La mia fine. Primrose Everdeen.

di Atticus 182
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** My name is Primrose Everdeen, I am twelve years old and I'm from District 12. ***
Capitolo 2: *** A drop in the ocean. ***
Capitolo 3: *** Skies without rain. ***
Capitolo 4: *** Feeling this. ***
Capitolo 5: *** Rue's lullaby. ***
Capitolo 6: *** Hope is the only thing stronger than fear. ***
Capitolo 7: *** Dandelion. ***
Capitolo 8: *** The fire is catching. ***
Capitolo 9: *** White lips, pale face. ***
Capitolo 10: *** Whatever it takes to break you down ***
Capitolo 11: *** Desolation comes upon the sky. ***
Capitolo 12: *** Pieces of you. ***
Capitolo 13: *** Breathless. ***
Capitolo 14: *** The yellow of the Sun. ***
Capitolo 15: *** The end. ***



Capitolo 1
*** My name is Primrose Everdeen, I am twelve years old and I'm from District 12. ***


Il cigolio di quella ferraglia era così fastidioso per le orecchie di mia madre, mi guardava dalla finestra aperta con quegli occhi grigi e persi e maneggiava con cura i capelli di Katniss, mia sorella. Il cielo pareva triste per l'evento che incombeva, come lo erano gli uccelli e i comignoli delle case e l'erba calpestata, era tutto grigio, anche la pelle della gente che passava davanti casa, ho pensato per un attimo che avessi problemi alla vista. In realtà quella era tristezza pura. Tutti al Giacimento, soprattutto i ragazzi, il giorno della Mietitura cercavano di contemplare quella vita che poco dopo o a breve gli sarebbe potuta scivolare dalle dita. Conoscevo quasi tutti al Giacimento. Sembrava che io piacessi davvero alla gente, non posso dire lo stesso per mia sorella Katniss, lei tendeva ad allontanare tutti e stare per conto suo. Dopo la morte di mio padre si era chiusa ancora di piu’ in lei stessa, ma io le volevo bene e questo le bastava.
Ero lì immobile a guardare e riguardare le mie scarpette nere, erano un po’ consumate ai lati, ma a me piacevano così, avevano un’aria vissuta, e al Giacimento dire di aver vissuto è una conquista. Quel giorno riuscii quasi a sentire le mani consumate di mio padre sui fianchi che mi spingevano sull’altalena nel cortile, potevo riascoltare la sua voce e i suoi canti ben racchiusi nella mia mente, nei ricordi vividi e tristi. Una piccola amara lacrima mi rigò il viso, per poi cadere sull’erba fresca e confondersi  con la rugiada. Non potevo farlo, non potevo piangere, sarei  finita come la mamma, triste e inconsolabile dopo la morte di mio padre. Dovevo essere forte per  Katniss e per la mamma, e per papà. Quando mi sembrava di cadere in pezzi senza il sostegno di mio padre a sorreggermi, mi aggrappavo all’unica persona presente nella mia vita, Katniss. Mi diceva di occuparmi di Lady e fare il formaggio, raccogliere i fiori e andare a scuola. E io lo facevo, per lei, per mia madre, quella donna ormai senza volto che vagava per casa senza una meta, senza vivere.  La mano gelida di Katniss mi distaccò da tutto questo pensare e prendendo la mia, con voce calda e rassicurante, mi accompagnò dentro casa, da dove ci incamminammo tutte e tre verso la piazza.
Dopo tutte le noiose cerimonie organizzate da Capitol City, la voce squillante di Effie Trinket mi mandò in frantumi. Aveva pronunciato il mio nome dopo la frase “…prima le signore!”. I miei piedi erano piantati al suolo, e i miei polmoni facevano fatica a muoversi, era come se tutti i miei organi avessero smesso di funzionare. Decisi di non farmi vedere impaurita e mi diressi sul palco, aggiustandomi la camicetta e ripetendomi “Tieni dentro la coda, paperella”. Ma le parole che mi sconvolsero di piu’ furono “Mi offro volontaria come tributo!” e provenivano proprio dalle labbra della mia coraggiosa e forte Katniss. In quel momento l’organo piu’ importante del mio corpo perse un battito e iniziai ad urlare.Mi sentii stringere da braccia troppo possenti per potermi liberare, ma mi dimenai e cercai invano di raggiungere Katniss che si allontanava da me. La sentivo scivolare via dalle mie mani come l'acqua sui tetti , e non potevo fare niente. Quando le porte del Comune si chiusero e scomparve nel buio io svenni. Riuscii a svegliarmi per salutarla un'ultima volta e tutto ciò che potei dirle e darle furono brevi frasi e un abbraccio. In seguito a questo distacco mi sentii diversa, cambiata. Qualcosa si smosse dentro di me, non sapevo di preciso cos'era, ma sentivo che si faceva largo dentro di me e non era piu' la purezza di una primula, ma il gelido vento di una mattina di inverno, mi stava rendendo fredda e riluttante e avrei dovuto farci i conti ogni giorno.







Autrice:

Questa è la mia prima storia. Spero vi piaccia il mio modo di scrivere. So che potrebbe sembrare la solita noiosa storia su HG, ma mi piacerebbe che continuaste a leggere anche i prossimi capitoli. Mi farebbero piacere anche delle recensioni, magari dei consigli per migliorare. Accetto qualunque tipo di critica, basta che non siano insulti. Grazie mille a tutti i lettori :) 

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Capitolo 2
*** A drop in the ocean. ***


Le mie dita percorrevano freneticamente le dolci linee di quel disegno nell’alba del giorno successivo. Lo posi alla luce per afferrarne ogni piccolo dettaglio, ma il sole giocava con i suoi raggi che danzavano sul foglio rendendolo troppo luminoso e impossibile da osservare. La spilla di Katniss aveva sfiorato i miei occhi per pochi minuti la scorsa mattina, in seguito lei stessa me la appuntò sulla camicetta; poi dopo la Mietitura la consegnai a quelle sue mani sempre troppo gelide per farle capire che un pezzo del mio cuore era con lei. Quella spilla mi aveva incuriosito, Katniss lungo il tragitto verso la piazza mi aveva spiegato che l’uccello su di essa era una ghiandaia imitatrice, una specie di uccello ibrido nato dagli esperimenti di Capitol City. Era davvero particolare quel piccolo oggetto, la ghiandaia era circondata da un cerchio e nel becco teneva stretta una freccia. Quella notte non dormii, uscii in cortile e alla luce della luna disegnai su un vecchio quadernetto di mio padre la ghiandaia della spilla. Non ero abile nel disegno, ma riuscii quasi a ricomporre l’immagine che nella mia memoria era spezzata da un velo sottile e ondulato di lacrime. Ciò che mi incuriosì fu il suo significato, a me ancora oscuro. Vicino la scuola si erigeva una grande biblioteca piena di libri, vaste enciclopedie e dizionari di ogni genere. Pensavo fosse l’edificio piu’ interessante del Distretto, essendo silenzioso e non molto frequentato, al contrario del Forno che era inondato quasi ogni giorno da sciami di persone. Dopo aver aiutato mia madre a casa e aver studiato, mi diressi in quel posto deserto. Appena entrai il profumo delle pagine si stagliò su di me, e io ne respirai l’essenza a pieni polmoni, mi piaceva l’odore dei libri vecchi e polverosi, mi piacevano le cose vecchie, mi piaceva sapere che qualcuno lì nel Distretto 12 poteva vivere così a lungo. Quel posto era un tempio, file di libri si protendevano dinanzi la porta alta piu’ o meno 2 metri, le pareti erano di un bianco perla, immacolate, potevo scorgere solo negli angoli in alto il peso degli anni che aveva scorticato i muri bianchi. Gli scaffali erano impolverati, ma i libri sembravano emanare la lucentezza del pulito. Notai soprattutto che erano disposti in ordine tenendo presente la gradazione del colore, ad esempio una fila aveva tutte le sfumature di nero, un’altra tutte quelle del rosso. Era un gioco di colori che rendeva piu’ divertente la ricerca.
«Chi è la? » sentii urlare dal fondo del corridoio di una delle file di libri. «Sono Primrose Everdeen» riuscii a pronunciare.
«Posso esserti d’aiuto? » sentivo la voce piu’ vicina «Si, sto cercando dei libri riguardanti le ghiandaie imitatrici. Dove posso trovarli? » «Terza fila in fondo, troverai ciò che ti occorre. » Una piccola donna dai capelli color argento spuntò da uno scaffale, aveva una voce calda, ma il suo aspetto diceva altro, indossava un corsetto nero stretto in vita e da lì discendeva una cascata di tessuto color cenere, a coprire le spalle una sciarpa leggera le ricadeva anche sulla schiena. Era un vestito molto strano, di sicuro non usato nel nostro Distretto, ma soprattutto in questa epoca. Il viso era rigato da rughe profonde ma non troppo visibili, la bocca accennava appena un sorriso e le iridi degli occhi erano di un profondo nero pece quasi a confondersi con la pupilla. Non mi soffermai a guardarla troppo, non volevo sembrare strana, così mi diressi verso ciò che stavo cercando e iniziai a leggere tutto il materiale che avevo a disposizione. “Ghiandaia,ibrido,Capitol City, esperimenti, habitat, foreste dell’Africa e dell’Asia, lunghezza corporea 34 cm, ampiezza alare 53 cm, peso 170 g, piumaggio marrone rosso, le penne delle ali sono blu chiare e contornate di nero, il suo dorso bianco diventa visibile particolarmente in volo.”  Improvvisamente mi sento trascinare dalla delicata mano di Morfeo nel sonno piu’ profondo, per poi risvegliarmi e venire colpita dalle onde di due oceani racchiusi negli occhi di un ragazzo chino su di me. «Scusami, non avrei dovuto venire qui, ho fatto troppo rumore e ti ho svegliata.» mi sussurrò con delicatezza per rendere piu’ dolce il mio risveglio. «Oh no, non devi scusarti.» Fu l’unica frase che riuscii a biascicare, seguita da un mezzo sorriso. Distolse lo sguardo dai miei occhi e fu attirato dal titolo di un libro, raccolsi i miei e chiesi alla vecchia signora della biblioteca se potevo prenderli in prestito, annuì e mi incamminai verso casa.
In biblioteca non ero riuscita a leggere niente di interessante, tranne qualche informazione sull’aspetto fisico della ghiandaia e sui posti in cui avrei potuto vederne una. Ma in quel momento mi stavo perdendo nel ricordo di quegli occhi e quel viso pallido. Quel ragazzo poteva avere poco piu’ della mia età e non l’avevo mai visto qui al Giacimento, tantomeno a scuola o per le strade del Distretto. Mi aveva colpito la sua voce, era spezzata da un alone di tristezza, la percepivo, ero brava a percepire il dolore, la mia casa trasudava di ferite ancora aperte e quella foto di mio padre sul caminetto faceva sempre sanguinare la mia, lavando via tutte le cose belle che avevo costruito dentro di me.





Autrice:
Questo è il secondo capitolo! Spero sia stato di vostro gradimento. :) Come avete notato non ho inserito molti discorsi diretti dato che questi primi 2 capitoli sono introduttivi, quindi si incentrano piu’ sui pensieri di Prim. I seguenti saranno piu’ ricchi di dialoghi e situazioni che dovrà affrontare la nostra protagonista. Mi metterò presto a scrivere i prossimi capitoli, intanto fatemi sapere se questi primi due vi sono piaciuti! :)

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Capitolo 3
*** Skies without rain. ***


Strinsi tra le mani la tazza bollente colma del tè appena scivolato tra le sue pareti di ceramica. Mia madre amava la ceramica, aveva una collezione di tazze e piatti di colore bianco puro sistemati ordinatamente nel vecchio mobile a specchio in cucina. Il mobile di legno era consumato dal tempo e il vetro leggermente scalfito, ma quegli oggetti scintillavano, lei li puliva quasi ogni giorno, ogni volta che cadeva nell’oblio di voci che le ricordavano che papà era morto. Erano un regalo di matrimonio. Pulirli la calmavano, era come se potesse lavar via ogni dolore. Potevano vedere la luce del sole solo negli eventi speciali, e quel giorno in televisione vedemmo la nostra Katniss viva. Di solito la maggior parte dei tributi non superava le prime 24 ore nell’arena, non sopravviveva al bagno di sangue alla Cornucopia. Erano passati 2 giorni e lei stava bene e combatteva con tutte le sue forze contro pericoli di ogni genere. Mia madre era sollevata e si dilettò a preparare uno stufato con i due scoiattoli che Gale ci portò dalla battuta di caccia della domenica, aveva molto lavoro in miniera e riusciva a cacciare solo il fine settimana. Lo stufato fu accompagnato dal tè che mia madre preparò con le foglie di una pianta legnosa che fiorisce a primavera, la Camellia sinensis, che comprò la mattina al Forno, barattandole con un vestito.                                                                                                                                  
Ci stringevamo nella speranza di un ritorno vittorioso di Katniss, ci aggrappavamo al pensiero che ce l’avrebbe fatta, ma purtroppo spesso sentivo mia madre piangere di notte pensando che io stessi dormendo. Rimasi meravigliata dal fatto che non si lasciò andare, al contrario si diede molto da fare dopo la partenza di Katniss, puliva con cura ogni centimetro della casa, cucinava quando la mia capra riusciva a produrre un po’ di latte e Gale riusciva a rimediare qualcosa al Forno o nei boschi, piantava i fiori e li curava, spesso lo facevamo insieme, in quei giorni riprese a lavorare a maglia, fece anche un buffissimo cappellino a Lady che la faceva sembrava goffa, ma tanto adorabile; le giornate si fecero piu’ fredde, ma dentro di lei percepivo un calore che da tempo aveva perso, che non speravo piu’ di sentire. Probabilmente le parole di Katniss l’avevano colpita dritta al cuore come uno schiaffo in pieno viso «Stavolta non lasciarti andare! ». Nel frattempo i libri presi dalla biblioteca riuscivano a intrappolare i miei occhi sulle pagine anche per ore intere. Durante la sera, dopo la “cena”, mi stendevo sul letto e mi perdevo tra le righe che arricchivano la mia mente giorno per giorno di informazioni sempre nuove. Mia madre una mattina mi guardò abbagliata da un luce nuova e mi disse a voce bassa «Vedo le tue pupille dilatarsi alla vista di quelle pagine. Devono essere davvero interessanti.» Io la guardai con aria interrogativa, avevo appena finito di leggere il paragrafo riguardante l’esistenza delle ghiandaie nell’antica Grecia, questa notizia mi era del tutto nuova;venivano chiamate Garrulus glandarius, il loro utilizzo era molto differente rispetto all’uso che ne fece Capitol City, in particolare i pittori greci le ammaestravano e insegnavano loro a star ferme su rami secchi per poter rappresentare sulla tela giallastra i figli del cielo da loro tanto amati e venerati. Ne studiavano inoltre i colori e le caratteristiche, la loro primitiva caratteristica era quella di riprodurre solo piccoli suoni come il fruscio del vento, il ticchettio della pioggia sul legno bagnato e le onde rumorose che sbattevano contro le rocce. Quando mi ripresi da questi pensieri, guardai mia madre e lei ripetè le sue parole. Le risposi un semplice «E’ così » e mi tuffai di nuovo tra le calde coperte stavolta di fogli di papiro d’Egitto. Non pensavo che le ghiandaie avessero antenati così lontani, a quando pare la loro storia si è fatta largo nel tempo ed è arrivata a noi, proprio come il vento d’Oriente attraversa mari e montagne per incontrare i fiorenti capelli di giovani fanciulle dagli occhi persi e grigi. 
 
Era trascorsa una settimana dall’incontro con quel ragazzo in biblioteca, avrei voluto rivederlo, per chiedere il suo nome e magari chiacchierare. Così decisi di recarmi alla biblioteca.                                              
La vecchia signora era lì disponibile come sempre, sistemava e puliva tutti i libri, le sue mani raccontavano storie a noi incomprensibili, i suoi capelli erano stati attraversati da profumi inconfondibili che si erano intrecciati ad essi quasi a formare una rete di essenze aromatiche, lo potevo percepire, i suoi occhi sembravano impenetrabili, ma io riuscivo a scorgere il suo passato come se un pezzo di vita sputasse impercettibile ai semplici occhi umani da un lato di quel mare nero che era la sua pupilla. Restituii i libri, e mi accasciai sul fondo di un corridoio tra gli scaffali ponendomi un libro dinanzi agli occhi, in attesa. Quel giorno non vidi il ragazzo, e nemmeno il giorno seguente. Così mi rassegnai all’idea che potesse essere stato un sogno e in realtà mi sentii anche in colpa, pensando alla mia Katniss che lottava contro la vita e la morte e io che speravo di incontrare un ragazzo, magari facendo fiorire due sfumature rosse sulle mie guance alla sua vista.
Nei giorni che seguirono cercai di non pensarci, i libri da leggere avevano soddisfatto la mia fame di conoscenza sulle Ghiandaie e interpretai il significato della spilla a modo mio, incastrando pezzi di quelle parole con pensieri miei. Il cerchio che racchiudeva la ghiandaia era come una prigione e la freccia indicava la determinazione che aveva quella piccola creatura nel voler essere libera, rompere ogni catena, ogni oppressione che la rendesse ammonita e indifesa, avrebbe voluto allargare le sue ali e volare e sentire il profumo dei pini o degli aceri nel caldo sole mattutino. Katniss era così, voleva evadere da quel mondo, voleva vivere nei boschi. La spilla le apparteneva sin dal momento in cui aveva sfiorato i suoi occhi. Lei era la mia ghiandaia.
Era un venerdì pomeriggio, il sole si confondeva con le nuvole tanto era fioca la sua luce, il pallore del cielo si specchiava sulla città e su di me, penetrava nei miei occhi chiari  e con forza abbatteva le barriere della mia pelle ed entrava nella mia anima. In città a pochi chilometri dal Forno si trovava il piccolo cimitero in onore dei “caduti” (i morti in miniera), un giardinetto incolto circolare con qualche lastra di marmo che spuntava dal terreno, ricoperto da strati di cenere e polvere e posto nella zona piu’ silenziosa della città. Sotto quella terra ponemmo una bara vuota e sulla lastra il Sindaco fece incidere le iniziali di mio padre, con data di nascita e di morte. Parevano incise anche sul mio corpo quelle lettere, quei numeri; potevo toccarli con la punta delle dita su ogni angolo della mia pelle, bruciavano, ma non facevano male piu’ del dolore che provavo nel vederle buttate lì, troppo presto. Posi i fiori sulla tomba e mi buttai contro di essa a peso morto, sentendomi per un attimo schiacciare dal peso di quella perdita. Non riuscivo mai a leggere fino infondo la piccola dedica scritta in piccolo sul fondo della lastra, quelle parole mi toccavano il cuore, doveva essere una preghiera o un canto, o forse era la canzone che ci cantava nostro padre da piccole, “L’albero degli impiccati”, lui riusciva a creare cose dal nulla, e con quella canzone portava luce dove il buio regnava sovrano.
«Era tuo padre ? » una voce sottile spezzò i miei pensieri «Si, lo era» risposi.
Voltandomi rimasi paralizzata da una qualche sensazione che mi tolse il respiro. Sentivo il freddo ritirarsi dentro di me, era quel ragazzo a portare calore nella mia vita. «Mia madre e mio fratello» indicò due piccoli tabernacoli poco piu’ in la, poi si portò la mano in tasca. Nell’altra teneva stretto un taccuino, aveva la copertina in cuoio e alcuni fogli spiegazzati uscivano dalle pagine bianche. Era molto vecchio, lo notai dalle crepe e dai pezzi mancati sulla fodera. Vide che fissavo il suo quadernetto e lo spostò dietro la schiena quasi a volerlo nascondere da ogni altra cosa al mondo. «Sono solo schizzi e poche righe piene di scarabocchi, non potrebbero interessarti.» Era interessante il modo in cui parlava, a piccole frasi e gesti, ma soprattutto con gli occhi. Riusciva a comunicare semplicemente posando gli occhi su qualcosa, spostandoli velocemente, guardandosi freneticamente le mani, fissando il nulla o perdendosi nei miei. «Se non ti dispiace mi piacerebbe dare un’occhiata»  Ci pensò su e dopo 3 minuti, pose il taccuino tra le mie mani aperte sulle ginocchia. Ciò che vidi e lessi subito dopo non erano parole né disegni, erano organi che pulsavano di vita e cieli senza pioggia, mani lisce e profumate che sfioravano guance fredde e labbra salate che disegnavano oceani. «Come ci riesci? » Furono le sole parole che la mia mente riuscì a produrre in quel momento. «Vengo qui».  Era di poche parole, ma non perché lo voleva, sentivo che anche lui era stato colpito al petto con forza da una marea, facendolo naufragare nell’isola dei persi, dove camminavamo bendati e il senso del tatto era l’unica cosa a tenerci in vita.
 
 
Questo è il terzo capitolo della mia storia. :) Spero vi piaccia e spero soprattutto che la storia vi attiri. So che dovrei aggiungere qualche dialogo in piu’, ma per il momento riesco a produrre meglio le descrizioni dei pensieri di Prim e dei paesaggi o delle cose in generale. Insomma se volete che aggiunga qualcosa o che apporti qualche modifica alla storia fate pure :) sarò lieta di leggere li vostri consigli, quindi recensite in tanti. Alla prossima!

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Capitolo 4
*** Feeling this. ***


Sentii il suo corpo sbattere a terra seguito da un violento tonfo, il rumore di ossa rotte e le mie calcificate nel  mezzo di una corsa. Chiusi prontamente gli occhi, per pensare e ragionare sull’accaduto, non potevo lasciare che la gravità mi buttasse a terra a giacere, inerme. Dovevo fare qualcosa; corsi, arrivai al corpo. Sangue caldo sgorgava dalle ferite, la pioggia annebbiava i miei occhi, le orecchie mi fischiavano, il mondo intorno a noi taceva, ma colsi solo una voce «La prossima volta ti toccherà la pena di morte»                                                                                               
In un lampo tornai sulla terra ferma, i due oceani si erano spenti, inghiottiti da un mare nero di interminabili incubi. Non sapevo come muovermi, ma decisi di respirare e ripensare a tutti i feriti che la mamma con il suo tocco delicato riusciva a curare la maggior parte delle volte, ripensai alle sue mosse e a come acqua e panni puliti riuscivano temporaneamente a dare sollievo a quei corpi sofferenti. Strappai un pezzo della mia gonna nella parte finale dov’era già un po’ scucita, ne presi una striscia e la strinsi attorno al suo braccio sanguinante, sulla schiena solchi profondi si stagliavano pulsanti di dolore; nella mia borsa avevo una borraccia con un po’ d’acqua, pensai di ripulire le ferite sporche di terra con quella, in seguito la gente rimasta a guardare prese il corpo e lo portò a casa, da mia madre.                                                                                
Era lui, il ragazzo della biblioteca, il ragazzo dei disegni e delle poesie, il ragazzo del taccuino. Era disteso sul tavolo della mia cucina, grondante di sudore e sporco di sangue e terra, circondato dalle mani guaritrici di mia madre, era al sicuro, ma il mio cuore non smetteva di martellare, non aveva ancora ripreso conoscenza e mia madre era preoccupata. La vena che le sporgeva sul collo e le mani un po’ tremanti dicevano tutto. La situazione era grave.                                         
Mi risvegliai nel mio letto ancora bagnata dalla pioggia, ero confusa, non capivo com’ero arrivata lì, ma in quel momento un solo pensiero riempiva la mia mente: quel ragazzo era stato frustato e picchiato dai Pacificatori in piazza dinanzi a tutti, per cosa?                                                               
Scesi le scale e lo trovai ancora lì, il tempo fuori era come lo avevo lasciato entrando dalla porta un’ora prima, umido e freddo, ma dentro il calore mi avvolgeva e mi faceva bruciare le tempie e le guance, o forse era quel ragazzo, senza maglietta e addormentato sul tavolo di casa mia ? Mi avvicinai a lui, per contemplare quella bellezza sciupata e incompresa, così sottovalutata dal mondo; le sue labbra erano appena un po’ aperte e violacee, livide dal freddo preso fuori in piazza, la pelle bianca e levigata brillava alla luce del fuoco del camino e le sue ciglia erano nere e ancora un po’ bagnate dalla pioggia, creavano un leggero contrasto con le sopracciglia chiare e i capelli biondo cenere, un mezzo sorriso fece trasparire tutti i sentimenti che provavo in quel momento, così spostai lo sguardo sulla pila di piatti nella credenza che mia madre aveva sistemato in precedenza. Qualcosa però attirò la mia attenzione, notai una piccola macchia rossa che fioriva sul collo pallido del ragazzo, sembrava quasi un livido, così presi la crema che mia madre poneva sulle bruciature e sui lividi per addolcire la tumefazione e cercai di spalmarla su quel lieve rossore. Le mie dita sfiorarono appena la pelle, quando le sue mani strinsero velocemente e violentemente la mia facendomi emanare un gemito terribile di dolore. Lasciò subito la presa, nei suoi occhi vidi la paura di aver commesso un grave errore e si alzò di scatto dal tavolo, un po’ dolorante, appoggiandosi alla cucina e guardandomi spaventato. «Scusami, non pensavo fossi tu. Mi è successa questa cosa e..... mi dispiace. Ti ho fatto male ? Posso vedere ?» La sua espressione cambiò improvvisamente da terrorizzata a apprensiva nei miei confronti. Prese la mia mano tra le sue e mi guardò dritto negli occhi, immergendosi completamente dentro di me e  toccando ciò che vi era di piu’ profondo nella mia anima, riemergendo in fretta in superficie. «Non ho fatto niente di male, volevo prendere dei fogli, soltanto dei fogli, al Forno, li avevano buttati nel cassonetto ed erano bianchi...... erano puliti, solo un po’ sgualciti, io non ho fatto niente di male.» Mi colpì inl suo modo di giustificarsi con me, non doveva, perché lo stava facendo ? Il nostro mondo era pieno di ingiustizie e questo lo sapevamo tutti, non doveva scusarsi per una cosa così. «Lo so, non devi giustificarti» sorrisi, per sollevarlo da quella angoscia che era fiorita sul suo viso. «Loro non capiranno mai, non ci capiranno mai» In quel preciso istante svenne tra le mie braccia, troppo gracili e deboli per riuscire a trattenerlo, cercai con tutta la mia forza di posarlo delicatamente a terra, mentre tremante urlavo il nome di mia madre.                                                                                                                     
La sua fronte bruciava per la febbre, le labbra si erano leggermente gonfiate, mia madre mi spiegò a causa evidentemente di un’allergia alla morfamina che gli aveva iniettato precedentemente. Riuscimmo a ristabilirlo, ma sarebbe dovuto rimanere con noi per qualche altro giorno. Sua madre e suo fratello erano morti, avremmo dovuto chiamare un suo familiare, ma chiedendo in giro tutti mi diedero la stessa accurata descrizione di quell’uomo. «E’ un ubriacone, sta sempre al bancone a tracannare liquore da quando è morta sua moglie ed è successa quella cosa.» Rispose Sae la Zozza «Quale cosa? » Chiesi. «Fu portato a Capitol City, non si sa il perché. Tornò completamente cambiato. Chissà cosa avranno fatto a quel pover’uomo. Era un così bravo fioraio prima, sai prima di tutto, quando si faceva una vita decorosa e non bisognava avere paura di uscire di casa. Aveva quei due bambini che erano adorabili! Uno, il piu’ piccolo disegnava tutti i fiori del negozio, i clienti per poterli scegliere guardavano i suoi quadernetti, li sfogliavano e decidevano. Ora non so cosa ne è stato di quel bambino, dopo la morte del fratello e della madre. Si dice in giro che il padre lo picchi. Comunque cara mia, abita poco dopo il cimitero, ma non andare a fargli visita, è un burbero. » Finì la frase sussurrandola, alzando e abbassando in fretta le sopracciglia e spalancando gli occhi come se stesse raccontando una storia dell’orrore, poi tornò alle sue faccende.                                                                       
Pensai che era meglio non incontrare quell’uomo, gli avrebbe fatto male vederlo in quelle condizioni, ne ero consapevole, così tornai semplicemente a casa, il sole era quasi del tutto calato e mia madre era così apprensiva.                                                                                       
Ogni mattina era mia abitudine fare una preghiera, per mio padre e per Katniss, nonostante fosse passata una settimana le nostre speranze erano così vive e risplendevano nella grigia atmosfera del Giacimento, che si era quasi già chiuso nel lutto dei due tributi mandati a morire nell’arena. Il 12 non aveva mai avuto dei vincitori, ne conoscevo solo uno, lo vidi alla Mietitura, quando cadde dal palco, Haymitch Abernathy, ma per quanto ne sapevo era un ubriacone e viveva nello squallore e nella puzza dei suoi liquori scadenti. Dopo la preghiera mattutina, scesi a fare colazione, ma quella mattina trovai qualcun altro ad aspettarmi, era in cucina con le spalle e il petto scoperto, rivolto ai fornelli a cucinare qualcosa. Alla sua vista arrossii, la nostra casa non era mai stata abitata da ragazzi se non da Gale, che ormai era come nostro fratello e figlio acquisito. «Tua madre è uscita a comprare delle erbe, io so cucinare e mi sono offerto per fare la colazione con il latte della tua capra. Sai con il latte e un po’ di erbe aromatiche si possono fare delle ottime zuppe.» Si voltò, io cercai di nascondermi dietro la porta della cucina, mi ero appena svegliata e indossavo la mia camicia da notte, si rese conto di non avere la maglietta e arrossì anche lui, per una frazione di secondo ci guardammo negli occhi e le sue pupille si dilatarono, poi si voltò subito e quei due oceani scomparvero dalla mia vista. Era una situazione imbarazzante. Io pronunciai un ‘Grazie’ sottovoce e mi sedetti. Non parlammo per tutto il tempo, e finalmente quell’atmosfera così rigida fu spezzata dalla voce di mia madre di ritorno dal Forno con le erbe aromatiche. Facemmo colazione, mia madre medicò le sue ferite e potè finalmente indossare una maglietta. In seguito la mamma si mise a fare le sue faccende e decidemmo si uscire a prendere un po’ d’aria.                                                                                                     
«Sai cosa rende il Sole speciale? » mi disse con un filo di voce. «Cosa? » risposi. «Il suo colore. Pensa se fosse stato blu, o viola, o verde. Non avrebbe avuto lo stesso impatto sulle cose. Il giallo è il colore associato all’energia e alla vitalità. Inoltre questo colore ha la capacità di regolare la frequenza del battito cardiaco. » Il suo modo di comunicare le cose mi attirava sempre di piu’, la sua voce mi faceva estraniare da qualsiasi altra cosa, facendomi concentrare solo ed esclusivamente sulle sue parole. Aveva un effetto ipnotico su di me e non sapevo come ci riusciva.                                                                                                                                                     
Quel pomeriggio andammo a casa sua, mi fece aspettare fuori, entrò e uscì con in mano il suo quadernetto e dei fogli bianchi e con un cestino pieno di vasetti contenenti varietà di colori, da uno di essi spuntava un pennello e dei pezzi di spugna macchiati di colore. Ci dirigemmo al cimitero che era poco distante da casa sua. Io salutai silenziosamente mio padre poggiando una mano sulla sua lastra e premendola sulle labbra e lui sua madre e suo fratello. Vicino alle loro lastre erano stati posizionati con cura una fila di fogli, tutti con disegni diversi. «Li ho fatti io, per ricordarli, per ricordare i loro visi. Non voglio ricordarli come “i caduti”, sepolti sotto le macerie dell’esplosione, privi di vita. » Prese i disegni e me li mostrò, ricordava meglio suo fratello perché nella maggior parte dei disegni era raffigurato il suo viso sorridente, mentre negli altri erano raffigurate delle mani, dei vestiti e una donna bionda e pallida con gli occhi chiusi incorniciata in un manto di fiori colorati con un mazzo di essi tra le mani. Quei disegni erano inzuppati di dolore, se li avessi strizzati come si fa con i panni ne sarebbero usciti fiumi di lacrime, potevo solo immaginare tutto il dolore che ha provato nel disegnarli, lo sforzo che ha dovuto fare nel ricordarli così, sorridenti o addormentati tra i fiori.                                                               
Cancellammo quei dolori dalle nostre menti e li pulimmo via dai nostri corpi, sistemò al loro posto i disegni e disse con voce calda «Quindi cosa ti va di disegnare ? » Mi guardò, sorridendomi. Mi toglieva il fiato, non sapeva proprio che effetto poteva farmi. «Le ghiandaie imitatrici.» Risposi subito, prendendo il mio vecchio disegno dalla tasca della salopette di jeans di Katniss che indossai quella mattina. Non aderiva bene al mio corpo, era ampia, ma racchiudeva il profumo di mia sorella e volevo che il mio corpo ne fosse avvolto e la mia mente lo tenesse ben stretto nelle sue mani, per ricordarlo sempre, anche nel caso lei ...... Scacciai subito quel pensiero dalla mente e tornai con il ragazzo seduto di fronte a me a guardare sul foglio bianco. Gli posi il foglio sgualcito in mano e lui la guardò affascinato. Gli raccontai tutta la storia, tutto ciò che lessi nei libri della biblioteca, lui ascoltava senza parlare, come se fosse ipnotizzato e affamato di conoscenza. Guardò per un attimo carta stropicciata e qualcosa gli si era già formato nella mente perché mise il pennello sul foglio e iniziò a creare vallate soleggiate,prati brulicanti di fiori, tramonti serali e azzurri mari notturni tutto in leggere pennellate. Scelse i colori accuratamente, il dorato chiaro antico per formare il cerchio e la ghiandaia, per le sfumature utilizzò un giallo sabbia e per lo sfondo la tempera color verde speranza. Si macchiò le dita e la maglia bianca, mi fece sporcare un po’ la punta delle dita per formare le sfumature dello sfondo, ma la sua arte era così pura e autentica che il mio contributo si annullava dinanzi a tanta bravura. Anche lui creava cose dal nulla, come l’uomo che anni fa morì lasciando un profondo ricordo di lui. Potevo associarlo a mio padre, metteva tutta la sua attenzione e concentrazione nelle cose che faceva, i suoi occhi puntati sul foglio che non staccava nemmeno per sbattere le palpebre, le mani usavano con grande destrezza il pennello, con cura lo immergevano nella pittura e sfiorando il foglio impregnava la superficie bianca di colore, di idee e emozioni tutte diverse e contrastanti tra loro.        
Vederlo disegnare faceva accrescere in me i sentimenti che provavo stando in sua compagnia, adoravo i suoi occhi persi, le sue mani capaci di così tanta arte, le sue braccia percorse da vene bluastre rialzate sotto la pelle bianca e le rughe che spuntavano sulle sua fronte per la concentrazione. Mi sentivo come una ghiandaia in volo tra l’erba appena tagliata di un giardino, sentivo la freschezza della rugiada sulle ali e l’aria entrarmi nei polmoni e fuoriuscire libera, temevo solo il momento in cui quella freccia avrebbe potuto colpirmi in pieno petto, lasciandomi senz’aria nelle vie respiratorie e con un violento dolore a percorrermi il corpo.

