The Convergence

di La Nuit du Chasseur
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La fuga è l'unica via ***
Capitolo 2: *** Quattro passi fronte oceano ***
Capitolo 3: *** L'oceano sarà sempre qui, per te ***
Capitolo 4: *** C'è un volo fra tre ore, aspettami ***
Capitolo 5: *** Vieni con me a Los Angeles ***
Capitolo 6: *** Possiamo farlo ***
Capitolo 7: *** Siamo sopravvissuti, fin'ora ***
Capitolo 8: *** Così finisce qui? ***
Capitolo 9: *** Quindi solo i ragionieri possono avere figli sani? ***
Capitolo 10: *** Benvenuta a Los Angeles, bambina ***
Capitolo 11: *** Io so che ti amo ***
Capitolo 12: *** Promessa numero uno ***
Capitolo 13: *** Le vuoi già bene? ***
Capitolo 14: *** Impara in fretta e vivremo tutti felici ***
Capitolo 15: *** Avrei voglia di un cookie al cioccolato, con cannella e zenzero in polvere ***
Capitolo 16: *** Amami ***
Capitolo 17: *** Finalmente si sentì a casa ***
Capitolo 18: *** Cane da guardia ***
Capitolo 19: *** Fra noi so che durerà ***
Capitolo 20: *** Kiki? ***
Capitolo 21: *** Sono terrorizzata, ma si, sono anche felice ***
Capitolo 22: *** Mon chéri ***
Capitolo 23: *** Rilassati ***
Capitolo 24: *** L'uomo della mia vita ***
Capitolo 25: *** Evidentemente siamo destinati solo a questo, questo ci riesce bene ***
Capitolo 26: *** Io sapevo che saresti stata mia per sempre ***
Capitolo 27: *** L'unica vera vittoria ***
Capitolo 28: *** Sono i gesti a fare le persone, sono le mani che non si lasciano a fare le relazioni ***
Capitolo 29: *** Benvenuta a casa ***
Capitolo 30: *** Non voler stare con nessun'altra donna ***
Capitolo 31: *** Lo voglio io ***
Capitolo 32: *** Non andartene ***
Capitolo 33: *** Dirlo ad alta voce l'avrebbe reso reale ***
Capitolo 34: *** Mollare il colpo, smettere di punirsi ***
Capitolo 35: *** What if I wanted to break ***
Capitolo 36: *** Io vedo il cielo sopra noi ***
Capitolo 37: *** Christine ***
Capitolo 38: *** Il mondo era finalmente tornato a girare ***
Capitolo 39: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** La fuga è l'unica via ***


DECLAIMER: questa storia è frutto della fantasia e non è scritta a scopo di lucro. I personaggi citati, se reali, non mi appartengono e le loro azioni, così come i luoghi in cui vengono collocati sono totalmente inventati. Il personaggio di Miriam e Kiki, così come l'ambientazione della storia sono invece di mia proprietà. 
 
Ciao a tutti!
Una nuova storia: siate clementi, è la mia prima fanfiction sui Mars!!!
Dunque la storia ce l'ho già tutta in mente, ma non è ancora totalmente scritta, quindi non so quanti capitoli sarà... attendo i vostri pareri e suggerimenti, spero che ne arrivino tanti!!!!!  
Hr


Per spoiler, informazioni e per conoscermi meglio, seguitemi QUI, nel gruppo ufficiale de La Nuit du Chasseur!!! 


Ventisette anni e una vita che non le piaceva più. Miriam era un avvocato da poco tempo, collaborava in uno studio affermato a Parigi, città dove era nata e cresciuta, figlia di madre francese e padre italiano. La sua vita era perfetta. Per qualcun altro, forse, non più per lei. Così un giorno, mentre cercava un modo per andarsene in vacanza qualche giorno, lesse un annuncio sul web: un signore di una certa età, cercava qualcuno che gestisse il suo chiosco in riva al mare per qualche tempo. Miriam lo lesse di nuovo e la sua mente iniziò a lavorare sempre più febbrilmente: l’avrebbero presa per matta, ma lei sentiva dentro quella scarica di adrenalina che le serviva in quel momento per reagire ad una crisi isterica che la trascinava via da tempo.
Si odiava, perché per lei la vita non è solo felicità e perché lei aveva sempre detto che scappare non è mai una soluzione. Era sempre stata l’integerrima del gruppo, quella che ha sempre la frase giusta al momento giusto, che aveva sempre scelto la cosa giusta e le cui soluzioni erano sempre state dettate dal cervello e quasi mai dal cuore. Ma ora sentiva che tutto quello le stava stretto e quell’annuncio sembrò una manna dal cielo.
Inviò subito una mail al signor Carlos, chiedendo maggiori informazioni riguardo la sua offerta. L’uomo le rispose il giorno dopo, dicendole che lui aveva subito un difficile intervento chirurgico e voleva staccare un po’ la spina per riprendersi totalmente. Credeva che un mesetto sarebbe stato sufficiente, e avrebbe voluto che il suo sostituto iniziasse al più presto.
Si sentirono via Skype un paio di giorni dopo. Miriam gli raccontò di essere laureata in Legge e di avere un master in Diritto Internazionale, gli disse che collaborava con uno studio legale e gli raccontò brevemente le sue esperienze.
Il signor Carlos rimase affascinato dalla giovane e dal suo sorriso contagioso: sembrava un concentrato di serenità e gioia, solo si chiedeva come mai una ragazza tanto fortunata e con un curriculum così in vista chiedesse di gestire per un mese un chiosco. Glielo chiese e la sua risposta, che arrivò dopo qualche minuto di esitazione, lo convinse che era quella giusta: lei voleva vedere il mondo e capire se la vita che aveva era frutto delle sue scelte o di quello che gli altri le avevano sempre consigliato di fare. Era a un bivio e sentiva che se non avesse provato a lanciarsi ora se ne sarebbe pentita. Era solo un mese e lei era molto giovane: nessun giovane dovrebbe correre verso l’obiettivo, gli disse, tutti dovrebbero prendersi il tempo necessario, finì.
Il signor Carlos fu rapito e le disse che la aspettava. Fissarono l’appuntamento in modo che Miriam avesse almeno una settimana per avvertire lo studio, suo padre, gli amici. Si salutarono, entrambi convinti di aver fatto una buona scelta.
Miriam fu investita di critiche e risate di scherno per tutta la settimana: non c’era nessuno in grado di dirle solo “Vai, però vedi di tornare”. Era l’unica cosa che avrebbe voluto sentirsi dire, e invece niente. Jerome la accusò di averlo ingannato, nonostante fra di loro non ci fosse più di una storia che durava da un paio di mesi. Suo padre era su tutte le furie. I suoi amici continuavano a dirle che era matta. L’ufficio le diede un mese di ferie, come le spettava da contratto, ma nessuno si dimostrò in accordo con quella decisione.
Miriam si sentiva felice ed entusiasta e non capiva il perché di tanto scalpore: era solo un mese, solamente un mese. Sarebbe stato come se fosse in vacanza. Qual era il problema? Ah, si… aveva dimenticato di dire a tutti una cosa: la sua meta era Honolulu.
Honolulu era il suo sogno da bambina, quando vedeva i cartoni animati e Mago Merlino sbraitava di volerci andare. Lei, appena scese dall’aereo, stanchissima, si sentiva un po’ come Mago Merlino: lei era scappata davvero.
Prese i bagagli dal nastro e si diresse verso la stazione dei taxi, fuori dall’aeroporto. Aveva l’indirizzo del chiosco, il signor Carlos le aveva detto che poteva stare sopra al locale, dove c’era una piccola mansarda che lui usava per magazzino, ma che avrebbe provveduto a rendere accogliente per lei.
Arrivò e le sembrò un sogno: il chiosco era direttamente sulla spiaggia, immerso fra palme verdi e sabbia fine. Dietro di lei c’era la metropoli, ma davanti aveva il paradiso. Il locale era una grande veranda coperta: era in legno e aveva delle ampie vetrate che potevano essere chiuse di notte, o in caso di pioggia. Era molto carino e decisamente in stile hawaiano: c’erano fiori ovunque e ne usciva una musica rilassante e moderna.
Il signor Carlos era all’interno, la accolse con un ampio sorriso e la classica collana di fiori hawaiana. Miriam rise mentre l’uomo gliela metteva al collo e la accoglieva nel locale, facendola sedere e offrendole subito una limonata fredda.
Le presentò sua moglie, una donna corpulenta e bassina ma dal viso dolce e sorridente. Erano una coppia bellissima: entrambi avevano sul viso i segni di una vita non certo facile, ma si guardavano ancora come se fossero adolescenti e Carlos non mancava mai di farle delle carezze sul viso. Li conosceva da mezz’ora e già si sentiva in pace: avrebbe voluto una vita così, i suoi genitori, con i loro impegni e la loro freddezza erano lontani anni luce.
Carlos la accompagnò nella mansarda, la fece sistemare e poi le disse che l’avrebbe aspettata di sotto per spiegarle come funzionavano le cose.
Dopo tre giorni, i signori Aikane lasciarono l’isola per il loro mese di riposo. La salutarono affettuosamente, come se fosse una loro figlia, e Miriam scorse nello sguardo di Carlos un’apprensione che lui si affrettò a spiegarle prima di salire sul taxi: quel chiosco era tutta la sua vita, quello che aveva costruito mattone dopo mattone. Gli aveva dato il suo stile di vita, il suo entusiasmo e l’aveva reso uno dei più affermati dell’isola. Lo aveva amato anche quando le cose non andavano bene, e ci aveva messo dentro sudore, anima e sorrisi. Lasciarlo era un colpo al cuore, ma sapeva che ne aveva bisogno e, le disse infine, si fidava molto di questa ragazza europea. Lei non avrebbe dovuto deluderlo.
Miriam sentì nel cuore una fitta: una responsabilità che forse aveva sottovalutato. Ma non se la sentì di dirgli nulla, e accettò la sfida sorridendo all’uomo e dicendo a lui e sua moglie di rilassarsi e divertirsi in Florida, dal loro unico figlio.
Non appena il taxi svoltò l’angolo e scomparve dalla sua visuale, Miriam rimase sola con i suoi pensieri: guardò il locale, chiuso al pubblico in quei giorni di assestamento, guardò se stessa, finalmente in infradito e vestitino di lino rosso. Guardò il mare che formava le famose onde da surfisti e guardò la sua nuova avventura: si sentiva emozionata e libera. La libertà che a Parigi le mancava. Finalmente sentì di avere aria nei polmoni.
Entrò nel locale e iniziò a sistemare le bottiglie e tutto il resto: Carlos le aveva spiegato i segreti del mestiere, ma le aveva permesso di sistemarsi le cose come le avrebbero fatto comodo. Le disse anche di chiamare Iolana, la moglie del suo più vecchio e caro amico, nel caso avesse avuto bisogno. Miriam sperò che non sarebbe servito, ma non si poteva mai sapere, e appese il foglietto con il numero della donna sulla bacheca vicino la cassa, per ogni evenienza. Il giorno dopo avrebbe aperto al pubblico e si sentiva stanca: una doccia e una buona dormita l’avrebbero aiutata.
Il giorno dopo, puntuale e allegra, aprì le porte del chiosco, mettendo della buona musica e iniziando a sistemare i tavoli. Il locale si riempì subito di gente che, si vedeva, erano persone che conoscevano molto bene quel luogo: alcuni chiedevano di Carlos, e lei dava la spiegazione ufficiale “è in vacanza”. Si destreggiava bene fra i tavoli e le ordinazioni al banco, correva molto ma aveva l’impressione che lì attendere qualche minuto non sarebbe stato un problema: vedeva che le persone dondolavano la testa a tempo di musica, parlottavano, ridevano e sembravano molto rilassati. La cosa la tranquillizzò e la aiutò a non sbagliare quasi nulla. Se le capitava chiedeva scusa e l’unica cosa che riceveva in cambio era un sorriso. Quella avventura era partita alla grande.
Dopo qualche giorno era completamente a suo agio: la sera, dopo la chiusura, esplorava la città e si concedeva qualche sfizio. Ancora non conosceva molte persone, però essere sola non le pesava, anzi la aiutava a fare bilanci, a pensare, quello per il quale aveva mollato tutto. Decise, dopo aver avvertito i suoi genitori e un paio di amiche, di spegnere il cellulare e lasciarlo nel cassetto. La distanza, a volte, aiuta davvero.
Comprò una scheda locale per le evenienze, ma il numero non lo aveva nessuno e la cosa era rilassante.
Quel giovedì entrò nel locale un uomo con un paio di occhiali da sole, che alla sua vista rimase interdetto. Miriam sorrise fra se e se, lusingata di aver fatto colpo, ma non sapeva che quell’uomo non era assolutamente rimasto di sasso per la sua, seppur nota, bellezza.
“Mi scusi, ma Carlos dov’è?” chiese con stupore e un filo di preoccupazione.
“Salve, è in vacanza. Lo sostituisco io per tutto il mese. Posso servirle qualcosa?” rispose Miriam, sicura e sorridente.
“Ah, bene. Per un momento ho pensato il peggio. Si, grazie, vorrei un caffè”
“Va bene, lo prende qui o lo porta via?”
“Qui, per favore”
“Bene, arriva subito”. Miriam si girò e andò a preparare il caffè a quell’uomo: aveva fatto finta di non riconoscerlo per discrezione, ma l’aveva riconosciuto eccome. I Thirty Seconds to Mars non erano la sua band preferita, ma li ascoltava spesso, la loro musica le piaceva.
Fece il caffè al batterista, che nel frattempo si era seduto al bancone e scrutava il mare.
“Ecco qui, Shannon… ops, scusami” si tradì Miriam. Il suo nome le era proprio sfuggito, era una cretina.
Il ragazzo sorrise, prendendo la tazza e le rispose in maniera semplice: “Figurati, non c’è problema”. Poi si alzò, lasciando una banconota sul bancone, la salutò e andò via così come era arrivato.
Miriam guardò per qualche istante la vetrata oltre il quale Shannon era rimasto a fissare il mare, poi fu richiamata all’ordine da una ragazza che chiedeva un gelato. Non pensò a quell’incontro almeno fino all’indomani.

 
 

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Capitolo 2
*** Quattro passi fronte oceano ***


Nei giorni successivi, Shannon si ripresentò sempre al locale, a volte portando anche Tomo. Si fermavano ad un tavolino all’angolo, prendevano da bere o qualcosa da mangiare e rimanevano lì a chiacchierare a lungo. Miriam voleva essere discreta e riservata, quindi li trattava come normali clienti, e loro sembravano apprezzare.
Erano sempre molto simpatici, la salutavano con sorrisi e ogni giorno si scambiavano almeno qualche battuta. Stavano entrando sempre più in confidenza, tanto che Miriam ormai era abituata alla loro presenza. Quello a cui non era abituata era la sensazione inspiegabile che ebbe quando, una settimana dopo, nel locale con i due ragazzi, entrò Jared.
Entrò per ultimo, dietro ad entrambi. Miriam li vide e sorrise, iniziando a preparare il caffè che erano soliti bere entrambi. Non lo notò subito, perché era coperto dagli amici e da qualche avventore del locale, lo notò quando alzò lo sguardo e i suoi occhi azzurri si piantarono nei suoi. Credette di avere un infarto in corso e sentì le gambe tremare: era emozione o altro?
“Ciao, posso servirti qualcosa?” disse solamente, il più formale, simpatica e naturale possibile.
“Si, vorrei un sandwich alle verdure. Carlos è famoso qui per quei sandwich” rispose lui, sorridendole. Era stato gentile ed educato, ma Miriam faticava a tornare sulla terra.
“Proverò a non deluderti, allora” riuscì a dire, sorridendogli. Pensò che non era andata tanto male, visto che poteva anche emettere un buffo suono e fare una figuraccia colossale.
Suo fratello lo chiamò al tavolo con un leggero fischio e Jared si schiodò dal bancone per raggiungere gli amici.
“Ma chi è quella, ragazzi?” disse a bassa voce non appena si sedette.
“Carlos è in vacanza, lei lo sostituisce. Almeno così mi ha detto l’altro giorno.”
“Ah, capito. E perché io non ne sapevo niente?”
“Perché sei un sociopatico, Leto e sei rimasto in hotel per giorni!” lo schernì Tomo.
“Molto simpatico, davvero molto simpatico” si difese Jared, sapendo però che in fin dei conti aveva ragione.
Si poggiò alla sedia, rimettendo i suoi occhiali da sole e contemplando il mare: adorava quel posto. Loro correvano lì non appena potevano permetterselo e questa volta, complice una vacanza di Vicky e qualche problema, erano riusciti a portarsi dietro anche Tomo. Erano molto amici, prima che colleghi e stare insieme a prescindere da impegni, interviste e quant’altro, era quello che gli piaceva più fare.
Jared era sovrappensiero quando Miriam arrivò con le loro ordinazioni e le urtò leggermente il braccio, spaventato dal suo arrivo. Miriam vacillò ma riuscì a poggiare il vassoio sul tavolo, senza gravi conseguenze: non appena l’aveva toccata, il suo braccio era andato a fuoco, ed ora che la guardava chiedendole scusa il tutto stava peggiorando. Era chiaro che quell’uomo le faceva un certo effetto: il tutto stava nel non sputtanarsi del tutto facendo la figura della ragazza innamorata dalla star.
Riprese il controllo: “Tranquillo, non è successo niente. Allora, siete qui per un concerto?”
“Oh no, siamo qui per riprenderci dai concerti. Siamo in vacanza” rispose Jared.
“Capisco. Vi porto subito dei tovagliolini di carta, ragazzi”. Cercava di essere naturale e spigliata e pensò che ci stava riuscendo bene, malgrado tutto. Mentre era nel retrobottega a prendere i tovaglioli si poggiò alla parete: voleva scappare per un mese e fare un’esperienza nuova, è vero. Ma da qui ad avere Jared Leto che le chiede scusa per averle intruppato il braccio, ce ne passava! Sorrise e respirò a fondo: Miriam, ti prego contieniti, si disse.
“Jared, qui chiama terra, puoi connetterti gentilmente con noi?”. Shannon lo stava prendendo in giro, perché era chiaro che quella situazione sarebbe finita come aveva pronosticato Tomo: Jared aveva tutte le carte per farle girare la testa e lui si sarebbe fissato su quella ragazza misteriosa. Dava già i primi segni: era rimasto a guardarla mentre andava via dal loro tavolo ed ora sembrava non ascoltare né suo fratello, né il suo amico.
“Si, ragazzi ci sono. Stavate dicendo?”
“Che la Cina ci invaderà presto, Jared” disse serio Tomo.
“La Cina? E come mai?”. Jared proprio non c’era.
“Si ciao Jay!” dissero all’unisono Tomo e Shannon, ridendo come matti.
Miriam tornò al tavolo con i loro tovaglioli e sorrise a tutti e tre, prima di dirigersi ad un altro tavolo che reclamava la sua attenzione.
Rimasero lì per tutta la mattina, ridendo e giocando a carte. Si divertivano come bambini e di tanto in tanto qualcuno andava a chiederle del caffè, o del succo di frutta. Era bello vederli insieme, pensò Miriam, sembrava che fossero persone totalmente al di sopra della loro popolarità, e infondevano una certa allegria in chi li guardava.
Verso sera Miriam era stanca e sperava solo di chiudere presto per andare a rilassarsi un po’ in spiaggia. Era lì ormai da una decina di giorni e si trovava bene, era felice. Aveva fatto amicizia con Iolana, che ogni tanto arrivava al locale per controllare che fosse tutto apposto, ma soprattutto con sua figlia Kiki, che aveva un paio di anni meno di lei e studiava in California. Era tornata a Honolulu per le vacanze e passava molto tempo con Miriam al locale, a volte aiutandola anche. Quella sera Kiki le aveva proposto una serata fra donne, per farsi due chiacchiere e Miriam aveva accettato volentieri: quella ragazza le piaceva moltissimo, era un’esplosione di solarità e quando parlava riusciva a farla sentire male dal ridere. 
Era in procinto di chiudere il locale, ormai deserto, quando sentì qualcuno bussare al vetro. Si girò di scatto e vide Jared appena fuori l’entrata, sui gradini di legno, che sorrideva appena e non si decideva ad entrare.
“Ciao, hai dimenticato qualcosa?” disse Miriam, reprimendo il diavoletto dentro di lei che le ricordava quanto quell’uomo fosse sexy.
“No, niente. Passavo di qua”, rispose Jared, guardandola. Era bella, molto bella, era fresca, sapeva di qualcosa di nuovo e lui l’aveva osservata per tutta quella mattina. Era stato curioso di chiederle qualcosa di più, qualcosa sulla sua vita, da dove veniva. Per quanto sarebbe rimasta. Ora che ci pensava, non sapeva neanche il suo nome.
“Puoi entrare, sto chiudendo, ma qualcosa da bere te la offro, se vuoi” rispose Miriam, sorridendo semplicemente. La semplicità che arrivava dritta in faccia a Jared, e che lo rendeva spaesato.
Lui entrò nel locale e andò a sedersi su uno sgabello, al bancone: “Un’aranciata mi andrebbe, in effetti” le disse, lanciandole uno sguardo enigmatico.
“Arriva subito”. Miriam volò al frigorifero, prendendo due aranciate, le aprì e le mise in due bicchieri ghiacciati, con una fettina di arancia fresca e una cannuccia.
“Ne prendo una anche io, oggi è stata una giornata lunghissima” le disse Miriam, poggiando i gomiti al banco, davanti a lui e prendendo a sorseggiare l’aranciata dalla cannuccia.
Jared la osservò e gli parve di capire che a lei piaceva la sua compagnia, così tentò di fare conversazione: “Non sei di qui, vero… ?”
“Miriam. No, sono francese, di Parigi per la precisione” rispose Miriam, che iniziava a sentirsi più a suo agio. Quell’uomo era di una bellezza imbarazzante, e aveva un modo di fare che tendeva a mettere in difficoltà la gente. Non sapeva se era davvero così o se era un modello che si era costruito con l’avanzare della sua immensa carriera. Nonostante ciò, Miriam sentiva che ora andava meglio, riusciva a controllarsi e a controllare lui, e stare lì, soli, con il tramonto hawaiano davanti a sorseggiare un’aranciata era un’esperienza bella, che lei voleva viversi.
Jared alla parola Parigi illuminò i suoi immensi occhi azzurri: non era un segreto per nessuno che lui amasse la Francia, ma che quella ragazza fosse francese non era per niente intuibile.
“Parigi, che bella città. E come mai sei finita qui?” chiese, sempre più curioso. Quello però era un tasto che Miriam non voleva ancora rivelare, perché la sua sfida aveva radici profonde e si vergognava un po’ di dirlo ad uno sconosciuto.
“Così, un mesetto di vacanza, miglioro l’inglese, mi godo un paradiso che avevo sempre sognato di vedere, faccio un’esperienza nuova” gli disse solamente.
“Capisco” le rispose, poi iniziò a guardare il mare, in silenzio e Miriam osservava l’intensità di quella situazione: davvero lei, ventisette anni e una crisi esistenziale in atto, si trovava in un paradiso naturale come pochi al mondo a sorseggiare aranciata con Jared Leto? Si sforzò di svegliarsi dal sogno, ma quello che ottenne fu che lui cominciò di nuovo a guardarla, non dicendole nulla, cosa che le mandò lo stomaco in subbuglio.
“E tu invece? In vacanza eh” disse per togliersi l’imbarazzo del silenzio di dosso.
“Si, ogni tanto”
“Venite spesso qui tu e i tuoi amici?”
“Ogni volta che possiamo, in realtà”. Le sue risposte erano sempre molto stringate, necessarie, ma Miriam pareva non farci caso. Quello a cui faceva caso erano i suoi pettorali dalla camicia aperta, i suoi occhi azzurro mare, il suo sorriso allarmante.
A salvarla dai suoi pensieri arrivò Kiki, come promesso puntualissima. Era vestita con un semplice vestito di raso verde smeraldo, pronta a passare la serata con la sua nuova amica.
“Ops, scusate… disturbo, per caso?”
“No, Kiki ti pare, entra pure. Stavo chiudendo e finivo di scambiare due chiacchiere con un nuovo amico. Kiki lui è Jared, Jared lei è Kiki”. I due si guardarono e poi si sorrisero salutandosi come vecchi amici.
“Per caso vi conoscete già…”
“Beh, Jared viene ad Honolulu da anni e viene quasi sempre dallo zio Carlos per i suoi sandwich. Diciamo che ci siamo già scontrati” rispose enigmatica Kiki.
Jared si limitò a scrollare le spalle e si alzò: “Ciao Miriam, grazie dell’aranciata. Ci vediamo” le disse e si avviò verso l’uscita. Passò accanto a Kiki e la salutò con lo sguardo. Uno sguardo che lei non ricambiò.
Miriam voleva vederci chiaro e come al solito andò al punto: “Quando e quante volte siete stati a letto insieme voi due?” disse, sistemando le ultime cose e ridendo.
“Ehi ma che dici?”
“Si va beh, raccontala ad un’altra eh! E’ palese”
“Ok, due anni fa… ma non siamo tecnicamente andati a letto insieme. Eravamo ad una festa sulla spiaggia, su di giri, lui ci ha provato e poi… beh poi si è addormentato. Tutto qui?”
“Addormentato?” scoppiò a ridere Miriam.
“Già, addormentato. Siamo andati dietro ad uno scoglio, poco lontano da qui ed io ero lì che cercavo di allontanare un’amica che avevamo incontrato. Quando sono riuscita a togliermela di torno, l’ho raggiunto e lui dormiva” Kiki sembrava ancora molto alterata.
 “Kiki, capita, aveva sicuramente bevuto. Comunque è un ragazzo simpatico. Ci ho scambiato due chiacchiere oggi e mi è sembrato molto gentile”
“Perché deve fare colpo. Vedrai… va beh, senti andiamo?”.
Miriam si preparò al volo e uscirono a mangiare qualcosa. Optarono per un sushi a portar via, che consumarono in spiaggia, chiacchierando come due vecchie amiche. Era impressionante quanto quei dieci giorni le avessero unite: non si conoscevano molto, ma insieme stavano benissimo e Miriam già pensava a quanto sarebbe stata triste nel lasciarla.
Quando tornò a casa, dopo qualche ora, si mise a letto e accese l’iPod. Casualmente le entrò nelle orecchie City of Angels e iniziò a pensare a Jared. Pensava a lui non come alla star entrata nel locale che gestiva, ma come all’uomo con cui aveva chiacchierato a fine serata davanti al tramonto. E poi pensò a quello che le aveva detto Kiki: davvero lui ci avrebbe provato con lei perché fondamentalmente ci provava con tutte? Era inquieta, non voleva complicarsi la vita, era andata lì per risolversela. Non voleva assolutamente finire in un casino sentimentale, non lì. Figuriamoci poi con uno del calibro di Jared. Non era proprio il caso, pensò.
Il giorno dopo Shannon entrò di buon ora nel locale, chiedendole dei sandwich a portar via: avrebbero fatto una gita e volevano del buon cibo per il pranzo al sacco. Mentre Miriam li preparava, iniziarono a scambiare qualche parola: “Allora, Miriam, Jared mi ha detto che sei francese. Quanto ti ha disturbato mio fratello ieri sera?”
“Disturbato? Ma no, figurati. Passava e gli ho solo offerto un’aranciata” rispose lei, quasi sulla difensiva.
“Il mio fratellino perde colpi, strano” concluse, alzandosi e prendendo il sacchetto preparato da Miriam. La salutò calorosamente e le disse che si sarebbero rivisti presto. Miriam lo guardò uscire pensando alla sua frase: forse si era fatta un film mentale troppo elaborato e Jared in realtà non guardava niente di particolare in lei. Ma si, era sicuramente così.
I giorni passarono velocemente e Miriam era già lì da più di due settimane. Aveva stretto un’amicizia strana con Shannon e Tomo, che andavano tutti i giorni a godersi la spiaggia davanti al chiosco, finendo per passare lì dentro gran parte delle loro giornate. Erano due ragazzi simpatici e alla mano, con uno strano istinto protettivo nei suoi confronti. Avevano chiacchierato abbastanza nei momenti di calma del locale, e lei aveva scoperto parecchie cose sul loro conto, cose che i rotocalchi non sapevano o inventavano, o ingigantivano. Shannon, specialmente era un ragazzo d’oro: insieme formavano un duo perfetto, si divertivano, scherzavano e talvolta parlavano di cose serie. Una sera, Miriam aveva raccontato a Shannon, rimasto ad aiutarla a chiudere il locale la verità sulla sua esperienza lì. Semplicemente avevano iniziato a chiacchierare di cose un po’ più serie e la ragazza aveva parlato senza neanche accorgersene.
“Sai, in realtà sono scappata da casa mia” gli disse, sistemando le sedie del locale. Shannon rimase perplesso e la guardò senza capire, ma non disse nulla.
“Non fare quella faccia, Shannon! Io sono un avvocato, lavoro in uno studio legale da circa un anno, ho una buona famiglia alle spalle, una mezza tresca con un ragazzo superficiale e tanti amici. E sono scappata da tutto quello” continuò Miriam. Le sembrava incredibile come riuscisse a dire quelle cose a Shannon: erano amici, è vero, ma non così amici da potersi confidare così. Eppure le riusciva così semplice che non riuscì a fermarsi, e il fatto che lui non le facesse domande, ma aspettasse solamente che lei continuasse a parlare, la indusse a credere che lui fosse davvero un buon amico.
“Ero stufa. Stufa di tutto, dei miei genitori sempre appesi ai Blackberry e mai a pronti guardarsi negli occhi. I miei genitori non si fanno una sana risata d’amore da secoli, però lavorano, oh se lavorano. Hanno due carriere divine, solo che hanno solamente quelle. Ho amici che fanno a gara a chi ha più diamanti o macchine più costose. E capisco che sembra che io stia sputando nel piatto dove ho mangiato fino ai miei ventisette anni, ma io non voglio essere così, un domani. Volevo farmi una vacanza, invece ho trovato l’annuncio del signor Carlos e l’ho colto al volo” riprese fiato, gli aveva detto proprio tutto. Aveva un paio di short e una cannottiera bianca, sopra un grembiule e delle infradito, e gli aveva raccontato di come a Parigi, chilometri e chilometri lontano da lì, lei avesse una appartamento lussuoso, abiti firmati e gioielli di famiglia. Si sentiva un po’ ridicola, ma aveva il cuore leggero. Shannon capì che lei non aveva bisogno di conforto, e per questo la stimò tantissimo.
“E’ una scelta coraggiosa, Miriam. I tuoi genitori, come l’hanno presa?”
“Non li sento da quando ho messo piede in quest’isola. Li ho avvertiti di tutto ma voglio davvero stare da sola per un mesetto, così tanto per capire come voglio davvero la mia vita. Sembro matta, vero?” lo guardò con un sorriso sghembo che lo fece ridere: quanta forza aveva dentro quella ragazza?
“Ma no che non sembri matta. Solo che forse questa vita ti andrà bene per questo mese, forse per il prossimo, ma scegli bene. Rischi di pentirti fra anni delle scelte fatte. Pensaci bene” gli disse, sinceramente lui. Poi si avvicinò e l’abbracciò: non era un abbraccio colmo d’amore, di passione, era un abbraccio d’amicizia. Miriam si lasciò stringere e pensò che se anche quel viaggio se fosse servito solamente a quello, già poteva dirsi soddisfatta. Aveva conosciuto due persone straordinarie, che nelle due settimane precedenti erano state come fratelli maggiori per lei, e sapeva già che tornare a Parigi sarebbe stato un trauma. E poi c’era Kiki, la dolce, vulcanica, pazzesca Kiki: come avrebbe fatto senza di lei ad affrontare il freddo inverno parigino? Decise di non pensarci in quel momento e di godersi solamente il calore di un amico che ti stringe davanti al mare.
Jared non si faceva vedere da giorni, dopo la loro semi chiacchierata serale era sparito, e Miriam moriva dalla voglia di sapere che fine avesse fatto, ma non osava chiedere né a Shannon né a Tomo. Quando il batterista sciolse l’abbraccio, Tomo arrivò pieno di provviste serali: aveva le carte, vari giochi di società e alcuni DVD nella borsa. Scaricò tutto sul tavolo ridendo: “A voi la scelta, ragazzi!” disse allegro. Sembrava che la tempesta che stava attraversando con Vicky fosse lontana, per quanto Shannon sapeva che ci stava parecchio male.
“Wow, Tomo, sicuro di avere ancora l’uso delle braccia?” lo prese in giro Miriam, vedendo tutta quella roba. Sperava che si aggiungesse anche Jared, ma dopo un paio d’ore, mentre giocavano nella veranda del locale, insieme anche a Kiki, era chiaro che il cantante non sarebbe venuto. Miriam si scoprì ad essere un po’ delusa, ma alla fine decise che era la cosa migliore: non poteva, pensò di nuovo incasinarsi in nessun modo.
La serata andò avanti per molto, a notte fonda Kiki annunciò che sarebbe andata via, e Tomo si alzò di scatto offrendosi di accompagnarla. Shannon lo guardò serio: aveva notato le battute che si erano lanciati tutta la sera l’amico e Kiki e non gli sembrava il caso che lui si buttasse in quel pasticcio. Il croato non sembrò degnarlo di uno sguardo e disse di nuovo a Kiki che l’avrebbe accompagnata a casa, nonostante non fosse poi così distante dal locale. Kiki accettò sorridendo e, dopo aver salutato, si incamminarono lentamente, passando dalla spiaggia.
“Dici che combineranno casini, Shannon?” disse Miriam, non appena i due si furono allontanati, guardandoli dalla veranda.
“Spero di no. Voglio bene a Vicky ed onestamente credo che i loro problemi siano da risolvere in altre maniere. Però…” disse e poi sorrise buttando giù la testa, gli occhi verso il pavimento. Miriam lo costrinse a parlare e lui, dopo un po’ aggiunse: “In questi anni, quando eravamo in tour, ed io e Jared ci trovavamo del divertimento… beh io ho sempre preso in giro Tomo che dopo i concerti andava in stanza e non c’era verso di farlo capitolare. Avresti potuto mettergli davanti Heidi Klum e niente, lui integerrimo, sempre. Ed ora che invece fa lo scavezzacollo con una ragazza per niente male, mi trovo qua a sperare che torni a casa da solo”. Miriam rise di gusto e iniziò a prenderlo in giro sul tipo di divertimenti suoi e di suo fratello. Suo fratello, a quel pensiero le arrivò una fitta diretta al cuore, ma non ci badò.
“A proposito, Shan… non vedo Jared da qualche giorno. Tutto ok?”
“Non ti innamorare, francesina. Jared è un tipo da lasciare perdere”
“Ma cosa vai a pensare! E’ che voi venite spesso e lui quasi mai, pensavo che stesse male, tutto qui” si difese Miriam, forse accalorandosi un po’ troppo e sentendosi scoperta.
“Va bene, io ti ho avvisata eh! Scappo, Miri… ci vediamo domani” le diede un veloce bacio sulla guancia e corse via, scavalcando la staccionata verso la spiaggia. Miriam chiuse tutto e si mise a leggere un buon libro, pensando che Shannon non solo non le aveva risposto, ma aveva capito più o meno tutto.
Dopo un’oretta, verso le tre, era quasi addormentata, quando sentì bussare al locale. Si spaventò un po’, ma si affacciò alla finestra per vedere: era Jared, sulla veranda in legno del locale che guardava dentro. Miriam sorrise e iniziò a scendere le scale.
“Ciao, passavi di qui?” gli disse sorridendo, mentre gli apriva la porta.
“Si, ti disturbo? Dormivi per caso?” le disse guardandola: era pazzesca. Aveva un paio di short rosa e una cannottierina dello stesso colore. Capelli sciolti e nessun filo di trucco. Eppure a Jared andò in pappa il cervello a guardarla così.
“No, tranquillo, stavo leggendo. Tomo e Shannon sono andati via poco fa… eravamo qui tutti, pensavo venissi” gli disse. Si pentì subito, ma sperò che quella frase non sembrasse quello che non avrebbe dovuto sembrare.
“Ero con Emma, eravamo impegnati” gli rispose lui. Miriam si sentì morire: perché se aveva Emma andava da lei alle tre del mattino? Stronzo!
“Senti, ti va di fare due passi?” le chiese senza mezzi termini.
“A quest’ora, Jared?”
“Beh il giorno lavori e comunque non c’è un orario stabilito per passeggiare un po’” le rispose. Miriam pensò che aveva ragione, ma che anche se non ne avesse avuto un briciolo, lei una passeggiata con Jared l’avrebbe fatta comunque.
“D’accordo. Dammi il tempo di vestirmi però”
“Sei perfetta così, dai andiamo” e la prese per mano, trascinandola fuori. Miriam a quella stretta sentì il cuore, il cervello, le viscere e la ragione andarsene per conto loro e lo seguì, tirandosi la porta dietro.
Passeggiarono sulla spiaggia, chiacchierando del più e del meno.
“Allora, Shannon mi ha detto che avete parlato molto” le disse ad un certo punto. Miriam si sentì morire: Shannon aveva svuotato il sacco.
“Si, tuo fratello è meraviglioso. Mi ci trovo molto bene!” rispose solamente lei.
“Ah ecco, non sei simpatica a dirmelo così in faccia, lo sai!?” le disse, guardandola e facendo finta di essere molto offeso. Camminava a piedi scalzi, le infradito lasciate al locale, le mani nelle tasche dei pantaloni e un’andatura lenta e rilassata. Era bellissimo, assolutamente perfetto.
“Perché, ti dispiacerebbe per caso?” lo stuzzicò lei, con voce più bassa, guardando l’oceano.
“Chissà, magari si” fu la risposta di Jared, pronto a giocare ma non a scoprire le sue carte.
Miriam colse la risposta senza alludere a nient’altro e cambiò discorso.
“Com’è essere una star, Jared?”
“Cosa intendi dire?”
“Beh, sei un attore formidabile, una rock star da sold out, dirigi film, sei un artista completo. Com’è fare la tua vita?”
“Faticoso, ma bello. Me lo sono scelto e sono fortunato. C’è un mucchio di gente là fuori che vive la vita a fare cose che fondamentalmente odia, io invece ho avuto il lusso di poter scegliere il mio destino, di poter costruire qualcosa. Non mi lamento, anzi sono grato a tutto” le rispose, sincero. Miriam si sentì colpita da quella risposta: forse aveva ragione lui e avrebbe dovuto smetterla di fare la bambina, tornare a casa e continuare la sua vita, che alla fine poi così schifosa non era. Pensò a quelle parole un po’ troppo, tanto che Jared le chiese se andava tutto bene.
“Si, scusa. Riflettevo sulle tue parole. Sono vere, genuine. Vorrei che tutti la pensassero così, che vedessero il buono e smettessero di lamentarsi”
“Se la gente smettesse di lamentarsi, il mondo sarebbe noioso” la corresse lui.
Si fermarono e si sedettero sulla spiaggia, di fronte al mare. L’aria era dolce, il mare cullava i loro silenzi e accoglieva le cose che si dicevano: in quella notte qualsiasi segreto sarebbe rimasto tale, sentito solo dall’oceano. Miriam si strinse nelle spalle, colpita da un leggero brivido di freddo. Jared si avvicinò e le mise la sua giacca sulle spalle, sorridendole con quell’espressione che mandava Miriam in estasi.
“Quando finirà questa tua avventura, cosa farai?”
“Tornerò a Parigi e riprenderò a vivere normalmente”
“E sei impaziente?”
“No, per niente. Rimarrei qui in eterno, mi piace. C’è una vita rilassata, zero problemi, zero casini, gente che cerca la libertà e ha sempre un sorriso. Lo sai che da quando sono qui non ho mai litigato con nessuno? Nessuno mi ha trattata male, detto una cosa brutta o fatto innervosire? E’ una cosa splendida!”
“Per questo veniamo spesso qui, tutti ti lasciano in pace e tu puoi passeggiare di notte sulla spiaggia con una bella ragazza francese senza che ti rompano. Comunque puoi rimanere per sempre, se vuoi”. Miriam gli sorrise e avrebbe voluto dirgli che voleva davvero che fosse così, ma così non era.
“Conoscete da tanto Carlos?”
“Da dieci anni. Siamo venuti qui per la prima dieci anni fa e ci siamo imbattuti in quell’uomo. Ci ha preso subito in simpatia e abbiamo iniziato a tornarci ogni volta che potevamo. Per Shannon è un mito, per me un uomo buono che ogni tanto mi da saggi consigli. In realtà quando non siamo qui non lo sentiamo, però forse questa è la forza del nostro rapporto”.
Miriam lo guardò ed ebbe un’improvvisa voglia di baciarlo, ma si trattenne: non era il caso, Jared non l’avrebbe corrisposta sicuramente e lei avrebbe rovinato tutto, persino il suo rapporto con Shannon e Tomo.
Erano le sette del mattino, avevano chiacchierato e passeggiato per più di quattro ore. Il locale avrebbe aperto di lì a poco e Miriam pensò che doveva davvero andare a dormire, almeno un’ora.
Jared la accompagnò fino al locale e la salutò gentilmente, aspettando che lei entrasse per andarsene via. Fece qualche passo continuando a guardarla, e Miriam rimase ferma dietro la vetrata: lui le sorrideva, camminando all’indietro e fissandola negli occhi. Miriam alzò una mano a salutarlo, e lui le mandò un bacio, girandosi e iniziando a correre verso il suo hotel. 

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Capitolo 3
*** L'oceano sarà sempre qui, per te ***


Il giorno dopo Miriam era cotta: aveva dormito mezz’ora si e no. Dopo che Jared era andato via si era ritrovata a pensare alla notte appena passata: si erano raccontati mezza vita, avevano scherzato e c’erano stati silenzi assolutamente complici e non imbarazzanti. Era stata una notte magica, non c’erano stati baci o altro, ma Miriam sentiva che ora avevano qualcosa. E ne era spaventata.
Le giornate passavano tranquille. Miriam si avviava alla fine di quell’esperienza e doveva iniziare a fare i conti con il suo ritorno a casa. Non sapeva bene cosa provava a riguardo, ma sapeva che tutto quello le sarebbe mancato molto, e che Parigi era sempre meno nei suoi pensieri. Shannon e Tomo le era sempre più vicino, anche se quest’ultimo, negli ultimi giorni, passava parecchio tempo con Kiki, con la quale sembrava trovarsi molto bene.
Jared invece passava a trovarla, quasi ogni giorno, verso l’orario di chiusura, mentre il tramonto iniziava a regalare una luce dorata e il locale era quasi vuoto. Era solito arrivare, bussare debolmente e poi sedersi aspettando che lei arrivasse a fargli compagnia con qualche bibita ghiacciata. Quelle ore diventavano sempre più lunghe e spesso finivano per passare l’intera notte insieme, semplicemente chiacchierando. Miriam non capiva molto di come andassero le cose: Jared spesso nominava una certa Emma, e a lei ribolliva il sangue, ma non osava mai chiedere di più. Nonostante questo, erano diventati sempre più intimi, e Miriam era sempre più confusa: fra meno di dieci giorni sarebbe dovuta tornare a casa, cosa avrebbe fatto?
Jared dal canto suo era attratto da quella creatura, ma non sapeva come gestire la cosa: per la prima volta non voleva solamente portarsela a letto, e questa cosa lo destabilizzava.
Una sera, mentre parlavano del più e del meno, Miriam lo guardò un po’ più a fondo. Avevano appena mangiato dei biscotti e Jared aveva delle briciole sul lato della bocca, impigliate nella barba di qualche giorno. Miriam lo trovava immensamente sexy, ma fece quel gesto senza malizia: avvicinò l’indice a lui, ridendo, e gli tolse quelle briciole. Jared  si voltò a guardarla non appena sentì il tocco e i loro occhi si scontrarono, rimanendo a fissarsi per un tempo eterno.
Miriam non riuscì a togliere il suo dito, continuò a toccargli la guancia in maniera delicata e sottile, Jared la lasciava fare, pensando che avrebbe voluto baciarla più di ogni altra cosa. L’oceano davanti a loro era l’unico suono che c’era in quel momento, il loro silenzio però lo attutiva, e i loro respiri si stavano facendo sempre più pesanti. Miriam pensò che tanto valeva buttarsi e si avvicinò leggermente, sperando che lui facesse la mossa decisiva e non la lasciasse lì a fare una figuraccia: fra loro c’era qualcosa, ormai ne era convinta.
“Eccoli qua, allora sushi o thai stasera?” entrò urlando Tomo con Kiki che lo seguiva e Shannon poco distante.
Miriam ritrasse la sua mano velocissima, Jared si sistemò meglio sulla sedia, con un leggero colpo di tosse a sistemare la voce. Sorrisero entrambi, palesemente colpevoli, al trio che si stava avvicinando. Loro erano in fin dei conti i migliori amici che aveva trovato Miriam in quell’isola e iniziava davvero a volere bene a tutti.
“Uhm, per me è uguale ragazzi. Vado a sistemarmi prima, però” disse Miriam, alzandosi dalla sedia e andando verso la scala.
“Ho interrotto qualcosa, per caso?” rispose Tomo, leggermente spaesato.
“No, no tranquillo” disse Jared. Avrebbe voluto disintegrare tutti e tre, ma si diede un contegno e cercò di sembrare rilassato e normale. In realtà aveva la testa in subbuglio e non capiva cosa diamine gli stesse prendendo. Il tocco di Miriam, poco prima, era stato delicato e gentile, e gli aveva messo addosso un’elettricità particolarmente evidente.
La ragazza scese dopo qualche minuto con indosso un vestito di seta verde smeraldo e i capelli raccolti in una coda bassa laterale, fermata con un fiore bianco. Aveva truccato leggermente gli occhi, giusto per dare loro un tono, e aveva dei sandali bassi sempre bianchi. Sembrava una dea, pensò Jared e dovette sforzarsi per non far notare la sua meraviglia davanti a Miriam.
“Andiamo?” sorrise lei a tutti.
“Prego, madame” le offrì il braccio Shannon. Lui era sempre così cortese ed elegante con lei, non si sforzava di farle vedere che si stava affezionando, ma nei suoi gesti non c’era assolutamente adito a pensieri impuri. Erano davvero solamente amici, e qualche giorno prima avevano fatto una gita in cui lui le aveva confidato che ultimamente aveva un debole per l’assistente di Jared, una certa Emma. A sentire quel nome Miriam era scoppiata a ridere: Emma era l’assistente di Jared! Il mondo era palesemente più colorato e vivo in quel momento, e Shannon la guardò in modo strano, chiedendole cosa avesse da ridere. Miriam gli rispose solamente che aveva una vecchia storia divertente su una certa Emma, ma lui non le credette e le disse: “Miri, smettila di pensare a mio fratello, per cortesia…”, continuando a camminare. Era così palese?
Si avviarono verso un noto ristorante thailandese, e presero posto ad un tavolo basso che aveva cuscini al posto di sedie. Era una postazione abbastanza singolare, ma a tutti sembrava piacere molto. Miriam prese posto vicino a Shannon, e aveva Jared direttamente davanti a lei. Si guardavano negli occhi, si sfioravano con gli sguardi ed era tutto immensamente elettrizzante.
Miriam cercava di concentrarsi su altro: il cibo, Shannon che raccontava buffi aneddoti, Tomo che imboccava Kiki, quest’ultima che programmava futuri viaggi a Parigi, ma era molto difficile. Nonostante questo, ad un certo punto, si estraniò e li guardo davvero: era tutti bellissimi, allegri, uniti, sembrava che il tempo che avevano passato insieme fosse una vita e non meno di un mese, e lei era davvero grata al destino. Ci pensava spesso, al suo destino, che era stato così buono da farle conoscere quelle persone straordinarie. Diede due leggerissimi tocchi con il coltello sul bicchiere di vino e lo alzò al cielo, tutti la guardarono perplessi e lei disse: “Si fa così, no? Comunque, volevo dirvi due parole” prese fiato e li guardò ad uno ad uno: gli occhi scuri di Tomo, pieni di bontà, il sorriso di Shannon, intriso di dolcezza, il visto bellissimo di Kiki, che sembrava una bambina felice, e per ultimo gli occhi color del mare di Jared, che le provocarono un brivido lungo la schiena. Li guardò come si guarda una famiglia e cercò di imprimere nella sua mente i particolari di ognuno di loro. Poi parlò: “Il mio mese qui sta per finire. Fra una settimana circa prenderò l’aereo che mi riporterà a Parigi, dove riprenderò la mia vita. Non posso dirvi che mi dispiace, in realtà non lo so neanche io cosa vorrei davvero in questo momento: sono venuta qui per fare i conti con me stessa e mi sono ritrovata immersa in un luogo talmente tanto bello che ora è davvero difficile capire davvero cosa voglio. Vorrei però ringraziarvi, senza di voi tutto sarebbe stato molto più difficile. Kiki, tu sei una persona straordinaria, e mi mancherai davvero tanto, però io un letto per te a Parigi ce l’avrò sempre e mi devi promettere che lo userai. Shannon, Tomo voi… beh voi siete un po’ dei fratelli maggiori per me e vorrei tanto che la nostra amicizia continuasse.” Erano tutti zitti ad ascoltare le sue parole commosse, era convinta di voler dire queste cose la sera prima della partenza, ci aveva pensato spesso, ma in quel ristorante aveva capito che non poteva aspettare. Shannon le strinse la mano e le fece un cenno con la testa a volerla rassicurare che niente sarebbe andato perduto. Poi Miriam guardò Jared: mancava solo lui. “Jared… mi mancheranno molto le nostre chiacchierate notturne, le passeggiate sulla spiaggia e le aranciate fredde. Verrai a trovarmi?” gli disse. Era l’unico al quale aveva rivolto una domanda, e in quel momento tutti scomparvero: c’erano solo loro due in quel ristorante.
Jared alzò il suo bicchiere a scontrarsi con quello di Miriam e le disse solamente: “Io amo Parigi”, sorridendole appena. Tutti notarono un doppio senso in quella frase e un’energia nei loro occhi, tanto che Shannon fu costretto a fare due leggeri colpi di tosse per riportarli alla realtà. Miriam si riprese e concluse: “Ok, ora che vi ho fatti piangere, possiamo andare a divertirci?”
“Spiaggia o discoteca?” annunciò Tomo. Si guardarono tutti e all’unisono urlarono: “Spiaggia!” scoppiando a ridere.
Tornarono verso la spiaggia e Miriam prese delle bottiglie dal locale con dei bicchieri da cocktail. Tomo si esibì in uno show da provetto barman e offrì loro dei colorati drink, mentre Shannon aveva trovato una vecchia chitarra nel retrobottega di Carlos e aveva iniziato a strimpellare qualcosa. L’atmosfera era rilassata e semplice: un modo perfetto per concludere un’avventura, pensò Miriam, guardando l’oceano.
“Ti mancherà?” le disse piano Jared, avvicinandosi al suo orecchio e guardandola. Gli altri parlottavano fra loro scegliendo la canzone da suonare, e lui ne aveva approfittato per avere un minimo di intimità con Miriam.
“L’oceano? Da morire”, rispose lei, senza smettere di fissare il blu.
“Puoi sempre tornare”
“Non sarà così facile, purtroppo”
“E se decidessi di non andartene proprio?” Miriam a quella frase trasalì. Era convinta che parte della bellezza di quell’avventura fossero loro e loro non sarebbero rimasti per sempre lì. In ogni caso, doveva fare i conti con la sua vita, non poteva mollare tutto semplicemente. Anche se l’idea era molto allettante.
“Jared, io devo tornare. Mi aspettano a casa, ho un lavoro, una famiglia. E’ complicato”. Miriam dava un doppio significato a quelle parole: parlava di Honolulu e della bellissima esperienza che stava vivendo, sicura che le sarebbe mancata. Ma forse parlava anche di loro due, forse quel è complicato era rivolto più al loro legame che ad Honolulu e a tutto il resto.
Jared per la prima volta la vide triste e decise di smettere di affliggerla con questi pensieri. Le passo un braccio attorno alle spalle e iniziò a guardare verso l’oceano, come faceva lei.
“L’oceano sarà sempre qui, per te” le disse. Miriam sentì una scossa al tocco del braccio di Jared sulle sue spalle nude, ma non si ritrasse. Non le importava che li avrebbero visti: era chiaro a tutti che il loro rapporto fosse ormai oltre. Rimasero così, abbracciati, e tornarono a ridere con gli altri. Shannon ormai suonava all’impazzata e Tomo continuava a servire cocktail, fra le risate di tutti. Kiki era sdraiata sulla spiaggia, poggiata con la testa sulle ginocchia di Tomo, che la guardava come se fosse una tentazione troppo forte. Quei due erano diventati molto intimi nei giorni passati, ma Kiki aveva confidato a Miriam che lui non aveva mai fatto niente per portare il loro rapporto ad un altro stato. Lei, dal canto suo, aveva lasciato che fosse Tomo a scegliere i toni della questione, perché era una ragazza in fin dei conti romantica e perché aveva rispetto per il suo matrimonio. Miriam le aveva detto di stare in guardia, ma lei era molto presa da quell’uomo, così aveva deciso di lasciare che le cose andassero come dovevano andare. Come l’oceano, le aveva detto, ridendo.
“Ragazzi, un brindisi: a Miriam, che ci ha fatto passare la vacanza più bella degli ultimi anni” urlò Tomo, alzando il bicchiere al cielo. Tutti si unirono e Shannon suggellò il brindisi con un assolo di chitarra. Jared la guardò e le diede un bacio sui capelli, un bacio che avrebbe voluto essere diverso, ma che per Miriam volle dire tante cose.
Continuarono a cantare, bere e ridere fino alle quattro del mattino, quando Kiki annunciò alla truppa che sarebbe andata a casa, visto che il giorno dopo doveva andare con sua madre ad un ricevimento molto poco divertente. Tomo sentì la delusione crescere all’idea di non poterla vedere nelle ore successive e decise di accompagnarla: si alzarono, salutarono e si avviarono sulla sabbia. Poco lontano, Shannon, Jared e Miriam li videro battibeccare allegramente: Kiki aveva dato una spinta a Tomo, forse per via di qualche battuta poco carina, ma entrambi ridevano di gusto. Tomo, per fare pace, si era avvicinato e le aveva messo un braccio intorno alle spalle, mentre Kiki si lasciava stringere dolcemente.
“Eh, quei due finiranno nei guai” annunciò Shannon, con ancora la chitarra in mano.
“Se deve fare una cazzata, meglio che la faccia così. Quella ragazza è uno schianto” gli rispose Jared, continuando a guardarli da lontano.
“Sempre delicato, eh Jay” disse Shannon ridendo e alzandosi dalla sabbia. Aveva intuito di essere di troppo e aveva deciso di andare via.
“Comunque, io torno in hotel a dormire un po’. Vieni anche tu?”
“Ci vediamo dopo, Shan” lo liquidò Jared, senza cercare l’approvazione di Miriam. Forse perché non pensava che servisse, forse perché lei gli aveva concesso molto quella sera ed era inutile sottilizzare ora.
“D’accordo, a dopo. Ciao, francesina, a domani” la salutò Shan, passandole accanto e facendole una carezza sui capelli.
Jared e Miriam rimasero sulla spiaggia, per qualche minuto in silenzio. Lei si stringeva le ginocchia fra le braccia e dopo un pochino si girò a guardarlo in volto, sperando di non essere scoperta. Era perfetto, bellissimo, delicato, sexy e qualsiasi altro aggettivo potesse venirle in mente.
“Quando hai il volo?” le chiese Jared, non guardandola ancora.
“Martedì prossimo. Faccio scalo a Los Angeles e poi da lì ho il diretto per Parigi” le rispose Miriam.
“Noi domenica torniamo a casa” le annunciò Jared. In realtà lei lo sapeva già, perché Shannon glielo aveva detto qualche giorno prima, ma sentirselo dire così da Jared le provocò una fitta di dispiacere.
“Si, Shan me lo aveva detto. Avete impegni prossimamente?”
“In realtà non ufficiali, insomma torniamo in studio, solite cose.”
“Capisco. E pensi di poter avere qualche minuto per sentirmi, ogni tanto?” quella domanda le era uscita spontanea, ma voleva sapere qualcosa, voleva che lui le dicesse qualcosa di concreto, perché era certo che fra loro esistesse un legame diverso, non aveva sognato niente, però lui era sempre enigmatico, sempre sul limite del burrone, senza mai lasciare che neanche un sassolino cadesse. E lei ora aveva bisogno di sentirsi cadere qualcosa in testa.  
“Fra qualche mese saremo in Europa per il tour, magari posso passare da Parigi” le rispose lui, andando più a fondo di quanto Miriam avrebbe creduto. Era emozionata e felice e non riusciva a smettere di sorridere. Jared, al suo silenzio, si girò a guardarla, e la trovò con la testa piegata poggiata sulle sue braccia che tenevano le ginocchia ferme al petto, con un sorriso stampato e gli occhi illuminati che lo fissavano.
Sorrise, perché aveva capito che il suo silenzio era frutto della felicità per quella risposta e alzò una mano a scostarle una ciocca di capelli, ormai liberi dalla coda. Aveva dei capelli bellissimi, leggermente e naturalmente mossi, biondo miele, lunghi fino a metà schiena. Prese una ciocca e ci giocò lentamente, prima di lasciarla cadere e fermare la sua mano sulla guancia di Miriam. Si avvicinò leggermente fino a ridurre al minimo le distanze fra loro. La ragazza non disse niente, non tradì emozioni, sembrava rilassata, ma solo lei poteva sapere quanto il suo stomaco fosse sotto sopra.
Un gruppetto di ragazzini corse accanto a loro, alzando la sabbia e investendoli di una specie di tempesta. Miriam si difese istintivamente con le braccia ma si ritrovò ugualmente piena di sabbia, così come Jared. Scoppiarono a ridere dopo un momento di esitazione e non riuscirono più a fermarsi per parecchi minuti.
“Porto dentro queste cose” disse infine Miriam, ancora ridendo.
“Ti aiuto” le rispose Jared. Quella sabbia aveva rotto il momento, così come Tomo qualche ora prima: sembrava che non fossero destinati ad un bacio che entrambi volevano con tutte le loro forze.
Entrarono nel locale, con le bottiglie e i bicchieri in mano. Miriam andò dietro al bancone iniziando a sistemare tutto e Jared posò i bicchieri nel lavabo, aprendo l’acqua. Erano di spalle, in silenzio, ognuno a fare qualcosa, quando Miriam, intruppò ad una bottiglia che cadde in terra rompendosi. Entrambi sussultarono e si girarono a guardare il disastro ai loro piedi. “Ecco, ero riuscita per più di venti giorni a non creare danni!” disse Miriam, poggiando le mani sui fianchi e sospirando forte.
E fu lì che successe. Nel fare un passo per prendere l’occorrente per pulire, Miriam scivolò sul liquido sparso a terra e finì fra le braccia di Jared, che la sostenne perché non cadesse. Scoppiarono a ridere di nuovo, ma quando Miriam alzò lo sguardo e tentò di rimettersi in piedi scoppiò la scintilla: Jared non la lasciò andare, e per paura che accadesse di nuovo qualcosa, non perse tempo e si spinse a baciarla.
Miriam rimase interdetta e si lasciò andare, chiudendo gli occhi e rispondendo a quel bacio annunciato da tempo. Si spinse ancora più verso di lui, poggiando le sue mani sul petto di Jared e incastrandolo fra il suo corpo e il banco da lavoro dietro di lui: era così assurdamente bello. Jared le strinse la vita, facendo aderire le sue mani alla sua schiena e sentendo un fremito di eccitazione salirgli sulla schiena.
Dopo un tempo infinito, si lasciarono andare, con il fiato corto e le fronti ancora in contatto. Miriam rise con gli occhi fissi in quelli di Jared e si trovò a stringerlo ancora di più.
“Andiamo di sopra, ti va?” le disse lei, semplice come al solito, leggera e fresca come lui aveva sempre pensato che fosse. Non aveva senso aspettare, entrambi sentivano di voler qualcosa da portare a casa, ed erano adulti abbastanza da decidere di prenderselo. 

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Capitolo 4
*** C'è un volo fra tre ore, aspettami ***


Lo prese per la mano senza aspettare la sua risposta, che poteva leggergli negli occhi, e lo guidò attraverso il locale fino alla scala che portava al piano superiore. Lui la seguì, incollato alla sua schiena, mentre con le mani le cingeva i fianchi.
La mansarda era bella e accogliente, la ragazza l’aveva personalizzata con fiori, candele profumate e fotografie del mese passato. C’era un letto matrimoniale al centro della stanza e un’ampia vetrata che mostrava l’oceano e che si apriva su un piccolo balconcino.
Jared la abbracciò forte e riprese a baciarla, lentamente, stuzzicandola e facendole perdere il controllo. Le mise le mani sulle spalle, a volerla liberare dal vestito verde smeraldo: sognava di farlo da quando l’aveva vista scendere nel locale vestita in quel modo. Forse anche da molto prima.
Miriam lo lasciò fare, incurante del fatto che non avesse messo il reggiseno: lo voleva con ogni fibra del suo essere. Infilò le mani sotto la sua camicia, finendo a sbottonarla piano e aprendogliela in un gesto delicato: non gliela tolse subito, la vista di quel corpo scolpito e perfetto la mandò in estasi e rimase a guardarlo, passando le sue dita su di lui per qualche minuto. Attraversò con le dita quel torace che fremeva sotto il suo tocco, mentre gli occhi erano fissi quel percorso che la sua mano stava disegnando. Jared la guardava in preda all’eccitazione, tentava di stare calmo, ma era difficile, ed era estasiato da come lei fosse attratta dal suo corpo, così tanto da rimanere ad ammirarlo senza chiedere altro per minuti interi.
Dopo quelli che sembrarono minuti eterni, il vestito di Miriam scivolò via definitivamente e lei rimase semplicemente in slip. Arrossì, ma non ci badò, concentrando il suo sguardo su quello di Jared, che iniziò ad accarezzarla piano, lo sterno, i seni, le scapole, la pancia piatta, fino all’ombelico, dove si fermò, crudele e rispettoso. Mosse un passo, facendola indietreggiare, mentre lei lo aveva finalmente liberato della camicia, e quando le gambe di Miriam incontrarono il letto dietro di lei, Jared la spinse dolcemente per farla cadere. Miriam si aprì in un sorriso immenso e rimase lì sdraiata, quasi nuda, con i capelli sparsi e i muscoli abbandonati, mentre Jared non si decideva a stendersi con lei, ma anzi la guardava ancora, in piedi, non capendo dove quella creatura così perfetta fosse stata fino a quel momento. Miriam non disse niente, ma sentiva il bisogno di avere di nuovo il suo corpo a contatto con quello di Jared, così con una gamba fece in modo di fargli perdere l’equilibrio e farlo cadere su di lei.
Lì i gesti divennero più audaci: Miriam trovò il coraggio di lambire i pantaloni di Jared e glieli slacciò, aiutandolo a liberarsene. Rimase con i boxer neri, sensuale e possente sopra di lei. Istintivamente aprì le gambe e lui si insinuò fra di lei, facendo aderire il suo bacino al ventre di Miriam. Le scappò un gemito sommesso, nel sentire l’eccitazione di Jared premerle fra le gambe, e continuò a baciarlo con passione, mentre lui aveva preso a toccarle le gambe e le natiche con sempre più passione. Con un gesto dolce, Jared iniziò a percorrere il corpo di Miriam con la lingua, lasciandole brividi inimmaginabili, con una lentezza studiata che la stava mandando in estasi. Arrivò ai suoi slip e piano, con i denti prese l’elastico, abbassandolo di un poco e guardandola negli occhi: Miriam annuì e sorrise piano, lasciando poi la testa cadere sul cuscino, abbandonandosi a lui. Jared la spogliò definitivamente e le baciò le sue parti più nascoste, cercando di essere delicato, ma esprimendo tutta la voglia che aveva di lei.
Miriam non resisteva ad averlo così lontano, nonostante il piacere che le stava provocando con la lingua e con i baci. Lo attirò a se prendendolo per i capelli e gli sussurrò una sola cosa nell’orecchio: “Ti voglio davvero molto ora, Jared”. Poi rise e lo baciò, sentendo il suo sapore sulla bocca di lui e portandoselo di nuovo sopra di lei. Jared si spogliò e dopo aver preso precauzioni, le entrò lentamente dentro il corpo, sentendolo avvolgerlo e abituarsi a lui. I gemiti erano sempre più forti e Miriam non chiuse gli occhi per un momento: lo voleva ricordare mentre, sopra di lei, le procurava piacere in maniera folle.
Jared era un vulcano di emozioni: quella donna era perfetta. Riusciva ad essere sexy e desiderabile senza avere delle maschere, senza avere delle sovrastrutture. Era leggiadra, semplice, diretta e bellissima. Lui era spaventato, perché erano anni che non si sentiva complice in qualche legame, che non provava qualcosa che andasse oltre il rapporto fisico: Miriam aveva colto qualcosa che lui credeva di non avere più. Arrivarono insieme all’orgasmo, e per qualche secondo Jared non la lasciò, desiderando che quel momento non finisse ancora. Miriam lo attirò a sé e lo baciò con passione e dolcezza, prima di sorridergli e accarezzargli il viso. 
Si stese al suo fianco, con il fiato cortissimo e tendendole un braccio. Lei si rannicchiò a lui, con la testa sul petto e gli occhi rivolti al cielo scuro fuori dalla finestra. Rimasero in silenzio per un po’, accarezzandosi, ognuno nei suoi pensieri e con i suoi scheletri: quando due persone si avvicinano così tanto, è normale guardare indietro e fare i conti con il passato. Nessuno dei due però si aspettava di doverlo fare durante quella vacanza.
“Ed ora?” le disse Jared, dopo un tempo infinito. Non era tipo da parole dopo il sesso, ma non era neanche tipo da restare abbracciato ad una donna per mezz’ora. Lui di solito si alzava a se ne andava, o più spesso erano loro ad essere poco gentilmente cacciate dalle suite di Jared. Sentì che quella situazione era diversa e sentì l’impulso di parlarle.
“Non lo so, Jared” gli rispose lei, onesta.
“Posso rimanere qui?” chiese Jared, stupendosi lui stesso di quella domanda. E di quella voglia di dormire dopo il sesso.
“Certo che puoi, Jay… mi farebbe piacere” disse Miriam, sporgendosi a guardarlo negli occhi e baciandolo dolcemente.
Jared sorrise sulla sua bocca e chiuse gli occhi. Miriam si addormentò cullata dal cuore di lui che le batteva sotto l’orecchio.
Si svegliarono qualche ora dopo, con il sole già alto nel cielo e l’oceano che accoglieva i soliti turisti pieni di entusiasmo. Jared fu il primo ad aprire gli occhi e si voltò verso di lei, mettendole un braccio intorno alla vita e facendo aderire la sua schiena al corpo di Miriam.
“Buongiorno” le disse nell’orecchio, svegliandola. Miriam si stirò i muscoli e si trovò intrappolata fra le braccia di Jared: che risveglio meraviglioso pensò, quando lui intrufolò una mano fra le sue cosce.
“Ehi…” gli disse ridacchiando. Era il giorno di chiusura del locale e Miriam non aveva fretta di alzarsi, anzi non si sarebbe alzata per tutto l’oro del mondo.
“Per caso dovrei fermarmi?” la sfidò Jared.
“Assolutamente no” gli rispose, girandosi verso di lui e lasciandosi sfuggire il primo sospiro.
Fecero l’amore di nuovo, come se fosse una bellissima abitudine che durava da anni: la loro complicità era incredibile ed emozionante.
Shannon, nella sua camera d’albergo, si svegliò e guardò l’orologio: le nove passate. Chiamò la camera di suo fratello e non ricevette risposta. Appese la cornetta, pensando che sapeva benissimo dove Jared fosse, sperava solamente che quella storia non finisse male. Miriam gli piaceva, era delicata e aveva una buona testa, non meritava di soffrire per colpa di nessuno, figuriamoci di Jared. E lui, beh, suo fratello era un campione di sensibilità come tutti credevano, fino a che non si trattava di donne.
Si alzò, si fece una doccia e andò a bussare a Tomo, che gli aprì assonnato e con un asciugamano intorno alla vita, non aprendo però del tutto la porta. Shannon sospirò: sapeva cosa voleva dire quell’espressione, e quel sorriso. Si conoscevano da così tanti anni che ormai potevano dire di essere tutti e tre fratelli. E Shannon non era un bambino, con tutte le volte che qualche donna era passata dal suo letto, o da quello di suo fratello, negli hotel di tutto il mondo. Sapeva che dentro c’era Kiki, così sorrise e disse: “Bene, vedo che vi siete divertiti tutti questa notte”.
“Tutti? Perché vuoi dire che Jared e…”, Tomo non concluse la frase, rendendosi conto di non aver contraddetto l’amico: ma sarebbe servito? Era sicuro che se c’erano due persone che non l’avrebbero mai giudicato al mondo, quelli erano i fratelli Leto. E poi la situazione era abbastanza palese.
“Jared non è in stanza, ed io sono andato via dalla spiaggia lasciandolo lì con Miriam. Ad occhio e croce credo che non sia certo andato ad un museo alle nove del mattino, Tomo” rispose Shannon, infilando le mani nelle tasche. “Beh, io scendo a fare colazione. Ciao Kiki!”, urlò sbirciando dentro la stanza dell’amico.
Tomo rise piano, abbassando lo sguardo e vedendo Shannon che si allontanava. Poi lo chiamò piano: “Ehi, Shan… ho fatto una cazzata, vero?”
“Non finchè credi che non lo sia, amico” gli rispose Shannon, ridendo debolmente e andandosene. Tomo rimase sulla porta a pensare: era un casino, ma lui si sentiva bene e tutto il dolore provato quando Vicky gli aveva detto che non lo amava più era lontano. Forse non era una cazzata, quella.
Shannon andò a farsi due passi e raggiunse il locale di Miriam. Sapeva che era il giorno di chiusura, ma tentò ugualmente: forse era di sopra. Bussò due, tre, quattro volte, ma niente. Nessuna risposta. Sorrise fra se e se e mandò un sms alla ragazza: “Francesina, quando sei stufa rimandami mio fratello. Baci”. Poi compose un numero, sedendosi sui gradini di legno del locale. Al terzo squillo la sua voce rispose.
“Ciao”
“Ciao”
“Mi manchi” andò subito al sodo. Era vero: gli mancava. Lo aveva pensato molte volte nei giorni precedenti, ma era tutto un casino. La donna rimase in silenzio per qualche minuto, in cui Shannon rimase appeso a quel vuoto. Poi parlò:
“Anche tu, Shan” gli rispose, con un filo di voce appena percettibile.
“Prendi un volo e vieni qui, Emma” la esortò lui. Era la prima conversazione a cuore aperto che avevano da mesi: era chiaro che ci fosse interesse da tempo, c’era stato un bacio molto casto prima dell’estate, quando erano in Sud America per la prima parte del tour. Una sera erano insieme sulla terrazza della suite di Shannon, mentre discuteva di alcuni dettagli e si erano messi a parlare, lasciando stare la band e il lavoro in generale. Poi era accaduto, si erano baciati, ma prima che Shannon potesse andare oltre, lei era scappata, lasciandolo lì a toccarsi le labbra. Il giorno dopo aveva tentato di parlargli, ma lui era stato irremovibile e aveva fatto finta di niente. Emma aveva incassato il colpo ed era finita così. Era chiaro che non fosse davvero finita, ma entrambi non facevano passi falsi. Shannon era pazzo di lei, da tempo ormai, ma il fatto che lei fosse prima l’assistente di Jared e poi del gruppo intero lo frenava molto. Non sapeva se fosse innamorato di lei o fosse solo un capriccio e non poteva mettere a repentaglio tutto per scoprirlo: c’erano le vite di troppe persone in mezzo a loro, così aveva lasciato perdere e aveva passato l’estate a cambiare donna in ogni città per togliersela dalla testa. Dal canto suo, Emma aveva sempre avuto un debole per Shannon, ma lo considerava molto poco maturo per poter far strani pensieri su di lui: probabilmente se la sarebbe portata a letto, se lei avesse dimostrato di volerci stare, ma sarebbe finita lì e lei non voleva stare male, ma sopratutto non poteva compromettere un rapporto di lavoro così duraturo e bello per una notte. Voleva troppo bene a Jared, e anche a Tomo per ferirli così. Quindi aveva lasciato che lui continuasse la sua vita da playboy cercando di non soffrirci troppo.
Shannon pensava a lei ogni volta che una donna usciva dalla sua stanza, ma non era pronto ad ammettere che non sarebbe stato solo sesso con lei e poi se fosse andata male fra loro, lei si sarebbe trovata fra l’incudine e il martello e lui non voleva. Però quella mattina, mentre faceva colazione e passeggiava per Honolulu si trovò a pensare che non ne valeva la pena: non vivere una cosa bella per un rapporto di lavoro era una cazzata e lui non voleva più nascondersi.
“Shan, ma io, tu… lo sai…” la voce di Emma era sottile, quasi impaurita.
“Emma, senti. Mi piaci, mi piaci da tanto di quel tempo. Ho tentato di starti lontano, di convincermi che tu fossi solo un bel paio di gambe, ma ora è inevitabile: questi giorni senza di te sono stati un casino, ti voglio accanto a me, ti voglio la sera quando mi addormento e la mattina quando mi sveglio. E so che anche per te è lo stesso. E’ davvero difficile provarci?”
“C’è un volo fra tre ore. Aspettami”, gli disse solamente, e riagganciò. Shannon rimase a contemplare l’oceano e gli sembrò di sentirsi finalmente vivo, dopo mesi di dubbi e malintesi con Emma, finalmente lei stava andando da lui, e forse avrebbero trovato un modo per farla andare bene. O almeno ci avrebbero provato, il che già era tanto.
Jared e Miriam erano su una barca in mezzo al mare. Volevano scappare da tutto e da tutti: avevano una settimana per loro e poi chissà che ne sarebbe stato di tutto quello. Non si erano fatti promesse, in realtà avevano parlato molto poco seriamente di tutto: del presente e del futuro, si erano solo guardati dicendosi con gli occhi che entrambi stavano bene e volevano godersi quei momenti. Così Jared l’aveva convinta a spegnere il cellulare, ancora, e ad andare con lui nell’isola vicino.
Maui si presentava selvaggia e ventosa. Scesero dalla barca e iniziarono a perlustrare l’isola. Jared la conosceva un po’, perché quando era alle Hawaii, spesso prendeva quella barca e se ne andava da solo a Maui. Per lui equivaleva a lasciarsi alle spalle stress e pensieri, e il bisogno di starsene da solo lo aiutava a concentrarsi sul futuro. Era un’isola di pace, la sua isola di pace, dove passava le giornate a camminare, ad ascoltare il suono della natura prepotente e immenso.
“E’ bellissimo, Jay! Non pensavo che esistesse un posto così” gli disse, ammirando l’orizzonte, come una bambina. Jared la abbracciò da dietro, poggiando il suo mento sulla spalla di Miriam e stringendola a sé. Miriam gli toccò le mani che erano sulla sua pancia e si sentì felice, immensamente felice: forse il senso della vita era tutto lì, forse tutti i suoi pensieri erano davvero rivolti a vivere così. Forse Jared era la risposta a tutte le domande, o la domanda più grande che la vita le avesse mai posto.
Annusò l’aria, piena di mare, e chiuse gli occhi per imprimere nella sua mente quel momento, che, era sicura, le sarebbe mancato più di ogni altra cosa.
“Miriam, non scherzavo ieri sera quando ho detto che potrei venire a Parigi, fra qualche mese.” le disse ad un certo punto Jared. Era una promessa, forse? O solo un modo per ricordarle che doveva tornare a casa?
“Lo so, Jared” disse semplicemente lei, non in vena di approfondire un discorso che non sapevano dove li avrebbe portati. “Magari posso prendermi qualche giorno di ferie e venire io a Los Angeles, una volta” aggiunse poi, incapace di non fare programmi. Perché l’idea di lasciarlo lì e non averlo più con sé la dilaniava.
“Dovremmo comprarci un’agenda solo per vederci” la prese in giro Jared, che ormai aveva lasciato ogni remora. Voleva stare con lei e non sapeva in che forma e in che modo, ma era convinto che quello che era capitato a loro non fosse solamente una notte di passione. Non poteva dire di amarla, non ancora, ma era certo di volerle bene, era certo che lei occupasse nella sua vita un posto speciale. Al quale ancora non sapeva dare un nome.
“Si, e sicuramente dovrò sperare che non mi licenzino, con quello che costano i voli!”
“Ci penserei io, pur di vederti” disse Jared, dentro al suo orecchio.
“Sei uno spaccone, Leto!” rise lei prendendolo in giro, e divincolandosi dalla sua stretta. Si mise a correre per raggiungere l’oceano, e lui le andò dietro fino a spingerla in acqua, vestita. Giocarono come due bambini, alternando fasi davvero fanciullesche a baci decisamente più da adulti.
Quando uscirono dall’acqua erano zuppi e felicissimi. Miriam lo guardò e pensò che bagnato era ancora più sexy, gli si avvicinò e lo baciò con passione, mischiando il suo sapore al sale che avevano sulla bocca.
“Senti, ma in quest’isola conosci un posto dove poter stare un po’ da soli, Jared?” gli chiese, toccandogli il petto sul quale la sua maglia aveva ormai aderito. Jared la guardò malizioso e le prese la mano, iniziando a correre verso gli scogli. Si arrampicarono e trovarono una caletta bellissima, coperta e deserta. Miriam non stava più nella pelle e voleva fare l’amore con lui, di nuovo. Si lasciò baciare e toccare, ancora bagnata e si ritrovarono nudi in tempi brevissimi. Jared era meraviglioso, sapeva toccarla, sapeva portarla al limite per poi lasciarla insoddisfatta e continuare a torturarla. Era un amante premuroso e passionale, era tutto ciò che lei aveva sempre sognato. In qualsiasi campo.
Tornarono ad Honolulu a sera inoltrata, mano nella mano ridendo come bambini. Jared accompagnò Miriam alla sua mansarda, incapace di separarsene e continuando a baciarla.
“Fammi andare almeno a cambiarmi in hotel, Miriam!” le disse.
“Non sono io che ti trattengo, Jay!” si difese, fintamente innocente, la ragazza. 
“Bugiarda. Ci vediamo dopo?”
“Certo, pensavo di accendere il barbecue e chiamare i ragazzi. Vorrei passare il più tempo possibile con tutti voi”
“Li avverto io, tu inizia a preparare tutto. Saremo di ritorno in un’ora circa, va bene?”
“Fai presto, ti aspetto” le disse lei sulla bocca, baciandolo.
Miriam andò a farsi una doccia, si vestì e legò i capelli ancora bagnati in uno chignon e scese ad accendere il barbecue del locale.
Jared, invece, tornò in hotel con un sorriso strano stampato sul volto. Andò subito a bussare a Tomo, che però aveva il do not disturb appeso alla maniglia. Così andò da Shannon, che gli aprì dopo un paio di colpi. Jared, come al solito spalancò la porta del fratello ed entrò, pronto a confidarsi con la parte più matura dei due. Quello che trovò dentro però lo lasciò a bocca aperta: Emma era sul letto di Shannon. Nuda. Coperta solo dal lenzuolo.
“Ops, credo di aver interrotto qualcosa” si difese, ridacchiando. Era palese che quei due si piacessero e nonostante Jared non avesse mai ficcato il naso nei loro affari, non capiva proprio perché si ostinassero a fare finta di nulla. All’inizio non aveva gradito la cosa, l’aveva quasi considerata un imprevisto scocciante, perché avrebbe potuto portare complicazioni nel lavoro e perché una parte di se rifiutava l’idea che entrambi prima o poi avrebbero messo la testa a posto. Jared era un bambino a volte, e voleva gelosamente che suo fratello rimasse tale senza che una donna glielo portasse via. Che quella donna fosse poi Emma, era inconcepibile. Però qualche sera prima, pensando a Miriam aveva capito che forse se fosse successo ad entrambi nello stesso momento non poteva essere così brutto, e che comunque sia lui che Shannon avevano diritto ad avere di più oltre al lavoro, alla musica e a loro stessi nella vita.
“Jay, non è come credi, davvero” gli disse Emma, come se dovesse giustificarsi con lui. Sembrava un tradimento in piena regola, visto dall’esterno: in realtà la donna provò solo a non perdere il sul lavoro. Era convinta che Jared non avrebbe approvato niente di tutto ciò per non avere complicazioni a livello lavorativo, non sapeva che si sbagliava, e quindi ora era nel panico più totale.
“Beh, Emma cara… a me sembra molto chiara la situazione. A proposito, ma quando sei arrivata?”
“Questa mattina, Jared. Mi dispiace, senti posso spiegarti” continuò lei, accalorandosi e implorando pietà nella voce.
“Emma, ma cosa vuoi spiegarmi? Dai, su fa la seria…” si divertì Jared. Shannon conosceva suo fratello e capì che non c’erano problemi reali, così si affrettò a dargli una pacca sulla spalla e intervenire, prima che ad Emma venisse una crisi di pianto.
“Jared non vuole spiegazioni perché è felice per noi, vero?”, si rivolse al fratello, sorridendo.
“Ma scusate ma a me cosa dovrebbe precisamente fregarmene di voi due? Io vi dico solamente che in tour avrete comunque camere separate” ammonì Jared con il dito puntato, rilassando il volto e sorridendo ad entrambi.
Emma rise di gusto e gli lanciò un cuscino in piena faccia, per vendicarsi. Jared lo schivò e disse solamente: “Preparatevi piccioncini, barbecue da Miriam” avvertì Jared, guadagnando l’uscita.
“Ecco, poi parliamo di dove sia stato tu per tutta la giornata eh…” si vendicò Shannon.
“Si poi ne parliamo. Ma a proposito, Tomo dov’è?”
Shannon rise di gusto e lanciò un’eloquente occhiata al fratello. “Ah capisco. Quindi tutto in piena regola, ora… bello, davvero bello!”
Prese un foglio e ci scrisse sopra di smettere di scopare e di prepararsi per il barbecue serale. Poi lo infilò sotto la porta di Tomo, sperando che lo leggesse.

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Capitolo 5
*** Vieni con me a Los Angeles ***


Eccoci di nuovo qui! 
Altro capitolo, altre emozioni direi... che ne pensate fin'ora? 
Lasciatemi un segno! 
Io posso dirvi che le cose sono ancora molto lunghe e che cambieranno parecchie volte...
Detto ciò, vi lascio alla lettura e vi auguro un'ottima settimana! 
Hr



 
Vieni con me a Los Angeles
 
Poco più di un’ora dopo, Jared arrivò da Miriam, portandosi Shannon ed Emma dietro. Entrò e la vide intenta a sistemare dei fiori dentro ai bicchieri. “Ciao, bambina” le disse all’orecchio, suadente, mentre la abbracciava alle spalle. Lei sentì il tocco del suo corpo sulla schiena, il soffio della sua voce nell’orecchio e fece una risatina leggera ed emozionata. “Ciao, cantante” gli disse, girandosi a dargli un bacio sulla guancia. Credeva che fosse solo, visto il saluto che le aveva riservato, invece dietro notò Shannon con una donna bionda, mai vista prima. Si irrigidì e scostò Jared da sè, diventando tutta rossa.
“Francesina, smettila. Lo sapevano anche i muri che sareste finiti così voi due. E poi credi che non abbia capito che avete passato tutta la giornata in mansarda?” la prese in giro Shannon, avvicinandosi a lei.
“Veramente siamo stati da un’altra parte, Shan” si difese lei, leggermente e fintamente piccata. Poi si aprì in un sorriso, rivolgendosi alla donna bionda che era rimasta indietro: “Comunque, sei un maleducato. Piacere, Miriam” le tese la mano.
“Ciao, sono Emma”. A quel nome Miriam collegò tutto e capì che era quella Emma, quella che aveva creduto essere intima con Jared, tanti giorni prima.
“Benvenuta alle Hawaii! Ho sentito molto parlare di te. Sei arrivata oggi?”
“Si, proprio qualche ora fa” rispose Emma. Era una bellissima donna, minuta e dal sorriso loquace. Aveva lunghi capelli biondi e un corpo non vistoso, ma ben fatto. Miriam la trovò subito simpatica e carina, anche se non sapeva cosa fosse andata a fare lì, forse avevano problemi di lavoro, pensò. Ma Shannon glielo chiarì subito, avvicinandosi ad Emma e affondando il viso nei suoi capelli, mentre lei gli accarezzava il braccio che lui le avvolse intorno alla vita.
“Volete da bere?” spezzò l’incantesimo Miriam.
“Si, volentieri, grazie!” esordì Emma, avvicinandosi alla ragazza.

In quel momento, guardando la spiaggia, videro due figure avvicinarsi, mano nella mano. Erano Tomo e Kiki, felici come non mai. Emma spalancò la bocca e si rivolse ai fratelli Leto indicando la spiaggia, e cercando silenziosamente spiegazioni. Insomma, sapeva che fra Tomo e Vicky le cose non andavano molto bene, ma da qui a quella scena ce ne passava eccome. Entrambi risero e Jared spiegò, caustico: “Il sole delle Hawaii fa venire strane idee, Emma, tranquilla!”. Emma continuò a guardarli sconvolta e lanciò un’occhiate a Shannon, il quale a bassa voce le disse che dopo le avrebbe spiegato qualcosa.
“Ecco, ora siamo al completo direi!” urlò Tomo, non appena entrò nel locale. Salutò i ragazzi e Miriam, al quale rivolse uno sguardo colmo di domande… e poi si sorprese a vedere Emma lì con loro.
“Emma, tesoro, come mai qui? Problemi?”
“No, Tomo caro… non porto sempre e solo problemi!” rispose Emma, ridendo e dandogli una pacca sulla spalla.
Shannon la prese fra le braccia, a voler sottolineare perché era lì e Tomo esclamò: “Ah, ce l’avete fatta quindi?”
“Scusate, ma era così palese a tutti?” disse Emma, tornando seria.
“Beh, sono mesi che vi girate intorno, anche un cieco l’avrebbe capito” le disse Jared.
“E voi invece? Dovete dirci niente?” disse Tomo rivolgendosi a Jared e Miriam, incapace di trattenere la curiosità, con un largo sorriso. Miriam rise imbarazzata e poi rispose: “Si, che Maui è bellissima. Dovreste andarci, sapete? Tutti e quattro dico!”
“Wow, Maui?! Cioè siete stati a Maui?” disse Shannon, incredulo, sapendo quando quell’isola significasse per Jared. Lui lo mise a tacere con una pacca sulla nuca e tutti scoppiarono a ridere. Non c’era bisogno di altre spiegazioni: era tutto abbastanza chiaro.

La serata passò allegramente: mangiarono carne e verdure arrostite, Tomo si occupò dei cocktail e chiacchierarono moltissimo. Sembrava che tutti i tasselli di un complicato puzzle fossero andati a posto, e Jared non si tratteneva più nel baciare Miriam davanti agli altri. Le era sempre vicino, sempre addosso, con carezze, baci fugaci, parole dolci o solamente prendendole la mano. Shannon lo guardava incredulo, perché suo fratello non era tipo da smancerie e perché inconsciamente già si domandava che futuro avrebbero avuto. Non erano affari suoi, o forse si, pensò, però vederlo sereno e forse innamorato gli faceva bene. Poi si girò verso Emma, che chiacchierava con Tomo del più e del meno, e la vide rilassata e sorridente e pensò che forse più che occuparsi di Jared, avrebbe dovuto occuparsi di se stesso: stava davvero mettendo la testa apposto? Prese la mano di Emma e iniziò ad accarezzarla debolmente, distogliendo lo sguardo da lei: voleva un contatto che lo rassicurasse, che gli dicesse che non era tutto un errore. La donna si girò sentendo quel tocco e rispose lasciando la sua mano lì dove Shannon l’aveva imprigionata. Pensò che erano mesi che aspettava quel momento.
Tirarono tardi raccontando aneddoti successi durante i concerti e Miriam raccontò di Parigi e delle sue passioni. Parlò moltissimo dei famosi bistrot e i ragazzi ogni tanto si scoprivano a ricordare particolari della capitale francese che avevano visto in passato.
Kiki si teneva stretta a Tomo, con un’espressione beata sul viso: per loro sarebbe stato facile, visto che Kiki studiava in California. Meno facile visto che Tomo era ancora legalmente sposato. Miriam pensò di chiederle se ne avevano discusso, anche se credeva che fosse troppo presto: erano passate, in fin dei conti, meno di ventiquattro ore.

Tomo, dal canto suo, non si preoccupava di nascondere quanto fosse attratto da Kiki: la teneva vicino a sé e non faceva mistero di nulla. Sapeva che i ragazzi erano un po’ la sua famiglia, negli ultimi anni ne avevano passate moltissime insieme e solo il fatto di condividere il MarsLab praticamente tutti i giorni, li aveva resi inseparabili e ottimi confidenti. Non c’erano cose che loro tre non sapessero degli altri, ed Emma era entrata piano in questo quadro, regalando organizzazione e un tocco femminile a tutto quanto. Alla fine l’avevano accettata come si accetta una sorella, forse Shannon un po’ meno, fin dall’inizio, ma Emma aveva visto cose di loro che forse neanche una madre può raccontare, quindi Tomo non se la sentiva di smettere ora di essere se stesso. I suoi problemi con Vicky erano palesi da tempo, e Tomo si era anche confidato con i ragazzi, qualche settimana prima, chiedendo consigli, salvo poi guardarli e dirsi che forse non erano le persone giuste. Quindi ora se ne stava lì, sotto occhi amici, ma comunque indagatori a tradire palesemente sua moglie: pensò a questa cosa e gli vennero i brividi. Poi pensò all’ultima conversazione con Vicky e decise di fregarsene, perché in fondo lo meritava.

Quando fu ormai quasi mattina, Emma iniziò a chiamare il giro delle chiacchiere, dicendo che era molto stanca, visto anche il viaggio del giorno precedente. Salutò Miriam, ringraziandola della cena e dicendole che sarebbe tornata a trovarla. Miriam rispose che ne sarebbe stata felice: Emma era una persona importante nella vita di Jared e lei voleva conoscerla, anche se sembrava un po’ sulle sue, pensò.
Jared rimase a darle una mano a spicciare il locale,che fra poche ore avrebbe aperto le porte ai clienti. Mentre erano lì a mettere in ordine, Miriam gli fece una domanda strana: “Jared, sei mai stato davvero innamorato?”. Jared si fermò e la guardò fissa, non capendo il senso di quella conversazione.
“Perché me lo chiedi?” le disse solamente, andando a ripescare ricordi che forse era meglio non rivangare.
“Così, perché io credo che non mi sia mai capitato davvero e vorrei sapere com’è” 
“Non c’è una spiegazione, credo sia una questione di testa, prima che di fisico” spiegò Jared, mettendosi seduto su una sedia e incrociando le braccia.
“Sai io ho avuto qualche ragazzo, naturalmente, ma non ho mai… insomma, non ho mai sentito niente di davvero importante con loro. Magari è anche capitato di farci qualche weekend fuori, insieme, ma niente che fosse qualcosa di testa. Più che altro ci stavo bene. Ma…” si interruppe, non sapendo se parlare ancora o meno, anche se pensò che ormai era tardi per farsi venire dubbi.
“Ma?” le chiese Jared, in allerta. Credeva di sapere dove sarebbe andata a parare, e improvvisamente si sentì come un leone in gabbia: si conoscevano da meno di un mese ed erano davvero qualcosa da sole ventiquattro ore, come poteva dirgli di essere innamorata di lui? Prese ad agitarsi sulla sedia, non sapendo bene cosa fare, né cosa dire, e pensando che forse l’aveva illusa troppo, si decisamente troppo. Poi lei lo guardò sorridendo e disse: “Mi piacerebbe un giorno provare qualcosa che sia anche di testa e non solo di fisico, credo che sarebbe bello!”. Aveva lo sguardo sognante che si ha quando si spera che qualcosa avvenga nel prossimo futuro, o almeno che prima o poi avvenga e Jared rimase di sasso: Miriam aveva detto che sperava che le accadesse, non che le era accaduto. Sentì i muscoli rilassarsi e la sensazione di tensione svanire, capì che forse avrebbe dovuto imparare a conoscerla meglio. Perché non tutte le donne si sarebbero innamorate perdutamente di Jared Leto, alcune si sarebbero anche accontentate di passarci del tempo, senza sapere bene cosa provavano per lui. Alcune l’avrebbero guardato e vissuto solamente come Jared.

L’ultima settimana passò velocemente, forse troppo velocemente. Jared passava ogni giorno e ogni notte con Miriam, che era felice di averlo intorno. Non avevano più parlato del futuro, erano complici e volevano evitare di rovinare tutto. Ma il sabato notte fu quasi un obbligo. Erano sdraiati l’una sull’altro sulla sdraio che Miriam aveva messo sul balconcino della mansarda, nudi e avvolti da una coperta. Miriam poggiava tutto il suo corpo su Jared, che la teneva stretta, quasi avesse paura che svanisse.

“Non voglio che tu vada via, Jared” gli disse Miriam, la voce ridotta quasi ad un lamento. Aveva seriamente pensato a lui quella settimana, quando si era ritrovata sola, e si era resa conto di non poter dire di amarlo, ovviamente, ma poteva dire che le sarebbe mancato e poteva dire che forse col tempo avrebbe anche potuto darsi una chance. Miriam era sempre stata molto realista, e non avrebbe smesso perché una rockstar era nuda sotto di lei.
“Lo so. Tu fra tre giorni torni a Parigi…” rispose lui, mettendola di fronte ad una realtà ancora più difficile da accettare.
“Due per la precisione. Come farò senza di te?”
“Mi dimenticherai, Miriam… prima o poi accadrà” le disse Jared, forse un po’ troppo duro.
“Dimenticarti? Perché mi dimenticherai tu, mi stai dicendo questo?”
“No Miriam, perché andrà così. Sai cosa intendo dire” le disse lui, accarezzandole il braccio. Il problema è che lei aveva capito benissimo cosa voleva dire Jared, ed era d’accordo: una storia a distanza, Parigi –Los Angeles. Era assurdo anche solo pensarlo, permettersi di pensarlo, figuriamoci farlo davvero. Miriam sentiva che quel legame era la cosa più bella che le fosse mai capitata, e l’ultima settimana era stata la più dolce, bella, elettrizzante e passionale della sua vita, ma era venuto il momento di fare i conti con la realtà: lei e Jared erano una cometa destinata a morire lì, in quella notte, qualche ora prima che l’aereo per Los Angeles portasse via quell’uomo.
“Non litighiamo, Miri, ti prego”
“Forse c’è un modo più bello per salutarci” gli rispose, girandosi e stampandogli un bacio in piena bocca. Jared si sentì morire dentro: quella bocca non sarebbe più stata sua, quel corpo non l’avrebbe più eccitato, e quella freschezza non sarebbe più stata il sale delle sue giornate. Ma forse sarebbe sopravvissuto, come sempre, buttandosi sulla musica, sulla carriera. Fecero l’amore altre due volte, prima che Jared la lasciasse per andare, in fretta, a fare i bagagli.

Miriam li accompagnò in aeroporto con la vecchia macchina del signor Carlos. Kiki la seguiva con la macchina di sua madre, portando Tomo: per loro lasciarsi fu uno strazio, e Kiki non la smetteva di piangere. Tomo le aveva detto che avrebbe sistemato tutto, e che lei non doveva dimenticarlo, ma la ragazza sapeva cosa sarebbe successo: lui sarebbe tornato da sua moglie e l’avrebbe dimenticata. Sembrava che il verbo dimenticare fosse la parola del giorno. Una parola amara però.

Appena arrivarono all’aeroporto, entrarono e le ragazze accompagnarono la truppa ai controlli. Si salutarono: Miriam strinse forte sia Tomo che Shannon e faticava a lasciarli andare. “Ragazzi, chiamate quando arrivate. Il contatto Skype ce lo avete e dovete usarlo, intesi? Io parto martedì, comunque”. Shannon la strinse ancora e le disse: “Francesina, non appena sei a Parigi facciamo una mega teleconferenza tutti insieme ok? E comunque verremo a trovarti!”
“Ci conto, sarebbe bello avervi a Parigi!” disse lei, commossa. Tomo e Kiki si salutarono velocemente, per cercare di non allungare lo strazio: d’altronde si erano detti tutto già nella notte precedente.
Miriam guardò Jared e si avvicinò per abbracciarlo, quando lui le prese il polso e la trascinò poco lontano. Miriam non capiva cosa intendesse fare: era stato silenzioso tutto il viaggio, in effetti.
“Vieni con me a Los Angeles, Miriam”
“Jared ma che dici? Io fra due giorni ho l’aereo per Parigi”
“Lascia stare Parigi, lascia stare tutto, vieni con me a Los Angeles”
“Tu sei impazzito!” rispose lei, incredula, guardando altrove.
“Miriam, senti, questo mese con te è stato pazzesco, al di sopra di ogni aspettativa. Io sono stato bene, e vorrei continuare a stare con te. Non so cosa sia, come si chiami e se abbia realmente un nome, ma so che non voglio lasciarti. Mi basta un tuo si, una tua decisione di venire con me” aveva il fiato corto, ansimava quasi, il viso leggermente rosso e le mani a stringerle la vita. Miriam gliele tolse e respirò profondamente: “Jared, senti, ne abbiamo parlato: dimenticheremo. Andrà così”
“Io non voglio dimenticare” si lamentò come un bambino. Miriam lo vide per la prima volta vulnerabile e si sentì totalmente presa da lui.
“Ma andrà così, lo abbiamo sempre saputo, ora rischi di perdere l’aereo, dai… ci sentiamo quando arrivi, ok?” si spinse sulle punte dei piedi per dargli un bacio, ma lui scostò la testa di lato, allontandosi da lei.
“Ciao, Miriam” le disse solamente, prima di prendere la sua sacca, buttarsela in spalla e raggiungere la dogana per i controlli. Non proferì parola agli amici, che lo seguirono a bocca aperta, guardando Miriam, che era rimasta lì a occhi bassi. Si salutarono così, con una proposta assurda rifiutata per troppa coscienza e razionalità. 

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Capitolo 6
*** Possiamo farlo ***


Ciao gente! 
Come avete passato questa settimana?
Sono in ritardo di un giorno con l'aggiornamento, scusate.
Però spero che il capitolo non vi deluda! 
Vorrei infine ringraziare tutti coloro che seguono questa storia,
siete davvero tanti ed ogni volta leggere quante visualizzazioni hanno avuto i capitoli
mi riempie di orgoglio e gioia! 
Grazie davvero! 

Buona lettura e buona settimana! 

Hr 


 
Possiamo farlo

 
Kiki e Miriam tornarono al locale e passarono la serata a sbronzarsi. Finirono addormentate sul letto di Miriam e si svegliarono alle prime luci dell’alba, con un mal di testa incredibile e le valigie di Miriam da fare. Era il suo ultimo giorno ad Honolulu e decise di passarlo tutto con Kiki e la sua famiglia: fecero un grande pranzo in suo onore, facendole promettere di tornare a trovarli. Lei si commosse molto e li ringraziò per tutto, davvero tutto quello che avevano fatto per lei in quell’ultimo mese. Era tutto partito come una scusa per scappare, come qualcosa di diverso, non avrebbe mai e poi mai pensato di trovare una famiglia, degli amici. Non avrebbe mai pensato di trovare Jared, che le mancava da morire, per quanto ora sapeva di averlo perso. 

Fece una lunga passeggiata, da sola, e pensò moltissimo a lui. Le si stringeva il cuore al solo guardare angoli che avevano vissuto insieme: quella spiaggia, quella mansarda, il locale, tutti frammenti di qualcosa che forse avrebbe dovuto non lasciare andare. Ma cosa poteva fare? La realtà era che doveva fare i conti con se stessa e ammettere che era stata solo una bella favola a cui ora doveva mettere la parola fine. Stop, era già stata tanto fortunata a poterlo conoscere e vivere.


Tornò a casa di sera, trovò qualche chiamata di Shannon, ma nessuna di Jared. Richiamò il batterista, che rispose al secondo squillo:
“Ciao, francesina. Ti cercavo oggi…”
“Ero con Kiki, avevo lasciato il telefono a casa”
“Valigie pronte?”
“Non ancora, ora sistemo tutto, domani ho l’aereo per Los Angeles molto presto”
“Capisco. Senti, come stai?”
“Un po’ sottosopra, oggi mi hanno fatto una festa di addio bellissima…” iniziò lei, sentendo le lacrime tornare a pungerle gli occhi al pensiero della sua festa. 
“No, non intendevo dire quello. Sai a cosa alludo”
“Ah, quello… beh, è chiaro che sia arrabbiato con me. Non si è fatto sentire e non risponde alle mie chiamate”
“Miriam, mio fratello è uno strano, ma forse tu, si insomma, forse hai esagerato” tentò Shannon, sperando che il suo tentativo andasse a buon fine. 
“Shannon, ma cosa dovrei fare? Dirgli che una relazione Parigi – Los Angeles è possibile? O mollare tutto e trasferirmi lì per lui? Non so neanche cosa ci sia fra di noi!” sbottò lei, irritata ma sopratutto spossata. 
“Non dico che tu abbia torto, dico solamente che anche tu vorresti un epilogo diverso, e lo sai benissimo”
“Ma certo che lo vorrei! Vorrei non dover tornare a casa a fare qualcosa che ho capito di non voler più fare. Ma tant’è, è così!”
"Distogli l'attenzione dalla tua vita: tu tieni a lui, ammettilo"
"Io... non so... si, forse... insomma... è stato solo un frangente... e lui... sicuramente si è già dimenticato... di me" disse a bassissima voce, quasi da non volersi fare sentire.
Shannon capì dalla sfumatura della sua voce che aveva ragione, ma non voleva ferirla ancora. Sapeva benissimo che Jared non si era dimenticato di lei, sapeva benissimo che il cattivo umore di suo fratello non era dovuto al suo caratteraccio, ma solamente all'assenza di Miriam. Ma non poteva dirlo, non era una sua competenza, e probabilmente, pensò, le avrebbe fatto più male che bene saperlo. Così si pentì quasi di averla costretta a parlarne e disse solamente:
“Scusami, Miriam, non volevo” chiuse il discorso Shannon.
“No, Shan, scusami tu. E’ che mi manca da morire e questo suo mutismo mi sta facendo andare fuori di testa. E’ stato lui a dirmi che ci saremmo dimenticati a vicenda e la proposta dell’aeroporto è stata solo frutto del momento. Lo sa anche lui, deve solo rendersene conto”
“Senti, francesina, ti saluta Tomo, ora devo scappare. Chiamami quando sei a Parigi, ok?”
“Si, lo farò, tranquillo. Salutami tutti e salutami anche… Jared” disse con un filo di voce.
“Sarà fatto, sta tranquilla!”.

Miriam partì il giorno dopo, dopo aver salutato Kiki e tutta la sua famiglia all’aeroporto. Per tutto il viaggio pensò a Jared: era incredibile quanto tutto le parlasse di lui, quanto lei fosse legata a quell’uomo. Avrebbe tanto voluto averlo vicino e pensò quasi di perdere la coincidenza per andare a salutarlo. Ci pensò per sette lunghe ore: avrebbe voluto farlo e le sarebbe bastato chiamare Shannon appena arrivata a LA, ma a che scopo? Passare un giorno insieme e poi salutarsi di nuovo? O forse avrebbe dovuto veramente rimanere lì, viversi quella storia, forse aveva ragione lui. O forse no. Era più confusa di quando era partita, e si sentiva abbattuta e triste.

Arrivò a Los Angeles dopo aver pianto praticamente sette ore sotto gli occhiali. Aveva le ossa rotte e gli occhi arrossati, e l’idea di dover prendere ancora un volo per più di dieci ore la metteva solo di cattivo umore. Los Angeles la accolse con una pioggia battente, abbastanza insolita per quella città. Miriam si sistemò sulle poltroncine dell’aeroporto e iniziò a leggere un giornale comprato nell’edicola lì vicino: fra meno di due ore sarebbe partita di nuovo e aveva solamente bisogno di distrarsi in quell'attesa, per non pensare di essere sotto lo stesso cielo. 
Aveva disattivato la scheda hawaiana, ma ancora non aveva avuto il coraggio di accendere quella francese. Non fino a che non sarebbe stato indispensabile. Si stava preparando a fare il check in quando si sentì chiamare da lontano: sicuramente era un caso di omonimia, chi mai avrebbe potuto chiamarla in una città in cui non conosceva nessuno? Si irrigidì pensando che effettivamente quel nessuno non era proprio la verità, ma scacciò subito quel pensiero, perchè era irrazionale ed impossibile. 

Si girò sentendo ancora il suo nome, due, tre, quattro volte, sempre più vicino, la sensazione che il suo istinto non stava sbagliando e lo stomaco che le si stava rivoltando. Forse per la felicità di qualcosa che si ostinava a credere impossibile: ora mi girerò e vedrò che non è lui, che sto sognando, pensò. Però doveva girarsi e lo fece: vide Jared davanti a lei, che le sorrideva sotto un paio di Rayban. Era davvero lui, non aveva sognato, non aveva sbagliato. Istintivamente annullò la pochissima distanza che li separava e si lasciò abbracciare. 

“Cosa ci fai qui?” gli disse quando si guardarono negli occhi.

“Sono venuto a salutare la mia francesina”
“E come sapevi l’orario del volo, scusa?”
“Ho sbirciato fra le tue cose l’altra sera. Non avrei dovuto farlo, lo so”
Miriam non aveva mai trovato così bella l’invasione altrui della propria privacy.
“Sono felice di vederti, Jared” disse con un filo di voce.
“Anche io” le rispose con un fil di voce. Nessuno osava parlare di altro, ma gli occhi di entrambi erano abbastanza sufficienti da capire che forse niente avrebbe potuto tenerli lontani. 

“Quanto tempo hai?”
“Meno di un’ora, Jared” disse tristemente lei.
“Ok, vieni con me”. Andarono ai tabelloni delle partenze e videro che c’era un altro volo per Parigi che sarebbe partito solo nove ore più tardi.
“Cambia il biglietto e stai una giornata con me, questo puoi farlo” le disse.

Miriam rise all’irruenza di Jared, e Dio solo sapeva quanto voleva dirgli di si. Ci pensò su, e valutò bene tutto: al diavolo le valutazioni, al diavolo la razionalità, nove ora in più poteva concedersele.
“D’accordo, andata!” gli disse, mentre lui la abbracciava di nuovo.

Corsero al banco della compagnia aerea, chiedendo un cambio di biglietto. L’hostess riconobbe il cantante, che le fece un autografo e usò il suo sex appeal per farle sbrigare al volo le procedure: non potevano perdere ancora tempo, il tempo era prezioso.

Volarono poi fuori dall’aeroporto, dopo aver lasciato i bagagli al deposito, ed entrarono nella macchina di Jared: “So che vorresti vedere Shannon e Tomo, ma oggi non ti dividerò con nessuno” le disse malizioso, appena furono al sicuro dell’auto. Poi si sporse verso di lei e la baciò: Miriam si sentì immediatamente meglio, quel bacio le diede tutta la vita di cui aveva bisogno. Non c'erano più lacrime, muscoli indolenziti e ossa rotte, non c'era tristezza e forse non c'era neanche più tutto il mondo intorno a lei: tutto si riduceva in quel fiato che le increspava le labbra, in quel sorriso che si apriva davanti a lei, in quegli occhi azzurro mare che la fissavano dolcemente. 

“Ma hai pianto?” le disse non appena lei si tolse gli occhiali, fin’ora tenuti sul naso.
“No, mi ha dato fastidio l’aria condizionata in aereo” finse Miriam.
“Non dire cazzate… stai bene, Miriam?”. Ora le parlava serio e quasi preoccupato. Non riusciva a capacitarsi dei sentimenti che riusciva a tirarle fuori quella donna, lui che si era sempre solo preoccupato davvero per tre, quattro persone al massimo. 
“Ora si, Jared. Ora si” gli disse sinceramente, poggiando la sua fronte alla spalla di lui. Jared le diede un bacio sui capelli e poi avviò il motore.

La portò a pranzo al mare, e poi lontano da LA, dove c’era un panorama mozzafiato. Parlarono molto, seriamente anche, del futuro e a fine giornata, quando Jared si stava rivestendo nella sua casa per accompagnarla in aeroporto, Miriam, ancora nuda sotto il lenzuolo bianco, sospirò e decise di gettare tutto all'aria, di vivere come il cuore le stava dicendo di fare. Gli propose una cosa assurda: “Jay, ascoltami” gli disse, sedendosi e portando il lenzuolo a coprirle il corpo, vergognandosi di chissà cosa. “Io non ci so stare senza di te, ma non posso permettermi di trasferirmi qui, senza un lavoro, senza una certezza. Devo tornare a Parigi, almeno a sistemare le cose. Dici che potremmo concederci il lusso di sentirci, e di tanto in tanto di vederci anche? Senza promesse, senza dare un nome a questa cosa, solamente non perdersi di vista, non dimenticarci l’uno dell’altra. Dici che possiamo?”. Gli stava chiedendo di farla rimanere nella sua vita, senza chiedergli però nessuna certezza né promesse scomode.
Jared la guardò a lungo, pensando che fosse la creatura più meravigliosa, fragile e coraggiosa della terra. E che sarebbe stata sua, se solo gliel'avesse permesso. Si chinò sul letto e la baciò dolcemente: “Dico che possiamo, bambina” le sussurrò sulla bocca. Miriam sorrise sulle sue labbra, sentendo la vita irradiarsi dentro il suo corpo. Iniziò a vestirsi, non riuscendo neanche ad essere triste per l'imminente partenza: non contava niente di fronte al fatto di non averlo davvero perso.
Jared la accompagnò all'aeroporto, il viaggio silenzioso e la sua mano ferma in quella di Miriam, lo sguardo fisso sulla strada e una sensazione strana che lo pervadeva. Si salutarono nel parcheggio, non dicendosi molto. Miriam promise di chiamare non appena sarebbe atterrata e Jared la baciò ancora, capendo che quelle labbra le sarebbero mancate da morire. La lasciò andare, continuando a guardarla dal SUV, poi sorrise: quella donna gli avrebbe sconvolto la vita, ancora non sapeva come, ma aveva già iniziato. 


Miriam atterrò a Parigi con un mal di testa lancinante e la consapevolezza di dover prendere un taxi. Si fece portare direttamente a casa sua, non voleva vedere nessuno e mirava solamente ad una lunga dormita. Mandò velocemente un messaggio a Shannon, per avvertirlo di essere arrivata sana e salva, non spiegando il perché di tante ore di ritardo. Forse glielo aveva già detto Jared, o magari glielo avrebbe raccontato lei più in là. Non certo ora. Poi scrisse anche a Jared, come gli aveva promesso. 

Entrò dentro casa sua e aprì tutte le tende: l’eleganza di Parigi, in fin dei conti le era mancata. Pensò che per essere ottobre faceva già molto freddo, oppure era solo l’essersi abituata a temperature decisamente diverse, nell’ultimo mese. Prese la posta, la sfogliò distrattamente, ascoltò la segreteria telefonica e andò a buttarsi sul letto.
Si svegliò solamente sette ore dopo, il mal di testa scomparso, ma un jet lag prepotente a farle compagnia. Pensò di chiamare sua madre, poi guardò l’ora e vide che essendo le undici del mattino, forse, avrebbe dovuto chiamare in ufficio.
“Salve, sono Miriam, c’è mia madre per favore?” la segretaria gliela passo subito, e la madre si dimostrò normale nel sentirla.
“Ciao, piccola, tutto ok?” le disse solamente. Non si sentivano da un mese e non dimostrava la benché minima intenzione di sapere come stava davvero, se era dimagrita o no, se qualcuno l’avesse costretta a vendere il suo corpo o se si fosse innamorata. Niente di niente. Decise di lasciar perdere.
“Ciao mamma, si sto bene. Un po’ stanca, ma bene”
“Ma non dovevi arrivare molto prima a Parigi?”
“Si, ma c’è stato un ritardo dell’aereo. Ti ho mandato un sms ieri, non ti è arrivato?”
“No, tesoro, scusami. Comunque senti ora sono impegnata, ci vediamo per pranzo? Solito posto?”. Per sua madre solito posto equivaleva al bistrot sugli Champs Elysee dove andavano da quando Miriam era bambina. In quel bistrot erano successe le cose più belle, più brutte e più normali della sua vita: aveva detto lì a sua madre di voler studiare legge, di essersi innamorata per la prima volta, di aver litigato con la sua migliore amica e di voler andare un mese a gestire un chiosco in riva al mare. Semplicemente erano sempre lì dentro e sempre lì dentro Miriam aveva reso partecipe sua madre della sua vita. Sembrava che il loro rapporto iniziasse e si esaurisse lì dentro, nè più nè meno. 
“Si, va bene, per le dodici e trenta.”
“D’accordo. A dopo, cheri” concluse sua madre, appendendo la cornetta.

Miriam sentì di essere tornata davvero a casa: solite consuetudini, vestiti eleganti, cibo raffinato e bon ton sempre a regola d’arte. Pensò di chiamare suo padre, ma non ne ebbe il coraggio, avrebbe prima discusso con sua madre della cosa. Si fece una doccia, indosso un abito di lana leggera e un trench abbinato e uscì in una perfetta giornata parigina di inizio autunno. Era tutto così diverso rispetto ad Honolulu, e le mancava molto quell’aria di libertà e relax che aveva lasciato sull’isola.

Camminò per Parigi, decidendo di andare a piedi al bistrot, per riprendere confidenza con la sua città e con la sua vita, non sarebbe stato semplice, pensò, ma doveva almeno provarci. Arrivò all’appuntamento con circa dieci minuti di anticipo e prese il tavolo, ordinando del vino bianco: l’unica cosa che le era mancata alle Hawaii era il vino francese.
Célie arrivò, puntuale, alle 12.30, in un meraviglioso tailluer color amaranto e scarpe in tinta di vernice. Si sedette al tavolo solo dopo aver baciato la figlia sulle guance e ordinò lo stesso vino della figlia e si sistemò sulla poltroncina.
“Dobbiamo sbrigarci, Miriam che ho una riunione alle quindici purtroppo”. Miriam alzò gli occhi al cielo: possibile che sua madre non potesse concederle del tempo e liberarsi proprio mai? Colse l’allusione di sua madre: lei aveva voluto fare di testa sua e lasciare Parigi per quella stupida avventuretta in capo al mondo, ma nessuno l’avrebbe mai considerata una scelta importante, nessuno le avrebbe mai dato credito e tutti l’avrebbero semplicemente dimenticata, come se fosse una serata andata male. Questa cosa la infastidì moltissimo e finì per perdere interesse nel parlare con sua madre: aveva pensato di parlarle di Kiki, dei ragazzi, forse persino di Jared, ma non avrebbe lasciato che la madre liquidasse le sue amicizie in quel modo superficiale, così tacque.

“Allora, hai rivisto già Jerome?” si informò Célie. Già Jerome il buon partito, era fondamentale che lei riallacciasse i rapporti.
“No, mamma. Sono tornata ieri notte a Parigi, come avrei potuto?” le rispose, forse un po’ troppo secca. Célie se ne accorse e la guardò, al di sopra del menù, come a volerle ricordare le buone maniere e di abbassare il tono.
“Sarebbe bastata una telefonata questa mattina” la ammonì severa.
“Scusa, mamma hai ragione. No, non ci ho pensato comunque, rimedierò” le rispose, sorridendo appena nella sua direzione e sorseggiando del vino dal calice.
“Beh, lo studio legale, invece?”. Niente sua madre non avrebbe voluto parlare del mese precedente, era semplicemente stata in vacanza per lei. Quello che le interessava era che lei riprendesse contatti con la sua vita parigina, in maniera che nulla fosse sprecato e che tutto continuasse come prima. Miriam era davvero sconcertata: non era servito a niente spiegarle, prima della partenza, alcune cose, sperare che lei la capisse. Non sarebbe cambiata mai.
“Lo studio lo chiamo domani, mamma” la informò, senza mettere alcun tono nella voce. Bollettino aggiornato, pensò di dirle, ma tacque per il bene del suo equilibrio psichico. L'ultima cosa di cui aveva bisogno, in quel momento, era di una ramanzina da parte di sua madre. 
“Bene, e oggi che farai?”
“Niente di particolare, vorrei disfare le valigie e sistemare alcune cose”
“Bene, molto bene. Senti, cosa prendi?”
“Una bistecca, mamma”. Sua madre odiava la carne, era una vegetariana convinta e quella sua risposta era stata solo una sfida.
“E bistecca sia, io opto per l’insalata: meno grassi e meno proteine” le sorrise, tutt’altro che complice.

Mangiarono in silenzio, scambiando solo parole di circostanza e alle quattordici e trenta, Célie scomparve così come era apparsa, dopo aver pagato il conto. Miriam rimase seduta ancora un po’, ordinando un dessert molto calorico che sperava la tirasse su. Parigi nel frattempo aveva messo le nuvole in pole position, e lei pensava solo al rumore dell’oceano, che sembrava lontano anni luce. Le mancava molto Jared, che aveva sentito quella mattina via sms, e le mancava il chiosco hawaiano e la spiaggia e tutto il resto.
Si convinse ad alzarsi, molto dopo aver finito il dessert ed essere rimasta seduta a guardare la sua Parigi caotica. Camminò ancora, per molto tempo, lasciando che i pensieri fluissero fuori dalla sua mente e osservando particolari della sua vita che ricordava benissimo. Sperava di trovare qualcosa che le fosse mancato, cammimò a lungo forse solamente per quello, un piccolo segno che ci fosse qualcosa da cui tornare, che Parigi era davvero sua e che lei aveva preso la direzione giusta. Ma non successe, nulla di tutto ciò andò come lei sperava e la sensazione di essere sola le fece pensare di prendere un aereo e tornare da Jared, per un momento. Si strinse nel trench perché l’aria si stava irrigidendo e si decise a rientrare in casa solo nel tardo pomeriggio.

Dopo un'altra doccia calda, un pò di gelato che aveva preso prima di rientrare e qualche lacrime, accese Skype e fece mentalmente il calcolo dell’orario americano: a LA erano le dieci del mattino, forse poteva chiamare qualcuno. Fece partire la chiamata per Shannon, che era connesso e subito dopo le apparve il volto sorridente dell’uomo.
“Ciao, batterista!” esclamò felice Miriam, sorridendo a trentadue denti. Era bello vederlo di nuovo, perchè sapeva di casa e felicità, sapeva di affetto e complicità. Si sistemò sul divano, accoccolandosi con il computer in grembo.
“Francesina, com’è Parigi? Come l’hai lasciata?”
“Fredda, tanto fredda oggi! Però sto bene, nonostante il jet lag prepotente” mentì spudoratamente. 
“Sono felice, Miriam. Qui procede tutto, abbiamo ripreso a lavorare” le disse Shannon. In quel momento nel video apparve Tomo, da dietro, con una faccia buffissima che la fece ridere a crepapelle: era come riaverli lì con lei.
“Tomo! Ciao!” urlò quasi, soffocando le risate.
“Senti, ma vuoi davvero farmi credere che sei stata una giornata a LA e non ci hai neanche salutato?” le disse, fingendo di essere molto offeso con lei.
“Non è colpa mia. Qualcuno mi ha detto che non mi avrebbe diviso con nessuno…” disse angelica, nonostante il senso di colpa, perchè realmente avrebbe voluto salutarli. 
“Ah quindi sei stata costretta?” incalzò Shannon.
“Eh si, altrimenti vi avrei sicuramente chiamato, ragazzi”
“D’accordo ma dovrai comunque farti perdonare, sai!” replicò Tomo. 
“Va bene, va bene… antipatici!” concluse Miriam, ridendo. Sembrava di essere di nuovo alle Hawaii, infradito e occhiali da sole, i ragazzi normali persone in vacanza e lei finta locandiera sempre allegra. Era bello pensare che il ritorno alla realtà non li avesse cambiati, per quanto parlare attraverso uno schermo non era proprio come essere insieme. 

“Non hai protestato tanto per chiamarli però…” disse una voce. Quella voce, la sua voce. Miriam l'avrebbe riconosciuta fra milioni, calda, sensuale, dolce e leggermente bassa. Ebbe un colpo al cuore: era lì, ma non davanti la telecamera e non aveva parlato fino a quel momento, quindi Miriam aveva dedotto che Shannon e Tomo fossero soli. Non sapeva cosa dire, ma il suo viso si colorò di un colorito rossastro e la sua bocca si incurvò in un sorriso dolce: lui riusciva sempre a darle la vita di cui aveva bisogno. Mentre cercava le parole, nello schermo apparve Jared, che la salutò con la mano e le sorrise.
“Ciao, bambina. Come stai?”
“Jay…” disse solamente Miriam, sentendo le lacrime salirle agli occhi. Si costrinse a fermarsi però: si erano promessi di provarci, ma non sarebbero andati da nessuna parte se lei iniziava a frignare non appena se lo trovava virtualmente davanti. Respirò a fondo e continuò a parlare: “Sto bene, sono stanca, ma domani inizio di nuovo a lavorare”.
“E hai sentito i tuoi genitori?” le chiese Tomo, quello che aveva più a cuore la situazione famigliare di Miriam.
“Ho visto mia madre a pranzo. Mio padre ancora no, in realtà”
“Ed è andato tutto bene?” si informò di nuovo il croato.
“Diciamo che non è quello che si può chiamare pranzo fra madre e una figlia tornata dopo un mese in capo al mondo, ma è andato bene. Considerando che stiamo parlando di mia madre, intendo” rispose, sinceramente Miriam. Era molto provata e i ragazzi lo vedevano, però tutti pensarono di non affliggerla ulteriormente. 
“Quante cose buone hai mangiato? Dio adoro quella città!” disse Jared, per farla ridere.
“Veramente ho mangiato una bistecca, Jared!” si scusò quasi Miriam.
“Sei un’assassina. Ciao” le rispose, sparendo dalla visuale. Miriam scoppiò a ridere, e sapendo benissimo che era ancora lì, gli disse: “Però ci ho messo accanto un ottimo vino bianco francese”. Jared riapparve e disse: “Va meglio, decisamente meglio”, sorridendo.
“Ragazzi, devo lasciarvi, ho la casa che è un disastro! Ci sentiamo presto, promesso!”
“Ciao, francesina” dissero in coro Shannon e Tomo.
“Aspetta un secondo, Miriam…” disse però Jared, prendendo il computer di Shannon in mano. Miriam notò che Jared si stava muovendo, poi vide che aveva poggiato il pc da qualche parte e che vi si era seduto davanti, così che la camera potesse inquadrare il suo viso. Erano soli.

“Ehi…” le disse con tono calmo.
“Ehi…” rispose Miriam, pensando che era davvero difficile.
“Volevo solo assicurarmi che tu stessi davvero bene”
“Si, Jay, sto bene… insomma, non è facile, ma ancora respiro” gli rispose lei, con gli occhi lucidi.
“Mi manchi, lo sai?”
“Anche tu, Jared. Da morire” e non trattenne una lacrima.
“No, fermati, non piangere dai. Ricordi? Possiamo farlo” le disse, ricordandole il discorso fatto a LA.
“Giusto, possiamo” si riprese lei, asciugandosi la lacrima e facendogli il suo più bel sorriso.
“D’accordo, brava. Ci sentiamo presto, va bene?”
“Certo, pensami però”. Come una bambina gli stava chiedendo di pensarla. Era tutto così semplice con lui.
“Lo farò, bambina” le mandò un bacio dolcissimo e chiuse la conversazione. Miriam rimase a fissare lo schermo, pensando che potevano farlo, era vero, ma che aveva sicuramente sottovalutato l’impatto emotivo di quella scelta.

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Capitolo 7
*** Siamo sopravvissuti, fin'ora ***


Bentornati, amici! 
Come vedete, questa settimana ben due aggiornamenti... 
Colpa del maggiore tempo libero che ho avuto e che mi ha spinto a scrivere molto. 
Avevo materiale e ho pensato: perchè aspettare una settimana!?
Spero vi faccia felici e vi comunico che probabilmente per il periodo estivo
gli aggiornamenti saranno più assidui, vedremo! 

Come sempre, vi ringrazio per essere così numerosi 
e vi esorto a scrivermi cosa ne pensate della storia! 

Buona lettura a tutti, 

Bibi
 
 
Siamo sopravvissuti, fin'ora

 

Riprendere a lavorare non fu semplice, per Miriam. Lo studio era quello di sempre, ma ad essere cambiata era lei. Arrancava, si sentiva stanca e svogliata e spesso finiva per prendersi delle sgridate che prima avrebbe ucciso qualcuno pur di non subire. Capiva che doveva fare qualcosa, ma non sapeva esattamente cosa: in realtà iniziava a pensare di aver preso la decisione sbagliata nel tornare, iniziava a capire che forse non avrebbe dovuto rientrare nella sua vita, nei suoi panni. Ci aveva messo tanto a scappare e invece di sfruttare l’occasione per cambiare davvero quello che non le piaceva, ci si era rituffata con tutte le scarpe.

Aveva ripreso ad uscire con i suoi amici e Jerome aveva richiesto di entrare di diritto nelle sue grazie: era come se lei non fosse mai partita, per tutti quanti, e questa cosa la innervosiva, perchè sembrava che nessuno avesse davvero ascoltato la sua necessità di allontanarsi. Quella non era stata una vacanza, ma nessuno sembrava volerlo capire. Jerome su tutti: era diventanto arrogante, come se Miriam gli dovesse qualcosa, come se dovesse farsi perdonare da lui. La chiamava spesso, da quando aveva ripreso a frequentare, seppur svogliatamente, il giro, e quasi sempre finiva per fare battute poco gentili, che sicuramente non l'avrebbero indotta a riavvicinarsi a lui, se mai ci avesse pensato. Era frustrante: l'uomo che amava era dall'altra parte del mondo, insieme a persone straordinarie di cui sentiva la mancanza ogni giorno, e che cercavano di esserle comunque accanto per come potevano, e lì vicino solo tutto ciò che aveva voluto fortemente allontanare. 

Quella sera c'era la festa della figlia di un collega di suo padre: erano amiche dai tempi del liceo e per quanto Miriam non sopportasse più molto quell'ambiente, si costrinse ad andare per amore del passato, e perchè quella ragazza era quanto di più buono si potesse raccattare nella sua vita. Era sempre stata gentile e sincera con lei,
anche quando Miriam forse non si sarebbe meritata nulla. Erano passati anni, ma di tanto in tanto la chiamava per un drink e quattra chiacchiere e la sua compagnia era piacevole. Ai tempi del liceo era state molto legate, per via di un comune senso di disagio che avevano espresso in maniere discutibili, facendo arrivare i loro genitori a vietare le loro uscite. Loro se ne erano infischiate e avevano continuato, di nascosto, a vedersi, fino a quando la maturità era arrivata ed entrambe avevano, più o meno messo la testa apposto. Si guardò allo specchio ripensando a quegli anni, e sorrise involontariamente pensando che forse lei era l'amica più cara che avesse mai avuto. Quella sera sarebbe uscita solo per lei, perchè sapeva che se lo meritava davvero. 

Arrivò al locale stretta nel suo cappotto, che lasciò al guardaroba, e si girò intorno per riconoscere qualcuno, pentendosi subito dopo. Avvicinò la festeggiata e la salutò calorosamente, notando come la ragazza la stringesse a sé: forse non tutto era da buttare lì a Parigi, avrebbe dovuto ricordarlo il giorno dopo. Mentre prendeva un drink, Jerome si avvicinò, affascinante e arrogante, al solito in realtà. Miriam lo guardò appena e tornò a rivolgere la sua attenzione al barman che preparava il suo cocktail. 
Qualche battuta di troppo e la pazienza di Miriam già vacillava: dopo neanche dieci minuti l'aveva mandato al diavolo, liquidandolo in maniera poco elegante e chiarendo una volta per tutte che non aveva intenzione di prendere neanche un caffè con lui, figuriamoci una relazione.  Jerome si sentì rifiutato, forse per la prima volta in vita sua, e si rese ridicolo con una scenata della peggior specie. In quel momento Miriam decise di prendere le sue cose e andarsene dal locale. Salutò l'amica, scusandosi e dicendole che l'avrebbe chiamata e tornò a casa da sola. Al rientro trovò il led del pc che lampeggiava: Jared l’aveva cercata. Si cambiò velocemente e provò a richiamarlo, sperando che rispondesse: con il fuso orario era sempre una tragedia.


“Ehi, bambina, ciao” la salutò.
“Jay, come stai?”
“Bene, stavo scrivendo qualcosa e mi era venuta voglia di sentirti. Eri fuori?”
“Si, sono appena rientrata”
“E dove te ne sei andata di bello?”
“Una mia amica mi aveva invitato alla sua festa di compleanno” le rispose, sorridendo. Non raccontò niente di Jerome, né disse di quanta depressione si fosse rivestita la serata: non voleva sempre lamentarsi.
“E il lavoro come va?”
“Una palla! Sicuramente era meglio vendere granite e sandwich sulla spiaggia!” rise Miriam. “Senza contare che non sono più abituata ai tacchi alti tutto il giorno” proseguì, massaggiandosi i piedi doloranti. 
“Eh già, niente infradito e costume, vero?”
“Eh no… potrei provarci ma sicuro che mi licenzierebbero in tronco”
“Peccato, bambina… quei costumi erano così sexy” le disse lui, abbassando di un tono la voce e sistemandosi sul divano. Miriam colse l’allusione e pensò che erano passati dieci giorni dall’ultima volta in cui avevano fatto l’amore, e si era accaldata non appena gli aveva sentito cambiare voce. Si era abbassata un pochino sul pc, in modo da lasciare che la sua camicia da notte si aprisse un po’ sul seno. Le piaceva stuzzicarlo e farlo impazzire, e decisamente aveva gli strumenti giusti. 

“Quindi ora che sono così vestita per via del freddo, non mi trovi sexy, Leto?” lo colpì lei.
“Non mi sembra che la tua pelle sia poi così coperta, bambina” rispose lui, sempre più divertito.
“Ah no? Ma possiamo fare di meglio…” e dicendo quella cosa si abbassò lentamente la spallina della camicia da notte, lasciando che le cadesse sul braccio ma tenendo questo fermo in modo che non si scoprisse altro. Vide Jared ridere e avere un lampo nello sguardo, e si reputò abbastanza soddisfatta, ma non ancora appagata.
“Sei bellissima, Miriam” le disse solamente lui, abbassando tutte le difese e sognando di poter toccare quei capelli e quella pelle morbida.
“Lo so, Jared” rispose la ragazza, sapendo di avere il gioco in mano.
“Ma ora veniamo a noi… pensi di potermi controllare, ma non sai che invece io posso farlo con te” la sua voce era roca, sensuale e profondamente bassa. Le girò la testa a sentirlo e maledisse la distanza.
“E come intenderesti fare, sentiamo?!” lo sfidò lei.
Jared iniziò ad elencarle le cose che le avrebbe fatto se lei fosse stata lì con lui, su quel divano. Le disse che le avrebbe leccato ogni centimetro di pelle, che l’avrebbe torturata fino a farla esplodere di piacere. Miriam si stava eccitando e portò una mano sotto le coperte, fra le gambe. Lui non poteva vederla, visto come era messo il pc. Ma evidentemente era un ottimo osservatore, perché le disse, con un senso di lussuria nella voce: “Dove è finita la tua mano, bambina?”

Miriam rise piano, soffocando un gemito. Lo guardò maliziosa, non smettendo di toccarsi e non dicendo assolutamente nulla per qualche minuto: voleva che la guardasse solamente. Continuò a toccarsi, e liberò tutte le sue inibizioni, spingendo la testa verso la testiera del letto e aprendo la bocca per lasciare uscire qualche gemito, pieno di lussuria e di voglia di averlo lì. Chiudendo gli occhi pensò a quanto lui sapeva farla eccitare, anche quando era così lontano da lei. Lo guardò di nuovo, per vedere i suoi occhi azzurri perdersi e la sua espressione che amava tanto. Lo guardò con gli occhi accesi e passandosi piano la lingua sulle labbra si accorse che lui era davvero importante per lei, ormai. Continuò a giocare con se stessa, fino a quando esplose in un orgasmo pieno e potente che la lasciò sfatta sul letto. Aprì gli occhi e si accorse che anche Jared era venuto, insieme a lei, glielo dicevano i suoi occhi, il suo sorriso.

“Mi avevi chiamato per questo, allora?” gli disse, stirandosi nel letto e tirando di nuovo il pc vicino a lei.
“Ti avevo chiamato perché ti volevo” le rispose lui, ancora su di giri.
“Dovremmo farlo più spesso, Leto”
“Ho notato, bambina” rise lui.
“Non l’avevo mai fatto…” gli confidò Miriam, leggermente imbarazzata.
“Che onore, allora. E ti è piaciuto davvero?”
“Oh si, davvero. Te l’ho detto che dovremmo farlo più spesso!”
“Ci sentiamo domani?”
“Contaci, ora vado a letto però, qui è tardissimo e domani si lavora. Mille baci, Jay” gli mando davvero tanti baci con le mani e chiuse la comunicazione, poggiando il suo pc sul comodino. Si distese nel letto, e si addormentò felice, pensando a Jared e a quel suo modo di farla sentire speciale.

Il tempo passava in fretta, e Dicembre arrivò come una nuvola in una giornata di sole. Miriam era sempre più giù, ma cercava di essere serena grazie alle telefonate con Jared e con i ragazzi. Il rapporto con i suoi genitori sembrava essere ripreso da dove l’avevano interrotto: nessuno dei due aveva chiesto niente su Honolulu e a nessuno sembrava importare a che conclusioni fosse arrivata lei in quel viaggio. Da quando era tornata, si erano aspettati che riprendesse la sua vita normale. Miriam odiava questa cosa, ma aveva smesso di pretendere da loro una comprensione che non le avevano mai dimostrato, così semplicemente viveva come voleva, sentiva spesso Jared, progettava di andarlo a trovare e pensava che non c’era più bisogno di mettere al corrente la sua famiglia della sua vita privata. Semplicemente, se mai avesse deciso di rivoluzionarla ancora e radicalmente, avrebbero dovuto accettarlo.

Kiki era andata a trovarla dalla California qualche settimana prima e avevano passato dei giorni bellissimi, insieme. Erano state turiste per Parigi, e avevano passato le notti a girare per locali e a chiacchierare sull’enorme letto di Miriam. Kiki le aveva raccontato che dalla fine di settembre aveva visto Tomo spesso, e avevano anche litigato parecchio. Lei non si rassegnava all’idea di essere il motivo di una separazione, sua madre ne sarebbe morta e comunque la sua educazione rifiutava l’idea che un matrimonio potesse finire. Miriam le fece notare che forse avrebbe dovuto pensarci prima di finirci a letto, ad Honolulu, e lei la prese a cuscinate, anche se sapeva che aveva perfettamente ragione. Era molto innamorata di Tomo e il fatto che lui si sforzasse di andare a San Francisco, dove lei viveva, molto spesso, la faceva sentire una principessa, però c’era sempre qualcosa che non le quadrava molto.

In quei giorni sentirono i ragazzi insieme, da casa di Miriam: era strano ritrovarsi tutti così, ma riuscivano a ridere come qualche mese prima, e questo dimostrava che avevano mantenuto, fin’ora, la promessa di non perdersi. Shannon era sempre il più premuroso, con le ragazze, Tomo stravedeva per Kiki e ormai non lo nascondeva più di tanto. Jared invece rimaneva molto sulle sue, quasi volesse proteggere il loro legame dagli altri. Miriam sapeva che lui sapeva essere immenso, sapeva andare oltre, e non si preoccupava che nelle telefonate di gruppo non le dicesse granché o non le dimostrasse nulla, perché le loro migliori chiacchierate erano al riparo da sguardi indiscreti, al buio di una stanza che era solo per loro.


Miriam aveva anche portato Kiki a cena dai suoi genitori una sera, perché le faceva piacere fargliela conoscere. La cena fu tranquilla, ma Célia e Armand non si sforzarono per niente di fare sentire Kiki a casa, come invece aveva fatto Iolana e la sua famiglia quando Miriam era ad Honolulu. Kiki parò quando si erano conosciute, ma nessuno le prestò particolare attenzione: Célia si irrigidì sulla sedia e così Kiki pensò che non fosse il caso. Quando le ragazze uscirono all’aria fredda di Parigi, si guardarono e scoppiarono a ridere, prendendo in giro il bon ton di Célia e la compostezza di Armand: Kiki le disse che quando voleva, una famiglia pronta a coccolarla, lei ce l’aveva davvero. Era lontana, ma ce l’aveva, e Miriam si sentì protetta e felice da quell’idea.

Kiki partì alla fine di Novembre e Miriam si sentì davvero male a lasciarla andare di nuovo. Si promisero di rivedersi presto e Miriam pensò ancora una volta al suo sogno di andare in California, molto presto.

Qualche giorno dopo Miriam era in ufficio a litigare con un cliente particolarmente sgradevole. Provava a chiamare Jared da due giorni e niente, non riceveva risposta. Shannon sembrava tranquillo come al solito, ma lei non voleva chiedergli niente, perché non voleva che pensasse che lo aveva chiamato solo per chiedergli dove si fosse cacciato suo fratello. In aggiunta a quello aveva un principio di influenza che non la aiutava per niente e continuava a starnutire e a sentire molto freddo, nonostante il maglione che aveva indosso.

Uscì dallo studio nel tardo pomeriggio e, complice un guasto della metro, decise di andare a casa a piedi: forse non era la cosa ideale per la sua salute, ma almeno si sarebbe rilassata un pochino. Quando imboccò la strada di casa vide un uomo poggiato accanto al suo portone, ma non ci fece particolarmente caso: aveva un cappello di lana pesante e una ingombrante sciarpa che gli copriva quasi tutto il volto. Inoltre portava degli occhiali da sole, inutili visto che Parigi minacciava neve da quella mattina. Passò oltre lo strano individuo e iniziò ad armeggiare nella borsa per cercare le chiavi, che inserì nella serratura non appena le trovò. Non fece in tempo ad aprire che lo sconosciuto gli fu dietro, vicinissimo: Miriam si spaventò, ma non appena stava per girarsi e tentare di difendersi sentì la sua voce: “Ciao, bambina” le disse all’orecchio. Miriam si girò di scatto, gli abbassò la sciarpa mentre lui si toglieva gli occhiali e si apriva in un sorriso immenso: era lì!

La ragazza era così felice da non crederci e gli saltò al collo urlando dall’emozione.
“Sei qui, sei davvero qui!” continuava a dire.
“Ehi, calmati che mi uccidi così!”
“Come faccio a calmarmi: non ti vedo da due mesi ed ora sei qui!”
“Miriam, entriamo, che ne dici?” gli propose lui, baciandola dolcemente.
Lei gli fece strada all’interno dell’elegante palazzo e non appena si trovarono nell’ascensore, Jared le fu addosso: la spinse verso lo specchio interno della cabina e la baciò con foga.

“Non sai da quanto aspetto per farlo” le disse fra un bacio e l’altro. Miriam non ci capiva più niente, voleva solo averlo al più presto: credeva che tutto il suo mondo fosse in quel momento finalizzato al fare l’amore con lui, e le sembrava strano per una che aveva sempre puntato al dialogo in un rapporto, ma Jared era capace di farla andare in tilt, di toglierle ogni inibizione.

Entrarono in casa voraci, e non appena la porta si chiuse iniziarono a spogliarsi a vicenda, lasciando i vestiti sparsi sul pavimento: fecero l’amore sul divano, velocemente, credendo di poter impazzire. Jared era esattamente come l’aveva sognato in quei due mesi, i suoi occhi erano incollati su di lei, e le sue mani la toccavano come avevano sognato di fare per tutto quel tempo. Rimasero a guardarsi per un tempo lunghissimo, Jared ancora dentro di lei, dopo l’orgasmo violento.

“Quanto mi sei mancata” le disse
“Sapessi tu, Jay…” gli rispose lei. Erano insieme, il resto non contava più nulla.
“Come mai sei qui?”
“Il fatto che mi mancassi non è una buona scusa?” le rispose lui, abbracciandola sul divano e coprendole la testa di leggeri baci.
“Si, un’ottima scusa, direi”. Miriam si strinse a lui e sorrise felice.
“Dovevamo essere in Europa solo a febbraio, ma l’altro giorno ho pensato che dovevo rivedere Parigi molto prima. Te l’ho mai detto che amo questa città?” la prese in giro lui.
“Si, almeno un miliardo di volte. Ma non mi sembra che tu ti stia godendo la città, in questo momento”
“Sto godendo di una delle sue più grandi bellezze, però”
Jared aveva sempre la risposta pronta e quella risposta era sempre bellissima, sempre perfetta.
“Vuoi mangiare?”
“Si, ho una fame da lupi”
“Ok, in casa non ho nulla però! Usciamo?”
“D’accordo”. Miriam gli mostrò il bagno e lasciò che lui si facesse una doccia veloce, lasciandogli un accappatoio pulito sul lavandino. Nel frattempo lei prese il cellulare e scrisse a Kiki: “Jared è qui, mi ha fatto una sorpresa. Credo di amarlo davvero, Ki…”. Inviò e poi rimase a guardare il cielo bianco di Parigi: lo amava. Iniziava ad esserne certa, solo che aveva paura di ammetterlo e sicuramente non voleva dirlo a lui. La promessa era “possiamo farlo, senza complicazioni, senza niente”, ora non poteva uscirsene con una dichiarazione in piena regola. Era certa che lui le volesse bene e che lei fosse importante nella sua vita, ma da qui ad un ti amo ce ne passava.  

Jared uscì avvolto nell’accappatoio e la trovò, ancora nuda, a contemplare i tetti di Parigi. La avvolse in un abbraccio umido di doccia e caldo di desiderio. Un desiderio che andava oltre il sesso.
“Prenderai freddo, Miriam” le disse dolcemente, baciandole una spalla.
“Si, ora vado a vestirmi. E’ che sono frastornata: due giorni fa eravamo su Skype ed ora sei qui. Mi sembra un sogno”
“Lo so che faccio questo effetto, non devi preoccuparti!”
“Spaccone egocentrico!” rise lei, cercando di divincolarsi dalle sue braccia. Ma lui era più forte e non la lasciò andare, piuttosto iniziò a darle dolci baci sulla schiena nuda, e lei prontamente gli disse: “Via, via, andiamo a vedere Parigi, sennò non usciamo più di qui!” e si liberò. Andò verso l’armadio per prendere dei vestiti comodi e caldi, e si girò per poggiarli sul letto, trovandolo lì, poggiato alla finestra a guardarla. Lo trovava, come sempre bellissimo, ed era certa di stare sognando.

“Ma le tue valigie?” gli chiese ad un certo punto, ricordando di averlo visto senza nessun bagaglio.
“Sono in hotel”
“In hotel? E come mai?” chiese stupita. 
“Perché ho pensato che potessi non essere felice della sorpresa e ho preferito prenotare una stanza, sai…” sembrava in imbarazzo, per la prima volta fragile davanti a lei. Adorava vedere quel suo lato gentile che usciva fuori, e che lo rendeva speciale come lei credeva che realmente fosse. Gli si avvicinò piano: “Ma Jay, ma come potrei non essere felice di averti qui, scusa?”
“Non lo so, Miriam. Sono passati due mesi, per quanto ne sapevo potevi anche non volermi fra i piedi”
“Io ti vorrei fra i piedi tutti i giorni… come devo fare per dirti che mi sei mancato da morire in questi mesi?”

Jared si strinse nelle spalle e la baciò piano. Miriam accolse quel bacio e lo adorò, poi continuò: “D’accordo, ora passiamo al tuo hotel e gli diciamo che ti sei sbagliato e che tu hai già un posto dove stare.” Dicendo quelle parole indicò il suo letto bianco e sorrise. Jared la abbracciò a si dimostrò molto d’accordo.

Uscirono stringendosi nei cappotti: Parigi era fredda e tagliente quel giorno di autunno, ma loro avevano una tale carica di entusiasmo da fregarsene di tutto. Miriam decise di portarlo in un ristorantino a Montmartre che considerava il posto giusto per parlare un po’: ci andava sempre da sola quando voleva allontanare il mondo, e le piaceva l’idea di dividerlo con Jared. Entrarono e scelsero un tavolo tondo in un angolo del locale, che aveva una bella visuale della città.
“Sempre i tavoli all’angolo eh” la prese in giro Jared, ricordando il tavolo che lui e gli amici occupavano ad Honolulu praticamente ogni giorno.
“Mi avete contagiata voi, hanno un non so che di perfetto” gli rispose lei. Jared stava con lei da meno di tre ore, e aveva già ritrovato la sua freschezza e la sua naturalezza, quelle cose che gli avevano permesso di capire quanto voleva riaverla fra le braccia. Le sorrise, allungando una mano oltre il tavolo a farle una debole carezza sulla guancia, che lei accolse piegando un pochino la testa come a volersi avvicinare ancora di più al suo tocco.

“Allora, come sono andati questi mesi?” le chiese lei, mentre addentava un pezzetto di panino alle olive.
“Siamo tornati a lavoro e stiamo organizzando il tour” gli rispose lui, versandole del vino. Sembravano una coppia collaudata da anni, invece non sapevano neanche se fossero davvero una coppia.
“E quando inizierà?” gli chiese curiosa.
“A febbraio faremo l’Europa, per poi spostarci ad Aprile in Asia. Poi pensavamo di fare uno stop e ripartire a Settembre con l’Australia. E’ tutto molto in divenire ancora, però”. Sorrise e Miriam lo vide elettrizzato all’idea di salire sul palco: la sua passione per i live era proverbiale, e Miriam la poteva toccare con mano, cosa che la intenerì molto. Poi pensò che quel rapporto stava per complicarsi ancora di più, con lui in giro per il mondo, impegnato nel tour, ma scacciò quel pensiero triste.
“E tu, invece, Miriam? Come stai?”
“Fra alti e bassi, diciamo che va bene. Ho ripreso a lavorare, anche se il mese passato alle Hawaii mi ha dato la consapevolezza che forse questo mondo che ho intorno mi sta stretto” gli disse, sinceramente. Jared provò ad andare oltre quel discorso per capire se c’è un riferimento a lui e a loro due come coppia, ma non ne scorse.
“Mi dispiace… però, senti qua la novità: resterò a Parigi per un’intera settimana, e per questi sette giorni farò solamente quello che vuoi!” cercò di tirarla su, non poteva vederla così stanca e triste.
“Davvero, Leto?” chiese lei di rimando, con un lampo malizioso negli occhi.
“Bambina, sei terribile…” le rispose lui, capendo dove voleva andare a parare e alzandosi leggermente per darle un bacio. Era così naturale: erano lì, in un ristorante di Parigi e si scambiavano effusioni e baci, incuranti dei passanti, di possibili fotografie e di chissà che altro. Avevano quel potere di far sembrare tutto normale e di far sparire il mondo intorno a loro, Miriam era estasiata dalla sensazione che provava quando era con lui, la stessa sensazione che aveva provato la prima volta che l’aveva visto, tre mesi prima.

“Siamo sopravvissuti, fin’ora, è bello” le disse poi lei, dopo una breve pausa e guardando il piatto. Aveva paura di dirlo, ma voleva condividere con lui quel pensiero. 
“Già, è bello” le rispose solamente lui, telegrafico come sempre.

Continuarono a mangiare e poi andarono a passeggiare fino alla Cattedrale del Sacro Cuore. Si fermarono sulle scale a fare una fotografia con il cellulare e in quel momento si accorsero che stava nevicando: Parigi regalava loro la più bella delle giornate invernali. Risero e si presero per mano, continuando a vagare per la città fino a che non furono totalmente intirizziti.

Rientrarono a casa che tremavano ma ridevano come bambini. Si spogliarono velocemente per infilarsi indumenti caldi e asciutti, poi Miriam fece due tazze di camomilla e si misero sull’ampio divano, accoccolati l’uno sull’altra. “Chiamiamo i ragazzi? Ti va?” gli chiese Miriam ridendo. Jared accettò e pensò che non sentiva Shannon da un po’, non lui che si sarebbe preoccupato, sapeva che era a Parigi da Miriam.

Tomo rispose al primo squillo di Skype, come se fosse attaccato al pc, e Miriam lo scorse a torso nudo, con i capelli arruffati: “Ehi, maschione, dormivi?” gli chiese. Salvo poi fermarsi e guardare un po’ oltre, dove una figura si mosse: Kiki si affacciò dietro di lui, avvolta in un lenzuolo bianco, i capelli neri che le cadevano sulle spalle e un sorriso pazzesco. Evidentemente avevano fatto pace, pensò Miriam.
“Ok, ci sentiamo dopo ragazzi!” scattò subito Jared, geloso della sua privacy, come di quella altrui.
“No, no, rimanete in linea!” urlò Tomo, ridendo. “Come state? Finalmente insieme eh…”
“Già, finalmente” dissero all’unisono Jared e Miriam, guardandosi, mentre lui le dava un dolce bacio sulla fronte.
“E voi, invece?” incalzò Miriam.
“Noi, beh… avevamo detto di avere qualche giorno di vacanza, no Jay? Tu te ne sei andato a Parigi, ed io sono volato a San Francisco. Shannon è l’unico che è rimasto a casa, in pratica”
“Ci credo, Shannon ha Emma ed Emma vive praticamente con noi” rispose Jared, ridendo.
“Dovremmo rivederci tutti insieme, ragazzi. Queste distanze mi uccidono!” si lamentò Kiki, sedendosi sulle gambe di Tomo, mentre lui le cingeva la vita con un braccio.
“Ma dai Kiki, in questo momento non ci crede nessuno che tu vorresti avere noi intorno!” la prese in giro Miriam, sapendo quanto l’amica fosse innamorata di Tomo e pensando mentalmente di farci una chiacchierata in solitaria molto presto.

Continuarono a parlare per un po’, ridendo e progettando viaggi futuri. Poi verso le due del mattino francesi, si salutarono e spensero il pc. Jared iniziò a baciarla e le disse che non vedeva l’ora di provare il suo bel letto, malizioso ed innocente al tempo stesso. Era pazzesco il modo che aveva di guardarla.
Si addormentarono tardissimo, nudi e abbracciati. Miriam si svegliò come di consueto alle sette del mattino, guardando fuori dalla finestra: Parigi era totalmente bianca. Si girò nel letto e trovò Jared addormentato, a torso nudo. Alzò la testa poggiandola ad un suo braccio e lo guardò: quella era la felicità? Svegliarsi con il tuo uomo accanto? Le avevano sempre detto che l’indipendenza è bella, ma ora come ora non era più sicura di voler essere sola a tutti i costi, non era più sicura di voler sacrificare tutto in nome di una carriera, in nome della proprio emancipazione. Si spinse verso di lui, affondando il viso fra i suoi capelli, arrivando al suo collo, dove annusò il suo profumo afrodisiaco e gli diede un dolce bacio. “Buongiorno, bambina” le disse lui, aprendo gli occhi e girandosi a prenderla fra le braccia, ancora addormentato.
“Hai dormito bene, Jay?” gli chiese.
“Si, e mi sto svegliando ancora meglio” le rispose, tenendola stretta.
“Cosa farai oggi?”
“Non so, pensavo di farmi due passi in centro, poi forse incontrerò degli amici per pranzo. Tu fino a che ora lavori?”
“Alle diciassette, purtroppo!”
“D’accordo” le disse.
“Aspetta, ti lascio le chiavi, così puoi rientrare quando vuoi” gli disse, alzandosi rapidamente per prendere la copia delle sue chiavi. Le tolse dal mucchio in cui erano inserite e si mise in ginocchio sul letto, porgendogliele: in quel momento, entrambi si guardarono negli occhi, capendo l’immensità di quel gesto. Era solo per comodità, per praticità, ma aveva il sapore di qualcosa di molto più profondo. Jared prese le chiavi in mano e sorrise guardandole, poi si tirò su e la baciò con passione, rimanendo fermo sulle sue labbra, per assaporarla, per scacciare le paure, per sentirla ancora sua.
“Scappo, è tardissimo” le disse lei alla fine, alzandosi e andando verso il bagno. Quando fu l'ora di uscire di casa, Jared aveva un asciugamano intorno alla vita e si stava affaccendando in cucina. Miriam vi entrò per salutarlo ed ebbe un colpo al cuore: era così bello averlo fra i piedi. Lui le allungò la tazza termica piena di caffè e si sporse a baciarla, augurandole buona giornata.

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Capitolo 8
*** Così finisce qui? ***


Colpo di scena, signori!! 
Siete curiosi? Vi consiglio caldamente di rimanere seduti, 
perchè il capitolo sarà abbastanza movimentato! 
Spero non vi deluda! 
Come sempre, un GRAZIE sentito a Voi Lettori: siete sempre più numerosi! 

Buona lettura, 
Bibi
 


Miriam quel giorno in ufficio fu molto più allegra e solare, cosa che non sfuggì ai suoi colleghi. Quello che non si aspettava, fu suo padre che andò a trovarla in pausa pranzo, stranamente. Il loro rapporto era rigido: una volta a settimana Miriam andava a cena da loro, a casa, si parlava di lavoro, economia, questioni importanti e abbastanza futili come il matrimonio di un amico o il licenziamento di un altro. Si sentivano raramente al telefono, ma sicuramente suo padre non si era mai preso la briga di andarla a trovare in ufficio.

Appena scese in strada, lo trovò lì, poggiato alla sua berlina di lusso che la aspettava: “Ciao, Miriam, pranziamo insieme?” le disse subito, avvicinandosi con un'espressione affabile dipinta sul volto. La ragazza rimase interdetta, ma non tradì la minima emozione, e sorridendo accettò.


Andarono in un locale lì vicino, al riparo da occhi indiscreti o dai colleghi di Miriam, e si sedettero. Una cameriera arrivò solerte a portare dei menù, ma Armand la bloccò sorridendo:
"Per me un'insalata mista. Tu, Miriam?" le chiese. 
"Uhm, un toast prosciutto e formaggio, grazie" rispose guardando la signorina. 

Dopo un primo momento di imbarazzo immotivato, iniziarono a parlare del più e del meno, ma Miriam aspettava la stangata, che infatti arrivò, puntuale, mentre sorseggiava la sua acqua naturale:
“Chi è quell’uomo con cui ti accompagni?”. Anni e anni di esercizio avevano insegnato a Miriam a non farsi prendere dal panico, ma soprattutto a non lasciare trasparire nessun tipo di sensazione a suo padre e sua madre.

Posò il bicchiere cautamente e attese prima di rispondere: “Un amico, papà” disse semplicemente, sicura che suo padre non si sarebbe certo accontentato di una banalità del genere, ma convinta che avrebbe dovuto sudarsi i dettagli.


“Di dubbio gusto, direi. Singolare la modalità di come scegli i tuoi amici, Miriam” la rimbeccò.
“Singolare che tu te ne interessi papà” le rispose apparentemente calma e sfrontata, incrociando le braccia sul tabolo. 
“Non esagerare, signorina” la ammonì suo padre, visibilmente adirato.
“Non voglio esagerare, papà. Sto solo cercando di dirti che a ventisette anni credo di poter scegliere le mie amicizie da sola”
“Hai uno strano modo di scegliere, quel tuo amico è di sicuro di dubbio gusto” disse di nuovo suo padre.
“Ripeto: non credo siano affari tuoi, non mi pare di avertelo portato in casa” rispose Miriam, sicura di non voler cedere a quella conversazione. 
“Miriam, smettila di rifilarmi le tue cazzate" sibilò avvicinandosi a lei attraverso il tavolo. Miriam lo guardò negli occhi, abituata a tutta quella situazione. Con la differenza che il protagonista delle loro discussioni non era mai stato un uomo, e che Miriam per la prima volta era determinata a non cedere a nessun ricatto. Suo padre assunse un'aria fintamente tranquilla, sorseggiò il suo vino bianco e iniziò l'interrogatorio: "Chi è? Dove lo hai conosciuto? Cosa fa?” 
“Papà, ma davvero vuoi saperlo?" rispose Miriam stanca. "Ti basti sapere che non saresti felice di nessuna risposta a nessuna delle domande che mi fai. Chiuso l’argomento”.
“Qui chi chiude l’argomento sono io, Miriam” disse avvicinandosi di nuovo a lei, questa volta più minaccioso e posando il bicchiere con un po’ troppa veemenza. Miriam non aveva paura, aveva imparato a domare suo padre, solo era esausta.
“Come hai fatto a saperlo?” gli chiese.
“Come? Ci hai girato per Parigi tutto ieri, lasciando che ti abbracciasse e spupazzasse in pieno centro”
“Non mi pare di aver rubato. Un abbraccio è ancora lecito a Parigi, papà. Da chi ci hai fatto seguire?”. Sapeva che stava tirando la corda.
“Non girare la questione. Non deve accadere più, Miriam, intesi?”
“Ma cosa, papà? Che io giri per la città con una persona? Che io abbia dei gusti miei? Che io possa scegliere qualcosa che non ti vada a genio? Cosa, precisamente, non deve accadere più?” gli chiese, non tenendo più la rabbia.
“Che umili me e tua madre accompagnandoti con un soggetto del genere. E poi, Miriam, ma quanti anni avrà? Trentacinque?” chiese suo padre, cercando di fare la sua espressione più cupa.
Miriam lo squadrò per un attimo e decise di rifilargli la verità che tanto lui bramava, non avrebbe mentito, questa volta.

“Quarantadue, papà” rispose tranquilla, giocando a carte scoperte.
A suo padre per poco venne un colpo e rispose astioso: “Stai giocando con il fuoco, ragazzina e te ne pentirai presto. Ho creduto che lasciarti andare a giocare a fare l’hippie alle Hawaii potesse essere un modo per farti rientrare nei ranghi, ma niente, sei così cocciuta da voler rovinare tutto a tutti i costi. Non te lo permetterò, Miriam, hai capito?”

“Papà, non ho giocato e continuo a non farlo. Esistono esperienze diverse nella vita, e mi dispiace che tu non lo capisca”
“Sei solo una ragazzina viziata, Miriam. Smettila subito” e dicendo ciò si alzò dal tavolo, sbattendo il tovagliolo vicino al piatto e lasciandola sola con un senso di vuoto dentro. Lo aveva affrontato e aveva vinto, perchè suo padre non era solito andarsene così, tendeva più a far scappare gli altri, assumendo atteggiamenti fintamente calmi che colpivano sempre l'avversario delle sue battaglie. Miriam sapeva benissimo di averlo sconfitto, forse per la prima volta nella sua vita, ed era fiera, perchè quel coraggio e quella forza erano tutte derivanti da Jared, dal loro rapporto, dall'esperienza che aveva fatto solo un paio di mesi prima alle Hawaii. Era cresciuta e ne era felice, ma non sapeva perchè, o forse si, ma si limitava a fingere di non capirlo, aveva una sensazione alla bocca dello stomaco che non le garantiva di godersi il dolce sapore di suo padre che adirato scappava da lei: perchè la sua famiglia non poteva semplicemente amarla?

Miriam tornò a casa prima quel giorno, sperando di trovare Jared. Era stanca, abbattuta e voleva solo rintanarsi nelle sue braccia per sentire che era stata una scelta giusta non piegarsi a suo padre. 
In realtà lui ancora non c’era, l’appartamento era vuoto, e Miriam ne approfittò per farsi una lunga doccia. Sotto il getto dell’acqua ripensò ancora alla conversazione con suo padre e capì che lei era cambiata davvero in quei mesi, e forse avrebbe dovuto smettere di farsi domande. Si poggiò al muro, stanca, e pensò a Jared: era anche merito suo se ora si trovava ad essere più forte. Lo sapeva, lo aveva sempre saputo, se lo ripeteva spesso, come un mantra, quando sentiva che il crollo emotivo era troppo vicino.
Quello che non riusciva ad inquadrare era un'altra cosa: lui era stato un mezzo per riuscire a cambiare o semplicemente un ostacolo felice? Non lo sapeva, ma sapeva che voleva più di ogni altra cosa stare con Jared. A discapito di qualsiasi cosa: della distanza, del suo lavoro frenetico, della loro differenza di età. A quello non aveva mai pensato: Jared sembrava molto più giovane dei suoi quarantadue anni, di aspetto, ma anche di emozioni, e quel giorno per la prima volta si trovò a pensare che avevano sedici anni di differenza. Sedici anni e non essersene mai resi conto davvero. Sorrise e sperò che lui tornasse presto a casa.

In quel momento sentì la porta della doccia aprirsi e si spaventò, ma quando si girò lo vide lì, mezzo nudo, bellissimo e sexy. Smise di pensare, di farsi domande, di cercare di capire: tutto quello che voleva, si ripetè, era lui. Il resto erano solo cazzate travestite da storie serie. 

Lo accolse dentro la doccia ridendo: “Ciao, uomo” gli disse maliziosa e sensuale. 

“Ciao, bambina” le disse lui abbracciandola e baciandola.
“Andata bene la giornata?”
“Si, bene” le mentì lei. Non voleva rivelargli in quel momento la sua discussione con suo padre, forse gliene avrebbe parlato più tardi.

Quando uscirono dalla doccia era passata da un pezzo l’ora di cena e di uscire non ne avevano voglia. Nevicava di nuovo e faceva un freddo becco, quindi Miriam prese il telefono e ordinò cinese. Rimasero negli accappatoi sul divano, abbracciati, a chiacchierare e ridere, con una musica in sottofondo. Era bello essere insieme, non era solo sesso, era qualcosa di molto più profondo: parlavamo molto, come avevano fatto fin da quando si erano conosciuti e Miriam si sentiva compresa. Decise di rivelargli della discussione con suo padre. Poggiò la testa sulle ginocchia di Jared e iniziò a parlare. 

“Sai, oggi ho litigato con papà” iniziò, cautamente. Aveva paura che Jared la prendesse male, come se lei avesse rivelato alla sua famiglia il loro rapporto, dandogli una sorta di ufficialità. In realtà non ci sarebbe stato niente di male, e Miriam pensò che comunque lui non faceva mai niente per rifiutare qualcosa di ufficiale, però aveva paura di fare quel passo. Aveva paura di rovinare tutto, in realtà.

“Come mai?” chiese lui, giocando con i capelli di Miriam, che lo avevano sempre fatto impazzire.
“Ieri lui e mia madre ci hanno visti in giro per Parigi e oggi mio padre ha pensato di mettere in chiaro le cose. La sintesi è: non so scegliere le mie amicizie, sei un soggetto poco raccomandabile e la nostra vistosa differenza di età è patetica. Ah, dimenticavo: devo smetterla di umiliare i miei genitori, accompagnandomi con persone del tuo tipo” concluse, con molta amarezza nella voce, cercando di sembrare divertita e segnando i punti salienti sulle dita della mano. Guardava il soffitto come a voler ricordare bene le cose che suo padre le aveva detto, ma la realtà era difficilmente le avrebbe dimenticate. Jared le strinse la mano che teneva intrecciata alla sua all'altezza della pancia e la guardò negli occhi. Lei li teneva lontano, persi chissà dove in un punto fra la libreria e il soffitto, perchè non voleva ammetterlo, ma quella discussione non era stata semplice. Continuò a guardarla e pensò che fosse meglio puntare su cose frivole. 

“Ha detto proprio: differenza di età?” chiese.
“Guarda, in realtà mi ha detto di averti dato 35 anni, che sarebbero già stati fuori tempo massimo per me. Ma quando ho puntualizzato, dicendo che in realtà nei hai 42, ho fermamente creduto che gli prendesse un infarto” gli rispose, ridendo di gusto. Jared scoppiò a ridere con lei, ma tornò serio poco dopo. Voleva sapere cosa ne pensava lei, che era l'unica che poteva dettare legge, insieme a lui, nel loro rapporto: per quanto lo riguardava, il resto del mondo non aveva voce in capitolo. 

“E tu cosa ne pensi?” chiese abbassando la voce. 
“Di cosa, Jay?”
“Di tutto questo e della nostra differenza di età”
“Penso che tu sia una delle migliori persone che io abbia mai incontrato. E penso che finchè lo vorremmo entrambi, tutto il resto non sarà un problema” gli sorrise Miriam, sperando di avergli trasmesso tutta la sua tranquillità. Iniziava ad essere sempre più convinta di amarlo, ma credeva che fosse prematuro dirlo. Tempo al tempo, si disse. Finalmente Miriam puntò i suoi occhi in quelli di Jared, e quello sguardo risultò più sincero di milioni di parole. 

Jared le sorrise e si accasciò su di lei piano, baciandola dolcemente e affondando il suo viso nei capelli di lei, che sapevano di miele. Miriam si alzò e si rannicchiò nel suo abbraccio, sentendosi felice, protetta, amata e chissà quante altre sensazioni che non avrebbe voluto lasciare più.  

Jared guardò fuori dalla finestra, continuando a tenerla stretta a sè: come poteva una ragazzina francese, perché di una ragazzina si parlava, in confronto a lui, essere così donna e averlo portato su quella strada? Giorni prima di partire aveva parlato con Shannon seriamente e gli aveva detto che si sentiva sempre più legato a Miriam, cosa che non aveva creduto tempo prima. Pensava che partendo e non vedendola più si sarebbe tutto affievolito, invece non era stato così e ora ne aveva paura. Suo fratello sorrise sereno e gli disse che era l’effetto di quel qualcosa che lui si ostinava ad allontanare: l’amore. Gli disse che prima o poi sarebbe capitato che una donna entrasse nella sua vita e la stravolgesse, in qualche maniera. Jared era rimasto a sentirlo e nel lungo viaggio verso Parigi ci aveva pensato molto. Aveva concluso che poteva lasciarsi trasportare dalle sensazioni, che era stanco di avere donne la notte e cacciarle la mattina seguente, si disse che per una volta non avrebbe calcolato niente e avrebbe lasciato che il suo cuore lo trainasse. Sperando di non sbagliare.
Loro potevano farlo.


I giorni passarono troppo velocemente: Miriam era riuscita a prendersi il weekend lungo dal lavoro e il giovedì erano andati in un villaggio della Normandia per allontanarsi un po’ da tutto e da tutti. Avevano passato tre giorni a passeggiare, fare l’amore, mangiare e ridere: al loro ritorno a Parigi, la domenica sera erano rilassati e sereni. A Miriam piaceva averlo lì: tornare dall’ufficio e sentire la sua casa abitata, trovarlo a torso nudo che lavorava al pc, e baciargli la testa per salutarlo, mentre lui allungava una mano a toccarle le gambe. Era una situazione familiare, in cui entrambi si trovavano bene, anche se entrambi non avevano detto niente: ammettere era il primo segno che le cose stavano cambiando e si stavano stabilizzando ed entrambi ne avevano molta paura, ancora. 

Il martedì pomeriggio Jared stava lavorando al pc, quando Miriam rientrò dal lavoro. Lui era seduto alla scrivania del salotto della casa, e aveva le spalle alla porta d’ingresso, la salutò e si aspettava la loro piccola routine: Miriam che gli arrivava alle spalle e gli baciava la testa, lui che allungava il braccio a sfiorarle le gambe, lei che si allontanava per andare a cambiarsi. Quei gesti erano così consueti e banali da provocargli una gioia immensa. Ma quel giorno niente di tutto ciò arrivò. Miriam andò direttamente in camera sua, non dicendo nulla e chiudendo la porta. Jared si alzò subito e la raggiunse, bussando e aprendo delicatamente.

“Ehi, Miriam che succede?” le chiese entrando cauto. Lei lo guardò, non rispose e si girò verso la finestra. Era a torso nudo, come al solito, e con dei pantaloni di una tuta, era bellissimo, i capelli legati sulla nuca e gli occhi assurdamente blu, non poteva resistere a quella visione, non poteva o non avrebbe più parlato. 
Jared si avvicinò e la strinse in un abbraccio, pensando che avesse avuto una giornataccia a lavoro o che avesse ancora litigato con suo padre. Voleva consolarla e rilassarla, ma il suo abbraccio venne repentinamente rifiutato. Non appena Miriam sentì le sue braccia avvolgerle la vita, infatti, si scostò bruscamente e lo allontanò con una mano.


“Miriam, ma che ti prede?” reagì Jared, meno calmo ora.
“Guarda…” disse solamente Miriam, aprendo la borsa e scagliandogli contro un giornale che cadde a terra. Jared lo raccolse, non capendo, lo sfogliò e arrivò ad una pagina dove c’era una sua foto. Era a Los Angeles, con una nota star di Hollywood, passeggiavano ridendo e la didascalia parlava della donna indicandola come “nuova fiamma del noto attore premio Oscar”. Jared chiuse immediatamente il giornale, posandolo sul letto e le disse: “Beh?”
“Ah mi dici pure beh!? Di quando è quella foto, Jared?” chiese astiosa e ferita Miriam. 
“Ma cosa vuoi che ne sappia, Miriam. Mi fotografano ogni volta che metto piede fuori di casa!” le rispose lui, non capendo il punto fino in fondo.
“Jared, di quando è quella foto?”, disse di nuovo Miriam, scandendo stavolta le parole, come a non ammettere una risposta vaga da parte sua.
“Ah ho capito dov’è il punto. Tu sei gelosa. Tu credi che quella foto sia recente, e probabilmente lo è, e sei gelosa” sorrise lui, provando tenerezza e tentando nuovamente di avvicinarsi. Miriam sollevò una mano che ebbe il potere di arrestarlo immediatamente. 
“No, Jared, io non sono gelosa. Forse lo sono, ma non stavolta. Il punto è che ci fai qui se a Los Angeles hai una nuova fiamma!” disse quelle parole enfatizzandole molto. Jared aveva capito davvero ed era incredulo.
“Aspetta, stai davvero insinuando che io stia facendo il doppio gioco?”
“Non lo so, dimmelo tu”
“Miriam, calmati. Cosa credi che sia venuto a fare a Parigi per una settimana, scusa?”
“Smettila di fare queste domande a me! Dovresti rispondere tu, piuttosto!” ora urlava, esasperata dal modo di Jared di condurre la discussione. Un modo che scaturiva dalla sua incredulità, più che da voler uscire vincitore dalla lite.
“Va bene, allora mettiamola così: me ne scopo una a Los Angeles, a casa e una in Europa. Così quando vengo per lavoro ho divertimento. Purtroppo non sono così fortunato anche in Asia, pazienza” reagì lui, ora davvero arrabbiato dalla mancanza di fiducia di Miriam.
“Non sei divertente” disse solamente lei, con un fil di voce.
“E dovrei esserlo!? Stai credendo ad un giornaletto da quattro soldi invece che a me. E non solo: non mi hai neppure dato appello, hai già deciso che quella sia la mia amante o magari quella ufficiale, non lo so, e mi hai condannato. Come dovrei reagire, sentiamo!” urlò Jared. Miriam si rese conto che lui aveva ragione, ma non riuscì a calmarsi.

“Jared, ma cosa dovrei fare io! Compro un giornale per rilassarmi in pausa pranzo e mentre mangio vedo una tua foto in cui sorridi ad un’altra, una che è centomila volte me, una che è non è distante da te milioni di chilometri. Sono nel panico” piagnucolò Miriam, perchè era davvero in crisi e aveva esagerato. Voleva solamente che lui la rassicurasse, ma Jared non era disposto ad accontentarla, e anzi andò avanti. 

“Te lo sei creato il panico, Miriam. I giornali funzionano così: ti vedono con tua madre, ti fotografo e ti sbattono in copertina, poi magari lasciano decantare la cosa se tu non fai niente, o ritrattano se tu minacci querele e smentisci. Se dovessi mettere a smentire tutti i flirt e le relazioni che mi buttano addosso, non farei altro tutti i giorni. Il punto è che devi fidarti di me”
“E come faccio? Tu sei una star, Jared, io un banale avvocato parigino. Abbiamo sedici anni di differenza: sei un uomo, cazzo! Io sono una bambina che si è innamorata di un sogno e ho paura. Paura che un giorno tu possa scegliere il semplice, un’attrice che sia bella, attraente e che sia sul tuo livello”, stava per scoppiare a piangere, ma l’orgoglio glielo proibiva. E ancora una volta sperava che Jared prendesse l'amo che lei gli stava lanciando e la salvasse, rassicurandola che niente di tutto ciò sarebbe mai successo. Non era la gelosia ad averla fatta parlare in quel modo, e neanche la reale convinzione che Jared la tradisse: era la reale paura che per lui fosse un gioco. Miriam si stava innamorando e sentiva che tutto era più grande di lei, voleva proteggersi, issare un muro che le avrebbe consentito di non farsi troppo male. Ma Jared era ferito dal suo comportamento e, di nuovo, non accalappiò la mano che lei gli stava silenziosamente tendendo. La vide, ma decise di non prenderla. 

“I tuoi problemi di autostima non mi interessano, Miriam: o ti fidi o non ti fidi. Il resto sono cazzate!”. Jared aveva ragione: la situazione non ammetteva tentennamenti, dovevano essere certi entrambi di volersi ficcare in quel casino. “Te lo dico ora, Miriam, se vogliamo farlo possiamo, però io non posso cambiare, non posso migliorare le cose o mandare a ferro e fuoco tutte le redazioni del mondo. Questo schifo esisterà sempre, e se vuoi, devi farci i conti da sola. Io non posso aiutarti”. La guardò per un lungo minuto, forse aspettandosi una risposta che non arrivò, poi se ne andò. Miriam rimase immobile lì a sentire la porta d’ingresso che sbatteva forte: fu come ricevere uno schiaffo in pieno volto.

Non lo sentì, né vide per tutta la sera. Non tornò a dormire e aveva il cellulare spento: Miriam era nel panico, non sapeva cosa fare. Chiamò Shannon, sperando che potesse aiutarla.

“Shan, ho bisogno di te. Io e Jared abbiamo litigato ed ora sono ore che è andato via” gli disse fra le lacrime.
“Come litigato? Che è successo?” le chiese subito Shannon, allontanando con una mano Emma che gli stava andando vicino.
“Ho comprato un giornale e sfogliandolo ho visto una sua foto con una ragazza. Il giornale diceva che è la sua nuova fiamma e mi sono arrabbiata… e lui ha iniziato a dire che non mi fido di lui, che dovrei avere più fiducia, e che…” non riuscì a finire il discorso per i singhiozzi. Shannon chiamò Emma e le chiese se avesse avuto notizia di quella foto, e lei si mise subito in rete a guardare tutti i giornali europei, cartacei e non, che avessero parlato di Jared in quei giorni. La trovò e girò il suo pc verso Shannon: il ragazzo riconobbe una nota attrice di Hollywood, molto amica di Jared, che gli sorrideva. Aveva una mano alzata e sembrava che lo stesse toccando, nella foto, la didascalia era la pietra dello scandalo. Ringraziò Emma, che rimase lì accanto, continuando a cercare altro.
“Miriam, tesoro, Jared ha ragione: devi fidarti di lui”
“Ma come faccio! Lui è famoso, bellissimo, ha una carriera sfavillante e tutte le donne gli corrono dietro, è palese che siamo su due pianeti diversi. E poi siamo lontani, Shan, io non credo di farcela”
“E cosa vorresti che facesse per convincerti? Lui sta facendo moltissimo, Miriam, tu non lo conosci ma credimi Jared ti adora e non ha proprio nessun’altra”
“Il punto è la prossima foto che uscirà e che io dovrò ingoiare. E se un giorno ne uscisse una vera? Come farei a proteggermi? Come farei a capire che la realtà dalla finzione?” continuò testarda, convinta che nessuno la capisse.
“Jared ti direbbe la verità” si intromise Emma, anche se sapeva che forse non era affar suo. Conosceva Jared da molti anni e aveva imparato a capirlo. Miriam rimase interdetta dalla sua voce, ma la ascoltò: “Miriam, ascoltami, il suo pianeta è diverso dal tuo, è vero. Ed io capisco che tu possa essere spaventata e condivido il tuo bisogno di protezione, però la fiducia è alla base di tutto, specie in un rapporto come il vostro. Jared è una persona leale e sincera, e se tu gli dimostri fiducia, lui non sarebbe mai pronto a tradirla. I giornali sono così, ho imparato a mie spese di cosa sono capaci, ma non puoi chiedergli di lottarci contro, semplicemente perché è impossibile, e l’unico modo per sopravvivere è lasciare che parlino, qualsiasi cosa dicano. Non mettere Jared contro il suo lavoro, perché perderesti. Cerca di andare oltre” le disse, senza dolcezza nè cattiveria, cercando di spingerla ad essere razionale. Miriam pensò che era la prima volta che Emma si dimostrava pronta ad aiutarla, le fu grata di essere intervenuta, perché capiva che lei aveva dovuto conoscere Jared, prima di apprezzarlo, e che sicuramente era più imparziale di Shannon, che comunque rimaneva suo fratello.
Smise di piangere e capì che forse aveva esagerato, ma che avrebbe voluto che questo discorso glielo facesse Jared in persona: non poteva aspettarsi che lei capisse tutto da sola, era una macchina troppo grande e troppo sconosciuta per lei, avrebbe dovuto aiutarla a capire. Ringraziò Shannon ed Emma, li salutò e si mise sul divano con del caffè ad aspettare che lui tornasse. Doveva pur prendere le sue cose da casa.

Jared rientrò solamente l’indomani alle 10, convinto che lei fosse in ufficio. Appena mise la chiave dentro la toppa ed entrò, la vide addormentata sul divano, con ancora indosso i vestiti del giorno prima. Le fece tenerezza, la guardò a lungo senza muoversi, pensando a come gestire quella situazione: lui si stava innamorando di quella donna, ma se queste erano le premesse, non sarebbero andati da nessuna parte. Aveva costruito la sua carriera passo dopo passo e ci aveva messo fatica e dedizione, non se ne sarebbe allontanato per niente al mondo, anche se avrebbe voluto che lei ne facesse parte. Negli ultimi mesi si era scoperto a pensare a come sarebbe stato averla accanto, condividere con lei i concerti, i copioni che gli arrivavano, tutti i minimi particolari del suo mondo, e ogni volta si sentiva euforico all'idea, ma lei gli aveva dimostrato di non essere pronta. Forse le doveva dare tempo, o forse era semplicemente così e doveva arrendersi.

Entrò e lei si svegliò di soprassalto, stropicciandosi gli occhi con il trucco colato e i capelli arruffati. Si alzò, a disagio nell’averlo davanti, e provò a parlare, a dirgli qualcosa. Lui alzò una mano a farla tacere e andò nella camera a prendere le sue cose. Miriam lo seguì, si poggiò allo stipite della porta e disse: “Così finisce qui?”. Quella frase le uscì più dura del previsto e non fece il suo dovere riconciliatore, piuttosto lo irritò ancora di più. 
“Ti ho detto quello che dovevo dirti, Miriam”
“Neanche per te c’è appello, Jared”
“No, se vuoi parlarmi ti ascolto. Ma non tornerò a giustificarmi e non tornerò a discutere con te su questa storia” le disse, sincero e pacato.
“Perché non provi a capire me?”
“Perché in tre mesi pensavo che avessi imparato a fidarti”
“Quindi sono io la stronza, vero? Quella che non ha capito niente e ha offeso la grande star?”
“Smettila”
“No, non la smetto, perché per te sbagliare non esiste, una persona non può avere debolezze, non può avere paura. Deve solo fidarsi e chiudere gli occhi. Sei un egocentrico, Jared” gli disse astiosa. Avevano ricominciato, non c’era verso di fare pace evidentemente.

Jared finì di preparare la sua roba, poi si avvicinò a lei e disse, abbassando il tono della voce: “Ti avrei amato, Miriam. E tu neanche te ne sei accorta”.
Quelle parole spezzarono ogni convinzione di Miriam, che rimase a bocca aperta a guardarlo andare via. Non l’avrebbe più rivisto, lo sapeva, e nonostante fosse disperata, non riuscì a muovere un muscolo per fermarlo: Jared le lasciò le chiavi sul divano e uscì. Per sempre dalla sua vita. 

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Capitolo 9
*** Quindi solo i ragionieri possono avere figli sani? ***


Ciao, amici! 
Ecco un nuovo capitolo, che spero vi piaccia! 
Insomma, ora la questione è questa:
Jared e Miriam si sono lasciati, per l'incapacità di Miriam di resistere alla situazione. 
Ma non temete... nuovi colpi di scena stanno arrivando! 
Voi che ne pensate? 
Siete d'accordo con la durezza di Jared o con l'insicurezza di Miriam? 
Fatemi sapere!!! 

Buona lettura
Bibi

 
Quindi solo i ragionieri possono avere figli sani? 
 


Miriam non lo sentì per settimane. Chiamava spesso Shannon o Tomo, ma di Jared neanche l’ombra. Non voleva sapere come stesse, cosa facesse o dove fosse. Soprattutto non voleva sapere con chi fosse. Per lei era un argomento ancora troppo scottante: aveva chiaramente detto agli amici che non ne voleva parlare, per quanto tutti cercassero di farla ragionare e di indurla a cambiare idea: chissà se facevano lo stesso con Jared.

Un giorno vicino a Natale, mentre mangiava una tazza di cereali, le cadde il bracciale sotto il divano. Sbuffò innervosita da quell'ennesima dimostrazione del fato di mettersi contro di lei, e poggiando poco cautamente la ciotola di cereali sul tavolino davanti a lei, si alzò, con l'intenzione di spostare il divano e riprendere il bracciale. L'operazione non si rivelò semplice, ma dopo vari tentativi, riuscì finalemente ad intravedere il suo gioiello e infilò la mano per cercare di afferrarlo. Sentì qualcosa di metallico fra le dita e, convinta di aver vinto la battaglia, ritirò il braccio entusiasta, ma quello che aveva in mano non era il suo bracciale: era il ciondolo che Jared portava sempre al collo, una triade, quella che gli aveva visto alle Hawaii e che sbatteva sempre contro il suo naso quando facevano l’amore. Rimase a guardarla, tremando come una foglia, quasi come se quell'oggetto potesse farle male, potesse ferirla a morte, e sentì una lacrima scenderle sul viso: credeva di stare meglio, ma così non era, e se ne stava rendendo conto solamente in quel momento. 

