Slenderman Sickness

di Shetani Bonaparte
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** Introduzione (rifacimento) ***
Capitolo 3: *** FOLLOWS – parte prima: Interferenze, video visualizzabile, Daniele. Pezzo mancante ***
Capitolo 4: *** FOLLOWS – parte seconda: Visita, radiogiornale, figli acquisiti ***
Capitolo 5: *** FOLLOWS – parte terza: Disegnare, loop, regista ***
Capitolo 6: *** FOLLOWS - parte quarta: ansia, influenza, Splendorman ***
Capitolo 7: *** FOLLOWS – parte finale: Hoody, Masky, Ticci Toby, piani. ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


~~Ciauz gente!
Questa è l’introduzione a una storia che mi è venuta in mente stanotte e… diamine, dovevo scriverla!
Non vi faccio spoiler, ma spero che vi piaccia!
Un bacione,
Shetani
 


La luce era abbagliante, feriva senza pietà i suoi occhi.
Si voltò e vide… vide delle persone, dei vigili del fuoco che assieme a dei poliziotti esaminavano una casa che poco prima era in fiamme. La sua casa.
Timmy.
Dov’era Timmy?
Non c’era, era stato portato via ma non dalle forze dell’ordine, no. Ma da chi?
Si sentì desolato, sperduto.
No, non poteva seguire la luce, doveva trovare suo figlio e… ricordò qualche scena; dei vandali, una trentina di vandali, i colleghi di quel poco di buono che non aveva voluto difendere in tribunale.
La sua bellissima casa… sua moglie… suo figlio!
Quel dolce frugoletto al quale era tanto legato… ma ora non lo ricordava… non sapeva nulla su di lui… solo che c’era stato, che glielo avevano portato via… che voleva vendetta.
Sentì il corpo infiammarsi come se fosse ancora immerso nell’incendio e poi rosso e nero e una voce gutturale che rideva e gli prometteva che avrebbe ritrovato quel bimbo…
Infine, solo una furia cieca.
Girò il viso, un giovane in manette lo vide.

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Capitolo 2
*** Introduzione (rifacimento) ***


~~Scusate se riposto l’introduzione, ma l’ho rifatta solo ora e… il mio pc non mi lascia modificare quella precedente. Rimedierò appena potrò.
Scusate il disagio.
Un bacione,
Shetani


Ricordava di esser tornato dallo studio legale in cui esercitava come avvocato e di aver visto la propria casa in fiamme… il fuoco che gli bruciava la pelle… e le urla. Aveva trovato Melanie morta sul divano, probabilmente stava dormendo, almeno se ne era andata senza sofferenze.
Ma Timmy… suo figlio Timmy urlava… ricordava di averlo portato fuori da quella casa e poi… poi niente.
Non sapeva come o perché, ma ora si ritrovava in un tunnel e una luce bianca gli feriva gli occhi.
“Vieni, tesoro, vieni. Vieni, George”
Si era voltato verso la voce di Melanie e l’aveva vista là, bella come un angelo, avvolta nella luce, che gli sorrideva.
“George, vieni, è bellissimo qui!”
Lui fece un segno di diniego col capo; no, lui doveva… doveva trovare Timmy, possibile che a lei non importasse nulla di Timmy?
Guardò dalla parte opposta della luce e vide i Vigili del Fuoco spegnere le ultime fiamme, esse risaltavano nel buio del piccolo bosco ove era ubicata la casa.
“… li abbiamo arrestati… dannati vandali…” disse un poliziotto.
Era colpa loro, dei vandali. Colpa loro se Melanie era morta e se Timmy gli era stato portato via… loro.
“Vuoi ritrovare tuo figlio, George?” gli chiese una voce pacata proveniente da un uomo di bell’aspetto, sulla cinquantina e dagli occhi azzurri e limpidi. “Ti costerà buona parte della memoria, però, tornare dai vivi”
“Non importa, voglio solo che lui torni con me…”
“In cambio voglio solo che tu spedisca all’Inferno le anime di quei vandali”
“Va bene”
E allora sentì le ossa allungarsi, i suoi sensi divennero offuscati ma allo stesso tempo più precisi. La sua pelle bruciava, sembrava liquefarsi, la sentiva colare giù dal viso, volle urlare ma non ce la fece poiché la sua bocca non c’era più, volle spalancare gli occhi, ma anche essi mancavano all’appello, come le orecchie, i capelli e il naso.
George Cooper aveva perso ogni senso tranne quello del tatto; eppure percepiva perfettamente ogni cosa attorno a se con maggior perfezione di prima.
Si ritrovò in mezzo alle macerie ancora fumanti di casa propria; la sua mente sarebbe stata in bianco, se non fosse stato per due pensieri: la vendetta e trovare suo figlio – lo ricordava appena, ora, ma sapeva di dover ritrovarlo.
Girò il viso verso una vettura della Polizia, un ragazzo in manette lo vide.