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Capitolo 5
*** Rue's lullaby. ***


La in fondo al prato c'è un salice ombroso 
un manto d'erba che culla il riposo 
il capo tuo posa e chiudi gli occhi stanchi 
quando li riaprirai, il sole avrai davanti. 
Qui sei al sicuro, qui sei al calduccio, 
qui le margherite ti proteggon da ogni cruccio, 
qui sogna dolci sogni che il domani farà avverare 
qui è il luogo in cui ti voglio amare. 

Là in fondo al prato, nel folto celato c'è un manto di foglie di luna illuminato. 
Scorda le angustie, le pene abbandona. 
Quando verrà mattina, spariranno a una a una. 
Qui sei al sicuro, qui sei al calduccio, 
qui le margherite ti proteggono da ogni cruccio. 

Qui sogna dolci sogni che il domani farà avverare qui è il luogo in cui ti voglio amare.


La mano trasparente e impercettibile del vento mi sfiorò i capelli e le sue dita mi sciolsero i nodi; quel prato era strano, l’erba aveva sfumature nere e il cielo pareva sporco di un’aurora rossastra, come macchiato di una colpa indelebile. Mia sorella era distesa a pochi metri da me sotto un albero, e mio padre le era vicino. L’albero sembrava lo stesso della nostra canzone. All’improvviso entrambi mi vennero incontro, un sorriso si fece largo tra le mie guance, entrambi allargarono le braccia come a volermici far sprofondare dentro, poi sul volto di Katniss vidi il terrore, il cielo sereno negli occhi di mio padre si dissolse in un liquido nero che si espanse per tutto il bulbo oculare, poi lievemente le palpebre si chiusero portandosi via la vita di quell’uomo, le sua labbra si trasformarono in una forma piatta e priva di colore e in un attimo il suo corpo si accasciò a terra in un movimento fin troppo lento, sembrava di guardare tutto a rallentatore. Katniss spalancò la bocca, in un urlo, ma non sentivo niente, vedevo mio padre morto in terra e le lacrime che solcavano il viso di mia sorella e io da spettatore li guardavo, adesso dall’alto, immobile, senza un corpo con cui poter correre sulla scena del crimine. Ciò che restava di mio padre svanì e rimase Katniss, inginocchiata al suolo e persa nel suo dolore, con le mani semi-aperte quasi prive di vita lungo le gambe. Il suo vestito era macchiato da schizzi di sangue, sangue di mio padre, resti umani le giacevano intorno e nonostante fossi solo uno spettatore senza corpo né anima, potevo sentire il mio cuore accelerare nell’impeto dell’inquietante scena , non riuscivo a muovere nemmeno un muscolo. L’incredulità si fece spazio nella mia mente, quelli erano i resti di mio padre e Katniss aveva smesso di piangere, adesso stava lì, si dondolava, con le ginocchia premute sul petto e gli occhi fissi in un punto lontano che solo lei riusciva a scorgere.  La scena si dipinse di rosso, sangue caldo colava sulla pellicola e tutto venne ricoperto da quel liquido denso. Ero terrorizzata, e con uno scatto aprii gli occhi. Avevo la fronte imperlata di sudore, fissai il soffitto, la prima cosa che i miei occhi inevitabilmente poterono vedere, notai delle crepe e qualche ragnatela alla luce della luna, l’odore del tempo notturno mi riempì i polmoni, la finestra era socchiusa, mia madre dormiva. Non riuscii a rimanere a letto, mi alzai e mi diressi velocemente alla porta correndo in giardino. Assaporai tutto il freddo di quella nottata sulla pelle e nella bocca e negli occhi, con ogni centimetro di pelle, dovevo rinfrescare la mente, era stato un sogno, un incubo, ma le gambe mi tremavano ancora, le mani non volevano stare ferme, mi buttai a terra e iniziai a strappare dei fili d’erba, nella mia testa quella canzone ..Verrai, verrai, all'albero verrai, cui hanno appeso un uomo che tre ne uccise, o pare? Strani eventi qui si son verificati e nessuno mai verrebbe a curiosare se a mezzanotte ci incontrassimo all'albero degli impiccati. Respirai tutto, l’aria, il profumo dei fiori della mamma, l’essenza della rugiada sui loro petali, e nella mia mente le parole si formulavano da sole .. Verrai, verrai, all'albero verrai, là dove il morto implorò l'amor suo di scappare. Strani eventi qui si son verificati e nessuno mai verrebbe a curiosare se a mezzanotte ci incontrassimo all'albero degli impiccati. Il viso di mio padre prese forma tra le note e schiudendo le labbra iniziai a canticchiare la melodia della canzone. Ritornai a respirare, il mondo si stava ricostruendo e i pezzi sotto i miei piedi presero a ricomporsi quasi attirati da una forza che li ricomponeva, li raggruppava tutti insieme. Il battito decelerò e i miei muscoli si stirarono ..... Verrai, verrai, all'albero verrai, di corda una collana, insieme a dondolare. Strani eventi qui si son verificati e nessuno verrebbe a curiosare se a mezzanotte ci incontrassimo all'albero degli impiccati. La melodia si interruppe, la canzone era finita così come la vita di mio padre, eppure le persone dicevano che con il tempo le ferite si rimarginano e il dolore svanisce. Ma piu’ il tempo passava piu’ la voragine che avevo nel petto veniva mangiata e dilaniata dalla perdita, e il respiro mi mancava ogni volta che pensavo il suo nome.

17 giorni. Erano passate ben 2 settimane e 2 giorni dall’inizio degli Hunger Games. In tutto 17 giorni. In quell’arco di tempo ogni tanto in televisione trasmettevano pezzi presi dalle telecamere presenti nell’arena. Erano molto interessati a mia sorella, mostravano in particolare gli spostamenti di lei e Peeta, gli Innamorati Sventurati del Distretto 12. Quel giorno Seneca Crane, il primo stratega, aveva emanato il cambiamento delle regole previste dai giochi, i due tributi dello stesso distretto, ancora in vita, potevano entrambi vincere i giochi una volta fatti fuori tutti gli altri. Vidi negli occhi di Katniss un barlume di speranza, seguito da un sussurro in cui pronunciò il nome di Peeta. Mi sentivo così bene per lei, certo non per quello che le stava capitando, ma.. era innamorata e stava combattendo per quel ragazzo con tutte le sue forze ed era così strano vederla impegnata in qualcosa che non era tenere in vita me e la mamma. Mi colpiva il modo in cui lo baciava e il modo in cui combatteva, non l’avevo mai vista uccidere così una preda. Una volta mi portò nel bosco, ero terrorizzata e quando colpì un cervo, provai così tanta pena che le chiesi se potevamo portarlo a casa e curarlo. La sua espressione fu quasi come per dire ‘Mi prendi in giro? Quella è la nostra cena!’. Ma appena scorse la mia tristezza nel vedere quella povera creatura abbattuta, mi tranquillizzò e mi fece allontanare chiedendomi di raccogliere qualche erba curativa o commestibile. La televisione si oscurò e io e la mamma ci guardammo apprensive, sapevo cosa stava pensando ‘Magari può farcela, sono rimasti in pochi e lei è una delle piu’ brave’. Ma io sapevo che Cato, il favorito del 2, non era così facile da eliminare. Così spostai lo sguardo a terra e lentamente mi diressi fuori, invasa dallo scetticismo, ma quasi felice, Katniss me lo aveva promesso e ce la stava mettendo tutta, ‘ci vuole bene’ pensai e al suo ritorno le parlerò di quel ragazzo, si lo farò.
Quella mattina un ennesimo giorno di pioggia si apriva lungo la strada verso scuola, condurre una vita normale senza pensare a tutto ciò che avevo dentro non era semplice, e l’incubo della scorsa notte mi aveva scosso la carne e gli organi facendoli mescolare dentro di me. Il ragazzo con cui avevo trascorso gli ultimi giorni non si faceva vedere, problemi con suo padre o con la sua vita in generale. Quando stavamo insieme ogni problema o dolore si annullava e non valeva solo per me. Notavo come i suoi occhi riprendevano colore e il suo viso cambiava espressione nei giorni in cui disegnavamo al cimitero. Avevamo stabilito questo legame a cui non bisognava dare un nome ben preciso, non eravamo sconosciuti, né amici, né qualcosa di piu’. Eravamo semplicemente la ragazza che ha perso il padre e il ragazzo che ha perso la madre e il fratello. E quando stavamo insieme eravamo semplicemente noi, delle lucciole nel buio che emanavano luce a tratti e si spegnevano nei momenti di tempesta. Mentre questi pensieri mi invadevano anima e corpo, la mattinata stava scorrendo in fretta e le mie azioni si svolgevano quasi meccanicamente. Uscì da scuola e il pomeriggio mi sembrava così lungo, il modo in cui l’avrei occupato era ancora offuscato da un grande punto interrogativo. Abbandonai le braccia lungo i fianchi e toccai qualcosa di tagliente, riemersi dai miei pensieri spezzati da quella strana sensazione, vidi la punta di un pezzo di carta fuoriuscire dalla tasca e sorrisi. Era il suo disegno, me ne ero dimenticata, quella mattina l’avevo trovato nel quadernetto di mio padre ed ero rimasta lì a fissarlo, quando mia madre mi chiamò e lo scaraventai nella tasca del pantalone, adesso era un po’ stropicciato, ma con le mani lo aprii e lo stesi per bene. Non mi accorsi che mi ero fermata lungo il vialetto per ammirare quella piccola opera d’arte , qualche ragazzo piu’ grande passando mi fece cadere a terra e accidentalmente il foglio si strappò, non era grave mi trovai in mano un pezzo di sfondo, ma ero dispiaciuta. Li ripiegai con cura e stavo per infilarlo di nuovo nella tasca quando una voce mi sfiorò l’orecchio, sussurrando «Stai bene? » Il mio corpo si impietrì, il sangue si concentrò esclusivamente sulle guance e ormai non sentivo piu’ il cuore battere sotto il mio petto. Girai la testa di scatto e cercai di sorridere, mascherando ciò che era rimasto dei miei sentimenti, mi consumava ad ogni nostro incontro. «Sto bene, grazie » Risposi timidamente. «Ho visto che quei ragazzi ti sono venuti addosso, hanno tutti perso le buone maniere ormai. » Aveva un’espressione così dannatamente indifferente verso il mondo, ma quando mi guardava io lo vedevo, il fuoco che gli colorava le guance, lo sguardo nervoso e le mani frenetiche. «Cosa vuoi fare oggi? » Mi chiese dolcemente. «Potremmo andare al prato vicino casa mia, lì il pomeriggio si sta bene e ci sono delle farfalle coloratissime da poter dipingere. » Non sapevo cosa rispondergli, così mi ricordai di quando mia sorella, dopo aver saputo della morte di nostro padre, mi prese per mano e mi portò, correndo, nel prato vicino casa a guardare le farfalle colorate del Giacimento, dalle nostre parti non avevamo grandi cose per cui andare fieri o comunque bei posti in cui perdersi, ma lì sembrava che il tempo potesse fermarsi e potesse fotografare quei momenti per renderli immutabili. Quel pomeriggio trascorse all’insegna di sorrisi e sguardi, ci faceva bene averci a vicenda, la vita ci aveva puniti, ma facendoci incontrare stava guadagnando punti per essere perdonata. I nostri dialoghi erano poveri come sempre, si riducevano a piccole frasi o domande e risposte, ma da quando l’avevo incontrato una domanda in particolare picchiettava insistentemente la mia mente come un pettirosso che picchietta la corteccia di un albero. Qual’era il suo nome ? Lui conosceva il mio grazie alla Mietitura, Effie Trinket aveva quasi urlato il mio nome come a spiattellarmelo in faccia, ma lui, sempre così silenzioso, si limitava a parlare di disegni e poesie e a volte di sua madre, senza rendermi partecipe a pieno della sua vita. Così mentre piccole pennellate si prestavano a comporre un altro magnifico disegno, dissi «Ci conosciamo da qualche settimana e ancora non so il tuo nome. » Sorrisi, alzando leggermente le punte della bocca e guardandolo fisso. Continuò a disegnare come se non avesse ascoltato nemmeno una parola, dopo qualche minuto si staccò dal disegno, mi guardò negli occhi, inchiodandomi a terra, si avvicinò a pochi centimetri dal mio viso.. « Isaac Feistmann, la nostra famiglia ha origini ebraiche, il mio cognome è ebraico, mia madre era Angelique Lennox » Le sue labbra sfiorarono le mie, il gesto fu così impercettibile che lui non se ne rese conto, ma io si, avevo assaporato il profumo di quella bocca, ero frastornata dalla sensazione che sentivo nello stomaco, e per la prima volta non era fame. Così era quello il suo nome, Isaac. Adesso quel ragazzo mi era totalmente entrato dentro, aveva scavato la pelle e si era infilato nelle ossa, penetrando gli organi in un lasso di tempo così breve, nessuno era riuscito mai a toccarmi il cuore così, la morte ci aveva fatti incontrare, sarebbe riuscita, la morte, a separarci ?

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Capitolo 6
*** Hope is the only thing stronger than fear. ***


«Prim, Prim! Primrose. » La voce delicata della mamma risuonò nei miei sogni dolcemente. Aprendo gli occhi, ancora un po’ sfumato, prese forma il viso di quella donna, che con il passare degli anni collezionava i segni del tempo e li poneva in bella vista lungo le guance e sulla fronte. «Mamma » Dissi con un filo di voce. Aveva le lacrime agli occhi, ma non era tristezza quella che fioriva sulla pelle pallida del suo viso, era felicità. «La nostra Katniss, ha vinto, lei tornerà qui, a casa. » Avevo ancora gli occhi socchiusi, quelle parole presero forma nella mia mente e percorsero il mio corpo fino al cervello, mi ci vollero 2 o 3 minuti per realizzare l’accaduto. ‘Katniss, mia sorella, vincitrice dei 74esimi Hunger Games, è viva. La rivedrò.’ Con uno scatto mi alzai a sedere e l’unica cosa che fummo in grado di fare fu abbracciarci e stare in quella posizione per almeno 5 minuti, tra lacrime e singhiozzi non riuscimmo a dire una parola o almeno qualcosa di sensato. I nostri cuori potevano toccarsi per quanta forza ci mettessero a battere all’unisono. Ci vestimmo e ci preparammo. 
Eravamo alla stazione del treno da quasi mezz’ora, avevamo anticipato la partenza da casa per la troppa emozione di rivederla. Con noi c’era Gale con la sua solita espressione severa in volto. La mamma era molto bianca in viso, ma notai che era il suo colorito normale, accentuato dal leggero freddo autunnale. Un rumore lontano sfiorò il mio orecchio destro, le rotaie quasi oscillavano, in modo impercettibile. Vidi poi il grande treno di metallo che correva verso di noi, era lucente e andava molto veloce. Il mio cuore non riusciva quasi a sopportare tutta l’adrenalina che avevo in corpo, stavo per piangere, ma ritirai su le lacrime, era un giorno felice, da tanto non vedevo sorridere così la mamma. Lo guardammo fermarsi di scatto dinanzi a noi, un lieve rumore metallico risuonò nell’atrio, e alzando un po’ di polvere le porte si aprirono. Katniss era lì. Era bella come sempre, non aveva nessuna cicatrice in volto, i suoi capelli erano sciolti e le ricadevano sulla schiena, indossava un abito rosa pallido che le sfiorava il ginocchio e vicino a lei, stranamente, c’era Peeta Mellark. Gli sfortunati amanti del Distretto 12 erano sopravvissuti entrambi agli Hunger Games ? Com’era possibile? Risparmiai le domande per dopo. Non potemmo però abbracciarci, nemmeno sfiorarci o dirci quanto ci eravamo mancate, lei non ci vide, distrattamente posò lo sguardò tra la folla, ma i Pacificatori li portarono subito con loro verso l’entrata della stazione e noi tornammo in paese. In seguito, vennero condotti in piazza, su un piccolo palco vicino al comune per salutare i cittadini del Distretto. Eravamo tutti lì, chi applaudiva, chi urlava, chi cercava di sfiorarle la mano; salutarono tutti, ancora increduli della loro vittoria. C’era davvero molta gente, io riuscivo ad intravedere Katniss, ma la visuale era coperta dai corpi troppo alti delle persone dinanzi a noi. Gale con un braccio e senza troppo sforzo, mi prese e mi fece salire sulle sue possenti spalle, ero leggera e non fu difficile salire. Katniss sorrideva al pubblico come se fosse ancora a Capitol City e dovesse mantenere un profilo allegro e spensierato; quando vide me, Gale e la mamma la sua espressione cambiò, il sorriso scomparve per pochi minuti, come per contemplare quegli sguardi e quei sorrisi. Le lanciai un bacio, posai le mani sulle labbra e lanciai un bacio in sua direzione. Un sorriso fiorì sul suo viso e le lacrime le offuscarono la vista, potevo vederle. Peeta ad un tratto le prese la mano e insieme le portarono in alto, in segno di vittoria, in segno d’amore forse, come per urlare al mondo ‘Capitol City non ci ha sconfitti, abbiamo vinto noi’.
In seguito tornammo a casa e potemmo parlarle e abbracciarla , mia madre non riuscì a staccarsi da quel forte abbraccio almeno per 5 minuti
«Pensavamo .... noi non ci aspettavamo .... oh Katniss! » Furono le uniche parole che riuscì a pronunciare, lasciò le frasi a metà spezzate dalle lacrime e i singhiozzi, Katniss era felice, ma percepivo una certa freddezza nelle sue azioni, i giochi l’avevano cambiata e qualcosa la turbava, ma lei non lo lasciava trapelare, non agli altri almeno, io lo notai. La sera stessa il Sindaco venne a casa nostra al Giacimento portandoci la notizia che avremmo dovuto traslocare, spostarci nel Villaggio dei Vincitori. Avremmo condotto uno stile di vita totalmente diverso, migliore. Ad un tratto dalla finestra spuntò Ranuncolo. In tutti quei giorni non si fece vedere nemmeno un secondo, inoltre Isaac, la scuola e Lady mi occuparono così tanto che non notai la sua assenza. Appena lo vidi, un urlo di gioia riecheggiò in casa «Ranuncolo! » Si accoccolò tra le mie braccia e iniziò a fare le fusa. Per quanto odiasse Katniss, la sua assenza mi fece capire che in un certo senso anche lui sentiva la sua mancanza e voleva stare per i fatti suoi a contemplare la perdita del nemico. «E’ ancora vivo? » Sbuffò Katniss. Poi ci guardammo negli occhi e scoppiammo in una risata fragorosa. 
In pochi giorni ci trasferimmo al Villaggio, la nostra casa conteneva poche cose, lo stretto necessario per sopravvivere, così ci impiegammo 2 giorni al massimo per portare tutto nella nuova casa. Appena misi piede lì dentro delle strane sensazioni mi colpirono in pieno petto, l’odore di chiuso si spargeva per tutta la casa, la mamma aprì le finestre e per la prima volta i tappeti del salotto furono illuminati dalla luce del sole. Tristezza e malinconia, ecco le sensazioni che provavo nel vedere l’oscurità di quell’edificio accoglierci a braccia aperte, mentre noi a passo leggero ci apprestavamo a sprofondare in essa.                                                                                              
I giorni seguenti furono dei piu’ felici, la nostra famiglia non conosceva la felicità e io cercavo di assimilare e assaporare ogni istante, così da poter accumulare piu’ momenti felici che potevo utilizzare nell’attimo in cui tutto sarebbe finito. Avrei potuto usare il ricordo di noi in salotto a prendere il tè, ridere e ascoltare Katniss ironizzare sui tizi strambi e sugli alloggi di Capitol City, nel momento in cui giorni bui avessero bussato alla porta per trascinarci nell’oblio insieme ad ansie e paure. Quella sera fu perfetta, Gale si unì a noi a cena, c’era un po’ di distacco tra loro due, potevo vedere le scintille nei loro occhi sfiorarsi appena, se si fossero toccate la casa sarebbe esplosa, ma Katniss sdrammatizzò la serata raccontando la sua scenata di fronte agli Strateghi, come avesse scoccato la freccia colpendo la mela in bocca al maiale che giaceva sulla tavola e come uno dei tizi piu’ grassottelli fosse caduto in modo buffissimo nel ponce. Prima di andare a letto decidemmo di dormire insieme, non ci eravamo ancora abituate alle camere separate in cui dormire, ma nonostante la sua vicinanza e il calore del suo corpo vicino al mio, un altro incubo mi divorò, quella notte.

Sentivo freddo e il mio alito, lentamente, creava una condensa calda intorno al mio viso. Mi trovavo in quella casa, vuota, senza mobili né tende, le finestre oscurate dalla polvere; solo due sedie erano poste vicino al camino e lì sedute vi erano Katniss e la mamma. Stavano ridendo e la luce del fuoco disegnava fiammelle di vita sui loro volti, ondeggiavano nei loro occhi, guizzanti di felicità. Mi unii a loro e assaggiai un liquido denso di colore scuro che Katniss chiamava ‘cioccolata calda’. Era davvero ottimo..... Due colpi violenti riecheggiarono nel corridoio vuoto, bussavano alla porta, ma dal mondo in cui la colpivano dovevano essere dei Pacificatori. Qualche minuto di silenzio e poi una decina di uomini in tuta bianca invasero la nostra casa. Eravamo spaventate ma Katniss mi spostò dietro la sua schiena, pronta a battersi. Due di loro la presero per le braccia e la trascinarono per tutto il salotto, io urlavo mi dimenavo e lei insieme a me, lacrime brucianti rigavano il mio viso e tutto intorno a me si oscurò lasciando che la figura di Katniss emanasse un ultimo sospiro di luce, che poi lentamente si spense. Mi buttai a terra, senza forze, dalle mie ginocchia sgorgava sangue, ma il dolore di un ennesimo allontanamento di Katniss mi aveva colpita con più forza. Una voce risuonò nella mia testa, la riconobbi era di Seneca Crane «Signori e signore, benvenuti all’Edizione della Memoria, che prevede il ritorno nell’arena dei tributi vincitori. Che i 75esimi Hunger Games abbiano inizio! » Qualche minuto di silenzio.... «I tributi del Distretto 12: Peeta Mellark e Katniss Everdeen! » Mi presi la testa tra le mani e urlai con tutto il fiato che avevo in corpo, l’oscurità mi inghiottì. 
La casa era vuota e le mie urla rimbombarono sulle mura e sugli oggetti circostanti. Le braccia di Katniss erano già pronte e legate attorno al mio corpo, il suo mento sopra la mia testa e la sua voce tranquilla
«Era solo un sogno! Prim, calmati. » «Tornavate nell’arena, tu e Peeta ..... di nuovo lì, lontano da me. » «Ehi, sono qui, nessuno mi porterà via, sono tornata, non devi nemmeno pensarci. » Ormai non riuscimmo più a prendere sonno, erano le 5 di mattina e insieme scendemmo in cucina a preparare la colazione. Il sole spuntò dietro le montagne e tutto prese vita, la fontana che ornava l’entrata della casa prese a zampillare, ma il freddo aveva ricoperto tutto, gli alberi, le siepi e la strada, così l’acqua che sgorgava dalla fontana si ghiacciò nell’arco di 2 secondi. 
Verso le 7, Katniss uscì di casa per andare a cacciare, nonostante le nuove comodità, lei aveva bisogno di trovare la pace nei suoi boschi e così rimanemmo io e la mamma. Pensai di andare a trovare Isaac, dovevo raccontargli di Katniss e del mio sogno, lui avrebbe avuto le parole giuste da dire, aveva sempre le parole giuste. 