Non era capace di fare niente, e tenne fra le dita quella triade per un tempo indefinito, scoppiando in lacrime: era passato un mese e Jared le mancava moltissimo. Nei giorni in cui era stata costretta ad elaborare quella sorta di lutto che sentiva di aver subito, o forse creato, aveva pensato molto alla loro discussione, e per quanto fosse ancora convinta che lui avesse reagito male, aveva capito che forse l’aveva giudicato in fretta: non aveva chiesto chi fosse, l’aveva condannato prima che lui potesse spiegare. Aveva realizzato che avrebbe dovuto chiedere spiegazioni e cercare di dirgli cosa provasse, cosa sentisse, la sua confusione, il suo sgomento, il suo non essere abituata a quel mondo. Invece la paura l'aveva costretta ad accusare e lui se ne era andato, semplicemente come era piombato nella sua vita. Pianse a lungo, accasciandosi a terra e sentendo di aver bisogno che tutte le lacrime che aveva ricacciato indietro in quei trenta giorni scendessero sul suo viso, bagnandole i capelli e i vestiti. Strinse talmente forte la triade che quando aprì la mano aveva il segno impresso nella carne e sentì un dolore acuto farsi spazio dentro di lei: lo voleva indietro. 

Quando ebbe la forza di alzarsi, si asciugò il viso con le mani, come fanno i bambini che smettono di piangere perchè la mamma è andata a consolarli e si sedette alla sua scrivania davanti la finestra. Non l'aveva più usata, perchè quella scrivania le ricordava i giorni in cui Jared era lì e la usava per lavorare mentre aspettava che lei tornasse a casa. Quella sensazione di quotidianità nel vederlo lì, a torso nudo, con i capelli che scendevano sulle spalle, quel bacio sulla testa al ritorno dall'ufficio le facevano male, così aveva semplicemente smesso di considerare l'idea di guardare la scrivania, figuriamoci usarla. In quel momento pensò di prendere il pc e portarlo sul divano, poi respirò e spostò la sedia, trovando chissà dove il coraggio per sedersi lì. Chiuse gli occhi sentendo una fitta allo stomaco e sentendo come una forza strana che la faceva muovere senza che lei lo volesse: quella forza stava spingendo le sue gambe a fare leva e farla rimettere in piedi. Ma Miriam, ad occhi chiusi, piantò bene i piedi per terra e si costrinse a rimanere lì, inchiodata, fino a che sentì di poter reggere la situazione. 

Aprì gli occhi lentamente, fiera di quel piccolo passo e accendendo il computer, avviò la casella di mail. Con il foglio bianco davanti agli occhi e la triade di Jared ancora fra le dita iniziò a pensare a cosa potergli scrivere, ma non le venne nessuna parola adatta, nessuna che potesse ricucire il tutto. La verità era che il loro rapporto si basava su un’idea romantica e assurda e che la minima turbativa della situazione l’aveva spezzato, Miriam avrebbe solamente dovuto fare i conti con il fatto che si era innamorata di Jared. E forse non avrebbe dovuto.


Chiuse il pc, prese la sua collana e ci appese la triade, pensò che non fosse il metodo migliore per dimenticare, ma non riuscì a non farlo. Lo teneva vicino al cuore, era l’unica cosa che potesse ancora fare, fino a quando il tempo avrebbe curato quella ferita e le avrebbe concesso una tregua. 

Avviò invece Skype sperando di trovare Kiki in linea, e così fu. 

"Ciao!" la salutò energica la ragazza. Era un fiume in piena, sempre allegra, sempre solare, sempre affaccendata in mille cose. Miriam adorava il suo senso di libertà e quel sorriso contagioso, che avrebbe tanto voluto avere sulle labbra. 
"Ehi, ciao, tutto bene?"
"Dovrei chiederlo io a te. Guarda che faccia che hai"le disse improvvisamente seria. Miriam abbassò lo sguardo e istintivamente andò a giocare con la collana che aveva al collo, scostando la maglia che aveva accuratamente sistemato in modo che Kiki non vedesse niente. 
"Si, sto bene... solo un pò stanca" mentì. 
"Stanca... si certo ci può stare. Come va..." iniziò Kiki, ma smise subito di parlare, spalancando la bocca. Poi continuò: "Scusami, e quella?" disse puntando il dito verso la triade. 
"Cosa?"
"Smettila di mentire!"
"Ah, questa..."
"Eh, quella..."
"Non l'ho comprata perchè sono folle e in preda a crisi adolescenziali, tranquilla. E' di... insomma, è sua"
"Sua?" chiese Kiki, non capendo fino in fondo quell'espressione.
"L'ho trovata dietro il divano, deve averla persa quando è stato qui"
"Miriam... sicura di stare bene?"
"Si, sicura. Ho pianto un'ora e poi ho realizzato la verità: sono innamorata di lui, ma il nostro rapporto fa acqua da tutte le parti e non è destinato ad essere niente" ammise amara.
"Ma forse, se voi provaste a parlare, credo che potreste migliorare le cose"
"No, Kiki: lui vive lì, ha il suo mondo, io qui ed ho il mio. E sicuramente non sono mondi compatibili. Va bene così, ho sognato quanto basta e realizzare la verità è il primo passo verso la guarigione" 
"Perchè non vieni a trovarmi a Capodanno?"
"Non so..."
"Dai, andrò a Los Angeles con un'amica e mi piacerebbe vederti, farebbe bene anche a te"
"Stai scherzando, vero!?"
"No, sono seria: è ovvio che tenterò di stare con Tomo qualche giorno, ma sai la situazione e è abbastanza inverosimile che riusciremo a stare insieme troppo tempo. Maelle, la mia amica, ha una casetta lì e mi ha proposto di andare con lei a folleggiare nella città degli angeli. Vieni anche tu, dai. Non è detto che debba vederlo, faremo una vacanza insieme!"
"Kiki, tu vai per Tomo. Non serve ricordarti che Tomo è il suo migliore amico, vero?"
"Ma che c'entra! Dai, non lo vedrai nè sentirai, se non vorrai tu chiaramente. Su, sarebbe bello"
Miriam valutò la proposta: moriva dalla voglia di accettare e dentro di sè sapeva anche molto bene perchè, ma non aveva il minimo coraggio di ammetterlo. Decise di stroncare sul nascere ogni minima possibilità: "No, Kiki, non mi sembra il caso"disse piano. L'amica la guardò un pò delusa, ma capì: sperò solamente che Miriam ci pensasse. 
Si salutarono velocemente, perchè Kiki aveva lezione ed era in ritardo e Miriam rimase con la sua triade al collo e una vaga sensazione di malessere. 


Dopo vari giorni di tentennamento, Miriam decise di concedersi una follia e prenotò l’aereo per Los Angeles: partenza solo 12 ore dopo. Chiamò Kiki eccitata dicendole che si era decisa e che stava per volare da lei, sperando che l'offerta fosse ancora valida. Trovò Kiki abbastanza giù di corda e la costrinse a dirle cosa succedeva: come immaginava aveva problemi con Tomo. Lui continuava a vederla e sentirla di nascosto, e si sentiva libero di agire solo quando era al MarsLab, forte del fatto che gli amici sapessero la verità, e Kiki si sentiva sempre più in gabbia: non voleva lasciarlo, se di lasciarlo si poteva parlare, perché stare senza di lui, le sue battute e la sua risata era impossibile, ormai. Ma quella storia iniziava a pesarle, perché non vedeva un futuro per loro, e perché onestamente sapeva che non c’era un destino roseo ad attenderli: gli uomini scelgono sempre la moglie, se costretti. Nonostante quello, le disse, per Capodanno aveva deciso, d’istinto, di andare a Los Angeles, forse sarebbe riuscita a vederlo almeno un’ora, e forse le sarebbe bastato. Si dimostrò molto felice della decisione di Miriam, nonostante sapessero entrambe il vero motivo per il quale Miriam aveva deciso di andare in California. Ma entrambe tacquero, e fecero buon viso a cattivo gioco. 
 
La sera andò a cena dai suoi genitori: Armand e Célia non presero bene il fatto che lei partisse. Non avevano mai parlato di Capodanno, ma davano per scontato che lei andasse con loro sulle Alpi, come ogni anno. Miriam disse loro che voleva rivedere Kiki, e ci fu una reazione diversa: sua madre sorrise dicendo che quella ragazza era stata molto carina quando era a Parigi. Suo padre invece si fece astioso e sibillò: “Ma a chi vuoi darla a bere? Tu vai per vedere quell’uomo. Io te lo proibisco!”
“Papà, ma cosa stai dicendo? Vado per Kiki. E anche se andassi per rivedere Jared, non sarebbero affari tuoi”, gli disse. Per tutto l’oro del mondo non avrebbe ammesso che fra lei e “quell’uomo”, come diceva suo padre, le cose erano andate male e non lo sentiva da tempo. Pronunciò il suo nome per ripicca nei confronti di suo padre, ma le costò fatica e quando abbassò gli occhi, fu certa di vedere il riflesso triste e amareggiato del suo volto nella preziosa porcellana di sua madre.

“Armand, sono certa che Miriam sa cosa fa. Se dice che va dalla sua amica, è così” tentò di aiutarla, stranamente, sua madre.
“Si, certo Cèlia. Tu credi a qualsiasi cosa lei dica! Nostra figlia sta intrattenendo una relazione con un uomo di 42 anni, per niente raccomandabile, che sono sicuro punti solamente al suo status sociale” le ruggì contro. Célia cercò di non scomporsi: voleva dare fiducia a sua figlia.
Ma Miriam scoppiò a ridere: “Il mio status sociale? Papà sei ridicolo, se solo tu sapessi di chi parliamo!” dicendo ciò si alzò dalla tavola chiedendo permesso e si avviò verso l’uscita. Prese il suo cappotto in maniera poco elegante e se lo infilò in fretta, ma sentì sua madre andarle contro e alzò gli occhi al cielo.


“Che c’è, mamma?”
“Miriam, buon viaggio!” le disse solamente sua madre. Miriam fu colpita da quel cambiamento: mai sua madre era stata così, mai nella sua vita. La guardò a lungo e sua madre, visibilmente impacciata, continuò a parlare: “Non te l’ho mai detto, ma quando quell’uomo era qui ti ho seguito. Non avrei dovuto farlo, ma ero preoccupata: tuo padre ne parlava come fosse un mostro. Ti ho vista felice, Miriam, ti ho vista ridere, ti ho vista innamorata. Dunque, se vai in California per lui, fa buon viaggio e chiamami, ok?”. Le mise le mani sulla spalle, come a volerla scrollare, ma quel tocco fu il più dolce della sua vita. Le sorrideva materna e complice e aveva lasciato che parlasse il suo cuore di mamma.
Miriam si commosse e si gettò fra le braccia di sua madre: forse aveva un’alleata.
“Mamma, non vado per lui, purtroppo. Ho rotto qualcosa l’ultimo giorno che era qui a Parigi. Vado davvero per Kiki, però sono felice che tu mi sia comunque vicina. Ti chiamerò, promesso!” le rispose, con sincerità. Sua madre la abbracciò e le auguro di nuovo buon viaggio e buon anno nuovo.

Poi tornò in sala da pranzo, dove suo marito era rimasto impassibile, seduto al suo solito posto a sorseggiare il calice di vino.
“Possibile che tu non ti renda conto che nostra figlia è cresciuta?”
“E cosa dovrebbe cambiare?”
“Armand, ti prego, sii ragionevole: Miriam non è più una bambina, e sta facendo le sue scelte. Non possiamo più andarle contro per farle fare le cose che sono giuste. Che per noi sono giuste” calcò molto la sua voce su quel noi, e suo marito alzò finalmente lo sguardo, incrociando il suo.
“Célia, mia figlia non può sputtanarmi per tutta Parigi con uno così. Punto” disse, con voce calma, che non ammetteva repliche.
“Mia figlia invece può avere il diritto di essere felice. E se a renderla felice è quell’uomo, a me non importa un fico secco della tua reputazione da quattro soldi” gli urlò contro, perdendo il controllo. Stava iniziando a capire che avrebbe perso Miriam, se non avesse cercato di capirla, di starle vicino: sua figlia non stava facendo nulla di male, era solo diversa dai figli dei loro amici. Per fortuna, pensò in un lampo di trasgressione.

Il marito si alzò in piedi di scatto e la guardò tetro, poi a grandi passi si avviò verso il suo ufficio e si chiuse la porta alle spalle con un tonfo che fece saltare Célia. La cena era evidentemente finita, nonostante mancassero delle portate. La donna si prese dello scotch e andò davanti la finestra: per nessuna ragione al mondo avrebbe chiuso sua figlia fuori dalla sua vita.

A Los Angeles l’aria era frizzante, ma comunque assolata. Jared prese la giacca e se la buttò sulle spalle, poi indossò gli occhiali da sole e uscì, con le chiavi della macchina in una mano e il Blackberry nell’altra. Guidò tranquillamente, come ogni giorno, fino al MarsLab, e una volta lì entrò salutando tutti a gran voce. Era una quotidianità che lo rassicurava, ma il fatto che il tour si avvicinasse gli metteva una strana elettricità addosso, perché i concerti erano davvero quello che amava fare, e non vedeva l’ora di tornare a vagabondare per il mondo.

Prima di entrare, per strada, vide un uomo che faceva una fotografia, istintivamente alzò una mano in segno di saluto e subito dopo pensò a Miriam: chissà se avrebbe visto anche quella foto, chissà cosa avrebbe pensato. Nell’ultimo periodo era stato attento a non fare passi falsi con la stampa, perché pensava che fosse meglio restarsene in disparte e non creare caos prima del tour, ma nel profondo della sua mente calcolatrice sapeva benissimo che l’aveva fatto solamente perché Miriam non potesse vedere altro e pensare che lui l'avesse sostituita. 


Non appena entrò, sentì odore di caffè e capì che suo fratello era già lì, sorrise e sperò di poter iniziare presto a lavorare, che forse i pensieri se ne sarebbero andati. Si avvicinò alla piccola cucina per salutarlo, e sentì delle voci: “… Shannon, sto cercando di rimanere calma, ma tu non mi aiuti così!” aveva esclamato Emma. Jared avrebbe riconosciuto quella voce in capo al mondo, dopo tanti anni.
“Emma, ma ti rendi conto di quello che stai dicendo?” aveva proseguito Shannon.
“Certo, secondo te?” lo aveva aggredito Emma, astiosa.
Jared pensò che i problemi erano arrivati, dopo mesi di apparente tranquillità. In realtà Shannon ed Emma erano riservati e cercavano di limitare il tutto a sguardi e sorrisi quando erano insieme ad altri: il lavoro era stato nettamente separato dalla loro vita privata, e Jared gliene era sinceramente grato, per tutta una serie di motivi. Solo che sembrava che quell’idillio fosse sul ciglio di un burrone. Alzò gli occhi al cielo e rimase a guardare il soffitto, stanco e depresso: altri problemi da risolvere, sarebbero mai finiti? Pensò.


“Dai, non volevo dire che… scusami…” disse Shannon all’improvviso, e Jared sentì una sedia scostarsi e dei passi muoversi. Poi il silenzio e solo dopo un po’ la voce di Emma: “Shannon, ma se… non voglio nemmeno pensarci!”. Era stranamente lamentosa e in preda al panico, e Jared  si preoccupò, perché Emma non era mai in preda al panico, forse non sapeva neanche cosa volesse dire quella parola. Decise di agire ed entrò nella cucina, facendo finta di essere appena arrivato e di non aver sentito niente.

“Ho interrotto un momento romantico?” chiese, facendo finta di nulla e andando verso il frigorifero. Shannon ed Emma sciolsero il loro abbraccio imbarazzati e Emma cercò di pulirsi il viso da quelle che a Jared sembrarono lacrime, ma di nuovo fece finta di nulla.
“No, Jared, tranquillo” rispose Emma, cercando di riacquistare la sa proverbiale tranquillità. “Tanto ormai hai fatto irruzione” fu invece il commento di suo fratello.
“Ragazzi, io vado di là, che devo verificare alcune cose e poi ci vediamo per discuterne insieme. Direi, fra un paio d’ore. Va bene?” disse Emma. 
“Va benissimo, capitano!” urlò Tomo, entrando in quel momento in cucina e portando una ventata di normalità. Sembrava che quel giorno fosse l’unico a non avere grattacapi, anche se in realtà sapevano tutti che era solamente molto bravo a nasconderli. Emma gli sorrise e si congedò, portando via anche la sua agenda.

I ragazzi rimasero soli e iniziarono a discutere del lavoro da portare avanti in quella giornata. Jared sorseggiava una bottiglia di acqua, poggiato al ripiano della cucina, e si irrigidì quando Tomo disse loro una cosa: “Sentite, ragazzi, devo chiedervi un favore. Domani arriverà Kiki in città e beh sapete… vorrei passare un po’ di tempo con lei” aggiunse, imbarazzato.

“Nessun problema, amico” disse subito Jared, guardando poi Shannon, che sembrava lontano mille miglia. “Shan?” lo richiamò all’ordine.
“Eh?! Si, certo Tomo, figurati. Abbiamo tempo per lavorare, qualche giorno non farà male a nessuno” gli disse, sorridendogli forzatamente.
“Viene sola?” si informò Jared, fintamente non interessato.
“Se intendi chiedermi se ci sarà Miriam, beh credo di no. Kiki non me ne ha parlato” gli rispose Tomo, guardandolo paterno. Era chiaro quanto Jared stesse male per Miriam, ma non aveva mai voluto ammetterlo e tutte le volte che avevano tentato di parlargli era finita che lui si era buttato, da solo, sul pianoforte, chiudendo ogni speranza di conversazione. 
“No, ma io intendevo un’amica, qualcosa, che vai a pensare?” si difese Jared.
“L’hai più sentita?” si intromise Shannon, tornato fra loro. 
“No” disse solamente Jared, duro, decidendo di non scappare, quella volta.
“Perché non provi a chiamarla, Jared?” chiese Tomo.
“Perché non c’è niente da dire” rispose di nuovo Jared, ora a disagio.
“Sei più testardo di un mulo, cazzo! Dovresti solo aprire quel computer e chiamarla, sentire come sta, se ha qualcosa da dirti, cercare di parare i colpi, invece no stai qui a suonare sempre con quel muso lungo.” Lo aggredì Tomo, convinto che quella scrollata gli servisse. Jared non disse nulla, guardava il pavimento e torturava la sua bottiglia d’acqua, respirando forte.
“Tomo, tu non sai cosa mi ha detto e come l’ha fatto. Tu non lo sai” disse solamente, a fil di voce.
“Io so solo che da quando sei tornato da Parigi sembri un fantasma e ti preferivo di gran lunga nei mesi precedenti. A volte bisogna dare un’opportunità agli altri, e prima lo capirai, prima starai meglio” gli rispose, cercando di convincerlo. Shannon era seduto, ancora, e li guardava battibeccare, incapace di inserirsi davvero in quel discorso, ancora preso dalle parole di Emma. Non era presente, nonostante cercasse di fare conversazione e volesse dare il suo pieno appoggio a Tomo. 

“E perché tu allora non dai una chance a Vicky, invece di continuare a fare su e giù con San Francisco? Sentiamo” reagì Jared, sfidandolo e guardandolo negli occhi. Poche persone riuscivano a sorreggere lo sguardo limpido di Jared, e Tomo era uno di questi, generalmente, perché conosceva quegli occhi e sapeva che era meglio sostenerli che distogliere lo sguardo. Ma quel giorno non ce la fece, perché sapeva che Jared aveva ragione e si sentì a disagio. 

“E’ diverso, lo sai” sussurrò.
“Non è diverso, Tomo. Semplicemente è la tua vita e allora credi che sia più complicata, come lo crediamo tutti. Miriam non ha creduto in me, non mi ha chiesto informazioni, mi ha condannato e basta e questa cosa mi manda fuori di testa. E poi se avesse voluto avrebbe potuto chiamare lei. Shan, tu che dici?” lo interpellò Jared. Shannon si destò dai suoi pensieri e non seppe che dire, perché aveva sentito poco e niente del discorso. Entrambi lo fissavano cercando una sua approvazione, un suo pensiero, che non arrivò però: “Andiamo a provare, ragazzi?” disse solamente, alzandosi e guadagnando la porta. Jared e Tomo dimenticarono la discussione e si guardarono pensierosi: c’era qualcosa che non andava. Jared mimò con i labiale “Emma” alludendo a quelle poche cose che aveva sentito prima di irrompere in cucina, e Tomo alzò gli occhi al cielo pensando che no, lì dentro non si poteva mai stare tranquilli.

Miriam atterrò a LA dopo un volo estenuante ed elettrico: era stata per dieci ore a fare finta di niente, e a dirsi che stava andando per Kiki, ma in realtà era agitata. Aveva giocato per tutto il tempo con la triade, ancora al suo collo da quando l’aveva trovata sotto al divano. Forse era una scusa per rivederlo, o forse avrebbe dovuto chiudere Jared in un cassetto e tenersi quel ciondolo per ricordo. Non lo sapeva.

Kiki la accolse all’aeroporto con la sua amica. Non appena la vide iniziò a saltellare felice e a sbracciarsi per essere notata. Miriam si fermò a guardarla e sorrise: era bellissima davvero e aveva una vitalità pazzesca.
“Kiki, ciao!” le disse dopo esserle corsa incontro. Si tennero strettissime per qualche minuto, saltando insieme, sotto lo sguardo divertito dell’altra ragazza, che scoprì dopo chiamarsi Maelle.

“Allora, prima tappa: casa di Maelle, vedrai ti piacerà parecchio!” le disse eccitata Kiki. Poi continuò: “Poi dobbiamo decidere cosa fare stasera e nei giorni prossimi… oddio sono così felice di averti qui, tesoro!”. Kiki era davvero il ritratto della felicità e Miriam si sentiva amata e felice, se non fosse stato per quell’aeroporto che le ricordava troppo quando Jared l’aveva convinta a spostare il suo volo, ad inizio ottobre. Si costrinse a non pensare: la sua vita non poteva essere tutta per Jared. Ma non si rese conto di quanto essere nella sua stessa città potesse agitarla.

Arrivarono a casa e Miriam si sistemò nella stanza che avevano lasciato per lei. La villetta era molto carina, in stile californiano, con un piccolo giardino sul retro e un vialetto d’accesso contornato da prato verde sul davanti. Aveva una cucina spaziosa e un salottino al piano di sotto e tre camere da letto al piano di sopra. Tutto era bianco: le mura, l’arredamento, le pareti interne. Sembrava essere finiti in paradiso con qualche anno d’anticipo!

Miriam stava sistemando i suoi vestiti nel piccolo armadio a sua disposizione, quando Kiki bussò piano, entrando.
Fece qualche passo e si sedette sul letto, a disagio: “Ehi, che c’è? Hai mandato a fuoco qualcosa?” la prese in giro Miriam, sapendo quanto lei fosse un pasticcio in cucina. Kiki sorrise appena e fece un cenno di diniego con la testa, poi fece un respiro forte e disse: “Miriam, so che forse non vuoi vederlo… però ho detto a Tomo che sono in città e questa sera ha organizzato una serata anche con Shannon. Non ha parlato di Jared, ma nessuno sai che sei qui, quindi è possibilissimo che ci sia anche lui… insomma, se tu non vuoi…” si fermò, incapace di continuare.

“Kiki, va tranquilla. Io mangio qualcosa e mi faccio un giro in solitaria. Magari ti frego la macchina però!” la rassicurò Miriam.
“Ma no, scusa. Sei venuta qui per stare con me e ti mollo così! Dirò a Tomo che sono a cena con delle amiche e lo raggiungo più tardi” disse risoluta.
“Kiki, tesoro, tu vuoi stare con lui più dell’aria, ammettilo. Non mi va di distruggerti i piani, già vi vedete così poco voi due!”
“E se… si, insomma, se… venissi pure tu?” azzardò Kiki, guardandola con terrore.
“No” le rispose secca Miriam.
“Miri, ma dai… avete litigato per una cazzata più di un mese fa, non ti sembra il momento di cercare di conciliare le cose? Tu sei uno straccio e lui… beh lui non lo so, però sono sicura che stia male” chiuse in fretta Kiki. Miriam non la bevve però.
“Lui cosa, Kiki? Parla”
“Oh senti, ho parlato con Tomo queste settimane e mi ha detto che Jared da quando è tornato da Parigi non ha aperto bocca su questa storia, ma neanche su altro. Dice che è sempre incazzato, che non ride, non scherza come prima, arriva in studio, lavora con i ragazzi e se ne va appena può. Non gli si può neanche parlare” sbottò Kiki.
“Ah… va beh, avrà problemi personali” rispose Miriam.
“Certo che sei stupida eh! Ma lo vuoi capire che basterebbe un passo? Un solo passo, cazzo!”
“E perché non l’ha fatto lui sto passo, sentiamo!? Ha chiuso, non l’ho più sentito. Perché non ha provato a chiamare?”
“E tu l’hai fatto?”
“No… io no…”
“Bene, allora siete pari. Lui ti manca?” le chiese a bruciapelo Kiki.
Miriam non riuscì a mentire all’amica: “Da morire” disse, e abbassò lo sguardo.

“Ecco, allora stasera ti metti un bel vestito, ti trucchi un po’ e vieni con me, dai…”. Kiki si alzò dal letto e andò ad abbracciarla. La tenne stretta quel tanto che bastò a Miriam per farla scoppiare in lacrime, perché il suo calore, la sua comprensione e lo sfogo erano quelli che cercava invano da giorni. Rimasero così, strette, in silenzio mentre Miriam singhiozzava forte. Maelle corse in camera sentendo piangere, ma Kiki la bloccò con lo sguardo sulla porta e le fece un cenno per mandarla via: la ragazza indietreggiò chiedendo scusa con il labiale, e scese al piano terra senza farsi accorgere di nulla.

“Jared, noi andiamo ad una festa in un locale, vieni con noi?” gli disse improvvisamente Shannon, il cui umore era stato altalenante tutto il giorno.
“No, Shan. Divertitevi” rispose Jared, non lasciando spazio ad ulteriori chiacchiere.
“E’ solo una serata, Jared, niente di pazzesco. Solo per distrarci un po’” tentò invano Tomo.
“Voglio provare ancora un po’ le acustiche, che non mi convincono” si difese lui, continuando a guardare la chitarra. Entrambi sapevano che quando Jared non voleva parlare, si chiudeva in sè stesso con la chitarra o il piano, e nell’ultimo mese l’aveva fatto ogni giorno. Tomo e Shannon si guardarono, cercando di agire in maniera comune, ma non sapevano proprio come aiutare Jared.

“Non puoi rimanere qui dentro per sempre, Jared. Miriam non ci sarà, dai!” cercò di dire Tomo, prima che una voce si inserì nel discorso.
“Jared, se vuoi possiamo mangiare una cosa insieme e lavorare un po’, che ne dici?” disse Emma, ferma sulla porta della sala. Shannon si girò di scatto e la fissò, mentre lei si ostinava a non guardarlo negli occhi. Erano giorni che quei due erano strani, ma Jared aveva deciso di non intromettersi, anche perché di consigli da dispensare ne aveva ben pochi. Alzò lo sguardo e notò qualcosa di strano, di nuovo, fra Shannon ed Emma, che gli sorrise comprensiva. 

“Va bene, Emma. Cinese?” disse solamente, guardando la donna.
“Cinese. Vado ad ordinare allora” disse solamente, sparendo dalla visuale di tutti. Tomo si era reso conto che Shannon era rimasto ammutolito dalla vista di Emma, e che negli ultimi giorni facevano di tutto per evitarsi. Fra loro mancava la solita elettricità che li aveva distinti negli ultimi mesi, fin prima delle Hawaii, e aveva tentato di parlare con l’amico, ma niente: quando ci si metteva, era più duro di Jared.

“Noi siamo in questo locale, se ti va puoi raggiungerci” gli disse Tomo, passandogli un biglietto sul quale aveva annotato il nome e l’indirizzo del locale in cui avrebbero passato la serata. Jared vide con la coda dell’occhio il biglietto poggiato sulle tastiere, ma non alzò la testa, né disse niente. “In caso contrario, buona serata e non martoriare troppo quella chitarra, o Emma” aggiunse, vedendo il completo mutismo di Jared. Poi si girò verso Shannon e gli disse che si sarebbero visti dopo, e uscì andando verso casa.

“Mi spieghi che c’è o aspetti che tiri ad indovinare?” gli chiese Jared all’improvviso, senza guardarlo, prima che il fratello potesse lasciare la sala.
“Niente, Jared, niente” rispose Shannon, in un atteggiamento che non lo convinceva del tutto.
“Va bene, allora mi prendo un altro paio di giorni per indovinare” gli disse Jared. Shannon pensò che non avrebbe mai indovinato, poi lo salutò e andò via.

“Questo vestito ti sta d’incanto, Miriam!” le disse Maelle, uscendo di casa, qualche ora più tardi. A cena avevano parlato e Miriam aveva scoperto che quella ragazza era la versione californiana e meno appariscente di Kiki: premurosa, gentile, solare e sorridente. Le stava già simpatica.

Mentre erano in macchina, con Kiki alla guida, Miriam sentiva lo stomaco stretto in una morsa: non aveva detto a nessuno che sarebbe andata in California, e nonostante fosse al settimo cielo nel rivedere finalmente Shannon e Tomo, aveva il terrore di incontrare quegli occhi azzurri. Arrivarono al locale e dopo aver parcheggiato scesero dalla macchina dirigendosi verso l’entrata: dopo neanche tre passi, Kiki iniziò a correre lanciando urletti. Tomo era di spalle e si sentì invadere dalla potenza della ragazza, si girò e sorridendo la salutò, prendendola fra le braccia: erano a questo punto? Miriam credeva che avessero più discrezione, invece no e li invidiò tantissimo.

Shannon era lì vicino e salutò con calore Kiki, poi si girò e vide due donne che camminavano poco dietro, non fece in tempo a rigirarsi credendo che fossero due sconosciute, che riconobbe Miriam: le corse incontro e non le diede il tempo neanche di dire ciao, che le era già addosso: “Tu, cosa, ci, fai, qui!?” urlò, scandendo le parole.

“Ehi, Shan, lasciami in piedi ti prego! Sono venuta a festeggiare il nuovo anno. Non c’è bisogno che ti chieda se sei contento, vero?” sorrise, a disagio, ma tentando di nascondere tutte le sue emozioni.
“No, in realtà non avrei voluto vederti ma…” la prese in giro Shannon.
“Ce l’hai fatta sotto al naso eh!” la raggiunse Tomo, baciandola sulle guance, felice di vederla. Kiki, stretta al chitarrista, presentò Maelle e poi entrarono nel locale, prendendo posto su un divanetto che godeva di tutta la visuale dello splendido posto. Era situato sue due piani ed era aperto: si poteva vedere il cielo, e Miriam ricordò come era stato passeggiare di notte con Jared alle Hawaii. Avrebbe dovuto smetterla.

La serata passò fra cocktail, risate e balli avventati. Miriam si sciolse sempre di più: era bello però essere lì, con loro, i loro sorrisi e le loro cazzate: era come essere tornata in famiglia dopo un lungo viaggio e Miriam sentiva di essere stranamente serena. Nonostante questo ogni tre minuti di girava verso le scale del locale, per paura di vedere salire Jared e ritrovarselo davanti. Shannon lo notò, e dopo un po’ si avvicinò al suo orecchio e le sussurrò: “Lui non verrà, francesina”. Poi le diede un dolce bacio sulla spalla che poteva essere frainteso, ma che per loro significava tutt’altro.

Miriam sorrise e gli rispose con un’alzata di spalle: era inutile difendersi con Shannon, lui aveva capito, lui sapeva. A notte fonda, lui la prese per mano e la trascinò lontano dal caos. Trovarono due sgabelli abbastanza appartati e guardando una Los Angeles illuminata, Shannon le disse: “Allora, come stai?”
“Bene, molto bene!” finse lei.
“Bugia…”
“Ok, sto di merda. Contento?”
“No, per niente, ma almeno è la verità. L’hai più sentito?”
“No”
“E hai provato a chiamarlo?”
“No”
“Senti, io non c’entro niente e odio intromettermi nella vita di mio fratello, però l’ultimo mese è stato infernale. Perché non provi a parlarci? Potete recuperare tutto, Miriam, basterebbe volerlo”
“E perché non prova a parlarmi lui?”
“Siete due teste dure che danno le stesse risposte del cazzo. Mi arrendo!” disse Shannon, alzando le mani e sventolando un’ipotetica bandiera bianca.
“Shan, no dai… scusami. E’ che io ho paura, sono spaventata, cercavo solamente di essere rassicurata e lui mi ha tirato in faccia tutta la sua cattiveria, dicendo che io non mi fido, che io l’ho deluso, che io, io, io… solo io, lui non ha colpe!”
“Andiamo via di qui, ti va?”
“Si, d’accordo… avverto le ragazze”

Tornarono dentro e Miriam disse a Maelle e Kiki che sarebbe andata via con Shannon e che si sarebbero viste l’indomani. Le ragazze annuirono e Kiki le si avvicinò dicendole “Ti voglio bene!”. Miriam la strinse velocemente e poi uscì dal locale con Shannon.

Passarono il resto della notte a passeggiare per LA, chiacchierando di Jared e di Emma, degli ultimi mesi, di come stavano e del futuro tour mondiale della band. Miriam gli raccontò di suo padre e Shannon rise tantissimo: quella storia faceva ridere tutti, pensò.
“E così, gli hai proprio risposto: no, papà ne ha 42!” le chiese, ridendo come un matto e imitando la sua voce.
“Scemo, smettila. Si, cosa avrei dovuto dire? Che è un bambino?” si difese Miriam.
“No, no, certo. Tutto è tranne che un bambino” disse Shannon. Poi si fece più serio: “Ti manca molto, vero?”
Miriam odiava quella domanda: perché tutti si ostinavano a fargliela? La risposta era ovvia, ma non voleva trattare male le uniche persone che si preoccupavano davvero di come stesse, così respirò a fondo e gli rispose: “Si, molto. Ogni giorno, ogni minuto. E’ dura” disse con sincerità. Istintivamente si toccò la triade al collo e Shannon la notò solo in quel momento.
“Hai il nostro ciondolo” le chiese, con un piccolo sorriso.
“E’ di Jared, deve averla persa quando era a Parigi. L’ho trovata sotto al divano poco prima di Natale”
“Capisco. E non credi che dovrebbe tornare al proprietario?” tentò Shannon, prendendola alla larga e non commentando sul fatto che Miriam l'avesse messa al collo invece di buttarla via. 
“No. Cioè si, ma non occorre che sia io a dargliela. Tieni, digli che era a casa tua”. Nel dire quella cosa, Miriam si tolse la collanina e lasciò sfilare il ciondolo dalla catena d’argento. Lo porse a Shannon, che le chiuse la mano e le disse: “E’ un legame, una scusa. Quando sarai pronta gliela ridarai tu. Ok?” le sorrise Shannon, che aveva ragione ed era più sensibile di quel che si credesse in giro.

Miriam assentì e gli diede un bacio sulla guancia, leggero, tiepido, Shannon chiuse gli occhi e le disse: “Emma è incinta”.
Bam, uno schiaffo, una botta, un colpo assurdo: Miriam sorrise e gli si buttò al collo. “Ma Shan, ma cosa aspettavi a dirmelo! E’ meraviglioso!” disse, ma notò l’espressione cupa di Shannon e aggiunse: “O forse no…”
“Sono nel panico, Miriam! Un bambino, ti rendi conto: un bambino!”
“Si, mi rendo conto: sarai papà, e credo che non sarai un papà perfetto, ma amerai tuo figlio e sarai presente, e a lui questo basterà”
“Presente… sono in tour ad anni alterni, in studio tutto il giorno. Un bambino ha bisogno di cure continue, di attenzioni” disse Shannon, il panico nella voce e gli occhi disperati.
“Quindi solo i ragionieri possono avere figli sani?”
“Miriam, dai che hai capito!”
“Si, ho capito che hai paura ma che non mi sembra un buon motivo per mollare tutto, Shannon” gli disse sicura. Shannon la guardò emblematico per un lungo momento, e poi disse piano: “E tu, allora?”
Miriam si sentì colpita e girò lo sguardo istintivamente, serrando i pugni attorno alla borsa e sperando che il buio celasse la lacrima che le pungeva l’occhio.
“Per me è diverso. Lui… si, insomma, lui non mi vuole più vedere”
“Che è la cazzata che ti sei detta nell’ultimo mese per tenere fermo il tuo punto” le rispose lui, andandole davanti per guardarla negli occhi.
“Non stavamo parlando di te? Emma come l’ha presa?”
“La verità è che siamo incasinati entrambi e forse avremmo bisogno di una terza persona ad aiutarci… vieni qui, francesina!” sdrammatizzò Shannon, mettendole un braccio intorno alle spalle e iniziando a camminare.

Poi parlò di nuovo: “Emma è spaventata ed io non le ho certo dato una mano. Le avevo promesso che le sarei stato accanto e invece è una settimana che litighiamo e ci evitiamo. Questa cosa ci ha allontanati, più che unirci ancora di più ed io non so che fare. La adoro, ma non riesco a darle quello che vorrei. La verità è che è davvero troppo presto, cazzo…” disse, guardando il marciapiedi sul quale camminavano. Miriam capì e tentò solamente di dirgli: “E’ l’ultima cosa che ti dico: qualsiasi donna, in questo momento, vorrebbe poter sentire la tua paura. Lascia che lei si accorga che hai paura, Shannon”.


Tornarono a casa così, abbracciati, ridendo e scherzando. A Miriam parve di sentirsi davvero bene, dopo troppo tempo, e ringraziò Kiki di averla costretta ad andare a quella serata. Una volta davanti casa di Miriam, Shannon la salutò e le disse che avrebbe voluto rivederla, prima che tornasse a Parigi. Lei gli rispose che l’avrebbe chiamato ed esitando aggiunse: “…se c’è lui con te. Beh, non dirgli che sono qui”. Shannon sorrise e provò a ribattere ma capì che era una battaglia che dovevano affrontare lei e Jared, e che lui poteva farci ben poco ormai.

Si incamminò, cercando un taxi, ma la destinazione che diede all’autista non fu casa sua. Bussò piano alla porta d’ingresso e aspettò un tempo infinito, prima che qualcuno gli aprisse. Quando l’uscio si aprì e lei apparve, Shannon fece un passo e la abbracciò forte: “Scusami, sono un cretino… mi vuoi ancora?”. Emma non era riuscita ad abbracciarlo, aveva lasciato le braccia lungo il corpo, mentre lui la stringeva. Era ancora arrabbiata per la sua reazione, per averla lasciata sola, per essere sparito ed essersi negato al telefono. Chiuse gli occhi e sperò davvero che Shannon stavolta avesse capito, ma non riusciva a perdonarlo davvero: una donna che scopre di essere incinta è un oceano in tempesta. Essere rifiutate è una sensazione che va oltre ogni confine umanamente concepibile. Equivale ad ucciderla, a umiliarla, equivale al non averla mai amata.

Shannon sentì la sua rigidità e si staccò da lei, dicendole: “Emma, puoi punirmi tutti i giorni, ma io ora ho capito e non me ne andrò mai. Questo bambino è nostro…”. Non concluse e le toccò la pancia, fissandola: era incredibile. Il suo ventre era uguale a sempre, non tradiva niente, eppure lì dentro c’era suo figlio. Si emozionò e si chinò a dargli un bacio sussurrando: “Ciao, piccolo!”. Emma non riuscì a resistere e lo tirò su dandogli un bacio e stringendolo a se. Chiuse la porta e sperò tanto che quella non fosse solamente una farsa di un uomo pieno di senso di colpa. 

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Capitolo 10
*** Benvenuta a Los Angeles, bambina ***


Ciao a tutti, 
ecco un nuovo aggiornamento! 
Volevo aspettare qualche giorno e tenervi sulle spine,
ma sono troppo buona! 
Godetevi il nuovo capitolo, sperando che non vi deluda
e attendo i vostri pareri! 

Buona lettura, 
Bibi 

 
 
Benvenuta a Los Angeles, bambina

Miriam non dormì neanche un attimo. Pensò molto a quello che Shannon le aveva detto, anche se non riusciva a capire cosa provava riguardo quelle parole. Voleva che Jared tornasse nella sua vita, questo le era chiaro, ma non sapeva fino a cosa poteva essere disposta a pagare per riaverlo. E l’orgoglio era qualcosa da non sottovalutare in quella situazione. Si fece un caffè, lo mise in una tazza da asporto trovata lì in giro, e scrisse un bigliettino a Kiki: “Sono sana, vado a fare un giro per schiarire le idee, ci sentiamo più tardi!”. In realtà non sapeva se l’amica fosse davvero lì a casa sua, ma forse l’avrebbe trovato Maelle.

Uscì nell’aria mattutina di una LA che si stava svegliando e iniziò a passeggiare. Non conosceva molto bene quella città, anzi non la conosceva per niente, ma in quel momento poco le importava, perché quello che voleva fare era solamente capire cosa diavolo avesse nella testa.

Sorseggiando il caffè scrutava quella metropoli così strana: attraversò quartieri e strade, vedendo gente che iniziava un’altra giornata, alternata a negozi, addobbati per le feste, che aprivano. Era il 29 dicembre, LA non era per niente fredda e Miriam si accorse di quanto fosse bello non dover indossare chissà quanti indumenti e avere la libertà di passeggiare al mattino presto senza morire di freddo.

Arrivò ad una caffetteria ed entrò prendendosi un muffin, mentre aspettava di pagare vide una foto: la ragazza probabilmente proprietaria del locale era ritratta con un uomo. Si avvicinò per curiosità e lo riconobbe: c’era anche un suo autografo sotto: era così facile incontrarlo per le strade di Los Angeles? Ma soprattutto… lui era familiare in quella zona? Improvvisamente si sentì mancare l’aria, si sentì a disagio e iniziò a guardarsi intorno impaurita. Non capiva perché ma voleva fuggire. Afferrò il muffin e lasciò qualche banconota sul banco, non aspettando il resto. Uscì all’aria aperta e inspirò forte per permettere ai suoi polmoni di riprendere la loro normale funzionalità. Quella storia la stava mandando fuori di testa.


Jared si alzò dal letto presto, quella mattina. Era inquieto e doveva ancora parlare con Emma di alcuni dettagli che lei cercava di sottoporgli da giorni. Decise di chiamarla, e lei rispose al terzo squillo: “Ciao, Emma, senti di cosa volevi parlarmi?”
“Jared, fottiti, sono le sette del mattino!” protestò la ragazza, tornando con la testa sul cuscino e sentendo Shannon muoversi verso di lei. Era bello riaverlo di nuovo accanto.

“Oh senti mi rincorri da giorni per parlarmi” la zittì Jared.
“Si, ma ti ricorro ad orari decenti. Anche se capisco che per te l’orario è una convenzione sociale”
“Ecco, appunto. Dunque?” continuò lui, senza badare ad altro.
Emma si spazientì e gli lanciò la bomba: “Jared, da ora in poi dovrai stare più calmo con me eh. Tuo nipote altrimenti nascerà schizofrenico e noi non vogliamo un bambino schizofrenico in famiglia, vero!?”. Non ci pensò molto su, glielo disse e basta. Solo dopo iniziò a sperare che Jared non desse di matto.


“Emma, un bambino? Ma di cosa cazzo stai parlando? Hai bevuto per caso?”
“No, non posso. Sono incinta, Jared” gli disse, scoprendo la sua voce essere particolarmente dolce ed emozionata. Si accarezzò la pancia che ancora non tradiva nulla e sorrise istintivamente: se un fulmine ti colpisce ma è capace di renderti così, allora forse vale la pena bruciacchiarsi un pò, pensò. 

“Incinta?” rispose lui, stralunato. Improvvisamente iniziava a capire i silenzi, gli sguardi mancati e lo stress dei giorni passati, improvvisamente sperò che suo fratello non avesse fatto cazzate e non avesse ereditato un gene che conoscevano bene.

“Già…” disse Emma.
“Passami Shannon. E’ lì con te, non è vero?” disse risoluto ed impaurito Jared. Emma non ci rimase neanche male: lo conosceva e lui era così. Un cordone ombelicale mai tagliato con suo fratello e un pochissimo tatto con le persone che amava. Aveva un modo suo di dimostrare affetto ed Emma ormai lo sapeva, e gli voleva bene anche per quello. 

Svegliò del tutto Shannon e gli passò il telefono sorridendo, senza dire niente. A volte pensava che quei due fossero gemelli tanto riuscivano a capirsi.

“Jay… a quest’ora?”
“Un bambino, Shan! Cazzo, un bambino!”
“Si, un bambino” ripetè Shannon, capendo la profondità di quella frase. Forse solo loro erano in grado di capirsi, pensò Emma.
“Sei fottuto, fratello. E il tour non si discute” replicò Jared.
“Assolutamente”. Poteva sembrare una conversazione fra folli, e forse lo era, ma loro sapevano di cosa avesse bisogno l’altro in ogni momento della loro vita, e si erano promessi di non tradire mai le aspettative. Così Jared capì che in quel momento Shannon avesse bisogno di sentirsi dire che la vita non sarebbe cambiata poi così tanto. Poi abbassò la voce: “Grande, Shan. Chiama la mamma”.
Shannon mise giù la cornetta e si girò per abbracciare Emma, che aveva richiuso gli occhi, ma era sveglia: 
"Buongiorno, tesoro"
"Buongiorno..." sorrise lei senza aprire gli occhi, sentendo che Shannon le alzava la maglia e le lasciava dolci baci sul ventre: sarebbe andato tutto bene. 


Jared attaccò, non prima di aver urlato ad Emma che la voleva in studio massimo alle dieci, e rimase fermo a guardare il cielo dalla finestra. Suo fratello stava andando avanti, avrebbe avuto un bambino, amava una donna straordinaria. Suo fratello era cresciuto. Aveva sempre pensato che l’avrebbe fatto per primo, ma ora che il momento era arrivato, lui non sapeva dire cosa provasse. Era sicuramente felice, per Shannon, per Emma, però quello lo invitava a riflettere: Miriam.

Ci pensava spesso, ma mai in maniera completa. Era sempre pronto a scacciare i pensieri e lasciare che qualcosa lo distraesse. Quella mattina, però, no. Forse era arrivato il momento di fare quel passo che suo fratello gli ricordava essere fondamentale tutti i giorni da quando era tornato da Parigi. O forse no. Non lo sapeva neanche lui. La verità era che avrebbe voluto dirle che da quando l’aveva conosciuta non c’era stato spazio per nessun’altra nella sua vita, e che quella foto era un’immensa cazzata, però voleva che capisse che lui non avrebbe armato guerre contro i media. Erano su due pianeti troppo diversi, pensò.

Uscì di casa per correre, e si ritrovò davanti casa di Tomo. Una chiacchierata ci stava bene, pensò. Bussò, una, due, tre volte. Alla quarta volta, Tomo andò ad aprirgli: “Jared? Ti è andata a fuoco casa?”
“No, perché!?” disse lui, sorpreso della domanda, ed entrando senza essere invitato.
“Jay, sono le sette del mattino! Che cazzo vuoi?”
“Ma avete tutti la fissa dell’orario oggi?!” gli chiese.
“Tutti non so, io si però!”
“Comunque, Emma è incinta”
“Cosa?! Jared ma Emma sta con tuo fratello, cazzo!” urlò Tomo, svegliandosi decisamente del tutto.
“Ma cosa hai capito, cretino! E’ incinta si, ma di Shannon” rispose Jared, ridendo.
“Ah, mi era preso un colpo… no, aspetta come incinta?!”
“Terra chiama Tomo… sai quando l’uomo entra nella donna e… devo spiegartela tutta?!”
“No, me la ricordo la storiella. È pazzesco!”
“Già, è pazzesco… Emma me l’ha detto questa mattina”
“Ah ecco perché dici che siamo fissati con l’orario, perché te hai svegliato mezza LA stamattina. Vieni, ci facciamo un caffè”
“Bravo, Tomo! Così mi piaci” gli disse, dandogli una pacca sulla spalla.

Dopo qualche minuto, Kiki fece irruzione in cucina. Non aveva sentito niente: né bussare, né le chiacchiere. Si era svegliata senza Tomo nel letto e aveva pensato che fosse giù a fare la colazione. In realtà aveva pensato di scendere a dargli il suo miglior buongiorno, migliore anche dei pancakes di Tomo. Ma quando arrivò nella stanza e trovò Jared seduto ad uno sgabello e Tomo che preparava il caffè volle morire: era completamente nuda e Jared era proprio rivolto verso di lei.

“Oddio che vergogna!” urlò, nascondendosi dietro la porta.
“Tomo, mi sbaglio o c’è una donna nuda in casa tua? Una donna che non è tua moglie, dal momento che è a New York dalla sorella” puntualizzò Jared, divertito.
“Jared, vedi cosa combini ad entrare a casa della gente alle sette del mattino?” gli rispose sorridendo divertito.
“Senti, ma io che ne so!? Tu mi hai offerto un caffè!”
“Si va beh, tanto è inutile, riesci sempre ad avere ragione”
“Dai, Kiki, sono io, non ho visto niente e se avessi visto qualcosa lo porterei con me nella tomba, promesso!” le urlò Jared, lei ancora nascosta dietro la porta.
“Idiota, ma che ci fai qui a quest’ora?”
“E tu perché quando esci dal letto non ti vesti?” le rispose Jared. Tomo rideva sotto ai baffi divertito: Jared era come suo fratello e quella situazione era esilarante.
“Che poi, potrei pure chiederti perché dormi nuda, ma questi non sono affari miei…” continuò Jared. Prendere in giro la gente lo divertiva.
“Ok, torno subito…” disse solamente lei.

Tornò poco dopo, vestita e rossa in viso. 
“Ciao, Jared! E’ bello rivederti!” gli disse sarcastica, arruffandogli i capelli per dispetto e vendetta.
“Ciao, Kiki! Non sapevo fossi qui" la prese ancora in giro. "Come mai da queste parti?”
“Capodanno, sono con un’amica”
“Che io non vedo nei paraggi… almeno è carina?” le disse, salvo poi rendersi conto che forse non era la persona adatta alla quale fare quella battuta.
“Molto, ma tu non la vedrai” gli rispose Kiki, cercando di capire fino a che punto scherzasse: davvero aveva già dimenticato Miriam?
“Lo dici tu” la sfidò lui.
“Però potrei fartene conoscere un’altra” gli disse Kiki, maliziosa e con un’idea geniale nella testa. Tomo capì e la guardò malissimo, cercando di persuaderla a non farlo.
“Ecco, così mi piaci Kiki. Quando?”
“Una di queste sere?”
“Andata!” rispose lui, prendendosi il caffè e alzandosi. “Ti riporto la tazza in studio, amico, grazie!”, disse e se ne andò.

“Kiki, ma sei impazzita?” le disse Tomo, non appena Jared uscì da casa sua.
“Perché?”
“Non mi pare il caso”
“Oh senti quei due sono fatti per stare insieme, hanno solamente due teste dure. Sono nella stessa città e non si scontreranno certo da soli. Aiutiamoli”
“Kiki, io conosco Jared, fidati non è una buona idea”
“E tu fidati di me e dammi il bacio del buongiorno!” gli rispose, avvicinandosi suadente.

La mattina del 31 dicembre, Miriam si alzò dal letto cercando una buona scusa per scappare: era molto felice di essere lì con Kiki e di aver rivisto i ragazzi, ma l’idea che Jared fosse ad un passo da lei la atterrava psicologicamente.

Scese in cucina e sentì un silenzio di tomba: non c’era nessuno? Kiki le aveva lasciato un biglietto sul tavolo che diceva esattamente così: “Io e Tomo saremo di ritorno nel pomeriggio, siamo al mare… scusami!”. Miriam lo lesse e sorrise: per l’amica non era facile dividersi equamente fra lei e Tomo, anche se lei le aveva fatto presente più di una volta che non c’erano assolutamente problemi, perché la capiva.


Il giorno prima erano state sempre insieme, avevano parlato moltissimo e Miriam era riuscita a spiegarle bene la situazione, lasciandosi consigliare anche: Kiki era convinta che lei dovesse mettere da parte l’orgoglio e andare da Jared, per cercare di recuperare. Lei non ne era convinta, e sosteneva che non fosse questione di orgoglio: se solo avesse creduto che c’era ancora qualcosa da recuperare, sarebbe corsa. Ma il punto era che fra di loro si era rotto qualcosa.

Quella mattina stava ripensando a quelle parole, mentre si preparava un caffè. Los Angeles era meravigliosa di mattina: aveva un luce pazzesca e lei era segretamente innamorata di quell’aria così calda, nonostante il mese di dicembre. Aprì la porta per respirare quella meraviglia e vide Maelle seduta sul prato che leggeva un libro, pensò di salutarla.

“Buongiorno, disturbo?”
“Ciao Miriam, no figurati… è un saggio di un mio professore” sorrise la ragazza chiudendo il libro, non prima di aver messo il segnalibro.
“Cosa studi, Maelle?”
“Ingegneria nucleare”
“Oddio, una cosa complicata!”
“Beh, si può sembrarlo, ma mi piace moltissimo. Mi laureerò in estate, poi vorrei venire in Francia a fare un master, so che c’è un’ottima università scientifica”
“Io sono venuta negli States a fare un master dopo la laurea”
“Kiki mi ha detto che sei un ottimo avvocato ora, e che lavori presso un prestigioso studio legale”
“Vero, però Kiki esagera e quell’ottimo forse è frutto del suo affetto!” si schernì Miriam.
“Senti, hai piani per oggi?”
“No, nessuno, perché?”
“Kiki sarà tutto il giorno con Tomo… che ne dici se ci facciamo una bella passeggiata insieme? Ho visto un messicano molto carino da qualche parte tra l’altro, potremmo fermarci lì a pranzo, ti va?”
“Volentieri! Vado a prepararmi e torno ok?”
“Andata! Ti aspetto!” le disse sorridendo e riaprendo il suo libro.

Mezz’ora dopo erano in piena Los Angeles a godersi quella giornata primaverile. La temperatura era perfetta, con un bellissimo sole che permetteva di girare con indumenti decisamente non invernali, e occhiali da sole sul naso. Miriam scoprì che Maelle era una ragazza molto sensibile e simpatica, aveva un carattere molto simile a quello di Kiki, quello che però le distingueva era la pacatezza: Maelle era riservata, mentre Kiki un vulcano in perenne movimento.

Girarono moltissimo, si fermarono a quel ristorantino, dove mangiarono cose buonissime e fecero amicizia con i proprietari, che regalarono loro anche dei simpatici souvenir come ricordo. Dopo il pranzo continuarono a fare le turiste, facendo fotografie e ridendo di molte cose: Miriam scoprì che Maelle era originaria dell’Iran, paese natale di entrambi i suoi genitori, i quali erano scappati durante una delle più grandi repressioni della storia moderna. Entrambi ingegneri chimici, erano stati banditi dal governo iraniano e i loro nomi scritti nei registri dei ribelli, e avevano quindi deciso di scappare e rifugiarsi in America. I primi anni erano stati difficili, senza permesso di soggiorno permanente, con lavori saltuari e umili, con case del tutto prive delle normali necessità di un uomo. Poi le cose avevano iniziato a migliorare ed erano arrivati i figli: Maelle per prima, poi una sorella e un fratello. Avevano costruito una famiglia felice e ora, dopo tanti anni, potevano guardare al passato ritenendosi fieri del lavoro svolto. Maelle era il frutto di una famiglia disciplinata e lavoratrice e questa cosa si intravedeva in ogni lato del suo carattere.

Miriam sarebbe rimasta ore ad ascoltare la storia della sua famiglia, lei la raccontava come fosse un romanzo d’altri tempi e stava riuscendo dove praticamente tutti erano falliti: non farla pensare. Il tutto fu reso nullo quando arrivarono davanti il Dolby Theatre, dove altri turisti stavano facendo fotografie e dove Miriam vide la potenza della mente: in un attimo le fu davanti il red carpet di qualche mese prima, quando Jared vestito di bianco e con un papillon rosso scuro aveva ringraziato sua madre e dedicato l’Oscar a tutte le persone che hanno combattuto e perso la loro battaglia.
Miriam l’aveva visto in tv, con una sua amica, aveva tirato tardi per vedere tutta la cerimonia, che in Europa andava in onda sempre di notte, drogandosi di caffè e macarons. Ricordava che era rimasta particolarmente colpita da quel discorso, tutto strano e fatto con una voce suadente e calma: la voce di quell’uomo avrebbe mandato in visibilio chiunque. Non sapeva certo che solamente sei mesi dopo l’avrebbe incontrato e ci avrebbe iniziato una storia assurda che ora la stava quasi distruggendo.


Era lì davanti e ripensava a quei mesi: è strana la vita, molto strana. Vivi le cose, certe serate, certi momenti, senza sapere cosa ti riserverà il futuro. Oggi guardi la tv vedendo il tuo attore preferito e domani ci finisci a letto insieme. Questo concetto del domani l’aveva sempre affascinata, fin da piccola, e in quel momento le stava passando accanto proprio la dimostrazione di quella cosa che aveva sempre creduto fermamente vera.

Si era incupita, a ripensarlo che vinceva l’Oscar e poi a captarlo di nuovo sulla spiaggia in infradito, di notte, davanti l’oceano, con lei a fianco, parlando di tutto. Si era incupita perché si era resa conto che le mancava più dell’aria, ma non sapeva come accidenti fare. Avrebbe voluto cancellare tutto, sarebbe stato più semplice. Poi pensò che quando lui era nella sua vita, lei si sentiva come un fiume in piena che corre verso la sua cascata più bella, e aveva pensato che tutto l’oro e il dolore del mondo valevano quella sensazione, valevano l’averla vissuta almeno una volta.


Maelle le si avvicinò piano, da dietro, rimanendole distante un passo e parlando al di sopra della sua spalla: “Ci sono correnti che portano lontano e altre che ti lasciano lì dove sei. E’ sempre meglio andare lontano, anche se ci arriverai piena di graffi e dolore” le disse. L’aveva per caso letta nel pensiero? O quel giorno avevano davvero parlato molto, forse. Miriam chiuse gli occhi che sentiva già umidi di lacrime e non si girò a guardarla, perché non ne aveva coraggio o forse perché pensava che girarsi avrebbe significato perdere quei ricordi: finchè guardava quel teatro, poteva ricordare. La ringraziò a bassa voce, un impercettibile parola uscì dalla sua bocca, e lei seppe che Maelle l’aveva sentita solo perché si sentì stringere la mano.

Tornarono a casa nel tardo pomeriggio, pensando che sarebbe stata l’ultima sera dell’anno. Appena entrarono trovarono Kiki in fermento che girava per casa con chili e chili di cose in mano.

“Ehi, bentornate fanciulle, alla buon’ora!” disse loro sorridendo.
“Kiki, serve una mano?” disse subito Miriam, abbastanza perplessa.
“Eh magari!” accettò la ragazza.
“Bene, a fare cosa precisamente?!” si inserì nel discorso Maelle.
“Organizziamo un party di Capodanno!” rispose elettrica e frizzante Kiki.
“Un party, Kiki?” sgranò gli occhi Miriam. L’ultima cosa che voleva erano decine di persone in giro per casa la notte di Capodanno. Ma poi Kiki dove avrebbe preso tante persone in una città che conosceva appena?
“No, tecnicamente è una cena: saremo noi, Shannon ed Emma e verrà Tomo. Verranno anche un paio di amici di Emma e un amico di Shannon. Una cosa intima!” la rassicurò Kiki. Miriam rimase perplessa e Kiki la capì subito, si girò per continuare ad appendere festoni ovunque e le disse con voce indispettita: “Non verrà, sta tranquilla”. Miriam non le disse nulla ma fu rincuorata. Andò in cucina a vedere cosa ci fosse in opera e lasciò Kiki e Maelle da sole.

“Non viene perché non è stato invitato?” le chiese a bassa voce Maelle.
“No, non viene perché non vuole venire. Sono avvelenata” le rispose Kiki guardandola.
“Kiki, io credo che sia meglio lasciar perdere questa cosa di volerli far incontrare per forza” le disse sincera Maelle, che era a conoscenza del piano da prima ancora che partissero da San Francisco. 
“Maelle, tu non li conosci: loro sono fatti per stare insieme”
“Si, ma oggi ho parlato molto con lei e mi è sembrato di capire che le cose sono complicate. Credo sia la miglior cosa lasciare che le risolvano loro” cercò di nuovo di convincerla.
“Te e il tuo carattere spiccatamente cauto!” le disse di rimando Kiki, chiudendo il discorso.

Solo poco dopo arrivarono Tomo carico di cibo ed Emma e Shannon con dolci di qualsiasi genere, cappellini colorati e trombette. Emma mise ad ognuno un cappellino di colore diverso che riportava scritto l’anno che sarebbe arrivato, così da iniziare tutti insieme i preparativi. L’aria era allegra e spensierata, e Miriam, dopo una doccia, aveva indossato il suo miglior sorriso per godersi la serata e non rovinarla agli altri, anche se il suo umore era tutt'altro che festoso. Guardarli lì, tutti insieme, affaccendati, la portava, ancora una volta alle serata hawaiane, quando facevano dei barbecue alla chiusura del chiosco ed erano tutti allegri e felici. Era bellissimo ricordare, ma c'era una crepa in quel quadro: mancava Jared, e mancava come l'aria in una nuvola di fumo nero. 

Verso le cinque del pomeriggio sentirono bussare alla porta, erano tutti convinti che fossero gli ultimi invitati, anche se erano decisamente in anticipo. Miriam corse verso la porta e la aprì, mentre era ancora girata con la testa verso il salotto dove Shannon stava raccontando un buffo aneddoto.
Non vide subito chi era, sentì solamente un’ondata di fogli che la invadevano e si girò di scatto, non capendo cosa stesse succedendo. Davanti a lei uno sguardo di ghiaccio la fissava con rabbia: lo stesso sguardo che le aveva fatto provare emozioni incredibili. Jared era lì e le aveva appena scaraventato addosso quella che sembrava essere una risma di carta. Si chinò a raccogliere uno dei fogli, senza proferire parola, rimanendo in silenzio come lui, e vide la testata online di un famoso giornale di gossip, subito dopo c’erano delle foto: Shannon con una ragazza fra le braccia e una didascalia scandalosa sotto. Quella donna era lei, la notte che l’aveva accompagnata a casa dopo aver chiacchierato a lungo, quando era appena atterrata a LA. Di quelle foto ce ne erano a centinaia e di vari giornali scandalistici.

Miriam lo guardò e disse: “Jared, sai che non è come credi”

“Io non credo proprio nulla. Benvenuta a Los Angeles, bambina” le rispose con astio, prima di andarsene sui suoi passi. Miriam non sapeva cosa fare e gli corse incontro, prendendolo per un braccio per farlo fermare: “Jared, ma che stai dicendo?! Tuo fratello ed io siamo solamente amici, e tu lo sai!” gli disse con rabbia. Come poteva pensare una cosa tanto stupida?
“Non mi interessa, Miriam. Puoi fare quello che vuoi della tua vita, non è affar mio” le disse semplicemente.
“Questa storia è una tua vendetta” gli disse al culmine della rabbia. Aveva lasciato la porta aperta e Shannon era andato a vedere cosa fosse successo, visto che Miriam non era più tornata. Ormai tutti avevano visto che stavano litigando ed erano abbastanza imbarazzati, con i loro cappellini e l’odore di buon cibo che usciva dalla cucina.
“Ragazzi, vi prego entrate dentro” intervenne Emma, calma, avvicinandosi. 
“Emma, stanne fuori” le disse gelido Jared, senza neanche guardarla in faccia, fissando i suoi occhi azzurri solamente su Miriam. 
“Io ne starò fuori anche quando la stampa dirà cazzate su di te avendo ripreso questa scena pietosa” gli rispose Emma, più glaciale e testarda di lui. Era una delle pochissime persone che riusciva a tenergli testa e lui per questo, e anche molto altro, la apprezzava.
“Non c’è nessuna scena, perché me ne sto andando” le rispose, e andò davvero via, chiamando velocemente un taxi e inforcando di nuovo gli occhiali da sole.
“Sei uno stronzo, ti odio!” gli urlò contro Miriam iniziando a correre verso di lui. Tomo fu più veloce e la bloccò portandola in casa.
“Basta, basta Miriam, smettila!” le urlò una volta dentro, mentre lei continuava a dare di matto.
“Lui lo sa che sono solo cazzate, vuole solo punirmi! Lui lo sa!” urlò lei verso tutti. Era esasperata da quella situazione e quella scenata di Jared l’aveva definitivamente distrutta. Erano tutti zitti, non sapevano cosa dire e fare, fino a che Maelle prese la parola e piano disse: “Come lo sapevi tu qualche settimana fa, Miriam”, poi piano andò verso la cucina lasciando Miriam a pensare alla verità di quella frase: Maelle era riuscita in qualche parola a ribaltare la situazione e a farle capire che Jared non aveva dubbi sulla sua integrità morale, e su quella del fratello, voleva solamente farle vedere cosa si prova a non avere fiducia e a non poter fare niente per convincere l’altro della propria innocenza.
Miriam rimase a bocca aperta per un minuto, poi corse su per le scale chiudendosi in camera con un tonfo della porta.

“Come diavolo faceva a sapere dove sta Miriam?” chiese Shannon.
“Gliel’ho detto io” si accusò Tomo, abbassando lo sguardo. Sentì tutti gli occhi su di lui e aggiunse: “Aspettate, non gli ho detto che Miriam è qui, gli ho detto che Kiki alloggiava qui. Credo che avendo visto le foto abbia semplicemente fatto due più due”.

Continuarono a confabulare per un bel po’ sul da farsi, sulla cena di Capodanno, su molte cose, poi Tomo salì in camera di Miriam e la trovò raggomitolata sul letto in lacrime. Era passata più di un’ora e lei era ancora in lacrime. Entrò piano, portando un piatto con una tazza in mano, si sedette sul letto accanto a lei che gli dava le spalle e poggiò tutto sul comodino. Poi piano, molto piano, le fece una carezza sulla testa e disse: “Ehi, mi dispiace. Inavvertitamente ho detto io a Jared dove sei, non volevo”.

Miriam si girò e lo guardò incerta se scagliargli contro tutta la sua rabbia o no. Poi lo vide sorridere che gli offriva il suo rimedio ai problemi: pancakes. Sul piatto c’era una piccola montagna di frittelle calde con sciroppo d’acero, frutta fresca, e qualche manciata di noci e mandorle. Era un capolavoro e Miriam non se la sentì di sgridarlo, si mise a sedere e si asciugò il viso: “Grazie, e non ti preoccupare. Prima o poi lo sarebbe venuto a sapere lo stesso” gli disse. Tomo sorrise, pensando che il suo amico fosse un coglione.
“Jared non vuole ferirti, so che sembra assurdo dirlo Miriam, ma credo sia solamente nel panico” le disse.
“Nel panico?” chiese sarcasticamente lei, inghiottendo malamente una mandorla intinta nello sciroppo.
“Una sera mi disse che tu gli hai detto che avete sedici anni di differenza e che non sai come fare…” cercò di farle capire lui.
“Si, gliel’ho detto perché è vero, Tomo, ma non era un modo per lasciarlo”
“Miriam, Jared ha un mondo tutto suo ed entrarci è un gran casino, te lo assicuro. A volte fa lo stronzo persino con Emma che gli è fedele da anni: chiunque l’avrebbe mandato a cagare, e lei invece è ancora qui e gli vuole persino bene. Eppure lui certe volte ha la capacità di trattarla come una cretina. Io credo che se lo ami dovresti alzarti e andare da lui”
“Io da lui? Tomo, stai scherzando?”
“No, non sto scherzando. Credo che lui sarebbe felice di vederti. E credo che ora siete pari e tu puoi capire cosa abbia provato lui quella sera a Parigi…” le disse, buttandola lì come aveva fatto Maelle un’oretta prima. Miriam lo guardò e pensò che tutti erano d’accordo su quella faccenda. Mangiò un pancakes in silenzio, guardando Tomo che le sorrideva e sperava che il suo discorso fosse andato a parare sui punti giusti.
“D’accordo, ci andrò. Ma solamente perché se andrà male potrò riavere i tuoi pancakes!” sentenziò alla fine Miriam. Tomo rise e le diede un bacio sulla fronte, rassicurandola: “Te ne farò quanti vuoi anche se andrà bene, francesina!”. Poi la lasciò preparasi in pace.

Scese di nuovo al piano terra, dove tutti erano in attesa di notizie: “Andrà a parlarci” annunciò Tomo appena toccò l’ultimo gradino, cercando di non farsi sentire da Miriam, che tuttavia sentì tutti i gridolini di gioia degli amici: accostò di nuovo la porta e pensò che quelle persone erano quanto di più famigliare avesse nella vita. Pensò in quel momento di chiamare sua mamma, e raccontarle qualcosa di LA. Passarono al telefono qualche minuto, e Miriam si stupì di quanto la sentisse vicina, così senza neanche accorgersene le raccontò di Jared, partendo da quella litigata a Parigi, finendo a quello che era successo quel pomeriggio e chiedendo poi: “Mamma, cosa dovrei fare?”

“Miriam, lo ami? Perché se lo ami devi andare da lui. Non sei stata corretta a non lasciargli neanche la possibilità di spiegarsi quando era qui, e per quanto il suo comportamento sia stato infantile, credo che tu meriti di essere di nuovo felice come quando eri con lui… come hai detto che si chiama?” le rispose.
“Jared, mamma, Jared… che fai, inizi ad abituarti?” la prese in giro sua figlia.
“Beh, Miriam, prima o poi vorrò conoscerlo. Potremmo portarlo sai dove?”
“Si, mamma al bistrot sugli Champes” la interruppe Miriam, ridendo e pensando che certe cose non cambiano proprio mai, ma possono diventare una bella tradizione. 
“Si, brava proprio quello!” si eccitò sua madre. Era bello parlare con lei, pensò Miriam.
“Senti io vado dai, e mamma… grazie!”
“Di nulla amore, stai bene e chiamami… ah, buon anno piccolina!” le disse infine. Attaccarono entrambe guardando il cielo: forse quella storia era servita a farle ritrovare, se non ad altro.

Miriam aprì l’armadio e scelse un vestito rosso scuro con un paio di sandali neri. Poi si sistemò i capelli in una coda bassa laterale, lasciando qualche ciocca che le incorniciava il viso, e cercò di sistemare anche il trucco, nonostante si vedessero gli occhi gonfi e le guance troppo rosse. Fece un sorriso allo specchio per darsi coraggio e scese le scale.

“Shannon, scusa, puoi venire un attimo?” disse affacciandosi in cucina. L’uomo sorrise e le andò incontro, ascoltando quel che aveva da dirgli: “Senti, io ho bisogno di parlare con Jared. Dove posso trovarlo?”
“Vieni con me” le disse, guidandola fuori. Chiamò un taxi e diede la tassista l’indirizzo del loro studio, poi chiuse la portiera e disse a Miriam: “Chiamami per qualsiasi cosa, ma dagli una possibilità”. Lei annuì e gli sorrise, sicura che non sarebbe stato facile.

Arrivò dopo circa venti minuti di viaggio, in cui il tassista cercò in tutti i modi di attaccare bottone senza risultati: Miriam era così tesa che non voleva proprio ascoltarlo. Bussò piano e nessuno le aprì, pensò che Shannon si fosse sbagliato e che Jared non fosse lì, ma poi vide un bagliore alla finestra che rivelava la presenza di qualcuno. Bussò di nuovo e di nuovo e ancora. Alla fine, esasperato, Jared andò ad aprirle: quando la vide la trovò bellissima e per un momento la sua espressione tradì quel pensiero, ma si ricompose subito. 

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Capitolo 11
*** Io so che ti amo ***


Bella gente, saaaaalve! 
Un nuovo aggiornamento, il primo di agosto: a questo proposito, 
vorrei avvertirvi che la settimana prossima sono fuori Roma,
quindi mi sarà impossibile aggiornare. 
Se riesco posto un capitolo prima di partire, ma non vi prometto nulla! 

Detto ciò, vorrei dire una cosa: 
grazie ad Echelon Italia! 
E' bello fare parte di voi, giorno dopo giorno! 
La settimana scorsa c'è stato il panico per via di Jared e Shannon,
che si divertivano a saltellare per la Penisola,
ed io davvero non ho mai riso così tanto come con voi!!! 
Siete unici! 

Bene, sviolinata a parte, già ho parlato troppo, quindi vi lascio all'undicesimo capitolo!

Buona lettura!
Bibi


 
Io so che ti amo

 
“Ah, sei tu”
“Ciao, Jay” disse lei, dolcemente. “Posso entrare?” chiese poi, vedendo che lui non accennava a lasciarla passare.
“Si, certo, vieni” le disse poi.
“Carino qui”. Miriam tentava di sciogliere il ghiaccio che vedeva ovunque, ma con scarsi risultati.
“Devi dirmi qualcosa?” la liquidò lui subito, poco garbatamente. La sua presenza gli faceva più male di quanto volesse ammettere. 
“Volevo parlarti” ammise lei, guardandolo di nuovo.
“Dimmi”
Miriam fece una pausa lunga, e poi iniziò a parlargli, sincera:
“Mi dispiace Jared, per tutto quanto. Però tu sai che quelle foto sono cazzate” iniziò Miriam, sperando che quello fosse un punto di contatto.
“Non è questo il problema, Miriam” la raggelò subito Jared.
“E qual è allora, Jared? Se accettassi di parlarmi davvero, invece di continuare ad essere telegrafico” gli disse, esasperata.

Jared la guardò, poi andò a sedersi ad uno sgabello dietro un pianoforte e iniziò ad accarezzare i tasti non dicendo nulla. Miriam si rese conto di esserne follemente innamorata, guardandolo lì dopo quasi un mese di nulla, ma davvero non riusciva ad arrivare a lui, a toccare il suo mondo, era come se lei fosse fuori la sua teca di cristallo e non riuscisse a rompere un vetro per entrare. Era frustrante per lei: neanche chiedergli scusa portava a nulla di positivo.
Decise di rimanere a guardarlo e aspettare, forse lui si sarebbe deciso a far uscire lei, ma sopratutto se stesso da quell’empasse. Alla fine, dopo minuti di silenzio, lui la guardò e disse: “Miriam, mi manchi, davvero”. A lei sembrò di sognare e mosse un passo verso Jared, che però la bloccò alzando una mano, prima di continuare: “Però tu ed io siamo su due mondi diversi e questo per me è pericoloso. Ho sperato che potessimo capirci, ma non è andata così. Tu sei a Parigi ed io qui, tu hai ventisette anni ed io quarantadue, cosa potremmo mai dirci? Per quanto ci faremo del male? E poi Miriam io non posso controllare, come avrai visto, i giornali e tu vedresti sempre schifo. Non posso permetterlo”. La sua voce era calma e rassegnata, Miriam avrebbe giurato di sentirci dolore quasi, ma non riusciva a credere alle sue orecchie: non avrebbe lasciato che Jared la liquidasse così.


“Sapevamo tutto questo anche a settembre, Jared. Cosa è cambiato?”
“Che me ne sono accorto, Miriam” le disse lui, ora più duro.
“Sono tutte stronzate e tu lo sai. Perché me le stai raccontando? Tu sei innamorato di me!”
“Miriam, siamo diversi: prima lo capirai, meglio sarà” chiuse il discorso Jared.

Miriam lo ignorò e gli andò vicino, senza dirgli nulla, senza toccarlo, senza fare niente, gli rimase solo vicino, facendogli sentire il suo odore, la sua presenza, il suo fiato. Jared serrò i pugni smettendo di suonare: doveva tenere il suo controllo, per se stesso e per lei. Non sapeva perché, ma doveva allontanarla, doveva restare sul punto e non permetterle di entrare di nuovo a contatto con lui, ma era difficile finchè lei avesse continuato a respirargli così vicino. Cercò tutto l’autocontrollo di cui era capace, di cui sapeva di essere capace, e non disse assolutamente nulla, perché aprire bocca gli avrebbe tolto la concentrazione. Miriam rimase lì, immobile, per molto tempo, poi piano alzò una mano e prese una ciocca dei suoi capelli per giocarci: la alzò fra le dita e la attorcigliò intorno ad esse, lasciandola poi cadere sulla spalla di Jared e riprendendola ancora, stavolta toccando la sua maglietta, sotto alla quale la pelle di quell’uomo era tesa. Jared chiuse gli occhi e sussurrò: “Ti prego, Miriam, ti prego”.

“Non sto facendo nulla, Jay. Sto solo cercando un contatto con te, perché so che ne siamo capaci, e voglio capire perché tu mi stai escludendo dalla tua vita. Non può essere solamente per quella litigata: ti sto chiedendo scusa” gli rispose dolcemente, con la voce bassa e calma.
“Ti ho perdonato, ma non voglio più averti intorno” le rispose, cercando di allontanarla con la cattiveria, ma lei, anche se ferita da quella frase, rimase lì, più testarda di un mulo: sua madre le aveva detto che se amava quell’uomo avrebbe dovuto inseguirlo, e lei le stava dando ragione, stava inseguendo l’uomo che aveva scoperto, forse troppo tardi, di amare.
“A me non interessa. Alzati, guardami negli occhi e dimmi di sparire” lo provocò, sentendo di avere più paura di quello che credesse.

Jared si alzò di scatto mettendosi davanti a lei e respirando forte. Aprì bocca per dirle quello che lei gli aveva chiesto, ma se la trovò davanti, così vicino, con gli occhi che lo sfidavano a vivere, e l’unica cosa che sentì di voler fare fu di possederla in quel momento.
Ci pensò su qualche attimo, poi lei aprì leggermente la bocca, lasciando uscire un sospiro caldo che fu letale: Jared la spinse contro il muro e iniziò a baciarla con foga. Tutto quello che non si erano dati e detti in quel mese era impresso in quel bacio caldo e intenso, in quelle mani che la toccavano ovunque e le alzavano il vestito per sentire la sua pelle a stretto contatto.
Le prese una gamba e gliela alzò, lasciando le sue dita scorrere per tutta la sua lunghezza e sentendo i suoi muscoli tesi aderire al suo corpo.


Miriam si lasciò sopraffare, si aggrappò a lui, passò le sue mani sulla schiena di Jared e sentì il suo corpo che premeva contro il suo, in maniera così passionale e animalesca che quasi le mancava il respiro. Non avrebbe voluto che lui smettesse per niente al mondo: era il più bel San Silvestro della sua vita!
Continuò a baciarlo, a cercare la sua bocca, a giocare con la sua lingua, fino a che non sentì il bisogno di sentire la sua pelle e iniziò a spogliarlo. Quando lo vide a torse nudo e lui le lanciò uno sguardo pieno di parole, seppe che era ufficialmente partita, che non sarebbe più tornata.

Lui le slacciò la chiusura lampo del vestito in un attimo e lasciò che questo cadesse a terra senza problemi, lasciandola in slip e reggiseno: la ammirò e pensò che le era mancata quasi troppo, che quel corpo lo aveva sognato ogni notte, pur continuandosi a mentire spudoratamente. Le baciò i seni e finì di spogliarla in pochissimi immensi attimi, poi la guardò e cercò di nuovo la sua bocca. Si liberò dei suoi ultimi indumenti e con dolcezza e un solo colpo la penetrò, facendole mancare il fiato e serrandola addosso alla parete.
Non importava che non stavano usando precauzioni, non importava che fossero in piedi appoggiati ad un muro, non importava che c’erano stati pochi preliminari: la loro voglia di appartenersi era più forte di tutto.

Iniziò a danzare dentro di lei, continuando a toccarla ovunque, e sentendola fremere sotto di lui, raggiunsero l’orgasmo insieme, urlando dal piacere e dal bisogno che avevano di amarsi ancora. Poi Miriam lo guardò e con voce roca disse: “Era questo che intendevo prima, quando ho cercato di dirti che non possiamo stare lontani”. Lui le accarezzò i capelli e la bocca con le dita: sembrava una creatura fragile, ma aveva una potenza nel corpo e nel cuore che poteva far tremare i muri. Non seppe cosa dirle perché si stava accorgendo che lasciarla andare sarebbe stato impossibile, ora, ma i loro problemi erano innegabili, e non potevano essere tutti risolti con il sesso, per quanto pazzesco fosse.


La guardò dolcemente, perchè dire quello che voleva dire era più difficile che mai. 
“Miriam, abbiamo dei problemi” cercò di riportarla alla realtà. Lei sorrise, lo sentiva ancora addosso a lei, ancora dentro di lei, come se lasciarla andare avrebbe significato rivivere tutta l’angoscia dell’ultimo mese. Lo baciò di nuovo e rispose: “Li risolveremo”, era fiduciosa perché ora aveva scalfito la sua corazza.

“E come?” tornò duro lui, allontanandosi e riprendendo i suoi vestiti. Era stato un momento di debolezza che avrebbe reso tutto più difficile: se solo avesse potuto avrebbe azzerato tutte le loro distanze e l’avrebbe tenuta per sempre lì con lui, e si stupiva di se stesso quando pensava cose così grandi.

“Questo non era un addio, chiaro?” gli rispose lei, dolce ma risoluta. Aveva capito che doveva costringerlo a guardare le cose come davvero stavano, perché altrimenti lui si sarebbe convinto di una storia che non era vera.
“Possiamo fingere che non lo sia, se vuoi”
“No, l’unica cosa che possiamo io e te è provarci”
“Quanto sei testarda, bambina?” le disse, guardandola per la prima volta dopo essersi allontanato da lei. Le andò di nuovo vicino e la accolse in un abbraccio che sapeva di pace, di chiarimenti e futuro. Lui avrebbe solamente voluto che fosse un abbraccio di addio, invece.

“Posso rimanere qui?”
“E’ Capodanno… i tuoi amici non hanno organizzato niente?” le disse, facendo finta di non sapere, anche se Shannon aveva tentato in tutti i modi di trascinarlo alla cena.
“Sono anche tuoi amici e potresti venire anche tu” chiese speranzosa lei.
“No” chiuse subito il discorso Jared. Era troppo presto perché tutta la tempesta fosse passata così, loro dovevano ancora parlare di troppe cose prima di dire al mondo che il sole era di nuovo alto nel cielo.
“D’accordo, allora resterò qui con te. A meno che tu non abbia impegni” aggiunse in fretta.
“No, la mia amante californiana questa sera è con suo marito. Mentre quella asiatica, beh il fuso orario è troppo per farci sesso via Skype” la prese in giro lui, senza ridere troppo.
“La smetterai mai di punirmi?” chiese Miriam, leggermente scocciata.
“Il giorno che sentirò che ti fidi di me, Miriam. Qui la questione non è l’età, la distanza o chissà cosa: siamo io e te. Io faccio questo lavoro e sono per la maggior parte del tempo in giro, non posso tornare a casa tutte le sere e portarti dei fiori, non sono fatto così, e tu devi chiedere a te stessa se ti sta bene. Se ti sta bene vedermi sui giornali, se ti sta bene che io passi mesi e mesi sui set cinematografici o in tour, se ti sta bene vederci una volta e poi sentirci per telefono per altri due mesi, forse tre o magari sei. Devi chiederlo a te stessa e darmi una risposta, ma devi essere onesta” le disse.
Era la prima volta che era davvero sincero e aperto con lei. Era una domanda difficile, pensò, e questa era la prova del nove: dire di si ora, avrebbe significato chiudere gli occhi e lasciarsi portare dagli eventi, e non potersi tirare indietro dopo un paio di settimane, o magari un mesetto. Sarebbe stato scorretto e lei lo capiva.

Rimase in silenzio, fissandolo, ancora scomposta e bellissima. Poi lui le disse ancora: “Ecco, vedi, questa cosa ti ha mandato in crisi. Ma questa è la realtà, Miriam, non io e te che scopiamo addosso ad un muro, perché quella è solamente la parte bella”. Era crudo, ma vero e forse era l’unico modo per uscirne. Rimase a guardarla in silenzio, lottando fra la speranza che lei rispondesse a quella domanda e la paura che lei sparisse per sempre. Era ancora mezza nuda, bellissima, senza vergogna, senza un minimo di pudore: i capelli le cadevano sulla spalle, e il suo corpo era mozzafiato, ma tutto quello che Jared riusciva a guardare erano i suoi occhi scuri. Forse, per la prima volta, aveva trovato degli occhi più belli dei suoi. Ma la risposta di Miriam non arrivava, e lui si voltò sconfitto, infilandosi la maglietta e rimanendo con lo sguardo verso il pavimento e le mani sui fianchi: aveva perso, lo sapeva bene, ed ora la speranza si era tramutata nella voglia che lei andasse via il prima possibile. Ma mentre stava per cacciarla, per non soffrire ancora, la sentì parlare.


“Jared, a me sta bene” disse sicura dopo un tempo interminabile. Non sapeva in cosa si stava cacciando, ma voleva lui, in tutto e per tutto.
Jared rimase di spalle, ma alzò la testa, incredulo: 
“Lo dici ora perché sei qui, abbiamo fatto l’amore, possiamo stare insieme anche stanotte e magari domani. Ma cosa ne sarà la settimana prossima quando tornerai a Parigi e cosa ne sarà quando fra un paio di mesi io inizierò il tour? Te lo sei chiesto davvero?”
“Jared, non mi metterai paura, non ce la farai. Io so che ti amo, ti amo davvero e voglio provare il tutto per tutto per stare con te. E se questo volesse dire annientarmi, correrò il rischio. Forse fallirò, ma ti assicuro che non mi arrenderò prima di vedermi cadere esausta” gli urlò contro lei.

Jared rimase a fissarla: ti amo, gli aveva detto ti amo. Non sapeva come reagire, come affrontare la cosa, come uscirne o entrarci totalmente. Si girò lentamente, come se fosse stato colpito a morte da qualcosa di immensamente più grande di lui. Miriam si sentì sempre più forte e si infilò l'abito. Raccolse le sue scarpe da terra e  gli passo accanto, dicendogli: “Ora sei tu che sei in crisi, Leto”. Non lo guardò, non si fermò, dentro aveva una tormenta di neve che si sarebbe placata solamente se lui l'avesse fermata, ma l'orgoglio era forte e lei aveva già messo troppo da parte. Continuò a cammianare verso la porta. 


Jared la vedeva andare via, la vedeva allontanarsi, incapace di muoversi. Ti amo. Solo la sua scia di profumo lo destò: fece un lungo passo e la prese per un braccio costringendola a voltarsi, urtando contro di lui, che la tenne saldamente ferma fra le braccia: “Vuoi stare con me davvero?” le chiese a bruciapelo.
“Si” gli rispose lei, candidamente, senza lasciare che passasse un solo secondo. 
“D’accordo, allora iniziamo da qui, ma niente cazzate Miriam” e la baciò. Sembrava più un ultimatum e sicuramente un “ti amo anche io” sarebbe stato più classico, ma Miriam sorrise felice perché iniziava a capire l’uomo che aveva davanti.
“Posso rimanere qui ora?”
“No” le disse solamente. Poi prese le chiavi e spense tutte le luci, trascinandosela dietro.

Salirono in macchina e Jared partì sfrecciando per le strade di Los Angeles. Miriam non aveva domande e aveva poggiato la testa al sedile, canticchiando le canzoni che la radio passava e godendosi la gamba di Jared stretta nella sua mano. Chiuse gli occhi assaporando quel momento: era davvero sicura di tutto quello? Non avrebbero di nuovo sputtanato tutto? Gli inizi fra di loro erano sempre magnifici, ma la routine tendeva a spezzare gli equilibri. Miriam pensò che in quel momento era molto felice, ma la paura non era svanita e aveva un senso di incertezza nel cuore che le faceva male. Quando riaprì gli occhi lo fece solo perché aveva bisogno di vederlo accanto a sé: Jared era bellissimo e rilassato, guidava tranquillo verso chissà dove e Miriam sentì solamente la voglia di averlo addosso. Quell’uomo era una malattia vera e propria.

Miriam si rese presto conto che Jared l’aveva riportata a casa e si sentì delusa: non erano servite a niente tutte quelle chiacchiere? Si irrigidì e sentì le lacrime salirle agli occhi, ma non disse nulla. Gli accarezzò la guancia e scese dall'auto, senza dire niente, avviandosi verso il vialetto: non sapeva se essere felice o meno e la raffica di domande, seppur silenziose, che le sarebbero arrivate di lì a poco non aiutava certo a mantenere la calma. Perchè non sapeva bene cosa dire, cosa rispondere, era confusa. Che gran casino, pensò, mettendo la chiave nella toppa.

Jared la vide entrare e sparire dietro la porta della villetta bianca e poggiò la testa al sedile: lei era una droga e lui ormai era assuefatto, quello era certo. Ma quanto era pronto a cedere per averla accanto? Guardò di nuovo il portoncino della villetta e prese una decisione incredibile: essere irrazionale, chiudere gli occhi e buttarsi. In un minuto scese dalla macchina e raggiunse la porta, bussando energicamente, sperando che aprisse proprio lei. Di nuovo, come qualche ora prima. 

Non ebbe fortuna: si trovò davanti Tomo, che lo guardò ridendo e battendogli un pugno sul petto. 
"Ehi, c'è un posto in più?" gli chiese. 
"No, certo che no, idiota" rispose l'amico, lasciandolo entrare. Jared attraverso il piccolo ingresso cercandola con gli occhi e la trovò in piedi, che sorseggiava un drink: la fissò e piano sorrise, un sorriso che diceva forse tutto. In quel momento non c'era nessuno se non loro due che tentavano ancora di farcela, insieme. Miriam lo raggiunse e lo abbracciò stretto, non dicendo nulla, perchè in certi casi le parole rovinano solamente tutto. 

Jared rispose all'abbraccio, baciandole i capelli e sentendo il suo profumo inebriante. Poi Emma li portò alla realtà: "Finalmente siamo tutti, direi". 


Passarono una serata tranquilla, mangiarono, chiacchierarono molto e risero tutti: erano felici, finalmente tutti quanti. Shannon non perdeva occasione di toccare la pancia di Emma, che sembrava davvero più raggiante e luminosa: Jared la guardò e pensò che si sarebbe complicato tutto, nei mesi a venire, ma era sereno e mettendo un braccio attorno alle spalle di Miriam, sperò che tutto stava andando per il verso giusto.

Passò mezzanotte, uscirono nel giardino a guardare i fuochi d’artificio che Los Angeles stava regalando loro: da lì si poteva vedere la città, ed era uno spettacolo raro.
“Buon anno, Jay” disse dolcemente Miriam all’orecchio di Jared. Lui la prese fra le braccia e sussurrò: “Sarà un bell’anno, vedrai”. Poi le sfiorò le labbra piano e tornò a guardare il cielo.

Quando tutti furono rientrati, Shannon prese da parte Jared per parlargli.

“Cosa avete combinato?” gli chiese.
“Abbiamo parlato” rispose Jared.
“Di tutto? Davvero di tutto?” incalzò il fratello.
“Shan, abbiamo parlato e abbiamo deciso di riprovarci” tagliò corto Jared.
“Devi proteggerla, Jared. Detto ciò, buon anno, e speriamo che lo sia” chiuse, più rivolgendosi a se stesso che al fratello. Jared capì e gli diede una pacca sulla spalla: “Andrà bene, Shan. Sarà un bel momento. E poi Emma è forte, ti aiuterà.” Shannon lo guardò perplesso, abbozzando un sorriso, poi rientrano in casa.

Nel frattempo Miriam era in cucina intenta a sistemare, o almeno a provarci: la realtà era che il nervosismo stava scemando e lei non voleva che tornasse, così si era messa a fare qualcosa. Qualsiasi cosa. Tomo la scrutava dallo sgabello, e dopo svariati minuti le disse: “Ehi, tutto ok?”
Lei saltò per lo spavento, tanto era immersa nei suoi pensieri. Poi gli sorrise e rispose: “Sono un po’ stanca, ma sto bene”.
“Stanca. Hai chiarito con Jared, dovresti essere felice” commentò Tomo, e lei non seppe dargli torto. Sospirò piano, si guardò intorno per essere sicura che fossero soli e poi svuotò il sacco: “Tomo, io sono pazzamente innamorata di Jared, ma non so gestire nulla. Ci sono troppi problemi, troppi casini, ho paura di sputtanare tutto. Di nuovo”, respirò forte e abbassò lo sguardo.
L’uomo sorseggiò il suo Martini e le rispose: “Ho lasciato mia moglie. Prima di Natale, per questo lei non c’è. Ma non per Kiki, lei è solo capitata, i problemi c’erano da molto prima e sono stati sviscerati talmente tanto che fatico anche a ricordarmi quando sono iniziati ormai. Il punto è che ce li siamo creati noi, insieme, ed ora abbiamo sputtanato tutto, insieme. È andata così, non mi lamento di niente, e Kiki credo sia importante per me. Però sai, con mia moglie ho vissuto una vita intensa e non è facile sbarazzarsi di ricordi e tutto il resto. È tutta fuffa che vorresti non avere fra i piedi, e che invece ti capita davanti ogni giorno, e non è facile. Però devi viverci, e quindi vai avanti. eravamo felici e ad un certo punto abbiamo iniziato a creare problemi, io e lei, insieme: non è colpa di nessuno in particolare, abbiamo semplicemente iniziato a creare casini dai quali poi non siamo più usciti. Il punto non è sputtanare tutto, Miriam: il punto è che nel momento in cui arrivi a pensare che ci sia davvero qualcosa da sputtanare, ci sei già dentro fino al collo. E allora è inutile remare contro”. La guardò con un sorriso sghembo e diede una generosa sorsata al Martini.

Miriam era sconvolta: aveva intuito che fosse una specie di segreto e non voleva tradirlo. Non sapeva neanche fino a che punto Tomo stesse male, visto che continuava a tenere in piedi la storia con Kiki. Già, Kiki: che ruolo aveva Kiki in tutto quello? Per un momento pensò all’amica, così presa da quell’uomo, poi capì che non era per avere una spalla su cui piangere che Tomo le aveva fatto quella rivelazione. Ma per farle capire qualcosa.

“Mi dispiace, Tomo, davvero. E temo di aver capito che dovrei smetterla di lamentarmi e vivermi solamente quel che mi accadrà con Jared” disse a bassa voce.
“Ottima deduzione, sorella!” rispose lui, poi roteò lo sgabello e saltò per terra iniziando una strana danza. Andò via dalla cucina, lasciandola sola con quelle parole nell’aria. Miriam si sentì più leggera e sentì un’improvvisa voglia di stare con Jared. Mollò piatti e stoviglie, si asciugò le mani e corse a cercarlo. Lui era in salotto, seduto sul divano a chiacchierare con Emma; non appena la vide le sorrise e lei gli piombò accanto, abbassandosi sulle ginocchia quel tanto che bastava a potergli parlare nell’orecchio. Emma capì e, discreta, girò lo sguardo.
“Ehi, possiamo stare un po’ soli?” gli disse.
“Vuoi andare via?”
“Possiamo anche andare nella mia camera, basta che siamo solo io e te” rispose Miriam. Nella sua voce c’era urgenza e Jared la colse tutta, non sapeva perché, ma aveva capito che Miriam aveva necessità di allontanare tutti per un po’ e stare solamente con lui. Si alzò tranquillamente, la prese per mano e disse ad alta voce: “Buon anno gente, ci vediamo”, poi semplicemente prese la porta di casa ed uscì, portandosela dietro. Miriam adorava quel suo modo di fare, così banale e senza problemi apparenti, lei non riusciva a farlo suo, ma credeva fermamente che se ci fosse davvero riuscita, tutto sarebbe andato per il verso giusto.

Respirò l’aria notturna di LA, dove c’era gente per strada che urlava e festeggiava, e salì in macchina dopo che Jared le ebbe aperto la portiera: non chiese dove stavano andando, perché in realtà non le importava molto. Lui guidò sicuro e in silenzio, con un’espressione serena in volto, quel volto che Miriam amava guardare e che le era mancato così tanto. La portò a casa sua, la guidò attraverso un giardino curato e pieno di piante e la fece entrare da una porta di vetro. Tutto dentro rifletteva quel che era davvero Jared: c’erano fotografie di lui e Shannon, prese da concerti, di Tomo in studio, della madre, e di Haiti, c’erano fotografie quasi ovunque e un buon profumo sparso nell’aria.


Jared continuò a non dire nulla, voleva che fosse lei a dirgli con i suoi tempi, dove e se c’era un problema. Miriam era a disagio e non voleva creare un’altra guerra, ripensò alle parole di Tomo e piano andò verso Jared. Lo abbracciò con semplicità, poggiando il lato del viso al suo petto, e sentendo che le sue braccia la stringevano. Il suo cuore batteva ed era la migliore musica di tutti i tempi. A quel punto parlò: “Jared, mi dispiace davvero di aver dubitato di te” gli disse chiudendo gli occhi.
“Forse dovremmo parlare di quelle foto, non credi?” le rispose lui. Entrambi pensavano che nonostante avessero deciso di sotterrare i problemi, avrebbero dovuto parlare prima o poi, perché era chiaro che non avrebbero potuto semplicemente dimenticare e andare avanti. Ma delle foto si doveva parlare davvero? Miriam si irrigidì di colpo: quindi voleva dire che c’era qualcosa sotto, che lei ci aveva visto giusto, non ci poteva credere. Non disse niente, aspettando che fosse lui a continuare: “Dunque, la situazione è questa: posso anche accompagnarmi con mia madre, diranno che è la mia amante. Sarà così sempre, per tutti i giornali, non c’è verso di farli smettere e tu stessa ne sei stata vittima. Quindi, il punto è fregarsene ok?”.
“Quindi quella…” esitò, parlando piano e non avendo il coraggio di staccarsi da lì. Jared sospirò e le alzò il viso, costringendola a guardarlo negli occhi.
“Quella è un’amica. E’ vero, la conosco, ma ti giuro che non ci sono mai stato a letto. Con tante altre si, in passato, ma non con lei. E comunque…” faticò a finire, ma voleva dirle almeno una cosa bella. “…comunque non penso ad altre donne da quando ci sei tu, ecco”. Si sentiva a disagio, perso in quella che sembrava l’esternazione di un innamorato. Miriam non seppe cosa provare e cosa dire. Optò per una cosa classica ma mai scontata: “Ti amo, Leto” gli disse, sicura che le quelle parole le sarebbero tornate indietro prima o poi. Lui le sorrise e la baciò solamente.

Si sedettero sul divano, Miriam tolse le scarpe e si accoccolò fra i cuscini enormi, godendosi la loro morbidezza immensa: si sentiva improvvisamente bene, e tenne a mente di ringraziare ancora Tomo.
“Dunque, parliamo di quando ci rivedremo?” disse poi Jared, abbracciandola.
“Io torno a Parigi dopo domani, Jay. Purtroppo avevo pochissimi giorni di ferie e già ho fatto una mezza pazzia così” rispose Miriam, quasi scusandosi.
“Ok, io a febbraio inizio il tour. Le date non me le ricordo bene, ma sono abbastanza sicuro di passare in Francia” rispose lui, calcolatore come sempre.
“Perfetto, posso raggiungerti in qualsiasi città con un treno. O se sei abbastanza vicino puoi venire tu a Parigi un paio di giorni” propose Miriam, felice.
“Si, un modo lo troviamo. Poi però volo in Asia per tutta la primavera, lì sarà un problema”.
“Capisco. E non ripassi dall’Europa prima di tornare a casa?”
“Potrei, non so, devo parlare con Emma e i ragazzi e vedere com’è messo il calendario”.
“Certo, magari in estate potremmo tornare alle Hawaii, che ne dici?”
“Sarebbe bello, dovrei avere qualche periodo di stacco” rilanciò Jared, abbassando il tono di voce e baciandola dolcemente. Miriam si sentiva in paradiso, anche se quell’organizzazione folle sul come e dove vedersi la stava mandando in crisi. Non disse niente e sperò che quella sensazione passasse al più presto. Jared sembrò capirlo e tentò di fargliela passare con la dolcezza: quando le aveva detto che la sua vita era quella e che se avesse accettato, avrebbe dovuto farci i conti non scherzava, per quanto duro fosse sembrato, aveva tutte le carte in mano per dirglielo. Ed ora aveva davvero paura che lei si tirasse indietro, o piuttosto che lei si facesse male pur di restare con lui.
“Va bene, quindi sicuramente ci vediamo a febbraio, per il resto navighiamo a vista! Se riesco a prendere qualche giorno di ferie, posso raggiungerti in qualche posto sperduto dell’Asia, se ti va” aggiunse, per placare il suo senso di disagio.
“Se ci riesci perché no. Ti faccio mandare il calendario completo da Emma via mail”. Era una conversazione folle, specialmente se fatta il primo dell’anno, ma Miriam pensò che aveva accettato e la sua vita ormai sarebbe stata scandita da concerti, e chissà che altro. Era entrata nel tunnel e non sapeva quanto il suo carattere fosse tagliato per tutto quello, forse non ci aveva mai pensato davvero. Si strinse a Jared, perché il suo calore la calmava, e quando decisero di andare a letto non chiuse occhio fino alle prime luci dell’alba. Fu strano: non fecero l’amore, Jared la invitò sotto le lenzuola e le diede un bacio tenero e casto, poi semplicemente le disse “Buonanotte”. Era la buonanotte di due amanti che iniziano a vivere una vita insieme, che iniziano a far scandire il tutto dalla quotidianità, quella stessa quotidianità che di lì a poco non avrebbero più avuto. Forse lui ne era molto più conscio di lei e voleva apprezzare quei rari momenti di normalità che avrebbero avuto di lì alla primavera, forse invece lei non ne era così convinta e ci rimase male di quello che sembrava quasi il rifiuto di un uomo che preferisce dormire. 

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Capitolo 12
*** Promessa numero uno ***


L'aggiornamento prima delle vacanze è arrivato! 
Spero di riuscire a regalarvene un altro prima di lunedì,
ma non vi assicuro niente! 
Perciò godetevi bene questo e nel caso: buona settimana di Ferragosto a tutti! 

PS. oggi inizia il Carnivores Tour, negli States. 
ANSIA!!!!!!!!! 
E pensiero di tutta la giornata: sono nata nella parte sbagliata di mondo!!!

Buona lettura e tanti baci! 

 
Promessa numero uno


Si svegliarono tardissimo, con la luce del sole che inondava la stanza bianca. Quella casa era quasi tutta bianca e Miriam stava seriamente pensando di mollare tutto e andarci a vivere: l’idea della fuga era sempre nei suoi piani, quando trovava un posto che la faceva stare bene.

“Buongiorno, bambina” le disse dolcemente Jared nell’orecchio, facendole il solletico. Miriam aveva dimenticato la delusione di qualche ora prima, e in quel momento pensava che svegliarsi con lui accanto era davvero la cosa migliore dell’universo. Pensò che forse era stato bello dormire e basta, che a volte dormire e svegliarsi insieme è più di fare sesso tutta la notte. E' sintomo di una conoscenza che va oltre la carne, è sinonimo di un'intimità profonda, molto più profonda di mille altri frammenti. Fu felice e sorrise istintivamente.

“Buongiorno” gli rispose, ancora insonnolita. Si girò e lo abbracciò forte, come se fosse davvero una bambina che chiedeva qualche minuto di sonno in più. Jared però non era convinto di volerglielo dare, perché iniziò a toccarla in maniera provocante e questo provocò in lei una sveglia immediata.

“Questo mi mancherà davvero” le disse nell’orecchio, dopo aver fatto l’amore due volte.
“Solo questo?” finse di offendersi lei. Mise il broncio e lo guardò storto.
“Si, credo di si” la prese in giro lui, divertendosi.
“Stronzo!” urlò lei, tirandogli una cuscinata in piena faccia. Risero così tanto da avere i crampi alla pancia, poi si alzarono per fare colazione. Andarono in cucina con degli asciugamani avvolti sul corpo e rimasero così per la maggior parte del tempo: era il primo dell’anno e per Miriam era sempre stato relax assoluto, anche se raramente era riuscita a farlo capire ai suoi. Mentre beveva il caffè pensò a sua madre e decise di chiamarla per farle gli auguri dal vivo, nonostante l’sms della notte prima. Compose il numero sul cellulare, dondolandosi sullo sgabello della cucina di Jared, mentre lui era intento a fare qualcosa sul suo pc.

“Ehi, mamma buon anno!” la salutò allegra, non appena sentì la sua voce dall’altro capo del telefono. E del mondo.
“Tesoro, buon anno a te! Come stai?” squittì sua madre, felice. 
“Benissimo, mamma, davvero! Tu invece?”
“Bene, qui fa freddissimo e c’è molta neve. Tuo padre è andato a sciare, mentre io sono rimasta qui nella spa” rispose sua madre. Miriam sentì la realtà che tornava e nella sua mente cercava un modo per andare a vivere in California. Avrebbe potuto chiedere a Jared di assumerla per guardare casa sua: sarebbe stato un bel lavoro, dopo tutto!

“Qui invece la temperatura è pazzesca, si sta bene con una semplice maglia di cotone e i fuochi stanotte erano davvero belli” rispose Miriam, capendo che sua madre con quella frase non voleva mandarla nel panico o alludere a nulla.
Sentiva che lei era dalla sua parte e glielo dimostrò con la domanda successiva: “E quell’uomo? Come va?”

“Bene anche su quel fronte, mamma. Sono con lui ora” ammise candidamente, guardando Jared e sorridendo appena. Stavano parlando francese e lui non poteva capire, ma si sentì osservato e alzò i suoi occhi azzurri a guardarla. Miriam pensò che per quello sguardo sarebbe valsa qualsiasi pena.
“Davvero? Quindi avete chiarito? Oh, brava piccola, così mi piaci!” le urlò sua madre nell’orecchio. Miriam non credeva a quelle parole: sua madre la incitava a stare con una rock star di sedici anni più grande di lei. Il mondo sarebbe finito di lì a poco, altro che Maya, pensò!
“Si, abbiamo chiarito e sono molto felice. Certo, non sarà facile con i suoi impegni in giro per il mondo e il mio lavoro, ma in qualche modo ce la faremo” rispose lei, sincera.
“Miriam, ora non pensare al dopo. Pensa al presente: è sempre stato un tuo problema rovinarti il momento pensando che passerà. Io non lo conosco, ma mi fido di te e sono quindi sicura che quell’uomo non ti deluderà” disse la donna teneramente. Miriam era commossa dalla fiducia di sua madre, finalmente dimostrata.
“Si, mamma… lui è fantastico” disse, in inglese. Jared capì che stavano parlando di lui e alzò gli occhi di nuovo, sorpreso. Miriam gli toccò il naso piano, come se avesse paura di scottarsi, ma lo fece solo per sentire che fosse vero, che non stesse sognando. Lo sentì sotto il dito e si tranquillizzò, pensando che avrebbe dovuto trovare un modo alternativo per calmarsi quando lui non ci sarebbe stato.
Jared dal canto suo si alzò e andò ad abbracciarla da dietro, tenendo le mani sulla sua pancia e sbilanciandola di un poco dallo sgabello sul quale era seduta, in modo da incollare la sua schiena al suo petto: era bello averla intorno, quella ragazza portava fresco nella sua vita, e nonostante aveva capito che lei fosse preoccupata, sperava davvero di riuscire a far conciliare tutto. Stava pensando che forse non sarebbe servito aggiungere date al tour: Europa a febbraio, Asia in primavera, poi lo stop ed infine Stati Uniti in autunno. Poteva andare bene così, senza andare oltre le date già programmate, e stava pensando di parlarne con i ragazzi e con Emma, d’altronde lei anche avrebbe dovuto riposarsi e pensare a se stessa di lì a poco. Si, lo faceva per Emma e Shannon, si mentì ancora una volta, solo per non ammettere che era innamorato di quella donna.


I giorni passarono troppo in fretta, Miriam cercò di dividersi fra Jared e gli altri, perché davvero voleva che quel momento non finisse mai. Kiki la vedeva raggiante e non si lamentava della sua assenza, per quanto lei avesse passato meno tempo di quel che avrebbe voluto con Tomo. Ma Miriam voleva sinceramente dividersi in tanti pezzi: Jared, Shannon e Tomo, Kiki, Maelle che era stata una nuova ed interessante conoscenza. Era un casino, ma aveva abbastanza energia per non togliere niente a nessuno e far sentire tutto molto importanti. Sorrideva sempre, canticchiava, ballava per casa, era uno splendore e tutti non potevano fare a meno di ridere a crepapelle vedendo l'effetto che quella vacanza le stava facendo. 
Purtroppo però la fine arrivò, e Miriam si ritrovò in camera a fare i bagagli, visto che aveva il volo il giorno dopo. Non riusciva a smettere di essere felice, per quanto già si sentiva male all'idea di lasciare Jared, e gli altri ovviamente, si disse. La verità era che sarebbe rimasta per sempre lì, se Jared glielo avesse chiesto, perchè sapeva che la lontananza sarebbe stata incolmabile e che conciliare le loro vite sarebbe stato più difficile di quel che volevano davvero credere. Smise di pensare ai vestiti e si avvicinò alla finestra della sua stanza, aprendone il vetro e respirando l'aria californiana del due gennaio. Chiuse gli occhi per un momento, e respirò forte, cercando di immagazzinare nei polmoni quanta più aria possibile, poi la buttò fuori e si disse, ad alta voce: tu lo ami, cerca solamente di ricordarlo sempre. Andrà bene, voi potete farlo. 

La sua ultima serata a LA fu bellissima: i ragazzi organizzarono un barbecue nel giardino del loro studio, che in realtà era anche un rifugio, e furono invitati anche alcuni amici e soprattutto la mamma dei Leto. Miriam non era preparata, e quando arrivò con Kiki e Maelle, non se ne accorse subito. Aveva optato per un vestito floreale lungo, con una forma triangolare sul seno, che si chiudeva con un piccolo fiocco dietro il collo, come se fosse un costume. Le piaceva molto, l'aveva preso in un mercatino di Saint Tropez l'estate prima e le ricordava tanto la spensieratezza che porta la bella stagione. 
Aveva abbinato delle scarpe aperte rosse e un bracciale etnico dello stesso colore. 
Nel complesso aveva adottato uno stile minimal, come sempre, lasciando i lunghi capelli color miele sciolti e mossi sulle spalle nude e un trucco molto acqua e sapone. In realtà il suo viso brillava di suo, e non avrebbe avuto bisogno di nessun make up, però il gloss rosso ciliegia che aveva messo faceva risaltare ancora di più il suo sorriso.


Non appena furono entrate, Miriam cercò Jared con gli occhi e lo trovò intento a parlottare con una Emma particolarmente bella. Gli andò incontro a passi veloci, facendo svolazzare il suo vestito, e non appena gli fu accanto, gli stampò un bacio sulla guancia, lasciando qualche traccia di gloss, senza preoccuparsene più di tanto. Gli sorrise raggiante e Jared si sentì invadere di vita: quanto poteva arrivare ad essere una donna? Si chiese, prima di sorriderle a sua volta. 
 

“Ciao, straniero” gli sussurrò, felice.
“Ciao, bambina. Sei bellissima!” rispose lui, ammirandola e mettendole un braccio attorno alla vita, come a voler avvertire tutti gli uomini presenti che lei non era su piazza, né quella sera, né probabilmente mai. Miriam arrossì: quanti sapevano della loro storia lì dentro? C'erano nel complesso una quindicina di persone, molti collaboratori dei Mars, altri amici di vecchia data. Miriam li conosceva di vista, per svariati motivi, ma era sicura che nessuno sapesse della novità che albergava in casa Leto, così abbassò lo sguardo e si sentì in imbarazzo. Poi però lo guardò e pensò che doveva solo essere fiera se lui la trattava così: era un'ammissione in piena regola. 

Si girò verso Emma, e la salutò teneramente: 
“Emma, sei uno schianto stasera!” le disse. Emma era sempre così discreta e serena che Miriam iniziava quasi ad invidiarla.
“Grazie, Miri. Anche tu non scherzi! Questo vestito è pazzesco, mi piace moltissimo!” rilanciò Emma, sorseggiando quello che sembrava un cocktail analcolico.
Continuarono a chiacchierare per qualche minuto, Emma le stava dicendo che qualche giorno dopo le avrebbe mandato tutti i dettagli del tour via mail, e che sicuramente avrebbe aiutato Jared e ritagliare qualche tempo per passare da Parigi. Emma si stava dimostrando molto disponibile, per quanto non fosse espansiva e Miriam non si azzardava ancora a chiamarla amica. Tuttavia era cordiale, sorridente e sempre molto carina con lei e Miriam seriamente non sapeva come ringraziarla, perchè ci era stata nei momenti di crisi e stava dimostrando di esserci anche in quelli sereni. Era quel tipo di persona riservata, che tende a non elargire smancerie e complimenti, ma che sapeva esserci quando ce ne era bisogno davvero.

Dopo un po’, Jared si avvicinò a Miriam, e all’orecchio le sussurrò che avrebbe voluto preserle qualcuno. La prese per mano e la portò davanti ad un tavolo dove c’era seduta una donna non giovanissima, ma di una bellezza disarmante. Miriam non sapeva chi fosse e guardò Jared con espressione interrogativa, fino a quando Jared disse: “Mamma, lei è Miriam”. La ragazza si sentì quasi svenire e riuscì solamente a porgere la mano dicendo un timido “Piacere”. Pensò, mentalmente, di uccidere Jared più tardi, quando sarebbero stati soli e sperò che il suo abbigliamento e la sua figura piacessero alla signora in questione. Questa si dimostrò molto gentile e sincera: “Salve, Miriam. Così sei tu la donna per la quale mio figlio impazzisce da mesi, sono felice di conoscerti”. Miriam restò a bocca aperta. Per mesi? 

“Più che altro fa impazzire me, signora!” azzardò Miriam, sperando che la simpatia fosse ben accetta.
“Io credo che tu abbia fatto più colpo di quel che credi, cara” le disse a bassa voce la donna, non appena Jared si distrasse. Miriam sorrise e basta, sentendo quel senso di disagio crescerle di nuovo dentro al petto. Poi pensò alle parole di Tomo e cercò di calmarsi, cosa che fece non appena sentì la mano di Jared stringere la sua e i suoi occhi sorriderle.

La serata trascorse tranquilla, fu tutto molto bello e rilassato, e Miriam iniziò a sentirsi male all’idea di dover partire il giorno dopo, tanto che smise di sorridere e assunse un’aria molto triste. Shannon la notò e le andò accanto: “Ehi, muso lungo, che hai?”
“Non voglio andarmene, Shan. Voglio rimanere qui, stare accanto a Jared, vivere la sua vita in maniera normale, non da un altro continente. Sono a pezzi” gli rispose, più sincera di quanto avrebbe voluto. Poi abbassò lo sguardo e iniziò a giocare con la cannuccia del suo bicchiere, dondolando il piede.
“Francesina, vedrai che andrà bene. Emma mi ha detto che vuole studiare un modo per farvi incontrare più spesso, sai lei tiene le file di tutto qui dentro! E poi Jared farebbe qualsiasi cosa per te, ed io e Tomo vi aiuteremo. Devi solo stare tranquilla”
“Shan, io non ci riesco a stare tranquilla, perché so che mi mancherà, perché ho paura di dirglielo, perché ho paura di spaventarlo, e perché ho paura di non reggere tutto. Sono una cretina, avrei dovuto sparire come mi aveva chiesto lui. Aveva ragione lui”
“Miriam, stai esagerando. Ora smettila. Possibile che tu non riesca a capire che mio fratello ti sta dando molto più di quanto generalmente concede anche alla sua famiglia?”
“Lo capisco, Shan. Lo capisco…” si difese lei, capendo che l’uomo aveva ragione.
“Senti, se non vuoi andartene rimani qui. Trovati un lavoro, possiamo aiutarti e vieni a vivere in California. Prendi una decisione, però fa che sia quella che ti permetterà di vivere bene, Miriam” rilanciò Shannon, sicuro.
“Non posso. Non ora. Scusami, non avrei dovuto dire niente, promettimi che starai zitto con Jared”, gli chiese.
“Starò zitto, ma tu smettila di vivere in paranoia, francesina!” la ammonì Shannon. Poi si alzò dalla sedia per andare da Emma, che stava parlando con sua madre: guardò le due donne e pensò che era arrivato il momento dell’annuncio.
Erano bellissime e lui le amava entrambe, sperava solamente che sua madre sarebbe stata felice. Si avvicinò con calma, sorseggiando una birra, e pensando che sua madre non sapeva neanche che lui avesse una relazione con Emma. Per Costance, Emma era sempre stata la collaboratrice di Jared e basta, e l’aveva sempre trovata deliziosa. In verità all'inizio era convinta che avesse una cotta per Jared, ma non aveva mai espresso i suoi pensieri, anche se Shannon li sapeva molto bene. 

Si mise accanto alla sedia di Emma, che alzò lo sguardo e gli sorrise, poi semplicemente poggiò una mano sulla sua spalla, stringendola un poco e aspettando che Emma reagisse a quel gesto. Si guardarono ed Emma poggiò semplicemente una mano su quella di Shannon. Si sorridero complici e felici e guardarono entrambi Costance, che iniziò a non capire che aria tirasse.

“Mamma, Emma ed io… aspettiamo un bambino” disse semplicemente, cercando di apparire calmo e tranquillo, ma sentendo un terremoto dentro. La donna rimase di stucco e non riuscì a dire nulla per quel che sembrò un’eternità: ok, aveva intuito che ci fosse del tenero fra loro già durante la serata, ma questa rivelazione.
Diavolo, pensava di arrivare ad una cena con i suoi figli e qualche amico e si era ritrovata a consocere la nuova ragazza di Jared, che pareva fare sul serio stavolta, poi Shannon ed Emma, e poi addirittura un bambino. Era frastornata e la sua espressione non lasciava sperare niente di buono, tanto che Shannon iniziò ad agitarsi sulla sedia.
Poi però Constance si alzò, si allargò in un sorriso e abbracciò stretto suo figlio: non poteva non essere felice, per lui, per loro, per tutta la famiglia che avrebbe visto un piccolo Leto molto presto. Era un ottimo modo per iniziare quell'anno! 
Lo strinse forte, per poi lasciarlo e chinarsi a dare un bacio ad Emma, che fu sollevata nel vedere la felicità in quella donna.

“Congratulazioni, Emma. Questo bimbo è fortunato” le disse, facendole una carezza.
“Si, molto. Anche se Jared ha già detto che se nasce stonato lo disconosce!” riflettè Emma.
“Jared disconoscerebbe anche se stesso, maniaco com’è!” rispose Costance, cercando con lo sguardo il suo secondo figlio. Lo trovò poggiato ad un muro, con Miriam fra le braccia e seppe che forse entrambi erano felici, ora. Si sentì fiera del lavoro svolto e finalmente serena. 

Emma si allontanò lasciando Shannon con sua madre, la quale gli chiese quasi subito: “Allora, da quanto va avanti?”
“Credo da quando l’ho conosciuta, solo che negli ultimi dieci anni sono stato troppo occupato per accorgermene. È diventato tutto serio a settembre” si confidò sincera Shannon.
“Settembre, Shan? Ma non sono neanche quattro mesi!” lo ammonì Constance, credendo che la loro storia fosse in piedi da molto di più. Aveva paura che fosse troppo precaria per un bambino.
“Lo so, mamma. Ci giriamo intorno da prima dell’estate e a settembre ci siamo resi conto di voler stare insieme davvero. Questo bambino non era programmato, è semplicemente arrivato” le rispose Shannon, sentendosi finalmente tranquillo. Guardava Emma chiacchierare con tutti e sorridere serena: avevano deciso di non rivelare a nessun’altro la novità, anche se Shannon non sapeva come fosse possibile che nessuno se ne accorgesse da solo: lei era raggiante, più bella, più dolce, più morbida di sempre. Lui la guardava e la vedeva cambiare giorno dopo giorno, rimanendone incantato. 
“In questa famiglia non si possono mai fare le cose con criterio!” esordì, ridendo Constance. Poi continuò: “Senti, che mi dici invece di Jared?”. Entrambi lo guardarono flirtare con Miriam, poggiati ad un muro, un po’ in disparte. Ridevano molto, si sfioravano in maniera elegante ed erano bellissimi.
“Credo che anche per Jared sia arrivato il giro di boa. La verità è che non sceglieremo più le fan dal pubblico per portarcele in camera, mamma. Stiamo invecchiando!” disse Shannon, ridendo.
“Non ho mai voluto sapere i dettagli e voglio continuare ad ignorarli” rispose Constance alzando le mani e ridendo divertita. “Però lo vedo sereno”
“Si, mamma. Quella Miriam è fenomenale, la adoriamo tutti” la rassicurò Shannon.

Dall’altra parte del giardino, vicino la piscina, Tomo se ne stava seduto su un lettino, sorseggiando un cocktail che sperava gli desse coraggio. Aveva passato con Kiki molto tempo, durante gli ultimi giorni, e nonostante fosse felice di averla intorno, la sensazione di fallimento che era succeduta alla fine del suo matrimonio, non dava sentore di volerlo lasciare. Guardava la piscina davanti a lui e non sapeva come affrontare l’argomento con Kiki, quando lei si avvicinò piano.
“Ehi, disturbo?” gli disse piano.
“No, no, vieni qui” le rispose lui, sorridendo appena dolcemente e invitandola a sedersi accanto a lui con il braccio. Kiki ne fu felice e si sedette fra le sue gambe, così che lui potesse passarle un braccio attorno alla vita e tenerla stretta. Lo guardò in viso e vide un’ombra passare, non le piacque quella cosa, si sentì a disagio.
“Tomo, cos’hai?” chiese piano, mentre lui poggiava il suo mento sulla spalla di Kiki.
“Ho lasciato Vicky, si insomma, mia moglie” le disse con un fil di voce.
“Ah…” fu l’unico commento di Kiki, incapace di dispiacersi, ma sentendosi in colpa.
“Già. Prima di Natale, non ce la facevo più” continuò lui, stringendola sempre di più. Kiki era felice e frastornata, e lo disse prima ancora di pensarci: “L’hai fatto per me? Si, insomma, per noi?”
Tomo sospirò e cercò le parole adatte: “No, Kiki. I nostri problemi c’erano da tempo, tu ci sei solamente capitata in mezzo. Forse hai accelerato il processo, ma niente di ciò che ho deciso è causa tua, credimi” le disse, dandole un bacio sulla spalla nuda. Quel bacio le provocò dei brividi lungo la schiena, come al solito, ma stavolta non era pronta a lasciarsi andare. Era delusa.
“Scusami” disse solamente, sganciandosi da quella morsa e correndo via. Tomo la guardò allontanarsi a grandi passi e sentì la rabbia montare dentro: dov’era la ragazza che diceva di voler stare con lui? Dov’era la donna che lo faceva impazzire a letto e lo chiamava di nascosto?

Dopo qualche minuto decise di seguirla, e la trovò rintanata lì dove sperava che nessuno la notasse: fra gli strumenti della sala prove, seduta accanto alla batteria, mentre accarezzava la chitarra di Tomo, poggiata lì vicino. Rimase in piedi a guardarla, mentre lei era incapace di alzare lo sguardo, benché si fosse resa conto di non essere più sola.

“E’ così che funziona, quindi?” le chiese. Lei non rispose, non lo guardò, continuò a toccare lo strumento come se lui non ci fosse. Tomo raccolse le forze e iniziò di nuovo a parlare: “Non l’ho lasciata per te, ma sono cotto di te come un ragazzino. Sarà un fottuto casino, Kiki, però non credo di riuscire a stare senza di te”.
“Ho aspettato questo momento per mesi. Ho atteso tutti i giorni che mi chiamassi e mi dicessi che eravamo liberi di stare insieme, di non sentirci più in colpa, di viverci. Ed ora che questo momento è arrivato, non riesco a godermelo, non è come lo credevo, è molto più bello” gli rispose, continuando a non guardarlo.
“E allora qual è il problema?” le chiese lui.
“Che forse il fatto di avere un legame profondo con tua moglie, mi lasciava libera di credere che non stavamo facendo sul serio, che potevo ancora scappare.”
“Perché vuoi scappare da me?”
“Perché un giorno capiremo di aver sbagliato e tu tornerai con la coda fra le gambe dalla donna che hai sposato, ed io resterò senza niente, se non con un pugno di ricordi” gli rispose sincera. Tomo la osservò e poi andò a sedersi accanto a lei, per terra, senza toccarla, senza avvicinarla troppo a se. Kiki sentì la sua presenza e si sentì bene, improvvisamente, ma non ancora così sicura da buttarsi fra le sue braccia.
“Vicky mi ha tradito, l’anno scorso. Non una volta, ha avuto una relazione con un altro uomo e approfittava dei miei continui impegni all’estero per essere più libera. Quando l’ho scoperto mi sono sentito l’uomo più idiota della storia. Avevamo dei problemi già da prima, è vero, ma farla finita così era da vigliacchi e da immaturi: quella non è più la donna che ho sposato, e ti assicuro che se anche tu decidessi di andartene ora, io non tornerei con lei” le disse, poi poggiò la testa al muro dietro di lui e chiuse gli occhi, sentendo finalmente il dolore andare via, il cuore alleggerirsi, la testa svuotarsi.
Kiki gli sfiorò un braccio piano, guardandolo solo adesso, e vide che lui non ricambiava quello sguardo, vide che teneva gli occhi chiusi e la bocca serrata. “Mi dispiace”, disse solamente, continuando a sfiorargli il braccio delicatamente. “Mi sono innamorata di te il giorno in cui mi hai sorriso, Tomo” ammise poi, più a se stessa che a lui, capendo che forse era ora di smetterla di crearsi problemi sterili. Tomo, ancora ad occhi chiusi e testa poggiata al muro, rise e le passò un braccio intorno alle spalle, attirandola a sé, sentendone il calore.
Non le disse niente, ma aprì gli occhi e le sorrise.
Finalmente si guardarono e capirono che forse qualcosa poteva iniziare davvero.

La serata finì, forse troppo presto, e i ragazzi si ritrovarono nel salotto del MarsLab a chiacchierare: sarebbe stata la loro ultima serata insieme, e non volevano che finisse. Miriam aveva perso di vista Tomo e Kiki e si chiedeva dove fossero, quando li vide uscire abbracciati dalla sala prove dove aveva fatto l’amore con Jared qualche giorno prima: sembrava che quella più che una sala prove, fosse la sala della pace! Erano sereni in volto, si sorridevano come se si vedessero per la prima volta e tutti capirono che qualcosa era cambiato.

Rimasero a parlare a lungo, poi Emma e Shannon decisero di andare via, così come Tomo e Kiki: forse volevano che Jared e Miriam stessero soli qualche ora, prima del volo. Si salutarono caldamente, Miriam tenne stretti a se prima i ragazzi, poi Kiki e Maelle ed infine Emma, che all’orecchio le disse: “Qualsiasi cosa, chiamami. Andrà tutto bene”. Miriam si commosse e trovò quella frase dolcissima, la ringraziò sentitamente e poi ricacciò indietro le lacrime, cacciando tutti. Appena la porta si chiuse, Miriam abbassò lo sguardo e non riuscì a frenare le lacrime, sentì Jared prenderla fra le braccia e iniziò a singhiozzare: “Ma che cazzo ci sono venuta a fare alle Hawaii, Jay?” gli chiese, lamentosa.
“Bambina, per incontrare me, ovviamente. Dai non fare così”
“Stupido, è che mi mancherete da morire tutti. E poi tu…”
“Io cosa?”
“Tu, cavolo come faccio senza di te?”
“Ehi, abbiamo fatto un patto, ricordi? Ci vedremo più spesso di quel che credi, e vedrai che il tempo volerà” la rassicurò Jared.
“Ok, ok, hai ragione. Cavolo, devo andare a prendere la mia valigia…” ricordò lei.
“No, guarda lì…”. Miriam si girò e trovò la sua valigia lì, accanto al divano. Jared le spiegò che l’aveva portata Tomo prima di andare lì e che quindi lei poteva rilassarsi e non pensare a niente. Miriam prese l’appunto mentale di ringraziare Tomo, l’indomani.
“Ehi, ce ne andiamo a casa?” le propose poi Jared, con voce sensuale. Miriam ci pensò su un attimo e poi lo baciò. Ci mise talmente tanta passione in quel bacio, che Jared si eccitò all’istante e non seppe resisterle: la strinse fra le braccia, iniziò a passarle le mani ovunque e in poco tempo si ritrovarono a fare l’amore addosso ad un muro, come qualche giorno prima, quando si erano ritrovati. Dopo rimasero nudi, per terra, abbracciati: “Promessa numero uno: non dimenticarti di me” gli disse Miriam, mentre si godeva il battito del suo cuore nell’orecchio.
“Promessa numero due: non leggere i giornali” rispose Jared, ridendo.
“Promessa numero tre: Skype” rincalzò Miriam.
“Promessa numero quattro: sesso telefonico con Skype” si fece audace Jared. Miriam scoppiò a ridere: “Jared! Promessa numero cinque: Gennaio sarà veloce e passerà presto!” continuò Miriam, in quel gioco strano ma divertente.
“Promessa numero sei: non innamorarti di un francese. Non mi interessa se siano grandi amatori. Non farlo” chiuse il discorso Jared. Miriam rimase a bocca aperta: era forse la prima volta che le diceva qualcosa di così aperto, che mostrasse i suoi sentimenti. Lo baciò dolcemente e gli promise che mai per niente al mondo l’avrebbe abbandonato. Jared si sentì soddisfatto, ma rincarò la dose, più per scherzare che per altro: “Anche perché mia madre mi ha detto che le piaci, quindi vorrei evitare di faticare ancora per trovare una donna che le vada bene”.
“Leto, cazzo, sciogli quel cuore di ghiaccio!” lo scimmiottò Miriam, alzandosi di scatto per andare a prendere da bere. Jared guardò quel corpo così perfetto muoversi nudo nei suoi spazi, fra gli strumenti e in mezzo ai dossier dei concerti e dei prossimi appuntamenti. Mise le braccia dietro la testa e continuò a guardarla, mentre si dissetava da una bottiglia, i capelli sciolti, le gambe tornite e la schiena meravigliosa. Si alzò velocemente e la raggiunse, abbracciandola da dietro e stringendo le mani sui suoi seni: “Miriam, abbiamo ancora qualche ora, vero?” le disse provocante.
“Esattamente cinque, Leto” rispose lei, fintamente innocente.
“Bene, allora sfruttiamole” le rispose baciandole il collo e facendole venire i brividi. 

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Capitolo 13
*** Le vuoi già bene? ***


Buongiorno a tutti, amici! 
Dunque, eccovi un regalino pre vacanza: 
domani partirò per il mio viaggetto, ma ho pensato di ritagliare una mezz'oretta
di questa giornata di bagagli per pubblicare un nuovissimo capitolo!
Fra un flaconcino di shampoo e una bilancia per non sforare con i chili consetiti da Ryanair 
(te se odia, da tanto proprio), 
ho inserito un luuuuuuungo capitolo di transizione! 
Dunque: Capodanno è passato, Miriam è a casa, i Mars si preparano per il tour...
...cosa succederà?

Vi ringrazio come sempre perchè mi seguite in tanti ed è una vera gioia!! 

Buona lettura, 
Bibi
PS. Auguri a Fran anche qui, per i TRE anni della sua pagina Facebook! <3  

 
 

 
Le vuoi già bene?
 
Alle 12 in punto arrivò all’aeroporto di Los Angeles, sola con la valigia e gli occhiali da sole sul naso. Voleva nascondere una notte in bianco e le lacrime che non riusciva a fermare. Aveva salutato Jared nello studio, dove erano rimasti tutta la notte a fare l’amore: avevano deciso che era meglio che lui non la accompagnasse, per i gossip e forse per qualcos’altro.
Mentre si preparava, fra loro era sceso il silenzio, e nessuno dei due sapeva come sciogliere il nodo in gola che sentivano. Poi Jared le disse una cosa: “Miriam, se credi di non farcela dimmelo ora”. Miriam si sentì colta in fallo, pensando che quell’uomo era un osservatore nato, molto più di quanto lei si rendesse conto.
Gli andò vicino e decise di essere sincera: “Jay, senti, io ho davvero paura, non riesco a prenderla serenamente tutta questa storia, ma so che se non ci provo ora me ne pentirò e per nulla al mondo voglio stare male come sono stata nell’ultimo mese. Dammi tregua, cerca di essermi vicino e ti prometto che mi impegnerò. Sono brava, se mi applico!” poi lo baciò e Jared decise che il suo discorso aveva senso, che poteva smetterla di pensare che lei sarebbe crollata.


Andò al check in e sbrigò le pratiche, togliendosi di mezzo la valigia e andando subito al controllo. Non appena lo passò, comprò delle patatine e dell’acqua e cercò il suo gate, dove si buttò su una poltroncina dall’aria comoda in attesa del suo volo. Non aveva voglia di familiarizzare con nessuno, non si era tolta gli occhiali apposta, infilò le cuffie e chiuse gli occhi, cercando di farsi passare quel senso di ansia e tristezza che la affliggeva.

Dormì per tutto il volo, cosa che la aiutò a cavarsela. Appena scese dall’aereo e recuperò la sua valigia, accese il cellulare e chiamò Jared: avevano deciso che il fuso orario non doveva essere calcolato, almeno avrebbero evitato un problema, fra i tanti. Rispose al terzo squillo con una voce bassa e armoniosa: Miriam ebbe un sussulto di emozione ed eccitazione.
“Ehi, Leto, potresti rispondere normalmente al telefono per favore? Sono in un luogo pubblico, ancora” lo prese in giro lei, sorridendo e sentendolo un pò più vicino. 
“Allora corri a casa, bambina” rimase al gioco lui. Parlottarono per qualche minuto, su come era andato il viaggio e su altre sciocchezze, senza dirsi niente di melenso, cosa che non avrebbe aiutato certamente nessuno.
Mentre parlava con lui, scherzando e nascondendo la tristezza, uscì dall’aeroporto pronta a chiamare un taxi, quando vide sua madre che le sorrideva e la salutava con la mano. 

“Jared, scusa, devo andare. Mia madre è venuta a prendermi” disse, un po’ sorpresa.
“Ci sentiamo più tardi, Miriam” rispose lui.

Miriam chiuse la chiamata e andò incontro a sua madre: “Mamma, ma che ci fai qui?”
“Sono venuta a prenderti!”
“Ma grazie, ma non dovevi!”
“Certo che dovevo! Sono tornata a Parigi ieri e mi sono resa conto che volevo passare qualche tempo con te” le disse, guidandola verso l’auto parcheggiata fuori.
“E’ una bellissima sorpresa, mamma. Come stai?”
“Niente domande, Miriam. Sei tu che devi raccontarmi qualcosa!” la schernì la madre, sorridendo. Miriam era sconvolta da quella donna che le stava dimostrando tutto il suo amore in maniera così poco convenzionale. Era felice di averla al suo fianco, e di vedersi dimostrato non solo affetto, ma anche complicità. 

Andarono a mangiare fuori, passeggiarono nell’aria fredda di Parigi, e Miriam si accorse di quanto le mancasse Los Angeles, con le sue temperature miti e non solo. 
Raccontò a sua madre tutti i dettagli e le spiegò come stava la situazione ora: “Praticamente navighiamo a vista. E’ un gran macello, mamma. Lui vive lì, ha il suo lavoro, che non è certo un lavoro normale, ed anche io… beh io ho una vita qui e onestamente non so quanto sia il caso di mollarla per un uomo. Non mi va di ritrovarmi fra qualche anno sola e abbandonata senza più la mia vita. Capisci? Quindi per ora ho il calendario del suo tour... "si fermò un attimo e si mise a ridere per quell'ultima frase: "... si fa molto manager! Mi sembra una follia, ma cosa possiamo fare? Ci vedremo di tanto in tanto, usando aerei e treni come se fossero caramelle. Dovrebbe venire a febbraio a Parigi, poi magari in primavera lo seguo in Asia, vedremo. Fortunatamente la sua assistente è un amore, e mi ha promesso aiuto incondizionato. Lui è davvero quello che cercavo” concluse, respirando finalmente.

“Miriam, che avventura. Io credo solamente che tu sia in realtà felice, ti si legge negli occhi, anche se immagino che ora ti manchi e che non sarà per niente semplice.”
“No, mamma, non è semplice proprio. Ed ora, beh, ora mi sento sotto un treno! Lui ha cercato di mettermi in guardia, ma che senso aveva non provarci?” le chiese.
“L’importante è che tu non ti faccia male, Miriam. Questo è quello che mi preoccupa” ammise sua madre, teneramente.
“Sta tranquilla, Jared mi aiuterà ad abituarmi. E poi, magari, potresti esserci tu accanto a me…” chiese, quasi intimidita, sperando che tutto quello non fosse solo un sogno. 
“Certo, tesoro. Ho pensato molto in queste vacanze e ho deciso che forse meriti più fiducia e stima. Ho sbagliato negli anni, Miriam, a pensare che fossi un burattino, e mi dispiace. Ma se vuoi, da ora in poi io ci sono” le disse, prendendole una mano fra le sue, e commuovendosi. Miriam la guardò raggiante e pensò che forse, a volte, le persone possono stupirti e lasciarti credere che il futuro potrebbe essere migliore di come lo stai aspettando. 
“Grazie, mamma. Senti… papà come sta?” cambiò argomento. 
“Oh papà sta bene. È un testardo, lo sai. E questa storia non gli va proprio giù, ma vedrai che troveremo un modo. Ora devi solamente preoccuparti di imparare a memoria un calendario, mi pare!” la prese in giro sua madre. Miriam pensò che era bello averla vicina in quel momento, e in tutti quelli che sarebbero venuti.

Rientrò a casa sua stanchissima, e pensò solamente di buttarsi a dormire.
Il giorno dopo mise in ordine i bagagli e tentò invano di fare una chiacchierata normale con Jared: lo chiamò su Skype almeno tre volte, sperando che fosse solo, ma era sempre in studio con Tomo e Shannon, o con tecnici, o con chissà chi. Le chiamate duravano sempre poco ed erano confusionarie, elettriche: non riuscivamo mai a dirsi qualcosa di sensato. Miriam si stranì per questo e smise di cercarlo, pensando solamente a come prepararsi per il ritorno in ufficio. Sapeva che avrebbe dovuto abituarsi, ma inconsciamente voleva che lui la proteggesse un pò, ma isolasse da quel caos perenne che aveva costruito, che in qualche modo fuggisse da tutti se lei lo cercava. Sospirò, pensando che forse era una richiesta un pò troppo spinta, ma lei non poteva fare tutto da sola. 


Alla sera, mentre cenava sul divano, Jared chiamò, lei rispose subito.
“Ehi, ti sei liberato di tutti?” gli chiese, e le uscì un tono particolarmente astioso, anche se non avrebbe voluto. Sapeva che era il suo lavoro e sapeva che c’era il fuso orario e sapeva che gli aveva promesso di abituarsi. Prima prova fallita, Miriam.
“Stai bene, Miriam?” le chiese lui, ignorando volutamente il tono che lei aveva assunto. Miriam parve ripensarci e tornò dolce: “Sono un po’ stanca, ma bene. Parigi è freddissima, mi manca LA!” disse.
“Anche tu mi manchi, bambina” le disse Jared, abbassando la voce.
“Non ho detto che mi manchi tu, ma che mi manca LA!” lo prese in giro lei.
“Ah la metti così?! Neanche ventiquattro ore che siamo lontani e già mi hai dimenticato. Bene, bene, Miriam” rispose lui, stando al gioco.
“E se ti dicessi che invece ho molta molta voglia di te?!” tentò di recuperare lei, con un tono di voce suadente ed erotico. Jared le sorrise e si eccitò all’istante, quando vide Miriam aprire leggermente il pile che aveva indosso, per lasciargli intravedere un po’ del suo seno. Quella ragazza era fenomenale, pensò.
“Non avevi detto no al sesso via Skype?!” le ricordò Jared. Miriam si finse offesa e richiusa la cerniera, lasciando che la sua pelle si ricoprisse.
“Bene, allora niente. Com’è andata la tua giornata, Leto?” gli rispose, tornando normale. 
“Oh, no bambina, dai… non ora…” si lamentò Jared. Miriam sorrise e riaprì il suo pile, di più stavolta. Jared illuminò gli occhi e iniziò a stuzzicarla. Passarono un’ora così, e quando Miriam lo salutò per andare a dormire, gli disse: “Non sei male neanche da questa distanza, Leto. Sto seriamente pensando di metterti un microchip per tenerti lontano dalle altre!”.
“Dovrai prima prendermi!” la rimbrottò lui. Si salutarono davvero e Miriam pensò che forse c’erano margini per sopravvivere bene fino a febbraio. Non per vivere, certo, ma la sopravvivenza le sarebbe bastata.

In realtà i giorni passarono velocemente, Miriam e Jared si sentivano spessissimo ad orari impensabili per entrambi: in realtà avevano fatto loro l’idea che l’orario fosse una convenzione sociale e quindi non ci facevano più caso. Dormivano con i cellulari sempre attivi e si erano abituati a svegliarsi ad orari assurdi solo con un trillo.  La suoneria sempre attiva per entrambi e dei ritmi che stavano diventando sempre più normali: era assurdo come si fossero abituati, specialmente Miriam, a tornare vigile in un secondo, se il cellulare squillava. Ma era un modo come un altro per appianare la distanza.
Miriam aveva ripreso a lavorare, ma era sempre molto difficile, anche se stava iniziando ad ingranare, e la sua relazione con Jared le dava una tale carica che si sentiva molto meglio anche in ufficio.


Ovviamente era tutto segreto e nascosto: Jared era stato fortunato a non farsi beccare a Capodanno a Los Angeles dai paparazzi, quindi Miriam aveva promesso bocca cucita con tutti. Amiche comprese. Mamme escluse. Sua madre in realtà era molto felice e le aveva più volte dato consigli, cosa che per Miriam era nuova, ma molto bella.
Si vedevano spesso a pranzo, cambiando addirittura locale tutte le volte, e durante i loro incontri parlavamo di tutto, finendo spesso però a parlare di Jared. Cècile si era informata e aveva iniziato anche ad ascoltare qualche canzone dei Mars, finendo per definirli "sinceramente fuori le righe, ma passionali". Miriam rise per almeno dieci minuti a quella definizione, propriamente degna di sua madre, ma quel rapporto che piano diventava normale e sincero, le stava dando davvero tantissimo aiuto. 


Verso la fine di gennaio, Miriam non era più nella pelle: fra una settimana sarebbe iniziato il tour, e in dieci giorni, con un po’ di fortuna, avrebbe visto Jared a Bordeaux, dove lo avrebbe raggiunto con un treno per un sabato e domenica insieme. Ormai la loro routine era in perfettamente in sintonia, ed Emma era diventata un’alleata nella loro vita: gestiva mail ed incontri manco fossero un’azienda, e Miriam le era sinceramente grata.
Il suo senso di inadeguatezza e paura stava scemando, e Jared l’aveva aiutata ad abituarsi, anche se a volte pensava che forse quello che avevano passato non era proprio nulla in confronto al futuro. Miriam aveva imparato gli orari delle prove e non osava disturbarlo, e aveva anche imparato che se non rispondeva al telefono era certo che fosse impegnato in altro e che l'avrebbe richiamata presto. 
Era molto accorta alle sue esigenze, e Jared cercava di rimediare essendo il più presente possibile, anche se con l’avvicinarsi del tour si rendeva conto che l’importanza che dava al suo lavoro era davvero molta e che forse avrebbe dovuto occuparsi di più di Miriam.


Nonostante ciò, non litigarono mai, e anzi durante le loro lunghissime chiacchierate su Skype erano sempre molto intimi e sorridenti. Miriam si stava innamorando ogni giorno di più di quella situazione: Jared era perfetto, non troppo sdolcinato, non troppo romantico, ma molto divertente. Ridevano molto insieme e ogni volta che dovevano chiudere la conversazione, entrambi pensavano per qualche minuto che avrebbero voluto annullare le distanze. Ma nessuno lo aveva mai confidato all’altro.

Un giorno ordinario, come tanti, Miriam si sentì il cellulare squillare nella tasca dei jeans. Aveva qualche ora libera e stava raggiungendo un’amica in centro per un po’ di shopping, e pensò che era un orario insolito perché Jared la chiamasse, così rispose convinta che non fosse lui. E infatti non era lui. Era Emma.

“Ciao cara, come stai?”
“Emma, ciao! Bene e tu? Come procede?”
“Bene, molto bene. Sono un po’ affaticata, ma non dirlo a Shannon, per l’amore del cielo!” le rispose abbassando la voce sulla seconda parte della frase e ridendo subito dopo.
“No, tranquilla il tuo segreto è al sicuro. La pancia cresce?”
“No, ancora non si vede niente, per fortuna. Stiamo cercando un modo molto tranquillo per lanciare la notizia, perché fra un po’ non potrò più nascondere molto” affermò, leggermente preoccupata.
“Emma, ma tutti i fan saranno felici della novità!” le disse Miriam, per incoraggiarla.
“Si, forse si, ma vedi… nessuno sa di me e Shannon, siamo stati attenti a non farci beccare da settembre, quindi dovremmo ammettere due cose in una e non è semplice” rispose lei.
“Hai paura che dicano che state insieme solo perché sei rimasta incinta? Insomma, posso capire che non sarà semplice tenere a bada le malelingue”
“Esatto, sarà difficile, ed essendo io l’organizzatrice della macchina, dovrò subirmi tutto da protagonista e spettatrice. Sarà bellissimo, credimi” disse sarcastica, sentendo quanto quella ragazza fosse ingenua e non potesse capire certi meccanismi. Sospirò, pensando che ora aveva molto più lavoro da fare, e che avrebbe dovuto farlo per Shannon e anche per la relazione che Jared teneva in piedi: era sinceramente felice per lui e Miriam, che considerava una brava ragazza, ma a volte credeva che fosse fragile per quella vita e che avrebbe finito per incasinare tutto. Erano sensazioni che non aveva confidato a nessuno e che teneva a bada, cercando di dare una possibilità a quella donna che si illuminava se solo Jared osava guardarla, ma per il futuro era alquanto pessimista.  
“Se hai bisogno di un avvocato, fai un fischio. Purtroppo posso garantirti solo protezione legale, e se vuoi una casa amica dove rintanarti un po’” le rispose Miriam, sperando che lei cogliesse la sua sincerità.
Pensò che non avevano mai parlato molto, lei ed Emma, se non per momenti in cui quest’ultima aveva cercato di far indietreggiare Miriam sulle sue posizioni riguardo Jared. Però avrebbero potuto essere buone amiche se ci fossero concesse il lusso di conoscersi, cosa per niente semplice, viste le condizioni. Miriam la trovava una donna molto gentile, forte e delicata al tempo stesso, e non le aveva mai mostrato ostilità, anzi, aveva sempre cercato di venire incontro alle sue esigenze, quando con Jared avevano fatto un planning dei nostri incontri.

“Comunque sia, ti chiamo per dirti una cosa importante” continuò Emma sicura, acquistando di nuovo il suo tono leggermente dittatoriale. “Dunque, abbiamo avuto problemi con l’organizzazione e abbiamo dovuto rimandare un concerto, il primo del tour tra l’altro, a Bordeaux. Andiamo direttamente a Madrid e recuperiamo la Francia a fine tour. Quindi, pensandoci un po’ su, ho organizzato così: opzione numero uno, Jared si prende due giorni fra Madrid, che è il 5 febbraio e Berlino che è il 12 e viene a Parigi da te, però sappi che saranno due giorni settimanali non di più. Oppure, opzione numero due, ci raggiungi a Madrid il 5 in giornata e avrete qualche giorno da dedicarvi. Vedi come stai messa tu con i tuoi impegni e fammi sapere che nel caso prenoto al volo un biglietto Madrid – Parigi per Jared” concluse.
Miriam era frastornata: poteva quasi vederla, con gli occhiali sul naso e l’agenda in mano mentre sciorinava il suo piano perfetto, che comprendeva, addirittura, due opzioni. Era sconvolta!

“Oddio, così non saprei proprio che dirti, Emma. Posso pensarci almeno fino a domani? Magari vedo quanti giorni di ferie mi rimangono e cerco di capire che tipo di udienze ho in queste settimane” tentò di prendere tempo, anche se l’urgenza nella voce di Emma non le dava adito a pensare che avrebbe avuto così tanto tempo.
“Certo, cara. Mi richiami domani. Ciao”, le rispose serena ma imperativa.
“Ciao, Emma”, disse solamente Miriam, ancora frastornata e leggermente contrariata.

Subito dopo fece il numero di Jared, non curandosi dell'orario, delle prove e di chissà che altra diavoleria. Forse lui non era così libero perché rispose dopo molti squilli, ma Miriam non era pronta a mollare la presa. Non appena sentì la sua voce, partì in carica: “Mi spieghi perché devo programmare gli incontri con te attraverso la tua assistente? Carina è carina eh, per carità, ma sai non mi entusiasma che tutti sappiamo quando ci vediamo e magari pure che facciamo durante gli incontri” gli disse.
“Ciao, Miriam, è bello sentirti anche per me e si sono molto occupato in questo momento, ma farò finta di niente” le rispose Jared, a metà fra il divertito e l’irritato. La realtà era che quella donna scombinava sempre la sua vita, i suoi piani, le sue giornate e questa era una cosa che lui non poteva soffrire da parte di nessuno. Però non riusciva ad arrabbiarsi con lei, quindi finiva sempre per lasciarla stare, credendo che lei fosse già molto sotto pressione per la faccenda distanza e tutto il resto.
“Non scherzare, Leto, sono molto seria” tentò di intimidirlo lei.
“Aspetta un momento, tigre” le disse Jared, alzandosi dallo sgabello della sala prove. Lasciò Tomo, Shannon e i tecnici a guardarlo a bocca aperta: Jared aveva imposto a se stesso e agli altri regole molto ferree sull’uso dei cellulari durante le prove e le registrazioni. I cellulari dovevano essere silenziosi e si poteva rispondere solamente se davvero poteva essere una chiamata importante, cosa che tutti cercavano di spiegargli, era impossibile da capire guardando solo il numero che chiamava sul display. Ma lui era stato irremovibile e non aveva accettato compromessi.
Dunque il fatto strano non era che avesse risposto, visto che il suo Blackberry aveva squillato almeno dodici volte, il che lasciava presagire qualcosa di potenzialmente brutto, ma che una volta capita la non urgenza della telefonata, si fosse allontanato dalla sala prove, invece di chiudere e richiamare dopo, come aveva milioni di volte fatto fare a chiunque lì dentro.
Erano tutti sconvolti e Shannon iniziò a pensare che Miriam stava riuscendo dove chiunque aveva fallito in passato.


Jared uscì dalla sala prove facendo un cenno agli amici, sapendo benissimo che lo avrebbero massacrato al suo ritorno dentro. Andò sul balcone, e si sedette sulla sedia sgangherata che spesso era amica nei momenti in cui qualcuno di loro aveva bisogno di stare solo. Poi riprese a parlare: “Dunque, cosa c’è di così grave?” disse con tono paziente e sospirando come se stesse parlando con una bambina di cinque anni.
“Che invece di avvertirmi tu del cambio programma nei nostri piani, mi chiama la tua assistente, che mi snocciola opzioni, orari e date manco se fossi uno psicologo con cui hai un appuntamento da spostare!” iniziò di nuovo Miriam, su tutte le furie.
“Ah, hai sentito Emma, ora ho capito!” disse solamente lui.
“Jared, smettila subito di prendermi per il culo perché davvero io ti ammazzo!” si infuriò ancora di più lei.
“Ma che c’è di male? C’è stato un cambio programma ed Emma è brava a sistemare gli imprevisti, mentre io sono una frana, non lo faccio mai e ho perso l’abitudine di sistemare e incastrare le cose fra loro. Avrei fatto un disastro, e comunque ero in prove”, tentò di scusarsi, pensando che comunque Miriam, al solito, stava esagerando.
“Senti, Signor Ho Perso L’abitudine Di Sistemare Gli Imprevisti” disse Miriam, cercando di imitare il suo tono, cosa che fece solamente ridere Jared, “io non sono un imprevisto ok? Cazzo, almeno per vedermi impegnati e chiamami tu, no?!”
“Miriam, punto primo io non ho detto ad Emma di chiamarti, credo che lo abbia fatto lei per assicurarsi che tutto filasse liscio. Non so se te ne sei accorta, ma dietro a questa storia, c’è coinvolto il lavoro di un sacco di persone. Punto secondo, se continui ad usare questo tono così da educanda finirai per eccitarmi, e purtroppo manca ancora molto al nostro incontro. A proposito, quando ci incontriamo?” la prese in giro, sapendo benissimo quali fossero le opzioni di Emma, visto che ne avevano discusso non appena era saltato fuori il casino di Bordeaux.
“Vai al diavolo, Leto” disse Miriam, convinta ad attaccare.
“Aspetta aspetta, tigre, sta buona, dai sto scherzando. Lo so quando ci vediamo: o vengo a Parigi fra il 5 e il 12 o vieni tu a Madrid, o se preferisci a Berlino. Vedi che sono informato?”
“Bravo, hai fatto i compiti vedo?” rispose acida. 
“Ma davvero sei arrabbiata, Miriam?” le chiese, ridendo appena. Era internerito da quella furia che lo stava asselendo e non sapeva perchè, ma in quel momento aveva solamente voglia di stringerla forte e continuare a prenderla in giro. In passato, aveva ucciso per molto meno, pensò guardando il cielo californiano. 
“Certo che sono arrabbiata! Dovrei programmare incontri romantici con te e mi ritrovo Emma che mi chiede di decidere entro domani quando vederti. Ti pare normale?”
“Emma è una cervellotica maniaca dell’ordine peggio di me, sicuro avrà pensato che prima decidiamo, prima evitiamo ulteriori imprevisti. Io non sapevo che volesse chiamarti. Ti avrei chiamato questa sera, come al solito!”
“Va bene, però puoi dirle di non organizzare più i nostri incontri e pensarci direttamente tu? E’ chiederti troppo?” gli chiese, assumendo un tono lamentoso che a chiunque avrebbe urtato il sistema nervoso.
Jared sospirò e pensò che le mancava davvero tanto, così non badò al tono e decise che quello era il modo per ripagarle un mese di continue attenzioni verso di lui: in fin dei conti per Miriam era tutto nuovo ed era sempre stata molto accorta a non disturbarlo e a seguire i suoi orari e le sue richieste, anche quando erano tacite. Stavolta poteva accontentarla, pensò.

“Va bene, glielo dirò. Ci resterà male, perché adora gestire la mia vita, ma glielo dirò. Sei contenta?”
“Si…” bofonchiò Miriam, non volendogliela dare ancora vinta.
“Ora puoi dirmi che ti manco e che non vedi l’ora di rivedermi per favore?”
“Mi manchi, ma quando ti rivedrò ti picchierò, sappilo!” rispose lei, testarda e orgogliosa come sempre.
“Se è una proposta a luci rosse, mi piace, bambina” le rispose con la voce più suadente che riuscisse a fare, sperando che colpisse. E come aveva previsto, colpì, perché sentì chiaramente un sospiro di Miriam dall’altro capo del telefono, che poteva dire solamente che aveva voglia di stare con lui.
“Ora, tigre della Malesia, posso tornare a fare le prove senza che mi diano per disperso?”
“Vai, mi chiami stasera?” gli chiese ansiosa.
“Certo, come al solito. Aspettami sveglia e possibilmente non troppo vestita!”
“Maniaco!”
“Buon pomeriggio anche a te” chiuse la telefonata ridendo. Attaccò e guardò il cielo che iniziava ad imbrunirsi: aveva sempre adorato quel punto del MarsLab, si potevano vedere le piante del giardino e il cielo, e di mattina molto presto anche il sorgere del sole. Lì aveva ricevuto le brutte notizie della EMI durante la battaglia legale e aveva composto canzoni. Lì aveva pensato a Miriam tutti i giorni, durante la loro separazione.
Pensò che credeva di amare quella donna, ma aveva paura di dirglielo, eppure se non l’aveva mandata a quel paese quel pomeriggio, il suo sentimento doveva essere davvero forte. Si destò dai pensieri e tornò in sala prove, e non appena entrò Shannon e Tomo iniziarono a ridacchiare divertiti. Lui li fulminò con lo sguardo e si sedette alla sua postazione, imbracciando la chitarra: “Dunque, dove eravamo rimasti?”

“Aspetto di sentire questa frase dal grande Jared Leto da almeno dieci anni! A volte i sogni si avverano!” esultò Tomo, con le braccia al cielo. Jared capì il senso: di solito gli altri perdevano il filo delle cose e Jared punzecchiava sempre il malcapitato per la distrazione. Stavolta era capitato a lui.
Jared non rispose alle provocazioni, ma aveva un sorriso sotto ai baffi che rendeva impossibile ogni arrabbiatura che in passato si sarebbe preso.

“Avete intenzione di continuare per molto o possiamo provare?” disse, fingendo di essere in collera.
“No no proviamo pure, sempre che non ti squilli di nuovo il cellulare” lo prese in giro Tomo, sentendo che Shannon si scompisciava dalle risate.
“Va bene, riprendiamo da This is War, per cortesia. E un po’ di attenzione” disse Jared sospirando e sperando che la smettessero.

Quella sera, prima di tornare a casa, Tomo stava accordando di nuovo la chitarra, quando sentì, nel silenzio assoluto, un rumore strano provenire dalla cucina. Poggiò lo strumento a terra e cautamente andò a vedere di cosa si trattasse, era sicuro che Shannon e Jared fossero tornati a casa ormai un paio d’ore prima.
Si affacciò cautamente in cucina e vide un paio di piedi spuntare da dietro il bancone, nella classica posizione di una persona seduta a terra. Poi fu attratto dalla luce del frigorifero aperto, e si fece avanti: trovò Emma, seduta per terra come aveva immaginato, con un’enorme vaschetta di gelato in mano e il viso pallido.

“Emma, ma che ci fai qui?” le chiese. 
“Tomo, scusa. Pensavo non ci fosse più nessuno qui dentro”, rispose, quasi colpevole ed imbarazzata. 
“No, beh, io stavo finendo di accordare la chitarra, in modo da averla pronta domani, non mi hai sentito?”
“No, in realtà no, sennò me ne sarei andata. Scusa, vado subito”, gli disse abbassando lo sguardo e facendo per alzarsi da terra.
“Ehi, perché tanta fretta, tranquilla. Questo posto è anche tuo, non devi chiedermi il permesso se vuoi startene qui a trangugiare gelato in santa pace. Vuoi compagnia, piuttosto?”, le chiese. Emma si fermò a guardarlo e Tomo, senza aspettare una sua qualsiasi risposta, prese un cucchiaio da un cassetto e si sedette a terra con lei. Emma gli sorrise, incapace di dirgli che voleva stare davvero sola e gli porse la vaschetta di gelato, dalla quale lui prese un generoso cucchiaio di cioccolato fondente. Se lo portò alla bocca iniziando a mangiarlo e le sorrise complice, prima di dirle: “Vuoi parlarne?”
“Di cosa? Del gelato che sto mangiando di nascosto?” le rispose lei, cercando di sembrare tranquilla e serena.
“No, del problema che ti costringe a mangiare gelato di nascosto” rispose lui, cautamente.
“Ah, quello… niente di grave…” rispose, liquindando la cosa agitando una mano in aria, ma istintivamente si portò una mano alla pancia, guardandola con preoccupazione. C’erano pochissimi segni evidenti che lei fosse incinta, era ancora un segreto per moltissime persone e Emma stava iniziando a pensare ad un modo per dirlo.
Le pesava dover ammettere al mondo che era incinta, perché non voleva che pensassero che fosse frutto di sesso e basta, e perché sapeva che quella condizione avrebbe cambiato le cose: l'assistente che rimane incinta della star, un clichè visto e rivisto, che li avrebbe investiti come un uragano. Emma voleva proteggere la sua privacy, alla quale aveva sempre tenuto molto e la sua relazione con Shannon, già messa molto sotto pressione negli ultimi tempi, perchè sapeva che l'amore che avevano era prezioso, raro ed importante, e darlo in pasto a chi non sapeva nulla, ma si sarebbe ostinato a parlare, le faceva male. 
Oltre tutto questo c'erano le continue incomprensioni con Shannon, dovute alla tensione della situazione che era drasticamente cambiata, perchè un bambino che arriva sconvolge, ma se arriva dopo tre mesi di relazione, molti punti interrogativi, nessuna certezza e molta instabilità, diventa una tempesta senza precedenti. 
Emma pensò a tutto questo, accarezzando la sua pancia e guardandola triste: come poteva sopravvivere, senza distruggere niente? 

“Guarda che è un bambino, mica un alieno che ti cresce dentro. Dovresti essere felice” le disse Tomo, rompendo il suo silenzio. Allungò una mano ad accarezzarle la pancia, non sapendo che era la prima volta che qualcuno che non fosse Shannon si azzardava a farlo: l’aveva sempre affascinato l’idea che una donna potesse essere tanto forte da creare una vita.
“Sarò una pessima madre, Tomo” si lamentò lei, con un fil di voce, costringendosi a confidarsi. Aveva bisogno di parlare, e Tomo era forse la persona migliore: dolce, comprensivo, paziente e ottimo ascoltatore. Erano amici da anni e sapeva di potersi fidare di lui.  
“Ma che dici, sarai fantastica. Come sei fantastica con noi, ci fai da mamma e da balia da anni e siamo ancora tutti qui vivi e vegeti!” cercò di convincerla lui. Emma sorrise appena, pensando a quante volte aveva convinto Jared a mangiare qualcosa di sano e a quante medicine aveva portato in giro per il mondo: non fosse stato per lei, loro non avrebbero mai avuto tutto il necessaire da viaggio giusto.
“Non sarà uguale. Io avrò delle responsabilità nei confronti di questo bambino, e non si può dire che io e Shannon saremo due genitori normali” rispose, sempre più afflitta.
“Emma, ma non esistono genitori normali. Vostro figlio avrà una famiglia strana, forse, ma viaggerà moltissimo, saprà più di una lingua, avrà amore e cure giuste, vedrai che andrà bene” le rispose di nuovo Tomo.
Poi fece una cosa bellissima, che commosse profondamente Emma: si stese sul pavimento, fino a poggiare l’orecchio sulla pancia di quella donna così forte e fragile al tempo stesso e parlò: “Ehi, mostro, a quanto pare tua mamma se la sta facendo sotto dalla paura. Come dici? Le vuoi già bene? Eh, io lo so, ma è lei che devi convincere. Ah, ti avverto che tuo zio è un maniaco dell’ordine, sta attento a dove sbaverai! Però, mostro, se vuoi avrai tanti pancakes!”. Era un gesto da papà, quello, ma Tomo sentiva di essere parte di quella famiglia, e aveva sempre avuto una pazienza e una dolcezza fuori dal comune, e aveva capito che quella donna aveva bisogno di qualcuno che le scrollasse di dosso i pensieri che si portava addosso e le regalasse un pò di leggerezza.
Emma lo guardò con le lacrime agli occhi e lo ringraziò a fior di labbra, prima che lui si alzasse e la avvolgesse in un abbraccio: “Eh, Emma cara… oggi è la giornata delle novità!” le disse. Ma lei non capì e lo guardò con un’espressione a punto interrogativo, così Tomo si spiegò: “Prima Jared, che ha risposto al cellulare in sala prove, ed è persino uscito quasi dieci minuti per chiacchierare con Miriam, che non era certo in fin di vita. Ora tu, che mi crolli così, quando ho sempre pensato che fossi una specie di carro armato senza problemi! Oggi è proprio una bella giornata!” continuò, sospirando. Emma gli diede un pugno sul braccio e tolse la vaschetta di gelato dalla sua portata.

“Ehi, ho appena interceduto per tuo conto con tuo figlio, dammi il gelato!” si lamentò Tomo, mentre Emma aveva ripreso, finalmente, a sorridere.
La guardò e le scoprì un'espressione più serena: si chiese solamente come avesse fatto a non capire Vicky, ma prese del gelato e si impose di non pensarci. 

In quel momento, ancora seduti sul pavimento che parlavamo, sentirono la porta della cucina aprirsi e videro Shannon entrare, scuro in volto. Tomo lo guardò e capì di essere di troppo, così si alzò, non prima di aver preso altro gelato sul cucchiaio e guadagnò l’uscita dicendo: “E’ tutta tua, amico, però sta attento che è gelosissima della vaschetta!”. Gli diede una pacca sulla spalla e guardò Emma con affetto, poi uscì.
Shannon non aspettò neanche che si chiudesse bene la porta che la assalì: “Si può sapere che ci fai qui? Sono due ore che ti cerco ovunque!”

“Scusa, Shan, avevo bisogno di pensare” gli rispose, abbassando lo sguardo. 
“Pensare? A cosa? Cosa è successo?” chiese lui, allarmato, ma deciso a non cedere di un minimo sulle sue posizioni.
“Pensare, è vietato forse?” reagì male lei.
“No, per carità. Ma non è neanche vietato dare le proprie coordinate, Emma. Mi è preso un colpo!”
“Esagerato che sei, dove volevi che fossi andata? Potevo anche essere a fare una passeggiata, mica sono stata via quattro giorni!” si spazientì lei, alzandosi da terra nervosa e riponendo la vaschetta nel freezer.
“Emma, ma stai bene?” chiese finalmente Shannon.
“No, che non sto bene, razza di idiota! Non sto bene per niente!” urlò lei, prima di dargli le spalle e poggiarsi al lavandino, la testa bassa e la schiena pesante. Cercò di respirare, ma sentiva tutto il mondo pesarle addosso e si sentì improvvisamente non pronta per farlo, non pronta per affrontare tutto. Chiuse gli occhi, pregando il suo proverbiale sangue freddo di fare tutto il lavoro di cui aveva bisogno. 
“Tesoro, ma che c’è?” le chiese più dolce Shannon. Le si avvicinò piano, arrivando a toccarle una spalla, ma la sentì ritirarsi sotto la sua mano, così abbassò il braccio, un pò deluso e non capendo cosa succedesse. Ultimamente le cose erano andate un pò meglio, dopo i litigi, pensò.
“C’è che non sei l’unico a non sapere come gestire tutto, Shannon, ed io mi sento sola ad affrontare il mondo. Tu ti chiudi sulla tua batteria ed io sto qua a sperare che la pancia non cresca troppo in fretta, perché non so che cazzo dire al mondo!” si sfogò lei, ormai in preda ai singhiozzi.
Non aveva mai perso il controllo, almeno non davanti a lui, e Shannon non seppe cosa fare. Pensò che Tomo sarebbe stato più bravo di lui in quella situazione, ma pensò anche che Emma era la sua compagna e la madre del suo bambino, e che doveva essere lui a darle una mano, non qualcun'altro: era tempo di crescere davvero, e quella situazione stava chiedendo più nervi saldi di quanto si credesse. 
Si avvicinò piano, di nuovo, e le sfiorò le spalle in una carezza appena accennata, Emma si scostò di scatto, come se quella mano le bruciasse la pelle. Shannon ritirò la mano ancora e tentò un “Mi dispiace” che gli uscì male e triste. Emma fece un sorriso amaro e non rispose: era incinta da meno di due mesi e non avevano fatto altro che litigare, dove sarebbero finiti?

“La verità è che dovrei abortire. Non siamo maturi, Shannon. Abbiamo preso un abbaglio, ed è meglio accorgersene prima che dopo” gli disse, dura.
“Emma, ma che dici? Noi lo vogliamo questo figlio, è nostro” gli rispose lui, ora affranto e perso.  
Lei si girò, incapace di guardarlo negli occhi e poggiò le mani al piano della cucina: “Shannon, seriamente non ce la facciamo, a mala pena siamo stabili come coppia. E poi è un mese e mezzo che litighiamo: siamo stati in pace due giorni si e no. Guarda in faccia la realtà” gli disse. Si sentì così in colpa, che non riuscì a sostenere il suo sguardo sul suo ventre e tornò a guardare i piani della cucina, sentendo un dolore sordo nell'anima.  
Shannon fu scosso da quelle parole, perchè è vero che quando la felicità sta per scivolarti dalle mani, per quanto tu possa essere cieco, ti abbaglia e ti costringe a reagire. E lui reagì: si avvicinò a lei, la prese fra le braccia e la strinse, e non gli importò che lei si divincolasse, e lo prendesse a male parole piangendo, lui non l’avrebbe lasciata, perché sapeva che doveva rimanere esattamente lì in quel punto, lo aveva capito in quell'istante, forse meglio di tanti altri momenti in quei mesi. 
La strinse e basta, poggiando le sua braccia sulla pancia di Emma e chiudendo gli occhi, sperando che lei smettesse di respingerlo. Dopo qualche minuto, Emma lasciò la presa, si abbandonò a lui e continuò a piangere: “Brava, così, sfogati amore mio, vedrai che andrà bene. Troveremo un modo per farcela andare bene, ma non dire più che non vuoi nostro figlio” le disse in un orecchio.

“Mi dispiace, Shan, mi dispiace” si lamentò lei.
“Non fa niente, ti amo” disse lui. La prima volta che glielo diceva davvero. Era assurdo pensare che sarebbero diventati genitori e ancora non si erano detti ti amo. Era incredibile, ma era così. Emma lo guardò negli occhi girandosi e capì che non poteva incolpare Shannon per ogni cosa che non le girava bene, che lui era lì e che ci stava provando ad impegnarsi, ma che anche per lui non era semplice.
Lo baciò prima delicatamente e poi con forza, sempre più forza. Era un mese e mezzo che non facevano l’amore, un tempo infinito, pensò Shannon che non aveva comunque voluto forzarla mai.
Rispose a quel bacio, ma quando Emma prese l'iniziativa, iniziando a tastarlo sotto la stoffa della maglietta, lui smise di baciarla e le disse: “Emma, tesoro, sei sicura?”

“Si, sono sicura. Non so perché abbia aspettato tutto questo tempo, mi sei mancato” gli disse sorridendo, le lacrime andate via e il suo volto bellissimo. 
“Anche tu” rispose lui, prima di prenderla in braccio e farla sedere sul piano della cucina. Non si preoccuparono che Tomo potesse essere ancora in sala prove, cominciarono a spogliarsi freneticamente e fecero l’amore in maniera passionale e perfetta, ripetendosi ti amo almeno un migliaio di volte.

Tomo, nel frattempo, in sala prove, aveva sentito le urla, il litigio, poi il silenzio, e subito dopo strani movimenti. Sapeva come chiunque che il sesso è il miglior modo per fare pace, così posò la chitarra sul suo piedistallo, prese le chiavi e con il minor rumore possibile, uscì dal MarsLab, sorridendo per i suoi amici. 

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Capitolo 14
*** Impara in fretta e vivremo tutti felici ***


I'm baaaaaack!!! 
Vacanze finito, viaggio pazzesco andato, normalità (quasi) ritrovata! 
Sono tornata ieri notte, 
e mi sono subito messa all'opera per finire il capitolo e pubblicarvelo! 
E' uscito un fiume di eventi e parole, quindi armatevi di pazienza e popcorn! 

Un saluto a London_in_the_Night, 
che ho scoperto essere una mia lettrice! 

Buona lettura, 
Bibi! 


 
Impara in fretta e vivremo tutti felici
 
 
Dopo quella serata, Shannon ed Emma erano molto più sereni e tranquilli e non perdevano mai il tempo di stare un po’ insieme, da soli, anche se Emma era stata chiara in merito al tour imminente: non avrebbero dovuto dare adito a pettegolezzi, in giro per l’Europa, perché lei voleva che tutto venisse fuori gradualmente. E perché non riusciva ancora a realizzare il tutto, ma questo non lo disse a Shannon.

Jared era sempre più emozionato all’idea di rivedere Miriam, che alla fine aveva deciso di seguirli a Berlino, e Tomo cercava di trovare tempo per Kiki, che ormai conosceva a memoria la tratta San Francisco – Los Angeles. Sembrava che tutti fossero tranquilli, che avessero trovato la dimensione ideale, ma il tour si avvicinava e l'aria si faceva sempre più elettrica: non sarebbe stato semplice, lo sapevano, anche se non amavano parlarne.

Arrivarono a Madrid stanchi e contrariati dal ritardo che il volo aveva subito. Filarono subito in albergo per una doccia e poi all’arena dove avrebbero fatto il concerto la sera dopo.
Jared ed Emma videro che tutto era apposto, mentre Shannon e Tomo si assicuravano che i loro strumenti fossero messi al sicuro e trattati con cura. Tutto si svolgeva come al solito, insomma. Jared non aveva trovato ancora il tempo di chiamare Miriam per dirle che erano finalmente in Europa, così le mandò un sms, per tranquillizzarla, pensando di chiamarla poi nella pace della sua camera. La routine frenetica iniziava solamente ora a far parte della loro relazione, e Jared sospirando sperò che Miriam tenesse davvero i piedi saldi per terra. 


Tornarono in albergo a tarda sera. Emma era in piedi dalla mattina e iniziava seriamente a sentirsi stanca, voleva solamente stendersi sul letto e dormire; lei e Shannon alla fine avevano avuto la meglio e avevano una camera insieme, cosa sulla quale Jared all’inizio si era mostrato contrario.
“Ragazzi, io vado a dormire. A domani, mi raccomando niente ore piccole” li ammonì con un dito puntato.

“Emma, sono finiti i tempi in cui prendevamo fan da portarci in camera” la punzecchiò Jared, mentre Shannon rideva divertito e si preparava a seguirla. Emma lo guardò in maniera torva, spostando poi subito l'attenzione sul fratello che era immediatamente dietro di lei: era strano vederli così tranquilli e con la testa apposto, decisamente molto strano. 

Si stavano dando le ultime direttive per il giorno dopo, quando Jared si sentì toccare la schiena lievemente. In un primo momento pensò lo avessero solo urtato, ma quando sentì di nuovo il tocco, capì che era un fan e nonostante la stanchezza, alzò gli occhi al cielo, li chiuse un attimo e si girò, sfoderando il suo miglior sorriso, pronto a foto e autografi.
Ma la preparazione non era servita: Miriam era davanti a lui, bellissima avvolta in un cappotto di panno tortora, con una sciarpa rosa cipria che le stringeva il collo e un sorriso smagliante sul viso leggermente truccato. I capelli erano più lunghi di quanto li ricordasse, le cadevano sulle spalle, ed avevano quel color miele che Jared amava così tanto. La fissò a lungo, scrutandone ogni piccolo particolare e sentendosi leggermente perso.

“Che fai, non mi saluti?” gli disse sorridendo, dopo qualche minuto di silenzio, in cui Miriam si era goduta l'espressione esterrefatta di Jared. 

“Miriam, ma questa è Madrid, non Berlino tesoro” la prese in giro Tomo, salutandola, mentre Emma e Shannon ridevano alla battuta e Jared era incapace di dire e fare qualcosa di sensato.
La prese semplicemente fra le braccia, nonostante il via vai della hall dell’hotel, dove avrebbero potuto vederlo tutti e la strinse forte, affondando il naso fra i suoi capelli al profumo di lavanda.

“Sei felice di vedermi?” gli chiese piano, mentre si lasciava stritolare.
“No, sto facendo le prove per il prossimo film” gli rispose lui sarcastico. Poi la lasciò andare, incapace di non guardarla e le piantò addosso i suoi occhi azzurri: “In vena di sorprese, bambina?” le chiese, cercando di riprendere il controllo della situazione. Quello stesso controllo che lui doveva sempre avere, ma che Miriam gli toglieva puntalmente dalle mani. Lo destabilizzava, lo rendeva umano, e Jared non aveva ancora deciso se questa cosa gli piacesse o meno. 

“Non mi andava di aspettare un’altra settimana e comunque venire oggi mi era più semplice” gli rispose. Poi alzò lo sguardo verso gli altri e li salutò, si accorse che c’era anche Emma, e le sembrò giusto scusarsi: “Ho provato a chiamarti ieri per dirti il cambio di programma, ma non sono riuscita a rintracciarti. Spero non sia un problema” le disse. In realtà non era vero, aveva voluto fare di testa sua perché non sopportava che qualcuno pianificasse i suoi incontri con Jared, ma non voleva offenderla, perchè rispettava il suo lavoro. Tentò di dissimulare, credendo che Emma ci sarebbe caduta con tutte le scarpe: lei e Jared avevano una relazione che non doveva essere segnata sull'agenda di un'assistente, questo era tutto. 

Emma incassò il colpo, fece un sorriso tirato e disse: “Tranquilla, non c’è problema. Divertitevi, ragazzi, io scappo”. Era stanca, dopo tutta la giornata e quelle nausee che non le davano tregua, voleva solamente dormire. Non era riuscita a mangiare niente che non fosse frutta, l'unica cosa che il suo stomaco sembrasse accettare, e in quel momento non aveva voglia di stare dietro ai colpi di testa di una ragazzina che non sapeva niente di niente. La scrutò a lungo, decidendo se ucciderla o semplicemente rimetterla al suo posto, ma rimandando la decisione al domani. 

Miriam si sentì invece soddisfatta ed invincibile: aveva domato Emma, e dato una sorta di esclusività alla sua relazione con Jared. La vide molto stanca, ma dentro di sè sapeva che aveva vinta quella piccola battaglia: non che avesse qualcosa contro Emma, anzi, era convinta che avrebbero potuto essere amiche, ma lei doveva rimanere fuori dalla vita privata di Jared. 


“Andiamo in camera?” chiese Jared, improvvisamente frenetico all’idea di averla tutta per se. Shannon ed Emma erano già verso gli ascensori e Tomo aveva deciso di rilassarsi un pò al bar, bevendo qualcosa.  
“Certo, dovrei solamente lasciare i documenti, mi aspetti?”
“No, li lascerai dopo dai… vieni con me” le disse, e se la trascinò verso gli ascensori. Non gli importava che qualcuno potesse vederli così intimi e potesse magari fotografarli: giorni prima Emma gli aveva parlato di quella eventualità, dicendogli che erano stati fortunati a Capodanno a LA. Jared non era pronto a dire al mondo di quella relazione, avrebbe portato conseguenze che tutti conoscevano, e lui aveva deciso di proteggere Miriam ancora un po’. O forse se stesso.
Emma era stata d’accordo, ma lo aveva messo in guardia che in Europa non sarebbe stato semplice: con i concerti sparsi per tutto il continente, la data rimandata in Francia e l’Asia in primavera, tutte le attenzioni erano su di loro, e qualsiasi paparazzo li aspettava per accaparrarsi almeno una foto da inserire nei giornali, era ovvio e loro lo sapevano bene.
Aveva detto a tutti e tre di stare attenti, come faceva sempre, indugiando qualche secondo in più su Jared, che era quello che, vista la situazione, rischiava di più. Lui sapeva che aveva ragione, e le aveva promesso discrezione quando Miriam sarebbe stata a Berlino, ma in quel momento se ne stava fregando: se qualcuno l’avesse sbattuto in prima pagina con Miriam, avrebbe semplicemente lasciato correre come tutte le altre volte, e ai secondi scatti avrebbe lasciato correre di nuovo, e ai terzi scatti, forse qualcuno si sarebbe convinto che quella ragazza era davvero speciale. Non era un problema suo, pensò.


Non appena furono in camera, Jared chiuse con forza la porta e le fu addosso: il suo profumo, le sue curve, la sua pelle. Non la vedeva da circa un mese e non avrebbe mai ammesso che le era mancata da morire. Non riusciva a resisterle, e il fatto che lei gli avesse già tolto la maglia non aiutava.
“Leto, vorrei vedere Madrid. Non ci sono mai stata!” disse innocentemente, con un lampo negli occhi e un sorrisino compiaciuto nel sentire che Jared era eccitato e aveva il fiato corto.
“Non avresti dovuto salire in camera” le rispose, costringendola con il corpo ad indietreggiare verso l’ignoto.
Miriam lo lasciò fare, si lasciò prendere in braccio, intrecciando le gambe dietro la sua schiena, sentendo il corpo di Jared diventare un tutt’uno col suo e sentendo il suo di corpo reagire ad ogni minimo brivido.
Jared la portò alla scrivania della suite, buttò a terra quel che c’era sopra e la fece sedere lì, le gambe aperte, dove lui si era insinuato, e la schiena dritta, ormai nuda.

Continuò a baciarla per un tempo infinito, mentre le sue mani scorrevano su quella pelle morbida e bianca che sapeva di olio di mandorla. Le tolse il reggiseno, e poi le slacciò i pantaloni, aiutandola a toglierli e poi lasciandola di nuovo lì, seduta, solo con gli slip: si allontanò di poco da lei per ammirarla, e Miriam lo guardò con la testa leggermente piegata verso destra, mentre si mordeva un labbro e lo invitava silenziosamente a riprendere il posto che sapeva essere suo e di nessun’altro, ormai.
Jared la trovò immensamente sexy, e bellissima, e audace, e bambina al tempo stesso, la trovò grande e piccola, immensa e decisamente poco innocente. La trovò sua e si avvicinò di nuovo. 


Iniziò a torturarla lì dove sapeva essere sensibile anche ad un soffio. Continuò per tanto tempo, quello che sarebbe forse servito a colmare l’astinenza di un mese intero da lei. Poi la sentì gemere e chiedergli di più, così risalì verso il suo viso, e baciandola, entrò in lei.
In un primo momento si sentì felice, perché sognava di farlo da una vita, poi la passione esplose e non riuscì più a controllarla: le teneva un braccio dietro la schiena, a sorreggerla, e una mano sui fianchi a spingerla ancora di più verso di lui, come se fosse stato possibile.
Miriam si era abbandonata a lui, lasciava che gestisse il gioco e che le procurasse quel piacere che da sola aveva cercato a lungo nelle ultime settimane. Aveva poggiato la fronte su quella di Jared e si era persa nei suoi occhi: quanto azzurro c’era lì dentro? Quanto immensi riuscivano ad essere quegli occhi?
 

“Miriam… ti amo…” le disse mentre continuava a fare l’amore con lei, certo che l’avrebbe amata per sempre se quello avrebbe voluto dire possederla sempre così. Miriam rimase a bocca aperta e lo guardò con gli occhi lucidi. Lui la amava. Ed era la prima volta che glielo diceva. Si fermò un attimo e si perse di nuovo in quegli occhi che le dicevano tutto silenziosamente, scoprendosi felice nel vedere che lui non distoglieva lo sguardo. Riprese ad assecondare i suoi movimenti e improvvisamente capì di avere tutto e di averlo lì, proprio lì con lei. 

