiva di essere
andato lì, nonostante la premura e la dolcezza di April.
Ma con lei non era il fratello maggiore di nessuno, anzi si poteva
cullare nell'illusione di avere una sorella più grande che
aveva
sempre le risposte, che era più saggia, supportiva e
protettiva;
poteva essere il fratello minore, per una volta.
L'amica
annuì con gravità, avvinta dalla sua
serietà.
“Hai
la mia parola, Leo. Ma ti prego, parla o morirò di
preoccupazione!”
Lui
lasciò andare il suo polso e prese a camminare, dei passetti
leggeri
e corti sul tappetto morbido, più per tenersi impegnato che
davvero
per voglia di muoversi. Respirò a fondo un paio di volte, ma
non
sembrava che l'ossigeno fosse comunque abbastanza.
“C'è...
c'è una persona che mi interessa. Una donna che mi piace e
non so
che fare” confessò alla fine a denti stretti,
seppure una goccia
di sollievo si spanse nel suo cuore per aver confessato almeno una
parte del suo segreto a qualcuno.
Ascoltò
il silenzio, atterrito, aspettando che lei gli dicesse qualcosa,
qualunque cosa, ma non avvenne; voltò il capo e la
trovò ferma
immobile a guardarlo con gli occhi verdi spalancati di meraviglia,
come se stesse osservando qualcosa di mai visto prima.
Lei
si accorse della sua agitazione e sembrò riprendersi.
“È...
meraviglioso!” strillò entusiasta, fremendo di
emozione.
“Perché
lo hai detto come se fosse una cosa orribile? È ancora per
il
problema di essere un mutante? Isabel non ha dimostrato che non
conta?” asserì, senza sapere che stesse toccando
un tasto dolente.
“Sì,
ma lei...” provò a dire Leo, impacciato.
“Vi
conoscete? Sa chi sei, come sei? Avete parlato?”
iniziò a chiedere
April, sempre più emozionata, la voce che diventava sempre
più
stridula, ma comunque sottovoce per non farsi sentire.
“Sì,
abbiamo parlato, ci conosciamo, sa... sa perfettamente come
sono”
rispose vago, piuttosto cauto su cosa diceva. Dire che si trattava di
Isabel era assolutamente fuori questione. Assolutamente.
“Oh!
E io la conosco? L'ho incontrata? È qualcuno che hai
salvato?”
La
sfilza di domande cresceva a vista d'occhio, gli occhi di April si
illuminavano sempre di più e la sua agitazione cresceva
invece di
scemare, perché la curiosità dell'amica poteva
portarlo a dire più
del necessario.
“No...
non la conosci” mentì, con solo un poco di rimorso
per doverlo
fare. Non voleva immaginare nemmeno lontanamente la sfumatura che il
viso di April avrebbe potuto prendere se avesse detto la
verità. E
non riusciva a immaginare come lei avrebbe potuto reagire:
felicità
o rimprovero? Comprensione o disgusto?
“Allora
parlami di lei. Come si chiama, cosa fa, cosa ti piace di lei, voglio
sapere ogni cosa! È così inusuale questo aspetto
di te.”
Titubò
per attimi interminabili, combattuto tra la voglia di dire tutto,
tutto quello che gli si agitava dentro, e la paura di svelare troppo;
ma alla fine prevalse quello slancio a lasciarsi un po' andare. Un
grosso respiro per prendere coraggio, le mani strette a pugno e le
spalle in dentro. E sciolse un po' i lacci che stringevano il suo
cuore.
“È...
intelligente e divertente. A volte pensa di essere seria e
minacciosa, ma in realtà risulta solo buffa,
perché è un cosino
piccolo e insignificante e tutto quello che ti suscita in quei
momenti sono delle pacche sulla testa. Mi fa arrabbiare
perché vuole
avere sempre ragione, io la faccio arrabbiare perché non
gliela do
mai.
Mi
piace come parla, mi piace come pensa, mi piace la sua
determinazione, mi piace il suo carattere forte e tuttavia dolce. Mi
piace chiacchierare con lei. Mi fa sentire leggero, mi fa sentire
meno legato, meno rigido, meno inquadrato... solo libero e persino un
po' ribelle; mi fa divertire, mi fa sciogliere, mi dà la
voglia di
non pensare a nient'altro che a lei.
E
mi piace come sorride. C'è quel sorriso incerto che cerca di
trattenere per non darti soddisfazione, ma che alla fine sboccia pian
piano sulle sue labbra e lo vedi nascere istante per istante, fino al
momento massimo di bellezza, e nonostante tu lo abbia seguito
schiudersi ne resti comunque emozionato e rapito.
E
poi il mio sorriso preferito: quello che nasce all'improvviso, che la
coglie di sorpresa, che non ha messo in conto nemmeno lei, ma si apre
di colpo sulle sue labbra, illuminando il suo viso; e forse
sarà che
non me lo aspetto nemmeno io, ma tutte le volte che sorride in quel
modo io muoio un po', ogni volta.”
April
stringeva il peluche al petto con foga, completamente rossa in volto,
preda di una forte agitazione e lui tremò appena, convinto
di essere
stato scoperto. Aveva detto troppo, lei aveva capito di chi
parlava... ma era stato così difficile fermarsi una volta
iniziato,
era stato impossibile fermare quei sentimenti che volevano essere
ascoltati da qualcuno.
Rimase
congelato in attesa, troppo spaventato perfino per respirare, mentre
il suo sguardo rimaneva incollato sull'amica e le sue reazioni,
scrutando ogni più piccolo dettaglio che potesse tradire
quello che
pensava.
April
si sedette sul divano, sventolandosi il viso con una mano, prendendo
grossi respiri; appoggiò il coniglietto sui cuscini, senza
staccare
gli occhi da lui. Si umettò le labbra e inspirò.
“È
stata la confessione più bella che abbia mai sentito. Spero
che
Casey parli di me con almeno un centesimo di questa passione con gli altri.
Tu sei
innamorato perso, Leo” disse con un sussurro commosso.
“Perché
non glielo dici? Lei sospetta cosa provi?”
incalzò, in modalità
amica impicciona e desiderosa di mettersi in mezzo per dare una mano.
Lui
lasciò andare un sospiro sollevato nel constatare che April
non
avesse in effetti capito di chi stesse parlando. Forse
perché era
talmente assurdo, che l'idea non l'aveva nemmeno sfiorata.
“Non
è così semplice” riuscì a
dirle, prendendo coraggio.
April
gli fece segno di avvicinarsi e di sedersi sul divano accanto a lei.
Pensava forse che da seduto sarebbe stato più semplice
parlare?
“Innanzitutto
mi distrae troppo dal mio ruolo. Sono troppo distratto, poco
focalizzato e mi sembra di sbagliare ogni cosa che faccio... mi
sembra di non dover provare affatto una cosa del genere. Non
è da
me, hai ragione” asserì prendendo posto accanto a
lei e lasciando
andare un po' le spalle, poggiando i gomiti sulle ginocchia.
“Oh,
che stupidaggine! Certo che ti distrae... ma non è una cosa
sbagliata! È questo che fa l'amore: ti libera la mente, ti
aiuta a
prenderla un po' alla leggera, ti illumina ogni cosa facendotela
vedere in un'ottica diversa. Ma non è sbagliato. Non
è sbagliato
sentirsi euforici o con la testa tra le nuvole... nemmeno per uno
come te, Leo. Tu sei capace di essere un buon leader e un uomo
innamorato, ne sono sicuro. Se questa ragazza riesce a farti sentire
così bene, forse dovresti solo accettare ciò che
provi e buttarti,
per una volta. O c'è qualche altro motivo per cui non vuoi
farlo?”
Ci
fu talmente tanto silenzio dopo la sua domanda, che riuscì
perfino a
sentire Casey che canticchiava sommessamente sotto la doccia, mentre
intanto lui cercava di trovare il coraggio di parlare. Ma ormai era
lì, meglio sputare tutto fuori, no?
“Lei...
ama un altro. Capisci, anche se io potessi essere preso in
considerazione, non potrei mai avere delle possibilità
finché lei
non se lo scorda” confessò a disagio al suo fianco,
senza voltare
la testa.
“E
quest'altro ricambia i suoi sentimenti?” lo prese in
contropiede
lei, senza aspettare nemmeno che finisse la frase.
“No.
Lui non prova niente per lei.”
“E
allora? Dov'è il problema? Conquistala, falla innamorare di
te! Mio
dio, basterebbe che tu le dicessi quello che hai detto a me e
cadrebbe ai tuoi piedi!”
“No...
non so... non è...”
Certo,
senza dire tutti i dettagli sembrava in effetti molto più
semplice,
vista dall'ottica in cui l'aveva presentata ad April.
“Leo,
tu sei un uomo fantastico! E lo dico sul serio, non perché
ti
considero come un fratello. Sei una persona intelligente, buona,
onesta e leale, dolce e altruista. Uno come te è il sogno di
ogni
donna!”
“Se
non fosse che sono un mutante, eh?” ironizzò con
troppa
insicurezza.
“Fesserie!
Isabel ci ha provato che sbagliavamo, tutti quanti! Che esistono
persone al mondo a cui non interessa il vostro aspetto, ma come siete
dentro. E pur con gli alti e bassi non sono una coppia
stupenda?”
Lasciò
cadere la domanda che gli aveva fatto, in imbarazzo. Per molto
più di
un motivo. Ma lei lo guardava con compiacimento, come se avesse detto
una grande verità.
“Non
più... Raph ha lasciato Isabel” le
rivelò cautamente, nemmeno lui
seppe perché.
“Cosa?”
strillò April col viso paonazzo, tappandosi subito la bocca
con le
mani per aver alzato la voce. Rimase un secondo in silenzio prendendo
grandi respiri, acuendo l'udito per ascoltare il silenzio in caso del
pianto di Carl.
“Cos'è
successo?” sussurrò poi, con urgenza.
“Raph
ha detto che non l'ama, lei è andata a vivere da sola e
adesso c'è
un po' di tensione in casa.”
April
si alzò dal divano con uno scatto e iniziò a
camminare a grandi
passi per scaricare la rabbia, con la vestaglia da notte viola che
oscillava a scatti ad ogni suo passo.
“Perché
non mi ha detto nulla? Quella testarda, sciocca martire! Quanto
ancora vuole continuare a tenersi le cose dentro?”
sbottò in un
sussurro furioso, continuando ad andare avanti e indietro.
“Non
dirle che lo sai. Non dirle che te l'ho detto. Io l'ho scoperto solo
perché l'ho vista piangere subito dopo che lui l'ha
lasciata” la
mise in guardia lui, spaventato all'idea di ciò che Isabel
avrebbe
potuto dire o fare se avesse scoperto che aveva detto a qualcuno
cos'era successo tra lei e Raphael.
“Non
glielo dirò! Ma sono arrabbiata! Non si fida di noi, ancora,
nonostante tutto! Che amicizia è questa?”
Il
suo volto era una maschera di rabbia e tristezza assieme, i suoi
occhi pura preoccupazione. April condivideva con lui quell'abitudine
ad affezionarsi agli altri e trattarli come piccoli fratelli o
sorelle da proteggere.
Si
alzò e le andò incontro, fermando la sua
camminata nervosa,
prendendola per le spalle.
“Lo
sai che non è vero. Isabel ha solo problemi ad aprirsi, ha
paura di
dare fastidio, di essere un peso. Ha solo troppa paura di essere
lasciata da sola. Dalle tempo... sono sicuro che si aprirà
con te,
quando si sentirà sicura. Tu sei davvero importante per
lei.”
April
contrasse le labbra con rassegnazione e strinse le spalle, lasciando
andare un po' di rabbia, poi allungò le braccia e lo
strinse. Il suo
fratellino minore, che faceva sempre il ruolo del maggiore, anche con
lei.
“Spero
che la smetta di soffrire in silenzio. Che finalmente riesca ad
essere felice, dopo tutto quello che ha passato. E spero che anche tu
riesca ad essere felice, Leo. Mi presenterai questa ragazza, prima o
poi?” disse stancamente, premuta contro il suo torace.
Leo
ricambiò la stretta e annuì, passandole una mano
rassicurante sulla
testa.
“Certo
che sì. Vedrai che saremo felici, assolutamente”
disse
misteriosamente.
Note:
Salve!
Siamo
ancora nell'introspezione. Questo capitolo e la confessione che Leo
fa ad April è uno dei motivi per cui dissi la famosa frase
scatta
guai: “Alla fine della storia amerete Leo e fonderete un
fanclub
solo per lui.”
Leo
è dolce ed esitante, ma così mortalmente
romantico. Io ce lo vedo
romantico. È uno di quegli uomini che si accorgono delle
piccole
cose che rendono felice la ragazza che amano e che la amano ancor di
più proprio per quei dettagli insignificanti agli occhi
degli altri.
Donnie
l'ho reso davvero senza macchia, rileggendo... è quasi
perfetto. Ma
Donnie è dolcissimo e non si tocca. Lui è
perfetto! Poi, più
avanti, in un'altra storia, ci sarà spazio anche per lui.
Cos'altro?
Ah, sì, grazie a tutti per leggere la storie e i bellissimi
commenti
che lasciate! Inchino! Vi adoro! *__________*
E
aggiornerò giovedì... perché? Eh...
mistero!
A
giovedì, splendori!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** You are who you choose to be ***
*
Attenzione, questo capitolo contiene il finale del film: Il gigante
di ferro. Se non l'avete mai visto vi consiglio di farlo prima di
leggere, per non rovinarvi uno dei più bei film mai creati.
E io ve
ne consiglio la visione caldamente, è bellissimo! Per chi
l'ha
visto: alla fine c'è il link per quella scena, che ho
messo
nel capitolo, per rinfrescarvi la memoria.
A
dopo, alle note finali! *
Leo
osservò con sollievo il ragazzino entrare al posto di
lavoro, con un
lieve ritardo e scuse proferite a voce alta nell'ingresso sul retro
che portava alla cucina del ristorante.
Si
acquattò dietro lo spuntone del palazzo che lo nascondeva
alla
vista, dato che era ancora sera e il sole splendeva ferocemente,
rendendolo fin troppo visibile ad un occhio attento; avrebbe dovuto
evitare situazioni come quella, ma non era riuscito a lasciar
perdere. Aveva una irrazionale paura che succedesse qualcosa a Steve,
come se il fatto di essere già stato invischiato in traffici
strani
potesse renderlo un'ottima preda di qualunque cosa stesse accadendo
in città.
D'altronde
com'era quel detto: pioveva sempre sul bagnato? C'era da scommettersi
che uno che aveva già avuto esperienze del genere fosse
più
predisposto a ricaderci, di sua spontanea volontà o meno.
Certo era
che si sentiva un po' uno stalker a seguirlo da casa al lavoro e
viceversa, soprattutto la notte, per paura di cosa potesse
succedergli, a volte senza nemmeno manifestarsi perché non
gli
andava di parlare. Diventava la sua ombra, semplicemente. Un ombra
molto attenta e con le orecchie tese a percepire ogni minaccia, in
apprensione.
Questo
per i due giorni precedenti, quanti ne erano passati da quando aveva
letto quell'articolo che parlava di ragazzini scomparsi e baby gang
che assaltavano banche, armati fino alla punta dei capelli, trucidando
senza pietà persone innocenti.
Agghiacciante.
Certo,
a dover ricordare, lui e i suoi fratelli avevano più o meno
quindici
anni quando erano usciti per la prima volta in superficie, quando
avevano lottato armi alle mani, quando avevano ucciso per la prima
volta... ad un occhio esterno probabilmente non sarebbero parsi
diversi da una qualunque banda di delinquenti, di assassini... ma
c'era così tanto dietro e nel fondo. C'erano precetti e
onore,
desiderio di giustizia e tradizioni incise nella carne dallo sforzo
di anni per imparare, per capire, per perdonare il mondo che li
avrebbe visti come diversi e che tuttavia proteggevano con le loro
vite, ogni notte, senza meriti e gratitudine, per fare la cosa
giusta.
C'era
un abisso tra loro e i delinquenti che strisciavano nel fango di
quella città, ma se fossero stati scoperti nessuno avrebbe
sprecato
mezzo fiato per prendere le loro difese.
Sospirò.
Quando lo prendevano quei pensieri, resistere al pensiero di scappare
di nuovo nella giungla era quasi impossibile e straziante. Ci aveva
lasciato parte dell'anima laggiù, era il suo posto
tranquillo a cui
pensare quando lo sconforto lo prendeva.
Scivolò
giù di qualche metro per confondersi con il fregio scuro che
occupava un piano del palazzo e andare via velocemente senza attirare
l'attenzione di curiosi Newyorkesi affacciati alla finestra.
Ma
che fare, ormai? Era troppo presto per poter andare di ronda, avrebbe
dovuto aspettare che il sole iniziasse a tramontare per lo meno,
perciò non restava che tornare al rifugio e attendere
pazientemente,
a meno che...
Occhieggiò
la finestra e deglutì a vuoto.
Gli
sembrava un'idea terribile, peggiore di quella di andare da April: la
testa gli diceva di andarsene senza farsi nemmeno notare, mentre il
cuore gli diceva di smetterla di fare il codardo e di andare fino in
fondo, per una buona volta. Ci fu un breve conflitto interiore che lo
portò nel piccolo terrazzino su cui dava quella finestra,
alla fine,
con lo sguardo verso l'interno per cercare traccia di lei: c'era la
tv accesa nell'angolo a sinistra, ma non si vedeva nessuno in giro.
Era
ancora giorno e non gli sembrò prudente rimanere nel
terrazzo in
piena vista, perciò sfilò una delle Katana dal
fodero e usò la
lama per sollevare il vetro dallo spiraglio che era stato lasciato,
troppo sottile per poterci far passare una delle dita, ed
entrò alla
fine nel salotto estraneo, che in qualche modo la rispecchiava
perfettamente: le pareti color violetto tenue erano eleganti e
delicate, eppure anche allegre; l'arredamento era un miscuglio di
mobili dai colori vivi e diversi per ogni pezzo, che però
creavano
un gradevole effetto.
Riabbassò
lentamente il vetro della finestra e rinfoderò
contemporaneamente la
Katana, guardandosi scrupolosamente attorno, muovendo dei passi
decisi verso la cucina sulla destra, sorridendo alle sedie
scompagnate dai colori pastello attorno al tavolo rotondo e ai
pensili turchesi e gialli, che mettevano di buonumore.1
“Isabel?”
chiamò a voce alta, annunciando finalmente la sua presenza.
Si era
preso fin troppa libertà nell'entrare così e
gironzolare per dare
un'occhiata.
Quando
non gli arrivò nessuna risposta, ricominciò a
scrutare i dintorni,
allarmato. C'era la tv accesa davanti al divano color panna e la sua
borsa gettata distrattamente sui cuscini colorati.
“Isabel?”
chiamò di nuovo a voce più alta, avvicinandosi
alla tv per spegnere
e sentire se lei rispondesse. Nessuna voce.
Si
avvicinò alla porta più lontana dalla finestra,
bussando forte. Che
fosse addormentata? Ma non avrebbe potuto andarsene senza sapere che
stesse bene, ormai, era troppo preoccupato che potesse esserle
successo qualcosa.
La
chiamò ancora e bussò, ma alla fine venne preso
dall'agitazione e
abbassò semplicemente la maniglia, entrando nella stanza:
trovò una
camera da letto con un breve muro che nascondeva il lettone alla
vista appena si entrava, ma nessuna traccia di lei.
Corse
fuori e si fiondò alla successiva porta, bussando ancora e
chiamando
il suo nome più forte, buttandola quasi giù
quando ancora non
ricevette una risposta e restando deluso e sempre più
nervoso nel
vedere che anche in quella camera non c'era nessuno, sebbene il letto
fosse disfatto e le coperte in terra come se fossero state lanciate
con foga in preda al panico.
“Isabel!”
strillò ritornando nel salotto, agitato come non mai.
Frugò
nelle taschine e tirò fuori il cellulare con mani tremanti,
componendo il numero di Isabel: la canzoncina di un gruppo che non
conosceva trillò nelle profondità della borsetta
e lui richiuse la
chiamata con un gesto secco.
Era
ad un passo dall'imprecare. Sul serio.
C'erano
ancora due porte da controllare, quella di fronte alla finestra da
dove era entrato e una subito alla destra.
Si
fiondò sulla prima, colmo di paura e apprensione ed
entrò come una
furia, andando a sbattere contro qualcosa di caldo e bagnato, che
strillò a pieni polmoni e mandò un bagliore
intenso. Poi un lieve
tonfo.
Serrò
le palpebre per difendersi dalla luce e poi riaprì solo un
occhio
per dare un'occhiata, sul chi vive: Isabel era caduta a terra e lo
guardava inorridita con gli occhioni spalancati, stretta in un
asciugamano mezzo caduto che lasciava ben poco all'immaginazione, i
capelli resi più scuri dall'acqua che si incollavano alla
pelle
bianca percorsa da miliardi di goccioline che riflettevano la luce
rendendo il suo corpo luminoso.
Aveva
gocce scintillanti impigliate anche nelle lunghe ciglia, simili a
piccole perle di luce.
Forse
il cuore gli era schizzato via dal corpo, da quanto forte
iniziò a
battere. Perché era di sicuro l'immagine più
bella, pura e nello
stesso tempo sensuale mai vista prima in vita sua.
“Chiudi-gli-occhi-chiudi-gli-occhi-chiudi-gli-occhi-chiudi-gli-occhi-chiudi-gli-occhi...”
urlò a ripetizione lei dal pavimento, stringendo
più che poté
l'asciugamano contro il corpo, schermandosi con le braccia.
Era
rimasto a fissarla con la bocca semi spalancata per... quanto?
Secondi? Minuti? Ore o perfino giorni? Non era sicuro, anche
perché
avrebbe potuto continuare a guardarla in eterno e non sarebbe mai
stato sazio di quell'immagine perfetta, per quanto ogni dettaglio si
fosse già impresso nella retina, inciso in ogni neurone,
scolpito
per sempre nel tessuto del suo cuore.
“Leo!
Chiudi immediatamente gli occhi!”
Ubbidì
allo strillo imperioso e imbarazzato immediatamente, uscendo dallo
stato di trance e schiaffandosi dolorosamente le mani sulla faccia,
ormai completamente rossa.
“Scusa-scusa-scusa-scusa-scusa”
ripeté come un disco rotto, voltandosi anche di schiena, per
maggior
sicurezza.
Sentì
Isabel che sbuffava e si rialzava e il suono del tessuto ruvido
dell'asciugamano che veniva stretto, frusciare lembo contro lembo.
Santo
cielo, pregò con tutte le sue forze, fa
che il rumore
del battito del mio cuore non sia così forte che lei lo
percepisca.
“Cosa
fai qui? Come sei
entrato?” gli arrivò la voce accusatoria di lei,
molto, molto
alterata.
“Sono...
sono venuto a
trovarti... c'era uno spiraglio nella finestra e sono entrato. E ti
ho chiamato, ma non hai risposto e mi son preoccupato e ho iniziato a
cercarti e...” si spiegò come un fiume in piena,
senza nemmeno
respirare, con la voce incerta per via della vergogna che provava.
“Ero
sotto la doccia, non ti
ho sentito! Ma tu non... non puoi piombare in casa mia senza
avvisare! Uno squillo, un messaggio... ” la sentì
strillare
indignata e concreta, molto più vicina.
La mano di
Isabel si poggiò
sulla sua spalla e lo fece voltare e se la trovò di fronte,
con gli
occhi che lampeggiavano di furore.
“Sei
un uomo, diamine! Non
puoi entrare in casa di una donna così, a tuo piacere! Avrei
potuto
girare nuda per casa, per quanto ne sapevi!” lo
sgridò, ergendosi
in tutta la sua piccola altezza per esternare la giusta
verità che
professava.
E aveva ragione. Ma si era perso
un secondo ad osservare una delle gocce d'acqua scendere da dietro
l'orecchio, percorrere lentamente la pelle serica del collo per poi
scivolare dolcemente nell'incavo del...
No. No. No. Doveva riportare lo
sguardo su, in zona sicura. Ecco lì, in quegli occhi ardenti
come
braci di furore cieco. Di male in peggio.
Se
già si era vergognato per averla trovata mezza nuda appena
uscita
dalla doccia e averla gettata senza accorgersene al suolo,
l'imbarazzo nel viso di lei e la sua frase non avevano fatto altro
che accrescere la sua tensione, insieme alla consapevolezza di
sé.
Isabel lo vedeva come un uomo. La sua reazione, il suo rossore, la
disperata foga per nascondere la sua nudità, gli ricordavano
prepotentemente che sì, era un uomo, e Isabel una donna.
Lo sapeva già da prima,
ovviamente, ma era un dettaglio così concreto, in quel
momento.
“Tu...
giri nuda per casa?”
gli venne stupidamente da chiedere, il cervello ormai andato da
qualche parte, lontano, molto lontano, nel regno degli idioti.
Isabel sbuffò e arricciò il
naso. Di certo avrebbe anche gesticolato, se avesse potuto, ma le
mani erano impegnate a tenere i lembi dell'asciugamano premuto contro
il corpo.
“No
e se avessi voluto
iniziare a farlo, questo mi ha fatto cambiare idea!” rispose
piccata, scansandolo e uscendo dalla stanza da bagno a grandi passi.
Lui si
voltò e seguì con gli
occhi la sua camminata marziale verso la prima camera da letto che
aveva aperto, senza una parola.
“Scusa!
Ma ero davvero
preoccupato! C'era quel casino nell'altra camera e ho pensato che
potesse esserti succes...”
“Lì
ci ha dormito Mikey! Ieri
notte è rimasto a dormire qua e non sono ancora entrata a
controllare in che condizioni l'abbia lasciata!”
sentì rispondere
a voce alta lei, per farsi sentire nonostante la distanza.
Mikey. Beh, certo, aveva
finalmente una spiegazione. Mikey era capace di distruggere qualunque
cosa anche nel sonno, quella camera era perfino troppo in ordine
per i suoi standard.
“Mi
dispiace” si scusò
ancora, sinceramente.
Nessuna risposta dalla camera.
Silenzio indignato e tombale.
“Non
sarei dovuto venire”
soffiò sconfitto, incamminandosi verso la finestra per
andare via.
“Dove
stai andando? Fermo lì!”
lo bloccò la voce di lei, ancora nella camera. Come diamine
aveva
capito cosa stesse per fare?
Isabel ritornò nel salotto con
un completo da palestra pantaloncino e canotta, dall'aria comoda,
strofinandosi i capelli con l'asciugamano.
“Non
mi fa piacere il modo, ma
mi fa piacere che ci siamo incontrati. Sono tre giorni che non ti
vedo, Leo, che fine hai fatto? Come stai?” chiese con
apprensione,
avvicinandosi alla finestra.
La osservò sciogliere i legacci
delle tende color crema e lasciarle cadere morbidamente davanti ai
vetri, per evitare che i vicini sbirciassero.
“Io...
ho avuto un po' da
fare” mentì, grattandosi il collo con fare
innocente.
Isabel
gli gettò un'occhiata che non seppe davvero come definire,
se
scettica o solo preoccupata, da sotto il bordo dell'asciugamano con
cui strofinava la testa.
“Se
ci fossero problemi me lo
diresti, vero?” domandò cripticamente.
Leo si prese tutto il tempo per
rispondere, mentre intanto i suoi occhi si beavano della sua
presenza, le sue orecchie del suono della sua voce... gli era mancata
così tanto da fare fisicamente male e rivederla
così di colpo e in
quella situazione, era di certo troppo.
Arrossì di nuovo e abbassò
appena il capo, schiarendo la voce.
“Assolutamente
no! Se ci sei
tu i guai si triplicano!” rispose con tono ironico, sicuro di
farla
divertire. E non fu deluso.
Lei sorrise scuotendo la testa,
arricciando il naso.
“Adesso
è meglio che vada. Mi
dispiace di essere piombato all'improvviso e... di averti buttata
giù
e... di aver visto...”
La vide arrossire e avvampò
anche lui, contemporaneamente, e rimasero lì a fissarsi a
disagio
per qualche istante.
Possibile che l'unica volta che
metteva piede in casa sua dovesse succedere una cosa del genere?
Quante volte era andato Mikey a trovarla? Quasi ogni sera? E a lui
era capitato? N... meglio per lui che non fosse capitato nulla del
genere o gliel'avrebbe fatta pagare!
Isabel si schiarì la gola.
“Facciamo...
facciamo finta
che non sia successo, ok? Dimentichiamo gli ultimi... quindici
minuti,
non sono esistiti, non è accaduto nulla” propose
tesa, decisa a
far finta di nulla.
Facile, per
lei. Ma lui sapeva
che quella scena era per sempre, indelebilmente stampata nella sua
mente e che non lo avrebbe fatto dormire la notte e gli avrebbe dato
il tormento nei momenti meno consoni. Gli sarebbe davvero piaciuto
poter resettare a comando. Anche per non dover sentirsi così
agitato, più del solito, al solo ricordo.
“O...
ok. Comunque, sono
davvero dispiaciuto per quello che non è
successo” concesse
suo malgrado, solo per rassicurarla.
Lei sorrise in imbarazzo, un po'
più sollevata, ma ancora rossa nella zona delle guance.
“Quindi
sei finalmente venuto
a trovarmi... non ti faccio fare il giro della casa, hai già
visto
abbastanza” esclamò con una frecciatina che lo
lasciò a bocca
aperta, mentre lei rideva.
“Ma
cosa ne dici di rimanere
per una pizza e un film?” propose, tirandogli l'asciugamano
in
faccia.
Ascoltò il suono della sua
risata, ringraziando che lei non potesse vederlo, perché non
era
sicuro nemmeno di che espressione avesse... di certo era molto
idiota.
“Pizza
e film... non ho mai
provato! Caspita, mi hanno detto che è divertente, devo
verificare”
rispose sarcastico, rilanciandole l'asciugamano, che però
lei scansò
con una risatina.
Subito dopo
aver ordinato al
cellulare le due pizze, Isabel corse ad asciugare i capelli,
lasciandolo da solo in salotto con la raccomandazione di fare come se
fosse a casa sua.
Per evitare ulteriori gaffe,
errori e di peggiorare quella serata iniziata già con una
scena
pessima, decise semplicemente di sedersi sul divano e aspettare
mentre la mente vagava, ascoltando distrattamente il suono del phon
che arrivava ovattato dal bagno insieme al flebile canticchiare di
Isabel, una canzone simile alla suoneria del suo cellulare.
Sorrise tra sé e sé, lasciando
andare la testa contro la spalliera del divano, chiudendo gli occhi.
Era così bello, così rilassante, così
intimo.
Poter passare una serata con
Isabel, da soli, averla tutta per sé per una volta, tutti i
suoi
sorrisi, i suoi respiri, i suoi sguardi e i suoi... toc toc.
Toc toc?
Ci mise un
paio di secondi a
capire che era stato il bussare di qualcuno alla porta e al secondo
tocco aprì gli occhi, tornando di colpo nella
realtà.
Si alzò di corsa e andò di
volata verso il bagno, dove si premunì di bussare a sua
volta.
“Isabel!
Qualcuno alla porta”
disse piano per non farsi sentire da fuori, ma abbastanza alto per
farsi udire al di sopra del rumore del phon.
La porta del bagno si spalancò
e lei ne uscì fuori, sorpassandolo come un ciclone.
“Deve
essere la consegna!”
trillò contenta, afferrando la borsa poggiata sul divano nel
tragitto.
Nella casa riecheggiò ancora
una volta il bussare nervoso.
“Consegna
pizze” sentirono
dire alla voce ovattata del fattorino.
Leo si
spostò nell'angolo
cucina, proprio dietro alla porta di ingresso, perciò una
volta
aperto, lui non sarebbe stato visibile in nessun modo.
“Sì,
arrivo!” strillò
trafelata Isabel, spalancando la porta.
“Salve!”
salutò entusiasta,
verso il porta pizze che lui non poteva vedere.
Sentì un respiro brusco,
emozionato, e ridacchiò tra sé immaginando la
faccia che doveva
avere il suddetto, a bocca aperta come un baccalà.
“Le...
le sue pizze! Sono...
mmm.... trent... no, ventiquat... no...”
Sentì
un fruscio, come di
qualcuno che cercava di leggere un foglio stropicciato, ma era
più
interessato a quella vocina tesa. Lui conosceva quella vocina tesa,
che indicava che suddetto individuo era nervoso.
Si sporse sul bancone e allungò
la testa oltre la porta, prima che Isabel potesse muovere un solo
muscolo per fermarlo, guardando infine negli occhi del fattorino.
“Steve?”
domandò sorpreso.
“Leo?”
reagì quello
addirittura sconvolto, quasi nello stesso istante.
“Perché
fai il porta pizze?”
chiese il mutante.
“Sostituisco
uno che è
ammalato. Tu che ci fai qui?” replicò il ragazzino.
“Vi
conoscete?” li raggiunse
la voce attonita di Isabel, nel mezzo.
Steve venne
invitato ad entrare,
per una brevissima sosta, in cui sia lui che Leo spiegarono come
erano arrivati a conoscersi, senza entrare troppo nei dettagli
tecnici delle bande e del brutto giro in cui era finito.
Se ne stavano tutti e tre seduti
nella cucina colorata, sulle sedie tutte diverse, bevendo limonata
rinfrescante, immersi nella conversazione mentre le pizze si
raffreddavano sul bancone.
Isabel era
silenziosa alla fine
della lunga spiegazione, in cui percepiva dei grossi buchi, ma di cui
non disse nulla.
“Cos'ha
esattamente tuo padre,
se posso chiedere?” domandò con tutto il tatto
possibile, offrendo
a Steve un altro bicchiere di limonata fresca con ghiaccio.
“Una
fibrosi polmonare
idiopatica. I suoi polmoni stanno diventando come delle spugne che
non filtrano più ossigeno, finché alla fine
morirà
senz'aria... ci sono farmaci che rallentano il processo, ma sono
davvero costosi. Un trapianto di polmoni, poi, è
praticamente
impossibile senza un'assicurazione sanitaria.”
Ci fu un
grande silenzio, spesso
tanto da poterlo toccare, ma mentre per Steve era di dolore e
tristezza, per Isabel era un silenzio colmo di pensieri.
“Conosco
quella faccia. Pensi
di poterlo fare?” le chiese Leo, d'un tratto, che non si era
perso
un dettaglio dei suoi ragionamenti, tutti scritti sul suo viso mentre
rifletteva.
“Non
lo so. Vedi, è diverso
dal curare una ferita: in quel caso l'energia che mando accelera la
rigenerazione delle cellule, velocizza la riproduzione dei tessuti e
di nuovi globuli rossi e bianchi nel caso di perdite considerevoli di
fluidi” iniziò a spiegare la donna, assorta, senza
accorgersi che
Steve non riusciva a capire di cosa stessero parlando.
“Ma
in casi come questo... c'è
da considerare il fattore negativo. Come per il cancro e casi simili,
c'è da tenere in conto il fattore malattia. Ci sono cellule
malate,
danneggiate sin nel cuore del nucleo, che non possono essere
curate... sono difettose e anche curandole tornerebbero a riprendere
il loro aspetto alterato, prima o poi. Bisogna prima sradicare quelle
e poi forzare una produzione di cellule sane per sostituirle.
È
molto più complesso ed è un procedimento
più lungo” continuò
gesticolando, mimando forme con le mani che nessuno dei suoi
ascoltatori comprese. Insieme alla maggior parte dei dati tecnici che
lei aveva detto.
“Quindi
non puoi...” azzardò
Leo, insicuro.
“Sì,
si può fare. Ma ci
vorrà del tempo. Una stima approssimativa... almeno una
settimana
per ammortizzare il problema, all'inizio, con sedute giornaliere.
Poi, una pausa di un mese seguita da un'altra settimana di cure e
dopo un altro paio di mesi si può passare ad altre due
settimane
intensive di ripresa per rafforzare la cura. E in quel caso dovrebbe
già essere sufficiente.”
Leo sorrise
entusiasta,
voltandosi verso Steve, che li osservava a bocca aperta, attonito.
“Scusate,
ho cercato di
seguire finché ho potuto, e credetemi, sono bravo abbastanza
in
biologia... ma credo di non aver capito nulla, perché mi
è sembrato
che lei si stesse proponendo per curare mio padre”
ridacchiò
nervosamente, guardandoli a turno.
“Sì,
infatti. Isabel può...”
“No!
Non si può curare! O
credete che non io non mi sia già informato dovunque, senza
dormirci
nemmeno la notte, senza trovare niente? Non si può fare
nulla!
Perciò io non so cosa voi stiate pensando, ma questo non
è uno
scherzo!” strillò saltando in piedi, con tanta
foga e rabbia che
urtò il tavolo e il bicchiere si rovesciò sulla
superficie.
Erano
ammutoliti. Per Leo era la
prima volta che vedeva Steve reagire in quel modo, preda di dolore,
incattivito dalla stanchezza.
“Steve,
mi conosci, sai che
puoi fidarti. Isabel ha... un dono. Se c'è qualcuno che
può curare
tuo padre, quel qualcuno è solo lei” gli disse con
tono calmo, con
tutta la sincerità possibile.
Ma Steve scuoteva la testa per
negare, perché ci era passato, aveva già provato
a pensare al
“tutto si aggiusterà”, sbattendo poi la
faccia contro la realtà
decine di volte. E faceva male.
“Isabel,
facciamogli vedere”
sussurrò alla fine il mutante, rassegnato, sfoderando una
delle
Katana da dietro la schiena.
“No,
Leo, aspetta...”
La voce di Isabel si spezzò
quando la lama della spada slittò sul palmo della mano di
Leo,
separando la carne di netto, e il sangue fiottò rosso e
vischioso.
Eppure lui non pronunciò un
fiato. Allungò la mano verso di lei, in silenzio.
Steve aveva gli occhi sbarrati
di paura folle, eppure non si perdeva un secondo della scena,
mordendosi un labbro dal nervoso.
Isabel poggiò le labbra sul
palmo e il sangue si arrestò, la carne si richiuse
millimetro dopo
millimetro e dello squarcio non rimase che una linea sottile, appena
più lucida del resto della pelle.
Leo chiuse
e riaprì la mano un
paio di volte, poi l'allungò verso Steve, perché
la guardasse.
“Questo
è un millesimo di
quello che Isabel può fare. Lasciale curare tuo padre... non
hai
nulla da perdere nel provarci, no?”
Il ragazzo occhieggiò il suo
palmo minuziosamente, sconvolto, con le labbra tremanti e lo sguardo
spiritato, inspirando bruscamente come se si sforzasse per non
soffocare.
Poi lo videro abbassare il capo
e annuire debolmente.
“Sì...
per favore, puoi
curare mio padre?” sussurrò con una vocina
insicura e dolce, da
far tenerezza.
Se ne
stavano sul divano, con le
luci spente, a guardare la sigla di inizio del film; le Katana con
tutti i foderi erano poggiate sul tavolo, per maggiore
comodità.
Steve era andato via subito dopo
che l'ebbero convinto a farsi aiutare, con la promessa di andarlo a
prendere non appena fosse finito il suo turno di lavoro per
riaccompagnarlo a casa, dove il ragazzino avrebbe parlato a suo padre
per convincerlo a lasciarsi guarire.
Quel marmocchio aveva le lacrime
agli occhi e continuò a tenere la mano di Isabel per qualche
minuto
tra le sue, quando si congedò, come se volesse dirle
qualcosa, ma
non ne trovasse il coraggio.
Leo
sapeva che era un grazie che si sentiva troppo in imbarazzo per
esprimere, d'altronde ormai conosceva davvero bene Steve.
Avevano
mangiato la pizza mentre
discutevano un po' il piano per il ciclo di terapia che Isabel
avrebbe dovuto attuare, e per il quale aveva deciso di chiedere aiuto
a Don e Leather Head, poi si erano fiondati nella parte video della
sala, avevano messo su il film e spento le luci.
Isabel era raggomitolata al suo
fianco, con gli occhi spalancati che riflettevano lo schermo.
Si sentiva calmo e teso allo
stesso tempo, come se due forze distinte e contrastanti si stessero
battendo nella sua testa. Ma nel mezzo di quelle sensazioni, nel suo
cuore, era
davvero felice.
Il film
cominciò con una scena
meravigliosa della terra vista dallo spazio e poi del sistema solare,
cosparso di miliardi di stelle ed entrambi furono trascinati nella
storia, gentilmente.
Si era aspettato che Isabel
commentasse, come faceva sempre, ma rimase sorpreso nel constatare
che non una parola le uscì di bocca, come se fosse
così assorbita
da non poter far altro che seguire o come se la pellicola fosse
troppo perfetta per poter essere contestata.
La sentì trattenere il fiato
all'apparizione del gigante di ferro e respirare bruscamente quando
rimase impigliato nei tralicci dell'elettricità; poi
ridacchiò
quando il robot pronunciò le prime parole e si
affezionò al
ragazzino che lo aveva salvato, Hogart, tanto da volerlo seguire.
Ci furono altri spaventi e altre
risate, per tutto il film, che li aveva stregati entrambi. Fino a
quei minuti, prima della fine, quando il missile nucleare che doveva
essere per il robot puntava verso la città e i suoi
abitanti,
condannandoli alla morte certa.
Il
ragazzino si avvicinò al gigante, che si inchinò
su di lui.
“Hogart...
Io... andare, tu... rimanere... non seguire” disse il robot
puntando un dito verso di lui, ripetendogli una frase che il bambino
aveva detto a lui, quando si erano conosciuti.
Il
piccolo tese le braccia per afferrare il dito del gigante e non farlo
andare via, ma quello si alzò e si allontanò con
grandi passi
all'indietro.
“Ti
voglio bene” mormorò Hogart, il naso in su per
guardarlo.
Il
gigante accese i razzi sotto i piedi e partì verso il cielo,
sfrecciando a braccia tese verso lo spazio, incontro al missile
mortale. E nella sua rotta, la voce di Hogart rimbombò nella
sua
testa, quella frase che gli aveva detto quando temeva di essere una
macchina da guerra, mentre lui desiderava essere un eroe, un buono,
come Superman:
“Tu
sei chi scegli di essere”2
disse la vocina del bambino, quando ormai il missile non era che a
pochi passi da lui.
“Superman”
replicò il robot con un grosso sorriso, chiudendo gli occhi
nel
momento dell'impatto, salvando così la città e il
suo piccolo
amico.
Leo
sentì un singulto. Nel buio
della stanza rischiarato dalla luce dell'esplosione sullo schermo, un
singulto si unì alla musica triste e due mani afferrarono il
suo
braccio, stringendolo con forza.
Isabel si voltò verso di lui e
aveva le guance rigate di lacrime, che scintillarono al riverbero della
Tv, ma anche lui in effetti stava
piangendo per la morte del gigante e si guardarono, per interminabili
secondi, per poi scoppiare a ridere, un po' per l'imbarazzo, un po'
per la commozione.
Osservarono la fine in silenzio,
immobili, così.
Isabel
poggiò la testa sulla
sua spalla, ai titoli di coda.
“Possiamo
guardarlo un'altra
volta?” chiese con voce nasale per via del pianto. Lui
annuì
soltanto, per non fargli sentire la sua, ugualmente scossa.
Perciò rimisero il film da capo
e lo riguardarono con le stesse emozioni e reazioni della volta
precedente e quando arrivò quel momento, quella scena, Leo
sentì
che Isabel ripeteva le battute sottovoce, la guancia premuta contro
la sua spalla.
“Tu
sei chi scegli di essere”
la sentì sussurrare insieme a Hogart mentre il gigante
volava nello
spazio, e poi sentì le lacrime che le erano sfuggite di
nuovo,
commossa dal sacrificio del robot.
“Leo...
tu chi hai scelto di
essere?” domandò la sua voce emozionata, acquosa.
Lui sussultò appena, sorpreso e
colpito dalla domanda così personale e intima, eppure
meravigliosa.
“Io...
non lo so. Non ci ho
mai pensato. Non so nemmeno se ho davvero scelto chi essere”
rispose confuso, chiedendosi per la prima volta quanto di quello era,
fosse frutto delle sue scelte.
“Secondo
me sì. Come il
gigante di ferro hai scelto di essere il buono, di essere il
'superman' che salva gli altri, disinteressatamente. E sai cosa?
Voglio essere come il gigante anche io. Voglio scegliere chi essere,
senza condizionamenti, senza freni, senza limitazioni. E
comincerò
aiutando il padre di Steve, con tutta la mia forza”
replicò lei
sistemando meglio la testa nell'incavo del suo collo, osservando con
lui le scene finali del film.
“Scelgo
di essere felice.”
Lui piegò il capo e appoggiò
la testa sulla sua, colpito e affondato ancora una volta dalla sua
dolcezza.
1: l'appartamento in cui vive
Isabel è preso pari pari da quello di Monica e Rachel del
telefilm
Friends. È un telefilm stupendo, spero che l'abbiate visto.
E il
loro appartamento è un bijou! Ne vorrei uno uguale!
2: la frase
in italiano nel film
del gigante di ferro è: “tu sei chi scegli e
cerchi di essere”,
ma io l'ho tradotta così come dovrebbe essere dall'inglese
“You
are who you choose to be”, perché quell'aggiunta
di “cerchi”
mi è sempre suonata forzata. Insomma, basta scegliere chi
essere,
non bisogna per forza cercare di esserlo. La frase in inglese
capeggia anche in un poster che ho creato nella mia camera,
perché
adoro questo film e adoro il suo significato.
Note:
Salve a tutti!
Capitolo tra il malizioso, il triste e il
fluff. Non preoccupatevi, quelli d'azione arriveranno, anche troppo
presto.
Ecco che i miei due OC si
incontrano. Steve e Isabel, davvero differenti, ma entrambi
così
feriti. Vi assicuro che amo i miei originali, non so proprio
perché
gli renda la vita così difficile... Perdono!
Il gigante di ferro: è uno dei
miei film preferiti. Sul serio, se non l'avete visto correte a farlo,
non ve ne pentirete. Io piango sempre a quella scena. Sempre. E io
non ho la lacrima facile, proprio per niente. Ma è
così toccante e
dolce e triste...come la adoro!
Il link per la parte finale,
inizia a 1.30, ma se volete vederlo dall'inizio, fatelo:
https://www.youtube.com/watch?v=SXy3f6f9DxI
Preparate solo i fazzolettini.
Tanti!
Ultimo, ma
non ultimo: Sono
felice di pubblicare oggi! Perché è il mio
compleanno! E ci tenevo
a festeggiarlo un po' con voi, che siete delle così belle
persone e
mi date tanto credito e affetto!
Grazie!
Nel caso ve
lo steste chiedendo
(in realtà so che non ve ne frega nulla XD) oggi compio la
bellezza
di 30 anni. Tondi tondissimi!
Sì, sono anagraficamente
“adulta”, ma no, non sono invecchiata di un giorno
dalla mia
adolescenza, non sono cresciuta e nemmeno invecchiata... e non lo
farò mai.
Mi autofaccio gli auguri, ma
dato che queste storie le ha scritte la me di 23 anni, beh auguri
soprattutto a lei!
E voi, a trent'anni, credete che
sarete ancora così, pieni di sogni e desideri, storie e
meraviglia?
Vi auguro di sì, con tutto il cuore.
Abbraccione con torta alla
frutta e candeline!
A presto!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** At the edge of darkness ***
Steve
aveva lavorato con il cervello perennemente bloccato. Aveva fatto
tanti di quei casini in una sola sera, che si chiedeva come avrebbe
potuto continuare a tenere il posto di lavoro dopo quella notte... il
signor Giorgio lo avrebbe di certo licenziato.
E
non avrebbe potuto dargli torto. Perfino lui si sarebbe licenziato.
Aveva
confuso tutte le consegne, dato il resto sbagliato ad almeno tre
clienti, portato la pizza speciale per celiaci ad un indirizzo
errato, tamponato un uomo in bicicletta, -per fortuna ad una
velocità
piuttosto bassa,- bruciato tre stop e perso dieci ricevute, tutto in
sole tre ore di lavoro. Il suo cervello non era connesso per niente,
era ancora sconvolto da ciò che aveva visto fare ad Isabel,
da ciò
che gli aveva proposto, da ciò che poteva significare per la
sua
famiglia...
Quando
aveva capito, quando era stato messo di fronte alla verità e
alla
speranza.... si sarebbe messo volentieri a piangere, se non fosse
stato per il suo recente cinismo che voleva essere certo, prima di
crederci davvero.
Se
ne stava in piedi fuori dell'ufficio del principale, con le mani che
torturavano il berretto da baseball nero stinto dei New York
Yankees, con gli occhi fissi sul vetro smerigliato della porta,
dietro alla quale riusciva a vedere le forme confuse di alcuni
mobili, aspettando di essere chiamato.
Deglutì
a vuoto, ormai rassegnato. Stava per perdere il lavoro...
chissà che
avrebbe detto il fratello di Leo, quello alto e grosso. Ebbe paura
che venisse a sgridarlo prima o poi, per essersi fatto licenziare.
Ancora tremava per la ramanzina che gli aveva fatto quella notte che
avevano battuto tutta la banda. Era minaccioso e aggressivo, incuteva
timore.
Era
così diverso da Leo... Leo era sì severo, ma
anche piuttosto
gentile.
“Steve,
entra, ragazzo” sentì chiamare al di là
della porta.
Prese
un paio di respiri profondi e allungò la mano, abbassando
abbastanza
deciso la maniglia.
“Buo-buona
sera, signor Giorgio” tentennò, entrando nel
piccolo ufficio
ingombro.
C'erano
scatoloni di documenti gettati disordinatamente, sul pavimento,
sull'archivio, sul tavolo nell'angolo, mentre lo schedario vuoto si
riempiva di polvere: c'era un fila di bollette e ricevute anche sulla
scrivania, messa piuttosto precariamente, vicino alle foto della sua
famiglia, in cui la moglie e la figlioletta lo salutavano felici.
Era
piuttosto ovvio che il suo principale avesse una concezione originale
della parola ordine.
“Prego,
siediti” disse l'uomo col sorriso cortese sotto i baffoni
folti.
Il
signor Giorgio era un vero stereotipo vivente... sarebbe sembrato una
versione umana di Super Mario, se non fosse stato alto quasi due
metri, lungo e allampanato come un palo. Sembrava Luigi, a ben
pensarci. Aveva sempre un sorriso cortese e trattava tutti con
affabilità e raramente lo si vedeva perdere le staffe.
In
quel momento lo guardava con serietà.
“Tu
sai perché ti ho chiamato, Steve, vero?”
domandò con gentilezza,
appoggiando i gomiti sulla scrivania per allungarsi un po' in avanti.
Lui
annuì gravemente, sapendo già cosa aspettarsi.
Rimproveri. Urla. E
il licenziamento. Invece il suo principale gli fece una domanda.
“C'è
qualcosa che ti preoccupa? Hai qualche pensiero per la testa? Puoi
parlarmene, se vuoi.”
Sussultò,
preso alla sprovvista. La premura dell'uomo era così sincera
che lo
commosse, ma lo fece anche riflettere... quante persone si
preoccupavano continuamente per lui? Leo, suo padre, il signor
Giorgio, Isabel... era davvero così debole da attirare la
pena della
gente? Avrebbe tanto voluto essere più forte, essere
più grande...
come Leo.
“Mi
dispiace per i guai che ho combinato... non ci sono con la testa.
Sono... confuso e stanco e...” farfugliò,
incasinandosi parola
dopo parola.
Prese
un paio di grandi respiri per calmarsi e cercare il bandolo dei suoi
pensieri, mentre l'uomo attendeva pazientemente, con aria attenta.
“Forse
c'è una cura per mio padre e io non ho fatto altro che
pensarci e
sperare ogni secondo da che l'ho saputo e non riesco a concentrarmi
su nient'altro. Mi dispiace. So che non è una scusa, so che
non ne
ho...”
Rimase
col fiato sospeso, mentre l'uomo assimilava le informazioni. Poi lo
vide sorridere apertamente, fin troppo gioviale.
“Allora
era questo? Te lo confesso, sono davvero molto sollevato, non sai
quanto. Ero convinto che avessi problemi come la droga o di
delinquenza, hai sentito di quelle baby gang... invece sapere che eri
solo preoccupato e per una cosa così bella... beh, ragazzo,
sono
contento. Spero che tuo padre si rimetta in salute, presto!”
Steve
rimase a bocca aperta, scioccamente, probabilmente per interi minuti,
imbambolato come un idiota.
Si
era aspettato una ramanzina sulle responsabilità, sul
lavoro... le
solite cose che gli adulti amavano sputare fuori come sentenze appena
sgarravi di poco dal tracciato che loro avevano deciso dovessi
fare... perciò la comprensione e l'affabilità del
suo principale lo
avevano lasciato assolutamente esterrefatto.
Si
schiarì rumorosamente la gola, le mani nervose che ormai
avevano
ridotto il povero berretto da baseball in una informe sagoma lisa.
“Io...
grazie. C'è... c'è altro che vuole
dirmi?” domandò esitante,
nemmeno lontanamente certo di volerlo sapere. Dato che se l'era
scampata, perché rischiare di attirare quei rimproveri che
si era
risparmiato?
Ma
il signor Giorgio scosse la testa con forza, facendo quasi ondeggiare
i baffoni.
“No,
ragazzo. Fila a casa, adesso e fammi avere notizie sulla salute di
tuo padre! E se hai bisogno di qualcosa... permessi, giorni liberi,
prestiti, fammelo sapere, d'accordo?” esclamò con
voce tonante
l'uomo, battendosi una mano sulla coscia così forte che se
avesse
colpito lui lo avrebbe mandato ko in un secondo.
Steve
annuì vigorosamente, poi si alzò deciso ad
andarsene, fermandosi
però all'ultimo, quando ormai la maniglia era già
abbassata.
“Signor
Giorgio, perché è così disponibile e
gentile con me? Mi ha assunto
subito, mi ha dato il mese in anticipo, non mi sgrida se faccio
errori... sia chiaro, non mi sto lamentando del trattamento di
favore, ma perché... è così
affabile?” domandò prima di potersi
fermare, incerto se dovesse voltarsi o meno.
Rimase
a guardare per alcuni secondi il vetro smerigliato della porta,
seguendo le linee, non sapendo cosa aspettarsi. Di certo non una
risata. Si voltò e vide che il suo buffo e chiassoso
principale se
la rideva della grossa, come se fosse in imbarazzo per essere stato
preso in castagna.
“Perché
tu mi ricordi me, alla tua età. Ho perso mio padre che ero
un
bambino, morto in seguito ad una caduta dal tetto mentre lavorava
come muratore, laggiù, in Italia. Io ero il più
grande dei miei
fratelli e ho dovuto lasciare la scuola e lavorare per poter aiutare
mia madre e i miei fratelli... tu mi ricordi così tanto me
stesso.
Da quando ti ho assunto ti sei impegnato il doppio degli altri, non
ti sei mai lamentato se c'era del lavoro extra, non hai mai cercato
di avere comprensione dai tuoi colleghi facendoti scudo con la tua
storia. Mi chiedi perché sono gentile con te, ragazzo?
Perché ti
rispetto. E spero che la vita decida di essere più clemente
con te
in futuro... sarai un grande uomo!”
Steve
fece un buffo verso, una sorta di respiro che rimandava giù
il
singulto commosso che gli era quasi scappato. Annuì
fiducioso e
grato verso il suo principale, con un enorme sorriso, poi con un
buona notte e mille grazie proferiti dal cuore, uscì
dall'ufficio
con un misto di gioia e ansia sottopelle, lusingato e spaventato dal
futuro in egual modo.
Non
dovette attendere molto, nel vicolo dietro la pizzeria: appena dieci
minuti dopo essere uscito col suo zaino sulla spalla, due figure
calarono dalle ombre, poco distante da lui, con mosse eleganti e
studiate. Che Leo fosse un ninja lo sapeva, ma che anche la donna
sapesse il ninjitsu... wow, rimase ancora più colpito.
I
due gli fecero un paio di domande, poi lo convinsero a tornare a casa
passeggiando per le strade assieme ad Isabel, mentre Leo li avrebbe
tenuti d'occhio dai tetti, fino alla casa del ragazzo.
Perciò
Steve si ritrovò a camminare tutto impettito e nervoso al
fianco di
una stupenda donna che gli sorrideva con dolcezza e attirava fin
troppo l'attenzione. C'erano uomini che si voltavano ad ogni loro
passo, alcuni in maniera cauta, altri sfacciatamente. Lei sembrava
non accorgersene, impegnata com'era a fargli
delle domande a cui rispondeva a monosillabi, in agitazione.
“Ehi,
splendore! Ti va di divertirti? Con un vero uomo?”
domandò un tipo
rozzo fasciato in un completo nero da motociclista, poggiato ad una
grossa moto all'angolo della strada. Gli uomini attorno a lui
ridacchiarono sguaiatamente, con idee piuttosto chiare su cosa
stessero pensando.
Isabel
lo occhieggiò solo per un secondo, continuando a camminare,
ma Steve
riuscì ad intravvedere un lieve bagliore nel suo sguardo,
davvero
agghiacciante.
L'uomo
evidentemente non aveva colto la sottile minaccia silenziosa,
perché
si accodò alla sua scia, continuando a bersagliarla con
proposte
lascive e maliziose, a voce ben alta per divertire la sua banda.
Steve aveva un po' di paura, ma sapeva che Leo era su e li stava
osservando: buttò una frettolosa occhiata verso l'alto e
vide una
sagoma nera come la notte guardare verso di loro, vigile, pronta ad
agire al primo segno di pericolo.
Il
motociclista allungò il passo e prese Isabel per un polso,
strattonandola all'indietro: un movimento fulmineo e uno strillo
nella notte fu tutto ciò che Steve riuscì a
captare in un primo
momento, allarmato.
L'uomo
era inginocchiato a terra, il braccio stretto nella morsa di Isabel
piegato dietro la schiena: ad ogni più piccola pressione
della mano
della donna, si lasciava sfuggire uno strillo di dolore e si
accasciava più giù, nel panico. I suoi uomini si
erano fatti
avanti, spaventati quanto lui, ma mostrando spavalderia per farle
paura.
“Se
vi avvicinate gli spezzo il braccio. E tu, vero che non cercherai
più
di dare fastidio ad una donna?” ordinò senza
paura, con uno
sguardo minaccioso e cattivo, davvero strano su quel bel viso.
Il
motociclista annuì con forza, mentre un nuovo urlo gli
sfuggiva
dalle labbra per colpa del movimento. Isabel lo lasciò
andare poi
fece per allontanarsi, poggiando una mano rassicurante sulla spalla
di Steve.
“Brutta
puttana” urlò il motociclista, gettandosi contro
di loro,
togliendo velocemente dal taschino un coltello a serramanico.
Uno
Shuriken sferzò l'aria con il suo sibilo morbido e si
conficcò di
netto nel piede dell'uomo, il cui urlo di dolore e panico
riecheggiò
per isolati.
Isabel
e Steve si allontanarono velocemente, mentre la banda controllava
cosa fosse successo e una folla di curiosi si avvicinava per dare
un'occhiata.
La
musichetta di una band trillò nel casino di voci che
urlavano e
domandavano, mentre loro correvano via, e Isabel afferrò il
cellulare dalla borsa.
“Sapevo
che eri tu. Non c'era davvero bisogno di bucargli un piede,
sai?”
sussurrò mezzo seria, mezzo divertita.
Steve
tendeva l'orecchio, senza perdersi una parola. Gli sembrò di
sentire una risata ilare dall'altra parte del telefono.
“Sì,
sto bene... stiamo bene. Credo che passerà un po' di tempo
prima che
quel tizio faccia di nuovo il prepotente con qualcuna... sei stato
davvero cattivo. Ma grazie.”
Chiuse
la chiamata con un sorriso sulle labbra e si volto verso di lui,
indicando con un dito verso il cielo.
“Il
nostro apprensivo angelo custode che lancia Shuriken” gli
svelò,
con un occhiolino complice.
Era...
bella. E dolce. E forte. Gli ricordava molto sua madre, persa sei
anni prima a causa di un incidente, troppo presto per un bambino...
ma non era sempre troppo presto perdere la propria madre, anche da
adulti?
“Qual
è la tua arma?” le chiese dal nulla, colpito dalla
velocità con
cui si era mossa prima, senza paura. Aveva capito all'istante che
anche lei doveva essere una ninja, come Leo.
“Sto
imparando i Tessen, al momento. Sono dei ventagli ninja”
specificò
davanti alla sua faccia confusa.
“Ma
si può dire che le mie armi saranno sempre i Sai”
la sentì
mormorare accorata, persa in qualche sua riflessione triste, a
giudicare dal ghigno che aveva preso la sua bocca.
“Come
sono i Sai?” provò ad informarsi, pensieroso sulle
varie armi che
aveva visto.
Leo
portava sempre con sé due spade, uno dei suoi fratelli aveva
un
bastone, l'altro un paio di Nunchaku, -li conosceva anche lui per via
dei film di Bruce Lee,- e l'ultimo quei buffi minitridenti, che
pensava fossero davvero difficili da usare, solo a vederli.
Isabel
gli descrisse le sue armi con voce dolce, come se stesse parlando del
suo tesoro più prezioso e lui le riconobbe all'istante.
“Hai
le stesse armi di quello alto e grosso, il fratello di Leo... lo
conosci?” constatò innocentemente, sorpreso che
lei potesse
riuscire ad usare delle cose dall'aria così scomoda.
Isabel
scoppiò a ridere, tappandosi la bocca con una mano, davvero
divertita dalla sua uscita.
“Quello
alto e grosso... beh, sì, suppongo che si possa definire
anche così.
Puoi aggiungere anche quello burbero o quello sempre arrabbiato. Gli
si addice, no?” continuò, con gli occhi che
scintillavano.
“E
sì, lo conosco bene. O almeno lo credevo”
finì, con un sorriso che poté
definire quasi come splendidamente triste.
Arrivarono
all'appartamento a Soho, dove viveva la famiglia Gragson, in
cortissimo tempo. Quel ragazzino era stato davvero fortunato ad avere
trovato un lavoro a praticamente un quartiere di distanza, per lo
meno non avrebbe dovuto percorrere molta strada di notte da solo per
tornare a casa.
Leo
rimase ad attendere seduto sul cornicione del palazzo di fronte,
mentre Isabel e Steve entravano in casa e ci si trattennero per
almeno mezz'ora, nella quale la sua mente cercava di focalizzarsi su
cosa si stessero dicendo, mentre di tanto in tanto quell'immagine
perfetta e tentatrice di Isabel appena uscita dalla doccia gli
balenava davanti agli occhi, distraendolo con prepotenza, mandandogli
i brividi giù per la schiena.
Quella
sera con Isabel era stata stupenda, tanto bella da desiderare fossero
tutte così, nel futuro... certo, magari senza la parte della
gaffe
iniziale; cenare assieme, parlare di progetti e poi stare
così,
seduti a guardare e riguardare un film, emozionarsi agli stessi
momenti, amare le stesse scene, ridere e commuoversi assieme: era
dolce e semplice, era tutto ciò che desiderava. Stare con
Isabel
sempre, vivere di piccole cose, ogni giorno.
Ma
poi, alla fine, a cosa avrebbe portato? Lei era ancora innamorata di
suo fratello, appena scaricata e lui non poteva farsi avanti. Ma
voleva farsi avanti? Anche senza la certezza di avere chance, voleva
confessarle cosa provava? Sarebbe stato da pazzi, sarebbe stato da
irresponsabili... e lui, forse, un po' irresponsabile si sentiva,
ultimamente.
La
sua mente venne distratta dal portone del palazzo giallo che si
apriva e dall'apparizione di Isabel, in compagnia di Steve; li vide
confabulare tra loro e poi il ragazzino stringere affettuosamente le
mani della donna, incapace di esternare in maniera più
ardita la
gioia che lo stava consumando. Riusciva a vedere il suo sorriso
abbagliante fin da lassù.
Lei
lo abbracciò fugacemente, poi lo salutò e dopo
aver attraversato,
sparì in un vicolo, veloce.
Steve
sollevò lo sguardo e salutò con la mano verso di
lui, proprio
mentre Isabel gli apparve accanto.
“Com'è
andata?” domandò lui mentre ricambiava il saluto e
si rialzava.
“Alla
fine bene. Ma è stato difficile convincere il padre di
Steve. Ha
reagito come lui, anche se senza le urla: c'erano sfiducia e
rassegnazione nei suoi occhi, che dicevano solo 'lasciami in
pace,
non voglio niente'” raccontò lei
incamminandosi verso la
strada di casa.
“E
come l'hai convinto?” si informò Leo, saltando con
scioltezza il
comignolo sul tetto.
“Steve
ha fatto una cosa che mi ha sorpresa: ti ha imitato. Ha preso un
coltello dalla cucina ed è tornato indietro a grandi passi:
il padre
stava quasi per svenire, pensando che fosse impazzito e avesse deciso
di uccidere tutti! Invece si è tagliato il palmo della mano
e te lo
giuro, non ha fiatato, anche se si vedeva che stava soffrendo. Credo
sia stato quel gesto, più che la vista della mia guarigione
sulla
sua mano, a sorprendere e convincere il padre. Si è lasciato
controllare e ha acconsentito a farmi provare con la terapia, da
domani.”
“Quel
piccolo...” esalò Leo, sorpreso e sconvolto dalla
prova di
coraggio di quel moccioso. E pensare che era quasi svenuto quando si
era tagliato con la Katana per mostrargli i poteri di Isabel... non
pensava avesse abbastanza fegato per fare una cosa del genere.
“È
davvero in gamba... mi piace quel ragazzo” sentì
dire ad Isabel,
colpita quanto lui da quello scriccioletto.
Nel
giro di qualche anno, con i giusti allenamenti e i giusti studi, si
sarebbe trasformato in uno splendido uomo, mostrando un coraggio
invidiabile.
Non
aveva davvero bisogno di preoccuparsi eccessivamente per lui, Steve
non si sarebbe mai infilato consapevolmente in una brutta situazione,
non avrebbe mai iniziato a drogarsi e di certo non sarebbe scappato
di casa per entrare una banda; voleva troppo bene alla sua famiglia e
avrebbe dato anche la vita per proteggerla e non dar loro dispiacere.
Esattamente
come avrebbe fatto lui. Ma tra la sua famiglia ed Isabel, se si fosse
creata la situazione in cui avesse dovuto scegliere, chi avrebbe
preferito?
Il
suo dovere o la sua felicità?
Isabel
stava camminando al suo fianco, percorrendo il tetto con aria
assorta, osservando i dintorni con aria sognante e un po'
malinconica.
Leo
ci mise un po' per riconoscere il posto, poi capì
all'istante: erano
sul tetto dove Isabel e Raph erano stati attaccati la prima volta che
lei era uscita di ronda con lui, due anni prima; era incredibile come
se ne fosse accorta immediatamente, come se ci avesse lasciato una
parte di anima in quel posto e si fosse appena ricongiunta,
riportandole alla mente ricordi lontani e dolorosi, seppure dolci.
“Isabel,
è tutto a...”
Un
sibilo e un fruscio spezzarono il silenzio e fu abbastanza veloce da
chinarsi, evitando il tubo di ferro diretto verso la sua testa; con
una capriola a terra si spostò velocemente di qualche metro,
provando a rialzare il viso per osservare il suo avversario negli
occhi, ma un piede entrò nella sua visuale, mirando alla sua
faccia
con potenza e precisione, perciò saltò
all'indietro, giusto in
tempo.
“Leo!
Tutto bene?” sentì chiedere ad Isabel, in
apprensione, la voce
leggermente affannata, come se anche lei fosse sotto attacco.
Il
leader atterrò infine, mettendo un po' di distanza per poter
studiare i dintorni e capire e trattenne il fiato, sconvolto: c'era
una decina di ragazzini, che li teneva a tiro con mazze, tubi di
ferro e pistole, gli occhi spiritati e foschi contornati da profonde
occhiaie e i muscoli che tradivano un tremore sottile nel profondo.
Isabel
schivava con facilità gli attacchi, senza dare segno di
voler
contrattaccare; cercava di parlare con loro, invece.
“Perché...
ci state... attaccando?” domandò a spezzoni,
prendendo fiato tra
una scivolata a destra e una capriola in avanti.
Nessuno
rispose, la gang sembrò solo più smaniosa di
finire in fretta: il
ragazzo più grande, con già un filo di barba
rispetto agli altri
visi imberbi, puntò la pistola contro di lui e
sparò, così, senza
tentennare un secondo, senza nemmeno pensarci, tre colpi a
ripetizione, il cui rimbombo riecheggiò nella notte.
Era
risaputo che quando si sentiva il rumore di uno sparo significava che
era già troppo tardi, che il proiettile era già
arrivato a
destinazione, e lui era rimasto così sorpreso dal sangue
freddo del
giovane che non aveva reagito prontamente alla minaccia,
rimanendosene semi accucciato, immobile, a guardare la vampata di
fuoco uscire dalla canna e la sua morte avvicinarsi velocemente.
I
proiettili si schiantarono contro un muro invisibile davanti alla sua
faccia, accartocciandosi su sé stessi fino a diventare dei
piccoli
cilindri contorti, e caddero sul pavimento con un tintinnio cupo, nel
silenzio attonito che si era creato.
I
ragazzini spalancarono gli occhi folli e spaventati, indietreggiando
da lui, ma si fermarono appena percepirono un bagliore e una lieve
elettricità alle loro spalle e si voltarono lentamente:
Isabel era
avvolta dalle scariche e folgori e i suoi occhi erano bianchi, la
mano puntata contro Leo, per formulare lo scudo.
Si
ricordava perfettamente degli scoppi di magia della donna, ma
sembrava considerevolmente diverso, questa volta: innanzitutto lei
gli sorrideva incoraggiante e poi i suoi occhi sembravano sì
vuoti,
ma più lucidi e presenti.
E
poi non volava, era ancorata al pavimento del tetto, saldamente.
“Isabel?”
provò a chiamarla, indeciso se credere alla sua intuizione.
“Tranquillo,
sono cosciente. Ho imparato a controllare i miei poteri... almeno per
un po'” la sentì dire, mentre il corpo perdeva il
bagliore dorato
e ritornava la Isabel di sempre.
I
ragazzini erano rimasti pietrificati, ma non appena lei perdette la
sua luminescenza si riscossero e si allontanarono a rotta di collo,
correndo sul tetto e pronti a gettarsi su quello di fronte.
“Non
costringetemi a fulminarvi, per favore. Parliamone, ok? Tornate
qui!”
Un
ragazzino venne travolto dal resto del gruppo e perse l'equilibrio
proprio sul ciglio del cornicione e il suo salto non riuscì
a piena
potenza come avrebbe dovuto: cadde nel vuoto tra i due palazzi, con
una risata isterica che ghiacciò loro il sangue nelle vene.
Isabel
scattò in avanti in un istante e saltò nel nulla
a testa in giù,
gettandosi dietro il ragazzo senza esitare. La risata del delinquente
si spezzò e ci fu un immenso silenzio.
“Isabel!”
strillò sconvolto Leo, saltando in piedi e correndo verso il
bordo
per controllare di sotto, terrorizzato da cosa avrebbe potuto
trovare, il cuore che pulsava nella gola dall'ansia.
Incontrò
gli occhi di Isabel, a pochi centimetri dalla sua faccia: gli
sorrideva, anche se era un po' stravolta, e il ragazzino era stretto
tra le sue braccia, svenuto, mentre lei si librava a mezz'aria.
“Sai...
sai anche volare?” chiese esterrefatto, col battito ancora
accelerato, ma con il sollievo che si spandeva nel petto nel vederla
sana e salva.
Lei
tese una mano e afferrò il cornicione, chiedendo aiuto per
tirarsi
su. Poi la vide ridacchiare, perché il momento e la sua
domanda
erano identici ad una scena del gigante di ferro, che avevano visto
solo poche ore prima.
“No,
volare è una parola troppo grande. Diciamo che svolacchio...
mi
limito a librarmi al di sopra del terreno, ecco” rispose lei,
poggiando i piedi sul tetto e adagiando a terra il ragazzino svenuto, controllando le sue pulsazioni.
“Non
va bene... è in piena tachicardia...
è...” iniziò a dire con
apprensione, attirando la sua attenzione.
Il
corpo del ragazzo iniziò a muoversi a scatti, contorcendosi
in
maniera grottesca e spasmodica, mentre una schiuma bianca fuoriusciva
dalla sua bocca semiaperta.
Lui
rimase ad osservare terrorizzato, mentre Isabel cercava di prestare
soccorso, col corpo che brillava appena.
“Leo,
aiutami! Tienigli ferme le gambe!” urlò, senza
nemmeno guardarlo,
troppo assorta ad intervenire perché il ragazzo non si
inghiottisse
o mordesse la lingua.
Non
capì cosa fece, la vide solo illuminarsi per un paio di
secondi,
tanto brillante da dover chiudere gli occhi e poi si accorse che il
piccolo delinquente aveva smesso di agitarsi e rimase svenuto, col
respiro pesante e rasposo, come se stesse soffocando.
“Cosa...
cos'è successo?”
La
sua domanda rimase ad aleggiare nella notte per alcuni istanti, nel
silenzio grave che regnava tra loro. Isabel teneva la testa del
ragazzino sulle ginocchia e gli carezzava i capelli, distrutta e
preoccupata.
“Overdose
di droga. Si è drogato o l'hanno drogato... ed è
quasi morto”
sospirò seriamente, la voce piena di dolore.
Rimasero
con il ragazzino fino all'arrivo dell'ambulanza che avevano chiamato,
poi Leo si fece in disparte, ad osservare lei salire sul mezzo per
spiegare cosa fosse successo e la partenza a razzo con le sirene
spiegate, che ulularono nella notte.
Era
sconvolto. Disgustato. Preoccupato.
Che
cosa stava succedendo alla sua città? Che cosa stava
diventando New
York? E a cosa serviva il loro duro lavoro, se poi lo schifo e il
degrado strisciavano sotto i loro occhi e macchiavano le poche cose
pure che ancora rimanevano?
Sarebbe
risalito al problema, avrebbe ripulito ogni più piccola
macchia.
Prese
il telefonino e compose i numeri dei suoi fratelli, pronto a
chiamarli a raccolta.
Note:
Buona
notte a tutti!
È
davvero tardi per aggiornare, lo so, ma non ho trovato altro momento!
Innanzitutto
voglio ringraziare gli splendidi tesori che mi hanno fatto gli auguri
di cuore e sinceramente, l'ho apprezzato molto: Ser-ser, Lisa, Nova,
Piwy, Lara, Cat, Mizu, HyHo e I love Raph (non riesco ad abbreviarlo
in nessun modo, tutti amiamo Raph!), Grazie mille!
Grazie
anche ai nuovi preferiti, ai seguiti, a tutti voi che leggete in
silenzio.
Grazie
con l'inchino!
Mi
preme di fare chiarezza su una cosa, perché tra spostamenti
vari è
possibile che vi siate persi: in questa storia Isabel ha 21 anni;
Leo, Don, Raph e Mikey 23; April 30; Casey 31; Angel 20. Il piccolo
Carl 2.
Ok,
giusto per avere ben chiaro in che fase della vita sono.
Al
prossimo capitolo pieno di azioneee! Promesso!
Abbraccio
megagigantoso!
Vi
adoro!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 14 *** Fall deep in the dark ***
I
giorni seguenti furono piuttosto frenetici, anzi, per meglio dire, le
notti: nelle ronde speciali che lui e i suoi fratelli fecero,
cercarono senza tregua quei ragazzini spaesati e persi come quelli
contro cui aveva combattuto assieme a Isabel, cercando un modo di
aiutarli. Ogni notte, lasciando perdere ogni altra cosa, setacciarono
la città palmo a palmo, rovistando fin negli angoli
più oscuri per
trovare le minigang, parlando con loro quando li trovarono,
colpendoli solo quel tanto che bastava a far perdere loro i sensi per
poterli portare all'ospedale più vicino.
Non
che fosse facile: erano veloci e incredibilmente energici per essere
sotto effetto di chissà quale droga e furbi abbastanza da
tenersi
alla larga da loro e provare a scappare alla prima occhiata.
Furono
fortunati e riuscirono a salvarne altri quattro, anche se molti di
più furono quelli che riuscirono a scappare, ancora troppo
spaventati per lasciarsi aiutare.
Solo
quella notte aveva incontrato tre bande, per un totale di dodici
ragazzini scappati di casa, ma non era riuscito ad aiutarne nemmeno
uno.
Camminò
stancamente e angosciosamente per il suo giro di ronda e si
lasciò
quasi guidare dal suo istinto, mentre la mente pensava, formulava
teorie, creava più caos con domande, di quanto ce ne fosse
prima.
Si
fermò solo quando si accorse che era arrivato al vicolo
dell'uscita
sul retro della pizzeria “Bel mondo”:
perché finiva sempre per
andare da Steve, quando aveva voglia di scambiare due chiacchiere? Ma
a ben pensarci, erano già quattro giorni che non riusciva a
parlarci, troppo preso a dare la caccia alle baby gang.
Rimase
ad attenderlo, solo per potersi far dire che era tutto ok, poi
sarebbe tornato al suo lavoro. Giusto per controllare che almeno lui
stesse bene, per rincuorarsi un po' e ritornare un po' di buon umore.
Steve
uscì dal retro un quarto d'ora dopo, come sempre con i
consueti
sacchi della spazzatura, che però ormai non faceva
più molta fatica
a portare. Aveva uno zainetto a tracolla su una spalla sola e
salutò
verso l'interno, augurando la buona notte a chiunque fosse rimasto a
mettere in ordine.
Chiuse
la porta, poi si voltò per avvicinarsi ai cassonetti e quasi
sobbalzò quando lo vide seduto nell'ombra.
“Leo?
Oh, beh, era da un po' che non ti vedevo” constatò
tornando a
respirare, portandosi vicino al cassone e sollevando il coperchio con
una mano.
“Ho
avuto molto da fare. Come stai? Come va con tuo padre?” gli
chiese
lui, osservandolo gettare i sacchi con una mano sola, con scioltezza,
tanto che un breve sorrisino gli sfuggì dalle labbra, al
ricordo di
poche settimane prima, quando era andato a parlare con lui per la
prima volta e lo aveva osservato sforzarsi in ogni modo per poterne
gettare anche solo un sacco.
Come
stava cambiando in fretta.
Steve
si sedette sul gradino della porta della pizzeria e iniziò a
raccontargli minuziosamente tutti i cambiamenti che aveva riscontrato
in suo padre, ormai sotto effetto della cura di Isabel da quattro
giorni: il colorito più sano, il respiro più
regolare e profondo,
la sensazione di minore stanchezza nel muoversi.
“Capisci?
Si alza da solo dal letto e riesce a stare dietro ai miei fratelli,
certo, ancora un po' a fatica, ma è come se stesse guarendo
sotto i
miei occhi secondo dopo secondo per magia! Si stanca ancora
facilmente e ha bisogno di me per poter fare alcuni dei lavori di
casa, ma sta tornando pian piano ad essere l'uomo che conoscevo,
più
energico e vitale. La sua speranza di potercela fare è
ritornata e
io credo che questo lo aiuti considerevolmente nella guarigione.
Vuole guarire, crede che ce la farà e tutti noi ne siamo
contagiati”
finì di raccontare con entusiasmo e commozione, con gli
occhi accesi
di felicità.
Faceva
così bene vederlo sereno, finalmente. Da quando lo avevano
incontrato, negli occhi di Steve c'era sempre stato un fondo di
disperazione che poco si addiceva ad un ragazzetto di
quell'età,
schiacciato da responsabilità troppo grandi.
Lo
sentì sospirare nel silenzio.
“Pensare
che se non avessi incontrato voi, niente di tutto questo sarebbe
successo. Mio padre sarebbe ancora malato, ogni giorno più
vicino
alla sua fine, e io sarei inguaiato in una banda criminale,
probabilmente in un'escalation di violenza, per finire
chissà come”
rifletté Steve, con voce amareggiata.
“Dovrò
ringraziarvi ogni giorno della mia vita finché
campo.”
Leo
sorrise della sua espressione seria, perché sapeva che Steve
stava
solo cercando un modo per dire grazie senza sembrare melenso o troppo
commosso, come se volesse comportarsi come un uomo tutto d'un pezzo.
“Ti
assicuro che a noi non devi niente. Ma hai ringraziato Isabel?
Investe molta energia per curare tuo padre, energia vitale, non
è
una cosa semplice e la lascia molto spossata” intervenne,
spiegandogli un dettaglio che lui forse non sapeva.
Isabel
si stava letteralmente svenando per poter curare il padre di Steve,
sotto le direttive di alcuni dettagli medici che le erano stati
spiegati da Leather Head, e dato che era una malattia grave che
necessitava di vari tipi di trattamenti diversi e complessi, la sua
energia magica si prosciugava quasi del tutto ogni giorno,
costringendola a ore aggiuntive di sonno per poter recuperare in
qualche modo.
In
quegli ultimi quattro giorni non aveva fatto altro che curare il
padre di Steve e dormire, in un circolo continuo e deleterio, e
nessuno di loro era riuscito a vederla o a parlare con lei
più che
per salutarla, anche se si erano dati i turni per andarla a
controllare, giusto per essere certi che non si sentisse male per lo
sforzo assiduo.
Non
stava con lei da quattro giorni e ogni volta che la osservava
rincasare col viso stanco e la pelle tirata attorno alle occhiaie
violacee, desiderava solo abbracciarla, poi prenderla in braccio e
portarla a casa, metterla nel letto e rimboccarle le coperte e
guardarla dormire ogni secondo, fino a che un nuovo giorno non fosse
sorto.
Si
accorse che Steve lo stava osservando in difficoltà, come se
la sua
spiegazione lo avesse messo in croce.
“Io...
sì, ci provo. Tutte le volte che viene a casa e quando se ne
va...
io, mio padre, perfino i miei fratelli, proviamo a ringraziarla, ad
invitarla a rimanere con noi a cena, a chiederle se possiamo fare
qualcosa per lei, ma non le interessano i grazie, non vuole nulla
dalla nostra riconoscenza. Continua a dire solo che è felice
per
noi. E poi scompare in un lampo, per ritornare la mattina dopo con un
sorriso. Ci proviamo, credimi. E non so nemmeno dirti quanto le siamo
grati.”
“Già,
è fatta così. Si fa in quattro per poter aiutare
chi necessita di una
mano, forse perché sa cosa vuol dire avere bisogno di aiuto
e non
riceverlo. Isabel ha passato tutta la vita da sola, senza il sostegno
di nessuno, e non rifiuterebbe mai la sua assistenza e il suo potere
a qualcuno, se può” gli spiegò lui
assorto, pensando a quanto
amasse la generosità e l'altruismo di Isabel.
Era
una delle cose che amava più di lei: nonostante avesse
sofferto e
fosse stata ferita, più e più volte, non aveva
perso la sua
umanità.
“E
quindi... ti piace, vero?” soffiò la voce di
Steve, riportandolo
nel vicolo dietro la pizzeria, di colpo.
“Cos...
Cosa...?” boccheggiò stupito dall'affermazione
sicura dell'amico,
sputata fuori come una sentenza, mentre sorrideva verso di lui con
aria saputa.
Aveva
un sopracciglio tirato in su in modo allusivo e saccente, il
marmocchio.
“Oh,
andiamo! Non sono stupido! La guardi come il mio amico Bill guarda
Stacy, la bella della scuola: come se non esistesse niente di
più
stupefacente sulla faccia della terra, come se il sole non sorgesse
che nell'istante in cui finalmente lei appare”
incalzò
il ragazzino annuendo saggiamente per la sua stessa analogia, come se
fosse vangelo.
Leo
sospirò e strinse la radice del naso tra le dita per
scacciare via
una fitta di mal di testa, scoperto completamente. A cosa serviva
negare, con quel sapientino dallo sguardo lungo?
“Allora,
come funziona? Umani e mutanti possono stare assieme? È
possibile?”
si informò Steve, prendendo il suo silenzio per un “sì,
continua pure a bersagliarmi di domande”.
“Sì,
possiamo stare assieme” rispose suo malgrado, ormai
impelagato in
quel discorso di gossip, che faceva molto pettegolezzi dal
parrucchiere.
“Forte!
Allora perché sei ancora qui a fare il salame con me e non
vai a
dirglielo? Lei sembra che ti voglia bene, si comporta in maniera
così
naturale con te. Potresti anche piacerle” lo sentì
dire, ignaro di
tutto quello che c'era dietro.
Eppure
rimase un istante sorpreso nel constatare che per Steve non ci
sarebbe stato niente di male se una umana si fosse messa con lui,
come se non fosse una cosa strana e contro natura, assolutamente
assurda.
“Perché
lei e mio fratello alto e grosso si sono appena lasciati e lei
è
ancora innamorata di lui” ribatté, sicuro di
scioccarlo.
“Tuo...
quello alto... erano... avevano... stavano... sul serio? Ma che
coraggio!” boccheggiò attonito Steve, di un bel
color peperone.
“Voglio
dire... non... non c'è nulla di male... è solo
che lui è...
spaventoso e lei è...” provò a
spiegargli nel panico, perché non
fraintendesse la sua prima reazione.
Leo
gli stava sorridendo, divertito dalla sua gaffe.
“Tranquillo,
è una cosa che ha sorpreso tutti, al tempo. A volte mi
chiedo che
cosa sarebbe successo se fossi stato io ad incontrarla per primo...
mi fermo a pensare se tutto sarebbe stato come con lui, se lei
avrebbe potuto...”
Lasciò
la frase in sospeso, sentendosi uno sciocco per aver detto a voce
alta uno dei suoi pensieri più imbarazzanti e
inconfessabili. Anche
se era vero. Aveva pensato spesso a cosa sarebbe successo se fosse
stato lui, e non Raphael, il primo ad incontrare Isabel. Come sarebbe
andata? Lui si sarebbe innamorato così, con quel dolore e
quella
smania che sentiva in quel momento, o sarebbe stato diverso? Le
avrebbe insegnato il ninjtsu o avrebbe compreso il suo rifiuto,
lasciandola andare? E se fossero stati assieme, giorno dopo giorno,
lei si sarebbe potuta innamorare di lui?
Steve
lo osservava con uno sguardo comprensivo negli occhi giovani; certo,
lui era solo un ragazzino, ma non per ciò non poteva capire
come si
sentisse.
“Beh,
rimuginare sui 'se' e i 'ma' non porta mai a nulla, lo sai?
Perché
invece non ti fai semplicemente avanti? Potresti scoprire che per
essere felice basta solo rischiare, a volte.”
Leo
scosse la testa, negando l'idea con tutte le sue forze. Sì,
era il
fearless leader,
si gettava
senza timore in imprese assurde e pericolose, ma l'idea di stare di
fronte a lei... di guardarla negli occhi, indifeso, come un semplice
uomo e dirle che cosa sentiva per lei... non poteva farlo.
Era
un vigliacco. Ma non avrebbe potuto sopportare di vedere orrore nel
suo sguardo al capire, nel realizzare... ne sarebbe morto.
“E
se sondassi il terreno? Domande innocue per capire cosa prova per
te?” sentì chiedere maliziosamente al ragazzetto
che pensava fosse
suo amico.
Si
voltò verso Steve con la morte negli occhi, attonito dal suo
sorriso
complice ed infervorato.
“Levatelo
dalla testa! Se fai una cosa del genere, io ti...”
Un
trillo interruppe la sua sfuriata e si affrettò a prendere
il
telefonino nella taschina, ma continuando ad occhieggiare lui con
sospetto, cercando di sembrare minaccioso.
“Pronto?
Sì... Don! Certo che... no... cosa? Dici sul serio? Dove?
Arrivo.”
Chiuse
la chiamata con un sorrisino trionfante, dimenticandosi completamente
cosa stesse facendo prima di rispondere.
“Vedo
che sei contento... è successo qualcosa di bello?”
chiese Steve
curioso, contento che lui si fosse scordato del suo mezzo rimprovero.
“Se
è bello non so, ma so che aspettavo questo momento da molto.
Si sono
infine radunati... quei farabutti che contrabbandavano armi. E noi
andremo a stanarli!”
Steve
non lo aveva mai visto così deciso e pronto: sprizzava
affidabilità
e minaccia al tempo stesso, un leader che aveva già ben
chiaro cosa
fare, la mente ormai completamente impegnata e focalizzata su un solo
obiettivo, i muscoli che rispondevano automaticamente agli stimoli
mentali.
Il
mutante si preparò a saltare, assorto.
“Devo
andare. Stai attento nella strada del ritorno, Steve” disse
prima
di spiccare il salto, scalando il palazzo con due o tre balzi
calcolati.
“Aspetta,
Leo!” provò a fermarlo, ma ormai era
già diventato un'ombra tra
le altre della notte, troppo lontano per poter sentire, troppo
concentrato per poterlo fare comunque.
Steve
sospirò, lasciando andare le spalle, osservando pensieroso
il punto
dove era sparito.
Sfilò
da tetto a tetto, velocemente, avvicinandosi sempre più al
suo
obiettivo.
Delle
risposte... quella era la notte in cui avrebbe avuto almeno qualche
risposta, un pezzo di quell'incasinato puzzle che si formava da
troppo tempo nella sua mente e nella sua città; non sapeva
ancora
come si sarebbe incastrato con le informazioni che già
possedeva o
con le sue teorie, ma sentiva di essere vicino alla verità,
più
vicino di quanto ci si fosse sentito in quei ventisette giorni in cui
era iniziato tutto, quella giostra di problemi, uno dietro l'altro,
che non si risolvevano mai, ma che si accumulavano invece in una pila
interminabile.
Sì,
li aveva contatti. Ventisette giorni da che New York sembrava
piombata in una spirale di paura e dubbi e in cui loro avevano
brancolato nel buio.
Vide
i suoi tre fratelli in piedi sul cornicione del palazzo designato per
l'incontro, silenziosi e vigili come Gargoyles minacciosi. Perfino
Michelangelo sembrava aver lasciato perdere il suo comportamento
fastidioso e ilare, in favore di un silenzio e una guardia alta da
far invidia al miglior combattente; che anche loro sentissero che
qualcosa di grosso era in agguato?
“Bene,
ci siamo tutti” constatò atterrando sul tetto con
un suono
morbido, sotto i loro occhi attenti.
“Dove
si va?” continuò, curioso.
“Ad
un magazzino costruito recentemente nella zona di Tribeca, che
affaccia sull'Hudson river... si sono incontrati lì, nemmeno
dieci
minuti fa” svelò Donatello, snocciolando le
informazioni con la
sua solita praticità.
“Chi?
Quanti?” incalzò Leo, smanioso di sapere.
“Tutti.
Tutti i dieci uomini a cui abbiamo messo il microchip. E sospetto che
ci siano anche gli altri.”
Si
guardarono l'un l'altro, tutti e quattro, pensando la stessa identica
cosa.
“Andiamo”
soffio fuori il leader, gettandosi per primo verso ovest, guidando la
sua squadra nella notte.
Il
fruscio morbido dei loro passi era pressoché inesistente, ad
un
orecchio umano. Solo un suono flebile perso nei rumori della notte,
troppo lieve perché potesse essere sentito.
Si
mossero con velocità e precisione e Leo sorrise nel
guidarli, perché
era fiero di essere il loro leader. A volte Mikey era troppo
chiassoso, Raph si ribellava ai comandi, Don continuava a proporre
alternative... ma quando le cose si facevano decisamente serie, la
loro parte ninja usciva prepotentemente fuori e lavoravano come una
squadra perfetta e senza pecche, in sincrono perfetto.
Si
fermarono insieme e si diedero un'occhiata attorno, occhieggiando con
scrupolo la loro meta.
“Beh,
c'è un lucernario anche questa volta. Sono davvero
idioti”
constatò Mikey con un sorriso divertito, scuotendo la testa
per la
stupidità recidiva di alcune persone.
I
loro sguardi erano incollati sulla cupola a vetri che troneggiava sul
tetto del magazzino, illuminata da una calda luce gialla.
“Già,
non imparano dai propri errori” gli fece eco Don.
“Avviciniamoci,
ma state attenti” ordinò Leo, già
pronto a saltare via.
Atterrarono
in silenzio e si accucciarono furtivamente per non essere percepiti,
strisciando verso il lucernario per controllare all'interno, e si
appoggiarono cautamente ai vetri, strizzando le palpebre per
abituarsi alla luminosità interna: c'erano tutti.
In
una stanza che sembrava blindata da porte spesse e numerose, su ogni
lato, c'erano tutti i venti uomini che avevano trovato a
contrabbandare armi, riuniti attorno ad un tavolo, che parlottavano
tra loro animatamente, con toni piuttosto accesi a giudicare dalle
facce arrabbiate e dai gesti violenti delle mani mentre discutevano.
C'erano
anche l'uomo con la cicatrice che gli divideva la faccia a meta in
orizzontale che aveva sparato contro di loro col cannone e quello che
gli aveva descritto Steve, Abe Wilson, al quale traboccava il sedere
dal retro dei pantaloni anche se era seduto.
“Non
sento niente!” sibilò Mikey contrariato, provando
ad appoggiare
l'orecchio contro il vetro per ascoltare meglio.
“Come
facciamo a sapere cosa dicono?”
“Glielo
chiediamo di persona” asserì Raph alzandosi in
piedi, gettando uno
sguardo verso Leo per sincerarsi di star facendo la cosa giusta.
Il
leader annuì e si alzò anche lui, seguito dagli
altri due.
“Mani
alle armi. Non fatevi toccare, chiaro?” dichiarò,
serio,
sfoderando le Katana con un solo gesto sciolto.
Bastò
un piegamento della testa a dare il via e si gettarono all'unisono
contro la cupola con le braccia a proteggere il viso, frantumando il
vetro con le ginocchia, in un tripudio di cristalli infranti che
caddero assieme a loro, catturando i bagliori delle luci.
Al
frastuono dell'impatto si sommarono le grida di spavento di quegli
uomini, e il ticchettio dei vetri quando toccarono il suolo, simile
al rumore della pioggia.
“Scusate
se siamo entrati senza invito... siamo venuti a fare qualche
domanda”
annunciò Mikey atterrando sul tavolo, con i Nunchaku che
sibilavano
veloci.
Gli
uomini erano arretrati, scivolando indietro dalle sedie e spostandosi
velocemente da loro, piuttosto sconvolti.
Poi, inaspettatamente, scoppiarono a ridere, tutti, contemporaneamente,
e la stanza fu piena del suono ilare delle loro risa sguaiate, che li
sorprese e allarmò.
“Non
sono sicuro che vi piaceranno le risposte” replicò
l'uomo con la
cicatrice, alzando una mano verso il cielo, imperiosa, nella quale
stringeva un piccolo telecomando.
Le
porte che davano sulla stanza si aprirono simultaneamente e una
moltitudine di persone si riversò all'interno, ognuno con
un'arma
scintillante nelle mani puntata contro di loro.
Ghignavano
compiaciuti, senza perderli di vista un attimo.
“Sapete...
credo che fosse una trappola” asserì Mikey
preoccupato, i cui
Nunchaku avevano smesso di roteare, per la sorpresa.
“Dobbiamo
uscire immediatamente!” strillò Leo, velocemente.
Il
fuoco venne aperto in quello stesso secondo e tra il boato di
centinaia di spari e fumo e scintille, tutti loro scattarono verso
una direzione diversa, ormai nel caos completo, ognuno determinato
solo a rimanere vivo abbastanza a lungo da capire come uscirne fuori.
Michelangelo
saltò in avanti e si tuffò a testa bassa tra la
pioggia di
proiettili, roteando le armi per riuscire a deviarne almeno qualcuno,
puntando verso la porta rossa davanti a sé, pronto ad
infilarla e
sparire il più velocemente possibile. L'aveva quasi
oltrepassata
quando si voltò e osservò con rapidità
alle sue spalle, oltre le
teste dei suoi aggressori che gli andavano dietro, e
constatò con
orrore che i suoi fratelli avevano imboccato ognuno una strada
diversa, diretti verso porte lontane tra loro, divisi.
Sfuggì
dalle mani che cercarono di afferrarlo e spinse le ante delle porte
dietro di sé, poggiandocisi contro per contrastare le loro
spinte
per sfondarle, il tempo che bastava ad allungare il braccio e
prendere il piantone in ferro lì a fianco e infilarlo tra le
maniglie e bloccarla.
Indietreggiò
lentamente, prendendo fiato, osservando la porta traballare sotto i
colpi, ma resistere nonostante tutto; arrivò il rumore di
uno sparo
e si scostò giusto in tempo per evitare il proiettile,
allontanandosi a grandi passi da lì.
Che
fine avevano fatto i suoi fratelli? Stavano bene? Erano riusciti ad
evitare la cattura e a bloccare la porta dietro di loro?
Non
era possibile che si fossero separati, anche se inconsciamente. Il
sensei lo ripeteva sempre: “nel pericolo, non
allontanatevi
l'uno dall'altro; uniti avete la forza di riuscire, divisi siete
fragili come un bocciolo di ciliegio sotto la tempesta.”
Perché
proprio un fiore di ciliegio non lo aveva mai capito e non se l'era
mai sentita di chiedere delucidazioni al padre, sicuro che lo avrebbe
rimproverato anche solo con lo sguardo per la domanda fuori tema.
Continuò
a correre per il lungo corridoio nel quale si trovava, occhieggiando
con sospetto le porte che davano su di esso, a destra e sinistra,
temendo che potessero contenere delle trappole. Ma una poteva portare
al di fuori, no?
Gli
usci si spalancarono in quell'istante e gruppetti di uomini con
fucili sulle spalle si riversarono nel corridoio, mirando su di lui.
Deglutì
a vuoto, senza fermarsi, i Nunchaku che vorticavano impazziti, unici
suoi amici, in quel momento.