«Sai Prim, il destino è come il disegno a volte, ti da carta bianca e tu puoi disegnare la tua vita in base ai colori che ti offre. Tua sorella l’ha fatto, aveva pochi colori, poche speranze, ma con quei pochi è riuscita a tornare da te, si è disegnata il suo destino. Capita che il foglio si stropicci e ci siano degli imprevisti, ma con un po’ di pazienza lo si può stirare e modellare per farlo tornare come prima. » Mi guardò per un attimo staccando lo sguardo dal pennello. «Hai un viso così delicato, dei lineamenti precisi e un colorito perfetto. Vorrei farti un ritratto. » Lo guardai fisso, evidentemente la mia espressione era un po’ perplessa, perché lui arrossì e iniziò a balbettare «Cioè s-se non ti va, n-non importa, cioè non è un problema, era per dire che sei carina, cioè insomma ..... » Abbassò lo sguardo e inarcò le sopracciglia, disse qualcosa di incomprensibile tra sé e sé, io sorrisi e risposi «Per me va bene. » Potevo sentire il suo cuore impazzito battere forte anche da quella distanza, mi avvicinai a lui per poterlo udire meglio, il suono dei battiti era rilassante, di notte quando l’ansia e la paura mi inghiottivano mi toccavo il petto e sentivo il cuore pulsare sotto le mie dita, il respiro tornava regolare e le palpebre si appesantivano. Cercai di non farmi notare, usai come scusa il disegno «Scusami, vorrei vedere meglio quello che stai facendo. » Le nostre gambe incrociate si sfiorarono, il mio braccio sinistro si appoggiò completamente al suo e allungai il viso verso il disegno. Percepii il suo respiro accelerare sulla mia pelle, iniziò a strizzare gli occhi puntati sul foglio circa ogni 2 secondi. Ad un tratto lasciò cadere il pennello e vidi la sua mano allungarsi delicatamente sul mio viso, furono gesti leggeri e decisi, spostò il mio sguardo e il mio volto in direzione del suo, ci guardammo negli occhi e mi diede il tempo di perdermi nel suo sguardo , poi come se fosse un gesto del tutto naturale, posò le sue labbra sulle mie, e le premette con forza. Chiuse gli occhi, io avevo i miei puntati sulla sua fronte. Sentii il labbro inferiore inumidirsi, aveva aperto appena la bocca e adesso sentivo il suo movimento impercettibile sulla mia, immobile e rigida. Quel piccolo e delicato atto si interruppe nel modo più lento possibile. Lui allontanò le sue labbra quel poco che bastava per respirare l’uno il profumo dell’altro e per dare uno sguardo alla mia reazione. Tenni gli occhi chiusi per un attimo, poi li riaprii. Grosso errore. Sentivo il suo corpo così vicino e il suo respiro invadermi la pelle, i suoi occhi percorsero ogni centimetro del mio viso e fissarono bene le mie guance ormai totalmente invase da un fuoco rosso. Un terribile senso di imbarazzo mi percorse le schiena in un brivido di freddo. Mi allontanai, non sapevo che espressione assumere. Posai un bacio sulla sua guancia senza guardarlo in viso e imboccai l’uscita del cimitero, camminando a passo veloce verso casa mia. 
Entra in casa e buttai ogni ansia e incertezza alle mie spalle, poggiandomi piano al portone.
«Prim ? Sei tu ? » Mia madre uscì dal salotto con uno strano sguardo, avvicinò le sue labbra al mio orecchio e sussurrò «Pacificatori, Snow » Alzai gli occhi dal pavimento, poteva leggere tutta la paura che derivava da quelle due semplici parole nelle mie pupille e nella mia espressione. «Non farti vedere agitata. » Il mio incubo, stava succedendo ? Stava prendendo davvero forma nella realtà ? Andammo in salotto e con un gesto delicato mia madre ci congedò dai Pacificatori. Ci dirigemmo in cucina e mia madre prendendomi per le braccia, disse «Non so cosa vuole da noi, da Katniss, si trova nello studio in questo momento, probabilmente vuole congratularsi con lei di persona, non dobbiamo far scoprire ai Pacificatori che Katniss è andata nel bosco o non so cosa può succederle. » A quelle parole io annuii, assunsi un’espressione che non lasciasse trapelare emozioni ,in preda alla paura, e sentimmo il portone aprirsi. Dovevamo arrivare da Katniss prima di loro, per avvisarla. «Com’è stata la passeggiata, Katniss ? » Squittì mia madre, sorridendole falsamente. «Quale ......? » Si interruppe proprio nel momento in cui spuntarono i Pacificatori dal salotto. Si diressero verso di lei, la presero e la  portarono nello studio. Aspettammo per 10 lunghi minuti fuori dallo studio, in attesa. In seguito Katniss e Snow uscirono uno dopo l’altro, lui aveva un’espressione soddisfatta sul viso e rivolgendosi a mia madre disse «I suoi biscotti erano squisiti signora, arrivederci e Katniss, a buon rendere » Un sorriso arrugginito comparì sul suo viso consumato e Katniss, terrorizzata ci guardò fisso, fin quando la porta non si chiuse dietro le spalle dei Pacificatori. «Voi sapete che per vincere io e Peeta abbiamo usato la tattica delle bacche, giusto? » Annuimmo. «Lui e tutti i distretti l’hanno visto come un gesto di sfida verso Capitol City, adesso vuole che durante il Tour della Vittoria, io e Peeta dobbiamo convincere tutti del nostro amore, in special modo dobbiamo convincere lui. Mi ha minacciata mettendo in pericolo la vita di tutti quelli che amo. » Da quelle parole capii che l’amore che tutti credevamo ci fosse tra i due era falso e mi sentii un po’ tradita, ma presi a riflettere sulle parole che seguirono. ‘mettendo in pericolo la vita di tutti quelli che amo.’ Eravamo tutti in pericolo e Snow sapeva come rendere le vita delle persone un vero inferno. Ma capii una cosa fondamentale, mia sorella aveva fatto fiorire nel cuore dei distretti la Speranza, e tutti noi sapevamo che la Speranza era l’unica cosa piu’ forte della paura.

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Capitolo 7
*** Dandelion. ***


L’attesa ci stava consumando. Io e la mamma, un po’ infreddolite, avevamo indossato due giacconi di lana per ripararci dal freddo della stazione del treno. Prima di lasciare casa, mia madre mi aveva sistemato i capelli in una treccia, alta sul capo, lasciata cadere lungo la cascata bionda di capelli che si posava sulla mia schiena. Il Tour della Vittoria era terminato, in televisione vedemmo piu’ volte Katniss, truccata e ben levigata in viso, che ogni giorno veniva cambiata d’abito e di accessori, parlare alle folle nei vari Distretti, baciare Peeta e fare lunghi discorsi per convincere tutti del vero amore tra gli amanti sfortunati del Distretto 12. Inscenarono persino la proposta di matrimonio, in cui Peeta dinanzi a Ceaser Flickerman e tutti gli spettatori, inginocchiandosi di fronte a Katniss, le chiese di sposarla. L’ultimo giorno la vedemmo indossare quegli strani abiti creati da Cinna, lo stilista che ci fece visita qualche ora prima della partenza, il giorno in cui Snow venne a parlare con lei, alla cerimonia finale nella lussuosa abitazione del Presidente. Quegli abiti non le rendevano giustizia, la sua bellezza era così semplice e tutto quel trucco e quei vestiti così elaborati che era costretta ad indossare stonavano sulla sua personalità.
Il suono metallico che produceva il treno ogni volta, mi distaccò dai pensieri e tornai nel mio corpo vicino mia madre e tutta la folla del 12, in attesa dei due Vincitori. Le porte si aprirono di scatto senza fare il minimo rumore, Katniss era lì, scese gli scalini, sfoggiando il piu’ falso dei sorrisi che aveva nel repertorio e che doveva mostrare alle persone e mi venne incontro, abbracciandomi. «Prendi tutto quello che puoi. Ce ne stiamo andando. » Abbracciò la mamma e riuscii a vedere le stesse parole pronunciate a me, insinuarsi tra le sue labbra e l’orecchio della mamma, che assunse un’espressione stranita. Cosa voleva significare ? Il piano non aveva funzionato ? Snow non si era convinto ? Queste domande continuavano a chiedere risposte nella mia testa fino all’arrivo a casa. Era così. Niente di tutto ciò che avevano fatto era riuscito a convincere quella serpe. Saremmo dovuti scappare ? Non riuscimmo a dire niente, le parole di Katniss fecero calare il silenzio in casa e lei scomparve tra i boschi, invasa dall’ira.
Le luci si spensero una alla volta, la casa rimase al buio, solo un leggero sbuffo di luce penetrava attraverso le tende della finestra e colpiva il piumone spargendosi ai piedi del mio letto. Katniss dormiva profondamente, a qualche centimetro da me; potevo vedere l’espressione determinata sul suo viso anche durante il sonno, la pelle olivastra mi ricordava tanto quella di nostro padre, come il colore scuro dei capelli e il naso leggermente spigoloso. Lei era il suo riflesso, quando si impegnava a destreggiare con l’arco e quando portava a casa gli scoiattoli, quando sorrideva o mi prendeva il viso tra le mani per rassicurarmi. Lui viveva in lei, ha continuato a vivere in lei dopo la sua morte e io potevo ritrovarlo ogni volta nei suoi occhi. Quella notte ero rimasta sveglia fino a tardi, preoccupata da tutto quello che ci stava succedendo. Quell’uomo era spietato, mi dava l’impressione della Morte, mieteva ragazzini ogni anno per degli stupidi “giochi” che facevano divertire i fenomeni da baraccone che popolavano Capitol City e quest’anno i giochi erano cambiati, c’erano due vincitori adesso e lui era stato preso in giro. Mi sentivo da una parte sollevata per quell’affronto, meritava di essere stato preso a schiaffi in faccia da una ragazzina, meritava di aver paura di una nuova rivolta. Io ero con mia sorella, l’avrei sostenuta sempre e se fosse servito avrei preso arco e frecce e sarei corsa al suo fianco a battermi contro Capitol City.
Le accarezzai la guancia sinistra, una lacrima mi bagnò il viso colpito dal ricordo di mio padre che dormiva accanto la mamma nelle mattine primaverili e ,poi, svegliato dalle nostre urla di gioia. Dormii 2 o 3 ore quella notte, la mattina seguente come di routine Katniss andò a caccia con Gale e io e la mamma preparammo la colazione. In seguito ci vestimmo e andammo in paese per delle commissioni. Tornando a casa, iniziammo a preparare il pranzo, la mamma tagliava le cipolle con quelle sue mani tremanti e consumate, io misi a cuocere le patate e iniziai a preparare gli scoiattoli scuoiati del giorno precedente.
Con un tonfo Katniss spalancò la porta e guardandoci negli occhi, sussurrò con un filo di voce «Gale! ». Peeta, Haymitch ed altre due persone tenevano il corpo dolorante di Gale sulle spalle. Mia madre fece prontamente spazio sul tavolo della cucina e iniziò a ispezionare le ferite, mi erano molto familiari, grossi tagli sanguinanti gli coprivano tutta la schiena, la mamma prese la morfamina e tentò di aspirarla nella siringa, ma le sue mani tremavano troppo, era scossa; così le dissi a voce bassa «Lascia, ci penso io» Presi la siringa e con un solo passaggio aspirai la morfamina e la iniettai nella spalla di Gale. Appena quel liquido entrò in contatto con il suo corpo, i muscoli si distesero e un respiro di sollievo si strinse nei denti e fuoriuscì dalle labbra. Katniss tremava ed era spaventata, mentre la mamma medicava per bene le ferite, ripulendole con l’acqua, lei si diresse in giardino per recuperare un po’ di ghiaccio da porre sulle ferite e dare sollievo alla schiena di Gale, pulsante di dolore. Quella scena mi aveva fatto rivivere quel giorno con Isaac, lo spavento e il suo corpo tumefatto, i miei pensieri tormentati dal suo dolore e il momento dopo in cui guardandolo avevo scoperto un altro mondo, un altro sole, un altro cielo. E l’istante in cui ho capito di provare qualcosa per quel ragazzo.
Quando la mamma finì di coprire le ferite con dei panni puliti, io uscì fuori per controllare se Katniss si fosse ripresa. La vidi, inginocchiata sul bordo del vialetto davanti casa, era ancora un pò scossa, ma il suo viso aveva ripreso lucidità, mi diressi verso la montagna di ghiaccio che stava scavando con le sue mani. Mi inginocchiai vicino a lei e fissai le sue mani rossastre per il freddo.  Poi vidi i suoi occhi puntati su di me, le mie labbra pronunciarono qualcosa: « Come va l’occhio?» «Non è l’occhio che mi preoccupa.» Mi lasciò intendere. « Sai, dagli ultimi Hunger Games qualcosa è cambiato. Lo vedo. » Mi guardò, con aria interrogativa. «Cosa vedi? » La parola che pronunciai qualche secondo dopo doveva già conoscerla. «Speranza. » Continuava a guardarmi, poi abbassò lo sguardo. «Prim, capisci che qualunque cosa faccia si ritorcerà contro te e la mamma ? » Non smetteva mai di proteggerci, nemmeno ora che un po’ di luce aveva colorato la nostra vita, così le risposi: « Katniss, non devi proteggerci, noi siamo con te» Ci guardammo entrambe negli occhi. «Ti voglio bene. » Mi disse delicatamente. «Ti voglio bene anch’io. » Risposi. Un leggero abbraccio racchiuse quella conversazione nelle nostre menti e la nascose al resto del mondo. Il nostro legame poteva superare anche le intimidazioni di un vecchio dittatore, mia sorella stava scatenando qualcosa, lo sentivo e finchè lei restava in vita, la speranza poteva bruciare ardente nelle case delle famiglia di ogni Distretto. Anche Katniss era riuscita a creare qualcosa dal nulla, come mio padre, come Isaac. Ero circondata da persone, se pur viventi e non, che avevano ruoli determinanti nella mia vita. Erano come le ossa che sorreggevano il mio corpo e tenevano tutti gli organi insieme, riuscivano a tenere tutti i miei pezzi insieme senza farmi crollare e farmi rompere. Avevo perso mio padre, che adesso Katniss riusciva a sostituire, mia madre era ritornata dal mondo delle anime sole e perse e Isaac si stava facendo largo dentro di me, mi era entrato dentro e aveva costruito un’armatura di ferro che riusciva a contenere tutti i colpi. Tranne uno, che mi avrebbe mandata di nuovo in frantumi, uno che avrebbe riaperto il buco nero della mia vita, che avrebbe cancellato tutto ciò che con fatica avevo rimesso in piedi. Mia sorella di nuovo nell’arena, mia sorella tributo femminile del Distretto 12 ai 75esimi Hunger Games. E’ così che il dente di leone che fiorisce a primavera si appassì e insieme ad esso anche quelle briciole di vita che erano in me. Sarei riuscita a superare il fatto che gli incubi potevano prendere forma nella realtà, questa volta ?

AUTRICE:
Questo è il settimo capitolo. Nel precedente finalmente Prim e Isaac riescono a esprimere ciò che provano l'uno per l'altra con un tenero bacio. In questo capitolo non ho voluto parlare di loro, ma del rapporto tra Katniss e Prim e ho continuato con la storia, seguendo passo per passo l'originale. Spero che vi piaccia come descrivo i pensieri di questa ragazzina che per l'età che ha sta vivendo delle situazioni non adatte a lei. E' un pò corto, ma contiene scene molto toccanti del secondo libro che a me personalmente sono piaciute tanto :) Ho voluto pubblicarlo oggi perchè non so quando potrò continuare con l'ottavo capitolo dato che il computer ha qualche problemino. Ma spero il prima possibile. Insomma recensite in tanti e fatemi sapere cosa ne pensate. :) Grazie a tutti per le recensioni precedenti e per il supporto che mi date!                                                                                                                                            

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Capitolo 8
*** The fire is catching. ***


La mamma alzò le tre dita ed io e Gale la seguimmo all’unisono, lacrime amare si fecero largo nel viso di mia sorella, Peeta con determinazione alzò per primo il braccio sinistro e rispose a quel gesto, Katniss lo seguì. Pochi metri ci dividevano, ma la sentivo già lontana, già nell’arena, di nuovo in pericolo. Non riuscivo a capire come la vita non smettesse di punire la nostra famiglia. Mi feci vedere forte, mentre i Pacificatori trascinavano mia sorella verso le porte del Palazzo di Giustizia. Non ci diedero neppure quei pochi minuti per dirci addio, così lei con la voce spezzata, prima di farsi inghiottire dall’oscurità, pronunciò un : «Addio! » Persino Effie Trinket aveva le lacrime agli occhi e la sua voce squillante si era fatta cupa nel pronunciare “Peeta Mellark e Katniss Everdeen, tributi del distretto 12” per la seconda volta. Nelle ore che seguirono decisi di spegnermi, di buttare via ogni sentimento e finire di piangere tutte le mie lacrime, chiudendomi nella mia stanza e perdendomi  tra le lenzuola, che racchiudevano ancora il profumo di Katniss come a sbattermi in faccia il fatto che avrei potuto non risentirlo piu’. Il giorno seguente evitai ogni attenzione di mia madre, anche Gale, dal carattere duro e glaciale, provò a parlarmi, ma non avevo niente da dire e sentivo di aver perso l’uso della parola, ero diventata come una di quelle senza-voci di cui ci aveva parlato Katniss. Il suono della televisione aperta in salotto si faceva spazio tra le mura e arrivava fino al mio letto, per colpirmi in pieno petto. Mia madre continuava ad informarsi sulle condizioni di lei a Capitol City, ma io buttavo semplicemente la testa sotto il cuscino, per non sentire altro dolore. Nemmeno Ranuncolo riuscì a farmi tornare alla realtà da quella specie di trance, passavo le giornate a fissare il vuoto in attesa che mi inghiottisse. Smisi anche di mangiare, tranne quando mia madre alzava la voce ed ero costretta a ingurgitare quel poco di cibo che il mio stomaco riusciva a contenere. Isaac venne a farmi visita un paio di volte, ma non volevo vederlo, non sarei riuscita a parlare o a dire qualcosa di allegro, e lui nella sua vita aveva bisogno solo di felicità, non di un'altra persona che trasudava dolore.
«Sono entrati nell’arena. » Disse mia madre entrando nella stanza e fermandosi sulla soglia. Così l’addestramento, le prove con gli strateghi e il cibo invitante erano finiti. Adesso potevano andare a morire. Mi guardò per qualche secondo, non vide segni di risposta, richiuse la porta e sentii i suoi passi allontanarsi. L’odore di chiuso si spargeva per tutta la stanza, le mie ossa avevano preso la stessa posizione da giorni, le uniche cose che ero in grado di fare per non rimanere bloccata a letto erano trascinarmi fino al bagno per lavarmi e pulirmi il viso dalle lacrime secche di 2 giorni. Mia madre non si diede per vinta, continuava a portarmi notizie di Katniss pur essendo passato solo 1 giorno dall’inizio dei Giochi. «Peeta ha già rischiato di morire, ma Finnick, il tributo del 4, l’ha rianimato con la manovra che usiamo spesso qui, quando capiamo che non c’è piu’ niente da fare e cerchiamo di riportarlo con noi. Ricordi ? Piccole botte secche sul petto e la respirazione bocca a bocca. Prim, lei è viva e sono morti molti tributi. Sai che può ancora farcela. » Concluse. A passo leggero, stava per chiudersi la porta alle spalle e con un filo di voce, dissi. «Si, può ancora farcela... a morire, mamma. » Quelle parole le fecero mancare il respiro, e sentii dei singhiozzi riecheggiare nel corridoio. Per quanto potesse far male, quella era la verità. Il trucchetto delle bacche sarebbe potuto funzionare ai primi giochi, ma adesso Snow sarà stato previdente e non si farà incantare una seconda volta.
Durante la notte quando la mamma era già a letto, gironzolavo per casa alla ricerca di qualcosa. In realtà dovevo sgranchire le gambe, stare a letto non faceva bene al mio corpo e forse nemmeno alla mia anima. Ma era l’unica cosa che riuscivo a fare, l’unica cosa che mi permetteva di non affrontare direttamente la realtà. E la realtà era che avrei perso mia sorella, e stavolta nessun trucco l’avrebbe salvata. Il secondo giorno passò in fretta, cercai però di scendere dal letto, riuscii ad arrivare alla scrivania dove trovai un pezzo di carta e una matita. Se non riuscivo ad esprimere a parole ciò che stavo attraversando, forse sarei riuscita a farlo mettendo tutto per iscritto, così iniziai a scrivere una lettera rivolta a mia sorella.
«Cara Katniss,
Mi sento muta. Vulnerabile. Uccisa dal potente veleno di Snow. Ti ha mandata lì una seconda volta, per punirti. Per punirci. E io mi sento così vuota adesso. Sai, durante i primi Hunger Games ho reagito diversamente, mi sentivo a pezzi, ma la speranza che tu potessi ritornare si era fatta largo dentro di me e aveva acceso una fiammella ardente che mi faceva sperare in un tuo ritorno. E quando sei tornata, la fiammella ha preso davvero vita dentro di me, e le ho concesso di invadere tutto il mio corpo, per infonderne un po’ anche a te. Ma adesso, adesso è tutto diverso, adesso dentro di me sento il ghiaccio che continua a espandersi per tutti gli organi, ha quasi congelato il mio cuore, che prima batteva solo grazie a te. Il nostro legame non è mai stato solo di sangue, il nostro legame ci ha tenute in vita, ci ha dato la possibilità di sopravvivere alla perdita di nostro padre..... » Un nodo mi comparve di scatto in gola e le mie dita non potevano scioglierlo per far passare la saliva, che con difficoltà riuscii a mandare giù. Deglutire mi veniva difficile. « Ci ha dato la possibilità di riavere nostra madre, ma soprattutto di averci a vicenda. Ad ogni estrazione negli anni precedenti mi sentivo sollevata quando tornavi a casa insieme la mamma e mi sorridevi dicendo ‘Ehi paperella, sono sempre qui, vicino a te’. Quando Effie ha pescato quell’unico foglietto nella boccia, avrei voluto gridare con tutta l’aria che avevo nei polmoni “Mi offro volontaria come tributo” come tu hai fatto con me nei primi giochi. Non ti ho mai ringraziata abbastanza per quello che hai fatto per me, tenermi in vita fino ad oggi e salvarmela quel giorno di fronte a tutta Panem. Katniss, Snow sarà anche riuscito a distruggerci dentro, ma non riuscirà mai a spezzare il nostro legame, perché quella fiammella non bruciava solo dentro di me, quella fiammella sta bruciando ancora nei cuori di tutti i distretti e so che anche i cittadini di Capitol City trovino ingiusto tutto questo. Ti chiedo solo un ultimo favore: tu DEVI vincere. »  Le parole da scrivere venivano giù da sole e nel momento preciso in cui scrissi l’ultima frase, una piccola e insignificante goccia d’acqua salata bagnò il foglio, proprio nel punto in cui era scritta la parola DEVI. Ricacciai le lacrime e lasciai il foglio a giacere, in balia di altri occhi, sulla scrivania. Presi il cuscino, me lo poggia sulla bocca e urlai con tutta la forza che avevo in corpo, cacciando fuori da ogni strato del mio corpo tutto il disprezzo che provavo in quel momento per Capitol City.
Aprii la finestra e un vento pungente mi invase il viso e la pelle, i peli delle braccia si alzarono per qualche secondo, formando piccoli puntini bianchi lungo tutto l’avambraccio. Fuori c’era ancora qualche strato di neve e stava calando la sera. Avevo bisogno di uscire di casa. «Vado a salutare Isaac. Penserà che non voglio piu’ vederlo. Devo farglielo sapere. » Mi rivolsi a mia madre seduta di fronte la televisione spenta, con le gambe premute sul petto e gli occhi persi nel buio. «Va pure, ma torna presto. » Stavo per dirigermi verso la porta quando disse: «Aspetta. » Si avvicinò piano, senza fare rumore, era scalza ed esile, non avrebbe fatto comunque il minimo suono. Mi trascinò vicino allo specchio, senza dire una parola e iniziò a pettinarmi i capelli. «La mattina dei primi giochi tu ti sei rivolta a tua sorella dicendo che volevi essere come lei. » Iniziò a maneggiare con cura delle ciocche e in 5 minuti aveva concluso la sua opera. Guardai a terra per tutto il tempo, quando alzai lo sguardo, ciò che vidi allo specchio, mi procurò un dolore al petto. Le lacrime ondeggiavano nei nostri occhi, la guardai tramite lo specchio e in un leggero gesto, mi girai e l’abbracciai. Mi aveva sistemato i capelli come quelli di Katniss nel giorno della Mietitura, due trecce unite tra loro e poste sul capo a formare quasi un piccolo cappello. Ad un tratto mi risentii giovane. La lontananza di Katniss e ogni avvenimento della mia vita mi aveva portata a crescere troppo in fretta e quelle piccole attenzioni che mia madre mi riservò quella sera, mi riportarono a quando io e mia sorella eravamo molto piccole e insieme ci sistemavamo sul letto dei nostri genitori, vicine, aspettando che nostra madre ci facesse delle acconciature ai capelli, come solo lei riusciva a fare. Ci sciogliemmo da quell’abbraccio e le sussurrai un “Grazie”. Poi uscii di casa e mi diressi da Isaac.
I nostri sguardi si incrociarono poche volte lungo il cammino. Non sapevamo cosa dire, soprattutto in seguito ad alcuni eventi che avevano procurato un certo imbarazzo tra di noi. Non ne parlammo, ci scambiammo solo qualche parola. «Scusa se non sono stata in me in questi due giorni. » Buttai lì, di punto in bianco, per spezzare il silenzio. «Quel bacio....Io, io non me ne pento. » Non capivo le sue parole, ma era in difficoltà, si guardava le punte delle scarpe e un tic che aveva ogni tanto alla bocca si fece piu’ presente quando iniziò a parlare. «Sai pensavo che non volessi vedermi per questo. Per il bacio che ti ho dato. Pensavo di aver fatto un errore, ma mi rendo conto che non me ne pento. » “Nemmeno io” pensai. Cosa potevo dirgli? Non ero brava con le parole, me la cavavo meglio con le cose pratiche, come fasciare una ferita o spalmare una crema per le ustioni, insomma guarire corpi. «Oh, no. Non è stato per il .....» Non riuscivo a pronunciare quella parola, mi si fermò in gola e le guancie presero fuoco. «Davvero. Non pensarci. Tu non c’entri in questa storia. » Si fermò di scatto e intrappolò goffamente le mie dita tra le sue. Portando le nostre mani a intrecciarsi tra loro. Adesso eravamo faccia a faccia e i miei occhi non avevano via d’uscita. «Quindi, cosa intendi fare? » A quelle parole il mio cuore si fermò. Non sapevo cosa fare. Ero sicura di provare qualcosa per lui. Ma non ero mai riuscita a pensare veramente alla nostra situazione, soprattutto in quelle circostanze. «Non ho mai veramente pensato a questo. » La sua espressione cambiò, come se avesse ricevuto un grave colpo. Ripresi subito a parlare «Non ho mai potuto pensare a questo. La mia vita è un vero caos e tu sei la prima cosa bella che mi capita da molto tempo. » Questo lo fece sollevare dalla reazione precedente. Rimanemmo per un attimo in silenzio. Poi le nostre labbra si incontrarono di nuovo. Stavolta era diverso, mi sentivo piu’ sicura. Ero riuscita a esprimere ciò che provavo a questo ragazzo con così tanta facilità che adesso baciarlo mi veniva naturale. Così le mie labbra non erano piu’ rigide e immobili, riuscivano ad accompagnare il movimento delle sue e il nostro piccolo mondo iniziò a prendere forma intorno a noi. Il bacio fu seguito da un caldo abbraccio che sigillò con un tonfo secco tutte le parole non dette in una lettera anonima. «Non voglio dare una definizione a tutto questo. » Biascicò lui, nell’imbarazzo del momento. «Va bene così. » Risposi, con un piccolo sorriso. Ecco che mi entra di nuovo dentro e a poco a poco ricostruisce la mia corazza di ferro, caduta nello scontro. Non mi spiegavo come riusciva a donarmi tutta quella forza, ma non mi importava. Lui era la mia colonna quando Katniss era lontana e andava bene così.  
Tornai a casa, andai in camera e appena varcai la porta, mia madre si trovava di fronte a quella lettera, china su di essa, con le mani sul cuore e la tristezza negli occhi. «Io ...... » Si bloccò di scatto, come se anche a lei un nodo in gola le impediva di finire la frase. «Mamma, calmati. » Le mie parole le diedero la forza necessaria per andare avanti. «Io.. ti chiedo scusa, Prim. » Le presi le mani e le spostai un ciocca di capelli dietro l’orecchio sinistro. «Va tutto bene, supereremo anche questo. » Furono le ultime parole della serata. Ci mettemmo a letto, vicine e superammo la notte insieme. I due giorni seguenti passarono lentamente, tra alcuni feriti da curare e le continue informazioni sugli spostamenti di Katniss in televisione. Stavano preparando un attacco agli altri tributi. Beetee mi sembrava un tipo molto intelligente, infatti il suo piano era parecchio ingegnoso. Katniss era sempre così decisa e intenta a proteggere Peeta. Ma mi dedicai poco a vedere come andavano le cose nell’arena, il mio crollo mentale era in via di guarigione ma ero ancora un po’ instabile.
Il quinto giorno era alle porte, Ranuncolo aveva uno strano atteggiamento e il cielo pareva volesse darci un avvertimento su qualcosa, perché si colorò di un grigio intenso e tutto ciò che riusciva a trasmettermi era la paura di una nuova minaccia. Era tardo pomeriggio, la mamma stava lavorando a maglia e in lontananza il 12 si perdeva in uno stato di silenzio assoluto. Ecco di nuovo, il lutto in onore dei tributi caduti, erano già tutti quasi senza speranza e sembrava che la stessero risucchiando via anche dal mio corpo. Fissai il cielo, sgombro di nuvole, ma sempre carico di angoscia. Mi girai a guardare Ranuncolo saltare cautamente sulle mie ginocchia, lo accarezzai. Rivolsi di nuovo lo sguardo al cielo e lo spettacolo che si aprì dinanzi ai miei occhi era terrificante. File di hovercraft invadevano il cielo, adesso, strizzando gli occhi, riuscii a vedere del fumo nero risalire da alcune case in lontananza e poi il caos. «Mamma! » Gridai. Si precipitò vicino alla finestra e le uniche parole che pronunciò furono. «Siamo sotto attacco. » Aprimmo il televisore per vedere Katniss, un’ultima volta, prima di scappare. Ma era tutto completamente oscurato. Molto strano. Un tonfo fece tremare il portone, poi pugni pesanti bussarono insistentemente. Aprimmo, era Gale insieme alla sua famiglia «Dobbiamo andarcene di qui!. » Urlò. Attraversammo il Distretto di corsa, case quasi totalmente distrutte, urla di dolore riecheggiavano nel cielo, bambini senza genitori in mezzo le strade, corpi morenti lungo i vialetti e vicino le case, corpi bruciati e già senza vita. Mi tappai le orecchie e mi limitai a seguire Gale. Ci dirigemmo nei boschi, portando con noi piu’ gente possibile. Tutte le persone che riuscimmo a trascinare nei boschi. Tra cui anche feriti. Gale ci fece sistemare vicino ad un lago, io e la mamma preparammo immediatamente una zona per i feriti e iniziammo a cercare ogni tipo di foglia curativa per alleviare le bruciature e le ferite dei corpi doloranti che giacevano a terra. Acqua e panni ed erbe erano le uniche cose che potemmo usare. Riuscimmo a medicare qualche ferita, un uomo morì proprio sotto i miei occhi, la ferita al ventre era troppo larga e aveva perso molto sangue, nel giro di 6 minuti, morì dissanguato. Il cuore mi batteva fin troppo veloce e pensai per un attimo che potesse non reggere a tutto quel che stava succedendo. Degli hovercraft stavano distruggendo il nostro distretto, le nostre case, tutti i nostri averi, tutta la nostra vita. E non sapevamo perché. All’improvviso un hovercraft si materializzò sulle nostre teste e iniziò a prelevare gruppi di persone. Eravamo 800 piu’ o meno, tutti gli altri stavano morendo intrappolati nelle case o bombardati nelle strade e le mie mani non potevano fare niente per guarirli o portarli in salvo. Prima di salire, diedi una rapida occhiata a tutto ciò che avevo, vedere il distretto 12 scomparire così, mi diede un senso di totale impotenza, ma poi una fitta di dolore mi trapassò la tempia per fuoriuscire dall’altra parte del capo. Isaac. Non era tra i feriti e non lo avevo visto in mezzo a quella gente. Una volta nell’hovercraft mi iniziai a dimenare, urlando il suo nome. Mia madre lo sapeva, ma lasciò comunque che uomo sulla cinquantina con i capelli bianchi infilasse qualcosa nel mio braccio, facendomi cadere in un sonno profondo. La terra sotto di me si sgretolò per una sola e ultima volta e la corazza di ferro andò in frantumi con un ultimo semplice strattone. La fiammella si spense per sempre e il freddo mi inghiottì, facendomi emanare un ultimo sospiro di speranza.