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Capitolo 3
*** FOLLOWS – parte prima: Interferenze, video visualizzabile, Daniele. Pezzo mancante ***


Visto che i capitoli sono piuttosto corposi e lunghi, ho deciso di suddividerli in “parti” così da postare più frequentemente e perché possiate leggere più comodamente.
Un bacione,
Shetani

 

FOLLOWS – parte prima: Interferenze, video visualizzabile, Daniele. Pezzo mancante


Sveglia alle 09.00 del mattino.
Matt si vestì comodamente in tuta da ginnastica, scese in cucina a fare colazione.
Era vero, la galera ti cambia, infatti ora Matt era un buon uomo, religioso e generoso, un santo.
La televisione col volume al minimo, le ultime notizie dal resto del mondo, lo schermo si riempì per un attimo di interferenze, era la prima volta eppure la televisione non aveva neanche mezzo annetto; ricordò che proprio dei disturbi simili lo avevano obbligato più e più volte, in quei cinque anni, a cambiare la televisione.
Il gatto Matisse tentò di convincerlo per l’ennesima volta che i cereali gli piacevano, anche se non li aveva mai nemmeno degnati di un assaggino. Se lo tolse dalle ginocchia, lo mise a terra carezzandolo e godendosi le sue fusa; mise via il latte e a lavare la ciotola, gettò il pacchetto di cereali finito.
Sospirò nel silenzio di quella sua piccola casetta in legno, color azzurro pastello con i banconi e le persiane bianchi, lì, vicino ad un ruscelletto e ad un bosco alquanto carino.
Si stiracchiò, andò in bagno e si lavò la faccia.
Era un bell’uomo, dopotutto, con un viso gentile e i capelli color del grano lunghi fino alle orecchie con la riga al centro, un pizzetto e una leggerissima barba del medesimo colore dei capelli, gli occhi scuri e il fisico snello, nella norma.
Indossò delle scarpe da ginnastica, andò a passeggiare accanto al fiume ascoltando i Beatles alla radio sull’MP3. Si fece sempre più vicino al bosco; dovette togliersi gli auricolari: interferenze.
Probabilmente un temporale era vicino, anche se non si vedeva.
Si sedette su una roccia, respirando l’aria frizzantina e osservando il cielo grigiastro tipico di una mattinata in comune di Altissimo, nel Veneto. Rimase seduto solo qualche istante, poi, sentendosi stranamente a disagio, decise di riprendere la passeggiata. Seguì la strada e scese in via Fochesati. In quel periodo dell’anno, quella manciata di case era quasi deserto quindi, a passo spedito, scese per i campi, salutando qualche cane locale, seguendo il sentiero si inoltrò in un piccolo bosco ricolmo di felci e pioppi e pensò bene di visitare la casa in rovina che si trovava dagli Albieri.
Qualche ora dopo era tornato a casa e, seduto alla scrivania, visualizzò le proprie notifiche su Facebook; sua sorella Carly lo aveva taggato su alcune foto in cui scriveva che “la mamma voleva che le avessi anche tu”.