Jared era sfinito, il fiato corto e la fronte imperlata di sudore, ma prima di staccarsi da lei la guardò a lungo e accarezzò piano il suo viso con la punta delle dita, beandosi di quella bellezza e guardando un timido sorriso spuntarle sulle labbra: “Leto, vorrei rimanere sempre così” gli disse sulla bocca. Lui sorrise e la baciò leggero, prima di andare verso il bagno.

Miriam lo guardò muoversi così, nudo, e pensò che era follemente innamorata di quell’uomo. Scese dalla scrivania e si gettò sul letto, che trovò morbido e accogliente, era stanchissima e in meno di cinque minuti di addormentò di colpo.
Si svegliò solamente qualche ora dopo, a notte fonda. Si girò, allungando un braccio, felice di poter finalmente sentire Jared affianco a se, ma sentì il vuoto: per un momento rimase ad occhi chiusi a pensare di essere a Parigi, a pensare di aver sognato tutto. Ma quando aprì gli occhi si rese conto di non aver sognato proprio niente: la stanza dell'hotel madrileno intorno, i loro vestiti ancora sparsi in terra, il piumone bianco e mordibo sopra il suo corpo.
Si mise seduta, tirandosi le coperte addosso e vide che le tende erano leggermente increspate, così capì che la finestra era aperta e capì anche da dove provenisse quel freddo intenso. 
Si alzò, tirandosi appresso il piumone bianco e avvolgendoselo intorno al corpo e quando si avvicinò alla porta finestra, notò che Jared era fuori, sul terrazzino, in piedi davanti la balaustra. Uscì piano, sentendo il freddo pungerle i pochi centimetri di pelle che aveva lasciato scoperti, lo raggiunse piano e lo avvolse nel piumone, poggiando la sua guancia alla schiena che tanto amava.


“Che ci fai qui fuori? Si gela” gli disse, ancora mezza addormentata.
“Niente, ora arrivo. Va dentro” le rispose, neutro. Miriam non disse niente ma rimase lì, semplicemente abbracciata a lui. Dopo qualche minuto Jared disse di nuovo: “Va dentro, Miriam”. A quel punto lei si staccò e gli andò vicino, per poterlo guardare negli occhi e scoprì che la sua espressione era dura e indecifrabile.
“Jared, ma che succede? Stai bene?” gli chiese preoccupata che fosse successo qualcosa mentre dormiva.

Jared sospirò e bevve un sorso della camomilla che aveva nella tazza che teneva in mano. Non disse niente e continuò a guardare i tetti di Madrid, pensieroso. Miriam lo fissava incapace di capire, ma non voleva fargli pressione, così rimase solamente lì accanto a lui. Dopo qualche minuto di silenzio, Jared le disse: “Ti ho detto che ti amo, Miriam”. Lo disse così, senza preavviso, in maniera tutt’altro che dolce, come a volerle recriminare qualcosa, come a volerla insultare o sgridare. Ma lei non gli aveva chiesto niente, non gli aveva fatto alcuna pressione in quel senso, non aveva neanche mai pensato di doverne parlare, aveva solamente lasciato a lui carta bianca. Perchè era arrabbiato? 


“L’ho sentito Jared…” gli rispose sorridendo dolcemente e avvicinandosi a lui. Ma appena lui sentì di nuovo il suo tocco si scansò e lasciò che la mano di Miriam accarezzasse il vuoto. Lei si trovò spaesata, non capiva cosa aveva fatto di male, cosa c’era che non andava.
“Ti ho detto che ti amo” ripetè di nuovo Jared, sempre guardando il panorama e mai lei.
“Jared, lo so, ma dov’è il problema. Ti amo anche io, dovresti saperlo!” tentò di difendersi, pensando che fosse perché lei non gli aveva risposto a tono, ma credendo che fosse una sciocchezza. Lei aveva esternato i suoi sentimenti molto tempo prima e non si era sentita dire niente in cambio, credeva che fosse palese che lei lo amasse e se non gli aveva risposto era solo perché era rimasta stupita di quella confessione e aveva voluto godersene ogni attimo.
“Non lo dicevo ad una donna da anni” disse poi, dopo un lungo silenzio che Miriam non era riuscita a decifrare. In quel momento capì e si sentì commossa: Jared era sconvolto da quel sentimento al quale finalmente aveva dato un nome. Lui aveva semplicemente chiuso il cuore in cassaforte, anni prima, dopo una delusione che tutti si erano affrettati a spiegare, senza mai capirci troppo.
Aveva sofferto e aveva iniziato ad essere così: poteva sfruttare il suo sex appeal per avere l’unica cosa che sentiva mancargli, il sesso. Per il resto, credeva di averci messo una pietra sopra e non si era più interrogato, non fino a che Miriam era precipitata fra i suoi piedi, quel settembre, non fino a che aveva scoperto che passeggiare con lei sulla sabbia era qualcosa che gli piaceva fare più di comporre musica, più di girare il mondo, più di cantare su un palco.
In quei mesi aveva pensato molto alle sue azioni: il Jared che conosceva non avrebbe preso un aereo per Parigi, non avrebbe dato una seconda chance a chi l’aveva ferito, non faceva l’amore in quel modo. Non faceva l’amore, punto. E non capiva perché ora fossero cambiate quelle cose, cambiate tutte insieme, rapidamente.
Aveva deciso di smettere di pensare, come gli aveva consigliato suo fratello qualche settimana prima, mentre lui era seduto sulla sua sedia sul balcone del MarsLab, e a lui era sembrato un buon piano, aveva semplicemente smesso di pensarci. Solo che quella sera le aveva detto ti amo, in un momento di completa sincerità e annebbiamento dovuto al piacere, dovuto al fatto che quando senti qualcosa dentro in maniera così prepotente, così forte, non riesci a tenerla nascosta per molto, perché arriva l’attimo in cui sputi fuori quelle parole senza neanche collegare il cervello alla bocca. Il cervello non conta più, e le labbra parlano da sole. A Jared era successo quello, ed ora non poteva più mentirsi, non poteva più fare finta di niente: ora le cose erano cambiate.


“Jared, guardami, ti prego, guardami, sono qui” tentò di dirgli, ma senza successo. Così, piano, avvicinò la sua mano al viso di lui, sperando che lui non si ritraesse di nuovo, e quando gli toccò il mento fece una lieve pressione affinché lui si girasse a guardarla.
Jared non oppose resistenza e si lasciò fare, ma quando la vide chiuse gli occhi, così Miriam si alzò sulle punte per dargli un leggero bacio sulle labbra e sussurrare poi: “Lo sai che quando si è nudi o ubriachi si dice solo la verità? È un po’ come se si sentisse l’istinto di non mentire più, di essere sinceri davvero. Quindi va bene così, mi ami ed è la cosa più bella che un uomo mi abbia mai detto mentre era dentro di me, Jared.” Poi lo baciò di nuovo e solo allora lui aprì gli occhi e la guardò. Aveva ancora un’espressione indecifrabile, ma Miriam non se ne curò, attese che lui se la sentisse di parlare e poi si sentì dire: “Non voglio ferirti”.

“Non lo farai, Jared, ne sono sicura. Non possiamo più sputtanare niente, credimi, ci siamo già impegnati abbastanza negli ultimi mesi e se siamo ancora qui, beh, un motivo ci sarà” gli rispose calma.
“Come ci riesci ad essere così immensa, bambina?” le disse poi, sorridendo appena e prendendola fra le braccia.
“Ho studiato di notte nell’ultimo mese, perché tu mi trovassi così in forma!” lo prese in giro lei, contenta che la tensione fosse passata.
Jared la strinse a sé, lasciando che lei lo accogliesse nel piumone. Sentì il contatto con il suo corpo nudo e caldo e per la prima volta, forse, sentì di non avere eccitazione fisica, ma mentale per quella donna. Nonostante la paura fottuta e la sorpresa per quelle parole pronunciate quasi senza volerlo, lui la amava davvero. 


Rientrarono in stanza perché stavano gelando, Jared era rimasto fuori un’ora intera e non aveva sentito assolutamente nessun indizio di assideramento, ma le temperature erano veramente basse in inverno a Madrid. Si misero sul letto e Miriam stese di nuovo il piumone, non curandosi però di incastrarlo sotto al materasso, ma lasciando che loro riuscissero ad avvolgercisi dentro. Era una sensazione meravigliosa, quella. 
“Senti come sei ghiacciato, Jared! Vuoi per caso ammalarti?” lo rimproverò, stringendoselo contro per dargli calore. E perchè quel contatto le era mancato davvero. 
“Io sono giovane dentro, non mi ammalo mai” le rispose fintamente serio.
“Si, certo Mister 42 Anni E Non Sentirli, vieni qua dai” disse Miriam ridendo e cercando di scaldarlo. Quel tocco, quel corpo nudo accostato al suo, il calore che emanava nonostante fosse stata fuori con lui, quei capelli alla lavanda sparsi sul cuscino, quella pelle così morbida, quel sorriso sempre acceso, i suoi occhi: Jared la sentiva dentro, sentiva che era penetrata in ogni fibra del suo essere e ne aveva paura.

Rimasero tutta la notte a parlare, per motivi diversi: Jared voleva allontanare la paura e vedere tutte le cose belle che lei aveva, che lo tranquillizzavano e Miriam voleva essere certa che lui non scappasse ancora.
Jared si addormentò solo alle cinque del mattino, mentre Miriam continuava ad accarezzargli i capelli e a guardarlo estasiata. A quel punto non potevano tornare indietro, era inutile anche solo pensarci, perché erano entrambi troppo dentro quella storia, quella situazione. Ci si erano messi insieme ed ora era tardi per dire di essersi sbagliati, eppure Miriam capiva che, oltre a dover alimentare una situazione perennemente sul filo del rasoio, ognuno aveva i suoi demoni, e questi rendevano tutto più complicato. Annaspavano, lei lo sentiva, e avrebbe voluto tornare alla spensieratezza di quando si erano conosciuti e tutto era iniziato. Però in quel momento Jared, nel sonno, sollevò un braccio a la strinse a sé, in un gesto non deciso dal cervello ma dall’istinto, e Miriam si promise di smetterla di alimentare i suoi demoni e di cercare di uccidere anche quelli di Jared: loro potevano farlo.


La mattina si svegliarono stanchi e con delle occhiaie pronunciate. Si guardarono negli occhi e scoppiarono a ridere entrambi per la pessima condizione che i loro visi esprimevano.
“Se ti presenti sul palco così crederanno che tu stia sull’orlo di una crisi isterica, tesoro” gli disse continuando a ridere.
“Ho ottimi truccatori, sai!” la rimbeccò lui.
“Uh, posso conoscerne uno? Ti prego, ti prego, ti prego” chiese Miriam, cercando di fare i suoi occhi più dolci e giungendo le mani in segno di supplica. 
“No, bambina, i miei truccatori sono miei e ne sono molto geloso. E poi questa è la punizione che meriti per avermi fatto stare sveglio tutta la notte” le disse fingendo di essere serio.
“Veramente io dormivo. Sei tu che hai deciso di morire di freddo in terrazzo alle due del mattino” disse lei ridendo, prima di rendersi conto che forse lui non avrebbe gradito quella battuta. Lo vide irrigidirsi e avvicinandosi a lui gli disse: “Jared, dobbiamo imparare a ridere sulle cose. Stai parlando con una che si è fatta venire una crisi isterica solo per la telefonata della tua assistente, dai!”. Poi gli accarezzò il viso, costringendolo a guardarla e gli sorrise dolcemente. Era vero: dovevano imparare a fregarsene di tutto, a ridere delle cose e a parlarsi davvero. 
Jared sembrò poco convinto, ma poi sorrise e le disse: 
“E va bene, però ero in terrazza solo perché il freddo mi mantiene giovane” le disse, baciandola subito dopo. Appena le loro labbra si toccarono, Miriam sentì un brivido e Jared sentì di non potersi più staccare da lei: “Devi smetterla di farmi questo effetto, bambina” le disse con voce roca.
“Quale effetto, Leto?” si finse ingenua lei.
“Questo effetto, signorina” rispose lui, portandole una mano in basso, fino a che vide il suo viso illuminarsi a quel tocco e sorridere sensualmente.
“Rimediamo subito, allora…” disse scostandosi da lui e alzandosi di scatto. Era completamente nuda e camminava in maniera naturale ma provocante, andando verso il bagno. Si girò a guardarlo subito prima di entrare e gli rivolse uno sguardo colmo di passione, sapendo che stava solamente giocando con il fuoco. Jared la osservò cauto, godendo di quella immagine che gli provocava tanto piacere senza neanche toccarlo, e si alzò velocemente per raggiungerla, quando le fu dietro si incollò al suo corpo e le sussurrò in un orecchio: “Eh no, la tortura è vietata, dovresti saperlo avvocato” e poi le morse il collo. Miriam rise e si lasciò toccare, fino a che Jared la spinse nella doccia, aprendo il getto di acqua calda sopra di loro.

Era tardissimo, ma Jared non se ne accorse finchè non decise di uscire dalla doccia. Si legò in vita un asciugamano e ancora bagnato e scalzo andò verso l’armadio per prendere i suoi vestiti. In quel momento sentì bussare alla porta e, abbastanza perplesso, andò ad aprire: si trovò davanti una Emma infuriata e particolarmente accesa.
“Cosa cazzo stai facendo ancora in queste condizioni?” gli sibilò contro.
“Emma, stai bene?” rispose lui, non capendo.
“Jared, sono le undici del mattino, ti rendi conto: le undici!” urlò, scostandolo ed entrando nella stanza senza essere invitata. In quel momento Miriam uscì dal bagno con un accappatoio indosso e un asciugamano in testa: “Jared, senti…” iniziò a dire, prima di vedere Emma pararsi di fronte a lei.
“Ah ecco, avevo intuito bene allora. Senti, ragazzina, qua non stiamo giocando e i patti erano chiari: vieni in tour se non ostacoli il lavoro altrui, cosa che mi sembra che tu stia facendo alla grande” le urlò contro, puntandole un dito addosso.
“Emma, stai esagerando, ho solamente scordato di puntare la sveglia, cosa che capita a tutti, dai, cinque minuti e sono da voi” tentò di rabbonirla Jared, prendendola per un braccio per convincerla ad uscire.
“Farai meglio a far si che siano quattro minuti, star” gli disse senza neanche guardarlo, tenendo gli occhi puntati su Miriam come se volesse incenerirla. Poi si girò e se ne andò come una furia, così come era entrata.

Miriam rimase in silenzio a guardare Jared, che si grattò la testa spaesato: “Scusala, odia gli imprevisti. Ora fammi sbrigare però, altrimenti mi linciano” le disse, avvicinandosi per darle un bacio veloce.

Miriam si sentì dare quel bacio, ma rimase sconvolta: che diamine di atteggiamento era entrare così in camera di qualcuno e urlare in quella maniera? Per quel che ne sapeva lei potevano essere successe un migliaio di cose, e comunque lei non aveva il diritto di rivolgersi alla gente in quel modo, pensò. Non disse niente e andò a vestirsi con calma, quando Jared la salutò per correre via, gli disse solo che avrebbe fatto un giro per la città e che non l’avrebbe disturbato sul cellulare. Forse lo disse con un po’ di polemica nella voce, perché Jared alzò gli occhi al cielo e fu pronto a dirle qualcosa, ma poi guardò l’orologio e decise di non avere proprio tempo: le baciò la nuca affettuosamente e scappò via dicendole solamente: “Sul comodino c’è il tuo pass, quando vuoi vieni all’arena e ti faranno entrare con quello al collo, ok?”. Non aspettò neanche la sua risposta.

Miriam scese una ventina di minuti più tardi, con il pass nella borsa e gli occhiali sul naso. Attraversò la hall sicura, sperando di non incontrare nessuno, specialmente Emma: era sicura che fossero tutti alle prove, ormai. Invece li vide seduti in un salottino leggermente appartato nell’area bar dell’hotel, si fermò e pensò di avvicinarsi, ma poi continuò dritta guadagnando l’uscita: l’ultima cosa che voleva era fermarsi davanti ad Emma dopo la sfuriata, perché non sapeva se avrebbe retto ancora al suo sguardo senza sbottarle contro.
Si innervosì ancora di più e uscì incamminandosi verso la città, con una guida in mano e la voglia di stare un po’ da sola.
Emma la vide camminare, di spalle, e pensò che forse aveva esagerato, ma che doveva proteggere quello che erano i Mars da tutto e da tutti. Era il suo lavoro, in fin dei conti, così lasciò perdere e tornò a concentrarsi sui dossier.


Una mezz’ora più tardi erano pronti ad andare all’arena per sistemarsi e concentrarsi in vista del concerto. Si alzarono e approfittando del fatto che Shannon e Tomo si erano allontanati appena, Jared prese da parte Emma, ancora affaccendata a scrivere qualcosa sulla sua agenda: “Non ti azzardare più a fare una scenata simile, Emma” le sibilò contro, cercando di essere pungente, ma calmo all’apparenza. Non voleva che gli altri capissero che c’era stato quel problema, specialmente suo fratello.
“L’ho fatto per te, Jared, lo sai” si difese lei, per niente pronta a lasciare andare la questione.
“Non me ne frega niente per chi l’hai fatto: non farlo mai più. E non permetterti mai più di metterti fra me e Miriam” continuò Jared.
“E allora tu cerca di far si che lei non interferisca con il tour e con il lavoro altrui” gli disse risoluta, prima di prendere le sue cose e andarsene, lasciandolo lì. Gli si avvicinò Shannon, che aveva comunque captato qualcosa di strano e gli disse: “Tutto ok? Andiamo?”
“Si si, andiamo subito” gli rispose, guadagnando l’uscita secondaria dell’hotel.

Per tutto il giorno Jared ed Emma non si rivolsero la parola, se non costretti, e la tensione stava diventando palese, tanto che Shannon e Tomo si lanciarono sguardi perplessi, chiedendosi tacitamente cosa fosse mai successo. Miriam non si fece vedere fino a tardo pomeriggio, quando Jared stava iniziando a perdere la pazienza, perché voleva che lei stesse dietro al palco durante il concerto e sapeva che la sua assenza era dovuta alla sfuriata di Emma.

“Ehi, Jared, tutto ok? Ti vedo teso” provò a chiedergli Shannon cauto.
“Si tutto ok” rispose telegrafico lui, non lasciando presagire nulla di buono.
“Miriam è in giro?” tentò ancora la sorte Shannon.
“Si, credo di si”
“Pensavo che sarebbe venuta prima nel backstage” disse distrattamente Shannon, sperando che non avessero litigato di nuovo.
“Chiedilo alla tua compagna perché ancora non è arrivata” gli disse Jared astioso, alzando di un tono la voce perché Emma, seduta poco lontano, potesse chiaramente sentire. Poi la guardò tetro e se ne andò nel suo camerino, sbattendo la porta.
Prese il cellulare e provò a chiamare Miriam, ma non ebbe risposta. Sospirò nervoso, pensando che doveva calmarsi e pensare al concerto, adesso. Poi Miriam lo richiamò.

“Ehi, scusa, non avevo sentito!” gli disse.
“Miriam, ma dove sei?”
“Sono in giro, in questo momento… dunque, su Paseo del Prado, dovresti vederlo Jay, è bellissimo!”
“Domani ci andiamo insieme se ti va” le rispose dolcemente, sentendo che tutto era di nuovo apposto. 
“Certo!” fu entusiasta Miriam, cercando di non far pesare su di lui tutti gli istinti omicidi che aveva nei confronti di Emma.
“Ora però vieni qui?” le chiese Jared. Miriam esitò, perché non voleva essere di troppo o intralciare il lavoro di nessuno e perché pensava che in fin dei conti avrebbe potuto avere Jared per sè subito dopo il concerto.
“Non lo so, Jared. Pensavo di lasciarti in pace, possiamo vederci dopo in hotel, o magari se non sei stanco fare un giro in notturna, che ne dici?” tentò di proporre Miriam. Ma sentì che Jared non avrebbe accettato.
“Per me è importante averti qui, ora” le disse solamente, senza dire altro, sperando che lei capisse.
“D’accordo, arrivo. Ma tieni lontano da me quel mastino che ti ostini a chiamare assistente” gli disse, strappandogli un sorriso.
Miriam aveva tentato di essere conciliante e diplomatica, ma proprio non le era andato giù il comportamento di Emma, senza contare che aveva creduto che lei fosse dalla loro parte e la sfuriata di quella mattina l’aveva costretta a pensare che forse non era così. Non aveva ucciso nessuno in fin dei conti, aveva solo preso un aereo per raggiungere il suo uomo, mica l'aveva incatenato al letto impedendogli di fare le prove o addirittura il concerto! 
Mentre camminava pensò che forse aveva sottovalutato Emma: la sera precedente aveva creduto di aver vinto la battaglia con due paroline assestate bene, invece forse lei aveva solo lasciato correre per mettere i punti al loro posto in un secondo momento. Ma perchè si comportava così? Jared era felice, lei avrebbe dovuto esserlo per lui, o almeno farsi gli affari suoi e pensare alla sua di vita. 
Per tutto l'oro del mondo non avrebbe voluto vederla, ma Jared le aveva chiaramente chiesto di andare a seguire il concerto, così si era rassegnata e stava attraversando la città per raggiungerlo: era anche vero che mostrarsi remissiva ora avrebbe solamente dato ad Emma più forza. 

Appena fu davanti l'arena indossò il suo pass, cercando di non dare nell’occhio. Il bodyguard parlò al telefono un attimo e poi si aprì in un sorriso, facendola oltrepassare le transenne. Iniziò a camminare sul corridoio, vedendo gente affaccendata correre ovunque e sentendo da fuori la folla che già urlava, pronta a vedere i propri idoli.
Non era mai stata dall’altra parte della barricata e le faceva uno strano effetto, anche se era elettrizzante. Pensò di chiamare Jared per dirgli che era arrivata, quando in una stanza con la porta aperta, vide i ragazzi chiacchierare, così si avvicinò e annunciò la propria presenza picchiando leggermente sullo stipite della porta e sorridendo appena. Jared si girò e le andò incontro.

“Ciao, francesina! Sei in ritardo!” le disse subito Tomo, continuando a strimpellare la chitarra per riscaldarsi.
“Si, scusate, ero in giro per Madrid e ho perso la nozione del tempo. Avete idea di quanto sia bella?” chiese loro, mentre si metteva a sedere sulle gambe di Jared, intento a giocare con i suoi capelli, finalmente tranquillo di saperla lì con lui.
“Io l’ho vista un paio di volte, ma mai benissimo in realtà” le rispose Shannon, che ancora pensava alla risposta che Jared gli aveva dato qualche mezz’ora prima riguardo ad Emma: era sicuro fosse successo qualcosa, ma non sapeva cosa e odiava che sia Jared che Emma tacessero con lui. 
In quel momento lei entrò: “Ragazzi, problema…” iniziò a dire, prima che Miriam si girasse e incrociasse il suo sguardo. Ci fu un momento di gelo e poi Emma continuò: “Ah sei arrivata, ciao. Benvenuta nel backstage” le disse, cercando di sembrare cordiale, e sorridendo in maniera alquanto finta.
Miriam stava iniziando a capire che era solo una facciata e che per quanto lei sembrasse carina e gentile, quando c’erano i concerti di mezzo o il lavoro in generale, Emma la considerava semplicemente un ostacolo per il gruppo, ma specialmente per la concentrazione di Jared. Iniziò a chiedersi se anche tutti i consigli che le aveva dato negli ultimi mesi fossero solamente frutto di un bieco doppio gioco. Le sorrise e disse: “Grazie, cercherò di non disturbare”. Se era il gioco duro che voleva, l’avrebbe ottenuto.


Jared strinse la mano di Miriam e la guardò espressivo, prima di farla alzare e dire: “Bene, noi andiamo un po’ in camerino. Ci si vede qui fra un’oretta, come al solito ok?”
“Ma Jared, dobbiamo discutere di…” tentò di dire Emma.
“Emma, riguarda il concerto?” le chiese duro. 
“No, riguarda…” attaccò lei.
“Allora non mi interessa. Possiamo parlarne domani” chiuse il discorso Jared, poi sorrise agli amici e si trascinò Miriam verso il camerino.

Appena furono soli, dentro il camerino, Jared si poggiò alla porta chiusa e la guardò: “Senti, dobbiamo trovare un modo perché tu vada d’accordo con Emma, assolutamente”.
“A me pareva di andarci d’accordo, fino a una settimana fa, onestamente. Non so cosa le sia successo” si difese Miriam, che non sentiva certo la necessità di chiarirsi con una persona che si stava dimostrando così falsa e ostile con lei. 
“Miriam, Emma è la mia assistente e posso dire praticamente che vive con me da anni. In più ora è la compagna di Shannon, potrei fare appello al tuo senso di diplomazia e chiederti di ammorbidirti?” tentò Jared.
“Perché non dici a lei di piantarla di intromettersi fra noi?” le chiese Miriam, sedendosi su una poltroncina lì a fianco.
“Perché gliel’ho già detto questa mattina, ma non vorrei che l’episodio di ripetesse e non vorrei che ci fossero ripercussioni sul gruppo. Quindi, ora, tigre, ti rilassi e dimentichi l’accaduto, d’accordo?” le chiese, e nel frattempo si avvicinò e iniziò a massaggiarle le spalle. Miriam chiuse gli occhi e gettò la testa all’indietro, poggiandola sulla pancia di Jared.
“D’accordo, Leto. Ma…”
“Niente ma. Basta, dai. Impara ad ascoltare solo me e lasciar perdere gli altri” le suggerì.
“Come sei profondo oggi, è merito del concerto?” gli disse rilassandosi e godendosi quel massaggio. Poi pigramente aprì gli occhi e si trovo il suo sguardo addosso: gli sorrise e si alzò, lasciando che le mani di Jared scivolassero via da lei.
“Signor Leto, si sieda prego, deve trovare energia giusta per lo show” gli disse, convincendolo a sedersi al suo posto e andando dietro la sua schiena.
Gli tolse la maglia e gli disse di chiudere gli occhi, poi prese a massaggiargli le spalle e il collo e sentì tutti i suoi muscoli rilassarsi sotto le sue dita. In meno di dieci minuti Jared era in paradiso, sentiva il corpo reagire in maniera positiva a quel trattamento, e iniziò a concentrarsi sulla musica: pensò alla scaletta, alle canzoni in acustica, agli accordi, a tutta l’organizzazione. Iniziò a canticchiare piano ogni brano, ripassandone le parole e le pause e si rese conto che Miriam era perfetta in quel ruolo.

“Dove sei stata in tutti questi anni?” le chiese dopo un po’, mentre lei ancora lo massaggiava piano.
“A Parigi, a rompermi le scatole cercando qualcuno che si lasciasse massaggiare. Sono stati anni terribili!” rispose lei, sempre pronta a scherzare.
“Avresti dovuto trovarmi prima, visto come sei brava a farmi rilassare”
“Ah quindi mi tieni solo per quello, ora?”
“Potrei tenerti per molte altre cose, ma assumerti per questo. Se ci pensi faremmo entrambi un affare”
“Ciao, sono Miriam, ho una laurea in Legge, ma di mestiere sono la massaggiatrice personale di Jared Leto. Mmm, perché non mi convince?”
“No, la massaggiatrice sarebbe un extra che faresti solo perché mi ami. Però potresti essere il nostro consulente legale” la buttò lì Jared, non sapendo bene dove aveva trovato il coraggio anche solo per pensarla una cosa così. Il giorno prima si sarebbe fatto uccidere pur di ammettere quanto quella relazione fosse ormai seria, ed ora era lì a dirle che la amava e a proporle una specie di lavoro. Non sapeva perchè l'aveva detto, e non sapeva neanche se era realmente serio o no, ma sembrava che il ti amo della notte precedente avesse aperto le porte ad una serie di rivelazioni che non riusciva a non esternarle. 

Miriam si bloccò di colpo e lo guardò, proprio mentre lui apriva gli occhi per guardarla. Quell’azzurro l’avrebbe fatta vacillare anche davanti ad una colata di lava incandescente, e in quel momento non sapeva se essere felice o terribilmente spaventata. Per un momento si guardarono e poi Jared si alzò al volo, come se niente fosse successo.
Lasciarono entrambi cadere l’argomento, come se fosse troppo difficile affrontarlo davvero e Miriam decise di non dare troppo peso alle parole di Jared. Si sedette a guardarlo, mentre lui finiva di prepararsi per il concerto: era bellissimo vederlo nel suo habitat. Era preciso, meticoloso, elettrico e trasmetteva energia e voglia di vivere, Miriam l’avrebbe guardato per sempre: forse quello era il lavoro che voleva fare. Guardare Jared!


“Posso?” disse una voce, mentre la porta si apriva lentamente. Da una fessura sbucò il viso di Shannon, che sorrise ad entrambi e aspettò che Jared lo guardasse per entrare del tutto. Miriam capì che era di troppo: mancava poco all’ora del concerto e sicuramente i ragazzi volevano della privacy, e se già prima non aveva avuto intenzione di intralciare niente e nessuno, dopo l’episodio della mattina, che no, non riusciva proprio ad accantonare, era diventata ancora più sensibile alla questione. Sicuramente nessuno l’avrebbe mai accusata di non essersi fatta da parte, sicuramente nessuno le avrebbe mai potuto dire che aveva impedito a Jared e alla band di lavorare per bene.
Così si alzò, andò verso Jared e dandogli un rapido bacio sulle labbra gli disse: “Io vado a farmi un giro, poi occuperò la postazione stabilita. In bocca al lupo, amore, ci vediamo dopo”. Gli sorrise e aspettò che lui la baciasse di nuovo per andare via. Passando accanto a Shannon disse qualcosa di carino anche a lui e poi uscì dalla porta.


“Nessuna donna ti aveva mai chiamato amore prima di un concerto. A pensarci bene, nessuna donna è mai stata con te prima di un concerto. Come ci si sente?” chiese Shannon, sedendosi.
“Bene, ma dovresti saperlo, no?” rilanciò Jared.
“Emma è sempre stata con noi, è diverso”
“Beh, Emma ora è tua, prima era semplicemente una collaboratrice. Ah, comunque non parleremo di lei prima del concerto, sia chiaro” gli disse, captando ancora prima che fosse possibile, l’idea di Shannon di informarsi.
“Siete due incivili, è palese che abbiate litigato e nessuno vuole dirmi perché, cazzo” disse Shannon irritato.
“Shan, lei rimane la mia assistente, anche se diventerà anche la madre di mio nipote. Quindi quello che è lavoro rimane lavoro, e a volte tu non c’entri. Tranquillo che non permetterò che le accada nulla e non la tratterò troppo male” le disse Jared risoluto, guardandolo.
“D’accordo, andiamo?”
“Andiamo” gli rispose sorridendo, teso. 

Miriam era seduta sullo sgabello che avevano fatto sistemare appena dietro il palco, in modo che non desse fastidio ai tecnici: quella posizione era perfetta, poteva vedere tutto e restarsene in disparte. Era strano vedere un concerto da quella prospettiva, la elettrizzava l’idea di vedere i Mars da dietro e poter carpire ogni singolo dettaglio.
Si sistemò meglio e osservò la folla che iniziava a gridare: doveva essere bellissimo vedere un tappeto di gente che urla per te. Pensò di chiedere a Jared che sensazione si provava.


“Ehi, sei già qui vedo” disse improvvisamente Emma, spuntandole alle spalle. Miriam saltò sullo sgabello, ancora persa nei suoi pensieri.
“Mi hai fatto paura! Si, mi hanno detto di sedermi qui, non va bene?” le chiese, cercando di non sembrare polemica o scortese, e sperando che quella domanda suonasse sincera, come era l'intenzione di Miriam nel farla. Aveva promesso a Jared che avrebbe provato a rimanere tranquilla e a dimenticare quella storia, anche se non era semplice.
“No va benissimo. È la tua postazione, l’ho fatta mettere qui apposta, così sarai comoda. Ti piace la visuale? Preferisci l’altro lato? Lì ci sarà Shannon e lì vicino alle tastiere Tomo” le disse, indicando dei precisi punti sul palco. Emma era tornata ad essere gentile e carina, come lei l’aveva sempre vista: era disponibile, sorrideva e le stava addirittura chiedendo se avesse preferito cambiare posto. Miriam pensò che forse era stato lo sfogo nervoso di un momento e sorrise. Oppure era semplicemente bipolare, caso in cui avrebbe dovuto seriamente starle alla larga, perchè a quanto pareva nei momenti cupi riusciva a prendersela con lei in maniera magistrale. 

“No qui va benissimo, vedo tutti e tre molto bene, grazie” rispose, rilassandosi.
Poi Emma sospirò e senza guardarla iniziò a parlare: “Vedi, Miriam, tu non sai come funziona il nostro lavoro. Ci sbattiamo tutto l’anno per un paio d’ore di gloria e anche se sembra che sia tutto improvvisato, dietro ad ogni gesto e sorriso c’è un lavoro estenuante e meticoloso che facciamo tutti. Se tu arrivi qui e lasci che Jared faccia tardi agli appuntamenti, manchi di rispetto a lui, ma anche a tutta la macchina. Jared è innamorato di te, e credo che sia rivalutando molto gli standard di precisione a cui ci ha abituati e costretti in questi anni, e questa cosa è bella, perché vuol dire che tu sei importante, ma tu devi essere capace di curarti della sua carriera. Dietro ogni uomo c’è una grande donna: oggi è mezz’ora di ritardo, domani è una scaletta non precisa e dopodomani chissà. Se lui non è capace di insegnarti come comportarti qui, allora devo arrivare io a fare la stronza, e ti assicuro che non mi diverto per niente. Impara in fretta e vivremo tutti felici, Miriam”.


Miriam era sconvolta: davvero le stava insegnando a comportarsi? E lei che pensava che stesse cercando di scusarsi, prima. Era una donna incredibile, bravissima nel suo lavoro, ma davvero non riusciva a capire come facessero a sopportarla, era come se dovesse avere sempre il controllo di tutto e di tutti e Miriam non avrebbe accettato che quel controllo si estendesse anche a lei. Lei era una donna adulta e sapeva comportarsi, lei teneva a Jared e alla sua carriera, per nulla al mondo l'avrebbe danneggiato, già il solo fatto che Emma lo pensasse, la offendeva moltissimo.
Si sentì denigrata e sottovalutata, ma non aveva capito cosa Emma intedesse davvero: potevano andare d'accordo, lei era disposta ad accettarla, ma di contro Miriam avrebbe dovuto sinceramente impegnarsi. E impegnarsi avrebbe voluto dire rispettare determinate cose, e non credere che l'atteggiamento di Emma fosse morbosa curiosità o chissà cos'altro. 


“Forse è il caso che tu inizi a separare quella che è la vita privata dal lavoro. Per quanto riguarda il ritardo, io non sapevo neanche che aveste un appuntamento, perché ti assicuro che altrimenti non l’avrei trattenuto, anzi. In ogni caso mi dispiace, e da oggi imparerò a memoria gli orari per assicurarmi che lui non faccia tardi” le rispose, astiosa e sarcastica.

“Non giocare, Miriam, che prima o poi cadrai e ti farai male” le disse solamente, andandosene verso i camerini, con la certezza che no, non aveva capito proprio niente. 

Miriam respirò a fondo e vide dal fondo del corridoio arrivare Jared, seguito da Tomo e Shannon, decise di sorridere e non dire mai a nessuno di quella conversazione con Emma. Lei si sarebbe dovuta rassegnare alla sua presenza lì, e Miriam avrebbe lavorato perché non ci fosse niente da recriminarle.


Lo show fu pazzesco: Jared diede il meglio di sé, coinvolgendo e ammaliando la folla, cantò alcune canzoni di repertorio e parve divertirsi molto. Il concerto durò più di due ore, per le quali Emma rimase seduta dalla parte opposta alla sua con una radio in una mano e l’agenda nell’altra: Miriam osservò come tutti per qualsiasi cosa si rivolgessero a lei, che era sempre attenta e all’allerta.
Aveva in viso un’espressione concentrata e sembrava essere molto stanca, e forse il suo astio era dovuto solamente alla paura che qualcosa andasse storto. Iniziò a ragionare su alcune cose e capì che forse non avrebbe dovuto fare un’improvvisata a Madrid, ma avvertirla prima, forse aveva sottovalutato il suo lavoro e le dispiaceva. Anche se, pensò, lei non si sarebbe dovuta permettere di trattarla a quella maniera.

A fine concerto, mentre i Mars salutavano il pubblico e facevano la foto di rito con la folla dietro, Miriam si alzò e andò verso Emma, con due bottigliette di acqua fresca che erano a disposizione lì nel backstage. Gliene porse una, senza dire niente e le sorrise, Emma rimase a guardarla qualche secondo, prima di accettare l’offerta e ringraziarla con un fil di voce appena percettibile e sorriderle appena. Poi Miriam rimase a fissarla ancora, prima di andarsene e tornare al suo posto, tornando a concentrarsi sul palco.
Emma la guardò, seduta lì dove le avevano detto di stare, con un sorriso bellissimo in viso e seguì la scena che si susseguiva davanti ai suoi occhi: Jared che rientrava nel backstage, che le passava accanto e che le prendeva il viso fra le mani per baciarla. Miriam che si alzava velocemente ad abbracciarlo e probabilmente a fargli i complimenti, a giudicare dal modo in cui si era avvicinata al suo orecchio per sussurrargli qualcosa.
In quel momento non contava niente di niente ed Emma un po’ invidiò loro questa capacità di astrarsi dal mondo, di rimanere solo loro due, in barba a qualche fan che poteva scattare foto o a qualche tecnico impiccione.


Emma li vide semplicemente bellissimi e pensò che forse aveva esagerato, ma era la prima volta che Jared era preso da altro, e per lei non era facile accettarlo, dopo anni in cui avevano costruito quella famiglia esclusiva, in cui lei aveva faticato per riuscire a farne davvero parte. Shannon le piombò affianco, mentre lei era ancora intenta a guardare Jared e Miriam che tubavano come piccioncini dall’altro lato. Le sfiorò delicatamente i capelli e le disse: “Piccola, andiamo?”
“Shan, mi hai messo paura. Sei stato bravissimo!” gli disse, sorridendo e diventando rossa per quel tocco espresso davanti a tutti. Si ritrasse, perché la loro privacy era sacra e non voleva dare adito a niente, lei.
Shannon aspettò che lei si alzasse dallo sgabello per seguirla, e mentre camminavano le mise un braccio attorno alle spalle: “Shan, ma che fai?” reagì lei istintivamente.

“Abbraccio la mamma del mio bambino, è vietato per caso?” le rispose. Forse era stanco di aspettare che lei si decidesse ad ammettere come stavano le cose, o forse era semplicemente stanco che a decidere della sua vita fossero i giornali: che si fottessero i giornali, se qualcuno li avesse visti, li avrebbe fotografati e stop.
Nelle settimane passate aveva osservato Jared andare contro una marea di diktat, al MarsLab e aveva deciso che voleva vivere normalmente anche lui, amava Emma e stavano aspettando un figlio: dov’era il problema? Emma gli sorrise e capì che forse avrebbe dovuto ammorbidirsi, così in uno slancio lo baciò sulle labbra, sorridendo e continuando a camminare.


“Jared, sei stato pazzesco, assurdo, bello in modo impossibile e con un’energia impressionante!” gli disse Miriam saltellando.
“Quindi deduco ti sia piaciuto il concerto?”
“Piaciuto? Ma io voglio vederli tutti da qui fino alla fine dei miei giorni!” rispose lei, ridendo come una bambina.
“Solo se mi fai quel tuo massaggio prima di salire sul palco”
“Solo se inizierai a pagarmi profumatamente”
“Certo che ti pagherò, bambina…” disse lui, spingendola verso un pannello dietro di loro e sovrastandola con il corpo. Non le sfiorò le labbra, ma le loro bocche erano a pochissimi millimetri di distanza, Jared sorrideva e lei poteva vedere l’elettricità nel suo sguardo. Le prese il sedere fra le mani e strinse quel tanto che bastava a farle capire come stavano le cose, e poi si spinse ancora verso di lei, per farle sentire che no, forse non era ancora stanco. Miriam sorrise e lo baciò, incurante di tecnici e di qualsiasi viavai che potesse esserci lì: quando Jared la prendeva fra le braccia, non esisteva più niente e nessuno.

Tomo aveva guardato gli amici e li aveva visti felici, felici davvero, forse per la prima volta in tantissimi anni. Era emozionato all’idea che Emma e Shannon avrebbero avuto un bambino, e sconvolto all’idea che Jared stesse cambiando in maniera sensazionale.
Quanto a lui, stava ancora lottando con gli scatoloni della sua vita, accatastati in un angolo del cuore e pronti, forse non del tutto, a lasciarsi portare altrove. Nell’ultimo mese aveva pensato moltissimo a Vicky, ai loro ricordi, all’idea romantica del passare tutta la vita insieme, che non si era realizzata, e alle telefonate che lei aveva tentato di fare, per porre rimedio, per cercare di chiedere scusa. Non c’era da scusarsi, c’era solamente da tornare indietro e cancellare parecchie cose, eventualità che la vita non ti concede mai, e quindi per Tomo la questione era finita più o meno dove era iniziato tutto: la relazione di Vicky.
Era brutto dover spiegare a tutti come stanno le cose e sentirsi dire che può capitare, quindi lui ultimamente aveva smesso di parlarne, se non con amici fidatissimi, che più o meno poteva contare sulle dita di una mano. E poi c’era quella cosa che Vicky gli aveva confessato qualche settimana prima, subito dopo Capodanno, forse a volerlo ferire, o a renderlo partecipe di qualcosa a cui non aveva il diritto di partecipare. Fatto sta che erano settimane che ci pensava e sembrava che il peso sullo stomaco fosse improvvisamente aumentato. Il tour imminente era l’unica cosa che lo rendeva euforico, almeno per un po’ avrebbe allontanato tutto.


In tutto quel contesto c’era Kiki, che gli dava quel brivido di vita che gli serviva a sorridere, ma per la quale aveva remore e paure inconsce. Non voleva ferirla, non voleva assolutamente che lei fosse un chiodo scaccia chiodo, per quanto, era onesto, il tutto era davvero iniziato così, alle Hawaii.
Quando l’aveva conosciuta si era buttato fra le sue braccia per dimenticare, ma anche per capire cosa aveva provato Vicky a stare a letto con una persona che non fosse lui. Era intenzionato a finirla là, così come tante volte avevano fatto i suoi amici in tour, con donne bellissime, possedute e poi dimenticate. Solo che lui non ne era capace, o più banalmente lei era riuscita a farsi strada nel cuore di Tomo, e per quanto non era certo di amarla, abbandonarla era diventato impossibile.

Tomo non era pronto ad avere una storia seria, ma capiva che era diritto di Kiki chiederla e allo stesso tempo non voleva lasciarla, perché lasciarla avrebbe voluto dire abbandonare anche l’ultimo barlume di felicità che gli restava, se si escludeva, ovviamente, la musica. Era un casino totale, pensò, mentre beveva dell’acqua ghiacciata e guardava Jared stringere a sé Miriam in maniera molto poco delicata.


“Ehi, amico, grande serata” gli disse Shannon raggiungendolo. Tomo gli diede una pacca sulla spalla e sorrise.
“Si, grande concerto, è vero” rispose, cercando di essere normale come sempre.
“Dici che prima o poi ci ridaranno indietro il nostro sergente di ferro?” gli chiese, incrociando le braccia e guardando nella direzione di Jared.
“Ah, non credo proprio, Shan, scordatelo!” sorrise Tomo, rilassandosi.
“Quindi da oggi faremo il cazzo che ci pare senza rottura alcuna?” disse speranzoso Shannon.
“No, c’è sempre l’altro sergente da abbattere, ma forse gli ormoni della gravidanza ci aiuteranno anche lì” rispose Tomo, guardandolo. Era incredibile che sarebbe diventato padre.
“No, su quel fronte credo che siamo spacciati, amico” rise Shannon. “A proposito, grazie per l’altra sera, al MarsLab, a quanto pare saresti un ottimo compagno per una donna incinta” continuò, sinceramente grato per l’intervento di Tomo nelle crisi di Emma.
“A quanto pare no invece… Vicky ne ha scelto un altro” rispose, abbassando la voce e lo sguardo.
“Che cazzo dici, Tomo?” si allarmò Shannon, guardandolo serio.
“Vicky è incinta, ovviamente del suo amante” confessò Tomo, abbassando voce e sguardo simultaneamente, come un bambino colto in fallo.
“Amico, ma stai scherzando?” chiese, retoricamente Shannon.
“Ti sembra che sia uno scherzo divertente da fare? Mia moglie incinta del suo amante, che ridere!” rispose amaro Tomo, guardando l’amico e poi subito dopo la folla che ancora era lì nell’arena.
In realtà il suo sguardo era perso nel vuoto, in quel vuoto che sentiva di avere dentro da quando aveva scoperto che si, avrebbe voluto un figlio anche lui, e che forse era colpa sua se Vicky se ne era andata: lui non aveva saputo capirla, aveva continuato a fare il ventenne che gioca a suonare la chitarra in giro per il mondo e non aveva ascoltato la voglia di Vicky di andare avanti. Ma ora questa smania di crescere anche lui era vera o era solamente frutto di una ripicca nei confronti di quella donna che forse amava ancora e che lo stava distruggendo?


“Da quanto lo sai?” continuò Shannon.
“Da un paio di settimane, forse tre, non ricordo precisamente”. Invece lo ricordava perfettamente: erano esattamente venticinque giorni che la bomba era stata lanciata, per telefono, mentre lui era in una caffetteria a prendere la colazione per tutta la band prima di andare al MarsLab.
Il telefono era squillato e lui aveva risposto senza pensare né guardare il display, perché quel giorno si sentiva stranamente felice e certo non immaginava che Vicky stesse per iniziare la tua tortura più grande. Però preferì evitare a Shannon la pietosa scena dell’uomo, o finto tale, che conta i giorni che sono passati da quando la donna della sua vita lo ha definitivamente distrutto, così mentì, sperando di essere un bravo attore.

“E perché non ce ne hai parlato?”
“Perché non mi andava di entrare in studio e ammettere che sono un coglione che in pochi mesi ha perso tutto”
“Tomo, non è colpa tua. Vicky ha sbagliato, l’abbiamo detto mille volte, sai quanto io le voglia bene, ma oggettivamente ha fatto una cazzata gigantesca. Non puoi sentirti in colpa”
“Non mi sento in colpa, solo penso che se avessi ascoltato la sua voglia di diventare madre un anno fa, ora non saremmo a questo punto” ammise, limpido e abbastanza sereno. Capire i problemi e affrontarli era sempre stata una grande dote di Tomo. Solo che l’unica volta in cui si era rilassato e non aveva dato ascolto a nulla, la sua vita l’aveva ripagato con un pugno nello stomaco.
“Per fare un figlio si deve essere in due, Tomo, e lei non ha mai espresso nulla. Non hai pensato che forse avrebbe dovuto darti qualche imput?”
“Si, forse si o forse no… Shan, non lo so. Ma fa un male cane. In sei mesi ho perso mia moglie, che ora è incinta di un altro e ho messo in piedi una storia strampalata con una ragazza più giovane di me, che mi adora e che io credo che deluderò molto presto”
“Kiki lo sa?” chiese Shannon, incupito dall’ultima frase, anche se onestamente non credeva fosse la cosa più giusta da far notare in quel momento. Tecnicamente era stato l'unico a credere che la storia fra Tomo e Kiki fosse sbagliata o comunque stesse procedendo in maniera troppo veloce: lui conosceva il suo amico molto bene, e per quanto volesse illudersi che Kiki potesse renderlo felice e non volesse fare il guastafeste, sapeva che Tomo non era tagliato per lei. O che semplicemente non era il tipo da dimenticare una donna così facilmente. Una donna come Vicky poi. 
“No, e non deve saperlo. Ultimamente è serena, e non voglio darle pensieri che non le appartengano” disse sicuro Tomo.
“Forse dovresti fidarti di più di lei e darle una possibilità di essere davvero nella tua vita” azzardò Shannon.

Tomo, lo sguardo sempre perso nella folla che li aveva appena visti esibirsi, sospirò e pensò che forse aveva ragione l’amico, ma lui non si sentiva pronto a far si che un’altra persona invadesse la sua vita in maniera completa, e si sentiva male a questa idea, perché nello studio, a Capodanno, si erano più o meno promessi qualcosa, e Kiki era sempre così entusiasta della vita che se avesse sentito il cuore di Tomo parlare, sarebbe stata annientata.

“Forse non sono pronto per farla entrare nella mia vita in maniera completa” ammise, impaurito, per la prima volta ad alta voce.
“Datti il tempo giusto, come quando cerchi l’accordo perfetto” rispose Shannon, incitandolo ad andare verso i camerini.
Shannon era sempre stata una persona incapace di giudicare anche il più incallito criminale. Per lui le cose erano piene di sfumature che se non senti addosso non puoi capire.
Era una persona limpida che aveva fatto una serie di giganteschi errori nella sua vita, e aveva capito che il dolore più grande arriva da uno sguardo che credi amico e che invece ti trafigge fino a farti sentire sulla pelle tutta la disapprovazione di cui è capace.
Per quel motivo, era sempre pronto a sostenere più che a giudicare, e in quel momento, anche se credeva che Tomo non stesse agendo come un grande innamorato o come un uomo pieno di rispetto nei confronti di Kiki, non volle assolutamente tediarlo con frasi fatte che lo avrebbero solamente mandato in crisi.
Lasciò che Tomo potesse ancora fidarsi di lui così da renderlo la sua spalla più sicura, quello che era stato in tanti anni, e pensò che forse avrebbe potuto aiutarlo ad essere più sincero in un secondo momento.


Jared li raggiunse dopo poco: “Grandi, ragazzi!” disse loro, battendo il cinque con entrambi. Miriam li osservava poco distante e in quel momento le squillò il cellulare, rispose in fretta e sentì la voce di Kiki dall’altra parte.
“Ehi, come va? Il concerto?”
“Kiki, ciao! Ma che ora è da quelle parti, scusa?”
“Lascia stare, è tardissimo!” sbuffò la ragazza allegra come sempre.
“E tu sei rimasta sveglia per chiamarmi? Potevamo sentirci domani” le disse Miriam.
“No, volevo sentirvi appena finito il concerto. Allora com’è stato?”
“Bellissimo, Ki, davvero meraviglioso. Loro sono pazzeschi sul palco e visto dal backstage è un’emozione unica” disse, sorridendo.
“Che invidia pazzesca! Prima o poi voglio vederli anche io da quella prospettiva” le rispose Kiki. Miriam stava per chiederle se avesse voluto parlare con Tomo, quando lo vide guardarla e cambiare sguardo, per poi defilarsi come se avesse una certa urgenza. Continuò a seguire i suoi movimenti con gli occhi e scoprì che stava quasi correndo verso il suo camerino, cosa che non capì: era certa che i ragazzi avessero capito che fosse Kiki al telefono. Si voltò di nuovo, sperando, quasi inutilmente, che l’amica non le chiedesse niente di Tomo, cosa che infatti non avvenne: “Miriam, senti, mi passi Tomo?”. Puntuale come la morte. Ed ora cosa avrebbe potuto dirle ora? Tentennò.
“Eh guarda Kiki, credo sia già sotto la doccia…” disse, un po’ impacciata. Shannon capì e lei le risolve uno sguardo interrogativo, al quale lui rispose con un’alzata di spalle: non poteva tradire i segreti dell’amico, non con Miriam, che conosceva così bene Kiki. E neanche con nessun’altro, che non fosse, eventualmente, Jared.
Fu Emma a salvarla stavolta: le strappò il telefono di mano e dopo aver raccolto le forze tirò fuori la voce più squillante che possedesse.

“Kiki, tesoro, come stai?”
“Emma?! Bene, ma io volevo, si insomma, Tomo dov’è?” rispose Kiki, leggermente confusa.
“Si, guarda, i ragazzi sono corsi a salutare i fan. Sta tranquilla, appena recupero Tomo, gli dico che hai chiamato, d’accordo?” le rispose. Kiki esitò: ora a salutare i fan, prima in doccia, dov’era la verità? Ma non poteva certamente contraddire Emma, perché lei era lì, era l’assistente del gruppo, ma soprattutto aveva usato una voce così sicura che sarebbe stato impossibile dire che stesse mentendo.
La salutò velocemente e chiuse la chiamata, porgendo di nuovo il cellulare a Miriam, la quale lo prese continuando a guardarla, e forse ad ammirarla per la presenza di spirito.

“Ragazzi, ma che succede?” chiese dopo qualche minuto di silenzio da parte di tutti.
“Niente, credo, Miriam. Solo dopo i concerti si è molto stanchi e forse Tomo voleva un po’ privacy. Magari non si è accorto che era Kiki al telefono” le rispose Shannon. Emma non rispose, e sembrò non accorgersi neanche della domanda di Miriam: semplicemente si mise nuovamente seduta a consultare l’agenda.
“Sarà… un minuto prima è qui sorridente e sereno, un minuto dopo scappa come se stessero per bombardarci” disse Miriam, non convinta della situazione.
“Mi avevi promesso un giro in notturna, andiamo?” le disse improvvisamente Jared, che non sapeva cosa stesse succedendo, ma era intelligente e sensibile abbastanza da capire che qualcosa stesse bollendo in pentola. Conosceva i suoi amici da troppo tempo per non accorgersi anche del più insignificante particolare.
“Si, certo” rispose Miriam, ancora un po’ accigliata, guardando Shannon che le sorrideva innocente. Jared la portò via, andò velocemente a cambiarsi e poi si diressero verso il centro della città.

Non appena la porta si fu chiusa, Emma, senza alzare lo sguardo, chiese a Shannon: “Si è già stufato?”
“No, ha dei problemi” rispose lui, sapendo che avrebbe potuto confidarsi con Emma, per un milione di motivi. Lei in quegli anni si era guadagnata la loro fiducia, e comunque ora la loro situazione era totalmente diversa.
“Capisco, beh state attenti però se non volete che arrivino alle orecchie di quella ragazza, visto che qui c’è Miriam” gli disse, guardandolo.
“Si, signora. Ora che ne dici di occuparci un po’ di noi due?” le chiese, sentendo improvvisamente la stanchezza andare via. Si avvicinò a lei, le prese il viso fra le mani e la baciò con passione, togliendole l’agenda dalle mani e buttandola dietro di lui.
“Shannon, la mia agenda!” si lamentò lei, cercando di vedere dove fosse finita.
“Emma, diventerò geloso della tua agenda un giorno di questi” disse lui, prendendola fra le braccia.
“Ed io delle tue fan” gli rispose. Era la prima volta che lasciava intendere di essere gelosa di Shannon, e lui provò un singolare brivido lungo la schiena che lo fece ridere ed eccitare ancora di più.
Iniziarono a spogliarsi, e a fare l’amore in maniera dolce e calma. Fu il più bel momento della giornata, pensò Shannon e per un attimo si accorse di dimenticare tutto, ma proprio tutto.


Tomo decise di raggiungere nuovamente la saletta comune, avendo trovato una scusa per la fuga. Sentì dei gemiti e delle risatine provenire da dentro e si fermò all’istante: dovevano smetterla di scopare a quel modo, pensò riconoscendo Emma e Shannon. Poi rise sinceramente felice che le cose per quei due sembravano andare bene e prese il cellulare per chiamare Kiki. 

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Capitolo 15
*** Avrei voglia di un cookie al cioccolato, con cannella e zenzero in polvere ***


Buona lettura, amici! 

Bibi
 


Avrei voglia di un cookie al cioccolato, con cannella e zenzero in polvere
 

Il giorno dopo erano tutti e tre distrutti: Jared aveva passato la notte con Miriam in giro, si erano ritirati solo alle sei del mattino, dopo aver mangiato churros caldi in mezzo la strada e aver camminato moltissimo. Erano crollati addormentati subito, per svegliarsi verso le nove, con la sveglia puntata all’orario esatto.

Shannon ed Emma invece avevano passato la notte a parlare di nomi e a cercare di trovare un modo per far combaciare tutto: gli impegni, la nascita del bimbo, che sarebbe avvenuta in agosto, la pancia che sarebbe presto cresciuta, la casa da sistemare.
Ancora non avevano deciso dove andare a vivere insieme, e sicuramente avrebbero dovuto occuparsi anche di tutto ciò di cui il bambino necessitava. Quella notte era stata perfetta per iniziare a parlare di tutto, e per la prima volta avevano riso tanto e non avevano pensato che sarebbe stato tutto difficile. 
Forse, si dissero, stavano iniziando a godersi davvero quel momento.


Tomo invece aveva passato la nottata sul terrazzino, chiuso dentro ad una coperta a pensare. Aveva litigato al telefono con Kiki, che gli aveva chiaramente detto che sentiva che qualcosa non andava, e dopo aver riattaccato senza chiarimenti, si era ritrovato a fare i conti con se stesso, cosa che aveva portato una marea di pensieri e di insonnia. 
Era chiaro che non fosse pronto a dare a Kiki ciò che chiedeva e meritava, ma al contrario non aveva la forza per lasciarla andare del tutto. Era confuso, arrabbiato e non sapeva come andare avanti. 
Non chiuse occhio e il cielo scuro di Madrid non alleviò nessun dolore. 


Si ritrovarono al ristorante dell’hotel, per la colazione, tutti con le occhiaie e la stanchezza, solo alcuni davvero felici e spensierati. Miriam si sedette accanto a Tomo e approfittando di un momento di solitudine, provò a tastare il terreno, ancora colpita dalla scena della sera prima.

“Allora, che si dice?” gli chiese. Tomo la guardò perplesso, poi tornò a torturare i suoi cereali e le rispose calmo.
“Sono stanco morto, oggi voglio vegetare tutto il giorno. Poi domani faremo rotta su Berlino”
“Sai ieri sera Kiki mi ha detto che le piacerebbe vedere il concerto dal backstage, una volta o l’altra” buttò lì, mangiando la sua fetta di pane tostato. Notò che Tomo si irrigidì di colpo e serrò le labbra, smettendo di masticare. Allora ci aveva visto giusto quando aveva pensato che il problema fosse Kiki. Aspettò che lui reagisse, senza aggiungere altro.
“Si, magari un giorno possiamo organizzare” disse solamente, dopo minuti di silenzio, con un'espressione tutt'altro che serena dipinta in volto. 
“Tomo, sicuro che sia tutto apposto?” si aprì lei, abbassando la voce e avvicinandosi a lui, complice.
“Si, tutto ok Miriam. Scusami, devo andare” rispose, fingendo un sorriso rilassato e scappando letteralmente dal tavolo, senza neanche finire di mangiare.
Miriam rimase a guardarlo mentre si avviava agli ascensori, e in quel momento fu raggiunta di nuovo da Jared, che era riuscito a placare Emma e le sue manie di perfezione che lo perseguitavano da quando aveva messo piede fuori dalla sua stanza.


“Eccomi, scusa” le disse, baciandole la testa e sedendosi di nuovo.
“Jared, Tomo ha dei problemi e potrei scommettere che hanno a che fare con Kiki” partì in quarta lei, continuando a guardare nella direzione in cui Tomo era fuggito e torturando la sua fetta di pane. 
Jared la guardò e alzò gli occhi al cielo: possibile che tutti volessero informarlo di eventi tragici quella mattina?

“Miriam, tesoro, perché non lasciamo che li risolvano loro e ci godiamo la giornata?” tentò di convincerla, sapendo già che non avrebbe avuto successo.
Shannon rincarò la dose, arrivando a sedersi con un caffè in mano: “Lascialo stare, Miriam” disse solamente, dietro gli occhiali da sole. Poi abbracciò Emma, e le diede un bacio sulla guancia, sorridendole complice. Nella notte avevano deciso di smettere di nascondersi, insieme, e Shannon stava già applicando quella nuova tendenza, più felice che mai. 

“Così voi due ore fate sul serio?” li prese in giro Jared, guardandoli e poggiando la schiena alla spalliera della sedia divertito.
“Si può non fare sul serio con un bambino in arrivo, Jared?” chiese Emma, fintamente scocciata.
“No, è che fino a ieri, in pubblico, sembravate due estranei. La notte porta consiglio, vedo” continuò a stuzzicarli lui.
“Jared, guarda un po’ qua, piuttosto…” gli disse Emma, avvicinandogli il tablet dal quale stava consultando le critiche al concerto della sera prima.
Jared, mentre ancora prendeva in giro il fratello, prese l’oggetto e lo guardò distrattamente, prima di diventare serio: li avevano scoperti, in pieno centro di Madrid e in piena notte, mentre mangiavano churros seduti su una panchina. La didascalia accanto le foto diceva: Jared Leto si rilassa dopo il concerto con una fan.
Respirò a fondo, mentre Miriam mangiava la sua marmellata, senza essersi accorta di niente, ed Emma lo osservava pronta ad una delle sue scene.

“Miriam, da oggi sei una mia fan” le disse, prima di guardarla e passarle il tablet. Lei lo prese, e quando vide la schermata per poco non si soffocò con il boccone che aveva appena ingoiato. Iniziò a tossire forte e cercò un bicchiere d’acqua che la aiutasse a non rimanerci secca. Non riuscì a dire niente di sensato e aveva il terrore di alzare gli occhi e incontrare lo sguardo severo di Jared, che sicuramente avrebbe scatenato una tempesta. O forse no.
“Jared, conferenza stampa subito” ammonì Emma, per poi continuare: “Anzi, potremmo lasciar correre ora e dire qualcosa a Berlino, al M&G”.
“Frena, frena. Che senso ha? E’ l’ennesima foto di giornali scandalistici, lascia decantare e cadrà nel dimenticatoio” le rispose, calmo, continuando a guardare Miriam per capire come avesse preso la cosa.
“Non cadrà nel dimenticatoio se continuate a vedervi in giro per l’Europa. A questo proposito, direi che per un po’ è meglio lasciar perdere le sorprese” rispose stizzita, rivolgendosi più a Miriam.
“Emma…” disse solamente Jared, guardandola espressivo.
Miriam si decise finalmente a parlare: “Fa uno strano effetto vedermi qua sopra, scusate” disse solamente, prima porgere il tablet ad Emma, attraverso il tavolo. Non espresse nessun commento su quanto detto da Emma, o su nient'altro, si alzò e scusandosi andò via.

Jared la osservò correre via, deluso dalla sua reazione che aveva sperato essere leggermente più positiva. Guardò Emma e le disse solamente: “Dunque, le cose stanno così: non ho intenzione di smentire, perché non c’è niente da smentire. Il giorno che faranno due più due avranno scoperto che ho una relazione e allora ce ne occuperemo. Non voglio sentire altro”.
Poi si alzò e corse dietro a Miriam, che aspettava l’ascensore per andarsi a chiudere in camera.


“Ehi, fermati un attimo” le disse non appena la raggiunse, afferrandola per un braccio. 
“Ah sei tu”
“E chi pensavi che fosse?”
“Pensavo che Emma mi fosse corsa incontro per rispedirmi a Parigi e bloccarmi la carta di credito per evitare che io compri altri biglietti aerei" rispose, ma la sua voce non era scocciata o polemica. 
“Smettila, dai” le disse, accarezzandole piano la guancia. Lei si ritrasse da quel tocco e salì nell’ascensore appena arrivato.
“Mi dispiace Jared, ora avrai casini e…” iniziò a dire e Jared fece l’unica cosa di cui era capace per riuscire a calmarla: la baciò.
Lo fece con dolcezza e complicità, nella hall dell'albergo, per dimostrale che non gli importava molto di tutto quel casino. Si staccò da lei, osservandole quegli occhi bellissimi in preda allo sconforto e accarezzandole una guancia le sussurrò, piano: 
“Ci hanno visto giusto, stavolta. E allora? Ci fotograferanno ancora a Berlino, e magari in Asia e fra qualche mese faranno due più due e inizieranno a seguirti, e magari scopriranno chi sei. Se tu sei pronta a vivere così, il problema non si pone”. 
“Sei tranquillo?” gli chiese, perché era l’unica cosa che le interessasse davvero. Perché aveva paura che lui scappasse, perché sentiva che erano ancora molto fragili, nonostante tutto.
Lo sentiva addosso a lei, sentiva il suo calore e vedeva l'azzurro dei suoi occhi, ma non le bastava: voleva sentirsi dire che andava tutto bene. Aspettò con ansia la sua risposta. 

“Si, certo” mentì Jared. Sapeva che avrebbero dovuto stare attenti a proteggersi ora, e sapeva che forse Miriam non si rendeva conto di quel che avrebbe potuto innescare la stampa, però non poteva dirglielo per non farla entrare nel panico, e perché, in fin dei conti, era felice con lei e voleva godersela davvero.
“D’accordo, allora va bene. Però tieni a bada, Emma” lo minacciò, prima di sollevarsi sulle punte e baciarlo dolcemente. Era il weekend più bello della sua vita e stava iniziando a piacerle quel vagare per il mondo pur di stare con lui.

Qualche ora più tardi, sotto le coperte, Miriam pensò che dovevano fare l’ennesimo planning: quando si sarebbero rivisti?
“Vieni con me a Roma, fra due settimane” le propose Jared. Miriam prese al volo lo smartphone, su cui aveva salvato il prospetto del tour dei Mars e vide che era un venerdì sera, quindi avrebbe potuto prendere l’aereo appena uscita da studio e rientrare a Parigi la domenica. Si poteva fare.
“Andata, ci sto!” gli disse piena di entusiasmo, prima di gettarsi addosso a lui e baciarlo felice. Poi si scostò rapida e disse: “Aspetta, mando un sms di conferma a Emma”.
Non scherzava, nonostante l’espressione di Jared, Miriam si mise davvero a scrivere un sms: “Verrò anche a Roma, fra due settimane. Concerto di venerdì, arrivo previsto venerdì stesso e partenza domenica per Parigi. M.” e lo inviò ad Emma. Poi bloccò lo smartphone e si girò verso Jared con espressione totalmente innocente e aprendo i suoi grandi occhi nocciola.

“Sei una strega, Miriam, guarda se mi toccherà litigarci prima o poi” le disse Jared, sospirando e alzando gli occhi al cielo, ma sorridendo sotto i baffi. 
“Ho solo evitato altre sfuriate, così potrà inserirlo nella sua preziosa agenda” gli rispose, leggermente acida.
“Miriam, vuoi dirmi perché ce l’hai così tanto con lei?”
“Non ti basta che mi abbia praticamente detto che ti rovinerò la carriera e che devo imparare a comportarmi perché non c’entro niente con il vostro mondo?!” gli disse, con l’espressione irritata, e sollevandosi a sedere sul letto.
“Va bene, però devi trovare un modo per andarci d’accordo, perché ora che abbiamo una relazione seria e normale, più o meno, tu sarai parte della mia vita così come lo è lei. Trovate un accordo” le disse, cercando di essere comprensivo.
“Dillo alla tua assistente isterica”
“Miriam, stai esagerando”. Diventò leggermente serio, perchè l'aveva protetta da Emma, ma lei avrebbe dovuto fare la sua parte. 
“Ok, scusa, però davvero mi sento sempre sotto pressione con lei, anche se ha quel modo di fare così cordiale e carino, ieri mattina esclusa, si intende. Anche quando mi ha chiamato da LA per dirmi che avevate sposato Bordeaux: insomma, non sono un pacco, sono la tua ragazza e vorrei avere a che fare con te, non con lei che organizza la tua vita, cazzo!” sputò, sentendosi però un po’ petulante.
Jared scoppiò a ridere, perché gli riusciva difficile credere che fosse arrabbiata quando lo guardava con quel viso angelico e quei capelli color miele che le cadevano sulle spalle. E poi adorava quando sparava parolacce per dare un tono ai suoi discorsi.
“Che ti ridi, Leto? Pensi per caso che a 42 anni la locuzione “tua ragazza” non sia appropriata? Perché ci stavo pensando anche io…”
“Spiritosa. Comunque mi sto rammollendo: l’anno scorso, dopo il concerto avrei pescato una bionda di vent’anni e me la sarei portata qui per farci sesso fino alle luci dell’alba” disse, sospirando e guardando la finestra come se volesse riacciuffare i tempi andati.
“Smettila immediatamente Leto” intimò lei, colpendolo con un pugno sui pettorali. Jared rise più forte e la incatenò fra le sua braccia.  

Il giorno dopo lo passarono chiusi nella suite, a coccolarsi e organizzare il prossimo weekend.
Complice un brutto temporale che si era abbattuto su Madrid proprio quella notte e che non accennava a smettere, Miriam e Jared avevano deciso di non vestirsi per niente.
Verso mezzogiorno, Shannon chiamò in camera per sapere che intenzioni avessero, perché loro stavano pensando di affrontare la tempesta e prendere un treno per andare in un paesino molto carino ad una mezz’oretta dalla capitale. Jared guardò Miriam nuda al suo fianco, totalmente scoperta e a pancia in sotto e decise che avrebbe dovuto sopravvivere due settimane senza di lei, quindi niente al mondo l’avrebbe fatto uscire da quel letto. Declinò l’offerta di Shannon, che parve capire le loro intenzioni e iniziò a ridere prendendolo in giro, nonostante la presenza di Tomo ed Emma al suo fianco. Jared, senza tante cerimonie salutò il fratello e gli appese la cornetta in faccia, lasciandolo solo a prenderlo in giro.


Miriam sarebbe partita solo la sera tardi, per essere a Parigi oltre la mezzanotte e sfruttare così più tempo possibile per stare con Jared. Verso le diciannove scesero per mangiare qualcosa e nel bar dell’hotel trovarono Shannon, Emma e Tomo.
“Non potevamo non salutarti, francesina” le disse calorosamente Shannon, porgendole una fetta di una buonissima torta che avevano prenotato per lei.
“Wow, ma grazie! Siete tornati dalla gita fuori porta?”
“Si, Toledo è un posto meraviglioso, dovreste andarci prima o poi” le rispose Tomo, il cui comportamento sembrava essere tornato normale. Miriam non aveva abbassato la guardia, ma non voleva essere pedante, così lasciò cadere la questione. Per ora.  
“Avevano molto da fare, oggi, amico, te l’ho detto” proseguì Shannon, ridendo e dando un pugno sulla spalla del fratello, che lo guardò decisamente male.
Continuarono a chiacchierare divertiti e tranquilli, ma l'ora per Miriam di andare via arrivò troppo presto. 

Quando stavano per separarsi, lei cercò un modo per tenere in vita qualcosa, per avere delle conferme, per quanto stupide potessero essere quelle conferme la aiutavano a tirare avanti, a non farsi prendere troppo dal panico.
Ripensò a quando Jared partì dalle Hawaii e lei era risoluta a voler dimenticare, convinta che sarebbe realmente successo: erano passati sei mesi ed erano ancora lì, e Miriam ora aveva un nodo in gola all’idea di lasciarlo. E non era solamente nostalgia, d’altronde un paio di settimane e si sarebbero rivisti, era proprio la sensazione che quel tempo senza di lei sarebbe servito a Jared per riflettere e capire che lei non era quello che voleva, che realmente intralciava la sua carriera e che la loro storia era troppo complicata da tenere in piedi. Lo guardò e lui le sorrise, come se capisse tutto l’uragano che aveva dentro. 


Si destò dai suoi pensieri e disse a malincuore: “Va bene, la torta era buonissima ma io devo andare o rischio di perdere l’aereo”. Tomo si alzò e la abbracciò forte, così come fece Shannon. Poi fu la volta di Emma, che le strinse la mano e le sorrise, dicendole: “Ci vediamo a Roma, dunque”. Cercò di comunicarle in maniera tutta sua che aveva apprezzato quel messaggio di informazioni.
“Roma?” fecero eco Shannon e Tomo all’unisono.
“Si, Roma. Ho deciso di farmi un’altra tappa del tour” annunciò Miriam, quasi a volersi scusare.
“Brava, bellissimo! Allora ridammi il mio abbraccio, visto che ci vedremo fra un paio di settimane, per favore!” la prese in giro Tomo, abbracciandola ancora.
Poche altre battute e poi fu il momento di andare davvero via. Jared se la portò in un angolo leggermente appartato e la abbracciò forte, tenendola stretta qualche minuto. Era bella, buona e odorava di qualcosa di suo e Jared si sentiva perso all’idea di non poter più vedere quella cascata biondo miele sul suo cuscino.
“Cerca di non dimenticarmi in queste due settimane” gli disse, mentre ancora cercava l’odore e il contatto della sua pelle.
“Fai bene a venire in Italia, bambina. Le italiane sono letali” la prese in giro lui, guadagnandosi un pugno sulla schiena che provocò le risate di entrambi. “Sto scherzando, bambina, mi mancherai”.
“Ti amo Jared, a presto” rispose lei, dolcemente.
“Vai, il taxi ti aspetta” e la spinse via, seppur a malincuore. Miriam si accorse che non le aveva detto ti amo e ci rimase male, ma cercò di allontanare quella sensazione che qualcosa non andasse.

Mentre Miriam tornava a casa, Jared tornò in camera per sistemare i bagagli: il giorno dopo sarebbero partiti per la Germania, dove li attendevano vari concerti. Era intento a sistemare, nell’assoluto silenzio, quando sentì bussare alla porta, andò ad aprire dopo qualche minuto, sperando che chiunque fosse capisse che non aveva voglia di parlare. Ma chiunque fosse non lo capì e continuò a bussare, con l’intenzione di vincere quella silenziosa battaglia. Quando andò ad aprire, accigliato, si trovò di fronte Emma, che gli sorrise ed entrò prima ancora che lui potesse dirle qualcosa.
“Domani ci passeranno a prendere alle sette del mattino, colazione verso le sei quindi” gli disse, passeggiando per la stanza, come se si sentisse in diritto di frugare fra le sue cose.
Emma era sempre molto a suo agio nella sua vita, e questo dimostrava il rapporto che li legava. Jared la guardava passeggiare, sbirciando qua e là, e non poteva dire che gli desse fastidio la sua mancanza di tatto quando si parlava della sua privacy, solamente osservandola capì che forse non era dell’organizzazione che voleva parlare.

“Si, me lo avevi accennato anche oggi” le rispose, cercando di farle capire che era palesemente in fallo.
“Beh, giusto per essere sicuri” reagì lei, senza guardarlo. Si avvicinò alla finestra e guardò il panorama: tempo prima avrebbe creduto di poterlo amare, prima che Shannon iniziasse ad essere per lei qualcosa di diverso, prima che si rendesse conto che Jared era semplicemente un’attrazione fisica smodata per lei, ma che suo fratello le aveva aperto un mondo che ora faticava a non viversi. Tempo prima avrebbe considerato quell’intimità un regalo enorme, ora sentiva di non essere più parte di quella magia e intimamente ne era felice, perché sentiva di essere la protagonista di qualcosa di molto più bello.
“Volevo chiederti scusa” sussurrò infine, dopo aver calibrato bene le parole e il tono da usare.
“Ci siamo già chiariti, Emma” disse lui, continuando a sistemare le sue cose, convinto che guardarsi non servisse.
“Ed invece no” lo spiazzò lei. Jared si fermò un attimo e intuì che quel discorso sarebbe finito molto lontano e non sapeva se avesse davvero voglia di affrontarlo.
“E allora facciamo che accetto le tue scuse ora” le rispose, sperando che lei si convincesse che quel discorso fosse davvero chiuso.
“Fino ad un anno fa, forse anche un po’ prima, io ti consideravo l’uomo più sexy ed emozionale di questa terra, Jared. Ero disposta a fare tutto per te, speravo come una folle che tu ti scoprissi innamorato di me, almeno la metà di quanto ti vedevo innamorato del tuo lavoro, e magari delle notti brave passate con le modelle. Ogni volta che la mattina vedevo qualche donna uscire dalla tua stanza, provavo una fitta così acuta allo stomaco che se me lo avessero strappato avrei sofferto meno. Semplicemente credevo che tu non fossi fatto per amare davvero, che il tuo carattere ti imponesse di essere un dittatore sensuale e crudele e che nessuna donna sarebbe mai stata in grado di sciogliere il ghiaccio che ti eri costruito intorno…” fece una pausa, per somatizzare quelle parole, forse, per dare il tempo a lui di abituarsi alla confessione. Ma Jared era abituato, perché era un ottimo osservatore e sapeva benissimo che Emma aveva sempre avuto un debole per lui. Pensò a suo fratello e si sentì a disagio.
Poi Emma continuò: “… poi ho iniziato a passare del tempo con Shannon, che era sempre gentile e sorridente, che non mi aveva mai reso così partecipe della sua vita e sembrava avere un mondo tutto suo nascosto da qualche parte, ma con il quale iniziavo a sentirmi diversa, a sentirmi apprezzata come donna, prima ancora che come assistente, organizzatrice, tutto fare. Non posso dire di amarlo da sempre, Jared, ma posso dire di essermi innamorata di lui giorno dopo giorno, durante il tour della scorsa primavera, quando la sera ci ritrovavamo a chiacchierare seduti per terra nei corridoi degli hotel, perché entrare in una delle camere anche avevamo avrebbe annullato quel senso di essere adolescenti che ci piaceva vivere. Era diventata una routine per entrambi: il concerto, i convenevoli, qualche donna che passava dalla sua stanza e poi alle prime luci dell'alba facevamo colazione insieme, seduti per terra nei corridoi, come barboni, come persone qualunque. Non ho mai capito come facessimo a capire che fosse l'ora esatta: semplicemente ci incontravamo. Abbiamo iniziato a parlare delle banalità, poi notte dopo notte andavamo sempre più lontano ed io mi scoprivo ad attendere con ansia quei momenti, quasi come se fossero l'unica cosa che mi importasse davvero. Quando Shannon mi ha chiamato dalle Hawaii e sono partita di corsa, è stato perché mi sono resa conto per la prima volta nella mia vita che ero davvero innamorata, e nonostante tutti i casini di cui tuo fratello è capace, è meraviglioso averlo accanto. Io ho smesso di vederti in quel modo tanto tempo fa, forse non ti ho mai visto con gli occhi con cui guardo Shannon tutti i giorni, e non sono gelosa di te, anche se può sembrare che io lo sia, solo che Miriam… da quando c’è lei tu sei cambiato, Jared, sei flessibile e sorridente, sei divertito e hai uno sguardo morbido e dolce. Saprei descrivere ogni tuo singolo particolare, visto gli anni che abbiamo passato insieme, e non so quanto e quando riuscirò ad abituarmi al tuo non essere più uno stronzo patentato che tende a rendere la vita impossibile a chiunque gli capiti a tiro. Non so quando riuscirò a credere che non manderai più nessuna assistente da Starbucks con qualche ordinazione folle, solo per farle pagare una parola detta male. Credo che mi manchi il vecchio Jared, quello di cui ho creduto essere follemente innamorata, e che invece era semplicemente il mio migliore amico”.
Aveva parlato per un tempo lunghissimo, sentendo Jared dietro le sue spalle essere immobile e trafiggerle la schiena con i suoi occhi azzurro mare. Un tempo quello sguardo le avrebbe mandato a fuoco l’anima, ora non sentiva niente. Le lacrime le scendevano sul viso, ma sperava che forse quel discorso avrebbe sistemato le cose fra loro.


Jared sospirò e pensò che quella ragazza era uno splendido esempio di perfezione scesa in terra. Nessuna donna gli aveva mai dato tanta importanza, forse neanche Miriam stessa, e pensò di regalarle un attimo di felicità: “Emma, avrei voglia di un cookie al cioccolato, con cannella e zenzero in polvere sopra” disse serio e sicuro. Emma scoppiò a ridere e si voltò a guardarlo. Lui aggiunse: “Non sto scherzando”, continuando a non ridere.
Lei lo guardò a lungo e poi, senza dire niente, uscì dalla sua stanza, lasciandolo solo.
Jared era convinto che l’avesse mandato a quel paese e che ora avrebbe potuto continuare a sistemare le sue cose tranquillo, prendendo nota di non cambiare troppo perché Emma, forse, aveva ancora bisogno di qualche punto fermo. Come il suo essere viziato ed impossibile. Forse tutti avevano bisogno che lui non cambiasse poi così tanto, perché erano cresciuti tutti insieme e ognuno aveva una specie di ruolo: non aveva mai pensato che il suo cambiamento così repentino potesse destabilizzare quella che credeva fermamente essere la sua famiglia.


Dopo mezz’ora sentì bussare alla porta di nuovo e alzò gli occhi al cielo, credendo che stavolta fosse suo fratello: perché sentivano tutti la necessità di confidarsi con lui? Andò ad aprire e trovò di nuovo Emma, con un sacchettino in mano. La guardò interrogativa e poi lei disse: “Ne ho presi due, così uno potrai mangiarlo domani mattina, nel caso facessi tardi per la colazione”, poi gli lasciò cadere il sacchetto nelle mani e si girò per andare via.
Lui guardò i suoi biscotti e poi la chiamò piano: “Emma…” aspettò che si girasse per continuare: “Io sarò sempre il tuo amico, qualsiasi cosa accadrà. E ti assicuro che non ho smesso di renderti la vita impossibile. Se ci pensi è bello che ci siamo innamorati nello stesso momento” e le sorrise, pensando che quell’amicizia era davvero tale, ora, dopo tanti anni.
Emma gli sorrise e gli augurò buonanotte, andando verso la sua stanza. La vide indugiare davanti la stanza di Shannon e poi bussare piano, aspettando che qualcuno aprisse. Vide suo fratello sorridere e uscire nel corridoio con solo i pantaloni della tuta indosso e prenderla in braccio baciandola: erano belli, erano belli davvero. Jared morse il suo biscotto e tornò dentro. 

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Capitolo 16
*** Amami ***


Bentrovati a tutti! 
Ecco un nuovo capitolo pronto per voi...
devo dire che è davvero denso e lungo, mi sono lasciata trasportare! 
Come al solito, grazie a tutti voi,
che mi seguite con affetto e dedizione! 
Spero di non deludervi! 

Buona lettura,
Bibi
 

 
Amami

Le settimane trascorsero lente: i Mars erano in Germania e continuavano il loro tour con divertimento e abbastanza stress da poter assillare tutta la terra.
Fra Jared ed Emma le cose parevano andare molto meglio, dopo l’ultima notte madrilena, e Shannon era felice che così fosse, benché non si fosse mai azzardato a chiedere particolari né ad Emma né a suo fratello. Sapeva benissimo che il loro rapporto era quasi morboso e sapeva benissimo che a volte fra loro si celavano dei momenti in cui nessuno era gradito. Non era geloso, perchè era semplicemente un rapporto diverso e tutto loro quello che avevano costruito negli anni Jared ed Emma. 


Il concerto di Roma arrivò, e Miriam non era nella pelle all’idea di rivedere Jared, e anche gli altri.
In quelle settimane aveva sentito a volte Emma, che era più morbida e serena, dopo l’episodio di Madrid. Ancora non era molto tranquilla, ma pensò di darle una chance.
Il venerdì della partenza vide sua madre e le disse che andava a Roma per Jared, ricevendo in cambio un sorriso complice che le riempì il cuore. Quello che non sapeva era che a Roma avrebbe trovato una sorpresa molto gradita: all’aeroporto di Fiumicino, mentre aspettava un taxi si sentì picchiettare sulla spalla e sorrise. Jared aveva pensato di farle una sorpresa!

Si girò lentamente e con un’espressione felice e vide davanti a sé Kiki. Rimase a bocca aperta, per poco non le venne un colpo, ma poi le saltò al collo per salutarla.
“Cosa ci fai qui?” le chiese quasi urlando in francese, prima di ricordare che lei non parlava la sua lingua e ripeterle il concetto in inglese.
“Sono venuta a fare una sorpresa a Tomo. Di certo non mi aspettavo di trovarti però” le disse l’amica, cercando di non cadere sotto l’impeto di Miriam.
“Ho deciso di tornare a trovare Jared, visto che poi andrà in Asia e non sarà facile vedersi” le rispose.
“Non lo sapevo! Ti ho visto mentre prendevi il bagaglio, è bello essere qui insieme” squittì Kiki, saltellando felice intorno a lei. 
“Si, molto bello. Ti aspettano?”
“No, nessuno sa niente, te l’ho detto: è una sorpresa” le disse di nuovo Kiki. Miriam rabbrividì al pensiero che Emma non sapesse dell’imprevisto e sperò che Kiki non dovesse subire la stessa scena che era stata riservata a lei un paio di settimane prima. Non disse nulla e continuò a fingere che fosse una splendida idea: nel caso Emma avesse tirato fuori le unghie, avrebbe trovato un metodo per aiutare Kiki.
“Va bene, allora andiamo insieme dai. Jared mi aspetta in hotel, credo che loro siano arrivati questa mattina a Roma” le disse, fermando un taxi e iniziando a sistemare le valigie nel bagagliaio. 

Salirono e diedero all’autista l’indirizzo dell’hotel. Miriam era a disagio: oltre al fattore Emma, non aveva dimenticato la scena in cui Tomo scappava nel post concerto quando aveva sentito che Miriam parlava con Kiki al telefono. Non sapeva perché, ma sentiva guai in arrivo. Tentò di rilassarsi, e di sorridere normalmente, per non farsi fare domande da Kiki, ma le risultò piuttosto difficile.

Arrivarono in hotel, entrarono e andarono subito verso la reception, dove Emma aveva lasciato il nominativo di Miriam sotto il nome della band.
L’hotel era stato avvertito del suo arrivo e lei avrebbe potuto sistemarsi in camera di Jared senza avere o creare problemi. Il punto era che ora c’era anche Kiki da sistemare: Kiki che non aveva pensato di avvertire nessuno. Kiki alla quale non era stato insegnato che passati i diciotto anni, o forse anche prima, in campo sentimentale le sorprese sono da evitare. Forse ora Miriam capiva quanto fosse difficile il lavoro che Emma svolgeva, ma non disse nulla.

Parlò con l’uomo dietro il banco e sbrigò le pratiche di accoglienza, dicendo a Kiki di aspettare per vedere come risolvere la situazione. Poi si girò e vide Emma entrare in hotel proprio in quel momento: tirò un sospiro di sollievo e allo stesso tempo le si contorse le stomaco. Sperò che fosse sufficientemente rilassata e di buon umore e le andò incontro, prima che potesse accorgersi con i suoi occhi del dramma che si stagliava di fronte a lei: l’imprevisto.

“Ciao, Emma” le disse calorosamente, cercando di nascondere dietro di lei Kiki.
“Ciao, Miriam. Andato bene il viaggio?” le risposte sorridendo appena. Si, decisamente meglio dell’ultima volta. No, ancora non calorosamente come avrebbe sperato.
“Si, molto, grazie. Senti, guarda un po’ chi ho trovato all’aeroporto!?” le disse, sperando in quel modo di smorzare la crisi isterica che era certa Emma avrebbe avuto di lì a poco. Emma guardò oltre Miriam e vide Kiki sorridente e allegra. Miriam giurò di aver visto un lampo passarle negli occhi.
“Che cosa ci fa lei qui?” sibilò a bassa voce a Miriam, in modo che Kiki non sentisse.
Miriam sentì tutte le sue più scure previsioni avverarsi, e abbassando ancora di più la voce, le rispose: “Non lo so, Emma. L’ho trovata davvero all’aeroporto. Se mi avesse accennato che voleva venire in Europa ti avrei chiamato, ma non lo sapevo neanche io”.
Emma fece appello alla pazienza che sentiva di non avere e sospirò, mentre Kiki correva loro incontro.
“Ciao, Emma! Felice di vedermi?” disse subito, gettando le braccia al collo della donna. No, pensò Miriam: mossa sbagliatissima. Non è felice di vederti, non lo sarà per tutto il fine settimana e hai anche osato saltarle al collo in un momento come questo. Dovrò fare delle lezioni ad Kiki, pensò Miriam.
“Certo, Kiki, molto felice” mentì, cercando di sorridere forzatamente, cosa che le riuscì piuttosto male.
“Bene, Tomo dov’è?” partì in quarta Kiki, guardandosi intorno.
“Tomo è alle prove con i ragazzi. Torneranno più tardi in hotel” le rispose Emma. Miriam la osservava e fu grata a Shannon, che probabilmente aveva trovato un modo per calmarla, perché sembrava che non volesse uccidere Kiki, solo farle un po’ male.
“Senti, adesso ti prendo una stanza a nome della band, ma ti pregherei per le prossime volte ti avvertirmi se decidi di unirti al tour” le disse, lasciandola per andare verso la reception a sistemare il problema. Non attesa la sua risposta, perché quello era un avvertimento che non aveva bisogno di ulteriori parole.

Miriam ringraziò tutti i santi del Paradiso in cui non sapeva se credere o meno, che Emma fosse stata diplomatica e accomodante quanto bastava a non far scoppiare a piangere Kiki. La guardò andare via, e ripensò alle sue parole: Emma non aveva detto che l’avrebbe registrata per stare con Tomo, ma che avrebbe preso una stanza tutta per lei. Le sembrò strano, ma pensò che fosse solamente perché Tomo non sapeva della sua presenza ed Emma non voleva prendersi responsabilità in merito. Ma il brutto presentimento era sempre più forte.

Come ad interrompere i suoi pensieri, avendole letto la mente, Kiki si lagnò: “Ma io vorrei stare con Tomo”.
“Kiki, starai con Tomo, ma credo che sia più comodo per Emma prendere una stanza in più. Anche con me ha fatto così a Madrid” mentì, per calmarla. Poi aggiunse: “Però è vero, Kiki: la prossima volta avverti qualcuno, basta anche solo Emma, in modo che lei possa gestire le cose”.
Cercò di essere dolce abbastanza da non farci rimanere male l’amica, ma si rese conto che Emma aveva ragione. Poi pensò anche di dirle che non era una buona idea fare una sorpresa ad un uomo, in quella maniera, ma sorvolò, sperando che il suo presentimento fosse errato. D’altronde se Kiki si era sobbarcata in un viaggio tale, evidentemente sentiva che le cose fra lei e Tomo andavano bene, pensò.


Emma tornò verso di loro porgendo una chiave a Kiki, e poi le invitò al bar a prendere qualcosa da bere, aspettando quelli che, a pensarci bene, erano i loro uomini: Miriam rise a quell’idea, ma era la verità. O quasi.
Parlarono un po’, sorseggiando drink, mentre Emma teneva stretto il suo cellulare nelle mani, cellulare che squillava almeno due volte ogni quindici minuti. Era più o meno tranquilla, avrebbe ancora voluto incenerire Kiki, ma a Miriam sembrò che facesse appello alle sue forze nascoste per non compiere un omicidio in piena regola. Più che altro Kiki non la stava aiutando: continuava a parlare a raffica di quanto fosse stata geniale l’idea di quella sorpresa, di quanto fosse felice ed emozionata di essere lì e, dulcis in fundo, di quanto sarebbe stato felice Tomo di vederla. Miriam tentò di placare l’euforia, ma ebbe scarsi risultati, e per farsi perdonare lanciava sguardi supplichevoli ad Emma.

Circa un’ora, dodicimila parole inutili, settantadue telefonate e tre cocktail per sopportare il tutto, più tardi, Miriam vide Jared entrare nell’hotel e gli corse incontro: era bello rivedersi e in quel momento tutto il resto passò in secondo piano. Forse anche in terzo piano.
Non si curò di avvertire nessuno della presenza di Kiki, tanto era felice di essere di nuovo con Jared, che si lasciò travolgere felicemente da Miriam. Rimasero stretti in silenzio per qualche minuto, e solo quando sciolsero l’abbraccio, e solo dopo averlo guardato negli occhi per ricordare quanto fossero intensi e strabilianti, Miriam tornò vigile e tentò di capire la situazione. Si girò pensierosa, cercando la sua amica, e vide che stava parlottando con Tomo poco distante. Non si riusciva a sentire cose dicessero, ma a giudicare dall’espressione di Tomo, era evidente che il presentimento di Miriam non fosse poi così sbagliato.


Nel frattempo Shannon era rimasto in piedi accanto al bar, cercando negli occhi di Emma una risposta, che non arrivò. La donna, comodamente seduta sulla sua poltroncina e padrona del suo più intimo amico, il cellulare, lo guardò alzando le mani, come a voler dire di non saperne niente.
Così Shannon, sorridendo appena per il comportamento prevedibile di Emma, incalzò Miriam, dopo che si fu avvicinata a salutarlo con Jared alle calcagna: “Miriam, ma che ci fa qui Kiki?” le sussurrò.   
Miriam sorrise e rispose onesta: “Non lo so, Shan! Giuro che non lo so. Me la sono ritrovata all’aeroporto che saltellava felice, non aveva avvertito neanche me”. Era sinceramente preoccupata, continuando a guardare la coppia che parlava. Ormai tutti guardavano loro due, mentre prendevano posto al tavolo
“E neanche me, aggiungerei” disse Emma, sorseggiando il suo succo di frutta. Shannon la capì e le fece una leggera carezza sul braccio, che ebbe il potere di scioglierle un sorriso dolcissimo. Miriam pensò seriamente di ringraziare Shannon in privato!
“Non è il caso di andare a dire loro di discutere altrove? Sono in mezzo alla hall dell’hotel” disse improvvisamente Jared, che fin’ora aveva gustato la scena in silenzio.
“Ragazzi, ma volete spiegarmi dov’è il problema, per favore?” sbottò Miriam, avendo ormai capito che c’era qualcosa di cui non era stata messa al corrente. Ora, capiva benissimo che loro quattro fossero una specie di famiglia da strapazzo tirata su per caso e che si teneva unita grazie alla musica e tutto il resto, ma iniziava leggermente a scocciarsi delle loro parole a mezza bocca, delle loro risate improvvise senza motivo, dei loro sguardi che dicevano tutto e niente. Loro avevano ricordi in comune, vite in comune, aneddoti in comune: era faticoso stargli dietro!
“Eh, dunque… diciamo che Tomo ha dei problemi in questo periodo e forse Kiki avrebbe dovuto avvertire” le disse Shannon, non sapendo fino a che punto potesse rivelare la questione. Era stato il primo con cui l’amico si fosse confidato e aveva giurato, non che ce ne sarebbe stato bisogno, di essere muto come una tomba.
“Ah bene, davvero molto bene” sbuffò Miriam, non sapendo come prendere la rivelazione.

Emma nel frattempo prese la palla al balzo e si alzò, pragmatica come sempre. Si avvicinò a loro e prima di poter dire qualcosa, riuscì a sentire un pezzo di conversazione: “Kiki, ma avresti dovuto avvertirmi” disse Tomo, e subito dopo la voce lamentosa della ragazza: “Ma io volevo stare con te!”.
A quel punto Emma si inserì, schiarendosi la voce e cercando di apparire gentile ma perentoria: “Ragazzi, avete delle camere, forse è il caso di andare a parlare lì. Avrete privacy e nessuno vi disturberà”. Aggiunse un mezzo sorriso e un invito palese a lasciare quel luogo pubblico. Ma a quanto pare non era abbastanza.

“Emma, per favore lasciaci parlare” le rispose Tomo, più duro di quel che volesse.
“Tomo, per favore lo dico io. Su, andate” disse ancora, mandandoli verso gli ascensori come due bambini capricciosi.
Tomo e Kiki si voltarono e percorsero la distanza che li separava dagli ascensori in silenzio, entrambi scuri in volto. Kiki sembrava sull’orlo delle lacrime e Tomo sull’orlo di una crisi di nervi: bel modo di iniziare il weekend, pensò Miriam.

Non appena furono al loro piano, Tomo aprì la sua stanza e vi entrò, lasciando che Kiki lo seguisse, chiudendo la porta dietro di lei. Si mise a guardare fuori dalla finestra, con le mani sui fianchi e lo sguardo perso altrove. Kiki gli andò vicino e lo abbracciò da dietro, sperando di ritrovare una certa intimità, ma non servì a nulla: Tomo la allontanò togliendole le mani dal suo torace e scostandosi dalla sua portata.

“Tomo, ma cosa hai?” sbottò Kiki.
“Kiki, te l’ho detto: avrei voluto essere avvisato del tuo arrivo” reagì Tomo, cercando di celare il vero motivo del suo umore.
“D’accordo, e ti ho chiesto scusa, ma non ti sembra di esagerare? Stai continuando a punirmi da mezz’ora!” gli disse Kiki, ora arrabbiata, mentre si metteva a disfare la sua valigia. Forse aveva sbagliato, ma non credeva che fosse un errore così enorme il suo, e non ci stava ad essere trattata come una bambina stupida, quindi aveva tirato fuori le unghie che aveva e che a volte tirava dentro perché odiava i conflitti.
“Non ti sto punendo, sono solo contrariato. Ehi, ma che fai?” le chiese girandosi e vedendola affaccendata con i suoi bagagli.
“Secondo te!? Dovrò dormire vestita, forse?” gli disse Kiki sarcastica, mentre lo sfidava con lo sguardo. Ma non sapeva che lui sarebbe arrivato a tal punto.
“Non hai una tua stanza? Emma non ha provveduto? La chiamo” disse subito. Kiki era sconvolta, ma rispose certa: “Fermo, ce l’ho una stanza, Emma ha provveduto” e dicendo ciò chiuse di nuovo la valigia e la mise per terra, facendo per andare via.
Tomo la vide prendere la porta e si sentì in colpa: se lei era lì evidentemente nell’ultimo mese lui non era stato chiaro e forse ora stava esagerando. Non le aveva mai rivelato i suoi dubbi, la sua crisi: da dopo Capodanno non si erano più visti, e lui adduceva sempre scuse di lavoro, aveva persino inventato di non essere a Los Angeles, rischiando grosso. Ora la guardava e pensava che avrebbe dovuto essere sincero, ma non ne aveva il coraggio o più semplicemente, voleva solo risolvere i suoi problemi da solo, convinto che Kiki non ci entrasse poi molto.

“No dai, non intendevo, ehi rimani” tentò di dirle, facendo la voce più convincente che avesse, senza riuscirci molto.
“Tranquillo, devi riposare, ci vedremo domani” rispose lei, sorridendo appena, tanto per non perdere la dignità e dimostrare che era tutto apposto. Uscì dalla stanza di Tomo e si chiuse la porta alle spalle: dire che era annientata sarebbe stato decisamente poco corretto. Era totalmente annientata.
Si trascinò la sua valigia, insieme al suo viso spento verso la stanza che le era stata assegnata, vedendo con estremo disappunto che non avrebbe dovuto fare molta strada: era quella proprio accanto a quella di Tomo. Forse era stato un caso o forse Emma aveva agito pensando di fare una carineria che sicuramente ora era poco utile.
Aprì la pesante porta bianca e si chiuse dentro quella che le sembrò essere la stanza più bella di sempre, anche se lei non era certa di voler dare importanza a una cosa del genere. Si buttò semplicemente sul letto, sentendo le lacrime caderle fino al collo, incapace di fermarle o anche asciugarle.


Tomo era rimasto a bocca aperta, non sapendo che dire o cosa fare. Avrebbe potuto fermarla con più veemenza, convincendola a restare, convincendola che era davvero quel che voleva, ma non ci era riuscito.
La verità era che averla lì, senza preavviso alcuno, lo aveva mandato in tilt, lo aveva reso isterico e non convinto più di nulla. Non sentiva Vicky da quasi un mese; in verità lei non aveva più provato a cercarlo, sintomo che la sua rivelazione era frutto solamente di una bieca vendetta, come se poi fosse lei ad aver diritto dell’ultima parola. Lui dal canto suo, non aveva più composto alcun numero che si ricollegasse a lei: cellulari, casa, niente. Nonostante li sapesse tutti a memoria. Non voleva sentirla, perché le avrebbe scaricato addosso tutto il suo dolore e la sua rabbia e non voleva rendersi ancora più idiota. Forse sarebbe servito a farla ragionare, aveva pensato molte volte, ma con un bambino in arrivo, ragionare era l’ultima opzione disponibile.
Sospirò guardando il pavimento della sua suite. Che cazzo di casino era diventata la sua vita? Era felice, il più equilibrato di tutti, quello che non aveva mai portato una donna nella sua stanza d’albergo, quello che dispensava consigli ai fratelli Caos Leto e faceva impazzire le fan con la sua aria calma da bravo ragazzo. Invece, in meno di un anno aveva stravolto tutto in favore di un’esistenza completamente diversa. Fosse stato felice almeno.


Si buttò sul letto, ma non riuscì a prendere sonno, così dopo un paio d’ore mandò al diavolo le coperte e si mise addosso qualche vestito preso a caso per uscire sul balcone. Quella stanza aveva un affaccio su Roma splendido, e lui aveva sempre amato quella città così caotica e piena di vita, quella vita che avrebbe voluto sentire di nuovo scorrere nelle vene e che invece tornava a farsi presente solo durante i concerti.
Inspirò l’aria insolitamente calda della città a pieni polmoni, sentendo per un momento di stare bene e poi aprì gli occhi a guardare il panorama.
Trovò una sedia e si sedette, dopo aver preso una birra dal frigobar: quella notte sarebbe andata così, birra ghiacciata in mano e tepore quasi primaverile, nonostante il mese di febbraio, sulla pelle.
Era lì da mezz’ora circa quando sentì un rumore provenire dalla sua destra, si girò istintivamente, anche se avrebbe pagato per non essere disturbato in quel momento e vide un’esile figura fare capolino sul balconcino ad angolo adiacente al suo. Pensò fosse Emma, per un momento, ma poi i capelli corvini lo costrinsero a vedere la realtà: era Kiki. Si drizzò sulla sedia, sperando quasi che lei non lo vedesse, ma così non fu.

Lei si girò come rapita da qualcosa, nonostante lui non avesse fatto il benché minimo rumore e incontrò i suoi occhi e il suo viso. Avrebbe voluto scappare e forse anche lui, ma entrambi sapevano che erano incastrati e dovevano trovare un modo per uscirne fuori. Fu Tomo a rompere il ghiaccio, troppo duro per essere scalfito.

“Non sapevo che avessi quella stanza” le disse, rimanendo seduto, incapace di rilassarsi.
“Beffe del destino. Speravo di essere in un altro hotel in realtà” gli rispose, più acida di quel che sentisse di essere in realtà. Tomo incassò il colpo, pensando di esserselo meritato e abbassò lo sguardo dispiaciuto e in imbarazzo.
“Non ce ne sono molti in zona che offrono questo panorama” le disse, sperando di portare la discussione su una parità che faticava a credere possibile.
“Vengo dalle Hawaii, nessun panorama può destabilizzarmi” . Era convinta a non volergli dare vantaggio, ma neanche nessun appiglio.
“Touchè” le disse alzando le mani in segno di resa. Poi continuò: “Possiamo parlare seriamente, Kiki?”. Lei rimase in silenzio per un tempo infinito, indecisa se mandarlo a quel paese o correre nella sua stanza e costringerlo a tornare l’uomo di cui si era innamorata. Lui non era quello che aveva davanti, lei lo sapeva, e qualsiasi cosa fosse successa, lei aveva il diritto per sapere. Per poi trovare un modo per annientarla. Ci pensò su e poi decise di desistere e lasciarlo in pace. Si sedette su una sedia anche lei, accavallò le gambe e rilassò la schiena. Poi lo guardò torva, dandogli con gli occhi il segnale per parlare: era lui che ora avrebbe dovuto trovare il modo per iniziare.
Tomo capì che la palla era nelle sue mani e cercò le parole giuste: quello bravo con le parole era sempre stato Jared, anche se poi si rivelava un disastro in molto altro. Pensò e ripensò sperando che qualcosa gli venisse in mente e poi lasciò semplicemente che la sua bocca parlasse senza preoccuparsi molto.


“Kiki, mia moglie è incinta" iniziò con fatica. "La chiamo così perché ancora lo è e perché tendenzialmente non sono pronto ad etichettarla in altra maniera, dopo tutti questi anni. Me l’ha detto dopo Capodanno, tu eri appena partita ed io mi sono sentito piombare addosso questa notizia e…” non trovava le parole per dire come si era sentito. “… ed è stato sconvolgente, straziante, assurdo e senza senso alcuno. Per anni ho pensato che lei sarebbe stata la madre dei miei figli, ed ora in pochi mesi non solo mi rendo conto che non è la donna della mia vita, ma sarà la madre dei figli di qualcun altro. Sono crollato” abbassò lo sguardo, ma sentì chiaramente il sospiro di Kiki, che quando aveva sentito la parola “incinta” aveva quasi smesso di respirare, convinta che Tomo fosse il padre. Ora era pronta ad ascoltarlo di nuovo. “In questo mese, in cui mi sono chiuso in studio a provare con i ragazzi, con la scusa che c’era il tour imminente, ho tentato di analizzare le cose e non ci sono riuscito, perché è un fottuto casino tutto quanto e mi sento in colpa per aver mandato a puttane il mio matrimonio con così tanta facilità. Io avrei dovuto provarci, avrei dovuto capire le sue paure e crescere con lei, invece ho continuato a seguire la mia vita, la mia carriera, le mie cose e lei alla fine ha trovato qualcosa che seguisse solamente lei. È umiliante pensare come dopo tanti anni lei riesca ad essere così a suo agio con qualcun altro, perché tutto quello che avevamo era frutto di sfide e amore ed ora abbiamo solamente un paio di avvocati pronti a scannarsi. Che per me potrebbe anche prendersi tutto quello che ho, senza problemi” rivolse lo sguardo verso Roma, sperando che quella vecchia canzone che diceva “dammi una mano a farle dire di si” lo aiutasse davvero. A farle capire come stavano le cose, però.

Lei proseguì il suo silenzio, perché sentiva tutto il peso delle parole di Tomo sulle spalle e non sapeva come gestirlo, ma allo stesso tempo era determinata a non volerlo lasciare andare: lei era innamorata di lui e credeva che per un amore vero bisognasse lottare.
Raccolse le sue forze e iniziò a parlare: “Io sono giovane, non ho avuto mai un marito, si può dire che forse non abbia mai neanche avuto una storia davvero importante. Insomma, non sono mai salita su un aereo per farmi dodici ore di viaggio per qualcuno, ecco” disse quella frase, sperando che Tomo cogliesse che per lei era davvero importante. Quello che non capì era che l’ultima cosa di cui avesse bisogno Tomo ora fosse la pressione di una donna che si aspettasse qualcosa da lui.
Lo vide alzarsi dalla sedia inquieto e andare il più lontano possibile da lei, lo vide grattarsi la testa e poi girarsi con lo sguardo vuoto. Cercò di non farci caso e continuò a parlare: “Non credo di poter capire cosa provi, ma credo che fra noi ci sia qualcosa di vero e sono sicura che con pazienza e amore riusciremo a sistemare le cose, tesoro”. Ancora un colpo sbagliato: la pressione aumentava. Tomo la guardò sempre più perso, rendendosi conto che Roma non lo stava aiutando a farle capire le sue parole. Si sentì un uomo davvero meschino, ma pensò che doveva essere sincero.

“Kiki, io non posso. Non posso adesso, non ce la faccio, non ci sono dentro, io…" si fermò un attimo, ma poi continuò e disse le uniche parole che avrebbe ucciso chiunque: "... non ci credo”.

La vide improvvisamente cedere sotto il peso delle sue stesse ossa: era stata solare, forte, sorridente, aveva incassato molte cose da quando si erano conosciuti, si era abbassata a fare l'amante segreta, a viaggiare per la California senza mai avere la certezza di vederlo. Si era persino accontenta di essere "l'amica", ma mai  poi mai Tomo l'aveva vista crollare. Mai come in quel momento.  
Sembrava che ogni cosa nella sua vita, in quel periodo, fosse destinata a farlo sentire una persona cattiva. Prima di partire per il tour aveva deciso di non dire nulla a Kiki, in fin dei conti avevano quasi due mesi in Europa e poi sarebbero subito andati in Asia, quindi ne aveva di tempo per pensare e prendere una decisione, senza giungere a conclusioni affrettate. Senza contare che nel caso avesse deciso di dare un taglio alla cosa, l’avrebbe fatto solo una volta tornato a casa e avrebbe avuto tempo e modo di spiegarle bene le cose.
Solo che poi lei era piombata lì senza dirgli nulla e tutto gli era crollato addosso in un solo colpo ed ora era costretto e darle qualcosa, perché non se la sentiva di fingere in quella maniera. La guardò morire sotto il peso di quella delusione cocente che le stava dando, ma che sperava la salvasse da crisi ben peggiori.


“Kiki, parlami, ti prego” disse dopo qualche minuto.
“E cosa dovrei dirti? Che va bene così? Che non sei quello stronzo che dici di non essere? Che non mi sento usata a gettata via? Questo vuoi sentirti dire, Tomo?” gli rispose. Poi si alzò e non riuscì a dosare la rabbia che gli voleva gettare addosso e continuò: “Tua moglie è una puttana che ha deciso di buttare dalla finestra tutto quello che avevate in un paio di mesi. E questi non sarebbero affari miei se non fossero piombati nella mia vita. Cosa credevi che sarebbe successo quando mi hai detto che l’avevi lasciata? Io ci ho creduto, Tomo, hai sentito: ci ho creduto come una cretina, perché ti amo e perché ho davvero pensato che per te contassi qualcosa. Invece ero solamente il ripiego che ti eri trovato per non sentirti troppo solo dopo il benservito di tua moglie, ero solamente la ragazzina bella e sensibile che scopa bene e che hai usato per non sentirti troppo sfigato. Mi fai schifo, e non credevo davvero che tu fossi così” gli urlò contro, rischiando di svegliare tutto l’hotel. A nessuno dei due importava veramente, perché erano entrambi chiusi nelle loro delusioni per pensare a chi avessero intorno. Tomo vide chiaramente una tenda scostarsi dalla stanza accanto e scorse la figura di Shannon guardarlo: si sentì ancora più giù, per quello spettacolo indegno che stavano offrendo.
Kiki lo guardò un’ultima volta e poi entrò in stanza, sbattendo con veemenza la finestra, lasciandolo lì solo a combattere una battaglia che forse aveva armato da solo.

Il giorno dopo si ritrovarono a colazione, ad un tavolo abbastanza riservato da permettergli un po’ di privacy prima del bagno di folla. Di Kiki neanche l’ombra, ma tutti pensarono che fosse stanca del viaggio e della notte trascorsa con Tomo.
Jared e Miriam avevano passato la notte a fare l’amore ed erano decisamente fastidiosi mentre si versavano a vicenda latte e succo di arancia, mentre si imboccavano e finivano l’uno le frasi dell’altro. Shannon li guardava ridendo, pensando di prendere in giro suo fratello fino alla fine dei suoi giorni.
Emma era così sovrappensiero per permettersi di osservarli bene e comunque si stava abituando a quella dose di miele che scorreva nei loro tavoli quando Miriam era presente. Jared in realtà aveva promesso di tornare ad essere normale, almeno con lei e quello le bastava.
Tomo era il più infastidito invece: li guardava torvo, invidiandoli e non sapendo perché aveva gettato qualcosa che poteva assomigliare tantissimo a quello che avevano loro.
Ad un certo punto non ce la fece più e alzandosi dal tavolo di scatto disse: “Ok, io inizio ad andare. Ci vediamo dopo”. Non lasciò il tempo a nessuno di rispondere e corse verso la porta della hall inforcando gli occhiali da sole, sperando che ci fossero abbastanza fan appostati per togliergli dalla testa quel peso, provocato dalla notte precedente e dall’assenza di sonno.

“Ma cosa ha?” chiese Jared, infastidito da quell’atteggiamento, così poco consono a Tomo. Era abituato ai colpi di testa di suo fratello, ma il chitarrista era sempre stato molto equilibrato e tendeva ad essere l’anima paziente. Shannon sospirò e si poggiò alla spalliera della sedia, guardando il suo piatto ormai vuoto, indeciso se rivelare o meno quello che aveva visto e sentito ore prima.
“Credo problemi personali” annunciò dopo. Tutti si voltarono a guardarlo, bramosi di dettagli maggiori.
“In che senso personali?” chiese Emma. “E tu come fai a saperlo?” le fece eco Miriam. Solo Jared non disse nulla, perché sapendo come stavano le cose non aveva bisogno di dettagli.
“Oh, calmatevi. Non so altro molto altro, ho solo sentito qualche parola qua e là” rivelò, mentendo sul fatto di non sapere i toni della questione.
“Scusate” disse solamente Miriam, alzandosi dal tavolo convinta a voler raggiungere la camera di Tomo per parlare con Kiki. Diede un veloce bacio a Jared e scappò, lasciandoli soli. A quel punto Shannon parlò, perché sapeva che fra loro non c’erano segreti e che forse dovevano essere al corrente di tutto per aiutare Tomo. Inoltre quella sera avevano il concerto a Roma e sicuramente il loro chitarrista non sarebbe stato al massimo della sua forma, quindi dovevano lavorare il doppio per coprire eventuali casini.
“Ragazzi, la situazione è seria. Mi sono affacciato incuriosito dai toni di voce e li ho visti discutere ognuno sul proprio balcone. Credo che Tomo l’abbia lasciata, ma ho sentito solo stralci della conversazione per sapere il motivo. Anche se non fatico ad immaginarlo” disse, poggiandosi sul tavolo in maniera che la conversazione si facesse più intima. Jared lo guardò toccandosi la barba appena accennata, mentre Emma alzava gli occhi al cielo chiedendosi perché tutti i loro casini dovessero manifestarsi durante i tour.
“Lo avevo detto che non era un bene che lei fosse qui senza avvertire” disse subito, rivolta ad entrambi i fratelli. Jared sentì una frecciatina arrivare, ma la schivò e si concentrò sul problema.
“Quanto è grave, Shan?” gli chiese.
“Jared, ma non hai sentito: si sono mollati, credo che sia molto grave. In più…” di fermò, insicuro. In fin dei conti quello era un particolare molto intimo e forse non avrebbe dovuto spingersi così.
“In più?” chiese subito Jared, guardandolo torvo.
“Vicky è incinta” sputò a disagio.
“Ah ecco… tombola direi” commentò Emma, avendo travisato le parole.
“Non è suo, vero?” aggiunse Jared, che aveva capito lo sguardo del fratello.
“Già…” disse solamente Shannon. Jared annuì senza dire niente, mentre Emma sollevò lo sguardo dall’agenda e rimase a bocca aperta, abbandonando per un momento tutto il suo sarcasmo. Negli anni si era abituata a qualsiasi cosa, ed ormai non c’erano molti dettagli che fossero in grado di stupirla, scalfirla o semplicemente sconvolgerla. Ma era fermamente convinta che quello fosse fuori scala.
“Bene, quindi direi che ora ce ne andiamo a fare le prove senza fare un fiato, giusto?” disse Jared. Era una domanda retorica, infatti si alzò, inforcò gli occhiali da sole e li guardò in attesa che lo seguissero. Giusto il tempo di inviare un sms a Miriam, informandola che si sarebbero visti più tardi, ed erano già fuori l'hotel, diretti all'arena.  

Miriam bussò alla porta due, tre, quattro volte, ma niente, nessuna risposta. Si stava innervosendo e non sapeva come rintracciare Kiki, visto che il suo telefono era costantemente spento. Pensò di scendere giù e far chiamare il telefono della stanza, quando sentì una porta aprirsi piano poco distante.
Si girò e vide una valigia uscire, come se fosse animata di vita propria: rimase a guardare e subito dopo vide che era Kiki che stava spingendo la valigia in questione. Le corse incontro prima che lei potesse dribblare la sua presenza e le si parò contro: “Kiki, eccoti, è almeno mezz’ora che ti cerco”.

“Cercavi nella stanza sbagliata, evidentemente” le disse.
“Mi spieghi cosa è successo? Tomo era intrattabile questa mattina e tu non ti sei neanche fatta vedere. Poi come se non bastasse vengo a cercarti e ti trovo nella tua stanza” le disse, facendole un riassunto che forse si sarebbe volentieri evitata.
“La mia presenza non era gradita altrove. E me ne sto tornando a casa, Miriam. Goditi la tua favola, e spera che Jared non sia andato a scuola di galanteria dal suo chitarrista” le rispose, acida e dura. Miriam non capiva.
“Kiki, per favore, ti fermi un attimo e mi spieghi?” le chiese, anche se aveva più il tono di un’imposizione che di una domanda.
“Non c’è niente da spiegare, Miriam: è finita, ammesso che sia mai iniziata” le rispose, stanca di dare spiegazioni. Voleva solo arrivare all’aeroporto, comprare un biglietto e buttarsi sull’aereo ubriacandosi di alcool comprato al duty free. Di parlare aveva veramente poca voglia.
“Senti, scendi, facciamo colazione e parliamo, ti va?”
“No, non mi va, Miriam. Voglio tornare a casa” le disse, con la voce petulante e sull’orlo di una crisi isterica.
“Ma sei arrivata ieri sera, non puoi già tornare! Qualsiasi cosa sia successa, sono sicura che si risolverà, dai” tentò Miriam, cercando di riportare la sua valigia all’interno della stanza.
“Non si risolverà! Mi ha lasciata, mollata, scaricata. Non sono niente per lui, se non un passatempo che ora non gli va più di avere, contenta? Lasciami stare, pure tu” le urlò contro, non trattenendo le lacrime. Poi la spostò di colpo con una spinta e si diresse verso gli ascensori.
“Kiki, aspetta, vieni qui, ti prego” urlò di rimando Miriam, correndole dietro.
“Lasciatemi stare, tutti” sibilò lei, senza neanche guardarla negli occhi, fissando solamente il display dell’ascensore in attesa che la cabina arrivasse a portarla via. Miriam rimase lì, sul corridoio a guardare la sua amica distrutta andare via. Senza sapere neanche il perché.

Dopo aver visto Kiki scappare così, ed essersi ripresa dalla leggera botta che aveva dato contro il muro, lesse il messaggio di Jared, e con la rabbia nel corpo, prese un taxi, facendosi portare sul luogo del concerto, dove tutti gli Echelon erano già appostati fuori a fare la fila.
Entrò dentro con il pass che Emma le aveva dato la sera prima, ormai preparata a quello che la attendeva. E comunque era così arrabbiata che non avrebbe fatto caso a nulla in quel momento.
Corse i corridoi del backstage e sentì gli strumenti suonare, quindi dedusse che erano sul palco. Si diresse verso il palco e fece la sua entrata: Shannon la vide e non presagì nulla di buono, tanto che sperò che Emma fosse nei paraggi per bloccare eventuali crisi sul nascere e nel frattempo aveva poggiato le bacchette, pronto a reagire. 
Anche Jared la vide, ma non notò niente di strano: le sorrise sincero e le andò incontro, credendo che lei fosse semplicemente venuta in anticipo per il concerto. Non appena le fu vicino, però, vide il braccio di Miriam alzarsi a stoppare il suo avanzare senza neanche guardarlo negli occhi. Miriam si diresse solamente verso Tomo, che era così concentrato sulle tastiere e aveva le cuffie così alte che neanche si accorse di averla davanti.

“Cosa cazzo le hai fatto?” disse lei, subito dopo avergli strappato la cuffie dalle orecchie.
“Miriam, non mi sembra il caso ora…” tentò Jared, che aveva finalmente capito. Le andò dietro e le afferrò una mano.
“Io credo che sia il caso invece” disse Miriam, più a Tomo che agli altri. Con uno strattone liberò il suo polso dalla stretta di Jared. 
“Non qui” disse solamente lui, continuando a guardare i tasti bianchi. Era leggermente contrariato di dover spiegare a Miriam come stavano le cose: lei era solamente un’amica per lui, niente di più, cosa voleva?
“La smetti di suonare, razza di idiota?” gli urlò contro. Jared prese in mano la situazione e saldamente, togliendo qualsiasi inflessione gentile dalla voce, le disse: “Miriam, stiamo lavorando, ti prego”.
“Non me ne frega niente, Jared. Kiki è distrutta” ripetè lei.
“Ok, time out. Vieni con me senza storie, Miriam” disse improvvisamente Emma, più dura di quel che volesse.
“Lasciami stare tu” le disse in un fil di voce.
“Senti, ragazzina, o vieni o ti faccio cacciare dalla sicurezza. Scegli tu” le rispose Emma, per niente conciliante.
“Jared…” tentò di dire lei, per essere difesa.
“Miriam, vai con Emma. Ne parliamo dopo, di tutto” disse solamente lui, guardando la sua assistente grato.
“Siete tutti uguali, fottetevi” rispose solamente lei, generalizzando e guardando tutti e tre alla stessa maniera. Aveva capito che i fratelli erano al corrente di tutta la questione, non sapeva in che termini, ma si vedeva che non erano caduti dalle nuvole, e lì detestò. Poi seguì Emma, che la portò nella stanzetta comune che avevano a fianco ai camerini personali.
“Non c’è bisogno che tu mi faccia da cane da guardia, grazie. Me ne vado da sola” le disse aspra quando finalmente si decise a lasciarle andare il braccio.
“Miriam, ti prego, cerca di essere ragionevole” tentò Emma, non sapendo bene da dove stesse attingendo per trovare quella pazienza.
“Non lascio perdere niente, Emma” le disse rivolgendole uno sguardo terribile, prima di lasciarla lì sola, guadagnando l’uscita del backstage.

Tentò di chiamare Kiki almeno un centinaio di volte, ma niente: il suo cellulare sembrava non esistere. Calcolò che ormai fosse in aereo, ammesso che avesse trovato un volo così velocemente verso San Francisco, ma intuì che se anche fosse stata da sola all’aeroporto ad aspettare la partenza, non si sarebbe resa disponibile sul cellulare.
Maledì con forza Tomo e in un certo senso anche Jared, che era stato incapace di far ragionare il suo amico e se ne era andato semplicemente a fare quelle stramaledettissime prove. Lui sapeva, e anche Shannon, chissà magari persino Emma, e nessuno si era degnato di dirle nulla, di informarla. Nessuno aveva pensato a Kiki. Si erano semplicemente racchiusi nella loro fottuta famiglia e le avevano lasciate fuori, convinti che Tomo fosse da proteggere e Kiki no. Li odiava con tutta se stessa.


Vagò per Roma sperando che Kiki si facesse viva, ma non successe. Verso il tardo pomeriggio tornò in hotel per farsi una doccia e sperò di trovare Jared, ma niente: lui non c’era, forse era ancora alle prove, forse non sarebbe tornato per niente in hotel. Tentò di chiamarlo, ma non ebbe risposta e la sua rabbia ribollì ancora di più nelle sue vene.
Quella sera non andò al concerto, andò invece a mangiare qualcosa di tipico da sola, fece un giro notturno per la città e tornò in albergo solo a notte fonda. Aveva spento il cellulare e lo aveva lasciato in un cassetto della suite che divideva con Jared: quella sera non voleva essere disturbata da nessuno, l’unica persona che avrebbe voluto sentire era Kiki, e lei ad occhio e croce sarebbe stata irreperibile fino al giorno successivo, contando lo stato in cui era quando aveva lasciato l’hotel, forse anche qualcosa in più.


Quando sbloccò la serratura con la chiave magnetica e aprì la porta sentì dei rumori provenire da dentro la suite: Jared era già tornato, pensò. Guardò l’ora e si disse che sicuramente era così. Entrò piano, cercando di placare la rabbia e lo trovò davanti al letto, in piedi che la fissava con lo sguardo vitreo, che non prometteva nulla di buono. Era a torso nudo, solo i pantaloni addosso e a piedi scalzi: era bellissimo, pensò Miriam addolcendosi, ma quando lui proferì parola tutto sembrò crollare di nuovo.
“Si può sapere dove sei stata?” le chiese con il tono più algido che conoscesse. Fece appello alle sue forze per non urlare, per non perdere il controllo, ma lo sguardo che gli lanciò Miriam non lo aiutava.
“In giro” rispose solamente, lasciando la sua borsa su una sedia e iniziando a togliersi le scarpe. Non voleva assolutamente dargliela vinta, ma in fondo non sapeva neanche perché.
“Con il cellulare perennemente spento? Lo sai che ti ho chiamato almeno un centinaio di volte?”
“Ah si? Sembrava che non ti interessasse dove fossi” gli disse sarcastica, ma non si accorse che stava esagerando.
“Mi spieghi perché sei arrabbiata con me?”
“Perché tu sapevi, Jared. Tu sapevi che Tomo stava facendo qualcosa si improponibile a Kiki e non me l’hai detto, non hai pensato di alzare un dito, ecco perché” gli disse con tutta la rabbia della giornata che si scaricava nelle sue parole.
“Io non sapevo proprio nulla, non fino a questa mattina, Miriam. E comunque non credo siano affari nostri” le rispose, immobile a fissarla, mentre lei tradiva una gestualità degna di una tigre in gabbia.
“Non sono mai affari tuoi, vero? Sei un egoista, Jared! E comunque vuoi forse dirmi che nell’ultimo mese Tomo non ha detto niente di niente?”
“No” asserì sicuro.
“E allora sei anche un bugiardo” disse sprezzante lei.
“Ma cosa avrei dovuto fare, Miriam? Costringerlo a stare con Kiki o per caso cacciarlo dalla band per dei problemi personali? E’ vero, nell’ultimo mese Tomo aveva accennato qualcosa a Shannon riguardo la sua situazione, ma mai niente di particolare e comunque non è affare nostro” disse con sicurezza, cercando di calcare sull’ultima frase.
“Tu sapevi, Jared” riprese lei, sempre più delusa.
“D’accordo, sapevo e dunque?”
“Dunque dovevi dirmelo! Lei è una mia amica, lei era distrutta questa mattina e tu te ne sei andato alle prove del tuo dannato concerto non dicendo una parola!” urlò lei, in preda ad una crisi isterica, causata anche dal comportamento apparentemente calmo che Jared le stava riservando.
“Miriam, non potevo annullare un concerto per una cazzata del genere. È lavoro, non stiamo scherzando, dovevamo portarlo avanti, qualsiasi cosa fosse successa” le disse.
“Per te conta solamente il lavoro, la carriera, i tuoi fan del cazzo e chissà cos’altro. Il resto può finire nella fogna, per quanto ti riguarda”
“Miriam, stai esagerando” la ammonì, sperando che lei rientrasse nei ranghi. E si accorse che quella frase ritornava spesso nei loro discorsi, sentendo la stanchezza farsi largo nell'anima. 
“No, non sto esagerando. Sei stato alle prove senza dire una parola, hai lasciato che Emma mi trattasse, ancora, come una cretina e non ti sei neanche fatto sentire! Cosa dovrei dire io?” gli chiese, urlando sempre di più.
“Io ti ho chiamato. Sei tu che avevi deciso di fare la Audrey Hepburn della situazione e renderti irreperibile” rispose lui, ringraziando di sapere controllare la rabbia.
“Potevi venire a cercarmi. Sono tornata in hotel verso le diciannove” gli disse.
“Avevo uno spettacolo da portare avanti che sarebbe iniziato di lì a poco. E in tutto ciò ho dovuto anche sperare che Tomo non crollasse sotto il peso di questo casino che avete tirato su!” ora urlava anche lui, perché era stanco e perché se c’era una cosa che odiava fare era litigare con Miriam.
“Oh, povero Tomo!” disse sarcastica Miriam, cercando di dare enfasi a quella frase.
“No, poveri noi, Miriam. Io, e non solo, mi sbatto tutti i giorni per portare avanti un progetto e onestamente vorrei che qualche volta tu ti rendessi conto che non è solo caviale e champagne questa storia. Non è una farsa, non è tutto semplice. Tu arrivi, ti impunti, fai la bambina e pretendi che tutti siano ai tuoi piedi. Non funziona così. Ho litigato con Emma, per te, e non l’avevo mai fatto in vita mia, mi è costato, ma ti amo e l’ho fatto. Ed ora vieni a dirmi che dovrei andare dal mio migliore amico, un uomo di trentotto anni, a sgridarlo per come si è comportato con Kiki? Sua moglie è incinta di un altro uomo! Riesci a renderti conto di cosa stia provando?” urlò furioso contro di lei, che rimase ad ascoltare tutto senza dire niente, annientata dalla sua rabbia e da quegli occhi che ora le facevano male.
“Kiki è distrutta” seppe dire solamente, con la voce rotta e sentendo di non avere appigli per controbattere. 
“Anche Tomo se è per questo. E se permetti, lo conosco da una vita, è uno dei miei migliori amici, e se posso lo difendo e lo aiuto” disse lui, distogliendo lo sguardo da lei.
“Jared, ma perché stiamo litigando?” gli disse infine.
“Perchè tu dovresti imparare a capire cosa c’è dietro tutta questa cosa, prima di sparare giudizi. Su di me, su Tomo, su Emma. Tu spari giudizi e basta, quando noi per essere in questa suite ci siamo spaccati il culo per anni, scusa se un concerto è più importante di Kiki che è distrutta” disse ancora. Forse fu troppo duro e se ne rese conto, ma era stanco di proteggerla e capirla e abbracciarla e consolarla. Lui era un uomo di quarantadue anni, e lei avrebbe dovuto crescere.
“Io vorrei che tu mi considerassi importante quanto consideri loro, Jared”
“Cazzate, Miriam. Tu sei più importante di loro, per certi versi. Tu non ti rendi conto delle cose che io sto cambiando per te, ma loro sono la mia famiglia e tu non stai muovendo un dito per cercare di entrarci davvero”
“Ho paura, Jared”
“Ma paura di cosa? Basta con questa storia della paura! Ti ho presentato a mia madre, mia madre, capisci?! Cosa cazzo dovrei fare di più per farti capire che ti amo?” era esasperato e lei lo capiva, solo che non voleva ammettere di avere esagerato.
“Perdonami, ti prego. Domani mi scuserò con tutti gli altri, sono una cretina”
“Non ci credo più, Miriam. Tu chiedi a me di dimostrarti le cose e poi vuoi che io mi fidi davanti a certi tuoi atteggiamenti che reputo assurdi. Non è possibile questa cosa”
“Non lasciarmi ancora, Jared, ti prego” ora piangeva, la rabbia andata via, il pentimento a farla da padrone. Si avvicinò a lui e lo abbracciò da dietro, avendo paura di un rifiuto. Jared sentì il suo tocco e fu tentato di cacciarla, ma non ci riuscì: era davvero innamorato. Alzò gli occhi al cielo e li chiuse respirando forte, poi poggiò le sue mani su quelle di Miriam e sentì i suoi muscoli rilassarsi contro la sua schiena e la morsa delle sue braccia farsi più stretta.
“Ma cosa devo fare io con te?” le chiese con un fil di voce.
“Amami” fu la sua risposta, mentre bagnava di lacrime la pelle nuda di Jared.
“Più di questo non sono capace, Miriam” disse onestamente lui. Miriam si girò senza lasciarlo e gli andò davanti, così da guardarlo negli occhi.
“Ok, si cambia, davvero però. Possiamo, ricordi?” disse speranzosa che lui si ammorbidisse, e poiché Jared era stanco di litigare, e poiché Jared la amava alla follia, decise di farle un regalo.
“Ti amo” le disse, prima di baciarla sulle labbra.

Insinuò piano la lingua dentro la sua bocca, fra i suoi denti, a cercare la sua. Lei lo lasciò fare, volendo e temendo quel contatto, fino a che lui non le tolse la maglia e andò a tracciarle le curve con la lingua, finendo in ginocchio davanti a lei. La guardò negli occhi, prima di slacciarle i jeans e aiutarla a toglierli. Poi fu la volta dei suoi slip, che finirono gettati chissà dove.
Jared continuava a guardarla, insinuando le dita e il naso fra le sue gambe. La tenne così per un tempo infinito, mentre lei si aggrappava alle sue spalle forti per non crollare sotto il peso del piacere più estremo. Quando sentì di non farcela più lasciò andare le gambe e finì per terra con lui, baciandolo con passione, sentendo il suo sapore sulle labbra di lui, sentendo che aveva bisogno di essere posseduta da lui.
Velocemente lo spogliò dei pochi indumenti che aveva e lo fece sedere, spalle al letto, poi con uno sguardo malizioso e un sorrisino per niente innocente gli si mise sopra, penetrandosi lentamente e sentendo che lui apprezzava moltissimo.
Calibrava il ritmo a seconda dei gemiti di Jared, che le davano più o meno una stima del suo gradimento, gettò la testa indietro, lasciando che i capelli le solleticassero la schiena e il suo corpo si tendesse a quel piacere bellissimo.
Le mani di Jared si erano fermate sui suoi fianchi, e lei adorava quando erano ferme lì, su quel punto particolarmente erotico per lei. Lo guardò intensamente negli occhi, mentre lui si beava della visione della donna più sensuale che avesse mai visto: aveva un modo così bello di fare l’amore, Miriam, che a lui riusciva difficile pensare di non farlo tutti i giorni per tutta la vita. Miriam continuava a guardarlo fissa negli occhi e gli disse una cosa strana, difficile ma romantica: “Voglio venire a vivere a Los Angeles”.

Era assurdo dirlo in quel momento, rischiando di spezzare il momento o di ricevere una risposta non ben calibrata. Si sa che quando si fa sesso si possono dire delle cose incredibili, ma si sa anche che il piacere non fa ragionare il cervello e allora forse in quei momenti si dice e si pensa solo la verità.

Gli lanciò lì la sua proposta, la sua decisione, come se non avesse bisogno di un benestare, ma lo volesse lo stesso e attese che lui le dicesse qualcosa. Jared era rimasto muto, e per lei non sembrava essere un problema, sorrideva sicura e felice di averlo stordito, non solo con il suo corpo.

“Dovrò fare l’amore con te tutti i giorni allora” le disse ridendo, e sporgendosi a baciarla con passione, prima di arrivare all’apice del piacere. Miriam si accasciò su di lui e solamente dopo qualche minuto di alzarono e pigramente si stesero sotto il piumone bianco e morbido. Jared le aprì un braccio per accoglierla, e Miriam posò la sua testa nell’unico posto in cui voleva che fosse tutte le mattine: sul suo petto.
“Quando l’hai deciso?” le chiese ad un certo punto, fissando il soffitto.
“In queste due settimane. Voglio starti vicino, voglio costruire qualcosa di vero con te e soprattutto voglio cambiare la mia vita” gli rispose sicura e tranquilla.
“Sei sicura che sia la scelta giusta, Miriam?” chiese di nuovo lui, lasciando trasparire quello che sembrava panico, ma che in realtà era paura che lei si pentisse, un giorno.
“Si, perché Parigi mi sta stretta, il mio lavoro è noioso e mia madre mi ha detto che a ventisette anni posso ancora cambiare”
“Cioè tua madre è d’accordo? Tu le hai parlato e lei è d’accordo?” reagì Jared allibito.
“A quanto pare… sai, da quando sono venuta a Capodanno siamo diventate molto più intime e ho iniziato a confidarle tutto. E’ un’ottima amica, prima che una mamma” disse fiera.
“E con il lavoro come farai?”
“Ho mandato qualche CV e risentito un contatto che un paio di anni fa mi aveva proposto un lavoro. Mi sto muovendo, certo non sarà semplice e non so come e quando riuscirò a trasferirmi davvero, ma conto entro l’inizio dell’estate” rispose felice.
“Se hai bisogno di qualcosa… si, insomma, io potrei, aiutarti” le disse, un po’ in soggezione.
“Vuoi offrirmi un lavoro, Jared?” sorrise guardandolo negli occhi divertita.
“Potrei. Dovrei parlarne con gli altri, ma non credo ci siano problemi, se ti va” disse ancora lui. Stava forse cercando un modo per tenerla accanto a sé? Forse si, e gli era tornato in mente quando, appena due settimane prima, avevano fatto un discorso simile, poi lasciato cadere nel nulla.
“Non credo che mi vorrebbero fra i piedi tutti i giorni, Leto” disse, un po’ triste per tutta la situazione, alzandosi e poggiando la schiena alla spalliera del letto.
“Non essere sciocca. Shannon e Tomo ti vogliono bene, non ricordi le Hawaii?” gli rispose lui per tranquillizzarla. In realtà conoscendo i suoi più cari amici era convinto che forse Miriam avrebbe dovuto fare un passo verso di loro o la situazione sarebbe precipitata, ma contava di mediare le cose fra loro. Mediare, lui… che razza di sogno stava facendo? Lui era una frana in diplomazia e quant’altro.
“Le Hawaii erano diverse Jared. Ho trattato male tutti oggi, e nei mesi scorsi giurerei di aver tediato tuo fratello più del dovuto” gli disse, prendendo atto del fatto che forse aveva tirato troppo la corda con loro.
“Va bene, ma vedrai che ti perdoneranno. Non possono non perdonarti, tu sei mia. E se verrai a vivere a LA ti vedranno molto spesso” le disse, accarezzandole il naso con un dito.
“Se, Leto!? Già hai perso l’euforia?” lo prese in giro lei, ridendo.
“Preferisco andarci con i piedi di piombo e non festeggiare fino a quando non vedrò tutta casa tua spostata a LA” le disse, stando al gioco.
“Ah, ecco. A parte gli scherzi, sei felice?” gli chiese, ora impaurita.
“Si, sono felice. Però devi promettermi che tenterai di placare la tigre che è in te e mi lascerai vivere sereno” le disse.
Miriam pensò che scherzasse e scoppiò a ridere, ma si preoccupò quando vide lo sguardo di Jared molto serio. “Non sto scherzando, Miriam. Io sono felice di questa decisione. In realtà avevo pensato di chiedertelo, ma non volevo che sradicassi la tua vita solo per un mio bisogno, quindi ho preferito che decidessi da sola. Ma la mia vita è fatta così, concerti, prove, schemi, lavoro, tanto lavoro. Io non voglio cambiare, e vorrei che tu entrassi nella mia vita definitivamente e coscienziosamente. Non voglio litigare con te come stasera, non voglio rinunciare a qualche intervista per te, non voglio che tu ti senta sola ed esclusa. Dobbiamo lavorarci insieme” disse serio. Miriam intuì e sorrise piano, prima di ammettere: “D’accordo, però ho bisogno del tuo aiuto e della tua pazienza. Ora scusami, ma ho una cosa da fare”.


Si alzò velocemente dal letto, legandosi i capelli in maniera disordinata e infilandosi i vestiti e le scarpe alla velocità della luce. Jared non capiva, ma si rilasso sotto il piumone, incrociando le braccia sotto la testa e guardandola: quello spettacolo avrebbe potuto essere suo molto più frequentemente di quanto credeva, fra qualche tempo. E si sentì felice. Miriam gli sorrise e gli mandò un bacio con la mano, prima di sparire oltre la porta.

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Capitolo 17
*** Finalmente si sentì a casa ***


Ciao bella gente!
Ho appena finito di scrivere un nuovo capitolo e non ho resistito: 
ho voluto pubblicarlo subito!
Vorrei chiedervi cosa pensate della storia finora, sono molto curiosa dei vostri pensieri! 
Come sempre vi ringrazio per il seguito 
e vi abbraccio forte!!

Buona lettura,
Bibi
 
 
Finalmente si sentì a casa

 
Appena si chiuse fuori dalla stanza respirò a fondo, indecisa da dove iniziare. Dal più semplice, pensò.
Si diresse con sicurezza verso una stanza del piano e bussò un paio di volte. Dopo qualche minuto, Shannon mise la testa fuori dallo spiraglio che aveva aperto: avevo il viso sconvolto, ma Miriam non si pentì di aver scelto quel momento.

Non attese che lui le dicesse qualcosa, non lo salutò, non chiese se disturbava, partì semplicemente in quarta, parlando tutto d'un fiato: “Ehi, ciao. Scusa. Per oggi, per la scena pietosa a cui hai assistito, per averti mandato a farti fottere, insieme ai tuoi amici, e per averti mancato di rispetto. Mi dispiace, Shan, sono davvero mortificata. In questi mesi ho solamente chiesto il tuo aiuto quando avevo bisogno di qualcosa e me ne sono fregata di te. Spero che tu possa perdonarmi…” abbassò lo sguardo, sperando che lui dicesse qualcosa. Al suo silenzio, proseguì: “D’accordo, me lo sono meritato. Vado, ho altre due confessioni da fare” gli disse, prima di allontanarsi di qualche passo, a testa bassa e leggermente frustrata. Sperava che fosse più semplice. 

Shannon, ancora un po’ contrariato dal suo comportamento degli ultimi tempi, sospirò e pensò che tutto sommato era una ragazza in gamba, che stava rendendo felice suo fratello e che almeno aveva il buon gusto di rendersi conto delle cazzate che faceva. E chiedere scusa non era da tutti, bisognava dargliene atto. 
Tuttavia era un uomo di poche parole e Miriam avrebbe dovuto accontentarsi.
La richiamò e decise di darle una mano: 
“Ehi, terremoto, è qui” le disse solamente, sorridendole appena e aprendo di più la porta.
Miriam si sentì a disagio e non entrò, aspettò solo che Emma le andasse incontro, con un’espressione indecifrabile sul volto. Shannon le diede un bacio sulla guancia e le sussurrò all’orecchio, senza farsene accorgere: “Non essere troppo severa”. Poi sorrise a Miriam e le lasciò sole, andando verso il grande letto.

“Non volevo disturbarvi, non sapevo che foste insieme” iniziò. Ed era vero: in realtà Emma e Shannon in tour dormivano poco insieme, se non per rare occasioni, e non se ne capiva il perché ma era semplicemente così.
“Tranquilla, cosa volevi dirmi?” le disse Emma, con una voce neutra. 
“Volevo scusarmi con te. Io apprezzo il lavoro che fai e mi dispiace se non sembra che sia così. Non immagino quanto sia difficile organizzare tutto e a volte mi sembra solo che tu voglia intrometterti fra me e Jared. Sono una stupida, Emma, scusa. Forse, magari, se mi applico riuscirò a farmi apprezzare e potremo anche essere... amiche. In fin dei conti eravamo partite bene, non credi?” le disse speranzosa, non abbandonando mai il suo sguardo. Era sincera, voleva davvero andare d'accordo con Emma e le stava lanciando un amo che sperava che lei prendesse. La guardò ancora, rispettando il suo silenzio, ma al contrario di quanto fatto con Shannon poco prima, non girò i tacchi, rimase semplicemente lì, costringendo quasi Emma a darle una risposta, qualsiasi essa fosse. 

Emma la scrutava da quando aveva iniziato a parlare, e nonostante la stanchezza e nonostante il fatto che era stata interrotta in un momento di intimità con Shannon, apprezzava molto il gesto di Miriam. Essere amiche era qualcosa di abbastanza lontano, credeva, però doveva essere sincera e dire che quella ragazza aveva un non so che di positivo, di energico e questo era qualcosa che attraeva Emma.
Sospirò e decise cosa dirle, cercando di trovare le parole adatte: “Miriam, io non sono gelosa di voi due, non voglio intromettermi fra nessuno e non voglio assolutamente che tu te ne vada dalla vita di Jared. Sei solamente un ciclone che non ci aspettavamo e forse dovremmo abituarci tutti. Mi fa piacere però che tu sia qui adesso, conta molto per me. E anche per Shannon, ne sono sicura. Ora però vado a dormire” le sorrise dolcemente e chiuse la porta.
Rimase poggiata lì, con gli occhi chiusi, pensando di aver detto la cosa giusta, di essere stata sincera, ma penando anche che non era una persona falsa e che l'amicizia avrebbero dovuto costruirla passo dopo passo.
Sentì dei passi e capì che Shannon si stava avvicinando a lei, così sorrise istintivamente e aprì gli occhi, vedendo più bello che mai venirle incontro.
"Brava, piccola, sei stata molto brava" la prese in giro Shannon, con quella voce roca che la mandava in estasi. Era sempre pronto a dirle che era un bulldozer in azione e quelle rare volte che lei concedeva la sua dolcezza agli altri, lui si divertiva a farglielo notare. Perchè lei era una donna dolce, solo che non amava darlo a vedere, e negli anni i ragazzi avevano imparato ad apprezzarla per quel che era. 
Emma rise, e lo prese per l'elastico dei pantaloni, facendogli perdere l'equilibrio e costringendolo ad andarle addosso. 
"Allora, cosa stavamo dicendo!?" gli chiese suadente, e in un attimo dimenticarono tutto. 
 
Nel frattempo Miriam doveva portare a termine il suo progetto e sapeva che o
ra sarebbe arrivato l'osso più duro: come andare da Tomo a chiedergli scusa dopo aver palesemente ficcato il naso nella sua vita?
Jared le aveva detto particolari molto intimi, che lei avrebbe fatto bene a far finta di non sapere, ma voleva che lui la perdonasse e che tornasse il ragazzo sensibile che le voleva bene e la aiutava sorridendole. Le mancava molto il Tomo conosciuto alle Hawaii, quello che a Capodanno le aveva portato i pancakes per tirarla su di morale. Quello che le aveva detto di provarci ancora con Jared.
Bussò piano alla sua porta, quasi sperando che lui non sentisse e non aprisse, ma così non fu. Se lo ritrovò davanti, sfinito e anche un po’ sorpreso.

“Ciao” gli disse.
“Ciao” rispose solamente lui, grattandosi la nuca e abbassando lo sguardo. “Vuoi entrare?” chiese poi. Meglio di come sembrasse, almeno avrebbero lottato ad armi pari.
“Si, grazie” rispose piano, prima di varcare la soglia. Tomo le offrì da bere e si verso della birra, prima di sedersi sulla poltroncina, facendo segno a lei di occupare la seconda disponibile. Miriam si accomodò, anche se trovava scomoda quella posizione, non tanto per la poltrona, quanto per le spille che credeva di avere dietro la schiena.
Tomo la osservava, aspettando che parlasse, perché lui non aveva molto da dirle, e credeva di essere stato fin troppo gentile a riservarle quell’accoglienza, visto il comportamento che lei aveva riservato a lui qualche ora prima.

“Andato bene il concerto?” gli chiese, cercando un appiglio per iniziare a parlare.
“Si, bene, grazie” rispose lui, convinto a non darle aiuto in nessun modo.
“Mi dispiace non essere stata lì” gli disse, sinceramente.
“Non fa niente” replicò Tomo, dando una generosa sorsata alla birra.
“Senti, Tomo... io volevo... si ecco, insomma..." si fermò e fece un respiro profondo, chiudendo gli occhi, poi il silenzio le entrò nelle orecchie assordandola e decise che doveva continuare: "... scusami per oggi. Mi dispiace, non so cosa mi sia preso”. Tornò a guardarlo, essendo fiera di aver trovato il coraggio e la convinzione per dirgli quelle cose.
Quello che non si aspettava era il sorriso stanco e tirato di Tomo, che poco dopo le rispose sincero e apatico: 
“Hai cercato di difendere la tua amica, è normale credo”. Era una concessione e lei lo sapeva, ma era meglio di niente, pensò.  
“Si, più o meno è così” rispose lei, leggermente sollevata.
Ma poi lui continuò a parlare, e quello che disse non fu più leggero: 
“Peccato che tu non abbia dato nessuna attenuante a me e abbia creduto solamente che sia io lo stronzo” le disse amaro, sorseggiando la sua birra e guardando il cielo romano fuori dalla finestra.
“Tomo, ma cosa dovevo fare? Ho visto Ki…” non la fece finire di parlare. “Non nominare quel nome qui dentro” le disse, sibilando quasi.
“Scusami… comunque l’ho vista distrutta, annientata, non mi ha neanche voluto dire cosa fosse successo realmente, non so niente. Cosa avrei dovuto fare?” gli chiese.
“Ah quindi non sai niente? Neanche la sua versione, niente di niente. E hai semplicemente creduto che fosse colpa mia. Ottimo” le disse sempre più deluso. Aveva creduto che fossero amici, dopotutto. In quei mesi di telefonate ed e-mail, Tomo credeva che Miriam fosse davvero un’amica, e invece era stata pronta a puntargli il dito contro senza neanche sapere come fossero andate le cose.
“Guarda, te la rendo semplice: la colpa è mia, lo stronzo sono realmente io. Però le cose stanno così: io non credo di dovermi scusare con te, né credo di avere l’obbligo di dirti i veri motivi. Magari te li avrei confessati per avere un consiglio, visto che tu e… lei, siete molto amiche, ma visto che tu hai tutta questa fiducia smodata in me, ti evito tutto e la finiamo qua” le disse, forzando un po’ troppo il suo vittimismo. Era stanco di tutto e di tutti, se non fosse stato per i suoi amici che gli avevano davvero dimostrato di tenere a lui quel giorno, avrebbe davvero dato un calcio a tutto.
Jared e Shannon erano stati perfetti: nessuna parola di troppo, prove, concerto, solite storie, autografi, un po’ di alcool insieme per festeggiare e solo una frase “Quando vuoi”, che voleva dire niente e tutto, ma che aveva lasciato Tomo libero di scegliere se parlare o meno, ma con la consapevolezza che non fosse solo.


Miriam rimase a bocca aperta. Non dal discorso in sé, ma dal tono di voce di Tomo: era calmo, rassegnato quasi, non tradiva rabbia, né stanchezza, né alcun tipo di tristezza. Era atono, semplicemente atono. Poteva averla già dimenticata? Era possibile che per lui non contasse davvero più niente? Doveva capire.
“Tomo, mi dispiace averti insultato così, non avrei dovuto” gli disse, prima di cercare le parole adatte: “Però ascoltami, se vuoi puoi confidarti ancora, posso aiutarti, se vuoi. Cosa è successo?” tentò la sorte, forse sarebbe stata fortunata.
“Non me la sento di parlarne, adesso” le disse, davvero stanco. Ma non accennava a volerla mandare via, a voler smettere quella conversazione, Miriam lo capì e rimase zitta, sperando che forse lui avesse solo bisogno di tempo. Sapeva che stava facendo tutto quello per capire e aiutare Kiki, e si sentiva anche in colpa, ma doveva assolutamente fare qualcosa. Rimasero in silenzio, guardando il cielo scuro, entrambi assorti nei propri pensieri, poi dopo un’eternità, Miriam cercò un appiglio: “Lei ti ama davvero”.
“L’ho fatto proprio per lei” rispose amaramente Tomo.
“Ma fatto cosa, Tomo?” chiese Miriam, sperando che lui parlasse.
“L’ho lasciata, Miriam, contenta? L’ho lasciata” le disse spazientito, alzandosi e iniziando a camminare su e giù per la stanza. Era stata una giornata faticosa, arrivata dopo una notte in bianco e il perenne senso di colpa di aver ferito Kiki.
“Ma Tomo, come l’hai lasciata? Perché?” Miriam era allibita, non credeva alle sue orecchie, non credeva certo che la situazione fosse così drammatica e dimenticando di aver appena chiesto scusa per aver ficcato il naso nei suoi affari, decise di andarci pesante e farsi ancora gli affari suoi. 
“Miriam, ci sono cose che non sai, che mi hanno costretto ad agire così, per il suo bene, per la sua felicità” proseguì lui, arrabbiato e deluso.
“Questa è una scusa e tu lo sai bene” gli disse, non rivelando che in realtà lei sapeva molto bene tutto.
“Ma cosa ne sai tu? Cosa vuoi da me? Torna da Jared, quella è la tua vita, questa è la mia e non sono affari tuoi” le urlò contro con talmente tanta veemenza che Miriam non riuscì a non alzarsi dalla sedia.
Lo guardò fisso e poi decise che era ora di andare via e si avviò verso la porta. Prima di aprirla lo guardò di nuovo e gli disse solamente: “Volevo chiederti scusa per oggi e dirti che… si, insomma, se ti va, posso essere un’ottima amica”. Poi, senza aspettare una sua qualsiasi risposta, aprì la porta e uscì, chiudendosi fuori dal mondo di Tomo.


Tornò in camera lentamente, sperando che lui uscisse e le aprisse uno spiraglio, ma non avvenne e fu costretta a non indugiare oltre davanti la porta della stanza di Jared.
Lui dormiva, ormai. Lo guardò steso sul letto, con il piumone che gli arrivava alla vita, lasciando scoperto il suo torace perfetto che si alzava e si abbassava ritmicamente. Miriam lo trovò bellissimo, terribilmente sexy e pensò per un momento alla sua decisione: andare a vivere a Los Angeles. Per quanto lei si ostinasse a dire che lo faceva perché Parigi le stava stretta, nel suo cuore sapeva benissimo che quel passo era strettamente correlato a Jared.
Aveva pensato molto nell’ultimo mese e mezzo, quando si trovava a notte fonda a chiacchierare con lui su Skype, mentre organizzavano come e quando vedersi, mentre cercavano di annullare le distanze e i suoi pensieri erano sempre gli stessi: lo vorrei qui. Si era resa conto che lo amava davvero quando era partita da Los Angeles dopo Capodanno, per svariati motivi e piano aveva formulato in mente una costante definizione di felicità: l’essere con lui, ovunque, in qualsiasi momento. Sapeva benissimo che la loro relazione era acerba, immatura, poteva crollare da un momento all’altro e se così fosse stato, lei avrebbe cambiato tutto per nulla, però credeva che niente potesse davvero crescere con tutti quegli ostacoli. Non avrebbe accettato nessun lavoro da lui, perché voleva non essere legata a doppio filo, voleva una sua indipendenza che le garantisse, un domani, uno scudo con cui proteggersi, ma niente l’avrebbe fermata in quel progetto.


Piano si avvicinò al letto e si spogliò. Si mise sotto le coperte cercando di fare meno rumore possibile, per non svegliarlo e si accucciò su se stessa continuando a guardarlo. Quando lui, senza svegliarsi, si girò su un fianco e le mise un braccio attorno alla vita, stringendola a sé, Miriam chiuse gli occhi felice, sapendo che tutto sarebbe andato nel migliore dei modi.

Jared si svegliò presto quella mattina, guardò Miriam che dormiva accanto a lui e ripensò a quello che lei le aveva detto mentre facevano l’amore la notte precedente: si sarebbe trasferita a LA. Era felice, perché poteva averla vicina, finalmente, cosa che sperava avrebbe contribuito ad una maggiore tranquillità per tutti, ma allo stesso tempo era terrorizzato, perché lei non era una donna semplice. La sfuriata del giorno prima pesava ancora, e lui stava seriamente pensando di andare a parlare con i ragazzi.
Si vestì in fretta, e prese un foglio per scrivere un messaggio a Miriam: “Buongiorno, bambina! Sono in riunione con i ragazzi, ti chiamo appena finisco! Baci!” scrisse solamente, lasciando il foglio sul suo cuscino e chinandosi a baciarla dolcemente, scostandole una ciocca di capelli che le copriva gli occhi. Poi piano uscì dalla stanza e si diresse verso la sala colazione, convinto di voler mettere qualcosa sotto i denti prima di parlare con chiunque.


Al tavolo trovò già Tomo che leggeva un giornale e sorseggiava quella che sembrava una gigantesca tazza di caffè nero post sbronza.
“Ehi, amico, nottata difficile?” gli chiese dandogli una pacca sulla spalla e sedendosi al suo fianco. Lui lo guardò e continuò a leggere la notizia del quotidiano che aveva trovato sul tavolino all’entrata del ristorante dell’hotel. Dopo qualche minuto piegò diligentemente il giornale, posandolo accanto a lui, si stese i muscoli sulla sedia, andando a strofinarsi la faccia con le mani, in maniera energica e poi gli rispose: “Se un treno mi fosse passato sopra sarei meno distrutto, grazie Jay”.
“Vuoi parlarne?” domandò Jared, senza guardarlo, continuando a gustare la sua colazione a base di frutta fresca e caffè.
“Della tua ragazza che mi è piombata in camera alle tre del mattino per chiedermi scusa, salvo poi farmi il terzo grado?” chiese di rimando Tomo, ancora irritato da Miriam.
“Dai, sai che ti vuole bene, era sconvolta per Ki…” non riuscì a finire.
“Stop a quel nome” lo ammonì chiudendo gli occhi e alzando una mano come per fermare quel suono che proveniva dalla sua bocca.
“Ok, allora troviamole un soprannome per chiamarla. Quella ti piace? Generico, ma abbastanza incisivo” lo prese in giro Jared, bonariamente, fingendosi pensieroso. 
Tomo rise, forse per la prima volta da ore e rispose: “Lei andrà bene”
“D’accordo, dunque Miriam era sconvolta per lei e ha reagito male. Puoi cercare di capirla?” gli chiese, guardandolo con i suoi occhi azzurro mare. Non credeva alle proprie orecchie: stava cercando di fare da paciere, lui che di solito creava problemi ed era il più viziato dell’universo. Sospirò, continuando a guardare Tomo, che sembrava riflettere.
“Jared, credo sia l’ultimo dei miei problemi ora” gli rispose sorridendo. Jared alzò la mano a dargli il cinque, in segno che uno dei dilemmi era risolto: sembrava aver ritrovato il suo vecchio amico.
“E tu come stai?” chiese dopo, nuovamente serio.
“Non lo so. Lei mi manca e mi dispiace averla trattata così, ma, cazzo, Vicky…” non riuscì a terminare la frase e lanciò il tovagliolo sul tavolo come a volersela prendere con qualcuno.
Jared lo guardò cercando delle parole giuste, e dopo un po’ gli disse quello che realmente pensava: “Amico, la tua ex moglie ti sta mentendo. Non te l’ha detto perché si sente in colpa, ma perché vuole che tu ti senta in colpa. In meno di un anno ha mandato tutto a farsi fottere e credo che tu abbia il diritto di fare ciò che ti fa sentire bene, ora. Che sia o non sia… lei, non è importante. Guardati dentro e scopri quello che ti tirerà fuori da questo casino che ti porti appresso”. Dopo un attimo di silenzio aggiunse: “Me l’ha detto Shannon, ma non prendertela, tanto lo avresti fatto tu oggi, alla fine ti ha risparmiato la fatica”.

Lo guardò sorridendo e Tomo si sentì fortunato, almeno, nell’avere una famiglia così.

In quel momento era arrivato Shannon, perennemente in occhiali da sole, che lasciandosi cadere sulla sedia in maniera poco elegante, aveva ironicamente applaudito al fratello: “I tuoi discorsi sono da Oscar, Leto”.
Risero tutti, poi Shannon aggiunse serio: “Comunque, ha ragione, Tomo, ha perfettamente ragione” poi rivolgendosi a Jared continuò: “Ah, comunque per la cronaca: dì alla tua donna di smetterla di rompere le palle alle tre del mattino.”

“Ma è venuta pure da te?” chiese Jared, con gli occhi sbarrati. Quando Miriam gli aveva detto che doveva fare una cosa aveva capito che sarebbe andata da Tomo a chiedere scusa, ma non che avrebbe svegliato mezzo albergo!
“Già, è venuta anche da me. E se Emma non fosse stata lì, credo sarebbe andata anche da lei” annuì Shannon, piluccando un biscotto e servendosi di abbondante caffè.
“Va bene, allora la terrò chiusa nello stanzino delle scope, a LA” rispose Jared, non rendendosi conto fino in fondo che aveva sparato la notizia del giorno.
“Viene di nuovo a LA?” chiese Tomo, che si sentiva infinitamente meglio dopo aver parlato con loro, seppur poco e male.
“Si… e no… insomma…” disse Jared, non sapendo come continuare.
“Il MarsLab ha una stanza in più, ma non ti sognare di darle un lavoro” gli disse Shannon, puntandogli il dito contro, fintamente serio. Aveva capito, come sempre, lo sguardo di suo fratello e l’aveva aiutato a tirarsi fuori dall’imbarazzo. Ammesso che non fosse una novità che Jared Leto provasse imbarazzo.
“Scusate, volete dire che…” iniziò Tomo, rizzandosi improvvisamente sulla sedia.
“Si, voglio dire che Miriam verrà a vivere a Los Angeles. Ma non è colpa mia. Ha deciso lei, ci ha pensato lei e me l’ha solamente notificato ieri notte, prima di venire da voi, a quanto pare” disse Jared, rilassandosi sulla sedia e guardando le facce divertite dei suoi amici.
“E cosa pensa di fare?” chiese successivamente Tomo. 
“Dice che sta prendendo contatti con persone che conosce, e che comunque vuole farcela con le sue gambe. Credo sia un modo carino per dirmi che vuole una sua indipendenza. Forse è perché non vuole far credere che si stia trasferendo solamente per noi due, effettivamente le cose andassero male e lei non avesse niente di suo, si troverebbe senza niente in mano” disse Jared, riflettendo sulla situazione per la prima volta lucidamente.
“E’ un bel modo di ragionare” disse Tomo, ritrovando in quelle parole la ragazza a cui si era affezionato tanti mesi prima.
“Si, è vero” concordò Shannon, guardando l’espressione del fratello. “Ma io vedo qualcosa che non mi piace in quello sguardo” aggiunse poi, mangiando un pezzo di crostata.
“Io sono felice che venga. In questo mese ho pensato mille volte di dirglielo io stesso, e quando eravamo a Madrid ho anche seriamente pensato di assumerla come consulente legale o che so io. Ma non so perché, ne sono terrorizzato. Per certi versi vorrei urlarlo al mondo, per altri vorrei solo sparire” ammise, torturando un pezzetto di fragola decisamente fuori stagione.
“Jared, se non sei convinto devi dirglielo” gli consigliò Tomo, perentorio, ripensando subito a come lui aveva detto a Kiki una cosa molto simile. Il senso di colpa si acuì nuovamente e insieme a quello un disagio che gli riempì lo stomaco: cos’era? Sospirò e tentò di concentrarsi su altro.
“Io la voglio con me, questo lo so. Quello che invece non so è come faremo ad abituarci l’uno all’altra” rispose infine.
“Col tempo, Jay. Lascia che qualcuno si insinui davvero nella tua vita, non lo fai mai e ti chiudi sempre nel tuo mondo. Miriam ti ama e neanche a lei hai permesso fino in fondo di entrarti dentro, per quanto con lei l’impresa è più ardua, a quanto vedo” disse Shannon. Era felice per Jared, avrebbe solamente voluto che il fratello si rilassasse, come lui stava imparando a fare con Emma.

Emma era arrivata nella sala colazione da qualche minuto, ma aveva deciso di rimanere in disparte perchè li aveva visti confabulare e voleva lasciarli soli. Per quanto loro la considerassero di famiglia, la adorassero e lei fosse ormai la compagna fissa di Shannon, sapeva che ogni tanto avevano bisogno di rimanere fra uomini. Non che lei non fosse diventata un maschiaccio e non avesse sentito e visto di tutto negli anni, pensò. 
Sorrise appena e si diresse verso il tavolo, facendo finta di essere appena arrivata. Prese posto accanto a Jared e accarezzò piano la gamba di Shannon, sorridendogli felice.
Poi prese il bricco del latte e lo verso dentro la tazza di caffè che Shannon le aveva dato non appena si era seduta e non guardandolo neanche, disse a Jared: “Dì alla tua dolcezza di non rompere più alle tre del mattino. Neanche se sei in fin di vita, intesi?!”.
Solo dopo lo guardò torva, prima di fargli un leggero occhiolino d’intesa. A quanto pareva tutti e tre avevano la stessa frase da sputargli in faccia quella mattina.

“Eh, Emma cara, ma fra qualche mese bisognerà staccare i citofoni, se questa è l’abitudine francese…” disse Shannon, provocando la risata di Tomo e lo sguardo poco divertito di Jared.
“Cosa mi sono persa?” disse subito Emma, bloccando qualsiasi sua attività e guardandoli tutti e tre.
La situazione era esilarante: c’era Shannon che mangiava crostata come se non ci fosse un domani sorridendo sornione e guardando fisso Jared. C’era Tomo che non riusciva a contenere le risate. E poi c’era Jared che continuava a sezionare frutta in maniera maniacale e alzava lo sguardo di tanto in tanto per maledire i suoi amici.

“Qualcuno vuole spiegarmi, per favore?” disse ancora Emma, spazientendosi. 
“Miriam verrà a vivere a LA” disse sfinito Jared, ficcandosi in bocca un pezzo di ananas.
“Wow… addirittura così stiamo Jared?” lo prese in giro lei, continuando a versarsi il latte nella tazza e capendo l’ilarità degli altri due.
“Non siamo a niente. Lei ha deciso, lei si sta organizzando, lei verrà. Io sono solamente stato informato, e pure pochissime ore fa” rispose stizzito.
“Si, prima che venisse a svegliarci, tesoro. A proposito, Jared, ma come l’hai presa quando te l’ha detto?” chiese Shannon, immaginando la faccia sconvolta del fratello nel sentire quella notizia. Non sapevano perché, ma tutti erano convinti che Jared fosse stato preso dal panico.
“Beh diciamo che me l’ha detto in un momento…” si pentì subito di quelle parole: aveva parlato decisamente troppo e anche se ora aveva chiuso la bocca con la scusa di mangiare, sapeva che sarebbe stato inutile.
“Attenzione, la francesina ha attuato un piano malefico: lanciare una bomba mentre si fa sesso è la specialità delle donne” disse Tomo.
Shannon istintivamente prese la mano di Emma sotto il tavolo e la guardò: anche lei gli aveva detto di essere incinta mentre facevano l’amore, qualche mese prima. Era stato un momento drammatico, decisamente da dimenticare, ma ora riuscivano quasi a riderci su. Il lavoro che stavano facendo insieme su loro stessi era straordinario e li sorprendeva ogni giorno di più. 

Jared non disse niente, convinto che prima o poi avrebbero smesso.
“Senti e in che posizione eravate?” chiese ancora Tomo.
“Smettetela, sta arrivando” disse loro a bassissima voce, vedendo Miriam entrare nella sala.

Lei si diresse verso il tavolo, guardandoli: sperava che non fossero già tutti lì, perché sapeva che nonostante tutto sarebbe stato leggermente imbarazzante. Alla luce del sole tutto sembra più sporco, più pulito o semplicemente più importante.
Arrivò e salutò tutti, poi diede un bacio a Jared e si sedette sulla sedia rimasta libera, fra Shannon e Tomo. Nessuno parlò, e per Miriam non fu un buon segno. Iniziò a servirsi del caffè, e ogni tintinnio di tazze e posate era amplificato in maniera fastidiosa: aveva chiesto scusa, perché la trattavano ancora così? Avrebbe solamente voluto scappare.

Ad un certo punto, Tomo che rideva sotto i baffi da quando Miriam si era seduta, non ce la fece più e disse: “Oh, sentite, la cucina rimane il mio regno!”. Tutti scoppiarono a ridere credendo seriamente di sentirsi male di lì a poco, Jared aveva le lacrime agli occhi e Shannon ed Emma erano seriamente poco regali a vederli da fuori. Però erano belli. E Miriam, fissandoli dapprima come se fossero impazziti, capì: “Gliel’hai già detto?” chiese a bocca aperta, cercando di mascherare l’euforia e il sollievo.
“Scusa, scusa, non l’ho fatto apposta giuro” riuscì a dire Jared fra una lacrima e l’altra. Miriam li fissò ancora, iniziando a ridere con loro: sembravano psicopatici, cinque persone che ridevano come cretini dentro la sala ristorazione di un hotel cinque stelle. Ma gliene fregava molto poco: quella risata era lo sfogo di giorni decisamente stressanti.

Dopo aver esaurito le ultime forze, Miriam chiese: “Siete felici o disperati per questa notizia?”. Rideva ancora, ma un po’ temeva la loro risposta.
“Se non ci svegli più alle tre del mattino, siamo felici” disse Shannon, mettendole un braccio attorno alle spalle e stringendola un po’ a sé.
“Concordo” aggiunse Tomo, guardandola.
Emma continuava a spalmare marmellata sul pane e Miriam aspettava solamente la sua risposta, che forse era quella che temeva di più. Poi lei disse: “Una mia amica affitta il suo appartamento, se vuoi posso chiamarla e sentire se può mandarti foto e informazioni via mail”. Solo allora la guardò e le sorrise piano. Poteva sembrare niente, ma quella frase ebbe il potere di sciogliere il cuore di Miriam, che si sentì quasi commossa e si girò felice a guardare Jared. I loro occhi si scontrarono e Miriam finalmente si sentì a casa.

Il weekend passò in fretta, purtroppo. Miriam non riuscì a sentire Kiki, benché ci avesse provato per due giorni consecutivi. Tentava sempre quando Tomo non poteva vederla, perché i rapporti fra loro stavano tornando sui binari giusti, ma a volte le sembrava ancora che Tomo non gradisse troppe voci nella sua vita. Jared tentò di farla rilassare perché vedeva quanto quella cosa la agitasse e quel sabato notte aveva intenzione di salutarla in maniera speciale.

Doveva passare la serata ad un party esclusivo organizzato da un noto giornale, che aveva tampinato Emma per mesi per assicurarsi la presenza della band, visto che proprio in quei giorni erano a Roma per il tour. Miriam non voleva assolutamente che Jared andasse, voleva stare con lui, da sola, a godersi l’ultima nottata insieme, prima di prepararsi ad una lunga separazione, ma aveva tatuato nella sua mente una sola frase “Non essere d’intralcio nel suo lavoro, nella sua carriera”.

Era lì che cercava si sistemare i capelli, quando Miriam rientrò in camera dopo aver partecipato ad un convegno sul Diritto Internazionale che aveva scovato tempo prima su Internet e che si era tenuto quel pomeriggio in un noto palazzo romano. Aveva detto a Jared che poteva rinunciarci, ma lui aveva avuto problemi con le date del tour ed era stato rinchiuso con Emma e gli altri tutto il pomeriggio, quindi invece che rimanere sola in camera, Miriam era andata.
“Brr, che freddo oggi!” disse appena entrò, togliendosi il cappotto umido e andando subito verso Jared per sentire il suo calore. “Scaldami” gli chiese, come una bambina.
“Ehi, andato bene il pomeriggio?” disse lui, prendendola fra le braccia.
“Si, molto. Era interessante e ho preso contatti che potrebbero tornarmi utili. E tu, tutto ok poi?” gli chiese.
“Siamo riusciti a salvare le cose” le rispose, ma Miriam notò che non tutto era precisamente apposto dallo sguardo di Jared. Decise di non infierire e chiudere il discorso.
“A che ora vai?”
“Fra un’ora passano a prenderci. Mi dispiace lasciarti qui anche stasera” le disse, guardandola dallo specchio. Miriam fu tentata di lamentarsi un po’, ma poi ricordo la frase che si era virtualmente tatuata in mente e tacque.
“Tranquillo. Io farò un bagno caldo e mi metterò nel letto a leggere. Quando tornerai mi troverai proprio qui” disse indicando il letto morbido sul quale stava poggiando i suoi vestiti. Rimase in intimo, e nell’andare verso il bagno si avvicinò a lui e gli sussurrò all’orecchio, guardandolo dritto negli occhi attraverso lo specchio: “Magari non tardare, Leto”. Sorrise e corse in bagno.

Jared rimase a guardare la porta chiusa, riflettendo. Era una follia, ma forse poteva permettersela, e comunque la voleva accanto. Prima di poter pensare ancora, prese il telefono e chiamò la suite di Emma, la quale era alle prese con il trucco. Rispose trafelata, sperando che non ci fossero altri problemi all’orizzonte.
“Si?”
“Emma, sono io”
“Buon Dio, ti prego qualsiasi cosa sia non voglio saperla, Jay. Lo sai che sono incinta, vero? Lo sai che dovrei rilassarmi, no?” gli disse quasi piangendo. Jared rise e poi continuò a parlare.
“Frena, nessun problema. Ho solo bisogno di aiuto”
“Ti odio, Leto. Spara” disse Emma poggiando il grande pennello da blush sulla scrivania e alzando gli occhi al cielo, esasperata. Dietro di lei Shannon si stava vestendo e la guardava con un’espressione interrogativa. Tutto quello che ricevette fu un “Non so” espresso con il labiale di Emma, che vide attraverso lo specchio.
“Dunque, tu e Miriam avete la stessa taglia, giusto?” iniziò.
“Si, mi pare di si. Le serve una maglia in più? Nessun problema” rispose Emma, tagliando corto.
“Non proprio. Ho bisogno di un tuo abito, Emma. So che ne hai almeno quattro, se non di più” disse, agitato e imbarazzato. Emma ascoltò allibita e iniziò a capire: non poteva essere.
“Jared, no” disse solamente.
“Emma, per favore” implorò lui, con la voce ridotta in un sussurro, per far si che Miriam non sentisse.
“Jared, è una follia, non puoi. Ci saranno fotografi ovunque e domani sarete su tutti i giornali, per favore” tentò di farlo ragionare lei.
“Ci hanno già fotografato insieme e poi io… io la voglio lì” disse risoluto lui, guardando il cielo di Roma scurirsi.
“Tu non vuoi proprio darmi pace, vero? E va bene, sei accontentato. Arrivo fra quindici minuti con l’abito. Ma sappi che non ti toglierò da nessun casino in cui ti ficcherai” lo ammonì.
“Sei grande, Emma” la ringraziò lui.

Quindici minuti dopo, puntuale, Emma bussò fasciata in un abito stile impero color caramello che le cadeva sull’esile corpo in maniera divina. Nelle mani teneva un secondo abito, di un verde smeraldo splendido: Jared lo vide e pensò che fosse perfetto per Miriam. Gli ricordava molto l’abitino che lei aveva indossato alle Hawaii la sera della loro prima volta. In quel momento Miriam uscì dal bagno chiusa nell’accappatoio ed Emma la guardò ad occhi spalancati: era ancora in queste condizioni? Ma poi capì che lei non sapeva niente e di conseguenza non poteva assolutamente capire l'esigenza del doversi sistemare, in fretta, per un party.
“Ehi, Emma ciao. Sei bellissima, complimenti” disse Miriam, andando verso il letto a prendere il suo pigiama. Jared ed Emma la guardavano e lei, imbarazzata chiese: “Cosa c’è? Si lo so, non è sexy, ma tutti i miei deliziosi babydoll sono in lavanderia e ho dimenticato di prenderli. Così ho optato per questo stile a cui ho dato il nome Coniglietto Rosa Tutta Deliziosa”. Li guardò sorridendo, con ancora il suo pigiama in mano e forse maledicendosi per l’invenzione dell’ultimo momento: quel nome era sicuramente un doppio senso osceno.
“Miriam, tesoro…” iniziò Jared andando verso di lei. Emma fece qualche passo indietro, per cortesia. Lui continuò: “Vorrei che venissi con me questa sera” le disse semplicemente. Miriam rimase a bocca aperta, non se lo aspettava assolutamente e ora che lui la guardava con quel sorriso meraviglioso e quegli occhi azzurro mare, lei era sull’orlo della commozione più vera. Dimenticò il pigiama, la sua battuta, il libro che voleva leggere quella sera e dimenticò anche l’ordinazione della cena che voleva fare subito dopo la doccia.
“Jared, ma io non ho neanche un vestito!” riuscì a dire. Lui rise, si girò e indicò Emma, che era lì in piedi nei tacchi a spillo ad aspettare.
“Ah, hai organizzato proprio tutto. Ok, però credi che sia una bella idea? Insomma, ci vedranno e fotograferanno insieme, io non so se…”
“Miriam, respira! Ci hanno già fotografati insieme e lo continueranno a fare, specialmente quando verrai a vivere a Los Angeles. Non possiamo nasconderci per sempre e sinceramente neanche mi va” le disse sincero. Miriam asciugò una lacrima: era più bello quel momento di qualsiasi proposta di matrimonio del mondo. Annuì prima calma e poi sempre più sicura, poi saltò letteralmente su di Jared e lo baciò sul collo, felice.
“Ok, piccioncini, è tardi” disse Emma, rompendo quell’idillio.
“Si, è vero. Devi prepararti Miriam. Ti lascio nelle mani di Emma, io andrò a prepararmi da Shannon. Ci vediamo giù” la baciò e andò via, ringraziando Emma con lo sguardo.
“Miriam, abbiamo cinquanta minuti per fare tutto” la terrorizzò appena Jared fu andato via.
“Non ce la farò mai. Ho ancora i capelli bagnati!” si lamentò Miriam.
“Oh, smettila eh. Su vieni qua che ti aiuto” le disse Emma, in modalità materna, maledicendo Jared per le sue idee e se stessa per accettarle sempre senza dire una parola. Tolse i suoi tacchi da stare più comoda e pinzò i capelli in modo che non le si rovinassero. Miriam la guardò e pensò che era davvero una forza della natura in formato donna.

Alla fine, in un’ora circa Miriam fu pronta: indossò l’abito verde smeraldo di Emma, ringraziandola per la sua gentilezza almeno un migliaio di volte. Infilò delle scarpe eleganti che aveva avuto l’intuito di portarsi dietro e si preparò a scendere.
Mentre attendevano l’ascensore, insieme silenziosamente, Miriam aveva lo stomaco in subbuglio, non sapeva se essere più felice o spaventata. Entrarono e a Miriam sembrò che fosse una corsa infinita, ma prima che le porte dell’ascensore si aprissero, prese il braccio di Emma e disse: “Cercherò di non fare casini, te lo giuro”. Emma rimase sbalordita, ma poi sorrise e le disse: “Tranquilla, ci pensa Jared a incasinare gli eventi di solito”. Poi uscì, costringendola a fare una piccola corsa sui tacchi per raggiungerla.


Jared era seduto al bar dell’hotel, al solito tavolo appartato, con Shannon e Tomo. Stavano aspettando che Emma scendesse, ma nessuno sapeva che avrebbe portato con sé Miriam.
Non appena Jared la vide camminare verso di lui ebbe un tuffo al cuore: era bellissima. Il vestito aveva delle spalline spesse che le cadevano sul seno, coprendolo e lasciando un ampio spacco sul decolleté. Poi scendeva morbido, formando mille pieghe che si aprivano ad ogni passo, donandole la sensazione di essere una farfalla. La taglia non era proprio la sua, ma nessuno se ne sarebbe accorto, grazie al modello molto morbido e per niente attillato. Sulle spalle aveva adattato una stola nera che riprendeva la scarpe dal tacco vertiginoso e la pochette che Emma le aveva prestato per l’occasione. I capelli erano semplicemente i suoi: biondo miele, con grandi onde che le cadevano sulla schiena e le incorniciavano il viso dal trucco leggero ed elegante. Aveva osato solamente sulle labbra, sulle quali aveva messo un rossetto rosso fuoco, in netto contrato con lo spirito tenue del resto dell’outfit.


Jared la attese in piedi, con le mani nelle tasche dei pantaloni e un sorriso estasiato sul volto, non appena Miriam gli fu abbastanza vicina gli disse: “Buonasera, messier”. Poi si avvicinò a dargli un morbido bacio sulla guancia, stando attenta a non lasciare tracce di rossetto.
Jared le sorrise e le rispose: “Buonasera, madame. Sei bellissima”. Poi le cinse la vita con il braccio e la strinse a sé, incapace di smettere di guardarla.
Emma li superò guardandoli appena, e notò che erano una coppia davvero bellissima. Andò direttamente verso Shannon, il quale le strinse la mano e le sorrise, prima di chiederle: “Ma è quello che penso?”, con Tomo che accanto a lui si avvicinava curioso della sua risposta.
“Jared vuole portare Miriam all’evento. Così abbiamo dovuto adattare un mio abito da sera e fare tutto di corsa” rispose semplicemente.
“Credi sia una buona idea?” chiese Tomo aggiustandosi il colletto della camicia inamidata.
“No, per niente. Ma sapete che quando Jared si convince di una cosa è impossibile fargli cambiare idea. È semplicemente inutile anche provarci” disse Emma.
“Beh allora speriamo che fili tutto liscio” aggiunse Tomo.
“Io credo che stiate esagerando. È bello che Jared voglia averla accanto a sé. Fra qualche mese lei vivrà a Los Angeles e credo che non ci vorrà molto tempo perché i giornalisti capiscano che c’è una relazione fra loro” disse Shannon, guardandoli: era felice, perchè conosceva Jared e sapeva che quella decisione era frutto del discorso che avevano fatto al mattino. Shannon gli aveva detto di permettere che qualcuno entrasse davvero nella sua vita e Jared lo stava facendo.  
“Andiamo?” disse sorridendo poi, offrendo il suo braccio ad Emma e iniziando a camminare.


“Jared, se inciampo, cado, mi spalmo addosso qualche tipo di patè e getto sull’abito di qualcuno lo champagne, ti prego fa finta di non conoscermi!” le disse, nel panico, poco prima di avventurarsi con lui.
“Credi di voler fare tutte queste cose?” la prese in giro lui, girandosi a guardarla. Miriam lo fissò torva e gli rispose a tono: “Si, se mi farai arrabbiare. Quante sciacquette che ti sei portato a letto ci saranno?”
“Mah, tante credo. E credo che tu debba stare molto attenta a loro: sono vendicative, sai non ho mai mantenuto la promessa di richiamarle il giorno dopo” le disse, prendendole la mano e tirandola al suo fianco.
“Scemo, smettila” le disse dandole un pugno sulla spalla.
“Andiamo, bambina, sarà una bella serata” le disse lui.
 
 

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Capitolo 18
*** Cane da guardia ***


Ciao a tutti! 
Questo nuovo capitolo arriva con un pizzico di timore: 
mi sono arrivati molti "pollici in sù", 
e questa cosa, oltre a farmi un piacere immenso, 
mi ha dato un pò di ansia da prestazione! 
Spero di non deludervi! 
Un ringraziamento particolare va a Love_in_London_Night,
per aver scoperto una (o forse due) passione comune! 

Come sempre, buona lettura! 
Bibi  

 
 
Cane da guardia 

 
E lo fu davvero, una bella serata. Arrivarono su roof top di questo hotel sensazionale al centro di Roma. Si poteva vedere tutta la città e i suoi più importanti monumenti, un occhio attento avrebbe potuto scorgere degli stralci di vita assolutamente inediti, assolutamente pazzeschi.
Jared guardò quella meraviglia e capì davvero che era La Grande Bellezza, ricordando quel film che aveva visto tempo prima, non capendolo fino in fondo. Miriam gli andò vicino, dopo essere riuscita a sfuggire alle grinfie di giornalisti che chiedevano troppo e di Emma che cercava di sottrarla a domande inopportune.

“Ehi, che fai?” gli chiese, senza accostarsi troppo a lui, per quanto avesse voluto.
“Osservo. Sai questa città ha la capacità assurda di essere magnetica per chiunque ci arrivi. E’ caotica, pazzesca, ma sa farsi amare” rispose lui, tentato di baciarla, o almeno abbracciarla, ma resistendo.
“Mi mancherai” sussurrò, per non farsi sentire da nessuno, forse neanche da lui.
“Anche tu” disse lui di rimando, continuando a fissare Roma.
“Ci vedremo appena torni in Europa, fra tre mesi, giusto?”
“Ripasseremo dalla Francia a Maggio” rispose lui.
“Maggio… siamo solo a febbraio, sarà durissima” ammise lei, dando una generosa sorsata allo champagne che teneva in mano, come se quel liquido potesse seriamente aiutarla.
“Ce la faremo dai” le disse, prima di girarsi a guardarla e a sorriderle. Le toccò piano la punta del naso e poi si rese conto di non poter fare di più, quindi si girò ed iniziò a lavorare, dispensando sorrisi e saluti a tutti, e sperando che la serata finisse davvero presto.