Donatello
bloccò la porta con un piantone di ferro e si
lasciò cadere un
attimo al suolo, riprendendo fiato.
Era
stato l'ultimo a chiudere la porta dietro di sé; un attimo
prima di
sprangare le ante era riuscito a vedere che Mikey, Leo e Raph erano
riusciti a barricarsi, lasciando fuori l'orda inferocita che sparava
contro le porte, sperando di prenderli.
Scivolò
di lato, per evitare eventuali proiettili, e si rialzò
usando il Bō
come sostegno, stanco: il suo sguardo venne catturato da un foro
perfetto alla fine del bastone, circolare e nitido, letale; se quel
colpo avesse preso lui, invece della sua arma, sarebbe quasi
sicuramente morto.
Prese
un paio di respiri profondi, pensando razionalmente e in fretta:
quattro porte, quattro diversi percorsi... era impossibile sperare
che portassero tutti fuori da lì, e se quella era davvero
una
trappola, era probabile che in realtà nessuna fosse
l'uscita, ma
altre strade piene di pericoli.
Ce
l'avrebbero fatta ad uscire tutti indenni?
Spiccò
la corsa contro l'ignoto, pregando contro ogni razionalità
di poter
rivedere i suoi fratelli, illesi.
Raphael
evitava le lame che avevano cominciato a spuntare dai muri subito
dopo che era entrato nel corridoio, con grugniti di sforzo ad ogni
nuova schivata o salto, il sibilo feroce che passava a pochi
centimetri dal suo corpo, con uno spostamento d'aria letale.
Non
doveva pensare a niente, niente che non fosse schivare ogni falce o
spada affilata, ma era impossibile non preoccuparsi per gli altri; se
la sua strada si era rivelata un enorme trabocchetto pieno di armi ad
ogni centimetro, le altre come dovevano essere? Cosa stavano
affrontando i suoi fratelli?
Si
distrasse per un millesimo di secondo, ma fu più che
abbastanza per
rallentare la schivata a sinistra: la lama lacerò la tuta e
la carne
sul braccio, con un suono di squarcio grottesco e il bruciore
intenso, che si diffuse fin nella testa.
Imprecò
sottovoce, serrando la mascella per non urlare dal dolore,
continuando a correre e schivare, incurante delle gocce di sangue che
volavano nell'aria e si schiantavano a terra, il rumore del gocciolio
attutito dal sibilo delle lame.
Se
i suoi fratelli si fossero feriti, qualcuno avrebbe pagato col
sangue, quella notte.
Leonardo
teneva le Katana ritte di fronte a sé, camminando con
studiata
calma, analizzando i dintorni per capire, per orientarsi e fare il
punto della situazione.
Aveva
appena fallito su uno dei punti più importanti di un leader:
non
permettere mai che la squadra si separasse, non senza un buon piano.
Quante volte glielo aveva ripetuto il sensei? Era la prima regola.
Era suo dovere tenerli uniti e aveva fallito. Il pensiero che i suoi
fratelli fossero in pericolo, in un corridoio identico, ma pieno di
minacce e insidie lo allarmò e rese ansioso e strinse
inconsciamente
le mani sulle else, per farsi coraggio.
Un
lieve click arrivò alle sue orecchie e si accorse di un
leggero
dislivello nel suolo, un quadrato di pavimento che era affossato
sotto il suo peso: con un rombo e uno sfrigolio, lingue di fuoco
proruppero dai muri e il soffitto, intersecandosi con un ritmo
infernale, alzando la temperatura nel corridoio, considerevolmente.
Evitò
la fiammata in pieno petto con una miracolosa scivolata, facendosi
sfiorare appena: si rimise in piedi e corse via, eludendo le fiamme
con eleganza e precisione, come un balletto infuocato.
Doveva
trovare i suoi fratelli, ad ogni costo. Anche se ne fosse andato
della sua vita.
Una
stanza in penombra. Enorme. Avvolta nel silenzio, permeata da ombre e
mistero.
Sui
due lati più lunghi vi erano una decina di porte,
distanziate di
qualche metro le une alle altre: quattro si spalancarono
contemporaneamente con forza e un frastuono che si amplificò
nella
stanza, di mille volte; altrettanti mutanti entrarono e si chiusero
l'uscio alle spalle, riprendendo fiato, malconci e sfiniti.
“R-ragazzi”
esalò Leo, occhieggiando i suoi fratelli con apprensione, il
torace
che si alzava e abbassava nella foga di respirare di nuovo a pieni
polmoni aria pulita e non piena di fumo.
Tossì
un paio di volte e inspirò con un rumore rauco. Aveva delle
vistose
bruciature sulla tuta, ma sembrava che la pelle fosse stata
risparmiata, ad eccezione di una piccola ustione sulla guancia, dai
contorni lucidi e gonfi.
Erano
tutti vivi. Erano rimasti separati per quasi mezz'ora in cui il non
sapere come stessero lo aveva turbato, ma adesso erano tutti di nuovo
insieme, riguadagnando una chance per riuscire a scappare.
“Mikey!”
sentì strillare Raph e si accorse del suo fratellino alla
sua
destra, che si avvicinava al centro della stanza zoppicando: stille
rosse rimanevano al suo passaggio, vischiose e dal forte odore
ferroso, che riuscì a sentire anche da quella distanza.
Si
gettò verso di lui, assieme agli altri, per sorreggerlo
prima che
potesse cadere, ma un fragore di catene spezzò il silenzio e
con un
boato potente caddero dal soffitto due gabbie di metallo.
Aveva
indietreggiato e chiuso gli occhi per riflesso, ma li riaprì
immediatamente per studiare la situazione: Raph e Don lo guardavano
al di là di sbarre d'acciaio, con le mani strette sui tubi
che
cercavano di forzare, imprigionati insieme in una gabbia identica a
quella che lo circondava. Si voltò in fretta e si accorse
che Mikey
era lì con lui, poggiato contro una delle pareti, con il
viso un po'
più pallido del normale.
“Ehy,
Mikey! Cos'hai? Cosa è successo?” gli
domandò frettolosamente,
facendoglisi vicino.
Il
fratellino sorrise con il suo solito charme, trattenendo una smorfia
di dolore.
“Oh,
il solito. Gente che ti insegue, che vuole il tuo autografo, che ti
spara contro...” scherzò, respirando profondamente
tra una parola
e l'altra, in pena.
Leo
studiò il suo corpo, cercando un segno di ferita, la fonte
del
sangue che macchiava il pavimento sotto di lui.
“Ti
hanno colpito? Dove sei ferito?”
Mikey
aprì la bocca per rispondere, ma non sapeva se per dirgli la
verità
o per scherzare e sdrammatizzare come suo solito.
Le
luci si accesero di colpo nella stanza, decine e decine di lampadine,
che illuminarono lo spazio a giorno, accecando i loro occhi abituati
alla penombra; strizzarono le palpebre freneticamente, per essere
pronti ad ogni evenienza.
“Che
piacere vedervi finalmente lì dove dovreste stare: in
gabbia!”
tuonò una voce divertita, bassa e roca.
Sentì
i suoi fratelli trattenere il fiato dalla sorpresa e anche lui non
poté evitarsi un'esclamazione colorita, a denti stretti.
“Hun!”
sputò velenoso, come se quel nome fosse un insulto.
Aprirono
gli occhi e la sua figura apparve davanti a loro: alto e grosso come
sempre, ancora muscoloso nonostante fosse ormai nella cinquantina e i
capelli biondi si stessero tingendo di grigio; c'erano delle rughe
nuove ai lati degli occhi e sul collo, pieghe grinzose e cadenti che
tradivano perfettamente il suo invecchiamento. Il grugno malvagio e
la cicatrice sulla guancia fatta da Splinter erano identici, invece.
Aveva
un sorriso tronfio e lo sguardo compiaciuto nel vederli ingabbiati e
laceri, come prede succulente.
“Io!”
gli fece eco l'uomo, canzonando il suo tono drammatico.
“Scommetto
che non avevate capito che dietro tutto, c'ero io!”
esclamò
soddisfatto, avvicinandosi ad una sedia al centro della stanza.
Un
centinaio di uomini si stava riversando nella sala, con lo stesso
sorrisino tronfio di Hun, con le armi ancora in braccio, con risate
sguaiate e mani che indicavano verso di loro.
Erano
come bestie in mostra ad uno zoo, esposte allo scherno e al dileggio
per il divertimento altrui.
“Fammi
uscire fuori, bastardo, e vedrai quanto a lungo riderai!”
sentì
ringhiare Raph, che si gettò con tutto il peso contro le
sbarre per
provare a sfondarle: ottenne solo un tonfo sordo e probabilmente un
livido alla spalla, ma la gabbia non si mosse di un millimetro.
“Sì,
continua! Fammi divertire, mostro” asserì Hun,
seduto sulla sua
sedia come se fosse un trono d'oro, impettito e fiero.
Raph
smise di agitarsi davanti alla sua espressione di sfida, per non
dargli nessuna soddisfazione: si tirò indietro e
alzò il mento, lo
sguardo fermo.
“Qual
è il tuo piano, Hun? Cosa sei tornato a fare dopo tutto
questo
tempo?” domandò Leo, cercando di mantenere la
calma.
Non
era facile. Erano palesemente in trappola e in inferiorità
numerica.
E Mikey era ferito e sempre più pallido e lui non sapeva
ancora cosa
avesse. Come uscirne? Come portare i suoi fratelli in salvo? Farlo
parlare era un buon modo per prendere tempo mentre pensava ad un
piano, un'alternativa, una via d'uscita. Il suo sguardo scivolò
furtivamente e senza dare nell'occhio in giro, osservando le
uscite, le funi e le catene che pendevano dal soffitto, analizzando
ogni cosa.
“Io
non me ne sono mai andato. Anche se vi ho fatto credere il
contrario”
esordì Hun cripticamente, catturando nonostante tutto la sua
attenzione.
L'omone
sorrise delle loro facce sorprese e si lasciò scappare una
risata
volgare e ilare.
“Sì,
io non ho mai lasciato New York, cari mostri, ma mi sono impegnato
per farvelo credere: ho spostato la sede, ho eliminato le tracce
della nostra esistenza e fatto cancellare ogni nostro simbolo dalla
città. Ma i Purple Dragons sono sempre stati sotto i vostri
nasi.”
“E
a quale scopo?” domandò Don, che ascoltava con
sospetto e
incredulità quel piano che per lui non aveva alcuna logica.
Hun
si sporse in avanti sulla sua enorme sedia, come se si stesse
preparando a confessare una verità assoluta, per pochi
eletti.
“Per
poter agire indisturbati e innalzare fondamenta solide sulle quali
poter costruire un nuovo impero. Abbiamo reclutato nuovi elementi
nell'ombra, sotto i vostri occhi ignari, contrabbandato armi, mentre
voi davate la caccia alle mie gang fantasma, che commettevano piccoli
reati per cui sarebbero usciti in men che non si dica; abbiamo
sintetizzato e spacciato una nuova droga, ai ragazzini della
città,
che dà forza, velocità ed energia, e una
dipendenza tale che
saresti disposto a vendere tua madre per una dose, se te lo
ordinassi. O ad ucciderla. Mi sono divertito come un matto a
guardarvi mentre vi affannavate per avere risposte, per capire dove
fossimo finiti, per creare le vostre teorie; e mentre cercavate di
salvare le vite di quei ragazzini che abbiamo preso, non sapendo che
loro non possono essere salvati.”
Ascoltarono
la spiegazione di Hun con orrore e la morte del cuore, ma fu solo
quando i visi di quei ragazzi comparvero nella folla, con gli occhi
spiritati e foschi puntati freddamente su di loro, che si sentirono
davvero nauseati, un disgusto che saliva dal fondo dell'anima.
Erano
stati giocati. Hun aveva giocato con loro per tutto quel tempo, aveva
creato un piano ad arte e loro ci erano cascati con tutte le scarpe,
accecati dal loro senso di giustizia.
Era
ovvio che si trovassero ormai dove Hun aveva deciso che dovessero
essere... ma allora che cosa li aspettava, ancora? E come potevano
uscire da una trappola architettata apposta per loro, forse da una
vita intera?
Hun
sembrò aver letto sul suo viso quelle domande,
perché si alzò e si
avvicinò alle gabbie, tenendosi comunque ad una distanza
considerevole, per non poter essere toccato nemmeno da uno Shuriken
lanciato con forza.
“Ho
ancora voglia di divertirmi con voi. Chissà alla fine quanti
sarete,
se qualcuno rimarrà vivo abbastanza per rivedermi, si
intende”
affermò, con gli occhi che scintillavano di
malvagità, allungando
una mano verso una leva che spuntava dal terreno: la abbassò
con un
gesto secco.
Il
pavimento sotto i loro piedi si spalancò e vennero
inghiottiti da
due botole oscure e fredde, in un secondo.
“Mikey!
Leo!” strillarono Don e Raph assieme.
“Don!
Raph!” gridarono lui e Mikey, nello stesso istante.
Scivolarono
nell'oscurità sconosciuta, a peso morto e senza punti di
riferimento, in preda all'angoscia, con urla che rimbombavano nel
lungo tunnel nero come la notte, il cuore stretto nella paura.
E
il suo animo era doppiamente tormentato.
Un
secondo prima di cadere nel nulla sotto i suoi piedi, tra la folla,
era certo di aver scorto il viso di Steve, osservarlo con occhi
allarmati e impauriti.
Note:
Salve
a tutti!
Capitolo azione
senza tregua! Letto con un sottofondo di musica epica è
fantastico!
È tornato Hun,
lurido bastardo! Ve lo aspettavate ci fosse lui dietro a tutto?
La
parte in cui Leo
pondera il “se fossi stato io ad incontrarla per
primo” viene da
una mia riflessione. Subito dopo aver scritto September in the rain,
incominciai questa storia e si sa, uno degli altri tre si innamorava
di Isabel. Perciò nella mia mente spuntò la
domanda: come sarebbe
stato September in the rain, se il protagonista fosse stato uno degli
altri tre (nello specifico Leo, perché ha vinto lui la palma
di
gonzo innamorato della ragazza del fratello).
Vi tolgo ogni
dubbio: non sarebbe stato SITR (acronimo, fa figo ed è
più corto).
Sarebbe stata una storia diversissima, perché le reazioni e
le
azioni sarebbe state adeguate al personaggio. E quindi forse lei
sarebbe scomparsa per sempre già dopo il primo incontro e
niente
sarebbe mai successo e cambiato. Insomma, SITR funziona solo
perché
c'era Raph, quel Settembre sotto la pioggia.
Anche se magari, che
so, con Leo poteva funzionare da subito, non esserci la pioggia, ma
un sole splendente e niente fughe e struggimenti vari, solo amore e
comprensione e happy ending. Chissà.
Insomma, io so come
avrei scritto le altre versioni di SITR con gli altri tre, ma appunto
non sarebbe per niente la stessa storia. Ha ragione Steve a dirgli
che con i se non si va avanti!
Dunque,
dopo questo
capitolo, io dovrei prendermi dieci giorni di lontananza, non tanto
per vacanze, perché non vado da nessuna parte, quanto
perché con le
feste e le ferie ho la famiglia a casa e quindi mi trovo senza tempo
in tranquillità per correggere.
Però. C'è un però.
Aspé, non vi fate venire un infarto.
Ho
pensato che dopo
questo fine capitolo tragico non vi posso lasciare così, a
bocca
asciutta e con la smania di sapere (almeno spero che voi ne siate
così coinvolti da smaniare per sapere, magari mi sto facendo
castelli in aria e a voi non frega nulla!)
Anyway, siccome non
voglio trovarmi con una decina di macumbe e maledizioni sulla
schiena, e siccome ci tengo a voi e non ci dormirei la notte
perché
sono una che si preoccupa sempre di non creare fastidio negli altri,
cercherò di pubblicare almeno un capitolo, se sono fortunata
anche
due, ritagliando tempo al sonno e via dicendo. Non prometto nulla, ma
sapete che se cerco, un modo lo trovo. Spero!
Se invece non ve ne
importa nulla, ditemi pure: “Switch, sparisci, non
ci frega
niente e tanti cari saluti!”
Niente,
sclero
infinito di Agosto e il caldo e troppi impegni e poco tempo per me.
Sono vecchia nelle ossa, capitemi, e ho il cervello fuso.
Abbraccio
all'anguria rinfrescante, buone vacanze per chi le fa, buon tutto a
tutti.
Vi adoroooo!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 15 *** Wonder and Wander ***
La
caduta sembrava non avere fine, così come la sensazione di
vuoto al
centro dello stomaco mentre scendevano senza gravità.
Ma
il pavimento era da qualche parte sotto di loro e con quella
velocità, l'impatto sarebbe stato tutt'altro che morbido.
Leo
sfoderò le Katana e provò a piantare le lame
nelle pareti che era
riuscito a percepire pochi istanti prima allungando una mano, ma il
materiale sembrava una lega di metallo particolarmente resistente e
il filo slittò, producendo scintille
nell'oscurità .
Strinse
i denti e tese i muscoli allo spasmo riprovando con più
forza, ma
oltre al rumore di ferro e ad altre scintille, non ottenne
più
fortuna del primo tentativo. Sentiva il grido di Mikey, sembrava
quasi divertito dal volo inatteso, ma riusciva a percepire una nota
di dolore nel fondo; non poteva permettere che Mikey si ferisse
più
di quanto non fosse già, non poteva, a nessun costo.
Rinfoderò
le spade velocemente, poi stese le gambe e le braccia e le
puntellò
contro le pareti per frenare la caduta: sentì l'attrito
contro il
metallo, mentre la pelle sfregava con dolore bruciante, ma la
velocità iniziò a diminuire considerevolmente.
Con
un tonfo Mikey gli cadde addosso, e il peso di entrambi sugli arti
rese ancora più difficile resistere, ma strinse i denti e
serrò la
mascella, deciso a farcela.
Non
poteva mancare troppo alla fine del tunnel.
“Raph?
Raph, rispondimi, per favore. Raph!” chiamò la
voce di Don, nella
semioscurità.
C'era
una lievissima nota di panico, che in genere il genio non mostrava
mai.
Il
fratello aprì leggermente gli occhi e osservò
attorno, ma nel buio
riuscì a intravvedere solo i contorni di Don, chino su di
lui. Era
sdraiato su un pavimento freddo e duro.
“Cosa...
che...” farfugliò confuso, cercando di ricordare.
Di
colpo ogni cosa ritornò alla mente, con violenza: la caduta,
le urla
nel buio, lui che provava a frenare la loro discesa coi Sai senza
successo, e poi la scelta disperata di fare da cuscinetto col suo
corpo, rallentando di poco la velocità con le braccia e le
gambe.
Aveva
sbattuto la testa, se ricordava bene.
Si
alzò di scatto e trattenne un gemito di dolore, lancinante,
che lo
riportò indietro, sdraiato e sofferente.
“Ti
senti bene? Senti qualcosa di rotto? Riesci a respirare con
facilità?
Ti gira la testa?” domandò apprensivo Donnie, che
non si azzardava
a toccarlo senza sapere cosa potesse avere.
“Se
continui a farmi domande mi verrà la nausea”
replicò lui provando
di nuovo ad alzarsi, ma un'imprecazione gli sfuggì dalle
labbra,
sofferta.
“Cosa...
cos'hai?” fu la pronta domanda, mentre l'occhio clinico
cercava di
focalizzare cosa potesse esserci di sbagliato in lui, anche nelle
ombre.
“La
spalla” rivelò al fratello, allungando una mano e
prendendo la
sua, poggiandola sull'articolazione.
Sentì
le sue dita muoversi con garbo e tastare la pelle in maniera quasi
chirurgica, per non causargli ulteriore danno o dolore. Il genio
trattenne il fiato al sentire l'osso sporgere in maniera innaturale,
formando un bozzo vicino al bordo del guscio.
“Si
è lussata. Deve essere successo al momento dell'impatto.
Devo
rimettertela subito a posto o potresti avere conseguenze gravi... ma
sarà dolorosissimo” spiegò Don con
sussiego, senza fronzoli.
Sentì
il suo respiro pesante nell'oscurità, in attesa di una sua
risposta.
Come se avesse molte alternative... il dolore alla spalla lo stava
letteralmente uccidendo.
Sospirò
e gli diede il suo assenso, sperando solo che finisse al più
presto.
“Bene,
rimani sdraiato e mordi questo” disse Don allungandogli il
suo Bō.
“Non
ci penso nemmeno!”replicò immediatamente,
risospingendolo verso di
lui con la mano buona, con ribrezzo.
“Farà
male e non abbiamo antidolorifici! E comunque dovresti sentirti
onorato che io ti dia la mia arma senza pensarci due volte”
gli
spiegò l'altro, senza nessuna reazione particolare al suo
sdegno e
la sua risposta burbera.
“Onorato?
Schifato semmai! Chissà che schifo ci hai colpito con questo
bastone! Ammettilo, quali chiappe hai colpito recentemente?”
Don
rise e poi sospirò, sollevato almeno in parte dal dubbio
senso
dell'umorismo di suo fratello. Afferrò il suo polso con
presa ferma
e puntò uno dei piedi sul fianco di Raph, posizionandosi per
bene.
“Pronto?”
chiese, anche se lo sapeva già, aveva già visto
il fratello mordere
il legno del bastone con tutta la foga possibile.
Tirò
il braccio lentamente, ma con forza regolare, sentendo i tendini fare
resistenza; eppure continuò a tirare, ricordandosi di
ciò che aveva
letto sul manualetto di pronto soccorso trovato una volta nella
discarica, mezzo mangiato dai ratti: 'esercitare una trazione
lenta e costante dei muscoli per un paio di minuti, fino a che....'
Sentì
Raph respirare forte e bruscamente, in pena, ma ormai era quasi
fatta.
Uno
schiocco secco risuonò nel silenzio, indicando che l'osso
era
ritornato al suo posto, con molta sofferenza.
“Fatto.
Sei a posto” gli annunciò, smettendo all'istante
di tirare e
portando invece il braccio sul suo torace, perché stesse
poggiato.
Raph
non rispose, continuò a respirare profondamente e
stancamente, unico
suono nell'oscurità.
“Perché
sei bagnato?” domandò d'un tratto, dal nulla, come
se si fosse
accorto solo in quel momento del gocciolio della sua tuta e delle sue
mani umide.
“La
porta dove mi sono infilato per scappare si è sigillata
mentre
cercavo l'uscita e ha iniziato a riempirsi di acqua ad una
velocità
impressionante, tanto che dopo pochi istanti mi sono ritrovato a
trattenere il respiro, completamente sommerso. E per fortuna siamo
dei nuotatori abili e che il guscio immagazzina sempre un po'
d'aria”
raccontò Don con leggerezza, come se i secondi in cui si era
quasi
trovato senza ossigeno fossero stati una bazzecola e non uno dei
momenti peggiori mai vissuti.
“E
come ne sei uscito?” si informò, corrugando la
fronte. Una camera sigillata piena d'acqua sembrava un genere di
trappola da cui non si poteva uscire, se non una volta morti.
“Avevo
una mini bomba nello scomparto segreto della tuta. Non abbastanza da
buttare giù una parete, ma potente quel tanto che mi serviva
per
creare un buco per far defluire parte del liquido.”
Raph
respirò a fondo, pensando a quale insperato colpo di fortuna
avesse
permesso che fosse il genio a scegliere quella porta, che tra tutti i
suoi fratelli era di sicuro quello che sapeva cadere sempre in piedi,
qualsiasi problema gli si parasse di fronte. Se ci fossero stati lui
o Leo o Mikey, invece... rabbrividì leggermente al pensiero.
“Avrei
preferito che fosse caduto Mikey con te” confessò
di punto in
bianco, con la voce profonda e roca che suonava preoccupata.
Raph
era capace di passare dal burbero all'apprensivo nel tempo di due
secondi, soprattutto se riguardava qualcuno di loro.
“Ti
sto particolarmente antipatico o hai una esagerata simpatia per
Leo?”
lo punzecchiò Don, sporgendosi per aiutarlo ad alzarsi per
mettersi
seduto.
Raph
si tirò su con una smorfia di dolore e uno sbuffo
infastidito e
strisciando un po' nel buio raggiunse il muro e ci si poggiò
contro,
con un respiro di sollievo.
“Tu
sapresti curare Mikey! Stava perdendo sangue... di sicuro è
ferito... è...”
“Mikey
starà bene! Leo è capace di prendersi cura di
lui, come farei io!”
lo rassicurò il genio, nonostante sapesse che se il fratello
era
stato colpito da un proiettile non c'era molto che lui o Leo
avrebbero potuto fare.
Sospirò
senza farsi sentire, cercando di scacciare quel magone che cresceva
nel suo petto e impiegando la mente e il tempo a fasciare invece il
braccio di Raph contro il busto, perché non lo muovesse,
usando la
sua bandana viola come sostegno.
“Non
devi muoverlo per nessun motivo. E non dovresti nemmeno camminare, ma
dobbiamo assolutamente uscire da qui. Te la senti?”
Per
tutta risposta Raph si sostenne al muro e si alzò lentamente
in
piedi, ondeggiando solo appena, senza mostrare la sofferenza che
provava.
Donnie
sorrise tra sé del consolidato stoicismo del fratello e
afferrò il
telefonino dalla tasca.
“Chiamerò
Leo. Sono sicuro che va tutto bene. Sono sicuro che usciremo da
qui”
soffiò fuori più fiducioso di quanto si sentisse
davvero, forse
consolando più sé stesso che suo fratello.
Un rantolo
soffocato e un
respiro strozzato nel buio.
Il contatto col pavimento era
stato duro e spietato, ma meno doloroso di quanto si fosse aspettato:
ringraziò la natura per avergli dato un guscio duro che lo
proteggeva, perché le sue costole sarebbe state in polvere
in quel
momento, altrimenti.
Mikey lo aveva schiacciato a
peso morto, per poi lasciarsi andare al suolo con un gemito sofferto.
“Mikey!
Come stai, Mikey?”
domandò in apprensione voltandosi sul dorso e strisciando
verso il
fratello, che gli sorrideva nella semioscurità.
“Ahahah,
benissimo. È stato
un gran volo... lo rifacciamo?” ridacchiò l'altro,
assurdamente
divertito.
Beh, almeno sembrava non aver
perso nemmeno un grammo della sua solita allegria. Non sapeva se
esserne rincuorato o spaventato.
“Come
ti senti? Dove sei stato
colpito?” incalzò, cercando di frenare le sue risa.
Aveva paura che fossero risate
isteriche prodotte dallo shock e il dolore. Il fratello smise di
ridere davanti al suo tono apprensivo e sospirò: cosa doveva
fare
con quel suo troppo serio fratello maggiore?
“Sto
bene, Leo. Sto bene” lo
rassicurò, sapendo quanto i suoi fratelli si preoccupassero
sempre
eccessivamente per lui, come se fosse un idiota o un bambino piccolo
da tenere costantemente sotto controllo.
“Due
colpi alla gamba, ma i
proiettili sono usciti dall'altra parte, è tutto a
posto” rivelò
a malincuore, stendendo l'arto lentamente e con sbuffi di dolore per
mostrargli i fori tondi sulla coscia, col tessuto nero della tuta che
scintillava per il liquido rosso di cui si era imbevuto.
“Niente
è a posto!” tuonò
Leo, sciogliendo con dita veloci la maschera azzurra dalla testa e
allungandola sulla sua gamba, annodandola forte tre dita sopra la
ferita, per fermare la circolazione.
Controllò con scrupolo che non
fosse troppo stretta, né troppo larga, poi aiutò
Mikey a poggiare
le gambe contro il muro in modo che la parte della ferita rimanesse
più in alto dell'altezza del cuore, per rallentare
ulteriormente
l'emorragia.
Strofinò infine le mani l'una
con l'altra, sentendo vesciche sulla pelle formarsi a causa della
frizione contro le pareti del tunnel nella caduta; avrebbero fatto
male una volta stretta l'elsa delle spade, era poco, ma sicuro.
“Sai
che non posso rimanere
qua in eterno, vero?” domandò il fratellino,
assennato.
Leo sospirò angosciosamente,
poi si diede un'occhiata attorno strizzando le palpebre, per
percepire un po' i dintorni: nel buio riuscì a vedere i muri
che
delimitavano l'area in cui si trovavano, una sorta di stanza quadrata
e spoglia, e poi una lieve luminescenza che gli indicava dove lo
spazio si apriva verso una strada che forse portava al di fuori.
“Ti
aspettavi che ci fosse Hun
dietro a tutto?” sentì chiedere pensosamente a
Mikey.
Abbassò lo sguardo e intravvide
la sua figura adagiata a terra con le gambe poggiate al muro e lo
sguardo perso sul soffitto.
“No.
Oh, sapevo che Hun non
era davvero sparito, sapevo che prima o poi l'avremmo rivisto... ma
non pensavo che ci fosse lui a capo di tutto: del contrabbando
tarocco, del traffico di armi, della droga data ai
ragazzini...”
La voce gli morì in gola, un
po' al realizzare come scioccamente si fossero fatti manovrare, un
po' al pensiero di tutti quei giovani visi dagli occhi spenti che li
avevano guardati con indifferenza e senza rimorso, come se avessero
perso ogni traccia di umanità. O l'anima.
E lui non
riusciva a non pensare
al viso di Steve in mezzo agli altri, con lo sguardo spaventato negli
occhi azzurri, mentre cadeva nel vuoto; era certo che fosse lui, con
il suo berretto stinto degli New York Yankes calcato sulla testa e la
zazzera bionda che spuntava da sotto la tesa.
Ma perché Steve era lì? Non
avrebbe dovuto nemmeno sapere di quel posto, e se lo sapeva... voleva
dire che c'entrava qualcosa anche lui. Che era una spia, che per
tutto quel tempo aveva fatto parte della banda di Hun e lo aveva
manovrato a dovere, istruito dall'inizio per carpire la loro fiducia.
Certo, aveva senso: tutte le cose che sapeva, le informazioni che
aveva “sentito” per la strada, il suo strano
coinvolgimento fin
dall'inizio.
Tutto aveva
così senso... ma
non poteva crederci. Steve era un ragazzetto intelligente e docile,
gentile e di buon cuore, con un sorriso gioviale e la voglia di
mettersi alla prova... non poteva, non voleva credere che fosse stata
tutta una messinscena per carpire la sua fiducia, che niente di
quello che avevano passato fosse sincero, a discapito
dell'affinità
che aveva sentito con lui.
Steve era suo amico, per certo.
Allora, se ci credeva davvero, perché nell'animo si sentiva
tradito
e spezzato, come se lo avesse pugnalato personalmente?
Dopo tutto quello che avevano
fatto per lui, che Isabel stava facendo per...
Isabel!
Frugò in fretta nelle tasche e
recuperò il telefono con urgenza, richiamando l'attenzione
di Mikey.
“Chi
stai chiamando?” chiese
quello, occhieggiando la sua fretta nel maneggiare il cellulare.
“Isabel”
rispose
velocemente, portando il cellulare all'orecchio, col cuore in gola.
Isabel poteva essere in
pericolo, se il suo sospetto era fondato, e in quel caso Hun sapeva
della sua esistenza e di cosa lui provasse per lei; e lei non era
abbastanza in forze per potersi difendere.
“Bell'idea!
Può sbaragliare
questi idioti con un solo fulmine e curare queste ferite in un
lampo!” chiocciò contento il fratellino, che non
poteva sapere,
non poteva capire la sua angoscia in quel momento.
“No.
Non le dirò di venire
qua! Isabel può anche essere forte, ma non è
invincibile! È sempre
un essere umano... non voglio che si metta in pericolo per
noi” lo
sgridò lui, anche se la voce si smorzò
d'intensità alla fine della
frase, perché non era proprio il caso di prendersela con
Mikey.
Non era colpa sua se Isabel
poteva essere in pericolo a causa della sua idiozia nel fidarsi di
una spia e non era colpa sua se la amava da morire e non poteva
nemmeno pensare alla possibilità che in quell'esatto momento
potesse
essere in pericolo.
Premette il
telefono contro
l'orecchio con più forza per sentire gli squilli, ma il
ricevitore
rimandò solo un lieve suono a intermittenza,
perciò lo portò al
viso e guardò il display illuminato dolorosamente dalla
flebile luce
che lì sotto sembrava un faro in pieno viso.
“Non
c'è campo... non
possiamo contattare l'esterno, né i nostri fratelli,
Mikey” lo
informò con inquietudine, osservando il suo sguardo
esprimere il suo
stesso pensiero, alla lucina del cellulare.
“Se
ti gira la testa o senti
che ti fa male la spalla, fermati, d'accordo?” disse Don con
premura, mentre camminava davanti a lui facendosi luce con il display
del telefonino.
Da quando pochi minuti prima si
era reso conto che non avrebbero potuto contattare i fratelli, aveva
perlomeno deciso di usare l'apparecchio per potersi orientare
nell'oscuro labirinto in cui erano finiti, e l'idea era stata
azzeccata, perché era molto più facile muoversi
con un minimo di
chiarezza. Erano in una sorta di tunnel dalle pareti di mattoni
grigi, col soffitto alto all'incirca tre metri senza un'apparente via
di fuga da nessuna parte. Potevano solo andare avanti, per quel
sentiero già tracciato, che però sapevano dovesse
essere pieno di
pericoli.
Cos'altro potevano aspettarsi da
Hun?
Perciò
camminavano con cautela,
anche per non sforzare la ferita di Raph, senza troppe parole, come
c'era da aspettarsi da uno come suo fratello; un taciturno che si
teneva sempre problemi e pensieri dentro e lui, che si manteneva
sempre piuttosto neutrale, che non forzava mai gli altri a
confidarsi, se non se la sentivano... un'accoppiata azzeccata.
Non gli era difficile
relazionarsi con Leo, gentile e affidabile, o con Mikey, allegro ed
espansivo, ma trovava sempre degli attriti con Raph, anche se in
effetti chiunque trovava degli attriti con lui, ad eccezione di
Casey, probabilmente. Nel suo caso forse era perché lui era
più
razionale e celebrale e ciò strideva con
l'impulsività di suo
fratello, anche se negli ultimi tempi le cose erano decisamente
migliorate
E doveva ammettere che un po'
invidiava la naturalezza con cui Raphael riusciva a mostrare
ciò che
sentiva, senza limitazioni... ma era poi vero che suo fratello aveva
smesso di amare Isabel? Non aveva il coraggio di chiederglielo, aveva
ancora un braccio sano e sapeva che l'avrebbe usato su di lui.
Nel
silenzio rimbombò un rombo
gutturale, che si spense all'istante dopo aver percorso il pavimento
con scosse lievi.
“Hai
sentito?” domandò
sottovoce bloccando la camminata, perché il suono felpato
dei loro
passi non intralciasse l'ascolto.
Sentì Raph trattenere il
respiro con le orecchie tese, provando a percepire il silenzio
attorno.
Un nuovo
verso si fece largo nel
buio e arrivò a loro, con più forza rispetto a
prima. Don alzò il
telefonino che aveva puntato verso il pavimento e lo diresse di
fronte a sé, e la luce illuminò fiocamente fino a
qualche metro più
in là.
Due occhi gialli scintillarono
in fondo al tunnel, malignamente.
Si gettò in avanti, afferrando
velocemente il Bō, ma
si
interruppe quando si accorse della presenza di Raph al suo fianco,
con il Sai nella mano buona.
“Cosa
credi di fare? Stai indietro, non puoi combattere!” lo
riprese con
un lieve tono alterato, teso a percepire la minaccia che ringhiava
nel buio di fronte a loro.
“Io
combatterò e tu non puoi impedirmelo!”
“Oh,
non iniziare! Ubbidisci una buona volta!”
“Non
credo proprio! Non sei il mio capo!”
“Chi
è il fratello maggiore? Chi è in carica
adesso?”
“Abbiamo
la stessa età!”
“Sì,
ma io sono più intelligente.”
“Non
abbastanza da tenermi buono, a quanto pare!”
Un
ringhio basso e potente li sorprese nel mezzo del loro battibecco,
troppo vicino a loro, e gli occhi gialli ormai tanto grandi da
potercisi specchiare dentro, erano ad un tiro di schioppo.
“Un
coccodrillo gigante?” esclamò sconvolto Don,
osservando la fila di
denti aguzzi che scintillavano appena alla luce del telefono ormai
caduto al suolo, incastrata nel muso di almeno un metro di lunghezza
della bestiaccia che li guardava famelico.
“Ma
quanto cazzo è fuori di testa, Hun?”
imprecò liberamente Raph,
stringendo la presa sul Sai, sapendo che non era più che uno
spiedino per quell'enorme rettile di almeno cinque metri che
ringhiava contro di loro.
Leo
e Mikey avanzavano lentamente, con il maggiore che faceva da supporto
al fratellino, per permettergli di camminare e non sforzare
eccessivamente la gamba.
Una
volta appurato che non c'era alcun modo di mettersi in contatto con
l'esterno o i loro fratelli, avevano capito che l'unica maniera per
uscire da lì era cercarsi l'uscita da soli, con le loro sole
forze.
Perciò anche se a malincuore Mikey si era dovuto alzare,
ignorando
il bruciore intenso alla gamba, e insieme si erano incamminati per il
cunicolo semiscuro, piuttosto sul chi vive.
Mikey
riempiva il silenzio con la sua parlantina a lingua sciolta e Leo
sapeva che lo stava facendo per lui, per non farlo impensierire dal
suo colorito pallido e lo zoppicchio lento, ma non riusciva a pensare
appieno con tutta la concentrazione necessaria con quel
chiacchiericcio in sottofondo; e tuttavia lo lasciò fare,
sapendo
che avrebbe
distolto la sua
mente dal dolore.
La
strada che stavano percorrendo non sembrava avere nessun genere di
deviazione e non c'era alcuna possibilità di prendere
un'altra
direzione, perciò stavano andando incontro a tutto
ciò che Hun
aveva messo loro d'innanzi, ubbidientemente... dovevano stare
all'erta, aspettando che i pericoli gli cadessero addosso.
Fantastico.
Davvero fantastico.
Un
flebile suono di strisciata si unì alle chiacchiere di
Mikey, e al
principio pensò di averlo solo immaginato, dato che in una
situazione come quella, nella semi oscurità semi silenziosa,
l'immaginazione tendeva a lasciarsi andare.
“Mikey,
fai silenzio per un attimo” sussurrò sul chi vive,
issandosi
meglio il braccio del fratello sulle spalle.
Nel
silenzio che seguì, entrambi trattennero anche il fiato,
riuscirono
a sentire vari suoni di passi in avvicinamento, lenti e strascicati,
come di qualcuno che faceva fatica a camminare per bene.
“Io
lo so cos'è!” mormorò mortalmente
terrorizzato Mikey, tremando
appena.
“Zombie!”
continuò serio, smontando le sue aspettative, che per un
secondo gli
aveva persino creduto.
Leo
alzò il telefonino e illuminò il tunnel e le
figure nel fondo e il
brivido che gli serpeggiò per la schiena per poco non glielo
fece
cadere di mano.
Sempre
più vicini, un gruppetto di ragazzini sotto droga si
avvicinava a
loro, con le mani cariche di armi e gli occhi spiritati e sbarrati,
con l'ordine di uccidere.
Note:
Buon
giorno a tutti!
Vi
sono mancata? Voi sì, tanto! Siete splendidi! E io mi sono
impegnata
volentieri per potervi accontentare e aggiornare!
Dunque,
siamo in un sotterraneo di misteri pieno di pericoli. E non tutti
stanno bene, purtroppo.
Mi
piacciono queste due squadre, non si vedono quasi mai, invece secondo
me funzionano perché sono diversissimi tra loro. Leo-Mikey e
Don-Raph. Severità-allegria,
razionalità-impulsività!
Come
vedete c'è poca parte descrittiva, poiché sono
nella semioscurità!
Voglio
ringraziarvi ancora per i commenti, i nuovi preferiti, per stare
ancora con me.
Buon
ferragosto!
A presto!
Abbraccione!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 16 *** The strongest bond of Brotherhood ***
Il
rumore strascicato era sempre più forte, forse per la
vicinanza o
perché altri passi si erano uniti ai primi, aumentando le
file di
nemici. Ancora e ancora.
Sembrava
un esercito di zombie, come aveva detto il suo fratellino, che aveva
come unico scopo quello di attaccarli.
“Mikey,
credo che la nostra fuga sarà tutt'altro che
semplice” sussurrò
lentamente, rimettendo il telefonino nella tasca con mano tremante.
Era
stato così stupido da parte sua: senza una fonte di luce
quei
ragazzini non avrebbero di certo potuto localizzarli, invece lui gli
aveva fornito una direzione in cui sparare, piuttosto scioccamente.
Loro
erano ninja, invece; al buio sapevano muoversi più o meno
come in
piena luce, ed evitare quella gang sarebbe stato uno scherzo, se solo
se ne fossero accorti prima.
Ma
era un po' tardi per recriminare, il suo unico pensiero ormai doveva
essere il come portare Mikey fuori di lì senza un graffio e
senza
che la sua ferita peggiorasse.
“Quando
mai qualcosa è semplice, per noi?”
sentì chiedere
sarcasticamente.
Ah,
quanto aveva ragione.
Altri
passi. Sempre più vicini, sempre più veloci.
La
lentezza iniziale che avevano mostrato doveva essere stata solo una
precauzione nel muoversi nelle ombre finché non li avessero
individuati: ormai che erano stati identificati, il gruppo si muoveva
con celerità e silenzio, una minaccia compatta e invisibile
a pochi
metri da loro.
Non
c'era anche Steve in mezzo a loro, no? Non poteva esserci. Non voleva
nemmeno pensare che tra quei visi nell'oscurità potesse
esserci il
suo piccolo amico. Quello che forse era suo amico, non era davvero
più così certo.
Aiutò
Mikey ad appoggiarsi al muro con una spalla e sgusciò da
sotto il
suo braccio, impettito e guardingo.
“Io
devo lottare, ma tu non puoi. Perciò io li
attirerò verso di me,
mentre tu cerchi di sgattaiolare oltre le loro spalle”
esordì,
sottovoce, pensando velocemente ad ogni maniera possibile per attuare
il suo piano.
Mikey
sembrò sul punto di contestare, quando un sibilo
passò in mezzo a
loro, niente più che un leggero spostamento d'aria: Leo
alzò il
braccio e afferrò il pericolo, una freccia letale lanciata a
caso
nel buio.
“Non
abbiamo tempo. E lo sai che non mi sei di alcun aiuto, così
ferito. Fai come ti ho chiesto, per favore”
continuò, gettando la
freccia a terra e appiattendosi contro il muro assieme a lui.
Sentiva
la tensione di Mikey, che probabilmente voleva spezzarla con una
battuta delle sue, sentiva che voleva ribattere, ma che si stava
trattenendo. Perché sapeva che non c'erano molte soluzioni.
“Dammi
uno dei tuoi Nunchaku e tieniti sempre raso muro.”
“Perché
vuoi una delle mie armi?” domandò Michelangelo,
anche se la mano
stava già correndo alla cintura per sfilare il Nunchaku.
“Non
voglio ferire questi ragazzini. Sono sotto effetto di droghe, non
sono davvero in sé... non posso colpirli con le lame. Voglio
solo
stordirli” confessò, con un sorriso tenue per il
suo stupido senso
dell'onore.
Nemmeno
in un pericolo mortale riusciva ad accantonare il riguardo per
un'altra forma di vita: se fossero state persone che ormai erano
affogate nella cattiva strada per proprio volere e senza pentimento,
allora avrebbe potuto usare le armi senza alcun rimorso, prendendo le
loro vite per salvare la sua e quella di suo fratello; ma non era la
stessa cosa con un'orda di ragazzini sotto effetto di droghe, contro
la loro volontà, senza nessuna scelta per tirarsi indietro.
Non
era lo stesso. E se avesse preso anche solo una delle loro vite,
tutto ciò per cui si era allenato, tutto ciò in
cui aveva creduto
fino a qual momento si sarebbe spezzato in un istante.
Afferrò
il Nunchaku di Mikey e si staccò dal muro, portandosi in
mezzo al
corridoio.
“Sai
come si usa, vero? Non te lo tirerai in testa da solo?”
chiese il
fratellino con un tono divertito.
“Ti
ho insegnato io, Mikey. Tu te lo tiravi sempre in testa, quando
eravamo piccoli” sbuffò cercando di suonare
offeso, anche se non
poté proprio trattenere un sorriso al ricordo.
Mikey
si era fatto tanti di quei bernoccoli cercando di usare i Nunchaku,
che da piccoli temettero che avrebbe risentito delle botte per
sempre, -un trauma cranico perenne,- e nonostante tutto non voleva
smettere di provarci, perché erano delle armi fighe, diceva,
e le
usava anche Bruce Lee, diceva... e lui si era allenato di nascosto
per potergli insegnare il modo più semplice di usarli, solo
perché
la smettesse di essere sempre pieno di lividi e bitorzoli.
Sentì
il fratellino ridacchiare tenuemente, di sicuro anche lui perso nel
ricordo.
“Vai
adesso” gli ordinò, prendendo il telefonino e
accendendo il
display, per essere ben visibile nel buio.
“Stai
attento” fu la replica insolitamente seria e sentita di Mikey.
Esplosero
decine di colpi di armi da fuoco, in quello stesso istante, e non
poté sentire una sua risposta, se mai ce ne fu una: Leo
attirò
l'attenzione su di sé con la luce del cellulare, mentre a
lui non
rimaneva che stare appoggiato contro il muro sperando che nessuno
lo percepisse mentre correvano verso suo fratello.
Si
sentiva così inutile.
Non
poteva essere sempre il piccolo da difendere. Non era più il
ragazzino di casa, ormai.
Ma
con la gamba in quelle condizioni, cosa avrebbe potuto fare? Sarebbe
stato davvero un peso, avrebbe davvero potuto mandare le cose di male
in peggio; ma il pensiero di Leo che si faceva carico di tutto era
insopportabile.
Scivolava
raso muro, un passetto alla volta, ascoltando avidamente ogni rumore
nella calca che potesse fargli capire che suo fratello era ancora in
piedi.
Come
diamine erano potuti cadere in una trappola così idiota?
Il
ringhio riecheggiò nel cunicolo, ferendo le orecchie.
Sentirono
il fiato caldo e puzzolente della creatura investirli, troppo vicino,
troppo letale.
“Raph,
per una volta fai come ti dico: lasciami combattere da solo!”
esclamò Don con la mano stretta convulsamente sul bastone,
il
respiro controllato per non produrre più rumore del
necessario.
Non
sapeva nemmeno perché lo stesse facendo: i coccodrilli erano
perfettamente capaci di vedere al buio, perciò quell'enorme
rettile
sapeva esattamente dove fossero, anche se loro si fossero mantenuti
nel più assoluto silenzio. Doveva essere quella sottile
paura che
provava sottopelle a sballargli i pensieri razionali.
Raphael
sbuffò forte, giusto per comprovare che lui invece non aveva
paura
per nulla, e alzò la mano col Sai, pronto ad attaccare.
“Non
ce la farai” esalò asciutto, provando a muovere il
braccio
fasciato, che gli mandò una scarica di dolore.
“Certo
che ce la farò, dovresti finirla di
sottovalutarmi” sibilò piano,
cercando di suonare pratico come suo solito.
Ma
un po' di risentimento era scivolato nella sua voce, al pensiero che
i suoi fratelli lo vedessero sempre come il secchione imbranato della
famiglia, meno capace degli altri per quanto riguardava la sua parte
ninja. Sì, era meno muscoloso dei suoi fratelli e meno
veloce, e la
sua arma sembrava più innocua rispetto alle loro, e molte
volte
prediligeva gli studi e le invenzioni agli allenamenti, ma era capace
e forte tanto quanto loro.
Certo,
farsi battere quasi sempre ai primi round degli scontri non
contribuiva a diminuire quell'idea che avevano di lui, a ben
pensarci, ma era diverso in quel momento. Era il fratello maggiore e
avrebbe dato il tutto e per tutto per proteggere Raph, a qualunque
costo.
Raph,
però, non sembrava colpito dalla sua determinazione: non si
fece da
parte, non indietreggiò, non smise di confrontare il vuoto con l'arma
alta e pronta a colpire.
“Non
è questione di sottovalutarti o meno: c'è un
coccodrillo di almeno
otto metri dalla coda al muso ricoperto di denti affilati... per lui
sei solo uno spuntino. Non posso lasciarti da solo” lo
sentì
rispondere accorato, pochi centimetri alla sua sinistra.
Un
tremore sotto i loro piedi li avvisò che il rettile si
avvicinava
con le sue enormi zampe, ormai ad un tiro di schioppo.
“Raph,
lo so che ti stai preoccupando per me... lo fai sempre. Continui a
tenerci tutti sott'occhio, a proteggerci, a cercare di tenerci al
sicuro; ti fai sempre carico del doppio del lavoro e delle
preoccupazioni di noi altri, perché non tolleri l'idea che
ci possa
succedere qualcosa... e lo apprezziamo, te lo assicuro. Sappiamo che
è il tuo modo di dimostrarci affetto, un po' diverso dal
normale, ma
abbastanza comprensibile. Ma adesso non è il momento! Con
quella
spalla non sarai di nessun aiuto, anzi, mi faresti solo distrarre per
controllarti e se fai un movimento sbagliato comprometterai la tua
salute, irrimediabilmente! Fai come ti dico!”
Sentì
il fratello respirare forte, assorto nell'ascoltare la sua invettiva,
così razionale e logica, proprio da lui. Sapeva che Raph era
contrario ad ogni forma di rigore e ragione, per quel motivo loro due
erano virtualmente agli antipodi, ma sapeva anche che poteva capire
un ordine velato, quando ne riceveva uno di così sensato.
“Non
posso, Don. Non hai molte possibilità”
insisté ancora una volta,
anche se percepì un lieve cedimento nel suo tono.
“Non
preoccuparti: ho già un piano! Ma ho bisogno di sapere che
tu sei al
sicuro prima di attuarlo” gli confidò fiducioso,
sorprendendolo.
Percepì
il suo sguardo affilato anche nella semi oscurità e sorrise
tra sé
per essere riuscito per una volta a lasciarlo senza parole.
“Un
vero piano?”
“Sì.
Ma devi andare avanti per primo. Appena ti do il segnale, scivola tra
le zampe del coccodrillo senza farti scoprire, mentre io attiro la
sua attenzione, e poi corri via seguendo il corridoio, senza sforzare
troppo la spalla. Io ti raggiungerò il prima
possibile” spiegò
velocemente, mentre il bastone roteava nella mano, riproducendo il
sibilo del vento, per mandare in confusione la bestia di fronte a
sé.
“Mi
raggiungerai?” domandò timoroso Raph, ancora non
del tutto
convinto.
“Contaci.”
Allungò
un pugno chiuso verso di lui e Raph ci batté il suo contro,
con
forza, trasmettendo in quel fugace contatto ogni parola non detta,
ogni paura nascosta, ogni incitamento possibile.
Il
bastone
sibilò più forte, cancellando ogni altro suono.
“Vai!”
urlò Don gettandosi contro il bestione che ringhiava,
colpendolo sul
muso rugoso per attirare la sua attenzione.
Il
tonfo del legno contro la spessa pelle coriacea si propagò
in ogni
dove, unito ai ruggiti arrabbiati del rettile, che si dimenò
nel
corridoio, avventandosi contro il suo aggressore: uno spiraglio
apparve tra le sue zampe e Raph scivolò sotto indisturbato,
rialzandosi dall'altra parte del bestione, vicino alla sua coda
spinosa e lunga come una frusta.
Titubò
un paio di secondi, indeciso se intervenire o meno: voleva dare una
mano, fare tutto ciò che era possibile per aiutare suo
fratello, ma
voleva anche dimostrargli di avere fiducia in lui, nella sua forza,
nelle sue idee. Combatté ancora un po' contro sé
stesso, in preda
al conflitto.
Colpi
di bastone e ringhi, stridore di unghie e squame contro i muri e
colpi di coda che sbattevano sulle superfici con tonfi vibranti,
l'aria ne era piena e non riusciva a capire cosa stesse succedendo
precisamente, seppure stesse tutto accadendo a pochi metri da lui.
“Non
ti sento correre!” lo raggiunse la voce affannata e alta di
Don,
impegnato a combattere. Eppure suonava anche un po' divertito.
“Farai
meglio a raggiungermi!” gli gridò a sua volta,
spronando le gambe
a correre via, anche se il suo cuore gridava per rimanere lì
e
lottare, con tutta la disperazione possibile.
Il
Nunchaku girava nella sua mano con solo un po' di titubanza. Anche se
era un'eternità che non ci faceva pratica, non aveva perso
del tutto
la mano, fortunatamente.
Leo
attaccò e sentì l'arma sbattere contro un osso
nel buio e un lieve
mugugno di dolore sfuggito al proprietario di suddetto osso: dopo una
pioggia di colpi finalmente anche quegli zombie resi insensibili
dalla droga cominciavano a sentire un po' di dolore; aveva cominciato
a perderci la speranza.
Non
sapeva nemmeno da quanto tempo stesse combattendo contro di loro,
lì
sotto sperduti nel buio, perché il tempo non sembrava avere
più
presa nelle menti, come se fossero in una dimensione alternativa: la
stanchezza gli faceva pensare di essere lì da giorni ormai,
ma il
cervello gli diceva che non era possibile.
Di
certo, qualunque fosse la realtà, erano già da
troppo tempo in
quella trappola, e dovevano uscirne al più presto.
Mikey...
Mikey era riuscito a scappare?
Ruotò
con più forza il Nunchaku, colpendo con forza eppure
trattenendosi
per non fare davvero male, pregando che il suo fratellino avesse
raggiunto un'uscita e che non si fosse imbattuto in nessun altro
pericolo.
Sentiva
la presenza di almeno una decina di persone attorno a lui, ragazzini
bramosi di vederlo a terra, per poter finire il loro compito: avevano
smesso di sparare, una volta che si erano avvicinati a lui, e avevano
iniziato a cercare di colpirlo con spranghe, mazze e armi bianche,
come coltelli, provando al contempo ad allontanarsi, per non essere
colpiti dal Nunchaku che roteava preciso verso le loro parti vitali,
anche nel buio.
Erano
sicuramente in svantaggio, rispetto a lui: poteva sentirli,
percepirli con la mente; aveva chiuso perfino gli occhi per non
essere distratto da fonti di luce esterne, per poterli sentire.
Eppure fino a
quel momento ne
aveva mandato al tappetto solo cinque, colpiti ripetutamente
finché
non avevano infine perso i sensi.
Schivò
un attacco con spranga
scivolando a sinistra e si abbassò per evitare un colpo di
bastone
diretto alla testa, colpendo poi il più vicino di quei
ragazzi
proprio sotto l'orecchio, mandandolo giù come un sacco vuoto.
Sorrise. Beh, se avesse potuto
prenderli di sorpresa e colpirli nel punto giusto, avrebbe finito in
un secondo, senza troppi danni inflitti. Ma come poter distrarre la
loro attenzione?
Cercò
di schivare un affondo di coltello, ma nella foga non riuscì
a
piegarsi in tempo per evitare il colpo dall'alto: la mazza si
schiantò contro la sua spalla violentemente, con un rumore
preoccupante delle ossa.
Un solo gemito di dolore sfuggì
dalle sue labbra prima di scansarsi velocemente per non essere
colpito ulteriormente, anche se con fatica per la sofferenza che si
irradiava dalla spalla fino alle più piccole cellule del
cervello.
Doveva muoversi: più tempo
passava, più possibilità avevano quegli sbandati
di colpirlo, con
colpi di fortuna alla cieca.
“Avanti,
forza! Colpite!
Uccidete!” risuonò la voce di Hun nel buio,
cavernosa e
impaziente, distraendo i ragazzini.
Anche lui si era un attimo
congelato nel sentirla, sorpreso nel capire che probabilmente lui
stesse seguendo tutto da qualche stanza su, grazie a telecamere
installate nel corridoio. Beh, aveva senso con la sua pazza vena
sadica.
Eppure la sua voce gli era stata
più d'aiuto che d'intralcio: approfittò del
secondo di distrazione
e scivolò veloce nelle ombre, alle spalle dei suoi
assalitori,
colpendo le loro nuche con un solo attacco deciso e preciso, quasi
chirurgico; cinque caddero al suolo con un tonfo molle, allarmando
quelli vicini che li percepirono perdere i sensi, alcuni addirittura
trascinati giù dai corpi svenuti dei loro compari.
Quelli che poterono si
allontanarono in preda al panico all'indietro, cercando di riprendere
distanza e padronanza della situazione in fretta, anche se
riuscì a
sentire i loro rantoli disperati e spaventati.
“Leo!
Fai attenzione!” urlò
la voce di Mikey all'improvviso, più vicino di come si era
aspettato. Sembrava essere lontano solo pochi metri, alla sua
destra... ma allora quello sciocco non era andato via!
Sentì i ragazzini rimasti
gettarsi nella direzione della voce del fratello, tutti cinicamente
emozionati all'idea di poter prendere facilmente quello dei due
ferito, perciò con una morsa in gola si tuffò
nella loro scia e ne
falciò altri tre con colpi di Nunchaku ben assestati, decisi
quel
tanto che bastava: gli ultimi due arrivarono alla fonte della voce e
portavano attacchi alla cieca, ma fortunatamente non sentì
nessun
rumore né lamento che potesse indicare che Mikey fosse stato
colpito: saltò per scavalcare quelli a terra e
atterrò proprio
dietro le loro spalle, attaccando in un secondo.
Rimase
fermo e impettito a
riprendere fiato, con le orecchie tese, con una distesa di ragazzini
svenuti ai piedi, la mente attenta per percepire altre minacce.
“Mikey!
Dove sei? Come stai?” urlò in apprensione,
cercando di percepire
la presenza di suo fratello da qualche parte, inutilmente.
“Quaggiù!”
ricevette in
risposta, da una voce piuttosto esile e lontana nel corridoio, molto
molto distante da lui.
Corse con tutte le sue forze,
chiedendosi come avesse fatto ad allontanarsi così
velocemente con
la gamba ferita, ed in effetti, pensandoci bene, era impossibile.
Sentì
l'aura allegra di Mikey
già a qualche metro di distanza e si fermò a
pochi passi da lui col
fiatone, incredulo e sollevato.
“Stai
bene? Come.. come...”
ansimò frettolosamente, appoggiandosi al muro al suo fianco
per
riposarsi un attimo.
Michelangelo ridacchiò
sommessamente e Leo sentì una vibrazione propagarsi per la
parete,
correndo di mattone in mattone fino alla fine del corridoio.
“Sto
bene! Mi sono allontanato in fretta e mi sono appoggiato qui per
aspettarti, perché la gamba non ce la faceva più
a reggermi, e
all'improvviso ho sentito un gran frastuono, come se non mi fossi
allontanato nemmeno di un centimetro da te e lo scontro. È
un fenomeno
strano: le
voci e i rumori così lontani scivolano sui mattoni e
arrivano
perfetti e integri come se la persona fosse vicina a te”
spiegò il
fratellino con un grosso sorriso che riuscì a sentire anche
nell'oscurità.
“Allora...
hai parlato di
proposito? Hai attirato l'attenzione verso un punto cieco per
aiutarmi?” domandò incredulo Leo, sorpreso e anche
colpito dalla
vincente mossa di Mikey.
L'altro rise in risposta, fiero
di sé.
“E
non mi dici nulla per la
mia imitazione di Hun?” gongolò Mikey, sicuro di
sorprenderlo
ancora di più.
Leo
spalancò gli occhi, poi
scoppiò a ridere, inaspettatamente.
“Sei
straordinario, Mikey! Sul
serio!”
“Beh,
sì, grazie. Non mi
chiamano 'il magnifico' per nulla” si pavoneggiò
quegli, piuttosto
lusingato dai complimenti che il suo fratellone gli rivolgeva.
“Chi
ti chiama così?”
chiese Leo staccandosi dalla parete e aiutandolo a sua volta per
potersi rimettere in marcia.
“Io,
per adesso. Ma vedrai che
prima o poi riuscirò a diffonderlo ovunque!”
replicò mezzo serio
l'altro, appoggiandosi a lui per avanzare lentamente nella penombra,
un passo alla volta.
Raph si
muoveva velocemente,
almeno quel tanto che poteva senza che la spalla gli mandasse una
nuova fitta al cervello, costringendolo a fermarsi per riposare: nei
primi minuti i ringhi e il rumore di lotta alle sue spalle era andato
via via affievolendosi, ma ormai era un bel po' che non sentiva nulla
se non il rumore felpato dei suoi passi e il suo respiro affannato e
spezzato.
Don se la stava cavando alla
grande, no? Era in gamba, non poteva soccombere facilmente ad un
bestione del genere, anche se era grosso e aggressivo e pericoloso...
Basta. Sarebbe tornato indietro!
Non poteva continuare a scappare come un mollaccione mentre suo
fratello rischiava il collo tra le fauci di un enorme rettile
assettato di sangue. Non avrebbe dovuto acconsentire ad andarsene
già
dall'inizio, non era comunque nelle sue corde correre via e lasciarsi
proteggere, non era giusto, non era...
Rizzò
le orecchie, assorto:
gli era sembrato di sentire un rumore estraneo avvicinarsi. Rimase in
ascolto per un paio di secondi finché non lo
sentì di nuovo: un
fruscio flebile e attento, alle sue spalle... Don?
Ma se invece fosse stato
qualcos'altro? Una nuova minaccia scivolata giù da una
botola di cui
loro non sapevano nulla?
Afferrò il Sai con la mano
ancora mobile e si tese in ascolto, trattenendo perfino il respiro,
ogni muscolo pronto e guizzante per attaccare al primo segno di
pericolo.
Il fruscio
divenne pian piano un
rumore felpato, sempre più forte e ritmato.
“Raph!
Sono io!” sentì
strillare Don, con sollievo e premura, ormai vicino pochi metri.
“Donnie!”
esultò,
accogliendo l'arrivo del fratello con gioia.
Ci era riuscito, era riuscito a
mettere KO una bestiaccia di otto metri, tutto da solo, senza danni
apparenti.
“Come
stai? Niente di ferito?”
gli chiese solo leggermente in apprensione, allungando il braccio
sano nel buio per toccarlo. Gli afferrò la spalla e la
strinse,
grato di averlo lì con sé, tutto intero.
“Solo
qualche graffietto. Sto
bene, non mi ha colpito” lo rincuorò il fratello,
con un respiro
affannoso per riprendere fiato.
“Come
hai fatto? Il
coccodrillone è morto?”
“No,
è ancora vivo. L'ho
stordito con un dispositivo con impulsi sonar. Gliel'ho lanciato in
bocca quando mi si è lanciato contro con le fauci spalancate
e poi
l'ho scavalcato con un salto col bastone. Non è quello che
avresti
fatto tu, ma ha funzionato” constatò con un'alzata
di spalle,
piuttosto semplicemente. Anche se nulla nella lotta contro quel
feroce alligatore era stato semplice: le sue file di denti avevano
schioccato vicino a lui ripetutamente, mentre la bestia
cercava di staccargli la carne dalle ossa.
“E
sei sicuro che non si
riprenderà e ci verrà dietro?” fu la
domanda cauta di Raph, che
evidentemente era ancora scettico.
“Certo
che si riprenderà! Ma
è troppo grosso per potersi voltare nel corridoio,
rimarrà
incastrato se solo ci prova, perciò... siamo al
sicuro.”
La mano di Raph si strinse più
forte sulla sua spalla.
“Ben
fatto, fratellone”
lo elogiò, rincuorato.
Si incamminarono per il tunnel,
fianco a fianco, diretti verso l'ignoto, ancora una volta.
“Da
quanto tempo siamo qui
sotto, Mikey?” domandò Leo, forse solo per sentire
la voce del
fratello.
Mikey si era fatto sempre più
silenzioso via via che avanzavano e il suo corpo si era lasciato
andare sempre più contro il suo, stanco e sofferente.
Arrancava
senza una parola, con il respiro appena più pesante, per lo
sforzo
di resistere al dolore e andare avanti.
“Non
lo so. Mi sembrano
giorni. Ho una gran sete” esalò, barcollando
appena.
Leo si fermò all'istante e lo
aiutò a poggiarsi lentamente al suolo, senza strattonarlo
troppo.
“Non
ho niente da bere, mi
dispiace. Ma riposa un po'.”
Rimase in
silenzio al suo
fianco, ascoltando il suo respiro regolarizzarsi un po', meditabondo.
“Pensi
che ci sia un'uscita?”
domandò d'un tratto Mikey, concretizzando i suoi pensieri.
“Non
lo so... ma lo spero. Se
non è troppo strano sperare che quel sadico di Hun abbia
messo una
via d'uscita di questo tunnel oscuro e pericoloso... sì, ok,
lo è.”
Sentì il fratellino ridacchiare
lievemente e il suono lo risollevò un poco.
“Vado
in avanscoperta. Solo
qualche metro, torno subito, solo per dare un'occhiata. Ok?”
propose d'un tratto.
Voleva lasciare a Mikey il tempo
di riprendersi e in più controllare per bene il tunnel, nel
caso
presentasse ancora qualche sorpresa.
Lo vide annuire stancamente
nella penombra, perciò si incamminò a piccoli
passi, con la mano
poggiata contro il muro.
Avanzò
col magone, passo dopo
passo, finché non inciampò in una sporgenza nel
terreno e rischiò
di spiaccicarsi la faccia per terra; fortunatamente riuscì a
riprendere l'equilibrio appena in tempo. Allungò il piede e
sentì
la presenza di gradini.
Gradini verso l'alto.
Corse indietro, più euforico e
veloce di prima, e ricoprì quei pochi metri che lo
separavano dal
fratello in pochi secondi.
“Una
scala, Mikey! Una scala
verso su!” gli annunciò contento, sicuro di
rallegrarlo.
“Sì!
Usciremo da qui!”
esultò l'altro, con un tono felice e incredulo.
“Potrebbe
anche essere una
trappola... ma non abbiamo altre scelte al momento”
constatò
pratico Leo, aiutandolo a rialzarsi.
“Affronteremo
i problemi
quando e se ne troveremo” aggiunse saggiamente, rincuorato
dalla
presenza di Mikey.
Era stato contagiato dal suo
ottimismo e non sarebbe stato di certo lui a smorzare l'entusiasmo
del fratellino.
“Da
quanto diamine stiamo
camminando? Mi sembra di aver percorso chilometri” esplose
Raph,
continuando tuttavia a camminare, come un automa.
“Se
sei stanco o dolorante
possiamo fermarci" propose Don, che aveva capito che il suo
lamento
era dato dalla spalla. Probabilmente lo stava facendo impazzire dal
dolore, ma non si era lasciato sfuggire un lamento, nonostante tutti
gli scossoni e il movimento che compiva.
“No,
sto bene” fu l'asciutta
risposta, a denti stretti.
Don sospirò piano, cercando di
non farsi sentire da lui. Non si poteva aspettare altro dallo
stoicismo di Raph... se avesse avuto almeno un antidolorifico,
qualsiasi cosa che potesse alleviargli un po' il dolore.
Un boato li raggiunse da dietro,
un ruggito possente e arrabbiato, che li fece voltare entrambi sul
chi vive.
“Don...
sei sicuro che il
coccodrillo non potesse girarsi, vero?” domandò
Raph, che era
certo di aver capito cosa avesse prodotto il suono minaccioso di poco
prima.
“Certo
che sono sicuro! Ci
stava a malapena, occupava tutto lo spazio da un muro all'altro! Non
è possibile che... a meno che... non abbia fatto una
capriola su sé
stesso, ma.. è impossibile!” rispose il genio,
sottosopra,
ascoltando anche lui il rumore di passi pesanti che si avvicinavano.
“A
quanto pare è un
coccodrillo molto intelligente o molto snodato”
replicò a sua
volta, piuttosto seccato e preoccupato dalla minaccia che si
avvicinava velocemente.
“Hai
un'altra bomba sonica?”
aggiunse, presagendo già la risposta.
“No.”
“No.
Lo sapevo. Allora non ci
restano molte alternative...”
“Sì,
muoviti. Dobbiamo
trovare un'uscita prima che lui trovi noi!”
replicò Don
afferrandolo per il braccio sano e tirandolo via, provando a
distanziare il feroce rettile.
“È
un'idea molto scema! Rimaniamo qui a combatterlo!”
“Corri
e sta zitto!”
Il
rumore frettoloso dei loro passi non riusciva a coprire appieno il
rombo della grossa bestia che correva alle loro spalle e non gli era
di nessun aiuto la spalla che bruciava e doleva come se fosse
trafitta da spranghe di ferro.
Don,
davanti a lui, si lasciò scappare un'esclamazione sorpresa
al
sentire il vuoto sotto al piede, e lo bloccò col braccio
appena
prima che lui ci cadesse dentro, in bilico su un'enorme voragine.
Dietro
la bestia, davanti l'ignoto.
“Non
credo che scendere sia una buona idea... noi dobbiamo andare
su”
mormorò tra sé, cercando di pensare in fretta:
quanto poteva essere
grande la voragine? E quante possibilità avrebbero avuto se
avessero
affrontato il coccodrillo?
Allungò
il telefonino e illuminò l'oscurità e forse
riuscì a intravvedere
il pavimento rimandare un riverbero a una decina di metri sotto. Non
sembrava così profondo.
Era
perso in ragionamenti e calcoli, ma Raph aveva già pensato
per tutti
e due: una mano si poggiò sul suo guscio e lo spinse di
sotto, con
un tocco leggero.
“Ricordati
di cadere con le tecniche ninja. E non sbattere quella tua testa da
genio” gli sussurrò mentre ormai lui cadeva
giù, la familiare
sensazione di vuoto al centro dello stomaco, poco prima di sentire un
ringhio prodigioso risuonare lì dove si trovava qualche
secondo
prima.
“Raph!
RAPH!” urlò con tutte le sue forze, anche se ormai
l'oscurità e
la bestia ruggente si erano inghiottiti ogni suo suono.
Note:
Buona
notte! Ormai la sto prendendo d'abitudine a postare di notte!
Mi
scuso per il ritardo, è stata una settimana che... sono
contenta che
sia quasi finita, credetemi! Spero solo che l'influenza non mi
prenda, io corro veloce, spero di seminarla!
Comunque:
pensavate che le cose si sarebbero risolte in questo capitolo? No, mi
spiace! Siamo ancora nel pathos e nei problemi fino al collo! Poveri
i miei tesori! Vi giuro che li amo!
Ma
quanto sono dolci queste due accoppiate? Li adoro, come molte di voi
si sono accorte, sono dei fratelli fantastici!
Rinnovo
i miei ringraziamenti! C'è tanto seguito, tanti commenti,
nuovi
lettori e nuovi preferiti: grazie di cuore! *_*
A
presto!
Megaabbraccio
light!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 17 *** Escape from hell ***
Cadde
a peso morto, urlando il nome del fratello con disperazione,
chiedendosi perché non fosse in caduta libera insieme a lui;
si
ricordò appena in tempo di compiere un paio di capriole per
smorzare
la velocità di discesa e toccò il pavimento solo
leggermente
intontito e dolorante per il contatto contro le ginocchia, a
velocità
ancora troppo sostenuta.
Guardò
verso l'alto immediatamente, cercando di scorgere i contorni del buco
e la presenza di Raph, ma non riusciva a capire granché,
senza una
fonte di luce: ma era ancora lì, sentiva i ringhi del
coccodrillo
riempire l'aria con versi arrabbiati e c'era solo un essere al mondo
che poteva dargli filo da torcere.
“Raph!
Dove sei? Scendi, Raph!” urlò con tutta la sua
forza per farsi
sentire.
Anche
se era certo che fosse inutile, perché non era possibile che
la sua
voce potesse sovrastare il trambusto che arrivava da lassù,
nemmeno
una piccolissima possibilità.
Ma
perché suo fratello aveva gettato lui di sotto e poi non lo
aveva
raggiunto? Perché era rimasto a confrontare il coccodrillo,
quando
aveva la salvezza a portata di mano, assieme a lui? Che Raph fosse
convinto che il rettile avrebbe potuto raggiungerli?
Certo
che era così: il suo apprensivo, sempre vigile e protettivo
fratello
minore si stava immolando per trattenere la bestiaccia e dargli
così
il tempo di fuggire... ma non c'era possibilità che perfino
uno come
lui potesse far fuori una bestia di quelle dimensioni, con una spalla
fuori uso, per di più.
Doveva
cercare un modo per tornare su e dargli una mano, ma intorno c'era
solo buio e nient'altro.
Il
suono di una goccia che si schiantava violentemente al suolo
attirò
la sua attenzione e si avvicinò alla fonte, lentamente: un
forte
odore di ferro lo assalì e alla luce del telefonino tirato
fuori di
tasca per l'occasione, vide i cerchi rosso cremisi dai contorni
sfrangiati a terra, mentre nuove gocce cadevano.
Sangue.
Sangue
che colava dal soffitto.
“No!
No! NO! Raph!”
Sbuffò
forte per riprendere fiato, mentre saliva un altro gradino e
trascinava letteralmente Mikey sullo stesso; aveva perso anche il
conto di quanti milioni di scalini avevano già percorso, ma
erano di
certo troppi: quella scala sembrava non avere mai fine e non portare
davvero a niente.
E
Mikey sembrava essere arrivato allo stremo, a causa dell'abbondante
perdita di sangue e dello sforzo continuo; ormai doveva sollevarlo
quasi di peso gradino per gradino e la sfumatura di verde sul suo
viso era davvero troppo pallida e tendente al giallo e il suo respiro
corto e irregolare.
Ma
era il suo strano mutismo a preoccuparlo davvero.
“Siamo
quasi arrivati, Mikey. Vedrai che non manca molto”
esalò per
rassicurarlo e magari strappargli qualche parola.
Il
fratellino annuì lentamente e inspirò a fondo, ma
non aggiunse
altro, troppo attento a concentrare ogni energia nel difficile
compito di salire i gradini senza svenire: sentiva una gran nausea
risalire dal fondo dello stomaco e un bruciore infernale alla gamba
ormai senza sensibilità.
Non
se la sentiva di parlare, non se la sentiva di essere un peso morto,
di dover ancora fare affidamento sulla protezione e la pazienza di
Leo, senza poter essere di nessun aiuto, ed era davvero preoccupato
per gli altri suoi due fratelli, dai quali non avevano alcuna notizia
da almeno qualche ora... se lui era ridotto in quello stato, come
stavano Don e Raph? Stavano bene, si erano feriti, erano in pericolo?
“Guarda,
Mikey... vedi anche tu quella linea?” domandò la
voce di Leo,
cercando di trattenere invano una debole nota di agitazione.
Alzò
il viso e scrutò nell'oscurità di fronte a
sé e la vide: una
piccola linea di luce che si stagliava contro il nero, sottile e
fragile da sembrare magica, e il cuore di entrambi accelerò
esponenzialmente, di attesa.
Della
luce entrava da quello che sembrava lo spiraglio di una porta e per
quanto entrambi non sapessero cosa aspettarsi al di là,
sapevano per
certo che poteva essere una speranza di salvezza.
Percorsero
gli ultimi gradini, sempre più stanchi e provati, col fiato
sempre
più corto e i muscoli doloranti, ma l'eccitazione era tanta
che
perfino Mikey sembrava aver ritrovato energia da chissà dove
e
zompettava un gradino alla volta con una gamba sola, tenendosi a Leo
per non perdere l'equilibrio: arrivarono ad un piccolo pianerottolo
chiuso su tre lati, piuttosto stretto per entrambi, con un piccolo
foro di luce che li toccava, entrando dalla toppa della porta.
“Ci
siamo. Sei pronto, Mikey?” domandò Leo, serio e
asciutto,
allungando la mano libera a tentoni verso la maniglia.
“Sì.
Pronto” rispose a sua volta, parlando per la prima volta da
non
sapeva nemmeno quanto.
C'era
ansia e paura sotto pelle, per l'ignoto che celava quella porta e che
avrebbero dovuto affrontare di lì a qualche secondo, ma
avevano
entrambi la risoluzione di non poter restare per sempre ingabbiati
lì
sotto, senza possibilità di futuro.
L'ignoto
spaventoso era meglio della certezza quieta, in quel momento.
Leo
abbassò la maniglia e spalancò piano la porta e
tutti e due
strinsero le palpebre con forza, per difendersi da tutta quella luce
che feriva gli occhi, dopo quell'eternità di ombre e buio.
Ci
misero qualche istante per potersi davvero guardare attorno e capire
dove fossero, ma erano rimasti entrambi vigili per tutto il tempo per
sentire eventuali presenze e fino a quel momento si reputarono al
sicuro: infine spaziarono con lo sguardo in lungo e in largo,
attoniti.
“È...”
iniziò a dire Leo, sorpreso.
Si
trovavano in un grande ring ottagonale, recintato da alte mura di
pietra grigia e spessa, ricoperto di spuntoni in ferro e delimitato
in alto da una gabbia in metallo. Al di là riuscirono a
vedere
spalti in pietra e un palchetto sontuoso, che si affacciavano
direttamente su di loro.
“...
un'arena” finì per lui Mikey, con un sussurro
tetro.
Entrambi
sapevano che si trovavano lì perché Hun aveva
deciso altrimenti e
che se era un'arena il luogo scelto per il loro ritrovo, dovevano per
certo aspettarsi mercenari assoldati per combattere contro di loro o
bestie feroci e affamate, solo per il divertimento dei loro
spettatori.
Ma
dove erano, gli spettatori?
Come
richiamati dalla domanda mentale, una porta si aprì vicino
al
palchetto centrale e una moltitudine di uomini si riversò
nella
stanza, coi visi sorridenti e fieri puntati su di loro, prendendo
posto negli spalti. Hun fece la sua entrata trionfale e sciolta,
nonostante la mole che ancora si portava appresso, e si
portò al
centro del palchetto, gli occhi di ghiaccio che non avevano lasciato
per un secondo lo sguardo di Leo, come a volerlo sfidare.
“Uno
ancora intonso e uno ferito... due ancora giù. Decisamente
non
quello che mi aspettavo. Decisamente ancora troppe tartarughe per i
miei gusti” esalò gelidamente, senza lasciar
trasparire la furia
che lo scuoteva.
“Dove
sono i miei fratelli, Hun? Cosa speri di ottenere con questi
giochetti? Scendi giù e affrontami con onore, invece di
nasconderti
dietro a queste trappole e alla vigliaccheria!”
urlò Leo fuori di
sé, sgusciando da sotto il braccio di Mikey, -che
barcollò un po'
prima di trovare l'equilibrio su una gamba sola,- e facendo dei passi
in avanti.
Il
leader teneva il capo puntato verso l'alto e i muscoli pronti per
prendere le Katana dalla schiena per ogni evenienza, ma non
poté in
alcun modo evitare la sua sorte: la pistola contro di lui spuntata
tra le mani di Hun dal nulla, sparò troppo in fretta e se si
fosse
spostato il proiettile avrebbe preso in pieno Mikey, proprio dietro
le sue spalle.
Perciò
non mosse nemmeno una cellula del suo corpo e prese il colpo in piena
spalla, ondeggiando un po' per il contraccolpo e la sofferenza,
serrando la mandibola con forza per non gridare mentre il bussolotto
di metallo si faceva strada tra la sua carne.
Mikey
gridò il suo nome, invece, con preoccupazione: lo
sentì tra il
dolore e il bruciore e le grida sguaiate del pubblico sugli spalti,
che incitava Hun di continuare a sparare.
“Onore?
Di quale onore stai parlando, mostro? Io non ce l'ho più, un
onore:
l'ho gettato via servendo un ripugnante alieno dalla forma di
cervello per anni, credendolo un maestro, umiliandomi ai suoi piedi,
senza ritegno. E quel poco che mi era rimasto lo avete consumato voi
schifosi mutanti, continuando a mettermi i bastoni tra le ruote,
ancora e ancora, non importa cosa facessi. Ecco dov'è finito
il mio
onore. Non è più tempo di quelle stronzate.
Adesso è solo un
uccidi e subito, senza scontri onorevoli e
dall'esito
incerto!” gridò infervorato Hun, con gli occhi
lucidi di follia e
rabbia e la pistola ancora puntata su di loro.
“E
giusto perché tu lo sappia, i tuoi fratelli sono spacciati.
Andati.
Morti” disse crudelmente, con un sogghigno soddisfatto e il
solito
coro di risatine compiacenti del suo seguito, che rimbombava crudele
e graffiante alle loro orecchie.
Mikey
urlò sconvolto, mentre lui, con ancora i denti stretti per
il
dolore, si mantenne esteriormente impassibile, anche se una piccola
parte del suo cervello credeva a quelle parole e stava gridando di
pazzia.
“Non
ti credo. Sono vivi” esclamò con sicurezza, anche
se era ben
lontano dall'esserne davvero certo.
Ma
doveva aggrapparsi a quella speranza, doveva credere che fossero
vivi, o tutta la disperazione gli sarebbe caduta addosso, cancellando
ogni altra sensazione.
Hun
gli rimandò un sogghigno certo e malvagio, mentre schioccava
le dita
verso uno dei suoi scagnozzi, che si precipitò a tirare
giù una
piccola leva alla sua destra, prontamente.
“Non
entrambi. Uno di loro è spacciato”
rivelò, soddisfatto.
Il
pavimento sotto di loro iniziò a tremare e la porzione
centrale si
aprì come una voragine, costringendoli ad indietreggiare
verso le
pareti, in apprensione: una piattaforma iniziò a salire con
un
cigolio cupo e solo dopo alcuni secondi videro apparire oltre il
bordo dello spazio un groviglio di nero, verde e rosso.
Troppo
rosso, che macchiava il bianco della piattaforma, che copriva i corpi
dei loro due fratelli.
Don
era chino su Raph, che era completamente ricoperto di sangue e
lacerazioni, e provava a fermare le emorragie, in preda al panico: il
loro fratello dal temperamento rabbioso era palesemente ferito dalla
testa ai piedi e l'osso dell'anca della gamba sinistra aveva
trapassato la carne e spuntava acuminato e ricoperto di rosso e
tendini e brandelli di muscoli, in maniera dolorosa e da
voltastomaco.
“Raph!
Donnie!” urlarono insieme lui e Mikey, gettandosi verso di
loro
nonostante le ferite.
Don
sollevò lo sguardo al sentire le loro voci e riuscirono a
vedere un
tenue sollievo nei suoi occhi al vederli entrambi vivi.
“Siete
vivi, siete interi” esalò sull'orlo di una crisi
di nervi,
palesemente al limite.
Le
mani non si erano fermate un attimo nel premere contro le ferite di
Raph, supino a terra, per impedire senza successo al sangue di
uscire: le sue braccia ne erano piene, usciva a fiotti da
decine di lacerazioni disseminate per tutto il corpo del loro
fratello, dalla faccia alle braccia, dal busto fino ai piedi.
Quell'osso esposto poi, era la ferita peggiore che avessero mai
visto.
Raph
gemeva piano di dolore e strazio, provando con tutte le forze a
trattenere le grida e lottando per non svenire: respirava con respiri
corti e strazianti e il suo colorito era quasi bianco,
incredibilmente.
“Stai
bene, Donnie? Cos'è successo a Raph? Come sta?”
domandò in fretta
Leo, chinandosi anche lui per premere con la mano ancora sana su una
ferita all'addome del fratello, strappandogli senza volere un piccolo
grido quando lo toccò.
“Io...
io sto bene. Il sangue è di Raph e del
coccodrillo” rispose come
in trance, con una voce sottile e angosciata da far pietà.
“Un
coccodrillo?” domandarono Mikey e Leo, sconvolti.
“Lui
è rimasto indietro per affrontarlo e mi ha spinto di sotto
per
proteggermi, ma dopo poco tempo sono caduti entrambi giù,
avvinti
nella lotta, ricoperti di sangue; Raph è stato morso
più volte e io
potevo sentire il cigolio delle sue ossa spezzarsi, risuonare nel
buio come colpi di fucile” raccontò ancora sotto
shock, con le
mani che tremavano sul corpo del loro fratello.
“Almeno
tu stai bene. Anche Raph se la caverà, ha la scorza
dura” lo
rassicurò Leo, provando a fermare quell'angoscia che si era
impossessata di Don, stranamente.
Vedere
lo scontro tra Raph e il coccodrillo, e tutto il sangue e le ferite
che lo martoriavano per proteggerlo, sembrava averlo sconvolto
più
di quanto avesse creduto. Alla fin fine, anche Don era fragile, come
chiunque altro.
Il
genio sembrò riscuotersi e sollevò lo sguardo sul
leader, carico di
preoccupazione.
“Se
non usciamo immediatamente da qui, Raph morirà”
disse con voce
grave, senza nessuna titubanza.
Erano
ancora nell'arena, erano ancora circondati, tenuti sotto tiro da Hun
e i suoi scagnozzi... come potevano uscire all'istante da lì
e
salvare la pelle tutti e quattro?
Leo
si alzò, lanciando un'ultima occhiata rassicurante ai suoi
fratelli
e si incamminò al bordo dell'arena, sotto il palchetto di
Hun, con
una camminata un po' obliqua per il braccio sinistro che giaceva
inerme e ferito contro il fianco e sollevò lo sguardo in
alto,
fiero.
“Lascia
andare i miei fratelli, Hun. Potrai fare di me ciò che vuoi:
umiliarmi, torturarmi, uccidermi, qualunque cosa. Non mi
opporrò a
niente, se li lascerai andare” esclamò deciso e
serio, sperando in
cuor suo che quel bestione senza cervello fosse più stupido
che
crudele e e accettasse la sua proposta.
Lo
vide sogghignare mentre pensava, con ancora la pistola stretta nella
grande mano, deliziato al pensiero di avere le loro vite in pugno, di
poter decidere se dovessero vivere o morire, di avere potere nel
dargli speranza o dolore.
La
pistola si sollevò contro di lui, e non sapeva se volesse
dire che
la sua proposta veniva accettata o rifiutata, ma non ebbe mai
comunque modo di saperlo.
Nello
stesso decimo di secondo in cui l'indice di Hun scorreva sul
grilletto, una tremenda esplosione riempì l'aria,
distruggendo una
porzione di parete alle spalle del capo della gang, facendo tremare
il pavimento fino alle fondamenta.
Ci
fu il boato e detriti che volavano in ogni dove e corpi a terra e
fiamme che entravano dallo squarcio nel muro, nel panico generale che
si era creato in un istante.
Leo
era spaesato come tutti gli altri, si voltò un secondo per
controllare i suoi fratelli e vide Mikey e Don chini su Raph, per
proteggerlo dai pezzi di muro che fendevano l'aria, ma sembravano che
stessero esattamente come prima, senza nessuna altra ferita
aggiuntiva; poi riportò lo sguardo in su, per essere pronto
a tutto:
c'era Hun con le braccia in alto per proteggersi la testa e urlava,
urlava ordini nel caos, perché non perdessero la calma e
loro di
vista.
Erano
tutti troppo concentrati nello schermarsi e scappare per accorgersi
davvero di loro, o del fagotto nero che passò tra le sbarre
della
gabbia in metallo e cadde al bordo dell'arena come un sacco di
patate, rimettendosi in piedi con fatica.
Steve
si rialzò con una smorfia dolorante e corse verso di lui,
con uno
sguardo preoccupato e vistosi tagli ed ematomi sparsi per la faccia e
le mani.
“Giù!
Questa sarà tremenda!” strillò
buttandosi letteralmente su di lui
e trascinandolo a terra, proprio mentre una nuova deflagrazione
squarciava un lato dell'arena, facendo crollare gli spalti al di
sopra di esso e tutte le persone che c'erano sopra, tra gridi e un
boato che ferì le orecchie.
Una
pioggia di detriti li investì, fortunatamente di dimensioni
ridotte,
e solo quando furono sicuri che non ci sarebbe stato nessun problema
si alzarono, scrollandosi di dosso la polvere e i frammenti di
calcinaccio.
Leo
osservò Steve, incredulo che fosse davvero lui, incredulo di
vederlo
davvero lì, in quella situazione. E benché fosse
contento di
vederlo, una parte di lui ancora sospettava del ragazzino.
“Dobbiamo
andare via. Ce la fai ad alzarti?” chiese Steve rimettendosi
in
piedi, i vestiti completamente bianchi e marroni di polvere,
così
come i capelli biondi.
“Perché
sei qui? Come facevi a sapere di questo posto? Chi sei, tu?”
lo
aggredì Leo rialzatosi in piedi, afferrandolo per la maglia
sul
petto e tirandolo verso di sé, con uno sguardo assassino.
“Io
ti ho seguito. Quando sei andato via dopo la chiamata. Ti ho
seguito... e sono entrato quando voi siete stati catturati e poi ho
cercato un modo per farvi uscire, mentre gli altri seguivano i vostri
spostamenti sui monitor di sorveglianza” confessò
il giovane con
un lieve tremito di paura, sconvolto dalla sua furia.
“Non
ci credo. Non puoi averlo fatto, non è possibile”
sputò fuori il
leader con angoscia e dolore, al pensare che Steve gli stesse
mentendo, che lo avesse sempre fatto.
“Ci
sono solo due cose di cui sono fiero, di me: la mia
velocità,
acquisita negli anni per sfuggire ai bulli della scuola, e la mia
predisposizione per la chimica... e hai visto come entrambi mi sono
stati utili, stanotte” rispose fiero il ragazzo, alludendo
alle
bombe esplose prima, deglutendo a vuoto per il risentimento delle sue
accuse.
Le
sue mani artigliarono quella di Leo per lasciarlo andare e una volta
a terra tirò la maglia in giù, senza guardarlo in
volto, cupo.
“Perché
mi avresti seguito? Perché ti saresti gettato in questa
situazione
di tua spontanea volontà?” incalzò il
leader, che stava cedendo
alla verità di Steve, anche se gli sembrava ancora tutto
assurdo. Ma
i suoi occhi gli erano sembrati sinceri, per niente spenti e folli
come quelli dei ragazzini drogati, ma invece lucidi e limpidi e vivi.
E puri.
Il
ragazzetto non rispose subito, lo vide tormentare un attimo il bordo
della maglia mentre scuoteva via un po' di polvere.
“Io...
quando te ne sei andato... ho avuto la sensazione che non ti avrei
più rivisto. Che se non ti avessi seguito, non ti avrei mai
più
incontrato. Mai più” confessò con un
sussurro, guardandosi le
scarpe impolverate, a disagio.
Leo
osservò quelle piccole spalle che tremolavano appena, che si
erano
fatte carico di una responsabilità enorme, e gli credette.
Credette
a tutto perché sapeva, sentiva che era vero.
Allungò
una mano, e vide Steve strizzare gli occhi, per la paura che volesse
colpirlo, invece lo afferrò per la spalla e lo
tirò a sé,
stringendolo in un abbraccio veloce.
“Grazie”
mormorò sentito. E c'era ben più di un
significato, in quella
parola. Grazie per non aver tradito la sua fiducia, per essergli
corso dietro nonostante la paura, per aver cercato un modo di
aiutarli, difficoltoso a giudicare dallo stato in cui si era ridotto.
Steve
fece un buffo verso, a metà tra un singulto e una risatina
sollevata, ma sembrava troppo imbarazzato per rispondere
all'abbraccio.
Leo
lo lasciò andare in fretta, complici anche le circostanze
tutt'altro
che tranquille e adatte ad una chiacchierata.
“Sai
dov'è la via d'uscita?” chiese velocemente,
occhieggiando i
dintorni per assicurarsi che nessuno li stesse tenendo sotto tiro: la
maggior parte degli uomini era scappata via in preda al panico, ma una
grossa porzione era stata colpita dal crollo della parete e si
rialzava a fatica, o era ancora sepolta sotto le macerie.
Hun
era illeso, il bastardo, e cercava di districarsi tra i corpi dei
suoi uomini e pezzi di calcinacci grandi come porte, mentre con lo
sguardo fosco e cieco di rabbia continuava ad urlare e guardare verso
di lui in cagnesco.
“Sì
e faremo meglio ad uscire prima che esploda la prossima bomba...
è
la più grande” annunciò Steve, con un
mezzo sogghigno esaltato e
compiaciuto.
Corsero
verso gli altri, controllando che fossero tutti ancora vivi.
“Steve
sa come uscire. E ha preparato una bomba ancora più potente,
dobbiamo correre via di qui” li informò Leo, lieto
dei loro
sguardi sollevati e solo lievemente sorpresi nel vedere il giovane.
“Ma
Raph non può muoversi. Non andremo lontano” disse
Don, che non si
era staccato un secondo dal fratello, cercando con ogni mezzo di
tenerlo in vita.
“Ho
trovato un furgone, dovete portarlo fin lì” si
intromise Steve,
rincuorandoli non poco.
Leo
seguì le direttive di Don e prese la bandana di Mikey e
slegò
quella di Raph con delicatezza, passandole poi al genio, che
velocemente le usò per legare le gambe del fratello assieme,
quella
sana a quella ferita, perché non la muovesse: una bandana
stretta
attorno alle caviglie e una alle ginocchia, facendo attenzione a non
peggiorare o toccare l'osso sfrangiato che gli bucava la coscia.
Ormai tre delle loro quattro bandane erano strette al corpo di Raph,
per evitargli dolore.
Don
lo prese per la parte superiore e Leo, seppur con la spalla ferita,
lo prese per i piedi e insieme lo sollevarono, e pure con tutta la
delicatezza che infusero in ogni gesto, non poterono evitare che
soffrisse per ogni movimento che trasmettevano al suo corpo,
causandogli grida di dolore.
“Mi
dispiace, fratello. Tieni duro, ce ne andiamo”
sussurrò Donnie con
apprensione, muovendosi con attenzione per non farlo soffrire ancora.
Seguirono
Steve che sorreggeva a fatica Mikey, con stoicismo, lungo l'arena e
verso il buco nel muro, superando i detriti a fatica, con tutta la
velocità concessa dalla situazione.
“Da
lontano sembravi più piccolo” mormorò
il più giovane dei mutanti
con un sorrisino, riacquistando un po' di colore.
“Sei
davvero in gamba... appena mi sentirò meglio ti
ringrazierò con una
maratona di videogiochi e una mega pizza” aggiunse serio,
come una
promessa solenne.
Steve
sorrise tra i grandi respiri che prendeva per resistere al peso di
Mikey, stranamente confortato dalla sua assurda aura di allegria,
perfino in quel frangente.
Li
guidò attraverso la breccia e prima di sparire da quella
stanza
sentirono tutti indistintamente le urla di Hun riempire l'aria
coprendo ogni altro rumore, ordinando a qualcuno di prenderli, di
sparare, di non farli fuggire, anche se nessuno rispose al comando,
tutti troppo presi nel tentativo di salvare la pelle.
Percorsero
un corridoio deserto e sbucarono in un grosso magazzino stipato di
macchinari industriali e macchine.
Steve
si diresse sicuro verso un furgone nero vicino all'uscita e
aprì la
portiera, immettendosi nel posto del guidatore e infilando le mani
sotto il quadro dei comandi, con convinzione.
Incrociò
brevemente lo sguardo disapprovevole e sorpreso di Leo e si
sbrigò a
spiegarsi.
“So
come si ruba una macchina, ma non l'ho mai fatto! Prima d'ora,
almeno” lo informò, mentre il rombo del motore
ruggiva improvviso.
Il
ragazzo premette il pulsante per sbloccare le portiere di dietro e i
quattro mutanti salirono con fatica e difficoltà,
stringendosi nel
vano dopo aver poggiato Raph al suolo.
“Sai
guidare?” domandò il leader, osservando Steve
ingranare la marcia
con sicurezza, decisamente troppa.
“Ho
quindici anni e sono di New York... certo che so guidare!”
Il
furgoncino partì con uno stridore di gomme e a
velocità sostenuta,
diretto verso la saracinesca che chiudeva l'uscita, la lancetta del
tachimetro che saliva sempre più ad ogni decimo di secondo.
“Tenete
stretto vostro fratello, e anche voi, aggrappatevi a
qualcosa”
esalò Steve, con le mani strette convulsamente sul volante,
come
artigli su una preda.
“Non
credo che sia una buooooooo...” gridò Leo,
serrando gli occhi
quando le linee orizzontali della saracinesca apparvero a pochi
millimetri dal finestrino del furgone.
Il
mezzo passò attraverso il metallo come se fosse burro fuso,
creando
un grosso buco, e sfrecciò nella strada illeso, con una
sterzata
brusca verso destra e poi via lungo la strada che costeggiava i
magazzini e l'acqua del fiume.
“È
corazzato” riuscì a dire Steve dopo qualche
istante, con gli occhi
pieni di paura ancora incollati alla strada, come se nemmeno lui ci
avesse sperato finché non lo avevano fatto per davvero.
Guidò
come un folle, come se la morte li stesse seguendo e prendendo,
proprio dietro di loro, e sterzò e cambiò
direzione, cercando di
mettere quanta più distanza possibile.
E
il perché non tardò ad arrivare.
La
notte di New York fu scossa e illuminata dall'esplosione e il boato
più forte mai sentito, un tripudio di fiamme e deflagrazione
che
illuminarono il buio e le acque del fiume di lingue rosse di fuoco e
una colonna di fumo nero che saliva verso il cielo.
Il
furgone sbandò un poco nel momento del boato e Leo si
voltò a
guardare Steve, che continuava a non parlare e a guardare la strada,
col volto livido e le nocche delle mani bianche per quanto stringeva
il volante.
“Era
nel magazzino. L'ho messa nel magazzino delle armi e delle
munizioni”
disse dopo qualche secondo, con voce tesa, come se stesse
trattenendo un conato di vomito.
