Don't Get Too Close (It's Dark Inside)

di Hermione Weasley
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The Odds Will Betray You ***
Capitolo 2: *** Welcome to the New Age ***
Capitolo 3: *** It's Always Darkest Before the Dawn ***
Capitolo 4: *** Regrets Collect Like Old Friends ***
Capitolo 5: *** With an Ocean in the Way ***
Capitolo 6: *** And the Only Solution Was to Stand and Fight ***
Capitolo 7: *** A Thousand Silhouettes Dancing On My Chest ***
Capitolo 8: *** At the Curtain's Call ***
Capitolo 9: *** The Masquerade Will Come Calling Out ***
Capitolo 10: *** The Coldest Blood Runs Through My Veins ***
Capitolo 11: *** Let Me in The Wall You've Built Around ***
Capitolo 12: *** You're Like a Mirror, Reflecting Me ***
Capitolo 13: *** Help Me Make the Most of Freedom and of Pleasure ***
Capitolo 14: *** She's The Sea I'm Sinking In ***
Capitolo 15: *** You Live in Shades of Cool ***
Capitolo 16: *** So I Stayed in the Darkness With You ***
Capitolo 17: *** I'm Gonna Let it Happen to Me ***
Capitolo 18: *** Holding Hands While the Walls Come Tumbling Down ***



Capitolo 1
*** The Odds Will Betray You ***


Disclaimer: Clint Barton, Natasha Romanoff, i loro alias, e tutti i personaggi che appaiono in questa storia non mi appartengono, ma sono tutti proprietà di Marvel & Disney.
Warnings: situazioni e tematiche sessuali forti (underage, stupro) non sono mai né descritte né affrontate esplicitamente, ma menzionate più di una volta. Sono invece presenti descrizioni (non esageratamente dettagliate) cruente/violente/di sangue/etc.


EDIT 08/08/2014: metto qui un bellissimo e apprezzatissimo poster che Blackmoody (x) ha fatto per questa storia. Grazie :'))



Per ulteriori note vi rimando in fondo al capitolo. Buona lettura :)

 




Don’t Get Too Close

(It's Dark Inside)

 

1

 

Arm yourself because no-one else here will save you
The odds will betray you
And I will replace you

(Chris Cornell – You Know My Name)

 

 

 

Il clic della pistola caricata si disperse nel fragore della pioggia che stava affogando quella notte londinese. Si calcò maggiormente il cappuccio sulla testa, asciugandosi il viso bagnato con una mano: avrebbe avuto bisogno della migliore delle visuali per portare a termine quella missione.

Tre uomini, due dei quali le erano ormai familiari (aveva studiato i loro file ossessivamente), il terzo completamente sconosciuto. Non aveva ricevuto disposizioni in proposito ed era ormai troppo tardi per contattare il suo supervisore e chiederne. D'altro canto, lasciare che quell'individuo ne uscisse vivo sarebbe stato un colpo da principiante: e se l'avesse vista? Se l'avesse potuta, in seguito, riconoscere? No. Avrebbe dovuto toglierlo di mezzo insieme agli altri due, non era colpa di nessuno se si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato. Non era colpa sua se non poteva non obbedire agli ordini ricevuti.

C'era uno scambio in corso: segreti, informazioni, non ne era sicura. Non era compito suo conoscerli, solo mettere i suoi capi in condizione di farlo. Uno strumento e nient'altro, ecco cos'era: raccontava le loro bugie, risolveva i loro problemi, rendeva la loro vita più... semplice.

Si spostò leggermente di lato, stando ben attenta che la macchina dietro cui era nascosta la riparasse a dovere mentre montava il silenziatore sull'arma. Studiò ancora per qualche secondo le mosse dei tre uomini appostati sotto una tettoia poco distante, prima di decidere che era arrivato il momento di intervenire. Contò mentalmente alla rovescia da dieci a zero, inspirando ed espirando ripetutamente per calmare l'ansia che le cresceva nello stomaco, spaventosa e rassicurante in egual misura.

Dieci, nove...

Trattenne il respiro ed entrò in azione. Si rimise in piedi, pistola alla mano, aggirò l'automobile che l'aveva celata da sguardi indiscreti fino a quel momento (complici la pioggia e la notte), prese la mira e fece per attraversare la strada e sparare...

Il tempo, il mondo, il suo cuore parvero rallentare innaturalmente.

In un primo momento, ebbe l'impressione che una forza invisibile l'avesse spinta bruscamente all'indietro. Le ci volle qualche secondo di troppo per accorgersi di essere stata colpita. Barcollò pericolosamente, mantenendo l'equilibrio solo per miracolo.

Mi hanno sparato, pensò incredula, portandosi una mano alla spalla. Il dolore la investì nel momento esatto in cui si accorgeva di avere una freccia conficcata nella carne. Dischiuse le labbra in un'espressione di muto orrore, facendo saettare lo sguardo verso l'alto, ai tetti che incombevano sulla strada.

Un lampo improvviso disegnò nel cielo nero la sagoma di un uomo.

Comparve e sparì insieme alla luce, lasciandola col dubbio di esserselo solo immaginato.

Il sangue, caldo e vischioso, aveva cominciato a scenderle lungo il braccio. Le voci dei tre uomini, inevitabilmente messi all'erta, si alzarono di volume.

No, fermi!
Il più grosso, lanciando occhiate di fuoco nella sua direzione, sbraitava ordini in un grosso telefono cellulare, un altro le stava andando incontro con quello che sembrava un coltello serramanico stretto in pugno, il terzo era scappato al primo segnale di pericolo senza voltarsi neppure una volta.

Nonostante il pericolo in agguato e la presenza di un dannato arciere che tentava di farle la pelle, tutto ciò che riuscì a pensare fu che aveva fallito la missione, che sarebbe stata punita, che non gliel'avrebbero fatta passare perché lo sai che il tuo paese conta su di te? Lo sapeva, lo sapeva a memoria, lo sapeva meglio di chiunque altro. Il terrore la invase, e non aveva niente a che vedere con l'energumeno che stava per avventarlesi contro.

Fu la paura a rimettere in moto il suo cervello, a costringere il mondo a riprendere a muoversi con la sua consueta velocità.

Schivò l'attacco dell'uomo, correndo verso il marciapiede opposto, laddove le frecce dell'arciere non avrebbero potuto raggiungerla. Si voltò in corsa, e sparò, atterrando l'obbiettivo che la stava inseguendo. Decise che avrebbe almeno dovuto togliere di mezzo anche l'altro, il ciccione al telefono, ma quando guardò sotto la tettoia si accorse che era deserta. Il rumore di auto in avvicinamento, però, quello le apparve piuttosto chiaro. Sono qui per me.

La consapevolezza di non poter affrontare più di tre uomini da sola e non a distanza, la colpì come un pugno in pieno viso. Non c'era modo di raddrizzare l'esito disastroso di quella missione. L'unica cosa che poteva fare era scappare e sperare che i suoi superiori fossero in vena di... magnanimità.

Mentre scattava in una corsa disperata, sapeva già che non c'era niente di simile alla magnanimità nei comportamenti dei suoi superiori. Ho fallito, si ricordò, la delusione che quasi le toglieva il respiro, al pensiero che lei non sbagliava mai. Aveva smesso di fallire tanto tempo prima ed era diventata la migliore. E i migliori non possono permettersi errori, non senza essere in grado di porvi rimedio.

Mi cancelleranno. Mi cancelleranno. Mi cancelleranno. Mi cancelleranno.

Continuò a ripeterselo come in un mantra ossessivo, tenendosi istintivamente rasente agli edifici per paura che una seconda freccia potesse raggiungerla. Una netta sensazione emerse dal panico che continuava a minacciare di ottenebrarle il cervello; che chiunque avesse cercato di ucciderla, aveva mancato. Si era mossa nel momento meno opportuno e il dardo aveva trovato la sua spalla. Ma ferirla non aveva alcun senso, perché non ucciderla? Perché mi ha mancato, mi sono spostata e mi ha... mancato.

Si fermò in un angolo particolarmente buio per riprendere fiato. Sentì il rumore del fiume e capì di aver sbagliato direzione: il campo era troppo aperto per chi, come lei, aveva un bersaglio sulla schiena. Afferrò la freccia e azzardò ad estrarla, ma il dolore lancinante la convinse che era meglio aspettare. Avrebbe perso troppo sangue e, in quel momento, aveva bisogno di tutte le energie e della concentrazione di cui disponeva per limitare i danni. Per uscirne almeno viva.

Si puntellò alla parete con la schiena, rinfoderò la pistola e usò entrambe le mani per spezzare l'asta del dardo. Un gemito le sfuggì dalle labbra, facendola vergognare profondamente. I migliori non si lamentano. I migliori agiscono, si rammentò severamente.

Annuì a se stessa, prese un'improvvisa decisione e ricominciò a correre, dritta verso il fiume: era vero che il campo era fin troppo aperto, ma il temporale notturno aveva portato con sé il vento, e il vento avrebbe potuto deviare le frecce. Senza contare che, imboccando il ponte, e presumendo di poter riuscire a percorrerlo in tutta la sua lunghezza, avrebbe annullato il vantaggio dell'arciere: non c'era nessun palazzo abbastanza alto dal quale avrebbe potuto raggiungerla fino alla riva opposta.

Accelerò di colpo: il Blackfriars Bridge si stendeva sul Tamigi a meno di un centinaio di metri di distanza. Il sangue le pulsava furiosamente nelle tempie, il dolore alla spalla cominciava a farsi insopportabile, e la vista... la vista sembrava appannarsi ad ogni passo. Le fu chiaro che, a breve, avrebbe pagato carissimo quello sprint.

Un sibilo alle sue spalle.

Si gettò di lato, invadendo la corsia delle auto – attualmente deserta – senza fermarsi. Non ci fu bisogno di guardarsi alle spalle per capire che un'altra freccia aveva rischiato di far centro.

Una freccia, pensò, quasi instupidita dal pensiero, una parte di lei convinta di essere vittima di uno scherzo di pessimo gusto. Se non fosse già stata colpita, l'avrebbe deriso, quel dannato arciere. Non solo l'aveva ferita, ma era pure riuscito a mandare al diavolo tutti i piani delicatamente predisposti per quella missione. Lo sapeva quanto ci aveva messo ad individuare i due obbiettivi? Aveva la più pallida idea di cosa aveva dovuto fare per ottenere le informazioni sull'ora e il luogo di quello scambio?

Aveva fallito e non era stata colpa sua. Non è colpa mia, si ripeté, ben sapendo che, per i suoi superiori, non esisteva niente di remotamente accettabile ad un'ammissione di discolpa. La missione era la sua, lei ne era la responsabile, e se qualcosa andava storto era lei che ne avrebbe pagato le conseguenze. Nessuno sconto, nessuna scusante. Alla Red Room, tutti si prendevano le proprie responsabilità, tutti pagavano le conseguenze delle proprie azioni.

Sfrecciò sulla riva opposta, concedendosi di rallentare impercettibilmente l'andatura (o almeno si convinse di averlo deciso, ma fu piuttosto il suo corpo a non darle alcuna alternativa). Aveva bisogno di un posto sicuro da cui poter chiamare rinforzi. Andare in ospedale era fuori questione: come avrebbe potuto spiegare una freccia conficcata nella spalla nel bel mezzo della notte?

No, non poteva rischiare di essere scoperta, non dopo il fiasco della nottata.

La cupola di Saint Paul, a malapena distinguibile nell'oscurità, le dette un'idea (ingenua, se ne rendeva conto, ma comunque l'unica che le pareva anche solo lontanamente attuabile).

Chi avrebbe avuto il coraggio di ucciderla in una chiesa?

 

*

 

Doveva ammetterlo: era veloce.

La memoria non lo soccorreva granché in proposito, ma era del tutto convinto che fosse la persona più veloce in cui si fosse mai imbattuto: per uno che aveva lavorato al circo, quel primato non era poi così scontato.

L'aveva guardata mentre sfrecciava su quel ponte quasi non avesse avuto alcun peso, come se non fosse stata in possesso di un corpo. Un corpo vero, fatto di carne ed ossa. Se non le avesse piantato quella freccia nella spalla, si sarebbe convinto di avere a che fare con un fantasma privo di consistenza. La velocità con cui era fuggita dal luogo dello scambio mancato in direzione del fiume, non gli aveva dato che il tempo di appostarsi sul tetto dell'ultimo edificio disponibile prima che il Tamigi tagliasse in due il suo campo giochi. A quel punto era già lontana, ma non abbastanza da impedirgli un tentativo. Non era stato il vento, il problema, o il calcolo della gittata, era stata lei... lei che spariva sempre più rapidamente dalla sua visuale. Come diavolo avesse fatto, poi, a schivare quell'ennesimo colpo, non l'aveva ancora capito.

Ci manca solo che ne fermi una con la mano e poi sono a posto, pensò lugubremente.

Uccidere la gente non era esattamente la parte che preferiva del suo lavoro, anzi. Ma se c'era qualcosa che gli dava sinceramente alla testa era mancare due colpi di fila, uno dopo l'altro. Lui, nel cui vocabolario non esisteva neanche la parola mancare. Eppure, la fantomatica Vedova Nera, era riuscita a rendere quello che doveva essere un centro mortale, una ferita alla spalla, e il colpo di grazia, un fallimento totale. Era vero che aveva delle attenuanti: il vento, la pioggia, l'oscurità... il fatto che i suoi stupidi occhiali per la visione notturna non stessero affatto collaborando.

Fatto sta che la cosa gli bruciava, gli bruciava eccome.

L'aveva seguita oltre il ponte e in direzione della cattedrale di Saint Paul. Era praticamente impossibile seguire le tracce di sangue che la donna stava spargendo sulla strada, lavate via com'erano dall'acqua e dal buio. Non aveva comunque avuto grossi problemi a capire dov'era andata a nascondersi, anche se – in tutta sincerità – l'aveva trovata una scelta a dir poco bizzarra.

In ogni caso, le impronte rosse che aveva lasciato sotto il colonnato dell'ingresso (dove la pioggia non arrivava) non mentivano: decise che doveva aver cercato di aprire uno dei tre portoni principali senza successo, prima di scendere di nuovo i gradini e magari cercare un ingresso secondario. O altro.

Tutto ciò a cui riusciva a pensare era quella scena strappalacrime di Mary Poppins in cui la famosa vecchietta vende mangime per i piccioni. Era sicuro di ricordare anche le parole con precisione, ma... quello non era esattamente il momento più adatto per le sue esibizioni canore.

Seguì la propria intuizione e aggirò la chiesa alla ricerca di un'entrata di servizio, una sagrestia o... qualcosa del genere (le chiese non erano proprio la sua specialità). Sorrise a se stesso quando si imbatté in ciò che cercava: una porticina seminascosta che la donna doveva aver forzato per poi essersi dimenticata di chiuderla alle proprie spalle.

La serata stava decisamente migliorando: forse sarebbe riuscito a finire prima dell'alba e a godersi almeno un po' di riposo prima dell'estrazione da concordare con Phil.

L'aria gelida della cattedrale lo fece rabbrividire: si ricordò cos'era che non gli piaceva nell'atmosfera solenne e apocalittica di certe chiese del Vecchio Continente. Ti facevano sentire piccolo ed insignificante, ecco cosa.

Scosse il capo, come per scrollarsi di dosso l'inquietudine, cercando e trovando quella scia scarlatta che adesso, la Vedova Nera, non poteva più nascondergli. Le gocce dense e scure brillavano impercettibilmente sulle porzioni bianche del pavimento di marmo. Seguì il percorso che la donna gli aveva inconsapevolmente segnato, ritrovandosi a salire delle strette scale per il piano superiore.

Dove sei andata a cacciarti?

Mentre camminava più o meno lentamente, i sensi all'erta, l'arco teso, gli parve di capire perché l'aveva portato là dentro: possibile che fosse tanto sciocca da credere che avrebbe rimandato il suo lavoro ad un altro giorno solo perché si trovavano all'interno di una cattedrale?

Probabilmente lo farei se fossi disperato, ragionò, chiedendosi se la Vedova Nera si sentisse veramente arrivata al capolinea. Era stato scettico quando il direttore Fury l'aveva scelto per quella missione: per quel tipo di lavoro, ci voleva qualcuno che lavorasse da una certa distanza. Tutti coloro che avevano affrontato la donna a tu per tu ne erano inevitabilmente usciti sconfitti, con modalità che per altro l'avrebbero fatto ridere, se non ci fosse comunque stato un cadavere di mezzo. Clint, d'altro canto, era da quel punto di vista impossibile da ingannare. La Vedova Nera aveva bisogno di una certa vicinanza per operare la sua magia, vicinanza che Occhio di Falco non le avrebbe mai concesso. Un'accoppiata vincente. Per lui, ovviamente.

Un rumore improvviso lo distolse dalle proprie elucubrazioni: una macchia nera, uno scorcio di capelli rossi ad un livello ancora superiore e poi più niente. Doveva aver trovato il modo di salire ancora più in alto, magari persino di raggiungere la cupola.

Non ebbe il tempo, né il bisogno di pensarci su eccessivamente: c'erano le sue briciole di sangue a indicargli la strada. Non gli serviva nient'altro per trovarla.

Velocizzò comunque l'andatura, deciso a concludere quell'affare nel modo più rapido ed indolore possibile. Salì gradini su gradini, percorse stretti corridoi, e poi altri gradini, e poi persino una scala a pioli finché non si ritrovò su quella che non poteva essere che la via per il tetto.

Mossa azzardata, pensò sorpreso. Era sicuro che la donna l'avesse visto, che si fosse accorta di lui in cima a quell'edificio, solo pochi minuti prima. E allora perché permettergli di giocare in casa?

Il vento e la pioggia tornarono a fargli compagnia quando riemerse al di sotto del colonnato che cingeva la cupola. I suoi occhi si riabituarono prontamente all'oscurità e alle intemperie, individuando la figura scura della Vedova che si gettava a capofitto giù dal parapetto e sui tetti secondari della cattedrale, per poi tuffarsi su quello centrale e perpendicolare alla facciata.

Sei in trappola.

Decise di seguirla fino alla fine, per evitare che qualche altra controindicazione non richiesta neutralizzasse anche il terzo colpo della serata. Il suo ego non l'avrebbe sopportato, senza contare che tre è il numero perfetto, nonché l'ultimo tentativo che Clint si concedeva per far centro. Ne andava della sua reputazione.

Ci mise qualche secondo a trovare l'equilibrio su quel lungo tetto spiovente. La donna era corsa fino all'ultimo limite concesso, all'ombra della statua che si ergeva più alta sul frontone. Solo quando parve essersi accorta di non avere più alcuna via d'uscita, si voltò verso di lui, la pistola ancora stretta in pugno, la presa incerta: la mano le tremava.

Forza Clint, fallo, si incoraggiò una volta di più quando le fu sufficientemente vicino. Era pur sempre armata e sicuramente dotata di un'ottima mira, sarebbe stato stupido darle il tempo di agire.

“Per chi lavori?” La voce lo raggiunse, roca ma alta al di sopra della pioggia incessante.

“Per qualcuno che ti vuole morta,” non esitò a replicare, l'arco ben teso, il colpo pronto a partire.

“Dovrai restringere un po' il campo,” lo invitò lei. Gli apparve inquietantemente padrona di sé, solo una minuscola incertezza nel suo tono, l'accento russo che emergeva nell'inflessione che dava a certi suoni.

“Ha importanza?”

“Voglio sapere per chi lavori,” insisté, un improvviso calo di tensione sull'ultima parola. Aveva perso molto sangue, velocizzato l'inevitabile con quella folle corsa. Il suo cuore non avrebbe resistito molto a lungo: c'era una vaga possibilità che Clint l'avesse, in un certo senso, già uccisa. Il pensiero, si accorse, non lo consolò in alcun modo.

“Dimmi per chi lavori!” Lo ripeté di nuovo, stavolta senza nascondere rabbia e frustrazione. Era davvero arrivata al capolinea.

Clint esitò, ma dopotutto che male c'era a farle sapere per conto di chi la stava togliendo di mezzo? Tutti hanno diritto ad un ultimo desiderio e la Vedova Nera aveva espresso il suo. Adesso stava a lui decidere se esaudirlo o meno.

“Lavoro per lo SHIELD,” confessò infine. Perché non mi spari?

Stava tenendo sott'occhio l'arma da fuoco puntata nella sua direzione, quando un lampo illuminò a giorno il cielo. Solo in quel momento si accorse della figura estremamente minuta della donna: le gambe magre, le rotondità dei fianchi a malapena accennate. Un giubbotto di pelle aderente le disegnava il profilo del busto... forme acerbe, realizzò, di ragazzina. Il vento le fece cadere il cappuccio sulle spalle, rivelando una massa scura di capelli bagnati, ciocche rosse che le rimanevano appiccicate sul viso umido. Gli occhi verdi, profondi, attenti eppure – gli sembrò – non a fuoco (ecco perché non gli sparava, comprese, non riusciva a vederlo per bene). Il naso piccolo, le labbra piene e pallide, non un filo di trucco.

Lo stomaco gli sprofondò mentre la consapevolezza si faceva strada dentro di lui.

E' una ragazzina, pensò. Quanti anni poteva avere? Sedici? Quindici? Forse meno... forse... forse di più? Tentò di ricordare un qualsiasi dettaglio sulla sua figura nel fascicolo che Phil gli aveva consegnato quando l'aveva informato della missione. No, nessuno conosceva l'età della Vedova Nera. Eppure, una donna tale da guadagnarsi un soprannome del genere doveva avere delle capacità piuttosto specifiche, capacità che non avrebbe mai potuto (o voluto) associare ad una ragazzina.

L'avevano mandato ad ammazzare una... una bambina.

“Quanti anni hai?” Le chiese, la voce prosciugata di ogni sarcasmo. Indietreggiò di un passo, assicurandosi che le fosse impossibile prendere la mira.

La Vedova non rispose.

Ritentò.

“Quanti anni hai?”

La vide espirare ed inspirare profondamente: si stava preparando a sparare. Prese una fulminea decisione: scoccò la sua terza freccia, quella che avrebbe dovuto ucciderla, per disarmarla. La pistola schizzò via dalla sua presa, cadendo giù dal tetto e fuori dalla sua portata.

Si avvicinò lentamente di un paio di metri, tenendola sottotiro, come in attesa di vederla estrarre un'altra arma. Non lo fece. A giudicare dal suo modus operandi doveva avere qualche coltello nascosto tra i vestiti, ma doveva anche essersi accorta che immischiarsi in un corpo a corpo in quelle condizioni non le avrebbe fatto alcun favore. (Il pensiero che i corpo a corpo a cui era abituata erano tutt'altri, lo nauseò.)

Abbassò lentamente l'arco, cercando il suo sguardo: stava combattendo per restare sveglia.

“Quanti anni hai? Posso... posso aiutarti, lo sai?”

“Non trattarmi d-da idiota. Non sono una bambina,” gli rispose astiosamente, alzando il mento in un gesto che sarebbe risultato sprezzante se non fosse stata sul punto di perdere i sensi (e la vita).
“Non ne sono... del tutto sicuro,” formulò con cautela.

“Non sono una b-bambina,” ribadì.

Clint fu improvvisamente certo che non lo fosse mai stata realmente. Che razza di spostati assoldano ragazzine per fare il loro lavoro sporco? Chi è che si mette in condizione di farsi raggirare da una quindicenne? Che... che schifo.

“Ascoltami, lo SHIELD ti può aiutare.”

“A-Aiutarmi?” Si mise a ridere. “A far cosa? A... c-combattere con una clava?”

In qualsiasi altra circostanza, si sarebbe complimentato per la battuta, ma quello non era il momento.

“No, ascoltami. I miei superiori possono proteggerti dai tuoi capi, possono tenerti al sicuro, non dovrai p -”

“NON SONO UNA BAMBINA!”

L'urlo l'aveva zittito di colpo: solo in quell'istante si era accorto di quanto suonasse giovane la sua voce. La rendeva più roca e adulta di proposito? Possibile che...

“Sono la Vedova Nera!” Esclamò, adesso disperatamente, “uccido le persone! Uccido le persone per il mio paese e sono la migliore in ciò che faccio! La migliore!” Si indicava furiosamente, come per sottolineare la cosa. “Lo sai quante persone ho ucciso? Lo sai quante missioni s-sono riuscita a portare a termine?” Scoppiò a ridere, una risata acuta e innaturale. “Sono la migliore,” stabilì per l'ennesima volta, “e ho fallito perché tu ti sei messo nel mezzo!”

L'accusa lo colpì alla sprovvista, rabbiosa. La paura le si era dipinta su tutto il volto, nella postura, nella voce.

“Ti sei messo nel mezzo e adesso io sarò punita! Ricominceranno da capo di nuovo! Di nuovo!

“Te l'ho detto, se vieni con me, i miei su -”

“NO!” Un colpo di tosse la zittì per qualche secondo, finché non riprese pieno controllo di sé (o almeno quel tanto che le era concesso in quelle condizioni). “No... s-siete tutti uguali. Tutti uguali.”

Aveva cominciato a scuotere la testa, a sbattere le palpebre sempre più rapidamente. Si portò una mano al mozzicone di freccia che le fuoriusciva dalla spalla, premendo con forza: il dolore la riportò all'attenzione, violentemente.

Gli si gelò il sangue nelle vene. Che cazzo ti hanno fatto per farti diventare così?

“Non m-mi avrete mai,” dichiarò con convinzione, indietreggiando lentamente verso la facciata. Guardò giù, una solta volta. “V-Voi siete tutti u-uguali. Mi punirete... l-loro...,” l'ennesimo tuono si portò via le sue parole.

Il tempo sembrò rallentare.

La pioggia cadeva fitta e un lampo imbiancò il cielo quando la Vedova Nera si lasciò cadere nel vuoto.

Clint scattò in avanti, pescando dalla faretra ed incoccando una freccia ben specifica.

L'istinto prese il sopravvento: si gettò dal parapetto, l'arco teso. Ruotò a mezz'aria mentre precipitava nel vuoto: scoccò il dardo, sentendolo sibilare nel vento. La differenza di stazza lo aiutò a raggiungere la ragazza, ad afferrarla miracolosamente per la vita, ad attirarla a sé che era già svenuta.

La freccia trovò un appiglio, il cavo ultrasottile e ultraresistente a cui Clint era appeso per la cintura si tese bruscamente, imponendosi violentemente alla forza di gravità. Si morse a sangue le guance nel tentativo di trattenere il dolore del contraccolpo.

La Vedova Nera, nient'altro che una ragazzina, giaceva inerme nella presa del suo braccio, il capo riverso all'indietro. Si sentì agghiacciare: quindici anni? Ne avrà a malapena tredici.

Restò in contemplazione della sua figura per un lungo istante, mentre il cavo li faceva scendere lentamente fino alla gradinata sottostante. Le impellenti necessità del momento tornarono a reclamare tutta la sua attenzione non appena la suola dei suoi stivali ritrovò il suolo. Si impedì di ragionare sulle implicazioni di ciò che aveva appena fatto, limitandosi ad adagiare la ragazza al suolo.

Tirò fuori il suo microscopico cellulare – tecnologia SHIELD d'ultimo grido – in fretta e furia, digitando forsennatamente il numero di Phil Coulson. Trattenne il respiro finché la voce del suo agente supervisore non gli fece eco dall'altro capo del telefono.

“Phil... non ti piacerà.”

 

*

 

Si stava tamponando il viso con un asciugamano quando Phil riemerse dall'infermeria allestita nel retro del quinjet che li stava riportando a casa. Clint si limitò a guardarlo, un misto di preoccupazione e speranza sul volto, insieme ad una quantità indecente di sensazioni che aveva giurato a se stesso di non voler provare mai più.

“Ha perso molto sangue, ma vivrà se sarà in grado di superare la notte,” lo informò, sedendoglisi di fianco sulla panca metallica che occupava quella parete del velivolo.

“Credi che Fury lo sapesse?” Si ritrovò a chiedere, scrutando con attenzione il volto di Coulson per essere sicuro che ne fosse stato all'oscuro tanto quanto lui.

“Che la donna che ha ucciso un centinaio di persone nell'ultimo anno, ha meno di quindici anni?”

Clint annuì.

“Non credo,” scosse il capo. “Le uniche foto che abbiamo di lei sono quelle incluse nel fascicolo.”

Le ricordava bene, macchie sgranate, cappucci neri, il retro di una testa rossa. Nient'altro. L'unico motivo per cui aveva supposto che si trattasse di una donna era per via del nome in codice, non perché l'avesse desunto da quegli scatti di fatto inutilizzabili.

Rimasero in silenzio per qualche attimo, in contemplazione dello scenario che si stagliava di fronte ai loro occhi. Dovevano averle fatto il lavaggio del cervello: era solo una bambina, cosa avrebbe potuto saperne di intrighi internazionali, omicidi su commissione, segreti... ?

“Non potevo ammazzarla,” sussurrò Clint, turbato. “Non potevo e basta.”

Phil abbozzò un sorriso nella sua direzione, insieme ad una leggera pacca sulla spalla.

“Hai fatto bene.”

Gliene chiese conferma con lo sguardo, incerto. Phil comprese ed annuì.

“La missione era mettere la Vedova Nera nella condizione di non poter uccidere di nuovo. E' quello che hai fatto.”

“E Fury?”

“Il direttore capirà, vedrai,” decretò, rimettendosi in piedi con un sospiro. “Vado a parlare con il pilota. Tu riposati. Avrai una quantità infinita di verbali da redigere domani.”

Clint fece una smorfia inorridita.

“Era proprio quello che volevo sentirmi dire, grazie Phil. Tu sì che sai come consolare un uomo.”

Coulson si mise a ridere, sparendo dalla sua visuale. Lo seguì con lo sguardo finché il retro della sua giacca di sartoria (una delle tante) non sparì oltre l'ingresso della carlinga.

Si distese sulla panca dopo aver appallottolato l'asciugamano a mo' di cuscino. Ci appoggiò la testa e si sistemò su un fianco, rannicchiandosi su se stesso in quello spazio scomodo e ristretto.

Non gli ci volle molto per prendere sonno.

Il suo ultimo pensiero, prima di scivolare nell'incoscienza, fu per la Vedova Nera.

 

****************




Questa storia nasce per un treno (sì, un treno XD) partito improvvisamente nel leggere una speculazione secondo cui nell'MCU, Clint sarebbe stato mandato ad uccidere Natasha quando la Vedova Nera aveva a malapena tredici anni (facendo i conti con il suo anno di nascita - il 1984 - rivelato in Captain America 2 e altri riferimenti), il che non ha fatto altro che ridipingere un po' tutta l'idea che avevo di loro a tinte (ancora) più fosche. Ci saranno frequenti salti temporali, POV alternati (ma con una predilezione per il personaggio di Natasha), e cercherò *più o meno* di seguire il canon dei film, aggiungendoci ovviamente del mio :P (Ci tengo anche a precisare che sono estremamente monotematica, e quando dico che questa storia è su Clint e Natasha, intendo che sono anche gli unici - salvo apparizioni e secondari - personaggi sulla scena ù_ù)
Un ringraziamento particolare va all'Eli, of course, perché ci si foga a vicenda, perché mi ispira con le sue storie, e perché ha betato la presente :*
E ovviamente a chi è arrivato fin qui a leggere i miei sproloqui!
Alla prossima,
S.

 

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Capitolo 2
*** Welcome to the New Age ***


2

 

I'm waking up, I feel it in my bones
Enough to make my systems blow
Welcome to the new age, to the new age

(Imagine Dragons - Radioactive)

 

E' una minaccia. Reintrodurla nella società è assolutamente fuori discussione.”

Che cosa suggerisce allora? Dovremmo rinchiuderla in una cella e buttare via la chiave?”

Non capisco cosa aspettiate a farlo. E' un'assassina.”

Ha tredici anni.”

E con questo? Vi siete improvvisamente rammolliti? Non credevo foste un centro di riabilitazione!”

Si risparmi il sarcasmo, agente Polmar.”

Oh, scusami Sitwell, credevo stessimo giocando a chi la dice più grossa.”

Il direttore Fury osservava pigramente prima l'uno, poi l'altro interlocutore, più preoccupato dal mal di testa incipiente che da quell'inutile scambio di opinioni. Lo sapeva che indire una riunione sul caso della Vedova Nera (nel suo ufficio, per di più!) non sarebbe servito a niente... a meno che lo scopo non fosse quello di annoiarlo e seccarlo a morte. In quel caso erano particolarmente (nonché pericolosamente) vicini al conseguimento del loro fine.

Agenti,” pronunciò solamente. Le confabulazioni cessarono di colpo... o quasi.

Direttore Fury, lei sicuramente si renderà conto del pericolo in cui metteremmo i nostri citt -”

Agente Polmar, stia zitto,” decretò con tono definitivo. Sono circondato da un branco di idioti, burocrati e politici, realizzò con disgusto, che poi sono la stessa cosa.

Si rimise in piedi, congiungendo le mani dietro la schiena e concedendosi qualche passo all'interno del suo ufficio ancora da arredare. Non disse niente per un lunghissimo attimo: finse di riflettere mentre gli altri due si trattenevano a malapena dal riaprire la bocca.

Effettueremo ulteriori valutazioni, fisiche, psicologiche...”

Ma direttore!” Sbottò Polmar, “la ragazza mi ha staccato un orecchio... a morsi!” Gesticolò furiosamente, esibendo la fasciatura che gli ricopriva metà della testa insieme all'orecchio sinistro.

Agente Polmar, le erano state impartite precise direttive riguardo la signorina Romanova.”

Signor -,” si bloccò, come incapace di sopportare l'assurdità del titolo, “signorina Romanova? Stiamo parlando di una mercenaria che ha ucciso quasi cento persone nel giro di undici mesi!”

Una tredicenne sedata e legata ad un letto è riuscita ad avere la meglio su di lei, agente Polmar,” gli ricordò Fury con freddezza inquietante. Se doveva essere del tutto sincero con se stesso, l'aggressione della Vedova Nera ai danni di quell'imbecille era il principale motivo per cui aveva deciso di darle una chance.

L'uomo si fece paonazzo, il pomo d'Adamo che gli si abbassava e alzava freneticamente a fior di gola.

Sta commettendo un grave errore, direttore.”

Nessuno l'ha invitata ad avvicinare la prigioniera, né ad ingaggiarla in alcun tipo di contatto, dialogico o meno. Quello che doveva fare era monitorarla da una distanza di sicurezza. Lei ha evidentemente deciso che attenersi alle direttive sarebbe stato inutile, con le conseguenze che lei ha tanto insistentemente sottolineato. Non credo di dovermi prendere la responsabilità della sua incompetenza.”

Dir -”

Basta. Uscite di qui tutti e due.”

L'agente Sitwell era in piedi prima ancora che Fury potesse completare la frase, mentre l'altro parve esitare ancora qualche secondo prima di decidere che era meglio smettere di parlare che continuare a scavarsi la fossa. Il direttore si limitò a guardarli mentre sparivano oltre la porta, permettendogli di scorgere Phil Coulson fermo nel corridoio antistante l'ufficio.

Coulson,” lo invitò ad entrare con un cenno della mano, “ricordi quei test di cui avevamo parlato?”

Coulson annuì.

Dai l'ordine di procedere.”

 

*

8 anni dopo

 

“Ti dico che l'ho vista sulla pista d'atterraggio.”

“Te lo devi essere inventato.”

“No! Cazzo, Kevin, puoi almeno sforzarti di non fare lo stronzo?”

“Non sto facendo lo stronzo. Solo che non sono interessato alle femme fatale che lo SHIELD sceglie di assoldare.”

“Femme fatale?”

“Certo. Siamo un'organizzazione seria non un dannato concorso di bellezza!”

“Bè, dicono sia operativa dall'inizio dell'anno, che abbia una percentuale di successo del cento per cento!”

“Non è poi così sconcertante quando pensi che ha portato a termine tre missioni in croce. Avrà sedotto tre stoccafissi diversi, sai che novità.”

“Questo non puoi saperlo.”

“E tu? Puoi?”

La ragazza, impegnata in una sessione di stretching, gli scoccò un'occhiata infernale prima di prendere le sue cose e allontanarsi in direzione di un attrezzo sistemato al capo opposto della palestra.

Clint non poté fare a meno di constatare che Kevin l'idiota aveva vinto. O perso, dipendeva dai punti di vista. Fatto stava che ne aveva abbastanza di chiacchiere e gossip (per non parlare di certi soggetti veramente discutibili che si ostinavano ad aggirarsi per le sale allenamenti dello SHIELD).

Alzò il volume del suo lettore MP3 al massimo, aumentò la velocità del tapis roulant sul quale stava correndo e tornò ad isolarsi dal resto del mondo...

 

*

 

Il sole le ferì gli occhi, costringendola ad alzare un braccio per schermarsi il viso. L'aria era fredda, ma non quanto quella a cui era abituata in Russia. Fu principalmente da quel particolare che comprese, senza il minimo dubbio, di non essere tornata a casa. Se una casa l'aveva mai avuta, certo. (La Vedova Nera ce l'ha, pensò, sono io a non averla.)

Restò immobile ad osservare i movimenti degli impiegati di quell'enorme edificio: aveva ormai capito di trovarsi su proprietà SHIELD. Uomini e donne le passavano di fianco senza degnarla di uno sguardo, quasi fossero stati istruiti ad ignorarla.

Doveva ammettere che il modo in cui era riuscita a liberarsi (delle manette e della guardia che la teneva sott'occhio), a trovare una via d'uscita senza incontrare particolari ostacoli e finalmente a raggiungere l'aria aperta, le era sembrato un tantino sospetto.

Troppo semplice, si ripeté. Le avevano insegnato a diffidare da tutto ciò che appariva troppo banale. E quella fuga, bè, quella fuga era stata estremamente banale.

Ciò che le interessava, comunque, era di essere libera.

Finalmente libera di poter fare le proprie scelte: tornare nel mondo, trovare un modo di ritornare in Russia, magari. Oppure fuggire, fuggire sul serio stavolta, lontana dallo SHIELD e dalla Red Room, lontana da tutto ciò che aveva condizionato la sua vita fino al momento in cui aveva deciso di saltare nel vuoto.

Sarebbe persino potuta diventare una... una persona normale.

Passò in rassegna gli individui che le sfrecciavano davanti, ciascuno preso dai propri pensieri o da conversazioni insignificanti. Qualcuno ascoltava la musica, altri erano occupati a studiare il proprio telefono.

Mentre cercava di capire cosa significasse essere una persona normale, magari individuando qualcuno che valesse la pena di imitare, si accorse che non ne aveva la più pallida idea.

Certo, poteva smettere di fare quello che faceva. Quella era la parte facile. Ma poi? Sarebbe tornata a scuola? Sarebbe andata a vivere da sola? Era sicura di non avere l'età giusta per farlo (anagraficamente, almeno), né quella necessaria a potersi trovare un lavoro. Una famiglia da cui tornare non ce l'aveva: sapeva che i suoi genitori erano morti in un incidente d'auto, ma non si fidava di quel ricordo come di nessun altro. Non da quando aveva capito in che cosa consistevano i trattamenti cui veniva sottoposta a scadenze regolari: ufficialmente dei check-up medici, ufficiosamente le entravano nella testa, facendo del suo corpo e della sua mente tutto ciò che ritenevano di volta in volta necessario. D'altro canto, non poteva neppure mettersi alla ricerca di persone che, per quanto ne sapeva e a dispetto di quanto aveva desiderato il contrario, potevano tranquillamente non esistere.

Fu il pensiero dei suoi superiori a ricordarle che non aveva nessun posto dove andare, nessun luogo sicuro in cui nascondersi, e soprattutto nessuno a cui rivolgersi. C'era una possibilità (sebbene piccolissima) che la credessero morta, uccisa dall'arciere che lo SHIELD le aveva messo alle costole. Non conosceva il loro modus operandi, non sapeva se dopo un'uccisione erano soliti far sparire i cadaveri... poteva trovare il modo di tornare indietro, certo, ma l'avrebbero punita comunque. I suoi capi non sentivano ragioni, l'aveva imparato a sue spese.

Poteva fuggire per conto proprio, diventare una ricercata sia per lo SHIELD che per la Red Room, scappare da entrambi e cercare un modo per sopravvivere contando solo sulle sue stesse forze.

Oppure...

Rimase immobile in contemplazione di tutta quella gente, osservò il mondo che si apriva oltre l'enorme spiazzo antistante l'edificio e capì che c'era una sola cosa da fare se voleva prendere la decisione più sensata. Il panico, intontito dai sedativi che le avevano somministrato, sembrava pulsare da qualche parte all'altezza dello stomaco, sopito e in attesa di esplodere.

L'idea di dover prendere delle decisioni autonome che non avessero a che vedere con come uccidere una persona, quando e con cosa, la terrorizzava.

Lasciò che la consapevolezza si facesse strada dentro di lei, sempre più evidente e lampante, dopodiché varcò nuovamente l'ingresso principale dell'edificio, stavolta nella direzione opposta.

Un uomo, un sorriso gentile sul volto, sembrava aspettarla poco distante.

Da questa parte, signorina Romanova,” la invitò con un gesto della mano.

Le fu chiaro come l'avevano lasciata andare solo per farle capire che non aveva nessuna alternativa.

Se non quella.

 

*

 

Uscì dalla sala allenamenti che era ormai tarda serata. Dai pannelli di vetro dell'helicarrier, il cielo nerissimo si confondeva col buio dei corridoi del quartier generale volante dello SHIELD.

Ancora ventiquattr'ore di permanenza e gli avrebbero affidato la missione successiva: qualcosa di urgente, a quanto pareva, o non l'avrebbero costretto a ripartire dopo neppure due giorni dal suo atterraggio alla base. Era vero che l'operazione in Madagascar non era stata poi così complicata da richiedere un particolare tempo di ripresa, ma gli sarebbe comunque piaciuto godersi un po' il suo appartamento di Brooklyn nuovo di pacca (per lui, almeno), prima di tornare a lavoro.

Si scrollò di dosso il disappunto, passandosi l'asciugamano sul collo sudato mentre si dirigeva a passo spedito verso la cabina che gli era stata assegnata al suo arrivo.

Il rumore di passi in avvicinamento e il bip insistente del suo telefono cellulare lo raggiunsero contemporaneamente. Dev'essere Phil. Sperò ardentemente che, qualora la missione fosse stata anticipata, gli avrebbero comunque concesso il tempo di farsi una meritata doccia.

I passi sempre più vicini. (Tre persone, tese l'orecchio senza neppure averlo preventivato, una deformazione professionale, una con passo irregolare.)

Stava studiando il messaggio che gli era arrivato (non era di Phil, ma di Lillian, la ragazza che aveva conosciuto al negozio di articoli sportivi una decina di giorni prima), quando il gruppetto di tre agenti in avanzamento lungo il corridoio, due uomini e una donna, gli passò di fianco nella direzione opposta alla sua.

Mentre andava nel panico per quell'invito a bere un caffè che non si aspettava (non si ricordava neppure di averle lasciato il suo numero!), Clint si voltò istintivamente indietro.

Colse solo uno stralcio del trio che si allontanava rapidamente. Fu la donna ad attirare la sua attenzione, o almeno le parti di lei che riuscì a scorgere: una massa di capelli rossi, dei punti sulla guancia, la divisa dello SHIELD che le fasciava il fisico alla perfezione e nient'altro.

Anche lei, per un misero istante, si era girata a guardarlo prima di svanire, inghiottita dalla curva del corridoio... o almeno gli era sembrato di intuirne il movimento.

Si fermò, sicuro di essersi perso qualcosa. Si sentì stupido: l'aveva vista a malapena in faccia.

No, forse non aveva niente a che vedere con la donna o il trio di cui faceva parte.

Restò immobile in fissa del niente, inspiegabilmente sovrappensiero.

Un'idea gli balenò per la testa, districandolo momentaneamente da quel groviglio di pensieri.

Ho dimenticato il lettore MP3 in palestra!

Ritornò rapidamente sui suoi passi.

Una patina di sudore gli inumidì la fronte al pensiero che qualcuno potesse scoprirne i contenuti più compromettenti (la colonna sonora completa di Titanic, in primis).

 

*

 

L'auto, un grosso SUV nero, accostò a lato della strada. Oltre il finestrino oscurato, Natasha – così era scritto sui suoi nuovi documenti – si ritrovò ad osservare un gigantesco complesso di vetro e cemento circondato da verde... verde a perdita d'occhio. I prati erano gremiti di gruppetti di quelli che riconobbe come studenti. Alcuni più grandi, altri più giovani, la maggior parte con uno zaino sulle spalle o una borsa a tracolla. Lo stomaco le si strinse al pensiero di dover vivere tra tutte quelle persone, di essere costretta a condividere uno spazio tanto affollato: non era affatto sicura di potercela fare.

Posso esservi d'aiuto sul campo,” ripeté per la milionesima volta, tornando a guardare avanti a sé, verso il posto di guida, occupato dal direttore Fury.

Nonostante tutto (anche se non l'avrebbe confessato neppure sotto tortura), quell'uomo le piaceva. Le infondeva, inspiegabilmente, più fiducia di qualunque altro agente avesse incontrato nei suoi giorni di permanenza allo SHIELD: né troppo scontroso, né troppo amichevole. Era semplice e diretto, né si preoccupava di non ferire i sentimenti dei suoi interlocutori.

Essenziale. Ecco come l'avrebbe definito.

L'uomo si voltò verso di lei, l'aria indispettita vivissima nel suo unico occhio scoperto.

Credevo che avessimo già stabilito perché non è una buona idea.”

Lei l'ha stabilito,” ribatté, senza metterci troppa convinzione. “Fosse stato per me...”

Non manderò una tredicenne sul campo. Non è così che facciamo le cose qui.”

Natasha alzò gli occhi al soffitto dell'abitacolo. Fury la incenerì con lo sguardo: le aveva già ampiamente comunicato quanto detestasse quel particolare comportamento.

Sono capace.”

L'uomo sospirò, sforzandosi di addolcire (con scarsissimi risultati) il tono di voce.

Lo so che sei capace,” sentenziò, cercando – piuttosto scopertamente, per altro – di farle capire che era sincero (era persino passato dal “lei” al “tu”... un trucchetto da principianti), “non è quello il problema.”

Allora qual è?”

Devi capire cosa vuoi fare della tua vita. E adesso sei troppo confusa per poterlo fare.”

Com'è che frequentare un'accademia dovrebbe farmi capire cosa voglio fare della mia vita?”

Funziona così per tutti.”

Per le persone normali?”

Per tutti,” confermò. “Qui sarai al sicuro.” Recuperò una serie di fascicoli dal sedile del passeggero, porgendoglieli. “Qui ci sono gli orari dei corsi e degli allenamenti.”

Natasha dette un'occhiata alla tabella: sembravano esserci più cose da fare e posti in cui essere di quanto tempo avesse a disposizione.

Fury le scoccò un'occhiata esplicativa. “Ti avevo detto di non scegliere troppe attività tutte insieme.”

Non ho nient'altro da fare,” minimizzò con una scrollata di spalle. Aveva avuto talmente tanta difficoltà a scegliere tra lingue, informatica, geografia e storia e algebra e chissà che altra materia teorica e i vari allenamenti fisici, che alla fine aveva semplicemente scelto di fare tutto. Come faceva a capire di voler fare qualcosa se prima non la provava?

Recuperò le sue cose, la cartellina che le aveva consegnato Fury e uno zaino che non conteneva altro che una bottiglia d'acqua mezza vuota.

Questo è il biglietto della signora Lang: sarà lei a consegnarti le chiavi della tua stanza in dormitorio.”

Lo so, me l'ha già detto.”

Volevo essere sicuro che non te ne dimenticassi,” specificò, redarguendola di nuovo con lo sguardo. Aspettò che Natasha si fosse presa il biglietto da visita per porgerle, stavolta, un pezzetto di carta sgualcita sul quale era scarabocchiato un numero di telefono.

Tornò a guardare avanti, sottraendosi al suo sguardo prima di riprendere a parlare.

Questo è il mio numero. Chiamami se ne hai bisogno.”

L'averlo conosciuto per così poco tempo non le impedì comunque di percepire la straordinarietà del momento. Per quale motivo aveva interrotto il contatto visivo, altrimenti? Perché colto da improvviso interesse per gli aceri del giardino? Natasha lo dubitava fortemente.

Va bene,” replicò soltanto, sfilandogli il foglietto dalle dita per infilarlo nello zaino insieme alla bottiglietta d'acqua e alla sua voglia di ribellarsi.

Fu solo allora, quando era sicura di non aver nessun altro modo in cui posticipare l'inevitabile, che si decise a scendere dall'auto. Non ebbe il tempo di raggiungere il marciapiede e voltarsi un'ultima volta, che Fury e il suo SUV erano già spariti.

Trattenne il respiro e strinse a sé i fascicoli che contenevano le informazioni sui corsi, gli orari, a chi rivolgersi quando come e perché. Ci si aggrappò come avrebbe fatto con un salvagente in mare aperto. Non ricordava di essere stata tanto a disagio in vita sua.

Contò alla rovescia da dieci a zero prima di muovere i primi passi sul campus dell'accademia dello SHIELD.

Casa.

Per ora.

Forse.

 

*

 

Raggiunse la zona refettorio che erano le sei e mezzo del mattino. Non era riuscito a chiudere occhio per tutta la notte, né a farsi venire la voglia (o la disperazione) di aspettare il sonno e il mattino insieme. Se il primo aveva continuato ad eluderlo, l'alba non si era fatta attendere, liberandolo da quello stupido obbligo autoimposto. Si sarebbe riposato più tardi, dopo aver fatto una sostanziosa colazione e soprattutto dopo aver ingollato una quantità industriale di caffè (no, il controsenso non gli sfuggiva, ma nemmeno gli interessava).

Si affrettò ad afferrare un vassoio dalla pila sistemata vicino al bancone, a recuperare delle posate di plastica confezionate e a seguire l'esigua fila di agenti già svegli e pronti a cominciare la giornata. Si riempì il piatto di fette di pane tostato, marmellata di more (neppure gli piaceva, la marmellata di more, ma che importanza aveva?), burro, un paio di cornetti appena sfornati, uova, bacon e, infine, caffè nella tazza più grande che avevano a disposizione (non abbastanza grande per i suoi gusti, comunque).

Riportò il suo bottino ad un tavolo vuoto, messo leggermente in disparte rispetto agli altri e con una straordinaria vista sul... bè, sul cielo. Non c'era nient'altro che cielo da vedere a chilometri e chilometri di distanza. Non che gli dispiacesse: dopotutto non si supponeva fosse quello il suo habitat naturale?

Anche il falco ha bisogno di un nido, si rammentò, inquietandosi profondamente.

Non ricordava esattamente quando fosse stata la prima volta in cui aveva cominciato a riferirsi a se stesso come “il falco”, ma capitava spesso che l'assurdità della formulazione lo colpisse. Sono suonato, questo lo sanno tutti. Me compreso.

Occupò i successivi tre minuti a spalmare burro e marmellata, intervallando ciascuna mossa con un sorso di caffè.

Quando ebbe finito (il caffè) si alzò per un rifornimento, una fetta di pane che gli penzolava ancora dalla bocca (no, non aveva proprio potuto aspettare). Gli venne la malaugurata idea di masticare e, se un boccone fu al sicuro tra le sue fauci, il restante cadde a terra con un impercettibile splat. I suoi riflessi non lo soccorsero: aveva le mani occupate (si era dimenticato lo zucchero!). Si immobilizzò di colpo, controllando che nessuno lo stesse osservando: passò in rassegna la stanza e no, capì che erano tutti troppo presi da altro per potergli dare retta. Tossicchiò con nonchalance, e calciò discretamente la fetta di pane sotto il tavolo più vicino prima di precipitarsi (sempre in scioltezza) alla sua postazione, dove il resto della sua colazione lo stava aspettando.

Azzannò uno dei croissant (innaffiato da una generosa sorsata di caffè) proprio mentre una persona gli si sedeva davanti. Decisamente non invitata.

Che cazzo, è pieno di posto!

Il pensiero gli morì nel cervello (insieme a tutto il resto, ebbe la netta impressione) quando rialzò lo sguardo sul neo-arrivato.

Neo-arrivata, anzi.

Una donna dall'età non quantificabile, i capelli ancora bagnati ad incorniciarle il viso, lo stava osservando con espressione indecifrabile (anche se avrebbe osato dire non ostile). La ricollegò, istintivamente e senza alcuno sforzo, alla donna di cui aveva sentito chiacchierare quei due in palestra. La stessa che aveva incrociato in corridoio senza essere riuscito ad averne una visuale decente (i punti sulla guancia erano ancora lì).

Il suo cervello andò nel panico nel tentativo di ricordare chi fosse e come e perché gli risultasse vagamente familiare.

E' la donna dei miei sogni? Azzardò, chiedendosi se non stesse, per l'appunto, ancora sognando. No, è ancora vestita, constatò. La canottiera marchiata SHIELD che indossava non mentiva (e le sue donne oniriche non indossavano proprio niente del genere).

Risprofondò nel terrore, chiedendosi se non fosse un'altra a cui aveva dato il suo numero di telefono per poi dimenticarsene (cazzo, c'era ancora la questione Lillian da sistemare). Gli bastò guardarla per bene per capire che: uno, non avrebbe mai avuto il coraggio di darle il suo numero di telefono (aveva l'aria di una che si mangia palle di sfigato saltate in padella ogni mattina) (e sperò di no per lei, perché avrebbe mangiato molto poco in quel caso); due, se anche fosse stato abbastanza folle per farlo, di sicuro non se ne sarebbe dimenticato tanto facilmente.

Fu solo quando i fumi dell'idiozia si furono leggermente diradati, che si accorse di quegli occhi. Verdi, assorti... pacati e furiosi in egual misura.

Un flash.

La pioggia.

Il vento.

La cattedrale.

E perché cazzo gli era improvvisamente tornata in mente una canzone di Mary Poppins?

La donna doveva essersi accorta della sua consapevolezza perché sembrò come sbloccarsi: allungò una mano e si servì di uno dei croissant che giacevano ancora intonsi sul suo vassoio, senza preoccuparsi di chiedere il permesso.

“Sei invecchiato.”

Si sentì come schiaffeggiato dalla visione (e – più tardi realizzò – pure dal commento), violentemente.

La Vedova Nera l'aveva raggiunto per colazione.

 
****************

Hello! Si comincia con i salti nel tempo :D
Non so voi ma la prima cosa che mi sono immaginata, prendendo per buona la versione in cui Clint decide di non uccidere Natasha quando lei ha solo 13 anni, è stata come avrebbe reagito lui nel rivederla da grande...  quindi mi sono divertita un po' con quest'ultima scena :P L'ho distanziata nel tempo proprio per fargli subire lo shock ù_ù (e anche perché non saprei che razza di rapporto si sarebbe potuto creare se Natasha fosse tutto sommato cresciuta e diventata grande vedendolo costantemente... ma questa è letteralmente un'altra storia XD)
Grazie alla mia beta-socia-alfa-amica-fangirl-gamma-c3po Eli, per i Renner sudati e tutte cose (scusa adesso te li sorbisci anche te i ringraziamenti per capitolo XD).
Grazie a chi si è fermato a leggere, leggere e commentare, dare una sbirciatina, ecc. ecc. Mi fa sempre un gran piacere <3
Al prossimo capitolo!
S.

 

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Capitolo 3
*** It's Always Darkest Before the Dawn ***


3


And I am done with my graceless heart
So tonight I'm gonna cut it out and then restart
'Cause I like to keep my issues drawn
It's always darkest before the dawn

(Florence + the Machine – Shake it Out)

 

 

Sei invecchiato.”

 

Gli ci volle un secondo di troppo per riprendersi dallo stato di semi-catatonia in cui era precipitato. La donna taceva, l'ombra di un sorriso ad incresparle le labbra: sembrava divertita dallo shock che – Clint non aveva dubbi – riusciva a leggergli su tutta la faccia.

“A-Anche... ahm... w-woah?” Ommerda, Clint, sta' zitto, si maledì, mentre supplicava i suoi muscoli, nervi, cervello, organi interni, di tornare al loro dannato posto.

Va bene, la ragazzina per la quale si era tuffato dalla sommità della cattedrale di Saint Paul aveva fatto un brusco ritorno nella sua vita sotto forma di... donna mozzafiato, ma questo non giustificava lo stupore.

Oppure sì?

La Vedova Nera sbocconcellava il croissant, prestandogli disinteressata (o presunta tale) attenzione con aria curiosa e annoiata insieme (la coesistenza di estremi nella sua persona cominciava a diventare una costante).

“Non ti ricordi di me o la demenza senile galoppa più rapidamente del previsto?” Gli chiese, mentre Clint continuava a fissarla, inebetito.

Afferrò la tazza e bevve un lunghissimo sorso di caffè, come se il gesto potesse riportarlo coi piedi ben piantati per terra (nonché dimostrargli di essere ancora nel pieno possesso delle proprie facoltà psico-motorie e non, piuttosto, abbandonato sullo scomodissimo letto della sua cabina a cercare di prendere sonno).

“Oh... oh mi ricordo. Bene,” puntualizzò, prima che gli venisse inspiegabilmente da ridere. Che cazzo ti prende? Fece schioccare la lingua e cercò di richiamarsi nuovamente all'ordine. “Non credevo che saresti rimasta... nel campo.”

La donna si strinse nelle spalle: l'aria annoiata lasciò il posto a qualcosa di non meglio definito, qualcosa che stonava con tutto il resto. Un'anomalia, magari. Forse lo stava studiando, forse... forse neppure lei sapeva come comportarsi.

Eppure la postura, il modo in cui l'aveva avvicinato, tutto suggerivano tranne che imbarazzo. Anzi, si accorse che c'era come un'aura di confidenza e sicurezza che emanava da ogni singolo centimetro del suo corpo. Un alone invisibile ed impalpabile che la rendeva intoccabile, irraggiungibile, inscalfibile. Nonostante tutto, si sentiva decisamente messo in soggezione.

Non gli rispose, facendolo risprofondare in un acutissimo disagio che non tardò a palesarsi. Mi sudano le mani, realizzò, trovando il tutto esilarante in modo vagamente patetico. Quanti anni hai, Barton, dodici?

“Avevo chiesto di poterti far visita, ma... non me l'hanno permesso.”

“Non volevo vederti,” la replica stavolta fu schietta e sincera.

“Ouch,” e così la sua. Si portò una mano al cuore come per sottolineare la teatralità del momento, un gesto che gli venne talmente spontaneo da non avere il modo (o il tempo) di poterselo impedire.

“Mi hai fatto fallire la missione. Se ti avessi visto, avrei anche provato ad ucciderti.”

“Già, ho sentito dire che ci hanno messo un po' a convincerti a collaborare.”

“Non avevo altra scelta,” decretò in tono asciutto.

No, Clint realizzò, non per chi è tanto spassionatamente votato all'auto-conservazione (e il tentato suicidio, in un certo senso, non aveva fatto altro che confermarglielo: piuttosto che compromettersi aveva preferito farla finita).

“Da quanto sei operativa?”

“Da circa tredici mesi.” Clint si accigliò: perché lo scopriva solo adesso? Perché nessuno gli aveva detto niente? “Sono appena rientrata.” I punti sulla guancia non mentivano.

“Ho sentito dire che hai una percentuale di successo del cento per cento,” origliare la conversazione di Kevin-l'idiota non era poi stato del tutto inutile.

“Qualcosa del genere,” confermò, facendo fatica – stavolta – a nascondere l'orgoglio che le aveva improvvisamente acceso lo sguardo.

“Sicuro hai ottenuto un successone nel rubarmi la colazione.”

“Non avresti finito tutto comunque,” dichiarò, “e non ci sono abbastanza tavoli sotto cui calciare gli avanzi.”

Gli sembrò che l'aria gli fosse improvvisamente venuta a mancare: allora qualcuno l'aveva visto! (Ma era solo una mezza fetta di pane... nient'altro! Ci aveva pure messo sopra poca marmellata e poco burro, non era poi così grave... no?)

“Non ti preoccupare,” riprese la donna con fare confidenziale e canzonatorio insieme, “non lo dirò a nessuno.”

“Wow... meno male che mantieni segreti per professione.”

La Vedova aveva finito il croissant, e adesso lo osservava curiosamente, le braccia conserte appoggiate sul tavolo.

“Ti ricordavo completamente diverso,” confessò dopo una pausa fin troppo prolungata.

“Più alto? Me lo dicono in tanti,” le fece eco, trovando del tutto superfluo esprimere persino a se stesso quanto diversa la ricordasse a sua volta.

“Siamo anche in ritardo.”

Il pezzo di bacon che stava masticando gli andò di traverso. “In 'itardo 'er 'osa?” bofonchiò mentre cercava disperatamente di non morire soffocato. La donna si era già alzata.

“Per il briefing della nostra prossima missione.”

Buttò giù il boccone, ma non lo stordimento che le parole di lei si portarono dietro.

“Esiste una nostra prossima missione?”