Le visualizzò, erano tre foto di quando, cinque anni prima, era uscito dal carcere dopo soli dodici anni grazie alla buona condotta, al fatto che era stato condizionato dal suo capo tramite minacce e che non era totalmente colpa sua se quella casa era andata a fuoco, era notte e c’era una piccola fuga di gas, lui e gli altri dovevano creare un incendio innocuo ma… e quella donna… e quel bambino e… e… e…
Smise di pensarci, il rimorso era troppo forte.
La terza foto attirò la sua attenzione: era in macchina, sul posto del passeggero, fuori dal finestrino vi era il bosco. Non sapeva perché ma… ricordò di essersi sentito osservato, in quei momenti; eppure nella foto non v’era nulla di strano.
Sorrise: probabilmente era stato il fatto che non ci era più abituato, alla vita fuori dalla prigione. Oh, e anche che sua sorella era l’unica sua famigliare che non lo ripudiava.
Un messaggio in chat da sua sorella.
-Ciao fratellone! <3
-Ehy, Carly. Come sta la mia sorellina preferita?
-Sono la tua unica sorella
-Allora?
-Bene, tu?
-Idem 
-Ti sono arrivate le tre foto e il video?
-Erano solo le tre foto
-Avrò errato nell’inviarlo, ora te lo mando, poi devo staccare, ciao!
-Ciao
Il video gli arrivò, lo salvò sul desktop del pc assieme alle foto, uscì dal social network e provò ad aprirlo. Niente, il video non andava. Probabilmente Carly lo aveva inviato in un formato non compatibile con il suo sistema, gli avrebbe chiesto di riprovare quella sera.
Spense il pc dopo aver passato un’ora e mezza a giocare a “I wanna be the boy”, quel giochetto glielo aveva consigliato sua nipote Jane, la figlia di Carly, dicendo che persino un certo youtubers… Favij, per la precisione, si era arreso dopo il terzo o quarto livello. Non per vantarsi ma… lui era arrivato al quinto dopo solo un totale di due ore di gioco.
Sospirò, annoiato, tentò di finire il cubo di Rubik ma fallì, come faceva da sei mesi, lesse qualche volumetto di Dylan Dog, riposò qualche ora.
In seguito, decise di riguardare le foto, specialmente la terza. Non sapeva come mai, sapeva solo che doveva farlo.
La aprì e, zoomando, osservò attentamente ciò che c’era fuori dal finestrino accanto a lui. Un bosco. C’era solo un dannatissimo bosco, un normale, comune, semplicissimo bosco. Bosco a destra e a manca.
Un bosco.
E allora perché… perché lo inquietava tanto? Perché?
Forse perché la casa che aveva incendiato, uccidendo anche una donna e un bambino e forse un uomo del quale v’era solo l’impronta del cadavere, era ubicata in un bosco? Forse perché… perché quella piccola macchia bianca tra la vegetazione in quella foto poteva non essere un semplice riflesso?
Diamine… Matt doveva smettere di pensarci… erano anni – diciassette, per la precisione – che era divenuto paranoico a quel modo, non sempre, sia chiaro, ma a volte credeva che qualcuno lo seguisse, un qualcuno che aveva visto ma del quale non riusciva a visualizzare il viso. E se ci provava… gli doleva la testa come se qualcuno gli piantasse un chiodo nel cervello.
Guardò fuori dalla finestra, vide il bosco vicino alla sua abitazione.
Vide una macchia bianca, simile a quella della foto, su di un ramo; fremette di terrore ma poi la macchia volò via. Un fottuto pennuto.