Leo
lo sapeva cosa stava cercando di dirgli... voleva sentirsi
rassicurare sul fatto che non avesse ucciso nessuno, che non era
morto nessuno per colpa sua... ma non era certo. Qualcuno poteva
essere rimasto ucciso dal crollo o dall'esplosione, anche se lui era
stato attento perché non succedesse.
Eppure
sentì che Steve quelle considerazioni se l'era
già fatte, che aveva
già messo in conto la morte di qualcuno per mano sua e che
alla fine
aveva deciso di agire comunque, di sopportarne il peso, per salvare
lui e i suoi fratelli.
Lo
vide trattenere le lacrime nei grandi occhi azzurri, mordendosi
l'interno della guancia e respirando a fondo.
Com'era
cresciuto quel ragazzino spaventato che aveva tremato nel vederli per
la prima volta, che era fuggito con la coda tra le gambe in un
secondo, senza pensarci due volte.
Allungò
la mano e la posò sulla sua spalla, con una presa
rassicurante.
“Ti
insegnerò il ninjitsu. Ha dei grandi insegnamenti non solo
per il
corpo, ma soprattutto per la mente, il cuore e l'anima” gli
disse,
con un sussurro sottile che solo il ragazzino poté sentire.
E
il sorriso incerto che gli spuntò sulle labbra lo fece
sentire
meglio e lo rassicurò, mentre il mezzo sfrecciava tra le
strade di
New York, piena del suono assordante delle ambulanze e dei pompieri
che lacerava la notte.
Arrivarono
al rifugio in pochi minuti, con la guida da pilota di formula uno di
Steve. Centrò quasi la porta del garage, per la fretta che
lo
permeava e si fermò con uno stridore di gomme pari a quello
della
partenza.
Entrarono
dall'ascensore e si meravigliarono tutti nel vedere la ragazza che si
parò loro di fronte quando le porte si aprirono.
Isabel
osservò sconvolta il loro aspetto e la videro stringere le
labbra e
spalancare gli occhi di dolore quando si posarono su Raph, col
colorito pallido; il suo volto perse ancora colore e spiccò
una
corsa verso di loro, all'istante.
“Cosa...
cosa fai qui?” le chiese Leo, intercettandola e osservandola
con
attenzione: era pallida e fredda e delle occhiaie violacee
contornavano i suoi occhi scuri, che brillavano di preoccupazione. Il
suo corpo tremava leggermente, e sospettava che non fosse solo per lo
shock, ma anche per la stanchezza e l'esaurimento dell'energia per
curare il padre di Steve.
“L'ho
chiamata io” confessò Mikey, intromettendosi,
mentre lei cercava
di divincolarsi per raggiungere Raphael.
Il
sensei sopraggiunse dalle spalle della ragazza e si fece avanti per
aiutare i suoi figli, che sembravano dover crollare da un momento
all'altro, con lo sguardo fosco e preoccupato, ferito come non lo
avevano mai visto prima.
“Non
puoi curarci, Isabel! Quanto hai dormito? Guardati, sei ad un passo
dallo svenire!” la rimproverò Leo, scuotendola con
una mano sola
senza difficoltà, vista la debolezza di lei.
Isabel
strinse le labbra talmente forte che impallidirono e invece di
provare a contrastarlo si buttò tra le sue braccia,
stringendolo con
forza.
Sentì
le sue unghie artigliargli la carne del collo, in preda alla fretta e
all'agitazione.
“Non
lascerò che nessuno di voi soffra ancora, anche se mi
costasse ogni
briciola di energia. E se provi a impedirmi di curare Raffaello,
significa che non sai davvero di cosa sono capace” gli
sussurrò
all'orecchio, mentre lui sentiva un'insolita energia scorrere dal
collo fin giù e poi risalire fino alla testa, che divenne
stranamente leggera e sconnessa.
Le
ginocchia gli cedettero e si accasciò ginocchioni, mentre
lei
rimaneva in piedi, seppur barcollante.
Il
bruciore alla spalla stava sparendo e solo quando sentì un
tintinnio
per terra si accorse del bussolotto che si era fatto strada nella
carne fino ad uscire dalla ferita, che si stava rimarginando.
“Donnie,
porta Raphael nel laboratorio, sto arrivando” la
sentì dire,
mentre con sguardo spento la osservava barcollare verso Mikey e
poggiargli una mano sulle ferite, il palmo che si illuminò
per un
attimo e il viso del fratello che tornava colorito e la gamba di
nuovo sana.
I
poteri di guarigione di Isabel erano cambiati? Poteva guarire con un
tocco della mano, adesso?
La
ragazza si rialzò con gambe malferme e si
trascinò letteralmente
verso il laboratorio di Don, con gli occhi che ardevano e il colorito
sempre più cadaverico, infervorata nell'animo, ma debole nel
corpo.
E
lui non poté fare niente per fermarla, non ne sarebbe stato
capace.
Isabel avrebbe fatto qualsiasi cosa per Raphael, gli avrebbe dato
ogni goccia della sua vita se fosse stato necessario e quel pensiero
era allo stesso tempo bellissimo e doloroso, più che un
proiettile
che perforava la carne, più che la paura di perdere la vita.
Perché
lo sapeva, sapeva che lei era sempre di Raphael, qualunque cosa
facesse o dicesse, lei avrebbe continuato ad amare sempre e solo lui
e avrebbe dato ogni cosa perché stesse bene.
Rimase
ad osservare la porta in cui era sparita, col magone e una preghiera
silenziosa sulle labbra, perché nessuno morisse al di
là di essa e
nessuno si dovesse sacrificare per amore, quella notte balorda, la
peggiore mai vissuta in vita sua.
Note:
Salve
splendori!
Nuovo
capitolo con paura e sangue e via discorrendo. A proposito di
ciò,
ho un dubbio che mi attanaglia sin da SITR e che adesso devo proprio
sottoporre a voi, almeno vedo se riesco a chiarirmelo: devo mettere
il rating rosso?
Ho
il dubbio. In SITR c'era violenza, ma non mi sembrava eccessiva,
anche nelle torture non sono scesa in dettagli raccapriccianti
(credo), perciò mi sono tormentata un po' e poi ho messo
arancio. Ma
qui è tutto un po' più cruento e in futuro ci
saranno altre scene
crude. So che per molti sono banalissime, abituati a ben di peggio
nei film, ma non sono certa di non andare contro il regolamento.
Perciò chiedo a voi: sono ff da rating rosso? Se qualcuno lo
sa può
dirmelo? Insomma, qualcuno si è turbato o sono bazzecole
senza
alcuna presa? (non mi piace lo splatter, perciò magari
risulta nelle
storie, senza mordente.)
Tornando
alla storia: alla fine sono riusciti ad uscire dalla trappola, grazie
a Steve che non era affatto un nemico, povero cucciolo. Adoro
tantissimo come interagisce con i quattro mutanti, soprattutto con
Leo e in futuro con Mikey. Glielo faccio adottare, che dite?
Ma
non tutti ne sono usciti indenni e la morte è sempre in
agguato!
Prima
di lasciarvi, un ringraziamento a SaraJane92, che ha fatto questo
splendido disegno di una scena di SITR: è
stupendo, non trovate? Hai un grande talento, continua a disegnare! E
regalaci altre perle sul mondo TMNT, se ti senti ispirata!
Io
sono lusingata che tu abbia creato un disegno di una mia storia, non
sai quanto! Grazie mille, di cuore!
A
presto a tutti!
Abbraccioni
|
Ritorna all'indice
Capitolo 18 *** Thanks and Sorry ***
Il
dolore era atroce, non era nemmeno possibile cercare di capire dove
fosse più intenso, perché l'intero corpo era come
cosparso di fuoco
che ardeva la sua carne mentre era ancora vivo. O forse non era vivo
e stava bruciando tra le fiamme dell'inferno. Sempre se i mutanti
finivano all'inferno.
Raph
cercava di non svenire, ma la sua coscienza andava e veniva, la vista
si annebbiava a tratti e i suoni e i rumori si affievolivano per
interi minuti, per poi ritornare con prepotenza, all'improvviso e
decisamente troppo alti, tanto da assordarlo e confondergli i sensi.
Era
stordito, sofferente e in preda ad un'angoscia soffocante.
Respirare
era un'agonia, rantoli strozzati, strazianti come essere trafitto da
cento pugnali, gelidi e impietosi nella carne.
Sentì
delle mani che lo afferrarono e lo sollevarono, e parole confuse e
flebili, dette da non sapeva chi, mangiate via dal dolore e l'ansia,
dalla confusione e il buio; poi forse svenne per qualche istante,
perché non ricordava di essere stato portato da qualche
parte, ma
dopo la bruma si riscoprì a fissare il tettuccio di un'auto,
mentre
Don e Mikey lo stringevano per non farlo muovere.
Mikey.
C'era Mikey. Se non era un'allucinazione dovuta dal dolore, suo
fratello era davvero di nuovo assieme a loro, vivo... sentì
un po'
del panico sciogliersi, ma dov'era Leo?
Non
poteva muoversi per controllare e il dolore stava di nuovo per farlo
svenire, ma appena prima del niente sentì il leader urlare
qualcosa,
decisamente spaventato. Voleva aiutarlo, voleva capire e aiutare i
suoi fratelli, ma gli spasimi si portarono via tutto di nuovo,
prepotentemente.
Rinvenne
ancora ed ogni volta era peggio della precedente, perché il
dolore
cresceva e il respiro invece diminuiva: non riusciva più a
mettere a
fuoco per bene ormai e l'udito era tutto ciò che gli
rimaneva come
contatto con la realtà.
Sentì
le mani di qualcuno che strappavano via brandelli di tessuto dal suo
corpo con esclamazioni sofferte ad ogni gesto, come se la vista delle
sue ferite fosse troppo cruda e difficile da digerire.
“Don?”
rantolò con fatica tra un gemito di dolore e l'altro,
provando a
fargli capire che fosse ancora cosciente, nonostante tutto.
“Va
tutto bene, Raphie. Andrà tutto bene” disse la
voce spezzata del
fratello, che gli strappò un sorriso senza volere.
Almeno
credeva di aver sorriso. Dentro lo stava facendo. Perché Don
non lo
chiamava più Raphie da un secolo. Da piccoli era l'unico
modo in cui
lo chiamava, quando ancora non sapeva pronunciare bene le parole, a
causa dei denti di davanti da coniglietto; era suo dovere chiamare
lui e Mikey con dei soprannomi, aveva detto, perché era il
loro
fratello maggiore e poteva coccolarli e vezzeggiarli in ogni maniera
possibile. Poi aveva smesso di rivolgersi a lui in quel modo quando
lo aveva battuto la prima volta in uno scontro, a dieci anni: da
quella volta era stato lui a prendersi il diritto di chiamarlo Donnie
e di trattarlo come se fosse lui il maggiore, anche se sapeva che Don
non lo gradiva.
Ma
a quanto pareva per il genio lui era sempre Raphie, anche se veniva
fuori solo in momenti delicati come quello, in cui la sua
razionalità
si scontrava con la paura.
Non
doveva essergli rimasto molto, allora. Stava morendo. E non era
così
sorpreso, in effetti; era più stupito di essere ancora vivo.
Una
porta si aprì con un colpo secco, nel silenzio pieno di
ronzii e
sbuffi del laboratorio.
“Sono
qui” sentì dire ad una nitida voce femminile e poi
il respiro
rincuorato di Don, come se un miracolo fosse appena accaduto davanti
ai suoi occhi.
“No!
Nonononononononono!” iniziò ad urlare Raph con
foga, perché
sapeva a chi apparteneva quella voce.
Come
se avesse potuto non saperlo.
Il
suo corpo, se corpo si poteva chiamare quella massa di sofferenza che
lo componeva, lo faceva impazzire dal dolore, ma prese ad agitarsi al
tocco di quelle mani, che non voleva su di sé.
“Vai
via! Vattene da qui!” le gridò contro, sforzando
lo sguardo per
metterla a fuoco.
Gli
occhi castani che in passato aveva amato alla pazzia apparvero
davanti ai suoi, profondi, preoccupati e doloranti per lui, cerchiati
di occhiaie livide. E lui non poteva sopportarlo. Non voleva
guardarli, non voleva vederli.
Meglio
davvero morire. Perché non poteva morire in santa pace,
senza che
fosse lei l'ultima persona su cui avrebbe posato lo sguardo?
Sentì
Don che provava a tenerlo fermo e poi le fitte dei muscoli che si
contraevano per la perdita di sangue e lo shock e la coscienza che si
affievoliva; e vedeva sempre lei, con la pelle pallida e tirata, come
se fosse sul punto di svenire su di lui.
“Non
ti voglio più vedere! Te ne devi andare via! Per sempre!
Odio averti
qui! Odio vederti!Vattene! Vattene e scompari dalla mia
vita!”
continuò a gridare con la tachicardia, le parole piene di
rabbia
eppure sempre più fievoli per la mancanza di ossigeno.
Isabel
non si scompose, anzi, non staccò un secondo lo sguardo dal
suo.
“Donnie,
hai della morfina, un anestetico? Se continuerà ad agitarsi
avrà un
collasso” la sentì dire con la voce stridula,
seppure contenuta
forzatamente per mantenere la calma.
Percepì
che il fratello si era allontanato di corsa per controllare e
prendere ciò che gli aveva chiesto, mentre lei non si era
mossa di
un millimetro dal suo fianco, ritta e pallida come un fiore di
giglio.
E
quegli occhi scuri lo trascinarono da qualche parte, perché
il solo
guardarli lo stava facendo sentire debole e sconnesso, il dolore che
si affievoliva lentamente, la consapevolezza di sé che
svaniva in
una luce accecante.
“Andrà
tutto bene, riposa adesso” sussurrò Isabel, con un
lieve sorriso
rassicurante.
Chiuse
gli occhi, e tutto fu luce e ombre che si mescolavano dolcemente,
indistinto.
“Vai
via! Odio che tu sia ancora qui, non voglio mai più
vederti”
biascicò mentre cadeva nell'oblio, stranamente quieto.
“Va
bene. Ma solo se combatterai per non morire. D'accordo?”
riecheggiò
la voce nel nulla, lontana, flebile, ormai di un altro mondo.
Pesantezza.
Ogni
cosa e sensazione era solo pesantezza, come se avesse addosso il peso
del mondo, come se il suo corpo fosse schiacciato, intorpidito, per
sempre.
Batté
le palpebre con fastidio, due o tre volte, prima di arrischiarsi ad
aprire completamente gli occhi e guardarsi intorno.
Dove
diamine era?
Riconobbe
i mattoni del soffitto, giallo paglierino, -il colore dei mattoni del
rifugio,- ma come ci era arrivato? Era stato tutto un sogno? La
trappola di Hun, lo scorrazzare nei sotterranei insieme a Don e la
lotta col coccodrillo gigante... lo aveva davvero sognato?
Provò
a tirarsi su di scatto, ma una fitta al petto lo fece piegare su
sé
stesso dal dolore, col respiro mozzo.
La
sofferenza riportò tutto alla mente, con immagini spaventose
che
accrebbero il dolore esponenzialmente, causandogli un acceso attacco
di tosse che rimbombava nella cassa toracica con fastidio.
“Ehy,
ehy, ehy, niente gesti inconsulti! Non sei ancora tutto come
prima!”
lo sgridò la voce di Don, mezzo esasperata.
Alzò
lo sguardo e vide il fratello genio farglisi incontro, con uno
scintillio negli occhi, di sollievo e contentezza. Erano nella sua
camera, anche se all'inizio non se n'era accorto, preso com'era a
capire cosa fosse davvero successo.
Don
lo aiutò a rimettersi sdraiato e tirò di nuovo su
il lenzuolo che
lo copriva, con attenzione.
“Cosa...
cos'è successo? Come... come siamo usciti dai sotterranei?
Che
giorno è oggi? Cosa...” domandò
velocemente, in preda alla
confusione totale, chiedendosi se invece non avesse semplicemente
immaginato tutto.
Ma
allora perché tutte quelle bende, perché tutto
quel dolore?
“Calmati!
O ti dovrò somministrare un tranquillante! Se prometti di
non
agitarti ti racconto cos'è successo”
esclamò Donnie, con un tono
da dottore che sembrava davvero piacergli troppo.
Il
fratello prese la sedia dove aveva riposato mentre lo teneva d'occhio
e la portò vicino al letto, sedendosi poi con calma.
Gli
raccontò ogni cosa, dal momento in cui lui era caduto
giù dal
soffitto assieme al coccodrillo, di come lo avesse ucciso
trapassandolo con Sai nel palato, arrivando così al
cervello, ma di
come fosse rimasto troppo ferito dallo scontro, incapace di muoversi,
prossimo alla morte.
“Non
avevi un osso intero! Cinque costole fratturate, il femore sinistro
esposto, una frattura scomposta al braccio sinistro, la spalla
lussata in quello destro e una commozione celebrale. Per finire un
polmone bucato e il fegato lacerato. E il sangue. Avresti dovuto
vedere la quantità di sangue che hai perso! Sembrava una
scena
splatter, da voltastomaco” riferì con cipiglio
tecnico Don,
palesemente disgustato e inorridito.
A
Raph venne quasi da sorridere. Don era quello che si nascondeva sotto
le coperte, quando da piccoli guardavano film dell'orrore con una
quantità enorme di sangue e budella di fuori; era rimasto
identico
ad allora, troppo sensibile, troppo gentile.
“A
te non è successo niente, vero?” si
informò con apprensione,
strappando un sorriso di gratitudine al fratello che lo
rassicurò,
ringraziandolo.
Poi
continuò a narrargli di come all'improvviso il pavimento
sotto di
loro avesse iniziato a muoversi e salire, mentre lui provava a
fermare l'emorragia, e dell'arrivo all'arena, dove si erano
ricongiunti con Leo e Mikey.
“Dove
sono? Come stanno?” chiese di colpo Raph preoccupato,
interrompendo
il suo racconto. Di nuovo cercò di sollevarsi, lentamente,
anche se
lo sguardo di Don si corrucciò nuovamente di rimprovero.
“Stanno
bene. Avevano delle ferite da arma da fuoco, ma adesso stanno
entrambi bene. Rilassati, però, o ti metterò a
dormire e non finirò
di spiegarti i fatti.”
Raph
si poggiò sui cuscini, mantenendosi semi sdraiato e gli fece
segno
di continuare.
Don
fece per aprire bocca, ma un lieve bussare arrivò dalla
porta,
interrompendoli.
“Avanti.”
Il
viso di Steve fece capolino dallo spiraglio e gli occhi del ragazzo
sgranarono nell'incrociare quegli svegli e vigili di Raph, come se
avesse di colpo visto una bestia feroce pronto ad azzannarlo.
“Do-Donatello,
mi... mi serve un antipiretico. Ha un po' di febbre”
balbettò a
disagio, tenendosi a debita distanza da loro, praticamente sulla
soglia della porta.
Il
genio ridacchiò sottilmente al vedere come il giovane
reagiva alla
presenza di Raphael, quando invece non si era fatto scrupolo ad
entrare con facilità e ad avvicinarsi per studiarlo mentre
dormiva,
nei giorni precedenti.
“Nel
laboratorio, di fianco alla scrivania, c'è la borsa medica;
leggi
sulla confezione, troverai scritto antipiretico... è
abbastanza
chiaro?” spiegò passo per passo, tranquillamente.
Steve
annuì soltanto, con gli occhioni azzurri che non riusciva
proprio a
staccare da Raph, anche se ci stava provando con ogni mezzo; forse
aveva paura che se avesse smesso di guardarlo gli sarebbe saltato al
collo e lo avrebbe ucciso.
Biascicando
qualcosa che non capirono, Steve uscì dalla stanza come una
furia,
sparendo in un lampo.
Don
rise apertamente, mentre Raph aveva lo sguardo sempre più
corrucciato.
“Il
marmocchio cosa ci fa qui? E per chi è la
medicina?” sbottò,
incredulo e piuttosto confuso.
“Il
marmocchio ci ha salvato, per tua informazione” lo sorprese
Don,
con un sorriso soddisfatto per l'espressione di stupore che si
dipinse sul suo volto.
Gli
spiegò delle bombe create dal ragazzo, delle esplosioni che
avevano
annichilito e spaventato Hun e i suoi scagnozzi e non
tralasciò
nessun dettaglio: dal fragore alle fiamme, dai detriti alla polvere,
dalle urla al terrore. E poi la fuga in furgone spericolata e vorace,
mentre sfuggivano alla più grande deflagrazione, della quale
si era
parlato nei telegiornali per giorni.
E
Raph ascoltò sempre più rapito e sempre
più incredulo. Il moccioso
aveva salvato le loro chiappe... il moccioso che era scappato con la
coda tra le gambe al loro primo incontro, quasi un mese prima.
“Un
momento... che giorno è oggi? Quanto tempo è
passato?” sparò a
raffica, provando a fare un calcolo mentale.
Era
il 23 di Giugno quando erano finiti nella trappola, di quello era
certo, ma non era certo che fosse solo il giorno dopo. Sarebbe stato
un po' improbabile.
Torse
il collo e guardò verso la piccola finestrella magica che
c'era
ormai in ogni stanza, da quando il rifugio era stato ricostruito:
filtrava la luce di quella che sembrava una tenue alba... ma di quale
giorno?
“Oggi
è il 30 di Giugno. È passata una
settimana” lo aggiornò Don,
teso nell'aspettarsi una sua qualche reazione.
Una
settimana. Era rimasto fuori gioco per una settimana. Aveva dormito o
era rimasto in stato di coma per una settimana intera. Certo, le sue
ferite non erano leggere, ma una settimana.... e com'era possibile
che stesse così bene dopo solo sette giorni, per di
più?
Passò
una mano distratta sulle bende che gli fasciavano il torace, ma
sentì
che era tutto a posto. Certo, se si muoveva di scatto sentiva delle
fitte a causa della rigidità degli arti e della postura di
riposo
forzata, ma si sentiva incredibilmente bene.
“Come...”
“Isabel
ti ha curato. Era per lei la medicina, al momento sta riprendendo le
forze nella sua vecchia camera” lo interruppe Don con voce
sottile,
come se non volesse dirglielo, ma non potesse fare altrimenti.
Raph
sollevò lo sguardo, col cuore pieno di rimorso, e si diede
dello
stupido. Certo, chi altro avrebbe potuto? E come aveva fatto a non
accorgersi del profumo di fiori e miele della sua crema magica che lo
avvolgeva, completamente?
Non
voleva sapere niente, non voleva che lui gli raccontasse di come si
fosse immolata per il suo bene, ma sapeva che non avrebbe potuto fare
altrimenti, sapeva che doveva ascoltare e sentirsi in colpa, volente
o nolente.
“Sta
bene?” chiese, sinceramente interessato, su quell'argomento.
Non
voleva che lei stesse male per causa sua, rendeva solo tutto
più
complesso e difficile, ed allontanarla da sé sembrava solo
ancora
più un'utopia.
“Se
con bene intendi che non morirà, sì, allora sta
bene. Ma ha
rischiato molto” commentò Don, dando senza saperlo
una mazzata al
suo senso di colpa.
“È
svenuta quattro volte solo per rimetterti a posto la gamba. Ci ha
messo due ore. E nelle seguenti due ore in cui ha ricomposto il tuo
corpo e ti ha dato la sua energia, ha perso i sensi altre tre volte,
ma se ti dicessi che per quel motivo ha smesso anche solo un secondo
di curarti, mentirei. Oh, e sai che adesso per curare gli altri
può
usare le mani? Sembrava molto fiera della cosa.”
Aveva
abbassato il capo e ascoltava, anche se non avrebbe voluto. Don non
poteva capire come lui si sentisse nell'apprendere quelle notizie,
come lo facesse sentire il pensiero di essere il motivo per cui
Isabel era quasi morta. Di nuovo.
Non
lo voleva sapere e avrebbe voluto che non fosse successo. Avrebbe
voluto non doverle niente, avrebbe voluto che non fosse nemmeno
lì,
avrebbe voluto che tra loro ci fosse stata distanza e silenzio, com'era
giusto che fosse.
Non
lo voleva il suo amore, lo soffocava, lo costringeva a sentirsi
riconoscente e il pensiero lo faceva sentire sporco e ingrato, ma
anche nel giusto. Non aveva chiesto di essere curato, non le aveva
chiesto mai niente.
“Poi,
nonostante fosse mezzo morta, è andata a curare il padre di
Steve,
perché voleva finire il ciclo di terapie, ha detto, e non
c'è stato
verso di smuoverla. Ha continuato a curare te e lui per i successivi
tre giorni e alla fine è crollata e dorme da allora” finì di spiegargli Don, mettendo
ancora di più il
dito nella piaga.
Rimase
il silenzio tra loro, così affollato di pensieri, da non
riuscire
nemmeno a percepirlo.
“Beh,
non gliel'ho chiesto! Ma... immagino di doverla ringraziare”
esalò
dopo qualche secondo, piuttosto forzatamente.
“E
dovresti chiederle scusa” aggiunse la voce del fratello,
asciutta.
Raph
lo guardò in viso e notò con orrore che la sua
espressione di
rimprovero era tornata ed era persino più accentuata di
prima.
“Scusa
per... cosa?” replicò attonito, guardandolo come
se fosse pazzo.
Non voleva di certo che si scusasse per averla lasciata, no?
“Per
tutte le cattiverie e le ingiurie che le hai rivolto contro quando
è
venuta a curarti.”
“L'ho...
l'ho insultata?” domandò, inorridito e anche un
po' titubante.
Non
ricordava niente del genere, non ricordava nemmeno di averla vista o
di averci parlato... ma addirittura insultata, non poteva crederlo.
“Beh,
diciamo che sei stato sgarbato. Ma no, non ti ripeterò cosa
le hai
detto. Fatelo dire quando chiedi scusa” concluse secco il
genio,
come se fosse un discorso chiuso.
Lo
forzò a ritornare completamente sdraiato e non rispose
quando gli
chiese che ne era stato di Hun, dicendo che lo avrebbe informato in
un altro momento, quando fosse stato un po' più in forze e
un po'
più tranquillo. Poi il genio scese in cucina a preparargli
qualcosa
da mangiare, disse, e gli raccomandò di riposare un po'.
Raph
attese che uscisse dalla stanza e poi di sentire il suono dei suoi
passi che si allontanavano; si alzò lentamente, quando fu
sicuro di
non poter essere sentito.
Mettersi
in piedi non fu doloroso, solo un po' difficile per via della
rigidità che sentiva in ogni cellula del corpo.
Camminò
lentamente fino alla porta e la aprì con cautela,
occhieggiando con
sospetto per vedere se qualcuno fosse al di fuori: il pianerottolo
circolare era deserto e si arrischiò ad uscire, dandosi
un'occhiata
attorno. La camera di fronte alla sua, dall'altra parte dell'anello
che faceva da corridoio per le camere, attirò la sua
attenzione, con
prepotenza.
No,
non ci sarebbe andato. Non voleva andarci. Ma doveva.
Camminò
raso muro, con pazienza e fatica, fino ad arrivare alla porta, la
seconda da sinistra, tra la camera di Leo e quella di Mikey.
La
camera dove aveva vissuto Isabel. Mikey continuava a chiamarla 'la
stanza di Isabel', anche se lei non viveva più con loro.
Cocciuto.
Doveva
bussare. Ma non voleva farlo. Eppure doveva. E vinse come sempre il
dovere.
“Avanti”
sentì dire alla voce dolce e familiare.
Entrò
e tutto ciò che vide in un primo momento furono due occhi
castani
che sparirono sotto un lenzuolo, e il ragazzetto, Steve, che lo
guardava con spavento dalla sedia vicino al letto, congelato con un
bicchiere in mano che tendeva verso la figura rannicchiata.
Avrebbe
quasi riso, perché la scena era davvero comica, seppur
grottesca. E
sapeva che solo lui poteva spezzarla in qualche modo.
“Mocc...
Steve” si corresse a metà strada,
“dovrei parlare con Isabel”
esalò con tutta la calma che gli riuscì, cercando
di non
spaventarlo più di quanto già non fosse.
Il
ragazzo assunse d'un tratto uno sguardo molto più lucido e
scaltro,
quasi guardingo.
Lo
stava sfidando?
“Solo...
solo se Isabel è d'accordo” gli rispose con
baldanza, più di
quanta ne avesse in effetti in quel minuscolo corpo.
“Sì,
non c'è problema, Steve” sentirono entrambi dire
da sotto il
lenzuolo, con sorpresa.
Il
giovane poggiò il bicchiere sul comodino e poi si
alzò con calma,
senza staccare lo sguardo fiero e diffidente dal suo, come se lo
stesse minacciando di non fare cose strane mentre non c'era. Rimase
sbalordito e sorpreso dalla cosa. Non che ne fosse davvero
intimorito, -era più o meno come se Isabel avesse un chiwawa
che gli
ringhiava contro,- ma perché il moccioso sembrava
così apertamente
ostile nei suoi confronti?
La
porta si richiuse alle sue spalle e il silenzio sembrò
ancora più
pesante di prima. Isabel non si mosse dal suo riparo improvvisato, ma
la sentiva respirare in agitazione dal di sotto.
Prima
avesse parlato, prima sarebbe finita.
“Sono
venuto a parlare con te. Per... quello che è successo dopo
lo
scontro... Don me l'ha raccontato” esalò con
forza, deciso a
sputare fuori tutto.
Vide
il lenzuolo muovere la testa a destra a sinistra.
“Non
ce n'è bisogno” disse in contemporanea Isabel,
frettolosamente, la
voce tesa che suonava più alta.
“Senti,
potresti almeno uscire da lì sotto? Sto cercando di
ringraziarti, se
non l'avessi capito” sbottò d'improvviso, con
parte della pazienza
che stava andando a farsi benedire.
Era
sempre stato così, con lei, mai una volta che riuscisse ad
essere
tutto lineare e facile, mai che gli venisse incontro.
“Non
posso” fu la pacata replica del lenzuolo, niente
più che un
sussurro.
Sospirò
e cercò di rimandare giù l'insulto che era
spuntato di colpo sulle
sue labbra. Agitarsi gli faceva male e Don lo avrebbe strozzato se
avesse saputo che non se n'era rimasto tranquillo a letto.
Perciò
si avvicinò alla sedia con cautela, si sedette e prese dei
grandi
respiri per calmarsi. Avrebbe provato a capire e a dire grazie e poi
se ne sarebbe andato via da lì e non le avrebbe rivolto
più la
parola per un altro mese, se era fortunato per sempre.
“Perché
non puoi uscire da lì sotto?” chiese con pazienza,
sperando che la
risposta avesse un qualche senso che lo aiutasse nella conversazione.
“Ti
ho promesso che non mi avresti più vista, se avessi
combattuto per
non morire” mormorò imbarazzata la vocina sotto il
tessuto,
confessando una cosa che non avrebbe mai avuto il coraggio di dire
senza la protezione di quel riparo.
Flashback
improvvisi passarono davanti ai suoi occhi, insieme al sonoro di
quello che sembrava essere lui in preda ad una crisi isterica: si
ricordò in un istante di quello che le aveva detto mentre
era tra le
grinfie del dolore e storse la bocca, solo mezzo colpevole.
D'altronde quelle cose le pensava sul serio, ma sentì che
non era
stato davvero carino sputargliele addosso con rabbia mentre lei
cercava di salvargli la vita. Poteva dare la colpa allo shock, la
perdita di sangue e il dolore?
Si
passò una mano in faccia, frustrato.
“Mi
dispiace di aver detto quelle cose. Non... sai che quelle cose le
penso, ma non avrei dovuto dirtele in quel modo, in quel momento...
mi dispiace, è stato insensibile da parte mia” si
scusò,
sinceramente, grato anche lui di non doverla guardare in viso.
Il
lenzuolo negò ancora, con più veemenza.
“Non
me la sono presa, lo so. E non c'è bisogno che ti scusi o
che
ringrazi. Va bene così... io l'ho fatto perché lo
volevo, tu non
hai nessun debito.”
Il
silenzio cadde di nuovo e Raph si chiese cos'altro avrebbe potuto
dirle. Non voleva i suoi grazie, non voleva le sue scuse. E c'era
sempre la tensione tra loro per via della rottura, davvero poco
delicata da parte sua, ma inevitabile; si accorse di colpo che era la
prima volta che parlavano da quella notte in cui l'aveva lasciata.
Allungò
la mano e afferrò il lenzuolo, tirandolo verso di
sé: la testa
bruna e scompigliata di Isabel spuntò fuori, con gli occhi
scuri
sorpresi e spaventati, le guance rosse che facevano un contrasto
nitido con la carnagione pallida e a pugni con le lievi occhiaie
viola.
Non
poté evitare di ammettere a sé stesso che era
adorabile. Ai suoi
occhi lei era sempre sembrata come una delicata fatina che appariva
all'improvviso e nella meraviglia.
“Isabel...
grazie. Grazie e scusa. Te lo devo, perché mi hai salvato la
vita. E
no, non cominciare con la storia che non è necessario.
Voglio farlo.
Perciò prenditi i miei ringraziamenti e le mie scuse e
taci”
replicò, in quello che lui reputava un discorso sentito.
Isabel
scoppiò a ridere e lui rimase meravigliato, dimentico
com'era del
suo strano senso dell'umorismo, che la faceva reagire in maniera
diversa da come le persone si aspettavano.
Ma
sembrava che l'imbarazzo ormai fosse scomparso, perciò fu
grato a
qualsiasi cosa avesse detto o al modo in cui l'aveva fatto.
“Adesso
vado o Don mi ucciderà” disse a disagio, mentre
gli ultimi sprazzi
di risata di lei si spegnevano.
Lei
annuì, semplicemente, perciò si alzò e
si avvicinò alla porta,
senza sapere che altro aggiungere.
“Ehm...
ciao” disse una volta superato l'uscio, ricevendo un saluto
identico in risposta.
Si
appoggiò alla porta una volta fuori, incredibilmente stanco.
Cos'era
affrontare un coccodrillo, a confronto? Avrebbe preferito altri dieci
coccodrilli piuttosto che ripetere una cosa del genere.
Vagliò
con la mente per ricordare cosa avesse detto, giusto per essere certo
che non ci fosse nulla di fraintendibile. L'ultima cosa che voleva
era che lei pensasse che ci aveva ripensato, che fosse ancora
interessato a lei. Sospirò, pensando che era stato gentile e
distaccato, senza nulla da travisare, perciò aveva fatto un
buon
lavoro.
Sentì
uno sguardo truce che lo passava da parte a parte e aprì gli
occhi
confuso, voltandoli intorno: Steve era ritto vicino alla porta della
camera e lo guardava con astio e diffidenza.
Era
rimasto per tutto il tempo lì fuori?
Il
giovane si incamminò verso la porta, manifestando la sua
intenzione
ad entrare, lanciandogli uno sguardo che sembrava dire: “Spostati,
mi intralci.”
“Stai
tornando da Isabel?” chiese Raph, senza spostarsi, deciso a
sfidarlo.
“Sì
e allora? Qualcosa in contrario?” replicò
prontamente Steve,
ergendosi in tutta la sua altezza, che però in confronto
alla sua
era davvero ridicola.
Raph
sorrise e gli passò una mano nei capelli biondi con fare
allegro.
“Ma
che carino. Ti sei preso una cotta per lei?” lo
punzecchiò, con
quel suo modo fastidioso che sapeva lo avrebbe mandato fuori dai
gangheri.
Steve
arrossì violentemente, allungando le mani per scacciare la
sua e
divincolarsi.
“No.
E se pure fosse non sono fatti che ti riguardano!” fu la
risposta
pronta e asciutta, da vero uomo maturo.
In
realtà era rimasto a controllare per conto di Leo. O meglio,
non che
l'amico sapesse che suo fratello era lì con lei, ma lui
voleva
comunque tenere tutto d'occhio, per essere sicuro che non succedesse
nulla. Tifava per Leo, lui. Se c'era uno che la meritava, e che lei
meritava, era di certo Leo e non quello lì.
Raph
sollevò un sopracciglio colpito, ma lui sapeva che lo stava
canzonando.
“No,
infatti. Ma le leggi e lo stato avrebbero qualcosa da ridire.
Perciò
stai attento.”
“Stalle
lontano, simpaticone!”
Steve
riuscì ad aprire la porta e ci si infilò dentro
velocemente, prima
che lui potesse anche solo pensare di replicare, sbattendogliela in
faccia.
Stupido
moccioso. Non poteva dire che non avesse buon gusto, ma che almeno ci
provasse con quelle della sua età.
Si
incamminò verso la sua stanza un po' frastornato e confuso,
ma con
un grosso sorriso al ricordo degli occhi azzurri di quello scricciolo
che lo sfidavano, mentre il corpo esile del ragazzino tremava.
Di
certo l'amore rendeva temerari, ma molto, molto stupidi.
Note:
Salve
a tutti!
Come
va? Alla fine per la storia del rating non ho avuto una risposta
secca e decisa, perciò ci sto pensando. È
comunque altamente
probabile che in futuro il rating si alzi. Vedremo.
Il
primo capitolo dall'ottica di Raph, finalmente. Era un po' che
l'aspettavo anche io, sono stata contenta di leggerla e correggerla.
Dunque,
questa scena la aspettavate da un po', ma di certo non è
andata come
ve l'eravate immaginata, no? Insomma, a Raph preme solo mettere le
cose in chiaro senza darle delle false speranze. Ovvio che la stessa
scena vista da lei abbia un sapore diverso, dato che è cotta
fino
alla pazzia.
Alla
fine, lui crede che Steve abbia una cotta per Isabel, travisando
ovviamente visto che non sa che Leo se n'è innamorato, e gli
dice di
stare attento, dato che essendo minorenne sarebbe una cosa illegale.
La cosa buffa è che tra Steve e Isabel c'è la
stessa differenza di
età che c'è tra Leo e Karai, almeno in questo
universo. In realtà
nella serie 2003 dovrebbero avere una differenza di più di
dieci
anni, stando a turtlepedia, ma io l'ho ridotta a sei. Quindi quando
si sono incontrati Leo aveva sedici anni e Karai ventidue. Sei anni
di differenza.
Steve
ne ha quindici e Isabel ventuno, giusto per ricordare.
Il
rifugio: è difficile orientarcisi, perciò allego
delle bozze del
prima di essere distrutto, giusto per farvi un'idea di come fosse, e
del dopo che Isabel l'ha rimesso a posto.
Quelle
del prima sono assolutamente affidabili ed esattamente così
com'è
il rifugio degli Y'Lyntian nella serie. Ho fatto milioni di ricerche
e scansionato gli episodi uno ad uno, certificato.
Se
vi dovesse servire, usatelo pure.
Allora,
nel primo ci sono meno stanze, il laboratorio di Don per esempio
è
nel corridoio sotto l'arcata del portico vicino all'officina. La
cucina è minuscola e al bagno si arriva attraverso di essa:
nel
fondo della cucina c'è un'altra porta, che non so davvero
dove
porti; ho immaginato ci sia una dispensa, ma non è strano
che possa
esserci anche una stanza da pranzo. Non viene mai mostrata,
perciò
non so proprio.
Le
stanze da letto al primo piano: che problema! A volte ne vengono
mostrate troppe e tutte attaccate, ma in realtà dovrebbero
essercene
solo quattro, perché quando April era andata a vivere da
loro, Mikey
aveva dovuto cederle la sua e andare a dormire da Raph.
Perciò sono
solo quattro.
Turtlepedia
mi dice che Don e Leo dividevano la camera, ma non ne sono sicura. Io
li ho messi in due separate.
Nel
dopo, dopo che Isabel l'ha ricostruito, mi sono divertita a rifare
tutto a mio gusto, mettendo molte stanze in più. I disegni
come
vedete fanno davvero pena.
Ok,
la smetto con le mie solite spiegazioni inutili e chilometriche!
Grazie
a tutti voi, grazie a chi recensisce con tanto affetto, ai seguiti e
preferiti nuovi!
Grazie!
A
presto
|
Ritorna all'indice
Capitolo 19 *** Who's the Mysterious Hero? ***
Quella
sera avevano cenato tutti assieme, per la prima volta da quando erano
tornati laceri e sanguinolenti da quella trappola malefica ordita da
Hun.
Raph
era sceso in cucina solo sotto la supervisione di Don, che non sapeva
ovviamente che si fosse alzato anche senza il suo permesso, e Isabel
fu scortata a vista da Steve, ormai autoeletto sua guardia del corpo
personale.
Già
nei giorni precedenti il ragazzino era stato la sua ombra, portandola
dal rifugio a casa sua e viceversa mentre curava suo padre e i
ragazzi, ma da quel momento in avanti si era ripromesso di non
lasciarla un secondo da sola, perché quello alto e grosso
non
l'avvicinasse ancora.
Non
che sembrasse averne l'intenzione, aveva continuato a guardare da
tutt'altra parte e a non rivolgerle una parola... ma pensava fosse
meglio essere pronti a tutto.
Durante
la cena avevano parlato di cosa era successo dall'esplosione del
magazzino, di cui Raphael non sapeva nulla. Tra un boccone di stufato
e uno di verdure al vapore, ricette consigliate strettamente da
Donnie, finalmente aveva scoperto ogni cosa che si era perso in
quella settimana di oblio.
All'arrivo
della polizia, delle ambulanze e dei vigili del fuoco al magazzino,
Hun e alcuni dei suoi, -probabilmente quelli che erano riusciti a
uscire illesi dalle esplosioni,- erano già scomparsi dal
luogo
senza lasciare traccia di sé. Le autorità avevano
soccorso e
arrestato per accertamenti almeno cinquecento persone, alcune in
stato d'incoscienza e ferite in maniera seria, -ma per fortuna
nessuno era morto. Qualcuno avrebbe portato le conseguenze di quella
notte per sempre sul corpo, però, un pensiero che tormentava
Steve,
anche se provava a non darlo a vedere.
Di
Hun non si sapeva dove fosse sparito, ma erano certi che fosse ancora
vivo e più incattivito che mai; la città era
diventata un campo di
battaglia aperto, in cui si erano riversati i suoi scagnozzi e i suoi
sottoposti, ad ogni ora del giorno e della notte, portando il caos: i
graffiti della banda erano stati ripristinati ad ogni angolo delle
strade, più grandi e più minacciosi che mai;
furti, rapine, spaccio
di droga e vendita di armi illegali continuavano ad avere luogo sotto
le facce ignare delle forze dell'ordine e una serie di omicidi di
piccole bande, che avevano preso piede mentre i Purple Dragon erano
nascosti, stava terrorizzando la popolazione e scuotendo i media, che
pure non osavano entrare nei dettagli, per paura di rappresaglie e
conflitti che avrebbero portato inevitabilmente alla morte.
Hun
aveva decisamente approfittato della loro assenza forzata per gettare
una cappa di terrore su New York, a cui nessuno poteva sfuggire.
“E
allora cosa ci facciamo qui? Usciamo e andiamo a prenderlo a
calci!”
aveva tuonato Raph arrabbiato, alzandosi dalla sedia di scatto e
lasciando cadere la forchetta nel piatto con un tintinnio cupo.
Don
si era alzato all'istante per cercare di calmarlo e impedirgli di
agitarsi troppo, ma era stata la voce del sensei a riportare alla
ragione il figlio desideroso di vendetta.
“Nessuno
di voi lascerà il rifugio e andrà alla ricerca di
Hun. Avete
sfiorato la morte e la sua ombra aleggia ancora su di voi! Isabel vi
ha curato a prezzo di grandi sacrifici, ma la sua energia magica non
era abbastanza e le vostre ferite non sono risanate ancora del tutto.
Vi proibisco qualsiasi uscita in superficie e atto avventato
finché
non sarete nuovamente in forma come prima. Una sconfitta va prima di
tutto metabolizzata, per essere pronti al passo successivo!”
Erano
rimasti tutti ammutoliti ad ascoltare la paternale sensata e giusta
del maestro, che aveva parlato con calma eppure una forte dose di
autorità, che non ammetteva repliche né
disobbedienza.
I
suoi occhi erano rimasti calmi e sereni, tuttavia ognuno di loro vi
aveva scorto una luce di severità che li ammoniva di non
provare ad
andare contro il suo ordine, perché non ci sarebbero
riusciti e
avrebbero dovuto subire una punizione se solo si avessero provato.
Perfino
Raph aveva letto l'inflessibilità dietro le parole e si era
lasciato
cadere di nuovo sulla sedia, in silenzio teso, riprendendo a mangiare
di malavoglia.
La
cena era finita in un clima inquieto e pesante, che si protrasse per
i giorni seguenti.
Isabel
era tornata a casa la mattina seguente, mentre loro erano rimasti a
riprendere le forze confinati nel rifugio, alcuni come Don e Leo,
praticamente a posto, avevano iniziato ad allenarsi e a studiare
strategie per il passo successivo; altri, come Raph e Mikey,
bisognosi di riposo, erano stati forzati a non fare niente, mentre il
tempo scorreva lento e agonizzante, difficile da tollerare.
La
porta del rifugio si spalancò verso l'alto, lentamente e
senza un
suono, e Isabel entrò con passetti felpati, attenta a non
fare
rumore per non svegliare nessuno.
Ritornare
ad allenarsi alle prime luci dell'alba era grandioso e non vedeva
l'ora di entrare nel dojo e riprendere le sue lezioni, dopo il
periodo di pausa forzato: aveva smesso di allenarsi da quando aveva
iniziato a curare il padre di Steve, ormai tredici giorni prima. Era
stato un compito talmente sfinente che non aveva fatto altro che
curare e dormire in un circolo vizioso, a cui si era poi aggiunta
l'emergenza dei suoi amici feriti da Hun, alla quale aveva cercato di
reagire, curandoli con tutte le forze che aveva e forse anche
qualcuna che non sapeva di avere.
Le
si era fermato il cuore a vedere Raffaello in quello stato, e quelle
immagini avevano continuato a tormentarla ogni volta che aveva chiuso
gli occhi, strappandole quasi via il sonno. Ma era sopravvissuto,
grazie al cielo e alla sua straordinaria forza vitale. O forse era
solo troppo cocciuto per morire, fortunatamente.
Sorrise
in imbarazzo al ricordo della sua visita del giorno prima per
ringraziarla. Certo, non c'era stato niente da poter davvero
fraintendere, ma era così felice che lui le avesse
finalmente
rivolto la parola, dopo tutto quel tempo, dopo la rottura tra loro;
le era sembrato di parlare col suo vecchio Raffaello, burbero e
pronto a perdere facilmente le staffe, ma in realtà dolce e
attento,
sotto la maschera da duro.
E
com'era stato bello guardare di nuovo nei suoi occhi, per una volta.
Persa
nei suoi pensieri, si accorse solo dopo qualche istante del riverbero
azzurrino che splendeva nel rifugio in penombra, in fondo a destra.
Si incamminò verso la zona video, in cui tutti e televisori
erano
sintonizzati sull'edizione del telegiornale del primo mattino, ad un
volume bassissimo, che non aveva sentito dall'ingresso.
C'era
qualcuno seduto sul divano, che ascoltava con avidità le
notizie
lette dalla avvenente giornalista.
“Continuano
senza sosta i crimini e gli atti di vandalismo per la città.
New
York si trova al centro di una spirale di delinquenza e
criminalità
come mai si era vista prima e ancora le forze dell'ordine brancolano
nel buio, senza sapere chi si celi dietro questi orrori e misfatti.
Non è più sicuro girare in certe zone della
città e non è sicuro
avventurarsi per le strade dopo il calare del sole, quando le strade
si trasformano in veri e propri teatri di violenza e depravazione.
Omicidi, furti, aggressioni e stupri sono ormai tristemente diventati
routine, per tutti gli ignari e avventati cittadini senza protezione.
Sono salite a trentasei le vittime di ieri notte, a causa di un
incendio doloso ad un rifugio per senza tetto nei pressi del Queens,
che ha divorato l'edificio e le persone che ospitava in pochi
istanti, senza possibilità di salvezza.
Le
forze dell'ordine invitano la popolazione a stare attenta e a non
creare situazioni potenzialmente pericolose: non uscite dopo il
tramonto, evitate le zone notoriamente malfamate e avvisate
prontamente la polizia e tenetevi in disparte, nel caso assistiate ad
un crimine. Ci colleghiamo col colonnello Morgan della Guardia
Nazionale, per informazioni approfondite sul...”
Isabel
rimase con gli occhi
sgranati a fissare le immagini, ma ormai non riusciva più a
sentire
cosa l'uomo in divisa sullo schermo stesse dicendo, perché
l'orrore
e la rabbia avevano cancellato le percezioni esterne. Non si era resa
conto che la situazione fosse così disperata; prima era
stata quasi
KO per potersi informare e il giorno precedente, il primo in cui era
finalmente cosciente e vigile, non si era accorta o informata di cosa
stesse succedendo a New York, stupidamente.
Era il caos. Era quasi anarchia.
Forse aveva espresso il suo
pensiero a voce alta o aveva trattenuto il respiro dall'angoscia,
perché la figura che era rimasta immobile a seguire le
notizie si
mosse e si voltò, scorgendo la sua figura.
Leo si
alzò dal divano di
colpo, divorato dalla paura e tuttavia sollevato nel vederla.
“Da
quanto sei qui? Hai
sentito il notiziario?” le chiese velocemente, avvicinandosi
a lei.
Isabel annuì soltanto, troppo
affranta per dare voce alle preoccupazioni.
“Ero
preoccupato. Non è
sicuro che tu giri in superficie, non... potrebbe succederti
qualsiasi cosa!” continuò con voce alterata,
poggiandole una mano
sulla guancia.
Le occhiaie erano scomparse e il
suo colorito era tornato normale, per fortuna; era così
felice di
vederla e poterle parlare, finalmente, dopo tutti quei giorni in cui
aveva solo potuto vegliarla mentre riposava, vigilando il suo sonno
perché niente le accadesse. Vigilare e proteggerla nel
silenzio era
tutto ciò che gli era concesso, lo sapeva, ma lo avrebbe
fatto con
ogni cellula del suo corpo, finché le forze lo avessero
retto.
Isabel
sollevò la mano e
afferrò la sua appoggiata sulla guancia, stringendola con
affetto.
“Sto
bene. Sono capace di
difendermi, lo sai. E non rimarrò chiusa in casa, senza
potervi
vedere o sapere come state” rispose con dolcezza.
“Rimani
qua, allora! Tu sarai
al sicuro e ci potrai tenere sott'occhio! Staremo entrambi
tranquilli!” provò ancora lui, che proprio non ne
voleva sapere di
demordere.
Sarebbe stato felice di averla
di nuovo sotto lo stesso tetto permanentemente, sia per saperla
protetta che per averla di nuovo costantemente con sé; il
pensiero
che potesse succederle qualcosa lì fuori era capace di
togliergli il
sonno.
“Sì
e poi? Chiamerai anche
April, Casey, Carl, Angel e Steve con tutta la famiglia al carico per
stare qui? Non ci sono solo io lì fuori e di certo non
possiamo
stare tutti qua da voi!” ribatté lei con un mezzo
sorriso
accondiscendente, seppur commosso per la sua premura.
“Beh,
non sarebbe un'idea
malvagia” sentirono dire ad una terza voce, che li sorprese.
Don era sulla porta
dell'officina e si godeva la scena stranamente intima, con un
sopracciglio inarcato.
“Donnie!
Sei d'accordo con
lui?” esclamò Isabel sorpresa, scostandosi da Leo
e facendo dei
passetti verso di lui, con le mani che mulinavano di sorpresa.
Il genio si grattò il collo
pensieroso, avvicinandosi a loro.
“Non
lo so. Ma so che sono
preoccupato quanto lui. La superficie è diventata terra
bruciata e
siamo fortunati che tu abbia cancellato la memoria di Hun del nostro
rifugio o probabilmente qua sotto la situazione non sarebbe migliore.
La nostra casa è forse l'ultima zona sicura in
città e forse
dovremo davvero ospitarvi tutti qui! Perché il passo
successivo di
questa insana delinquenza sono le rivolte e le rappresaglie: i
cittadini si uniranno in squadre di vigilanza per contrastare i
criminali che la polizia non riesce a sconfiggere e sarà
piena
guerra. Non mancherà molto prima che qualcuno si faccia
giustizia da
solo e allora a pagarne le conseguenze potrebbero essere ancora
più
persone innocenti” spiegò affranto il genio, dando
libertà alle
sue paure, frutto però di pensieri razionali.
Don sapeva
come ragionavano le
persone e che potere avesse la pressione della massa sul singolo,
soprattutto.
I tre si guardarono l'un l'altro
con quel magone pressante nel petto, ma nessuno di loro aveva
risposte o proposte concrete, perciò il passo successivo e
ovvio fu
attendere, provando a convivere con quella paura, nel guscio chiuso
del non sapere.
Fu
l'indomani, che le cose
parvero già diverse, per quanto possibile.
La mattina iniziò nella stessa
maniera della precedente, senza averlo programmato: Isabel
entrò al
rifugio all'alba per la lezione con il sensei e Leo, e trovò
proprio
quest'ultimo seduto ancora davanti ai televisori, avido di notizie
fin dal primo mattino; o forse non aveva davvero dormito e aveva
continuato a tormentarsi per dover stare nascosto invece di essere
lì
fuori a combattere e a dare una mano.
Ma le notizie di quel giorno
erano differenti e rincuoranti. Riuscì a sentire uno
spezzone mentre
si avvicinava, dalla voce che a stento tratteneva l'eccitazione della
consueta giornalista.
“...
e i superstiti sono ancora sconvolti e attoniti, nel capire la
portata della minaccia che è stata sventata e che sarebbe
costata
loro la vita. L'ordigno esplosivo aveva una carica di plastico tale
da poter spazzare via due interi isolati in ogni direzione dal centro
dell'esplosione, l'Ospedale St. Matthius. Non si sa chi sia l'angelo
che ha avvertito le autorità, catturato i tre uomini che
hanno
piazzato la bomba e disattivato la stessa; i pochi testimoni hanno
ricordi confusi e frammentari, a causa della scarsa
visibilità, ma
dai pochi indizi gli ispettori sono riusciti a capire che il
misterioso eroe è lo stesso che ieri sera al tramonto ha
sventato
una rapina in centro, senza lasciare quasi tracce dietro di
sé. È
la nascita di un nuovo supereroe? La città ne ha di certo
bisogno,
ora che i vecchi sembrano averla abbandonata, e i più si
augurano
che l'ignoto eroe continui a proteggere i cittadini e magari a
spazzar via per sempre la cappa di delinquenza che ha coperto New
York. Per l'edizione del mattino è tutto, grazie
da...”
Leo spense
i televisori e si
accorse di lei, che era dietro lo schienale del divano, con le mani
sul morbido rivestimento.
Si guardarono in silenzio e
meraviglia, entrambi troppo sorpresi per parlare. La porta
dell'officina si aprì e Don venne fuori, come il giorno
precedente,
ma con la stessa loro espressione in volto. Fu uno sguardo a tre.
“Un
misterioso vigilante che
sbaraglia una micidiale esplosione e una imprevedibile rapina... beh,
questo va ben oltre ogni rosea aspettativa” riuscì
a dire Leo, che
si sentiva stranamente... rincuorato? Il sapere che c'era qualcuno
che stava facendo qualcosa, che stava combattendo contro il male al
posto loro gli stava ridonando un po' di fiducia e forza.
“Rosea
aspettativa? È una
cosa incredibile! Sapete perché quell'ospizio dell'altro
giorno è
bruciato e quell'ospedale di ieri notte è stato preso di
mira? Il
primo aveva dato rifugio a due uomini di una banda chiamata
“Black
Soul” che aveva preso piede e alcuni quartieri sotto il suo
controllo mentre non c'erano più i Purple Dragons; e nel
secondo
posto sono ricoverati cinque uomini che erano quella notte nel
magazzino esploso, che pare stiano prendendo accordi con la polizia
per confessare in cambio di protezione... Capite? C'è Hun
dietro a
tutto e la città ormai è la sua scacchiera
personale. Se trova
questa persona la schiaccerà brutalmente e non voglio
nemmeno
immaginare cosa sarebbe capace di farle!” li
informò con la voce
sempre più alta e alterata, come se temesse qualcosa.
Fu Leo a
capire cosa si celava
nei pensieri del fratello.
“Tu
non pensi che... non è
così stupido! Ha una moglie e un figlio! Casey non li
metterebbe mai
in pericolo!” lo difese il leader, anche se un minimo di
sospetto
era venuto anche a lui.
Il loro amico era ancora
ferocemente nemico di Hun e dei Purple Dragons e non era strano che
volesse vendicarsi per ciò che aveva fatto a suo padre e per
ciò
che aveva fatto a loro recentemente, e in più aveva una gran
forza
fisica ed era ferrato in meccanica ed elettronica... non era
così
impossibile che potesse disarmare una bomba. Ed era pazzo abbastanza.
“Meglio
assicurarcene. Pensi
che le sei del mattino sia troppo presto per chiamarlo?”
chiese
Don, con già il telefonino in mano.
“Se
è stato in piedi tutta la
notte per vigilare, sicuramente sì” fu la risposta
pronta di Leo.
Ovviamente l'amico non rispose,
il telefono suonava a vuoto e se in un primo momento ne erano rimasti
allarmati, si ricordarono dopo qualche istante che era sua abitudine
togliere la suoneria di notte, perché eventuali chiamate non
disturbassero Carl o April.
Perciò con un po' di magone si
diressero alle loro occupazioni, Don al laboratorio e Leo e Isabel al
dojo per gli allenamenti.
Solo
intorno alle nove, quando
si trovarono in cucina per la colazione e Steve si unì a
loro come
ormai faceva ogni mattina, Don li informò delle
novità.
“Non
è stato lui. Ci ho
parlato per almeno mezz'ora e mi ha giurato e spergiurato che non
c'entra nulla. Ha detto che gli sarebbe piaciuto fare qualcosa e che
per mezzo minuto ci aveva pensato, ma che non avrebbe mai rischiato
la sicurezza della sua famiglia per nulla al mondo. E io gli
credo”
spiegò mentre prendevano posto a tavola, per fare onore alla
colazione che Mikey aveva amorevolmente preparato.
“Beh,
meglio così. È
un'ottima cosa” mormorò Isabel, stretta in quel
momento
nell'abbraccio del suo fratello mutante, nel solito affettuoso
rituale tra loro due.
Anche Steve
aveva ormai posto in
quella routine, perché Mikey lo aveva preso sotto la sua ala
protettiva e ogni giorno lo sequestrava per qualche ora che passava
con lui e tonnellate di videogiochi o fumetti o cartoni o ogni altro
genere di intrattenimento il mutante pensasse dovesse piacergli e nel
quale lui era maestro. Era quasi inorridito quando il ragazzino gli
aveva confessato di non saper andare sullo skate, e tra le future ore
che Steve avrebbe passato con loro mentre Leo gli avrebbe insegnato
il ninjitsu, Mikey ne aveva prenotata qualcuna per insegnarli quello
e altre cose per renderlo, -parole sue,- “figo”.
“Sì,
è rincuorante! Ma mi
chiedo chi possa essere questo folle sprovveduto... e spero che non
gli succeda nulla” soffiò Leo, che prese solo una
tazza di caffè,
evitando gli enormi pancakes ricolmi di miele fatti da Mikey.
“Io
lo posso scoprire” si
sentì la voce di Steve, mezzo soffocata per il masticamento
vorace e
allegro della gustosa colazione.
“Tu
non farai proprio nulla!”
lo rimproverò Leo, con un'occhiataccia torva.
“Devi smetterla di
ascoltare le voci di strada e ficcare il naso dove non devi!”
Steve si strofinò il naso con
la mano libera e sostenne il suo sguardo.
“Ma
io sono utile. Voi siete
bloccati qui e io scivolo nelle ombre in cerca di
informazioni!”
ribatté il giovane, strappando un altro morso dal pancake
impalato
sulla forchetta.
“No,
tu scivoli nelle ombre in
mezzo a grossi guai! Sono serio: basta con le cose
pericolose” continuò con la ramanzina il leader,
placcandolo senza sosta. Era
una scenetta che si ripeteva almeno una volta al giorno: Steve si
proponeva per infiltrarsi e investigare, si lasciava scappare
informazioni che aveva sentito, e Leo lo ammoniva perché
stesse
attento e non si mettesse nei guai, mentre loro erano confinati e
impossibilitati a dargli una mano e difenderlo.
“Se
è così che la pensi,
allora le ultime indiscrezioni che ho sentito, e che sono ovviamente
pericolose, me le tengo per me” mise fine al discorso il
giovane,
alzandosi da tavola, gettando lì con finta innocenza l'amo.
“Dimmi
tutto quello che sai”
lo minacciò Leo, affilando lo sguardo.
Steve
indietreggiò di un paio
di passi, come se avesse percepito tutta la portata
dell'intimidazione del leader.
“Solo
se ammetti che sono
utile e mi lascerai fare a modo mio” sibilò
strisciando verso la
porta della cucina, con gli occhi che saettavano da quella al tavolo
per percepire ogni suo minimo movimento.
“Non
sto giocando, Steve...
dimmi cosa hai scoperto!” tuonò Leo alzandosi
dalla sedia con un
solo gesto rapido e preciso.
Il ragazzino scattò nello
stesso secondo, veloce come gli aveva detto di essere, una macchia
sfocata, tanto che era già fuori dalla porta prima che lui
riuscisse
a spostarsi dal tavolo. Il leader gli corse dietro, con uno sbuffo
esasperato e un urlo di richiamo, ovviamente inascoltato.
“Io
starei attento! Non è
solo veloce, sa creare anche bombe catastrofiche con nulla! Mutante
avvisato...” gli gridò Mikey, provando a suo modo
a metterlo in
guardia.
Isabel
ridacchiava, per la prima
volta da giorni.
“Sono
adorabili. Sembrano...
non so, padre e figlio o due fratelli che si punzecchiano. Sono
davvero adorabili” confessò sorridendo,
improvvisamente molto più
di buon'umore, forse nel vedere come stessero reagendo, nonostante
tutto, come stessero riprendendo le forze e andando avanti,
confrontando il futuro senza paure e a testa alta.
Senza dimenticare anche un po'
di serenità e calore familiare.
La giornata passò in un clima
pacifico, anche se Steve era stato catturato da Leo, alla fine, e
aveva dovuto confessare ciò che aveva scoperto, e qualunque
cosa
fosse aveva gettato il leader in uno stato di cupa e silenziosa
meditazione, come se stesse pensando a qualcosa di davvero importante
e troppo grosso per poter essere rivelato in quel momento.
Il giorno
seguente iniziò come
il precedente e quello prima ancora. Non che lo stessero facendo
apposta o lo avessero programmato, ma i consueti tre si ritrovarono
seduti sul divano a guardare la televisione con ossessione,
aspettando la prima edizione del mattino, desiderosi di sentire le
novità.
La
giornalista era visibilmente
eccitata ed emozionata nel diffondere la notizia di almeno una decina
di salvataggi e crimini sventati in una sola notte: le immagini
scorsero sullo schermo, dai volti dei superstiti di una rapina in un
lussuoso appartamento all'intervista rincuorante di un dottore che
aveva in cura un paio di ragazzini che erano arrivati in nottata in
piena overdose, le parole erano piene di speranza e gratitudine per
il misterioso salvatore.
“Era
nero e veloce, tanto.
Non sono riuscito a vederlo bene, ma era straordinario! E subito
dopo, senza nemmeno una parola, è sparito in un
soffio” disse
eccitato un giovane che aveva scampato un'aggressione per pochi
spiccioli, tenendo il microfono con mani tremanti.
“Nero
e veloce” ripeté a
voce alta Leo, sovrappensiero.
“Pensi
di sapere chi sia?”
saltò su Isabel dal suo fianco, con gli occhi pieni di
sorpresa.
“Potrebbe
essere... Nobody.
Che ne pensi, Don?” azzardò lui, cercando di fare
memoria di
quando fosse l'ultima volta che aveva avuto a che fare con lui o
anche solo visto. Almeno tre anni prima, più o meno. O forse
anche
di più.
“Con
Nobody... tu intendi dire Nessuno?” chiese confusa Isabel,
traducendo la parola nella sua testa, con un'espressione davvero
comica mentre cercava di capire cosa lui stesse intendendo.
Don
abbassò il volume della tv,
con un sorriso in volto per l'equivoco.
“È
il nome di un eroe della
città, Nobody: Nessuno. È una lunga
storia” le spiegò
brevemente, voltandosi poi verso Leo.
“Ma
non credo sia lui, è un
membro della Justice Force, adesso. Si muoverebbero tutti insieme,
nel caso. E sono in missione intorno all'orbita terrestre, al
momento, perciò lo escludo del tutto!”
“Sei
di nuovo entrato... ehi,
aspetta! Perché non fai una visita ai file della polizia e
cerchi di
scoprire più che puoi su cosa stia succedendo e sulle
informazioni
sul misterioso eroe?” sbottò entusiasta Leo, fiero
della sua
pensata.
“Mi
stai davvero chiedendo di
andare contro la legge, Leo? E le tue ramanzine e il senso dell'onore
dove sono finiti?” ribatté il genio con un
sorrisino compiaciuto
per essere finalmente riuscito a traviarlo sulla sua via della
conoscenza, come chiamava lui le sue sbirciate ai computer del
governo e delle forze dell'ordine.
“Potrei
sempre cambiare idea,
sai, Donnie? Non tirare tanto la corda!”
“Ok,
ok, ma perché ti
interessa così tanto scoprire chi sia questo individuo?
Voglio dire:
sta proteggendo la città mentre noi siamo fuori gioco, non
è già
tutto quello che dobbiamo sapere?” esclamò il
genio sulla
difensiva, sapendo quanto l'argomento dello spionaggio fosse spinoso
con lui.
“Certo,
è tutto molto
bello... ma non ti sembra strano che spunti fuori dal nulla un
paladino della giustizia proprio nel momento del bisogno? Dov'era
prima? Perché non ne abbiamo mai sentito parlare?”
“Forse
c'è sempre stato, ma
non ci abbiamo mai fatto caso... magari le sue imprese erano confuse
tra le nostre o quelle della Justice force o delle forze di sicurezza
e non hanno mai spiccato come in questo momento in cui c'è
un grande
caos e anche il più piccolo gesto di giustizia viene messo
sotto i
riflettori!” provò a spiegare Don, tirando ad
indovinare.
“Beh,
hai ragione. Ma è
meglio se ne sappiamo di più. Possiamo aiutare questa
persona o
darle una mano nel caso succedesse qualcosa. Non fa mai male saperne
il più possibile, no?”
Leo si
alzò dal divano
stiracchiando le braccia, in direzione del dojo, seguito a ruota da
Isabel, mentre Don si recava al suo laboratorio, per investigare con
tutte le sue risorse.
“Che
c'è?” domandò il
leader nell'accorgersi che lei si era fermata e che stava guardando
Donnie andare via. Si voltò in fretta alla domanda e si
mosse verso
di lui, accelerando il passo.
“Niente.
Solo che... è
davvero sicuro che Don entri nei computer della polizia? Non ti
chiedo se ne sia capace, so che deve essere una bazzecola per lui, ma
mi chiedo se non sia pericoloso” confessò Isabel
mordendosi un
labbro dall'agitazione.
“Ah,
non sai quante volte me
lo sono chiesto anche io! Vivo col terrore che prima o poi lo
scoprano... ma lui ogni volta ridacchia e mi dice che se non sono
riusciti a scoprirlo finora, non ci riusciranno mai. E Donnie
potrà
anche essere il più timido e schivo, ma quando si tratta
delle sue
competenze tecniche diventa davvero uno spaccone”
esalò Leo,
strappandole una risatina, forse per come lo aveva detto o al
pensiero di un Don sbruffone.
Non lo
videro né sentirono per
quasi tutto il giorno, in cui era rimasto seppellito nel suo
laboratorio a scrutare in centinaia, se non migliaia di file.
Uscì
fuori nel tardo pomeriggio, con gli occhi rossi e stanchi per la
costante e lunga ricerca, un po' frastornato.
Si recò in cucina e prese una
tazza generosa di thé caldo, poggiandosi poi contro il
bancone della
cucina. Leo e Isabel gli erano andati dietro, desiderosi di avere
informazioni, e avevano pazientato durante tutta la sua sequela di
preparazione per la bevanda, silenziosi.
“Ho
le gambe atrofizzate e il
mio fondo schiena...” iniziò a lagnarsi per aver
dovuto stare
seduto per ore.
“Si,
scusa, ma non ci frega
molto del tuo fondo schiena! Spostati” lo interruppe Raph,
che era
di turno per preparare la cena.
Si sporse
per aprire lo
sportello in alto e prendere un barattolo di conserva, poi
ritornò
al suo angolo davanti ai fornelli, senza prestare loro nessuna
attenzione. Leo lo teneva d'occhio con discrezione, giusto per essere
sicuro delle sue reazioni, essendo nella stessa stanza con Isabel; ma
non accadde nulla. Nessun sguardo buttato per caso o di proposito,
era come se nemmeno sapesse che era lì.
Era lei, invece, a saettare con
gli occhi verso la direzione del fratello, spesso, fugacemente e nel
pensiero di non essere scoperta. Certo, se lui non l'avesse tenuta
d'occhio, sarebbero davvero passati inosservati. Ma sapeva che lei e
Raphael si erano parlati, il piccolo ficcanaso glielo aveva detto,
con un tono di voce cupo da funerale. Come se lui dovesse sentirsi
male e deprimersi solo perché si erano parlati: sapeva che
una cosa
del genere sarebbe accaduta, prima o poi. E dei due, palesemente, era
lei quella presa dalla cosa. Quello, lo faceva stare davvero male.
“Allora,
Donnie... novità?”
chiese in fretta, distogliendo con forza la mente da quel circolo di
pensieri.
Il genio bevve un altro sorso
dalla sua tazza con su scritto: “World genius #1”,
un regalo di Mikey.
“Ci
sono almeno una ventina di file criptati, che mi hanno dato filo da
torcere. A quanto pare la polizia sa benissimo che Hun è
dietro a
tutto ciò che sta succedendo in città e stanno
investigando sui
suoi traffici con dei signori della droga colombiani e due
trafficanti di armi dall'Europa dell'Est. C'è dietro una
rete di
contatti e sospetti da fare impallidire anche il più esperto
agente
di sicurezza. Non ce n'eravamo affatto accorti, ma il nostro caro
nemico stava intessendo un piano grandioso in tutto questo
tempo”
iniziò a raccontare Don, con la sua voce rassicurante, che
però
stonava con le orribili notizie che portava.
“Un
piano davvero oltre la sua portata” fu la replica astiosa del
leader, a cui bruciava ancora la facilità con cui li aveva
attirati
in trappola e battuti senza possibilità di difesa.
“Beh,
lo credevo anche io. Ma ha fatto le cose per bene; scambi di favori,
minacce, rappresaglie e opportuni
lavoretti per le persone giuste, e adesso ha nelle sue mani tutto
ciò
che gli serve per rivoluzionare la città: uomini, armi,
droga e
paura. La polizia sa tutte queste cose, ma non può muoversi:
non
sanno fin dove la sua forza possa arrivare, non sanno chi
accorrerà
in suo aiuto se venisse attaccato o quanta potenza di fuoco potrebbe
sprigionare. Stanno vagliando le possibilità, ma ci sono
quasi otto
milioni di abitanti in questa enorme arena, non possono muoversi
senza precauzioni.”
Leo
si sedette al tavolo, col volto livido e scuro, al sentire quanto
catastrofica fosse in realtà la situazione; aveva creduto
che Hun
fosse solo appena più preparato del solito, il consueto
idiota tutto
parole che alla fine avrebbero battuto con facilità, come
avevano
sempre fatto, ma non ne era più così sicuro.
Come
avrebbero fatto a batterlo, quella volta? Perché non farlo
avrebbe
significato la loro fine e la capitolazione di New York.
Sentì
la mano di Don poggiarsi sulla sua spalla.
“Penseremo
ad un buon piano. Uno che elimini quell'idiota
definitivamente”
mormorò, rispondendo alla sua domanda mentale.
Quel
geniaccio sapeva sempre cosa gli frullava per la testa. Beh, quasi
sempre. Non sospettava per niente quello che sentiva per Isabel e
tanto meglio così.
“E
del misterioso vigilante?” domandò la voce di lei,
curiosa.
“Nessuna
notizia, niente di niente. Giusto un paio di descrizioni di
testimoni, ma che cozzano le une con le altre: alto, basso, magro,
grasso, bianco, nero. Uno è stato sincero e ha detto che era
troppo
veloce per poter essere visto davvero. La polizia non ci sta davvero
indagando, almeno finché compie azioni che aiutano la
gente.”
“Abbiamo
un nemico certo e preparato, un aiuto non certo e misterioso.
Dobbiamo rimetterci in forze al più presto e fare un piano
efficace.
Non possiamo rimanere ancora passivi e guardare Hun fare i suoi
comodi.”
La
cucina cadde nel silenzio, ma erano tutti d'accordo con le parole
ispirate e giuste del leader. Perfino Raphael, che aveva ascoltato
tutto senza farsi scoprire, era d'accordo con loro; agire subito e
con forza era la soluzione migliore.
Isabel
andò via subito prima di
cena, con la promessa di farsi sentire non appena fosse arrivata a
casa, così da non farli preoccupare.
Leo tenne il cellulare in mano
per tutto il tempo, stringendolo tanto forte per l'ansia, aspettando
il messaggio. Da quando era diventato quell'ammasso di angoscia e
passività? Certo, lui più di tutti l'aveva a
cuore, perché era la
donna che amava. Era normale che si sentisse responsabile e in
agitazione, avrebbe voluto proteggerla, vegliare su di lei e non
aspettare, senza sapere niente o poter fare niente.
Non era nella sua natura
aspettare senza agire e lasciare persone care brancolare lontano dal
suo sguardo. Lasciare chiunque a brancolare nel buio.
E il
pensiero corse
inaspettatamente verso il misterioso vigilante notturno, un po' in
apprensione, nel non avere idea di chi fosse e quanto affidamento
potessero farci, un po' sollevato, al sapere che c'era qualcuno che
salvava e proteggeva la città al posto loro, anche per poco,
anche
di poco.
Sentì la mano di Splinter che
si poggiava sul suo avambraccio e si riscosse. Sapeva che era del
maestro, sentiva le onde serene del suo animo accarezzare la sua
mente.
“Sento
che sei agitato,
figliolo. Che ne dici di un po' di meditazione?” propose con
tono
bonario, anche se la lunga coda spazzava il terreno, sottaciuto segno
di probabile agitazione.
Leo sorrise
fugacemente e piegò
il capo.
“Certo,
sensei. Credo che mi farà bene” rispose
cortesemente, celando però
nel suo cuore pensieri e timori che non avrebbe mai mostrato al
padre, pregando di essere abbastanza bravo da riuscirci per davvero.
Note:
Buon
giorno a tutti.
Siamo
in un momento di transizione. I nostri riprendono le forze e intanto
in città c'è un misterioso vigilante spuntato
fuori dal nulla... ma
sarà davvero così?
C'è
caos, ancora domande e dubbi.
La
storia prosegue e ci aspettano ancora tante cose e colpi di scena.
Ringrazio
davvero tutti voi che leggete, e specialmente chi recensisce. Vi
adoro.
E
grazie a SaraJane92 che mi ha mandato altri due splendidi disegni:
uno tratto da JTWYA e uno che è lo studio del personaggio di
Steve.
Fantastici! Li adoro da morire! Hai un futuro splendido davanti!
Grazie!
Grazie
a tutti, di cuore!
A
presto abbraccione
|
Ritorna all'indice
Capitolo 20 *** Reckless move ***
Isabel si
strofinò gli occhi,
soffocando uno sbadiglio. I cunicoli delle fogne erano sempre in
penombra, perciò doveva tenere gli occhi bene aperti per non
inciampare, ma era particolarmente difficile quella mattina; era
stato difficile anche staccarsi dal letto morbido e accogliente. Solo
il pensiero di una doccia rinfrescante in quella prima settimana
afosa di Luglio era riuscita infine a strapparla dalle grinfie del
sonno e a convincerla ad alzarsi.
Si
stiracchiò un po' mentre con
la mente iniziava a pensare alla lezione di quel giorno. Dato che con
gli affondi e le parate stava progredendo in maniera spedita,
Splinter aveva detto che le avrebbe insegnato finalmente a lanciare i
Tessen e lei non vedeva l'ora di cimentarsi: Leo gliel'aveva
già
mostrato, ma era stato lui alla fin fine a lanciare entrambi i
ventagli, perciò non vedeva l'ora di essere lei, con le sue
proprie
mani, a provare la mossa. Pregò di non causare incidenti,
-fortunatamente Splinter era veloce a schivare e per sicurezza si
ripromise di chiedere a Leo di uscire dal dojo prima di provare. Meno
persone, meno incidenti.
Si
fermò davanti alla porta del
rifugio e attese che si aprisse, pazientemente: si aspettava di
trovare la solita penombra, magari giusto il flebile luccichio degli
schermi tv, perciò rimase attonita e un po' confusa da tutta
la luce
che fuoriuscì dal rifugio.
Fece un paio di passetti e
strizzò le palpebre per mettere a fuoco, ma quel che vide
non le
piacque.
C'era un mutante che
l'aspettava, impettito e silente davanti all'ingresso, proprio alla
fine della rampa che scendeva nella circonferenza del laghetto. Era
senza maschera e la stava guardando, con sguardo arrabbiato e fuori
di sé.
“Buon
giorno” esalò poco
convinta, entrando nel rifugio.
Dall'altra parte c'era solo
silenzio. Stava forse aspettando che si avvicinasse ancora per poi
balzarle addosso?
Quei pochi metri dalla porta al
laghetto non le erano mai sembrati tanto lunghi, soprattutto nella
vana attesa che l'altro aprisse bocca e parlasse.
Si fermò davanti a lui e
deglutì, sapendo già cosa stava per arrivare.
“Che
cosa pensi di fare? Stai
cercando di ucciderti?” la assalì Leo con tono
cattivo, che la
fece sobbalzare dalla sorpresa.
Non ebbe nemmeno il tempo di
metabolizzare lo spavento perché una volta dato il via,
iniziò a
investirla, senza respiro.
“Pensi
che sia un gioco?
Perché non ce ne hai parlato? E se ti fosse successo
qualcosa? Se...
se... è pericoloso! Non puoi! Smettila immediatamente! Come
ti è
saltato in mente di trasformarti in un giustiziere notturno?”
continuò, arrabbiato e spaventato.
La sua carnagione verde foresta
aveva perso colore nei pressi del suo viso. Lo sguardo di lei era
incatenato al suo e leggeva le sue reazioni, dalle espressioni e dai
gesti inconsci: era davvero preoccupato per lei. Al punto da tremare
sottilmente, senza esserne consapevole.
E quello era il motivo per cui
non gliene aveva parlato.
“Come
hai fatto a...” iniziò
a chiedere, anche se sapeva già la risposta.
“Steve!”
fu la replica
asciutta di Leo.
Già, lo sapeva che c'era
l'adorabile e sapientino ragazzino dietro. Una vera e propria spia.
“Uno
dei testimoni
dell'ospedale si è ricordato che il misterioso eroe lo ha
aiutato a
scappare per le scale e che aveva una figura piuttosto esile e un
rigonfiamento eccessivo nella parte del torace... ti dice
niente?”
la informò, con un sopracciglio in su di rimprovero.
“E
ha diffuso l'informazione
in giro, sicuramente per poter avere un'esclusiva dalla tv. Peccato
però che nelle mani sbagliate sia una notizia davvero
pericolosa!
Hai una vaga idea di come mi sia sentito appena l'ho capito?”
incalzò arrabbiato, senza darle davvero il tempo di
rispondere, solo
desideroso di buttare fuori tutta quella furia e quel rimprovero,
tenuto a lungo nel petto e la mente mentre aspettava che lei
arrivasse.
Quando
aveva ricevuto la
chiamata da Steve, e aveva capito chi fosse il misterioso eroe
notturno, aveva perso la calma, la concentrazione e ogni battito, al
pensiero di cosa potesse capitarle. Era così in preda
all'ansia da
prendersela anche con lei, anche se avrebbe voluto abbracciarla,
invece, e impedirle di staccarsi da lui, per tenerla al sicuro.
“Ma
io non potevo rimanere
senza far niente! Voi siete bloccati qui sotto e lì fuori
c'è il
caos! Ho pensato di poter essere utile, di poter prendere per un po'
la responsabilità sulle mie spalle e lasciarvi il tempo di
rimettervi in forze. Non avrò la vostra esperienza, ma non
sono una
sprovveduta!” spiegò velocemente lei,
approfittando della pausa
mentre lui prendeva fiato, cercando di fargli capire che non era una
stupida e che aveva pensato ai pro e ai contro.
“Sì
che lo sei! Non hai
nemmeno idea di come sia New York e come funzioni! Non puoi fare i
tuoi comodi e pensare che non disturberà nessuno! Ci sono
occhi e
orecchie che riferiscono a chi non dovrebbe mai sapere! Che fai se
qualcuno ti ha vista? Come pensi di agire se ti scoprono? Sei
un'umana e devi girare spesso in superficie, a differenza
nostra!”
continuò imperterrito Leo, sempre più furioso, al
sentire che lei
non voleva capire.
Non poteva capire, in realtà.
Non lo sapeva quanta paura gli avesse fatto scoprire di poter
provare, nell'istante in cui l'aveva immaginata da sola là
fuori a
combattere.
“Ma
nessuno mi conosce o sa
che sono...” provò a difendersi lei, in
quell'unilaterale e
piuttosto soggettivo processo.
Leo sembrava voler essere
giudice e giuria, senza nemmeno darle modo di difendersi e spiegarsi,
per provare a fargli capire perché avesse agito in quel
modo. Certo,
il suo “reato” poteva sembrare grave, ma se solo
avesse ascoltato
ciò che aveva da dire.
Lui sbuffò esasperato e fece
dei passi verso di lei, le mani strette a pugno, con le nocche
bianche, resistendo all'impulso di afferrarla e scuoterla.
“Hai
idea di quanto sia
pericoloso? Hai idea di quello che ti potrebbe accadere se cadessi
nelle mani di Hun o di uno dei suoi scagnozzi? Ti torturerebbero per
avere informazioni o per il solo gusto di farlo! Non puoi nemmeno
immaginare cosa potrebbero farti” urlò furioso,
divorato dalla
paura e la sua stupida noncuranza per sé stessa.
Le labbra
di Isabel si
sollevarono in un mezzo ghigno, freddo e spento, che non aveva niente
a che fare con il sorriso dolce e solare di sempre: si
slanciò in
avanti e si fermò a nemmeno un passo da lui, il viso in alto
per
guardarlo negli occhi, lo sguardo che scintillava di orrore e
disperazione.
“Ma
davvero? Parlami di
torture, Leo... hai ragione, non so proprio niente. Della
disperazione, del dolore, del pressante desiderio di morire, degli
incubi e della sofferenza che ti si incidono dell'anima... parlami
dei secondi che diventano eterno strazio e del cuore che smette di
battere se non per la paura. E dell'assuefazione al tormento, tanto
da non sapere se proverai mai di nuovo sentimenti e sensazioni
umane... parlamene tu, Leo, dato che ne sai più di
me” esalò con
una voce roca e oscura che graffiava le orecchie, disperata come la
morte, gli occhi lucidi di lacrime trattenute, come specchi che
riflettevano ere di supplizi.
Leo
sobbalzò e trattenne il
respiro, attonito, ma non riuscì a staccare lo sguardo da
quello
tormentato di lei, dove lo scrigno dei ricordi seppellito nel fondo
si era aperto.
Allungò le mani e l'abbracciò,
repentino e svelto, per placare insieme il tremore che scuoteva
entrambi.
“Mi
dispiace. Mi dispiace,
Isabel, mi dispiace! Scusami, perdonami, mi dispiace”
sussurrò
come una litania, stringendosela contro. Era fredda e con le
pulsazioni a mille, scossa da un lieve tremolio e spenta, come una
statua senza vita.
Come poteva essere stato così
stupido? Parlarle in quel modo e tirare fuori le torture... come
aveva potuto non pensare a ciò che le era successo? A quella
sofferenza a cui persino lui era stato testimone, a quei mesi di
disperazione e violenza che l'avevano ferita fuori e dentro, per
sempre.
Sentì
il fiato di Isabel
sfiorargli la pelle nel collo in piccoli e corti respiri affannati,
in preda ad un attacco d'ansia, e la strinse più forte,
passandole
una mano sulla schiena per provare a rassicurarla.
“Mi
dispiace. Sono uno
stupido, sono un idiota. Dimentica tutto. Torna qui con me”
mormorò
affranto, praticamente supplicandola.
Un respiro profondo spezzò
quelli corti come se si fosse riscossa da un'apnea, e poi Isabel
sospirò, tremante. Sentì il battito del suo cuore
ritornare ad un
ritmo normale, forse solo appena più accelerato, e le sue
mani
muoversi e risalire sul torace, chiudersi in pugni sul seno in un
gesto di protezione, rannicchiandosi e facendosi piccola piccola,
affondando di più la testa nel suo petto.
“Scusami.
Non avrei dovuto
reagire così male... io sono... ancora...”
provò a dire, ma le
parole le morirono in gola, con un singulto secco.
“No,
è ok, è colpa mia. Va
tutto bene, è tutto a posto. Ero preoccupato e ho reagito
male io,
perdonami” si scusò in agitazione, con la guancia
poggiata sulla
sua testa.
Stringerla e proteggerla era
tutto ciò che poteva fare, ma quanto era affidabile, se era
lui
stesso il primo ad arrecarle dolore?
“Siamo
nel rifugio e tu stai
bene. Non c'è niente che non vada, è tutto a
posto. Ci sono io con
te.”
Isabel singhiozzò piano tra le
sue braccia, immobile.
“Però,
per favore, promettimi
di non metterti più in pericolo. Promettimelo, Isabel. Non
voglio
temere che ti accada qualcosa” le chiese con premura e
dolcezza,
carezzandole la testa.
Lei annuì solamente, stretta
nel suo abbraccio, fragile e tormentata.
Era
riuscito a farla piangere...
si sentì sporco, indegno di poterla anche solo guardare,
figurarsi
stringerla. Aveva riversato su di lei la sua frustrazione accumulata
e le sue paure, e l'aveva ferita. Non era di certo quello che faceva
un uomo alla donna che amava.
Ma per quanto si sforzasse di
essere sempre al meglio e seguire i suoi sentimenti, era
completamente negato. Non sapeva cosa fare o dire per poterla
sostenere e difendere.
Il pianto silenzioso scemò di
intensità e si spense, non seppero nemmeno dopo quanto.
Quando si
sentì di nuovo in sé, Isabel si
allontanò delicatamente da lui e
si asciugò le lacrime col dorso della mano, rivolgendogli
infine uno
sguardo, anche se titubante: gli occhi erano rossi e un po' gonfi,
umidi e ancora feriti.
Lui le
propose di saltare
l'allenamento e di andare a casa a riposare, ma lei scappò
invece
verso il bagno per sciacquarsi il viso e quando Splinter apparve
dalla sua stanza, lei era già di ritorno, facendo finta di
nulla.
Eppure era diversa, anche se
forse non se n'era accorta. Più silenziosa e tesa, spenta e
guardinga.
Perfino il sensei se ne accorse,
anche se non fece domande, captando lo sguardo di Leo, che gli
comunicò in silenzio che gli avrebbe spiegato più
tardi.
La meditazione fu un completo
disastro, con la mente di tutti così in subbuglio, e la
tanto attesa
lezione per lanciare i Tessen seguì quella scia: Isabel era
talmente
poco attenta e motivata da non provarci nemmeno, benché
sapessero
che lei non vedeva l'ora di arrivare a quella lezione.
Alla fine,
all'inizio della
sera, lei si congedò, velocemente e un po' freddamente,
quasi
desiderosa di sparire all'istante.
Leo avrebbe voluto abbracciarla
ancora, ma non poteva davanti agli altri, non senza lasciar trapelare
ogni cosa.
“Manda
un messaggio quando
arrivi” si raccomandò, poggiando una mano sulla
sua testa con
dolcezza.
Lei annuì e si voltò,
avviandosi oltre il portellone d'ingresso, in silenzio.
“Cos'è
successo a Isabel?”
chiese Mikey affranto, guardando la figura allontanarsi sempre
più
fino a sparire nella penombra del tunnel.
“È
successo che sono un
idiota” rispose tra i denti Leo, allontanandosi da
lì col
shellcell stretto forte nel pugno, tanto che scricchiolò.
Isabel
risalì in superficie e
uscì dal solito tombino, nascosto in un vicolo deserto a due
traverse dal suo appartamento. Compì i soliti movimenti come
in
trance: sollevare il coperchio, controllare che non ci fosse nessuno,
saltare fuori, rimettere a posto il tombino e scivolare via da
lì
senza dare nell'occhio. Non stava prestando attenzione a nessun
gesto, la sua mente era come bloccata.
Si sentiva una sciocca e
tuttavia straziata, e non poteva farne a meno. Pensava di aver
reagito in maniera spropositata, ma il cuore le diceva che era
invece troppo poco, che c'era ancora tanto dolore seppellito nel
fondo di sé. E che invece di guarire, stava scendendo sempre
più in
una spirale senza fine di sofferenza.
Dov'era la felicità che aveva
pensato di avere una volta tornata lì? Dov'era il suo futuro
roseo e
sereno, al fianco dell'uomo che amava, che avrebbe cancellato ogni
più piccolo ricordo negativo e doloroso del passato?
Continuò
a camminare verso
casa, infilandosi nella rete di vicoli sicuri e ormai conosciuti,
pensando a tutto quello che era successo.
Aveva pianto davanti a Leo e lo
aveva spaventato. Sapeva che non sarebbe stato d'accordo se gli
avesse detto che aveva intenzione di pattugliare le strade al posto
loro e che glielo avrebbe impedito. Continuava a pensare che non
fosse pronta per gli scontri veri e a proteggerla.
Lei non aveva la loro
preparazione e la loro forza, ma poteva contare sulla magia, che fino
a quel momento l'aveva aiutata e sostenuta in quelle imprese. Aveva
pensato che dare una mano fosse la cosa giusta, e ne era ancora
convinta, ma presa nel momento di debolezza aveva promesso a Leo di
non farlo più e non avrebbe rotto la parola data. Nemmeno
quella
detta in un momento di fragilità.
Si riscosse
nell'accorgersi che
era quasi arrivata e che nel suo deambulare in stato di trance aveva
quasi buttato giù una vecchina che teneva due enormi buste
della
spesa, talmente pesanti da trascinare le sue spalle e la sua schiena
in giù.
Ogni passo era lento e
straziante, perfino da vedere. Isabel titubò un secondo al
pensiero
se dovesse o meno aiutarla, combattendo con la sua sfiducia e la
paura che si erano risvegliate quel giorno nel suo corpo.
Poi riconobbe il foulard che la
donna teneva legato in testa, blu e bianco con motivi greci, e si
ricordò della vecchina che abitava nel palazzo di fronte; la
ricordava bene proprio per quel particolare e vistoso copricapo, che
lei sfoggiava con orgoglio come retaggio della sua ascendenza. Si
ricordò dei sorrisi cortesi che la donna le rivolgeva quando
si
incontravano giù per la strada e le si scaldò il
cuore.
“Signora,
le serve una mano?”
domandò accelerando il passo per accostarsi, commossa dalla
sua
fatica.
La vecchina si bloccò e le tese
una delle buste, un millesimo di secondo prima di alzarsi di scatto e
gettarsi contro di lei, il foulard che cadde a terra rivelando una
testa lucida incisa da un tatuaggio.
Una lama
scintillò, uno schizzo
di sangue riempì l'aria e fu il buio, totale e freddo,
avvolgente.
Leo
camminava avanti e dietro per la cucina, col shellcell in mano, sotto
lo sguardo annoiato di Don, che preparava la cena.
“La
fai finita?” esalò il genio pelando e affettando
le verdure, senza
prestargli troppa attenzione.
Dalla
porta fecero capolino Raph e Mikey, attirati dal profumo di qualunque
cosa stesse sobbollendo nelle pentole sul fuoco. Si erano entrambi
ormai ripresi del tutto e avevano passato la giornata ad allenarsi
tra di loro dall'altra parte del dojo, con pesi e attrezzi per
sciogliere i muscoli addormentati dal riposo forzato.
“Ma
avrebbe dovuto avere già mandato un messaggio. Non
è da lei non
farsi sentire” rispose il leader ignorando l'entrata dei
fratelli,
continuando a camminare in tondo.
“Probabilmente
è entrata in un negozio e si è attardata.
È perfettamente capace
di difendersi, non c'è da preoccuparsi”
ribatté convinto Don,
deciso a smontare tutte le sue lamentele.
“No.
C'è qualcosa che non va” replicò il
leader a denti stretti,
annoiato invece dalle sue risposte pronte.
“Perché
devi per forza reagire in maniera così apprensiva? Non
è una
sprovveduta e se volesse potrebbe spazzare via metà
città con un
dito. Non capisco proprio perché ti stia preoccupando
così tanto.”
“Parlate
di Isabel? Era strana, oggi” si intromise Mikey, sollevando i
coperchi per annusare per bene le pietanze. Si toccò la
pancia con
appetito e allungò la mano per afferrare un cucchiaio di
legno dal
pensile per assaggiare.
“Non
sembrava nemmeno lei” finì di dire mentre si
apprestava a tuffare
l'utensile nella pentola.
“È
colpa mia... stavamo parlando e... le ho ricordato senza volere le
torture che ha subito e lei... ha pianto” confessò
con un filo di
voce Leo, ascoltando il silenzio teso che seguì le sue
parole. Mikey
aveva perfino lasciato cadere il cucchiaio nella zuppa, con un tonfo
acquoso.
Tre
identici respiri bruschi arrivarono, come aveva previsto.
“Ma
sei scemo?” fu la secca reazione di Raph, che a dover essere
sincero non si era davvero aspettato.
“Come
si fa a menzionare per caso e senza volere un argomento come
quello?”
lo accusò Don, che si era voltato verso di lui con ancora il
coltello per pelare in una mano.
“Ecco
perché era così strana. È ovvio che
non stia per niente bene, e tu
l'hai lasciata andare a casa! Fai bene a sentirti
preoccupato!”
esclamò affranto Mikey, con uno sguardo scuro.
“Sì,
grazie. Le so già da me queste cose! Grazie per aver messo
il dito
nella piaga” replicò acidamente il leader,
allontanandosi a grandi
passi da loro.
Cosa
si era aspettato nel confessarlo? Un applauso per il suo poco tatto e
la sua stupidità? Era già tanto che Raph non lo
avesse picchiato.
Il vecchio Raph che stava con Isabel lo avrebbe fatto, probabilmente.
Compose
il numero di Isabel e premette il telefonino all'orecchio, aspettando
col magone che lei rispondesse, mentre ascoltava il suono ritmato che
lo avvisava che la chiamata era in corso.
Era
appena uscito dalla cucina quando la sentì: una musica
proveniva
flebile dalla porta dell'ascensore, che sembrava in discesa verso il
rifugio. Allontanò appena il telefono e ascoltò.
Gli sembrava di
conoscere quella melodia.
Il
suono dentro il cellulare risuonava in sincrono con la musica, sempre
più forte via via che l'ascensore si avvicinava: era la
canzone di
una band che non conosceva, ma che aveva già sentito altre
volte.
“Ragazzi!”
chiamò con un tono di voce allarmato, al capire a chi
appartenesse
il telefono che squillava e che c'era qualcosa che decisamente non
andava.
I
tre gli erano andati dietro per continuare a fargli domande e
rimproverarlo, perciò erano già alle sue spalle e
aspettavano in
silenzio, anche loro con un mezzo sospetto.
Le
porte dell'ascensore si spalancarono di colpo e Isabel
barcollò
fuori, tenendosi la spalla destra con la mano: la camicetta color
panna era lacerata e completamente imbevuta del suo sangue, creando
una macchia cremisi dalle sfrangiature irregolari sul suo petto e il
braccio.
“Isabel!”
strillarono, al vederla accasciarsi al suolo dopo pochi passi.
Cadde
sulle ginocchia, con un tonfo sordo. Sollevò la testa e li
guardò,
con lo sguardo dolorante e spaventato, sforzando un sorriso che
risultò più un ghigno.
Mikey
fu il primo ad arrivare da lei. Si gettò in ginocchio e la
sorresse,
preoccupato dal suo colorito pallido e da tutto il sangue.
“Isabel,
cos'è successo?” le chiesero lui e Don assieme,
che intanto si era
inchinato per controllare la sua ferita.
“Purple
Dragons” sibilò in risposta, trattenendo un
singulto di dolore
quando lui cercò di togliere la sua mano per poterla
ispezionare.
Don
strappò via la corta manica della sua camicetta, ormai
completamente
rossa, e trattenne un'esclamazione preoccupata: il colpo era stato
inferto da destra a sinistra, dal basso verso l'alto, e aveva creato
una enorme lacerazione che dal braccio arrivava fino alla clavicola,
profonda e dall'aria dolorosa; l'osso era visibile sotto il sangue e
solo per pochi millimetri sembrava non essere stata incisa la
giugulare.
“Stavo...
tornando a casa... e c'era una vecchina che si affannava con le
buste, così mi sono offerta di aiutarla. Ma non era una
signora: si
è alzato e mi ha attaccato con un coltello da caccia.
È stato tutto
troppo veloce, non sono riuscita a tirare fuori i Tessen o a creare
una barriera: ho sentito il dolore e i miei poteri sono esplosi.
Quando mi sono risvegliata era svenuto e io sono riuscita a
trascinarmi qua, facendo attenzione a non lasciare tracce di
sangue.”
La
sua voce si era fatta via via più flebile e il suo respiro
corto e
debole. Guardarono il suo colorito diventare sempre più
pallido e
livido, con preoccupazione crescente. Persino Raphael non
riuscì a
dissimulare l'espressione rabbiosa e agitata che aveva preso il suo
viso.