Gli scoccò un'occhiata storta, come a redarguirlo per quella domanda di troppo. Gli sembrava forse il tipo che si inventa fandonie per destabilizzare i suoi poveri interlocutori? Sì, mi sembra esattamente quel tipo. Lasciò perdere l'elucubrazione inutile, rimettendosi in piedi col vassoio in mano ancora stracolmo di ogni ben di dio. Si guardò attorno con aria valutativa, decidendo sul da farsi. Che cazzo. Intercettò un'agente che arrivava nell'area refettorio proprio in quel momento, consegnandoglielo con aria solenne. “Con i complimenti della casa,” declamò, senza darle il tempo di accorgersi dell'assurdità dello scambio.

Quando si voltò la Vedova Nera era sparita. Eccoci, lo sapevo. L'ho sognata. Oppure stavo solo allucinando. La cercò con lo sguardo, individuandola in procinto di imboccare il corridoio di sinistra (non seppe dire se la visione gli procurasse sollievo o panico). Si prodigò in una mezza corsa per poterla raggiungere e affiancare.

“Il nome è Romanoff. Natasha Romanoff,” si presentò senza neppure voltarsi per prendere atto della sua rinnovata presenza.

“Clint Barton, ma tu puoi chiamarmi Clint,” ricambiò, trovando il tutto a dir poco surreale.

“Se non ti dispiace mi limiterò al Barton.”

“Cosa c'è che non va in 'Clint'?”

“Niente.” Natasha si fermò davanti ad una delle stanze per i debriefing delle missioni in arrivo o in partenza dall'helicarrier. Aprì la porta senza bussare o chiedere permesso, rivelando – Clint non aveva dubbi – una certa familiarità con l'ambiente. Si soffermò su di lui per qualche istante: sembrava stesse decidendo se dirgli qualcosa o meno.

Dopo quella che gli parve una lunghissima pausa, gli concesse un mezzo sorriso (che lo inquietò... un poco), decidendosi ad oltrepassare la soglia senza una parola di più.

Più tardi si sarebbe accorto di aver condotto l'intera riunione (e quindi quella loro prima conversazione dopo otto anni) con una macchia di marmellata di more spalmata sul naso.

 

*

 

“La ragazza si è comportata esattamente come aveva preventivato.”

L'agente Phil Coulson stava finendo di raccogliere i file e i documenti relativi all'imminente missione in Alaska, mentre il direttore Fury, poco distante, fissava un punto non meglio identificato oltre la finestra.

“Quella era la parte semplice,” constatò dopo un lunghissimo attimo di pausa, voltandosi finalmente verso Phil, i fascicoli già sistemati sotto braccio, pronto alla partenza.

“Se è davvero sicuro che sia stata l'idea giusta, dobbiamo solo aspettare e vedere,” si strinse nelle spalle, “potrebbero sorprenderci.”

“O deluderci,” lo corresse il direttore. Quando aveva deciso di muovere contro la Vedova Nera, ormai quasi dieci anni prima, non aveva esitato a metterle alle calcagna Occhio di Falco: intimo e vicino contro distante ed impersonale. Nonostante le circostanze fossero radicalmente cambiate, Fury era ancora più che convinto che quel particolare binomio potesse riuscire a smussare gli angoli dei suoi due agenti, preziosissimi sul campo eppure cronicamente impossibilitati a seguire gli ordini o a lavorare bene in squadra.

“Con le dimissioni di Jenkins sarò costretto a scegliere il nuovo vice-direttore nei prossimi dieci mesi,” riprese, vistosamente seccato da quell'incombenza. “Il consiglio insisterà perché scelga uno dei loro tirapiedi,” sospirò prima di guardare Phil dritto negli occhi. “Ho bisogno di persone di cui mi possa fidare al livello sette. Fidare sul serio. Se pensi che Barton e Romanoff non siano in grado di darmi certezze...” lasciò la frase in sospeso.

Coulson sapeva fin troppo bene quanto il direttore avesso investito in Natasha, quanto le fosse stato dietro durante gli anni dell'accademia, nonostante non rientrasse nelle sue mansioni. Eppure, adesso, non esitava a mettere in discussione la sua inadeguatezza: per quanto fossero abili nel loro campo, non c'era posto per individualismi allo SHIELD.

“Sarà fatto, signore.”

Fury annuì, congedandolo con un rapido cenno del capo.

 

*

 

Il chiacchiericcio fu la prima cosa che registrò quando salì a bordo del quinjet che era stato loro assegnato per la missione. Riconobbe senza troppi problemi le voci di Clint Barton, il suo nuovo partner sul campo, e Phil Coulson, l'agente che avrebbe supervisionato quella particolare operazione. Aveva identificato quest'ultimo come l'uomo che l'aveva diligentemente attesa all'ingresso dell'allora sede dello SHIELD a Washington, per riportarla nell'ufficio dove il direttore Fury le aveva illustrato quell'unica opzione che le rimaneva. Prendere o lasciare.

“Continuo a non capire perché cavolo non me l'hai detto!”

“Non te l'ho detto perché non lo sapevo.”

“Non ci credo che non lo sapevi. Lo sai quanto mi aveva,” una pausa, alla ricerca delle parole giuste, “... impressionato quella missione!”

“Ti dico che non lo sapevo. Il direttore Fury non è tenuto a ragguagliarmi su ogni singolo caso in corso allo SHIELD,” Coulson sembrava sul punto di cominciare a spazientirsi.

“Cazzo, ma l'hai vista? Mi è preso un colpo.”

“L'ho vista, sono provvisto di occhi, nel caso non te ne fossi accorto.”

“Non mi sei d'aiuto, Phil.”

“Stai facendo il bambino.”

“Ci credo, mi odia! Ha lasciato che facessi la figura del coglione con la marmellata sul naso... se n'era accorta, ne sono sicuro. Stava per dirmelo, ma ha cambiato idea. E' sadica.”

Bè, Natasha doveva ammettere che almeno su quel punto aveva ragione: no, non era sadica, ma gli aveva accuratamente taciuto quel piccolo particolare giusto per godersene le conseguenze.

“Non ti odia.”

“No, lo so,” Barton suonava sul punto di arrendersi. Doveva aver fatto qualche gesto per esprimere la sua frustrazione e chiudere lì il discorso perché Natasha non riuscì a sentire nient'altro.

Non era per niente sicura di sapere che cosa gli avesse dato quell'impressione: no, ovvio che non lo odiava. Certo, l'aveva fatto, un tempo: durante tutto il suo primo mese di permanenza all'accademia dello SHIELD aveva accuratamente programmato e studiato la morte dell'uomo che le aveva sconvolto la vita. Sapeva dove l'avrebbe ucciso (in casa sua), con cosa (col suo stesso arco), perché (perché se lo meritava). Ma tra un allenamento, una lezione, un test e l'altro, aveva finito per rimandare l'omicidio a data da destinarsi, per poi dimenticarsene del tutto, semplicemente.

Appoggiò il suo zaino a terra, chinandosi per ricontrollarne il contenuto per la terza volta, mentre la conversazione tra Barton e Coulson riprendeva nello spazio adiacente. Non si erano ancora accorti della sua presenza.

“Ha ottenuto il punteggio più alto nei test fisici nella storia di tutta l'accademia,” l'agente supervisore sembrava leggere qualcosa, probabilmente la sua scheda nel database dello SHIELD. Barton gli fece eco con un fischio d'apprezzamento.

“La migliore in tutte le classi che ha frequentato, con una nota di merito in informatica.”

“Forse facevi prima a dire in cosa non eccelle.”

“Nei test attitudinali... sembra non sia granché incline al lavoro di squadra.”

“Ci credo, con gli idioti che girano per lo SHIELD, ultimamente.”

L'inaspettata lancia spezzata in suo favore, la costrinse a bloccarsi mentre controllava che la sua trasmittente funzionasse.

Erano dovuti passare anni, di nuovo, perché il ricordo di quell'assassino professionista armato in modo tanto primitivo, ritornasse tra i suoi pensieri. Era successo per caso, a dire il vero, durante una visita guidata alla sede dello SHIELD a New York: l'avevo visto nei pressi di una macchinetta del caffè qualunque, in un corridoio qualunque, intento a ridere di gusto per una battuta dell'uomo che l'accompagnava e che Natasha non conosceva. Fu solo in quel momento – mentre scivolava silenziosamente in fondo alla fila, nascondendosi discretamente dietro chi la precedeva – che si ricordò dell'esistenza di Clint Barton, l'agente che era stato mandato ad ucciderla e che avrebbe potuto farlo se non avesse deciso altrimenti. Più tardi, quella stessa notte – trascorsa insonne in fissa dello spoglio soffitto della sua camera nel dormitorio dell'accademia dello SHIELD – aveva anche realizzato che l'unico motivo per cui era passata dall'uccidere a sangue freddo, all'impegnare il suo tempo in gite scolastiche con quelli che aveva imparato a pensare in termine di miei compagni, era che lui l'aveva salvata. Contro ogni buon senso e contravvenendo agli ordini che aveva ricevuto: tutto ciò che a lei non era mai riuscito fare. Confessò a se stessa, non senza un certo sollievo, che non avrebbe mai e poi mai compromesso se stessa per salvare uno sconosciuto. Uno sconosciuto che avrebbe dovuto essere una sua vittima, tanto per cominciare.

Sapeva fin troppo bene di essere in debito con lui. Un debito che la faceva sentire – inspiegabilmente, se ne rendeva conto – in una posizione di scomoda subalternità. Era anche per questo che aveva insistito affinché le fosse concesso il compito di informarlo della missione, solo qualche ora prima. Voleva avere il pieno controllo del loro primo incontro, approfittare della sua inconsapevolezza per imporre le proprie regole, per accertarsi di avere il coltello dalla parte del manico. Nel tentativo, probabilmente, di poter manipolare il modo in cui l'uomo l'avrebbe giudicata.

Codarda, non mancò puntualmente di auto-accusarsi.

Un colpo di tosse le fece rialzare bruscamente lo sguardo sull'agente Coulson che, adesso, la osservava placidamente dall'alto in basso. Barton, sullo sfondo, stava armeggiando con quello che le sembrava un telefono cellulare.

Natasha trasalì senza neppure accorgersene, come se il supervisore avesse potuto leggerle nel pensiero, carpirle ogni più intimo segreto per correre ad informarne il suo protetto. Si preoccupò di riedificare accuratamente la facciata più schiettamente disinteressata di cui fu capace, cancellando dalla propria espressione qualsiasi traccia di incertezza.

“Ci conviene partire. Siamo già in ritardo di dieci minuti sulla tabella di marcia,” commentò asetticamente, scivolando di nuovo in un'abitudine di cui credeva di essersi abbondantemente liberata ai tempi dell'accademia.

Si allontanò prima che l'uomo potesse formulare una risposta.

 

*

 

Finì di ricontrollare le cinghie del paracadute mentre Coulson aiutava una recalcitrante Natasha ad indossare il suo.

“Il complesso è a dieci minuti esatti di cammino dal punto in cui atterrerete,” l'agente supervisore riprese con la solita litania che ormai Clint conosceva a memoria.

“Io mi occuperò di mettere fuoriuso le guardie appostate all'esterno per permettere all'agente Romanoff di penetrare all'interno,” continuò per lui, lanciando un'occhiata a Natasha affinché facesse altrettanto: ricevette in cambio uno sguardo particolarmente perplesso.

“Phil ci tiene a ricordarmi con esattezza i parametri della missione. Ogni santa volta.”

“L'agente Barton è quello che definirei una testa calda.”

“Grazie dell'ottima pubblicità, agente Coulson.”

Il supervisore stava per ribattere, ma Natasha intervenne, senza dubbio per zittirli tutti e due passare rapidamente alla fase successiva.

“Starò attenta ad evitare le telecamere di sicurezza ed entrerò nell'edificio. Raggiungerò l'ufficio del direttore nell'ala est...”

“... mentre io mi occuperò di inserire una cimice nel pannello di controllo della torre di comunicazione,” Clint proseguì.

“Bypasserò il sistema, copierò il contenuto del loro database e cercherò informazioni riguardo la sezione segreta del laboratorio di ricerca.”

“Dopodiché vi ritroverete al punto d'incontro nei pressi dell'ala est e procederete in direzione della casa sicura a mezz'ora di cammino in direzione nord-ovest,” Coulson completò.

“Bene. Adesso che ci hai fatto fare la figura degli psicopatici, possiamo cominciare?”

L'agente supervisore lo liquidò con uno dei suoi soliti sorrisetti incomprensibili, allontanandosi per premere un grosso pulsante sulla parete di destra del velivolo. Il portellone sul retro del quinjet si aprì, lasciando che l'aria gelida di quella notte d'Alaska li raggiungesse.

“Ci vediamo tra quattro ore esatte,” Coulson li congedò, impostando il cronometro del suo orologio da polso. Clint gli rivolse un cenno affermativo e affiancò Natasha mentre si dirigevano entrambi verso quell'uscita obbligata, il vento fortissimo a scompigliarle i capelli (si era sorpreso di scoprire quanto fossero rossi da asciutti).

“Ti sei mai buttata da un aereo?” Le chiese, la voce altissima per farsi sentire al di sopra dell'ululato dell'aria.

“No.”

Clint annuì, come prendendone atto.

“Non è difficile,” la rassicurò non richiesto, “e la botta di adrenalina aiuta, se sei nervosa.”

“Non sono nervosa,” lo contraddisse prontamente, apparentemente più divertita che scocciata dal suo appunto. “Non ti preoccupare, se sei nervoso ti terrò la mano,” aggiunse a sorpresa, cogliendolo alla sprovvista. Osservò con aria perplessa (e ammirata, doveva ammetterlo) la mano che la donna gli stava veramente tendendo e che lui era del tutto intenzionato a prendere (a quel gioco sapeva giocare benissimo).

“Bè, Nat -”

O almeno l'avrebbe fatto se ne avesse avuto il tempo.

asha.

Il resto del suo nome gli morì sulle labbra: per la seconda volta nel giro dei due giorni – distanziati di otto anni – in cui l'aveva conosciuta, la donna si era gettata nel vuoto senza esitazioni. Si sporse leggermente, guardandola mentre spariva nel cielo scuro, impressionato.

“Tende a farlo un tantino spesso,” commentò per nessuno in particolare, voltandosi verso Phil per rivolgergli un frettoloso saluto prima di seguire la Vedova Nera giù dal quinjet.

La discesa durò solo pochi secondi. La consistenza soffice della neve l'accolse al suo atterraggio, di poco distante dal punto in cui era approdata Natasha. Si preoccupò di nascondere a dovere il suo paracadute, praticamente alla cieca nel buio della notte, prima di raggiungere la donna che aveva già fatto altrettanto. Il nero delle loro divise si confondeva con l'oscurità tutt'intorno, il che non gli impediva comunque di apprezzare come la tuta d'ordinanza dello SHIELD le stesse meglio di quanto avesse solo intuito in precedenza. Se al loro primo incontro, aveva avuto non pochi dubbi riguardo l'appellativo di “Vedova Nera”, non poteva fare a meno di constatare che era cresciuta per guadagnarselo a pieno titolo.

Attivò i suoi occhiali per la visione notturna, facendo strada. Il rumore degli stivali nella neve e il soffiare insistente del vento li accompagnò per tutto il tragitto, fino a quando il complesso non si palesò davanti ai loro occhi, disteso su una piccola valle incastonata tra le montagne tutt'intorno. Clint aveva già dispiegato il suo arco, tenendolo pronto all'uso. Guadagnarono una posizione leggermente appartata, approfittando della fitta trama degli abeti che circondavano la valle per nascondersi.

Si scambiarono un muta conferma: tempo di entrare in scena. La seguì con lo sguardo mentre si allontanava agile e silenziosa in direzione dell'ingresso dell'ala est del complesso.

Rimasto solo, scelse la postazione più adatta per quella prima fase, preparandosi all'azione imminente.

“Inizia lo spettacolo,” decretò a se stesso, procedendo con l'atterrare silenziosamente, una ad una, le guardie appostate all'esterno dell'edificio, stando ben attento a che nessuno di quegli uomini si accorgesse del momentaneo fuoriuso dei colleghi prima di poter ricevere lo stesso trattamento.

“Le guardie sono al tappeto,” annunciò nella trasmittente, soddisfatto della celerità con cui aveva concluso quella prima parte. “Mi sposto alla torre.”

“Ricevuto,” Natasha non aggiunse nient'altro.

Si mosse rapidamente in direzione dell'esile obelisco di ferro che si alzava di fianco ai blocchi di cemento che formavano il gruppo di edifici. Oscurò un paio di telecamere prima di procedere a scalarla. Dalla trasmittente, nel frattempo, non gli arrivavano altro che rumori attutiti e tonfi sordi. Approfittò della visione termica dei suoi occhiali, concedendosi uno sguardo in direzione dell'ala est, quella in cui, se tutto era andato per il verso giusto, doveva trovarsi Natasha in quel momento. Le sagome rosse e in movimento di una dozzina di uomini percorrevano i corridoi sui tre piani della costruzione. Raggiunse in fretta e furia la sommità della torre, facendo fatica a star dritto per la furia con cui il vento soffiava a quell'altezza. La torre, dalla quale si dipartivano fasci di cavi sospesi a mezz'aria, oscillava fastidiosamente. Tirò fuori un coltello per svitare il coperchio del pannello dei contatti, scambiando gli occhiali con una minuscola torcia.

“Natasha,” la chiamò, sperando in un aggiornamento.

Individuò senza difficoltà il collegamento giusto, sistemandovi una cimice che avrebbe permesso allo SHIELD di spiare tutte le conversazioni telefoniche e i messaggi in entrata e uscita dal laboratorio. Richiuse e riavvitò il coperchio, rinfilando la torcia in una delle tasche del cappotto che indossava.

“Hai bisogno di una man -,” si voltò verso il lato dell'ala est che fronteggiava la torre, bloccandosi di colpo: le sagome rosse erano riverse a terra. Tutte e dodici.

“Sono nell'ufficio del direttore, ho quasi finito.”

L'informazione non aiutò ad attenuare la sorpresa. Controllò l'orologio: doveva essere passato, quanto, un minuto? Era riuscita ad atterrare più di dieci uomini nel giro di sessanta secondi?

“Come diavolo ci sei riuscita?” Domandò, incapace di nascondere il proprio apprezzamento.

“Magari un giorno te lo mostrerò,” gli rispose, permettendogli di cogliere l'ironia nella sua voce.

“Era una minaccia?” Le fece eco, mentre riscendeva dalla torre con agilità. “Io qui ho finito, ti aspetto al punto di ritrovo.”

“Non credo sia necessario,” gli sembrò di cogliere un impercettibile spostamento nel tono della donna. Non ci fece caso.

“Sei già lì?” Ora stava decisamente cominciando ad esagerare.

Le lamentele del suo amor proprio si spensero di colpo: le sirene dell'allarme risuonarono tutt'intorno, accompagnate dall'accensione dell'intero impianto elettrico esterno del laboratorio.

“Oh, cazzo.”

 

****************
 

Stavolta nessun salto dal passato al presente. Prima missione insieme per i nostri agenti SHIELD preferiti... ma non volevo che le cose fossero tutte facili tutte insieme :P anzi. Nel prossimo capitolo vedremo come Natasha si comporterà intorno a lui e cos'avrà da dirgli... (e ovviamente come si concluderà l'operazione in Alaska). Mi piaceva tenere il lato un po'... da ragazzina che abbiamo visto su Natasha in CATWS (e vabbè, dare per scontato quello di Clint! XD), nonostante il suo lato essenzialmente dark (e un passato - in questa storia - molto oscuro).
Ma insomma, staremo a vedere. Grazie come sempre alla mia beta Eli perché c'è sempre nei momenti di bisogno (ultima emergenza in primis XD), per aver betato la storia e per l'incoraggiamento.
Grazie a tutti coloro che hanno letto, specialmente a chi ha commentato (DalamarF16 & missgenius) <3
Alla prossima!
S.

 

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Capitolo 4
*** Regrets Collect Like Old Friends ***


4
 

Regrets collect like old friends
Here to relive your darkest moments
I can see no way, I can see no way
And all of the ghouls come out to play

(Florence + the Machine – Shake it Out)

 

 

Natasha si liberò del giaccone requisito ad una delle guardie, nel momento esatto in cui mise piede oltre la soglia della casa sicura (un capanno da caccia mimetizzato tra neve e abeti). L'agente Barton le fu subito dietro, chiudendo la porta alle spalle di entrambi.

“Abbiamo ben tre ore prima che Phil torni a prenderci,” la informò, dando una rapida occhiata all'orologio appeso alla parete di sinistra. “Nonostante il contrattempo, siamo in netto anticipo.”

Sarebbe stato impossibile non cogliere la soddisfazione nel suo tono. Non poté impedirsi di trovarlo solo un tantino irritante, date le circostanze: dimenticarsi di un maledetto uomo delle pulizie durante una missione di quella portata, lasciare che un inserviente mettesse in allarme l'intero complesso e quindi a repentaglio il conseguimento dell'obbiettivo... no, non lo trovava affatto divertente. Soprattutto perché la colpa ricadeva su di lei.

“Controllo se c'è qualcosa da bere. Qualche preferenza?” L'agente Barton, dal canto suo, sembrava essere pronto ad archiviare l'operazione come un discreto successo.

“Non ho sete,” stroncò l'offerta sul nascere mentre valutava l'entità della ferita che aveva riportato alla spalla e cercava di capire da che parte fosse il bagno (non che ci fosse molta scelta: la cabina era minuscola).

“Immaginavo l'avresti detto,” lo sentì commentare a voce bassissima, avendo l'impressione che si stesse rivolgendo più a se stesso che a lei.

Liquidò il principio di senso di colpa che minacciava di prendere forma e si sforzò di tenersi occupata. Si rintanò nel bagno, piccolo ma funzionale, la porta semi-nascosta da un vecchio frigorifero che pareva reggere l'anima coi denti. Non perse tempo: si piazzò davanti al piccolo specchio appeso sopra il lavandino e abbassò la cerniera della tuta, liberandosi della parte superiore della divisa almeno fin sotto il bordo inferiore del reggiseno sportivo che indossava. Un brutto taglio faceva bella mostra di sé proprio all'altezza della spalla sinistra: un proiettile l'aveva presa di striscio. Era comunque degno di nota che, nonostante le guardie li avessero circondati in pochissimi secondi, fossero comunque riusciti ad avere la meglio senza particolari problemi. C'era stato un momento, durante la sparatoria, in cui aveva avuto la netta sensazione che l'agente Barton potesse intuire alla perfezione le sue intenzioni, le sue mosse, i suoi spostamenti, e viceversa lei con lui. Non le era mai capitato di non pestarsi i piedi con i partner di turno che lo SHIELD aveva insistito ad affibbiarle, in alcune delle sue missioni precedenti (le prime soprattutto). Al fianco di Occhio di Falco, invece, c'era voluto meno di un minuto per sedare quell'improvviso contrattacco.

Rimaneva comunque il fatto che non era ancora riuscita a portare a termine una missione senza portarsi dietro un qualche souvenir di quel genere: ferite e affini. Sapeva di dover stare più attenta, ma il più delle volte finiva per dimenticarsi di essere fatta di carne ed ossa, di poter essere colpita: una lezione che aveva imparato a sue spese il giorno in cui quella freccia le aveva trapassato la carne.

Scostò con attenzione la spallina del top, reprimendo a fatica una smorfia di dolore. Era talmente presa dalle proprie manovre, da non accorgersi dell'agente Barton che incombeva sulla soglia dello stanzino. Mise a fuoco il suo riflesso nello specchio un attimo dopo, riconoscendo immediatamente la muta domanda che aleggiava sulla sua espressione, curiosa e perplessa insieme: molto probabilmente si aspettava che gli chiedesse aiuto. Una parte di lei giurò a se stessa che non l'avrebbe fatto, l'altra si domandò perché diavolo facesse così tanta fatica ad estendergli le elementari cortesie che aveva imparato a rivolgere più o meno a tutti (salvo le conoscenze fatte sul campo e particolari antipatie che neppure il più affinato degli auto-controlli avrebbe potuto nascondere).

“Hai intenzione di chiedere una mano o...” alluse, mandandola (anche se solo internamente) su tutte le furie.

“Sono a posto, è solo uno stupido graffio,” ribatté più astiosamente di quanto avrebbe voluto. Era una debolezza, lo sapeva benissimo: l'unico motivo per cui non riusciva a trattarlo come chiunque altro, era perché lui non era come chiunque altro.

Natasha non aveva mai dovuto niente a nessuno: persino il suo rapporto con Fury non prevedeva quello sbilanciamento di potere. Era vero, le aveva dato una possibilità e aveva mantenuto (contro ogni suo più oscuro pronostico) la parola data, ma anche lei aveva avuto un ruolo in quello scambio: aveva ricambiato con preziose informazioni riguardo le operazioni in cui era stata coinvolta per volere della Red Room e poi, più tardi, sui suoi stessi ex-datori di lavoro. Barton, invece, le aveva salvato la vita – in circostanze, per altro, piuttosto rocambolesche, rischiando di perdere la sua nel tentativo – senza chiedere o ottenere niente in cambio. Nel suo mondo nessuno faceva niente per niente, nessuno ti salvava la vita in modo del tutto disinteressato: c'era un debito che andava pagato, che le pendeva sulla testa come una spada di Damocle e quel che era peggio era che non poteva controllare il quando, il come e il cosa l'uomo le avrebbe chiesto, un giorno, per pareggiare i conti. La possibilità che quell'eventualità non fosse affatto contemplata, non l'aveva neppure presa in considerazione.

“Non è solo uno stupido graffio, Nat -”

Gli chiuse la porta in faccia, irritata dalla sua insistenza e soprattutto dai propri pensieri, prima che potesse muovere un passo o completare il suo nome.

“D'ora in avanti ti chiamerò solo Nat,” la informò, apparentemente tutt'altro che sorpreso della reazione. “Tanto non è che mi dai mai il tempo di dirlo tutto,” aggiunse a voce più bassa.

Non rispose, controllando piuttosto che il bagno non fosse provvisto di un kit per il pronto soccorso (ovviamente ne avevano portato uno, ma era rimasto insieme al resto della loro attrezzatura nell'altra stanza, quella in cui aveva tanto educatamente relegato il suo partner). Cercò senza successo per qualche minuto prima di arrendersi ad uscire. Il kit giaceva sul piccolo tavolo che fronteggiava il cucinotto, pronto all'uso. Scoccò un'occhiata all'uomo, attualmente impegnato a prepararsi quello che sembrava essere del caffè istantaneo. Arricciò il naso all'odore, disgustata.

Era del tutto decisa ad impossessarsi dell'occorrente ad un rapido rimedio e a rintanarsi nel bagno, ma l'uomo le porse la tazza di liquido nero fumante e la sospinse a sedere su l'unica sedia del capanno prima che potesse fare una qualsiasi mossa.

“Ti ho detto che non ho sete.”

“Tu dici un sacco di cose, mi pare,” commentò, senza avere l'aria di essersela presa. “Sei mancina, mi spieghi come fai a cucirti un taglio sulla spalla sinistra?”

“Sono ambidestra,” lo corresse con un'urgenza che, in seguito, le sarebbe risultata comica.

“Ma favorisci la sinistra.”

Voleva contraddirlo ad ogni costo, e l'avrebbe anche fatto, se la parte più sensata di lei non si fosse intromessa per informarla che l'agente Barton aveva, in effetti, ragione.

“Sei insopportabile.”

“La parola che stai cercando è: attento ai dettagli.”

“No, la parola che stavo cercando era rompicazzo, ma mi sono trattenuta.”

“Stavi facendo la carina?” Usò del cotone imbevuto di disinfettante per pulirle la ferita. Sussultò al fastidio che le provocò il contatto. “Non devi provarci per forza.”

“Non sei divertente.” Si era accorto di quanto le fosse necessario fingere per ostentare una naturalezza che, in sua presenza, non le apparteneva affatto?

“Di sicuro non ci hanno messo insieme nella speranza di creare un nuovo duo comico.”

“Oh, dio,” imprecò a mezza voce, socchiudendo gli occhi in preda all'esasperazione. “No, non avevo nessun duo comico in mente,” smozzicò a mezza voce, bevendo un sorso di caffè giusto per tenersi occupata. Faceva più schifo del previsto, ma almeno era caldo.

“Avevi?”

Natasha rialzò lo sguardo su di lui, accorgendosi solo in quell'istante di averlo detto ad alta voce.

“Ho insistito perché mi assegnassero alla missione,” ammise dopo una breve pausa, guardando molto convenientemente altrove.

In quel corridoio dell'helicarrier, se lui – impegnato com'era con il suo telefono cellulare – si era voltato verso di lei solo all'ultimo secondo, Natasha non si era persa neppure un istante di quel breve incontro-scontro. Le era bastato riconoscerlo per farsi venire in mente la malsana idea di informarsi sul perché si trovasse lì e successivamente di chiedere a Fury di mandarla sul campo insieme a lui. Doveva ammettere di non aver del tutto riflettuto sulla questione: era appena tornata da un'operazione sotto copertura che era durata una settimana, era ripartita dopo neanche ventiquattr'ore di riposo e aveva scoperto che essere in presenza di Occhio di Falco (e del suo plastificato supervisore) non era esattamente la cosa che le risultasse più semplice nell'universo. Anzi.

Barton, dal canto suo, non aiutava. Non era compito suo metterla a suo agio (o a disagio, dipendeva dai punti di vista), eppure si sforzava di farlo. Le dava ancora più fastidio se pensava a quella luce strana, malinconica forse, che gli leggeva in fondo agli occhi ogni volta che si azzardava ad incrociarli. Non solo la spingeva a lanciarsi in inutili elucubrazioni intimistiche, ma le ricordava anche che non era l'unica ad aver sofferto in passato, che esistevano persone che avevano superato prove altrettanto terribili e che ne erano uscite senza che la loro umanità ne pagasse il prezzo più alto. Sapeva poco o niente dei trascorsi dell'agente Barton, eppure le sembrava di potergli leggere sul viso tutta la sua storia. Nessun dettaglio, certo, ma era come se ne potesse comunque comprendere la portata. Solo guardandolo. Una tristezza segretamente mantenuta, nascosta nei suoi occhi.

Barton si era improvvisamente bloccato. Natasha si preparò a ricevere un interrogatorio sul come e perché avesse chiesto di partecipare ad una missione con un partner di cui, era ovvio, non le importava proprio niente... ma non fu necessario. Quando tornò a guardarlo si accorse che l'uomo era preso da altro.

Era stata una cicatrice leggermente in rilievo che le campeggiava sulla spalla sinistra, ad attirare la sua attenzione.

“Quella è...” tentò di formulare una domanda, il tono completamente cambiato. Ricordava ancora benissimo il modo in cui, sul tetto di Saint Paul, le aveva parlato prima e dopo aver scoperto che aveva solo tredici anni.

“Sì,” gli rispose senza dargli il tempo di finire. Tenne lo sguardo fisso su di lui nonostante una non trascurabile parte di lei volesse solo fingere indifferenza. Le apparì stranamente turbato, un'espressione che non gli aveva ancora visto addosso, ma che per qualche assurdo motivo, gli si addiceva di più.

“E' solo una delle tante,” si ritrovò ad aggiungere, senza neppure accorgersene e senza neanche sapere perché lo stesse facendo.

“Se avessi saput -”

“Non ha importanza, Barton,” lo interruppe di nuovo. “Non ripeterlo, o comincerò seriamente ad odiarti.”

L'uomo rimase in silenzio per un paio di secondi, finché la sua confusione non si sciolse in un sorriso che la prese in contropiede.

“Se mi minacci significa che fino ad ora non mi hai odiato?” Dal niente, era ritornato nella sua zona di conforto.

“Se ti minaccio è perché sono stufa di sentirmi dire che non avresti mai voluto ferire, o tantomeno uccidere una tredicenne,” stroncò la sua vena amichevole sul nascere senza pensarci, pentendosene un secondo dopo: ottenne di farlo tornare mortalmente serio.

“Non sarebbe più preoccupante il contrario?”

“Quante persone che avevano meno di tredici anni pensi che abbia ucciso?” Lo sfidò, fissando prepotentemente lo sguardo nel suo. Lo vide dischiudere le labbra, sul punto di parlare, e poi richiuderle senza proferir parola... o quasi.

“Quante persone che avevano meno di tredici anni hai ucciso da quando sei arrivata allo SHIELD?” Rilanciò, beccandosi un'altra occhiataccia.

“Nessuna.”

“Questo è quello che con -”

“Perché mi hai salvata?” Si ritrovò a chiedergli con una certa urgenza, adesso, interrompendolo per l'ennesima volta e senza troppi complimenti.

“Lo sai, non sono esattamente uno stinco di santo, ma non sono uno che ammazza i bambini.”

“Non ero una bambina e non ero indifesa.” Non sono mai stata una bambina e non sono mai stata indifesa. Non se potevo evitarlo.

“Eri una bambina ed eri indifesa,” ribatté, accalorandosi, “lo eri in quel momento. I bambini si meritano ben altro! Affetto, amore, che cazzo ne so, sicuramente non un assassino alle costole.”

Seriamente? La tua spiegazione è l'amore? L'amore è per i bambini?

“Quel salto era la prima decisione autonoma che abbia mai preso... tu mi hai tolto anche quella,” si ritrovò a formulare, senza nascondere l'astio nella propria voce.

“Che cosa preferivi? Che ti lasciassi morire?”

“Sì. Lo preferivo.” Le parole le uscirono di bocca prima che potesse pensarci sopra, secche e decise. Barton si era zittito, le labbra serrate per impedirsi di rispondere, una luce strana negli occhi. Fu costretta a guardare altrove, incapace di sostenere il suo sguardo, il senso di colpa ad annodarle dolorosamente lo stomaco.

“Lo preferivo...” esalò a voce bassissima, “ma sono contenta che tu non l'abbia fatto.”

Era vero, le ci erano voluti anni per maturare fino in fondo la consapevolezza della portata degli eventi di quella notte. Non solo aveva ricevuto una seconda occasione, ma avrebbe potuto sfruttarla per rimediare agli errori del passato. La Red Room l'aveva plasmata ad immagine e somiglianza di un'assassina priva di scrupoli, le avevano portato via ogni possibilità di scelta, ma Natasha non poteva fare a meno di sentirsi comunque loro complice. Aveva raccontato le loro bugie, ucciso i loro nemici, portato a termine le loro missioni. Non era innocente. Il suo fascicolo, allo SHIELD, straripava ancora di rosso. Forse niente sarebbe stato sufficiente a cancellare tutto quel sangue, ma aveva deciso di provarci comunque. Adesso sapeva per chi manteneva quei segreti, sapeva per chi li raccontava, sapeva per chi agiva e sapeva perché.

Trattenne il respiro e strinse con forza i pugni, quasi fino a farsi male, obbligandosi a guardarlo dritto negli occhi, per assicurarsi che la sua sincerità non andasse inutilmente perduta insieme alle proprie parole.

“Grazie,” le uscì in un flebile sussurro.

Le maglie del tempo sembrarono allargarsi innaturalmente: i secondi in cui aveva ricambiato il suo sguardo, le parvero anni, secoli, un'eternità. L'uomo, dopo un primo momento di sorpresa, annuì, prendendo atto di quel ringraziamento che aveva meditato per quasi una vita intera. Abbozzò un sorriso nella sua direzione e riprese a muoversi come se niente fosse: le cose riacquistarono, insieme a lui, la loro consueta velocità.

“Avevi ragione, è solo superficiale,” confermò, riferendosi alla ferita. “Niente punto croce per te, stanotte.”

Evitò di mostrargli esattamente quanto fosse sollevata di poter rimandare il momento verità la Vedova Nera ha paura degli aghi?! ad un altro giorno.

 

*

 

“Ehi!”

Clint fece una mezza corsa per raggiungere Natasha all'uscita dello SHIELD Center di New York, dove un elicottero li aveva trasportati di ritorno, prima dalla missione in Alaska, e poi dalla base operativa volante. Era ormai pomeriggio inoltrato.

La donna si voltò verso di lui, il cappuccio della felpa a coprirle i capelli e parte del viso. Vestita in abiti civili aveva un'aria molto meno minacciosa: gli parve che, per la prima volta da che l'aveva rivista sull'helicarrier, dimostrasse i suoi anni, non uno di più, non uno di meno.

Natasha non rispose, si limitò ad aspettarlo mentre la raggiungeva, il fantasma di un dubbio sul viso.

“Vai a casa?” Le chiese, senza avere la più pallida idea di dove casa fosse, per lei. La vide annuire, nascondere le mani nelle tasche, tentare un microscopico sorriso non troppo convinto.

All'inizio aveva creduto che non lo sopportasse, ma poi si era rapidamente accorto che la ragazza faceva una certa fatica a comportarsi spontaneamente in sua presenza. O forse in presenza di chiunque, non poteva esserne certo. Di sicuro non gli erano sfuggiti i suoi goffi tentativi di cortesia, che risultavano più passivi-aggressivi che altro. Sospettava che il disagio avesse a che fare con la natura del loro primo incontro, a Londra, ed era più che deciso a porvi rimedio, in qualche modo (cosa di cui si sarebbe molto probabilmente pentito, come al solito).

“Ascolta, io e un paio di amici dello SHIELD andiamo a prenderci una birra ad un bar qua vicino,” formulò con attenzione quasi ossessiva. Sembra che tu stia cercando di avvicinare un cane inferocito. “Mi chiedevo se volessi... venire con noi,” aggiustò il tiro, sperando ardentemente di non essere suonato come un maniaco adescatore. Fu quasi del tutto certo di aver fallito, all'occhiata allarmata che ricevette in risposta. Oh, cazzo! Valutò se fosse il caso di rimediare, ma aveva la netta sensazione che se avesse riaperto bocca non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione in modo, molto probabilmente, irreparabile.

Natasha si guardò attorno, come alla ricerca di ispirazione, o – anche meglio – di una via di fuga.

“Mi dispiace, ma sono stanchissima,” si scusò con un'alzata di spalle. “Ho intenzione di dormire per le prossime ventiquattr'ore, almeno,” aggiunse, tentando un sorriso che non le riuscì granché bene.

“Va bene,” Clint si arrese senza opporre resistenza, indietreggiando di qualche passo, “sarà per la prossima volta, mh?”

Neppure quella proposta sembrò convincerla più di tanto.

“La prossima volta,” gli concesse, nonostante si capisse lontano un miglio che era solo una risposta di circostanza, niente di più.

Si passò una mano sul polso fasciato e poi sulla vecchia t-shirt scolorita che indossava, sovrappensiero, rivolgendole un muto cenno di saluto prima che la ragazza riprendesse ad allontanarsi. Wow, sei stato un vero... maestro del subdolo. Restò immobile a guardarla, indeciso sul da farsi... più o meno.

“Ehi!” La richiamò prima ancora di sapere perché lo stesse facendo: l'unica cosa che sapeva per certo era che non aveva alcuna intenzione di sentirsi addosso quell'insopportabile sensazione di irresolutezza che lo opprimeva. La ragazza si fermò, permettendogli di raggiungerla svariati metri più avanti sul marciapiede, non meno confusa di prima.

“Na -”, una serie infinita di clacson risuonò per tutta la strada, portandosi via la sua voce (oh, quanto adorava l'ora di punta).

“- tasha,” concluse solo quando il baccano fu cessato. “Non ti preoccupare, va bene? Anche per me i primi tempi allo SHIELD sono stati,” gesticolò per qualche istante, alla ricerca della parola giusta, “strani.”

Natasha si stava limitando a guardarlo, le mani – intuiva – chiuse a pugno nelle tasche della felpa.

“Non c'è bisogno che tu finga di essere un'altra persona quando sei con me,” le sorrise un po' mestamente, “ho la pellaccia dura, posso sopportare le antipatie di una recluta.”

“Non sono una recluta,” ribatté lei, una punta di rosso sulle guance e, se tanto gli dava tanto, non per l'appellativo. Ecco, l'aveva fatto di nuovo: l'aveva messa in imbarazzo.

“Qualsiasi cosa tu sia, hai del talento,” ammise spassionatamente. “Una persona che riesce a fare quelle cose, può permettersi di non blandire l'ego dei suoi colleghi. Specialmente il mio, che è già abbastanza spropositato.”

“Mi stai dando il permesso di trattarti male?” Più che perplessa, adesso, gli appariva scettica.

“No, dico solo che preferisco essere trattato male da te, che ricevere la sfegatata ammirazione di un coglione qualunque. Mi è piaciuto lavorare con te,” confessò sinceramente.

“Anche a me.”

La sua risposta, stavolta, lo sorprese sul serio. “Davvero?”

“Davvero,” confermò, il tentativo evidentissimo (ma un po' più spontaneo) di addolcire i toni. “Non credo che sarà la nostra ultima missione, comunque.”

“Com'è che sembri sempre sapere qualcosa che io non so?”

“Protetta del direttore, ricordi?” Lo apostrofò con aria vagamente divertita, avendo – Clint ne ebbe l'impressione – trovato un campo che aveva l'aria di risultarle decisamente più congeniale.

“Oh,” si mise a ridere, “adesso capisco molte cose.”

“Sta' zitto, Barton.”

“Vedi? Così è molto meglio.”

Natasha scuoteva il capo, evidentemente esasperata (e segretamente anche un po' divertita).

“Perché non chiami la tua ragazza, piuttosto? Sono sicura che si starà chiedendo dove diavolo sei andato a cacciarti.”

“La mia ragazza?” Un'espressione indecifrabile gli si dipinse sul volto e un principio di panico gli serpeggiò nello stomaco non appena il concetto prese forma nella sua testa.

“Quella che non ha smesso di scriverti per tutto il tempo,” precisò lei.

Lillian? Lillian non è la mia ragazza! L'avrebbe voluto gridare a pieni polmoni, più per consolare se stesso della propria cronica irresolutezza in fatto di donne, che per convincere Natasha di essere single. E comunque come diavolo hai fatto a capirlo?

“Non so se essere ammirato o solo... decisamente inquietato.”

“Non sei il solo a conoscere i trucchetti del mestiere.”

“Chiedo umilmente perdono,” dichiarò solennemente, portandosi entrambe le mani al petto.

Cadde il silenzio per una manciata di secondi, ma se non altro Natasha non aveva più l'aria di chi avrebbe preferito morire piuttosto che restare un attimo di più invischiata in quella conversazione.

“Ci vediamo in giro, Barton,” finì per dire, assumendosi il compito di portare a conclusione quello scambio.

“In giro,” accompagnò le parole con un saluto militare accennato a mo' di congedo.

Solo mentre la guardava allontanarsi, comprese la portata di ciò che aveva fatto, anni e anni prima. Pensò che, nonostante tutto, gli dispiaceva ardentemente per Phil: se avesse mai avuto bisogno di una giustificazione per l'ennesimo ordine disobbedito, gli avrebbe ricordato di quella volta che era stato mandato ad uccidere la Vedova Nera, e aveva deciso piuttosto di buttarsi giù da un tetto per salvare Natasha Romanoff.

La suoneria del suo stupidissimo telefono cellulare interruppe le sue profondissime elucubrazioni.

Oh, ma che palle!

 

*

 

“Opinioni?”

Maria Hill, le mani ben piantate sui fianchi, stava visionando i filmati che le telecamere di sicurezza del laboratorio nascosto in Alaska erano riuscite a registrare. La definizione non era delle migliori, ma sufficiente a capire quale macchia sgranata fosse chi e cosa stesse facendo più o meno di preciso.

“Non comunicano a sufficienza,” si decise a dire. “E' come se fossero impegnati in due missioni indipendenti ed autonome.”

“Con tutto il rispetto, agente Hill, ma data la natura dell'incarico non mi sembra poi così sbagliato.”

“Non tenere conto del proprio partner sul campo non porta mai ad alcun vantaggio, agente Coulson,” ribatté la donna. “Barton?”

“Ha rispettato gli ordini.”

“Era solo una missione di prova. Non c'era alcun margine per la creatività, non stavolta.”

“Quindi cosa consiglia di fare?”

“Ne parlerò con il direttore non appena sarà di ritorno,” sentenziò. “Per adesso, eviterei di dare giudizi affrettati. Farò in modo che vengano assegnati a qualche altra missione di limitata entità e poi...”

“... staremo a vedere.”

“Staremo a vedere.”

 
****************


Prima di tutto mi perdonerete se ho tagliato l'azione sul più bello :P le scene d'azione mi risultano sempre le più difficili da scrivere e comunque non volevo che fossero il "focus" del capitolo. Che in realtà è tutto dedicato al primo vero scambio tra Clint e Natasha dopo il loro primo incontro a Londra. Visto che Natasha era tanto piccola (sui 13 anni su per giù) ho *tentato* di rimaneggiare il "love is for children" per adattarlo a questa specifica situazione :)
E con la conclusione si apre un altro mini-arco all'interno della storia... ce la faranno ad avvicinarsi un po'? We'll see!
Ringrazio ancora la mia beta/socia/amica Eli, lei sa perché <3
Grazie infinite anche a chi si è fermato a leggere, commentare, sbirciare, in particolare a Blackmoody, DalamarF16 e missgenius :')
Alla prossima!
S.

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Capitolo 5
*** With an Ocean in the Way ***


5


‘Cause you’re a hard soul to save,
With an ocean in the way,
But I’ll get around it.

(Florence + The Machine – Over the Love)

 

 

“Ehi, Phil, vado a bere qualcosa, vieni con me?”

“Solo se danno la partita in televisione.”

“Certo che danno la partita da Donny, ti sei bevuto il cervello?”

“Poi non dire che non ti avevo avvisato.”

Clint si voltò verso Natasha, ancora impegnata nella lettura di (se il suo russo arrugginito non lo tradiva) Guerra e pace in lingua originale: un libro che avrebbe piuttosto preferito utilizzare come arma impropria o in veste di fermaporta.

“Nat?”

La ragazza rialzò il capo dal suo romanzo-in-formato-dizionario, la perplessità evidenziata da un sopracciglio esageratamente arcuato. Clint non si faceva illusioni, sapeva già come sarebbe andata a finire.

“Ti va di venire con noi?”

Natasha lasciò che il buon vecchio Tolstoj le facesse da schermo, sollevando il tomo fino a coprirsi gran parte del viso prima di decidersi a rispondere.

“Sei quasi morto, Barton, non dovresti andare a casa a riposarti?”

Nonostante l'inaspettato recupero di informazioni importantissime circa un cartello messicano, la sua ultima bravata in fatto di ordini interpretati alla larga aveva rischiato di concludersi in tragedia. Coulson, che si era già abbondantemente espresso sull'argomento, era stato particolarmente severo.

“Sono quasi morto,” precisò. “Un motivo più che valido per festeggiare, no?”

“Se lo dici tu,” gli concesse lei laconicamente, continuando ad evitare il suo sguardo.

Rischiare la vita non era, evidentemente, un buon modo in cui convincere Natasha Romanoff a concedersi un paio d'ore di svago (a meno che la donna non considerasse Tolstoj uno svago, prospettiva che lo fece rabbrividire non poco). Le possibilità erano molteplici: poteva essere una strenua sostenitrice del Proibizionismo (il vintage andava fin troppo di moda quell'anno), o magari semplicemente astemia, o perché no, traumatizzata a vita da un pub.

“Se cambi idea, siamo da Donny, qui dietro l'angolo.”

La ragazza ne prese atto con un rapido cenno del capo: da che erano atterrati allo SHIELD Center, non aveva mai smesso di leggere. Clint si arrese: non solo era sicuro che Natasha avesse cominciato a portarsi dietro libri su libri con il preciso scopo di evitare inutili conversazioni, ma gli apparve altrettanto chiaro che non avrebbe cambiato idea nemmeno tra un milione di anni. Neppure sotto tortura. Neanche se fossero stati gli ultimi due esseri umani rimasti sulla terra.

Quella consapevolezza fu un toccasana per la sua autostima. Il suo supervisore gli fece segno di non prendersela (ma si capiva lontano un miglio che quegli impacciatissimi scambi lo divertivano pure troppo) prima di invitarlo a fargli strada.

“Buonanotte, Nat.”

“'Notte, Barton. Coulson.”

 

*

 

Recuperò borraccia e giubbotto di pelle dall'armadietto dopo essersi data una rapida occhiata nel minuscolo specchietto del suo portacipria: la ferita al sopracciglio era quasi sparita. Ne prese atto, procedendo col sistemare i vestiti sporchi che aveva indossato in allenamento, in una busta di plastica: l'attendeva una serata tutta dedicata al bucato. Emozionante.

Merda, Barton!” L'imprecazione le uscì in russo: si era ritrovata il partner a pochissimi centimetri di distanza, appostato dietro lo sportello dell'armadietto che aveva appena chiuso, una spalla appoggiata a quello adiacente, le braccia intrecciate al petto e un sorrisetto insopportabile sulla faccia.

“E' quello che dicono tutte, arrivate ad un certo punto,” commentò impressionato.

“Ma non mi dire,” la replica seccata, mentre raccoglieva il sacchetto che le era sfuggito di mano.

“Non ti stai dimenticando qualcosa?”

“Non tentarmi, Barton,” il pensiero del bucato la metteva talmente di buon umore, che, se avesse insistito, un pugno in piena faccia a titolo totalmente gratuito non gliel'avrebbe tolto nessuno.

“Avevamo deciso che se fossi riuscito a metterti al tappeto, mi avresti offerto da bere.”

“Non mi hai messo al tappeto,” ci tenne a precisare con tono petulante, nascondendo in qualche modo l'agitazione che già cominciava a farsi sentire. Sapeva esattamente dove sarebbe andato a parare. Quel che era peggio era che, complici il bucato incombente e il fatto che allenarsi con Barton era rapidamente diventata una delle sue cose preferite (sarebbe morta prima di dirglielo), si sentiva quasi in vena di accettare.

“Ti ho atterrata! Me lo ricordo!”

“No, non mi hai atterrata. La mia schiena non ha toccato terra: se ti ricordi sono stata io a ribaltarti sul tappeto.”

“La tua schiena ha sicuramente sfiorato il pavimento.”

“Dovrai impegnarti un po' più di così, Barton.”

“Sei una donna crudele.”

“La peggiore,” confermò con un sorrisetto appena accennato, dissimulando in qualche modo il disagio (le sue abilità stavano, in tal senso, cominciando a languire in modo sempre più preoccupante). “Ci vediamo dopo Stoccolma.”

Lo sguardo che ricevette in cambio non la fece sentire meglio. Ma non era colpa sua se si ostinava ad invitarla a quello stupido pub che fungeva da punto di ritrovo per i dipendenti dello SHIELD Center di New York. Non aveva voglia di uscire, non aveva voglia di bere e non aveva voglia di compagnia. Che senso avrebbe avuto, comunque? Intessere relazioni private al di fuori del lavoro non le aveva mai portato altro che guai. E la loro collaborazione sul campo le era troppo preziosa perché decidesse di correre il rischio di rovinare tutto. E poi che razza di problemi aveva? Non gli faceva piacere, ogni tanto, starsene un po' a casa a rilassarsi? Alle volte le sembrava che Barton facesse di tutto pur di non ritornarci, come se ogni scusa fosse stata buona per posticipare il rientro, per arrendersi solo se strettamente necessario.

Il pensiero non fece altro che aggravare il suo senso di colpa, mettendole addosso una certa urgenza di andarsene.

“Ci vediamo dopo Stoccolma.”

La conferma di Clint arrivò come una liberazione: Natasha uscì dallo spogliatoio senza aggiungere nient'altro.

 

*

 

“Wow. Non vorrei essere al suo posto.”

Natasha, che si era appena tolta le cuffie di protezione, si voltò verso di lui, impallidendo leggermente. Il cigolio del bersaglio che si avvicinava alla sua postazione e il rimbombare di mille altri spari, facevano da sottofondo a quell'incontro-scontro del tutto fortuito.

Beccata. A meno che il poligono di tiro non fosse anche, per qualche assurdo motivo, il domicilio della donna, Natasha gli aveva detto una bugia bella e buona quando si era districata dall'ennesimo invito (senza impegno) al pub, perché afflitta da un terribile mal di testa. (Non era affatto estraneo a quella scusa, ma se non altro le donne che gliel'avevano rifilata avevano avuto il buon senso di farsi vedere nude, ad un certo punto.)

“Barton,” Clint riconobbe sul viso il tentativo di nascondere l'imbarazzo, “credevo che...” Lasciò la frase in sospeso, mentre le sue guance si tingevano di un colore che le vedeva fin troppo raramente addosso.

“Stasera hanno tutti qualcosa di meglio da fare,” le rivolse un sorriso, senza darle l'impressione di esserci rimasto male.

“Oh,” Natasha aveva riabbassato la pistola, fingendo di studiare la povera sagoma di cartone che li stava osservando mestamente, la testa bucherellata in più punti. Dieci centri perfetti.

Clint era ormai sceso a patti col fatto che Natasha non sembrava avere alcuna intenzione di concedergli un qualsiasi spazio che non avesse a che vedere con il loro lavoro per lo SHIELD. Doveva ammettere che c'era una certa vena masochistica nel modo in cui non mancava mai di estenderle quegli occasionali inviti, eppure era convinto che sotto sotto (bè, molto sotto) Natasha avrebbe voluto dirgli di sì. La vedeva lasciare lo SHIELD Center sempre in solitaria, e Coulson (avendo ricevuto informazioni da chissà dove) gli aveva confermato che neppure durante gli anni dell'accademia si era fatta molte amicizie, o comunque nessuna che valesse la pena mantenere: era piuttosto sicuro che facesse la spola tra casa e lavoro, lavoro e casa, senza dedicarsi a molto altro. Si era reso conto di sapere poco o niente della sua nuova partner: certo, aveva imparato a leggere quei pochi segni che Natasha si lasciava sfuggire, ma gli mancavano tutti quei dettagli inutili che aiutano a definire una persona (che musica ascolta? Che film le piacciono? Qual è il suo colore preferito? Cosa ne pensa di Nicolas Cage?). Si era accorto che a lavoro parlava un po' con tutti: riusciva così a dare l'illusione di essere amica di chiunque, di essere aperta a tutti, con il solo scopo di non fare entrare realmente nessuno e di non crearsi al tempo stesso alcun nemico. Gli inviti, da quel che aveva potuto intuire, più che infastidirla, la terrorizzavano. E lui, paradossalmente, non riusciva a non sentirsi in dovere di rimediare (Coulson aveva avuto una pessima influenza su di lui). D'altro canto, doveva riconoscere che i suoi metodi si erano rivelati dolorosamente fallimentari.

“Ascolta, non -”

“Non ti preoccupare. Avevo voglia anch'io di tirare un po' con l'arco, comunque,” la rassicurò.

“Okay.” Natasha si era finalmente decisa a guardarlo, la solita maschera di affabilità tornata al suo posto.

“Sono da quella parte se hai bisogno di me.”

La ragazza annuì.

Dopo circa tre quarti d'ora, tornando indietro dalla sessione di allenamento, si accorse che Natasha se n'era già andata.

 

*

 

Era rimasta ad osservare la vetrina di quel dannato pub (ormai il protagonista di tutti i suoi incubi più terribili) per dieci minuti buoni prima di decretare che aveva un'aria essenzialmente innocua. Un classico pub americano, sgabelli ovunque, tavoli di forme e dimensioni diverse sparsi un po' per tutto il locale, un televisore a schermo piatto più nuovo di tutto il resto a far bella mostra di sé poco sopra il bancone, la zona freccette sulla sinistra, un tavolo da biliardo sulla destra, un paio di vecchi videogiochi nascosti in prossimità del bagno. Immaginò ci fosse più di un motivo per cui quell'area era del tutto deserta.

C'erano solo due uscite, una principale e una secondaria, ma in caso di emergenza avrebbe potuto tranquillamente gettarsi violentemente contro la vetrina e uscire da qualsiasi punto dal pub. Credi davvero che sarà necessario?

Serrò le labbra fino a farsi male, il cellulare di Clint stretto con talmente tanta forza in una mano, che dovette convincersi a lasciarlo andare se non voleva restituirglielo a pezzi. Non aveva neanche avuto il tempo di salutarlo: era schizzato fuori dallo spogliatoio alla velocità della luce, dimenticandosi il telefono su una panca. Doveva essere in ritardo per qualcosa di importante, o almeno così aveva inizialmente supposto. Rintracciare Coulson, consegnargli il maltolto affinché lo restituisse all'agente Barton, era l'unico motivo per cui stava attualmente permettendo all'insegna luminescente – che recitava Donny's – di accecarla impunemente. Ma nel pub non c'era nemmeno l'ombra dell'agente Phil Coulson. Al suo posto però, non aveva fatto fatica ad individuare Barton, seduto in disparte all'estremità sinistra del bancone. Non aveva l'aria di essere in ritardo. Forse, ragionò, stava aspettando qualcuno.

Si morse l'interno delle guance, continuando a tamburellare furiosamente un piede a terra. Avrebbe potuto restituirgli il cellulare un altro giorno, sarebbe sopravvissuto comunque, no? Natasha non avrebbe esitato a scegliere quell'opzione, se non ci fosse stata una missione in solitaria imminente ad attenderla (da qualche parte in Algeria), che l'avrebbe tenuta lontana da New York per un po'. In più, se l'uomo stava veramente aspettando qualcuno, poteva aver bisogno di comunicare con il ritardatario.

Il ragionamento non faceva una piega.

Dentro e fuori in meno di tre minuti, promise a se stessa, inspirando ed espirando profondamente come faceva prima di prendere la mira, o di dare inizio ad un'operazione particolarmente complicata (senza contare che uno qualsiasi tra quei due scenari le sarebbe risultato alla lunga più congeniale).

Contò alla rovescia da dieci a zero prima di decidersi a spingere la porta ed entrare. Riconobbe alcuni dei dipendenti dello SHIELD (Susan dal reparto statistiche, Kenneth da quello informatico, Helen e Peter della reception, Troy della sicurezza), ma nessuno sembrò accorgersi della sua presenza. Silenziosamente grata a tutti quanti, si diresse al bancone senza esitazioni, ignorando le occhiate di certi avventori che non mancarono di seguirla attentamente con lo sguardo, dall'ingresso al punto in cui Barton era seduto.

“Ehi,” richiamò la sua attenzione, “ti sei dimenticato questo.”

L'uomo, voltandosi verso di lei, aveva avuto un leggero sussulto di sorpresa: non mancò di sottolineare il momento topico con un'espressione artificiosamente scioccata.

“Natasha? Sei... sicura di essere al posto giusto?” Si guardò comicamente attorno, come alla ricerca del vero motivo per cui aveva messo piede in un luogo che aveva strenuamente evitato fino a quel momento.

“Ah ah, molto divertente.”

“Non avrei mai pensato di vedere questo giorno,” adesso fingeva commozione, “ero quasi convinto che saresti esplosa dopo aver varcato la soglia. Come un demonio in chiesa.”

“La commedia deve durare ancora per molto?” Una parte di lei era irritata, l'altra si azzardò a visualizzare la scena e ne risultò incomprensibilmente esilarata. Dissimulò il divertimento facendo schioccare la lingua.

“Pensavo più ad una tragedia... greca.”

Natasha lo ignorò, insistendo nel porgergli il telefono, “prima te lo riprendi, prima posso lasciarti alle tue... cose.”

Barton accennò a riprendersi il telefono, ma ritrasse la mano all'ultimo secondo.

“Non sto facendo niente, se non te ne fossi accorta.”

“La tua ragazza è in ritardo?”

“Non so perché ti ostini a volermi affibbiare una ragazza, ma... no, non sto aspettando nessuno.”

“Perché sei uscito di corsa, allora?”

“Dovevo intercettare Jackson per certi biglietti...” lasciò la spiegazione in sospeso.

Natasha non poté fare a meno di pensare che c'era qualcosa di molto sbagliato nel vederlo seduto in disparte, la sola compagnia di una bottiglia di birra a completare il quadretto. Dal modo in cui l'aveva visto interagire allo SHIELD Center, se l'era sempre immaginato circondato da una frotta di amici più o meno ammirati, da donne che cercavano di fargli il filo, altre che tentavano di non cedere alla tentazione di prenderlo a pugni (sapeva essere estremamente irritante quando ci si metteva), ma comunque non da solo. Un'improvvisa consapevolezza si fece strada dentro di lei: era vero che le era capitato di vederlo impegnato in occasionali conversazioni con altri dipendenti dello SHIELD, ma raramente le stesse persone si ripetevano per più di una volta. Ripensò al loro secondo primo incontro, prima da solo nel corridoio dell'helicarrier, poi seduto in disparte a fare colazione. Le fioccarono davanti agli occhi tutte le altre volte in cui era incappata in lui per caso: sempre solo. L'unica costante che le veniva in mente era quella rappresentata dal suo supervisore, l'agente Coulson.

Doveva essere rimasta immobile a studiarlo per un po' troppo a lungo, perché Barton si era finalmente deciso a riprendersi il cellulare, ficcandoselo nella tasca della felpa senza dargli neppure un'occhiata.

Non credeva che ci potesse essere uno scenario peggiore di quello che l'aveva vista ripetutamente protagonista, con Barton che insisteva perché fraternizzasse e lei che voleva solamente non doversi impegnare per interagire con un qualsiasi essere umano, ma quella... quella era decisamente peggio. Adesso non solo si sentiva in colpa per averlo bruscamente rifiutato ogni volta (era suo sacrosanto diritto, ma la prospettiva era appena cambiata radicalmente), ma persino in dovere di rimediare. Alzò gli occhi al soffitto, smozzicando una sequela infinita di improperi, tutti tassativamente in russo.