Miriam gli fu attaccata per tutto il tempo, tranne quando Emma le andò vicino per prenderla con sé e toglierla dall’impiccio di sembrare il cagnolino di Jared.
“Oddio, grazie, non sapevo come fare” le disse sinceramente grata.
“Di niente, vieni con me” le disse, e la portò verso un tavolino poco distante, dove nessuno era seduto e dove avrebbero potuto riposarsi un po’.
“Ma è sempre così?” le chiese a bocca aperta, sentendosi improvvisamente stanca. 
“Quasi sempre, ma questa è la parte noiosa. In realtà noi ci divertiamo un mondo in giro, perché spessissimo passiamo le serate fra di noi, a girare le città, mangiare e fare i cretini. E’ bello” disse Emma, sorridendo.
“E ovviamente la serata noiosa doveva capitare proprio a me” sbuffò Miriam.
“Credevo che Jared te lo avesse detto, a Madrid”
“No, evidentemente si è scordato. Ma non è un problema, mi sento solamente fuori luogo” disse, per riprendersi e non sembrare la solita rompi scatole. La felicità provata quando Jared le aveva detto di volerla con sè all'evento era ancora intatta, perchè significava moltissimo quel gesto, solamente ora faceva a gara con l'imbarazzo di non sapersi come comportare. 
“Te la stai cavando benissimo” le assicurò Emma, per infonderle coraggio e perché credeva che fosse stupido continuare a vessarla. Lei era la persona che più era riuscita a sciogliere Jared in tutti gli anni in cui Emma gli era stata accanto e questo era da encomiare.
“Spero che sia davvero così. Ho il terrore di aprire siti di gossip domani…” le rispose, incerta se potersi confidare o meno.
“Le cose andranno così: qualcuno parlerà dell’evento e si chiederà chi sei, probabilmente ti affibbieranno un nomignolo come “misteriosa accompagnatrice” o “probabile amica”. Alcuni faranno illazioni, e se vanno a ripescare le foto di Madrid, forse faranno due più due. Ma a te cosa importa?” le rispose, Emma, sicura di quel che diceva.
“Non voglio rovinare qualcosa, Emma”
“Tesoro, stai per trasferirti a Los Angeles, se c’è qualcosa da rovinare è quello, non delle stupide foto”
“E’ che ho la costante paura che Jared si svegli e mi molli su due piedi”
“Tu la devi smettere di avere paura. Ed ora bevi questo, aiuta molto” le disse, offrendole un altro bicchiere di champagne. Più che offrire, la parola giusta sarebbe stata imporre, ma Miriam lo prese volentieri, perché le piaceva e perché per la prima volta dopo i loro diverbi, sentiva Emma un po’ vicina.

Rimase seduta, da sola, ad osservare Jared nel suo ambiente: era bello e carismatico, sembrava che tutti pendessero dalle sue labbra. Sorrideva complice a tutti e lo faceva in maniera normale, tranquilla, come se non facesse altro dalla mattina alla sera. Sarebbe rimasta a guardarlo per ore intere.

“Di solito flirta anche, sceglie la preda e non la molla finchè non lascia la festa con lui” disse improvvisamente una voce dietro le sue spalle. Miriam si girò confusa e notò che a parlare era stata una donna bellissima, fasciata in un mini abito color oro che si sposava bene con la sua pelle bianca, quasi diafana. Aveva un taglio di capelli piuttosto sbarazzino, biondo platino: sicuramente non era naturale, ma Miriam notò che aveva una sfumatura particolare, che non lo rendeva pesante, ma eccentrico al punto giusto. Il suo trucco tradiva il lavoro di almeno un’ora di un fenomenale make up artist, e Miriam si toccò istintivamente il suo viso quasi acqua e sapone.
Si sentì ancora più a disagio, non sapeva chi fosse quella donna e perché le avesse rivolto la parola, ma la sua intelligenza iniziava a sussurrarle qualcosa che non le piaceva molto. Si limitò a sorridere educatamente, perché non voleva iniziare un discorso su Jared con una che probabilmente in passato era stata una sua preda, come aveva detto lei. E poi cosa c’era da rispondere ad una frase del genere?
La ragazza non si spazientì e bevendo champagne, forse troppo champagne, rise sguaiatamente, continuando il suo monologo: “Questa sera ha il cane da guardia e non può sfoderare la sua bravura di seduttore. È un vero peccato…” disse, fissando Jared in maniera quasi fastidiosa, poi rivolse il suo sguardo verso di lei e aggiunse: “… non ammirarlo all’opera, ovviamente”. Detto ciò scolò tutto il bicchiere che aveva in mano fissandola negli occhi, lo posò in maniera poco elegante sul tavolo, proprio davanti a lei, e andò via ancheggiando, forse sperando che qualcuno le facesse comunque continuare la serata.


Miriam fissò il bicchiere davanti a lei, che trasudava le espressioni di quella donna: sul bordo vi era il rossetto rosso perfettamente stampato, come se avesse deciso spontaneamente di lasciare la sua traccia. Miriam pensò che era il suo segno di distinzione, e che sicuramente era stato lasciato anche sulle camicie di Jared, negli anni.
Quel pensiero le provocò un moto di nausea, e si rese conto di che razza di mondo frequentasse quello che ora era il suo uomo: quante donne, nel mondo, l’avrebbero odiata e chiamata “cane da guardia”? Perché era palese che quella donna si riferisse a lei, anche se non l’aveva guardata e aveva detto quella cosa come se il vero soggetto non potesse sentirla. In quel momento, Shannon la raggiunse e si sedette al suo fianco.

“Allora, francesina, come te la cavi? Emma mi ha detto che sei bravissima!” disse, masticando delle noccioline che teneva in una piccola e carina ciotolina di plastica rossa.
“B… bene, credo…” rispose solamente, balbettando quasi e riuscendo finalmente a togliere lo sguardo dal bicchiere e dal suo tatuaggio, come se si fosse svegliata da un sogno. O da un incubo.
“Ehi, che hai?” chiese Shannon, vedendo che palesemente c’era qualcosa di strano in lei.
“Niente, Shan, tutto ok” finse lei, ridendo appena e sperando che il batterista le credesse e non continuasse ad indagare. La sua speranza però fu vana: “Non è vero, Miriam. Ti senti male?”
“Si, ecco, ho un po’ di mal di testa, sicuramente sarà la tensione” disse, avendo trovato la scusa perfetta.
“Vuoi tornare in albergo?”
“No” esclamò, con una voce quasi stridula. Forse era stata troppo violenta nel rispondere, forse i suoi occhi avevano tradito qualcosa, insieme al suo tono, che non era propriamente quello di una signora che non si sentiva bene.
“D’accordo” disse Shannon, alzando le mani e continuando a guardarla per cercare di capire cosa nascondesse.

Rimasero in silenzio per qualche minuto, poi Miriam vide la ragazza bionda avvicinarsi a Jared. Avvicinarsi un po’ troppo a Jared. Lui la salutò e iniziarono a parlottare all’orecchio, ridendo e sembrando molto intimi. Miriam serrò i pugni fermi sulle gambe, guardando quella scena e vedendo sempre più grande il bicchiere davanti a lei. Il rossetto sul bicchiere, la donna vicino a Jared, il rossetto sul colletto della camicia di Jared. Avrebbe voluto alzarsi e strapparle quel vestitino da sgualdrina che si era infilata.

Shannon la guardò e capì: “Hai parlato con Tasha?”, chiese comprensivo e sorridendo sornione. 
“Con chi?” chiese Miriam, facendo una risata che aveva poco di spontaneo e molto di isterico. Shannon rise di nuovo e si accomodò meglio sulla sedia, in attesa che Miriam si decidesse ad essere sincera con lui. Poiché non aveva tutta la notte, decise di parlare lo stesso: “Francesina, quella è una che si è passata mezzo mondo. Non me ne preoccuperei, fossi in te”.
“A quanto pare si è passata pure Jared però” rispose stizzita Miriam.
“Si, può darsi di si. Ma il passato è passato, Miriam”
“Mi ha chiamato cane da guardia” disse, sempre più convinta a volerla gettare di sotto da quel terrazzo.
“Cosa?” chiese Shannon, non capendo bene il nesso.
“Lei, come diavolo si chiama, mi ha chiamato cane da guardia. Ha detto che Jared stasera aveva il cane da guardia con sé e che era un peccato perché non era libero di esprimere le sue doti di seduttore. Hai capito? Cane da guardia” disse, rimarcando quell'espressione che la stessa Tasha aveva pronunciato in maniera provocatoria.
“Si, cane da guardia, ho afferrato il concetto” le disse di rimando Shannon, ridendo appena. Era intenerito da Miriam, perché voleva davvero fare la donna di mondo, ma si ritrovava sempre a combattere contro i suoi demoni. E il suo più grande demone era che Jared la piantasse in asso. Non era semplice gelosia di una donna, la sua, era più il rendersi conto di quanto fossero distanti i loro mondi e di che tipo di abitante fosse fatto quello di Jared. 

La osservò e vide i suoi lineamenti indurirsi alla vista di suo fratello che parlava con Tasha, e anche se lui sapeva benissimo come funzionavano le cose, capiva che a Miriam potesse dare fastidio. Solo avrebbe dovuto farci il callo.

“Shan, ma che ti ridi, scusa?” gli chiese, ora infastidita anche dal suo atteggiamento. Lei non gli aveva detto nulla, stava lì a crogiolarsi nel suo fastidio e basta, era lui che le era andato vicino per stuzzicarla ed ora rideva, prendendola in giro. Stava per sbattergli addosso il bicchiere di Tasha, almeno non lo avrebbe più avuto davanti, lui e quel tatuaggio rosso impresso sul suo bordo.
“No, scusa, non ti sto prendendo in giro. È che deve essere bello avere qualcuno geloso di te in questa maniera” le disse.
“Tu hai Emma, sono sicura che se quella lì si fosse rivolta a lei in quella maniera, avrebbe reagito pure peggio, conoscendo le reazioni della tua donna” gli disse, tornando a guardare quella bionda finta che non si sapeva bene cosa facesse con Jared.
“Emma sa come funzionano queste cose, e si fida. Sai le volte che ha dovuto cacciare dalla mia stanza qualche modella con cui avevo passato la notte? Credo che ormai abbia visto talmente tanto che potrebbe solamente scoppiare a ridere a sentirsi chiamare… come ti ha chiamata, aspetta?”
“Cane…" iniziò a rispondere, continuando solo dopo una pausa: "Shan, ma mi prendi per il culo veramente?” disse, accorgendosi che lui non voleva veramente sapere come l’aveva etichettata Tasha.
“Scusa, non lo faccio più. Comunque, davvero, Miriam, lascia stare. Jared è pazzo di te, questo è lavoro e non può mandarla a quel paese davanti ai giornalisti, deve stare al gioco”
“Il problema è che questo gioco fino a ieri era un gioco che gli piaceva moltissimo. E comunque io non sarò sempre presente alle serate”. Si pentì all’istante di quel che aveva detto: non voleva dire che non si fidava di Jared, assolutamente, ma per lei era una tortura sapere che donne tanto belle facevano le svenevoli con il suo uomo. Tentò di recuperare: “So che Jared non mi farebbe mai una cosa del genere, ma… santo cielo, l’hai vista?” gli chiese.
“Si, alta, magra, biondo platino finto, ma ben fatto, occhi nocciola, seno abbondante, ma rifatto, e fondoschiena niente male. L’ho vista” rispose Shannon, incrociando le braccia e assumendo quella posizione leggermente stravaccata che le Echelon adoravano tanto. La cosa che colpì Miriam fu che mentre la descriveva non la stava guardando, e che avesse detto sicuramente che aveva il seno rifatto. Come faceva…? Capì e lo guardò torva.
“Cioè vi siete pure passate le stesse donne?” chiese, scandalizzata.
“Sono l’unico di cui ci si può fidare, anche se detto oggi può sembrare un po’ una presa per il culo, lo ammetto” disse Tomo, andando a sedersi con loro. Aveva sentito l’ultima frase, ma non sapeva chi fosse il soggetto, per quanto aveva adocchiato parecchie donne passate per i letti dei fratelli Leto negli ultimi anni. “Chi è il soggetto della disputa?” chiese poi, vedendo che nessuno lo aveva degnato di uno sguardo.
Shannon non proferì parola, ma indicò con il mento un punto non precisato di fronte a sé. Tomo si girò e facendo una leggero fischio disse: “Uh, Tasha-ti-prego-chiamami-ancora. Non l’avevo vista”. Miriam era sconvolta.
“Hanno avuto un’interessante discussione con Miriam, che è stata nominata ufficialmente cane da guardia di Jared” disse, abbassando la voce sull’ultima parte della frase e coprendosi la bocca con la mano.
“Ah, capisco. Era lei che aveva lasciato in dotazione degli slip color amarena, vero?” si informò Tomo, come se la presenza di Miriam e la sua faccia allibita non fossero degni di nota.
“Tomo, smettila dai” lo pregò Shannon, ridendo di gusto e vedendo che Miriam non poteva reggere altre rivelazioni shock.
“No, ma fate pure come se non ci fossi, parlate pure delle mille volte che ve la siete sbattuta in qualche hotel. Tranquilli, nessun problema” disse Miriam incrociando la braccia e poggiando la schiena alla sedia.
Assunse un’aria leggermente offesa e tornò a guardare torva la signorina in questione. In gola te li ficcherei quei tacchi, pensò. Salvo poi rendersi conto che non sarebbe stato appropriato dire ad alta voce una cosa del genere.

“Ehi, io non mi sono mai sbattuta nessuna. Sono sempre andato a dormire durante i tour” sentenziò Tomo, sembrando quasi offeso. Poi aggiunse: “Comunque quelle sono cose che passano, fossi in te la prenderei a ridere e mi sentirei molto lusingata del fatto che una come quella mi chiami cane da guardia. Vuol dire che è gelosa, o che ha capito che non può più attingere alla fonte del piacere”.

Sostanzialmente tutti cercavano di placarla, ma lei sentiva un senso di disagio crescerle nel petto, al pensiero che nelle future serate in giro per il mondo, lei non sarebbe stata il cane da guardia di nessuno. Sentiva che quella relazione era una cosa bellissima, ma iniziava a capire di non essere tagliata per le distanze, perché implicavano non solo fiducia, ma tranquillità personale e pochissima gelosia, e lei era una che di paranoie ci viveva.

Si alzò, scusandosi con i ragazzi, e raggiunse un angolino molto lontano dalla folla, dove poter pensare: stava davvero facendo la cosa giusta? Non si sarebbe rovinata l’esistenza appresso ad un uomo che per quanto potesse amarla aveva una vita totalmente fuori dai ranghi della normalità? Lei amava Jared e il suo sogno era nel giro di poco tempo diventato quello di vivere per sempre con lui, ma si rendeva conto di doversi abituare a lunghe assenze, a popolarità e stress che sicuramente la sua vita non prevedeva.
Sentiva di non farcela e soprattutto non voleva deludere Jared. Né intaccare la sua carriera o, peggio, la sua serenità. Respirò forte l’aria romana, troppo dolce per essere febbraio, e sentì i suoi polmoni chiedere ancora ossigeno, forse il suo cervello chiedere invece un po’ di tregua.
I pensieri erano costanti da mesi ormai, e lei iniziava a vacillare sotto il peso di qualcosa che non sapeva essere così difficile. 
Quando aveva conosciuto Jared e gli aveva proposto di continuare a sentirsi, non credeva che sarebbero finiti così, ma soprattutto non credeva di non essere compatibile con lui, o meglio con una parte ben definita di lui. Sentiva che stava per arrivare l’ennesima lite e si sentì sconfitta e abbattuta, perché ancora una volta sarebbe stata colpa della sua poca razionalità e della sua insicurezza. Ma aveva promesso a Jared, non una volta sola, che ci avrebbe provato ad abituarsi e non si poteva dire che lui non la stesse aiutando: portarla lì, quella sera, era stato il segno che lui voleva davvero averla accanto, altrimenti l’avrebbe lasciata in hotel ad aspettarlo per una notte di fuoco. Cosa aveva che non andava? Si maledì e dopo l’ultimo respiro forte, si concentrò su se stessa, obbligandosi a smettere di pensare.


Jared l’aveva persa di vista qualche tempo prima. Erano insieme e poi Emma l’aveva portata via per consentire a lui lo spazio necessario a fare public relations, per quanto lui odiasse non solo la parola, ma tutto ciò che implicasse.
Ora la cercava con lo sguardo, mentre Tasha gli si era incollata sperando di andare via con lui. Non poteva fare scenate ed era stato al gioco, ma molto duramente, con un sorriso finto che non tradisse il suo vero stato d’animo, le disse all’orecchio che non ci sarebbe stato niente, quella notte. E nessuna notte a venire. Lei sembrava non capire e continuava a flirtare con lui, sotto alcuni flash impertinenti e gli occhi di tutta la sala: d’altronde non era un segreto che Jared Leto non fosse un santo quando si parlava di donne. 

La cercò con lo sguardo ovunque, non vedendola. Scorse Shannon che parlava con un tale alto, e Tomo che si affaccendava a fare fotografie divertenti con un gruppetto di ragazzi. Ma di Miriam neanche l’ombra.
Intercettò Emma al buffet che selezionava il cibo, forse in base alle primissime voglie, e la raggiunse quasi di corsa, stando attento a che nessuno notasse l’urgenza che il suo corpo tradiva.

“Ehi, Miriam?” le chiese velocemente, a bassa voce.
“L’ho lasciata a parlare con Shannon, lì a quel…” non finì la frase perché vide da sola che la ragazza non c’era più. Poi continuò: “Chiedi a tuo fratello, forse è solo andata alla toilette”.
“Si, forse” rispose Jared, poco convinto. Andò da Shannon e trovando una scusa banale lo portò via dalle chiacchiere, rivolgendogli solo dopo la domanda che aveva fatto ad Emma.
“Abbiamo parlato un po’ e poi si è scusata andando via. Sarà qui in giro, Jay” gli disse.
“Non la trovo però. Di cosa avete parlato?”
“Ma niente di particolare, la festa, le prossime date… Tasha…” la buttò lì con nonchalance, perché sapeva che il fratello rischiava un attacco isterico dei suoi.
“Cosa? Tasha?” sibilò, faticando a rimanere calmo.
“Jared, calmati!” gli intimò Shannon. Poi girò lo sguardo verso la sala, sperando di vederla, e fu così. “Guarda, è lì, in quell’angolo” gli disse, indicando un punto dietro la schiena di Jared. Lui la raggiunse, senza dire altro al fratello, e le circondò la vita con un braccio, incurante di chi avesse potuto vederli e sbatterli sui giornali. 

“Ehi, bambina, che ci fai qui?” le disse all’orecchio, guardando il suo profilo. Lei sorrise istintivamente, nel sentire il calore di Jared sul suo corpo e si girò a guardarlo.
“Stavo ammirando la città e prendendo un po’ di fiato”
“Tutto bene?”
“Si, tutto bene. Solo che ancora devo abituarmi a questo tipo di serate” gli disse. Lui le toccò il naso, come faceva sempre quando voleva sentirla sua, e si pentì di averla abbandonata in mezzo a quel caos. Tolse il suo braccio e si poggiò alla balaustra coperta di fiori, guardandola serio. Respirò e le disse: “Scusa, non dovevo lasciarti sola”
“No, tranquillo. Capisco che dovevi dare un po’ di te a tutti. Tanto io avrò la parte migliore più tardi” gli disse, maliziosa, tradendo nella voce la voglia che aveva di non dormire per niente.
“Andiamo via” le disse lui rapido, iniziando a camminare. Miriam non oppose resistenza e si sentì stringere la mano e trascinare via. Guardò Jared camminare a passo svelto verso l'uscita del roof top e sorrise nel vederlo tranquillo andarsene con lei.
 

“Emma, noi andiamo via” disse alla sua assistente, che stava addentando un crostino ai gamberi.
“Jared, forse…”
“Ci vediamo domani” tagliò corto lui, facendole capire che non era una domanda, ma un’affermazione.
“D’accordo, come vuoi” si rilassò lei, tanto era inutile sperare che lui seguisse qualche regola. Lui era così. Sorrise e li lasciò liberi di andarsene, facendo spallucce quando Shannon, da lontano, chiese spiegazioni con uno sguardo.

“Lei è solo una vecchia storia” disse improvvisamente Jared, che non era stupido e aveva capito tutto, o quasi.
“Chi?” mentì Miriam, guardando Roma scorrerle davanti. Erano appena saliti in auto e lei aveva promesso a se stessa che non avrebbe proferito parola su quella bionda finta. Ma lui era inciampato nei suoi pensieri e aveva voluto tirarglieli fuori a tutti i costi.
Jared sorrise, guardando fuori dal finestrino, poi si accostò di più a lei e la strinse a sé, sussurrandole nell’orecchio: “Smettila di mentire, bambina, non ne sei capace”. Era un soffio caldo e suadente e Miriam dovette ringraziare di essere seduta, perché le sue gambe avevano sempre la brutta abitudine di cedere quando Jared le si rivolgeva in quella maniera.
Si girò e gli sorrise piano, chiedendogli quasi scusa con lo sguardo e disse solamente: “Mi fido di te, Jay”.

“Lo so, ma voglio comunque dirti che è una acqua passata. E che non era neanche molto brava a letto” le disse, tenendola stretta a sé, inchiodandola con i suoi occhi. 
“Ah beh, se non era brava a letto allora…” disse Miriam scoppiando a ridere e sentendo quel senso di disagio e preoccupazione scivolare via dal suo cuore. Jared era lì con lei, voleva stare con lei, quello era tutto ciò di cui aveva bisogno per essere felice.
“Vuoi per caso farmi vedere quanto invece tu sia brava?” la tentò lui, iniziando a scorrere la sua mano sulla gamba di Miriam. Il vestito era morbido abbastanza da essere facilmente scostato e Jared non si fece intimorire dalla stoffa. Iniziò a solleticarle piano il ginocchio, per poi salire sempre di più.
“Non ne hai già un’idea, Leto?” lo stuzzicò lei, incurante che l’autista fosse così vicino a loro.
“Vorrei una piccola dimostrazione ulteriore, se possibile”. Continuava a torturarla, passando le sue dita calde sulla sua pelle liscia, arrivando fino all’inguine per poi scendere nuovamente verso il ginocchio. Miriam iniziava a perdere il senso del pudore e lo baciò con passione, cercando la sua lingua per giocarci come amava tanto fare.
“Sarai accontentato, Leto. Ma ora giù le zampe” gli disse staccandosi da lui e facendo scendere di nuovo la stoffa del vestito verso i suoi piedi, in un attimo di lucidità estrema. Jared sorrise con un lampo negli occhi, poi controllò quanto mancasse all’arrivo in hotel, anche se riuscì ad orientarsi malissimo in quella città così immensa.

L’autista li lasciò all’entrata laterale dell’hotel, quella riservata a persone che volevano privacy. Jared lasciò il passo a Miriam e la fece entrare, seguendola a sua volta. Attesero l’ascensore senza parlare, come se fossero due estranei, anche se fra loro c’era un’elettricità che difficilmente poteva essere non notata. Appena le porte dell’ascensore si aprirono, Miriam salì e premette il pulsante con il numero del loro piano, aspettando che entrasse anche Jared.
Lui entrò subito dopo di lei e aspettò solamente che le porte si chiudessero per lasciarli soli, poi si girò e facendo un paio di passi schiacciò il corpo di Miriam contro la parete laterale, iniziando a baciarla e far scorrere le sue mani sul suo corpo. Le prese una gamba, alzandola fino al suo fianco, il vestito scivolò fino all’incavo dell’inguine e Jared ebbe terreno fertile per sentire la pelle morbida e profumata di Miriam sotto le sue mani. La toccò senza interruzione, continuando a baciarla come se volesse consumarla e Miriam si lasciò fare, perché quel modo che aveva Jared di dimostrarle la sua passione le mandava il cervello in estasi completa.

Gli scompigliò i capelli, affondandoci le mani e premendo il suo viso contro le sue labbra. Non chiuse gli occhi, non lo faceva mai, perché adorava vedere l’espressione di Jared mentre si eccitava sotto di lei e con lei, piuttosto andò a toccargli la schiena attraverso la giacca e scese fino a palpargli il sedere, per spingerselo ancora di più addosso. Sentì la sua eccitazione attraverso la stoffa fina del vestito, quel vestito che ormai le aveva lasciato almeno una gamba scoperta e pensò che quella corsa in ascensore sembrava infinita.

Arrivarono però ben presto al piano e neanche si accorsero che potevano trovare qualcuno ad aspettare l’ascensore: semplicemente non gli importava molto. Uscirono dalla cabina, continuando a baciarsi e Miriam prese la direzione della stanza, costringendo Jared a camminare di schiena, spingendolo lei con il corpo e baciandolo di tanto in tanto.
Dopo qualche passo arrivarono alla stanza e lì non resistettero più: senza neanche togliersi tutti i vestiti, Jared, una volta chiusa la porta, la costrinse la muro e la fece sua, con l'urgenza di chi vuole a tutti i costi far presente l'amore e la passione che ha dentro.
Miriam rimase senza fiato per un momento, ma sentiva che era l’unica cosa che voleva: fare l’amore con lui tutta la notte, senza stancarsi mai, per conservare quel ricordo fino a quando si sarebbero rivisti.


Jared la premeva fra il suo corpo e il muro, pensando che lei era il miglior sesso di tutta la sua esistenza. Era un pensiero ricorrente, quando facevano l’amore, e ogni volta si scopriva a stupirsi di quanto le sarebbe mancata quando si sarebbe ritrovato solo.
La tenne per le cosce, che aderivano a lui perfettamente, e sentiva l’alito caldo di quella donna perfetta sul suo collo, cosa che lo faceva eccitare ancora di più. poi Miriam gli parlò all’orecchio, ansimando: “Non mi stai dando l’opportunità di dimostrarti quanto sono brava”. Poi gli leccò l’orecchio.

Lui rise a quella sua affermazione e le rispose di rimando: “Avrai tempo, bambina…”. Era una promessa o una minaccia? Miriam non seppe dirlo, ma fece una risatina soddisfatta e sentì improvvisamente Jared uscire da lei per poi rientrare di colpo. Le scappò un piccolo urlo che lui tappò con le sue stesse labbra. Se avesse dovuto scegliere un modo per morire, quello le sembrava il momento ideale.

Dopo il violento orgasmo, Miriam toccò di nuovo terra e gli sorrise, baciandolo. Si tolse l’abito, pensando di spedirlo in tintoria prima di ridarlo ad Emma, e rimase nuda, con solo i tacchi a spillo. Jared la osservò di schiena, così bella, eterea, sensuale ed erotica e le fu subito dietro, il corpo incollato al suo: “Che fai? Mi provochi?” le disse.
“Ti provoco ogni giorno della mia vita, Leto, dovresti saperlo” gli rispose con la voce roca. Poi lo guardò e sparì nel bagno, dove era intenzionata a farsi una doccia.

Uscì solo mezz’ora più tardi, avvolta nell’accappatoio, con i capelli tirati su per non farli bagnare e qualche ciocca ribelle che era sfuggita al controllo dell’elastico. Lo vide steso sul letto, con le cuffiette nelle orecchie, un quaderno sulle ginocchia e una matita in una mano. Sembrava concentrato, e Miriam lo trovò bellissimo. Rimase immobile, a fissarlo, perché non voleva disturbare la sua concentrazione e voleva crearsi dei ricordi da portare a casa. Si poggiò allo stipite della porta del bagno e rimase lì, senza dire e fare niente: erano a febbraio, erano quasi sei mesi che si conoscevano, cinque da quando erano passati dall’essere conoscenti a qualcosa di più. Miriam sentiva di aver vissuto più in quei cinque mesi che in tutta la sua vita: era pazzesco come a volte ci si rende conto di essere approdati in un porto sicuro dalle piccole cose.


Si mosse piano, fino ad arrivare al letto, dove salì con calma senza parlare. Jared sentì il materasso cedere sotto il peso di Miriam e le aprì un braccio per accoglierla, senza dire nulla, senza guardarla. Quella era casa, pensò Miriam: una persona che ti crede talmente tanto sua, da ospitarti fra le sue braccia, senza il bisogno di dire nulla, senza il bisogno di un contatto visivo.
Si sentì piena e si raggomitolò lì, sul petto di Jared, che le sarebbe mancato tanto. Chiuse gli occhi per rilassarsi e fu cullata dal respiro dell’uomo, e dal suo petto che incessantemente si muoveva su e giù. Dopo un po’ lui si tolse le cuffie e le chiese, piano: “Ehi, dormi?”

“No, mi stavo rilassando” gli rispose, alzando lo sguardo verso di lui. “Cosa facevi?” aggiunse poi.
“Stavo ascoltando delle basi per i prossimi concerti, vorrei inserire qualcosa di particolare” le rispose.
“Capito. Vuoi una birra?” gli chiese.
“Bambina, stai diventando una ragazzaccia!”
“Mi sembrava che ti piacesse questa mia trasformazione” gli rispose, aprendo l’accappatoio quel tanto che bastava per fargli vedere la sua pelle.
“Non ho mai detto il contrario” affermò lui, bramoso di averla ancora addosso. Miriam prese due birre dal frigobar e le aprì, poi si sedette di nuovo sul letto e alzò la sua bottiglia come per fare un brindisi, Jared la seguì e attese che lei parlasse: “Alla tua castità e a tutte le donne che vorrebbero venire a letto con te e non ci verranno mai più” disse sicura e sorridente.
“A loro” rispose Jared, ridendo, perché era il brindisi più strano del mondo, ma lei aveva la capacità di non farlo pentire di nulla.
“Guarda che ho i miei metodi e verrò a sapere tutto, stai attento, Leto” gli disse sulle labbra, fissandolo negli occhi.
“Cane da guardia, stai a cuccia!” rispose lui, lasciando intendere che sapeva, oh se sapeva.
Miriam rimase a bocca aperta: come faceva? Fece un’espressione buffa, così lui le disse: “Anche io ho i miei informatori, bambina”. Poi si alzò e prese una piccola scatola dal cassetto del comodino. Era blu scuro e tradiva una certa importanza, un certo valore. Miriam continuò a sorseggiare la sua birra, anche se non riusciva propriamente a stare tranquilla: quella scatola aveva il sapore di essere qualcosa di importante. Jared si sedette sul letto e gliela porse senza dire una parola, semplicemente allungando la mano verso di lei.


Miriam era esterrefatta: un anello! Jared le stava regalando un anello e quello era il giorno più bello della sua vita.
Prese la scatolina con le mani tremanti, quasi con la paura di romperla e la aprì con calma. Scorse un certo scintillio e il cuore le saltò in gola, ma cercò di darsi un contegno. Quando la aprì del tutto rimase a bocca aperta: non era un anello. Ma un ciondolo d’oro bianco. Era un piccolissimo 20, con lo zero formato dalla zampetta del due che faceva un ghirigoro e andava a chiudersi formando un piccolo cerchio. Era fissato su una collana a filo corto, in modo che non potesse essere tolto da lì.
Miriam lo sganciò dalla scatolina e se lo rigirò fra le mani: aveva capito il senso di tutto, ma era semplicemente sconvolta da tanto romanticismo.

“Il 20… ricordi?” disse Jared improvvisamente, dopo averle lasciato il tempo di assimilare. 
“Ricordo che indossavo un abito verde smeraldo come quello lì, ma molto meno bello, e che ho distrutto almeno due bottiglie di vodka, quella sera” rispose, ricordando anche molto altro.
“Io ricordo che hai usato come scusa quella delle bottiglie rotte per sedurmi” le rispose Jared, accarezzandola la guancia, mentre lei era totalmente rapita dalla semplicità di quel regalo.
“Jared, è meraviglioso che tu ci abbia pensato, grazie”
“L’ho visto in un negozio piccolissimo a Madrid, prima di andare in aeroporto e mi ha colpito. È delicato ed è l’inizio di qualcosa di importante…” pronunciò quelle parole con una voce quasi imbarazzata, Miriam dovette tendere l’orecchio per cogliere ogni singola sfumatura, ogni singola sillaba.
“E’ davvero importante per te?” chiese guardandolo negli occhi, commossa fino alle lacrime.
“Ti cercavo da una vita, bambina” le rispose solamente, incapace di non toccarla. Le sfiorò la punta del naso con un dito, così piano che lei sentì appena quel tocco, così forte che riuscì a entrarle nell’anima. Gli si gettò fra le braccia e chiuse il suo viso nell’incavo del collo di Jared, a sentirne il suo profumo. Aveva ancora in mano quel ciondolo e si sentì felice come non mai.
“Devo dedurre che ti sia piaciuto”
“No, in realtà mi sembra brutto dirti che è davvero orrendo e sto fingendo. Dici che merito un Oscar?”
“Se vuoi ti presto il mio”
“Spaccone, spaccone come sempre, Leto” lo rimbrottò, agganciandosi la collana dietro la nuca e toccando il ciondolo con la punta delle dita.
“Ti sta bene”
“Grazie, corro a guardarmi”. E dicendo così saltò giù dal letto per andare verso lo specchio.

Si rimirò il collo, adornato da quel prezioso, ma delicatissimo regalo, e poi si girò verso Jared, per sincerarsi che fosse tutto vero. In quel momento l’accappatoio si aprì, lasciandola praticamente nuda, ma lei non se ne preoccupò e rimase lì, in piedi, a sorridere a Jared, un sorriso che diventava sempre più malizioso e colpevole.
Lui si alzò piano dal letto per raggiungerla, e tradiva già una certa eccitazione. Quando le fu vicino le accarezzò il collo, andando a sbattere volutamente in quel nuovo ciondolo che le donava così tanto, poi le mise una mano sullo stomaco e la spinse verso il bagno, immediatamente dietro di lei.
Aprì l’acqua della doccia, lasciando per qualche minuto che si scaldasse e poi liberò Miriam dell’accappatoio, costringendola ad entrare di nuovo nella cabina. Fecero l’amore sotto il getto caldo della doccia, le gocce d’acqua andavano a mischiarsi al loro sudore e i capelli erano incollati al viso e alle spalle. Miriam lo osservò mentre lui la teneva contro il muro della doccia, lo osservò mentre negli occhi aveva l’urgenza di averla di nuovo sua e se ne innamorò ancora una volta.


“Ti amo” sussurrò lei, più a se stessa che a lui.
Doveva convincersi che era vero e che era inciampata nella più bella favola di sempre. La verità era che fra pochissime ore sarebbe tornata a casa, Jared sarebbe volato in Asia e per lunghi mesi non avrebbero potuto condividere più di qualche telefonata. Era dura da accettare, Miriam sentiva un nodo alla gola che non si scioglieva e non riusciva a godersi neanche quel momento di passione che Jared le stava regalando, perché semplicemente avrebbe voluto annullare distanze e problemi e rimanere così per sempre.
Pensò che avrebbe dovuto resistere per poco, e poi con un po’ di fortuna si sarebbe trasferita nella città degli angeli, dove avrebbero potuto vedere quanto erano innamorati e quanto la loro relazione fosse solida. Aveva il terrore di scoprire il contrario e non poteva saperlo, ma anche Jared soffriva di una certa paura, ma sicuramente continuare così non avrebbe aiutato nessuno. Provarci era tutto ciò che potevano fare.
Solo qualche mese, Miriam, si disse da sola, sperando che l’acqua si mischiasse con le sue lacrime e le nascondesse a Jared. Lei sentiva però il sale pungerle le labbra. 

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Capitolo 19
*** Fra noi so che durerà ***


Nuovo capitolo nel giorno del live da Hollywood Bowl! 
Chi di voi farà nottata per i Mars?
Io ho già il caffè pronto, 
e spero che sia un bel concerto, che mi faccia passare un pò i cattivi pensieri.

Detto ciò vi ringrazio davvero tutti,
perchè siete tantissimi e seguite con amore e costanza la mia storia! 
Onestamente non credevo ad un tale seguito,
quindi un MarsHug a TUTTI!!!

Qui troviamo un pò un riepilogo della situazione,
una sorta di capitolo cuscinetto! 

Buona lettura,
Bibi

 
 
 
Fra noi so che durerà

 
La domenica arrivò troppo presto per tutti. Miriam e Jared dormirono fino a tardi per recuperare il sonno perso durante la notte, si svegliarono nella tarda mattinata con ancora tutte le valigie da sistemare e la brutta sensazione di aver perso tempo dormendo, per quanto si resero conto di aver dormito al massimo tre ore.
Sistemarono tutto in silenzio, muovendosi come automi: sapevano che sarebbe stato difficile rivedersi prima della fine della primavera. Ed erano ancora in inverno.


“Scendiamo a fare colazione?” propose Miriam dopo un po’, più per riempire il rumore sordo del mutismo di entrambi che perché avesse realmente fame.
“Faccio portare qualcosa in camera” rispose risoluto Jared, senza neanche guardarla, come se gli pesasse anche fare le scale. O prendere un ascensore.
Ordinò una ricca colazione che arrivò con un carrello dopo circa venti minuti. Si sedettero sul terrazzino della suite ad ammirare Roma, spiluccando la lauta colazione che avevano davanti. Nessuno dei due parlava e Miriam continuava a torturare il ciondolo che da oggi in poi l’avrebbe aiutata a credere che fosse tutto vero.


“Dovremmo parlare, forse” gli disse ad un certo punto, non sapendo bene se suonasse come una minaccia o una richiesta di attenzioni.
“Di cosa?”
“Di quello che ci aspetta, Jared” le disse lamentando una certa mancanza di sicurezza. Iniziava a mancarle l’aria: Jared sapeva essere il centro del suo mondo in alcuni momenti e poi l’assoluta barriera di ghiaccio in altri. Sembrava che non gli interessasse di lei, di loro, di niente, quella mattina, per quanto Miriam iniziava a capire che fosse un atteggiamento, un modo per difendersi, da chissà cosa poi.
“Ci rivedremo a Maggio, quando tornerò in Europa” disse semplicemente, come se fosse normale, come se fosse semplice.
“Siamo solo a febbraio, però” azzardò lei, abbassando di un filo la voce. Lo vide irrigidirsi e sbattere il pugno sul tavolo di ferro battuto che ospitava tazze e piattini, le stesse vettovaglie che rischiarono una rovinosa caduta a terra per la violenza della sua reazione.
Si alzò e si mise a camminare freneticamente avanti ed indietro, cercando le parole, cercando l’autocontrollo.

“Miriam, non è facile neanche per me, sai?”
“Si, lo so”
“Ti porterei con me sempre, se fosse possibile, ma tu hai un lavoro e devi tornare a Parigi, cosa posso farci?” le chiese, arrabbiato, anche se non sapeva bene con chi.
“Fra qualche mese sarà tutto diverso, Jared” tentò di dire lei.
“Miriam, i tour ci saranno sempre, ci sarà sempre un momento in cui dovremmo stare separati e dovremmo in qualche modo abituarci. E tu già mi manchi come l’aria…” disse, abbassando la voce e distogliendo lo sguardo, specie sull’ultima frase.
“D’accordo, ma quando sarai a casa avremo una vita più o meno normale, vedrai che ci abitueremo e sarà tutto più semplice, Jared, ne sono sicura” gli disse alzandosi e andando ad abbracciarlo, sperando che il suo calore riuscisse a calmarlo. Non voleva salutarlo in quel modo, non voleva litigarci ancora.
“Hai tutta questa fiducia nel mondo o è un trattamento che riservi solo a me?” le chiese, guardandola e pentendosi di averle gettato addosso la sua ansia e le sue paure, per la prima volta messe in chiaro.
“In noi ho molta fiducia, nel resto non lo so” gli rispose sincera, sorridendogli.
Lo guardò intensamente come per imprimere quegli occhi di ghiaccio dentro di se, marchiarsi a fuoco di quello sguardo, sentire dentro di essere totalmente invasa da quell’azzurro mare. Poi aggiunse: “Jared, io voglio venire a vivere a Los Angeles per migliorare le cose, per provare a vedere se riusciamo ad essere una coppia più o meno normale, ma se credi sia stupido, o troppo precoce devi dirmelo, voglio saperlo”. Lo disse ostentando sicurezza, maturità e voglia di sentire il suo punto di vista.
La realtà era che moriva dentro all’idea che lui le rispondesse che si, era troppo presto e che avrebbero dovuto aspettare.

Jared non la aiutò, perché prima di rispondere ci mise un tempo eterno, che non fece altro che rafforzare in lei l’idea che lui non volesse quel trasferimento, ma non sapesse come dirglielo. Si toccò istintivamente il ciondolo, pensando al perché gliel’avesse regalato se ora voleva tirarsi indietro. Come sempre, era un caos infinito.

“Mi spaventa l’idea che tu venga per me, ma non sono mai stato più felice” le disse infine, togliendole quel peso dallo stomaco e dal cuore.
“Non vengo per te, o almeno non solamente. Diciamo che sei il motivo che mi ha convinto a tentare di cambiare qualcosa che era da tempo che non mi piaceva più. Mi hai dato coraggio” gli rispose.
“Mi mancherai davvero tanto. Quando pensi di riuscire a lasciare Parigi?”
“Spero per Giugno di riuscire a risolvere la questione lavoro. Poi basterà prenotare un solo andata e il gioco è fatto. Certo rimane la questione casa…” disse pensierosa.
“Per i primi giorni puoi stare da me. Si, insomma, se ti va, se non è un problema… sennò al MarsLab abbiamo stanze a sufficienza…” disse, insicuro come un adolescente alla prima cotta. Questo suo sentire la necessità di parlarle, ma avere paura di dire troppo lo mandava in crisi ogni volta.
“Ehi, calma, calma. Non c’è problema, in qualche modo farò sicuramente. E per i primi giorni posso appoggiarmi al MarsLab con piacere, se per Tomo e Shannon non è un problema, ovviamente. Vorrei che glielo chiedessi prima”. Aveva volutamente lasciato cadere il discorso della sua casa, non sapendo bene perché, ma sentiva che era giusto porre dei limiti, almeno per ora.
“Se vuoi che glielo chieda, lo farò, ma sta tranquilla, non ci saranno problemi. Quindi per giugno sarai tutta mia?” le chiese stringendola un po’ di più e finalmente sentendosi più sereno. 
“Si, più o meno, insomma spero. Quando finite il tour?”
“Per giugno sarò il California, qualsiasi cosa accada. Devo darti il benarrivata in piena regola”
“Spaccone!” gli disse ridendo e tirandogli un pugno sul petto.
Erano felici e Shannon, che li guardava dalla sua finestra, non poteva fare a meno di ridere. Non poteva sentire i loro discorsi, ma la gestualità del loro corpo non lasciava niente di intentato: erano passionali, si tenevano con una certa urgenza e gli occhi di suo fratello non era mai stati tanto vivi.


“Ehi, hai deciso di scrutare tutto il mondo da quella finestra?” gli chiese Emma mentre entrava in stanza, dopo una lunga sessione di lavoro con i giornalisti.
“Come?”
“No, dico: è il tuo sport preferito sbirciare la gente dalla finestra? Prima Tomo e Kiki, ora chi altro? Tuo fratello, scommetto!”
Emma era calcolatrice e organizzata fino al midollo, quindi aveva studiato la posizione delle stanze di tutti e tre, in tutti gli alberghi che avrebbero toccato. Sapeva venissimo che dalla stanza di Shannon si poteva vedere il balconcino di Tomo e il terrazzino di Jared, e calcolando che era una assolata domenica mattina e che Tomo era nella palestra dell’hotel con la musica altissima nelle orecchie, l’unica soluzione era che stesse guardando Jared. Probabilmente non solo.


“Spiritosa stamattina, mammina” le disse accostando la tenda e andandole incontro. Il suo corpo iniziava a cambiare, era più morbido e il suo viso più espressivo.
Shannon la osservava tutti i giorni, senza che lei se ne rendesse davvero conto e adorava vedere come la gravidanza stesse cambiando le cose in lei, in loro.
Erano stati bravi, nell’ultimo periodo, a darsi delle regole e ad infrangerle insieme, erano stati bravi a viversi molto di più di quanto si fossero concessi in passato, ed erano stati bravi a smetterla di litigare per qualsiasi cosa. Erano stati bravi a darsi il tempo di abituarsi a quell’uragano che li aveva travolti. Erano partiti ammettendo di avere entrambi una paura fottuta, e l’ammissione comune li aveva uniti ancora di più, aiutandoli a camminare davvero insieme.


Emma si era molto lasciata andare, non era ancora pronta a rendere tutto pubblico, ma iniziava a non dire nulla se Shannon nel backstage o negli hotel aveva degli atteggiamenti particolari con lei. E non le dava più fastidio dormire con lui, tanto che, senza dirgli ancora nulla, aveva annullato la prenotazione della sua stanza per tutte le prossime tappe. Aveva pensato che fosse inutile occupare all’hotel una camera che non avrebbe mai usato, tanto valeva essere civili e lasciargliela libera.
Si era detta che lo faceva per spirito di praticità, ma in fondo stava iniziando a chiedersi se non lo facesse perché segretamente voleva davvero condividere tutto con Shannon.
Il bambino che aveva in grembo era stato un fulmine a ciel sereno e non si poteva dire che ne fossero rimasti entusiasti entrambi al primo colpo, anzi, però erano stati d’accordo nel volerlo tenere ed Emma iniziava anche ad esserne felice. Vedeva che Shannon le osservava la pancia spesso e che quando facevano l’amore era delicato e le sfiorava sempre il ventre in maniera dolcissima. Adorava quelle attenzioni, che erano state il motivo per il quale aveva deciso di lasciarsi andare davvero a quella che, ora ci credeva, era la più bella cosa che le fosse mai capitata.


“Smettila di chiamarmi così, Shannon. Ancora non sono una mongolfiera!” lo rimbrottò togliendosi le scarpe e stendendosi sul letto, esausta.
“Però guarda qui” le disse stendendosi accanto a lei e sollevandole la maglia. Le poggiò una mano sulla pancia e le fece notare, come se lei non lo sapesse benissimo da sola, che era leggermente meno piatta, cosa che si iniziava a notare anche quando era sdraiata. Si iniziava a vedere qualcosa, ed anche se per ora sembrava solamente che avesse mangiato troppi manicaretti europei, loro sapevano che non era così ed erano emozionati, entrambi.
“Si inizia a vedere la pancia” gli rispose sollevando la testa per guardarsi, oltre il seno. Posò la sua mano su quella di Shannon e rimase a fissare quella lieve rotondità.
“Senti, che succedeva nel terrazzino?” gli chiese dopo, lasciando di nuovo andare la testa contro il cuscino e girandola a guardarlo, ma lasciando la sua mano lì dov’era, così da costringere anche Shannon a non lasciarle la pancia. La rassicurava quel tocco e a volte ne sentiva proprio il bisogno. 
“Non ho sentito, in verità. Però li ho visti… sono bellissimi” le rispose, poggiandosi su un gomito.
“Si è vero. Noi lo siamo mai stati così belli, Shan?”
“Tesoro, lo siamo ancora così belli”
“E' che noi… si, insomma, noi siamo già avanti con le tappe. Abbiamo superato da un pezzo il momento della prima cotta”. Lo disse imbarazzata, ma era vero: la sua più grande paura, in quel momento, era non viversi tutte le tappe della loro storia. Ed era un pensiero tanto complicato che non riusciva neanche a formularlo per bene.
“E questo vorrebbe dire che dovrei amarti di meno o dovremmo essere già stanchi di noi stessi?”
“No, sai cosa intendo dire”
“Si, lo so: che abbiamo bruciato le tappe e sicuramente non è stato fatto intenzionalmente. Ma siamo adulti, ne abbiamo discusso milioni di volte e iniziamo ad esserne felici. Noi siamo bellissimi, Emma” le disse sicuro, baciandole la fronte.
“Dici che durerà?”
“Biondina, se non durerà, sarà un bel casino per questo poveretto” le rispose, accarezzandole leggermente la pancia.
“Stupido, intendevo fra Jared e Miriam. Fra noi so che durerà”
“Ottimo modo di pensare. Per Jared… non lo so, onestamente. Li vedo molto innamorati e spero che duri, però sai non è facile e Miriam non è una donna tosta, è piena di insicurezze e paura. E, non meno importante, non è abituata a tutto questo” le rispose con sincerità.  
“Ho paura che facciano un tonfo pazzesco entrambi e ci ritroveremo a dover incollare i cocci, Shan. So che sembro disfattista e gelosa, ma ti assicuro che voglio bene a Jared come se fosse un fratello più grande, e adoro vederlo felice, solo che… credo stiano correndo”
“Che detto da noi fa davvero ridere eh”
“Si, in effetti…” scoppiarono a ridere entrambi, non riuscendo a fermarsi per parecchi minuti.
“Nostro figlio nascerà con le convulsioni se non la smettiamo di ridere in questa maniera” disse ad certo punto lei, con le lacrime agli occhi, perchè in quell'ultimo periodo non avevano fatto altro che ridere. Avevano imparato a parlarsi e ad affrontare tutte le paure, tutti i problemi e tutto il resto insieme e si erano accorti che da sempre la cosa che gli riusciva meglio era ridere e avevano lasciato che fosse così. 
“E’ bello sentirti dire… nostro… figlio” le disse Shannon, tornando serio improvvisamente.
Emma lo guardò e gli si avvicinò. Accostò il suo corpo a quello di Shannon e gli infilò le mani fra i capelli, poi gli sussurrò sulle labbra: “Nostro figlio”. Solo dopo lo baciò, piano, dolcemente, sentendo Shannon rispondere sempre più forte.

Tomo era nella palestra dell’hotel da parecchie ore. Era sul tapis roulant, con la musica ficcata nelle orecchie ad impedirgli di pensare, anche se i suoi pensieri erano costantemente attivi. Chissà cosa faceva e dov’era Kiki.
Aveva tentato di chiamarla, ma il suo cellulare era sempre staccato, le aveva persino scritto delle mail, alle quali non aveva mai ricevuto risposta. Era almeno sicuro che fosse viva, perché nell’inviare le mail aveva inserito l’avviso di lettura, che gli era sempre tornato indietro.

Quei giorni li aveva passati all’inferno. Aveva finto di stare bene, aveva sorriso e scherzato come al solito, ma in realtà aveva un disagio dentro che era difficile da mandare via: aveva ferito una ragazza che adorava e che gli aveva permesso di essere sereno negli ultimi mesi, che non erano certo stati facili.
Ancora adesso non riusciva davvero a capire il perché l’avesse trattata così male, anche se sapeva benissimo quel che aveva confidato a Shannon: lui non riusciva a farle spazio nella sua vita, perché quello spazio per troppo tempo era appartenuto a Vicki. Lei se lo era guadagnato, conquistato, ci aveva messo le sue piccole radici, che ora, seppur in fin di vita, faticavano a lasciare quello spazio, si aggrappavano a lui come se fosse terra viva, terra fertile e lui sentiva di non poterglielo impedire.


Corse più forte, aumentò il ritmo e il volume della musica: era convinto che si sarebbe spaccato il cuore e i timpani, se avesse continuato così, ma poco gli importava. Avrebbe forse smesso di sentirsi così male. Il giorno prima aveva provato a chiedere a Miriam se per caso l’avesse sentita, ma l’unica risposta che si era sentito dare era uno sguardo truce che lo incolpava di tutto e un sottile no, che probabilmente avrebbe voluto essere accompagnato da molte altre cose meno piacevoli.
Il loro rapporto era tornato sereno, dopo i chiarimenti, ma Tomo sentiva che quello era ancora un argomento tabù e che Miriam non lo aveva perdonato del tutto per come si era comportato con la sua amica, ammesso che dovesse essere lei a perdonargli qualcosa.
Non accettava che lei avesse questa ingerenza nella sua vita, non gli piaceva che lei avesse dei pensieri personali su quella faccenda, ma non poteva impedirglielo, essendo Kiki per lei qualcosa di più di una semplice sconosciuta, e quindi aveva deciso di tacere e lasciare cadere il discorso, speranzoso che lei avrebbe potuto fare lo stesso. E fu fortunato, perché Miriam tornò quella sorridente e tranquilla di sempre, salvo rabbuiarsi quando sentiva quel nome, cosa che lui aveva accuratamente pensato bene di non fare.
La tregua si basava quindi su una falsa, falsissima, idea secondo la quale se non si chiedeva, andava tutto bene, se non si parlava, tutto sarebbe filato liscio. Non che la cosa lo entusiasmasse, ma così era.


Aveva tentato di parlare con Shannon, il cui unico consiglio era stato di rilassarsi e godersi il tour come periodo di stacco, per riflettere e tornare in California con le idee più chiare. La faceva facile lui, che aveva Emma innamorata ed incinta e doveva solamente pensare a coccolarla. Avrebbe volentieri scambiato il suo posto con quello del batterista, ma al pensiero della parola incinta, il cuore gli si trafisse con una lama appuntita e arroventata. Pensò fosse il ritmo troppo sostenuto della sua corsa, ma presto capì che lo sforzo fisico non c’entrava niente e che piuttosto il suo corpo si stava ribellando a quell’idea: l’idea per cui sua moglie fosse incinta di un altro uomo.

Smise improvvisamente di correre, staccando la chiave di sicurezza del tapis roulant e rimanendo in piedi per miracolo. Scese e andò verso gli spogliatoi, recuperando le sue cose in fretta e furia, decise di fare la doccia nella sua stanza, e così corse quasi verso il suo piano, aprendo velocemente la porta e sentendola chiudersi dietro di lui con un tonfo pazzesco.
Si rilassò solamente quando sentì il getto dell’acqua calda scorrergli addosso, e lì, poggiato con i palmi delle mani al muro, si concesse il primo, lunghissimo pianto di tutto quell’anno infernale.


Uscì dalla doccia solo un’ora dopo, le dita ormai raggrinzite totalmente e la pelle quasi squamata dall’alta temperatura dell’acqua. Si avvolse in un telo bagno, senza curarsi di asciugarsi oltre e, scalzo, tornò in camera, prendendo il pc e stendendosi sul letto.
Lo accese e iniziò a navigare su internet, sperando di trovare qualcosa che lo distraesse, ma niente aveva quell’effetto su di lui, tanto che presto si ritrovò con l’ultima cosa che voleva vedere davanti a sé: la schermata di Skype aperta e connessa.


Guardò i contatti e notò una strana coincidenza: Vicki e Kiki erano vicine nell’elenco. La vita a volte gioca brutti scherzi e forse si diverte e prenderti in giro.
Tomo guardò a lungo quei due nomi, con le foto associate, e si fece una  domanda: chi cazzo vuoi accanto? Non seppe rispondersi, o forse non ne aveva la forza, la pazienza, rimase ad indugiare sulla foto di Vicki ricordando il loro matrimonio in Grecia, le loro vacanze in giro per il mondo, ricordando quando lei lo raggiungeva in tour e si chiudevano in camera a fare l’amore, incuranti dei continui reclami di Jared, che ora, pensò, faceva più o meno lo stesso.
Pensò all’ultimo anno e a quando gli aveva confessato di averlo tradito, pensò alla rabbia e alla delusione e alla proposta di riprovarci. Pensò a tutto quello che avevano insieme, una casa, dei ricordi, fotografie, litigate e vestiti comprati insieme.

Poi pensò a Kiki e si accorse che con lei non aveva nulla, ma gli venne un unico neo in mente: quella notte ad Honolulu, quell’unica notte ad Honolulu. Di certo avevano fatto l’amore molte volte, ma quella era per Tomo il ricordo migliore: una notte pura, senza fronzoli, senza parole inutili e con la sua voce che gemeva dal piacere.
La ricordò nuda e gli venne un brivido alla schiena. Poteva essere solamente sesso? Come diamine si riconosce il sesso dall’amore? Forse avrebbe dovuto chiedere ai fratelli Leto, da sempre più esperti di lui in materia. Ma se fosse stato solo sesso, come si spiegava il suo stato d’animo di ora? Avrebbe dovuto sentirsi in colpa, magari, ma niente di più. E invece lui provava una sorta di malessere diffuso, quasi fisico, che si attenuava solo quando pensava di sentire la voce di Kiki.


Prese il cellulare e per l’ennesima volta tentò di fare il suo numero, dandosi dell’idiota, perché sicuramente non era attivo, sicuramente non l’avrebbe trovata. Guardava fuori dalla finestra pensando quando finalmente squillò libero: gli si bloccò il respiro all’idea che lei potesse rispondere.
C’è quel momento in cui credi che la linea ti manderà un segnale di resa e sei talmente convinto che sia così che quasi ti chiedi perché tu stia chiamando. Inizi ad attendere quella voce che ti darà buca di nuovo, e quasi pensi ad altro, quando senti, pallido ma prepotente, il sibilo che da luce alla chiamata e allora piombi nel panico, perché in realtà non sai che dire, perché in realtà non ti sei preparato un accidente di nulla, convinto com’eri che il telefono ti desse, per l’ennesima volta, buca.


Tomo si agitò ad ogni squillo di più, il telefono suonava libero e acceso, ma nessuno rispondeva dall’altra parte, nessuno voleva sentirlo probabilmente.
Se fosse stato fortunato, lei non aveva ancora cancellato lui dalla sua vita e dalla memoria del suo cellulare, ma comunque non era stupida e poteva immaginarsi chi fosse.
La immaginò dall’altra parte del mondo, seduta a gambe incrociate sul letto a fissare quell’oggetto che squillava senza sosta, non sapendo bene che farà. Poteva vedere le sue mani che si torcevano, il suo piede che ballava una danza frenetica data dallo stress, il suo viso un po’ tondo che non tradiva emozioni, come sempre quando era nervosa, arrabbiata o non incline all’allegria, i suoi occhi dalle lunga ciglia nere fissare il telefono, con un’ombra dentro. Poteva vederle il petto andare su e giù frenetico, poteva quasi sentire il suo cuore chiederle pietà.


A quello che gli sembrò il ventesimo squillo rinunciò e pose fine alla chiamata. Premette quel tasto rosso con rabbia, con assoluta rabbia, più verso se stesso che verso altri. Pensò che però lei aveva il cellulare acceso e che mandarle un sms poteva essere qualcosa.
Aprì la casella dei messaggi e iniziò a comporre qualcosa. Prima di arrivare al testo giusto, cancello le bozze almeno quattro o cinque volte, poi scrisse: “Voglio solo sapere se stai bene”. Lo rilesse almeno cento volte, gli sembrava banale e anche un po’ arrogante, oltre che totalmente inutile: come poteva stare, essendosi fatta quattordici ore di aereo per essere scaricata su un terrazzino di un lussuoso hotel romano e ripartire esattamente il giorno dopo essere arrivata? Lo rilesse. Pensò di scrivere altro, ma pensò subito dopo di averle già scritto tutto nelle cinque o sei mail che le aveva mandato in circa due giorni. E che lei aveva letto. Era inutile continuare a ribadire l’ovvio, totalmente inutile.


Premette il tasto invio e aspettò che il cellulare dicesse messaggio inviato, poi chiuse il cellulare e lo buttò sul letto, riversando su di lui tutta la sua rabbia. Chissà cosa stava provando ora, nel leggere il suo messaggio.
 

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Capitolo 20
*** Kiki? ***


Ciao a tutti, 
aggiornamento fresco per voi! 

Vorrei ringraziare chi mi segue in silenzio e chi invece ci tiene a dirmi le sue idee! 
Siete tutti meravigliosi! 

Buona lettura, 
Bibi
 
 
Kiki?


“Shannon, ti prego muoviti, siamo in ritardo!” urlò Emma, tenendo la porta della suite aperta con un piede e trafficando con lo smartphone. Erano a Tokio da mezza giornata e lei era già disperata: fra il jet lag e i piccoli problemi che la gravidanza le stava dando, era sull’orlo di una crisi di pianto più o meno ogni due minuti.

Era Aprile, un mese particolarmente capriccioso in Asia, a quanto pareva ed Emma pregava in cuor suo che quel tour finisse al più presto.
La sua pancia iniziava ad essere difficile da nascondere: era più o meno al quinto mese ed era letteralmente pazza dello stile impero e delle camiciole larghe, che le davano un tocco hippie senza costringerla a rivelare le rotondità.
Shannon continuava a tirarle le sue casacche da dietro, così che si vedesse qualcosa, ma lei lo sgridava sempre, finendo per ridere con lui. Erano in una sintonia perfetta, quasi fastidiosa, ormai.
Le nubi del passato sembravano essere definitivamente dissolte per lasciare posto ad una sola incredibile cosa: le risate. Quei due ridevano come cretini dalla mattina alla sera, anche senza un motivo, senza un perché. Ridevano e basta: a colazione, pranzo, cena, durante le prove, durante le riunioni, durante le pause e persino durante i concerti e i meet. Jared li aveva pizzicati a guardarsi di sfuggita in quelle occasioni, e aveva visto che anche lì erano scoppiati a ridere. Che avevano da ridere così tanto non era dato sapere, però erano belli e trasmettevano una certa positività, che non guastava mai.

Jared e Tomo adoravano la pancia di Emma e facevano a gara a chi parlasse di più al bimbo, che tutti si ostinavano a dire sarebbe stato maschio, anche contro le proteste di Emma.

Jared era in un limbo: come al solito era felice di essere in tour, perché i concerti gli davano una scarica di adrenalina pazzesca e adorava il vagabondare qua e là, però gli mancava Miriam e iniziava a contare i giorni che lo separavano da giugno, il mese della verità, come lo chiamavano Shannon e Tomo, prendendolo in giro.
In realtà la storia del trasferimento si stava complicando, non che Miriam non fosse più convinta, e aveva anche trovato un buon lavoro, che doveva solamente vagliare, ma lo studio legale di Parigi le aveva offerto un aumento e un avanzamento di carriera: a Los Angeles avrebbe dovuto ripartire da zero, e egoisticamente parlando non sapeva se fosse la cosa giusta da fare.
Effettivamente, ancora una volta il suo mondo trovava un modo per tenerla ancorata lì. Non aveva specificato nulla a Jared, per non preoccuparlo o sentirsi poco libera della scelta, ma lui sentiva che qualcosa non stava andando bene e sperava che lei gli dicesse chiaramente come stavano le cose, prima o poi. Si sentivano tutti i giorni, lottando con il fuso orario e gli impegni e tutti i giorni finivano a parlare di quando finalmente sarebbero stati insieme, cosa che creava aspettativa ed eccitazione in entrambi.


Quella sera Jared la chiamò dopo le prove e subito prima del concerto.
“Ehi, bambina, ti disturbo?”
“Lo spaccone del mio cuore! Ma no, figurati, stavo andando a prendere un caffè” gli disse, alzandosi dalla sua scrivania. “Come vanno le cose?”
“Bene, Tokio è pazzesca, ti piacerebbe. Ah, poi devo assolutamente portarti in Australia, Miriam!”. Era bello sentirlo così su di giri, Miriam l’avrebbe fatto parlare per ore.
“Mi piacerebbe andarci, un giorno. Muoviti a fare un nuovo tour, Leto” lo esortò, sapendo che non ce ne era così bisogno.
“Possiamo pure prenderci una vacanza e andarci io e te senza il bisogno di portarci appresso tutta la truppa” gli rispose sognando una vacanza con lei.  
“E’ che mi manca la tua truppa!” disse, leggermente malinconica.
“Ah, solo la truppa? Fammi capire…”
“Certo! Emma come sta?”. Miriam cambiò discorso in un battibaleno, perchè sapeva che Jared odiava quella cosa.
“Oh, Emma cresce! Ma torniamo a noi… se vuoi ti faccio adottare dalla truppa e me la do a gambe levate”
“Permaloso oltre che spaccone, si scoprono sempre nuove sfumature. Come stai, Jay?” gli chiese tornando seria.
“La stanchezza inizia a farsi sentire, ma sto bene. E tu, bambina?”
“Io bene, si, insomma…”
“Cosa?”
“Ma niente, tranquillo”
“Parla”
“Lo studio mi ha proposto un avanzamento di carriera niente male, e si, insomma sono lusingata”
“Non vuoi più venire a LA?”. Secco, preciso, diretto. Quasi infastidito, avrebbe detto Miriam.
“No, non ho detto questo. Ho solo detto che è bello che qualcuno abbia riconosciuto il mio lavoro, tutto qui” gli rispose un po’ acida, senza sapere bene perché. Forse perché quella lontananza pesava molto e lei non sapeva più che pesci pigliare, dopo quell’offerta.
“No, beh chiaro. Ma se vuoi tirarti indietro, si, insomma…”
“Non voglio tirarmi indietro, Jared”
“D’accordo, come dici tu”. Sufficienza, mischiata ad una dose di incredibile fastidio rendevano la voce di Jared insopportabile. Specie in quel giorno, specie a quell’ora.
“Jared, non ce la faccio a discutere ora”
“Non stiamo discutendo. Senti, devo andare, ti chiamo dopo” e la lasciò così, senza neanche aspettare che lei dicesse ciao, addio, fottiti o qualsiasi altra cosa.
Miriam rimase con il telefono in mano, pensando seriamente di ucciderlo in maniera dolorosa e tornò alla sua scrivania facendo riecheggiare i suoi tacchi sul pavimento in perfetto stile fanteria rusticana.


Non lo sentì per tutto il giorno. Gli scrisse un sms nel tardo pomeriggio, non facendo allusioni alla loro telefonata, ma non ricevette risposta e iniziò a calcolare il fuso orario. Tuttavia, poichè ci capiva molto poco ed era certa che sarebbe stata più adatta a lavorare nella NASA piuttosto che calcolare gli orari mondiali, e poiché era stanca di quell’atteggiamento di Jared che trasudava solamente “quando gira a me va bene tutto, quando gira a te ti attacco in faccia”, allontanò semplicemente il cellulare e accese un film che voleva vedere da tempo, rintanandosi sul divano con un’industriale quantità di sushi.

La tirò fuori dal torpore il campanello di casa. Per un momento non riuscì a capire chi diavolo potesse essere e aprì gli occhi convinta di essere in un mondo parallelo e assurdo. Rimase immobile, credendo di aver sognato, ma il campanello riprese a suonare e subito dopo il telefono. C’era un messaggio, probabilmente era Jared, ma il campanello non le dava tregua e così pensò di leggere le improbabili scuse in un secondo momento.
Si trascinò alla porta con una gamba addormentata e la aprì, curiosa di chi fosse in un orario così strano: dovette sorreggersi allo stipite del portone, perché davanti a lei c’era quella che era la brutta, bruttissima, copia della sua amica. Kiki.

“Kiki?” disse incerta, sentendosi stupida per quella domanda, ma pensando che poteva permettersela, data l’incredulità della situazione.
“Disturbo?”
“Ma smettila, vieni” le disse, svegliandosi dallo stato di trance.

Le prese la mano e la trascinò letteralmente dentro casa, tirandosi appresso anche quel piccolo trolley che lei aveva dietro. Era dimagrita, aveva il volto quasi scavato ora, perché di certo non aveva mai avuto bisogno di perdere peso. Aveva spuntato i lunghi capelli neri, che ora erano un grazioso, quando disordinato caschetto, e soprattutto aveva gli occhi spenti.
La guardò e la abbracciò stretta, sentendo il corpo dell’amica inerme sotto il suo: nessun abbraccio, nessun sorriso, niente di niente.


“Si può sapere dove cazzo sei stata, eh!?” la aggredì subito dopo averla lasciata. Perché la felicità di vederla, in condizioni pietose, ma viva, era sicuramente molto inferiore alla rabbia che ora le montava dentro.
Si era resa irreperibile a qualsiasi mezzo per quasi due mesi. Miriam aveva scritto, chiamato, scritto ancora, si era ridotta anche a chiamare sua madre, ad Honolulu, con una scusa pietosissima per non rivelarle niente che in realtà lei non sapesse già. Ma Miriam era certa che la donna fosse all’oscuro di tutto e non voleva ficcare Kiki nei guai. Più di quanto non ci fosse già.


“Ho cercato di riprendermi”
“Non si può dire che tu ci sia riuscita, tesoro. Perché non hai risposto neanche a me?”
“Perché tu eri lì, con lui e lui è l’ultima cosa che io voglia sentire e vedere ora”
“Kiki, io sono tornata a Parigi due giorni dopo la tua fuga senza spiegazioni e ho continuato a cercarti invano per due mesi. Ti rendi conto? Pensavo fossi morta!” ora urlava.
“Scusami, Miriam, scusami” le disse scoppiando a piangere, ancora fragile.
“No, dai non fare così che mi sento stronza poi… vuoi una tisana?”
“Si, una tisana ci sta bene. Fa ancora un cazzo di freddo in questa città!”

Miriam rise pensando che fosse vero e che finalmente aveva fatto una battuta. Voleva delle spiegazioni che nessuno le aveva dato, per quanto avesse tentato di parlare con un Tomo chiuso nel completo mutismo, voleva sapere cosa si fossero detti, e voleva sapere molte altre cose, ma quello che più le premeva era che Kiki fosse lì, fosse viva e fosse andata da lei.

Preparò la tisana in silenzio, sentendo il piede dell’amica sbattere ritmicamente contro la gamba dell’isola della cucina, sulla quale si era issata a sedere. La guardò e ricordo che lei e Jared avevano fatto l’amore anche lì, pensiero che le provocò i brividi e che pensò bene di scacciare all’istante.

“Allora, qual buon vento?” le chiese ad un certo punto, cercando di sembrare rilassata. 
“Volevo vederti e soprattutto scappare da mia madre”
“Eri alle Hawaii?”
“Si”
“Lo sospettavo. Ricorda di dire a tua madre che la odio e che se possibile merita un premio alla recitazione. Tutte le volte che l’ho chiamata…”
“Scusami, ero io a costringerla a non dire assolutamente nulla. Volevo stare da sola”
“Lo capisco, ma mi sono preoccupata moltissimo, Kiki. E anche… si beh anche To…”
“Shh, non osare dire quel nome” sibilò, perdendo la sua pacatezza e la sua fragilità.
“Scusami. Beh comunque sono certa che sia preoccupato”
“Mi ha cercato ininterrottamente per circa un mese e mezzo. Saranno due settimane che ha rallentato, ma continua a farsi sentire”
“Gli hai mai risposto?”
“Per dirgli cosa? Scusa, hai ragione, sono una deficiente, torna da tua moglie?”
“Kiki, io credo che non c'entri se lui voglia o no tornare da sua moglie. Credo siano altri i problemi”. Non sapeva fino a dove spingersi, perché non sapeva fino a dove lei sapesse, anche se qualsiasi cosa volesse dire era tesa ad un loro riavvicinamento.
“Non mi interessa, Miriam. Lui mi ha umiliata e calpestata, non credere che io stia qui a sentire di quanto bel pentimento si sia cosparso in questi mesi” le disse secca. Poi respirò e aggiunse: “Ci hai mai parlato?”.
La verità era che per quanto volesse essere forte, non riusciva proprio a cavarsela senza farsi del male.

“Si, un paio di volte” ammise Miriam, incapace di mentirle.
“E cosa… si, cosa ti ha detto?”
“Che è confuso e che…” non la fece finire di parlare, scese dall’isola e iniziò ad inveire contro il mondo.
“Ah, lui è confuso! Ma non mi sembrava confuso quanto veniva a San Francisco e passava la notte a sbattermi, o a Capodanno quando mi ha promesso che ero qualcosa di importante per lui” si fermò senza fiato e Miriam temette che potesse morirle davanti.
“Kiki, cos’hai fatto questi mesi?” le chiese, perché le interessava, ma anche perché credeva che parlare di altro l’avrebbe aiutata. Rivangare non è mai una cosa positiva. 
“Sono tornata a casa, anche se ho notato che non mi ha aiutato per niente. Lo zio Carlos mi ha accolta a braccia aperte, credendo di farmi una cortesia e tenermi occupata la mente, ma è nato tutto lì e stavo ogni giorno a pensare a lui, e a settembre e a come mi avesse conquistata. E’ stata una tortura”
“Hai raccontato alla tua famiglia tutto?”
“Ho dovuto. Perché sono piombata in un periodo strano e non lo faccio mai e poi perché ero in condizioni pietose e ho voluto rimanere lì. Di solito vado un paio di settimane e poi me ne torno in California”
“E come hanno preso la cosa?”
“Mia madre non mi parla granchè. Dice che mi sta bene, perché lui è sposato e perché io non dovevo rompere quella famiglia. La realtà è che la famiglia era già rotta, ma vai a farglielo capire… d’altronde la verità è che io stavo lì a piangermi addosso tutte le sere ed era difficile dirle che non aveva ragione”
“Potevi chiamarmi, ti avrei ospitato io qui, dove non ci sono ricordi e dove non avevi giudizi addosso” tentò di dirle.
“Tu stai con Jared, Miriam…” le sbattè in faccia, ridendo amaramente.
“E cosa vuol dire?”. Era confusa: come poteva la sua relazione inficiare la sua amicizia con Kiki?
“Che non posso chiederti di tacere questa cosa a lui e che se glielo dici lui andrà da To… da lui a dirglielo”. Si fermò su quel nome chiudendo gli occhi e respirando, prima di continuare. Nessuno dei due lo sapeva, ma erano entrambi moralmente uccisi sentendo i propri nomi. Kiki aveva avuto la stessa reazione di Tomo, quando lei gli aveva pronunciato il suo nome davanti la faccia. Era buffo pensare che fossero tanto lontani quanto vicini, ma evitò di dirlo.
“Kiki, il fatto che io stia con Jared non significa che non possa essere un’amica per te e non possa tenere un segreto o aiutarti. Che discorsi fai?”
“Cosa stai toccando?” le chiese a bruciapelo. Senza neanche accorgersene, quando avevano toccato l’argomento Jared, Miriam aveva iniziato a giocare con il suo ciondolo.
Lo stava nascondendo ora sotto la maglietta, ma era inutile, dal momento che Kiki l’aveva notato: sarebbe morta pur di dirle tutto, perché era patetico stare lì a dirle quanto fossero felici ed innamorati, nonostante le liti e tutto il resto, vedendola così affranta. Ma tant’era, doveva cedere.

“E’ un regalo di Jared” le disse, scostando l’orlo della maglia e lasciandoglielo vedere. Kiki si avvicinò e lo prese fra le dita, delicatamente, constatando quanto fosse bello, prima di sentire una fitta al cuore. Si scostò velocemente, quasi come se si fosse scottata toccandolo e si girò verso la finestra della cucina, guardando fuori.
“Kiki, che c’è?” chiese Miriam, che aveva notato benissimo il cambiamento di rotta.
“Il 20” disse solamente. Miriam capì e si maledisse: lei, la sua stupidità e la sua memoria a zero!
“Oddio, Kiki mi dispiace… ma guarda è una cosa banale, niente…”
“Non inventare pietose bugie, Miri. È bellissimo il ciondolo ed è straordinario il pensiero. Sono felice per te, davvero. E’ solo che…”
“Si, lo so. Il 20… è una data che ci accomuna, in qualche modo, vero?”
“Vero. Sai, mentre ero ad Honolulu, ogni sera andavo a sedermi sulla panchina sotto l’hotel in cui erano i ragazzi a settembre. Non facevo niente, prendevo un gelato o qualcosa da mangiare e andavo lì a sedermi per qualche tempo, a pensare. Ricordo bene quale fosse la sua finestra, perché si vedeva l’oceano e affacciava proprio su quella panchina. Non so perché lo facessi, perché era doloroso, eppure l’ho fatto per due mesi”
“Kiki, tesoro, tu devi uscirne però”
“E come? Lui mi manca. Mi è entrato dentro in maniera completa, lo sento nelle ossa, nella pelle, mi sembra di sentirmelo ancora addosso, mi sembra di sentire ancora il suo odore sui vestiti. Lui non c’è ed io vorrei solo andare lì e perdonargli tutto”
“E allora fallo, diamine” la esortò Miriam, non sapendo quanto quel consiglio fosse buono, ma sicuramente sapendo che era sincero.
“Per sentirmi rifiutata ancora? No grazie”
“Hai mai letto le sue mail?” si era tradita, cazzo.
“Ti ho detto che mi ha scritto, non che mi ha scritto delle mail” disse Kiki, fulminandola con lo sguardo. Era questo il motivo per il quale non si era rifugiata lì, forse aveva ragione, pensò Miriam affranta. “Comunque, poco importa. Si, le ho lette tutte, e neanche una volta sola”
“E cosa hai dedotto?”
“Che è pentito, quello sì. Ma forse è solamente pentito per il fatto di avermi trattata di merda, Miriam. Che ne so io che magari non si sente in colpa perché in fin dei conti non è uno stronzo che tratta così la gente?”. Touchè, non poteva darle torto, per niente.
“Ma potresti provare a parlargli, almeno. Hai mai risposto a qualche mail?”
“No. Neanche alle sue telefonate continue, agli sms. A niente. Sono solamente sparita. A volte mi chiedo perché continui a scrivermi, visto che per lui potrei essere morta da qualche parte”
“Forse perché spera che tu legga, o magari risponda. La speranza è forte in chi vuole veramente cambiare qualcosa, Kiki” disse a voce bassa, sperando che l’amica l’ascoltasse davvero.
“L’altra settimana mi ha scritto un sms strano. Mi ha scritto solamente che voleva sapere se stessi bene, in maniera asettica, in maniera poco completa. All’inizio mi sono incazzata, poi ho capito che crede sia inutile continuare a parlare col nulla e quindi vorrebbe solo sincerarsi che non sia davvero morta. Forse l’ha fatto perché ha trovato finalmente il cellulare acceso…” disse, più a se stessa che a Miriam. Non voleva credere davvero che a lui interessasse qualcosa di lei, perché l’eventuale contrario l’avrebbe uccisa dentro e non poteva permetterselo.
“Scusa, come il cellulare finalmente acceso?” chiese Miriam, non capendo la portata della sua frase.
Kiki sospirò sentendosi un’idiota completa e poi confessò: “Per tutti questi mesi ho adottato una tecnica particolare. Sapevo che lui fosse in Europa, quindi prima di accendere il cellulare calcolavo il fuso orario e lo attivavo solo se in Europa era notte fonda o comunque un orario in cui sicuramente nessuno mi avrebbe cercato. All’inizio era complicato, ma poi ci ho fatto l’abitudine. Lo accendevo e vedevo i messaggi delle sue chiamate a vuoto. Poi dopo un po’ deve aver capito e ha iniziato a mandare sms, che leggevo sempre secondo questo metodo. Non capivo perché continuasse a chiamare, pur sapendo che il cellulare sarebbe stato staccato. Poi quel giorno mi sono dimenticata di spegnerlo, ed ero sul letto a leggere e ha iniziato a squillare, con quel numero familiare sul display. Ero gelata, non sapevo che fare e ho aspettato che smettesse, rischiando di distruggerlo addosso al muro. Dopo aver smesso, mi è arrivato quel messaggio asettico”
“Kiki, ma anche io sono in Europa!” disse offesa, non riuscendo a dosare la voce.
“Lo so, e mi dispiace averti esclusa, ma non potevo rischiare che tu gli parlassi”. Ancora quell’accusa, falsa e assurda. Miriam tentò di non farci caso, sapendo nel suo cuore che nulla di ciò che Kiki avesse fatto fosse stato dettato da qualche desiderio di ferirla.
“Senti, ti va di andare a mangiare qualcosa fuori?” le propose sospirando e ricacciando indietro la delusione e la rabbia. “Sei dimagrita troppo e una buona dose di cucina ipercalorica francese ti farà solo bene!” le disse poi, senza aspettarsi una risposta positiva. Che infatti non arrivò, ma Miriam non voleva un no, così corse a cambiarsi e tornò da lei con già il cappotto infilato.
“Allora?! Muoviti che Parigi ci aspetta!” le disse prendendola sotto braccio e agguantando le chiavi dal mobile all’ingresso. Le infilò il cappotto quasi a forza, come se fosse una bambina capricciosa e la spinse fuori di casa, chiudendosi la porta alle spalle.

Camminarono molto e mangiarono qualsiasi cosa venisse loro in mente: dalle omelettes ai macarons, passando per panini imbottiti di quantità indicibili di maionese e croissant alla marmellata.
Era una vera e propria sagra della ciccia, ma Miriam era felice di averla lì e sbirciando il suo viso, aveva notato che iniziava a sorridere. Decise, per quella sera di non parlare più di Tomo, di quei due mesi, di nulla, lasciò che Kiki si beasse delle luci di Parigi e della sua temperatura non ancora primaverile. Lasciò che l’amica riempisse i polmoni di speranza e serenità.

Tornarono a casa stremate, alle cinque del mattino, Miriam pensò di prendersi il giorno dopo di ferie, così da stare con Kiki, e prima di andare a letto le sistemò il divano in maniera che stesse comoda e calda.
Le diede la buonanotte con un bacio sulla guancia e andò verso la sua camera, ma prima di spegnere la luce si sentì chiamare: “Miriam…” si girò di scatto per ascoltarla, ma lei non si decideva a parlare. Aspettò.
“Grazie. E scusa se ho pensato che non potessi essere una buona amica, per me”. Kiki aveva notato come non avesse risposto al cellulare per tutta la notte: lo guardava di tanto in tanto, fremendo quando vibrava nelle tasche, ma non aveva mai premuto nessun tasto verde. Le era grata per quello e si pentì di non averle dato spazio in quei due mesi.


Miriam le corse incontro e la strinse a sé: “Kiki, sei una cretina ma ti adoro”. Fremeva nel dirle di Los Angeles, ma pensò che forse non era ancora il caso, così si morse la lingua a andò a dormire.


L'angolo di Bibi: da questo capitolo inauguro una nuova piccola tradizione. Questo è il mio angolo, dove tenterò di portarvi più dentro la storia, spiegandovi i meccanismi che albergano nella mia mente e che mi hanno portato a decidere. 
In questo momento abbiamo (come notato, con mio enorme piacere, da un'assidua lettrice) tre strati: Shannon in pace con Emma, Jared nel limbo con Miriam, e Tomo nel caos totale. Non è stata una scelta voluta, ma è capitata scrivendo e mi è piaciuta l'idea. 
Kiki torna e porta, di nuovo scompiglio e anche la questione del lavoro di Miriam non è semplice: lei tiene alla sua indipendenza e farà di tutto per ottenerla, ma Jared rimane ferito da questo comportamento. Cosa ne pensate? 
Al prossimo capitolo, grazie di nuovo! 

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Capitolo 21
*** Sono terrorizzata, ma si, sono anche felice ***


Ciao ciao!! 
E' pronto l'aggiornamentoooooo...
... spero davvero che vi piaccia e vi ringrazio per il seguito.
Negli ultimi tempi è aumentato e mi fa davvero piacere! 

Vi lascio al capitolo! 
Buona lettura,

Bibi





 
Sono terrorizzata, ma si, sono anche felice
 

Appena Miriam fu in camera prese il cellulare in fretta e furia e si chiuse in bagno, sperando che bastasse. Compose il numero e lasciò squillare, ma niente: nessuna risposta.
Era terrorizzata all’idea che Jared pensasse qualche cazzata: si erano lasciati in maniera un po’ strana durante la telefonata del giorno prima e poi lei non aveva risposto per tutto quel tempo. Circa sei o sette telefonate. Cosa vuoi che fosse, in fin dei conti, pensò... Cazzo! Fu il suo secondo pensiero. 

Si morse il labbro chiudendo la chiamata e pensando al da farsi: mandare un sms? Mandare un piccione viaggiatore? Disturbare Shannon? In preda al nervosismo scatenato dal lato che meno amava del suo uomo, iniziò a passeggiare su e giù per il bagno vagliando tutte le possibilità che aveva e maledendosi: almeno un segnale avrebbe potuto mandarglielo, nelle ore precedenti. 

Poi inaspettatamente il suo cellulare vibrò. Miriam lo afferrò con forza per rispondere e per un momento credette seriamente di poter spaccare il display.

“Jared, finalmente!” esclamò a bassa voce.
“Finalmente dovrei dirlo io, veramente” rispose lui, gelido.
“Scusami, davvero, non potevo risponderti prima”
“Ah si!? E cosa stavi facendo, di grazia? Ma poi perché sussurri?”. Quel tono la infastidì molto, ma decise di lasciar perdere.
“C’è Kiki” gli disse, sperando che lui capisse l’urgenza.
“Ah…” rispose solamente. Aveva capito, meno male.
“Eh…”
“Una conversazione di sillabe prima di pranzo è quel che ci vuole direi” sbuffò Jared, toccandosi le tempie. 
“Oh, smettila rompipalle!”
“Senti, ma come sta?”
“Non posso dirtelo Jared, ho promesso che non avrei rivelato niente. Non si è fatta sentire per due mesi perché era convinta che il fatto che io e te stessimo insieme potesse portare sue notizie alle orecchie di Tomo. Non posso tradirla”
“Miriam, non correrò da Tomo a dirgli che sai dov’è e come sta. Per quanto credo che questa sua punizione sia abbastanza stupida: vorrebbe solamente capire se è viva, tutto qui. Mi sembra che lei possa concederglielo”
“Non discuteremo su di loro, Jared. Scordatelo. Come stai, piuttosto?” chiese Miriam cambiando argomento. Si addolcì sul finire della frase, perché le mancava molto e l’aveva sentito irritato nei giorni precedenti.
“Stasera abbiamo il concerto e ho mal di gola. Per il resto bene” disse, infastidito e leggermente alterato.
“Mi dispiace. Miele e limone? Provato?” suggerì sorridendo dolcemente. 
“Che vuol dire?”
“Cucchiaino di miele con goccia di limone e mandi giù: fa miracoli per la gola. Un cantante come te dovrebbe conoscerli tutti questi espedienti” lo prese in giro.
“Sarà una schifezza”
“Jared non fare il bambino, è una medicina e ti aiuterà a non morire stasera, mi sembra che a quarantatre anni tu possa sopportare”
“Va beh, comunque… volevo dirti una cosa”
“Cosa?” tremò al solo pensiero, ma cercò di apparire calma e rilassata. Certo la sua voce non era tutta miele e zucchero, ma sperò fosse solamente per il mal di gola e l’ansia da concerto e non per la loro conversazione mattutina. Il fatto che le avesse praticamente appeso il telefono in faccia ancora le mandava di traverso tutto.
“Riguardo ieri pomeriggio… che per te era mattina forse… va beh, l’ultima volta che ci siamo sentiti, insomma” disse cauto.
Miriam piombò nel silenzio: voleva parlare proprio di quello. Alle cinque del mattino, mentre lei era rinchiusa in un bagno a sussurrare che manco a sedici anni con il primo fidanzatino per nascondersi da suo padre. Jared Momento Perfetto avrebbero dovuto chiamarlo. Lasciò stare e ascoltò.

“Beh, volevo dirti che non è un problema se vuoi rimanere a Parigi, ti capisco e non sono arrabbiato. Solo avrei preferito che mi dicessi prima questa cosa”
“Jared, bambino isterico incline al dramma. Io non voglio rimanere a Parigi, solamente è strano che il tuo capo, pur di non mandarti via, ti offra qualcosa del genere, perché vuol dire che sei brava, fottutamente brava ed io non ci ho mai creduto fino in fondo. Tutto qui”
“Non sono un bambino, forse isterico, specie oggi, ma non un bambino. E comunque dovevi dirmelo prima”
“Me l’hanno proposto due giorni fa, mica anni fa! Su!”
“Due giorni sono comunque troppi, considerando che stiamo pensando di andare a vivere ins…” si bloccò all’istante, raggelato da quel che aveva detto, che poi non era quello che intendeva, ma era stanco, contrariato e preoccupato e uno scivolone poteva capitare anche a lui, di tanto in tanto.
Miriam tese l’orecchio, imbarazzata e non seppe che dire.
Lui sospirò e si riprese: “Non intendevo insieme in quel senso, solo avvicinarci, ecco. Credo sia di uguale importanza, visto il passo che stai per fare”.

“Si, credo anche io” ammise lei imbarazzata, con un fil di voce. In realtà era solo stupita da quell'esternazione e si chiedeva quanto quell'ultima risposta di Jared fosse vera: intendeva sul serio quello o credeva di poter immaginare altro per loro due, come vivere insieme sul serio, ma l'aveva represso per via della sua reazione? Non riusciva più a pensare! 
Jared la fece tornare sulla terra, chiedendole di punto in bianco: “In ogni caso, vuoi accettare la proposta del tuo capo?”
“Ancora…”
“So che non l’hai rifiutata”
“E come diamine…!?” era senza parole, allibita. La sua mente stava passando dalla rabbia, allo stupore, alla rassegnazione... no era decisamente troppo per lei, in quel momento, pensò!
“E’ facile: hai parlato al presente, ed io sono un ottimo osservatore, dovresti saperlo ormai”
“Il capo mi ha dato una settimana per pensarci e mi sembra scortese non prendermela, però ho già deciso”
“E cosa hai deciso?”
“Lo sai, Leto. Sei un ottimo osservatore”
“Dimmelo lo stesso, allora”
“Neanche per sogno”
“Stronza”
“Spaccone”
“Ti amo”
“Io di più”
“Sempre a puntualizzare, eh”
“Sempre a rompere, eh”.

Rimasero entrambi senza fiato e scoppiarono a ridere dopo due minuti di silenzio. Era bello sentirsi di nuovo completi, insieme.
Misero giù il telefono dopo qualche altra parola: Jared avrebbe attuato il piano di Miriam per la gola e poi sarebbe filato dritto alle prove, prima del meet. Mentre Miriam contava di dormire qualche ora e attendere il giorno successivo per cercare di capire quale fosse la prossima mossa di Kiki.

Gli chiese ancora una volta di tenere la bocca chiusa con chiunque su Kiki e poi lo salutò dolcemente, mettendosi finalmente sotto le coperte calde.

Miriam si svegliò presto, nonostante le pochissime ore di sonno. Aprì gli occhi, si alzò pigramente e notò che Kiki non era nel suo letto, la trovò piuttosto affacciata alla piccola finestra della cucina, intenta a fumare una sigaretta.
“E tu da quando fumi?” le chiese, insonnolita e incuriosita da quella scena.
“Da un paio di mesi, su per giù” le rispose distrattamente, prima di guardarla e sorriderle. “Buongiorno, comunque”
“Buongiorno, hai dormito bene?” si informò, mettendo su la caffettiera. Era strano vederla fumare, perché non l’aveva mai fatto ed era ancora più strano sapere che quel vizio era una delle tante conseguenze della confusione di Tomo.
Per un momento lo odiò tanto, poi pensò che quando aveva tentato di parlargli lo aveva visto abbastanza teso, cosa che forse indicava che neanche lui se la stesse passando bene.

“Mah… il tuo divano è comodissimo, peccato che io abbia il sonno razionato questo periodo. Diciamo che ho passato la notte, o quel che ne restava, qui, ad ammirare i tetti di Parigi”.
“Kiki, devi dormire, però”
“Lo so, mi sembri mia madre” sbuffò spegnendo la sigaretta e chiudendo la finestra. Si voltò, poggiandosi al davanzale e guardandola triste.
“Scusami, non volevo sembrarti pesante”
“Ma no, hai ragione, ma non ci riesco proprio. Appena chiudo gli occhi rivedo lui e le sue cazzate su quel terrazzino a Roma”
Miriam tentò il tutto per tutto: “Vuoi dirmi una volta per tutte quello che vi siete detti?”
Kiki sospirò inquieta.
Non voleva parlarne, davvero, però sapeva che doveva la verità alla sua amica, perché non si era comportata certo bene con lei in quei mesi.
Così prese coraggio e iniziò a parlare, cercando di essere concisa ma non dimenticare nulla: “Mi ha detto che si sente in colpa per non aver salvato il suo matrimonio, per non essere cresciuto con sua moglie e non aver capito le sue paure e le sue esigenze. Mi ha detto che si sente un cretino per aver continuato a giocare in giro per il mondo con una band e per non essersi fermato a guardare davvero gli occhi della sua donna. Mi ha detto che è sconvolto perché sua moglie sarà la madre dei figli di qualcun altro. E poi mi ha detto che… non crede in noi” le spiegò, e Miriam sentì chiaramente la sua voce incrinarsi su quell’ultima frase, forse la più difficile da mandare giù.


Miriam sapeva tutto, perché Jared le aveva più o meno spiegato alcune cose, anche se Tomo si era chiuso nel mutismo assoluto e non le aveva mai voluto parlare, forse per lo stesso motivo di Kiki, forse perché si sentiva davvero uno stronzo.
Avevano lentamente ricostruito una specie di rapporto, scherzavano, si parlavano e ridevano, ma Miriam percepiva chiaramente che non era più il Tomo che sentiva come un fratello, aveva capito di aver spezzato quel sottile legame che lega un uomo ed una donna che non sono amanti quel giorno in cui l’aveva aggredito durante le prove e poi quella notte, quando lo aveva quasi costretto a dire che quello che aveva fatto era una cazzata.
Tutte le scuse del mondo non sarebbero bastate, così Miriam aveva semplicemente smesso di chiedere scusa e aveva sperato che il tempo lavorasse per lei, e un po’ aveva lavorato, anche se si rammaricava di aver combinato un casino e aver reso il loro rapporto superficiale e dozzinale.

“Kiki, era arrabbiato, non pensava quello che ha detto. Voleva allontanarti”
“E ci è riuscito, direi” le rispose, amara.
“Sto solamente dicendo che a volte crediamo che la cosa migliore per le persone che amiamo sia buttarle fuori dalla nostra vita e diciamo cose cattive per costringerle ad andare via. Non pensava quel che ha detto, ne sono sicura”
“Lui non mi ama, non mi ha mai amato”
“Hai capito cosa intendo”
“Ci hai parlato?” le chiese, quasi speranzosa, anche se lottava per non darlo a vedere.

Miriam sospirò ed evitò di farle notare che quella domanda gliel’aveva già posta e lei aveva già risposto. Aveva detto una mezza verità, ma aveva risposto, e capì che per Kiki era un sassolino nella scarpa sapere quanto lei avesse sentito dire su quella storia, così decide di dirle la verità, tutta la verità

“Kiki, io e Tomo abbiamo litigato e non ci parliamo seriamente da un sacco di tempo”
“Racconta” le disse con urgenza e terrore.
“Beh, c’è poco da dire. Il giorno che sei scappata senza dirmi nulla ho intuito che fosse colpa sua e sono piombata durante le prove del concerto per fargli una piazzata epocale davanti a tutti. Sono stata portata via da Emma e la sera stessa ho litigato anche con Jared, che secondo me era colpevole di non avermi aiutata ad uccidere Tomo. Gli ho chiesto scusa e gli ho chiesto di parlarne, gli ho detto che io ero un’amica e potevamo parlare di questo casino. Lui mi ha solo detto che tiene alla tua felicità e che l’ha fatto per te, io gli ho risposto che non ci credevo e lui mi ha semplicemente messo al corrente che la mia vita era Jared e che dovevo tornare da lui, perché non erano affari miei di quello che aveva fatto lui e di cosa avesse lui per la testa. Da quel giorno diciamo che non ci odiamo e manteniamo un rapporto civile, ma non siamo più come prima, qualcosa si è rotto, anzi, ho rotto”
“Mi dispiace”
“Sono stata una cretina, perché non si entra nella vita delle persone a gamba tesa. Ma è così, quindi non posso aiutarti né spifferarti nulla per farti sentire meglio, ti mentirei”
“Non ne ho bisogno, Miri, voglio solo rintanarmi qui per qualche tempo, prima di decidermi a tornare alla vita. Posso?”
“Puoi stare tutto il tempo che vuoi, lo sai” le disse felice e sorridendole amichevolmente.
“Senti, con Jared come va?”. Cambiare argomento, farlo subito.
“Benissimo…” lo disse con una certa malinconia nella voce, che derivava solo dal senso di colpa del gettare in faccia a chi sta soffrendo la tua felicità.
“Miriam, sono felice, non devi nascondermi le cose”
“Stiamo bene, siamo in un momento stabile e mi sembra una specie di sogno, anche se non lo vedo da due mesi e mi sento morire”
“Quando vi rivedrete?”
“Beh, non prima di maggio inoltrato, quando ritorneranno in Europa”. Cazzo, non doveva dirlo! Perché non connetteva mai cervello e bocca quando parlava di Jared? Le rivolse uno sguardo imbarazzato e colpevole.
“Smettila, mica sono una malata terminale, prima o poi tornerò normale e comunque voglio che mi parli di voi, il fatto che quel voi è pericolosamente vicino a chi tu sai, beh, è un problema collaterale con cui devo fare i conti” le disse sorridendo. “Maggio hai detto, eh…”
“Si, più o meno… ancora più di un mese quindi” sospirò.
“Per quella data avrò sbaraccato allora”
“Kiki…”
“Che hai capito? Vi lascio casa per voi. Non ci tengo a dormire sul divano sentendo gli amplessi rumorosi di Mr. Ti Scopo Tutti I Giorni”
Miriam scoppiò a ridere e lo fece anche Kiki, così tanto che non riuscirono a fermarsi. Perché aveva detto una cosa divertente e aveva apostrofato in maniera poco elegante, ma molto veritiera, Jared.
“Kiki, seriamente, Jared può andare in albergo senza alcun problema. Io posso stare con lui, perché detta fra noi quella sua dote mi piace e parecchio, e tu puoi rimanere qui, in segreto, quanto vuoi. E poi verrà da solo, gli altri tornano a casa”
“Miriam, non dire cazzate: tu hai già spifferato a Jared che sono qui” le disse, cogliendola in fallo e non commentando l’ultima frase, la più importante.
Miriam non riuscì a mentire assolutamente e anche se ci avesse provato, la sua espressione la diceva lunga: 
“Scusami, forse ti sto dando ragione quando dicevi che non avresti potuto fidarti di me”
“Dì solamente a Jared di starsene zitto, per favore”
“L'ho già fatto. Almeno tre volte, con tanto di minacce assortite” 
Kiki sorrise appena a quelle parole, pensando subito a quali potessero essere le minacce che Miriam aveva inflitto a Jared, ma pentendosi subito dopo di quel pensiero. Poi decise di essere un pò pettegola: “Comunque… vuoi dirmi qualcosa di più o devo scoprirlo dai giornali?”
“Beh, va tutto bene, Kiki… a proposito però, c’è una novità…” non sapeva come dirlo.
“Ossia?”
“Vedi, ho pensato di cambiare qualcosa, nella mia vita, e questo qualcosa ha a che fare con Jared, ma in parte anche con te… si, insomma, per farla molto breve… mi trasferirò a Los Angeles”. Lanciò la bomba così, sperando che Kiki la prendesse bene o almeno non desse di matto, il che sarebbe già stato un grande risultato.
“Miriam…” disse soltanto, prima di scoppiare in lacrime. Ok, come doveva essere interpretata questa scena? Sono felice per te, per voi e perché potremmo vederci più spesso? O piuttosto, brutta stronza io sto morendo e tu mi decanti la tua vita felice? Era confusa e non sapeva molto bene che fare, figuriamoci che dire. Però Kiki era lì che piangeva a dirotto e non poteva lasciarla così, quindi le andò a fianco e la prese fra le braccia. Dapprima l’amica non si mosse e continuò a piangere, poi ad un certo punto iniziò a stringerla a sé, come se sentisse la necessità fisica di averla lì.
“Scusa, sono una cretina, scusa!”
“Shh, non ci pensare, dai, vieni qui”
“Ma che non ci pensare! Io ti adoro come se fossi mia sorella, tu mi dici una notizia tanto… wow, che non trovo neanche le parole per descriverla e che faccio io!? Scoppio a piangere!? Ho seriamente qualcosa che non va!” continuò, piagnucolando sempre più forte. Ormai le mancava quasi l’aria, perché piangere e parlare insieme a quel ritmo avrebbe messo sotto sforzo anche un elefante.
“Kiki, ma la vuoi smettere? Non è sempre colpa tua, i problemi del mondo non si risolvono se Kiki agisce in questo o quel modo”
“Quando l’hai deciso?”
“Da un po’, in verità. Volevo scriverti, ma non sapevo se fosse una cosa giusta da fare, così ho sperato di potertelo dire a voce prima o poi”
“E sei felice?”
“Sono terrorizzata, ma si, sono anche felice”
“Lo fai per Jared?”
“In parte, ammetto che lui è stato un bel motivo per scegliere LA e non qualche altro luogo, ma in parte stavo solamente cercando il coraggio per lanciarmi. Penso di cambiare le cose da parecchio tempo, e le Hawaii erano un modo per schiarirmi le idee, lo sai. Quindi diciamo che Jared è stato il coraggio instillato al momento giusto e mi ha dato una precisa indicazione di dove cercare”
“Wow… e lui lo sa?”
“Si, gliel’ho detto quando eravamo a Roma”. Cazzo, il silenzio sempre dopo. Si morse la lingua e sperò… ma che voleva sperare!? Kiki avrebbe volentieri cancellato quella città dalla sua vita e dalla faccia delle terra, se avesse potuto.
“E come l’ha presa?”
“Credo bene, era felice e mi suona molto strano pensarlo. Sai in questi mesi ho imparato a conoscere quel Jared che è fuori dal palco e dal suo lavoro e ho scoperto che è una persona molto diversa da quel che credevo. Si sta donando molto in questo rapporto e per me è una felice scoperta. Certo, ora…”
“Ora cosa?”
“Ho iniziato a cercare lavoro a LA, ovviamente e proprio ora che ho detto al mio capo che me ne andrò entro la fine di maggio, lui mi ha fatto una proposta pazzesca: coordinatrice della parte internazionale dello studio e aumento di stipendio. Aspettavo questo da una vita…”
“E ci vuoi ripensare?”
“No, assolutamente no. Voglio che Jared sia la mia vita, e in queste condizioni non è possibile, però certo la parte meno romantica di me fa i capricci”
“Miriam, forse non sono la persona più adatta a dirlo, ma credimi che oggi saresti felice di quel lavoro, ma fra un anno ti mancherebbe la sensazione di avere accanto un uomo che ami”

“Infatti non accetterò, avevo solo bisogno di pensarci”. 
                                                                                                         
         •  •  •  • 

L'angolo di Bibi: eccoci alla fine...
Siete felici eh!? Pure questa domenica ve l'ho smandruppata con i miei melodrammi. C'est la vie.
Prima di tutto: Love_In_London_night ti ho rubato la chiusura capitolo con i pallini. Chiedo venia, ma era troppo bella!!! Spero tu non voglia uccidermi, perchè in questo caso potresti benissimo distruggere la mia storia, il che non sarebbe neanche tanto un peccato! Decidi tu... ma sii clemente! 
Seconda info: nei prossimi giorni probabilmente cambierò nickname. Sono una che si stufa spesso della stabilità e mi piace cambiare. Niente di drammatico: non vi spoilero il nuovo nick che ho scelto, però sappiate che io continuerò ad esistere. Purtroppo per voi!! 
Ma veniamo a noi... dunque, la situazione è ingarbugliata! E' palese che Jared e Miriam stiano bene insieme, ma riescono sempre a litigare per qualcosa.
Non sono sadica, giuro, solo che credo che due persone adulte che gestiscono una relazione di questo calibro, per di più a distanza, debbano per forza di cose essere stressati persi! Ecco, quindi vi beccate tutti gli scleri di Miriam e Jared! :) Vi piace la loro coppia? Che ne pensate? Sono curiosissima!!! 
Poi è tornata Kiki, beh anche dall'altro capitolo in realtà. Lei è in crisi nera, e non vuole vedere Tomo, ma è palese che ci stia male. Come continuerà secondo voi? 
Ci tengo molto a dirvi che la storia è ancora molto lunga, per quanto io abbia scritto già gran parte degli avvenimenti futuri. Ci sarà ancora da soffrire (si, perchè lo so che state soffrendo!)... però ci tengo molto a leggere le vostre opinioni, anche per migliorarmi... quindi non siate timide/i!!!!! 
Detto ciò mi dileguo che è meglio e spero di sentirvi molto presto! 
Per qualsiasi info, minaccia di amputazione mani, complimento (avvenimento più raro) o sguardo cattivo, potete scrivermi senza problemi! 
Stritolamenti di fine settembre! 


Bibi 

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Capitolo 22
*** Mon chéri ***


Toc toc... nuovo aggiornamento! 
Per i vaneggiamenti ci vediamo dopo...

Buona lettura,
Bibi


 
Mon chéri



Tomo era felice di tornare in Europa, perché avrebbe voluto dire che presto, prestissimo, sarebbe tornato a casa e avrebbe potuto finalmente rilassarsi. Anche se tornare a casa avrebbe significato senza dubbio, dover prendere una decisione e probabilmente rivedere Vicki.
Non l’aveva più sentita da Capodanno, chissà come stava, chissà cosa provava, chissà come era cambiato il suo corpo esile. Emma ne era la dimostrazione: erano a maggio e lei era ormai rassegnata al doversi portare appresso la sua pancia. Tomo ogni volta che la vedeva pensava a Vicki e al destino, così beffardo.


Mise le ultime cose nella valigia e si preparò a scendere nella hall, dove aveva appuntamento con gli altri per andare in aeroporto: la data di Bordeaux alla fine era stata totalmente cancellata da una Emma in preda a crisi isteriche che neanche il Jared dei tempi d’oro e quindi il programma era di andare direttamente a Parigi, per farsi qualche giorno di vacanza.

In realtà l’unico che davvero voleva andare a Parigi era Jared, ma Shannon aveva convinto Emma a fermarsi così da potersi rilassare entrambi nella città più romantica del mondom e Tomo aveva deciso di seguirli, semplicemente perché per quanto non vedesse l'ora, tornare a casa sarebbe stato destabilizzante. E poi tutti avevano bisogno di passare qualche giorno come ai vecchi tempi, tutti insieme a tirare tardi.
Così era deciso: sarebbero volati a Parigi!


Scese nella hall e scoprì con disappunto che ancora non c’era nessuno. Si avvicinò al bar e prese qualcosa da bere, sedendosi a giocare con il cellulare. Era tendenzialmente una persona molto tranquilla e i cambi di programma, nonché i ritardi, lo infastidivano per meno di un secondo. Stava però scoprendo che ultimamente non era più così, anche se cercava di non farlo pesare sugli altri.

“Oh qualcuno in orario, mi sembra un miraggio”. Emma, sempre più bella e raggiante. Era ingrassata pochissimo: era solamente pancia su quel corpo esile e minuto di sempre.
“Ciao piccola Emma” la salutò dolcemente, arruffandole i capelli. 
“Piccola… mi prendi per il culo?”
Tomo rise per quella scontrosità che sempre più si manifestava: “Dai, sei bellissima e lo sai. Senti i fratelli del mistero dove si sono cacciati?”
“Jared non lo so. Ho provato a contattarlo, ma credo che fosse in una telefonata particolare con Miriam e ho deciso di lasciarli stare. Shannon sta finendo la valigia”
“Ancora con la storia del sesso telefonico?” domandò ridendo.
“A quanto pare…” rise di conseguenza lei. “Pronto per una due giorni di vacanza?” specificò quella parola con uno sguardo sognante, come se fosse la cosa più bella di tutto l’universo. Tomo si sentì sollevato e non avrebbe saputo dire perchè, però, pensò, qualche giorno di stop avrebbe fatto bene a tutti.
“Ce lo siamo meritati, direi”
“Eh si, e poi, scusatemi ma io fino ad agosto sto in ferie. Non vi voglio vedere, sentire, neanche pensare! Dovrò farlo capire a Jared in qualche modo…”
“Emma ti mancheremo dopo tre giorni e correrai al MarsLab a supplicarci di darti qualcosa da fare” la prese in giro.
“Non se ne parla. Il tour in America riparte a ottobre ed io tornerò in pista solo per quell’epoca. Iniziate a pensare di fare a meno di me, bambini!”
“Si, vedremo…”

In quel momento Jared, occhiali da sole, viso accigliato e outfit imbarazzante uscì dall’ascensore, portandosi appresso Shannon, con l’immancabile tazza di caffè in mano.
“Signori, siamo pronti?” esclamò Jared, con una certa nota di disappunto nella voce.
“Fino a prova contraria stavamo aspettando te” suggerì Tomo.
“Si, va beh, lasciamo stare le puntualizzazioni che abbiamo un volo eterno da affrontare”. Il perchè Jared fosse di cattivo umore nonostante stesse andando a trovare Miriam, era un mistero che nessuno avrebbe voluto svelare, così guardandosi tutti e tre presero le loro cose e lo seguirono fuori, in completo e intelligente silenzio. 

Circa dieci ore e qualche film dopo, atterrarono a Parigi. L’aria della capitale francese era dolce e quel tramonto avrebbe saputo rimettere in pace chiunque.
Jared, nell’aspettare i suoi bagagli al nastro, guardò dall’ampia vetrata che aveva davanti e pensò, per un momento, che Miriam doveva amarlo davvero tanto per lasciare quella meraviglia. Ma quello che Jared non pensava era che molte volte la quotidianità toglie il romanticismo e la bellezza delle cose.


Mon chéri…” la salutò non appena ebbe l’opportunità di stringerla a sé, fuori dalla frontiera. Mollò tutto per terra e la abbracciò senza dire niente, beandosi di quel corpo che gli era mancato e di quell’odore che aveva segretamente cercato tutte le notti in quei mesi.
Miriam si perse in quelle braccia, pensando che era meraviglioso risentire la sua voce dal vivo e percepire nel naso l’odore della sua pelle. Era bello che in quei mesi non avessero perso lo slancio, lo stesso slancio che lui riusciva a comunicarle solo con quell’abbraccio.
Si sciolsero dopo parecchi minuti e Miriam aveva un sorriso bellissimo stampato in faccia, Jared moriva dalla voglia di baciarla, ma erano in un luogo pubblico, e per quanto dopo la loro apparizione di febbraio al party, il gossip era impazzato, non voleva dare adito ad altro, non ancora. Anche se poi gli interessava davvero poco.
“Sei qui” sussurrò lei, guardandolo incredula. Jared le toccò la punta del naso e lei sentì che era davvero lì. E nessuno si accorse che quel gesto e quegli sguardi erano ancora più intimi di un bacio.

“Ehi, ma possiamo salutarla pure noi!?” disse una voce dietro Jared. Shannon lo scansò poco elegantemente e la prese fra le braccia, in maniera molto meno romantica di come avesse fatto Jared, che ora lo osservava odiandolo.
“Ciao francesina!” urlò dopo, felice. Miriam rimase senza fiato, girò lo sguardo e notò anche Emma e Tomo: e loro che diamine ci facevano a Parigi? Insomma, sapeva che la data di Bordeaux era stata definitivamente  annullata, quindi non vedeva il motivo di vederli lì al completo, era convinta che sarebbe andato da lei solo Jared.
Evidentemente la sua espressione non fu proprio rosea, perché Emma si affrettò, dopo averla salutata ad aggiungere: “Ci siamo presi qualche giorno di vacanza tutti, ma vi lasceremo in pace, tranquilla”. Sorrise calda e amichevole, come forse Miriam non la ricordava neppure.
In quei mesi si erano sentite di tanto in tanto, via sms il più delle volte, via Skype altre, e Miriam aveva scoperto un mondo dietro quella donna. Avevano definitivamente accantonato i problemi e le discussioni ed ora iniziavano a starsi simpatiche a vicenda.

“Emma, ma che dici! Sono solo sconvolta… non pensavo di avervi qui tutti! Ma fatti guardare, che bella che sei” le disse, stringendola a sé e ammirandole la pancia.
In realtà il problema non era la privacy che avrebbe voluto con Jared, ma… chi glielo avrebbe detto a Kiki? L’aveva convinta a rimanere, dicendole che non l’avrebbe fatta assolutamente vedere a Jared e che con lui il suo segreto era al sicuro. Ed ora? Panico.


Miriam si voltò verso Tomo, a disagio: se solo avesse saputo. Come minimo l’avrebbe uccisa, dato i suoi resti ad un cane randagio e poi scardinato la porta di casa sua per trovare Kiki. Tomo non sapeva nulla e travisò quel suo sguardo, pensando fosse solamente vergogna per i loro trascorsi, così le sorrise e le si avvicinò complice, abbracciandola. Miriam si sentì ancora più depressa: cazzo, stava praticamente cercando di chiederle scusa o comunque di appianare le loro divergenze! Si prese l’abbraccio perché non poteva fare altro e cercò di sembrare normale e serena, la verità era che era totalmente nel panico totale.
“Sono felice di avervi tutti qui” disse incerta, sperando che il tutto passasse solamente come entusiasmo per la sorpresa. Poi aggiunse: “Andiamo?”
“Noi siamo al nostro solito hotel, in centro. Voi andate pure, ci vedremo domani” disse Emma, sorridendo ad entrambi e afferrando la sua valigia.
“Ma state scherzando? Questa sera si va tutti a cena insieme, sempre che non siate stanchi” la sorprese Miriam, perché doveva prendere tempo, più che altro, cosa che a Jared non sfuggì, tanto che non appena iniziarono a camminare la tirò per un braccio e lasciò che fossero separati dagli altri almeno qualche passo, per poi sussurrarle: “Che stai combinando?”
“Jared, avremo tempo di stare soli, su” la buttò lì Miriam, tesa come una corda di violino.
“Non è per quello, sciocca. Cosa sta succedendo?”. Jared era un ottimo osservatore e lei non ci pensava mai.
“E va bene… Kiki è ancora qui” gli sussurrò piano, stando attenta a che nessuno potesse sentirli. Si stringevano e facevano finta di sussurrarsi parole d’amore, in barba a chiunque avesse potuto scattare loro foto compromettenti, in realtà il tono del loro discorso era tutt’altro.
“Che cosa?” chiese lui, trattenendosi dall’urlare il suo stupore. Non ne avevano più parlato, ma Jared era convinto che la pratica Kiki fosse stata archiviata.
“Jay, ma io che ne sapevo che sareste venuti tutti insieme? Si trovava bene qui così le ho proposto di restare qualche tempo, ora lavora part time, e vive da me, ma io credevo che venissi solo”
“Cazzo, potevi dirmelo però”
“E tu potevi dirmi che ti saresti portato i supporters” sibilò lei, sorridendo per mantenere la farsa.
“Va beh, comunicazione zero noi eh” dichiarò Jared passandosi una mano sulla barba di qualche giorno. Miriam lo guardò in quel gesto e si sentì smuovere un oceano dentro, ma decise di tornare 
“Già… ma ora come facciamo?”
“Scusa, ma come pensavi di risolvere la cosa? Cioè io dove avrei dormito?” chiese improvvisamente Jared allibito, fermandosi di colpo. 
Miriam si bloccò di colpo accanto a lui, girandosi a guardarlo: “Ma ti stai preoccupando di dove avresti dormito tu quando c’è un dramma, una tragedia, un incidente internazionale in atto?”
“Sono entrambi americani, caso mai l’incidente è domestico” le rispose, sfoggiando culture degne di un ambasciatore.
“Si, però io sono francese ed è il mio scalpo che vorranno entrambi quando la cosa verrà fuori”
“Mi piacerai anche se ti faranno lo scalpo” le disse, avvicinandola a sè e leccandole dolcemente l’orecchio senza che nessuno potesse vedere quel gesto erotico, che fatto in un luogo pubblico rischiava di far sciogliere Miriam più del previsto. Ridacchiò tirandosi indietro e per un momento le passò tutto dalla mente, ma poi guardò Tomo e piombò di nuovo nel caos.
“Jared, sii serio!”
“Ormai siamo nei casini, basterà tenerli lontani”
“Si, certo. E come faccio? Vorranno vedere casa mia, sarebbe bello che li invitassi per un aperitivo, una cena, qualcosa. E allora Kiki dove la ficco? Nell’armadio?”
“Sta calma, dai in qualche modo ce la caveremo. Potremmo semplicemente dire la verità a Kiki, così che lei troverebbe un modo per rendersi irreperibile, è brava sai”. Lo disse con un certo veleno nella voce, distogliendo lo sguardo da Miriam subito dopo averla guardata eloquentemente, perché lo pensava davvero e perché non troppo inconsciamente stava dalla parte dell’amico, che si aveva fatto la cazzata del secolo, ma che a suo parere meritava una punizione meno drastica.
“Jared, te lo ripeto: noi non ci schiereremo e non discuteremo sulle loro faccende” gli spiegò pazientemente Miriam. Poi aggiunse: “E comunque sta meglio, non voglio turbarla. Dovremo cavarcela noi due, da soli”
“Ed io che speravo in una vacanza romantica e ad alto tasso di erotismo solo con te” sospirò. Miriam gli diede un pugno sul fianco e poi si fermò a guardarlo, parandoglisi davanti con le mani sui fianchi. Sorrise maliziosamente e inclinò la testa su un lato: “Intendi dire che questa cosa ti distrarrà dai tuoi doveri?”
“Non siamo sposati, bambina”
“Non me ne importa un fico secco. Ti attendo da tre mesi e quattro giorni, Leto” si impuntò, chiarendo le cose. Perchè era vero: lo aspettava da troppo e nessuno sapeva meglio di lei quante volte aveva dovuto ricorrere a docce ghiacciate per calmarsi, specialmente dopo le telefonate particolari che aveva preso a fare con Jared, e che la lasciavano più eccitata che mai. 
“Sentila come si lamenta” le rispose, beandosi di quella chiara dimostrazione da parte di Miriam. E lì la baciò, per la prima volta pubblicamente, per la prima volta fregandosene di tutto. L’aveva portata alla festa e ancora prima li avevano fotografati a Madrid insieme, quindi il gossip galoppava a suon di “Chi è la misteriosa ragazza al fianco di Jared Leto?”, ma senza una dimostrazione chiara potevano solo fare congetture e lei avrebbe potuto essere anche la nuova assistente, o la cameriera dell’hotel, o sua cugina.
Ora la dimostrazione l’avevano eccome: un bacio, in piena regola. Jared che atterra a Parigi alla fine del tour, invece che fare rotta diretta verso la California, viene accolto dalla stessa ragazza delle foto dei mesi precedenti e la bacia in mezzo al via vai dell’aeroporto. Se ne fregò semplicemente, e continuò a baciarla, mettendole una mano sulla vita per attirarla a sè e costringerla a rimanere lì, incollata a lui. Ammesso che lei avesse la voglia di andarsene, cosa alquanto dubbia. 
 

Emma si girò per chiedere una cosa e li vide lì, in mezzo a tutti a stringersi e baciarsi come due adolescenti.
“Shan, dovresti spiegare a tuo fratello che l’età che ha sulla carta d’identità è vera, non ritoccata” disse, continuando a guardarli.
“Emma, rilassati, guarda quanto sono belli” le rispose, mettendole un braccio attorno alle spalle. Anche loro per la prima volta in pubblico: la loro storia era sdoganata nei backstage, fra gli addetti ai lavori e così via, ma nessun giornale aveva ancora fatto illazioni, né detto nulla, perché non c’era materiale.
Ultimamente avevano iniziato a sospettare di una gravidanza di Emma, fino a renderla quasi ufficiale mentre erano a Singapore. Era stata beccata in flagranza di reato, quando una folata di vento le aveva reso aderente la camicia che portava, non lasciando più dubbi: Emma era incinta ed era iniziato il toto papà, che molti sospettavano essere Jared. Anzi lo davano per certo, dopo anni di sospetti. 
Emma aveva avuto una crisi di pianto, ma poi si era calmata e con Shannon avevano iniziato a riderci su: come su ogni altra cosa che stavano passando in quei mesi, c’era la crisi e poi la consapevolezza che era davvero un periodo troppo bello per farselo rovinare in quel modo.
Shannon le aveva detto che non gli interessava cosa dicessero: lui era il papà di quel bimbo, e tutto il resto potevano essere solamente barzellette su cui ridere durante le giornate. Emma nonostante tutto aveva chiesto a Shannon di non fare gesti avventati e di tenere ancora il segreto; sapeva che era un colpo per lui e sapeva benissimo che Shannon avrebbe voluto rendere pubblica la cosa, però non se la sentiva ancora. 


Ora, in quell’aeroporto quell’abbraccio, che avrebbe sicuramente dato adito al gossip: Emma pensò di tirarsi indietro, perchè ancora doveva abituarsi a tutto, ma poi lo guardò e rimase lì. Lei amava quell'uomo ed era incinta di lui, che parlassero pure, pensò per la prima volta. Gli sorrise e gli prese dolcemente la mano.
“Come siete diventanti zen tu e tuo fratello!” lo rimbrottò poi, mentre Tomo rideva dei loro battibecchi e aggiungeva: “Ho fame!” ad alta voce.

Miriam e Jared sentirono e abbracciandosi si avvicinarono a lunghi passi, ridendo felici.
“Cucina francese o qualcosa di strano?” chiese Miriam tornando nel gruppo, felice, raggiante e avendo dimenticato tutto. Jared era sempre capace di dimostrarle quanto tenesse a lei. 
“Francese!” esclamarono tutti in coro, così Miriam li portò prima in hotel a posare i loro bagagli e poi in un bistrot molto particolare e poco caotico. A Shannon non sfuggì che Jared prendesse possesso della sua stanza, quando credeva logicamente che avrebbe dormito da Miriam, ma non disse niente.

Dopo la cena, stanchi per il viaggio e sazi fino al midollo, optarono tutti per una sana dormita. Tutti tranne un paio. Arrivati davanti l’hotel, Miriam salutò tutti con baci e abbracci, e attese che entrassero nell’hotel per salutare Jared.
Lui le si avvicinò, pericolosamente:
“Sali con me” disse perentorio. Non era una domanda, era una specie di diktat.
“Se la metti così” rispose lei, maliziosa, felice della proposta. Non stava più nella pelle: fosse per lei avrebbero saltato a piè pari la cena! Poi aggiunse: “Scrivo a Kiki però” e prese il cellulare. Scrisse velocemente che si sarebbe fermata in hotel con Jared, senza aggiungere altri dettagli, e che sarebbe tornata a prendere dei vestiti la mattina seguente.

Entrarono nella hall dell’hotel e attesero l’ascensore in tranquillità, non notarono Shannon fermo alla reception a risolvere una questione stupida. Lui li fissò e notò che stavano salendo verso la suite di Jared: cosa nascondevano quei due? Era convinto che Miriam avesse una casa e che qualunque appartamento sarebbe stato più comodo di un hotel, senza servizio in camera, ma con confort maggiori. Li squadrò, pensando di chiedere lumi al fratello al più presto, poi tornò a concentrarsi sulla signorina della reception.
“Vieni qui” le disse Jared, attirandola a sé non appena la cabina dell’ascensore si chiuse.
“Sei attratto dagli ascensori, Leto?”
“No, da te, bambina” le disse baciandola con passione e spingendo il suo corpo addosso alla parete. La sovrastava con il suo corpo ed era la sensazione più bella che Miriam avesse mai provato. Lo ricordava esattamente com’era: bello, caldo, sexy, terribilmente eccitante e buono. 
“Mi sei mancato”
“Lo vedo” le disse malizioso, dopo aver sapientemente infilato una mano nei suoi leggins. Miriam tradì un gemito di approvazione e piacere nel sentire le sue dita che la esploravano.
“Jay, arriviamo in camera prima, che dici?”
“Blocchiamo l’ascensore”
“Tu sei pazzo!” gli rispose ridendo come una bambina e cercando di toglierselo di dosso.
Si ricompose, per quanto fosse possibile farlo dopo quel contatto e con quel corpo a distanza ravvicinata. Si impose di non guardarlo, perché non avrebbe saputo resistere oltre e sperò che quell’ascensore ci mettesse poco.


Il corridoio dell'hotel non era mai stato così lungo, ma quando Jared si chiuse la porta della suite alle spalle, lì, non ci fu più scampo per Miriam: la prese in braccio e senza neanche guardare la stanza in maniera approfondita la gettò sul letto, salendoci di conseguenza e camminando carponi fino a lei. Era bellissima, leggera, pazzesca: era sua. La spogliò delicatamente, ma con urgenza e la fece sua, sentendo la sua voce esprimere gradimento per ogni cosa che il suo corpo riusciva a trasmettere.
“Com’è andato il tour?” gli chiese Miriam qualche mezz’ora più tardi. Erano ancora nudi e accaldati e si erano rintanati sotto il comodo piumone. Era bello rimanere così, dopo l’amore, era davvero molto bello.
“Bene, faticoso più del solito” ammise Jared, accarezzandole piano il braccio con le dita. 
“Vi ho seguito tramite internet, fra notizie, video, fan club… comunque, Emma l’ho vista bene”
“Si, sta bene. E’ solo isterica, ma sta bene. Sta facendo impazzire Shannon” disse ridacchiando.
“Come mai?”. Miriam alzò lo sguardo, poggiando il mento sul petto di Jared e circondando la sua vita con un braccio: era bellissimo stare così, forse più bello del sesso stesso, pensò. 
“Perché la sua gravidanza è ormai evidente e i giornali hanno iniziato a fare il toto papà, così Shan voleva semplicemente rendere ufficiale la cosa, ma lei ha categoricamente detto no. Credo che mio fratello ci sia rimasto male, ma la ama così tanto da non dirle nulla”
“Forse esagera, non credi?”
“Si, forse si, ma lei è una che sa quel che fa. Io mi fido, e alla fine pure Shan” le disse. Poi aggiunse, cauto e tenendola più stretta: “A proposito… hai letto i giornali?”
“No, non particolarmente, perché?”
“Perché stanno scommettendo anche la loro anima da quattro soldi che il padre sia io” le disse, baciandole il naso subito dopo. Miriam non disse nulla, per un momento, cercando di assorbire la notizia: insomma, sapeva che era una bugia, ovviamente, ma per quanto avrebbe dovuto sentirsi così?
“Ah…” rispose solamente, tornando a poggiare la sua testa sul petto di Jared, in modo da non doverlo guardare.
“Miri…” le disse lui, come un papà che sgrida dolcemente la sua bambina.
“No, ma tranquillo, so che non è così”
“Ancora non ti sei abituata eh?”
“A cosa? Al fatto che tu venga continuamente additato come padre, amante, marito, compagno, di chiunque?” disse, forse un po’ troppo cruda e secca.
“Smettila, bambina. E’ mio fratello e tu ci sei dentro”
“Ci siamo dentro insieme, veramente” sussurrò lei.
“Appunto, quindi siamo io e te” le disse nell’orecchio, prima di stringerla a sé e cadere nel sonno.

Il sole era alto nel cielo parigino, illuminava perfettamente l’ampia suite all’ultimo piano, che affacciava sulla Tour Eiffel e aveva un tocco di cremisi in ogni angolo. I raggi entravano dalla grande finestra e finivano a scontrarsi sul copriletto che nascondeva due corpi intrecciati.
Miriam aprì gli occhi quando il sole la colpì e si ritrovò il braccio di Jared stretto attorno alle spalle. Si erano addormentati e svegliati nella stessa posizione, come in un sogno perfetto, come in una vita parallela. Per un momento non pensò a niente, né disse niente, lo guardò piano, e annusò il suo odore che finalmente era di nuovo vero, di nuovo lì con lei. Rimase così per molti minuti, incapace di muoversi, incapace di spezzare quell’incantesimo, poi si mosse e i capelli andarono a solleticare il viso di Jared che aprì gli occhi e le sorrise: si poteva continuare a vivere normalmente se quell’uomo pensava di sfoderare il suo sorriso più puro e più dolce di prima mattina?


“Buongiorno” gli sussurrò nell’orecchio, tirandosi su per raggiungere le sue labbra.
“Buongiorno” le rispose pigramente, lambendo la sua bocca e baciandola dolcemente. Era la prima mattina dopo mesi in cui poteva davvero fare quel che voleva, non rispettando orari e appuntamenti. E in più aveva quella donna nel letto: si era davvero un buongiorno, pensò.
“Dormito bene?” le chiese premuroso. 
“Benissimo, tu?”
“Come non dormivo da secoli”. Ed era la verità: in quella notte la sua insonnia non si era presentata ed era riuscito a dormire per molte ore di fila, erano traguardi importanti. 
“Programmi per la giornata?"
“Jared, mi sono appena svegliata, dammi tregua” si lamentò pigramente.
“Scusami…” le disse facendosi audace e baciandole il collo.
“Ecco, questo programma già mi interessa di più… come si svolge?”
Jared rise e le fu sopra in un attimo, prendendo ad eccitarla come solo lui sapeva fare.


 
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L'angolo di Bibi: sorpresa di inizio Ottobre! Pensavo di attendere qualche giorno per pubblicare, rispettando così la cadenza settimanale, ma il capitolo era pronto e così ho deciso di lanciarmi e bruciare i tempi! 

Dunque è un capitolo in cui non succede granchè: i ragazzi arrivano a Parigi, Jared e Miriam si incontrano di nuovo, la gravidanza di Emma viene scoperta e incombe il pericolo Kiki su di loro. Normale amministrazione senza colpi di scena, lo ammetto... però ho deciso di spezzare in due l'intero capitolo per dare il giusto rilievo a tutti gli eventi. Perchè ce ne saranno di eventi, uh se ce ne saranno! 

Detto ciò... come state fanciulle e fanciulli? Come avrete notato... il nickname è finalmente cambiato! Il nuovo è banale come la pioggia il giorno di Natale, però è legato non solo ai Mars, ma anche ad altro, quindi ho deciso di eliminare l'originalità e dare ascolto al cuore! Spero vi piaccia e spero che non siate confusi!

Ringrazio come sempre i miei fedeli lettori, silenziosi e non, e vi esorto come sempre a farmi sapere la vostra opinione, se vi fa piacere! 

Vi sbaciucchio dolcemente e ci sentiamo al più presto! :) 

Bibi
 

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Capitolo 23
*** Rilassati ***


 
Rilassati


Altra stanza, stessa mattina, altro letto. Shannon aveva dormito pochissimo, non sapeva perché ma il fatto che Jared e Miriam avessero dormito lì gli faceva presagire qualcosa di non buono: stava per diventare sensitivo, per caso?

Si girò nel letto e vide che Emma ancora era nel mondo dei sogni, e gli dava le spalle, così le si avvicinò piano e le cinse la vita con un braccio, delicatamente, scansandole i capelli con il naso e affondando il suo viso nel collo di quella preziosa creatura. La sentì mugugnare qualcosa, ancora gli occhi chiusi e i muscoli che iniziavano a muoversi pigri.
“Buongiorno, principessa” le sussurrò con voce roca.
“Ciao, sei sveglio da molto?”
“Un po’, ti ho lasciato riposare però”
“Bravo, che ore sono?”
“Quasi le dieci”
“Wow, non dormivo così tanto da un secolo!” gli rispose serena, tirandosi i muscoli con un'espressione beata sul volto. 
“Lo so”
“Sarai un compagno perfetto, Shannon Leto”
“Sarò? Perché ora faccio schifo?”
“Stupido! Intendevo quando… vivremo insieme…”. Aveva quella voce così soffice quando si imbarazzava per qualcosa, che poi non c’era nulla di cui vergognarsi, e Shannon impazziva quando le diventavano le guance rosse e distoglieva lo sguardo. La strinse un po’ di più e le sussurrò, piano: “Avrai solo una parte dell’armadio e un paio di cassetti”
“Stronzo!” urlò lei girandosi fra le sue braccia e cercando di prenderlo a pugni, senza riuscirci molto però. Continuarono quella lotta poco silenziosa, che li faceva ridere da matti e che Shannon terminò con un bacio mozzafiato.
“Hai deciso di soffocarmi?”
“No, ho deciso che voglio fare l’amore con te” le rispose eccitato, facendo aderire il suo corpo ad Emma.
“Viziato…” rispose lei ridendo maliziosa, non sapendo dirgli di no.
Dopo, accaldati e appagati, rimasero nudi a chiacchierare, il momento più bello per Emma, il momento a cui Shannon non era abituato: non l’aveva mai fatto, di solito scappava subito dopo il sesso.
“Emma, hai notato che Jared ha dormito qui?” chiese Shannon, passando piano un dito sul braccio di lei. 
“No, veramente no. Non era con Miriam?” gli rispose pigramente, con gli occhi ancora chiusi. 
“Si, sono entrati in hotel dopo averci salutato”
“E tu che ne sai?”
“Stavo facendo il filo alla signorina della reception, e li ho visti agli ascensori?”
“Tu cosa?”. Si alzò di scatto, coprendosi il corpo con il lenzuolo, in un gesto inutile, ma bellissimo agli occhi di Shannon. Lo guardò malissimo e attese una risposta.
“Li ho visti che aspettavano l’ascensore, ti ho detto”
“No, torna indietro, la prima parte della frase”
“Ah allora sei gelosa…” disse trionfante, prima di attirarla di nuovo giù e stringerla a sé.
“Stai attento a te, Leto” lo minacciò, puntandogli un dito contro il naso, ma assumendo di nuovo la sua posizione preferita: la testa poggiata sul petto di Shannon e il suo braccio a stringerla. 
“Dai, comunque a parte gli scherzi… che ne pensi?” continuò lui, testardo. 
“Ma che ne so, magari avevano voglia di stare insieme e non potevano aspettare di arrivare a casa di Miriam, non sappiamo neanche dove vive, magari molto lontano da qui”
“Non potevano aspettare?”
“Oh, Shannon sai com’è tuo fratello no?”
“No, in realtà no… tu si?”
“Idiota, hai capito cosa intendo. E pure tu non sei da meno direi, quindi smettila di fare il finto tonto”
“Va beh, ma comunque è strano”
“Ma perché? Secondo me è una cosa banale sulla quale ti stai fissando senza un vero motivo”
“Sarà… ma secondo me c’è qualcosa sotto”
“Si, un amante segreto… o no, aspetta ancora meglio: un figlio piccolo di cui Miriam non vuole rivelare nulla a Jared, vero?!”
“Sei proprio cinica”
“No, sei tu che ti fai delle paranoie senza senso, sulla vita di tuo fratello poi”
“Va bene, colazione?” tagliò corto lui, che ancora aveva la sensazione che qualcosa non quadrasse.

Scesero e trovarono Tomo già seduto con una cartina in mano. Lo guardarono un po’ straniti e appena li vide lui iniziò a martellarli di parole: “Ben svegliati piccioncini! Dunque, il programma di oggi prevede…”
“Alt, sta zitto, non ho ancora bevuto caffè” lo interruppe Shannon, mentre Emma si serviva un croissant, sentendosi un po’ in colpa, e rideva della scenetta.

Tomo lo guardò storto e rivolse l’attenzione ad Emma: “Come hai dormito, mammina?”
“Bene, ma dovete smetterla di chiamarmi tutti così”
“Come siete fastidiosi questa mattina. Vi si sente da fuori la sala” si lamentò Jared, raggiungendoli e sedendosi su una sedia libera.
“Quel buon vento…” lo apostrofò Tomo. “Già qui a quest’ora?”
“Tomo, sono le dieci passate del mattino, mica l’alba”
“Pensavo che avresti voluto passare più tempo con la tua fanciulla”
“La mia fanciulla sta facendo una doccia”
“Non vogliamo sapere quante ore avete dormito” lo prese in giro Tomo, ridendo. Jared non gli rispose, ma sorrise sotto i baffi: era qualche tempo che notava che l’amico era più rilassato e sereno, forse stava finalmente meglio, per quanto sapeva che il non avere avuto mai notizie da Kiki non fosse la cosa che più lo tranquillizzava. Appena ci pensò si irrigidì: Kiki era in città, cazzo.

Dopo qualche minuto Tomo scappò via, preso da una mostra che si sarebbe svolta in un museo lì vicino, e dando appuntamento agli altri per pranzo; Emma era al telefono con una sua amica, così Shannon ne approfittò, si avvicinò al fratello e gli pose la domanda che lo martellava dalla sera precedente: “Jared, ma perché avete dormito qui?”
“Uhm?!”
“Pensavo che saresti andati da Miriam, avreste avuto più privacy”
“Perché ti risulta che filmino l’interno delle stanze qui?”
“Vedo che il ritorno della signorina ti ha reso un uomo molto spiritoso e la cosa mi fa piacere, ma sono serio. Che problemi ci sono in giro?”
Colpito ed affondato. Doveva resistere. Aveva o non aveva vinto un Oscar?
“Ma che problemi vuoi che ci siano, Shan? Semplicemente non ci andava ieri sera di andare fino a casa sua, e tutte le mie cose erano qui” minimizzò, sperando che bastasse.
“Certo, e a te servivano proprio i tuoi bagagli ieri sera…”. Non era bastato.
“Pensala come vuoi, ma ti assicuro che è stata una scelta dettata dall’urgenza di… insomma, hai capito…” disse a bassa voce. Quello l’avrebbe convinto. In quel momento Emma attaccò il telefono ed esclamò: “Hai dovuto chiederlo per forza eh?!”
“Ma tu non eri al telefono?” disse seccato Shannon.
“Ancora non hai imparato che lei ascolta tutto e sa tutto?” rise Jared, servendosi della macedonia. “Beh comunque mi fa piacere che parliate di dove decido di passare la notte eh”.
“E comunque, vorrei sottolineare che avevo ragione io” disse trionfante Emma, alzandosi da tavola.

La giornata trascorse tranquilla: Tomo girò per Parigi in solitaria. Disse che aveva bisogno di starsene un po’ per conto suo, si prese una cartina e nessuno lo vide più fino a sera. Mancò anche il presunto appuntamento che avevano per pranzo, ma nessuno se ne preoccupò, perché quel periodo per lui era stato difficile e forse aveva diritto di scaricare la tensione da solo.

Shannon ed Emma fecero una romantica passeggiata mano nella mano. In realtà non avevano meta, avevano visto spesso Parigi e non volevano intrufolarsi in qualche località prettamente turistica, volevano solo passeggiare e rilassarsi insieme. Shannon pensò che era la prima volta che erano così complici in luoghi che non fossero le loro case, il MarsLab, la stanza di qualche albergo. Emma aveva fin’ora categoricamente rifiutato il contatto a portata di paparazzi.
L’aria era frizzante, benché fosse maggio e loro sembravano due persone normalissime in attesa di un figlio: avevano una carica e un’intimità che suggeriva a chi li guardava una relazione lunga anni. In realtà erano insieme da soli otto mesi e si stupivano loro stessi quando ci pensavano.

Dopo aver mangiato qualche leccornia a base di calorie liquide, come solo a Parigi si può fare, si infilarono per gioco in un negozio per bambini: era la prima volta, per loro e fu un momento magico.

Continuavano a girare intorno a culle, passeggini, vestiti in miniatura e pupazzi di pezza e avevano gli occhi sbarrati da tanto candore. Rimasero lì un tempo infinito, con i commessi che li guardavano sorridendo, perché si vedeva che erano nuovi all’ambiente, e qualche giovane donna aveva anche riconosciuto Shannon.

“Che dici, lo prendiamo?” le chiese d’un tratto, spaventandola e svegliandola dallo stato di trance in cui era finita vedendo un video su una mamma che conosce il proprio bambino per la prima volta.
“Che cosa, Shan?” gli aveva chiesto, distrattamente.
“Il primo gioco per nostro figlio” esclamò lui fiero e felice, brandendo in mano una specie di chitarrina elettrica perfettamente funzionante.
Emma lo guardò storto, pensando che non fosse proprio per un neonato quel dono. Tentò di dirglielo: “Shan, forse per questo dovremo aspettare qualche anno, che dici?”
“Ma è bellissima, guarda suona anche” le disse di rimando, mettendosi a strimpellare come un forsennato. Tutti i presenti del negozio si girarono e Emma si vergognò moltissimo, scoppiò a ridere e gli strappò di mano quell’aggeggio infernale.
“Non so come farò a sopportare anche una chitarra in miniatura” sospirò, guardando prima quell’oggetto nelle sue mani e poi il futuro papà. Che aveva uno sguardo così bello che Emma non se la sentì di distruggere il suo orgoglio. Magari il loro bimbo sarebbe stato un filosofo che niente avrebbe avuto a che fare con la musica, però non ebbe cuore di dirlo a Shan. D’altronde una batteria sarebbe stata decisamente peggiore!
“E va bene, nostro figlio avrà per primo regalo una chitarra”
“Perfettamente funzionante, Emma!” ripetè Shannon ridendo e sembrando lui stesso un bambino. 
“Si, d’accordo, perfettamente funzionante” gli fece eco, scoppiando a ridere. Lo guardò mentre si riprendeva quella chitarra e continuava a gironzolare per il negozio, rimase ferma a fissarlo mentre prendeva abiti e li adocchiava sognante: lì in quel negozio di Parigi seppe che era davvero un periodo straordinario e che nonostante tutto la felicità di quell’evento inaspettato l’aveva travolta. E sconvolta. E resa davvero felice.

Uscirono dal negozio con almeno due buste piene di qualsiasi cosa: vestitini a cui Emma non aveva saputo dire di no, oggetti di cui Shannon si era innamorato a prima vista.
“Nostro figlio sarà un disadattato!” rise lei, con le lacrime agli occhi.
“Dici?”
“Abbiamo comprato delle cose perfettamente inutili, e non sappiamo neanche il sesso del bambino, quindi potremmo non utilizzare mai il piccolo frac”
“Potrebbe utilizzarlo quando la sua mamma e il suo papà si sposeranno” le disse suadente, prendendola fra le braccia. Emma rimase a bocca aperta cercando delle parole adatte.
“Shan, stai dicendo che vorresti sposarmi?”
“Magari un giorno si, che ne sai…”. La liberò da quell’abbraccio e prendendole la mano iniziò a camminare, costringendola a stargli dietro.
“Il frac ha un misura dai sei ai nove mesi, Shan… forse non gli servirà ugualmente” rise lei.
“Come sei pignola, Emma. Lo faremo allargare o restringere. O semplicemente ti sposerò in quel frangente. Rilassati” le intimò. Emma sorrise e pensò che aveva ragione: spegnere il cervello. E quel paparazzo che vide con la cosa dell’occhio sotto gli occhiali da sole non ebbe il potere di infastidirla. Anzi sorrise e alzò una mano in segno di saluto.

Jared e Miriam erano invece rintanati in hotel. Non che non avessero voglia di uscire, ma la voglia di rimanere nudi abbracciati a far l’amore era prevalsa su tutto e tutti.
“Voglio vivere la mia vita così” esclamò Miriam, dopo l’ennesimo round ad alto contenuto erotico.
“Cioè in questo hotel?”
“Cioè in un letto con te, qualsiasi posto del mondo va bene”
“Fra un mese potrai farlo…” le disse, mettendosi steso su un fianco con la testa poggiata ad un gomito, in modo che potesse guardarla negli occhi.
Miriam era stesa, fissava il soffitto e a quella frase ricordò che ancora non aveva detto a suo padre della sua decisione. Tempo prima aveva informato la mamma, che era scoppiata in lacrime, salvo poi dirle di preparare una casa che avesse un posto per lei. Ora mancava l’ostacolo più grande.


“Jared, non ho ancora rifiutato l’offerta dello studio” disse tutto d’un fiato, chiudendo gli occhi per non dover sostenere i suoi e trattenendo il fiato. Non sentì nulla, se non il materasso che si alzava, sollevato di un peso. Si pentì di averlo detto in quel momento, ma doveva dirlo prima o poi. Lo vide infilarsi i jeans e prendere gli auricolari dal cassetto, poi uscire sul balcone. Cosa fare? Uscì dal letto piano, infilò un accappatoio e aprì la finestra per raggiungerlo: l’aria non era così calda, e il cielo minacciava qualche goccia di pioggia.

“Jared…” disse. Nessuna risposta. Gli si avvicinò cauta e gli posò una mano sulla spalla rimanendo dietro di lui: Jared semplicemente si scostò in avanti sulla sedia, in modo da lasciare la sua mano orfana di quel contatto. “Ti prego…” disse ancora, in preda ad un panico sempre più crescente.
“Ti prego cosa, Miriam?” le urlò contro scagliando gli auricolari sul tavolino di vetro lì accanto. “Eh, cosa vuoi pregarmi? Di aver deciso di non venire più a LA senza neanche dirmi niente? O piuttosto di avermi illuso che fra noi potesse esserci qualcosa di serio? Cosa? Spiegami”
“Jared, fra noi c’è qualcosa di serio” tentò di dire lei, con tutta la calma che riuscì ad accogliere. 
“Ah si, davvero? Abbiamo un concetto del serio piuttosto differente. Io ci sto dentro fino al collo, Miriam e non mi pare che tu l’abbia capito”
“Non dire così”
“E’ la verità. Ci siamo insieme o no? Sei convinta di voler stare con me o no? Perché le cose non funzionano così, non vanno se tu ogni giorno cambi idea”
“Io non ho cambiato idea”
“E allora cosa cazzo stai tentando di dirmi?” urlò.
“Jared, possiamo parlarne dentro, ti prego”
“Ovunque ne parliamo il risultato è lo stesso: io mi fidavo e credevo che stessimo costruendo qualcosa insieme, ma mi sono sbagliato” le disse. Poi la guardò torvo ed entrò nella stanza.
Miriam lo vide infilarsi una maglia e le scarpe, poi agguantare gli occhiali da sole e uscire, sbattendo la porta con violenza. Si sentì sola, una cretina patentata che non faceva altro che farlo scappare, e dire che la sua più grande paura era quella che lui non tornasse affatto. E allora perché si comportava così? Cosa aveva nel cervello?

 
          

L'angolo di Sissi:
Saaaaaaaaaaaaaalve! Che si dice? Come state? Cosa raccontate? Io proprio non ci riesco a portare avanti le cose senza cambiarle, quindi da oggi in poi mi firmerò con il mio nome reale, o comunque un diminutivo a me molto caro! Perdonate i miei continui cambiamenti, ma vanno con l'umore e di questo periodo è meglio lasciarmi perdere... 
Comuuuuuuunque, siamo ad un capitolo un pò particolare: ci ho messo un pò a scriverlo, perchè ci tenevo che fosse normale, ma avesse comunque qualcosa di speciale. Si, non lo so manco io cosa volevo fare e non so quanto mi sia uscito bene. Quello che voglio dirvi è: continuate a leggere, perchè la storia è lunga, ma siamo ad una svolta, o meglio siamo vicini alla svolta. Dai prossimi capitoli le cose si svolgeranno in maniera molto veloce! Piccolo spoiler... 
Per il resto: Bomba ad Orologeria Miriam ne combina un'altra delle sue e mi chiedo proprio da dove mi escano queste continue cattiverie che faccio subire al povero Jared! Come si metteranno le cose? Cosa accadrà? Cosa ne pensate voi? 
Shannon&Emma sono L'AMORE! Io adoro questa coppia, mi si è formata un pò da sola, non avevo idea di volerla gestire in maniera così serena e pacata (anche se un punto di normalità dovevo metterlo) e devo dire che è la situazione che mi esce meglio, quando scrivo. Iniziano a piacermi proprio, non nego che se nella vita reale uscisse fuori una loro relazione, sarei felice! 
Tomo vive l'empasse, ma per lui si profila all'orizzonte una bella sorpresa... curiosi!? 
Ringrazio, come sempre, chi mi segue silenziosamente e chi invece ci tiene a farmi sapere il suo giudizio, per me sempre molto importante!
Se volete dire la vostra sulla storia, o semplicemente dirmi qualcosa, scrivetemi pure: recensioni o messaggi privati sono seeeeempre ben accetti!!!

Baci marsosi a tutti!!! 

Sissi


 

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Capitolo 24
*** L'uomo della mia vita ***


L'uomo della mia vita
 

Miriam scoppiò a piangere a dirotto, maledicendo se stessa e quello che aveva detto: che bisogno c’era? Lei avrebbe rifiutato quell’offerta, ne era sicura, perché dirlo? Forse non ne era così tanto sicura, pensò, rivolgendo gli occhi alla sua città, che tanto amava, ma che la soffocava in maniera incredibile. Aveva paura che stavolta non sarebbe tornato e non riusciva a smettere di piangere.

Rientrò in stanza pigramente, si rannicchiò nel letto, ma l’odore di Jared era insopportabile da sostenere, quindi si alzò di scatto e si vestì in fretta e furia: doveva lasciare quella stanza.
Prese un foglio e una penna che aveva trovato casualmente sulla scrivania e scrisse un messaggio per Jared: “Non voglio scappare, sono ancora sicura di amarti”.
Rilesse più volte quella frase, che considerò un po’ sciocca dopo quello che era successo, ma era la verità e davanti alla verità nessuno può dire di no. Forse neanche Jared.
Gli lasciò il foglio piegato sul cuscino, lì dove l’avrebbe sicuramente trovato e andò via, diretta a casa propria.


Quando, una mezz'ora dopo rientrò a casa, la trovò vuota, e ne fu felice, perché non ce l’avrebbe fatta a spiegare il suo umore e la sua faccia scura.
In tutto il tragitto che l'aveva portata a casa, aveva provato a chiamare Jared, ma niente: di lui nessuna traccia. Pensò di chiamare Shannon, ma non voleva metterlo fra lui e il fratello, quindi lasciò quella come idea secondaria, se proprio Jared non si fosse fatto vivo per tutto il giorno. Con suo grande rammarico, poco dopo Kiki rientrò, canticchiando.


“Ehi, mi hai spaventata!” urlò la ragazza mettendosi platealmente una mano sul petto. 
“Divertente, considerando che io vivo qui” le rispose lei, acida.
“Tutto bene?”. Kiki si tolse il trench, lo buttò da qualche parte e le si avvicinò cauta, ma decisa. 
“No”
“Ecco… ti va di parlare?”
“No”
“C’entra Jared?”
“Si”
“Avete litigato”
“No”
“Faccio fatica a crederlo… ma è qui?” le chiese, girandosi attorno spaesata. Improvvisamente le mancò un pò l'aria, ma decise di calmarsi e concentrarsi su Miriam, che sembrava davvero non stare bene. 
“Si”
“Oh senti Miriam, mi stai facendo faticare, parla!”
“Ha detto quella che è sparita per mesi… almeno io ti sto rispondendo”. Colpo basso, Miriam. Colpo stronzo. Si pentì all’istante e si morse il labbro volendo sparire. “Scusa, Kiki, sono una cretina”
“No, ci stava” rispose lei, sedendosi sul divano con gli occhi bassi.
“No, non ci stava per niente. È che io e Jared ci siamo lasciati un po’ male questa mattina e sono molto nervosa”. Kiki non rispose e Miriam, sospirando, continuò: “Gli ho detto che ancora non ho rifiutato la proposta del mio capo e lui l’ha presa come se io la volessi accettare, come se non fossi più convinta di andare a Los Angeles. Così ha iniziato a dirmi che si è stancato e che in questa cosa ci dovremmo essere in due, quando lui si sente solo”.
Respirò a fondo e andò a sedersi sul divano, dove Kiki si era rannicchiata per ascoltare l'amica: due innamorate lasciate praticamente sole nella città più romantica del mondo. Evidentemente in quel momento pensarono entrambe alla stessa cosa, perché si guardarono e scoppiarono a ridere, senza riuscire a smettere.

“Siamo patetiche!” urlò Kiki, tenendosi la pancia per le risate.
“Neanche poco, guarda… però siamo insieme” disse Miriam, tornando per un attimo seria e prendendo la mano di Kiki. 
“Già, almeno quello”.

Le ore trascorseno lente. Kiki si era messa a vedere la tv, mentre Miriam faceva finta di leggere una rivista trovata per caso lì accanto. La guardava di sottecchi e la vedeva molto più rilassata e positiva di qualche tempo prima: avrebbe dovuto dirle che Jared non era solo, in città? Pensò di si, ma la verità era che non se la sentiva proprio: la reazione di Kiki sarebbe stata imprevedibile e i cocci che insieme avevano raccolto da quando erano a Parigi insieme, ancora erano ammucchiati da qualche parte troppo vicina. 
Inoltre, pensò, da come stavano le cose, la combriccola avrebbe mollato il porto parigino entro pochi giorni, quindi non c’era davvero bisogno di agitare le acque.


Jared non si era fatto vivo ed era già pomeriggio inoltrato. Miriam iniziava ad arrabbiarsi seriamente: cos’era quella relazione? Un luogo in cui lei non poteva neanche dire qualcosa, non poteva neanche esprimere una sorta di incertezza, di dubbio? Jared stava esagerando.

Alle diciotto le arrivò un sms: Shannon. “Francesina, Jared è sulla Senna, Quai de la Tournelle. L’ho visto passeggiando con Emma, e mi è sembrato strano che non fosse con te. Qualsiasi cosa sia successa non voglio saperla”.
Miriam pensò seriamente di erigere una statua d’oro a quell’uomo e prese la borsa al volo, urlando a Kiki che sarebbe tornata presto o comunque l’avrebbe chiamata più tardi. Non le diede il tempo di rispondere, volò letteralmente giù per le scale, perchè anche aspettare l'ascensore era considerato tempo sprecato in quel momento. 
 

Corse verso quell’indicazione, corse a perdifiato, corse fregandosene di investire vecchietti e bambini. Sperava solo di non perderlo, sperava solo che lui non se ne andasse.
Sentì seriamente i polmoni lamentarsi, ma non si fermò quasi neanche ai semafori rossi, perchè i minuti correvano e qualsiasi passo rallentato sarebbe stato un ostacolo. 
Quando arrivò nel punto indicatole da Shannon, non vide nessuno, ma continuò a correre lungo la Senna, pensando ad un piano B, a qualsiasi piano B possibile.
Poi lo vide.

Jared era seduto su una panchina, in quel punto in cui la città si inchina al fiume, dove l'acqua è più vicina e i rumori della metropoli sono attutiti, dove puoi vedere i ponti da sotto e sperare che non crollino. 
Un albero gli faceva ombra e lui guardava dritto davanti a sé, pashmina al collo, occhiali calati sul viso e capelli legati sulla nuca in maniera disordinata.
Miriam si fermò ad osservarlo, forte del fatto che lui non avrebbe potuto vederla: era bellissimo, aveva una compostezza ed un’eleganza che l’avevano fatta capitolare più volte e che ora sentiva il terrore di non essere più sua.
Fece un passo sulle scale, ma poi si fermò, incapace di fare altro, ora che l’aveva trovato non sapeva cosa dirgli, cosa fare, cosa pensare.


Respirò a fondo e scese i gradini in silenzio. Si avvicinò piano, mani in tasca e sguardo al cielo, il cielo che stava osservando lui da non sapeva quanto tempo. Poi parlò: “In questa città riusciamo solo a litigare, Leto”. Lui si girò di scatto, perché conosceva quella voce e si rese conto di quanto sentisse la necessità di averla con sé.
“Mi ha scritto Shannon, se ti stai chiedendo come faccio a sapere che sei qui” continuò Miriam, ferma in piedi vicino a lui, senza il coraggio di guardarlo. Sentiva i suoi occhi azzurri fissi su di lei, ma lei di azzurro riusciva solo a percepire il cielo. 
“Dovrò uccidere mio fratello o almeno fargli fuori il cellulare”.

Per un po’ nessuno dei due parlò: erano lì fermi, immobili, vicini ma distanti a guardare lo stesso paesaggio senza trovare il coraggio di parlare. O di lottare.
Poi Miriam prese quel briciolo di orgoglio che aveva e la buttò nella Senna, iniziando a parlare: “Jared, io non voglio accettare quell’offerta, ma vorrei una relazione in cui poter esprimere i miei dubbi, le mie paure, le mie necessità. Ti ho detto quella cosa perché volevo un consiglio da te, lavorativamente parlando, volevo sapere cosa ne pensavi al di là della tua voglia di avermi a Los Angeles e tutto quello che ho ricevuto è questo, e una serie di accuse da parte tua che non credo di meritare”. Era dura, ma sentiva che stava per fare un passo importante e sentiva che doveva mettere in chiaro alcune cose, prima di lanciarsi.

Jared sospirò e continuò a non guardarla, poi le rispose, cercando di essere sincero: “Miriam se non vuoi venire a Los Angeles nessuno ti obbliga, ma io vorrei una certezza e so che è paradossale detto da me, ma io in questi mesi mi sono lasciato andare, ho tentato di darti sicurezza e di reprimere tutte le volte in cui avrei voluto scappare, perché aveva paura o perché semplicemente mi rendevo conto che è faticoso portare avanti una relazione. Non ti nego che ho avuto delle tentazioni, in tour, perché sono così, sono abituato così e non me ne sono mai fatto un problema, ma ho resistito e l’ho fatto perché credo che fra noi ci sia davvero qualcosa. Credo per la prima volta dopo tanto tempo di avere qualcosa di bello oltre alla carriera e a tutto il resto e tu mi spiazzi, Miriam, mi lasci senza parole, perché mi ami, poi ti tiri indietro, poi torni, poi scappi, poi dici le cose e poi le ritiri. O ci siamo dentro in due oppure non ne vale la pena”. Disse quelle cose, bellissime e durissime, senza rancore, senza urlare, senza rabbia. Le disse in maniera normale, come se fosse un discorso che avrebbero dovuto fare prima o poi e si rendevano conto che l’avevano rimandato fin troppo, ormai.
“Io ti amo…” fu in grado di rispondergli. Era annientata: come si poteva dire qualcosa di così bello con un senso di fine così immenso?
“Non mi basta più, Miriam”
“E cosa vuoi?”
“Una dimostrazione, anche stupida, che davvero sia così”
“Dovrai fidarti, Leto”
“E cosa pensi che abbia fatto in questi mesi?”

Miriam si sedette sulla panchina davanti a lui e disse quel che voleva dire guardandolo negli occhi: sentiva l'urgenza di avere un contatto con lui, di parlare con lui, di vedere le sue reazioni. Stava perdendo tutto, se ne rendeva conto, ed è nel momento in cui pensi di cadere che ti aggrappi alla vita in maniera prepotente.
Lo fissò, sedendosi e gli aprì il cuore: “Senti, io voglio venire a Los Angeles, non voglio rimanere qui, ma seriamente quell’offerta di ha messo ko. Era l’occasione che aspettavo da una vita, ed ora è arrivata proprio nel momento in cui avevo deciso di svoltare e fare qualcosa per me stessa, proprio nel momento... in cui credo di aver trovato l’uomo della mia vita”. Rimase sospesa, a vederlo impassibile accanto a lei.
Aveva abbassato la voce, perchè quelle parole erano uscite prepotenti e lei non era riuscita a difendersi da se stessa.
Aveva abbassato gli occhi, perchè gli stava consegnando tutto ciò che sentiva di avere dentro.


Jared venne schiaffeggiato da quelle parole e non riuscì a non guardarla: era lì davanti a lui, bellissima, con i capelli agitati dal vento, con le labbra carnose che non ridevano, con le guance arrossate dalla corsa che doveva aver fatto per raggiungerlo, con la sciarpa che le dava quell’eleganza tutta francese e gli occhi… gli occhi che lo supplicavano di perdonarla ancora, pur guardando i suoi piedi. Fisso il suo profilo e sentì di non poterla perdere. 
“Ma cosa devo fare io con te?” le chiese stanco, sorridendole appena.
“Me l’hai già chiesto” sorrise lei, tornando a guardarlo piano. 
“Evidentemente non l’ho ancora capito bene”. Alzò un braccio e la attirò a sé, stringendola piano al suo petto.

Passarono qualche minuto in silenzio, a godersi i loro corpi di nuovo a contatto, offuscati dalla nebbia delle confessioni e dalla paura del peso delle stesse. Poi Jared fece un passo verso di lei: “Di cosa si tratta?” le chiese.

“Coordinatrice del settore internazionale dello studio” gli rispose Miriam, felice che lui glielo avesse chiesto, ma ancora impaurita dai lampi di quella tempesta. 
“Una cosa seria”. Jared non riuscì a dosare la sua voce, che si incrinò, ma cercò di darle quello che gli aveva chiesto: un consiglio, una via per decidere, qualcosa di spassionato che andasse oltre l'amore e la loro relazione. Perchè in quel momento si rese conto che se una persona la ami, le stai accanto, comunque.
“Molto, fin’ora ero una qualsiasi”
“Non so darti un consiglio” le disse sincero. 
“Mi basta sapere che mi sei vicino e che accetteresti qualsiasi mia decisione”. 

Jared sospirò ed era tentato di dirle che no, non avrebbe accettato qualsiasi decisione, perché voleva tentare di avere un futuro con lei e in quelle condizioni era impossibile. Però poi capì che l’avrebbe persa, lei e quel suo spirito comunque libero, lei che non si piegava a nulla, lei che era fragile ma aveva i suoi principi, lei che nonostante tutto non era disposta a crollare ai piedi del grande e sexy Jared Leto.
Lei aveva con lui un rapporto alla pari, dove entrambi contavano e contavano parecchio, dove entrambi urlavano e scazzavano, dove entrambi ridevano. E forse era quello il segreto che l’aveva fatto innamorare, dopo anni in cui le donne erano disposte a gettarsi nel fuoco ad un suo solo cenno. Miriam lo faceva sentire completo, vivo. Miriam lo faceva sentire normale.

“Accetterò qualsiasi decisione, e non ti lascerò se deciderai di rimanere qui. A patto che tu non mi nasconda niente” disse alla fine, guardando la Senna davanti a loro. Aveva il terrore che lei avesse già preso una decisione, e non disse altro.

Miriam sorrise e prese il cellulare. Dalla rubrica fece partire una chiamata, senza dire nulla, attese che le rispondessero e poi disse solamente: “Sono Miriam, ciao. Senti, ci ho pensato tanto, offerta rifiutata. Però sono lusingata e felice che tu abbia pensato a me. Ah…" si fermò un attimo a bocca aperta. Poi rispose di nuovo: "Sai che non puoi farlo, dovresti… si, si, senti va bene così, ciao”. Attese qualche convenevole e poi chiuse la conversazione, girandosi verso Jared, che la guardava come se non volesse credere alle sue orecchie.
“Brutta stronza!” le disse, non riuscendo a trovare altre parole. Fintamente offeso ritirò il braccio da dietro le spalle di Miriam. 
“Ci siamo dentro insieme, Jared" rispose lei sorridendo e sentendosi davvero bene. 

Jared la baciò felice e vide chiaramente un paparazzo fotografarli da una postazione privilegiata. Mentre continuava a baciarla, alzò la mano e diede a quel fotografo un’altra esclusiva, oltre all’averlo beccato in flagrante con una donna: il suo dito medio alzato.


Si incamminarono verso una caffetteria per fare merenda e Miriam gli disse quello che ancora non aveva avuto il tempo di dire: “Ah, comunque sono stata licenziata in tronco eh. Cioè io avevo detto che avrei lasciato a fine mese, invece mi hanno dato il benservito da oggi. Devo andare solo a recuperare le mie cose, ma sono ufficialmente una donna libera, squattrinata e libera”
“Ora inizierai a chiedermi il mantenimento”
“Jared Pulciaro Leto, offrimi la merenda almeno”
“Chiama un po’ quel tipo e digli che rimani qui, per favore”
“Scemo!” gli tirò un pugno in petto e si avvicinò a baciarlo. Ormai erano sdoganati, felici, innamorati e immortalati.

Dopo la merenda, tornarono verso l’hotel, che ormai rimaneva il loro porto sicuro, vista la presenza di Kiki a casa di Miriam, e incontrarono Shannon ed Emma che ancora ridevano e bisticciavano con le dodici buste che si portavano appresso.
Aspettarono insieme l’ascensore e Shannon non resistette per neanche due minuti: “Jared, guarda…” prese la chitarrina e iniziò a suonare, degno erede di Santana. O di Tomo, disperso chissà dove. 
Miriam ed Emma scoppiarono a ridere, mentre Jared non riusciva a dire una parola, tanto era lo stupore. E l'emozione. 

“Il primo regalo per tuo figlio?” disse infine, cercando di darsi un tono. 
“Già, bella no!” rispose Shannon esaltato, continuando a suonare, mentre Emma cercava di farlo smettere senza grandi risultati. 
“Si, ne avrà due, però è davvero bellissima, Shan”
“Cosa?”. Shannon lo guardò e smise, finalmente, di strimpellare, più che altro perchè si rese conto che le sue mani erano davvero troppo grandi per quel minuscolo giocattolo. 
“Prima di partire per il tour ne avevo presa una in un negozio di Los Angeles, mi era piaciuta l’idea che il primo regalo da parte di zio Jared fosse una chitarra. Però quella è classica, questa elettrica”
“Mio figlio crescerà con due psicopatici” sentenziò Emma portandosi una mano verso la fronte. Poi li guardò meglio e si commosse: lo sguardo che si stavano scambiando Jared e Shannon era forse il significato di tutta una vita. 
“Nostro figlio sarà fortunato, guarda qua che esempi che avrà” disse Shannon prendendo per le spalle il fratello e mettendosi in posa.
“Stiamo messi bene…” rispose Emma.
“Va bene, signori, ci vediamo per cena? Io mi avvio a cambiare abiti” disse Miriam. E fu lì che successe.
“Miriam, se prendiamo sushi e veniamo da te stasera? Mi hai sempre parlato di questo appartamento bellissimo e voglio assolutamente vederlo” disse Shannon, apparentemente innocuo.
“Oh, si vi prego una cena tranquilla” disse una voce raggiungendoli. Era Tomo, con la faccia tutt’altro che riposata. “Ho girato tutta la città, sono morto e sepolto, ma per il sushi ci sto”
“Ehm, veramente… sapete, non è che non voglia, ma… ho gli operai in casa ed è un vero casino” riuscì ad inventare Miriam, sorridendo appena.
“Ah… lavori in vista della partenza per LA?” incalzò Shannon, sempre più convinto che ci fosse qualche problema segreto, tanto che osservando Jared lo scoprì a cercare palesemente una via di fuga.
“Casa è dei miei genitori e hanno deciso di ristrutturarla ora”
“Non eri in affitto?” chiese distrattamente Tomo. Colpita, affondata, morta e sepolta sul fondale dell’oceano e anche un po’ sbranata dagli squali. Quando diamine gli aveva detto di essere in affitto?
“Affitto o non affitto, casa non è disponibile, mi pare… sushi fuori?” chiese Jared per aiutarla.
“Ok, va bene” rispose Emma. “Fra un’ora qui fuori, va bene per tutti?”. Niente, non riusciva a non dargli ordini, doveva essere sempre al lavoro, piccola tenera Emma.
Shannon annuì e continuò a guardare Jared e Miriam, che erano in evidente disagio. Con una scusa, dopo che Miriam se ne fu andata con un laconico “A dopo”, Shannon tirò per un braccio Jared impedendogli di salire in ascensore, mentre Emma e Tomo non poterono obiettare perché le porte si stavano già chiudendo. Lo trattenne e abbassando notevolmente la voce, disse: “Che cazzo sta succedendo?”
“Shan, ma che…”
“Smettila subito di dirmi stronzate, Jared”

Jared sospirò e si guardò intorno per evitare orecchie indiscrete, poi si decise a parlare.
“Devi essere una tomba, Shan. Kiki è in città ed è ospite da Miriam”
“Che cosa?” urlò lui.
“Tomba, Shan, focalizzati sulla parola tomba!” ripetè Jared preoccupato.
“Si, ok, ma come è in città?”
“E’ piombata a casa sua un mesetto fa, e ha deciso di rimanerci perché qui stava bene. Miriam pensava che venissi da solo, quindi non ha considerato opportuno rispedirla in California, cosa che avrebbe fatto anche senza incentivo se avesse saputo che saremmo approdati qui in formazione completa. Così ora è a casa di Miriam e dobbiamo tenerle nascosto che Tomo è qui, così viceversa”
“Non credi che dovrebbero parlare?”
“Credo che non siano affari nostri, e credo anche che Tomo stia meglio e non gli serva rivederla”
“Le scrive ogni giorno, Jared”
“Lo so, ma non possiamo farci nulla noi”
“Magari…”
“Shan, devi essere muto come una tomba, o ti giuro che ti spacco la chitarra di Mostriciattolo in testa”
“Va bene, va bene…” disse Shannon, alzando le mani in segno di resa.
“Ci vediamo dopo” chiuse il discorso Jared, e mentre saliva sull'ascensore, tornato al pian terreno, si rese conto che non sarebbe stato semplice. E che forse suo fratello non aveva torto. 


 
       


L'angolo di Sissi: heeeeeeeeeiiiiiiiiiiilààààààààà! Come state? :) 
Io molto bene, si insomma se si può star bene dopo aver visto le scalette del LLFD Tour in Sud America. Roba che vorrei sbatterli al muro tutti e tre e accanirmi su di loro. Va beh, lasciam perdere... 

Capitolo in super velocità stavolta, perchè l'ho scritto e ho pensato: perchè aspettare!? 
La situazione si è risolta fra Miriam e Jared, a quanto pare... ammetto che la scena sulla Senna è stata diiiiiiiifficile, ma alla fine, rileggendo è una delle mie preferite. Sapete quando sentite dentro che vi sta scivolando di mano qualcosa e dovete riprenderlo? Ecco, quello ho provato nel scriverla e, anche se non sono solita farmi i complimenti da sola, devo dire che mi è venuta bene. Voi che ne pensate? 
Shannon ed Emma sono come sempre l'amore, ma stavolta ho dato più rilievo alla Bomba ad orologeria (come ama chiamarli Love_in_London_night!), perchè sentivo di dover risolvere qualcosa. Se lo meritano, povere anime e a volte mi commuovo anche io. Poche volte, ma capita! 
Tomo è messo un attimo in secondo piano. Capirete perchè, oh se capirete. 

Questo capitolo è interamente dedicato alle mie Shangirls, loro sanno perchè, e in parte è merito/colpa loro anche dell'aggiornamento velocissimo di questa volta. A loro dico solo una cosa: 
of love
. Certa che capiranno e mi odieranno! 
Come sempre ringrazio davvero tutti i miei lettori, silenziosi e non, e vi dico che le visualizzazioni stanno raggiungendo livelli inaspettati, quindi: GRAZIE di cuore, tesori! :) 

Ci sentiamo settimana prossima, se volete tirarmi pomodori o dirmi che ho rotto le palle, potete sempre farlo. Ma ricordate che sono una persona sensibile. Più o meno. 

Bacini, arcobaleni ed unicorni per voi! 

Sissi 


 

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Capitolo 25
*** Evidentemente siamo destinati solo a questo, questo ci riesce bene ***


Evidentemente siamo destinati solo a questo, questo ci riesce bene
 


Un’ora esatta dopo erano tutti fuori dall’hotel, pronti per una cena a base di sushi. L’aria era bellissima e Parigi regalava sempre emozioni, sembrava che tutto fosse perfetto e Jared sperava veramente che Shannon l’aiutasse, visto che ormai era consapevole dello scabroso segreto. Quello che ruppe l’incantesimo fu una telefonata di Miriam a Jared.

Jared rispose serenamente, ma la voce di MIriam lo assalì: “Jared, qualsiasi cosa ti dica tu sorrida e non fare espressioni strane”
“Si, Parigi è bellissima!” sorrise lui, guardando il cielo e fingendo, come gli era stato chiesto. 
“Bravo, ti candiderò per il secondo Oscar” disse, poi lanciò la bomba: “Dunque, ho perso equilibrio sulle scale e sono caduta, sono intera, ma mi fa male una caviglia e sono pericolosamente in ritardo. Inventa una scusa e dì che io non verrò, poi dopo cena, con uno stratagemma raggiungimi a casa”
“Che bellissima idea, Anastasia, d’accordo”
“Che classe. Potevi evitare di chiamarmi come la gentil donzella che ti facevi” sibilò Miriam. 
“Eh ma dovresti saperlo che il lupo perde il pelo ma non il vizio”
“Jared Leto ti spezzo le gambe, anzi ti strappo tutti i capelli shatushiati che ti ritrovi in testa!”
“Sempre delicata”
“Si va beh, dopo ne parliamo…”
“Ti chiamo allora, ciao”
“Ciao, idiota”.

Jared attaccò il telefono sorridendo e tutti lo guardarono con un’espressione molto eloquente sul viso: “Jared, perché Anastasia ti chiama ancora?” iniziò Emma. 
“Ma soprattutto perché tu ci dialoghi in maniera così ambigua?” aggiunse Shannon, subito seguito da Tomo che tentò di aprire bocca, ma venne bloccato dalla mano di Jared, sollevata a mezz’aria.
“Ma direi anche: perché non vi fate un po’ gli affari vostri?” li zittì in un attimo, prima di aggiungere: “Comunque, ho sentito Miriam, prima in camera, e mi ha detto che purtroppo non può venire a cena con noi, dice che ha problemi e non può lasciare casa, non ho capito bene…”. Un’interpretazione perfetta, non c’era che dire.
“Dai, no che peccato” si lamentò Emma.
“Ora capisco perché parli con Anastasia…” lo prese in giro Tomo, prima di prendersi uno scappellotto da Emma stessa, che lo guardò torvo.
“Si, d’accordo, andiamo?” chiuse il discorso Jared, facendo finta di essere seccato e iniziando a camminare. 
Ma quando li aveva ormai superati di qualche passo, una voce lo immobilizzò: “Jared, scusami ma andiamo noi da lei! Si prendiamo del sushi da qualche parte e le facciamo un’improvvisata!” disse Tomo.

Tomo e le sue idee. Ma perché mai non radeva a zero quella sua galanteria? Perché per una volta non si divertiva a fare lo stronzo e via? Jared sospirò, guardando Shannon in cerca di aiuto.
Il maggior Leto però era convinto che Tomo dovesse parlare con Kiki, quindi non proferì parola per aiutare il suo fratellino a cavarsela: distolse lo sguardo e lasciò Jared a cavarsela da solo. 

“No, Tomo, non credo sia una bella idea. Alla fine potrebbe aver da fare” disse solamente Jared. 
“Ma scusa partiamo fra pochi giorni, non vuoi stare con lei?”  
“Evidentemente la cosa non è reciproca, amico. Dai, andiamo” rispose Jared. Perfetto assist per fare un po’ la vittima e forse risolvere la cosa. Non aveva fatto i conti con la testardaggine del suo amico. 
“Dai, ragazzi voi che ne pensate?” continuò Tomo, rivolgendosi a Shannon ed Emma. 
“Per me è una bella idea” disse Emma, prendendo sotto braccio il croato per andare in cerca di un sushi take away, senza neanche aspettare altre risposte: non c'era niente da fare, quando quei due si mettevano in testa una cosa non c’era proprio scampo. Avrebbero potuto governare il mondo, insieme.

“Che cazzo facciamo, Shan?” sibilò Jared, trattenendo il fratello dal seguire la coppia delle idee cretine.
“E che vuoi fare? Avvertila e prega” rispose fatalista Shannon.
“Sei sempre di grande aiuto, proprio un premio dovrebbero darti”
“Senti, ma potevi evitare di chiamarla Anastasia però” ridacchiò Shannon. 
“Smettila di prendermi per il culo, siamo sull’orlo di un casino che neanche ti immagini. Inizia a preparare le braccia per tenere ferma la iena quando si scaglierà su di me”
“Dai, andiamo” lo spinse Shannon, sorridendo del panico che si stava disegnando sul volto di Jared.

Li seguirono fino ad un ristorante, ordinarono praticamente tutto il menù e rimasero nel salottino in attesa. Qualche fan aveva chiesto foto e autografi e Jared era particolarmente scocciato per concedersi, così Tomo aveva finito per essere il salvatore delle cose, come sempre.
Il telefono di Miriam era sempre staccato, e Jared iniziava a meditare il suicidio, almeno sarebbe morto senza le sofferenze che Miriam gli avrebbe sicuramente riservato fra pochissimo tempo.

“L’hai chiamata?” si informò Shannon, non dando nell’occhio.
“No, ha il telefono staccato”
“Chiamala a casa”
“E il numero me lo invento, Shan?”
“Skype?”
“Staccato”
“Merda”
“Ecco, così impari ad essere fatalista. Stai pregando?”
Shannon non rispose e tornò da Emma, che aveva notato strani discorsi fra i fratelli e che aveva un radar per le situazioni difficili.

Non appena il sushi fu pronto, Tomo prese le buste e allegramente uscì dal ristorante: dove diamine l’aveva presa tutta quell’allegria? Era stato il ritratto dell’incazzatura perenne per mesi, ed ora, proprio ora, era tornato ad essere normale? Roba che in tour per farlo uscire a cena serviva l’invito ufficiale e pure qualche bodyguard a spingerlo fuori dalla stanza a calci!
“Dunque, dove si va, Jared?” chiese sorridendo.
“Per di qua” disse scontroso, continuando a sperare che Miriam rispondesse, ma niente non c’era speranza.

Jared optò per una bella camminata ristoratrice, sostenendo, forse troppo energicamente, che Parigi era troppo bella per prendere la metro e che in quel modo avrebbero gustato meglio la cena. 
Così, camminarono prendendo più tempo possibile, cercando di rallentare davanti le vetrine, facendo finta di sbagliare strada, con il risultato che ci impiegarono almeno quarantacinque minuti ad arrivare al palazzo di Miriam, con Tomo che malediva i fratelli ed Emma che si insospettiva sempre di più.


Una volta arrivati a destinazione, Emma si avvicinò al portone, cercando il nome di Miriam per citofonare, ma Jared la bloccò: "NO! Dai, la chiamo e le dico che siamo qui, così la sorpresa riesce meglio!" inventò sul momento, facendo partire l'ennesima chiamata.
Gli altri, pur rimasti abbastanza perplessi da quel comportamento di Jared, accompagnato da toni della voce particolarmente striduli, acconsentirono e lo guardarono, mentre lui, di spalle, imprecava il mondo.  

Dopo qualche minuto di attesa inutile, Tomo lo richiamò all’ordine: “Va beh, suoniamo” sentenziò, e si avvicinò, premendo il campanello, prima che Jared potesse vietarglielo. 

Jared già si vedeva morto nella tomba, con i fiori intorno e i suoi capelli ordinati e pettinati. Si coprì la faccia con una mano e sperò, pregò, implorò, che rispondesse Miriam.
“Si?” la sua voce. Bene, forse aveva ancora una chance di sopravvivere. 
“Francesina, cena a domicilio!” esclamò Tomo, allegro e pimpante. Jared avrebbe voluto spezzargli le ossa. Tutte. 
“Tomo?” rispose la sua voce incredula. Jared guardò oltre e fu sicuro che no, non sarebbe sopravvissuto: legno chiaro o scuro per la bara?
“Certo, ci siamo tutti in realtà! Ci apri?”. Jared tornò a guardare il palazzo: vestirsi di bianco per il tuo funerale può andare bene?
“Si, un momento solo”. Jared chiuse gli occhi: e la corona sarebbe stata troppo eccessiva, vero?
Il citofonò scattò e Tomo aprì il pesante portone per lasciare che tutti entrassero. Jared mosse un passo: niente fiori, solo opere di bene. Poi varcò la soglia.

In ascensore, mentre Shannon, seppur preoccupato, pensava che fosse giusto così e che si sarebbe finalmente trovato un epilogo a quella storia infinita, Jared continuava ad organizzare il suo funerale. Forse avrebbe potuto chiedere ad Emma di occuparsene, pensò, sentendo l'ascensore assestarsi al piano. 

La porta era ancora chiusa, e Tomo suonò di nuovo il campanello. Piano si aprì e Miriam Datemi Jared Voglio Ucciderlo, si presentò con un sorriso tirato che neanche le dive di Hollywood con troppo botulino in faccia.
“Che bellissima sorpresa!” esclamò, forse troppo esaltata, non togliendosi da davanti la porta ed ostacolando l'ingresso.
“Possiamo entrare?” disse Tomo, poi aggiunse, sbirciando dietro l’esile figura di Miriam: “Ma gli operai sono pulitissimi in Francia?”
“Eh… gli operai… venite pure”. Ormai il danno era fatto, era inutile tergiversare: si scansò e li fece accomodare. 
Entrarono ad uno ad uno, Jared, per ultimo, quando varcò la soglia tentò di scusarsi con il labile e l’unica cosa che ricevette fu un pugno sui reni. Ecco, la sua fine stava per iniziare.


“Non sono sola” mise le mani avanti Miriam, anche se in casa non si sentiva alcun rumore.
“Credo che il sushi basterà per tutto il palazzo, volendo” rise Emma per tranquillizzarla, togliendosi la pashmina e osservando l’elegante appartamento.
In effetti era chiaro che non ci fosse traccia di operai e la sagacia della donna le suggeriva che quella che si stava rivelando una bugia fosse strettamente correlata con il comportamento strano di Jared e, forse, anche con il suo incessante parlottare con Shannon. Tuttavia non disse niente, continuando ad osservare la situazione. 


Miriam era nel panico e avrebbe solamente voluto avere lo scalpo di Jared, in quell'istante, per sua stessa mano ed operazione. Sorridendo tirata, cercò di salvare il salvabile: “Tomo, senti, poggia la busta in cucina, è quella porta bianca davanti a te”. Lui eseguì sorridente e si avviò verso la porta indicatagli.

“Che cazzo hai combinato?” sussurrò inviperita verso Jared, non appena Tomo fu entrato in cucina. Non si preoccupò che Emma e Shannon sentissero, l’emergenza era un’altra.
“Senti, non è colpa mia…”
“No, è mia infatti" rispose sempre più adirata, cercando di tenere il tono della voce basso. "Che facciamo ora?” continuò poi. 
“Calmatevi…” intervenne Shannon.
“Shan, tu non sai” lo zittì Miriam, pensierosa e preoccupata.
“Si, io so, invece”
“Ah di bene in meglio. Leto, tu sei morto” lo minacciò Miriam puntandogli un dito contro. Jared pensò che in realtà ne era certo da almeno un’oretta e più, ma non era il caso di dirlo, così tacque.
“Volete spiegare anche a me, per favore?”. Emma si inserì in quel discorso senza senso. “Perché state tutti bisbigliando?”
“Emma…” iniziò Miriam, ma non fece in tempo a finire, perché una voce dal corridoio squillò.
“Miri, chi era alla porta?”. Panico. Tutti tacquero ed Emma pensò che fosse uno scherzo, un incubo, qualcosa di simile ad una tragedia greca. Dalla cucina arrivò il rumore sordo di qualcosa lasciata cadere e tutti capirono che Tomo aveva sentito. E soprattutto riconosciuto.
 