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Capitolo 9
*** White lips, pale face. ***


«Siamo diretti al 13 » Una voce tremolante mi risuonò in testa. Un leggero dolore aleggiava su tutto il mio corpo intorpidito. La vista non mi era tornata del tutto, le figure mi erano ancora poco chiare, ma a quanto pare ero su una branda, in una qualche stanza anonima dell’enorme hovercraft che qualche ora fa o minuto, non sapevo bene di preciso quanto tempo ero rimasta tagliata fuori dal mondo, era spuntato sulle nostre teste.  Ero confusa, il 13 ? Il Distretto 13 ? Era ancora attivo ? Era ancora esistente ? Nel momento in cui iniziai a riprendere conoscenza una mano gelata mi sfiorò il viso. E poi la fronte. «Si sta svegliando, la temperatura è scesa. » Era la voce di mia madre. Dovevo aver dormito un bel po’ perché le mie ossa cercavano di staccarsi da quella posizione, ma il mal di testa persisteva e mi dovetti accontentare di ricevere due cuscini in piu’ per mettermi a sedere. «Prim, come ti senti? » La mamma mi strinse le mani. «Dove stiamo andando? Cos è successo ? Perché, mamma.... » Mi fece segno di rilassarmi. «Calmati Prim, siamo diretti al distretto 13, a quanto pare non è stato distrutto, ci offriranno un rifugio, una nuova casa. Katniss ha.... Lei ha distrutto l’arena, era tutto pianificato. Plutarch, il Primo Stratega insieme ai ribelli e al 13 hanno messo in piedi tutto, avevano già pianificato di far uscire Katniss e gli altri di lì. Lei è al sicuro, Gale è andato a spiegarle tutto. » Cercai di alzarmi, mia sorella era viva, io dovevo parlarle, abbracciarla, dirle qualcosa. «Mamma, il 12 non esiste piu’. Io ho paura che Isaac..... Dov’è? Lo hai visto? Io temo che.... lui possa essere.... » Lacrime salate spuntarono, inevitabilmente, sul mio viso. Mia madre con le sue dita le asciugò in fretta e cercò di farmi calmare e ragionare. «Forse è insieme agli altri del 12. Prim, non deve essere per forza..... » Nemmeno lei riusciva a dirlo, forse perché sapeva potesse essere un’opzione. «Siamo arrivati, prepararsi all’atterraggio! » Una voce riecheggiò nelle nostre teste attraverso le casse che si trovavano sulle pareti dell’hovercraft. Vedevo gente impaurita, stranita, nessuno sapeva cosa fare. Nessuno aveva ancora realizzato l’accaduto. Donne senza i mariti, padri senza i loro figli. Eravamo persi e insicuri sulla vera esistenza del 13. Dubbi, paure, domande. Invadevano la mia mente. Ma soprattutto il timore di non rivedere piu’ Isaac mi lasciava senza respiro.
Lasciammo quel posto e la terra sotto i nostri piedi sembrava salda e sicura, non come quella del 12, fragile ed instabile. Tutto il terreno che si presentava ai miei occhi era sgombro da ogni cosa, come se qualcuno o qualcosa, l’avesse ripulito prima del nostro arrivo. In lontananza vidi degli alberi che si moltiplicavano, formando la secca vegetazione del distretto 13. Ci scortarono fino a dei grossi cancelli di metallo, si aprirono senza fare rumore e fummo portati sottoterra grazie a dei grandi ascensori che scendevano per metri e metri in profondità. Mi sentii leggermente schiacciata da tutta quella terra che mi inghiottiva man mano che la luce si faceva meno densa sulle nostre teste. Tutta la gente presente con me e la mamma nell’ascensore si riversò in una stanza dalle grandissime dimensioni e interamente blindata. Voci confuse si levarono nell’aria, a tono basso ognuno confidava all’altro il proprio stupore. Ad un tratto lo stesso uomo che mi aveva iniettato il sedativo sull’hovercraft si schiarì la voce come a chiedere silenzio e cercò qualche oggetto che lo rendesse più alto rispetto a noi per farsi vedere da tutti, parlare alla gente e spiegarci ogni cosa. Salì su un rialzo presente vicino a una parete e iniziò a riversare parole non del tutto chiare su di noi «Tutti qui sanno che un bombardamento ha appena distrutto il distretto 12. Sono davvero dispiaciuto per tutte le vostre perdite e vi invito a cercare di superare il dolore. » Abbassò leggermente la testa in segno di comprensione. Poi riprese a parlare. «Il nostro Presidente Coriolanus Snow ha fatto credere per tutto questo tempo a ogni distretto che il 13 andò distrutto nella battaglia avvenuta durante i cosiddetti ‘Giorni Bui’. » Alzò la voce e marcò le parole Giorni Bui, non capii perché, ma forse voleva solo dare un po’ di effetto al suo discorso. «Beh, io, Plutarch Heavensbee, in qualità di Primo Stratega, posso affermare che il Distretto 13 è ancora qui, vivo e vegeto e lo state osservando con i vostri occhi. Questa gente è riuscita a sopravvivere agli attacchi di Capitol City ed è riuscita a costruire una città sotterranea, blindando ogni stanza e proteggendola da eventuali attacchi. Qui siete al sicuro, cittadini del 12. Qui sarete accolti come fratelli, qui le leggi di Snow non potranno piu’ colpirvi. » Breve pausa. «Adesso scortate tutti nei loro alloggi e cercate di mettere tutti a proprio agio. Signora Everdeen lei rimanga. » Mentre la folla veniva smaltita e distribuita a gruppi nelle stanze, io e mia madre venimmo scortate da Katniss. Prima di arrivare da lei, lungo il vasto corridoio lucente, pensai ad un paio di cose da dirle e soprattutto pensai che se mi fossi fatta vedere sconvolta per via di Isaac, l’avrei fatta preoccupare ulteriormente, così decisi di tenere la faccenda per me e sbrigarla per conto mio. L’avrei cercato nella gente sopravvissuta e se non l’avessi trovato sarei tornata al 12. 
Plutarch ci diresse nell’ospedale, dopo vari corridoi e dopo aver oltrepassato una ventina di stanze, ci bloccammo davanti a una porta, con uno scatto si aprì, scivolando dal lato sinistro nell’ apposita fessura. Katniss era a letto, con i capelli scompigliati sulle guance e sulle tempie, lunghi le si posavano fino sulle braccia, una camicia da notte bianca punteggiata di palline bluastre era posata sul suo corpo esile e sciupato. Era dimagrita molto, i giorni nell’arena l’avevano cambiata di nuovo. I suoi occhi grigi, circondati da profonde occhiaie, si posarono prima su di me e poi sulla mamma, ma le sua labbra livide pronunciarono il mio nome. «Prim! » Mi diressi verso le sue braccia tese e ci stringemmo in un abbraccio, poi piccoli singhiozzi si fecero largo tra i nostri corpi mossi da una grande tristezza. Sapevo cosa la rendeva così amareggiata. La mamma nell’ascensore mi aveva parlato di Peeta, il Ragazzo Innamorato non era stato salvato insieme agli altri e Capitol City lo aveva catturato in seguito alla distruzione dell’arena. «Andrà tutto bene, Katniss. Uscirà vivo da tutto questo. Ne usciremo tutti. » Non era molto, ma furono le uniche parole che riuscii a dirle. Lei si limitò ad annuire, salutò la mamma e poggiò di nuovo la testa sul cuscino tra le lacrime. Posò gli occhi in qualche punto a caso e si perse tra gli incubi che Snow le stava procurando, ovvero Peeta torturato. La mamma mi posò una mano sulla spalla, io guardai Katniss apprensiva, poi mi sentii dire «Lasciamo che riposi. » Camminammo verso la porta, delle parole mi arrivarono all’orecchio «Ha distrutto la nostra casa, ha distrutto il 12, ha preso Peeta....... » Le parole le si fermarono in gola, poi urla di dolore riempirono la stanza e tre o forse quattro infermieri entrarono di corsa nella stanza. Pochi minuti e poi il silenzio. Altri sedativi. Mia sorella era stata classificata come una paziente ‘mentalmente instabile’. Non potevo sopportare che le stesse capitando tutto questo. Non bastavano le 2 arene, non bastava un padre morto. Mi sentii mancare e appoggiai la mano a una parete per sorreggermi. «Stai bene? » Mi rivolse la mamma, guardandomi preoccupata. «Voglio solo riposare un po’. » Ci diedero il numero del nostro alloggio, stanza 307. Fu facile trovarla, entrammo. Era una piccola stanza con un bagno e 3 letti, avranno sistemato il terzo per un eventuale ristabilimento di Katniss, il pavimento era pulito e bianco, le pareti tendevano piu’ sul grigio e l’atmosfera era molto standard per tutto l’edificio in sé. Sembrava essere stato costruito secondo dei criteri ben precisi e secondo degli schemi che prevedessero stanze tutte uguali e corridoi identici tra loro. Non potevo definirla casa, ma era l’unica cosa, in quel momento, che si avvicinasse a quel concetto.
Il mio riposo fu breve, mia madre fu chiamata d’urgenza in ospedale, piu’ braccia si potevano utilizzare meglio era. Io avrei voluto dare subito una mano, ma dovevo occuparmi di lui e avrei pensato ai feriti in un secondo momento. Gironzolai per tutte le stanze, entrando in ogni porta presente lungo i corridoi la gente mi aveva presa per una fuggitiva dell’ospedale, ma non mi davano molto peso. Ogni tanto chiedevo a qualcuno se lo avessero visto, ma tutti mi guardavano con aria interrogativa e rispondevano negativamente. Quando vidi Sae, mi sentii un po’ sollevata, lei lo conosceva e avrebbe saputo sicuramente dirmi dov’era. «Sae, sto cercando Isaac, l’hai visto ? » Mi guardò per un attimo, come colta alla sprovvista. Notai nel suo sguardo un pizzico d’angoscia, ma non ne diedi peso, aspettai la risposta e la guardai presa da una fretta isterica. «Oh Primrose, cara, aspetta fammi pensare. » Pochi secondi di esitazione, poi « Ah si! L’ho visto, in mezzo la folla correre verso casa sua, poi l’ho perso di vista. » Una nota di tristezza prese posto alla mia espressione carica di attesa. «Ma l’ho visto anche salire su quell’aggeggio. Era ferito a un braccio, mi sembra. Adesso non ricordo bene, piccola mia, la memoria mi gioca degli scherzi, a volte. Ma sono sicura che l’ho visto venire insieme a noi nel bosco! » La voce si fece tremolante sul ‘sono sicura’, ma nel preciso momento in cui mi disse ‘era ferito a un braccio ’, stavo già per lasciarla e dirigermi all’ospedale. Se era ferito, doveva trovarsi lì, così cercai in ogni stanza, chiesi ai medici, trovai la mamma. «Sae mi ha detto di averlo visto ferito, devi cercarlo, ho bisogno di sapere che sta bene. Dice di averlo visto salire, sull’hovercraft. Deve essere qui!. » Mi guardò per un attimo, quasi non mi avesse riconosciuta. Annuì, ma tornò di fretta al lavoro.
Mi sentivo intontita, dovevo fidarmi delle parole di Sae ? Non sapevo cosa fare. Non sapevo a chi rivolgermi, Katniss era instabile, la mamma piena di lavoro e Ranuncolo... Oh, Ranuncolo. Non ero riuscita a salvare nemmeno lui. Mi sentivo così inutile. Avrei dovuto occupare il tempo in qualche modo, nell’attesa di avere notizie di Isaac da mia madre. Di tornare in camera non ne avevo minimamente idea, era così opprimente, così decisi di tornare all’ospedale, invece che vagare per quell’interminabile labirinto. Mi misi a lavoro, seguendo le direttive di alcune infermiere, contribuii consegnando garze, occupandomi di iniettare la morfamina a chi non sopportava il dolore di una ferita o di una cucitura, spostando le barelle, dirigendole nelle stanze a loro assegnate, tranquillizzando alcune vecchie signore ancora sconvolte per il bombardamento, insomma lavoretti semplici per una ragazzina come me, alle prime armi. Loro non sapevano che al 12 avevo visto ogni tipo di ferita, ogni tipo di squarcio nel corpo degli uomini che lavoravano in miniera e che ogni tanto si ritrovavano una scheggia di qualcosa nel petto. Ma io annuivo e prestavo il mio aiuto, senza controbattere.
Le ore passarono molto piu’ veloci avendo qualcosa da fare, mi sentii utile, ma avevo ancora l’agonia nel petto. Di Isaac ancora nessuna notizia. Mia madre non si trovava nel mio reparto, evidentemente si stava occupando di feriti piu’ gravi. Restò il fatto che a fine giornata crollai a letto e dormii per almeno 8 ore di fila.
Il giorno dopo mi sentii rinvigorita. Piu’ forte per affrontare la mia vita, soprattutto la mia vita nel reparto. La mattinata scorreva piu’ lenta, quando ad un tratto Plutarch chiamò tutti i superstiti del 12 a rapporto. Ci radunarono in una grande sala per spiegarci le regole del distretto 13. Lasciarono passare il primo giorno perché eravamo sconvolti e avevamo bisogno di riprendere fiato. Ma dal secondo giorno in poi dovevamo seguire le regole. Ogni mattina sul braccio ci venivano ‘tatuate’ le attività da svolgere insieme all’orario, ad esempio Ore 7.00 Colazione, venimmo tutti divisi in gruppi per la colazione, poi Ore 7:30 Ospedale. Erano molto rigidi riguardo al seguire le regole. Mia sorella da quando eravamo lì non aveva seguito nemmeno una volta le sue attività, d'altronde era ‘instabile’ quindi le veniva concesso uno strappo alla regola. Inoltre lei doveva essere la Ghiandaia Imitatrice e fin quando non si fosse ristabilita del tutto, non poteva svolgere granché nessuna attività.
Stava nascendo in me la possibilità di non rivederlo piu’, e ogni volta che lo pensavo mi si stringeva il cuore. Non ero nemmeno riuscita a prendere in considerazione che potesse essere morto tra le fiamme, e non ho nemmeno voluto realizzare che fosse la realtà. Mi accorsi anche che Gale mi evitava nei pochi momenti in cui ci incontravamo, così pensai che lui sapesse qualcosa, dato che la guida che ci portò fuori dal distretto fu lui. Il terzo giorno passò per l’ospedale per andare da Katniss. «E’ morto, vero? » Non capiva se stessi parlando con lui, così quando si girò e mi guardò negli occhi, non poté fare a meno che lasciarsi sfuggire uno sguardo limpido e totalmente aperto. Era titubante nel rispondere, poi mi guardò dritto negli occhi, sentendosi minacciato dal mio sguardo accusatorio e disse a bassa voce «Non qui. »
«Ho cercato di raggruppare piu’ gente possibile, ma molti sono morti lì, lo sai! Io.... Io ho provato a tornare indietro, ma.... Lui era lì.... Mi fissava. Un grosso cumulo di detriti lo aveva intrappolato, non era lontano dal prato. Io mi sono ferito, ho provato ad alzare le macerie, ma non c’è stato niente da fare, Prim. Io.... Lui mi ha chiesto di dirti una cosa. » Un dolore lancinante mi stava divorando la testa e il corpo, e il cuore. Sentivo quei detriti invadermi il corpo e pungermi la pelle per rimanere conficcati nella mia carne. «Cosa .... » Non riuscii a terminare la frase, la voce era spezzata dal dolore e non riuscivo a mettere ordine nella mia testa, anche se avessi voluto non sarei riuscita a dire piu’ niente. «Ti amo. » Senza volerlo le gambe mi cedettero, fortunatamente nessuno ci vide o sentì il tonfo delle mie ginocchia contro il pavimento. Gale mi prese all’istante, solo un leggero ronzio mi girava vorticosamente nelle orecchie. Poi una lacrima si staccò dal mio viso per cadere a terra. Faceva piu’ rumore di un sacco di farina scaraventato contro un muro. Quella lacrima bucò le piastrelle perché dentro c’era tutto il mio dolore, c’era la sofferenza di tutte quelle persone bruciate al 12. Prima di svenire del tutto, un lento «Mi dispiace » Accompagnò i miei pensieri a spegnersi in un vortice senza tempo di incubi, in cui l’unico protagonista era Isaac schiacciato sotto dei massi e morente.


AUTRICE:
E questo e l'ottavo capitolo, lettori miei! Spero che non siate rimasti delusi. Ma sto cercando di far filare la storia seguendo quella originale, quindi non mi ammazzate se ho dovuto far morire qualcuno. Credetemi non è stato semplice nemmeno per me. Quando scrivo è come se fossi nella testa di Prim, quindi immaginate. Beh recensite e fatemi sapere come la pensate sul mio modo di scrivere! Grazie a tutti :)

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Capitolo 10
*** Whatever it takes to break you down ***