Infine, quando ebbe esaurito tutto il repertorio, si issò sullo sgabello accanto al suo, richiamando l'attenzione del barman.

“Quella che ha preso lui,” la sua conoscenza in fatto di birre americane era piuttosto limitata: tanto valeva affidarsi all'esperto. Il barman – il famoso Donny, l'inizio di ogni suo male – la squadrò con aria valutativa, lo sguardo assottigliato.

“Ce li hai ventun anni?”

Natasha inorridì, mentre Barton accanto a lei si era messo a ridere.

“Non è divertente,” lo zittì rapidamente, tirandogli un glorioso pugno sulla coscia. “Ne ho quasi ventidue,” asserì, tornando a rivolgersi all'uomo dietro al bancone. Sembrava essere bastata la sua parola a dissipare ogni dubbio, perché pochi secondi dopo una bottiglia gemella faceva compagnia alla birra di Barton.

“Quasi ventidue, ah?” Barton, che aveva smesso di lamentarsi per il colpo ricevuto, sembrò fare un rapido calcolo mentale. Non era sicura che la cosa le piacesse. “Quand'è il tuo compleanno?”

“Non lo so,” rispose sinceramente, provando un sorso di – diceva l'etichetta – Budweiser: fu una pessima idea. Dio, che schifo.

“Allora come fai a sapere che sono quasi ventidue?”

“Fra un mese e undici giorni sarà il nono anniversario del mio passaporto americano.” Quando era entrata nel programma della Red Room ogni informazione che la riguardasse era stata cancellata: non c'era modo di scoprire quando fosse nata o chi fossero i suoi genitori, né di accertarsi se Natalia fosse stato il suo vero nome di battesimo.

Barton la stava guardando con aria confusa (non era sicura se per la reazione alla birra o per la risposta).

“Qui in America la gente è ossessionata dal proprio compleanno. Dopo la terza volta che me l'hanno chiesto, all'accademia, ho semplicemente letto la data che avevo sui documenti e quella è rimasta,” spiegò, studiando con attenzione la parete ricoperta di bottiglie che li fronteggiava, “funziona molto meglio di un 'non ho la più pallida idea di quando sono nata'.”

“L'alone di mistero non mi dispiace,” ammise lui con una scrollata di spalle. “Potresti festeggiare il tuo compleanno tutti i giorni e nessuno oserebbe biasimarti.”

“Suona faticoso.”

Barton rise e annuì mentre si portava la bottiglia alle labbra. “Estremamente faticoso,” convenne. “Se non ti piace la birra puoi prendere qualcos'altro.”

“No, la birra è okay.”

“Questo,” le ripropose la faccia schifata che aveva esibito dopo il primo assaggio, “non aveva l'aria di essere okay.”

“Tutti dicono che alla birra ci si deve abituare.”

“Vero,” le concesse. “Possibile che non te ne sia fatta nemmeno una all'accademia?”

Natasha si strinse nelle spalle. “Evitavo le feste, se potevo.”

“E' il tuo forte,” la prese in giro.

“Sei mai stato ad una festa dell'accademia dello SHIELD?” Si infervorò, sentendo il calore risalirle su per il collo, le guance.

“Un paio,” rispose, perplesso, “ho avuto serate peggiori.”

“Bè, non avevi quattordici anni.”

Barton sembrò sul punto di parlare, ma richiuse la bocca senza aver emesso alcun suono.

“Cazzo, devi essere stata la più piccola là dentro,” ragionò dopo una breve pausa di riflessione.

“Qualcosa del genere.”

“Quindi non hai mai bevuto alcool prima d'ora?”

Fu il turno di Natasha di mettersi a ridere.

“Per chi mi hai presa? Solo perché non avevo mai assaggiato la birra non significa che non abbia mai bevuto alcool,” lo rimbrottò, senza preoccuparsi di nascondere un certo, divertito sdegno nella propria voce. “Posso bere più di te senza fare neppure mezza piega.”

“E' chiaro che non hai mai incontrato il mio fegato.”

“E' chiaro che non hai mai incontrato il mio,” gli fece puntigliosamente eco, voltandosi per fissarlo dritto negli occhi con aria di sfida. “Facciamolo.”

La proposta secca lo colse alla sprovvista. “Vuoi che facciamo una gara alcolica?”

“Perché no?”

“Ci sono un sacco di validissimi perché no,” sentenziò con aria, per altro, non molto convinta, “te li direi anche, se mi venissero in mente.”

“Appunto.”

“Hai veramente intenzione di bere ad oltranza finché non svengo?” Se non altro gli appariva già piuttosto chiaro chi dei due ne sarebbe uscito vincitore.

Natasha si guardò attorno alla ricerca di ispirazione. “Una partita di biliardo, una di freccette, chi perde, beve.”

“Lo sai che a freccette non hai scampo, vero?” Alzò la bottiglia, accennando ad un brindisi per suggellare l'accordo.

“Staremo a vedere,” decise di non sbilanciarsi, facendo tintinnare vetro contro vetro.

 

Oh, andiamo!” L'ennesima palla sparì con un mesto plof nella buca in cui Natasha aveva annunciato di volerla spedire, accompagnata da un'esultanza generale. “Da dove diavolo sei uscita?”

Sono piuttosto sicura che tu non voglia saperlo,” replicò prontamente, senza trattenersi neppure più di tanto per non sorridere troppo apertamente. “Alla goccia, forza.”

L'agente Barton ingollò l'ennesimo shot di vodka liscia, allineando poi il bicchierino vuoto alla sfilza di quelli che aveva già collezionato.

Barton, la ragazzina ti sta facendo a pezzi,” uno dei clienti del pub gli era appena passato di fianco, tirandogli una poderosa pacca sulla schiena. Una sua vecchia conoscenza?

Ah ah. Dici così solo perché non la conosci.”

Mentre Natasha si chiedeva se il suo partner la conoscesse veramente, aveva già individuato il suo prossimo obbiettivo.

Preparatene un altro,” lo avvertì solennemente. “Palla numero sei in buca d'angolo.”

 

Scoccò un'occhiata infernale all'uomo alto e scuro di capelli che si era appena seduto alla loro sinistra. La freccetta le era sfuggita di mano prima del tempo, per andare a conficcarsi nel cerchio più esterno del bersaglio. Non il suo risultato peggiore, ma era sicura al novantanove virgola nove per cento che il suddetto tizio, di ritorno dal bancone col suo drink in mano (un intruglio giallognolo e dolciastro che emetteva un odore nauseabondo), l'avesse sospinta in avanti, facendole fallire (l'ennesimo) tiro.

Non te la prendere, 'tasha,” il fatto che Barton stesse progressivamente rinunciando a scandire le proprie parole (il suo nome incluso) senza aver mancato neppure un centro, non la faceva sentire affatto meglio. Le porse l'ennesimo shot di Jack Daniel's: Natasha non esitò a scolarselo, trattenendo a stento la smorfia di fastidio che le procurò.

Barton, che aveva già scagliato la sua (boccale di birra alla mano, sguardo puntato alla televisione, centro pieno), le passò un'altra freccetta. Se la rigirò tra le mani e prese l'unica decisione possibile: dopo un complicato movimento di braccio, la scagliò con tutta la sua forza... nella direzione sbagliata. Andò a conficcarsi nello stinco dello sconosciuto che le aveva – ora se n'era accorta – toccato il culo, facendole per di più mancare un tiro decisivo. Indossò la più convincente maschera di desolazione di cui fu capace. “Oh, dio, mi scusi! Sono così sbadata!”

L'agente Barton scoppiò a ridere.

 

Si trattenne a stento dal prendere a calci il flipper che avrebbe dovuto fungere da spareggio e porre così fine al triathlon alcolico della serata.

Dio, lo odio!”

Se continui così lo ucciderai!”

E' già morto, non lo vedi? E' un rottame!”

Ehi, questo coso ha potenzialmente la mia età!”

Per quello!”

Non sei carina, Tasha.”

Cazzo, Barton, vuoi smetterla di storpiare il mio nome?”

Non finché non la smetterai di chiamarmi Barton.”

Come vuoi che ti chiami? 'Int? O Clì?” La domanda le era uscita mortalmente seria.

O 'Ton.”

Perché Ton?”

Perché mi chiamo Clinton.”

Natasha non fu capace di resistere alla crisi di riso che ne seguì.

 

“Devo andare in bagno,” biascicò, tenendosi faticosamente il mento con entrambe le mani.

“D-Di che ti 'amenti?” La risposta di Clint le risultò a malapena decifrabile, riverso com'era sul tavolo, a braccia conserte. “L'hai visto il 'agno 'egli uomini?”

“Ho visto la tua brutta faccia, vale?”

“E non ho ancora 'mitato.”

“Sono impressionata.”

“Non 'ei 'arina.”

“Sta' zitto, Clinton.”

“Non chiamarmi Clinton!” Le sue capacità di scansione verbale erano tornate tutte insieme, a sottolineare la gravità del momento.

“Ohi, voi due!”

Natasha rialzò lo sguardo.

“Oh oh,” le uscì, prima di potersi trattenere (era ancora più o meno lucida, ma il filtro pensiero-parola, era praticamente andato a fasi benedire), “sei nei guai,” canticchiò.

Donny, fermo a qualche metro di distanza, richiamò la loro attenzione: la scopa in una mano, con l'altra li indicava a quello che Natasha aveva riconosciuto come l'agente Phil Coulson.

“No, Phil, non ancora! Non le ho ancora chiesto se le piace Nicolas Cage!”

“Chi è Nicolas Cage?”

Chi è Nicolas Cage?

 

****************

Comincia un breve mini-arco in cui Clint... tenterà l'impossibile :P O quasi. Mi sembrava giusto farli avvicinare e non esclusivamente sul piano lavorativo. (Neanche dirlo, mi diverto un sacco a scrivere di queste cose XD).
Oggi sarò breve perché lo studio chiama. Quindi grazie ad Eli, come sempre <3 e a tutti coloro che hanno letto & commentato! :') mi fa tanto piacere!
Alla prossima!
S.

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Capitolo 6
*** And the Only Solution Was to Stand and Fight ***


6


And the only solution was to stand and fight
And my body was bruised and I was set alight
But you came over me like some holy rite
And although I was burning, you're the only light

(Florence + the Machine – Only if For a Night)

 

 

“Mi spieghi che diavolo stai facendo?”

“Hackerando il sito di una lavanderia.”

Non ebbe bisogno di rialzare lo sguardo per immaginarsi con che razza di espressione Clint la stesse guardando.

“Wow, lo SHIELD ti ha promosso al livello nove?” La prese in giro, intrecciando le braccia al petto.

“No, il mio bucato doveva essere pronto ieri, ma stando alla signora Wang non ho correttamente inviato il mio ordine prima di consegnare i miei vestiti al loro stupido fattorino.”

Erano ormai quasi quarantotto ore che era costretta ad andare in giro con i fondi del suo guardaroba: quei capi che avrebbe dovuto buttar via mesi (se non anni) prima e che invece permanevano nel suo armadio per semplice mancanza di tempo (stava dando il peggio di sé nel campo della biancheria intima).

“Il fattorino ha perso i tuoi vestiti?”

“Qualcosa del genere.”

Clint le scoccò un'occhiata valutativa. “Il mio scenario preferito è quello in cui il fattorino è un maniaco. Magari dovresti controllare la cabina telefonica più vicina a casa tua: potrebbe essere ancora lì dentro ad annusare le tue sottane,” si mise a ridere, divertito dall'immagine mentale (che Natasha non mancò di trovare assolutamente orripilante).

“Grazie, Barton, il tuo aiuto è sempre essenziale.”

“Non c'è bisogno di ringraziarmi,” le si mise seduto accanto, sulla panca della palestra. “Quindi stai... ?”

“Sto controllando di aver inviato correttamente l'ordine. E l'ho fatto, eccolo qui,” gli indicò una porzione di testo schiacciata tra una quantità di segni e numeri che per lui – Natasha non fece fatica a rendersene conto – non significavano assolutamente niente.

“Mi fido ciecamente della tua parola.”

“Adesso sto regalando buoni sconti del cinquanta per cento a tutti i loro clienti,” non aveva intenzione di lasciare impunito il furto dei suoi preziosissimi vestiti. Da qualche mese a quella parte aveva inanellato talmente tanti successi uno dopo l'altro, che lo SHIELD le aveva raddoppiato le missioni, decimando sensibilmente il suo tempo libero. Se aveva persino dovuto rinunciare a fare il bucato da sola (cosa che non l'addolorava particolarmente), dove credevano che avrebbe trovato un pomeriggio intero per una sessione di shopping intenso? Tra lo sventare un attacco terroristico e una missione sotto copertura, magari? “... e li sto inserendo nel database dei predatori sessuali dell'FBI.”

Clint si mise a ridere. “Ricordami di non metterti mai i bastoni tra le ruote.”

“Lo faccio ogni giorno, mi pare,” gli scoccò un'occhiata auto-esplicativa. “Non ti allenerai granché se rimani lì impalato.”

“Sto aspettando quelli del primo anno,” la informò, una smorfia scocciata ben evidente su tutto il volto. Natasha inarcò un sopracciglio: una muta richiesta di spiegazioni. “Coulson ha informato Fury del mio exploit in Cambogia.”

Erano trascorsi ormai un paio di mesi dall'ultima missione che li aveva visti sul campo insieme: si erano susseguiti degli incarichi minori che l'avevano annoiata a morte e a lui non era andata poi molto meglio.

“E adesso sei in punizione,” concluse per lui. Aveva imparato che, di solito, le malefatte di Clint (che in fin dei conti malefatte non erano) si concludevano con una serie di scartoffie infinite, verbali di verbali su altri verbali, ma per quanto poteva constatare il direttore aveva trovato un nuovo modo per fargli pagare le conseguenze della sua insubordinazione.

“Già,” confermò con aria abbattuta, prima di accorgersi che un gruppetto di persone si era già assiepato poco distante, in attesa dell'istruttore del giorno. “La mia tortura comincia,” si rimise in piedi, sgranchendosi le braccia, “tu rimani qui, potrei dover lanciare una crociata contro il mini-market sotto casa mia.”

Natasha lo incenerì con lo sguardo mentre Clint raggiungeva le sue reclute. Il modo in cui raddrizzò le spalle e sistemò la postura, come per farsi più grosso e minaccioso, la fece sorridere. Dopodiché tornò alla sua personalissima vendetta contro la signora Wang e la sua congenita incompetenza, digitando furiosamente sul piccolo laptop che lo SHIELD le aveva fornito qualche tempo prima.

O almeno l'avrebbe fatto se l'allenamento di Clint non avesse continuato a distrarla dai suoi propositi.

“Il corpo a corpo è una questione di leve. Non potete scagliarvi contro il vostro avversario come degli indemoniati,” stava spiegando allo spilungone dalle spalle più larghe che Natasha avesse mai visto. “Prova ad atterrarmi,” lo invitò.

Seguì un breve (brevissimo) scontro in cui Clint ribaltò il ragazzino senza il benché minimo sforzo. “Lo vedi?” Gli tese una mano, aiutandolo a rimettersi dritto. “Se siete minuti, non abbiate paura,” si stava rivolgendo ad una ragazza adesso, “la forza bruta non è tutto, quando si viene alle mani...,” la recluta tentò di attaccarlo, ma Clint riuscì ad immobilizzarla in due semplici mosse, di fatto rendendole impossibile un qualsiasi movimento, “... anche se aiuta.”

“Signore, lei non è specializzato nel... combattimento a distanza?” Qualcuno si azzardò a chiedere.

“Sì,” confermò, improvvisamente ringalluzzito dalla domanda.

“E' vero che riesce a lanciare tre frecce contemporaneamente?” Era stato il più basso, grosso e tarchiato a prendere la parola.

“Anche più di tre,” adesso stava sorridendo ampiamente.

“Come mai proprio l'arco?” Una ragazza dai capelli biondi, lunghi e liscissimi.

“Perché no?” Aveva allargato le braccia. “Alcuni di noi vedono meglio da una certa distanza.”

“Ma perché non, supponiamo, una pistola? O un'altra arma da fuoco?” Una coppia di gemelli praticamente identici (Natasha non aveva capito chi dei due avesse parlato, ma era curiosa di sentire la risposta).

“Sono stato anche cecchino, ma l'arco è più divertente.”

Registrò l'informazione e provò a costringersi a prestare attenzione ai fatti suoi e non all'allenamento delle reclute. Eppure quel non so che di tronfio e paternalistico che Clint stava riservando ai suoi improvvisati allievi, contribuiva a renderlo... comico: sapeva di essere una specie di celebrità per quei ragazzi, e non si preoccupava di nascondere la soddisfazione che quel particolare dettaglio gli procurava. La scenetta, in un certo senso, la intratteneva.

“Non dovrebbe esserci qualcuno specializzato nel corpo a corpo ad insegnarci?” Clint, ghiacciato sul posto, si voltò molto lentamente verso l'agente che aveva parlato: un ragazzo alto, smilzo, capelli cortissimi, una grandissima faccia da schiaffi, appostato leggermente in disparte rispetto al resto del gruppo. Un tatuaggio di forma non meglio precisata faceva capolino dallo scollo della t-shirt nera che indossava.

Oh oh.

“Sono perfettamente qualificato per l'insegnamento del corpo a corpo,” si difese con tono sorprendentemente petulante. “Qual è il tuo nome?”

“Weiss.”

“Bene, Weiss, perché non vieni qui a farmi vedere cosa sai fare?” (Natasha sperò ardentemente che lo facesse a pezzi e lo rimettesse al suo posto.)

“Facevo per dire, signore,” specificò il ragazzo con tono fastidiosamente mellifluo, “sarei più curioso di vedere come combatte l'agente Romanoff.”

Non aveva neanche finito di pronunciare il suo nome che le teste dell'intero drappello di reclute si voltarono nella sua direzione, sincronicamente. Natasha serrò le labbra, impedendosi di uscire con qualcosa come no, scusate prima devo scoprire dove sono finite le mie mutande, che non avrebbe aiutato proprio nessuno (anche se avrebbe riscosso successo con Clint). Secondo di poi, non aveva alcuna intenzione di insegnare un bel niente a chicchessia.

“L'agente Romanoff può confermarvi che le mie tecniche per il corpo a corpo sono più che adeguate,” decretò seccamente, le braccia graniticamente incollate al petto.

Natasha non riuscì ad impedire al proprio sopracciglio di schizzare verso l'alto, procurando all'agente Barton quello che aveva l'aria di essere un principio di attacco epilettico.

“L'agente Romanoff non sembra d'accordo,” commentò Weiss con tono professionale. Di nuovo tutti gli sguardi furono su di lei. (Davvero, tutto ciò che voleva fare era occuparsi del ritrovamento del suo guardaroba e/o del fattorino maniaco!)

“All'agente Romanoff piace sottovalutarmi,” lo liquidò.

“Magari per un valido motivo,” Weiss, contro ogni buon senso, decise di insistere.

“Magari perché si sbaglia.”

“Oh magari lei è più portato al tiro con l'arco che a tutto il resto.”

“All'agente Romanoff piace giocare sporco.”

“Non giocano sporco anche i nemici dello SHIELD?”

“Forse dovremmo -”

Lo schianto del laptop che si chiudeva su se stesso riecheggiò tra le quattro pareti, zittendo l'intera palestra nel giro di un misero secondo. Natasha l'abbandonò sulla panca, rimettendosi in piedi con tutta la calma del mondo. Raggiunse il gruppo di reclute in completo silenzio, fronteggiando Clint con aria mortalmente seria. Ricevette in cambio un'espressione confusa (e anche, le parve, vagamente inquietata).

“L'agente Barton è molto probabilmente il miglior tiratore che abbiate conosciuto,” cominciò col dire, “è pur vero che gli uccelli sono famosi per le ridotte dimensioni del loro cervello...”

Un oooooooh di aspettativa accompagnò le sue parole insieme ad un'occhiata di puro sdegno dal diretto interessato.

“I falchi si mangiano i ragni per colazione,” precisò, ripresosi dallo shock iniziale.

“Non se prima riescono a morderti.”

Se è la parola chiave, qui, mi pare.” Senza che se ne fossero accorti, il gruppo si era spontaneamente ed equamente diviso alle spalle dei due agenti. Natasha non lo degnò di uno sguardo, cominciando a stirare prima un braccio, poi l'altro.

“Il morso della vedova nera può causare...,” era tornata a rivolgersi alle reclute con tono chiaro e deciso, mentre accennava un ennesimo esercizio di stretching. Sul più bello, con uno scatto fulmineo si scagliò contro Clint, assestandogli un cazzotto nello stomaco. “... dolore addominale.”

Pat-pattò la schiena dell'uomo, annaspante e piegato in due dal dolore, ostentando assoluta nonchalance.

“Ma 'osì 'on... non 'ale, 'Tas -” l'ennesimo colpo di tosse lo costrinse a zittirsi.

“Difficoltà respiratorie,” riprese Natasha, indicandolo con aria esplicativa.

Avvertì nettamente un leggero spostamento nell'aria: Clint si preparava al contrattacco. Scivolò di lato, evitando per un pelo che la travolgesse. Lo attaccò da dietro, saltandogli sulle spalle, un braccio stretto attorno al collo, impedendogli sia di respirare che di muoversi.

“Rigidità dorsale,” continuò come se nulla fosse.

Come si aspettava, Clint – dopo un primo attimo di smarrimento – la ribaltò su se stessa, scrollandosela furiosamente di dosso. L'atterrò in pochi secondi, sfruttando tutto il suo peso per tenerla schiacciata contro uno dei tanti tappeti blu che ricoprivano il pavimento della palestra. Natasha non si lasciò impressionare: non potendo muovere né braccia, né gambe, fece leva sull'unica parte del corpo che poteva ancora muovere, la testa. Il sorriso di trionfo sulla faccia di Clint si incrinò quando comprese che intenzioni aveva.

“Nat, non ci pro-” Non fece in tempo a completare la frase o a ritrarsi che Natasha gli aveva assestato una testata in piena fronte.

“Cefalea,” continuò l'elenco dei sintomi, approfittando del momento di defaillance del partner per rimettersi rapidamente in piedi. “Vertigini,” aggiunse, alludendo all'espressione decisamente stonata che l'agente Barton stava esibendo in quel particolare momento.

“L'a-avevo detto che g-giocava sporco,” balbettò lui, riuscendo finalmente a raddrizzarsi su entrambe le gambe. Scosse il capo per liberarsi dall'intontimento, rimettendola – infine – a fuoco. L'attacco successivo la sollevò letteralmente dal pavimento. Strinse i denti e si preparò a rispondere: Clint doveva essere entrato nel giusto stato mentale, perché le fu via via sempre più difficoltoso schivare o parare i suoi colpi. Il gruppo si apriva sempre di più, allargando progressivamente il loro campo di battaglia, mentre si rotolavano, si attaccavano, si scagliavano furiosamente l'uno contro l'altra, pugni, calci, ginocchiate (“Non!”), gomitate, morsi (“Seriamente, Nat?!”), strattoni ai capelli (“Stronzo!”). Un applauso estasiato aveva seguito l'ultima manovra di Natasha, che – approfittando dell'improvvisa distanza a separarli – prima gli era corsa incontro e poi aveva saltato a mezz'aria ruotando in torsione fino a chiudergli il collo nella forbice formata dalle proprie gambe. La forza dello slancio aveva spinto violentemente Clint a terra, mentre Natasha era riuscita a ricadere in piedi, riassumendo in fretta e furia la posizione di combattimento. L'uomo rialzò il capo rivolgendole un'espressione di puro terrore misto alla più sincera ammirazione.

“E quello che cavolo era?” Si portò una mano al collo, incredulo.

“Nuova mossa, ti piace?”

“E' stato -” le fece lo sgambetto prima che si potesse rendere conto di cosa stesse succedendo, “pazzesco!”

Cadde rovinosamente, riuscendo miracolosamente ad attutire la caduta, ma non prima che Clint le fosse nuovamente addosso. Si mosse rapidamente di lato, impedendogli di immobilizzarla definitivamente (sapeva che, una volta rinchiusa nella gabbia delle sue braccia, avrebbe potuto ben poco), ma non di afferrarle un braccio che non esitò storcerle dietro la schiena.

“C-Come vi stavo d-dicendo,” la voce rotta dal fiatone, Clint tentò di riprendere la spiegazione... e l'avrebbe anche fatto se Natasha non fosse riuscita a colpirlo a sorpresa con la mano libera.

“Sudorazione,” aggiunse una nuova voce al suo elenco con rinnovato impeto, mentre si scrollava bruscamente l'uomo di dosso. Non aveva neanche finito di rimettersi in piedi che Clint l'aveva tirata giù (di nuovo!). Si abbarbicarono l'uno all'altra mentre il gruppo di reclute (rimpinguato da un consistente numero di astanti e curiosi) ruotava loro attorno, modificando di volta in volta l'area di azione a seconda dei loro spostamenti. Chi applaudiva, chi incitava l'uno, chi l'altra, chi prendetevi una stanza! La cosa andò avanti per due minuti che parvero lunghi un secolo. Fu Clint a porre fine allo scontro: la costrinse a rimettersi in piedi dopo averla afferrata da dietro. Una gamba intrecciata ad una delle sue le impediva di muoversi, mentre le sue braccia (no, a Natasha non era sfuggito quanto fossero enormi) la serravano nella loro ferrea morsa.

“A-Appunto,” l'uomo riprese a parlare, la pelle ricoperta di sudore, il respiro corto, “a-arrivati a questo punto, potrei... romperle le costole e f-finirla.” Natasha riusciva a sentire il suo petto che si alzava e abbassava contro la schiena. “Ma non lo f-farò perché questo è solo uno stupido allenamento,” pronunciò le ultime parole con particolare enfasi.

Natasha, che a sua volta stava cercando disperatamente di non morire soffocata, aveva però ancora tutte le energie sufficienti a far saettare gli occhi al soffitto, esasperata. Prima di poter formulare anche solo mezzo pensiero razionale, gli tirò una testata all'indietro, dritta sul naso, costringendolo ad allentare la presa.

Sciolse le braccia, portandosi le mani ai fianchi e sospirò bruscamente, finalmente libera. Il tonfo che seguì, le suggerì che Clint doveva essere svenuto.

“I vostri a-avversari non g-giocheranno pulito,” avvertì, “ricordatevelo bene.”

 

*

 

“Qualcuno mi metta in contatto col consiglio,” il direttore Fury sbraitava, mentre una sfilza di agenti e consulenti tentavano di tenere il suo passo lungo il corridoio. Victoria Hand procedeva al suo fianco, una lista di nomi alla mano e un'espressione greve sul volto: la questione della nomina del vice-direttore si stava facendo più spinosa del previsto, con sommo disappunto di tutti i diretti interessati (fatta eccezione per chi avrebbe beneficiato di tutto quello stupido caos burocratico).

Alla svolta successiva, furono costretti a fermarsi: un consistente gruppo di reclute e altri agenti in tenuta ginnica ostruiva il passaggio.

“Che diavolo sta succedendo?!” Non era per niente in vena di stronzate, non quel pomeriggio (o meglio ancora, mai).

“L'agente Romanoff ha messo al tappeto l'agente Barton,” una ragazzetto dall'aria insopportabile aveva preso la parola, mentre alcuni suoi compagni – decisamente più intimiditi dalla presenza del direttore – erano indietreggiati di qualche passo, stando ben attenti a non proferir parola.

Scoccò una rapida occhiata oltre i vetri della palestra, mentre un'altra recluta stava arrivando in corsa dalla parte opposta, un kit di pronto soccorso alla mano e una borsa del ghiaccio nell'altra. Natasha le intimò di abbandonare il carico subito all'ingresso e di andarsene immediatamente: da quel che Fury poteva constatare, nessuno aveva avuto il coraggio di mettere in discussione gli ordini (piuttosto opinabili) della donna. Se da una parte la consapevolezza della sua spiccata autorità lo rendeva orgoglioso, dall'altra, il fatto che avesse fatto perdere i sensi all'agente Barton durante una sessione di allenamento dei novizi dello SHIELD non giocava per niente in suo favore. Anzi.

Afferrò il ragazzetto che aveva parlato per il colletto della t-shirt e lo spostò di peso per aprirsi un varco.

“Muovetevi tutti! Aria! Aria!”

Le sue brusche direttive furono subito eseguite: alcuni si allontanarono praticamente in corsa, altri si schiacciarono contro le pareti quasi fino a scomparire, smettendo persino di respirare.

Fury non esitò ad approfittare del passaggio così ottenuto.

“Qualcuno mi metta in contatto con l'agente Coulson!”

“Non aveva detto il consiglio?” Obiettò uno dei consulenti.

“Coulson e il consiglio, ci senti figliolo o stai pensando a qualcos'altro?”

“Nossignore!”

“Non ci senti?”

“Nossignore! C-Cioè... sissignore!”

 

*

 

Il peggior mal di testa della storia arrivò a svegliarlo con la stessa delicatezza di una madre che passa l'aspirapolvere nella camera del figlio alle sette di domenica mattina (non che ne sapesse granché, di mamme e pigri giorni di vacanza).

“Clint?” Natasha incombeva su di lui.

Anzi, fu proprio la voce della ragazza a suggerirgli che quella macchia informe di rosa e rosso era, di fatto, la sua partner. Azzardò un sorriso e se ne pentì subito: ogni suo muscolo facciale invocò pietà per quell'improvvisa tortura. Il che gli ricordò anche cos'era successo, del corpo a corpo con Natasha e della (ne era sicuro) penosa conclusione della prima sessione di allenamento reclute della sua vita.

“Clint, mi senti?”

Le concesse in risposta un rumore gutturale non meglio precisato, che poteva essere un'affermazione o un insulto bello e buono (Clint decise che era entrambe le cose).

“Mi h-hai... mi hai c-chiamato Clint,” biascicò, inorridendo al suono strascicato della propria voce, “se b-bastava f-farmi p-prendere a p-pugni... ci pensavo prima”. Sbatté furiosamente le palpebre, mettendo poco a poco a fuoco i dintorni: si trovavano ancora in palestra. Natasha, dal canto suo, sembrava avere avuto il buon senso di mostrarsi quantomeno addolorata per quel colpo basso.

Una fitta dolorosa gli trapassò le tempie quando tentò di rimettersi seduto. Una borsa del ghiaccio gli pesava sulla fronte e il naso, dolorante, sembrava pulsare. Non di nuovo.

“Non è rotto,” l'avvertimento di Natasha gli risultò colorato di un'urgenza che non le apparteneva. Non sarà stato rotto, ma quando Clint si portò una mano alla faccia per constatare l'entità del danno, gli venne quasi da piangere. Un cerotto faceva bella mostra di sé sull'arco del suo setto nasale.

“A p-posto,” esalò, chinandosi in avanti per appoggiarsi le mani sulle ginocchia, “spero almeno sia quello di Batman”. Mentre cercava di ricordarsi chi era, come, quando e perché, lasciò che Natasha si preoccupasse di tenere il ghiaccio al suo posto.

“Mi dispiace,” la scusa della ragazza era arrivata – per quel che gli riguardava – con un abbondantissimo secondo di ritardo.

“Non è n-niente,” si stropicciò un occhio, il mal di testa che non accennava a volerlo abbandonare, “mi sono rotto il naso p-più volte di q-quante tu mi abbia chiamato Clint.”

“Più di due?”

“Più di cinque.”

Natasha sospirò. “Se ti consola, avresti dovuto vedere che occhiate mi hanno lanciato quando si sono accorti che eri svenuto,” gli confessò, ne era sicuro, col puro intento di farlo sentire meglio, “ho dovuto buttare fuori tutti.”

“Se ti sei ricordata di t-tirare un pugno in faccia a quel pidocchio di Weiss, s-sei perdonata,” le concesse.

“No, però... quando se n'è andato, aveva un'aria piuttosto terrorizzata. Vale?”

“Te lo d-dico tra cinque minuti.”

Rimasero in silenzio per qualche istante, ognuno perso nei propri pensieri. Doveva ammettere che vederla sinceramente desolata (ormai aveva imparato a riconoscerle, le sue finte) gli faceva un certo piacere. Pochi mesi prima non avrebbe esitato ad abbandonarlo in palestra, solo e tristemente svenuto, lasciando che fosse qualcun altro a raccoglierlo col cucchiaino.

“Non credo che Fury ci permetterà di addestrare altre reclute,” fu lei a parlare per prima (altra anomalia).

“A meno che non voglia che li prepariamo per il circo,” alluse e poi gli venne da ridere (data le condizioni in cui versava attualmente la sua faccia, più che altro rideva e piangeva contemporaneamente), “lasciatelo dire da uno che ci ha lavorato: quello era peggio del circo.”

Natasha gli scoccò un'occhiata scettica. “Hai lavorato per il circo?”

“Già,” ammise senza particolari problemi, nonostante quella fosse solo la terza volta che ne informava qualcuno, “quand'ero solo uno stupido moccioso.”

“Cos'è che facevi?”

“Tiravo con l'arco, che altro?” Le sorrise, strizzando un occhio all'ennesima fitta di dolore. La ragazza parve valutare attentamente le sue parole: più che per accertarsi che Clint dicesse la verità, per capire come procedere, o almeno così gli parve.

“Anche i tuoi genitori lavoravano per il circo?”

“No, eravamo solo io e mio fratello,” si bloccò per un misero istante, chiedendosi quanto tempo fosse passato dall'ultima volta in cui si era ritrovato a pensare a Barney.

“Non sapevo avessi un fratello.”

“Non ci vediamo spesso,” si giustificò. Diciamo pure per niente.

Natasha si era di nuovo zittita, i suoi occhi verdi intenti e concentrati quasi stesse formulando un complicatissimo algoritmo per il calcolo di... qualcosa. O magari era esattamente quello che stava facendo, non si illudeva di comprendere cosa passasse per la testa di Natasha Romanoff: anzi, aveva sempre la netta e costante sensazione di essere irrimediabilmente fuori strada quando si trattava della sua partner.

“E poi sei entrato nell'esercito?” Clint le rivolse uno sguardo sorpreso: non si ricordava di aver detto niente riguardo il suo passato nei marines. La ragazza parve aver compreso il suo dubbio perché si affrettò a spiegare, “hai detto alle reclute che eri stato un cecchino.”

“Oh... giusto,” il ricordo di quel particolare dettaglio riemerse dalla cortina di stordimento che continuava ad ottenebrargli il cervello. “Per un certo periodo, sì.”

“E' stato Coulson a portarti allo SHIELD, vero?”

“Chi cavolo sei, una chiaroveggente? Predici il futuro quando non hackeri i siti internet di povere lavandaie asiatiche?”

Si strinse nelle spalle, distogliendo lo sguardo dal suo viso per fissare la propria attenzione su tutt'altro: una cosa che, Clint se n'era accorto fin troppo bene, faceva in continuazione quando si trovava in imbarazzo.

“No, è solo... solo una supposizione.” Le dette un buffetto sotto al mento per farla voltare di nuovo verso di sé, come a sottolineare che non c'era proprio niente di cui preoccuparsi (solo più tardi si sarebbe interrogato su chi cazzo dà “buffetti” alla Vedova Nera?!).

“E' stato Coulson,” confermò non appena ebbe riagganciato il suo sguardo. Lasciò ricadere la mano, massaggiandosi distrattamente la mascella. “E' un miracolo che tu non mi abbia rotto niente.”

“Mi hanno insegnato ad affondare il coltello solo quel tanto che è necessario,” puntualizzò.

Clint intuì che, più che metaforicamente, Natasha l'aveva inteso alla lettera. Era in quei momenti che le si sentiva più vicino, in cui la sentiva più affine a se stesso di qualunque altro collega, Phil compreso. C'era un'oscurità nascosta dietro il verde profondo dei suoi occhi, un pozzo di cui, neppure sporgendosi sarebbe riuscito a vedere il fondo. Gliel'aveva riconosciuta sul viso non appena l'aveva vista – vista davvero – sul tetto della cattedrale di Saint Paul, circondato dalle statue di santi e apostoli in cui non aveva mai creduto (come avrebbe potuto, comunque?), esattamente così come la ritrovava ogni mattina sul proprio, riflessa nello specchio sbilenco del bagno. No, la sua somiglianza con quella ragazzina di tredici anni, strappata alla propria famiglia, addestrata ad essere non un soldato, ma un'arma nelle mani di uomini e organizzazioni privi di scrupoli, non era immediata. Era qualcosa di più profondo, qualcosa che non riusciva a definire a parole. L'avevano privata di un pezzo della sua esistenza, lo stesso che le circostanze e le pessime decisioni dei suoi genitori avevano portato via a lui. Quel che era stato tolto, nessuno l'avrebbe potuto restituire. Eppure c'era quella fierezza che le leggeva nello sguardo ad affascinarlo, il modo in cui si rifiutava di lasciarsi abbattere da qualsiasi avversità, la determinazione con cui aveva deciso di farla finita piuttosto che arrendersi. Una facciata, forse, ma Clint era convinto che la costruisse persino a se stessa, specialmente per se stessa: chissà quanto lavorio interno era necessario per convincersi di non essere arrivata al capolinea, di avere uno scopo nella vita, di non aver finito prima ancora di aver cominciato. Esseri umani danneggiati che fingono di non esserlo, ecco cosa siamo.

“Mi è venuta fame,” asserì dopo una lunghissima pausa. “Ti offro il pranzo.”

“Non mi sembra il caso.”

“Va bene, se insisti puoi offrire tu.”

Natasha sorrise, sul punto – suppose – di declinare l'invito (dalla serata alcolica da Donny's, di cui Clint non ricordava granché, la ragazza aveva cominciato a rifiutare e accettare inviti in egual misura).

“Va bene.”

“Cazzo, ti devo far proprio pena!” Esclamò, sorpreso e divertito (si è arresa subito!).

“Non ne hai idea.” Si era rimessa in piedi e gli tendeva la mano. “Muoviti prima che cambi idea.”

Afferrò la mano che gli offriva, rialzandosi, ancora instabile sulle proprie gambe.

“Agli ordini.”

 

****************
 
Parte 2 (per così dire) del processo di avvicinamento \O/ o... io che accontento i miei stessi capricci. Il cliché dell'allenamento con spettatori non me lo potevo lasciar sfuggire :P E intanto ne approfitto per dare un po' l'idea del tempo che passa. Ah, ho anche scoperto che mi diverto (anche troppo) a scrivere Fury.
Le cose (nel senso di "trama") cominceranno a smuoversi nel prossimo capitolo, se deciderete di rimanere sintonizzati!
Un grazie grande come una casa ad Eli, as usual :3
E anche a tutti coloro che hanno letto (e commentato), in particolar modo missgenius, Blackmoody, DalamarF16 e Lady Leggy :)
Alla prossima!
S.
 

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Capitolo 7
*** A Thousand Silhouettes Dancing On My Chest ***


7

 

A thousand silhouettes dancing on my chest
No matter where I sleep, you are haunting me

(Of Monsters and Men - Silhouettes)

 

 

“E' proprio sicura di non potermi spingere fino a casa?” Sfoderò l'ennesimo sorriso a trentadue denti in direzione di Emily, l'infermiera che Clint aveva metaforicamente torturato in quegli ultimi cinque giorni. La donna si era premurata di spingere la sua sedia a rotelle fino allo spiazzo antistante l'ospedale affiliato allo SHIELD e lì sembrava avere ogni intenzione di abbandonarlo: il piede sinistro ingessato, il pericolo trauma cranico scampato, non c'era alcun motivo per cui trattenerlo oltre.

“No, mi dispiace, signor Barton,” ormai conosceva i suoi educatissimi rifiuti a memoria, “la reception le ha chiamato un taxi. Sarà qui a momenti,” gli assicurò ricambiando il sorriso. “Stare a casa le farà bene.”

A Clint venne da ridere: se la donna avesse saputo quanto visceralmente detestasse starsene solo nel suo appartamento, probabilmente avrebbe riflettuto due volte prima di parlare. Data la lieve entità dell'incidente che l'aveva visto coinvolto durante la sua ultima missione (in solitaria, di nuovo) a Caracas, gli era stata assegnata una stanza insieme ad altri tre pazienti, anch'essi dipendenti dello SHIELD: Gary – tecnico informatico – si era gonfiato come una mongolfiera per via di una reazione allergica a dalle arachidi ben nascoste in un cono gelato confezionato, Jimmy – il responsabile degli archivi – era in cura per delle infiltrazioni al ginocchio, mentre Vincent – un veterano della sezione corrispondenza – si stava riprendendo da un'operazione di sostituzione dell'anca. Una compagnia niente male.

Non appena avevano scoperto chi fosse e cosa facesse, l'avevano accolto con entusiasmo, subissandolo di domande riguardo il lavoro sul campo e il brivido dell'attività spionistica (cosa c'era di più elettrizzante che precipitare da tre piani d'altezza e schiantarsi sul cofano di una vecchia berlina? In realtà era un miracolo bello e buono che non ci fosse rimasto secco). Clint, che aveva inizialmente soddisfatto la loro curiosità, aveva finito per ricorrere alla scusa della super-riservatezza di certe informazioni per potersi godere un po' di sacrosanta pace. Preferiva stare ad ascoltare gli sproloqui di Vince su quella volta in cui Howard Stark gli aveva straordinariamente stretto la mano (aneddoto che cambiava forma ad ogni reiterazione), che dover raccontare la sua vita a tre perfetti sconosciuti.

La convivenza forzata gli era risultata odiosa... fino a quel momento. Il sole a picco sul parcheggio dell'ospedale, le macchine e le ambulanze che andavano e venivano caricando o scaricando pazienti sembravano insistere per riportarlo nel tran tran della vita quotidiana. Al suo appartamento disordinato e deserto, al periodo di fermo che gli sarebbe toccato nell'attesa che la frattura al piede si rimarginasse. Non era affatto sicuro di poter sopportare l'esclusiva compagnia di se stesso per, quanto? Un mese?

“Arrivederci, signor Barton,” non fece in tempo ad interrogare l'infermiera che quella se n'era già andata, non prima di avergli offerto un paio di stampelle e un casto bacio sulla guancia. Se quest'ultimo lo sorprese, non fu comunque sufficiente a migliorare il suo umore già compromesso.

Sbuffò sonoramente. Si sentiva un completo idiota, lì seduto davanti all'ingresso, solo come un deficiente. Occhio d'aquila colpisce ancora, pensò lugubremente, rammentando fin troppo bene l'appellativo che Gary aveva tanto insistito per appioppargli (Clint era stato lì lì per scagliargli una nocciolina dritta in gola e godersi lo spettacolo di lievitazione).

Avrebbe chiamato Phil se l'agente supervisore non fosse stato impegnato in certe indagini interne allo SHIELD: la nomina del nuovo vice-direttore era imminente, i vertici in subbuglio, l'organizzazione attualmente più simile ad un covo di politicanti inviperiti che di silenti protettori del mondo. La cosa non lo interessava minimamente, quel che gli importava era sapere che Coulson era disperso nella burocrazia internazionale, da qualche parte nel mondo.

Appoggiò le stampelle trasversalmente sui braccioli della sedia, spingendosi per qualche metro lungo il marciapiede. La malsana idea di raggiungere il suo appartamento in quelle condizioni stava prendendo forma... quanto sarebbe potuto essere difficile, comunque? Sicuramente i passanti avrebbero avuto pietà di un povero invalido e lui ne avrebbe approfittato per recuperare gli allenamenti alle braccia a cui aveva inevitabilmente dovuto rinunciare.

“Clint!”

La voce lo costrinse a voltarsi alla sua destra: Natasha si sbracciava in prossimità di quella che aveva tutta l'aria di essere una delle auto che lo SHIELD metteva a disposizione dei suoi addetti ai lavori: sobria e nera.

“Natasha?” Non si preoccupò di nascondere la propria sorpresa, mentre la ragazza lo raggiungeva, prendendo immediatamente le redini della situazione. Metabolizzando poco a poco quell'insperata apparizione, il sollievo cominciò a farsi strada nel suo stomaco.

“Pensavo di trovarti in condizioni peggiori,” commentò lei, senza esitare a spingerlo verso la macchina.

“Che ci fai qui? Non dovevi essere in Grecia?”

“Macedonia,” lo corresse, abbandonandolo sul bordo della strada per aprire la portiera del sedile posteriore. “Ho finito prima del previsto.”

Clint si limitò a studiare le sue mosse, quasi non lo riguardassero, affatto convinto dall'intera situazione. Era passata più di una settimana dall'ultima volta che si erano rivolti la parola, e ancora di più dalla loro ultima missione. Nonostante gli ottimi risultati che avevano conseguito in precedenza, non sembrava che Fury fosse intenzionato a ripetere l'esperienza.

“E' stato Phil a chiamarti?”

Il capo di Natasha fece capolino oltre l'orlo del finestrino, un'espressione indecifrabile sul volto (più passava il tempo e più si affinavano le sue capacità di dissimulazione).

“Già,” confermò infine, procedendo con l'aiutarlo ad alzarsi dalla sedia a rotelle e sistemarsi all'interno dell'auto. “Non ce l'ha fatta a venire.”

“Oh, lo so. E' da qualche parte a sentire dei buffoni in giacca e cravatta discutere di alleanze ed interessi da rispettare e bla bla bla,” si appoggiò a lei, scivolando sul sedile posteriore con qualche difficoltà. Stupido piede del cazzo.

“Se il direttore prende la decisione sbagliata, rischiamo di pagarne tutti le conseguenze,” gli rammentò lei.

“Come se non lo stessimo già facendo,” asserì sarcasticamente prima che la portiera non si chiudesse dietro di lui. Osservò mentre Natasha riportava la sedia all'ingresso dell'ospedale e poi tornava rapidamente sui suoi passi, prendendo il posto di guida. Clint si rese conto solo in quell'istante che non era contemplata la presenza di un autista di professione.

“Ce l'hai la patente?”

“Cosa sei, mio padre? Allacciati la cintura,” un appunto ironico e un ordine.

“No, sono il tuo passeggero storpio.”

“Piantala, sono perfettamente in grado di guidare un'automobile,” tagliò corto, “non sarà peggio che sfondarne una cadendo da dieci metri d'altezza.”

“Miss Tatto a rapporto.”

“Ascolta, Big Foot, da che parte devo andare?” Gli ci volle un secondo di più per realizzare che Natasha non sapeva dove abitasse. Certo, le aveva menzionato Brooklyn, ma non molto altro.

“Potevi dirlo subito che è tutta una messinscena per scoprire dove vivo.”

“Avrei potuto chiamare Coulson.”

“Phil non te l'avrebbe detto.”

“Mi hai preso per una sprovveduta?”

“Quello è l'ultimo aggettivo che ti affibbierei.”

“Bene. Per dove?”

“Parti, ti indicherò via via la strada.”

La ragazza mise in moto, scoccandogli un'occhiata carica di scetticismo attraverso lo specchietto retrovisore.

“Certo che già che c'eri potevi farti prestare una limousine.”

Il contraccolpo della partenza (volutamente brusca, sospettò) lo mandò a sbattere contro il sedile del passeggero.

 

*

 

“Cos'hai contro gli ascensori?” Natasha non aveva smesso di brontolare da quando aveva scoperto che l'edificio in cui Clint abitava non ne era provvisto. “E ovviamente stai all'ultimo piano,” sottolineò sarcasticamente, aiutandolo a raggiungere il divano.

“Ci abbiamo messo solo dieci minuti per salire!”

Solo.”

“Mi tiene in forma.”

“Sì, scommetto che sono le scale che fanno la differenza.”

La ragazza si stava guardando curiosamente attorno, prendendo sistematicamente in esame ogni singolo angolo del salotto-cucina-soggiorno.

“Benvenuta nella mia umile dimora,” decantò pomposamente. “Le uscite sono quella principale, la scala antincendio, lo scivolo dell'immondizia e... il tetto, se sei in vena,” le fece un rapido elenco, alzando le mani a mo' di resa all'occhiata irritata che ricevette in risposta. “Ti ho risparmiato la fatica,” si strinse nelle spalle. Aveva imparato a riconoscere l'espressione concentrata che sfoggiava quando entrava per la prima volta in un luogo nuovo: individuare le possibili vie di fuga era la regola numero uno del manuale della perfetta spia.

“Hai per caso un volantino con le norme di sicurezza da distribuire ai tuoi ospiti?”

“Tipo in aereo?”

“Tipo in aereo.”

“No, di solito i miei ospiti se ne escono dalla porta, sbattendola.”

“Terrorizzati dal caos?”

“Spero di sì. Lascio in giro calzini sporchi apposta.”

Natasha, le braccia intrecciate al petto, lo stava osservando con aria valutativa.

“Dovresti smetterla, lo sai?”

“Puoi essere più precisa?” Faceva talmente tante cose per irritare la gente che era difficile ricordarsi cosa seccasse chi, nello specifico.

“Di sminuirti.” Il modo in cui aveva pronunciato quell'ultima parola, fissandolo dritto negli occhi, gli procurò un brivido lungo la schiena. Sentiva il disperato bisogno di allentare la tensione e diradare il disagio con una battuta stupida, ma si impegnò per trattenersi il più possibile. Non rovinare anche questo, Clint. Non rovinare anche questo.

“Quello è il tuo primo arco?” La domanda di Natasha era arrivata a distoglierlo dalle sue momentanee difficoltà. “O l'hai rubato da un museo archeologico?” Gli stava indicando il sottile arco di legno appeso sopra il divano.

“E' il mio primo arco conservato in vista dell'apertura di un museo,” la corresse.

“Conti di diventare famoso?”

“Qualcosa del genere.”

“Il lavoro delle spie è un lavoro senza gloria.”

“Ci sono un sacco di spie famose,” ci tenne a ribattere.

“Allora non sono buone spie.”

Clint non era del tutto sicuro che Natasha si sbagliasse.

 

*

 

La suoneria del suo cellulare rimbombò nella sala conferenze praticamente deserta. Bevve un lungo sorso d'acqua prima di decidersi a rispondere.

“Coulson,” la voce del direttore Fury non tardò a raggiungerlo dall'altro capo del telefono.

“Direttore.”

“Come va con i nostri adorati cugini oltreoceano?”

“Non bene,” fu costretto a confessare, facendo vagare lo sguardo sulle sedie vuote che lo circondavano praticamente a perdita d'occhio. “Hanno disertato l'incontro.”

“Figli di puttana.”

“Più o meno quello che stavo pensando.”

“Hanno spiegato perché?”

“Non ce n'è stato bisogno. Boris Shostakov è la nostra concorrenza.” Una delle tante.

“Il magnate russo dell'energia?”

“Proprio lui, signore.”

“Credi che abbiano intenzione di scendere a compromessi?”

“E' possibile. Lo SHIELD non ha fatto niente per facilitargli la vita.”

“Fino ad ora.”

“Fino ad ora,” confermò.

“A che punto siamo con Barton e Romanoff?”

“Ci sto lavorando, signore.”

“Abbiamo meno tempo del previsto. Avvertimi quando Barton potrà ritornare operativo.”

“Sarà fatto.”

“Chiamami se ci sono cambiamenti.”

“Sissignore.”

 

*

 

Natashka? Natashka svegliati.”

Riaprì gli occhi, sentendosi scrollare leggermente. Nadja, piccolissima nella sua enorme camicia da notte sdrucita, era in piedi accanto al suo letto. Gli occhi accesi di paura.

Cos'è successo?” Un bisbiglio nel silenzio. “Se ti trovano qui ti puniscono.”

Nessuna delle ospiti della Red Room aveva il permesso di uscire dalla propria stanza dopo le dieci di sera, a meno che non fosse uno dei loro supervisori a prelevarle.

Inessa mi ha rubato di nuovo Raisa.”

Strinse le labbra, lo stomaco serrato da un nodo doloroso. Raisa, la bambola di pezza che Nadja teneva nascosta sotto il cuscino, era l'ultimo cimelio della sua vecchia vita. La bambina aveva insistito – Natalia conosceva la storia a memoria – che era stata sua madre a regalargliela per il suo quarto compleanno, prima che la sua famiglia fosse stata costretta ad abbandonarla ad un orfanotrofio, colpevoli le ristrettezze economiche. Nadja era convinta che, finché Raisa fosse rimasta con lei, ci sarebbe stata una piccola possibilità che sua madre facesse ritorno, che l'avrebbe riconosciuta nonostante gli anni trascorsi proprio per via di quel gioco liso e consunto. Natalia sapeva fin troppo bene che quelle non erano altro che le inutili e pericolose illusioni di una bambina di sei anni, ma non era riuscita a smentirla. A dire la verità, la invidiava. Non era sicura che quella bambola le fosse realmente appartenuta, un tempo, ma era comunque qualcosa a cui aggrapparsi. Qualcosa che non aveva a che fare con la Red Room. Qualcosa di reale.

Va bene,” decise, mordendosi a sangue le labbra. “Torna in camera tua, vado a prenderla io.”

Sei sicura?”

Vai.”

Grazie Natashka.” Si sporse per darle un bacio sulla guancia, affrettandosi ad uscire e sparire nella totale oscurità dell'area dormitorio.

Natalia contò alla rovescia da dieci a zero prima di decidersi a scendere dal letto. Voleva bene a Nadja, e non aveva esitato ad offrirle il suo aiuto, ma adesso aveva paura.

Scivolò fuori dalla sua stanza, un'ombra tra le ombre, sfiorando la parete con una mano per individuare la porta della camera di Inessa. Non le piaceva, Inessa: era la più alta e la più forte, quella che otteneva sempre i risultati migliori nei test, di qualsiasi genere. Era la preferita del loro supervisore, Alexander, e approfittava della sua posizione per infierire sulle bambine più piccole. Nonostante il terrore che le metteva addosso, Natalia era l'unica in grado di tenerle testa.

Aprì la porta della sua stanza, facendo il minor rumore possibile... non c'era nessuno. Inessa doveva essere occupata con Alexander, da qualche parte. Non perse tempo, mettendosi a cercare la bambola praticamente alla cieca. La trovò nascosta sotto al letto. Si affrettò ad uscire e a raggiungere la stanza di Nadja.

Ecco qui,” le riconsegnò la bambola, “adesso dormi.”

Ti ha fatto male?”

No. Dormi.”

Grazie, Natashka.”

Prego.”

Uscì dalla sua stanza che era già mattina, o almeno credeva. Non ricordava di aver dormito. Figure di bambine di cui aveva dimenticato il volto apparivano e sparivano insieme alle luci intermittenti del soffitto. Man mano che procedeva l'aria si faceva sempre più rarefatta.

Inessa sostava alla fine del corridoio, sorrideva sinistramente mentre Alexander, alle sue spalle, le teneva una mano sul collo. Natalia si sentiva soffocare, avrebbe voluto tornare indietro, fermarsi... ma una forza invisibile sembrava sospingerla verso Inessa, verso lo sbocco che l'avrebbe immessa nel refettorio. Si preparò all'impatto coi due che le sbarravano la strada e che non sembravano volersi spostare... ma non arrivò mai. Passò loro attraverso, quasi fossero stati dei fantasmi.

L'odore rancido di cibo scaduto le ferì le narici.

Un corpo dondolava sopra i tavoli della mensa.

Natalia cadde a terra, le mani alla gola, annaspando alla disperata ricerca di aria, il terrore a scuoterla dalla testa ai piedi.

Nadja era impiccata al soffitto, la bambola infilzata nel palmo della sua mano con un grosso chiodo arrugginito.

Gridò con tutto il fiato che aveva in corpo.

 

“Natasha! Natasha svegliati! TASHA!”

Gli occhi sbarrati, non riusciva a vedere nient'altro che nero. I polmoni le bruciavano e mani estranee la stavano scuotendo. (Nadja!)

“Respira!”

Stava soffocando. (No, lasciami. Lasciami!) Si divincolò furiosamente, gattonando sul pavimento alla cieca. Al contatto tra il suolo e i palmi delle mani, un'improvvisa consapevolezza trafisse la spessa coltre di nebbia dell'incubo: non era il pavimento della Red Room. (Non sono alla Red Room. Non sono alla Red Room). Fu costretta a ripeterselo ad oltranza, finché le parole non le scesero nello stomaco, gelide e rassicuranti insieme.

Restò immobile, accucciata a terra, le braccia a coprirle la testa (la prima cosa che aveva imparato). Il petto le si alzava e abbassava in rapida sequenza, facendo arretrare la paura ad ogni esalazione.

“T-Tasha?”

Le ci volle un lunghissimo attimo per collocare quella voce, darle un volto.

Clint.

“Che cazzo è appena successo?”

Riaprì gli occhi proprio mentre l'uomo si sporgeva verso di lei: seduto a terra, il piede ingessato e ingombrante davanti a lui. Non riuscì a reprimere l'impulso che la spinse a ritrarsi in fretta e furia.

“Non mi toccare,” biascicò, una supplica più che un ordine.

Clint abbassò le mani e annuì. “Va bene.”

Rimasero entrambi immobili, il respiro accelerato, le mani fredde e lo stomaco in subbuglio. Natasha indietreggiò appena, trovando la parete con la schiena. Vi aderì, la solidità del muro a rassicurarla, poco a poco. Le risultò impossibile sostenere lo sguardo dell'uomo: qualcosa le diceva che quell'intera situazione non gli era poi così estranea. Non voleva saperne niente, non in quel momento. Si prese il viso tra le mani, socchiudendo gli occhi ancora pieni di panico e sonno.

“Cos'è successo?” Il bisbiglio di Clint fu appena udibile.

“Succede ogni volta... o-ogni volta che dormo in un posto che n-non conosco.”

“Avrei dovuto svegliarti,” riconobbe immediatamente il dispiacere (forse il senso di colpa) nella sua voce. “Ti sei addormentata a metà del quinto film... di Nicolas Cage.”

La considerazione del tutto superficiale la consolò più di tutto il resto: gli anni della Red Room si erano conclusi. Non doveva più vivere in un bunker umido e spoglio, in stanze che assomigliavano più a celle che a camere da letto. Nessuno le avrebbe fatto visita non richiesta durante la notte, nessuno aveva il potere di toccarla e obbligarla all'obbedienza al tempo stesso. Nessuno poteva strapparle i suoi ricordi o le persone a cui voleva bene... o... o almeno credeva. Rialzò gli occhi su Clint, fissandolo con un'intensità tale che, per un misero istante, fu quasi convinta di potergli vedere attraverso. Leggere i suoi pensieri.

Dovevano essere state le sue urla a svegliarlo, l'algida e sarcastica Natasha si sveglia nel bel mezzo della notte, gridando come una bambina.

Guardò prontamente altrove: in fin dei conti non ci teneva minimamente a sapere che cosa gli passasse per la testa.

“Chi è Nadja?”

“Una mia...” amica? Conoscente? Compagna? “Una persona che conoscevo.”

“Che le è successo?”

“E' morta,” l'hanno uccisa, è diverso. “Per una bambola,” aggiunse a voce bassissima.

“Mi... m-mi dispiace,” Clint aveva trattenuto il fiato fino a quel momento.

“Era morta nel momento esatto in cui l'hanno portata alla Red Room,” si ritrovò a dire, rispondendo ad un'urgenza che non sapeva di avere. “Le più deboli e le più stupide... q-quelle morivano subito.”

“Quanti anni avevi?”

“Non lo so,” ammise, “sette o forse otto.”

“Cazzo.”

Nadja era praticamente sua coetanea, eppure aveva avvertito fin da subito, nettissimo, il bisogno di proteggerla. Da tutto e tutti. Sapeva benissimo che non ce l'avrebbe fatta: forse era per questo che l'aveva presa in simpatia, il motivo per cui si era accanita contro ogni buon senso, con le unghie e coi denti pur di aiutarla ad andare avanti. Capì in seguito che era una sfida persa in partenza. Le cose erano cambiate radicalmente dopo quella macabra scoperta in refettorio: nel suo ricordo non aveva urlato, non un filo di voce. Aveva ricacciato indietro la nausea, aveva fatto appello anche al più piccolo briciolo di autocontrollo che non sapeva neanche di possedere, per sforzarsi di ostentare assoluta indifferenza. Insieme ad un piatto di uova fredde e un mezzo toast bruciacchiato, Natasha aveva ingoiato il dolore per la perdita della sua unica amica e si era ripromessa di non ricaderci mai più. Voler bene alle persone non portava a niente di buono: erano punti deboli, fianchi scoperti in cui il nemico avrebbe facilmente potuto affondare la sua lama. Tutte le volte che si era affezionata a qualcuno, quel qualcuno ne aveva pagato le conseguenze a caro prezzo. Era pericolosa, Natasha, la morte la seguiva ovunque andasse, manifestandosi in sembianze diverse, forse, ma pur sempre presente.

La morte era la sua ombra: c'era stato un tempo in cui aveva creduto di essere un tutt'uno con quella. Fantasmi che andavano ad aggiungersi ai cadaveri che aveva già sulla coscienza: un conto che ammontava a più del triplo dei suoi anni. Le persone entravano e uscivano dalla sua vita senza lasciarvi traccia, ma non loro. Tutti i suoi morti, non dubitava che sarebbero rimasti per sempre con lei.