Era passata una settimana, sua sorella gli aveva inviato nuovamente il video un paio di volte e con svariati formati ma il pc non lo apriva.
Ora Matteo si trovava ad Alvese, in una piccola e polverosa biblioteca.
“Salve, signor Giusti” venne salutato dal bibliotecario appena varcò la soglia.
“Salve, Alfred” ricambiò.
Vide un manifesto, nella bacheca accanto alla scrivania del vecchio canuto e raggrinzito; vi era la foto di un bambino e una scritta - ‘Avete visto Daniele? Chiamate se avete informazioni’ - e un numero telefonico.
“Che è successo?”
“Una disgrazia, signor Giusti, una disgrazia! Conoscevo Daniele, è figlio della signora Sandri. Un bravo ragazzo, amava Pablo Neruda e la storia dell’arte. Trattava i libri come se fossero oro. Era prudente e un santo. Un dì stava venendo in biblioteca. Poi la signora Sandri ha detto che lo ha visto strano, sembrava perso, capito? Aveva gli occhi stralunati. Lo ha visto da lontano, sa, lei stava comprando della frutta, e lo ha visto correre verso il bosco. Pensavo avesse visto il loro cane che a volte scappa, mi ha detto la signora. Insomma, il ragazzino corre verso il bosco, rimane lì impalato a guardare non si sa che cosa e poi… sparisce!”
“Si sa nient’altro?”
“Sì… la signora Sandri corse subito là, appena Daniele si era fermato, ha detto che c’era un uomo con lui. Un uomo in giacca e cravatta piuttosto alto”
“Quando è successo?”
“Bah… circa una settimana fa”
“Brutta storia, Alf. La polizia ha fatto qualcosa, almeno?”
“Non ha potuto fare molto: di quell’uomo e del ragazzino non c’era nessuna traccia. Nemmeno un’impronta nel fango o un rametto spezzato. Nemmeno i cani hanno trovato qualcosa”
“Uff… Parlando… parlando d’altro… quel libro di Stephen King ti è arrivato?”
“Sì, signor Giusti!” esclamò il vecchietto sventolando i bianchi e buffi baffoni, lieto di cambiar argomento.
“Bene, lo prenderò tra poco, vado a vedere se trovo qualcos’altro”
Matt, detto ciò, si diresse verso la corsia dedita alle storie horror, facendo velocemente scorrere lo sguardo su decine e decine di titoli, famosi e non. A mani vuote, tornò da Alfred, ritirò il libro e uscì dalla biblioteca.
“Povero ragazzo” mormorò intanto il vecchio bibliotecario, “speriamo che queste sparizioni non continuino…”

Lo vide. Oh, se lo vide. Anzi, lo percepì.
Lui era l’ultimo. L’ultimo della lista, il pezzo mancante. Poi l’uomo che lo aveva rimandato via dal tunnel gli avrebbe fatto ritrovare suo figlio.
Suo figlio… a volte gli pareva di averlo ritrovato.
Percepiva un bimbo o un ragazzino… poco importava se maschio o femmina… ma erano tutte illusioni, erano sempre le persone sbagliate.
Erano anni che lo seguiva, il pezzo mancante. Ora lo aveva visto, percepito.
E lo aveva seguito…

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Capitolo 4
*** FOLLOWS – parte seconda: Visita, radiogiornale, figli acquisiti ***


~~FOLLOWS – parte seconda: Visita, radiogiornale, figli acquisiti

 