Don
premeva con la mano sulla ferita per cercare di fermare l'emorragia.
“Ha
detto... mentre colpiva, ha detto... che Hun vi manda i suoi
saluti”
riuscì a sussurrare Isabel, ad un passo dallo svenimento.
Raphael
si inchinò davanti a lei e le prese il viso con una mano,
tirandolo
su, deciso a curarla coi suoi poteri. Avvicinò le labbra
alle sue,
repentinamente, ma si scontrarono con il dorso della mano di Isabel,
che lei aveva alzato all'ultimo istante per coprirsi la bocca.
“Cosa
credi di fare?” ansimò con enorme sforzo, ormai
completamente
poggiata contro Mikey, che aveva assistito alla scena senza riuscire
ad intervenire per la sorpresa.
“Voglio
curarti! Smettila di fare la stupida stoica e lasciamelo
fare!”
sbottò Raph irato, come se fosse una domanda sciocca, la
sua. Non
era ovvio che volesse solo curarla e far sparire il dolore dal fondo
dei suoi occhi?
Isabel
scosse la testa, macchiandosi le guance di sangue, di cui la mano era
piena.
“Donnie,
mi servono dei punti e un po' della mia pomata magica” disse,
ignorando la sua proposta; allungò la mano tremolante e lo
allontanò
da sé, garbatamente.
Mikey
la prese in braccio, cercando di non scuoterla, e lei si
lasciò
andare contro il suo torace, esausta.
“Promettetemi
che non andrete da Hun. Voglio prenderlo a calci... io”
mormorò,
biascicando le parole.
“Ci
puoi scommettere” la rassicurò Mikey, poggiandole
una guancia
contro la fronte con affetto. Poi seguì velocemente Donnie,
che gli
fece strada verso il laboratorio. La porta si chiuse dietro di loro
con un tonfo secco, che riecheggiò nel silenzio del rifugio.
Raphael
distolse lo sguardo con rabbia e lo abbassò invece sul
petto, dove
l'impronta insanguinata della mano di Isabel era rimasta impressa,
lucida e grottesca contro il nero serico della tuta.
Una
furia cocente lo investì e si rialzò, di colpo,
con uno sbuffo
sofferto.
Leo
era al suo fianco, con la stessa espressione livida, con la stessa
mascella contratta, con la stessa luce omicida negli occhi. Si
guardarono, senza una parola, poi si incamminarono verso l'uscita,
allo stesso passo, con lo stesso intento.
Note:
Salve!
Buon giorno a tutti!
Allora,
il vigilante era Isabel. Chi c'era arrivato? Avevo messo dei
depistaggi, perciò non importa. Quando quella mattina hanno
sentito
le notizie, lei ha deciso di agire, e difatti è
già dal giorno dopo
che si sente parlare del vigilante.
Ovviamente
si è aiutata con la magia.
Ma
Steve l'impiccione colpisce ancora. Poverino, l'ha fatto in buona
fede, lui. Mica credeva che Leo preso dalla paura l'aggredisse in
quel modo. Esagerato, è vero, ma adoro quando la stringe e
la
consola. Ah, com'è dolce.
Vi
mando un grosso abbraccio e grazie a tutte voi che leggete, a chi
commenta, ai nuovi arrivi.
Grazie. A presto
|
Ritorna all'indice
Capitolo 21 *** Bloodthirsty night ***
L'ascensore
salì troppo lentamente, mentre i due fissavano in silenzio
le gocce
di sangue sul pavimento, sentendo la furia montare nelle vene ad
ondate ogni secondo di più, ad ogni macchia rossa che si
sovrastava
l'una sull'altra sulla superficie lucente.
Scivolarono
fuori dal garage, sparendo in un baleno nelle prime ombre rossastre
del tramonto, su, in alto, sul tetto del primo palazzo disponibile. E
corsero, di tettoia in cornicione, lontani e veloci, pura forza e
urgenza.
Nessuno
dei due parlò, ma Raph seguì la scia di Leo con
sicurezza,
fiducioso nel credere che lui sapesse dove andare.
E
Leo lo sapeva davvero.
Quello
che Steve aveva sentito dire giorni prima, e che lui gli aveva
estorto con la forza quando lo aveva preso dopo la sua veloce fuga,
era proprio la locazione del nuovo rifugio di Hun, dove lui e i suoi
fidi scagnozzi si riunivano per mettere a punto i piani per la
giornata.
Oh,
Steve gli aveva anche detto che erano solo voci di strada e che forse
non c'era da fare così affidamento, ma Leo sapeva che andare
a dare
un'occhiata era il solo modo di saperlo per certo.
Saltò
con un grande balzo la distanza tra due palazzi davvero lontani tra
loro, -più si allontanavano dal centro e più le
proprietà erano
distanti le une dalle altre, mentre sporadici fazzoletti di terra e
patii comparivano attorno,- e con una capriola a terra
smorzò la
velocità di atterraggio; il tonfo alle sue spalle lo
avvertì che
Raph era proprio dietro di lui.
Riprese
la sua corsa folle e cieca, mentre la notte scendeva sempre
più
velocemente, ma senza una stella: dense nuvole scure si ammassavano
sulla città, cupe e pronte a rilasciare un oscuro temporale.
C'era
ogni genere di suono e rumore, via via che l'oscurità
scendeva:
allarmi che ululavano nell'indifferenza, sovrastando urla di paura e
orrore; strilli, rumori di vetri infranti e di macchine che rombavano
come fulmini nelle strade, falciando ogni cosa sul loro cammino, che
fossero lampioni e idranti o povere vittime malcapitate.
Voleva
fermarsi e soccorrere ogni sprovveduto e anima derelitta che vagava
in quella notte oscura senza una guida e un aiuto, ma sebbene il
cuore fosse straziato, la mente era lucida e già affollata,
e
pressava verso un unico obiettivo.
Tutto
il resto poteva aspettare. Doveva aspettare.
Si
fermò infine, col fiatone trattenuto appena nel petto, e
scrutò di
fronte a sé, l'edificio grigio e malridotto che si parava
alla loro
vista.
Era
un vecchio e diroccato palazzo del Bronx, il cui piano terra sembrava
essere stato un'officina per auto, ormai chiuso da tempo, mentre i
restanti tre piani fungevano da uffici e depositi: le luci accese li
informarono che non era poi così abbandonato come avrebbe
dovuto
essere.
Rimasero
a scrutare ancora un po' i dintorni e l'edificio, valutando
velocemente se ci fossero trappole o uomini appostati nelle ombre, in
attesa del loro arrivo. C'era un innaturale silenzio attorno, che gli
faceva presagire che forse erano attesi, come se quella calma
inusuale in quella fetta di quartiere fosse preparata ad arte, ma
anche se così fosse stato, non c'era modo che potessero
fermarsi,
ormai. Non era più possibile.
Con
un gesto della mano, -le parole non erano necessarie,- Leo fece segno
a Raph di seguirlo e si gettò giù dal tetto a
volo d'angelo,
smorzando la velocità con perfette capriole, atterrando di
sotto con
agilità e precisione.
Sguainò
le Katana mentre attraversava la strada deserta che li separava dalla
loro meta e sentì il morbido sibilo dei Sai di Raph, presi
nelle
mani dal loro proprietario.
Si
fermarono di fronte alla spessa porta nera, fianco a fianco,
nell'oscurità che avvolgeva ogni cosa lì attorno.
“E
io ti dico che non ho barato!” strillò con voce
offesa Vance, un
uomo mingherlino dai radi capelli color sabbia, occhieggiando con
tono malevolo il suo compare che lo accusava, Bill, con la cicatrice
che gli divideva la faccia a metà.
“Io
dico di sì! È il sesto poker di assi che tiri
fuori stasera! Non
puoi essere così fortunato!” urlò
arrabbiato l'altro, gettando le
carte sul tavolo e battendo i pugni sopra con disprezzo, per
sottolineare il suo concetto.
All'interno
dell'officina, la partita di poker andava ormai avanti da qualche
ora, per ammazzare il tempo, più che davvero per desiderio
di fare
dei soldi: di quelli, ne avevano a vagonate e senza nemmeno sforzarsi
troppo, grazie agli ultimi colpi andati a segno in alcune delle
banche più succose della città. Tuttavia gli
animi si erano
surriscaldati parecchio, via via che le losche vincite di Vance si
erano fatte sempre più numerose: prima c'erano state le
occhiate
sospette, poi i grugniti infastiditi e infine erano arrivati ad
accusarlo apertamente, proprio quello che stava succedendo in quel
momento.
“Mi
stai dando del baro, Bill? E voi siete d'accordo con lui? Bob?
Lanny?” chiese ancora Vance, che stava cominciando ad
arrabbiarsi
anche lui, guardando le facce scure dei suoi compari che lo
guardavano con sospetto.
Lesse
le risposte sui loro visi senza che aprissero bocca e si
alzò in
piedi, inviperito.
“Io
non sono un baro! Sono solo fortunato! Oggi è la mia sera
fortunata!
Capita, sapete?” gridò loro contro, difendendo le
sue convinzioni
e la sua supposta buona sorte.
Un
tonfo possente echeggiò nello spazio enorme dell'officina,
mangiandosi le parole che gli altri erano pronti a dirgli, -dall'aria
tutt'altro che amichevole,- e le mura tremarono appena.
“Cosa...”
esalò sorpreso e spaventato Bill, alzandosi anche lui.
La
porta d'ingresso si scardinò con un boato e cadde al suolo,
con
fragore e spirali di polvere, e la luce che fuoriuscì nel
rettangolo
di esterno visibile, illuminò le due figure ritte e silenti
nel
quadro della porta.
Leo
e Raph fecero qualche passo in avanti, entrando nel cono di luce
delle lampade al neon, scrutando l'esiguo gruppetto di fronte a loro,
le armi già in pugno.
Erano
minaccia e furia silente, erano possanza e insidia, erano il
pericolo.
“Le...
le tartarughe!” strillò spaventato Vance, tremando
sul posto. Gli
uomini al suo fianco invece scattarono e si tuffarono di lato,
prendendo le armi abbandonate negligentemente sul tavolo affianco a
loro, mentre giocavano.
“Perché
non assaggiate un po' di piombo?” esclamò
stupidamente Bob, con un
ghigno compiaciuto per la battuta, le mani strette convulsamente sul
fucile puntato contro di loro, sicuro di sé.
Lui
e i suoi amici spararono, dando fondo ai caricatori. Una pioggia di
proiettili riempì l'aria, sibilando letali, e l'odore di
polvere da
sparo fu incontenibile.
Leo
e Raph si gettarono nella lotta, schivando con scioltezza e
velocità
i colpi, avvicinandosi sempre più, come se i proiettili non
esistessero neppure, in quei metri che li separavano da quei quattro.
Era
un continuo piegarsi, scivolare di lato, flettere il busto mentre un
proiettile fischiava vicino all'orecchio, per poi chinarsi in avanti
ed evitarne altri due diretti al petto, ritornare in piedi dopo la
capriola a terra e continuare a correre incontro alle loro facce
spaventate e attonite.
Le
Katana affettarono il fucile come se fosse burro e poi si avventarono
sulla carne dell'uomo che impugnava l'arma, senza pietà,
ferendolo
al torace con uno squarcio profondo.
Leo
era pura furia, preda di istinti animali di caccia e rabbia che non
aveva mai provato prima; no, a doverci ben pensare, gli ricordava il
ruvido e pericoloso furore che lo aveva avvolto nella sua cupa
oscurità quando, dopo lo scontro con Shredder che aveva
quasi
distrutto la sua famiglia, si era dato la colpa per il fallimento e
per non aver protetto meglio i suoi cari e si era trasformato via
via, giorno dopo giorno, in un cumulo di collera e ira, che aveva
colpito tutti, e lui soprattutto, indiscriminatamente.
Solo
l'intervento dell'Antico, allora, era riuscito a riportarlo alla
ragione, dopo mesi di cupo tormento, e pensava che mai più
avrebbe
perso la calma e il cuore, nella sua vita.1
Ma
adesso quel furore era di nuovo rispuntato fuori, trasformandolo in
un animale desideroso di vendetta. Forse perché, nel fondo
della sua
mente, nel minuscolo angolo che ancora aveva raziocinio, sentiva di
essere davvero la causa del dolore di Isabel; se lui non l'avesse
aggredita e resa fragile, forse non sarebbe stata colta di sorpresa,
forse sarebbe stata attenta e avrebbe evitato la minaccia.
Forse
avrebbe ridotto in polvere chiunque di loro fosse stato a colpirla.
Ognuno
di quegli uomini era un nemico e andava abbattuto, senza rimorso e
pietà. Ognuno di loro poteva essere il bastardo che aveva
attaccato
Isabel per mandare loro un messaggio.
Ognuno
di loro doveva pagare.
Colpì
l'uomo con la cicatrice sul volto, ferendolo allo stomaco con un
taglio netto e preciso, portato con decisione e senza alcuna
esitazione.
Il
sangue schizzò, colpendolo al viso, e si deterse passandoci
il dorso
della mano con disgusto, osservando lo stesso rosso scintillare sulle
lame delle spade. Raph, poco più in là, aveva
appena atterrato il
terzo uomo colpendolo coi Sai alle cosce, e quello si contorceva con
gli altri due a terra tra gridi di dolore, mentre il quarto si
allontanava spaventato all'indietro, cercando di raggiungere la
porticina sul fondo della stanza, che portava ai piani superiori.
“Dov'è
Hun?” chiese la voce roca e gelida di Leo, mentre si
avvicinava a
grandi falcate, con le spade insanguinate contro di lui.
Vance
tremò sul posto e finì la sua breve corsa con le
spalle al muro,
intrappolato.
I
due mutanti ormai erano a pochi passi da lui, sanguinari folli e
senza paura. E lo guardavano coi loro occhi pieni di odio e rabbia,
con le mani strette alle loro armi letali.
“Io...
io... non” pigolò sempre più
spaventato, con la voce che
tremolava almeno quanto lui. Quando gli era stata offerta la
possibilità di entrare nel giro dei Purple Dragons, non era
di certo
quello che si era aspettato di ottenere; soldi e tutto ciò
che essi
potevano comprare, quello sì, anche come solo riflesso di
quelli
che, più in alto di lui, comandavano e si sbattevano per
portare a
compimento il loro piano di potere. Ma non aveva mai pensato per un
secondo di vedere la fine per mano di due orridi mutanti ciechi di
rabbia.
La
lama di una Katana si avvicinò pericolosamente al suo collo
e gli
carezzò la pelle con il suo filo di gelido acciaio, che
sembrava
pulsare al ritmo del suo folle batticuore.
“Dov'è
Hun?” ripeté quello con la benda azzurra,
digrignando i denti a
pochi passi dal suo viso.
Vance
tremò e deglutì a vuoto, gli occhi sbarrati e
terrorizzati che non
riuscivano a staccarsi dal luccichio della lama che premette appena
sul suo pomo di Adamo, pizzicandogli la pelle con più
insistenza,
questa volta.
Quanto
era affilata quella spada? Poteva bastare un'altra semplice pressione
e la sua carotide sarebbe stata tranciata in due, senza nessuno
sforzo.
“Al...
all'ultimo piano” balbettò, senza forze.
Il
pugno di Raph lo colpì in pieno viso e gli fece sbattere la
testa
contro il muro, mandandolo KO: il corpo scivolò verso il
basso e
nello stesso istante un suono straziante riempì l'aria, una
sirena
d'allarme ritmata e fragorosa, mentre una luce ad intermittenza rossa
illuminava a sprazzi la penombra che avvolgeva l'enorme officina.
Entrambi
videro la levetta dell'allarme antincendio che la mano di Lance aveva
afferrato e che era stata abbassata dal peso del suo corpo quando era
svenuto.
“Bastardo”
sputò fuori Raph, con disprezzo.
Leo
gli fece segno di seguirlo ed entrambi corsero verso la porticina che
portava ai piani superiori, prima che l'orda di persone si riversasse
all'esterno e che Hun potesse sfuggir loro da sotto il naso.
Le
scale rigurgitavano orde di uomini dai piani superiori, in preda al
panico per l'allarme antincendio. Battere i primi mentre salivano, fu
relativamente semplice; erano ignari della loro presenza e indifesi.
Rotolarono giù per le scale, nella loro indifferenza.
Ma
quelli dietro, che avevano visto le due furie avventarsi sui loro
compari, bloccarono la loro fuga e fecero dietro front, correndo su
anche a sei scalini per volta, provando a distanziarli con la paura
nello sguardo e nelle gambe.
“Allarme!
Non è un incendio! Ci sono le tartarughe! Ci stanno
attaccando”
riuscì ad urlare un uomo prima di venire colpito alla spalla
dalla
Katana, ruzzolando poi con un grido sofferto giù per la
scala,
sparendo nel caos e nel dolore.
La
sua voce echeggiò terrorizzata per la tromba delle scale e
raggiunse
i piani superiori, più velocemente di quanto loro potessero
fare.
Si
scatenò il putiferio.
Arrivati
al primo piano, la porta si spalancò e tutti gli uomini sul
piano
apparvero imbracciando le loro armi, alcune classiche armi umane,
altre evidenti residui dell'attacco dei Triceratons, fucili al laser
e cannoni fotonici.
“Prendeteli!”
tuonò uno di loro con urgenza, sparando lui stesso per primo.
Al
rumore cadenzato dell'allarme si aggiunsero le detonazioni delle
armi, come percussioni che spezzavano il ritmo, che cacofonavano le
une sulle altre, e l'aria fu piena di spari e baluginii di fiammate
che si vedevano a malapena nel pulsare malato delle luci rossastre.
Forse,
in un altro frangente, quegli uomini sarebbero stati fortunati e
avrebbero colpito uno di loro due, per fortuna o per distrazione
degli stessi, ma non quel giorno; non quando la furia aveva preso il
controllo dei loro corpi, cancellando ogni altra percezione,
rendendoli dei puri e semplici guerrieri, con un unico scopo.
Determinazione e furia, erano solo quello in quel momento.
Nessun
colpo andò a segno, i proiettili volavano nell'aria contro
di loro,
che ci danzavano attorno con schivate fulminee e salti avvitati,
avvicinandosi sempre più, implacabili, silenziosi e spietati.
Le
lame e le punte delle armi affondarono nei corpi, strappando urla di
dolore e paura, ma non si arrestarono. Non c'era tempo per la
compassione. Non ce n'era più.
Il
gruppetto si accasciò al suolo, chi rantolando senza tregua,
chi
svenuto per il dolore eccessivo e i due mutanti scivolarono
cautamente nel corridoio per controllare che nessun altro agguato li
attendesse, magari alle spalle mentre salivano per il piano
superiore.
Aprirono
ogni porta e controllarono ogni stanza e batterono ogni uomo che
incontrarono sulla loro strada, anche quelli che cercarono di
fuggire, anche quelli che abbandonarono la lotta, ma del loro capo
non c'era alcuna traccia.
Si
lasciarono dietro un campo di uomini feriti, forse qualcuno anche
più
che semplicemente ferito. Non avevano tempo per controllare e non
importava davvero.
La
priorità era salire più velocemente possibile e
trovare Hun. Prima
che potesse scappare o ordire un piano contro di loro. Era certo che
ormai sapesse di essere sotto attacco.
Si
infilarono nuovamente su per le scale, il viso in alto a scrutare la
zona, per essere certi che non ci fosse qualcuno ad attenderli. Le
scale dal primo piano al secondo erano stranamente vuote, nessun viso
apparve dall'alto, nessuno provò a sparare loro contro
mentre
correvano su, sebbene sarebbe stata una mossa logica e ben attuabile,
dato che erano scoperti nel tragitto, vulnerabili ai colpi dall'alto.
Stavano
per infilare quelle che portavano al terzo, quando la porticina che
dava sul corridoio del secondo si aprì di colpo e la bocca
di un
cannone al plasma apparve, enorme tanto da poter contenere un uomo
intero.
“Raph!”
strillò Leo con apprensione, quando l'interno dell'arma si
illuminò repentinamente di azzurro e sparò un
raggio dello stesso colore.
La
detonazione fu fragorosa e consumò completamente tutto
ciò che
trovò sul suo cammino: la tromba delle scale
crollò con uno
schianto prodigioso e una nube di polvere e detriti, mentre ancora
più urla si alzavano dai piani inferiori, di terrore e
dolore.
Il
pavimento tremò e una porzione cedette e si
schiantò sul resto
delle macerie, mentre l'uomo che aveva sparato si lasciava andare ad
una stentata risata isterica.
“Ce...
ce l'ho fatta! Sono morte! Le ho uccise io!”
trionfò, voltandosi
verso il resto degli uomini alle sue spalle, con un sorriso sorpreso
di compiacimento.
Gli
altri si riscossero dalla loro paresi confusa e attonita e risero
assieme a lui, poi si congelarono così, con dei ghigni in
viso e gli
occhi sbarrati di paura.
L'uomo
si voltò, lentamente, e vide le due tartarughe in piedi sul
corpo
del cannone, la prima con la punta della spada puntata contro la sua
faccia, in mezzo alle sopracciglia.
Nessuna
delle due era davvero ferita, avevano solo un paio di lacerazioni
sulle loro tute nere ricoperte di polvere e schizzi di sangue e gli
occhi fiammeggianti di rabbia.
Tremò
sul posto e provò ad indietreggiare, il cuore divorato dalla
tachicardia, insieme ad alcuni dei suoi compari, mentre altri, quelli
più lontani, puntavano le armi contro di loro, resi spavaldi
dal
pensiero che fossero abbastanza distanti e quindi al sicuro.
Uno
scintillio di lama e l'uomo si accasciò al suolo e Leo
sparì con un
salto all'aprirsi del fuoco.
Raph
non schivò, non questa volta. Schivare era alla fine noioso
e
stancante e lui era più abituato a gettarsi a testa bassa
contro gli
ostacoli: i Sai ruotarono nelle mani, veloci tanto da essere solo
delle macchie color acciaio e il tintinnio dei proiettili deviati
risuonò in ogni dove, mischiato al rumore degli spari che
non si
placavano.
Ogni
uomo stava dando fondo a tutto ciò che aveva per
sopravvivere, per
provare anche solo lontanamente a fermare quella furia di distruzione
e morte che erano quelle due bestie sanguinarie.
Leo
atterrò alle spalle del gruppetto e attaccò,
affondi e colpi
decisi, senza ripensamenti. Non c'erano volti, non c'erano persone,
solo nemici da battere, solo corpi senza anima e onore e
possibilità
di riscatto, in cui affondare le Katana, in un gesto anche troppo
onorevole di pietà e redenzione.
Uno
ad uno, caddero sotto i loro attacchi. Qualcuno provò anche
a
chiedere compassione, tirando in ballo la famiglia, il loro buon
cuore. Ma i Purple Dragons erano andati troppo oltre, quella volta.
Avevano toccato la loro, di famiglia, e solo per mandare un
messaggio. E dovevano pagare per aver osato.
Leo
si lanciò in avanscoperta e scivolò nel corridoio
guardingo,
occhieggiando oltre le porte aperte per controllare che qualcuno non
si fosse nascosto o lo stesse tenendo sotto tiro.
Una
mitragliata esplose nel silenzio e fece appena in tempo a buttarsi al
suolo, evitando la sventagliata di proiettili indirizzata alla sua
testa, dalla stanza in fondo al corridoio, sulla destra.
“A-andate
via! So-sono armato” balbettò una voce che voleva
suonare
minacciosa, ma che invece era solo pateticamente stridula e
terrorizzata.
A
rimarcare le sue parole, comunque, una seconda pioggia di proiettili
sferzò l'aria, impedendo a Leo di alzarsi dalla moquette
lisa del
corridoio.
Un
fruscio sopra la sua testa catturò la sua attenzione e si
accorse di
Raph, che puntellato braccia e gambe contro i muri si manteneva sospeso
appena sotto il soffitto.
Gli
mandò un lieve ghigno in risposta, avendo capito il suo
piano.
“Ho
gettato le armi” urlò il leader, poggiando le
Katana al suolo; “Se
vieni fuori ne possiamo parlare! Mi sembri uno intelligente”
continuò con tono convincente, sollevandosi appena sul busto
con
cautela, per occhieggiare la porta.
Una
testa spuntò lentamente oltre lo stipite, prima una porzione
piccola
di fronte e di occhio per controllare la situazione, poi tutta la
testa rasata, una volta capito che il suo nemico si stava davvero
arrendendo.
L'uomo
uscì dalla stanza con un ghigno incredulo in viso e una
piccola
mitragliatrice sotto braccio, gli occhi sbarrati che non credevano a
ciò che stava succedendo.
Un'ombra
scura si staccò dal soffitto e lo colpì con
violenza alla nuca,
mandandolo al tappetto con ancora quel sorrisino idiota sulla faccia
e la mitragliatrice stretta come se fosse un tesoro.
“Davvero
intelligente, una vera cima” commentò sarcastico
Raph che
torreggiava sulla figura, mentre Leo si era nel frattempo alzato e lo
aveva raggiunto. Il leader batté un pugno soddisfatto contro
il suo
braccio, un complimento senza parole per la sua bella pensata.
Conquistarono
anche il secondo piano, controllando ogni spazio e ogni stanza, e
ormai era chiaro che era il terzo piano, quello dove avrebbero
trovato la loro preda più grossa.
Ma
le scale erano crollate e non c'era possibilità di
raggiungerlo
tramite quelle.
Leo
spalancò una finestra e si issò sul davanzale,
con la testa puntata
verso su. Rinfoderò le Katana e afferrò gli Shuko2
dalla tasca segreta della tuta, infilandoli sulle mani.
Piantò gli
aculei nel cemento e nella pietra e si issò sulla superficie
logora
e ricoperta di sporcizia dell'edificio, scalandolo velocemente,
diretto verso la finestra sopra quella, illuminata flebilmente nel
buio completo che l'attorniava.
Uno
sbuffo gli rivelò che Raph era arrivato al suo fianco,
scalando il
muro con foga, ed arrivarono entrambi al cornicione
contemporaneamente, allungando una mano per afferrarlo ed issarsi.
L'interno
era un ufficio deserto, con una scrivania ingombra, le sedie
rovesciate a terra nella foga di scappare e la porta spalancata dalla
quale si vedeva una porzione di corridoio.
Leo
si gettò contro la finestra e la infranse con le ginocchia,
con una
pioggerellina di vetri che tintinnarono sulla moquette color crema
macchiata in più punti. Una volta atterrato e controllata
l'area, le
Katana nuovamente nelle mani, fece segno a Raph di seguirlo. Ma suo
fratello era in effetti già dietro di lui, senza perdere
nemmeno un
secondo.
Sgattaiolarono
guardinghi e silenti per la stanza e scrutarono nel corridoio per
accertarsi che non fosse un'altra trappola. C'era un silenzio
innaturale lì su, perfino il rumore dell'allarme era
più lieve e
lontano, come se fossero finiti in un piano di una dimensione
parallela.
Camminarono
cautamente per tutto il corridoio, gettando occhiate alle porte
spalancate, che davano su stanze vuote, ponderando il da farsi.
Odorava
tutto di trappola. Di nuovo.
Arrivarono
alla porta massiccia nera e lucida, con una targhetta dorata al
centro con su inciso il nome che cercavano.
Hun.
Boss.
Patetico.
Ebbero
la mezza intenzione di buttarla giù anche solo per vedere
quella
patetica targhetta dalla grafia elaborata crollare a terra, ma la
porta si spalancò sotto il loro naso attonito.
L'interno
della stanza era in una soffusa penombra, e all'inizio fecero fatica
a mettere a fuoco per bene. Poi iniziarono a riconoscere i contorni
delle sedie e della spessa scrivania di legno pesante e laccato e la
vaga figura enorme e minacciosa che vi sedeva dietro.
“Avanti”
ordinò la voce di Hun, vagamente divertita.
Leo
e Raph si scambiarono uno sguardo, comunicandosi le loro intenzioni
solo con esso, e poi si incamminarono verso l'interno, dentro l'arena
che poteva essere l'ultimo campo di battaglia della loro vita.
Ma
se così fosse stato, avrebbero di certo trascinato anche il
bastardo
giù all'inferno con loro.
1:
la situazione di cui si parla fa riferimento alla quarta stagione.
Alla fine della terza, mentre cercano di impedire che Shredder torni
nel mondo degli Utrom, i quattro hanno come una soluzione quella di
farsi esplodere insieme all'astronave per impedirlo. Leo, che
è
stato battuto e trafitto a tradimento da Karai, vede tutta la
situazione come un fallimento personale, perché avrebbe
dovuto
trovare un'altra soluzione (anche se si erano salvati comunque) e
perde la brocca! Sclera completamente e diventa una via di mezzo tra
un Raph e Batman, sempre più collerico e rabbioso e
incontrollabile.
Non so perché, ma in quella forma è anche
più pericoloso e
praticamente invincibile. Grazie al cielo poi torna normale.
Personalmente
adoro Leo senza freni; è vero che ti fa venire voglia di
prenderlo a
schiaffi, ma anche di abbracciarlo stretto. C'è
più oscurità e
rabbia in lui di quanto non si creda.
2:
gli shuko sono dei rampini per scalare pareti. In genere sono una
sorta di placca di ferro con aculei da indossare sui palmi e usare
per scalare, ma credo che ci siano anche di cuoio o tessuto. Quelli
delle tmnt credo siano in stoffa.
Note:
Salve!
Sangue,
violenza, vendetta!
Leo
è diventato un secondo Raph e i due se ne vanno allegramente
in giro
a cercare Hun per fargli saltare qualche dente. Ah, li adoro.
Spero
che il capitolo non risulti cruento. Sono ancora in alto mare con la
storia del rating. Se fossero più specifici nel regolamento,
è
troppo generico.
Vi
prego di dirmi se qualcuno l'ha trovato eccessivo, cambierò
immediatamente il rating.
Anche
perché il sangue non è di certo finito,
né la violenza.
Che
pessima che sono.
Molto
fuori tema, ma volevo dirvi: sto provando a tradurre SITR in inglese
per pubblicarlo in altri lidi, ma sono in alto mare. Sono capace di
tradurre dall'inglese in italiano, ma ho tante limitazioni
dall'italiano all'inglese. Poco vocabolario inglese, presumo. Quindi
la vedo dura! Mah, vediamo.
Grazie
come sempre per leggere la storia, grazie millissime alle fedelissime
che commentano questo delirio con affetto! Vi adoro!
A
presto!
Abbracciorso
|
Ritorna all'indice
Capitolo 22 *** Vengeance is like a splinter... ***
Pochi
passi dalla luce alla penombra, pochi passi dalla sicurezza al grembo
del pericolo. Si fermarono entrambi dopo aver superato la soglia, sul
tappetto finemente decorato e dall'aria costosa, con gli occhi fissi
sulla loro preda.
Hun
era proprio lì dove lo avevano individuato, seduto alla
scrivania
con aria svagata, come se la loro incursione nel suo edificio fosse
una cosa di poco conto. In un completo giacca e cravatta piuttosto
elegante che stonava pesantemente con i suoi rozzi tratti da
delinquente.
Era
calmo e disteso, con le braccia negligentemente poggiate ai braccioli
e la schiena rilassata sul comodo schienale, per nulla turbato di
vederli nel suo ufficio macchiati del sangue dei suoi uomini.
La
porta alle loro spalle si richiuse con un tonfo sordo e si voltarono
brevemente sul chi vive, per fronteggiare la minaccia, ma l'uomo che
l'aveva chiusa fece un passo indietro e si rifuse con le ombre in cui
era stato fino a quel momento. Era alto e snello, ma tutto il suo
corpo sembrava essere fatto solo di muscoli, fasci e fasci di muscoli
guizzanti e asciutti. Era pelato e un'enorme tatuaggio di un dragone
violaceo gli marchiava la testa, scendendo giù fino al collo.
Aveva
gli occhi neri eppure incredibilmente freddi, intelligenti e lucidi
puntati su di loro, come se stesse cercando di valutarli o
ipnotizzarli, come una tigre sul terreno di caccia.
Davanti
c'era Hun, dietro lui. La loro concentrazione salì
considerevolmente, se pure fosse possibile. Leo e Raph riportarono
l'attenzione su quel grosso bue di Hun, stringendo entrambi le mani
sulle armi con impazienza.
“Non
vi aspettavo così presto, lo devo ammettere. Pensavo foste a
casetta
a leccarvi le ferite. E tu pensavo fossi morto”
esclamò quello con
sguardo calcolatore, puntato su Raphael, che a sua volta lo osservava
con furia.
Sembrava
genuinamente sorpreso di trovarseli di fronte vivi e vegeti e
sembrava stesse pensando con tutte le sue forze a come potesse essere
possibile; erano passati solo dodici giorni da quando erano scappati
dalle sue grinfie battuti e quasi morti, non era in effetti possibile
che si fossero ripresi in così breve tempo, contando
soprattutto
l'entità delle ferite di Raphael. Non c'era da meravigliarsi
della
sua sorpresa: Hun non sapeva che Isabel li avesse guariti e non
doveva saperlo.
Gli
occhi grigi scivolavano su di loro da capo a piedi, freddi e viscidi,
constatando che in effetti erano perfettamente sani.
“Sei
stato tu a mandare i tuoi saluti, noi siamo venuti a ricambiare la
cortesia” fu la risposta a tono e gelida di Leonardo, che
davvero
si stava trattenendo per non saltare semplicemente sulla scrivania e
staccare la testa di quel bastardo dal resto del corpo con un solo
colpo deciso.
Ma
sapeva che un gesto avventato non era consigliabile, con lui.
“Già.
Gentile la vostra amichetta a fare da messaggera. Siete solo in
due... immagino che gli altri stiano cercando di salvarla”
continuò
l'omone, con un ghigno divertito alle loro espressioni furiose.
“È
un vero peccato. Una così bella donna, e così
capace. Ma dovreste
dirle di farsi i fatti suoi... e che farsela con i mutanti non
è una
buona idea.”
Hun
stava giocando ancora con loro. Li stava stuzzicando, sapendo
benissimo che il carattere di Raph era facilmente infiammabile quando
lo si canzonava o lo si faceva con qualcuno a cui teneva, e aveva
capito che anche Leo sembrava aver perso parte della sua compostezza.
Altrimenti
non si sarebbe precipitato con quella furia dritto tra le sue mani.
Eppure
entrambi non si decidevano a perdere la calma come lui voleva che
facessero, perciò doveva calcare ancora un po' la mano.
Si
alzò dalla scrivania con gesti calmi e studiati,
avvicinandosi alla
finestra e guardando di fuori, attirando la loro attenzione ed
esasperando la loro pazienza con passi lenti, in un silenzio perfetto
e intenso.
“La
prossima volta potrei decidere di non colpirla. Potrei farla rapire e
divertirmi un po' con lei, prima di ucciderla”
esalò, il riflesso
nel vetro che sorrideva allusivo.
Si
voltò per valutare le loro reazioni e non ne fu deluso.
Entrambi
saltarono per gettarsi contro di lui, resi ciechi dalla rabbia, ma il
suo scagnozzo tatuato si parò loro di fronte, veloce tanto
da non
averlo nemmeno percepito, bloccando l'attacco.
“Oh,
non vi ho presentato” esclamò con finta sorpresa
Hun, palesente
allegro.
Secondo
dopo secondo, la nottata stava decisamente migliorando, per lui, e
non aveva intenzione di rinunciare così presto alla sua
fonte di
divertimento. Far soffrire quei mostri prima di ucciderli sembrava un
buon risarcimento per tutti quegli anni di umiliazioni subite.
“Lui
è Marcus, mio braccio destro. Maestro di dieci diverse
discipline di
arti marziali, cresciuto in un'isola costantemente in guerra. Sa
maneggiare qualsiasi tipo di arma e uccidere un intero plotone a mani
nude in dieci minuti. E, per finire, ma non meno importante,
è stato
lui a colpire la vostra amica, senza pietà”
rivelò compiaciuto,
pregustandosi l'ennesimo scatto d'ira.
Leo
non lo deluse e si slanciò in avanti per colpire l'uomo, ma
la mano
di Raph lo fermò.
“Me
la vedo io con lui. Tu pensa ad Hun. Questo tizio avrà anche
eseguito l'ordine, ma è stato lui a darlo” gli
disse con tono
stranamente tranquillo, che ebbe l'effetto di riportare un po' di
calma anche in lui.
La
sua mano era ferma sul suo braccio, eppure sapeva che era arrabbiato
quanto lui, riusciva a sentirlo. Come riusciva a non farsi dominare,
mentre lui non voleva altro che distruggere ogni cosa in un vortice
di furore?
Ma
aveva ragione. C'era Hun dietro a tutto, perciò entrambi,
mente e
braccio, dovevano pagare. Annuì convinto e si
voltò verso il suo
avversario, che sentendo il loro discorso si era intanto tolto la
giacca e l'aveva gettata sullo schienale della sedia, e si stava
ormai arrotolando le maniche della camicia sulle braccia nerborute.
“Una
scazzottata vecchio stile prima di mandarvi al creatore...
perché
no?” soffiò fuori svagato, i grossi pugni chiusi
già alti, a
proteggere il viso.
Hun
era stato un boxeur, da giovane, prima di entrare nel giro della
delinquenza, e qualcosa in lui era rimasto, di quei tempi.
Soprattutto dato che aveva usato i suoi pugni contro chiunque non si
sottomettesse al volere dei Purple Dragons, negli anni, senza perdere
perciò lo smalto da lottatore. Senza contare che era stato
allenato
dal finto Oroku Saki nelle arti marziali, una volta entrato nelle sue
file, fino a diventare uno dei suoi più fedeli sottoposti.
Decisamente
non era da prendere sottogamba.
Leo
serrò la presa sull'elsa delle spade, pronto. Sentiva una
sottile
vena di adrenalina che gli pompava sottopelle, rendendo il battito
del cuore più forte di quanto non volesse. Era amplificato
in ogni
cellula del corpo, mentre studiava il suo avversario.
Scivolò
di lato per aggirare la scrivania e avvicinarsi, ma il pensiero che
l'ufficio, per quanto grande, fosse decisamente un'arena di scontro
sbagliata, lo sfiorò per un attimo. Poi un suono cupo lo
distrasse e
lo sguardo corse di lato, su Raphael che indietreggiava mezzo
sofferente, tenendosi l'addome, dove quel Marcus aveva appena
assestato un pugno che avrebbe spezzato in due una roccia.
Lo
scontro col piastrone sembrava non avergli fatto il minimo danno, le
labbra sottili erano piegate in un mezzo ghigno e il corpo di nuovo
in posizione di difesa.
“Raph!”
chiamò preoccupato Leo, mentre l'altro riprendeva fiato con
una
smorfia in viso.
“Non
ti distrarre. Pensa solo a te. Lo butto giù da
solo” fu la
risposta secca del fratello, che non si girò nemmeno a
guardarlo.
Probabilmente per lui c'era solo quel Marcus, in quel momento, e la
sanguinaria voglia di buttarlo giù.
Un
sibilo e uno spostamento d'aria premettero sul suo viso e
compì una
capriola all'indietro appena in tempo, evitando il pugno di Hun per
un soffio.
“L'altro
mostro ha ragione: faresti meglio a pensare per te” disse
l'omone
sferrando colpi veloci, costringendolo a scartare con foga. Si era
avvicinato in un attimo, senza che lo avesse percepito.
Hun
poteva anche essere nella cinquantina, ma di certo non aveva perso
velocità o potenza, nemmeno un po'; anzi, l'età
aveva aggiunto
sicurezza ed esperienza al suo stile di lotta, rendendolo
più pulito
e meno dispersivo di un tempo: i suoi attacchi erano precisi, senza
gesti inutili o eccessivamente faticosi. Riusciva a muoversi a suo
agio con quella stazza perfino in quella stanza, rendendogli
difficile contrattaccare o anche solo prendere fiato quel tanto che
bastava per poter attaccare a sua volta.
C'era
la penombra che non contribuiva a rendere le cose facili, lo spazio
ristretto, due scontri che si sfioravano, così vicini e
diversi.
Leo
si piegò di lato, evitando un colpo di piatto della mano
destra di
Hun e si tuffò in avanti per scansare il pugno del sinistro,
con un
po' più forza del dovuto: riuscì a raggiungere la
scrivania e a
scavalcarla con una capriola. Si rialzò col fiatone, col
spesso
legno che finalmente gli consentiva la sicurezza necessaria per
pensare, anche se per poco: Hun si era già voltato e lo
occhieggiava
dal di là, avvicinandosi a grandi passi.
Probabilmente
avrebbe potuto spaccare la scrivania con un pugno, senza
difficoltà,
perciò era meglio agire prima, d'anticipo.
Saltò
sulla superficie e si gettò contro di lui, le Katana
scintillanti,
in un perfetto attacco dall'alto, i muscoli tesi fino allo spasmo;
una lama venne scartata con facilità con un'evasione a
destra,
mentre l'altra rimase intrappolata tra la presa ferrea delle mani
dell'avversario. Prima che potesse anche solo sorprendersi, Hun
ruotò
le braccia e la spada, strappandogliela di mano con un gesto secco:
rimasero entrambi a guardarla volteggiare nella penombra della
stanza, perfetto circolo d'acciaio che risplendeva quando le luci
dell'ufficio la colpivano, i riflessi delle loro espressioni in
fugaci frammenti. Un ghigno per Hun, sorpresa nella sua.
La
manona del suo nemico la afferrò nel suo volo leggiadro,
puntando la
punta acuminata contro il suo proprietario, con un ghigno famelico.
Leo
tirò il busto indietro, deglutendo a vuoto qualsiasi cosa
fosse quel
magone che gli serrava la gola. Paura? No, giusta rabbia, che
cresceva secondo dopo secondo. Hun non poteva passarla liscia, non
poteva vincere, non questa volta.
Doveva
pagare e doveva farlo col sangue. Tanto quanto ne aveva versato
Isabel.
La
Katana era piccola nelle enormi mani del suo avversario, eppure
sapeva che non aveva nessun problema a maneggiarla con
facilità e
precisione; quel dannato bastardo era capace perfino di combattere
con le armi, non lo aveva dimenticato.
A
riprova gli bastò un solo fendente, forse mentre era ancora
sorpreso, forse troppo rapido e repentino, per strappargli via di
mano anche l'altra lama, che volò fino a scontrarsi contro
il muro
per poi cadere con un tonfo sordo sul parquet perfettamente lucidato.
L'aveva
seguita con orrore nella sua traiettoria, sentendosi completamente
indifeso.
La
sua stessa spada gli corse incontro, fendendo l'aria con
voracità
diretta contro il suo collo, perciò si abbassò e
cercò di scartare
a terra, per avvicinarsi all'altra, così da avere perlomeno
una
situazione di parità; la lama calò di nuovo e
velocemente sulla sua
strada, costringendolo a gettarsi di lato per evitarla,
allontanandosi così dalla sua meta.
Il
ghigno di Hun gli disse che era proprio quello che lui voleva, non
era stato solo un caso.
Rimase
accucciato qualche istante, riprendendo fiato e un po' di
lucidità,
pensando alla mossa successiva, in sottofondo i rumori dell'altra
lotta, così vicina eppure tanto estranea alla loro da essere
quasi
su un altro pianeta.
Rimanere
in vita abbastanza per poter attaccare. Ecco tutto
ciò che
gli premeva in quel momento.
Raphael
poteva dirsi uno dei migliori incassatori, probabilmente di tutta New
York, senza essere modesto; tralasciando il fatto che il piastrone
assorbiva la maggior parte dell'impatto di un attacco, si era
allenato costantemente, giorno dopo giorno, goccia dopo goccia di
sudore, crampo dopo crampo, per forgiare il suo corpo in una massa di
muscoli impenetrabile e compatta, per essere pronto a tutto. Eppure
ogni colpo di quel dannato gli spezzava il fiato come se fosse un
novellino, costringendolo ad indietreggiare tra i rantoli per cercare
di respirare. Come diamine riuscisse a colpire il plesso solare con
tutta quella foga senza farsi male contro il piastrone era un
mistero. E pregò fortemente che il suo fidato, caro guscio
non si
stesse scheggiando sotto quella gragnuola di colpi violenti e netti.
Serrò
la mandibola, respirando a denti stretti, mentre invece il suo rivale
sembrava fresco e impassibile, come appena uscito da una passeggiata
corroborante.
Era
veloce e inafferrabile, diverso da qualsiasi avversario mai
affrontato prima: il suo stile di combattimento variava nel bel mezzo
della lotta, un momento prima era un attacco di jeet kune do, un
secondo dopo uno di karate; se provava ad attaccarlo gli ritorceva la
sua forza contro con il jujitsu, per poi passare ad un'evasione di
capoeira, immancabilmente seguita da un attacco.1
Era
poliedrico e camaleontico, difficile da prevedere e leggere, troppo
abile, troppo esperto.
I
Sai erano rimasti fermi nelle sue mani, ma non aveva avuto modo di
usarli, nemmeno per difendersi. Anzi, gli impedivano quasi i
movimenti, perciò, incurvato in avanti in un angolo mentre
respirava
a fondo, decise per la prima volta in vita sua di abbandonare le sue
amate armi di sua spontanea volontà: aprì le mani
e le lasciò
cadere al suolo, con due identici tonfi sordi sul parquet
dell'ufficio, mentre lo sguardo rimaneva incollato sul suo
avversario.
Quello
osservò i Sai cadere, quasi al rallentatore, poi
riportò lo sguardo
su Raphael, con un sorriso colpito sulle labbra.
“Pensi
che sia una buona idea? Di aver sollevato le tue chance solo per aver
lasciato andare le armi? O hai deciso di arrenderti?”
gracchiò
l'uomo, con un accento graffiante e duro, fastidioso da sentire
quanto lo erano i suoi attacchi da incassare.
Raph
sollevò l'angolo della bocca, senza rispondere. Una mano si
chiuse a
pugno, l'altra mandò un segno di sfida, un invito a farsi
avanti,
morbido e provocatorio.
Marcus
sollevò un sopracciglio castano con incredulità,
ma
quell'esortazione era troppo ghiotta da lasciar scappare.
Si
gettò all'assalto con un gesto fluido, portando il braccio
destro in
avanti per colpire il viso, ma Raph cercò di sbilanciarlo
con un
calcio secco alle ginocchia, che l'altro evitò facilmente
con un
salto; il pugno però andò a vuoto, sfiorando
appena la mandibola
del mutante.
Raphael
non ebbe che un millesimo di secondo per gioirne, che Marcus
ruotò
il piede verso l'esterno, caricando il gomito con velocità,
colpendo
la sua tempia di punta con tutto il peso del corpo.
La
semioscurità esplose in miliardi di puntini gialli, mentre
un dolore
acuto invadeva la testa come se si stesse spaccando, i punti di
riferimento che si perdevano in un vortice confuso e doloroso.
Respirò
brusco cercando di riprendere contatto con la realtà il
prima
possibile, sforzandosi per rimanere vigile anche in mezzo alla
sofferenza, per non cadere vittima di un nuovo attacco: se gli avesse
permesso di stringerlo in una morsa continua di colpi, non sarebbe
più riuscito ad uscirne, lo sapeva.
Sentì
una lieve risata compiaciuta stridere da qualche parte a pochi passi
da sé. Un colpo, era tutto quello che chiedeva. Un colpo ben
assestato per ribilanciare lo scontro. I passi dell'uomo si
allontanarono di poco e la cosa lo mandò per un momento in
confusione... che stesse prendendo una rincorsa per attaccarlo?
Poi
sentì il raschiare di una punta metallica contro il legno e
capì
immediatamente: quel suono gli era estremamente familiare. Marcus
aveva afferrato uno dei suoi Sai dal pavimento e di certo non lo
aveva fatto per restituirglielo.
Leo
scartava la sequela di fendenti con sempre maggiore
difficoltà,
costretto ancora a stare accucciato sul pavimento, usando solo i
quadricipiti per scivolare da una parte all'altra, cercando un angolo
cieco per potersi rialzare ed attaccare. Mai come in quel momento
desiderava avere anche solo una delle sue fidate Katana.
Una
era ancora troppo lontana, abbandonata vicino al ficus dell'angolo, e
per quanto cercasse disperatamente di recuperarla, Hun anticipava
ogni sua mossa costringendolo ad indietreggiare sempre di
più.
La
rabbia cresceva ad ogni secondo. A quella per ciò che era
stato
fatto ad Isabel si sommava via via quella per quello scontro
così
impari e
mortale, in cui
aveva gettato suo fratello, per desiderio di vendetta.
Gli
ritornarono prepotentemente alla mente le parole che l'Antico aveva
mormorato al maestro Yoshi quando era andato a cercare suo fratello
Yukio per vendicarsi dell'assassinio di Tang Shen: “la
vendetta è come una scheggia.”2
Quando
l'Antico gli aveva raccontato la storia non lo aveva capito. Per la
prima volta nella vita non era stato in sincrono col modo di agire
del sensei del suo sensei, e forse un po' lo aveva giudicato per la
sua furia, incapace di comprendere cosa lo avesse spinto verso quel
gesto che aveva giudicato eccessivo. Non era mai stato divorato dal
bruciante desiderio di far del male a qualcuno per punirlo, prima;
era come un fuoco che consumava ogni altro sentimento e percezione,
alimentato dall'odio e dal dolore inflitto ai suoi nemici, in una
spirale senza fine.
In
un altro momento si sarebbe fermato a riflettere per riprendere il
senno di sé, dicendosi che era stupido e sbagliato quello
che stava
facendo... ma non era quella la notte giusta. Non con l'immagine di
Isabel che si accasciava al suolo ferita e dolorante che pressava
contro gli occhi, ad ogni battito di palpebra.
Nutrì
il desiderio di vendetta che gli graffiava il torace con la promessa
di un bagno di sangue. Il sangue di Hun.
La
mano scivolò svelta verso la taschina sul petto e
afferrò un paio
di punte acuminate con sicurezza, scattando poi sciolta davanti a
sé:
due Shuriken volarono nella semioscurità verso l'omone,
scindendo
l'aria con i loro bordi affilati come rasoi.
Hun
reagì prontamente, deviando le mortali stellette d'acciaio
con una
perfetta rotazione della Katana, il sibilo simile al vento che
spazzava via il delicato tintinnio dello scontro tra lame.
Leo
non era certo così stupido da pensare di poterlo colpire
così
facilmente: gli era servito solo come frettoloso intermezzo per
spezzare la sequenza di attacchi e potersi finalmente tuffare verso
l'angolo con uno scatto fulmineo nello stesso istante in cui il suo
avversario dirottava le piccole armi.
Una
capriola a terra sul tappetto e poi i piedi toccarono il serico e
liscio pavimento in legno e qualcosa di duro e solcato da fili
intrecciati. L'elsa della sua Katana. Hun si accorse della sua mossa
e si affrettò ad attaccare, calando la spada nelle sue mani
in un
semicerchio deciso e letale.
Leo
scattò dal pavimento con un colpo di reni e con le dita del
piede
afferrò l'elsa lanciandola verso l'alto, riguadagnando nel
frattempo
e finalmente la posizione eretta, dritto contro la sua stessa Katana
che scivolava verso la sua testa, mentre l'altra ancora volteggiava
nell'aria.
Il
clangore tra le lame fu così intenso da produrre perfino
scintille
abbaglianti al contatto, che illuminarono per una frazione di secondo
i due uomini che stringevano le else con tutta la loro forza,
cercando di spingere via l'altro, le mascelle serrate per lo sforzo.
Hun
sollevò suo malgrado un sopracciglio di compiacimento per la
mossa
del suo avversario, come se in effetti quella smania e quella brama
di lottare e vincere gli rendessero le cose più piacevoli.
Una
mano di Leo era sull'elsa, l'altra poggiata sul polso spingeva con
tutta la forza per costringere quel nerboruto scimmione ad
indietreggiare o perfino per provare a strappargli via la Katana
dalle mani. La gamba sinistra scattò e il ginocchio
colpì lo
stomaco di Hun con violenza, che strappò un rantolo secco e
sorpreso
all'uomo.
Il
contatto tra le spade si interruppe mentre quello indietreggiava,
fino a colpire col fondo schiena il bordo della scrivania alle sue
spalle, rischiando di perdere l'equilibrio.
Questa
volta Hun sorrise apertamente, trattenendo una smorfia di dolore, una
mano sull'addome.
“C'è
troppo poco spazio, qui. E io voglio che sia tutto perfetto questa
notte, questa lotta. Seguimi, mostro, ti porto all'ultimo posto che
vedrai in vita tua” esclamò, con un ghigno che non
prometteva
niente di buono, come se fosse l'invito della morte stessa.
Raph
scosse la testa con violenza e batté le palpebre
ritmicamente,
cercando di scacciare via i puntini che gli affollavano la vista,
mentre il suono dei passi del suo avversario si avvicinava, lento e
cadenzato come se stesse sfilando sul parquet.
All'improvviso
le orecchie furono assalite dal violento rumore di due spade che
cozzavano l'una contro l'altra e si girò in apprensione
verso
l'altro lato della stanza per controllare suo fratello, ma mettere a
fuoco era ancora troppo difficile: riuscì ad intravvedere
due figure
sfocate l'una di fronte all'altra nello sfondo luminoso e pulsante
che ancora lo confondeva.
Un
fruscio dietro di sé richiamò la sua attenzione e
si voltò di
colpo, ricordandosi del suo avversario: una punta acuminata gli
solcò
la guancia e scavò la carne fino al naso, strappandogli
brani di
pelle e un grido, presto soffocato dalla mascella contratta.
L'intenso
dolore pompò una scarica di adrenalina fino alla testa che
dissipò
la bruma nei suoi occhi e, con una mano poggiata al volto bruciante,
riuscì finalmente a mettere a fuoco il maledetto bastardo,
che lo
osservava tronfio col suo Sai nella mano, il sangue che colava
giù
dalla punta fino a raggiungere il manico.
“Sei
stato tu a voltarti di scatto e a ferirti con la tua stessa arma...
dovresti stare più attento” soffiò
serafico, ruotando il Sai e
schizzando gocce scarlatte attorno con indifferenza.
“Quasi
mi aspettavo avessi anche il sangue verde... mostro”
continuò
divertito e sorpreso.
Raph
allontanò la mano dal volto e la scoprì
completamente rossa; aveva
evitato l'occhio solo per un paio di centimetri, fortunatamente, ma
lo squarcio pulsava e avvampava dolorosamente, senza smettere di
sanguinare.
Respirò
a fondo, dei grossi respiri arrabbiati, sempre più pesanti.
La
prossima cosa che il suo Sai avrebbe trafitto sarebbe stato quel
maledetto bastardo, dritto nello stomaco. O il suo nome non era
più
Raphael.
Si
gettò contro di lui con furia e il pugno teso, ma Marcus
schivò con
facilità a destra, alzando nel contempo il Sai contro di
lui: piegò
il busto in avanti giusto in tempo e la punta slittò sulla
tuta e il
guscio, provocando solo uno strappo nel tessuto. Le mani poggiarono a
terra e con una capriola abbassò il piede a tagliola contro
la testa
del suo avversario, con tutto il peso del suo corpo e della
gravità
congiunte.
L'uomo
scivolò all'ultimo momento a destra, mandandolo a sbattere
schiena
contro il pavimento, e con un balzo passò subito al
contrattacco,
lanciandosi contro di lui di ginocchia: Raph rotolò sul
pavimento
per evitarlo e si rialzò con un colpo di reni, i piedi
diretti
contro la faccia del suo avversario. Marcus se ne accorse in tempo e
allungò le gambe, interrompendo la sua discesa verso il
pavimento e
riuscendo a scansare l'attacco.
Con
un salto si allontanò prima che il mutante potesse pensare a
qualche
altra mossa, mettendo qualche metro di distanza tra loro.
Raph
si rimise in piedi con uno sbuffo irato e sofferto, strizzando gli
occhi per studiarlo meglio nella penombra: lo scintillio del suo Sai
era il dettaglio che riusciva a focalizzare meglio. Aveva scelto di
gettare le sue armi, ma non aveva pensato che il suo avversario ne
avrebbe approfittato per impossessarsene. Era stata una mossa davvero
sbagliata.
Marcus
si accorse che il suo sguardo era posato sull'arma che teneva in mano
e sorrise apertamente.
“Rivuoi
il tuo giocattolo? Tranquillo, lo riavrai presto... conficcato nel
cuore. Sempre che un mostro come te abbia il cuore dove dovrebbe
essere” ridacchiò tra sé, con quella
voce che dava i brividi per
il fastidio.
“Fammi
il favore: evita di parlare! Quella voce non giova al tuo
personaggio” fu la replica ironica, giusto per distendere
appena i
nervi.
Era
certo ormai di come sarebbe finito lo scontro. Perché
preoccuparsi
ancora? Aprì le braccia a croce, indifeso e con l'obiettivo
per il
suo nemico scoperto.
“Fatti
avanti, se sei così certo di riuscirci”
mormorò, tranquillamente.
“Il
cuore è esattamente dove dovrebbe essere” gli
indicò poi,
abbassando le braccia lungo i fianchi; “Se credi di potermi
finire
con un attacco senza che sia io ad ucciderti, vieni pure.”
Marcus
affilò lo sguardo, come se temesse ci fosse qualche trucco
dietro,
ma il mutante era perfettamente immobile e rilassato. Gli occhi
scrutarono le gocce rosse che scendevano sulla guancia verde scuro
fino a scendere in rivoli nel collo e sulla tuta nera, creando
arabeschi di sangue; al centro del petto, lì dove avrebbe
piantato
il Sai, spiccava l'impronta insanguinata di una piccola mano
sinistra, -troppo piccola per essere di uno dei loro uomini,- quasi
come se fosse un bersaglio che gli indicava dove colpire.
Con
un attacco avrebbe potuto trafiggergli il torace da parte a parte,
anche se l'altro avesse provato a difendersi: era di certo
più
veloce ed esperto di lui, non c'era possibilità di sbagliare.
Rigirò
l'arma nella mano, poi strinse il manico con forza e sicurezza. I
muscoli delle gambe guizzarono e si mosse incontro al suo nemico con
tutta la sua velocità e il suo peso, il Sai puntato dritto
di fronte
a sé: il mutante lo guardò avvicinarsi con
impassibilità, come se
nemmeno ci volesse provare.
L'arma
scintillò una volta, colpita dalla luce della piantana
all'angolo,
ormai vicinissima.
Raphael
ruotò su sé stesso verso l'esterno all'ultimo
frammento di secondo,
la punta scivolò sul guscio e continuò a fendere
l'aria; la mano
del mutante afferrò il polso di Marcus e dirottò
la traiettoria del
colpo, incurvando il braccio verso l'interno: il Sai si
conficcò
nello stomaco dell'uomo con un suono agghiacciante nel silenzio
improvviso che si era creato attorno a loro.
Marcus
rantolò, sofferente, sgranando gli occhi per la sorpresa e
il
dolore. Raph si avvicinò al suo orecchio, sorreggendo il
corpo che
stava cedendo di secondo in secondo.
“Prima
che tu muoia, lasciati dire dove hai sbagliato: hai voluto usare il
mio Sai contro di me. Tu potrai anche essere bravo a maneggiare ogni
arma, ma sono io il maestro dei Sai. Ricordatelo, se
sopravvivi”
sussurrò delicatamente.
Lasciò
andare il suo braccio e Marcus cadde sulle ginocchia, con la mano
ancora sul manico dell'arma; con un colpo secco e un grido trattenuto
la strappò dal suo stomaco e un fiotto di sangue
riempì la maglia
nera, colando sul tappetto con un picchiettio macabro.
Le
labbra tremarono almeno tanto quanto il suo corpo, forse mentre
provava a trovare la forza per dire qualcosa, ma il corpo cedette e
si accasciò al suolo pesantemente, mentre il Sai cadeva
tintinnando
lì vicino.
Raphael
rimase per un istante ad ascoltare il silenzio, così spesso
e
totale, mentre gli occhi osservavano il corpo del suo nemico a terra.
Non c'era rimorso o compassione. Era stato uno scontro alla pari e
onorevole, non c'era niente altro da fare o su cui rimuginare.
Si
accorse che il silenzio era un po' troppo perfetto.
“Leo?”
chiamò, anche se parlare gli faceva muovere i muscoli del
viso e bruciare di più il taglio.
Si
voltò per tutta la stanza, ma di suo fratello e di Hun non
c'era
segno. Ma non c'erano nemmeno tracce di sangue che potessero fargli
pensare al peggio... dove diamine erano finiti? Era certo che fossero
lì fino a qualche istante prima, li aveva sentiti combattere
con
foga.
Si
inchinò e raccolse il Sai vicino al corpo di Marcus, poi
recuperò
anche l'altro, uscendo dalla stanza come un fulmine. Doveva trovare
Leo, prima possibile.
“Dovresti
ridarmi la mia Katana!” tuonò Leonardo, forte
abbastanza per
sovrastare il rumore delle due spade che si scontravano.
Hun
gli rimandò un ghigno incredulo per la sua richiesta e per
tutta
risposta forzò col peso del suo corpo sulle braccia per
farlo
indietreggiare.
Leo
si scansò e le due lame scivolarono una contro l'altra,
allontanandosi. Un paio di passetti indietro e grossi respiri per
riprendere fiato, mentre studiava il suo opponente e i dintorni.
La
notte oscura li avvolgeva con il suo abbraccio soffocante, dal calore
estivo. Benché il cielo fosse scuro e denso di nuvole nere
forse più
della stessa notte, l'aria era stantia e afosa, spessa tanto da
poterla quasi toccare.
Nemmeno
lì sul tetto, dove Hun lo aveva portato con la promessa di
un'arena
spaziosa e adeguata, nemmeno lì c'era un filo d'aria che
portasse
refrigerio al corpo bruciante e accaldato, al sudore che gli
imperlava la fronte per lo sforzo.
Aveva
seguito la scia del suo nemico senza pensarci, desideroso di non
perderlo di vista per evitare fughe, ma forse avrebbe dovuto
rifletterci un po' meglio, prima. E aveva lasciato Raph da solo con
quel Marcus, senza nemmeno chiedersi cosa gli sarebbe successo; non
era proprio il genere di mossa saggia da leader.
Da
quanto erano lì su a scambiarsi fendenti e colpi volanti?
Gli
sembravano ore, per il dolore ai muscoli, ma non poteva essere.
Dovevano essere quindici, al massimo venti minuti, anche se in
effetti il tempo non aveva molto senso nel bel mezzo della lotta; non
passava con lo stesso flusso, non scorreva nello stesso modo.
Se
solo fosse riuscito a riprendersi la Katana dalla mano di Hun,
sarebbe passato in una posizione di vantaggio... ma non era semplice.
Il
suo gigantesco nemico si riportò all'attacco, fendendo
l'aria a
destra e sinistra, costringendolo ad indietreggiare velocemente,
anche se la spada nelle sue mani si scontrava con la sua gemella ad
ogni colpo. Era ovvio che Hun volesse spingerlo in un punto cieco, ma
non riusciva a contrastare l'attacco come avrebbe voluto;
saltò e lo
calciò sul petto, forzandolo a fermarsi e sbilanciandolo.
Con una
capriola fu dietro la sua schiena e si voltò repentinamente
per
colpirlo, ma il bestione fu veloce e parò il colpo.
“Questo
scontro è molto divertente, lo devo ammettere. Ma devo
finirti prima
che il mio passaggio arrivi qui” esclamò mentre
scostava la lama
della sua spada per allontanarlo da sé.
Tese
lo sguardo verso l'alto, verso un minuscolo puntino luminoso nel
cielo, lontano e veloce nella notte.
Anche
Leo strizzò gli occhi per mettere a fuoco e l'ombra sfocata
gli
parve un elicottero nero.
Se
Hun sperava di andarsene impunito e vivo da quel tetto, aveva
decisamente sperato male.
Prese
la rincorsa e si gettò contro di lui, aggrovigliandosi in
una serie
di parate e affondi perfette e sincronizzate, in cui nessuno dei due
mancava un colpo, nessuno dei due sbagliava una mossa.
Raph
li trovò così, immersi in un intreccio spietato
di lame e lotta,
sbattendo la porta che portava al tetto con urgenza. Aveva corso come
un dannato per tutto il piano inferiore per cercarlo, prima di
ricordarsi che i shellcell erano connessi tra loro da un dispositivo
di tracciamento di quel geniaccio di Donnie; una volta trovato il
segnale sul display, c'erano voluti solo tre minuti per raggiungere
il tetto.
E
suo fratello era lì che lottava ancora col maledetto Hun,
mentre un
rumore ritmato si avvicinava pian piano dal cielo.
“Leo!
Ti sembra il modo di sparire?” domandò a tono
alto, per farsi
sentire, respirando a fondo.
La
sua voce congelò entrambi i contendenti, come se fosse
entrata
d'improvviso nel loro mondo spezzandone l'equilibrio. Lo sguardo di
Leo si accese di gioia e insieme preoccupazione per la ferita sul
viso, mentre quello di Hun lampeggiò di sospetto e terrore.
“Tu!
Dov'è Marcus? Tu non puoi... lui non
può...” tentennò con voce
irata e incredula, come se dicendo quelle parole potesse rendere il
pensiero reale.
“È
rimasto di sotto... aveva un po' di mal di stomaco. Non digerisce il
ferro” ribatté sarcastico Raph, ghignando della
sua espressione
spaesata.
Il
corpo di Hun tremò di rabbia e un fendente costrinse Leo ad
indietreggiare, mentre l'omone si lasciava andare ad un urlo furioso,
un ruggito nella notte.
“Perché
non vi decidete a morire una buona volta?” ringhiò
fuori di sé,
completamente divorato dalla follia.
La
mano sinistra si spostò dietro, fulminea, per poi tornare al
suo
posto, stringendo una pistola. Quel bastardo ne aveva tenuta una
nascosta sulla schiena. E la puntò contro Raphael, in un
decimo di
secondo.
“Ne
faccio fuori almeno uno, prima di andare” esclamò
tra sé, il dito
che già correva sul grilletto.
Leo
urlò, qualcosa che non si capì nella foga del
momento, mentre
saltava con tutta la sua forza e la sua velocità, la Katana
pronta.
La
lama tranciò di netto la carne e l'osso proprio sotto al
polso,
liscia e con un movimento fluido, e la mano che ancora impugnava la
pistola volò grottesca nell'aria, tra spirali di sangue,
fino a
raggiungere il parapetto e poi cadere di sotto.
Il
grido di dolore di Hun fu spaventoso e riuscì a far tremare
le ossa,
mentre lasciava andare la Katana e stringeva il moncherino
insanguinato al petto, straziato dal dolore e spaventato
dall'inaspettato sviluppo. Sulla camicia bianca si formò in
un
istante una macchia rossa, che si espandeva sin troppo rapidamente.
“Nessuno
tocca la mia famiglia” esalò Leo facendosi avanti,
con la lama
della spada che scintillava di scarlatto puntata contro l'uomo di
fronte a sé.
Hun
indietreggiò a passi malfermi e sofferti, ma prima che Leo
potesse
anche solo pensare di colpirlo, una mitragliata spezzò la
quiete,
dall'alto, mentre il battito delle pale di un elicottero si faceva
più vicino.
Indietreggiò
in tempo per evitare i proiettili, ma il mezzo continuò a
scaricare
il fuoco su di lui, seguendolo per il perimetro del tetto, mentre
andava a zigzag.
“Raph!
Dentro! Via, via!” urlò al fratello,
raggiungendolo. Si gettarono
entrambi oltre la porta della casupola per le scale, mentre l'ultima
sventagliata di proiettili colpiva il tetto in cemento,
fortunatamente senza trapassarlo.
Rimasero
a terra, tra respiri profondi e orecchie tese per sentire cosa stesse
accadendo fuori. Il rumore delle pale dell'elicottero rimase per
qualche secondo sopra le loro teste, finché non si
allontanò
lentamente, fino a scomparire del tutto.
Raph
si rimise in piedi e tese una mano al fratello, per aiutarlo ad
alzarsi. Poi si fece coraggio e uscì sul tetto,
occhieggiando verso
l'alto con sospetto e tensione, sul chi vive.
“Non
c'è più nessuno” esalò alla
fine, abbassando la guardia.
Leo
era già dietro di lui e osservava la scia di sangue che
correva sul
tetto, diventando sempre più sfrangiata e irregolare,
indicando che
Hun si doveva essere aggrappato all'elicottero mentre era ancora il
volo, forse alla scaletta in corda, per sfuggire in fretta.
“Andiamo
a casa” esclamò atono, nel silenzio che li
avvolgeva.
Il
rifugio era completamente illuminato, ma vuoto. Entrarono, stanchi e
provati, ma vittoriosi. Tirarono dritti oltre il laghetto, diretti al
laboratorio, ma la porta dell'ascensore si aprì di colpo,
attirando
la loro attenzione.
Don
si accorse di loro nello stesso istante e inorridì nel
vederli. Il
suo sguardo osservò con apprensione ogni lacerazione e
schizzo di
sangue che li ricopriva, fino all'orrendo squarcio sulla faccia di
Raphael.
“Dove
eravate? Cosa... di chi è tutto quel sangue?”
esalò sconvolto,
avvicinandosi a grandi passi, con la borsa a tracolla che
ballonzolava al fianco ad ogni movimento.
“Come
sta Isabel?” domandò rudemente Leo, senza
rispondere.
Gli
occhi di Don brillarono di comprensione, ma decise di rispondere
prima di chiedere ciò che aveva pensato.
“Leather
Head è venuto per metterle i punti, perciò
l'emorragia si è
arrestata e la pomata magica ha permesso una sicurezza di guarigione
accelerata. Ma ha perso molto sangue e non possiamo darle il nostro,
perciò sono andato da Angel: hanno lo stesso gruppo
sanguigno”
spiegò loro, mentre riprendeva a camminare verso il
laboratorio, di
certo per poterle fare una trasfusione il prima possibile.
I
due gli andarono dietro e lui si fermò di colpo.
“Siete
andati da Hun, vero?” domandò, senza voltarsi a
guardarli. Il
silenzio teso fu la risposta migliore che potesse sperare.
“Vi
conviene non farvi trovare dal sensei in quello stato. Vi stava
cercando e capirà subito cosa avete fatto”
continuò il genio, con
un tono di voce apprensivo, come se temesse per loro.
Come
se avesse sentito il suo nome, o se avesse percepito la loro
presenza, la porta del laboratorio si aprì e il piccolo
ratto ne
uscì fuori, con gli occhi seri e scuri sui suoi figli.
Camminò
lentamente verso di loro, superò Don che stava davanti e si
fermò
di fronte al maggiore, il leader che aveva designato per il gruppo,
sollevando lo sguardo per guardarlo in viso.
“Leather
Head ti sta aspettando, Donatello. Isabel ha bisogno della
trasfusione il prima possibile” lo informò pacato,
come se fosse
un'amorevole esortazione a sbrigarsi.
Donnie
si voltò brevemente per mandare loro un'occhiata di
comprensione e
sostegno, poi scattò e raggiunse la porta in un secondo,
sparendo
dentro il laboratorio in un lampo.
Rimasero
loro tre, a fissarsi nel silenzio, gli occhi di Splinter che
lampeggiavano di severità e domande.
“Siete
andati dai Purple Dragons” attestò sicuro, con un
tono neutro che
faceva più male e più paura di un pugno nello
stomaco.
“A
cercare vendetta” finì, incredulo di
ciò che stava affermando.
“Sì,
sensei” fu la risposta secca e in sincrono di entrambi, senza
nessuna esitazione.
La
coda di Splinter spazzò il terreno con una scudisciata
nervosa,
benché il suo proprietario fosse calmo e immobile.
“Avete
dimenticato che cosa fa la vendetta ad un cuore? Che cosa significa
per un'anima? La vendetta è come una scheggia...”
iniziò a
rimproverarli, prima che la voce di Leonardo lo interrompesse.
“Ti
penetra sotto pelle e può avvelenarti la vita”3 concluse
per lui, con tono graffiante e stanco.
“La
vendetta non è la scelta che tu avresti fatto, sensei, ma in
questo
caso era necessaria, perché era una questione di onore,
della nostra
famiglia. Isabel ne fa parte” aggiunse dopo qualche istante
di
silenzio, provando a fargli capire cosa li avesse spinti ad agire.
Anche se era solo una mezza verità.
Il
maestro li osservò quieto, senza dire una parola, e non
riuscirono a
capire se fosse deluso o amareggiato o se stesse solo pensando a cosa
dire loro.
“E
a cosa è valsa? Cosa avete ottenuto?”
domandò d'improvviso, come
se volesse ancora una risposta prima di decidere.
Leo
fece un passo in avanti e lasciò andare il fagotto nero che
teneva
in mano, che cadde al suolo con un tonfo cupo.
I
lembi neri del panno si sciolsero e aprirono nell'impatto, rivelando
la grossa mano livida e insanguinata al suo interno.
“Hun
ci penserà decisamente due volte prima di alzare ancora un
dito
sulla nostra famiglia” fu la replica gelida di Leonardo,
mentre
camminando superava il sensei, diretto al laboratorio.
1:
Jeet kune do, jujitsu e capoeira, sono discipline di arti marziali.
Rispettivamente, dalla prima: jeet kune do, inventata da Bruce Lee
unendo e perfezionando diverse tecniche di arti marziali; jujitsu,
è
un'arte che ritorce la forza di una persona contro sé
stessa, a
gradi linee; la capoeira è un'arte marziale brasiliana,
tanto fluida
e armonica da poter passare per una danza.
Marcus
sapeva queste ed altre discipline, eppure contro Raph non ha avuto
fortuna! Ah!
2:
Yukio Mashimi e Yoshi Hamato erano entrambi innamorati di Tang Shen,
ma lei ricambiava l'amore di quest'ultimo. Geloso per quello, e
perché Yoshi era più bravo di lui nelle arti
marziali, Yukio uccide
Tang Shen e Yoshi va a cercarlo per vendicarne la morte. Stagione 4,
episodio 22 “Tale of Master Yoshi”.
3:
La frase, detta dall'Antico, è quella che poi dà
il titolo al
capitolo. “Vengeance is like a Splinter. It gets under your
skin
and can poison your life. Il nome di Splinter viene proprio da
questa frase, per ricordare a Yoshi cosa avesse fatto.
Note:
Salve
a tutti!
Perdono
in ginocchio sui ceci per il mostruoso ritardo nell'aggiornare! Non
mi sono affatto dimenticata di voi o della storia, ma internet mi ha
abbandonato per un'intera settimana. E anche adesso, anche se la
compagnia ha detto che è tutto a posto, va male e a rilento
e io
prego che il capitolo si carichi!
Spero
che comunque il capitolo tutto azione e sangue abbia conquistato il
vostro perdono. Diciassette pagine di violenza. Wow! Ammetto che mi
ha creato qualche reflusso di brivido per giorni. Se non è
da rosso
questo, non so cosa altro lo sia.
Marcus
è morto per mano di Raph, o almeno così pare,
mentre Hun ha perso
la mano a causa di Leo. Che cruenti! Gestire due Raph assatanati in
un capitolo è tutt'altro che semplice, credetemi.
È
molto controverso il tema della vendetta, perché io mi
rifaccio sia
alla serie 2003 che al fumetto. Solo che, nel fumetto le tartarughe
sono state allenate da Splinter con il proposito di vendicarsi
dell'assassino di Hamato Yoshi, Oroku Saki; nel cartone invece,
ovviamente dato che era per un pubblico più giovane, la
vendetta
viene dipinta come sbagliata, eppure, in casi come quello di Yoshi su
Yukio, inevitabile.
Nel
capitolo sono rimasta nel mezzo. Splinter non li sta sgridando
perché
pensa che arrecare danno ad una persona per vendetta sia sbagliato,
ma vuole che ci sia un giusto sentimento e ponderazione dietro, oltre
che un buon motivo.
Isabel
è in effetti parte della famiglia, ormai, e dato che
è stato Hun a
metterla in mezzo, la vendetta è, ai loro occhi, giusta e
onorevole.
Dato
che ho aggiornato in ritardo, sempre se internet e il pc che deve
essere formattato me lo permettono, il prossimo capitolo
arriverà
prima!
Abbraccione
a tutti, mi siete mancati!
A
presto
p.s.:
Sarajane92 mi ha mandato un'intera tavola questa volta! Ed è
meravigliosa! Mi ha messo addosso un'adrenalina che non vi dico! Come
vorrei essere capace di trasporre le storie in fumetti, bramerei per
vedere a disegni!
Grazie
Sara, sei un portento! Bravissima!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 23 *** Just a little kiss ***
“No!
Non potete entrare in quello stato!” sbottò
categorico Mikey,
seppure abbassando la voce per non essere sentito.
Raph
e Leo lo squadrarono per un attimo, lì impalato davanti alla
porta
del laboratorio con le braccia aperte per impedire loro di entrare.
Aveva la fronte corrugata per tutta la serietà che ci stava
mettendo, ma i suoi occhi erano calamitati dallo squarcio sulla
faccia di Raphael, dai lembi di carne visibili e sfrangiati che gli
davano i brividi e la pelle d'oca.
Si
era precipitato fuori dalla stanza quando Don, mentre attaccava la
sacca per la trasfusione ad Isabel, gli aveva sussurrato che i loro
fratelli erano tornati, ricoperti di sangue e ferite, da uno scontro
con Hun.
La
prima cosa che gli occhi di Michelangelo avevano visto era stata la
grossa mano cinerea, poggiata sul pavimento in un panno nero, e un
brivido gli era corso giù per la schiena. Avevano staccato
una mano
ad Hun. E non gli era nemmeno difficile capire come avessero fatto:
quando si era voltato per cercare gli occhi dei suoi fratelli aveva
visto, al di sotto, mentre si avvicinavano a grandi passi al
laboratorio, una rabbia sottaciuta e un odio che non avevano trovato
pace. Soprattutto in Leo.
Aveva
indietreggiato fino a che non aveva sentito il tocco del guscio
contro la spessa porta del laboratorio, e allora si era fermato,
pronto a tutto.
Raphael
e Leonardo si fecero ancora una volta avanti, confusi e seccati per
il suo comportamento, ma lui non si mosse di un millimetro.
“Ve
lo ripeto: non potete entrare! Donnie è stato
categorico!”
insisté, alzandosi sulle punte dei piedi per sembrare
più alto e
quindi più minaccioso.
“Perché
Don vorrebbe tenerci fuori?” domandò brusco Leo,
la cui mano si
era già allungata verso il fratello per spostarlo.
“Perché
Isabel è molto debole. E voi non siete esattamente un
esempio di
igiene, in questo momento; se prendesse un'infezione da voi o dal
sangue che vi portate addosso, potrebbe anche morire” rispose
pacatamente la voce del sensei, alle loro spalle.
Entrambi
si fermarono, sorpresi. Poi i loro sguardi si abbassarono sulle tute
impolverate e ricoperte di schizzi di sangue, così come le
mani, e
infine corsero ognuno sull'altro, osservando il proprio compagno di
battaglia, che condivideva le stesse medaglie. Si guardarono negli
occhi e strinsero entrambi le labbra, in imbarazzo.
Il
sensei non si era perso un dettaglio delle loro azioni e li osservava
ancora in silenzio, aspettando una loro reazione.
“Se
ci ripuliamo, dopo potremo entrare?” chiese esasperato Leo,
stanco
oltre ogni dire e incapace di lasciare andare il nervosismo,
finché
non l'avesse vista coi suoi occhi e avesse appurato che stesse bene.
Splinter
abbassò il capo e annuì, in silenzio.
Con
un basso ringhio di Raph, che evidentemente reputava il tutto una
seccatura, i due si allontanarono, diretti uno verso il bagno al
piano terra e l'altro in quello al primo piano. Splinter intanto, si
era avvicinato al trofeo di guerra e aveva piegato i lembi del panno
nero per ricoprirlo, prendendolo poi con sé.
Leo
si liberò della tuta con frenesia e una buona dose di
noncuranza,
gettandola alle spalle una volta sfilata, smanioso di fare in fretta;
la bandana azzurra chiazzata di rosso sangue fece la stessa fine.
Entrò nella doccia che già la mano girava la
manopola dell'acqua e
il primo getto fu completamente gelato, come una cascata nordica
dritta sulla testa.
Trattenne
perfino il respiro, dalla sorpresa e per lo shock termico.
Eppure,
gli bastarono pochi secondi per abituarsi alla temperatura, e dopo il
disappunto iniziale, una strana calma si impossessò del suo
corpo,
scendendo da testa a piedi, inondandolo di una rinvigorente
serenità.
La doccia fredda stava lavando via gli ultimi residui di adrenalina e
rabbia che ancora conservava in corpo, portandoli giù, oltre
lo
scarico e la terra, lontano da lui.
Aveva
fatto davvero una pazzia. Era indubbio. Gettarsi con quella furia
contro un intero squadrone di nemici, senza un piano, senza una
retroguardia o una via di fuga certa... a mente fredda, era stato
pazzo e sconsiderato.
Ma
il dolore e il furore nel sapere Isabel ferita avevano cancellato
ogni altra cosa: la prudenza, il buon senso, perfino l'amor proprio o
l'onore.
Solo
quando aveva visto quel maledetto tremante e sanguinante al suolo si
era sentito bene, si era sentito vittorioso e potente, soddisfatto.
Anche se in quel momento non lo era più così
tanto.
Era
impalato sotto il getto gelido, perso in pensieri e ponderazioni.
E
benché una parte di sé recriminasse per la sua
azione, e gli desse
dello stupido e dell'incosciente, sapeva che quello che aveva fatto
quella notte era stato necessario, anche per il futuro. Hun forse non
era morto, ma ci avrebbe pensato di certo per bene prima di provare
ancora a mettere piede in città e a toccare uno della loro
famiglia.
A
meno che non desiderasse morire per davvero, una volta per tutte.
Si
diede dello sciocco, perché stava decisamente perdendo
tempo.
Afferrò la spugna e il bagnoschiuma e si lavò
velocemente, senza
però regolare l'acqua su una temperatura più
consona, gioendo del
freddo che spegneva un po' i suoi bollori e il suo cattivo
temperamento, così pressante e dominante in quell'ultimo
periodo.
Così poco Leonardesco.
Così
troppo da Raphael.
Ma
se lui era corso nella notte e incontro alla morte per vendicare la
donna che amava, suo fratello per quale motivo era corso insieme a
lui? Se era vero che non era più innamorato di lei,
perché si era
gettato con quel furore contro i Purple Dragons e l'uomo che l'aveva
ferita, Marcus, rischiando tutto?
Voleva
chiederglielo, ma aveva una paura folle di cosa avrebbe potuto
scoprire. Se Raph gli avesse detto che ciò che
più temeva era vero,
lui che avrebbe potuto fare? Se si fosse di nuovo innamorato di lei o
avesse scoperto che in realtà non aveva mai smesso di amarla?
Lui
si sarebbe dovuto semplicemente tirare indietro e lasciare che si
mettessero assieme?
Uscì
dalla doccia in fretta, strofinandosi con l'asciugamano con
così
tanto vigore che la pelle verde foresta si arrossò, e corse
al piano
di sopra a vestirsi, divorato da dubbi e domande.
Quando
uscì dalla sua stanza, dall'altro lato del pianerottolo
circolare,
Raphael stava uscendo dalla sua.
Si
osservarono per un secondo, forse per la sorpresa per l'inusuale
sincronizzazione.
Si
gettarono al di sotto a volo d'angelo, atterrando ai due lati del
laghetto, poi, dopo essersi rialzati, si incamminarono verso il
laboratorio.
Mikey
non era più alla porta e del sensei non c'era traccia,
lì fuori.
Leo
rallentò il passo per permettere a Raph di raggiungerlo,
perché
improvvisamente si era fatta strada in lui la voglia pressante di
fare una domanda. Piccola. Innocua. Perlomeno sperava. Ma che, anche
se la risposta fosse stata orribile e temuta e avesse scoperchiato
qualcosa di profondo, lui doveva semplicemente fare.
“Perché
vuoi vedere Isabel?” domandò sottovoce, mentre
entrambi arrivavano
davanti alla spessa porta scura del laboratorio.
Raph
non si voltò, e anche così, voltato di tre
quarti, poteva vedere
l'inizio del taglio sulla sua faccia. Se la sua pelle era gelata e
gelida, dal corpo del fratello si alzavano invece spirali di vapore
tanto intense che poteva perfino sentirle da quella distanza; ci si
doveva essere cotto, sotto il getto di acqua bollente.
“Ho
le mie ragioni” fu la laconica risposta di Raph, mentre
apriva
l'uscio verso l'innaturale silenzio della stanza.
C'era
Mikey, seduto su una sedia vicino alla barella che usavano in casi di
infortuni, Don che trafficava con la piantana che teneva la sacca del
sangue ormai quasi vuota e Isabel sdraiata e pallida, con una vistosa
fasciatura che copriva la spalla destra e il braccio.
I
due mutanti si erano voltati al loro ingresso, con due sorrisi
identici di sollievo. Lo sguardo di Don si adombrò nello
scrutare la
ferita di Raphael e gli si fece incontro.
“Dovremo
darti dei punti” sentenziò pratico
occhieggiandolo, senza però
osare toccare la ferita, così aperta da essere a rischio di
infezione.
“Leather
Head è andato a prendere la sua valigetta. Non aveva
abbastanza
materiale, sarà qui tra poco.”
Raphael
fece spallucce e lo ignorò, tirando dritto fino alla barella
poggiata contro il muro in fondo. Leo ci era già arrivato e
scrutava
Isabel con un'intensità tale che probabilmente lo avrebbero
capito
anche i sassi cosa provasse.
Sollievo.
Un sollievo totale e rasserenante, nel vederla dormire serena, anche
se troppo pallida, nel sentirla respirare, nel sapere che era viva.
Forse stava tremando, nello sforzo di non mettersi semplicemente ad
urlare e lasciare andare quella paura che aveva attanagliato il suo
cuore fino a quel momento.
I
suoi occhi si sbarrarono di sorpresa, quando Raphael si
avvicinò e
si chinò su Isabel, scuotendola per la spalla sana senza
riguardo.
“Fermo!
Cosa stai...” urlò Don sconvolto, lanciandosi
verso di lui, la
voce persa in mezzo alle altre.
“Ehy!
Lasciala!” strillò Mikey alzandosi di scatto dalla
sedia, furioso
come non mai.
“Raph!”
sentì la sua stessa voce gridare, mentre la rabbia cresceva
nel suo
petto.
Raphael
li ignorò e li tenne a distanza, con la sua enorme mole,
continuando
a scuotere il piccolo corpo provato, finché Isabel non
spalancò gli
occhi e si tirò su di colpo, confusa e dolorante, con un
respiro
brusco e spaventato.
Lo
sguardo corse per la stanza mentre respirava pesantemente, in
allarme, su loro che si erano bloccati per la sorpresa, poi su
sé
stessa e la fasciatura. Infine si posarono su Raphael che ancora la
teneva per la spalla e sul suo viso ferito. Trattenne il respiro,
inorridita.
“Sei...
siete stati dai Purple Dragons?” domandò nel
silenzio, con la voce
debole per lo sforzo.
Don
si divincolò dal blocco di Raphael e la raggiunse,
aiutandola a
mettersi semi sdraiata, staccando la mano del fratello, dalla presa
ferrea.
Mikey
le indicò Leo e Raph.
“Loro
sono stati da Hun! Dovevano chiedergli una mano” rivelò
con un mezzo ghigno per la battuta, che lei ovviamente non
capì.
“E
tutto per causa tua! Non
avresti attirato la sua attenzione se ti fossi tenuta alla larga e ti
fossi fatta i fatti tuoi! Ma no! Dovevi giocare a fare la Kunoichi,
la vigilante notturna! E adesso hai capito che non è un
gioco!” la
investì arrabbiato Raph, a voce alta, facendo trasalire
tutti nella
stanza.
“Raph!
Smettila!” lo assalì
Leo, che proprio non capiva il suo comportamento. Ma non avrebbe
permesso a nessun costo che lui l'aggredisse in quel modo.
“Eri
tu il misterioso eroe
della città?” esalò Donnie, dandosi
dello stupido per non esserci
arrivato da solo.
“Certo
che era lei. Come non
sospettarlo? Le piace così tanto dare problemi alla gente!
Tanto ci
sono gli altri che le salvano le chiappe e rischiano le loro,
perché
preoccuparsi?” incalzò Raphael, facendosi avanti,
fino ad arrivare
vicino alla sua testa, sovrastandola.
Don e Leo si lanciarono in
avanti, per mettere freno a quella pazzia, preoccupati.
“Ti
piace fare la parte
dell'eroina tragica, vero? La povera piccola Isabel che fa tanto per
gli altri e si sacrifica? Beh, guarda un po' dove ha portato il tuo
gioco, stanotte. E guarda come comunque continui imperterrita nella
tua sceneggiata! Se ti fregasse qualcosa delle persone che si
preoccupano per te, ti faresti curare e poi te ne andresti da qui,
lontano, nel tuo regno, senza rompere ancora!”
Raph prese
un grosso respiro
alla fine della sua sfuriata, con le mani strette a pugno
così forte
che tutti temettero che si stesse trattenendo per non colpirla.
Isabel lo fissava, semi
sdraiata, coi suoi occhioni scuri sbarrati di sorpresa e
risentimento, morsicandosi le labbra come se si stesse trattenendo
dal dirgli qualcosa.
Poi sorrise brevemente. Come se
la verità l'avesse colpita, sorrise accondiscendente.
“Hai
ragione. Sono stata una
vera stupida, lo ammetto. È meglio che... mi puoi
curare” disse
con un filo di voce, atono, quasi pieno di rimorso.
Raphael
sospirò, gettando fuori
quella rabbia che gli era rimasta, sinceramente sorpreso
dall'inatteso sviluppo. Non credeva sarebbe stato capace di
convincerla così velocemente, ma in effetti sembrava molto
provata e
debole, incapace di ribattere a lungo. Si inchinò su di lei
per
prendere il bacio che gli avrebbe permesso di curarla.
Leo osservò il viso del
fratello scendere secondo dopo secondo verso Isabel, che immobile lo
attendeva.
Avrebbe urlato. Oh sì. Ancora
un secondo e avrebbe urlato, saltando al collo di Raphael con tutta
la sua furia, aggredendolo per tenerlo lontano da lei. Nella sua
mente lo stava già facendo. Mille e più volte
aveva già colpito
Raph per allontanarlo.
Ma nella
realtà suo fratello
era ad un soffio dalle labbra di Isabel e il suo cuore palpitava di
rabbia e dolore con angoscia, pressando sul torace quasi fisicamente,
accorciando il suo respiro.
Poi Isabel allungò una mano e
afferrò il colletto della maglia di Raph, tirandolo verso di
sé con
uno strattone: la traiettoria del bacio deviò e le labbra di
lei si
poggiarono sulla guancia, sullo squarcio nel viso, diretto.
Raphael
urlò di sorpresa e
provò a divincolarsi, ma la mano di Isabel lo teneva
implacabilmente
fermo mentre i poteri di guarigione rimpicciolivano la ferita,
velocemente, che si richiuse su sé stessa e
cicatrizzò sotto i loro
sguardi attoniti.
Solo quando fu certa che il
taglio si fosse rimarginato, Isabel lasciò andare Raph,
liberando la
mano dal suo colletto. Lui si alzò repentinamente e con
stizza,
arrabbiato come non mai; si toccò la guancia cercando
traccia della
ferita sotto le dita, ma la pelle era liscia e intonsa. Il dolore era
scomparso del tutto, ma preso dalla rabbia non se n'era accorto.
“Cosa...
perché non la smetti? Smettila coi tuoi giochetti e lasciati
curare!
Così puoi finirla di rompere e te ne puoi andare!”
le urlò
seccato, imbarazzato e furioso per essere caduto nel suo tranello
come un idiota.
Si
sporse in avanti, velocemente e con forza, per prendere il bacio per
guarirla volente o nolente, ma incontrò la mano di Isabel,
puntata
decisa sul suo petto, impenetrabile come un muro.
Stava
usando i suoi poteri per tenerlo alla larga, nonostante il dolore che
la ferita le provocasse, nonostante non fosse al massimo della forma.
Poi, lo spintonò via, allontanandolo da sé. Con
un gesto secco
scostò le coperte e si portò al bordo del letto,
barcollando solo
appena, e la sua mano afferrò il filo della flebo,
staccandolo con
forza dal braccio: uno zampillo di sangue uscì dal foro nel
braccio
e lei si affrettò a premerci contro con l'altra mano,
cercando di
fermarlo.
Erano
rimasti pietrificati, sconvolti dal veloce dispiegamento della
situazione, così repentina; si riscossero solo quando lei si
tirò
su e si diresse verso la porta con un'andatura malferma, decisa ad
andarsene.
Donatello
si gettò in una corsa frettolosa, fermandola giusto in tempo.
“Cosa
stai facendo?” chiese, parandosi di fronte a lei con le
braccia
spalancate, frenando la sua fuga.
Isabel
sollevò lo sguardo su di lui.
“Torno
a casa. Grazie per le cure, sto bene adesso” rispose atona,
continuando a premere sul braccio, macchiato da un rivolo di sangue
che scendeva verso il suolo.
“Non
stai bene. Devi riposare! Rimani qui finché non ti sarai
ripresa”
la sgridò piuttosto alterato, uno strano stato d'animo se
proveniva
da Donatello. Era il più calmo, solitamente.
“Sto
bene, Don. Sul serio” rispose stanca lei, che voleva solo
essere
lasciata in pace. Voleva starsene da sola, a prendersi mentalmente a
calci per la sua stupidità, per aver creato tutto quel
casino, per
aver scatenato una lotta che aveva portato due persone che amava a
battersi per vendetta e per la fredda ira di Raphael, che non la
voleva lì, lo sapeva bene.
La
mano del genio si poggiò sulla spalla sana, in un muto gesto
di
affetto e comprensione.
“Sarei
più tranquillo se stessi con noi per qualche giorno. E
Leather Head
anche, sapendo quanto ci ha messo per darti i punti. Rimani con noi,
per un po'” le disse con voce dolce, cercando di metterla sul
piano
dei sensi di colpa, come se andandosene avesse fatto un torto a loro.
Lo
sguardo di Don si sollevò sui fratelli, alle spalle della
ragazza.
“Siamo
tutti d'accordo che Isabel debba restare, vero?”
esclamò cono tono
asciutto, come se stesse minacciandoli a dire il contrario.
Faceva
uno strano effetto essere minacciati da Donnie, come se
improvvisamente il proprio orsacchiotto preferito avesse preso vita e
li stesse tenendo in scacco con un coltello dritto alla gola.
Agghiacciante sotto tutti i punti di vista.
“Certo
che deve restare!” rispose prontamente Mikey, che ne era
convinto
anche senza nessuna minaccia da parte sua.
Leo
rispose affermativamente, come ovvio, mentre Raph non disse nulla,
torvo e cupo vicino al letto, schiacciato dall'occhiata intimidatoria
di Don, che lo stava sfidando ad azzardasi a dire il contrario.
“Un
po', solo per un po'” soffiò fuori Isabel,
sorridendo timidamente
a Donnie, che invece sorrise contento.
Venne
forzata a tornarsene buona e tranquilla nel letto, da un genio dalla
benda viola piuttosto convincente, che nessuno nella stanza voleva
davvero fare arrabbiare.
Passò
chiunque per il laboratorio, quella giornata: la famiglia Jones, con
un'apprensiva April che per poco non la strozzò dalla gioia
di
vederla intera; Angel con un meraviglioso cesto di muffin alla frutta
e che Isabel non ringraziò mai abbastanza per la trasfusione
di
sangue; Steve, imbarazzato e a disagio, come se si sentisse in colpa
per non aver scoperto prima che era lei il misterioso vigilante,
evitando così che si cacciasse in quel guaio.
La
fecero sentire amata e al sicuro, come mai si era sentita prima, ma
il rimorso per ciò che aveva fatto e per il caos in cui li
aveva
messi, non si attenuò in nessun modo, assieme all'orribile
disagio
che provava nel sapere che Raphael odiava averla lì.
La
mattina dopo la svegliò con la luce artificiale del
laboratorio,
così diversa dai tenui raggi di sole che entravano dalle
finestre
magiche, e da un lieve scalpiccio fuori dalla porta.
Era
riuscita a convincere Donnie a dormire nella sua stanza, la sera
prima, dato che l'amico aveva proposto di rimanere lì per
controllare che non avesse problemi, perciò era quasi certa
che
fosse lui, in piedi così presto che l'alba non era ancora
sorta, che
correva per controllare che stesse bene, con la sua solita eccessiva
apprensione.
Isabel
si alzò dolorante, coi punti che tiravano la pelle
provocandole un
fastidioso bruciore. Tenendo il braccio ferito premuto contro il
corpo, si incamminò verso la porta, con passo un po'
più sicuro del
giorno prima.
C'erano
Leo e Steve fuori dalla stanza, che si incamminavano verso il dojo:
il ragazzino era emozionato e fuori di sé, tanto che quasi
saltellava dalla gioia, mentre il mutante gli parlava con tono calmo.
“Prima
lezione di ninjitsu? Attento, Leo è piuttosto
intransigente”
esclamò a voce alta, catturando la loro attenzione.
Il
leader si bloccò nel sentire la sua voce e quasi si
fiondò nella
sua direzione, in un lampo.
“Cosa
ci fai in piedi? Devi riposare!” fu la prima cosa che disse,
preoccupato.
Anche
se in effetti, c'erano ben altre cose che avrebbe davvero voluto
dirle. Come che era felice di sapere che era viva, che la amava da
morire e che non doveva prendersela per quello che Raph diceva o
faceva, perché non contava, perché se gli avesse
dato una chance,
lui l'avrebbe resa così felice da fargli dimenticare per
sempre
quell'idiota.
