Trilogia del Peccato

di mrdancedance
(/viewuser.php?uid=488823)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Origine nascosta ***
Capitolo 2: *** Fruscio di sete ***
Capitolo 3: *** Mordendosi ***



Capitolo 1
*** Origine nascosta ***


Origine nascosta


Stava scendendo le scale muovendosi lentamente; prima un piede, poi l’altro, e mai mollò la presa del corrimano. Le sue dita, incredibilmente bianche, scivolavano su quel legno scuro e liscio, e il pizzo candido della camicetta, che cercava di imitarle, le seguiva da vicino.

Aveva delle labbra stupende, disegnate con linee perfette, marcate con un rossetto brillante. Erano chiuse in un’espressione seria, leggermente arricciate, e sobbalzavano impercettibilmente ad ogni scalino; ma non si socchiusero mai, per tutta la durata della discesa.
Le lunghe ciglia nere contornavano degli occhi di un azzurro grigiastro che osservavano pensosi i gradini rimanenti. Li studiavano uno ad uno.
I tacchi, nascosti sotto una lunga gonna nera, producevano un suono sordo ad ogni scontro con il pavimento. Una serie dalla lunghezza imprecisata di ‘toc… toc… toc…’ andò a diffondersi nell’aria, di orecchio in orecchio, di ossessione in ossessione, tessendo una sorta di malia di eleganza.
I capelli biondi erano stati raccolti dietro la nuca, a formare una specie di chignon, e solo qualche piccolo boccolo era stato lasciato libero di cadere lungo le guance.
Una catena d’oro le scendeva giusto dentro la camicetta, perfettamente in mezzo ai seni. Il tessuto bianco le stava attillato sul petto, metteva in mostra le sue forme, che lei esibiva senza vergogna… senza pudore, le ostentava; ma tutto celato dietro uno sottile strato di perbenismo.

Stava scendendo le scale muovendosi lentamente, la prima volta che la vidi. Stava perfettamente eretta, senza tuttavia sembrare rigida. Teneva la testa appena appena inclinata in avanti, quel tanto necessario per poter programmare i passi successivi.
Il braccio destro giaceva rilassato lungo il fianco, oscillando avanti e indietro a causa della ripida discesa.
Un anello d’argento e ambra, che portava all’anulare sinistro, giocava a riflettere le luci dell’ingresso e i miei occhi osservavano quello scintillio perdendosi all’interno. Fu l’unico momento in cui non mi persi in lei.
Ad ogni passo, la punta scura di una scarpa fuoriusciva dal suo nascondiglio e, quasi involontariamente, tirava la gonna quel minimo indispensabile per delineare il contorno di due gambe perfette.
Appena superato anche l’ultimo gradino, una cameriera le si avvicinò per aiutarla ad indossare la lunga mantella nera. Mio zio arrivò e la baciò sulle guance. Lei si protese per contraccambiare e, nel farlo, alcune vene del collo sfiorarono la superficie, permettendomi di intravedere qualche linea bluastra in quel campo latteo. Le seguii fino al punto in cui andavano a nascondersi sotto i vestiti.
“Ah! Valentin!” fece mio zio, con la mano protesa verso di me “Vieni qui! Lascia che ti presenti madame Gourmande.”
Io mi avvicinai e, come da etichetta, le presi la mano destra e me la portai alle labbra.
“Corinne,” continuò lui “Questo è mio nipote Valentin” e in quel momento, proprio nel momento in cui le ultime lettere del mio nome si disperdevano nell’aria, la sua soffice pelle ricevette il mio bacio. Il mio cuore s’arrestò e, forse per colpa del sangue che non veniva più pompato, le mie guance si accesero di un colore incomprensibile.