Matt chiuse la video-chat che non era affatto intenzionata ad aprirsi, dopotutto era un miracolo che il pc si fosse acceso, cosa poteva pretendere?
Sentì qualcuno bussare alla porta piuttosto forte – KNOCK-KNOCK-KNOCK -, decise di ignorare quel tizio ma evidentemente era un testardo: prese a bussare con un’insistenza tale che ignorarlo fu totalmente impossibile.
Svogliatamente, scese dal letto sul quale era disteso a poltrire e si avviò verso la porta, attraversando il piccolo salotto e incespicando a causa di un Matisse intento a tendere dei giocosi agguati alle sue pantofole.
KNOCK-KNOCK-KNOCK-KNOCK-KNOCK
“Arrivo arrivo…”
KNOCK-KNOCK-KNOCK-KNOCK-KNOCK-KNOCK
“E che diamine! Ho detto che arrivo!!!”
KNOCK-KNOCK-KNOCK-KNOCK-KNOCK-KNOCK-KNOCK-KNOCK
“Per amor di Dio, basta!”
KNOCK-KNOCK-KNOCK-KNOCK-KNOCK-KNOCK-KNOCK-KNOCK-KNOCK-KNOCK-KNOCK
Matt aprì di scatto la porta mentre il visitatore stava ancora bussando ma…
“…mi prendete per il culo o cosa?!?” sbottò a non si sa chi.
Uscì nella veranda, guardò a destra e a manca ma non vide nessuno. Nemmeno nei campi v’era qualcuno, fece di corsa il perimetro della piccola casa ma nulla. Eppure l’unico nascondiglio poteva esser costituito dal bosco ma esso era troppo lontano per arrivarci in così poco tempo.
Il bosco o…
La porta d’entrata della casa si chiuse con un botto, il gatto sembrò azzuffarsi con qualcuno, sbuffando e soffiando, dei passi si diressero in camera sua.
… o casa sua.
Tentò di entrare ma vanamente.
Attraverso le finestre vide una figura incappucciata, indossante una felpa arancione sbiadito, dei jeans e delle scarpe da ginnastica. Non riuscì a vederne il viso, coperto da una maschera bianca con occhi e labbra neri e che vide di sfuggita.
Dalle finestre non poteva entrare: la casa era vecchia ed esse avevano delle sbarre metalliche. Così Matteo decise di sfondare la porta.
Dopo due spallate ce la fece, seppur procurandosi un livido piuttosto esteso; prese la propria mazza da baseball e si diresse in camera, da dove proveniva un rumore – sembrava che qualcuno stesse digitando sulla tastiera del suo pc.
Preparandosi a colpire con la mazza, Matt entrò di scatto nella stanza e colpì il letto –sfiorando appena il computer - dove v’era ancora l’impronta di un peso sul materasso.
La stanza era vuota.
Cercò l’intruso nell’armadio e sotto il letto – gli unici due nascondigli – ma quello che doveva esser solo un ragazzino era scomparso.
Solo dopo qualche minuto, l’uomo decise di controllare il computer.
L’intruso non aveva fatto nulla di che, su era limitato ad aprire una foto: la terza inviatagli da sua sorella. Quella che lo inquietava.