Ma
ovviamente, non poteva dirglielo. Non ne aveva il coraggio. Forse non
l'avrebbe mai avuto. Soprattutto dopo aver visto come lei reagisse in
presenza del fratello, come si sacrificasse sempre troppo, anche
mentre era ferita, per curarlo, per farlo stare bene. Raphael era
sempre la priorità, per lei.
Isabel
sorrise tranquilla a lui e Steve, dissimulando il dolore che provava.
“Sto
davvero bene! Non c'è bisogno di tutte queste premure! Posso
alzarmi
già in piedi e muovermi per conto mio. Anzi, potrei perfino
allenarmi” replicò con leggerezza, staccandosi
dall'uscio contro
il quale si era poggiata, incamminandosi verso il dojo.
Steve
trattenne anche il fiato mentre Leo si faceva avanti per bloccarla. E
si sentiva stranamente di troppo, come se sentisse che era meglio
lasciarli da soli, come se sentisse che Leo voleva stare da solo con
lei.
“Sei
impazzita? Ovvio che non te lo lascerò fare”
esalò il mutante,
esasperato da quella donna che amava e non riusciva a gestire nella
stessa misura.
“Rimarrò
buona in un angolo a guardare la prima lezione dello scricciolo
spione” ridacchiò Isabel, mandando un'occhiata
divertita a Steve,
che arrossì per la vergogna.
“Posso,
vero, senpai?”
finì la ragazza verso il leader, palesemente prendendolo in
giro.
Leo
sbuffò, piuttosto irritato eppure arrendevole, davanti a
quel
sorriso.
“Puoi
venire con noi. Ma non ti allenerai, scordatelo proprio! E se ti
senti male o senti la ferita pizzicare o riaprirsi o qualsiasi altra
cosa che ti causa dolore, ce lo dirai immediatamente! Sono stato
chiaro?”
Alla
risposta affermativa di Isabel, il gruppetto si diresse verso il
dojo, dove Splinter già li attendeva, seduto in meditazione,
che
interruppe quando si accorse della ragazza. Dopo che lei l'ebbe
rassicurato sul perché fosse lì e che si mise
seduta in un angolo
per non disturbare, i tre iniziarono la loro lezione.
Isabel
osservò il piccolo Steve inchinarsi con riguardo al sensei,
piuttosto impettito, e sempre con una certa rigidità sedersi
sulle
ginocchia per meditare. Era buffo guardare i suoi tentativi di
rimanere fermo, mentre provava palesemente a liberare la mente come
gli indicava il maestro: dondolava appena di qua e di là, le
spalle
tremolavano per lo sforzo di rimanere immobile e di tanto in tanto
apriva un occhio per controllare i suoi compagni di meditazione, che
richiudeva immediatamente quando il respiro di Splinter si faceva
più
pesante, come se sentisse che si era distratto e desiderasse
riportarlo nel mondo psichico.
Forse
non era il genere di allenamento che Steve si era aspettato,
probabilmente pensava di imparare già qualche mossa, come
nei film
di arti marziali che passavano in tv, ma dovette ammettere che il
ragazzo si impegnava con tutta la sua concentrazione in tutto quello
che Leo e il maestro gli dicevano.
Come
premio, alla fine delle ore di meditazione, Leo gli insegnò
una
presa per difendersi, una torsione del polso da effettuare in caso di
attacco con un pugno. Steve ci si gettò, letteralmente, in
quel mini
allenamento, finché non riuscì a imparare a
replicare la mossa,
anche se con ancora un po' di titubanza.
Era
così felice che corse verso di lei, esultante, per ricevere
i giusti
complimenti che sentiva di aver meritato.
Isabel
gli sorrise, alzandosi con un po' di sforzo, puntellando la mano
buona contro il rivestimento in legno del dojo; non lasciò
andare
nemmeno un lamento, anche se in realtà la spalla le bruciava
da
morire.
Forse
non era stata una buona idea restare alzata così a lungo,
forse si
era sforzata più del dovuto e troppo presto; ma proprio non
se l'era
sentita di rimanere immobile a farsi coccolare e servire, facendo
crescere la loro preoccupazione e le loro premure. Non era il genere
di cosa a cui era abituata, e anche se il loro affetto le faceva
piacere, o forse proprio per quello, non avrebbe approfittato della
situazione, imponendo la sua presenza più del dovuto.
“Hai
visto il mio allenamento? Come ti è sembrato?”
chiese Steve,
entusiasta. Sembrava quasi che non toccasse il pavimento da quanto
era euforico.
“Stupendo!
Prometti bene, scricciolo” si complimentò con un
grosso sorriso,
scompigliandogli i capelli con la mano sana.
A
Leo non sfuggì la rigidità con cui si era mossa.
“Steve,
il maestro sarebbe felice di mostrarti la sala da meditazione e
offrirti una tazza di tè e una buona massima per la tua
prima
giornata. E sarebbe molto più felice se fossi tu a
domandargli
l'onore e a ringraziarlo per questa lezione” propose
sottovoce
perché il sensei non sentisse.
Il
ragazzo sorrise da orecchio a orecchio e si lanciò per il
dojo,
raggiungendo l'anziano ratto mutante, e con un grosso inchino gli
ripeté la richiesta suggeritagli da Leonardo. Rimasero
entrambi a
guardare il saggio maestro sorridere felice al nuovo discepolo e poi
fargli strada verso la porticina in fondo, nella stanza da
meditazione.
Isabel
si mosse per prima, staccandosi dalla parete e pronta a tornare nel
laboratorio, più velocemente possibile; la ferita bruciava e
pungeva
così forte che seppe, senza nemmeno togliere la benda, che
si era
riaperta. Doveva ritornare e mettere la crema magica e rifasciarla,
prima che qualcuno se ne accorgesse.
“Perché
ti sforzi così tanto?”
La
voce di Leo la fece sobbalzare e fermare. Si girò,
incontrando il
suo sguardo di rimprovero; si era tolto la maschera e la teneva nella
mano, così che lei potesse leggere perfettamente la luce di
disappunto che attraversava il suo sguardo.
“Non
mi sono affatto stancata, sto ben..”
Strillò
di dolore quando lui l'afferrò d'improvviso per il braccio,
stringendo le dita appena sotto la fine della benda, facendo tirare
la sua pelle che già pizzicava .
“Non
stai bene. Pensi che non mi sia accorto della sofferenza che
c'è nei
tuoi occhi?”
Leo
iniziò
a srotolare la benda, arrabbiandosi sempre di più ad ogni
giro che
svolgeva: il sangue apparve sul candore delle garze, dando corpo al
suo timore. Nel silenzio teso si sentiva solo il fruscio della fascia
che si srotolava, centimetro per centimetro.
Sciolse
gli ultimi giri, serrando la mascella dalla rabbia, finché
la benda
non finì e si staccò cadendo al suolo, vicino
alla sua bandana
azzurra lasciata cadere secondi prima, mostrando la spalla: la ferita
si era riaperta vicino alla scapola e sanguinava copiosamente.
Gli
occhi scivolarono dalla goccia di sangue che cadde e scese lenta
sulla sua pelle, al viso di Isabel, che fece una smorfia pentita,
presa in flagrante.
“Adesso
metterò di nuovo la crema e starò ferma, lo
prometto” anticipò
ogni sfuriata lei, con una voce piccola e deferente, perché
sapeva
di aver agito male. E sapeva che Leo era furioso e ricordava ancora
la rabbia con cui l'aveva aggredita l'ultima volta in cui l'aveva
ripresa.
“Perché
non lasci che Raphael ti curi?” le domandò lui,
serio, mentre le
dita stringevano ancora il braccio, impedendole di scappare.
Il
cielo solo sapeva quanto non volesse che quell'idiota di suo fratello
la toccasse ancora, che la baciasse addirittura, -la sera prima lo
avrebbe ucciso quando aveva provato a farlo,- ma anche quanto
desiderasse che lei guarisse. Perché vederla soffrire in
silenzio
per non farli star male era così dannatamente duro e
doloroso;
perché il guscio che lei si era eretta attorno la rendeva
così
sola, anche quando stava con loro, e lui provava rabbia per non poterla
avvicinare quanto avrebbe voluto, spazzando via quella corazza fino
ad arrivare alla vera Isabel e allora stringerla e non lasciarla
andare più.
Lei
sussultò alla domanda. Forse non si era aspettata che lui
menzionasse Raphael, non lo faceva mai con lei, o forse si era
sorpresa per quello che le aveva chiesto.
“Sai
come funzionano i miei poteri, sai che ci vuole un bacio. Un bacio
è
qualcosa che solo qualcuno che ti ama dovrebbe darti, un gesto
così
intimo e stretto, che viene dal cuore. Non posso. Non posso
costringerlo a farlo solo perché sono ferita. Ha detto che
non è
più interessato a me. Non deve sentirsi in dovere di
baciarmi per
potermi curare” sussurrò dopo qualche secondo,
abbassando il viso
per l'imbarazzo di dover confessare una cosa del genere.
Si
sentì d'improvviso tirare e afferrare da Leo, una mano le
cinse la
vita, artigliandole letteralmente la carne, stringendola con possesso
contro il suo corpo, l'altra si agganciò alla sua nuca, con
impulsività, infilandosi tra le ciocche dei capelli e
sollevando il
suo viso.
E
accadde: la baciò, con un'irruenza che la sconvolse,
lasciandola
attonita, mentre sentiva il tremore del suo corpo e il battito
furioso del suo cuore riecheggiarle dentro la testa e i propri
polmoni richiedere ossigeno, risucchiato via dalle sue labbra e dai
toraci compressi uno contro l'altro, che non lasciavano spazio per
niente.
Tutto
ciò che riuscì a pensare, in quel fugace eppure
anche troppo
intenso momento, fu che il sapore e l'odore di Leo erano diversi da
quelli di Raffaello. Di limone e legno.
Quando
lui la lasciò andare, -con uno schiocco secco nel silenzio
del dojo,
seguito dal rumore sin troppo violento dei respiri affamati d'aria,-
si portò la mano alle labbra tumide dal bacio ardente,
turbata: dal
suo gesto, dalla sua aggressività e dalla
passionalità latente nei
suoi gesti. Era troppo sconvolta per riuscire a muoversi, per
articolare un suono, per reagire propriamente a ciò che era
appena
successo. Riusciva solo a fissarlo, respirando pesantemente nel
silenzio.
Leo
aprì gli occhi, ma non la guardò: si
chinò sulla sua spalla,
poggiando le labbra sulla ferita con foga, quasi desideroso di
lasciarci un marchio; le sentì scendere in piccoli baci
dalla
clavicola fin sul braccio, calde e delicate, così diverse
dalla
bramosia di poco prima.
Al
bruciore della ferita seguì il sollievo della guarigione. Ma
al
turbamento del suo cuore non seguì alcuna consolazione:
rimase
appollaiato nel suo petto, come un oscuro vortice di angoscia, che le
rendeva il respiro corto e le faceva tremare le mani.
Leo
si tirò su, guardandola infine negli occhi. Ed erano torbidi
e più
profondi di come lei li ricordasse. Con la mano teneva fermamente il
suo polso, come se non volesse lasciarla scappare via.
“Devi
avere più cura di te stessa. Una donna non dovrebbe lasciare
che una
cicatrice rovini la sua bellezza” disse con voce roca,
passando un
dito sulle labbra per togliere una goccia di sangue rimasta
impigliata sul bordo. Isabel sussultò, abbassando lentamente
la mano
dalla bocca.
“Leo...
tu...”
Scrutò
un secondo nei suoi occhi scuri, poi divincolò il braccio e
scappò
via, senza aggiungere altro.
Leo
abbassò il capo, senza voltarsi per fermarla, riprendendo
fiato come
se avesse appena corso intorno al mondo. Gli sembrava di non avere
mai respirato davvero prima di quel momento. E il suo cuore
martellava nel petto così forte che di lì a poco
avrebbe trapassato
gabbia toracica e guscio, lasciandolo a sanguinare fino a morire.
Perché un po' si sentiva morire.
Aveva
baciato Isabel. La ex di suo fratello. Che lei amava ancora
disperatamente.
L'aveva
baciata con passione e disperazione, sovrastato da tutto ciò
che
sentiva, e il suo corpo era ancora scosso dal piacere e l'eccitazione
repressa che aveva provato. Il calore e la morbidezza del suo corpo,
il suo odore di lavanda che gli aveva riempito la testa mentre la
stringeva, il sapore delle sue labbra, avevano scatenato un sottile
godimento e un violento desiderio che lo straziava, facendogli
bruciare il petto e il basso ventre.
Aveva
baciato Isabel, contro la sua volontà. E gli era piaciuto.
Dannazione se gli era piaciuto.
Esisteva
di sicuro un girone dell'inferno, per uno come lui.
Note:
Buon
giorno a tutti!
La
vendetta si è consumata, con conseguenti problemi per Hun. E
adesso
si deve andare avanti.
Duuunque:
gli sviluppi ci sono, eccome. Per lo meno, qualcuno ha fatto una
mossa azzardata, preso dal momento, come evolverà si
saprà in
futuro.
Ringrazio
tutti i lettori, chi recensisce con affetto, i nuovi seguiti!
Abbraccione
A
presto
p.s: un nuovo
meraviglioso disegno di Sarajane! Adoro il piccolo Steve cospiratore,
chissà che sta spifferando a Donnie! Grazie, cara, sei un
tesoro! Bravissima!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 24 *** Fight me, Forgive me, Forget me ***
Raphael
e il sensei sedevano sul divano, nella zona video, con gli occhi
calamitati sul telegiornale, mentre Leo, seduto in un angolo vicino
alla porta della cucina, affilava le Katana con la pietra, con gesti
secchi e stizzosi, apparentemente assorto in un suo mondo. Mikey
stava canticchiando sommessamente dalla cucina, da dove provenivano
rumori di spadellamenti.
“...incredibili
novità, in diretta dal centro di New York!” disse
la voce entusiasta del mezzo busto che leggeva le notizie, mentre
dava il collegamento alla sua collega per un pezzo dalla strada.
Le
immagini slittarono dallo studio asettico e artificiale ad una
esterna in una strada trafficata, sulla giornalista con la maglia
gialla e un grosso sorriso cortese e professionale alla camera.
“Grazie,
James! Sono qui per la Main street, capitata dopo un'operazione delle
forze dell'ordine per parlare con il colonnello Morgan. Ci è
stato
riportato che la spirale di delinquenza in città si
è
improvvisamente esaurita nel giro di una notte e che l'indice di
criminalità è calato addirittura dell'80%! I
cittadini tirano
grossi sospiri di sollievo, ma vogliamo chiedere conferma a chi di
competenza” narrò
la donna
incamminandosi verso una barricata di macchine alle sue spalle, tra
cui spiccavano le divise degli uomini di polizia e altri enti
governativi.
Si
avvicinò con urgenza ad un uomo in divisa e giubbotto
antiproiettili che, preso dal dare ordini a qualcuno fuori campo, era
perfettamente ignaro del suo arrivo.
“Colonnello
Morgan! Per favore, una domanda! Cosa ha da dire a chi sostiene che
gli episodi di inspiegata criminalità siano ormai un
ricordo?”
L'uomo
sollevò un sopracciglio alla domanda, poi si
voltò alla camera.
“Gli
episodi di violenza organizzata stanno scomparendo pian piano, sotto
i nostri occhi. Ci stiamo mobilitando per prendere alcuni residui di
una banda, che sembrano confusi, come se avessero di colpo perso la
loro guida e stessero provando a riorganizzarsi in bande più
piccole, fortunatamente senza molta fortuna. Forse la strage di
qualche notte fa nell'officina da Pete's nel Bronx ha un
collegamento, ma le indagini proseguono...”
“Qualcuno
di voi ha sentito o visto Isabel?”
La
domanda di Don risuonò nel rifugio, piuttosto urgente,
interrompendo
l'ascolto del telegiornale.
Il
sensei si voltò verso di lui che si rialzava dopo essersi
gettato dal
primo piano, con un'espressione concentrata e tesa.
“Non
è nel laboratorio?” domandò Mikey
sorpreso, sbucando con la testa
dalla cucina.
Donnie
scosse la testa, velocemente.
“E
nemmeno in camera sua o nei bagni o in nessun'altra stanza.
È
sparita! Sto provando a chiamarla da almeno mezz'ora, ma non mi
risponde” disse lui con voce grave, trattenendo un po' di
preoccupazione dentro, per non dipingere la scena peggiore di come
fosse, anche se in realtà era davvero preoccupato. La sua
ferita era
tutt'altro che leggera.
Un
trillo echeggiò nel silenzio che seguì e Don
prese il shellcell
dalla taschina della tuta, con insolita foga, leggendo il messaggio
che gli era arrivato.
“È
di Isabel, dice che è tornata a casa e che sta bene, di non
preoccuparci” spiegò al resto di loro, sospirando
angosciosamente.
“Ha
deciso di stare da sola e di non imporci la sua presenza...
è
sempre tesa a non essere di peso per gli altri”
replicò Mikey con
insolita saggezza.
“Lo
so, ma sono in apprensione per la sua ferita. Non dovrebbe stare da
sola, non so nemmeno se stia meglio o peggio di ieri!”
incalzò
Don, piuttosto alterato. La vena medica che c'era in lui, che era
spuntata fuori alla proposta di lei di frequentare
l'Università di
medicina, tremava all'idea di lasciare una paziente con una ferita
del genere da sola, a sé stessa.
“Stamattina
è venuta a vedere gli allenamenti di Steven e sembrava
essere
decisamente più in forma di ieri. Ma Leonardo ci ha parlato
di più,
magari lui ne sa qualcosa” imbeccò Splinter,
attirando
l'attenzione del figlio con la sua voce profonda.
Il
leader fermò il lavoro di affilatura che aveva continuato
imperterrito fino a quel momento, nonostante la tensione che c'era
nella stanza, e sollevò la testa, torcendo appena il busto
per
posare lo sguardo su suo fratello che atteneva una sua risposta in
silenzio.
“Ti
è sembrata strana, Leo? Ti ha detto qualcosa? La ferita
sembrava
peggiorata?” lo pressò Donnie, impensierito.
Il
fratello si alzò lentamente, rinfoderando le armi affilate e
lucidate.
“No”
fu la sua secca e concisa risposta, che attirò ogni sguardo
sorpreso
su di lui.
Si
allontanò verso la sua stanza, senza aggiungere altro,
gettando
ancora più scompiglio nelle menti.
Don
aggiunse lo strano comportamento di Leo alle cose da tenere d'occhio,
con un sospiro rassegnato. Come se non avesse già abbastanza
cose da
controllare.
Provò
a richiamare Isabel, ma il telefono squillò a vuoto, anche
alla
prova successiva, perciò mise fine alle ricerche con un
messaggio
veloce.
“Spero
che tu stia bene. Non sforzarti troppo e fatti viva domani,
controlleremo i punti. Se vuoi tornare qua e farmi smettere di
preoccuparmi te ne sarei davvero grato” inviò
con il magone, in attesa di una risposta.
Tutto
ciò che ottenne, ben due ore dopo, era un'emoticon che
sorrideva,
che però non gli mise addosso nessuna allegria.
Isabel
non chiamò nemmeno il giorno seguente, né si
presentò al rifugio
per il controllo, come gli aveva chiesto Don. Era inutile che
chiamassero o che mandassero messaggi, perché la risposta
era sempre
quella: “Sto bene, non preoccupatevi” con
mille odiosissimi smile e immagini varie che non placavano l'ansia
crescente che provavano.
Mikey
lo spalleggiava, come dubitarne, e si era incaponito quanto lui per
riavere la sua sorellina a casa. Ma nonostante avessero provato
innumerevoli volte a cercarla al suo appartamento, le luci spente gli
avevano fatto dubitare che fosse lì e il fatto che non
avesse mai
risposto, nemmeno se bussavano dalla porta col rischio di farsi
scoprire, gli faceva pensare che non fosse proprio in casa.
“Aah,
basta!” urlò frustrato Mikey, due giorni dopo la
sua misteriosa
sparizione. “Dobbiamo trovare Isabel a tutti i costi! Sono
preoccupato da morire!”
Era
così serio nella sua affermazione che stava seduto davanti
alla
televisione spenta, senza trovare la voglia o la motivazione per
accenderla.
“Anche
io. Non è da lei sparire così senza lasciare
traccia. Cioè sì, la
vecchia lei lo avrebbe fatto se fossimo stati in pericolo, ma la
nuova Isabel non ne ha motivo!” replicò Don, che
passeggiava
avanti indietro per il rifugio, con le mani conserte dietro alla
schiena, concentrato come non mai.
“Non
credi che il suo nemico si sia ritrasformato e sia tornato a
cercarla?” esclamò spaventato Mikey, rabbrividendo
al pensiero.
“Come
diamine può essersi ritrasformato da lombrico a
uomo?” ribatté
scettico il fratello, come se reputasse la sua idea piuttosto
stupida.
“Non
lo so! Come diamine si fa a trasformare un uomo in lombrico,
innanzitutto?”
“No,
no, stiamo sbagliando approccio. Isabel ha qualcosa e dobbiamo
scoprire cosa. Ma prima di tutto dobbiamo scoprire dove si
trova.”
Donnie
si fermò di colpo, vicino al laghetto, e un grosso sorriso
gli
incurvò le labbra, d'improvviso.
“Ti
è appena venuto in mente dove possa essere,
giusto?”
Don
e Mikey atterrarono sul tetto con leggerezza, silenziosi.
Il
sole era ormai quasi tramontato, mischiando l'oscurità agli
ultimi
sprazzi di luce. Si erano recati da soli al luogo prestabilito, Raph
non avrebbe voluto essere immischiato comunque, visto come si
comportava nei confronti di Isabel, e Leo era davvero strano e
sfuggente negli ultimi giorni, preferendo starsene da solo nel dojo a
meditare in un malanimo silenzio, come se fosse tormentato.
Avevano
solo avvisato il sensei per tranquillizzarlo e nel caso avessero
avuto bisogno di qualcosa.
Si
avvicinarono al cornicione a grandi passi felpati, ma si interruppero
di colpo, al percepire una terza persona, lassù, sul tetto
del
palazzo di otto piani, nascosto nelle ombre.
“Leo!
Cosa... cosa fai qui?” domandò sorpreso Mikey,
osservando la
figura in penombra del fratello.
Non
l'avevano scorto all'inizio, immobile col viso rivolto verso la
stradina sottostante, tanto fermo da poter essere scambiato per una
statua.
“Eri
preoccupato per Isabel, giusto?” indovinò Don, con
un sorrisino
soddisfatto, nel sapere che Leo era il solito di sempre, alla fin
fine.
Lui
e Mikey si avvicinarono, gettando lo sguardo oltre il cornicione: la
strada al di sotto brulicava di vita, coi passanti indaffarati nel
correre verso casa o verso un appuntamento e quelli che invece
intasavano i negozietti con le loro compere. Si respirava davvero
un'aria di calma che New York non aveva da tempo, tenuta sotto il
giogo della banda di Hun; ancora qualche faccia tesa e impensierita
spiccava tra la folla, ma in generale la città e i suoi
cittadini
stavano tornando alla loro consueta normalità, ai loro soliti ritmi.
“Voglio
solo vederla” mormorò Leo accorato, assorto, come
se lo stesse
dicendo a sé stesso più che a loro.
Don
gettò un'occhiata dubbiosa verso il fratello, in silenzio.
Era da un
po' di tempo che lo sospettava, ma si era sempre detto che lavorava
troppo di fantasia... in quel momento, il pensiero che
Leo provasse qualcosa di più del semplice affetto per Isabel
non gli
sembrò tanto inverosimile. C'erano stati segnali, c'erano
stati
gesti che forse lui aveva frainteso e sui quali ci aveva ricamato un
po' troppo sopra con l'immaginazione, ma quel suo inusuale
comportamento, quella sua rabbia, quel suo cambiare costantemente
umore, quel suo cercarla con lo sguardo, spesso, potevano essere
interpretati facilmente in quel modo. Se Leo era innamorato di
Isabel, tutto acquistava un senso e ogni azione o parola detta dal
loro leader negli ultimi tempi aveva un perché.
Ma
se fosse stato davvero così... era di sicuro un grosso
problema.
Un
rumore felpato attirò la loro attenzione, tutti e tre pronti
e sul
chi vive, le mani già poggiate sulle armi. Raph si
risollevò dopo essere atterrato, squadrandoli a turno.
“Ma
ci siamo tutti. Che bella famiglia unita” sussurrò
sarcastico,
mentre loro si rilassavano, tutti meno Leo.
“Tu
sei l'unico che non ci fa nulla, in effetti” gli rispose
quello,
cinico, senza degnarlo di uno sguardo, calamitato in basso.
“Silenzio
voi due. Arriva Isabel” li interruppe Don, guardando
giù con un
sorriso contento nel vederla.
L'amica
stava camminando a piccoli passetti frettolosi per il marciapiede,
con le braccia cariche di buste della spesa. Si dirigeva verso il
piccolo negozietto ad angolo, con la scritta “Second Time
Around”,
dalla vetrina ingombra di oggetti vintage e di seconda mano.
Aveva
indovinato, nel pensare che Isabel fosse andata a stare da April,
dato che non era al suo appartamento, probabilmente nel frattempo in
cui la sua ferita guarisse, anche se non sapeva perché non
fosse
rimasta semplicemente da loro.
L'occhio
gli cadde proprio sulla spalla, come se capisse che c'era qualcosa di
strano.
“La
sua ferita... è guarita” esclamò
sorpreso, notando il modo
naturale in cui Isabel camminava e il manico della borsa poggiato
sulla spalla senza problema.
“Guarita?
Ma non può essere! Non senza...”
esclamò Mikey, stupito quanto
lui, sporgendosi più che poté senza essere visto
per controllare
per bene anche lui
“La
magia” sibilò Raph, atono.
“Qualcuno
l'ha curata? Qualcuno l'ha... baciata? Ma... chi?”
continuò Mikey
con una vocina piccola piccola, un po' imbarazzata.
“Io”
rispose una bassa voce che fino a quel momento non era intervenuta.
Tre
paia di occhi si posarono pieni di sorpresa sul leader, in un
secondo.
“Co-come?”
scattò il più piccolo, così sorpreso
che pensò di aver
semplicemente capito male.
“Io
l'ho curata. Io l'ho baciata” ripeté Leo,
voltandosi finalmente a
guardarli. Il suo sguardo scivolò duro e guardingo su di
loro, ma fu
solo su Raph che si fermò, come se volesse valutare la sua
reazione.
Ma
non poteva sapere minimamente cosa si agitasse dentro suo fratello,
in quel momento.
Un
ronzio fastidioso si era diffuso per la testa di Raphael, insieme
alle parole del fratello, come se fossero state spine velenose che
gli intossicavano la mente, crescendo di intensità,
confondendolo
sempre di più.
Iniziò
a respirare sempre più pesantemente, in preda alla rabbia.
“E
lei non era contraria?” chiese Don, ignaro come gli altri,
che non
voleva insinuare nulla, ma che trovava assurdo che Isabel si fosse
lasciata convincere.
“Non
ho avuto il tempo di chiederglielo” fu la anche troppo
spavalda
risposta di Leo, ormai lanciato in una confessione che sentiva non
sarebbe stata presa bene in nessun caso.
“È
per quello che se n'è andata? L'hai baciata contro la sua
volontà?
L'hai costretta?” sbottò incredulo Donatello,
guardandolo in
cagnesco, come se quello non fosse nemmeno suo fratello. Di certo non
il suo solito fratello.
Uno
spostamento d'aria lo investì e prima che Leo potesse
rispondere,
Raph gli era arrivato davanti e lo strattonò, afferrandolo
per il
colletto e tirandolo verso di sé.
“Maledetto
bastardo!” ruggì imbestialito, caricando un
braccio all'indietro
per colpirlo, con tutta la sua forza.
Leo
lo spintonò via con impeto, facendogli perdere la presa
sulla sua
tuta, mentre compiva una capriola all'indietro per evitare il pugno.
“Che
c'è? Non sei stato tu a dire che non ti importa
più nulla? Lei non
sta con te, Raph. Lei non è più niente per
te” rispose a tono,
accucciato qualche metro più in là, sul chi vive,
studiando le sue
mosse.
Raphael
ringhiò alle sue parole, che lo resero solo più
furioso.
“Questo
non significa che tu possa infilarle la lingua in gola a tuo
piacere!” urlò nella notte correndogli incontro,
con uno sguardo
omicida.
Leo
saltò di lato per evitarlo, ma il fratello non si fece
trovare
impreparato e lo seguì ad un palmo, provando a colpirlo
senza
tregua, perdendo la ragione sempre più ogni volta che
l'attacco
andava a vuoto.
“Smettetela!
Raph, calmati! Leo, che diamine ti è preso?”
gridò Don disperato, provando a farli ragionare.
Litigavano
sempre, lo avevano sempre fatto. Ma non li aveva mai visti con quella
furia omicida negli occhi.
“Perché?
Solo Raphael può fare scemenze? Solo a lui è
concesso farsi
trascinare dai sentimenti? Solo lui è sempre scusato per la
sua ira
perché vuole di più dal mondo?”
Leonardo
aveva gridato, fuori di sé, tanto che la gola gli bruciava,
di
rabbia repressa. Respirò pesantemente cercando di riprendere
fiato,
con l'ansia e l'angoscia che pressavano sul cuore, osservando solo
con la coda dell'occhio suo fratello che ancora gli dava la caccia.
Cosa
si era aspettato nel confessare ciò che aveva fatto?
Perché lo
aveva detto? Per placare quella scintilla di rimorso che provava? Per
pulirsi la coscienza?
Il
loro sdegno e la furia di Raphael erano state le giuste reazioni per
quello che aveva fatto, lo sapeva, eppure, anche se in quei giorni si
era maledetto per quel bacio, -per averla spaventata, per averla
indotta a scappare e per il dolore che provava nel cuore,- non poteva
non serbarne il ricordo come il più bello mai provato.
Perciò
morire per quello, non sembrava così male.
Sfilò
le Katana giusto in tempo, per parare l'attacco fulmineo di Raph: le
lame bloccarono la punta dei Sai un attimo prima che gli infilzassero
il petto, per un soffio. Il fratello continuava a fare forza,
cercando di spezzare le sue spade, digrignando i denti per lo sforzo;
lo colpì con il piede sullo stomaco, allontanandolo da
sé, prima
che potesse riuscire nel suo intento.
Aveva
ancora bene in mente il loro ultimo scontro sul tetto di un palazzo e
ricordava perfettamente come si era concluso; ma se allora Raphael
aveva fermato i Sai in tempo ed era ritornato alla ragione prima di
fare una sciocchezza, non era certo che questa volta lo avrebbe
risparmiato, se avesse avuto l'occasione.1
Raph
strisciò all'indietro per qualche metro, provando a tenersi
in
equilibrio, con una mano sull'addome.
Era
furioso. Sentiva il sangue pompare nelle vene, trasmettendogli
adrenalina e furia omicida in ogni cellula, che lo trasformava in un
animale selvaggio.
Voleva
colpire Leo, voleva fargli male. Voleva vederlo a terra chiedere
perdono.
Don
e Mikey approfittarono della distanza tra loro per mettersi in mezzo
alla lotta, cercando di riportare i fratelli alla ragione, con ogni
mezzo possibile.
“Fermatevi!
Possiamo discuterne” esclamò Donnie, rivolto verso
Raphael, che
tra i due era di certo quello più fuori di sé,
anche se Leo non era
da meno.
“Di
sicuro c'è una ragione! Lo hai fatto solo per curarla,
vero?”
disse Mikey, in direzione di Leo.
Il
fratello con la benda rossa non li ascoltò nemmeno e si
lanciò in
una corsa contro di loro, che stavano in mezzo alla sua traiettoria
verso Leo. Donnie afferrò in fretta il Bō
e vibrò un colpo contro di lui, dritto contro lo stomaco,
per
frenare la sua furia, ma Raph saltò all'ultimo secondo in
alto,
passando oltre il bastone in planata, che lo sfiorò solo
appena, di
striscio. Atterrò indenne ai loro piedi, senza un rumore.
Poi,
con due calci assestati sul loro guscio li calciò via,
lontano dalla
sua arena da combattimento, dirigendo così la sua furia sul
leader.
“Si
ammazzeranno! Cosa facciamo?” strillò Mikey,
rimettendosi in piedi
illeso, senza staccare lo sguardo dallo scambio di attacchi tra i
suoi due fratelli.
“Tienili
d'occhio! Fai in modo che non si ammazzino! Torno subito!”
urlò
Don, ormai in piedi, correndo via sul tetto e poi gettandosi
giù dal
palazzo.
“E
come faccio, genio? Mi immolo in mezzo a loro?”
La
Katana di Leo strisciò lievemente sul braccio di Raph,
lacerando il
tessuto: suo fratello si era spostato giusto in tempo, evitando di
essere ferito in maniera più grave. Non che volesse davvero
ferirlo,
la sua era pura disperazione nel difendersi da quegli attacchi
implacabili, eppure almeno un graffietto doveva averglielo fatto; ma
l'altro non dava segno di sofferenza, solo furia totale e cieca. Lo
stava osservando, senza curarsi del taglio al braccio, con lo sguardo
incollato al suo, cercando un suo punto debole per attaccare.
Raph
stava davvero cercando di ucciderlo.
Ed
era maledettamente bravo con quel suo gioco di gambe, che usava nei
momenti meno attesi per cercare di mandarlo al suolo; si muoveva
velocemente e quasi scivolava, tra le sue gambe, provando a fargli
perdere l'equilibrio, a spezzare il suo ritmo e mandarlo in
confusione, per fiaccarlo sempre più.
Non
c'era tempo per tergiversare, non con lui. Era tutto o niente, lo
sapeva bene. Ma lui non avrebbe mai potuto far del male a Raph,
nemmeno per salvarsi la vita. Oppure sì?
Si
lanciò contro di lui nello stesso momento in cui veniva
attaccato.
Katana
contro Sai, lama contro lama, fratello contro fratello.
Michelangelo
era impietrito, bloccato nell'angolo in cui si era rifugiato, con gli
occhioni sbarrati pieni di paura e orrore, a guardare il loro
inevitabile scontro come se fosse al rallentatore.
Un
respiro ancora e ci sarebbe stato lo scontro. Ma lui non respirava
nemmeno, aveva smesso di farlo nel momento in cui si erano lanciati
uno contro l'altro, senza essersene neanche accorto.
La
punta di una Katana di Leo incontrò la punta di un Sai di
Raph, ma
prima che la fine avesse luogo, sbatterono entrambi contro uno scudo
e balzarono all'indietro: caddero al suolo con due tonfi sordi,
ingabbiati in due bolle identiche.
“Fatela
finita!”
La
voce furiosa di Isabel li sorprese entrambi, riportandoli alla
ragione: stava riprendendo fiato, di fianco a Don e Mikey, con le
braccia sollevate verso loro, le mani aperte dalle quali fluiva la
magia. Il suo volto era una maschera di rabbia e lo sguardo incredulo
correva da uno all'altro, ferito e confuso.
“Voi
siete due maledetti idioti!”
Leo
si alzò di fretta, rivolgendosi verso di lei, che li teneva
intrappolati.
“Isabel,
io...”
“Mi
dispiace, Leo. Non volevo che...”
“Perché
ti stai scusando? Sono io a dovermi scusare! Sono stato io a baciarti
all'improvviso, spaventandoti!” mormorò contrito,
poggiando le
mani sulla bolla, sporgendosi più che poté.
Lei
abbassò le braccia, mantenendo i loro scudi con la mente e
si
avvicinò a quella di Leo, con l'espressione così
afflitta che lui
capì già cosa l'aspettava.
“Non
mi hai spaventata. Mi hai sorpresa. Non credevo che tu... non
credevo possibile che tu... mi dispiace, Leo. Vorrei poter
ricambiare, ma non posso scegliere chi amare. Mi dispiace, mi
dispiace così tanto.”
Leo
piegò la testa, poggiando la fronte contro la bolla, in
segno di
resa. Chiuse gli occhi, perché guardare i suoi
così colmi di pena
per lui gli facevano male quanto e più del suo rifiuto.
“Non
devi scusarti, Isabel. Nemmeno io posso scegliere. È
successo e
basta, senza averlo previsto. Solo che non riesco più a far
finta di
nulla” soffiò fuori sconfitto, in un sussurro che
forse udì solo
lei.
Gli
occhi di lei brillavano di lacrime trattenute e si incupirono di
più
nel sentire le sue parole e fu una fortuna che lui non la stesse
guardando o si sarebbe sentito morire ancora di più.
“Io...
vorrei che le cose fossero andate diversamente. Sono tornata per
stare con voi, con la sciocca illusione di poter essere felice, di
poter vivere tranquilla nella vostra stramba ma stupenda famiglia,
senza pensare a tutto il caos che mi sarei portata dietro, senza
pensare di poter rompere i delicati equilibri nei quali vi
districate, vinta dalla mia egoistica aspettativa.
So
che voi due avete alti e bassi, che faticate ad essere sinceri tra
voi, che vi sfidate, che siete due idioti che fanno parlare il
testosterone invece del cuore; sì, perfino io so che avete
un
passato di scontri e incomprensioni, troppo uguali per capirvi,
troppo testardi per risolvere tutto una volta per tutte. Ma questo
è
diverso. Avete alzato le armi uno contro l'altro, stasera: che siate
arrivati perfino a battervi, per colpa mia... io non posso
accettarlo. Mi fa star così male che preferirei aveste
diretto
contro di me, quelle armi. Sarebbe stato meglio non avervi mai
incontrati, piuttosto che vedervi così!”
Li
guardò tutti, per un secondo, riprendendo fiato nel
silenzio; una
lacrima cadde solitaria, poi Isabel sparì, lanciandosi verso
il
tetto vicino, lasciandoli lì attoniti.
Mikey
provò ad andarle dietro, scosso dalla piega che avevano
preso gli
eventi, ma la mano di Don lo bloccò, e quando si
voltò per
guardarlo, il suo fratello genio gli faceva segno di diniego con la
testa, invitandolo a lasciarla andare.
Donnie
sentiva che non l'avrebbe raggiunta in nessun caso, nemmeno con la
conosciuta straordinaria velocità di Mikey. Stava correndo
nella
notte usando i suoi poteri, lo sapeva. Era già
così lontana da loro
da non poterla trovare, se lei non avesse voluto.
Convinto
a desistere, Mikey si era lasciato trascinare fin davanti alle bolle,
che non erano sparite quando lei era andata via.
I
quattro fratelli, due liberi e due ingabbiati, si guardarono nel
silenzio, valutando il da farsi.
“Dovremo
provare a romperle” sentenziò Donatello, puntando
il bastone
contro la superficie dura e quasi vetrosa al tatto.
La
colpì, ci premette sopra, e così fece
Michelangelo con colpi di
Nunchaku e Leo con le Katana che scivolavano senza lasciare un
graffio o le punte dei Sai di Raphael che slittavano senza appiglio.
Sbuffavano, digrignavano i denti e ringhiavano, dalla fatica e
dall'intensità dei colpi, ma le bolle non cedettero, come se
non le
stessero nemmeno sfiorando.
Per
un'ora intera, in una tesa e innaturalmente quieta atmosfera,
provarono a spaccare quelle gabbie trasparenti, con ogni mezzo
possibile e attuabile in quella circostanza, senza attirare nello
stesso tempo attenzioni indesiderate nei palazzi vicini.
Alla
fine, uno ad uno si arresero, rassegnandosi alla implacabile
verità:
solo Isabel avrebbe potuto toglierle e con un solo gesto, per
aggiungere beffa al danno.
“Beh,
ragazzi, noi andiamo. Fate da bravi! Cercheremo di farvi liberare
entro domani!” strillò Don prima di andare via con
Mikey, a notte
fonda.
Era
ormai inutile che rimanessero lì ed entrambi sentivano che
era
meglio lasciar modo a quei due testoni di stare da soli, sperando che
la forzata vicinanza li costringesse a parlare, con però la
sicurezza che non potessero aggredirsi di nuovo. In effetti sembrava
la cosa migliore e Don si chiese se Isabel non lo avesse fatto
apposta, a lasciarli ingabbiati.
Leo
e Raph si erano seduti al suolo, l'uno con le spalle all'altro,
ognuno dentro la propria bolla e risposero solo con un grugnito
impercettibile al saluto, senza guardarli mentre saltavano sul tetto
del palazzo vicino. Poi niente, solo il silenzio.
Rumori
fievoli salivano da sotto, dalle stradine che li circondavano, mentre
oramai la notte oscura che era calata in quelle assurde ore, da
quando loro avevano iniziato a battersi, li avvolgeva con la sua
serena coltre nera, celandoli agli sguardi.
Ognuno
era deciso a far finta che l'altro non ci fosse, a quanto pareva.
Forse per paura che al minimo cenno o parola, la guerra sottaciuta e
solo rimandata sarebbe scoppiata ancora e con più violenza.
Un
lampo squarciò improvviso il cielo, tanto vicino da
sorprenderli.
Subito dopo un tuono arrivò alle loro orecchie e nuvoloni
grigi si
addensarono sulla città. Le prime gocce caddero dopo pochi
minuti,
prima lievi e morbide, poi furiose e fitte. Sbatterono contro le loro
bolle protettive, producendo un ticchettio ritmato e assordante.
Raph
sbuffò, sollevando lo sguardo al cielo.
“Quella
stupida. Piove sempre quando si arrabbia o è
sconvolta” sussurrò
tra sé spezzando il silenzio, gli occhi fissi in alto, sulle
nuvole
nere e tristi.
Leo
osservò le gocce scivolare sulla superficie dello scudo,
unendosi in
rivoli, che sembravano lacrime. Le lacrime di Isabel? L'aveva fatta
piangere, ancora, anche se aveva giurato di non farlo mai?
“Avanti,
dillo!” ordinò Raph dopo qualche secondo, in cui
si erano persi ad
ascoltare il suono della pioggia.
“Cosa?”
domandò Leo confuso.
“Lo
sai. A voce alta! Dillo!” ripeté più
forte l'altro, implacabile.
Voltò
appena la testa e incontrò lo sguardo del fratello, affilato
e
serio, in attesa.
Lo
stava sfidando. Prese un paio di grossi respiri.
“Sono
innamorato di Isabel!” strillò infine, con tutto
il suo fiato.
Ansimò un poco, passandosi le mani in faccia, incredulo di
averlo
fatto.
“Ti
senti meglio adesso, no?”
Era
vero. Si sentiva finalmente bene ad averlo ammesso, a sé
stesso, a
Raph. Parte di quel senso di colpa che provava costantemente nel
petto si era finalmente sciolta.
“Non
l'ho voluto, Raph. Non l'ho premeditato per farti dispetto. Se avessi
potuto scegliere non sarei di certo andato a scegliere la tua ex.
È
solo... successo” provò a spiegarsi, anche se non
era per niente
facile. Quando mai aveva parlato di questioni di cuore con qualcuno?
“Ne
avevo il sospetto, l'ho pensato dopo la nostra incursione da Hun, ma
non volevo crederci. Eppure avrei dovuto prevederlo. Avrei dovuto
evitare che succedesse” mormorò Raph, frustrato,
sbattendo con
forza i pugni chiusi sulle ginocchia, dato che non poteva prendersela
con lui.
“Come
diamine avresti potuto?” fu la domanda scioccata che
seguì
quell'affermazione.
“Cos'altro
poteva accadere? Avendola ogni giorno attorno a te? Guardando
costantemente nei suoi occhi scuri, così profondi e caldi,
che hanno
il potere di farti sentire l'uomo migliore del mondo? Gioendo di quel
suo sorriso dolce e luminoso, che riesce a entrarti dentro, a
scacciare via la più piccola ombra della tua anima? Come
avresti
potuto evitare di innamorarti, quando il solo averla nella stessa
stanza riesce a sconvolgerti fino alla più piccola cellula?
Quando
la sua risata ha il suono più splendido che esista, e ti
spinge a
desiderare di diventare sordo, piuttosto che sentire qualcos'altro
che non sia quello? Come ho potuto pensare che non te ne saresti innamorato,
sapendo che la sua esistenza è come un sole abbagliante,
capitato
per miracolo nella nostra squallida vita?”
Leo
aveva ascoltato ogni parola accorata e sentita, anche i respiri
esitanti nelle pause concesse, meravigliato dall'inflessione nella
voce di suo fratello, sinceramene emozionato per ciò che
aveva
sentito.
“Raph,
sei... sei ancora innamorato di lei!”
Era
stata un'affermazione, la sua, perché non c'era alcun
dubbio.
Raphael
nascose la testa tra le ginocchia, le braccia che circondavano le
gambe, rinchiudendosi in un suo mondo, schermandosi dopo quella
confessione così sentita e non prevista, che lo aveva
esposto
troppo.
“Pensi
che sia possibile smettere di farlo? Beh, ti tolgo ogni illusione:
non ci riesci. È come una droga: sai che ne devi fare a
meno, ma non
puoi. La sua assenza ti intossica, ti avvelena ogni senso e tutto
ciò
che vuoi è averne ancora: ancora sorrisi, ancora sguardi,
ancora
abbracci, ancora baci. Sono tre stramaledetti anni che non faccio che
pensare a lei, secondo dopo secondo!”
“Ma
allora perché? Perché l'hai allontanata?
Perché la tratti male?
Lei non ha occhi che per te! Ti ama sempre e comunque!”
urlò il
leader, voltandosi infine e premendo le mani contro la bolla,
sconvolto.
Anche
se dirgli quelle cose gli faceva male, perché avrebbe voluto
lei le
provasse per lui.
Raphael
non si mosse e per qualche istante non parlò. Sembrava
stesse
pensando con tutta la sua concentrazione, indeciso se dire tutto o
meno, ormai che aveva scoperchiato il vaso di Pandora. Confessare
tutto, cercando di far capire a suo fratello cosa lo aveva tormentato
in quei mesi?
“Che
cosa le posso dare io? Una vita da reclusa adesso che è
libera? A
nascondersi con me nelle fogne per sempre? Lei merita di stare alla
luce del sole, merita la libertà, merita più di
tutto ciò che io o
tu possiamo mai darle: una vita normale, al fianco di una persona
normale, in una casa normale.”
Leo
si lasciò andare al suolo, con le braccia spalancate e lo
sguardo
sulle nuvole e la cortina di pioggia che si schiantava sulla cima
della bolla.
“Ma
stare con te è quello che vuole. È quello che
desidera” confessò
strizzando le palpebre, per trattenere il dolore nell'ammettere
ciò
che sapeva già, che non voleva semplicemente accettare.
Raph
gli gettò un'occhiata da sopra la spalla, poi si
sdraiò anche lui
sul tetto, a pancia in su.
“Lei
pensa che quello che abbiamo passato sia la normalità,
perché non
ha mai avuto altro. Ha vissuto un momento felice e si è
convinta che
sia assoluto e totale, che sia il meglio che può ottenere
dalla
vita. Ma non è così. Lei può avere
così tanto, da poter essere
felice ogni singolo istante senza provare mai più dolore o
dubbio o
paura. Solo che non posso essere io a darglielo. Perciò ho
cercato
di mandarla via, per spingerla a cercare una felicità
normale,
lontano da me, da noi.”
“E
se ci fossi riuscito, io non mi sarei nemmeno innamorato di
lei”
esalò Leo, dando voce ad un altro dei suoi pensieri.
Il
ticchettio della pioggia rispose leggero, al suo posto.
“Non
avrei mai creduto di vivere abbastanza a lungo per sentirti dire
qualcosa di così profondo. È come se non ti
conoscessi affatto!”
concesse il leader colpito, che proprio non aveva idea di tutto
quello che il fratello aveva pensato e passato in quei mesi.
Era
convinto che semplicemente non l'amasse più, invece in tutto
quel
tempo, in cui lei era lì sotto i suoi occhi, non aveva fatto
altro
che amarla e rifiutarla con la stessa intensità, per il suo
bene. O
almeno quello che Raph pensava fosse il suo bene.
“Ma
se io fossi te... se avessi la maledetta, dannata fortuna di essere
te, so che non ci penserei due volte a prendere Isabel e a portarla
via con me, lontano. In una giungla sperduta, io e lei da soli, per
sempre” continuò sognante, chiudendo gli occhi,
lasciandosi andare
all'immaginazione.
“Smettila
di immaginare cose per cui potrei ucciderti! Non te la
lascerò mai,
Leo. Scordatelo! Né tu né io siamo alla sua
altezza, mettitelo in
testa” lo rimproverò arrabbiato Raphael.
Leo
ridacchiò, ancora con gli occhi chiusi, come se non credesse
alla
sua minaccia, come se lo stesse sbeffeggiando.
Lui
non aveva alcuna intenzione di stare ad ascoltare i suoi rimproveri,
le sue idee folli.
“Non
puoi impedirmi nulla. Entra nella bolla e provaci” lo
sfidò,
sapendo di farlo solo più arrabbiare. Era un buon modo di
vendicarsi, quello.
Iniziò
un tira e molla di battute, con Leo che rideva nella sua gabbia
trasparente alla sempre più evidente rabbia e frustrazione
di
Raphael, ormai scoperto, ormai sincero nella sua sfuriata.
Si
addormentarono molte ore dopo, mentre ancora parlavano, sotto una
cupa e piovosa notte Newyorkese.
La
mattina li sorprese, con la sua luce abbagliante. Si risvegliarono
sul tetto del grattacielo, confusi, scambiandosi delle occhiate
perplesse. La testa pesante e la lingua incollata al palato, con in
fondo un sapore terroso; gli occhi appannati dal sonno profondo
controllarono i dintorni, con apprensione, sul tetto illuminato dalle
prime luci dell'alba, esponendoli alla vista di chiunque.
I
telefonini suonarono contemporaneamente, spaventandoli.
“Don...
sì, sto bene. Sì, arrivo!”
“Mikey,
chiudi la bocca, mi sono appena svegliato. Arrivo subito.”
Chiusero
le chiamate nello stesso istante e dopo aver preso le loro armi,
abbandonate al suolo, e aver dato un'occhiata distratta intorno, si
incamminarono verso casa.
I
loro fratelli li assalirono non appena misero piede nel rifugio.
“Che
cosa è successo? È da ore che vi cerchiamo! E
quei tagli, quelle
ferite... cosa è successo?” domandò
Mikey preoccupato, studiando
il loro aspetto lacero e trasandato.
Leo
e Raph si scambiarono uno sguardo veloce.
“Non
lo sappiamo!” dissero all'unisono.
“Mi
fa male la testa, ma più di questo non so dirvi.”
“Ci
siamo risvegliati su un grattacielo, da soli. Posso presumere che
abbiamo combattuto contro qualcuno, ma è tutto molto
confuso”
spiegò Leo, passando la mano sugli occhi stanchi.
“Andate
a farvi una doccia. Dopo controllerò le vostre
ferite” disse Don,
scuotendo la testa.
Leo
iniziò ad incamminarsi, ma si fermò con uno
strattone: Raph aveva
afferrato le estremità della sua maschera, tirandolo
indietro. Poi
lo superò con un balzo, correndo verso il bagno e
chiudendocisi
dentro velocemente. La sua risata oltrepassò la porta,
riempiendo
ogni ambiente.
“È
un idiota” sbuffò Mikey, con un ghigno sorpreso.
La
risata si spense, sostituita da un urlo terribile. La porta del bagno
si aprì con forza e Raph ne venne fuori, la tuta sfilata a
metà.
“Bleah!
Rivestiti, Raph, non voglio vederti nudo!”
“Guardate
qui!” sibilò spaventato il fratello, indicando il
petto. Una
macchia scura spiccava sulla sua pelle verde.
“Cos'è,
Donnie? Una malattia? Un veleno? Cos'è?”
strillò fuori di sé,
evitando di toccarla.
Il
genio chinò leggermente la testa, studiando le linee con
attenzione.
“Una
bruciatura” rivelò con tranquillità.
“Una...
bruciatura? Ma...”
“Ed
è piuttosto vecchia. Risale ad almeno tre anni fa”
continuò il
fratello, come se lui non l'avesse interrotto.
“Tre
anni fa? Stai scherzando? E io non l'avrei mai vista?”
“E
dalla forma è stata una donna a lasciartela. Quelle sono le
impronte
delle sue mani” finì Don con fare pratico, con un
tono
tranquillo, in completo contrasto con la voce isterica del fratello.
“Una
donna?” boccheggiò Raph, sempre più
confuso.
Mikey
allungò un dito per provare a toccare la bruciatura, ma lui
lo
pestò, scocciato.
“Non
ti azzardare nemmeno a pensarlo!” lo sgridò,
poggiando la propria
mano sul petto per difendersi.
Boccheggiò,
sorpreso, mentre un brivido lo percorreva da capo a piedi. Li
squadrò
frettolosamente poi, con un veloce dietro front, ritornò nel
bagno,
chiudendosi la porta alle spalle. Si poggiò contro la
superficie
legnosa, confuso e tremante.
Mosse
lentamente la mano, avvicinandola al petto, e sfiorò la
bruciatura:
venne investito da una sensazione di piacere puro, ben diversa da un
qualsiasi sogno erotico che avesse mai fatto, era totale, era reale;
la sua testa si riempì di un sussurro dolce e sensuale, che
lo
eccitò.
Staccò
le dita dal petto, ansimando, col cuore che batteva contro il pomo
d'Adamo. Passò lo sguardo per il bagno, per riprendere
contatto con
la realtà.
Quelle
immagini che aveva visto nella sua mente, non potevano essere vere...
ma allora come diamine faceva ad essere assolutamente certo di aver
già provato quelle sensazioni? Come diamine poteva sapere
cosa
volesse dire andare a letto con una donna, stringerla, morderla,
baciarla, passare le dita sulla sua pelle morbida e affondare nel suo
corpo, in un'estasi di piacere?
Stava
diventando pazzo. Quella sul suo petto non era una bruciatura, ma una
qualche maledizione che portava alla pazzia.
Si
tuffò sotto la doccia ancora vestito a metà e
aprì il rubinetto
dell'acqua fredda. Il getto lo investì, mordendogli la pelle
accaldata, scivolando sul suo corpo eccitato e tremante.
Non
avrebbe lasciato che quelle fantasie si prendessero la sua mente. Non
erano reali, non potevano esserlo.
Si
decise ad andare dai suoi fratelli solo all'ora di cena. Il resto
della giornata era rimasto rintanato nella sua camera, a fare
flessioni, piegamenti ed ogni genere di esercizio fisico che lo
tenesse impegnato. Aveva paura a toccare la cicatrice che gli
sfigurava il petto, ma era anche attratto dall'idea di farlo. Quello
che aveva provato... era stato coinvolgente e proibito, come una
droga.
“Oh,
ehy. Come stai?” lo accolse Don, anche lui appena uscito dal
suo
laboratorio. Si limitò a fare spallucce.
“Dopo
passa da me. Controlliamo la bruciatura, ok?”
continuò il
fratello, precedendolo verso la cucina.
“No,
grazie. Va tutto bene. Scoprirò cosa l'ha fatta, da
solo” rispose
frettolosamente, allungando il passo per distanziarlo.
Mikey
stava finendo di apparecchiare mentre Leo era ai fornelli. Il maestro
era già seduto al suo posto, con un'aria un po' assorta.
“Oh,
ecco qui lo sfregiato. Come va, sfregiato?” lo
pungolò Mikey,
poggiando i piatti sul tavolo. Raph si limitò ad alzare un
pugno
contro di lui, in silenzio.
“Non
vuole che gli dia un'occhiata. Posso sapere perché ti
sconvolge
tanto?”
“Ho
detto che sto bene! Smettetela di darmi addosso!”
esclamò
stizzito, portandosi una mano al petto, ma fermandola appena prima di
sfiorarsi. Aveva paura che il suo misterioso potere si potesse
scatenare anche attraverso la tuta.
“Se
a lui sta bene, lasciatelo in pace. Non gli farete cambiare idea, lo
sapete. Ed è pronto!” si intromise Leo, portando
il pasto in
tavola.
Presero
tutti posto, affamati.
“Mikey...
perché hai apparecchiato per una persona in
più?” domandò d'un
tratto il leader, mentre serviva la cena.
Gli
occhi di tutti si fissarono sul posto vuoto tra lui e Mikey,
apparecchiato di tutto punto.
“Non
avete l'impressione di aver scordato qualcosa di importante?”
soffiò Don, perplesso.
1:
la situazione di cui fa menzione Leo è quello scontro
spettacolare
tra lui e Nightwatcher-Raph nel film del 2007. Raph spezza le sue
Katana tra la morsa dei Sai e lo getta a terra, ma prima di fare
davvero del male a Leo ritorna in sé, capendo cosa stava per
fare.
Adoro
la strafottenza di Leo in quel contesto, l'ho usata molto in questa
storia, e adoro Raph Nightwatcher e senza freno nella lotta, con quel
gioco di gambe fenomenale.
Grrrrr,
sono fantastici!
Note:
salve
a tutti!
Ecco
il momento che moltissimi aspettavano da... beh, dall'inizio della
storia. Il momento in cui i veri pensieri di Raph si manifestano e in
cui praticamente tutti potrete gridare: “Lo
sapevoooo!”
Sì,
Raph non ha mai smesso di amare Isabel. Come avrebbe potuto? Quello
che è successo in SITR non è roba da poco, non
era una storiella
senza senso. Ma nonostante ciò che prova l'ha voluta
allontanare,
perché ha capito cosa significhi davvero per un essere
normale il
dover stare con un mutante.
C'è
lo scontro tra i due che molti hanno previsto, anche se è
solo un
miniscontro, c'è una parvenza di spiegazione.
Ma
poi, c'è il nulla. Perché, come dice Don, si sono
dimenticati di
qualcosa di importante. O meglio di qualcuno.
E
chissà cosa accadrà adesso.
Per
il titolo: Fight me (Raph), Forgive me (Leo) e Forget me (Isabel), ci
sono i tre angoli di questo triangolo. Mi sembrava doveroso.
Ringrazio
di cuore i fedeli lettori, chi recensisce, i nuovi seguiti e
preferiti. Illuminate le mie giornate!
Un
nuovo disegno di SaraJane, che non finisce mai di stupirmi.
È
bravissima e velocissima.
Grazie
di cuore.
E
io ne approfitto per un'idea che Piwy mi aveva dato tempo fa:
scegliete una scena, di SITR e JTWYA e disegnatela. Non importa se
non vi reputate bravi, dimenticate queste sciocchezze: non è
un
concorso! Voglio solo avere un vostro ricordo da tenere stretto e
anche sapere quale scena sceglierete!
È
rivolta a tutti, senza paura! Io le pubblicherò solo se voi
acconsentite!
Un
grosso grandissimo caldo abbraccio
vi
adoro.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 25 *** Who the shell are you? ***
La
testa era piena solo del rumore assordante del suo cuore, che pompava
nelle orecchie dolorosamente, e dei respiri accelerati, soffiati con
rapidità attraverso il naso. Poi il bisogno di ossigeno si
fece
prepotente ed entrambi si staccarono con forza, mentre il disappunto
prendeva posto nel suo corpo. Le labbra della ragazza erano rosse e
gonfie, ancora umide, tirate sul sorriso più bello che
avesse mai
visto; stava ansimando, con le guance in fiamme e gli occhi luminosi
che lo guardavano con desiderio.
Lui
ricambiava lo sguardo, rapito e incredulo.
“Dovremmo
fermarci” le disse con reticenza, mentre era ancora in grado
di
pensare.
Lei
si mordicchiò il labbro con quei denti bianchi e perfetti,
piegando
appena il capo. Le sue dita si strinsero sul perno della zip della
sua tuta e la aprì con calma, tirandola giù con
languida lentezza,
mentre un dito passava sulla sua pelle verde scuro tormentandolo,
fino ad arrivare al centro del piastrone. Le mani si poggiarono sul
suo torace, poi lei si avvicinò, chinandosi sul suo collo,
solleticandogli il mento con i capelli castani, resi più
scuri dalla
pioggia, che parevano freddi al contatto con la sua pelle rovente.
Il
primo bacio gli mandò un brivido delicato giù per
il petto, fino
allo stomaco, che bruciava di desiderio. Poi ne seguirono altri,
sempre più intensi, mentre si spostava lungo la clavicola
fino alla
spalla: i denti della ragazza lo morsero con passione, d'un tratto,
strappandogli un gemito di piacere. Chiuse gli occhi, in preda
all'eccitazione.
“Non
credo proprio” gli rispose contro la sua pelle, leccando
piano e
baciando il morso che gli aveva dato, spingendolo quasi sull'orlo
della pazzia. La sua voce era puro miele, che scivolava su di lui,
facendogli venire la pelle d'oca.
Sentiva
il petto ardere di desiderio e il bassoventre pulsare, dalla voglia
che aveva di stringerla e farla sua. Ma ancora, una briciola di buon
senso temeva a freno quella pazzia, anche se stava tremando, per
l'impeto nel trattenersi.
Lei
si spostò, mordicchiandolo giù sul petto, fino ad
arrivare
all'incavo della gola. Il suo cuore batteva furiosamente sul pomo
d'Adamo, come un tamburo tribale, dove lei continuava a mordere e
baciare.
“Sei...
sei sicura?” ansimò, totalmente annebbiato dal suo
profumo, dalla
sua bellezza, dal suo calore, dalla consistenza della sua pelle
vellutata sotto le mani.
La
ragazza costellò il profilo della sua mandibola con piccoli
baci,
fino ad arrivare alle labbra: lì la sua lingua si
insinuò dapprima
con leggerezza, trascinandolo poi in un bacio passionale, famelico,
da spezzare il fiato. Lo lasciò andare, per poterlo guardare
negli
occhi con i suoi, torbidi e profondi.
“Voglio
fare l'amore con te, Raffaello” soffiò sulle sue
labbra, prima di
passarci la lingua sopra, lentamente, seguendone i contorni.
L'ultimo
muro di resistenza nella sua mente crollò e si
sbriciolò in
polvere, spazzato via da quella voce passionale e amorevole, e le sue
braccia la afferrarono con ardore, stringendola a sé, mentre
le sue
labbra cercavano quelle dolci e brucianti di lei e non per l'ultima
volta...
Si
svegliò di colpo, ansimando, con la sensazione di quella
pelle
morbida e soda sotto le dita. Si mise a sedere, col respiro ancora
corto, premendosi le mani contro gli occhi, il corpo scosso
dall'eccitazione, che andava a fuoco.
Dannazione.
L'ennesimo, maledetto sogno erotico. Se così lo si poteva
chiamare.
Dopo due settimane di quella tortura, notte dopo notte, perfino lui
aveva capito che non si poteva parlare di un semplice sogno. Era di
più. Ma non sapeva cosa.
Quando
si svegliava ricordava solo frammenti, stralci confusi, ma
inequivocabili, che lui componeva pezzo dopo pezzo, come un puzzle
peccaminoso che non faceva che torturarlo. Prima c'erano stati quegli
occhi scuri, profondi come l'entrata dell'inferno e altrettanto
pericolosi; poi le sue labbra, piccole e carnose, rosse e morbide,
che riuscivano a infiammare la pelle solo con un tocco; e il suo
corpo, oh santo cielo il suo corpo: sodo, atletico e caldo, premuto
contro il suo fino a fargli perdere il raziocinio, con quel seno
prosperoso che non chiedeva altro che di mordere e baciare fino alla
pazzia.
E
quella notte un altro piccolo tassello si era aggiunto: la sua voce,
dolce e nello stesso tempo roca di passione, che gli chiedeva di fare
l'amore, dando il colpo finale ad ogni reticenza.
Raffaello,
lo aveva chiamato. Raffaello. Non Raphael o Raph. Raffaello. Solo
pensarlo, con la stessa intonazione che quella voce gli dava, gli
mandò i brividi, accelerando il battito del suo cuore.
Si
lasciò andare sui cuscini con un ringhio frustrato, a
braccia
spalancate, percependo il contatto delle lenzuola ormai fredde contro
la pelle accaldata e sudata.
Era
tutto iniziato con quella dannata cicatrice. Da quando aveva toccato
la bruciatura sul suo petto aveva scatenato una maledizione, che
stava seriamente rischiando di farlo diventare pazzo; non aveva fatto
altro che sognare ogni notte la stessa cosa, in momenti differenti: a
volte era il momento dei preliminari, quello dei baci e delle
carezze, delle mani che correvano bramose per esplorare, stuzzicare,
eccitare; altre invece riviveva fin nel più piccolo
dettaglio la
fusione tra i loro corpi, con quei gemiti che gli riempivano
completamente la testa, insieme al piacere più totale e
spiazzante
mai provato. Il risultato era sempre lo stesso: si svegliava
d'improvviso, sudato ed eccitato, chiedendosi cosa diamine gli stesse
accadendo.
Non
ne aveva parlato con i suoi fratelli o col maestro. Cosa avrebbe
dovuto dirgli? Che veniva ogni notte nel letto in preda al sogno
erotico più vero e reale mai avuto in vita sua? Che le
sensazioni
provate non erano mere e fittizie, ma tangibili, tanto concrete che
avrebbe potuto giurare che tutto ciò che vedeva e sentiva e
provava
era di certo più che una fantasia, anche se sembrava una
pazzia?
Non
poteva. L'avrebbero preso per matto. Gli avrebbero riso in faccia.
E
poi c'era lei. La ragazza del sogno. Bellissima, dolce, sensuale. Con
quel sorriso malizioso e allo stesso tempo innocente, che avrebbe
convertito il più dannato degli uomini, solo per poterlo
rivedere
ancora una volta.
Non
voleva, non poteva condividere la sua esistenza con nessuno. Era sua.
Era lui che voleva ogni notte.
Si
era innamorato di un sogno. E non avrebbe potuto ammetterlo, mai.
Si
trascinò fino al bagno e si gettò sotto alla
doccia, aprendo per
primo il rubinetto dell'acqua fredda, come ogni mattina ormai da
quando era iniziato quel tormento: arrivò prima il rumore
delle
tubature che cigolavano, poi le gocce gelide caddero sulla sua pelle,
portandosi via gli ultimi barlumi di eccitazione dal suo corpo,
insieme alle prove di ciò che era successo nel letto.
Si
appoggiò con la fronte alle mattonelle e si accorse solo in
quel
momento di come scottasse: probabilmente si stava ammalando e non se
ne sorprese nemmeno troppo, in effetti. Una febbre celebrale, ecco
cosa aveva. Un dannato problema al cervello.
Rimase
immobile sotto il getto d'acqua per un tempo incalcolato, forse
minuti, forse ore, con quella voce che continuava a chiamarlo con
tono mieloso, dentro la sua testa. Raffaello, lo chiamava, e a lui
non restava altro da fare che seguirne il suono melodioso fino alla
pazzia.
“Cosa?”
gli domandò Don, interrompendo per un secondo il suo lavoro
di
avvitatura. O avvitamento? Si confondeva sempre.
Era
andato nell'officina per domandargli un dettaglio che lo stava
facendo ammattire, che si ripeteva incessantemente nella sua testa da
quando si era svegliato e non lo abbandonava per nessun motivo. Forse
se avesse chiesto al genio, si era detto, avrebbe smesso di pensaci
in quella maniera ossessiva e deleteria, dando finalmente riposo al
cervello prima che impazzisse definitivamente.
“Ho
detto: conosci la parola Raffaello?” ripeté, con
lo stesso accento
della ragazza del sogno, dissimulando il brivido che sentì
con
un'alzata di spalle.
“È
il tuo nome. In italiano” spiegò il fratello,
poggiando la chiave
inglese sul ripiano di ciò che stava costruendo, che aveva
l'aria di
essere una piattaforma, lanciandogli un'occhiata interessata per
quell'inusuale argomento.
“Questo
lo so! Ma perché...”
“Come
fai a saperlo?” lo interruppe Don, corrugando le sopracciglia
per
la sorpresa.
Già,
come diamine faceva a saperlo? L'unica parola che conosceva di
italiano era pizza, e non era nemmeno sicuro di pronunciarla
correttamente.
“Non
è questo il punto. Perché si dovrebbe usare
quella versione del
nome invece di Raphael?” domandò invece di
rispondere, mangiandosi
le parole per la fretta di parlare.
“Una
persona italiana potrebbe farlo. Perché il suono le
è più
familiare o lo preferisce. O perché, nel tuo caso, potrebbe
pensare
di darti fastidio e farlo apposta.”
No,
la ragazza del sogno non lo aveva usato per schernirlo o farlo
arrabbiare, lo aveva pronunciato con un tono così caldo e
pieno di
sentimento, quasi amore. E a lui non dava affatto fastidio, anzi
tutt'altro; forse, se l'avesse pronunciato qualcun altro gli avrebbe
dato sui nervi o lo avrebbe trovato strano, ma detto da lei era
balsamo per il suo ego.
Tremò
al solo ricordarlo.
“Come
mai questa domanda? Dove hai sentito quel nome?”
La
voce di Don lo riportò alla realtà, nel rifugio,
vicino alla sua
piattaforma costruita a metà e ingombra di pezzi e arnesi.
“Io...
l'ho sentito in un programma, ieri sera alla TV”
mentì,
mascherando il nervosismo con un sorriso palesemente troppo
entusiasta per essere vero.
Don
lo guardò sempre più con curiosità e
sospetto.
“Che
cosa... cosa stai costruendo?” si ritrovò a
chiedere, nell'urgenza
di cambiare argomento.
Donnie,
se possibile, fu ancora più sorpreso dal suo insolito
interesse per
una delle sue invenzioni. Sollevò cautamente un
sopracciglio,
volutamente cinico, mentre lo squadrava. Poi un grosso sorriso
apparve sul suo viso, un sorriso quasi perverso. Ma forse lo stava
solo immaginando.
“Sono
contento che tu me l'abbia chiesto. Perché questa
è un'invenzione
che servirà a tutta la famiglia. È un progetto
molto complicato,
che stimola le sinapsi tra la corteccia prefrontale e il lobo
temporale, mischiato a...”
“Basta!
Ti prego! Scusa se te l'ho chiesto, non torturarmi
così!” tagliò
corto Raphael, interrompendo la lunga sequela di strane parole che
uscivano dalla bocca di suo fratello, delle quali non ne aveva capita
mezza.
“Dimmi
solo questo: mi farà del male?” chiese spiccio,
arrivando al punto
che gli interessava.
“No.”
“Ne
ricaverò beneficio?”
“Sì!”
“Perfetto!
Allora continua a lavorarci. È già da parecchio
che ci traffichi
attorno!” constatò Raph, studiando le componenti
metalliche
assemblate e quelle che ancora attendevano di essere unite,
abbandonate contro il muro dell'officina.
“Dieci
giorni, e ne ho impiegato altri quattro solo per creare il
progetto”
rivelò Don, riprendendo in mano i suoi attrezzi e
avvicinandosi alla
base per riprendere i lavori, riassorbito in fretta nella sua
costruzione, quasi come se lui non fosse più lì.
“Wow.
Deve essere davvero complesso. Mi pare di ricordare che non ti sia
dedicato ad altro da quando hai iniziato. Non sei uscito nemmeno una
volta!”
“Sì,
io... devo finirlo. Al più presto” fu il sussurro
assorto e teso
di Donnie, come se lo stesse dicendo a sé stesso, per
motivarsi.
Sapeva
che suo fratello era un fanatico delle invenzioni e che quando si
immergeva in un nuovo progetto difficilmente si riusciva a farlo
staccare, arrivando perfino a doverlo prendere di peso per portarlo a
mangiare, ma c'era qualcosa di strano in lui. Aveva uno sguardo
spiritato, quasi come se fosse posseduto. Era completamente
ossessionato da quell'invenzione, non ricordava un secondo delle
ultime due settimane in cui non fosse stato appiccicato al suo
progetto o all'invenzione, dormendo pochissimo e interagendo con loro
anche meno.
E,
purtroppo, non era l'unico ad essere strano, nell'ultimo periodo.
Tralasciando sé stesso e i suoi sogni-non sogni erotici,
nemmeno il
resto della famiglia sembrava molto in sé.
A
cominciare dal maestro, che la mattina rimaneva nel dojo, seduto per
terra con lo sguardo assente per un paio d'ore. Avevano provato a
capire cosa non andasse, chiedendogli come mai se ne stesse
così
assorto, ma non in meditazione, ma il maestro continuava a rispondere
con frasi sconnesse, in giapponese. Tutto ciò che erano
riusciti a
capire era che aveva perso qualcosa, ma quando gli chiedevano cosa
avesse perso, tutto ciò che rispondeva erano parole che non
riuscivano ad afferrare. Dopo qualche ora, tuttavia, ritornava
normale e non faceva minimamente accenno alla cosa, tanto che avevano
iniziato a chiedersi se il loro padre non stesse semplicemente
invecchiando e andando incontro alla senilità. Leather Head
lo
aveva visitato e aveva detto loro di non preoccuparsi, che era
perfettamente sano. Donnie pensava che non dovessero impensierirsi,
che fosse solo un po' di stanchezza e che presto sarebbe tornato
esattamente come prima.
Poi
c'era Mikey, che sembrava meno allegro del solito, meno vitale. A
colazione si guardava spaesato attorno, come se fosse in attesa di
qualcosa o qualcuno: più passava il tempo, più la
sua faccia
diventava ansiosa. Infine si alzava strascicando i piedi, si buttava
di malagrazia sul divano e passava ore a fissare il soffitto, in
stato catatonico. Se qualcuno di loro gli chiedeva di giocare,
rifiutava, contro ogni aspettativa. Non voleva giocare ai
videogiochi, non leggeva fumetti, non guardava la TV. E quando gli
avevano chiesto cosa gli stesse accedendo, lui aveva risposto solo
con un “Non lo so. Mi manca qualcosa”.
Don
li aveva rassicurati: solo un po' di tristezza, dovuta a qualche
fatto accorso di recente che lo aveva colpito, magari a livello
subconscio; entro breve tempo, aveva detto, Mikey sarebbe ritornato
come prima.
Quello
che lo preoccupava più di tutti, comunque, era Leo. I suoi
stati
d'animo andavano dalla calma più zen che potesse esistere
alla furia
cieca e distruttrice che aveva caratterizzato la sua adolescenza.
Sembrava quasi essere una bomba costantemente carica, ma in stato di
stand by: non c'era modo di sapere quando sarebbe esploso. A volte
scattava nel bel mezzo di un film, la sera dopo cena, e allora si
rinchiudeva nel dojo, dal quale sentivano sempre provenire rumori di
lotta e grugniti frustrati. Quando invece succedeva nel bel mezzo di
una ronda erano dolori, perché toccava a loro ogni volta
cercare di
contenere la sua rabbia, che aveva rischiato più di una
volta di far
finire i suoi scontri in veri massacri.
Chi
si beccava le sfuriate maggiori in quei casi era proprio lui, Raph,
perché Leo sembrava avercela particolarmente con lui, senza
un
apparente motivo. Non era più il loro vecchio Leo, saggio,
controllato e affidabile leader, ma un collerico, scontroso e
instabile fratello maggiore.
Salvo
poi scoprirlo depresso e triste mentre guardava le stelle, seduto su
un cornicione con le spalle incurvate, il ritratto della pena e del
dolore. Leo stesso non sapeva cosa avesse. “Sono
solo... vuoto.
Mi sembra di aver perso qualcosa di importante e la rabbia ha preso
il suo posto”, aveva detto cercando di spiegarsi,
prima di
prendere a pugni il muro, confuso.
Anche
per quello Don aveva avuto delle parole di conforto.
“È
come se stesse vivendo un'adolescenza a scoppio ritardato” lo
aveva
messo al corrente, con una buffa alzata di spalle. “Appena
avrà
capito cosa gli accade ritornerà come prima.
Assicurato!”
Adolescenza
ritardata? A ventitré anni? Quella era senza dubbio la cosa
più
ridicola che avesse sentito.
E
nonostante tutte le belle rassicurazioni del fratello, Raph sentiva
che c'era qualcosa di sbagliato. Una forza misteriosa che stava
agendo su tutti loro, forzando le loro azioni e i loro pensieri,
facendoli comportare in maniera strana. E forse la sua bruciatura e
quello che faceva al suo corpo e alla sua mente aveva una parte in
tutto quello, anche se non sapeva in che modo potessero essere
connessi.
“Va
tutto bene, Raph? C'è qualcosa di cui vorresti
parlare?”
La
domanda di Don lo riscosse, attirando la sua attenzione. Lo
osservò
come in trance per qualche secondo, valutando come rispondere.
“No.
È tutto a posto.”
Donnie
avrebbe certamente cercato una spiegazione scientifica anche a
ciò
che stava accadendo a lui, se lo avesse messo al corrente. E lui non
voleva nessuna maledetta scusa scientifica, perché non c'era
nulla
di sensato e razionale in tutto quello che gli succedeva. Niente di
razionale nel modo in cui quella ragazza faceva vibrare ogni
più
piccola parte del suo corpo e della sua anima, pur non esistendo.
“Ne
sono contento” sorrise il fratello, prima di tornare al suo
progetto.
Quella
sera, dopo cena, Raph insisté con tutte le sue forze per
farlo
uscire dall'officina.
“Andiamo!
Un giro di ronda tutti assieme!” supplicò,
togliendogli da mano
ogni attrezzo che lui stringeva.
“No!
Ho da fare!” rispose secco il fratello, prendendo una chiave
a
brugola, dato che Raph gli aveva tolto la chiave inglese da mano.
“Ma
sei chiuso qui da giorni! Ti fa male alla salute!”
replicò,
sequestrandogli anche quell'attrezzo.
“Sto
benissimo! È della vostra che mi preoccupo,
ultimamente” sibilò
l'altro, afferrando un set di chiavi a pappagallo e indietreggiando,
con la faccia stizzita.
“Allora,
per la nostra salute: vieni a fare un giro con noi? Chi
impedirà a
Leo di ammazzarmi quando darà di matto, anche oggi? Mikey?
Pfff, non
credo proprio!”
Don
occhieggiò con sospetto la faccia del fratello, con le
braccia
ancora cariche di arnesi.
“Va
bene! Ma solo per un'oretta” concesse alla fine, con un
sospiro
rassegnato.
“Non
è bello una volta ogni tanto uscire all'aria
fresca?” gli domandò
Raph un'ora dopo, sul tetto del palazzo nel quale si trovavano, con
lo sguardo perso verso l'orizzonte.
“Fresca?
Siamo a New York! È già troppo chiamarla
aria!” ribatté Don,
arricciando il naso.
“Sempre
meglio di quella che c'è nelle fogne. Su, non stare con la
faccia
imbronciata! Andiamo a prendere a calci qualche delinquente!”
Tutti
e quattro corsero nella notte, nell'aria calda di quell'ultima
settimana di Luglio, dall'afa incontenibile. Le tute ormai erano da
un pezzo nella versione estiva, senza maniche, ma nonostante tutto
c'era sempre troppo caldo.
Neutralizzarono
senza fatica un paio di bande di ladruncoli, un taccheggiatore e un
topo d'appartamento, oltre ad una piccola gang di delinquenti che
aveva infastidito una coppia gay vicino al parco.
“Vi
piace prendervela con chi non è come voi? Beh, anche a noi
piace
prendercela con quelli come voi” disse Mikey arrabbiato,
calciando
via uno dei ragazzi che si avvicinava alla coppia facendo roteare con
violenza una catena in ferro.
Il
gruppo spalancò gli occhi al vedere cosa fossero i
misteriosi ospiti
e alcuni provarono a darsela a gambe con urla sconvolte, ma il
quartetto si era diviso per tagliare ogni via di fuga.
Era
meglio incidere bene il concetto in quelle testacce vuote, con
qualche pugno ben assestato.
Uno
dei ragazzi, quello che a giudicare dalla spavalderia e dalla stazza
sembrava il capo, sputò per terra e poi ghignò,
ricacciando giù in
gola la paura che la vista di quei quattro energumeni verdi gli
suscitava.
“Non
ci piace guardare schifosi anormali e mostri”
ringhiò sollevando
la mazza in ferro che teneva tra le mani, per dimostrare che si
sarebbe battuto.
“Strano.
Eppure dalla orrida cresta ben pettinata sulla tua testa da culo si
direbbe che tu passi molto tempo davanti allo specchio”
replicò
Raph con lo stesso tono ringhiante, strappando una risatina a Mikey,
che però non fu invece gradita dalla gang.
Il
capo urlò e si lanciò contro di lui, mentre i
suoi degni compari se
la vedevano con i suoi tre fratelli, che non chiedevano davvero
altro.
Non
erano forti, ma di certo erano molto tenaci e sin troppo spavaldi,
che per certi versi era peggio di qualunque tecnica o forza potessero
avere. Si gettavano in disperati e violenti attacchi tentando il
tutto per tutto, per tagliarsi una via di fuga da loro.
Non
persero molto tempo nel batterli, giusto una decina di minuti per
smontare la loro irruenza con schivate sciolte e minime, che
servirono a farli stancare quel tanto che bastava per mandarli
giù
con un pugno.
“Dovreste
proprio aprire le vostre menti e imparare ad accettare
realtà
diverse, prima che vi apriamo la testa a pugni noi per farvelo
capire!” fu la minaccia di Mikey al tizio con cui si batteva,
prima
di buttarlo giù con un colpo solo.
Raph
guardò con uno sguardo di disapprovazione quelli che aveva
battuto,
poi una voce decisamente alta arrivò alle sue orecchie,
scuotendolo:
Leo stava urlando contro i suoi avversari a terra, infierendo su loro
nonostante fossero già battuti.1
Spiccò
una corsa urgente nella sua direzione, saltando gli uomini svenuti a
terra di volata.
“Leo!
Fermati!” urlò con tutta la sua voce una volta
arrivato,
afferrandogli il braccio per bloccare il suo scatto d'ira.
Suo
fratello si girò come una furia, con ancora la Katana nella
mano,
agitandogliela contro: sentì una lieve pressione contro la
fronte e
vide la lama scintillare in mezzo agli occhi, mentre la maschera
rossa carezzava piano il suo viso, scivolando lieve a suolo, lacerata
a metà.
Con
un colpo secco fece cadere le spade dalle mani del leader,
stringendoselo poi contro, in un abbraccio spezza-ossa, per tenere le
sue braccia ferme contro il petto; Leonardo cercò di
divincolarsi,
sempre più arrabbiato, con le vene del collo che pulsavano
dallo
sforzo.
“Calmati,
Leo! Respira a fondo e lentamente!” gli disse, provando lui
stesso
a restare calmo, anche se cercare di contenere la foga con cui il
fratello si contorceva per liberarsi era quasi impossibile.
“Perché?
È tutta colpa tua! Ti odio!” gli
strillò quello contro,
sorprendendolo, facendogli quasi perdere la presa.
Rimase
un attimo in silenzio, attonito dal tono velenoso che aveva percepito
in quelle frasi. Mikey e Don erano arrivati alle sue spalle,
osservando la scena, indecisi se intervenire o meno, turbati.
“Cosa
è colpa mia? Perché mi odi?” chiese
infine Raph, dissimulando il
dolore che gli procuravano quelle parole.
Leo
si fermò di colpo, sconvolto, al sentire la voce del
fratello
ripetere ciò che gli aveva detto, come se fosse sorpreso dal
suo
stesso comportamento. Osservò attonito il graffio che aveva
procurato sulla sua fronte poi, lentamente, abbassò il capo,
poggiandolo sulla sua spalla, sconfitto e afflitto.
“Non
lo so... perdonami. Non lo so. È solo che mi sento...
perso”
sussurrò con un tono penoso, smarrito e doloroso da sentire.
“È
tutto a posto, Leo. È solo un brutto periodo” lo
consolò Don,
facendosi avanti per dargli un incoraggiamento. Mikey gli
batté una
pacca sul guscio, con un sorriso fiducioso.
Raph
lo lasciò andare e gli poggiò le mani sulle
spalle,
affettuosamente.
Non
avrebbe lasciato che la sua famiglia si spaccasse, costretta a
soffrire in quel modo. Doveva scoprire cosa non andava in ognuno di
loro e poi combattere con tutte le sue forze per rimettere le cose a
posto, riportare tutto come prima.
Una
volta calmato Leo, si prepararono per andare via. La coppia era
già
scappata da tempo, forse perfino pochi secondi dopo che loro erano
apparsi; non ci avevano fatto caso e non erano perciò
sicuri.
Sperarono solo che fossero salvi e che stessero attenti a idioti come
la banda che giaceva al suolo in quel momento.
Raph
raccolse la bandana lacerata dal pavimento, valutando il taglio netto
nella stoffa, che se fosse stato portato con più forza gli
avrebbe
aperto il cranio in due. Accidenti, Leo era davvero più
pericoloso
di quanto pensasse; se non fosse stato attento, lo avrebbe ucciso nel
prossimo scatto d'ira. O in quello dopo. O in quello dopo ancora.
Un
fulmine improvviso illuminò la notte, seguito da un tuono
fragoroso,
non molto distante da loro.
Tremò,
completamente, da capo a piedi, col cuore in tumulto, che batteva
così forte da ferirgli le orecchie. Non si era nemmeno
accorto di
aver stretto la bandana nel pugno con disperazione, scosso da ondate
di tensione che irrigidivano i suoi muscoli, come se si fosse
pietrificato.
Iniziò
a cadere una pioggerellina leggera, fredda, ma non la
percepì
nemmeno sulla pelle.
“Sarà
meglio andare! Rischiamo di ammalar...”
La
voce di Don si spezzò sorpresa, nel guardarlo.
“Raph...
perché piangi? Sei ferito?” domandò con
un mormorio flebile,
spaventato.
Mikey
e Leo sentirono il suo tono e anche loro si voltarono,
sbarrando gli occhi in apprensione, come se temessero che stesse
male.
Raph
si portò la mano sul viso, passandola come in trance sugli
occhi,
poi la guardò: sulle sue dita splendevano gocce, che non
erano
affatto di pioggia come aveva creduto, ma lacrime. I suoi occhi erano
colmi di lacrime, il suo viso ne era completamente bagnato. E il
cuore gli faceva così male che credeva si stesse avvizzendo
in
quello stesso istante, portandolo alla morte.
“Non
lo so. Quando quel fulmine è caduto e ha iniziato a piovere,
mi sono
sentito... strano. Rabbiosamente vuoto. Come se all'improvviso mi
fossi accorto che tutto ciò che ho dentro è
sparito, andato,
svanito. E mi sento così male che non riesco nemmeno a
spiegarlo”
sussurrò lentamente, con una voce che non pareva nemmeno la
sua.
Stava
tremando, con ogni parte di sé, sconvolto e devastato come
mai si
era sentito prima. E sapeva che le lacrime stavano ancora scendendo,
ma non sapeva come arrestarle: volevano uscire, cadere giù e
provare
a lavare via quello che stava provando, anche se non lo capiva.
Leo
gli si fece incontro, poi lo strinse in un abbraccio.
“È
tutto ok, siamo tutti qui, uno per l'altro” gli
mormorò,
stringendolo con affetto.
Mikey
gli sorrise incoraggiante e Don invece lo guardava con un sorriso
assurdamente compiaciuto. Raph annuì, senza sapere che dire,
grato
della loro presenza.
La
pioggia continuò a cadere, insieme alle sue lacrime, quella
notte.
Entrò
nella sua camera in penombra, senza preoccuparsi di accendere la
luce, strofinandosi ancora con forza con l'asciugamano. Tirò
giù la
zip della tuta, liberandosi con gioia dell'indumento bagnato,
calciandola dall'altra parte della stanza. Si asciugò per
bene,
gioendo della sensazione di ruvidità contro la pelle, che
sembrava
portarsi via anche il senso di inadeguatezza che sentiva addosso.
Aveva
pianto. Aveva dannatamente pianto, davanti ai suoi fratelli, senza
una ragione. Quel maledetto fulmine e la pioggia avevano scatenato in
lui una sensazione orribile, di dolore misto ad ansia selvaggia, come
una morsa soffocante nel petto che pressava e gli impediva di
respirare, gettandolo nel panico.
E
le lacrime erano state solo la naturale conseguenza.
Che
cosa diamine gli stava accadendo? Perché... per chi
si era
sentito così? Perché era certo di averla sentita,
per un solo
istante, quella voce che lo chiamava, nel momento stesso in cui il
fulmine era caduto.
“Raffaello.”
Come
se il fulmine e la pioggia e quella ragazza fossero collegati. Ma a
differenza delle estasianti sensazioni che provava nei sogni,
lì si
era sentito dilaniato, sbagliato, rifiutato, costretto a sopportare
lo strazio e la sofferenza più totali e sconvolgenti mai
provati
prima.
Il
dolore che avrebbe potuto sentire se avesse mai perso la persona che
amava, se ne avesse avuto una.
Si
era davvero innamorato della ragazza del sogno?
Scagliò
l'asciugamano nel buio, centrando la lampada e buttandola
giù, a
giudicare dal rumore che ne seguì; scostò le
lenzuola cambiate di
fresco quella mattina e si infilò dentro, con un sospiro
sollevato.
Piegò le braccia dietro la testa, osservando
l'oscurità attorno a
sé.
“Chi
diamine sei?” domandò al nulla senza voce.
“Raffaello”
lo chiamò di nuovo la ragazza nella sua testa, facendogli
chiudere
gli occhi dal piacere che gli trasmise.
Se
quella era la tortura che doveva sopportare, ci si sarebbe fiondato
contro con tutta la velocità possibile, mettendo infine da
parte
quel senso di peccato che aveva sentito fino a quel momento. E anche
se quelle sensazioni dei sogni e quelle della pioggia fossero state
connesse, era certamente meglio dell'orrida fitta di sofferenza che
aveva sentito. E voleva liberarsi al più presto anche solo
del
ricordo di quelle lacrime.
Anche
quella notte l'avrebbe ritrovata nei suoi sogni, stretta, baciata,
amata.
“Arrivo”
mormorò con un sorriso, provando a calmare i battiti furiosi
del suo
cuore.
1:
prima che possiate gridare all'OOC di un Leo così aggressivo
e fuori
controllo, ho preso il suo comportamento dalla scena dell'episodio 2
della quarta stagione “The people's choice”: un
robot cade dal
cielo, prendendoli quasi in pieno e credendolo nemico lo abbattono.
Leo infierisce anche quando è ormai palese che abbiano
vinto, tanto
che Raph e Don sono costretti a fermarlo. Sì, so che quello
è un
robot e può sembrare diverso da un umano, ma stava per
uccidere
l'aliena dentro il robot nella sua furia cieca.
Insomma,
non sta bene con la testa il ragazzone al momento. Non è
esattamente
in sé.
Poi
si vedrà perché.
Note:
Tadaaan!
Buon
giorno!
Ecco
a voi la peggior autrice del mondo di suspense! Non ho ingannato
nessuno, sono pessima assai! Uno, dico, ci fosse cascato uno! Mi devo
dare ai cruciverba e smetterla di scrivere, mi sa, non sono buona a
fare scene ad effetto!
Evvabbè,
Raph ama Isabel è ormai assodato. Anche Leo ama Isabel. Ma
nessuno
dei due se lo ricorda... ehhhh, pazienza. Dov'è lei al
momento?
Eheh, segreto! Si vede che non dormo da ieri? Sì, sto
vaneggiando
alla grande!
Isabel
non la ricorda nessuno, ma chissà perché nessuno
sta davvero bene,
e povero Raph tormentato da quel sogno ( mica tanto, ci prende pure
gusto.)
ma
poi piange, la cosa mi fa sempre un certo effetto!
Come
ho già detto, a chi ha dato Leo già per
spacciato: C'è ancora
taaaanto da vedere! Fino alla fine nessuno dorma sugli allori!
Mwahahaa!
Ok,
la deprivazione da sonno si fa sentire, ma non posso dormire,
perciò
vado a spaventare la gente con la mia lieve schizofrenia per il resto
della giornata!
Bacioni
enormi, vi adoro tantissimo! *______________* Vi terrei sulla
mensola
dei miei libri preferiti, con tanto amore!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 26 *** Flames in the memory ***
Le
cose non migliorarono nei giorni a seguire, per quanto tutti si
sforzassero.
Don
continuava a passare tutte le sue giornate seppellito dentro all'officina e a malapena riuscivano a vederlo, figurarsi a
parlarci.
E anche se ci avessero provato, entrando nella sua tana
con sprezzo del pericolo, avrebbero ricevuto non più di
un'occhiata
di sfuggita e delle risposte a monosillabi, fuori sincro tra l'altro,
perché il genio non ascoltava affatto nessuna parola.
Mikey si
sforzava di essere più allegro, di seppellire quella
orribile
sensazione di abbandono che sentiva e di scherzare come faceva
sempre, per alleggerire la tensione in famiglia, ma i suoi sorrisi
non erano aperti e sinceri come il solito, erano forzati e non
trasmettevano affatto allegria, anzi tutt'altro; eppure con la sua
solita energia da Michelangelo, non c'era giorno che non provasse a
cambiare la sua condizione di apatia, anche se dopo un po' si sentiva
troppo stanco e sfinito e si lasciava andare sul divano, a guardare
in silenzio il soffitto.
Leo
si era chiuso in un mutismo assoluto e aveva preso ad evitarli,
rintanato nel dojo praticamente per tutto il giorno; la notte usciva
da solo, quando usciva, e non si faceva trovare da nessuno di loro,
in special modo da lui, Raph. Forse aveva paura di perdere il senno
ancora e di attaccarlo come l'ultima volta, ferendolo magari in
maniera più grave.
La ferita sulla sua fronte si era quasi
rimarginata del tutto ormai, era stata una stupidaggine in fin dei
conti, eppure erano stati il gesto e le sue parole, più del
taglio
in sé, a colpirlo.
Il sensei li teneva tutti d'occhio,
preoccupato dallo loro strano comportamento, dal suo stesso anche se
non riusciva a spiegarselo, e intanto meditava, cercando risposte che
non sembravano arrivare, in nessun modo.
Lui,
Raph, ormai non ci provava nemmeno più a combattere quei
sogni
erotici, spiazzanti e totali, come aveva fatto prima: si lasciava
trasportare ovunque dalle sensazioni e ne godeva senza rimorso,
provando a capire quel senso di nostalgia che sentiva quando si
risvegliava, come se gli mancasse qualcosa. Qualcuno.
Alle sue
strambe abitudini, si era aggiunto il controllo maniacale delle
previsioni del tempo, quasi come se la sua vita dipendesse da quello:
se il tempo prevedeva pioggia, anche solo in via ipotetica, si
chiudeva nella sua camera e si rannicchiava in un angolo, al buio,
rifiutando di uscire per qualsiasi motivo.
Non aveva dimenticato
quel dolore e quell'ansia feroce che aveva percepito sotto la
pioggia, non avrebbe potuto nemmeno provandoci, e non voleva
risentirli mai più; era stato peggio di qualsiasi sensazione
sbagliata che gli aveva attanagliato l'anima fin da quando era
piccolo, perché era diverso, un mostro; ma questa non sapeva
proprio
da dove venisse.
Non voleva sentirsi mai più così solo e
abbandonato.
Eppure,
razionalmente, sapeva che quello che aveva sentito sotto la pioggia e
quello che sentiva e vedeva nei suoi sogni, erano in qualche modo
connessi. E che c'entrava anche la bruciatura sul suo petto.
Perciò,
dopo vari ragionamenti e ripensamenti, si era deciso ad investigare.
Aveva
studiato così ossessivamente le linee e i contorni, da
poterla
replicare ad occhi chiusi: erano davvero le impronte di due mani
femminili, marchiate a fuoco sul suo petto, dalla vaga forma di un
cuore; erano state lasciate da mani piccole, affusolate e delicate. E
per quanto sapesse che era da pazzi pensarlo, erano della ragazza del
sogno.
Se lo avesse detto a voce alta a qualcuno, lo avrebbe di
certo preso per pazzo, ma ne era assolutamente certo. Aveva baciato
quelle mani, aveva sentito le loro unghie graffiargli la pelle, la
loro stretta nelle sue mani nel momento del dolore e del massimo
piacere.
Quelle mani lo avevano sfiorato, accarezzato, afferrato e
stretto, con imbarazzo, desiderio, passione e amore, ogni notte nei
suoi sogni, e le conosceva come le proprie.
Eppure
non erano reali, erano dentro un sogno. O forse no? Erano reali,
potevano esserlo? Ma allora perché non ricordava chi e
perché gli
avesse lasciato quella bruciatura? Ammettendo per un secondo
l'assurda ipotesi che quel sogno fosse il ricordo di una situazione
reale, anche se l'idea di un'umana che faceva l'amore con lui era da
pazzi, perché non avrebbe dovuto ricordarsi di lei?
Amnesia? Ma
gli altri non avrebbero dovuto sapere una cosa del genere? E allora
non sarebbe stato possibile che tutti avessero perso la memoria
insieme.
Più ci pensava, cercando risposte, più confuso si
sentiva.
L'unica cosa che sapeva, era che la bruciatura c'entrava
qualcosa. Anche se non sapeva cosa.
Si
era deciso infine a toccarla, per provare a capire, per vedere se una
qualche risposta veniva fuori, da qualche parte.
Aveva avvicinato
la mano al petto, lentamente, timoroso, deglutendo per il nervosismo,
stringendo i denti mentre attendeva che qualcosa di doloroso e
confuso lo avvolgesse.
Invece, non appena il dito l'aveva
sfiorata, era divampato un enorme incendio, nella sua testa,
così
reale che il fumo e il calore lo avevano spaventato e soffocato, per
un istante. Il suo respiro si era fatto pesante e aveva preso
a tossire, assorbito dalla visione talmente a fondo da poter
percepire il calore soffocante del fuoco sulla pelle, le fiamme
aranciate che illuminavano la notte oscura lambirgli la carne, con
furore.