 
***

Eva osservava la mela proprio come Adamo osservava, solitamente, lei. Non sapeva se fosse perché la desiderava più di quanto desiderasse il suo compagno, o semplicemente perché non aveva altro da fare…
Era rossa, scarlatta, di una lucidità senza pari e totalmente priva d’imperfezioni. Non era l’unica in quell’albero, ma era la più perfetta.
Su di un lato, il rosso era leggermente sbiadito in un arancio corposo, intenso, un arancio tramonto, e proprio in quel punto si stava riflettendo l’ultimo sole della giornata.
Era come se la stesse chiamando, come se quella luminosità sopita che la circondava fosse una sorta di messaggio destinato solo a lei. Solo a lei…
Che cosa avrebbe dovuto fare? Solitamente, quando scopriva qualcosa di nuovo, qualcosa che non sapeva ben identificare, chiamava Adamo; lui sapeva sempre cosa era buono e cosa cattivo. Ma questa volta era diverso! Questa volta voleva essere l’unica, la sola che potesse giudicare… che potesse provare, assaggiare…
La mela voleva farsi toccare da lei, e da lei sola!
Un leggero venticello fece dondolare delicatamente le fronde del melo, e il frutto si mise a ruotare leggermente. Era come se fosse il sole stesso a girare.
Sentì un fruscio, appena dietro le foglie verdi, ma non vide nulla, nulla se non quel frutto senza pecca. Sembrava avere una superficie così terribilmente liscia! Sembrava essere matura al punto giusto! Sembrava che non aspettasse altro che il morso di una donna, il suo morso…
Eva allungò indecisa il braccio, poi ci ripensò e lo fece ridiscendere al suo posto. Si portò la mano sinistra ad arricciare un ciuffo di capelli e rimase ad osservare il buio che si andava sempre più addensando.
Sentì nuovamente un fruscio sui rami e poi ancora un alito di vento. La mela si scosse leggermente e -per un attimo soltanto- tornò, nella sua interezza, a riflettere quel sole ormai destinato alla morte. Vide un’ultima volta quel colore perfetto, quella lucidità così… divina. Era sicuramente una cosa buona, perché era troppo bella…

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Fruscio di sete ***


Fruscio di sete
 
 
Il serpente si calò dal ramo più alto a quello sottostante. Non produsse il minimo rumore. Il legno gli scivolò sotto il ventre con facilità inquietante; poteva sentirne i nodi duri accarezzargli le squame.
Si mosse ancora, stavolta più velocemente, ma nel farlo calcolò male le distanze e mandò la coda ad inciampare su qualche foglia, provocando un lievissimo fruscio.
Vide Eva bloccarsi; la sua mano si era fermata a pochi centimetri dal frutto… così maledettamente pochi!
Doveva imparare ad essere più cauto, non poteva permettersi di mandare a monte un piano dalla gestazione tanto lunga.
Restò immobile per qualche secondo. Nel riprendere la discesa, le spire si mossero con maggiore delicatezza, toccarono i rami come se fossero sciarpe di seta, in modo che il contatto fosse un atto estremamente leggero. Come fatto d’acqua, il rettile gocciolò da una fronda all’altra evitando inutili gorgoglii, per andare infine ad accomodarsi dietro un gruppo di foglie smeraldine che nascondevano una mela perfetta.
Rimase nascosto. Approfittò dei propri colori per rimanere celato. Non era sua intenzione farsi vedere, almeno finché non fosse giunto il momento propizio.
Eva, però, gli appariva ancora troppo incerta. Certo, si vedeva perfettamente che desiderava quel frutto più di ogni altra cosa, ma il serpente sapeva benissimo che, il desiderio, non sempre era sufficiente.
Gli occhi della donna luccicavano nel rossore del frutto e i suoi capelli ramati ondeggiavano in quella brezza leggera che aveva iniziato a soffiare.
La lingua biforcuta,con uno scatto veloce, uscì a tastare l’aria. Le spire si contrassero per un istante, facendo avanzare il rettile di qualche centimetro. Poi il vento calò.
Fu per sbadataggine, e anche per impazienza, che la coda scosse alcuni ramoscelli per la seconda volta. Il serpente si attorcigliò allora su se stesso, aggrappandosi forte al ramo che lo sosteneva e rimase in attesa della reazione di lei.
Non accadde nulla.
La compagna di Adamo restò rannicchiata nella sua indecisione e, mentre i suoi ricci venivano attorcigliati attorno alle dita, il suo sguardo vagava nel vuoto.
La lingua biforcuta saggiò nuovamente l’aria e, una volta ancora, si rilassò.