“Voi…” iniziò Kiki, guardandoli in accappatoio rosa e capelli bagnati. Aveva la bocca aperta e l’espressione stupita, ma non era niente, ancora.
“Kiki, non ti ho detto che erano qui?” tentò Miriam, per recuperare.
Shannon si lanciò verso la cucina, ma non in tempo, perché Tomo si presentò in quel momento sulla soglia della porta, rimanendo fermo ad osservare la donna che aveva cercato per mesi.

Kiki girò la testa e lo vide: si pietrificò all’istante, come se lui avesse il potere di farla diventare di cemento armato.
Nessuno disse niente, Jared non voleva guardare e si era coperto gli occhi con la mano, Miriam sentiva che presto si sarebbe scatenato l’inferno e Shannon tentò di placcare Tomo che era l’unico capace di muoversi e aveva fatto un passo verso Kiki.

“Tomo…” gli disse, posandogli una mano sul petto, come a volerlo fermare.
“Lasciami stare Shan” sibilò guardando fisso la figura di Kiki avvolta dalla spugna rosa, oltre Shannon.
“Non ti avvicinare” gli intimò lei, non riuscendo però ad andarsene. Aveva le lacrime agli occhi, ma il suo corpo non reagiva a nessun impulso.
“Tu sei stata qui per tutto questo tempo?” le chiese incredulo. Improvvisamente era tutto dissolto: gli amici, il sushi, la casa. Tutto: erano solo loro due, con i demoni e le sconfitte. E una voglia di urlare che avrebbe potuto svegliare il mondo intero. 
“Non sono affari tuoi di dove io sia stata” gli rispose, cercando di sembrare dura.
“Cazzo, Kiki pensavo fossi morta, ero preoccupato!” le urlò contro, sentendo la frustrazione di mesi diventare rabbia in un attimo.
“Dovevi pensarci prima, caro mio”. Ora urlavano entrambi e gli spettatori di quella scena pietosa non sapevano come intervenire e soprattutto se fosse il caso di intervenire.
“Ragazzi, è il caso che vi diate una calmata, magari potete parlarne con calma di là, da soli, che ne dite?” tentò Emma, mediatrice nata ed esperta di diplomazia dati gli anni in cui aveva dovuto tenere a bada i litigi della band.
“Io non ho niente da dire a lui. Né a te, Miriam, mi fidavo” sibilò Kiki con le lacrime agli occhi. Fuggì, perchè era l'unica che in realtà sapeva fare: non affrontare le cose e andare via. Lasciando in eredità il nulla. 

Miriam la chiamò disperata e la seguì, riuscendo ad entrare in camera prima che lei serrasse la porta. La vide camminare su e giù per la stanza e rimase ferma accanto all'uscio, ormai chiuso: 
“Io non sapevo che sarebbero venuti tutti insieme, me li sono ritrovati in aeroporto ieri. Che dovevo fare? Dirti che era qui?”
“Si”
“Ho pensato che avrei retto la cosa per qualche giorno e stop, pensavo di fare una cosa giusta per te, scusami”
Sentirono bussare alla porta e Kiki iniziò a piangere chiedendo a Miriam di non farlo entrare, come se fosse in preda alla mancanza di aria. Invece era Emma, che mise piano la testa dentro chiedendo il permesso di entrare. Miriam guardò Kiki che annuì piano ed Emma si infilò nella stanza cercando di essere discreta.
“Kiki, tesoro, come stai?” le chiese, incredibilmente dolce. Emma non aveva mai approvato del tutto quella relazione, e credeva che Kiki fosse niente più che una bambina, ma come ogni donna davanti ad una propria simile in crisi, aveva sviluppato un’empatia particolare ed ora voleva solo aiutarli a risolvere quella situazione.
“Fino a mezz’ora fa quasi bene, direi”
“Non sapevamo che fossi qui, ti avremmo aiutata altrimenti” tentò di scusarsi Emma, toccandole la mano che lei ritirò subito. Non sapeva perché, ma colpevolizzava tutto il mondo di Tomo.
“Avevo chiesto a qualcun altro di aiutarmi” disse.
“Kiki, ti ripeto che io avevo organizzato tutto nei minimi dettagli” rispose Miriam, iniziando a scocciarsi di questo atteggiamento da bambina di Kiki. Ok, era stata mollata, ma era adulta, poteva anche comportarsi di conseguenza.

Nel salotto, nel frattempo, Tomo strepitava per vederla: erano mesi che la cercava ovunque, ed ora era a due passi da lui, doveva parlarle.
“Tomo, calmati, non vuole vederti, basta” cercò di calmarlo Shannon.
“Devo parlarle, Shan”
“No, non devi, devi lasciarla stare”
“Devo sapere se sta bene”
“Si, sta bene, l’hai vista, sta bene, basta andiamocene”
“Tomo, ha ragione Shan” intervenne Jared, calmo, tenutosi fino a quel momento lontano dalla bagarre.
“Zitto tu, hai sempre saputo che era qui” gli risposto Tomo, fulminandolo con lo sguardo. Non era vero, in realtà, perché Jared aveva saputo che Kiki era andata a Parigi quasi un mese prima, e poi Miriam non aveva più detto niente. Ma forse a Tomo interessavano poco i particolari.
“No, per niente. L’ho saputo ieri sera”
“Dovevi dirmelo” gli sibilò contro, guardandolo duramente.
“No, Tomo, non dovevo perché Miriam mi ha detto che Kiki non voleva vederti e già così rischio l’uccisione in pubblica piazza”
“Lei è qui da mesi ed io l’ho chiamata tutti i giorni, tutti i santissimi giorni senza ricevere neanche un cazzo di messaggio in cambio! E Miriam, che faceva tanto l’amica, sapeva benissimo tutto e non ha pensato di chiamarmi e dirmi niente” urlò, per farsi sentire. La sua voce arrivò distintamente nella camera da letto, dove Emma e Miriam cercavano di far ragionare una Kiki che sembrava in preda ad attacchi di panico. Miriam alzò gli occhi al cielo pensando che era davvero stanca di sentirsi responsabile per tutti: che se la vedessero loro, santa pace!
“Tomo, andiamocene ti prego. Più tardi, con calma, forse potrai parlarle” tentò Shannon, ancora una volta.

In quel momento Kiki uscì dalla stanza e arrivò nel salotto. Rimase ferma sulla soglia della porta a guardarli, era fragile, incredibilmente piccola, ma fissava Tomo con determinazione.
“Shannon, Jared, potete lasciarci soli”. Non era una domanda, era una richiesta esplicita. I fratelli si guardarono, credendo che non fosse il caso, non perché Tomo avrebbe potuto fare chissà cosa, ma perché avrebbero semplicemente potuto peggiorare le cose.
“Kiki, credo sia meglio…” iniziò Jared.
“Lasciateci soli” sibilò di nuovo lei, fissando Tomo. Aveva fissato solamente lui per tutto il tempo.
Shannon allungò un’occhiata a Tomo e gli diede una pacca sul petto, prima di allontanarsi, prendendo Jared per il braccio. Miriam, che era spuntata dietro Kiki con Emma, prese le chiavi di casa e invitò gli altri ad uscire, lasciando Tomo e Kiki lì, soli, nelle stesse posizioni che non riuscivano a cambiare di un millimetro.
“Facciamo due passi” annunciò solamente, convinta che nessuno dei due avesse sentito, poi chiuse la porta e sospirò chiudendo gli occhi. “Jared, se succede qualcosa, io ti ammazzo”.
Senza guardarlo iniziò a scendere le scale, non sentendo neanche più il dolore alla caviglia per quell’incidente di poco prima, che aveva creato tutto il caos. Jared pensò che dalla certezza della sua uccisione si era passata ad una possibilità, ed erano fortune.


“Eri qui per tutti questi mesi” le disse pianissimo Tomo. Per sentirlo chiunque avrebbe avuto bisogno di una ripetizione, ma Kiki sembrava aver udito distintamente ogni sillaba. La sua rabbia sembrava scomparsa, ora che ce l’aveva davanti, sembrava solo volerla afferrare e proteggerla. E si odiava per questa sensazione, lui che l’aveva scacciata mesi prima.
“No, sono arrivata meno di un mese fa”
“Perché non mi hai mai risposto?”
“Se ti impegni credo che tu possa arrivarci da solo”
“Sei arrabbiata?”
“Sei tanto bravo con la musica quanto sei incapace nel fare domande giuste”
“Smettila di essere così, Kiki”
“Così come, scusa? Illuminami su, come dovrei essere?”. La voce di Kiki si fece improvvisamente più dura, come se avesse deciso di non giocare più, di non ascoltare più nulla.
Allargò le braccia e trattenne le lacrime, sperando solo che lui le si avvicinasse e la stringesse al petto. Ma niente di tutto quello che voleva accadde.

Tomo la guardò adirata, visibilmente cambiata, nell’aspetto e nella voce. Ma quello che gli pesava di più era non vedere la sua luce negli occhi, il suo sorriso sulle labbra. Prese coraggio e le aprì il cuore: “Kiki, ascoltami… mi dispiace, non volevo trattarti così, né volevo che finisse così, ma io sono confuso, sto male e quando mi sei piombata lì a sorpresa sono scoppiato. Non volevo dire quel che ho detto, volevo solamente prendermi del tempo per me, per pensare, per non farti male”
“Applausi, Tomo, mi hai semplicemente annientato. Farmi male sarebbe stato il meno”
“Cerca di capire, cazzo! Mia moglie è incinta di un altro uomo, mi ha mandato in crisi, dici che è tanto strano? E poi c’eri tu, che eri così presente, così fresca, così innocente, che io… io… io non ce l’ho fatta”
“Dovevi pensarci prima”
“Si, avrei dovuto, ma non l’ho fatto e ho solamente cercato di chiederti del tempo”
“Non fare la vittima”
“Non lo sto facendo, Kiki. Sto solamente cercando di dirti che mi dispiace, ma le cose non sono sempre bianche o nere, le cose a volte hanno sfumature e scusami se non riesco a gettare al mare il bagaglio di vita che ho condiviso con mia moglie”. Ora era adirato, urlava. Non avrebbe voluto, ma il comportamento di Kiki non lo aiutava e lui non sapeva più come avvicinarla a sé per avere una chance che lei lo capisse.
“Mi pare che quando mi scopavi non ti preoccupavi del prezioso bagaglio di vita che hai condiviso con tua moglie” gli rispose. Era sprezzante, acida, arrabbiata e sarcastica e disse le sue stesse parole fingendo delle virgolette in aria con le mani, cosa che rendeva il tutto estremamente buffo.
“Io non ti ho mai scopata”. Era l’unica cosa di cui era certo ed era forse l’unica cosa che voleva lei capisse.
“Ah no? Ma davvero? Ma pensa tu cosa si scopre in una serata parigina…”
“Kiki, non ti ho mai scopata” disse più duramente.
“Ed invece si, Tomo! Io sono sempre stata una sola scopata per te, quella che ti apriva le gambe facile, che non chiedeva e ti faceva divertire. Fino a che si trattava di fare avanti ed indietro con San Francisco per il sesso andava bene, vero? Era tutto semplice, tutto meraviglioso ed eccitante. Appena si è paventata qualcosa di diverso allora è uscita la crisi, i problemi, la confusione. Ma fottiti, Tomo!” gli disse urlando, pregando le sue lacrime di non uscire per non dargli quella soddisfazione. Poi aggiunse: “Che io manco ti ho chiesto niente, ero venuta a Roma per vederti e basta, non per sposarti o chiederti un figlio, idiota”.
“Stai sbagliando e lo sai benissimo. Tu per me sei importante, ma non riesco a lasciarmi andare ora. Credi che se avessi voluto una scopata facile per togliermi dalla testa i problemi del mio matrimonio, l’avrei cercata in te, l’avrei portata avanti per mesi, avrei lasciato mia moglie? Oppure l’avrei cercata a Los Angeles, magari cambiandone una a sera. Per fortuna o no, Shannon e Jared hanno le agende piene di modelle in grado di darmi quello che dici tu”
“Tu non hai lasciato tua moglie per me, Tomo”
“Forse no, ma credevo davvero che avrebbe potuto esserci un futuro per noi. Io quella serata a Capodanno ci credevo davvero” le disse debolmente, non arrivando a capire quanto quelle parole potevano spezzarla ancora.
“L’hai detto tu che non ci credevi in noi, cos’è ora? Hai cambiato idea? Troppo volubile, chitarrista”
“Parlare con te è impossibile”. Si girò di spalle e poggiò le mani ai fianchi, cercando un’idea, qualcosa che lo aiutasse. Ma aiutasse a fare cosa? Non lo sapeva neanche lui. Non sapeva se la rivoleva o no, non sapeva niente in quel momento.
“Infatti non mi pare che abbiamo mai parlato” gli rispose, avvicinandosi per la prima volta a lui, pericolosamente. Tomo la sentì dietro le spalle ed ebbe l’istinto di stringerla a sé, ma non il coraggio. Poi Kiki fece una cosa incredibile: si tolse la maglia, poi i jeans, rimanendo solo in intimo e lo aggirò, costringendolo a guardarla.
“Evidentemente siamo destinati solo a questo, questo ci riesce bene” gli disse suadente, trovando la forza chissà dove.
“Vestiti” sibilò lui, eccitato dal suo corpo.
“Scopami”
“Io non ti scopo”
“Che ti prende? Sono sempre io, la tua bambolina sexy, non mi riconosci?”
“Smettila, Kiki, ti stai rendendo ridicola”
“Sei tu che sei ridicolo. Guardati, sei eccitato come non mai e vuoi anche farmi credere che ero importante per te, ma finiscila tu”. Detto ciò prese i suoi vestiti da terra e se li infilò con calma, sapendo di aver giocato molto sporco, ma credendo che Tomo meritasse anche peggio.
“Ora, per favore, puoi andartene” gli disse glaciale.
“Kiki… ti prego”
“Stai pregando? Musica per le mie orecchie, ma no, credo che non ti perdonerò almeno fino a quando il sole continuerà a sorgere. Intercedi con Dio, se puoi”. 

Tomo era uscito decisamente sconfitto da quella discussione, Kiki l’aveva distrutto con poche e mirate parole, come se si preparasse quella vendetta da tempo.
Lui era umiliato e decise di andare via senza aggiungere altro, sperando che un giorno Kiki fosse disposta a discutere davvero, ad ascoltare davvero le sue parole.


Non appena Tomo fu uscito, e la porta si fu chiusa, Kiki si accasciò a terra e scoppiò a piangere, soffocando i singhiozzi con una mano davanti la bocca per non farli sentire a lui, che forse era ancora lì, dietro la porta.
Era stata brava, era stata forte, aveva dimostrato superiorità e vantaggio, aveva fatto credere di essere algida e totalmente priva di qualsiasi forma di dolore, ma ora che era sola poteva smettere di mentirsi: ritrovarsi nella stessa stanza con lui, dopo mesi, l’aveva provata psicologicamente e fisicamente.
Sentiva un dolore acuto allo stomaco, le veniva da vomitare, le tremavano le gambe, la testa era leggera e vuota. Era riuscita a portarsi a casa quella battaglia, ammesso che servisse a qualcosa davvero, ma ora sentiva tutto il dolore di quei mesi piombargli di nuovo addosso, e quei pochissimi passi in avanti che aveva fatto erano svaniti nel nulla.
Rimase a piangere per terra per un tempo infinito, voleva chiamare Miriam, ma non voleva disturbarla e comunque non voleva farsi vedere così.
Si sentì soffocare all’idea che Tomo fosse in quella città: era riuscita a trovare una piccola dimensione, tanto che aveva pensato di chiedere a Miriam di lasciarla vivere lì ancora un po’, aveva addirittura pensato di chiederle di lasciarla a vivere lì per sempre, anche se lei si sarebbe presto trasferita a Los Angeles. Era felice per l’amica, ma non voleva tornare in California, così quando Miriam le aveva confessato il suo progetto, lei aveva pensato semplicemente di chiederle se poteva rimanere lì in casa sua, anche senza di lei. Non sapeva se fosse davvero una buona idea, e sapeva che stava mandando a puttane anni di lavoro e studio, ma in quel momento lei lì si sentiva quasi bene, e quella era l’unica cosa che le interessava.


Ma ora neanche più quella città poteva rassicurarla, ora Tomo le aveva tolto anche quello: lo odiava con tutta se stessa. 


 
       
 
L'angolo di Sissi: Ciao a tutti!!! 
Presa da momenti di sconforto per l'esame imminente, ieri sera appena tornata da una festa, ho scritto il capitolo che, immagino, aspettavate tutti con ansia! Va beh, forse sto esagerando... 

Comunque, FINALMENTE Tomo e Kiki si incontrano. O meglio dire, si scontrano: che ne pensate? Ve lo aspettavate così? Speravate in qualcosa di diverso? Siete felici che sia andata così? Ma sopratutto... è davvero finita!? 
In realtà avrei voluto essere leggermente più buona, ma credo che dopo mesi sarebbe stato poco veritiero un ripensamento così repentino, quindi ci ho messo il carico da undici.

Ne approfitto per dirvi che la prossima settimana sarà un pò pesantuccia, quindi non so quando riuscirò ad aggiornare... so che vi lascio in una situazione un pò del cavolo, ma prometto che mi farò perdonare! 

Non mi sembra di avere nient'altro da aggiungere, se non che (come sempre e come un disco rotto) vi ringrazio dell'affetto: questa settimana il primo capitolo di The Convergence ha raggiunto le
1200 visualizzazioni e questa cosa mi lascia proprio a bocca aperta!!! 

Tanti abbracci e baci! 


Sissi
 
 

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Capitolo 26
*** Io sapevo che saresti stata mia per sempre ***


Io sapevo che saresti stata mia per sempre


“E’ arrivata qui circa un mesetto fa, ma non mi aveva chiamata, né avvertita, io non la sentivo da febbraio. Una sera qualcuno ha citofonato e me la sono trovata davanti la porta, dimagrita e triste. L’ho accolta in casa e da quel momento non se ne è più andata, ha trovato lavoro come cameriera e il giorno gira Parigi, va per musei, legge libri nei parchi, insomma fa una vita strana ed io non le ho mai detto nulla, per quanto credo che stia buttando via troppe cose importanti” raccontò Miriam agli altri, seduti in un caffè.
“E sta meglio da quando è qui?” chiese Emma, mescolando la sua cioccolata.
“Si, moltissimo. Giorno dopo giorno sembrava aver trovato una sua piccola dimensione ed io ne ero molto felice, per quanto cercassi sempre di farla ragionare. Senza grandi risultati però”
“Spero che stiano chiarendo le cose, quei due” sospirò Emma, lasciandosi andare sul divanetto che li ospitava e che era davvero accogliente.
Si erano fermati in quel caffè dopo aver camminato un po’, parlando di tutto e di nulla, incapaci tutti di affrontare l’argomento importante. Avevano preso qualche dolce per mangiare qualcosa e avevano iniziato a parlare di Kiki e Tomo, ed erano passate più di due ore, ma nessuno si faceva vivo. Stavano ingannando il tempo come potevano e tutti e quattro erano abbastanza giù di corda.


“Io credo che Kiki abbia sbagliato quanto Tomo” disse all’improvviso Jared, girando distrattamente il cucchiaino dentro la sua tazza di thè alla vaniglia. Non aveva aperto bocca da quando erano usciti di casa, l’idea che Miriam lo uccidesse l’aveva abbandonato, anche se continuava a chiedersi cosa gli avrebbe detto quando si fossero finalmente trovati soli.
“Scusa?!” chiese Miriam incredula. “Lui la molla e la colpa è di Kiki? Mi interessa la questione” gli disse, girandosi verso di lui e assumendo un’espressione abbastanza eloquente: nessuno poteva parlar male della sua amica, men che meno Jared e Shannon, pensava, che erano amici di Tomo. Lo stesso Tomo che l’aveva distrutta. 
Jared era abbastanza stufo della tiritera: era convinto che Tomo non fosse stato un gentiluomo, ma nessuno era andato oltre, tutti si erano arroccati sulla difesa di Kiki e basta. E lui non era stato da meno. Sospirò perché sapeva che avrebbe dato spunto ad una nuova battaglia e con tutta la calma di cui era dotato spiegò: “No, Miriam non ho detto che la colpa è di Kiki, dico solamente che anche lei ha sbagliato”.  
“Ed in cosa, di grazia?” continuò Miriam, sempre più arrabbiata. Era sconvolta: non solo aveva lasciato che la tragedia si abbattesse su di loro quella sera, ma ora dava anche a Kiki colpe che sicuramente non aveva.
“Dico solo che Tomo era in crisi, e ci poteva stare, viste le recenti rivelazioni, e lei non ha pensato un attimo di fermarsi e cercare di stargli accanto. E’ possibile che in una coppia ci sia un po’ di stanchezza, di problemi, la soluzione non è andarsene senza farsi più vedere né sentire per mesi, Miriam” rispose Jared, un po’ meno tranquillo, fissando la sua tazza di thè.
Era un’analisi completa e abbastanza cinica, ma che nascondeva una verità che nessuno aveva avuto mai il coraggio di pensare. Kiki era stata dipinta come vittima della storia, ma in realtà non aveva avuto il fegato di rimanere lì, prendersi le botte e cercare di rialzarsi per dimostrare che Tomo davvero contava qualcosa per lei. Aveva preferito fare l’animale ferito e scappare via, rendendosi irreperibile. Sembrava strano, ma Jared non aveva poi così torto.


Guardò fuori dalla finestra e vide Parigi illuminata per loro: era così complicato rimanerci dentro anche quando le persone ti prendono a schiaffi? Era questa la domanda. Ed era così inaspettata che nessuno seppe dare una risposta. Ma a Jared, in fin dei conti, non importava, sentiva solo l’impulso di difendere un amico, che aveva fatto una cazzata, che stava pagando come se avesse ucciso un uomo.

Nel silenzio del tavolo, Emma tentò un ultimo disperato salvataggio della situazione: “Jared, ma per una donna non è facile sentirsi dire che il tuo uomo non crede in quello che avete”. Sorrise quando Jared alzò gli occhi a guardarla: lei forse era l’unica che poteva dirlo, perché sapeva molto bene di cosa stavano parlando. Lei gli schiaffi li aveva presi, lei ricordava ancora quando… smise di pensarci e subito cercò la mano di Shannon sotto al tavolo per sentirne il calore.
“Emma, non dire stronzate: se con una persona ci vuoi stare, ci stai nonostante tutto, anche se quella persona ti caccia. Quando sei rimasta incinta Shannon ti ha trattata di merda, perché è un cretino e lo sappiamo, eppure mi pare che siete riusciti a risolvere le cose e siete ancora qui, o sbaglio? Mi pare che tu abbia tirato fuori le unghie e ti sia ripresa quello che era tuo, non hai solo pianto cercando la pietà di tutti. Io me lo ricordo: eri ferita e so che anche quando è tornato non l’hai abbracciato e basta, però sei rimasta, non te ne sei andata, non gli hai permesso di rovinare tutto. Tu hai lottato, Emma” le disse Jared, guardandola negli occhi e puntandole il dito contro, alzando di troppo il tono. Si pentì, ma si rese conto di aver detto a voce alta quello che Emma aveva solamente pensato ed ora, fissandola con quei suoi occhi azzurri che Miriam ancora non aveva imparato a controllare, vide che era serena e la ammirò come forse non aveva mai fatto davvero.

Tutti tacquero, Shannon voltò lo sguardo verso la finestra del locale, irritato dalla descrizione del fratello e vergognandosi ancora di come avesse reagito alla notizia, molti mesi prima.
“Hai ragione, Jared, ma non siamo tutte così. Alcune preferiscono scappare per orgoglio, carattere, o semplicemente per non farsi troppo male” rispose semplicemente Emma.
“E va benissimo, ma non venitemi a dire che il mostro è solamente Tomo, perché non ci sto” sentenziò Jared, che ora sembrava irritato.
“Hanno sbagliato entrambi, ma ora credo che debbano risolversela da soli” disse Shannon, trovando finalmente la parola. 

Finirono di mangiare i loro dolci in silenzio, prima che Jared chiedesse a Miriam di andare via: “Voglio sentire come sta Tomo, vieni con me?” le disse.
Sembrava più una formalità da fare, qualcosa da dover dire per forza, che una richiesta vera e propria; Miriam si sentì leggermente messa in secondo piano, ma tacque e annuendo solamente si alzo, infilando la sua giacca e salutando velocemente gli altri. Uscirono nella notte parigina, ma chiunque avrebbe potuto vedere che erano distanti: persi nelle loro ideologie diverse, divisi fra due amici che si erano, forse, amati, ed ora avevano preso a farsi la guerra.


Dopo qualche minuto di cammino, mentre Jared tentava di chiamare Tomo invano, Miriam gli prese la mano e lo attirò a sé, stringendosi al suo petto. Non disse niente, ma cercò di emanare il calore necessario a dire: sono qui.  

Emma e Shannon rimasero soli in quel caffè, a finire le loro consumazioni e a fare assolutamente nulla. Shannon ruppe il silenzio, dopo qualche minuto: “Sono stato uno stronzo, vero?”
“Abbastanza, ma io e la belva ti abbiamo perdonato” gli rispose dolcemente Emma, sorridendo. Non poteva mentirgli, non sarebbe servito.
Lo amava alla follia, ogni giorno di più e ormai aveva dimenticato la sua defaillance, anche se le aveva fatto molto male.
Credeva che tutti possano avere un momento di stordimento e aveva ragionato sul fatto che stavano insieme da così poco quando era rimasta incinta, che non era stato facile accettarlo. Lo guardò piena d’amore, si sentì fortunata a non averlo perso, e per un momento pensò che Jared non aveva poi così torto sul conto di Kiki. Pensò a come sarebbe stata la sua vita se lei avesse reagito la come quella ragazza bellissima, ma molto fragile.


Era assorta nei suoi pensieri e nei silenzi del suo compagno, quando Shannon si girò e le poggiò una mano sulla pancia tonda, sospirando.
“Emma Ludbrook, vuoi diventare mia moglie?”. Glielo chiese così, senza romanticismi inutili, senza un anello, senza timore. Nella voce aveva solo l’urgenza che lei dicesse di si, e sapeva che il matrimonio non cambia le cose, ma ci sono momenti, pensò, in cui certi passi ti sembrano la cosa più ovvia, giusta, bella e incredibile da fare.
Senti crescere dentro la voglia di agire, e a quel punto poco importa tutto il resto, decidi solamente di prendere in mano le cose, decidi di camminare.
Non aveva ideato un modo bello per chiederglielo: pensò solamente che metterle una mano sulla pancia, dove stava crescendo il loro bimbo fosse sufficiente. Fosse giusto. 

“Cosa?” gli chiese lei sbalordita, guardandolo a bocca aperta.
“Ti ho chiesto se vuoi diventare mia moglie”. Le sorrise, ora più sicuro, e per l’ennesima volta sentì di avere tutto il mondo accanto a lui: Emma, il loro bambino, la loro felicità e che si fottesse tutto il resto.

Emma lo guardò con le lacrime agli occhi e si portò una mano alla bocca per la sorpresa: era lì, davanti a lei, occhi negli occhi a chiederle una delle cose più belle del mondo.
Ci pensò su una frazione di secondo e poi, gettandogli le braccia al collo, sussurrò: “Si, Shannon Leto”. Si baciarono senza preoccupazioni di chi potesse vederli, sentirli, fotografarli: erano una famiglia ed erano bellissimi, il resto non contava chissà poi quanto ed ora se ne rendeva conto davvero. Ora, dopo mesi, ne era convinta. 


“Ma allora oggi dicevi sul serio?” gli chiese dopo essere usciti dal locale, mentre camminavano per tornare in hotel. Avevano intrecciato le loro dita in maniera romantica, come fanno gli adolescenti e senza rendersene conto avevano preso la via più lunga, ed andavano così lentamente che forse avrebbero raggiunto l'hotel dopo due ore. Ma non importava: volevano viversi, davvero. E quella notte era preziosa, come il sole che spunta dopo la tempesta. 
“Stavo sondando il terreno… penso a questa cosa da un po’” le confessò Shannon, guardando la via di fronte a sè. 
“Ah ecco, quindi se avessi avuto una reazione isterica…” 
“…mi sarei risparmiato anche di chiedertelo” finì la frase lui. Scoppiarono a ridere ed Emma lo attirò a sé baciandolo.
“Aspettavo il lieto fine da una vita… più o meno da quando ti conosco” gli sussurrò sulle labbra. 
“Ma se eri innamorata di Jared, smettila di allisciarmi”
“Non è assolutamente vero. Ho idealizzato tuo fratello a lungo, ma ti ho sempre guardato con occhi diversi, senza rendermene davvero conto. Tu però avevi un debole per le modelle e non mi hai mai guardato”
“Quindi la colpa è mia?”
“Sempre tua, Leto!”
“Questo matrimonio inizia proprio bene…” sospiro lui sorridendo appena e facendo finta di essere disperato. Emma rise e lo strinse di più a sé: era bello non sentire più la necessità di nascondersi.
“Stupido! Dai, decidiamo la data!” chiese eccitata lei, prendendolo per mano e iniziando a camminare di nuovo. Sembrava che camminasse a tre metri da terra, con un sorriso radioso in viso e il corpo che esprimeva felicità da ogni movimento.
“Appena torniamo a Los Angeles” le rispose semplicemente, con una mano in tasca e alzando le spalle, perché il dono di Shannon era rendere normale ciò che per gli altri era straordinario.
“Dai, decidiamola ora, ti prego!” pigolò lei, mettendo il broncio. 
“No, intendevo che ci sposiamo appena torniamo a Los Angeles, non voglio aspettare”
“Shan, ma io sono ancora incinta!”
“E quindi? Una donna incinta non si può sposare?”
“Ma sembrerà un matrimonio riparatore! Sembrerà che il grande batterista ha messo incinta l’assistente sfigata ed ora si prende le responsabilità sposandola… è una cosa orrenda!” si lamentò lei, mettendo il broncio.

Shannon si fermò e la tirò per un braccio, costringendola a finire fra le sue braccia. La strinse e la guardò negli occhi: “Emma, lo farai nascere paranoico questo povero bambino” le sorrise. Poi continuò: “Per me potrebbero pure dire che il bambino è di Jared, ma tu hai deciso di farlo adottare a me perché sono più affidabile di mio fratello, non me ne fregherebbe molto”
“Non ci crederebbe nessuno”
“A cosa?”
“Al fatto che tu sia più affidabile di tuo fratello”
“Emma, ritiro subito la proposta se non la smetti, eh”
“Non ne saresti capace, ammettilo”
“Va bene, comunque, tornando seri… torniamo negli States fra tre giorni, io direi che per i primi di Giugno è perfetto, non credi?”
“Il 5 Giugno” mormorò lei, quasi imbarazzata, sperando che lui cogliesse l’allusione. Stavano decidendo la data del loro matrimonio, a meno di un anno dal vero inizio della loro relazione, era incinta di ormai sei mesi, eppure c’erano dei momenti in cui si sentiva una bambina di fronte a lui. E non sapeva quanto questa cosa mandasse in estasi Shannon. Lei diventava rossa, abbassava lo sguardo, si mordeva il labbro e sperava che qualcuno rompesse l'attimo al più presto; Shannon rimaneva sempre a fissarla in quei frangenti, perchè era di una bellezza disarmante. 
Le sorrise calmo e rispose tranquillamente: “Vada per il 5 Giugno”. Non mise emozione, fece apparire quel giorno come un giorno normale, uno come un altro. La stava stuzzicando. 
“E’ il giorno in cui ci siamo baciati per la prima volta, l’anno scorso” continuò sussurrando, un po’ delusa dalla dimenticanza di Shannon.
“Lo so, piccola. Credevi che l’avessi dimenticato?”
 
Un anno prima… Lima, 4 Giugno.

Il concerto è appena finito, e sono distrutto. E’ meraviglioso essere sul palco con Jared e Tomo, ma alla fine sento solo il bisogno di riposarmi. Certo, a volte il riposo non è proprio convenzionale, però diciamo che a me piace anche scaricare l’energia in altre maniere. Eppure sono settimane che non sfrutto i post concerti come ho sempre fatto. Mi sento inquieto a questo pensiero, mentre torno al mio camerino, dopo aver salutato la folla ceca.
Prendo una bottiglia d’acqua e ne bevo più della metà di getto, togliendo subito dopo la mia canotta ormai sudicia. Faccio una doccia al volo ed infilo dei vestiti puliti, indosso il mio cappellino di baseball ed esco di getto, diretto verso l’albergo. Mi fermo solo un attimo pensando di aspettare Jared e Tomo e andarcene insieme, ma poi mi dico che non ne ho voglia, non stasera, in realtà voglio solo scappare in hotel.
Decido di andare a piedi, per rilassarmi, tanto è abbastanza vicino e spero che nessuno mi riconosca. L’aria di Lima è abbastanza fresca e pulita ed è meraviglioso per i miei polmoni inspirarla ritmicamente. Questa città è meravigliosa, decisamente meravigliosa e sono perso nel pensare ai fatti miei quando passo davanti la locanda dove abbiamo cenato ieri con i ragazzi. C’era anche Emma, ovviamente, ed io non l’avevo mai vista così bella e sorridente.
Mi fermo qualche secondo davanti l’entrata, come se guardare quel massiccio portone di legno antico possa riportarmi a ventiquattro ore prima circa e farmela vedere di nuovo.
Sorriso da solo al mio infantilismo e continuo a camminare scuotendo la testa: Emma. Cosa mi sta facendo Emma? Sono mesi ormai che andiamo avanti così… i concerti, lei scappa, io anche e ci ritroviamo a chiacchierare nei corridoi degli hotel, seduti per terra.
La prima volta è capitato per caso: lei cercava una connessione per mandare delle mail e l’unico posto in cui prendeva bene era proprio il corridoio, così si era seduta lì per terra, con la schiena poggiata al muro. Ricordo che eravamo in Islanda, ed io ero appena stato a letto con una donna conosciuta nel post concerto. Ricordo che lei stava andando via, ormai a notte fonda e che nell’aprirle la porta, poco elegantemente, vidi Emma lì seduta. Pensai che stesse male e mi avvicinai, sedendomi al suo fianco e scoprendo che stava solamente lavorando.

Da quella sera, il rituale si è ripetuto tutte le sere, più o meno, diventando sempre più importante, diventando quasi una necessità per entrambi. O almeno per me.
Entro trafelato in hotel e apprezzo il silenzio notturno che avvolge la hall. Salgo velocemente in ascensore e arrivo al piano che abbiamo riservato per noi e l’entourage: mi guardo intorno e vedo il corridoio totalmente libero. Un senso di inquietudine mi sale nello stomaco, ma non voglio dargli peso, perché equivarrebbe ad ammettere qualcosa che mi ostino a non credere davvero.
Facendo finta che non mi importi entro nella mia stanza, togliendo il cappello e infilando dei pantaloni più comodi.
Passeggio qualche minuto per la stanza, e poi, quasi a voler sfidare il destino, butto un’altra occhiata al corridoio, illudendomi che sia per quello strano rumore che ho sentito provenire proprio da lì. Appena metto la testa fuori dalla porta la vedo: seduta in terra, con la testa poggiata al muro e gli occhi chiusi. Forse è molto stanca, fatto sta che è tornata, anche stasera. Sorriso senza neanche accorgermene e tirando la porta dietro le mie spalle la raggiungo in silenzio. Mi siedo accanto a lei, e la vedo alzare lo sguardo e sorridermi.

“Bel concerto, batterista”
“Grazie, assistente”. Ci divertiamo a chiamarci con i nomi dei nostri ruoli, quasi come se chiamarci per nome sia troppo intimo, anche se poi non c’è più niente di poco intimo in noi e nelle nostre chiacchierate notturne.
“Sei stanca?” le chiedo apprensivo, perché noto che non parla molto e vedo le profonde occhiaie che solcano i suoi occhi.
“Un pochino, è stata una giornata pesante e ieri sera mi avete fatto bere troppo” risponde, sorridendo. Sorrido anche io, ricordando di nuovo quanto fosse bella la sera prima. Non che ora non lo sia… poi blocco i pensieri e mi dico che non sono proprio la persona adatta per pensare certe cose. Non su di lei.
“Non voglio stressarti ulteriormente, Emma. Andiamo a dormire” le dico. Lei sembra infastidita, anzi, più che altro delusa dalla mia frase o forse dal tono neutro che ho usato. Mi rendo conto che forse sembra che non mi interessi che lei sia lì, mi rendo conto che forse avrei dovuto parlare in maniera diversa.
“Voglio stare qui, ormai non riesco a dormire se non parlo un po’ con te” mi risponde, sincera, forse più di quanto realmente volesse essere. Rimango spiazzato da quella frase, che cela quel qualcosa che mi sto convincendo non esista davvero, e che invece lei mi sbatte in faccia senza troppi complimenti. La guardo e cerco di sdrammatizzare: “E dire che le donne non dormono mai con me, e di solito parlano poco”
“Già…” risponde solamente lei, distogliendo lo sguardo dal mio viso. Ho sbagliato di nuovo, mi rendo conto troppo tardi.
“Scusa, non volevo essere inopportuno. Abbiamo sempre parl…” non mi fa finire di parlare e la sensazione che provo è un misto di piacere e stordimento: in un lampo si è avvicinata e mi ha baciato le labbra. Ha poggiato la sua bocca sulla mia e si sta prendendo quello che da settimane non concedo più tanto facilmente, anche se lei non lo sa ed è evidente che sia così.
Rimango immobile, a fissarle gli occhi spalancanti e così pericolosamente vicini ai miei per un tempo che sembra non passare più. Poi alzo una mano ad accarezzarle i capelli, scostandoglieli dalla guancia, fermandoli dietro il suo orecchio, in modo per sentire il contatto con la sua pelle di porcellana. Siamo ancora fermi, incapaci di staccarci e porre aria fra le nostre bocche. Abbiamo ancora gli occhi incastrati e aperti, come a volerci guardare all’infinito. Non so cosa sia, ma è una sensazione nuova, piacevole, definita.
La sento fremere e come se si fosse appena svegliata da un sogno, o forse un incubo, si stacca da me velocemente, come se scottassi troppo. Sento il distacco come un abbandono e quell’inquietudine allo stomaco torna a farsi viva. Reprimo la cosa come meglio posso, perché non posso dare ascolto a niente, perché non voglio dare ascolto a niente. Però non posso staccarle gli occhi di dosso, mentre lei ha voltato la testa e guarda la moquette bianca di quell’hotel di lusso.
“Ehi…” le dico appena, sfiorandole una spalla sperando che si volti al mio tocco. Ma il mio tocco è pesante evidentemente, perché sortisce solo l’effetto contrario a quello che spero: si scansa e pone altra distanza fra noi. Ma non demordo, non so perché, ma non demordo.
“Emma…” dico ancora, stavolta toccandole il mento e costringendola piano a guardarmi. Il suo viso è una maschera di mistero: è bella, dio se è bella. Ma i suoi occhi sono spaventati, forse si vergognano per il gesto, forse crede che io le dirò che va tutto bene e che non è successo niente. Forse teme di sentirsi rifiutata, perché ha paura che io non corrisponda un gesto tanto affrettato quanto intimo. La guardo un istante, incapace di sorridere, di parlare, di fare qualsiasi cosa se non quella che sento fare al mio corpo: baciarla. Di nuovo.
Mi avvicino lentamente, con gli occhi aperti perché guardarla è la cosa più bella dell’universo e la bacio. La bacio davvero, schiudo le labbra aspettando che lei faccia lo stesso e quando sento quel segnale lascio che la mia lingua conosca la sua. Le prendo il viso fra le mani, come a non volerla lasciare andare, come se sentissi l’urgenza di avere quel contatto, e subito dopo affondo nei suoi capelli biondi, tirandola ancora più a me, se possibile. Sento le sue mani aggrapparsi alla mia maglietta, la sento fragile ma forte davanti a me, e mi stacco dal muro per permettermi di sentirla davvero su di me. Ora i nostri corpi si sfiorano appena, ma le mani… le mani sono concentrate nel bacio, non la lascio, non la mollo, continuo a tenerle il viso con una e i suoi capelli che mi fanno solletico sulle dita sono il paradiso.
Sente la necessità di avere aria e si stacca da me, ansimando e abbassando lo sguardo, sentendo ancora le mie mani sulla pelle.
“Scusa…” mormora appena. Non faccio in tempo a dirle niente, né ad incastrarla ancora, che la vedo alzarsi velocemente e correre verso la sua stanza. Rimango a fissarla a lungo, mentre scappa via, non dico né faccio niente, sento solo il tonfo della sua porta che sbatte e rimango seduto su quella moquette a chiedere al mio petto di tornare a respirare normalmente.
 
“Ci stavi pensando anche tu?” gli chiese dopo qualche minuto. 
“Si” le rispose lui solamente. Poi le prese la mano e iniziò a camminare di nuovo per Parigi. 
“Se ti avessero detto che saremmo finiti così, ci avresti creduto?”
“Certo”. Stavolta le sorrise sicuro, guardandola fissa negli occhi. 
“Davvero, Shannon. Sto parlando seriamente”. Emma si impuntò per strada, perchè aveva bisogno di sentire quella risposta. In silenzio attese che lui si fermasse con lei e la guardasse. 
“Anche io” le rispose sorridendo ancora. Non le aveva lasciato la mano, erano distanti circa mezzo metro, legati fra loro da quelle dita che sembravano incastrate fra loro. Dove finiva una iniziava l'altro. Semplicemente. 
“Dopo così poco tempo?” 
“Il tempo è relativo. Io sapevo che saresti stata mia per sempre”.


 
        • 
 
L'angolo di Sissi: Ciao, 
so che avevo detto che avreste dovuto attendere, ma ho avuto un'illuminazione, 
e ho deciso di scrivere. Spero siate contenti della sorpresina! 
Dunque... so benissimo che vi aspettave risvolti su Tomo/Kiki, 
ma la questione è complessa: quando porti avanti una storia che praticamente ne contiene tre, 
è un casino e a volte c'è bisogno di fare un respiro e dedicare attenzioni a qualcosa di particolare.
Il mio particolare, stavolta, è Shannon. 
Inoltre, dopo un terremoto come quello del capitolo scorso,
volevo darvi un pò di romanticismo, fare il punto della situazione, chiudere qualcosa. 
Infine, ho scritto il capitolo in un momento particolare, e mi è semplicemente uscito così. 
Cosa ne pensate? 
Chiedo scusa per aver scelto Lima, e il Sud America in generale,
ma ai primi capitoli avevo detto che Shan ed Emma avevano iniziato lì e non potevo cambiare! 

Vi ringrazio da morire per il seguito, siete tanti e siete affettuosissimi! :) 
Come sempre mi fa piacere leggervi e schivo eventuali pomodori! 


Sissi
 

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Capitolo 27
*** L'unica vera vittoria ***


L'unica vera vittoria
 

La stanza di quell’hotel era bellissima e lei lo sapeva, lo vedeva, lo percepiva. Jared vi aveva lasciato il suo odore e la sua impronta ed era così strano averlo intorno che Miriam per un momento placò la sua ansia e smise di passeggiare su e giù.

Guardò l’orologio sulla parete davanti al letto: l’una del mattino. Dove si era cacciato Jared? Sospirò forte e represse l’istinto di mandare tutti al diavolo.

Aveva chiamato Kiki per tutta la sera: non le aveva mai risposto. Guardando il suo registro chiamante si stupì di aver tentato ben trentacinque volte. Trentacinque fottute volte, e Kiki non aveva neanche tentato un banale messaggio. Si chiese perché non fosse corsa a casa, dopo aver lasciato il caffè, qualche ora prima, ma poi ricordò lo sguardo di ghiaccio di Jared e ricordò che aveva deciso di evitare di schierarsi, per quella volta. 

Si sedette sul letto e poggiò i gomiti sulle ginocchia, lasciando andare il suo viso fra le mani e cercando di trovare nel buio che i suoi occhi vedevano la calma necessaria. Poi ebbe un’idea: si spogliò e rimanendo nel suo intimo di pizzo scoprì il letto, poi, dopo un attimo di incertezza, si tolse anche gli slip e il reggiseno, e completamente nuda si sdraiò, coprendosi fino al mento e sentendo le lenzuola di seta farle solletico sulla pelle. Chiuse gli occhi serena, pensando che quando Jared sarebbe rientrato, avrebbe trovato una bella sorpresa ad attenderlo.


“Ehi, chiamami quando senti il messaggio”. Ennesimo segnale di cellulare spento, dopo due ore di attesa estenuante e anche inutile. Tomo sembrava scomparso nel nulla, e Jared non sapeva cosa fare, se non rimanere seduto nel bar dell’hotel, perché di lì sarebbe dovuto passare prima o poi.
Era lì da almeno due ore buone, non sapeva dove cercarlo e si stava innervosendo non poco, anche se capiva che forse Tomo voleva solamente essere lasciato in pace. 


Mentre era intento a cliccare tasti sul suo smartphone, per ingannare il tempo, Shannon ed Emma entrarono in hotel, mano nella mano. Chiacchieravano e scherzavano, Jared li osservò sorridendo e dalla sua posizione privilegiata notò che c’era qualcosa di particolare in loro, ma non ebbe modo di ragionarci più di tanto, perché in quel momento una cameriera del bar urtò inavvertitamente la sua poltrona, facendo cadere un bicchiere che portava sul vassoio colmo di vettovaglie. Il trambusto che provocò il vetro frantumatosi in terra costrinse Shannon ed Emma a voltarsi e a vedere Jared lì, solo, seduto in quell’angolo bar.

Lo raggiunsero: “Miriam ti ha cacciato dalla stanza?” chiese Emma, non scherzando poi troppo. Aveva notato che l’aria fra i due non fosse delle migliori quando si erano salutati, al caffè.
Jared rise amaro: “No, credo che dorma, ormai. Sto aspettando Tomo” rispose semplicemente.
“Sei riuscito a sentirlo?” domandò subito dopo Emma, in ansia, come tutti.
“No, ha il cellulare spento, ho chiesto alla reception di chiamare in camera, ma niente. Non so dove sia, così ho pensato di rimanere qui: dovrà passare di qui, prima o poi” disse, e sentì la sua voce farsi dura sull’ultima frase, perché era arrabbiato e quella situazione gli stava facendo perdere il controllo che tentava sempre di avere sulle cose e sul resto del mondo.

Shannon lo guardò abbozzando un sorriso: conosceva suo fratello, meglio di chiunque altro e istintivamente disse: “Aspetto con te”.
Poi si girò verso Emma e aggiunse: “Ci vediamo dopo”, baciandole dolcemente le labbra. Indugiò sulla sua bocca per qualche istante, poi Emma saluto entrambi e si avviò verso l’ascensore per salire nella loro stanza, mentre Shannon prese posto sulla poltrona accanto al fratello.

Attesero un tempo infinito, continuando a chiamare Tomo ad intervalli regolari e trovando sempre la segreteria telefonica. Ingannarono il tempo con i social, ma nessuno dei due aveva davvero voglia di leggere niente, né tanto meno di parlare. Qualche parola di tanto in tanto, ma la verità era che la presenza dell’altro era sufficiente per entrambi.

Finalmente, alle due e trenta del mattino, Tomo entrò in hotel a passo svelto. Shannon scattò in piedi e lo raggiunse in poche falcate, prendendolo per un braccio: “Ehi, finalmente!” gli disse non appena fu certo di avere la sua attenzione. Poi gli sorrise e gli indicò il tavolino dietro di loro, da dove Jared li osservava.
“Shan…” iniziò Tomo. Era chiaro che avrebbe voluto essere ovunque tranne che lì, ed era ancora più chiaro che temeva il giudizio degli amici, o meglio non sapeva cosa dire loro. Ma Shannon non lo fece neppure finire di pronunciare il suo nome e facendo pressione sul suo braccio, lo trascinò letteralmente verso Jared.
Occuparono tre poltrone e Shannon ordinò tre Martini bianchi ghiacciati: credeva servissero, anche se Jared lo guardò severamente.

“Non è andata bene, ragazzi” disse solamente Tomo dopo un pò, prendendo dalle mani della ragazza bionda il bicchiere di Martini e sorseggiandone subito un po’.
“Come stai?” chiese subito Jared. Se ne fregava del resto, la domanda vera e urgente era solo quella. Anche se temeva molto la risposta.
“La domanda giusta è: come sono ridotto” puntualizzò Tomo.
“Beh, sei qui a parlarne, in un modo o nell’altro sei sopravvissuto” suggerì Shannon, sorridendo appena per infondere coraggio all’amico.
“Kiki mi ha gettato in faccia non solo la rabbia, ma tutto il suo disprezzo. E’ stata così fredda che quasi mi sembrava di non averla mai conosciuta: non aveva emozione, non aveva traccia di niente e questa cosa mi ha annientato. So di essere stato uno stronzo, ma io… vederla così mi ha fatto male e forse me lo merito, lo so, però…” non riuscì a finire e istintivamente si voltò verso l’ampia vetrata dell’hotel che offriva un’ottima visuale di Parigi.
“Tomo, tutti sbagliamo, ma tu hai provato a chiedere scusa, ma soprattutto l’hai cercata per mesi. Più di questo… non credo che nessuno avrebbe fatto di più” gli disse Shannon, osservando gli occhi lucidi dell’amico e pensando che forse Jared aveva assolutamente ragione. Chi vuole restare resta, o comunque cerca di capire e perdonare. Chi vuole lotta, mentre Kiki aveva solamente distrutto quel poco che era rimasto in piedi.

Tomo rimase in silenzio, cercando cose da dire, cose da pensare, cose da vivere. Sospirò forte e apprezzò che nessuno parlasse, poi, a raffica, come se si fosse ricordato improvvisamente di un dettaglio importante, iniziò a parlare di nuovo: “Ha iniziato a dire che per me era solo una scopata facile, che da lei volevo solamente il sesso e si è spogliata” girò lo sguardo verso i fratelli che lo ascoltavano per sottolineare l’assurdità della cosa e continuò: “Si è spogliata, capite!? Si è tolta tutto ciò che aveva addosso e si è avvicinata per sedurmi. Ed io, cazzo, era bellissima, come la ricordavo, forse di più e quel suo profumo inebriante, la sua pelle ambrata, io non ce l’ho fatta, il mio corpo ha reagito in qualche modo, anche se non era il momento, non era la situazione e soprattutto anche se io assolutamente non volevo fare l’amore con lei. L’ho rifiutata, ma lei mi ha riso in faccia. Che avrei dovuto fare! Non sono di marmo, lei è… era… è, si lei è bella, ed non può pensare di essermi indifferente” prese fiato, confuso, disorientato.
“Amico, fortuna che il tuo corpo ha reagito!” disse Jared ridendo. Allentò la tensione, come a volte solo lui riusciva a fare e poi tornò serio: “Voleva metterti in difficoltà, costringerti a pensare che se non ti fossi eccitato, allora forse provavi qualcosa per lei. E’ una cazzata, Tomo, e tu lo sai”.
“Si, lo so, ma è stato devastante”
“Cosa pensi di fare, ora?” chiese Shannon.
“Non lo so… anzi, si, lo so: smetterò di cercarla. Lei non vuole le mie scuse, lei non vuole darmi un’altra chance, ma peggio ancora, lei non vuole ascoltarmi. Mi arrendo. Ci ho provato, per mesi, ma ora mi arrendo" disse, sicuro. La sua voce era incrinata e Shannon si chiese seriamente se fosse la cosa giusta da fare, ma effettivamente la situazione non lo aiutava a convincere Tomo a non arrendersi davvero.
“Tu hai fatto tutto il possibile, Tomo” gli disse sicuro Jared.
Shannon si avvicinò e con una pacca sulla spalla cercò di dargli il sostegno giusto. Poi si alzò e sentenziò la fine del momento: “Ragazzi, me ne vado a letto” e girandosi verso Tomo disse: “Amico, chi vuole restare, resta, ricordalo sempre”.
Jared si alzò subito dopo, seguendo il fratello. Furono richiamati poco dopo: “Ehi” disse Tomo. “Io domani torno a Los Angeles. Devo fare i conti con la mia vita” continuò. 
“Torna con noi, dai, mancano solo un paio di giorni, Tomo" tentò Jared.
“Ho bisogno di casa, Jared”
"Ma..." continuò lui, ma fu subito interrotto da Shannon: "Hai bisogno di un biglietto?". Lui parlava poco, ma riusciva sempre ad andare oltre e in quel frangente aveva capito che Tomo voleva scappare da Parigi, e mettersi alle spalle l'inquietudine di camminare e vedere Kiki, e il fantasma di ciò che erano stati. 
"No, me ne faccio prenotare uno dalla reception" rispose grato all'amico di sempre.
“Ok, allora ci si vede fra qualche giorno. Buon ritorno” concluse Shannon, portandosi via suo fratello, che ancora abbozzava proteste non ascoltate.


Tomo li osservò dirigersi verso le loro stanze, dove entrambi avevano ad attenderli due splendide donne innamorate e per un secondo si chiese perché lui fosse solo, perché non fosse riuscito a tenere in piedi il suo matrimonio e perché subito dopo avesse infranto i sogni di una ragazza che avrebbe potuto, forse, renderlo felice.
Si rilassò sulla poltrona e si rispose che forse lui non era il colpevole di tutto, che forse le mancanze non erano state tutte e solamente sue e mandò al diavolo tutto, perché gli errori si fanno in due e lui era stufo di tenere sulle spalle i problemi, le frustrazioni, le colpe e tutto il resto.


Si alzò andando verso la reception: “Salve, vorrei un biglietto aereo per Los Angeles, per domani”
“Subito, signore” gli rispose gentilmente Carola. Carina, mora, e sempre sorridente, cliccò velocemente sul pc e dopo qualche istante gli rivolse di nuovo la parola: “Dunque, c’è un volo alle nove del mattino dal Charles De Gaulle, o altrimenti, se preferisce…”
“No, va bene quello, grazie” la interruppe, prendendo la sua carta di credito e porgendogliela velocemente.
La donna la prese, effettuò la prenotazione e gli consegnò carta e biglietto aereo, sorridendogli: “E’ stato un piacere averla come ospite, torni a trovarci” gli disse.
“Grazie a lei, a presto”. Salendo in stanza pensò solo una cosa: si torna a casa.


Miriam si girò pigramente fra le lenzuola candide e morbide e sentì la pelle calda di Jared sfiorarla, un brivido che andava oltre l’attrazione fisica le attraversò il corpo, ancora nudo. Lo guardò distrattamente, ancora presa dal sonno che aveva da poco abbandonato, e lo trovò con le cuffie nelle orecchie e il quaderno in mano: stava lavorando, come al solito, ed era bellissimo, come al solito.
“Ehi…”
“Bambina, ti sei svegliata” le disse togliendo un auricolare e chinando la testa a baciarla.
“Non volevo farmi trovare addormentata, mi dispiace” disse mettendo il broncio. Poi aggiunse: “Anzi, volevo farmi trovare molto sveglia…”
“Sono tornato molto tardi, piccola”. Jared aveva sorrise nel mettersi a letto e trovarla nuda, aveva pensato di svegliarla, ma poi aveva deciso di dormire qualche ora e l’aveva semplicemente stretta a sé, chiudendo gli occhi.
“Come sta Tomo?” chiese Miriam, cambiando argomento.
“Se la caverà…” rispose evasivo Jared, perché l’ultima cosa che voleva era discutere di Kiki, Tomo e di come si fossero distrutti la vita l’un l’altra.
Miriam istintivamente prese il cellulare sperando che ci fossero chiamate, ma così non era. Chiamò di nuovo, ma niente. Sbuffò e poi si girò nuovamente verso Jared, e sorridendogli gli disse: “E’ bello svegliarsi accanto a te”. Lo guardò felice, davvero felice.
“Lo so, faccio questo effetto, molte donne vorrebbero essere al tuo posto”
“Spaccone” gli disse ridendo, prima di tirargli un pugno sulla spalla. Si stirò i muscoli intorpiditi e si apprestò ad alzarsi per prendere qualcosa da sgranocchiare: aveva mangiato solo un dolcetto la sera prima ed ora lo stomaco di Miriam chiedeva urgentemente qualcosa di salato.
Si mise a sedere sul letto, cercando i suoi vestiti e iniziando ad infilarseli con calma, ma sentì la bocca di Jared premere contro la sua schiena.

“Rimani nuda, ti prego” le sussurrò sulla pelle.
“Con quella voce potresti dire anche il telegiornale e risulterebbe la cosa più sexy dell’universo, Leto. Dovrebbero dichiararti illegale” gli rispose, ma poi accettò la sfida e lanciò di nuovo gli slip per terra. Fece per alzarsi, ma le mani di Jared la trattennero per i fianchi, mentre la lingua iniziava a lambire la sua pelle e giocare con la sua schiena.
“Smettila immediatamente!” si lamentò lei, risultando poco convinta e convincente.
“Perché ti dispiace?”
“No, perché non sei una nocciolina ed io ho fame”
“Se la metti così e preferisci una nocciolina a me, fai pure” si finse scocciato ed offeso e la lasciò andare.

Miriam si alzò e raggiunse il mobile bar, dal quale tirò fuori un sacchetto di noccioline e dell’acqua fredda. Si poggiò al mobile, nuda, e iniziò a sgranocchiare le noccioline guardandolo, fissandolo, una dopo l’altra, sempre più sexy. Sembrava che volesse violentarle quelle arachidi, ma nella sua mente c’era altro e voleva l’attenzione completa di Jared, che si ostinava a non guardarla. Palesemente almeno.

Prese la bottiglietta dell’acqua e la aprì, iniziando a berla a grandi sorsi, buttando la testa indietro. Lasciò che un piccolo rivolo di acqua ghiacciata le cadesse dalla bocca, segnando il profilo del suo mento, del collo, finendo sul seno e giù dritto verso l’ombelico, dove finì la sua corsa. Lo fece ancora, e Jared non potè rimanere tranquillo davanti quel corpo che reagiva istintivamente al freddo dell’acqua.
Si alzò di scatto, raggiungendola e abbassandosi davanti a lei: iniziò a asciugare quella  scia di gelo creata dall'acqua, partendo dall'ombelico e portando la lingua su, verso l’alto, come se volesse dissetarsi dal suo corpo.
Arrivò al seno e continuò la sua corsa verso il viso di Miriam, quando incontrò le sue labbra la baciò lasciandola senza fiato e facendo aderire il suo corpo a quello di Miriam. Era incredibile come riuscissero ad incastrarsi bene, loro due.


La sollevò prendendola per i fianchi, come se fosse una piuma nelle mani di un gigante, e la mise a sedere sul mobile dietro di lei.
Miriam decise di torturarlo e accavallò le gambe, in un gesto erotico oltre ogni limite e cattivo oltre ogni speranza. Jared sospirò e continuò a baciarla, prima di prenderle delicatamente il ginocchio e sciogliere le sue gambe, le aprì lentamente e si insinuò in lei, lasciando che i loro corpi si sfiorassero, si trovassero ancora.

Miriam era al limite della sopportazione e continuava ad affondare le sue mani nei capelli di Jared, a spingere il suo viso contro le sue labbra, a chiedergli silenziosamente di amarla. Fu presto accontentata, quando Jared scivolò in lei, tenendola saldamente per i fianchi, e iniziando a muoversi piano, con un ritmo perfetto. Ormai sapeva come farla impazzire e gli piaceva conoscerla così bene, saperla sua. Erano anni che non amava una donna in quella maniera, che non la guardava mentre facevano sesso, che non godeva nel vederla ansimare. Era una scoperta nuova e voleva viverla fino in fondo.


“Ti ho fatto un regalo, mentre dormivi” le disse ad un certo punto, mentre era ancora dentro di lei, ancora sconvolta dall’orgasmo. Lo guardò non capendo cosa potesse aver fatto, visto che non le sembrava che fosse uscito dalla stanza. O forse si. 
“Ti hanno mangiato la lingua?” continuò non sentendo nessuna risposta.
“Vedi un po’ se è nella tua bocca” gli disse maliziosa riprendendo a baciarlo. Jared sentì di nuovo quel brivido che solo lei sapeva provocargli, ma si concentrò.
La abbandonò su quel mobile, per andare a prendere chissà cosa. Miriam scese da quella posizione e si sdraiò sul letto, coprendosi con il lenzuolo e lasciando che i suoi muscoli si rilassassero dopo l’esercizio fisico, molto piacevole, a cui erano stati sottoposti.

Jared le porse una busta chiusa e lei non capì cosa potesse essere, la prese e prima di aprirla gli disse: “Questa cosa di darmi regali negli hotel dopo aver fatto l’amore inizia a piacermi da morire!”
“Aprila, dai”
Miriam infilò il dito sotto la fessura della busta, scollandola delicatamente: aveva sempre odiato le persone che strappano le buste in maniera approssimativa. Lei di solito usava un tagliacarte.
Dentro la busta trovò un foglio piegato in tre parti uguali, lo prese guardando Jared, senza capire bene cosa fosse, e lo aprì. Quello che trovò davanti fu la conferma di cui aveva avuto bisogno in tanti momenti di sconforto, nei mesi precedenti: Jared le aveva regalato il biglietto per Los Angeles. Solo andata. Sorrise incredula e felice e lo guardò.

“Jared… non dovevi…”
“Certo che dovevo, sia mai che tu fossi ancora indecisa”
“Non ero indecisa, ma ora sono sicura oltre ogni cosa. Che data porta?”
“E’ open, puoi decidere tu la data, però visto che sei ufficialmente disoccupata ho pensato che potresti iniziare a fare i bagagli e partire con me”
“Tu parti fra due giorni, Jared, è impossibile”
“No, io parto fra una settimana, bambina. Ho spostato il mio rientro. Posso aiutarti con il trasloco e poi portarti via”
“Davvero lo hai fatto?”
“Si, te l’ho detto che quando dormi mi vengono idee meravigliose. Dovresti dormire di più!”
“Ti amo, lo sai vero?”
“Si, mi sembrava di avertelo sentito dire un paio di volte”
“Vieni qua” gli disse ridendo e attirandolo a sé.

Tutto fu dimenticato: rimasero sotto le coperte, pianificando dettagli e parlando del futuro. Decisero che il giorno stesso Miriam avrebbe messo al corrente i suoi genitori della decisione definitiva, per quanto sua madre sapesse già tutto. Poi avrebbero iniziato a fare valigie e a contattare la compagnia aerea per spedire le cose più voluminose. Esattamente sette giorni dopo sarebbero partiti insieme, per iniziare una nuova vita, o forse per continuare quella che avevano, solo rendendola più bella.

Nessuna separazione forzata, nessun aeroporto a mettere tristezza: avrebbero preso l’aereo insieme, la settimana successiva e non ci sarebbero più stati continenti interi a dividerli.
Miriam era su di giri all’idea di cambiare vita, di prenderla in mano e portarla in una direzione nuova, un nuovo lavoro, una nuova casa, nuove abitudini, finalmente un mondo che sentiva già di amare. E Jared. Non riusciva proprio a smettere di canticchiare e ridere.


Jared dal canto suo doveva avvertire Emma del cambio programma e parlare seriamente ai ragazzi della possibilità che Miriam stesse al MarsLab per qualche tempo. Le aveva proposto di andare da lui, ma lei aveva rifiutato categoricamente, adducendo scuse poco convincenti, ma tutto sommato credibili. Era bello averla intorno così euforica e non perdeva l’occasione per guardarla e trovare sempre la sicurezza che quella era davvero la realtà che prendeva forma: loro, insieme, a Los Angeles, come una coppia normale, come due persone che cercano la loro strada insieme. Per lui era una novità una donna che non fosse dello show biz e forse proprio per quello era elettrizzato.

Stavano organizzando la giornata, mentre Miriam provava, senza successo a contattare Kiki, quando Jared aprì la posta e vide una mail mandatagli da Emma proprio quella mattina, molto presto.
La aprì e vide delle foto, un po’ sgranate ma inequivocabili: Jared che passeggia mano nella mano con una misteriosa ragazza, Jared che la bacia, Jared che la stringe e le sorride dolcemente. La didascalia era eloquente e si vedeva che i paparazzi avessero già collegato quella ragazza a quella di Madrid e della serata modaiola di Roma: a fare due più due ci avevano messo proprio poco, insomma.


Guardò di nuovo quelle foto, sentendo per la prima volta una punta di fastidio, per l’invasione di qualcosa che non era una tresca, come veniva definita, ma qualcosa di molto più importante.
“Ehi, bambina, vieni qui” la chiamò.
“Dimmi, cosa c’è?” gli rispose. Saltò sul letto, dove lui era seduto e si posizionò dietro di lui, allacciando le sue gambe alla schiena di Jared e sbirciando il computer dalla sua spalla.
Le mostrò le foto e Miriam non disse nulla per qualche minuto, continuando a muovere le dita sul cursore e a fare scorrere quelle immagini.
Jared era preoccupato della sua reazione, più che di altro, perché era ovvio che ora che la cosa era di dominio pubblico, lei sarebbe stata “la fiamma di” e non le avrebbero più dato pace. E perché non sapeva quanto il mondo di Miriam sapesse di quella relazione. La osservò girando appena la testa, ma lei aveva un’espressione criptica e non lasciava trapelare nulla, poi lo spiazzò: “Siamo belli, non credi?”

“Molto” rispose lui piano, continuando a fissarla.
“Bene, detto ciò vado a parlare con i miei e poi a casa. Mi raggiungi lì fra, diciamo, un’oretta e mezza?”. Era tranquilla e serena. Scese dal letto dopo avergli dato un bacio sulla spalla nuda e finì di sistemarsi. 
“Va bene, a dopo”
“A dopo” gli rispose, schioccando un bacio tenero sulle sue labbra, pensando che l’avrebbe fatto tutti i giorni da quel momento in poi.
“Miriam, aspetta…” la fermò, mentre era sulla porta.
“Si?”
“Non ti da fastidio?”
“Cosa?” gli chiese.
“Le foto”
“Dovrebbe? E’ la nostra vita, Jared, qualsiasi cosa dicano io so chi sono e tu sai chi sei, va bene così. E poi sono fotogenica e da oggi mi sentirò una delle donne più invidiate del mondo, sensazione che fa molto meglio di una crema antirughe, ti assicuro” gli sorrise, complice. Jared rispose al sorriso e la lasciò andare, sereno.
Tornò a guardare le foto e solo in quel momento notò che Emma aveva inserito una postilla in fondo, piccola e non appariscente: “Leto, io sono incinta, ti batto a mani basse, sai?!”. Sorrise pensando che, punto primo, la sua assistente era notevolmente migliorata con suo fratello vicino e per questo Shannon meritava un regalo immenso, e, punto secondo, lui era davvero felice in quel momento.


Miriam corse velocemente a casa, aprì la porta, mise la testa dentro e sentì il silenzio assoluto: “Kiki?” chiamò velocemente, ma niente, nessuno suono.
Si affacciò in cucina, nel corridoio, in bagno e vide la sua stanza aperta e con la luce spenta. Era evidente che non fosse in casa.
Pensò che fosse andata a fare due passi per schiarirsi le idee: a quanto aveva detto Jared le cose non erano andate bene, forse aveva bisogno di rimanere sola.

Prese velocemente un foglio e scrisse: “Kiki, devo fare una cosa urgentemente. Sarò di ritorno a casa fra un paio d’ore al massimo. Chiamami appena leggi il messaggio. M”.
Lasciò il foglio piegato sul mobile all’ingresso e volò di nuovo fuori di casa, precipitandosi giù per le scale e notando che il dolore alla caviglia era totalmente passato in secondo piano.



Arrivò di fronte al portone di casa dei suoi genitori dopo nemmeno mezz’ora.
Erano inspiegabilmente entrambi in ferie in quel periodo e Miriam sapeva che stavano preparando tutto per una vacanza in Costa Azzurra, ma voleva parlarci prima della partenza: al loro ritorno, forse, non ci sarebbe più stata.
Era nervosa, ma sapeva di dover fare quella cosa, prima di lasciarsi alle spalle tutto e godersi la novità. Citofonò e attese che le aprissero il portone, salendo a due a due i gradini arrivò all’attico che i suoi genitori possedevano da sempre, da quel che ricordava. Le aprì la porta, stranamente, sua madre, che le sorrise complice, immaginando il perché dell’urgenza con cui Miriam aveva chiesto loro di vedersi.

“Ciao, mamma”
“Ciao, Miriam, papà è di là, vieni”
Miriam seguì sua madre nell’ampio salone e vide il padre seduto in poltrona che sorseggiava un succo d’arancia, leggendo il quotidiano.
Sollevò gli occhi dal giornale e la salutò, pacato come sempre. Miriam prese posto sul divano e aspettò che sua madre le chiedesse, per aiutarla, il motivo di quella visita. Pensò che fosse meglio non tergiversare e dire subito le cose come stavano: tolto il dente, tolto il dolore.

“Mi sono licenziata, ho trovato un nuovo lavoro e la settimana prossima mi trasferirò a Los Angeles” disse solamente, tutto d’un fiato, lasciando che il suo sguardo vagasse da sua madre e suo padre, per carpirne le vere emozioni e reazioni.
“Di cosa ti occuperai?” chiese sua madre, prendendo un pasticcino dal tavolino in vetro. Era bello sentirla complice, era bello che le chiedesse qualcosa di personale, per una volta. Le sorrise, facendole l’occhiolino e Miriam trovò forza e vigore in quel gesto.
“Sarò consulente legale per una multinazionale europea con sede negli States. Ovviamente farò parte dello staff, ma mi hanno dato buone possibilità di avere un posto di rilievo entro sei mesi, dimostrando di saperci fare, ovviamente” spiegò felice. Cercò di puntare tutto sull'ottima possibilità che aveva fra le mani, perchè sapeva che se sua madre si stava dimostrando complice, suo padre l'avrebbe sicuramente messa in difficoltà. 
“E’ una bella novità, tesoro. Sei felice?”
“Moltissimo, mamma. E’ un’opportunità d’oro e voglio sfruttarla al meglio, intendo impegnarmi molto, anche se cambiare città un po’ mi spaventa”. Quel dialogo era a due, perché suo padre ancora non dava segni di vita. Miriam si era quasi scordata della sua presenza, che non tardò ad arrivare, però.
“Cazzate, vai lì per quello, vero?”. Suo padre prese parola così, di punto in bianco, e pose tutto il suo astio in quella frase, calcando il modo poco elegante con cui aveva apostrofato Jared. Nei mesi non ne avevano più parlato, ma Miriam sapeva benissimo che suo padre non era uno stupido e le foto che erano uscite di tanto in tanto sui giornali avevano sicuramente messo piede in quella casa. Sospirò e si preparò alla guerra. 
Quello, papà, ha un nome e comunque non vado lì per lui, ma per me stessa, per cambiare delle cose che non mi piacciono e perché ho avuto un’opportunità di carriera che qui non avevo” disse gelida, fissandolo in segno di sfida.
“E il posto che ti aveva offerto il tuo capo?” le chiese all’improvviso, beffandosi della sua espressione allibita. Come poteva saperlo?
“E tu… tu… cosa ne sai?”
“Miriam, Miriam… ancora credi nelle favole, vero?” le chiese sorridendo beffardo. 
“Rispondimi”. Ora era finito il tempo di giocare. 
“Vedi, mi ha chiamato tempo fa per dirmi che avevi deciso di dare le tue dimissioni, e ho pensato di chiedergli un piccolo incentivo, per vedere quanto fossi stupida”
“Sei stato tu? Mi hanno offerto quell’avanzamento di carriera perché tu mi hai raccomandato? Come al solito, la solita solfa, insomma” disse rabbiosa.
“Era un test, tesoro, hai fallito miseramente”
“Non ho fallito papà. Il lavoro che mi hanno offerto a Los Angeles è frutto del mio impegno, non di una telefonata di mio padre e sono orgogliosa di questo, sono felice di andarmene da un mondo che tu mi hai costruito addosso, continuando a chiedere favori per me, anche quando sapevi che avrei potuto farcela da sola” ora urlava, in preda alla rabbia più cieca. 
“Smettila, sei ridicola. Vuoi andartene e buttare tutto nel cesso per un tipo che ti si porta a letto? Padrona di farlo, ma quando cambierà orizzonti, non tornare qui strisciando, perché troverai la porta chiusa”
“Io quella porta non voglio più vederla, papà”
“Armand, credo che tu stia esagerando e credo che dovremmo avere fiducia nelle capacità di selezionare le amicizie di nostra figlia” intervenne pacatamente la madre, che però fu messa a tacere come al solito.
“Oh, sta zitta, Cècil, se fosse per te, Miriam non sarebbe dov’è”
“No, però forse non ci odierebbe così tanto” lo spiazzò. Mai nella sua vita aveva trovato il modo e il coraggio di rispondere in quella maniera a suo marito, ma negli ultimi mesi si era resa conto di come Miriam fosse intelligente e pronta alla vita e l'ultima cosa che voleva, dopo tutti gli errori commessi, era perderla. Stavolta avrebbe lottato. 
“Vi siete coalizzate? Bene, molto bene. Chiuso l’argomento” disse, gettò il giornale sul tavolo con violenza e se ne andò a grandi passi.

Miriam era sconvolta, ma continuò a chiacchierare con sua madre, raccontandole del regalo di Jared, di come si fossero organizzati e di dove sarebbe andata a vivere. Cècil parve comprensiva e ascolto tutto, nei minimi dettagli, solo alla fine le disse: “Posso conoscerlo?”. Timidamente stava chiedendo una cosa così immensa a sua figlia, avendo paura di essere rifiutata, perchè in un certo senso se lo sarebbe meritato. 
Miriam, dal canto suo non credeva alle proprie orecchie: voleva conoscerlo?
“Certo, mamma, se ti fa piacere”
“Ci terrei tanto, ma se ti scoccia, ecco, posso farne a meno”
“Sarei felice di presentartelo, mamma” le disse cambiando divano per sedersi al suo fianco. Le sorrise e la sentì vicina, cosa che le evitò di piangere lacrime per il comportamento di suo padre.

Andando verso la porta pensò a tutte le volte in cui aveva litigato con suo padre, a tutti gli schiaffi a cui l'aveva sottoposta per tutta la sua vita, ma poi lo sguardò le andò sulla foto di famiglia che era sul mobile a fianco a lei e sentì qualcosa muoversi nello stomaco: loro erano comunque una famiglia, e ad una famiglia va sempre data una possibilità. 
Prese un foglio dallo scrittoio e scrisse: “Parto fra sei giorni, il 25. Ti manderò il mio indirizzo per mail, e terrò comunque il cellulare francese acceso. Ti voglio bene, Miriam”. Una volta piegato a metà, ci scrisse sopra “Per papà”, posandolo poi sullo stesso scrittoio.
Diede uno sguardo a quella casa che aveva tanto amato e tanto odiato, poi infilò gli occhiali da sole ed uscì. Per sempre.
 


Camminò lentamente, pensando alla sua vita che stava per cambiare e soprattutto pensando a come era stata forte per la prima volta: aveva preso in mano tutto e aveva dirottato i suoi sogni dove voleva. E forse avrebbe dovuto ringraziare Jared.
Sorrise e decise di dargli tregua con le sue insicurezze e con le sue piccole manie.

Velocizzò il passo solo per vederlo e svoltando nella sua via, lo trovò poggiato al muro, con i piedi incrociati, gli occhi incollati allo smartphone e coperti dagli occhiali e i capelli sulla nuca, con qualche ciocca che sfuggiva al controllo. Gli corse incontro e gli si gettò letteralmente addosso, baciandolo: “Ciao, Leto”
“Ci hai preso gusto a farti fotograre?”
“Si… atti osceni in luogo pubblico però li eviterei” gli rispose, sentendo la mano di Jared scendere pericolosamente sulla sua schiena.
"Com'è andata?" le chiese, ora serio. 
"Ti racconterò dopo, ora saliamo che voglio parlare con Kiki" gli rispose, aprendo il portone. Aveva continuato a chiamarla, con scarsi risultati, ma era convinta che ora fosse tornata a casa. 


Tuttavia, quando Miriam aprì la porta dell'appartamento, con Jared alle spalle, notò che il foglio che aveva lasciato per l'amica era ancora lì, immobile come lei lo aveva messo. 
Miriam diventò immediatamente seria ed
 iniziò a sentire una sensazione strana, di vuoto, di assenza. Cercò di non farci caso, ma iniziò a chiamare urgentemente l’amica,
“Kiki?” urlò. Una, due, tre, quattro volte. Niente, nessuna traccia. Tentò di ricordare i turni del locale dove lavorava, ma era inutile, aveva un vuoto totale in mente.
Iniziò a girare per casa, facendo più attenzione ai particolari di quanta ne avesse fatta un paio d’ore prima: sentiva che qualcosa era strano, qualcosa non quadrava, era nervosa e non capiva perché.

Poi entrò camera degli ospiti, quella che prima aveva solamente sbirciato dal disimpegno: era vuota, completamente vuota. Iniziò a capire, ma non voleva crederci: aprì l’armadio con rabbia e lì non potè più mentire a se stessa.

Rimase a bocca aperta, non sapendo cosa dire e come dirlo, quando Jared la raggiunse, vedendo la sua espressione sconvolta: “L’ha fatto ancora, Jared. È scappata” gli disse solamente, fissando l'armadio vuoto. 
“Come scappata?” chiese lui, prima di affacciarsi nella stanza e capire. Non seppe cosa dire e prese la mano di Miriam, cercando di consolarla. Ma Miriam non era triste o preoccupata: era solamente inviperita.
“E’ una cretina, scappa sempre, mi ha lasciato mesi sul filo del rasoio, poi è venuta qui senza dirmi niente, l’ho accolta, l’ho aiutata, ho fatto qualsiasi cosa per farla stare bene, e lei che fa? Scappa di nuovo!”
“Miriam, calmati, ci sarà una spiegazione” tentò di dire lui.
“Oh, no, l’unica spiegazione che c’è è che è una bambina viziata che non sa prendersi le responsabilità della vita e non sa affrontare i problemi. Ok Tomo l’ha lasciata, lei sta male perché lo ama, ma io sono sua amica e lei sta punendo me solamente perché sto con te, Jared. E’ un comportamento da psicopatici!” urlò. Aveva le guance rosso fuoco e le lacrime iniziavano a pungerle gli occhi.
“Provo a chiamare Emma, forse saprà aiutarci” disse prendendo il cellulare. Non sapeva perchè Emma avrebbe dovuto sapere qualcosa, ma la questione era che si affidava sempre a lei in casi di emergenza, e lei era sempre in asso in quelle situazioni. 
Miriam però lo bloccò, e abbassando il tono della voce disse: “Lascia perdere, sicuramente non saprà niente. E’ semplicemente andata via di nuovo, Jared" gli toccò la mano e abbassò lo sguardo, delusa, di nuovo. 
Poi tornò alla carica. Uscì dalla stanza e si diresse verso la cucina per fare un caffè forte e nel frattempo prese la sua decisione: "Ma se pensa che io continuerò a correrle dietro si sbaglia di grosso”.
Jared, ascoltandola, pensò che in meno di dodici ore, Kiki, con il suo comportamento, aveva perso tutto. 

Miriam fece l'ultima cosa che voleva fare: prese il cellulare e la chiamò, lo trovò ancora spento, e si rese conto che aveva attuato di nuovo la tattica di depistaggio.
Quando scattò la segreteria telefonica, lasciò un amaro messaggio: “L’hai fatto di nuovo, Kiki, sei scappata senza dire nulla, senza spiegarmi nulla. Io fra sei giorni parto per Los Angeles, se pensi di poter crescere e rendermi partecipe della tua vita, chiamami. Ciao”


Jared la guardò di spalle, poggiare il suo peso alla soglia della finestra e guardare Parigi fuori. La vide piccola e forte, e capì che c'era solo una cosa che avrebbe potuto fare per lei. Le si avvicinò e le disse: “Iniziamo a trasferirci?”, sorridendole. 
Miriam respirò a fondo e lo amò molto più di sempre: “Si, iniziamo” gli disse, sorridendogli appena. Lui la prese fra le braccia e la strinse al petto, sperando che quella storia non le facesse troppo male.  


Passarono il pomeriggio a decidere cosa portare e cosa lasciare, anche se fu una scelta difficile. Miriam era convinta di aver bisogno di tutto, Jared continuava a dirle che per ora poteva portare il necessario e poi pensare al resto quando avrebbe trovato una casa dove poter mettere tutto, ma proprio tutto.
Si divertirono molto, perché era un progetto che stavano facendo insieme, era qualcosa che portavano avanti di pari passo, finalmente.
Non c’era più lui e lei, si stava creando un noi ed entrambi erano spossati e impauriti da tutto, ma la felicità era di gran lunga la sensazione migliore.


Verso sera, Miriam aveva parzialmente recuperato il buon umore. Era ancora abbastanza rabbuiata dal comportamento di Kiki, ma cercava di prendere la cosa con filosofia e concentrarsi sulla sua bellissima novità: sei giorni e sarebbe stata a Los Angeles. Con Jared.

Jared stesso cercò di sdrammatizzare e farla ridere. In quel momento era entrato in camera chiedendo se potevano semplicemente lasciare a Parigi l'orso di peluche enorme che sembrava essere il migliore amico di Miriam, ma smise subito di ridere vedendola: aveva in mano una cornice che teneva sul comodino. Ritraeva lei e Kiki, alle Hawaii, mesi e mesi prima. Erano bellissime, legate e spensierate e Jared vide Miriam asciugarsi una lacrima.
Le si avvicinò piano e passandole un braccio intorno alla vita la strinse al petto, facendole perdere l’equilibrio e sostenendola lui stesso.

Dopo qualche minuto di silenzio, le sussurrò all’orecchio: “Chiamo i ragazzi, ceniamo insieme, ti va?”
Miriam sembrò destarsi da un sogno dai contorni non rosei e sorridendo appena gli rispose: “Certo, dobbiamo dargli la grande notizia, no?”. Doveva assolutamente riprendersi, e lo sapeva. Quanto fosse difficile però non era pronta ad ammetterlo.
“Giusto” le rispose Jared baciandole i capelli. Poi prese il cellulare e chiamò il fratello:
“Ehi, Shan, tutto ok?”
“Si, devo parlarti”
“E’ grave?”
“Abbastanza”
“Corro?” chiese Jared. Si massaggiò le tempie con la mano libera, perchè non era pronto ad un altro dramma, non quel giorno. 
“No, però vorrei dirtelo al più presto”
“Va beh, cena tutti insieme stasera, vi va?”
“Ricevuto. Dove si va?”
“Il nostro posto?”
“Andata, a dopo”.

In ogni città dove erano stati negli anni, avevano trovato un rifugio, come lo chiamavano loro: tendenzialmente erano ristoranti piccoli e accoglienti, un po’ fuori mano e con personale in grado di fargli godere una cena normale. Il Bistrot De Rien era uno di quelli, e Jared, amante delle tradizioni, voleva che Miriam lo vedesse attraverso i suoi occhi e i loro racconti.

Raggiunsero il ristorante trafelati, colpevoli di un ritardo abbastanza grave.
“Finalmente, stavo per far morire mio figlio di fame!” esclamo Emma, vedendoli.
“Scusate, scusate… eravamo impicciati e ci è volato il tempo”
“Si, certo, non vogliamo sapere altro, per favore” disse Shannon.
“Comunque visto le foto?” disse Emma, ridendo soddisfatta.
“Si, ma te ti sei vista?” replicò Jared, convinto che lei sapesse di cosa parlasse. Ma evidentemente non era così, perché Emma gli rivolse uno sguardo interrogativo e una domanda eloquente: “Di cosa parli?”
“Ah, bene bene… perdiamo colpi, Ludbrook” la prese in giro, poi prese il Blackberry dalla tasca e cercò su Google “Leto - Ludbrook”, subito si caricarono decine di pagine e fotografie che li ritraevano “felici ed innamorati a Parigi”.
Emma rimase a bocca aperta, e Shannon pensò seriamente che fosse sull’orlo di una crisi di nervi, ma poi scoppiò a ridere e disse: “Abbiamo placato il gossip sui fratelli Leto in due giorni a Parigi, potevate dirmelo che sarebbe stato così semplice. Mi sarei evitata anni ed anni di crisi isteriche!”.

“Quindi ora posso baciarti in pubblico?” le chiese Shannon prendendola fra le braccia.
“E’ un bel pezzo che non ti fai problemi, direi” gli rispose accettando il bacio.

Stavano per entrare nel bistrot, quando una voce alle loro spalle li raggiunse: “Vi si sente dall’inizio della via”. Tomo. Aveva un'espressione cupa e camminava con le mani in tasca e lo sguardo un pò perso, ma quando incontrò i loro occhi, sorrise appena, sentendosi più rilassato. Sapeva che sarebbero andati lì, era una tradizione cui Jared non avrebbe mai rinunciato e quando era all'aeroporto si era reso conto che nessuno è così importante da togliergli il piacere dei riti che aveva costruito con gli amici negli anni. 
Così aveva ripreso i bagagli ed era tornato indietro, cercando di riprendersi la sua vita a modo suo. 


Jared lo guardò con un’espressione allibita, mentre Shannon gli andò incontro e lo abbracciò: “Sapevo che non te ne saresti andato” gli disse. 
“A volte stare con la famiglia è tutto ciò di cui hai bisogno” gli rispose il croato, abbassando lo sguardo.  

Salutò Emma stringendola dolcemente e poi Jared con una pacca sulla spalla.
Rimaneva solo Miriam: si scrutarono per qualche secondo e la ragazza provò un senso di colpevolezza e vergogna nei suoi confronti, tanto da abbassare subito lo sguardo.

“Posso parlarti un attimo?” le disse e Miriam guardò Jared cercando aiuto. Lui però non accolse la richiesta muta e disse solamente: “Fate con comodo, vi aspettiamo dentro”

Rimasti soli, Tomo la guardò a lungo, aspirando il fumo che sembrava dargli coraggio, poi le disse: “Volevo chiederti scusa per ieri sera, Miriam”
“Non c’è bisogno, Tomo”
“Beh, ti abbiamo invaso casa e beh, mi sono comportato come un cretino, scusami davvero”
“E’ tutto ok, davvero”

Il silenzio era calato di nuovo fra di loro e l’imbarazzo era palpabile: ognuno con le sue posizioni nelle sue delusioni, uniti e divisi da una situazione che alla fine aveva spezzato il fiato ad entrambi. Ma forse erano così feriti dentro, che per recuperare il loro rapporto non sarebbero bastate due parole fuori da un bistrot parigino.
Miriam lo fissò a lungo, cercando nel suo volto il sorriso che aveva imparato ad adorare alle Hawaii, mesi prima, quello che ogni mattina le scaldava il cuore. Cercava quell’uomo buono che le aveva portato i suoi pancakes a Los Angeles, e l’aveva convinta ad andare a parlare con Jared. Loro due si erano apprezzati da subito ed ora perderlo era forse un colpo che non avrebbe sopportato.

Tomo allungò lo sguardo sulla via, oltre di loro e finì la sigaretta, sentendo di non voler aggiungere altro a quelle scuse. Era tempo di ricucire la sua vita, gli altri, ora, avrebbero potuto aspettare, si disse.
Buttò fuori il fumo rimasto nei polmoni e le aprì la porta per farla entrare, senza dire più niente.
 

La cena risultò buonissima, l’atmosfera piacevole. Miriam aveva lasciato andare la tristezza e cercava di essere naturale e serena, per quanto sapeva che non fosse tutto apposto.
Alla seconda bottiglia di vino stappata, Jared e Miriam, quasi all’unisono dissero che sarebbero partiti insieme per Los Angeles la settimana seguente.
“Che cosa, scusate?” chiese Emma, strabuzzando gli occhi per la sorpresa.
“Beh sapevate che volevo venire a vivere lì, no?”
“Si, certo, ma credevano con una certa calma” disse Shannon, che ormai sembrava diventato il saggio di turno.
“Mi hanno licenziata ieri, e così ho pensato che fosse inutile rimanere qui ancora. Voglio condividere la vita con Jared, e qui mi rimane molto poco, quindi perché aspettare?”
“Troppo zucchero in questo tavolo, troppo zucchero!” esclamò Tomo scolando alla goccia un bicchiere di bianco.
“Quindi vorrà dire che ci sarai anche tu” disse improvvisamente Emma. Era stata particolarmente silenziosa quella sera, e Jared se ne era accorto. Si chiese se non fosse a causa di ciò che Shannon voleva dirgli, e sentì un fremito all'idea che suo fratello ancora non avesse svuotato il sacco. Cosa era successo? 
“Presente a cosa, Emma? Qualche serata di gala?” chiese Miriam mettendosi in bocca un pezzetto di baguette intinta nella fonduta di formaggio.
“Al nostro matrimonio” rispose Shannon, prendendo la mano di Emma fra le sue e guardando prima la sua compagna e poi quella che era definitivamente la sua famiglia.

Rimasero tutti a bocca aperta, Jared più di tutti, forse: suo fratello si sposava, non solo stava per diventare papà, ma sposava Emma, la sua assistente.
Chiamò il cameriere e gli ordinò una bottiglia di champagne che arrivò subito, la prese e alzandosi in piedi disse, elegantemente: “A mio fratello che ha messo la testa apposto grazie ad una delle donne più in gamba che io conosca. Alla mia amica, confidente e assistente, senza la quale tutto sarebbe molto meno bello. Auguri, ragazzi” poi stappò la bottiglia e versò lo champagne per tutti, mentre Tomo si allungava a battere il cinque a Shannon e Miriam era corsa vicino ad Emma per abbracciarla.

“Grandi notizie stasera, quindi!”
“I fratelli Leto sono apposto… vedete che ironia, ora sarò io a tirare tardi con le vostre modelle in tour, dopo tutti gli anni in cui ho fatto il bravo ragazzo! A proposito, posso avere la vostra preziosa agenda?” disse Tomo ridendo. Per un momento rimasero tutti in silenzio, poi Jared e Shannon scoppiarono a ridere senza sapersi fermare.
“Ma insomma, quando l’avete deciso? Quando vi sposate? Dove? E il banchetto? Gli invitati?” disse Miriam tutto d’un fiato.
“Ma fa sempre tutte queste domande insieme?” chiese Shannon a Jared.
“Daiiiii che sono curiosa!” si lamentò Miriam saltando sulla sedia. 
“Dunque, ci sposiamo il 5 Giugno, a Los Angeles, inviteremo pochissime persone e faremo una cosa molto molto semplice” spiegò Shannon. 
Miriam sgranò gli occhi e urlò quasi:
“Ma mancano praticamente due settimane, ragazzi!” 
“Lo sappiamo, però il 5 Giugno per noi è una data importante e comunque non vogliamo troppo clamore” rispose Emma, la mano salda in quella di Shannon.
“In famiglia le cose o si fanno subito o ci si rinuncia” esclamò Jared, ridendo e guardando suo fratello. Avrebbe voluto fargli gli auguri a tu per tu, dopo, pensò.
“Senti, ma noi siamo invitati?” chiese Tomo.
“No, ovviamente no! Vi dovrò sopportare per tutta la vita, almeno il giorno del matrimonio i Mars rimarranno fuori. Se vogliono, possono venire il fratello e il migliore amico dello sposo, però” disse Emma ridendo.
“Affare fatto, sergente” dissero divertiti Jared e Tomo all’unisono.
“Siamo molto felici che ci sarai anche tu, Miriam” disse subito dopo, guardandola con affetto. A vederle oggi nessuno avrebbe mai detto che si erano date battaglia nei mesi passati.
“Anche io sono felice, e se volete posso aiutarvi ad organizzare qualcosa, sono totalmente libera almeno fino a giugno inoltrato!”
“Magari mi accompagni a vedere il vestito, ti va?”

“Certo, Emma, con piacere”. Era bello vederle finalmente unite, dopo i dissapori e le litigate dei mesi invernali.

Jared li guardò tutti e capì che avevano lavorato tanto, in quegli anni, e che l’unica vera vittoria che avevano avuto era essere ancora lì, ammaccati, innamorati, delusi, ma soprattutto insieme. 


 
       

L'angolo di Sissi:
Sono tornata, inaspettatamente molto presto! 
Io so che il capitolo è davvero molto lungo e denso, 
ma scrivendo mi sono resa conto che dividerlo in due avrebbe avuto poco senso, 
e tra l'altro volevo chiudere la parentesi parigina. 

Dopo aver sistemato Shannon ed Emma, è stata la volta di Jared e Miriam: 
avevano diritto al loro angolo di felicità! 

Tomo è nel limbo, ma la sua situazione è complessa. 
Ovviamente ci saranno ancora cose da dire, ma per ora ha scelto di non cercare più Kiki. 
Cosa ne pensate? 
Inoltre c'è un rapporto spezzato: l'amicizia di Miriam e Tomo è evidentemente 
messa a dura prova dalla situazione. Quindi come vedrete, ci sono ancora molte cose da chiarire! 

Piccola puntualizzazione: mi sono presa la licenza poetica di creare un MarsLab
che fosse autonomo da casa di Jared e capirete il perchè nei prossimi capitoli.

Ringrazio ancora una volta chi mi segue con affetto e dedizione
e il mio piccolo fanclub personale che mi fa pressione psicologica e mi minaccia in svariati modi! 
Vi amo! :) 


Sissi

 

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Capitolo 28
*** Sono i gesti a fare le persone, sono le mani che non si lasciano a fare le relazioni ***


Sono i gesti a fare le persone,
sono le mani che non si lasciano a fare le relazioni


I giorni passavano veloci, troppo veloci. Shannon, Emma e Tomo erano tornati a Los Angeles e alla partenza di Miriam e Jared mancavano esattamente quattro ore.
La maggior parte delle cose erano state già spedite a Los Angeles e Shannon e Tomo avevano provveduto a trasportarle al MarsLab, dove stavano allestendo, all’insaputa di Miriam, una stanza appositamente per lei: lontana dagli studi, per farle avere privacy e accogliente al punto giusto.


Dopo aver chiamato un taxi e aver sistemato le ultime cose, Jared, non vedendola arrivare, sbuffò e urlò di conseguenza: “Miriam, sei pronta?”. Era tutta la mattina che andavano avanti così: lei ricordava qualche improvviso elemento a suo dire fondamentale e lui era costretto a riaprire sacche e trolley per cercare di infilarlo dentro. Ma ora si stava davvero facendo tardi e per quanto lui amasse quel lato leggermente ansioso e pasticcione di Miriam, stava prevalendo il suo istinto pragmatico.  
“Si, arrivo, un secondo, sto cercando di far entrare questo maglione in valigia” gridò di rimando Miriam, affaticata. 
“Maglione? Miriam, amore mio, in California non li mettiamo neanche a Natale i maglioni!”
“Ma questo è un regalo di mia nonna, non posso non portarlo”
“E portiamo il maglione della nonna, basta che ci sbrighiamo” acconsentì Jared ridacchiando e alzando gli occhi al cielo. Jared ormai non sapeva più quante cose aveva dovuto rimettere al proprio posto, nei giorni passati. 
 

Dopo qualche altro minuto di attesa, mentre Jared teneva aperta la porta dell’appartamento con un piede e scriveva un messaggio a Shannon, Miriam si presentò in salotto: “Si si, eccomi, sono prontissima!”.
Era vestita come un pinguino, nonostante fosse ormai maggio inoltrato. Aveva dei jeans scuri, una maglia rossa con sopra una giacca di velluto a costine. Al collo una pashmina che sembrava essere di seta misto lana e quel che inquietava di più era che dalla giacca spuntassero dei polsini bianchi, segno che aveva due maglie, una sopra l’altra. Il tutto era completato da un cappello, che era la cosa più normale in quel contesto. Tralasciando i colori, che però non stupirono Jared, considerando come amava accostarli lui. 


Jared la guardò a bocca aperta: “Ma che diamine ti sei messa, Miriam?”
“Oh, senti non entravano queste cose in valigia!” si lamentò lei, soffiando via un ciuffo di capelli ribelle che le ricadeva sugli occhi. 
“Già vedo i titoli dei giornali: Jared Leto con uno yeti all’aeroporto di Parigi!” disse, fissando il soffitto in maniera surreale e ridendo come un pazzo.
“Ehi, pantaloni dorati, smettila di prendere per il culo che sono comunque vestita meglio di te in certe occasioni”
“Andiamo, piccolo yeti che facciamo tardi” la esortò lui, lasciandola passare. 

Miriam uscì con i bagagli, mentre Jared chiamava l’ascensore. Diede un’ultima occhiata alla sua casa, al suo nido, poi sospirò e chiuse la porta, raggiungendo Jared con le lacrime agli occhi. 
Voleva essere felice, lo voleva davvero, ma lasciarsi dietro qualcosa è sempre difficile. Cercò di sorridere, per non dare un segnale sbagliato a Jared, ma non ci riuscì poi molto, e quando sentì la mano del suo compagno stringere la propria, sentì una sensazione di sollievo prenderle lo stomaco.

“Vedrai che troverai una casa molto più bella. E poi avrai me” le sussurrò piano Jared, dandole poi un bacio sui capelli e stringendola a sè. Capiva come si sentiva, o forse era convinto di capirlo, ma l'unica cosa che voleva era farla sentire protetta. E sperare che nella testa di Miriam tutta quella decisione non somigliasse ad un enorme errore. 
“Sai che affare ci ho fatto…” lo prese in giro lei, ridendo appena per stemperare il momento.
“Infatti ancora non capisco come tu abbia deciso di venirti ad impelagare in questa storia e vedermi tutti i giorni” le rispose, stando al gioco.
“Perché fare sesso con te è una delle meraviglie della vita, anzi, a volte credo sia fermamente l’unica” gli disse ammiccante, avvicinandosi a baciarlo, sorridendo.
 
L’aereo arrivò puntuale all’aeroporto di Los Angeles e Miriam si accorse di aver dormito tutto il tempo, e di essere stranamente eccitata all’idea di non dover più separarsi da Jared: ormai era partita, il più era fatto e la tristezza provata ore prima sembrava non essere mai esistita. 
Scesero e recuperarono i bagagli dal nastro, avviandosi verso l’uscita, dove presero un taxi e si diressero subito al MarsLab.
Miriam guardò Los Angeles dal finestrino, capendo quanto fosse felice di essere lì e quanto quella città le sarebbe piaciuta.


Non appena arrivarono alla base, Jared aprì il cancello e le fece strada. Sapeva che avevano organizzato qualcosa per lei, ma non credeva che fossero stati così bravi: il giardino era tutto pieno di palloncini colorati, fiori e addobbi da festa. Proprio sopra l'entrata del Lab cadeva un immenso striscione di stoffa colorata, decorato in maniera bellissima da una Emma artisticamente migliorata negli anni. Vi campeggiava la scritta "Benvenuta, Miriam!", e accanto vi erano fiorellini disegnati, foto di quei mesi e piccoli ricami. 

Lo staff era stato invitato a conoscerla e per l'occasione Tomo, adornato con un simpatico grembiule da cucina color verde pisello, decorato anche quello con una scritta identica a quella dello striscione, aveva preso posto davanti al barbecue che tenevano in giardino, vicino la piscina. Stava arrostendo salsicce, pannocchie di mais e verdure miste e Shannon si era occupato della musica che aleggiava nell'aria. 
La tavola campeggiava sul prato e si vedeva il tocco classico di una donna: Jared vide la precisione che Emma aveva messo in tutti i dettagli e sorrise, riconoscendone il tocco. 
Piatti dai colori misti, bicchieri color champagne e tovagliolini di varie misure e colori. Tutto era sulle tinte pastello e vi erano dei centrotavola di fiori e frutta secca meravigliosi. 

Quando Miriam entrò, seguita da Jared, rimase allibita. 
“Oddio!” esclamò Miriam coprendosi la bocca per la sorpresa.
“Ciao, francesina!” le disse Shannon, prendendola fra le braccia e stritolandola un po’.
“Voi siete matti!” disse Miriam, visibilmente commossa. Mai nessuno, forse, era riuscito a farla sentire così a casa. Mai nessuno aveva allestito per lei nulla che somigliasse vagamente a quella festa. Li vedeva tutti lì, affaccendati per lei, e sentì il cuore pieno di amore.

Emma la accolse con calore e Miriam notò che era bellissima, più del solito: le mise in mano un cocktail e le sussurrò complice: “Ti prego, fammene dare un sorso piccolissimo!”.
Miriam scoppiò a ridere e facendo caso a dove fosse Shannon, le passo il suo bicchiere, sorridendo ad una Emma che beveva chiudendo gli occhi per il piacere.


Tutti erano dolcissimi e sorridenti, ma Miriam continuava a sbirciare verso il barbecue: Tomo l’aveva salutata con un cenno della mano e sorrideva tranquillo, ma da parte sua non c’era stata la reazione che lei sperava. Decise di non farci caso e sperò che già il fatto che fosse lì a cucinare fosse un buon segno. Tempo al tempo, si disse.  

Passarono la serata a mangiare, e Miriam fu ufficialmente presentata allo staff, al qualche venne spiegato che avrebbe vissuto lì per un po’, tempo di trovare una casa. Conobbe così Stevie, Jamie e Shayla, nomi che aveva sentito spesso dalla bocca di Jared: averli lì in carne ed ossa era semplicemente assurdo e fantastico allo stesso tempo. 
Miriam era leggermente imbarazzata, ma il comportamento di Jared, che appariva premuroso ed innamorato, la stava aiutando a rilassarsi a sua volta. Non mancava mai di farle sentire la sua presenza, di prenderle la mano o sorriderle dolcemente. 

Questo suo atteggiamento particolarmente romantico non era passato inosservato nemmeno alla Mars Crew, la quale ora guardava allibita Jared: aveva davvero messo la testa apposto? Avevano visto passare molte donne di lì, ma nessuna che aveva mai rapito davvero l’attenzione del cantante.

“Quindi, ricapitolando: Shannon si sposa e diventa papà, con Emma tra l’altro, e tu hai finalmente trovato quella che possiamo chiamare la donna della tua vita? Il mondo finirà presto, ragazzi” esclamò una ragazza mora molto simpatica. Tutti scoppiarono a ridere e i fratelli si scambiarono un cenno di intesa, alzando i bicchieri in un simbolico brindisi.

Finirono di mangiare molto tardi ed Emma aiutò Miriam a sistemarsi nella sua stanza. Chiacchierarono per qualche minuto ed Emma le promise di portarla a conoscere meglio la città nei giorni seguenti, prima di congedarsi e lasciarla riposare.

“Ehi, si può?” chiese piano Jared, bussando allo stipite della porta.
“Certo, vieni” gli rispose Miriam, lasciando andare la maglia che aveva in mano e avvicinandosi piano a lui.
“Tutto bene?”
“Si, sono solo molto stanca”
“E’ normale, bambina. Però io vedo che c’è qualcosa che non va…” le disse accarezzandole i capelli.
Miriam sbuffò piano e distolse lo sguardo: non voleva essere così trasparente e non voleva dire niente a riguardo, ma la carezza di Jared e i suoi occhi così immensi non la aiutarono a non svuotare il sacco. Prendendo coraggio, sussurrò appena imbarazzata: 
“E’ che Tomo… sai, durante la cena…” non riuscì a spiegarsi, ma seppe che Jared aveva capito.
“Miriam, ha bisogno di tempo. Lascialo tranquillo, non ce l’ha con te”. 
Lei lo guardò negli occhi e non ne fu totalmente convinta, ma decise di lasciar perdere. Annuì silenziosamente e si alzò sulle punte per dargli un bacio, il primo bacio losangelino, pensò.
“Ora scappo, devo fare delle cose. Ci vediamo domani, bambina” le disse teneramente, prima di lasciarla lì, sola.
Miriam si guardò intorno e non seppe dire perché ma si sentì scombussolata: era un cambiamento immenso e gli scatoloni intorno a lei, che avrebbe provveduto a sistemare il giorno seguente, ne erano la prova. Si stese sul letto e fortunatamente prese sonno subito, lasciando che i pensieri non la attanagliassero più.
 
“Buongiorno, bambina” esclamò Jared piombandole sul letto mentre era ancora addormentata, la mattina seguente. Le baciò il naso, e il viso, fino ad arrivare alla bocca, sulla quale lasciò molto più di un casto bacio. Miriam si svegliò e le sembrò di sognare: Jared le stava augurando il buongiorno, ed era la cosa più meravigliosa di sempre.
“Buongiorno, Jared. Già qui?”
“Si, dobbiamo metterci a provare per il tour americano, abbiamo molto da fare, ma prima volevo salutarti”
“E’ bello vederti, lo sai?”
“Hai dormito bene?” le chiese stendendosi accanto a lei e sostenendo la testa con il braccio piegato.  
“Si, moltissimo” gli si rannicchiò contro il corpo Miriam, coprendosi fino al naso. "Ma mi sei mancato" sussurrò poi, annusando il suo odore, che aveva il potere di farla andare fuori di testa. 
“Ehi, cosa nascondi qui sotto?”. Jared prese il lembo del lenzuolo e lo sollevò piano, sbirciando sotto e facendo finta di non sapere cosa ci fosse.
“Qualcosa che dovrai faticare per avere, Leto! Sciò, a lavoro!” gli disse, cacciandolo.
“Sei una sadica… tornerò a prendermi ciò che è mio” le disse sulle labbra e Miriam per un momento pensò di tenerlo lì con sé, ma aveva fatto una promessa e intendeva rispettarla: non avrebbe intralciato il lavoro né di Jared, né di nessuno lì dentro. Quindi si forzò di mandarlo via davvero e gli disse che si sarebbero visti più tardi.


La vita, nei giorni seguenti, scorreva tranquilla. Miriam passava le sue giornate pigramente sdraiata al sole del MarsLab, rilassandosi in vista dell’inizio del suo nuovo lavoro, che le avrebbe sicuramente lasciato poco tempo libero. Usciva spesso da sola, e altre volte con Emma, che stava aiutando con i preparativi dell’imminente matrimonio.
Jared era felice di averla intorno, di poterla vedere ogni volta che voleva, di poterci fare l’amore tutti i giorni e di poterla portare a cena fuori senza dover programmare con mesi di anticipo.

Quel giorno aveva fatto un bel giro per Los Angeles con Emma, avevano scelto l’abito di nozze e sistemato la questione location per il ricevimento.
Emma sosteneva di volere pochissimi invitati e continuava a ripetere che era un rito che per lei e Shannon significava moltissimo. Era bello vederla così presa e Miriam cercava di aiutarla come meglio poteva.


Rientrò al MarsLab nel tardo pomeriggio, stanca e accaldata e andò verso la sala di registrazione, sperando di trovarci solo Jared.
Entrò piano, si avvicinò a lui, e chinandosi a baciargli i capelli, gli disse: “Ciao, straniero”.

Non lo chiamava così da quando si erano conosciuti alle Hawaii, e in quel periodo era molto malinconica.
“Ciao, bambina” le rispose lui, allungando una mano dietro di sé a toccarle una gamba.
“Hai finito di lavorare?”
“Non si finisce mai…” disse esausto, chiudendo gli occhi e godendosi il massaggio che Miriam aveva iniziato a fargli. Pensò che la prima volta che avevano parlato di avere un progetto comune era stato a Madrid, mentre Miriam gli mostrava le sue doti di massaggiatrice prima del concerto. Pensò che era passata un’eternità da quel momento e lei ora è lì con lui, e non gli sembrava ancora vero.

Sorprendendola, girò lo sgabello dove era seduto, fino a ritrovarsi davanti a lei, mettendole le braccia intorno alla vita e poggiando il mento alla sua pancia: la guardò dal basso, incontrando i suoi occhi espressivi e il suo sorriso pazzesco.
“Un massaggio al giorno, ti pago, non ti servirà lavorare e potrai stare tutto il giorno in piscina a rilassarti” le propose e in realtà non sapeva quanto stesse scherzando.
“Bella prospettiva, Leto, quasi quasi accetto…”
Jared le sorrise e la lasciò andare, vedendola che correva ad accoccolarsi sul divano, poco distante. Lui iniziò a sistemare gli spartiti e le chiese curioso: “Cosa hai fatto oggi? Non sei stata nei paraggi”
“Ho accompagnato Emma per delle commissioni e poi ho fatto un po’ di shopping”
“E ti andrebbe una cena solo io e te?”
“Certo, dove mi porti?”
“A casa mia, ovviamente”
“Non sapevo che avessi un ristorante in casa”
“No, però ho un divano molto accogliente e volendo anche un letto che non aspetta altro che essere provato da te” disse malizioso.
“Quel letto già mi conosce”
“Errato, Avvocato… non sei mai arrivata su quel letto” la corresse, alzandosi e baciandola con passione. Miriam ci pensò e scoprì che lui aveva ragione: a Capodanno avevano solo dormito insieme nel letto di Jared.
“Allora ci sto, non posso non conoscere il tuo letto, Leto”
“Giustissimo, direi”.

Presero del cibo messicano che consumarono, freddo, direttamente nel letto, nudi e felici.
“E’ bello mangiare nel letto dopo aver fatto l’amore, dovremmo farlo più spesso” gli disse mordendo il suo burrito.
“Stai diventando una ragazza pessima”
“Lo sono sempre stata, Leto, sei tu che non te ne sei mai accorto” rise lei.
Passarono la serata a vedere la tv, pigramente abbracciati l’uno all’altra, come se stessero insieme da una vita, coccolandosi piano e godendosi un film comico che commentarono, trovandosi palesemente in disaccordo su qualsiasi evento. Si addormentarono tardissimo, insieme, e si svegliarono che il cielo era già blu e il sole era già alto.


“Jared, buongiorno” sussurrò lei, ancora nuda, sovrastandolo con il suo corpo e mordendogli piano il collo.  Appena aperti gli occhi si era resa conto di non essere mai tornata al Lab e lo aveva guardato dormire accanto a lei. Aveva seguito col il dito il profilo del suo viso e poi aveva sorriso maliziosamente, andando a prendere posto su di lui, per svegliarlo. 
Ora gli lasciava umidi baci sul collo, arrivando al tatuaggio che aveva sul petto, per poi risalire verso la sua bocca. 
Jared aprì gli occhi e sentì quel meraviglioso peso su di lui, percependone la pelle nuda e morbida e reagì all’istante: la strinse a sé, facendole sentire che aveva voglia di amarla ancora.

“Anche questo dovremmo fare più spesso” le disse, ricollegandosi al discorso della sera prima, la voce roca e la bocca che cercava le sue labbra.
“Non mi sembra che ti abbia fatto mancare il sesso”
“No, ma non è mai abbastanza…”
“Ingordo”
“Colpa tua” le sussurrò mordendole il labbro.

Alle dieci entrarono insieme, mano nella mano, al MarsLab, dopo essersi fermati a prendere la colazione per tutti: muffin assortiti e caffè a profusione. Miriam lo baciò piano e salutò tutti, per andare poi a ritirarsi nella sua stanza, godersi una doccia e decidere come occupare la giornata: doveva ancora pensare ad un regalo per Shannon ed Emma e doveva incontrare con quest'ultima il fiorista incaricato del bouquet e degli addobbi floreali.  
Shannon arraffò il caffè e dimenticò subito l'intenzione di prendere in giro Jared per quell’entrata da fidanzatino innamorato, mentre Tomo addentando un muffin buttò giù il carico da undici.

“Insomma, avete già abbandonato la stanza di sopra?” chiese divertito. 
“Cosa?” chiese Jared, facendo finta di non capire.
“Dico, siete in seconda base?” spiegò ancora, facendo un eloquente ed ampio gesto con la mano per fargli capire la domanda, certo che Jared avesse già capito molto bene. 
“La seconda base è passata da un pezzo, Tomo” rispose Shannon, perdendo i sensi nel caffè forte che aveva in mano.
“Non quella seconda base, maniaco. La seconda base casa intendo”
“No, Miriam vive ancora qui, ma ci siamo addormentati davanti la tv ieri sera” spiegò Jared, trucidando entrambi con lo sguardo.
“Non credi sia un po’ inutile non farla stare da te? Alla fine ci state spessissimo, che cambia?” gli chiese Shannon.
“Lei non vuole, gliel’ho detto un paio di volte, ma non vuole ed io non voglio forzarla. Dice che è un passo importante e dobbiamo esserne consapevoli” rispose Jared, iniziando a picchiettare le dita sui tasti bianchi e neri del suo pianoforte. Lo faceva sempre quando qualcosa lo agitava o lo metteva di cattivo umore. O quando semplicemente sentiva di essere giù di corda. 
“Ha ragione, è molto saggio da parte sua, anche se credo parli più per paura che per altro” gli disse Tomo, seriamente.
“Si, forse si, però non ha senso obbligarla. Già venire qui è stato un passo importante per lei. E poi se vive qui, almeno finchè non lavora, possiamo vederci più spesso” spiegò Jared. Poi si rivolse a Shannon: “Fratello, meno cinque, come va?”
“Emma è isterica, però siamo a buon punto. Vi daremo informazioni in merito”.
Shannon era una persona tranquilla, addosso a lui sembrava scivolare qualsiasi cosa, e se aveva il caffè in mano, era sicuro che attorno a lui potesse accadere qualsiasi catastrofe: lui non ne sarebbe rimasto sconvolto. Questo spiegava perché, nonostante mancasse poco al grande giorno, Shannon fosse banalmente e quasi fastidiosamente sereno. Al contrario di Emma, per la verità.

“Sembra che tu stia parlando di una serata in discoteca e non del tuo matrimonio: vi daremo informazioni in merito, ma come cazzo parli?” lo prese in giro Tomo, imitando platealmente la sua voce e ridendo, seguito subito da Jared.
Shannon li guardò male e ringhiò, come a voler chiudere il discorso: “Iniziamo?”. Si sedette sul seggiolino della sua Christine e prese le bacchette, afferrando subito dopo i tappi per le orecchie. 
“Si, iniziamo solo se ci dai informazioni su come dobbiamo iniziare” disse Jared, ridendo come un pazzo insieme a Tomo. 
“Due cretini, ecco chi frequento io tutti i giorni: due emeriti cretini”. Detto ciò si chiusero in studio fino a sera.
 
Fu così che il giorno del matrimonio arrivò. Emma era tornata a casa sua, salutando Shannon con un bacio e il dolce pensiero che si sarebbero baciati di nuovo da marito e moglie.
Lei non considerava necessario tutto quel trambusto e avrebbe preferito prepararsi lì dove ormai conviveva con Shannon da un paio di mesi.
Nonostante il tour che li aveva tenuti lontani da LA per quasi tutta la primavera, nelle rare tappe che avevano fatto in California durante quei mesi, Emma e Shannon avevano trovato il tempo di decidere il loro futuro e di fare il trasloco. 
Ormai lei aveva lì tutte le sue cose, quella era il nido che chiamava casa quando voleva chiudere il mondo fuori. Tuttavia Miriam, ma anche gli altri, avevano insistito sull’importanza del rito di passaggio, così lo aveva chiamato Jared e li avevano costretti ad una notte ed un giorno separati.


Miriam arrivò al mattino presto, con tutto il necessario: buste per lo stress, muffin, parole crociate e libri. In quel periodo avevano passato molto tempo insieme e si erano legate moltissimo, cosa che aveva sorpreso entrambe. Avevano organizzato praticamente tutto insieme, passando intere giornate fra fiorai e negozi di abiti. Emma voleva un giorno molto semplice ed insieme erano riuscite ad organizzare un matrimonio perfetto.
“Sposiiiiiiiiina, come stai?” urlò felice, entrando in casa e sentendo uno strano silenzio.
“Nel panico, il vestito non mi sta, i capelli sono orrendi, ed io sono una mongolfiera” piagnucolò sbattendo i piedi Emma, mentre le mandava incontro. Era in un babydoll con i coniglietti disegnati e Miriam le scoppiò a ridere in faccia, non riuscendo a fermarsi.
Riprese fiato e cercò la concentrazione necessaria, vedendo che l’espressione di Emma si stava indurendo: “Ma no, smettila, vieni qui” le disse prendendola fra le braccia.
“Vedi?! Neanche riesci ad abbracciarmi per quanto sono grossa! Avremmo dovuto aspettare a sposarci”
“Emma, ma questo è un giorno importante per voi e tu sarai bellissima. Il vestito che hai scelto sembra tagliato per te, devi solo calmarti e goderti la giornata” la rimbeccò dolcemente. Nei giorni precedenti avevano parlato tanto e Miriam sapeva delle perplessità di Emma, ma aveva cercato di calmarla.
“Non ci riesco, mi viene da piangere!”
“E allora piangi, così poi sarai libera e potremo rilassarci”
“Davvero di…ci?!” chiese iniziando già a singhiozzare. Miriam la guardò scoppiare in lacrime e la prese di nuovo fra le braccia, accogliendo quel momento di nervosismo.
Pensò a quanto si erano detestate, a quanto Emma fosse stata scortese con lei, e a quanto lei fosse stata stupida nei suoi confronti. Pensò a come si erano parlate nel backstage a Madrid e poi a come erano riuscite ad entrare in sintonia, senza dirsi grandi cose, senza fare grandi cose.
Emma l’aveva aiutata ad ambientarsi a Los Angeles, facendole conoscere la città e le cose principali, presentandole il suo parrucchiere e la sua estetista, nonché il centro dove andava a fare massaggi rilassanti e tonificanti.
Miriam aveva sfruttato il suo romanticismo e il suo estro per organizzare con lei il matrimonio e avevano scoperto di avere molte cose in comune: erano pazienti, dolci, carismatiche e divertenti. Miriam era molto più insicura di Emma, ma quest’ultima le aveva promesso di aiutarla su quel fronte.
Pensando a quel percorso si ritrovò commossa, e quando Emma sciolse quell’abbraccio e le vide gli occhi lacrimosi le disse: “Eh però così non andiamo da nessuna parte!”

“Hai ragione, scusa. Solo che ho pensato a quanto eravamo distanti e a quanto siamo migliorate. Credo di doverti ringraziare, Emma"
“No, dovrei ringraziarti io per essere stata qui e per esserci ancora oggi, per me è molto importante" le rispose. Poi la guardò meglio e sentì di avere qualcosa da dirle, qualcosa di molto importante: "Avevo solo paura che volessi sfruttare Jared, che gli facessi del male. E’ una delle persone a cui tengo di più e non volevo vederlo soffrire” le confidò, sorridendo e sentendo le guance rosse.
Non era una persona che amava esternare i propri sentimenti: era abbastanza dura e sicuramente riservata, e la metteva in imbarazzo dire ciò che provava alle persone.
Negli anni di vita vissuta spalla a spalla con Jared, e la Mars crew aveva affinato le sue doti di perfezionista ed era diventata un asso nel suo lavoro: era affidabile e ormai Jared, ma anche gli altri, la consideravano indispensabile. Aveva trovato una famiglia, anche, ma non era mai riuscita a migliorare sul campo sentimenti, che rimanevano sempre una nuvola grigia nella sua vita. Amava tante persone, ma non riusciva mai a dire loro quanto.

Solo che in quel momento, complici gli ormoni della gravidanza, e l’emozione del momento, aveva sentito l’impellente bisogno di ammettere a Miriam quanto iniziasse a legarsi a lei e quanto ora la stimasse.
Era stato come se non potesse fare a meno di quella confessione, come se dovesse a tutti i costi pronunciare quelle frasi, come se ne valesse addirittura la sua vita.

Fu però grata a Miriam, che colse le sfumature più sottili del discorso e con un sorriso radioso chiuse il discorso, togliendola dall’impaccio: “Dai, iniziamo a prepararci?”. Le regalò un sorriso radioso e la trascinò verso la stanza da letto. 
Il parrucchiere sistemò entrambe e il truccatore fece miracoli, poi fu il momento dei vestiti e Miriam dovette fare il clown perché Emma non piangesse ancora, rovinando tutto il lavoro di make up che l’aveva resa, se possibile, ancora più bella e radiosa.

Stessa città, poco lontano, stesso nervosismo. Shannon camminava avanti ed indietro dentro la casa che era nei giorni precedenti diventata a tutti gli effetti la loro casa.
Si guardò intorno e vide le riviste di Emma, le sue pantofole, le foto che insieme avevano sistemato sul camino. C'era il suo tocco e tutto era più radioso, pensò. 
Era emozionato, ma sentiva anche il nervosismo crescergli dentro: ancora non era riuscito a vestirsi. Aspettava Jared, che non sapeva dove diamine si fosse cacciato.


Tomo arrivò in orario, già vestito e impeccabile: “Amico, stai uno schifo”
“Ho dormito poco e male, e ho passato la mattinata con Christine”
“Addio al celibato?”
“Si, in piena regola direi” sorrise stando al gioco.
“Jared?”
“Non lo so, doveva essere qui venti minuti fa”
“Va bene dai, cominciamo i preparativi”
“Tomo, mica devo truccarmi, devo solo infilare l’abito”
“Che palle che sei, pure oggi!”
“Senti, a proposito… Emma mi ha detto che ieri l’ha chiamata Vicky, voleva congratularsi, credo, ed è stata molto gentile. Emma le ha spiegato la situazione, però si è sentita in colpa e le ha detto dove ci sposiamo…”
“Tranquillo, Shan, se verrà andrà bene” disse velocemente Tomo. In realtà si sentiva inquieto all'idea che Vicki si affacciasse di nuovo, ma non poteva negarle l'amicizia con Shannon ed Emma, nonostante non ci fossero più molti contatti fra loro. E non voleva assolutamente dare pensieri inutili ai suoi amici in un giorno così importante. 
“Se vuoi posso chiamarla e dirle di non venire, ma non so manco se verrà davvero, insomma, dimmi tu”
“Goditi questa giornata e non pensare a nulla. Io starò bene e vorrei solamente che provassi a rilassarti”
“Non è facile… l’anno scorso me ne facevo una a sera, ora mi sto sposando e avrò un figlio entro tre mesi, cazzo”.
Shannon si mise le mani sui fianchi e guardò fuori dalla finestra, pensando seriamente a ciò che aveva appena detto all’amico.
Poteva davvero tutto cambiare così velocemente? Sarebbe davvero riuscito ad essere un buon padre, un buon marito? Sarebbe stato in grado di non essere inghiottito dalla paura e da mille altri casini? Sarebbe rimasto, come invece non aveva fatto suo padre anni prima?


Tomo lo fissò di spalle e come se avesse letto nella mente di quello che era più un fratello che un amico, decise di spezzare ogni pensiero buio. Gli andò vicino e poggiando una mano sulla spalla di Shannon, pronunciò solennemente: “Leto hai messo la testa apposto tutto insieme, sono fiero di te”.

Finalmente arrivò Jared, trafelato con una busta che sembrava pesare moltissimo.
“Finalmente, dove eri?” esclamò Shannon.
“A farti un regalo”
“Ci mancava… sono preoccupato, Jared”
“Tieni qua” gli disse ignorando le parole di suo fratello. Gli passò un cofanetto di medie dimensioni, tutto nero fatta eccezione che per un nastro bianco che lo chiudeva in cima. Shannon lo aprì curioso e trovò dentro un cd dorato, lo prese scrutandolo e poi lo infilò rapidamente dentro al lettore dvd, per poi sedersi sul divano e premere play, leggermente incuriosito. 

Partì Convergence su uno schermo nero, totalmente nero. Poi piano delle foto e dei spezzoni di vita passati insieme: il passato, la loro mamma, i loro viaggi, le loro follie, i mille aneddoti, i pancakes vegani e le città che avevano toccato insieme. L’inizio dei Mars, l’arrivo di Tomo, quel trio che piano era diventato famiglia. Le loro scorribande post concerto, loro con i fan, loro scazzati, loro che mangiavano alle cinque del mattino. E ancora Shannon alla batteria, Shannon con Emma molti anni prima, quando tutto era ancora acerbo, quando niente lasciava presagire come sarebbe andata a finire.

Shannon lo guardò e si commosse, vedendo quanto il fratello avesse messo cura in quel piccolo film personale, e quanto Tomo avesse messo del suo nel definire le musiche, i suoni, i colori. Lì dentro c'erano i suoi amici, si vedeva in ogni sfumatura possibile. Erano stati due perfetti e fottuti geni, e l’avevano fregato: si era commosso e faticava a ricacciare indietro le lacrime.

Il video finiva con un messaggio: Jared e Tomo, seduti per terra nel loro MarsLab, completamente orfano di strumenti per l’occasione, gli ricordavano cose successe e lo prendevano in giro come sempre.
Gli ricordavano come avevano iniziato quell’avventura e quanto per loro fosse importante e quanto avrebbe continuato ad esserlo. Ma gli dicevano anche che la vita vera è altro ed erano felici che lui se ne fosse reso conto, si meritava tutto l’amore del mondo, perché era un uomo buono e pieno di pregi indescrivibili, per quanto riuscisse a parlarne solo con Christine, di cui tutti erano un po’ gelosi.


“Vi odio” si lamentò, asciugandosi il viso, quando, sulle note di L490 il video finì, lasciando un’immagine fissa: era una vecchia fotografia che aveva scattato Jared un paio d’anni prima e ritraeva Shannon ed Emma che ridevano a crepapelle.
“Ci ami, non è possibile il contrario” gli rispose Jared, avvicinandosi a lui. Tomo li raggiunse e si chiusero in un abbraccio sincero, che diceva molto su tante cose: erano una famiglia, e lo sapevano bene.

Il pomeriggio a Malibù era assolato e caldo. Tirava un vento leggero, che riusciva a far svolazzare i vestiti con una classe particolare. Tutto era pronto, su quella piccola spiaggia deserta: era una caletta riservata e perfetta per un’occasione del genere, posta direttamente davanti la bellissima casa sulla spiaggia che avevano affittato per l’occasione e dove si sarebbe svolto il party.
La villa, in puro stile californiano e disposta interamente su un unico piano, era elegante e accogliente e aveva un'ampia terrazza che comunicava con l'interno del salotto tramite delle pareti in vetro completamente apribili. 
Dalla staccionata in legno, al limitare della terrazza, partiva qualche gradino, al termine dei quali era stata montana una passerella in legno, che portava alla pedana tonda, dove si sarebbe svolta la cerimonia. 


Tutto era stato curato tutto nei minimi dettagli: la pedana di legno sulla sabbia, le sedie di ferro battuto grigio antracite disposte a semicerchio, il tendone bianco che svolazzava leggero, e le candele profumate che contornavano il perimetro della pedana stessa e della passerella subito prima. Le fiammelle erano leggermente mosse dal vento e tutto sembrava avere un'aurea di magia. 
Su ogni sedia vi era un segnaposto composto da una E ed una intrecciate, in legno di bambù. Stretto vi era un piccolo petalo con inciso il nome del suo proprietario e un piccolo fiore: da legare al polso per le donne, da mettere all’occhiello per gli uomini. 
Accanto alle sedie degli sposi erano disposte due grandi ampolle piene di acqua e petali di rosa. All'interno, placide, galleggiavano le stesse candele che adornavano la pedana, facendo sprigionare un profumo inebriante. In un angolo un quartetto jazz suonava musica che si perdeva nel vento.


Emma arrivò puntuale, in una macchina guidata da suo padre, scese e si trovò subito Miriam accanto, una colonna per lei, come gli ultimi giorni passati. Si sorrisero e camminarono fino all'ingresso della villa.

Quando arrivò all’inizio della passerella, la piccola orchestra jazz intonò una melodia leggera. Aveva scelto di andare all’altare da sola, perché le piaceva l’idea di raggiungere il suo sposo senza nessuno a guidarla, come se quel momento fosse veramente solo loro. Lei stava raggiungendo con i suoi passi l'amore della sua vita, non serviva che nessuno passasse nessun testimone: erano lei e Shannon, pronti ad iniziare un nuovo cammino. 


Gli invitati, circa una trentina in tutto, la videro e si alzarono in piedi, ammirando una sposa bellissima e raggiante. Shannon si voltò e il suo cuore perse un colpo: perché ci aveva messo tanto a capire di amarla? Non importava più, ora che la vedeva camminare sicura verso di lui, lei e il loro bimbo.

Indossava un abito bianco candido, corto al ginocchio, in stile impero. Aveva due fasce a coprirle i seni che finivano in dei triangoli di stoffa che le coprivano le spalle, andando a formare il dietro dell’abito, completamente coperto di bottoncini.
Appena sotto il seno, era stata posta una cinta di stoffa, che formava il simbolo dell'infinito e aveva una sfumatura di bianco diversa da quella dell'intero abito. Poi il vestito cadeva morbido formando delle pieghe molto romantiche.
Ai piedi delle decollete bianche dal tacco non troppo alto, i capelli raccolti in un morbido chignon basso che lasciava qualche ciocca ribelle cadere, incorniciandole il viso.
Il suo bouquet era composto da tre girasoli a gambo lungo, tenuti insieme da un fermaglio bianco. Shannon la osservò raggiungerlo e pensò che fosse la creatura più bella che avesse mai visto.


Appena lo raggiunse si sporse a baciargli una guancia e Shannon posò una mano sulla sua pancia: era bello averli entrambi lì. Emma sorrise e si sentì completa.
Miriam era sgattaiolata vicino a Jared, che le aveva stretto la mano dandole un veloce bacio sui capelli.
La cerimonia scorse veloce e romantica: al si seguì il rito degli anelli, e poi il classico bacio: Emma e Shannon erano finalmente marito e moglie e Jared pensò che si rincorrevano da così tanto tempo, che forse avevano davvero meritato la perfezione di quella giornata.


Si presero per mano e si apprestarono a presentarsi ai loro invitati che iniziarono a lanciare petali di fiori, poi si spostarono tutti nel terrazzo rialzato della casa.
Il catering si era occupato della cena, tutta a buffet e a base di finger food etnico. Avevano voluto celebrare il modo in cui si erano conosciuti negli anni e innamorati: in giro per il mondo. Emma e Shannon erano raggianti e non facevano altro che cercarsi fra gli invitati e lanciarsi sguardi innamorati, era una gioia pazzesca vederli così.

“Ciao, moglie” le disse all’orecchio, prendendole piano la mano.
“Ciao, marito” rispose lei girando leggermente il viso e sorridendo felice.
“Posso rubarti un attimo?”
“Ma si, dai”
Shannon le strinse la mano e la portò in riva al mare, costringendola a togliersi le scarpe per non rovinarle. Tutto era perfetto, visto da lì, e lo sarebbe stato ancora per molto.
“Stai bene?” le chiese apprensivo. 
“Moltissimo, sono felice”
“E’ incredibile che l’abbiamo fatto davvero”
“Sei pentito?”
“Assolutamente no, signora Leto” le disse, abbracciandola e poggiando le labbra sulla fronte di Emma. Rimasero lì per un po’, soli a chiacchierare e a farsi cullare dalla dolcezza di quella giornata.

La festa procedeva serena e molto intima, quella sensazione che volevano Shannon ed Emma e che si era creata a perfezione.
Jared si girò verso l’arco di ingresso della terrazza e vide qualcosa di strano. Raggiunse subito Tomo e, imbarazzato gli parlò: “Tomo, c’è…” disse Jared piano.


Una piccola figura mora, leggermente imbarazzata, che sembrava sentirsi fuori luogo, si era presentata nel terrazzo dove si stava svolgendo la festa. Aveva un abito rosa confetto, corto e molto elegante e Tomo quando la vide ebbe un colpo al cuore. Smise di mangiare, poggiando il suo uramaki al salmone sul piatto che aveva in mano, mollandolo successivamente a Jared; si fermò un istante e poi, sicuro, le si avvicinò.

“Tomo, ciao, scusa, sono solamente venuta a fare le congratulazioni a Shannon ed Emma, poi andrò via” disse tutto d’un fiato, come per scusarsi della sua presenza. Si sentiva molto osservata, forse perché molti, se non tutti, sapevano chi fosse. Forse perché c’era un particolare che la rendeva diversa agli occhi anche dei suoi più cari amici.  
“Ciao, Vicky” rispose solamente lui, sentendo il suo corpo reagire in maniera inusuale: improvvisamente era più rilassato, più tranquillo.

Vicky lo guardò spaesata, perché non vedeva l’astio che si era aspettata negli occhi di Tomo. Era in forte imbarazzo e cercò con gli occhi gli sposi: voleva trovarli e scappare di lì, le era costato tanto andare, ma ci teneva molto a congratularsi di persona.
Per molti anni quelle persone erano state i suoi più cari amici e lei aveva sofferto molto nel perderli quando il suo matrimonio era andato in rotoli. Emma aveva tentato di rimanere in contatto con lei, l’aveva chiamata più volte, ma diventata sempre più difficile, anche per via della sua relazione con Shannon, così alla fine era stata proprio Vicki a tagliare corto e farsi da parte. Doveva almeno quello a Tomo, aveva pensato.


Jared attirò l’attenzione di Shannon ed Emma, richiamandoli al loro dovere di protagonisti, e loro la videro subito, ferma con Tomo accanto. Apparentemente si stavano solamente scrutando, ma Shannon temeva il peggio.
“Shan, ma hai visto…” sussurrò stupita Emma.
“Si, ho visto… andiamo” le disse di rimando, prendendola per la mano e affrettandosi a raggiungere la terrazza.

Non appena furono abbastanza vicini, Emma sfoderò tutta la sua maestria nel salvare situazioni critiche dal disastro completo e, allargando le braccia, le disse con tono felice: “Vicky, cara, ciao!”.  
Vicky nel vederla cambiò espressione, si sentì quasi mancare, ma tentò un ultimo disperato salvataggio: sorrise piano e si toccò i capelli come se fosse l’unica cosa da fare. Poi, schiarendosi la voce, le rispose: “Emma, congratulazioni, sei bellissima”, si voltò verso Shannon e fece gli auguri anche a lui.

“Grazie, siamo felici che tu sia passata”
“Oh, mi fermo solo un attimo, ci tenevo a vedervi oggi, ragazzi”
“Vuoi qualcosa?” le chiese Emma sorridendo.
“No, grazie Emma, davvero” disse imbarazzata sperando che tutto finisse al più presto. Era grata che nessuno avesse commentato, ma voleva davvero andare via.
“Dai, almeno qualcosa da bere” continuò Emma. E Tomo aggiunse: “A me non da fastidio se rimani”. Non era un modo per darle il permesso, sentì la sua voce addolcirsi e il suo viso sorriderle: era un modo per creare un contatto.
Vicky lo guardò stupita da quella affermazione e si sentì sollevata, così sorrise e si sentì quasi costretta ad accettare la proposta di Emma, che la prese sotto braccio e la condusse verso il buffet, fregandosene degli sguardi che tutti stavano riservando alla donna.


“Cos’era?” disse Shannon a Tomo non appena furono rimasti soli, entrambi a guardare le due donne che parlottavano.
“Niente, mi sembrava scortese mandarla via così”
“Tomo, non so se hai notato…” intervenne Jared, cauto.
“Si, ma ci sarà il tempo delle spiegazioni, sempre che lei voglia darmele, non è affar mio in fin dei conti”
“Stai bene, amico?” chiese Shannon.
“Si, bene, tutto bene” rispose sicuro Tomo, più sicuro di quanto fosse in realtà.

Emma fu cortese e molto dolce con Vicky e lei prese mano a mano più sicurezza. Dopo qualche breve chiacchiera, la presentò a Miriam, sperando che quest’ultima fosse così brava da non dire troppe cose.
“Vicky, vieni ti presento una new entry” le disse guidandola verso Miriam. “Lei è Miriam, udite udite, la fidanzata di Jared” disse ridendo e calcando molto su una precisa parola.
“Fidanzata!?” esclamò Vicky esterrefatta. Poi aggiunse: “Scusami, piacere sono Vicky, la… un’amica di Emma e Shannon” concluse. 
Miriam sorrise e porse la sua mano: “Piacere mio” disse.
“Scusami davvero ma non credevo che la parola fidanzata e la parola Jared potessero mai essere nella stessa frase”
“Neanche io, a dirtela tutta” disse Miriam, facendo scoppiare una risata alle due donne, una risata che serviva e allentò la tensione.
“Lei è francese e si è appena trasferita qui a Los Angeles, mi ha aiutato lei ad organizzare il tutto e devo dire che è adorabile” disse Emma, passando un braccio dietro le spalle dell’amica.
“Siete state bravissime, è tutto molto bello ed elegante” rispose Vicky, guardandosi intorno. “E come mai LA?”
“Volevo cambiare qualcosa, e poi, beh, Jared è fisso qui” disse un po’ timida.
“Capisco, cosa fai nella vita?”
“Sono un avvocato, inizierò a lavorare per una multinazionale fra un paio di settimane”
“Wow, bellissimo, complimenti”. Le chiacchiere scorsero veloci per qualche altro minuto, fino a quando Vicky si congedò per andare a prendere dell’acqua. Voleva ancora andare via, ma iniziava a sentirsi più tranquilla.

“Cosa ne pensi?” chiese Emma a Miriam piano, mentre entrambe la guardavano.
“E’ molto carina ed è stata molto coraggiosa a venire” rispose Miriam sincera, guardando la donna che le aveva appena lasciate. “Tomo come l’ha presa?”
“A quanto pare bene, ho chiesto ai ragazzi di tenerlo d’occhio”
“Non sembra un matrimonio, ma lo scenario di uno strano film poliziesco” rispose di nuovo Miriam.

Vicky era in attesa della sua acqua minerale, quando sentì qualcosa muoversi accanto a lei, si girò istintivamente e vide Tomo sorriderle. Era più bello che mai, stretto nel suo abito da sera, con la barba di qualche giorno e un bicchiere di Martini in mano. Gli sorrise, incapace di dire o fare altro.
“Come stai?” le chiese di punto in bianco.
“Sono un po’ stanca, ma sto bene”
“Ti va di fare due passi sulla spiaggia?”. Non le andava molto, perché si sentiva in colpa e si vergognava di molte cose, ma non poteva negargli una semplice passeggiata, quindi sorrise accettando.
Prese il suo bicchiere d’acqua e lo seguì in silenzio verso la pedana che aveva ospitato la cerimonia. La superarono per affondare i piedi nudi nella sabbia e rimanere in riva all’oceano, era ormai notte e il cielo era puntinato di stelle bianche. Le uniche luci erano quelle che venivano dalla casa dietro di loro e illuminavano il vestito di Vicky in maniera classica e sensazionale.


“Stai bene vestita così” le disse lui, per rompere il ghiaccio più che per farle un vero complimento. 
“Grazie, questo l’abbiamo comprato insieme…”
“Si, mi ricordo, a New York”
“Esattamente, ti ricordi che l’abbiamo anche dimenticato in quel ristorante?”
“Si, e il cameriere non voleva ridarcelo, perché non credeva che fosse nostro”
“E alla fine ci ha salvati una ragazzina che lo aveva notato mentre lo tiravo fuori durante il pranzo”
“E gliene abbiamo regalato uno uguale”. Parlavano senza guardarsi, finendo le frasi dell’altro, ricordando quello stupido aneddoto e ridendone insieme. Era di un vestito che stavano discutendo, eppure sembrava il collante naturale di una storia che si era schiantata addosso ad un muro di incomprensioni, non riuscendo ad uscirne viva.

Tomo pensò che era quello che intendeva quando aveva detto a Kiki di avere un bagaglio insieme a quella donna che non riusciva a buttare via. Un bagaglio fatto di ricordi, di vestiti, di viaggi, di dolore e amore, di sorrisi e piccole cose condivise.
Quando si ha una relazione importante, si passa sopra molte cose non qualificandole come davvero importanti: una colazione insieme può essere una quotidianità essenziale, sono i gesti a fare le persone, sono le mani che non si lasciano a fare le relazioni.


Tomo scacciò dalla sua mente Kiki, sentendosi a disagio, come se Vicky potesse leggergli la mente. Sapeva di non doversi giustificare per nulla, e conosceva Vicki, ma pensò di doverglielo comunque dire: “Ti ho tradito”
“Non stiamo più insieme, Tomo” disse amaramente lei, scagionandolo da colpe che di certo non aveva. Lo disse automaticamente, senza riflettere, senza darsi il tempo di guardarlo: perché girarsi a guardarlo avrebbe significato fargli capire quanto quella frase l’avesse uccisa. E lei non poteva tornare ora e prendersi il diritto di sentirsi ferita, e dirglielo.
“No, l’ho fatto a settembre, alle Hawaii e poi ho tenuto in piedi la storia con questa donna fino a febbraio” puntualizzò lui, certo che quel particolare un po’ cambiava le cose.
“Ah…” rispose Vicki, che di certo non si aspettava quella rivelazione. Ma poi, stoicamente, continuò: “…beh credo di non essere nella posizione di arrabbiarmi”
“E’ giusto che tu lo sappia”
“Com’è andato il tour?” tagliò corto lei, imbarazzata da quella confessione, più che altro per il candore che Tomo dimostrava ancora una volta di avere.
“Bene, tutto molto bello come sempre, solo un po’ più stancante”
“State invecchiando” rise lei, per alleggerire la tensione. Cosa erano loro due in quel momento?
“Mah, forse era solo la tensione dell’ultimo anno, però me la sono goduta, e mi è servito” rispose Tomo, certo che mentirle non sarebbe servito a nessuno dei due. Non le rispondeva per ferirla, era solamente stanco di fuggire, di raccontare balle, di difendersi. Aveva deciso di rispondere serenamente e sinceramente, mandando al diavolo quella vocina dentro di lui che gli ripeteva di stare attento, che le sue risposte avrebbero potuto ferire. Nessuno si era preoccupato di ferire lui, però.
“Lei, questa donna intendo, chi è?” chiese Vicky, tornando su quell’argomento spinoso solo perché sentiva che la curiosità la divorava. E forse anche un po’ la gelosia, ma non l’avrebbe mai ammesso.
“Era una ragazza hawaiana che ho conosciuto in vacanza, mi ci sono trovato e non ho resistito. Credo che fosse solamente la voglia di sentirsi parte di qualcosa, o più semplicemente l’istinto di vivermi per una volta qualcosa di folle, non lo so”
“Ed ora?”
“Ora non c’è più, ho chiuso a febbraio” rispose sicuro, evitando i particolari della primavera.
“Io…” iniziò Vicki, ma Tomo non la fece finire.
“Cosa è successo?” le chiese ansioso di sapere, guardandola per la prima volta e passando dal suo viso al suo ventre piatto, completamente piatto.
Tutti avevano notato il particolare: lei ed Emma erano rimaste incinte più o meno nello stesso periodo. La conseguenza era logica, e aveva lasciato amaro in bocca. Tomo doveva sapere.


Vicky continuò a guardare l’oceano, facendosi ancora più seria, se possibile. Sospirò e dopo qualche minuto di silenzio gli rispose: “L’ho perso, ero incinta di due mesi e l’ho perso spontaneamente” rispose, con la voce incrinata.
“Mi dispiace”
“E’ meglio così”
“Stai bene?”
“Si, mi sono resa conto che era tutto un errore, ho sofferto molto, ma ripeto, è meglio così”
“Potevi chiamarmi, se avevi bisogno”
“Per dirti che mi sono ritrovata sola in un letto d’ospedale con una emorragia interna che mi stava facendo morire e l’uomo di cui mi ero ciecamente fidata a Cabo San Lucas con un’altra?” disse amara, non senza tradire rabbia nella voce. Ma erano assegnazione e vergogna, più che altro.
“Vicky… io sono sempre io, ci sarò sempre per te” le disse teneramente.
“Tomo, ti ho tradito, ferito, trattato male, non potevo chiamarti perché avevo bisogno di qualcuno, anche se avrei voluto più di ogni altra cosa averti lì. Non sarebbe stato giusto per te”.
Tomo la guardò e per la prima volta i loro sguardi si incontrarono e si fermarono a parlare, seppur nel silenzio. Dicevano tante cose e allo stesso tempo assolutamente nulla, ma Tomo notò una fragilità e una determinazione in quegli occhi, che le erano mancati moltissimo.

“Lui ora…”
“Lui mi ha mollata così, senza un motivo reale, con un feto morto in grembo e tutta una serie di casini da risolvere”
“Che stronzo” non riuscì a non dire Tomo, stringendo il pugno.
“Mi dispiace, Tomo… davvero” disse lasciando che le lacrime le scorressero sul volto libere.
“Lascia stare le scuse, Vicky. Siamo adulti. Piuttosto, hai mandato un sicario da quella mezza specie di idiota?”.
Vicky rise per la prima volta dopo moltissimo tempo e si sentì decisamente meglio: il senso di spirito di suo marito le era mancato da morire, insieme a moltissime altre cose che si impose di non pensare in quel momento. Non le avrebbe avute più, sarebbero appartenute ad una donna più capace di lei, tanto valeva smettere di pensarci fin da subito.

“No, volete risolvere tu e i ragazzi la cosa?”
“Dimmi dove abita, baby” rispose Tomo, fingendosi un boss di una banda californiana. Vicky rise ancora e poi propose di tornare verso la casa.
“Inizia ad andare, io arrivo fra un attimo”
“Va bene, a dopo allora” gli disse. Lo guardò in un attimo di incertezza, poi si girò per tornare indietro, camminando piano.  

Era ormai l’alba quando decisero di andare a dormire. Gli invitati erano andati via da un pezzo, ed erano rimasti solamente loro cinque a chiacchierare sul divano, ormai senza cravatte, scarpe e avendo liberato i capelli dalle forcine e dalla lacca. Era una sensazione bellissima essere lì, stanchi morti, continuando a smangiucchiare gli avanzi di cibo e a chiacchierare tranquilli. Forse era la parte più bella delle feste. 
“Il sushi era pazzesco, ne è avanzato un po’?”
“Shannon, ti prego finiscilo… ne ho una voglia pazzesca” si lamentò Emma.
“Prenditela con Mostriciattolo Leto” la prese in giro Jared.
“Quando partorirò mi porterete un vassoio di sushi in clinica, vero?”
“Tesoro, dovrai allattare e hai sentito cosa…” iniziò Shannon, dolcemente, ma non fece in tempo a finire.
“Amore, vuoi litigare dodici ore dopo il si?!”
“No, assolutamente, non mi permetterei mai” le rispose trangugiando l’ultimo uramaki al granchio rimasto. Tutti risero e Tomo le disse gentilmente: “Te ne porterò io, ma pochissimo”
“Tomo, sei il mio salvatore, come sempre!” gli rispose arruffandogli i capelli con la mano.

Vicki era andata via subito dopo aver parlato con Tomo. Era rimasta ancora qualche minuto, ma poi aveva sentito l'impulso di rifugiarsi in un luogo sicuro: salutando tutti, aveva lasciato la festa, indugiando leggermente sulla figura di quello che era a tutti gli effetti il suo ex marito e l'amore della sua vita.

Tomo era sembrato sereno per tutta la serata. Jared lo aveva osservato tutto il tempo, e si era ripromesso di farci due chiacchiere, nei giorni a seguire.  


Continuarono a chiacchierare sul divano per almeno un’ora, fino a quando l’alcool finì davvero e la stanchezza prese il sopravvento.
“Jared, ti prego portami a letto” disse laconicamente Miriam, che iniziava ad accusare lo champagne.
“Tesoro, così davanti a tutti?” la prese in giro Jared.
“Idiota, voglio dormire!”
“Va bene, lasciamo gli sposini alla loro prima notte di nozze allora… buon divertimento!” esclamò Jared divertito, prendendo Miriam per la vita e aiutandola a camminare fin verso la macchina. Tomo era già pronto a fare da servizio taxi e salutò con un colpo di clacson Shannon ed Emma, finalmente soli in quella casa bellissima e totalmente sconvolta dal party.
“E così siamo rimasti io e te…” disse Shannon chiudendo la porta e abbracciandola dolcemente.
“Io, te e l’intruso fra noi” rispose Emma ridendo. Aveva una luce negli occhi che non le aveva mai visto: i capelli erano ormai liberi sulle spalle, il trucco era meno perfetto del pomeriggio, ma il suo sorriso, cazzo, il suo sorriso avrebbe potuto uccidere, pensò Shannon.
“Io questa notte non voglio nessun intruso, lo sai… sei mia moglie e voglio fare l’amore con te per la prima volta”
“Ti amo, Shannon Leto”
“Anche io, Emma Ludbrook – Leto”. La baciò con passione e iniziò a toglierle quel vestito che aveva adorato dal primo momento che aveva visto. Era così strano dirsi così innamorati e ormai sposati, che Shannon si eccitò al solo pensiero. Fecero l’amore sul divano, dolcemente e lungamente, mentre l’alba colorava il cielo californiano e regalava loro il primo giorno da marito e moglie. 
 
       
 
L'angolo di Sissi

Ehilààààà... lo so, un fiume di parole questo capitolo,
come del resto quello precedente! 
Il punto è che non mi piacciono molto i capitoli di transizione,
e anche se a volte sono necessari, quando posso cerco di inserire situazioni che smuovano le cose! 
Spero non ne siate delusi... ma se credete che capitoli più corti siano migliori,
non esitate a dirlo! 

Il motivo degli aggiornamenti così veloci è puramente personale: 
semplicemente in questo periodo scrivere mi aiuta a non pensare,
di conseguenza sto portando inaspettatamente avanti la storia in maniera veloce,
e mi sembra stupido non aggiornare per rispettare la cadenza settimanale
che mi ero originariamente data. 
Piccolo spoiler: sto scrivendo anche altro... vedremo cosa ne uscirà! 

Il capitolo è dedicato al matrimonio di Shannon ed Emma: il matrimonio più vicino a quello che potrei sognare per me stessa. 
E poi c'è il grande ritorno di Vicki! Che ne pensate? Ricordavate che era rimasta incinta, vero? 
E che lo aveva detto a Tomo proprio dopo Capodanno,
momento in cui lui era andato in crisi. Dunque? Vi aspettavate questo scoop? 

Voglio ringraziare sentitamente il mio fanclub delicatissimo, 
che mi minaccia e mi supporta. Vi voglio bene!  
Voglio ringraziare Cris, per essere sempre dietro l'angolo a leggermi! 
Ed infine tutti coloro che silenziosamente sono lì a seguire The Convergence: siete tantissimi davvero! 

Ah e poi voglio dedicare a Jared&Tomo il capitolo: oggi è
World Vegan Day!!!! :D 

Un abbraccio, 

Sissi 

 


 

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Capitolo 29
*** Benvenuta a casa ***


Benvenuta a casa


La mattina dopo il matrimonio, Miriam si svegliò tardissimo, nel suo letto, con un mal di testa incredibile. Guardò l’orologio e si accorse che era quasi mezzogiorno, e mettendosi a sedere notò che aveva una maglia di Jared, addosso: la stessa che gli aveva abilmente sottratto qualche giorno prima.
Osservò la stanza e trovò il suo abito grigio perla poggiato su una sedia e un bigliettino sul comodino: “Bambina, vado a lavorare, quando ti svegli scendi che facciamo colazione insieme. J”.
Provò l’impulso di scendere da lui così, solo con la maglia, ma pensò che potesse esserci qualcuno, così si infilò dei pantaloncini e si spazzolò i capelli, poi uscì dalla porta della sua stanza e sentì uno strano silenzio: quel posto era in completo ed eterno movimento, a cui si era ormai abituata, invece quella mattina sembrava calata un’improvvisa tranquillità. Forse il matrimonio aveva provato un po’ tutti quanti!


Si mosse piano, come se avesse paura di disturbare il silenzio, e scese le scale, affacciandosi alla sala prove. Lo vide seduto sul suo sgabello con la chitarra in mano e lo sguardo concentrato, sorrise ed entrò piano.
“Ehi, disturbo?”
Jared si girò sentendola arrivare, le sorrise e senza dirle niente le fece cenno di avvicinarsi con il braccio.
“Buongiorno” gli disse raggiungendolo e dandogli un bacio.
“Buongiorno, spugna! Dormito bene?”
“Non prendermi in giro, ero tesa”
“Si sposavano loro, non tu, perché eri tesa?”
“Perché ci tenevo che tutto andasse bene e poi… oh, ma poi che vuoi?”
“Niente, eri bella un po’ brilla fra le mie braccia” le disse, modulando la voce e facendola diventare improvvisamente molto bassa. 
“Senti devo pensare che hai approfittato di me mentre non ero cosciente?” chiese Miriam, mettendosi le mani sui fianchi e non riuscendo a non ridacchiare. 
“No, però mentre ti toglievo quel delizioso abito, ammetto di averci pensato”
“Maniaco!”
“Può darsi, ma sei in debito con me, perché ho resistito e sono qui dentro dalle sei del mattino a lavorare, quindi ho bisogno di te, ora”
“Non hai dormito per niente Jared?” gli chiese apprensiva. Lo vide negare con la testa in silenzio, così sorrise e aggiunse: “In questo caso… sarà accontentato, Leto”. La sua voce era suadente, il suo sorriso malizioso.
“Benissimo, allora andiamo” le disse alzandosi di scatto e prendendola per mano. La trascinò fuori e aprì il grande cancello, tenendola stretta a sé. 
“Jared, ma... ma..." riuscì solamente a dire. E poi aggiunse, guardandosi: "E poi non so se hai notato in che razza di modo io sia vestita” si lamentò.
“Si, certo stai benissimo” la rimbeccò lui, continuando a camminare e varcando il cancello d'entrata. 
“Ovviamente… ho degli shorts, le infradito e una tua maglia che mi sta almeno due volte!”
“Infatti sei perfetta, bambina” le disse fermandosi all’improvviso senza avvertirla. Miriam finì contro di lui e Jared ne approfittò per baciarla dolcemente. Lei accettò quel bacio e capì che era totalmente inutile discutere con lui, così sorrise e sussurrò: “Dove mi porti?”
“Sorpresa, vieni”. 

Camminarono molto, guardarono vetrine e risero tantissimo. Era bello avere una vita normale, non preoccuparsi di aerei e orari, non averli proprio gli orari, essere liberi di sbaciucchiarsi per strada e di fare gli adolescenti. Era passato meno di un mese e a Miriam sembrava di non aver mai vissuto davvero.

Arrivarono davanti una caffetteria sulla spiaggia, Jared entrò e sembrò di casa, perché le due cameriere lo salutarono con un grande sorriso. Rispose educatamente alzando la mano in segno di saluto e prese posto ad un tavolino riservato all’angolo, vista mare. Miriam si sedette con lui.
“Insomma, mi hai trascinato per Los Angeles in queste condizioni solo per fare colazione? Te l’ho detto che avete una cucina al MarsLab?”
“Mi piace questo posto” rispose solamente Jared. Come al solito quando qualcosa lo affascinava o lo rendeva felice, tendeva a dare spiegazioni totalmente disarmanti e nessuno aveva il potere di contrastarlo. Jared era così e il carisma c'entrava poco, per quanto ne avesse da vendere: le sue espressioni erano così pure in certe occasioni, che il coraggio per dirgli che quella determinata cosa fosse davvero folle non solo svaniva, ma sembrava non esserti mai nato dentro. 
“Ah meraviglioso… Jared tu inizi seriamente a preoccuparmi” sorrise Miriam.

Arrivò la cameriera che sembrava avere attenzioni solo per Jared. Ordinarono la loro colazione e non appena la ragazza andò via, Miriam partì all’attacco: “Senti, ma quella ha notato che hai dei vestiti addosso?”

“Adoro quando sei gelosa” rispose lui, lasciandosi andare sullo schienale della sedia.
“Non sono gelosa, è lei che ha avuto un atteggiamento incredibilmente fastidioso”
“A me non ha dato fastidio”
“Leto, stai attento a te” lo minacciò con la bustina di zucchero trovata sul tavolo. “Non sa di… noi!?”
“Credo che non siano ancora uscite foto negli States, ma poi scusa ma che ti importa?”
“Niente, così per sapere…” rispose Miriam, fingendo indifferenza. Jared sorrise, perché ormai la conosceva e perché quel primo periodo passato a Los Angeles gli aveva insegnato su di lei moltissime cose.

Miriam vide che la ragazza stava arrivando verso di loro con un vassoio stracolmo di tutto ciò che avevano ordinato, la guardò fisso e decise all’istante: si alzò e senza aggirare il tavolo lo sovrastò con il suo corpo, fino a raggiungere il viso di Jared. Poi sorridendo, gli stampò un bacio molto eloquente sulle labbra, staccandosi da lui solo per sorridere ancora e fissarlo negli occhi, facendo sfiorare i loro nasi.
Jared non aveva colto la finezza della sua mossa, ma non se ne preoccupò e prese una ciocca dei suoi capelli attorcigliandosela fra le dita. Entrambi avevano smesso di preoccuparsi dei paparazzi e della gente comune che poteva vederli.  


“Ehm… scusate” disse una voce.
“Ops, perdonami!” disse ingenuamente Miriam, fingendo un’espressione totalmente innocente e tornando soddisfatta a sedersi. La ragazza assunse un'espressione seccata e mise sul tavolo tutte le loro leccornie, per poi girare i tacchi e andare via, senza aggiugere nulla. 
Miriam iniziò a mescolare il latte nel caffè e ad aggiungerci del miele, canticchiando distrattamente con un sorrisetto fiero sul viso.

“Sei una iena” le disse Jared, che non aveva toccato niente e se ne stava lì con le braccia conserte, poggiato al tavolo.
“Uhm?”
“Ho capito il tuo giochetto”
“Oh, senti, quella ti ha spogliato con gli occhi” si scusò lei, per niente pentita. Poi pensò che forse l'aveva spogliato anche con altro, in passato, ma si costrinse a non continuare la frase e a reprimere quella che era davvero una pessima battuta. 
"Con gli occhi..." disse distrattamente lui, sorridendo e iniziando a sorseggiare il suo thè alla vaniglia. Poi la guardò meglio e aggiunse: "Sto scherzando, tigre. Sta buona" e così dicendo allungò una mano sul tavolo, prendendole dolcemente le dita. 

Fatta colazione tornarono piano al MarsLab. Jared le raccontò che in quella caffetteria sulla spiaggia aveva scritto i testi di alcune canzoni, quelle che poi erano diventate le sue preferite. Non volle rivelarle quali, e per Miriam non era importante.
Le parlò moltissimo di come erano arrivati al successo, di quanto avessero lavorato e di come lui e Shannon erano sopravvissuti ad una adolescenza che aveva creduto di inghiottirli più e più volte. Era bellissimo sentirlo parlare, forse era la prima volta che si apriva così tanto e così spontaneamente, come se volesse scusarsi di qualcosa, o semplicemente renderla partecipe di tutto il suo universo.

Miriam lo ascoltò rapita per tutto il tragitto e, mano nella mano con lui, non si curò di tutti quelli che li guardavano e li fotografavano, iniziava semplicemente ad abituarsi ed effettivamente la sua vita con Jared era talmente tanto normale che le riusciva difficile credere che qualcuno potesse davvero notarli. Erano un uomo ed una donna, vestiti in maniera decisamente casual, che passeggiavano per Los Angeles in una calda mattina di giugno, niente di più e niente di meno.

Entrarono al MarsLab ridendo e videro Tomo che andava avanti ed indietro sul piazzale della piscina. Jared notò qualcosa di strano e disse a Miriam che aveva qualcosa da fare, lei capì e dopo averlo baciato se ne andò verso la cucina per vedere cosa ci fosse da comprare. Aveva deciso di sdebitarsi con i ragazzi pensando alle provviste e curando le piccole cose.

Jared si avvicinò a Tomo senza parlare e si sedette su un lettino, una gamba per lato. Incrociò le mani e attese che l’amico parlasse per primo.
“Cazzo” disse solamente.
“Bell’inizio di conversazione, Tomo” disse, poi aggiunse: “Vogliamo approfondire?”
“Ieri sera” disse Tomo prima che gli morisse la voce in gola. Si fermò e si mise le mani sui fianchi, prese un bel respiro e continuò: “Ho parlato con Vicky e non sono riuscito a dormire, ho continuato a pensare al suo vestito rosa, al suo sorriso, ai suoi capelli mossi dal vento. Cazzo”
“Si, il concetto è eloquente, direi. Senti, posso chiederti se sai, per caso…” non finì, perché non si poteva chiedere al tuo migliore amico come mai la sua ormai ex moglie si fosse presentata più magra di una modella quando avrebbe dovuto essere almeno al sesto mese di gravidanza.
Ma Tomo capì comunque e dopo un sospiro molto pesante gli rispose con una voce sottile e molto bassa: “L’ha perso, a febbraio. Ha avuto un malore e l’ha perso e quel cretino era a Cabo San Lucas. Con un’altra”.

Jared fischiò: “Bingo, amico, quindi ora è di nuovo single”. No, a volte la delicatezza non sembrava essere approdata a casa Leto.
"Jared!" lo ammonì Tomo guardandolo. Ma subito dopo rise amaramente, perchè sapeva che quel commento non voleva realmente ferire nè Vicki nè tanto meno lui. Così continuò: 
“In realtà non ne abbiamo parlato moltissimo, ma mi ha lasciato intendere che non l’abbia più voluto vedere e che sia pentita. Ma non è questo il punto: io non riesco a focalizzare niente che non sia quel vestito, quei capelli e quel sorriso”
“Tomo, senti, a me Vicky sta simpatica, davvero, e non sono certo uno che giudica, figuriamoci. Ma non può tornare ora e sconvolgerti, perché ha preso delle decisioni ed ora deve subirne le conseguenze. Tu non sei un giocattolo che può riprendere perché il coglione l’ha tradita e abbandonata mentre era in difficoltà”. Era stato sincero, duro, ma sincero perché Tomo stava iniziando a riprendersi e non voleva vederlo piombare di nuovo nel caos.
“Ed è quello che mi sono ripetuto tutta la notte, Jared. Che lei non può arrivare qua e sconvolgermi di nuovo, anche perché, siamo sinceri, ma se non avesse perso il bambino? Cosa sarebbe successo?”
“Appunto”
“Si, ma lei ha quel potere su di me. Io credo… credo… di non esserne uscito per niente” sussurrò, quasi arrabbiato. “Insomma, Kiki cosa è stata? Io ero convinto di volerla accanto a Capodanno, gliel’ho detto, eravamo in quel maledetto studio e le ho detto che lei era importante. Poi è andato tutto a puttane, ed ora Vicky mi stravolge con una mezz’ora a malapena. Cosa vuol dire tutto questo, Jared? Cosa?”
“Tempo al tempo, vecchio mio. E se credi che sia una cosa giusta, inizia a fare qualcosa con lei, tenta di ricucire qualcosa, di conoscerla di nuovo, provaci, se ti va. Nessuno potrà dirti niente, è in gioco la tua felicità, e fattelo dire ultimamente non hai una cera molto accattivante” gli disse, alleggerendo la conversazione. 
“Stronzo. Aspetta che torni tuo fratello dal Messico, e poi vedrai come ti faremo nero, Mr. Mano Nella Mano” lo canzonò ridendo.
Jared abbassò lo sguardo: "Colpito ed affondato" disse ridacchiando, ormai rassegnato. Poi si alzò, gli diede una pacca sulla spalla ed entrò per tornare a lavorare.
Dalla vetrata guardò Tomo seduto accanto alla piscina e pensò al fratello disteso sotto il sole messicano: si, quei giorni i Mars li avrebbe portati avanti da solo. Sospirò e si chiuse in studio.



“Ehi, disturbo?” disse impacciata una voce. Vicky saltò per lo spavento e si aprì in un sorriso appena vide Tomo fare capolino dalla porta.
Lo invitò ad entrare con la mano, mentre con l’altra teneva il telefono, sembrando aspettare una qualche risposta che tardava ad arrivare.
Tomo fece qualche passo quasi imbarazzato, con le mani in tasca e guardandosi attorno: aveva visto il suo ufficio almeno un migliaio di volte e altrettante si era seduto sulla sedia accanto alla sua scrivania, a volte anche mettendo i piedi sulla scrivania stessa, provocando l’ira di Vicky. Ora gli sembrava tutto diverso, come se fosse un estraneo.
Pensò a quello che gli aveva detto Jared qualche giorno prima: prova a conoscerla di nuovo. Così si mise a guardare le fotografie che aveva in quella stanza, i libri messi in ordine alfabetico, i soprammobili che adornavano le mensole sui muri. Si guardò attorno come se non ci fosse mai stato, e pensò che forse non era così male tornare a zero, ricominciare di nuovo.

“Eccomi, scusa, un problema dopo l’altro oggi” disse subito Vicky, poggiando la cornetta giù e toccandosi i capelli, automaticamente. Era strano averlo lì, era passata una settimana dal matrimonio di Shannon e lei non l’aveva più visto né sentito, fortemente convinta che non si sarebbe fatto vedere. Ed invece eccolo lì, in una calda mattina di Los Angeles ad aggirarsi nel suo ufficio. Le fece piacere averlo lì, e sorrise senza neanche accorgersene.
“Passavo di qui, stavo andando a far sistemare il mio violino e ho pensato di farti un saluto veloce” le disse indicando la custodia che aveva poggiato vicino la porta d'entrata. 
“Problemi con il violino?”. Sapeva quanto ci tenesse ai suoi strumenti. 
“Niente di che, tranquilla” sorrise. Poi la guardò e continuò: “Allora, che si dice?”
“Tutto bene, dai. Vuoi un caffè?”
“No, ti ringrazio, ne ho bevuti due questa mattina e nel pomeriggio vorrei essere calmo visto che mi toccherà subire le ire di Leto Junior in solitaria” sorrise. Vicky rise a quella battuta, ricordando quando Tomo rincasava e le raccontava aneddoti e follie direttamente dal mondo di Leto Junior, come amava chiamarlo lui.
“State lavorando a qualcosa?”
“Stiamo fermi un mesetto e poi iniziamo il tour qui negli States, a metà luglio, e Jared ha deciso di voler, cito, fare un sound diverso e regalare qualcosa di particolare" modulò la voce per scimmiottare Jared e poi tornando serio e quasi disperandosi aggiunse: "Sento che ci farà impazzire”. Sotto sotto amava il perfezionismo di Jared, anche se si divertiva a prenderlo in giro, specialmente quando era con Shannon.
Vicki scoppiò a ridere di cuore per il siparietto di Tomo e gli rispose, sincera: “Non sarebbe una novità”. 

Quella conversazione era strana: imbarazzante per entrambi, ma sapeva di intimo, di qualcosa di vissuto e di quotidiano. Stava facendo bene ad entrambi, più di quanto entrambi volessero ammettere.


“No, infatti”. Tomo la guardò per un momento e sentì che nessun fantasma era andato via, ma sentì anche qualcosa agitarsi dentro di lui: stava bene lì con lei ed ora ne era certo.
“Va bene, ti lascio lavorare e me ne torno alle mie faccende” disse dopo qualche minuto, alzandosi e non sapendo bene come affrontare il capitolo saluti: come si saluta una ex moglie? Avrebbero dovuto fare un decalogo per queste cose, pensò.
“Ciao, Tomo” disse semplicemente Vicky. Poi, mentre lui stava varcando la soglia, continuò: “Ah, aspetta: mi ha fatto molto piacere vederti” disse, abbassando il tono di voce, come se fosse improvvisamente a disagio.
“A presto” rispose solamente lui, poi prese la porta e uscì, lasciandola lì, seduta sulla sua poltrona a pensare a quante cazzate avesse fatto: e se si potesse rimediare? Attenta, Vicky, cerca di essere con i piedi per terra, si ammonì, prima di tornare a lavorare. O a fare finta, per quel giorno.  


Miriam era tornata al MarsLab tardissimo. Lavorava solo da un paio di settimane ed era felice, ma aveva creduto che sarebbe stato più facile ambientarsi e stava arrancando leggermente. Non era la fatica di doversi far valere a preoccuparla, quanto il covo di vipere che aveva trovato nell’ufficio, pronte a sbranarle e metterle i bastoni fra le ruote.
Miriam aveva deciso di darsi tempo e lottare, ma la verità era che aveva sperato di costruirsi qualcosa di solo suo, che andasse al di là di Jared e della loro relazione, cosa che stava invece risultando un po’ più complicata del previsto.

Era stanca, irritata e accaldata da una pesante afa che aveva stretto Los Angeles in una morsa fastidiosa. Gettò la sua borsa sul divano, recuperandola subito dopo per posarla con più ordine in un angolo: quel luogo era di tutti, non poteva permettersi di essere disordinata.
“Jared, ci sei?” urlò, affacciandosi prima in cucina, poi nel giardino ed infine nella sala di registrazione. Niente: sembravano essere spariti tutti. Sbuffò pensando che forse avrebbe dovuto andare direttamente a casa.

Subito dopo il matrimonio di Shannon aveva finalmente trovato una casa in affitto, poco distante dal MarsLab, ma Jared aveva insistito perché lei tenesse le chiavi e la stanza lì per ogni evenienza: in realtà Miriam sospettava che Jared volesse averla il più vicino possibile, e che la sua scelta di andare a vivere lontano da lui l’avesse un po’ spiazzato, anche se non le aveva effettivamente mai fatto pesare quel passo.
In realtà Jared era fermamente convinto che andare a convivere fosse la cosa giusta: dopo anni di assoluto scetticismo in materia sentimentale, ora si trovava a voler correre. Sentiva di aver trovato la donna giusta e tutta quella bagarre era semplicemente una perdita di tempo, a suo avviso: loro erano fatti per stare insieme, perché aspettare?
Non voleva costringere Miriam a fare niente che non volesse, ma si era convinto, da solo per altro, che lei fosse solamente bloccata dalla paura, ma che non fosse mai stata davvero convinta di voler cercare una casa e andarci a vivere da sola. Aveva pensato che tempo un mesetto e avrebbe capito che la soluzione migliore era quella che le offriva Jared da sempre: vivere insieme.
Così quando il trasloco avvenne, Jared rimase deluso e amareggiato: Miriam non voleva davvero vivere con lui, non era solo un prendere tempo, il suo. Non disse niente, ma a Miriam non era sfuggito il suo disappunto: in certe cose, Jared Leto non meritava l’Oscar, era certa.

Per questo motivo, Miriam non aveva insistito per restituire le chiavi del MarsLab, e aveva lasciato lì qualcosa di suo. Di tanto in tanto ci passava dopo il lavoro o si fermava lì a riposare o rilassarsi se sapeva che Jared era impegnato in studio, così da stare con lui durante le pause. Quella sera avrebbe davvero voluto andarsene a casa, ma sospirò e tentò un sorriso sereno: sapeva che quella questione aveva appesantito la relazione fra lei e Jared, che risultava sempre più di cattivo umore, e per questo era ferma e decisa a voler fare dei piccoli passi verso di lui. Come lui stesso aveva dimostrato di poter fare in passato per lei.  

Raggiunse la cucina per prendere dell’acqua fresca e sentì le solite chiacchiere della crew: allora c’è qualcuno pensò! Valutò l’idea di salutare, ma no, per quel giorno avrebbe desistito e decise di svignarsela in quella che rimaneva la sua stanza, per rimanere sola.  
Quel luogo aveva un’energia positiva pazzesca. Era una casa, uno studio di registrazione, un ufficio stampa, era il mondo dei Mars e c’era sempre qualcuno affaccendato. Miriam amava quella positività e quella dimensione, ma quel giorno non voleva incontrare nessuno che non fosse Jared. 
Sorseggiò direttamente dalla bottiglietta l’acqua, rinfrescandosi e sperando che l’estate non fosse davvero tutta così infernale. Non appena varcò la soglia della stanza, chiuse la porta e lanciò via le scarpe, pensando di mettere qualcosa di più comodo, sperando di trovarlo ancora lì e poi chiamare Jared.
Sedersi sul letto, incapace di muovere i muscoli anche solo per respirare, però non risultò essere una buona idea: chiuse gli occhi per darsi qualche minuto di tregua e rilassarsi, prima di fare qualsiasi cosa, ma quei minuti diventarono ore, perché Miriam piombò in un sonno senza sogni e senza incubi, che durò almeno quattro ore.

Si svegliò di soprassalto quando sentì la porta della stanza spalancarsi senza nessun riguardo. Si guardò attorno spaesata e per un momento non seppe molto bene dove fosse o chi fosse davanti a lei.
“Miriam, finalmente!” esclamò Jared sospirando forte. Sembrava alterato e la sua espressione non accennava a nulla di buono.
“Ehi, tu… ma… che… cazzo ti apri così la porta?” sbottò lei, tornando improvvisamente nel mondo reale.
“Ti cerco da ore!” le urlò contro.
“Sono sempre stata qui, credo” gli rispose, notando che era ancora vestita e che fuori il sole aveva lasciato posto alla notte, ormai. Alzandosi iniziò a togliere la camicetta dalla gonna, perché improvvisamente i suoi vestiti le stavano stretti e scomodi.
“Si, ma io non l’ho mai saputo. Si può sapere perché non mi hai chiamato?”
“Avrei dovuto per caso?”. Per quanto tentasse da giorni di dominarsi ed essere calma, quelle sfuriate di Jared, sempre più frequenti la stavano snervando. E quel giorno non era proprio ideale per essere conciliante. Gli scoccò uno sguardo severo e continuò a spogliarsi.
“Direi, visto che ti ho anche lasciato un biglietto proprio qui. Oltre ad averti chiamato almeno cinque volte”, disse Jared, irritato, prendendo il foglio piegato e lasciato sulla scrivania nella stessa posizione in cui lui lo aveva messo qualche ora prima.
“Scusami, non l’ho visto” rispose lei più calma, ma sempre sul piede di guerra.

Finì di spogliarsi, rimanendo in slip e reggiseno e andando a cercare una maglia da infilarsi. Si ravvivò i capelli, prendendo un elastico e raccogliendoli in una coda alta non troppo raffinata. Stava volutamente dando le spalle a Jared, che era rimasto lì a guardarla senza dire nulla. In quel periodo neanche vederla mezza nuda lo spingeva a smettere di litigare e questa cosa era frustrante e difficile. Per entrambi.

“Mi sono preoccupato, Miriam”
“Scusami, Jared, te l’ho detto non ho visto il tuo messaggio”
“Non sarebbe successo se noi vivessimo insieme” attaccò lui, lagnoso come un bambino di cinque anni alle prese con un capriccio. Miriam alzò gli occhi al cielo e si disse che quel giorno non poteva affrontare le sue frecciatine, né i suoi piagnistei.
“Jared, per cortesia, ne abbiamo parlato milioni di volte” disse esausta, con la voce che non ammetteva repliche.
“D’accordo” disse solamente lui. La guardò ancora un attimo, e poi andò via, semplicemente, lasciandola sola in quella stanza.

Miriam sbuffò sonoramente: erano giorni che comunicavano così, e lei iniziava ad accusare il colpo. Improvvisamente, da quando aveva iniziato a lavorare, il loro equilibrio vacillava, e loro erano sempre sull’orlo del litigio, come quel giorno. Non si sfogavano mai, perché entrambi si fermavano subito prima di scoppiare, scappando come faceva Jared, o ingoiando e andando avanti, come invece preferiva Miriam. Ma entrambi sentivano una certa tensione che non riuscivano a placare. Ed entrambi sapevano che lo stress c’entrava poco: il motivo era lampante ad entrambi, anche se ancora non avevano trovato il coraggio di affrontare l’argomento.

Miriam sospirò e si infilò degli shorts sotto una maglia. Guardò l’orologio e vide che erano quasi le dieci di sera: si chiese dove fosse stato Jared fino a quell’ora e soprattutto si chiese cosa sarebbe cambiato quella sera se loro avessero condiviso una casa. Probabilmente niente, ma ogni pretesto era buono per tornarci su, si disse. Poi chiuse gli occhi e fece appello a tutte le sue forze per andarlo a cercare e sembrare calma e solare.

Scese al piano di sotto e puntò dritta verso lo studio, dove sapeva benissimo che lui si era rifugiato: iniziava a diventare semplice scovarlo, un po’ meno capirlo, come al solito.

Lo vide attraverso lo spesso vetro sulla porta e sentì il cuore inondarsi di amore e stima: era bellissimo, intelligente, astuto, brillante e decisamente sexy. Lei lo amava ogni giorno di più, però ultimamente le cose erano un po’ cambiate e il loro rapporto ne soffriva: Miriam, intimamente si chiedeva se anche lei non c’entrasse, in qualche modo, ma sempre si rispondeva che non poteva essere colpa sua. Lei si era trasferita lì per lui, aveva cambiato la sua vita per stargli accanto ed ora aveva il diritto di lavorare e prendersi i suoi spazi. Si pentì di quel pensiero, perché in un lampo di intelligenza ragionò che forse non era la cosa migliore rinfacciargli l’aver cambiato la sua vita per lui: se avesse iniziato, lo avrebbe fatto ogni volta, ogni litigio, ogni incomprensione. 
Respirò scacciando tutti quei pensieri e aprì piano la porta, entrando con passo felpato, ringraziando che fosse ormai sera e che Shannon e Tomo fossero andati via.


Jared non si accorse di lei subito, e rimase concentrato sulla sua chitarra, prima di sentire una presenza che era sicuro essere Shannon o magari un ragazzo dell’entourage. Nonostante l’ora tarda, forse qualcuno aveva scordato qualcosa ed era tornato indietro, si disse.
Si girò pensando di esternare qualche dubbio o qualche problema riguardo l’imminente tour e se la trovò davanti, in piedi, che gli sorrideva appena. Era bellissima, pensò, e non capiva perché da qualche tempo non riuscivano più ad avere la sintonia dell’inizio.  Era forse dovuto al fatto che lui aveva iniziato ad entrare nel vortice del tour? Non lo sapeva, ma gli pesava questa tensione fra loro, e non sapeva come fare e cosa dire per allentarla. Jared semplicemente mentiva a se stesso, perchè lo sapeva bene qual'era il problema: non c'entrava il tour o chissà che altro, ma ammetterlo pesava troppo. 

Le sorrise invitandola ad avvicinarsi a lui con un gesto della mano. Miriam annullò le distanze e si sedette sulle ginocchia di Jared, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo, un posto che aveva sempre adorato.

“Disturbo?”
“No, vieni dai” le disse stringendola a sé. Era ancora bello il contatto con il suo corpo, era ancora eccitante averla intorno. Jared sospirò stanco, accarezzandole i capelli.

Miriam si sollevò dal suo nascondiglio preferito e guardandolo tristemente iniziò a parlargli: “Scusami, non ho davvero visto il tuo biglietto e stavo pensando di chiamarti quando sono caduta addormentata, ancora vestita”
“Non fa niente, mi ero solo preoccupato, ma credo di aver esagerato” gli rispose lui sorridendo appena.
“Dov’eri tu?”
“Ero con Shannon ed Emma a parlare con la casa discografica per un nuovo contratto”
“Ah, qualcosa di importante?”
“Non lo so ancora, ma auto prodursi è abbastanza difficile e abbiamo pensato di fare un tentativo. Per ora è stato solo un colloquio però”
“Capisco”
“La tua giornata?”
“Bene, tutto bene. Il lavoro mi piace molto, ma certo non è facile”
“Ma tu sei brava”
“E tu che ne sai?”
“Se non fossi così brava non mi sarei innamorato di te”
“Ah ecco, quindi mi ami solo perché sono una gran lavoratrice?”
“Certo, bambina, mica avrai pensato di prosciugare la mia carta di credito!”
“No, certo, che uomo romantico!”. Era facile tornare a sorridere, pensarono entrambi. 

Jared la baciò e docilmente la prese per i fianchi, alzandosi in piedi. Miriam lo lasciò fare e allacciò le gambe alla sua schiena e le braccia al suo collo, continuando a guardarlo negli occhi. Adorava stare così: aveva il potere di farlo impazzire, in quel modo.

Infilò le sue mani nei capelli di Jared e sentì un senso di pace impadronirsi del suo stomaco, una sensazione che si propagava piano a tutto il corpo, lasciando che si rilassasse contro il torace dell’uomo. Continuò a farsi baciare per un tempo che le parve una vita intera e sentì che le mani di Jared indugiavano sulla sua schiena, dopo essersi infilato sotto la sua maglia troppo larga.
Jared le slacciò il reggiseno senza spogliarla e Miriam si lasciò andare ad una risatina maliziosa.

“Arriverà qualcuno, Jay!” tentò di farlo ragionare, anche se sapeva benissimo che non sarebbe servito a nulla.
“Shh, zitta… non arriverà nessuno”
“Jared, andiamo almeno in camera mia” continuò lei, non smettendo di ridacchiare, eccitata.
“Oh ma quanto parli oggi!?”
“E’ colpa tua che non ti muovi…”
“Vieni qua…” le disse, spingendole la sua eccitazione contro il corpo.

In un secondo si ritrovò nuda, stesa sul pavimento della sala di incisione, fra fili e strumenti spettatori di una passione che bruciava e che era l’unica cosa che, sapevano entrambi, non sarebbe mai finita, né mai cambiata. Jared le toccò lentamente la gamba, risalendo con un’estenuante calma verso il centro dei suoi desideri, e affondando le dita lì dove sapeva che l’avrebbe fatta impazzire.
Miriam gli aprì le gambe istintivamente e lasciò che lui giocasse con lei, sentendo il suo fiato sul collo e la sua barba pungerle leggermente dietro l’orecchio, dove lui la stava baciando.


Dopo qualche minuto di dolce tortura, Jared entrò piano in lei, assaporando spinta dopo spinta quel corpo che lo accoglieva ogni volta come se fosse la prima. Sentì Miriam respirare più forte e la vide inarcare la schiena felice e rilassata. Sapeva che quello era il segno che lei stava bene ed iniziò a spingere più forte, per darle piacere e placare quel bisogno che aveva di sentirla sua. In un lampo tutti i problemi non c’erano più, tutte le incomprensioni erano svanite.
“Jared… ti amo…” gli disse sulle labbra, mentre l’orgasmo le giungeva dalla pancia per diramarsi in tutto il corpo, facendola tremare.
Lui la baciò e continuò a danzare contro e dentro di lei, fino a quando non sentì il piacere invaderlo. Tese i muscoli, chiudendo gli occhi solo per un secondo, mentre lei lo guardava sorridendo e accarezzandogli il torace.
Si lasciò andare su di lei, ancora dentro di lei, e iniziò a coprirla di baci ovunque, facendole il solletico.
“Visto che non è arrivato nessuno?” le disse sollevandosi appena per guardarla. La baciò piano, come se potesse romperla e la vide illuminarsi in una risata.
“Avrebbe potuto arrivare anche il Presidente in persona e non me ne sarei accorta” rispose lei, felice e appagata.
Poi Jared si illuminò e Miriam vide sul suo volto quell'espressione di quando non gli si sarebbe potuto dire di no: “Andiamo a cena fuori?”
“Jared, ma dici sul serio?”
“Si, certo”
“Ma è tardissimo! Saranno le undici di sera”
“Si, ma ho fame, e voglio passare un po’ di tempo con te. Dai, andiamo”
Miriam sorrise e, come sempre, non riuscì a deluderlo: “Va bene, vado a sistemarmi e fra cinque minuti sono da te” gli disse baciandolo e alzandosi velocemente, constatando che effettivamente aveva fame anche lei.