E lei era apparsa, rannicchiata e piccola, in preda
al dolore, stretta tra le sue braccia mentre piangeva con tutto il
cuore. Il suo si era stretto in una morsa nel vederla così,
disperata e fragile, spezzata e indifesa, ben diversa da come
appariva nei suoi sogni notturni.
E se possibile se n'era
innamorato con ancora più forza.
Scese
per la colazione, di malavoglia. Una delle regole che si erano dati,
per cercare di avere ancora una parvenza di famiglia normale,
per quanto normale potesse definirsi la sua famiglia, era di fare
colazione tutti assieme. Più che altro per combattere il
malumore di
Mikey, che colpiva sempre un po' tutti, quando era triste.
Anche
se, dato il costante e spesso silenzio, il malumore regnava comunque
sovrano.
C'erano già tutti, giù in cucina. Don
tamburellava con
le dita di una mano sul tavolo, mentre con l'altra portava la tazza
di caffè alla bocca, rovesciandone dentro a litri; i suoi
occhi
stanchi erano fissi nel vuoto, cerchiati di occhiaie scure, e solo
ogni tanto saettavano sui suoi fratelli, brevemente come se stesse
facendo loro un veloce check up, prima di tornare a guardare il
vuoto.
Mikey
stava giocherellando con la sua tazza di cereali, ormai a mollo nel
latte talmente da tanto che si erano inzuppati e sciolti, quasi una
pappetta beige che fluttuava sulla superficie bianca; il cucchiaio si
tuffava nella ciotola e raccoglieva un po' del pappone per poi
lasciarlo ricadere giù, sollevando spruzzi. Era una scena
consueta,
ormai: Mikey non cucinava ormai più nulla per colazione da
settimane, benché prima avesse sempre amato mettersi al
fornello e
preparare colazioni sontuose e mirabolanti, sorridendo alle facce
contente di chi mangiava con gusto. Invece in quel momento sedeva
svogliato al tavolo e osservava il suo rimestio senza molto
interesse, come se fosse preso da altri ragionamenti.
Leo
era nell'angolo più lontano del tavolo, la testa china sulla
tazza
di caffè nero che andava a raffreddarsi, ignorando tutti
loro. Forse
non voleva che leggessero quel vuoto dentro i suoi occhi, forse aveva
paura di scattare e dare di matto se avesse incontrato il suo
sguardo; forse aveva paura di attaccarlo ancora.
Gli occhi
amorevoli e preoccupati del sensei scivolavano su tutti loro, come a
voler cercare un segno, un motivo marchiato sulla loro pelle o sul
loro viso, che gli dicesse cosa stava accadendo, ma non vedeva altro
che stanchezza e preoccupazione. E confusione, tanta, troppa
confusione.
Salutò
il suo arrivo e lui chinò il capo all'anziano padre,
camminando poi
verso il bricco del caffè poggiato vicino al piano cottura,
versando
la bevanda ormai tiepida nella sua tazza, sbeccata sul bordo da cui
beveva da non sapeva nemmeno più quanto.
Si poggiò contro il
ripiano con il guscio e sorseggiò con lentezza, tenendo la
tazza con
la mano sinistra per bere dalla parte buona, lo sguardo che vagava
per la cucina, nel silenzio avvolgente.
Anche
volendo, anche provandoci, fare conversazione era impossibile. Non
c'era nessuno che avesse davvero intenzione di parlare, tanto per
cominciare, e non c'era nessun argomento che potesse essere tirato
fuori. Forse avrebbero dovuto parlare di cosa gli stava accadendo, di
come si sentissero, ma era difficile quando non riuscivano a capire
nemmeno sé stessi.
Un
tonfo arrivò alle loro orecchie, seguito da un tenue e
veloce
scalpiccio e prima che potessero anche solo muovere un muscolo, il
faccino teso di Steve apparve dalla porta, con un fugace sorriso per
loro.
Sembrava stanco, perfino più di loro.
“Buon
giorno” chiocciò, con un breve inchino verso il
sensei prima di
sedersi accanto a Leo, che sollevò miracolosamente lo
sguardo per
guardare il ragazzo.
“Che
faccia orribile. Hai dormito stanotte?” chiese il leader, in
un
sussurro roco che a malapena si udì.
Steve
si passò le mani sugli occhi, provando a cancellare i segni
di
stanchezza che li segnavano.
“S-sì...
no... non lo so” balbettò confuso, stropicciandosi
ancora la
faccia.
Si accorse di un paio di occhiate sorprese dalla sua mezza
risposta, per cui si affrettò a spiegarsi.
“Non
lo so. Sono... disorientato e incasinato. Mi sembra di dimenticare
qualcosa e se provo a focalizzarmi per ricordare mi scoppia un
violento mal di testa. Dimentico le cose, intere ore, e mi ritrovo in
posti diversi dall'ultimo posto in cui mi ricordo di essere stato. Di
quest'ultima settimana ho dei buchi enormi di vuoto. E non solo io.
Mio padre e i miei fratelli sono confusi come me, e per assurdo, la
salute di mio padre è migliorata inspiegabilmente... come
per
magia!”
Trattennero
tutti il fiato, insieme, senza accorgersene. Come se alle parole di
Steve qualcosa avesse solleticato un angolo remoto delle loro menti,
per poi svanire in fretta, così com'era apparso.
“Probabilmente
sei solo stanco. Hai lavorato molto, ultimamente?” chiese
cautamente Don, che lo osservava con sospetto nello sguardo, come se
stesse valutando le sue reazioni inconsce alla domanda.
Il
ragazzino si grattò la testa con fare pensieroso, come se
stesse
cercando di ricordare.
“No,
no, anzi... ormai faccio solo il turno serale, quindi ho molto tempo
libero. Certo, a casa ancora devo aiutare molto, ma non è
così
stancante. E la notte sto dormendo, per quel che mi ricordo. Non lo
so.... davvero, mi sento solo frastornato.”
Donnie
sorrise fugacemente, come se la confusione di Steve gli facesse
tenerezza.
“Hai
solo bisogno di staccare un po' la spina. Che ne dici di venire a
cena da April, questa sera?” propose il genio, alzandosi per
riporre la sua tazza nel lavello.
“Dai
signori Jones? Oh no, non voglio disturbare” si
affrettò a
rispondere Steve, anche se lusingato dall'idea.
“Ma
quale disturbo, mi ha detto lei di invitarti. Ormai vi siete
conosciuti, sappi che April non ti farà mai più
allontanare da noi,
se può evitarlo. E domani, se ti può far sentire
più tranquillo,
posso passare a controllare la situazione in casa tua, senza farmi
vedere” continuò Don, iniziando a dirigersi verso
la porta per
poter tornare al laboratorio.
Steve
sorrise grato e acconsentì ad entrambe le proposte, con
entusiasmo.
“Certo
che se sei riuscito a convincerlo ad uscire dalla sua officina anche
solo per un'ora per farti un favore, hai del portento! Facci un
favore: domani trova una scusa e tienilo a casa tua. Legalo alla
sedia se devi” fu l'intrusione di Mikey, allegra come solo il
vecchio Mikey avrebbe potuto pronunciare, portando per un secondo il
buon umore in cucina.
Con
un'occhiataccia e una buffa smorfia insofferente di Don nella sua
direzione, tutti si congedarono infine, ognuno diretto alle sue
faccende: il sensei, Leo e Steve si diressero verso il dojo per
l'allenamento mattutino, Mikey decise di andare da April per aiutarla
a tenere Carl, insolitamente di malumore in quell'ultimo periodo, e
Raph uscì con l'intento di girare per la città,
anche se era giorno
pieno, perché c'era qualcosa che doveva scovare e non
avrebbe
desistito finché non l'avesse trovato.
O avesse appurato che
semplicemente non esisteva.
Si
sporse oltre il cornicione, occhieggiando verso il basso.
I suoi
occhi scrutarono con insistenza il vecchio palazzo abbandonato,
soffermandosi sulle striature nere che contornavano le cornici delle
finestre e della porta, come se fossero state lambite dal fuoco. Quel
palazzo diroccato non aveva nulla a che fare con l'immagine del
villino preda dell'incendio che aveva visto nella visione alle spalle
della ragazza, ma sapeva che era connesso a quello. Doveva solo
scoprire in che modo.
Lo aveva trovato dopo ore e ore di ricerche
per la città, ci aveva messo tutto il giorno, con il solo
riferimento
del suo ricordo, scrutando nascosto tra le ombre dei palazzi, con la
paura di essere scorto: ogni centimetro, da Long Island a Manhattan,
senza tralasciare nemmeno un angolo. Era quasi deciso a lasciar
perdere, -la notte lo aveva infine raggiunto e non era certo di poter
continuare a cercare al buio,- quando era arrivato a quel vicolo e un
tuffo al cuore lo aveva vinto.
Niente, niente di quel palazzo
assomigliava alla sua visione, eppure lo sentiva nel fondo
dell'anima, che c'era qualcosa che aveva lasciato lì dentro.
Come un
pezzo di cuore.
Stava
per buttarsi giù, per investigare, quando qualcuno
atterrò accanto
a lui, attirando la sua attenzione e distogliendolo dal suo
proposito.
“Ehy”
mormorò a mo' di saluto, mezzo infastidito.
“Ciao,
Raph” rispose Leo, avvicinandosi con passo felpato. Suo
fratello
osservò perplesso ciò che lui stava guardando,
forse chiedendosi
cosa stesse facendo.
“Come
mai sei qui, Leo? Ti credevo alla cena di April” gli
domandò dopo
qualche minuto di silenzio, accortosi dello strano nervosismo
dell'altro.
Si era anche reso conto che qualunque cosa avesse Leo,
era di certo una cosa seria e che avrebbe richiesto tempo, a
giudicare dal modo in cui la vena pulsava sulla fronte del leader,
come se il suo cervello stesse fumando per la troppa
concentrazione.
Con un sospiro rassegnato si sedette sul
cornicione e suo fratello prese posto al suo fianco, assorto, come se
stesse cercando le parole giuste.
“Volevo...
parlare, di quello che è successo l'altro giorno”
mormorò dopo
qualche secondo di silenzio, in cui il suo sguardo non si era mai
staccato dalla casa, scrutando dentro le finestre scure e rotte con
così tanta intensità che probabilmente avrebbe
appiccato lui un
incendio, se avesse continuato a guardarla.
“La
scorsa settimana” precisò, pignolo, giusto per
rigirare un po' il
coltello nella piaga. Era giusto ogni tanto far sentire il leader in
difetto, quando sbagliava.
“La
scorsa settimana” concesse Leo, con un altro sospiro.
“Non ne
abbiamo più parlato. Ma entrambi sappiamo che qualcosa non
va.”
Raph
si voltò a guardarlo, incredulo. Gli sfuggì una
breve risata
cinica, preso dalla sorpresa.
“Qualcosa
non va, Leo? Qualcosa non va? Hai provato a tagliarmi la testa in
due! E hai detto che è colpa mia e che mi odi. Noi non siamo
mai
andati molto d'accordo, ma non mi hai mai detestato. E io davvero non
riesco a spiegarmi perché tu mi odi. È un po'
più di qualcosa
non va!”
Leonardo
abbassò il capo, in preda al rimorso, tormentandosi le mani
una con
l'altra. Si vergognava di ciò che aveva fatto, della rabbia
che gli
aveva fatto vedere il fratello come un nemico, ma non sapeva proprio
come scusarsene, come potersi spiegare.
“Mi
dispiace, Raph. Come leader e come fratello non ho scuse per
ciò che
ho fatto e per come mi sono comportato. Per quello che ho detto. Come
uomo... so solo che nel profondo, in una parte della mia anima che
non riesco a capire, tu sei un rivale. E quella parte preme ogni
maledetto giorno per uscire fuori e prenderti a pugni.”
Raph
era stupito dal tono soffocato di livore che aveva percepito nella
sua voce. C'era astio in ogni parola, in ogni gesto inconscio, in
ogni pausa e respiro. Leo lo odiava sul serio.
L'altro non sollevò
la testa o lo sguardo, sembrava mortificato per quello che aveva
detto, per quello che provava.
“Un
tuo rivale? Perché? Per cosa? Tu ti sei preso sempre tutto!
Sei
sempre stato il fratello maggiore, il leader, il più amato,
il
migliore, quello mandato ad allenarsi dall'Antico o in Amazzonia. Tu
sei sempre stato il mio rivale, non il contrario!”
sbottò Raphael,
che stava perdendo la pazienza.
Tutto quello era stupido. Per cosa
poteva mai odiarlo o invidiarlo, Leo?
Quello
piegò il capo di lato, pensieroso, forse persino
più confuso di
lui.
“Non
lo so. Non chiedermi di spiegartelo, perché non so davvero
farlo. Ma
so che tu hai qualcosa che io voglio e che non posso avere
perché
non sono te. Qualcosa di importante e totale, per la quale sarei
disposto a rinunciare a tutto.”
“Cosa?
Cosa vuoi da me?”
“Non
lo so. Non riesco a ricordarlo e questo mi rende solo più
rabbioso e
depresso.”
Rimasero
in silenzio. Leo era finalmente grato di essersi tolto quel peso dal
cuore, di essersi in un certo senso scusato, mentre Raph continuava a
pensare con tutte le sue forze di cosa diamine stesse parlando suo
fratello. Qualcosa che lui aveva? Qualcosa di importante, che Leo
voleva con tutto sé stesso? Era assurdo e inconcepibile. Lui
non
aveva niente. Non aveva mai avuto niente.
“Raffaello.”
La
voce della ragazza esplose improvvisa nella sua mente, scatenandogli
i brividi. Tremò leggermente, sperando che Leo non se ne
accorgesse.
In effetti lui aveva qualcosa che Leo non aveva, solo che non
esisteva per davvero.
“Ci
sono così tante cose che nessuno di noi riesce a spiegare
ultimamente... eppure, paradossalmente, nella nostra confusione
riusciamo a capirci benissimo. Mi dispiace per come ti senti, Leo, e
ti capisco. Per anni ho desiderato di essere te e so cosa si
prova.”
“Vuol
dire che adesso non lo desideri più?”
domandò innocentemente Leo,
facendogli prendere coscienza del suo pensiero appena espresso.
Raph
spalancò gli occhi, sorpreso. Quando aveva smesso di
desiderare di
essere come Leo? Di essere il leader, la guida, quello forte e
affidabile dal quale tutti dipendevano? Quando aveva infine accettato
di essere Raphael, solo Raphael? Quando era successo, come, a causa
di cosa?
O di chi?
“Già.
Mi sta bene essere solo me stesso, adesso. E se scoprirai cosa vuoi
da me, chiedimelo. Se posso dartelo, lo farò. Adesso
però andiamo a
fare un giro, ok? Tutti questi discorsi non fanno proprio per me, mi
sento... legato.”
Imbarazzato sarebbe stato il termine più
esatto, ma non avrebbe mai pronunciato quella parola.
Si
alzò, stiracchiando le ossa indolenzite dalla postura
rigida, dando
un cenno di testa al fratello perché lo seguisse. Si
calò dal
tetto, scendendo prima sulla grondaia e poi lasciandosi cadere a volo
d'angelo, atterrando nel vicolo in penombra, sporco e solitario. Leo
arrivò al suo fianco, mentre era già intento a
studiare con
minuziosità la superficie del palazzo.
“Cosa
ci facciamo qua, esattamente?” domandò suo
fratello, scrutando il
rudere con occhio clinico.
“Seguo
una pista. Sto cercando qualcosa” replicò mezzo
assorto, tutta la
sua concentrazione sulla casa, su quello che sentiva al solo starci
di fronte.
Era come un forte senso di nostalgia.
Allungò una
mano, con una lentezza esasperante, verso la maniglia arrugginita
attaccata a ciò che restava della porta, semi mangiata dal
fuoco.
Tremò appena quando la raggiunse, poi la afferrò,
deciso.
*
“Non
è un gioco,
Raphael. È
la mia guerra e la combatto a modo mio.”
“Vuoi
scappare per sempre? Vuoi davvero continuare a fuggire fino che non
verrai catturata o morirai?””
*
“Lascia
che ti aiuti. Lascia che ti insegni a combattere per il tuo diritto
di vivere” urlò, tirando la porta con tutta la sua
forza. Sapeva
che non avrebbe ottenuto niente, che
probabilmente
si
sarebbe solo staccata e gli avrebbe sbattuto in faccia, ma,
dannazione, voleva spaccare qualcosa.
“Insegnarmi
a combattere?” ripeté lei incredula, come se mai
prima di allora
avesse pensato a quella eventualità.
“Sì,
insegnarti a difenderti. Forse la tua magia non può ferirlo,
ma se
imparassi a combattere potresti finalmente avere vendetta. O
pace”
mormorò lui, accorato.
“Vorrei,
ma non posso! Se adesso ti facessi entrare, nella villa e nella mia
vita, so che me ne pentirei. Tu ti ritroveresti ingarbugliato nei
miei problemi e io finirei per affezionarmi a
te.
Non posso permettere nessuna delle due opzioni!”
*
“Va'
via, Raphael. Fai finta di non avermi mai incontrata.”
“Non
ci riesco! Mi fai... non lo so, arrabbiare, spazientire, persino
preoccupare! E non è che possa far finta di non averti mai
incontrata: ho la bruciatura di quando mi hai riportato in vita. Una
cosa piuttosto difficile da ignorare!”
*
“Mi
stai minacciando?”
“Vai
via, Raphael. Non scherzo. Le nostre strade non devono mai
più
incrociarsi, torna alla tua vita. Lasciami in pace,
dannazione!”
“Di
quale pace stai parlando? Non fai altro che fuggire e nasconderti
come una vigliacca, temendo la tua stessa ombra! Di quale
dannatissima pace parli?” gridò, sovrastato dalla
rabbia e un
sentimento che riuscì a definire come angoscia.
D'un tratto si
ritrovò a stringere una mano invece della maniglia, mentre
il
palazzo spariva lasciando posto al villino dall'aria magica, immerso
nella notte, ma senza una nuvola, né una goccia di pioggia.
Riuscì
a vedere le stelle, lì, a New York, e brillavano con
un'intensità
da far male agli occhi, quasi ritmicamente.
Lei stava di fronte a
lui, gli occhi rossi che trattenevano un pianto solitario e
silenzioso e i capelli bagnati che lasciavano cadere gocce sul viso,
quasi come lacrime.
Stringeva ancora la sua mano.
“Tra
poco capirai cos'è la vera pace”
sussurrò, avvicinandosi sempre
più.
*
“Sai,
posso andare via in questo momento... ma sembra che siamo destinati
ad imbatterci uno nell'altra, senza preavviso, senza che in effetti
lo vogliamo” la informò, urlando al di sopra dello
scrosciare
sempre più forte della pioggia.
“Mi
ricorda un film che ho visto una volta. Mi pare che si chiami
serendipità: trovare qualcosa di inusuale sulla propria
strada
mentre se ne sta cercando un'altra” rispose lei ridacchiando
tenuemente.
“Allora
non è meglio farla finita e collaborare? O vuoi aspettare
che ci
reincontriamo in circostanze assurde? Che ti salvi
nuovamente?”
“Perché
no? Se ci incontriamo ancora una volta, allora lascerò che
tu mi
aiuti. Ma non barare: senza cercarmi! Se veramente ci imbatteremo
l'uno nell'altra, Raphael... io smetterò
di
scappare da te. Promesso!”
*
“Non
è divertente! Fammi rientrare! Non puoi volerlo
davvero!” gridò
rabbioso, battendo sopra la porta, facendo cadere polvere e frammenti
di legno.
Nessuna risposta e nessun rumore provenivano
dall'interno, come se la magia fosse rotta e quello fosse per davvero
un lurido palazzo vuoto e cadente.
Strinse le mani a pugno,
colpendo con forza la porta, scardinandola completamente. Quella
cadde con un tonfo sordo, che si propagò per il viottolo,
amplificato.
“Diamine,
smettila di fuggire! Non c'è nulla di male nel voler bene
alle
persone! Non hai bisogno di punirti per niente del genere! Lo so che
mi senti! Smettila di scappare!”1
Quelle
immagini e voci ed emozioni erano esplose tutte insieme e
contemporaneamente nella sua mente e nel suo cuore, sconvolgendolo. E
forse aveva gridato, non lo seppe mai davvero. La ragazza era
indubbiamente lei, anche se allora lo chiamava Raphael, se il suo
aspetto era denutrito e spaventato, e fuggiva da lui per proteggerlo.
La
bruciatura stava letteralmente andando a fuoco mentre i suoi sensi si
affievolivano. La mano perse la presa e il corpo cadde al
rallentatore, all'indietro: prima di svenire e cancellare tutto
ancora, un nome si affacciò alla sua mente, rimbalzando
dentro di
sé, con una strana eco che si affievoliva.
Isabel.
Lei era
Isabel, la donna che aveva amato. Che amava ancora. Che non doveva
amare.
Leo
lo afferrò un attimo prima che cadesse al suolo, spaventato,
completamente ignaro di ciò che era successo.
1:
tutti i frammenti di ricordi sono presi dai primi capitoli di
September in the rain, tranne l'ultimo che viene dal capitolo 12,
quando Isabel allontanava Raph.
Note:
Buona
sera!
Scusate il ritardo nell'aggiornare, ho avuto l'influenza!
Stare al computer era davvero impossibile, e mentre mi contorcevo per
la febbre pensavo che dovevo aggiornare, senza pace, stancandomi solo
di più!
Mi siete mancati!
Non
ho molto da dire sul capitolo! L'assenza di Isabel si fa sentire,
anche se nessuno sa cosa davvero stia succedendo, tranne forse quel
testone di Raph, che arriva alla verità a modo suo.
Aww, si è
innamorato della ragazza del sogno. Ma quanto è idiota? Ah,
piace
anche per quello!
Abbraccio
e benvenuto ai nuovi lettori, grazie ai nuovi preferiti e i
seguiti!
A presto
p.s: questa volta il disegno viene da Cat,
che ha aderito alla mia richiesta e mi ha mandato un bel disegno!
Grazie tesoro, sono commossa, lo terrò caro, c'è
così tanto
affetto da farmi sorridere per giorni!
Vi adoro tutti, grazie di
cuore!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 27 *** Our missing part ***
“Aiuto!
Sensei, Donnie, Mikey!” urlò Leo, con tutte le sue
forze.
Si
trascinava a fatica il corpo svenuto di Raph, completamente a peso
morto. Con un braccio sotto il suo, aveva percorso chilometri di
fogne, per portarlo a casa, in cerca di aiuto.
“Aiuto!
Non c'è nessuno?” continuò a chiamare,
ormai senza fiato.
Si
ricordò che erano andati tutti a casa di April e Casey per
cena, e
un po' andò nel panico. Raph respirava un po' più
rapidamente del
normale, ma non sembrava avere niente di grave, almeno per quello che
lui ne poteva capire. Ma di certo il modo e il perché fosse
svenuto
gli erano estranei, non riusciva a capirli, e in un certo senso gli
dava l'ansia, senza sapere il motivo.
La
porta dell'officina si spalancò d'improvviso e Don ne
uscì fuori
in un fascio di luce, nemmeno fosse una visione.
Li
occhieggiò con spavento e urgenza, sollevando la mascherina
protettiva, in una mano la cannula della saldatrice. Gettò a
terra
tutto, in fretta, e si lanciò loro incontro senza esitazione
“Cos'è
successo?” domandò, passando il braccio sotto
l'altra spalla di
Raph, aiutando Leo a trasportarlo.
“Non
lo so. Ha toccato la maniglia di un palazzo e ha iniziato a urlare,
fino a che non è svenuto, come in preda alle
convulsioni” spiegò
Leo con fatica, mentre i due sollevavano il corpo di Raph su per la
scaletta antincendio, verso il primo piano.
Il
laboratorio sarebbe stata la scelta più logica e vicina in
cui
portare Raph, ma Don lo escluse a priori, perché non c'era
più così
tanto spazio, anche lì i pezzi della sua invenzione si erano accumulati fino al soffitto.
Il
genio spalancò leggermente gli occhi a sentire la frettolosa
e
incompleta spiegazione di Leo.
Una
volta adagiato nel suo letto, prese a controllare il fratello, dal
battito cardiaco alla respirazione, assorto.
“Come
mai sei a casa?” domandò Leo, nel frattempo,
impalato di fianco al
letto senza sapere che fare.
“Sono
andato via prima. Avevo del lavoro da fare” fu la risposta
vaga e
indifferente, come se non fosse importante.
Leo
sapeva perfettamente qual era il lavoro da fare di Don, e
iniziò a
chiedersi se quel progetto non stesse facendo uscire di testa suo
fratello; non era strano che si chiedessero che diamine fosse quella
piattaforma che cresceva via via di dimensione nell'officina, sulla
quale il loro fratello sputava sangue e sudore senza riposo. Non era
strano ed era accaduto spesso, ma nessuno di loro era comunque
riuscito a darsi una spiegazione.
“Hai
parlato di una maniglia e di un palazzo. Dov'era? Raccontami per bene
cos'è successo” ordinò Don, sollevando
le palpebre di Raph per
controllare le pupille. Riuscì a vedere solo la sclera1
, gli occhi
erano completamente
rovesciati.
“Eravamo
a Noho e Raph era strano. Continuava a guardare con ossessione un
palazzo mezzo bruciato e ha afferrato la maniglia, come se si
aspettasse che accadesse qualcosa: ma ha iniziato a urlare e tremare,
con le convulsioni. Poi è svenuto, il corpo si è
contorto ancora
qualche istante e infine è rimasto immobile”
raccontò Leonardo
ansioso, ancora un po' scioccato.
Don
stava muovendo le braccia di Raph, spalla, gomito, polso, per
controllare le articolazioni.
“Un
palazzo bruciato?” chiese assorto, piegando cautamente il
braccio
senza forza verso l'interno.
“Sì.
Una palazzina di tre piani. Le pareti erano annerite, c'erano segni
di fuoco e fiamme anche nei contorni delle finestre spaccate e la
porta era consumata per metà. Non so davvero cosa stesse
cercando o
sperasse di trovare, ma sembrava essere importante.”
Lo
sguardo di Don si illuminò per un secondo, o perlomeno a Leo
parve
così. Forse era solo il modo in cui si era voltato per
continuare a
visitare Raph.
“Sta
bene. Nessun danno celebrale o a qualche organo. È
solo svenuto” disse alla fine, sollevato.
“Ma
perché? Per quale motivo è svenuto?”
“Non
lo so. Ma non è in pericolo, perciò ce lo
dirà quando si
sveglierà. Lasciamolo riposare per adesso; tu rimani pure se
vuoi,
io ho da fare” disse Don, avvicinandosi verso l'uscita.
Leo
lanciò un'occhiata verso Raph, poi con un sospiro si
incamminò
dietro Donnie, ancora con una lieve punta di apprensione.
Uscirono
dalla stanza, facendo meno rumore possibile.
Lei
era bella e i suoi occhi brillavano mentre lo guardava, i capelli
sparsi sul cuscino che incorniciavano il viso accaldato.
Affondò
ancora una volta nel suo corpo, trattenendo un gemito mentre lei
chiudeva gli occhi e inarcava la schiena, mordendosi un labbro per
non urlare. Sentì le sue mani passare sulle spalle e le
unghie
graffiargli la pelle, percorrendo tutta la schiena e tremò,
sottilmente.
Era
straordinario come si completassero a vicenda, in quell'atto
perfetto, riempivano l'uno i vuoti dell'altra e viceversa. Il mondo
era composto solo da loro due, pelle avorio e verde scuro a contatto
e fuse, in contrasto e sintonia come lo yin e lo yang, in un vortice
infinito di completezza e piacere e benessere.
All'inizio
era stato strano, pieno di imbarazzo e paura. Un conto era sapere
come tecnicamente fare sesso, l'atto crudo e fisico, -senza
vergognarsi ad ammetterlo, aveva visto un paio di porno nella sua
vita e possedeva dei volumetti piuttosto spinti,- un altro era stato
compiere il balzo, prendere il coraggio e farlo sul serio, unire il
suo corpo ad un altro; il terrore dello sguardo di lei, del suo
giudizio inconscio depositato nel fondo dei suoi occhi, lo avevano
tenuto con fiato sospeso per tutti gli interminabili attimi mentre i
vestiti sparivano tra le loro mani impacciate e titubanti, eppure
bramose, eppure timorose.
Ma
negli occhi scuri di lei, mentre lo guardava nella sua indifesa
nudità, col batticuore e un nodo in gola, non c'era stato
altro che
amore, nient'altro che caldo, rassicurante, tenero e avvolgente
amore, perché lei per davvero lo accettava per quello che
era.
E
tutto era stato semplice, tutto era stato giusto. Le differenze tra
loro, la paura di sbagliare, la paura di non essere all'altezza, il
dubbio che fosse sbagliato, il dubbio che non fosse nemmeno
possibile, tutto si era dissolto nel bacio successivo e nelle loro
mani che si cercavano, nei loro corpi che si toccavano.
E
avevano scoperto entrambi che era perfetto, che era naturale. Persino
quando lei aveva gridato per il dolore iniziale e lui si era
ritratto, spaventato, rassicurato poi dal suo sorriso fiducioso e le
sue braccia che lo richiamarono a sé.
Si
poggiò sui gomiti e avvicinò il viso al suo,
baciandola con
passione. Lei rispose con ardore ed entrambi quasi soffocarono,
desiderosi che quel contatto non finisse; poi lei si staccò
ridacchiando, riprendendo fiato e mordendogli un labbro, dandogli se
possibile solo più eccitazione. Le sue mani piccole scesero
come una
carezza dalle spalle, sfiorando la sua pelle fino a raggiungere le
sue mani e le afferrarono, stringendo con forza e impeto.
Gli
piaceva quando sotto gli occhi gli capitava di vedere la differenza
cromatica tra loro, quando vedeva il verde scuro spiccare sull'avorio
o viceversa: era come fondersi, era come un marchio tangibile che
rimaneva impresso nella retina, insieme a quegli occhi torbidi, alle
sue espressioni maliziose, che però lei nascondeva per
l'imbarazzo.
Iniziò
a spingere più forte, con un ritmo sempre più
veloce, ogni spinta
un gemito e un tremore, estasi e il desiderio che sembrava al limite;
ma lei continuava a mordersi il labbro, tormentandolo con i denti per
non lasciarsi sfuggire nemmeno un suono, come se avesse paura di far
troppo rumore.
“Lasciati
andare” le disse avvicinandosi all'orecchio, tra un ansito e
l'altro, mordicchiandolo piano tra i denti.
Lei
spalancò gli occhi, arrossendo con un sorriso di imbarazzo,
e quando
incontrò i suoi, ridacchiò col viso arrossato,
con uno scintillio
malizioso.
Le
grida e i gemiti e gli ansimi si mischiarono, finché
entrambi non
raggiunsero il culmine, stringendosi così forte e tremando
allo
stesso tempo, colmati da un piacere totale, mai provato prima, la
pelle che bruciava, i cuori che palpitavano senza freno, i respiri
accelerati che riempivano il silenzio, come due melodie che si
armonizzavano in musica.
L'impulso
fu di accasciarsi contro il suo corpo, sentendosi ormai svuotato di
ogni forza o pensiero razionale, ma non voleva, perché
sapeva di
essere pesante. E soprattutto perché, passato il momento di
piacere
dell'orgasmo, era ritornato in sé e quello che era appena
successo
gli era finalmente piombato addosso, con tutti i suoi significati e
implicazioni.
Sembrava
tutto diverso, da quella parte della barricata. Sembrava tutto
diverso, dopo.
Aveva
fatto l'amore, per la prima volta in vita sua. Con la donna che amava
più di ogni altra cosa al mondo. Ma che era un'umana. E
probabilmente anche lei stava pensando a ciò che aveva
appena fatto,
magari ripensandoci. Come doveva comportarsi? Cosa doveva fare? Aveva
il terrore anche solo di guardarla.
Due
mani afferrarono il suo viso, sollevandolo dal riparo in cui si era
rifugiato, nell'incavo del suo collo. Lei lo baciò, con
dolcezza e
amore, piccoli baci teneri e morbidi, così diversi dai baci
passionali e famelici di poco prima, poi lo trascinò verso
il basso,
contro il suo corpo che ancora bruciava e tremava, stringendolo a
sé.
Sentì il cuore di lei, che ancora batteva impazzito,
rimbombare nel
suo corpo e unirsi al suo, che batteva allo stesso ritmo.
Infilò
le mani sotto al suo corpo, toccando con le dita la cicatrice che le
solcava la schiena, attirandola contro di sé con tutta la
sua forza
e nascondendo il viso tra i suoi capelli, sollevato, rincuorato.
Amato.
Come
diamine riusciva, lei, a stravolgere tutto il suo mondo, con semplici
gesti, con quella dolcezza profonda che non sapeva se meritasse
davvero?
“Voglio
tenerti con me per sempre, Isabel” sospirò,
baciandole l'incavo
del collo vicino alla cicatrice.
Lei
fece per aprire bocca, per rispondergli, ma lanciò un
gridolino
sorpreso quando i suoi baci si trasformarono in un piccolo morso a
risucchio, preludio di un succhiotto.
“Ti
proteggerò da qualsiasi cosa. Non lascerò che
nessuno ti faccia del
male, mai più” continuò lui dopo
qualche secondo, ammirando il
segno violaceo che aveva lasciato sulla sua pelle diafana, come un
gesto di possesso, come un marchio che suggellava quella notte
d'amore.
Lei
sospirò e, se possibile, il suo cuore iniziò a
battere perfino più
forte.
“Sarò
sempre con te, Raffaello” pronunciò enigmatica,
accoccolandosi
contro il suo petto e passando le dita sulla bruciatura che lei
stessa aveva lasciato, chiudendo gli occhi.
Aprì
gli occhi, lentamente. Mise a fuoco il soffitto con
difficoltà,
cercando di capire. Vorticava un po' e gli dava la nausea e quel che
era peggio, era che non sapeva perché stesse guardando il
soffitto
della sua camera, riconosciuto all'istante per via della familiare
crepa che correva dalla terza mattonella in alto fino alla quinta da
sinistra.
Ormai
la conosceva perfettamente.
“Ben
svegliato” mormorò una voce nota, catturando la
sua attenzione.
Piegò
la testa fino ad incontrare lo sguardo di Mikey, seduto vicino al suo
letto, su una sedia. Il fratello gli sorrideva, un po' impacciato,
come se fosse teso.
Si
chiese da quanto tempo fosse lì seduto in quella posizione
scomoda,
a guardare lui che dormiva. E perché poi Mikey lo guardava
dormire,
era forse diventato uno stalker?
“Cosa
fai...”
“Sei
svenuto. E Don e Leo mi hanno chiesto di controllarti, per sapere
quando ti fossi ripreso. Ma sono qui solo da una mezz'ora”
rispose
prontamente Mikey, che aveva intuito i pensieri del fratello solo
dallo sguardo parzialmente sospetto che gli aveva lanciato.
Raph
si alzò, tenendosi la testa con la mano, che gli faceva male
da
morire. Cielo, sembrava che si stesse spaccando.
“Sono
svenuto?” ripeté, come a voler confermare di aver
capito bene.
“Non
ricordi nulla?”
Sforzò
la mente, cercando di ricordare qualcosa delle ultime ore, ma era il
vuoto assoluto. Dove
era stato? Cosa aveva fatto? Con chi aveva parlato? C'era un buco
enorme nella sua memoria, non riusciva nemmeno a ricordare cosa aveva
fatto quella sera. O forse era passato del tempo e non era
già più
quella sera? Che diamine di giorno era? E che ora? Quanto diamine era
rimasto svenuto? E perché gli sembrava che qualunque cosa
avesse
sognato fosse estremamente importante, pur non ricordandone nemmeno
un frammento?
Sbuffò,
frustrato, e portando le mani al viso le schiacciò contro
gli occhi
con forza, nonostante facesse male, cercando di recuperare la
memoria, come se volesse affondare dentro la sua testa per cercare
cosa mancasse dai suoi ricordi, con le sue stesse mani.
Un
miliardo di luci esplosero dietro le palpebre, costellazioni intere e
galassie e vortici di bagliori, mentre i bulbi oculari pulsavano per
lo sforzo con cui premeva.
“Ehy,
ehy! Cosa stai facendo?” lo sgridò Mikey,
prendendolo per i polsi
e allontanando le mani dal viso.
“Cerco
risposte. So che sono da qualche parte dentro di me! Sono disposto
anche a trapassarmi con i Sai per trovarle, perché sono
così stanco
e arrabbiato e al limite della pazzia che tu non puoi nemmeno
immaginarlo!” urlò alzandosi in piedi, facendo
perdere la presa al
fratello, che cadde malamente al suolo, dopo un buffo tentativo di
recuperare l'equilibrio.
“Sono
stanco, Mikey” confessò, passandosi le mani sulla
faccia, più
gentilmente questa volta, come se stesse cercando solo di schermarsi
da lui per non fargli vedere la sua debolezza.
Un
debole miagolio arrivò dal pavimento e Raph si interruppe,
sorpreso.
Da quando Mikey miagolava?
Attraverso
lo spiraglio tra le dita, vide il gattone arancione poggiato sullo
stomaco del fratello, che lo guardava saettando la coda ciuffosa su e
giù.
“Da
quando è qua, Klunk?” chiese, giusto per essere
certo di non
starselo immaginando.
Mikey
ridacchiò e passò una man dietro un orecchio del
felino.
“Da
quando sono arrivato. Mi ha seguito fin qui e si è
acciambellato ai
tuoi piedi, fino a quando non ti sei svegliato. Anche Klunk era
preoccupato per te.”
Come
se volesse confermare l'esclamazione di Mikey, il gattone scese dal
suo stomaco e camminò fino alla gamba di Raph, e con una
sferzata
decisa gli graffiò il polpaccio, bucherellando la tuta coi
suoi
artigli affilati.
“Ahia!
Ehy, mi ha graffiato!” sbottò quello, ritraendosi
indignato, forse
più per non reagire che davvero per il dolore.
Il
micio, completamente indifferente, fece ondeggiare la codona con
arroganza, poi si incamminò elegantemente verso la porta.
Davanti
all'uscio si voltò e li guardò, con sguardo
penetrante.
Mikey
si alzò da terra e andò ad aprirgli la porta per
farlo uscire,
perché era palesemente quello che voleva. O forse no.
Klunk
voltò il capino in alto e guardò Michelangelo.
Miagolò. Poi si
girò verso Raph e diede un altro miagolio, e sembrava
stupido
pensarlo, ma entrambi pensarono che pareva quasi che il micio li
stesse squadrando con sufficienza.
Come
se si stesse lagnando della loro stupidità.
Con
quattro balzi ben calcolati si riavvicinò a Raph e gli
artigliò
l'altra gamba, senza fare una piega.
“Cosa
diavolo vuole? È impazzito anche lui?”
sbraitò arrabbiato
Raphael, rannicchiando le gambe sul letto e mandando un'occhiataccia
a Klunk, il graffiatore pazzo.
“Vuole
che tu lo segua” sussurrò Mikey spalancando gli
occhioni, come se
un'illuminazione divina lo avesse preso.
“Vuole
che lo segua?” ripeté, stupidamente e stupito,
mentre il fratello
annuiva solenne.
Oh,
il gatto guida decisamente gli mancava. Se c'era anche un solo dubbio
che fosse impazzito, quello era per certo il colpo di grazia, il
dettaglio finale che confermava le sue paure.
“Ma
sì, tanto ormai... portami anche nel paese delle meraviglie,
se ti
va, micio! Non mi frega più di nulla!”
esclamò balzando giù dal
letto, seguendo il felino fuori dalla sua camera.
Klunk
faceva da apripista, col codino in aria come un pennacchio, a mo' di
segnale, Raph lo seguiva con evidente disinteresse, mentre Mikey
chiudeva la fila, titubante e pieno di domande.
Percorsero
l'anello che fungeva da corridoio per le stanze del primo piano, poi
il gatto si fermò di colpo davanti ad una porta, quella tra
la
stanza di Mikey e quella di Leo. Klunk poggiò morbidamente
una zampa
sul legno, poi li guardò.
Nuovo
miagolio. E poi delle fusa ronzanti.
“Quindi?
Ci hai portato davanti ad una stanza vuota? Bel colpo, micio,
davvero!” sbottò Raph, che si era aspettato
chissà cosa.
“Magari
dentro c'è qualcosa che vuole mostrarci” disse il
fratello,
inchinandosi per coccolare la testa del suo gatto.
“Magari
ci troviamo il tuo cervello, Mikey.”
“Magari
c'è il tuo senso dell'umorismo, Raph.”
“Il
tuo gatto è scaltro come te, Mikey, non c'è da
dubitarne! Perché
diamine...” si interruppe a metà frase e la mano
corse
istintivamente verso la maniglia.
Con
la coda dell'occhio riuscì a vedere lo sguardo stupido e
curioso di
Mikey, che lo guardava senza spiegarsi cosa stesse facendo.
“Non
senti odore di... lavanda?” domandò, con l'impulso
di abbassare la
maniglia ed entrare. Eppure sapeva che non c'era assolutamente nulla
al di là della porta. Ne era certo.
“Ehy,
cosa state combinando?” chiese la voce di Don, dal di sotto.
Trasalirono
entrambi come se fossero stati scoperti a fare qualcosa che non
avrebbero dovuto, e allontanandosi dalla porta si portarono
velocemente al bordo del pianerottolo, guardando verso il basso.
C'erano
Leo e Don che li guardavano col capo verso l'alto, vicini al
laghetto.
“Abbiamo
seguito Klunk fino alla stanza vuota” rispose Raph, con
un'alzata
di spalle.
“E
cosa ci vorrebbe fare Klunk in quella camera?”
domandò scettico
Leo, guardando alternativamente lui e Mikey, cercando di capire se
non fosse tutto uno scherzo.
“Magari
vuole che diventi la sua stanza! Perché no?” si
intromise Mikey,
provando ad insistere al vedere l'alzata di sopracciglia incredula
dei suoi fratelli.
“Come
ti senti, Raph?” chiese Leo, deciso ad ignorare
quell'argomento,
per quello che gli premeva di più. Quando avevano sentito la
sua
voce, lui e Don si erano precipitati fuori dall'officina per
controllare.
“Bene...
grazie” tentennò il fratello, sul chi vive.
Perché Leo era così
affabile nei suoi confronti.
“Ma
cosa mi è successo?” non riuscì proprio
a non chiedere.
Leo
e Don si scambiarono una veloce occhiata, sorpresa.
“Non
te lo ricordi?” si informò il leader, piuttosto
cautamente.
“No”
negò Raph, constatando l'ovvio.
“Qual
è l'ultima cosa che ricordi?” intervenne allora
Don, che fino a
quel momento era stato zitto, con una chiave inglese nella mano, come
se nella fretta di uscire per controllare, si fosse dimenticato di
poggiarla.
Raph
si passò una mano sul collo, sforzando la mente a ricordare.
“Mi
ricordo di essere uscito questa mattina dopo colazione, stavo
cercando qualcosa... ma non ricordo cosa. Poi è tutto
piuttosto
confuso” disse, smozzicando le parole, mentre vaghi e caotici
ricordi si susseguivano, sfocati come attraverso una nebbia.
“Non
ricordi nemmeno che abbiamo parlato?” sentì dire a
Leo, con una
voce che sembrava accusarlo di grave tradimento.
Spalancò
gli occhi, stupito. Lui e Leo avevano parlato e lui non lo ricordava?
Che aveva fatto? Leo lo aveva picchiato fino a fargli perdere i
sensi?
“No,
ricorderei una cosa del genere. Cosa ci siamo detti?”
ribatté
prontamente, e se ne fregò altamente delle occhiate avide di
Mikey e
Don, che non aspettavano altro di sapere cosa fosse successo.
Leo
si grattò il collo con imbarazzo. Non desiderava affatto
ripetere
quello che si erano detti su quel tetto.
“Abbiamo
chiarito per quella notte... in cui ti ho aggredito. Poi siamo scesi
per contr...”
Fu
impercettibile. Un sussulto lieve del braccio di Don, che lo
sfiorò
appena, ma Leo sapeva che non era un gesto senza senso.
Incrociò per
un millesimo di secondo il suo sguardo e lesse il muto consiglio nel
fondo.
Don
gli stava ordinando di non dire nulla del palazzo, della maniglia e
dello svenimento senza spiegazione.
“...fare
un giro di ronda, ma sei scivolato giù da un tetto e hai
battuto la
testa” finì di dire Leo, con solo una lieve
titubanza. Non sapeva
nemmeno perché avesse cambiato la sua versione nel bel mezzo
della
frase, per seguire quel consiglio di Don che forse si era solo
immaginato.
Raph
sembrò credere alle sue parole, lo vide che si passava una
mano
sulla testa, e un po' si sentì in colpa.
“Non
fare troppi sforzi per adesso, ok? Meglio se riposi ancora un
po'”
attestò il genio con premura, anche se piuttosto velocemente.
Don
fece per tornare all'officina e Leo gli trotterellò
dietro,
cercando di raggiungerlo.
“Perché
mi hai fatto mentire? Perché non volevi che Raph sapesse
della
maniglia e del palazzo che stava ispezionando?”
domandò sottovoce,
con un mormorio cospiratorio per non farsi udire, mentre Raph e Mikey
lasciavano indietro un indignato Klunk e si dirigevano verso le
camere.
“Perché
non lo ricorderebbe comunque, anche se tu glielo dicessi”
rispose
con più foga del dovuto il genio, sul chi vive.
Respirò a fondo e
cercò di calmarsi, con un gesto che voleva essere una
manifestazione
inconscia di una frustrazione interiore che cercava di scacciare via.
“Otterresti
solo di fargli venire una gran curiosità che lo spingerebbe
a
ritornare là e rifare ciò che ha fatto stasera e
probabilmente a
risvenire ancora. E probabilmente a dimenticare ancora”
aggiunse,
dando una buona motivazione del perché lo avesse fermato dal
raccontare la verità.
“È
meglio che Raph non si avvicini più a quella casa, se
possiamo
evitarlo. Dobbiamo prima capire di più.”
Leo
pensò che le sue parole non erano poi così
sbagliate, erano sensate
e logiche, come ci si sarebbe aspettato da Donnie. Allora
perché
aveva la vaga sensazione che ci fosse di più, che suo
fratello non
fosse poi così sincero?
La
condizione di caos nella testa di Raph non accennò a
diminuire, nei
giorni a seguire. Era perennemente stordito e confuso; se provava a
fermarsi e concentrarsi, tutto scivolava via, lasciandolo con un
vuoto dentro che lo dilaniava.
Gli
sembrava di aver perso qualcosa, un ricordo, un pezzo di sé,
un'immagine.
Le
notti erano infinite, costellate di incubi, spezzate da risvegli
bruschi e una paura che non capiva. Per qualche strana ragione,
sapeva che quegli incubi erano iniziati da quando era svenuto e che
prima, le sue notti non erano affatto così. Gli sembrava di
ricordare una voce, un calore avvolgente, ma se provava ad afferrarli
e definirli, scomparivano nei suoi pensieri come una nube di fumo.
Le
occhiaie sotto i suoi occhi crescevano di notte in notte e per
fortuna la maschera le copriva al meglio che poteva, anche se non
poteva coprire la stanchezza che di giorno in giorno accumulava,
ormai al limite.
Una
settimana di inferno. Sette giorni di confusione e domande, a
rincorrere un'ombra, un fantasma.
C'era
poi, e la cosa lo stava facendo uscire ancor di più di
testa, lo
sguardo di Leo che lo seguiva ovunque, qualunque cosa facesse, ogni
istante che passava dentro al rifugio.
Non
ricordava affatto di aver chiarito in alcun modo il loro diverbio, ma
si fidava di ciò che Leo gli aveva detto; ma non si
giustificava in
nessun modo quello sguardo apprensivo che il fratello gli riservava,
di soppiatto, come se temesse che da un momento all'altro potesse
svenire ancora.
Forse
il suo svenimento lo aveva colpito più del dovuto.
“Ehy,
come stai?” domandò la voce del leader al vederlo
entrare in
cucina. Lui e Mikey stavano già facendo colazione, una tazza
di
caffè per uno e cereali molli nel latte per l'altro.
Come
di consueto, pensò Raph.
“Bene”
mentì con molta nonchalance, avvicinandosi al bricco del
caffè,
ovviamente sotto lo sguardo attento di Leo.
Aveva
quasi la mezza intenzione di dare di matto all'improvviso solo per
poterlo vedere sobbalzare dalla sorpresa.
Ma
Don entrò di corsa nella stanza, frenando qualsiasi
sconsiderata
idea gli fosse balenata in mente. Il genio era così euforico
e
raggiante che sembrava una caricatura del vecchio Mikey, tanto da
fargli considerare l'ipotesi che si fossero scambiati in qualche modo
il carattere.
“Raph,
Mikey, Leo, seguitemi” ordinò esagitato, uscendo
in fretta, con
una frenesia insolita. I tre si guardarono perplessi, lievemente
preoccupati.
Donnie
era impazzito completamente?
Lo
raggiunsero in fretta nell'officina, al cui interno troneggiava una
costruzione a forma piramidale, alta quanto il soffitto,
completamente bianca. Splinter era seduto ad uno dei suoi angoli, sul
seggiolino posto per tale scopo, e Donnie si trovava al centro della
stessa, con le braccia spalancate e un grosso sorriso entusiasta,
come se stesse presentando loro il suo figlio prediletto.
“Cosa
sta succedendo?” chiese Leo, preoccupato, andando verso il
maestro,
che ricambiò il suo saluto con leggerezza, assolutamente
tranquillo.
“Sedetevi,
ognuno in un angolo” disse Don, iniziando a trafficare su una
plancia nel pilone al centro della piattaforma, assorto nel suo
digitare e programmare.
“Col
cavolo! Non farò da cavia ad un tuo esperimento,
pazzoide!”
rispose Raph, ormai assolutamente certo che suo fratello fosse
completamente impazzito. Mikey e Leo sembrarono dello stesso avviso,
a giudicare dalle loro facce.
Doveva
succedere prima o poi, quella sua ossessione nell'ultimo periodo era
stato un sintomo più che evidente.
“Oh,
sì che salirete! Perché non ci ho lavorato
mattina e sera per un
mese, senza uscire, quasi senza dormire o mangiare, per sentirmi dire
un no! Alzate i vostri culi e poi poggiateli sulle seggioline,
adesso!”
I
tre fratelli spalancarono le bocche e sgranarono gli occhi, sorpresi
dal tono e le parole usate da Don, da sempre il più calmo di
tutti,
ma in quel momento il ritratto della rabbia.
“Leo,
vuoi sapere cosa hai perso? Mikey, vuoi sapere cosa ti manca? Raph,
vuoi scoprire perché è tutto confuso,
perché non hai dimenticato
solo qualcosa, ma di aver persino dimenticato di aver dimenticato?
Allora salite tutti sulla piattaforma! Adesso!”
incalzò Don
furioso, puntando col dito nervoso verso il suo macchinario, al
limite della pazienza.
Raph
annaspò, confuso. Aveva dimenticato di aver dimenticato?
“Raffaello”
esplose una voce dolce nella sua testa, dando l'ultimo colpo di
grazia alla sua reticenza.
Non
ricordava di aver dato al suo corpo l'impulso a muoversi, ma vide la
piattaforma avvicinarsi sempre più.
Salirono
tutti sul congegno, prendendo posto negli angoli, in silenzio.
Don
passò da uno all'altro smanioso, facendo poggiare loro le
mani sui
braccioli ai loro lati, ben aperte; poi ritornò al centro
della
piattaforma e abbassò leggermente la zip del colletto,
staccando
qualcosa dal suo collo e poggiandolo nell'incavo quadrato lasciato in
cima alla plancia.
Sospirò,
facendosi coraggio e gli auguri, poi premette il pulsante bianco
sotto l'incavo.
Il
piccolo oggetto si illuminò di una tenue luce azzurrina,
lieve e
quasi fiabesca, che corse giù per la plancia e poi si divise
in
diramazioni sottili, dirigendosi ai quattro lati della piattaforma,
come serpenti di luci: risalirono lungo gli altrettanti pilastri fino
alla cima, poi ricaddero su di loro, investendoli completamente.
Una
meravigliosa pioggia di luce, delicata.
Immagini,
a migliaia, si riversarono nelle loro menti: differenti per ognuno di
loro, ma con lo stesso soggetto. Lei sorrideva o parlava o era
concentrata o con un'espressione dolce, sorpresa, attenta, complice,
commossa, felice, in ogni momento che avevano vissuto con lei. Fino
all'ultimo, sul tetto del palazzo, mentre arrabbiata separava Leo e
Raph con la magia.
“Sarebbe
stato meglio non avervi mai incontrati, piuttosto che vedervi
così!”
ripeté
nella loro mente,
guardandoli con occhi feriti, prima di sparire alla vista.
Il
flusso di energia finì e tutti e quattro riaprirono gli
occhi,
spaventati e sconvolti, guardandosi attorno, fino ad incontrare gli
sguardi degli altri.
“Isabel!”
esclamarono tutti assieme.
Don
li osservò, sorridendo, lasciandosi andare ad un sospiro di
sollievo.
“Grazie
al cielo avete recuperato la memoria. Non so cosa avrei fatto se non
avesse funzionato!” esclamò, portandosi le mani
tremanti alla
testa, lasciando andare le sue inquietudini.
“Isabel
vi ha cancellato la memoria. Anzi, sarebbe meglio dire che si
è
cancellata dalla vostra memoria. Ma qualcosa non ha funzionato,
perché in un modo o nell'altro sentivate quella
mancanza” spiegò
alle loro espressioni ancora frastornate.
“Pensavo
di impazzire, al vedervi vagare come dannati senza memoria,
così
diversi, così incompleti e rabbiosi”
esalò, lasciandosi cadere al
suolo.
La
consapevolezza di ciò che era successo li colse, in pieno;
non solo
la completezza dei loro ricordi e pensieri, dei loro sentimenti, ma
anche qualcosa che nessuno di loro poteva sapere e capire.
Don
era rimasto normale, per tutto quel tempo. Don aveva cercato un modo
di portare anche loro alla normalità, senza concedersi
riposo,
consapevole di poter essere il solo a poter fare qualcosa.
Solo,
nella sua conoscenza.
“Perché
non ha cancellato anche la tua memoria?” domandò
Mikey, con un
sussurro flebile.
“Lo
ha fatto. O almeno ci ha provato. Ma io l'ho preceduta”
rivelò
Don, sollevando il dito verso il piccolo oggetto che aveva poggiato
sulla plancia: l'amuleto del padre di Isabel, che aveva il potere di
neutralizzare ogni genere di magia, splendeva piccolo ed esotico coi
suoi ghirigori ricercati, in contrasto con il bianco asettico della
piattaforma.
“Quando
Isabel è scappata quella sera, ho pensato che avesse in
mente
qualcosa. Era così strana, era così ferita e
arrabbiata. E mi sono
ricordato della minaccia che ci fece l'anno scorso, come una
rivelazione. Allora sono andato dal sensei e mi sono fatto dare
l'amuleto; se mi fossi sbagliato l'avrei semplicemente restituito. Ma
quando il giorno dopo Mikey mi ha detto che non sapeva dove foste e
voi siete tornati insieme e tranquillamente, per essere due che la
sera prima avevano cercato di ammazzarsi, ho capito che forse avevo
indovinato. E quando Raph ha detto di non ricordare nulla della
bruciatura ho capito che quello che temevo si era avverato: Isabel
aveva fatto un incantesimo per cancellare i suoi ricordi, credendo di
farci del bene.”
“Tu...
tu mi hai fatto il suo nome quella mattina”
ricordò Mikey. “Ma
io l'ho dimenticato immediatamente!”
Donnie
annuì, rincuorato, un po' più sereno. Era
così bello riavere
indietro la sua famiglia così come doveva essere.
“Non
importava quante volte io la nominassi o vi spiegassi chi fosse,
continuavate a dimenticarla l'istante dopo. L'unica cosa che
sentivate era la sua mancanza, anche senza ricordarla.”
“Perché?”
domandò Leo, accorato.
“Perché
è inutile cancellarsi dalla mente, se il cuore ancora
ricorda” si
intromise Splinter, con uno scintillio profondo nello sguardo, che
saettava sui suoi figli.
Si
era solo immaginato che l'anziano padre guardasse lui e Raph con
particolare intensità?
“Perfetto!
Adesso andrò a prenderla a calci! E le farò
capire che non può
fare quello che le pare e quando le pare con la mente degli altri,
solo perché crede che sia giusto!” urlò
Raph fuori di sé,
alzandosi come una furia.
Era
sconvolto. Ricordare ogni cosa di Isabel lo aveva di certo fatto
sentire meglio, si era risentito completo e perfetto, ma in quel mese
in cui non si ricordava di lei si era, se possibile, innamorato
ancora di più. Ad ogni sogno, ad ogni rinnovata sensazione.
E
in quel momento aveva ricordato che non avrebbe dovuto, che era
sbagliato.
Leo
si alzò per contrastare la sua rabbia, contro la donna della
quale
anche lui era innamorato. Aveva ricordato ogni cosa, aveva ricordato
cosa gli mancasse, cosa bramava, cosa Raphael aveva che lui voleva.
E
la sua furia nei confronti del fratello aveva finalmente acquistato
un senso.
“Non
ti permetterò di toccare Isabel!”
“Fatti
da parte, traditore.”
“Ragazzi”
si intromise Don, urlando per sovrastare le loro grida. I due lo
ignorarono e continuarono a riempirsi di ingiurie e minacce.
“Ehy!”
urlò più forte il genio, tanto che nel
laboratorio rimbombò solo
la sua voce, zittendo all'istante i due.
Si
voltarono verso di lui, turbati.
“Isabel
non c'è più. Ha lasciato il suo appartamento la
notte stessa in cui
vi ha fatto l'incantesimo. Se n'è andata per
sempre” rivelò
stancamente Don, nel silenzio spesso.
1:
la sclera è la parte bianca dell'occhio. Un termine
più ricercato.
Note:
Buon
giorno!
Scusate
il ritardo. Ho avuto problemi col capitolo. Mi sono lambiccata il
cervello se lasciare o no quella parte lassù, quella un
po'...
spinta. Sono una persona pudica, perciò ecco, non leggo e
scrivo mai
cose del genere. Lo giuro! È così facile cadere
nel volgare, in
descrizioni crude che spezzano l'atmosfera delicata, che me ne tengo
alla larga. Però non volevo toglierla, era una fase del
percorso di
Raph, e non mi sono soffermata in descrizioni tecniche e senza
poesia. Preferisco spiegare certe cose per sensazioni e dettagli
delicati.
Spero
quindi che risulti adatta. E voi non mi potete vedere ma io sono qui
che aggiorno col volto paonazzo, imbarazzata come pochi. Se a
qualcuno dà fastidio lo dica pure.
Piccolo
dettaglio che ormai avrete capito: avete pensato tutti che Raph
avesse recuperato la memoria, nello scorso capitolo. Ma in
realtà
c'era una frase che diceva il contrario:
… prima
di svenire e cancellare tutto ancora, un nome si affacciò
alla
sua...
Sì,
c'era andato
vicino e aveva
ricordato, ma non solo non aveva serbato il ricordo di quella
scoperta, aveva anche perso tutti i ricordi conquistati nei sogni
notturni.
Se
non foste stato per Donnie, quindi, tutto sarebbe punto a capo. Sia
lode a Donnie il magnifico!
Adesso
sì che hanno recuperato la memoria, ma Isabel è
andata via.
Vi
ringrazio per stare dietro a questo delirio, vi prometto che non
durerà ancora a lungo. Grazie a chi legge, a chi recensisce,
ai
preferiti e seguiti!
Un
grandissimo abbraccio alla zucca!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 28 *** Challenge ***
“Non
mi interessa! Per me può stare benissimo dove sta”
sbottò Raph
esasperato, per la centesima volta.
La
sua famiglia lo stava decisamente assillando, con la ricerca di
Isabel. E non era il meno peggio.
Il
peggio era che anche tutti gli altri, riportati alla
normalità da
Don, avevano iniziato a fare le ricerche per trovarla, senza
risparmiarsi. Casey, April, Angel, Steve, si erano sottoposti
all'influsso della macchina per la memoria e ne erano venuti fuori
scombussolati, ma di certo molto sollevati per aver finalmente
ricordato.
C'erano
stati dei discorsi, dei chiarimenti, delle prese di posizione.
Il
clou era stato lo scappellotto indignato che April aveva allungato a
Leo, in un silenzio attonito e generale.
“Perché
non mi hai detto che era Isabel?” lo aveva sgridato con
sguardo
fiammeggiante, con la mano in alto in una silenziosa minaccia per un
altro schiaffo a seconda di cosa avrebbe risposto.
Il
leader era arrossito, mentre si strofinava il collo leso e osservava
teso gli occhi di tutti puntati su di lui, imbarazzato per essere
così scoperto.
C'era
qualcuno che ormai non lo sapesse?
“Non...
non sapevo come dirtelo. Temevo che ti saresti arrabbiata, che mi
avresti dissuaso, che ti avrei delusa” aveva mormorato alla
fine,
con impaccio.
La
mano di April si era sollevata un po' più in alto e Leo
aveva
strizzato appena le palpebre, aspettandosi un nuovo scappellotto.
“Per
chi mi hai presa? Non ti avrei mai giudicato o... adesso dobbiamo
solo trovarla, ma prima o poi riprenderemo questo discorso”
aveva
risposto dolce, carezzando la guancia dell'amico, con quella stessa
mano.
Ma
non importava quanto provassero a cercare Isabel: era scomparsa senza
lasciare traccia. Avevano preso in ipotesi l'idea che potesse essere
tornata nel suo regno e che in quel caso non avrebbero potuto
trovarla, mai più, ma si erano incaponiti nel lasciare
quella
possibilità per ultima, solo dopo aver cercato in ogni
angolo, solo
per quando non avessero più avuto altra scelta.
Leo
era quello che ci metteva più impeto, ma anche Mikey non era
da
meno; perfino Don era smanioso di trovarla, probabilmente per
sgridarla per ciò che aveva dovuto passare in quel mese in
cui era
stato l'unico a ricordarla, con molto stress.
Raph
invece, come aveva detto, non aveva alcuna intenzione di trovarla.
Adesso che lei era finalmente uscita dalla sua vita, come aveva
chiesto fin da quando era tornata, perché avrebbe dovuto
riportarla
indietro?
Certo
che moriva dalla voglia di sapere dove fosse e come stesse, tanto da
impazzire, ma se il prezzo per le sue sofferenze era il saperla
lontana e al sicuro e probabilmente in procinto di farsi una nuova
vita, allora avrebbe sopportato qualsiasi cosa.
“Ma
se...” disse Mikey, provando a farlo ragionare. Erano ormai
due
settimane che avevano recuperato la memoria e si erano messi a
cercarla. Erano due settimane che provavano a coinvolgerlo per farsi
dare una mano.
“Niente
se. Non voglio cercarla. Fate come vi pare, non mettetemi in
mezzo”
lo interruppe Raph, salendo verso la sua camera.
Sbatté
la porta con forza, chiudendola metaforicamente in faccia alle loro
richieste, poi, in preda ad una frenesia che gli impediva di
calmarsi, prese a lanciare con foga le cose attorno.
Perché
non volevano lasciarlo in pace? Perché lei non lo lasciava
in pace?
Perfino quando non aveva memoria di lei era stato assillato dai loro
ricordi assieme, da ogni dettaglio di lei che aveva amato.
Che
amava ancora, dannazione.
Con
un colpo rovesciò la cassettiera, i cassetti fuoriuscirono
dalle
guide e il contenuto si sparpagliò per terra, nella sua
indifferenza. Occhieggiò il cumulo di abiti e cianfrusaglie,
mescolati tra loro, uno scintillio sotto il paio di guanti rosso che
Isabel gli aveva regalato tre natali prima.
Sospirò,
stringendo il setto nasale tra le dita.
Perché
non poteva cancellarla davvero dalla sua vita e dal suo cuore?
Un
clangore, un respiro frettoloso e urgente, nella foga di parare gli
attacchi. La lama della Naginata sfiorò il suo braccio e
strinse
appena i denti per resistere al dolore.
“Siete
completamente impazziti?” ruggì Raphael, schivando
a destra per
evitare il colpo di falcetto dritto contro il collo.
Lame,
lame affilate che miravano ai suoi organi vitali, alla sua giugulare
scoperta. Non vedeva altro. Con una capriola all'indietro
riuscì a
prendere un po' di distanza e con un veloce dietro front si mise a
correre, con tutta la sua foga.
Il
sibilo di una catena esplose vicino alla sua testa. Troppo vicina.
Trattenne
il fiato con terrore. Stava per morire e non si sarebbe mai aspettato
che sarebbe successo in quel modo o per loro mano.
Il
fruscio del vento nelle orecchie, nessun attrito contro il corpo. Non
che fosse strano, stava correndo attraverso l'aria, fusa. Il cuore
batteva all'impazzata e la luce rossastra sul suo petto pulsava allo
stesso ritmo, barbagliando nella notte come un allarme.
Solo
un pensiero nella mente, solo una preghiera.
Fa'
che stia bene. Ti prego, fa' che stia bene.
New
York era una bruma indistinta, così statica da scivolare via
nella
sua velocità. Niente rimaneva impresso nella retina, niente
era così
importante da essere assorbito.
Luci,
colori, suoni, odori. Tutto scorreva via, come acqua tra le dita,
come pugni di sabbia tra le trame di una rete.
Tetto.
Corsa. Salto nel vuoto. Corsa sfrenata. Terrazza. Corsa a rotta di
collo. Tuffo oltre una cisterna d'acqua.
Corsa.
Corsa
disperata, corsa frenetica, corsa delirante.
Ti
prego, ti prego, ti prego.
Un
ti prego ad ogni falcata, un ti prego ad ogni respiro che faceva male
ai polmoni.
E
poi, davanti ai suoi occhi si profilò ciò che
cercava, le ombre
stagliate contro le luci dei palazzi, che lottavano senza tregua.
Non
le ci volle niente per riconoscere la figura di Raphael che si
difendeva dagli attacchi di due avversari e anche da quella distanza
riuscì a vedere lo scintillio delle lame affilate che
calavano e
affondavano contro la sua persona, evitate per un soffio, all'ultimo
secondo, sempre più difficilmente.
Il
cuore le balzò in gola, i battiti che ferivano le orecchie
per
l'agitazione, rischiando di farle perdere i sensi.
Una
mano si sollevò e si tese, poi si chiuse repentinamente a
pugno,
afferrando l'aria spasmodicamente.
Un
paio di gridi esplosero nella notte, quando le due figure si
scontrarono contro lo scudo apparso intorno a Raphael, dal nulla.
Non
poteva vedere il suo sguardo da laggiù, ma poteva facilmente
immaginare che fosse sorpreso. Meravigliato. Forse anche un po'
spaventato da quell'evento che non sapeva di certo spiegare.
L'indomani
lo scudo sarebbe caduto e lui avrebbe scordato tutto ciò che
era
successo, sepolto nel fondo della memoria, insieme ad ogni altro
ricordo di cui lei era parte.
Sorrise,
tristemente, abbassando lentamente la mano lungo il fianco.
Era
così che doveva essere. Era giusto.
La
luce rossa della sua collana si era finalmente spenta ed era tornata
ad essere un'innocua pietra violacea, poggiata sul suo seno con
negligenza, al fianco alla scheggia verde scuro lunga qualche
centimetro.
Due
braccia apparvero dal nulla e la strinsero con così tanta
forza che
la pietra sembrò quasi infilzarsi nella sua carne, tanto che
forse
qualche osso scricchiolò. Il suo avversario la teneva
stretta contro
il suo torace, compressa come in una morsa.
La
sorpresa e l'agitazione distolsero la concentrazione e non seppe con
certezza se lo scudo fosse ancora in piedi o meno.
Dopo
il primo attimo di paura iniziale, perciò, tornò
prepotente il
desiderio di proteggere Raphael: un bagliore accecante l'avvolse e
sentì il suo nemico lasciarla andare sorpreso, allontanato
dalla
lieve scarica elettrica che emanò.
Una
torsione del busto e le mani afferrarono un braccio che si tendeva
nel buio in cerca di punti fermi, un piede si poggiò sullo
stomaco
dello sconosciuto e con un tuffo all'indietro lo scagliò
lontano.
Rimettersi
in piedi e cercare di capire cosa fosse successo fu un tutt'uno.
Trattenne il fiato con terrore: lo scudo era sparito e con esso
Raphael e i suoi aggressori.
Si
avvicinò all'uomo che aveva gettato a terra, per chiedergli
spiegazioni, ma quando fu a portata, quello colpì le sue
gambe con
le proprie, sbilanciandola: barcollò e cadde in avanti,
finendo
dritta sopra il suo aggressore.
Le
sue braccia la circondarono di nuovo, all'improvviso. Si
irrigidì un
secondo, pronta a fulminarlo ancora, ma si interruppe al riconoscere
il tocco gentile e pieno di calore.
“Dio,
come mi sei mancata” mormorò l'uomo, stringendola
a sé.
La
sua voce rimbombò nel petto, insieme al batticuore sfrenato.
“Leo?”
soffiò fuori incredula Isabel, puntellando i gomiti per
poter
sollevare il busto.
Gli
occhi del leader incontrarono i suoi, felici ed emozionati.
“Come...”
provò a chiedere la ragazza, prima che un paio di mani
sbucate dal
nulla l'afferrassero per la vita, sradicandola dalle sue braccia,
sollevandola come se non pesasse nulla.
“Non
ci credo, l'abbiamo trovata!” sentì dire alla voce
euforica di
Mikey, vicinissima. Dovevano averlo sentito tutti nei dintorni.
Ma
non era stato lui a prenderla.
Toccò
terra con i piedi e poi venne stretta in un nuovo abbraccio, quasi
rabbioso, quasi convulso. Si accorse solo dopo pochi istanti che era
Don, dall'odore di olio e ferro che lo avvolgeva.
“Mi
hai fatto quasi impazzire” mormorò abbracciandola
più forte,
disorientandola da morire.
“Come...
cosa...” riuscì solo a balbettare, mentre Mikey si
metteva in
mezzo per prenderla come se fosse un pacco e abbracciarla a sua
volta, mentre continuava ad esultare e parlarle nell'orecchio,
accrescendo la sua confusione.
“Cosa
sta succedendo?” esplose alla fine, piantando le mani sul
torace di
Mikey per allontanarlo da sé.
Erano
tutti lì, a guardarla, con occhi arrabbiati, occhi felici,
occhi
emozionati. Poi arrivò lui, e non seppe dire come fossero i
suoi
occhi, ma di certo non sembravano contenti.
“Succede
che sei in grossi guai. Enormi” soffiò fuori
Raphael, fermandosi
vicino ai suoi fratelli, un muro impenetrabile che la metteva alle
strette.
“Perché
voi...”
“Ci
ricordiamo di te? Oh, è una storia molto
interessante” la
interruppe Don, desideroso di dirgliene quattro.
Le
spiegò cosa era successo. Che lui si era protetto con
l'amuleto di
suo padre. Che nonostante lei si fosse cancellata dalla loro memoria,
loro non l'avevano affatto scordata; che erano quasi impazziti per
capire cosa non andasse in loro; che Leo aveva quasi fatto fuori
Raphael; che niente era sembrato giusto in quel mese in cui non si
ricordavano di lei.
“Soprattutto
io. Soprattutto io che ricordavo tutto e li vedevo vagare alla
ricerca di un pezzo che mancava loro, mi sono sentito responsabile e
più abbandonato, senza sapere davvero che fare” la
accusò, deluso
e arrabbiato come non l'aveva mai visto.
Don
non era il tipo da fare piagnistei o far pesare agli altri suoi
momenti difficili, era solito minimizzare tutto, per non dare
fastidio; ma sembrava che il restare fermo a guardare la sua famiglia
vagare nel buio, mentre lui sapeva, mentre lui era l'unico a
ricordare, lo avesse pressato più di quanto avessero
immaginato.
Isabel
confrontò il suo sguardo amareggiato e accusatorio e si
sentì
morire. E voleva abbracciarlo, ma sentiva che lui si sarebbe
scansato, troppo arrabbiato con lei.
“Mi-mi
dispiace” disse sinceramente; “Non avreste dovuto
ricordare, non
sarebbe dovuta andare in questo modo.”
“Tu
non puoi giocare con la mente delle persone come ti pare” si
intromise Raphael, alzando il tono della voce.
“Voi
non avreste dovuto ricordarmi! Era così che doveva andare,
l'ho
fatto per voi!” si difese Isabel, senza indietreggiare di un
passo.
Non
le importava che il cuore le stesse quasi per uscire dal petto,
doveva spiegarsi, doveva difendersi.
“E
invece siamo quasi impazziti, per colpa tua. Perché non
pensi alle
conseguenze delle tue azioni, mai, non ti importa di quanto male fai
alle persone con le tue scelte, con le tue decisioni. Non te
n'è mai
importato!”
Cadde
un silenzio pesante, tanto quanto il respiro di Raph, che riprendeva
fiato dopo la sua sfuriata. Forse più aggressiva di quanto
avesse
dovuto, forse più sincera e rivelatrice di quanto avesse
voluto.
C'erano accuse del passato in quelle frasi, di tutte le volte che lei
lo aveva abbandonato.
Isabel
si mordeva il labbro con gli occhi lucidi, arrabbiata con sé
stessa,
perché sapeva che ogni parola era vera. Che quell'odio se lo
meritava.
“Allora
perché mi avete cercato? Perché non avete
lasciato che stessi
lontana da voi, una volta ricordato? Perché non mi avete
lasciata in
pace?”
Raph
alzò la mano e mostrò il cordino che teneva
stretto nel pugno,
mentre la pietra viola ciondolava freneticamente, in circolo, nel
vuoto.
“Io
non ti ho cercata. Sono stati loro a provare ad ammazzarmi quando
hanno scoperto che avevi nascosto la collana nella mia stanza.
Un'altra delle tue decisioni arbitrarie, come al solito.”
Le
allungò la collana e aprì la mano lasciandola
cadere e Isabel
l'afferrò al volo prima che toccasse il suolo.
Aprì il pugno e
guardò la pietra gemella della sua, scintillare
innocentemente nel
palmo.
“Non
doveva andare così” mormorò a
sé stessa.
Una
mano si posò sulla sua spalla, attirando la sua attenzione.
Mikey la
guardava con affetto, senza rimproverarle nulla.
Il
suo era il solito, entusiasta, brioso sguardo da Michelangelo. Felice
di riaverla lì con sé.
“Non
devi cancellarti dai ricordi delle persone solo perché puoi
farlo.
Non è giusto per loro, ma quel che è
più importante, non è giusto
per te” mormorò, con dolcezza. Poi
allungò le braccia per
stringerla, per rimarcare quanto fosse importante.
“Ma...”
“Ascolta,
adesso è tardi. Promettici che domani verrai al rifugio.
Prometti
che verrai a parlare. Devi delle spiegazioni a tutti, devi delle
scuse a tutti” tagliò corto le sue lamentele Don.
Isabel
si scostò da Michelangelo e il suo sguardo
scivolò su tutti loro,
assorto. Poi annuì, semplicemente.
Perché
la voce non avrebbe retto al senso di colpa che sentiva. Sapeva
già
che ciò che aveva fatto non era stato etico né
giusto, tuttavia si
era cullata nell'illusione che fosse per il loro bene e aveva
seppellito il rimorso nel fondo dell'anima.
Ma
sapere che invece non aveva fatto altro che causar loro più
dolore,
l'aveva fatta sentire un mostro, indegna del loro affetto.
Quante
domande aveva, adesso che erano lì con lei. Che si era
ripetuta
giorno dopo giorno, convinta che non avrebbe mai potuto fare.
Era
convinta che non avrebbe parlato con loro, mai più.
Una
mano afferrò il suo polso e la strattonò,
tirandola via. Leo la
stava portando lontano dagli altri, con urgenza.
“Leo,
cosa...”
Il
leader si fermò solo quando fu sicuro che i suoi fratelli
non
potessero sentire. Poi si voltò a guardarla e
lasciò andare il suo
braccio, come se quel contatto scottasse.
“Io...
devo parlarti. Ma non posso adesso, è un discorso troppo
lungo e
intimo. Domani mattina, possiamo vederci al dojo, prima dell'orario
di lezione?”
Isabel
assorbì la sua richiesta accorata in silenzio, mentre lui
attendeva
la sua risposta, teso come un fuso.
Sembrava
che fosse una cosa importante, troppo importante per poter
semplicemente ignorare il coraggio che doveva essergli costato per
parlarle.
“Sì,
d'accordo. Ma devi promettermi che non vi batterete mai più
tra di
voi, per nessun motivo” mise come condizione.
Leo
acconsentì senza riserve, come si era aspettata.
Isabel
si voltò quindi verso gli altri, che li avevano osservati
per tutto
il tempo, chiedendosi di cosa stessero parlando.
“A
domani” esclamò piegando un po' il capo, come in
un inchino, prima
di correre via e lanciarsi nel vuoto.
Rimasero
tutti a guardarla finché non si perse nelle ombre scure
della città,
inscindibile dall'oscurità della notte.
Mikey
venne preso dalla paura improvvisa che lei stesse scappando ancora,
che non sarebbe ritornata davvero da loro il giorno dopo. Che non
l'avrebbero più rivista.
La
sensazione dell'abbandono era difficile da scordare, una volta
provata sulla pelle. E un po' capì meglio Raphael, che
probabilmente
aveva perso anche il conto di quante volte lei lo avesse abbandonato.
E
ogni volta doveva aver fatto male come e peggio della precedente.
“Devo
parlare con Leo. Mikey, Don, per favore lasciateci soli.”
Doveva
essere stato il tono gentile ma fermo, più che il per
favore, ad
aver scombussolato i suoi fratelli: le tre paia di occhi che si
voltarono a guardarlo ne erano una chiara dimostrazione. Lo
osservavano come se fosse un alieno, come se quella serata non fosse
già strana di suo.
Leo
annuì in direzione dei loro fratelli, come a voler dire che
era
tutto sotto controllo e che potevano andare con serenità, ma
Don e
Mikey fissarono entrambi con ansia, come se avessero paura che se le
sarebbero date di santa ragione.
Mikey,
soprattutto, non aveva scordato la loro furia omicida, quel suo senso
d'impotenza mentre loro si battevano con rabbia.
Con
un sospiro angoscioso si allontanarono dal tetto, con un ultimo
sguardo verso di loro, confabulando sotto voce.
“Che
cosa le hai detto?” interrogò Raph, quando fu
sicuro che fossero
soli.
Soli,
per la prima volta da quella volta in cui avevano parlato, ma coi
pensieri e sentimenti di quella notte in cui si erano battuti con
intenzioni omicide.
Le
ricordavano benissimo entrambi quelle sensazioni di rabbia, quella
lotta lasciata in sospeso.
“Niente
che ti debba interessare” rispose asciutto Leo,
già sul chi vive.
“Mi
interessa eccome! Tutto quello che riguarda Isabel mi interessa!
Stalle lontano!” lo minacciò, stringendo i pugni
con forza.
“Lei
non è affar tuo. Quello che fa. Chi vede. L'hai lasciata,
Raph. È
libera di fare ciò che vuole. Non puoi lasciarla e poi
continuare a
starle dietro!”
“L'ho
fatto per lei! Te l'ho già detto!”
“Sì
e non capisco proprio le tue motivazioni, mi dispiace. Sono solo
scuse” soffiò fuori Leo, con un'alzata di spalle
nella sua
direzione.
“Solo
scuse? Tempo fa pensavo che il 'se la ami, lasciala andare' fosse una
stronzata colossale. Una frase insulsa e senza senso inventata da
qualche coglione che stava solo cercando un modo carino di scaricare
una, senza sentirti in colpa. Perché se ami qualcuno non
puoi
davvero desiderare che se ne vada, che ti lasci da solo, a combattere
coi tuoi demoni. Ho sempre creduto che se mai avessi trovato qualcuna
che ne valesse la pena, l'avrei tenuta stretta a me, talmente forte
da spezzare il fiato, senza allontanarmi mai a più di un
passo, per
paura di perderla; che avrei lottato con le unghie e con i denti per
far sì che stesse con me, fino alla fine.
Ma
poi è arrivata lei. E ogni convinzione è andata a
puttane. L'unica
cosa che voglio è che sia felice. Non ha mai avuto nulla:
affetto,
famiglia, desideri, sogni; fin da piccola le è stato
strappato via
tutto. Vorrei essere un uomo normale, qualunque, per poterle dare
quello che merita: serenità. Una vita banale, di cose
semplici e
normali, ma proprio per questo fantastiche. Ma non posso. E nemmeno
tu.”
Riprese
fiato, pesantemente, mentre Leo lo guardava, sorridendo. Un ghigno a
metà, incredulo e scettico.
“Stronzate!
Tu hai solo paura! Hai la chiave della felicità in mano, ma
fai
finta di nulla, perché hai una fottutissima paura. Te la fai
sotto
all'idea che lei possa ripensarci e lasciarti, che un giorno venga a
dirti che ha sbagliato tutto e tu non eri quello giusto... Stai
scappando. Hai deciso di muoverti d'anticipo, per avere l'illusione
di avere tutto sotto controllo, ma in realtà ti mancano solo
le
palle per affrontare qualcosa di così grande. Sei un
vigliacco. Uno
stronzo. Hai paura di non essere all'altezza e non riuscire a
renderla felice. Sei un coglione!”
Raphael
aveva ascoltato il fratello, sempre più sorpreso.
Dalla
sua rabbia, dalla passionalità che metteva in ogni singola
parola,
dalle parolacce che si era lasciato scappare nella sua foga. Leo non
diceva le parolacce. La prima e unica volta che lo aveva sentito
dirne una era stato a sei anni, quando aveva ripetuto la parola
'culo', sentita in televisione, per far ridere Mikey. Allo sguardo di
disapprovazione di Splinter, però, si era scusato, contrito,
e da
allora non aveva mai più usato niente di più
offensivo di un
cacchio. Fino a quel momento.
In
cui l'aveva letteralmente coperto di insulti.
Leo
ansimò un poco, ancora più arrabbiato, ancora
desideroso di
dirgliene tante.
“Io
non sono come te. Mi gioco il tutto per tutto, non torno indietro,
non mi ritiro. Amo Isabel. Qualcosa che non provavo da tempo. Forse
che non ho mai provato. E non ci rinuncio, non senza lottare.
Continuerò a provare, ancora e ancora, finché non
ricambierà ciò
che provo!” attestò, con la mano premuta sul
torace, appassionato
e serio come non era mai stato.
Raphael
avanzò di un passo, minaccioso e torvo, con l'impulso di
spaccargli
la faccia in quello stesso istante.
“Non
te lo permetterò. Tu non sei quello che voglio per
lei!” urlò,
digrignando i denti.
“Sarà
lei a scegliere quello che vuole, non tu. Smettila di controllarla,
se non vuoi stare con lei e non vuoi guai.”
“Mi
stai minacciando?” disse Raph incredulo, mentre le mani
correvano
inconsciamente verso la cintura coi Sai.
Lo
sguardo di Leo seguì la sua mossa e i muscoli si tesero per
risposta.
“Non
lotterò con te. L'ho promesso ad Isabel.”
“Allora
lasciala in pace. Allontanati da lei!”
“Scordatelo,
vigliacco. Ti manderemo una cartolina dall'Amazzonia!”
Con
un saluto e un ghigno beffardo, Leo si allontanò
velocemente,
scomparendo dalla vista in pochi secondi.
Rimase
a guardare il nulla, col cuore mortalmente felice e nello stesso
tempo angosciato.
Da
quando lui era quello assennato e Leo il piantagrane testa calda?
Leo
corse. Per molte ore, per molti chilometri. Finché ebbe
fiato.
Perché
l'adrenalina scorreva a mille per il suo corpo e non sapeva in quale
altro modo buttarla fuori.
L'aveva
rivista. L'aveva stretta.
Dopo
un mese di angoscia e rabbia, -anche se allora non sapeva
perché,- e
dopo le settimane alla sua disperata ricerca, averla nuovamente
davanti era stato sconvolgente. Sentire il suono della sua voce era
stato emozionante.
Il
cuore palpitava così forte che sembrava bruciare.
Si
sentiva felice. Ribelle. Con una gran voglia di urlare e saltare e
correre e ancora gridare.
Si
fermò, ansimante, poggiandosi contro una casupola per le
scale in
cima ad un palazzo.
Scoppiò
a ridere, fragorosamente.
Aveva
sfidato suo fratello. Lui, Leonardo Hamato, il mutante più
prevedibile e ligio e serio e compassato, aveva sfidato Raphael per
il cuore di Isabel.
Rise
più forte, incredulo.
Che
diamine gli succedeva? Quella voglia di andare contro ogni buon senso
e portarla via da Raph, che non la meritava affatto... non era da
lui. Eppure lo investiva da capo a piedi, con prepotenza.
Era
pronto perfino a lasciare la sua famiglia e portarla lontano. Era
pronto a fare qualsiasi cosa.
Anche
a mettere da parte l'affetto per suo fratello.
Note:
Buona
sera!
Bello
aggiornare. Non potete capire, avevo corretto il capitolo e ho chiuso
senza salvare. Panico. Panico e angoscia! Dopo aver provato a
recuperare, invano, ho dovuto ricominciare da capo!
ç__ç Son cose
che buttano giù.
Ma
alla fine rieccomi!
Grazie
per aver letto la OS di Halloween da SITR! Pensavo non sarebbe
piaciuta, grazie per avermi dimostrato il contrario! Feliceee!
Dunque,
ci ho messo molto ad aggiornare anche perché sono impegnata
in altri
due progetti che vedrete a breve, spero! Sono lanciatissima!
E
poi, ho finito di suddividere in capitoli e vi informo che sono 34.
Sì, avevo detto 30, ma fare una stima approssimativa in un
file di
più di 450 pagine è abbastanza complesso.
E
infine, non avrò mai abbastanza abbracci per dimostrarvi il
mio
affetto!
A
presto
*____*
|
Ritorna all'indice
Capitolo 29 *** Matter of heart ***
Rientrò
al rifugio solo molte, molte ore più tardi.
Scivolò
guardingo nel silenzio ovattato, senza far rumore. Si fermò
spaventato al percepire un debole fruscio provenire dall'angolo tv,
come un movimento improvviso.
Pregò
con ogni forza che non fosse Raphael. Non voleva parlare ancora con
lui. Non era ancora il momento.
La
testa di Michelangelo spuntò da dietro lo schienale del
divano, con
l'espressione mezzo addormentata e confusa.
“Leo.
Che ore sono?” domandò biascicando le parole,
grattandosi
pigramente il collo.
“È
quasi mattina. Che ci fai ancora in piedi, Mikey?”
Il
fratello si guardò a disagio di qua e di là.
“Stavo
aspettando che tu e Raph tornaste a casa” confessò
dopo qualche
istante di silenzio.
Leo
aggrottò le sopracciglia.
“Perché?”
domandò scettico.
Mikey
non rinunciava mai a delle buone ore di sonno e di certo non l'aveva
mai fatto per aspettare lui o il loro fratello. E indirettamente gli
aveva detto che Raph non era ancora tornato.
“Perché
non vi ho mai visti così. Avete sempre litigato, ma quella
luce
omicida negli occhi che avevate quella notte... non è
normale. Ho
quasi paura che finiate davvero per uccidervi, se vi lasciamo da soli
troppo a lungo.”
Rimase
colpito dalla premura insolita di Mikey. Non che non fosse dolce,
solitamente. Anche con i suoi scherzi, era sempre attento all'umore e
agli stati d'animo dei suoi fratelli; ma in genere preferiva comunque
combinare disastri senza farci troppo caso.
E
invece in quel momento sembrava il maturo uomo che avrebbe dovuto
essere.
“Ma
no, Mikey! Tranquillo, io e Raph...”
“Sei
davvero innamorato di lei?” lo interruppe l'altro, alzandosi
dal
divano per parlargli alla stessa altezza.
Stesso
livello, occhi negli occhi, serietà a livelli
considerevolmente
alti. Tutte cose che non si sarebbe aspettato dal suo fratellino.
Trasse
un profondo respiro.
“Sì.
Amo Isabel” ammise, seppur con grande imbarazzo.
Occhieggiò
preoccupato la sfumatura rossiccia sulla faccia di Mikey, per cui si
affrettò a spiegarsi.
“Non
è una finzione per dare fastidio a Raph, se è
questo che credi. E
non l'ho voluto... è solo che lei...”
“Ma
lei avrebbe dovuto essere come una sorellina per te! Come lo
è per
me e Donnie. Era la ragazza di Raph... o una cosa simile, per lo
meno” contestò Mikey confuso, che proprio non
riusciva a capire.
“E
invece no! Me ne sono innamorato! È un crimine? Solo
perché c'è
stato qualcosa tra loro?”
“È
perché l'hai avuta sempre intorno! Ti sei innamorato di lei
perché
è l'unica donna a stare sempre con noi. E avete passato
intere
giornate assieme. È normale. Ma non è amore!
È più...
infatuazione o...”
“No,
Mikey. So cosa sento. So quello che voglio. Voglio stringerla, voglio
baciarla, voglio... meglio che tu non sappia tutto quello che voglio.
E non c'entra nulla la convivenza con lei. Né tu
né Don ve ne siete
innamorati, anche se eravate qui anche voi. E secondo questo
principio, non so, avrei dovuto innamorarmi di Angel: è
bella, è
forte, è simpatica, è stata allenata anche lei
per un periodo
assieme a noi... ma non è successo nulla. È
un'amica, quasi come
una sorella, ma non ho mai desiderato niente di più che
abbracciarla
quando la rivedo dopo molto tempo. Invece Isabel... la sua presenza
mi fa impazzire; il suono della sua voce mi fa salire un brivido
lungo la schiena; il solo sfiorarla mi dà la pelle d'oca; i
suoi
occhi scavano nella mia anima, eliminando tutto ciò di
sbagliato che
nascondo e il suo sorriso mi uccide ogni dannata volta, una morte
dolcissima. Se questo non è amore, non so cosa altro possa
essere.”
Mikey
era arrossito violentemente alla confessione del suo fratellone,
così
sentita e vera, così appassionata e sincera, che metteva a
nudo
tutto ciò che provava.
E
in genere Leo non mostrava mai ciò che provava.
“Io...
io non...”
“Non
mi puoi capire se non l'hai mai provato! Ti sei mai innamorato di
qualcuna, Mikey?” si sentì domandare,
all'improvviso.
Nel
loro passato, Don aveva avuto una cotta per April, Raph ci aveva
provato con Joy e lui si era preso una sbandata per Karai... ma Mikey
non aveva invece mai manifestato alcun interesse per nessuna ragazza.
O forse lui era stato troppo assorto nel suo ruolo di leader per
accorgersene.
Mikey
era passato dal rossore allo stupore e si grattava la testa con fare
nervoso.
“No,
le ragazze non sono proprio il mio campo” sospirò
a disagio.
Gli
occhi di Leo si spalancarono, enormemente.
“Oh”
esalò, sorpreso. Poi cadde un imbarazzante, pesante silenzio
tra
loro.
“Io...
io non sapevo... è ok, se ti piacciono... voglio dire non
c'è nulla
di male nell'essere... ciò che sei...”
balbettò incerto e con
impaccio.
I
suoi gesti erano piuttosto rigidi, perché d'improvviso si
era fatto
teso, attento a non ferire in nessun modo, con nessuna parola o
sguardo o gesto il suo fratellino.
“Sono
cosa?” chiese quest'ultimo, visibilmente confuso dalle sue
parole.
Leo
inghiottì a vuoto, non sapendo bene come comportarsi.
“Non
c'è nulla... non c'è nulla di male nell'essere
gay!” esclamò
alla fine, sicuro e convinto, con tutta la fierezza e il tatto
possibile.
Mikey
rimase attonito, muto, ad osservarlo. Secondo dopo secondo.
“Sul
serio! Sono sincero! Non cambia nulla di te ed è normale,
perfettamente....” provò a rassicurarlo con foga
Leo, che si
agitava ogni secondo di più via via che gli occhioni di
Mikey si
spalancavano ad ogni sua parola.
Poi
lo vide scoppiare a ridergli in faccia.
Rideva
così forte che probabilmente avrebbe svegliato il sensei e
Donnie,
tenendosi la pancia, piegato in due e poggiato allo schienale del
divano.
Era
il ritratto dell'ilarità.
Leo
aspettò pazientemente che finisse di ridere. Magari era una
reazione
difensiva, magari si era sentito attaccato.
“Tu
hai pensato...” cercò di dire Mikey, prima di
un'altra risata.
Inghiottì la saliva, rischiando di soffocare e
iniziò a tossire
come un pazzo.
Rise
e tossì per qualche altro minuto, con le lacrime agli occhi.
Poi
prese dei grandi respiri, cercando di liberarsi la gola e smettere di
ridere.
“Io...
non sono gay!” esclamò, tossicchiando ancora un
po'.
“Oh,
Mikey, non c'è nulla di male nell'esser...”
“Lo
so anche io che non c'è nulla di male nell'essere gay! Ma
non sono
gay! Mi piacciono le donne, te lo assicuro. Ho miliardi di giornalini
non proprio puliti nascosti in camera che lo dimostrano!”
esplose,
cercando di fare entrare in testa al fratello quel semplice concetto.
Leo sembrava essere convinto del suo essere omosessuale e sembrava
che credesse che si vergognasse di ammetterlo.
Il
leader era in silenzio e teso, come se avesse paura di romperlo
con qualche altra parola sbagliata. Aspettava che lui si
spiegasse, perciò Mikey prese un grosso respiro, prima di
parlare.
“È
solo... è solo che non mi sono mai innamorato. Se ho trovato
mai
qualche ragazza attraente? Sì, molte volte. So per certo che
ho una
fissa per le bionde, per esempio. Ma non ho mai conosciuto nessuna
che mi prendesse, che mi facesse battere il cuore o venire i brividi
giù per la schiena o che mi rincretinisse come sembra che
Isabel
abbia fatto con te e Raph. Non nego che mi piacerebbe, ma non
è mai
successo. Forse sono troppo pretenzioso.”
Era
la prima volta che fratellone e fratellino parlavano di ragazze. Era
la prima volta che si parlava di ragazze in generale, in quella casa.
O in quella prima. O in quella prima ancora.
Incredibilmente,
Leo sorrise. Staccò le Katana dalla schiena e le
poggiò contro lo
schienale del divano, poi lo scavalcò con un balzo e si
sedette,
tranquillamente. Quindi gli fece un gesto per invitarlo a
raggiungerlo.
Mikey
si avvicinò, perplesso, poi si lasciò cadere al
suo fianco,
nervoso, in attesa.
“Dimmi,
com'è il tuo tipo, Mikey?” gli domandò,
a sorpresa. Lui si girò,
guardando il fratello come se fosse un alieno e non il carismatico,
severo leader che era sempre stato. Voleva davvero parlare di una
cosa del genere.
“Io...
io non ho un tipo. Andiamo, chi ha davvero un tipo? Nessuno, credo. O
vuoi dirmi che Isabel rientra nel tuo?” rispose Michelangelo,
pensieroso.
Leo
scosse la testa, dandogli ragione.
“Ecco,
infatti” annuì saggiamente, grato che si
trovassero d'accordo.
“Però...
di certo, come ti ho detto, mi piacciono le bionde. Soprattutto se i
capelli sono lunghi e boccolosi...”
“Perché?”
Mikey
sorrise imbarazzato.
“Mi
piace il colore. Il modo in cui si accendono alla luce del sole,
così
luminosi, come un'areola che contorna un viso d'angelo. E poi penso
che stiano benissimo col verde, per quello vorrei una ragazza coi
capelli lunghi... vorrei svegliarmi con lei al mio fianco e
trovarmici ricoperto, come se fossero fili d'oro, mentre sfiorano la
mia e la sua pelle con leggerezza e arrotolarli tra le dita”
confessò sottovoce, sempre più rosso, senza
guardarlo in viso.
Leo
aveva un sorrisone incredulo. Emozionato.
In
casa tendevano sempre a vedere Mikey come un bambino. Un bambinone
grosso e cresciuto, ma sempre piuttosto infantile, in senso buono. Ma
Michelangelo non era più un bambino, non era nemmeno
più
l'adolescente troppo entusiasta e fastidioso che non pensava ad altro
che ai videogiochi. Era diventato un uomo, come ognuno di loro, e
aveva desideri e sogni da adulto, come era giusto che fosse.
Anche
se nessuno di loro si era mai fermato a prendere tempo per
domandarglielo.
C'era
un mondo dietro quella maschera arancio di cui nessuno di loro aveva
la più vaga idea.
“Una
bionda, eh? Ma sì, ti ci vedo! Perché non ce lo
hai mai detto?”
gli disse incoraggiante, dandogli un pugno affettuoso contro la
spalla.
“Quando
c'era la regola di non innamorarci delle umane mi avresti fatto la
paternale per giorni se ti avessi mai detto una cosa del
genere”
bofonchiò l'altro, massaggiandosi con fare distratto la
parte lesa.
“Vero.
Hai ragione. Non sono mai stato molto accondiscendente o
comunicativo, mi dispiace. È stato grazie ad Isabel se
stiamo
avendo questa conversazione...”
Mikey
sollevò la mano, per interromperlo, concentrato come se
volesse dire
qualcosa su cui aveva rimuginato a lungo e che in quel momento aveva
trovato la forza di tirare fuori.
“A
me... a me sta bene che tu sia innamorato di lei. È
successo, non
l'hai voluto. E non mi importa di chi tra te e Raph stia con lei,
fintanto che tutti siate felici e tu e lui non litighiate mai
più.