Mi ci volle qualche minuto per mettere bene a fuoco le garze e l’uomo ferito sulla barella sotto i miei occhi. Scossi un po’ la testa e senza perdere tempo tagliai il tessuto necessario per fasciare quella ferita che si protendeva dal ginocchio fino a sotto l’inguine. Misi il pezzo di garza in bocca, e disinfettai, prima, la parte di carne fresca e scoperta con dell’alcool, di scatto l’espressione afflitta e stanca di quell’individuo si trasformò in sofferenza e senza morfamina in corpo, contrasse il muscolo della gamba facendo cadere delle pinze e qualche tubetto di crema posti sul carrello ai piedi della barella. Cercai di calmarlo, posai il pezzo di garza sul carrello e in modo tranquillo, dissi «Solo un altro po’, ce ne vuole un altro po’ e sarà tutto finito. Non si preoccupi. » I miei tentativi furono vani, stringeva i denti e la mascella spuntava dalla guancia quasi a bucare la pelle per il dolore. «Okay, okay. Come se l’è procurato questo bel taglio eh? » Mi rivolsi in modo pacato e disinvolto, come se stessimo avendo una normale conversazione tra sconosciuti. Accennai un sorriso e nel frattempo le mie mani continuavano a lavorare. «In, in fattoria. Stavo usando la forca per spostare i.... i cumoli di fieno dalla terra e.... e a un certo punto sono inciampato e.... beh lo vedi con i tuoi occhi. » I suoi sforzi nel parlare tenendo un profilo duro e disinteressato verso la ferita furono discretamente utili. Quando l’ultima goccia di alcool si riversò nella ferita, un piccolo gemito si fece largo tra le sue labbra violacee e le mani consumate e leggermente sporche di terra si strinsero alla barella, diventando bianche per la stretta troppo forte. «Adesso respiri profondamente. E’ un ottimo metodo per deconcentrarsi dal dolore. » Una volta ripulita, la ferita doveva essere fasciata. Così presi il pezzo di garza e con delicatezza iniziai a far aderire il tessuto alla pelle, cercando di non procurargli altro dolore. In effetti le mie dita riuscirono a far scivolare la garza sotto la coscia senza doverla muovere troppo e arrotolandola intorno alla gamba, non sentii il minimo suono o vidi nessun tipo di smorfia sul volto di quell’uomo che potesse significare dolore. Ne andai fiera. Appuntai per bene la garza in modo da mantenersi e guardai un ultima volta il tutto per controllare che la ferita fosse stata medicata per bene. Il mio lavoro lì era finito, adesso avrebbe dovuto aspettare il chirurgo che gliel’avrebbe ricucita. Io avrei soltanto dovuto medicarla in modo che non si infettasse. «Ottima fasciatura, Everdeen. Continua per questa strada, diventerai un buon medico. Potremmo inserirti nel corso di medicina » Sentii gli occhi del chirurgo posarsi su di me, con soddisfazione. Risposi con un timido ‘Grazie’, sentendomi sollevata da quella dichiarazione. Poi passai ai malati successivi a cui avrei dovuto iniettare della morfamina o far bere il brodo della zuppa, o nei casi piu’ gravi cambiare la sacca del sangue per la trasfusione. Dopo il bombardamento i casi gravi all’ospedale erano diminuiti, a mia madre capitava di occuparsi delle ferite troppo infettate, di assistere alle amputazioni quando si verificava un’infezione troppo grave o ad interventi minori come operazioni al cuore o la rimozione di detriti dalla gamba di un soldato, proveniente dal Distretto 2, dove erano in corso piccole battaglie tra squadre di 4 o 5 persone, di ribelli e Pacificatori. In quei giorni tutto si svolgeva regolarmente, le uniche attività diverse dal lavoro in ospedale furono dei corsi di orientamento che Plutarch e la Coin, la Presidente del 13, avevano stabilito per noi del 12. Corsi in cui ci venivano spiegate le principali regole di sopravvivenza, di combattimento, i vari tipi di bombe, fucili, armi da fuoco e armi da caccia, come erano costruiti i veicoli e i mezzi di trasporto del 13, come guidare uno di quegli aggeggi, insomma ogni sorta di novità a cui noi non eravamo abituati e che dovevamo conoscere. Durante il resto del tempo, io mi occupavo di prestare soccorso agli altri, di curare ferite altrui invece di fasciare la mia, che sanguinava dal giorno in cui il mio cuore realizzò di averlo perso. Io e Gale non ne parlammo piu’, portavamo quel segreto dentro e pur avendo riavuto la mia Katniss non riuscii a dirle niente. Era il dolore che mi rendeva muta, quasi senza emozioni. Si attenuava solo quando Ranuncolo, recuperato da mia sorella nel 12, riusciva ad entrare nel mio letto dal fondo e arrivare fino alle mie braccia, portandomi quel calore che mi stava scivolando via dalla pelle. Io lo accarezzavo, perdendomi nel suono delle sue fusa e cercando di non far sentire i miei singhiozzi alla mamma. Mi stavo dedicando al mio lavoro, alla mia missione e mi riusciva bene. Ogni mattina alle 7 in punto ero in piedi, pronta a prestare servizio. Le mie azioni si svolgevano quasi meccanicamente, come se il mio cervello fosse stato sostituito da un computer che procedeva secondo dei passi ben precisi, e ben stampati nella mia mente. Le mie mani non si stancavano quasi mai, anche perché mi occupavo di lavori minori, ma pur sempre impegnativi. In piu’ il corso di medicina arricchiva le mie conoscenze, mi regalava un ennesimo scopo per continuare a vivere e occupava le mie giornate. Gli insegnanti erano anche abbastanza rigidi. Al 13 bisognava fare le cose con cura e dedizione, fu per quello che il sistema aveva funzionato fino a quel momento e stava mandando avanti tutta la città sotterranea. Concentrazione e dedizione, erano queste le regole che impartivo al mio cervello durante le ore di lavoro, che ormai era diventato la mia vita. Riuscivo a staccarmi dall’ospedale solo nelle ore di colazione, pranzo e cena. Avevo fatto sì che il mio corpo si abituasse a certi ritmi, ed era quello di cui avevo bisogno per non cadere a pezzi, come mi successe quando Gale mi riferì le parole di Isaac. Ti amo. Sono le parole piu’ adatte da dire in punto di morte, sono ad effetto, creano quel senso di abbandono alla vita, di rassegnazione. Si, Prim sono proprio le piu’ adatte. Una punta di amara ironia si insinuò tra i miei pensieri. Sapevo che lui avrebbe voluto dirmele in un’altra situazione, magari guardandomi negli occhi, stringendomi le mani, sussurrandomi la frase all’orecchio. E anch’io avrei voluto che le cose andassero diversamente. Di colpo mi sentii vulnerabile, colpita dal ricordo dei suoi occhi persi nei miei, dei suoi disegni, del cimitero, della sua voce, e quella specie di corazza di piume che mi ero costruita dentro venne spazzata via con violenza dalla realtà, come una doccia fredda o la pioggia inaspettata, mi fece ricadere in uno stato di apatia assoluta. Una punta metallica ferì la mia mano, creando un solco nella pelle, poi come se non avessi piu’ il controllo sul mio corpo mi diressi, seguendo lo schema creatosi nella mia testa, in uno dei corridoi piu’ desolati e abbandonati del mio piano per trovare quel silenzio che la mia mente non conosceva  piu’. Sentivo il palmo della mano destra pulsare e i miei occhi, confusi dalle ombre che creava la luce fioca delle lampade al neon, osservavano le gocce sgorgare dalla ferita e formare piccole chiazze, che segnavano il mio passaggio lungo il pavimento. La mia mente era offuscata dal dolore provocato dalla voragine che avevo nel petto, una volta occupata dal mio cuore. La mia camminata si era fatta irregolare, zigzagavo, posando male i piedi a terra e facendo ondeggiare la testa da un lato all’altro, fin quando il piede sinistro non aveva ostacolato il destro, procurandomi un nuovo dolore alla guancia destra, in seguito alla caduta. Mi trascinai fino alla parete grigia e spenta, come la mia anima che rastrellata da coltelli appuntiti, si era ridotta a brandelli insignificanti. Mi premetti le ginocchia ancora indolenzite sulle guance e respirai il profumo della mia pelle che spuntava dalla gonna. La fragranza non era piu’ fresca come le primule, di cui portavo il nome, ma tendeva verso l’odore secco e soffocante della cenere. La cenere del 12, sotto il quale giacevano tutti quelli che avessi mai conosciuto nella mia vita e Isaac, l’unico ragazzo che non avrei mai smesso di amare. Adesso la mia testa premeva sulle ginocchia, la gonna si era ormai inzuppata di sangue che continuava a scorrere dalla ferita, incurante dello scorrere dei miei pensieri e dello stato in cui mi trovavo. Adesso la sensazione che provavo non era dovuta alla perdita che portavo nel cuore, ma alla perdita del mio sangue, fin troppo sangue. Pensai di fasciarla, così con la bocca strappai la manica della camicetta che indossavo e tentai di premerla con le dita sulla mano. Ma mi mancavo le forze e nemmeno strizzando gli occhi riuscivo a distinguere i lineamenti delle cose che si trovavano intorno a me. Le mura si mescolarono al pavimento e la lontana luce delle lampade cominciava a spegnersi e scolorirsi. Le palpebre sbattevano freneticamente cercando di rimanere vigili e costantemente aperte, ma il buio era dietro l’angolo e sentivo come se nelle vene non ci fosse piu’ sangue a sufficienza. «Prim! Prim! Svegliati! Che ci fai qui ? Ehi ragazzina! » «Oh la mia piccola e cara Prim, cosa ti è successo? Perché è in quello stato ? » Due o forse tre voci si accavallarono tra loro e rimbalzarono sulle pareti arrivando direttamente al mio sistema nervoso e facendomi contrarre i muscoli in un rapido movimento. Non riuscii a sentire piu’ niente, le mie orecchie coglievano solo rumori che si facevano sempre piu’ distanti e le palpebre avevano ormai ceduto il posto all’oscurità. La mia schiena non resse piu’ la gravità e scivolò lungo la parete, per toccare il fresco pavimento scivoloso, e farmi cadere definitivamente in pezzi.  
Haymitch Abernathy era chino su di me, la sua faccia, vicinissima alla mia, fu la prima cosa che misi a fuoco svegliandomi. Il suo alito si riversava su di me e invadeva le mie narici con insistenza. Ritirai un po’ il viso per cercare di staccare il suo sguardo dalla mia guancia, forse arrossata per la caduta e per riprendere aria da quella nube di fetore. «Somiglia molto a Katniss, se non fosse per quei capelli biondi. » Sussurrò a Sae la Zozza, che era all’altro capo del letto. Fortunatamente non mi trovavo in ospedale, avevano avuto la buona idea di portarmi in camera, ed era davvero una fortuna. Nessuno avrebbe dovuto sapere del mio crollo, bastava una sola persona mentalmente instabile nella famiglia, nessuno aveva bisogno di un nuovo peso a cui dar conto. «Come sta la tua mano? » Un fazzoletto di stoffa legato alla mano e chiuso da un grande fiocco mi copriva la ferita, evidentemente già pulita e disinfettata. Sae sapeva come trattare le ferite, pur essendo poco esperta nel campo. Così non mi curai molto di controllarla. In realtà pensavo piu’ ad un modo per far tenere il becco chiuso a quei due, così con la gola secca e asciutta, cercai di spezzare il silenzio «Mia madre non deve saperlo. » Rimasi colpita  dalla voce sottile e quasi senza suono che produsse la mia bocca, non mi apparteneva, ma evidentemente avevo perso molto sangue e questo aveva scombussolato tutto il mio organismo. «Come vuoi, dolcezza. » Pronunciò in un sorriso Haymitch. Non capii il perché di quell’appellativo. Poi ricordai che era il nome con cui chiamava mia sorella e questo la irritava terribilmente. «Va bene, cara. Ma cosa ti prende ? » Il senso di colpa trasparì negli occhi di Sae, pareva come se tenendo per sé l’accaduto e non facendone parola volesse riparare a qualche errore commesso con me in precedenza. «Non è mai salito su quell’hovercraft, vero? » Guardai quella vecchia signora con sguardo accusatorio. I suoi occhi puntati al suolo e il suo viso in un’espressione addolorata. «Cercavo solo di proteggerti.» E dopo aver pronunciato quelle poche parole, camminò fino alla porta, con il capo chino e la colpevolezza negli occhi e sparì dalla mia vista.
Non ero arrabbiata con lei, ma mi sentii tradita. Pensava davvero che in un modo o nell’altro non sarei venuta a conoscenza della sua morte ? Mi misi a sedere, ancora un po’ debole nelle braccia e dolorante. Haymitch aveva lasciato la stanza pochi minuti dopo Sae la Zozza e intorno a me non sentivo altro che il solito ronzio proveniente dalle pareti del 13 e il leggero miagolio di Ranuncolo. Si stava forse chiedendo cosa ci facessi lì. Mi fissava dal pavimento, seduto e irto sulle due zampe anteriori, le orecchie aguzze puntate verso di me, in attesa di qualche suono o un semplice rumore che lo avvertisse di qualcosa. «Non ne usciremo vivi. L’unica persona che riesce a farmi sperare in un futuro è mia sorella. Deve vincere questa battaglia. » Parlavo a Ranuncolo come se potesse rispondere, ma restava semplicemente lì immobile, leggermente scosso dal suono della mia voce. Ormai non riuscivo nemmeno a piangere, avevo espulso anche la piu’ piccola goccia d’acqua che il mio corpo potesse contenere. Erano passati giorni dal bombardamento, erano passati anche anni dalla morte di mio padre, eppure il senso di solitudine che provavo era costante e immutabile negli anni, come se un coltello affilato si fosse incastrato tra le costole e il dolore fosse persistente, sempre concentrato in quel punto. La morte di Isaac aveva solo fatto si che una mano girasse con forza il coltello nella carne per procurarmi altro dolore. Ma avrei dovuto riuscire a toglierlo di lì, a leccarmi le ferite e fasciarle e lasciare che la garza si impregnasse di sangue per poi cambiarla e così fino a quando non si fosse rimarginata del tutto, rimanendo violacea sotto la pelle e sempre presente, per ricordarmi le loro morti.
A quanto pareva Katniss si era ristabilita, le diedero accesso alla nostra stanza e ormai eravamo tornate a formare la nostra piccola famiglia. Se pure i medici le avevano ‘regalato’ un braccialetto con su scritto ‘mentalmente instabile’, io sapevo che quella era mia sorella e dormire di notte mi veniva piu’ semplice, sapendola con noi. Non potevo dire la stessa cosa per lei, molte notti la trovavo sveglia e seduta sul materasso, posizionato a terra a causa dei suoi incubi, con la perla di Peeta tra le mani e tremante dal freddo. Una di quelle notte le parlai e cercai di dirle le uniche parole che trovai adatte alla situazione, sembrava che la calmasse parlare con me, e mi sentii ulteriormente utile per la causa. Doveva ricoprire il ruolo di Ghiandaia Imitatrice e non era cosa da poco, se non si fosse sbarazzata di quello stupido titolo da malata che le avevano affibbiato, non sarebbe potuta servire a salvare Peeta e tutti i Distretti. Pochi giorni dopo il suo ritorno, Snow mandò in onda sulle televisioni di tutta Panem una ripresa di Peeta allo show di Caesar Flickerman in cui chiedeva un cessate il fuoco. Questo mandò fuori di testa Katniss che rimase fuori dal mondo e lontana da tutti in un qualche posto sconosciuto del 13 per un giorno intero, contemplando ciò che aveva visto, cioè un Peeta vivo, ma manovrato dai fili di Capitol City. Non fu l’unica ripresa mandata in onda, una settimana dopo, Peeta ricomparve sugli schermi del Comando, sciupato e dimagrito, accanto a Snow che come di consueto, vestito in bianco, parlava ai ribelli cercando di porre Katniss in cattiva luce e evidenziando i rischi di un’eventuale guerra. Alla fine del discorso, Peeta, con la voce tremante e spezzata, pronunciò strane parole, rivolgendosi a Katniss «Katniss... come credi che finirà? Che cosa rimarrà? Nessuno è al sicuro. Non a Capitol City. Non nei distretti. E tu... nel 13...... sarai morta prima che faccia mattina. » Fu picchiato a sangue, per quelle poche parole che riuscì a dire  nella confusione che aveva in testa e che gli aveva procurato Snow. «Sembrava si sforzasse di dire quelle parole, come se lottasse per farle uscire. » Mi disse Katniss durante una breve conversazione. Solo lei fu in grado di decifrare ciò che disse Peeta. Ci stava avvertendo, un attacco imminente sarebbe avvenuto durante la notte. Capitol City avrebbe bombardato il Distretto 13.
La Coin era leggermente scettica riguardo tutta la faccenda, ma non le costò niente mettere in pratica una delle esercitazioni a cui erano preparati tutti al 13. Così in seguito al suono delle sirene che invase ogni angolo della struttura, tutti iniziarono a riversarsi nei corridoi, in fila e seguendo le regole ripassate negli anni precedenti. Erano tutti molto tranquilli, nessuno dava segni di panico e questo era un bene, evitavano di creare confusione. Così io e la mamma iniziammo a scortare ogni paziente lungo i corridoi fino verso gli ascensori che portavano ai sotterranei. Le infermiere si occupavano delle barelle, e una volta svuotato completamente fino all’ultimo letto, ci dirigemmo al nostro alloggio per racimolare i nostri pochi averi. Facemmo in fretta, i corridoi si erano quasi già svuotati tutti, poi a un tratto i miei muscoli si bloccarono di scatto e un brivido gelido mi irrigidì la schiena. Ranuncolo. Girai i tacchi e presi a correre verso la stanza 307. La porta si aprì e lui era lì, sotto il mio letto, impaurito e scosso dalla mia assenza. Lo accarezzai per qualche secondo, cercando di tranquillizzarlo, poi una voce distante pochi centimetri da me, mi risuonò nelle orecchie «Prim! Che ci fai qui? Dobbiamo andare via! » Gale ispezionò la stanza un’ultima volta e acciuffò, in fretta, il giaccone da caccia di Katniss e qualche altro oggetto che non riuscii a intravedere bene. Poi mi prese per un braccio e mi incitò a correre. Ranuncolo si era nascosto nel mio colletto e nella corsa i suoi miagolii si fecero piu’ persistenti. Metri e metri di quell’edificio ci stavano inghiottendo e il metallo che ci circondava sembrava premere sulle pareti dell’ascensore per schiacciare me e Gale. Un lungo corridoio si presentò dinanzi a noi una volta usciti da quel box soffocante. Corremmo piu’ veloce che potemmo, girammo l’angolo, delle scale alte più o meno 2 metri dividevano me e mia sorella che adesso riuscivo a sentire. «Prim! Prim! » Sentì il mio nome urlato sbattere contro le mura e arrivare fino a me. «Stiamo arrivando! » Gridai. Una lastra di metallo stava scivolando sopra la testa di mia sorella ritirandosi nella sua fessura in alto. «Non chiudete la porta! » Gale aveva l’affanno, ma arrivammo in tempo. La porta era divisa dal suolo da 2 metri di spazio, in cui Katniss si era intrufolata per non farla chiudere del tutto. Io e Gale riuscimmo a passare, una volta in piedi Katniss mi strattonò «Cosa credevi di fare? » Nella sua voce sentii tutta la paura che aveva di perdermi, era sconvolta. Poi mi abbracciò e iniziò ad imprecare contro Ranuncolo, io lo difesi, ma sapevo che infondo era contenta di averlo con noi. Ci sistemammo nel nostro alloggio, Katniss aveva già ritirato gli zaini con tutto l’occorrente. La stanza poteva essere grande quando la nostra casa al Giacimento, un letto a castello era incastrato nella pietra e una piccola branda era sistemata vicino alla parete. Non ero sicura se i letti avessero retto al bombardamento, infatti li guardai un po’ inquieta. A un tratto la prima bomba venne sganciata sul suolo del 13 e le pareti tremarono leggermente. Sapevo che eravamo al sicuro qui, ma strinsi Ranuncolo a me e fissai mia sorella e mia madre per controllare se fossero ferite. Dei granelli di polvere scivolarono lungo una parete, ma erano così insignificanti che li notai solo io. Quella bomba ci fece piombare nell’oscurità, a sostituire le luci al neon, le luci di emergenza emanarono una luce bassa, che mi procurava un leggero fastidio alla vista. Una mano afferrò la mia gamba e mi attirò a sé. Katniss aveva bisogno di sentire il calore della mia pelle e io mi strinsi a lei, cercando di respirare il suo profumo che ogni volta mi regalava quel senso di speranza che stavo perdendo. Ranuncolo si dimenò tra le mie braccia a causa di quel brusco movimento ma io sussurrandogli qualche parola all’orecchio, tentai di calmarlo «E’ tutto a posto, piccolino, è tutto a posto. Staremo bene, quaggiù. » Nostra madre tese le braccia verso di noi e ci cullò in un leggero abbraccio carico di rassicurazione. Mi sentii bene in quel momento. L’atmosfera emanava silenzio, in seguito a leggere voci che si erano levate a causa della bomba. Adesso i suoni arrivavano con qualche minuto di ritardo al mio orecchio, che per la profondità, mi faceva sentire intontita e senza un buon udito. «E’ stato ben diverso dalle bombe nel Distretto 8. » Giusto, mia sorella aveva assistito alla morte di centinaia di persone nell’8 e aveva girato quel pass-pro di cui Plutarch andava così fiero. Mi ricordai dei corsi così le risposi. «Probabilmente un missile antirifugio. » L’aria fresca di quel posto mi si insinuò nelle ossa. «Li abbiamo studiati nei corsi di orientamento per i nuovi cittadini. Sono progettati per penetrare in profondità nel suolo prima di esplodere, dato che non ha piu’ senso bombardare il 13 in superficie. » Katniss fu attraversata da uno strana sensazione. «Sono nucleari ? » Mi chiese. «Non necessariamente. Alcuni hanno semplicemente un sacco di esplosivo dentro. Ma.. questo potrebbe essere dell’uno come dell’altro tipo, immagino. » Sentii lo sguardo di Katniss posarsi sulle pareti e sulla porta blindata, come a cercare di scorgere qualche falla nel sistema della costruzione di questo posto. Una breve pausa si fece largo tra le nostre parole, per poi essere spezzata dalla voce della mamma. «Ci troviamo molto in profondità. Sono certa che siamo al sicuro. » Una punta di tristezza penetrò nei suoi pensieri. «Però c’è mancato poco. Grazie al cielo, Peeta aveva i mezzi per avvertirci. » Per fortuna Peeta era riuscito a combattere le barriere di Capitol City, a combattere contro qualunque cosa gli avesse fatto Snow, riuscendo, coraggiosamente, ad avvisarci. In compenso era stato picchiato e il suo sangue schizzato a terra, aveva scosso Katniss, facendola piombare di nuovo nei suoi incubi, che le procuravano profonde occhiaie e notti insonne. In seguito a un nuovo discorso della Coin in cui riteneva salda e affidabile la dichiarazione di Peeta, la mamma fu chiamata al pronto soccorso, un po’ titubante ci lasciò e Katniss si rivolse a me, cercando di farmi addormentare. «Perché tu e Ranuncolo non vi mettete a letto, Prim? » Non volevo che lo sapesse, però confessai. «So che è sciocco, ma.... ho paura che il letto a castello possa crollarci addosso durante l’attacco. » Katniss rimase a pensarci su per un po’, poi svuotò l’armadio dalle poche cose che conteneva e vi sistemò all’interno il materasso e il cuscino, creando un vero e proprio letto, su cui ci abbandonammo una volta completato lo spostamento. Katniss si accoccolò vicino a me e pose qualche coperta in piu’ sui nostri corpi, a causa del freddo che emanava la stanza. Una lunga pausa dalle parole si protese tra di noi, poi sentii Katniss muoversi leggermente e prendere fiato. «Allora , ti piace il 13, Prim ? » Questo era il primo vero istante in cui io e mia sorella avevamo del tempo da passare insieme per poter parlare un po’ e fare il punto della situazione. «Adesso ? » Risposi ironicamente. Ridemmo, poi ripresi a parlare. «A volte mi manca molto casa nostra. Ma poi mi ricordo che non è rimasto piu’ niente di cui sentire la mancanza. Qui mi sento piu’ al sicuro. Non dobbiamo preoccuparci per te. Bè, non allo stesso modo.  » Ragionai sulle parole che avevo appena detto, avevo ragione non c’era niente di cui sentire la mancanza. Snow aveva ucciso ogni cosa e persona a cui tenessi. Isaac era un ricordo, un bel ricordo, un triste e doloroso ricordo. Ricordai a me stessa che Katniss non avrebbe dovuto saperlo. Così mi sforzai di sorriderle timidamente. E la mia mente mi diede qualcosa di cui parlare, che non riguardasse Isaac. «Credo che abbiamo intenzione di prepararmi perché diventi un medico. » Stupore e soddisfazione attraversarono il viso di mia sorella. « Bè, certo che ne hanno intenzione. Sarebbero sciocchi a non farlo. » Le sue parole erano sempre un benedizione per me. Riuscivano a colmare il vuoto. «Mi hanno osservato quando do una mano in ospedale. Sto già seguendo i corsi di medicina. Sono solo cose da principianti. Ne so parecchie, con quello che facevo a casa. Ma ho molto da imparare. » Le spiego. «E’ fantastico. » Risponde lei. Vidi la speranza dar fuoco ai suoi occhi. Mi stava immaginando medico. E in realtà lo feci anch’io. Non era male come progetto in futuro. Ma lei ? Cos’avrebbe fatto in futuro? «E tu , Katniss ? Come te la cavi? » Con le dita spostai dei ciuffi di peli tra gli occhi di Ranuncolo. «E non dire che stai bene. » Nonostante il suo ristabilimento, sapevo che le notte insonni a pensare a Peeta erano dovute al dolore che ancora persisteva nella sua mente. A me poteva confidare i suoi incubi. I suoi occhi mi dicevano ‘ho paura’. E io sapevo qual’era la sua paura, ma mi ero creata una mia idea, un mio schema. «Katniss, io non credo che il presidente Snow ucciderà Peeta. » Sapevo a cosa stava pensando, quelle erano le solite frasi fatte che i medici dicevano ai pazienti per tranquillizzarli, e invece ciò che le dissi subito dopo fu una vera rivelazione per lei. «Se lo fa, non gli rimarrà piu’ nessuno che interessi a te. Non avrà piu’ niente per farti del male. » Lei sapeva che era così, che il mio ragionamento filava e che ero riuscita a cogliere perfettamente i pensieri di Snow. Qualche minuto di silenzio e poi le labbra di Katniss pronunciarono la domanda che stavo aspettando. «Quindi cosa credi che gli faranno ? » Era semplice, io lo avevo capito. E sapevo di non essere la sola. Così quando i miei occhi raggiunsero le pupille ristrette di Katniss, le parole si riversarono nell’aria da sole. «Qualunque cosa serva a spezzare te. » Se lo stava già chiedendo, ne ero sicura. Cosa? Cosa può spezzarmi? Potevo sentire gli ingranaggi del suo cervello muoversi e lavorare, e ragionare sulla frase che aveva creato quella leggera suspense nell’atmosfera. Quindi, cosa avrebbe spezzato Katniss ? Pensai che dovesse essere fortunata lei, si stava chiedendo cosa potesse spezzarla. E io invece sapevo bene cosa mi aveva già spezzata. Cosa mi aveva dato tutta quella saggezza, da sovrastare gli anni di mia sorella e regalarle l’illuminazione sui pensieri di Snow. La morte di Isaac, la sua morte mi aveva spezzata. Katniss aveva subito altre perdite, ma cosa, in realtà, sarebbe riuscito davvero a fare il Presidente per spezzarla un ‘ultima dannata volta ?

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Capitolo 11
*** Desolation comes upon the sky. ***


AUTRICE: Vi consiglio di leggere il capitolo con la canzone I see fire di Ed Sheeran in sottofondo, io l’ho scritto sentendo questa canzone e bhe crea la giusta atmosfera. Provateci :) Buona lettura.



Nel tepore della stanza dovuto ai nostri corpi caldi, la tenue luce sotterranea aleggiava sulle nostre teste. Non distinguevo bene le linee frastagliate dei letti incastrati nella roccia, ma il viso di mia sorella si delineava perfettamente nei miei occhi e nella mia testa, mi ero impressa nel cervello ogni centimetro del suo viso, mi serviva per ricordare che il fuoco poteva ancora bruciare nell’oscurità; una leggera brezza fece rabbrividire la mia schiena, il fresco venticello che si insinuò tra le pareti fu prodotto dal lento scorrere della porta, sulla soglia prese forma il corpo di mia madre, appena tornata da un’ennesima giornata al Pronto Soccorso. Avrei voluto aiutarla, ma non permettevano alle persone non autorizzate di uscire dalle stanze ed arrivare in certi posti, e io ero tra quelle persone. La noia si impadroniva spesso di noi, dormire a tratti era diventato il mio hobby, a volte mi capitava di parlare con mia sorella, discutendo di cose completamente inutili, come dell’ospedale, di Capitol City e del 12, tentai di spiegarle come utilizzare certi apparecchi medici, come aspirare la morfamina o altri liquidi nelle siringhe e iniettarli nei corpi doloranti, come venivano costruite certe bombe e fucili, e lei mi parlò di tutto ciò che potesse riguardare l’arco e la caccia. Scoprimmo che Ranuncolo ci tornò molto utile nelle ore di totale assenza di chiacchiere. Katniss inventò un gioco e gli diede persino un nome, il Gatto Matto. Ogni sera tutte le persone presenti nel nostro corridoio si accumulavano a gruppi di fronte la porta della nostra stanza e assistevano al simpatico spettacolo messo in scena da Katniss e Ranuncolo. Lei con un torcia spostava velocemente la luce riflessa sulle pareti e sul pavimento in modo da farla seguire selvaggiamente a quel povero gattino. Lui in preda a dei raptus di follia si dimenava di qua e di la per poter acciuffare quel raggio di luce così fastidioso. Scatti felini,lo scambio di sguardi divertiti, il suono di pacate risate riempivano le nostre serate e facevano trascorrere i giorni sottoterra piu’ velocemente. Ci fu regalata persino una scorta di pile, dando un vero e proprio schiaffo allo spreco, che era una delle tante cose non ammesse al 13. Ma d'altronde in quelle circostanze non c’era molto che potevamo fare se non agire con il cervello ed escogitare dei modi per non impazzire per la noia. Erano già passati quasi 3 giorni dalla caduta degli ultimi quattro missili antirifugio, che fecero, come previsto, il solletico al nostro rifugio sotterraneo e interamente blindato. Molto spesso durante la notte trovavo il materasso accanto a me vuoto, segno che Katniss non era riuscita a dormire per l’ennesima volta e andava gironzolando per i corridoi in cerca di qualcosa, qualunque cosa la potesse distrarre dagli incubi. E in quei momenti mi trovavo a pensare ad Isaac, ad ogni sua parola. A come quando mi spiegò del sole, del perché del suo colore, mi prese una strana voglia di rivederlo, il sole. Ma per il momento mi era un po’ difficile. Così mi riaddormentavo nel ricordo del sole cocente sulla mia pelle e nel pensiero di come i suoi baci potessero avere lo stesso effetto di un raggio di luce solare che colpisce in pieno viso. O come i suoi sguardi erano per me aria nei polmoni o acqua fresca nel deserto. Quel posto mi fece perdere la cognizione del tempo e dello spazio, non riuscivo a distinguere la notte dal giorno, se non fosse stato per le luci che al mattino stuzzicavano le mie palpebre, per segnalare l’inizio di una nuova giornata all’insegna della noia. La terza sera in cui mia sorella si prestava a concludere il numero del Gatto Matto, io iniziai a passare una mano sopra le pareti lucenti e scivolose, la mia pelle a quel contatto perse il senso del tatto; era uno strano materiale, uno che non avevo mai toccato, il blindato non veniva utilizzato nel 12, il legno era la nostra principale fonte di costruzione, infatti la nostra casa era interamente composta da assi di legno. Spinsi forte con la mano, che era scivolata fino all’altra parete, contro il muro roccioso dietro il letto a castello e provai una sicurezza che non mi capitava di sentire spesso. Pensai che quelle mura dovevano essere molto spesse per essere sopravvissute a ben 5 bombe antirifugio, una nota di tristezza mi attraversò la carne. Era di quel materiale che avrei dovuto costruire la mia corazza, per attutire i colpi. Fino a quel momento ogni piccola corazza che mi ero costruita dentro o che mi ero lasciata costruire era ceduta, schiacciata dal peso delle perdite. Ma in realtà il problema non era la mia fragilità, il problema era ripararsi seguendo delle nozioni ben precise. La soluzione era crearsi un sistema per costruire una corazza impenetrabile, come quei sacchi da boxe che venivano colpiti ripetutamente da colpi ben assestati, che poi una volta squarciati dentro contenevano solo sabbia o materiale delicato. E così ero io. Una volta alzato il muro roccioso a proteggere i miei organi vitali, dentro mi sarebbe rimasta soltanto una spiaggia di sabbia fine e delicata, che pur premendo contro il muro non sarebbe riuscita ad uscire, se non grazie a dei colpi ben assestati. Ma io avevo mia sorella, mia madre, il mio lavoro, Ranuncolo che mi creavano una delle corazze piu’ resistenti del mondo. Intrecciavano reti e filo spinato e tendevano le braccia persino, pur di proteggermi dai colpi. Isaac avrebbe fatto scudo con il suo stesso corpo per salvarmi da qualunque pericolo, lo sapevo, l’avevo sempre saputo, dal giorno in cui quei due oceani azzurri incontrarono i miei prati verdi brulicanti di fiori. Adesso quei fiori erano appassiti, come se una valanga di acido corrosivo fosse stato riversato nei miei occhi, corrodendo a grandi passi tutto ciò che incontrava sulla sua strada. Persino il mio cuore si stava sciogliendo a contatto con quell’acido, e forse né Katniss o la mamma o il mio dolce Ranuncolo, sarebbero stati in grado di ricostruirmi l’unico organo che potesse servirmi davvero. Così staccai la mano dal gelido muro e decisi che per quella lunga notte avremmo pure potuto dormire nei nostri letti. Mi sentivo sicura, dopotutto. Mi sentivo a posto così. E Katniss acconsentì.
Anche quella notte mia sorella, cercando di non fare rumore, sgusciò fuori dalla nostra stanza, evidentemente,  in preda a uno dei suoi incubi. Il mio sonno leggero fu interrotto dallo scorrere della porta che produsse un leggero scricchiolio impercettibile, rimasi sveglia e vigile per i successivi 20 minuti, poi Katniss tornò al materasso e prese freneticamente a comporre nodi con un pezzo di corda. Finnick. Pensai. Durante la sua convalescenza mi capitò qualche volta di visitarlo per cercare miglioramenti nel suo stato mentale, nei primi mesi non ci fu molto da fare, continuava a dire parole sconnesse tra loro, frasi, a volte cantando canzoni che parlavano del mare e di una donna dai capelli rossi. Ma in seguito grazie a quei pezzi di corda che gli furono concessi, dopo accurate visite in cui appurammo che non le avrebbe usate per uccidersi, e anche alla vicinanza di Katniss, le sua mani presero a calmarsi, i suoi muscoli si rilassarono e quella canzone si ridusse a leggere melodie canticchiate tra le labbra prima di addormentarsi. Ho sempre trovato quel ragazzo molto particolare. Per quanto bello potesse essere, non c’entrava niente con i classici bellocci presuntuosi. Lui era bravo a nuotare e fare nodi, e ad amare. Una volta, durante i primi mesi in ospedale, mentre sistemavo alcuni flaconi di morfamina su un ripiano nella sua stanza, mi sentii quegli occhi azzurro mare puntati addosso. «Hai mai nuotato? » Mi bisbigliò piano, come se nessuno avrebbe dovuto sentirlo. Mi avvicinai cautamente, cercando di non scatenare qualche strana reazione nella sua testa. «No, mai. » Risposi di rimando. «Oh, mi dispiace sai ? » Si guardò intorno, fissò un punto sulla parete, poi strinse tra le mani le lenzuola annodate già in una decina di nodi, sfonderò un sorriso quasi malizioso e mi rivolse di nuovo la sua attenzione. «Lo slancio dalla spiaggia cocente all’acqua fresca è una delle sensazioni che nella vita non bisogna perdere. Quando ti immergi le orecchie sentono solo il rumore dei vortici sottomarini e gli occhi, punti da piccoli strati di sale, scorgono meravigliati la schiena liscia di un granchio in lontananza, la luce del sole che filtra ondeggiante dall’orizzonte e illumina i fondali dorati. Una sirena dai capelli rossicci ti fa perdere la cognizione del tempo che hai passato lì sotto e il tuo cuore ormai le appartiene. Ma lei nuota via, lontano da te, sfuggente, e provi la stessa sensazione di quando eri bambino e provavi a prendere i pesci con le mani e , fastidiosamente, ti guizzavano via dalle dita nell’aria fresca del mattino e con una punta di amara rassegnazione tornavi a casa a mani vuote. »  In quell’istante la stanza intorno a noi scomparve per un attimo, e mi ritrovai immersa in un mare caldo e accogliente a nuotare insieme a lui, Finnick Odair, che  come uno dei pesci piu’ anziani dei mari, con piccoli slanci ondeggianti, scompariva tra le onde. La sua crisi mi mandò nel panico, il respiro accelerò e vidi soltanto i suoi occhi chiudersi lentamente seguiti da piccoli spasmi muscolari. Poi una decina di infermieri e un medico invasero la stanza, spingendomi lentamente fuori. Rimasi colpita dal modo in cui mi descrisse il mare quella mattina. Sarei riuscita perfino a sentire la sabbia a contatto con la pelle se avesse continuato con il suo racconto. Il suo amore era il mare, ma qualcosa mi diceva che quella sirena dai capelli rossi non si trovava lì per caso. E la causa dei suoi attacchi di panico e della sua instabilità erano dovuti a lei, alla sua lontananza, al suo nuotare lontano dalle sue braccia, sfuggire al suo sguardo e perdersi nell’oscurità delle acque marine.
Ritornai poi a dieci mila piedi sotto terra e le lampade al neon rinfrescarono il poco sonno della notte precedente, illuminando la stanza a fasci di luci leggere. Ripensare a Finnick, mi aveva scossa leggermente, ma il suo racconto mi aveva fortificato le ossa e lasciato un appunto mentale, da dover spuntare: nuotare. Dopo che tutto fosse finito,ovviamente.
In seguito alle ventiquattro ore di tregua, la Presidentessa decise che saremmo potuti tornare  in “superficie”, alle nostre case e ai nostri lavori. Dopo aver sistemato e pulito il nostro spazio nella stanza, ci dirigiamo ognuno in direzione della proprio meta già prefissata. Io e la mamma scortammo ogni paziente alla propria stanza e venimmo informate dei danni riportati alla struttura, che erano minimi ma pur sempre presenti. Venimmo inoltre avvisate di un altro crollo mentale di Katniss. Avrebbero dovuto girare un altro pass-pro per far sapere a Snow e alla capitale che la Ghiandaia Imitatrice era viva, così come il Distretto 13, ma da quello che ci raccontarono Katniss non era riuscita a finire la sua frase e aveva iniziato ad urlare e dimenarsi. Un altro sedativo e di nuovo in ospedale. Tutto questo non aveva senso, la sua forza e la sua determinazione sembravano venir spazzate via con così tanta facilità, e io questo non potevo sopportarlo. A quanto pare nemmeno Plutarch e la Coin, perché lo stesso pomeriggio una squadra composta da 6 militari esperti e Gale fu spedita a Capitol City per andarsi a riprendere i prigionieri, tra cui Peeta. Mi venne subito in mente che anche Annie Cresta, la tanto desiderata e amata sirena di Finnick, era tra i prigionieri e mi sentii sollevata pensando che c’era anche una remota possibilità che quei due avrebbe potuto rivedersi. Vivevo delle speranze altrui, impossessandomi di storie che non mi appartenevano, ma mi faceva bene. Pensare al futuro di Katniss e Peeta o di Finnick ed Annie. Mi faceva sperare che almeno qualcuno di tutti questi individui spezzati potesse essere felice con qualcuno. Per me, beh, non c’era piu’ molta speranza. La mia speranza era morta con lui, eppure il suo ricordo ,ogni tanto, mi faceva riaccendere la fiammella che aveva creato Katniss dentro di me, espandendola lungo le vene del mio corpo. Ma poi il bruciore mi corrodeva semplicemente l’anima e doveva farla smettere di ardere in me, perché in quei momenti il suo ricordo mi stava solo uccidendo.
E mentre quei pensieri mi si scrivevano ,incuranti delle mie azioni, nel cervello, il mio lavoro era ripreso. Così come i corsi di medicina. Staccai di lavorare alle Ore 02:30 , seguito da un altro tatuaggio che diceva Ore 03:00 Corsi di Medicina. Quella mezz’ora di tempo ci era concessa per darci una ripulita dalle stanchezze della mattinata ed essere pronti e vigili per i corsi. Mi diressi nella stanza 307, la nostra casa. Feci una doccia veloce giusto per pulire le mani e il collo dal sangue incrostato spruzzatomi addosso da una ferita al torace di una ragazzina all’ospedale. La condensa si propagò per tutta la stanzetta del bagno e i capelli bagnati che spuntavano dall’ asciugamano sulla nuca mi si erano appiccicati alla pelle. Mi avvolsi in un accappatoio e presi a pettinare i capelli umidi. Vicino al lavandino si trovava una cavità, scavata nelle mura, ben levigata tutt’intorno e chiusa da una specie di rete sottile, da cui grazie ad uno dei pulsanti presenti sul mobiletto affisso alla parete fuoriusciva aria calda. Il getto fu così forte che sentii i capelli ricadermi sulle spalle asciutti e morbidi come una cascata in piena estate. Infilai una gonna di tessuto azzurro chiaro a pieghe, morbida sui fianchi, e feci aderire sul busto una camicetta bianca a quadretti verde mare. L’abbottonai fino al’ultimo bottone e infilai la camicetta nella gonna, poi con un piccolo sorriso tra le labbra, tirai dentro un pezzetto di camicia che mi spuntava dietro la schiena e ripensai alle parole di mia sorella. Sistemai i capelli nelle due solite tracce che mi ricaddero, come di consueto, sulle spalle. Infilai, infine, le mie scarpette nere consumate sui bordi, e ricordai a come guardandole la mattina della Mietitura fui fiera delle piccole crepe che si increspavano sui lati delle scarpe, pensando a quanto fossero vissute e che nel 12 vivere era una grande conquista. Mi diedi un leggero colpetto sulla testa, anche quel pensiero mi aveva portata a pensare ad Isaac. E sarebbe dovuto stare lontano dalla mia testa. Lanciai un ultimo sguardo alla stanza per vedere se si trovava tutto in ordine e mi diressi verso il corridoio che portava alla sala del corso.
«Ben trovati, ragazzi! Oggi vorrei proporvi qualcosa di nuovo. Come ben sapete Capitol City ci ha attaccati meno di 5 giorni fa con delle bombe ... » Octavius Palmer. Il nostro professore di difesa e sopravvivenza, bruno, altezza media, fisico asciutto, sguardo profondo e dall’aspetto severo, indicò un mio compagno. « Antirifugio, professore!. » La sua voce gli fece eco, approvando. «Antirifugio, ottimo. Ma, come tutti sappiamo, non sono riusciti a distruggere le nostre mura blindate. Così ho pensato: nel caso in cui fossimo stati attaccati senza alcun preavviso, come si sarebbero comportati i miei alunni? » Una breve pausa intercorse tra noi e la sua voce. Poi riprese. «E bene, oggi faremo delle prove pratiche in cui è previsto che qualcuno interpreti il ferito sotto le macerie e un'altra persona cerchi di aiutarlo ad uscire, mettendo in conto ogni ferita e controllando che ci sia ancora speranza per il mal capitato. Tutto chiaro? » Nell’aula rimbombò un netto SI. Ma io mi ritrovai paralizzata, catturata da un ricordo. Inchiodata ad una parete, senza respiro. «Non ho sentito il suo si, signorina Everdeen. Si sente bene ? » Una mano fredda mi riportò alla realtà, il professore adesso si trovava di fianco a me e avevo almeno 100 occhi puntati addosso. «Si, sto bene, signor Palmer. » La mia voce arrivò appena all’orecchio del professore, gli altri non avevano nemmeno colto il muoversi delle mie labbra, evidentemente, perché si girarono indifferenti e proseguimmo con la lezione. La prova consisteva nel leggere su due fogli le mosse iniziali da svolgere, per poi proseguire da soli, tutto entro un tempo determinato. 1 minuto esatto. Il ferito avrebbe solo dovuto far finta di soffrire e mettere leggermente in difficoltà l’altro, che avrebbe dovuto vedersela da solo. I primi ad iniziare furono Flavius e Amanda, due ragazzini del 13 dai capelli rossicci e occhi verdi. I loro visi erano puntellati da lentiggini rossastre e le loro espressioni sembravano quasi spaventate. Si somigliavano molto, forse erano cugini, ma sotto quella loro maschera da bambocci si nascondeva ben altro. Superarono la prova egregiamente, Flavius, ricoperto da pennellate di rosso inscenò il ragazzo ferito, mentre Amanda tentò di sollevare i massi , finti , fingendo di non riuscire a spostarli. Così strappò un pezzo della suo camice con i denti e lo fissò alla spalla di Flavius, sul campo erano stati sparsi qualche garza, un solo flacone di tintura rossa, uno di morfamina e uno di quella crema che usò Katniss durante la prima arena per curare la sua bruciatura. Erano stati messi lì per confonderci, qualcuno tentò di suggerire la morfamina, ma ovviamente Amanda corse verso la crema, servendosene per far rimarginare le ferite di Flavius in attesa di un ‘hovercraft’ che li avrebbe messi in salvo. Furono inserite anche delle registrazioni di urla strazianti e il suono dei vari bombardamenti, giusto per rendere il tutto piu’ reale. Io rimasi a sedere, mentre tutti gli altri si avvicinarono per guardare meglio.
« Primrose Everdeen e Adelaide Morris. Venite su» Una ragazza alta e snella, si alzò dalla sua sedia a pochi metri da me e si diresse decisa alla sua postazione. I suoi capelli scuri le incorniciavano il viso che trasudava competitività. Il suo sguardo era aggressivo mentre puntava i miei occhi e sulle sua labbra spuntava un sorriso beffardo. «Primrose! » La voce del professore sembrava spazientita, così mi diressi, un po’ tremante verso il foglio che aspettava soltanto di essere letto. Raccolsi con le dita il foglio dal ripiano e iniziai a leggere:
  • Sembrare confusa\o;
  • Correre verso il ferito;
  • Controllare che i massi possano essere rimossi;
  • Cercare di rimuoverli (senza risultato);
  • Assicurarsi che il ferito sia vivo o morto ( o morente, ancora cosciente, semi-cosciente);
  • Analizzare le varie possibilità di spostamento del corpo;
  • Controllare se ciò che si ha sul campo possa essere utile;
  • Agire, fino all’arrivo dell’hovercraft.
Una volta che Adelaide si posizionò sotto le macerie grondante di sangue, iniziò subito la prova. Mi precipitai verso il corpo, le regole da seguire scorrevano sotto i miei occhi. Respira, Prim. Mi dissi. Scrutai ogni dettaglio, poi chiusi gli occhi e delle immagini presero forma nella mia mente. Ferita al braccio, alla tempia e al torace. Grosso masso sul ventre e sulle gambe. La prima cosa da fare era cercare di sposare le macerie. Cercare di rimuoverli (senza risultato); Mi risuonò in testa, finsi di non riuscire a spostare il masso, così avrei dovuto tamponare le ferite alla meglio. Due rotoli di garze giacevano a terra, Adelaide urlava e si dimenava sotto le macerie. Quelle urla mi si infilarono nella testa e mi fecero perdere l’equilibrio per un attimo. Una smorfia di soddisfazione colorò il suo viso. Saldai la presa su uno dei rotoli e corsi verso il corpo. Strinsi la garza intorno al braccio e tamponai la ferita alla tempia. Nel frattempo il ventre continuava a perdere sangue. Così strappai altra garza e iniziai a premere contro il ventre. «Tieni molto stretto. » Dissi ad Adelaide prendo le sue mani e ponendole sulla ferita al ventre. Lei obbedì stranamente. Una boraccia con dell’acqua, due flaconi di morfamina e uno di crema erano stati posti sul terreno. Il tempo scorreva, i finti bombardamenti mi facevano tremare le ossa, poi ragionai. Mi fiondai sulla borraccia, le garze al ventre avrebbero tenuto almeno per qualche altro minuto. La ferita al braccio era fasciata e quella alla tempia non era grave, ma dovevo evitare le infezioni. Anestetizzai la garza rimasta con l’acqua e ne feci scorrere un po’ sulla ferita piu’ grave, poi continuai a premere. Prima che il tempo scadesse, un paio di mani applaudirono nella sala e una voce pesante si levò nell’aria. «Congratulazioni Everdeen, hai salvato questa ragazza! » Guardai il professore intontita. «Grazie, signor Palmer. » La mia voce perse una nota. «La lezione è conclusa, domani alla stessa ora. Portate il libro di biologia. » Mi precipitai fuori da quell’aula, che era diventata come una trappola per topi, fin troppo opprimente. Corsi attraverso un lungo corridoio, avevo bisogno d’aria. Isaac era morto proprio in quel modo e io sarei riuscita a salvarlo. In quel momento le gambe mi cedettero e sentii come se quella terra sopra la mia testa a momenti potesse crollarmi addosso, spinsi la schiena contro la parete e iniziai a singhiozzare con le mani premute sugli occhi, incurante di ogni cosa intorno a me. La consapevolezza si stava facendo spazio dentro di me, e iniziai a capire che il dolore non sarebbe mai sparito, che ogni cosa mi avrebbe ricordato lui, e la sua morte. E i suoi sospiri e i suoi occhi sbarrati, e le macerie fumanti incastrate nella sua pelle, nel suo ventre, nella sua carne. Sentivo un terreno arido farsi largo dentro il mio cuore e il mio stomaco, a sostituire la spiaggia soleggiata e indifesa. Sentivo la desolazione raggiungere i miei organi, le mie vene, i miei pensieri. Quella stessa desolazione che aveva ormai già raggiunto il cielo.