“E' meglio che me ne vada,” mormorò, la voce appena distinguibile nel silenzio. Come diavolo le era saltato in mente di cedere alla tentazione? Perché si era lasciata convincere da Coulson? No, anzi, l'agente supervisore non aveva neanche dovuto insistere eccessivamente. Non ci aveva riflettuto più di tanto: Clint aveva bisogno di qualcuno, Clint era da solo, Clint non aveva altro che lei. Credeva forse di fargli un favore ad immischiarsi nella sua vita? Non era forse già abbastanza complicata? Che avrebbe potuto guadagnarci, comunque? Sapeva di essere come un buco nero: avrebbe risucchiato tutti coloro che si fossero azzardati ad orbitarle troppo vicino. Li avrebbe fagocitati e ne avrebbe pianto la dipartita. Un nuovo fantasma per la sua collezione.

“No, resta, aspetta che sia mattina.”

“No.” Si affrettò ad aiutarlo a rimettersi dritto e poi sul divano. Toccarlo fu come mettere le mani sul ferro incandescente.

“Mi dispiace, Tasha.”

“Non è colpa tua.”

“Avrei dovuto svegliarti, ma dormivi così profon -”

“Smettila, Barton,” le parole le uscirono con più astio del previsto. “Il peso del mondo non è sulle tue spalle. Questo è il mio problema, non il tuo.” Non lo stava più guardando.

“Tu sei un mio problema.”

Lo ignorò (o forse se l'era inventato? Aveva parlato davvero?) assicurandosi che avesse tutto l'occorrente a portata di mano: le stampelle, il cellulare, il telecomando. Non si dette neppure il tempo di indossare il giubbotto di pelle recuperato sullo schienale della vecchia poltrona su cui si era assopita, prima di inforcare la porta e andarsene. Fece le scale di corsa, scendendo i gradini due, tre alla volta.

La luce gelida della notte la inghiottì.

 

*

 

“Posso chiederle perché, agente Romanoff?”

Dacché era entrata nel suo ufficio, Maria Hill non aveva ancora rialzato gli occhi dal plico di carte che stava sfogliando. Natasha si irrigidì: Fury non le avrebbe mai chiesto una spiegazione del perché sentisse il bisogno di chiedere che le fosse assegnato un nuovo partner.

“L'agente Barton è più che capace,” premise (ci teneva a sottolineare quel particolare punto), “ma non credo che la nostra collaborazione sia la scelta più giusta.”

“Agente Romanoff,” la donna si era finalmente decisa a degnarla di uno sguardo, “è compromessa?” Perché avrebbe dovuto prendere il capriccio di una neo-operativa in considerazione se non riusciva neanche a darle un valido motivo per farlo?

“Non so neanche che cosa significhi,” rispose seccamente, nascondendo abilmente il disagio.

“Non siamo un'agenzia d'incontri. Se non può indicare un problema specifico che ha riscontrato lavorando con l'agente Barton, non ci sono le basi per una richiesta del genere.”

Una sfilza di motivazioni, una meno plausibile dell'altra, si susseguirono nella sua testa. Se fosse stata sincera si sarebbe attirata le ire della Hill, e a mentire non ci pensava neanche.

“Quando tornerà il direttore Fury?” Chiese, arrendendosi ormai all'evidenza dei fatti.

“Quando sarà tempo di tornare.”

Fu costretta a fare appello a tutto il suo autocontrollo per non mandarla al diavolo.

“Se non c'è altro,” alluse, più che pronta ad andarsene.

“C'è dell'altro.” L'agente Hill l'aveva osservata attentamente prima di tirar fuori un esile fascicolo dal primo cassetto della sua scrivania. “Informazioni sulla vostra prossima missione.”

“L'agente Barton ha ancora tre settimane di riposo forzato.”

“Ottimo. Avrete tutto il tempo per studiare il caso nei minimi dettagli.”

“Di che si tratta?”

“Conosce Boris Shostakov?”

“Della Shostakov Energy?”

Maria Hill annuì, invitandola ad aprire il fascicolo. Il nome non le diceva più di quanto avrebbe detto ad un civile mediamente informato degli avvenimenti internazionali. Sapeva che Shostakov era entrato in conflitto con il governo russo, che si era inimicato i media di mezzo mondo per il pessimo trattamento dei suoi operai e per la sua cronica tendenza ad approfittarsi di situazioni di pace decisamente precarie per ottenere maggiori vantaggi.

Quando una fotografia scivolò dal plico, planando dolcemente a terra, il gelo le scese nello stomaco.

“Lo conosce?”

La domanda della sua superiore cadde nel silenzio.

 

****************
 

Aaaand con questo capitolo lasciamo il mini-arco della manovra (inconsapevole) di Clint verso Natasha (o di Natasha verso Clint?), ma ovviamente il suo passato - sotto forma di incubi - è tornato a mettersi in mezzo *sigh* Nella prossima parte, invece, ci butteremo su un po' di (mal)sana azione :)
Grazie infinite ad Eli per il lavoro di betaggio e i deliri (entrambi aggratisse) a e a tutti quelli che stanno leggendo, commentando, apprezzando, ecc. ecc. mi fate una donna felice ù_ù
Alla prossima!
S.

 

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Capitolo 8
*** At the Curtain's Call ***


8

 

At the curtain’s call
It's the last of all
When the lights fade out
All the sinners crawl

(Imagine Dragons - Demons)

 

 

“L'obbiettivo è Boris Shostakov,” una serie di immagini, rubate ed ufficiali, comparvero sullo schermo alle spalle di Coulson. Il magnate russo era più atletico di quanto si sarebbe aspettato: ad occhio e croce doveva avere una cinquantina d'anni, fisico prestante, capelli biondicci, occhi scuri e labbra talmente sottili da sembrare inesistenti. Si rese subito conto che quella faccia non gli ispirava esattamente simpatia. Per un cazzo, ci tenne a ribadire a se stesso.

“Dobbiamo toglierlo di mezzo?”

“No,” fu Natasha a rispondere.

Erano passate circa due settimane e mezzo da quell'ultimo disastroso episodio che li aveva visti protagonisti, lasso di tempo in cui la ragazza l'aveva accuratamente e strenuamente evitato. Lo stava ignorando tutt'ora, guardandolo di sfuggita e solo quando era assolutamente impossibile non poter fare altrimenti. Non riusciva a fargliene una colpa, ha avuto paura, tutto qui.

“Pensiamo che abbia l'orecchio di qualcuno all'interno dello SHIELD.”

“Una talpa?” In mancanza di relazione, decise di rivolgersi direttamente a Phil.

“Cerchiamo di non arrivare a conclusioni affrettate, ma è possibile,” cautela sempre e comunque. Classico Coulson. “Lo SHIELD è stato una sua spina nel fianco fino a qualche mese fa. Pare che Shostakov sia coinvolto in certi minori atti terroristici nella zona centro-meridionale della Federazione Russa. E' lì che si trovano i suoi stabilimenti più importanti.”

Clint ricordava bene come lo SHIELD avesse contribuito a mettere in luce le continue e pesanti infrazioni dei diritti umani che avevano luogo in quel particolare territorio. Proprio in quella zona, uno dei loro aveva perso la vita nella missione che aveva sventato lo scoppio di una bomba. Tutti sapevano che dietro tutti quei complotti c'era Shostakov, ma nessuno ne aveva le prove. Il potere e l'influenza del magnate avevano comunque continuato a diffondersi a macchia d'olio, fino a raggiungere le vette dello SHIELD. Un qualche dirigente (o più di uno, stando alle poche informazioni di cui disponevano) corrotto sembrava avere ogni intenzione di assicurare al proprio paese una fornitura di energia illimitata a vita; in cambio, era disposto a chiudere un occhio sui crimini del suo benefattore. Se non puoi batterli...

“Quindi è un recupero di informazioni,” decretò, tirando autonomamente le fila del discorso.

“Prove,” confermò Phil. “Qualcosa che implichi Shostakov nelle sommosse del centro-sud o contatti coi regimi vicini.”

“Immagino sia una missione sotto copertura,” se avesse potuto scegliere, avrebbe ridotto le operazioni di quel genere al minimo.

“Lo è,” le fotografie sul monitor vennero sostituite da un articolo di giornale. Un evento super-esclusivo, una specie di gala dei più ricchi e potenti della Federazione Russa avrebbe avuto luogo in una delle ville di Shostakov, di lì a qualche giorno. Il russo di Clint era decisamente arrugginito, ma riuscì comunque a cogliere qualche parola qua e là sulla carta stampata.

“Una festa in maschera?” Domandò perplesso. La missione sotto copertura consisteva in una dannata festa di carnevale? Sperò ardentemente di aver capito male.

“A quanto pare il nostro Boris ha dei gusti piuttosto particolari,” Phil gli rivolse uno dei suoi placidi sorrisi. Natasha non aveva ancora detto una parola.

“Sarete Yuliya Filiminova e Dennis Taylor, l'ereditiera kazaka e la sua nuova fiamma yankee,” una fotografia piuttosto sgranata della coppia apparve alle spalle del supervisore che aveva ripreso a parlare. La somiglianza era tale che avrebbero potuto passare per quei due figli del petrolio senza troppi problemi. “Hanno declinato l'invito di Shostakov per via di un'inderogabile fuga d'amore in Indonesia, ma ci siamo assicurati che una rapida rettifica fosse recapitata a chi di dovere qualche giorno fa.”

Se non altro non avrebbero dovuto intercettarli per strada, legarli ed imbavagliarli e abbandonarli chissà dove per evitare che rovinassero loro la festa. Letteralmente.

“C'è un caveau nel livello sotterraneo della villa. Pensiamo che sia lì che Shostakov abbia nascosto informazioni, tabulati, accordi... qualsiasi cosa potrebbe rivelarsi utile.”

Pensiamo?” Clint aveva un pessimo presentimento.

“E' tutto ciò che sappiamo,” Coulson non fece segreto della propria preoccupazione, evidente su tutto il suo viso. “Dovrete essere in grado di coordinarvi sul campo, cambiare il piano in corso d'opera... per tutte le volte in cui sarà necessario.”

“Tasha?” Si voltò verso di lei: se dovevano imbarcarsi in una missione suicida voleva essere certo che Natasha fosse d'accordo, che ne comprendesse a pieno i rischi.

“Non abbiamo altra scelta,” fu la pronta risposta della ragazza, ancora apparentemente troppo interessata all'articolo di giornale in bella vista sullo schermo, per poterlo degnare di un'occhiata. “Se non lo rendiamo inoffensivo rischiamo di permettere che l'influenza di un noto criminale raggiunga i vertici dello SHIELD.”

Come aveva fatto a non pensarci prima? Con l'imminente nomina del nuovo vice-direttore, c'era tutto lo spazio per una manovra radicale: sostituire Fury, magari con qualcuno più disposto ad ascoltare le richieste di Shostakov e di chissà quanti altri pezzi di merda con mezzi e risorse non irrilevanti.

“Quando partiamo?” Si costrinse a distogliere lo sguardo dalla ragazza e a tornare su Phil.

“Domani sera,” annuì e poi parve ricordarsi improvvisamente di qualcosa. “Non avrete un piano d'estrazione.”

“Fantastico. Hai qualche altra buona notizia?” Domandò sarcastico.

“Avrete bisogno di vestiti adatti.”

Oh, merda.

 

*

 

Finì di appuntarsi la complicata acconciatura sulla nuca, dandosi un'ultima occhiata allo specchio. Dopo aver decretato che era abbastanza, si infilò la pelliccia bianca e soffice che lo SHIELD le aveva fornito, insieme all'abito più ingombrante che avesse mai avuto la sfortuna di indossare. Blu notte, la gonna ampissima, il corpetto stretto e le spalle scoperte. La perfetta replica di un collier di rubini che la giovane e viziata Yuliya Filiminova aveva ricevuto per il suo ventunesimo compleanno, le cingeva il collo, dandole un'aria... costosa.

Si decise ad uscire dal minuscolo bagno del quinjet che, nel frattempo, aveva cominciato la sua silente discesa in un punto non meglio identificato della steppa russa.

“Phil!” Clint era alle prese con il nodo del suo papillon, con risultati per altro piuttosto scarsi. “PHIL!”

A giudicare dalla sua postura, sembrava che il completo elegante in cui l'avevano costretto ad entrare, fosse fatto di aghi e spilli... o magari serpenti. Non credeva di averlo mai visto tanto a disagio.

“Qui,” prese un'improvvisa decisione e si fece avanti, richiamando la sua attenzione su di sé. “Coulson è occupato con il pilota,” aggiunse a mo' di giustificazione, evitando attentamente di non incrociare il suo sguardo mentre gli slacciava e riannodava correttamente il papillon.

“Non so perché si ostinino a mettersi questa roba,” lo sentì borbottare, imbarazzato forse, o solo scocciato da quell'assurda costrizione.

“Ogni situazione ha il suo codice d'abbigliamento.”

“Bè, questo codice è sbagliato,” ci tenne a sottolineare, mentre Natasha gli sistemava il colletto della camicia bianca e inamidata. Non riuscì ad impedirsi di lanciargli un'occhiata fulminante: si ricordò in ritardo di essersi ripromessa di limitare le interazioni al minimo. “Tu invece sei una favola,” Clint aveva deglutito e si era umettato le labbra prima di parlare.

“Se non altro puoi correre e muoverti senza troppi problemi,” si impegnò per stemperare il momento, ignorando volutamente il complimento. Alludeva ai tacchi stratosferici che stava attualmente calzando, e a quella gonna che avrebbe rischiato di incastrarsi in qualsiasi cosa.

“Però non respiro.”

“Vuoi fare a cambio col mio corsetto?”

“Non sono sicuro che mi starebbe altrettanto bene.”

“Non lo sapremo mai se prima non provi.”

“Una volta ho sognato di recitare nel Rocky Horror Picture Show, vale?”

“Non ho la più pallida idea di cosa tu stia parlando.”

L'espressione di puro shock che Clint le riservò non aveva niente a che vedere con il suo attuale aspetto fisico. Era piuttosto sicura che fosse sul punto di lanciarsi in una accoratissima tirata sul come e perché non si fosse messa in pari con i film cult del glorioso paese che l'aveva accolta (discorso che aveva già sperimentato diverse volte e che ormai avrebbe saputo ripetere a memoria). Fortunatamente Coulson sopraggiunse a distrarlo.

“Un minuto all'atterraggio,” li informò, soffermandosi particolarmente su Clint. “Come hai fatto ad allacciarti il papillon?” Sembrava sorpreso da quell'insolito sviluppo, ma non abbastanza per soffermarsi ad aspettare spiegazioni. “Queste sono le vostre maschere.” Ne consegnò una ad entrambi insieme alle consuete trasmittenti. “Nessuna mossa azzardata,” li mise in guardia, concedendo una lunga, serissima occhiata ciascuno.

Quando Natasha si stava infilando il piccolo congegno nell'orecchio, un impercettibile sussulto li informò che il quinjet era atterrato con successo.

“La macchina vi aspetta,” Coulson sembrava doversi sforzare per apparire il meno preoccupato possibile. Sapeva benissimo che quella era una missione a rischio, che qualche pezzo grosso dello SHIELD, se l'affiliazione che avevano sospettato fosse di fatto esistente, avrebbe potuto essere presente, riconoscerli, far cadere miseramente la loro copertura. Dopodiché sarebbe andato tutto a puttane e solo un gran colpo di genio avrebbe potuto salvarli. Più che angosciata, però, si sentiva carica e pronta all'azione. Non aveva superato tutti i test dello SHIELD per essere relegata a missioni di minore entità: no, era per quelle complicate e impossibili che aveva combattuto e adesso che ne aveva ottenuta una, non si sarebbe di certo tirata indietro.

Nonostante tutto, però, ora più che mai, avrebbe desiderato che l'agente Hill le avesse assegnato un nuovo partner. Affiancò Clint all'uscita del quinjet, aspettando che la rampa che li avrebbe condotti all'esterno si abbassasse fino in fondo. Fossilizzarsi su quel punto e piangersi addosso per qualcosa che non avrebbe, di fatto, potuto controllare, sarebbe stato completamente inutile.

Ciò che aveva intenzione di fare era dedicare la sua incondizionata attenzione a quelle cose che, invece, aveva il potere di cambiare.

A cominciare da Boris Shostakov.

 

*

 

L'immenso salone era fiocamente illuminato da tre imponenti lampadari di cristallo: riverberavano una luce tenue e intima sul pavimento di marmo, lasciando le pareti e il soffitto nella penombra. Due lunghi tavoli di legno massiccio erano sistemati ai due lati della sala, mentre dal fondo proveniva la musica discreta di un quartetto d'archi.

“Non credo di aver mai visto tanti palloni gonfiati tutti insieme,” le confessò, accostando confidenzialmente le labbra al suo orecchio.

Natasha strinse leggermente la presa che aveva sul suo braccio, ma non disse niente. Non aveva avuto il coraggio di chiederglielo, ma era sicuro di aver notato qualcosa di strano nel suo comportamento. Qualcosa che non aveva necessariamente a che vedere con l'incubo che l'aveva fatta urlare nel bel mezzo della notte, o con il goffo modo in cui aveva lasciato il suo appartamento per impedirgli di vedere. Di vederla. La maschera non gli permetteva di avere una visuale decente – dettaglio che gli risultava particolarmente odioso – ma il modo in cui Natasha si era guardata attorno, gli aveva inspiegabilmente suggerito una certa familiarità. Era possibile che fosse già entrata in quella specie di pacchianissimo castello prima d'allora?

Di una cosa era sicuro: era bellissima. Uno dei domestici di Shostakov si era portato via il suo cappotto e la pelliccia di lei, concedendogli finalmente di guardarla in tutta la sua gloria. Il collo e le spalle scoperte, gli occhi resi più profondi e più verdi dal trucco, le forme strette in quel dannato vestito che aveva l'aria di essere scomodissimo, ma dio se le stava bene. Sembrava più grande e – soprattutto – più pericolosa. La maschera, poi, per quanto un inutile vezzo, le conferiva un'aria di mistero d'altro tempo, altro luogo, altra vita. Sapeva che quello della Vedova Nera era solo un inganno, un complicato specchietto per le allodole, che sotto il miele si nascondeva il peggiore dei veleni... eppure non poteva fare a meno di pensare che se avesse potuto scegliere come morire, cadere per sua mano non gli sembrava esattamente quello peggiore. C'erano cose ben più terribili da guardare un attimo prima di abbandonare questo mondo...

Recuperò un bicchiere di champagne dal vassoio di un cameriere in movimento, bevendone un microscopico sorso.

“Ti conviene restare lucido,” gli suggerì Natasha.

“Riesco a sopportare un po' di quest'acqua e bollicine.”

Ovviamente sei anche uno snob degli alcolici.”

“Non sono uno snob degli alcolici, dico solo che una birra è più pesante di questo. Lo champagne è praticamente succo d'uva!”

Si sentì trattenere per il braccio. Si preparò mentalmente ad una puntualizzazione sulla storia e sul processo di distillazione (si diceva?) dello champagne, che non arrivò mai. Natasha si era fermata ad osservare un enorme dipinto ad olio appeso alla parete a circa due metri d'altezza.

“Wow,” non riuscì a trattenersi dal commentare. “Non credo che la parola 'umiltà' esista nel vocabolario del nostro padrone di casa.”

La gigantesca pittura a dimensione naturale, ritraeva Borish Shostakov seduto su una poltrona di pelle, una coppia di cani da caccia accucciati ai suoi piedi. Natasha lo condusse un po' più avanti: un altro quadro. Stavolta il soggetto non era Shostakov, ma qualcuno che gli assomigliava. Forse un parente.

“Il figlio?” Si azzardò a supporre, fingendo di prestare attenzione al buffet gentilmente offerto dalla casa. Avrebbe di gran lunga preferito un cheeseburger con patatine a quella valanga di tartine al... caviale, o qualche altra schifezza altrettanto costosa. (Le stranezze dei ricchi e annoiati non facevano decisamente per lui.)

Natasha non rispose. Si limitò a voltarsi per passare in rassegna l'intero salone: gli invitati, riuniti in piccoli gruppetti o a coppie, parlavano sommessamente in lingue diverse, in maggioranza russo, inglese e francese.

“Credi che dovremmo socializzare prima di entrare in azione?”

“No.” Un uomo si muoveva nella loro direzione. “Shostakov ci sta raggiungendo. Lascia parlare me.”

Un ampio sorriso apriva l'inconsistente bocca del magnate russo in avvicinamento. Indossava un completo elegante bordeaux di straordinaria fattura, che non faceva niente per non mettere in mostra la sua forma fisica invidiabile. La camicia nera di seta sembrava fatta dello stesso materiale della maschera che gli copriva parte del volto. Gli occhi, neri e vispissimi, non esitarono a studiare entrambi. Clint non fu affatto sorpreso di constatare che era stata la sua compagna a catalizzare l'attenzione dell'uomo.

“Benvenuti,” li accolse affabilmente, odioso. Non esitò a stringere la mano che Shostakov gli aveva teso, un attimo prima che il padrone di casa si esibisse in un antiquato baciamano nei confronti della ragazza. (Clint rabbrividì quando le sottilissime labbra dell'uomo, sfiorarono il pallido dorso della mano di Natasha.) Lei gli concesse un sorriso straordinariamente genuino, riuscendo persino a far risalire un po' di colore alle proprie guance, a simulare imbarazzo. L'improvvisa consapevolezza di non aver mai visto la Vedova Nera in azione in quel particolare frangente, o comunque non così da vicino, lo colpì come uno schiaffo in pieno volto. Combattendo al suo fianco, aveva potuto constatare quanto fosse abile, armata e a mani nude, ammirare la straordinaria padronanza che aveva del proprio corpo, ma non assistere in prima persona alla creazione di una delle sue impeccabili illusioni. Stava tessendo la sua invisibile tela.

“E' sempre un piacere rivedervi,” Shostakov riprese a parlare, limitandosi all'inglese, probabilmente per estendere una cortesia all'americanissimo Dennis Taylor. “Ve la prendete se vi dico che sono contento che il vostro viaggio in Indonesia sia saltato?”

Natasha rise, una risata contenuta e discreta. “Non ce la prendiamo, Boris,” lo rassicurò, la voce più acuta del solito, passando improvvisamente al russo. “Lo sai che adoro le tue feste.”

“Oh, me ne sono accorto,” allungò una mano per sfiorare il collier di rubini che faceva bella mostra di sé sul decolleté di Natasha. “Il famoso regalo di papà?”

“Quello,” confermò orgogliosamente, “dicono che siano tra i rubini più grandi del mondo.”

“Sicuramente tra i più belli.”

A Clint, che era riuscito a cogliere più o meno tutti i punti salienti della conversazione (o quasi), veniva da vomitare.

“Ci ha fatto molto piacere ricevere il tuo invito,” intervenì, azzardando qualche parola di russo mentre le passava un braccio attorno alla vita.

“Yuliya, non mi avevi detto che il tuo Dennis si è finalmente messo a studiare il russo!” Esclamò Shostakov, sorpreso e divertito.

“Dennis è un tesoro.” Natasha gli rivolse uno sguardo adorante che gli fece arricciare lo stomaco. “L'ha fatto per me, vero amore?”

“Per te questo ed altro, pulcina.” Pulcina?! Prese mentalmente nota di non orbitarle attorno a missione conclusa: sospettava che – presto o tardi – un violento calcio nelle palle sarebbe arrivato a punirlo di tanto ardire. Finse totale nonchalance, posandole un bacio sulla guancia (com'è che non si era accorto di quanto fosse morbida la sua pelle?).

“Boris, mi potresti indicare il bagno?” Qualcuno doveva pur cominciare a mettere in moto gli ingranaggi dell'operazione. “Credo di aver bevuto troppo champagne mentre venivamo qui,” si giustificò. Natasha avrebbe potuto facilmente tenerlo occupato anche senza il suo aiuto.

“Certamente,” sembrò cercare qualcuno con lo sguardo e illuminarsi quando l'ebbe trovato. “Dimitri!” Richiamò l'attenzione di uno dei domestici in giacca nera che si muovevano per il salone. “Dimitri, ti dispiace accompagnare il signor Taylor alla toilette?” Il nuovo venuto si esibì in un mezzo inchino, invitando successivamente Clint a seguirlo. Era quasi dispiaciuto per il pessimo trattamento che sarebbe stato costretto a riservare al povero Dimitri: avrebbe avuto bisogno di pace per trovare rapidamente il caveau.

“A dopo, amore.” Natasha sembrava aver fretta di toglierlo di mezzo. Una sensazione spiacevole gli aveva preso lo stomaco: avrebbe voluto chiederle se era tutto a posto, se c'era qualcosa che non andava, ma sapeva di non poterlo fare. La copertura andava mantenuta fino alla fine, i problemi risolti in corso d'opera, Phil era stato chiaro.

La guardò per un'ultima volta, prima di decidersi a seguire Dimitri fuori dal salone.

 

*

 

Non esisteva niente di simile ad un caveau in quel dannato posto.

Tutto ciò che era riuscito a trovare era una cantina stipata di vini costosissimi e nient'altro: a meno che le prove di cui avevano bisogno non si trovassero sul fondo di una bottiglia di Pinot grigio da cinquantamila dollari, avevano fatto un enorme buco nell'acqua. Le informazioni che lo SHIELD aveva loro fornito non erano solo approssimative, ma completamente da buttare. Inservibili. La missione doveva essere abortita immediatamente, prima che le cose potessero complicarsi ulteriormente, prima che andasse tutto definitivamente a puttane.

“Phil. Phil rispondimi,” la muta risposta della trasmittente fece eco alle sue parole. Era la quarta volta che provava. Cazzo, cazzo, cazzo. Tornò rapidamente sui propri passi, percorrendo al contrario quei complicati corridoi che l'avevano condotto al piano interrato. La trasmittente non sembrava avere alcuna intenzione di funzionare. Superò la porta della toilette – scimmiottò mentalmente Shostakov – in cui Dimitri giaceva privo di sensi, legato e imbavagliato nella vasca da bagno.

Solo quando fu ormai in prossimità della festa (quanto cazzo è grande questo posto?!), si rese conto che il brusio che sentiva non erano altro che urla: più si avvicinava al salone, più le grida si facevano chiare ed insistenti.

La deflagrazione di due spari consecutivi riassorbì, improvvisamente, ogni altro rumore.

Natasha.

Impallidì, estraendo il piccolo coltello serramanico nascosto nella suola delle scarpe eleganti. Affrettò il passo, varcando senza esitazione la soglia della sala: se Natasha era in pericolo, aveva bisogno del suo aiuto. Subito.

Il silenzio si era fatto innaturale.

La maggior parte degli invitati doveva essere defluita all'esterno, il quartetto d'archi aveva frettolosamente abbandonato i propri strumenti a terra e il lampadario centrale oscillava proiettando mutevoli fasci di luce sul pavimento. Un flute pieno per metà di champagne era rotolato fino ai suoi piedi, urtando leggermente la punta della scarpa sinistra. Era solo uno dei tanti che erano caduti dal vassoio che adesso giaceva a terra, accanto al cameriere ormai cadavere – non l'unico a rimetterci la pelle – che li aveva trasportati.

Natasha era seduta sulla schiena di un uomo di cui Clint non riusciva a scorgere il viso. Tutto ciò che riuscì a capire, avendola di spalle, era che lo stava uccidendo: il sangue le scendeva copioso lungo le braccia bianche mentre la sua vittima gorgogliava sinistramente. Durò solo un paio di secondi e poi più niente. Avrebbe voluto seguire il suo istinto, accorrere vicino alla donna, scoprire se andava tutto bene, ma qualcosa glielo impedì. Il buon senso forse, o il fatto che la pessima sensazione che gli aveva stretto lo stomaco in una morsa fredda per tutta la serata era improvvisamente peggiorata. Si spostò leggermente di lato, avvicinandosi al corpo esanime del cameriere, l'uscita principale alle sue spalle.

“Natasha?” La voce gli uscì in un sussurro.

La donna si rimise in piedi, voltandosi lentamente verso di lui. I ciuffi di capelli sfuggiti all'acconciatura le ricadevano scompostamente sul volto imbrattato di sangue. Un lungo filo metallico – quello che riconobbe appartenere al finto collier di rubini – le pendeva da una mano, sgocciolando lacrime scarlatte che avevano creato una piccola pozza ai suoi piedi. La sua maschera giaceva poco distante, il nastro di raso che la teneva chiusa, strappato.

Cercò i suoi occhi e si pentì d'averlo fatto: verdi ed implacabili, lo fissavano come due pezzi di ghiaccio.

“Natalia,” lo corresse, la voce fredda ed incolore, “è sempre stato Natalia.”

Le circostanze erano del tutto diverse, ma la prima cosa che gli venne in mente fu la notte piovosa in cui aveva fatto la sua conoscenza. Deglutì a vuoto mentre la pelle gli si riempiva di brividi. Capì che non c'era alcun bisogno di informarla sulla necessità di abbandonare la missione.

“Shostakov?”

Il bacio gelido della canna di una pistola gli si posò poco sopra la nuca.

“Sono qui.” Non fece fatica a riconoscere la voce del padrone di casa, prosciugata di ogni calore. “Getta il coltello a terra,” gli intimò.

“Se non ti dispiace, preferirei tenerlo ancora per un po',” ribatté sarcasticamente.

I pochi secondi successivi si susseguirono rapidamente: gli assestò una violenta gomitata nello stomaco, ruotando su se stesso per approfittare del momento di smarrimento e disarmarlo con un rapido colpo al braccio. Gli si sarebbe avventato contro senza troppi complimenti se non si fosse accorto dello sciame di pallini rossi che gli costellava il petto: cecchini. Si immobilizzò immediatamente, sollevando istintivamente le mani a mezz'aria, a mo' di resa. Sollevò lo sguardo al soffitto: il buio pressoché totale gli aveva nascosto il ballatoio che percorreva il perimetro della stanza, una specie di terrazza interna che, dal piano superiore, si affacciava sul salone. Comprese improvvisamente che erano stati sotto tiro fin dall'inizio.

Inspirò a fondo e tornò a prestare attenzione a Shostakov. Natasha stava raccogliendo la pistola che giaceva tra il cadavere della sua vittima e quello di un altro domestico: se la rigirò tra le mani sporche di sangue prima di fronteggiare Clint, lentamente, lo sguardo vacuo e spento. Sentì lo stomaco sprofondare quando la donna sollevò il braccio, puntandogli l'arma contro con gelida fermezza.

“Natasha... c-che stai facendo?”

Il magnate russo le poggiò le mani sulla schiena, bisbigliandole nell'orecchio parole che non riuscì a distinguere.

“Mi dispiace, Barton,” sussurrò, un microscopico sorriso ad incresparle le labbra. “Sono a casa adesso.”

Uno sparo e la ragnatela si richiuse su di lui.

In trappola.

Poi, più niente.



****************

Data la conclusione del capitolo, mi riservo il diritto di non dire niente :P Mi limito a ringraziare l'Eli (stavolta per il betaggio e soprattutto per i deliri) e tutti coloro che hanno letto, commentato, sbirciato, in particolar modo a chi aspetta ogni aggiornamento <3 apprezzo tantissimo :3
Grazie e alla prossima!
S.

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Capitolo 9
*** The Masquerade Will Come Calling Out ***


WARNING: menzioni di stupro (accennato, mai descritto), situazioni minore/adulto.



9


So they dug your grave
And the masquerade
Will come calling out
At the mess you made

(Imagine Dragons – Demons)

 

Il respiro pesante dell'uomo dietro la tela, era l'unico rumore udibile. La luce filtrava dalla grande finestra aperta, illuminandole i capelli, sciolti sulle spalle, di mille riflessi. Una massa di fuoco in netto contrasto con il pallore della schiena scoperta. Sei come sangue sulla neve, le avevano detto una volta, lo spettacolo incontaminato della natura, deturpato da una traccia di morte. O di vita. Dipendeva dai punti di vista..

Era stata istruita a rimanere seduta ed immobile su un piccolo sgabello, un drappo rosso a coprirle le gambe e parte dei seni.

Quando il suo supervisore alla Red Room, Alexander, l'aveva prelevata per una questione urgente, tutto si era aspettata tranne che quello. Avevano viaggiato per svariate ore alla volta di una villa apparentemente dispersa nel niente. Non aveva idea di dove si trovassero. Aveva aspettato diligentemente che Alexander le presentasse un obbiettivo, una missione, ma tutto ciò che aveva ricevuto erano direttive in merito ad un quadro: un regalo di compleanno per il diciottesimo compleanno di Maksim, il primogenito del fratello maggiore del suo supervisore, Boris.

Non si era mai interrogata sulle condizioni economiche dei suoi capi: supponeva fossero benestanti. Niente avrebbe potuto prepararla a tanta opulenza, a tutta quell'eleganza caricata di pessimi presentimenti.

La porta della camera da letto, a cui dava le spalle, si era silenziosamente aperta e richiusa. Contò i diversi passi di due uomini: riconobbe l'incedere di Alexander accompagnato – suppose – dal fratello. Dovevano essersi fermati poco distanti dal pittore all'opera.

Avevi ragione, Sasha, l'adorerà,” parlavano sommessamente, ma non tanto da impedirle di sentirli.

Il quadro era veramente necessario?”

Necessario? No. Ma voglio che Maksim abbia un ricordo permanente di questo giorno.”

Cosa dovrebbe rappresentare, comunque?”

L'innocenza.”

Alexander si era messo a ridere.

 

*

 

Infossata in una morbida poltrona di velluto, Natasha osservava pigramente il dipinto che avrebbe dovuto ritrarla. I bagliori del camino acceso gli conferivano un'aria più inquietante che innocente: sembrava che le fiamme minacciassero di inghiottirlo da un momento all'altro, di ricongiungersi al fuoco dei suoi capelli.

Prese un sorso della pregiata vodka che Boris le aveva versato prima di allontanarsi per una telefonata urgente. Sarebbe tornato da un momento all'altro. Maksim, il figlio ormai quasi trentenne, le sedeva di fronte, sul divano di pelle: da quando era entrato, non aveva smesso di fissarla neanche per un istante. Non era cambiato molto dall'ultima volta che l'aveva visto: alto, magro, debole e crudele.

“Non sei più tanto innocente adesso, ah?” Le rivolse un sorriso sghembo, alludendo al quadro che incombeva su di loro. Il lato destro del suo viso sussultava a più riprese per colpa di un tic nervoso.

No, non lo sono mai stata, è diverso. Natasha si limitò a guardarlo, senza proferir parola.

“Mio padre non dovrebbe fidarsi di te... sei stata con quegli americani fino ad ora. Chi ci dice che tu non stia mentendo?” La velenosa cortesia che aveva esibito solo qualche secondo prima si era volatilizzata dal suo viso. I suoi occhi, neri come quelli di Boris, improvvisamente incattiviti.

“Nessuno,” rispose tranquillamente.

“Nessuno,” Maksim si mise a ridere, una risata viscida e insopportabile. “Solo perché l'hai salvato da quel porco ucraino, non significa che tu possa avanzare una qualche pretesa.”

Gli eventi della festa le avevano confermato che lo SHIELD non era l'unico nemico del magnate russo. C'erano altri interessi in ballo, altre forze in gioco.

“Non pretendo niente.”

“Sai cosa penso?” Si sporse leggermente in avanti, inumidendosi le labbra con la punta della lingua. “Penso che tu sia una schifosa traditrice. E quando mio padre se ne accorgerà, tu e quel tuo lurido tirapiedi farete una brutta, bruttissima fine. Me ne assicurerò personalmente.”

L'arrivo di Boris la sollevò dell'onere di glorificare i deliri di onnipotenza del giovane con una risposta.

“Scusatemi,” l'uomo riprese il suo posto su una grossa poltrona di cuoio. “Gli affari non dormono mai.”

“Di che dobbiamo parlare, comunque?” Il ragazzo era scattato in piedi, cominciava a spazientirsi.

“Non essere scortese, Maksim,” il rimprovero del padre fu pacato e diretto. “Natalia ci stava raccontando cosa le è successo in questi dieci anni.”

“Perché dovremmo crederle? E' una puttana traditrice!”

“Siediti e sta' zitto.”

Lo sguardo rabbioso del figlio sembrò saettare da una parte all'altra dello studio, alla disperata ricerca di una valvola di sfogo qualsiasi. Rosso in volto, inghiottì la frustrazione e si rimise seduto, rigido ed immobile. Solo quando la situazione parve essersi placata, Boris si decise a tornare su di lei, invitandola silenziosamente ad andare avanti.

“E' stato l'agente Barton a portarmi allo SHIELD.”

“Mio fratello sarà contento di sapere a chi dobbiamo la tua dipartita.”

“Se lo zio Sasha fosse qui all -”

“Maksim,” la voce imperiosa di Boris lo costrinse nuovamente a tacere.

“Quando mi sono ritrovata alla loro base, ho capito che fuggire non sarebbe stato possibile,” si strinse nelle spalle, sfoggiando un'apatica sicurezza. “Avrei potuto accanirmi contro di loro, oppure lasciare che provassero ad inserirmi nel sistema.”

“Una scelta saggia,” convenne l'uomo.

Natasha annuì. “Potevo restare chiusa in una cella fino al resto dei miei giorni, o tenere un basso profilo. Aspettare, far credere di essere una di loro, spingerli a fidarsi di me.”

“Sembra che tu ci sia riuscita egregiamente,” Maksim sottolineò sarcasticamente.

“Quando ho saputo di questa missione, ho capito che era arrivato il momento di ritornare a casa.”

“Ci sei mancata,” Boris allungò una mano fino a sfiorarle la sua. “Il progetto Red Room non è più stato lo stesso senza di te. Mio fratello si ostinava a non accettarlo, ma eri tu la migliore.”

I fratelli Shostakov – era riuscita a dar loro un cognome solo in quegli ultimi giorni – erano tra i maggiori finanziatori di quella segretissima ed oscurata sezione dei servizi di spionaggio russi. Boris, in particolar modo, poteva dirsi un uomo dagli interessi piuttosto eclettici: musica, arte, cucina, sfruttamento dell'energia, strategie politiche, amicizie internazionali. Alexander – Sasha – non aveva nessuna delle doti del fratello. La sua connaturata idiozia, l'aveva piuttosto portato a svolgere mansioni più pratiche ed immediate, come il diretto controllo delle reclute. La Red Room, per lui, era stata come un parco giochi. Aveva carta bianca: manipolazione, addestramento, sfruttamento. Non c'era alcun limite al suo potere decisionale finché non avesse messo in serio pericolo l'integrità delle armi che il progetto coltivava tanto accuratamente. Perderla doveva essere stato un duro colpo: non solo era stata la migliore, ma lo era ancora. Indiscutibilmente.

“Non puoi seriamente fidarti di lei!” Maksim aveva ripreso a muoversi nervosamente sul divano

“Non abbiamo motivo di dubitare,” Boris aveva stretto i pugni, le nocche bianchissime.

“E' una traditrice, ecco co -”

“Sono tutte programmate per autodistruggersi in caso di inevitabile compromissione,” l'uomo aveva alzato la voce, sovrastando quella del figlio, imponente e spaventoso. “Quando non c'è alcuna via d'uscita, la soluzione è il suicidio.” Natasha, immobile ed impassibile, si era vista indicare. “E' ancora qui perché la sua missione non è mai finita, ma si è riadattata nel tempo. O hai forse intenzione di dubitare del lavoro di una vita, Maksim?”

Il giovane era impallidito, uno strato di sudore a velargli la fronte. Rimasero in silenzio a lungo, solo lo scoppiettare del fuoco nel camino a riempirlo.

“Falle uccidere l'americano,” il ragazzo aveva parlato di nuovo.

“Voglio parlarci, prima,” Natasha si era rivolta direttamente a Boris. “Voglio che sappia come sono andate veramente le cose...”

“Sta cercando di guadagnare tempo, è ovvio!”

“... dopodiché, potrete fare di lui ciò che più vi aggrada.”

“Non ha neanche il coraggio di ammazzarlo, quel cane!”

“Se mi offrissi di ucciderlo, mi accuseresti di un atto di grazia,” si era voltata bruscamente verso il ragazzo, interpellandolo per la prima volta. “Occupatene tu. Oppure aspettate che Alexander ci abbia raggiunti e lasciate che sia lui a farlo. Non è la mia vendetta, è la vostra.”

Riprese a sorseggiare la sua vodka con aria disinteressata, due paia di occhi neri concentrati su di lei.

“Fatelo soffrire.”

 

*

 

Il doloroso pulsare delle tempie fu la prima cosa che riuscì a registrare. La vista riprese a tornargli poco a poco, ma gli ci volle comunque un'eternità per mettere a fuoco lo spazio in cui era relegato. Tre anonime pareti grigie, una porta di ferro sulla quarta, una telecamera in un angolo del soffitto. L'odore dell'umidità gli riempi le narici assieme a quello del sangue secco.

Cazzo.

Deglutì a vuoto, la gola fastidiosamente arida e una gran voglia di bere.

L'espandersi progressivo del dolore ad ogni parte del suo corpo, man mano che si risvegliava, gli suggerì che dovevano averlo pestato dopo... qualsiasi cosa fosse successa in quel salone.

Mentre si accorgeva di essere legato mani e piedi ad una sedia metallica, il pensiero corse immediatamente a Natasha. Una sofferenza tutt'altro che fisica accompagnò il ricordo della sera precedente: la festa, Shostakov, il caveau inesistente, la sua partner ricoperta di sangue da capo a piedi ad annunciargli che era finalmente tornata a casa. Gli aveva puntato una pistola contro e aveva fatto fuoco... o almeno credeva. Si passò rapidamente e sommariamente in rassegna: un'estesa bruciatura gli ricopriva la porzione di pelle appena sotto la spalla destra. Nessun foro di proiettile da nessuna parte. Pistola elettrica, realizzò.

Fu costretto ad ignorare anche il più piccolo briciolo di speranza che quella scoperta rischiava di portare con sé: Natasha poteva non averlo ucciso, ma la situazione era comunque tutt'altro che rosea. Per quale motivo gli si era rivoltata contro in quel modo? Se la missione era già andata a puttane mentre lui stava cercando il caveau, non avrebbero potuto tentare la fuga? Senza dimenticare quell'orribile presentimento che l'aveva tormentato per tutta la sera, prima ancora che le cose si compromettessero fino a quel punto. Ricordava la familiarità che le aveva letto sul viso quando avevano fatto il loro ingresso nel salone della villa: non solo Natasha ci era già stata, ma probabilmente conosceva anche Shostakov.

Possibile che avesse pianificato il tradimento tanto accuratamente? Di tradire lo SHIELD. Si chiese se non ci fosse qualche complicato gioco politico dietro tutto ciò; dopotutto Phil li aveva messi in guardia: il magnate russo aveva un aggancio ai vertici più alti dell'organizzazione.

Natasha non è al vertice e non può influenzare la nomina di un cazzo di nessuno.

Una cosa positiva c'era: un'anima pia l'aveva privato di tutti i suoi vestiti, fatta eccezione per i boxer. Probabilmente un modo per intimidirlo, renderlo più vulnerabile: contro ogni buon senso, Clint fu più che sollevato di essersi sbarazzato di quel dannato completo elegante da pinguino con gravi problemi deambulatori.

Tentò di muovere braccia e gambe con scarso successo: non c'era niente in quella stanza che gli avrebbe permesso di liberarsi. Sono fottuto.

Passi in avvicinamento dall'esterno catalizzarono la sua attenzione. Appunto. Lo scattare della serratura e il cigolio dei cardini anticiparono l'apparizione di Natasha. Un uomo, che Clint riconobbe come uno dei domestici di Shostakov, l'accompagnava.

“Lasciaci soli,” la donna gli si era rivolta in russo. Qualunque fosse la sua mansione specifica – se carceriere o lavapiatti – non sembrava sentirsi in dovere di mettere in discussione le richieste di Natasha. La porta venne richiusa pesantemente.

“Finalmente soli,” sentenziò meno sarcasticamente del previsto, inorridendo al modo in cui la voce gli era uscita di bocca.

“Finalmente soli,” gli fece eco.

Cercò avidamente nei suoi occhi un segno, un qualsiasi segno che potesse confermargli che Natasha era ancora dalla sua, che le sue azioni non erano altro che parte di una complessa manovra per farli uscire di lì (più o meno) sani e salvi.

Ma lo sguardo della ragazza era gelido come la sera precedente: una impenetrabile barriera di ghiaccio. Gli riusciva impossibile conciliare quell'immagine con la Natasha che aveva tutto sommato imparato a conoscere in quegli ultimi mesi. Accanitamente riservata e discreta, gelosa dei propri segreti e delle proprie debolezze, eppure capace di improvvise e brusche... gentilezze. Quella non era la sua Natasha.

“Dovrei farti qualche domanda sullo SHIELD,” dopo quel lungo silenzio, fu lei a parlare per prima, “ma credo che sarebbe uno spreco di tempo.” Si era appoggiata alla parete e lo osservava, vuota.

“Non ti darei un bel niente,” convenne, costringendosi a sostenere il suo sguardo, di interpretare il suo tono, la sua postura, le sue parole. Shostakov l'aveva mandata a fare il lavoro sporco?

“Lo so,” ribadì sovrappensiero, “non sono neanche sicura che tu sappia effettivamente qualcosa.”

“Era una specie di insulto?” Adesso era confuso.

“Più di dieci anni di lavoro allo SHIELD e sei ancora al sesto livello,” fece schioccare la lingua. “Ho impiegato un solo anno per eguagliare i tuoi miseri sforzi.”

Non l'avrebbe mai confessato a nessuno, probabilmente neanche a se stesso, ma le sue parole erano andate dritte al punto, lo ferirono.

“L'ambizione non è nel mio DNA.”

“E' questa la tua scusa?” Sembrava divertita da quella tentata giustificazione. “Non è la mancanza di ambizione, quanto piuttosto la tua cronica paura di fallire.”

“Ouch,” gli sfuggiva il senso di quel confronto. Cos'aveva intenzione di fare? Criticare aspramente le sue scelte di vita?

“Sei un codardo,” l'accusò placidamente. “Un ipocrita.”

“Non pago neanche le bollette in tempo, se vuoi aggiungerlo alla lista.”

“Hai sempre troppa paura che la gente ti veda per quello che sei veramente,” si era scostata dalla parete, aveva preso a girargli attorno. “Credi che non l'abbia capito, Barton? Il modo in cui ti tieni vicine solo le persone che hanno visto il tuo lato peggiore...”

Per quanto si stesse sforzando di ignorarla, quella considerazione gli era risuonata fastidiosamente vera. Il pensiero corse rapidamente al suo primo incontro con Coulson, alle condizioni pietose in cui versava la sua vita in quel particolare periodo, alla vena autodistruttiva che l'aveva posseduto per così tanto tempo. Aveva il terrore che qualcun altro potesse vederlo in quello stato: le persone che erano state parte della sua esistenza, l'avevano anche abbandonata una alla volta e decisamente per molto meno. Ma non lui, non Phil.

“Ti dispiace arrivare al punto?” Guardò altrove, incapace di sostenere il suo sguardo.

Deglutì dolorosamente, avvertendo la presenza della donna alle sue spalle. La sua voce, ruvida e fredda, gli risuonò nell'orecchio, facendolo rabbrividire.

“Il punto è che quando hai creduto di salvarmi, non hai fatto altro che prolungare la tua agonia,” sussurrò, sfiorandogli il collo con la punta delle dita. “Sei stato egoista... pensavi di cambiare la vita ad una povera ragazzina indifesa, quando in realtà volevi solo salvare te stesso.”

Gli girò lentamente attorno, fronteggiandolo. Allungò le mani, poggiandogliele sulle braccia immobilizzate ai braccioli della sedia.

“La tua coscienza non avrebbe mai retto il colpo,” le sue unghie presero ad affondare in modo calibrato nella sua pelle. “Non sei un assassino e non sei una spia. Sei solo un buffone,” aveva abbassato la voce fino a ridurla ad un bisbiglio inudibile. “Un vigliacco.”

Clint trattenne il respiro: il cuore gli martellava furiosamente in petto, il viso della donna tanto vicino da riuscire a sfiorare il suo.

“Vuoi sapere cosa penso? Penso che la distanza che metti tra te e le tue vittime non sia nient'altro che codardia. Uccidere una persona con le tue stessi mani... può essere così intimo. Personale,” lo marchiò con otto lunghi solchi rossi, “hai paura che ti piaccia. Hai paura che diventi una droga.”

“Natasha -”

Natalia.”

“Tasha...” si ostinò, “questa non sei tu. Credi che non ti abbia vista? Credi che non ti conosca neanche un po'?” Se la donna era veramente passata alle file nemiche, supplicarla non avrebbe potuto peggiorare la situazione. Se invece c'era ancora la possibilità che si trattasse di una messinscena – eventualità che una consistente parte di lui non osava scartare – assecondarla sarebbe stata la cosa più giusta da fare.

“No che non mi conosci,” piegò il capo di lato, aggrappandosi alle corde che gli legavano le braccia, “la verità non è mai sempre la stessa cosa per tutti.” Un fastidioso formicolio gli risalì fino alle spalle, come se la circolazione gli si stesse riattivando a pieno ritmo. “E io nemmeno.”

“Non hai fatto altro che recitare... fino ad ora,” esalò, i muscoli contratti per la tensione.

“Recitare è la mia specialità, Barton. Sei stato solamente troppo stupido per rendertene conto.”

Si rimise dritta, riprendendo a girargli attorno come un animale pronto a scagliarsi sulla sua preda, ormai in trappola. Clint avvertì le sue mani sulla schiena, sulle spalle e poi giù a riscendergli lungo il petto. Gli soffiò delicatamente nell'orecchio, sfiorandogli il collo con la punta del naso, saggiando la consistenza della pelle delicata con le labbra, prima di morderlo fino a segnarlo. Nonostante il contesto, e a dispetto di ogni buon senso, non poté fare a meno di sentirsi su di giri.

“Ti dirò la verità, Clint Barton,” bisbigliò, pronunciando le parole in modo strano, “mi piace uccidere. L'odore e il sapore del sangue, la sua consistenza. Guardare la vita che scivola via dagli occhi di una persona, mi fa sentire onnipotente. Un dio.”

Gli aveva cinto il collo con un braccio: lo costrinse a torcere il capo verso di lei, ancora appostata alle sue spalle. Clint si accorse che aveva gli occhi chiusi, come presa da chissà che maniacale delirio.

“Non mi potrò godere la tua dipartita,” mormorò, “c'è qualcun altro che vuole punirti. Sarà qui a momenti,” aveva pronunciato quelle parole con particolare enfasi. “Ti farà gridare e ti farà supplicare e io... io mi godrò finalmente lo spettacolo. Conta fino a trenta.”

Lo stomaco gli si contorse rabbiosamente, eccitato dalla troppa vicinanza, dalla pessima reazione che la sua voce gli scatenava e insieme preoccupato per il pericolo imminente. Natasha aveva trattenuto il respiro, afferrandogli il viso con entrambe le mani prima di impossessarsi ferocemente delle sue labbra. Lo baciò con furia, esplorando impazientemente la sua bocca con la lingua, quasi stesse cercando qualcosa. Il contatto l'aveva fatto avvampare: Clint non aveva potuto far altro che assecondarla. Si sarebbe anche abbandonato a quell'ultimo, estremo piacere che la vita aveva deciso di concedergli, se non si fosse accorto di qualcosa di piccolo e solido a premergli contro una guancia. Le dita di lei fecero scivolare qualcosa nel suo orecchio: gli sembrò di riconoscere la leggera pressione – familiare e appena percepibile – delle trasmittenti in dotazione allo SHIELD.

La donna si scostò bruscamente, sfuggendo prontamente al suo sguardo. La sua pelle sembrava bruciare laddove quella di lei l'aveva toccata solo un attimo prima. Si limitò a guardarla mentre richiamava l'attenzione della guardia appostata fuori dalla cella. Quando la porta si fu richiusa alle sue spalle, un tonfo sordo seguì alla definitiva uscita di scena della donna. Lo scattare della pesante serratura metallica non arrivò mai.

Si accorse che i legacci che lo avevano saldamente tenuto fermo alla sedia, si erano allentati.

La trasmittente nell'orecchio.

La consistenza di un chip di memoria sotto la lingua.

Natasha gli stava concedendo una via di fuga.

Contò fino a trenta.

 

*

 

La deflagrazione della minuscola carica di esplosivo decretò anche il blackout dell'impianto elettrico dell'intera villa. Natasha controllò l'orologio che aveva al polso: secondo i suoi calcoli ci sarebbero voluti almeno cinque minuti prima che il generatore secondario entrasse in azione, riattivando – oltre alle luci – il sistema di telecamere di sicurezza che costellavano ogni angolo di quell'inferno di legno, cemento, tappeti pregiati e dipinti ad olio di dubbio gusto. Richiuse il pannello che proteggeva il quadro dei comandi, scavalcando i corpi privi di sensi delle guardie che si era premurata di mettere fuoriuso. Per essere uno dei finanziatori della Red Room, Shostakov non sembrava prendere molto sul serio la sicurezza dei suoi sporchi segreti: non aveva avuto grosse difficoltà a liberarsi di quelle scocciature, preoccupandosi piuttosto di requisirne le armi.

Il percorso dal livello sotterraneo della villa – in cui Clint era stato relegato – al piano terra fu rapido e privo di intoppi. Dalle cucine al salotto al salone principale, atterrò e uccise con estrema precisione, tutti gli uomini di Shostakov che le si pararono davanti. In pochi ebbero il tempo di accorgersi di cosa stesse succedendo, delle armi che Natasha impugnava in ciascuna mano, prima di essere rispediti al creatore per direttissima.

Si era solennemente ripromessa che nessuno, nessuno sarebbe uscito vivo da quella villa. Non se avesse potuto evitarlo e a prescindere da quanto le sarebbe costato.

Stava per guadagnare le scale per il piano superiore, più che decisa ad affrontare Boris e quella pessima scusa di un essere umano che era suo figlio, quando una voce terribilmente familiare la costrinse a voltarsi.

Alexander Shostakov, ex-supervisore della Red Room, la stava fissando da una manciata di metri di distanza. I capelli ingrigiti prima del tempo, indossava un completo elegante di una taglia troppo grande, una grossa cicatrice in rilievo a segnargli il collo.

Natashka,” aveva cominciato a chiamarla così dall'orribile mattina in cui aveva ritrovato Nadja appesa al soffitto. Era il nomignolo che la bambina le aveva affibbiato sin dal suo arrivo: Alexander non si era fatto sfuggire l'occasione di tormentarla con quel ricordo.

“Alexander,” si voltò completamente verso di lui, irrigidendosi progressivamente man mano che la consapevolezza di trovarsi di fronte ad uno dei suoi aguzzini si faceva strada dentro di lei.

“Sei cresciuta.” L'uomo si muoveva guardingo, studiandola distrattamente. Non le ci volle molto per intuire e contare le armi di cui era in possesso.

“Mi piacerebbe poter dire lo stesso di te.”

“Io sono invecchiato, bambina,” rise sgradevolmente. “La delusione nel non vederti ritornare a casa è stata... cocente.”

“E' per quello che hanno tentato di sgozzarti come il maiale che sei?” Alluse alla cicatrice, facendolo impallidire mentre si portava una mano alla gola. Aveva fatto centro.

“Tu... non sei niente senza di noi.”

Niente ti assicura che non uscirai vivo di qui, Sasha.”

“Noi ti abbiamo creata.”

“Su questo hai ragione,” gli puntò la pistola contro, limitandosi a tenerlo sotto tiro. “Dovresti essere più che orgoglioso di trovare la morte per mano mia.”

“Sei solo una stupida cagna traditrice.”

“Cagna e traditrice, forse, ma stupida...” scosse il capo, rivolgendogli un lento, subdolo sorriso, “vi siete assicurati che non potessi esserlo. Mai.”

“Ti saresti dovuta uccidere.”

“Qualcuno me l'ha impedito.”

“Lo SHIELD?”

“Lo SHIELD non c'entra niente.”

“Chi allora?”

“Solo qualcuno a cui importava.”

Lo sparo rimbombò fino al soffitto.


 
****************


Non potevo tenere in piedi la finzione troppo a lungo (e sono felice che abbiamo tutti grande fiducia nella nostra Natasha <3), MA la missione non è ancora finita e di certo neppure i guai. Per le spiegazioni del perché e percome tocca aspettare :P Neanche l'incursione in territorio dark (per Natasha) rimarrà relegata a questo capitolo (anzi, mi ci divertirò pure troppo). L'unica puntualizzazione che faccio è che Sasha, in russo, è il diminutivo di Alexander (nel caso non si fosse capito troppo bene).
Siamo tra l'altro al giro di boa ;_; la storia avrà 18 capitoli e siamo esattamente a metà *sigh sob*
Ringraziamenti di rito ad Eliiii perché sì olueis forever e di nuovi a chi legge e commenta :') means a lot! <3

E prima di passare & chiudere, momento di pubblicità occulta. Se volete farvi un paio di risate (o piangere dall'orrore, questo non dobbiamo dirlo noi XD), vi consiglio di leggere l'ultima delirante boiata concepita dalle menti malate della socia Sheep01 e della sottoscritta *cough cough*

Once Upon a... Motherfucker

Boh, io ve l'ho detto! :P

Per tutto il resto, alla prossima!
S.

 

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Capitolo 10
*** The Coldest Blood Runs Through My Veins ***


WARNING: menzioni di stupro (accennato, mai descritto), violenza, sangue.



10

 

The coldest blood runs through my veins
You know my name

(Chris Cornell – You Know My Name)

 

La guardò per un'ultima volta, prima di decidersi a seguire Dimitri fuori dal salone.

Natasha lo seguì con lo sguardo, trattenendo il respiro finché non fu sparito dalla sua visuale.

Un travestimento piuttosto goffo, non ti pare?”

Si voltò verso Boris, rivolgendogli un microscopico sorriso.

Cecchini a farti da angeli custodi,” rilanciò, alzando allusivamente lo sguardo al soffitto. “Guardie armate camuffate da camerieri. Una mossa altrettanto grossolana.”

Ma efficace,” l'uomo sembrava divertito. “Nessuno se n'è accorto e io vivo più tranquillo.”

Quanti nemici ti sei fatto in questi anni, Boris?” Lasciò che la domanda retorica cadesse nel silenzio.

Quello che mi interessa sapere è se tu sei tra questi,” si strinse nelle spalle, concedendosi un sorso di champagne, “mi dispiacerebbe dare l'ordine di abbatterti.”

Sono ciò che mi hanno addestrata ad essere.” Ciò che mi avete addestrata ad essere, puntualizzò a se stessa. Le era bastato dare una rapida occhiata agli invitati per accorgersi che erano circondati: aveva riconosciuto personalità di spicco del governo russo e di altri paesi circostanti, ricchi terroristi, vertici dell'esercito e dei servizi segreti. SHIELD incluso.

Lo sei?”

Natasha si era stretta nelle spalle ostentando una calma apatica. Sapeva che la missione avrebbe potuto prendere quella particolare piega: se l'era aspettato. Anzi, ci aveva sperato. In tutti quegli anni, aveva sempre considerato la questione del suo passato come un conto aperto. Un conto da saldare. L'opportunità di chiuderlo, di archiviare definitivamente la pratica, di ottenere una seppur tarda vendetta, era stata troppo allettante per farsela sfuggire.

Dov'è Alexander?”

E' stato trattenuto a Mosca. Arriverà domani mattina.” Boris non aveva smesso di studiarla neppure per un istante. Quegli occhi, piccoli e neri, avevano avuto il potere di penetrarle sotto pelle, di fare male ovunque si posassero. L'avevano fatto quando era stata trascinata in quella villa degli orrori per rivestire i ruoli di modella e musa prima, di vittima sacrificale poi. Era stata un regalo per suo figlio, prima che Boris stesso avesse deciso di volere la sua razione di quel succulento boccone. Ma non più, si rese conto. Adesso, quello sguardo non aveva più alcun potere su di lei.

Vorrei parlargli.”

Non so se potrò permetterti di farlo, Natalia.” Quella sua facciata di ostinata cortesia, finezza, sofisticatezza, glielo rendeva semplicemente odioso. “Tu mi capisci, giusto?”

Capisco che è arrivato il momento di gettare la maschera.”

E' ARMATO!” L'urlo di una donna aveva bruscamente deviato altrove la loro attenzione.

Natasha individuò immediatamente di chi stava parlando: un rappresentante dell'esercito ucraino, una maschera rossa a coprirgli parte del viso, stava tenendo Boris sotto tiro.

Le mosse successive si susseguirono troppo rapidamente: i cecchini, confusi dal concerto di grida, avevano cominciato a sparare. Mentre il caos imperversava per tutto il salone e astanti più o meno innocenti venivano colti da proiettili vaganti, Natasha decise sul da farsi.

Si liberò della maschera, inutilmente ingombrante, scagliandosi rapidamente contro l'ucraino. Non le ci volle molto per disarmarlo. L'uomo tentò il contrattacco, ma dopo una breve colluttazione fu lei ad avere la meglio. Gli fu addosso, veloce e letale, usando il filo metallico celato nella sua falsa collana di rubini, per sgozzarlo.

Boris le era saettato di fianco, raccogliendo l'arma che era appartenuta allo sfortunato attentatore. Sparò due colpi in aria, seguendo poi lo sciamare degli invitati verso l'ingresso.

Il piano era appena cambiato radicalmente.

 

*

 

“Barton! Barton, mi senti?” Il gracchiare della voce di Coulson non gli aveva mai fatto tanto piacere in vita sua.