Siete entrambi delle persone fantastiche, i miei fratelloni forti e
magnifici, che sanno fare qualsiasi cosa, che cerco in ogni modo di
emulare. Siete entrambi dei perfetti candidati per lei... solo,
davvero, fate in modo che la cosa non vi sfugga di mano. Voglio bene
ad entrambi, voglio bene a tutti e tre, e vorrei che questa storia si
concludesse con un bel lieto fine, se non è troppo infantile
desiderarlo.”
“No,
che non lo è” sussurrò Leo, commosso,
sporgendosi verso il
fratello. Lo strinse in un abbraccio. Non era mai stato così
fiero
di lui, della splendida persona che era.
“Cosa...?”
mormorò confuso l'altro, sconcertato da quello slancio
d'affetto.
“La
donna della quale ti innamorerai sarà davvero la
più fortunata del
mondo, Mikey” asserì, dandogli delle pacche
affettuose sul guscio.
“E
pensare che fino a qualche istante fa pensavi che sarei stato la
gioia di qualche uomo” ribatté l'altro, in
imbarazzo, facendolo
scoppiare a ridere.
Rimasero
ancora un attimo stretti in quell'abbraccio fraterno. Quanto tempo
era che non si dimostravano quanto si volessero bene? Poi si
staccarono, entrambi sorridenti ed imbarazzati, e ripresero a
parlare, sottovoce, di cose da uomini, di segreti da fratelli, per
quel che rimaneva del tempo prima del sorgere del sole.
Mikey
era crollato alla lunga chiacchierata proprio appena prima dell'alba.
Si era congedato, ancora piuttosto sconcertato e teso per
quell'insolita nottata, ed era salito verso la sua camera,
lasciandolo lì da solo.
Lui
non aveva assolutamente tempo per dormire, anche volendolo. Si
diresse verso il bagno, a passi lenti, mentre rifletteva. Era quasi
mattina, ma Raph non era ancora tornato al rifugio. Era sicuro che
fosse in giro per i tetti, per cercare di sfogare la sua rabbia. O la
sua tristezza.
Stupido.
Era solo un maledetto stupido.
Aprì
il rubinetto del lavandino e lasciò che si riempisse un po',
poi si
tolse la maschera e ci tuffò il viso dentro: la sensazione
dell'acqua gelida contro la pelle gli diede una scarica di
adrenalina, allontanando la stanchezza dalla mente. Riemerse con un
grosso respiro e schizzi ovunque, scuotendo la testa lentamente, per
snebbiare gli ultimi barlumi di sonno.
Sì,
Raphael era proprio un dannatissimo stupido. Non avrebbe avuto
riguardi nei suoi confronti. Nessun rispetto per le sue richieste.
Non se erano così stupide.
Cercò
a tentoni l'asciugamano e lo passò sulla faccia, godendo del
contatto morbido, poi si specchiò: c'erano delle lievi
occhiaie che
contornavano gli occhi, ma quelli luccicavano così tanto di
trepidazione e attesa che distoglievano l'attenzione da qualunque
altra cosa.
Poggiò
l'asciugamano con disattenzione e si incamminò verso il
dojo,
stiracchiando il collo con fare distratto.
La
porta del dojo era socchiusa. Inghiottì a vuoto, poi prese
un grosso
respiro. E spinse l'uscio.
Isabel
era lì. Era lì dove gli aveva promesso sarebbe
stata. Sul serio. E
si era voltata verso di lui, al sentire il debole cigolio della
porta. E lo stava guardando, in silenzio, con il viso nervoso e
concentrato, illuminata dai primi raggi di sole che entravano dalle
finestre magiche. I suoi capelli avevano una bellissima luminescenza
rossastra alla luce del sole, dei caldi riflessi del color del fuoco.
Altro
che le bionde e le loro capigliature luminose. Mikey non aveva mai
visto quello splendore.
Accostò
e chiuse, lentamente, senza staccare il contatto con i suoi occhi.
Poi si incamminò a grandi falcate verso di lei, fermandosi
solo a
pochi passi.
Isabel
sembrava agitata, si torceva le mani e appena lui si fermò,
sollevò
il viso per poterlo guardare negli occhi.
Ma
fu costretta ad abbassarlo di colpo, quando lui si gettò
repentinamente al suolo, in ginocchio, con la fronte premuta contro
il pavimento lucido del dojo.
“Leo...
cosa...?” provò a domandare, sconvolta dal suo
gesto. Ogni muscolo
era rigido e teso, in quella postura severa.
“Ti
chiedo formalmente scusa! Mi scuso per averti baciato contro il tuo
volere!” gridò contrito lui, col viso che premeva
sempre più
verso il suolo.
“Ma
non devi...”
“Ti
ho disonorata col mio gesto impulsivo e meschino! E ho disonorato me
stesso e la mia famiglia, disonorando te! Perdonami!” la
interruppe, piegando se possibile ancor di più la schiena.
“Leo!
Per favore, tirati su!” replicò lei, col viso in
fiamme e le mani
che tremavano di imbarazzo, al vederlo umiliarsi in quel modo a causa
sua.
“No!
Non finché non mi sarò scusato a sufficienza e
non avrò il tuo
incondizionato perdono per ciò...”
“Hai
il mio perdono” sussurrò lei urgente,
accucciandosi al suo fianco.
Le
sue mani lo presero per le spalle, tirandolo verso l'alto.
Sollevò
il busto, anche se lui stava facendo forza per non lasciarsi alzare.
Isabel stava sicuramente usando la magia.
Incontrò
il suo sguardo. E il suo sorriso. E se possibile si sentì
perfino
più in colpa.
“Non
devi perdonarmi così facilmente. Quello che ho fatto
è stato
davvero meschino. Al pari di... di una molestia sessuale!”
asserì,
abbassando gli occhi, perché guardare nei suoi lo faceva
sentire
sporco.
La
mano di Isabel si tese e si poggiò sulla sua fronte, sul
segno rosso
che si andava formando, a causa del suo incontro col pavimento. Forse
aveva dato una testata contro il parquet, nella foga di inchinarsi.
Isabel
lo fece sparire, con un po' di concentrazione e il tocco delle dita.
“Lo
hai fatto per curarmi. Certo, non è stato carino il fatto di
non
avermi nemmeno chiesto il permesso. Ma so che eri davvero preoccupato
per la mia ferita e che volevi solo aiutarmi a guarire” gli
disse,
riportando la mano sulle ginocchia, per tenersi in equilibrio.
“No!
No! Non farmi apparire come un altruista! Ti ho baciata
perché
morivo dalla voglia di farlo. Nessuna azione caritatevole. Volevo
baciarti, solo il cielo sa quanto, e quella è stata
l'occasione
perfetta!” ribatté con veemenza, sollevando la
testa, incontrando
il suo sguardo di disapprovazione.
“Leo,
sai che non è vero. Tu non sei così...”
“E
invece sì! Incredibile, no? Chi avrebbe mai detto che
divento un
mostro di egoismo quando mi innamoro?”
Isabel
piegò la testa in imbarazzo. Osservò
ossessivamente le linee del
parquet, per non doverlo guardare in viso.
“Tu
non sei innamorato di me. Ami crederlo. Sei innamorato dell'idea di
innamorarti, ma non lo sei. È un'infatuazione. È
perché sono
sempre stata qui con te. E abbiamo convissuto per giorni, scherzando
e allenandoci. È normale che...”
Leo
ringhiò.
Di
frustrazione e rabbia. Perché sembrava che tutti pensassero
di
sapere meglio di lui cosa provasse? Perché volevano a tutti
i costi
sminuire i suoi sentimenti, etichettandoli e razionalizzando il come
e il perché? Lo avevano mai fatto per Raph? No!
Allungò
una mano e afferrò quella di Isabel, tirandola verso di
sé: lei
barcollò, perse l'equilibrio e cadde col fondo schiena
contro il
pavimento, sconvolta e sorpresa, ad appena pochi centimetri da lui.
Leo
si premette la sua mano sul petto.
“Senti”
le mormorò, assorto, chiudendo gli occhi.
Lei
percepì contro il palmo il palpitare furioso del suo cuore.
Ogni
battito era come una percussione contro i suoi polpastrelli.
Accelerata e fuori controllo, così veloce che quasi
sentì dolore
alla mano, a ricevere tutti quei picchiettii.
Era
un vero e proprio concerto. Poi Leo parlò, con gli occhi
ancora
chiusi, e alle pulsazioni si unirono le vibrazioni della sua voce
profonda, che rimbombavano nel petto, amplificandosi.
“Non
ha mai palpitato così veloce. Mai, nemmeno quando ho
combattuto
contro Shredder. Mai, nemmeno quando siamo stati trasportati in un
altro pianeta. Mai, nemmeno quando siamo stati invasi dai Triceraton.
O quando il mondo minacciava di finire. O siamo finiti nel futuro. O
un altro Shredder è spuntato fuori. O sono stato rapito dai
quattro
generali. Mai. Ho sempre mantenuto la calma. Mi sono allenato tutta
la vita per pensare con lucidità e non lasciarmi sopraffare
dalle
emozioni. Ma quando ti guardo” aprì gli occhi e la
osservò e il
battito accelerò esponenzialmente, “perdo ogni
briciolo di
razionalità.”
Isabel
non stava respirando. O forse sì, ma ai suoi occhi sembrava
impietrita, una scultura perfetta, immobile e pallida.
“Ti
amo, Isabel” ammise, sottovoce, tanto lieve che le corde
vocali non
vibrarono nemmeno.
Lei
trasse un grosso sospiro, emozionata dalla dichiarazione. Fece per
aprire bocca, ma Leo la interruppe.
“Non
ti sto chiedendo di ricambiare i miei sentimenti adesso, in questo
istante. Non voglio nessuna risposta. So già che cosa vuoi
dirmi.
Solo... dammi una possibilità. Non dirmi di no a
prescindere. Non
scartarmi senza avermi almeno dato una chance”
dichiarò, serio e
impettito, mentre ancora tratteneva la sua mano.
“Leo...
io ti voglio bene. E proprio per questo non voglio darti false
speranze. Sono lusingata dal tuo amore, ma non voglio farti soffrire,
non voglio illuderti su qualche cosa che non posso provare.”
“E
io non voglio certo che tu lo faccia. Non ti sto chiedendo promesse o
certezze. Solo di permettermi di starti accanto. Ancora, come prima.
Non mi allontanare, non mi trattare diversamente. Voglio continuare a
vederti, a parlarti, a corteggiarti...”
“Corteggiarmi?
È questo che mi stai chiedendo? Il permesso per
corteggiarmi?”
sbottò incredula.
Lui
rise, della sua sorpresa.
“Ma
da che secolo vieni fuori?” continuò, facendolo
solo ridere più
forte.
Voleva
abbracciarla. Forte, così tanto da non non poter
più capire dove
finisse lui e iniziasse lei, così forte che nessuno sarebbe
mai più
riuscito a portargliela via.
“Lo
sai che non sarebbe giusto. Sai che sono innamorata di...”
Leo
le tappò la bocca prima che finisse, con una mano nervosa.
“Non
dirlo. Non dire quel nome!” la ammonì, ferito.
Isabel
artigliò la sua mano, scostandola con delicatezza dal suo
viso.
“Leo,
non posso permetterti di gettare le tue energie e speranze in
qualcosa che potrebbe non accadere mai” gli
sussurrò, intristita
dal suo sguardo cupo.
“Però
potrebbe accadere. Cosa hai da perdere nel darmi una
possibilità?”
asserì Leo, persuasivo.
Non
era da lui essere così insistente, non si era mai imposto a
niente e
nessuno. Ma per una volta voleva gettarsi a capofitto, senza remore e
riserve, senza pensare a se e ma, senza rimorsi di alcun genere.
Isabel
sospirò e sembrava quasi vinta. O almeno così gli
parve. Nel fondo
dei suoi occhi scuri gli sembrò di scorgere un principio di
dubbio,
di possibilità per lui, ma forse se lo stava solo
immaginando. O
forse lo stava solo sperando.
Ma
in quel momento non ricevette una risposta concreta come sperava.
Perché lei non ne ebbe la possibilità.
Un
lieve tossire sorprese entrambi e si voltarono verso l'ingresso,
stupiti. C'era il sensei, ritto nel vano della porta, che li guardava
con serietà.
Isabel
lasciò ogni cosa in sospeso, ogni parola, ogni questione e
si alzò
di scatto, lasciandolo lì. Corse verso Splinter come se
avesse le
ali ai piedi, con un frenetico scalpiccio sul legno del parquet, ma
si fermò d'innanzi a lui con uno stop improvviso, come se
d'un
tratto si fosse accorta che non era opportuno. Non in quel momento.
Il
maestro era rimasto composto e con gli occhi fermi su di lei, una
mano poggiata sul bastone. Emanava un'aura tesa e nessuno dei due
sembrava fare caso alle due tartarughe mutanti alle sue spalle, che
osservavano la scena con silenzio e un forte senso di attesa.
Isabel
voleva parlare, voleva aprire la bocca e chiedere scusa, ma non ci
riuscì. La lingua sembrava essersi incollata al palato,
deglutiva a
vuoto il senso di disagio e rimorso e vergogna che provava sotto
quello sguardo severo.
Abbassò
solo il capo, strizzando le palpebre per la stizza di non sapersi
spiegare, di non potersi giustificare in alcun modo, in fin dei
conti.
“Isabel,
pensi di doverti scusare per quello che hai fatto?” chiese la
voce
di Splinter d'un tratto, calma.
Lei
rimase immobile qualche istante, poi annuì con vigore.
“Perché?”
incalzò il sensei.
Isabel
respirò a fondo un paio di volte, per prendere coraggio.
“Perché
vi ho creato dei problemi. Siete stati male, a causa mia”
rispose
quando fu sicura che la sua voce fosse abbastanza ferma, solo
leggermente incerta.
“Se
è solo per questo, allora non sei ancora pronta a scusarti.
Non se
prima non capisci dove hai sbagliato.”
La
ragazza sollevò la testa, confusa, e incontrò lo
sguardo fermo e
serio del maestro, profondo e saggio. Ma anche impenetrabile e
misterioso.
“Pensavi
che fosse un tuo diritto cancellare i tuoi ricordi dalle nostre menti,
che potessi farlo perché ti appartenevano. E che se noi non
avessimo
sofferto per la tua mancanza, tu non avresti dovuto scusarti. Ma
tutto il concetto è errato. Tu non hai nessun diritto
né potere,
sui ricordi che altri hanno formato assieme a te. Non ti
appartengono, non ne puoi disporre a tuo piacere. Quelle memorie
fanno parte del gradino di crescita e conoscenza che ognuno di noi
forma, ogni giorno, con ogni persona che incontra,
incondizionatamente. Tu ci hai portato via una parte di noi, una
porzione del nostro carattere, della nostra crescita, della nostra
evoluzione e questo ci ha destabilizzato: è come una persona
che si
risveglia dopo un trauma e non ricorda più nemmeno come si
scrive,
anche se sa di averlo fatto, prima. Perdi le certezze, perdi il senso
di te che hai costruito con fatica. Tutto, anche la più
piccola e
all'apparenza insignificante azione, parola, sensazione, contribuisce
a creare ciò che siamo. E nessuno deve avere la pretesa su
una parte
di te, nessuno. Capisci ora, perché hai sbagliato?”
Il
suo tono era calmo e pacato, ma proprio per quello le fece
più male.
Sembrava deluso dal suo comportamento.
Per
quel motivo non ce la faceva a guardarlo negli occhi e aveva
abbassato nuovamente la testa, piena di vergogna. Per quello e per
nascondere gli occhi lucidi, il pizzicore agli angoli per le lacrime
trattenute.
E
le sue parole la trafissero, una per una, così vere,
così sensate.
Non aveva pensato affatto in quel modo, non aveva pensato affatto
razionalmente. Così impaziente di cancellarsi, di lasciarli
per
quello che credeva il loro bene, non si era fermata a pensare alla
verità, che spiegata da Splinter sembrava così
ovvia.
“Ci
hai portato via noi stessi, Isabel. I noi che siamo diventati dopo
averti conosciuta, i noi di adesso che hanno vissuto con te, che
hanno iniziato ad aprirsi ancora di più agli umani, che
hanno
iniziato a sperare in un cambiamento, in un futuro. E tu ci hai
portato via quella speranza, senza fermarti a chiederci un parere.
È
stato sbagliato e crudele quanto tradirci” concluse il
maestro, con
severità.
Lei
scuoteva la testa su e giù, annuendo ad ogni parola, con le
spalle
curve e le mani sul viso; ormai le lacrime non poteva più
trattenerle, la morsa della vergogna era così forte da
mozzarle
quasi il respiro.
Non
aveva scuse e non avrebbe mai meritato il loro perdono, lo sapeva. Ma
con un brusco respiro prese fiato, provando a parlare, per quanto la
voce glielo permettesse.
“M-mi
dispia...” esalò straziata, prima che due braccia
la cingessero
con affetto, sorprendendola e sconvolgendola.
“Sono
felice di averti ricordato. Sono felice che tu sia tornata”
mormorò
Splinter, sentito.
Isabel
scoppiò a piangere nel suo abbraccio, rumorosamente,
apertamente,
senza frenarsi, senza fermarsi, vinta dal suo severo affetto, dal suo
rigoroso amore.
Il
saggio maestro le carezzava la testa lentamente, sussurrandole parole
gentili, ma ormai che lei si era lasciata andare, non riusciva
più a
smettere.
Non
era stato semplice nemmeno per lei, vivere lontano da loro, sola, le
uniche persone che considerava famiglia che non ricordavano
più
niente di lei.
Poi
Splinter la lasciò andare, passandola nell'abbraccio cortese
di
qualcun altro, che riconobbe come Mikey dall'odore di legno e
caramelle. L'amico la strinse e la consolò, con dolcezza.
Il
sensei, invece, nel silenzio rotto solo dai singhiozzi di Isabel,
parlò.
“Leonardo,
devo parlarti” esclamò, la voce amplificata
nell'enorme dojo.
Il
figlio spalancò gli occhi, lì dove era rimasto ad
osservare il
confronto tra lui e Isabel. Ma alla sua chiamata si sorprese e si
chiese se non spettasse anche a lui una ramanzina, in fin dei conti.
Si
sollevò da terra e seguì il maestro e padre che
si era già
incamminato verso la stanzetta da meditazione, con passo lento.
Nessuno dei due fece caso agli occhi indiscreti che li seguirono nel
tragitto, confusi e curiosi quanto lui.
Si
chiusero la porta alle spalle. Splinter camminò fino al
mobiletto
all'angolo e con gesti calmi e abituali accese un bastoncino di
incenso nell'incensiere di bronzo, dal quale scaturirono
immediatamente pigre volute di fumo, dall'odore avvolgente.
L'alberello
di gingko biloba al centro della stanza era rigoglioso, carico di
meravigliose foglie verde intenso e il piccolo giardino zen al suo
lato era stato perfettamente arato in spirali e linee perfette.
Perfino la luce che filtrava dalle finestre magiche era soffusa e
dolce, in sintonia con l'ambiente. Sembrava che tutto in quella
stanza fosse creato appositamente per creare uno stato di benessere e
calma, per indurre chi vi entrava a rilassarsi.
Ma
Leonardo era tutto fuorché rilassato. Attendeva con ogni
muscolo
teso, senza staccare lo sguardo dal padre e dai suoi gesti, con mille
domande e teorie nella mente, del perché fosse stato
chiamato lì.
Splinter
si voltò, infine.
“Siediti,
figliolo” lo invitò con voce gentile, eppure
ferma. Leonardo non
se lo fece ripetere due volte e si inginocchiò con rispetto,
con le
mani poggiate sulle ginocchia e le spalle tese.
Il
suo anziano padre invece rimase in piedi e iniziò a
camminare
lentamente avanti e indietro.
Passo,
tocco del bastone, passo. Passo, tocco del bastone, passo.
“Sai
perché sei qui,vero, Leonardo?” chiese
retoricamente. Non voleva
una risposta in realtà, lo sapevano entrambi che lui avrebbe
risposto da sé.
“Pensate
tutti di aver fatto un buon lavoro nel nascondermi cosa stia
accadendo in famiglia. E non posso dire che non vi siate impegnati,
ve ne devo dare atto, ma dovreste saperlo ormai che non siete bravi a
mentire” continuò, constatando l'ovvio carezzando
il pizzetto
lentamente.
Leo
si sentì pressato dalle sue parole, pressato a dire infine
la verità
anche a lui.
“Mi
sono innamorato di Isabel” confessò, senza
guardarlo in viso.
“Oh,
lo so, figliolo. Come so che hai baciato Isabel per curarla e che tu
e Raphael vi siete battuti armi alle mani, con intenzioni quasi
omicide. E che è per questo che lei si è sentita
in dovere di
sparire e cancellare la nostra memoria. So quasi tutto, di
ciò che è
successo. Alcune cose le sapevo prima ancora di voi” disse,
con
un'occhiata esplicita verso di lui.
Il
sensei aveva capito prima di lui che...
“Perché,
se davvero avevi capito, non mi hai impedito di innamorarmi di lei?
Non sarebbe successo nulla in quel caso, niente di tutto
questo!”
“Impedirti
di... Non si può impedire l'amore, Leonardo! L'idea stessa
è folle.
Io non potevo impedirtelo, e Raphael non può impedirtelo,
nessuno
può. Quello che io non so, ancora, è cosa hai
intenzione di fare:
se cercherai di arrivare ad Isabel, probabilmente questa famiglia si
spaccherà, ad un certo punto. Lo sai questo, vero?”
Il
cuore di Leo si strinse a quelle parole, il suo più grande
timore
che gli veniva sbattuto in faccia a chiare lettere.
“Sì,
sensei” confidò con un sussurro addolorato,
“però... non mi
importa” finì con più convinzione,
lanciato in una confessione
intensa.
“Io
amo la mia famiglia, vi amo. Ma sono stanco di pensare sempre agli
altri, sono stanco di mettermi da parte, sono stanco di soffocarmi.
Forse non otterrò ciò che voglio, forse
è solo una speranza vana,
ma voglio arrivare alla fine senza nessun rimpianto, senza domande su
se e ma che sarebbero potuti accadere se ci avessi provato. Non posso
soffocare questo sentimento come ho fatto finora con tante altre
cose. E se lei potesse ricambiare, allora prenderei in considerazione
l'idea di andarcene dalla famiglia, per non creare malumori e
fratture. So che è un pensiero egoista e meschino, ma non
posso
tirarmi indietro, ormai.”
La
mano di Splinter si poggiò inaspettatamente sulla sua
spalla,
decisa, amorevole e lui alzò il viso, incontrando i suoi
occhi scuri
carichi di affetto e un sorriso che non si aspettava.
“Sai,
figliolo, ti ho sempre osservato da vicino, più degli altri,
più di
Raphael, perché tu più di tutti mi preoccupavi.
Fin da piccolo hai
sempre avuto la tendenza a fare la cosa giusta, piuttosto che quella
che tu volevi; ti struggevi per compiacere gli altri ad ogni costo,
anche a discapito della tua stessa felicità. Come il natale
in cui
Michelangelo aveva rotto il suo regalo tre secondi dopo averlo tolto
dalla scatola e tu gli hai offerto il tuo, con un sorriso. Oh, eri
felice della gioia di tuo fratello, lo so, ma c'era una piccola parte
di te, che ignorasti, che si sentiva triste per essersi dovuta
sacrificare in favore di altri. E negli anni hai continuato... hai
creduto che fosse quello che io volevo, nonostante ti abbia ripetuto
sempre che non dovevi farlo, e ti sei addestrato non a diventare un
ninja, ma un uomo che nascondeva il vero sé stesso per il
bene del
prossimo, incessantemente.
Ma
ora, finalmente, hai smesso di fingere, almeno a te stesso. Se andare
via di qui con Isabel ti renderà felice, libero, io
appoggerò la
tua scelta, figliolo. Se questo è quello che ti dice il tuo
cuore e
tu sei pronto ad ascoltarlo e ad agire di conseguenza, io rispetto e
approvo quella scelta.
Sii
egoista, per una volta. Sii umano, finalmente. Vivi come desideri e
non come credi che il mondo voglia che tu viva.”
Leonardo
trasse un profondo respiro, come se un enorme macigno si fosse appena
dissipato da sopra il suo cuore.
Ma
ancora, niente era certo. Tutto ancora da giocare.
Note:
Buonasera!
Dunque, la
scenetta di Mikey gay è una citazione alle voci che dicono
che
Michelangelo Buonarroti lo fosse, mai davvero dimostrate ovviamente.
Insomma, la verità l'artista se l'è portata nella
tomba, mentre il
mutante mette in chiaro con suo fratello, confessandogli anche le sue
preferenze! C'è una bionda nel futuro di Mikey? Eh,
chissà!
Poi,
amo Splinter e la sua saggezza palpabile, non c'è che dire.
Leo sta
sperimentando l'egoismo che l'amore può creare nel cuore e
vuole
pensare solo a sé, per una volta.
Ma
chissà come evolverà la cosa!
Io
vi mando un caldissimo abbraccio e ringrazio dal profondo del cuore!
Vi adoro tutti, dal primo all'ultimo.
Ah,
i progetti in lavorazione sono tre, tre raccolte di Os che non hanno
nulla a che fare con la serie Heart's mutation e che sono scollegate
anche tra loro. La prima sta per arrivare!
A
presto
|
Ritorna all'indice
Capitolo 30 *** To reach you... with all my might ***
I
giorni che seguirono quella mattina furono, in un certo senso,
normali. Sembrava essere tutto tornato quasi allo stesso punto in cui
si era interrotto, seppure con piccole variazioni: Isabel aveva
ripreso a frequentare le lezioni mattutine, per esempio, anche se
adesso c'era anche Steve ad allenarsi con loro.
Dopo
la meditazione di gruppo, il ragazzo si spostava da una parte per
allenarsi con Leo, mentre Isabel e il sensei erano impegnati nelle
lezioni avanzate coi Tessen.
“Mi
dispiace che tu stia qui con me. Potresti essere lì con lei
e
provarci spudoratamente” diceva Steve quasi ogni mattina,
ripetendo
le mosse che Leo gli mostrava.
Il
leader sospirava e lasciava perdere, anche se era vero che i suoi
occhi saettavano all'altro lato del dojo troppo spesso per i suoi
gusti, spezzando la concentrazione. Ma non era possibile fare
altrimenti: i gesti lenti e sinuosi di lei, gli affondi energici
eppure eleganti, le parate aggraziate ed efficaci, le piroette che
sferzavano l'aria con un sibilo morbido facendo mulinare la sua coda
di cavallo, ogni cosa attirava la sua attenzione e lo teneva con lo
sguardo incollato, col batticuore.
Certo
che voleva passare del tempo con lei, certo che voleva allenarsi con
lei e parlarle e farla ridere e toccarla e provarci e ancora e
ancora, ma era già abbastanza insistente nel tempo che
passava con
lei fuori dal dojo, di certo non aveva bisogno di assillarla anche
mentre si allenava.
Perché
sì, aveva fatto fede al suo proposito. Aveva provato e
riprovato a
farsi notare, a stare con lei ogni istante concesso, a corteggiarla,
a conquistarla. Non che sapesse davvero come fare, nessuno si era mai
preso la briga di spiegare ad un mutante come dovesse comportarsi per
conquistare una donna, c'era da ridere al solo pensarlo,
perciò
faceva solo quello che il cuore gli suggeriva di fare: parlava con
lei, di ogni cosa, di cose di cui non aveva mai discusso prima, che
prima aveva ritenuto persino insignificanti; e ascoltava, la
ascoltava con tutta l'attenzione concessa, non solo quello che
diceva, ma soprattutto quello non diceva: i suoi respiri, le sue
pause, il linguaggio muto del suo corpo, le parole che rimanevano
incastrate nel fondo dei suoi occhi.
C'era
dolore, ancora, e dubbio nel cuore di Isabel. E lui non avrebbe
desistito finché non avesse sciolto entrambi.
Lei
sorrideva imbarazzata ogni volta che aveva a che fare con lui, le sue
guance arrossivano vistosamente e i suoi occhi scintillavano
più del
solito, ma si ritraeva o si faceva fredda e pensierosa se lui andava
più in là del consentito; se provava ad allungare
una mano per
afferrare la sua, per esempio, o se la distanza tra loro si faceva
troppo intima, troppo vicina.
Isabel
sembrava confusa da tutte quelle attenzioni e sembrava non sapere
come gestire la cosa. Donnie gli aveva spiegato il perché,
come al
solito l'unico che c'era arrivato.
“Certo
che è confusa! Isabel non ha mai avuto uno spasimante,
qualcuno che
si interessasse a lei. Ha passato la vita a fuggire e quello che
è
successo tra lei e Raph, pur non sapendo esattamente cosa sia
successo, non me la sento di definirlo un normale rapporto,
con uscite e complimenti e cose del genere. Isabel non si è
mai
sentita desiderata e non sa come comportarsi” gli aveva
spiegato il
genio quando si era confidato con lui, mentre si puliva le mani
sporche di grasso per via della riparazione ad un veicolo
nell'officina.
E
tutto aveva avuto senso, ma era anche diventato più
complesso.
Isabel era in un certo senso molto fragile e confusa, facilmente
influenzabile, e saperlo e andare comunque avanti non sarebbe stato
come approfittare delle sue incertezze, del suo desiderio di essere
amata?
Continuava
a chiederselo, in un'aggrovigliata altalena di emozioni contrastanti.
Sì, era giusto provarci. No, non era il momento adatto.
Sì, era la
sua occasione e non avrebbe indietreggiato per nessun motivo al
mondo. No, doveva rispettare i suoi tempi e i suoi spazi.
E
via così, per giorni in cui solo il pensiero di lei
affollava ogni
secondo, e il cuore bruciava tra desiderio e dubbio.
Ma
ogni cosa, alla fine, venne spazzata via, quella mattina in cui lei
aveva sorriso e aveva acconsentito con un solo cenno del capo alla
sua proposta. Un appuntamento. Una sera che avrebbe potuto passare
con lei da solo. Già solo il fatto che lei avesse accettato,
certo
dopo settimane di sua insistenza, aveva cancellato ogni incertezza e
se e ma, riempiendolo invece di
euforia, tanta da
desiderare quasi di urlare, tanta che avrebbe potuto percorrere otto
volte il giro del mondo, se solo ci avesse provato.
Non
gli importava sapere perché lei avesse acconsentito, se per
pena o
sfinimento, o perché volesse davvero passare del tempo da
sola con
lui; non importava, perché se fosse riuscito a conquistare
il suo
cuore, il momento in cui era accaduto non sarebbe mai stato
importante.
Perciò,
attese quel momento, con trepidazione palpabile, con ansia sottile,
con la morsa del cuore.
E
solo una piccola parte di sé pensò a Raphael,
solo per un momento,
forse per un leggero riguardo, forse per la sua stupidità.
Suo
fratello non gli aveva più rivolto la parola, dopo quella
discussione; non l'aveva più rivolta a nessuno, in effetti,
e vagava
solitario per fatti suoi, cercando di non curarsi di loro. E anche se
lui, Leo, riusciva a sentire la sua rabbia e la sua tristezza, per
una volta fece finta di niente, anche se sì, faceva male.
“Donnie!
Donnie! Guarda qua!” tuonò la voce di Isabel nel
rifugio, entrando
come un'ossessa sventolando in alto di qua e di là dei fogli
bianchi
che teneva in mano.
Gli
occhi le scintillavano e aveva un sorriso enorme in viso, il respiro
affannato per la corsa che doveva aver fatto.
La
porta del laboratorio si spalancò e Donatello
uscì, con ancora la
maschera da saldatore in viso. La sollevò e le
mandò uno sguardo
sorpreso e confuso, mentre lei si fermava a pochi passi, col fiatone,
agitandogli i fogli sotto il naso. L'amico ne afferrò uno e
lo lesse
con attenzione, da cima a fondo, e più leggeva
più diventava scuro
per l'agitazione; Isabel avrebbe potuto giurare che era arrossito.
Le
mani verde oliva tenevano stretto il foglio come se fosse la mappa
per il più grande tesoro del mondo, e un po' tremavano, per
l'emozione.
C'era
il suo nome su quel foglio, nero su bianco, con altre parole pompose
e ufficiose e sigilli e firme svolazzanti, ma il succo era ovvio
già
alla prima occhiata:
Donatello
Hamato, accettato come studente di medicina. Con una nota di merito
per aver passato il test di ingresso con il massimo dei voti.
Quando
Isabel lo aveva convinto a compilare il modulo di iscrizione e il
test che veniva fornito agli aspiranti iscritti, lui lo aveva fatto
con un lieve cinismo, con una flebile punta di sfiducia, dicendosi
che non era possibile alla fine dei conti che potesse davvero
frequentare i corsi, seppure da casa.
E
in tutto quel tempo, se n'era persino dimenticato, aveva relegato
quel piccolo sogno in un angolo, perché era certo che tale
sarebbe
rimasto.
Rilesse
ancora una volta il nome sul foglio, solo per essere sicuro che non
se lo fosse immaginato.
Era
tutto vero.
Scoppiò
in una risata fragorosa, completamente ebbro di felicità, e
allungando le mani abbracciò Isabel con trasporto.
“Sono
uno studente di medicina! Gli Stati Uniti mi hanno accettato come
studente di medicina!” annunciò con un tono
decisamente alto,
sollevando l'amica dal terreno. Isabel rideva, contenta della sua
gioia. Era raro vederlo così felice e quasi fuori controllo,
era
raro che esprimesse il suo affetto e la sua euforia in quel modo.
“Siamo
studenti di
medicina!”
Don
la rimise giù, tornando a guardare quel foglio che per lui
rappresentava ben più del misero pezzo di carta che sembrava.
“Non
so se puoi capire... l'Università sa che esisto. Io come
persona,
non come mutante” mormorò assorto, incredulo di
ciò che stava
dicendo.
“Donnie,
ti capisco benissimo. Neanche io ho avuto un'identità, per
troppi
anni. Non ero nessuno, nessuno sapeva che esistevo anche io al mondo,
che avevo un nome, una voce, dei sogni. Ma guardaci: esistiamo. E
proveremo quanto siamo in gamba!”
Si
abbracciarono ancora una volta, troppo emozionati per parlare.
“Ehy,
che succede qui? Abbracci clandestini? Anche io voglio un abbraccio
clandestino!”
Si
voltarono entrambi verso Mikey, in attesa a fianco a loro con le
braccia spalancate e le mani che si aprivano e chiudevano come quelle
di un bambino che smaniava per qualcosa. Dopo un fugace sguardo lo
accolsero nell'abbraccio.
“Oh,
ehy! Beh, non mi posso proprio lamentare. Cosa si festeggia?”
domandò con un lieve imbarazzo, ricambiando il loro affetto.
“Frequenteremo
Medicina, Mikey!” lo mise al corrente il fratello,
lasciandoli
andare.
Michelangelo
sollevò un sopracciglio, perplesso.
“Ah,
tutto questo entusiasmo perché dovrete studiare come muli
per i
prossimi anni? Che tu fossi un po' tocco lo sapevo, fratello, ma
Isabel è troppo carina per essere matta! Smetti di
plagiarla!
Smeeeetti!”
Trascinò
via la ragazza dall'influenza celebrale di Don, con gli occhi a
fessura, mentre loro due ridevano.
Il
suono delle loro risate e il baccano delle loro voci evidentemente
era molto alto, perché attirò l'attenzione di Leo
e di Steve, che
uscirono dal dojo con un po' di curiosità.
“Che
succede?” chiese il leader, avvicinandosi a loro a grandi
passi.
Isabel
divenne tesa all'istante, solo un lieve irrigidimento degli arti, ma
nessuno se ne accorse davvero a parte lui. Che le sorrise brevemente,
sperando di non essere visto dagli altri.
Don
e Isabel li misero al corrente della novità, prendendosi poi
i loro
auguri contenti e soddisfatti, in un clima di euforia crescente.
“Adesso
sai che cosa desidero?” esplose d'un tratto Isabel, prendendo
Don
per un braccio con agitazione.
Il
genio, forse per la prima volta in vita sua, non seppe cosa
rispondere. E l'espressione di entusiasta attesa di lei lo mandava
ancora più nel panico.
“N-no”
titubò, confuso.
“Spiegazioni
su tutto ciò che sai sulla vostra costituzione fisica e
campioni di
DNA da studiare!” trillò lei elettrizzata, come se
stesse
chiedendo caramelle e fiori e non pezzi di pelle e sangue. Il loro.
Don
non fu il solo a sollevare le sopracciglia, sorpreso dalla richiesta.
Poi però, con uno sbuffo del naso, ironico, fu quello che
sorrise
alla ragazza.
“Non
credo che ci sia bisogno di tagliuzzarci, dottoressa Frankenstein.
Leather Head ha dei rapporti su nostre vecchie ferite e studi e
alcuni vecchi campioni di sangue che puoi usare e studiare a tuo
piacere. E da oggi in poi dormirò con un occhio
aperto!” scherzò
Don, canzonandola.
Lei
rispose con una linguaccia e la pretesa che andassero immediatamente
da Leather Head, per prendere possesso delle informazioni e dei
campioni, ovviamente, ma facendo finta di volerlo solo informare
della loro ammissione in Medicina.
Don
sbuffò solo una volta, poi acconsentì, alzando
gli occhi al cielo,
incamminandosi verso il laboratorio per lasciare la maschera da
saldatore.
Isabel
gli stava andando dietro, quando una mano si chiuse sul suo polso,
fermandola. Si voltò per incontrare lo sguardo di Leo,
assorto e
profondo, che non vedeva che lei.
“Ti
ricordi del nostro appuntamento, vero?” le chiese con un
sussurro,
il pollice che sfiorava la pelle delicata del suo braccio in lente
spirali.
Isabel
arrossì, forse per il contatto, forse per la menzione del
loro
appuntamento per quella sera; annuì lievemente con un timido
sorriso
poi, spezzando con delicatezza la sua presa, si allontanò
velocemente, sparendo dal rifugio per prima.
Lui
l'aveva seguita con lo sguardo, col batticuore.
“Oh
cielo. Cos'era quello?” esclamò la voce esasperata
di Mikey,
seguita da due identiche risate. Lui e Steve ridacchiavano tra loro,
reggendosi uno all'altro.
“Cosa?”
soffiò sospettoso Leo, incerto se lo stessero prendendo in
giro.
Il
fratello e l'amico si schiarirono le gole, smettendo di ridere, e si
misero l'uno di fronte all'altro, seri come non mai. Steve fece finta
di andare via e la mano di Mikey si allungò per trattenerlo,
di
fretta.
“Ti
ricordi del nostro appuntamento, vero?” recitò a
memoria, con tono
enfaticamente accorato.
Steve
fece finta di arrossire e si nascose il viso con la mano libera,
annuendo civettuolo.
Poi
entrambi scoppiarono a ridere spudoratamente, senza ritegno, davanti
alla sua faccia.
“E
allora?” sbottò punto nel vivo Leo, cercando di
sovrastare i loro
schiamazzi.
“E
allora era pessimo!” rispose Mikey quando fu sicuro di poter
parlare senza tossire.
“Zero
punti!” rincarò la dose Steve, dandogli man forte.
“Patetico.”
“Decisamente
disperato.”
“Oh,
andate al diavolo!” esplose Leo, suscitando in loro un nuovo
attacco di risa.
Quei
due assieme non combinavano niente di buono. Mikey non faceva altro
che insegnargli ad andare sullo skate o i trucchi che conosceva ai
videogiochi o altre cose futili, come l'organizzare scherzi alle loro
spalle.
Decisamente
Mikey era fin troppo contento dell'amicizia con Steve. Sembrava quasi
volesse adottarselo come fratello minore, d'altronde continuava ad
adottare chiunque gli piacesse, che l'interessato volesse o meno.
Si
voltò per andarsene e le risate si spensero all'istante. O
forse
semplicemente la sorpresa aveva escluso ogni suono che lo
circondasse.
C'era
Raphael, di fronte a lui, che si godeva la loro scenetta con volto
imperscrutabile. A Leo parve quasi di sentire la voce di Mikey che
con un tono sin troppo falso chiedeva a Steve di accompagnarlo in
cucina per qualcosa che non capì davvero. Poi il veloce
scalpiccio
dei loro passi si allontanò e il silenzio
ripiombò.
Leo
respirò a fondo e si slanciò in avanti,
sorpassando Raph senza una
parola, diretto verso la scaletta per i piani superiori.
“Voglio
che tu la smetta” lo raggiunse la voce del fratello, come un
ordine
secco e deciso.
Si bloccò interdetto, ma non si voltò a guardarlo.
“Smettila
adesso, prima che sia troppo tardi.”
“Tardi
per cosa... per chi?” domandò, anche se aveva
già capito da sé la risposta.
“Non
costringermi a farti desistere con la forza”
minacciò Raphael, il
tono della voce cupo e serio come mai prima. Non con un fratello,
almeno.
Leo
si voltò così velocemente che se lo
trovò di fronte prima ancora
che potesse davvero rendersene conto, a nemmeno un centimetro di
distanza dalla sua faccia, una vena che pulsava nella tempia.
“Sembra
che tu abbia confuso la mia gentilezza con l'arrendevolezza, negli
anni. Non indietreggio perché tu me lo comandi, non
succederà mai.
E se vuoi essere coerente con te stesso, dimmi di farmi da parte
perché hai finalmente le palle per stare con lei. Altrimenti
sparisci dalla sua vita definitivamente” esalò
gelidamente ostile,
sostenendo il suo sguardo assassino.
Rimasero
immobili a confrontarsi, con palesi intenzioni violente l'uno verso
l'altro, e chissà come sarebbe sfociata la situazione, se
Don non
fosse uscito dal laboratorio e li avesse sorpresi.
“Cosa
sta succedendo?” domandò anche se sapeva
già la risposta, con un
tono leggermente alterato.
I
due si allontanarono all'istante uno dall'altro, senza una parola, ma
con gli sguardi che bruciavano tanto erano intensi.
Leo
se ne andò per primo, salendo la scaletta come un fulmine,
nello
spesso silenzio.
“Lo
sai che ha ragione, vero?”
La
voce di Don lo trafisse come una pugnalata al cuore. Era l'effetto
che gli faceva ogni verità pronunciata da lui. E come aveva
anche
solo potuto dubitare che suo fratello non avesse capito tutta la
situazione, persino quello che lui nascondeva?
Raph
voleva dirgli che non aveva ragione, che non capivano niente, che non
sapevano davvero niente, ma non lo fece. Non spezzò quel
perfetto
silenzio di parole non dette e se ne andò anche lui verso la
sua
stanza, maledicendo tutto e tutti, soprattutto sé stesso.
Don
rimase solo, a sospirare rumorosamente, un presagio di problemi
imminenti nella mente.
L'appuntamento,
che proprio tale non era, era infine arrivato. Leo si
preparò
mentalmente e fisicamente, anche se quello era stato il fattore
più
cruciale.
Perché,
di tutte le cose che potevano mandarlo nel panico, lui aveva eletto
la scelta d'abbigliamento. Gli era parso che andarci con la tuta
fosse troppo abitudinario, ma con abiti normali gli sembrava di
correre troppo, di spezzare la routine in maniera troppo diretta,
come se sembrasse troppo ansioso di fare bella impressione;
perciò
alla fine, dopo essersi dato
dell'idiota un'infinità di volte per assillarsi con una cosa
del
genere, aveva deciso che la tuta sarebbe andata benissimo, che era
già un notevole passo avanti da quando se ne andavano in
giro senza
vestiti come se nulla fosse.
In
fondo stava solo andando a cenare con lei e a guardare un film
assieme. Perché mai doveva sentirsi agitato? O nervoso? E
perché
diamine sentiva di sudare come un dannato?
Incontrò
una sorpresa una volta uscito dall'ascensore, ad attenderlo nel
garage. Steve gli stava porgendo un mazzo di fiori con un grosso
sorrisone, come se non ci fosse nulla di strano nel trovarsi
lì con
un bouquet colorato nelle mani, nella rimessa abbandonata di un
gruppo di mutanti.
Come
se fosse capitato lì per caso.
“Grazie,
ma non sei il mio tipo. Sei troppo giovane, sai, e c'è una
che mi
piace” disse Leo ironico, incamminandosi verso il furgone.
“Ah,
capito. Allora, Romeo, vai pure al tuo appuntamento a mani vuote,
come il peggiore dei cafoni” ribatté Steve
piccato, andandogli
dietro.
Leo
si fermò mentre saliva sul veicolo, poi allungò
una mano e afferrò
il bouquet, con un sorriso di ringraziamento per quel giovane monello
che ne pensava decisamente troppe. Appoggiò delicatamente i
fiori
nel sedile del passeggero e si mise alla guida. Steve si sporse
all'interno dal finestrino.
“Mi
raccomando, fai da bravo. E non fare niente che non farei io.
Letteralmente” si raccomandò il ragazzo con tono
solenne, prima
che la mano di Leo lo risospingesse fuori, con uno sbuffo esasperato.
Il
rombo del motore, la saracinesca del garage si sollevò e Leo
sparì
in pochi istanti, con un grazie urlato nella sua direzione.
Guidò
con sicurezza nel traffico, con la mente assorta in tutt'altro:
sarebbe entrato nell'appartamento, per la prima volta, dalla porta di
ingresso. Certo, ad un occhio umano sarebbe parso decisamente meno
emozionante dell'entrata dalla finestra, ma per un mutante... era un
sogno.
Parcheggiò
il furgone e respirò a fondo prima di scendere. Non
perché avesse
paura di essere visto, ma per calmare i nervi tesi. Lo sguardo
saettò
verso l'alto, verso il quadratino luminoso che sapeva essere
l'appartamento di Isabel.
Non
sapevano dove avesse vissuto nel periodo in cui avevano perso ogni
memoria di lei e lei non lo aveva detto, ma una volta tornata da
loro, aveva ripreso possesso dell'appartamento nel Village,
benché
avesse del miracoloso che nessuno lo avesse affittato nel frattempo.
Magico, per certo.
Salì
le scale di corsa, per essere certo di non incontrare nessuno, e si
fermò davanti alla porta dell'appartamento quasi senza
fiato, ma non
era di certo solo per lo sforzo.
Prese
dei profondi respiri e bussò.
Un
lieve scalpiccio arrivò alle sue orecchie e poi la porta si
aprì,
rivelando il viso sorpreso di Isabel. Osservava il mazzo di fiori,
che non si era aspettata, con un misto di imbarazzo e stupore,
arrossendo tra le dalie e le genziane.
Leo
ringraziò mentalmente Steve per avergli dato una mano; il
sorriso
impacciato di lei era quanto di più bello avesse visto.
“Ciao”
soffiarono entrambi, in contemporanea. Leo le tese i fiori con una
risatina nervosa e lei ringraziò timidamente, invitandolo ad
entrare.
Isabel
si diresse in cucina mentre lui chiudeva la porta, per mettere i
fiori in un vaso. Notò con piacere che anche lei aveva
mantenuto un
abbigliamento casual, pantalone e maglietta, e che, come sempre
quando era in casa, girava scalza.
Si
era preoccupato di cosa dire e come comportarsi durante la serata, ma
alla fine risultò più semplice di quanto
pensasse; sì, la tensione
era palpabile, ma non fu così difficile come credeva sarebbe
stato.
Mangiarono
e chiacchierarono in un clima intimo seppure leggermente teso; a
volte c'erano dei silenzi imbarazzati, ma la sera passò in
maniera
spontanea e gran parte del nervosismo che sentivano, entrambi,
lasciò
spazio ad una gradevole sensazione di serenità.
Lavarono
i piatti assieme prima di passare in salotto a guardare il film,
anche se Isabel aveva insistito perché non si scomodasse;
ovviamente
ogni parola con lui era stata sprecata, perché voleva dare
una mano
e l'avrebbe fatto.
“Che
film vuoi guardare?” le chiese passandole un piatto
gocciolante,
che lei asciugò con cura.
“Non
lo so. Ci ho pensato molto, ma non sapevo cosa scegliere. Non so se
preferisco un film d'azione o un thriller o avventura o...”
elencò
ponendo il piatto a posto nella credenza.
“E
se guardassimo qualcosa di già visto, che sai che ti
piace?”
propose lui con un mezzo sorriso.
Lei
lo guardò confusa per un secondo, poi si illuminò.
“Il
gigante di ferro? Oh sì, perché no?”
acconsentì contenta,
sbrigandosi ad asciugare le stoviglie per poterlo guardare.
Leo
allungò la mano per prendere il sapone per piatti, ma
afferrò
invece per sbaglio il suo braccio, Isabel si scostò
inconsciamente e
accadde tutta una sequela velocissima di reazioni a catena: il piede
nudo slittò sulle goccioline d'acqua cadute sul pavimento,
il gomito
urtò il bicchiere poggiato sul bordo del mobile, che
piombò a terra
frantumandosi in un pioggia di vetro cristallino e Isabel ci
finì
sopra proprio col piede, mentre cercava di frenare la perdita
d'equilibrio.
Con
un'imprecazione stretta tra i denti, cadde a terra, macchiando di
piccole gocce di sangue il pavimento.
Leo
si chinò velocemente e la prese in braccio, con mille
domande su
come stesse, portandola in bagno perché non camminasse sui
vetri.
“Fai
vedere” le chiese una volta lì, prendendo il piede
tra le sue mani
e portandolo alla vasca per sciacquare via il sangue e vedere la
ferita. Alcune piccole schegge di vetro caddero nel vortice d'acqua,
facendo stillare altro rosso.
Con
le dita ne tolse una più grossa, facendo attenzione a non
farle
male.
“Mhm,
credo che ci siano rimasti dei frammenti di vetro dentro”
disse
assorto, dopo aver dato un'occhiata scrupolosa.
“Vado
a prendere la pinzetta per poterli togliere”
esclamò Isabel,
saltellando con una gamba sola fuori dalla stanza da bagno, senza
alcuna esitazione, senza nemmeno pensare di chiedere a lui di
prenderla.
Leo
la seguì immediatamente, con un'idea folle in mente, ma che
doveva
proprio dirle. Nel peggiore dei casi lei avrebbe rifiutato.
“Posso
curarti?” propose, tutto d'un fiato. Poi trattenne il fiato,
senza
accorgersene, mentre lei si voltava a guardarlo, fermando la sua
corsa rimbalzante vicino al divano, al quale si appoggiò.
Isabel
lo osservava nel silenzio, mentre gocce d'acqua e di sangue cadevano
dal suo piede e si schiantavano al suolo.
La
domanda poteva sembrare innocua, ma lo sapevano entrambi che in
realtà, il vero significato era: “posso
baciarti?”
Perché
per curarla doveva necessariamente baciarla.
“Solo...
solo curarti” aggiunse Leo con premura, accortosi della sua
reticenza. “Non potresti camminare per giorni, anche se
mettessi la
tua crema magica.”
Come
era vero. Lei lo sapeva che aveva ragione, ma stava pensando se fosse
giusto anche un semplice bacio a fior di labbra tra loro,
perché le
cose erano confuse e potevano incasinarsi ancora di più.
Ma
lui aveva ragione.
Leo
aveva parlato sinceramente preoccupato per la sua condizione, eppure
quando lei si avvicinò a saltelli, e lui si mosse per
andarle
incontro, non poté evitare per un istante di pensare a come
tutto
sembrasse così conveniente per lui.
Isabel
cercò un appiglio nelle sue braccia, sostenendosi ai suoi
avambracci, e si sporse verso l'alto, solo con una lieve esitazione.
E
stavolta il bacio fu diverso, completamente. C'erano le sue labbra
che gli andavano incontro, in un fugace e perfetto e irreplicabile ed
eterno momento, morbide e calde, che tremavano nel contatto.
Forse,
anzi sicuramente, se tutta la sua concentrazione non fosse stata per
Isabel, per quel bacio, per il batticuore e quell'emozione che
nasceva nel suo cuore, si sarebbe accorto degli occhi che guardavano
quel momento sin troppo intimo incorniciato dalla grande finestra a
vetri, dal tetto del palazzo di fronte, con propositi tutt'altro che
amichevoli.
Note:
Grazie
di cuore per seguire, leggere, commentare, preferire, ricordare
queste mie storie. Ve ne sono grata.
Abbraccio
sincero
|
Ritorna all'indice
Capitolo 31 *** ...It gets under your skin and can poison your life ***
Quel
bacio gli era rimasto appiccicato addosso.
Impresso
nella mente, senza possibilità di scordarlo.
Non
era stato niente, lo sapeva, ma non poteva fare a meno di pensarci;
soprattutto la notte, quando vagava per i tetti, era il pensiero che
lo seguiva e accompagnava, da quasi una settimana.
Non
era improvvisamente impazzito negando la realtà, era conscio
del
fatto che lei fosse ancora innamorata di suo fratello, ma non
riusciva a non vedere l'accaduto sotto una flebile luce di speranza.
Il bacio era stato lieve e casto, ma lei non si era ritratta
spaventata o disgustata o inorridita; era arrossita, invece.
E
aveva acconsentito a vedersi ancora, per replicare la serata;
possibilmente senza incidenti di sorta, per la volta successiva.
Sorrise
entusiasta, al solo ricordarlo.
“Cos'è
quel ghigno inquietante sulla tua faccia?” domandò
la voce di
Donatello, riportandolo sul pianeta terra, lì sul tetto del
grattacielo nel giro di ronda.
Si
erano divisi in due gruppi quella notte ed era toccato a Mikey stare
con Raph: di mettere Leo in coppia con lui non se ne parlava nemmeno,
se non volevano raccogliere pezzi di tartaruga mutante dalle strade,
e Raph non gradiva le domande di Don, o meglio i suoi consigli
veritieri, perciò non c'era stata una vera scelta.
Sperarono
che Mikey non infastidisse troppo il loro fratello. Non era proprio
una buona cosa, in quel momento.
Leo
si grattò il collo in imbarazzo, deviando lo sguardo. In
effetti Don
ormai sapeva, non ci sarebbe stato niente di male nel confidarsi con
lui... o forse sì?
“Ah,
no! Non voglio saperne nulla!” lo interruppe l'altro prima
che
potesse anche solo decidere se parlare. Aveva già capito
tutto.
“Sono
neutrale, io. Tengo per entrambi e nessuno allo stesso
tempo!” lo
informò seriamente.
Leo
lasciò andare le spalle, un po' deluso, un po' rincuorato.
Già,
Donnie sapeva che sia lui che Raph erano innamorati di lei, a
differenza degli altri; se l'avesse saputo Mikey, che il loro
fratello era ancora innamorato di Isabel, avrebbe alzato un
polverone, lo avrebbe sgridato per mettersi in mezzo a loro, avrebbe
assillato Raph per il modo in cui si stava comportando e avrebbe
messo al corrente lei della cosa, certo di fare la cosa giusta.
D'altronde era un romantico che pensava alla felicità di
tutti.
Ma
Don non lo avrebbe mai fatto, lo sapeva.
Don
si manteneva sopra le parti, Don rispettava le scelte e le prese di
posizione che ognuno sceglieva di fare; certo, se non era d'accordo
continuava sottilmente a fare domande per instillare il dubbio nel
suo interlocutore, per spingerlo a ragionare con la sua testa, ma non
avrebbe mai impedito a qualcuno di agire a proprio modo.
“Tu
sei sempre convinto di quello che stai facendo, vero?” chiese
infatti dopo qualche secondo, dando conferma al suo pensiero.
Leo
piegò appena la testa per incontrare il suo sguardo,
illuminato
dalle luci dei palazzi vicini.
“Io...
voglio solo...” gli disse, prima che un shellcell suonasse e
interrompesse il suo discorso.
Si
guardarono entrambi confusi e poi osservarono ognuno il proprio
cellulare.
“È
mio” disse Leo premendo il pulsante di risposta.
“Pronto?”
“L-Leo...
aiuto” esalò una voce stentata e spezzata dal
dolore.
“Steve?
Steve! Dove sei, cos'è successo?” urlò
allarmato, spaventando
anche Don.
Il
genio lo vide diventare sempre più livido e angosciato, man
mano che
ascoltava con attenzione e fatica al ricevitore, come se il suo
interlocutore avesse difficoltà a parlare o lui a sentire.
“Aspettami.
Sto arrivando!” lo sentì dire alla fine, mettendo
fine alla
conversazione. Rimase un secondo con il telefono in mano e lo sguardo
vacuo, come dilaniato da qualcosa.
Incontrò
alla fine la sua espressione curiosa e preoccupata.
“Steve
è nei guai! È stato aggredito e ha parlato di
Isabel...” lo mise
al corrente, per quel poco che aveva capito. La paura e un'ansia
pressante nel petto avevano cancellato la razionalità. La
voce
fragile di Steve gli aveva fatto male, ad ogni parola sofferta che
l'amico aveva pronunciato.
Doveva
correre a salvarlo, aiutarlo, capire cosa stesse succedendo.
Bastò
un secondo, lo sguardo complice che si scambiarono, poi si gettarono
contemporaneamente in una corsa precipitosa, saltando giù
dal tetto.
“Deve
essere qui, da qualche parte!” strillò Leo con la
voce rotta dal
fiatone, girandosi tutt'intorno per scorgere la figura del piccolo
amico.
Avevano
corso come dei dannati, così veloci come poche altre volte
erano
stati; Leo guidava, dirigendosi verso Soho, il quartiere dove Steve
viveva con la sua famiglia. E in quel momento lo cercavano per ogni
viottolo o stradina secondaria, con paura.
“Steve?
Rispondi, Steve!” gridò ancora il leader, con una
sottile angoscia
sotto pelle, il sangue che correva veloce nelle vene.
Era
tutto molto strano. Lo aveva sfiorato anche il pensiero che fosse in
realtà uno scherzo o una trappola, ma Steve non gli avrebbe
teso
nessuna delle due, nemmeno se fosse stato costretto, lo sapeva.
“Leo”
esalò la voce familiare, esile, lontana. Proveniva dal
vicolo
vicino, ma sembrava così affaticata.
Lui
e Don arrivarono di volata, e lì si bloccarono. Arrabbiati.
Sconvolti.
Steve
stava appoggiato al muretto, vicino al cassonetto dell'immondizia, ma
sarebbe stato più giusto dire che era accasciato contro di
esso: il
volto era una maschera viola e pesta e il braccio sinistro giaceva
inanimato contro il corpo; il respiro roco si spezzava in singulti se
provava a prendere fiato più profondamente. I vestiti erano
laceri e
intrisi di macchie di sangue.
Sembrava
una marionetta sporca e rotta che qualcuno aveva gettato senza cura.
Gli
occhi, solo quelli erano vivi, luminosi e sofferenti. Incontrarono lo
sguardo dei due mutanti e quasi splendettero di sollievo. I lacrimoni
lo sommergevano. Provò quasi a sorridere, ma lo spacco nel
labbro
inferiore lo fece desistere.
“Steve,
come stai? Chi ti ha fatto questo?” domandò Leo
con sofferenza,
una volta che si fu avvicinato. Le sue mani si bloccarono a
mezz'aria, con il desiderio di aiutarlo e la paura di fargli
più
male. Don, invece, premeva con garbo per valutare i danni, suscitando
qualche smorfia e mugugno di dolore nel ragazzo.
La
sua espressione seria non prometteva nulla di buono.
“H-han-no...”
provò a dire il ragazzino, con un suono rasposo ogni volta
che
prendeva fiato, la voce spezzata e sottile.
C'era
un grosso livido viola sulla sua gola, delle dita impresse nella sua
pelle bianca. Qualcuno doveva aver provato a strozzarlo e
probabilmente gli aveva leso la trachea.
“Non
parlare, Steve!” lo ammonì Don, passando
delicatamente le dita sul
collo, controllando che non ci fossero altre ferite.
Ma
lui non volle ascoltarlo. Scosse la testa, con un mugolio di dolore,
e con lucciconi negli occhi di frustrazione. Doveva parlare, voleva
parlare, perché era già tardi e loro dovevano
sapere. Prese il
respiro più grande che gli riuscì.
“P-pre-so...
Isa” singultò con enorme sforzo, lo sguardo
poggiato solo su Leo,
perché capisse.
Il
leader sbiancò immediatamente, il sangue smise di correre
nelle
vene, il respiro si spezzò.
“Chi?
CHI?” urlò un istante dopo, le mani che tremavano,
strette a
pugno, per resistere all'impulso di scuoterlo per sapere.
Steve
si mosse appena, la mano sana scivolò e raggiunse la tasca
della
camicia, le dita strinsero un foglietto di carta piegato con cura,
troppo pulito e intonso perché potesse averlo messo
lì Steve, con
le mani piene di sangue e terra. Lo tese con tutta la forza che gli
riuscì, tremolando il meno possibile.
Leo
lo prese e lo aprì con foga, stropicciando la carta nel
procedimento, e la sua più grande paura prese forma, vergata
a mano,
in inchiostro nero.
Occhio
per occhio
Dente
per dente,
Mano
per...
“Hun”
esalò sconvolto, rileggendo più e più
volte quelle frasi che
promettevano un orrore senza fine.
No.
Perché? Perché Isabel? Perché, se Hun
voleva punirlo, aveva preso
lei ma lasciato vivo Steve?
“Perché
l'ha presa? Perché non si è difesa? Dove l'ha
portata?” domandò
senza respirare.
“Roh-rohypnol”
riuscì a dire Steve, strizzando gli occhi. Sembrava che
fosse sul
punto di svenire, ma si stesse sforzando per rimanere cosciente,
più
che poteva.
Leo
corrucciò lo sguardo, confuso; fu Don a trattenere il fiato,
invece.
“Il
rohypnol è una droga con profondi effetti sedativi.
È chiamata
anche la droga dello stupro” rivelò con un
sussurro agghiacciato,
guardandolo con terrore.
Leonardo
tremò. E la fastidiosa, pungente voce di Hun esplose nella
sua
mente, quella minaccia velata che nel loro ultimo scontro sembrava
gettata lì casualmente:
“La
prossima volta potrei decidere di non colpirla. Potrei farla rapire e
divertirmi un po' con lei, prima di ucciderla.”
No.
No! NO!
Isabel
era in pericolo. Isabel era stata presa per colpa sua. Isabel era
nelle sue grinfie e chissà che cosa... no, doveva impedirlo.
“Dov'è?
Dove l'hanno portata?” gridò, incurante delle loro
facce. Era in
preda alla disperazione e l'angoscia e non gli importava niente se si
vedeva.
“Of-ficina.”
Leo
capì. Gli bastò quella parola. L'officina
abbandonata nel Bronx,
dove lui e Raph avevano fatto una strage. Dove lui aveva mozzato la
mano di Hun.
Si
alzò di scatto, ma la mano di Steve si chiuse sulla sua
caviglia,
bloccando il suo passo.
“Pro-vato...
pro-tegger-la” gli disse con fatica, gli occhioni lucidi che
chiedevano perdono.
Leo
si inchinò e gli strinse la mano, con affetto e fierezza.
“Lo
so. Sei stato bravissimo, un vero guerriero” lo
rassicurò, con un
tenue sorriso.
“Donnie,
lo lascio nelle tue mani” aggiunse poi con fiducia,
rialzandosi con
uno scatto deciso e fiondandosi nella notte, senza uno sguardo
indietro, divorato dalla fretta e l'agitazione.
Donatello
fece come gli era stato chiesto. Tolse l'auricolare dal shell cell e
lo posizionò sul foro auditivo, premendo il pulsante di
chiamata,
mentre cercava di capire se potesse muovere Steve per poterlo
prendere in braccio.
“April?
Sono Don, ho bisogno del vostro aiuto...” disse quando la
voce
dall'altra parte del telefono rispose.
Non
poteva di certo portare Steve all'ospedale per conto proprio, ma lo
avrebbe affidato a due umani in gamba. Decisamente in gamba.
“Che
serata noiosa” esalò scontento Mikey,
trotterellando dietro suo
fratello con aria assorta, attento a non perdere un dettaglio di
quello che stava succedendo sotto, nel caso ci fosse qualche
emergenza.
“Dovresti
essere contento. Almeno tornerai a casa subito e potrai giocare ai
videogiochi o mangiare o fare qualsiasi altra cosa che tu chiami
passatempo” fu la risposta cinica di Raphael, che tirava
dritto
senza prestare davvero attenzione a niente.
Non
era nell'umore giusto per niente. Se non quello di spaccare la faccia
a qualcuno. Un certo qualcuno.
Camminarono
ancora un po' sui tetti, vagando senza una meta precisa,
finché un
grido di donna squarciò il solito sottofondo di New York,
composto
da un imprecisato numero di rumori che si mescolavano l'uno con
l'altro.
Mikey
si gettò immediatamente, nemmeno l'avesse previsto, i
Nunchaku che
già roteavano impazziti nelle mani.
Raph
si accodò alla scia, più per controllare che non
fosse suo fratello
a farsi male, magari pure da solo, quando il telefonino
squillò.
Prese
il Shell cell dalla tasca e osservò il display prima di
rispondere.
Se fosse stato Leo non si sarebbe preso nemmeno il disturbo.
“Don?
Cosa vuo...” rispose annoiato, zittendosi all'istante.
La
corsa si fermò bruscamente e il cuore perse un battito.
Strinse il
telefonino nella mano così forte che scricchiolò
appena, ma lui non
ci fece caso.
“Cosa?
Quando? DOVE?” urlò fuori di sé, tanto
che Michelangelo si bloccò
spaventato, prima di potersi lanciare nel vuoto per aiutare la donna
misteriosa che aveva urlato, e si voltò a guardarlo in
apprensione.
Raphael
ascoltò con attenzione la voce di Don nel ricevitore, poi
chiuse con
fretta.
“Pensaci
tu qui. Io devo andare!” strillò al fratello,
correndo via senza
aggiungere altro, come se stesse scappando dalla morte.
“Raph!
Aspetta! Cos'è succes...” provò a
urlargli dietro, ma ormai
l'altro era sparito veloce come un fulmine, impossibile da afferrare.
“Cosa
diamine sta succedendo?” esalò preoccupato,
gettandosi poi di
sotto per aiutare la donna in difficoltà.
Leonardo
si catapultò su verso il successivo palazzo, saltando il
divario con
un solo salto pulito, nonostante fosse molto distante; gli bastarono
un paio di capriole a mezz'aria e una a terra sul tetto, per frenare
la velocità. Si rialzò deciso e
osservò brevemente la familiare
palazzina di fronte a sé, già teatro della sua
furia.
E
quella sera avrebbe replicato.
Aveva
fatto più velocemente possibile, saltando sui tettucci delle
macchine in corsa verso il Bronx, cambiando ogni volta che lo
riteneva necessario, avanzando sulla vettura più veloce, per
guadagnare tempo; Hun e i suoi avevano già un discreto
vantaggio,
non poteva lasciargliene ancora. E al diavolo se qualcuno lo avesse
visto.
Il
pensiero di cosa potessero farle lo faceva impazzire. Insieme a
quella domanda, che lo faceva sentire in colpa: perché lei?
Perché
Isabel? Hun non poteva sapere che la amasse, no?
Ma
allora perché colpire proprio lei, perché? Se le
fosse successo
qualcosa, non se lo sarebbe mai perdonato.
Entrò
dalla porta divelta che lui e Raph avevano sfondato la volta
precedente. Era ancora lì per terra, ricoperta di polvere.
Il
palazzo era enorme, dove diamine potevano essere? Non poteva
permettersi il lusso di cercare ovunque, avrebbe perso troppo tempo.
Poi
lo sguardo cadde sulle flebili impronte nella polvere al suolo,
difficili da vedere all'inizio, nella penombra.
Le
seguì senza esitare un secondo. Se pure fosse stata una
trappola,
non avrebbe indietreggiato.
L'unica
cosa che contava era salvare Isabel.
Raph
correva. Dio, se correva. Forse non aveva mai corso così
veloce; non
lo sapeva, non gli importava.
C'era
solo il suo nome nella testa.
Isabel.
Isabel. Isabel.
Isabel
nelle mani di Hun. Isabel drogata e incosciente. Isabel alla
mercé
sua e dei suoi uomini. Non si era dimenticato della sua minaccia, non
avrebbe mai potuto.
Leo
era già sulle loro tracce, era avvantaggiato, era
già vicino,
sicuramente; pregò che la trovasse, che la salvasse.
Sì, Leo poteva
farlo, era di certo più abile di lui, era più
adatto. Era giusto.
Il
leader stava scendendo le scale che portavano al sottopiano,
saltandole a due a due, con le Katana sguainate di fronte a
sé.
Doveva essere guardingo e veloce allo stesso tempo e non era facile.
Di
sotto trovò una piccola stanzetta ricolma di immondizia e
bidoni di
benzina arrugginiti, accatastati in un angolo; non c'era traccia di
anima viva, ma una porticina si apriva dall'altro lato, su un lungo
corridoio in penombra.
Ci
si fiondò all'istante, tendendo le orecchie. Delle voci,
fioche,
arrivarono dal fondo.
“Che
schifo, sei sicuro?” chiese una voce in tono di ribrezzo.
“A
me non frega niente! Sbrigati, non resisto più!”
disse una seconda
voce, smaniosa.
“Rilassati,
non scappa mica! Sì, ti dico che si sono baciati. Lei e uno
di quei
schifosi mutanti” replicò una terza.
Leo
spalancò gli occhi con paura e sorpresa, il batticuore
così forte
che gli feriva le orecchie. Li avevano visti. Quando l'aveva baciata
per curarla, erano stati visti. Ecco perché Hun se l'era
presa con
lei. Lo aveva fatto spiare per cercare il suo punto debole, dove
colpire per fargli più male e aveva scelto Isabel,
ciò che bramava
e che più temeva di perdere.
Era
davvero tutta colpa sua.
Si
scagliò con tutto il peso contro la porta e la
abbatté con un colpo
solo, mandandola a schiantarsi a terra con un gran tonfo: gli uomini
all'interno si bloccarono in ciò che stavano facendo,
voltandosi
allarmati per cercare la fonte del caos.
E
la sua rabbia che già montava a ondate nel petto crebbe,
crebbe così
tanto da soffocarlo.
C'erano
almeno dieci uomini nella stanza: un paio dall'altra parte, la
maggior parte invece vicino all'entrata, chini su lei che stava
cercando, svenuta al suolo, poggiata in mezzo alla polvere e lo
sporco: le loro mani viscide la toccavano, strappavano i suoi
vestiti, la palpavano eccitati, pronti a gettarsi su di lei come
bestie.
Vide
rosso. Tutto rosso.
Per
un istante fu solo nella sua testa, poi la stanza si riempì
di grida
e sangue, quando si gettò contro di loro con un urlo
disumano, un
ringhio atavico da animale primitivo.
Stramazzarono
ai suoi piedi, come gli esseri insignificanti che erano, tra grida di
dolore e paura, ma lui non li percepiva; cadevano come mosche, nella
sua indifferenza.
Tutti
quelli che avevano osato toccarla.
Si
fermò col fiatone solo quando attorno a loro non ci fu
più nessuno
in piedi; corpi che si contorcevano a terra, urla e imprecazioni. Ma
era sordo ad ogni suono.
Rinfoderò
le spade insanguinate e si gettò letteralmente da lei,
divorato dal
terrore; ogni passo fu fin troppo lungo.
Era
a terra, pallida, la pelle solcata dai graffi che quei luridi
bastardi le avevano procurato mentre le strappavano via i vestiti,
brandelli di intimo gli unici indumenti rimastile addosso. La sua
mano corse al suo viso, carezzando una guancia tumefatta, scostando i
capelli scarmigliati. Una piccola parte di sé era sollevato
che lei
non fosse cosciente; non avrebbe potuto sopportare il pensiero che
avesse potuto vedere e vivere quel momento di orrore, che le si fosse
inciso addosso come le torture subite in passato.
La
sollevò appena dal suolo e se la strinse contro, sentendo il
suo
respiro flebile e corto, la freddezza del suo corpo.
“Hun!
Dove sei, maledetto bastardo?” urlò fuori di
sé, spaventando i
pochi uomini rimasti nella stanza.
E
lo vide, quello che prima gli era sfuggito: uno di loro lo conosceva,
lo aveva già visto, mentre lottava contro Raph, con tecniche
senza
pari.
Marcus
lo stava osservando, un ghigno cinico e calcolato in volto, un po'
più sciupato dell'ultima volta che lo aveva visto, ma
indubbiamente
vivo. Eppure gli era parso di capire che Raph lo avesse ucciso,
allora come poteva essere lì?
“Hun
è qui, non preoccuparti. Si gode tutta la scena, al
sicuro” lo
informò l'uomo, con la sua voce gracchiante.
“Sia
io che lui abbiamo perso molto” rivelò Marcus
sollevando la
maglia, mostrandogli una grossa cicatrice che gli incideva l'addome,
tagliando trasversalmente gli addominali scolpiti.
“È
difficile trovare un buon dottore, uno che non faccia domande. E a
volte puoi rimetterci qualcosa, un pezzo di stomaco durante
l'operazione, la mobilità di un arto... è normale
venire a chiedere
il giusto risarcimento a chi ha fatto questo.”
Leo
era rimasto in ascolto, continuando a stringere Isabel a sé,
sempre
più inorridito, ma con una parte del cervello che cercava
una via
d'uscita, il più in fretta possibile: c'erano solo Marcus e
altri
due uomini nella stanza, ma non pensava che lo avrebbe lasciato
andare facilmente, senza lottare; e se era sicuro che gli altri due
non potessero fare poi molto contro di lui, sapeva per certo che
Marcus non era uno da prendere alla leggera.
L'uomo,
infatti, tolse con mano ferma una pistola assicurata dietro la
schiena e gliela puntò contro.
“Alzati
e vieni verso di me. Lei lasciala pure lì, ci penseremo
dopo” lo
minacciò sottilmente, mentre tutto ciò che lui
vedeva, ormai, era
il foro della canna della pistola che diventava sempre più
grande,
come un buco nero che divorava ogni cosa.
Raphael
si fermò ansimante, il sudore che colava giù
senza freno, i muscoli
che chiedevano pietà.
Era
arrivato. Era alla fine arrivato.
Si
guardò attorno, cercando una qualche traccia nella palazzina
conosciuta, ma non c'era una luce a confermargli che fosse abitata,
non un suono.
Tolse
gli Shuko dalla taschina nascosta e li indossò sulle mani,
artigliando poi il muro con forza e issandosi velocemente sulla sua
superficie lurida e scrostata; superò facilmente il primo
piano, il
secondo, e arrivò all'ultimo, nella stessa finestra rotta da
Leo,
che dava sull'ufficio in disordine.
Entrò
circospetto, ascoltando con concentrazione. Le schegge di vetro erano
ancora lì sulla moquette consunta, sedie ancora rovesciate,
uno
spesso strato di polvere ad arredare meglio quel caos.
Si
incamminò verso il corridoio e sguainò i Sai, per
sicurezza,
tendendo il collo a destra e sinistra per controllare fugacemente
nelle stanze che si affacciavano su di esso, attento a possibili
agguati.
I
suoi passi non producevano alcun suono, il respiro non era altro che
un breve inspirare ed espirare, per non produrre alcun rumore, mentre
il cuore batteva così forte che avrebbe potuto giurare che
quel
battito tribale provenisse dalle pareti e non da lui.
Il
corridoio sembrava non avere fine.
E
invece, d'un tratto, arrivò davanti a quella porta e
osservò quella
targa dorata che disprezzava.
Lo
sapeva, che lui era dietro la porta, poteva percepirlo, senza alcun
dubbio. C'era solo da pensare come annunciarsi nel modo giusto.
Un
tonfo si propagò nel corridoio vuoto, e poi un altro: al
terzo la
porta cedette e si schiantò a terra, con un forte boato,
secco come
un colpo di cannone; né lui né l'ospite dentro la
stanza si
spaventarono, comunque; si guardarono, mentre ancora il solido uscio
vibrava a terra per il contraccolpo col suolo, sollevando vortici
polverosi.
Hun
si era voltato verso di lui, distogliendo lo sguardo dal grande
schermo che adesso si trovava alle sue spalle, e sorrideva
compiaciuto: il braccio sinistro era poggiato sulla scrivania,
mettendo in bella mostra la protesi color acciaio al posto della mano
tranciata da Leo. Era cesellata finemente, un gran lavoro di tecnica
e pazienza, ma c'era qualcosa di innaturale nel modo in cui rimaneva
poggiata contro il tavolo, come se qualcosa non funzionasse a dovere.
“Dov'è
Isabel?” domandò infine Raph, entrando nella
stanza a passi lenti.
Il
sorriso di Hun divenne ancora più grande, cinico,
calcolatore,
incredulo di così tanta fortuna.
“Con
una sola esca, abbiamo preso entrambi... anche tu te la fai con
quella donna? Ve la passate tra voi, è la vostra
puttanella?”
insinuò l'omone, disgustato e sospettoso.
Raphael
registrò quell'anche tu, come se Hun
stesse alludendo che tra
Leo e lei c'era stato qualcosa, ma scivolò via subito quando
seguì
con lo sguardo dove Hun gli indicava, focalizzando finalmente lo
schermo dall'altra parte della stanza, che mostrava una camera
logora e grigia, ripresa dall'alto: Leo stava scivolando in avanti
con le mani alzate, verso quello che lui riconobbe come Marcus,
coprendo col suo corpo la traiettoria di tiro verso lei, seminuda e
incosciente, poggiata contro il muro come una bambola di pezza.
La
risata volgare e cinica di Hun riempì la stanza e la sua
testa e si
sommò al suo orrore, con violenza.
“Ti
conviene non sbagliare il tiro. Perché se lo farai, non ti
darò
un'altra possibilità” minacciò
Leonardo, con una sottile furia.
Marcus
mantenne il suo ghigno e aggiustò la mira, per nulla colpito
dalle
sue parole: il rumore della detonazione riempì la stanza e,
forse
inconsciamente, Leo serrò la mandibola, attendendo il dolore.
Invece,
sentì un pizzicore al collo e un diffuso bruciore, che
scivolava nel
suo corpo e invadeva la testa, pesantemente: portò la mano
alla gola
e afferrò la freccetta conficcata, portandola davanti al
viso.
I
colori esplosero improvvisamente, mischiandosi in un vortice
infinito, mentre i contorni dell'oggetto si scioglievano come gelato
al sole.
“Cosa...”
balbettò confuso e sempre più allarmato, provando
a guardarsi
intorno per cercare una risposta e un punto fermo: si sentì
trascinare al di fuori del suo corpo, galleggiare pigramente senza
peso.
E
la voce ruvida di Marcus si fece strada tra il caos e il turbinare
delle sue percezioni.
“Salvia
Divinorum, la droga psicoattiva più potente del mondo.
Sperimenterai
le allucinazioni più forti e reali mai provate prima.
Goditela,
finché dura!”
A
Leo veniva da ridere. Stava galleggiando in una spirale di colori e
riusciva a vedere fuori dal suo corpo, tutto quanto: c'era
sé stesso
che teneva la freccetta nella mano, rigirandola senza riuscire a
sentire per davvero i confini fisici, come se non avesse più
il
tatto.
Poteva
vedere il suo suono, invece, odorare il suo sapore.
Rise
forte, strizzando le palpebre. C'era una confusione di
tonalità
anche lì dietro, alcuni non li aveva mai nemmeno visti.
Poi,
lo sguardo del sé stesso che galleggiava, si posò
sulla donna
poggiata contro il muro.
Isabel.
Isabel, sembrava splendere di luce propria, luminosa come una Dea.
Lui
era lì per lei, gli disse una piccola parte del suo
cervello. Doveva
salvarla. Ma tutto era così strano, si sentiva nauseato. Di
colpo
tutto ritornò normale.
Era
un continuo andare e venire della sua coscienza, come se qualcuno
stesse premendo un interruttore che lo accendeva e lo spegneva, facendolo
passare da uno stato cosciente ad un'allucinazione vivida; nei pochi
istanti in cui tornava in sé, le allucinazioni sembravano
ancora
peggiori, dato che si rendeva perfettamente conto che sarebbero
tornate, che non poteva combatterle.
Una
colata di colori e suoni lo investì di nuovo e una
leggerezza senza
pari lo sollevò, lasciando perdere ogni altra cosa lo avesse
impensierito fino a qualche attimo prima; c'era musica attorno a lui,
musica che poteva vedere e toccare e frammenti di ricordi che ci
galleggiavano dentro.
Sentì
ridere, ma forse era la sua stessa risata.
Quando
ritornò di nuovo in sé, ripiombando letteralmente
nel suo corpo, si
chiese se quello fosse un effetto voluto della droga o se invece non
stesse funzionando perfettamente a causa della sua natura mutata.
Non
era importante, gli diceva il cervello, doveva cercare un modo per
rimanere cosciente il più a lungo possibile e scappare via
portandola con sé. Altrimenti avrebbe continuato a rimanere
alla
loro mercé, con chissà quali conseguenze.
Senza
contare che Isabel aveva di certo bisogno di cure immediate.
Sentì
la realtà vacillare, l'arrivo della successiva botta, i
dettagli che
iniziavano a sfumare.
Fece
l'unica cosa che l'esperienza gli suggerì: prese una delle
Katana e
la portò alla mano, facendo scorrere il filo lucido sulla
carne,
separandola di netto.
Lui
gridò, gli altri risero. Li osservò riprendere i
contorni netti e
decisi, che ridevano ilari per quello che pensavano come il gesto di
un drogato; strinse forte la mano sanguinante, infilando le unghie
nella carne viva per sentire ancora di più il dolore.
Il
dolore lo ancorava alla realtà, gli faceva percepire il
confini
fisici del suo corpo, attenuava il senso di dissociazione.
Con
la Katana ancora rossa, barcollò in avanti, strizzando le
palpebre
ritmicamente: Marcus non era troppo lontano, lì a
sganasciarsi con
gusto, senza prenderlo nemmeno sul serio.
Sperò
che le gambe non vacillassero.
Si
gettò come una furia contro di lui e colpì, prima
ancora che lui o
gli altri potessero reagire. La sua spada incontrò qualcosa,
anche
se non seppe dire con certezza cosa.
Rosso,
ovunque. Rosso secco e marcato, che non sfumò in
nient'altro, rosso
vivido e brillante e un grido agghiacciante, fu tutto ciò
che
percepì per certo.
Non
aveva tempo per controllare, non voleva rimanere ancora, con la paura
che tutto digradasse in altri vortici, portandosi via la sua
razionalità. Indietreggiò velocemente, tenendo la
spada ritta
davanti a sé, gli occhi che saettavano sui visi sconvolti
degli
uomini ancora in piedi e si fermò solo quando
toccò il muro con il
guscio.
Mise
via la spada e si inchinò, allora, per prendere Isabel tra
le
braccia; il suo sangue la macchiò, che gesto imperdonabile
macchiare
quella pelle lattea, pensò nello stesso istante, e se la
strinse al
petto con amore.
Era
così piccola e delicata.
Con
uno scatto fu in un secondo alla porta, che vagava in un mondo di
penombra e luci che sapeva non potessero esserci davvero, che cercava
un'uscita con disperazione.
Mentre
correva, una voce esplose attorno, ma non era certo che non la
stesse solo immaginando.
“Prendeteli!
Uccidetelo! Torturateli, divertitevi! Voglio vederlo morto!”
urlava
fuori di sé Hun, coprendo ogni altro suono, persino quelli
che lui
riusciva a vedere.
Nell'ufficio
dell'ultimo piano, un uomo ghignava e l'altro gridava.
Raphael,
con le braccia conserte, si gustava la scena nello schermo e quella
davanti a sé: Leo aveva ucciso Marcus, un gesto fluido verso
la
carotide, ed era scappato sotto il loro naso, il tutto mentre
sembrava in preda ad una forte psicosi, a vivide allucinazioni.
Hun
lo aveva lasciato guardare, sin da quando Marcus aveva drogato suo
fratello,
certo che le cose sarebbero andate in loro favore; invece si era
trovato con il suo braccio destro morto in un lago di sangue, la sua
esca portata via e il nemico sul quale voleva vendicarsi in fuga.
Era livido di
rabbia. Sbraitava in un interfono sulla scrivania,
rosso in volto, alcune ciocche bianche sfuggite alla pettinatura
laccata all'indietro che cadevano sulla fronte, le rughe ben visibili
nella smorfia furiosa.
“Beh,
non è stato un piacere” disse Raph, congedandosi
con l'intenzione
di andare a cercare Leo e Isabel. Non era certo che suo fratello
potesse uscire da lì senza una mano.
“Non
fare un passo!” strillò imperioso Hun, la voce
mortalmente seria.
Raph
si voltò di tre quarti, lentamente: l'omone si era alzato e
lo
guardava in cagnesco dall'altra parte della scrivania, leggermente
pendente a destra, stranamente.
Si
tolse con cura la giacca scura, usando solo la mano destra.
Un
arto scintillante si mostrò, lì dove avrebbe
creduto di vedere
della carne.
“Il
braccio è andato in cancrena, dopo l'operazione.
È quello che
succede quando ti affidi a dottori della malavita e ti fai operare di
nascosto, in luridi tuguri” raccontò con calma
sofferta.
“Prima
ho perso l'avambraccio, poi la cancrena si è diffusa fino
alla
spalla” continuò imperterrito, la mano sana che
toccava il gelido
acciaio con gesti lenti, come se stesse rivivendo qualcosa di
doloroso.
Poi
la mano argentata scattò in aria, con uno schiocco secco,
serrandosi
a pugno. Si abbatté di colpo sulla scrivania, mandandola in
mille
pezzi con un cigolio cupo, le piccole schegge che vorticavano
nell'aria.
Nessuno
dei due serrò le palpebre, incuranti del pulviscolo,
sfidandosi con lo sguardo.
“Ma
questo è un vero gioiellino, no?”
“Va
bene, d'altronde Leo ha fatto fuori Marcus... mi toccherà
ucciderti
per essere pari” soffiò sarcastico Raph, mettendo
mani alle armi.
“Ci
siamo, resisti” sussurrò Leo, anche se Isabel non
poteva affatto
sentirlo. Stava parlando più per farsi coraggio che per
essere
ascoltato. E per non cedere alla nauseante sensazione di incostanza
che minacciava sempre più di assalirlo; non batteva nemmeno
le
palpebre, per paura che quando le avesse riaperte, tutto fosse stato
di nuovo inconsistente ed etereo.
Le
grida di Hun erano sparite, ma nuove esplodevano da lontano. Insieme
a rumori di passi, sempre più vicini.
Li
stavano cercando e tutto stava perdendo di nuovo la
stabilità, quel
tripudio di luminescenza stava di nuovo balenando davanti ai suoi
occhi. Non poteva permettersi di cedere alle allucinazioni nel bel
mezzo della fuga, con la responsabilità della sicurezza di
Isabel.
Doveva
cercare un riparo, un posto dove nascondersi finché non
fosse
ritornato in sé.
Una
porta apparve nel suo campo visivo e pregò davvero che non
fosse
solo un'illusione.
Raph
si scansò con una torsione all'indietro, appena in tempo per
evitare
il pugno: sentì lo spostamento d'aria premergli contro la
faccia,
con violenza. Hun caricò anche con l'altro braccio, tra
sinistri
cigolii metallici.
Lui
lo colpì col Sai per pararsi, ma slittò contro la
superficie
d'acciaio, senza lasciare un graffio.
Indubbiamente
non era alla protesi meccanica che doveva mirare, se contava di
vincere.
Hun
era vigoroso e furioso come sempre, solo appena più lento
del
solito. D'altronde aveva perso un braccio, era anche solo miracoloso
che fosse lì di fronte a lui a menargli cazzotti.
Doveva
avere un punto debole, no?
Di
certo la sua boccaccia era uno e molto grosso.
“Vi
ucciderò con gusto! Avete rovinato la mia vita troppo a
lungo. E
dopo di te prenderò tuo fratello e la sua puttanella. E dopo
gli
altri che mancano e il vostro schifoso padre. Non
risparmierò
neanche quel bastardo di Casey Jones e sua moglie. Oh, e non hanno un
delizioso bambino, adesso?” continuava a ciarlare tra un
colpo e
l'altro, tra un affondo e una parata, cercando di fargli perdere la
concentrazione.
Oh,
sapeva che il ciccione si stava divertendo: sapeva che lui era il
più
collerico e voleva farlo arrabbiare con le sue parole, toccando i
suoi nervi più scoperti, ciò che aveva di
più caro.
Era
ora di darci un taglio. Una volta per tutte.
Scivolò
a destra, con meticolosa precisione e attese che Hun lo colpisse,
ovviamente con il braccio che gli era più congeniale in
quella
posizione: il sinistro. Doveva solo evitare che quell'ammasso di
acciaio lo prendesse o gli avrebbe sfondato il piastrone.
All'ultimo
secondo, quando ormai il pugno d'acciaio era a pochi centimetri, solo
allora si spostò all'indietro con uno scatto, per poi
rituffarsi
immediatamente in avanti con tutto il suo peso, col Sai sguainato di
fronte a sé.
Il
nuovo braccio meccanico era sì potente, ma dato che era un
corpo
estraneo appena attaccato al suo corpo, Hun non si era ancora
abituato al suo peso e ogni volta che lo muoveva, gli serviva qualche
secondo più del normale per poterlo riportare indietro.
Quello
era il suo punto debole. Quello era il momento in cui approfittarne.
Hun
si rese conto della sua mossa e, ancora sbilanciato, alzò il
braccio
per colpirlo con l'altro pugno, tentando il tutto per tutto.
L'impatto
fu devastante. Le nocche di Hun lo colpirono alla mandibola e un
dolore penetrante si diffuse con violenza nella testa,
disorientandolo per un secondo; ogni suono si spezzò in
frammenti
colorati dietro le palpebre strette con forza al momento dello
scontro.
Un
rantolo riecheggiò.
Il
Sai era arrivato dritto alla sua meta, conficcato nel petto di Hun;
lui lo stringeva ancora convulsamente. L'omone cedette con un lieve
gemito di dolore e si lasciò andare ginocchioni; Raph si
scansò
appena in tempo per non essere trascinato giù con lui e lo
osservò
portarsi le mani al petto, incredulo.
Strappò
il Sai dal petto e un fiotto di sangue zampillò, sopra le
sue mani.
Col
rosso, non importava più quale fosse umana e quale
meccanica: erano
identiche, vischiose e scarlatte.
Ci
fu un bagliore di lucidità negli occhi chiari dell'umano,
forse
l'ultimo: si posarono con rabbia e orrore su di lui, come a volerlo
maledire. Come se la sua vita potesse essere peggio di come
già non
fosse.
Hun
tossì con disgusto un rivolo di sangue e vacillò.
“Nessuno
tocca la mia famiglia” gli ricordò Raphael,
quieto, come ultimo
monito.
Hun
ghignò, ma prima che potesse dirgli ciò che
voleva, esalò un
rantolo e si schiantò al suolo, con un tonfo. Raphael rimase
in
silenzio ad ascoltare, ma non c'era un suono. Hun non si mosse.
Il
vero Leo si infranse nella sua mente, riportandolo alla ragione.
Sentì
freddo, un gelido, mordente freddo che lo avvolgeva, risalire per gli
arti intirizziti e le dita congelate. Il fiato si condensava in
nuvole bianche nella penombra.
Gli
occhi misero a fuoco la stanza in cui si era rifugiato e
rabbrividì,
in ogni modo possibile.
“Cella
frigorifera” esalò sconvolto, stringendo
più forte Isabel. La sua
pelle era gelida, più della sua.
Si
alzò e calciò la porta, così forte che
lo stinco cigolò
sinistramente, alla fine. Non c'erano manici nella parte interna, o
leve che potessero aprire. Si voltò per controllare se
ci
fossero altre uscite, ma tutto ciò che percepì
furono i quarti di
carne che penzolavano nei ganci da macellaio dal soffitto.
Si
strinse Isabel più forte addosso e passò la mano
sulla sua pelle
per scaldarla.
“Resisti,
ce la faremo” le sussurrò con dolcezza.
Fece
le due cose più sensate che il cervello gli
suggerì. Sfilò la tuta
e la infilò con garbo alla donna e poi la strinse a
sé, stando
attento che nessuna parte di lei toccasse il suolo ghiacciato,
chiudendosi su di lei a conchiglia.
Poco
gli importava che il gelo gli stesse mordendo le membra, come fiamme
glaciali.
Poi
prese il Shellcell e digitò la chiamata rapida. Rimase in
attesa,
col telefono che tremava nella mano dal freddo.
“Rispondi,
Don, ti prego.”
Il
suono nel ricevitore si interruppe e lui portò il display
davanti al
viso per controllare: le tacche del campo erano a zero, completamente
vuote.
Gli
venne il forte desiderio di imprecare.
Rimase
in silenzio, ad ascoltare il sibilo della ventola dell'enorme
cella, la mente confusa.
Le
allucinazioni potevano tornare da un momento all'altro, erano chiusi
in una cella frigorifera senza possibilità di scampo e
Isabel era
debole e incosciente, il suo respiro troppo breve e roco.
“Ehy,
perché non ti svegli? Non devi farmi preoccupare”
le disse,
strofinando la guancia contro la sua fronte.
Ovviamente
non ci fu alcuna risposta.
“Sai,
Raphael ha ragione. L'ha sempre avuta. Tu meriti di meglio. Non una
vita come questa, con pericoli e agguati, sempre sul filo del rasoio.
Ti abbiamo messo in così tanti guai, te li sei presa solo
perché
stai con noi, solo perché sei importante per noi.
E
non è giusto.
Meriti
felicità, meriti di più. Eppure, lo confesso, ci
ho sperato, l'ho
sognato con tutte le mie forze. Tu sei la nostra speranza, Isabel, il
nostro cambiamento, il nostro futuro.
Se
solo quell'idiota lo capisse.”
Sospirò
a fondo, per quanto le fitte gelide nei polmoni gli consentissero.
L'aria rarefatta gli stava dando il capogiro o forse era ancora la
droga.
“Lo
sai che è ancora innamorato di te, quel grosso
idiota?” le
confessò, dato che lei non poteva sentirlo.
La
testa gli pesava e strizzò le palpebre per scacciare la
sensazione
di sonno. Non sentiva più nemmeno una parte del proprio
corpo, il
congelamento lo aveva vinto, desensibilizzando ogni cellula.
“Se
fosse sincero con sé stesso... se capisse cosa sta perdendo,
io ci
starei. Voglio dire, farebbe male da morire vederti tra le sue
braccia, ma sono sicuro che ogni tuo sorriso di felicità mi
farebbe
felice, perché non voglio nient'altro, in realtà.
Voglio che tu sia
felice.
Amarti
mi basta. Amarti mi ha insegnato che posso pensare a me, senza
sentirmi in colpa, che posso essere egoista senza essere meschino,
che volere di più per sé non toglie nulla ad un
buon leader.”
Poggiò
il capo sopra il suo e chiuse gli occhi, con un gran sospiro.
“Perciò
grazie. Grazie, Isabel” mormorò mentre la
coscienza svaniva,
inghiottito dal nulla.
Note:
Buona
sera!
Dunque,
io gongolo. Scusate, ma è più forte di me. Quando
riesco a
sorprendervi e stravolgere le vostre ponderazioni sono felice: io
vivo per sorprendervi!
No,
non era Raphael che ha visto il bacio, in effetti. Ma uno degli
uomini di Hun!
È
tornato in cerca di vendetta.
Le
droghe descritte esistono sul serio: il Rohypnol è un forte
sedativo, con effetti di perdita della memoria e dissociazione
psichica, mentre la Salvia divinorum è una pianta, con la
sostanza
più psicoattiva del mondo, tra i cui effetti c'è
la percezione di
vedersi fuori dal corpo, manifestazioni della propria coscienza,
perdita della propria identità o dell'identità
del proprio corpo e
vivide esperienze di flashback o addirittura chi dice di aver visto
il futuro.
Grazie
per aver letto la Os su Leatherhead, ne sono felice! Se posso
chiedere un favore, potreste votare il suo nome nella lista dei
personaggi da aggiungere? Così potrei metterlo nelle
segnalazioni
della OS; mancano solo due voti. Grazie.
E,
parte la raccolta di OS, ispirata dai nuovi comics! Sono felice ed
elettrizzata, spero vi piaccia!
Grazie
infinite a tutti voi, siete la mia gioia! Grazie mille con vortici di
abbracci!
A
presto!
*
il titolo riprende la frase del capitolo 22, dato che ne
è il
continuo e la conclusione.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 32 *** Humans and Mutants ***
Raphael
si fiondò fuori dalla stanza subito dopo essersi assicurato
che Hun
fosse davvero morto; dopo l'errore che aveva fatto con Marcus, non
voleva essere fregato una seconda volta. Il vecchio ciccione era
andato, definitivamente, per sempre.
E
le sue priorità ormai erano focalizzate tutte sulla sua
ricerca.
Doveva
trovare Leo e Isabel, il prima possibile. Suo fratello era scappato,
ma dove? Quanto poteva essere lontano? Era riuscito a portarla in
salvo fuori da lì?
Si
ricordò dell'aria alienata che Leo aveva in viso, a causa
della
droga iniettatagli... stava bene, no? Quanto poteva essere forte
quella sostanza e quanto a lungo potevano durare i suoi effetti?
Mentre
correva nel corridoio silenzioso, tirò fuori il telefonino
dalla
tasca e provò a chiamare Leo, per farsi rassicurare e dire
dove
fosse in quel momento.
Ascoltò
il suono della linea che provava a raggiungere il telefono di suo
fratello, poi il suono cadde, di colpo.
Irraggiungibile.
Il shellcell di Leo era irraggiungibile.
Dove
diamine si era andato a cacciare?
Arrivò
alla fine del corridoio, al vano che doveva portarlo al piano di
sotto. Si portò al bordo dello strapiombo:
osservò con insofferenza
le scale crollate, i detriti ancora aggrappati al muro, le barre
d'acciaio contorte e spezzate che fuoriuscivano dalle pareti
sbrecciate, il cumulo di macerie depositato in fondo.