 
***

Impiegai un tempo infinito per scendere le scale; sì, quella volta me la presi comoda.
La gonna che indossavo vestiva stretta sulle cosce, e questo m’impediva di fare movimenti repentini. I tacchi, anche se dalla base ampia, erano piuttosto alti, e gli scalini di legno vecchio erano troppo stretti per non porvi la massima attenzione. E poi c’era lui, certo. Mentre compivo la mia discesa, non sapevo ancora chi fosse. Lo guardai di sfuggita una sola volta, tra un passo e un altro, ma poi non lo feci più.
Ero riuscita a scorgere i suoi capelli, tagliati in un’acconciatura indescrivibile, con la frangia che andava a cadergli sugli occhi, di un castano chiaro, o forse di un biondo piuttosto scuro. Erano molti, molti e folti, e sopra le orecchie curvavano inaspettatamente in fuori ,quasi pronti a balzare nell’ignoto.
Sentivo il peso del suo sguardo, un peso piuttosto leggero ma liquido. Andò a naufragarmi giù, lungo il collo; come seta scivolò fino alla scollatura della camicetta per poi finire ai miei piedi, nascosti dentro a quelle scarpe che, ad ogni gradino, facevano capolino da sotto la gonna.
Mi stava ammirando. Si stava sognando al mio fianco.

Le mani di Bernard erano incredibilmente vecchie; me le ricordo bene perché, quando afferrarono le mie, giusto prima di baciarmi sulle guance, le percepii come fossero estensioni di un albero dalla corteccia bitorzoluta.
Poi, mi venne presentato lui, il ragazzo. “Questo è mio nipote, Valentin.”
Mi si avvicinò con cautela, senza mai guardarmi negli occhi. Puntò direttamente alle dita, e finì col posarvi la bocca; mi baciò poco sopra le unghie, mancando completamente il dorso.
Sotto i ciuffi ribelli, scorsi due orecchie infiammate; si riusciva quasi a vederle pulsare.
Quando si fu raddrizzato, si soffermò a squadrarmi le labbra. Io, d’istinto, le umettai con la lingua.
Era giovane, molto giovane. Le sue guance erano accese di rosso, a tratti nascosto da qualche pelo di una barba adolescenziale.
“Quanti anni hai?” gli chiesi, riflettendo sulle sue ciglia incredibilmente lunghe.
Lui alzò di scatto la testa, il verde dei suoi occhi finì quasi erroneamente nel mio azzurro; tremavano all’interno delle proprie cavità oculari, poi crollarono nuovamente sulla mia bocca. Non pronunciò una parola.
“Diciotto” rispose Bernard al suo posto “tra una settimana esatta!”
Giovane, troppo giovane. Era troppo piccolo perfino per potermi anche solo sognare. Troppo piccolo…

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Mordendosi ***


Mordendosi
 

 

La teiera bianca era decorata con un’infinità di piccoli fiori viola rampicanti, che si attorcigliavano al becco e che sbocciavano sul manico. Il piccolo coperchio ad ovale era bordato in oro.
Il tè che ne uscì aveva un colore insolitamente intenso; più scuro di quello a cui Valentin era abituato di solito, più chiaro di quello a cui era abituata Corinne.
Andò a riversarsi nelle due tazze, provocando un gorgoglio sommesso, come di un ruscello nascosto dietro una linea di roseti selvatici. No, era troppo scuro! Valentin lo schiarì con qualche goccia di succo di limone; Corinne lo intorbidò con un tocco di latte.
Lo sguardo che si scambiarono li perforò, li trapassò entrambi, tanto che lui fu costretto a voltarsi verso il tavolo vicino; un vecchietto stava dando un biscotto al burro al suo cane. 
“Ti vergogni?”
A quella domanda, il ragazzo non sapeva cosa rispondere.
“E tu? Ti vergogni?”
“E perché dovrei? Potrei essere tua sorella, o mal che vada tua madre.”
Valentin tornò alla sua tazza. La toccò con la mano, per sentire quanto fosse calda. Troppo, ancora.
Le labbra di lei, rosse come sempre, si piegarono in un sorriso pacato. Prese la sua tazza e si mise a soffiare sul liquido bollente. Lui la guardò, poi la imitò. Il ciuffo gli cadeva fin sul naso e le dita sembravano aver subito una lunga serie di torture.
“Che cos’hai fatto alle tue povere dita?” lui le osservò con un gesto contorto, facendo attenzione a non far fuoriuscire il tè.
“Mordo le pellicine!” esclamò stizzito.
Allora lei allargò il sorriso e incominciò a far salire la sua gamba destra su, sempre più su, lungo la gamba sinistra di Valentin.
Il ragazzo posò violentemente la tazza facendo strabordare metà del contenuto.
“Che cosa stai facendo? Siamo in un luogo pubblico!” sibilò a denti stretti per non farsi sentire dal vecchio e dal cane.
“Gioco. Perché? Ti vergogni?”
“Sì!” rispose stavolta lui. Gli occhi gli brillarono mentre, tremando, si abbassarono verso la bevanda ancora fumante. “Credi che stiamo facendo una sciocchezza?” chiese poi, con un filo di voce.
“Tu credi che un essere umano possa non essere stupido?”