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Capitolo 12
*** Pieces of you. ***


L’ennesima giornata all’ospedale scorreva lenta, molto piu’ lenta del solito. Le mie crisi si facevano volentieri piu’ frequenti, in ogni paziente rivedevo Isaac, ma soprattutto ogni pupilla che mi si fissava addosso mi faceva perdere nel mare tortuoso di ricordi che avevo di lui. Qualche giramento di testa, profondi sospiri e l’ora trascorreva senza pause. Non avrei mai potuto lasciare che la debolezza mi assalisse nelle ore di lavoro. Concentrazione. Dedizione. Guarire. Ricucire. Erano le parole che pronunciavo a me stessa negli attimi traballanti. Ma quella era una giornata insolita, una morsa allo stomaco si dipanava fino nelle viscere piu’ profonde del mio corpo e mi diceva che qualcosa sarebbe potuto succedere, ma non le diedi molto peso. Una ragazzina di circa quattordici anni dai capelli biondi, tendenti al bianco, era distesa sul lettino e accusava forti dolori addominali. Mi affidarono quel caso perché sapevano essere un semplice mal di pancia e sapevano che io me la sarei cavata egregiamente. Mi avvicinai lentamente al paziente e iniziai la procedura. Mettere a proprio agio la ragazza sarebbe stato il primo passo. «Ciao, come ti chiami ? » Le parole fuoriuscivano a cascata, quasi fosse una cantilena. In realtà quelle conversazioni ci erano state insegnate ai corsi e avremmo dovuto imprimerle nella mente; un gioco da ragazzi per me, la mia memoria fotografica era un vero vantaggio sugli altri. «Caroline Mikaelson »  Disse tutto d’un fiato. Era chiaramente spaventata, non sapevo precisamente cosa fare per riuscire a tranquillizzarla, poi qualcosa affiorò nella mia testa. «Lo vedi quel ragazzo ? » Indicai Finnick, e solo in quel momento realizzai la sua reale presenza in ospedale. Stava inoltre abbracciando una ragazza, una ragazza dai capelli rossicci. Quella era la sua sirena. Un peso che mi opprimeva il petto, di colpo svanì trascinato via dai sorrisi di quei due, che si guardavano inebetiti e inebriandosi di sguardi e abbracci. «... E’ un po’ pazzo. » Continuai, sorridendo. «Una volta mi raccontò del mare, l’hai mai visto, tu, il mare ? » Spinsi con le mani poste una sopra l’altra , sul ventre della ragazzina, palpando la pancia per capire la fonte del dolore. Cacciò un po’ d’aria tra i denti stretti, sofferente. «No, ma... come l’ha descritto ? » Sembrava presa dal mio racconto, pendeva dalle mie labbra. In questo modo rendeva molto piu’ semplice il mio lavoro, così ripresi a parlare, mentre le mie mani lavoravano e il mio cervello elaborava una giusta diagnosi. «Spiagge soleggiate, litri d’acqua cristallina, che al tocco con la pelle sembrano come dissetare ogni angolo del corpo. Poi il mondo sottomarino è magico. » Buttai lì, distorcendo un po’ le parole di Finnick, le mie dita avevano scorto qualcosa di strano in quel piccolo corpicino e una goccia di sudore si fece largo sulla mia fronte. Non avevo mai toccato un ventre così gonfio e inoltre sentivo qualcosa di molto duro sotto la pelle, come un grande nodulo, o roba simile. Aveva bisogno di una radiografia urgente, così chiamai l’infermiera e la prenotai immediatamente. Tornando da lei, vidi che mi guardava fisso, sgranando gli occhi. «E’ magico dici ? E cosa c’è lì sotto ? Il ragazzo te l’ha detto ? » I suoi occhi curiosi cercavano risposte, così l’accontentai. Sfruttai tutta l’immaginazione che avevo e presi a parlare. «Frotte di cavallucci marini, banchi di pesci di ogni specie e colore, coralli variopinti e vortici di bollicine bianche. Ecco cosa c’è. Quando nuoti tutto il resto del mondo svanisce e le tue orecchie non sentono piu’ il rumore assordante di mille voci, ma solo il silenzio che ti possono regalare le dolci onde regolari e calde. Ti cullano in un mondo migliore di questo, dove le guerre vengono sostituite da feste reali e balli marini. » Mi stupii io stessa di aver regalato una definizione così bella del mare a quella ragazza, e in effetti pensai che dovesse essere davvero così meraviglioso. «Grazie » Pronunciò soddisfatta, di cosa? Pensai. «Mi piacerebbe vederlo una volta. » Non ebbi il tempo di chiederle piu’ niente, il computer che monitorava il suo battito impazzì, sentii i suoi muscoli irrigidirsi al mio tocco e in un istante crisi epilettiche iniziarono a far muovere nervosamente il suo corpo. Buttò la testa all’indietro e alzò gli occhi lasciando scoperto il bulbo oculare bianco e irradiato di vene più piccole e rosse, le sue pupille scomparvero dalla mia vista, adesso le vene sul suo collo erano parecchio visibili e quasi fuoriuscivano, blu e gonfie, dalla pelle. Le braccia si posizionarono sul torace, contorcendosi. La procedura standard da mettere in pratica in quei casi era di adagiare il corpo da un lato e stare bene attenti a non farle ingoiare la lingua. Così un infermiera la teneva su un lato e io con un bastoncino, solito nel campo medico, cercavo di tenerle la lingua saldata in giù. Il signor Palmer si fece spazio tra i presenti e iniettò una qualche sostanza che non distinsi bene nel braccio della ragazza, che immediatamente rilassò i muscoli e i suoi occhi ritornati alla normalità si spensero lentamente.
Il mio professore teneva strette in mano le lastre della ragazza e sentii lo scambio di alcune parole dette sottovoce tra lui e un medico di base. «Il cancro si sta espandendo, dobbiamo agire in fretta. » «Sappiamo entrambi che è troppo tardi, Octavius. » «Devo almeno provarci. » Quelle parole mi arrivarono alle orecchie in un suono ovattato e lontano. E’ così quella ragazzina aveva il cancro. Mi sentii mancare per un tempo che sembrò infinito. Le mie scarpe scivolarono leggermente producendo un rumore stridulo, mi portai le mani alla bocca per cercare di non far scorgere il rumore del mio respiro irregolare, il mio nascondiglio dietro la colonna ormai non era piu’ molto affidabile. I due uomini guardarono nella mia direzione, ma feci in tempo a scomparire prima che si accorgessero della mia presenza.
Non avrebbe mai visto il mare. Fu il mio primo pensiero. Il secondo fu che tutte le persone che riuscivano ad entrarmi nel cuore in un modo o nell’altro sarebbero morte. Eppure conoscevo quella ragazzina da meno di due ore, non avrei dovuto dar così tanto peso alla cosa. Un gran mal di testa mi stordì all’istante, decisi che il corso non avrebbe potuto darmi nulla quel giorno, per come stavo messa male, così mi diressi alla stanza 307. Alla nostra stanza.
Mia madre era accanto al letto, irta e con le mani sul petto. Il suo torace si muoveva a tratti e nervosamente. Pensai stesse avendo un attacco, o qualcosa del genere, così mi fiondai e mi misi proprio di fronte ai suoi occhi, che in quel momento erano persi e inondati da leggere lacrime pungenti, che combattevano per tenersi aggrappate alle ciglia. Le presi il viso tra le mani. «Mamma. » Biascicai lentamente. Le mie parole sembrarono riportarla alla realtà e i singhiozzi si fecero piu’ presenti. «Cos’è successo ? Parlami. » La mia voce si alzò leggermente, per cercare di tirarle qualche parola dalla bocca. «Tua sorella.... è di nuovo in ospedale. » Mi prese il panico, qualcuno le aveva fatto del male? Chi ? E quando ? La guardai dritta nelle pupille e le parlai duramente. «Chi ? Chi è stato ? » Le sue labbra si curvarono in giù come se un’altra ondata di lacrime stesse per fuoriuscire a fiumi. «Oh, Prim, no... io so che lui non voleva. Ma lei sta così male. » Non stava rispondendo alla mia domanda. Poi senza che io rispondessi a tono, pronunciò qualcosa. « Quando terminerà tutto questo ? » Sussurrò le ultime parole, come se le mancasse la voce. Conoscevo la fragilità di mia madre, non riusciva a sopportare di vederla in quello stato. Da quando eravamo arrivate al 13, Katniss aveva solo dato segni di instabilità e di debolezza verso qualunque cosa le ricordasse Peeta o le arene e mia madre ne soffriva. Per quanto volesse nasconderlo, stava soffrendo dai primi Hunger Games per mia sorella e questa tortura voleva quasi non avere fine. «Peeta.... è stato Peeta. In ospedale. L’ha quasi strangolata. » Disse in un solo respiro. La sua voce si era calmata, ma era ancora un po’ tremolante. Peeta, il Ragazzo Innamorato, il Ragazzo del Pane, quel ragazzo che ha tentato in tutti i modi di proteggere Katniss, quel pomeriggio aveva cercato di ucciderla. Per quale motivo ? Eppure pensavo che l’amore potesse essere immutabile e per sempre. Come una cicatrice. Persistente nel tempo, sempre presente, pungente sotto la pelle. Mi sbagliavo ? Lasciai in sospeso quelle domande che aleggiavano insistenti nella mia mente. Cercai di calmare mia madre, abbracciandola e accarezzandole i capelli. Si stese a letto e le cantai la canzone della valle. Quella stessa canzone che aveva fatto innamorare Peeta di Katniss. Lo aveva rivelato lui nella grotta quella sera prima di uscire vittoriosi dai giochi. Sembrava così lontano quel tempo adesso. La mamma chiuse lentamente le palpebre cullata dalla melodia delle mie calde parole e cautamente feci scivolare una coperta di lino sulle sue spalle.
Avrei dovuto far visita a mia sorella per capirne di piu’, per riuscire a dare un senso alle domande irrisolte nella mia testa. Mi informai sul numero della sua stanza, a passo veloce mi diressi nella direzione che mi era stata suggerita da un’infermiera, svoltai un angolo e un altro, una ventina di porte scorrevano sotto i miei occhi nervosamente, poi il numero che cercavo attirò il mio sguardo. Girai lentamente la maniglia cercando di far meno rumore possibile, se stava dormendo avrei scatenato in lei qualche reazione violenta, per lo stato in cui si trovava. Uno scatto riecheggiò nell’atrio buio, una leggera luce fioca riempiva la stanza e in penombra in un angolo della stanza, una ragazza rannicchiata canticchiava la melodia di una canzone che io conoscevo bene. L’albero degli impiccati. Aggrottai la fronte in un gesto disperato, triste, quasi a commiserare quella scena così straziante. «Katniss ..? » Pronunciai con un filo di voce, per non spezzare l’atmosfera calma che aveva creato. Uno scossone le fece tremare le spalle, brividi le percorsero tutto il corpo e tra i capelli, sciolti e scompigliati sul viso, intravidi un paio di occhi grigi. Quegli inconfondibili occhi grigi da Giacimento. «Prim ? » Chiese, interrompendo i suoni che emettevano le sue labbra. Presi a cantare, rigorosamente a bassissima voce, la canzone di papà e in un attimo il suo corpo perse rigidità e si affievolì sotto il suono della mia voce, come se una dose di camomilla le fosse stata appena iniettata nelle vene. Molto piu’ lentamente le sue labbra si schiusero, con voce sottile un sottofondo musicale accompagnò le mie parole. Mi avvicinai scivolando accanto a lei. Le sue mani erano posizionate sulle orecchie coperte da grandi ciocche di capelli. Posai una mano sulle sue dita per cercare di spostarle e scoprirle il viso. Con delicatezza si lasciò trasportare. Al contatto con i capelli capii che aveva appena pianto, le punte erano bagnate e appiccicate alla guancia umida. Nella tasca avevo un fazzoletto di stoffa, regalatomi da mia madre. Presi ad asciugarle il viso, e nel frattempo la canzone continuava a riversarsi lenta nell’aria. Le nostre voci danzavano all’unisono, trasportate dall’emozione e dal profondo affetto che provavamo l’una per l’altra. In uno scatto violento, mia sorella mi portò le braccia al collo e prese a singhiozzare contro la mia camicetta, impregnandola di lacrime fin troppo salate. «Shh... verrai, verrai all’albero verrai, di corda una collana, insieme a dondolare? Strani eventi qui si sono verificati e nessuno mai verrebbe a curiosare se a mezzanotte ci incontrassimo all'albero degli impiccati. » L’ultima strofa si perse nel tempo e al profumo dei capelli di Katniss si mischiò , intriso di dolore, quello di mio padre. Stavo per mettermi a piangere, ancora una volta il peso di quelle perdite mi colpiva con forza il cuore, ma la mia determinazione nel far rialzare Katniss da quella pozza di tristezza che avevano rilasciato le sue lacrime era piu’ forte. Un calmo silenzio prese il posto dei suoi singhiozzi che si erano affievoliti grazie alle mie parole, al mio canto disperato. Le stavo chiedendo di tornare da me dal mondo di incubi che le divoravano l’anima. La conoscevo quella sensazione, vuoto, smarrimento, unghie fameliche che grattano le pareti del cuore facendoti dolere ogni parte del corpo. Sentire qualcuno scivolare via dalle proprie dita. «Conoscevo un ragazzo, al 12. » Il mio racconto sarebbe riuscito a farle intendere che nessuno piu’ di me poteva capirla ? «Isaac, si chiamava così. Aveva gli occhi di azzurro profondo e i capelli biondo cenere. Profumava di pastelli e pittura. Il suo sorriso era come una fresca giornata di primavera per me e lo amavo, e credo che anche lui amasse me, lo ha detto. Lo ha detto a Gale, prima di morire. » Il nostro abbraccio fu sciolto dalle sue braccia cariche di odio. Mi guardò fissa mentre il suo respiro irregolare invadeva il poco spazio che ci divideva. Uno spasmo muscolare le fece contrarre il viso, sconvolto, arrabbiato, triste, intriso di dolore e odio. «.... prima di morire? » Sussurrò incredula. «Si Katniss. E’ stato il mio primo amore e questo sarà immutabile. Non ho voluto dirtelo per non creare altri problemi, per non darti altri pesi e voglio che la situazione rimanga così. Voglio che tu pensi a Peeta adesso, a quanto ha bisogno di te ora, molto piu’ che nell’arena. Tu devi stargli accanto, devi riprenderti. Non vedi cosa ti sfa facendo Snow ? Non vedi cosa ci sta facendo ? » Katniss prese a tremare, le sua mani nervose palpavano il suolo alla ricerca di qualcosa. Un pezzo di corda giaceva vicino le mie gambe, lo presi e glielo tesi in modo che lo prendesse. Le sua dita frenetiche iniziarono a comporre nodi e scioglierli, ricomporli per poi scioglierli di nuovo. «Qualunque cosa serva a spezzare me, qualunque cosa serva a spezzare me. » Ripeteva a se stessa. «Avresti dovuto dirmelo.  Ti sarei dovuta stare vicino, hai passato tutto questo da sola. Io non.... » Piccoli sospiri le si insinuarono tra i denti, rabbiosi. « .... non me lo perdonerò mai. » Capii il grave errore che avevo commesso. Avrei dovuto tenere tutto per me, sarebbe stato tutto molto piu’ semplice. Le presi il viso tra le mani con violenza. «Hei! Hei! Fermati! Tu, tu proprio non puoi continuare a farti questo. Io sto bene, Katniss. Sono riuscita a superarlo. » Stavo mentendo, ma d’altronde era l’unico modo per farla stare meglio. «Sono andata avanti, perché restare ferma in un punto mi faceva solo del male, così ho preso forza e mi sono rialzata, con il sangue che sgorgava dalle ferite, si! Ma mi sono messa in pari con gli altri. Mi sto dedicando al lavoro in ospedale e non sai quanto io sia fortunata ad avere te e la mamma. Mi hai sostenuta per tutta la vita, hai pensato sempre prima a me e poi alla mamma, mettendoti completamente da parte. Questa è l’ennesima perdita che avrò e avremo nella vita, ma davvero possiamo temere così la morte ? Possiamo temere che Snow ci porti via altro ? Tu devi lottare, dei graffiare, cacciare le unghie e dimostrare al sistema che la Ghiandaia è viva e stabile, ma soprattutto devi farlo per lui. Peeta. Perché nel profondo del cuore lui ti ama ancora, lui sta solo cercando di scorgere la tua mano tesa che possa farlo riemergere dal mondo di incubi in cui Snow l’ha mandato. » Mi sentivo un’ottantenne che parlava ad una ragazzina, una vecchia tartaruga saggia e vissuta che stava insegnando la vita ai suoi piccoli. Mi sembravano le parole piu’ adatte, anche se il 50 percento poteva contenere qualcosa di non vero, doveva smetterla di crogiolarsi nel suo dolore e prendere in pugno il titolo di Ghiandaia Imitatrice per sbatterlo in faccia a Snow e alla capitale. Un barlume di speranza stava riaffiorando negli occhi di Katniss, vedevo come le mie parole le avevano toccato la parte piu’ profonda del suo io per accendere una fiammella di luce e calore dentro di lei. Mi strinse tra le sue braccia, adesso piu’ affettuose e cariche di apprensione, affondai la testa tra i suoi capelli e ne respirai l’essenza, che mi arrivò fino alle meningi. La protezione che Katniss riservava solo a me mi rendeva felice e sentivo che il nominativo affidatole non poteva che coincidere alla perfezione con il suo essere. La ragazza in fiamme, ed era davvero così, lei. Se non avesse avuto pure fiamme brucianti dentro di sé, non sarebbe mai riuscita a portare avanti una famiglia, sfamare le nostre bocche, superare tutto il male del  nostro mondo, senza il sostegno di nostro padre. «Va tutto bene. » Mi disse, e sapevo che era davvero così.
Parlare di Isaac a mia sorella mi aveva fatto bene. Non aveva sicuramente risanato le ferite e il mio corpo martoriato dal dolore, ma di sicuro il mio umore pendeva leggermente dalla parte giusta, dopo tanto tempo. Una volta messa a letto Katniss, ancora stordita dai farmaci, mi diressi alla nostra stanza per controllare che la mamma fosse ancora lì. Come previsto era già tornata al lavoro e io avevo dei dubbi nel ritornare o no in quel posto. Non sarei riuscita a guardare quella ragazzina negli occhi, non dopo la notizia della sua imminente morte. Eppure li avevamo così tanti medicinali e nuove apparecchiature sofisticate che non doveva essere poi così difficile la rimozione di un tumore. Purtroppo quel ‘è troppo tardi’ mi diede uno schiaffo in pieno viso, per avvertirmi che neanche l’ apparecchio piu’ moderno avrebbe potuto salvarla. Mi sedetti sul letto e il materasso si curvò appena sotto il peso. Mi persi a fissare una parete bianca e ad immaginare quella ragazzina correre a piedi nudi sulla spiaggia, sorridente. Qualcosa offuscò la mia vista e capii troppo tardi che quelle erano lacrime, che avevano già rigato le mie guance fino a ricadere sulla mia mano inanimata posta sulle gambe. Sapevo che qualcosa da fare c’era, ma in quel momento il mio cervello non stava lavorando. Ad un tratto qualcosa mi illuminò la mente. Aprii il paracadute di Katniss, quello che Haymitch le mandò nell’arena dell’Edizione della Memoria. Una piccola sfera ricadde nelle mie mani umida e liscia. La perla di Peeta. In un attimo capii cosa avrei dovuto fare, cosa andava fatto. Riposi tutto al suo posto e mi diressi al Comando, anche se non faceva parte dei luoghi previsti tatuati sul mio braccio. Le porte si aprirono e un lungo tavolo splendente si presentò ai miei occhi. Avevo il fiato corto, la presidentessa Coin e Plutarch mi guardarono straniti. «E tu cosa ci fai qui ? » Mi spinsi oltre la soglia, fissando la presidente dritta negli occhi, con il mento in su e il petto gonfio, invasa da una strana eccitazione dovuta alla mia idea. «Ho una richiesta, presidentessa. » D’altronde ero la sorella della loro piu’ preziosa risorsa, non mi avrebbe negato un piccolo e insignificante favore. Quando presi a parlare, vidi già la disapprovazione disegnarsi sui loro volti indignati.