Si
era dimenticato che le scale tra il terzo e il secondo piano erano
crollate in seguito al bombardamento al plasma di uno scagnozzo di
Hun; non poteva scendere da quella parte.
Non
in maniera ortodossa, perlomeno.
Con
una piccola rincorsa, prese la distanza che gli serviva e poi si
lanciò nel vuoto, senza esitazione: sbatté contro
il muro e ci
rimbalzò sopra, ricavando la spinta per raggiungere quello
di
fronte, dove fece lo stesso; saltellò tra le due pareti, per
frenare
la velocità, scendendo a zig zag come la biglia impazzita di
un
flipper.
Atterrò
illeso su una torre di macerie impolverate, stando ben attento ad
evitare gli spuntoni arrugginiti, poi si diede un'occhiata attorno.
Corse nel corridoio del secondo piano e controllò ogni
stanza che si
affacciava su esso, cercando una traccia della presenza di suo
fratello e Isabel. Non aveva la più pallida idea di dove
fossero
quando la telecamera li aveva ripresi e non sapeva dove fossero
finiti una volta scappati, ma non poteva escludere a prescindere che
non fossero ancora nella palazzina.
Perciò
doveva correre e sbrigarsi a trovarli, anche se avesse dovuto
rivoltare l'edificio sottosopra per farlo.
Fu
in quel momento, mentre correva verso le scale per scendere al primo
piano, che un forte, penetrante odore di fumo gli investì le
narici,
e ne ingoiò un po' per la sorpresa, iniziando a tossire con
forza.
Solo
allora si accorse delle volute di fumo che salivano dal basso, solo
allora vide il riverbero delle fiamme aranciate che illuminavano il
vano della porta del primo piano.
Un
incendio. Era scoppiato un incendio nel palazzo, doloso o naturale,
anche se sospettava fosse più la prima opzione. Che gli
scagnozzi di
Hun avessero attuato un piano d'emergenza, per colpa della fuga di
Leo? O per colpa sua che aveva ucciso il loro capo? Non potevano
già
averlo scoperto, no?
Sentì
le urla concitate degli uomini salire assieme al fumo nero, ordini
impartiti, strilli che incitavano a mettersi in salvo, un grido che
esortava a cercare i fuggitivi.
Provò
immediatamente un sollievo spiazzante e un'ansia pressante, insieme:
Leo e Isabel non erano stati presi, ma erano ancora nel palazzo, che
si stava consumando tra le fiamme; e anche se avessero trovato un
nascondiglio, Leo era ancora preda della droga iniettatagli,
perciò
non c'era sicurezza che ne uscissero illesi. O che ne uscissero del
tutto.
Si
gettò letteralmente giù per le scale, saltando
gli scalini a grandi
balzi, senza prestare attenzione ad una qualche ripetizione
matematica. Ogni balzo era più grande e frettoloso del
precedente,
tanta era la foga.
Quando
arrivò alla porta che conduceva al pianerottolo del primo
piano,
allora percepì il gran calore che si stava sviluppando
dentro il
palazzo, che prima aveva avvertito solo flebilmente: era una
soffocante cappa di aria incandescente e pesante, che non riusciva a
respirare appieno, che arroventava la pelle tanto quanto i polmoni ad
ogni boccata.
Tossì
e cercò di respirare con la bocca per non inspirarne troppa,
ma non
era possibile. Avrebbe dovuto ricordare a Donnie di munire la tuta di
una mascherina, per il futuro. Se mai ce ne fosse stato uno.
Con
un calcio poderoso aprì la porta, e gli occhi iniziarono a
lacrimare
per il fumo e il calore delle fiamme che apparirono infine, in tutta
la loro gloriosa e spaventosa bellezza.
Stavano
consumando ogni cosa sul loro cammino, trasformando tutto in cenere e
fumo, ma non era niente rispetto a ciò che stava succedendo
giù, lo
sapeva. Sembrava che l'incendio fosse nato dal piano terra e che
stesse salendo velocemente, risalendo per le mura come un serpente di
fuoco affamato.
L'intuizione
gli suggeriva che forse Leo e Isabel erano in basso, magari in
qualche stanza al primo piano, e che per quello avrebbe dovuto
scendere immediatamente per cercarli lì, ma il buon senso
gli
ricordava che non era certo che non fossero a pochi passi da lui e
che avrebbe dovuto guardare ovunque, per scrupolo.
Si
gettò nell'infernale corridoio, coprendo le vie respiratorie
con
l'avambraccio, facendo attenzione alle lingue infuocate che uscivano
dalle stanze. Chiamò, controllò per quanto
poté, evitò vampate
improvvise che cercarono di morderlo con le loro lingue bollenti.
Non
erano sul quel piano, pensò con preoccupazione.
Perciò o erano
infine fuori o erano giù, nella bocca dell'inferno.
Stava
per precipitarsi di sotto con ancora più urgenza e angoscia,
quando
il telefonino squillò, sorprendendolo e allarmandolo. Poi
con una
punta di euforia, con le mani tremanti che cercavano di afferrare il
Shellcell dalla taschina, si augurò che fosse Leo a
chiamarlo, che
fosse di nuovo reperibile e al sicuro.
Quasi
imprecò quando vide il nome di Mikey sul display.
“Mikey,
non è il m....” rispose secco, tra un colpo di
tosse e l'altro,
deciso a buttare giù non appena avesse finito la frase.
“Sono
qui” lo interruppe il fratello, con la voce affannata e
squillante.
“Qui
dove?”
“Qui
da te” rispose semplicemente Mikey, come se fosse una cosa
ovvia.
Come se stesse mantenendo una promessa segreta, di esserci sempre.
Raph
ritornò sui suoi passi e si fiondò alla finestra
alla fine del
corridoio, guardando poi giù, verso la strada, davanti
all'entrata:
c'era Michelangelo, che guardava in alto verso di lui, col telefonino
in mano e un mezzo sorriso.
Mikey.
Non sapeva come fosse arrivato fin lì, ma si
sentì di colpo più
sereno, come se quel macigno sul cuore si fosse alleggerito di poco.
“Donnie
mi ha chiamato e mi ha messo al corrente” lo
informò l'altro, come
se gli avesse letto nel pensiero.
Ah,
Don. Ma come diamine avrebbero mai potuto andare avanti senza di lui?
Tutta la loro vita sarebbe stata decisamente orribile senza quel
geniaccio del loro fratello.
“Dove
sono?” fu la semplice domanda di Mikey, eppure seria come non
mai.
Anche da quella distanza, riuscivano a sentire la reciproca
preoccupazione.
“Non
lo so. Dobbiamo trovarli, prima che il palazzo finisca divorato dalle
fiamme. Sono stati drogati e forse sono entrambi incoscienti...
aiutami, Mikey.”
Il
più giovane annuì silenziosamente, chiudendo la
chiamata. Poi si
lanciò verso l'entrata del palazzo, veloce come solo lui
sapeva
essere.
Con
una nuova energia, anche Raph si rigettò nelle ricerche, con
più
speranza. In due avevano molte più possibilità,
in due potevano
trovarli in tempo.
Dovevano
trovarli in tempo.
Lui,
doveva trovarli. Doveva parlarci. Doveva scusarsi, e poi
abbracciarli. Perché c'erano troppe cose da dire, troppe
cose di cui
parlare, che non aveva avuto il coraggio di tirare fuori prima, che
aveva nascosto nel fondo della mente perché era stato
vigliacco. E
in quel momento il pensiero che potesse averli persi, entrambi, lo
terrorizzava a morte, gli faceva rimpiangere di essere stato
così
stupido e codardo, di non aver parlato con loro quando ce n'era stata
l'occasione.
No,
stava soccombendo alla sfiducia, al pensiero negativo che potesse
essere successo il peggio.
Erano
vivi, di certo. Pregò che lo fossero. Avrebbe fatto
qualsiasi cosa,
se fossero stati vivi. Avrebbe perdonato loro qualsiasi cosa, forse
avrebbe dato loro anche la sua benedizione, per il sollievo. Anche se
ne sarebbe morto dentro, lo sapeva.
L'urlo
di Mikey lo raggiunse mentre scendeva verso il garage, sovrastando
ogni altro rumore, lo scricchiolio del legno arso, gli schianti e il
graffiare delle fiamme che masticavano ogni cosa.
“Sono
qui, li ho trovati! Ho bisogno del tuo aiuto, presto!”
gridò,
lontano e ovattato, da sotto i suoi piedi.
Un
sottopiano, perché non ci aveva pensato?
Volò
verso di loro, saltando pozzi di fiamme e scansando crolli di
macerie.
Erano
vivi. Lo erano davvero. Ogni altra cosa poteva aspettare, ogni
pensiero rimandato al momento in cui avrebbe, inevitabilmente,
parlato con loro.
C'era
calma, attorno. Un pesante silenzio e tranquillità. Voleva
aprire le
palpebre, ma erano pesanti, come macigni; e tutto vorticava, anche
lì
dietro.
Riuscì
ad aprire gli occhi infine e lo sguardo vagò disorientato
per la
stanza luminosissima, anche troppo; strizzando le palpebre per il
fastidio, mise a fuoco Michelangelo, che le sorrideva dalla sedia al
lato del letto. Era sdraiata, non se n'era nemmeno accorta.
Lui
le sorrideva, lei lo guardava in silenzio, cercando di capire.
“Ciao”
sussurrò tenuemente l'amico, come se fosse al capezzale di
un
malato. C'era caldo, molto caldo nella stanza, soffiato da uno
scaldino a ventola poggiato a terra vicino al letto.
Isabel
cercò di rispondergli, ma non uscì un suono dalla
sua gola, arida e
gonfia; Mikey si accorse del suo tentativo e cercò di
andarle
incontro.
“Non
sforzarti” la rassicurò, versandole un bicchiere
d'acqua dalla
brocca sul comodino. Poi la aiutò a tirarsi un po' su,
tenendola con
una presa ferma, ma gentile.
Isabel
bevve, avidamente, ingollando con fatica ogni sorsata che portava
benessere e refrigerio.
“Ehy,
piano, piano” ridacchiò Mikey davanti alla sua
spasmodica bevuta,
con le mani che stringevano il bicchiere con foga.
Quando
un po' dell'arsura fu placata, lui l'aiutò a mettersi
seduta,
sprimacciandole i cuscini dietro la schiena.
“Cos'è
successo?” gracchiò con la voce roca, cercando i
suoi occhi. C'era
confusione nella sua testa, un pesante buco di ignoranza che copriva
ore e ore di vuoto.
L'ultima
cosa che ricordava per certo era che stava passeggiando con Steve
verso la casa del ragazzo, per controllare come stesse suo padre e se
la magia di guarigione stesse funzionando.
Mikey
sospirò e si sedette sul bordo del letto, tenendo la mano di
lei tra
le sue, con affetto. E le raccontò ogni cosa, del rapimento,
della
droga, persino del tentativo di stupro, anche se Donnie gli aveva
ordinato di non dirglielo a nessun costo: lui sapeva che Isabel era
una donna forte, che avrebbe potuto superare anche quello, se fosse
stato sincero con lei e le avesse detto la verità; la mano
di lei
strinse più forte la presa, spaventata, inorridita, ma non
vacillò,
dimostrandogli che aveva ragione.
Quando
il racconto finì, con il salvataggio da parte sua e di Raph,
gli
occhi scuri di lei erano sbarrati di apprensione e orrore, profondi,
misteriosi.
“Come
sta Steve?” domandò, con la voce un po' meno
incerta, ma con
profondo rimorso. Era colpa sua se il piccolo amico si era fatto
male, in fin dei conti.
“Abbastanza
bene, meglio di quanto abbiamo temuto all'inizio. Le costole sono
solo incrinate e non rotte e la spalla era lussata, con solo una
microfrattura, contusioni e lividi a condire il tutto; lo terranno in
osservazione per qualche giorno, April e Casey sono con lui
all'ospedale. Tutto sommato gli è andata bene, è
stato molto
coraggioso.”
Isabel
si sentì morire, al sapere che Steve stesse così
male; aveva
cercato di proteggerla e lei non riusciva nemmeno a ricordarlo.
Perché portava sempre dolore alle persone a cui voleva bene?
Immediatamente, un'altra persona si fece strada nella sua mente.
“Dov'è
Leo?” chiese con urgenza, come sta avrebbe
voluto chiedere, ma aveva paura.
Lo
sguardo di Mikey si rabbuiò, di colpo. Lo vide tentennare,
prendere
tempo, sentì il battito del suo cuore accelerato nel
contatto delle
mani e il panico crebbe, secondo dopo secondo, in cui l'amico fece
vagare lo sguardo per la stanza, senza il coraggio di poggiarlo su di
lei.
Strinse
più forte la presa, facendogli capire che non avrebbe
lasciato
perdere.
Mikey
prese un grosso respiro, sofferto.
“È
nel laboratorio, Donnie è con lui. Il congelamento
è stato peggiore
su di lui, ti ha protetto col suo corpo” rivelò
infine, ogni
parola sputata fuori con forza. Perché sapeva che lei si
sarebbe
presa la colpa, che ne avrebbe sofferto.
Isabel
prese un brusco respiro, strozzato, lasciando andare le sue mani come
se fosse infetta, come se avesse paura di fare del male anche a lui.
Scostò le coperte con foga e provò ad alzarsi,
facendo quasi cadere
lui giù dal letto per lo slancio.
“Fammi
passare! Devo andare a vederlo!” gli urlò contro
quando le si mise
davanti per impedirle di scendere.
Voleva
sgridarla e dirle che non poteva muoversi, che anche se era fuori
pericolo era appena uscita da un principio di ipotermia e da una dose
di sedativo che avrebbe steso un cavallo, ma lo sapeva che sarebbe
stato inutile. Non poteva vincere contro la sua testardaggine.
Se
non l'avesse portata di sua spontanea volontà, si sarebbe
probabilmente trascinata coi gomiti, fino al laboratorio.
La
prese in braccio e la portò fuori dalla sua stanza,
scendendo con un
balzo vicino al laghetto.
Quando
entrarono nel laboratorio, incontrarono gli occhi scuri e stanchi di
Don, ad accoglierli. C'era molto caldo anche lì,
più che nella sua
stanza, e il genio stava sudando mentre controllava la flebo sorretta
dalla piantana.
“Cosa
diamine ci fa lei qui!” strillò sottovoce,
correndo loro incontro.
Ovviamente se l'era presa con Mikey, dato che era lui a portarla.
Isabel
lo interruppe con la mano, tendendo il collo per osservare Leo
disteso sul lettino d'emergenza. Sembrava addormentato o in stato di
incoscienza.
“Gliel'ho
chiesto io!”
Don
la ignorò e prese invece a controllare i suoi arti, la
mobilità
delle sue dita. Isabel trattenne una smorfia quando piegò
quelle dei
piedi, un po' rigide e intirizzite, ma lo sguardo rilassato di Don la
rassicurò.
“Come
sta lui?” riuscì a chiedere, facendo cenno a Mikey
di metterla
giù.
Don
si adombrò, incupendosi. Fece loro strada verso il lettino,
mentre
Michelangelo la aiutava a camminare lentamente; sentiva delle fitte
risalire dalle terminazioni nervose delle dita dei piedi e spandersi
dolorosamente per le gambe e poi su, fin alla testa.
Donnie
sollevò la coperta che copriva il corpo del fratello,
scoprendo le
gambe: il verde foresta della pelle di Leo era diventato scuro e
livido, più cupo e intenso nelle dita, ormai quasi nere; la
pigmentazione necrotica risaliva per i piedi e si fermava appena
sotto le ginocchia.
“Noi
abbiamo una temperatura corporea appena inferiore a quella di un
essere umano, perciò anche il congelamento avviene
più lentamente e
meno aggressivamente nel nostro corpo, ma Leo è rimasto a
diretto
contatto col ghiaccio per molto tempo, purtroppo.
Sto
provando a scaldarlo dall'interno con una soluzione fisiologica
riscaldata a 38 gradi, ma se non ci sarà risposta positiva,
dovremo
amputare, non so nemmeno quanto ancora” svelò con
voce tetra,
ricoprendo con cura le gambe del fratello. Si stava aggrappando a
gesti meccanici, per non pensare all'inevitabile.
Leo
non si era mosso per tutto il tempo, incosciente o sotto effetti di
farmaci, col respiro solo lievemente accelerato. Isabel si
aggrappò
al bordo del lettino e lo usò come appoggio per raggiungere
la testa
e li rimase a guardarlo, per qualche istante. Allungò una
mano per
toccare il suo viso, ma era gelido, nonostante il caldo nella stanza.
“Lasciateci
soli” chiese, senza voltarsi a guardarli. Non gli interessava
sapere delle loro espressioni, sapeva già che la sua
richiesta li
aveva sorpresi.
“Vuoi...”
provò a chiedere Mikey, in apprensione. Forse c'era una
goccia di
speranza nella sua voce, ma cercò di non darlo a vedere.
“Ci
voglio provare” fu la risposta di Isabel.
E
non poté vedere lo sguardo che lui e Don si scambiarono,
confuso,
speranzoso, ma anche preoccupato.
Aspettò
di sentire le porte chiudersi con un tonfo lieve, e ascoltò
il
silenzio per qualche istante.
Solo
allora si chinò su Leo e poggiò le labbra sulle
sue, lievemente,
fredde anche quelle: spostandosi appena schioccò il
successivo bacio
sulla sua fronte.
“Mi
dispiace” sussurrò contro la sua pelle, quando si
staccò. Le
palpebre di Leo tremolarono e gli occhi si spalancarono, incontrando
i suoi, così vicini.
Le
parve anche che fosse arrossito all'istante, che era una buona cosa,
indubbiamente. E provò a sorriderle, ma le labbra screpolate
gli
fecero fare una smorfia di dolore; la sua mano si sollevò
con fatica
da sotto le coperte e corse verso la sua guancia, carezzandola con
sollievo.
“Ciao”
mormorò lei, afferrando la mano e stringendola tra le sue,
scaldandola con affetto.
Rimase
in quella stanza a lungo, a curarlo, a parlare, mentre la ressa fuori
dalla stanza cresceva, in attesa, con curiosità e ansia.
Quando
Isabel uscì dal laboratorio, dopo qualche ora, sembrava
reggersi con
più sicurezza di prima, anche se il suo colorito era invece
impallidito; sorrise ai quattro mutanti che attendevano lì
fuori e
si scostò per permettere loro di entrare; il sensei le
strinse la
mano con calore, prima di andare a controllare suo figlio.
Solo
Raphael era rimasto fuori. E la guardava in silenzio, combattuto con
sé stesso.
Oh,
lei non poteva sapere quanta voglia avesse di correre verso di lei e
abbracciarla, e chiederle scusa e dirle quello che fino a quel
momento non aveva avuto il coraggio di dirle, mai. Ma c'era un
piccola parte di sé, anche se soffocata dal sollievo, che
gli diceva
che ciò che aveva fatto era stato giusto, era stato per il
suo bene,
che quello che era successo era stata la pratica dimostrazione di
ciò
che era andato sostenendo fino a quel momento: Isabel non poteva
mischiare la sua vita con la loro, non era giusto.
E
quella parte, seppure piccola, era quella più forte. La
preoccupazione per la sua sicurezza era più forte di
qualsiasi
verità, di qualsiasi sogno che comprendesse loro due.
Si
mossero all'unisono uno verso l'altra, nello spesso silenzio, come se
si stessero attirando e si fermarono solo quando mancava un passo ad
entrambi per toccarsi, gli occhi negli occhi, che al loro contrario
si dicevano tante cose, cose che loro non sapevano nemmeno. Si
toccavano con gli occhi, si amavano con ogni sguardo, si raccontavano
verità che tenevano nel fondo dell'anima.
“Grazie
per avermi salvata” soffiò lei, in un sussurro
emozionato.
Raph
piegò la testa di lato, dilaniato dalla sua dolcezza e
quello che
stava per fare. Ma lo doveva fare.
“Hun
mi ha raccontato una cosa molto interessante successa tra te e
Leo”
mentì spudoratamente, mantenendo di proposito un tono
sottile e
allusivo.
“Quindi
ti va bene chiunque purché sia un mutante?”
finì con cattiveria,
seppellendo nel fondo del cuore quella stretta nel vedere i suoi
occhi sbarrarsi di orrore e dolore.
Il
rumore dello schiaffo si propagò nel rifugio con uno
schiocco secco,
e mentre la testa si piegava per la forza del colpo e stringeva la
mascella per non lasciarsi scappare un suono, si disse che se lo era
meritato tutto.
Isabel
rimase a fronteggiarlo, la mano arrossata stretta nell'altra e gli
occhi lucidi di furiosa indignazione.
“Sono
così stupida da essere ancora innamorata di te,
purtroppo”
confessò sentitamente, tremando per trattenersi, non sapeva
se la
sua rabbia o invece un pianto di delusione.
Raph
allungò le mani e le chiuse sui suoi polsi, attirandola
verso di sé.
“Gli
umani devono stare con gli umani, i mutanti coi mutanti! È
qualcosa
che non si può cambiare, che non doveva cambiare. Non si
possono
mischiare in nessun modo, non ci può essere un futuro
assieme, lo
vuoi capire?” urlò con rabbia e frustrazione,
strattonandola più
forte di come avrebbe voluto, ripetendolo più a
sé stesso, per
ricordarselo, ancora, che era giusto così, che non poteva
cedere al
desiderio di mandare tutto al diavolo e amarla, come il cuore gli
suggeriva di fare.
Isabel
trattenne il fiato, sconvolta, e con uno strappo si liberò
dalla sua
presa ferrea, indietreggiando immediatamente di un passo; erano
rimasti i segni delle sue mani sulla pelle, dalla foga.
“Ho
capito. Adesso ho capito” mormorò come in trance,
gli occhi scuri
nei suoi, il respiro pesante e sofferto.
Scappò
via, con pochi passi frettolosi fu all'ascensore e ne sparì
all'interno, senza che lui avesse fatto un passo o un cenno per
provare a fermarla. Era giusto così, alla fine.
Lei
voleva qualcosa che lui non poteva concederle, che non poteva
concedere a sé stesso.
La
porta del laboratorio si spalancò e ne venne fuori l'ultima
persona
che pensava di vedere: Leo camminava incerto verso di lui, sostenuto
da Mikey e Don; il colore delle sue gambe era diventato più
chiaro e
anche le dita stavano riacquistando un colorito sano. Zoppicava solo
un po', quando doveva poggiare il peso sulle ginocchia per sollevare
l'altra gamba nella camminata.
Leo
resistette e si sforzò, con gocce di sudore che gli
imperlavano la
fronte, per raggiungerlo: si fermò ansante, di fronte a lui,
e Mikey
si scostò da sotto il suo braccio, pur mantenendolo con un
tocco
gentile per il fianco.
Il
pugno di Leo non fu così forte, -barcollò anche e
perse
l'equilibrio rischiando di cadere in avanti, se Mikey non l'avesse
ripreso al volo,- ma gli fece male comunque, per il gesto in
sé e
perché la guancia colpita era la stessa che ancora vibrava
per lo
schiaffo di Isabel.
Raph
si toccò la faccia, imprecando silenziosamente, e se lo
schiaffo di
lei sentiva di esserselo meritato, ancora faticava a capire per quale
motivo Leo lo avesse colpito.
Il
leader si rimise ritto, appoggiandosi nuovamente a Michelangelo,
ergendosi in tutta la sua altezza, con una espressione scura in viso.
“Sei
un fottutissimo idiota. Vuoi proteggerla? Va bene! Ma lascia che
sappia la verità e che poi sia lei a scegliere! Non puoi
decidere
come dovrebbe essere il vostro futuro da solo, non è giusto!
Isabel
ha diritto di dire la sua, di fare parte della scelta!” gli
gridò
contro.
“Ma
tu...” provò a dire Raph, che non sapeva se essere
più sconvolto
dalla sua rabbia o dal suo discorso che lo incitava a mettersi con
Isabel.
“Abbiamo
parlato. Io amo Isabel, ma non sono così cieco da non capire
che lei
non può ricambiarmi. E lei, non ci crederai, si è
scusata,
incessantemente, per non potermi ricambiare, come se fosse colpa sua.
Perciò sì, mi faccio da parte, so riconoscere una
sconfitta. Ma se
continuerai con questa stupida presa di posizione, con questo stupido
e inutile stoicismo, allora potrei cambiare idea e portatela via, con
ogni mezzo concesso! Quanto a lungo hai ancora intenzione di
continuare a negarti la felicità?”
Gli
occhi di Donnie e Mikey si chiedevano lo stesso, riusciva a sentire
il loro sguardo incandescente su di sé, ma mai
così intenso come
quello di Leo.
Sembrava
desideroso di dargli qualche altro pugno.
Odiava
quando Leo aveva ragione.
Non
parlò, non si difese, non cercò di far valere la
sua posizione, di
far capire, perché sapeva riconoscere una battaglia persa;
di vere
argomentazioni non ne aveva, era chiaro ormai.
C'era
solo la sua paura di rovinare la vita di Isabel, e non se ne sarebbe
mai potuto liberare, ne era certo.
Con
un sospiro indietreggiò e si allontanò da loro,
verso la sua
stanza, lontano dalla verità, perché quella non
voleva affrontarla.
Leo si riprese bene,
progressivamente: ogni giorno la mobilità degli arti
aumentava e il
colore della pelle sembrava sempre più normale; Leatherhead
li aveva
rassicurati sulla rigenerazione completa delle cellule morte e sulla
scomparsa della necrosi. In poco tempo il loro leader sarebbe tornato
perfettamente in forma, aveva assicurato.
Nella settimana che seguì
riuscì ad alzarsi da solo, riprese a camminare con sempre
più
sicurezza, l'ultimo giorno gli fu concesso anche il rientro del dojo,
per una leggera lezione di tai chi con il sensei.
E se erano
tutto felici per lui,
c'era un'altra questione per non esserlo.
Isabel.
Dopo essere sparita, quel
giorno, non era più tornata al rifugio, si era negata al
telefono,
era rimasta lontana da loro in ogni modo possibile. Sapevano come
stesse solo tramite April e il piccolo Steve, che era uscito
dall'ospedale ed era stato rimesso in sesto dalla ragazza: stava
bene, dicevano, ma passava le giornate a casa, nascondendosi da
tutti. Solo Steve riusciva a vederla di tanto in tanto, con la scusa
di questo o quel dolore che faceva finta di sentire, per non
lasciarla da sola.
Ovviamente,
sapevano tutti che
la colpa era di Raphael. E non mancavano di rimproverarlo quando
potevano, senza dargli tregua: a colazione, all'allenamento, di
ronda, era una continua predica, da parte di tutti. Doveva sempre
correre via o far finta di non sentirli, per non dare di matto.
Stranamente, però, non riusciva
a lasciare perdere gli sguardi di Leo. Lo trafiggevano come
pugnalate, dritto alla bocca dello stomaco, di contrizione e
rimprovero.
Stava
scendendo verso la cucina
per la cena, pronto a mangiare in un clima di occhiate torve e Mikey
che parlava con la bocca piena mandandogli frecciatine, quando il
suono di un telefono trillò nell'aria.
Sentì Leo che rispondeva con
sollecitudine, poi il silenzio. C'era però un buon profumo
che
arrivava dalla cucina e il rumore di qualcosa che sobbolliva nelle
pentole; avrebbe sopportato Mikey per mangiare qualsiasi cosa stesse
cucinando.
Con un
tonfo urgente la porta
del laboratorio si spalancò e Leo ne venne fuori,
più velocemente
di quanto pensasse fosse possibile, per uno che la settimana prima
aveva rischiato l'amputazione di entrambi i piedi.
Incontrò il suo sguardo e non
era cupo o di rimprovero, ma nervoso e allarmato: ne fu rapito e
contagiato e sentì la sua angoscia in maniera palpabile.
“Chiama
Mikey! Emergenza!
Adesso!” ordinò il leader con sussiego,
mettendogli una strana
ansia addosso.
Quando gli
altri due li
raggiunsero, Donnie con un borsone a tracolla, uscirono dal rifugio
prima ancora di chiedere cosa fosse successo, seguendo il loro leader
nella notte.
Conoscevano
tutti quel posto,
quell'appartamento.
Ma solo Leo sapeva perché
fossero lì. Raph aveva quasi pensato di andarsene
immediatamente
quando aveva capito, ma il ricordo della paura nel suo sguardo lo
bloccò: Leo non stava mentendo per portarlo fin
lì, ne era sicuro.
Stranamente, invece di salire
per le scale antincendio, si fiondarono all'interno il più
velocemente possibile, rischiando di essere visti ad ogni rampa di
scala che salirono. Uno dei condomini poteva uscire in qualunque
istante e scorgerli, per quanto fossero veloci.
Gli occhi
di Steve si
spalancarono di sollievo nel vederli arrivare, lì poggiato
contro la
porta dell'appartamento con disperazione, nel pianerottolo
fortunatamente vuoto. Temettero quasi che si stesse per gettare tra
le loro braccia da quanto era felice di vederli.
“Non
risponde! Ho provato a
chiamarla, a far finta di stare male, a bussare per ore, ma non mi
risponde nemmeno per dirmi di andarmene!” raccontò
quando lo
ebbero raggiunto, sottovoce eppure con voce strozzata.
“Magari
sei riuscito a sfinire
anche lei!” ribatté Raph scocciato, che stava per
riprendere
l'idea di andarsene.
Si beccò giusto un paio di
occhiatacce per averlo detto.
“Magari
non c'è” disse più
pratico Donnie, che però già si era avvicinato
alla maniglia e ci
trafficava attorno, togliendo un sacchetto di attrezzi dalla borsa.
“Ho
sentito un lamento, prima.
Sono sicuro che sia in casa” replicò all'istante
Steve.
La porta si
aprì sotto le dita
abili di Don, che con pochi strumenti e qualche mossa era riuscito a
forzarne la serratura.
“Noi
dobbiamo davvero parlare
di queste tue strane tendenze delinquenti” lo
rimproverò Mikey
mentre entravano nella stanza buia, in cui le loro ombre si
proiettarono fugacemente, con la luce del pianerottolo.
Don richiuse la porta
nell'esatto momento in cui la sua mano trovava l'interruttore,
accendendo la luce: gli sguardi vagarono intorno per mettere a fuoco
e lo videro, il corpo a terra, tra la zona cucina e il divano della
zona salotto.
Mikey si
lasciò scappare un
grido, di sorpresa.
C'era una donna, a terra,
riversa su un fianco: la pelle verde chiaro splendeva alla luce e
dalla maglia a bretelle era ben visibile la parte scura della
schiena; così come attirarono la loro attenzione le mani e i
piedi a
quattro dita.
Si avvicinarono con timore e
Donnie si inchinò per esaminarla. Non era possibile che
fosse...
Il viso era
più sottile e
regolare del loro, quasi ovale, e c'era un accenno di naso che loro
non avevano; sulla testa, poi, aveva una striscia di capelli che
correva al centro, una capigliatura alla moicana, dalla lunga chioma
castana.
Non aveva esattamente il guscio
come loro, ma la pelle della schiena era spessa e appena sporgente,
dura al tatto e verde scuro, ma fu il disegno inciso, come un
tatuaggio che si diramava dalle spalle fino a sparire sotto la
maglietta, che gli diede la certezza: era l'immagine degli scuti di
un carapace.
“È
una mutante. Ed è Isabel”
rivelò nel silenzio angosciato, dando infine voce e certezza
alla
loro paura.
Note:
Buona notte!
Aaah, dovevo aggiornare prima,
scusate! Ma mi trovo costretta a farlo a quest'ora o fino a
martedì
non mi sarà possibile, troppi impegni. Altro che ponte delle
vacanze! E ho riletto meno di quanto avrei voluto, se trovate degli
errori ditemelo, vi prego!
Comunque, siamo a meno due
ormai. Oh, come sono triste. Ma non per questo è
già tutto finito,
anzi, proprio per nulla!
Isabel
è mutata, sembra proprio
in un ibrido tartaruga... perché? Tatataaaan.
Meno due!
Oh cielo! Vado a
piangere in un angolo!
Grazie di cuore a tutti voi! Ai
lettori, i nuovi preferiti, ricordati, i recensori!
Vi
abbraccio tutti con affetto!
A presto
edit: aaaah, mi ero quasi scordata! 202 recensioni!
Già mi venne un infarto al superarne cento, ma adesso...
grazie, non ho abbastanza grazie per dirvi quanto sia felice e vi adori!
Un megaabbraccio felice!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 33 *** The real you ***
Nel
silenzio che seguì l'affermazione di Donatello, quelle due
parole
sembrarono riecheggiare senza freno.
Mutante.
Isabel. Mutante. Isabel. Mutante... Isabel.
Si
inchinarono anche loro attorno alla donna, come in trance, come se i
loro corpi stessero agendo di propria volontà, e fu subito
chiaro
che Donnie aveva ragione: anche se i tratti somatici si erano un po'
modificati nella mutazione, -il naso si era accorciato e il suo ponte
allargato e gli zigomi ispessiti,- riconobbero facilmente nel viso
verde i tratti familiari di Isabel.
Trattennero
il fiato. Una valanga di teorie li investì in pieno, e paure
e
dubbi. C'era quella domanda che tutti stavano pensando, ma che
nessuno aveva il coraggio di pronunciare ad alta voce,
perché
avrebbe reso tutto reale.
La
mano di Raphael si tese, senza che potesse in qualche modo
controllarla, e toccò una guancia di Isabel, dolcemente, per
sentire
la consistenza di quella pelle sotto le dita: era di un verde tenue,
lo stesso colore di una tenera fogliolina appena germogliata, la
stessa consistenza vellutata al contatto, la stessa paura di poterla
rovinare anche solo con un tocco esitante.
Isabel
era bella persino da mutante, dannazione. E una parte di lui lottava
per scuoterla e prenderla a schiaffi per ciò che credeva
avesse
fatto, l'altra per stringerla e amarla finalmente, senza più
nessuna
scusa che potesse fermarlo.
Ma
non era giusto che finisse così. Assolutamente.
Infine,
fu Michelangelo a prendere il coraggio e chiedere.
“Perché
è mutata?” soffiò guardingo, appena un
sussurro, a Donatello che
nel frattempo si era premunito di controllarla e visitarla, per
quanto possibile.
Il
fratello sollevò il capo dal torace di lei, dove aveva
cercato di
auscultare battito e respirazione, e concentrò lo sguardo su
di lui.
“È
riuscita a sintetizzare il mutageno dai nostri campioni di sangue e
pelle. Non so ancora come... Isabel è intelligente, ma non
so fino a
che punto possa aver capito da sola come lavorarli” rispose
assorto, tornando a rivolgersi verso lei, sollevando le sue palpebre
per controllare le pupille.
Nessuno
si accorse dell'aria nervosa di Steve, che si torceva le mani con gli
occhi sbarrati che non si staccavano dalla donna, pieni di spavento e
orrore, pieni di comprensione e rimorso.
“E
poi il mutageno non può avere fatto tutto il lavoro. Deve
averlo
mischiato con DNA di tartaruga, ma diverso dal nostro... vedete
queste?” continuò il genio, indicando delle
macchie color ruggine
che creavano uno splendido mosaico sugli avambracci e le gambe.
“E
questo” incalzò Don prendendo la mano di Isabel e
aprendola
davanti ai loro occhi, mostrando loro la sottile membrana quasi
trasparente tra le dita.
“Ha
usato DNA di tartaruga marina, penso la specie Caretta caretta. Credo
per non avere legami nemmeno alla lontana con noi, a livello
genetico” finì di spiegare, col viso sempre
più teso, ormai solo
parzialmente conscio di loro.
Sembrava
che più visitasse Isabel, più qualcosa non gli
tornasse.
“Ma
perché? Come?” sbottò Raphael, che
stava impazzendo sempre più
ad ogni verità che Don gli sbatteva in faccia.
Nel
silenzio si sentì un brusco respiro, qualcuno che tratteneva
il
fiato, vinto dalla paura e l'orrore di ciò che aveva fatto.
“È
colpa mia” pigolò Steve, fermo lì
dov'era rimasto quando era
entrato, immobile, colpevole, inorridito.
Gli
occhi di tutti furono su di lui un secondo dopo e il nervosismo
crebbe ancora di più e la voce gli morì in gola;
deglutì a vuoto,
indietreggiando inconsciamente.
“Io...
io non sapevo che cosa volesse farci. Mi ha detto che le serviva una
mano coi campioni per prepararsi alle lezioni di Medicina, che dato
che la chimica era il mio campo le sarei stato utile. Che doveva
isolare il mutageno per poter capire come agisse e come usarlo per
curarvi. Le ho creduto. È tutta la settimana che ci
lavoriamo
assieme e io non avevo capito...” provò a scusarsi
il ragazzo,
incurvandosi ad ogni parola, sotto i loro sguardi accusatori, sotto
la colpa che sentiva nel cuore.
Raph
si alzò di scatto e gli si avventò addosso,
furioso. Aveva trovato
il perfetto capro espiatorio, con chi prendersela per quello che
stava accadendo, anche se sapeva benissimo che non era colpa sua, che
Isabel riusciva a fare ciò che voleva, sempre, anche se era
stupido,
anche se feriva chi le stava attorno.
Steve
indietreggiò spaventato, la voce di Leonardo esplose, quasi
in
contemporanea all'urlo di Mikey.
“Raph,
lascialo in pace! Non ha nessuna col...” disse severo il
leader,
prima che lo strillo del fratello lo interrompesse e attirasse
l'attenzione di tutti.
Il
corpo di Isabel aveva preso a contorcersi, scosso da convulsioni che
le facevano tremare gli arti, e rendevano il respiro difficoltoso.
Con
un'espressione terrorizzata Mikey si gettò sulle sue gambe
per
cercare di tenerla ferma, mentre Leo faceva lo stesso con il busto e
Don cercava di impedire che si mordesse la lingua.
“Che
cosa le succede?” urlò Raph, che lasciato il
proposito di
prendersela con Steve, assisteva alla scena con paura e angoscia.
E
sotto i loro sguardi preoccupati e attoniti, le ultime due dita delle
mani si fusero e da quattro divennero tre, il piastrone, -che prima
era solo un ispessimento della pelle come la parte della schiena,-
sporse di colpo in fuori e le macchie di ruggine iniziarono a
spargersi per tutto il corpo, in un perfetto mosaico.
“Sta
continuando a mutare!” esclamò con fatica Don,
mentre cercava di
farle rilassare le mandibole serrate dalle contrazioni muscolari.
Isabel
stava diventando sempre più simile ad una tartaruga e meno
ad
un'umana e loro non sapevano come poter fermare il procedimento.
D'un
tratto sembrò scemare d'intensità,
sembrò quasi che le convulsioni
fossero finite, un momento di pausa in cui si udirono i respiri
pesanti e accelerati, in cui gli sguardi si cercarono per comunicare,
per chiedere, per capire.
Don
fece per aprire bocca, ma con un urlo disumano Isabel
ricominciò a
sussultare, i muscoli persino più tesi di prima, le scosse
del suo
corpo violente e incontrollate che sbattevano contro il pavimento con
brutalità: la linea delle dita si spaccò di netto
e si divise in
due, dapprima carne viva che pulsava sanguinante, poi la pelle le
ricoprì, come edera che si abbarbicava sulle nuove dita; le
ossa del
viso sembravano sciogliersi e risolidificarsi di continuo, come
fossero di cera, e si formavano e squagliavano, prima il naso
tornò
alla dimensione normale, poi si riaccorciò, il mento si
allargò e
si restrinse; la pelle della schiena ritornò normale e
rosea, per
qualche secondo, prima di ispessirsi ancora e tornare come un
carapace formato dai muscoli della schiena.
Ogni
trasformazione era accompagnata da grida, grida agghiaccianti e
sofferte, che Isabel si lasciava scappare anche in stato di
incoscienza.
“Don!
Cos'ha?” urlarono anche loro, cercando di farsi sentire,
preoccupati per il dolore che sapevano stesse provando, ma incapaci
di fare alcunché per aiutarla.
“Io...
non sono sicuro!” strillò in risposta il genio,
con fatica sempre
maggiore. C'erano gocce che gli imperlavano la fronte, dallo sforzo
di tenerla.
“Credo
che la sua magia stia combattendo il mutageno!”
rivelò alla fine,
allarmato.
“Anzi,
per essere più precisi, credo che la sua magia e il mutageno
si
stiano combattendo, per dominare nel suo corpo. E se continua di
questo passo, Isabel morirà prima di poter raggiungere una
forma
definitiva.”
Un
sottile gelo serpeggiò nella stanza, incredulità
e paura si
unirono, scuotendoli sin dal profondo.
“Morirà?
Perché...?” esalò Mikey, rafforzando
inconsciamente la presa su
di lei, per paura di perderla probabilmente.
Isabel
strillava, strillava come se fosse divorata viva da un fuoco
invisibile per loro, che la consumava dall'interno, e brividi di
terrore corsero lungo la loro pelle, agghiacciati dal suo strazio.
“Perché
le mutazioni continue e senza sosta faranno collassare i suoi organi
interni, a cominciare dall'apparato respiratorio”
spiegò Don, con
lo sguardo incollato su di lei, il cui viso, nonostante l'incarnato
fosse ormai verde, era arrossito di dolore e fatica.
“Cosa
possiamo fare?” domandò Leo, in un sussurro teso,
come se lo
stesse chiedendo più a sé stesso, sconvolto da
ciò che stava
succedendo, a lei, che amava, amava e non poteva veder soffrire in
quel modo.
“Non
possiamo fare molto dal di fuori: anche se riuscissimo a sintetizzare
un antimutageno in una manciata di minuti, non so se il suo organismo
non lo vedrebbe come un nuovo corpo estraneo da combattere e non so
se interferirebbe o meno con la sua magia. Isabel è un po'
come noi:
non è esattamente normale, non so se la sua parte magica
reagisca
come farebbe un corpo umano al 100%. È dall'interno che
dobbiamo
agire!” spiegò Donnie, inchinandosi per prendere
Isabel in
braccio, mentre loro si guardavano confusi.
Le
sue grida scemarono quando l'amico la strinse, come se trovasse
momentaneo conforto in quel contatto; il genio fece strada verso la
camera di Isabel e lì la poggiò sul letto,
controllando
immediatamente le sue condizioni.
“Steve!
La mia borsa, presto!” urlò spazientito, facendo
trasalire il
ragazzino.
Ci
frugò freneticamente dentro, una volta che quello gliela
porse, e ne
tolse fuori un tubo trasparente, incurvato verso la fine.
“Devo
intubarla. La prossima trasformazione potrebbe compromettere il suo
tratto respiratorio, irrimediabilmente” sussurrò
assorto,
preparandosi a fare una cosa che non aveva mai fatto prima e che
sapeva essere pericolosa.
Il
rischio di graffiare e lesionare la trachea era altissimo anche per
una persona esperta, figurarsi per uno come lui.
“Vuoi
spiegarci cosa...” provò a domandare Mikey
inorridito, prima che
il fratello lo zittisse all'istante.
“Silenzio!
Mi serve assoluto silenzio!”
Doveva
far presto e intubarla prima che potesse avere una nuova
trasformazione o un attacco epilettico, ma le mani gli tremavano
così
tanto che non sapeva come avrebbe potuto riuscirci.
Ogni
millimetro di tubo che cercava di infilare nella gola gli sembrava
troppo ed eccessivo, un corpo estraneo che le avrebbe fatto male, lo
sapeva.
“Resisti,
resisti!” le sussurrò, premendo ancora di
più il tubo
endotracheale, quando non trovò fortunatamente resistenza
nella
laringe.
“Steve,
passami la cannula sottile!” strillò poi, tenendo
con una mano il
tubo e allungando l'altra verso il ragazzino che teneva la sua borsa.
Con
un gesto sicuro fece passare la cannula all'interno del tubo e poi
sfilò quest'ultimo con un sospiro di sollievo.
“Fatto!
annunciò, attaccando l'estremità della cannula
alla sacca per la
respirazione manuale. La passò a Steve, illustrandogli il
ritmo da
tenere per una corretta ossigenazione.
“Adesso
a voi. Dovete entrare nella mente di Isabel e aiutarla dall'interno.
È una cosa lunga da spiegare, dovete solo sapere che quello
che sta
succedendo si sta ripercuotendo anche nella sua psiche ed è
lì che
agirete! Io rimango qua per controllare le sue condizioni, assieme a
Steve. Muovetevi!”
Mikey
fece per prendere parola, ma lo sguardo secco che Don gli
mandò fece
morire la sua voce in un balbettio indistinto, e anche lui si
avvicinò ad Isabel, come i suoi fratelli.
“Cosa
dobbiamo aspettarci? E cosa dobbiamo fare?” si
informò Leo,
prendendo posto vicino alle gambe di lei, stabilendo un contatto
fisico, poggiando la mano vicino alla caviglia.
Mikey
era al suo fianco e Raph dall'altra parte.
“Lo
vedrete. Lo capirete” rispose il genio, assorto.
Ci
fu un intenso scambio di sguardi, quello fiducioso di Donnie, quello
spaventato di Steve, i loro tesi e confusi.
Poi
chiusero gli occhi e respirarono a fondo, grossi respiri dapprima
scoordinati, che poi pian piano si armonizzarono in un unico, calmo
soffio ancestrale.
La
mente si svuotò e si annullò, tanto da diventare
solo una linea
sottile per ricordare chi fossero, per indirizzarli verso la meta.
Entrare
nella mente di Isabel fu diverso dalla volta precedente: se allora
era stato quasi essere guidati per mano da lei, questa volta si
sentirono come indesiderati, sentirono una spessa ostilità
che
cercava di tenerli lontani, di alzare barriere che impedisse loro di
avvicinarsi; fu solo con un notevole sforzo che riuscirono infine ad
arrivare al nucleo della sua mente.
E
tra stupore e meraviglia, si accorsero immediatamente che non sarebbe
stato facile, che niente sarebbe andato liscio come avevano pensato.
Non
erano in un nulla grigio che potevano manipolare e immaginare come
volevano, come la volta prima: con occhi stupiti si voltarono in ogni
dove, scrutando con paura e un pizzico di riverenziale timore quella
che sembrava la replica esatta della città di New York, in
rovina e
decadente, un cielo plumbeo che minacciava la fine del mondo; una
tempesta di fulmini squarciava l'oscurità con folgori
brillanti che
facevano male agli occhi, seguiti da rombi che facevano tremare la
terra.
Alcuni
degli edifici erano crollati a terra in macerie polverose,
trascinando giù con sé anche porzioni di quelli
vicini, e quelli
rimasti in piedi sembravano consumati e distrutti dal tempo, in
rovina e ormai mangiati dalla vegetazione che cresceva ovunque,
riappropriandosi dei suoi spazi. Le strade erano divelte da grosse
voragini e radici di alberi che nella loro forza avevano spaccato
ogni cosa sul loro cammino.
Non
si sentiva un rumore. Quel mondo distopico creato nella mente di
Isabel era disabitato. Le finestre oscure delle case mettevano
soggezione e paura, come occhi che non li lasciavano un attimo, occhi
vuoti e spettrali.
Nel
silenzio riuscirono a sentire Mikey che deglutiva con apprensione.
“E
adesso?” chiese poco dopo, confuso come loro;
“Dov'è Isabel?”
Era
chiaro a tutti che non avrebbero potuto far comparire una strada che
li conducesse da lei, perché sembrava che lei non volesse
essere
trovata, stavolta.
Una
voce esplose dal cielo, facendoli trasalire, tutti sul chi vive.
“Siete
arrivati? Dovete trovare Isabel, anche se credo che ne troverete
più
di una” disse la voce di Don, chiara e limpida come se si
trovasse
lì al loro fianco.
“Genio,
dicci come diamine fare!” urlò Michelangelo con le
mani ad imbuto
attorno alla bocca, rivolto verso il cielo.
Dopo
che il suo urlo si spense, ci fu solo silenzio. La cappa nera rimase
ferma e stagnante, minacciando pioggia e fulmini. Mikey si
voltò
verso i suoi fratelli con un'espressione attonita, per la mancata
risposta di Don.
“Giusto
perché so che tanto l'ha fatto: Mikey, io non posso
rispondere alle
vostre domande. Voi potete sentirmi perché i vostri corpi
fisici
sono qui e sentono quello che vi dico. Voi invece siete
manifestazioni mentali, io non posso sentirvi!”
esalò la voce del
genio, leggermente spazientito.
Il
fratello sorrise per l'imbarazzo, strofinandosi il collo a disagio.
“Non
so dove siate, né cosa vediate, ma se Isabel non
è lì, di sicuro è
da qualche parte non molto lontano. Quello che dicevo prima
è che
probabilmente non ce ne sarà una sola, ma una per ogni
manifestazione della sua personalità che combatte contro le
altre...
è difficile da spiegare. Ma state attenti!” li
mise in guardia
Don, con tono spiccio.
“Se
ci sono novità vi contatterò!”
Non
appena la voce di Donnie si spense, ritornò il nulla, solo
il rumore
dei tuoni in lontananza e un rombo ritmato che poteva essere il cuore
di Isabel quanto il loro.
Senza
una parola si incamminarono per le strade rovinate, con passo
guardingo. Gli occhi scivolavano a destra e a sinistra, cercando un
segno, attenti a scrutare nelle ombre più scure e nel
silenzio, in
cerca di qualcosa e con la paura di trovarcelo davvero.
I
loro passi non facevano alcun rumore e la città deserta
sembrava
ancora più spettrale.
“Non...
non sentite qualcosa?” titubò Mikey con voce
malferma, dalla fine
della fila, cercando di non mostrare la paura che provava. Il suo
sguardo saettava con frenesia, sbarrato.
Tesero
le orecchie, in ascolto, e lo udirono anche loro: un tenue ronzio
riecheggiava da qualche parte lì vicino, intensificandosi
secondo
dopo secondo, sempre più minaccioso.
“Uno...
sciame d'api?” domandò il più giovane,
sempre più allarmato,
cercando i loro sguardi.
Raph
sembrava sul chi vive quanto lui, mentre Leo era in ascolto con gli
occhi chiusi.
“Io
ho già sentito questo suono” rivelò in
un sussurro, riaprendo gli
occhi limpidi.
Si
incamminò cautamente per la strada, trasversalmente,
avvicinandosi
ad un vicolo immerso nella tenebra più nera, quasi un buco
nero nel
nulla.
E
poi videro i due occhi dorati scintillare come gemme in quel nulla,
così luminosi in tutto quel buio, da fare quasi male a
guardarli:
era uno sguardo puro, uno di quelli che leggevano dentro, che
trapassavano l'anima.
“Attento!”
esclamò d'un tratto Raphael, facendosi avanti mentre le mani
correvano ai Sai, al vedere la figura scivolare in avanti e
mostrarsi, anche se con passi lenti e titubanti: la leonessa dal
manto ambrato quasi risplendette colpita dalla luce, fiera nella sua
andatura elegante.
“No,
Raph!” urlò il leader per bloccarlo, muovendo dei
passi incerti
verso la belva, con un rinato sorriso in viso.
“Io
la conosco” disse, avvicinandosi a lei, sempre più
velocemente.
La
leonessa si bloccò e sollevò il muso e quando lui
tese la mano
verso di lei, allungò il collo per odorarlo; dopo qualche
istante in
cui Mikey trattenne il fiato e Raph non si era ancora deciso a
lasciar andare i manici delle armi, la fiera si avvicinò al
mutante
e con un ronzio soddisfatto si strusciò contro la sua gamba.
Leo si
gettò in ginocchio all'istante e la strinse a sé,
pieno di
emozione, affondando il viso nella pelliccia ambrata del suo collo.
“Come
stai?” le domandò cortesemente, gioendo delle fusa
di lei. Un
lieve ruggito melodioso fu la sua risposta.
“Ehm,
Leo... bel momento, molto commovente, ma... ci vuoi
spiegare?” si
intromise Mikey, un po' imbarazzato dal comportamento del fratello
con una bestia immaginaria.
“Lei
è Luce. È la manifestazione del Sè di
Isabel” dichiarò Leo,
lasciando andare la leonessa e rivolgendosi finalmente a loro. Gli
bastò un'occhiata all'espressione stupida di Mikey per
capire che
non aveva capito.
“È
la parte più profonda della sua mente, che controlla e
vigila su
tutte le altre, tenendole in ordine” spiegò
quindi, ripetendo la
spiegazione che Isabel gli aveva dato mesi e mesi prima, quando
nemmeno lui aveva capito cosa fosse Luce.
Lo
sguardo di Raph scintillò, al capire che quella fiera altro
non era
che una manifestazione di Isabel, in fin dei conti, e al vedere come
si strusciasse contro suo fratello con affetto: Leo era già
stato
nella mente di Isabel, lei aveva condiviso qualcosa di così
profondo con
lui.
Gli
occhi dorati di Luce si accorsero del suo sguardo e lo fissarono,
lucidi e brillanti, così puri, tanto che sentì di
non essere degno
di guardarli, tanto da voler abbassare il capo, quasi vergognandosi.
“È
ferita” affermò Michelangelo d'un tratto, puntando
col dito verso
gli arti posteriori della leonessa. C'era un lungo squarcio che dalla
zampa sinistra saliva fin sulla coscia, sanguinante e dall'aria
dolorosa.
Leo
tolse la bandana dalla testa e la legò stretta attorno
all'arto,
stando attento a non farle male, mentre lei attendeva ferma e docile,
con gratitudine.
“È
stata lei? Dov'è?” chiese poi, catturando
l'attenzione di Luce.
La
fiera abbassò il muso, come se annuisse, e staccandosi da
lui iniziò
ad incamminarsi verso Nord; fu subito chiaro che li stesse guidando e
che dovessero seguirla.
Fu
un viaggio silenzioso e cupo, molto strano: sfilarono in silenzio
lungo le strade, la bestia ambrata ad aprire la fila, con la sua
camminata elegante nonostante la ferita, e loro appresso con fiducia,
anche se non tutti capivano, anche se di domande ce n'erano tante e
senza risposta.
Non
c'era tempo reale lì dentro, potevano essere passate ore
come
secondi, le gambe non dolevano, i metri sembravano manciate di
centimetri e un'infinità di chilometri, contemporaneamente;
arrivarono in fretta e nello stesso tempo dopo troppo, ma avevano
già
capito tutti dove erano diretti già da molto tempo: Central
Park
apparve in tutta la sua lussureggiante bellezza, eppure oscura e
tenebrosa, come solo uno sterminato bosco immerso nel buio poteva
essere; si incamminarono al suo interno seguendo Luce, che
così come
il suo nome suggeriva, emanava una lieve luminescenza, come se il suo
manto ambrato riflettesse la luce di astri che loro non potevano
nemmeno percepire.
Mikey
sussultava ad ogni passo, occhieggiando con sospetto e tensione ogni
albero oscuro, ogni tronco che poteva nascondere insidie e pericoli:
la mano di Raph si schiaffò sulla sua nuca all'improvviso,
facendolo
trasalire.
“La
smetti? Sei nella mente di Isabel, non c'è niente tra quegli
alberi,
non sono nemmeno reali” lo sgridò sottovoce,
superandolo poi con
irritazione.
Lui
sapeva dove stavano andando, sapeva perfettamente dove, in tutta
quella replica di Central Park, lei si trovasse. Ci avrebbe scommesso
la testa.
La
vegetazione iniziò a diradarsi e i margini di uno grande
spiazzo
apparvero nel loro campo visivo, l'inizio della piazza per la
Bethesda Fountain, nel silenzio e nella pace più assoluta.
Lo
scroscio dell'acqua si sentiva fin da lì, limpido e lieve.
Raph
accelerò il passo automaticamente, superando Luce, guidando
lui la
fila verso il punto predefinito, verso di lei.
Sentirono
i rumori di lotta prima ancora di vedere davvero, grida e tonfi
possenti e imprecazioni e rombi di tuono, che riempivano l'aria con
la loro violenza, che li allarmarono; un lampo scese dal cielo e
cadde a pochi passi da loro, illuminando la notte e incendiando
l'aria, ferendo le orecchie.
Corsero,
più velocemente, e dopo aver superato un folto e basso
gruppo di
cespugli, riuscirono a vedere il lato della piazza che costeggiava la
vegetazione, e lo scontro apparve in tutta la sua brutalità.
C'erano
tre parti che si combattevano in una battaglia tutti contro tutti. Si
fermarono con sorpresa, a poca distanza dal pioppo sotto il quale le
tre donne si combattevano, con furia inaudita:
C'era
una Isabel con gli occhi bianchi e splendenti, che si librava a
mezz'aria e richiamava a sé folgori e campi di energia; una
Isabel
perfettamente normale, a poca distanza, che evitava gli attacchi con
velocità, ma sembrava in difficoltà sempre
crescente; e per finire,
una Isabel mutante, la pelle verde tenue e la schiena ispessita
simile ad un guscio incorporato, che combatteva con furore col
ninjitsu, chiudendo il triangolo immaginario entro il quale tutte e
tre si muovevano.
“Cosa
diamine...” esalò Mikey sconvolto, osservando le
donne combattersi
senza pietà con attacchi magici e fisici, tra scartate
spettacolari
e schivate all'ultimo istante, combo improvvisate tra due parti
contro una, che poi si rivolgevano una contro l'altra, con alleanze
che si stringevano e scioglievano in un battito di ciglia per
conquistare la vittoria.
“Dobbiamo
fare qualcosa!” urlò Leo per sovrastare il rumore
della battaglia,
rivolto verso i fratelli.
La
Isabel normale si accorse della sua voce e si voltò verso di
loro,
con un gran sorriso in volto, sereno, felice nella sua
semplicità:
durò solo un attimo, poi si congelò eternamente
sul suo viso,
mentre gli occhi si sbarravano di sorpresa e dolore; cadde in avanti,
a terra, scomposta e immobile, colpita a morte da una delle altre
due.
“Isabel!”
urlarono tutti e tre, sconvolti, gettandosi verso di lei, ma il corpo
scomparve nel nulla, dissolvendosi sotto il loro sguardo smarrito.
La
terra tremò e il cielo esplose, una tempesta di fulmini si
abbatté
con fragore nel parco, costringendoli ad accucciarsi e a cercare
riparo, con le braccia sulla testa per proteggersi dai detriti che
volavano nell'aria.
In
mezzo al tornado che si andava formando, le due Isabel rimaste
continuavano a combattere, ignare e incuranti.
“Cosa
sta succedendo? Qualcuno mi spieghi cosa sta accadendo,
perché
Isabel sta continuando a mutare, sempre più
violentemente!” tuonò
la voce di Don dall'esterno, sommandosi al caos e al rumore, piena di
preoccupazione.
I
tre mutanti si guardarono con apprensione da dietro il loro riparo,
come se stessero decidendo con lo sguardo a chi toccasse, senza
nemmeno battere le palpebre: gli occhioni di Mikey iniziarono a
lacrimare per il fastidio e quando alla fine li strizzò,
sbuffò di frustrazione, seccato.
“Va
bene, vado io! Ma state attenti!” sbottò,
alzandosi in piedi.
Si
concentrò intensamente, ma ripensandoci, prima di sparire
corse
verso Luce e la strinse in un abbraccio, una cosa che voleva fare da
quando l'aveva incontrata.
La
carezzò con gioia, passando la mano nel folto e morbido
manto, con
affetto.
“Andrà
tutto bene” le sussurrò, lui che solo aveva
intuito la sua paura e
il suo tremore, al vedere la guerra tra le altre parti di sé.
La
lasciò andare con malincuore e si rialzò in
piedi, per quanto il
forte vento e la tempesta di folgori glielo permettesse.
“Speriamo
che il genio sappia dirci qualcosa!” esclamò,
iniziando a
concentrarsi.
I
contorni del suo corpo iniziarono a sbiadire e diventare sempre
più
trasparenti, finché tutta la sua persona non scomparve nella
pura
aria, l'ultima parte a svanire il suo grosso sorrisone, come lo
stregatto.
La
loro attenzione si rifocalizzò sulle ultime due Isabel.
Entrambe
erano capaci, ognuna nel suo campo personale: quella magica stava
letteralmente rivoltando la terra e il cielo, sconvolgendo le
condizioni atmosferiche per attaccare la sua avversaria, mentre la
mutante era un concentrato puro di ninjitsu e tecniche di lotta, con
la stessa furia che mostrava Raphael quando si avventava contro un
avversario.
Forse
non ragionarono appieno, quando entrambi si gettarono in mezzo alla
lotta, provando a separare le due donne, in attesa di sapere e capire
cosa stesse accadendo.
Leo
scattò a sinistra verso la Isabel magica, Raph a destra
verso la
Isabel mutante, parandosi di fronte a loro con uno stupido slancio di
temerarietà, mentre un fulmine e un calcio volante
caricavano.
Fu
solo per pura fortuna che non furono colpiti: gli occhi delle due
Isabel si aprirono di meraviglia nel scorgerli ed entrambe
trattennero gli attacchi all'ultimo secondo: i sorrisi che si
aprirono sui loro visi potevano sembrare felici e sinceri, ma non
promettevano niente di buono.
La
tempesta si placò lentamente e un gran silenzio scese
attorno a
loro.
“Dovete
calmarvi e ascoltarci!” esclamò Leo, alzando le
mani , per
mostrare loro che non avevano nessuna intenzione cattiva.
C'era
uno scintillio poco promettente negli occhi brillanti della Isabel
magica.
“Leo”
soffiò affabile, scendendo fino a toccare il terreno coi
piedi,
camminando poi verso di lui.
Isabel
mutante era anche più inquietante: i suoi occhi castani
creavano un
gradevole contrasto con la pelle verde, risaltando ancor di
più, e
brillavano nel fissare Raphael, come una belva che fissa la sua
preda. Poté quasi giurare di sentirsi in soggezione.
“Ragazzi!”
rombò la voce di Don, attirando l'attenzione delle due donne
quanto
la loro. Si agitarono e iniziarono a guardarsi con frenesia attorno,
scrutando nelle ombre per capire chi fosse stato a parlare.
“Mikey
mi ha spiegato la situazione. Quelle che vedete sono manifestazioni
delle due forze in lotta per il controllo del corpo: la magia e il
mutageno. La Isabel che è morta era invece ciò
che sarebbe rimasto
se queste due forze si fossero annullate a vicenda: una normale
umana.
Fatemi
spiegare: quello che succede nella sua mente è una
proiezione di ciò
che succede nel suo corpo e viceversa; se una delle sue
manifestazioni vince lì nella mente, automaticamente quella
parte
prenderà controllo del corpo.
E
bisogna che ci sia una vincitrice al più presto,
perché la vera
Isabel non resisterà ancora a lungo alle
mutazioni” li avvisò,
con un tono che poterono quasi definire urgente.
“IO!
Io devo vincere!” strillarono contemporaneamente le due
donne,
sovrastando ogni altro suono.
Si
fronteggiavano con occhiate malevole, pronte ad attaccarsi ancora.
“Io
sono la vera Isabel” disse quella magica, furiosa.
“Io sola devo
vincere!”
Era
arrabbiata con l'altra sé stessa, che vedeva come
un'intrusa, come
un'usurpatrice che voleva eliminarla per prendere ciò che
era e le
apparteneva.
“Ma
quello che sei non va bene. Io vado bene. È questo che
Raffaello
vuole” affermò melliflua Isabel mutante,
comprovando con le azioni
le sue parole.
Si
avvicinò a Raphael a grandi passi e gli si gettò
praticamente
addosso, e lui, preso alla sprovvista, forse, non si tirò
indietro.
“Io
sono la risposta a tutti i problemi. Io sono perfetta. Solo io posso
rendere tutti felici” soffiò, stringendo il
mutante dalla benda
rossa con passione, incurante di tutto il resto.
Raphael
era come bloccato. Voleva prendere parola, ma in effetti non sapeva
cosa avrebbe mai potuto dire. Lui amava Isabel per ciò che
era, era
perfetta così, ma non poteva evitare di pensare che anche la
nuova
lei mutante fosse stupenda.
E
sarebbe stato tutto così semplice, senza remore e problemi,
senza
rimorso o ripensamenti. O no?
Cercò
lo sguardo di Leo per chiedergli aiuto, ma l'espressione del fratello
sembrava suggerirgli di cavarsela da solo e anche rimproverarlo per
metterci così tanto.
“Io
non ti piaccio?” domandò la donna, accortasi della
sua fredda
immobilità, attirando la sua attenzione.
“Sei
bellissima” non poté evitare di confessare,
davanti a quegli occhi
feriti e in attesa, strappandole un sorriso felice.
L'abbraccio
che ne seguì fu anche più sentito di prima,
felice, euforico.
“Hai
capito? Non sei più necessaria” esalò
spietata alla Isabel
magica, sollevandosi sulle punte dei piedi per poterla guardare oltre
la spalla di Raphael.
Sorrise
davanti alla sua espressione ferita e sofferente, sorrise del suo
strazio.
“Addio,
cara!”
Con
una scivolata a destra e un gesto fluido, la mutante si
scostò
lievemente da Raphael e gli sfilò al contempo il Sai dal
fianco,
lanciandolo contro l'altra donna: sapeva che non avrebbe reagito per
non colpire anche lui.
Rimasero
tutti inerti, a seguire il volo dell'arma: Isabel non si
scansò, non
reagì; sorrise dolorosamente, quando il Sai la
colpì al petto, e
nemmeno per un secondo, il suo sguardo aveva lasciato lui.
“NO!”
urlò Raph, al vederla perdere la presa sul terreno, cadere
ginocchioni e la sua magia scemare fino ad abbandonarla del tutto; i
suoi occhi persero la sua luminescenza e l'ultima cose che vide,
prima che lei si accasciasse al suolo, furono i suoi occhi scuri, che
lo fissavano con amore.
“No!
Isabel!” strillò sconvolto, ma ormai il corpo
stava svanendo nel
nulla, come se non fosse importante, come se non contasse niente.
“Io
sono Isabel” lo corresse la mutante, correndo tra le sue
braccia. E
lo strinse, fin quasi a soffocarlo, ma l'orrore non lo
abbandonò, né
il dolore.
“NO!”
le rispose, fuori di sé, divincolandosi dalla sua stretta,
con
avversione e ferocia, mentre lei combatteva con tutta la sua forza il
suo attacco di rabbia.
La
terra rincominciò a tremare e scuotersi, mentre voragini si
aprivano
nel parco e il vento si sollevava il turbini violenti che
schiaffeggiarono i loro visi con violenza. Il cielo divenne rosso
sangue e si aprì in due, mostrando un nero senza fine, un
buco nero
che risucchiava ogni cosa: gli alberi si sradicarono dalla terra, e
vorticarono nell'aria assieme ad ogni più piccola parte del
parco,
le sue panchine, i mattoni della piazza, la statua dell'angelo della
Bethesda Fountain.
E
nel caos, fu di nuovo la voce di Don a riecheggiare, con terrore.
“Ragazzi,
mi pare ovvio, ma voglio comunque ricordarvi una cosa: se moriranno
tutte le manifestazioni, la vera Isabel morirà. State
attenti!”
Isabel
mutante si staccò da Raph, rivolgendogli uno sguardo tra il
sorpreso
e il ferito, il volto pallido: la mano corse verso lo stomaco, verso
il Sai che lui aveva piantato nella sua carne; con
incredulità e
dolore lo strappò, con un gesto secco.
Lo
guardò, con una domanda che premeva sulle labbra, ma che non
trovò
mai la forza di pronunciare: svanì a mezz'aria, congelata
mentre
cercava di alzare la mano per poterlo toccare un'ultima volta.
E
il caos crebbe, crebbe a dismisura, inghiottendo ogni cosa e la
verità.
Isabel
era scomparsa, per sempre.
Note:
Buona
sera a tutti!
Allora,
qui scendiamo un po' nel metafisico, la lotta che accade nel corpo
viene illustrata come una lotta nella sua mente, con più
Isabel a
combattersi.
Corpo
e mente vanno a braccetto, per un guerriero.
E
riecco Luce e la spiegazione del perché era stata
introdotta... (va
a guardare...) 25 capitoli fa! Certo che me la prendo comoda.
Ma
c'è sempre un motivo per cui inserisco personaggi o
situazioni, mai
nulla è lasciato al caso. Addirittura c'è una
cosa che ho messo
velatamente nella prima storia che verrà spiegata solo a
metà della
quarta... sono malvagissima.
Anyway,
Luce guida i nostri dalle Isabel, che si fanno spietatamente fuori
una con l'altra, ma Raph, dopo un primo momento in cui era stato
ammaliato da quella mutante, non ci sta che lei faccia fuori quella
vera e la uccide a sua volta. E adesso?
Manca
solo un capitolo! ç___ç
L'arrivederci
è dietro l'angolo! Sì, c'è il
continuo, ma la fine di una storia
mi uccide, ogni volta!
Mi
sono cresciute le braccia a furia di abbracciarvi tutte per il vostro
affetto! Grazie da morire. Vi adoro!
P.s.:
uno schizzo volante per farvi vedere come ho immaginato un ibrido
umano mutante: i disegni di piastrone e carapace sono direttamente
sulla pelle, che è solo un po' più spessa del
normale e leggermente
più dura.
Abbracciorso,
ci vediamo alla fine!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 34 *** I love you... just the way you are ***
L'urlo
di orrore di Leonardo si perse nel fragore del nulla che consumava e
cancellava tutto, ogni porzione di New York che svaniva con un boato.
Lei
era scomparsa definitivamente, sotto i suoi occhi. Prima quella
semplice e normale, poi quella che aveva conosciuto e amato, -con la
sua magia che esplodeva nei momenti meno opportuni,- e infine anche
l'ultima, la mutante che aveva ucciso senza pietà la vera
sé.
Morta
a sua volta per mano di Raphael. Non ce n'era più nemmeno
una,
Isabel era svanita per sempre.
“Che
cosa hai fatto?” gridò fuori di sé,
provando ad alzarsi.
Una
raffica di vento violenta lo riportò ad accucciarsi,
coprendosi la
testa con le braccia per proteggersi. Una parte del parco si
sgretolò
in fine sabbia e venne risucchiata nel vortice, nel nulla e
nell'oblio.
Sollevò
con fatica lo sguardo e Raph era sempre lì, congelato
nell'occhio
del ciclone, immobile, forse nella gelida comprensione di
ciò che
aveva fatto.
Ma
per pentirsi era troppo tardi.
“CHE
COSA HAI FATTO!” urlò Leo, spiccando una corsa
verso di lui,
piegato in due. Lo gettò a terra con uno spintone violento e
quando
furono entrambi giù, iniziò a colpirlo con furia
e disperazione,
come se ogni colpo potesse farlo poi sentire meglio o riportare
indietro lei.
“Hai
ucciso Isabel!” lo investì, inorridito da quello
che stava
effettivamente dicendo, tempestandogli il viso di pugni, tenendolo al
suolo con un ginocchio premuto contro il suo torace.
Anche
se ciò che gli infliggeva era solo una percezione mentale
del
dolore, non di meno lo strazio che sentiva, il furore, doveva
sfogarlo in qualche modo.
“Quella
non era Isabel!” si difese Raph, bloccando infine le sue mani
e
cercando di sospingerlo indietro.
“Era
l'unica che rimaneva! Era comunque una parte di lei. Invece adesso
non... resta più... nulla” esalò il
leader, spegnendosi ad ogni
parola, cedendo alla consapevolezza e al dolore, che lo investirono
in pieno.
Le
sue spalle si incurvarono sotto quel peso, la testa si chinò
verso
il basso e sentì gli occhi bruciare; poteva sopportare
l'idea di
saperla con Raphael, poteva perché lei sarebbe stata felice
e ogni
suo sorriso gli avrebbe ricordato, ogni volta mentre moriva di un
dolce dolore, che era stata la scelta giusta.
Ma
non poteva sopportare che fosse morta, che il suo sorriso si fosse
spento per sempre.
Sentì
Raphael che lo spostava per potersi muovere, ma lui non
reagì, lo
lasciò fare; suo fratello si alzò deciso, come se
il devastante
tornado non fosse niente più che una brezza leggera per lui,
un
venticello primaverile sulla pelle. Eppure i detriti e le macerie gli
volavano intorno con violenza, fischiando vicino a lui più
di una
volta.
Si
incamminò a grandi passi verso la leonessa, rimasta sola,
che si era
accasciata a terra nel momento in cui tutte le manifestazioni erano
scomparse, ormai spenta di ogni vitalità: il suo manto era
diventato
più scuro e lo squarcio che prima era solo sulla zampa,
correva ora
su tutta la schiena, doloroso a vedere; respirava a fatica e gli
occhi dorati si stavano spegnendo.
Lo
sguardo scintillò un secondo nell'osservare Raph che le si
faceva
vicino incredibilmente calmo, sicuro, fiducioso; alzò
repentinamente
il muso e snudò i denti affilati contro di lui, quando si
fermò e
si inchinò al suo fianco, allungando una mano verso di lei.
Il
respiro corto e sofferto fischiava attraverso le fauci.
“Mi
dispiace” sussurrò Raphael, tendendo la mano verso
la sua testa,
pronto anche a farsela mozzare. “Stai soffrendo per colpa
mia, hai
sempre sofferto per colpa mia.”
Luce
sembrò quasi intenzionata ad azzannarlo per davvero; gli
ringhiò
contro, forse di dolore o di rimprovero, ma poi avvicinò il
muso
alla sua mano aperta e fiduciosa e la sfiorò con il naso,
dolcemente, e smise di mostrargli i denti.
Raphael
carezzò il suo muso e il collo, ma la mano si
fermò quando
raggiunse l'inizio della dolorosa ferita; Luce aveva riappoggiato il
capo al suolo, sofferente, eppure in pace.
“Mi
dispiace, non volevo davvero farti soffrire” disse lui,
sollevandola appena e stringendosela contro con amore e Luce chiuse
gli occhi, forse pronta a svanire insieme a tutto il resto.
“Però”
continuò Raphael, carezzandole il collo,
“lasciarti morire per
punirmi... non credi che sia eccessivo, Isabel?”
Luce
spalancò di colpo gli occhi dorati, più luminosi,
più vivi.
“Tu
sei la vera Isabel” le mormorò convinto,
chinandosi verso di lei,
stampandole un bacio sulla fronte ambrata, che risplendeva sempre
più
ad ogni sua parola.
Così
come il nome suggeriva, Luce divenne pura luce, brillante tanto da
costringerlo a chiudere gli occhi, con forza, anche se
continuò a
stringerla, nonostante bruciasse, con l'intensità del sole.
Leo
si accorse del bagliore che si spandeva crescendo attorno a lui,
secondo dopo secondo, e combattendo il suo stato di apatia,
sollevò
lo sguardo verso di loro, sul nucleo luminoso che era Luce, e che
stava cambiando in qualcos'altro, una forma che conosceva bene. Gli
occhi gli facevano male tanto da lacrimare, o forse stava
già
piangendo da prima, ma non distolse lo sguardo nemmeno un secondo.
Piantò le mani a terra e si sollevò lentamente,
come in trance, per
non perdere nemmeno un secondo di quel miracolo.
La
luce fermò ogni cosa: il vortice distruttivo, il cielo nero
e rosso
che inghiottiva ogni cosa; la distruzione del parco si
congelò e
tutto scomparve, in un bianco assoluto e puro, un nulla luminoso e
avvolgente.
Il
tempo sembrava sospeso, un frammento di secondo fermo, che non
scorreva, immobile.
Isabel
smise di brillare, tra le braccia di Raph, e lì rimase,
immobile e
scoperta, riparando il viso nel suo petto, vergognandosi da morire.
Ormai,
nel perfetto silenzio, si sentivano solo i loro lievi respiri,
cadenzati, che sembravano musica.
“Se
non mi avessi riconosciuta, se non mi avessi trovata,
sarei
scomparsa... come lo sapevi?” chiese, quando si
sentì di parlare.
“Non
lo sapevo” fu la sincera risposta di lui, che la stringeva
con
tutta la felicità concessagli, incurante di ogni altra cosa.
“ E
allora come...?”
“Non
c'è una Isabel magica o una normale o una mutante...
c'è solo
Isabel. E lo sguardo di Luce è stato capace di farmi
vergognare e
contemporaneamente sentire speciale, come solo lo sguardo della vera
te è sempre riuscito a fare” le
confessò, con il viso nascosto
tra i suoi capelli.
La
sentì singhiozzare, commossa e imbarazzata, e poi allungare
le
braccia per stringerlo.
“Torniamo
indietro” le disse, carezzandole i capelli, un bacio sulla
testa di
sollievo, d'amore, di felicità.
Gli
occhi di Isabel si spalancarono d'improvviso, mentre traeva un grosso
respiro sofferto e liberatorio, come se stesse riemergendo da
un'apnea di giorni, forse di anni, con la gola che bruciava.
Riconobbe
il soffitto della sua camera da letto, il suo lampadario in carta di
riso e bambù, giallo come il sole; ma era confusa, confusa
sul
perché fosse lì, sul come ci fosse arrivata.
L'ultima cosa di cui
era certa era di trovarsi in cucina e di aver preso la dose di
mutageno lavorato... e poi l'oblio. Dolore forse, ma non ne era
sicura.
Lo
sguardo saettò vigile a destra e sinistra, frenetico e a
scatti,
finché non incontrò gli occhi di Raphael puntati
su di lei e lì si
fermò.
Si
guardarono in silenzio. Lui era seduto su una sedia al fianco del suo
letto, rigido e teso, con le braccia conserte, in una posa
scomodissima da vedere, eppure immobile; aveva tolto la bandana e la
osservava con gli occhi scuri pieni di serietà.
Per
interi, silenziosi minuti continuarono solo a guardarsi, senza
battere nemmeno le palpebre; Isabel aveva una dannata paura che se
l'avesse fatto, qualcosa di orribile sarebbe accaduto.
“Cosa
sono?” chiese alla fine con voce roca, riferendosi al suo
aspetto.
Sapeva
che se lui era lì era solo per quello che aveva fatto, non
sapeva
ancora se per rimproverarla o altro, ma non era quello a cui pensava
in quel momento.
Era
ancora umana o si era trasformata? Non si sentiva diversa. Non si
sentiva e basta. Il suo corpo sembrava intorpidito. Addormentato.
“Una
dannatissima idiota” rispose lui, alzando la voce e perdendo
un po'
della sua compostezza.
Isabel
si sollevò lentamente per mettersi seduta, combattendo un
violento
senso di capogiro e nausea, poi, con un grosso respiro alzò
le mani,
presa dal timore di guardarle e le portò davanti al viso,
rigirandole come pallidi ventagli, sorpresa.
Era
rimasta umana.
“Ti
sei resa conto di quello che hai fatto? Rischiare la tua vita per
diventare qualcosa che non sei, per piacere all'uomo che vuoi.
È
disgustoso! Sei la vergogna per ogni essere umano, per ogni
donna”
la aggredì lui, con un tono cattivo e velenoso.
Perché
sì, lei si meritava un rimprovero, si meritava di essere
ripresa,
sgridata e Dio solo sapeva se non l'avrebbe anche voluta
schiaffeggiare per la sua pazza decisione.
Isabel
si bloccò, sconvolta. Abbassò le mani, mentre il
respiro si faceva
più corto.
“Cosa
diamine stai dicendo? Ma quale vergogna? Quale cambiamento per
piacerti? Quale disgusto? Non hai capito nulla! L'ho fatto
perché
non mi importa nulla del mio aspetto, se è un ostacolo per
stare con
te. Questo corpo non ha senso, non ha valore, è solo
l'involucro di
ciò che sono. Questo volto, questa pelle, queste dita...
niente di
tutto ciò dice chi sono io. Niente di questo mi rende
Isabel. Così
come il tuo aspetto non ha nulla a che fare con ciò che sei.
Io ti
amo. Amo l'uomo che sei. Amo la tua dolcezza nascosta, amo la
passionalità che metti in tutto ciò che fai, amo
le tue paure, che
ti rendono fragile, amo la tua testardaggine, le tue insicurezze, amo
la tua impazienza. Non importa che aspetto hai, tu mi vai bene...
semplicemente così come sei. E non mi importa di diventare
una
mutante, se potrò stare con te!”
Era
arrossito, nonostante la rabbia che sentiva e la voglia di sgridarla
per la paura che si era preso.
Perché
quella era stata la cosa più bella che qualcuno gli avesse
mai detto
in tutta la sua vita. Ma era troppo. Isabel non poteva parlare sul
serio. Non poteva davvero volere il pacchetto “mutante
scorbutico”,
non era giusto.
Lui
doveva assolutamente farle capire che non potevano stare assieme, che
non era possibile.
“Ma
allora non hai capito...” iniziò, seppellendo il
calore che
sentiva nel petto sotto una finta indignazione. Ma Isabel lo
interruppe sollevando la voce, sporgendosi un po' in avanti.
“Ho
capito che mi ami. Ma che non vuoi stare con me, perché sei
un
mutante” dichiarò, interrompendo le sue bugie.
Non
gli avrebbe dato tregua. Non l'avrebbe lasciato scappare, non ancora.
Raphael
si sentì scoperto e il panico si trasformò in un
secondo in rabbia,
come suo solito, perché reagire con furore lo avrebbe
distolto dalla
verità che lei sapeva e che lui doveva assolutamente
schivare,
negare, rifiutare.
Si
alzò in piedi, una scarica di nervosismo a percorrerlo
per tutto
il corpo, che non poteva farlo rilassare.
“E
cosa ti rende così maledettamente sicura? E se ti fossi
sbagliata?
Se ti fossi trasformata permanentemente e io non provassi nulla? Hai
pensato che mi sarei sentito in colpa? Hai pensato che avresti messo
sulle mie spalle la responsabilità e la colpa di
ciò che saresti
stata, costringendomi a prendermi cura di te, per sempre, anche
contro la mia volontà?” sbottò fuori di
sé, arrabbiato dalla sua
testardaggine.
Non
poteva fare sempre come le pareva.
La
vide impallidire alle sue parole, nella presa di coscienza di una
verità che non aveva pensato fosse possibile, che non aveva
messo in
conto. I suoi occhi erano lucidi, come se fosse in preda alla febbre.
“Io...
no, non ci avevo pensato. Ero così sicura. Così
convinta che tu mi
amassi, che non mi sono fermata a valutare la
possibilità”
balbettò incerta.
“Non
puoi fare cose del genere a cuor legg...” incalzò
allora Raph,
approfittando di quella debolezza, con solo un lieve rimorso.
Ma
lei si riscosse sin troppo in fretta e con una espressione intensa e
molto più convinta, lo inchiodò lì
dove si trovava.
“Dimmi
che non mi ami. Guardami negli occhi e dillo. E io mi
scuserò. E me
ne andrò” esclamò con foga, stringendo
il lenzuolo tra le dita,
con nervosismo e paura.
Raph
era paralizzato dal suo sguardo. Era vivido. Bruciante, di speranza e
attesa. Sfolgorante. Non poteva guardare ancora in quegli occhi e
mentire. Se lo avesse fatto, il rimorso di vedere quella luce
spegnersi l'avrebbe tormentato in eterno.
“Sto
aspettando” soffiò lei, gli occhi fissi nei suoi.
Raph
distolse appena lo sguardo, fissandolo nel piccolo triangolo di pelle
tra le sue sopracciglia.
“Non
ti amo” disse poi, anche se un po' si sentì morire.
“Bugiardo!
Guardami negli occhi!” esplose con rabbia Isabel, le spalle
scosse
dall'ira per la sua continua presa in giro.
Raphael
serrò la mascella e gli occhi, troppo esposto, troppo
coinvolto. Il
respiro era veloce e pesante, per sopperire al bisogno di ossigeno.
Si fece forza. E riguardò in quegli occhi.
Ma
non riuscì comunque a mentire.
Isabel
sorrise, vittoriosa ed euforica, davanti alla sua espressione
rassegnata e titubante.
E
la rabbia lo invase.
“Cosa
accidenti vuoi da me? Vuoi che ti dica la verità? Ti amo. Ti
amo
così tanto che mi fa male il solo averti in una stessa
stanza,
perché ogni singola cellula del mio corpo lotta contro la
voglia di
stringerti e baciarti. Ti amo così tanto che il solo sentire
il
suono della tua voce mi fa battere il cuore dolorosamente contro le
costole, ad una velocità allarmante. Ti amo così
tanto che al solo
pensiero di saperti con un altro mi sento così male, che mi
trapasserei coi miei stessi Sai, per non dover soffrire ancora. Ti
amo, Isabel. Ti ho amata per ogni istante, da quel Settembre sotto la
pioggia.
Ma
non posso stare con te.
Perché
questa non è una favola, non c'è il lieto fine.
Alla fine di questa
storia la bestia non diventa uomo, il ranocchio non diventa
principe... resta il mostro che è sempre stato. E i mostri
non hanno
il 'e tutti vissero felici e contenti'.
E
perciò io non posso darti una vita normale. Non posso darti
una
famiglia. Una casa. Forse nemmeno figli. Non posso portarti a cena
fuori. Non posso passeggiare con te per le vie, mano per la mano,
sotto la luce del sole. Non posso portarti al cinema e abbracciarti
mentre guardiamo un film strappalacrime. Non posso darti nulla. Non
ho nulla da offrirti. Solo buio e umidità. Solo una vita da
reclusi
e reietti, per soffitto il pavimento del mondo!”
Ci
fu silenzio, dopo la sua confessione, dopo che finalmente aveva
estirpato la verità dal suo cuore e gliela aveva mostrata,
con
rabbia per la sua debolezza e il batticuore per aver rivelato alla
fine quel sentimento, per ciò che avrebbe comportato.
Isabel
tremava. Coi lucciconi agli occhi, incredula ed emozionata. Era la
prima volta che Raphael le diceva di amarla; mai, mai le aveva detto
prima quelle due parole, che si ripetevano nella sua mente con
incredulità, con una dolcissima eco, scandendo i secondi.
Ti
amo. Ti amo. Ti amo.
Scostò
il lenzuolo e fece per scendere, ma barcollò per la foga con
cui si
era mossa, forse, o ancora per i residui della droga nel suo corpo, e
lui si gettò all'istante in avanti, per sorreggerla.
Isabel
si aggrappò alle sue braccia, con forza, tanto che le unghie
stridevano contro il tessuto della tuta, con un rumore leggero.
“Chi
ha mai detto che io voglia qualcosa? Cosa mi importa di queste cose?
A cosa mi servono? Pensi che mi renderebbero felice? Voglio solo
stare con te, Raffaello! Ho già potuto scegliere e ho
rinunciato ad
una vita da regina, per starti accanto. Perché non mi
interessa
avere tutto, se non posso condividerlo con te!
Hai
la famiglia migliore del mondo, una casa fantastica al sicuro da
occhi indiscreti. E non importa se potremmo non avere figli, non sono
una priorità. Possiamo cenare di notte, sul tetto di un
grattacielo
e passeggiare mano nella mano sui cornicioni, sotto la luce della
luna. Guarderemo un film stretti sul divano, vicini tanto da sentire
l'uno il respiro dell'altra. Quello che mi offri è
più di quanto
potessi desiderare e mi sta bene stare sotto i piedi del mondo, se
sono con te. Non voglio niente di più!”
Fu
il suo turno di tremare, per l'intensità di quella
dichiarazione,
per la forza di quell'amore che non sapeva se meritasse davvero, che
voleva e non poteva concedersi.
“No!
Adesso parli così, ma un giorno... un giorno ti sveglierai e
capirai
che hai sbagliato, che io sono stato uno sbaglio. Capirai che puoi
avere di meglio e te ne andrai!”
Eccola,
la verità nascosta, eccola la paura che c'era dietro a
tutto, che
solo Leonardo aveva visto davvero e che alla fine, anche se
indirettamente, aveva ammesso.
“Tu
sei il meglio, Raffaello! Ti amo e sono sicura di ciò che
provo per
te come per nessuna altra cosa nella mia vita. Non tenermi a distanza
solo per la prospettiva di un futuro nato dalle tue paure. Stai
facendo del male ad entrambi” fu l'accorata replica di
Isabel,
infervorata e decisa a smontare quelle sue paure e convincerlo a
cedere, a darsi una chance.
“Io
voglio solo che tu sia felice” continuò
imperterrito lui, sempre
più incerto, sempre più flebilmente.
“E
allora amami! È tutto qui il segreto”
insisté lei, che a livello
di testardaggine forse era l'unica che poteva tenergli testa.
“ È
uno sbaglio....”
“Ti
amo, Raffaello.”
“No,
non capisci, tu...”
“Amami,
Raffaello.”
“Perché
non vuoi vedere la verit...”
“Ti
amo Raffaello.”
“Non
poss...”
“Amami,
Raffaello.”
“Smettila
di ripeter...”
Isabel,
che si era avvicinata sempre più ad ogni botta e risposta,
si sporse
e tese verso l'alto, e afferrandolo per il colletto, lo
attirò verso
di sé e lo baciò, zittendolo definitivamente.
E
se per qualche misero secondo Raphael era rimasto immobile, sorpreso
dal suo gesto, e se per qualche altro ebbe l'insana idea di staccarsi
e allontanarla da sé, alla fine cedette e allungò
le braccia,
stringendola con tutto l'ardore possibile, ricambiando quel bacio dal
profondo del cuore.
Se
doveva pentirsene, lo avrebbe fatto per aver peccato fino in fondo.
E
niente era stato più bello sapendo che non era giusto, nulla
come
averla tra le braccia, e assaporarla e sentirla e amarla.
Fu
straziante quando lei si staccò, posando dei piccoli baci
consolatori sulle sue labbra, come per rendere il distacco
più
dolce, forse anche per sé stessa.
“Concedici
una possibilità, Raffaello” sussurrò,
poggiando un altro tenero
bacio.
Era
dilaniato, ma le sue convinzioni e le sue paure andavano via via
sciogliendosi, sradicate cellula dopo cellula dalle sue labbra.
“Promettimi
che non andrai mai più via, che non mi sveglierò
una mattina e
scoprirò che tu non sei più al mio fianco.
Promettimi che non ti
pentirai mai di amarmi, promettimi che saremo felici, promettimi che
questo non è tutto un enorme sbaglio” pretese, con
tutta la sua
insicurezza, desiderando ancora quei baci, che si portassero tutto
via e gli lasciassero invece quell'estasi paradisiaca, quel benessere
che solo lei sapeva donargli, per l'eternità.
Si
specchiò negli occhi lucidi di lacrime di Isabel,
così vicini da
poter cadere in quelle profondità e non riemergerne mai
più. Le sue
piccole mani lasciarono andare il colletto e risalirono come una
lieve carezza fino al suo viso e lo circondarono con amore.
“Ti
prometto che niente potrà mai più portarmi via da
te, nemmeno la
morte. Ti prometto che non lascerò mai il tuo fianco,
nemmeno per un
secondo, nemmeno per un respiro. Ti prometto che non mi
pentirò mai
di amarti, che saremo sfacciatamente felici, prometto che stare
assieme non è uno sbaglio. Prometto, Raffaello.
Prometto.”
Raph
le circondò il viso con le mani e lo attirò verso
il suo e fu lui a
baciarla, in un tacito consenso, cedendo alla fine. E non importava
se i baci erano salati per le lacrime di Isabel, sapevano solo
più
di vero, erano lacrime di felicità.
“Dillo
ancora un'altra volta, ti prego” chiese Isabel, tra un bacio
e un
altro, quando dovevano pur riprendere fiato.
“Ti
amo, Isabel” confessò Raphael, senza smettere di
stringerla e
depositare piccoli baci sul suo viso, ora che finalmente poteva
tenerla e amarla, e nessuno gliel'avrebbe più portata via.
Il
suo sorriso fu meraviglioso, splendido e il più luminoso,
contornato
da piccole lacrime lucide, così dolce, così pieno
di amore.
“Ti
amo, Raffaello.”
“Lo
so”1
fu la risposta di lui,
che la fece scoppiare a ridere, il suono presto soffocato dal bacio
successivo e da quello dopo ancora e ancora e ancora.
Nel
salotto, seduti sul divano e la poltrona color crema, in perfetto
silenzio, tre mutanti e un ragazzino evitavano di guardarsi in volto,
tutti troppo imbarazzati da quello che avevano perfettamente e
chiaramente sentito, fino a pochi secondi prima. Stranamente
però,
nessuno di loro aveva lasciato l'appartamento durante il battibecco
tra i due amanti, seguendo dal di fuori con discreto interesse.
Rimasero
ancora un paio di secondi in silenzio, ma dalla camera non arrivava
più nessun suono.
“Ok,
ora di sloggiare” sentenziò in imbarazzo Don,
alzandosi dal
divano. La sua mano si chiuse sull'orecchio di Steve, sollevandolo
volente o nolente, costringendolo a seguirlo.
“Avremmo
dovuto dirgli che dal salotto si sente tutto quando parlano nella
camera?” domandò Mikey con innocenza, accodandosi
alla loro scia.
Donnie
aprì la finestra e uscì nel piccolo terrazzino,
seguito
immediatamente da Steve e poi gli altri due, nella notte scura
dell'equinozio d'autunno, primo giorno della nuova stagione.
“No.
E non avremmo nemmeno dovuto ascoltare” confessò
il genio, solo
lievemente risentito per ciò che avevano fatto.
Michelangelo
sorrise, un grosso sorrisone poco pulito. Tirò fuori il
Shellcell e
premette un pulsante e la voce registrata di Raphael si diffuse d'un
tratto attorno a loro.
“...Vuoi
che ti dica la verita? Ti amo. Ti amo così tanto che mi fa
male il
solo averti in una stessa stanza, perché...”
Mikey
ripremette il pulsante e la voce scomparve, ma non il suo sorrisone
maligno.
“E
perdermi questo? Lo ricatterò a vita con questa
registrazione!”ghignò felice, davanti alle loro
facce sorprese e
forse un po' sconvolte.
“Almeno
sappiamo per quale motivo ti ritroveremo morto nel tuo letto”
soffiò ironico Don, salendo nel cornicione e tirando su
Steve, che
barcollava per l'altezza, con lo sguardo incollato sulla strada di
sotto, pieno di paura.
Poi,
Donnie si voltò verso Leo, e si bloccò, con un
sospiro affranto. Il
leader chiudeva la loro fila, silenzioso e spento, cercando di
nascondere la sua sofferenza. Scese dal muretto, -mentre Steve ci si
aggrappava imprecando perché lo aveva lasciato lì
sopra da solo,- e
lo raggiunse; Leo non si accorse della sua presenza finché
Donnie
non gli poggiò una mano sulla spalla. Allora, e solo allora,
alzò
lo sguardo e incontrò il suo.
“Sono
fiero di te” gli disse, stringendo la presa. “Lo
sono sempre
stato, ma beh, adesso anche di più.”
Mikey
si unì, circondando ognuno di loro con un braccio.
“Anche
io! Ho adorato soprattutto il pugno che hai dato a Raph!”
ridacchiò
allegro, contagiandoli con la sua risata.
“E”
incalzò quando ebbero smesso di ridere alle spalle del loro
fratello, “sono sicuro che ti innamorerai ancora, O fearless
leader. E che questa volta sarà quella giusta. Chi non
vorrebbe uno
perfetto come te come fidanzato?”
Leo
sorrise commosso della sua premura, e l'abbraccio divenne per un
secondo più forte, loro tre stretti nella notte.
“Ma
comunque sarò io il prossimo a trovare la ragazza,
assicurato. Sono
il più carino” aggiunse ancora Mikey, rompendo il
momento.
Stavano
ancora ridendo, quando la voce terrorizzata di Steve li raggiunse.
“Qualcuno
vuole per favore venire a salvarmi da questo cornicione?”
esalò
esasperato, aggrappato alla pietra come un'edera.
Con
una risata ancora più grossa, i tre corsero in suo soccorso,
poi,
con un grande balzo si lanciarono nella notte, lasciando ai ritrovati
innamorati tutta la privacy per parlare, amarsi, parlare, amarsi e
parlare ancora, senza fretta, con tutto il tempo del mondo davanti a
loro.
1:
“Lo so” è la risposta che Han Solo da
alla principessa Leia
quando lei gli dice di amarlo, in Star Wars! Mascalzone! Ma sempre
d'effetto.
Note:
Fine.
Ecco,
anche questa avventura è finita.
Mi
sento felice, triste, un gran calore nel petto per il vostro affetto,
un grande vuoto per aver finito un'altra storia. Spero che vi sia
piaciuta, con tutto il cuore.
Grazie
infiniti, come l'universo in continua espansione, per aver letto, a
chi ha commentato con affetto accompagnandomi nel viaggio, a chi ha
messo questa e le altre storie tra i preferiti, i ricordati, a chi
l'ha seguita in silenzio.
Vi
ringrazio, con tutta la gratitudine che provo.
Ora,
l'avventura continua, per chi vorrà continuare a seguire
questa
serie: la terza storia si intitola “Don't let me
go” e inizierò
a postarla subito dopo una miniraccolta di momenti dolciosi e buffi
tra i nostri due piccioncini, storie che coprono l'arco di tempo che
intercorre tra la fine di questa e l'inizio dell'altra, quasi un
anno.
Certo,
le storie come vedete sono fine a sé stesse, sono sempre
conclusive
e quindi non siete obbligati a leggere i sequel, ma più si
va avanti
più le cose crescono, evolvono, si fanno interessanti. Spero.
E
poi continuerò le OS sui comics, ho una nuova storia in
programmazione che non c'entra nulla assoluto con questa serie, e
un'altra raccolta di OS ancora, più qualcuna singola, a
sé.
Perciò,
ecco, non vi libererete tanto in fretta di me, ma fino al prossimo
incontro, arrivederci e un grandissimo, caldissimo e affettuosissimo
abbraccio!
Switch
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=2642707
|