La tizia con la voce da trans del radiogiornale parlava di un assassino che da anni la polizia tentava vanamente di catturare – “…il criminale noto come Jeff the Killer ha mietuto l’ennesima vittima. La trentenne cameriera Leslie Parker, di Manhattan, è stata trovata sgozzata nella propria abitazione, nel sito del nostro radiogiornale i video delle telecamere di sicurezza vi mostreranno…” – ma Matt non stava ascoltando. La radio gli serviva solo a riempire quel vuoto di rumori per il quale si era trasferito lì ma che ora lo inquietava.
Cambiò stazione: sentir parlare di quel criminale di sicuro non lo avrebbe calmato.
Il gatto dormiva sulle sue ginocchia, lì, sul minuscolo divano beige, davanti ad un televisore che usava solo se aveva ospiti – lui preferiva usare quello della cucina durante i pasti – e che ora era come sempre spento.
Erano passati tre giorni dall’intrusione.
Giorni di nervi pronti a guizzare, di sensi vigili, di lieve insonnia e assenza di fame. Giorni stressanti. Che lo avevano stremato e che avevano minacciato di farlo impazzire perché no, nessuno gli avrebbe mai creduto, nessuno.
Fortunatamente, però, oggi stava meglio, non ci badava più, aveva dormito e si era mangiato la torta di mele che si era comprato al supermercato con uno sconto del trenta per cento a causa della vicina data di scadenza, aveva passeggiato ed era arrivato a metà di ‘I wanna be the boy’. Si era letto ‘The perks of being a wallflower’ di Stephen Chbosky, in italiano tristemente intitolato come ‘Ragazzo da parete’ o, come il film, ‘Noi siamo infinito’, e ora era – quasi - totalmente rilassato.
La canzone al momento in onda terminò e incominciò il radiogiornale locale.
Il reporter disse: “Ancora nessuna notizia dei due ragazzini  scomparsi da Alvese, Tobia Fochesato – disperso cinque anni fa e ora dato per deceduto - e Daniele Sandri – scomparso circa una settimana e mezzo fa… notizia dell’ultim’ora: ritrovati nel bosco accanto alla via Fochesati i vestiti di Daniele Sandri. Secondo le impronte nel terriccio il ragazzino ci è andato da solo dopo aver attraversato il boschetto e si è spogliato. Non vi sono impronte che lascino intendere che il ragazzo se ne sia andato da lì, eppure non è stato trovato. Come al momento della sua scomparsa, non ci sono altre tracce. Le forze dell’ordine locali teorizzano che Daniele Sandri possa essere sotto il dominio di un deviato mentale”
KNOCK-KNOCK-KNOCK
Matteo sobbalzò tanto da spaventare Matisse, che se ne andò atteggiandosi da offeso.
“Matteo, sono io, Renato”
L’interpellato sospirò di sollievo, si alzò, si resettò i vestiti e i capelli leggermente scompigliati e aprì all’amico.
“Ciao, Ren!” lo salutò. “Ma sei ancora in servizio?” chiese.
“Sì, devo farti qualche domanda”
“Certo, accomodati”
Il poliziotto Renato Sandri entrò nella casa; era un uomo mediamente alto, affetto da calvizie precoce, dagli occhi scuri, il viso magro e allungato per il quale molti lo definivano il ‘Leonard Nimoy d’Alvese’, alludendo alla sua somiglianza – che lui non vedeva – con l’attore ebreo di Boston che negli anni sessanta era divenuto famoso nei panni dell’ibrido umano-vulcaniano Spock.
“Hai sentito di mio nipote?”
“Daniele è tuo nipote?!”
“Sì. Allora, hai…”
“Appena adesso alla radio”
“Dio… sono disperato…” gemette il pelato, passandosi una mano sul viso stanco. “Io… non potrei nemmeno interrogarti, nemmeno partecipare all’indagine: sono troppo emotivamente coinvolto. Allora ho deciso di indagare per conto mio e… mi serve il tuo aiuto”
Matteo annuì.
Non parlarono molto, Renato non fece che parlare di ciò che i suoi colleghi gli avevano riferito – nulla di nuovo, per Matt. Poi gli disse che il bosco in cui erano stati rinvenuti i vestiti era proprio quello vicino alla casa di Matt – che, forse, quasi se lo aspettava – e gli chiese se avesse visto qualcosa di strano.
Un po’ reticente, il biondo gli raccontò, partendo con un “non ci crederai mai”, tutta la vicenda del visitatore mascherato.
Lo zio del disperso aggrottò le sopracciglia e lo ascoltò con attenzione fino alla fine, con la lingua tra i denti come ogni volta che si concentrava e infine commentò che “tutto ciò non ha il minimo senso, cazzo!”
“Lo so, ma è ciò che è successo. Anche io stento a crederci”
“Non ha senso… non ha proprio senso…”

Voleva rendere tutto un po’ più speciale, questa volta. Voleva finire in bellezza.
Per questo ora aveva due servi. Voleva prolungare l’agonia del pezzo mancante.
Lui preferiva chiamarli ‘Proxy’. O anche ‘ figli acquisiti’.
Masky era il suo ultimo ‘acquisto’.
Aveva fatto un ottimo lavoro.
Ma il migliore era Ticci Toby.
Ticci Toby gli doveva la vita, per questo era così bravo.
Prima si chiamava Tobia Fochesato.
Suo padre era un bastardo che non aveva assistito la figlia in ospedale sul letto di morte dopo un incidente e che picchiava Tobia e la propria moglie. Il ragazzo non si ribellava allora gli aveva sussurrato nel vento cosa fare e come.
E Tobia aveva obbedito, uccidendo a suon di botte il padre e scappando dalla polizia nel bosco. Gli avevano sparato ma lui lo aveva salvato. E Tobia era divenuto un devoto ‘figlio’.
Gli aveva donato quella felpa arancione e quel passamontagna che copriva la parte inferiore del viso facendola somigliare ad un’enorme bocca dentata e quegli occhialoni dalle lenti tonde e gialle.
Dio… come voleva bene a Ticci Toby. E anche a Masky.
Voleva bene a loro come forse ne voleva al suo vero figlio.
Era sempre prudente… non li lasciava mai veramente soli.
Sarebbe stato un bravo padre: nessuno gli avrebbe portato via un ‘figlio’, questa volta non lo avrebbe permesso.