Corse in bagno mezza nuda, sperando che nessuno decidesse di essere zelante e lavorare a quell’ora, e solo quando fu in bagno e si guardò allo specchio pensò che Jared era tutto ciò che le aveva permesso di stare bene.
Si fece una promessa, quasi sfidando tutte le sue convinzioni: si guardò negli occhi e per la prima volta ammise, solo a se stessa, che si era trasferita lì esclusivamente per lui. Tutte le bugie che aveva detto sul voler cambiare vita, sulla necessità che avesse di fare qualcosa di diverso, qualcosa per lei… erano tutte cazzate, lei era lì per lui e solo ora se lo stava dicendo ad alta voce.
E allora pensò che sarebbe valsa la pena provarci davvero e lasciarsi andare, senza remore e senza sovrastrutture mentali. Certo, Jared aveva forse esagerato in quegli ultimi giorni, e lei sapeva che era per la storia della convivenza, sulla quale non si sentiva ancora pronta, ma in qualche modo ne avrebbero parlato e avrebbero risolto, si disse. 

Si sistemò i capelli e il trucco e mise dei jeans con una camicia di lino bianca, erano le uniche cose decenti che le erano rimaste lì e guardandosi allo specchio si convinse che stava benissimo. Poi infilò i suoi sandali bassi e scese da Jared, che la aspettava sul divano, con il suo Blackberry in mano.

“Andiamo?”
“Certo, andiamo” le disse sorridendo e prendendo le chiavi della macchina.

Jared la portò in una pizzeria molto piccola, dove sembravano tutti conoscerlo abbastanza. La signora del locale lo salutò sorridendo e così fece anche quello che sembrava essere suo marito, seduto dietro la cassa. Jared ordinò due pizze vegetariane, ancora non perfettamente conscio che nella sua nuova vita, Miriam, volesse includere la carne che adorava tanto. Aspettarono in un angolo, scambiandosi qualche parola, poi presero la loro ordinazione e tornarono in macchina velocemente, lasciando i cartoni fumanti sul sedile posteriore.


“Jared, ma dove stiamo andando?” gli chiese dopo qualche minuto, ma non le arrivò alcuna risposta degna di nota, se non un leggero canticchiare.
“Ehi, terra chiama Jared… posso sapere dove andiamo io, te, e due pizze vegetariane?” continuò ancora, sperando che lui la degnasse di uno sguardo: sembrava che non si accorgesse della sua presenza.
Guidò ancora per qualche minuto e poi fermò l’auto nel bel mezzo del nulla, era buio pesto e Miriam non sapeva proprio dove si trovassero.
Scese dall’auto un po’ guardinga, ma vide che Jared si muoveva con semplicità e maestria, il che le suggerì che lui sapeva benissimo dove mettere i piedi. Con le loro pizze in mano camminarono per qualche minuto in silenzio: Jared le aveva preso la mano per tranquillizzarla, e Miriam pensava che se qualcuno li avesse visti avrebbero fatto la figura dei cretini patentati, però si impose di zittire il suo cervello e la sua bocca e di continuare a camminare. Fino a quando Los Angeles apparve sotto i loro occhi in tutta la sua sfavillante ed immensa bellezza: in the fire burnt hills, in the land of billion lights

“Jared, ma è bellissimo”
“E' il mio posto questo. Il mio posto sopra ogni cosa” le rispose calmo, sorprendendola a bocca aperta.
Si sedette per terra, vicino ad un gruppetto di rocce, invitandola a fare lo stesso, poi aprì il suo cartone ed iniziò a mangiare, mentre Miriam si muoveva in maniera plastica, continuando a fissare la città ai loro piedi.

“Grazie” gli disse dopo un po’ di silenzio ed essersi seduta accanto a lui, mentre entrambi gustavano la loro tardiva cena. 
“Sono felice che ti sia piaciuto il posto"
“No, grazie di tutto, Jay. Della pazienza, dell’amore, della tua comprensione. Credo di essere stata leggermente insopportabile nell’ultimo periodo” ammise a fior di labbra. Era vero: non era stata propriamente serena e leggera e spesso che sue reazioni avevano fatto scattare Jared più del dovuto. 
“Solo un po’” le rispose sincero lui. “E’ il lavoro?”
“Si, il lavoro, il dovermi ambientare ancora bene, la casa da sistemare, un insieme di cose”
“E perché non me ne parli mai?”
“Perché tu hai i tuoi problemi da risolvere, il tour, e tutto il resto. Non mi va di darti ulteriori grattacapi”
“Tu non sei un grattacapo, Miriam, il giorno che riuscirai a capirlo, credo che faremo decisamente un passo in avanti!”
“Scusami”
“Vuoi parlarne?”
“No… voglio passare una bella serata, Jay” gli disse, ma non si accorse che ancora una volta aveva rifiutato la sua mano che chiedeva di essere presa, aveva sottovalutato la sua richiesta di essere compreso in maniera completa nel suo mondo, nella sua vita. Ancora una volta, Jared sentiva che Miriam si stava allontanando: dopo il rifiuto categorico di andare a vivere insieme, ora si stava anche rifiutando di parlargli di quello che la rendeva nervosa. 
Guardò il panorama, e sospirò, decidendo di arrendersi: non poteva certo costringerla ad arrivare a lui, a sentirsi totalmente vicina a lui, ed era stufo di provarci. Mollò la presa, senza lamentarsi, senza dirle nulla e accettò la sua richiesta di voler passare una bella serata.

“Allora, come va l’organizzazione del tour?” chiese distrattamente Miriam, perchè il silenzio pesava particolarmente.  
“Ci sono un sacco di problemi, ma diciamo che siamo a buon punto. Emma è fantastica come al solito”
“Sembra piacerle molto il suo lavoro”
“Si, ed è anche molto brava”
“Come vi organizzerete quando dovrà partorire? Manca poco”
“Si, meno di due mesi. Facciamo due date fra un paio di settimane, e poi ripartiamo a settembre, ma saremo negli States. Abbiamo deciso di andare all’estero solo fra sei o sette mesi, pure per dare a Shannon la possibilità di rimanere vicino ad Emma e al bambino”
“Capisco, mi sembra ottimo. Shannon come sta? L’ho visto abbastanza teso negli ultimi giorni”
“Beh, sta per cambiare la sua vita, credo sia normale”
“Sono bellissimi, lui ed Emma”
“Vero, hai ragione”
“Per quanto starai via?”
“Una settimana ora a luglio, poi da settembre un po’ più a lungo”
“Mi mancherai” gli disse sincera, avvicinandosi e abbandonando il suo viso nel collo di Jared. Annusò il suo profumo e chiuse gli occhi per sentirlo vicino, più vicino. Jared le cinse le spalle con un braccio e sospirò: nonostante i problemi, lei era sempre acqua fresca su una ferita aperta per lui ed era tutto ciò che lo convinceva sempre più ad innamorarsi di lei giorno dopo giorno.
“Potrai seguirmi, magari nei weekend”
“Mi piacerebbe rivivere di nuovo un concerto, sai?”
“Dirò ad Emma di… anzi, alla sua sostituta, già mi gira la testa al pensiero”. Emma ovviamente sarebbe stata fuori gioco per qualche tempo e aveva già trovato una ragazza che avrebbe potuto prendere il suo posto. Nell’ultimo mese l’aveva assunta e la stava affiancando nel spiegarle come funzionavano le cose e di quali impegni avrebbe dovuto occuparsi. Sembrava seria ed affidabile, ma Jared continuava a guardarla con occhi critici e soprattutto continuava a lamentarsi, non troppo velatamente, di lei.
“Andrà bene, Emma mi ha detto che la nuova ragazza è in gamba e comunque resterà con voi qualche mese, non di più”
“Speriamo, beh comunque le dirò di darti il planning, così potrai decidere dove e se seguirci”
“D’accordo” convenne Miriam. Poi guardò il suo profilo: lui era fisso su Los Angeles. “Jared, sei felice con me?”. Erano giorni che voleva chiederglielo, per avere una conferma, forse perché intimamente sapeva di aver fatto dei passi falsi.

Lui si girò piano verso di lei, serio, la guardò a lungo, le spogliò l’anima e poi aprì le labbra in un leggero e intimo sorriso: “Si” le sussurrò, avvicinandosi, senza baciarla. Avrebbe voluto dirle che gli pesava la sua scelta di andare a vivere da sola, che il suo nervosismo apparentemente ingiustificato lo feriva, che quando lei si chiudeva senza dirgli nulla di quel che le passava per la testa, lui si sentiva inerme. 
Avrebbe potuto dirle tutto ciò che non gli piaceva di quel periodo, ma si sentì un po’ stupido e decise di lasciar correre: le cose si sarebbero sistemate, non c’era motivo di pensare che lei non lo amasse davvero, visto quello che aveva fatto per lui. E Jared sapeva che Miriam si era trasferita solo per lui, nonostante quello che avesse fatto credere lei.


“Quindi potresti anche dimostrarmelo?” sussurrò lei di rimando. Come ci riusciva? Come faceva a farlo eccitare con una sola parola, con un solo movimento, con un solo sorriso? Le prese la nuca, affondando le mani nei capelli e la baciò con passione, esplorando le sue labbra e sentendo il suo sapore invadere la sua bocca.
“In che modo?” le chiese, rapito e completamente pronto a qualsiasi risposta. 
“Vediamo…" gli rispose suadente, alzando gli occhi, pensandoci su e tenendolo sulle spine. Arrotolò una ciocca di capelli fra le dita e finse di pensare ancora, Jared era sospeso ad attendere e lei adorava quel piccolo potere che aveva. Poi istintivamente e tutto d'un fiato disse: "...portandomi a prendere un gelato!”. 
Spalancò i suoi grandi occhi scuri e si aprì in una risata argentina e sonora: la confusione che si era dipinta sulla faccia di Jared era divina! 
Si alzò al volo guardandolo dall’alto in basso, lui ancora seduto a terra che la fissava non capendo.

“Leto, andiamo dai che ho ancora fame” aggiunse ridendo, mentre si sistemava i capelli e gli appariva più bella ed innocente che mai.
“Tu qualche giorno mi farai impazzire” le rispose alzandosi di rimando e togliendo qualche filo d’erba dai jeans.
Mentre tornavano alla macchina la prese per la vita e se la strinse al corpo: lei sarebbe sempre stata perfetta per lui, perché riusciva dove tutte le altre avevano fallito. Sorprenderlo ogni minuto.


Quella sera tornarono a casa ridendo come bambini: entrambi avevano ancora qualche sassolino nelle scarpe e qualcosa di non detto, ma era incoraggiante e rincuorante saper ancora ridere insieme.
Jared guidò sicuro verso casa sua, e Miriam parve non accorgersene, con la testa poggiata sul sedile, mentre canticchiava una vecchia canzone e teneva una mano ferma sulla gamba di Jared. Fino a quando non vide che Jared apriva il cancello di casa sua, entrando con la sua auto dentro il viale.


“Jared, ti sei scordato di accompagnarmi a casa!” gli disse ridendo e tenendosi la pancia. La bella serata che avevano passato le impedì di pensare male e le suggerì che Jared avesse solo sbagliato strada, ma quando non sentì risposta, lo guardò interrogativa e tornando seria, vide che lui aveva spento il motore e la fissava sorridendo appena, con una strana luce negli occhi.
“Questa è casa tua, Miriam” le disse, quasi sussurrando per paura che lei sentisse il terrore che l’aveva colto nel pronunciare quelle parole.
Miriam smise di ridere e lo fissò incredula: cosa stava cercando di dirle? Perchè ci tornava su? 

“Jared, ma…”
“Senti, io ti amo e tu mi ami, è tanto difficile pensare di voler vivere insieme?”
“No, non è difficile, credo solo che sia presto” rispose sincera lei.
“Presto… e quanto tempo dovremmo aspettare?”
“Non lo so, dovremmo essere sicuri, è meno di un anno che stiamo insieme”
“E pensi che aver superato distanze, dissapori, malintesi e stress di vario genere, non ci dia il nullaosta? Credi davvero che sia così poco il tempo che abbiamo avuto? Sei davvero sicura che nei fatti non sia molto di più?”
“Hai ragione… è che ho paura” ammise Miriam. 
“Vuoi dirmi di cosa, una volta per tutte?”
“Che tutto questo finisca. Ho bisogno di credere di avere qualcosa di mio qui, che mi possa rendere autonoma psicologicamente nel caso in cui tu… in cui tu…” non riuscì a finire e distolse lo sguardo, perché i suoi occhi azzurri erano insostenibili.
“Io non andrò da nessuna parte, Miriam”
“Mi dispiace, Jared”
“Vorrei solo che ti aprissi con me: noi possiamo, lo ricordi ancora?" le chiese, prendendole il viso fra le mani e cercando di farle sentire quanto l'amava. Sospirò e le propose: "Senti facciamo così: qualche sera a settimana, quando ti va, rimani qui, magari ci lasci qualcosa di tuo, lo spazzolino, un pigiama, qualcosa che renda la casa un po’ tua, ma rimani stabilmente nel tuo appartamento fino a quando ti sentirai più sicura. Ci stai? È un patto equo, se ci pensi”.

Miriam ci pensò seriamente qualche minuto, ma tutto quello che riuscì a capire davvero era quanto lo amasse e quanto volesse abbandonare la sua razionalità onnipresente. Non era pronta, lo sapeva. Ma sapeva anche che dire di no ora avrebbe significato aprire ancora di più una voragine che sembrava volerli inghiottire senza dare loro il tempo di pensare.
Lo guardò e per la prima volta lo vide perso, spaesato, non sicuro di niente: era un disperato appello, quello che le stava rivolgendo, lo capì. 
Sospirò, poi gli prese una mano fra le sue, guardandolo di nuovo negli occhi e gli disse: “Ci sto, mi sembra un’ottima soluzione in effetti”, gli sorrise serena e fu felice di vedere la sua espressione addolcirsi, ma sopratutto rilassarsi. 

“Bene, ora vuoi che ti accompagni a casa?”
“Questa è anche un po’ casa mia, possiamo iniziare da ora a mettere in pratica il patto, no?!” gli chiese leggermente impaurita che lui potesse dirle di no. Non avrebbe avuto senso, ma aveva paura.
“Certo che possiamo, bambina”.

Jared scese e attese che lei fosse al suo fianco per abbracciarla ed entrare con lei in casa. Prima di aprire la porta però la sentì fermarsi e si girò per capire cosa stesse succedendo: la trovò ferma, immobile, con un’espressione pensierosa in viso. La squadrò interrogativo e lei lo disse: “Però ti prego niente calendari da seguire, che rischio di impazzire!”. Jared scoppiò a ridere e ripensò di nuovo a quanto lei fosse brava a stupirlo, a farlo ridere, a farlo sentire un cretino. Lei era davvero tutto quello che lui aveva sempre aspettato e valeva la pena assecondare le sue manie per non perderla.

“No, nessun calendario in questo. Seguiremo solamente l’istinto: ti fermerai quando ti andrà”.

La guidò dentro casa sua, in silenzio, e fecero di nuovo l’amore, in maniera così dolce come non facevano da interi giorni, come se si fossero ritrovati, come se si fossero di nuovo, finalmente, capiti. 
La mattina dopo Jared si svegliò di buon’ora e lasciò Miriam dormire: era il suo giorno libero, poteva riposare. Prese velocemente un foglio e scrisse qualcosa, poi stacco la seconda copia delle chiavi di casa dal suo mazzo e la poggiò dentro il foglio, piegandolo successivamente. La guardò dormire, e senza fare rumore scivolò via dalla casa, andando verso il MarsLab.


Miriam si svegliò tardissimo non trovandolo, accarezzò le lenzuola di seta di quel letto e sorrise: forse aveva ragione Jared e avrebbe dovuto mollare tutto e andare a vivere davvero con lui. Per un momento pensò davvero di farlo, ma poi decise di accettare, per ora, la proposta di Jared: fare le cose gradualmente l’avrebbe aiutata.
Fu attratta da un foglio sul cuscino accanto al suo e lo prese. Non appena lo aprì due chiavi tenute da un anello metallico le scivolarono in mano, incuriosita lesse: “Benvenuta a casa, quando vuoi usale. Ti amo, J”. Miriam si rigirò le chiavi fra le mani con lo sguardo fisso su quelle bellissime e dolcissime parole: qualsiasi donna sarebbe stata al settimo cielo.
Lei però fu distratta da quella strana sensazione che l'aveva presa alla bocca dello stomaco. 

 
         
 
L'angolo di Sissi

Bella gente, eccoci con un nuovo aggiornamento! 
Come vi sembra si proceda? 

Piccola nota temporale: il capitolo procede abbastanza velocemente nel tempo,
si parte dal giorno dopo il matrimonio e si vola direttamente ad una settimana dopo,
e poi ancora a due settimane dopo circa. 
Ho cercato di far capire lo scarto temporale non solo dicendolo,
ma anche intervallando i paragrafi: quando c'è uno spazio più grande, è cambiato tempo.
So che è machiavellico, quindi ho deciso di puntualizzare! 
Se vi foste persi vi chiedo scusa, e spero di avervi chiarito qualche dubbio! 

Dunque... notiamo leggere punte di caos: Jared per via della convivenza, 
e Miriam (come detto alla fine, quando svuota il sacco) per la paura di essere costantemente
legata a Jared. 
Alla fine decide di cedere alle pretese di Jared (seppur a modo suo), 
ma non la vediamo totalmente convinta. O si? 
Cosa ne pensate? Credete io sia troppo cattiva? Un pò di sale ci sta però... 

Tomo e Vicki invece procedono a passi lentissimi... 
chiedo scusa ai loro fan (perchè so che ce ne sono), ma fare le cose di fretta
sarebbe stupido. O almeno credo! 

Shannon ed Emma sono... in viaggio di nozze!!! 

Piccolo elogio personale:
1500 visualizzazioni alla storia... ma io vi bacio tutti!!! 
Grazie, per me è molto importante ed motivo per continuare a lavorare, 
sperando di non deludervi! 
Ringrazio inoltre sempre il mio
Carrots fanclub


Alla prossima settimana, tanti Marshugs affettuosi! 

Sissi
 

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Capitolo 30
*** Non voler stare con nessun'altra donna ***


Non voler stare con nessun’altra donna

Dopo quella serata le cose sembravano lentamente tornare al loro posto: Miriam si fermava sempre più spesso da Jared, tanto che aveva deciso di prendere le cose che aveva lasciato al MarsLab e portarle definitivamente a casa di Jared. Non aveva senso avere il necessaire ovunque, pensò un sabato qualsiasi, presa da una strana voglia di sentirsi positiva.
 

Jared prese la cosa con molta energia e la aiutò a sistemarsi, lasciandole libero anche un cassetto nella sua cabina armadio, mentre Miriam, abbastanza scettica, tentava di placare il suo entusiasmo e continuava a dire che fosse solo per comodità. In meno di due ore il suo senso pratico e il suo buon'umore si era già affievolito: sospirò e continuò a sistemare le sue poche cose, sentendosi un pò infastidita da Jared, che continuava a saltellarle intorno allegramente. 
Quello che quasi nessuno aveva notato, e che rendeva Miriam un’abile attrice, era che lei non era più sicura di nulla, era chiusa in una bolla di caos personale e crisi esistenziale che non le rendeva facile vivere lì, mandare avanti il lavoro, ma soprattutto il rapporto con Jared. Era sicura di amarlo, e il solo pensiero di non averlo al suo fianco le provocava ondate di terrore, ma allo stesso tempo le mancava il respiro a pensare al per sempre, al definitivo, all’idea che lei fosse a Los Angeles esclusivamente per lui e che se con Jared fosse finita, lei si sarebbe ritrovata con il sedere per terra.
Era vero, aveva il suo lavoro, ma era un posto molto precario, con un contratto semestrale ad eventuale rinnovo per altri sei mesi, e sicuramente non aveva una posizione di rilievo, anzi, il più delle volte era l’ultima ruota del carro.
Ovviamente questo influiva sul suo umore, e iniziava a farle pensare che forse avrebbe dovuto valutare meglio il trasferimento. Era ormai certa di essersi detta un sacco di balle e di essersene andata da Parigi per stare con Jared, prendendo al volo la prima occasione lavorativa possibile, e ne era felice, ma il terrore che provava nel non avere qualcosa di concretamente suo in mano, la spingeva a non essere completamente tranquilla. E questo si estendeva anche ai rapporti personali: il suo mondo ruotava solamente attorno a Jared, e questo senso si era accentuato con la quasi convivenza, che lei aveva accettato solo per lui.

Era una sensazione che odiava: Jared aveva la carriera, il lavoro, il tour, i premi, i videoclip che girava, le idee che vorticavano in testa, la musica, i copioni da leggere per il futuro, i ragazzi, l’entourage che sembrava più una grande famiglia, Emma, il MarsLab che era una specie di fortino, un rifugio meraviglioso, e poi aveva lei. Miriam aveva Jared e il suo mondo. E basta.
L’unica cosa che la rendeva più serena era che Jared non sospettasse di nulla: dopo l’ennesimo litigio e la serata sulle colline, nella quale le aveva chiaramente fatto capire che fosse stanco del suo comportamento, lei aveva deciso di ammorbidirsi un po’.
Tutto questo aveva avuto un effetto meraviglioso su di lui, che sembrava finalmente tornato ad essere il solito uomo sorridente ed innamorato: niente più frecciatine, niente più sguardi severi, niente più sfuriate. Almeno di quello Miriam non doveva più preoccuparsi, potendo concentrarsi sui suoi nodi da sciogliere, in solitaria.  

Inoltre mancavano pochi giorni alla partenza di Jared per le due date americane di luglio, cosa che se da una parte la buttava giù, dall’altra le dava la possibilità di starsene un po’ sola a riposare la mente e a riflettere su quella sua depressione che avanzava.
Per la verità, Shannon, reduce da un meraviglioso e romantico viaggio di nozze in Messico, aveva notato uno strano velo negli occhi di Miriam, che sembrava essere molto tesa; aveva dunque tentato di parlare con Jared, ma per sua esplicita richiesta, aveva finito per tacere e guardare le cose da silenzioso spettatore. Non presagendo però nulla di buono. 

Una mattina come tante, un giorno alla partenza, al MarsLab, Jared entrò quasi correndo e scagliando gli occhiali da sole sul divano.
“Scusate, scusate, scusate… sapete…”
“Si, certo mancava l’acqua, la corrente era improvvisamente saltata e i cinesi ti hanno chiamato per dirti che From Yesterday è tutt’ora il loro videoclip preferito” lo schernì Tomo, con già la sua chitarra al collo.
Shannon rise sotto i baffi, perché suo fratello era palesemente in ritardo per colpa di Miriam, e non era la prima volta.
Lui e Tomo erano felici di vederlo finalmente rilassato e preso da qualcosa che non fosse il tour, la musica, la carriera e i social network, anche perché il cambiamento dava loro la possibilità di prendere le cose con calma. Ed entrambi ne avevano bisogno: Shannon alle prese con l’ultimo periodo di gravidanza di Emma era ormai sull’orlo della crisi di nervi. Felice come non mai, immaginava sempre scenari in cui il bambino affogava in piscina, o veniva risucchiato dalle bocchette dell’aria condizionata o ancora veniva colpito in fronte dal piatto della sua Christine.
Emma rideva come una pazza ai suoi racconti, ma lui iniziava seriamente ad aver bisogno di rilassarsi.


Tomo dal canto suo stava rivalutando la relazione con sua moglie sotto una luce nuova. Non c’erano stati grandi sviluppi, ed entrambi erano molto guardinghi, però avevano pranzato insieme qualche volta e spesso si erano incontrati per un caffè o semplicemente un saluto. La verità era che avevano inconsapevolmente fatto enormi passi l'uno verso l'altra. 
Tomo, in particolar modo, ogni volta prendeva forza e credeva che finalmente aveva la strada giusta davanti a sé, ma ancora non era il momento di dire che finalmente la crisi era rientrata. E lo spettro di Kiki era ancora troppo vicino, lo rendeva inquieto al pensiero, instabile.


“Volete smetterla!? Ho semplicemente trovato traffico!” rispose seccato Jared. 
“Si, nella strada che dal letto andava in bagno!” disse Shannon, ridendo di nuovo.
“Va bene, allora iniziamo dalla scaletta del concerto”
“Ok capo!”
Provarono per tutto il giorno, con pochissime pause, e arrivati a sera inoltrata erano stanchi, ma soddisfatti.

Verso il tardo pomeriggio, una voce squillante tuonò in sala prove: “Bene, miei uomini, domani ci vediamo in aeroporto alle dieci e trenta esatte. Nessun ritardo, per favore”. Emma sorrise a tutti e tre e sventolò davanti a loro i fogli che tutti conoscevano bene: il planning, quello che lei stilava con amore e passione e che puntualmente non veniva mai rispettato da nessuno.
“Emma, tu non verrai con noi, lo sai” disse Jared, con una punta di tristezza nella voce. “Verrà… come si chiama!? P… qualcosa con P”.
“Si chiama Piper, Jared: Piper, è un bel nome americano, non è difficile. Sono sicura che potresti ricordarlo se volessi” gli rispose quasi materna, sorridendo commossa. “E comunque, udite udite: ho deciso di farvi un regalo e vi seguirò per queste due date, le ultime prima del mio meritato riposo” aggiunse, rivolgendosi a tutti e tre.
Guardò le loro reazioni divertita: Jared alzò lo sguardo dal pianoforte e spalancò gli occhi azzurri, sembrava tornare bambino in quei momenti.
Tomo rise scuotendo la testa, con le mani sui fianchi, perché era l’unico che forse a volte riusciva a comprendere le cose prima che accadessero.
Mentre Shannon le si avvicinò con un’espressione preoccupata e con la voce più calma e dolce possibile, le disse: “Io non credo sia una buona idea, onestamente”.

“Oh, Shan, smettila eh: ne abbiamo parlato. Io non sono malata e voglio godermi la mia band prima dell’uragano estivo” rispose Emma, sentendosi improvvisamente eccitata e agitata. Shannon la guardò pensando di ribattere, ma sapeva benissimo che sarebbe stato inutile: quello che lei decideva era legge, ormai lo sapevano tutti. Così le passò un braccio intorno alle spalle e le baciò i capelli, sussurrandole: “Testa dura, speriamo che tuo figlio prenda da me”
“Speriamo di no, invece” rispose lei di getto, guardandolo negli occhi e scoppiano a ridere subito dopo.
“Quindi sarà un weekend come ai vecchi tempi?” chiese Tomo, pensando a tutto quello che era cambiato nell’ultimo anno. Gli equilibri erano stati stravolti da milioni di fattori e loro avevano faticato per abituarsi a tutto: Vicki accoccolata sul divano mentre loro provavano, Emma che pensava solo al lavoro, le modelle belle da morire che lasciavano la casa dei Leto o il MarsLab al mattino, con il trucco colato e salutando appena.
Ora c’era un bambino in arrivo, Shan ed Emma erano sposati e dividevano una bellissima e nuovissima casa sulle colline, le modelle non transitavano più, Miriam vorticava pericolosamente attorno a Jared, rendendolo umano, e Vicki... beh Vicki era altra storia. 
Tomo pensò che tutto quello in meno di uno anno era davvero troppo, e fu felice che per un weekend tutto potesse tornare come ai vecchi tempi, tutto o quasi.


“Evitando alcool a profusione, donne nel letto dei fratelli Leto e chissà che altre diavolerie, si, come ai vecchi tempi” disse Emma, fissando il chitarrista. Non sapevano perché, ma quello era il momento in cui tutto sarebbe cambiato, così si avvicinarono tutti e quattro e si strinsero forte.
“Vorrei ringraziarvi per questi anni splendidi e augurarci che il futuro sia calmo, ma bellissimo” disse Jared, da sempre bravissimo a trovare le parole giuste nel momento giusto. O a rendere melodrammatico un momento che forse lo era già di per sé.
“Jared, smettila, nessuno morirà entro domani” disse Emma, algida come al solito. Ma quando Shannon la guardò potè giurare di vedere i suoi occhi diventare lucidi. Era un punto, inevitabilmente, e tutti sentivano il peso della responsabilità che arrivava fra di loro.
“Ora sarò io a folleggiare durante i tour, yeah!” disse Tomo, alzando le braccia al cielo in segno di trionfo, e facendo scoppiare tutti in una risata. Quello che Tomo non aveva calcolato però, era una presenza sulla soglia della stanza: Vicki aveva deciso di fargli un saluto ed era lì.

Era stato Jamie a farla entrare e a dirle che erano tutti in sala, solo che appena affacciatasi alla porta, si era resa conto di essere un po’ di troppo, e non volendo interrompere né rovinare quel momento di massima dolcezza dei Mars, era rimasta in disparte.
La vide Jared per primo, che fece una smorfia eloquente perché il chitarrista si girasse: che grande, immenso, patentato cretino che sono, pensò Tomo, guardandola a bocca aperta.
“Vicki, cosa ci fai qui?” disse, pentendosi subito. Dopo aver annunciato che si sarebbe dato alla pazza gioia in tour, la salutava con un bel “che diavolo ci fai qui”, ottima mossa, una cazzata dopo l’altra.
“Io, veramente, scusate, non volevo disturbare. Passavo di qui e ho pensato…” esordì Vicki, leggermente imbarazzata. Era strano essere di nuovo lì, con tutti loro davanti. Benché sapesse che nessuno l’avrebbe giudicata o cacciata, aveva impiegato moltissimo a decidersi ad andarlo a trovare nel loro covo, perché sapeva che la tana del lupo poteva essere fatale. O forse stava semplicemente esagerando.
“Sei sempre la benvenuta, Vicki” disse Shannon sorridendo, per allentare la tensione e lanciare una scialuppa di salvataggio all’amico.
“Grazie, Shan. Emma, com’è cresciuta la tua pancia!” disse Vicki guardandola, anche se le era ancora difficile osservare la vita che cresceva, dopo che il suo corpo aveva rifiutato una simile possibilità.
“Eh già, manca poco” disse fieramente Emma, accarezzandosi la pancia e ridendo felice. Non sapeva con precisione quel che fosse accaduto a Vicki, ma credeva che fosse inutile negare di essere felice: nessuna donna, anche la più arida, le avrebbe creduto.
“Vuoi qualcosa da bere?” chiese improvvisamente Tomo, svegliandosi dal coma nel quale era caduto. Shannon lo guardò e ringraziò che ancora un suo neurone fosse attivo e vigile, così da fare una cosa normale: portare quella donna fuori di lì e offrirle un minimo di galanteria.
“Si, grazie” sorrise lei, guardandolo.

Tomo le si avvicinò e la guidò verso il giardino esterno. L’aria era calda, ma il tramonto stava lasciando posto ad una leggera brezza piacevole.
Le passò un succo di frutta, ricordando perfettamente quanto le piacesse quello alla ciliegia, e la invitò a sedersi sulle sedie di vimini, in un angolo tranquillo.

“Mi fa piacere vederti” le disse. Poi puntualizzò: "Vederti qui, intendo". 
“Passavo di qua e ho pensato di salutarti, non sapevo che foste impegnati. La prossima volta chiamerò” gli rispose sistemandosi una ciocca dei capelli che le si erano improvvisamente allungati ed ora le cadevano leggeri sulle spalle.
Nella sua voce non c’era polemica, solo imbarazzo nel tornare nella sua vita, e Tomo lo aveva intuito. Solo che lui la voleva lì e non sapeva come farglielo capire, come dirglielo senza correre troppo, senza fare mosse false.
Istintivamente le prese una mano, avvicinandosi a lei, e le sussurrò: “Vicki, tu puoi venire quando vuoi, senza nessun bisogno di chiamare, ok?”

Vicki lo guardò negli occhi, grata per quel gesto che la faceva sentire accettata e forse perdonata. Abbassò lo sguardo e sciolse le loro mani, perché sentiva che era presto, troppo presto. I conti con il passato non si chiudono con un sorriso e una bella promessa, pensò.
“Eravate belli, lì dentro” disse, cambiando discorso e sorridendo appena.
“Già, è un momento di grandi cambiamenti, stiamo invecchiando e ce ne stiamo rendendo conto” rispose lui, tornando a sedersi comodo sulla sua poltroncina, la voce di poco prima scomparsa, il suo gesto sparito come se non ci fosse mai stato.
“Ci sono problemi?” si informò lei.
“No, però sai… Shannon diventa papà, oddio solo a dirlo mi spavento! E Jared ora convive quasi con Miriam, quindi sai il mito dei fratelli Leto sta sparendo, ed era ora, ma un po’ segna la fine di un capitolo, un capitolo molto divertente. Ora in tour ci saranno stanze doppie e pappette per bambini” le spiegò, sorridendo. In segreto era molto felice per i suoi amici, che sembravano aver trovato una stabilità a lungo cercata. Tutto quello era solamente nostalgia di qualcosa finito.
“E’ bello che abbiano trovato equilibrio, per quanto erano molto divertenti, loro e i racconti improbabili” rise Vicki, al pensiero di quanto, tornati dai vari tour, si ritrovavano a cenare tutti insieme e i Leto raccontavano aneddoti su donne in giro per il mondo.
“Già… e invece hanno trovato chi li ha messi apposto” le rispose. La guardò e sentì il bisogno di dirle che aveva scherzato, prima, che lui non voleva diventare uno sciupa femmine in giro per il mondo. Non seppe perché, ma parlò: “Vicki, io scherzavo prima, in sala, cioè non credo di voler andare in giro per il mondo a portarmi a letto chissà chi”
“Non sono affari miei, Tomo” rispose Vicky, composta, ma improvvisamente scomoda sulla sua sedia.
“Ed invece si, non voglio che pensi che io sia diventato quel tipo di uomo”
“Io non penso niente, e comunque non saresti diventato un mostro”
“D’accordo, ma io… per me è importante che tu creda che sono ancora io, sempre io”
“Ci credo, ma per me è importante che tu capisca che puoi sentirti libero, non mi devi niente, non ho diritti su di te e sulla tua vita” gli disse, sembrando troppo amareggiata.

Tomo abbassò lo sguardo sentendosi perso. Perché gli stava dicendo quelle cose? Perché ora si tirava indietro? Dopo aver ripreso a camminare faticosamente, ora lei sembrava di nuovo distante. Ora lo stava di nuovo rifiutando. Pensò che non poteva reggere quello che iniziava a sembrare un vero gioco al massacro.
“Ti accompagno a casa” le disse solamente, amareggiato, deluso. Arrabbiato. 
“No, prendo un taxi, non c’è problema” gli rispose alzandosi e prendendo la sua borsa. 
“Vicki, cazzo" la fermò lui, la voce bassa, ma salda, "Ti accompagno a casa”. Non sapeva perché stesse reagendo così, ma improvvisamente la rabbia provata nei mesi scorsi e dissoltasi piano nell’ultimo periodo, era tornata a montare dentro di lui e il fatto che Vicki rifiutasse anche un semplice passaggio in macchina lo infastidiva oltre ogni logica.
“D’accordo” sussurrò lei, alzandosi e prendendo la sua borsa.

Il tragitto di ritorno alla nuova casa che Vicki aveva preso in affitto dopo la separazione, fu nervoso e imbarazzante: entrambi si erano isolati in un loro mondo e non avevano intenzione di uscirne, per orgoglio e perché avevano ancora paura di farsi male, male seriamente.
“Siamo arrivati” le disse, senza tradire emozione alcuna, fermando la macchina davanti il comprensorio dove era l’appartamento di Vicki.
“Tomo, senti…”
“No, non devi dirmi niente, non devi aggiungere niente”
“Io mi sono espressa male, lasciami spiegare”
“Spiegare cosa, Vicki? Che per l’ennesima volta ti sei sentita autorizzata a dirmi senza troppa gentilezza che è finita, che non c’è futuro, che è tutto inutile? L’ho capito bene da solo, non mi servono altre legnate, grazie”
“Tomo, io non intendevo quello. Ho solo detto che non posso venire qui e rivendicare diritti che ho scelto di non avere più”
“E se io volessi invece darteli quei diritti?”
“Io non li voglio” gli disse abbassando la voce, e non facendogli capire quanto le costasse quella frase. Sentiva l'aria mancarle e non sapeva che ci eravano arrivati a litigare così. 
“Ecco, ci risiamo. Ma ti diverti a pugnalarmi, per caso?”
“Non dire così, Tomo, ti prego” lo supplicò, sull’orlo delle lacrime ormai. Lo vide irrigidire la mascella e premersi un pugno chiuso sulle labbra, guardando fuori dal finestrino, poi continuò a parlare: “Io vorrei tornare indietro, ma non si può e non credo di meritare niente ora, è passato troppo poco tempo”
“Posso deciderlo io se è passato poco tempo?”
“No, dovremmo deciderlo insieme”
“Devo perdonarti io. Se io fossi pronto?”
“Io ho perso un bambino, cazzo!” urlò lei all’improvviso, lasciando libere le lacrime, sciogliendo il nodo che aveva in gola, e sentendo la rabbia defluire.
In quel mese e mezzo si erano visti parecchie volte, finendo sempre per dire che fosse per caso, quando entrambi sapevano che il caso non esiste in certe situazioni.
Nessuno aveva mai però messo bocca all’argomento scottante, avevano solo cercato di riprendere una certa sintonia, ed ora potevano dire di potersi guardare negli occhi senza fingere o senza provare dolore, era un bel risultato. Addirittura avevano ripreso a scherzare insieme, a ridere a volte, sempre parlando di cose banali e futili, ma ne erano entrambi stupiti.

Ma in quella sera, entrambi non avevano retto alla tensione ed ora il vaso era scoppiato ed entrambi si trovavano a dover raccogliere dei cocci che a lungo avevano solo coperto, fingendo di non vederli.
“Vicki, io… mi dispiace” tentò Tomo. La guardò sorpreso, più dalla rabbia che aveva messo in quella frase che dalle parole stesse.

In quei giorni aveva deciso di darsi una possibilità, di perdonare, di andare avanti: che senso aveva tutto se ti rendi conto che vuoi stare con una persona ma ti ostini a non farlo per pudore? A lui della gente non interessava nulla. Lui voleva Vicki ed era certo che la cosa fosse reciproca: lui era pronto a riprendersela.
La fissò in silenzio, non sapendo che dire, pensando di aver forse sottovalutato molto, avendo solo la voglia di stringerla a sé, ma forse non il coraggio.


“Si, lo so, dispiace a tutti, ma sono io che ho provato quell’orrenda sensazione. Sono io che ero distesa lì, sola, senza nessuno, a sorbirmi gli sguardi compassionevoli dei medici, sono io che mi sono sentita male dentro il bagno di un ristorante e sono stata portata via in ambulanza, sono io che avevo un’emorragia interna. E sono solamente io che ne ho colpa” disse rabbiosa fra le lacrime.
Aveva sempre resistito, tenuto duro, ricacciato indietro il pianto che sentiva pungerle gli occhi. Aveva sempre sorriso a testa bassa, sentendosi morire dentro, ma avendo la piena coscienza di non aver diritto di lamentarsi, men che meno con Tomo. Era come se quell’orrenda storia fosse la sua punizione per aver fatto tanto male ad un uomo che invece la amava così tanto.

Era stata brava, era crollata nel suo bagno, molte volte, ma nessuno ne era mai stato testimone: Vicki aveva costruito la sua piccola bolla in cui soffrire, lasciando che tutti fossero esclusi. Perché chi è causa del suo male pianga se stesso, si ripeteva all’infinito. E forse era semplicemente stanca, forse aveva solo bisogno di dire a voce alta quando fosse irrimediabilmente arrabbiata col mondo. O con se stessa.

“No, Vicki non è colpa tua e lo sai perfettamente” le disse, allungando un braccio per toccarla.
“Non toccarmi” urlò di nuovo lei, ma nella sua voce c’era vergogna, non ribrezzo o cattiveria.
“Vieni qua, stupida, vieni qua” le disse ancora, e lottò contro le sue mani che lo respingevano, solo per stringersela al petto, sempre più forte, fino a che sentì il suo corpo abbandonato contro di lui: aveva smesso di lottare.

Vicky continuò a piangere per tanto tempo, Tomo la tenne solamente stretta a lui, guardando il cielo e sentendo i suoi singhiozzi non fermarsi mai, erano sempre più forti ed ognuno era una lama che si conficcava nel suo cuore. Dove diavolo era lui mentre sua moglie lottava contro la vita? Contro il terrore di sentirsi vuota? Contro il trauma di perdere suo figlio?
Si maledì per tutti quei giorni passati lontano da lei, e capì di amarla ancora, di non aver mai smesso di amarla. Nonostante la rabbia, la delusione, il dolore, le incazzature, lo sgomento, lui era ancora follemente innamorato di quella donna, e iniziava a sospettare che non avrebbe smesso mai.
La tenne stretta e capì che a volte non conta quando chi ami ti faccia male, quante volte e con quanta furia prenda un coltello e te lo conficchi nell’anima: ci sono attimi in cui tu devi semplicemente mollare la presa ed esserci. Essere forte per entrambi, ingoiare il rospo, urlare silenziosamente, ma esserci. E lui avrebbe dovuto esserci per la donna della sua vita.

Gli venne in mente Kiki e si sentì a disagio, perché non l’aveva mai davvero amata, si era illuso di poter avere qualcosa di vagamente simile all’amore con lei, ma avrebbe dovuto capire molto prima che non sarebbe stato possibile. Sperò che stesse bene, e che non lo odiasse così tanto: lui non aveva intenzione di muovere più un passo da sua moglie e sicuramente non voleva cercarla più.

Dopo mezz’ora Vicki smise di piangere tutte le sue lacrime e alzò piano la testa: il suo viso era un disastro!
Aveva il mascara colato ovunque, l’ombretto grigio ormai era una chiazza che le impiastrava gli occhi, le guance rosse dal pianto e le labbra totalmente screpolate. Tomo la guardò e la vide bellissima, le accarezzò dolcemente la guancia sorridendo, e si trattenne dal baciarla, perché non voleva spaventarla. Erano così vicini, dopo mesi che la paura attanagliò il cuore di entrambi.

“Vuoi che ti accompagni dentro?” le disse piano, con quella voce che lei aveva imparato ad amare e che la faceva sentire protetta. Vicki provò la bellissima sensazione di essere tornata a casa, dopo un viaggio estenuante, ma non lo disse. Annuì solamente, grata a Tomo per la proposta.

Entrarono in casa piano, Vicki sperò di averla lasciata in condizioni decenti e poi pensò che Tomo aveva visto tutto il peggio di lei e della casa che condividevano tempo prima, quindi non ci sarebbero stati problemi. Forse. 
“Vieni, scusa il disordine. Come vedi è piccolina, ma ci si sta bene” gli disse, facendo gli onori di casa, freneticamente e in imbarazzo. Lo guidò attraverso l’appartamento che aveva ospitato lei e le sue paure negli ultimi mesi e si sentì un po’ a disagio, come se fosse ad un primo appuntamento.
 “E’ molto carina, nel tuo stile direi”.

Vicki parve non sentirlo neanche, arraffò oggetti sparsi e tentò di dare un ordine apparente, in maniera meccanica. Tomo la osservò per un paio di minuti, poi le andò davanti, le prese i polsi e le disse: “Ehi, la smetti? Va tutto bene”
Vicki tentò di rilassarsi, lo guardò un attimo e poi sospirando chiese: “Vuoi qualcosa da bere?”
“No, grazie” le disse sorridendo e lasciandola andare. Si avviò verso l’uscita. “Ci vediamo, Vicki” le disse ancora, afferrando la maniglia. Lei si sentì persa e sentì che doveva agire, ora.
“Aspetta, non andare via, ti prego” gli disse allungando una mano, come a volerlo fermare. Sfiorò la sua schiena e ritrasse subito le dita, come se lui scottasse. Tomo le dava le spalle e lei non poté vedere i suoi occhi chiudersi e il suo battito accelerare. Serrò le dita intorno alla maniglia e sperò che lei ritirasse l’offerta, ma il silenzio dietro di lui gli diceva che Vicki voleva averlo ancora lì. E mai richiesta fu più dolce per le orecchie di Tomo. Si girò piano, e sorridendo le rispose: “D’accordo”.

Si avvicinò a lei e la vide rasserenarsi, si sedettero insieme sul divano, cercando di annientare il nervosismo. Dopo qualche minuto, Vicki, con un cuscino in grembo e le gambe rannicchiate, iniziò a parlare.
“E’ stato terribile, non tanto il sentirsi male, di quello ricordo poco. Ma il dopo, i medici, l’essere sola, una sensazione orribile”
“Dov’eri?”
“Ero in un ristorante in centro, stavo pranzando prima di un pomeriggio di ferie. Avrei voluto fare shopping, e poi andare a fare un massaggio rilassante, invece mi sono sentita male in bagno, avevo crampi, non riuscivo a stare in piedi, non riuscivo a fare niente. Mi sono accasciata sperando che qualcuno mi sentisse, e poi ho visto il sangue”. Si fermò all’improvviso, Tomo pensò che fosse troppo difficile continuare, e non disse niente, lasciò che si prendesse il suo tempo.
“E lui?” chiese. Sapeva che non avrebbe dovuto, ma leggeva negli occhi di quella donna un dolore inimmaginabile e non poteva assolutamente pensare che quell’idiota l’avesse trattata in quella maniera.
“Lui non c’era. Mi aveva detto che era fuori per lavoro, ed io l’ho chiamato decine di volte, in lacrime, disperata, impaurita. Alla fine mi ha risposto una donna, e lì ho capito. Mi ha richiamato dopo un’ora, dicendomi che era a Cabo San Lucas. Non un pentimento, non una scusa, niente di niente, forse me lo sono meritato sai, però ti assicuro che in quel momento mi è caduto, di nuovo, il mondo addosso”
“Non te lo sei meritato, Vicki”
“Ma si dai, ti ho lasciato su due piedi, ti ho tradito, sono rimasta incinta di un altro. Sono una persona orribile a cui è capitata una cosa orribile, esattamente per spirito di compensazione” disse, con un tono che non voleva piangersi addosso, ma semplicemente constatare le cose. Forse era il primo momento in cui trovava il coraggio di dire ad alta voce quello che aveva pensato tutti i giorni, per mesi e mesi.
“Veramente ti ho lasciata io” disse lui ad un tratto. Vick lo guardò perplessa, e lui continuò: “Si, prima di Natale ti ho lasciata io”. Dopo un minuto di silenzio entrambi scoppiarono a ridere.
“Sempre l’ultima parola, eh, Tomo”
“Sempre, Vicki” rise lui. Poi aggiunse: “Mi dispiace non esserci stato, davvero”. Era tornato serio, perché era vero che gli dispiaceva, era vero che si sentiva un idiota, anche se effettivamente di colpe ne aveva ben poche.
“Non dovevi esserci tu, anche se per un momento ho pensato di chiamarti. Ma per dirti cosa? Sono una cretina, ti prego vieni a salvarmi? Non avrei potuto farti una cosa del genere”
“No, ma io sarei corso lo stesso”
“Lo so, e te ne sono grata” gli disse sincera. “A me dispiace aver creato tutta questa situazione, Tomo”
“Non pensarci, sono cose che capitano”
“Hai un concetto abbastanza strano di cose che capitano” gli disse, mimando in aria due virgolette virtuali. Rise e sentì che per la prima volta dopo tanto tempo rideva di gusto, serenamente.
“Sai, sono un musicista, siamo abituati a tutto”
“Giusto, hai ragione”
“A me dispiace averti lasciato” le disse sinceramente Tomo.
“Beh, credo di essermelo meritato”
“Ma no, il punto è che ti ho lasciato perché c’era un’altra. Non credere che sia uno stinco di santo, Vicki. L’ho conosciuta alle Hawaii, te l’ho detto, e mi è sembrata la soluzione ad ogni mio problema. Così ho iniziato a frequentarla, mi sono fatto coprire dai ragazzi per i frequenti viaggi che facevo a San Francisco, dove lei vive e per un po’ tutto il dolore è passato. Non ne ero innamorato, ma mi illudevo di esserlo perché stare con lei, tenere in piedi quella storia, non mi faceva sentire solo, non mi faceva soffrire”
“E poi? Lei è ancora, si, insomma…” chiese. Sapeva già che non era così, Tomo glielo aveva già detto, ma lei aveva bisogno di sentirselo dire di nuovo, non sapeva neanche perché.  
“No, non siamo più insieme. Lei mi faceva stare bene, era giovane, carina, incredibilmente brava a letto, dolce, premurosa. Mi faceva sentire un dio e in quel momento io avevo solo bisogno di credere che qualcuno non potesse vivere senza di me. Ma quando mi hai detto che eri incinta di… lui, ho iniziato a farmi domande sempre più pesanti. Un conto era non averti più, a quello mi ero rassegnato, un conto era sapere che in così poco tempo avevamo davvero mandato tutto a puttane. Non so perché ma sono entrato in crisi, e quando lei mi è piombata a Roma a sorpresa, durante il tour, l’ho trattata malissimo, e lei è andata via”
“Mi dispiace. Vi siete sentiti più?”
“Mi sono sentito un verme, perché mi sono reso conto che lei non c’entrava niente ed era rimasta vittima dei nostri casini, così l’ho cercata a lungo, per chiederle scusa, per sapere come stava, l’ho cercata ogni giorno per mesi interi. Fino a quando, a sorpresa, l’ho trovata a Parigi, a maggio, da Miriam. Abbiamo litigato di nuovo, e nonostante io provassi a spiegarle, lei non voleva sentire nulla, e ho capito che io non voglio stare con qualcuno che non mi ascolta, che non tenta di capire me e a volte anche le mie cazzate. In realtà mi sono reso conto di non voler stare con nessun’altra donna”.

Vicki guardò il pavimento, pensierosa: non voler stare con nessun’altra donna… cazzo, era bello sentirselo dire. Era come sentire un’esplosione nel cuore così forte da fare male, era come vedere un lampo in pieno luglio. Era come sentire di essere tornati a formare un noi.
Lo guardò piano e sussurrò: “In un anno siamo riusciti a distruggere qualsiasi cosa avevamo intorno, complimenti a noi”
“Ci siamo decisamente impegnati, direi”
“Lei, sai dov’è ora?”
“No, è sparita di nuovo dopo il nostro ennesimo litigio a Parigi. Era ospite di Miriam da un mese circa, per cercare di riprendersi da quello che le avevo fatto io. La mattina dopo aver discusso ancora, senza avvertire nessuno, è andata via. Stessa modalità di Roma: nessun biglietto, niente di niente, un aereo e via. Credo che sia alle Hawaii da sua madre, ma onestamente non mi importa, non abbiamo più molto da dirci”
“Non ha contatti neanche con la sua amica?”
“Non lo so. Io e Miriam…” si fermò, pensando che in tutto quel tempo erano stati due estranei costretti nella stessa dimensione. Un luogo tranquillo, dove i convenevoli erano d’obbligo, ma dove la quotidianità di un’amicizia, la complicità di un rapporto sano e vero, non erano lontanamente concepiti. Cercando le parole finì la frase: "... non abbiamo più parlato di lei. E di nient'altro a dire la verità".
“Capisco” gli disse, poggiando la sua testa sulla spalla di Tomo.
Per la prima volta da mesi riuscivano a parlare con chiarezza e serenità, di tutto, davvero di tutto, e si sentivano bene, anche se stanchi. Alternavano confessioni pesanti e importanti a piccoli sprazzi di simpatia e battute sincere. Era bello, era casa.

“Vicki, perché ti sei innamorata di lui?”
“Innamorata di lui. Credo che fosse perché lui era un uomo normale, che poteva capire i miei ritmi e che aveva un equilibrio. Con lui era facile organizzare una cena, un viaggio, un pomeriggio di shopping, era facile tutto perché aveva un lavoro normale, una vita normale, amici normali. Credo che abbia iniziato ad affascinarmi la quotidianità di una persona non famosa, so che è assurdo dirlo”
“Ti pesava la mia vita?”
“Non per colpa tua. Semplicemente mi pesava, inconsciamente, il dover memorizzare i tour, le date, le prove fino a notte tarda, le fan, i fotografi. Non mi pento di nulla, ma con te era come vivere in un gruppo, era come dover fare i conti sempre con tante altre cose fra noi. Credo di essere stata soggiogata dalla possibilità di una vita più semplice”
“Potevi parlarmene, avrei rallentato”
“Ma io non volevo che tu rallentassi per me, e comunque è stato un processo di cui non mi sono neanche accorta razionalmente. Un giorno mi sono svegliata e ho sentito di essere attratta da quella persona, ed ho scoperto che era bello il non dover fare i conti con niente che non fossimo noi due”
“Scusami, non avevo capito che stavi male”
“Non te l’ho mai detto, ho finto e tu non potevi accorgerti di nulla, non è colpa tua. E poi io volevo un figlio e tu non sembravi nel momento giusto per mettere in cantiere un progetto così importante. Mi sono illusa che un uomo normale potesse stare al mio passo”
“Io non sapevo che volessi un figlio, Vicki”
“Io ho pensato che fosse inutile dirlo, perché il tuo lavoro ti avrebbe impedito di crescerlo, di stargli accanto, di aiutarmi. Ho pensato un sacco di cazzate, lo scorso anno”
“Avrei dovuto mollare il gruppo e starti più accanto, avrei dovuto guardarti e capire”
“Beh io avrei potuto parlarti, non è che ti abbia mandato segnali così importanti, sai”
“E quando sei rimasta incinta? Come hai reagito?”
“Per un momento mi sono sentita in colpa: si, è vero, volevo un figlio più di ogni altra cosa, ma io… insomma, io lo volevo con te, non con un altro uomo. Ho pensato di lasciarlo e dirti che ero incinta di te, ho pensato di chiederti scusa e dirti che potevamo ancora ricucire tutto. Poi però ho capito che sarebbe stato un inganno e ho lasciato perdere. Ero felice di diventare mamma, ma mi sentivo a disagio a diventarlo con lui, non ti so spiegare perché”
“Ora come stai?”
“Meglio, diciamo che ho raccolto i cocci piano, da sola. Mia madre all’inizio mi è stata vicino, ma era un continuo accusare, guardarmi male, perché ti avevo tradito, perché avevo combinato un casino immenso, così alla fine l’ho mandata via e ho pensato che avrei potuto cavarmela meglio da sola. Ho preso questa casa, l’ho sistemata, mi sono buttata nel lavoro e giorno dopo giorno ne sono uscita, più o meno. A volte è difficile, ma va sempre meglio”
“E potrebbe… riaccadere?”
“Di perdere un bambino? Si, potrebbe. I medici mi hanno detto che il mio corpo è debole e nel caso di una seconda gravidanza dovrei stare molto attenta, cosa che ovviamente non sapevo prima. Però credo che sia molto presto per pensarci”. Vicki rise piano, e Tomo provò la voglia inconsulta di dirle di fare un bambino in quel momento, di fregarsene del resto del mondo e tornare ad essere felici insieme. Le sfiorò la guancia con un dito, sentendo la sua pelle liscia e curata, e scoprì che lei reagiva al tocco, avvicinando di più il viso e chiudendo gli occhi.
“Vedrai che la prossima volta andrà bene” la rassicurò.
“Ma si, sarò più attenta o semplicemente più fortunata. E tu che hai fatto in questi mesi?”
“Ho lavorato, tanto, sono stato appresso alle turbe dei Leto e ti ho pensata, di tanto in tanto”
“Davvero?”
“Si, davvero. A volte mi tornava in mente qualcosa e mi perdevo nei ricordi, ne abbiamo tanti insieme”. 

Continuarono a parlare fino a notte fonda, di tutto, seriamente o ridendo come bambini e fu un’iniezione di vita pazzesca quella che entrambi riuscirono ad avere. Si addormentarono con le teste vicine, sul divano, solo alle cinque del mattino, mentre il sole iniziava a sorgere di nuovo, e fu un sonno senza sogni e senza incubi, un sonno normale fra due persone che avevano inconsapevolmente iniziato una nuova strada insieme. 

 
       

L'angolo di Sissi! 

Bentrovaaaaati! 
Come state? Novità? Io sono tornata, per la vostra immensa gioia! 

Questo capitolo è molto serrato, lo ammetto: dialoghi densi e non molte descrizioni. 
Spero vi piaccia e che non sia noioso o pesante da gestire, 
ma scrivendolo mi sono resa conto che Tomo e Vicki,
ai quali è quasi interamente dedicato, 
avevano bisogno di... parlare. Banalmente. 
E ho deciso di optare per uno stile leggermente più "botta&risposta", per loro. 
I paragrafi sono anche più lunghi e meno spezzettati, 
idea che ho avuto per tenere ferreo il ritmo del dialogo e della situazione. 

Che ne pensate?
Vi fa schifo?
Volete picchiarmi?
Volete venirmi a cercare con la mazza chiodata di Vicki?

Detto ciò... mi dileguo! I miei sproloqui non interessano a nessuno, lo so!!! 
Soliti abbracci immensi a chi mi segue, chi mi sopporta, chi mi minaccia e chi perde il suo tempo e recensire! 
Siete bellissimi e dolcissimi, ma questo lo sapete già! 

Alla prossima settimana! 


Sissi

 

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Capitolo 31
*** Lo voglio io ***


Lo voglio io
 

Tomo si svegliò in tarda mattinata, con il collo dolorante e il cellulare che vibrava in tasca. Lo prese con un gesto dolce, per non svegliare Vicki che gli dormiva accanto e vide sul display almeno quattro chiamate senza risposta e una decina di messaggi. In quel momento, per l’ennesima volta, lo stava chiamando Shannon. Si alzò e raggiunse la finestra, che aprì odorando il profumo di una giornata estiva.
“Pronto” sussurrò quasi.
“Tomo, finalmente, che cazzo di fine hai fatto?” fu la risposta poco gentile di Shannon. Non tradiva alcun tono acido o arrabbiato, come sempre Shannon era tranquillo e pacato. 
“Ehm, sono da Vicki” rispose sempre con la voce molto bassa. Poi si guardò intorno confuso e continuò: “…credo di aver dormito qui”
“Credi?”
“Si, l’ho accompagnata a casa e… va beh, te lo spiego dopo. Che ore sono?”
“E’ tardi, amico. Siamo già in aeroporto e ti stiamo aspettando”
“Cazzo, l’aeroporto! Arrivo” reagì Tomo, improvvisamente catapultato di nuovo nella realtà. 
“Prega per te che Jared abbia scopato a sufficienza con Miriam stanotte, perché già c’è Emma sul piede di guerra” ridacchiò Shannon, sorseggiando la sua tazza di caffè. La terza della mattinata, quella che aveva sottratto ad Emma e che stava facendo lo sforzo di trangugiare per evitare che lei si agitasse ancora di più.
“A dopo” rispose Tomo, ignorando le prese in giro e chiudendo al volo la telefonata.
Guardò Vicki, raggomitolata sul divano, che dormiva beata. Non voleva svegliarla, anche perché la nottata precedente era stata perfetta, difficile e dolcissima. Era come se avessero deposto le armi, ma anche le buone maniere e avessero deciso di dirsi a chiare note come stavano le cose, come stavano loro, ed era stato un esercizio sopraffino che aveva toccato corde che entrambi avevano deciso di accantonare per sempre. 
Tomo rimase a fissarla qualche istante: era bella, dormiva raggomitolata sul divano, con una coperta leggera sulle gambe e i capelli che le cadevano sugli occhi; si avvicinò e le spostò quella ciocca ribelle, così da vederle bene il viso e sorrise piano, sentendosi ancora sconvolto e svuotato dalle sue parole, dal suo coraggio: era così piccola, ma così forte.
Aveva bisogno di chiarirsi le idee, di respirare aria e guardarsi dentro, e onestamente non aveva tempo in quel momento: era come fare sesso la prima volta con una persona importante. Il risveglio non è mai semplice, così prese al volo un foglio che trovò sul tavolo della cucina e scovò una penna in un cassetto: “Vicki, devo scappare, non voglio svegliarti. E’ stato bello stanotte, qualsiasi cosa sia stato. Ci sentiamo presto, tuo Tomo”.

Lo piegò e lo poggiò vicino alla macchina del caffè, dopo averla accuratamente preparata perché lei trovasse la bevanda calda e pronta non appena si sarebbe svegliata. Le diede un’altra occhiata e uscì di corsa, pregando davvero che Jared fosse occupato in altro.

Qualche ora prima, Los Angeles, appartamento di West Hollywood. Miriam si stirò i muscoli prima di provare ad alzarsi, ma non appena fece forza sugli addominali, sentì qualcosa che le pesava sullo stomaco e le girò improvvisamente la testa. Si buttò di nuovo sul letto, non osando fare altri movimenti, quando percepì Jared muoversi accanto a lei e girarsi per prenderle la vita e attirarla a sé.
“Buongiorno bambina” le disse con quella voce roca che avrebbe potuto, da sola, mandarla in estasi.
“Ciao” mugugnò lei di rimando, rannicchiandosi in posizione fetale accanto al suo corpo. “Sei in ritardo”
“No, sono in perfetto orario. Sono le otto”
“Le otto? Jared ti odio!”
“Ma ti sei svegliata da sola!”
“Ti odio lo stesso” disse lamentosa, girandosi e dandogli le spalle. Lo sentì muoversi sotto le lenzuola e avvicinarsi a lei, la strinse al suo corpo, lasciando che il suo torace aderisse completamente alla schiena di Miriam e prese ad accarezzarle la pancia.
“Saranno pochi giorni, bambina” le sussurrò nell’orecchio, per poi lasciarci un leggerissimo bacio.
“Cosa?”
“Non fare finta che non ti interessi. Saranno pochissimi giorni e sarò di nuovo qui”
“E’ il tuo lavoro, va bene così”
“Smettila di fare l’orgogliosa e dimmi che ti mancherò”
“Non farò nulla per far innalzare ancora il tuo ego”
“Non si tratta del mio ego, Miriam, ma della tua testardaggine”
“E va bene… mi mancherai” disse, sussurrando tristemente.
“Quattro giorni e sarò qui”
“E poi partirai di nuovo?”
“Si, ma sarò tutto tuo per almeno tre giorni pieni”
“Ringrazierò il dio del rock allora!”.

Jared sorrise e la strinse a sé. Gli dispiaceva lasciarla, ma lei avrebbe dovuto abituarsi a quelle assenze: in autunno sarebbe stato molto peggio, i viaggi più lunghi e le tappe più lontane. Quindi era il caso che lei iniziasse a farci il callo, anche se intimamente gli dispiaceva vederla così giù. Lei tentava di nasconderlo e fare la donna vissuta, ma Jared vedeva benissimo il velo nei suoi occhi e sentiva ancora di più la sua voce diversa.
“Colazione?” le chiese entusiasta. 
“Colazione” ripetè lei poco convinta. Si tirò su infilandosi una maglia troppo grande per il suo corpo e rimase seduta sul bordo del letto, dandogli la schiena. Giocherellò con il piede, passandolo più volte sul marmo freddo del pavimento, e poi sussurrò piano: “Jared, non azzardarti a scoparti nessuna, ovunque sarai”. Era seria, dannatamente seria. 
“Scusa?” rispose lui fissandole le spalle, incredulo.
“Hai sentito benissimo” gli rispose fra i denti.
Jared rise piano, per non farla irritare ancora di più e capì quale fosse la sua vera preoccupazione: che ritornasse alle sane e vecchie abitudini, le quali, purtroppo o per foruna, erano così famose da precedere il suo sex appeal.

“Ehi, bambina, vieni qui” le disse, inginocchiandosi sul materasso e avvicinandosi a lei carponi. Le cinse la vita con un braccio e con l’altra mano arrivò al suo viso, costringendola a guardarlo negli occhi. “Non c’è nessun motivo per il quale io ti tradirei, ok? Mettitelo bene in testa. Da quando ti conosco non ho toccato nessun’altra donna”
“Bravo, vedi di continuare così allora” rispose lei secca, convinta nel non voler mollare il colpo, sicura di non volergliela dare vinta.
Jared non le rispose, si limitò a baciarla, sperando che bastasse a calmare la sua ansia.

Una colazione, qualche coccola e un paio d’ore dopo, Jared stava volando letteralmente verso l’aeroporto. Miriam aveva spinto perché lo accompagnasse, e lui non se l’era sentita di dirle di no, solo che avevano finito per fare tardi, ed ora sfrecciavano verso l’aeroporto in tempi da record. Miriam sembrava una scheggia impazzita mentre pigiava sull’acceleratore per le strade di Los Angeles, a bordo del SUV di Jared, gentilmente concesso. Lui nel frattempo si era attaccato al Blackberry per avere informazioni più disparate: maniaco del controllo, pensò Miriam guardandolo mentre guidava.

“Shan, si sono io, sto arrivando, c’è un traffico pazzesco”
“Ultimamente tu finisci sempre negli ingorghi. Strana coincidenza, Jared” rispose Shannon, ghignando allegro.
“Poche chiacchiere, siete tutti lì?”
“No, manca anche Tomo”
“Bene, cazzo, iniziamo proprio bene”
“Jay, calmati, non mi sembra che tu sia qui”
“C’è traffico, Shan” sibilò Jared controllando l’orario, forse per la decima volta.
“Si, ok, va bene, d’accordo. Quanto prevedi di metterci?”
“Almeno mezz’ora”
“Bene, andrò a drogarmi di caffè. Emma è sul piedi di guerra, ti avverto”
“Calmala”
“Non è proprio il momento di cercare di calmarla, vorrei vivere altri vent’anni”
“Ok, d'accordo. A dopo”
“A dopo, Jay”.

Miriam continuava a saettare nel traffico, e guardava nervosamente l’orologio digitale del display davanti a sé. Le undici e venti, cazzo! L’aereo sarebbe partito alle dodici e venti, il che voleva dire che dovevano essere in aeroporto da un pezzo ormai e il fatto che non ci sarebbero riusciti ad essere che nei prossimi trenta minuti la induceva a spingere ancora di più sull’acceleratore.
“Tigre, vorrei arrivarci vivo in aeroporto. Tardi, magari, ma vivo” le disse Jared tenendosi alla maniglia e mollando l’attenzione dal suo Blackberry.
“Oh, smettila, sono un asso alla guida”
“Non lo metto in dubbio, ma ci tengo alla mia incolumità”
“Mi dispiace averti fatto fare tardi, scusami”
“Lascia perdere, avrei dovuto starci attento” la liquidò lui e Miriam imparò un’altra lezione: quando si trattava di imprevisti sul lavoro, era meglio tacere con Jared. Perché anche chiedergli scusa sarebbe equivalso a fargli saltare i nervi.

Miriam arrestò il SUV quasi inchiodando alle undici e quaranta: oltre ogni rosea aspettativa, era da ammettere. 
Jared scappò al volo prendendo la sua borsa dal bagagliaio e dimenticando quasi di salutarla. Miriam gli corse incontro richiamandolo: “Ehi, non si da neanche un bacio?”

“Scusami, bambina, ti chiamo appena arrivo” le disse frettolosamente, sorridendole appena.
“D’accordo, fa buon viaggio” gli rispose, cogliendo al volo quel bacio immaginario che lui le aveva lanciato da lontano con la mano.
Voleva entrare per salutare gli altri, ma non le sembrò il caso, così rimase solamente lì, davanti le porte a vetri a vederlo sparire. Per un momento, un assurdo momento sperò che lui si girasse a guardarla, a salutarla ancora, aveva un disperato bisogno dei suoi occhi azzurri, della sua complicità, di un suo sorriso che la rassicurasse e sentiva ancora la mancanza del contatto fra le loro labbra.


Ci sono momenti in cui decidi che se una cosa accadrà allora la vita volerà in una direzione e che invece prenderà una direzione diversa se quella cosa non avverrà davanti ai tuoi occhi. E’ come lanciare in aria una moneta e fare testa o croce, oppure equivale a mettere in pratica la teoria dei semafori rossi che Miriam attuava quando andava all’università: se il prossimo semaforo è rosso, allora l’esame lo passo, si diceva quelle mattine, mentre raggiungeva l’università per sostenere i test. Sono teorie stupide, insensate, ma in quei momenti lo stomaco sente il peso di quel colore, di quell’avvenimento, di quella piccola cosa come se davvero cambiasse il senso della vita. E non importa quanto stupido sia ciò che deve accadere, non importa quando ininfluente sia: se il semaforo è rosso, passerò l’esame.

Miriam in quel momento sentì l’improvvisa necessità reale che Jared si girasse e la guardasse: i suoi occhi azzurri le avrebbero fatto credere che potevano ancora farlo, il suo sorriso l’avrebbe convinta che lei stava andando in crisi per niente e che quella vita le sorrideva ancora.
Jared si fermò un istante prima di entrare. Si fermò davanti le porte automatiche del terminal per chissà quale motivo, ma Miriam sorrise piano, e continuò a ripetersi “girati, girati, girati”. Quel sorriso durò poco: Jared non si girò, alzò di nuovo la testa e proseguì all’interno dell’aeroporto, cercando la crew. Inconsciamente aveva instaurato una crisi senza precedenti.

“Scusi è suo questo SUV?” sentì urlare Miriam alle sue spalle. Era ancora in preda alla delusione, che piano si stava trasformando in crisi di pianto, attacco di panico o qualsiasi nome gli psicologi avessero deciso di dare allo stato in cui lei versava. Si girò pensando già a come scusarsi, quando incontrò lo sguardo di Tomo, che le sorrise.
“Ciao, Tomo! Ancora qui?” riuscì a dire, sorridendo e cercando di apparire calma. Pensò, tristemente, che aveva finto talmente tanto in quell’ultimo periodo che ormai le riusciva davvero bene.
“Sono in ritardo mostruoso, Jared ed Emma mi uccideranno”
“Jared è appena arrivato, credo che non possa ucciderti. Per Emma, beh, su di lei non garantisco” gli rispose alzando le mani in segno di resa, come se volesse lavarsi dall’impaccio.
“Spero che gli ormoni della gravidanza le abbiano addolcito lo sguardo, ma sopratutto l’umore” scherzò lui e improvvisamente gli vennero in mente tutte le parole di Vicki riguardo alla sua di gravidanza e sentì un peso sullo stomaco non indifferente. Tentò di non darlo a vedere, ma Miriam a quanto pareva aveva in comune con Jared un grande senso di osservazione.
“Ehi, tutto bene?” gli chiese, preoccupata.
“Si, sto bene, solo che ho ricordato cose poco piacevoli e si, insomma… no dai sto bene”
“Capisco” disse solamente.

Miriam aveva recuperato il rapporto con Tomo, ma sentivano entrambi di avere sempre qualcosa che li distanziava: la questione Kiki non era totalmente risolta.
Miriam non la sentiva da quando era scomparsa da Parigi senza dire niente, e l’aveva cercata per parecchio tempo. Quando era arrivata in California aveva anche sentito Maelle, che tuttavia le aveva detto che aveva fatto le valigie in fretta e furia appena tornata a casa e l’aveva pregata di non cercarla. Kiki era scomparsa, e Miriam sapeva benissimo che era alle Hawaii da sua madre, ma non era disposta a doverla inseguire per mezzo mondo ogni volta che succedeva qualcosa. Il problema non era lei, ma Tomo, e visto che lei si era invece dimostrata sempre molto attenta e premurosa, accogliendola anche in casa a Parigi, si sarebbe aspettata un trattamento diverso, che però non c’era evidentemente stato.
Aveva smesso di cercarla, scrivendole una mail in cui diceva che ora viveva a Los Angeles e che sperava che lei si facesse sentire al più presto. Era passato più di un mese e non c’era stata nessuna novità, Miriam era delusa e arrabbiata, ma alla fine ci stava facendo l’abitudine.


Tomo non ne aveva più parlato, per un’infinità di motivi che partivano tutti dall’aver rivisto Vicki al matrimonio di Shannon ed Emma. Fino a quel giorno aveva cercato di recuperare il rapporto con Kiki, aveva anche pensato di chiedere ai ragazzi una settimana di vacanza per andarla a cercare ad Honolulu, ma subito dopo il matrimonio aveva deciso che non era quello che voleva. Con Miriam non ne avevano parlato, ma sapevano benissimo che la loro amicizia era divisa dal rapporto che avevano, o avevano avuto, con Kiki: lei li aveva in qualche modo allontanati, nonostante a Parigi si fossero chiesti scusa a vicenda e avessero cercato di recuperare.
E in qualche modo avevano recuperato, solo che la situazione non era semplice, tutt’al più che Tomo si sentiva in imbarazzo nell’aver in qualche modo riallacciato i rapporti con Vicki.
Miriam non aveva mai commentato, né cambiato il suo comportamento con lui, anzi si era mostrata molto gradevole e simpatica con Vicki, sia al matrimonio quando l’aveva conosciuta, sia in qualche altra occasione nel mese appena passato. Tuttavia, Tomo non riusciva a non sentirsi in imbarazzo davanti a lei.

Entrambi morivano dalla voglia di sapere se la ragazza si fosse fatta viva con l’altro, ma nessuno osava chiedere o indagare.

In quel momento, all’aeroporto, erano soli come non capitava da parecchio tempo, e Miriam era convinta che il suo umore dipendesse proprio da Kiki. Jared le aveva detto che ogni tanto aveva visto Vicki con Tomo, ma niente di che e comunque lei non conosceva né la loro storia né Vicki stessa, quindi non pensò minimamente che fra i due i rapporti fossero lentamente migliorati.
“L’hai sentita?” gli chiese all’improvviso, pensando che non fosse il momento, visto anche il ritardo, ma capendo che se non lo avesse fatto in quel momento non l’avrebbe fatto più. Tomo la guardò per un momento perplesso, non capendo, ma poi arrivò al nocciolo della questione.
“No, ma non stavo pensando a lei, Miriam”
“Ah, oddio scusa… che scema, mi dispiace” si scusò Miriam, sentendosi in imbarazzo.
“Non c’è problema" le rispose sorridendo. Poi le sue labbra pronunciarono l'unica frase che lui non avrebbe mai avuto il coraggio di chiedere: "Tu invece?”
Miriam sospirò affranta e rispose con un fil di voce: “No, da quando è andata via da Parigi. E’ sparita, di nuovo”
“E tu come stai?”
“Oh, vedi sono incazzata nera, vorrei strangolarla e poi farla rivivere per ucciderla di nuovo. In realtà penso sarebbe divertente farlo almeno una decina di volte”. 
Tomo rise cautamente, più perché Miriam sapeva essere divertente anche quando era arrabbiata che per altro. La guardò e per un momento capì perché Jared fosse così innamorato di lei: Miriam era una donna che sapeva donarsi totalmente, al cento per cento, senza lesinare amore, affetto, comprensione, appoggio morale e qualsiasi altra cosa servisse a chi aveva vicino. Tomo si pentì di averla allontanata e di aver smesso di parlare con lei, perché aveva ottimi consigli, sapeva ascoltare e comunque non era colpa sua tutto il casino che era nato con Kiki.
“Miriam, ascolta, dovremmo smettere di evitarci e parlare solo di stronzate. Io e te eravamo buoni amici, dovremmo tornare ad esserlo” le disse.
Miriam rimase interdetta: “Abbiamo chiarito a Parigi, quella famosa sera, Tomo. Non c’è bisogno di…”
“Abbiamo talmente chiarito che la cosa più profonda che ci diciamo è la ricetta dei biscotti vegani, Miriam. Sono serio” la interruppe lui, constatando un'amara verità. 

Miriam lo guardò e capì quello che intendeva. Sorrise inaspettatamente felice e gli sorrise, abbracciandolo forte: “Sono pienamente d’accordo. E a questo proposito, vorrei proprio delle delucidazioni su una certa Vicki…” gli disse canzonandolo. Tomo le scompigliò i capelli e le sorrise, iniziando a parlare: “Ah, ben…” ma non fece in tempo a finire la frase, perché le porte dietro di loro si aprirono e ne uscì una donna palesemente incinta e palesemente adirata.
“TU!” tuonò all’improvviso, puntando l’indice verso Tomo, che si girò allarmato.
“Emma, tesoro, come sei bella oggi!” tentò Tomo, sapendo che Emma fosse incurante ai complimenti in certi momenti, ma sperando che lo aiutassero comunque.
“Taci, cazzo. Sei in ritardo mostruoso. Che ci fai qui a conversare amabilmente?” gli chiese, incenerendolo con uno sguardo. Poi si girò verso Miriam, la quale era terrorizzata e preparata al peggio, le mise una mano sulla spalla e le disse: “Ciao, cara, tutto bene?” sfoderando un sorriso dolcissimo e pieno di affetto. Miriam la guardò interrogativa e si chiese se per caso fosse bipolare.
“Si, grazie Emma” sussurrò timorosa Miriam.
“Bene, sono contenta. Ah, appena torno devo portarti in un posticino che ho scoperto da poco, ti piacerà tantissimo” squittì deliziosamente.
“Scusate, chi è che sta conversando amabilmente adesso?” si intromise Tomo, ridendo. Era bellissimo stare con Emma in quel periodo: riusciva ad arrabbiarsi, calmarsi, ridere, piangere, mangiare, digiunare e mangiare di nuovo tutto nello stesso momento. Era un vero spasso!
“Ti ho detto di tacere, andiamo” disse, tornando seria e cattiva mentre si voltava verso di lui. Tomo salutò Miriam e seguì Emma in aeroporto per partire.

Miriam tornò a casa pigramente, mettendoci un’eternità, perché non voleva per niente rinchiudersi dentro quattro mura e perché si sentiva abbastanza sola. E la sua sensazione sullo stomaco tornò: quando Jared non c’era, e con lui tutto il suo mondo, lei non aveva niente e nessuno. Non aveva amici da cui andare, non aveva qualcuno con cui fare due chiacchiere, non aveva niente di niente, se non il suo deprimente posto di lavoro. Lei passava le sue serate con Jared, o al più con Shannon e i ragazzi, che adorava, o con Emma a fare chiacchiere fra donne. Ma tutto tornava sempre a Jared: se fosse finita la sua relazione, sarebbe finito anche il suo piccolo mondo, lì a Los Angeles.

Il mal di stomaco iniziava a non darle tregua, così decise di fermarsi in riva al mare, nella caffetteria che adorava e in cui andava spesso da quando Jared glielo aveva fatto conoscere. 
Si sedette nella veranda, fronte mare, lontano dalle altre persone presenti nel locale. Quell’aria le ricordò improvvisamente le Hawaii e tornò ai giorni bellissimi e spensierati di quasi un anno prima: lì era stato tutto così perfetto, così bello, così semplice. E perché non lo era più? Cosa era cambiato? Cosa stava succedendo? 


Si toccò il ciondolo che le aveva regalato Jared quell’inverno, il suo primo regalo: ogni primo regalo, per quanto possa essere stupido o privo di un vero valore materiale, rispetto ai seguenti, avrà sempre un’aurea di romanticismo particolare e sarà sempre il più bello, il più importante, il più significativo. Guardò pensosa il mare e torturò quel piccolo 20 che aveva al collo e che non aveva mai tolto, sentendo di essere al limite: doveva trovare un modo per risolvere la questione o sarebbe impazzita. Forse poteva parlarne con Jared, dopo quelle due date che aveva a Seattle e Vancouver, forse insieme avrebbero potuto risolvere i problemi, d’altronde una coppia non è solo sesso e risate, ma anche starsi accanto nei momenti no. Si, gli avrebbe parlato, appena possibile.

Ordinò un frullato con frutta esotica, per sentirsi più vicina ad Honolulu e pensò a Kiki: chissà come stava, chissà se si era ripresa, chissà se aveva mai pensato a loro, a lei. Era delusa, amareggiata, arrabbiata, ma certo non poteva fare altro, perché aveva intuito che Kiki era fatta così e l’avrebbe sempre delusa. Smise di pensarci, anche se prima prese il cellulare pensando per un momento di chiamarla.
Sorseggiò il suo frullato piano, per ingannare il tempo e perché quel luogo le dava un senso di calma incredibile. Avrebbe dovuto essere brevettato come medicina, altro che psicofarmaci.
Tornò a casa nel tardo pomeriggio, più rilassata e leggermente meno nervosa. Il mal di stomaco sembrava essersi calmato e il suo umore essere leggermente migliore. Si sdraiò sul divano, accendendo la tv e cercando un film da guardare, o magari un programma che le togliesse di torno i pensieri pesanti. Il sonno arrivò senza avvertirla e la portò fra le braccia di Morfeo in pochi istanti, Miriam si abbandonò senza pensare di accendere di nuovo il cellulare, spento ore prima, né di provare a sentire Jared.

“Dove cazzo si sarà cacciata?” pensò Jared, chiudendo l’ennesima chiamata a vuoto e imprecando fra sé e sé. Seattle era più fredda di Los Angeles, nonostante la stagione estiva, ed in quel momento si stava abbattendo un temporale sulla città, cosa che di certo non aiutava l'umore instabile di Jared. 
“Ehi, Jay, problemi?” chiese Shannon, entrando nella sua stanza senza preavviso.
“Ehi, no nessuno, tutto ok” mentì Jared, fingendo un sorriso rilassato e sperando che il suo Oscar fosse stato meritato. Il punto era che poteva incantare tutti, ma non suo fratello e questo dettaglio era palese ad entrambi, tanto che Shannon lo guardò storto e continuò imperterrito a domandare cosa fosse successo. Dopo svariati minuti, Jared non resse più il colpo e svuotò il sacco: “Miriam non mi risponde, ha il cellulare spento da ore, l’avrò chiamata almeno dodici volte, ma niente”
“Forse si è scaricato e non ha pensato di metterlo in carica. Non farti prendere dal panico, non è successo nulla”
“Non sono preoccupato” rispose Jared.
“Si, certo, ed io sono rilassatissimo in vista della nascita del bambino, su non dire cazzate”
Jared lo guardò e capì che Shannon non aveva colto la sottigliezza delle sue parole: ma come avrebbe potuto? Non sapeva molto dei problemi che lui aveva con Miriam, quindi era lecito che travisasse i discorsi. Sospirò profondamente e decise di parlare davvero con suo fratello.
“Shan, io e Miriam ultimamente abbiamo dei problemi” iniziò cauto, andando a sedersi sul letto morbido e guardando il pavimento.
“In che senso?”
“Nel senso che all’inizio andava tutto a gonfie vele, ma da quando Miriam ha preso a lavorare, beh, è distante, nervosa, come se avesse qualcosa e non volesse dirmela”
“Forse deve solo ambientarsi, Jared. Non è facile per lei, ha cambiato tutto e magari il lavoro è duro e ha bisogno di tempo” tentò di rassicurarlo Shannon.
“Ma si, però non me ne parla mai, è sempre zitta, tento di avvicinarla e lei cambia discorso, si tiene tutto dentro”
“Non tutti sono dei chiacchieroni, Jay”
“Si, ne ho un esempio lampante davanti…”
“Appunto”
“L’altra settimana l’ho portata sulle colline. Avevamo fatto l’amore ed era tardi, abbiamo preso due pizze e l’ho portata lì, con l’intento di parlarle. Lei mi ha chiesto scusa per il suo comportamento e io le ho chiesto se avesse qualche problema e volesse parlarne e lei mi ha solo risposto che avrebbe voluto passare una bella serata. Stop, nient’altro. Mi tiene fuori e questa cosa mi innervosisce. E poi ci sono questi momenti in cui spegne il cellulare, si rende irreperibile, non so dov’è, cosa fa, se sta bene, se sta male. Lei non era così”
“Se le stai addosso è peggio. Ti ama, lasciala respirare”
“Sarà… va beh, Emma come sta?”
“Emma è fuori di testa e credo che mi ci stia mandando anche a me”
“Ho notato… stamattina ha messo tutti in riga all’aeroporto, molto più del solito”
“Già…” rispose Shannon, allontanando lo sguardo dal fratello e avvicinandosi alla finestra. Incrociò le braccia sul petto e rimase in silenzio, Jared lo conosceva molto bene e gli andò vicino.
“Tutto bene?”
“Si, tutto bene. Credo sia normale essere nervosi prima di un evento del genere, vero?”
“Parli del concerto? Ma si, Shan, lo sai come funziona”
“Idiota, parlavo del bambino”
“Ah… il mostriciattolo! Credo... credo di si…” rispose pensoso, perché lui non sapeva cosa si provava, e onestamente iniziava a credere che non l’avrebbe saputo ancora per moltissimo tempo.
“Sei di molto aiuto, non c’è che dire”
“Chiedi alla mamma, sicuro saprà essere più esperta di me!”
“Dai, essere inutile, andiamo da Tomo”
“Si arrivo subito…”
“Non richiamarla”
“Non voglio richiamarla, devo andare in bagno!” mentì spudoratamente, assumendo un’espressione offesa.
“Si, certo, a dopo” rispose Shannon, pensando che fosse inutile controbattere. L’avrebbe richiamata, sperava solo che Miriam rispondesse.

Appena Shannon fu uscito dalla stanza, Jared compose di nuovo il numero, ma niente: cellulare spento, e Miriam scomparsa. Erano ormai le otto di sera, erano partiti la mattina, non la sentiva da quando si erano lasciati in aeroporto, e iniziava ad essere davvero nervoso. Ma non poteva fare molto, se non chiamare il MarsLab e chiedere a qualcuno rimasto lì di andare a vedere se tutto era ok in casa di Miriam, ma non gli sembrava ancora il caso di sollevare un polverone. Decise di aspettare fino all’indomani mattina, e se ancora non sarebbe riuscito a sentirla, avrebbe agito.

Miriam si svegliò nel cuore della notte, con il collo indolenzito dalla scomoda posizione assunta nel sonno e un’aria tutt’altro che estiva che entrava dalla finestra aperta.
Si massaggiò la nuca e decise di andare a letto, spegnendo prima la televisione. Quando entrò in camera guardò l’orologio e notò che erano le quattro del mattino e in un lampo si accorse che non sentiva Jared da quando era partito da Los Angeles, la mattina prima.
Prese il cellulare di corsa, non capendo perché non l’avesse chiamata e immaginando scenari apocalittici in corso, ma quando ebbe il dispositivo in mano si accorse che era spento e ricordò di averlo disattivato proprio dopo aver lasciato Jared all’aeroporto, per distrarsi e rilassarsi un po’. Lo accese all’istante e fu inondata di messaggi di avviso e sms: Jared l’aveva cercata almeno una decina di volte e le aveva anche scritto tre o quattro sms per sapere dove si fosse cacciata.
Miriam si lasciò andare sul divano disperata: non sarebbe stato un problema, ma avevano già litigato la settimana prima per la sua disattenzione con il cellulare, e lei di tutto aveva voglia tranne che di un’altra sfuriata.
Chiuse gli occhi e pensò di da farsi: chiamarlo era fuori discussione. A Seattle, come a Los Angeles, erano le quattro del mattino e sicuramente Jared stava dormendo, non voleva svegliarlo e probabilmente indurlo a preoccuparsi ancora di più. Sarebbe stato meglio mandargli un messaggio, in modo che lui lo leggesse non appena si fosse svegliato la mattina seguente.

“Jay, scusami, mi si è scaricato il cellulare e appena tornata a casa non mi sono sentita bene e mi sono messa a dormire. Ti chiamo domani, baci”

Mentire, la cosa che più odiava fare. Miriam era sempre stata una persona molto leale e onesta, più che altro perché credeva che dire bugie era l’inizio della fine di qualsiasi cosa. Nella sua vita aveva rifilato le più disparate bugie solamente ai suoi genitori, un po’ per proteggersi e permettersi di vivere la sua adolescenza in maniera normale, un po’ per punirli, inconsciamente, di tante piccole cose. Non aveva mai detto bugie ai suoi amici, ai suoi ragazzi, ai suoi adorati nonni, a nessuno, ed in verità credeva fermamente di non essere brava a mentire, e di avere una dote speciale che investiva solamente sua madre e suo padre.

Ma quel giorno non aveva neanche dovuto architettare bene la scusa, aveva scritto veloce sul suo smartphone, senza pensare troppo, senza ragionarci su: aveva semplicemente aperto la casella di testo e digitato, senza fretta, senza problemi, senza remore né dubbi. Aveva scritto ed inviato il messaggio prima ancora di rendersi conto di cosa realmente avesse detto a Jared: gli aveva mentito in una maniera così semplice e banale che ora guardava il testo inviato con le lacrime agli occhi. Perché gli aveva mentito? Si odiò per qualche minuto, perché alla base del loro rapporto c’era sempre stata l’onestà, la stessa che Jared aveva sempre chiesto, e che anche Emma le aveva consigliato di tenere sempre presente nel rapporto con lui. Invece ora stava andando tutto lentamente, inesorabilmente a puttane.

Tempo di fare questo ragionamento e di sentire l’ormai noto peso premerle sullo stomaco, che il suo cellulare iniziò a squillare. Miriam guardò lo schermo e vide con stupore che era Jared: avrebbe dato l’anima per non rispondere, ma non poteva e se ne rendeva conto, così sospirò a fondo, cercando una calma che sentiva di non avere, e rispose.
“Ciao, amore” disse cercando di mimare una voce stanca e malaticcia, ma riuscendo solamente a far trasparire tutta la sua ansia e ancora di più la disperazione. Riuscì a stento a trattenere le lacrime.
“Ehi, Miriam, come stai?”
“Meglio, molto meglio. Deve essere stato un colpo di freddo”
“Sicura che stai bene? Vuoi che chiami qualcuno che venga da te?”
“No, Jared, tranquillo. Non saprei proprio chi chiamare, tra l’altro” rise amara, constatando per l’ennesima volta come tutta la sua vita si riducesse a Jared, lì a Los Angeles. Se lui non c’era e lei aveva bisogno di qualcosa, sarebbe rimasta sola come un cane. Forse era questo il suo problema, era questo che la stava allontanando da lui e stava rovinando il loro rapporto. Ci pensò su un attimo, estraniandosi dalla conversazione, riuscendo finalmente a focalizzare un punto, ma Jared la richiamò.
“Ehi, Miriam mi senti?”
“Si, scusa, ero sovrappensiero… dicevi?”
“Ho detto che posso chiamare qualcuno dell’entourage e chiedergli di passare da te prima di andare al MarsLab, non sarebbe un problema”. Eccolo, di nuovo: Miriam era ora certa di cosa si trattasse. L’odio totale del dover dipendere sempre e solamente da lui, e lui che neanche se ne rendeva conto era la goccia che faceva traboccare il vaso.
“Sto bene, Jared” sibilò.
“Ma si, lo so, ma starei più tranquillo se…” tentò di dire, ma fu bloccato da Miriam che iniziò ad urlare.
“Ho detto che sto bene, basta, non voglio che nessuno venga qui, non voglio che nessuno mi disturbi, so badare a me stessa, so quando ho bisogno di qualcuno. Hai capito? E soprattutto non voglio che sia uno dei tuoi a venire in mio soccorso, è chiaro?” si sfogò, con la rabbia che le premeva nella pancia, finalmente libera di essere sfogata.
“Ma si può sapere che cazzo hai?”. Jared era stanco e non riuscì minimamente a trattenere la rabbia. Le urlò contro, pentendosene subito dopo, ma pensando che forse era ora di chiarire davvero le cose. 
“Non ho niente, ok? Sto bene, non ho niente e vorrei solamente essere lasciata in pace!” continuò stizzosa lei.
“E allora ti lascio in pace, Miriam... ciao” rispose lui, arrabbiato e infinitamente scocciato da quel comportamento.

Erano settimane che andavano avanti così, e lui era stato paziente, calmo, tranquillo, aveva sopportato e cercato di capire, ma soprattutto non le aveva mai fatto pesare il fatto che lei l’avesse totalmente estromesso dalla sua vita e dai suoi evidenti problemi. Ma il fatto che Miriam non cedesse di un passo lo rendeva stanco.

Lanciò il cellulare sul letto, dando un pugno al muro per sfogare la rabbia. Era troppo, davvero troppo: dov’era la donna di cui si era perdutamente innamorato? La Miriam che aveva accanto ora non era decisamente lei e Jared non sapeva cosa fare per farla tornare.

Miriam sentì il suono sordo della chiamata che finiva: Jared aveva attaccato senza permetterle di dire altro, cosa che in un primo momento la fece andare su tutte le furie.
Si lasciò cadere sul divano, chiedendosi perché non riuscissero più a far funzionare nulla: ormai litigavano per un nonnulla, erano sempre in collera, Miriam sentì l’eco delle risate dei primi tempi a Los Angeles e stentò a credere che fossero passati solamente un paio di mesi. Le mancava Jared, quello che sapeva essere con lei e quello che insieme riuscivano a creare, ma non sapeva come tornare a splendere insieme a lui.

Gli scrisse un messaggio: “Jared, scusami, non volevo risponderti male. Capisco che ti sia preoccupato per me, ma sul serio non c’è bisogno che tu chieda a qualcuno di passare, sto bene ora. Perdonami e chiamami quando hai un momento libero. Ti amo”.
Sapeva benissimo che lui aveva momenti liberi ogni volta che li volesse e sapeva anche che se avesse voluto sentirla, non ci sarebbero certo stati problemi: poteva semplicemente allontanarsi qualche minuto da qualsiasi cosa stesse facendo. Ma la verità fu che il suo cellulare non squillò e continuò a non farlo per tutto il giorno seguente.


La mattina dopo, Miriam andò in ufficio, scontrosa e irritabile più del solito e continuò a guardare il display del suo cellulare ad intervalli regolari di almeno due minuti, ma niente, lui continuava imperterrito a rimanere nero. Scuro. La pece. Il petrolio. L’oscurità assoluta.
Alle sei del pomeriggio, dopo una giornata estenuante per il mutismo di Jared, ma non solo, prese coraggio, o in realtà placò la rabbia, e decise di chiamare lei: d’altronde aveva il diritto di sentirlo ed era stata in bilico tutto il giorno, decidendo sempre di aspettare perché convinta che spettasse a lui farsi sentire, dopo il suo messaggio di scuse.
Il telefono squillava a vuoto, cosa alquanto insolita per Jared, ma Miriam non chiuse la telefonata, e anzi si intestardì lasciando che squillasse almeno quindici volte. Poi, finalmente, qualcuno rispose.
“Jared, finalmente!” esordì Miriam seccata, ma anche sollevata. Ma quello che sentì la lasciò interdetta: la voce che le arrivò chiaramente non era di Jared.
“Miriam, ciao” disse Emma, un po’ imbarazzata, ma professionale e bravissima come al solito.
“Dov’è lui?” andò al sodo Miriam, perché sapeva che Jared non lasciava mai il suo Blackberry lontano da lui, e se proprio doveva lasciarlo, si premurava sempre di spegnerlo, così che nessuno potesse rispondere al suo posto. Era palese che lui avesse chiesto ad Emma di rispondere: atteggiamento infantile, Leto, pensò Miriam, sentendo la rabbia montarle dentro.
“Jared è a fare le prove, Miriam. Non può parlare ora, mi dispiace”
“Ah, le prove. Fra due ore inizia il concerto, strano che ancora provino, no?”
“Si, in effetti è strano, ma sai com’è: Jared è un perfezionista e sentiva qualcosa di strano in alcune melodie. E’ fatto così” rispose Emma, con la voce insolitamente tremante, come se dovesse palesemente inventare balle lì per lì e sentisse che Miriam stava bluffando per metterla in crisi. In più il fatto che il telefono avesse squillato così tanto non propendeva a suo favore: la professionalità di Emma era proverbiale e se davvero Jared le avesse affidato il suo cellulare, lei avrebbe risposto ancora prima che questo squillasse.
“Si, qualcosa di strano nelle melodie, certo”
“Già… tu come stai?”
“Bene, perché dovrei stare male!?”
“No, no, che dici. Era così per chiedere” si affrettò a rispondere Emma, sentendo di aver commesso un passo non falso, ma davvero stupido.
“Per chiedere… senti Emma, la finiamo o ti va di continuare ancora?”
“Che intendi?”
“Mi dici dov’è Jared e perché non vuole parlarmi?”
“Ma non è vero che…”
“Emma, per cortesia”
“Miriam, io non so niente, davvero, mi ha solo chiesto di rispondere ed è scappato da Shannon. Sicuramente ci sarà qualche problema per stasera, o forse è nervoso. Prima dei concerti non vuole mai parlare con nessuno” tentò di convincerla Emma, la cui voce però non la aiutava a farsi credere.
“D’accordo, farò finta di crederci. Puoi dirgli che sto bene e che sperò che mi chiami presto?”
“Certo, glielo dirò non appena sarà tornato trattabile, non temere”
“Grazie, Emma”
“Di nulla, cara. Ciao”
“Ciao…” rispose Miriam, leggermente sottosopra. Chiuse la chiamata e si sentì improvvisamente sola, davvero molto sola. Perché Jared non voleva parlarle? Si era vero che gli aveva risposto malissimo, ma poteva capitare a tutti di essere nervosi o fuori fase, non c’era bisogno di farne una tragedia a quel livello. Si ficcò sotto la doccia e ci rimase almeno per un’ora, cercando di scrollarsi di dosso lo stress e il cattivo presentimento che sentiva di avere nello stomaco.

Quando uscì prese il cellulare con le mani ancora bagnate, sperando di trovare una sua chiamata, ma non c’era nessun avviso, niente di niente. Gli scrisse un nuovo messaggio: “In bocca al lupo per il concerto, sarai fenomenale come al solito. Ti amo”. Dopo averlo inviato sperò davvero che servisse a farlo sorridere, perché il suo sorriso le mancava davvero moltissimo.
Purtroppo neanche quel messaggio ebbe un effetto positivo: Jared non le rispose, non la chiamò, non le mandò neanche un piccione viaggiatore. Le ore passarono e Miriam controllava spasmodicamente il cellulare, e l’orologio per cercare di capire se il concerto fosse ancora in atto o meno. All’una del mattino decise che poteva provare di nuovo a chiamare, cercando di non ascoltare la rabbia che le suggeriva di ucciderlo, visto che non si era degnato neanche di farle un colpo di telefono dopo il concerto, vista la telefonata con Emma e i suoi messaggi. Decise di non pensarci e compose il suo numero: il cellulare era spento e a quel punto la rabbia non riuscì ad essere placata da niente e nessuno.

Facendo su e giù per la stanza, Miriam compose nell’ordine: il numero di Emma, quello di Shannon e quello di Tomo. Tutti spenti, tranne l’ultimo che squillava a vuoto e all’infinito. Per una frazione di secondo dimenticò di essere incazzata nera e pensò a quale terribile tragedia avesse potuto abbattersi su tutti loro, fino a quando Tomo la richiamò. Rispose al volo, in preda al panico.
“Tomo, finalmente!” pensò, ridendo amaramente, che ormai era la sua risposta standard.
“Ciao, francesina”
“Jared sta bene?” chiese subito, in ansia e senza neanche salutare.
“Jared? Si, certo, sta benissimo. Credo sia nella sua stanza però. Piuttosto, problemi? Perché mi chiami a quest’ora?” chiese preoccupato.
“No, scusami, cercavo Jared” rispose mestamente Miriam.
“Che succede, Miriam?”
“Davvero non lo sai?”
“Ehm... Jared ha mugugnato qualcosa prima, in effetti” rispose Tomo colpevole, facendole capire che in realtà sapeva ben oltre di quel che le stava realmente dicendo. 
“Sono una cretina” si lamentò sconsolata Miriam. 
“Era solo preoccupato per te, Miriam”
“Lo so, lo so, ma lui mi lega al suo mondo ogni giorno di più ed io mi sento soffocare, come se la mia vita iniziasse e finisse con lui. Non so spiegartelo, ma il fatto di poter contare solamente su persone che in qualche modo siano legate a lui mi distrugge, mi manda in paranoia. Vorrei avere qualcosa di mio, qualcuno da chiamare in caso di necessità che non sia Jared – dipendente. E invece non ce l’ho”
“E questo ti crea problemi?”
“Si” sussurrò, rendendosi conto che stava dicendo la verità per la prima volta a voce alta. Era incredibile, ma solo parlarne già la faceva sentire meglio, sperava solamente che Tomo la capisse e non fraintendesse tutto. Poi aggiunse: “Ecco, vedi, io mi sto sfogando perché sto male, e lo sto facendo con te, che sei il suo migliore amico. C’è suo fratello, la sua assistente, il suo migliore amico, i suoi collaboratori, i suoi amici. E’ tutto suo in questo fottuto mondo ed io sono un piccolo satellite che gli gira intorno”
“Miriam, ma credo sia normale, insomma sei venuta a Los Angeles per lui, dovresti essere felice”
“Sono felice, lo amo da morire, ma vorrei un’indipendenza che non ho, vorrei un mio mondo in cui sentirmi bene e sentirmi piena a prescindere da lui. In questi giorni voi non ci siete, ed io sono sola, non so che fare se non lavorare”
“Puoi crearla questa indipendenza. Non hai colleghi simpatici? Persone che possano essere amici anche al di fuori del lavoro?”
“Tomo, io faccio un lavoro normale e nel novanta per cento dei casi i colleghi si odiano”
“Ma c’è un dieci per cento di possibilità che qualcuno possa volerti bene”
“Non lo so…”
“Senti, il tuo problema è riuscire ad avere una vita che sia tua, indipendentemente da Jared e dal vostro rapporto, giusto?”
“Si”
“E quello che ti scoccia è che tu sia comunque ricondotta a lui e al suo mondo, giusto?”
“Si”
“Quindi, se tu avessi degli amici tuoi, persone che non c’entrano con lui e che fossero solamente tue, per così dire, il tuo problema sarebbe risolto?”
“Credo… credo di si”
“E allora creati una vita che non ruoti solo attorno a Jared. Esci, fatti degli amici, organizza cene e aperitivi, creati una cerchia di persone che possano starti accanto anche se lui non c’è o se ci litighi. Quello che ti manca è l’amica con la quale parlare male di Jared quando lui fa lo stronzo, e lo capisco, ha senso, ma non puoi lamentarti senza provare a cercare quello che ti manca, Miriam” le disse dolcemente. Sentendo il silenzio dall’altra parte, aggiunse cauto: “Sono settimane che siete in questa situazione, vero?”
“Già. Jared te ne ha parlato?” rispose Miriam sconsolata, ormai con le difese abbassate e pronta a dire e sentire davvero tutto.
“No, Jared non ama parlare di queste cose, ma era palese che ci fossero problemi. Ma poi scusa… anche ammesso che il tuo mondo sia solo il pianeta Marte, che problema ci sarebbe? Insomma, siamo simpatici, carini, dolci, e ci prendiamo cura di te. Ah, e facciamo abbastanza casino per assicurare risate per il resto della tua vita e di quella delle generazioni a venire”. Ora Tomo cercava di alleggerire la situazione, sorridendole appena.
“Il punto è se…” non riuscì a finire, ma si forzò: “… se dovesse finire” sussurrò piano. Sentiva la nausea prenderle lo stamaco, ma quella conversazione le stava facendo bene e voleva andare fino in fondo. 
“Finire?”. Ora Tomo era confuso.
“Se Jared mi lasciasse? Io qui non ho niente a parte voi, e vi adoro, ma mi sono resa conto che se tutto andasse a puttane sarei sola e mi è preso il panico. Jared non capisce che io vorrei qualcosa di mio, da avere nel caso in cui, insomma, hai capito, e continua a ricondurmi al MarsLab, a voi, ai vostri collaboratori… ed io, io… io mi sento annaspare, mi sento in gabbia. So che lo fa perché mi ama, ma sono terrorizzata” si lamentò sentendo le lacrime uscire da sole dagli occhi. Poi, presa da un vortice di parole, continuò: "E anche la convivenza! Tomo, io non ero pronta, non volevo, proprio per questo, ma lui ha insistito, ha tenuto il broncio per giorni solo perchè io ero reticente, e alla fine? Alla fine io ho accettato qualcosa di molto simile, solo per vederlo sereno di nuovo"
“Miriam, ma tu glielo hai mai spiegato come stai facendo con me?”
“No” sussurrò piano, che Tomo quasi credette di non sentirla.
“E allora come farebbe a capirlo? Lui vorrebbe solamente vederti felice e l’unico modo che ha è farti entrare nel suo mondo, non può prendere degli sconosciuti e costringerli ad essere tuoi amici, lo capisci vero?”
“Si, credo di si”
“E comunque, fidati, Jared non ha assolutamente intenzione di lasciarti. Credo che sarebbe più probabile il contrario” le disse sicuro, per poi lasciarla riflettere qualche istante e continuare: "E per la convivenza... è un passo importante, ma se non te la senti dovresti dirglielo, non forzarti per lui. Nessuno deve mai andare contro i propri istinti e le proprie idee, Miriam. Non è mica Guantanamo la vostra relazione!"
“Io lo amo, non voglio lasciarlo”
“E allora il problema credo che non si ponga: stai costruendo castelli in aria senza un vero motivo”
“E’ palesemente arrabbiato con me: mi ha appeso il telefono in faccia alle quattro del mattino l’altra notte e non lo sento da quel momento. Tutto sommato sono quasi ventiquattro ore, due telefonate e due messaggi fa”
“Sarei arrabbiato anche io se la donna che amo mi ringhiasse contro da settimane senza spiegarmi il perché e si incazzasse se proponessi di mandare qualcuno a vedere se le serve qualcosa, dopo avermi detto che è stata male, e sapendo che è totalmente sola in città. Non puoi biasimarlo” la indusse a ragionare Tomo, mantenendo il tono calmo e pacato.
“Perché cazzo dici sempre cose sensate? Sei irritante!”
Tomo rise e le rispose a tono: “E’ un dono di pochi, sei fortunata a conoscermi”
“Scusami, non ti ho neanche chiesto com’è andato il concerto!”
“Non ti preoccupare, non è importante. Però è andato bene, siamo contenti”
“So che siete bravissimi, mi piacerebbe vedervi di nuovo prima o poi”
“Abbiamo un tour intero davanti, avrai tempo”
“Senti, ora ti lascio dormire dai… scusami se ti ho tenuto al telefono così tanto” disse guardando l’ora e rendendosi conto che era passata più di un’ora.
“Gli amici fanno questo, Miriam” le suggerì lui teneramente, lasciando intendere che era felice di aiutarla. 
“Grazie, ti voglio bene” gli rispose grata e sincera. 
“Va a dormire, francesina”
“A domani… Ah, Tomo? Tu non mi hai sentito, ok?”
“Sicuro, non so neanche come ti chiami” la prese in giro, rassicurandola sul fatto che non avrebbe spifferato nulla a Jared.
Non appena chiuse la chiamata, si sentì sollevata anche se ancora molto scossa e preoccupata per la reazione di Jared. Buttare fuori le paure, i problemi e le incertezze l’aveva aiutata a focalizzarli e a renderli reali, in fin dei conti forse avrebbe dovuto parlarne con Jared molti giorni prima, come le aveva anche fatto notare Tomo, e decise che non appena Jared fosse tornato in città, lo avrebbe fatto.
Andò a letto con un’unica cosa per la quale essere felice: aver finalmente, totalmente, recuperato il rapporto con Tomo. Le era mancato moltissimo.
 
Nonostante lei ci provasse, però, i giorni seguenti non furono semplici. Jared continuava a negarsi al telefono: faceva rispondere ad una Emma sempre più esasperata dalla situazione, spegneva il Blakberry o semplicemente lo lasciava squillare all’infinito. Miriam non perdeva le speranze e la pazienza e continuava a chiamare, chiamare, chiamare. Alternava telefonate a sms, alle volte dolcissimi, alle volte un po’ piccati, ma mai fuori dalle righe. Eppure sembrava che a Jared semplicemente non importasse, sembrava che glielo facesse apposta.
Miriam attendeva sempre con più enfasi il ritorno di Jared a Los Angeles: mancavano solo due giorni, ormai e poi avrebbe potuto parlarci seriamente, sperando che il nervosismo accumulato non rovinasse tutto e li inducesse solo a litigare ancora di più.

Quella mattina, complice un’ora di relax dall’ufficio, decise di passare al MarsLab per fare una sorpresa a Jared: non gli aveva mai fatto un regalo vero, e dopo quel periodo di tensione, credeva che sarebbe stato carino fargli trovare qualcosa di romantico. Aveva studiato tutto nel minimo dettaglio nel weekend precedente: aveva fatto stampare tutte le foto che si erano fatti insieme in quei mesi. Hawaii, Roma, Madrid, Los Angeles, Parigi… più le guardava e più si rendeva conto di quanto la loro relazione fosse strana, ma eccezionale.
C’erano selfie fatti con il cellulare, fotografie scattate da Shannon in spiaggia, mentre loro erano distratti, c’era la loro prima paparazzata pubblica, a Parigi, e qualche scatto buffo. Sull’ultima, la più bella aveva scritto con un pennarello solo due parole: possiamo farlo. Era una fotografia che avevano scattato a Los Angeles, quando Jared le aveva proposto di ritardare l’aereo di nove ore. L’avevano scattata con il Blackberry di Jared e non aveva una qualità eccelsa, ma valeva più di mille scatti di reflex costose: era l’inizio di qualcosa di bello che li aveva condotti a vivere praticamente insieme in meno di un anno. Era la testimonianza che a volte l’amore, la passione, la convinzione di avere accanto la persona giusta, non necessitano di anni di prova o conoscenza. A volte si sa semplicemente cosa fare e ci si lancia nelle fiamme senza pensarci più di tanto.

Con quelle fotografie formato maxi dentro una scatola si avviò felice al MarsLab, per disporle in maniera che lui trovasse la sua stanza letteralmente invasa al suo ritorno, l'indomani. Era un gesto molto banale, ma quando aveva ritirato le stampe dal fotografo, nel guardarle, si era commossa e aveva capito che l’idea era giusta.
Era felice ed entusiasta e varcò il cancello quasi saltellando. Jamie la salutò dalla sala registrazione, non commentando né dicendo altro, solo un breve saluto che lei ricambiò con un sorriso, prima di avventurarsi al piano superiore.
Appena arrivata davanti la stanza di Jared, la aprì e la spinse leggermente con il piede per evitare di far cadere la borsa e la scatola con le foto. Ma quello che trovò dentro le fece per un attimo perdere il sorriso: seduto sul letto, con la chitarra in grembo e le cuffie sulle orecchie, c’era Jared. Capelli raccolti in quel disordine che le piaceva tanto, barba di qualche giorno, espressione concentrata e seria.

“Miriam…” disse solamente appena la vide, togliendo le cuffie e lasciandole adagiate sul collo. Il suo tono non tradiva sorpresa, rammarico, felicità: era neutro, semplicemente fermo e senza emozioni.
“Sei tornato?” rispose lei, incapace di entrare e chiedendosi solamente perché non l’avesse avvertita.
“Si”. Era inutile e stancante fingere: Jared era tornato e non l’aveva chiamata, dopo giorni in cui lei aveva cercato di parlargli e lui si era negato. Quella era la verità e Jared pensò che fosse meglio non ostacolarla.
“Stai bene?” gli chiese.
“Si, certo”
“Ok” disse, felice di saperlo in salute, almeno. Poi sospirò e continuò: “Non mi hai chiamato”
“Scusa, i concerti sono stati stressanti e gli impegni più duri e serrati del previsto”
“No, intendo che… non mi hai chiamato per dirmi che avevi anticipato il ritorno a Los Angeles, Jared”
“Sono tornato ieri, ti sarei venuto a trovare oggi”
“E’ una settimana che ti cerco come una disperata”
“Te l’ho detto, io…”
“Almeno un sms, una brevissima telefonata per dirmi che eri vivo potevi farla. O almeno chiamarmi ieri, appena tornato”
“Sarei venuto da te oggi” ripetè, stavolta quasi sibilando.
“Sei arrabbiato”
“No, per niente”
“Non dire cazzate, sei arrabbiato”
“Ok, forse lo sono, ma credi che abbia torto?”
“Jared, stavo bene, non avevo bisogno che nessuno venisse a farmi da balia”
“Non è quello il punto” le rispose, stanco. Tolse le cuffie e le scaraventò sul letto. Poi andò vicino la finestra, guardò fuori e mise le mani sui fianchi, sospirando rumorosamente: erano giunti al capolinea? Aveva davvero fallito di nuovo? Abbassò lo sguardo verso il pavimento e sentì un enorme peso sulle spalle. 
“E qual è allora?” gli chiese, in ansia. Non sapeva se fosse realmente arrabbiata per averlo trovato lì, perchè non l'aveva chiamata, perchè si era disinteressato di lei. Non sapeva più niente, ormai. 
“Dimmelo tu, Miriam. Perché io sono settimane che non ci capisco un cazzo e sono stanco di prendermi i tuoi malumori senza sapere cosa ti gira per la testa”
“Pensavo di essere libera in questa relazione”
“Si, libera è vero, ma anche di parlarmi! Tu stai sempre zitta, non parli, non mi dici niente, non ti sfoghi, sei solo capace di urlarmi in faccia e ignorarmi. Cosa c’è che non va, Miriam?” le disse urlando. Miriam era rimasta sulla porta, con la scatola in mano, le lacrime agli occhi e le gambe che le tremavano. Jared non l’aveva invitata ad entrare e lei non era riuscita a varcare la soglia della porta, tanta era la delusione di trovarlo lì in anticipo senza neanche essere stata avvertita.

Miriam si piegò sulle ginocchia, lasciando la scatola a terra, poi tornò in piedi e iniziò a parlare: “Jared, il mio mondo è il tuo. E questa cosa mi soffoca, mi rende instabile, non mi fa vivere bene. Io vorrei un’indipendenza affettiva che vada oltre i colleghi di lavoro, vorrei degli amici che non c’entrino con te, che siano solamente miei, da poter chiamare se ho bisogno, senza che tu lo sappia. Delle persone con cui potermi sfogare se litigo con te. E tutto quello che ho qui sei tu, i tuoi amici, la tua famiglia, i tuoi collaboratori, tuo fratello. E’ tutto tuo, tutto fottutamente tuo ed io sono solo un satellite che gira intorno a questa immensa costellazione di nome Jared. Non ce la faccio”. Disse tutto quello che doveva dire con voce calma, tranquilla, senza urlare, né scomporsi, né tradire la minima emozione negativa. Era stanca e si vedeva, quindi non credeva fosse necessario sbracciarsi: la verità era quella e finalmente aveva trovato il coraggio di dirlo.
“Miriam, ma le persone che conosci ti vogliono bene, non ti sono vicine perché gliel’ho detto io” tentò Jared, non capendo fino in fondo quel discorso. La guardava esprimere i suoi problemi e per un momento la rabbia passò, facendo posto alla terribile sensazione di sentirla distante.
“Lo so, ed è bellissimo, perché non ho mai avuto una famiglia così vicina, delle persone in grado di amarmi in maniera così completa, credimi. Ma rimangono vicine a te, io sono la tua compagna, e rimarrò tale. Quindi se…” sospirò, perché era difficile anche da pensare, figuriamoci da dire. “… dovesse finire fra noi, io non avrei niente. E questa cosa mi paralizza, da quando me ne sono resa conto”
“Hai paura che fra noi finisca? O forse mi stai dicendo che non sei più sicura di voler stare con me? Perché se non ricordo male hai portato delle cose a casa mia, e avevamo deciso di tentare qualcosa di molto simile ad una convivenza” rispose incredulo e ferito, senza neanche premurarsi di nasconderlo, di mentire. Ormai giocavano a carte scoperte entrambi, con la differenza che Jared tentava ancora di affannarsi a capire, mentre Miriam sembrava più rassegnata.
“No, Jared, non sto dicendo niente di tutto ciò. Sto solamente pensando che niente è eterno e potrebbe accadere che un giorno la nostra relazione finisca. Guardiamo in faccia la realtà, Jared: è meno di un anno che ci conosciamo e questa convivenza l’hai voluta tu più di me. Anzi, l’hai voluta solo tu, e lo sai benissimo”
“Che cazzo di problema hai? Me lo dici? Ogni volta che le cose sembrano andare bene, tu trovi il modo assurdo per rovinarle, per martoriarmi! Sei incredibile” le disse guardando di nuovo fuori dalla finestra.
“Mi hai detto tu di sfogarmi con te, ora non puoi arrabbiarti” tentò sussurrando.
“Scusami se non faccio salti di gioia nel sentire la donna che amo dire che probabilmente non crede che staremo insieme per lungo tempo e che in realtà non vuole venire a vivere con me, ma l’ha fatto praticamente solo per farmi contento. Sono cose così romantiche da pensare”
“Jared…” disse avvicinandosi finalmente a lui. Gli passò le braccia attorno alla vita e posò la sua guancia alle spalle di Jared, annusando il suo profumo. Ma lui non era disposto a nessun contatto, e le tolse le mani dalla sua pancia, allontanandola. Miriam rimase di stucco a quella reazione e lo guardò perplessa. “Mi hai detto tu di parlare, avrei fatto meglio a tacere” aggiunse, amareggiata.
“Miriam, io vorrei solamente che tu smettessi di porre dei problemi fra noi. Io ti amo, tu mi ami, dov’è il problema? Prima le foto, poi le insicurezze, poi ancora la storia della convivenza, ora questo. Quanto ancora dovremo litigare prima di trovare un po’ di pace?”
“Non stiamo litigando, sto solamente cercando di abituarmi a questa situazione”
“A me sembra invece che tu ti diverta a creare ostacoli, ed io inizio ad esserne stanco, sinceramente”
“Sei stanco dei miei problemi? E dov’è ora la collaborazione? Il parliamone e risolviamolo insieme? Sei un’ipocrita, Jared” gli disse aspra, abbandonando la rassegnazione e la calma.
“No, sono una persona onesta. Ti ho detto dall’inizio che vita facevo, e tu hai accettato la scommessa, non puoi ora venirmi ad incolpare di averti chiuso nel mio mondo”
“Non ti sto incolpando”
“Invece si, lo stai facendo”
“Io mi sento soffocare, Jared”
“E allora esci, trovati degli amici, prova a risolvere la questione, non c’è niente di male ad avere indipendenza, a qualsiasi livello tu la voglia. Io ti amo, voglio che tu stia con me, ma non voglio vederti infelice e soprattutto non voglio che tu abbia solo questo posto. Ma non posso aiutarti, devi farlo da sola”
“Non ti ho chiesto aiuto”
“Bene, non lo avrei mai pensato, guarda”
“Cosa vuoi da me?” gli urlò contro, in preda all’esasperazione.
“Voglio la Miriam che ho conosciuto alle Hawaii, che era fresca, leggera, senza problemi, senza paranoie, senza strutture finte addosso”
“Non si può vivere sempre in un sogno, Jared. La vita vera porta problemi”.

Jared non rispose, abbassò lo sguardo cercando di organizzare le idee e poi, come un fulmine, disse: “Sono stanco di litigare, credo che dovremmo prenderci un po’ di tempo per pensare davvero a cosa vogliamo, così che tu possa cercare di trovare quel che cerchi”
“Io non voglio lasciarti, non voglio del tempo”
“Lo voglio io, Miriam” le rispose piano, sconfitto, abbattuto, ma convinto.
Miriam non rispose, si avvicinò a lui, gli sfiorò la guancia con una mano tremante e posò le sue labbra su quelle di Jared. Chiuse gli occhi un istante, per viversi quel leggero contatto, ma la freddezza di Jared, la sua totale inespressività la ferì in maniera incredibile. Lui non chiuse gli occhi, non la abbracciò, non disse niente, non rispose: aveva le mani sui fianchi, e lì le lasciò, gli occhi aperti a guardare il vuoto, che rimasero incollati a quel frammento di nulla.
Miriam si staccò da lui come se quel contatto potesse distruggerla, prese la sua borsa e andò via. Scendendo le scale tentò di dominare le lacrime, sperando di non essere fermata da nessuno, trovò Jamie in cucina che si faceva un panino.
“Miriam, vuoi favorire?” le chiese allegro, evidentemente non aveva sentito nulla di tutta la discussione.
Lei non rispose, lo guardò un secondo e fece un gesto di diniego con la mano, uscendo definitivamente dal MarsLab. Non appena fu in strada iniziò a correre, correre veloce, voleva solamente rintanarsi a casa e piangere tutte le lacrime del mondo: aveva rovinato tutto, Jared non avrebbe più voluto vederla. E l’unica cosa che riusciva a pensare era di essere davvero sola, ora. 


 
       

L'angolo di Sissi 

Bentrovaaaaaaaati! Solito capitolo fiume...
qualche giorno riceverò la visita di qualche killer, lo sento!  


In realtà, sono più che convinta che oggi vorreste uccidermi per altro... no!? 

Jared e Miriam sono alle strette, 
anzi, direi che hanno proprio chiuso. 
Mi dispiace, in realtà: lo ammetto, sono un'amante degli happy ending, 
però a volte per arrivarci bisogna scalare vette inimmaginabili,
e comunque non credo che l'amore vinca su tutto, sempre. 

Credo invece che le crisi personali possano mettere a dura prova le coppie, 
credo che per amare davvero bisogna essere al pari con i tempi,
e con se stessi. 
Non sono convinta che si debba reggersi sull'altro,
e invece sono una grande sostenitrice dell'indipendenza,
come si sarà capito molto bene! 

In questo capitolo, invece,
ho voluto far ritornare viva l'amicizia fra Tomo e Miriam: 
so che molti di voi ci speravano,
e sono felice di avervi fatto questo piccolo regalo! 
Mi piace che siano tornati in maniera semplice: 
a volte basta solo sorridersi per chiudere le paretesi negative,
e volevo che per loro fosse così.
In aeroporto, velocemente, senza fronzoli e parole di troppo.

Va beh, meglio che taccia prima di spoilerare qualcosa... 

Ci tengo solo a dirvi una cosa: la Teoria dei Semafori Rossi è vera,
ed è frutto della mente di mio padre, 
che la inventò quando studiava, moltissimi anni fa. 
Me l'ha insegnata lui il mio primo anno di università,
e ancora oggi, che di acqua sotto i ponti ne è passata,
è un simpatico rituale che attuo tutte le mattine che ho esami! 

Come sempre, grazie del sostegno, dell'affetto e delle recensioni! 

Un abbraccio dal Pianeta Marte, 


Sissi

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Capitolo 32
*** Non andartene ***


Non andartene


Non appena Miriam fu andata via, Jared chiuse gli occhi e sospirò rumorosamente. Sentire il cancello sbattere fu come ricevere un calcio in pieno stomaco, e non avere la possibilità di piegarsi al dolore, cosa ancora più cruenta e crudele.
Rimase in piedi, immobile, con gli occhi chiusi, sperando che il tempo si riavvolgesse e gli desse la possibilità di cambiare le cose: si chiese come erano finiti a non capirsi più. Perché la cosa che più bruciava, forse ancora più della fine della loro relazione, della pausa, di tutto, era il non arrivare all’altro. 
C'era un tempo in cui i loro sguardi bastavano ad esprimere i sentimenti, in cui non serviva formulare frasi vere, in cui entrambi sapevano che sarebbe stato sufficiente sorridersi, fare un gesto, guardarsi, annusarsi per capire. Ora non arrivavano a comprendere niente neanche urlandosi addosso, e quella era la cosa che più faceva male, l'unica cosa alla quale Jared non riusciva davvero a credere. 
 

Si sedette sul letto in preda allo sconforto e racchiuse il suo viso fra le mani, tentato dall’idea di urlare e frenato solo dal fatto che sicuramente al piano di sotto c’era la crew. 
Quando riuscì a riaprire gli occhi analizzò la situazione: era tornato dalle date ventiquattro ore prima, perchè doveva avere il tempo per chiarirsi le idee prima di affrontare Miriam. Quando avevano litigato, mentre lui era a Seattle, aveva capito di aver raggiunto il limite, di non poter più sostenere quel clima, quella tensione, quel continuo chiedersi come andrà la giornata, che cosa si dovrà affrontare, cosa si dovrà mandare giù. 
Miriam era nervosa da tempo, ormai, e lui lo sapeva, ma aveva dato colpa al lavoro nuovo, alla sua, seppur inspiegabile, paura, persino alle temperature così diverse da quelle di Parigi. Aveva dato la colpa a tutto, e aveva sopportato tutto, ma la sua reazione quella sera era stata la classica goccia che aveva fatto traboccare il vaso: loro dovevano affrontare quel problema, qualsiasi conclusione avrebbero raggiunto sarebbe stata migliore del limbo in cui si stavano confinando. Era la decisione che aveva preso immediatamente dopo aver chiuso la chiamata. I concerti e poi la sua vita privata. 
E così aveva fatto: ventiquattro ore di nulla, e poi le avrebbe parlato. Ma il piano era andato storto e quando aveva visto Miriam sulla soglia della porta della sua stanza, ne era quasi stato contento, perchè aveva sperato di poter risolvere molto prima tutto quel casino che lo logorava, e che, ne era certo, non gli aveva permesso neanche di dare il massimo nei due recentissimi concerti. 

Tuttavia, quando le carte erano state messe in tavola, senza copertura alcuna, Jared si era sentivo svuotato nel profondo: Miriam non era convinta che sarebbero vissuti insieme felici e contenti. E il finale da favola c'entrava ben poco, ma il fatto che lei avesse già messo una parola sul loro destino e volesse avere una specie di salvagente attorno alla vita in caso di disgrazia, lo aveva lasciato di sasso. Perchè, lui era convinto, nella vita le cose si fanno in due, e si lotta sempre in due, non ha senso porre limiti alla provvidenza, non ha senso pensare che se una cosa andrà male, il piano B è lì pronto ad aspettarti: le relazioni umane non sono piani perfetti, non è come nel lavoro, dove è palese che tu possa ideare piani di fuga. Miriam era andata in crisi perchè non aveva un piano di fuga da lui.
E poi, Miriam non gliene aveva parlato. Lei aveva taciuto tutto, si era tenuta tutto dentro e non aveva pensato di prenderlo e dirgli che era fottutamente impaurita dal futuro, dall'essere legata a lui o da tutto il resto. Aveva accettato la proposta di una semi convivenza, ed ora faceva la vittima di un gioco al massacro che, aveva chiaramente detto, aveva iniziato lui. Di cui lui era l'unico artefice e l'unico responsabile. 
Si sentiva messo fuori campo, si sentiva tradito nella fiducia, si sentiva semplicemente un coglione qualsiasi, non l'uomo della sua vita. Si alzò e assestò un pugno secco alla porta, che vibrò sotto al colpo. Poi si toccò la mano, sentendo il dolore arrivargli alle nocche e allo stomaco per la sua intensità. Massaggiandosi la mano e notando che la porta non aveva alleviato le sue pene, abbassò lo sguardo e notò la scatola, abbandonata vicino la porta, vicino a dove fino a pochi minuti prima era ferma Miriam.


La guardò per qualche istante, non essendo realmente sicuro  di voler sapere il contenuto di quella scatola, ma essendo conscio di doverla aprire, prima o poi. Sospirò pesantemente e quando si inginocchiò vicino a quella piccola confezione esitò a toccarla, come se potesse ustionarsi da un momento all’altro. Poi con un dito alzò il lembo di cartone superiore e sbirciò: fu come ricevere una scarica elettrica. Aprì la bocca e sentì l’ossigeno non entrare, l’aria rifiutarsi di passargli in gola, così agì d’istinto: prese al volo quella maledetta scatola e uscì dalla stanza.
Scendendo le scale incontrò Shayla, che lo guardò non capendo perchè fosse lì. “Jared?! Ma che ci fai qui? Voi dovevate..." iniziò a dire, senza poter finire. Jared l'aveva appena fulminata con lo sguardo, proseguendo poi il suo cammino: non voleva parlare, vedere, sentire né tantomeno dare spiegazioni a nessuno. Si infilò velocemente in macchina e guidando velocemente raggiunse casa.

Entrò lanciando le chiavi sul tavolino, fregandosene che fosse di vetro e potesse scheggiarsi, poi si sedette sul divano e mettendosi la scatola davanti, la aprì con entrambe le mani, forse impreparato a quell’onda emotiva che lo prese non appena vide le foto.
Erano tantissime, erano bellissime. Le guardò a bocca aperta, incapace di prenderle in mano, poi con estrema lentezza iniziò ad osservarle davvero: le prendeva ad una ad una e dedicava loro il tempo giusto a far riaffiorare i ricordi. Il tempo che meritavano. 
Non seppe quanto rimase lì seduto a veder scorrere quei mesi fra le sue mani, ma imparò che non conta il tempo che si sta con una persona, per sentirsi distrutti dopo averla persa.
Quando prese l’ultima non riuscì ad impedire alle lacrime di sgorgare: forse c'era un motivo per il quale quella foto era finita in fondo, dopo tutte le altre. Forse era Miriam ad averla messa lì, avendo avuto in mente un ordine preciso per sistemare quella scatola.
Tuttavia gli sembrò solamente un modo molto cattivo di infliggergli un dolore acuto: quell’autoscatto dalla pessima risoluzione, con il sole in faccia e gli occhi rossi dal pianto era quanto di più bello e terribile lui avesse mai visto. Era il loro tutto, il loro inizio e la loro fine, era l'aver creduto in qualcosa, l'aver sognato qualcosa. Era così singolare e alquanto beffardo che quella foto fosse finita in fondo. 
La strinse troppo fra le dita, la vide deformarsi come si era appena deformato il tuo futuro, quello in cui aveva creduto, quello che aveva sperato di risolvere solo il giorno prima, e si soffermò sulla calligrafia di Miriam, che era un'altra lama pronta a prendersi la sua carne: quella frase non significava più niente. Non poteva fare un accidente, loro, perché si erano illusi?

Scaraventò la scatola lontano, si alzò e prese le foto fra le mani gettandole via da lui, con rabbia. Un momento prima era circondato da quei piccoli frammenti della sua vita, un secondo dopo loro, così leggeri, gli volarono attorno, prendendo quota e ricadendo placidi sul pavimento: ecco tutto ciò in cui aveva creduto nell’ultimo anno, spento e inerme a giacere sul freddo marmo della sua villa.

Il giorno dopo, Shannon ed Emma rincasarono allegri e stanchi: le date erano andate bene, e aver vissuto quei giorni insieme li aveva resi euforici e felici.
“Ehilà, bentornata a casa!” le disse ridendo, non appena aprì il portoncino della villetta bianca che avevano reso a loro immagine e somiglianza. Era da giorni che Emma scherzava sul fatto di non riuscire più a portarsi agilmente in giro quel fagotto che tutti si ostinavano ad adorare, e aveva più volte detto a Shannon che avrebbe solo voluto tornare a casa e stendersi sul loro divano immenso, conscia che quelle lamentele avrebbero potuto dare a suo marito la possibilità di bloccarla a casa dal lavoro molto più spesso di quanto lei in realtà facesse.
“Finalmente! Sono esausta… divano dove sei! Vieni dalla mamma!” gridò mollando all’ingresso il suo trolley, la borsa e gli occhiali da sole. Shannon rise quando la vide lasciarsi andare fra i morbidi cuscini colorati e assumere un’espressione beata, socchiudendo gli occhi. 
“Sei felice ora?”
“Felice? Sono al settimo cielo, Shan! O si sbriga a nascere o temo di voler vivere la mia vita così” gli rispose. Poi, con un'espressione accigliata si guardò la pancia: "Ehi, tu, mostriciattolo, come ti chiama tuo zio: hai sentito? Sbrigati, la mia pancia vorrebbe tornare a dimensioni umane. Grazie per la collaborazione".  
Shannon scoppiò a ridere e chiudendo la porta, la prese dolcemente in giro: “Se tuo figlio sentisse si farebbe venire i complessi… forse dovrò spiegargli che la mamma lo adora, anche se fa di tutto per non dimostrarlo” 
“Porta tu in giro questo pancione, poi ne riparliamo. Non so come faccia la gente a trovarlo bellissimo, dolcissimo e perfetto. È una rottura immane!” si lamentò ancora Emma, scalciando le scarpe lontano e allungandosi ad afferrare il telecomando dell’aria condizionata.
“Pensa…” iniziò Shannon piano, avvicinandosi a lei. “C’è anche chi lo trova sexy…”. Le passò una mano sulla pancia, salendo verso il suo busto, fino ad arrivare al volto, dove lasciò una carezza.
Emma sentì le sue attenzioni e avvampò di colpo: “Shan… ma che dici?”
“Shh… zitta” le disse sulle labbra, prima di farle sue. Scese a baciarle il collo, mordendolo appena, e sentì Emma rilassarsi e sospirare serenamente.
Quando fu nuda la guardò e pensò che non era possibile che lei odiasse la sua pancia, era esattamente perfetta e sublime. Il corpo di Shannon le suggerì che davvero la trovava sexy e lei rise, allacciandogli le gambe sulla schiena e provocandogli un fremito sulla schiena.
Fecero l’amore a lungo, dolcemente, con passione. Ogni attimo era qualcosa di immenso e come ogni volta, Emma sentì il piacere e la felicità invaderla di colpo, lasciandola svuotata.
“Allora… sei ancora convinta di essere brutta e ingombrante?” le disse tenendola fra le braccia, ancora sul divano, nudi e appagati.
“Si, ovviamente si. Ma ti amo tanto per aver finto così bene il contrario” gli rispose ridendo.

In quello stesso istante, Tomo stava rientrando a casa, stanco e pensieroso. Il comportamento di Jared, così come la telefonata di Miriam nel cuore della notte, non aveva lasciato molto dubbi sulla situazione, ma lui sperava che il fatto che Jared avesse deciso di scappare e tornare a LA prima di loro e prima del previsto, fosse un segnale positivo.
Lasciò la sua valigia nell’ingresso e andò verso la segreteria telefonica, che brillava incessantemente: sua madre, sua sorella, la signora che lo aiutava nelle faccende di casa. Normale amministrazione, che avrebbe potuto sbrigare dopo, non avendo in quel momento molta voglia di vedere nessuno.
Si tolse in fretta la maglia e salendo le scale finì di spogliarsi, pronto ad immergersi sotto una sana e ristoratrice doccia, ma quando aveva già un piede dentro la cabina, sentì il campanello suonare in maniera prepotente. Pensò di ignorarlo, ma poi si disse che poteva essere Jared, Miriam, o addirittura Shannon con qualche problema: alzò gli occhi al cielo, cercando di imporsi di fregarsene per una volta. Ma al terzo tentativo, il suo senso del dovere gli impose di mettersi qualcosa addosso e andare a caricarsi dei problemi del mondo.

Scese le scale in fretta, e aprì velocemente la porta, senza guardare chi fosse allo spioncino, e subito dopo si sentì un emerito idiota: “Ciao…” disse solamente, squadrando Vicki.
“Tomo, ciao. Io non volevo disturbarti” reagì lei, inchiodata sullo zerbino, incapace di fare un passo indietro o uno avanti. Lo fissò, non credendo che lui potesse risultare ancora così bello e così sexy ai suoi occhi. Riuscì a darsi un tono, a chiudere la bocca e addirittura a sorridere, sperando subito dopo che lui la togliesse da quell’imbarazzo.
“Ma no, non disturbi” le disse, poi si rese conto di indossare solamente un telo avvolto in vita. Si guardò e aggiunse: “Scusa, stavo per farmi una doccia. Entra pure, corro a vestirmi e sono da te”. Detto ciò volò letteralmente nella sua camera, raccogliendo i vestiti che aveva lasciato sparsi per le scale e la lasciò accomodarsi da sola. D’altronde quella casa lei la conosceva molto bene.

Vicki entrò cauta, guardandosi attorno come se fosse su un terreno minato. Riconobbe i mobili presi insieme anni prima, gli oggetti provenienti da tutto il mondo, regali che Tomo le portava ogni volta che tornava da un tour, i quadri appesi alle pareti. Ma soprattutto riconobbe le fotografie: erano tutte sue, lei che amava così tanto immortalare attimi di vita, anni prima aveva riempito casa di stampe, in cornici, appese al muro, incastrate negli angoli più impensabili. E tantissime ritraevano lei e Tomo insieme, o viaggi che avevano fatto insieme. Tomo non aveva toccato nulla di quella casa, da quando lei se ne era andata.
Fece qualche passo, incerta su dove andare, se sedersi, se attenderlo lì: era in imbarazzo e si stava chiedendo come mai fosse andata a trovarlo, invece che chiamarlo e proporgli di vedersi da qualche parte. Aveva agito d'istinto, ed ormai avrebbe dovuto recitare bene la sua parte. 

Dopo qualche minuto, Tomo scese rapidamente le scale, vestito e agitato: vederla di nuovo lì dentro, nella loro casa, era un colpo abbastanza forte.
“Eccomi, Vicki! Ma siediti, che fai in piedi?” le disse sorridendo. Le prese la borsa e la condusse verso il divano: “Vuoi qualcosa da bere?”
“Grazie, dell’acqua andrà bene”
Tomo parve pensarci su, la scrutò e poi, entusiasta come un bambino esclamò: “Sai che facciamo? Ho preso del vero sciroppo d’acero a Vancouver, nei giorni scorsi, ora andiamo in cucina e ci facciamo dei pancakes per merenda!” 
Vicki lo guardò sbalordita che riuscisse ad essere così spontaneo e fresco, così dolce e gentile. Aveva poca voglia di mangiare, ma il suo entusiasmo la travolse e ridendo accettò l’idea. “Aspetta un attimo, torno subito” gli disse prima di varcare la soglia della cucina, scappando poi via verso l’entrata.

Tomo la vide tornare dopo qualche attimo con un sacchetto della spesa colmo di chissà cosa. La osservò con un’espressione interrogativa e lei spiegò: “Che pancakes sono se non ci mettiamo la frutta? L’avevo presa prima di decidere di farti una visita”. Lo guardò imbarazzata e distolse lo sguardo, così Tomo le andò vicino sorridendo e accarezzandole una guancia le disse: “Piccola perfezionista”.
Provò l’impulso di baciarla, così come durante la nottata che avevano passato insieme, giorni prima, ma si fermò e togliendole il sacchetto dalle braccia si diresse in cucina, esortandola a seguirlo.
Tirò fuori dalla dispensa gli ingredienti, mentre passava a Vicki la ciotola di frutta lavata, così che lei potesse tagliarla e iniziarono a lavorare serenamente.
“Allora, come sono andate queste date?” gli chiese distrattamente dopo qualche attimo.
“Molto bene. E’ stato bello avere anche Emma” rispose sinceramente. Poi la guardò meglio e continuò: “Ma come fai a sapere che sarei tornato oggi?”
“Mofo… uso il web e le vostre fan sono delle spie naturali e meravigliose. Per l’orario però ho solo avuto fortuna, giuro!” disse allegra guardandolo. Per un momento rimasero in silenzio a scrutarsi, consci di aver fatto dei passi da gigante in così poco tempo. Non avevano ancora chiare le mosse da fare, navigavano a vista su un veliero che forse imbarcava ancora pericolosamente acqua, ma l’essere lì insieme a cucinare li rendeva euforici, perché dimostrava che forse avevano una chance, ancora.

Quando i pancakes furono pronti e guarniti a dovere su due piatti enormi, entrambi pensarono immediatamente di andare a gustarseli sul divano: Tomo si sedette al suo posto, sulla poltrona di pelle rossa, e Vicki scalciò le scarpe per rannicchiarsi con le gambe sul suo cuscino preferito, nell'angolo di divano opposto a dove era seduto Tomo. Erano gesti automatici, appartenenti ad una vita passata, eppure sembravano ancora così naturali che quando si accorsero di averli compiuti senza neanche dirsi una parola scoppiarono a ridere entrambi: “Le belle abitudini non muoiono mai, a quanto pare” gli disse Tomo.
“Forse bramano di essere riprese” aggiunse Vicki, sentendosi improvvisamente sospesa per la portata di quella frase. “No, io non volevo… scusami… forse…” iniziò a balbettare, il terrore dipinto sul volto.
Tomo posò il piatto sul tavolino basso e le si avvicinò: “Shh, va tutto bene Vicki, davvero” le disse piano, accarezzandole il viso, ancora, e cercando di non farla scappare. Soffriva nel vederla lontana, nel vedere che lei insisteva nel mettere paletti e nell’alzare barricate, anche se sapeva che era una premura che riservava a lui, che portava avanti solamente per lui. E che le costava parecchio.

Vicki sospirò e abbassò lo sguardo: voleva più di ogni altra cosa far tornare tutto come prima, ma come ci sarebbe riuscita? Come avrebbero potuto farcela? Era una lotta che lei poteva sostenere, ma avrebbe voluto avere un risultato certo, non per se stessa. Ma per Tomo, perché farlo soffrire ancora non era corretto, non l’avrebbe tollerato: se qualcuno le avesse detto che non ce l’avrebbero fatta, lei avrebbe mollato il colpo in quell’istante, a costo di rimanere con i rimorsi tutta la vita. Forse l’amore è proprio quando ti rendi conto che pur di non vedere soffrire chi ami, sei disposta a renderti la vita un inferno.
Tomo sembrò leggerle nel pensiero e sussurrando le disse: “Vicki, siamo in due, non succederà niente che non vogliamo” poi le sorrise e continuò, più leggero: “Ora se permetti mi si stanno freddando i pancakes”. La vide ridere della sua battuta e afferrò il piatto, iniziando a gustarsi quella merenda d’eccezione.
“Come hai passato il weekend?” le chiese dopo qualche boccone.
“Solite cose. Ho lavorato, mi sono vista con un’amica e ho cercato di tenere a bada mia madre”
“Tua madre… come sta?” chiese Tomo, ricordando quanto quella donna l’avesse fatto penare in passato.
“Oh pure troppo bene, credimi” gli rispose ridendo, per poi continuare: “Ha questo incredibile dono di far sentire gli altri inadeguati”. Alzò in aria la forchetta per enfatizzare il concetto e guardò Tomo sperando che capisse. Era ovvio che lui capisse, ma lei non ci era più molto abituata.
“Si, so di cosa parli. Ricordi quella volta in cui mi presentai appena tornato da un tour e avevo dei vestiti orrendi addosso?”
“Si, certo che me lo ricordo”. Vicki si schiarì la voce e chiedendo con la mano un attimo di concentrazione, in maniera molto plateale, iniziò ad imitare sua madre: “Vicki, ma chi frequenti? Ma ti sembra normale presentarsi così?” disse. Non riuscì ad andare oltre, perché scoppiò a ridere e fu subito seguita da Tomo.
“Non eravamo sposati, vero?”
“No, era l’anno prima. Eri venuto a prendermi perché non ci vedevamo da tantissimo tempo. Mio padre ancora ride di quel pomeriggio!”
“E’ vero, hai ragione! Lui invece come sta?”
“Bene, ha sempre quei piccoli problemi di pressione, ma tutto sommato a dover sopportare la mamma, sta in gran forma”
“Che bei pomeriggi passati a vedere lo sport, con lui”
“Si, mentre mamma dava il tormento a me sulla nostra relazione. Non sei stato molto carino, lo sai vero?” lo minacciò con la forchetta puntata e uno sguardo fintamente serio. 
“Ma era tuo padre a volermi con lui, io non potevo oppormi!”
“Certamente, ottima scusa, Milicevic!”.

L’aria era rilassata, i loro discorsi erano sereni e senza filtri, e la cosa iniziava a piacere ad entrambi. Vicki aveva preso possesso del divano come faceva sempre, in quella posizione così innaturale ma così sua, tanto che Tomo guardandola provò la sensazione che tutto quel dolore non fosse passato nelle loro vite, che erano sempre rimasti lì dentro ad amarsi, che era stato in realtà tutto un bruttissimo sogno.  
Vicki socchiuse gli occhi e guardò fuori, notando che si era ormai fatto buio: “Sarà meglio che vada a casa” gli disse con la voce delicata e svogliata, stirandosi i muscoli e poggiando i piedi sul pavimento, pronta a rimettersi le scarpe.
“Ti accompagno” disse istintivamente Tomo, perché l’idea di separarsi di nuovo da lei lo rendeva inquieto. "E' molto tardi" aggiunse poi, quasi a giustificarsi. 
“Ho la macchina qui fuori, non serve, davvero” gli rispose dolcemente, voltandosi a guardarlo. E fu un attimo, Tomo si alzò dalla sua poltrona e le fu vicino, sedendosi accanto a lei, che lo guardava a bocca aperta, impaurita di quel che lui volesse fare. O piuttosto da ciò che lei voleva che lui facesse. 
“Non andartene” le disse urgente e poi si sporse a baciarla, piano. Senza darle tempo di reagire, parlare o anche solamente pensare, posò le sue labbra su quelle di Vicki e sentì di essere finalmente arrivato a casa, provò una sensazione di pausa, mista a dolore, mista a felicità, mista a urgenza e follia. Provò tutti gli stati della vita in un solo, unico, piccolo, pazzesco attimo: l’attimo che ti concedi perché sai che se lo rimanderai sarai perso, l’attimo che ti rende schiavo e padrone, che ti preme nelle viscere.

“Tomo…” gli disse piano, staccandosi da lui in maniera calma e pacata, perché forse neanche lei voleva che ci fosse aria in quel momento, ma non si rendeva conto di averne bisogno. “Vado” aggiunse solamente, accarezzandogli piano una guancia e sorridendo appena. Scrutò negli occhi di Tomo una delusione, ma fu rincuorata dal vederlo comprendere. La lasciò andare, si alzò offrendole un mano per aiutarla a tirarsi su dal divano, che lei aveva giudicato sempre comodo, ma troppo basso, e sfoderò un sorriso sincero. “Ci vediamo nei prossimi giorni, allora” le disse normalmente, come se l’attimo di follia non fosse mai accaduto. Tomo aveva capito e Vicki ne era così felice, che per poco non scoppiò a piangere.

La vide uscire da casa sua, da casa loro, e tornò a sdraiarsi sul divano, chiedendosi quanto tempo ancora avrebbero dovuto giocare a quel tormento che si ostinavano entrambi a ritenere necessario.
Dopo qualche ora, preso da un’insolita insonnia e da una smania senza precedenti, decise di vestirsi di nuovo e andare a fare un giro. Da quando Vicki era andata via, aveva deciso di dormire un po’, stremato dal viaggio e dai concerti, ma il materasso era molto più scomodo di come se lo ricordava, il caldo era insopportabile e niente riusciva a farlo rilassare. Prese le chiavi dell’auto e andò al MarsLab, sperando di trovare un minimo di relax.
Non appena entrò il silenzio lo avvolse e si sentì immediatamente meglio, corse quasi verso la sala di registrazione e imbracciò la sua chitarra, felice che i trasportatori avessero già rimesso tutti gli strumenti al loro posto.
Qualche pizzico sulle corde, una melodia sconosciuta, quasi senza senso che però sapeva donargli tranquillità.

“Ah, ci sei tu” sentì all’improvviso. Si girò di scatto e vide Jared, poggiato allo stipite della porta, con la sua tuta blu e un’espressione per niente felice sul volto.
“Già” disse solamente, tornando a confidarsi con la sua chitarra. Era perplesso: Jared aveva spiazzato tutti, partendo ventiquattro ore prima del previsto e lasciandoli a Vancouver da soli. Ovviamente non aveva spiegato a nessuno il perché, ma era palese che fosse per via del litigio con Miriam. Tomo pensò che non era normale che nel cuore della notte lui fosse lì, ma aveva così tanti pensieri per la testa, che l’ultimo fu quello di chiedere motivazioni, che considerato il soggetto in questione, avrebbe fatto pure fatica ad avere.
“Ti dispiace se mi siedo un attimo?” gli chiese Jared dopo qualche minuto di silenzio.
“Figurati, fa pure” fu l’unica risposta.

Jared si sedette davanti al pianoforte e iniziò a pigiare pigramente su qualche tasto, senza un vero motivo. Nessuno dei due parlava, ed entrambi si stavano chiedendo cosa avesse l’altro, solo che anche il migliore degli amici, alle volte, non riesce ad essere all’altezza della situazione.
Poi, passato un tempo non quantificabile, Jared squarciò il silenzio: “Io e Miriam ci siamo lasciati”
Tomo alzò di scatto lo sguardo, smettendo di pizzicare le corde e lo fissò con un’espressione allibita: “Jared… cosa?”
“Sono cose che capitano. Oggi sei felice, domani litighi e finisce tutto. Normale amministrazione, credo” continuò lui. Stava cercando di ignorare il dolore e la delusione, che tuttavia erano ben noti a chi lo conoscesse da troppo tempo, come Tomo.
“Ma che cazzo dici?”. Ora Tomo non aveva moderato il tono di voce, aveva posato la chitarra ed era pronto a dare tutta la sua attezione a Jared, che invece teneva i suoi occhi fissi sul pianoforte e continuava a strimpellare malamente con quei tasti bianchi e neri.
“La verità. Miriam non reggeva più la situazione, l’essere sola a Los Angeles, il non avere un’indipendenza, ha detto lei. Ed io ero stufo di correrle appresso, di placare le sue insicurezze. La amo, gliel’ho dimostrato milioni di volte, ma sembrava essere sempre troppo poco. Siamo scoppiati, tutto qui” spiegò piano.
“Jared… quando eravamo a Seattle ho fatto due chiacchiere con Miriam” disse d’un fiato, pensando che forse avrebbe dovuto dirglielo prima, che forse non avrebbe dovuto tacere, ma che ora è più che giusto che lui sapesse. Jared si voltò piano e lo guardò, interrogativo, non aggiungendo una parola, ma chiedendo con lo sguardo. Tomo sospirò e abbassò gli occhi sul pavimento: “Non riusciva a chiamare te, non le rispondevi, e dopo il concerto avevi il telefono spento. Credo che fosse in preda all’isteria e mi ha chiamato, chiedendo di te. Insomma… alla fine mi ha raccontato un po’ di cose”
“E…?”
“E credo di aver intuito che il suo problema non sia tu, il vostro amore, o chissà che altro. il suo problema è l’essere sola”
“L’ho capito” disse Jared, forse troppo duramente. "E ho capito anche che il suo progetto con me è evidentemente con un termine prefissato" aggiunse, sarcastico.
“Senti, so che sei deluso e incazzato, ma pensaci: la sua libertà non ha niente a che vedere con voi. Lei vorrebbe avere qualcuno su cui piangere, che non fosse legato a te, è un ragionamento contorto, ma fila. Non vuole lasciarti, lo sai, quelle sono cose che si dicono per dire, su. E poi Jared…” si zittì, incapace di parlare ancora.
“Poi…?”
“La convivenza”
“Pure tu? Per cortesia no” scattò Jared, alzandosi e andando verso la vetrata che dava sulla piscina. Guardò fuori, con le braccia incrociate sul petto e dando le spalle a Tomo.
“Ascoltami. Tu lo sai che lei era scettica, che voleva un suo appartamento, una sua indipendenza. Lei ti aveva più volte detto di non essere sicura, né tantomeno pronta. Sei tu che hai insistito. Non dico che non avrei fatto lo stesso, ma non puoi darle tutta la colpa ora”. Finito di parlare rimase ad attendere che Jared lo fulminasse, perché sapeva che sarebbe accaduto. Aveva usato un tono semplice, delicato e l’unico intento che aveva era quello di aiutarlo e fargli aprire gli occhi: non è quello che fanno gli amici? Guardare la situazione per tuo conto e poi aiutarti a metterla a fuoco. Ma sapeva benissimo che Jared non era una persona comune e che lui spesso non prendeva bene quelle che considera critiche al suo essere. Era fatto così ed era capace di incenerirti con lo sguardo, per poi andarsene e darti ragione nel profondo della sua anima, senza darti però nessuna soddisfazione. Tomo lo sapeva, ma non gli interessava granché: l’importante era che lui capisse, quella volta.

Jared sospirò, nel silenzio totale, e poi si girò a guardare l’amico: “Ho combinato un casino” disse soltanto, guardando subito dopo il pavimento e ficcando le mani in tasca, come se lì potesse trovare la soluzione.
Tomo lo guardò esterrefatto da quel cambio di reazione che non si aspettava e gli rispose sincero: “Abbastanza”
“Già…" sospirò guardando il pavimento e muovendo piano un piede, come a voler togliere un macchia che era certo di vedere solamente lui. "Te invece che ci fai a quest’ora qui dentro?” gli chiese poi.
“Ho baciato Vicki” sbottò lui, senza mezzi termini e mezze misure. Guardò gli occhi di Jared saettare dal pavimento al suo volto e la sua bocca aprirsi senza pronunciare suoni che l’umanità potesse comprendere: “Tu… cosa?” riuscì a dire dopo aver inalato aria.
“L’ho baciata”
“Quindi voi…” continuò Jared, muovendo la mano in aria come a volersi aiutare con i gesti a dire qualcosa che non sapeva dire a parole. Era così sconvolto che per la prima volta non riusciva ad esprimersi, era assurdo.
“No, no frena” sorrise Tomo, alzando le mani in aria, prima di farle ricadere sonoramente sulle sue stesse gambe, e iniziare a massaggiare le stesse. “Non abbiamo risolto niente. È venuta a salutarmi perché sapeva che ero tornato dalle date, ci siamo fatti i pancakes per merenda e abbiamo chiacchierato tantissimo, di cose inutili e alla fine l’ho baciata. Ma lei mi ha chiesto di andare via”
“E tu l’hai lasciata andare?” chiese sconvolto Jared.
“Si, l’ho lasciata andare” rispose pacatamente Tomo, chiedendosi se non avesse fatto una cazzata enorme, chiedendosi se forse non avrebbe dovuto caderle ai piedi e implorarla di amarlo ancora. O semplicemente bloccarla lì fino a che lei non si fosse resa conto che scappare ancora era assurdo. 
“Coglione” lo apostrofò Jared, guardandolo malissimo. “Sei un coglione. Quella donna ti ama, tu la ami e che vai a fare? Vai a darle corda? Non mi sembra che sia proprio la persona a cui affidare possibili scenari romantici, Tomo. Devi gestirla tu questa cosa! Tu sai cosa vuoi e che è meglio. Lo sai da sempre, amico”
“Disse l’uomo dalla vita sentimentale splendente…”
“Infatti non ho mai detto di non essere io stesso un emerito cretino”
“Stai proprio male se ti autodefinisci così, eh” lo prese in giro Tomo, iniziando a ridere di gusto.
“Smettila immediatamente di rompere e vatti a riprendere Vicki" rispose acido. "Tu che puoi”
“Forse potresti andarci anche tu, che dici?”
“No, io credo che rimarrò qui ancora un po’”
“Allora rimango con te… ci sono delle cose del sound che non mi erano piaciute molto l’altra sera” disse serio, imbracciando di nuovo la chitarra e guardandolo serio.
Jared gli sorrise e tornò a sedersi al pianoforte.

Non erano passate neanche quarantotto ore da quando Jared le aveva detto di aver bisogno di tempo per pensare. Miriam le aveva passate tutte seduta sul suo divano, contando le piastrelle dell’angolo cottura che aveva davanti e lasciando che le sue lacrime bagnassero tutto ciò che aveva intorno e addosso. Aveva preso un giorno dall’ufficio, sostenendo di stare male e non aveva toccato cibo: non le fregava poi molto di nulla, né di mangiare, né di bere, né di cambiarsi, né di urlare: voleva solamente che quel dolore sordo sparisse, voleva solo smettere di sentirsi così.
Che poi… come si sentiva? In colpa, ferita, tradita, stupida. Non riusciva a classificare ciò che era successo in maniera netta: fosse stata certa che la colpa era davvero dalla sua parte, o dalla parte di Jared, sarebbe stato più semplice reagire. Ma così, proprio non sapeva dove sbattere la testa, perchè era convinta di aver sbagliato, era sicura di essere una cretina che aveva gettato all’aria un uomo splendido, abusando forse troppo della sua pazienza, ma era anche più che convinta che Jared avesse esagerato, non avesse voluto capire, non avesse provato a tenderle le mano. Le aveva chiesto di parlare, e quando lei aveva parlato, lui l’aveva cacciata dalla sua vita, offeso che qualcuno gli avesse fatto notare di essere stato frettoloso, indelicato o forse poco osservatore.

Lei non era pronta ad andare a vivere con lui, cosa poteva farci? Ed era sicura che se non fosse stato per il suo insistere, quei problemi sulla sua autostima o sulla sua indipendenza, li avrebbe risolti da sola, gradualmente, non mandando a puttane tutto. O forse no.
Ma poi era giusto risolversi da sola un problema, quando si ha una relazione presumibilmente stabile? Non sapeva più niente e quelle domande la stavano logorando dentro, perché ad ognuna di quelle domande corrispondeva una risposta uguale e contraria a ciò che avrebbe voluto sentirsi dire. 
Voleva del gelato, dell’alcool e una persona con cui parlare malissimo di Jared, perché come ogni donna sapeva benissimo che quello era un piccolo ed insignificante modo per stare leggermente meglio, in quelle situazioni. Ma non aveva niente di tutto ciò, aveva solo la sua rabbia e il suo dolore: prese fra le mani il ciondolo e lo strappò dal collo, lanciandolo lontano da lei e vedendolo cadere a terra come se non avesse vita. Lo fissò a lungo, poi come ripresa da uno stato di trans, afferrò il cellulare e compose un numero.

Attese a lungo, poi parlò: “Kiki, ti prego rispondimi, ho bisogno di te, ti prego” disse ancora una volta ad un telefono muto.
Scoppiò di nuovo in lacrime e chiamò ancora e ancora, senza risultato, singhiozzando e sentendo il vuoto dall’altro capo. Era terrorizzata dal futuro, dal presente ancora di più e l’unica cosa che sentiva di voler fare era rifugiarsi nelle braccia amiche di Kiki.
Erano mesi che non la sentiva, e iniziava a credere di essere stata molto egoista: dopo la sua fuga da Parigi l’aveva cercata qualche volta, i primissimi tempi, poi il trasferimento a Los Angeles e la sua favola con Jared l’avevano distolta dal pensiero dell’amica dispersa chissà dove e aveva smesso di cercarla. Non avrebbe dovuto, pensò, ed era orribile che tornasse a farsi viva ora solo perché aveva bisogno di una spalla su cui piangere, ma pensò che le avrebbe spiegato come stavano le cose, e che lei avrebbe capito. Le amiche si capiscono sempre.

Tuttavia il suo piano sembrava crollarle sotto i piedi, insieme alle macerie del mondo che non aveva mai sentito suo fino in fondo.

Il giorno dopo tornò a lavoro di malavoglia, ma non concluse moltissimo. Aveva continuato a chiamare senza sosta per tutta la notte, ma non era riuscita a sentire Kiki; nel primo pomeriggio decise di passare all’attacco, perché quel senso di claustrofobia che le stava prendendo non era sano né positivo.
Pensò subito a Maelle, ma non aveva un suo recapito, così prese velocemente il suo computer e cercò il sito dell’università che entrambe frequentavano, a San Francisco: sapeva che Maelle aveva una stanza allo studentato e girovagando sul web non le fu difficile trovare un numero da contattare.
Quando la linea fu agganciata da una signora che aveva l'aria profondamente annoiata, Miriam tentò il suo tono più dolce e sincero e le disse: “Salve, sto cercando Maelle… scusi, non so il cognome, sono una sua amica e mi servirebbero gli appunti di alcune lezioni. Può aiutarmi?” 
Tuttavia l'addetta amministrativa non fu commossa da quella voce così gentile e la liquidò con un: “Signorina, non posso aiutarla, non mi è permesso fornire i dati personali degli studenti, mi dispiace” 
“La prego, è davvero importante” tentò ancora Miriam, andando ora ad assumere un tono quasi tragico. 
“Mi dispiace, vada a bussarle alla stanza”. La faceva facile, l’addetta alla segreteria: come spiegarle che lei non sapeva neanche in che stanza fosse, e che fosse addirittura in un’altra città?
Sospirando affranta chiuse la telefonata e pensò a come rintracciare Maelle. Ci doveva essere in giro una mail, un numero, qualcosa che riportasse a lei: iniziò a frugare, ma dopo un’ora non aveva ancora niente in mano.
Perse la giornata lavorativa così, poi prese una decisione: andò dal suo capo, prese due giorni di ferie, infischiandosene delle sue lamentele e delle sua minacce. Tornò a casa di corsa, prese una borsa, ci infilò dentro il necessario per una notte fuori e con un taxi raggiunse l’aeroporto: quella nuova vita le stava dando un’impulsività che non credeva di avere. Secondo giorno senza Jared, secondo giorno di solitudine e già stava scappando. Ottimo, davvero ottimo.


Arrivò a San Francisco qualche ora più tardi, con una leggera pioggia fina e un po’ di nebbia: ma in quella città era estate? Si strinse nel trench che aveva avuto il buongusto di mettere nella sua sacca e si avviò verso l’uscita dell’aeroporto, chiamando un taxi e facendosi portare direttamente ai dormitori dell’università, l’unico indirizzo che fosse riuscita a reperire sul web.
Dal finestrino vedeva scorrere quella nuova città che la stava piano conquistando più di quanto avesse fatto LA in tanto tempo, e sentiva crescere dentro un senso di inquietudine che non sapeva a cosa ricollegare, come se quelle vie avessero visto camminare Kiki, ma l’avessero abbandonata da tempo, e più il taxi sfrecciava, più lei si sentiva così, ma non capiva perché.
Arrivò davanti un edificio imponente, con un grande parco davanti ed il taxi arrestò la sua corsa: pagò in fretta e scese, prendendo le sue cose. Sospirò rimanendo davanti all’enorme cancello: ed ora? Poteva chiedere ad ogni ragazzo che varcava il cancello se sapesse dell’esistenza di una certa Maelle? Di lei sapeva solo il nome, la facoltà che studiava, e che aveva origini iraniane, non di più. Non era poco, pensò, ma qualsiasi persona di buon senso non le avrebbe mai dato informazioni, avrebbe potuto essere un sicario, una maniaca, sua madre inviperita o chissà chi! 
 

Respirò l’aria fresca di San Francisco, mentre la pioggia aveva lasciato posto ad un cielo uggioso e per niente estivo: doveva trovare una soluzione. Entrò nel campus, si guardò intorno cercando di identificare qualcuno che potesse aiutarla, poi vide una ragazza con un libro che le ricordò qualcosa. Rimase a guardarla ed ebbe un flash: il dossier che Maelle leggeva a Capodanno, quello del suo professore!
Sorrise e si avvicinò alla ragazza, seduta su una panchina con un evidenziatore in mano, cercando di non spaventarla attirò la sua attenzione: “Scusami, posso parlarti?”
“Dici a me?”
“Si, a te, scusami se ti disturbo, è questione di un minuto” disse improvvisando, temendo che la ragazza si scocciasse. Quello che ricevette in cambio fu un sorriso pieno e l’invito a sedersi accanto a lei, che nel frattempo chiudeva il libro, mettendo l’evidenziatore nel mezzo a tenere il segno. Miriam sorrise e si sedette, prima di iniziare a parlare.
“Sto cercando una mia amica, che non vedo da molto tempo, si chiama Maelle e studia Ingegneria Nucleare, come te, credo” disse, indicando il libro per farle capire come aveva dedotto quell’informazione. La ragazza sorrise e Miriam continuò: “So che ha origini iraniane, ma non so molto altro, purtroppo. Per caso la conosci?”
“Maelle… dunque, non so se si chiami così, ma c’è una ragazza nel mio corso che è iraniana, potrebbe essere lei”
“Si, magari. Sai dove posso trovarla?”
“I corsi sono finiti da un po’, questo è tempo di esami e, per i fortunati, lauree. I dormitori di Ingegneria sono lì, il corridoio A. Di più non so dirti” le rispose, indicando un arco in muratura poco distante, oltre il quale si intravedeva un corridoio affollato. 
“Non sai per caso se qualcuno potrebbe conoscerla?”
“No, non credo… aspetta però” le disse illuminandosi. Prese il cellulare e compose un numero, parlottò per qualche secondo con una certa Caroline e poi, chiudendo la telefonata si rivolse di nuovo a Miriam: “La mia amica dice che una Maelle vive nella stanza 15 del corridoio che ti ho detto, l’A. Prova lì” le disse sorridendo.
“Grazie, sei stata gentilissima, davvero, non so come ringraziarti”
“Di nulla, per così poco”
“In bocca al lupo per i tuoi esami, e grazie ancora” le disse piena di gratitudine e sentendosi un po’ più vicina a Kiki. Si alzò e trascinando la sua borsa si allontanò verso la direzione che le aveva detto la ragazza.

Arrivò davanti la stanza 15 e cercò un nome, qualcosa, ma non trovò nulla. Provò a bussare, sperando di avere fortuna, ma niente, nessuno rispose. Tentò di nuovo, ma di nuovo udì solamente il silenzio dall’altra parte.
“Ehi, chi cerchi?” disse una voce alle sue spalle. Era un ragazzo alto e moro, dal volto non particolarmente simpatico. Miriam lo squadrò e poi disse solamente: “Maelle, sai se è qui?”
“Maelle è andata via” rispose il giovane, duramente.
“Ah… e sai dove posso trovarla? Sono una sua amica”
“Si è laureata una settimana fa, dopo un periodo di merda, ed è semplicemente andata via. Se la trovi dille che mi manca” le disse il ragazzo andando via, scalciando una lattina caduta per sbaglio dal cestino della spazzatura.
Miriam rimase interdetta: periodo di merda? Laurea? Cosa diamine era successo? Perché la sensazione di inquietudine era aumentata dopo quella frase? Cosa poteva entrare tutto quello con Kiki? Si poggiò alla porta, convinta che non sarebbe mai risalita alla verità e si sentì persa.
Ad un certo punto la porta si aprì, rischiando quasi di farla cadere a terra. Si destò appena in tempo, trovandosi davanti una ragazza biondissima, dalla faccia perplessa.
“Ciao, scusami, non volevo disturbarti. Stavo… non importa, scusami” le disse Miriam iniziando a camminare.
“Cerchi Maelle?” le disse la ragazza, nonostante parlasse con le sue spalle. Miriam si bloccò di colpo, notando una nota triste nella voce della bionda: era sempre stata un suo grande pregio capire le intonazioni delle persone. Solo con Jared non riusciva ad andare oltre le parole. Quel pensiero le fece male, e si impose di non pensare e di concentrarsi sul suo obiettivo: Maelle. E poi Kiki. Sembravano scomparse nel nulla e tutto le diceva che non c’era niente di buono sotto.
“Si, sai dove posso trovarla? Mi hanno detto che abitava qui” disse speranzosa tornando sui suoi passi.
“Si, fino a qualche tempo fa si, eravamo compagne di stanza. Poi, dopo… beh, insomma, è tornata a vivere con i suoi. Credo di avere l’indirizzo da qualche parte, aspetta” le disse la ragazza iniziando a frugare nella sua borsa e quindi nel portafogli. Dopo qualche minuto ne estrasse un foglietto bianco, piegato in più parti che portava un indirizzo di San Francisco. “Ecco, qui vivevano i suoi genitori. Credo che si siano trasferiti e abbiano messo in vendita la casa, ma puoi tentare, magari trovi qualcuno che possa darti almeno un numero di telefono”.

Miriam era allibita e si chiedeva sempre di più cosa fosse successo. Ringraziò la ragazza e si rigirò il bigliettino fra le dita, prima di dirigersi verso l’uscita del campus. Non se ne rendeva conto, ma stava correndo, per arrivare prima, per allontanarsi da quello che sembrava un luogo dove tutti sapevano essere successo qualcosa di terribile.
Chiamò velocemente un taxi e mostrò all’uomo l’indirizzo. Il viaggio sembrò infinito, e Miriam non trovava più neanche gusto nel guardare la città dal finestrino, sentiva solamente una brutta sensazione alla bocca dello stomaco e dei chiodi che le martellavano il cervello.
Il taxi si fermò davanti ad una villetta in perfetto stile cittadino, su una strada in salita e con un piccolo giardino davanti. In effetti su quel prato campeggiava un enorme cartello con scritto “vendesi” e Miriam si sentì atterrata, ma decise di provare. Scese, dopo aver pagato il taxi, e si avvicinò a piccoli passi alla proprietà, notando che fosse pressocchè deserta. Si accostò alla porta a vetri, mettendo le mani attorno agli occhi per coprire la luce e tentare di scorgere qualcosa dell’interno: sembrava vuota, nessun mobile, niente di niente.
“Scusi, cerca qualcosa?” si sentì dire ad alta voce. Trasalì e si girò allarmata che qualcuno la credesse un ladro.
“Salve, mi scusi, cerco i vecchi proprietari. Li conosce?”
“Sono io” disse l’uomo, avvicinandosi a lei. “Salve, mi dica” continuò, arrivandole davanti.
“Oh, non credevo… io… lei è il padre di Maelle?” chiese, certa di quale fosse la risposta.
“Si, sono io, ma lei chi è, scusi?”
“Mi chiamo Miriam, vivo a LA e sono un’amica di sua figlia” disse di scatto, poi ci pensò su e le sembrò il caso di precisare: “Beh in realtà sono molto amica di Kiki, non so se la conosce, ma frequenta l’università con sua figlia, e si insomma noi ci siamo conosciute a Capodanno, io ecco… La sto cercando da giorni, e all’università mi hanno dato il vostro indirizzo. Avrei urgente bisogno di parlarle”.

Scrutò il volto torvo dell’uomo, che sembrava aver annuito al sentire il nome di Kiki. Sperò che le dicesse qualcosa, che la tranquillizzasse, ma lui non le sorrise neanche. “Capisco” disse solamente l’uomo, non aggiungendo niente altro.
Miriam si sentì in imbarazzo, perché non voleva essere scortese né tantomeno inopportuna, ma aveva davvero bisogno di parlare con Maelle. Sorrise appena e disse ancora: “Può per caso darmi il suo numero di cellulare? L’ho perso, purtroppo” mentì, per non destare più sospetti di quelli che già si leggevano negli occhi dell’uomo.
“Aspetti qui” le disse solamente, andando via. Ma che avevano tutti in quella città? Nessuno che si sprecava a spiegare le cose, erano tutti da interpretare. Miriam era stanca, ma attese lì come le era stato detto e dopo qualche minuto, alzando lo sguardo, vide qualcuno venirle incontro: Maelle non cambiata tantissimo. Era magrissima, gli occhi scavati che non brillavano più, il sorriso spento.
Miriam rimase a bocca aperta e guardò suo padre, che ora le sembrava addolorato e triste: “Eccola qui, potete prendere un thè in casa, la cucina è ancora in funzione” disse, aprendo la porta della casa. 



 
       
 
L'angolo di Sissi 

BOOM!!! What's the buzz? Tell me what's happening... tutututttuututut! 
Da leggere con l'intonazione di
Jesus Christ Superstar . E se non l'avete visto: SHAME ON YOU. 

Comuuuuuuuuuuuunque, ci siete ancora? 
Siete vivi? 
Siete sani? 
Volete uccidermi? Nel dubbio non vi dirò dove abito! 

Premetto che speravo di regalarvi un capitolo più leggero,
dopo il casino di ieri sera in Sud Africa,
avrei proprio voluto tirarvi su, 
ma tant'è: show must go on, 
e l'unica isola felice (paradossalmente) ce la regala Shannon. 

Il resto è una nuvola di fumo: 
Jared e Miriam KO fanno i conti con i loro cocci. 
Tomo e Vicki tentano, tentano, ma non riescono ancora. 

E poi c'è l'enigma, il dubbio, la suspance: cosa sarà successo? 
Kiki dove sarà? Sarà per lei che Maelle è così ridotta? 
O sarà piuttosto per tutt'altra questione, 
ed in realtà Kiki è serena e felice spanciata alle Hawaii
con la collana di fiori al collo? 
Dai, ditemi le vostre idee in proposito, 
voglio vedere dove arriva la vostra fantasia!!!

Uno speciale abbraccio voglio dedicarlo al mio fanclub,
che in realtà suppongo stia tentando di scovarmi per farmi soffrire. 
Della serie: avevo un fanclub, ora vivo sotto scorta! 
Non sono giorni facili, ma avervi è quanto di meglio potessi desiderare, 
davvero. Vi voglio bene! 

Detto ciò, mi eclisso e vi mando un immenso bacio!! 


Sissi

 

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Capitolo 33
*** Dirlo ad alta voce l'avrebbe reso reale ***


Dirlo ad alta voce l'avrebbe reso reale


Maelle non parlava, la guidò in cucina come un robot, e non solo non l’aveva ancora salutata, ma non l’aveva neanche ancora guardata. Non appena furono sole, in cucina, Miriam si sedette ad uno sgabello, perché sentiva di dover avere un supporto per qualsiasi cosa Maelle dovesse dirle. La sensazione di terrore era aumentata a dismisura, da quando l’aveva vista in quello stato.
“Maelle, tesoro…” riuscì solamente a dire, allungando una mano sull’isola della cucina per toccarla. A quel tocco, Maelle scoppiò a piangere senza freno, singhiozzando terribilmente, e Miriam non seppe più cosa fare e cosa dire. "Ti prego, parlami. Cosa è successo? Io..." iniziò cauta, presa dal panico totale.
“Lei...” tentò di dire Maelle, interrompendola, senza riuscire a finire, prima di accasciarsi su se stessa e urlare come se fosse ferita a morte. Miriam iniziò istintivamente a capire, ma no, non poteva parlare davvero di… no, non poteva essere, si stava sbagliando, era un terribile errore, magari un fraintendimento. Non parlava davvero di… Miriam cercò di calmarsi e capire.
“Maelle, ti prego spiegami, cosa è successo, ti prego” le disse scendendo dallo sgabello e avvicinandosi a lei. Si piegò accanto a lei e tentò di scuoterla. Maelle alzò i suoi occhi su di lei e la guardò intensamente, prima di respirare e dire, a bassissima voce: “Kiki è morta, Miriam”.

Miriam si sentì soffocare, cadde per terra, incapace di fare qualsiasi cosa, il mondo si fermò e lei non vide più nessuno attorno a sé. Si portò una mano alla gola, cercando di strapparsela per tornare a sentire l’aria che ossigenava i polmoni, ma non riuscì nell’intento, le orecchie fischiavano e la testa era pesante. Non sentì più niente.
Dopo un tempo che non seppe quantizzare, riprese conoscenza. Era su un letto che non conosceva, con accanto una donna che non sapeva chi fosse. Tentò di alzarsi, ma sentì la testa girarle e quella stessa donna dirle dolcemente: “No, stai giù, sei debole ancora”. Le sorrise accarezzandole i capelli e poi continuò: “Sono la mamma di Maelle, sei svenuta giù in cucina”. Non aggiunse niente, e parlava in maniera calma e pacata. Miriam in quel momento ricordo tutto: non era stato un sogno, Kiki era morta.

Iniziò a piangere sommessamente, vergognandosi di tutto, ma non riuscendo a trattenere le sue emozioni. La donna le sorrise ancora tristemente, abbassando lo sguardo: “Ti ricordi tutto allora”
“Com’è successo? Lei la conosceva?” riuscì a chiedere Miriam alla donna. Era bramosa di sapere, di conoscere i dettagli, per quanto forse erano quelli che la spaventavano di più. 
“Oh, si che la conoscevo. Era una seconda figlia per me” rispose pacatamente. Era bellissima, come la figlia e aveva un controllo su se stessa invidiabile, ma si vedeva lontano un miglio quanto soffrisse nel parlare di quell’argomento.
“Potrebbe... si, insomma io vorrei che mi spiegasse come sono andate le cose” chiese Miriam, mettendosi a sedere e sentendo le forze tornare nei muscoli, piano.  
“Te lo spiego io” disse Maelle entrando in stanza. Si arrampicò sul letto, sedendosi a gambe incrociate, prese il cuscino e lo strinse al petto, poggiandoci il mento sopra. Sua madre fece per alzarsi, ma Maelle la fermò chiedendole di rimanere. Miriam non parlò, ma fremeva dalla voglia di sapere. Attese che Maelle iniziasse il racconto più strano e triste del mondo. 
“Era maggio, era appena tornata da Parigi. Mi aveva detto che stava da te e ci sentivamo spesso in quel periodo. Io non ero d’accordo con la sua fuga europea, perché credevo che dovesse continuare a studiare e credevo che stesse buttando tutto all’aria solo per un uomo. Comunque lei non mi ascoltava e decise di fare la cameriera lì a Parigi, vivendo da te. Almeno la sentivo più serena, e la cosa mi sollevava. Un giorno me la sono vista piombare dentro casa in lacrime. Era domenica, io ero a casa per il compleanno di mio fratello ed stavamo preparando un barbecue. Mi raccontò di Tomo, di averlo visto a Parigi e di averci litigato. Mi raccontò di essersi offerta a lui e di essere stata rifiutata. Mi disse che credeva che lui fosse tornato con sua moglie e si sentiva usata e tradita. Io la consolai come potevo e le dissi che poteva rimanere a vivere qui da noi, perché non mi andava di lasciarla sola al campus, così per qualche giorno dormì qui. È sempre stata una di famiglia, fin dal primo anno di università, quando ci siamo conosciute. Poi decise di tornare a casa per qualche tempo, diceva che Honolulu le avrebbe fatto bene, anche se io non ero convinta che fosse realmente così: lì aveva conosciuto Tomo, come poteva starci bene? Però era casa sua, così pensai che dovesse in qualche modo farci pace e la lasciai andare, pensando di raggiungerla dopo gli ultimi esami, in attesa della mia laurea. Solo che non ho fatto in tempo…” la voce di Maelle si incrinò di colpo e gli occhi le divennero lucidi. Li alzò al cielo, sperando che l’aria la aiutasse, poi respirò a fondo e si impose di continuare: “… dopo circa due settimane, era inizio Giugno ormai, è annegata nell’oceano. Non la sentivo da giorni e iniziavo a preoccuparmi. Quella mattina ero convinta a prendere un biglietto e andare ad Honolulu, nonostante tutte le cose che avessi da fare qui, ma mentre ne parlavo con mio padre, mi chiamò sua cugina, dicendomi quello che era successo: lei era in coma. A quel punto siamo letteralmente corsi in aeroporto, ma…” smise di parlare ancora, e stavolta non riuscì a trattenere le lacrime. Solo dopo qualche minuto trovò di nuovo la forza di continuare per me il racconto più duro che Miriam avesse mai sentito: “… quando siamo atterrati da Honolulu, lei ci aveva già lasciati”.

Miriam non aveva smesso di piangere, non sapeva cosa dire: Kiki era morta e lei non solo non l’aveva salutata, ma non l’aveva neanche aiutata. Aveva accettato la sua sparizione, per la seconda volta, senza preoccuparsi che lei potesse stare male. Si sentiva annientata, in colpa, distrutta, come se il mondo avesse deciso di non darle più l’aria di cui aveva bisogno per respirare.
“Pensano che lei… l’abbia fatto apposta?”. Il solo porre quella domanda le fece venire la nausea, ma non poteva lasciare dettagli nascosti.
Maelle la guardò a lungo e poi le rispose, sincera: “Onestamente, Miriam, non lo so. La polizia dice che è stato un incidente e che l’oceano era mosso quella mattina. C’era bandiera rossa e lei si è tuffata comunque, in un punto per altro sconsigliato, da alcuni scogli. Però Kiki stava molto male ed anche io ho pensato che abbia semplicemente deciso di smettere di torturarsi”.

“Non doveva andare così con Tomo” disse Miriam, quasi parlando fra sé e sé.
Maelle sospirò e aveva l'aria di chi ancora non aveva detto tutto: “Miriam, Tomo è stato solo un evento fra i tanti, ma non credo sia il motivo di tutto questo. Dopo lo choc iniziale, io e papà siamo rimasti qualche giorno ad Honolulu; io volevo esserci al suo funerale e si, insomma, non so perchè ma volevo rimanere. Ho parlato a lungo con sua cugina, e mi ha raccontato che Kiki era stata bocciata agli esami in inverno e rischiava non solo di dover ripetere l’anno, ma anche di dover pagare la salata retta che aveva sempre evitato grazie ad una borsa di studio per meriti accademici. Sapeva benissimo di non poter chiedere a sua madre un sacrificio simile: la sua famiglia è umile e per quanto fossero felici che lei studiasse in California, non la aiutavano molto economicamente parlando. Suo zio Jake, che si occupava maggiormente dell’aspetto finanziario di tutta la famiglia, è venuto a mancare per un infarto a Gennaio e loro si sono ritrovati in forti difficoltà” disse, guardando Miriam assumere un'espressione allibita. Capì dal suo sguardo e continuò: "Oh, non fare quella faccia: non ne sapevo niente neanche io. La conosco da quasi quattro anni e non sapevo nulla. Nè di suo zio, nè della bocciatura, nè di nient'altro. Mi aveva solamente raccontato che la sua famiglia non era assolutamente benestante, ma mai niente di più profondo. Sono rimasta sconvolta come te, Miriam".

Miriam ci pensò: la vita di Kiki era in pezzi e lei non ne sapeva niente? Suo zio Jake, che lei aveva conosciuto era morto, la sua famiglia era sul lastrico, lei avrebbe dovuto praticamente lasciare gli studi, visto che grazie alla bocciatura che si era guadagnata non avrebbe più avuto la borsa di studio. Cos’altro? Avrebbe dovuto dirglielo. Era arrabbiata e ferita, ma dopo pensò che ci aveva vissuto insieme un mese e in quel mese non si era minimamente resa conto che Kiki stesse male. La vedeva triste, ma era convinta fosse per Tomo, non aveva mai lontanamente pensato, ipotizzato o solamente chiesto se ci fosse dell’altro. Si maledì per il suo egoismo e la sua stupidaggine e guardò fuori dalla finestra. E fu lì che collegò tutto e quegli ultimi mesi si composero davanti al suo viso dando l'impressione di un puzzle che finalmente trova il suo pezzo mancante: Kiki era volata a Roma in febbraio per quello. Doveva avere la convinzione che c'era ancora qualcosa per cui lottare, per cui essere felici, per cui ridere. Aveva mascherato tutto con l'impazienza di vedere Tomo e di fargli una sorpresa, ma la verità era che aveva bisogno di qualcuno che la abbracciasse e la aiutasse. Sorrise amaramente: forse, se le cose fossero andate diversamente, lei si sarebbe confidata e... no, si impose di non pensarci, perchè una lama le trafisse il cuore e non poteva permettersi di pensare minimamente che la colpa era sua, o peggio ancora di Tomo, Jared o chissà chi altro. 