“Phil... Phil ti sento.” Nascosto da una siepe all'esterno della villa, aveva appena finito di agganciarsi i pantaloni troppo grandi che aveva strappato ad una delle guardie (morte o prive di sensi) incontrate sul suo cammino.

“Che diavolo è successo?”

“E' una storia lunghissima,” esalò, esausto e dolorante più o meno ovunque.

Era riuscito a liberarsi dalle corde e ad uscire dallo stanzino in cui l'avevano rinchiuso senza particolari problemi. Natasha gli aveva spianato la strada, mettendo al tappeto gli uomini di Shostakov appostati nelle immediate vicinanze. Una rapida occhiata all'arsenale in dotazione a ciascuno di quelli, gli era bastata per accorgersi che la donna doveva aver già requisito ciò che le occorreva. Si era accontentato dei suoi avanzi, affrettandosi a rivestirsi e riarmarsi, prima di guadagnare l'uscita della villa attraverso una porta di servizio.

“State bene?”

“Sì, ma abbiamo bisogno di un'estrazione. Adesso.”

“C'è una squadra in arrivo.”

“Ottimo.”

“Le informazioni di cui avevamo bisogno?”

“Non c'era nessun cazzo di caveau, Phil. L'ingresso al livello interrato è nascosto da uno stracazzo di quadro... ci credi?” lo informò, senza preoccuparsi di nascondere l'irritazione: li avevano spediti dritti dritti in mezzo ad una trappola. Senza contare che Shostakov doveva essere una vecchia conoscenza di Natasha, e che la donna aveva deciso di tenere quel particolare dettaglio per sé. La possibilità che si trattasse di una vendetta era più che altro un dato di fatto: l'aveva data praticamente per scontata. Cercò di concentrarsi sul fatto che non l'aveva tradito, che per quanto le cose fossero andate a puttane, era ancora dalla sua.

“Natasha è riuscita comunque a raccogliere quello che ci serve,” aggiunse dopo una pausa ad effetto, dando un'ennesima occhiata al piccolo chip che la ragazza gli aveva passato... letteralmente usando la lingua.

“Avresti potuto dirlo subito.”

“Un po' di suspense non ha mai ucciso nessuno.”

“Non ancora. Sta' alla larga dai guai, va bene?”

“Devo recuperare Natasha.”

“L'agente Romanoff sa badare a se stessa.”

“Oh, di quello me ne sono accort -”

Colpito alla testa da qualcosa di non meglio identificato, cadde rovinosamente a terra. La fragile comunicazione stabilita col supervisore, venne improvvisamente a mancare. Si portò una mano alla nuca, ritrovando la consistenza vischiosa del sangue. Poi?!

“Che cazzo...” biascicò tra sé, schivando miracolosamente l'ennesimo colpo. Si rimise in piedi, la pistola in pugno.

Di primo acchito, l'orribile sensazione che gli prese lo stomaco gli suggerì che era stata Natasha ad attaccarlo. Ma la donna che lo stava fronteggiando, alta, prestante, biondissima, non era la sua partner. In comune avevano lo sguardo di apatico disinteresse che aveva scorto sul viso di Natasha, prima nel salone la sera precedente, e poi durante il suo interrogatorio solo pochi minuti prima.

Non ebbe il tempo di riflettere ulteriormente: la sconosciuta gli fu addosso, sfogando su di lui tutta la sua furia.

Qualcosa gli suggerì che doveva esserci più di una Vedova Nera, al mondo.

 

*

 

“Non m'importa che diavolo dovete fare per chiamare rinforzi!” Boris Shostakov stava sbraitando rabbiosamente al telefono. “Fatelo e basta! Razza di incompetenti!”

Solo quando ebbe riattaccato – schiantando il cellulare sulla scrivania – si accorse della presenza di Natasha, ferma sulla soglia del suo studio. Provò un brivido di malsano piacere nel vederlo inorridire alla vista del macabro regalo che gli aveva portato.

“Alexander è arrivato,” asserì con voce pacata, avanzando lentamente all'interno della stanza. Ad ogni suo passo in avanti, Boris si assicurò di far corrispondere un passo indietro. Stava cercando di mascherare la paura, con scarsi, scarsissimi risultati.

Natasha si preoccupò di poggiare la testa recisa di Alexander Shostakov sul tavolo, lo fece con cura, quasi con la consapevolezza di star maneggiando qualcosa di fragile. Delicato.

“Non p-puoi... a-averlo fatto sul serio,” biascicò impietrito, cercando disperatamente di guardare ovunque tranne che nella direzione di quel presente non richiesto.

“Un taglio perfetto,” Natasha ci tenne a ribattere, allineando un grosso coltello serramanico che era appartenuto ad Alexander, accanto al suo legittimo proprietario. “E' stato lui ad insegnarmi come fare,” sollevò lo sguardo su Boris, implacabile. “Sono un'ottima allieva.”

Lo scoppiettare del fuoco nel caminetto, insieme al respiro pesante dell'uomo, erano tutto ciò che impedivano al silenzio di essere totale.

“Sei orgoglioso, Boris?” Gli chiese, calibrando le parole, la voce. “Sei orgoglioso di me?”

“T-Tu sei... c-completamente pazza,” balbettava. “Dove s-sono le mie guardie? Guardie! GUARDIE!” Nemmeno una misera eco a rispondere al suo appello.

“Le tue guardie non usciranno da questo posto. Proprio come te.”

“N-Non puoi farlo. L-Lavori per lo SHIELD! Lo SHIELD non uccide la g-gente!”

“Credi che mi mandi lo SHIELD?” Natasha sorrise. Una calma innaturale si era impossessata di lei. “Per le informazioni che ti incrimineranno, sì. Ma per questo?” Allargò leggermente le braccia. “Questa è iniziativa personale.”

“Non sei programmata p-per avere i-iniziative p-personali.”

“No, è vero. Non lo ero,” piegò leggermente il capo di lato, sovrappensiero. “C'è una cosa che mi avete insegnato alla perfezione, Boris.” Tornò a guardarlo, fissando i suoi occhi verdi, scurissimi e furenti, su di lui. “La sopportazione. Tutte quelle missioni in cui tutto ciò che dovevo fare era... aspettare. Aspettare che quelle mani smettessero di toccarmi, quelle bocche di baciarmi, senza poter azzardare una reazione. Anzi, dover fingere che mi piacesse o, perché no, ostentare il più deciso dei rifiuti,” si strinse nelle spalle, “a certi figli di puttana piacciono agguerrite, prima che si arrendano.”

“A-Ascoltami, N-Natalia, p-posso... posso s-sistemare le c-cos -”

“Ssh,” gli intimò il silenzio, premendosi l'indice sulle labbra. “Ho imparato a sopportare... a covare odio e rabbia in vista di ciò che sarebbe venuto dopo.” L'uomo scuoteva la testa, come supplicando. “Tu sai cosa viene dopo, Boris?” Non ottenne risposta. “Non importa, te lo dico io.”

Aggirò la scrivania, avvicinandoglisi passo dopo passo, con sfiancante lentezza.

“Dopo il peccato arriva la punizione.”

“B-Brucerai all'inferno!” Natasha colse un bagliore nel suo sguardo, l'ombra di qualcuno alle sue spalle.

“E te lo prometto, Boris, non sopravviverai al mio castigo,” un soffio.

Si voltò di scatto, afferrando la canna del fucile che Maksim le stava goffamente puntando contro. La sollevò verso l'alto, lasciando che il proiettile andasse a conficcarsi nel soffitto. Stupido verme. Gli sferrò un pugno ben assestato in pieno viso, facendogli perdere immediatamente i sensi.

Non ebbe il tempo di tornare nuovamente su Boris che l'uomo le fu addosso con tutto il suo peso, mandandola a sbattere contro la parete opposta. Un dolore sordo all'altezza del fianco destro l'avvisò di essere stata colpita.

“Ti u-ucciderò col c-coltello di mio fratello, b-brutta puttana,” le annunciò, scagliandolesi nuovamente contro. Stavolta Natasha fu abbastanza rapida da schivarlo, ruotando su se stessa per guadagnare un po' di spazio, per evitare di rimanere schiacciata contro il muro.

“Non se lo faccio prima io,” l'avvertì, imponendo al proprio cervello di non registrare la ferita, di non curarsi del sangue che aveva preso a sgorgarne, copioso, a fare come se niente fosse. Si avventò su di lui, volutamente disarmata, confondendolo con una serie di spostamenti veloci. Riuscì a colpirlo violentemente alla nuca, ma non abbastanza da farlo svenire. Boris l'agguantò per un braccio, scaraventandola in avanti, verso il camino. Natasha si ritrovò ad indietreggiare praticamente alla cieca, barcollante: inciampò in un poggiapiedi, crollando a terra. L'uomo si curò di riservarle un glorioso calcio nello stomaco prima di esserle nuovamente addosso, premendola al pavimento con la sua imponente mole.

La lama sporca di sangue del coltello stava per abbattersi sul suo viso: fu costretta ad usare entrambe le mani per immobilizzargli il polso, spingerlo nella direzione opposta, tentare ferocemente di allontanare il pericolo da sé.

“S-Smetti di resistere,” le suggerì in preda ad un evidente sforzo, il volto rosso e sudato.

“Mai,” esalò in risposta, decidendo di tentare il tutto per tutto.

Liberò una mano, permettendo alla lama di avvicinarsi sensibilmente al suo viso. Allungò il braccio il più possibile, trovando i ceppi del camino. Ignorò il dolore, scaraventandogli un tizzone ardente in piena faccia: un grido orribile le assicurò di aver colto nel segno. Si affrettò a rotolare di lato, approfittando del momento di defaillance dell'uomo... ma non abbastanza per evitare che l'afferrasse per un piede, attirandola nuovamente a sé.

“Vieni q-qui!” Urlò rabbiosamente, reclamandola.

“C-Così?” Gli sferrò un pestone in piena faccia, facendogli scricchiolare sinistramente il setto nasale. Si sbrigò a raccogliere il coltello che l'uomo aveva fatto cadere, reimpossessandosene. Fu costretta a fermarsi per riprendere fiato, la ferita al fianco che tirava fastidiosamente. Merda.

Sollevò lo sguardo, ricordandosi solo in quell'istante del quadro che avrebbe dovuto ritrarla nei panni dell'innocenza, di quel dipinto che la fissava dalla parete. Il monito di una vita passata che non era neppure mai esistita, che non aveva mai vissuto.

Inspirò ed espirò lentamente, il cervello impegnato a fare mente locale. Un secondo dopo aveva rovesciato tutto il contenuto del carrello dei liquori sul pavimento. Non deve rimanere niente. Recuperò un altro ciocco in fiamme direttamente dal fuoco. Boris si era rimesso in piedi, barcollante.

“Non rimarrà niente,” Natasha ci tenne ad informarlo. “Di te e della tua lurida famiglia. Niente.”

Gettò a terra il pezzo di legno un secondo prima che l'uomo le fosse nuovamente addosso.

“S-Sta' z-zitta!”

Il fuoco cominciò immediatamente a fagocitare le fibre imbevute d'alcool del tappeto.

Il cazzotto di Boris la prese allo stomaco, togliendole il respiro per un orribile attimo (era sicura che le avesse incrinato almeno un paio di costole). Si costrinse a riassorbire rapidamente il contraccolpo, aggrappandosi alla mensola sopra il camino con entrambe le mani: si dette lo slancio con i fianchi, sollevò entrambe le gambe e lo colpì al petto, respingendolo violentemente all'indietro.

Ora.

Scattò in avanti, approfittando della riguadagnata distanza per prendere la rincorsa. Saltò in aria al momento opportuno, ruotando su se stessa per intrappolargli il collo tra le proprie cosce. Non fu abbastanza agile da riuscire a rimettersi in piedi prima di toccare il pavimento. Riatterò pesantemente su di lui, la testa ancora prigioniera nella morsa delle sue gambe. Strinse il coltello serramanico di Alexander con entrambe le mani, il respiro corto e il dolore a riverberarle in tutto il corpo.

L'osservò per un ultimo istante: sudato e disgustoso, sofferente e scomposto. Ricordò tutte quelle volte in cui aveva sopportato, sopportato e sopportato in vista di una deflagrazione finale, di un'esplosione che l'avrebbe ripagata di tutto ciò che aveva sofferto. Quella lunghissima attesa – la più lunga – era finalmente finita. Il solenne castigo di tutta una vita.

Do svidaniya.

Gli conficcò la lama in un occhio. Il metallo sprofondò nella carne come burro. Continuò a spingere finché le convulsioni che avevano preso a scuoterlo non cessarono del tutto.

Fine.

Rimase immobile a fissarlo avidamente, dritto negli occhi, mentre la vita lo abbandonava.

Il tempo parve rallentare innaturalmente.

Un gran calore sembrò risalirle su per lo stomaco... un nodo vecchio di anni – una vita – finalmente sciolto.

Forse.

Fu il battito impazzito del proprio cuore a farla tornare in sé, a ricordarle che non c'era più tempo da perdere. La testa le girava: se non si fosse messa al sicuro al più presto avrebbe rischiato di bruciare col resto della villa. Il fuoco aveva già raggiunto i mobili, le tende, quel dannato quadro... minacciava di estendersi al resto dell'edificio.

Sperando ardentemente che quello fosse il caso, si sforzò di rimettersi in piedi. La vista le si era sfocata e il mondo le oscillava pericolosamente tutt'intorno, improvvisamente instabile. Registrò la nausea e il disgusto – la paura – solo in quel momento, piegandosi in avanti per vomitare. Brividi – di freddo, si disse, anche se non ne era poi così sicura – presero a scuoterla vistosamente. Si portò una mano alla ferita, cercando di fare pressione, impedire al sangue di fuoriuscire liberamente. Nonostante quel tardivo accorgimento, Natasha fu capace di muovere solo un paio di passi in direzione della porta che dava sul corridoio, prima che le forze le venissero meno.

Si ritrovò distesa bocconi sul pavimento senza sapere come diavolo ci fosse arrivata. Il respiro irregolare, il gelo nelle ossa, il fuoco che divampava a pochi metri da lei...

Almeno li ho tolti di mezzo. E'... è finita.

Si lasciò consolare dalla dolcezza di quel pensiero, abbandonandosi alla stanchezza.

 

*

 

“TASHA!” Gridò con tutto il fiato che aveva in gola. Liberatosi (più o meno) della sconosciuta che l'aveva aggredito nel giardino della villa, se l'era lasciata alle spalle, priva di sensi. Adesso era il fumo che proveniva dal piano superiore a preoccuparlo.

Dove cazzo sei andata a cacciarti?!

Nonostante tutti i suoi buoni propositi, era stato costretto ad entrare: se Natasha avesse avuto il pieno controllo della situazione, al massimo l'avrebbe mandato affanculo (niente di nuovo su quel particolare fronte). D'altro canto, andare ad accertarsene non avrebbe fatto alcun male: il suo amor proprio era già sufficientemente ammaccato da poter sopportare un ulteriore colpo.

Si era quindi deciso a fare dietrofront, a passare in rapida perlustrazione il salone, il piano terra, senza ottenere alcun risultato. Poche guardie ciascuna riversa nel proprio sangue e nient'altro.

Solo quando fu ai piedi della scala principale per il secondo livello, si accorse della presenza di un cadavere mutilato. Ommerda.

Si sforzò di ignorare quel macabro particolare, imboccando le scale. Man mano che saliva – due, tre gradini alla volta – il fumo si faceva sempre più denso. Ebbe l'accortezza di coprirsi naso e bocca con il colletto della t-shirt presa in prestito, ma non poté fare granché per il bruciore agli occhi.

Ringraziò ogni santo esistente che la trasmittente fosse fuoriuso: se Coulson avesse avuto anche solo la più pallida idea dell'immane stronzata che stava per fare, la sua furia gli avrebbe probabilmente concesso di acquisire poteri straordinari, permettendogli di apparirgli magicamente di fianco per prenderlo a calci in culo fino al resto dei suoi giorni. Si consolò con quell'assurda immagine, continuando ad avanzare.

Il fuoco aveva raggiunto il corridoio in cui sfociava la scala, le fiamme lambivano il corrimano, la sommità del primo gradino. Non c'era tempo da perdere.

“NAT -” Era stato sul punto di urlare di nuovo il suo nome, ma si era bloccato quando gli era parso di scorgere una figura sul pavimento. “Cazzo, Natasha...”

Le fu rapidamente di fianco, mentre il calore si faceva insopportabile. Gli bastò darle una sommaria occhiata per accorgersi che era ferita, che aveva perso i sensi e una quantità industriale di sangue. Si affrettò a prenderla in braccio, afferrandola dietro la schiena e sotto le gambe.

“Sei diventata un po' pesantuccia, ah?” Constatò, per nessuno in particolare, giusto per allentare la tensione che aveva cominciato a salirgli nello stomaco, che minacciava di fargli perdere lucidità. Ne aveva avuto abbastanza di quella maledetta missione.

Aveva sceso solo i primi due gradini, quando uno strillo terribile, accompagnato da pesanti passi, sovrastò l'ardere delle fiamme. Un uomo dall'età indefinita, il viso una maschera di sangue, il setto nasale vistosamente deviato, gli stava correndo incontro come impazzito, un fucile a canne mozze imbracciato al contrario.

Clint aveva registrato a malapena quella tragicomica apparizione: si limitò a scartare di lato, per mandare il ragazzo a vuoto. Lo vide inciampare nel gradino successivo al suo, precipitare rovinosamente a terra, rotolando giù, lungo tutta la scala, fino ad atterrare accanto al cadavere senza testa.

“Voi russi siete tutti pazzi,” biascicò tra sé, perplesso all'ennesima potenza.

Riprese a scendere, Natasha in braccio, raggiungendo in pochi secondi il piano terra. Scavalcò i due corpi (dall'angolazione innaturale che gli aveva preso il collo, Clint fu piuttosto sicuro che il conto delle vittime ammontava a due), trasportando la donna fino all'ingresso di servizio e poi fuori nel vialetto di ghiaia che li separava dall'imponente giardino antistante l'edificio.

Il ronzio della trasmittente preannunciò l'intervento di Coulson.

“Clint!”

“S-Sono qui,” si affrettò a rispondere, fermandosi dietro ad una serie di siepi accuratamente potate, per guadagnare protezione e riprendere le forze. Le braccia gli facevano un male del diavolo.

“La squadra sarà lì tra un minuto. La fila di alberi alla fine del prato sul lato ovest...”

“Li vedo!”

“Quello è il punto di ritrovo.”

“Ricevuto.”

“Un minuto, prima che arrivi compagnia, hai capito?”

“Ho capito, Phil.” La comunicazione cadde un attimo dopo.

Aveva esattamente sessanta secondi per portare il culo (e quello di Natasha) fino a quei maledetti alberi. Dopodiché, Clint suppose che gli amici di Shostakov (sempre che ne avesse... o avesse avuti) sarebbero arrivati a far loro la festa: niente che riguardasse maschere, quartetti d'archi e caviale, stvolta.

Sollevò nuovamente Natasha, sistemandosela tra le braccia. Non aveva fatto che pochi passi che la donna cominciò a dimenarsi furiosamente.

“Natasha! Natasha son -”

“N-No... no... NO!”

Doveva aver recuperato temporaneamente i sensi, riaperto gli occhi, scorto qualcosa che aveva attirato la sua attenzione. Fu costretto a lasciarla andare se non voleva essere preso a pugni praticamente alla cieca. Cazzo, Natasha! CAZZO!

La seguì impotentemente con lo sguardo mentre barcollava fino a raggiungere... l'ennesimo cadavere: Clint vi riconobbe la donna che l'aveva aggredito solo pochi minuti prima. Era piuttosto sicuro di averla salutata al massimo con un trauma cranico, magari una commozione cerebrale, ma adesso c'era un foro rosso a marchiarle il mento, gli occhi vitrei, sangue, ossa e cervello sventagliati sul prato. Si era suicidata.

Natasha le fu di fianco, mormorando suppliche in russo – forse delle preghiere – tentando di scuoterla, invano, chiamandola per nome una, dieci, cento volte. (Inessa? Chi è... Inessa?) Restò a guardarla, come inebetito. Non era sicuro si rendesse conto che la ragazza era morta, che non avrebbe potuto risponderle. O forse il motivo per cui lo stomaco gli si era attorcigliato su se stesso, quasi dolorosamente, era che Natasha se n'era accorta eccome, ma non voleva accettarlo. Si era chinata sul cadavere, le stava toccando il viso, sistemandole i lunghi capelli biondi intrisi di sangue. Un singhiozzo le sfuggì dalle labbra, come una specie di liberazione, come se avesse tentato di arginarlo, strenuamente, fino a quel preciso istante. Prima che Clint potesse avere la piena consapevolezza di ciò che stava succedendo, Natasha era scoppiata in un pianto disperato, scomposto.

Quella, più di ogni altra cosa che aveva avuto la sfortuna di vedere in quei due giorni del cazzo, lo colpì come un pugno in pieno stomaco.

“Natasha...” Un minuto, Clint. Un minuto.

Provò ad avvicinarla, afferrarla per la vita, sollevarla, ma la donna protestò, furibonda, affatto lucida.

“Natasha dobbiamo andare.”

Combatté inutilmente contro le mani di lei che lo respingevano, deboli, cieche... finché non poté far altro che prenderla in braccio contro la sua volontà. La strinse saldamente al suo petto, riuscendo a neutralizzare senza problemi i suoi vaghi tentativi di opporglisi, di liberarsi. Pochi secondi dopo, senza alcun preavviso, la ragazza aveva smesso di dimenarsi, anzi, sembrava essersi fatta piccola piccola, rannicchiata il più possibile nella sua presa, quasi stesse cercando di sparire.

Il pianto sommesso di Natasha l'accompagnò fino al punto di ritrovo.

 
****************




E così si conclude la missione Shostakov che però non sarà senza conseguenze (di vario genere). Mi sono "divertita" un sacco (tipo sadica XD) a scrivere questo capitolo, cercando di dare il giusto equilibrio alla Natasha in modalità letale (in questo senso, la canzone di Chris Cornell usata in esergo mi foga come se non ci fosse un domani ù_ù) e quella invece più vulnerabile e umana. Insomma, spero sia arrivato!
Sia Boris che Maksim ci lasciano: per quanto riguarda il rampollo di casa Shostakov, non mi sembrava il caso di fargli fare una fine granché gloriosa. L'incidente mi sembrava adeguarsi alla grande al tipo di personaggio squallido e deboluccio che mi sono immaginata.
Inessa, invece, era già comparsa nell'incubo di Natasha di qualche capitolo fa. Ho voluto spezzare una lancia anche in suo favore: dubito che la vita alla Red Room fosse facile per nessuno :(
Oltre a questo, piccola curiosità: c'è davvero uno Shostakov nel canon (o almeno uno dei tanti canon) di Natasha Romanoff: nei fumetti è addirittura il marito della Vedova Nera *zan zan* Chiaramente non ha niente a che vedere con quello che succede qui :P
Ringrazio Eli (again!) perché è la mia fonte di conoscenze Marvel-iane, per il betaggio e per la follia generale.
E grazie anche a tutti coloro che assiduamente (o meno!) si fermano a leggere e commentare :') apprezzo tantissimo, davvero!
Al prossimo capitolo, fra tre giorni esatti.
S.

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Capitolo 11
*** Let Me in The Wall You've Built Around ***


11



Let me in the wall
You've built around
We can light a match
And burn it down

(The Civil Wars – Dust to Dust)

 

Il rientro sull'helicarrier era stato più tumultuoso del previsto. Natasha era stata trasportata d'urgenza nella baia medica del velivolo: erano riusciti a stabilizzarla sul quinjet, ma la situazione si era aggravata quando l'atterraggio era ormai imminente.

Clint, fatta eccezione per la disidratazione, la stanchezza, lividi sparsi più o meno ovunque, un paio di punti sulla nuca, non aveva avuto bisogno di grandi attenzioni.

I veri problemi erano arrivati dopo, quando – accorrendo alla piccola sala operatoria di cui il quartier generale volante disponeva – si era accorto che non solo la stanza era presidiata da due nerboruti agenti dello SHIELD, ma che Natasha, priva di sensi, era stata persino ammanettata al tavolo operatorio su cui era stata sistemata.

Aveva inutilmente chiesto spiegazioni, aveva chiamato a gran voce un qualche superiore affinché desse ordine di liberarla, ma tutto quello che aveva ottenuto era di essere rinchiuso in una delle cabine libere dell'area dormitorio. Letteralmente chiuso dentro. Se gli avessero detto che avevano persino buttato la chiave, non se ne sarebbe sorpreso.

Erano passate due ore buone prima che qualcuno si fosse deciso a farsi vivo. Tempo in cui non aveva fatto altro che pensare a quello che era successo, a come si era sentito quando aveva creduto che Natasha l'avesse tradito, a quel bacio (che non significava proprio niente, se ne rendeva perfettamente conto) che l'aveva liberato, al cadavere senza testa, al modo in cui la donna era scoppiata a piangere... tra tutti, era quello il ricordo che più lo tormentava. Fuori controllo, totalmente inconsapevole di se stessa, gli si era come sfaldata tra le braccia. Quando l'aveva trasportata, mentre raggiungevano il punto di ritrovo, aveva avuto l'impressione che se non l'avesse stretta abbastanza, sarebbe andata in mille pezzi. Una sensazione che, suo malgrado, conosceva fin troppo bene.

Se era riuscito ad assopirsi, durò solo per pochi minuti. Risvegliato dal bussare alla sua porta, era stato l'ennesimo mal di testa ad accoglierlo.

“Clint,” la voce di Coulson.

“E' inutile che bussi. Mi hanno chiuso dentro.”

“Lo so.”

Si rimise seduto su quel letto troppo piccolo, mentre la serratura scattava, informandolo che era finalmente libero (forse). Il palesarsi della figura del suo supervisore gli procurò più sollievo di quanto avrebbe voluto ammettere. Erano stati due giorni infernali.

“Come sta?” Si affrettò a chiedergli, sapendo che avrebbe capito di chi stava parlando.

“E' debole, ma si rimetterà,” se non altro Coulson aveva avuto il buon senso di iniziare con le buone notizie. “L'intervento si è concluso con successo. Adesso le stanno facendo delle trasfusioni... ha perso molto sangue.”

Clint si sforzò di metabolizzare la notizia: Natasha stava bene. Non era esattamente al massimo della forma, ma sarebbe sopravvissuta. Non c'era praticamente niente di cui preoccuparsi... o almeno credeva. L'espressione di Coulson, d'altro canto, non prometteva niente di buono.

“Che c'è?” Si risolse a chiedergli.

“Ci sarà un'indagine.”

“Un'indagine?”

“Sul presunto tradimento di Natasha.”

Impallidì mentre cercava di dar senso a quelle parole.

“Natasha non ha tradito.”

“Abbiamo un testimone oculare che dice il contrario.”

“Un testimone oculare? Che cazzo dici, Phil?” Le tempie avevano cominciato a pulsargli fastidiosamente: il nervosismo non avrebbe fatto proprio un bel niente per migliorare quel mal di testa. “Chi dovrebbe essere, ah? Il corrotto dello SHIELD che se la faceva con Shostakov?”

Prese il modo in cui Coulson serrò gravemente le labbra come una conferma.

“Andiamo! Le informazioni che Natasha ha recuperato lo incriminano, e adesso che ha finalmente deciso di parlare per pararsi il culo, avete intenzione di dargli retta?”

“Non è così semplice.”

“Vaffanculo, Phil,” l'imprecazione gli era uscita più astiosamente del previsto. “Se accusate Natasha di tradimento me ne vado.”

 

*

 

Camici e mascherine bianche, il bip-bip-bip dei macchinari...

 

Chi sei?”

Natalia Alianovna Romanova.”

“A chi sei fedele?”

“Alla Red Room.”

“Per chi lavori?”

“Per la Red Room.”

“Chi sei?”

“Natalia Alianovna Romanova.”

 

Aghi e punture sul braccio, l'odore del disinfettante, quello del sangue rappreso...

“Chi eri?”

Non lo so.”

Chi sei?”
Nessuno.”

Per chi lavori?”

Per la Red Room.”

A chi sei fedele?”

Alla Red Room.”

Chi sei?”

“Chiunque.”

 

Un fastidioso ronzio le riempì le orecchie. Lo riconobbe come il rumore che faceva la realtà quando tentava disperatamente di rientrarle nella testa, strapparla dalle braccia dell'incoscienza per riportarla coi piedi per terra. O quasi.

Il terrore la invase nell'esatto momento in cui ebbe riaperto gli occhi senza riconoscere il luogo in cui si trovava. Era una reazione consueta, viscerale, che non sentiva logiche o ragioni. Si sarebbe messa ad urlare se qualcuno non avesse acceso una piccola luce... il direttore Fury aveva appena palesato la sua presenza nella non più tanto oscura infermeria.

Natasha deglutì a vuoto, ricacciando indietro il grido che aveva minacciato di uscire. L'uomo si era alzato dalla sedia che aveva occupato fino a quel momento. Lo vide sparire dal suo campo visivo per ritornarvi poco dopo: le porse una bottiglia di plastica provvista di cannuccia che non esitò ad accettare. Bevve avidamente finché la gola e lo stomaco non cominciarono a farle male.

Il direttore era rimasto in silenzio, limitandosi a riprendere il suo posto e a guardarla. Natasha ricambiò il suo sguardo, non senza difficoltà.

“Sono nei guai?” Si decise a chiedergli, la voce più roca e bassa del solito. Per quanto tempo era rimasta fuoriuso? Quante ore erano passate? Quanti giorni? Che ne era stato di Clint?

“Dipende,” fu la laconica risposta del direttore.

“Da cosa?”

“Da te.”

Natasha trattenne il respiro, strinse i pugni, dimenticandosi di avere ancora la bottiglietta in mano. La plastica scricchiolò sotto la sua presa ancora precaria. Sapeva di essere nei guai fino al collo.

“Qualcuno è disposto a giurare di averti vista proteggere Boris Shostakov da un tentato omicidio.” Fury riprese a parlare pacatamente, ma con decisione. Natasha non poté far altro che annuire: evidentemente c'era stato davvero uno dei pezzi grossi dello SHIELD a quella disgustosa festa.

“Ora... non sono poi così impaziente di credere ciecamente a questa persona, ma...”

“Ma.”

“Ma... se hai compromesso la missione per interessi personali...” lasciò la frase in sospeso.

“L'ho fatto per interessi personali,” si era ritrovata a dire, prima ancora di poter formulare mentalmente una risposta adeguata. “Ma non credo di aver compromesso la missione.”

“Spiegati meglio.”

“La nostra copertura era saltata nel momento esatto in cui siamo entrati in quella villa, signore,” ci tenne a sottolineare. “C'erano dei cecchini a tenere gli invitati sotto tiro. Difficilmente l'attentatore sarebbe riuscito nel suo intento.”

“E hai pensato bene di intervenire?”

“Per guadagnarmi la fiducia di Shostakov,” confermò. “L'ucraino sarebbe morto comunque e Shostakov ne sarebbe uscito illeso in ogni caso.”

“La sua fiducia...” Fury non sembrava particolarmente impressionato da quella spiegazione.

“Volevo aspettare che Alexander Shostakov fosse a disposizione.”

“Per ucciderlo.” Natasha annuì senza aggiungere nient'altro. “Una vendetta personale.”

“L'agente Barton non era a conoscenza delle mie intenzioni,” si affrettò a stabilire.

“Sapevi chi era Shostakov prima di essere assegnata alla missione?” Le scoccò un'occhiata valutativa.

“Lo sapevo, signore.”

“Avresti dovuto informarne il tuo supervisore, Natasha.”

“Lo so.”

“Perché non l'hai fatto?”

“Perché non mi avreste permesso di ucciderli.”

“Meglio chiedere il perdono che il permesso? Non è così che funzionano le cose qui allo SHIELD.”

“Con tutto il dovuto rispetto, signore...,” si strinse nelle spalle. “Dice sempre che una persona può fare qualsiasi cosa, quando si accorge di essere parte di qualcosa di più grande.”

“Se hai seriamente intenzione di usare le mie parole contro di me ti consiglio di ripensarci.”

“Non potevo essere parte dello SHIELD se prima non smettevo di essere parte della Red Room.”

“Quel capitolo era già chiuso.”

“No,” Natasha pronunciò quel secco diniego con una certa urgenza. “Non ho mai smesso di essere un prodotto della Red Room.”

“E adesso?”

“Adesso non più.”

“Cos'è cambiato?”

“Attesa ed azione erano i due momenti di ogni incarico che mi hanno assegnato. Ho aspettato per tutta la mia vita, signore. Ma adesso...” cercò le parole più giuste, improvvisamente in difficoltà, “adesso anche quell'ultima missione si è conclusa.”

“Definitivamente?”

“Definitivamente.”

Il direttore rimase ad osservarla, evidentemente sovrappensiero. Natasha non era sicura di averlo convinto, ma piuttosto certa di averlo fatto incazzare. Fury si era rimesso in piedi, aveva spento la luce e sembrava del tutto intenzionato ad andarsene.

“Che ne è stato della villa?” Natasha si azzardò a chiedere, fermandolo prima che potesse uscire.

“Continuerà a bruciare ancora per giorni, forse settimane.”

“Bene... signore?” Il direttore si era fermato a metà tra la stanza e il corridoio: Natasha poteva a malapena scorgerne il profilo nel buio. “L'agente Barton non ha nessuna colpa.”

“Questa è una novità. Una novità che ho colto, agente Romanoff,” sospirò appena. Fury odiava sentirsi ripetere le cose. “Riposati, domani sarà un lungo giorno.”

L'uomo tornò a confondersi con l'oscurità circostante.

Il sonno non tardò a reclamarla.

 

*

 

Seduto su una delle sedie più dannatamente scomode che avesse mai sperimentato, Clint tamburellava forsennatamente un piede a terra, innervosito dal prolungarsi dell'attesa. Il brusio sommesso e indistinto della conversazione in atto nella sala adiacente, non faceva altro che peggiorare il suo stato d'animo.

Ci erano voluti quattro lunghissimi giorni perché l'indagine sulla missione Shostakov venisse conclusa. Il che non aveva fatto altro che ricordargli quanto esattamente detestasse l'aspetto giuridico-burocratico del suo lavoro. Sia sull'helicarrier che al Triskelion di Washington, gli era stato impedito di avere un qualsiasi contatto con Natasha, nella speranza di cancellare ogni rischio di storie concordate tra gli agenti sotto inchiesta. Non che ci sarebbe stato bisogno di imbastire chi sa che complicata spiegazione: non gli era stato concesso di assistere alla deposizione della donna, ma era piuttosto sicuro che avesse raccontato la verità, nuda e cruda. Quello che lo preoccupava era la totale refrattarietà di certi ambienti alle sfumature. Natasha aveva tradito, ma l'aveva fatto solo per finta. Aveva ucciso i suoi ex-datori di lavoro contravvenendo alle regole dello SHIELD, ma l'aveva fatto perché erano dei maledetti figli di puttana. Ci doveva pur essere un'attenuante, no? Chi, al suo posto, non avrebbe voluto cancellarli dalla faccia della terra?

Tirò fuori dalla tasca della giacca, per la quinta volta, una pallina di gomma trovata casualmente per strada – il gioco di un cane, forse, o di un bambino – facendola rimbalzare sul pavimento, da quello alla parete di fronte, dal muro alla sua mano. Alla terza ripetizione si ricordò perché avesse smesso le prime quattro volte: non aveva avuto grande successo in termini di distrazione.

Quel che era peggio era che l'avevano pure costretto ad indossare degli abiti adeguati a quel particolare contesto. Pantaloni eleganti, una giacca che non avesse l'aria di essere stata rubata da un feretro, una camicia che non somigliasse alla faccia raggrinzita dell'uomo più vecchio del mondo, e una cravatta. Aveva bellamente ignorato quell'ultimo punto, riuscendo ad accozzare tre capi d'abbigliamento che non avevano chiaramente niente a che vedere l'uno con l'altro. C'era stata una mezza idea di presentarsi in pigiama (vale a dire un paio di pantaloni troppo larghi e una t-shirt tutta bucherellata che usava anche per dormire), ma l'aveva scartata: inutile far imbestialire ulteriormente i musi lunghi che stavano decidendo della sorte di Natasha.

La porta si aprì nel momento esatto in cui Clint si era rimesso in piedi, determinato a sgranchire un po' le gambe. Si irrigidì sul posto, guardando mentre una serie di personalità più o meno conosciute sciamavano nel corridoio. Nessuno sembrò far caso a lui, nessuno pareva essere troppo soddisfatto o troppo contrito. Hanno tutti deciso di farsi crescere la faccia da poker, oggi?

Azzardò a rilassarsi un minimo quando Coulson si accodò ad un gruppo di assistenti, già scattati in una folle corsa per raggiungere i rispettivi superiori.

“Phil,” richiamò la sua attenzione con un rapido gesto della mano. “Allora?” Non aspettò neanche che gli fosse sufficientemente vicino per chiederglielo.

“E' andata bene,” il supervisore lo invitò a spostarsi leggermente di lato per permettere alla gente di defluire dalla sala. “Un mese di fermo forzato e poi potrà tornare operativa.”

Clint tirò un brusco sospiro di sollievo. Se non altro non si erano ancora rincitrulliti del tutto!

“Tu piuttosto,” Coulson stava passando in rassegna la sua pessima mise da tribunale, “ti sei fatto prestare i vestiti da un rifugio per senzatetto?”

“Ah ah. Non siamo mica tutti come te, Phil. Scommetto che hai anche un accappatoio a forma di completo elegante.”

“Lo sai, credo che qualcuno dovrebbe inventarlo. Ti senti in vena di una carriera alternativa?”

“No, grazie. Faccio già il cazzone a tempo pieno.”

“Un lavoro ingrato.”

“Che mi dà tante soddisfazioni.”

Un leggero colpo di tosse interruppe quel breve scambio. Natasha, vestita in modo un po' più consono di Clint (non che ci volesse molto), li stava osservando da pochi passi di distanza. Coulson abbozzò un sorriso, dandogli una leggera pacca sulla spalla.

“Ci vediamo più tardi.” Rivolse un cenno di saluto alla donna, dileguandosi subito dopo.

“Ehi,” era stata Natasha a farsi avanti per prima.

“Ehi,” le fece eco, mentre il cervello gli andava completamente in confusione nel tentativo di ricordare cosa dovesse dire e come e perché.

“Ti va di andare a prendere un caffè?” Fu lei a cavarlo da quell'impiccio.

“Certo,” la parola gli era uscita prima che potesse rendersi conto della straordinarietà di quel momento. Dopo mesi di lavoro fianco a fianco, Natasha Romanoff gli aveva esteso un invito: si ripromise di segnarselo sul calendario (e, bè, di comprarsi un calendario).

 

*

 

“Mi dispiace di non averti avvertito.”

Il fumo si alzava dalle tazze, rispettivamente di tè e caffè, che la cameriera aveva appena portato. Natasha non aveva perso tempo: si sarebbe scusata giorni prima se le regole dell'indagine non gliel'avessero impedito. Aver messo Clint in pericolo, tenerlo all'oscuro di ciò che sapeva su Shostakov già da prima di scendere sul campo, era stato l'unico dettaglio degli eventi appena trascorsi che l'aveva fatta sentire in colpa. Detestava quella sensazione, le era estranea: non si era mai fatta grandi problemi a trattare la gente con indifferenza. Nessuno le doveva niente e lei non doveva niente a nessuno. Ma con Clint era tutto diverso: il loro rapporto esulava da qualsiasi tipo di relazione prestabilita che si era voluta concedere col mondo esterno. Le risultava, in un certo senso, ancora incomprensibile.

“Perché non l'hai fatto?” Non suonava arrabbiato, solo... deluso, forse.

“Avevo paura che mi fermassi,” rispose sinceramente, tenendosi occupata con le bustine di zucchero per non doverlo guardare in faccia.

“Ti avrei coperto, lo sai.”

“Lo so,” si costrinse a lanciargli una rapida occhiata. “Non volevo neanche coinvolgerti.”

“Per non mettermi nei guai?”

“Per quello e perché... era una cosa che riguardava soltanto me.” Aveva iniziato con la Red Room da sola, non avrebbe potuto mettervi fine in nessun altro modo.

“Lo capisco.” Il tono incerto l'aveva spinta a guardarlo, guardarlo sul serio adesso.

“Lo so che posso fidarmi di te,” si ritrovò a dire con una certa urgenza. “E' solo che...”

“Che?”

“Mi riesce difficile.”

“Fidarti di me?”

“Fidarmi di chiunque,” lo corresse. “Detesto dover contare sugli altri,” preferiva di gran lunga avere il pieno e incontestato controllo della situazione.

“Ma non sei più sola,” obiettò debolmente, forse pentendosi di averlo detto ad alta voce.

Natasha si limitò ad osservarlo per qualche istante: si era sempre considerata un'ottima giudice di carattere e per quanto scavasse nel suo sguardo alla ricerca di un qualsiasi indizio che le suggerisse che stava mentendo, fu costretta ad ammettere che le sembrava sincero. Che probabilmente lo era.

“Tendo a dimenticarlo.”

“Non devi darmi spiegazioni,” finì col dirle con una leggera alzata di spalle. “Forse sono solo...” fece una breve pausa, alla ricerca della parola più adatta, “prevenuto.”

“Prevenuto,” ripeté, come per accertarsi di aver sentito bene.

“Prevenuto. Mi piace lavorare con te,” ammise, “mi piace lavorare con te più che con chiunque altro.”

“Anche a me piace lavorare con te.”

“Ma preferiresti lavorare da sola,” aggiunse, come a volerle completare la frase.

Natasha valutò la questione per qualche istante, decisa ad essere il più sincera possibile. Non era affatto sicura di poter dare una risposta definitiva, non lì su due piedi comunque.

“Non lo so.”

Rimasero in silenzio per un lunghissimo attimo, ognuno perso nei propri pensieri o a studiare di sfuggita l'altro.

“Non devi necessariamente lasciarti definire da quello che ti è successo,” fu lui il primo a riprendere la parola. “Abbiamo tutti dei segreti... più o meno oscuri o imbarazzanti.”

Gli rivolse un'occhiata perplessa. “Tipo?”

“Tipo...” alzò gli occhi al soffitto, come in cerca di ispirazione. “Tipo che non possiedo completi eleganti.”

“Questo non è un segreto,” protestò, alludendo agli abiti che stava indossando, “e comunque me n'ero accorta.” Bisognava essere ciechi per non averlo fatto.

“Va bene, va bene... ho lavorato al circo.”

“Questo me l'hai detto.”

“Ho un fratello maggiore.”

“Anche.”

“Visto?” Aveva allargato le braccia, un velo di divertimento ad accendergli gli occhi. “Sai già tutto di me, adesso tocca a te.”

“Questo è uno dei tentativi più patetici cui abbia mai assistito.”

“Che importa se è patetico? Basta che funzioni,” decretò con convinzione. Rimase a guardarla, come in attesa di qualcosa. “Sta funzionando?”

Natasha scosse il capo, inspiegabilmente compiaciuta dall'intera situazione. Era vero che conosceva molte più cose di Clint di quante lui ne sapesse sul suo conto, ma che non c'era granché da sapere lo era altrettanto. Conduceva una vita estremamente riservata, quasi del tutto priva di svaghi (e i pochi che aveva – ne era praticamente del tutto certa – l'uomo li avrebbe considerati noiosissimi).

“Cosa vuoi sapere?” Si arrese, bevendo un sorso del suo tè mentre valutava se pentirsi o meno di quell'inaspettata concessione.

“Non lo so. Qual è il tuo film preferito?”

“Non ho un film preferito.”

“Oh andiamo, Nat, così non vale.”

“Non è colpa mia se non ho un film preferito.” Barton aveva il dono di esasperarla, ecco cosa.

“Va bene, allora il tuo libro preferito.”

La morte di Ivan Il'ič.”

“Di che parla?” Non sembrava molto impressionato dal titolo.

“Di un uomo che, in punto di morte, si accorge della falsità della vita.”

“Suona inquietante.” Commentò, prima di mutare impercettibilmente impressione. Si era di nuovo fatto serio. “E' da lì che viene quel, ahm...” stava cercando di ricordare, “la verità non è sempre la stessa cosa per tutti. Ed io nemmeno.” Natasha comprese di essere appena stata citata.

“No,” abbozzò un microscopico sorriso di sorpresa. “Ma è vero, la verità è un punto di vista.”

“Una sfumatura?”

Annuì in risposta, mordendosi leggermente il labbro inferiore, sovrappensiero.

“Non tutto quello che ti ho detto alla villa era falso,” confessò quando ormai il silenzio si era prolungato fin troppo.

“Me ne sono accorto,” allungò un braccio sullo schienale della sua sedia, prendendo tempo. “Te l'ho detto, tutti hanno un lato oscuro.”

“Lo fai suonare come un blockbuster hollywoodiano.”

“Ma è vero,” si sporse in avanti, appoggiando entrambi i gomiti sul tavolo. “Non importa quello che senti quando fai qualcosa... quello che conta è sapersi dominare.”

“Tu non sai dominarti,” si ritrovò a ribattere. La sua spiccata tendenza ad infrangere le disposizioni ricevute era praticamente leggendaria.

“Lo so che non mi so dominare, è per questo che sono un esperto in materia.”

“Oh, un esperto,” sottolineò solennemente.

“Già. Tu in confronto sei capace di gestire qualsiasi cosa.”

“Non è vero.”

“Vorrei sapere come fai a non ignorare o sovvertire gli ordini più stupidi che ti danno. Perché sono sicuro che ne diano anche a te...”

“E io vorrei sapere come fai ad essere così... amichevole.”

“Essere stronzi è troppo faticoso.”

“Essere gentili è troppo faticoso.”

“Credo che dovremmo accettare di non essere d'accordo, allora.”

“Va bene,” si strinse nelle spalle, come a decretare la fine della conversazione. O almeno credeva.

“Chi è... Inessa?”

I muscoli della schiena le si contrassero bruscamente alla domanda di Clint. Tornò a fingere estremo interesse per la sua tazza di tè, ben sapendo che non avrebbe potuto eluderlo per sempre. E d'altro canto erano ormai un paio di giorni che si era resa conto di aver voglia di parlare. Parlare e basta. Forse era stato per colpa di tutto quello spiegarsi in conseguenza della missione, ma si era ritrovata addosso un gran desiderio di dire e spiegare chi fosse. Ma non a chiunque, solo a chi fosse stato in grado di capirla. Di capirla sul serio.

“Una ragazza che ho conosciuto alla Red Room,” riuscì a dire con estrema fatica.

“Una tua amica?”

“Oh, no,” sbuffò una risata tutt'altro che divertita, mentre un nodo le si stringeva alla gola. Rammentava di averla vista morta, sul prato, ma aveva irrazionalmente sperato si fosse trattato di un sogno, un incubo: i ricordi che aveva erano irreparabilmente sfocati e frammentari. “La detestavo. Era la più grande di tutte, la più brava, la preferita di tutti i nostri istruttori.” Si strinse nelle spalle, serrando la presa di entrambe le mani sulla tazza calda.

Non solo era stata la principale responsabile dell'esecuzione di Nadja, ma era anche più o meno risaputo che faceva regolarmente rapporto ad Alexander, rivelandogli piccoli segreti compromettenti scoperti tra le file delle reclute della Red Room. Tutte avevano pagato per quelle involontarie confidenze. “A quanto pare eravamo programmate per suicidarci se le cose si fossero compromesse irrimediabilmente.”

Clint pareva confuso. Lei stessa aveva dovuto trattenere la sorpresa quando Shostakov ne aveva informato il figlio, quello smidollato di Maksim: quella che aveva creduto essere la sua prima vera decisione autonoma, non era altro che un condizionamento imposto a tutte loro.

“Quando ha capito che aveva perso tutto, l'ha fatta finita,” si decise a dire. “Credevo di averli sconfitti una volta per tutte, eppure... sono riusciti a vincere per un'ultima volta.” Odiava Inessa, l'avrebbe volentieri presa a pugni in faccia se gliene fosse stata data l'occasione, ma era stata una vittima tanto quanto lei. Plasmata ad immagine e somiglianza del sicario perfetto. Tutto quello che aveva fatto alla Red Room, il modo in cui si era guadagnata il favore dei loro capi, l'aveva fatto per sopravvivere. Nient'altro.

Rialzò lo sguardo su Clint, come rendendosi conto solo in quell'istante di aver parlato ad alta voce. I suoi occhi, piuttosto che irritarla, per qualche assurdo motivo ebbero l'effetto di pacificarla. Non l'aveva mai raccontato a nessuno. Fu una piccola, colossale conquista.

L'avviso di notifica dei loro cellulari vibrò nell'aria.

“Ah, cazzo, avevo dimenticato che la nomina del secondo di Fury era oggi,” Clint era stato il più veloce.

“Ci vuole vedere subito dopo.”

“L'ennesima lavata di capo?”

“Non ne ho la più pallida idea.”

 
****************




Okay, stavolta il capitolo Shostakov si è concluso davvero :P Nonostante ciò, Fury deve ancora dire la sua... *tremiamo*
Per quanto riguarda il resto non ho granché da dire, a parte che mi piaceva l'idea che alla fine l'aver tenuto Clint all'oscuro sia l'unica cosa che Natasha "rimpiange" di tutta questa faccenda.
Per chi non lo sapesse,
La morte di Ivan Il'ič è un brevissimo romanzo di Tolstoj che consiglio a tutti!
La prossima parte ci porterà verso un capitolo di transizione e poi altri due mini-archi a completare il tutto.
Grazie a chi continua a leggere, commentare e farmi sapere che ne pensa <3 apprezzo tantissimo, lo sapete!
E in particolare all'indefessa Eli :3 as per usual!
Alla prossima!
S.

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Capitolo 12
*** You're Like a Mirror, Reflecting Me ***


12

 

You're like a mirror, reflecting me
Takes one to know one, so take it from me
You've been lonely
You've been lonely, too long

(The Civil Wars – Dust to Dust)

 

Il corridoio antistante l'ufficio del direttore Fury era gremito di gente che Clint non aveva mai visto prima d'allora.

“Wow. Credi che ci abbia convocati insieme a questi qua?”

Natasha pareva perplessa tanto quanto lui. “Non hanno l'aria di essere stati convocati.”

No, a dir la verità sembravano principalmente incazzati. Chi più, chi meno, sfoggiavano tutti espressioni contrite, pallide, sudaticce o direttamente furenti. Dovevano avere a che fare con la freschissima nomina del nuovo vice direttore dello SHIELD: da cinque minuti e trentasette secondi esatti, l'agente Maria Hill ricopriva quel ruolo di diritto. Una scelta che era risultata una sorpresa più o meno per tutti: alcuni più compiaciuti di altri.

“Non ricordo di aver dato a nessuno di voi il permesso di contestarmi.” La voce del direttore Fury sovrastò bruscamente il coro di dissensi, che – solo sentendolo parlare – perse non pochi membri. “Se avete bisogno di dirmi qualcosa, prendete un appuntamento. La mia segretaria è da quella parte,” indicò un punto non meglio definito alla fine del corridoio. “Anche se ci tengo a farvi sapere che preferirei mandarvi altrove.”

Clint aveva malamente trattenuto una risata, subito ricacciata indietro dall'occhiata penetrante che il direttore scagliò nella loro direzione: Fury sapeva come sfruttare a pieno le potenzialità del suo unico, implacabile occhio.

“Barton, Romanoff, nel mio ufficio adesso.” L'ordine rimbalzò tra i corpi che ostruivano il passaggio. Senza farselo ripetere due volte attraversarono quel mare di gente, fino ad approdare alla loro sudatissima meta. Sudata perché Clint era decisamente agitato dalla prospettiva di un tu per tu con il direttore... anche se era più che altro un tu per tu per tu, dato che l'incontro prevedeva anche la presenza di Natasha. La quale, per la cronaca, non sembrava minimamente preoccupata dalla prospettiva di restare rinchiusa nella stessa stanza con Fury, per una quantità di tempo indefinito.

Ebbe qualche difficoltà a chiudere la porta senza pestare i piedi a nessuno. Natasha lo cavò agilmente dall'impiccio, sbattendola di prepotenza senza alcun riguardo per nessuno. (Sparse grida di dolore li raggiunsero dall'altro lato: la donna le ignorò con estrema nonchalance.)

“Sarò breve,” Fury era già arrivato al dunque. Clint aveva ben capito che il suo stile non includeva nessuna... fase preparatoria. “Le vostre ultime missioni si sono concluse tutte con successo e in tempi straordinariamente brevi...”

“Grazie, signore,” non aveva finito di pronunciare quelle parole, che aveva già capito di aver parlato troppo presto.

“... nonostante questo, le iniziative personali continuano fastidiosamente ad abbondare,” lo sguardo di Fury era come un dannato martello pneumatico nella sua psiche. “Disobbedire agli ordini non è accettabile. E dato che le infrazioni si sono ripetute nel tempo...”

“Oh, andiamo, signore!” Clint si era azzardato ad intervenire... di nuovo. “Magari il motivo per cui abbiamo ottenuto così tanti successi è che non prendiamo gli ordini alla lettera,” era piuttosto sicuro che Natasha gli stesse rivolgendo un'occhiata allarmata, “magari è proprio questo il nostro punto forte,” se gli sguardi avessero potuto uccidere, Clint si rendeva perfettamente conto che sarebbe già stato morto da un pezzo. “Ahm... signore,” si ricordò di aggiungere, senza migliorare granché la situazione.

Fury aveva aggirato la sua scrivania e si stava muovendo a passo di marcia nella sua direzione, un'espressione tutt'altro che rassicurante sul volto. Gli si fermò a pochissimi centimetri di distanza, fissandolo dritto negli occhi (Clint sarebbe diventato strabico se avesse continuato per molto!). Inutile dire che quelle particolari circostanze non promettevano niente di buono. Che era molto probabilmente sul punto di essere licenziato. Che sarebbe stato costretto a trovarsi un lavoro alternativo. Qualcosa come barista, commesso, netturbino. Dopotutto, era bravissimo a centrare i cestini della spazzatura quando gettava la sua immondizia. Trattenne il respiro, finché...

“Sono d'accordo.” Pronunciate quelle tre misere parole, Fury si era allontanato di nuovo, riprendendo a misurare il suo ufficio con ampi passi.

Clint si sentiva sul punto di vomitare. Era d'accordo? Che cazzo significava che era... d'accordo? E perché era suonata come un'intimidazione bella e buona?

“Siete stati promossi al livello sette,” li informò in tono asciutto e professionale. “Avrete più libertà nella scelta delle strategie da adottare, più voce in capitolo, ma continuerete ad essere supervisionati,” aggiunse, stavolta con una velata minaccia. “Soprattutto, per accontentarvi, non sarete più provvisti di piani di estrazione.”

“Eh?” Sempre lui ad aver espresso la sua perplessità, Natasha continuava a stare zitta.

“Mi hai sentito bene Barton. Non era quello che volevi?” Recuperò due cartelline dalla scrivania, porgendone una ad entrambi. “Adesso potrai reinterpretare a tuo piacimento tutti gli ordini che preferisci.” Se ci fosse stato chiunque altro al posto del direttore, a quel punto Clint si sarebbe aspettato un sorriso a presa di culo.

“Strike Team Delta?” Natasha aveva passato rapidamente in rassegna il primo file del fascicolo.

“E' il vostro nome operativo.”

“Non possiamo neppure sceglierci un nome?”

“Se riesci a dirmene uno migliore nei prossimi due secondi...”

“Un nido per due,” rispose senza neppure pensarci, gelando sul posto sia Fury, che Natasha, che se stesso. Seriamente? Tutto era meglio di 'un nido per due'. “Perché... s-sia i falchi che i ragni fanno... f-fanno i nidi,” tentò di spiegare la scelta, peggiorando ulteriormente la situazione.

“Spero che non sia necessaria una risposta...” Il direttore sembrava essersi fatto ancora più minaccioso del solito.

“No, signore.” Che lasciassero a Fury il compito di informare i suoi sottoposti di una promozione, facendola suonare come una marea di guai non richiesta! O magari la promozione era la punizione. Subdolo, Nick, complimenti.

“Ottimo. E adesso uscite di qui.”

Si assicurarono che il direttore non dovesse ripeterlo due volte.

“Un nido per due, ah?” Natasha, che stava palesemente tentando di trattenere un sorriso (o forse una risata?), non aveva perso tempo per rigirare il coltello nella piaga.

“Sta' zitta,” la rimbrottò mentre attraversavano il corridoio, adesso semi-deserto (fatta eccezione per un paio di sfegatati irriducibili ancora fermi contro la parete). “Insomma, un mese di riposo forzato. Cos'è che farai?”

“Non lo so,” la donna si strinse nelle spalle. “Magari ne approfitto per andare a comprare i mobili.”

“Che tipo di mobili?”

“Mobili. Per la casa.”

“Non hai dei mobili in casa?”

“No.”

“Come fai a vivere senza mobili?” Era davvero perplesso: si immaginò l'appartamento di Natasha come una serie di tre stanze vuote, imbiancate di fresco, un materasso abbandonato in un angolo e pile di libri sparsi ovunque.

“Non lo so, lo faccio e basta.”

“Ce l'hai un letto?” Si informò, giusto per capire se la sua visione corrispondesse a realtà.

“Certo che ce l'ho un letto.”

Si immobilizzò prima di poter ricominciare a tartassarla di domande inutili: gli sembrava più tranquilla e rilassata del solito e non aveva alcuna intenzione di rovinarle l'umore, né di privarsi di quel raro spettacolo.

“Suppongo che ci vedremo tra qualche settimana,” era stata di nuovo lei a parlare.

“Suppongo,” le sorrise.

“Non essere triste,” lo prese in giro. “Non credevo che non vedessi l'ora di essere fatto a pezzi.”

“Scusa?”

“Sì, nel senso,” oh, adesso sì che stava disperatamente tentando di non mettersi a ridere, “lo sappiamo chi è il migliore tra noi due, no?”

“Certo. Sono io.”

“Come no, Barton.”

“Non credo che mi piaccia il tuo tono, Romanoff.”

“Staremo a vedere,” aveva dichiarato, allontanandosi di qualche passo. “Goditela finché dura.”

“Sei una donna crudele.”

“La peggiore, te l'ho detto,” un rapido cenno di saluto. “Poi non dire che non ti avevo avvisato!”

La vide sparire, portata via da una fila di musi lunghi in giacca e cravatta in uscita da chissà che riunione. Gli ci volle un po' per togliersi quello stupido sorriso dalla faccia.

 

*

Lhasa, Cina

 

“Tredici a otto, Barton,” la voce fastidiosamente cantilenante di Natasha lo raggiunse mentre si stava togliendo quel che rimaneva del gilet della sua divisa.

“Prego?”

“Tredici a otto. Il numero di uomini che ho atterrato, contro il numero di uomini che hai atterrato tu. Ho vinto.”

“Quella è stata solo fortuna,” ci tenne a precisare, fingendo totale disinteresse per la questione. “La fortuna del principiante.”

“Dovresti pagare pegno.”

“Pagare pegno per cosa?”

“Per aver perso.”

“Tipo obbligo o verità?” Natasha non sembrava essere a conoscenza di quel particolare, apparentemente innocuo, strumento di tortura.

“Verità,” fu lei a decidere.

“Verità su cosa?

“Su di te. Una interessante però,” l'avvertì, un'espressione minacciosa sul volto.

Clint sembrò pensarci su un attimo. “Il viola è il mio colore preferito,” finì col dire.

“Questo ti sembrerebbe un segreto? Hai tutte le mutande viola.”

“Sono boxer, Natasha.”

“Mutande. Mutande viola,” insisté.

Si strinse nelle spalle, rivolgendole un sorrisetto insopportabile. “Sarai più fortunata la prossima volta.”

 

*

Acapulco, Messico

 

“No. Il tizio che ha battuto la testa inciampando sul corpo del collega non conta.”

“Conta se sono stata io a rendere inoffensivo il collega,” puntualizzò Natasha.

“Siamo sette ad otto, te ne rendi conto? Saremmo pari se tu sapessi perdere.”

“A me non piace perdere.”

“A chi credi che piaccia perdere?” Il rumore provocato dal ruotare furibondo delle pale dell'elicottero, li costringeva ad urlare.

“A te, spero. O passeresti un sacco di tempo a deprimerti.”

“Non sei affatto divertente, Romanoff.”

“Non dirlo come se fosse un insulto.”

“Sono stato sposato,” aveva appena rivelato il segreto a tradimento, a voce bassissima, impossibile da registrare a meno che...

“Sei stato spostato?” No, che era uno spostato lo sapevano più o meno tutti.

“Spo-sa-to.”

“Sposato? Con cosa?”

“Con una persona,” indossò la sua espressione più contrita.

“Una persona viva?” La perplessità di Natasha gli risultava un tantino comica.

“No, era morta. Ho una mummia in casa. Ci amiamo... e in più non devo comprare la carta igienica.”

“Ora ha senso.”

Non era sicuro di esserselo immaginato o meno, ma gli sembrava che, dopo la rivelazione, la donna lo guardasse in modo diverso. Se non altro era riuscito a zittirla...