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Capitolo 13
*** Breathless. ***


«Sarà solo uno spreco di risorse, la risposta è no! » Sbraitava Plutarch, in abito grigio fin troppo stretto sulla pancia rotonda. «Vi prego di farmi spiegare le mie motivazio... » Quell’ uomo era un tale cocciuto e la sua segretaria mi guardava con una certa punta di superiorità che mi dava decisamente sui nervi. I miei muscoli erano tesi, ma cercai di pronunciare le parole con tutta la calma possibile. «No, signorina Everdeen. Sono stato molto chiaro riguardo la faccenda. Adesso ci lasci lavorare. » Disse lui stizzito, troncando ogni mia parola. Il silenzio della Coin mi fece sperare. Stava lì, con la mano sotto il mento e l’indice a reggerle il viso, era una donna molto silenziosa, incantevole, ma autoritaria. Intraprendeva scelte ben studiate e decise. Analizzava il complesso della situazione e scrutava ogni dettaglio, evitando di pronunciarsi, limitandosi ad osservare. L’avevo vista in azione durante il bombardamento e nelle volte in cui compariva ai corsi di orientamento. Poche volte ci aveva rivolto la parola, ma non aveva mai usato la sua posizione per farci sentire inferiori a lei. Indifferenza, pura indifferenza e durezza,ecco cosa riuscivo a leggere nei suoi occhi, e mi chiedevo se quella donna fosse davvero fatta di carne e ossa, o se sotto lo strato di pelle ci fossero fili elettrici e materiale metallico collegati a un cuore interamente fatto di ghiaccio. Il suo sguardo continuava a scrutarmi lentamente, fissandomi le pupille, ghiacciandomi ogni millimetro di pelle. Mi chiedevo quando le sue ciglia si sarebbero mosse per far sbattere l’una contro l’altra le palpebre e idratare il bulbo oculare scoperto, che a quel punto sarebbe già dovuto essere secco e bisognoso del contatto con la pelle. Dopo vari minuti di silenzio, le speranze mi abbandonarono e tutta l’energia che mi ero portata dietro scomparì, i miei occhi si rabbuiarono e con le spalle basse stavo per dirigermi alla porta. «Lascia parlare la ragazzina. » Una voce sottile e femminile, e allo stesso tempo dura e ferma, mi fece irrigidire e fermare di colpo. Mi voltai e vidi lo sguardo incredulo e spazientito di Plutarch fissarsi su di me. Una smorfia di impazienza si fece largo sul suo viso, come a dire ‘Dai, sbrigati’. Ero riuscita solo ad esporre la mia idea, prima, quando avevo varcato quella porta. L’idea di portare una ragazzina malata di cancro in visita al Distretto 4, per farle vedere il mare. Quando l’involucro liscio della perla aveva sbattuto contro le mie dita per scivolare sul palmo della mano, avvertii la sabbia sotto le suole delle scarpe e l’immagine delle onde schiumose sbattere sulla riva del mare mi furono di illuminazione. «Ho visitato la paziente appena quattordicenne questa mattina e accusava forti dolori al ventre. L’ho visitata, ma era chiaramente spaventata così ho cercato qualcosa di cui parlare, da quello che ci hanno insegnato ai corsi, ovvero ‘Parlare al paziente in modo confidenziale’. Un ragazzo mi aveva parlato del mare e così le ho riportato le sue parole, sapete al dodici non l’abbiamo mai visto il mare e sicuramente nemmeno qui nessuno è mai riuscito a vederlo, se non in televisione o nei libri di scuola. Mi è sembrata meravigliata e mi ha risposto ‘Grazie’, dopo averle dato una descrizione accurata di questo ‘fenomeno’. Le resta davvero poco tempo e non ha nemmeno iniziato a vivere, il suo cancro le sta risucchiando la vita e poco prima che le prendessero le crisi epilettiche mi ha detto che le piacerebbe vederlo. Non sto chiedendo una completa squadra dei miglior soldati con me, semplicemente un hovercraft con 2 o massimo 3 soldati a guardarci le spalle, che ci porti su una spiaggia» Breve pausa. « 1 ora, le chiedo solo 1 ora. » Indignazione, stupore, un filo di tristezza colorarono il viso roseo e paffuto di Plutarch. «Inoltre... » continuo, ispirata. « ... qualcuno potrebbe filmare un pass-pro con questa ragazzina sulla spiaggia e mostrarlo a Snow, per fargli capire che nonostante tutto noi del tredici sappiamo ancora godere delle piccole cose che ci offre la vita, che nonostante la guerra, la speranza di un futuro migliore risplende ancora nei nostri cuori. » Non so da dove usciva fuori tutta quella audacia da parte mia, forse il carattere intraprendente di mia sorella e di mio padre si era insinuato in me per essere sfoderato in queste occasioni. Volevo che quella ragazza meritasse di piu’ che emanare i suoi ultimi sospiri in un letto dell’anonimo ospedale del Distretto 13, inghiottita da strati di terra e senza aver goduto di qualcosa di così bello. Per tutta la vita eravamo stati privati di ogni cosa bella, di ogni frivolezza, volevo cambiare le cose, con un piccolo gesto come quello. Non sarebbe di certo stato come la forte scintilla che aveva innescato Katniss in tutti i distretti, ma sarebbe bastato a far stare meglio me. Qualcosa stava comparendo sul viso inespressivo della Coin, approvazione, disinteresse forse ? Si guardarono negli occhi per 5 lunghi minuti come se potessero comunicare telepaticamente, come se uno sguardo bastasse a capire l’altro, e a ragionare sull’idea, se potesse andare in porto o se sarebbe stata un vero e proprio fallimento. «Non ci costerebbe nulla, d’altronde. » Pronunciò Plutarch, adesso con tono più calmo e meno severo, ma sempre un po’ scettico. La presidentessa staccò lo sguardo dall’uomo e lo fissò su di me, sembrava invasa da una luce nuova, diversa. Quasi di ammirazione, verso la mia figura, le mie parole. Non capii bene come interpretare quegli occhi spenti di un chiarore prosciugato dall’oscurità, restò il fatto che le parole che pronunciò tradirono la sua espressione cruda e senza sentimenti. «Ottima idea, signorina Everdeen. Richiesta approvata, preparate subito un hovercraft, la partenza avverrà alle prime luci dell’alba di domattina. » Si rivolse ai suoi soldati, che al semplice contatto della sua voce con le loro orecchie, si mossero come comandati da miliardi di fili invisibili legati alle dita della Coin. « Chissà se in futuro potrò mandarla in prima linea a salvare qualche ribelle ferito in guerra, Primrose, giusto? » Mi chiese. Annuii, timidamente. Una nube di soddisfazione mi invase tutto il corpo per ricadere sugli organi come pioggia fresca, un po’ confusa e spaesata dalle sue parole. Ma che importava al momento ? Non ci ragionai su piu’ di tanto. Avevo ottenuto ciò che speravo, ciò che desideravo così ardentemente. La faccenda sarebbe funzionata. E sentii di aver compiuto qualcosa di davvero buono nella mia esistenza. Girai i tacchi e mi fiondai fuori da quella stanza, carica di una strana aria elettrica e soffocante. Emanai un grosso respiro, come se avessi trattenuto aria nei polmoni fino a quel momento e adesso ero libera di respirare a fondo. Responsabilità, determinazione, astuzia. Erano quelle le giuste parole che riuscivo ad affibbiarmi in quel momento. Dopotutto sarei potuta tornare in ospedale col cuore sgonfio da quella preoccupazione. Chissà la ragazzina come avrebbe appreso la notizia, forse si sarebbe messa a ballare per tutta la stanza, forse avrebbe solo risposto con un timido ‘grazie di cuore’, magari mi avrebbe semplicemente chiesto perché fare tutto questo per lei. Durante il mio cammino verso l’ospedale nel corridoio meno frequentato del piano, continuavo a sperare che la notizia del cancro le fosse già stata somministrata dai medici, e che il fardello non fosse stato riversato sulle spalle della neo-dottoressa di turno, ovvero la sottoscritta. Una nuova preoccupazione affiorò nella mia mente, ma non dava fastidio come la precedente. Passai proprio davanti la cucina di Sae e il profumo della fragranza di pane appena sfornato mi attraversò e rilassò i sensi, inebriandomi e avvolgendomi in una sensazione di profonda serenità. Mi fermai a controllare , curiosa, cosa bolliva sui fornelli e scorsi in un angolo della cucina la figura chiara di un ragazzo, ammanettato da manette speciali, che impastava la pasta del pane con movimenti decisi e precisi, morbidi e cauti, in modo da modellarla sotto le dita. Peeta stava seguendo una terapia, pensai. Il filo che teneva unite le sue manette si allungava e accompagnava il movimento delle sue mani per creare magnifiche opere d’arte con il suo pane. Grossi omaccioni erano irti contro le pareti e osservavano ogni suo movimento e spostamento, in modo che se si fosse ferito volontariamente o avesse usato qualcosa per liberarsi, i loro giocattolini appesi alle cinte l’avrebbero steso all’istante. Ma nei suoi occhi potevo vedere l’innocenza di un ragazzino, la purezza della gioventù, l’anima lacerata di un giovane uomo alle prese con i mostri nella sua testa. Ma io sapevo che Peeta, il vero Peeta, il Peeta di Katniss sarebbe rinato dalle sue ceneri, come l’araba fenice dopo essersi spenta.
Riposi in un angolino remoto della mia mente quei pensieri, per far posto all’ansia mista alla gioia del mio ritorno in ospedale e dell’incontro con Caroline. Il tragitto verso quel posto sembrava piu’ lungo del solito, come se una strana sensazione mi dicesse di starne cautamente alla larga. Ma la ignorai, come tutte le brutte sensazioni, come la consapevolezza che potessero dirmi davvero qualcosa. Le mie scarpe scivolavano piano sul pavimento, una calma inaspettata aveva preso possesso dei miei muscoli, irradiandola fino nelle ossa, sciolsi i capelli dalle trecce per farli ricadere sulle scapole fluenti e morbidi. Sentivo di dovermi proteggere le spalle da qualcosa e la massa di capelli che erano appena stati riversati sulla mia schiena mi davano quella protezione che cercavo. Il mio viso era sempre concentrato nella stessa espressione senza emozioni che assumevo nelle ore di lavoro. Entrai dalla porta scorrevole a due ante che portava al Pronto Soccorso, mi diressi verso l’infermiera di turno e le chiesi il numero della stanza. Un brivido di freddo mi percorse la schiena, uno sbuffo d’aria dalla porta era arrivato a sfiorarmi la pelle, ma nei pensieri avevo solo il viso felice della ragazzina. Un suono stridulo invase le pareti, era in atto un Codice Rosso, non me ne curai, c’erano tanti medici che si sarebbero fiondati nella stanza del paziente con arresto cardiaco o chissà che altro, io avevo buone notizie da recapitare.  Accelerai il passo, mossa da un fremito di impazienza. Un gruppo di medici mi superò nel corridoio a passo veloce, i loro camici svolazzanti alleggiarono nell’aria. Vidi il numero della stanza in cui erano scomparsi, lo fissai, cercai di ricordare il numero che mi aveva suggerito l’infermiera, inciso nella mia mente, ricontrollai che fosse esatto, realizzai, troppo lentamente, troppo tardi, con minuti, secondi di ritardo. Un suono netto, freddo, deciso si stagliò nella stanza.

I miei piedi nudi al contatto con l’acqua regalarono una scossa elettrica a tutto il resto del corpo, il profumo inebriante di salsedine si era infilato tra le ciocche dei miei capelli, a creare un intreccio di fili aromatici, il mio profumo mischiato a quello dell’aria di mare. Un raggio di sole mi bruciò la vista, portando la cecità nella mia vita. Un incubo moltiplicato nel vento gelido d’inverno, un veleno corrosivo per il cuore.

«.Ora del decesso 21 e 15 »

Nascosi il mio corpo nell’angolo piu’ remoto di quella stanza che adesso sembrava fin troppo vuota, ripulita del letto e dalle sue apparecchiature. Cercai di comprimere il corpo, conficcandomi le ossa delle ginocchia nel petto e spingendo per rimpicciolire la mia sagoma ancora, e ancora e ancora. Giacevo inerme, trattenendo il respiro, portatomi via insieme al resto delle cose presenti lì. Le mie dita presero a raschiare il suolo, a graffiare, a scavare, sporcando di sangue il pavimento, avrei voluto affondare la testa sotto terra, o magari sprofondare tutta intera. Persi tutta l’aria nei polmoni fino a svenire, allora doveva essere così che ci si sentiva a toccare il fondo, a perdersi nei meandri piu’ oscuri della notte, a sentirsi portare via la vita, ingiustamente, lentamente, troppo sola, troppo presto. 


AUTRICE: E questo  è il tredicesimo capitolo, cari lettori! So che sto aggiornando in fretta, ma che dirvi la mia musa ispiratrice, è piu' ispirata del solito e le idee mi si riversano a fiumi ormai. Spero che con questa nuova piccola storia tra Prim e questa ragazzina vi abbia fatto appassionare ancora un pochino di piu' alla mia FF e spero vi piaccia il modo in cui continuo a mandare avanti la storia. Seguitemi e recensite in tanti. Vorrei fare un ringraziamento a ronald_weasley che ha seguito la mia storia dal principio e continua a recensire e apprezzare la mia storia. Grazie anche a chi mi ha aggiunto tra i preferiti, e chi ha aggiunto anche la storia. Alla prossima! :)

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Capitolo 14
*** The yellow of the Sun. ***


«Sai cosa rende il Sole speciale? » mi disse con un filo di voce. «Cosa? » risposi. «Il suo colore. Pensa se fosse stato blu, o viola, o verde. Non avrebbe avuto lo stesso impatto sulle cose. Il giallo è il colore associato all’energia e alla vitalità. Inoltre questo colore ha la capacità di regolare la frequenza del battito cardiaco. »

Chiusi gli occhi e lasciai che la brezza leggera penetrasse in ogni angolo di pelle, mi liberasse dal sangue delle persone morte che colorava insistentemente il mio corpo e ricacciasse le lacrime. Lungo la spalla un raggio di sole mi aveva raggiunta, aveva combattuto le nuvole e sbatteva contro la mia schiena, regolando il mio battito cardiaco. Il calore mi si stava irradiando nelle ossa, ossa ormai deboli e consumate, che avevano perso tutto, persino il loro colore naturale. I capelli sciolti, sempre pronti a proteggermi le spalle, fluttuavano nel vento invernale, creando onde di mare biondo lucente; con due dita sfiorai il piccolo graffio che mi ero procurata sgattaiolando fuori dalla finestra socchiusa da cui Ranuncolo fuggiva per andare a caccia di topi. Chiusi le braccia intorno al petto, stringendo le mani ai gomiti e perdendomi nel freddo del mattino. Non mi ero mai accorta della bellezza del sole, in quel momento tramite il grigiore delle nuvole riuscivo a scorgere i suoi lineamenti precisi, i punti in cui i raggi si facevano piu’ ondeggianti e il pallore che il cielo nuvoloso gli donava, annebbiando il suo giallo carico. Capii a cosa si riferiva Isaac, capii tante cose quella mattina. Cose che ormai non avevano piu’ significato.
Abbassai lo sguardo per riuscire a raccogliere l’ultimo granello di me che voleva evadere da quel corpo malconcio. Colsi un fiore, un dente di leone, stringermi nelle spalle non bastò a placare i brividi di freddo, diedi le spalle ai boschi e i miei capelli fluttuarono un’ultima volta nell’aria fresca, per poi ricadere lungo la schiena e riprendere il colore slavato delle pareti del 13 che rifletteva in essi una volta tornata in camera. Sapevo di aver perso tutto, mi rendevo conto che dalla sua morte niente sarebbe stato piu’ lo stesso. Eppure c’era sempre quella punta di positività che riusciva ad entrarmi dentro. Ma non questa volta, non adesso che l’instabilità aveva preso possesso della mia vita, della vita di tutti. Dalla mia prima Mietitura niente riusciva ad incastrarsi al posto giusto, a trovare un sentiero da percorrere, il mondo mi stava dimostrando qualcosa, qualcosa di così grande, un disegno così ben studiato che niente, nessuno, nemmeno la mia Katniss sarebbe riuscita a modificare. Forse sarebbero dovute andare così le cose,  chiunque avesse conosciuto Primrose Everdeen sarebbe morto. E forse quel disegno finiva con la mia morte.
Il respiro mi si fermò in gola, un deserto asciutto e arido si srotolò sulla mia lingua, un sole cocente mi bruciò i vestiti, sangue caldo ed insidioso scorreva sulla mia pelle, sgorgando da una ferita al petto. Mi lasciai scivolare nella minuscola doccia del bagno senza forze, il rubinetto sputò due o tre gocce d’acqua, e quello che poi si riversò sul mio corpo mi fece raggelare dentro. Litri di sangue rosso e freddo si stavano incollando alle mie gambe, sulle braccia e sulla faccia. Urlai, ma nessuno sarebbe riuscito a sentirmi, le mie urla erano come insonorizzate, avevo le labbra schiuse ma nessun suono fuoriusciva. Sentii come se qualcuno mi stesse stritolando le ossa, e potevo vedere ciò che ne restava sul pavimento. Le pupille si muovevano a scatti, cercando di memorizzare piu’ cose possibili prima di spegnersi per sempre. Sarei morta, ma ero pronta, ero pronta a quello. Smisi di opporre resistenza e quando anche l’ultimo osso del mio corpo era stato sbriciolato in terra, distesi i muscoli e mi lasciai cullare dalle onde di sangue nella doccia. Alla fine era piacevole, morire sapendo di non poter perdere piu’ niente, chiunque avessi mai amato mi era già stato portato via, e Katniss e la mamma erano così forti, sarebbero sopravvissute a una vita senza la loro paperella che era tanto stanca del mondo.
Quando riaprii gli occhi e vidi il soffitto bianco ergersi sopra di me, una fitta di delusione mi percorse il corpo. Ero pronta, avrei sfidato la morte, l’avrei guardata negli occhi e poi mi sarei lasciata sopraffare. Gli incubi mi avevano ingannata e questa volta lasciai che le lacrime mi percorressero le guance fino alle orecchie per poi perdersi nei capelli. Il suicidio era un atto così egoistico che lo esclusi immediatamente dalle mie possibilità, nessuno lì mi odiava tanto da ferirmi mortalmente o uccidermi nel sonno, eppure un modo poteva esserci per far smettere il dolore, per far tacere le urla di tutte le persone che amavo morte, per cancellare i graffi delle loro mani sulla mia pelle e il loro sangue appiccicato ai vestiti. L’acqua era come morfamina, ma il suo effetto svaniva velocemente, mi sarebbe servito qualcosa di permanente.  
Riempii un vaso d’acqua e vi porsi dentro il dente di leone. Lo nascosi sotto al mio letto, per proteggerlo, per proteggere l’ultima parte di me ancora intatta da occhi indiscreti e pugnali avvelenati. Nel preciso instante in cui fosse appassito, avrei dovuto capire che la mia ora era arrivata. Così ogni giorno controllavo il suo aspetto e mi perdevo a percorrere i petali con lo sguardo da bambina. Il colore giallo si spargeva sul pavimento e si rifletteva lungo le sbarre del letto, era ancora pieno di vita. Isaac viveva nel suo colore e viveva nel sole, finché non si fosse spento, Isaac era con me, e non c’era possibilità che accadesse.
Tanti bambini e uomini e donne entravano in ospedale, e altri morti uscivano da quelle porte. Conobbi un uomo di nome Aurelius, dell’ 11, un ottantenne che si stava spegnendo sotto i nostri occhi, la vecchiaia se lo portò via nel giro di 3 giorni, ma ogni mattina e sera ero lì, a stringergli la mano e raccontargli del Sole e del mare, e della storia di una bambina morta sulla spiaggia. I suoi occhi erano così vividi, ma il suo corpo così stanco, schiacciato dal peso degli anni. Pendeva dalle mie labbra, vedevo il modo in cui lottava per vivere, vedevo i suoi sforzi per riuscire a scendere dal letto autonomamente, ma il mio corpo era sempre lì a sorreggerlo.
La terza notte non riuscii a lasciarlo dormire da solo, così presi posto sulla poltrona rossa accanto al suo letto. Mi avvolsi nella coperta e poggiai la testa sulla stoffa, lasciando che il calore mi cullasse. I suoi capelli bianchi avevano preso la forma del cuscino e ogni tanto mi prendevo la briga di sistemarli delicatamente all’indietro con il pettine, un paio di baffi gli coprivano metà viso, ma le sue labbra erano visibili e sottili, la pelle del viso mi ricordava un vestito sgualcito, ma i suoi occhi il profondo mare. Nel tepore della sera Aurelius mi lanciava tristi sorrisi e mi parlava di sua moglie, era la prima volta che mi raccontava della sua famiglia, il modo in cui ne parlava mi fece capire che l’aveva amata tanto, così come il figlio che portava in grembo. «Sorrideva spesso e aveva la pelle profumata. I suoi baci sapevano di antico e il suo corpo mi ricordava le primule danzanti nel nostro piccolo giardino. Mi meravigliavo di come il tempo non influisse affatto sul suo aspetto, i capelli risplendevano sempre della stessa luce, così come i suoi occhi. Aveva l’abitudine di sedere sulla sedia a dondolo in salotto, davanti al fuoco. Stava lì a dondolarsi all’incirca per 20 minuti, poi si alzava e accarezzava il suo pancione, questo accadde negli ultimi 5 giorni della gravidanza. E fu proprio lì che la ritrovai addormentata e livida in viso, senza vita. » Gli occhi presero a luccicare, ma evitai di fissarlo in viso. Teneva sempre un’espressione serena pur parlando della morte. Lo ammiravo tanto. «I medici dissero che un infarto me la portò via. Il mio unico rimpianto è stato di non aver mai passato la mano sulla sua pancia per sentire il battito di nostro figlio. Ma la porto nel cuore, sai ? Prima di far prelevare il corpo, ricoprii la sedia di fiori, li misi tutt’intorno e le chiusi dolcemente gli occhi. La ricorderò così, addormentata tra i fiori di settembre. »   Non conoscevo questa donna e non conosceva l’uomo disteso a letto di fronte a me, ma presi parte al suo dolore. Gli rivolsi un sorriso pieno di apprensione. «Oh su, ragazzina, non devi piangere. » Non ebbi nemmeno il buon senso di ricacciare le lacrime, ma ormai il viso ne era pieno e presi lentamente ad asciugarle. «Mi scusi, è che... la capisco, Aurelius. » Sentii la mia voce tremante arrivare dritta al suo cuore. Allargò le braccia e fece segno di avvicinarmi, mi abbracciò. Non importava se mi sentivo la persona piu’ triste della terra, se piano piano e inconsapevolmente mi stavo avvicinando alla morte, quell’abbraccio mi stava scaldando il cuore e ricomponendo i pezzi. Stava dando vita e giorni al dente di leone e a me.
«Grazie, piccola. » Mi sussurrò all’orecchio. Poi le sue braccia persero la presa sul mio corpo, i muscoli si rilassarono e con il sorriso sulle labbra, la morte lo accompagnò lentamente verso la sua fine. Non piansi per lui. Non perché la sua vita fosse meno importante delle altre, semplicemente mi ero rassegnata. E anche lui. E ne uscimmo entrambi indenni, da quella guerra. Spensi il monitor e mi assicurai che nessuno toccasse il corpo prima del mio arrivo. Tornai alla mia stanza, alla stanza 307, quella stanza che in fin dei conti non mi era mai veramente appartenuta. Scivolai fuori dalla finestra e raccolsi ogni tipo di fiore mi capitasse a tiro. Li nascosi per bene nelle tasche del camice e della gonna e mi diressi all’ospedale.
«Lasciatemi mezz’ora da sola con lui. » Biascicai, schiarendomi la voce per far sentire a tutto il reparto. Il loro silenzio fu per me un via libera. Chiusi saldamente la porta della camera e iniziai a sistemare i fiori lungo il suo corpo. Incorniciai il suo viso nei denti di leone piu’ gialli del Distretto e gliene porsi uno in mano, portandola sul suo cuore. Il profumo dei fiori freschi invase la stanza, nella mia mente quella canzone. “Là in fondo al prato, all'ombra del pino c'è un letto d'erba, un soffice cuscino il capo tuo posa e chiudi gli occhi stanchi quando li riaprirai, il sole avrai davanti. Qui sei al sicuro, qui sei al calduccio, qui le margherite ti proteggon da ogni cruccio, qui sogna dolci sogni che il domani farà avverare qui è il luogo in cui ti voglio amare. Là in fondo al prato, nel folto celato c'è un manto di foglie di luna illuminato.  Scorda le angustie, le pene abbandona. Quando verrà mattina, spariranno a una a una.  Qui sei al sicuro, qui sei al calduccio,  qui le margherite ti proteggono da ogni cruccio.  Qui sogna dolci sogni che il domani farà avverare qui è il luogo in cui ti voglio amare.” Una preghiera concluse il rito e potei vedere quasi il sorriso sul viso di quell’uomo allargarsi e distendere le rughe per tornare giovane. Pulii la stanza dai fiori che ritornarono, sgualciti e un po’ rovinati, nelle mie tasche. Quanta amarezza colsi nella sua storia, i battiti del cuore di un bambino rimbombarono nelle mie orecchie, poi il click della maniglia e i miei passi nell’atrio vuoto.

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Capitolo 15
*** The end. ***


Lingue di fuoco avvolsero il mio corpo, sentivo la carne sciogliersi sotto la pelle, il dolore penetrare nelle ossa e arrivare a toccarmi l’anima, i miei vestiti persi nel fumo, un cielo grigio, un bambino morto, una ghiandaia in fiamme.