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Capitolo 5
*** FOLLOWS – parte terza: Disegnare, loop, regista ***


~~FOLLOWS – parte terza: Disegnare, loop, regista


Bravo, seguilo.
Il ragazzo mascherato sentiva quella grande, bianca e fredda mano sulla spalla, la sentì stringergliela un istante, in un tacito incoraggiamento, prima di levarsi e di svanire assieme al suo proprietario.
Il bosco era buio, fitto, sporco e malato.
Abitazione di una creatura, di un padre disperato, non più umano.
Il bosco faceva parte di quel padre e dei suoi ‘figli’, così lui camminò verso quei vecchi abiti, verso quel poliziotto calvo e disperato, che aveva perso un nipote, spezzato dal dolore, dal non sapere, da una melliflua e forse menzognera speranza di rivedere quel ragazzino cui era tanto affezionato, a cui aveva fatto da padre, dopo la morte di suo fratello.
Non esitare. Sono io tuo padre, ora. Non esitare.
Il ragazzo prese un pacco di fogli da disegno e una matita nera. Prese un foglio da quel regalo di sua madre e si mise a disegnare.
Disegna la disperazione di un ‘padre’ spezzato, ‘figlio’ mio. Disegna…
E lui disegnò le proprie vecchie vesti a terra e quel giovane calvo a cui aveva voluto bene e una singola lacrima scese sulla sua candida maschera.
Il vento gliel’asciugò, appena infreddolito si strinse nella felpa arancione e finito il disegno firmò col suo nuovo nome: Masky.
Disegnò più e più volte la stessa scena, velocemente, a schizzi, su fogli diversi, segnandoli con dei numeri, man mano che il poliziotto Renato Sandri si muoveva, camminava attorno agli abiti, tenendosi al di fuori del nastro giallo che contrassegnava la scena del crimine; Masky fece qualche ‘primo piano’ del suo viso piangente, delle sue smorfie, lo disegnò mentre se ne andava maledicendosi perché non riusciva a trovare nulla di nuovo, una soluzione a quell’enigma.
Poi il disegnatore terminò, uno ad uno, i disegni, rendendoli realistici, quasi fossero opere di un professionista, e ottenne una grezza animazione, e ci aggiunse altri disegni che, man mano che li faceva, mostravano un immaginario teleobbiettivo girarsi lentamente ed inquadrare una figura alta e snella, zoomando mentre si riempiva di interferenze, inquadrando il viso che appena si vedeva dell’uomo in giacca e cravatta.
Nella pagina finale, in inglese, sperando di essere all’altezza del suo idolo – Pablo Neruda – scrisse:

“He'll leave your body not to eat
but staple your corpse on a tree”*

Osservò il crepuscolo, cominciava a far freddino e aveva le gambe intorpidite dalla scomoda posizione in cui era seduto.
Si avviò verso i vestiti a terra, vi poggiò accanto l’animazione dopo averla rilegata con scotch e graffette, vi mise sopra una pietra perché il vento non la spargesse nel bosco.
Andiamo, andiamo a casa Masky.
L’interpellato annuì, si mise le mani in tasca, si strinse nelle spalle e si avviò verso quel padre spezzato, pronto ad accoglierlo a braccia aperte.
Ottimo lavoro, sono fiero di te.
Ottimo lavoro.