 

*

Castra, Cile

 

Clint le incombeva addosso come un dannato avvoltoio. L'aveva seguita fin nell'infermeria dell'helicarrier, l'aveva osservata con aria compiaciuta mentre le ricucivano un taglio sul braccio, si era assicurato di ricomparire nel suo campo visivo quando meno se l'aspettava, quando lo sforzo di ignorarlo era arrivato al suo limite.

“Ho un gatto,” dichiarò seccamente. Dal suo tono si sarebbe detto che aveva appena scagliato un anatema mortale contro tutta la sua famiglia, più che avergli rivelato una verità sul suo conto.

“Un gatto, davvero?” La cosa sembrava sorprenderlo sinceramente. “Come si chiama?”

“Non lo so.” Questo non l'aveva impressionato.

“Hai un gatto ma non sai come si chiama?”

Natasha alzò gli occhi al soffitto, ottenendo solamente di venire accecata dalle luci al neon che illuminavano il lettino su cui era seduta.

“Non è tecnicamente mio, ma della signora che sta al piano di sotto.”

“Il suo gatto viene a farti visita?”

“Qualcosa del genere.”

“E la signora?”

Si incupì appena: non aveva intenzione di rivelargli che trascorreva numerosi pomeriggi in compagnia della signora Phyllida, nel suo appartamento ripieno di centrini e l'odore di burro penetrato a vita nelle pareti. Ma lo sguardo di Clint non le lasciava scampo: con quel ventitrè a undici, l'aveva a dir poco stracciata.

“Anche la signora.”

“Dovresti davvero uscire più spesso, Nat,” le suggerì, mettendosi a ridere.

Venne inspiegabilmente da ridere anche a lei.

 

*

 

Lione, Francia

 

“Hai l'aria di uno che sta per vomitare.”

Rialzò lo sguardo dal suo piatto di escargot, lanciando un'occhiata di panico misto a disgusto in direzione di Natasha.

“Te l'avevo detto di non ordinare indicando un punto a caso del menù,” infierì, facendolo sentire estremamente stupido.

“Mi spieghi perché abbiamo deciso di mangiare al ristorante?”

“Perché abbiamo ancora quattro ore di tempo prima che qualcuno ci venga a prendere,” gli rammentò. “E tu ti sei stufato di spaghetti in scatola, come hai tenuto a sottolineare,” il tono di Natasha lasciava trasparire tutta la sua esasperazione.

“Come pensano che gente come noi possa sopravvivere cibandosi di quella robaccia?” Le case sicure dello SHIELD ne erano praticamente rimpinzate: carne in scatola, spaghetti in scatola, fagioli in scatola, frutta in scatola, rompimento-di-palle in scatola. Clint era decisamente più propenso ad usare tutte quelle lattine come armi improprie, piuttosto che a doverci pranzare.

“C'è roba più schifosa nella tua dispensa, Barton,” Natasha aveva riabbassato lo sguardo sul suo piatto, una quiche che non doveva ispirarla granché.

“Come fai a sapere quello che c'è nella mia dispensa?”

“Cercavo qualcosa di commestibile, l'ultima volta che sono venuta a casa tua.”

Non che la cosa lo sorprendesse, era più che altro abituato ad ordinare al take away o a scendere al ristorante cinese sotto casa.

“Ricordami perché eri a casa mia?”

“Perché avevi perso il tuo badge.”

“Oh, ora rammento.” L'avevano ritrovato tra le pieghe del divano, insieme ad una quantità imbarazzante di briciole e rifiuti di varia natura.

Un brusco sospiro di Natasha lo riportò alla realtà, strappandolo alle sue elucubrazioni.

“Che ne dici se andiamo a mangiare da qualche altra parte? Offro io.”

“Da qualche altra parte, tipo?”

“Non lo so. Giapponese, italiano, messicano...”

“Ti piace la cucina esotica?”

La donna si strinse nelle spalle a mo' di risposta, senza scucirsi più di tanto.

“Ho vinto io,” le fece presente, appoggiando i gomiti sul tavolo (li ritrasse in fretta e furia quando gli ricadde lo sguardo sulle lumache morte), “potresti anche elaborare.” Non aveva sudato così tanto per ottenere quel quindici a dodici per niente!

“Il greco e l'indiano sono i miei preferiti,” gli concesse.

“Non ti piacciono pallidi, ah?”

Natasha lo incenerì con lo sguardo.

“A volte mi chiedo com'è possibile che nessuno ti abbia ancora soffocato nel sonno,” ci tenne a precisare mentre si rimetteva in piedi.

“Oh, non è che non ci abbiano provato. E' che si commuovono a vedermi dormire come un angioletto.”

“Perché non ti hanno sentito russare.”

“Senti chi parla!” Le puntò un dito contro, invitandola – al tempo stesso – a precederlo fuori dal quell'infimo ristorante di periferia.

“Tappati la bocca, Barton, io non russo.”

“Ricordami di registrarti, la prossima volta.”

 

*

 

Vienna, Austria

 

“Lo sai da cosa nascono le palle di Mozart?”

Appostato sul livello più alto del dietro-le-quinte dello Staatsoper di Vienna, Clint stava decidendo se si trattasse o meno della missione più noiosa della sua vita. Si ficcò in bocca l'ennesima gomma da masticare, combattendo il tedio con quel malsano ruminare. Stava tenendo d'occhio uno dei palchi più prestigiosi del teatro, ben attento a che il diplomatico giapponese sotto tiro non si facesse venire strane idee riguardo la sua bellissima accompagnatrice (una Natasha che si era casualmente persa mentre cercava disperatamente il suo posto e che il valente ambasciatore aveva coraggiosamente salvato, invitandola insistentemente a seguire l'opera dal suo esclusivissimo punto di vista).

La vide scuotere il capo, in un impercettibile diniego, gli occhi fissi sulla scena, completamente assorbita dagli eventi in corso.

“Dal fatto che Mozart si rompeva le palle assistendo alle sue stesse opere,” commentò col tono di una professionalissima guida turistica.

La donna si appoggiò al parapetto del balcone, mettendo in evidenza i seni strizzati dall'abito verde scuro da sera che indossava. Era tutta una complicata mossa per dissimulare il divertimento e attirare al tempo stesso l'attenzione del funzionario al suo fianco.

Clint sorrise tra sé, compiaciuto della sua reazione. D'altro canto, si era reso conto che più gli risultava difficile ignorare l'attuale aspetto di Natasha, più si sentiva ispirato a sparare stronzate.

L'ambasciatore si stava facendo molti meno problemi, evidentemente più interessato alla generosa scollatura della donna che alle vicende del povero Don Giovanni. Clint trovava la storia di un tizio capelluto che si divertiva a rimorchiare tutto ciò che respirava, piuttosto calzante.

“Le piace?” Il giapponese si era rivolto a Natasha in un tedesco affettato.

“Moltissimo. Anche se preferisco Puccini,” la sua calibrata risposta.

“L'hai detto per finta o per davvero?” Clint aveva arricciato il naso, continuando a masticare furiosamente il suo chewing-gum.

“Sul serio,” aveva aggiunto Natasha, facendola suonare come un generale appendice a completamento della precedente risposta.

Ew. La prossima volta andiamo al cinema.”

 

*

Aden, Yemen

 

Io l'ho colpito con la freccia-taser!”

“Sì, ma sono stata io a dargli il colpo di grazia, rammenti?”

Clint aveva stretto le labbra fino a ridurle ad una linea sottile, rivolgendole un'occhiata carica di disappunto. Natasha si sentì moralmente obbligata ad arrendersi: quello era il problema delle missioni che prevedevano un solo obbiettivo per due predatori.

“Una verità a testa,” propose, cercando di smussare gli angoli della trattativa. Clint aveva assottigliato lo sguardo e la stava fissando come in attesa di subodorare una trappola.

Dopo un lunghissimo momento di silenzio, scartando l'ipotesi del tranello, si decise ad accettare. “Va bene. Vai prima tu e fa' che sia una cosa interessante.” Parve ripensarci. “Compromettente,” si corresse.

Natasha valutò per un istante i parametri della richiesta, non del tutto certa di poterla esaudire. Qualcosa di compromettente ed interessante.

“Stai meglio nudo che vestito,” sentenziò, serissima, in un banalissimo tentativo di destabilizzarlo.

“Nat, questo non è un segreto. Lo sanno tutti che nudo sono una favola.” Natasha si rese conto di aver fallito miseramente. “E' più che altro un dato di fatto.”

“Sai anche cosa lo è? Che sei insopportabile.”

“Vero anche questo.” Intrecciò le braccia al petto, continuando a guardarla, in attesa. “Allora?”

“Mi piace sentirti cantare,” si ritrovò a dire, dopo aver passato inutilmente in rassegna una lista infinita di verità del tutto irrilevanti.

“Quando mi hai sentito cantare?” Pareva perplesso.

“Canti in continuazione. Sotto la doccia, mentre piloti il quinjet, quando pulisci le tue frecce...” Qualcosa le disse che questo l'aveva destabilizzato più di tutto il resto. Clint si limitò a prendere atto di quella confessione con un leggero colpo di tosse.

“Tocca a te,” ci tenne a rammentargli. “Compromettente ed interessante.”

Clint, scompigliandosi i capelli, si mise a riflettere. Le sembrava di poter sentire il rumore degli ingranaggi del suo cervello in movimento. Gli ci volle un minuto buono per decidersi a scegliere una tra le tante verità che gli dovevano essere venute in mente.

“Mi sono ferito di proposito per essere congedato dall'esercito.”

Natasha rimase a guardarlo, colta alla sprovvista. L'espressione prosciugata di qualsiasi divertimento, una risposta sarcastica a morirle sulla punta della lingua.

“Lo odiavi così tanto?”

Clint si strinse nelle spalle, concedendole uno di quei suoi sorrisi malinconici che le facevano arricciare lo stomaco. “Odiavo qualsiasi cosa.”

 

*

 

Isole Svalbard, Norvegia

 

Natasha stava tentando di regolare la cadenza del proprio respiro, il gelo, tagliente ed intenso, a riempirle il naso, la gola, il petto. L'esplosione della base operativa di un gruppo di bio-terroristi non aveva fatto proprio niente per migliorare l'andamento di quella missione. Si era slogata una caviglia, lussata una spalla, aveva riportato ferite sparse più o meno ovunque. Neanche Clint se la passava troppo bene: se non fossero riusciti a tenersi al caldo per tutta la notte, l'ipotermia l'avrebbe ucciso prima del sorgere del sole. Era seduto in disparte nella piccola grotta che avevano scelto come rifugio – tutt'altro che ideale – per la notte, impegnato nel tentativo di accendere il fuoco.

“Lasciami provare,” si offrì di farlo al suo posto, ammucchiando i rametti che erano frettolosamente riusciti a raccogliere sulla via di fuga.

“Detesto questo posto,” sbuffò, nascondendo le mani nelle tasche del piumino aderente su cui campeggiava il profilo dell'aquila dello SHIELD.

“Dobbiamo solo resistere fino all'alba.”

“Mi si congeleranno le palle, da qui all'alba.”

“Io continuo a sperare nella lingua.”

“Speri che la mia lingua ti salvi?” Nonostante la situazione fosse più che disperata, Clint non sembrava aver perso il suo buon umore. “Non sarebbe la prima volta che compie dei veri e propri miracoli,” erano un paio di minuti buoni che tremava incontrollabilmente.

“No, spero si congeli,” ribatté, sforzandosi di nascondere la preoccupazione che minacciava di riempirle lo stomaco, farle perdere lucidità.

“Hai vinto tu, stavolta. Sono io che dovrei rivelarti i miei più oscuri segreti.”

“Ma se è esploso tutto?”

“Bè, sei stata tu a far scappare quel dannato bombarolo, quindi tecnicamente...”

Gli lanciò un'occhiata di sottecchi mentre le fiamme attecchivano – finalmente – alla poca legna che avevano a disposizione. Sarebbero sicuramente stati costretti a passare gran parte della lunghissima notte davanti a loro al buio, al freddo.

“Va bene. Allora tocca a te.”

“Vediamo...” si teneva il labbro inferiore tra i denti mentre lo sguardo vagava sul soffitto minimamente illuminato della grotta, in cerca di ispirazione. “C'è qualcosa che vuoi sapere di preciso?”

Natasha si strinse nelle spalle: c'erano tante cose che la incuriosivano di Clint, cose che l'uomo non aveva avuto il tempo, l'occasione o forse la voglia di rivelarle. Il silenzio si prolungò per qualche secondo di troppo, il vento ululava all'esterno, trasportando rumori che non promettevano niente di buono.

“Se dovessi mettere la tua vita nelle mie mani...”

“Mi fiderei?” Clint terminò la frase per lei. “Certo che mi fido. Credo di essermi fidato fin da subito.”

Il concetto le risuonava talmente estraneo, che era sul punto di convincersi che la stesse prendendo in giro. “Perché?”

“Perché tendo ad essere un completo coglione,” le sorrise debolmente. “Però, alle volte, ci vedo giusto,” un leggero sospiro, “con te, ci ho visto giusto.”

Natasha trattenne il respiro, limitandosi ad annuire una sola volta.

Sperò ardentemente che la sua fiducia non fosse malriposta.

 

*

 

Erano passati due anni, sette mesi, svariate missioni e infiniti segreti confessati più o meno spontaneamente, dal loro secondo incontro sull'helicarrier.



****************
 


E a questo punto avevo bisogno di un espediente che mi permettesse di saltare un po' di tempo e ricongiungergi "più o meno" (ma non ancora :P) alle prime rispettive apparizioni di Clint e Natasha nell'MCU canonico (anche se non dedicherò molto spazio a nessuna delle due cose).
Per il giochetto "chi ne atterra di più vince un segreto" mi sono appellata all'animo cazzaro di Natasha, che c'è, esiste e Captain America: The Winter Soldier (da cui tra l'altro mi sono presa la libertà di riprendere - ve ne sarete accorti! - qualche citazione qua e là!) ce ne ha dato la riprova :P tra l'altro, ho come la netta impressione che Natasha non si lascerebbe sfuggire una gara (tantomeno con Clint) per niente al mondo. Non credo nemmeno che gli avrebbe raccontato chissà che cosa senza un particolare incentivo... quindi due piccioni con una fava, come si suol dire :P
Menzione d'onore a Nick Fury che continuo a divertirmi malamente a scrivere XD
Ancora tanti ringraziamenti a chi sta seguendo questa storia, la legge e commenta \O/ Vi ringrazio tantissssimo.
E grazie (x1000) ad Eli! (Madò Eli ste cose son stancanti XD la prossima volta mettiamo un disclaimer all'inizio ahah) Perché sta scrivendo a manetta e io sono tanto felicIeeee (*pssssst* Light Years *pssssst*)
Bè, per ora è tutto! Passo e chiudo ;)
S.

 

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Capitolo 13
*** Help Me Make the Most of Freedom and of Pleasure ***


13

 

It's my own desire
It's my own remorse
Help me to decide
Help me make the most of freedom
And of pleasure

(Tears for Fears – Everybody Wants to Rule the World)

 

 

“Ti serve una mano?”

Clint rialzò lo sguardo dalla mastodontica parete di detersivi che era rimasto a fissare ormai da svariati minuti. Aveva inizialmente tentato di paragonare la qualità, al prezzo, alla quantità, ma aveva finito per lasciarsi ingarbugliare il cervello senza ottenere alcun risultato.

“Credo di aver bisogno di una laurea,” commentò spassionatamente, abbozzando un sorriso in direzione della ragazza che gli aveva offerto aiuto. Non molto alta, capelli nerissimi raccolti in una coda di cavallo in disordine, un vestito floreale appena sopra il ginocchio, il cestino della spesa in una mano, il cellulare nell'altra.

“E' solo una questione di pratica,” lo rassicurò con fare confidenziale, rivolgendogli un ampio sorriso. “Dipende da che tipo di esigenze hai.”

“Ho dei vestiti sporchi da lavare,” ribatté stupidamente. Per quale altro motivo avrebbe avuto bisogno di sapone in quantità industriali?

“E' la prima volta che lavi i tuoi vestiti sporchi?” Gli ci vollero un paio di secondi per accorgersi che la sconosciuta lo stava prendendo in giro, con aria per altro estremamente divertita. Si ricordò, come dal niente, di quanto gli piacessero le donne provviste di senso dell'umorismo.

“No, è che di solito rubo il detersivo ai miei vicini di casa,” si strinse nelle spalle, sfoggiando la sua espressione più innocente. “Ma i vicini si sono improvvisamente trasferiti, per cui...”

“... non hai più nessuno da derubare,” completò per lui. “Di detersivo, s'intende.”

“Qualcosa del genere,” confermò.

La ragazza, che aveva assunto un'espressione valutativa, stava trattenendo il respiro, fissandolo come se avesse potuto ottenere chissà che verità universale, solo guardandolo. Il silenzio si prolungò per qualche secondo di troppo: Clint cominciava a temere che le fosse preso un colpo.

“Facciamo così,” la sconosciuta tornò improvvisamente in vita. “Io ti dico quale detersivo comprare, e tu mi offri un caffè.”

Fu costretto a fare appello a tutto il suo autocontrollo per non mettersi a sorridere come un coglione. Chi l'avrebbe mai detto che fare lo zombie depresso nel corridoio dei saponi gli sarebbe valso un appuntamento? Era talmente compiaciuto di se stesso e delle sue inconsapevoli doti di seduttore, da non lasciarsi neppure sfiorare dalle sue consuete paranoie (anche se una parte recondita del suo cervello, sapeva fin troppo bene che sarebbero arrivate a torturarlo, prima o poi).

“Non riesco a dire di no ad un caffè,” dichiarò solennemente. “E poi ho proprio bisogno di quel detersivo.”

“Wow, sei uno che ci sa fare con le donne, ah?”

Un fastidioso calore gli era risalito su per il collo e fino alle orecchie. Di certo non intendeva dire che accettava solo per quei motivi lì. Insomma, sembrava carina e simpatica, due dettagli decisamente non irrilevanti.

“Non credo sia necessario rispondere,” borbottò imbarazzato.

“Probabilmente non avrei dovuto chiedertelo.” Si era messa a ragionare più con se stessa che con lui, o almeno così gli parve.

“Hai paura che sia un serial killer?”

“Sei un serial killer?” La domanda, comicamente serissima, cadde in uno scomodo silenzio. Rimasero a guardarsi per un istante prima di mettersi entrambi a ridere. “Immagino che non me lo diresti, se lo fossi.”

“Non sono un serial killer.”

“Ottimo. Mi chiamo Jean.”

“Clint.”

 

*

 

Il vestito, accuratamente disteso sul letto, sembrava osservarla con aria minacciosa.

Era un abito studiato appositamente per attirare l'attenzione, qualcosa che avrebbe indossato durante una di quelle missioni che la vedevano nel duplice ruolo di esca e predatore insieme. Natasha non ricordava come avesse fatto a finire nel suo armadio: forse l'aveva comprato per una festa alla quale non era mai andata, forse l'aveva scelto in uno dei tanti slanci verso la socializzazione poi caduti nel niente. Fatto stava che adesso era lì, e la stava fissando, tentandola.

Il punto era uno: erano anni che non usciva con qualcuno, anni che la sua vita sociale si limitava alle necessarie interazioni quotidiane in ambiente lavorativo. Certo, era riuscita a coltivare dei rapporti più speciali di altri: il direttore Fury aveva sostituito tutte le figure paterne che erano mancate nella sua vita, le aveva dato una possibilità quando il consenso generale avrebbe preferito rinchiuderla in una cella di massima sicurezza e buttare via la chiave. Aveva finito per apprezzare il pacato umorismo di Coulson, la sua silenziosa presenza. La ferrea di determinazione di Maria Hill, la sua aria di chi non ha intenzione di fare sconti a nessuno, per nascondere quanto sinceramente tenesse ai suoi agenti. E poi c'era Clint, Clint che era diventato il suo migliore amico, il suo partner, il suo tacito confidente.

Nonostante tutti quei lenti, conquistati progressi, Natasha si rendeva conto di non aver fatto abbastanza. Di non avere abbastanza. Con la morte dei fratelli Shostakov, si era ripromessa di cancellare la Red Room dalla sua vita. Definitivamente e per sempre. Eppure, era dovuta scendere a patti col fatto che l'eredità di quegli anni, di quella prima, oscura fase della sua vita, era inestricabilmente intessuta nella sua persona. Clint le aveva detto che la scelta di lasciarsi definire da quegli eventi spettava a lei sola, che avrebbe potuto rigettare tutto ciò che l'avevano fatta diventare, imparare ad essere una persona diversa. Ma il confine tra la Vedova Nera, plasmata dalla Red Room, e Natasha Romanoff era così confuso e labile, da impedirle di decidere se una cosa, un determinato aspetto o atteggiamento le appartenesse davvero o meno.

Non era neanche sicura che la distinzione avesse un qualche significato reale: che importava chi era stato ad inculcarle quelle idee in testa? Quel che contava era che erano lì e che, se quegli ultimi anni le suggerivano qualcosa, non l'avrebbero lasciata tanto presto. La Red Room le aveva insegnato a non appartenere a niente e a nessuno. Un precetto a cui si era ritrovata ad aderire con estrema perizia: una sradicata, sempre e comunque.

Ma Natasha non voleva che la sua vita si limitasse al lavoro, non voleva che lo SHIELD giocasse quel ruolo da protagonista così come, anni prima, aveva fatto la Red Room. Uno dei privilegi che quella seconda chance aveva portato con sé, era la possibilità di reinventarsi. Di rimediare agli errori che aveva commesso in passato. Poteva essere una persona intera, se solo l'avesse voluto. Rosicchiare poco a poco quella linea di demarcazione che separava la vita lavorativa da quella privata, riconquistare territorio per se stessa. Aveva sperato che, con la morte degli Shostakov, i cambiamenti si sarebbero susseguiti naturalmente, uno dopo l'altro man mano che la consapevolezza di essere finalmente libera si faceva strada dentro di lei. Ma non era stato così. Erano mutate tante cose: era riuscita ad aprirsi con Clint sulla base di un tacito patto che li vedeva entrambi vittime di trascorsi turbolenti, attualmente impegnati a rimettere insieme i pezzi, a ricomporli, a sperare nella durata di quel nuovo, precario assetto.

A dispetto di quanto potesse suonare stupido, Natasha voleva essere una persona normale, con degli interessi che esulassero dal suo ruolo di spia.

Qualcosa di soffice e caldo le sfiorò il polpaccio nudo. Abbassò lo sguardo per incontrare gli occhi gialli e vispi del gatto di Phyllida, la coda arricciata in un appropriatissimo punto interrogativo.

“Non lo so, Eisenhower” si strinse nelle spalle, come rispondendo a quella muta domanda. “Non so cosa fare,” ammise.

L'animale spiccò un balzo sul suo letto, acciambellandosi sul vestito, il leggero ronfare delle sue fusa a riempire il silenzio. Ben consapevole di dover essere davvero disperata per seguire i suggerimenti di un gatto, decise di prenderlo come un segno.

“Spero che tu capisca davvero più cose di quanto sembra,” lo ammonì, puntandogli un dito contro. Quello si sporse verso di lei con aria annoiata, annusandole l'indice con disinteressata curiosità. Gli concesse un'unica carezza prima di procedere a liberarsi di accappatoio e asciugamano. Indossò la sua biancheria intima migliore, l'abito color prugna che aveva scovato nell'armadio (Eisenhower non fu contento di vedersi sottrarre a tradimento il suo giaciglio) e le scarpe più alte che possedeva.

Decise che da quella sera tutto sarebbe cambiato.

 

*

 

Come ti chiami?”

Un attimo di esitazione, un sospiro impercettibile. “Natalie.”

Natalie,” l'uomo sembrò valutare quell'unica parola, decidere se gli piaceva il modo in cui quelle tre sillabe gli scivolavano sulla lingua. “E' un bel nome. La ragazza che ho portato al ballo di fine anno al liceo, si chiamava Natalie.”

Oh.”

Che ne dici? Magari è destino.”

Cosa?”

Che tu ed io siamo fatti l'uno per l'altra,” un sorriso volutamente esagerato, a rivelare uno scherzo, una battuta.

Approfittò del suo cocktail ancora intatto, mentre si sforzava disperatamente di non ricorrere a nessun trucco per ottenere ciò che voleva. Non barare. Gioca secondo le regole. Qualcosa le diceva che non aveva mai realmente imparato a giocare onestamente, non a quel gioco.

Allora, cos'è che fai nella vita?”

Il fastidio allo stomaco parve intensificarsi. Cosa faccio nella vita? Sono un agente segreto, lavoro per lo SHIELD, difendo il mondo. Si rendeva perfettamente conto di quanto suonasse stupido. Come si può essere una persona normale se, semplicemente, non lo sei?

Sono una ballerina.” La prima bugia.

Ballerina? Di cosa? Quella roba da teatro o... più moderna?”

Danza classica.” Due bugie.

Wow, non hai affatto l'aria della ballerina di danza classica.”

Perché?”

Perché... insomma...,” non c'era verso di sbagliarsi sulla direzione in cui puntava il suo sguardo.

Insegno alle bambine.” Tre bugie.

Molto piccole?”

Cinque, dieci anni.” Quattro.

Scommetto che adori i bambini.”

Mi fanno impazzire.” Cinque.

 

Era stato stupido, credere di poter cambiare tutto in una notte. O forse lo era altrettanto illudersi di poterlo fare e basta, non importava quanto tempo le avessero messo a disposizione. Si era ripromessa di mentire solo sul nome e aveva finito per scivolare di nuovo nelle sue solite abitudini. Aveva avuto paura e aveva finito per fare quello che le riusciva meglio: interpretare un ruolo. I suoi alias, dopotutto, sapevano fare tutto ciò che a Natasha Romanoff non riusciva. Condurre una conversazione normale con uno sconosciuto, accettare i complimenti senza irritarsi, gioire delle piccole attenzioni ricevute, flirtare senza secondi fini, senza pregustare il momento in cui la sopportazione si sarebbe conclusa per lasciare lo spazio all'azione, al castigo. Indossare la pelle di qualcun altro le permetteva di agire liberamente: era talmente brava a dimenticarsi di se stessa da potersi convincere, per la durata di un paio d'ore, di essere un'altra persona, di aver vissuto una vita fittizia, di conoscere persone inesistenti, di fare un lavoro qualunque.

 

 

Nancy. E tu?”

Sofia. Posso offrirti da bere?”

Certo, perché no.”

Cosa prendi?”

Rosso.”

Da vera intenditrice.”

Dici? E' l'unica cosa che riesco a mandare giù. Tutto il resto mi dà un po' alla testa.”

Meglio non esagerare, o domani mattina chi li sente quelli del congresso?”

Avrebbe potuto dirle che non sapeva di che cosa stesse parlando. Il suo istinto la spinse a mentire. Mentire sempre e comunque. Adattarsi alla missione in corso d'opera, mutare forma insieme alle circostanze, riadattare la verità alle cose.

Figuriamoci, te l'immagini?”

Per quale studio lavori?”

Se te lo dicessi, poi ti dovrei uccidere.”

 

Natasha non poteva sopportare di essere toccata, di sentire sul collo il calore di respiri estranei, nella bocca il sapore altrui, di esserne contaminata. Eppure, bastava inventarsi un passato, dar corpo ad una famiglia, a degli amici immaginari, cambiare nome e voilà, c'era un'armatura a proteggerla, adesso. Un'armatura fatta di menzogne, bugie che l'avrebbero difesa da tutto e tutti. Non stavano toccando lei, ma Nancy, Natalie, Norah, Noemi, Noreen... donne comuni, capaci di affrontare circostanze ordinarie, comportandosi in modo normale. Natasha, nascosta da qualche parte dentro di lei, si limitava ad assistere ad un'improvvisazione dopo l'altra, come una spettatrice estranea. Era come leggere uno dei suoi romanzi, vivere un'altra vita nel breve spazio di qualche ora. Magari era realmente stata tutte quelle persone, magari c'era davvero stata un'altra vita in cui aveva fatto la ballerina, o l'avvocato, la musicista o la professoressa. Se non sapeva chi era, poteva essere chiunque. Forse tra tutte quelle facce, si nascondeva quella bambina che in un giorno come tanti altri, era stata strappata alla sua famiglia.

No.

Anche lei era una bugia.

 

Cazzo, dove hai imparato a farlo?”

A fare cosa?” Si riabbassò la gonna dell'abito in fretta e furia. L'abitacolo della macchina cominciava a soffocarla. Natasha stava per averne abbastanza.

Tutto quella roba.”

Secondo te?”

Non sarai mica una prostituta? Merda, lo sei non è vero? Ascolta... ho lasciato i sold -”

E non è neppure la cosa più offensiva che hai detto.” Perché cazzo stava ascoltando quell'idiota, comunque?

Quindi non lo sei?”

Va' al diavolo.”

Ma no, dai,” l'afferrò per un braccio, trattenendola, “resto ancora un po', su. Perché non vieni a casa mia? Sto qua vicino.”

No.”

E andiamo, ci siamo divertiti, no?” Natasha era piuttosto sicura di aver fatto diverse cose e nessuna di queste aveva contemplato qualcosa di anche solo lontanamente simile al divertimento. Per lei, almeno.

Lasciami andare.”

Tu dimmi come faccio a convincerti, Nola, e io ti lascio andare.” Il brivido di disgusto che le risalì su per la schiena, che le fece scendere il gelo nello stomaco, fu il segnale incontrovertibile che Nola, o chi per lei, se n'era andata. Adesso c'era solo Natasha e Natasha era arrivata al limite.

Fu un attimo. Il braccio si torse con un movimento brusco. L'osso scricchiolò sinistramente, mentre gli equilibri di potere si ribaltavano, rivelando le vere forze in gioco. L'urlo di dolore dello sconosciuto – Dan, o qualcosa del genere – le dette più piacere di tutte quelle inutili moine che le aveva riservato pochi attimi prima.

Ascoltami bene, Dan,” l'altra mano scattò a serrargli la gola. “Quando dico no è no. Mettitelo bene in testa.”

Un gemito di dolore e un'occhiata terrorizzata completarono quel patetico quadretto.

Si liberò e uscì dall'auto senza guardarsi indietro.

 

Ci aveva provato. Ci aveva provato per ben tre volte ad ottenere quello che voleva senza inganno. Non solo non ci era riuscita, ma il nodo allo stomaco, l'eccitazione irrisolta al basso ventre, non avevano fatto altro che peggiorare, reclamando la loro soddisfazione mancata. Si era allontanata rapidamente dall'auto parcheggiata in una stradina appartata, camminando alla cieca per quelle che le erano sembrate ore, mesi, anni. Ma no, se lei non aveva fatto altro che trasformarsi, New York era rimasta sempre la stessa. Quella bizzarra constatazione ebbe lo straordinario effetto di rassicurarla: un punto fermo, ora che il mondo aveva ripreso a muoversi, a cambiare ad ogni passo.

Ignorò il dolore ai piedi per via dei tacchi troppo alti, costringendosi ad avanzare fino all'ultimo edificio della strada. La facciata, l'ingresso, familiari. Non aveva bisogno che di quello, adesso. Di cose vere, che conosceva e che conoscevano lei. Di nient'altro.

Scivolò nel piccolo vicolo adiacente al palazzo, posizionandosi al di sotto della scala anti-incendio. Spiccò un salto per aggrapparcisi, per abbassarla del tutto. Si liberò delle scarpe e cominciò a salire.

 

*

 

Fu il frastuono metallico a risvegliarlo. Prima lentamente e poi tutto insieme.

“Che... c-cazzo...,” qualche altra imprecazione biascicata mentre si buttava giù dal letto. Ci mancano solo i ladri, a Brooklyn! Fanculo.

Si affrettò a recuperare l'arco nascosto sotto al letto, tastando alla cieca alla ricerca delle frecce che – ne era sicuro – dovevano esserci. Trovò scarpe da ginnastica perse ormai da mesi, sacchetti di patatine, un bicchiere di carta con residui di qualcosa che emanava un odore nauseabondo, vere e proprie palle di polvere e nient'altro. Lo smuoversi della finestra del salotto lo mise in all'erta. Rimase disteso sul pavimento, mezzo nascosto dal materasso e mezzo no, concentrandosi solo sul rumore. Durò per pochi secondi (visto che gli conveniva non cambiare quelle scalcagnate finestre cigolanti?) dopodiché l'appartamento ripiombò nel silenzio più assoluto. Non un passo, non uno scricchiolio... nulla. Dev'essere un professionista. Deliberò di rimanere dov'era ancora per qualche istante, valutando sul da farsi.

Silenzio. Silenzio e poi... la doccia? Lo scorrere dell'acqua lo convinse ad uscire allo scoperto, rimettersi dritto: certo, c'era la vaga possibilità che il presunto ladro stesse cercando di depistarlo, confonderlo. Oppure, come suggerito dal rumore dell'acqua, si stava facendo una doccia.

Afferrò l'arco con entrambe le mani, avanzando lentamente fuori dalla camera da letto e nel piccolo corridoio su cui dava il bagno. Una striscia di luce sul pavimento l'avvertì che il ladro aveva acceso la luce e accostato la porta. Dio, possibile che qualcuno che conosceva si fosse introdotto là dentro per lavarsi? Più confuso che preoccupato, si decise a dare una spintarella alla porta del bagno, spalancandola del tutto. Sparsi a terra, gli effetti personali del ladro: un paio di scarpe col tacco, un vestito viola scuro e una borsetta minuscola che non avrebbe potuto contenere un bel niente. Il suo cervello, bruscamente rimesso in moto, passò rapidamente in rassegna tutte le donne con cui era uscito e che erano solite vestirsi a quel modo. Non gli venne in mente un bel niente. Magari era un pessimo scherzo d -

L'acqua della doccia si era spenta e la tenda riaperta con uno strattone improvviso.

Natasha lo fronteggiava, grondante acqua, nuda da capo a piedi, un'espressione indecifrabile sul volto. Per quanto stesse cercando di trattenersi, Clint non poté fare a meno di lasciar vagare lo sguardo un po' ovunque, in modo disordinato e maldestro. Come di chi non ha mangiato per giorni e si ritrova improvvisamente ad un banchetto in pieno stile: arraffa quel che può, dà un morso di qua e uno di là, non si ferma a gustarsi niente, ma continua a muoversi, senza poterne avere abbastanza.

“Ho bisogno di un asciugamano e di un cambio di vestiti,” le parole della donna lo riportarono coi piedi per terra. Non sembrava minimamente imbarazzata dalle circostanze.

Rimase a fissarla per quella che gli parve un'eternità.

“Okay,” annuì, costretto ad andare in modalità emergenza per impedirsi di perdere la testa e dare definitivamente di matto. E' tutto normale. Tutto... perfettamente normale. Fece per arraffare uno degli asciugamani appallottolati sulla stanga di metallo infissa al muro, ma decise all'ultimo secondo che non gli sembrava proprio il caso. Corse a cercare un paio di vestiti puliti (mediamente impossibile) e un asciugamano pulito (altamente impossibile). Abbandonò l'arco sul letto e si mise a scavare in fondo all'armadio, trovando dei vecchi pantaloni da ginnastica e una t-shirt di un qualche festival musicale del decennio passato. Si ricordò anche di essere in possesso di un accappatoio che non usava mai, nuovo di pacca, la confezione neanche aperta, nascosto da qualche parte vicino alla scarpiera.

Tornò indietro dopo svariati minuti, ritrovandola esattamente dove l'aveva lasciata, lo sguardo perso chissà dove, una totale noncuranza per la propria nudità. Fu quel misero a dettaglio a colpirlo come un pugno allo stomaco, come se quella fosse stata ordinaria amministrazione, una cosa di tutti i giorni. Familiare.

“E' tutto quello che ho trovato,” si scusò a mezza voce, passandole l'accappatoio e i vestiti. “Ti aspetto fuori.” Le dette le spalle in fretta e furia, sentendo il bisogno fisico di allontanarsi il prima possibile. Una sensazione fin troppo conosciuta – pericolosa – stava cominciando a farsi strada dentro di lui.

“Clint?” Natasha lo richiamò, un tono incerto che non si sposava affatto con l'atteggiamento che aveva sfoggiato solo qualche secondo prima. Si voltò verso di lei, invitandola tacitamente ad andare avanti, concentrandosi solo sul suo viso. Solo allora notò certi segni rossastri sul collo e sul viso di lei. “Posso restare qui stanotte?”

“Puoi restare tutte le volte che vuoi,” esalò, senza neanche pensarci.

Natasha annuì debolmente mentre si infilava l'accappatoio. Gli parve improvvisamente più piccola, sommersa da tutta quella spugna bianca.

“Ci vediamo fuori,” ribadì, decidendosi finalmente a lasciarla sola.

 

*

 

Fece un nodo estremamente precario ai lacci che avrebbero dovuto tener su i pantaloni e che avevano smesso di essere funzionali anni... e anni prima. La t-shirt non era messa meglio. Osservandosi allo specchio, Natasha cercò di decifrarne le scritte sbiadite, ma non ottenne granché. Finì di asciugarsi i capelli con un lembo dell'accappatoio, abbandonandolo sul lavandino per mancanza di appigli. Solo allora, dopo aver passato minuziosamente in rassegna tutto ciò che aveva dovuto fare là dentro e aver raccolto i vestiti con cui era arrivata, uscì dal bagno, muovendosi in direzione del soggiorno.

Clint l'aspettava seduto sul divano, la preoccupazione abilmente dissimulata sul suo volto, lo sguardo fisso sulla finestra ancora aperta dalla quale era entrata. Natasha non palesò la sua presenza, prendendosi tutto il tempo che le serviva per cercare il cestino della spazzatura e gettarci tutti gli effetti personali con cui aveva lasciato il suo appartamento. Tirandosi indietro i capelli ancora fradici, prese posto accanto a Clint, esausta eppure ancora fastidiosamente sveglia, all'erta.

Nonostante il disagio creato da quella situazione bizzarra, si sentiva sollevata. Sollevata di non dover più indossare quel travestimento ridicolo, sollevata di non dover fingere di essere qualcuno che non poteva o voleva essere.

“Eri in missione?” Fu lui a spezzare il silenzio, una domanda malsicura nella sua direzione.

“No,” scosse il capo, tirando su le gambe sul divano, appoggiando il capo allo schienale, rannicchiata contro il bracciolo. “Sono... uscita.”

“Uscita.”

“Sì,” annuì. “Non sei tu quello che dice sempre Natasha dovresti uscire di più?,” lo citò, in una terribile imitazione della sua voce.

“Io non parlo così.” Clint le sorrideva adesso.

“No, hai ragione, suoni ben più insopportabile.” Gli scoccò un'occhiata esplicita, ma stanca. Non era sufficientemente brillante per un botta e risposta, non in quel momento.

“Non è andata bene, ah?”

“No.”

“Natasha...” La mano di Clint fu sulla sua prima che potesse accorgersene, facendola sobbalzare. Il disagio superava il sollievo: Natasha la fece scivolare via, ristabilendo cautamente le distanze.

“Non è successo niente,” si affrettò a rispondere, costringendosi a superare il blocco che sembrava impedire alle parole di essere pronunciate. “Non ci riesco e basta.”

“Uscire?”

“Parlare con la gente, fingere di essere una persona normale...,” si strinse nelle spalle. “Com'è che si fa?”

“Non lo so,” ammise. “Di solito lo faccio senza accorgermene e poi mi ricordo di tutte le cose che non vanno.”

“E te ne vai?”

“Me ne vado,” confermò. “Oggi ho incontrato una ragazza al supermercato. Mi ha aiutato a comprare del detersivo e mi ha invitato per un caffè,” aveva assottigliato lo sguardo, come per ricordare meglio gli eventi della mattinata. “Stava andando tutto bene, lei era simpatica e carina e normale,” le rivolse un'occhiata mestamente divertita, “finché non mi ha confessato che non le piaceva il caffè.”

Natasha, che aveva trattenuto il respiro fino a quel momento, si ritrovò a ridere, l'aneddoto sincero improvvisamente piombato nello scherzo.

“Neanche a me piace il caffè.”

“A te non piaceva,” la corresse. “Però ti ho riportato sulla retta via.”

“Lo vedi?”

“Cosa?”

“Lo fai in continuazione. Quando una conversazione diventa troppo difficile, cerchi di farmi ridere.”

Il sorriso si spense a poco a poco sul suo volto, lasciando lo spazio ad un imbarazzato disagio. Si preoccupò di guardare altrove, evitare il suo sguardo. Natasha si sentì in colpa per averglielo fatto notare.

“Non sono il solo ad avere le sue tecniche,” alluse, occhieggiandola appena, di sottecchi.

Annuì, come prendendo atto delle sue parole. Si ritrovò a studiare il suo profilo, il collo incassato tra le spalle nella posizione disordinata in cui sedeva, le linee definite dei bicipiti lasciati scoperti dalla t-shirt sgualcita con cui doveva aver dormito. La sorda necessità che l'aveva convinta ad uscire solo qualche ora prima, tornò a farsi sentire, insistente. Si rese conto di aver voglia di toccarlo, giusto per sapere che effetto facesse, avere la sua pelle sotto la propria. Voleva togliergli quel ciuffo ribelle che gli ricadeva sulla fronte, voleva guardarlo negli occhi, voleva sapere come ci si sentisse senza nessuna barriera, nessuno pseudonimo, nessuna copertura a dividerli. Solo provare.

Si morse il labbro inferiore, sovrappensiero. Il cuore le batteva furiosamente in petto. Lo stomaco inestricabilmente stretto in una morsa bollente. Si mosse prima ancora di poter decidere cosa fare, arrampicandosi su di lui, una gamba a ciascun lato dei suoi fianchi, le mani appoggiate sullo schienale del divano.

“Natasha,” Clint, la voce innaturalmente bassa, si era irrigidito sotto il suo peso. Sembrava voler evitare ad ogni costo di guardarla negli occhi.

“E' okay,” bisbigliò, allungando una mano per invitarlo a sollevare il mento. Nel momento esatto in cui incontrò il suo sguardo, si rese conto del perché aveva disperatamente cercato di evitarla. Desiderio e vergogna si mescolavano sul suo viso: era piuttosto sicura di non aver mai visto niente del genere, non da così vicino, non per lei. Si sospinse istintivamente su di lui, sentendo il suo e il proprio corpo reagire al contatto.

“T-Tasha... n-non...”

Un altro brusco movimento, bacino contro bacino. Natasha lo sentì tremare sotto di sé, e lei con lui. Appoggiò la fronte contro la sua, soffocando l'ennesima, debole protesta con un altro colpo basso. Socchiuse gli occhi, il calore del suo viso vicinissimo, il suo odore familiare.

“Lasciami,” sussurrò in una sorta di supplica. Lasciamelo fare. Ne ho bisogno. Non se n'era realmente accorta fino a quel momento, ma sì... ne aveva un disperato bisogno. Trattenne il respiro, il petto di lui a suggerirle che stava facendo altrettanto.

Un gran calore le risalì su per la schiena, il collo, le guance, quando Clint parve annuire in risposta. Natasha fece scivolare le mani lungo le braccia di lui, stringendo improvvisamente la presa attorno ai suoi polsi. Gli spostò delicatamente la mani dietro la schiena, come incalzandole nello spazio tra lo schienale e i cuscini. Solo... non mi toccare.

Clint, che aveva tenuto gli occhi chiusi fino ad un attimo prima, li riaprì, cercando i suoi. Una domanda che, Natasha ne ebbe la piena consapevolezza, non aveva bisogno di essere ripetuta ad alta voce, né necessitava di una risposta. Lasciamelo fare a modo mio. Un cenno d'assenso, nessuna richiesta di spiegazione: tutto l'invito che le serviva.

Fu rapido e sgraziato. Disperato. Le loro labbra non si incontrarono neanche una volta. Le mani di Clint rimasero dov'erano, saldamente ancorate al loro nascondiglio. Quelle di Natasha vagarono un po' ovunque, spogliandolo e spogliandosi dell'essenziale, lasciando addosso tutto il resto.

Si lasciò trasportare dall'istinto, dall'urgenza che la spingeva a muoversi con movimenti goffi, bruschi. Tentò di dimenticarsi tutto ciò che le avevano insegnato, di scordarsi di cosa i suoi alias avrebbero fatto al suo posto, sicuramente più abili e a loro agio di lei.

Mentre i loro gemiti strozzati le riempivano le orecchie, Natasha, da qualche parte nella sua testa, comprese di non avere la più pallida idea di cosa stesse facendo.


****************


Mi rendo conto di essere una persona pessima :P dopo tutto quello che ha passato... e se al di fuori è ufficialmente libera e tutto quanto, penso che di rapporti interpersonali significativi Natasha ne abbia ancora ben pochi. Mi sembrava giusto che dopo tutto questo tempo sentisse anche il bisogno di andare in una *certa* direzione, occuparsi della sua vita privata... con scarso successo. Nella mia mente bacata, mi è apparso naturale che Natasha finisse per ricascare nell'orbita di chi conosce molto bene, le è familiare, di cui si fida (anche se forse non ancora del tutto), e che se ne... approfittasse, in un certo senso. Ricorrere a Clint, in una situazione del genere, è un po' come barare. Con lui non c'era bisogno di fare troppa fatica con tutte quelle bugie... o almeno è quello che inconsciamente Natasha deve aver pensato. In pratica credo che questa sia l'uuuultima (lol si spera) grande barriera eretta dalla Red Room che Natasha deve ancora abbattere. Tra l'altro... e mi sento stupida a dirlo, spero che l'ultima scena non sia apparsa... romantica o qualcosa del genere :P volevo proprio dare l'idea della goffaggine di lei e della sua - nonostante tutto - inesperienza.
Al povero Clint consiglio solo di resistere perché ne vale la pena... scusa Clint XD La scena iniziale mi serve per un dettaglio nel prossimo capitolo, e in più anche per sottolineare che anche lui non sta messo tanto meglio... mi dà l'idea di uno che si lancia a capofitto nelle cose e poi si rende conto di voler fuggire a gambe levate 5 minuti dopo.
Anyway, ringrazio Eli as usual (anche se ora va in vacanza e un po' la odio ù_ù) e tutti voi che leggete & commentate e mi fate felice :D
Grazie grazie.
Al prossimo capitolo!
S.

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Capitolo 14
*** She's The Sea I'm Sinking In ***


14

 

She's the sea I'm sinkin' in
He's the ink under my skin
Sometimes I can't tell where I am
Where I leave off and he begins

(The Civil Wars – Birds of a Feather)

 

 

Fu l'odore del caffè a svegliarlo, a trascinarlo giù dal letto, la mente ancora annebbiata dal sonno. Solo quando entrò in cucina, trovandovi Natasha seduta al tavolo, una gamba allungata su una sedia vuota, si ricordò degli eventi della sera precedente. Le immagini lo colpirono una dopo l'altra, costringendo il suo cervello a rimettersi bruscamente in moto.

“Ehi,” la donna aveva rialzato lo sguardo da un libro che aveva trovato chissà dove.

“'Giorno,” fu tutto ciò che riuscì ad articolare mentre la squadrava da capo a piedi. Indossava ancora i vecchi vestiti sgualciti che le aveva prestato: alla luce del giorno gli sembrò giovanissima. Una ragazzina. (Il pensiero non fece granché per il precario stato della sua coscienza.)

“Ho appena fatto il caffè,” gli indicò la caraffa fumante sul bancone della cucina con un cenno del capo e un leggero sorriso. Pareva di buon umore.

Clint annuì, come decidendo di affrontare le cose una alla volta, senza fretta, determinato a riflettere il più razionalmente possibile. C'era una vaga possibilità che si fosse sognato tutto. Giusto?

Era piuttosto sicuro che l'ultima volta che aveva fatto colazione con una donna dopo aver passato la notte con lei, risalisse agli anni del suo matrimonio con Bobbi. Aveva dimenticato come ci si sentisse, a condividere uno spazio con qualcuno, a non sentire l'impellente bisogno di fuggire (ammettendo, comunque, che scappare da casa sua gli avrebbe potuto creare non pochi problemi). Non aiutava la fastidiosa sensazione che gli era scesa lungo la schiena, rendendolo improvvisamente cento volte più consapevole della presenza fisica di Natasha in quella stanza, in casa sua, con addosso i suoi vestiti.

Quello che era successo era stato... strano. Se avesse dovuto spiegarlo a qualcuno, una parte di lui l'avrebbe definita la migliore scopata della sua vita. Nessun coinvolgimento, nessuna paranoia, nessun pensiero di troppo. Era andata dritta al punto, l'aveva travolto senza dargli il tempo di accorgersi di un bel niente. Puro istinto.

D'altro canto, il fatto che fosse stata Natasha ad esaudire quella fantasia inespressa, non poteva non turbarlo. Era stato qualcosa che aveva visto nei suoi occhi, quando si erano fatti scuri e torbidi. Un'oscurità diversa da quella a cui si era ormai abituato, qualcosa di viscerale, di animalesco. Possibile, poi, che il suo comportamento gli avesse suggerito un'idea di ingenuità?

Nella sua mente non era così che la Vedova Nera seduceva definitivamente le sue vittime. L'immaginava composta, calibrata e controllata in ogni suo gesto, gemito, soffio. Natasha era stata disordinata, persino goffa, come se non avesse avuto la più pallida idea di cosa fare, di dove mettere le mani. Sembrava si fosse sforzata di parlare una lingua che non conosceva (ma che la Vedova sapeva a menadito), inventandosi le parole, le espressioni, i gesti, tutto da capo.

Clint sapeva perfettamente che sul lavoro e nella vita di tutti i giorni, Natasha era due persone diverse. All'inizio della loro amicizia la differenza era stata labile, appena percettibile, ma col passare degli anni le due persone si erano progressivamente diversificate l'una dall'altra: professionale, letale e precisa sul campo, gelidamente sarcastica, irruenta e nonostante tutto bruscamente amichevole nella vita privata. Aveva imparato a leggere tra le righe della sua onnipresente coltre di manifestata sicurezza: Clint sapeva che fingeva solamente di sapere ogni cosa, sempre e comunque.

Era proprio l'idea che quella Natasha avesse sentito il bisogno di un contatto tanto intimo, impedendogli di toccarla, evitando di baciarlo, che gli aveva stretto un fastidioso nodo allo stomaco, che mescolava il desiderio di rifare tutto da capo con il disagio più acuto. Gli aveva messo addosso un disperato e presuntuoso bisogno di aiutarla, di rassicurarla, senza lasciargli al tempo stesso alcuna soluzione per farlo. Non erano mai stati tanto vicini e contemporaneamente tanto distanti: non avrebbe potuto sfiorarla neanche se avesse voluto.

Clint si rendeva conto di essere rimasto impotente, abbandonato completamente al suo controllo, incapace di poter formulare una soluzione o sottrarsi alle sue attenzioni. Forse avrebbe dovuto farlo, fermarla, invitarla a ripensarci. Aveva, invece, ceduto al suo stesso istinto, concedendole carta bianca. Ma non era stato una sua vittima: Natasha non l'aveva sedotto, non l'aveva ingannato con una qualche articolata commedia, solo cercato rifugio nel suo appartamento. Quello che era seguito non gli era sembrato programmato.

Il senso di colpa non tardò a palesarsi, un peso familiare depositato all'altezza del petto.

“La Hill ci vuole vedere.” La voce di Natasha lo riportò rapidamente coi piedi per terra.

Clint finì di versarsi una generosa tazza di caffè, e andò a sedersi al tavolo.

“Ha detto perché?”

“No.”

L'ordinarietà della conversazione, del comportamento ostentato dalla ragazza, rispetto alla straordinarietà della notte appena passata, lo destabilizzava. Possibile che per lei fosse tutto normale? Che non fosse cambiato niente? Non era sicuro che la sensazione che gli aveva preso lo stomaco alla constatazione, fosse sollievo.

“Ha chiamato anche Jean.”

“Jean?” Si ritrovò a domandare, rialzando uno sguardo interrogativo su di lei.

“Magari la ragazza del market?”

“Oh. Jean,” annuì, come per darle conferma.

“Dovresti chiamarla.” Il suggerimento, snocciolato con disinteresse mentre Natasha si rimetteva in piedi, gli gelò, senza alcun preavviso, il sangue nelle vene. Gli passò alle spalle, raggiungendo il lavello per posarvi la sua tazza ormai vuota.

“Perché?”
La donna, tornata nel suo campo visivo, si strinse nelle spalle, indecisa. “Hai detto che ti piaceva.”

Quindi era stato uno sfogo. Uno sfogo e nient'altro. Non realizzò la delusione fino in fondo: le circostanze gli sembravano talmente bizzarre da impedirgli di ragionarci lucidamente. Di solito era lui che, trascorsa la notte con qualcuno, si lasciava prendere dai dubbi e dalle paranoie, dal disagio che gli metteva le ali ai piedi, facendogli abbandonare silenziosamente e vigliaccamente il campo. Stavolta, invece, era stata Natasha a prendere l'iniziativa: non solo non se n'era andata, ma anzi, era rimasta, si comportava come avrebbe fatto in qualsiasi altra situazione, non una traccia di imbarazzo nella sua voce o nel suo viso, non un segnale che potesse avvertirlo di una farsa, di una facciata. Gli aveva mostrato un'altra parte di lei, una che non aveva mai visto, una che non riusciva ancora a capire, che forse neanche gli piaceva, ma comunque vera. Reale.

“Passo da casa e ci vediamo allo SHIELD Center,” aggiunse in tono pratico. Clint si accorse che aveva ai piedi gli stivali che aveva lasciato nel suo appartamento mesi prima, dopo che un temporale li aveva colti per strada. Era stata una delle prime volte in cui l'aveva sentita ridere. Ridere davvero. La donna che l'aveva tanto disperatamente immobilizzato al divano la sera precedente, sembrava inconciliabile con la Natasha che aveva appena fatto il caffè. Eppure qualcosa gli diceva che non c'era alcuna contraddizione, che erano, in realtà, la stessa persona. Uno dei due lati meno danneggiato dell'altro, ma comunque parte della medesima moneta.

“Va bene.” Si limitò a prenderne atto, concedendole un sorriso non troppo convinto.

Aveva recuperato la sua borsetta, unico effetto personale con cui era arrivata a sopravvivere al cestino della spazzatura. Si stava dirigendo verso la finestra del salotto.

“A più tardi,” non si voltò neanche per guardarlo.

“A dopo.”

Le sue parole si dispersero al vento del primo mattino. Natasha se n'era già andata.

Clint rimase immobile a guardarsi attorno.

Si sentiva strano. Vuoto.

 

*

 

Si era ripromesso di non rifarlo. Per nessun motivo, in nessun'altra circostanza, quale che fosse il suo stato mentale. Era stato ben presto costretto a rendersi conto che dire di no a Natasha era ben più facile a dirsi che a farsi.

Non ci era riuscito quando, a conclusione di una missione particolarmente complicata in Egitto si erano ritrovati ad aspettare la squadra d'estrazione nella minuscola stanzina di uno sgangherato albergo di periferia. L'aria caldissima e pesante, il sudore a ricoprire la pelle di entrambi, non avevano fatto altro che surriscaldare gli animi. Si era accorto di essere rimasto a guardarla un po' troppo a lungo, un po' troppo intensamente solo quando Natasha si stava già muovendo verso di lui, l'espressione prosciugata da qualsiasi divertimento. Proprio come aveva fatto nel suo appartamento, l'aveva spogliato dello stretto indispensabile, costretto ad aggrapparsi alla testiera arrugginita del letto con entrambe le mani, l'aveva travolto col suo peso, col suo odore, con la sua pelle morbida. L'aveva guardata per tutto il tempo, scavato nei suoi occhi mentre il calore del suo corpo l'avvolgeva, trascinandolo sempre più giù, sempre più giù...

Il crollo del letto sotto l'impeto delle sue brusche manovre, li aveva fatti ridere incontrollabilmente per svariati minuti, consentendogli di posticipare almeno per qualche ora la gelida sensazione che, la prima volta, non aveva tardato a subentrare al piacere.

Non ci era riuscito, quando, in Corea, dopo aver sventato un attacco terroristico, avevano rischiato di cadere nelle mani della milizia armata del gruppo che l'aveva organizzato. La corsa al quinjet che li aspettava, lontanissimo, eppure unica loro possibilità di fuga, era stata infinita. Il medico a bordo del velivolo aveva appena finito di visitarli, di rimediare al rimediabile, che Clint si era ritrovato davanti Natasha, visibilmente scossa, le guance ancora rosse per lo sforzo. L'aveva sospinto nel bagno e richiuso la porta alle spalle di entrambi. Quando l'aveva sentita mal trattenere i suoi gemiti scomposti, mentre gli tirava indietro i capelli per costringerlo a starle lontana, quando aveva afferrato a piene mani il lavandino su cui era seduta , stringendo fino a farsi male, aveva realizzato di esserne già diventato dipendente. I loro brividi d'agitazione si erano presto trasformati in tutt'altro. Quando l'urgenza fu bruciata del tutto, si erano aiutati l'un l'altra a rimediare ai punti di sutura maldestramente saltati.

Non ci era riuscito quando un'aspra discussione, riguardo la messa al sicuro di civili durante uno scontro a fuoco in Honduras, era successivamente degenerato prima in male parole e poi in un violento corpo a corpo. La conclusione del combattimento era stata molto più piacevole del suo inizio. Il segno del morso che gli aveva lasciato sul collo, mentre gli legava i polsi tra loro, aveva impiegato più di due settimane a svanire.

Non ci era riuscito al ritorno di un'esasperata Natasha dalla missione che l'aveva vista impegnata nella valutazione dell'eccentrico miliardario Tony Stark.

Non ci era riuscito in altre numerose occasioni, più di quante avrebbe mai voluto ammettere. Oscillava continuamente tra la più ferma convinzione che due adulti consenzienti dovessero avere il pieno potere di fare qualsiasi cosa volessero e la sensazione opposta che gli suggeriva che c'era qualcosa di potenzialmente sbagliato in tutte quelle intime, impersonali collisioni. Avrebbe voluto parlarne con qualcuno, magari con Phil, ma si era dovuto arrendere all'evidenza che non conosceva nessuno fuori dallo SHIELD, nessuno di cui si fidasse. Se l'organizzazione fosse venuta a conoscenza di tutte quelle pratiche improprie, lo Strike Team Delta sarebbe stato rapidamente smantellato, rapporti disciplinari distribuiti senza alcuna esitazione.

Era in trappola, il senso di colpa e il disagio ormai tutt'uno con il piacere che Natasha riusciva a dargli e che non aveva paura di prendersi da lui, la netta sensazione che lo stesse trascinando in territorio oscuro e pericoloso.

E poi c'era stata Odessa.

 

*

 

Controllò nello specchietto retrovisore, senza riuscire a vedere nient'altro che il blu del mare, il grigio della strada, il verde delle scogliere e il rosa del cielo al tramonto. Eppure quel fastidioso rimescolio allo stomaco le suggeriva che c'era qualcosa di strano, una minaccia, forse, a cui non riusciva a dare ancora un nome o un volto, ma comunque presente, pronta all'azione.

Strinse il volante tra le mani, accelerando leggermente l'andatura..

Una rapida occhiata all'ingegnere seduto al suo fianco le bastò per accorgersi della sua più totale agitazione.

Beva un po' d'acqua,” suggerì, ottenendo solo un frenetico cenno d'assenso.

Un ometto piccolo, calvo, una grossa barba bianca e grigia, ingiallita in prossimità del naso e della bocca. Da quando avevano oltrepassato il confine dell'Iran, non aveva mai smesso di guardarsi attorno, angosciato, a tamponarsi la fronte sudata con il fazzoletto di stoffa a quadretti che teneva sempre in mano.

Se solo potessi p-parlare con m-mia moglie,” balbettò, accennando la stessa identica richiesta che era andato ripetendole per giorni, ormai.

Gliel'ho già detto. Lo SHIELD provvederà a metterla in contatto con la sua famiglia non appena saremo certi di averla al sicuro.”

Quindi a-ammette che adesso n-non s-siamo al sicuro?”

Saremo al sicuro solo quando avremo raggiunto il punto di ritrovo.”

Quanto m-manca?”

Non molto.”

L-Lei si rende conto d-del pericolo che h-ho corso accettando il v-vostro aiuto, s-sì?”

Me ne rendo conto.”

Lo s-spero. F-Forse... forse sarei d-dovuto rimanere a Teheran. Dopotutto... d-dopotutto avrei corso m-men -”

L'orribile presentimento di Natasha si era acuito di colpo. Non fece in tempo a scorgere la figura nera che si era stagliata loro davanti, improvvisamente uscita allo scoperto rinunciando alla protezione della vegetazione che cresceva sul lato destro della strada. La deflagrazione strappò le parole di bocca all'ingegnere nucleare al quale lo SHIELD aveva promesso passaggio sicuro fuori dall'Iran. I quattro copertoni dell'auto esplosero contemporaneamente, facendole perdere il controllo del veicolo.

Il grido di terrore dell'uomo al suo fianco le riempì le orecchie mentre cercava di raddrizzare le ruote, di evitare che la macchina puntasse dritta verso il ciglio della scogliera.

SI TENGA FORTE!” Fu tutto ciò che riuscì a pronunciare un attimo prima che l'auto saltasse nel vuoto, precipitando per svariati metri. Il contraccolpo provocato dal violento impatto del cofano con l'acqua le assicurò una frustata di dolore in tutto il corpo. Perse i sensi per un paio di secondi, prima di ritornare bruscamente cosciente: la macchina stava sprofondando sott'acqua a velocità impressionante.