Poi la madre di Maelle si alzò e aprì un cassetto, prendendone una busta gialla. Si avvicinò al letto e disse: “Sei tu la Miriam che aspettavamo. Kiki ti aveva scritto questa lettera, probabilmente avrebbe voluto spedirtela. L'ha trovata sua madre, sistemando la sua stanza, e l'ha affidata a noi, sperando che tu ci trovassi. Non so perchè non abbiamo trovato il modo di fartela avere noi. Sai, è stato un periodo concitato”   
Le porse la lettera e Miriam rimase semplicemente a fissarla, incapace di prenderla, come se scottasse. La donna lo capì e le disse, dolcemente: “Bisogna fare pace con il passato, Miriam, bisogna accettare che le persone ci chiedano scusa, o chi spieghino le proprie ragioni. Si deve essere forti e ascoltare, sempre”. Miriam pensò alla frase che Maelle le aveva detto davanti al Dolby Theatre tanti mesi prima, quando lei soffriva per Jared, e pensò che aveva la stessa limpidezza e la stessa perspicacia di sua madre: erano due donne profondamente uguali, e si vedeva chiaramente.
Prese quella lettera e se la rigirò fra le mani, non essendo poi così convinta di saperla leggere.
“Maelle, tesoro, mi accompagni a fare un thè?”
“Si, mamma” rispose la ragazza, guardando Miriam. Aveva bisogno di stare da sola per incolpare la sua amica della grande stupidaggine che aveva fatto: quando succedono cose terribili, dare la colpa a qualcuno aiuta molto più che cercare di capire le vere ragioni.

Rimasta sola, Miriam aprì piano la busta, asciugandosi le lacrime e cercando di controllare il respiro. Trovò un foglio dello stesso colore, fitto di parole, con quella scrittura così disordinata che caratterizzava Kiki: il solo vedere l’inchiostro che lei aveva buttato giù le fece prendere il panico e chiuse gli occhi. Ma la madre di Maelle aveva ragione, doveva farlo, così respirò ancora e iniziò a leggere:
 
Honolulu, 3 Giugno

Cara Miriam,
non so davvero come iniziare a scriverti. In verità non so neanche perché ti sto scrivendo. Dovrei chiederti scusa per milioni di cose, per essere sparita, ancora, per essere così egoista e cinica, per non aver saputo ricambiare la tua amicizia in questi mesi.

Ti scrivo dalla spiaggia, quella dove ci siamo conosciute e imparate ad amare: di questo posto conservo ricordi magnifici, legati ad un mese della mia vita che mi ha reso migliore, per quanto forse sarebbe dovuto durare di più. Ricordi proprio tutto di quel mese? Bene, non cancellare mai niente e se senti che il ricordo ti sta abbandonando lentamente, prendi un aereo e vola ad Honolulu, Miriam, perché non c’è niente di meglio che riuscire a conservare le cose positive intatte nelle nostra mente.

In questi giorni sto imparando a ricordare, ricordare quando la mia vita aveva un senso e le cose erano semplici e belle: l’università, gli studi che amo così tanto, l’amicizia sincera, l’amore persino. Era tutto così semplice che l’ho dato per scontato e quello che era rimasto intatto dopo l’uragano che ci ha colpiti, sono riuscita a rovinarlo io.

Devo spiegarti tante cose, Miriam… negli ultimi mesi sono fuggita sempre, ogni giorno, ogni secondo. Era un corsa contro il tempo, contro i problemi che mi tornavano sempre in mente, contro il malessere che sentivo di avere dentro, contro i nodi che avevo in gola e non sapevo come sciogliere.
La mia vita è come una trottola impazzita da Gennaio a questa parte, ed io non so come fermare la ruota e scendere, fosse anche solamente per prendere una boccata di aria e un pò di fiato. 

Avrei dovuto rimanere ferma e affrontare i problemi, miei e della mia famiglia, ed invece sono corsa prima a Roma, ad elemosinare un amore che credevo puro e poi a Parigi, tradendo la tua fiducia, nascondendoti la realtà, fingendo serenità e nascondendomi, ancora, dietro la delusione d’amore. 
Avrei dovuto essere sincera, almeno con te, confidarmi e permetterti di starmi vicina, perchè so che l'avresti fatto, ma la realtà è che non mi sono mai permessa di crollare davvero, di sedermi per terra e affondare davvero le radici in tutto ciò che avrei dovuto risolvere. Sono stata zitta perchè la paura di dire ad alta voce tutto ciò che è successo negli ultimi mesi era enorme. Dirlo ad alta voce l'avrebbe reso reale. 

Così ho deciso, inconsciamente, di iniziare a fuggire, e l'ho fatto in barba a mia madre e alla mia famiglia che è rimasta qui a vedersela con tutti i casini, l'ho fatto in barba a te che mi hai donato la tua amicizia più sincera, in barba persino a Tomo, che nonostante tutto... io so che non è cattivo. Ce l'ho reso io per salvarmi, ai tuoi occhi, ma sopratutto ai miei. 


Tomo mi manca, mi manca come l’aria tutti i giorni e quello che più mi ha fatto male è stata la sua incapacità di capire. Quella sera a Parigi avrei solamente voluto che mi prendesse fra le braccia e mi dicesse che sarebbe andato tutto bene. Non l'ha fatto e credo di essere un pò morta in quel momento. Credo che sia stato in quell'istante che io... ho capito davvero che razza di gioco stavo conducendo da mesi. Lui non lo sa e non lo saprà mai, ma è merito suo se ho deciso di fermarmi e prendere in mano le cose: non avrebbe potuto capire niente, non è colpa sua. La sua unica colpa è il non amarmi, ma quella non può essere una vera colpa per nessuno.  

Ho sputtanato tutto con te, e mi dispiace davvero. Forse un giorno troverai il coraggio di perdonarmi. Perché io ora mi sono fermata e sto raccogliendo le forze per ricominciare, per sciogliere tutti i nodi e ripartire. Non mi sto nascondendo più e vorrei tanto non averlo fatto mai.
Ti voglio bene, Miriam. Affondo i piedi nella sabbia della nostra spiaggia e mi rendo conto che ti vorrei qui con me. Ho riacceso il cellulare, adesso. Ti aspetto.

Tua, Kiki.
 
Miriam finì di leggere e si accorse di non aver versato una sola lacrima, si accorse di essere inquieta e distrutta al tempo stesso. Si accorse che Kiki le aveva scritto perché voleva chiederle scusa e non sapeva come farlo e quel “ti aspetto” finale fu come una coltellata nello stomaco: se solo il tempo fosse stato più clemente, se solo i giorni si fossero incastrati in maniera diversa, forse lei avrebbe ricevuto quella lettera e sarebbe riuscita almeno a salutarla.
“Ti odio così tanto” disse solamente, guardando ancora l’inchiostro nero che macchiava quel foglio così puro e non sapendo neanche perché stesse dicendo quelle parole.

Ma lei… lei come aveva potuto non accorgersi che stava così male? Era tutta colpa sua, o almeno una gran parte. Avrebbe dovuto cercarla di più, non fissarsi sulla sua bella storia d’amore, andata in frantumi, e correre a sollevarle le spalle dai pesi che portava. Ed invece non si è occupata di nulla e quella fragile ragazza sosteneva anche di amarla: come si può amare una persona che se ne è fregata di te?

Si alzò piano, andando vicino al finestra, da dove si godeva di una splendida vista della baia di San Francisco e stringendo ancora la lettera in mano iniziò lentamente a piangere. Pianse per i ricordi che avrebbe dovuto conservare, per la vita che faceva così schifo, per l’amore che non le era stato dato e per quello che lei aveva tolto. Pianse perché avrebbe dovuto dare quella notizia a Tomo, e non sapeva come fare. Pianse perché quelle parole erano così vere e pure che facevano male più di una lama in pieno cuore. Le sembrò passata un’eternità quando sentì di non avere più lacrime nel petto e sentì la testa farle un male cane. Lì decise che era il momento di tornare a casa e per la prima volta, nel dire quella parola, pensò a Los Angeles.

Raccolse le sue cose, conservando accuratamente la lettera nella sua busta e poi nella borsa, e scese al piano terreno, dove i genitori di Maelle erano affaccendati ad impacchettare le ultime cose.
“Scusate…” disse piano.
“Cara, stai meglio?” le chiese la donna andandole incontro. Miriam voleva far notare che non sarebbe mai più stata meglio, ma decise di non essere scontrosa con quella famiglia, che era stata buona con lei.
“Si, un po’, è tutto così strano”
“Lo so, cara. Però hai avuto l’ultimo modo per salutarla. Quella lettera ti aiuterà ad elaborare il tutto”
Miriam annuì perché era vero: aveva in mano qualcosa, e per quanto terribile, sarebbe stato molto peggio non avere proprio niente. Sorrise piano, per quel che riuscì a fare e disse: “Si, è giusto così. Volevo ringraziarvi, voi neanche mi conoscete…”
“Oh, smettila, non c’è bisogno” le rispose la madre di Maelle, prendendola fra le braccia.
“Voi andate via perché…?” chiese imbarazzata, non sapendo quanto fosse il caso di chiedere.
“Si, Maelle non tollera più questi luoghi, sono troppo legati a Kiki e sta malissimo. Si è laureata a fatica, solo perché suo padre l’ha quasi costretta, ed è stato giusto così, ma ora ce ne andiamo a New York. Nuova vita, si spera”
“Vorrei poter rimanere in contatto con lei, se non vi dispiace”
“Ti do il mio numero” intervenne Maelle, entrando in quel momento nella stanza. Miriam la guardò e finalmente vide un po’ di luce nei suoi occhi, le sorrise piano e le corse incontro per stringerla a sé: erano vittime di un gioco molto più grande di loro, erano semplicemente protagoniste di un orrore sul quale non avevano potere.
“Non dimenticarti di me” le sussurrò all’orecchio Miriam.
“Non farlo neanche tu” le rispose Maelle. Si scambiarono numeri ed indirizzi e Miriam fu invitata a visitare New York al più presto. Poi salutò tutti calorosamente ed uscì nell’aria uggiosa di San Francisco.
Prese un taxi e si fece portare all’aeroporto, dove prese il primo volo disponibile per Los Angeles. Arrivò a casa qualche ora più tardi, stanchissima, quasi da non riuscire neanche a dormire, ma alla fine cadde fra le braccia di Morfeo, e sognò Kiki, felice e spensierata sulla spiaggia che forse non sarebbe più riuscita a vedere.

Il telefono squillava senza sosta e Miriam lo sentiva in lontananza, come se provenisse da un’altra casa, molto lontana dalla sua. Si spinse il cuscino sulla testa, sperando che bastasse a placare quel suono fastidioso e si accorse che era uno straccio: aveva dormito male, seppur tutta la notte e aveva un terribile mal di testa.
Appena tornata a Los Angeles aveva preso una settimana di malattia dall’ufficio, perché il pensiero di dover conversare con l’umanità intera in quel momento le faceva venire il voltastomaco. Il suo piano era di chiudersi in casa e sparire dal mondo, mangiando solo gelato innaffiato con qualsiasi alcolico di facile reperibilità.
Aveva spento il cellulare, e stava seriamente pensando di staccare il telefono di casa per rendersi totalmente trasparente al mondo intero, così si alzò dal letto arrabbiata e semplicemente staccò la presa. Il telefono smise di squillare e il silenzio inondò l’appartamento: forse sarebbe stato più saggio andare in discoteca, perché quell’assenza di rumori la mandava al manicomio, la costringeva ad ascoltare i pensieri, i ricordi, i rumori sordi che il suo inconscio le faceva subire.
In cucina preparò la macchina del caffè e ne bevve un’enorme tazza, sperando che bastasse a placare la sbornia solitaria e abbastanza deprimente del giorno prima. E di quello prima ancora.
Pensò rapidamente a cosa fare e optò per infilarsi di nuovo sotto le coperte: la sua follia l’aveva indotta ad accendere l’aria condizionata a circa quindici gradi, per potersi rifugiare sotto il piumone. Fin da piccola, quando aveva problemi, l’unico conforto che trovava era tirarsi le coperte fin sopra le orecchie: le dava l’illusione che qualcosa la proteggesse e che nessuno potesse realmente vederla. Ma il caldo di quel luglio californiano non glielo permetteva, così aveva trovato quella soluzione, che agli occhi di una persona saggia sarebbe parsa totalmente fuori di senno. Ma che importava? La sua amica era morta affogata nell’oceano in cui era cresciuta, e nessuno le aveva dato la possibilità di salutarla. Il mondo e la sua razionalità potevano andare a farsi fottere in molteplici modi.

I giorni passarono così, fra gelato, alcolici e temperature siberiane nell’appartamento, che iniziava ad assumere un’aria decadente a decisamente sporca. Ma Miriam non notava nulla, non sentiva nulla, se non il disperato bisogno di dormire, perché nel sonno non sentiva dolore, nel sonno non pensava.
Aveva rotto con Jared da ormai una decina di giorni e quel pensiero aveva finito per non essere più così terribile: suo padre diceva sempre che quando il pensiero di ciò che ti fa soffrire smette di essere insostenibile o sei guarita o semplicemente ti è successo qualcosa di molto peggiore. Lei sapeva qual’era stata la sua via.


Una mattina, sbronza come negli ultimi quattro giorni, sentì il campanello suonare all’impazzata. Decise di ignorarlo: chiunque fosse poteva andarsene e pensare quel che voleva. Non aveva amici a Los Angeles, se non un paio di colleghi che avevano dimostrato simpatia nei suoi confronti, ma che non sapevano certo dove abitasse. Questo la invitò a pensare che fosse qualche individuo Leto – centrico, e quel pensiero le fece talmente venire il voltastomaco che l’idea di non farsi trovare prese improvvisamente molto più interesse.
La sua sfortuna fu che quel maledetto campanello non si placava, e iniziava ad entrarle dentro il cervello per quanto fosse insistente. Si alzò e si avvolse dentro il piumone, non degnandosi neanche di darsi una sistemata, di pettinarsi i capelli o sembrare vagamente sobria. Si trascinò alla porta e la aprì, affacciandosi solamente con la testa per vedere chi avesse deciso di interrompere la sua auto distruzione.

“Che cazzo… Miriam stai bene?” le chiese Shannon, vedendola in quello stato. Miriam lo fissò come se non lo vedesse bene e non rispose, decise solamente dopo qualche minuto di farlo entrare, spalancando la porta e facendosi da parte. Shannon entrò e non seppe se a fargli più spavento fu, nell’ordine, la temperatura che c’era lì dentro, l’odore di alcool che impregnava qualsiasi cosa o la figura di Miriam chiusa nel piumone in pieno luglio.
“Ma qui dentro si gela, tesoro, vieni qui” le disse paterno, attraendola a sé e stringendosela al petto. Quel contatto non voluto, ma troppo forte per essere rifiutato fu un balsamo per Miriam, che poggiò la tua testa a Shannon ed iniziò a piangere sommessamente, prima che quelle lacrime diventassero singhiozzi, senza che se ne accorgesse.
Da quando era tornata a Los Angeles non aveva pianto per niente, si era chiusa in sé stessa senza darsi l’opportunità di crollare davvero. Non voleva nessuno, non voleva che nessuno la vedesse così, ma era troppo stanca e troppo fragile per impedire a Shannon di entrare in casa o stringersela contro, così lasciò che lui curasse qualcosa che credeva ormai irrimediabilmente rotto.


Shannon stava gelando in quella casa, ma non osava muoversi, perché Miriam gli si era aggrappata in maniera così forte e disperata che lasciarla avrebbe potuto dare luogo ad una crisi isterica senza precedenti. Jared aveva combinato un bel casino, stavolta, pensò.
Aveva notato l’assenza di Miriam e la scontrosità di suo fratello una settimana prima e l’aveva quasi costretto a parlare, cosa che Jared aveva fatto senza che lui si sforzasse più di tanto.
La cosa sorprendente era che non aveva cercato di giustificarsi, di portare le ragioni dalla sua parte: era stato sincero e onesto, aveva raccontato le cose come stavano realmente, aveva detto i problemi di Miriam e confidato la sua reazione. Shannon era rimasto allibito: anche Emma aveva avuto problemi con lui, nei mesi precedenti, ma non si lascia una donna solo perché ha paura. Quando gliel’aveva fatto notare, suo fratello aveva semplicemente detto che aveva ragione e si era rinchiuso dentro la sala di registrazione con la sua chitarra.

Shannon allora aveva cercato di contattare lei, per sapere come stava, forse anche per sentire la sua versione. Sapeva che forse stava sbagliando, visto che la loro relazione era naufragata per quel bisogno di libertà e indipendenza che Miriam non sentiva di avere, ma lui era un suo amico, le voleva bene, così come tutti indipendentemente dai casini che lei potesse avere con Jared e glielo aveva dimostrato mille volte. Così continuò a chiamare e chiamare, fino a quando decise di passare all’azione e andò da lei.
A vedere Miriam in quello stato, Shannon tentò di capire perché gli uomini e le donne tendono sempre a complicare le cose maledettamente semplici, maledettamente belle. Tentò di staccarsi da lei per guardarla negli occhi e sentì che Miriam si aggrappava sempre di più a lui.

“Miriam, tesoro, sediamoci dai, così parliamo un po’” le disse comprensivo. Lei si lasciò guidare verso il divano, come un robot ormai vecchio e si sedette guardando il vuoto. Shannon iniziò a preoccuparsi seriamente: quando aveva litigato con Jared a dicembre, l’aveva sentita su Skype e vista a Capodanno, ma lei stava in condizioni decisamente migliori, non era il tipo di donna che di riduceva così per un uomo. O forse lui non la conosceva abbastanza.
“Vuoi dirmi cos’hai?” tentò di dirle, sentendo i muscoli gelati nel corpo, ma non osando fare nulla. In cambio ricevette solamente un silenzio assordante e cercò di smuovere le cose: si alzò, aprì le finestre lasciando che l’aria calda inondasse il soggiorno, e andò a spegnere l’aria. Improvvisamente fu come se un phon fosse stato acceso e Shannon sentì il cervello che iniziava a ragionare di nuovo.
Lanciò un’occhiata a Miriam, sperando che quel cambiamento le portasse giovamento, ma lei non era assolutamente in grado di muoversi, tanto che rimase lì con lo sguardo fisso nel vuoto, ed il piumone avvolto sulla pelle.


Shannon non le disse nulla, prese una busta e ci mise dentro tutte le bottiglie di alcool vuote che trovava in giro, e si sorprese a scovarne davvero moltissime: gli tornarono in mente ricordi che avrebbe voluto cancellare e si irrigidì, ma respirando profondamente continuò il suo lavoro, in silenzio, sperando che Miriam si destasse da quel torpore in cui era finita.
Mise la busta piena di bottiglie in un angolo e prese un panno umido, iniziando a pulire il piano dell’angolo cottura, cosparso di gelato ormai secco e residui di qualsiasi cosa. Pulì tutto, per bene, lanciando di tanto in tanto qualche occhiata a Miriam, che sembrava non accorgersi neanche della sua presenza. Finito in cucina, andò in camera, aprì la finestra anche lì e sistemò le lenzuola sul letto, mettendo ordine fra i vestiti sparsi per il pavimento, li piegò e li mise sul materasso, in una pila ordinata.
Poi prese a cercare una spazzola e dei vestiti puliti per Miriam, e notò una borsa che aveva l’aria di un viaggio recente, e nel prenderla per riporla in un posto più adatto che in mezzo al pavimento della stanza, cadde una busta gialla. Shannon si chinò a prenderla e notò che c'era scritto "Per Miriam". Quella scrittura gli era famigliare.
Stava per riporla nella sacca, quando gli venne un lampo: quella scrittura la conosceva. Istintivamente prese il foglio che vi era piegato dentro, forse non avrebbe dovuto farlo, ma non riuscì a fermarsi, come se qualcuno gli stesse dicendo di continuare a violare la riservatezza della sua amica.


Iniziò a leggere: era una lettera di Kiki, abbastanza strana, pensò. Rimase fermo, in piedi nella stanza a leggere, quando sentì qualcuno osservarlo: Miriam era in piedi di fronte a lui, appena fuori dalla stanza. Era inerme, decisamente provata da quella settimana, e Shannon iniziava a pensare che Jared e i suoi casini c’entrassero fino ad un certo punto. La fissò credendo che lei andasse su tutte le furie, ma quando lei rimase lì in piedi senza dire nulla, decise di finire di leggere la lettera e chinò lo sguardo sul foglio.

Miriam d’altro canto, lo trovò lì, in preda ad una violazione bella e buona della sua privacy. Ma Shannon aveva pulito tutto, sistemato la stanza, aperto le finestre consentendo all’aria di entrare in una casa che era ormai chiusa da giorni e giorni. Non poteva incolparlo di aver ficcato un po’ il naso per cercare di capire cosa le fosse preso, e poi il fatto che ora quel segreto fosse anche suo la confortava in una maniera che non sapeva decifrare. Era ovvio che Shannon non era amico davvero di Kiki, e che invece lei avrebbe dovuto fare di più per lei, ma il suo cuore iniziò ad essere meno pressato da quella situazione e mentalmente fu grata a Shannon di aver scoperto tutto.

Attese che lui finisse di leggere quelle righe, e che tornasse ad alzare gli occhi su di lei, visibilmente scosso, ma non sicuro di aver capito del tutto. Lei continuava a stare in silenzio, non gli aveva detto nulla in quasi un’ora che lui era stato lì.
“Miriam, cosa vuol dire?" chiese cauto, guardandola. Ma non era assolutamente pronto alla risposta che Miriam gli stava per dare.
“Kiki è morta, Shan” disse solamente Miriam. Semplicemente, senza giri di parole, senza assumere un tono particolare: sbam! Un colpo ben assestato, senza volerlo, lo colpì: quelle parole erano dure come pietra. 
“Oddio…” disse lui gettando la lettera in terra e sentendo il bisogno di sedersi. Trovò il materasso dietro di lui, pronto ad accogliere il suo corpo che era scosso da quella terribile notizia.
Miriam era ferma appena fuori la stanza, e non si azzardava ad entrare, ad avere un contatto con lui, a fare niente. Guardò Shannon sfregarsi il viso come a volersi svegliare da un incubo che purtroppo somigliava terribilmente alla realtà e mise un passo davanti all’altro, fino a raggiungerlo, in un tempo lunghissimo. Si sedette al suo fianco e guardando fisso davanti a sé iniziò a parlare, non sapendo neanche bene perché.


“Ho litigato con tuo fratello, una decina di giorni fa. Avevamo discusso quando eravate fuori per il tour, poi lui è tornato senza dirmi niente e non siamo riusciti a chiarirci” era la prima volta che lo ammetteva e sentiva che faceva molto meno male, ora. Ripensò alla frase di suo padre e continuò a parlare: “Avevo bisogno di parlarle, di stare con lei, così ho iniziato a cercarla, ma aveva sempre il cellulare staccato, così abbastanza normale per Kiki, lo sappiamo, eppure qualcosa mi diceva di avere a fonde. Non sai quanto avrei voluto rimanere invece ferma, qui. Comunque sia, sono volata a San Francisco e mi sono messa sulle tracce di Maelle, che mi ha raccontato che verso fine maggio, dopo essere tornata alle Hawaii, è annegata nell’oceano, dopo essersi tuffata in condizioni climatiche non buone, da un punto sconsigliato da tutti. Non so molto altro, in realtà questo mi basta a sentirmi un mostro e a stare male per il resto della mia vita. Sono tornata a LA e mi sono chiusa qui dentro, bevo da una settimana e alterno le sbronze a lunghi sonni infestati del suo sorriso, perché è l’unico modo che sento possibile per non diventare completamente pazza”.

Shannon rimase sconvolto e dovette cercare tutta la sua concentrazione per non scappare. Respirò e piano disse: “Miriam, avresti dovuto chiamare qualcuno, avresti dovuto condividere con qualcuno questo peso”
“E chi? Jared, forse? Lui non vuole più vedermi, e forse ha ragione”
“Lui ti ama, e comunque questa notizia è molto più importante di qualsiasi litigio. Lui non ti avrebbe abbandonata qui dentro se avesse saputo, e tu lo sai”. Ora era irritato, e non si rendeva neanche conto di averle risposto in maniera molto secca. Miriam lo ignorò comunque, forse perché non era certa di poter ancora sopportare e valutare i sentimenti altrui.
“Il punto è che io non volevo nessuno a soccorrermi, perché ho abbastanza casini in testa da sfamare mezza America, e perché mi sento così… così in colpa” disse, scoppiando in lacrime.
“Non è colpa tua”
“Invece si, io ho lasciato che scappasse da Parigi e non l’ho cercata se non per un paio di giorni, poi Jared era lì e abbiamo iniziato a parlare di futuro, di progetti, abbiamo pensato in grande ed io mi sono completamente scordata di lei, di come potesse stare, di tutto. L’ho dimenticata e me la sono ricordata solamente quando mi sono resa conto di aver bisogno di qualcuno che ascoltasse le mie cazzate, qualcuno che non fosse legato a Jared… avrei dovuto stare ferma e non cercarla, perché farlo ora non ha avuto nessun senso”
“Miriam, Kiki era una persona fragile, tu lo sai. Non è normale scappare e rendersi irreperibile per ben due volte consecutive. Tu non avresti potuto farle niente”
“Ed invece si! Avrei potuto aiutarla, starle accanto, invece mi sono concentrata sulla mia vita perfetta, su Jared e manco a dire che è servito, visto che ho rovinato tutto pure su quel fronte. Sono un disastro, e mi sta bene se ora sono in queste condizioni”.

Shannon la guardò a lungo piangere e provò una terribile pena per lei, la strinse fra le braccia, costringendola a sdraiarsi con lui sul letto e cullandola per un tempo infinito. Miriam sembrò essersi calmata, e solo allora Shannon parlò: “Vuoi andare alle Hawaii?”
“No”
“Forse potrebbe…”
“No, e non voglio neanche che Tomo sappia niente”
“Miriam…”
“Senti, prima che partiste abbiamo chiacchierato un po’ e mi è sembrato che lui stesse cercando di ricomporre i cocci con sua moglie, ed è giusto così. Non è colpa sua, lui non c’entra niente, lui ha diritto ad essere felice, dirgli ora di Kiki lo distruggerebbe e tu lo sai. Ci sarà tempo”
“Come vuoi” rispose Shannon, pensando che l’analisi di Miriam non fosse poi così sbagliata.
“Giurami che rimarrà un nostro segreto”
“Te lo giuro, testa dura che non sei altro”
“Grazie, Shan. Davvero” gli disse sinceramente grata. Poi sciolse quell’abbraccio e guardando il soffitto iniziò a parlare di nuovo: “Ho rotto con Jared. In realtà è lui che ha rotto con me, se vogliamo essere precisi, ma il risultato non cambia: non stiamo più insieme”. Quella era una conclusione abbastanza ovvia: era sparita dalla vita di Jared, tutti avevano sicuramente fatto due più due. E poi Shannon era suo fratello, sicuramente ne avevano parlato. Disse quella frase, già ampiamente annunciata da mille frammenti di vita, perchè dirlo ad alta voce l'avrebbe aiutata a realizzarlo meglio. Come aveva detto Kiki? "...Sono stata zitta perchè la paura di dire ad alta voce tutto ciò che è successo negli ultimi mesi era enorme. Dirlo ad alta voce l'avrebbe reso reale". Bene, lei doveva renderlo reale. 
“Ho parlato con Jared. Sono venuto a cercarti per questo” ammise Shannon, vedendola annuire leggermente. 
“Ho combinato un casino, al mio solito” disse sospirando. “E poi ho scoperto questa cosa di Kiki e…” smise di parlare perché il nodo che aveva in gola era troppo da sopportare. Shannon le accarezzò i capelli e le rispose, calmo: “Miriam, con Jared non è troppo tardi, lui ti ama”. Era la seconda volta che glielo diceva, non sapeva se perchè ci credeva davvero, perchè fosse importante o perchè era l'unica cosa che si sentisse di dire in quella circostanza. 
“Lo so che mi ama, e forse questa è la cosa più terribile da sopportare”.
Continuarono a parlare per ore, e Miriam lentamente iniziò a sentirsi meglio, anche se era ancora molto lontana dal sentirsi davvero bene. Shannon andò via nel primo pomeriggio, dopo aver ricevuto almeno tre chiamate da Jared, opportunamente ignorate, e aver scritto ad Emma che era da Miriam.
 
Shannon tornò al MarsLab, ma prima passò dal chioschetto di burritos sulla spiaggia dove era solito rifugiarsi nei momenti no della sua vita. Era piccolo, poco conosciuto, e faceva dei burritos spaziali; per Shannon era un modo semplice per allontanarsi dal mondo e pensare, cosa che a volte lo rendeva molto più simile all’umanità di quanto si credesse.
Salutò il gestore, che ormai lo conosceva, ma non lo importunava mai, e si sedette al suo tavolino preferito, poggiando i piedi sul muretto davanti a lui. Con gli occhiali da sole sul naso, come sempre, iniziò a guardare il mare e a pensare: Kiki era morta, in circostanze alquanto misteriose, ed era così giovane, cazzo. Si sentiva schiacciato da una cosa più grande di tutti loro messi insieme e non sapeva proprio come reagire: non erano mai stati amici per la pelle, ma lei era stata la ragazza di Tomo e gli era simpatica. Poteva davvero dire che era stata la ragazza di Tomo? O forse era stata una cosa molto passeggera, in attesa di una riconciliazione con Vicki, riconciliazione sulla quale avevano sperato tutti e che ora sembrava molto vicina. Non lo sapeva, non sapeva più niente.

Il ragazzo del chiosco arrivò con il burrito che era solito prendere e Shannon gli sorrise, grato per il pensiero. Gli allungò qualche banconota extra per la gentilezza, nonostante la fame fosse l’ultimo dei suoi pensieri. Nonostante quello, più per cortesia che per altro, divorò quel pranzo tardivo, meravigliandosi di quanto il cibo fosse uno dei piaceri della vita. Si pulì la bocca e sorrise amaramente per quel pensiero, tuttavia non sentendosi in colpa: per lui, per Emma, per tutti loro la vita continuava, nonostante quella giornata fosse leggermente più cupa di tutte le altre.
“Ehi, disturbo?” disse una voce alle sue spalle. Shannon chiuse gli occhi e sorrise, senza rispondere, senza girarsi: quel suono l’avrebbe riconosciuto fra milioni ed era l’unico capace di renderlo davvero in pace.
Inclinò la testa all’indietro, aprendo gli occhi e trovando Emma ferma dietro di lui a guardarlo: aveva un vestito bianco che le arrivava alle ginocchia, dei sandali bassi color oro e un panama dorato con un fiocco bianco. Era bellissima, erano bellissimi.

“Ciao, mammina” le disse piano, mentre lei lo raggiungeva, chinandosi alla sua altezza per baciarlo dolcemente in quella posizione che ricordava molto Spiderman e quella famosa scena. Poi lo aggirò e andò a sedersi ad una sedia lì vicino, lasciando la sua borsa per terra, accanto a lei.
“Sei sparito dalla circolazione stamattina e ho pensato che fossi qui”
“Mi conosci troppo bene, ormai”
“Già, ho le mie fonti” disse ridendo. “Ma non ho parlato con Jared, tranquillo”. 

Shannon annuì ringraziando le sottili capacità di Emma: lei era sempre così avanti rispetto a tutti, era pazzesca. Rimase in silenzio, guardando il mare, sentendo di non poterle mentire, di non poterle nascondere una cosa così grande, per tanti motivi. Aveva promesso a Miriam, aveva giurato anzi, di stare zitto, ma come poteva mentire a sua moglie una cosa così?
“Shannon, come sta Miriam? E’ così grave?” gli chiese poggiando una mano sul suo braccio. Quel tocco caldo fu il balsamo che Shannon cercava da ore.
“Kiki è morta” sussurrò Shannon, continuando a fissare l’oceano. Sentì che Emma vicino a lui emise un piccolo suono di stupore e terrore insieme, probabilmente non era la condizione migliore per darle uno shock simile, ma Shannon sentiva che sarebbe scoppiato se non avesse condiviso con qualcuno quella notizia, ed Emma era la persona che meglio riusciva a placare i suoi disagi in quell’ultimo periodo.
Si voltò a guardarle e la trovò con una mano premuta sulla bocca e gli occhi umidi di lacrime, si avvicinò a lei e la strinse fra le braccia, lasciando che si poggiasse sulla sua spalla, in silenzio.
“Com’è successo?” disse poi, sciogliendo l’abbraccio ma fermando con una mano il braccio di Shannon intorno alle sue spalle.
“E’ annegata” rispose solamente, tralasciando i particolari che gli aveva detto Miriam. Era un taciturno, e questo era risaputo, considerava i dettagli inutili informazioni, e specie in quell’occasione li considerò del tutto privi di importanza. Sbirciò l’espressione di Emma: si scoprì ad ammirare la compostezza di sua moglie, e per la prima volta si sentì invincibile, perché Emma era un esempio di eleganza e tranquillità come se ne vedevano pochi nel mondo e tenne a mente di ringraziare suo fratello per averla messa sulla loro strada.

Emma rimase scossa da quella informazione, e tentò di recuperare la lucidità per dire qualcosa di sensato. Si girò e trovò Shannon che la guardava, serio, così gli accarezzò una guancia e sorridendo appena disse: “Era una persona fragile, Shan, si vedeva. Non aveva punti fermi, era in balia degli eventi e troppo suscettibile alle decisioni e ai voleri di Tomo. Io una volta ho tentato di parlarle, di farle capire la portata di quel che stavano mettendo in piedi lei e Tomo, ma lei non si rendeva nemmeno conto di cosa avessero fra le mani: una bomba ad orologeria, praticamente, e non saperla maneggiare”. Lo disse con dolcezza, perché era vero, ma non c’era bisogno di essere aggressivi.
Shannon annuì e tornò a guardare l’oceano, fissando un punto imprecisato, credendo di scorgere le coste hawaiane. Emma si toccò istintivamente la pancia, la vita che cresceva e andava avanti, e si sentì cinica, ma era l’unica cosa che potevano fare in quel momento: aggrapparsi ad un evento bellissimo per tentare di combattere le tempeste.
“Shan, non è colpa di Tomo” disse piano.
“Lo so”
“Lui non c’entra niente” ribadì il concetto. Aveva intuito i pensieri di Shannon e non voleva che lo turbassero in un momento così bello della loro vita.
“Lo so”. Sospirò e tornò a guardarla. “Solo che pensavo a quanto è labile il confine fra l’essere felici e lo sprofondare nel baratro. E se succedesse anche a noi?”
“Amore, noi siamo insieme e non ci succederà niente. Dai, andiamo a casa” gli disse comprensiva. Più si avvicinava il parto e più Shannon entrava nel panico, tutti lo prendevano in giro, però Emma sapeva benissimo che il suo sistema nervoso era leggermente fuori fase e cercava di tenerlo calmo, di assecondarlo, per quanto non sapesse dove trovava la forza. Si alzò e gli prese la mano, ma Shannon la tirò a sé, facendola barcollare e cadere sulle sue ginocchia. La osservò in silenzio per qualche secondo, le tolse i biondi capelli dal viso, incastrandoli dietro un orecchio e le disegnò il profilo del naso con un dito.
“Volevo solo dirti che ti amo”
“Anche io. Ho sempre preferito il batterista” gli rispose sorridendo e poggiando la sua fronte al viso di Shannon. Rimasero così per qualche minuto, a riconciliarsi con il mondo e a tentare di ricordare la fortuna che avevano nell’essere insieme. 

 
       
 
L'angolo di Sissi 

E così Kiki è morta. Alcune di voi ci avevano preso, 
e sicuramente una in particolare (se non due), 
saranno "felici" del dramma appena consumato. 

Sarò sincera: non c'è un vero motivo per il quale la poveretta sia morta.
Non è molto rilevante ai fini della storia, 
era un personaggio comunque sparito, 
solo che volevo darle una fine vera, 
una possibilità di non tornare forse, 
una conclusione. Oppure semplicemente... sono incline alle tragedie,
il che, conoscendomi, è molto più verosimile! 

Questo capitolo è stato studiato per essere 
totalmente concentrato su questa situazione,
visto come vi avevo lasciati con il precedente. 
Dal prossimo torneremo al MarsLab, a Jared, Tomo e tutto il resto... 

Ho inserito Shannon, anche qui, 
perchè... I prefer the drummer sempre e comunque. 
E perchè lui è un pò il perno della storia, 
l'isola felice che gode di un'aurea di tranquillità suprema, 
e che quindi arriva a risolvere, consolare, abbracciare.
Si, sopratutto abbracciare! 

Bene, fra due giorni inizia l'
Into The Wild su VyRT,
spero per voi che possiate vederlo e nel caso godervelo tutto! 

Io, come al solito mando un bacio a tutti voi che mi seguite,
perchè se perdete anche solo dieci minuti delle vostre vite 
per leggermi, per me è già una soddisfazione immensa, 
e al mio fanclub personale (sempre più
of love). 

Abbracci Marsiani alla Shannon Leto, 


Sissi

 

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Capitolo 34
*** Mollare il colpo, smettere di punirsi ***


Mollare il colpo, smettere di punirsi


Tomo entrò velocemente nella caffetteria: “Salve, un cappuccino, un caffè nero, un thè verde e tre cupcake. Uno alla vaniglia, uno cioccolato e pere e uno vegan con scaglie di cioccolato” disse distrattamente alla ragazza.
Attese qualche minuto, vide la commessa che sorridente aveva preso l’ordinazione armeggiare dietro il banco e nel frattempo prese a controllare i tre o quattro messaggi che gli erano arrivati mentre guidava: Jared, Shannon, Jared e ancora Jared. Quell’uomo l’avrebbe mandato in tilt, prima o poi.

Guardò distrattamente fuori dalla finestra, ficcandosi una mano nella tasca dei pantaloni: era una settimana che era tornato a Los Angeles e le cose erano abbastanza statiche.
Lui e Vicki si erano visti più di qualche volta, ma sempre in campo neutro, lontano dalle loro rispettive case. Avevano pranzato insieme, fatto shopping insieme ed erano andati al cinema, avevano riso molto e nessuno aveva accennato minimamente, né con gesti né con parole, al bacio che si erano scambiati qualche giorno prima.  


Sorrise fra sé e sé, ancora perso nei pensieri, quando qualcuno lo urtò per sbaglio: “Accidenti, mi perdoni!” sentì dire e quando si voltò nella direzione della ragazza, si trovò di fronte Miriam. “Tomo?!” continuò lei.
“Ehi, Miriam!” le rispose. La guardò di sottecchi, e poi agì: la prese fra le braccia e la strinse forte a sè. In quell'abbraccio era racchiuso tutto ciò che voleva dirle. 
Sentì Miriam irrigidirsi e sciolse l'abbraccio, cercando un modo per affrontare il discorso che più gli premeva: “Ho provato a chiamarti, sei sparita dalla circolazione!” disse.

“Si… Scusami, è che io…” disse imbarazzata, guardandosi intorno e massacrandosi le mani. “Io ho avuto da fare con l’ufficio, mi dispiace”
“Tranquilla, non c'è problema. Stai bene?”
“Si, certo. Benissimo”. Ma la sua voce apparve un po’ troppo stridula e la sua cera non delle migliori. Aveva distolto lo sguardo, faticava a guardarlo e ad avere dei contatti con lui, il che suggeriva a Tomo che la questione era più grave di quel che aveva creduto. 
Lui sapeva della rottura con Jared, ma era convinto che loro fossero comunque amici. Credeva che a lei fosse chiaro che lui, così come Shannon ed Emma, erano lì per lei, in ogni caso. Preso dalla solita voglia di vedere tutti sereni, disse: 
“Prendi qualcosa? Offro io, dai”. Senza neanche aspettare la sua risposta, le mise una mano dietro la schiena e la spinse verso un tavolino vicino, girandosi verso la cameriera per dirle che avrebbe atteso lì le sue ordinazioni e se avrebbe potuto aggiungere due cappuccini e una brioche da consumare subito.  
“Tomo, davvero vado di corsa…” tentò Miriam, in un disperato salvataggio da quella situazione.
“Dai, è sabato. Il sabato non si lavora e noi non facciamo due chiacchiere da un po’” le rispose Tomo, comprensivo. Sapeva perché Miriam voleva scappare, ma lui voleva solamente aiutarla; non la sentiva dalla loro telefonata notturna, Jared lo aveva informato della situazione e lui aveva tentato di chiamarla, senza successo.

Si sedette di fronte a lei e la osservò; notò che aveva qualcosa di diverso, anche se non riusciva a dire cosa: era stata dal parrucchiere, ma era più qualcosa negli occhi, nell’atteggiamento, nel portamento.
“Hai cambiato pettinatura, stai bene” iniziò, per rompere il ghiaccio.
“Grazie, sono andata giusto un paio di giorni fa”
“E perché non hai mai risposto alle mie chiamate?”. Ora ci era andato pesante, e vide Miriam alzare istintivamente lo sguardo dal bicchiere che aveva davanti e guardarlo con la bocca spalancata.
“Tomo, io… scusami, sono stata molto occupata” rispose con un fil di voce.
“Volevo solo sapere come stavi” le disse addolcendo il tono e toccandole piano una mano, attraverso il tavolo.

La osservò abbassare di nuovo lo sguardo e in silenzio prendere un piccolo pezzetto di brioche, portandoselo alla bocca. Tomo la lasciò nel suo silenzio e solo dopo vide una lacrima che bagnava la sua guancia. “Ehi, ehi, dai non fare così”.
Si spostò sulla sedia accanto alla sua e le cinse dolcemente le spalle, ma si stupì nel sentirla togliersi da quell’abbraccio, mettendo una distanza fra loro. Miriam non l’aveva mai fatto, lo stava allontanando, si stava difendendo, perché? Non disse nulla e attese che lei parlasse.

“Tanto lo sai, no? Sai tutto, è inutile che mi umili dicendo di nuovo come stanno le cose” lo aggredì quasi, con un tono cattivo, guardando fuori dalla vetrata. Bevve un sorso del suo cappuccino e continuò: “Jared mi ha mollata, come era prevedibile che avvenisse ed io… io devo farmene una ragione. Stop, finito, non c’è più niente”
“Miriam, io credo che se voi riusciste a parlare…”
“Parlare? Ancora…” rise amara. Poi si girò a guardarlo e Tomo giurò di non averle mai visto quello sguardo freddo nelle pupille: “Io ho parlato, e mi sono ritrovata col culo per terra, Tomo. Forse il tuo amico non è proprio la persona più adatta al… parlare”. Calcò la voce sull’ultima parola, mimò in aria due virgolette che rendevano il tutto più triste, più avvilente e anche un po’ sarcastico.
“Si, forse Jared ha esagerato, è vero. Ma vedi a volte le situazioni si esasperano e a quel punto non è semplice”
“Non lo so, sento di aver sbagliato, ma Jared non mi ha aiutato. Lui si è sentito offeso, mi ha sbattuto in faccia il suo ego ferito e mi ha cacciato dalla sua vita. Non è così che funzionano le cose, Tomo: in una coppia ci si ascolta e ci si capisce”
“Hai ragione”. Tomo non poteva che approvare il suo discorso, ma era talmente convinto che quei due stessero facendo una stupidaggine che voleva a tutti i costi appianare le divergenze. O almeno provarci. E visto che con Jared, nella settimana passata, non aveva avuto fortuna, e che il destino gli aveva messo Miriam davanti casualmente proprio quella mattina, doveva giocarsi tutte le carte. E in quel momento tirò giù l’unica carta che avrebbe dovuto solamente disintegrare: “Ti ricordi quando ho rivisto Kiki a Parigi?” le chiese retoricamente. Avrebbe voluto fare un discorso molto più lungo, ma non ci riuscì.
“Si, beh... Scusami, ora devo proprio andare” disse in maniera asciutta Miriam, alzandosi velocemente. Lanciò una banconota stropicciata sul tavolo, senza curarsi di controllare di che taglio fosse e infilando gli occhiali da sole, scappò letteralmente da quel posto.
“Miriam, Miriam…” la chiamò Tomo, seguendola in strada, ma lei era già salita sul taxi che la stava portando lontano. Sospirò e si chiese in che razza di modo erano tutti finiti così.

In quel taxi, sotto i suoi occhiali da sole, Miriam si sentiva frustrata e sola: l’incontro con Tomo era stato terribile, avrebbe voluto scappare ed era rimasta in trappola. Aveva subito lo sguardo indagatore dell'amico, aveva stretto i denti per non guardarlo negli occhi e si era sentita colpevole, tanto colpevole. 
Aveva recitato bene fino a quando il discorso era rimasto sul neutrale, sulle sua personale debàcle, sulla sua vita che andava in pezzi, ma quando Tomo aveva tirato fuori Kiki, lei non aveva retto ed era dovuta fuggire, anche se ora si rendeva conto che forse non era stata una mossa corretta, aveva solo contribuito a destare sospetti, ed era ben certa che Tomo ne avesse già. L’aveva notato da come la guardava, anche se credeva che fossero tutti ricollegabili solamente alla situazione con Jared. O almeno lo sperava. 


Jared… il pensiero le spezzò, di nuovo, il cuore. Una settimana non bastava a dimenticare, ma la domanda che aveva iniziato a porsi nelle ultime ventiquattro ore, da quando aveva deciso di riuscire di nuovo di casa, era: quanto tempo sarebbe servito? Quanto avrebbe dovuto attendere, soffrire e piangere segretamente e stringere i denti? quanto?
Si accasciò sul sedile e si accorse che il taxi era arrivato dove lei gli aveva chiesto: al mare. Pagò la corsa e scese, incamminandosi sulla sabbia calda, fra surfisti e ragazzi liberi dalla scuola. Camminò a lungo, osservando quella gente apparentemente senza pensieri, senza problemi, invidiando gli adolescenti e le signore in costume, che erano lì a godersi una giornata di mare.
Lei, invece, vestita nonostante il caldo, camminò e basta, infilando le mani nelle tasche e lasciando che le lacrime le rigassero il volto, sicura che gli occhiali le avrebbero fornito una copertura sufficiente. Non sapeva da quanto stava camminando, quando vide che improvvisamente intorno a lei la gente sembrava scomparsa: quella caletta sembrava pericolosamente simile a quella dove si erano sposati Shannon ed Emma.

Si sedette sul bagnasciuga, incurante che l’oceano le bagnasse i risvolti dei jeans e che la sabbia le sporcasse la camicia di lino bianco. Tolse le scarpe e affondò i piedi nella sabbia umida, sentendone il freddo fra le dita, appena sotto lo strato bruciato da sole.
Ripensò a quella giornata di festa, ad Emma, a Shannon… e a Jared. Pensò che stava mollando la presa su quella situazione, su quella che voleva che fosse la sua vita, su quella che avrebbe dovuto essere una dimensione molto più naturale e bella per lei.

Guardò le onde e si chiese se il corpo di Kiki fosse mai stato ritrovato: non aveva indagato su questo, ma ormai non aveva molta importanza. Ovunque fosse, lei sperava che fosse serena, adesso.
La rabbia, l’amore, la colpa, il rancore e la scelta giusta: è tutto così complicato a volte, che in quel momento Miriam decise solo di lasciare andare tutto. Si sdraiò sulla sabbia e fissando il cielo azzurro sopra di sé prese una decisione: non avrebbe più sofferto, non avrebbe più pianto, avrebbe creato dal nulla una nuova personalità, si sarebbe plasmata ad immagine e somiglianza di qualcosa di nuovo, di qualcuno di diverso. E da lì avrebbe iniziato di nuovo a vivere, con la nuova sé stessa.



Tomo, dopo l’incontro con Miriam, si incamminò a passo svelto verso il MarsLab: sicuramente Jared aveva chiamato già l’FBI perché lo cercassero, ed ora si stava pentendo di aver bloccato Miriam. Avesse almeno risolto qualcosa!
“Eccomi, giuro che non è colpa mia!” disse non appena entrò, vedendo che Jared aveva già aperto la bocca per rimproverarlo.
“Tomo, un’ora di ritardo, cazzo” disse allora, non rinunciando alla sua dose di pesantezza giornaliera.
“Si lo so, lo so. Allora, avevate già iniziato?”
“Ma lo so, lo so cosa?! Cazzo!” urlò, prima di uscire dalla sala, lasciando Tomo a bocca aperta. Non era mai successo che Jared reagisse davvero male a qualche ritardo, si era un perfezionista e a volte aveva il sacro dono di rompere davvero le palle, ma quella reazione era qualcosa che andava oltre e che lasciò Tomo seriamente interdetto.

Si girò verso Shannon e lo trovò seduto sul seggiolino di Christine con le bacchette in mano e gli occhiali da sole sul viso: “Shan?” disse solamente, indicando con la mano la porta che era stata sbattuta con forza pochi secondi prima.
“Un’ora di ritardo, amico” gli rispose Shannon, ma anche lui sembrava non avere lo stesso tono canzonatorio e rilassato di sempre.
“Oh, ma che vi prende a tutti stamattina?”
“Niente, dai, forse è meglio prendersi un giorno di pausa” gli disse Shannon, prendendo il cellulare e uscendo nel giardino. Tomo lo seguì e si sedette al suo fianco, sul divanetto di vimini.
“Ho fatto tardi perché ho visto Miriam” sputò d’un tratto, mentre Shannon scorreva velocemente la prima pagina di un quotidiano online sullo smartphone. Cercava complicità nell’amico, quella che loro due avevano sempre avuto, e cercava un modo per risolvere la cosa, perché era chiaro che Jared non ne era capace, o forse non voleva, ed era altrettanto chiaro che non era “tutto ok”, come si ostinava a ripetere ogni qualvolta che qualcuno gli chiedeva come stesse.

Shannon però non rispose, non disse niente, non emise suono, cosa a cui Tomo era più che altro abituato. Si girò a guardarlo e vide che aveva smesso di muovere le dita sullo schermo dello smartphone, lo sguardo fisso su di esso, come pietrificato, come sconvolto. No, a quello non era abituato: c'era qualche problema. 
“Ehi, qualche notizia particolare?” gli chiese, leggermente preoccupato.
“No, no scusami. Mi dicevi?” rispose Shannon, muovendosi sul divanetto, come se d’un tratto fosse infestato di chiodi.
“Ho detto che ho fatto tardi perché ho incontrato Miriam” ripetè piano Tomo. Si guardò intorno per avere la certezza che non arrivasse Jared, prima di continuare, ma Shannon reagì bruscamente: “Si, questo l’hai già detto, Tomo”. Il suo tono sembrava urgente, quasi perentorio, così Tomo lo guardò leggermente incuriosito da quel repentino cambio di atteggiamento.
Shannon era strano da qualche giorno, ma in quel momento sembrava impaziente di sapere, così Tomo lo accontentò: “E abbiamo fatto due chiacchiere…”
“Tomo, cazzo, vai al sodo!”
“Shannon, ma che hai?”
“Niente, niente scusa” disse solamente, rendendosi conto che si sarebbe presto tradito, se non avesse usato un minimo di cervello.
“Comunque, ho cercato di farla ragionare, sulla situazione con Jared dico. Mi è sembrata triste, e abbastanza giù di tono”
“Non ti ha detto altro?”
“No, è scappata quasi subito, in realtà. Tu l’hai vista questa settimana?”
“Io? No, perché avrei dovuto?”
“Shannon, è Miriam, come perché avresti dovuto?”
“Va beh... comunque, devo scappare, Emma mi aspetta per… una visita, dobbiamo andare dal ginecologo” disse velocemente, alzandosi in piedi e ficcando lo smartphone in tasca.
“Dal ginecologo? Ma non eravate andati ieri?”
“No, ieri c’era l’ecografia”
“Shannon, ma noi dovevamo lavorare…”
“Un’ora di ritardo, Tomo” rispose secco, e corse via salendo i grandini due a due e sparendo oltre la vegetazione del giardino. Ma cosa diamine avevano tutti?

Shannon salì in macchina rapidamente e chiusa la portiera, si lasciò andare contro il sedile, chiudendo gli occhi. Cosa diamine aveva in testa quando aveva promesso a Miriam che avrebbe tenuto il suo segreto? Quello voleva dire mentire, e lui non era capace. E voleva dire mentire a Tomo, e quello era praticamente impossibile.
Prese rapidamente il cellulare e chiamò Miriam.
“Pronto?”
“Ehi, devo parlarti”
“Ora no, Shannon”
“Invece si. Venti minuti a casa tua”
“Non sono a casa”
“Dimmi dove sei”
“A Santa Monica, in spiaggia”
“Arrivo”.

Guidò velocemente, bruciando un paio di semafori e rischiando di investire qualche vecchietta che si godeva il sole del sabato mattina. Quando arrivò alla spiaggia di Santa Monica, si accorse che sarebbe stato un’impresa trovarla, visto quando brulicava di gente, e mentre sbuffava e si apprestava a richiamarla, sentì un leggero tocco sulla spalla.
“Miriam” disse solamente, guardandola. Era pallida, ma quel nuovo taglio di capelli le donava e la rendeva più sbarazzina, meno austera. I suoi jeans logori erano bagnati, il che voleva dire che forse si era lasciata conquistare dalle onde dell’oceano e la sua camicia di lino bianca lasciava intravedere il suo corpo. Come aveva fatto suo fratello a lasciarsela scappare? Non era importante, comunque.
“Cosa volevi dirmi, Shan?” andò dritta al punto lei, incrociando le braccia sul petto. Non l’aveva mai vista così risoluta e fredda, il che suggeriva che gli avvenimenti di quell’ultima settimana l’avessero segnata più di quanto lui fosse disposto a credere.
“Io devo dirlo a Tomo”
“No”
“Miriam, cazzo, si”
“Ne abbiamo già parlato”. 

Shannon sospirò, guardando l’oceano e posando le mani sui fianchi. “Miriam, lui è il mio migliore amico, io non ce la faccio a mentirgli, e comunque non è corretto. Lui deve sapere, è adulto, ha il diritto di saperlo”
“Perché? Così potrà volare verso le Hawaii e piangere un paio di lacrime sulla sabbia di Honolulu? La colpa è anche sua, lei non si sarebbe lasciata andare se lui non l’avesse trattata male a Parigi. Lei non sarebbe scomparsa di nuovo, non avrebbe considerato tutto perduto” gli disse Miriam, e quello che gli fece tremare il cuore non erano le parole, ma il modo in cui lei le buttò fuori. Era calma, pacata, non tradiva rabbia, a pensarci bene: non tradiva emozione alcuna.
“Non è così, tu lo sai”
“Ah no? E come fai ad esserne sicuro, sentiamo”
“Quella lettera parla chiaro: Kiki voleva tirarsi su dai casini, Miriam. C’era una speranza fra quelle righe, lei stessa ha ammesso che Tomo non era l’unico problema. E’ stato un terribile incidente”
“Tu c’eri? Ne puoi essere sicuro? Nelle lettere si scrive ciò che vuole, Shannon”
“Ma cosa cazzo stai dicendo, Miriam?”
“La verità: lui non ha nessun diritto di saperlo, lui non ha mai avuto nessun diritto su di lei, eppure si è permesso di usarla e gettarla via quando non le piaceva più il giocattolo”
“L’altro giorno mi hai detto di non volerglielo dire perché l’avevi visto con Vicki. Cos’è questa rabbia, ora?”
“Ora ci ho pensato, ho riflettuto e ho capito che Tomo non è meno responsabile di me in questa storia. L’abbiamo abbandonata entrambi, ed ora ne subiamo le conseguenze. Non voglio che lui lo sappia, non c’è niente altro da dire”
“Ti rendi conto che quello che stai dicendo non ha senso, vero?”
“Ti ho detto di averci riflettuto”
“Si, con la bottiglia in mano, Miriam…” si lasciò scappare, come se parlasse più a se stesso che altro.
“Fottiti” gli rispose lei, girando i tacchi e allontanandosi.
“Miriam, dai aspetta, scusa” la rincorse e la prese per un braccio, fermandola. Miriam si voltò di scatto e ad un millimetro dal suo viso, sibilò: “Lasciami in pace, Shannon”
“No, mi hai tirato tu in questa storia”
“Ti ci sei tirato da solo frugando fra le mie cose, ricordi?”
“Volevo aiutarti”
“Bene, l’hai fatto e ti ringrazio, ora è tutto” gli disse e con un gesto secco lo allontanò, riprendendo a camminare per chiamare un taxi.
“Glielo dirò, Miriam” le urlò dietro Shannon, guardandola andare via. La vide fermarsi e tornare sui suoi passi. Ora aveva le lacrime agli occhi, ma la sua risolutezza era intatta e spaventava: "Shannon, no. Ti ho detto di no" disse piano, ma ferma.
“Miriam, calmati” rispose Shannon. "Dai, parliamone con calma. Lì c'è un diner" le propose, guardandola sorridendo. 

Seduti di fronte a due sandwich al prosciutto, che nessuno dei due aveva il coraggio di toccare, Shannon le prese la mano e cercò di capire cosa le frullasse in testa: “Allora, mi dici cosa hai? Perché non vuoi dirglielo?”
“Te l’ho detto, Shannon”
“Non puoi credere che sia colpa sua”
“Io non credo più niente, sono annientata, stanca… voglio bene a Tomo, io... scusami, per prima, davvero. Tomo non c'entra niente, e lo sappiamo entrambi. Ma dirglielo... dirglielo significherebbe parlarne ancora, discuterne, rivangare” disse calma, poi continuò: "Io voglio solo lasciare andare questa storia". La sua voce era pacata, la rabbia scomparsa: Shannon la vide praticamente nuda e seppe che ora era davvero sincera. 
“Miriam, la lascerai andare quando davvero ti toglierai questo peso”.

Lei parve pensarci su, allontanando lo sguardo e fissandolo altrove. Il silenzio era assordante, così dopo qualche minuto, senza voltarsi a guardarlo, Miriam gli disse: “Ho preso una decisione, stamattina. Ero al mare, in una spiaggetta isolata, non c’era nessuno e ho preso una decisione”. Si fermò un attimo, cercando di raccogliere le parole o le forze e Shannon le lasciò il tempo necessario, poi la ascoltò ancora: “Cambierò me stessa. Creerò una nuova me, partirò dalle macerie per crearmi una nuova vita, e non mi interessa quando tempo, fatica, dolore o pazienza ci servirà”
“Nessuno può annientarsi per creare una nuova personalità” obiettò Shannon, calmo.
“Io ci riuscirò. Non esisterà più Jared, non esisterà più il MarsLab, le follie, l’amore spensierato e le amicizie durature. Lavorerò per garantirmi una vita serena, con un uomo buono. Non mi interessa che mi ami davvero: l’amore non esiste. L’importante è che sia buono con me, affine a me, che mi capisca e mi accetti”
“Miriam…”
“No, Shan, ho deciso: sarà così. Guardami, sono una bambina: a trent’anni vado ancora in giro con i jeans strappati appresso alle rock star. Ma cosa credevo? Che il mio mondo potesse davvero andare bene a Jared e viceversa? Mi sono illusa perché tuo fratello è perfetto, il sesso era divino e la favola sembrava poter trionfare. Ma le favole non esistono”
“Sei delusa, è normale. Ma forse c’è ancora…”
“Smettetela di dirmi che mi ama e che c’è una chance: per me e Jared non c’è mai stata nessuna chance, credimi” gli disse, sorridendo amara. Poi si alzò, lo guardò affettuosamente e andò via, così come era arrivata: con una folata di vento. 
Shannon rimase seduto a riflettere e sperò che la delusione passasse e Miriam smettesse di farsi del male, di fare passi falsi, di cercare una chimera che forse non avrebbe trovato mai. 
La seguì finchè potè vederla salire su un taxi e scomparire; in quel momento capì che forse non l'avrebbe rivista molto spesso, ma sentì il dovere di proteggerla e aiutarla. C'erano state persone che avevano aiutato lui, in passato, ora forse era arrivato il momento di restituire quell'affetto, quel bene che aveva ricevuto. 



Emma si stava godendo quel giorno di sole leggendo un giornale. Aveva deciso di uscire, aveva comprato una rivista ed era andata in uno dei suoi posti preferiti: il parco.
Si era seduta su una panchina, con il termos di caffè al suo fianco e aveva iniziato a sfogliare pigramente le pagine patinate di quella rivista di gossip. Non che lei amasse il gossip, però a volte la aiutava a scaricare lo stress, e in quel momento ne aveva davvero bisogno.


La gravidanza era ormai quasi al termine, per metà agosto avrebbero avuto il mostriciattolo fra i piedi: il solo pensiero la catapultava in un limbo di emozioni. Era felice di dare alla luce il suo primo figlio, era al settimo cielo al pensiero che il papà fosse proprio Shannon, e fra loro le cose erano perfette, ma aveva il terrore di non riuscire a cavarsela, di fare qualche pasticcio, di non riuscire a dargli tutto l’amore e l’attenzione di cui un piccolo necessitava.
A quel pensiero chiuse il giornale e alzò lo sguardo verso il nulla, riflettendo: poco distante, vicino al laghetto artificiale, c’erano almeno quattro o cinque mamme, ognuna persa nel suo mondo. I bambini scorrazzavano felici e facevano una cagnara indicibile: era davvero pronta ad abbandonare la barricata della donna in carriera per entrare  di diritto in quella della mamma coi i capelli dritti?

“Relax? O ti stai nascondendo da tuo marito?” disse improvvisamente una voce.
Emma si girò di scatto e sorrise: “Marito… non riesco ad abituarmi a chiamarlo così!” disse sospirando.
Vicki rise e si sedette accanto ad Emma, sulla panchina, senza neanche chiederle se poteva. Lo sapeva benissimo che poteva: loro erano state amiche, un tempo. Non quelle da confidenze intime e sbronze notturne, non quelle da follie insieme e difese a spada tratta, ma erano state amiche. C’erano state l’una per l’altra nei momenti duri e in quelli belli, avevano condiviso moltissime cose, e sicuramente sapevano di avere una spalla su cui piangere, se mai fosse servito.

L’ultimo anno le aveva un po’ allontanate. Non perché loro lo volessero, ma semplicemente perché Vicki aveva tagliato i ponti con tutti, dopo la crisi con Tomo e ancora di più dopo la rottura e la fine del suo matrimonio. Dall’altra parte Emma si trovava fra due fuochi e aveva preferito rimanere neutrale e non dare ragione o torto a nessuno. Inoltre la sua relazione con Shannon, troppo presto sfociata in una gravidanza inaspettata, le aveva dato filo da torcere e si era lentamente estraniata, forse per la prima volta, dai problemi altrui, per concentrarsi sui propri.
Si erano allontanate senza avere un reale motivo, senza aver litigato, senza averlo deciso: un giorno passa senza telefonate, il giorno dopo senza messaggi, e ti ritrovi dopo un mese o forse due a chiederti quando le vostre strade hanno iniziato a dividersi.
“Allora?” le chiese Vicki sorridendo e guardandola.
“Uhm…”
“Ho capito, fuga”
“Si” rispose sincera Emma. Poi scoppiarono a ridere entrambe, insieme, e non riuscirono a fermarsi per qualche minuto. Emma si toccò istintivamente la pancia e sentì che suo figlio le aveva appena dato un calcio: “Ai! Smettila di massacrarmi, ti prego!” si lamentò contro il suo stesso corpo, ridendo ancora.

Vide Vicki tornare seria e istintivamente si rese conto di essere stata poco delicata: non sapeva i dettagli, ma era chiaro che la gravidanza di Vicki non fosse andata bene, o comunque ci fossero stati dei problemi.
“Scusami” disse subito dopo, con un fil di voce.
“No, tranquilla. Posso…?” chiese piano, allungando la mano verso di lei. Non aveva il coraggio, ma sentiva di doverlo fare, di volerlo fare. Era la vita che era stata negata a lei, e Vicki aveva deciso di smettere di soffrire, aveva scoperto di avere mille qualità in quei mesi, fra le quali quella di sapersi tirare su da sola, senza nessuno su cui piangere. Aveva scoperto di voler ancora bene a se stessa, e aveva iniziato a pensare che forse il destino aveva in serbo per lei altre mille possibilità.
“Oh, certo!”. Emma tolse le sue mani dalla pancia e si lasciò accarezzare.  Era una cosa che tendevano a fare tutti, senza chiedere, ed era una cosa che a lei dava fastidio: odiava che tutti pensassero che il suo corpo fosse ormai cosa d’altri. Odiava che tutti pensassero di poter dare giudizi, consigli, regole, toccare e fare e dire. A volte voleva solamente mandare tutti al diavolo!
Lei era una della scuola di pensiero che una donna rimane una donna, seppur incinta; che il seno della donna rimane una parte intima della stessa anche dopo il parto, e che non funzionano le cose se tutti si mettono ad allattare in giro, dando in pasto agli occhi del mondo il proprio corpo. Lei credeva che l'intimità, la riservatezza, il senso del pudore erano cose che non sarebbero mai dovute passare di moda. 
Tuttavia in quel momento, in quel parco, capiva che Vicki doveva tornare ad amare la natura e fu fiera di essere stata scelta, in qualche modo, per quel gesto, per quel passaggio.


Vicki ci mise qualche minuto a decidersi, poi con uno scatto annientò la distanza e mise la mano sulla pancia di Emma; e fu in quel momento, proprio in quel momento, che il bimbo decise di farsi vivo: la sagoma di un piedino si intravide benissimo sotto la pelle tesa e Vicki provò una scarica elettrica pazzesca. Non ci furono lacrime, ma solo amore, e un sorriso che scaldò il cuore di entrambe.
“Wow! È bellissimo” disse, quasi rapita da quel che era solo frutto dell’inestimabile potere di Madre Natura.
“E pesante” aggiunse Emma, ridendo appena. Poi le toccò la mano e continuò: “Come stai?”
“L’ho perso” disse solamente Vicki, togliendo la mano e mettendosi comoda. Non voleva più nascondersi, guardava Emma come se fosse la sua vecchia amica, e rendendosi conto che non era altro che quello. E per la prima volta si accorse di dire quelle parole con una serenità incredibile. Accennò un sorriso molto debole, ma sincero e sentì la rabbia andare via, il dolore defluire, per lasciare spazio alla consapevolezza.  
“Mi dispiace”
“E’ stato terribile, ma sono viva, sono ancora qui. Alla fine non sai mai quanto le esperienze che fai ti possano tornare utili nella vita, ed io credo che stavolta a me sia servito. È orribile dirlo, ma io ora mi sento una persona diversa”
“Come è successo?” chiese Emma.
Vicki le raccontò i dettagli, le raccontò il dolore, la disperazione, il caos che era nato più dall’aver avuto il vuoto intorno che dal lutto stesso. Si era ritrovata da sola, senza l’uomo che credeva di amare, senza Tomo che era l’unico che aveva mai amato davvero, senza la sua famiglia, che continuava a farle pesare le sue scelte. Era sola, e aveva dovuto rimboccarsi le maniche e tornare a sorridere, ci aveva messo tempo, ma era fiera di poter dire di essere sopravvissuta.
“Cavolo, Vicki… perché non mi hai chiamata?”
“Non lo so. So perfettamente che non ti saresti tirata indietro, anzi, a pensarci bene avrei potuto avere un’alleata, ma era diventata una sorta di sfida che dovevo risolvere da sola. Scusami”
“Ma smettila… vieni qua!” le disse di slancio, poi si sporse e la abbracciò forte. “Sono ingombrante!” si lamentò, mentre l’amica le carezzava i capelli e chiudeva gli occhi, che sentiva diventare umidi.
“Posso farti una domanda spinosa?” le chiese subito dopo Emma. L'abbraccio era servito a rimettere tutto apposto, come solo un gesto così bello sa fare. 
“Spara”
“Tomo?”
“Morivi dalla voglia di chiedermelo, vero!?”
“Si” ammise Emma, mordendosi il labbro, leggermente imbarazzata. 
Vicki sorrise e spiegò: “Stiamo tentando di capire dove andare e come andarci. Non è semplice, anzi è maledettamente complicato”
“Vi siete rivisti da dopo il matrimonio, questo lo so”
“Si, spessissimo a dire la verità. All’inizio ci illudevamo fosse per caso: passavo di qui, guarda le coincidenze e invece allungavo di quattro o cinque chilometri il mio percorso. Ricordo che una volta lui mi disse che doveva andare a far sistemare il violino ed era passato sotto il mio ufficio. Ed invece so benissimo che la zona dove doveva andare è dall’altra parte della città rispetto a dove lavoro io” disse, ridendo.
“E poi?”
“Poi ci siamo arresi e abbiamo iniziato a darci appuntamenti. Una colazione, un caffè, una merenda, cose semplici, banali, ma almeno eravamo passati all’ammettere di volerci vedere”
“E’ una cosa bella, Vicki. Tu, sei felice?”
“Si, credo di si. Mi manca da morire, mi è mancato ogni giorno da quando ci siamo lasciati, a dire la verità. Solo che…”
“Solo che…!?”
“La settimana scorsa, quando siete tornati dalle date del tour, sono andata a trovarlo a casa e ci siamo fatti i pancakes come facevamo sempre quando eravamo a casa insieme. Era una specie di rito, qualcosa a cui eravamo entrambi abituati, ed è stato bello farlo di nuovo, insieme" si interruppe, come se avesse bisogno di trovare le parole, e poi continuò. "Ad un certo punto, bam: lui mi ha baciata. E’ stato un gesto romantico, semplice, breve, direi… intimo. Non c’era passione, anzi, c’era desiderio, ma di tornare a vivere qualcosa insieme. Io non so spiegartelo”
“Ho capito” disse Emma. Ripensò a quando Shannon era andato a casa sua a chiederle scusa, molti mesi prima, e ripensò a quando lei stessa era crollata, nella cucina del MarsLab, e aveva pensato di abortire. Emma sapeva benissimo di cosa stava parlando Vicki e sapeva anche benissimo che quello poteva essere un segnale positivo per loro. “Come hai reagito?”
“Ero felice, davvero Emma: sono al settimo cielo solo quando penso a Tomo. Però ho paura. Io l’ho offeso, umiliato, tradito. Io non so se lui davvero troverà la forza di perdonarmi”
“Quello lascialo decidere a lui”
Vicki sbuffò per la verità delle parole di Emma, poi riprese a parlare: “Io voglio davvero ricominciare con lui”. Vicki si fermò e guardò oltre, verso il parco. L’azzurro del cielo quel giorno era capace di fare male agli occhi, e toccandosi i capelli, che aveva tagliato pochi mesi prima, Vicki cercò di trovare la risposta adatta: “Se andasse male di nuovo?” disse infine, girandosi a guardare Emma negli occhi, sperando di trovare la risposta che disperatamente cercava.

Emma sorrise, le prese la mano fra le sue e vide se stessa qualche mese prima. “Quando sono rimasta incinta io e Shannon ci siamo quasi lasciati. Non eravamo pronti, stavamo insieme da neanche quattro mesi, fu una tragedia. E anche quando decidemmo di tenerlo e di stare insieme davvero, le cose non furono semplici: lo sai che nell’inverno ho seriamente pensato di abortire?”
“Emma…”
“Si, e so che è assurdo dirlo a te, ma è così" ammise candidamente. Sapeva che forse era una caduta di stile, ma la libertà di una donna è sacra ed ognuna sceglie le proprie vie come può e come vuole. Emma era convinta che a Vicki servisse sapere alcune cose, così sorridendo proseguì: "Non mi sentivo pronta, pensavo che fra me e Shannon sarebbe potuto succedere tutto, e mi ponevo domande e problemi ai quali nessuno aveva risposta. Una sera Tomo mi disse di mollare il colpo, di smettere di rovinare la mia vita e quella che mi stava crescendo dentro. Tomo mi disse che la vita è difficile, ma noi abbiamo il potere di farla essere meravigliosa. Mi disse che non a tutti va male, e che a volte il rischio che noi non saremo fortunati è assolutamente un niente da vivere, in confronto all’esperienza di essere amati”
“Dovrei mollare il colpo?”
“Dovresti smettere di punirti”
“Non è semplice”
“Lo so, però credimi che oltre la paura ci sono paesaggi meravigliosi”
“Sei sempre stata così saggia?”
“No, me l’ha insegnato tuo marito ad esserlo” le disse, facendole l’occhiolino.

Vicki sorrise e decise che forse Emma aveva ragione. Il fatto che quelle parole derivassero dall’uomo della sua vita era dimostrazione di come a volte, nella vita, le seconde opportunità arrivano, e vanno colte. Subito, immediatamente.
“Senti, devo fare una cosa, prima di mollare il colpo”
“Hai bisogno di aiuto?”
“No, devo farla da sola”
“Va bene” disse Emma, lasciandola andare.
“Ti chiamo presto, ok?”
“Vorrei ben vedere!” la sgridò bonariamente Emma, prima di baciarle una guancia. Mentre Vicki andava via la chiamò di nuovo e aggiunse: “Mi sei mancata”.
“Anche tu”. Ritrovarsi è sempre qualcosa di estremamente meraviglioso.

Vicki si avventurò fuori dal parco, e mentre camminava prese il cellulare e compose l’unico numero che non avrebbe voluto comporre più, ma che purtroppo aveva imparato a memoria: “Ehi, si sono io. No, devo parlarti. Fra mezz’ora al solito posto? Va bene, a dopo”.
Chiuse la comunicazione e iniziò a camminare: arrivarci a piedi le avrebbe dato il tempo di assorbire la cosa e pensare a come dirgli quello che doveva dirgli da tempo.

Quando arrivò al ristorante, lo vide già seduto al loro solito tavolo: centrale, in modo da essere il più in mezzo alla confusione possibile. Si bloccò e ripensò a quel tavolo: era iniziato tutto lì, ormai un anno prima, e Vicki ora si sentiva una stupida. Come aveva potuto rovinare tutto con Tomo per un capriccio? Che non era stato neanche un capriccio di quelli che ti solleticano lo stomaco, ma più una voglia irrefrenabile di sentirsi una donna normale. L’aveva detto a Tomo, e quando era riuscito a dirlo se ne era davvero resa conto per la prima volta.
Respirò a fondo e si fece coraggio: doveva farlo. Entrò, con l’espressione più seria che potesse fare andò verso il tavolo e si sedette, poggiando poi la sua borsa accanto alla sedia.
“Ciao, Vicki”
“Ciao” rispose educatamente, non tradendo alcuna emozione positiva. Lei era lì perché doveva chiudere un capitolo, e l’aveva capito solo parlando con Emma: non puoi ripartire se non dai la mandata finale alla porta che ti sei chiusa dietro.
“Stai bene, davvero. Sei bella”
“Senti, sono qui per dirti un paio di cose e poi me ne vado. Ho poco tempo”
Lui incassò il colpo, abbassò lo sguardo, reprimendo la voglia di urlare o quanto meno reagire alla risposta di Vicki, poi parve riprendere il controllo di sé e sorridendo disse: “Va bene, d’accordo. Mangiamo qualcosa, nel frattempo”. Le passò il menù e Vicki lo rifiutò con un gesto della mano. Sapeva a memoria cosa servivano in quel ristorante, ci aveva passato troppi pranzi con lui. E poi il suo sorriso era falso.
“Prendo solo un succo d’arancia, grazie”
“Succo d’arancia sia” disse elegantemente, incassando un altro colpo. Strinse la mano in un pugno e le nocche diventarono bianche: Vicki si morse la lingua per non sorridere. Adorava vederlo in crisi, vederlo che reprimeva il suo istinto. Cos’è? Avrebbe voluto picchiarla, forse?
“Dunque, sono qui per un paio di cose. Punto primo: non dovrai più cercarmi, mai più. Mi sono licenziata ieri, troverò un altro lavoro, non mi interessa, ma non voglio più vederti”
“Vicki…” disse cauto, poi affondò. “Perché non ci proviamo di nuovo?”
Vicki non rispose, girò lo sguardo e ringraziò la cameriera che era appena arrivata con il suo succo d’arancia.
“Sono serio, Vicki” aggiunse dopo qualche minuto.
“Non credevo che sapessi esserlo. Lo eri anche quando ti scopavi quella mentre io ero incinta?”
“E’ stato un errore. Io lo so che sei ferita, ma dammi un’altra chance, ti prego”
Vicki sentì gli occhi inumidirsi: ci aveva creduto davvero, in quell’uomo. Ci aveva creduto così tanto che era caduta e si era fatta davvero male. Ora era tempo di chiudere il capitolo, ma perché si sentiva così fragile, ancora?
Lui le prese la mano attraverso il tavolo e le disse piano: “Mi odi?”
“No” ammise timidamente, abbassando lo sguardo per non dover sostenere il suo, che le scrutava l’anima. “No, che non ti odio. Però devo dirti una cosa. Importante”.

Tomo passava di lì per caso. Era uscito a fare un giro in macchina, senza una meta precisa. Dopo il caos mattutino al MarsLab si era preso un paio d’ore di relax ed ora aveva deciso di andare a recuperare qualche libro nella sua libreria preferita, prima di tornare alla base e convincere i fratelli Leto a fare qualcosa di serio. 
Fermo al semaforo, tamburellava le dita sul volante, attendendo che scattasse il verde, insolitamente di buon’umore: quella sera voleva chiedere a Vicki di andare a cena insieme, aveva in mente un bel programma.

Si girò, guardando a destra e a sinistra, non vedendo in realtà niente, osservando distrattamente il panorama, quando qualcosa colpì il suo sguardo: Vicki. Era seduta ad un tavolo di un ristorante, al di là della strada. La vedeva dall’ampia vetrata, era seduta come solo lei sapeva sedersi: composta, ma stravaccata. Sorrise e accostò alla meno peggio al ciglio della strada: cinque minuti per salutarla non lo avrebbero distolto dal suo programma giornaliero.
Scese al volo e approfittando del semaforo ancora rosso, corse attraverso la strada, raggiungendo il marciapiede opposto. Si avvicinò a grandi passi all’entrata del locale e poi gli si gelò il sangue: Vicki era lì, ma non era sola. Era con lui. E ridevano.
Rimase bloccato, pietrificato. Cosa voleva dire? Si destò quando una signora chiese gentilmente se poteva entrare nel ristorante e ripreso vita si allontanò, ricacciando indietro le lacrime e sentendo un senso di rabbia ed impotenza nello stomaco.
 
Vicki si preparò alla vera battaglia: difendere Tomo da uno scandalo. In quei mesi erano stati bravi e non era trapelato niente, ma ora lei aveva paura che quell’uomo sputtanasse tutto. “Tu non dirai niente alla stampa, non spiffererai nulla, perché altrimenti io ti rovino. E sai che posso farlo”
Il suo sguardò mutò di colpo e diventò pieno di rabbia. “Tu non oseresti farlo”
“Oh si che lo farei invece, lo sai benissimo”
“Non so di cose tu stia parlando” mentì, cambiando atteggiamento e strategia.
“Truffa aggravata ai danni di clienti più o meno facoltosi, Ponzi1. Ho le prove, ti posso incastrare in cinque minuti”
“Verresti nel letame con me, lo sai. Lo scandalo scoppierebbe in ogni caso. E tu saresti fottuta”
“Non me ne fotte niente di me stessa. Tu starai zitto per la carriera di Tomo, intesi?” sibilò Vicki. Gli si avvicinò attraverso il tavolo e lo penetrò con lo sguardo, per chiarire il punto, per fargli afferrare il concetto.
“Vicki, non giocare: se parli, la carriera di quel bassista è compromessa comunque. Dirò tutto, che l’hai tradito, che sei rimasta incinta, posso inventare qualsiasi cosa” rincarò la dose lui. Poi aggiuse: “Lo so che vi state frequentando di nuovo”
“Lui sa tutto” disse fieramente Vicki.
“Ah si!? E pensi che la stampa ci andrebbe giù cauta sapendo che la moglie di un bassista famoso si è fatta scopare e mettere incinta da uno che viene indagato per truffa? La sua carriera, Vicki”. Poi ripetè di nuovo: “Lo scandalo scoppierebbe comunque”
“Mettiamola così: se tu parli, io parlo. Se non vuoi finire in galera, ti conviene stare zitto. Taci, io ti lascio stare, puoi continuare a fare i tuoi giochetti e non scoppia nessuno scandalo. Ognuno per la sua strada. Se ci pensi è un patto equo” gli disse soddisfatta.  
“Sei una puttana”
“Prendere o lasciare. Cinque minuti, ci metto cinque minuti” disse, facendogli penzolare il cellulare davanti al naso. Detto quello, si alzò, e rivolgendoglisi un’ultima volta disse: “Bene, questo è quanto. Direi che con i soldi sporchi che ti ritrovi, il succo d’arancia puoi anche offrirmelo. Ciao”. E sparì. Per sempre, lasciandolo lì in balia del terrore di essere denunciato alle autorità. 

 
       

L'angolo di Sissi 

Ciao a tutti! 
Capitolo che raccoglie una serie di confessioni e situazioni: 
Vicki chiude con l'ex amante, 
e lo ricatta per non fargli rivelare tutto, che farebbe scoppiare lo scandalo. 
Intuiamo che lui vorrebbe vendicarsi, ma che andrebbe ad impattare su Tomo.
E capiamo anche che Vicki ha in mano una carta pesante!  
In questo è, ancora una volta onesta: non pensa a lei, 
ma solo alla carriera di Tomo. 


1Precisazione: Ponzi è un modo per prenderlo garbatamente in giro, 
rifacendosi alla sua presunta truffa. 
Lo Schema Ponzi, fu una truffa aggravata degli inizi del '900, 
in cui si promettevano fraudolentemente grossi guadagni,
pagando gli interessi maturati dai vecchi investitori, con i soldi dei nuovi investitori,
tipo scatola cinese, tendendo sempre a trovare nuovi investitori da truffare. 
Detto ciò, Tomo scopre Vicki al ristorante con l'amante...
cosa penserà? Nuovi guai in vista? 

E Miriam? Shannon tenta di aiutarla e capire, 
ma la situazione sembra ingarbugliata... 
tra l'altro Miriam ora ha un progetto per se stessa: cambiare davvero. 
Ci riuscirà? E sopratutto... come attuerà il piano? 

E poi c'è Emma, impaurita come ogni quasi mamma, 
con le sue convinzioni (che sono un pò le mie, lo ammetto),
e la sua dolcezza nei confronti di Vicki,
con la quale torna ad avere un rapporto. 
Mi piaceva l'idea di rinascita di un'amicizia fra le due... 
non so perchè, ma mi piaceva! 

Questo capitolo è dedicato a
Muna,
che oggi (ormai ieri, in realtà) ha compiuto 23 anni! 
Buon compleanno, tesoro!!! 

Ringrazio come sempre tutti: siete davvero tantissimi! 
Come sempre... Of Love al mio fanclub (prima o poi vi nomino tutte tutte tutte)! 
E a prestissimo! 

Abbracci 
Sissi 

 

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Capitolo 35
*** What if I wanted to break ***


What if I wanted to break

 
What if I wanted to break…”, Jared fermò le dita e sospirò rumorosamente, chiudendo gli occhi. Non aveva mai avuto un’ottima memoria, ma quei giorni era davvero sotto terra.
Li aprì di nuovo e tentò ancora, ma l’unica cosa che riuscì a visualizzare fu Miriam che abbandonava la sua stanza. Ancora, e ancora. Erano ormai settimane che andava avanti così, e il nervosismo, unito all’acuirsi dell’insonnia, lo stavano stremando.
Decise di fare una pausa, ripose la chitarra sul suo sostegno e si alzò, andando verso la vetrata: l’aria a Los Angeles era strana, quel giorno. C’era un sole che spaccava le pietre, e il caldo era il solito caldo agostino, tuttavia Jared guardando il cielo notò delle nuvole minacciose. O semplicemente, si disse, era lui a volerle considerare tali.
Prese il cellulare e avviò una chiamata. Dopo qualche squillo la voce che si aspettava di sentire gli scaldò il cuore: “Ehi, da che guaio devo salvarti stavolta?”
“Ciao, sei impegnata?”
“Non proprio, stavo passeggiando un pochino”
“Ti andrebbe di…” accennò, non riuscendo a finire. Poi si impose di continuare: “… di parlare un po’, ecco”
“C’è qualcosa che non va?”
“Vedila così, se anche solo una cosa decidesse di girare per il verso giusto, sarei un uomo fortunato”
“Drammatico” scherzò lei, prima di ridere leggermente. “Dai, ti raggiungo al Lab”
“No, no vengo io” si affrettò a dire Jared. “Fra quindici minuti sono da te” disse al volo, prima di chiudere la chiamata.
“Ma, Jared…” cercò di intervenire lei, ma dall’altro capo del telefono sentì provenire solo un rumore sordo. Aveva appeso.
Sbuffò piano, toccandosi il pancione e poi assorta disse: “Se prendi da tuo zio, ti strozzo. Piuttosto tuo padre, guarda…” e piano si incamminò verso casa.


Tomo entrò al MarsLab, infuriato e in preda ad una crisi isterica. Cosa diavolo gli era saltato in mente? Niente sarebbe potuto tornare come ai vecchi tempi, niente e lui si era solamente illuso. Scalciò violentemente l’aria, colpendo per sbaglio il tavolino, che si ribaltò andando in frantumi: “Cazzo!” imprecò subito dopo, rimanendo a fissare i piccoli frammenti di vetro sparsi ovunque.
Sentì la rabbia scemare e al suo posto subentrare solo la delusione, una grande, immensa, enorme delusione. In quel momento, mentre si apprestava a chinarsi per rimediare al danno fatto, sentì il cellulare vibrare nella tasca dei pantaloni: Vicki lo stava chiamando. Con riluttanza decise di rispondere, ma il suo tono non faceva presagire niente di buono.
“Ehi, che c’è?”
“C… ciao, per caso chiamo in un momento sbagliato?”
“No, no, dimmi pure”
“Niente, volevo sapere se questa sera hai da fare. Potevamo andare a mangiare qualcosa insieme, che ne dici?” propose lei, allegra. In realtà si sentiva ancora sconvolta dall’incontro di poco prima, era stata dura, ma stava pagando quella sua tenacia a caro prezzo, ed ora l’unica cosa che avrebbe voluto fare era farsi proteggere da Tomo, come lei aveva cercato di fare con lui. La sua voce era disinvolta, ma il suo cuore era in tumulto, e dovette faticare moltissimo per far si che la sua voce non si incrinasse.
“Vicki, io…” iniziò lui. A che gioco stava giocando? “Non posso, scusami”
“D’accordo, non è un problema. Domani?” tentò di nuovo Vicki, dominando la delusione.
“Non credo, no, neanche domani” rispose sicuro lui.
“Va bene” rispose lei, iniziando ad essere scettica. “Mi chiami tu?” chiese poi, guardinga.
“Si, ecco, ti chiamo io” rispose Tomo, con tutta l’aria di una persona che voleva assolutamente chiudere quella conversazione. Non appena si ritrovò solo, abbassò lo sguardo e sorrise amaramente: l’illusione era durata meno di un paio di mesi. Fantastico.
“Non abbiamo pagato la donna delle pulizie questo mese?” chiese Shannon, entrando dalla porta finestra e notando Tomo chinato per terra a fare qualcosa che somigliava pericolosamente al… pulire.
“No, no. E’ solo successo un piccolo incidente” rispose Tomo, senza neanche voltarsi.
Shannon fece un paio di passi e sbirciò oltre le spalle dell’amico, prima di vedere il tavolino ribaltato e il vetro andato in frantumi. “Tomo?! Piccolo incidente?”
“Si, esattamente, non vedi?” rispose Tomo, alzando di poco la voce.
“Quel tavolino non si muoverebbe neanche con un uragano! Ti ricordi quando…”
“Shannon, l’ho preso a calci, ok? Contento?” disse spazientito, alzandosi di scatto e guardandolo con le braccia aperte.
“Amico, tutto bene?”
“No, non va tutto bene” fu la sua ultima risposta, prima di imprecare e andarsene dal salotto. Shannon rimase fermo, immobile a chiedersi come mai Tomo fosse passato dalla serenità ritrovata alla rabbia in meno di tre giorni. Poi sospirò e pensò che fosse bene sistemare quel caos, prima che Jared lo trovasse lì, perché in quel caso sarebbero davvero sorti dei guai.
Era lì, chinato che sistemava i danni altrui, quando entrò Shayla, di corsa.
“Ah, ciao, sei qui?”
“A quanto pare si, ciao”
“Ma… cosa fai, Shan?”
“Sistemo… niente, un piccolo incidente” mentì, sfoderando la stessa scusa che aveva tirato fuori Tomo con lui meno di dieci minuti prima.
“Vuoi una mano?”
“No, tranquilla”
“Bene, Jared?”
“Non saprei. Vedi se è in sala”
“Non c’è, già controllato”
“Ah… e allora chiamalo”
“Cellulare spento, già provato”
“Mmm… tentato la connessione mentale?” scherzò Shannon.
“No, anche perché connettermi con la mente di tuo fratello è l’ultima delle mie volontà”
“Si, credo di capire. Ti serviva qualcosa?”
“In verità si. Ci sono dei problemi con il tour autunnale ed io non so più dove sbattere la testa. Tuo fratello mi ha lasciato in balia degli eventi”
“Capisco. Dammi qua” le disse alzandosi in piedi e porgendole la mano affinchè lei gli consegnasse il plico che stringeva fra le dita.
“Shan, ma tu…”
“Io?” chiese scettico, guardandola meglio. La vide arrossire e distogliere lo sguardo e sorrise impercettibilmente: sapeva che Shayla aveva un debole per lui, l’aveva sempre saputo e per quanto lo lusingasse, sinceramente ora che stava per diventare padre, gli interessava molto poco. Tra l’altro aveva problemi su tutti i fronti, quindi ecco, l’ipotesi di mettersi a flirtare, seppur per gioco, non era minimamente contemplata. Eppure accadde. 
“Non offenderti, ma tu… non ti occupi mai di queste cose. E’ burocrazia, firme da mettere, policy da leggere, scadenze da osservare. Di solito è Jared la mente”
“Tu lo vedi in giro?” chiese lui, diplomaticamente.
“No, effettivamente no” ammise la ragazza, abbassando il tono della voce. Improvvisamente si sentiva in imbarazzo e debole, di fronte a lui.
“Dunque, dai qua” disse nuovamente Shannon.
“Shan, davvero, tranquillo, me la caverò da sola”
“Shayla, il fatto che io non mi sia mai occupato di queste cose, non mi rende meno capace di iniziare”
“Non dico questo, solo che…”. Shayla non sapeva come cavarsi d’impaccio e continuava a strizzare il plico fra le mani, desiderando che sparisse. O che, in alternativa, lei venisse risucchiata dal pavimento.
“Senti, Jared è in un periodo abbastanza complicato, e Tomo… beh, Tomo lasciamo perdere. Credo di essere l’unico ad aver mantenuto saldi i nervi, il che la dice lunga sulla situazione attuale. Fidati di me” le disse cauto, avvicinandosi a lei.
"Potrei cavarmela da sola però, magari è la mia occasione per dimostrare a Jared quanto valgo"
"Da quando in qua Jared non sa quanto vali?"
"No, non è questo, ma si sa che Jared si fida solo di se stesso. E' una verità universale"
"Shayla, tu sei brava e anche piuttosto carina oggi. Cambiamenti?"
Shayla si toccò i capelli accorciati giusto quella mattina e si sentì sconvolta dal fatto che Shannon l'avesse notato. "Si, effettivamente"
"Stai molto bene, davvero" le rispose piano, continuando a fissarla. 
In un momento di distrazione, durante il quale Shayla si era persa a contemplare i movimenti delle sue bellissime labbra, che alla fine si erano tese in un dolcissimo sorriso, Shannon riuscì a strapparle di mano il plico.

“Ehi!”
“Mai distrarsi, lo dico sempre” le disse ridendo, prima di avviarsi verso la cucina per farsi un caffè. Avrebbe dovuto leggere pagine e pagine di roba noiosissima, meglio farlo in compagnia di un fedele amico.
Shayla rimase a guardarlo andare via, maledicendo se stessa per quella distrazione, che aveva un solo nome: Shannon Leto. Poi lo seguì e sedendosi al suo fianco gli disse: "Va bene, lascia almeno che ti spieghi qualcosa"
"D'accordo, sono a tua completa disposizione, lo giuro" le rispose ridendo e guardandola forse un pò troppo. 



Jared corse letteralmente verso la sua meta, arrivò al portone bianco e citofonò senza un minimo di eleganza.
“Un momento!” sentì Emma dirgli attraverso la porta, e dopo qualche minuto la vide davanti a lui, sorridente e più bella di come la ricordasse.
“Eccoti, finalmente!” disse Jared.
“Ciao anche a te, è un vero piacere vederti. Si, grazie, sto benissimo” disse Emma, prendendolo gentilmente in giro.
Jared la guardò pensieroso e poi si lasciò andare sul divano, chiudendo gli occhi e sentendo la voglia di dormire. Dormire e basta.
Emma tornò qualche minuto dopo in salotto, accoccolandosi accanto a Jared e porgendogli una tazza del tuo tea preferito: vaniglia e cannella. “Allora, vuoi dirmi perché sei piombato qui nel bel mezzo del pomeriggio?”
“Volevo vederti”
“Si, certo, e poi?”
“Poi cosa!? Devo per forza avere un motivo per vederti?”
“Jared…” lo riprese Emma, sorseggiando il tea senza smettere di fissarlo.
“E va bene… hai visto Miriam questo periodo?”
“Ecco…” esordì Emma. “Vedi che avevo ragione? No, comunque, non l’ho vista”.
“Dove può essere?”
“A casa sua, per esempio?”
“Dici?”
“Beh, sei andato a vedere se fosse lì?”
“No”
“E allora come fai a sapere che non ci sia!”
“Perché sarebbe stupido” disse allargando le braccia come se fosse ovvio. Ma vedendo che Emma gli riservava un’occhiata dubbiosa, sbuffò e spiegò la questione, come se parlasse ad una bambina di cinque anni: “Se non vuole più vedermi, non è logico che sia a casa sua, dove, tecnicamente, io potrei andare in qualsiasi momento”
Emma lo guardò allibita e poi scoppiò a ridere: in quel momento pensò che aver a che fare con Jared Leto per anni le aveva garantito un’ottima scuola e che con suo figlio sarebbe già stata ampiamente preparata. “Jared, tesoro, non siamo un film di Agatha Christie. Qui non c’è nessun enigma da risolvere: Miriam sarà a casa sua, andrà in ufficio, forse uscirà con qualche amico, normale amministrazione” disse gentilmente, pensando che non fosse lei la più giovane su quel divano. Poi aggiunse, cauta: “E poi… sei tu che hai detto di non volerla più vedere”
“E tu che ne sai?”
“Me l’ha sussurrato uno gnomo che ti spia tutti i giorni!” sussurrò avvicinandosi alla sua faccia e assumendo un’espressione curiosa.
“Si, si, certo, prendi pure in giro. Voglio vedere come sarai messa fra un paio di settimane” le rispose, scacciando quel suo viso rilassato con una mano.
Emma si concesse una risata e poi tornò seria: “Perché vuoi sapere dov’è?”
“Non voglio sapere dov’è” puntualizzò Jared, evidentemente piccato.
“Ah no?”
“No” rispose lui. “Vorrei solo sapere se… se sta bene, insomma”
“E perché dovrebbe stare male?”
“Emma, cazzo!” imprecò alzandosi in piedi e iniziando a passeggiare per il salotto. “Ci siamo lasciati, come vuoi che stia? Bene?”
“Magari si, che ne sai!” continuò lei. Emma era molto abile a far emergere le reali emozioni della gente, e con Jared aveva un’esperienza che forse solo Constance Leto poteva vantare.
“Ah, grazie mille”
“Dai, sto scherzando, siediti” gli disse dolcemente, accarezzando il divano accanto a lei per esortare Jared ad ascoltarla. Dopo qualche attimo si rese conto che l’uomo era così inquieto che non l’avrebbe assecondata, così prese un respiro e iniziò a parlargli, parlargli davvero: “Jared, ho tentato di chiamarla, ma non mi ha mai risposto. Credo che voglia semplicemente stare sola”
“Sola?”
“Si, insomma, vedersela da sola. Avete rotto anche per la sua indipendenza…”
“Abbiamo rotto solo per la sua indipendenza, Emma”
“Si, va bene, su questo potremmo discuterne. Comunque starle addosso non credo sia un buon modo per farla tornare da te” disse sinceramente. “Perché tu vuoi che torni da te, vero?”
Jared sospirò e cercò di essere onesto: “Non lo so” disse. Poi la guardò negli occhi, e sperò che lei capisse, sperò di non dover ridurre il suo ego ad una catastrofe totale.
Emma, tuttavia, non era disposta a cedere, ad aiutarlo, perché credeva che Jared dovesse tirare fuori tutto, se davvero voleva risolvere le cose. Così lo guardò, accomodandosi sul divano e continuando a bere il suo tea. Sostenne il suo sguardo per diversi minuti, senza abbassare o distogliere gli occhi, tanto era abituata anche a quello.
“E va bene, sei un’arpia” si sentì dire dopo qualche minuto. Ridacchiò e si apprestò ad ascoltarlo. “Io la amo, d’accordo?”
“D’accordo”
“Però non posso continuare a stare dietro alle sue insicurezze, Emma, perché di questo si tratta”
“Sei sicuro?”
“Si, sono sicuro. Perché lei vive un giorno in paradiso e dieci all’inferno ed è snervante, è davvero snervante” rivelò. “Per esempio: io volevo andare a convivere con lei, perché mi sembrava il passo giusto. Io non ho mai amato così una donna…”
“Veramente, Jared...” lo interruppe Emma, sollevando un dito che aveva l'aria di una puntualizzazione. Ma non riuscì a finire, perchè fu a sua volta interrotta.
“Lasciamo perdere i sofismi”
“Era per amore di verità e cronaca!” si difese lei “Dio solo sa quanto abbiamo penato quel periodo”
“Si, va bene, comunque, dicevo” riprese Jared. “Cazzo, mi hai fatto perdere il filo”
“Interessante, lo segnerò sul calendario questo evento. Perché di evento si tratta” rispose Emma. Poi fissò il soffitto e schiarendosi la voce, continuò: “Jared Leto ha dimenticato cosa dire!” e accompagnò il tutto con un ampio gesto del braccio, prima di scoppiare a ridere.
“Emma, qui la situazione è grave, tragica, disperata, terribile!”
“Te l’ho già detto che sei drammatico?”
“Fanculo, Emma”
“Dai, dai, sto scherzando, Jared torna qui” urlò, vedendolo avviarsi a grandi passi verso la porta d’ingresso. “Dai, affrontiamo per bene la questione, su” gli concesse, smettendo di ridere e vedendolo affacciarsi di nuovo dall’arco che separava il salotto dall’atrio.
“Seria?”
“Serissima, promesso” disse mettendo una mano sul petto. “Dunque, tu la ami”
“Si”
“E vorresti che tornasse da te”
“Questo non l’ho detto”
“Lasciamo perdere i sofismi”
Touchè
“Bene. Tu la rivuoi. Perché non provi a parlarle?”
“Perché non saprei che dirle” rispose sincero. “Ed evita le battute”
“Jared, ma che vuoi dirle!? La ami, ti ama, è solo una questione di divergenze. Siete due cretini!”
“Grazie, sempre gentile”
“No, sono seria: alza il culo e valle a parlare, dille quello che senti, dille che la ami, dille che la vuoi con te per sempre, dille che deve smetterla di avere paura. E dille anche quello che non ti sta bene”
“Non è facile”
“Pensi davvero che amare sia facile?”
“Tu e Shannon…”
“Io e Shannon siamo rimasti, Jared. Siamo rimasti anche quando le cose facevano schifo, e ti assicuro che hanno fatto parecchio schifo in certi momenti” disse, non così pronta a rivelare particolari piuttosto intimi. “Per far funzionare le cose bisogna rischiare, bisogna avere il coraggio di non andare via. Chiediti solo una cosa: perché l’hai lasciata?”
“Perché ero stanco”
“Stanco di lei?”
“No, stanco di come lei affrontasse le cose, di come mettesse sempre in discussione tutto, di come lei non credesse che potesse avere un futuro con me”
“Quella donna, ventisette anni e tanta insicurezza, ha abbandonato la sua vita per te. Ha mollato Parigi ed è venuta qui, avendo fra le mani solo la certezza di un amore, che poi non è mai certo, e un lavoro in cui ha dovuto iniziare di nuovo. Credi che non creda in voi?”
“Non l’ho mai vista in questa ottica”
“Lo so”
“Che dovrei fare?”
“Andare da lei, sederti, e dirle quello che stai dicendo a me” disse. “Ma dirglielo davvero, Jared. Non serve nascondere i problemi e dire solo le cose romantiche”
“Non c’è pericolo che mi mandi via?”
“Oh si che c’è. In quel caso te ne vai e torni domani, e domani ancora, e domani di nuovo”
“Scusa?”
“Costanza, Jared. Costanza e perseveranza” annunciò Emma, alzando un dito per rendere la sua frase più simile ad una massima.
Jared sospirò e poi la guardò: “Sarai un’ottima mamma, Emma”
“Oh ma dai…” si schernì da sola, facendo svolazzare una mano in aria.
“Dico sul serio. Sei fantastica, Shannon è un uomo fortunato”
Emma rimase senza parole, non perché non sapesse cosa Jared pensasse di lei, ma perché in quel periodo aveva bisogno di sentirsi dire una cosa del genere, ed era come se Jared le avesse letto il pensiero.
“Ti ho lasciata senza parole, eh?!” la prese in giro Jared, dandole un leggero colpo sul ginocchio.
“Assolutamente no. E’ che mi sono scocciata di infierire su di te”
“Si, certo” disse ridendo. “Ehi, tu, mostriciattolo, hai una mamma splendida” disse poi direttamente alla sua pancia. “Posso?”
Emma annuì e lasciò che Jared toccasse il suo pancione: l’unico a non averlo mai fatto. In quel momento seppe di avere un marito d’oro, e un fratello esageratamente meraviglioso.
“D’accordo, allora io esco e vado da lei”
“Forza!” urlò lei, alzando le braccia al cielo e facendo un’espressione buffa. Jared scoppiò a ridere e la salutò andando verso l’ingresso. “Jared, chiamami!” sentì mentre chiudeva la porta.
“Sei sposata, Emma, avresti dovuto pensarci tanti anni fa… e dire che ne hai avuto l’occasione!”
“Cretino!”.

Jared uscì di casa ancora ridendo e sentì un improvviso senso di pace e serenità: Emma aveva ragione, doveva parlarle.
Chiamò un taxi velocemente e si fece portare a casa di Miriam. Per tutto il tragitto cercò di programmare un discorso, di chiarirsi le idee e schematizzare quello che voleva che lei sapesse. Ma più il taxi mangiava quella strada che lo separava da quella che era certo essere la donna della sua vita, per la prima volta in molti, moltissimi anni, Jared Leto era davvero senza parole.
Guardò distrattamente fuori dal finestrino e ripensò alla prima volta che aveva portato Miriam per quelle strade, al suo sguardo rapito, alla sua bocca spalancata nel vedere la città degli angeli. E lì capì che nessun discorso era programmabile: doveva semplicemente lasciare che fossero le parole ad uscire. Cercò di rilassarsi e sospirò, sperando che la sua meta fosse vicina. Ma soprattutto che la sua destinazione fosse in grado di accoglierlo.
“Eccoci arrivati, signore. Sono 8 dollari”
“Ecco a lei, tenga pure il resto” disse Jared, passando all’uomo una banconota e aprendo contemporaneamente lo sportello. Sorrise e scese dal taxi, avviandosi verso il vialetto che portava al cancello del comprensorio dove Miriam aveva il suo appartamento. Lo trovò aperto, entrò e si apprestò a salire i gradini della scalinata esterna che portava al ballatoio degli appartamenti rivolti ad Est.
Ma non appena mise il piede sul primo gradino, vide la porta di casa di Miriam aprirsi con uno scatto. In un primo momento pensò che fosse proprio lei ad uscire e ringraziò il tempismo che non lo aveva fatto arrivare troppo tardi , ma poi sentì delle risate e sbirciando vide un uomo, alto e ben vestito uscire dall’appartamento, rimanendo davanti la porta, forse per qualche convenevole.
Jared si ritrasse, appiattendosi contro il muro per non essere visto, ma consentirsi il lusso di avere un’ottima visuale: si sentì un guardone, un ladro, qualcosa di molto lontano da quel che aveva sempre creduto di essere. La gente si nascondeva per guardare lui, non il contrario, per la miseria.
“Allora ci vediamo domani?” sentì dire all'uomo.
“Si, a domani” 
“Sono felice che tu mi abbia chiamato, alla fine”
“E’ stato un bel pomeriggio, grazie… Christopher” squittì Miriam, poggiandosi allo stipite.
“Anche per me, Miriam” rispose l’uomo, prendendo delicatamente la mano di lei e poggiandovi piano le labbra.
Jared seguì la scena e vide Miriam sorridere, nascondendo la bocca con la mano libera, poi vide l’uomo accennare ad un sorriso di cortesia e salutarla ancora, in maniera molto sofisticata.
Bene, ora chi cazzo era quel tipo? Si chiede, sentendo la rabbia montargli dentro. Quando l’uomo si avvicinò alle scale per scenderle, Jared si voltò e prese velocemente Berry, per nascondervisi praticamente dietro, sperando che lui non lo riconoscesse.
Christopher Carter scese le scale, lo guardò a malapena e uscì dal cancello in ferro battuto, portando con sé una spocchiosa e fastidiosa aurea di vittoria.

Miriam chiuse la porta e vi poggiò sopra la fronte: quella giornata era davvero stata pesante, ed ora, a pomeriggio inoltrato, sentiva tutta la fatica emotiva accumulata caderle addosso senza troppi complimenti.
Dopo essere tornata dal mare, aveva deciso di mettere in pratica il suo progetto e aveva chiamato Christopher Carter, suo collega e uomo apparentemente perfetto.
Era figlio della borghesia dell’East Coast, i suoi genitori vivevano a New York, dove lui era nato e cresciuto, prima di trasferirsi ad Harvard, dove aveva conseguito due lauree, in Scienze Politiche e subito dopo in Giurisprudenza. In seguito aveva trovato lavoro a Los Angeles, dove ormai viveva da diversi anni, ricoprendo con entusiasmo e professionalità un ruolo prestigioso nella compagnia, dove anche Miriam lavorava.
Lo aveva conosciuto subito, i primi giorni di lavoro, ed era stato l’unico che in quel covo di serpi aveva cercato di aiutarla, di darle una mano, pur rimanendo sempre sulle sue. Non c’era mai stato un clima di cameratismo o amicizia, ma almeno Miriam sapeva che poteva contare su Christopher e quando lui le aveva chiesto di uscire, qualche giorno prima, sfruttando il fatto che lei gli avesse confidato la fine della sua relazione, pur non nominando chi fosse il suo ex, lei era rimasta piacevolmente stupita. Perché non credeva che potesse avere un ascendente di quel tipo su un uomo come Christopher e perché quella situazione la gettava in un limbo: accettare o no? Accettare perché lo voleva o solamente per non sentirsi sola. Non accettare perché in fin dei conti erano meno di venti giorni che Jared l’aveva lasciata, e lei, no lei non era mai stata tipo da chiodo scaccia chiodo.
Ma quella mattina, quando al mare aveva deciso di porre in essere il suo cambiamento radicale, aveva pensato che non ci sarebbe stato niente di male nell’accettare quell’invito: Jared l’aveva lasciata, lui non ne voleva più sapere di lei, e in tutto quel tempo non aveva neanche cercato di parlarle, di tornare sui suoi passi, di porre in essere una riconciliazione. Era scomparso, e gli unici che avevano cercato di parlare erano stati Shannon prima, e Tomo dopo. Ma loro non erano abbastanza: Jared era evidentemente convinto della sua decisione, quindi lei avrebbe dovuto andare avanti, possibilmente senza sentirsi inutilmente in colpa.
Lo aveva chiamato e aveva accettato quell’invito, e dopo un primo momento di smarrimento, che l’aveva colta davanti l’armadio mentre cercava l’abbigliamento giusto, aveva scoperto che Christopher era un uomo interessante, divertente e anche molto gentile. L’aveva riaccompagnata a casa dopo un pomeriggio di chiacchiere in una sala da tea che sembrava essere uscita dagli Anni Venti e le aveva promesso di passare a prenderla il giorno successivo, per portarla a pranzo fuori.
Miriam si guardò allo specchio, in quel momento, e sorrise debolmente: non doveva mollare in quel momento, no. Doveva restare fedele alle sue idee, al suo progetto, doveva cancellare tutto e scegliere il meglio per il suo futuro.
Si sciacquò la faccia e decise di andare a letto, nonostante non fossero neanche le sette di sera.


In quello stesso momento, poco lontano, Shannon rientrava a casa, dopo un quattro ore passate a leggere quel plico che aveva sottratto a Shayla, facendo appello al suo fascino. Chiuse la porta e sentì un profumino niente male provenire dalla cucina. “Ehi, mammina, cucini?” chiese dolcemente ad Emma, avvicinandola davanti ai fornelli. Le passò un braccio intorno alla vita, arrivando a toccarle la pancia e le lasciò un bacio subito sotto l’orecchio, aspirandone il profumo inebriante.
“Ciao, dove sei stato?”
“Ero al Lab” rispose semplicemente, prima di prendere dell’acqua dal frigo e sedersi in maniera poco elegante sul piano della cucina. Si guadagnò un’occhiataccia di Emma, alla quale rispose con uno sguardo eloquente e disaramente.
“Avete lavorato?”
“No, Jared è sparito e Tomo sembrava impazzito: quando sono arrivato aveva appena preso a calci il tavolino del salotto” spiegò, sospirando.
“Che cosa?”
“Non so cosa abbia, non mi ha detto niente, in verità” rispose, bevendo altra acqua, pensieroso. “Devo richiamare Jared. L'ho cercato decine di volte e niente, cellulare sempre spento”
“Shan…” disse Emma piano, avvicinando una mano a toccargli il ginocchio. “Jared è stato qui oggi” rivelò. In realtà non sapeva perché si sentisse così colpevole: non era la prima volta che Jared ed Emma parlavano, anche da soli, Shannon lo sapeva, tutti lo sapevano, non c’era niente di male, né di losco. Ma quel giorno Emma aveva il sentore che quella rivelazione non sarebbe piaciuta moltissimo a Shannon.
“Qui?” chiese, scettico.
“Si, mi ha chiamato dopo pranzo e mi ha detto che doveva parlarmi. E’ arrivato e se n’è andato dopo un’ora e mezza, massimo due”
“Quando è andato via?”
Emma guardò l’orologio, facendo un bilancio approssimativo: “Meno di mezz’ora fa”
“E di cosa doveva parlarti?”
“Di Miriam” sussurrò Emma, guardandolo.
“Bene” disse solamente Shannon, scendendo dal piano della cucina e uscendo dalla cucina.
Emma sospirò e lo seguì, trovandolo in camera da letto. “Ehi…” gli disse piano, facendo un paio di passi. Shannon non rispose, rimase a fissare la cabina armadio, scalciando le scarpe in un angolo. Si tolse la maglia e rimase in silenzio.
“Shannon…” tentò di nuovo Emma.
“Cosa c’è?”
“Dimmelo tu”
“Emma, questi giochetti di psicologia non mi piacciono ed oggi mi danno ai nervi, davvero”
“Abbiamo solo parlato, aveva bisogno di una spalla” si giustificò lei.
“Sai che non sono geloso di mio fratello” sibilò Shannon.
“E allora? Qual è il problema?” gli chiese, cercando di tenere la calma.
“Il problema è che lo cerco da ore e non so dov’è. Poi scopro che era a casa mia, a conversare amabilmente con mia moglie” le disse astioso, girandosi a guardarla.
“Non abbiamo conversato amabilmente”
“Sai cosa ho fatto io nelle ultime quattro ore, Emma?” le chiese, avvicinandosi a lei. Sembrava minaccioso, ma Emma sapeva benissimo che non lo era mai, men che meno con lei. Rimase ferma ad attendere che lui le arrivasse vicino, fu investita dal suo odore, che amava, e cercò di dominare l’istinto di baciarlo e gettarlo sul letto. Maledetti ormoni.
“No, dimmelo”
“Ho analizzato di bilanci di cui non mi frega un cazzo. Ho usato il debole che Shayla ha per me, solo per costringerla a fidarsi di me e lasciarmi guardare quello che è sempre stato onere ed onore di Jared: le scartoffie”
“Cosa hai fatto?” chiese Emma, che era rimasta ferma su una parte determinata di quella parte.
“Ho tentato di dare ordine a quel marasma che dovrebbe essere il nostro futuro tour, che versa in condizioni pietose sotto tutti i punti di vista” parafrasò Shannon, per inquadrarle meglio la situazione.
“Hai fatto… usato il debole che Shayla ha per te?” chiese incredula Emma.
“Emma…”
“Emma un cazzo!” esplose lei, la cui unica voglia ora era si di sbatterlo, ma non con intenzioni erotiche. “Fottiti” aggiunse, prima di lasciare la stanza.
Shannon sospirò e tirò un pugno al muro, costringendosi poi a massaggiarsi le nocche delle dita che avevano colpito duramente. Perché andava tutto male in quei giorni?
Trascorse qualche minuto in bagno, a raccogliere le idee, poi ne uscì e andò a cercarla, anche se sapeva benissimo dove Emma si fosse rifugiata. Scese le scale, e si avviò sicuro verso il giardino, e la vide accoccolata sull’amaca, con le cuffie nelle orecchie e lo sguardo perso.
Le si avvicinò piano e le tolse una cuffia, così che lei potesse sentire la sua presenza. “Mi fai posto?” le chiese con un sorriso.
Emma non rispose, né accennò a cambiare espressione, si scansò solamente, lasciando che Shannon le si stendesse accanto e la avvolse con un braccio. Rimasero in silenzio per qualche istante, poi Shannon piano le disse: “Scusa”
“Io e Jared abbiamo solo parlato”
“Lo so” disse. “Ed io e Shayla… insomma, sai che non è successo niente”
“Tu hai…” rispose, fermandosi per ricordare le parole. “Si, ecco: usato il debole che Shayla ha per te”. Non era per niente convinta a voler lasciar correre, seppur lo avesse fatto stendere lì e avesse lasciato che lui la abbracciasse, quel punto andava chiarito.
“Ma lo sai che le piaccio”
“No, non lo sapevo. E comunque non è un buon motivo per sfruttare a tuo vantaggio questa cosa”
“Solidarietà femminile?”
“No, per niente, odio la solidarietà femminile”
“E allora cos’è?”
“Voglia che mio marito non si metta a flirtare in giro” disse spigolosa, prima di rifilargli uno sguardo eloquente.
“Emma non ho flirtato con nessuno”
“Invece si e te la sei anche presa perché ho parlato con Jared, cosa che faccio da dieci anni”
“Io non riesco più a capirlo mio fratello e invece tu ci scambi ore ed ore di conversazioni intime. Logico”
“Sei geloso?”
“No, lo sai”
“No, sei geloso del fatto che Jared abbia scelto me e non te per confidarsi”
“Ma cosa stai dicendo?”
“La verità, Shannon. Ammettilo”
“Senti, la finiamo?
“Come vuoi”
“Va beh, io esco” disse scocciato, prima di alzarsi lasciandola sola sull’amaca.
“Dove vai?”
“Devo parlare con Tomo”
“Non vorrai mica...!?” chiese Emma sconvolta. 
"Devo, Emma" le disse. "Questa cosa mi sta facendo impazzire"
"Non puoi, lo sai. Lo distruggerebbe" gli disse, ma il suo tono non era propriamente quello di una persona che voleva aiutarlo. Il litigio di poco prima era ancora nell'aria ed Emma era ancora abbastanza nervosa. 

Shannon non le rispose, la guardò seriamente e poi si avviò verso l’ingresso.
“Shannon, Shannon…” urlò lei per fermarlo, ma quando sentì la porta sbattere si lasciò andare sull’amaca. Due settimane alla nascita del piccolo e tutti quei problemi all’orizzonte. Sospirò e si rimise la cuffia nell’orecchio.


“Tomo, ci sei?”. Shannon aveva provato al Lab, ma non aveva trovato  nessuno, se non Shayla, ancora intenta a lavorare su quello che lui le aveva suggerito. Lo guardava con un’aria strana e Shannon si sentì improvvisamente in colpa: forse Emma aveva avuto ragione. Scacciò quel pensiero e corse verso casa dell’amico, dove ora bussava da circa cinque minuti.
“Chi è?”
“Sono io, cretino”
“Non voglio vedere nessuno”
“Tomo, cazzo, apri. Devo parlarti” urlò Shannon, spazientendosi.
L’uomo arrivò alla porta con una faccia sconvolta e i capelli arruffati. Shannon, però, non fece in tempo a formulare nessun pensiero, perché Tomo alzò una mano verso di lui e sentenziò: “Non è come pensi, fidati che è tutto il contrario. Vieni”. Si scansò per lasciare passare e poi chiuse la porta.
“Ti offro qualcosa?”
“Tomo, non sono tua madre, dai” gli rispose canzonandolo e sedendosi sul divano, appoggiando poi i piedi sul tavolino. “Vedo che questo è ancora intero”
“Spiritoso, molto spiritoso” rispose Tomo, sedendosi sulla sua poltrona. “Dove hanno nascosto lo Shannon Leto che conosco?”
“Ah non lo so” disse più serio e sincero di quel che volesse sembrare. “Vuoi dirmi che succede?”. Shannon la prese alla larga, per spianarsi il terreno.
Tomo sospirò e si confidò con Shannon: “Ho visto Vicki in un locale con il suo… amante? Ex? Non so neanche come chiamarlo”
“Quando?”
“Oggi, poco dopo pranzo”. Tomo si sfregò il viso. “Stavo venendo al Lab ed ero ad un semaforo, l’ho vista attraverso una vetrata e ho mollato la macchina sul ciglio della strada. Volevo farle una sorpresa, volevo salutarla, darle un bacio forse. Quando sono arrivato all’entrata del locale, ho visto che non era sola: era con lui”
Shannon annuì debolmente, pensando a cosa dire. Certo, la situazione era abbastanza strana ed ora capiva la rabbia di Tomo, però: “Forse le cose non sono come sembrano”
“E come sono?”
“Non lo so, però sei arrivato ad una conclusione senza avere tutti i dati del problema”
“I dati sono: ristorantino in centro, Vicki e il tizio seduti a chiacchierare. Mi sembra eloquente la situazione”
“Tomo, Vicki è stata sempre molto leale con te, non avrebbe senso farti questo ora, non sarebbe da lei”
“Io non lo so più cosa è da lei e cosa no”
“Le hai parlato?”
“Si, mi ha chiamato. Poco dopo la dipartita del tavolino in vetro”
“Capisco” disse Shannon. “Devo ancora decidere come fartela pagare: togliere quei vetri è stato terribile”
“Luciderò Christine”
“No, grazie, questo periodo direi proprio di no” sorrise Shannon. Era bello come riuscissero ancora a ridere e scherzare, a volte. “Che ti ha detto, comunque?”
“Voleva vedermi stasera”
“E…!?” chiese Shannon, esortandolo con una mano ad andare avanti. “Non farti cacciare le parole di bocca, dai! Quello sono io di solito!”
“E le ho detto che avevo da fare, e che l’avrei richiamata io”
“Sei un coglione”
“Scusa!?”
Shannon lasciò andare la testa sulla spalliera del divano e sospirò rumorosamente: l’amore era una grande rottura, concluse mentalmente. “Abbiamo già chiarito che tacere i problemi è sbagliato, vero?”
“Si, ma…”
“Ma niente!” si spazientì Shannon, allargando le braccia. “Non so cosa abbiate tu e quell’altro cretino di mio fratello, davvero”
“Ma tu hai Emma, cosa vuoi saperne!”
“Eh…” sospirò Shannon, ripensando a come si erano lasciati poco prima. Allungò lo sguardo all’esterno e si perse un attimo.
“Shan… problemi?”
“No, non credo almeno”
“Spara”
“Non riesco più a parlare con Jared. Lui semplicemente sta zitto, si è chiuso in se stesso e basta. Non parla di niente, in realtà ed io l’ho lasciato stare, perché credevo che avesse bisogno di tempo, ma poi…”
“Non farti cacciare le parole di bocca dai!” disse Tomo, facendo una buffa imitazione di Shannon e mimando con la mano una bocca che parla.
Shannon sorrise e disse: “Poi sono tornato a casa prima e ho scoperto che Jared ha passato il pomeriggio a casa a parlare con Emma”
“E quindi? Sei geloso?”
“Ma no, che vai a pensare! È che credevo che lui non volesse parlare, non che non volesse parlare… con me
“Shannon, smettila. Sai che Jared ti adora, solo forse aveva bisogno di un consiglio femminile”
“Si, ma… non lo so, alla fine ho litigato con Emma per questa storia”
“Solo per questo?” chiese Tomo cercando di scavare, perché sapeva di dover scavare.
Shannon sbuffò, con la sensazione di essere stata scoperto con la mano nel barattolo della marmellata. “No, non solo per questo”
“Che hai combinato?”
“Perché devo essere io il colpevole?”
“Devo proprio risponderti?”
“No, sta zitto, preferisco” disse Shannon, bloccando ogni tentativo di chiacchierare di Tomo con una mano in aria. “Diciamo che le ho detto di essere stato leggermente troppo galante con… Shayla” ammise, imbarazzato.
“Tu… cosa!?”
“Non ho fatto niente, Tomo” si difese. “Eravamo al Lab e lei cercava urgentemente Jared per discutere di cose noiosissime. Era nel panico: sai com’è fatto Jared, un minimo errore sarebbe stato un cataclisma ed io volevo solo aiutarla”
“E fin qui ok”
“Eh… solo che lei non si fidava, ha iniziato a dire che io non mi occupo mai di queste cose e che non sapeva quanto fosse il caso di discuterne con me, ed io mi stavo spazientendo, così…” si fermò, strofinandosi il viso e poi riprese: “Ho flirtato con lei per convincerla”
Tomo scoppiò in una risata vigorosa, e si guadagnò un’occhiataccia da parte di Shannon. “Scusa, scusa, ora smetto” disse tenendosi la pancia. “Questa è la crisi di mezza età”
“Cretino, smettila”
“Ma perché l’hai detto ad Emma? Non era niente di eclatante”
“Non lo so perché gliel’ho detto, stavamo discutendo e mi è uscito”
“E lei?”
“Mi ha mandato a farmi fottere”
“Elegante”
“Come sempre” rise amaramente Shannon.
“Shan, non è niente di irreparabile, dai”
“No, però non litigavamo da mesi”
“Bentornato nel mondo reale, amico” lo prese in giro bonariamente Tomo, dandogli una pacca sulla spalla. “Ma che volevi dirmi prima?”
“Io?”
“Si, hai detto devo parlarti”
“Ah… no, ma niente di che. Volevo solo… solo… solo concordare una scusa da rifilare a Jared per il tavolino” mentì spudoratamente, sperando che l’amico ci fosse caduto.
“E’ stata Shyla” rise Tomo, portandosi appresso Shannon per svariati minuti. Quando Shannon uscì di casa aveva ancora quel peso sullo stomaco: stava mentendo al suo amico.


Jared passeggiò fino al MarsLab. Con le mani in tasca e la testa bassa, sperò che nessuno lo fermasse per fotografie, perché in tal caso il malcapitato si sarebbe dovuto accontentare di un muso lungo. Ci mise un’eternità ad arrivarci, e quando finalmente varcò il cancelletto della villetta, si chiuse dentro, deciso a non uscirne per non sapeva quanto tempo.
Miriam aveva un altro. Era presumibile, in realtà non li aveva visti avere atteggiamenti intimi, ma aveva sentito quelle due o tre frasi, e gli erano bastate a convincersi che lei era andata avanti, in un modo o nell’altro. Forse avrebbe dovuto parlarle prima, pensò amaramente, mentre si avviava verso la cucina per mettere qualcosa sotto ai denti.
In quel momento, indeciso fra il mangiare tofu e il mandare al diavolo anche le sue convinzioni alimentari e addentare del pollo che non sapeva come fosse finito nel frigo, sentì il campanello. Andò piano a vedere chi fosse, con l’idea di non rispondere, ma quando vide Vicki fuori il suo cancello, uno strano presentimento lo colse e decise di agire come avrebbe fatto chiunque. Chiunque tranne Jared Leto, si intende.
Attese che lei attraversasse il vialetto e le vide dipinta sul volto un’espressione indecifrabile. “Vicki, ciao”
“Ciao Jared, disturbo?” chiese prima di entrare.
“No, entra pure” disse cordialmente Jared, lasciandole il passo. “Cercavi Tomo?”
“Si” rispose sorridendo.
“Aspetta…” Jared andò verso la sala, poi verso il giardino, poi ancora al piano superiore nelle stanze e poi lo chiamò a gran voce. Tornando da Vicki, con espressione desolata, fu costretto a dirle che non sapeva dove si trovasse. “Mi dispiace”
“No, tranquillo”
“Hai provato a chiamarlo?”
“No, volevo fargli una sorpresa, ecco”
“Vicki, le sorprese sono brutte, bruttissime consigliere, fidati”
“Parli per esperienza personale?” lo prese in giro lei, non sapendo quanto si fosse avvicinata alla realtà.
“Beh, anche, ma è una cosa che sanno tutti” le disse mascherando la fitta allo stomaco che aveva avuto. La guardò meglio e vide che aveva un’espressione strana, che non era sicura e serena, ma piuttosto guardinga. “Vuoi un tea?” le disse di getto. Non sapeva neanche come gli era uscita una cosa simile.
“Non vorrei toglierti tempo prezioso”
“No, tranquilla. Sono solo, a quanto pare, e non ho molta voglia di lavorare. Dai vieni in cucina” disse ancora, avviandosi.
Jared preparò un tea, e poi le passò la tazza colma attraverso l’isola della cucina. Vicki si era seduta su uno sgabello e mescolava lo zucchero fissando il liquido scuro.  
“E così volevi fargli una sorpresa, eh” la canzonò Jared guardandola appena.
“Già, riuscitissima per altro” rispose amaramente lei.
“Problemi?”
“No, no” mentì. Poi si arrese: “Credo di si, invece”
“Dai, parla” le disse piano, sedendosi davanti a lei.
Vicki alzò lo sguardo sconvolta: dove avevano messo il Jared che conosceva lei? Quel Jared non si sarebbe mai sognato di fare l’amico che raccoglie confidenze, forse con suo fratello, ma con nessun’altro. ed ora era lì che guardava, in silenzio, aspettando che lei parlasse. In silenzio. “Jared… ti senti bene?”
“Uhm…”
“No, dico, in anni di amicizia non mi hai mai offerto la tua spalla su cui piangere”
“Se ti azzardi a macchiarmi la maglietta di mascara ti rovino” disse astioso. Poi assunse un’espressione candida e aggiunse: “Per il resto, parla, sono pronto ad ascoltarti”
Vicki rise di gusto e decise di sfruttare l’occasione: “Fra me e Tomo andava tutto bene, insomma procedeva lentamente, ma procedeva. Un paio di settimane fa mi aveva baciato e anche se nessuno aveva più fatto riferimento a quell’episodio, avevamo continuato a vederci, ad uscire”
“Però…”
“Beh ecco, prima l’ho chiamato per dirgli se volevamo vederci questa sera e mi ha detto di essere impegnato. Ho proposto domani e ho ricevuto la stessa risposta”
“Può capitare”
“Si, è vero, ma…” si fermò cercando di esprimere in parole quello che sentiva nel cuore, cosa che a volte poteva risultare molto complicata. “L’ho sentito strano, non era il solito Tomo, aveva qualcosa che non ha voluto dirmi”
“Le giornate storte capitano a tutti, Vicki”
“Si, è vero” convenne Vicki, abbassando lo sguardo. Bevve un sorso di tea e poi aggiunse: “Solo che, non so, ho paura che sia stufo”
“Stufo? Tomo stufo di te?” esclamò Jared ridendo. “Ma smettila, Tomo è innamorato di te”
“E tu cosa ne sai?”
“Io lo so, Vicki. Io lo so e basta” le disse dolcemente.
Vicki stava bene in quel momento, era serena e le piaceva parlare con Jared. Le stava dando la giusta prospettiva alle cose, così pensò di volersi confidare: “Oggi ho rivisto… si, insomma, lui”
“Uhm” disse solamente Jared, facendole segno di continuare.
“E ecco… mi sono resa conto di aver sempre amato Tomo e di aver fatto una grande cazzata”
“Ma ora sei tornata indietro. Perché hai voluto vederlo?”
“Devo proteggere Tomo. Lui, beh, lui mi ha promesso di farmela pagare ed io ho paura che spifferi tutto alla stampa. La carriera di Tomo verrebbe sconvolta, io non voglio”
“Tomo ne è al corrente?”
“No, per carità. Non sa niente, né di questa cosa, né che l’ho visto. Potresti…” non aggiunse altro, era tutto abbastanza eloquente.
“Potrei, tranquilla” le disse sorridendo. Poi allungò il braccio e le prese una mano fra le sue: “Qualsiasi cosa quel bastardo farà a te o a Tomo, dovrà vedersela con i miei Avvocati”
“Grazie, Jared, davvero”
“Bene, la seduta è finita” le disse con un’espressione altezzosa in volto, accavallando elegantemente le gambe sullo sgabello e distogliendo lo sguardo.
Vicki scoppiò a ridere, si alzò e aggirò l’isola, arrivando alle sue spalle. Lo abbracciò, poggiando il viso sulla sua spalla e gli sussurrò: “Sei un tenerone, io l’ho sempre saputo”
“Vicki!” la scacciò lui con una mano, facendola ridere ancora di più. Poi girò piano il viso verso di lei e le fece l’occhiolino: “Bentornata” le sussurrò.


Shannon rientrò in casa: “Emma!” gridò sull’uscio, senza ricevere risposta. Andò velocemente verso il salone, la cucina, il giardino, ma niente. Poi piano scostò la porta della loro camera da letto e la trovò stesa, placidamente addormentata.
Si avvicinò al letto piano, non facendo rumore e si sedette sul bordo, allungando un braccio ad accarezzarle il viso: era così bella. Sorrise pensando alla fortuna che aveva avuto e in quel momento lei aprì gli occhi. “Sei tornato”
“Si” si limitò a dire lui, continuando a carezzarle la guancia. Emma posò la sua mano su quella di Shannon e sorrise piano, scansandosi per fargli posto e chiedendogli in silenzio di stendersi al suo fianco.
Shannon la strinse a sé, cullandola dolcemente e poi disse solamente: “Ti amo”
“Anche io” rispose Emma.
Bastò quello, e un calcio del bimbo a farli ridere e tornare nel loro stato di grazia. "Siete voi la mia casa, Emma" le disse piano, guardandola negli occhi, prima di baciarla con passione. 

 
       
 
L'angolo di Sissi 

Eccoci di nuovo insieme! Scusate la lunga latitanza... 
Avevo un esame abbastanza importante e non ho trovato tempo per dedicarmi alla mia storia. 
Comunque sia, ora sono in vacanza, quindi ho valutato di potervi aggiornare di ben TRE capitoli, 
prima di Capodanno. Inizieremo il nuovo anno in maniera positiva? Chissà... 

Comunque, siamo alle prese con i nervosismi un pò ovunque. 
Questo capitolo è ambientato nella stessa giornata del precedente: il famoso sabato! 
Diciamo che ne è la continuazione e per questo delinea ulteriormente le situazioni. 
Che ne pensate? 

Ne approfitto per suggerirvi una storia appena nata:
La Migliore Amica di Shannon Leto,
scritta a quattro mani, due cervelli (fate uno e mezzo via...), venti dita e tante risate. 
E' divertente e ben scritta, e sopratutto non appartiene alla serie "mai na gioia", 
in cui mi autoinserisco di diritto! 

Detto ciò, vi saluto, e vi avviso che il prossimo aggiornamento sarà lunedì! 

Baci Marsosi! 

Sissi 

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Capitolo 36
*** Io vedo il cielo sopra noi ***


Io vedo il cielo sopra noi


        Miriam si alzò decisamente allegra quella mattina: era una settimana che vedeva Christopher e quel sabato sarebbero andati a Las Vegas per il weekend. Avevano una conferenza per la compagnia e lui aveva fatto di tutto perché fossero mandati loro due, e non qualcun altro.
Si alzò velocemente e si apprestò a sistemarsi: aveva tagliato di un po’ i capelli, che ora erano un dolcissimo caschetto vaporoso e mosso, di un biondo miele  molto caldo. Si truccò leggermente, giusto una linea di eyeliner e un po’ di mascara, per poi andare a vestirsi.
Aprì il suo armadio e notò quanto quella settimana l’avesse cambiata: aveva dato un taglio ai jeans, alle maglie larghe, alle casacche con stampe divertenti, alle infradito comode. Qualche giorno prima era andata a fare shopping con il suo primo stipendio americano, e Christopher le aveva consigliato di adottare un genere più sobrio, un look più sofisticato e adulto.
Così ora aveva l’armadio pieno di abiti che non si sarebbe mai sognata di indossare fino ad un mese prima, ma quando, dopo qualche minuto, si rimirò allo specchio, sorrise e si disse che finalmente poteva iniziare a sentirsi bene. Guardò a lungo la gonna al ginocchio con motivi floreali e pieghe fitte, sulla quale aveva adottato una camicia di seta sbracciata e bianca con un largo fiocco che chiudeva lo scollo. Ai piedi delle spuntate con un leggero tacco che le davano quei centimetri in più che la slanciavano.
Prese la sua nuova borsa rigida a tracolla e indossò gli occhiali da sole, regalo di Christopher, che completavano un look che nell’insieme le piaceva moltissimo. Dopo aver afferrato il suo trolley e aver sentito il campanello che annunciava l’arrivo del taxi, chiuse l’appartamento e scese le scale, uscendo dal comprensorio con un sorriso raggiante.
“Ciao, cara” le disse caldamente Christopher, sceso dal taxi per attenderla. Le baciò una guancia a fior di labbra, poi si impossessò del trolley, che mise nel bagagliaio insieme al suo, e subito dopo le aprì la portiera per farla accomodare. Quando si fu seduto anche lui, il tassista partì alla volta di LAX.
“Allora, come mi trovi?” cinguettò Miriam, dandosi qualche aria.
“Bellissima, chéri” sorrise Christopher guardandola nei suoi nuovissimi abiti. “Vedi che avevo ragione nella boutique l’altro giorno?” le disse ammonendola.
“Già, devo dire che ci hai visto lungo” convenne Miriam, guardandosi soddisfatta. “Mi sento molto bene e questo cambio di look mi sembra che mi abbia portato su una nuova strada” disse.
“E questa strada comprende per caso un gentiluomo?” la prese in giro Christopher.
“Vedremo, Mister Carter. Vedremo” chiuse il discorso Miriam, guardando fuori dal finestrino. Si sentiva bene, bella, potente, serena. Jared iniziava ad essere un ricordo e dopo aver eliminato dal suo appartamento ogni traccia di lui, le cose avevano preso una piega che le piaceva parecchio. Inutile negare che in quel cambiamento, Christopher Carter ci aveva messo del suo, e per quello Miriam gli era molto grata.
Si era goduta il viaggio e in meno di quattro ore erano comodamente seduti nella terrazza del loro hotel, a Las Vegas, a godersi un cocktail, prima della conferenza a cui dovevano partecipare nel pomeriggio. Miriam era affascinata da quella città, e sperava di poterla visitare, per quanto il tempo stringesse: “Chris, quanto tempo libero abbiamo?” chiese con nonchalance, guardando il depliant della conferenza.
“Mah, finiremo al centro per le diciotto, se tutto va bene, poi domani mattina abbiamo quella colazione di lavoro. L’aereo, se non erro, è molto tardi domani sera. Quindi, secondo i piani: la serata di oggi e tutto il pomeriggio di domani” concluse la sua analisi soddisfatto.
Miriam accennò ad un sorriso: era così diverso da Jared!
“Bene, mi piacerebbe visitare qualcosa. Sei mai stato in questa città?”
“Per la verità svariate volte, questi incontri annuali li organizzano quasi sempre qui e negli ultimi anni sono sempre stato io il fiore all’occhiello della compagnia”
“Quindi potresti farmi da Cicerone?” chiese facendogli gli occhi dolci.
“Certo, tesoro” le confermò lui, prendendole gentilmente la mano. Miriam si lasciò coccolare le dita, guardando lo skyline e sentendosi in pace, quando ad un certo punto sentì la sua suoneria. Lasciò la mano di Christopher per prendere il cellulare, e subito dopo sbuffò: Shannon, segnava il display. Rifiutò la chiamata in maniera secca e tuffò il cellulare di nuovo in borsa, alla rinfusa. Stava per chiuderla, quando riprese il cellulare e lo mise ordinatamente nella sacchetta laterale, quella con la chiusura lampo: Christopher le aveva insegnato che riporlo lì le avrebbe consentito di sapere dove fosse con certezza e di conseguenza trovarlo senza nessun intoppo ai primi squilli. Chiuse la borsa e sorrise di nuovo. Al cambiamento. 
“Chi era?” chiese Christopher con apparente disinteresse, mentre sorseggiava il suo cocktail e allungava lo sguardo alla sua vicina di tavolo.
“Niente, solo una vecchia amica di Parigi. La richiamerò” mentì Miriam. Poi pensò che ultimamente mentiva troppo spesso e iniziava a farlo con troppa sicurezza.

        Shannon chiuse la conversazione e lanciò il suo cellulare sul divano, con frustrazione: era una settimana che cercava Miriam, inutilmente. Lei non rispondeva, si negava al telefono, aveva finto di non essere in casa solo qualche giorno prima, quando lui era andato a citofonarle di persona.
Sbuffò e con le mani sui fianchi, guardò il suo cellulare spento sul divano, valutando il da farsi. Che poi da fare c’era molto poco, se Miriam aveva deciso di tagliare i ponti, perché quello stava accadendo, lui non poteva costringerla a fare altrimenti, anche se la rabbia iniziava a diventare tanta: l’aveva lasciato con un peso sullo stomaco da gestire, costringendolo a mentire al suo migliore amico, ed ora stava rifiutando il suo aiuto e la sua mano tesa.
“Cosa succede?” chiese Emma entrando in salotto con un barattolo di gelato in mano.
“Uhm!?”
“Troppe parole, decisamente” lo prese in giro lei. Gli si avvicinò e gli lasciò un bacio sul collo, con le labbra fredde di gelato, poi lo aggirò e andò ad accoccolarsi sul suo lato preferito del divano, affondando il cucchiaio nel barattolo, placidamente poggiato sulla pancia. “Pensavo che forse ho trovato un lato positivo a questa pancia” brontolò. 
“Poggiarci il barattolo del gelato sopra?”
“No, cretino” rise Emma. “Non fare la fila al supermercato” annunciò fiera, come se quella fosse la scoperta del secolo. 
“Diabolica, Emma Ludbrook”
“Guarda che è una cosa fantastica! Ieri ho fatto la spesa in sette minuti netti e un solo sorriso” rispose estasiata. “Certo, ho dovuto subire i consigli di donne impazzite, però è uno scotto che sono disposta a pagare” rifletté brandendo il cucchiaio e facendolo volteggiare in aria.
“Dieci giorni, Emma” le annunciò Shannon, sedendosi accanto a lei.
“Cosa?”. Emma aveva iniziato a divorare gelato un mesetto prima, e sembrava essere l’unico pasto che riuscisse a fare senza interruzioni di alcun genere. In quello stesso momento era decisa a finire quel barattolo al cioccolato e nocciola e per Shannon era una visione di una dolcezza senza fine vederla con un enorme cucchiaio affondare nel morbido e poi mangiare di gusto.
“All’evento”
“Quale evento? I concerti non inizieranno prima dell’autunno inoltrato. Li avete spostati, ricordi?”
“Emma, ma quali concerti!” le rispose dolcemente Shannon, ridendo intenerito da quella sua ingenuità. “Fra dieci giorni, il nostro bimbo sarà con noi”
“Uh” disse solo Emma, lasciando il cucchiaio nel barattolo e sgranando gli occhi. Non che non lo sapesse, ma sentirlo dire ad alta voce era un’altra cosa: dieci giorni erano decisamente troppo pochi. Voleva altro tempo, voleva altri mesi: non poteva essere un elefante!?
“Andrà bene”. Ormai Shannon le leggeva il pensiero e nonostante fosse teso anche lui, sperava di riuscire ad aiutarla per come poteva. Le si avvicinò, le prese il barattolo dalle mani e poi la attirò a se, lasciando che si poggiasse al suo petto e circondandola con un braccio. Il fatto che lei fosse sconvolta lo deduceva dal fatto che non era stato assaltato come avevano fatto i Marines con Osama Bin Laden, quando le aveva preso il gelato dalle mani. Subito dopo prese un generoso cucchiaio di gelato e la imboccò, prima di prenderne un po’ per se. “Stai bene?”
“Si, si, sto bene” sussurrò appena.
“Ehi, non dirmi che ti eri scordata di dover partorire!”
“Stupido!” gli rispose assestandogli un pugno sul braccio, anche se sapeva che gli aveva al massimo fatto del solletico. “E’ che sentirlo dire ad alta voce è diverso. E poi…”
“Poi?”
“Poi non credevo che avessi calcolato i giorni” disse guardandolo negli occhi ed imbarazzandosi come era sua natura.
“Emma, ma che dici?”
“Questo periodo sei strano, distratto, litighiamo per cose stupide… e poi flirti con Shayla!”
“Ancora con questa storia?” le chiese, ma non era arrabbiato, anzi le accarezzò i capelli e continuò a darle il gelato, che lei prendeva come fosse una bambina. In quel periodo l’aveva viziata troppo poco, se ne rendeva conto, ed Emma ne aveva in qualche modo sofferto, anche se era stata zitta e aveva affrontato tutto come solo lei sapeva fare. Come un tank. 
“Non la passerai liscia, lo sai”
Shannon posò il barattolo per terra, vicino al divano, poi si spostò piano e la abbracciò meglio. “Ascoltami” disse piano, direttamente al suo orecchio. “Tu e… lui, o forse lei, siete la cosa più importante e bella per me”
“Lo so”
“Solo che Jared mi preoccupa e Tomo… quella storia non mi fa stare tranquillo. Avrei voluto godermi la nascita di mio figlio in maniera diversa, ma loro sono in qualche modo la mia famiglia. Scusami”
“Lo capisco, davvero. Solo che ogni tanto mi manchi”
“Possiamo fare in modo che non accada”
“Come?”
“Basta che tu me lo dica”
Emma annuì sorridendo e si sporse a baciargli le labbra piano, sfiorandole appena e rimanendo su quel contatto per tutto il tempo necessario a sentire di nuovo il calore della sua famiglia. “Vuoi dirmi perché prima fissavi il cellulare?”
“No, niente”
Emma lo fissò severa e poi lo ammonì: “Inizi a mancarmi…”
“E va bene” le rispose sorridendo. “Ho chiamato Miriam, prima”
“E non ha risposto?”
“No, niente”
“Quante volte l’hai cercata questa settimana?”
“Ormai non le conto neanche più” ammise lasciando andare la testa sulla spalliera dietro di lui e sfregandosi il viso.
“Shan, secondo me dovresti lasciare stare”
“Dici?”
Emma si alzò e si sedette al suo fianco, accarezzandogli il collo appena sotto l’attaccatura dei capelli, perché sapeva che quel punto lo rilassava molto. “Si. La settimana scorsa avevo consigliato a Jared di andarle a parlare, di cercare di risolvere la situazione, perché si vede che la ama e che soffre ed è inutile stare così, per entrambi”
“Si, ma non mi è sembrato migliorato il suo umore questi giorni” disse Shannon. Poi aggiunse: “Anzi… a dire il vero mi sembrava peggiorato”. Si grattò la testa pensando alla sfuriata che aveva fatto alla povera Shayla un paio di giorni prima, colpevole solo di aver invertito l’ordine degli spartiti.
“Quindi forse le cose non sono andate come speravamo”
“Emma, non ti seguo”
“Forse è andato a parlarle, seguendo il mio consiglio, ma ha ricevuto un benservito, o comunque non sono riusciti a risolvere le cose”
“Quindi dovrei lasciarla stare per questo?”
“Shan, io so benissimo che tu vorresti aiutarla e allo stesso tempo sistemare le cose per tutti, ma a volte non si può” gli disse dolcemente. “Forse è il caso di lasciare che Miriam se la risolva da sola, si rialzi da sola”
Shannon sospirò e si accoccolò ad Emma, lasciando che lei gli accarezzasse i capelli e lo baciasse teneramente sulla fronte. “Io non ce la faccio a tenermi questo peso. Tomo deve sapere”
“Credi di dover essere tu a dirglielo?”
“In realtà vorrei che fosse Miriam a dirglielo. L’ha scoperto lei e Kiki era una persona legata ad entrambi: dovrebbero prendersi il tempo di piangere per lei, entrambi”
“E allora lascia che Miriam a decidere e valutare, lascia che prenda la sua decisione”
“Lo sto tradendo. E’ il mio migliore amico”
“Capirà, quando gli spiegherai tutto, Shan”
“Sono felice che tu sia qui. Che tu sia mia”
“Dieci giorni Shannon, poi sarò di qualcun altro” lo prese in giro, ridendo.
“Tu rimarrai sempre mia, sia chiaro” le disse sulla bocca allungandosi verso di lei e baciandola subito dopo. Emma indietreggiò sul divano fissandolo negli occhi e poi gli buttò le braccia al collo e lo attirò verso di lei, lasciando che Shannon le si sdraiasse accanto.
“E tu dì alle altre di tenere a bada gli artigli” gli soffiò sulle labbra, prima di lasciare che le loro lingue si ritrovassero.

        Vicki era pensierosa, in quella mattinata d’agosto. Non aveva più avuto modo di parlare con Tomo, la cosa la innervosiva, perché sentiva che c’era un problema, ma non riusciva a capire dove: fino ad una settimana prima le cose andavano a meraviglia, poi il nulla.
Dopo aver chiacchierato con Jared al Lab, aveva deciso di rilassarsi: nessuno avrebbe fatto del male a Tomo, Jared gliel’aveva promesso, ma ora voleva solamente rivedere suo marito. E riprenderselo.
“Ehi, ciao, sono io” disse alla segreteria telefonica. Era strano comporre il numero di quella che era stata casa sua. “Senti, volevo invitarti a cena questa sera, da me. Fammi sapere, ciao!”. Appese la cornetta e chiuse gli occhi: era il momento di far tornare le cose come era giusto che fossero. Insieme.

        In quei giorni Los Angeles sembrava stranamente calma, sembrava muoversi a rallentatore, il che era un male essendo abituati alla sua frenesia, che comunque non poteva essere paragonata a New York. Jared, con la mani in tasca e gli occhiali da sole, passeggiava piano verso il MarsLab: aver visto Miriam con quell’uomo lo aveva lasciato insonne per una settimana, lo aveva lasciato vuoto, amareggiato. Non roso dalla gelosia, che comunque c’era evidentemente, ma deluso dal fatto che lei avesse deciso, di punto in bianco di farla finita davvero, e si era concessa qualcosa che non fosse lui. Come si può passare da un grande amore come il loro ad un flirt di poco conto in meno di venti giorni?
Jared fissò il sole fino a che gli occhi gli fecero male e, accecato, realizzò che forse lui sbagliava i termini della riflessione: grande amore, flirt. Chi gli diceva che le cose erano davvero così? Chi gli diceva che quello fosse il flirt di poco conto e che il loro fosse stato, e fosse ancora un grande amore? Non sapeva più niente, e quel rimescolare le carte, quell’eterno mettere in discussione la sua vita privata, lo faceva diventare un leone in gabbia.
Entrò al MarsLab di cattivo umore e sperò di non trovarci anima viva, così da potersi chiudere in sala a lavorare. Le sue previsioni però furono sbagliate: Tomo gli andò incontro, in pessimo stato anche lui.
“Ciao, amico”
“Ciao” rispose laconicamente Jared, andando verso la cucina a prendersi un frullato.
“Senti, le melodie sono apposto, ci ho lavorato fino ad ora. Shannon non s’è visto, mi ha scritto e dice che vuole stare con Emma e i documenti sono sistemati”
“Chi li ha sistemati?”
“Shayla ha detto di averli visti con Shannon qualche giorno fa”
“Shannon?”
“Non lo so, chiedi a lei, è di là”
“Ok”
“Ciao”.
Conversazioni così folli neanche sotto sbornia, pensò Jared, così si girò al volo e lo chiamò urgentemente: “Ehi, Tomo aspetta”
“Dimmi”
“Come va con Vicki?”
Tomo si grattò la nuca e attese un tempo decisamente troppo lungo per rispondere. Era il tempo che suggeriva che le cose avrebbero potuto andare molto meglio. “Non va molto bene”
“Vuoi parlarne?”
“No, preferirei di no”
“D’accordo” gli disse Jared sorseggiando il suo frullato. Pensò che non fosse il caso rivelare la sua conversazione con Vicki, era giusto tenere un piccolo segreto per il bene di un’amica che gli era sembrata sincera.
“E tu?”
“Io cosa?”
“Questa settimana mi sei sembrato un po’ scontroso”
“Io?” rispose Jared con una voce ampiamente stridula, puntandosi il dito sul petto a voler evidenziare che lui era stato giusto, coerente e sereno. Più o meno.
“Stavi sbranando Shayla solo un paio di giorni fa” rise Tomo, abbassando la voce e avvicinandosi all’amico.
“Uhm”. Jared distolse lo sguardo: non poteva certo negare l’evidenza.
“Chiarisci, sta sgobbando da ieri sera per recuperare quell’errore. E tu sai che non era niente di grave. Non lo merita”
Jared non rispose e lo guardò con aria di sfida, poi asserì: “Guarderò i documenti, prima”
“Sempre il solito” rise Tomo, prima di salutarlo e andarsene via.
Jared prese il suo bicchiere e andò verso l’ufficio, bussando piano per avvertire la sua presenza. Udì un leggero: “Avanti” e riconobbe la voce di Shayla. Entrò piano e sorrise, avvicinandosi alla scrivania e notando che quel giorno la ragazza aveva un’aria diversa.
“Ciao, posso vedere i documenti che hai sistemato? Tomo mi ha detto che sono pronti?”
“Si, eccoli” disse prontamente lei, passandogli un plico con una grande etichetta bianca sopra. “Li ho catalogati e corretti. Mi ha aiutato Shannon” aggiunse poi, timidamente.
“Bene”
“Io non volevo scavalcarti, ma…”
“Non c’è problema, Shayla, davvero” le disse regalandole un sorriso caldo, prima di lasciare la stanza e andare ad esaminarli.  
Dopo un’oretta aveva finito di leggere: i documenti erano dannatamente buoni, perfetti, ordinati e con nessuna pecca. Jared aveva un sorriso soddisfatto stampato in volto, così pensò di andare a scusarsi con Shayla. Entrò piano nel suo ufficio, ma vide che era vuoto, così la chiamò piano e vide una figura in giardino che si stiracchiava. Uscì e le si fermò dietro: era bella, anche se non se ne era mai accorto. Aveva un fisico snello, asciutto, aiutato dalla molta palestra che faceva e dai vestiti strategici che indossava tutti i giorni.
“Scusa” sussurrò appena alle sue spalle, vedendola prendere un pizzico di paura.
Shayla si girò di scatto e lo fissò per un secondo, vedendolo sorridere: “C’è qualcosa che non va?”
“No, i documenti sono perfetti, vanno firmati e riposti nel cassetto così come sono” le disse con il plico in mano. Poi aggiunse: “Volevo scusarmi, per l’altro giorno”
“Oh” disse Shayla, colpita. “Non fa niente, avevi ragione tu”
“Si, ma non avrei dovuto trattarti in quel modo”
“Va bene, scuse accettate” sorrise lei, inclinando la testa e guardandolo meglio. “Prendiamo un caffè? Ti va?”
“No, ti faccio compagnia però”.
“Va bene, rimani qui, vado a prendermene una tazza e torno” disse sorridendo. Si avviò verso la porta finestra della cucina a grandi passi, lasciando che le sue gambe lunghe fendessero il terreno. Jared la osservò a lungo e sorrise: cosa diavolo stava pensando!?

Shayla tornò qualche minuto dopo e lo trovò seduto sul grande divano di vimini, al limitare del giardino, lo raggiunse e si sedette al suo fianco, scalciando le scarpe e rannicchiandosi con la tazza sulle ginocchia. Los Angeles stava per cedere il passo alla notte e il tramonto che era davanti a loro era mozzafiato. Lo guardarono in silenzio, ognuno assorto nei propri pensieri, che per Jared erano gli stessi da venti giorni a quella parte e avevano un solo nome: Miriam. In quel momento però il rosso fuoco del cielo, mischiato al profumo di Shayla che il vento gli faceva arrivare sotto il naso, gli suggerivano di fare la stessa cosa che aveva fatto lei: andare avanti. Sapeva che dimenticare è una parola che dicono i vigliacchi, coloro che per natura non sono portati ad essere onesti, coloro che sono stati dotati solamente di un grande dono, che è l’illudersi, e sapeva altrettanto bene che lui non faceva parte di quella schiera di persone. Lui, nella vita, non aveva mai dimenticato niente.
Questo però non gli impediva di iniziare a camminare di nuovo, di lasciare che quella staticità che gli faceva girare la testa lo infangasse ancora di più nelle sabbie mobili da cui non riusciva ad uscire, nelle quali si era relegato da solo, in qualche modo. Sorrise piano, e cullato dalla brezza estiva e da sole che stava scomparendo decise di andare avanti.

        Shayla lo osservò a lungo, vedendo il suo profilo perfetto e chiedendosi da quanto tempo era diventata tranquilla nello star seduta accanto a lui. Quando aveva iniziato a lavorare per lui era stato un trauma ogni giorno, e non perché lui le piaceva a livello fisico: lei era innamorata di Shannon, da sempre. Distolse lo sguardo dal viso di Jared e sorseggiò il caffè, che le procurò una fitta allo stomaco: quella bevanda la collegava a lui, così come le bacchette che trovava ovunque, gli spartiti, il suo odore, la sua presenza, importante anche quando non era nei paraggi.
Lo conosceva da anni e non si era mai esposta troppo, si era limitata ad essere l’amica, la collaboratrice, a volte, ma raramente, la confidente, quella con cui scherzare e ridere. E lei era rimasta nell’ombra a sperare di diventare qualcosa di più, cosa che non era mai avvenuta.
Nessuno sapeva della sua cotta per Shannon, era stata brava, più o meno. E quando Shannon aveva iniziato a parlare con Emma costantemente, l’anno prima in tour, per lei era stato un colpo al cuore, ma forte come quando nell’autunno erano venuti allo scoperto. Ricordava quel giorno: era arrivata a lavoro di corsa, carica di cose da fare e con la borsa zeppa di qualsiasi cosa. Aveva dormito poco ed era di cattivo umore, ed era piombata in sala, entrando dal lato sbagliato per fare prima ed evitare Jared, che a quell’ora era sicuramente in cucina a farsi un tea. Non avrebbe sopportato la ramazina, e per quello aveva scelto la via più breve e meno vistosa. Quando aveva aperto la portafinestra, fiondandosi dentro la sala, aveva trovato Shannon semiseduto sulla spalliera del divano, con Emma in piedi di fronte a lui. Lui la teneva fra le sue gambe e le cingeva la vita con entrambe le braccia, lei aveva le mani sul suo collo e rideva, con i volti ad pochi centimetri di distanza. Era rimasta pietrificata, immobile e loro avevano confessato, imbarazzati: si stavano frequentando, da qualche tempo.
Aveva incassato il colpo, aveva finto di essere felice, si era congratulata ed era corsa con la scusa pietosa del ritardo. Poi aveva passato mezz’ora in bagno e la giornata chiusa nel suo ufficio, con la testa bassa. Si ricordava quel giorno come fosse ieri ed era fermamente convinta che se lo sarebbe ricordato per sempre.
Aveva continuato a fingere di essere serena, ma quell’anno era stato terribile. L’unica cosa di cui era felice è che nessuno potesse dire di aver scoperto il suo segreto: solo Shannon ne era consapevole, ma lei non lo sapeva.

“A che pensi?” le chiese improvvisamente Jared.
“Oh, a nulla” mentì lei, presa alla sprovvista. “Guardavo il tramonto”
“Dalle colline è ancora più bello”
“Mi accontento di stare qui, ho sempre amato questo posto”
“Davvero?”
“Si, non lo sapevi?”
“No, in realtà no”
“Beh, qui ho pianto la prima volta per una tua sfuriata e da quel giorno è diventato il mio posto, qui dentro” rivelò, serena.
“Io non ho mai fatto sfuriate!”
Shayla lo guardò con la coda dell’occhio e scoppiò a ridere nel vedere la sua espressione. “Jared, due giorni fa”
“Quello non c’entra”
“Si, comunque l’hai fatta: lavoravo per te da tre settimane e mi ero dimenticata di chiamare il tuo agente per un progetto a cui tenevi”
“Avevo ragione allora”
“Mi hai fatto pensare di essere un’incapace” gli disse lei, ridendo e pensando a quanta acqua era passata sotto ai ponti.
“Dai, sono stato così cattivo?”
“Già”
“E come mai non mi hai mandato al diavolo?”
“Perché il tuo fascino è irresistibile” sussurrò ridendo e prendendosi gioco di lui. Poi scoppiò a ridere e aggiunse: “O perché a quei tempi il lavoro mi serviva e tu pagavi bene”
“Hai appena detto che il mio fascino non ti ha mai solleticato” disse offeso.
“Esattamente” continuò lei, decisa a non dargliela vinta.
“Sicura?” chiese Jared, girandosi a guardarla. La fissò qualche istante e la vide girarsi a sua volta, incatenando i suoi occhi al suo viso e rimanendo in silenzio a guardarlo. Di tanto in tanto sorseggiava il suo caffè, in silenzio, e lasciava che lui le leggesse l’anima con uno sguardo. Dicevano tutti che ne era capace.
“Vogliamo fare una prova?” le sussurrò, abbassando la voce e rendendola roca al punto giusto. Le si avvicinò piano, fino a sfiorare con il suo braccio la pelle nuda di Shayla, che non mosse un muscolo.
“Vincerò io, Leto” rispose lei, con un lampo negli occhi.
“Sicura?”
“Sicurissima” disse ancora, prima di alzarsi e fare un paio di passi, decisa a portare la tazza ormai vuota in cucina. Non fece in tempo a camminare oltre che si sentì braccata e si immobilizzò: la sua schiena era a strettissimo contatto con il petto di Jared, che le cingeva la vita con un braccio, lasciando l’altro stesso lungo il corpo, a sfiorarla appena.
Shayla non era pronta a cedere, ma sentiva i battiti accelerare, il respiro forte di Jared nell’orecchio e la sua presenza troppo prepotente dietro di lei. Girò appena la testa, quel tanto che bastò alle labbra di Jared di scontrarsi con il suo zigomo, dandole i brividi.
“Cosa fai, Leto?” gli chiese sicura, continuando quella sfida che non sapeva dove l’avrebbe portata.
“E tu?” rispose lui, con la voce roca. Serrò la presa del braccio e se la strinse ancora di più al corpo, non lasciandole alcuna mossa.
“Io stavo andando in cucina” lo prese in giro lei”
“E perché non ci vai?”
Shayla rise e spostò la sua mano sul braccio di Jared, quello che la incatenava a lui. Passò le dita leggere sulla sua pelle, andando su e giù e lasciando piccoli cerchi e ghirigori senza senso. “Sai, mi manca l’aria”
“Allora ammetti che ti faccio effetto”
“Non per quello, Leto” lo canzonò ancora lei, come una gatta decisa a non dargli ragione.
La risata di Jared le arrivò dritta al petto ed esplose dentro il suo orecchio: era calda, roca, sensuale e terribilmente acuta. Le smosse un terremoto nello stomaco che a stento riuscì a dominare. Girò ancora di più la testa e lo guardò negli occhi: erano a meno di due centimetri di distanza ormai. “Cosa vuoi fare?”
“Dimmelo tu”
Shayla pensò a tutti gli anni che aveva perso nel seguire Shannon, nel credere nell’amore vero, nel voler qualcosa che alla fine si era presa qualcun’altra. Sapeva la situazione di Jared, sapeva che non l’amava, ma vivere a volte significa anche lasciarsi andare in maniera sbagliata. Gli sorrise e posò le labbra sulle sue.

        Tomo rientrò in casa di corsa e vide il led della segreteria telefonica lampeggiare. Si avvicinò all’apparecchio e pigiò il tasto verde, lasciando che la voce computerizzata gli annunciasse la presenza di un messaggio registrato. Tomo rimase in attesa e quando sentì la voce di Vicki rimase a fissare il vuoto lasciando che il messaggio terminasse, annunciando la sua fine con un freddo bip.
Tomo si toccò la barba e rimase a pensare. Poi prese velocemente il cellulare e chiamò l’unica persona da cui voleva un consiglio.
Lasciò che il telefono squillasse fino a quando Shannon rispose: “Ehi, dimmi”
“Mi ha chiamato Vicki, vuole vedermi”
“E quindi?”
“Quindi cosa faccio?”
“Vai?!” rispose sarcastico Shannon, mentre guardava languido Emma nuda sul divano, che lo attendeva.
“Shannon!” si lamentò Tomo.
“Oh senti tu vuoi vederla e lei vuole vedere te. Vai e chiedile come stanno le cose. Continuare a torturarsi non ha senso e detta francamente, questa storia dovrà avere un epilogo, prima  o poi”
“Non sei simpatico”
“Non quando vengo interrotto durante un’attività interessante”
“Ah stavi suonando? Scusami!”
Shannon si sfregò il viso vigorosamente pensando che non c’erano speranze per Tomo e forse neanche per Jared, così tagliò corto: “Si, esatto. Ciao Tomo, fammi sapere”. Poi dopo un pausa aggiunse: “E ti auguro di suonare tanto oggi, ne hai bisogno”
“Cos…!?” non fece in tempo a finire la frase che Shannon aveva attaccato la telefonata ed era tornato da sua moglie.
Tomo rimase perplesso, poi chiamò Vicki. Nessuna risposta, lasciò il cellulare sul divano e si avviò verso il bagno, quando sentì la sua suoneria e si precipitò di nuovo in salotto.
“Vicki, ciao!”
“Ciao, scusami ero impicciata”
“Ho sentito il tuo messaggio, è ancora valido l’invito a cena?” chiese.
“Certo, ovviamente si” rispose Vicki allegra, sentendo un peso lasciare il suo stomaco.
“Bene, allora ci vediamo in serata. Porto qualcosa?”
“No, penso a tutto io”
“A dopo” chiuse la chiamata Tomo. Non appena si ritrovò nel silenzio pensò che Shannon aveva ragione: serviva un epilogo, qualsiasi decidessero di scrivere. Corse sotto la doccia, determinato a dare un taglio a quell’indecisione che dominava la sua vita.

        Il weekend stava passando nel migliore dei modi, Las Vegas brillava delle sue luci artificiali e accecanti e Miriam sembrava una bambina il giorno di Natale.
Era da poco finita la noiosa convention alla quale dovevano partecipare per conto della compagnia, e Miriam non vedeva l’ora di tornare in hotel a cambiare scarpe e indossare qualcosa di più comodo, quando Christopher le si avvicinò e le sussurrò: “Cena per due allo Sheraton, cara”
“Oh, davvero?” squittì Miriam sorridendo. Gli toccò la mano delicatamente e si voltò a guardarlo negli occhi. Quando vide il suo sguardo scuro e caldo si convinse che era la decisione giusta: lui sarebbe stato un buon compagno per lei.
“Certo, dobbiamo festeggiare”
“Festeggiare? Cosa?”
“La nostra prima settimana insieme, ovviamente”
“Uhm… giusto”
“Ti aspetto nella hall alle sette e trenta”
“D’accordo, a dopo” gli disse lasciandogli un bacio sulla guancia. Poi corse verso gli ascensori e dopo una doccia e un leggero make up si avventò sull’armadio per scegliere gli abiti ideali. Se fosse stato Jared avrebbe optato per un pantalone informale e una camicia, e mentre quel pensiero si faceva largo nella sua testa e davanti ai suoi occhi si palesavano solamente abiti totalmente diversi, sentì una fitta allo stomaco. Chiuse gli occhi e parlando da sola sussurrò: “Da brava, mettiti un sorriso in faccia”.
Scese puntuale, indossando un tubino grigio antracite con un copri spalle di cotone nero e delle scarpe dal tacco alto rosse. Prima, in stanza, aveva legato i capelli con una coda laterale e guardandosi allo specchio aveva ripensato che quella era l’acconciatura che preferiva e che amava tanto Jared. Li sciolse freneticamente e li annodò in una treccia alta molto elegante, lasciando solamente la sua nuova frangia a coprirle la fronte. Molto meglio, penso in ascensore, guardandosi.
“Sei splendida. Andiamo?”
“Andiamo” disse sfoderando un sorriso smagliante e legando la sua mano al braccio piegato dell’uomo. Passarono una serata formale e delicata: la cena era squisita, l’ambiente sofisticato e i camerieri zelanti. Miriam era fin troppo abituata a quel tono delle cose, le sembrava di essere tornata indietro e gustando la sua entrecote alla piastra su letto di purea di patate aromatizzate al rosmarino, credette di vedere suo padre sorriderle, certo di aver vinto la loro platonica battaglia.
Sospirò e si pulì elegantemente la bocca, prima di scusarsi dicendo che doveva andare alla toilette: sapeva benissimo che non era educato lasciare la tavola con il pasto non terminato, ma aveva bisogno di aria. Si precipitò in bagno con la sua borsetta e lì prese in cellulare: tre chiamate perse. Sbuffò e tremando vide chi l’aveva cercata: Tomo e Shannon, come nell’ultima settimana. Spense il cellulare e una volta presa aria, tornò al tavolo, sedendosi di nuovo pronta a calarsi nella parte che ormai le apparteneva da una vita.
“Tutto bene?”
“Si, sarà il caldo, ho avuto un piccolo mancamento. Dicevamo?”
Christopher prese una busta dalla sua giacca e gli passò: dentro, fra le mani di Miriam, due biglietti per un esclusivo spettacolo di teatro, per quella sera stessa.
“Grazie, non avresti dovuto. Sarebbe andata bene una passeggiata per la città”
“Le passeggiate sono per le persone normali. Noi abbiamo possibilità diverse e dobbiamo goderci la vita” rispose Christopher con un sorriso quasi fastidioso sul volto. Miriam sorrise di rimando e finì il suo pasto.

        In quello stesso momento, in uno Stato diverso, Jared guardava negli occhi Shayla, mentre lei gli sorrideva con malizia.
“Sei bellissima” le sussurrò sulle labbra, mentre con le mani andava su e giù sui suoi fianchi, sentendone la morbidezza sotto i palmi. La attirò a se con una punta di prepotenza, fino a sentire il suo corpo a completo contatto col suo, fino a sentire il suo seno sul suo petto. Erano ancora in giardino, ora uno di fronte all’altro, il silenzio intorno e l’oscurità che aveva preso il posto del rosso del tramonto.
Jared la baciò di nuovo e sentì le sua mani vagargli sulla schiena: provò istintivamente un brivido d’eccitazione e fu inebriato dal suo profumo e dalla sua lingua che morbida accarezzava la sua bocca.
“Jared…”
“Vuoi fermarti?”
“No, io…” ansiamò Shayla prima di riprendere a baciarlo. “Vorrei” un altro bacio “solamente” un altro bacio “sentirti” un altro bacio “addosso” un altro bacio “a” un altro bacio “me”.
Jared lo prese come un invito e spostando le mani più in basso con un colpo sicuro la prese in braccio, sentendo che lei, dopo una risata argentina, allacciava la gambe dietro la sua schiena. Continuò a baciarla, poi la portò dentro casa ed iniziò a salire la scale, mentre lei gli slacciava la camicia e toccava il suo torace e la sua schiena con mani sicure e decise.
Arrivò nella sua stanza e la lasciò sul divano, mentre si stendeva su di lei. Le tolse l’abito di cotone che ricopriva il suo corpo e scoprì un paio di autoreggenti scuri che gli mandarono in sangue al cervello. Shayla rimase in intimo e reggicalze e lo fissò con aria piena di sfida e malizia.
“Che fai, ti fermi ora?” lo provocò, accarezzandogli un fianco con il piede, su e giù.
“Ti piacerebbe” le rispose lui, abbassandosi su di lei e lasciando che lei sentisse la sua eccitazione.
“Così va meglio, molto meglio” gli disse nell’orecchio, mordendoglielo. Poi aggiunse: “Sei ancora troppo vestito, per i miei gusti”
Jared non le rispose, riprese a baciarla avidamente, percorrendo il suo corpo con la lingua e arrivando al bordo dei suoi slip, da dove alzò lo sguardo e la fissò con la voglia negli occhi.
Shayla annuì piano, gli diede un permesso che sapeva di libertà e menefreghismo, che sapeva di eccitazione e voglia di vivere qualcosa di pancia e non di testa. Si rilassò e lasciò che Jared finisse di spogliarla, lasciandola nuda sotto le sue mani e il suo corpo, poi ribaltò la situazione e lo pose sotto di se, mettendosi a cavalcioni su di lui: “Fregato, Leto. Ora comando io”
“Non direi proprio”
Shayla gli prese le braccia e gliele portò sopra la testa, inarcando la schiena e abbassandosi su di lui e mordergli il labbro, prima di sussurrare: “Invece direi proprio di si. Sta buono”
Jared provò un’eccitazione senza confini: era una donna decisa e gli piaceva. Era diversa da Miriam e questo gli faceva girare la testa. Sorrise e alzò di scatto la testa a prenderle la bocca fra le labbra, accettando che lei prendesse le redini del gioco, cosa che tendenzialmente non era nelle sue corde.
Shayla lo spogliò, e dopo, guardandolo fisso negli occhi si prese quel che voleva: si prese lui, e si sentì potete quando vide il viso di Jared assumere un’espressione lussuriosa. Sentì le sue mani impossessarsi dei suoi fianchi, dandole il ritmo perfetto, che seguì poggiandosi al suo petto e inarcando la schiena. I capelli che le facevano il solletico sulle spalle e le mani di Jared piantate nella sua carne erano qualcosa che andava oltre il godimento di averlo nel suo corpo. Era bellissimo, era quello di cui aveva bisogno: sentirsi viva, sentirsi desiderata.
Jared la guardò a lungo, mentre lei ansimava sopra di lui: era un corpo e una mente brillante, era una donna intelligente e bella, sicura di se, dolce. Era adulta e sapeva quel che voleva. Quella sensazione gli si inoltrò sotto la pelle e lo fece sentire al posto giusto nel momento giusto: lui voleva una donna che sapesse ragionare e stargli accanto, lui voleva una relazione alla pari e lo capì davvero mentre Shayla arrivava a prendersi il suo massimo.
Si accasciò su di lui, con il fiato corto e un sorriso strano. Gli baciò piano il petto, come se non volesse lasciare quella posizione, Jared le accarezzò i capelli e guardando prima il soffitto, poi il suo viso pensò che l’imbarazzo di aver fatto sesso con una sua collaboratrice non c’era. Ed era strano.
“Stai bene?” le chiese piano.
“Mai stata meglio” rispose lei, stirandosi i muscoli e scivolando accanto a lui. Jared aprì il braccio e la accolse sul suo petto, continuando ad accarezzarle la pelle. “Tu? Pentito?”
Jared la guardò sorridendo appena e notando quel leggero particolare ce solo le donne hanno: l’insicurezza. Anche la più forte e sicura delle donne, almeno una volta nella vita, peccherà di insicurezza. E lo farà sempre in situazioni particolari, in situazioni in cui sente di poter mettere in gioco l’unica parte del proprio corpo che rischia seriamente di farsi male: il cuore. Shayla non faceva eccezione. “No, non sono pentito” la rassicurò. “Credevo sarebbe stato più strano però il… dopo”
“Anche io” ammise Shayla, sospirando.
“Forse doveva semplicemente accadere da tempo”
“Tensione sessuale repressa?”
“Non so, sei tu che dicevi di non trovarmi sexy” rincarò la dose Jared, grattandosi il naso, fintamente indifferente. Si guadagnò un pugno sulla spalla e poi, ridendo, Shayla si alzò dal divano e iniziò a rivestirsi.
“Devo tornare al lavoro”
“Potresti prenderti la serata libera, sono il tuo capo e sono nudo a causa tua”
Shayla si voltò a guardarlo e gli sorrise, abbassandosi a baciarlo: “Non mi incanti, Leto. Grazie del bel pomeriggio, a dopo” sussurrò sulla sua bocca, prima di lasciare la stanza. 

        Tomo si presentò a casa di Vicki puntuale, con dei fiori in mano e una sorta di inquietudine nello stomaco. Bussò piano alla porta del suo appartamento e attese che lei aprisse, cosa che accadde dopo qualche minuto.
“Ciao” esordì raggiante, indossando una salopette di jeans che a Tomo era sempre piaciuta parecchio. Gli sorrise e si fece da parte per farlo entrare. Quando chiuse la porta dietro di sé, si voltò a guardarlo e poi senza preavviso si avvicinò e mettendosi sulle punte si alzò a dargli un bacio sulla guancia, spontaneamente. Tomo rimase perplesso, ma trovò il coraggio di sorridere piano, prima di porre i fiori fra loro due, così da limitare, seppur malamente, l’imbarazzo.
“Sono per te” aggiunse passandole sul mazzo colorato e sentendosi un imbecille.
“Grazie, non dovevi” rispose Vicki, per cortesia, cercando di nascondere la delusione della reazione avuta da Tomo al suo gesto. “Vieni, accomodati. Devo finire di condire l’insalata, ma il resto è pronto”
“Vuoi una mano?”
“No, chef!” lo prese in giro Vicki, che sapeva quanto lui amasse avere il controllo in cucina. Tomo si sedette sul divano del piccolo soggiorno e la osservò muoversi fra i fornelli dell’angolo cottura, cercando un argomento di conversazione: il silenzio era ingestibile.
“Passata bene la settimana?”
“Piena di lavoro, in realtà, ma tutto bene” rispose normalmente. “La tua?”
“Ho cercato di stare dietro a Jared, ma abbiamo un po’ battuto la fiacca in realtà”
“Non si direbbe mai che Jared vi faccia battere la fiacca” rise Vicki, affaccendata ancora ai fornelli.
Tomo la guardò e capì che se non avesse risolto quel dubbio che lo stava logorando da una settimana, non avrebbe potuto andare avanti. E andare avanti era quanto più desiderasse.
Prese fiato, e coraggio, e lanciò la sua bomba, che rischiava di distruggere tutto o forse di buttare i mattoni di una nuova avventura: “Vicki, cosa ci facevi con lui in quel ristorante sabato scorso?”
Lei, di spalle, lasciò cadere il mestolo con il quale stava mescolando la salsa. Qualche schizzo si sparse sui fornelli e il rumore sordo dell’acciaio sul bordo della pentola fu l’unico rumore per interi minuti a venire. Tomo non accennò a volerla aiutare, rimase in silenzio, immobile ad attendere la risposta. Quella risposta che avrebbe potuto cambiare tutto.
“Dovevo chiudere quella storia. C’era una cosa in sospeso che dovevo assolutamente concludere. Non si può andare avanti se non serri le porte sbagliate dietro di te”
Tomo rimase a bocca aperta: si era aspettato un classico non è come pensi, una difesa disperata, uno sguardo lacrimoso e impaurito. Vicki invece era rimasta di spalle, gli aveva detto quello che lui sentiva essere la verità e semplicemente, tacitamente gli aveva chiesto di crederle.
Si alzò piano, senza fare rumore. Gli sembrava di essere reduce da una corsa, come quando arrivi al traguardo e rompi con il peso del corpo il nastro colorato, con il cuore in gola per l’emozione di avercela fatta a prescindere dal piazzamento, con i polmoni che bruciano di dolore, di adrenalina, di vittoria, con le lacrime che pungono gli occhi e che sono salate così come lo è la vita a volte. Si sentiva stanco, disperatamente stanco e aveva solo voglia di sentirla di nuovo sua: le arrivò dietro, capì che lei non si era accorta di nulla e la abbracciò, solamente. Le passò un braccio attorno alla vita e la strinse a sé, poggiando il mento sulla sua spalla e chiudendo gli occhi: il suo profumo era l’odore che aveva sentito per anni tornando a casa, era l’essenza dell’amore che sentiva di non aver mai perso nei suoi confronti.
La sentì rigida, sussurrò appena: “Lasciati andare”.
“Devo spiegarti”
“Va bene così”
“Io voglio…”
“Io voglio te, e basta” le disse girandole appena il viso a guardarla negli occhi. Le regalò l’unica cosa che sapeva l’avrebbe convinta a tornare da lui: un sorriso.
Vicki pianse, pianse per il tempo perso, per il percorso fatto, per il bambino che non c’era più, per i suoi errori e per quelli di Tomo. Pianse per il dolore provato e per la felicità di quell’istante. E finalmente si lasciò andare, poggiandosi a lui come se la corsa fosse finita anche per lei.

        “Shannon, dai sbrigati!” Jared bussava alla porta in maniera a dir poco fastidiosa, sentendo provenire da dentro rumori e risate. Era indispettito dal fatto che sia lui che Emma non si preoccupassero di andargli ad aprire, quando era chiaro che fossero dentro casa. “Ehi, volete lasciarmi qui fuori!?” gridò ancora, esasperato, o forse pensando di esasperare gli altri.
“Si, l’idea era quella, lo giuro” gli disse Shannon, aprendo l’uscio a torso nudo, scalzo e con i capelli scompigliati.
“Finalmente!” disse Jared aprendo le braccia, poi guardò meglio il fratello: “Ma ho interrotto qualcosa?”
“Eh… lasciamo stare, vieni”
“Grazie” sussurrò Jared ridacchiando ed entrò, coprendosi gli occhi: “Non voglio vederti nuda, dove sei?”
“Cretino, è in camera” rispose Shannon, assestandogli uno scappellotto dietro la nuca e superandolo per andare in cucina.
“Bene, volevo parlare con te” disse Jared seriamente.
“Dimmi”
“Shayla mi ha detto che l’hai aiutata a sistemare alcune cose, l’altro giorno”
“Uhm, si”
“Bene, ecco…”
“Jared se ho combinato qualche casino prenditela con lei: parla troppo veloce quando lavora quella ragazza” si difese Shannon, alzando le mani.
“L’abbiamo fatto” buttò fuori, agitato.
“Cosa? Il punto della situazione? Bravi. E quante cazzate ho sparato nel planning, sentiamo” disse Shannon, preparando del caffè, di cui sentiva di aver bisogno. Il punto non era che lui non capisse certi linguaggi, ma che fosse così lontanamente possibile che il senso della rivelazione di Jared fosse proprio quello, che Shannon aveva solamente escluso quella possibilità. Andando per le cose ovvie: Jared e Shayla lavoravano. E basta.
Tanto era sicuro, che la risposta di Jared provocò il rumore sordo del barattolo della polvere di caffè, che Shannon aveva appena preso dal pensile, che si frantumava a terra: “Sesso. Abbiamo fatto sesso”
“Cazzo” imprecò, vedendo il disastro che c’era sul pavimento. “Il mio caffè”
“Shannon, ma mi stai ascoltando?” gli si rivolse offeso Jared.
“Avrei preferito di no, credimi” rispose. Poi sbuffò e rivolse la sua attenzione al fratello: “Scusa, quando?”
“Neanche un’ora fa. Eravamo al Lab, discutevamo di lavoro…”
“E poi sei inciampato nelle sue tette!?” lo interruppe Shannon.
“Cretino! Stavamo flirtando, è successo. L’ho abbracciata e lei mi ha baciato e poi è successo” spiegò Jared, riassumendo di molto le ore passate al Lab. 
“Jared, sai che ora le cose potrebbero cambiare?”. Jared sembrò pensieroso e non rispose, così Shannon affondò di nuovo: “E… Miriam?”
“Lei non c’entra, non c’entra più niente” disse astioso, il tono duro e lo sguardo aspro.
“Vi siete lasciati poco tempo fa, insomma…”
“Lei sta con un altro”
“Scusa!?” chiese incredulo Shannon, facendo attenzione a non combinare altri disastri.
“L’ho vista la settimana scorsa” rivelò Jared. “Ero andato a parlarle, e ho visto un uomo uscire dal suo appartamento, e non aveva l’aria di essere un venditore porta a porta”
“Sabato, per caso?”
“Si, come fai a saperlo?”
“No, così ho tirato ad indovinare” rispose con finta noncuranza Shannon. Promemoria: cancellare quel sabato di incontri sbagliati, pensò sbuffando. Poi tentò la stessa carta che aveva tentato con Tomo: “Forse non è come pensi”
“Non mi interessa com’è. Lei è capitolo chiuso. Lei è andata avanti e devo farlo anche io”
“Con Shayla? Guarda che il clichè della star che si sposa la segretaria l’abbiamo già, in famiglia”
“Non voglio sposarla. Però mi piace, insomma, sono stato bene” disse gesticolando freneticamente. "Ecco, la frase giusta è: sono stato bene"
“Sta attento, Jared. Ti chiedo solo di stare attento”
“Scappo, devo correre a lavorare, abbiamo perso un mucchio di tempo”
“Già, abbiamo perso tempo” rispose rassegnato Shannon, prima di vederlo scappare via, non sapendo quanto avesse recepito il suo consiglio. 

        Emma aveva assistito alla scena, riparata dalla porta a vetri della cucina. Era scesa a salutare Jared, di cui aveva sentito la voce non appena era entrato in casa, ma poi li aveva visti parlare e aveva pensato che fosse meglio lasciarli soli: Shannon aveva bisogno di sentire di nuovo suo fratello vicino. Era rimasta lì, a sorridere e a sbirciare e solo quando sentì la porta d’ingresso chiudersi con un tonfo, si azzardò a fare capolino in cucina: “Ehi, già andato via Jared?”
“Già” rispose Shannon grattandosi la nuca e guardando il pavimento ancora sporco di caffè. “Ho combinato un casino, Emma”
“Ho sentito” rise lei, prendendo la scopa elettrica.
“NO!”. L’urlo di Shannon si sparse forse per tutta Los Angeles. “Lo raccoglieremo col cucchiaino possiamo salvarne molto, sai”
Emma rise e si inginocchiò, armata di cucchiaio, insieme a lui, per raccogliere quello che dentro quella casa era forse più prezioso del platino. Anzi, senza il forse.
Mentre erano intenti a salvare il povero caffè perduto, Emma sorrise e lo guardò: “E’ tornato da te” gli disse.
Shannon non le rispose. Le bastò guardarla e ammettere che aveva sempre avuto ragione.