Era strano come le perdite successive mi scivolarono letteralmente addosso. Aurelius fu l’ultimo paziente a cui regalai un pezzo di me stessa e il primo per cui non piansi. Altri morirono sotto i miei occhi, guardando il mio viso per l’ultima volta, sfiorando la mia mano e addormentandosi lentamente, ma non permisi a nessuno di essi di portarmi con sé, come avevano fatto Isaac e Caroline. La vita in ospedale era dura, l’avevo sempre saputo, ma lei mi aveva distratto dai miei doveri, annebbiando il mio giudizio e portandomi sull’orlo di un burrone fin troppo ripido, senza nessun appiglio a cui aggrapparmi. Ma poi un piccolo masso era spuntato dal lato della montagna dandomi sostegno e chiedendomi di rimanere, non per vivere, ma sopravvivere. Così saldando le dita alla sporgenza ero tornata sulla terra ferma e le mie gambe si stavano riabituando alla stabilità, erano rimaste fin troppo tempo appese nel nulla in cerca della terra sotto le suole e adesso era il momento giusto per tornare a camminare.
Il dente di leone portava con sé ancora il profumo di inverno inoltrato, mi si spargeva nelle narici per galleggiarmi in bocca e dare alle papille gustative un sapore di neve. Potevo sentire la linfa vitale scorrere nei vasi linfatici lungo il gambo e dare colore ai petali morbidi e sottili. Una mattina ripiombai nella realtà dal mondo degli incubi con la fronte imperlata di gocce di sudore e la mamma seduta sul ciglio del mio letto. «Buongiorno, Primrose. » Mi sussurrò con voce delicata e calma, fin troppo calma. C’era qualcosa che doveva dirmi. «Cos’è successo? » Mi prestai a dire, odiavo girare intorno alle cose. «Katniss è in viaggio per il 2 insieme a Gale e Finnick, a breve ho sentito che li raggiungerà anche Peeta, devono girare dei pass-pro come nell’8 e cercare di indebolire l’Osso, lo scudo di Capitol City. Nulla di preoccupante, tornerà presto. » Sarà vicina a Snow, pensai. Molto vicina, troppo. Nel corso di medicina durante una prova, il nostro professore aveva riprodotto insieme ai suoi tecnici un vero e proprio campo di battaglia che prevedeva lo scontro tra i ribelli e i Pacificatori nel Distretto 2, dove erano in corso le lotte piu’ estreme e dove vi erano centinaia di feriti. Ci spiegò che il Presidente nelle strade aveva fatto installare dei baccelli, trappole ben nascoste che una volta innescate potevano trasformarsi in ogni sorta di pericolo. Così ci fece allenare sulle ferite riportate dai baccelli; nei casi maggiori, cioè per il 90% dei casi le vittime non avevano possibilità di uscire indenni dallo scontro con quelle trappole, in casi minori agendo in fretta avremmo potuto salvare 2 o 3 vittime. Un numero decisamente scarso. Pensai a mia sorella in quelle strade, soffocata da una nube di fumo nero o catturata da una rete di spine, o senza un arto o due e misi le mani sul viso per coprire la mia espressione addolorata al resto del mondo. Era come vederla tornare nell’arena, come quando l’impotenza mi assaliva e non avrei potuto fare niente per aiutare, per aiutarla. Ricordai le parole della Coin ‘Chissà se in futuro potrò mandarla in prima linea a salvare qualche ribelle ferito in guerra... ‘  Se solo fosse stato possibile, non mi sarei sentita così inutile. E invece di prendere in pugno la situazione, mi limitai, durante il resto della giornata e nei giorni seguenti, a comportarmi come un computer che esegue le regole impartite dal sistema.
Il reparto era mezzo vuoto, qualche infermiere giaceva immobile e annoiato sulle sedie lungo le pareti, il lavoro scarseggiava, i feriti del bombardamento si erano ristabiliti mesi fa e le maggiori occupazioni erano ormai prendersi cura dei pazienti con instabilità mentale o con lievi ferite da lavoro. Le giornate si riducevano a controllare e cambiare le bende impregnate di pus, misurare le pressione a vecchie signore allegre e far bere il brodino ai bambini del reparto di pediatria. Durante il turno in pediatria, mi persi nei mille corridoi del reparto e contai sulla mia abilità di orientamento per uscire fuori di lì. I labirinti mi avevano sempre messo ansia e terrore, era come essere nel corpo di un topo intrappolato nel fondo di un bicchiere messo a testa in giù. Svoltai un angolo e un altro ancora e poi fermai la mia ricerca. Cinquanta o forse settanta piccoli cuoricini battevano tutti insieme e vicini nel nido dell’ospedale proprio di fronte ai miei occhi. I loro visi sereni e levigati si riflettevano sul vetro che dava sul corridoio e i movimenti delle loro minuscole mani sembravano impercettibili e veloci. Alcuni dormivano profondamente, altri vigili e attenti mi scrutavano piano dalla loro culla. Mi persi a guardare quei corpicini avvolti dalle coperte e lentamente passai l’indice sul vetro come se potesse sfiorare la guancia di uno di quegli esseri. Era tutto così calmo e silenzioso lì, come se il tempo si fosse fermato e avesse avvolto ogni cosa per immobilizzarla e far tacere ogni male. Nessuno poteva farmi soffrire in quel momento, una strana felicità mi sfiorò piano la pelle, come per tastare il terreno e cercare un foro d’entrata. Avevo i brividi, ma non erano i soliti brividi di freddo, erano causati da quel mondo, quella nuova era, quella nuova speranza. Perché ogni sguardo che potei osservare, ogni piccola creatura che si trovava in quel posto sarebbe stata un giorno portatrice di speranza nel mondo, di innovazione, prosperità e amore. E niente sarebbe riuscito a rovinare quel mondo, proprio lo stesso che Katniss stava cercando di salvare, di ricostruire, di rendere migliore. Mi sentii orgogliosa, orgogliosa del mio stesso sangue, di essere chi ero, di trovarmi lungo quel corridoio. Rimasi lì immobile e in piedi per mezz’ora all’incirca, potevo toccare la vita che pulsava anche attraverso le mura che ci dividevano, e mi resi conto che ciò che stavamo vivendo era molto piu’ importante della morte a cui andavamo incontro ogni giorno. Che Isaac morendo mi aveva forse privato di qualche anno di vita che avrei trascorso a perdermi nel suo ricordo, che Caroline , una bambina, mi aveva trascinato nei fondali marini con lei perdendosi nelle onde e lasciandomi salire in superficie per riprendere fiato, che Aurelius il piu’ saggio coltivatore che avessi mai conosciuto mi aveva mostrato la via per non  soffrire piu’ , ma tutto quello mi era servito a qualcosa, eccome se mi era servito. Avrei collezionato le loro vite nella mia, e sarei vissuta per loro. Per far capire a quel grande disegno che si sbagliava, che tutto non finiva con la mia morte, ma con la mia vita, quella vita che sarebbe stata il ricordo dei morti del Distretto 12 e 13, dei corpi che aggrappandosi a me avevano marchiato a fuoco ogni strato della mia pelle, sarebbe stata quella la mia nuova missione: sopravvivere per loro.
Mi addormentai con la schiena premuta sulla parete del nido, quel pomeriggio sognai bambini ricoperti di sangue e avvolti da mani solide, non erano incubi, era la vita che stava nascendo, era il simbolo della speranza, ogni battito faceva bruciare le fiamme dentro di me e faceva brillare gli occhi dei padri che avevano sofferto la fame e adesso vivevano d’amore per i figli.
A svegliarmi fu un’infermiera di una quindicina di anni piu’ grande di me, sembrava una ragazzina, i suoi occhi castani erano puntati nei miei e un sorriso stranamente dolce le si disegnava sul viso. Al 13 erano tutti molto cupi e rigidi, rispettavano le regole e pareva come se i sentimenti fossero una debolezza per loro. In quella infermiera invece vidi altruismo e confidenza e mi lasciai aiutare dalla sua mano tesa a rialzarmi. «Che ci fai qui, Prim ? » Conosceva il mio nome, ma io non l’avevo mai vista. «Mi ero persa e poi la stanchezza ha avuto la meglio su di me. » Le dissi, ironicamente. Mi sorrise di rimando, poi incurvò le labbra e la sua espressione si incupì. Forse mi sbagliavo, forse anche lei era una ragazza fredda e triste del 13. «Ci sono delle notizie riguardo tua sorella che forse dovresti sapere. » Mia sorella, Katniss. Delle notizie riguardo cosa ? «Cosa ? Cosa le è successo? » La mia domanda piu’ frequente fuoriuscì dalle labbra con altre mille richieste, i miei muscoli avevano iniziato a tremare e adesso stringevo le spalle della ragazza e la scuotevo per saperne di piu’. «Calmati, Primrose! Pensavo fosse meglio che lo sapessi da tua madre, ma ...non so come dirtelo... Il Presidente ha mandato in onda il notiziario di Capitol City, beh... » Non stava rispondendo alle mie domande, cosa potevo fare se non urlare ? «Dimmi cosa le è successo? Dov’è ? Dove si trova? » Era in difficoltà, una goccia di sudore le percorse il viso dalla fronte e mi afferrò per i gomiti per calmarmi o forse sorreggermi dopo la dolorosa notizia. «Hanno dichiarato la morte di tutti i membri della squadra partita dal Distretto 13. Tra cui anche tua sorella. » Era un bene che fosse piu’ robusta di me e avesse la presa stretta, mi sentii sprofondare, come se un incudine di piombo fosse stato lanciato sul mio petto e avessi perso il controllo sul mio corpo. Sentivo le orecchie fischiare e un leggero senso di vomito, lo stomaco rivoltato sottosopra e sulla lingua mille spilli pungenti punzecchiavano la superficie del palato. Inghiottii la saliva che aveva il sapore del metallo, mi si fermò in gola come se un pugno mi avesse bloccato le vie respiratorie colpendo dritto al collo. Katniss era morta, per salvare un mondo ormai perso. Nessuno avrebbe avuto la sua stessa determinazione, il suo stesso senso di sfida, il suo affetto per me, il suo senso di protezione per le persone a lei vicine, nessuno sarebbe potuto essere la Ghiandaia Imitatrice. L’impotenza non fu l’unica sensazione che riuscii a provare prima di venire sedata, debolezza, dolore fisico, l’incapacità di perdonare il mondo, odio, determinazione. Se lei non era riuscita a sconfiggere Snow, allora l’avrei ucciso io. Non era come vedere un cervo ferito, e avere pietà. Lui era un mostro, un serpe, un viscido bastardo che andava eliminato e la mia debolezza stava scemando insieme al dolore, sarei partita per Capitol City.
«Prim. » La mamma si trovava a due passi dal mio letto, aveva vegliato su di me tutta la notte fino al mio risveglio e mi stava fissando, con lo sguardo offuscato dalle lacrime e il vestito bagnato da quelle del giorno prima. Invece di risponderle rimasi a fissarla e osservare il suo viso. Era invecchiata tanto dai primi Hunger Games, non per il peso degli anni, ma per la vicinanza così stretta alla morte che doveva affrontare ogni giorno. Due o tre rughe le spuntavano sotto i ciuffi di capelli sulla fronte bianca, corrucciata dall’espressione addolorata, il naso appuntito e sottile era leggermente arricciato e le labbra erano percorse da numerose righe che lasciavano intendere che la mamma non era abbastanza idratata. Potevo contare tutte quelle righe eppure non sarebbero mai arrivate a raggiungere il numero delle nostre perdite e la quantità di dolore che ci stava facendo soffrire. Aveva perso il marito e ora una figlia. Probabilmente si chiedeva cosa avrebbe potuto fare di piu’, oltre aiutare i malati, per avere l’indulgenza di Dio e un po’ di tregua dalle sofferenze. Si chiedeva cosa avesse fatto di così sbagliato nella sua esistenza da essere privata della cosa piu’ bella: una famiglia. Vedeva la vita che aveva creato scivolarle via dalle dita e non poter fare niente, vedeva ogni cosa sgretolarsi intorno a lei e l’unica cosa che le riusciva davvero bene era piangere e imbambolarsi a guardare l’armadio grigio della stanza. Mi alzai e la presi violentemente per le spalle «Non puoi! Non stavolta! Non devi! » Urlai, con tutto il fiato che avevo in corpo. «Devi rimanere con me! Devi essere forte, devi continuare a vivere!» Ma il suo corpo rigido e leggero si muoveva sotto i miei strattoni senza batter ciglio, mi pareva di tenere una bambola di pezza tra le mani e scuoterla non sarebbe servito a niente, era senza vita, dentro conteneva solo altra stoffa. Non mi guardava, in realtà non guardava niente. «Devi... tu devi... per me... tua figlia...mamma, sono Prim...guardami.... » Ansimavo e le forze mi stavano abbandonando, mi accasciai a terra, tenendo lo sguardo ben saldato sul viso di mia madre, la mia voce era flebile e si perdeva man mano che le mie mani allentavano la presa. L’effetto della medicina stava riprendendo il sopravvento, vidi solo gli occhi di mia madre scattare dall’armadio a me, ma nessun movimento, niente di niente, mi lasciò semplicemente sprofondare negli incubi in cui Katniss veniva uccisa ripetutamente dal gas nocivo dei baccelli o da ibridi bavosi.
Tre, quattro, cinque giorni erano trascorsi dalla sua morte. Io e la mamma avevamo ripreso il nostro lavoro dopo aver reso omaggio ai caduti e alla fermezza e determinazione della Ghiandaia Imitatrice, che rimase pur sempre il simbolo della ribellione. Che idiozia, la Coin era così meschina e falsa e calcolatrice, stava ancora tenendo in piedi la storia della ragazza ribelle morta in guerra, il simbolo della speranza,  del coraggio e del futuro migliore per i Distretti, mostrando la sua morte come un atto di sacrificio per tutti gli altri. Piu’ nessuno sarebbe dovuto morire per la causa, e invece Katniss, Gale, Finnick e il resto della squadra giacevano sotto le macerie di quella casa bombardata dagli stessi hovercraft che bombardarono il 12, un vero e proprio omicidio di massa. Era questa la speranza di un futuro migliore per la Coin ? Far morire chi era necessario per salvare il resto delle vite ? Pensai che il titolo di Presidentessa non le si addiceva per niente, i suoi principi erano  tutto purché sani. La rabbia che mi stava divorando la tenevo ben nascosta sotto la pelle e i vestiti, lasciavo che il lavoro placasse l’odio che provavo verso tutti e mi donasse lucidità e fermezza.
La polvere sul comodino venne sollevata leggermente dal venticello che penetrava dalla finestra di Ranuncolo, creava mulinelli d’aria e lanciava i granelli a terra. Mi sentivo un po’ come quei piccoli puntini di polvere che cadevano dal dirupo, spostati dal vento ,e non di loro spontanea volontà, perdevano il controllo su loro stessi. Mi distesi a pancia in giù sul materasso e lasciai cadere nel vuoto la testa penzolante. Il dente di leone era ancora lì, persistente e di un giallo carico. Ogni tanto lo idratavo con un bicchiere d’acqua, ma avrei lasciato che sopravvivesse da solo, con le sue forze, un po’ come me. Dei passi rimbombarono nel corridoio, mia madre entrò nella stanza e spalancando gli occhi, disse «Prim, corri! » Il mio primo pensiero andò ad un bombardamento o un attacco di qualche genere, in realtà il corridoio era vuoto, ma lei mi tirò per un braccio afferrandomi dal polso e mi diresse al Comando. Le porte si aprirono, Plutarch, la Coin, Haymitch e Beetee erano seduti sulle loro sedie e sorseggiavano i loro caffè in tranquillità. Uno schermo aleggiava sul grande tavolo al centro della stanza, su di esso un’immagine. Il mentore mi rivolse un sorriso compiaciuto, poi quella freccia, il modo in cui era conficcata nel petto di quella donna. Una sola persona poteva scoccarla così. «Katniss. » Pronunciai sotto voce. «Snow ha appena mandato in onda le foto di alcuni membri della squadra di Katniss rimasti uccisi dai baccelli nella zona sotterranea della città. Poi hanno mostrato la foto di questa donna per mettere in cattiva luce la Ghiandaia Imitatrice e disegnarla come un’assassina. » Era viva, ci saremo potute rivedere, bastava solo riuscire a sopravvivere a quell’inferno. «A quanto pare tra i membri morti mancano Gale, Peeta, Katniss, Cressida e Pollux, quindi ci sono buone probabilità di una loro vittoria. » Continuò Plutarch eccitato. Nella sua squadra c’era anche Finnick, a quando pare non era riuscito a sopravvivere. Una fitta di dolore mi trapassò  il cuore da parte a parte, quasi non riuscii a respirare, ma mantenni i piedi saldati a terra, e cercai di inspirare ed espirare lentamente, inoltre ero ancora stordita dalla notizia di Katniss viva. Pochi giorni prima Annie era stata ricoverata in ospedale, ormai mi lasciavano controllare qualsiasi paziente di minima importanza, così quando me la trovai avanti un piccolo pancione fioriva sotto il suo vestito grigio e mi sentii male al pensiero del figlio di Finnick. Nato e cresciuto senza un padre.
Ormai mi ero estraniata da tutti, le parole che inondavano la stanza non arrivavano alle mie orecchie intontite e pensai fosse una buona idea uscire di lì. Mi sentii chiamare dietro le spalle, ma ero fin troppo stanca e stremata per sentire altro. Katniss era viva, e l’avrebbe ucciso. Era tutto ciò che importava al momento.
Quel giorno non ebbi piu’ notizie di lei, ma ero sicura che stava preparando un piano, un buon piano insieme a Gale, i due compagni di caccia in lotta contro la capitale. Mi sentii stranamente sicura della riuscita di quella strana missione, confidavo nel fatto che il caos stava sopraffacendo la città e Snow non era capace di contenere tutto ciò che aveva scatenato mia sorella.
Nei giorni seguenti tutto seguiva il suo ciclo e io mantenevo il solito ritmo  lavorativo. Forse mi sentivo piu’ leggera dopo aver saputo di Katniss, ma la mia espressione non cambiava di molto, cercavo di assumere sempre uno sguardo perso e tenere le labbra dritte e tese e stringere i denti. In realtà non ‘cercavo’, quello era ciò che provavo, irrigidivo il corpo per sopportare i ricordi ed aspettare la fine della guerra, ma se anche un po’ di sollievo attraversava il mio viso nessuno avrebbe dovuto vederlo, perché ero sembrata fin troppo debole di fronte agli infermieri e ai miei compagni di corso, tutti avevano sofferto, ma io mi ero lasciata andare completamente, così ero passata per una pecorella smarrita, e dovevo dimostrare che la sorella della Ghiandaia Imitatrice non era una rammollita.
Quel giorno al corso c’era molta confusione, non tra gli alunni ma tra i nostri professori, si scambiavano occhiate cariche di tensione ed attesa, ma poi Octavius si schiarì la voce e tutto tacque. «Oggi è l’ultimo giorno di corso per tutti voi, ragazzi. » Un minuto di silenzio, poi riprese. « E come ben sapete dobbiamo analizzare il vostro livello di preparazione con un’ultima prova, noi la chiamiamo ‘Il test rivelatore’, che appunto ci rivelerà la vostra attitudine per reparto, ovvero in quale di essi intraprenderete la vostra specializzazione. Abbiamo studiato che i reparti di chirurgia si dividono in ...... » Una nota di allerta risuonò sull’IN e il suo dito puntò dritto alla mia fronte. «Cardiochirurgia, neurochirurgia, chirurgia pediatrica, ortopedia, ginecologia e ostetrica, chirurgia d’urgenza, chirurgia plastica e chirurgia generale, professore. » Risposi prontamente, ricordando a memoria ogni parola scritta sul libro di Chirurgia. Mi sorrise piano e poi passò oltre, spiegando le modalità con cui avremmo sostenuto il test. «La prova consiste nel ritrovarsi in una stanza completamente soli con un paziente, creato dai nostri computer, aperto dal petto fino all’ombelico sul tavolo e ferito in vari punti. Dovrete iniziare a ricucire e curare da un organo a vostro piacimento e in base ad alcune analisi, che faremo al vostro cervello grazie a questo cip che vi inseriremo prima della prova, capiremo a quale reparto attribuirvi. Tutto chiaro ? » Ci fu un generale silenzio, poi come all’unisono ci risvegliammo tutti e pronunciammo un si sottovoce. «Bene, iniziamo subito. Abacus William.... » Iniziò a chiamare tutti in ordine alfabetico, inserendo il cip sulle loro nuche e spuntando la lista man mano che ognuno di loro entrava ed usciva dalla stanza. Alcuni uscendo si tenevano una mano sulla bocca ed erano pallidi in viso, segno evidente che il corpo aperto del ferito li aveva scossi e stavano per rimettere la colazione. In realtà non avevo mai pensato veramente a una specializzazione, così prima della chiamata del mio nome, feci uno schema mentale analizzando i vari reparti. Neurochirurgia consisteva nel mettere le mani nel cervello delle persone ed era un lavoro di estrema precisione e calma, un solo piccolo errore avrebbe mandato in corto circuito ogni cosa, lo esclusi immediatamente, anche perché la stabilità non era davvero il mio forte. Ovviamente il mio unico e vero pregio era la mia mano ferma ma non sarebbe bastata, bisognava essere lucidi e vigili e non me la sarei sentita. Chirurgia pediatrica non era nelle mie possibilità, ma ci pensai per qualche minuto, ottenendo il risultato che con i bambini era necessaria la delicatezza e  soprattutto la spensieratezza; per stare a contatto con i bambini sarei dovuta essere la persona piu’ allegra del mondo e proprio non sarei riuscita a farlo, non con la mia espressione perennemente cupa e triste. Per ortopedia necessitavano braccia forti e soprattutto la passione e dedizione per la ricostruzione delle ossa, cose che in realtà io non avevo. Avrei voluto intraprendere un percorso che mi avesse soddisfatta a pieno, una specializzazione che mi desse l’occasione di stringere la vita pulsante tra le mani. E sapevo di cosa si trattava, sapevo esattamente, alla fine di quel percorso mentale, da quale organo sarei partita. «Everdeen Primrose.. » Una voce forte e acuta mi chiamò e mi distolse dai miei pensieri, gli altri avevano impiegato 15 minuti per terminare il test, ma io avevo le idee chiare. Inserendo il cip un leggero bruciore si dipanò dal collo fino alla spina dorsale, ma io lo ignorai ed entrai nella stanza. Le pareti erano di un bianco lucente quasi fastidioso per gli occhi, un vetro a specchio ricopriva una parete, molto probabilmente dietro vi era un gruppo di dottori che ci esaminava, il resto della stanza era vuoto, al centro esatto un corpo inerme e sofferente si contraeva aperto in due e sanguinante. La prova era iniziata. Un semplice carrello con tutto l’occorrente prendeva posto vicino al lettino. Mi diressi vero il paziente, feci mente locale, chiusi gli occhi, respirai e iniziai ad osservare ogni minimo dettaglio. Torace squarciato, costole rotte, cuore e polmoni colpiti da un oggetto appuntito, profonde ferite da arma da taglio si stagliavano sulla parete liscia del cuore, rimasi due minuti esatti a fissarlo, poi presi i guanti li infilai, iniettai una fiala di morfamina e iniziai a tastare gli altri organi. La milza era intatta così come il pancreas e il fegato. Lo stomaco aveva un foro da arma fa fuoco, questo rendeva inattivi anche l’esofago e l’intestino, ma potevano aspettare.  Il cuore e i polmoni erano la mia priorità. Iniziai a controllare i polmoni; bisognava riallacciare i tessuti pulendo per bene la zona infettata. Le garze mi servirono per fermare l’emorragia e utilizzai le pinze e il filo per cucire le parti tagliate. Riuscii a ricucire le zone piu’ danneggiate in cinque minuti e poi rivolsi la mia piu’ totale attenzione al cuore. Avvolsi le dita intorno a quell’organo, tanto importante quanto meraviglioso, era proprio lui che spigionava la vita e sentirlo battere sotto i palmi era una sensazione impareggiabile. Percorsi con le dita le vene gonfie e aperte e iniziai subito la procedura. Infilai il divaricatore per un’operazione a cuore aperto, era fondamentale controllare che l’interno non fosse stato danneggiato così iniziai a riallacciare i tessuti spezzati e ripulire ogni piccola ferita, poi lo ricucii per bene e guardai la mia opera. La cucitura era impercettibile e sottile, ero riuscita a ripararlo, ma non batteva. Sapevo che ci voleva almeno qualche secondo prima di tornare a battere ma ci stava mettendo piu’ del previsto, pensai di aver fallito, poi con la punta dell’indice lo stuzzicai leggermente e al contatto riprese a pulsare. Una sensazione di sollievo colorò i miei occhi e mi fece sospirare. Lo stomaco perdeva molto sangue, le garze che avevo posto in precedenza a fermare l’emorragia stava cedendo non avrebbero tenuto a lungo. Il paziente sotto l’effetto della morfamina dormiva profondamente, erano passati 7 minuti, avevo 3 minuti a disposizione per ricucire lo stomaco e ridargli funzionalità se volevo ottenere il record dei 10 minuti. Usai la stessa procedura e i punti sembravano mantenere, tutti gli organi rispondevano agli stimoli, bastava solo ricucire il torace aperto nel modo migliore. Le ossa erano molto danneggiate, ma riparlare non fu difficile, al 13 erano riusciti a comporre una sostanza che riusciva a unire i legamenti delle ossa per ridurre i giorni di convalescenza ai pazienti, le costole si ricomposero all’istante. Ripresi poi a sterilizzare ogni punta affilata e iniziai a ricucire. 8 minuti. Due gocce di sudore mi percorsero la fronte, i miei occhi puntati sulla pelle che si ricomponeva al mio tocco. 9 minuti. L’ultimo punto si stava infilando nella carne, il sangue era incrostato sul petto, intorno all’ombelico e sui miei guanti. 10 minuti. Il petto era stato ricucito a dovere e avevo appena staccato le mani dal corpo. Ero riuscita a salvare quell’uomo, che se pur immaginario, adesso stava respirando e il suo alito si stagliava sulle mie mani posizionate a coppa sopra di lui. Scomparve proprio sotto i miei occhi, era una proiezione, ma sembrava davvero reale. Tecnologia di Capitol City, ovviamente. Sorrisi, fiera del mio lavoro e delle mie capacità. Sarei diventata un Cardiochirurgo ?
Octavius mi guardava stupito e compiaciuto. «Hai capito la pecorella! » Pronunciò Adelaide, sorridendomi acidamente. Il mio tempo era comparso sul monitor sopra la porta della stanza e tutti parlavano sottovoce, lanciandomi sguardi d’intesa. «Complimenti Everdeen. Sei stata molto veloce. » Ripresi posto e sentivo ancora gli occhi di tutti puntati addosso. «Ben fatto, ragazzi. I vostri punteggi saranno esposti domani nelle sala comune durante la colazione. Per cui buona fortuna e ultimo consiglio: affidatevi sempre a voi stessi, in qualunque situazione. » Sapevo che il nostro professore, nella sua solita freddezza, ci stava augurando il meglio e con quella frase ci aveva avvertito di non fidarci di nessuno, se non di noi stessi. E io avrei di sicuro custodito per bene il suo consiglio. Stavamo per alzarci tutti, quando mille sirene assordanti suonarono tutte insieme, facendomi sobbalzare. Prendemmo a camminare uno dietro l’altro come nelle normali esercitazioni, ma quelle sirene erano suonate solo nel reparto ospedaliero. Una voce, l’inconfondibile voce dura della Coin, invase le mura. «I seguenti nomi... Ripeto i seguenti nomi dovranno recarsi al corridoio 370, nell’area A, ad attenderli ci saranno 3 hovercraft, una volta in volo vi sarà spiegato tutto. » Nella lista dei nomi compariva anche il mio, mi diressi insieme agli altri verso l’area A, non salutai nemmeno mia madre, non potevo perdere tempo, la situazione sembrava davvero grave. Una volta sull’hovercraft un’altra voce, stavolta registrata e metallica come di un computer, spiegò ad ognuno di noi la situazione sul campo. «Siete diretti alla Villa del Presidente Snow dove centinaia di bambini sono stati colpiti dalle bombe incendiarie di un hovercraft della capitale. Lungo il tavolo che avete di fronte c’è tutto l’occorrente, legate la fascia bianca con la croce rossa sul braccio sinistro e prendete una borsa ciascuno. In essa troverete tutto ciò che vi servirà per aiutare quei bambini. Coraggio Dottori e possa la buona sorte essere sempre a vostro favore. » L’inserimento di quella frase mi aveva scossa, ma era stata evidentemente registrata in chiave ironica per smorzare l’ansia che si era creata nei nostri corpi.
Mi diressi verso il tavolo, uno zaino arancione con il numero 13 stampato sopra non era ancora stato preso, così me lo misi in spalla e tornai a sedere. Stirai la gonna con le mani, anche se non ce n’era bisogno, avevamo appena attraversato il Distretto 1 e l’attesa ci stava stremando. Quei bambini stavano soffrendo, morendo e noi avremmo potuto salvarli. Ricordai di nuovo le parole della Coin e pensai che per certi versi stava adempiendo alle sue promesse. Sarei stata utile alla causa, adesso mi sentivo un vero Dottore, qualcuno su cui fare affidamento. Ci fecero indossare dei camici bianchi e imbottiti tutti uguali, io strappai la stoffa con la croce dal braccio e la misi sopra il cappotto bianco. «Stiamo per atterrare vicino l’Anfiteatro che si trova di fronte la Villa del Presidente, posizionatevi e attendente istruzioni. »
La pancia dell’hovercraft si aprì e una luce accecante ci colpì facendoci coprire il viso con le braccia. Poi man mano svanì e lo spettacolo che si aprì dinanzi a noi era decisamente straziante. Una moltitudine di piccoli corpicini giaceva a terra in pozze di sangue e neve macchiata di rosso. Erano stati ammassati in un recinto proprio di fronte la casa di Snow. Attraversammo il recinto e ci fiondammo sui bambini. Non capivo il perché di un attacco verso dei bambini indifesi, ma in quel momento la rabbia mi si stava montando addosso e il mio unico scopo era ricucire ogni strato di pelle martoriato e squarciato, e dare sollievo e rifugio a quei bambini. Corsi in direzioni di un bambino che stava piangendo, aveva uno squarcio su una coscia, la maglietta di stoffa era fin troppo leggera, aveva la pelle bluastra e le labbra livide, la neve gli aveva ricoperto i capelli e i vestiti, così mi tolsi di dosso il cappotto e coprii quel corpo tremante, sussurrandogli parole rassicuranti all’orecchio. La mia camicetta era sottile e spuntava dalla gonna, ma non avevo tempo per preoccuparmi di me stessa, mi guardai intorno, con il bambino ancora tra le braccia, fasciai la sua ferita continuando a lanciare sguardi agli altri feriti.  Erano tantissimi, ma le nostre uniformi bianche avevano quasi del tutto ricoperto quel bagno di sangue, oltre ai bambini cercai di studiare il territorio per riuscire a trasportarne qualcuno al sicuro e al caldo. Guardai oltre il recinto, scrutai ogni angolo, poi delle dita infilate nei fili di metallo della recinzione, un nome, il mio, disegnato sulle sue labbra. Il suo, disegnato sulle mie. Un ultimo semplice sospiro, poi diressi lo sguardo su un paracadute argentato coperto dalla neve e posto vicino alle mie scarpette consumate. Stava bruciando, il metallo colorato di rosso e poi lingue di fuoco avvolsero il mio corpo, sentivo la carne sciogliersi sotto la pelle, il dolore penetrare nelle ossa e arrivare a toccarmi l’anima, i miei vestiti persi nel fumo, un cielo grigio, un bambino morto, una ghiandaia in fiamme. Avevo fallito. Era così che finiva.  Ed era proprio quella, la mia fine. La fine di Primrose Everdeen, una primula bianca nata e morta nel cielo della Capitale.


AUTRICE: Sto soffrendo. E bene sì questo è l’ultimo capitolo della mia FF. Credetemi se vi dico che sono riuscita a stento a scrivere queste ultime righe, ho sofferto insieme a lei e non è stato facile, davvero. Spero comunque che vi piaccia il modo in cui l’ho scritto e l’ho impostato, ho pensato di scriverlo lungo perché l’ultimo capitolo merita qualche parola in piu’. Recensite e datemi consigli, ripeto sono aperta ad ogni tipo di critica. In oltre ringrazio chi mi ha seguito dal primo capitolo come  Ronald_wesley mi sei stata d'aiuto e di incoraggiamento, e ti ringrazio infinitamente per tutto, ogni parola, ogni recensione e ogni complimento alla mia storia. Sono anche felice per tutte le visualizzazioni che arrivano anche a 300, a chi ha aggiunto la mia storia tra i preferiti e chi l'ha apprezzata davvero. Ci ho messo tutta me stessa anche perchè amo la saga e ammiro la scrittrice Suzanne Collins, e spero che io possa essere riuscita a renderle omaggio con questa piccolissima storia.
Un saluto
Annalisa.
 

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