Merda.” Tentò di ignorare il tremore alle mani, costringendosi a non prestare attenzione alla fastidiosa realizzazione che sembrava premere disperatamente da qualche parte nella sua testa, che smaniava perché Natasha la concretizzasse fino in fondo. Sgombrò la mente e si liberò della cintura di sicurezza. Fece altrettanto con l'ingegnere svenuto, mentre tentava di mettere insieme un piano per uscire da lì. L'acqua aveva riempito quasi del tutto l'abitacolo: sapeva che se non si fosse data una mossa, fuggire sarebbe stato del tutto impossibile.

Contò alla rovescia da dieci a zero.

Si spostò sul sedile del passeggero, prese un'ultima profonda boccata d'ossigeno e si immerse. Afferrò l'ingegnere per la camicia e combatté contro la violenza dell'acqua che avrebbe voluto scaraventarla all'indietro, impedirle di uscire dal finestrino abbassato. Dopo quella che le era parsa un'eternità, riuscì a spingersi fuori dalla macchina, a nuotare fino alla superficie, portando con sé l'uomo ancora privo di sensi.

Annaspò furiosamente in cerca d'aria, i polmoni in fiamme. Non perse tempo: raggiunse la spiaggia che distava una decina di metri dal punto in cui erano precipitati. Quando toccò finalmente terra l'ingegnere aveva ripreso conoscenza, confuso e nel panico.

Forza,” tentò di rassicurarlo, continuando a tenerlo per un braccio mentre tornavano finalmente all'asciutto. “Dobbiamo trovare un posto in cui nasconderci.”

C'era la possibilità che chiunque li avesse attaccati fosse ancora nei paraggi per assicurarsi che la caduta o il mare, o tutti e due, avessero completato il lavoro a dovere. Natasha stava passando rapidamente in rassegna tutti i luoghi della spiaggia che avrebbero potuto fare al caso loro, la strada e le abitazioni più vicine... ma capì che sarebbe stato tutto inutile, quando la figura nera che le aveva tagliato la strada, si materializzò a pochi metri di distanza.

Un uomo. Capelli lunghi, una maschera a coprirgli il viso. Armato di un grosso fucile, avanzava verso di loro. La luce aranciata del tramonto brillava contro il suo braccio metallico.

Lo stomaco le sprofondò brutalmente. Quell'informazione che aveva tentato di ignorare, si palesò crudelmente davanti ai suoi occhi: se alla Red Room le avevano raccontato qualcosa di anche solo lontanamente simile ad una fiaba della buonanotte, quella era stata la leggenda del Soldato d'Inverno. Non più un uomo, ma un'arma. Nessuna coscienza, nessun sentimento, nessun ricordo o passato. Solo la costante, pressante necessità di portare a termine gli ordini ricevuti. Natasha non l'aveva mai visto prima d'allora, ma non ne aveva mai messo in dubbio l'esistenza. Dopotutto non era un po' la versione estrema di ciò che avevano fatto a lei? Plasmato i suoi ricordi di volta in volta, a seconda delle circostanze. Ma se la Red Room le aveva dato la possibilità di essere chiunque, il Soldato d'Inverno non era nessuno. Come si fa a controllare un uomo che non è un uomo? Natasha sapeva benissimo che la risposta era solo una: non si poteva e basta.

Stia dietro di me,” ordinò all'ingegnere, ansante e pallidissimo, ricacciando a sua volta indietro la paura che aveva cominciato a serpeggiarle nello stomaco, implacabile. Nessun trucchetto l'avrebbe salvata da quella situazione.

Inspirò a fondo prima di estrarre rapidamente la piccola semi-automatica nascosta nella tasca interna del giubbotto, l'unica arma ancora a sua disposizione. Prese la mira e sparò: pochi colpi, alcuni andarono a conficcarsi nel giubbotto anti-proiettile, altri vennero schivati senza alcuna difficoltà, uno tintinnò contro l'avambraccio metallico, deviando la propria traiettoria per andare a schiantarsi nella parete di scogli.

Natasha gettò a terra la pistola, inutile. Il cuore le batteva furiosamente in petto. La consapevolezza di essere pericolosamente vicina alla fine le scese giù per la gola come un sapore amaro. Prese l'unica decisione a sua disposizione – non avrebbe compromesso la missione – facendo scudo del suo corpo per proteggere l'ingegnere rattrappito su se stesso alle sue spalle.

Stia indietro,” gli ripeté, sentendosi sul punto di cedere, di far cadere la maschera, lasciargli intravedere la paura.

La deflagrazione di un singolo sparo le rimbombò nelle orecchie, nella gabbia toracica, sotto i piedi. Prima un bruciore intenso, e poi un dolore sordo. Implacabile. Il calore familiare del sangue che le scendeva sul ventre, i fianchi. Abbassò lo sguardo per accorgersi di essere stata colpita appena sopra il bacino. La pallottola l'aveva passata da parte a parte. Il leggero tonfo che era seguito allo sparo la costrinse a voltarsi all'indietro: sui sassi umidi di salsedine, giaceva l'ingegnere. Morto. Un buco rosso in mezzo alla gola a segnalare dove il proiettile l'aveva colpito, dopo averle trapassato la carne. Un colpo da maestro.

Si portò istintivamente una mano alla ferita e fece pressione, tornando a fronteggiare il Soldato. Ma non c'era più nessuno sulla spiaggia insieme a lei. Solo il tramonto di Odessa, un cadavere, la consapevolezza di aver fallito per la prima volta dopo ben cinque anni di permanenza allo SHIELD.

Fu costretta a fare appello a tutta la concentrazione rimastale per obbligarsi all'azione: mettendo un piede dopo l'altro si affaticò in direzione della casa che riusciva a scorgere in lontananza. Forse cento, duecento metri più in là. Avrebbe dovuto chiamare rinforzi, avvertire Fury del clamoroso buco nell'acqua e aveva poco tempo per farlo prima che i sensi venissero a mancarle.

Non si chiese mai perché il Soldato d'Inverno le avesse risparmiato la vita.

La risposta era ovvia.

Non era lei la sua missione.

 

*

 

Non aveva avuto il coraggio di entrare.

Natasha stava bene, era fuori pericolo, aveva solo bisogno di tempo. Tempo per riprendersi. Eppure si era ritrovato da solo, seduto nell'atrio deserto dell'ospedale, osservando il susseguirsi degli infermieri e dei dottori, del direttore Fury, della Hill, persino di Coulson.

Non aveva avuto il coraggio di muoversi. Era poi così sbagliato volerla vedere da solo? L'idea di dover condividere quel momento con qualcun altro, chiunque fosse stato, gli sembrava inconcepibile. Natasha aveva rischiato di morire: il pensiero che ci fosse andata tanto vicina, gli faceva girare la testa.

 

Non avrebbe dovuto dividerci!”

Barton, calmati,” Fury l'aveva fissato con aria stanca, ma ferma.

Sapeva il rischio che correva? Lo sa almeno per chi cazzo lavora quel... q-quello stracazzo d'automa?”

L'agente Romanoff è perfettamente in grado di gestire una missione in solitaria, Barton.”

Questo lo sapeva. Lo sapeva benissimo.

Davvero? Ne è proprio sicuro?” Lo stava contraddicendo per il puro gusto di farlo. Perché era arrabbiato e avrebbe voluto farlo sapere al mondo intero. “Perché mi sembra che sia in una stanza d'ospedale con un dannato buco nella pancia!”

Lo SHIELD ha il diritto di assegnare i suoi agenti a qualsiasi missione ritenga necessaria.”

Bè, stavolta si è sbagliato. Si è sbagliato di grosso.”

Barton.”

No.”

 

Non erano stati gli unici ad approfittare dell'orario delle visite. Aveva riconosciuto diverse segretarie dello SHIELD, persino alcune reclute che Natasha doveva aver allenato nei periodi morti tra un incarico e l'altro, altri dipendenti di vari reparti. Qualcuno le aveva portato dei fiori, dei cioccolatini, anche qualche palloncino o peluche comprato all'ultimo momento nel negozio di souvenirs dell'ospedale. Orsetti di peluche per Natasha Romanoff, la constatazione l'aveva fatto sorridere, anche se per poco.

 

Hai intenzione di entrare prima o poi?”

Clint si era stretto nelle spalle. Non aveva bisogno che Phil Coulson sottolineasse l'assurdità del suo comportamento. Se n'era già abbondantemente accorto.

Sta bene, lo sai? E' fuori pericolo.”

Poteva morire.”

Ma non è morta,” abbozzò un sorriso nella sua direzione. “Non era uno dei tuoi validi motivi per festeggiare?”

Non c'è niente da festeggiare.”

Natasha è viva.”

Ma poteva non esserlo!” La voce gli era uscita strozzata su quell'ultima sillaba. Il calore dell'imbarazzo gli era salito fin sulle guance, gli stava facendo pizzicare gli occhi.

Clint...”

Vado a prendermi un caffè.”

Aveva tagliato corto e se n'era andato.

 

Era andato e venuto dall'ospedale più volte di quante avrebbe voluto ammettere. Qualcosa gli diceva che non era stata la presunzione di volerla vedere da solo a spingerlo a rimandare quel momento. Piuttosto l'entità della sua reazione... quella – non c'era altro modo per dirlo – l'aveva spaventato. Era stato come avanzare nel buio ad occhi chiusi per mesi, anni, per poi essere costretto a fermarsi di punto in bianco, a tornare a vedere per accorgersi di essere sul bordo del precipizio, pronto a precipitare oltre con la minima oscillazione. Accanto a lui poteva esserci o non esserci qualcun altro. Era solo? Oppure...

 

Agente Barton?”

Clint rialzò lo sguardo su Maria Hill, le mani congiunte dietro la schiena. L'unica cosa che avrebbe voluto sentire era una scusa ufficiale dello SHIELD per le sue scelte del cazzo in merito di priorità, missioni e agenti da assegnarvi. Non rispose, limitandosi a prendere atto della sua presenza.

L'agente Romanoff ha chiesto di lei.”

La sfacciataggine con cui l'aveva accolta si sfaldò come neve al sole.

Natasha aveva chiesto di lui. Mentre se ne stava seduto come un dannato coglione a guardare gente che andava e veniva, a raccogliere il coraggio per farsi finalmente vedere, Natasha si era domandata che fine avesse fatto. Perché il suo partner non era ancora andato a trovarla? Che cazzo aspettava?

Il nodo alla gola si era fatto insopportabile. Fu costretto a distogliere lo sguardo per impedirle di accorgersi dei suoi occhi umidi.

Grazie.”

 

E allora non aveva potuto far altro che prendere la situazione di petto... o quasi. Introdursi di soppiatto nell'ospedale a notte fonda, come un ladruncolo qualunque, era stato fin troppo semplice. Aveva salutato un paio di guardie che conosceva, fingendo di essere lì per qualcos'altro. Qualcosa di urgente, qualcosa che non poteva essere rimandato. Si era imparato a memoria il percorso che l'avrebbe condotto alla stanza di Natasha: l'aveva fatto giorni prima, senza avere il coraggio di mettere in atto i suoi propositi.

Si nascose dai pochi infermieri del turno di notte che percorrevano ancora i corridoi, dagli inservienti che pulivano il pavimento, gli auricolari nelle orecchie.

Scivolò nella camera 311 senza un rumore. La luce della luna che filtrava dalle finestre gli permetteva di distinguere il letto dai macchinari e dalla sagoma della donna. Il suo respiro, autonomo, ritmato da quello elettronico dei marchingegni che la circondavano. Restò a fissarla per un lunghissimo attimo, sentendosi estremamente a disagio. Solo dopo aver contato fino a dieci – una pessima abitudine che era stata lei ad attaccargli – si decise ad asciugarsi i palmi sudati sui pantaloni, ad afferrare la sedia abbandonata contro la parete opposta, ad avvicinarla al letto e a sedersi, accompagnando il movimento con un leggero sospiro.

Natasha dormiva girata sul fianco sano. Il camice dell'ospedale lasciava intravedere uno spicchio della sua schiena pallida e, più sotto, le bende che le circondavano il bacino.

Clint si sporse leggermente verso la sponda laterale del letto, appoggiandovi entrambe le braccia, il mento su quelle. Era piuttosto sicuro che se l'avesse scoperto a fissarla nel sonno, gli avrebbe volentieri tirato un calcio nelle palle. Sapeva che se lo sarebbe meritato.

Socchiuse gli occhi ed inspirò a fondo.

Forse non erano passati che pochi secondi o forse si era assopito. Quando tornò a guardarla, Natasha era sveglia e lo stava osservando, un'espressione indecifrabile sul volto. Fece per ritrarsi, rimettersi dritto sulla sedia, ma, con uno scatto repentino, la ragazza gli afferrò una mano, stringendola gelosamente tra le sue. Ci appoggiò la guancia sopra, soffice e liscia sotto le sue dita ruvide. Si vergognò di quel contatto, come se avesse in qualche modo profanato qualcosa di delicato con quelle sue stupide mani d'arciere. Gli ci volle un po' per rendersi conto del perché gli risultasse tanto strano: Natasha non gli aveva mai permesso di toccarla, non per il puro gusto di farlo, non senza un motivo secondario o contingente.

“Sarei dovuto venire prima,” si ritrovò a sussurrare, la voce fastidiosamente incerta. Di nuovo quel nodo alla gola, di nuovo quello stupido prurito agli occhi.

“Sì.” Non c'era accusa nella sua voce, solo sollievo.

“Mi dispiace.”

“E' okay.”

“Stai bene?”

Giurò di aver visto l'ombra di un sorriso incresparle le labbra.

“Ora sì.”



 
****************
 
Tutto è bene quel che finisce bene... o almeno sembra :P Ho colto l'occasione per tirare nel mezzo il Soldato d'Inverno rifacendomi a quanto detto dalla stessa Natasha nel secondo Capitan America, incastrando l'evento tra la sua apparizione in Iron Man 2 e quella di Clint in Thor. La linea temporale è *più o meno* quella.
Mancano ancora 4 capitoli alla fine, quindi ci siamo quasi \O/
Ringraziamenti di rito alla socia all'estero, Eli, e a tutti coloro che leggono/commentano :3 stavolta in particolar modo a Blackmoody perché mi ha suggerito la canzone dei Civil Dust in esergo in questo capitolo e io gliel'ho scippata senza un domani :P (rendeva troppo bene la situazione - soprattutto - di Clint di questo capitolo!).
Ancora grazie e alla prossima!
S.

 

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Capitolo 15
*** You Live in Shades of Cool ***


15

 

'Cause you are invincible
I can't break through your world
'Cause you live in shades of cool
Your heart is unbreakable

(Lana del Rey – Shades of Cool)

 

L'undicesima freccia della sessione andò a colpire l'ennesimo centro perfetto. Esattamente come le prime dieci, neanche quella riuscì a tirarlo su di morale.

Per qualche assurdo motivo aveva deciso di svegliarsi presto e di trascorrere la mattinata al poligono di tiro dello SHIELD. Quell'esiguo quarto d'ora di permanenza, era stato sufficiente a farlo pentire di essersi alzato dal letto.

Riabbassò l'arco, osservando il bersaglio con apatico disinteresse. Furono dei passi alle sue spalle ad attirare, piuttosto, la sua attenzione. Phil Coulson gli stava andando incontro, gli occhiali da sole in una mano, un grosso fascicolo nell'altra. La sua solita espressione di pacata cortesia gli animava il viso: fu una vista gradita.

“Non eri da qualche parte in Indonesia?” Esordì, recuperando ed incoccando la dodicesima freccia.

“Puente Antiguo a dir la verità,” puntualizzò con un leggero sorriso.

Clint gli rivolse un'occhiata interrogativa, comprendendo improvvisamente che quello che sarebbe seguito, non gli sarebbe piaciuto granché. Tentò di non pensarci, di non fossilizzarsi su preoccupazioni che non avevano ancora un nome, un volto, e tornò sul bersaglio. Tredicesimo centro perfetto. Si trattenne per un attimo di troppo prima di decidere di andare a disincastrare tutti i dardi che aveva scagliato fino a quel momento.

“Quello è per me?” Si decise a chiedergli, alludendo alla cartellina che portava con sé.

“La tua prossima missione,” confermò.

“Devo preoccuparmi?”

“Non particolarmente. Sei passato attraverso cose ben peggiori.”

Rimise le frecce nella faretra poggiata per terra accanto alla rastrelliera degli archi, prendendosi tutto il tempo dell'universo per andare incontro a Phil e prendere il fascicolo che gli porgeva. La consueta dicitura Top Secret sulla copertina era innaturalmente più grande del solito.

“Dici sempre così e poi va a finire peggio,” lo prese debolmente in giro. Che cazzo gli prendeva? Cos'era quel fastidioso presentimento che non l'aveva lasciato neanche un istante negli ultimi tre giorni? Magari mi girano le palle e basta. O forse aveva a che fare col fatto che, per un motivo o per un altro, non era più riuscito a vedere Natasha per più di cinque minuti dopo la loro ultima missione insieme nella Costa d'Avorio. Aveva la netta sensazione che i suoi superiori non gli stessero dicendo qualcosa di importante. Quella constatazione, una volta formulata, era stata difficile da ignorare.

Scacciò bruscamente quei pensieri molesti e si decise ad aprire la cartellina, a scorrere rapidamente la prima manciata di documenti.

“Wow, non scherzavi,” rialzò uno sguardo perplesso su Coulson. “Mi mandate a controllare un martello?”

“Il martello di un dio,” specificò mentre si ficcava entrambe le mani in tasca.

“Non suona meglio,” ci tenne a ribattere. No, suona come un porno ambientato nell'antica Grecia.

“E' successo qualche ora fa.” Phil si era fatto più serio. “Crediamo sia di provenienza aliena.”

“Tipo da Marte?” Adesso si sentiva sinceramente preso per il culo.

“Non ne abbiamo idea. Ma c'è bisogno di occhi ed orecchie costantemente all'erta, da quelle parti. Ho pensato a te.”

“Per quanto?”

“Da un mese fino a data da destinarsi. Non sappiamo come si evolverà la situazione.”

“In New Mexico?”

“Inizialmente, sì.”

Clint rimase in silenzio per qualche istante, metabolizzando le informazioni una ad una. Certo, poteva essere un incarico di prestigio, ma suonava dannatamente palloso. Che diavolo avrebbe dovuto fare, solo, nel deserto, a controllare che il martello più pesante del mondo non si smuovesse di lì? Il suo cervello si rifiutava categoricamente di prendere in considerazione la possibilità che appartenesse realmente ad una qualche divinità non meglio specificata.

“Fammi capire bene,” riprese dopo una lunga pausa. “Mi mandate nel deserto per un mese. Forse più a lungo... a controllare un oggetto.”

Coulson annuì, come a dargli conferma di quel riassunto ridotto all'osso.

“Sono contento che tu abbia pensato a me, ma... suona come una punizione.”

“Hai fatto qualcosa per cui dovremmo punirti?” Phil gli ritorse contro.

“Non lo so, l'ho fatto?”

L'uomo gli lanciò un'occhiata storta, carica di pacato rimprovero, come castigandolo per le sue inutili paranoie. Ma erano davvero inutili? Se si stava inventando tutto, perché si sentiva così? E perché, dopo tutti i suoi straordinari successi, lo Strike Team Delta sembrava essere stato spedito in pensione anticipata?

Riabbassò lo sguardo, quasi incapace di sostenere quello di Coulson.

“E' solo una missione come tante altre.”

“Non è niente, è solo che...” riprese l'arco, pescò un'altra freccia, incoccò, scoccò, centro perfetto. “Sembra sempre che vi impegniate a spedirmi al capo opposto del mondo a quello in cui si trova Natasha.”

“Siete i migliori agenti dello SHIELD, Barton.” Senza neanche guardarlo, gli parve di percepire la leggera scrollata di spalle con cui aveva liquidato i suoi dubbi.

“Questa è la scusa ufficiale, ma quella ufficiosa?” Si rigirò l'ennesimo dardo tra le mani.

Un inquietante silenzio seguì il quattordicesimo centro della mattinata. Sentì i muscoli della schiena tendersi fastidiosamente: quel brutto presentimento stava finalmente per concretizzarsi. Inspirò a fondo senza neanche accorgersene, preparandosi una volta per tutte a fronteggiare nuovamente Coulson. Il quale, per tutta risposta, si limitò a guardarlo con aria desolata, vagamente imbarazzato.

“Fury crede che tu sia stato compromesso.”

“Compromesso.” Giocherellò con il termine, riempiendosene la bocca. Non l'aiutò a capire. “Compromesso da cosa?”

“Da chi,” lo corresse, facendosi adesso estremamente serio. “Romanoff.”

Non poté impedirsi di inorridire a quella neanche troppo velata insinuazione.

“Mi stai prendendo per il culo?” La voce gli uscì più innervosita e brusca del previsto.

“No,” scosse il capo, rilasciando un impercettibile sospiro. “Non hai dato il meglio di te dopo i fatti di Odessa. Il direttore Fury pen -”

“Che si fotta il direttore Fury!” L'aveva riavvicinato di un paio di passi, agitato, punto sul vivo.

“Barton.”

“Non dire Barton con quel cazzo di tono,” lo rimproverò prepotentemente. “Scusami tanto se ci tengo che i miei partner rimangano in vita.”

“Non era quello. Non hai mai fatto così per nessuno.”

“Stronzate!” Tuonò con una certa urgenza, senza nemmeno soffermarsi a chiedersi se Coulson avesse ragione. La parte più razionale di lui, quella che avrebbe volentieri cancellato dalla faccia della terra, ci tenne a ricordargli com'è che si era sentito quando era andato a trovare Natasha in ospedale. Quando aveva trovato il coraggio per farlo, s'intende.

Si placò di colpo, indietreggiando appena. Provò a pensare lucidamente, a riflettere. Avrebbe reagito così per tutti? No. Ma Natasha non era tutti, era l'agente migliore con cui l'avessero mai messo in coppia. Il loro rapporto andava ben oltre le missioni che lo SHIELD aveva loro affidato. Se le circostanze l'avessero disgraziatamente portato a dover decidere tra la propria incolumità e quella di Natasha, quali sarebbero state le sue priorità? Era la sua migliore amica. La sua...

Scacciò furiosamente il pensiero, innervosito, mentre un'altra sensazione che aveva tentato di ignorare per settimane, sembrò tornare a tormentarlo. A ricordargli che, in fin dei conti, non se n'era mai andata. Gli sembrava ancora di poter sentire la pelle morbida del suo viso sotto il palmo della mano, il modo in cui l'aveva attirato a sé quando l'aveva trovato seduto ai piedi del suo letto d'ospedale. Eppure, anche se le cose non erano cambiate... si era sorpreso ad accorgersi che voleva davvero che mutassero. In quale direzione, quello non avrebbe saputo dirlo. Il sesso era rimasto, le sue modalità anche. Natasha continuava ad essere la donna amichevolmente irruenta di tutti i giorni, ma quando erano soli, quando decidevano (ma c'era ben poca deliberazione in tutto quello) di trascorrere il tempo alternativamente, diventava un'altra. Una persona distante. Una sconosciuta con cui non riusciva a capirsi. Aveva un disperato bisogno di farsi capire, una necessità che andava costantemente perduta nei suoi inutili tentativi di traduzione. Quel qualcosa... qualsiasi cosa stessero facendo, lo stava logorando lentamente, internamente, implacabilmente. Ci aveva messo troppo ad accorgersene. Adesso era tardi. Il danno, forse, irreparabile.

“Non è una punizione.” La voce di Phil lo riportò coi piedi per terra, sedando per un misero istante il mal di stomaco che lo stava assillando.

“No, lo so,” sbuffò un'affermazione affatto convinta, torturandosi l'interno delle guance con i denti.

“Andrà tutto bene, Clint.”

“Non ti sei stufato di dire sempre le stesse cose?” Azzardò un sorriso nella sua direzione.

“Mai.”

Il silenzio cadde nuovamente a dividerli. Clint ne approfittò per pescare altre tre frecce dalla faretra, sperando di riuscire a placarsi, in qualche modo.

“Ti aspetto tra due ore alla base per i dettagli.”

“Certo.”

Non si voltò per guardarlo andare via, né per salutarlo. Incoccò i tre dardi, li scagliò con la solita, impietosa precisione. Tre centri perfetti in un colpo solo.

Cos'aveva vinto?

Niente.

 

 

*

 

Lo raggiunse che si era già messo a piovere. Era seduto sul bordo del tetto dell'edificio del suo appartamento, le gambe nel vuoto, la postura leggermente ingobbita. Proprio come il tempo newyorkese, Clint non sembrava di buon umore. Lo vide voltarsi verso di lei mentre gli si sedeva di fianco. Le aveva concesso un misero sguardo prima di tornare a fissare un punto non meglio definito del panorama ingrigito. Natasha non aveva la più pallida idea di che pensieri stesse inseguendo nel sali-scendi dei palazzi che li circondavano.

“E' tutto a posto?” Si decise a parlare quando le fu chiaro che non sarebbe stato lui ad esordire.

Clint si strinse nelle spalle, svogliatamente. Non rispose. Natasha aveva realizzato ormai da qualche mese che c'era qualcosa di diverso nel suo viso, nei suoi occhi, nella sua persona. Un cambiamento dapprima impercettibile, ma che si era fatto sempre più evidente, marcato col passare del tempo. Aveva aspetto che Clint gliene parlasse spontaneamente, come faceva sempre, ma non era successo.

“Clint.” Un tuono coprì la sua voce mentre lo richiamava all'attenzione.

“Mi spediscono in New Mexico.” Un soffio. Non era neanche troppo sicura che avesse parlato sul serio, di non esserselo inventato.

“Per una missione?” Era sicura di aver sentito Fury menzionare il ritrovamento di un misterioso oggetto di presunta provenienza aliena da quelle parti.

“Già.”

“Qual è il problema? Non ti piace il deserto?”

“Sarà una cosa lunga,” si giustificò con una leggera scrollata di spalle.

“Lunga quanto?”

“Mesi.”

Restò a guardarlo ancora per qualche istante, confusa dal suo turbamento. Era abituata a vederlo lamentarsi di questa o quella operazione, ma non le era mai capitato di vederlo tanto contrariato.

“Sotto copertura?”

“No. Supervisione, più che altro.”

“Fury deve aver bisogno di una persona fidata.” Clint le concesse un'occhiata e un mesto sorriso, forse per ringraziarla di quel goffo tentativo di consolazione, ma più probabilmente perché aveva l'aria di esserselo già sentito dire.

“Dovresti rientrare,” suggerì. La pioggia aveva cominciato a scendere sempre più fitta, fredda.

“Vieni con me.”

“No, preferisco... preferisco restare ancora un po' qui, se non ti dispiace.”

Si ritrovò a serrare le mani a pugno, una fastidioso rimescolio allo stomaco a palesare il disagio.

“Clint. Cos'è che non va?” Insistette. “Sul serio.” Perché quelle risposte evasive? Perché quell'espressione? Perché si ostinava a non volerla guardare in faccia?

“Te l'ho detto, sto bene.”

“Non stai bene,” Natasha riusciva a percepire nettamente il suo nervosismo. Fece per sporgersi verso di lui, costringerlo a guardarla in faccia, ma Clint fu più rapido. Le afferrò il viso con una mano, intrecciò le dita tra i suoi capelli e l'attirò a sé, le sue labbra vicinissime, il suo odore amplificato da quello della pioggia...

Il panico la invase e l'istinto prese il sopravvento: si ritrovò a respingerlo bruscamente, ad immobilizzargli il polso, ad obbligarlo a mollare la presa con terrorizzata, irrazionale urgenza.

“Che stai facendo?” La protesta fu un misero sussurro, in evidente contrasto con la furia con cui gli aveva appena impedito di baciarla.

“Niente,” alzò le mani a mo' di resa e si rimise agilmente in piedi, un sorriso indecifrabile sul volto. Solo per un attimo, una luce amaramente compiaciuta gli aveva riacceso il viso.

“Clint, mi spieghi che cazzo ti prende?” La stretta allo stomaco non sembrava avere intenzione di allentarsi. Impedì al suo cervello di concretizzare il senso di colpa che smaniava per prendere forma.

“Niente, non mi prende proprio niente,” la voce gli tremava di rabbia. Stava per andarsene.

Natasha fu costretta ad inseguirlo, tagliargli la strada per impedirgli di farlo.

“Spiegami.” Prepotenza e supplica si mescolarono nella sua richiesta.

“Non c'è niente da spiegare. Smettila.” Tentò di scartarla di lato, ritrovandosela davanti. “Natasha...” l'esasperazione tangibile quando lo bloccò altre due, tre volte.

Un boato rimbombò sopra di loro. L'aria si fece elettrica. Clint l'afferrò per le spalle, sospingendola violentemente all'indietro, schiacciandola contro la porta di accesso al tetto.

“Perché cazzo credi che le nostre missioni in solitaria siano così numerose, ah? Te lo sei mai chiesto?”

Si era ritrovata a trattenere il fiato, a guardare nei suoi occhi, grigi e in tempesta come il cielo sopra di loro.

“Perché siamo i loro migliori agenti,” rispose seccamente, ostentando una sicurezza che, in quel momento, non le apparteneva affatto.

“Certo, mi spediscono a guardare un manipolo di scienziati perché sono l'agente migliore dello SHIELD! Andiamo, Natasha, non raccontiamoci stronzate.”

Adesso era confusa: che stava cercando di insinuare? Perché era così arrabbiato? Qualcosa le suggerì che lo sapeva. Doveva saperlo.

“Fury ha bisogno di un agente di cui si possa fidare.”

“Perché non mandare la Hill, allora? Perché non te?”

“Perché osservare non è il mio forte.”

“Natasha...”

“Clint, se non vu -”

“Perché sono stato compromesso!” Le aveva parlato sopra, coprendo le parole di Natasha con le sue. La presa delle sue mani sulle spalle le venne improvvisamente a mancare: Clint indietreggiò di qualche passo, ripristinando la distanza che li separava.

“Da cosa? Da chi?” Continuava a non capire. “Qualcuno ti ha scoperto?”

“No, Natasha...” sospirò gravemente, esasperato. Si portò entrambe le mani al viso e poi tra i capelli, scompigliandoseli con un gesto brusco. “Sei stata tu.”

Clint aveva cercato i suoi occhi nel momento esatto in cui le parole avevano lasciato le sue labbra. Il modo in cui la guardò le fece pensare ad una cosa sola: che qualcuno, allo SHIELD, sapesse qualcosa che non doveva sapere sul loro conto. Che qualcuno li avesse visti, scoperti. L'agitazione le strinse il petto, una sensazione fastidiosa a cui non riusciva a dare un nome. Tentò di imputarla al comportamento di Clint, eppure... eppure una parte di lei si rendeva perfettamente conto che c'era qualcosa che le stava sfuggendo. Qualcosa di importante. Essenziale.

“Ma è una stronzata,” rispose prima ancora di poterci riflettere. Realizzò di aver liquidato le sue parole con troppa enfasi solo quando le aveva già pronunciate. “Non sei stato compromesso.”

Fu un attimo: l'espressione sul volto di Clint si incrinò, come uno specchio che andava in mille pezzi, un vetro che neanche si era accorta di aver colpito. Non era sicura del perché, ma era più che certa di aver detto la cosa sbagliata. Lo osservò, agitata, mentre scuoteva il capo nella sua direzione, sorridendo di una qualche disgrazia che Natasha non riusciva a cogliere.

Sono stato compromesso,” la contraddizione la colpì come un pugno nello stomaco. La delusione sembrava avergli spento lo sguardo, la voce.

Non poté far altro che osservarlo, impotente, mentre il suo cervello passava rapidamente in rassegna tutte le cose che avrebbe potuto dire per migliorare le cose. Niente le parve all'altezza.

“Non posso continuare così,” aggiunse, i muscoli delle braccia e delle spalle vistosamente contratti per la tensione.

“Clint...”

“No,” l'interruppe bruscamente. “Questa cosa mi sta... m-mi sta logorando,” l'incertezza sul suo viso le fece capire che era sincero. “Sei la mia migliore amica,” biascicò, sempre meno sicuro di sé. “Andiamo a letto insieme, ma non... non mi permetti neanche di baciarti. Di toccarti.”

Una gran vampata di calore le risalì lungo il collo, colorandole le guance. Era rabbia. Era imbarazzo. Era vergogna.

“Non sono affari tuoi.”

“Sì, cazzo. Sì, che lo sono, Natasha.” Si fece di nuovo avanti. “Sono...” si bloccò, come in cerca delle parole adatte. “Tu... t-tu non capisci. Non... n-non riesco a gestirlo.”

“Il sesso?” L'inquisizione le era uscita strafottente, brusca.

“Il modo in cui mi fai sentire,” la corresse, il gelo nella sua voce, nei suoi occhi. “Lo fai sembrare come qualcosa di... d-di sbagliato. Di s-sporco.”

Deglutì a vuoto, sentendo la gola farlesi arida, la salivazione azzerata.

“Non è colpa mia.”

“No... n-no, quello l'ho capito.” Allargò leggermente le braccia, come per asserire la sua impotenza. “Non posso andare avanti così e basta.”

“Non puoi convincermi a fare qualcosa che non voglio fare,” si era mossa verso di lui, parlandogli a pochi centimetri dal viso. L'indignazione e il disagio non fecero che acuire la sua ostilità: se ne rivestì come di un'armatura impenetrabile.

Clint scosse il capo, esausto. “Non voglio obbligarti a fare un bel niente... l'i-idea che tu abbia bisogno di essere obbligata per permettermi di... d-di entrare nel tuo... m-mondo...” si era messo a balbettare, incapace di spiegarsi in modo più articolato.

“Che cazzo stai dicendo?”

“Che hai paura... o c-che non ti fidi di me. O tutte e due le cose.”

“Non ho paura e non ho bisogno di un bel niente.”

“Non ho d-detto che -”

“Cosa c'entra il sesso con la fiducia? Il sesso è solo sesso.”

“Per te, forse! Merda, Natasha, potresti almeno cercare di capire il mio punto di vista?”

“Il tuo punto di vista è sbagliato.”

“Oh, bè...,” sbuffò una risata incredula, fredda, delusa. “Allora non abbiamo più niente da dirci.”

“Bene.” Lo stomaco accartocciato su se stesso, una gran voglia di vomitare, Natasha fece per andarsene. Fu lui a fermarla, stavolta, trattenendola leggermente per un braccio, delicatamente adesso. Ritrovò i suoi occhi improvvisamente addolciti, supplici.

“O è tutto o è niente, Tasha...” cercò di nuovo i suoi occhi, placato, ma triste. “O siamo solo amici e colleghi, o siamo anche... a-anche tutto il resto. Nessuna via di mezzo.”

La speranza che gli lesse nello sguardo, il senso di colpa che le fioriva in petto non fecero proprio niente per placare la furia che le aveva accelerato il battito cardiaco. Una parte di lei avrebbe voluto dire di sì, sì a tutto il resto, sì che avrebbe cercato di cambiare, sì perché se non gli aveva fino ad allora concesso di vederla sul serio, fino in fondo (o magari illudendosi di impedirgli di farlo) era perché aveva avuto paura, perché il passato le aveva insegnato che certi comportamenti avevano esiti scontati e terrificanti, che le persone a cui voleva bene finivano sempre per pagare lo scotto della sua vicinanza... ma l'altra, quella irruenta ed impetuosa che prendeva sempre il sopravvento, non poté far altro che opporsi bruscamente a quella imposizione. Il sesso era solo sesso e se non era disposto a farlo secondo i suoi termini, che se ne andasse pure al diavolo. Lei non aveva compromesso nessuno: ogni agente avrebbe dovuto badare a se stesso, prendersi le sue responsabilità. Se adesso si trovava impossibilitato a svolgere il suo lavoro nel migliore dei modi, quello era un problema suo e di nessun altro. Lei non c'entrava.

“Non posso darti niente di più di quello che ti ho già dato,” si ritrovò a dire, scandendo lentamente ogni parola, sillaba per sillaba.

Clint lasciò scivolare la mano con cui le aveva stretto il braccio, distogliendo lo sguardo, come per ricomporsi. La pioggia scendeva su quel poco che poteva vedere del suo viso. Il mal di stomaco non accennò a voler diminuire.

“E' okay,” finì per dire, continuando ad evitare di guardarla. “Me lo dovevo... i-immaginare... suppongo.”

“Clint...”

“No. Va'.”

“Io n-non -”

“Natasha.” Aveva finalmente rialzato lo sguardo: la guardò dritta negli occhi, il disappunto abilmente, ma vistosamente mascherato nei suoi occhi. Non avrebbe potuto mentirle neanche se avesse voluto farlo sul serio. “Sto bene. Vai.”

Fece per ribattere, ma si impedì di parlare quando le fu chiaro che non sapeva cosa dire. Niente le avrebbe fatto cambiare idea, niente le avrebbe permesso di migliorare le cose. Tutto quello che poteva fare era ritirarsi, limitare i danni, riprendere la battaglia un altro giorno oppure arrendersi definitivamente. Annuì debolmente, lanciandogli un'ultima occhiata prima di dargli le spalle, riaprire la porta e imboccare le scale interne.

Scese rapidamente, sempre più veloce.

Sentì che le veniva a mancare la terra da sotto ai piedi.

 

*

 

Una serie infinita di scenari possibili cominciarono ad affastellarlesi davanti agli occhi nel momento esatto in cui il cuore si era finalmente deciso a rallentare il suo battito impazzito.

Oscillava pericolosamente tra la voglia di tornare indietro, cambiare idea, tentare di spiegarsi meglio e mandarlo al diavolo, convincersi che era stato lui ad aver travisato tutto, che non era colpa sua se si era sentito come si era sentito.

Natasha non voleva compromettere nessuno.

Natasha non voleva farsi compromettere da nessuno.

Eppure quel principio di nausea che le aveva riempito lo stomaco durante l'ultimo incontro con Clint non accennava a volerla lasciar andare. Non lo fece per giorni, finché Natasha non prese il coraggio a due mani, decidendo di volergli parlare. Faccia a faccia. Andò a casa sua per ben tre volte, si arrampicò sulle scale antincendio per altrettante, raggiunse la finestra del suo salotto, ma non lo trovò mai. L'appartamento era deserto, Clint in missione per una quantità di tempo indefinita. Coulson, nel frattempo, inviato a supervisionare altri agenti, altre operazioni. Fury troppo preso dal suo ultimo progetto, quello che avrebbe dovuto iniziare con Stark e che era stata lei, personalmente, a sconsigliargli. Lei stessa impegnata ad eseguire altri ordini, a risolvere altri problemi.

I giorni diventarono settimane, le settimane mesi.

Il tempo attutì il disagio, ma non il retrogusto amaro di quella brusca, improvvisa separazione. Si rese conto di quanto le mancasse la presenza di Clint persino e soprattutto nelle cose più stupide. Gli agenti con cui lavorava erano troppo facilmente intimiditi dalla sua vicinanza, nessuno capiva il suo senso dell'umorismo, nessuno che ridesse alle sue battute.

Forse – si era ritrovata a pensare più di una volta – era così che doveva andare. Forse erano stati troppo vicini, forse era stata davvero colpa sua se Clint era stato compromesso. Solo più tardi si rese conto di aver prepotentemente invaso il suo spazio senza avergli permesso di fare altrettanto con lei. Vicini e lontani al tempo stesso.

Non se n'era accorta e basta. Era stata goffa e disattenta.

Le missioni si portavano via il suo tempo, i suoi pensieri, la sua attenzione.

Fu una telefonata di Coulson a cambiare tutto.



****************

 
Bè, avevo detto ultimo ostacolo... e che ostacolo sero sia :P (lo so che sono perfida *sigh*)
Non credo che Natasha sia pronta ad accettare di vedere cos'è che sta succedendo sul serio... un rifiuto tutto irrazionale che le costerà un po'.
Per far tornare la timeline di Thor, mi sono immaginata un su e giù di Phil tra New Mexico e New York su jet supersonici sui quali non ci interrogheremo XD
In più, con questo capitolo entriamo direttamente in territorio The Avengers. Più che altro volevo darmi una qualche spiegazione del perché il povero Clint fosse così *scazzato* all'inizio del film... e la noia non mi suonava granché bene, quindi ci ho dovuto aggiungere il carico da cento (sennò che gusto c'è?). Anche se a giudicare dalle nuove foto da Age of Ultron ma dà l'idea che l'abbiano fatto super taciturno e solitario, quindi la mia teoria (AFFATTO DI PARTE) va a farsi friggere :P ma tant'è!
A parte questo, i ringraziamenti di rito ad Eli :3 che mi motiva anche a distanza (mentre io l'assillo, mi adoVa) e a tutti coloro che leggono e commentano! <3 Soprattutto a chi - come me - si deve fare l'estate in città *laggioiavera*
Ancora grazie e alla prossima!
S.

 

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Capitolo 16
*** So I Stayed in the Darkness With You ***


16

I took the stars from my eyes, and then I made a map
And knew that somehow I could find my way back
Then I heard your heart beating, you were in the darkness too
So I stayed in the darkness with you

(Florence + the Machine – Cosmic Love)
 

 

Barton è stato compromesso.”

Erano bastate quattro parole a sconvolgere il precario equilibrio che era riuscita a conquistarsi.

 

Riaprì gli occhi, ritrovandosi ad osservare il buio della sua stanza. Il soffitto immerso nell'oscurità e nient'altro... eppure una sensazione fastidiosa, di nausea, alla base dello stomaco le suggeriva che qualcosa non andava. Rimase in ascolto: la villetta negli Hamptons era silenziosa, addormentata.

Tentò di convincersene, di placare l'inspiegabile, furioso battito del proprio cuore che non sembrava disposto a cooperare. Si coprì il viso con entrambe le mani, contando alla rovescia da dieci a zero prima di rimettersi seduta. Il pavimento gelido accolse le piante dei suoi piedi mentre si assicurava che le gambe fossero in grado di sostenerla: i postumi di New York avevano la pessima abitudine di farsi sentire nei momenti meno opportuni.

Rilasciò bruscamente il fiato, uscendo dalla sua camera per avventurarsi nel resto della casa. Le bastò fermarsi davanti alla porta spalancata dell'altra stanza da letto per accorgersi che era vuota.

Clint.

Un freddo, pungente, irrazionale terrore le riempì lo stomaco.

“Clint,” chiamò, costringendosi a controllare il tono di voce. “Clint, dove sei?”

Improvvisamente sveglia, tutti i sensi all'erta, effettuò una rapida ricognizione della villetta. Il soggiorno era deserto e così la cucina, il patio, il salotto, il ripostiglio... guardò dalla finestra, scandagliando la spiaggia con lo sguardo per assicurarsi che non si fosse avventurato all'esterno. I suoi occhi incontrarono solo altro buio, la tenue luce lunare che a malapena le permetteva di distinguere dove finiva la sabbia e iniziava il mare.

Tornò rapidamente sui suoi passi, determinata a ricontrollare meglio la stanza di Clint. Solo quando passò davanti alla porta chiusa del bagno si rese conto di averla mancata. Si fermò di colpo, trattenendo violentemente il respiro, il cuore come impazzito nel suo petto.

Era stupido. Clint stava bene. Clint era tornato sano e salvo. Clint era tutto intero... conosceva quella litania ormai a memoria. Respinse il panico in un remoto angolo della propria testa, accostandosi lentamente a quella barriera apparentemente insormontabile.

“Clint.” Pronunciò di nuovo il suo nome, appoggiando l'orecchio alla superficie di legno imbiancato. “Clint... sei là dentro?”

Azzerò il proprio respiro, senza emettere il benché minimo suono.

Dopo un interminabile istante le sembrò di avvertire la sua presenza. Provò a concedersi un minimo di sollievo nel saperlo ancora lì, nelle sue vicinanze, ma con scarso successo.

Le ci volle un minuto intero per decidersi a mettere la mano sulla maniglia, ad ignorare il silenzio che le faceva ostinatamente eco dall'altra parte della porta. L'aprì con mani tremanti, quasi senza avere il coraggio di incontrare ad occhi aperti qualsiasi cosa l'avesse accolta.

Riconobbe, tra le ombre del bagno, quella di un uomo ripiegato su se stesso, tremante, nell'angolo più distante dal punto in cui si trovava Natasha.

Lo stomaco le si strinse furiosamente.

“Clint...”

 

Loki li tiene tutti sotto una specie di incantesimo. Insieme ad uno dei nostri.”

Clint era vivo. Era quello che contava, no? Certo, un dio norreno si era temporaneamente impossessato del suo cervello, ma era ancora tutto intero.

Nonostante tutto, la sua mente le suggeriva, da qualche parte, che c'era una possibilità (non importava quanto piccola tentasse di convincersi che fosse) che Clint Barton così come l'aveva conosciuto, fosse sparito per sempre. Dopotutto lei ne sapeva qualcosa, di lavaggi del cervello. Di esseri arroganti e presuntuosi che credono di poter usare le persone come stupide lavagne, cancellando e riscrivendo all'occorrenza.

Si era sforzata di ignorare quell'eventualità, concentrandosi piuttosto sul da farsi. Alla telefonata di Coulson era seguito quel faccia a faccia col dottor Banner che l'aveva scossa più di quanto avrebbe mai voluto ammettere. Si era ritrovata risucchiata in eventi e in compagnia di persone che faticava ad inquadrare. Più di una volta si era dovuta soffermare a ricordarsi che era tutto vero. Che stava succedendo sul serio, che quelli che le si muovevano attorno erano veramente uno scienziato fatalmente tendente all'ira, una leggenda della Seconda Guerra Mondiale, persino il dio del tuono. Il fatto che Tony Stark, l'eccentrico miliardario che viveva con un reattore incastonato nel petto fosse la presenza più ordinaria di quei giorni era piuttosto indicativo.

Ma non si era lamentata: l'obbiettivo era uno ed uno soltanto. I tempi talmente ristretti da impedirle di rendersi del tutto conto di ciò che stava realmente accadendo.

Riportare Clint a casa, rispedire quel dannato essere fuori dalla sua testa.

Riportare Clint a casa.

Se avesse avuto il tempo di rallentare, di avere qualche minuto lontano da tutto quel caos, si sarebbe accorta di come quei dodici mesi e mezzo che li avevano visti separati, fossero stati cancellati in un istante da quell'inaspettata telefonata. Le sarebbe sembrato, poi, tutto estremamente stupido: avevano davvero litigato per qualcosa di tanto triviale? Davvero era riuscita, in un qualche assurdo modo, a comprometterlo tanto da spingere Fury a riassegnarlo altrove? Sicuramente con tutto il tempo che era passato, le cose dovevano essere cambiate. Ritornate alla normalità.

Aveva fatto talmente tanta fatica a riconquistare per se stessa una certa pace mentale, una routine quotidiana, un viavai delle medesime azioni, delle stesse facce, dei soliti rituali. Era riuscita a fare a meno di Clint. Aveva imparato ad esistere in quel contesto anche senza il suo sostegno, la sua continua presenza. E se la cosa l'aveva resa orgogliosa, dimostrandole che era, di fatto, una persona reale, capace di interagire con il modo esterno, era anche vero che non aveva mai smesso di percepire quella sorda, insistente mancanza.

Se doveva essere sincera, si era sforzata di pensare a lui il meno possibile. Era stato complicato, all'inizio, ma il tempo l'aveva aiutata a concentrarsi su altro. E adesso... adesso l'uomo che le aveva dato la possibilità di ricominciare da capo, di rifarsi una vita, una che valesse la pena di essere vissuta, era in pericolo.

Tutto il resto, super eroi e divinità comprese, era stato respinto sullo sfondo di quell'unica certezza.

Doveva riportare Clint a casa.

 

Mosse un paio di passi nella sua direzione, riuscendo ad udire sempre più distintamente gli impercettibili brividi che lo scuotevano.

“Clint,” ripeté il suo nome per l'ennesima volta, assicurandosi che fosse cosciente, lucido.

Per raggiungerlo impiegò quella che le parve un'eternità. La distanza delle poche mattonelle che li separavano sembrava allungarsi all'infinito sotto i suoi piedi.

Si accoccolò accanto a lui, piegandosi lentamente sulle ginocchia.

“Clint... guardami,” sussurrò a voce bassissima, troppo persino per se stessa.

Il capo nascosto tra le braccia, i bicipiti a schermarlo dal mondo esterno, Clint rialzò appena la testa, quel tanto che gli bastò per rivolgerle un'occhiata piena di terrore.

Natasha capì che stava piangendo.

 

E' Barton. Ha messo fuoriuso i nostri sistemi, è diretto al livello detenzione. Qualcuno mi riceve?”

Qui agente Romanoff. Ricevuto.”

Aveva dovuto affrontare la rabbia in persona, un mostro verde, enorme, irrazionale e tremendamente forte, qualcosa che non avrebbe mai potuto sconfiggere, non importava quanto intensamente l'avesse voluto: non si era mai sentita tanto fastidiosamente umana in tutta la sua vita.

Per questo, quella fitta di anticipazione e paura che l'aveva colta nel ricevere il messaggio del direttore Fury le sembrò, a posteriori, totalmente ridicola. Tra tutti gli individui con cui aveva avuto a che fare in quelle ultime ore, Clint era sicuramente il più ordinario di tutti, quello che conosceva meglio. Eppure era anche l'unico che la interessasse davvero.

Aveva dovuto prendere il coraggio a due mani e ignorare il dolore alla gamba per convincersi a rimettersi in piedi, ad affrontarlo per la prima volta dopo un anno intero.

Ma anche su questo si era dovuta ben presto ricredere: chiunque fosse, quello che aveva davanti non era Clint. Aveva le sembianze di Clint, combatteva come Clint, ma non era lui.

La prima regola da seguire era semplice, scontata: come si fa a sconfiggere Occhio di Falco? Elimina la sua tanto agognata distanza. Accecalo. Impediscigli di vedere.

Il resto era stato molto più complicato.

Si erano allenati insieme tante di quelle volte da aver perso il conto: mai, prima di quel momento, Clint l'aveva affrontata con la vera intenzione di farlo. A Natasha furono necessari pochi secondi per accorgersi, con un rapido sguardo nei suoi occhi vitrei, che stava combattendo per uccidere.

Le parole di Loki le risuonarono nella testa.

 

Allungò una mano, decidendosi finalmente a sfiorarlo, a poggiargliela sul braccio. Le sembrò di essere riuscita a bloccare il furioso tremore del suo corpo, ma non era sicura non fosse soltanto un'illusione.

“Clint.”

“Ti p-prego, T-Tasha, non -,” anche la sua voce era scossa dai brividi. Incubi. Che altro? Natasha conosceva bene anche quelli, sapeva come evitarli o come prepararsi ad una notte insonne se fosse stato necessario. Più volte si era ritrovata a scivolare nel sonno supplicando una qualche entità non meglio identificata affinché il riposo fosse privo di sogni. Pesante come il piombo. E vuoto.

“Va tutto bene,” provò a rassicurarlo, sentendosi persino stupida per il goffo tentativo.

“N-No...,” sbuffò una risata gelida che durò solo per qualche istante. “No,” ripeté.

“E' stato solo un sogno.”

“Ne s-sei sicura?” Aveva rialzato improvvisamente il capo, guardandola dritta negli occhi. Il suo sguardo umido come una muta accusa all'idiozia delle sue parole.

“Ne sono sicura,” confermò, costringendosi a non mostrare neanche un briciolo di esitazione.

“Che succede s-se... s-se io...” L'ostilità si era di nuovo volatilizzata dalla sua espressione, lasciandolo scosso e vulnerabile proprio come pochi istanti prima.

“Non succederà.”

“C-Come fai a saperlo?”

“Perché mi fido di te.” L'aveva detto senza neppure pensarci. Le parole le erano scivolate giù dalla bocca con disarmante naturalezza. Si rese conto di crederci veramente solo dopo averle pronunciate, dopo essersele ripetute mentalmente, una, due, tre volte.

Clint trattenne il respiro, fissandola insistentemente. Natasha sapeva cosa stava cercando: un segno che rivelasse il trucco, l'inganno. Si placò solo quando fu costretto a realizzare che non ne avrebbe trovato nemmeno uno. La consapevolezza parve attenuare le rughe di preoccupazione che gli scavavano il volto ormai da qualche giorno.

Capì che avrebbe fatto di tutto pur di riaverlo indietro così com'era prima. Pur sempre danneggiato, ma con una costante, instancabile voglia di reagire. Non l'avrebbe lasciato cadere, fosse stata l'ultima cosa che faceva.

“Andiamo a letto,” suggerì in un soffio. Si rimise in piedi, una mano tesa verso di lui.

Dopo un misero attimo di esitazione, Clint l'afferrò.

 

E' amore, agente Romanoff?”

L'amore è per i bambini. Sono in debito con lui.”

La domanda di Loki le era suonata come un insulto. Certo, per quale altro motivo sarebbe dovuta essere lì se non per amore? Aveva intenzione di sminuire le sue intenzioni? Sulle prime, Natasha aveva rifiutato categoricamente il concetto.

Eppure, ripensandoci, comprese che, in un certo senso, era lì per quello. Non era stata quella la ragione per cui Clint si era gettato dal tetto di Saint Paul per impedirle di sfracellarsi al suolo? Non le aveva forse confessato che l'aveva fatto perché era solamente una bambina? E i bambini non possono essere spie o soldati, né dei maledetti manichini su cui sfogare la propria rabbia. L'unica cosa di cui hanno bisogno è affetto incondizionato. Amore. Era per quello che era in debito con lui. Non per nessun altra svilente interpretazione di un termine tanto abusato.

Il suo mondo in bilico e lei che si sforzava di negoziare per un solo uomo. Oh, era suonato stupido in bocca a Loki: forse aveva voluto smascherare il suo gioco, dando per scontato che stesse tentando di raggirarlo e nient'altro.

Ma qualcosa le suggeriva che il vero motivo per cui stava affrontando quel dio arrogante, era proprio quell'unico individuo. Essenziale. Il mondo non avrebbe mai smesso di mutare faccia; non le importava: si sarebbe adattata. Sempre e comunque. Ma se avessero cancellato Clint, nessuno, nemmeno uno qualsiasi di quegli straordinari super eroi che occupavano i laboratori dell'helicarrier a pochi metri di distanza dal livello detenzione, sarebbe stato in grado di riportarlo indietro.

Era una semplice questione di priorità.

 

Un suo braccio attorno alle spalle, mentre gli cingeva a sua volta la schiena, Natasha l'aveva aiutato a rimettersi in piedi, a trascinarsi faticosamente fino alla sua camera da letto. L'aveva guardato mentre si arrampicava sul materasso: ogni suo gesto suggeriva un senso di pesantezza tale da toglierle stupidamente il fiato. Pensava con terrore all'eventualità di poter raggiungere quel punto in cui ogni aiuto è vano, quel confine che separa quello che si può fare per gli altri e ciò che gli altri devono fare da soli. A ruoli invertiti, sarebbe stata tremendamente gelosa di quel suo campo d'azione. Avrebbe fatto di tutto pur di obbligare chiunque le avesse offerto il proprio aiuto ad una frettolosa e inevitabile ritirata. Poteva fare tutto da sola. Aveva sempre fatto tutto da sola.

Clint si era disteso tra le lenzuola sfatte. La luce perlacea che filtrava dalla finestra delineava le marcate linee del suo corpo, rendeva visibili le fasciature a cui era ancora costretto.

Restò a guardarlo, le ginocchia poggiate contro il letto, senza neanche realizzare che Clint stava facendo altrettanto.

Non era sicura che la Natasha che conosceva, quella che credeva di essere, avrebbe mai ceduto alla tentazione di raggiungerlo su quel letto. Ma, contro ogni buon senso, la Natasha che era in quel preciso istante lo voleva tanto intensamente da impedirle di ritirarsi e rifugiarsi nella sua stanza, fingere che tutto fosse tornato alla normalità, esattamente come prima. Quel prima includeva la sua patetica performance teatrale sul tetto dell'appartamento di Clint. Quel prima l'aveva vista farsi spazio, goffamente e senza neanche accorgersi di tutti i danni che stava commettendo, nella sua vita privata. In quel prima si era presa ciò che voleva senza soffermarsi neppure a chiedersi perché lo volesse. Poi, quel prima aveva assistito alla paura che prendeva il sopravvento su di lei, che l'aveva spinta a compromettere una delle poche cose di cui andasse veramente fiera: la sua amicizia con Clint e tutto ciò che ne conseguiva. Era stata la Red Room ad insegnarle a non rimanere mai sentimentalmente coinvolta, a nessun livello e per nessuna ragione, con qualunque altro essere umano.

Voleva liberarsene. Voleva farlo sul serio.

Ricambiò lo sguardo di Clint, sperando ardentemente che l'espressione combattuta, esposta, non fosse poi così visibile come lei stessa la percepiva. Contò, di nuovo, da dieci a zero, prima di agire e costringerlo a spostarsi su un lato del materasso, a farle spazio.

Il resto venne da sé.

Gli passò una mano tra i capelli, cercando ingenuamente di cancellare l'espressione contrita dal suo viso. Clint era rimasto immobile per una manciata di secondi, azzardandosi infine ad appoggiarle il capo sulla pancia, appena sotto i seni.

Natasha aggiustò le braccia attorno al suo corpo, stringendolo possessivamente a sé.

Il sonno non tardò a sopraggiungere per entrambi.

 

Lentamente. Intimamente. In tutti quei modi che, lui lo sa, ti terrorizzano.”

La rivelazione di Loki l'aveva colpita come un pugno nello stomaco. La tattica era sempre quella: mostrarsi vulnerabili, indurre un ingannevole sensazione di superiorità nell'avversario, colpire quando meno se l'aspetta, quando le sue difese sono abbassate.

Ma non era un interrogatorio come gli altri. Natasha non stava fingendo di essere nessun altro e le informazioni che doveva ottenere – quale fosse la strategia messa in piedi dall'asgardiano – avrebbero dovuto permetterle di salvare Clint. Il raggiro richiedeva che si scoprisse, che gli mostrasse e confessasse cose che aveva condiviso con una cerchia estremamente ristretta di persone.

Le era bastato un misero secondo per capire che quelle parole non appartenevano a Loki.

Erano di Clint.

Lentamente si era fatto strada nella sua vita, un processo che era durato quasi dieci anni. Come uno stillicidio, una goccia d'acqua che scava con pazienza, forse persino inconsapevolmente, nella roccia più impenetrabile.

Intimamente si era guadagnato quel posto. Aveva trovato il modo di incastrarsi alla perfezione nei suoi affetti, nel suo tran-tran quotidiano, talmente avvinghiato al resto che, quando le era stato strappato via, aveva rischiato di far crollare tutto quanto.

Aveva abbattuto – anzi, gli aveva permesso di farlo – tutte le sue difese. Tutte quelle barriere che era solita frapporre tra sé e il resto del mondo, quelle che avrebbero dovuto impedirle di essere costantemente terrorizzata, quelle che la proteggevano e al tempo stesso le impedivano di avere relazioni significative di qualsiasi tipo. Meccanismi di difesa che, suo malgrado, entravano in azione anche quando avrebbe voluto farne a meno.

Clint era riuscito a distruggerli tutti fino a quell'ultimo brusco arresto che ne aveva decretato la sconfitta. O forse, piuttosto, quella di Natasha.

Si era concessa di arrivare fino a quel punto senza neanche accorgersene. Cieca di fronte al fatto che ogni suo avvicinamento verso Clint, comportava anche un avvicinamento di lui verso di lei. Ad ogni azione corrisponde una reazione, eguale e contraria.

Lentamente. Intimamente. In tutti quei modi che, lui lo sa, ti terrorizzano.

Lui lo sa. Per quale altro motivo non avrebbe dovuto? L'aveva guardata e letta, man mano, come un libro sempre più aperto, sempre più decifrabile, mentre lei credeva ancora di essere opaca e impenetrabile come la notte.

Lui lo sa. Quanto si era sentita stupida e ingenua da uno a dieci? Quanto le aveva fatto male rendersi conto che tutti quei comportamenti che le erano parsi ragionevoli, abilmente mascherati, per Clint non erano stati altro che una ridicola commedia mal recitata?

Lui lo sa. Sapeva perché gli impediva di toccarla, sapeva perché aveva bisogno che le sue mani fossero immobilizzate lontano dal suo corpo, sapeva che non si sarebbe sentita al sicuro in nessun altro modo. Era perfettamente consapevole del fatto che necessitava di avere il perfetto, pieno controllo della situazione. L'aveva lasciata fare. Si era adattato, magari sperando che le cose sarebbero cambiate... un poco per volta. Ma non era successo. Natasha aveva difeso quell'ultimo baluardo della sua solitudine con le unghie e con i denti.

Vicini, eppure distanti.

Era quello il rosso che avrebbe voluto cancellare dal suo fascicolo. Loki credeva davvero che non fosse consapevole del fatto che i suoi morti non l'avrebbero mai realmente lasciata? Che tutto quel sangue sarebbe rimasto a macchiarle le mani, fino alla fine dei suoi giorni? Che avrebbe dovuto convivere col senso di colpa finché avesse avuto fiato in gola? Certo, aveva ogni intenzione di cancellare la vergogna del suo passato nella misura in cui gli eventi gliel'avrebbero concesso, di giocare secondo le regole, stavolta, di stare dalla parte giusta; ma sapeva che quell'onta non l'avrebbe mai abbandonata del tutto. Una buona azione non ne cancella una cattiva.