        Mentre Tomo le accarezzava piano il viso, nella penombra della camera da letto, Vicki chiuse gli occhi e cercò di godersi solamente il tocco leggero delle sue dita.
Avevano di comune e tacito accordo deciso che la cena avrebbe potuto aspettare e, sempre non parlando, lei lo aveva preso per mano e lo aveva portato in camera. Era lì che volevano ricominciare.
Tomo si chinò su di lei e la baciò, per la prima vera volta dopo mesi. Assaporò le sue labbra e lasciò che la sua lingua riscoprisse quanto potesse essere buona sua moglie. Sua moglie. Provò un brivido a quel pensiero.
La spogliò piano, come se fosse la prima volta e anche l’ultima, come se non ci fosse altro al mondo, come se il mondo fosse solo in quella stanza. Una volta, in Italia, aveva sentito una canzone molto bella, e aveva imparato quella strofa così strana:

“Quando tu sei con me 
questa stanza non ha più pareti 
ma alberi,
alberi infiniti
quando tu sei vicino a me
questo soffitto viola no,
non esiste più.
Io vedo il cielo sopra noi…”1


Non ne aveva capito il senso, e l’aveva chiusa in un cassetto della memoria, come qualcosa che sai che ti tornerà utile prima o poi, e quindi la conservi, e a volte la dimentichi, ma sai che è lì. Come qualcosa che apprendi senza difficoltà e non sai perchè, ma rimane lì in qualche modo ad attendere il momento giusto.

Tomo stava vivendo il momento giusto e capì il senso di quella canzone, ogni tassello andò al suo posto. Sorrise ad una Vicki che imbarazzata gli chiedeva: “Ricominciamo, davvero? Lo vuoi?”

“Ti ho aspettata per mesi”. 


 
      • 
 
L'angolo di Sissi

Buon Natale!!! E Happy Birthday alla Gerarda!!!!!!!
23 anni + 20 esperienza...

Per questa giornata sicuramente speciale, ecco un capitolo scoppiettante: 
colpi di scena, happy ending e miele a fiumi! 

Ma andiamo con ordine: 
Jared che... macosamicombini!? COSA!? Mai che si possa stare tranquilli, dico io! 
Inizio quasi ad aver paura della mia mente, sapete... che ne pensate voi!? 

Tomo ormai è sulle onde dell'ammmmmmmmore!!! 
Ho pensato che a loro due servisse la tregua, finalmente, 
ero stata fin troppo cattiva, 
quindi un pò di romanticismo gratuito e finalmente l'epilogo ci voleva! 

Shannon invece... conta i giorni al parto (meno dieci, contate con me!), 
coccola la sua Emma (più bella che mai, lasciatemelo dire) e smercia consigli come fossero caramelle. 
Caffè dipendente si, ma con classe e sopratutto... saggezza, saggezza a palate! 

Piccole postille: la canzone finale (1) è Il Cielo In Una Stanza di Gino Paoli,
meravigliosa perla del 1961, che vi consiglio caldamente di gustare,
qualora non la conosceste! 

Il capitolo è stato scritto pensando sopratutto ad
Alessandra,
che non ha vissuto momenti particolarmente sereni e che ha cercato di combatterli, anche,
leggendo ff. 
Per questo ho pensato di dare il mio contributo, seppur futile, ad un suo momento di distrazione! 
Ti voglio bene, Nana! :) 

Per il resto: sempre
Of Love al mio fanclub disagiatissimo,
grazie alle millemila visualizzazioni che mi rendono fiera e felice (e anche un pò incredula), 
e iniziate a pensare di insultarmi, qualora voleste, perchè vi annuncio che alla fine non manca poi moltissimo... 

Abbracci festosi, continuate a mangiare che alla dieta ci si penserà poi! 


Sissi

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Capitolo 37
*** Christine ***


         Christine

         Quell’agosto era sicuramente un mese speciale, e tutti stavano cercando di viverlo al meglio. Shannon posò la tazza ormai vuota sul divano e si sfregò il viso: ennesima chiamata a cui Miriam non rispondeva, suo fratello aveva fatto sesso con Shayla, Tomo sembrava sparito da un paio di giorni. E fra davvero pochissimi giorni sarebbe nato suo figlio, di cui ancora non avevano voluto sapere il sesso, per conservare la sorpresa. Senza dimenticare l’inquieta lotta per il nome, sul quale non riuscivano proprio a mettersi d’accordo serenamente.
La situazione era appesa ad un filo, e nonostante lui fosse agitato e felice, avrebbe preferito che Jared e Tomo fossero leggermente più stabili. Si sarebbe goduto tutto di più, insomma.
A torso nudo, pantaloni del pigiama e nel silenzio di tomba, decise di agire, perché starsene con le mani in mano non era proprio possibile. Corse in camera e facendo il meno rumore possibile cercò di arraffare i primi abiti che gli capitavano a tiro, per poi sgattaiolare via di corsa, senza svegliare Emma, che quei giorni alternava scorpacciate di gelato al cioccolato e lunghe dormite. In pratica quando non mangiava, dormiva e viceversa. Shannon sorrise guardandola, un attimo prima di chiudere piano la porta.
Le lasciò un biglietto scritto velocemente e fermato sotto il piccolo cactus che lei gli aveva regalato mesi prima, quando avevano deciso di essere genitori, di cogliere al volo la sfida più importante. Era un bonsai e aveva bisogno di poche cure, essendo una pianta grassa, ma ricordava ad entrambi che anche le anime più resistenti hanno diritto ad amore e dedizione. Subito dopo averle lasciato scritta la sua destinazione, velatamente, afferrò le chiavi della macchina e uscì, pieno di speranze e buone intenzioni.

        Miriam era seduta sul divano, con una tazza di thè caldo in mano. Christopher era sotto la doccia e dal bagno proveniva un odore di vaniglia misto ad un canticchiare che stava diventando alquanto fastidioso. Si frequentavano da circa due settimane, e la relazione procedeva in maniera a dir poco spedita: un paio di sere prima lui aveva portato a casa di lei alcune sue cose di prima necessità, come uno spazzolino e qualche abito pulito, e quella sera stessa avrebbero cenato con i genitori di Christopher, arrivati in città per una breve visita.
Miriam prese un sorso di thè e penso che lei non avrebbe voluto andare a quella cena, ma che ci era stata semplicemente condotta in maniera subdola: si rendeva conto che Christopher agisse su di lei in modo da farle fare quel che più voleva lui, ma semplicemente non aveva la forza di opporsi. Si asciugò una lacrima velocemente, prima che lui potesse vederla, visto che l’acqua della doccia era stata chiusa, e respirò forte: era la cosa migliore per lei. Christopher era la cosa giusta per lei.
Finì il suo thè e andò a sciacquare la tazza nell’angolo cottura, prima di riporla nello scolapiatti e decidere il da farsi. Dopo aver messo su il suo sorriso migliore, andò in camera a scegliere cosa indossare, e ci trovò Christopher intento a spostare delle cornici sul mobile alto. “Cosa fai?”
“Stavo sistemando meglio le cornici” rispose senza neanche guardarla. “E pensavo che questa non mi piace, che ne dici di toglierla?”
Miriam fissò la foto ed ebbe una fitta al cuore: erano tutti insieme, l’avevano scattata alle Hawaii, quasi un anno prima e c’era anche Kiki. Quel giorno Shannon ed Emma avevano ufficializzato la loro relazione, Tomo e Kiki si tenevano stretti l’uno all’altra, e Jared rideva come se fosse il momento più bello della sua vita. E forse lo era davvero anche per lei. Avevano scattato la foto grazie ad un turista che passava di lì e che non li aveva riconosciuti: aveva pensato che fossero semplicemente degli amici in vacanza ed era rimasto a guardarli a lungo, mentre andava via con sua moglie, forse perché emanavano felicità e spensieratezza. Forse perché erano semplicemente bellissimi.
Miriam ripensò a quel giorno, a quanto erano felici e poi vide come erano ridotti, neanche un anno dopo. Sorrise lentamente e disse solo: “Fa come vuoi, è una vecchia foto, non conta niente ormai”. E poi si diresse verso l’armadio per vestirsi.
Shannon arrivò al comprensorio in poco tempo, lasciò la macchina sul ciglio della strada, e dopo aver preso la merenda che aveva comprato durante il percorso, la chiuse con il telecomando da lontano e con una leggera corsa entrò nell’ampio chiostro curato e prese la scala giusta. Dopo qualche minuto era davanti la porta di Miriam, alzò il braccio per bussare, quando il destino decise di aiutarlo: la porta si aprì e lui si ritrovò davanti una Miriam sorridente che si apprestava forse ad uscire di casa.
“Ehi” disse solamente, ridendo.
“Shannon” rispose lei, con il sorriso svanito e l’espressione di chi vedeva un fantasma.
“Ciao, ti ho portato la colazione. Si, forse è tardi, ma muffin e caffè non hanno orario!” disse allegramente, affacciandosi piano con il corpo, per convincerla a lasciarlo entrare.
“Grazie, sei stato molto gentile, sono i miei preferiti”. Miriam gli prese i muffin dalle mani, ma non accennava a volerlo lasciare entrare.
“Lo so” rispose fiero. “Posso entrare? Facciamo due chiacchiere?” continuò dolce e speranzoso.
“Non ora, davvero ora non posso”
“Stavi uscendo?”. La vedeva continuare a guardarsi indietro, come se dal suo appartamento potesse improvvisamente spuntare qualcuno, come se ci fosse qualcosa da nascondere. Shannon tentò di sbirciare, ma lei parò la visuale con il suo corpo e contemporaneamente accostando di un minimo la porta.
“Si, veramente si” rispose sorridendo. “Non si vede?”
“Non credo di averti mai vista conciata così, effettivamente. Stai per partecipare ad una sitcom degli anni Cinquanta, per caso?” la prese in giro bonariamente, sorridendo e indicando il suo outfit.
In quel momento, una voce: “Cara, chi è? Dai che facciamo tardi?”. Shannon perse il sorriso e la guardò in maniera interrogativa. Miriam si ammutolì e chiese scusa con lo sguardo. Christopher fece la sua entrata in scena, affacciandosi dietro Miriam e guardando chi si celasse sull’uscio di casa. “Salve” disse educatamente.
“Buongiorno” rispose Shannon, guardandolo da capo a piedi e chiedendosi da dove uscisse quel damerino vestito da pinguino. Poi un lampo lo colpì: l’uomo che aveva visto Jared, quello che non sembrava un venditore porta a porta. “Miriam, posso parlati un attimo?” disse duramente.
“Non ora, te l’ho detto, stavo uscendo”
“E’ imporante, ti rubo solamente due minuti, davvero”
“Non ora” sibilò Miriam, affilando gli occhi.
“Ci scusi, davvero, ma dobbiamo andare. Faremo tardi e, potrà immaginare, in certi posti il ritardo non è proprio consentito” intervenne l’uomo, mettendo un braccio dietro la vita di Miriam e spegnendo la luce, a lasciare intendere che non c’era proprio più tempo.
“Certamente, lo capisco. Allora buona giornata” disse educatamente Shannon, spostandosi leggermente per lasciarli passare, e contemporaneamente allargando un braccio per segnalare che il passo era loro.
“Grazie, molto gentile” continuò l’uomo sorridendo. Chiuse la porta a chiave, poi offrì il braccio a Miriam, che lo afferrò come una scialuppa salvavita, e si avviarono verso la scala, mentre Shannon rimaneva lì fermo a guardare quella scena che gli provocò solo rabbia. Tanta rabbia.

        Tornò al MarsLab con il muso lungo e i nervi a fior di pelle. Si fermò e prendere un secondo caffè, sperando che lo aiutasse ad affrontare le cose, perché sapeva di dover tacere a suo fratello di aver incontrato Miriam. Sferrò un pugno al volante e subito dopo si massaggiò la mani arrossata: stava proteggendo una donna che non lo meritava, a discapito di suo fratello e del suo migliore amico.
Parcheggiò al volo sulla strada, poi entrò a grandi passi nel cancello, attraversando il giardino e trovando, come al solito, la porta finestra aperta e persone che correvano a destra e sinistra. La crew era al lavoro, e la frenesia regnava sovrana, cosa che non fece che peggiorare l’umore di Shannon.
Si diresse velocemente in sala, non togliendo gli occhiali da sole e sorridendo forzatamente a chi lo salutava. Non appena aprì la porta della sala, vide chiaramente Shayla saltare dal divano e prendere in mano dei fogli che avevano tutta l’aria di essere stati abbandonati per altri scopi. Accanto a lei c’era Jared, che aveva spostato appena la testa nell’intento di capire chi osasse disturbare.
“Scusate” mormorò Shannon facendo qualche passo. “Prendo solamente delle cose e vado”
“No, tranquillo, stavamo rivedendo una scaletta, ma ho un mucchio di cose da fare, oggi” rispose Shayla, con un tono di voce fra l’imbarazzato e l’isterico.
Shannon la guardò per qualche momento e notò che la spallina della sua maglia era un po’ troppo abbassata per una che sta solo parlando di lavoro. Decise di soprassedere e avviarsi verso il giardino, munito di auricolari, spartiti e chitarra.
Non seppe quantizzare il tempo che rimase seduto in posizione semi sdraiata a cercare di comporre qualcosa di decente. Non sapeva neanche perché ci provasse, visto che i bisogni della band in quel momento erano del tutto lontano dall’avere materiale nuovo, solamente sentiva l’impulso di chiudersi nella musica e la musica dei Mars non faceva che ricordargli che stava mentendo a tutti.
Quando lasciò il plettro e appoggiò la testa sulla spalliera del divanetto in vimini davanti la piscina, notò che suo fratello era in piedi davanti a lui. Lo guardò e si tolse una cuffia: “Finito?”
“Scusa?”
“Chiedo se hai finito di farti la segretaria in sala” rispose stizzito Shannon.
“Non me la stavo facendo, non è una segretaria, e comunque non sono affari tuoi”
“No, infatti non lo sono. Non mi interessa con chi scopi, solo ti chiederei di non farlo mentre la gente lavora al nostro fottuto progetto”
“Ma che cazzo hai oggi?”
“Niente. Lavoriamo?”
“Tomo ancora non…” Jared non fece in tempo a finire la frase che squillò il cellulare. Rispose, rimanendo ancora a guardare suo fratello in maniera dura. “Ciao, amico” disse.
“Jared, ciao. Senti io oggi ho un po’ di casini, ci vediamo nel pomeriggio”
“Tomo, dobbiamo provare” si lamentò Jared.
“Si, si certo. Ma devo portare ad accordare la chitarra e a far sistemare l’amplificatore” inventò lui, mentre Vicky lo abbracciava distraendolo.
“D’accordo, senti non voglio sapere altro. Se nel pomeriggio non arrivi, vengo a prenderti per i capelli ovunque tu sia, chiaro?”
“Chiarissimo, a dopo”.
Shannon guardò perplesso Jared, che lo informò subito: “Tomo non viene, dice che deve accordare la chitarra…” disse con poco entusiasmo. Shannon indicò la chitarra di Tomo, perfettamente accordata e al suo posto, in sala. Jared la fissò e scoppiò a ridere: “Qualcuno qui si diverte più di noi, fratello”
“A quanto pare” rispose Shannon, per niente divertito. “A questo punto io me ne vado”. Si alzò e ripose la chitarra nella sua custodia. “Torno nel pomeriggio, sperando che qualcuno abbia voglia di fare qualcosa”
“Possiamo iniziare le parti che riguardano la batteria, questa mattina” tentò Jared. Si sentiva un po’ come un bambino che cercava di non far arrabbiare il papà, e considerando i loro caratteri e tutto il resto, non capiva molto come si stavano mettendo le cose.
“Lascia perdere. Torna a fare quel che stavi facendo” disse. “Ultimamente vi riesce molto bene” aggiunse borbottando e andando verso l’uscita del Lab a grandi passi.
 
        Quando Tomo chiuse la telefonata, si accorse che era con Vicki da tre giorni esatti, e il tempo che avevano passato vestiti era stato decisamente poco, ed era servito solamente a cambiare casa e passare da quella in affitto di Vicki a quella dove fino a qualche mese prima vivevano insieme.
Appena chiuso la porta avevano iniziato a baciarsi di nuovo e una volta spogliatisi di nuovo, non avevano più saputo cosa fossero gli abiti per ore intere.
“Buongiorno, tesoro” le disse piano, annusandole il collo e svegliandola. Vicki sorrise senza aprire gli occhi, si stirò i muscoli e si girò fra le lenzuola, sentendo le braccia di Tomo stringerla e sentendosi davvero in pace.
“Perché mi svegli?” chiese con il broncio.
“Perché dobbiamo recuperare moltissimo tempo” le rispose malizioso Tomo. Poi lasciò che la sua mano vagasse sul corpo di Vicki e si posasse sulla sua coscia, prendendo a baciarla con sempre più audacia.
“Tomo, ti prego, sono stanca!” si lamentò lei, ma la sua reazione fu accavallare la gamba su quelle di Tomo e rispondere al bacio, aprendo gli occhi a guardarlo. Lo bloccò un secondo e gli accarezzò le sopracciglia, contemplando la sua bellezza e la sua espressione felice: “Ti amo”
“Anche io”
“L’ho già detto, vero?”
“Sei ripetitiva”
“Anche tu”
“Non è vero”
“Si, non fai che chiedermi del sesso. Da tre giorni!”
“Come se ti dispiacesse!”
“Certo che no, perché stai ancora parlando!?”. Tomo rise e la sovrastò con il suo corpo, prendendosi la sua aria, la sua linfa vitale.
Dopo l’ennesimo sforzo fisico si ritrovarono accoccolati sul letto, stanchi, ma felici. “Hai tenuto libera la mia parte di armadio, vero?” gli chiese guardandolo torva, ancora nuda fra le sue braccia.
“Ovviamente no, dovrai conquistartela di nuovo”
“Carino, io domani porto di nuovo tutto qui, vedi di farmi trovare il mio spazio”
“Chi ti ha detto che ti rivoglio a casa, scusa?”
“Tu, nelle due ore passate, in molteplici modi, direi”
“Colpito e affondato” le rispose baciandola e accorgendosi che avrebbe dovuto correre al MarsLab, se non voleva essere trucidato da Jared. Si fece una doccia, e la lasciò gironzolare ancora per quella che era di nuovo casa sua: non appena uscì dalla porta, si girò a sbirciare dalla finestra a fianco e la vide avvolta in un accappatoio sistemare alcune riviste sul tavolino basso del soggiorno. Era bello rivederla lì, di nuovo nella sua vita e fra le sue cose. La felicità a volte è una cosa così piccola.

         Shannon arrivò a casa dopo circa mezz’ora. Aveva pensato di andare al mare, per rilassarsi, ma poi la voglia di stare con Emma aveva preso il sopravvento e si era diretto velocemente a casa.
Una volta sceso dall’automobile, non gli servì togliere gli occhiali da sole per riconoscerla: poco distante, poggiata ad una macchina che non aveva mai visto c’era la perfetta casalinga americana anni Cinquanta. Si avvicinò riluttante, pensando seriamente di far finta di non averla vista, e appena le fu abbastanza vicino si mise le mani in tasca, nel completo silenzio.
“Ciao” esordì lei, imbarazzata.
“Ciao”
“Senti volevo chiederti scusa per… si, insomma, per questa mattina”
“Per avermi cacciato di casa?”
“Non ti ho cacciato di casa”
“Si, ma guarda è l’ultimo dei miei problemi”
“E allora cos’hai? Mi sembri così ostile”
“Cosa ti è successo Miriam?”
“Di cosa parli?”
“Lo sai” le rispose duro.
“No, non so di cosa tu stia parlando, onestamente” gli disse sicura, toccandosi appena i capelli per avere una scusa che le permettesse di distogliere lo sguardo.
Shannon sorrise amaro e iniziò a snocciolare situazioni che per Miriam erano pugnalate al cuore: “Beh… Mi allontani, mi menti, non rispondi a Tomo, lo eviti e ti neghi al citofono. Sei arrivata anche a far dire che non ci sei in ufficio”
“Ah, lo sai…”
“Noi parliamo, Miriam. Sai, ci conosciamo da vent’anni”
“Sto cercando la mia strada, ecco qua”
“E per cercarla devi smettere di sentire i tuoi amici, le persone che si preoccupano per te?”
“Non ho smesso, noi ci siamo sentiti spesso ultimamente”
“Si, certo, perché chiamavo io. Ti ho lasciato stare, ma poi vengo a scoprire… a scoprire tutto questo” disse quasi con disprezzo, guardandola dall’alto in basso e sentendo la rabbia montargli dentro. 
“Ma tutto questo cosa, Shan?” chiese esasperata Miriam, anche se iniziava a sentirsi a disagio, perché sapeva benissimo di cosa parlasse.
“Chi è quello?” chiese Shannon a bruciapelo e la domanda sembrò quella di un uomo innamorato e geloso. Shannon invece era solo amareggiato e si sentiva preso in giro.
“Christopher. Lavoriamo insieme”
“Anche a casa?”
“Shannon, ma che vuoi? E’ la mia vita!”
“E goditela infatti, ma se permetti io non farò da spettatore mentre distruggi le speranze di mio fratello e menti al mio migliore amico, lasciando da parte me stesso”
“Io non sto distruggendo niente, è lui che ha rotto e lo sai”
“Dove sono i tuoi jeans? Dov’è il tuo sarcasmo? I tuoi capelli sciolti? Dove sei tu, cazzo!”
“Ora vuoi sindacare come mi vesto per caso?”
“No, solo dirti che ti vesti di merda ora”
“Grazie, sei gentile. Detto da te poi…”
“E quel damerino che ti porti appresso?”
“Christopher non è un damerino, è un uomo perbene, con un lavoro rispettabile e una famiglia molto buona alle spalle. Tutto il contrario…” di fermò prima di dire l’irreparabile, ma quelle parole bastarono a creare il gelo.
“Continua pure”
“Sai che non intendo…” tentò di difendersi.
“No, lo intendi eccome invece. Beh, mi dispiace, il cattivo ragazzo pieno di tatuaggi e con una famiglia pessima alle spalle, se ne va a lavoro. Ah, no scusa: vado a scopare con qualcuna in puro stile rock, perché io non ho un lavoro” le disse iniziando a camminare, fino a darle le spalle. Miriam gli corse incontro, dispiaciuta per quello che aveva detto e lo fermò tirandolo per un braccio.
“Shannon, dai, non volevo offenderti, scusami”
“La verità è che ha ragione Jared: sei una bambina viziata, che non sa cosa vuole dalla vita e che ha avuto fin troppa carne sul fuoco da sempre. Tu scappi da tutto perché non sai affrontare i problemi, gli stessi problemi che ti crei da sola, perché sei bravissima in questo. Sono settimane che cerco di aiutarti, e tu invece mi nascondi le cose così. Se sei convinta che questa sia la tua strada, percorrila pure, ma fidati: non ci metterai tanto a scappare anche da lì” le disse pieno di astio.
“Shannon…”
“Ah, e dimenticavo: Jared ti ama davvero, purtroppo” e dicendo ciò sparì, correndo verso la sua macchina. Ora aveva davvero bisogno di mare.

        Miriam rimase in mezzo al marciapiede e scoppiò in lacrime: aveva perso Jared, e poi anche i suoi amici. Si era così concentrata talmente sulla sua indipendenza sociale, che aveva davvero avuto degli amici suoi, perdendo però le uniche persone che l’avessero mai fatta sentire a casa.
“Miriam?” si sentì chiamare e girandosi trovò Emma davanti a lei, sul vialetto di accesso della casa che condivideva con Shannon. Si asciugò gli occhi e cercò di sorridere, anche se voleva sprofondare: erano diventate amiche in quei mesi, e da quando lei aveva rotto con Jared, Miriam si era negata anche ad Emma, che aveva provato milioni di volte a vederla e sentirla. Tutto quello che riceveva in cambio erano finte scuse per non uscire e per non vederla, cosa che aveva indispettito Emma, ma che aveva solo più tardi ricondotto alla morte di Kiki. Pensava che Miriam fosse sotto choc e aveva deciso di lasciarle spazio, così la chiamava di tanto in tanto, le scriveva sms, cercava di starle accanto per quel che poteva, ma vedeva che dall’altra parte c’era la freddezza totale.
“Vuoi entrare? Ci prendiamo una tazza di thè” tentò Emma.
Miriam annuì e la seguì in casa. Emma mise a bollire l’acqua e la fece accomodare in cucina, cercando un appiglio da cui iniziare la conversazione.
“Come stai?” disse infine Miriam, per rompere il ghiaccio.
“Oh, come una mongolfiera!” scherzò Emma, sorridendole. Le voleva bene, la capiva un po’, perché negli anni lei era cresciuta molto, ma all’inizio era stato difficilissimo stare accanto a Jared e nel mondo dei Mars. Sempre in movimento, in balia degli eventi e dell’umore altalenante dei ragazzi. Lei era stata forte ed era sopravvissuta, ma capiva che per una persona insicura potesse essere mortale. Solo che Miriam sbagliava i modi: invece di chiedere aiuto si chiudeva in se stessa e feriva chi cercava solamente di starle accanto. Come lei, e Shannon, e Tomo.
“Ti trovo radiosa”
“Saranno le creme costosissime che uso. Mi illudo che servano” le rispose. “E tu, come stai?”
“Altalenante, direi”
“Hai cambiato look, vedo”
“Si, ho fatto un po’ di shopping e ho cambiato qualcosa. Ti piace?”
“E’ uno stile molto diverso da quello che adottavi prima”
“Già…”
“E ti fa sentire meglio?”
“Cosa sai, Emma?”
“Oh, più o meno tutto, ragazzina. Ho qualche anno più di te, ed esperienza necessaria a capire cosa ti succeda. Fidati, ci sono passata”
“Nel senso che tu e Jared?!” chiese allibita.
“No, ovviamente no. Ma all’inizio della mia carriera con lui era un trauma continuo: lui è un manico dell’ordine, un perfezionista. Mi trattava malissimo, era duro, antipatico e meschino con me, e a volte se non fosse stato per Tomo l’avrei ucciso, subito dopo essere scoppiata in lacrime. Poi ho imparato, ed ora credo di essere una delle poche persone che riescono a tenergli testa”
“Io non lavoro per lui, però”
“Si, però dovresti imparare a comportarti con lui. E con Shannon e Tomo. Loro ti vogliono bene, Miriam” le disse con dolcezza.
“Ora non importa più, tanto. Jared mi ha lasciata. Shannon mi odia. E Tomo ha anche smesso di cercarmi” disse affranta.
“E non ti chiedi perché?”
“Ma cosa dovrei fare, io?” urlò lei alzandosi in piedi. Era stufa che tutti le dicessero come comportarsi.
“Avere rispetto per chi cerca di aiutarti, Miriam. So che non è stato un gran periodo, ma noi abbiamo solo cercato di starti accanto”
“Ok, sono il mostro cattivo. Hai finito?”
“No, non ho finito, Miriam: perché tu fai la vittima, ma non ti rendi conto di quanto sia tu a rovinare le cose”
“Io… io non ho rovinato nulla. Voglio solo essere lasciata in pace”
“Gli amici non ti lasciano mai in pace. Shannon…” iniziò, ma Miriam la fermò subito.
“Shannon non deve permettersi di ficcare il naso nella mia vita privata”
“Lui ha cercato di aiutarti, ha tenuto il segreto con tutti e gli è costato molto, ti chiamava per starti accanto e tu non hai detto una parola su niente. Poi arriva e ti trova cambiata, diversa, sorridente e con un altro. Puoi biasimarlo?”
“Voi siete il suo mondo, cazzo” sbottò Miriam, quasi incapace di dire altro.
“Ancora con questa storia? Sei noiosa, Miriam” le disse, ora duramente.
“E allora perché mi hai invitato ad entrare? Lasciatemi in pace, no? Lasciatemi vivere tranquilla. Jared mi ha lasciato, io lo amo alla follia e mi sto facendo andare bene un’altra persona perché è buona con me. Perché vi accanite su di me?”
“Jared è ancora innamorato di te, se solo lo capissi. Lui ama le persone dure, sicure, che sanno andare avanti nonostante tutto e che non si piegano a nulla. Per questo io sono sopravvissuta, Miriam: ho smesso di piangere e ho iniziato ad urlargli contro, a tenergli testa. Svegliati, ragazzina: puoi ancora averlo, se solo riuscissi a smettere di farti problemi”. Emma fu dura, come lo era stata a Madrid mesi prima, nel backstage. Ma aveva visto in quegli occhi la scintilla della paura e credeva che servisse il polso duro per spegnerla.
Miriam la guardò triste: forse aveva ragione, pensò, ma l’orgoglio le impedì di dirglielo. Prese la sua borsa e fece per andarsene, quando Emma la gelò ancora con una frase: “Ah, e quel look fa schifo. Eri molto più vera prima, mi dispiace”.

        Miriam uscì da quella casa e se ne andò in preda a violenti singhiozzi. Odiava tutto e tutti e Christopher che continuava a tampinarla di telefonate non la aiutava per niente. Fece quello che era brava a fare: scappare, andando a rifugiarsi nella sua caffetteria, quella che condivideva con Jared, sperando che lui non ci fosse.
Ma prima ancora di riuscire a formulare quel pensiero in testa, ferma sul vialetto della villetta di Shannon ed Emma, le si fermò il cuore: Jared la fissava, lontano qualche metro, bello come il sole e serio come il più duro dei giudici.
Miriam sospirò e iniziò a camminare, sicura. Non appena gli fu vicino, si fermò un attimo, e lo guardò, dritto negli occhi, che Jared mostrò togliendo gli occhiali da sole. Non ci fu tempo per dire niente, per tentare di porre parole fra loro: lo sguardo che si lanciarono era molto più onesto e sincero di tutto quello che avrebbero voluto dirsi.
Miriam si concesse un altro secondo solo, per dirgli davvero addio forse, per imprimersi negli occhi e nella mente quello che davvero era l’amore puro, poi scappò, permettendosi il lusso di correre, perché non gliene fregava molto di quello che ora Jared pensava di lei. Lei voleva andare via, e nessun orgoglio o nessun tattica avrebbero potuto fermarla.

        Jared rimase sconvolto: perché Miriam era lì, da Shannon? Quando il fratello aveva lasciato il Lab, era stato combattuto fra il mandarlo al diavolo e andarlo a cercare. Shannon gli aveva risposto male, aveva assunto un atteggiamento scontroso e sicuramente non onesto nei suoi confronti e la rabbia che era salita gli aveva impedito di fare il primo passo. Ma poi aveva ragionato che suo fratello stava tentando di tenere insieme i cocci di un vaso che iniziava a fare acqua da tutte le parti, e che né lui, né tantomeno Tomo lo stavano davvero aiutando. Così aveva preso le chiavi ed era corso al chiosco di burrito dove sapeva che Shannon si rifugiava quasi sempre quando le cose non andavano. Non aveva trovato nessuno ed era rimasto a chiedersi dove poterlo scovare: ora parlargli era diventata una cosa impellente, quasi più necessaria dell’aria. Così aveva optato per casa, perché forse Emma avrebbe potuto aiutarlo, ma lì aveva avuto l’unico incontro che non avrebbe mai voluto avere.
Era rimasto lì impalato a vederla correre via, chiusa in un look così diverso da quello che lui ricordava, con le lacrime che le premevano negli occhi, senza che lei si premurasse di nasconderle.
Da quando aveva fatto sesso con Shayla, qualche giorno prima, le cose stavano scivolando via in maniera innaturale: lui non la amava, e poteva dire la stessa cosa dei sentimenti di Shayla per lui. Per questo non poteva dire di essere sereno, di aver dimenticato Miriam o di aver finalmente smesso di soffrire. Ma in una maniera che non sapeva spiegare, Jared si sentiva semplicemente meglio, come se avesse trovato il modo per allontanare la lama che gli affondava nella carne da quando lui e Miriam si erano lasciati, come se finalmente fosse deciso di riprendersi la sua vita e il suo sorriso.
Corse verso l’ingresso e bussò. Bussò fino a farsi venire dolore alle nocche delle mani, fino a che una Emma leggermente preoccupata corse ad aprirgli: “Ah, sei tu! Jared mi hai spaventato!”
“Cosa ci faceva lei qui?” la assalì Jared, senza salutarla, né perdere tempo ad entrare. Doveva solo sapere.
“Vieni, parliamo un po’”
“Emma…”
“Entra”. Il suo tono non ammetteva repliche, e infatti Emma vide Jared abbassare lo sguardo ed entrare in casa, non senza assumere un atteggiamento particolarmente ansioso di sapere.
Si diressero in cucina, dove Emma iniziò a preparare un thè per entrambi, poi guardò fuori dalla finestra: il sole era sparito e le nuvole, grigie e minacciose avevano invaso il cielo.
“Sembra che sia in arrivo un temporale” disse con noncuranza, dando le spalle a Jared.
“Cosa ci faceva lei qui?” chiese ancora Jared, dominando la voce.
“Ha avuto un litigio con Shannon, ed io l’ho solo invitata in casa per parlare”
“Litigio con Shannon?”
“Non so i dettagli, ho solo visto dalla finestra che discutevano in strada e quando Shannon è andato via sono uscita per toglierla di lì”
“Tu… cosa?”
Emma sbuffò e disse di nuovo: “L’ho invitata ad entrare, le ho offerto un thè e ci ho scambiato due chiacchiere”. Stava per continuare a raccontare, ma fu interrotta dalla furia di Jared, che alzandosi in piedi le urlò contro: “Emma, ma sei impazzita? Ma da che razza di parte stai?”
“Jared, smettila! Non è una gara, non si tratta di tifare per qualcuno. È la vostra vita e ve la state rovinando entrambi per uno stupido battibecco” urlò di rimando Emma, livida in volto. “E comunque non ci sono andata leggera, ma questo non ti interessa”
Jared la fissò per qualche minuto, sentendosi un cretino per aver dubitato dell’affetto che la donna nutriva per lui. Poi si sedette di nuovo e fissando il piano della cucina trovò il coraggio di chiedere l’unica cosa che voleva sapere: “Come sta?”. La sua voce era un sussurro e solo lui sapeva quanto gli costasse ammettere che gli mancava e che voleva davvero che lei stesse bene. Ammettere che gli interessa sapere che stesse bene.
Emma sorrise piano e poi gli disse: “Sta male, Jared. Esattamente come te…”
“Io sto benissimo” ruggì lui, tornando a guardarla come un animale ferito. O un bambino capriccioso.
Emma sospirò e fece finta di non aver sentito quell’intromissione inutile: “Come te, dicevo. È confusa, sta facendo una marea di caos e non se ne rende conto. Dovreste parlare”
“Io ci ho provato”
“Ah si?”
“Si” sospirò Jared, lasciandosi andare contro la spalliera dello sgabello e alzando gli occhi sul soffitto. Li chiuse e continuò: “Tu me l’avevi consigliato ed io l’ho fatto, solo che ci ho trovato un altro e me ne sono andato. E’ tutto finito, Emma”
Emma non trovò niente di intelligente da dirgli, le venne solo voglia di schiaffeggiare Miriam e farla tornare sulla retta via. Aggirò il bancone della cucina e andò verso Jared, mettendogli un braccio sulla spalla e attirandolo a sé. “Vieni qua, testone”
“Non ho bisogno di coccole”
“Tuo nipote vorrebbe nascere seranamente e fra te e quell’altro non si sa quanto ci riusciremo. Potresti gentilmente non opporre resistenza a questo momento di affetto?” gli disse, scherzando. Jared si alzò in silenzio e la abbracciò, stringendola quanto bastava a sentire la sua pancia premere sul suo petto: sarebbe stato bello avere quella sensazione da Miriam, pensò per un momento, prima di chiudere gli occhi e lasciare andare quel pensiero doloroso.
Emma si accoccolò in quell’abbraccio e sperò che Jared potesse smettere di soffrire, perché lei si, lei gli voleva davvero molto bene.

         Quella settimana passò pigramente. Jared e Shannon non si erano chiariti e si parlavano quasi solo per questioni urgenti. Tomo viveva su una nuvola e passava tutto il tempo al telefono con Vicki ed Emma era nervosa, sempre più nervosa.
Quel 16 Agosto, Emma aveva deciso di tornare al Lab a vedere come stavano le cose. Mancava da lì da troppo tempo e nonostante sapeva che la sua sostituta fosse eccellente, le mancavano i suoi amici e il suo ufficio molto anticonvenzionale.
Entrò raggiante con la colazione per tutti, ma si stupì nel trovare in sala solo Jared, seduto al pianoforte con le cuffie sulle orecchie. Gli si avvicinò piano e scostando la cuffia sussurrò: “Sono tornata!”
“Ehi, mi hai messo paura!” le disse alzandosi e abbassando le cuffie sul collo. “Che ci fai qui?”
“Sorpresa! Mi annoiavo in casa”
“Con questo tempo hai pensato bene di metterti in macchina?” la sgridò lei, notando che le nuvole ormai erano più frequenti del sole a Los Angeles. Era senza dubbio un agosto strano.
“No, ho preso un taxi, rompiscatole!” reagì lei, facendogli la linguaccia. “Dove sono tutti?”
“Non saprei. Tuo marito è scappato via poco fa e Tomo è corso da Vicki. Cioè in realtà ha detto che doveva andare a ritirare un pacco, ma sono sicurissimo si sia messo d’accordo per una sveltina nel bagno dell’ufficio di Vicki”
“Jared!”
“Ma che c’è? E’ così! Sono dieci giorni che tuba e non si stacca dal cellulare un attimo. Ogni tanto prende e sparisce con scuse assurde, poi torna dopo qualche ora con un sorriso assurdo. Cosa vuoi che faccia? Vada a giocare al golf?”
“Sei un maniaco!” rise Emma, sedendosi sul divano.
“Disse colei che ha sposato Mister like having sex2
Emma rise ricordando quel particolare: "Erano bei tempi quelli, per lui. Altro che ora: guardami!" si lamentò riferendosi alla sua forma fisica perduta.
"Ma smettila... Shannon mi ha confessato di trovarti irresistibile" gli sussurrò Jared, con una mano davanti la bocca per non farsi sentire da invisibili spettatori. Poi, serio, le disse: "Come stai?"

“Bene”
“Sicura?”
“Si, sono nervosa, ma credo sia il tempo. I temporali mi agitano”
“Sei australiana” disse Jared, come se il collegamento che aveva fatto nel suo cervello fosse ovvio. 
“E cosa c’entra?”
“Gli australiani sono abituati a ben peggio che a dei semplici temporali”
“Jared, oggi sei più strano del solito e non ho voglia di sapere perché, davvero”. In quel momento Shayla entrò in sala, con un sorriso particolarmente acceso, che si spense non appena vide che Emma era seduta sul divano. “Ciao, Shayla” disse educatamente Emma, squadrandola. Non le era andato giù l’episodio di qualche tempo prima, anche se sapeva che Shannon non aveva flirtato con lei per un secondo fine.
“Ehi, Emma, ciao!” rispose. Finta, fintissima.
“Shayla, ti serviva qualcosa?” intervenne Jared, guardandola e spogliandola con gli occhi.
Shayla lo guardò e pensò di rispondere: “Si, mi servivi tu in realtà” poi si morse la lingua e sorridendo disse: “No, niente di importante. Posso tornare dopo”
“Sicura niente di importante?” la sfidò Jared, sorridendole appena e vedendo che lei arrossiva.
“No, assolutamente” rispose sicura, riprendendo quel controllo che Jared trovava così intrigante.
“Strano, mi sembrava che ieri avessimo parlato di quel…” si interruppe e cercò la parola giusta. “… progetto e avessimo concordato che era davvero importante”
“Il mezzo che usi per porre in essere il progetto però, no, lui non è così importante, Jared” gli disse, calcando sul suo nome, perché sapeva che lo mandava in estasi.
Emma li osservò a bocca aperta: stavano flirtando davanti a lei? Davvero stava accadendo? Rimase in silenzio, fino a che Shayla, certa di aver colpito Jared, lasciò la sala. Poi parlò: “Scusa, da quanto?”
“Cosa?”
“Non ho tempo. Da quanto?”
“Non è niente di serio. L’abbiamo fatto due, tre volte al massimo”
“Hai capito Shayla…” rise Emma, improvvisamente più rilassata.
“Te l’ho già detto che è tardi per essere gelosa di me” la prese in giro lui.
“Ah ma guarda… puoi anche portare avanti questa storiella per anni eh. Almeno smette di puntare mio marito” si lasciò sfuggire. Shannon le aveva confidato di sapere che Shayla avesse un debole per lui, anche se le aveva giurato di non averne mai approfittato, né di averlo mai detto a nessuno, per rispetto dei suoi sentimenti.
“Scusa!?”
Emma si morse la lingua, sentendo di aver parlato troppo. Poi lo guardò e con occhi colpevoli si accinse a fargli giurare di non dire niente a nessuno. Come al liceo. Solo che un dolore improvviso al ventre la bloccò e la costrinse a smettere di parlare.
“Emma, che c’è?”
“Io… io…” non riusciva a parlare.
“Emma, spiegami, dimmi che c’è!” disse fermamente Jared, prendendola per le braccia. “Ti senti male?”
“Credo che mi si siano rotte le acque” sussurrò appena lei.
“Cosa?”
“Le acque, Jared. Mi si sono rotte le acque” ripetè Emma, sempre più in preda al panico.
“E questo…”
“Jared, tuo nipote sta nascendo!” urlò Emma, sperando che quella frase gli fosse chiara.
“E che cosa facciamo?”
“Chiama qualcuno, non voglio che nasca in sala, ti prego, Jared!” urlò di nuovo lei. Era arrivata la prima contrazione e non era per niente un bel momento come tutti lo descrivavano: dov’era la magia del parto? Pensò piegandosi su se stessa. Lo sapeva che era un bufala, lo sapeva che aveva ragione a non amare per niente quella cosa.
“Ok, intanto tu vieni qui, siediti che ora chiamo Shannon”
“Shannon…” si interruppe iniziando a continuare. “Non è…” ancora una contrazione che le tagliò il respiro. “Un medico!” disse infine, riuscendo a completare la frase.
“No, giusto, non lo è. Chiamo il tuo ginecologo!” disse come se avesse avuto l’intuizione del secolo. “Il numero?”
“Hai la macchina?” riuscì a dirgli, mentre cercava di ragionare.
“Si”
“Bene” respirò forte per placare l’arrivo di un’altra contrazione. “Portami in clinica”
“D’accordo, andiamo” disse Jared in preda al panico. Prese le chiavi e si diresse verso la porta, quando fu sulla soglia sentì un lamento e si arrestò. “Emma, muoviti!” urlò non vedendola dietro di lui.
“Devi aiutarmi, Jared” si lamentò lei, ancora seduta sul divano. “Ti prego, ragiona, cerca di ragionare. Ti prego” disse quasi fra le lacrime vedendolo tornare indietro per sorreggerla.

         Miriam arrivò alla caffetteria, dove ormai passava troppo tempo, e si sedette in un posto lontano, ordinando un caffè nero, amaro, così come amara si era trasformata la sua mattina, lei che voleva solamente chiedere scusa a Shannon e spiegargli alcune cose.
Si prese il viso fra le mani, finendo di passare le dita fra i capelli, poi guardò l’oceano e pensò a Kiki: in poco meno di un mese era successo l’inferno. Aveva perso Jared, aveva scoperto del suicidio della sua amica, aveva evitato Tomo con tutte le sue forze, aveva litigato con Shannon, offendendolo per giunta e si era battuta contro le parole scontrose di Emma. Aveva perso tutto e si sentiva più sola di prima: forse l’indipendenza che tanto aveva cercato non era così importante. Nell’ultimo periodo, infatti, dopo aver iniziato a frequentare Christopher, si era circondata di persone affabili e gentili, che iniziava a credere fossero davvero amici. Aveva raccontato loro di essersi trasferita da un paio di mesi per lavoro, il che era molto distante dalla realtà, ma quella realtà lei voleva cancellarla; erano quasi tutti colleghi dell’ufficio, e alcuni erano loro amici, con il risultato che Miriam era entrata in un gruppo che somigliava pericolosamente a quello che aveva avuto a Parigi per anni e che per anni aveva denigrato.
Il suo umore ne aveva risentito: aveva smesso di ascoltare la sua musica preferendo generi molto più chic, quali classica o jazz, aveva dismesso i jeans strappati che piacevano tanto a Jared, in favore di gonne al ginocchio dai colori pastello e camicie di lino o seta. Aveva smesso di lasciare i suoi capelli ribelli liberi, costringendoli in acconciature stilose e perfettamente d’altri tempi. Era molto cambiata, ma sembrava non accorgersene molto, o comunque sembrava stare bene con la sua nuova persona. Solo Shannon le aveva sbattuto in faccia la realtà e lei per difendersi da un’accusa che sembrava colpirla troppo nel profondo, aveva offeso la sua vita in maniera meschina e acida.
Il chiacchiericcio del locale fu azzerato per un momento da un tuono e Miriam si rese conto che il temporale che annunciavano da giorni era finalmente arrivato: amava la pioggia, forse l’avrebbe aiutata. Finì il suo caffè, pagò e chiamò un taxi per tornare a casa, o forse per sparire chissà dove.

         “Shannon, corri in clinica. Tua moglie sta partorendo” disse Jared, facendo la gincana nel traffico. Buttò un’occhiata al sedile del passeggero e vide Emma stringere i denti e poi non riuscire a trattenere un urlo che lacerò l’abitacolo dell’auto in maniera più fastidiosa dei tuoni che si stavano abbattendo su Los Angeles.
“Emma! È Emma che urla?” disse Shannon dall’altro lato del telefono. Jared aveva inserito il bluetooth e la chiamata era in vivavoce nell’abitacolo.
“Si, è lei che urla, Shan, chi vuoi che sia?”
“Se si perde la nascita di suo figlio lo ammazzo” sussurrò Emma, stringendo i denti.
“Ha detto…”
“Jared, ho sentito! Sono in vivavoce!” lo aggredì Shannon.
“Ok, ok, sta calmo. Corri, noi stiamo arrivando. Ah e chiama il ginecologo” aggiunse.
“Dici che è meglio al cellulare o allo studio?”
“Shannon, ma che cazzo ne so io! Chiamalo e basta!” gridò Jared, lasciando il volante per l’esasperazione.
“Jared, il volante!”. Emma allungò un mano per prendere il controllo dell’auto. “Non voglio morire” disse poi, guardandolo come se avesse voluto ucciderlo.
“Jared sta attento, è mia moglie quella in macchina con te!”
“Shan, non sto uccidendo nessuno. Sbrigati”.
“Avresti potuto chiamare un taxi, sarebbe stato più sicuro” borbottò Shannon.
Jared riprese il controllo e poi alzò gli occhi al cielo: “Si avrei potuto chiamare un taxi, è vero, ma il taxi avrebbe impiegato del tempo per arrivare…”
“Basta!”. Emma li mise a tacere entrambi e per un momento nessuno fiatò. “Tu guida, veloce” disse a Jared. “Tu, ovunque sia, fra cinque minuti vedi di essere in clinica. Ti distruggo la batteria, Shannon” aggiunse rivolta al marito.
“Corro, amore, tu respira…”
“E nel frattempo cerca di dimenticare il termine respira”
“D’accordo. A dopo”
Jared rimase in silenzio e la portò in clinica, chiedendosi perché mai avesse dovuto assistere lui al momento topico della nascita di suo nipote. 

        A Los Angeles si stava abbattendo un temporale senza precedenti, ancora  più forte di quello della settimana prima. Soffiava un vento freddo e violento e le palme di West Hollywood erano quasi piegate. Strano, considerando che fosse pieno agosto.
Miriam si strinse nel pullover grigio topo più grande di almeno una taglia e si acciambellò sul divano, nel silenzio assoluto, squarciato solo dalla pioggia. Quando era tornata a casa dall’ufficio, bagnata fradicia, si era fatta una doccia calda e si era chiusa negli abiti più sformati che avesse, sperando che quelli la aiutassero a sparire davvero. Erano passate quattro ore e lei era ancora lì, purtroppo. Sbuffò dirigendosi verso l’angolo cottura. Il suo primo giorno di ferie passato così, che felicità!
Guardò il calendario appeso al frigorifero e provò un’ondata di rabbia che la attanagliò tanto da farle venire l’idea di scagliarlo giù dalla finestra: odiava quei fogli di carta che la costringevano a fare i conti con la realtà, sempre. Trentatre giorni senza Jared. Venti senza Shannon, Emma e Tomo. Era dura, durissima. Chiuse gli occhi sostenendosi all’isola della cucina e sentì il bollitore arrivare in salvo, segnalando che l’acqua era pronta.
La verso nella tazza e ci infilò una bustina di thè alla cannella e arancia, mettendo anche un cucchiaino di miele. Il miele nel thè era qualcosa di tipicamente francese, e in quei giorni lei sentiva molto la mancanza di Parigi, di sua madre, della Senna e dei bistrot. Pensò, andando a sedersi sul divano, di sfruttare quei giorni di ferie per tornarsene un po’ in Europa, forse le avrebbe fatto bene.
Il campanello la svegliò da quel pensiero, e la costrinse a lasciare sul tavolino il portatile, aperto sulla pagina di un noto sito web per prenotazione di voli.
Con la tazza di thè in mano andò ad aprire e si ritrovò davanti Chris, elegantemente chiuso nel suo impermeabile nero, con un vassoio di cupcakes in mano.
“Ciao, cara” la salutò, avvicina dosi per un dolcissimo bacio sulla guancia. Le cose fra loro erano ormai così da qualche settimana, anche se Miriam non avrebbe saputo dire esattamente da quando si erano ufficializzate. Lo osservò e si fece violenza per non pensare a Jared: i due uomini erano così differenti fra loro, pensò. Chris le aveva permesso stabilità e indipendenza, era un uomo buono, di ottima famiglia, che vestita di classe e faceva un lavoro molto ambito. Aveva una villetta in una periferia residenziale di Los Angeles, un ottimo conto in banca e l’estate andava sempre negli Hamptons, sulla East Cost, dove aveva dei parenti e una casa in riva al mare. La vita con lui era rosa, sempre dentro le righe, sempre rispettando le regole; era una vita che a Miriam stava stretta, era scappata da Parigi per quello e perché con Jared aveva trovato un mondo in cui portare jeans strappati e girare in infradito era considerato normale. La normalità con Jared era la semplicità di poter fare quello che vuoi quando vuoi, era il non sapere cosa volesse dire la parola etichetta e il potersi permettere ridere forte, anche a tavola. Pensò che aveva lasciato andare tutte quelle belle sensazioni per un capriccio che ora non ricordava neanche più e che si era, di nuovo, ingabbiata in qualcosa che la rendeva morta dentro.
Sospirò e tornò vigile, mentre Chris la stava bombardando di informazioni su quella settimana, in cui anche lui aveva preso, casualmente, le ferie. Come Miriam. Casualmente.
“… quindi ti va bene?” le disse guardandola.
“Ehm, si credo di si, Chris” rispose Miriam poco convinta. Non sapeva a cosa stesse dando il consenso, perché non aveva sentito nulla di ciò che le era stato detto.
“Non mi hai ascoltato, vero?” le chiese quasi paterno, come se volesse sgridarla dolcemente.
“No, scusami” si arrese lei.
“Ti ho detto che pensavo di partire domani per New York, e raggiungere gli Hamptons solo dopo domani, così avremo il tempo di fare un viaggio calmo e magari cenare romanticamente nella Grande Mela. Conosco un posto molto bello, dove mi piacerebbe portarti”
“Ah, New York… sai, in realtà stavo pensando di tornare a Parigi per qualche giorno”
“Parigi? Chery, ma la mia famiglia ci aspetta per il ricevimento di nozze di mia cugina Margaret, non posso assolutamente mancare. Sii ragionevole”
“Va bene, vorrà dire che tornerò a Parigi in autunno” disse Miriam, remissiva come solo negli ultimi tempi aveva imparato ad essere. La verità era che era stufa di litigare, lottare, urlare e quindi si stava semplicemente facendo trasportare da una situazione che le sembrava giusta.
“Chris, scusami ho bisogno di fare una doccia”. Era una scusa pietosa, ma doveva allontanarsi da lui e stare sola. Voleva che lui andasse via, ma non aveva il coraggio e la forza per dirglielo. Così preferì chiudersi in bagno.
“Sicuro, tranquilla. Io guarderò un po’ di televisione e poi andiamo a cena fuori” disse sicuro. Miriam annuì ed entrando in camera pensò di organizzare un bagaglio, anche se non aveva assolutamente voglia di partire, men che meno di andare a conoscere la famiglia di Chris negli Hamptons.
Aprì l’armadio ed iniziò a prendere vestiti, piegandoli ordinatamente sul letto. Camicie di seta dai delicati colori pastello, gonne plissettate, pantaloni di lino scuri, ballerine impreziosite da strass delicati. Guardò il suo nuovo guardaroba, interamente consigliatole da Chris e le venne un moto di rabbia: aveva sempre indossato quelle cose per il lavoro, per le occasioni eleganti, ma dentro di sé, in casa era una ragazzaccia da tshirt e Converse. Ora non sapeva neanche più dove fossero finite le sue Converse. Chiuse gli occhi amareggiata, e pensò che aveva permesso che Chris costruisse la donna dei suoi sogni, plasmandola sulla sua forma delicata e fragile dopo la rottura con Jared. Iniziò a frugare freneticamente dentro l’armadio, cercando qualcosa, qualsiasi cosa che le ricordasse come si sentiva viva quando Jared era nella sua vita e si accorse che non le mancava solo la libertà, come credeva, ma le mancava proprio lui. La sua pelle, il suo odore, i suoi sorrisi, le sue mani… i suoi occhi.
Si sedette a terra, poggiando la schiena al letto e in quel momento vide i jeans che le aveva regalato Shannon in inverno: erano un modello strano, asimmetrico e con toppe di tutti i colori sparse sulla stoffa dura. Li aveva amati dal primo momento che li aveva visti ed erano diventati un po’ il suo capo preferito. Erano relegati in fondo ad un cassetto, dove aveva messo anche le sue maglie e tutte le pashmine che Chris odiava tanto e che erano state sostituite da preziosi foulard.
Li prese piano, rimanendo seduta in terra e li odorò: avevano ancora l’odore del detersivo che usava Jared e quasi riuscì a percepire l’odore di casa sua. Li guardò a lungo e poi piano, li indossò, sentendoli comodi come sempre. Guardandosi allo specchio capì che aveva messo da parte, di nuovo, se stessa, permettendo a qualcuno di farle il lavaggio del cervello, senza nemmeno lamentarsi. Shannon aveva ragione, Emma aveva ragione.
Dopo aver litigato con lui, e aver urlato in faccia ad Emma la stessa mattina, non li aveva più sentiti. Né loro, né Tomo. Erano scomparsi, avevano smesso di chiamarla, di cercarla e se in un primo momento ne era stata completamente felice, con il passare dei giorni, si era resa conto che quella felicità non esisteva veramente e che lei avrebbe voluto tanto parlargli di nuovo a tutti e tre. Rivoleva i suoi amici, quello che erano loro e quello che lei era quando stava con loro.
Era un sensazione strana, che non riusciva a spiegare, ma le mancava il sentirsi compresa e non giudicata, le mancava il potersi presentare a casa loro con i capelli legati male e il trucco sfatto, sicura che nessuno le avrebbe fatto notare nulla. Le mancavano loro, in tutto e per tutto. Ma era tardi per rimediare: aveva chiesto scusa un’infinità di volte, non le avrebbero più creduto.
Abbassò gli occhi piano, sganciando i jeans pronta a toglierseli, pensando che avrebbe potuto continuare la sua vita senza di loro, permettendosi di indossare quei jeans di tanto in tanto per ricordarli. Jared era un discorso a parte: non avrebbe mai più amato, come aveva amato lui. Non avrebbe mai più provato le sensazione che le regalava lui. Ma se l’era cercato, ed ora avrebbe dovuto farci i conti. Forse per sempre. Si rassegnò e sospirò pesantemente, quando sentì il cellulare squillare. Lo prese al volo e si stupì: era Tomo.
Rimase imbambolata fino a quando il cellulare smise di squillare e subito dopo le arrivò un sms. Lo aprì con le mani tremanti: “Miriam, volevo solo dirti che Shannon ed Emma sono diventati mamma e papà. Credevo ti facesse piacere saperlo”. Una botta allo stomaco, forte, inaspettata la colpì. Ed improvvisamente scoppiò a piangere.

         Emma era stremata, stanca e spossata. Il travaglio era durato tanto ed il parto era stato doloroso e complicato, ma niente era troppo se paragonato alla felicità di svegliarsi nella sua camera e vedere Shannon seduto che parlava con il piccolo.
“Ehi…” disse debolmente, per attirare l’attenzione.
“Guarda chi c’è, la mamma” disse sorridendo Shannon alla piccola, alzandosi in piedi e avvicinandosi al letto. “Emma, dobbiamo ancora scegliere il nome, lo sai?” le chiese sorridendo e ricordando quanto avessero discusso nei mesi precedenti per quella questione.
Emma lo guardò e sospirando disse: “Ciao, Christine”, poi toccò piano il nasino della bimba, che aprì gli occhi e fece uno sbadiglio immenso.
“Emma…”
“Christine Leto, suona bene, mi piace e poi così non sarai costretto a confonderti fra la tua batteria e tua figlia. Ti sto evitando un sacco di grattacapi, Shannon” lo prese in giro lei. Sapeva quanto tenesse a quel nome, e quanto volesse darlo a sua figlia, lo sapeva senza che lui glielo avesse mai minimamente accennato. Sapeva a chi apparteneva quel nome, ma in fin dei conti non le importava molto: il passato è qualcosa che ci si porta dietro senza volerlo, e farcene una colpa è un errore. Il passato aveva portato Shannon ad essere quel che era, ad essere l’uomo che lei amava, ad essere finalmente suo, e niente al mondo avrebbe potuto convincerla del contrario: Shannon le aveva già ampiamente dimostrato tutto l’amore che aveva per lei. Avevano fatto un patto e avevano costruito qualcosa di grande, i nomi erano semplicemente sequele di lettere che ci identificavano.
Shannon sorrise e la guardò negli occhi, accarezzandole piano la guancia: “E’ un bel nome” disse solamente, sentendo finalmente, dopo anni, una piacevole sensazione di sollievo e felicità.
Dopo neanche mezz’ora, Emma sentì bussare alla sua porta. Shannon era andato a prendere un caffè e lei stava riposando, osservando la bimba dentro la sua culla, accanto al letto.
“Avanti” sussurrò appena, senza neanche girarsi a guardare chi fosse. La porta si aprì e rivelò tutto il suo mondo riunito lì per lei, per loro. Guardò quelli che negli anni erano diventati amici preziosi e si commosse ancora, dando la colpa agli ormoni, ma sapendo bene che così non era.
“Auguri, tesoro!” le disse Vicky correndo ad abbracciarla. Era bello averla di nuovo lì, pensò Emma: era ormai chiaro che lei e Tomo fossero tornati insieme, anche se nessuno aveva ancora fatto annunci ufficiali. Jared non la guardò nemmeno e si avvicinò subito alla culla, prendendo in braccio Christine, in maniera un po’ goffa: “Insomma, nove mesi a chiamarti mostriciattolo, e tu mi spunti fuori femmina. Un’altra donna, se cresci come tua madre, ti assicuro che ti ripudio!” disse guardandola negli occhi come se la piccola potesse capire. Poi, preso da un dubbio continuò: “A proposito, ma come ti chiami!?”
“Christine” rispose Emma sorridendo e guardando Jared sciogliersi al cospetto di tre chili di cucciolo di uomo. Era incredibile come cercasse di nascondere l’emozione e come invece, ad un occhio allenato ed esperto, fosse in balia degli eventi. “Comunque grazie Jared, è bello sentirti dire cose così commuoventi!” lo scimmiottò Emma. 
“Uhm?!”
“No, dico mi hai salutata in maniera… non so neanche come descriverla guarda”
“Ehi, qui la star è Christine, mica tu!” la rimbrottò lui, prendendo confidenza con la bambina e andando a sedersi su una poltrona.
“Se non lo conoscessi davvero bene, potrei pensare che vi sta invidiando” disse Tomo a bassa voce, rivolto a Shannon che aveva appena rimesso piede dentro la stanza. Shannon guardò suo fratello e per un momento credette di vedergli un lampo negli occhi: sapeva benissimo che quel lampo aveva un nome e veniva dall’Europa, ma non disse niente e lasciò cadere la questione.
“Mille auguri, cara, è una bellissima bambina” si intromise Constance, avvicinandosi e prendendole una mano fra le proprie.
“Grazie! E’ un’emozione immensa, Constance, qualcosa di indescrivibile”
“Lo so, lo so bene…” rispose commossa, guardando prima Shannon e poi Jared e ripensando a tantissimi anni prima.
Tomo spezzò il momento romantico e disse: “Comunque… io ti avevo promesso una cosa, e visto che sono un uomo di parola, ecco qui il tuo regalo”. Estrasse una piccola scatolina trasparente sormontata da un fiocco rosa. Al centro, su un letto di alghe vi era un piccolissimo hosomaki al salmone. Gliela porse sorridendo, fra le proteste di tutti quanti ed Emma la prese davvero commossa, pensando che non addentava del sushi da nove mesi ed era stato terribile.
“Oh, Tomo, mio Tomo, salvatore della Patria e dell’umanità tutta. Da oggi potrai chiedermi ciò che vuoi, davvero!”
“Tu sei un pazzo. Emma, amore, dai qua, non puoi mangiarne lo sai, su non fare la bambina!” iniziò Shannon, cercando di accaparrarsi la scatolina.
“Bambina? Si c’è una bambina ed è lì da qualche parte, ma in questo momento non mi interessa” rispose lei difendendo con le unghie il suo regalo e provocando l’ilarità di tutti. Jared era estraniato, definitivamente, e cullava Christine, cantando piano Alibi. Se non fosse stato per l’elemento sushi, sarebbe stata una cena bellissima.
“Calmatevi tutti!” disse ad un certo punto Tomo, cercando di attirare l’attenzione. “Può mangiarlo, il salmone è grigliato” disse ancora, vedendo l’espressione di Emma mutare. “Lo so, lo so, da ora non potrò più chiederti niente, però di più non potevo fare, su!”
“Sei un traditore, mi hai illuso” scherzò lei, aprendo la confezione e mangiando in un sol boccone l’hosomaki della discorsia. “Mmm… però è buonissimo!” esclamò subito dopo, con la bocca ancora piena e un’espressione beata sul volto.
“Vedi? Sono ancora il tuo Tomo preferito?” la prese in giro lui, chinandosi a baciarle i capelli.
“Si, ancora” disse lei, ridendo.

         Erano felici e rilassati, avevano dato fondo alle scorte di caffè della clinica e Constance aveva portato dei dolcetti per tutti, che erano stati spazzolati nelle due ore successive. Christine era un angelo e veniva continuamente sballottata a destra e sinistra: sembrava che tutti se la litigassero, mentre Emma li guardava tutti impazziti di fronte alla piccola.
“Come stai?” le chiese Shannon, piano, sedendosi sul letto vicino a lei.
“Bene, sono felice” gli disse di rimando poggiando la testa al suo petto.
In quel momento l’infermiera portò un fascio di rose immenso in camera di Emma, e tutti rimasero a fissarlo per la sua bellezza e per la curiosità di sapere chi fosse il mandatario.

        “Io non capisco, Chris. Sono miei amici, vorrei salutarli e fare loro gli auguri!” urlò Miriam. Aveva spiegato a Christopher cosa fosse successo e gli aveva detto che stava pensando di andarli a trovare, ma Christopher non si era mostrato felice, né comprensivo e avevano iniziato a litigare.
“Non sono tuoi amici, Miriam, sono persone lontane da te e dal tuo mondo, non lo capisci?”
“No, perché non è così. Mi sono stati molto vicini quando mi sono trasferita qui… io, io…” si fermò non sapendo che dire, perché la verità era che lei si era trasferita lì solo per Jared. Per nient’altro e ammetterlo davanti a Chris avrebbe instaurato una lite senza fine. Litigavano sempre quell’argomento, lui era stato chiaro fin da subito: non voleva che lei li frequentasse, erano gente che non c’entrava niente con lei, con loro, ed era bene che lei stesse lontano da quel mondo dissoluto. Ricordava ancora quando le aveva detto quelle parole la prima volta, una pugnalata le avrebbe fatto meno male. Ma la sua reazione era stata quella che lui voleva: gli aveva sorriso piano e aveva cambiato argomento, accettando quella che era a tutti gli effetti un’imposizione.
“Tu cosa, Miriam, sentiamo” la sfidò lui, poggiando le mani sui fianchi e assumendo un’espressione dura in volto.
“Io ho il diritto di fare ciò che voglio” disse lei, riprendendosi.
“Si, è vero. Allora vai, poi quando ti faranno sentire sbagliata, quando ti tratteranno come una qualsiasi persona vuota e senza importanza, non venire da me a piangere” le disse, tornando a sedersi davanti la tv.
“Loro…” iniziò Miriam, ma la mano di Chris fu più veloce, si alzò e non le diede la possibilità di continuare. La zittì con un gesto, senza bisogno di dire niente.
Miriam si chiuse in stanza e iniziò a piangere, voleva davvero andare da Shannon, ma non riusciva a fregarsene di Chris, non riusciva ad essere libera e serena. Rimase lì per un tempo infinito, fino a quando lui la andò a chiamare per uscire a cena fuori. Miriam prese tempo e fece l’unica cosa che poteva fare: chiamare un fioraio e mandare dei fiori ad Emma. Sul biglietto ci fece scrivere una cosa semplice: “Congratulazioni, sarete dei genitori meravigliosi. Vostra, Miriam”.
Chiuse la conversazione sentendo un dolore acuto alla bocca dello stomaco: poteva essere un modo per sanare qualcosa, se non con Jared ovviamente, almeno con i suoi amici ed era sicura che Tomo l’avesse avvertita per quel motivo. Invece ora avrebbero tutti pensato l’ovvio: a lei non interessava più nulla.

        “Signora Leto, questi sono per lei” le disse l’infermiera sorridendo e passandole l’enorme mazzo di fiori.
“Grazie. Di chi saranno, Shan?”
“Non lo so, siamo tutti qui. Qualche ammiratore segreto? Devo essere geloso?” le chiese assumendo una finta espressione arrabbiata.
“L’unico amante felice che io sia diventata mamma di un altro ce l’ho io, al mondo” lo prese in giro lei, prendendo il bigliettino e leggendolo. Appena lesse il nome smise di ridere e lo passò velocemente a Shannon, girando lo sguardo per vedere cosa facesse e dove fosse Jared. Per fortuna era totalmente rapito da Christine, continuava a passeggiare per la stanza parlandole di tutto e di più e non stava prestando minimamente attenzione a quel che succedeva al di fuori della bolla in cui si era rinchiuso insieme a sua nipote. Le parlava con un tono adulto, di problemi reali, di situazioni vere, le raccontava di loro, di come l'avevano aspettata e di come sarebbe cambiato tutto. 
Shannon lesse il biglietto e poi se lo ficcò in tasca, con un’espressione dura. Incrociò lo sguardo di Tomo e mimò con lo sguardo Miriam. L’uomo gli fece cenno di uscire un secondo e Shannon lo seguì nel corridoio.
“L’ho avvertita io prima. Pensavo che le facesse piacere e volevo darle il modo per tornare da noi” spiegò, quasi scusandosi.
“Evidentemente non le interessa molto tornare da noi, men che meno da Jared” liquidò la questione Shannon.
“Shan…” tentò Tomo.
“No, Tomo, no. Lei è cambiata, tu non ci hai parlato. Ora sta con quel tipo in cravatta, ha detto delle cose terribili e non è neanche venuta qui oggi. E’ finita, per tutti” rispose.

Tomo annuì tristemente, sapendo che l’amico aveva perfettamente ragione.


       


L'angolo di Sissi 

Happy New Year!!!!!!!!!!! 
Ecco a voi un regalo di buon 2015... un capitolo nuovo di zecca! 

E' stato un parto (parola scelta a caso...) ... ammetto uno dei più difficili che abbia mai scritto,
quindi se fa schifo perdonatemi e date la colpa alle lenticchie e al cotechino. 

In questo capitolo abbiamo finalmente la nascita di Christine, 
piccola dolcissimo batuffola rosa! 
Ammetto di aver ceduto al clichè che il nome della batteria di Shannon sia legato ad una donna,
ma non è importante ai fini della storia. 
Shannon ed Emma sono bellissimi, e mi piace aver costruito in quella stanza un clima allegro
e spensierato, come sono loro per me. 

Miriam spiega un pò la situazione, il suo cambiamento, ma inizia anche a dare segni di sofferenza,
forse aiutati dalla "ramanzina" che le fanno prima Shannon e poi Emma. 
Che ne pensate? 
Effettivamente si mostra come una persona debole, che non sa dire di no e che si aggrappa a questo nuovo personaggio 
(odioso) convinta che sia lui la chiave per smettere di soffrire. 

Piccola postilla: la storiella fra Shayla e Jared non è seria, non continuerà, lo giuro. 
Mi sono arrivate lamentele da ogni dove e ho deciso di fare questo piccolo spoiler, 
come regalo di inizio anno! 

2. Like having sex è riferito ad una nota intervista in cui Shannon rispondeva così al giornalista che chiedeva 
come gli piacesse passare il tempo libero.
Qui il video! AVVERTENZA: sedetevi, prima di vederlo. 

Io vi saluto e vi auguro un 2015 pieno di amore e fanfiction!!! 

Ci sentiamo prossimamente, abbracci marsosi! 

Sissi 

 

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Capitolo 38
*** Il mondo era finalmente tornato a girare ***


Il mondo era finalmente tornato a girare 
 
        I primi tempi con Christine a casa furono frenetici. Emma era serena, ma molto impacciata e aveva in Constance e Vicky due grandissime alleate. Le donne si erano praticamente trasferite a casa Leto, e la aiutavano in tutto e per tutto, consigliandole cosa fare e cosa non fare, ma sopratutto ascoltando le sue piccole crisi da neomamma.

Shannon era innamorato di sua figlia e continuava a portare a casa vestitini nuovi, cianfrusaglie inutili ma bellissime e non perdeva occasione per tenerla in braccio. I fratelli Leto erano totalmente impazziti in verità: quando erano insieme alla bambina facevano a gara a chi si preoccupava di più e le parlavano normalmente di cose quotidiane, come se lei potesse capirli e rispondere. Un giorno, Emma trovò Jared seduto al pianoforte del MarsLab con Christine in braccio che le chiedeva se fosse meglio inserire Do or Die acustica o in versione originale, durante i concerti invernali. E questa era ormai la normalità.

Una sera, uscendo dalla doccia, sentì una strana calma in casa, cosa che non accadeva da quando c’era Christine nelle loro vite. Frizionandosi i capelli con un telo di lino, raggiunse il salotto e trovò Shannon steso sul divano con la piccola sul petto: dormivano entrambi beatamente. Era una scena meravigliosa, prese velocemente lo smartphone e la immortalò, inviandola subito a Jared. Gli scrisse: “Ecco che fine ha fatto il batterista che si faceva una donna a sera”.
Sorrise al pensiero di tutte le donne che aveva visto uscire dalla camera di Shannon negli anni e gli andò vicino, sedendosi accanto a lui sul divano.
“Ehi, dongiovanni” gli disse accarezzandogli la gamba.
“Uhm..." Shannon si svegliò e cercò di capire dove si trovasse, poi sorrise ad Emma. "Se ti riferisci a lei… beh non è come pensi, posso spiegarti” le disse, prendendola in giro e massaggiandosi il viso.
“Questa signorina dovrà spiegarmi tante cose, visto che da quando è qui in pianta stabile, io vengo trascurata al massimo” gli disse Emma, facendo l’offesa.
“In genere sono le donne che trascurano i mariti, in questi casi”
“A noi le cose convenzionali non ci piacciono, dovresti saperlo, Leto”
“Già…” le disse lui alzandosi per poggiare la bambina nella culla e accendendo la radiolina accanto a lei. Poi a passo lento tornò verso Emma, in silenzio. La guardò e la trovò più bella che mai, sicuro che non avesse mai smesso di esserlo. “Dunque, ti stai lamentando che ti trascuro, vero…” le disse suadente.
“Perché non è così?” lo rimbeccò lei, incrociando le braccia sul petto. 
“Pagherò tutte le mie colpe” le disse e in un lampo le fu sopra, la sollevò di peso e se la incollò al corpo, lasciando che lei gli cingesse la vita con le gambe e il collo con le braccia.
“Shan… c’è Christine!” gli disse soffocando una risata per non far svegliare la piccola.
“Infatti ti sto portando via” le spiegò Shannon iniziando a camminare. Arrivò nella loro camera da letto, e si sedette sul letto, tenendosela addosso e iniziando a baciarla piano, lentamente. Non facevano l’amore da tempo, ormai e mancava ad entrambi. Il contatto fra i loro corpi, le sensazioni, i sospiri e la passione: era stato tutto accantonato, ovviamente, ma ora sentivano di non poterne più fare a meno. Era tutto amplificato dalle settimane in cui erano stati lontani, in cui forse non avevano neanche pensato di essere una coppia.
“Dici che possiamo?” gli sussurrò lei, consapevole che ormai non avrebbe più potuto fermarsi.
“Dico proprio di si” le rispose, lasciando che una spallina cadesse sul braccio, e baciandole la spalla. Emma si lasciò andare, ma non fece in tempo a togliersi la maglia che sentirono Christine urlare dal salotto.
“Devo andare…” gli disse sulle labbra, triste e sconsolata.
“Ti prego, lasciala piangere un pochino, non morirà!” tentò lui.
“Siamo due genitori terribili” rise lei, ancora immobile in quella posizione che amava. “Torno subito, anzi prima di subito, il tempo di vedere se va tutto bene, promesso. Aspettami” gli disse languida, alternando baci roventi a quelle parole. Lo vide gettarsi sul materasso a braccia aperte e corse in salotto a vedere se tutto era tranquillo. Appurato ciò, si spogliò in fretta, lasciando vestiti ovunque, e tornò in camera, pronta a sedurre il suo uomo, che nel frattempo però era crollato in un sonno profondo, nella stessa posizione in cui lo aveva lasciato, solo pochi minuti prima. 
Lo guardò sospirando e si coprì con un accappatoio, andando a stendersi accanto a lui.


Non dormì per molte ore, rimase a guardarlo. Quell’uomo era ai suoi occhi la perfezione e lei si sentì così fortunata ad averlo accanto. Pensò con ormai era quasi un anno che stavano insieme davvero: un anno prima, alle Hawaii lei aveva lasciato tutte le sue paure e le sue fissazioni ed era volata in quel paradiso, dove ad accoglierla c’era lui, bello come sempre. In un anno avevano fatto l’amore, litigato, avuto un figlio, litigato di nuovo, imparato a conoscersi e a costruire qualcosa. Era stato un percorso bellissimo e difficilissimo, ma lei era fiera di poter dire che ce l’avevano fatta. Era certa che i problemi non erano finiti, perché la vita te ne presenta sempre altri, ma per quanto la riguardava ora potevano tirare un sospiro di sollievo: loro erano davvero pronti. E solidi.

Solo a notte fonda si decise a svegliarlo piano. Iniziò a mordicchiargli l’orecchio e non ci volle molto perché Shannon riprendesse i sensi, Emma se ne accorse perché sentì il suo braccio stringerle di più la vita e attirarla a sé.
“Avevamo un discorso in sospeso io e te…” gli disse piano, dentro l’orecchio, lasciando che le sue labbra lo sfiorassero piano.
Shannon le sorrise e le aprì piano l’accappatoio, ammirandola e sovrastandola con il suo corpo.
“Non volevo addormentarmi, scusa” le disse fra un bacio e l’altro.
“Ora sei sveglio, hai solo una cosa in più da recuperare”
“Agli ordini…” le disse ridendo, ed iniziando ad eccitarla. La baciò ovunque, lasciando che la sua pelle si arrossasse sotto la leggera barba di qualche giorno, le sfilò l'accappatoio gettandolo altrove, e quando la vide supplicarlo con gli occhi e il sorriso eccitato, la fece sua, mettendoci la passione di cui era capace e l’amore che non aveva mai dato a nessun’altra.

        Shannon ansimava sopra di lei e la guardava godere in silenzio, con gli occhi incollati nei suoi. La amava e quando si ritrovarono, stanchi e felici, a cercare il lenzuolo per coprirsi dal leggero vento che entrava dalla finestra, glielo disse, piano, sussurrandolo: “Sei la mia vita”
“Non sono la tua musica” disse lei, scherzando, ma sapendo di dire una grande verità. Non era mai stata gelosa della musica, sapeva di non poter competere. 
“Lo so, ma tu e Christine mi avete regalato la sensazione di avere davvero tutto. Grazie, moglie”
“Di nulla, marito” gli rispose raggiante, sporgendosi a baciarlo. Non rinunciò al suo braccio che le solleticava la schiena, si mise a pancia in giù e poggiò il suo mento sul petto di Shannon, guardandolo negli occhi. Dopo qualche minuto glielo chiese: “Cosa hai deciso di fare?”. Entrambi sapevano quale fosse l'argomento. 
“Devo dirglielo” rispose Shannon, distogliendo lo sguardo da lei e puntandolo al soffitto. “E’ il mio migliore amico, devo farlo. Speravo che lo facesse Miriam, ma sai come stanno le cose: dubito fortemente che la rivedremo, ed io non posso permettermi di tenere nascosta una cosa così grave al mio migliore amico”
“E’ giusto”
“Davvero lo pensi?”
Emma annuì sorridendogli e lasciandogli un bacio leggero sulla clavicola. Shannon era stato presente e felice nell’ultimo periodo, ma Emma aveva osservato bene e aveva scoperto più volte un velo nei suoi occhi, sapendo benissimo a cosa doverlo ricondurre. Era tempo che lui si togliesse quel peso dalla coscienza e dal cuore, lei gli sarebbe stata vicina.
“Ti amo”
“Ci sarò, lo faremo insieme” lo rassicurò ancora.
“No, devo farlo da solo” rispose Shannon, alzando la testa per baciarla teneramente. “E’ bello averti, davvero”.

        Jared era in spiaggia. Erano settimane che sentiva che qualcosa non era apposto, che era inquieto e l’unica cosa che riusciva a placarlo era passeggiare sulla sabbia, da solo, preferibilmente al tramonto.
Shayla aveva chiuso con lui subito dopo la nascita di Christine. In realtà potevano dire di essere stati insieme pochissime volte, ma quando la bimba era venuta alla luce e lei era andata in clinica a congratularsi con Emma, aveva capito di non poter mentire ancora: lei avrebbe sempre avuto un debole per Shannon, e niente avrebbe potuto cambiare le cose. Forse un giorno sarebbe arrivato un uomo che le avrebbe fatto perdere la testa, ma quell’uomo non era Jared ed era inutile continuare a fingere che quella relazione di sesso fosse un modo per ripartire, per cancellare i veri sentimenti.
Quando era uscita dalla stanza di Emma, Jared l’aveva seguita e lei aveva semplicemente sorriso dicendogli quelle parole in maniera delicata. Lui era rimasto sconvolto dalla normalità con la quale Shayla era riuscita a dirgli che dovevano finirla lì, non ne era rimasto deluso: lui stesso aveva capito che non era quello il modo per tornare a sorridere.
Si erano abbracciati ed erano tornati ad essere solamente colleghi e amici, accantonando quel periodo di follia durante il quale non facevano altro che cercare luoghi per consumare un rapporto che aveva illuso entrambi di aver cambiato le cose che non andavano nelle loro vite.

Da quel giorno, Jared aveva cercato di analizzare le cose in maniera critica: andava spesso in spiaggia a camminare. Teneva le mani in tasca, e guardava l’orizzonte, sperando che gli dicesse cosa c’era che non andava. Anche se lui lo sapeva benissimo da sé: Miriam.
Non la sentiva né vedeva da luglio: circa due mesi, giorno più giorno meno. Ed era dura, più dura di quanto credesse: era appena iniziato settembre e presto sarebbe stato… no, si impose di non pensare, che pensare era vietato da tempo. Anche se poi non è che si riuscisse ad evitare certe cose.

Affondò i piedi nella sabbia e si fermò, sperando che l’oceano riuscisse a placare il suo dolore: come erano finiti in quel modo? Loro si amavano, loro erano sopravvissuti a molto peggio, erano stati lontani e si erano rincorsi per mesi. E poi? Poi tutto era finito quando si erano avvicinati. Stava iniziando a pensare che l’errore era stato proprio avvicinarsi, perché forse erano destinati a grandi cose, ognuno nel proprio mondo. Si maledì, perché ormai cercava una soluzione razionale a quel caos interiore ogni minuto, ma non ne trovava mai e forse avrebbe solamente dovuto smettere di cercarle.
Scalciò la sabbia bagnata in preda ad un moto di rabbia e girandosi andò ad urtare contro qualcuno, alzò gli occhi per chiedere scusa e incrociò l’unico sguardo che non avrebbe mai e poi mai voluto incontrare.

        Miriam si sentì invadere l’anima di azzurro e tremò per un momento, e non era a causa di quel leggero vento settembrino che si era alzato sulla spiaggia. Lo fissò in volto e sentì le lacrime salire pericolosamente agli occhi, poi tornò vigile, perché Chris le strinse la mano, come a voler rimarcare un territorio, come a volerla far tornare con i piedi per terra.
“Scusa” disse solamente Jared.
“No, figurati… ero distratta, non ti ho visto” gli rispose, balbettando quasi. Jared sorrise appena, perché ricordava benissimo che quando Miriam non sapeva come reagire finiva per parlare troppo.
“Come stai?”
“Io, bene… si, bene. E… e tu?”
“E’ un bel periodo”
“Ho saputo della bambina, auguri”
“Non dovresti farli a me”
“Si, lo so, ho mandato dei fiori in clinica” rispose stizzita, perché odiava quando Jared faceva il puntiglioso.
“Ah, brava”
“Il tour?” chiese cambiando argomento. Sentì Chris muoversi accanto a lei e si ricordò della sua presenza, così aggiunse: “Ah, ti presento… Chris”. Non sapeva come qualificarlo, anche se sapeva benissimo come avrebbe voluto essere qualificato lui.
“Ciao” disse distrattamente Jared, per poi tornare a concentrare i suoi occhi su Miriam. “Abbiamo rimandato il tutto di qualche mese, per dare a Shannon il tempo di trovare equilibrio con la nuova situazione”
“Magari torno a vedervi” rispose Miriam sorridendo, per lanciare una tregua. Jared rise amaro e girò lo sguardo verso l’oceano, perché avrebbe voluto dirle tante cose e allo stesso tempo voleva soffocare i sentimenti che sentiva riaffiorare piano, come se li avesse semplicemente messi in pausa. E mai dimenticati.
“Beh, devo andare” disse velocemente Miriam, per togliersi d’impaccio.
“Ci si vede allora”
“Ciao”.

         La guardò allontanarsi, vestita in maniera elegante e diversa. La vide e si accorse che la amava ancora, ma che avrebbe dovuto smettere di farsi del male: era lei che aveva incasinato tutto. Disse che non importava, che poteva avere tutte le donne che voleva, disse a se stesso di smetterla di fare il quindicenne e di pensare alle cose serie, come chiamare Annabelle per quella sera. Ma rientrando a casa, irrequieto e scontroso, vide lo scatolone delle foto che lei aveva fatto stampare, e che lui aveva gelosamente custodito sotto il letto.

        Miriam mise le chiavi nella serratura e sperò che Chris decidesse di tornare a casa e lasciarla sola. Era tardi, e l’indomani avrebbero dovuto lavorare entrambi. Da quando erano tornati dagli Hamptons, dove lei era stata presentata come la fidanzata di Christopher, lui era particolarmente appiccicoso e presente: non la mollava un attimo, premeva per passare quasi tutte le notti da lei, e se era a casa sua la costringeva quasi a rimanere lì. Erano giorni che la pressava per andare a Parigi a conoscere i suoi genitori, e lei prendeva sempre tempo, ma sapeva benissimo che il tempo sarebbe presto finito.
Sospirò quando lo vide togliersi poggiare il suo orologio sull’isola della cucina, chiaro segno che sarebbe rimasto e che ormai lo considerava una cosa normale, chiara a tutti. Andò direttamente in bagno e chiuse la porta guardandosi allo specchio: non era pronta a rivedere Jared, l’aveva colpita come uno schiaffo in pieno viso ed il peggio era stato incontrarlo con Chris. Era tutto così fottutamente difficile. Si odiava per quello che era riuscita a rovinare e odiava lui per non averla aiutata ad andare avanti, a non buttare niente.
Stava per infilarsi dentro la doccia quando sentì un po’ di trambusto in salotto, così si affacciò e sentì Chris che parlava con qualcuno. Tese l’orecchio.
“No, lei non c’è” disse Chris risoluto e scocciato. Era davanti la porta aperta, ma lo spiraglio e la sua figura davanti le impedivano di vedere chi fosse. Sentì la voce però.
“Questa è casa sua. Devo parlarle” disse quella voce.
“Le dico che non c’è. E comunque non vorrebbe parlarle. Mi scusi” rispose di nuovo Chris. Miriam lo colse a girarsi appena, per sincerarsi che lei non sentisse nulla, e lei fu veloce nel richiudere la porta del bagno per mantenere il segreto di aver scoperto che Jared era alla sua porta e voleva vederla. Si strinse nell’accappatoio e si poggiò alla porta chiusa, sperando che lui se ne andasse presto. Dopo qualche minuto sentì la porta di casa chiudersi e sospirò: ma cosa sto facendo? Si chiese ed in un lampo fuggì dal bagno, avventandosi sul portone d’ingresso.
“Miriam, cara, ma che fai?” chiese Chris, fintamente stupito. Non gli rispose neanche, si precipitò fuori e arrestò la sua corsa quando lo vide fermarsi sul ballatoio, ancora di spalle, perché aveva sentito la porta riaprirsi. Non disse niente, guardò la sua schiena e attese che si girasse. Aveva ancora l’accappatoio bianco addosso, i capelli legati in una coda spettinata, il trucco un po’ sciolto, l’espressione dura. Lui finalmente si girò.

“Ciao” le disse solamente
“Cosa vuoi?” gli chiese subito. E sembrò dura, anche se era solo l’urgenza che aveva nel sentirgli dire l’unica cosa che le sue orecchie volevano sentire. Era la necessità che lui la salvasse dal casino in cui si era cacciata, lei che non sapeva salvarsi da sola.
“Parlarti” le rispose, guardandola.
“Parla”
“Qui?”
“E dove altro?”
“Va bene” acconsentì lui, sospirando e guardandola negli occhi. “Che fine hai fatto?”
“Sono sempre stata qui, sei tu che sei scappato”
“Non intendo fisicamente. Dov’è la Miriam che conosco io?”
“Non incominciare pure tu, la ramanzina me l’ha già fatta Shannon”
“Non lo sapevo e non mi interessa. Ti rivoglio”
“E’ tardi”
“Perché ora stai con quel tizio di cui non ti frega niente?” chiese sprezzante. Miriam annaspò perché l’aveva colta in fallo, ma non poteva dirgli che aveva ragione.
“Mi importa invece” disse solamente, sicura che non le avrebbe creduto. Non era riuscita a convincere neanche se stessa.
“Cazzate, Miriam”. Ora sorrideva amaro, e aveva indurito la voce, perché la vedeva lontana anni luce, e non solo per puntiglio. Vedeva i suoi occhi spenti e la sua figura che non lottava, né con i gesti né con le parole. La vedeva lontana ed era una pugnalata al cuore. Perché aveva lasciato che andasse via? Non lo sapeva più, tutte le sue convinzioni erano andate a farsi fottere e lui rischiava di annegare. Così come Miriam, davanti a lui. Annegati nello stesso mare per non aver saputo camminare insieme.
“Come ci siamo arrivati qui?” le chiese, lasciando da parte le armi.
“Mi hai lasciato tu” gli ricordò e servì solamente a farlo arrabbiare di nuovo.
“Ti ho lasciato perché tu volevi la tua indipendenza e mi hai accusato di tenerti chiusa in gabbia” le urlò contro, puntando il dito verso di lei a voler sottolineare come stavano le cose. In quel momento uscì Chris dall’appartamento e intervenne: “Ora basta, Miriam entra in casa dai”
“Non sto parlando con te” gli disse Jared, senza nemmeno guardarlo. Aspettava che Miriam facesse qualcosa, qualsiasi cosa, un segno che lo portasse a lottare ancora. Ma lei non fece niente e a lui caddero le ultime voglie che aveva.

Miriam mosse un passo verso l’ingresso di casa, incapace di distogliere lo sguardo da lui.
“Miriam, finisce davvero così?” le chiese retorico, ancora in attesa di un segnale, di qualcosa.
“Mi dispiace, Jared” disse lei con una voce così bassa e così piatta che Jared fu totalmente annientato.
“Sai che non è la cosa giusta, tu lo sai” tentò di nuovo lui, sentendo la terra tremargli sotto ai piedi. 
“Senti, ti ha detto che non vuole più vederti, sparisci” lo aggredì Chris, puntandogli un dito contro.
Jared lo guardò costringendosi a non prenderlo a pugni e parlò di nuovo con Miriam: “Bambina, possiamo farlo” le disse, sapendo che solo lei avrebbe capito. La vide chiudere gli occhi e trattenere a stento le lacrime, e per un momento sperò che lei gli corresse incontro e mandasse al diavolo quell’uomo, ma lui la spinse in casa e lei non si ribellò. Sentì il tonfo della porta così forte che gli girò la testa e chiuse gli occhi, cercando la forza che gli serviva per rassegnarsi davvero: era finita.

        Quando la porta si chiuse, Miriam sentì un peso opprimerle il petto, sentì una rabbia farsi largo nel suo stomaco e arrivarle fino in gola. Guardò furente Christopher e con una voce che stentava a credere essere la sua, disse solamente: “Fuori di qui”.
Christopher si girò guardandola perplesso: non poteva avercela con lui, era sicuramente un malinteso, doveva aver sentito male. Ma quando incrociò il suo sguardo e la vide algida, si irrigidì lui stesso e le rispose solamente: “Scusami?”
“Voglio che te ne vada. Ora” disse di nuovo Miriam, cercando di essere più chiara. Non perse il suo tono fermo, non si fece dominare dall’emozione e impose a se stessa di essere risoluta e sicura.
“Miriam, tesoro, ma che dici” le chiese retoricamente, avvicinandosi a lei, cercando di placare la voglia di mandarla al diavolo e di apparire calmo e dolce. “Vieni qui, dai. Sei sconvolta” aggiunse, allargando le braccia per accoglierla. Ma Miriam rifiutò quel suo gesto conciliante, lasciando che le braccia dell’uomo stringessero l’aria, invece del suo corpo. E lì, la furia, non fu più dominabile.
Christopher si voltò di scatto e la guardò fuori di sé e sibilò: “Sei una puttana. Ti stai vendendo l’anima per quel burattino dai capelli lunghi, che ti scoperà e ti getterà via”
“Non parlare così, né di me, né di lui”
“Perché sennò cosa fai, ragazzina?”. Le si avvicinò minaccioso, le mani sui fianchi e l’aria di chi voleva sfidare a viso aperto l’avversario.
“Chris, senti, mi dispiace. Io non posso stare con te, non posso e non voglio” disse Miriam, ammorbidendo la voce e il tono, per paura della sua reazione che stava diventando sproporzionata, ma anche perché la forza di combattare la stava abbandonando e voleva solamente rimanere sola e piangere sul gran casino che sapeva aver combinato.
“Ti dispiace? Ah, ti dispiace! Che bella notizia” le disse beffardo, ridendo di cuore. Il rumore della sua risata colpì le orecchie di Miriam, facendole male, come un fischio acuto che trapana il timpano e non vuole smettere. “Ti ho presentato alla mia famiglia, cosa vuoi che dica loro ora?”
“Dai la colpa a me, dì loro quel che vuoi, che ti ho tradito, che sono una stronza, che tu sei la vittima, non mi interessa, ma vattene”
“Io sono la vittima, su questo non dovrò mentire”
“Tu hai cercato di manipolarmi fin da subito: vesti così, fa questo, fa quello, no questo no, si questo si. Ti rendi conto che tu non vuoi me, ma vuoi una donna molto lontana da me, molto diversa da me. Hai lavorato per giorni interi per farmi diventare la tua fidanzata ideale, e stupida io ad avertelo permesso. Ma ora basta. Ora davvero basta” urlò Miriam, colpendolo forte sul petto. Ansimò e poi continuò ad urlargli contro: "Sei un damerino, mi hai usata, volevi solo plasmarmi. Cos'era quello che hai fatto lì fuori? Cosa? Volevi mandarlo via, senza neanche farmici parlare! Ti rendi conto? Tu volevi decidere per me!". Urlò fino a quando sentì la gola farle male. 
Christopher la guardò e rimase in silenzio per qualche minuto, poi con estrema calma disse: “Tu non meriti niente da me né da nessuno. Tu meriti di essere sola, di essere usata dalla rock star che credi ti ami, fino a che lui non si stancherà e se ne troverà un’altra”. Aveva la voce bassa, la bocca ad un centimetro dalla sua. Quelle parole penetrarono nell’anima di Miriam, già messa a dura prova, scalfirono le ultime possibilità che lei aveva di tornare da Jared, annientarono quell’unica fiamma che ancora era accesa in lei.
Trattenne le lacrime e fece fatica nel riuscirci, Christopher lo notò, e soddisfatto di essere passato in vantaggio, affondò ancora: “Credi davvero che non si sia mai divertito con altre donne? Quanto tempo siete stati lontani? E durante quelle due date credi che non si sia portato a letto nessuna delle ragazzine che gli sbavano dietro?”. Era beffardo, sicuro e crudele, lo sapeva e vedeva negli occhi di Miriam quanto fosse riuscito a distruggerla: lei lo stava lasciando, ma non sarebbe tornata da lui. Questa era la sua vendetta.

“Vattene” sussurrò Miriam, con la poca forza rimastale. “Vai via e non tornare mai più” aggiunse, sentendo una lacrima sfuggire dal controllo.
Christopher posò le labbra sulle sue, vincendo le sue proteste, poi si scansò, prese la sua giacca e sparì, lasciandole la porta aperta davanti al cielo di Los Angeles.

        Tomo girò la chiave nella serratura di casa e sentì una musica provenire dall’interno: era stato talmente solo in quei mesi che pensare che qualcuno ora avesse di nuovo invaso i suoi spazi gli provocò un piacere immenso. Sorrise spontaneamente ed entrò in casa, cercando di non fare rumore e muovendosi piano, cercandola. La trovò in cucina, ad armeggiare con qualcosa: aveva un maglione di cotone, color grigio topo, ed era bellissima. Le arrivava a metà coscia ed era più grande di lei, tanto che le cadeva su una spalla, lasciandogliela scoperta. Ai piedi portava dei calzini neri che sostituivano, nella mente di Vicki, le noiose pantofole. Amava girare scalza per casa, era più forte di lei: diceva di dover portare scarpe tutto il giorno e che almeno dentro casa voleva stare comoda. Tomo la prendeva sempre in giro, ma in realtà era un particolare che considerava molto sexy.  
La osservò: Vicki piegò una gamba e poggiò un piede sull’altro, lasciando tutto il suo peso sull’altro arto, che era teso all’inverosimile. La sua pelle era ambrata da sole estivo e i suoi capelli, più corti, scuri come la pece ora erano in un disordine che rammentava una sensualità senza precedenti. Era bella, era sua.
“Ehi…” le disse piano all’orecchio, arrivandole da dietro e abbracciandola.
“Mi hai spaventata!” si lamentò lei, ridendo e girando la testa a cercare le sue labbra. Gliele baciò piano, ridendo ancora, felice di essere di nuovo lì.
“Ti osservavo da molto, sei bellissima”
“Mi osservavi? Tomo, sei un maniaco!” gli rispose, sganciandosi dalla sua stretta e andando a reperire qualche ingrediente fondamentale dal frigo. Tomo la rincorse e le fu di nuovo dietro, prendendola di peso e portandosela addosso.
“Non ho fame” le disse con voce rauca.
“Io si” rispose lei, agganciando le sue gambe alla vita di Tomo.
“Ah si?”
“Si, ma la cena può attendere” disse sensuale. E fu un attimo, un lampo, una frenesia che mancava ad entrambi e che avevano faticosamente imparando a riprendere.

Nei giorni precedenti, da quando Vicki era tornata in pianta stabile a casa, non era stato tutto semplice. Il doversi riabituare a tutto, alla routine, a loro stessi, li aveva resi un po’ nervosi e il più delle volte entrambi erano scappati per ritagliarsi uno spazio dove poter pensare. Non era non amore, il loro, anzi forse era troppo amore, misto alla paura di rovinare ancora tutto. Quando si hanno seconde opportunità, si tende ad essere cento volte più attenti, più scrupolosi.  
I problemi che li avevano portati ad allontanarsi non erano così lontani come credevano, ed entrambi erano certi di doverli affrontare e risolvere, perché niente si nasconde sotto la sabbia. Mai. Così avevano piano iniziato a parlarne, a discuterne, e si erano resi conto che non era sempre così semplice come dicono: parlare è forse la cosa più difficile da fare, in una coppia. Ma è l’unica che ti porta ad essere felice.
Si stavano impegnando, ma a volte avevano solo bisogno di sentirsi vivi e di smettere di pensare, smettere di lavorare: quello era uno di quei momenti.
Tomo la poggiò delicatamente sul piano della cucina e prese a baciarla famelico, come se non avesse mai baciato una donna, come se non potesse baciarla più. Le tolse quel maglione e pensò che ogni volta era come la prima volta: quando perdi una persona, e poi ti viene restituita, ogni gesto lo vivi come un dono e ne fai tesoro in maniera ancora più dolce e potente.
Fecero l’amore lì in cucina, e per tutto il tempo che si presero per stare insieme, entrambi non pensarono ad altro che a loro stessi e a quanto erano fortunati. Solo dopo, nudi e accaldati si concessero del cibo.

         Erano seduti al tavolo a chiacchierare e mangiare, quando il citofono squillò. “Chi può essere?” chiese Vicki posando il tovagliolo sul tavolo e prendendo velocemente il suo maglione da terra. Una volta indossato, andò verso la porta e attraverso il vetro vide Shannon che la salutava.
“Ehi, ciao!”
“Disturbo?” chiese Shannon piano, quasi imbarazzato.
Disturbo?! Pensò Vicki… Shannon era una specie di animale vestito da uomo e tutti lo adoravano per questo. Se prendeva confidenza era raro sentirlo usare convenevoli o addirittura chiedere permesso. Di solito arrivava, la salutava abbracciandola e poi entrava cercando Tomo, senza curarsi di altro. Quella sera aveva chiesto se disturbava. Vicki rimase perplessa, ma sorrise dolcemente. “No, figurati, vieni pure” gli disse, lasciandolo entrare.
Shannon entrò in casa in maniera strana: sembrava che stesse acciaccando delle uova e si guardò intorno, come se quella casa potesse fargli del male.
Preceduto da Vicki, che gli faceva cortesemente strada, si avviarono verso la cucina, dove Tomo aveva appena fintio di infilarsi la maglia. “Ciao, amico” gli disse allungandogli la mano in segno di saluto.
“Ciao, Tomo” rispose lui, sempre più strano.
“Problemi?”
“No, no… cioè, posso parlarti?”
“Ovvio, siediti pure, ti prendo una birra” gli rispose Tomo, alzandosi e andando verso il frigo. Quando si girò, con la bottiglia in mano, vide che Shannon era ancora in piedi e lo guardò perplesso, aspettandosi una spiegazione che arrivò presto.
“E’ una cosa un po’ personale” disse impacciato. Poi si rivolse a Vicki: “Scusa, davvero” le disse, sperando che non la prendesse troppo male. Vicki era rientrata nelle loro vite da poco e l’ultima cosa che voleva Shannon era farla sentire un’estranea, perché non lo era. Aveva faticato a far ammorbidire Jared, che invece all’inizio era abbastanza piccato nei suoi confronti, ed ora si sentiva davvero male. Ma quello che doveva dire a Tomo era davvero molto delicato.
Tomo diventò serio e lo guardò: “Va bene, andiamo di là allora”. Poi guardò Vicki e passandole accanto le baciò dolcemente i capelli, a volerla rassicurare. Shannon chiuse gli occhi vedendo quel gesto, sperando che anche dopo sarebbe rimasto in vita.
Si chiusero fuori, si sedettero sulle sdraio a bordo piscina e Tomo passò a Shannon quella famosa bottiglia di birra. Il batterista la prese grato, perchè forse lo avrebbe aiutato.
“Allora?” lo incalzò Tomo.
“Niente di irrecuperabile, Tomo” iniziò lui, dando poi una generosa sorsata alla birra. “Devo solo parlarti di una cosa”
“Si, l’ho capito. Di cosa si tratta?” gli rispose Tomo, che stava diventando nervoso.
“Hai mai pensato di tornare alle Hawaii?” gli chiese distogliendo lo sguardo e posandolo sul panorama di LA, sotto ai loro occhi.
“Shan, ma…”
“Rispondi solamente: si o no”
“Non credo, insomma non ora almeno. Poi con Vicki, non so se…”
“Da solo, intendo”
“Ma che vuol dire? No, comunque, non ci ho pensato” rispose di fretta, sentendosi improvvisamente inadeguato, perché sapeva che le Hawaii erano legate a Kiki e sapeva che Shannon non parlava mai tanto per farlo. Lo incalzò, per quella situazione non gli piaceva: “Shan, cosa sai di Kiki?”. Lo disse piano, guardandolo negli occhi, in quegli stessi occhi che l’amico teneva fissi sulla città e non su di lui. Lo guardò sperando che Shannon si girasse e lo prendesse in giro, ma non sarebbe successo e lui lo sapeva benissimo.
Shannon respirò a fondo, in silenzio, poi parlò: “Kiki è morta”. Lo disse così, semplicemente, con un tono di voce basso e senza influenze particolari. Lo disse e lasciò che l’amico scagliasse la sua bottiglia lontano, mandandola ad infrangersi contro il pesante tavolo da giardino poco distante. Lo vide alzarsi e iniziare a camminare su e giù prendendosi la testa fra le mani e si sentì un completo imbecille. Ma sapeva che doveva farlo.
“Che cazzo è successo?”
“E’ annegata. E’ caduta da una roccia in un punto poco raccomandabile”
“Quando è successo?”
“Non lo so con precisione”
“E chi te l’ha detto?”
“Miriam”
“Tu la senti ancora?” gli chiese incredulo. L’aveva cercata a lungo e lei si era negata sempre, e anche quando l’aveva chiamata per dirle della nascita di Christine, non aveva avuto risposta. Pensava spesso a Miriam, e vedeva Jared annegare in un mare di caos, ma era convinto che neanche Shannon la sentisse più. Troppe notizie tutte insieme, pensò.
“No”
“E allora… da quanto lo sai, Shan?” andò dritto e duro al punto. Il tasto dolente, pensò Shannon. Abbassò lo sguardo e lo fissò sull’erba, poi rispose: “Più di un mese”
“Sei un bastardo. Dovevi dirmelo. E anche lei doveva dirmelo” urlò, incurante che Vicki potesse sentire.
“Tomo, calmati, le cose sono… complicate” tentò Shannon, alzandosi in piedi.
“Complicate? Cosa c’è di più complicato del sapere che il tuo migliore amico ti ha taciuto una cosa così?”
“Cosa dovevo fare?”
“Dirmelo e dirmelo subito. E anche lei avrebbe dovuto dirmelo. Io avrei… avrei…” non finì la frase e sentì una rabbia esplodergli nel petto, come forse non aveva mai provato. Si sentì soffocare dall’inutilità del momento, dal suo non poter far niente, dal non essere capace o dal non essere nella posizione per cambiare le cose.
“Tu non avresti potuto fare niente. E Miriam mi ha pregato di non dirtelo perché ti aveva visto felice con Vicki e non voleva rompere di nuovo qualcosa” fu onesto Shannon.
“E tu, invece?”
“Io… non lo so, Tomo. Ho solo pensato che non era il momento di dirtelo” esplose, provato da giorni di sofferenza e indecisione, provato da quel peso che sembrava averlo invecchiato di dieci anni. Poi si calmò, improvvisamente: “Ho sbagliato, scusa”, sussurrò, distogliendo lo sguardo.
Tomo lo guardò e se ne andò velocemente, senza rispondergli. Rientrò in casa, prese le chiavi e andò verso il garage. Non rispose neanche a Vicki che gli chiedeva cosa fosse successo, non la guardò, non fece niente. Se ne andò e basta, perché rimanere lì era pesante, perché il suo cuore aveva, di nuovo, smesso di battere.

“Shan ma che è successo?” chiese Vicki allarmata, uscendo nel giardino. Lo trovò a raccogliere le bottiglie di birra, abbandonate per terra, gliele passò con il viso triste e poi si decise a risponderle. “E’ morta una nostra amica, Vicki” disse semplicemente, perché non aveva niente altro da dire e perché non sapeva fino a che punto lei sapesse.
“Quella… quella donna?” chiese piano Vicki. Shannon si girò a guardarla sorpreso, perché sapeva, perché aveva collegato e perché nella sua voce c’era tristezza.
“Si” rispose solamente.
“Capisco… senti, vuoi… non so, fermarti?”
“No, torno da Emma. Grazie però” le disse sorridendo e andando verso la porta. Quando fu lì per aprirla, si girò e sospirò: “Vicki, non prendertela. Lui ti ama” le disse.
“Lo so” rispose solamente lei, ma quando fu rimasta sola, sentì un improvviso senso di inquietudine farsi largo.

        Lui rimase tutta la notte al MarsLab, lontano da tutto e da tutti, con la chitarra in mano e un casino cosmico nella testa. Si sedette lì dove era stato con lei mesi prima, e aveva accarezzato il pavimento come se potesse essere ancora caldo di lei. Si sentiva un’idiota, perché in qualche modo si sentiva responsabile di quella tragedia, per quanto non sapesse i dettagli, che però era certo non l’avrebbero aiutato. Non pianse neanche una lacrima, non gli venne da piangere, era solo arrabbiato con il mondo: con Miriam che l’aveva escluso. Con Shannon che gli aveva mentito per tutto quel tempo. Con Kiki. Che era morta.
Si poteva essere razionalmente arrabbiati con una persona perché era morta? Sorrise amaramente a quel pensiero e ancora una volta si ritrovò con l’umore e tutta la vita a terra. Poggiando la testa alla parete dietro di lui guardò quel posto e vide tutto ciò che aveva passato lì dentro con i Mars, con i suoi amici. Con la sua famiglia. Aveva sentito un rumore e aveva sperato che chiunque fosse non l’avrebbe cercato, non l’avrebbe trovato. Ma la porta della sala si aprì e rivelò la figura snella e rassicurante di Emma.
“Che fai? Vieni a salvarmi per spirito di riverenza?”
“Non so di cosa stia parlando” sorrise lei, alzando le mani in aria. Invece lo sapeva: non aveva dimenticato quando mesi prima l’aveva aiutata a non gettare la sua vita all’aria, e aveva condiviso con lei una vaschetta di gelato. E forse era lì proprio per restituire il coraggio che lui aveva dato a lei, pur sapendo che non ne sarebbe stata molto capace. Tomo per lei era il fratello che non aveva mai avuto: erano andati sempre d’accordo, nelle loro manie, nelle loro follie, Tomo era l’unico che la seguiva, che la ascoltava e al quale si poteva chiedere un consiglio vero, disinteressato.

Qualche ora prima, quando Shannon le aveva detto che sarebbe andato a parlare con Tomo, lei aveva semplicemente preso la macchina, lasciato Christine da Constance ed era andata a lavorare al MarsLab, certa che prima o poi l’avrebbe trovato. Certa che sarebbe corso lì, perché era lì che i ragazzi si rifugiavano quando le cose facevano schifo.
Si era sistemata nel suo vecchio ufficio con una punta di emozione, perché lavorare le era mancato, e aveva iniziato a scartabellare documenti e tabelle. Quando aveva sentito qualcuno entrare, certa che fosse Tomo aveva di malavoglia lasciato perdere tutto e si era affacciata in sala.

Tomo la guardò e le fece segno di andarsi a sedere accanto a lui. Attese che lei si fosse messa comoda e poi le parlò: “Come sta Christine?”
“Oh lei bene. Mi sta togliendo l’anima, ma sta bene” sorrise Emma, non sapendo che i suoi occhi avevano preso a luccicare.
Tomo sorrise e le accarezzò i capelli: “Mammina, sei felice eh! E dire che mesi fa dicevi che non saresti stata capace…” la prese in giro, bonariamente.
“Infatti non ho ancora dimostrato niente. E sarà una tragedia quando crescerà, se Shannon non la smette di esserne geloso. Ma lo sai che mi trascura un sacco?” disse fintamente offesa. Lei non era una donna gelosa, non era una donna opprimente e si fidava ciecamente di poche persone, ma a quelle persone aveva messo in mano tutta la sua vita e non c’era niente che la facesse dubitare. Una di quelle era Shannon. Vide Tomo irrigidirsi al sentir nominare l’amico, si congratulò con se stessa per l’astuto modo di entrare in argomento e continuò, abbassando la voce: “Sai che non voleva ferirti”
“Questo lo so”
“Prova a capirlo. Sta male da tempo”
“Doveva solo dirmelo, Emma”
“Si, è vero. Avrebbe dovuto, ma non l’ha fatto. Mandalo a fanculo e ricominciate, l’avete fatto tante volte”
“Come sai che sono arrabbiato con lui?”
“Ti conosco. E conosco lui. Voi non lo sapete, ma siete tutto ciò che ho”
“E’ il mio migliore amico, cazzo” imprecò Tomo, dando un pugno al muro accanto a sé.
“Ed è per questo che non te l’ha detto. Ti vedeva sereno, finalmente, ti stavi riprendendo, non se l’è sentita”
“E’ tutto un fottuto casino…”
“Non si chiamerebbe vita, altrimenti”
“Da quando sei diventata saggia?”
“Dispenso saggezza a piccole dosi per persone speciali. Lo faccio da sempre” gli sorrise.
“Mi sento responsabile, Emma. Sento che è colpa mia, che è andata alla deriva perché io mi sono comportato male. Avrei dovuto proteggerla e non l’ho fatto. Avrei dovuto avere cura di lei, e me ne sono fregato”
“Non è così, Tomo. Lei è annegata, e anche ammesso che sia vero ciò che pensi, le relazioni finiscono a volte, e non è un buon motivo per farla finita. Non è colpa tua, tu hai semplicemente preso una decisione”
“Una decisione che l’ha portata a chiudersi e a… Emma, è morta, cazzo!”
“Vieni qua…” gli disse solamente, attirandolo a sé. Tomo si lasciò andare e si rannicchiò fra le sue braccia, lasciando finalmente la libera uscita alle lacrime. Pianse per un tempo infinito, sentendo Emma accarezzargli i capelli e cercando di capire perché non cercasse conforto in Vicki.
“Credo di essere molto peggio di te” le disse infine, risollevandosi.
“Io ho rischiato di mandare a puttane tutto” rise lei.
“Io ce l’ho mandato invece. Il bilancio del mio ultimo anno fa schifo”
“Vicki è tornata però, e state ricominciando. A volte le cose tornano a posto, Tomo”
“La amo da morire, ma come faccio ad amarla ancora se mi sento così?”
“Parla con lei, dille quello che senti, spiegale tutto, e se questo la farà soffrire fregatene, perché è una cosa che dovete imparare a fare insieme. Ho smesso di lottare quando mi sono resa conto che parlare con Shannon era la cosa migliore della mia vita”.

In quel momento Vicki entrò al MarsLab come un treno, e rimase di sasso a vedere Emma seduta accanto a lui. Sembrava una scena già vista mesi prima, ma a ruoli invertiti. La differenza era che Shannon non si era arrabbiato a vedere Tomo con Emma, mentre Vicki l’avrebbe volentieri incenerita. Erano amiche, da sempre, ma in quel momento Emma sentiva lo sguardo infuocato di Vicki su di lei. Si alzò piano, sorrise a Tomo stringendogli il braccio in segno di coraggio e passando accanto a Vicki andò via, lasciandoli soli.
“Ti ho cercato ovunque” fu la prima cosa che disse Vicki, con la voce dura e stanca di chi ha girato la città in cerca di suo marito.
“Sono sempre stato qui”
“Buono a sapersi”
“Beh, dovresti conoscermi. Emma è venuta a cercarmi qui”. Non avrebbe voluto, né forse dovuto, dirlo, ma le parole gli uscirono dalla bocca prima che potesse fermarle. La guardò stupito e la vide abbassare lo sguardo.
“Mi farai sentire colpevole per sempre?” gli chiese con un filo di voce.
“Non volevo, scusa”
“No, è che me lo merito. Io sono scappata, ho fatto mille casini, invece Emma, Jared, Shannon, la tua famiglia è sempre stata qui ad aiutarti. E’ giusto così… solo che…” smise di parlare e lo guardò negli occhi, cercando il coraggio di continuare: “… vorrei che la smettessi e che tornassi a guardarmi con quegli occhi”
“Io ti guardo con gli occhi di sempre, Vicki”
“Non è vero e lo sai anche tu. Ci siamo illusi che potesse funzionare ancora, ma se facciamo così, Tomo non funzionerà”
“Perché stiamo litigando ora?” chiese distrutto, massaggiandosi la fronte. “Non ce la faccio, Vicki, davvero”
“Tu non vuoi parlarmi! Non vuoi rendermi partecipe di nulla!” gli urlò contro, perché si sentiva frustrata e aveva cercato di non darlo a vedere per troppo tempo.
“Kiki è morta!”. Ora urlava anche lui, cercando disperatamente di dare sfogo alla rabbia, una rabbia che ora si riversava anche su sua moglie, perché sembrava che non volesse capire.

Rimasero in silenzio, a guardarsi, Tomo che ansimava e Vicki con la bocca aperta. Poi, lei fece una cosa che non faceva da davvero tanto tempo: scoppiò a ridere, ridere fino alle lacrime, ridere fino a sentirsi male. In un primo momento Tomo la guardò furioso, poi la vide davvero e capì che non c’era niente di giusto nel rovinare ancora il rapporto con sua moglie. Capì che lei, più di chiunque, stava cercando di aiutarlo e di esserci per lui: aveva sbagliato tante volte, ma in quel momento era lì, aveva deciso di esserci.
Così abbassò lo sguardo e si concesse il lusso di sorridere, poi si avvicinò a lei e le alzò piano il viso con un dito: “Mi spieghi cosa cazzo ridi?”
“Il mio nome è pericolosamente simile al suo” rispose solamente Vicki, smettendo di ridere, ma sentendo ancora l’ilarità sul suo viso. Aveva le guance rosse, gli occhi umidi e la gola in fiamme. Aveva i postumi di una risata liberatoria e sperava tanto che Tomo non si arrabbiasse, perché poteva sembrare di cattivo gusto, ma loro avevano davvero bisogno di farsi una risata, una risata vera.
Tomo la guardò perplesso, ragionando un minimo sulla cosa, e rendendosi conto di non essersene mai accorto. Si illuminò e rise anche lui, portandosela dietro per svariati minuti. Poi la strinse forte, quando le risate smisero di essere così rumorose e lei piano gli chiese: “Mi somigliava?”
“No, non direi”
“Era più bella?”
“Era diversa” le disse sinceramente. Poi sospirò: “Mi accompagneresti alle Hawaii? Vorrei salutarla un’ultima volta” le chiese, imbarazzato.
Era assurdo: stava chiedendo a sua moglie di andare sulla tomba, ammesso che ce ne fosse una, della sua ex amante. Ma in certi momenti la dimostrazione di quanto si voglia stare insieme arriva da gesti anomali, da decisioni incredibili e richieste senza senso.
Vicki lo guardò, spostando il viso dall’incavo del collo di Tomo, dove amava rifugiarsi e vide negli occhi di suo marito la voglia di renderla partecipe davvero. Gli sorrise e gli sussurrò: “Certo”.

        Emma entrò piano in casa, dopo aver lasciato Vicki e Tomo al MarsLab, e trovò Shannon con la sua chitarra in mano, che strimpellava qualcosa.
“Ehi…” le disse piano, vedendola entrare. La sua espressione tradiva una nottata insonne e un malumore che sapeva bene da dove provenisse.
“Ciao” rispose lei, togliendosi il pullover di cotone e andando a sedersi accanto a lui.
“Christine dov’è?”
“Da tua madre, avevo bisogno di staccare un po’”
“Ok”
“Vogliamo parlarne?”
“No”
“Shan…”
“No, Emma”
“D’accordo, come vuoi” gli disse accarezzandogli la schiena e rilassandosi sul divano. Da quando il loro legame si era stretto, era la prima volta che Shannon non le parlava, non le chiedeva un parere e non la coinvolgeva nei suoi pensieri. Non fu ferita, perché non serviva, ma capiva sempre di più quanto quei tre uomini fossero legati da un filo indissolubile in un rapporto dove forse neanche lei a volte entrava davvero.
Emma andò a fare una camomilla per lei e del caffè per Shannon, gli portò la tazza e gli sorrise, tornando a sedersi sul divano al suo fianco, il silenzio. Rimasero così per tanto tempo, con la musica a cullarli, quando, ormai all’alba, qualcuno suonò alla porta. Emma andò ad aprire, non così stupita e si trovò davanti Tomo che le sorrideva colpevole. Lo fece entrare e lo strinse in un abbraccio: “Ora ti riconosco, Mofo… è di là, in salotto. Vi lascio soli” gli disse, andando poi via.

        Tomo entrò piano, gli sembrava di disturbare, di non essere nella posizione di chiedere neanche scusa, ma ci aveva pensato a lungo e aveva capito che senza il suo amico non ce l’avrebbe fatta. Gli errori si fanno più o meno sempre, li facciamo più o meno tutti ed è molto inutile recriminare il passato, infierire su qualcuno che ti ha sempre amato. Gli errori fanno semplicemente parte dell’essere umani ed accettarli diventa qualcosa di divino.
Avanzò piano, e Shannon alzò lo sguardo perché aveva capito che quei passi non erano di Emma, ma non si aspettava di trovarselo di fronte. Piuttosto credeva fosse Jared.
“Ciao” disse piano, mettendo da parte la chitarra.
“Una birra?” chiese l’altro, alzando una delle due bottiglie che aveva in mano. Shannon sorrise e gli fece cenno di accomodarsi accanto a lui, prendendo poi la birra che gli era stata offerta.
“Mi dispiace, amico”
“Va bene, così” gli rispose Tomo, sincero. Shannon lo guardò e capì che ci sono cose, nelle vere amicizie, di cui è inutile anche parlare.
“C’è silenzio qui dentro, stanotte”
“Christine è da mia madre”
“Quindi ho interrotto qualcosa?”
“Beh, avresti potuto interrompere, si”
“Bene, è la tua punizione e ne vado molto fiero” gli disse con aria solenne, lasciandosi andare sul divano. Dopo un momento di esitazione scoppiarono entrambi a ridere, così tanto da non riuscire più a smettere, da non riuscire a fermarsi. Emma sbirciò dalla porta e li vide ridere così tanto da commuoversi: perché gli uomini erano così semplici, facevano pace con una birra e due parole, e quella lite era già dimenticata. Ma dimenticata davvero.

Tornò a sedersi in cucina, analizzando delle cose e si rese conto di aver iniziato a lavorare davvero di nuovo: orari impossibili, sfide ingestibili e gli uomini che ridevano nell’altra stanza. Le mancò sua figlia, ma si rese conto di quanto amasse quella vita e decise di tornare in campo molto prima, doveva solamente farlo digerire a Shannon!
Quando si stava convincendo ad andare a letto, pur lasciando Shannon e Tomo in salotto a parlottare, suonarono di nuovo alla porta ed Emma, alzando gli occhi al cielo capì perfettamente chi potesse essere. Non gli servì guardare dallo spioncino, per aprire e dire meccanicamente: “Ciao, Jared”.
“Ma come…?”
“Tomo è già di là e, fortunatamente, non conosco altre persone pronte a piombarmi in casa a quest’ora!” lo interruppe Emma, sorridendo. “Prego, sono in salotto” gli disse poi, facendo un ampio gesto con la mano. Jared le baciò una guancia dolcemente e andò verso gli amici, trovandoli seduti poco elegantemente sul divano a chiacchierare e ridere.
“Bene, vi trovo entrambi, le fortune della notte”
“Kiki è morta, Jay” disse istintivamente Tomo. Jared cambiò espressione e lo guardò allibito, tanto che il croato offrì una birra anche a lui e li invitò a sedersi per continuare: “Si, è morta più di un mese fa. A quanto pare è annegata alle Hawaii. Non sappiamo molto di più”
“E volevate aspettare tanto a dirmelo?” reagì offeso Jared, prendendo la sua birra, per quanto non fosse abituato a bere quel momento gli sembrava perfetto.
“Lo sapevo solo io, da tempo. L’avevo detto ad Emma, ma a nessun’altro. Ieri sera ho invece creduto che fosse il caso di dirlo a Tomo”
“E?!” chiese Jared, non sapendo a chi rivolgersi.
“Non c’è molto altro da dire, Jared” continuò Shannon. Gli raccontarono tutto e lui ascoltò pazientemente, sentendo una lama trafiggergli il cuore al sentir nominare Miriam. Ma aveva capito, durante quella notte che avrebbe dovuto farci l’abitudine: Miriam non era più sua, Miriam ora era lontana.
A fine racconto, Jared aveva solo una cosa da chiedere: “Come stai, amico?”
“Mi sento uno schifo, ma ho fatto pace con me stesso nelle ultime ore. Vorrei averla salutata, almeno, vorrei che mi avesse risposto, ma purtroppo è andata così. Credo che mi servirà del tempo per assimilare, ma non posso colpevolizzarmi. Non è giusto per me e per… Vicki” disse piano ed onesto. Shannon e Jared lo guardarono per qualche minuto e poi istintivamente unirono le bottiglie in un brindisi simbolico.
“E tu, bro, che ci fai qui?”

Jared si prese del tempo per rispondere, e dopo aver trovato le parole giuste disse: “Ho capito che con Miriam è finita. Davvero”
“Che nottata di merda…” esclamò Tomo, provocando un’amara ilarità da parte di entrambi.
“L’ho vista ieri pomeriggio in spiaggia con un tipo. Abbiamo chiacchierato due minuti, e se n’è andata. Più tardi ho deciso di andare a casa sua per riprendermela, perché… cazzo, mi manca. Ma ho trovato di nuovo quel tipo, che non voleva neanche che le parlassi. Beh, alla fine è stata lei a dirmi chiaro e tondo che era tardi e che le dispiaceva” concluse amaro.
“Come stai?” chiese Tomo.
“Bene, se conti che sto bevendo una birra al posto del thè”
“Ragazzi, anticipiamo il tour. Mettiamo un paio di date prima di quelle che avevamo e torniamo a fare quello che sappiamo fare” disse Shannon all’improvviso.
“Shan, ma Emma ha bisogno di te… c’è Christine, abbiamo rinviato il tour americano di settembre apposta!” gli ricordò Jared.
“E annulliamo tutto, che ci frega bro! Facciamo le date americane e poi ce ne andiamo all’estero, come previsto. So che volete dirmi di si”. Li guardò sorridente, perché sapeva che gli sarebbe costato lasciare Emma e Christine, ma capiva che i suoi amici avevano bisogno di sentirsi vivi. E loro anni prima si erano fatti una promessa: niente li avrebbe divisi. 

Jared lo fissò a lungo, sentendo un brivido alla schiena percorrerlo nel momento in cui pensò ai live. Sapeva che quella era energia pura, sapeva che era l'unica cosa che avrebbe concesso a tutti e tre il lusso di tornare a respirare. A lui, più di tutti. 
Guardò Tomo, quasi sperando che si sbilanciasse prima di lui, quasi sperando che annuisse per dargli il lasciapassare di cui aveva bisogno. Tomo ci pensò per qualche minuti, poi piano disse: “Dovrei parlarne con Vicki, almeno. Prima di darvi una risposta". 

“Ma poss…” iniziò a dire Jared, il cui cervello già era in movimento. Non riuscì a finire, fu interrotto da Emma, che aveva pazientemente ascoltato e guardato i tre amici.
Sorrise piano e annunciò: “Torniamo indietro. Io, Christine e Vicki veniamo con voi. E’ deciso, si fa. Domani mi attivo e ripristino tutto. Bentornati, Mars


Jared, Tomo e Shannon la guardarono ridere di gusto e sentirono che il mondo finalmente era tornato a girare. Davvero. 

 
       • 

L'angolo di Sissi 

Eccoci, ultimo capitolo. Mi viene da piangere! 
Sono più di sei mesi che scrivo questa storia ed è qualcosa di davvero straordinario. 
Non credevo sarebbe arrivata ad essere così seguita, all'inizio era un gioco, ora mi pesa davvero chiuderla.
Ma tutto ha una fine, e le cose eterne non funzionano mai. Così ecco a voi il mio finale! 

Ho voluto dare rilievo all'amicizia, quella vera, quella che non muore se uno sbaglia,
quella che si ritrova alle tre del mattino davanti ad una birra a dirsi i problemi e a cercare di risolverli. 
Ho iniziato dai Mars e ho finito con i Mars. 

Vi annunciò che in settimana (fra pochi giorni, in verità) ci sarà un piccolo epilogo, ma non sarà niente di eclatante,
quindi ho deciso di dire quello che voglio dire ora:  

ringrazio davvero di cuore le mie DDD: Muna, Alessandra, Macri, Mami e Fede. 
Loro sono entrate nella mia vita da poco tempo, 
ma è come se le conoscessi da sempre. 
A voi voglio dedicare la mia prossima FF (in costruzione), perchè so che ci tenete e perchè sto imparando a volervi bene. 

Ringrazio Cris per aver sempre recensito puntuale e per aver colto ogni sfumatura! 

Ringrazio infine chiunque abbia perso anche solo pochissimo tempo della propria vita a leggere The Convergence, 
per me è davvero bello sapere che qualcuno è stato felice nel vedere gli aggiornamenti! 

Vi spoilero che prestissimo (super prestissimo) arriverà una nuova storia. Stay tuned! 

Sarò sempre legata a The Convergence, perchè è la prima ff che ho scritto qui, 
e perchè è la storia che mi ha fatto tornare a scrivere, dopo anni di incertezze. 
So benissimo che all'inizio non era bellissima, e so che è migliorata col tempo: 
grazie a chi è rimasto e non ha mollato dopo i primi capitoli! 

Spero di avervi anche nelle prossime ff come pubblico! 

Abbracci e baci 

Sissi 

 

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Capitolo 39
*** Epilogo ***


Epilogo

Un anno dopo – Settembre 
 
          “Ciao, si, sono io”.
Miriam sbuffò cercando di togliersi dal viso una ciocca di capelli ribelle. “Sono appena arrivata. Si, si, è andato tutto bene. Ti chiamo più tardi, cerca di fare la brava!”. Sorrise e chiuse la conversazione, ripensando a quanto la sua amica potesse essere apprensiva nei suoi confronti.

Non appena mise via il cellulare, si concesse qualche minuto per metabolizzare di aver davvero iniziato quel viaggio. Si guardò attorno e chiuse gli occhi giusto un attimo, per sentire esplodere il suo stomaco, ma quello che si aspettava non avvenne: era serena, tranquilla, non sentiva angoscia o ansia all’orizzonte. Quando riaprì gli occhi sorrise, più a se stessa che al mondo: forse era guarita davvero.
Iniziò a camminare verso l’area taxi, dove un uomo gentile le prese il trolley con cui viaggiava e la fece salire sull’automobile, chiedendole subito dopo l’indirizzo a cui voleva andare.
Si rilassò non appena l’uomo partì in direzione centro città. Davanti ai suoi occhi scorrevano strade, case, ristoranti e vita. Tutto quello che aveva osservato con occhi famelici solo due anni prima, ora era davanti a lei, identico e cambiato al tempo stesso.
L’anno che aveva appena passato era stato difficile, ma intenso e alla fine anche bello. Quando aveva chiuso la porta in faccia a Jared, in faccia alla felicità, si era fatta una promessa: arrivare al traguardo. Si era chiesta a lungo, per giorni, quale fosse quel fantomatico traguardo, e l’unica risposta che era riuscita a darsi era che non lo sapeva, non lo aveva mai saputo. Ma in nome di quella meta aveva sacrificato tutto, ogni minima cosa bella che la vita le aveva offerto: i suoi amici, il suo amore, il suo sorriso, ed ora aveva il dovere morale, verso se stessa soprattutto, di arrivarci.
Si era rimboccata le maniche: aveva lasciato il suo lavoro e aveva deciso di non abbandonare la California. I primi mesi aveva lavorato in un diner, dove la paga era decente e la vita scorreva serena: nessuna responsabilità gravava sulla sua mente, se non quella di servire cappuccini e piatti scaldati al microonde, il che le andava benissimo, perché le consentiva di riprendersi, poter vivere lì e cercare la sua strada.
Lì aveva conosciuto Katreen. Avevano la stessa età, due vite diverse ed esperienze distanti, ma si erano trovate simpatiche ed entrambe avevano bisogno di dividere l’affitto, così in pochissimo tempo erano andate a vivere insieme e avevano costruito un’amicizia solida e vera.
Miriam pensò all’amica, che a lungo aveva insistito per accompagnarla in quel viaggio. Ripensò a lei e a quanto fosse stata provvidenziale in quell’ultimo anno. L’aveva aiutata a tirarsi su, ad uscire dalla tristezza, l’aveva presentata ai suoi amici e l’aveva coinvolta in viaggi e serate divertenti. Era stata per lei quello che lei aveva sempre cercato: un’amica sincera, un po’ stronza, ma infinitamente dolce. La sua indipendenza. 

Katreen aveva accolto le sue confidenze in moltissime notti insonni, e Miriam piano piano le aveva raccontato di Kiki, dei ragazzi, di quell’anno appena trascorso che le aveva cambiato la vita e l’aveva ridotta a quello che ora la ragazza aveva davanti: un fantasma incazzato con se stesso per i propri, immensi, errori. E le aveva raccontato di Jared.
A quel nome si toccò istintivamente il collo: aveva rimesso il suo ciondolo, lo portava giorno e notte da un anno ormai. Katreen sosteneva che fosse una punizione che si stava auto infliggendo, ma lei sapeva benissimo che era la spinta che la costringeva a non perdere di vista l’obiettivo, come se quel piccolo venti che aveva con sé, la aiutasse a lottare, a camminare nonostante tutto. Le ricordava ciò che aveva perso pur di essere quello che voleva, le ricordava che non doveva mollare, o il dolore non avrebbe avuto più uno scopo.
Jared le era mancato. Le era mancato tutti i minuti, tutti i giorni, come l’aria, come l’acqua, come qualcosa che sai benissimo ti farebbe felice, ma sai anche che sarebbe dannosa. O lo saresti tu per lei.
Era stato con lei per tutto il tempo, in quell’anno. L’aveva punita nelle notti in cui era stato più difficile vivere, e le aveva sorriso in quei momenti in cui sentiva di essere forte, in cui sentiva che ce la stava facendo. Ed era stato terapeutico non perderlo, non dimenticarlo: lei lo amava, lo sapeva dal giorno in cui sul ballatoio della sua ex casa lo aveva lasciato andare via. Quel giorno il suo cuore si era frantumato in milioni di pezzi, quando lui le aveva detto, ancora, possiamo farlo, lei e tutto ciò che rappresentava era morto sotto il peso di quella che sapeva essere la verità. Non era tornata indietro, perché sapeva che non avrebbe potuto dargli niente di ciò che lui meritava, si era fatta bastare l’idea che lui la amasse davvero, la dolcezza del suo sguardo mentre le diceva ti rivoglio.
Miriam ora era serena, ma sapeva benissimo che non avrebbe mai smesso di amarlo. In quell’anno aveva seguito i gossip: si vociferava che lui frequentasse una ragazza del mondo della moda, con la quale era stato avvistato parecchie volte. Aveva portato avanti un tour mondiale con i Mars, aveva fatto bei viaggi ed era rimasto bellissimo.
Non era gelosa, sapeva di non poterlo essere, ma quando lo vedeva uscire dagli hotel, con la ragazzina al seguito, o sbirciava sue fotografie in giro per il mondo a fare il cretino con le donne che gli cadevano ai piedi, beh, provava un senso di nausea allo stomaco. Non per il suo comportamento, ma perché lei aveva permesso tutto ciò: se lei fosse rimasta con lui, o fosse tornata da lui, ora, era certa, Jared sarebbe stato un uomo diverso. Tutte le sue insicurezze non esistevano più. 
Dopo qualche tempo che lavorava nel diner, aveva trovato un impiego di tutto rispetto, dove lo stipendio era decisamente migliore e la sua laurea finalmente utilizzata. Non aveva lasciato l’appartamento che divideva con Katreen perché non voleva stare sola, e perché sapeva che l’amica continuava ad avere bisogno di aiuto economico e di compagnia serale. Insieme, tutto sommato, erano una bella squadra.
Aveva lavorato su se stessa come mai aveva fatto nella sua vita, e aveva lasciato che il suo vero io uscisse fuori. Alternando momenti euforici a momenti bui, con l’aiuto di persone che avevano imparato a volerle bene davvero, ne era uscita e aveva curato se stessa. Quando si ritrovava a piangere sulla spalla di qualcuno di loro, pensava sempre a Shannon e Tomo, nonché ad Emma; loro anche le avevano voluto bene, lei li aveva allontanati convinta che fosse solo per amore di Jared che l’avevano accolta. Non si era mai fermata a pensare che forse loro avrebbero davvero voluto che lei facesse parte della famiglia, non si era mai fermata a pensare e basta. Aveva semplicemente accantonato la cosa, e spesso si era ritrovata a giocare con il numero di Shannon, cercando il coraggio di scrivere. Se non l’aveva mai fatto, lo sapeva, era per paura e senso di orgoglio: forse avrebbe dovuto ancora lavorare su quel particolare.
Aveva pensato mille volte di andare alle Hawaii, per salutare Kiki, l’ultima vera cosa che avrebbe dovuto fare, ma ogni volta se lo impediva con una scusa: devo lavorare, non ho ferie, costa troppo, ho il raffreddore. Erano tutte bugie che si diceva per non ammettere la verità, cioè che non voleva andare lì perché aveva paura di soffrire ancora.
Poi, qualche tempo prima, durante una sbornia presa con le sue amiche per festeggiare l’imminente matrimonio di una di loro, Miriam si era fermata improvvisamente e si era detta la verità: lei non voleva andare alle Hawaii, tutto il resto erano scuse stupide. Quando era riuscita a non mentirsi più, aveva davvero iniziato a sentirsi bene, a guarire, e aveva deciso di affrontare quel viaggio. L’aver scelto Settembre, pensò su quel taxi, non era certo stato un caso, anche se continuava a ripeterselo da tempo.
Il taxi si fermò davanti l’hotel, lei pagò la corsa e scese, andando speditamente verso la reception a prendere la sua stanza. Salì al 5 piano, entrò nella sua camera e lasciando la borsa in un angolo, andò direttamente a farsi una doccia.
Mezz’ora dopo, con un vestito di lino addosso e delle infradito basse ai piedi, inforcò i suoi occhiali da sole e prese al volo il suo panama bianco, per immergersi nelle strade di Honolulu.
Riconobbe moltissimi dei posti che aveva scoperto un paio d’anni prima, e si sorprese nel constatare che non aveva dimenticato proprio niente, e che aveva solo una leggera nostalgia.
Tuttavia, lo scoglio maggiore era ancora la spiaggia. Lì non riusciva ancora a mettere piede, e guardandola da lontano decise che l’avrebbe affrontata subito prima di partire.
Passarono i giorni, Miriam girovagò per l'isola e andò a trovare la famiglia di Kiki. Scoprì che il bar dello zio Carlos era stato messo in vendita per sanare i debiti che erano ormai elevatissimi e che la madre di Kiki si arrangiava come poteva. 
Fu felice di vederla, la riconobbe subito e la invitò a prendere un caffè in casa, dove le raccontò molto di come la vita era andata avanti, pur dopo la tragedia. La ringraziò di essere andata a trovarla e le disse che avrebbe sempre avuto degli amici, lì ad Honolulu. Tuttavia Miriam non trovò quel calore che aveva contraddistinto quella famiglia un paio d'anni prima, quando l'aveva conosciuta. Andando via pensò che forse quel viaggio sarebbe stato opportuno farlo prima, ma guardando la casa un'ultima volta capì che lei c'entrava poco: quando muore un figlio, nessuno può realmente fare nulla. 


 
          Jared si mosse piano nel letto, coprendosi il volto colpito direttamente dal sole e affondando poi la mano nei capelli, ora più corti da qualche mese.
Si stirò i muscoli e pigramente si alzò dal letto, dirigendosi verso la grande finestra della sua stanza per ammirare il panorama. Guardò fuori, e vedendo il mare calmo e le palme immobili, Jared si disse di nuovo la sua bugia preferita: sono venuto solo per riposarmi, qualche giorno di vacanza, staccare la spina. Sospirò perché non ci credeva più neanche lui e si diresse sotto la doccia, prima di uscire dall’hotel e andare a sedersi in spiaggia. Come faceva ormai tutti i pomeriggi da quando era lì. 
L’ultimo anno era stato bellissimo: i Mars erano ripartiti in tour nel settembre dell’anno prima. Da quando Emma si era messa in moto di nuovo, Jared aveva sentito il sangue scorrere di nuovo nelle vene e aveva avuto un'unica certezza: i suoi amici non l'avrebbero mai mollato. 
Christine aveva festeggiato il suo primo mese di vita a New York, il suo secondo a Miami e il suo terzo in Alaska; Emma e Shannon erano follemente innamorati, felici e fastidiosamente uniti. La loro sintonia era qualcosa che nessuno avrebbe mai capito, e forse neanche lontanamente sfiorato: la verità era che loro erano davvero stati fatti l’una per l’altro.

Christine era la loro mascotte e tutti facevano a gara per coccolarla e averla fra le braccia. Tutti, tranne i suoi genitori, che invece approfittavano volentieri della Christine manìa, che aveva coinvolto tutti, solamente per ritagliarsi dei momenti tutti loro. Per curare la coppia, dicevano. Per fare dell’ottimo sesso, li prendevano in giro Tomo e Jared.
Il fatto di avere anche Vicki con loro era stato motivo di serenità anche per Tomo. Lei aveva accettato ben volentieri di prendersi un’aspettativa dal lavoro per seguirlo, e insieme avevano ricostruito un rapporto solido e speciale. Avevano lavorato molto sull'essere uniti, sul capirsi anche quando si è arrabbiati, sul parlarsi anche quando si è stanchi. Jared li aveva osservati e il più delle volte si era ritrovato a pensare a Miriam: loro non avevano mai pensato che potesse esserci dell'altro, loro avevano sempre creduto che l'amore potesse bastare.  
In una delle pause dal tour, Tomo era andato alle Hawaii ed era riuscito a trovare la tomba di Kiki. Portarle un fiore era stato catartico, ed il fatto che dietro di lui, a tenergli la mano, ci fosse Vicki l’aveva convinto che lei era davvero una donna eccezionale. Era stato come chiudere un capitolo e chiedere perdono, mettersi l’anima in pace e rassegnarsi al fatto che quando qualcuno di caro muore, la soluzione non è smettere di vivere la nostra vita, ma quella di viverla ancora più intensamente.

Jared invece aveva passato l’anno in maniera anomala. Gli aveva fatto bene partire, svagarsi, esibirsi e incontrare la sua famiglia, gli Echelon, però nei suoi occhi c’era sempre un velo di tristezza, che non accennava ad andare via.
Passava volentieri il tempo libero con Christine, e aveva trovato in Shayla una magnifica confidente, non sarebbe mai arrivata ai livelli di empatia che condivideva con Emma, però era una ragazza dolce e sveglia, ed erano gli unici che non avevano di che divertirsi durante i momenti liberi, così avevano unito le forze per farsi compagnia e alla fine Jared aveva acquisito molti consigli utili da parte di Shayla, che dal canto suo si era aperta molto con lui. Erano una squadra e insieme riuscivano a capirsi.
In realtà Jared avrebbe avuto di che spassarsela: tutte le sere delle donne bellissime cercavano di infilarsi nella sua stanza, e anche se a volte aveva avuto il desiderio di accettare e fregarsene, non c’era mai stata una scintilla di passione che l’aveva davvero convinto, e quindi aveva lasciato che le cose andassero come dovevano.
Fino alla primavera, quando aveva incontrato una modella a Parigi e si era convinto a passarci qualche ora, forse solo perché la città che aveva intorno era piena di ricordi ed erano tutti intenzionati a distruggerlo.
Lei era stata sublime, lo aveva davvero ripagato con un’ottima moneta, e Jared aveva iniziato a frequentarla, mettendo in chiaro che non voleva una relazione. Ma d’altronde lei era interessata al sesso, e al suo nome, che avrebbe fatto impennare in un attimo la sua popolarità.
Il gossip, dopo i primi rumors durante le notti parigine, era impazzito clamorosamente quando li avevano beccati mentre uscivano dallo stesso albergo di Londra, qualche settimana dopo. Lei era sulla bocca di tutti e il suo agente iniziava a proporle contratti milionari, mentre Jared non aveva fatto nulla per far supporre che non si frequentassero, era rimasto in silenzio nonostante Emma gli suggerisse di rilasciare dichiarazioni di qualsiasi tipo. Lui sperava solo che Miriam vedesse, che lei sapesse.
Avevano continuato a tiritera fino a quando lui non si era stancato e lei era diventata sufficientemente famosa da non servirsi più dello stereotipo modella che frequenta rock star. A quel punto si erano salutati e ognuno per la propria strada. Jared, quel giorno, aveva capito che la sua vita sentimentale avrebbe seguito quell’iter e si era rassegnato.
Più che triste o stanco, era semplicemente in balìa degli eventi e del tempo che passava, e questo se all’inizio era stato frustrante, da un certo momento in poi era diventato semplicemente normale. Musica, film, soddisfazioni lavorative e qualche donna da frequentare per qualche tempo, senza impegni né amore vero, solo per scaldarsi il letto. Andava bene così, anche se a vedere Shannon a volte provava un senso di invidia che lo costringeva ad allontanarsi da tutto e tutti.
Le parole di Miriam ancora lo perseguitavano e spesso si era chiesto se avesse sbagliato qualcosa, se avrebbe dovuto agire in maniera diversa. Non lo sapeva più, e a quel punto neanche gli interessava tanto.

Quel settembre sarebbero stati due anni.

          Jared sbuffò, interrompendo il flusso di pensieri che lo stavano facendo diventare pazzo. Poggiò le braccia dietro la schiena, sentì la sabbia fra le mani e lasciò andare la testa all’indietro, cercando disperatamente di liberare la mente, il cervello, l’anima. Sapeva già che non ci sarebbe riuscito.
Il tramonto stava incantando Honolulu e le poche persone che erano rimaste a godersi lo spettacolo, erano fondamentalmente coppie di innamorati in cerca dell’attimo giusto per immortalare una confessione, un ti amo o molto più semplicemente una fotografia. Lui era solo, e stava meditando di fregarsene e tornare a casa, che a stare lì ci si faceva solamente del male, quando girando la testa vide un’altra persona sola. Era una donna, camminava sul bagnasciuga con delle infradito in mano, attenta a non permettere all’oceano di bagnare i suoi jeans, ripiegati fino a sotto il ginocchio. Aveva una canotta azzurra a coprirle la pelle bianca e un panama che nascondeva i suoi capelli e parte del suo viso. Jared la osservò un attimo, si muoveva sicura ed elegante, emanava un senso di pace mentre giocava con la sabbia e fissava l’oceano.
Guardandola pensò che quello per cui davvero era arrabbiato da un anno era non aver capito perché tutto era andato a puttane, perché un certo giorno avevano smesso di capirsi, di ascoltarsi, di aiutarsi. Erano stati forti, amanti, complici e amici fino a quando la bolla era scoppiata e lì tutto era naufragato. Ma lui ancora non sapeva il motivo. Chissà Miriam dov’era ora, chissà come stava.
Stava per smettere di guardarla, quando una folata di vento strappò via il cappello della donna, portandolo a pochi passi da lui. Non avrebbe fatto niente, se lei non si fosse girata per vedere dove fosse finito il suo panama. Sarebbe rimasto fermo, fregandosene di apparire maleducato nel non riportarle il cappello, se solo lei non avesse voltato il suo corpo.
 
          Miriam lo fissò per un attimo, incredula. Si era voltata per andare a riprendere il panama volato via e si era ritrovata a fissare Jared. Era forse uno scherzo? Non sapeva se muoversi o no, se correre a prendere il suo panama e poi fuggire, o fuggire e basta. Forse voleva che lui facesse la sua mossa, o forse aspettava inconsciamente quel momento da così tanto tempo che non aveva avuto modo di prepararsi una strategia.
Rimase ferma, voltandosi del tutto e accennando un leggero sorriso, poi mosse un paio di passi nella direzione di Jared, lasciando che il suo sguardo fissasse solamente la sabbia. Non che non fosse sicura di dove avrebbe messo i piedi, ma per quanto avesse imparato a dominare se stessa e avesse fatto un grandissimo lavoro sulla sua psiche, ci sarebbero state alcune cose che avrebbero sempre avuto il potere di sconvolgerla. E Jared era senza dubbio una di queste.
Non appena fu vicino al cappello, notò che Jared si era alzato lentamente e l’aveva preso in mano, aspettando che lei si avvicinasse per porgerglielo. Miriam sollevò gli occhi costringendosi ad apparire serena, e prese quel panama come se lui le stesse passando un carbone ardente: “Grazie” sussurrò, guardando altrove.
 
          Era assurdo. Tornare ah Honolulu per piangersi un po’ addosso, nonostante le bugie che aveva raccontato a chiunque, se stesso compreso, e trovare Miriam che vagava sulla spiaggia. Se non era sfortuna questa!
La osservò meglio, incapace di dire qualsiasi cosa: le sue labbra erano leggermente colorate e lei aveva sempre quel suo tic di mordersele piano quando era imbarazzata. Aveva le guance arrossate dal vento e i capelli di un mosso naturale che lui adorava. Erano molto più lunghi di come li ricordava, ed ora erano di un castano chiaro che le donava molto. Li aveva lasciati sciolti, liberi di svolazzare dove volessero, liberi di mettersi come meglio credevano. Nessuna traccia della finta e fastidiosa perfezione dell’ultima volta che l’aveva vista, a Los Angeles, un anno prima.
Era ingrassata di qualche chilo, ma questo non faceva che darle una sensualità diversa, più consapevole, più adulta. Jared la osservò nei suoi particolare e la vide più donna di come fosse mai stata.
“A quanto pare abbiamo avuto la stessa idea” disse piano, guardandola e sperando che lei si girasse. Non sapeva se lei fosse lì per quell’anniversario, ma era abbastanza intelligente da credere che avrebbe potuto scegliere qualsiasi altro periodo per visitare di nuovo Honolulu. Essere su quella spiaggia il 20 di Settembre non era un caso, per entrambi.
 
          Miriam non osò contraddirlo. Non avrebbe avuto senso, sarebbe stato stupido. Lei era andata lì per chiudere l’ultimo capitolo della storia che le aveva spaccato il cuore, per salutare Kiki, ma aveva scelto quel periodo anche per celebrare l’amore che avrebbe potuto vincere e che invece lei aveva lasciato affondare da solo.
Si girò appena e sorridendo imbarazzata, lo ammise: “Già. Che fantasia!”. Si ficcò le mani nelle tasche dei jeans e iniziò a far scorrere il piede sulla sabbia, disegnando finta arte che non sarebbe servita a nessuno. Riuscì persino ad ironizzare, e si complimentò con se stessa per non aver ancora versato nessuna lacrima. Ma era palese che ne avesse versate così tante in quell’anno che ormai sapeva quando era giusto farlo e quando era solamente una perdita di tempo e di energie.

“Ti va di fare due passi?” le chiese Jared. Miriam alzò gli occhi su di lui e scoppiò a ridere, improvvisamente, senza un apparente motivo. “Cosa ho detto di tanto divertente?”
“Niente. È che…” si sentì una stupida ad averlo pensato, e soprattutto a volerglielo dire, ma Jared la incalzava con lo sguardo e lei alla fine cedette: “E’ la stessa frase che hai usato due anni fa, dentro quel bar” ammise, indicando il locale di legno che troneggiava sulla spiaggia e che ora non era più proprietà della famiglia di Kiki.
“Amo ripetermi. Allora, ti va?”
“Si, certo, andiamo” gli disse iniziando a camminare al suo fianco.
 
          Per qualche minuto rimasero in silenzio, entrambi chiusi nel loro mondo, entrambi che pensavano a come uscirne senza fare l’ennesimo casino.
“Hai lasciato allungare i capelli” disse Jared, prendendosi la briga di iniziare un qualsiasi discorso e sentendosi leggermente stupido, meno di quindici secondi dopo: che commento era quello?
“Già. Ho avuto poco tempo di andare dal parrucchiere!” scherzò Miriam, ridendo subito dopo. Era impressionante quando si sentisse bene; anche se tutti avrebbero potuto dire il contrario, lei era totalmente tranquilla. Sembravano non essere trascorsi quei due anni, sembrava che loro fossero ancora due sconosciuti su una spiaggia di Honolulu. Miriam smise di ridere a quel pensiero: quanto avrebbe voluto che fosse davvero così.
“Anno impegnativo?” chiese solamente Jared, trincerando dietro quella semplice domanda tutta la sua curiosità.
“Abbastanza, a dire il vero” ammise Miriam. Tornò a guardarlo, sorridendo appena, e sentì tutto il bisogno di dirgli quello che pensava, che voleva, che aveva vissuto. Ma non poteva, non era il momento, e sicuramente a Jared non sarebbe stato interessato.
“Lavori ancora a Los Angeles?”
“Si, si, sono rimasta a LA. Ho cambiato lavoro però”
“Ah, e di cosa ti occupi ora?”
“Lavoro in uno studio legale che si occupa principalmente di class action. Siamo vicini alle persone, a chi non ha strumenti per difendersi, insomma”
“Interessante. Sei nel tuo ambiente, quindi”
“Si, mi sono dedicata a ciò che amo. Alla fine ce l’ho fatta” ammise Miriam, entusiasta e orgogliosa del suo lavoro. 
“Pensavo che saresti tornata a Parigi” disse con finta nonchalance.
“Ci ho pensato per un momento, ma poi ho capito che ero scappata da lì ed un motivo doveva pur esserci. Mi sono impegnata per trovare quel motivo”
“E l’hai trovato?”
“Si, alla fine si. Ci ho messo parecchio, ma alla fine l’ho trovato” sorrise Miriam.
Parlavamo per enigmi, lo sapevano entrambi. Miriam avrebbe voluto gettargli le braccia al collo e semplicemente supplicarlo per perdonarla. Jared avrebbe voluto fermarla lì e farle una sola domanda: mi ami ancora?
Entrambi però erano franati dalla paura, dall’ostinazione, ma sopratutto dalla consapevolezza, seppur amara, che il tempo non torna indietro. Dal ricordo di tutto il dolore che avevano affrontato nei mesi precedenti, ognuno col suo metodo, ognuno alla sua maniera. Ma soprattutto entrambi sapevano che non basta amarsi per essere felici: serve l’amore, ma serve anche una serie di coincidenze fortunate, di equilibri e sintonia che è difficile creare, se non si ha di natura.
In quel momento il cellulare di Miriam squillò. Lei sussultò appena, tanto era assorta in quella piacevole quando sconvolgente passeggiata. Aprì la borsa che portava sulla spalla, più una sacca informe a dire la verità e iniziò a frugare dentro poggiandosela sul ginocchio appena alzato.
“Dannazione, dove sei!” sussurrò tra sé e sé, continuando freneticamente a cercare il cellulare, che non smetteva di suonare. E che, purtroppo per lei, squillava con la base melodica di City of Angels.
Jared si fermò con lei e ridacchiò sotto ai baffi, gongolando nel riconoscere la sua canzone. La osservò in maniera quasi maniacale e vide la sua Miriam ancora davanti a lui: i capelli non perfetti, i jeans informi, la canotta aderente e la pashmina colorata al collo. Era lei, era sempre stata lei. Ed era stata sua, quanto avrebbe voluto che fosse ancora sua.
La guardò cercare buffamente il cellulare, imbarazzata nel sentire che il silenzio della spiaggia, ormai quasi deserta, era squarciato da quella suoneria; lo vedeva che avrebbe voluto scavare una fossa nella sabbia e mettercisi dentro, e questa cosa lo faceva ridere, gli faceva tenerezza e gli faceva prendere consapevolezza che era ancora follemente innamorato di lei, del suo modo di essere, del suo caos, del suo modo buffo di fare e dire le cose.

          Miriam cercò il cellulare per quello che le sembrò un tempo infinito. Continuava ad imprecare e a sentirsi una stupida: perché aveva messo quella suoneria? Perché qualcuno avrebbe dovuto cercarla proprio mentre era davanti a Jared? Jared, che non vedeva da un anno. Bella figura, ottima mossa, si disse mentalmente.
Trovò finalmente il cellulare e prese la chiamata al volo, più per farlo smettere di suonare che per altro. Era Katreen. “Ehi, ciao” rispose affannata come se avesse appena finito di correre.
“Miriam, stai correndo?” chiese l’amica, sospettosa.
“No, ma che dici” rispose Miriam. Avrebbe voluto ucciderla. “Che c’è?”
“E allora stai facendo altro… senti che fiato corto che hai!” la prese in giro.
“Smettila subito, Kat. Cosa vuoi?”
“Come siamo scorbutiche… cosa fai?”
“Passeggio”
“Quindi hai tempo di sentire le ultime di Jodie!” esultò l’amica, mentre iniziava a trangugiare patatine, il suo pasto preferito.
“No, non ho tempo!” disse un po’ troppo velocemente Miriam.
“Miriam, cosa mi nascondi!?”
“Niente, dai devo andare” tagliò corto.
“Tu mi nascondi qualcosa e lo sai. Ti interrogherò al più presto, stupida!”
“Non ti lascerò vincere, cretina!”
“Si si, vedremo…”
“D’accordo, ciao!”. Miriam chiuse la telefonata ridendo, senza rendersi conto di che espressione divertita avesse in volto. “Scusami” disse a Jared, riferendosi all’interruzione.
“Non c’è problema” rispose elegantemente lui. Salvo poi affondare: “Un’amica?”
Miriam ci vide molto di più dietro quella domanda e tornò seria: la loro crisi era iniziata perché lei voleva avere indipendenza, perché lei aveva bisogno di amici, di persone che non fossero Jared – centriche. Ora vedeva in quella domanda un mondo intero e aveva quasi remore a rispondergli. “Si, un’ottima amica” disse semplicemente. “E a te com’è andata quest’anno? Ho visto che avete fatto un lunghissimo tour”. Cambiò discorso velocemente, non c’era motivo di parlargli della sua vita, di dargli più informazioni di quante ne avesse già dato.
“Si, siamo partiti subito dopo la nascita della piccola. E’ stato un anno soddisfacente, pieno di emozioni. Ci hai seguiti?”
“Non direttamente. Ma ho sbirciato dal web, a volte, lo ammetto”
“Hai sbirciato dal web” ripetè Jared, affondando le mani nelle tasche e guardando altrove.

          Si chiese se avesse avuto notizie anche della modella, il suo cuore gongolò per un momento, poi cadde nello sconforto: non avrebbe mai voluto che Miriam pensasse che l’avesse sostituita in maniera così veloce, così semplice. La realtà era che sarebbe stato impossibile sostituirla, ma quando ci pensò si disse che forse era inutile dirglielo. Forse lei era ancora con quell’altro.

“Come sta Tomo?” chiese impaurita dalla risposta. Erano mesi che pensava di dovergli dire di Kiki.
“Bene, si è ripreso. Vicki è venuta con noi in tour e sono tornati ad essere felici”. La scrutò e la vide torcersi le mani, un sentimento di galanteria misto ad affetto gli suggerì di aiutarla, anche se forse sarebbe stato il caso che lei se la cavasse da sola, quella volta. “Lo sappiamo, Miriam” le disse con un tono quasi paterno.
“Sapete…”
“Sto parlando di Kiki. Shan ha vuotato il sacco e so che non avrebbe dovuto, ma credo che se non si fosse trattato di Tomo avrebbe portato il segreto con sé per sempre” spiegò.
“Oh” disse solamente Miriam. Improvvisamente era più serena, come se un peso, forse l’ultimo, avesse lasciato il suo stomaco, la sua anima. Sapeva di aver sbagliato, forse la vita le avrebbe concesso di rimediare. “Io avrei dovuto dirglielo, non ce l’ho fatta, mi sento male al solo pensiero” disse. “E’ che era tutto così difficile: la sua morte, la nostra relazione naufragata, credo di non essere stata programmata per sopportare un tale sfacelo tutto insieme, ecco”
“Tutti possiamo sbagliare”
“Sei troppo clemente”
“No, sono sincero. Ed onesto” le disse serio. Non intendeva difenderla oltre il dovuto, ma era vero che accanirsi sugli errori altrui non avrebbe portato altro che rammarico e dolore, e lui non aveva voglia di averne altro nella sua vita. “Perché non l’hai detto a me?”
“Perché mi avevi lasciato, ed ero sconvolta. È stato come se il mondo implodesse davanti a me, trascinandomi dentro il suo vortice di caos perenne. Io non riuscivo a ragionare lucidamente, a pensare, a valutare le conseguenze di quello che facevo. Volevo solamente stare bene, ero ossessionata dall’idea di cambiare, di smettere di soffrire, di cercare solamente una dimensione in cui poter mettere in pausa tutto ed essere serena” disse infervorandosi e accompagnando il discorso con ampi gesti delle mani.
Si vergognava, ma sentiva di dover essere sincera e in un certo senso era giusto che lui sapesse. Così continuò, non chiedendosi se lui seguisse il ragionamento, sperando solo che stesse ascoltando davvero: “Ci ho messo tanto a capire i miei problemi e a risolverli. È stato difficile, mi sono sentita una fallita così tante volte, mi sono sentita sola tutti i giorni, chiusa, isolata da tutto. Piano piano ho gestito tutto, ho rimesso tutto apposto, come quando fai il cambio degli armadi e sistemi i cassetti. Io ho fatto così: giorno dopo giorno ho preso i problemi e li ho resi vivibili, mettendoli in un cassetto e passando al successivo solo quando ero certa di aver accantonato davvero il precedente. Mi mancava solo un nodo da sbrogliare: venire a salutare Kiki”.

Aveva continuato a camminare, parlando e gesticolando come se lui non ci fosse, un fiume di parole che si riversavano su quella spiaggia e che forse erano l’unica medicina di cui entrambi avevano bisogno. Aveva pensato di non rivelargli molti particolari ed ora era lì che si spogliava di tutto: sicuramente l’istinto di pensare una cosa e farne un’altra albergava ancora in lei.

          Jared la lasciò parlare, seguì il suo ragionamento, seguì i suoi passi. Era elettrizzante vederla impegnata, sicura, finalmente lucida, era come vedere tutto il percorso che lei aveva fatto, il dolore che aveva attraversato per approdare lì dove ora camminava. Sicura e serena, ma serena davvero. Aspettò che finisse di parlare e poi sospirò, accorgendosi di non essere riuscito a staccarle gli occhi di dosso per un secondo: “Sei qui per salutare Kiki?”
“Si, glielo dovevo. Ho sbagliato molto anche con lei, me ne sono fregata e sono andata a cercarla quando io avevo bisogno di una spalla. Sono stata meschina e la vita mi ha ripagato con la moneta più dura: il silenzio. Sai, mi sono resa conto che il punto non è sbagliare, ma riuscire a chiedere scusa subito, perché se aspetti potresti non trovare nessuno ad ascoltarti, e lì” fece una pausa, lo guardò e concluse: “Lì il guaio è serio, te lo porti dentro per sempre. Mi sono raccontata una serie di cazzate immense per non venire qui. Poi mi sono resa conto che dovevo farlo. Il fatto di averti incontrato è stato solo un regalo, mettiamola così: ho lavorato bene, forse, e il destino ha deciso di essere magnanimo con me, per questa volta”
“La tua visione delle cose è singolare, molto più interessante di quanto ricordassi”
“Sono cambiata tanto in questo anno, Jared. Ho fatto un percorso e solo ora posso davvero dire di aver cambiato le cose. Sembra stupido, lo so, ma io mi sento davvero rinata. Ho imparato ad accettarmi, ad accettare i miei errori, ho imparato a volermi bene” spiegò ancora.
“E potresti lasciare che anche gli altri ti vogliano bene?” chiese lui, cercando una risposta, un segno, qualcosa che potesse indurlo a sperare ancora.
Miriam non rispose, si morse il labbro e infilando le mani nelle tasche dei jeans, cambiò argomento: “La piccola di Shan è bellissima” disse Miriam con un fil di voce.
“Si, è una piccola Emma in realtà” disse orgoglioso con gli occhi illuminati. Poi la guardò scettico: “Come hai fatto a vederla?”
“Sbirciavo, ricordi? Ogni tanto qualche giornalista non è così rispettoso della privacy altrui e tempo fa uscirono alcune foto della piccola senza il viso pixellato. Mi sono anche chiesta che fine bruta può aver fatto il colpevole, per mano di Emma ovviamente”
Scoppiarono a ridere entrambi, poi Jared difese sua cognata: “Emma da quando è mamma è diventata dolcissima. Non che prima non lo fosse, ma dovresti vederla ora”
“Spero sia migliorata dall’ultima volta che l’ho vista” borbottò Miriam, prima di pentirsi subito e coprirsi la bocca con la mano. Jared la guardò e smise di sorridere: sapevano entrambi quello che significava quella frase.
“E’ stata tanto cattiva?” chiese lui.
“Abbastanza. Ma credo avesse ragione” sostenne lei.
“Non devi difenderla perché stai parlando con me”
“No, lo penso davvero” disse semplicemente. Poi lo guardò, intuendo: “Vuoi dirmi che non sai quello che ci siamo dette?”
“No, ovviamente no”
“Uhm…”
“Ho chiesto ad entrambi di non dirmi niente. Non volevo sapere nulla, avevo bisogno di riprendermi e di dimenticarti. Non mi sarebbe stato utile continuare a parlare di te” ammise Jared, senza pentirsi di aver usato parole come dimenticare, utile, bisogno. Era la verità, e nessuna verità poteva far male, nella situazione in cui erano loro.
 

          Miriam rimase colpita da come Jared le aveva detto quello che pensava, quello che era successo. In un certo senso le aveva dichiarato molto più in quella frase che in tutto il discorso precedente. Le aveva detto che aveva dovuto dimenticarla, che aveva dovuto andare avanti.
Miriam tacque qualche secondo, lo guardò ammirare l’orizzonte davanti a loro, con il rosso fuoco del tramonto e l’oceano calmo che placidamente si infrangeva sulla sabbia. Poi chiese quel che si chiedeva da un anno: “E ci sei riuscito?”
“A fare cosa?”. Jared bluffava, sapeva benissimo quel che Miriam gli aveva chiesto. Voleva solo sentirglielo dire davvero.
“A dimenticarmi” sussurrò piano lei.
“No”. Miriam si bloccò, girò lo sguardo e cercò quello di Jared, che si era voltato verso di lei e aveva un’espressione serena, ma di attesa.
Miriam tentò di dire qualcosa, qualsiasi cosa che potesse risultare adatta, ma mentre apriva la bocca sentiva il fiato non aiutarla, sentiva l’aria non passarle dai polmoni. Poi una folata di vento la aiutò, e improvvisamente scostò la sua pashmina, lasciando libero il suo collo.
Jared rise piano, gli occhi illuminati e rivolti solo a quel particolare: “Neanche tu, forse” disse piano, arrivando piano a toccare il ciondolo che brillava. Istintivamente Miriam portò la mano al collo e fu un attimo: le loro dita, entrambe sul simbolo di quel giorno, si toccarono, ed entrambi sentirono una scarica elettrica, l’unica che avrebbe potuto davvero farli tornare a vivere.
“Jared, mi dispiace” trovò il coraggio di dire Miriam. Perché era vero, era quello che sperava di potergli dire da un anno: che le dispiaceva. Di averlo fatto soffrire, di avere rovinato qualcosa che avrebbe potuto essere bello. Di avergli chiuso in faccia la porta, quando lui le aveva detto che si, potevano farcela. Ancora.
“Dispiace anche a me” sospirò Jared, fissando l’oceano e pensando a quel giorno di luglio. “Non avrei dovuto convincerti a tutti i costi a convivere e non avrei dovuto reagire in quella maniera quando hai cercato di parlarmi”
“Ognuno le sue colpe?” propose Miriam, leggera.
“Ho tentato di dirti le mie più volte, in realtà. Ho cercato di chiederti scusa, ma non sono stato abbastanza convincente, forse”
“Jared, io avevo bisogno di rimanere sola con me stessa, non avrei potuto darti nulla di più un anno fa, quando mi hai chiesto di tornare insieme. Mi è costato chiudere quella porta, ma credimi che è stato meglio così”
“Meglio per chi?”
“Per entrambi. Anche per te”
“Vedo che la tendenza a scegliere per gli altri non l’hai persa”
“Ora sei ingiusto”

          Jared sospirò e riprese a camminare, lasciandola dietro di qualche passo. Non sapeva perché era diventato astioso, non sapeva perché d’un tratto voleva solo vederla sparire. Cercò di riacquistare la calma e quando la sentì accanto a sé, tentò di recuperare: “Scusami, non volevo essere così…”
“Stronzo?”
Jared sorrise amaro e ammise anche quella volta: “E stronzo sia”. Pareggio, palla al centro e la partita che inizia di nuovo, snervante e illuminatrice. “Ricominciamo, dai. Parlami della tua amica” disse divertito, cercando di far tornare leggera l'atmosfera, di non rovinarla oltre. 
“Katreen” sospirò Miriam e istintivamente sorrise guardando davanti a sé. “Ci siamo conosciute nel diner dove ho lavorato per qualche tempo”
Diner?” chiese scettico Jared, non capendo bene.
“Si, per qualche mese mi sono mantenuta così, dopo aver lasciato il mio lavoro” spiegò Miriam. “Lei era cameriera lì da tempo, è una fumettista e collabora con svariati giornali sotto pseudonimi. È brava, ma il lavoro dei suoi sogni non le frutta molto economicamente, così si arrabatta anche con altro”
“Siete molto amiche?”
“Ora si. Lei all’inizio mi ha aiutato molto, era un periodo decisamente nero per me, e non sapevo neanche dove sbattere la testa. Mi ha accolto nella sua vita e in un certo senso mi ha aiutato a migliorare la mia. Quando ho lasciato il diner per iniziare a lavorare nello studio legale mi ha regalato una penna e mi ha chiesto di non smettere di essere come sono. Viviamo ancora insieme, forse entrambe avevamo bisogno di una sorella, di una spalla”
“Sono contento che tu abbia trovato la tua indipendenza” disse sovrappensiero, calcando suo malgrado su quella parola. Poi si corresse: “E non c’è nessuna frecciatina in questa frase, lo giuro”. Si mise un mano sul petto e rise, per convincerla. Miriam lo guardò allibita e poi si lasciò andare all’allegria del momento.
“Si, certo come no” disse fintamente offesa. “Sono stata molto cattiva e a tratti stupida, lo so. Ma non puoi chiedere amore se non sei pronta ad amare te stessa, in primis
“E sei stata pronta a chiederlo a qualcun altro, in questo anno?”
“No, Jared” disse, ora sicura. Non aveva bisogno di pensare alla risposta, lei la risposta l'aveva sempre avuta. “Se avessi voluto amore, l’avrei chiesto all’unica persona dalla quale lo volevo davvero”. Lo stava sfidando, guardandolo apertamente negli occhi, che ora non le mettevano più paura. Era come se fosse alla sua altezza, al suo pari: ora non erano più il gigante e la bambina, erano due persone che si erano rialzate e si stavano concedendo l'opportunità di spiegarsi davvero. Lusso che la vita non concede a tutti. 
“E quel tipo?”
“Christopher" suggerì Miriam, sospirando. "E' stato un errore di valutazione. Quando ho saputo che Kiki era morta mi sono convinta di qualcosa che è materialmente impossibile: volevo cambiare me stessa, volevo accontentarmi delle briciole pur di avere una vita serena, senza intoppi né sofferenze. L’ho mandato via subito dopo aver mandato via te”
“Sai, la cosa che più mi aveva ferito, quando pensavo a noi, era proprio il suo volto che trionfava davanti a me. Era la cosa peggiore pensare che avevi scelto lui, e non per ego ferito, ma perché lui ti aveva cambiata così tanto” disse Jared, finalmente libero di poter esprimere i suoi più reconditi pensieri. “Ti avevo vista in spiaggia, quel giorno, e avevo stentato a capire che eri tu: niente più caos, niente più abiti casual, sembravi una perfetta donna d’altri tempi. E non mi piaceva. Non mi piaceva che fossi cambiata perché qualcuno ti voleva diversa”
“Quando ho ripreso in mano i miei jeans è stato liberatorio” ammise, ripensando a quel giorno lontano. “E tu, invece?”
“Io cosa?”
“Ho letto i giornali, Jared. So di quella modella” disse sorniona, come un'amica che vuole farsi raccontare i dettagli piccanti. Lei di piccante non voleva sapere nulla, ma quella passeggiata aveva il sapore di un incontro di boxe vecchia maniera, e lei stava giocando le sue carte. 
Quando aveva scoperto di quella donna, era rimasta scioccata; gelosa non era stata la parola esatta, in realtà, perché da tempo aveva raggiunto la consapevolezza che Jared non era più cosa sua, e che era giusto che lui ricominciasse. Era scioccata dal modo, però, dalla città scelta più che altro. parigi. Come poteva pensare di ricominciare con un’altra donna a Parigi, si era chiesta.

“Era pubblicità” disse sicuro.
“Sii sincero” lo ammonì. 
“Sono sincero. Ci ho passato qualche settimana, senza chiederle più di qualche notte di sesso e qualche cena per fare due chiacchiere. Lei era molto interessata al mio nome, le serviva per farsi conoscere, io…” si interruppe imbarazzato. “Beh, lo sai”
“Si, posso immaginarlo” sostenne Miriam, non senza ridere leggermente.
“Non è stata l’unica” disse poi. “O meglio: è stata l’unica con cui mi sono fatto beccare. E l’ho fatto volontariamente”
“Volontariamente?”. Ora non capiva.
“Ero logorato dalla rabbia che tu stessi ancora con lui. Dovevo darti un messaggio, farti capire che non eri la sola ad essere andata avanti. E così mi sono fatto beccare: speravo che tu leggessi dai giornali della mia storia, sapevo che ci avrebbero ricamato sopra”
“E così l’hai fatto a Parigi”
“No, Parigi è stato un caso”
“Ho creduto per mesi che fosse tutto fatto apposta. Guardavi i fotografi accanto a lei e non dicevi, nè facevi nulla. Sei stato cattivo, lo sai?!"
“Lo so, mi dispiace” ammise. La guardò e vederla priva di tracce di gelosia o rabbia lo convinse che camminavano nella giusta direzione. Non sarebbe stato possibile abbracciarsi di nuovo e ricominciare ad occhi chiusi, non sarebbe stato onesto, né adulto. Era possibile conoscersi di nuovo, però, col tempo e la sincerità di cui in passato avevano creduto di poter fare a meno.
“Com’è stato tornare a Parigi?”
“Amo quella città, ma credo che le starò lontano per un po’”
“Capisco. Io non ci torno da troppo tempo”
“Siamo in vena di confessioni?” si informò Jared, e l'espressione era a metà fra il colpevole e il divertito. Si toccò leggermente la barba chiedendolo e attendendo la risposta. 
“Più o meno” disse lentamente Miriam, guardandolo con la coda dell'occhio. 
“Bene, allora ne ho un’altra da fare”
“Spara”
“Quando ci siamo lasciati, immediatamente dopo più o meno, ho avuto una relazione con…” si interruppe, improvvisamente pentito di aver iniziato quella conversazione. “Shayla” finì la frase, sospirando.

          Miriam lo guardò per un momento allibita, poi si voltò rapidamente verso l’oceano e si fermò dandogli le spalle, in silenzio. “Non posso crederci, ci eravamo appena lasciati”
“Fammi spiegare, Miriam” tentò lui; le prese un braccio per farla girare, ma lei con uno strappo deciso si liberò dalla sua presa e Jared abbassò lo sguardo, deciso a prendersi ciò che la sua reazione gli avrebbe riservato. Certo, poteva evitarselo, anche se non comprendeva molto bene perché la modella era ammessa e Shayla no, ma poco importava.
“Quindi fammi capire, Jared” iniziò lei, maledettamente seria.
“Miriam...”
“Fammi capire, ho detto” disse ancora, risultando ancora più aspra, non ammettendo repliche di nessun genere. Si girò piano e Jared alzò gli occhi a guardarla: sentì qualcosa incrinarsi nel petto quando le vide quell’espressione seria in volto. Miriam incrociò le braccia al petto e inclinò di poco la testa, continuando a gustarsi la scena di lui che annaspava. “Te la sei fatta con Shayla quando ci siamo lasciati” disse, attendendo una risposta. 
Jared annuì solamente, e lei continuò decisa: “Ma eri ad occhi chiusi?” chiese subito dopo. “No, perché, è una ragazza adorabile, una con le palle, simpatica, tosta, gran lavoratrice, ma insomma… su, Leto, sappiamo che puoi puntare a molto di più in fatto di bellezza!” finì, prima di scoppiare a ridere.

“Tu…” disse solamente lui, puntandole un dito contro e vedendola sbellicarsi dalle risate da sola. Aveva le lacrime agli occhi, era bellissima, ma bellissima davvero pensò, e pensò di non averglielo mai detto abbastanza, di essersi lasciato andare molto volte, ma di non averle detto la cosa più importante: quando era così spontanea, era uno spettacolo incredibile.
L’aveva preso apertamente in giro, con un pizzico di cattiveria, quella retoricamente consentita, che rende il mondo meno serio e più spiritoso. Era stata sagace e perfida, spontanea e vera, ma soprattutto aveva abbattuto quel muro di ferro che entrambi sentivano esserci fra loro.
“Scusa, dai la smetto!” disse dopo qualche minuto, cercando di smettere di ridere, di darsi un contegno.
“Credevo saresti andata avanti per molto” replicò Jared, facendo il finto offeso, non riuscendo a vincere nessun premio per quell’interpretazione. Sotto ai baffi si vedeva un sorrisino allegro e nei suoi occhi la luce che da tempo lei sognava.
“Mi è mancato parlare con te, sai?” gli disse poi. Erano in silenzio da un po’, dopo l’ilarità, quando Miriam aveva smesso di ridere ed era tornata seria, con gli occhi lucidi e le guance arrossate, si era fermati a contemplare le consapevolezze che avevano faticosamente raggiunto.

          Jared si chiedeva quanto fosse possibile cancellare tutto e chiederle di amarlo ancora. Si chiedeva se fosse pronto, se lei avesse voglia, la guardava estasiato e capì che il tempo era passato, che l’acqua che aveva attraversato i letti dei loro fiumi personali era stata davvero troppa e troppo intensa per poter essere cancellata così. Avevano deciso di dividere le proprie strade, si erano curati da soli, cercando il supporto ognuno nel proprio angolo di vita, cercando di ostacolare qualsiasi ricordo dell'altro. Ora ritrovarsi sulla spiaggia non sarebbe stato sufficiente per abbracciarsi e dirsi ti amo di nuovo. Per quanto potesse essere vero, potesse essere forte, Jared aveva imparato la lezione: l'amore non basta. 
Un anno non sono bruscolini che seppellisci sotto un divano per non farne trovare le tracce. Sono trecentosessantacinque giorni, uno più uno meno, in cui lui aveva cercato, alla sua veneranda età, di rimettersi in piedi. Aveva creduto di essere un uomo adulto, invincibile, sicuro di se stesso, e poi all'improvviso lei era arrivata e non solo aveva sconvolto la sua vita, ma l'aveva anche lasciato a piedi, in preda a quello che non sentiva più da anni: la consapevolezza di non essere affatto arrivato da nessuna parte. La sicurezza che si può essere un asso nel lavoro, avere soddisfazioni, essere bravi e osannati, ma ci sarà sempre quella persona a cui non andrai bene. E la beffa sarà che vorresti essere tutto solo per quella persona, e nessuno per il resto del mondo. 
Niente avrebbe potuto togliergli la certezza che lei era la donna della sua vita, ma il tempo dell’adolescenza era finito: non poteva baciarla lì e sperare che tutto tornasse apposto. Anche perché, ai tempi del loro bruciante amore, niente era stato davvero al proprio posto e loro non se ne erano mai resi conto. 

 
          Miriam si tormentava un labbro e giocava con l’orlo della sua canotta, come una bambina davanti ad un’interrogazione per la quale sa di non aver studiato abbastanza. Lei era quella che aveva intrapreso un viaggio fatto di speranze e nessuna certezza, aveva vissuto a pieno un periodo brutto, era riuscita a risollevarsi, era fiera, orgogliosa di quello che aveva fatto, anche se aveva relegato l’amore all'essere una danza che non avrebbe mai più ballato, perchè se c'era una cosa di cui era sicura, era proprio che il suo ballerino era lontano. 
Sarebbe stato facile baciarlo e chiedergli di amarla ancora, ma sarebbe stato anche ingiusto e anche vagamente masochistico. La verità era che nessuno dei due, pensò Miriam, poteva cancellare il male che si erano fatti e i passi che, singolarmente e lontano dall’altro, avevano compiuto affinché quel dolore inferto fosse curato.

Lo guardava fissarla e si sentiva a suo agio, fieramente adulta in piedi davanti a lui: non aveva mai avuto quella sensazione nel cuore, si era sempre sentita molto piccola e molto insicura davanti a lui e forse quello era stato il loro problema principale. Miriam sorrise piano, sentì per la prima volta la vera pace: ogni tassello di quel puzzle infinito, iniziato due anni prima su quella spiaggia, era finalmente al suo posto. Era andato al suo posto ancora su quella spiaggia. E non ci sarebbero stati ritorni di fiamma, amicizie mancate, dolore e felicità improvvisa a farle rimpiangere ogni singolo giorno che aveva vissuto, con le unghie e con i denti. Perché era grazie a tutti quei giorni messi insieme, che lei era poteva dirsi donna, poteva dirsi arrivata alla felicità. Quella che coltivi nelle piccole cose, che non cerchi correndo e affandondoti verso la meta. La vittoria più bella era essere lì, davanti a Jared, e sentirsi felici, pur essendo consapevoli di essere tornati al punto di partenza, pur essendo incerti sul domani.

          Entrambi però sapevano che niente vietava loro di tentare di nuovo: conoscersi non era un delitto, non era vietato, non poteva far male. Entrambi, in quel silenzio che avevano passato ad ascoltare i propri pensieri, scrutandosi di tanto in tanto, facendo finta di osservare il mare, ma osservando solo le mosse dell'altro, avevano chiesto aiuto alla propria coscienza, e inaspettatamente la risposta era stata simile. Conoscersi non sarebbe stato un errore. 


“Ti va di mangiare qualcosa insieme, stasera?” gli chiese sorridendo.
“Sushi?”
“Andata” rispose riprendendo a camminare.

          Se qualcuno li avesse visti in quel momento, camminare l'uno accanto all'altra, sorridere e prendersi in giro come se si conoscessero da una vita, come se si capissero al volo, avrebbe pensato a due innamorati in vacanza, felici e spensierati. Solo loro potevano sapere la tempesta che avevano attraversato per un periodo indicibilmente lungo. E dalla quale forse ancora non erano davvero usciti. 

         Quella persona avrebbe allora potuto pensare che erano rimasti comunque uniti e che solo l’amore cura tutto. Loro avrebbero risposto che l’amore non basta, che serve anche la sopportazione e il coraggio a volte. L’amore è la miccia, ma per alimentare il fuoco serve aria, soffio, vento e fegato. Serve il fegato, che loro non avevano avuto, per rimanere uniti.

         Quella persona avrebbe comunque detto che forse non è tardi per dimostrare di averlo, quel coraggio, quella forza, perché gli amori veri non finiscono mai. Loro, allora, avrebbero detto che gli amori veri finiscono eccome. Finiscono perché niente è eterno, se non siamo disposti a plasmarci con il cambiamento e ci rendiamo adatti al tempo che passa. Se non si sta uniti.


          Ma loro avrebbero anche risposto che a volte la vita offre seconde opportunità, e allora camminare accanto su una spiaggia può essere un modo per vedere se questa volta si è capaci di essere più forti, più coraggiosi. O semplicemente più umani. 


 
       

L'angolo di Sissi

Vi ho trollato, magari solo un pò! 
Questo epilogo non ha titolo, dateglielo voi. 

Ho voluto solo chiudere davvero la storia di Miriam e Jared, 
ho voluto farli incontrare di nuovo,
più maturi e più sereni. 

Sarebbe stato facile farli baciare e far cadere miele ovunque,
ma è stato infinitamente più bello rendere le cose complicate, ma regalare speranza.

Perchè l'amore è questo: dare speranza ogni giorno, 
ma sapere che essere single è molto più semplice. 

Spero che siate felici per il finale che ho scelto per la mia storia. 
Spero che siate rimasti soddisfatti. 

Spero che Ale non inizi ad intonare la musichetta di Profondo Rosso. 
E che Muna non mi segua a Valencia per picchiarmi. 
E che Macrì e Fede siano sufficientemente felici, anche senza dramma. 
So invece che Mami avrà bisogno di un kleenex per arrivare fino a qui. 

Con affetto, 
Sissi 

 

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