 

***


Quando uscì dal suo nascondiglio tra le foglie, io non mi stupii; in fondo, avevo pensato che qualcuno mi stesse spiando, qui sembra sempre di essere spiati. Uscì strisciando e tastando l’aria con la lingua. Andò a fermarsi vicino ad una mela; vicino ALLA mela.
“Che cosa stai guardando?” mi chiese avvolgendosi attorno al ramo che reggeva il frutto.
“La mela.” Sì, la mela, così magnificamente perfetta.
“Ah…” la sua piccola testa si avvicinò alla mia bocca, fermandosi a qualche centimetro di distanza. La lingua gli scattò una volta ancora e un brivido fece tremare le mie labbra. “Sai che albero è questo? Lo sai?” io mi ero persa in quelle piccole fessure che contenevano i suoi occhietti neri.
“No” sussurrai.
“È QUELL’albero.” E si allontanò, andandosi a riparare attorno al mio frutto.
“L’albero che…”
“Sì, quello che Dio vi ha proibito!” e, nel dirlo, la sua lingua saettò ancora.
Mi soffermai per un po’ sulla mela… no, non poteva essere quello, l’albero. C’era una tale bellezza in quelle fronde, in quei colori, che certo non poteva esserci stato proibito.
“No! non è questo!” il serpente si sporse un po’ in avanti, nel sentirmelo dire.
“Ne sei sicura?” i suoi occhi brillarono per un momento, come se fossero stati colpiti dal sole che fra poco sarebbe morto.
“Sì!” di certo non poteva esserlo.
“Allora non capisco.”
“Che cosa non capisci?”
“Come mai tu non riesca a deciderti ad afferrare questa mela, che ti piace tanto.” Lo guardai, poi passai alla mela.
“Non lo so.”
Il rettile si spostò facendo dondolare il ramo che lo ospitava, facendo oscillare il mio frutto. Si può dire che alla fine lo afferrai per proteggerlo.
Vidi le dita della mia mano destra che, a poco a poco, si avvicinavano a quella quasi sfera dal rosso intenso. Quando arrivai a toccarla, fu come se volesse scivolarmi via da quanto era liscia. La strinsi in una morsa piuttosto delicata e incominciai a tirare verso di me. Subito fece resistenza; subito fu restia a lasciare il suo posto, ma poi, finalmente, con un suono secco si lasciò cadere nelle mie mani Seppi che avevo fatto una cosa giusta…

 

***


Le spinte che il corpo di lui imprimeva a quello di lei, trasudavano dolcezza e inesperienza.
La schiena di Valentin s’inarcava ad ogni sussulto, e il dito di Corinne si divertiva a percorrerla tutta.
Era stata la sua innocenza ad attrarla, era bastata quella.
Sì, doveva essere così…

I capelli del ragazzo, una volta ancora, le solleticarono il petto mentre cercava di baciarle il collo come un amante perfetto.
La bocca di lei rilasciava respiri convulsi, incontrollabili; si contraeva ogni volta che i loro bacini si scontravano in un’assordante esplosione di piacere.
Non sapevano come c’erano cascati, come erano finiti lì… eppure, ormai era fatta, e il resto non contava più nulla. Non c’era da pentirsi, non c’era da compiangersi… non ora almeno, domani, o il giorno dopo ancora, ma non ora.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2642512