No, Natasha sapeva bene quali cose poteva cambiare.

Quel rosso, avrebbe fatto di tutto pur di cancellarlo.

Solo allora, solo in quel preciso istante, con gli occhi che le bruciavano e un maledetto dio che le stava illustrando come e in che modo il suo migliore amico l'avrebbe uccisa, capì di essersi accanita contro il niente, di aver remato controcorrente per il bene di nessuno. Anzi, forse solo per quello di chi l'aveva modellata così, gelida e arida al tempo stesso, per renderla più adatta allo scopo.

Il pensiero di Clint che riacquistava lucidità sul suo corpo straziato per scoprire che ne era lui l'artefice, la fece infuriare – infuriare fin nelle viscere – più di qualunque altra cosa.

Sfuggì improvvisamente il tronfio sguardo inquisitore di quel dio: nonostante tutto, una parte di lei non aveva mai smesso di restare nel gioco.

E Loki si era appena tradito.

 

Si svegliò di soprassalto che era quasi l'alba, il battito impazzito del proprio cuore, un urlo rimasto incastrato in gola. Il calore del corpo di Clint si palesò come un benvenuto, indefinito sollievo. Solo quando si rese conto dei suoi occhi turbati nei propri non fu più tanto sicura di sapere chi avesse svegliato chi. A chi appartenesse l'ennesimo incubo o quel fastidioso rimescolio allo stomaco che la faceva sentire costantemente sul punto di fare o dire qualcosa di particolarmente stupido.

Anche in quella villetta che non aveva mai usato per più di una settimana all'anno, l'odore familiare di Clint la faceva sentire inspiegabilmente a casa.

Fu quella realizzazione, più di ogni altra cosa, a spingerla a cancellare il disagio sospeso che li divideva, con le labbra sulle sue. Se ne impossessò con un'urgenza ben diversa da quella a cui era tanto abituata e, mentre esplorava il calore della sua bocca, mentre Clint rispondeva, mandando tutto il suo corpo in un estraneo subbuglio, realizzò che non l'aveva mai baciato. Non l'aveva mai baciato davvero. Si sorprese a rendersi conto – con una vaga, sorda euforia – che sarebbe stata contenta di fare quell'unica cosa per il resto della sua vita.

Seguì l'istinto e prese il controllo della situazione, rotolando di lato per invertire le posizioni, sovrastarlo. Quando si accorse delle mani di lui, saldamente aggrappate tra le lenzuola, lontane il più possibile da lei come per obbedire ad una sua inespressa richiesta, qualcosa che non era sicura di aver mai provato rischiò di sopraffarla.

Smise di pensare una volta per tutte, lasciando che fosse il folle martellare del sangue nelle vene a darle il ritmo, a scandire ogni gesto. Si liberò dei pochi indumenti che indossava, scoprendo ogni singolo centimetro di pelle. Nuda. Esposta. Vulnerabile... nessuna secondaria identità a farle da schermo con la realtà. Gli afferrò i polsi, districò la salda presa delle sue dita sul materasso, le guidò su di sé. La pelle ruvida delle sue mani le sfiorò prima la pancia e poi i seni, le spalle e la schiena. Tutto l'invito di cui Clint aveva bisogno per tirarsi su, mettersi seduto e fronteggiarla, vicinissimo. La baciò di nuovo sulla bocca, sul collo, sulle spalle. Gli permise – Natasha pretendeva lo facesse – di esplorare il suo corpo come meglio credeva, facendolo reagire puntualmente, inevitabilmente alle sue attenzioni.

Cancellarono l'incubo, un gemito, un soffio, un affondo, un bacio alla volta.

Fu lento e intimo e in tutti quei modi che, lui lo sapeva, la terrorizzavano.

 

Sei una spia, non un soldato, e adesso vuoi scendere in guerra. Perché? Cosa ti ha fatto Loki?”

Non mi ha... è s-solo che...”

Era come se la stesse supplicando di dirlo. Dirlo ad alta voce. Come se il tempo, da quel giorno sul tetto del suo appartamento, non fosse mai realmente passato. Erano ancora là sopra e Clint le aveva appena mostrato le sue carte, aveva scoperto se stesso affinché potesse vederlo. Vederlo davvero. E adesso le chiedeva, con quel suo dannato sguardo implorante, di non mentire. Di essere sincera. Di fare altrettanto... di buttare giù la maschera una volta per tutte.

Natasha...”

Si vide costretta a distogliere lo sguardo, a controllare il proprio respiro, a combattere contro tutti quei meccanismi di difesa che cominciavano a soffocarla. Eppure aveva ben chiara ogni cosa: come la telefonata di Coulson l'avesse strappata dalla confortante, ritrovata apatia dei suoi giorni, il segreto accanimento con cui il pensiero di riaverlo l'aveva perseguitata, la professionalità e la freddezza con cui aveva tentato – in ogni modo – di affrontare l'emergenza. Come avesse trattenuto il respiro fino al momento in cui gli occhi di lui non avevano guardato i suoi, finalmente diradata la nebbia di ogni influenza esterna. Come Loki le avesse fatto capire che Clint sapeva molte più cose di quante avesse voluto ammettere a se stessa fino a quell'istante. Di come il pensiero che l'unica persona che la conosceva davvero avesse corso il pericolo di essere cancellata dalla faccia della terra. Qualcosa, dentro di lei, le diceva che se Clint se ne fosse andato, si sarebbe portato con sé una parte di lei. Quella che gli aveva consegnato senza neanche accorgersene, quella che sarebbe andata perduta se l'avesse lasciata, quella che Clint aveva conservato durante tutti quei mesi, quella che lei sapeva essere – nonostante tutto e inconsapevolmente – in buone mani. Se Loki l'avesse cancellata insieme a lui, Natasha sospettava che non avrebbe mai avuto la forza o il coraggio di trovare qualcun altro a cui affidarla, un amico, un mentore, un amante. Non avrebbe avuto importanza: non era sicura si sarebbe mai ripresa da un colpo tanto basso.

Solo tre semplici parole...

Sono stata compromessa.”

che ebbero l'effetto di alleggerirla. Di colpo.

Si voltò verso di lui, trovando finalmente il coraggio di ricambiare il suo sguardo.

Ho del rosso nel mio fascicolo.” Una delle poche stronzate che aveva commesso nella propria vita a cui poteva realmente porre rimedio. “Vorrei cancellarlo.”

Voleva farlo.

Davvero.

 

Si separarono, ancora tremanti e ansanti, il loro corpi scossi da brividi superstiti. La schiena contro il materasso, Natasha sentì le palpebre farlesi pesanti e un'improvvisa pace riempirla al progressivo ritirarsi degli ultimi singulti di piacere. Si concentrò sul pesante inspirare-espirare di Clint, riempiendosene le orecchie, aspettando che il proprio cuore rallentasse finalmente i suoi battiti.

Con sulle labbra il sapore l'uno dell'altra, dandosi le spalle come avevano fatto infinite volte sul campo, si riaddormentarono ai due estremi opposti del letto.

Distanti, ma vicini.

 

****************

Mi sono "divertita" un sacco a scrivere questo capitolo, soprattutto ad incastrare un po' tutto quel *poco* che si sa di questi due dal film e a reinterpretarlo nella cornice di questa storia... e poi perché finalmente si tira il fiato :P Tutto dal POV di Natasha perché per me era lei a dover risolvere un po' di cose con se stessa :) spero piuttosto di non essere caduta troppo nel cheesy XD alcune delle battute del film le ho tradotte dall'inglese (quella dell'intimamente, lentamente... e comunque se Loki non shippa Clintasha in modo perverso allora non ho capito niente del film ù___ù) quindi potrebbero non coincidere con quelle del doppiaggio italiano.
Per la famosa frase "I've got red in my ledger" mi piace pensare che Natasha si riferisse ai suoi "errori" in generale... per come me la immagino io non credo che sia seriamente convinta di poter cancellare i delitti che ha commesso in passato con le buone azioni del futuro. Mi dà l'idea che sia consapevole di questo. Si vergogna di quello che ha fatto e vuole assicurarsi di lavorare per i buoni, ma da qui a credere di poter cancellare con un colpo di spugna tutto quel rosso... non lo so, mi sa di OOC (sempre per come me la immagino io). Quindi mi sono divertita a riferirlo alla discussione con Clint, un errore a cui invece può porre rimedio.
Perdonatemi anche il surplus di Florence + the Machine in esergo ma... Florence ci sta sempre :P
Tanti ringraziamenti all'Eli che mi sopporta (e mi rendo conto che ultimamente stia diventando un po' difficile ahah XD) e a tutti coloro che leggono/commentano e mi fanno sapere che pensano della storia :3 Lo apprezzo molto!
Insomma... two more to go!
S.

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Capitolo 17
*** I'm Gonna Let it Happen to Me ***


17

And I'm ready to suffer and I'm ready to hope
It's a shot in the dark aimed right at my throat
'Cause looking for heaven, found the devil in me
Looking for heaven, found the devil in me
Well what the hell I'm gonna let it happen to me

(Florence + the Machine – Shake it Out)

 

Lasciarono la villetta negli Hamptons solo dopo un'intera settimana trascorsa in confessioni ed esplorazioni più o meno metaforiche. Clint non si era concesso di pensare a nient'altro che a quello, a Natasha, al modo in cui si erano riscoperti capaci di darsi sollievo l'un l'altra, alle lenzuola che ormai sapevano dei loro due corpi mescolati insieme, dei cuscini su cui erano impressi i loro profili.

Gli incubi restarono a far loro compagnia per quasi tutti quei sette giorni, ma sempre più sporadicamente: non appena riapriva gli occhi, la vista della schiena pallida di Natasha – il respiro accelerato e il cuore come impazzito nel petto – riusciva a riportarlo bruscamente alla realtà, saldamente coi piedi per terra.

Loki se n'era andato, ma non la sua scia di morte e distruzione. A pochi chilometri di distanza lo SHIELD si stava adoperando per mettere in sicurezza New York e i suoi abitanti, per ricostruire la città sfregiata dall'avvento dei Chitauri. La stima dei morti era stata impressionante: la consapevolezza di esserne stato complice aveva ancora il potere di nausearlo, di mettergli addosso dei veri e propri principi di panico. Cominciava a temere che non se ne sarebbe mai andata. Perché era vero che Loki l'aveva tenuto in suo potere con un qualche dannato incantesimo, ma Clint ricordavo tutto: ogni singolo ordine, ogni singolo ragionamento, pianificazione con cui li aveva portati minuziosamente a termine. Il suo libero arbitrio si era ritirato in una recondita parte del suo cervello, ma non aveva chiuso gli occhi: era rimasto a guardare, ad osservare lo scempio che Loki aveva commesso attraverso lui, ad ascoltare mentre le parole gli sgorgavano, impotenti, giù dalle labbra. Informazioni e segreti sul suo passato, sullo SHIELD, su Natasha... ricordava ancora, con sconcertante chiarezza, in che modo avrebbe dovuto ucciderla. Riusciva ancora a sentire, gelida e cocente insieme, la determinazione che l'aveva animato quando la donna l'aveva affrontato sul ponte dell'helicarrier. E comunque chi gli assicurava che Loki se ne fosse veramente andato? Che il potere dell'asgardiano non fosse ancora nascosto nella sua testa in attesa di riattivarsi?

Quell'equilibrio che era riuscito a riconquistare, anni e anni prima, dopo il circo, dopo l'esercito, dopo la depressione, aveva vacillato pericolosamente. Il fatto che il dio si fosse dato la pena di togliere di mezzo anche l'uomo che, in un certo senso, aveva fatto in modo che la sua vita prendesse una nuova direzione, una più giusta, era solo uno straziante, doloroso tocco di classe a completare l'opera.

Phil Coulson era morto nel tentativo di fermare Loki.

Nonostante il lavoro che faceva, Clint non si dava molta pena per la sua mortalità: certo, c'era sempre la paura di non farcela sopita da qualche parte in fondo al suo stomaco, ma quando cominci a sopravvivere, missione dopo missione, non puoi fare a meno di provare un ridicolo senso di onnipotenza. Lo stesso che ti fa credere – anche e soprattutto inconsciamente – di essere invincibile, di potertela cavare con qualche graffio, ferita, ammaccatura, ma di uscirne sempre e comunque in piedi.

Natasha aveva ragione, nessuno li aveva mai addestrati ad affrontare divinità e alieni di altri mondi dotati di strabilianti poteri magici, ma animati da sentimenti ancor più basilari: i mostri che Clint conosceva erano molto più terreni. Erano i terroristi contro cui lo SHIELD lo inviava, erano gli assassini, i politicanti in certi di gloria, i corrotti che non si sporcano mai le mani, erano le anime disperate che non avrebbero mai più ritrovato la via di casa, erano gli arroganti che credono di poter fare delle persone ciò che vogliono, erano suo padre e lo sguardo vacuo e impotente di sua madre.

Non era riuscito a metabolizzare la morte di Phil, non da subito. Il pensiero l'aveva colpito per la prima volta vivissimo e reale solo quando, pochi giorni prima, Natasha gli aveva ricordato che il funerale si sarebbe tenuto quel pomeriggio stesso. Le aveva risposto seccamente che non ci voleva andare, come se farsi vedere avesse comportato anche la realizzazione – l'ammissione? – che il suo più caro amico e mentore se n'era andato sul serio. Una volta per tutte. Aveva trascorso quelle ventiquattro ore come in apnea, combattendo con se stesso, evitando Natasha ad ogni costo finché non fu più capace di farne a meno.

Quant'era stupido e assolutamente blasfemo che il calore del suo corpo, l'odore della sua pelle, l'umidità dei suoi occhi e della sua bocca, rossa e vivissima, il suono dei suoi gemiti mentre la serrava nella trappola del suo corpo, fossero tutte cose capaci di dargli lucidità? Chiarezza. A dissipare la nebbia che rendeva ogni cosa pericolosamente uguale all'altra.

In quel mattino grigio e piovoso, il vento che entrava furiosamente dal finestrino aperto che gli scompigliava i capelli, Clint aveva deciso di abbandonare quello che era stato il loro rifugio per quei sette giorni. Visitare la tomba di Phil. Natasha si era offerta di accompagnarlo su quel suo bolide spaventoso, una Corvette Stingray nera che doveva aver avuto la pessima idea di regalarsi in qualche momento dei dodici mesi del suo forzato ritiro in New Mexico. La vista dell'auto gli aveva procurato la prima, sincera risata da quando si erano conclusi gli eventi di New York, insieme ad una sentitissima (e meritatissima) gomitata nello stomaco da parte della proprietaria del fuoristrada.

Socchiuse gli occhi e si concentrò solamente sull'urlo dell'aria.

Li riaprì nell'esatto momento in cui il motore dell'auto, parcheggiata all'ingresso del cimitero, si placava. Si liberò della cintura di sicurezza e aprì la portiera... bloccandosi solo quando si accorse che Natasha non pareva intenzionata a muoversi.

“Tu non vieni?”

“Ti aspetto qui.”

La osservò per qualche istante, studiando l'espressione del suo viso, trattenendo a malapena una richiesta di spiegazioni. Magari era perché non le piacevano gli addii, o forse pensava che rivolgersi ad un mucchio inanimato di carne ed ossa fosse completamente inutile, oppure perché capiva che, nonostante tutto, era una cosa che Clint doveva fare da solo. Molto probabilmente, si ritrovò a pensare, per una combinazione di tutte e tre le cose.

Ricacciò indietro le parole che insistevano per uscire, limitandosi ad annuire nella sua direzione. Pacate gocce d'acqua, quasi impercettibili, gli bagnarono rapidamente il viso e i capelli non appena fu uscito dall'abitacolo. Non ci mise molto a trovare la tomba di Coulson: un tumulo di terra smossa, soffocato da una gran quantità di fiori ancora freschi. L'odore dolciastro, amplificato dall'umidità, gli colpì le narici, acre.

Restò immobile, le mani cacciate nelle tasche del giubbotto di pelle, un'espressione di muta accusa dipinto sul volto. Come se quella lapide che riportava il nome di Phil potesse rispondergli e spiegargli perché e come era successo. Scusarsi, magari, per essersene andato senza alcun preavviso, senza un saluto.

“Dovrò farcela da solo, stavolta, mh?” Si ritrovò a deglutire a fatica, la gola che gli faceva male e gli occhi che bruciavano fastidiosamente. “Stronzo,” aggiunse, come per ridimensionare la cosa, darle il giusto tono. L'improvvisa consapevolezza di sentirsi come spinto sul bordo di un precipizio di cui non riusciva a scorgere il fondo, nel disperato tentativo di non cadere, gli dette le vertigini. Un compito da equilibristi: dopotutto, uno che era cresciuto nel circo, avrebbe trovato il modo di cavarsela, no?

La pioggia aveva cominciato a scendere più fitta quando fece ritorno alla Corvette e a Natasha. Lesse la novità nel suo sguardo prima ancora che cominciasse a parlare, togliendolo dall'imbarazzo di dover dire qualcosa, magari spiegarle com'era andata.

“Fury ha chiamato.”

“Credevo fossimo in vacanza.”

“Anch'io.”

“Che voleva?”

“Che accompagni Rogers da qualche parte.”

Una risata smorzata accompagnò la visualizzazione di quella particolare accoppiata: Capitan America e la Vedova Nera sembravano provenire da due pianeti (visto che andavano tanto di moda, ultimamente) completamente diversi.

“Ha chiamato anche te,” lo informò, porgendogli il suo cellulare, lo schermo – ancora ammaccato dallo scontro che era seguito alla prima apparizione di Loki nella sala del Tesseract – gli segnalava la chiamata persa.

“Spero non voglia che vada a stringere le viti ad Iron Man.”

“Neanche Fury è tanto crudele.”

 

*

 

I giorni, le settimane, i mesi, si susseguirono dapprima lentamente, con qualche difficoltà, poi sempre più rapidamente. Nonostante la meritata non-vacanza, il lavoro allo SHIELD riprese con il suo (in)solito tran-tran quotidiano: gli eventi di New York avevano avuto ripercussioni più o meno gravi ed evidenti in tutto il globo, conseguenze con cui gli agenti migliori dell'organizzazione erano stati costretti a fare i conti. A Natasha non dispiaceva: nei momenti di inattività era molto più facile perdersi in inutili e dannose elucubrazioni, molto più semplice cadere vittima di vecchi e nuovi incubi.

Divideva il suo tempo tra lo SHIELD, il suo appartamento e quello di Clint. Non credeva nessuno sapesse per certo della loro relazione, ma era altrettanto convinta che non ci fosse realmente bisogno di annunciarlo. I giorni gloriosi dello Strike Team Delta rimasero solo un ricordo: Fury, o chi per lui, doveva aver deciso di poter fare a meno della collaborazione dei suoi agenti di punta, inviandoli spesso e volentieri, ai capi opposti del mondo.

Se una parte di lei avrebbe affermato senza alcuna possibilità di errore che – qualsiasi fosse il tipo di relazione che intercorreva tra lei e Clint – sulla base di quella non avrebbe mai compromesso una missione, l'altra, quella più razionale, si rendeva conto di aver messo piede in territorio finora inesplorato, la invitava alla cautela e al sangue freddo. Tutto sommato, fu costretta a realizzare di non volersi mai trovare in una situazione del genere.

E poi le piaceva tornare nel bel mezzo della notte da Parigi, Stoccolma, Nairobi, La Paz o qualsiasi altra destinazione nazionale e internazionale, introdursi come una ladra nell'appartamento di Clint, infilarsi nel suo letto, farlo trasalire nel bel mezzo del sonno...

 

Tasha?” La voce ancora impastata dal sonno.

Dovrei essere qualcun altro?”

Scusa, è che alle volte perdo il cont – AHIA!” Un pizzicotto sul fianco. “Bentornata anche a te.”

Meglio..”

Mani che si cercavano sotto le coperte, senza trovare altro che un vecchio pigiama spaiato (di lui), e...

Natasha?”

Sì?”

Dove sono tutti i tuoi vestiti?”

Sul pavimento.”

Avresti potuto esordire con quello,” una mezza risata mentre l'attirava a sé, improvvisamente più sveglio.

Avrei potuto esordire prendendoti a pugni.”

Anche. Fortunatamente hai buon gusto.”

Sta' zitto, Barton.”

 

Aveva avuto modo di mostrargli il suo appartamento e, in mancanza di scale anti-incendio, botole o altre entrate secondarie ad effetto, aveva deciso di consegnargli una copia della sue chiavi: gesto che si era rivelato essere piuttosto in alto nella sua personalissima classifica delle missioni più complicate che avesse mai portato a termine...

 

Che cosa sono?”

Delle chiavi.”

Wow, Natasha, lo so che dico sempre che ci vedo meglio da una certa distanza, ma non sono completamente cieco neanche da vicino.”

Aveva alzato gli occhi al soffitto, in preda ad una rapida esasperazione, il calore che insisteva per risalirle su per il collo a colorarle le guance.

Le chiavi del mio appartamento.”

Sul serio?” Una luce strana nello sguardo.

Non guardarmi così, Clint, o giuro che me le riprendo.”

Così come?”

Stai ridendo.”

Ti giuro che non è vero!”

Credi che non lo capisca quando cerchi di trattenerti? Ridammele!”

No, me le hai date, ormai sono mie!”

Barton, sul serio, ridammi quelle stupide chiavi,” aveva tentato di strapparle alla sua presa, ma Clint aveva ritratto fulmineamente la mano, allontanandole dalla sua portata. “Ridammele!”

Sono un regalo!”

Sei uno stronzo!”

Uno stronzo che ha le tue chiavi di casa.”

Oh, qualcuno mi ammazzi.”

 

… per poi ritrovarselo davanti con un sorriso idiota sulla faccia, e la familiarità nei gesti; se mentre tentava inutilmente di mettere insieme qualcosa per cena, o dormiva, o leggeva o stava facendo la doccia, non aveva realmente alcuna importanza...

 

Oh, cazzo. Mi scusi ho sbagliato bagno,” fece per richiudere la tenda della doccia e andarsene.

Clint!” L'afferrò per un polso, le sue dita bagnate a sgusciargli sulla pelle.

No, sto cercando Phyllida.” La signora del piano di sotto, con un gatto per ciascuno (o quasi) dei presidenti degli Stati Uniti d'America.

Ci vai nudo?”

Non c'è niente che Phylly non sappia di me.”

Lo sa che non paghi mai le bollette in tempo?”

No.”

Ti conviene venire qua sotto e...”

... ridurre gli sprechi?”

Natasha si strinse nelle spalle, prendendo per buona la sua giustificazione.

Tu sì che pensi proprio a tutto, Nat.”

Aveva ritirato la tenda alle sue spalle, schiacciandola senza esitazioni contro la parete della doccia opacizzata dal vapore, soffocando una risata contro la sua bocca.

 

… oppure trascinarsi fino al tavolo del soggiorno per avere assurde conversazioni, a colazione, pranzo, cena, o nel bel mezzo della notte...

 

Com'era Taipei?”

Natasha, un cerotto ancora a coprirle gran parte di una guancia, scrollò le spalle, girando il cucchiaino nella sua tazza.

Piovosa,” si risolse a dire. “E Manila?” Rilanciò.

Clint, la spalla fasciata per una lussazione e un grosso bernoccolo sulla fronte, si limitò a ricambiare lo sguardo di lei.

Umida.”

 

… persino ricevere chiamate da parte di terzi mentre si trovava nell'appartamento di Clint...

 

Era rimasta a guardarlo con aria allucinata mentre tentava di ripescare il cordless da sotto il mobile della televisione. Per quanto volesse prestare attenzione al film attualmente in onda (Wargames, di un anno più vecchio di lei), aveva dovuto scendere a patti col fatto che Clint, che fino a quel momento neanche si ricordava di possedere una linea fissa, le stava offrendo uno spettacolo ben più interessante.

Il telefono non aveva smesso di squillare neppure per un istante.

Ah!” Clint l'aveva finalmente agguantato: non esitò a premere trionfalmente il pulsante di risposta e annunciare solennemente “Pronto?”

Ahm, pronto? Agente Barton? Ti disturbo?” La voce dall'altra capo della cornetta gli suonò familiare, senza tuttavia permettergli di capire di chi si trattasse, lì su due piedi. Sperò ardentemente di non dover dei soldi a nessuno.

Sì?”

Sono Rogers. Steve Rogers.”

Fu costretto a fare appello a tutto il suo autocontrollo, a premersi un pugno chiuso sulla bocca, per non mettersi a ridere. O urlare.

... non è che, per caso, potresti mettermi in contatto con l'agente Romanoff? Ho provato a chiamarla al... mobile o come si chiama, ma non mi risponde. E siccome è urgente, il direttore Fury vuole...”

Sì, sì...” annuì, mentre Natasha lo fissava con aria interrogativa, cercando di capire cos'è che lo divertisse così tanto. “Natasha è per te,” le porse il telefono. “E' Capitan America.”

 

… fino a situazioni ben più assurde.

 

Ho trovato questo dentro la scatola dei cereali,” era tornata in camera da letto mostrandogli una scatolina azzurrina; il nastro bianco, che completava il pacchetto neanche pochi secondi prima, sciolto nell'altra mano. Clint, abbandonato sui cuscini e le lenzuola sfatte, era impallidito di colpo.

T-Tu non li mangi mai i cereali... ?”

Era una domanda o un'affermazione?” Domandò perplessa, “e comunque ci stavo preparando la colazione.” O almeno lo avrebbe fatto se Clint si fosse ricordato di fare la spesa.

L'hai aperta?” Sembrava che lo shock l'avesse aiutato a recuperare lucidità, richiamarlo all'attenzione in piena emergenza.

Sì, l'ho aperta,” tentò di ostentare un certo disinteresse, giusto per mascherare il fatto che aveva potenzialmente trovato dei gioielli nascosti nella sua cucina e non si era neppure chiesta per chi o cosa fossero, prima di scartare impunemente il pacchetto.

Oh cazzo,” esalò, le mani ben piantate nei capelli spettinati.

Perché?”

Non...” si era rimesso seduto, l'imbarazzo ad accendergli gli occhi e il viso. “Non lo devi mettere per forza.”

E' per me?”

La domanda aveva avuto l'effetto di farlo tornare improvvisamente il Clint di sempre.

No, era per Hulk, ma mi sono reso conto di aver preso la taglia sbagliata, quindi tanto vale...”

Le collane non hanno taglie,” obiettò.

Ti sembra davvero la cosa più adatta con cui rispondere?”

Non lo so. Non mi hanno mai regalato gioielli prima d'ora.” Realizzò quello che stava succedendo solo dopo aver pronunciato quelle parole ad alta voce, senza neppure pensarci.

Non volevo comprartelo sul serio.”

L'hai rubato?” Gli sorrise, mettendosi seduta sul letto.

No, l'ho comprato, ma...” inspirò a fondo, sforzandosi di suonare sicuro di sé. “L'ho vista in vetrina e mi sei venuta in mente tu. E basta.”

Va bene.”

E pensavo che, boh, non è che voglio marchiarti o qualcosa di altrettanto stupido...”

Lo so.”

... o dire all'universo quello che sta succedendo, perché non farei mai niente che possa rovinare questo, non volontariamente almeno...”

Ah-ah.”

Però se hai qualcosa che ti può... r-ricordare di me anche quando non ci vediamo... che a-anche se non... s-se non ci sono... c-ci sono,” era diventato paonazzo.

Sì.”

Non c-come l'altra volta a New York che non... c-cazzo, dammi solo un secondo.” Si era alzato dal letto con una discreta furia, coprendosi il viso con entrambe le mani (per il resto, immancabilmente nudo). Le dette le spalle, rivolto alla finestra, come in un improvviso raccoglimento spirituale.

Fece per chiedergli se si sentisse bene, ma decise che, data la delicatezza del momento, era meglio tacere. Lo fece finché non fu lui a rivolgerlesi di nuovo, inspirando profondamente, forse per incoraggiarsi.

Natasha... è solo una dannata collana con un ciondolo a forma di freccia,” decretò bruscamente.

Me ne sono accorta.” Gli sorrise, riuscendo a sfaldare l'espressione seriosa che aveva indossato.

Quindi non...”

... non?”

Clint assottigliò lo sguardo, studiando attentamente la sua reazione, come per carpirle chissà che recondito segreto, direttamente dalle profondità del suo inconscio.

No, niente,” si strinse nelle spalle, come per scrollarsi di dosso l'impaccio, adesso più divertito che altro.

Me la metti?”

Sì, ma... te l'ho detto,” tornò a sedersi sul letto accanto a lei, prendendo la catenina finissima che Natasha gli stava porgendo, “non sei obbligata a metterla.”

Lo so,” ribadì, dandogli leggermente le spalle e raccogliendo i capelli sulla nuca per agevolargli l'operazione.

Lo sentì trattenere il fiato, esitare ancora qualche secondo e infine cingerle il collo con quel filo d'oro, assicurandone il gancetto con un leggero clic.

Fatto.”

Grazie.” Tastò la consistenza quasi impalpabile del ciondolo contro la sua pelle, soddisfatta anche se non del tutto consapevole. Si sporse verso di lui per baciarlo sulle labbra. “Andiamo a fare colazione fuori? Ho voglia di bagel.”

Clint, che aveva l'aria di essere ubriaco, annuì con un po' troppa convinzione.

 

Qualsiasi cosa fosse, in qualunque modo la si potesse definire, non era sicura che l'avrebbe scambiata per nient'altro al mondo.

 

*

 

“Sarò di ritorno tra cinque giorni, una settimana al massimo,” le assicurò.

“Non sono preoccupata.”

“Potresti almeno avere la decenza di mostrarti almeno un po' addolorata.”

“Addolorata per cosa?”

“Per la mia imminente partenza.”

Natasha, distesa sul tappeto, gli scoccò un'occhiata volutamente glaciale, ricevendone una scettica in cambio.

“Sopravviverò,” non poté fare a meno di dirgli.

“Ne sono sicuro.” Finì di rivestirsi, recuperando la giacca abbandonata sullo schienale del divano nell'appartamento di lei (neppure quella volta erano riusciti ad arrivare in camera da letto).

“Sarò a Washington,” aggiunse, guardandolo da sotto in su mentre si muoveva per la stanza.

“Fury?”

Annuì, allungando un piede per tamburellarglielo sul ginocchio quando le fu di nuovo vicino.

“Lo sai? Non puoi startene lì tutta a nuda quando sai che me ne devo proprio andare.”

“Sì che posso.”

Le afferrò la caviglia, chinandosi sulle gambe per sporgersi verso di lei, senza lasciarla andare.

“Sei una stronza.”

“Lo so.”

Arrivò a sfiorarle il naso col proprio, trattenne il respiro e fece per baciarla, ad accontentare le sue labbra dischiuse, ma... si ritirò sul più bello, lanciandole addosso la felpa a righe raccolta dal pavimento, dove la foga di spogliarsi l'aveva costretta ad abbandonarla.

“Copriti svergognata!” Si rimise in piedi, lasciandola ad annaspare come un pesce fuor d'acqua.

“Clint, giuro che te ne pentirai amaramente.”

“Non c'è bisogno di giurare,” l'ammonì, “me ne sto già pentendo,” le confessò, recuperando le ultime cose sparse per il salotto, prima di decidersi finalmente ad avviarsi – a malincuore – verso l'ingresso.

“Potrei morire mentre non ci sei!”

“Soffocata dai verbali in burocratese anni Quaranta di Rogers?” La porta che si apriva, il passo di Clint di nuovo fermo.

“Non sei divertente.”

“Lo so,” scimmiottò (malissimo) l'inflessione della sua voce.

“Ti odio!”

“Mi mancherai!” La porta si chiuse su quelle poche, ultime sillabe.

 

****************

E penultimo capitolo sia! Con tutti i siparietti stupidi che ci siamo guadagnate dopo tanto patire ù_ù Per quanto riguarda la scenetta Manila/Taipei ho ripreso un'idea che avevo usato per un mio photoset su Tumblr; mentre la possibilità che la collana col ciondolo a freccia sia di Tiffany l'ho letta casualmente in giro e me ne sono appropriata senza troppe cerimonie. L'episodio del Capitano che chiama a casa di Clint invece è rubata da un fumetto (o almeno spero, sennò ti ho scippato anche questo dettaglio, Eli! XD)
Come avrete intuito, mancano da rimettere insieme solo gli eventi di CA:TWS e poi siamo... a cavallo :P
Non mi rimane nient'altro da dire, a parte ringraziare per la penultima volta la mia beta/socia/terapista Eli per il sostegno e la sopportazione (XD) e tutti voi che state ancora leggendo/commentando :3 sono contenta che mi abbiate seguito fin qui! *sigh*
Allora alla prossima con... bè, la fine!
S.

 

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Capitolo 18
*** Holding Hands While the Walls Come Tumbling Down ***


18


There's a room where the light won't find you
Holding hands while the walls come tumbling down
When they do, I'll be right behind you

(Tears for Fears – Everybody Wants to Rule the World)

 

Furono sufficienti tre giorni per capovolgere il mondo che aveva imparato a conoscere.

Tre giorni in cui tutto ciò che poteva andare storto, decise di farlo, prendendo un'inaspettata, inevitabile piega per il peggio.

Settantadue ore che l'avevano costretta a sbattere le palpebre, stropicciarsi gli occhi e assestarli su una nuova, inedita prospettiva.

Credeva fermamente che la verità non fosse mai allo stesso tempo la stessa cosa per tutti e, se sapeva che non era il modo migliore in cui vivere, era sicura fosse quello più efficace per non morire. L'errore fatale era stato dare per scontato che fosse lei la manipolatrice, lei la burattinaia che gestiva ogni sfaccettatura, che decideva quale aspetto mostrare a chi e quando, come e perché. L'inganno stava nella fiducia che, bene o male, aveva voluto riporre nello SHIELD: se era stata scettica quando Fury le aveva concesso quella seconda possibilità di redenzione, si era vista costretta a rendersi conto che aveva voluto crederci... troppo. Quasi ciecamente.

Nessuno avrebbe potuto assicurarle al cento per cento, al di là di ogni ragionevole dubbio, che lo SHIELD si sarebbe attenuto alle condizioni pattuite. Eppure, con il tempo e inconsapevolmente, si era fidata. L'organizzazione era diventata tutta la famiglia che aveva, una famiglia con la quale non aveva che sporadici contatti e relazioni degne di nota che avrebbe potuto contare sulle dita di una mano, ma pur sempre una famiglia.

Si era ripromessa che non avrebbe mai più mentito senza cognizione di causa, mai più bugie ad occhi chiusi, recepite dall'alto ed eseguite con incredibile maestria, senza neppure un briciolo di consapevolezza.

Ma l'aveva fatto. Quante delle missioni che aveva portato a termine con successo erano state pilotate dall'HYDRA? Quante persone aveva ucciso, catturato, rivelato, sulla scorta di onorevoli pretesti che non erano altro che illusioni travestite? (Non è colpa mia, continuava a ricordarsi fermamente, non è colpa mia. Ma scagionare se stessa era sempre tanto più difficile che farlo con gli altri.)

Aveva giurato che il passato non si sarebbe ripetuto, che avrebbe rifatto tutto daccapo, che l'avrebbe fatto bene, seguendo le regole. Tra tutti gli ostacoli che aveva incontrato sulla propria strada, quello era decisamente il peggiore, l'unico davvero insormontabile: correggere la traiettoria in corsa, stavolta, non sarebbe servito a niente.

Non era più soltanto un problema di chi le avrebbe offerto un lavoro quando le cose si sarebbero sistemate: quelle settantadue ore si erano portate dietro episodi che, un colpo ben assestato alla volta, avevano smantellato l'intero edificio delle sue più solide convinzioni.

Il direttore Fury che, nelle sue brusche e impostate manifestazioni d'affetto, in quegli ultimi quindici anni, era stato come un padre per lei, aveva orchestrato la sua dipartita, mettendone al corrente solo pochi, selezionati individui. Che succede quando alla resa dei conti ti ritrovi inevitabilmente fuori dal cerchio in cui eri convinta di essere? Aveva pianto sul suo cadavere, aveva preso la sua morte come un affronto personale (Non farmi questo, Nick, non farmi questo) per poi scoprire che la realtà dei fatti, sebbene meno tragica, aveva un sapore molto più amaro. Fury aveva semplicemente deciso di non potersi fidare di lei: magari l'aveva creduta inaffidabile, o forse una dei primi agenti candidati alla diserzione in favore della neo-manifestata HYDRA. Sapeva che il direttore le voleva – a suo modo – bene, gliel'aveva letto nello sguardo che le aveva rivolto alla base di fortuna che riuniva tutti i suoi superstiti fedelissimi, e poi più tardi, quando l'aveva aiutata a riprendersi e fuggire dall'ufficio di Pierce... quella e altre cento volte prima di quei tre giorni infernali. Era perfettamente consapevole del fatto che era stata una semplice questione di priorità: ferire i sentimenti di uno per assicurare l'incolumità di molti. Il ragionamento risuonava lucido e razionale nella sua testa, ma pungeva gelido e carico di delusione da qualche parte all'altezza del suo petto. E non era forse vero che, al suo posto, avrebbe preso la stessa identica decisione?

Aveva dovuto scendere a patti con la consapevolezza che l'unica via d'uscita da tutto quel caos era rendere pubblici i segreti dell'HYDRA, quelli dello SHIELD e dunque i suoi. Era pronta perché il mondo la vedesse com'era realmente? Una bambina plagiata, cresciuta per diventare un'adolescente letale, una ragazzina che si era macchiata le mani di infiniti delitti. Un'assassina. Un mostro.

No, che non era pronta: quelli erano state informazioni condivise col contagocce, con persone selezionate, nel corso di anni... più di un decennio, ormai. Il rosso straripante del suo fascicolo era diventato affare pubblico, tutti i suoi peccati messi in bella mostra per dieci, cento, mille, milioni di paia d'occhi giudicanti. Sarebbe bastata una linea Internet funzionante per accedere al suo curriculum completo, per vederla com'era realmente... così come temeva di essere.

In una sorta di paradossale ironia, persino i fantasmi della sua infanzia avevano deciso di scendere in scena: dopo quattro anni dagli eventi di Odessa, si era ritrovata a dover fronteggiare di nuovo il Soldato d'Inverno. Stavolta non c'erano stati cavilli di sorta a metterla al sicuro dalla sua furia, ma nonostante fosse stata un suo obbiettivo a tutti gli effetti, era riuscita a sfuggirgli, a neutralizzare – se non a sconfiggere – la sua offensiva.

Con Steve fuoriuso, il direttore ufficialmente morto e la Hill impegnata, era stata costretta a spiegare davanti ad una commissione di dannati burocrati incompetenti perché e per come l'organizzazione che avrebbe dovuto garantire la sicurezza del mondo intero si era sfaldata su se stessa come neve al sole, quando la serpe che portava in seno era finalmente uscita allo scoperto.

In tutto quel caos, però, c'era una sensazione che aleggiava su tutte le altre, che si imponeva sulla paura per l'incertezza del futuro, sulla rabbia per il tradimento subito, sulla confusione che aveva improvvisamente stabilito il proprio il dominio nella sua vita.

Natasha si sentiva libera.

Per la prima volta da quando la Red Room prima, lo SHIELD poi, l'avevano accolta tra le proprie file, tutti i suoi alias, tutte le sue coperture, tutte quelle identità che aveva via via assunto per meglio recitare le commedie da loro impartitele, erano sparite. In quel preciso momento della sua vita, Natasha era solo Natasha.

In fin dei conti, non aveva senso preoccuparsi della reazione del mondo alla rivelazione del suo passato: positiva o negativa che fosse (e le avvisaglie le suggerivano che non ci sarebbero state molte parole buone spese sul suo conto o su quello di chi l'aveva arruolata), non poteva controllarla. In nessun modo.

Scoprire di avere la forza – la voglia – anche in faccia al tradimento, di sacrificarsi per quello in cui aveva nonostante tutto creduto giusto, le aveva dato una forza nuova. Aveva permesso che la sua storia venisse raccontata perché i piani di Pierce si arrestassero, si era messa consapevolmente in pericolo affinché Fury completasse l'opera. La sua identità, tanto dolorosamente conquistata, non aveva vacillato sotto le scosse di quel terremoto che ne aveva messo in pericolo la stabilità: mentre tutto il resto crollava, si era riscoperta immobile. C'erano tante cose di se stessa che non le piacevano, tante abitudini che continuavano a minacciare di tenerla lontana da una vita vera, significativa, che avevano rimesso in dubbio alcune delle sue più fondate convinzioni, lasciando che si sgretolassero alla luce del sole. Eppure, irrazionalmente, si sentiva forte come mai prima d'allora.

Non l'aveva fatto per lo SHIELD e neanche per Fury: l'aveva fatto per se stessa. L'aveva fatto per onorare la scelta di quella ragazzina dell'accademia SHIELD che aveva semplicemente deciso di aspettare... e vedere come sarebbe andata. Natasha non sarebbe scomparsa insieme all'organizzazione che l'aveva accolta: le sarebbe sopravvissuta, come faceva sempre e no, stavolta non si sarebbe annullata per ricominciare da zero.

Contro ogni pronostico e a dispetto delle frivole conversazioni che avevano intrattenuto, Natasha era persino riuscita a farsi un amico: in un certo senso, quel campione della Seconda Guerra Mondiale, ligio al dovere, onesto fino allo stremo, le ricordava se stessa in quei primi giorni negli Stati Uniti. Trapiantata in un nuovo mondo di cui aveva imparato le regole, ma non come metterle in pratica, staccata, in realtà, da tutto e da tutti, rifiutando strenuamente qualsiasi contatto che fosse andato al di là delle solite parole di circostanza. Magari era vero che Steve non era tagliato per quel lavoro. In fin dei conti, forse, neanche lei lo era.

Si era resa conto che ciò che aveva importanza, in quel preciso momento, non era di chi si fidasse, ma di chi fosse stato tanto folle – ma lucido – da fidarsi di lei. Ammesso e non concesso che Capitan America avesse mai avuto bisogno di essere salvato dalla Vedova Nera, Steve avrebbe rimesso la propria vita nelle sue mani. Qualcosa che neanche quel pilastro della sua esistenza che era stato Fury, alla fine, si era rivelato disposto a fare.

Non le importava più in quanti e quali cerchie ristrette si trovasse: l'unica cosa che le interessava, adesso, era costruirsene una propria.

Il primo passo era recuperarne una parte essenziale.

 

*

 

“Occupato!” Fece eco al ripetuto bussare alla porta del bagno del treno.

“Che cazzo stai facendo là dentro, amico? Cos'è questo rumore?”

Clint inorridì all'improvvisa ostilità, lanciando un'occhiata allo smartphone appoggiato sul porta-salviette, che continuava a trasmettere notiziari non-stop da tutto il mondo.

“Mi tengo aggiornato, amico,” gli restituì l'appellativo.

“Qui c'è gente che ha bisogno di usare il bagno!”

“Non esiste solo questo bagno.”

“Vaffanculo.”

“E' stato un piacere!”

Rimase in ascolto finché i passi in allontanamento non gli assicurarono che lo sconosciuto – chiunque fosse – se n'era andato. Tornò ad occuparsi dell'operazione in corso, radersi, tenendo sempre sott'occhio il telefono in caso di novità.

Le immagini, le clip, le interviste, le dichiarazioni dei diretti interessati e i pareri degli opinionisti si sprecavano: gli eventi di Washington avevano avuto ripercussioni a livello internazionale. Durante la sua rocambolesca fuga dalle grinfie degli agenti SHIELD – che poi tanto SHIELD non erano – durante la sua ultima missione, conclusasi piuttosto bruscamente, aveva visto il volto di Natasha ripetuto su tutti gli schermi dell'aeroporto di Shanghai. Dopo il primo momento di shock, aveva immediatamente intuito che c'era qualcosa che non andava, ma non era riuscito a dare un senso a ciò che era successo finché notizie più chiare non l'avevano raggiunto dagli Stati Uniti.

Era rimasto ad osservare, impotente e pallido, mentre l'annunciatrice del telegiornale lo informava che il direttore Nicholas J. Fury era morto. Che lo SHIELD era stato infiltrato da un'organizzazione che Clint avrebbe definito – nel migliore dei casi – vintage, che era successivamente caduta sotto il peso della rivelazione. Che tutti i segreti di quelli che erano stati i loro agenti, non importava a chi fossero stati fedeli, si erano fatti strada in rete... inclusi i suoi.

E poi aveva visto Natasha... viva, impegnata ad affrontare una folla di giornalisti, fotografi e – quel che era peggio – rappresentanti del governo e dell'esercito. Se doveva essere sincero, la prima volta non aveva capito granché di quello che le venne chiesto, o di cosa la donna avesse risposto. Si era limitato ad osservarla, alla ricerca del benché minimo segno che gli potesse rivelare come stava. Come stava davvero. La vista della sottilissima collana che portava ancora al collo, poi, che probabilmente lui solo aveva notato, non aveva fatto altro che deviare i suoi pensieri altrove.

I servizi e gli speciali si erano moltiplicati nel tempo durante tutto l'accidentato tragitto che l'aveva portato fuori dalla Cina prima, in Arabia Saudita poi. Ne aveva sentito parlare talmente tanto assiduamente e insistentemente, in così tante lingue diverse, che era stato infine costretto a farsene una ragione. Quando, sul punto di imbarcarsi su un aereo che l'avrebbe portato in Marocco, era incappato in un programma di moda che si riprometteva di giudicare il look di Natasha all'udienza, aveva deciso di averne veramente avuto abbastanza.

A migliorare la situazione, e ad impedirgli di prendere quel volo, era stato un messaggio criptato che aveva ricevuto sul suo secondo cellulare e che aveva cambiato radicalmente la sua destinazione.

Aveva trascorso l'intera giornata a cercare un modo per uscire dal paese, ad evitare le telecamere di sicurezza sparse agli angoli di ogni singola strada, e a rendersi un po' meno riconoscibile, nel caso qualcun altro si fosse deciso a volerlo togliere di mezzo. Infine, era riuscito a prenotare sotto falso nome un posto su un piccolo jet diretto in Turchia quel pomeriggio.

Giunto a destinazione la sera stessa, esausto, aveva tentato di prendere sonno – almeno per un paio d'ore – in una fatiscente camera d'albergo di Istanbul, quando il telefono aveva squillato. Una rapida occhiata al display ad informarlo che non era Natasha... e che d'altro canto lei era l'unica, insieme al direttore Fury, ad avere quel numero. Gli ci era voluto un minuto buono per decidersi a rispondere, e poi si pentì d'averlo fatto.

 

Nat?”

Tony.”

Tony?”

Tony Stark. Hai battuto la testa, Legolas?”

Stark... c-che... come -”

Dovresti dire alla tua ragazza di utilizzare un sistema di decriptazione più sofisticato. Ci ho messo mezz'ora a trovarti.”

Mezz'ora?” Il termine operativo era: stordito.

Va bene, se insisti... ci ho messo quattro ore e mezzo, ma non dirlo alla Romanoff o si monterà la testa.”

Stark, ti giuro che non -” Interrotto. Di nuovo.

Ascoltami bene, Barton. Vi ho prenotato una camera d'albergo sulla graziosa isoletta in cui avverrà il vostro rendez-vous.”

Mi spieghi di che cazzo stai parlando?”

Non importa che mi ringrazi.”

A quel punto Clint aveva cominciato a prendere in seria considerazione la possibilità di gettare il telefono nel cesso e tirare lo sciacquone senza troppi complimenti.

Non c'è pericolo,” puntualizzò.

Okay, dicevo... dopo la vostra fuga d'amore, vi aspetto qui da me a New York.”

Da te?”

Alla torre.”

La Stark Tower?”

L'Avengers Tower, Barton. Dio mio, ma dove sei stato fino ad ora?”

A tentare di non farmi uccidere. E tu?”

Ero in vacanza a Bali. Non puoi andartene un secondo che qui ti fanno saltare la casa da sotto i piedi.” Clint suppose che, in materia, gli conveniva affidarsi al miliardario a cui facevano esplodere una villa all'anno.

Suppongo di... sì?” Dire che era confuso, sarebbe stato riduttivo.

Vi ho appena mandato un invito sul vostro nuovo server sicuro.”

Stark, non credo di star capen -” Un rumore, un segnale sonoro di qualche tipo a raggiungerlo dall'altro capo della cornetta.

Oh, oh, devo andare.”

Grazie al cielo.”

Saluta Fury se lo vedi.”

Fury è morto.”

Ci piacerebbe, Barton, ci piacerebbe,” fece per riattaccare. “Ah no, aspetta! Hai per caso il numero di Thor?”

Sì, certo, aspetta che chiedo alla segretaria del mio ufficio interplanetario.”

Dove nessun uomo è mai stato prima...”

 

Sul treno che l'avrebbe portato in Grecia, mentre si liberava della barba incolta che si era fatto crescere in quei giorni, utilizzando una rasoio usa e getta che gli irritava fastidiosamente la pelle, realizzò che, dopotutto, la notizia della caduta dello SHIELD non l'aveva colpito come si sarebbe aspettato.

In quegli ultimi due anni il lavoro era andato avanti come sempre, senza intoppi e a buon ritmo: era stato lui a concentrarsi su altro, a ritagliarsi uno spazio personale ben più consistente. Il tramite tra lui e l'organizzazione era stato Phil: alla sua morte si era ripromesso di farcela da solo, senza appoggiarsi a niente e nessuno, nemmeno a Natasha. Il ruolo che lo SHIELD giocava nella sua esistenza si era ridimensionato di colpo quel giorno di pioggia in cui aveva salutato il suo agente supervisore per l'ultima volta.

 

*

 

Sommessi passi nella sabbia.

Natasha tenne gli occhi chiusi, godendosi il leggero soffiare del vento, lo spicchio ombroso dell'ombrellone sotto cui era appostata, l'odore del mare che andava e veniva in onde tiepide sulla spiaggia.

Si calcò il cappello di paglia a tesa larga sulla fronte, mentre con l'altra mano tastava alla cieca nella borsa che aveva portato con sé, alla ricerca della crema solare.

I passi si fermarono proprio quando le sue dita si strinsero sul flacone. Non rialzò lo sguardo, limitandosi ad offrirlo a chi le si era avvicinato.

“Giusto in tempo per aiutarmi a spalmare la crema,” si calcò gli occhiali da sole sul naso, decidendosi finalmente a guardare il nuovo venuto da sotto in su.

Clint, gli occhi a sua volta schermati da un paio di lenti scure, si era appena frapposto tra lei e il sole. Era in tenuta balneare, mimetizzato – come lei – alla perfezione sulla spiaggetta di un'isola greca qualunque. Gli scoccò un'occhiata interrogativa mentre prendeva il flacone che gli stava porgendo, rigirandoselo tra le mani con aria titubante.

“Protezione cinquanta? Dovevi prendere quella per bambini.”

“Non sono pallida come sembro.”

“Sei esattamente pallida come sembri,” ribatté, sfilandosi gli occhiali prima di costringerla a spostare le gambe distese sulla sdraio per fargli posto.

“Avrei dovuto mandarti le coordinate per la Groenlandia e accontentarmi di poterti pensare solo e triste tra i ghiacciai,” lo apostrofò, ostentando un'irritazione che non le apparteneva, non realmente.

Non erano passate neanche due settimane dall'ultima volta che l'aveva visto, eppure le sembravano mesi. Anni, persino. Quasi fosse stata una conoscenza appartenente ad un mondo diverso. Uno in cui esisteva lo SHIELD, in cui le loro vite erano inestricabilmente legate all'organizzazione, in cui non erano stati altro che spie al servizio del miglior offerente, di chi – o così avevano creduto – avrebbe permesso loro di riportare le loro esistenze sui giusti binari.

Il sollievo era stato immediato. Si tolse gli occhiali per poterlo guardare meglio: a parte qualche graffio sul collo e una fasciatura all'altezza dell'avambraccio sinistro, sembrava tutto intero.

“Bel cappello,” si complimentò con un mezzo sorriso, nascondendo a malapena la preoccupazione che nonostante tutto gli turbava lo sguardo.

“Sto bene,” lo rassicurò.

Clint allungò una mano per sfiorarle la medicazione all'altezza della spalla sinistra, un'espressione contrita sul volto.

“E' solo un graffio,” Natasha insisté senza abbandonare il tono leggero con cui l'aveva accolto, “proprio sulla cicatrice della tua freccia.” Adesso erano due i marchi incancellabili che il Soldato d'Inverno aveva impresso sulla sua pelle. Le ricordavano che era sopravvissuta altrettante volte a quello che era stato un incubo della sua infanzia; un incubo che non si era rivelato nient'altro che un esser umano, una vittima proprio come lei. Aveva deciso di esibirle entrambe, nemmeno un filo di trucco a mascherare l'irregolarità ormai cicatrizzata sul ventre... ma esposta alla luce del sole, dove tutti avrebbero potuto vederla.

“E' soddisfazione quella che sento?”

“L'unica volta in cui hai avuto la meglio su di me, e adesso non ho più neanche una cicatrice che l'attesti,” ci tenne a sottolineare. “Ovvio che sono soddisfatta.”

“Sono sempre in tempo per prendere un diretto per la Groenlandia, lo sai?”

“Sta' zitto, non ti lamentare,” lo rimbrottò, abbandonando il cappello sulla borsa per decidersi finalmente a dargli le spalle. “Com'è andata a Shanghai?”

“A parte un paio di persone incredibilmente determinate ad uccidermi, è andata bene.”

“Mi dispiace per la fuga di informazioni,” mutò leggermente il tono. Non erano stati solo i suoi segreti ad essere stati riversati sul web, ma anche quelli di Clint, di qualsiasi altro agente dello SHIELD insieme a lui... lei era stata l'unica ad affrontare consapevolmente quella scelta.

“Lo so che non avresti potuto fare altrimenti.”

“Ci troveranno, prima o poi.” Rilasciò un mezzo sospiro quando le mani di Clint furono su di lei, la crema fredda sulle dita, i suoi polpastrelli ruvidi al contatto.

“Probabilmente.”

“Hai parlato con Stark?”

“Non ho avuto molta scelta.”

“Ci vuole di ritorno a New York a breve.”

“Credi che sia sicuro?”

“Temo non ci sia più niente di sicuro, Clint. Siamo allo scoperto.” Si voltò leggermente verso di lui per poterlo guardare in viso. “Ti dispiace?”

“Essere allo scoperto?” Si strinse nelle spalle, cancellando le tracce bianche che le erano rimaste sulla schiena e sui fianchi. “Sono pazzo se dico di no?”

Natasha scosse il capo, limitandosi ad osservarlo per qualche istante, sovrappensiero.

“Hai presente quello che dice sempre Fury? Che tutti possono fare qualcosa di importante se si rendono conto di essere -”

“- parte di qualcosa di più grande?”

“Già,” confermò, tornando a fronteggiarlo per sfilargli il flacone di mano e rendergli il favore. “Magari il tuo e il mio qualcosa in fin dei conti non era lo SHIELD.” Approfittò delle operazioni per non dover incontrare i suoi occhi, ma non poté fare a meno di sentirsi lo sguardo di Clint fisso addosso.

“Magari sì,” le concesse dopo un lunghissimo attimo di silenzio. Se poi quel qualcosa fosse stato i Vendicatori, il loro sodalizio o altro, quello non avrebbe saputo dirlo... magari era tutte quelle cose e nessuna.

Quando Natasha si decise a rialzare il capo, mentre ancora finiva di spalmargli la crema sulle braccia, si accorse che stava sorridendo.

“Ti ho vista in tv.”

“L'udienza davanti alla commissione del Ministero della Difesa?”

Clint annuì, riuscendo a malapena a nascondere il divertimento che gli animava il volto. “Sei stata pazzesca,” decretò, allungando una mano per sfiorarle il ciondolo a forma di freccia che ancora faceva bella mostra di sé – quasi invisibile – alla base del suo collo.

“Ruffiano.”

“Dico solo che sarebbe stato difficile non fare il tifo per te.”

“C'è un sacco di gente che non fa il tifo per me.”

“Non ti capiscono.”

“Perché dovrebbero? Probabilmente al loro posto non farei diversamente.”

“Non sei al loro posto.”

“Lo so. Non vorrei neanche... questo è il posto che conta.” Il mio. Cercò i suoi occhi, leggendo una speculare consapevolezza nel suo sguardo. Ricambiò il sorriso, mentre si accorgeva che meno aveva bisogno di lui – più capiva di essere veramente indipendente, di potersi reggere autonomamente sulle proprie gambe – e più lo voleva.

“Solo Natasha?”

“Solo Natasha,” confermò a mezza voce, richiudendo il flacone di crema prima di ributtarlo nella borsa, insieme ai pochi effetti personali che aveva portato con sé. “E tu?”

“Solo il migliore,” asserì, guadagnandosi un'occhiata fulminante. “Volevo dire: Clint.”

“Volevi dire: Clinton,” non riuscì a trattenersi.

“Credo di poter affermare con assoluta certezza che il tuo essere stronza fa inevitabilmente parte di te.”

“Molto probabilmente.”

Senza la Red Room e lo SHIELD tra i piedi, forse era davvero quello il primo, unico momento della sua vita in cui avrebbe potuto decidere chi era veramente Natasha Romanoff. Una che non aveva bisogno di inventare fandonie o nuove identità per rapportarsi col mondo e con chi le stava a cuore...

“Che si fa adesso?”

Natasha si strinse nelle spalle, facendo vagare lo sguardo sulle poche persone che erano scese in spiaggia così presto. “Ho voglia di fare un bagno,” decise infine, solennemente.

Clint annuì, rimettendosi in piedi per sfilarsi la t-shirt e abbandonare le ciabatte da qualche parte sotto la sdraio.

“Chi arriva ultimo è Jasper Sitwell!” Esclamò di punto in bianco, scattando fuori dal cerchio scuro dell'ombrellone sollevando un gran polverone di sabbia rosata e finissima.

“Clint!” Natasha allargò le braccia, guardandolo mentre correva verso il mare, esasperata. Fece per aggiungere qualcosa di estremamente secco e pungente, ma decise altrimenti. “Aspettami!”

Uscì dall'ombra: la sabbia era calda e accogliente sotto le piante dei suoi piedi.

Lasciò che la luce del sole la investisse.

 

****************

... aaaand that's all, folks!
A parte gli scherzi, spero mi perdonerete il simbolismo spicciolo luce/ombra che è stato un po' l'invisibile filo conduttore della storia (a partire dal titolo).
Mi piace pensare che la "nuova copertura" di cui Natasha parla alla fine di CATWS non sia una copertura affatto (anche se a riguardare il film mi pare evidente che sia in crisi esistenziale XD qui me la sono immaginata più aperta all'avventura e curiosa di vedere cos'è che il futuro ha in serbo). (Noi che lo sappiamo ridiamo, ma... povera Natasha XD). Va da sé che secondo me è andata a cercare Clint non appena il film è finito, e do assolutamente per scontato che Barton fosse fuori dal paese (e non tre giorni addormentato sotto il letto mentre il mondo crollava XD).
Oltre a questo non aggiungerò quanto amo questi due o rischio di diventare prolissa et imbarazzante ù_ù
Ringraziamenti di rito conclusivi:
- ad Eli per aver letto e testato tutto in anteprima e avermi consigliato. Anche se dovrà pagarmi un salatissimo conto dallo psicologo per avermi convinto a guardare The Avengers tanto per cominciare e per avermi gettata nel baratro oscuro che è la Clintasha nel quale sguazzo da due anni (e il problema è che la psicosi si aggrava col tempo WTF). Quindi grazie, ma anche no grazie :PPP Ma non sarebbe divertente sclerare senza di te... anche perché mi toccherebbe sclerare col gatto, e non credo che il gatto apprezzi proprio per niente *cough* Quindi <3
- a tutti coloro che hanno letto & recensito, a missgenius, Dalamar F16, Lady Leggy, Ginge, Angel86, Eliuz85, Nali88 e in particolar modo a Frau Blucher & Blackmoody :3 (spero di non aver scordato nessuno).

Copio il momento pubblicità dalla socia: siccome questa storia è più spostata verso Natasha (*pettina Natasha*) che Clint, vi consiglio di leggere Cinque Centesimi che è tutta incentrata su Clint e ormai sul Clint che ho preso per buono (Eli, aggiungilo alla lista delle tue colpe) e se ancora non l'avete fatto vi state perdendo molto ù_ù (e poi Clintasha!).
Altri consigli per la lettura:
- Light Years sempre di Sheep01 e sempre Clintasha anni '90 perché non se ne può avere mai abbastanza;
- La Leggenda degli Straordinari Vendicatori di The Commas (Frau Blucher & Blackmoody) perché... "Avengers nell'epoca vittoriana" dovrebbe essere già un motivo sufficiente per cliccare sul titolo. Ma se avete davvero voglia di leggere una fanfiction che sembra più un romanzo d'altri tempi, vi consiglio di farci un salto ;)

Aaaand potrei essere di ritorno prossimamente con qualcosa di *un po'* diverso.
Anyway, grazie ancora a tutti per aver seguito questa 'clintashata' fino alla fine :')
A prossimamente!
S.

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