Il commissario Giordani era cresciuto guardando film e telefilm polizieschi, leggendo libri e fumetti gialli e imitandone – forse neanche tanto bene – occasionalmente il gergo. Per questo, quando entrò nel proprio ufficio assieme al signor Sandri e alla signora Yin – una cinese in gamba, davvero in gamba – disse che la lampadina che pendeva al soffitto sembrava un impiccato al patibolo e che quelli dell’Omicidi sembravano un branco di maiali che si ruzzolavano sempre nella solita merda senza risolvere nulla.
“Signor Sandri… devo mostrarle qualcosa…” disse Giordani; accese un computer e lo collegò ad un proiettore, aprì le foto del fascicolo illustrato trovato nei pressi degli ultimi indizi sul sedicenne Daniele Sandri e le fece scorrere velocemente, mostrando quell’improvvisata animazione.
Dopo circa sette minuti, essa finì.
“Si trovava da quelle parti, ieri?”
“Si, commissario. Ero andato a vedere di persona. Avevo appena finito il mio turno e…”
“La madre del ragazzino ha riconosciuto lo stile artistico di Daniele e la calligrafia è la sua, secondo gli esami. Lei la riconosce?”
“Sì”
“E riconosce quell’uomo?” chiese Giordani indicando il tizio in giacca e cravatta.
“No. Non ha una faccia… come potrei riconoscerlo?”
“Renato… qualcuno la stava osservando. Il rapitore era con quello che si presume essere suo nipote… non ci sono segni di lotta, il ragazzino ha seguito il rapitore sulle proprie gambe. I cani hanno trovato le sue impronte. Iniziano dieci metri prima di una roccia, sulla quale era probabilmente seduto a disegnarla, poi si è alzato, ha messo i disegni dove li abbiamo trovati ed è tornato indietro per un paio di metri. Poi è scomparso come le altre volte…” Il cinquantenne brizzolato sospirò, poi riprese: “So che la cosa le sta a cuore, è comprensibile, ma deve stare lontano da quei boschi. Qualcuno potrebbe tenderle un agguato. Le darò una scorta. Vada a casa della madre di Daniele. Con tutti gli psicopatici che circolano come mosche in una scuderia, conviene esser pronti a tutto”
Tacquero.
Tacquero e il video dell’animazione ripartì, azionato da qualcuno che non era uno di loro tre, ripetendo in un odioso loop le scene dell’uomo senza viso, e ancora, ancora, ancora…

Matt fu informato delle ultime novità da Renato mentre bevevano della Red Bull in un bar ad Alvese, un locale piccolo e squallido.
La settimana prima Ren aveva promesso a Maria – la madre di Daniele, rimasta vedova del marito, Dante Sandri – che non avrebbe sparso le voci di persona, ma in quei sette giorni aveva accumulato una tensione tale da non poter evitare di sfogarsi col proprio migliore amico.
“E indovina un po’!?!” gli aveva frettolosamente mormorato Ren, “Quel giorno è sparito anche Luca Cerrato, il migliore amico di mio nipote!”
“Sparito? E come? La gente sa di dover stare attenta!”
“Era appena andato a dormire, sua madre gli aveva appena misurato la febbre perché lo vedeva strano, perso. Come Daniele. Appena uscita, si ricorda che doveva ridargli qualcosa. Entra, ma lui è sparito!”
“Che sia scappato dalla finestra?”
“No, Matt. La finestra ha le sbarre. Come quelle di casa tua. La donna ha trovato un foglio bianco con uno scarabocchio: un cerchio con una ‘x’ sopra”
“E che vuol dire?”
“Non so. Ma era firmato ‘Masky’. E ‘Masky’ è Daniele”
“Wow”
Avevano passato il resto della serata a parlare del più e del meno, a bere analcolici e succhi di frutta, a giocare a briscola.
Ora Matt stava tornando a casa a bordo del proprio furgoncino rosso che sua nipote Jane indicava come ‘la coppia esatta di quello di Bella Swan, della saga Twilight!’ ed era proprio tardi.
Strano, perché solitamente i giorni in cui ci si alzava nel tardo pomeriggio e si andava a letto all’alba erano una cosa della sua giovinezza.

Camminava, da solo in mezzo alla strada. Fra poco sorgerà l’alba, si era detto; i lampioni erano ancora accesi e il cielo si faceva man mano più scuro, come sempre fa prima di schiarirsi.
Avrebbe voluto che piovesse: la pioggia avrebbe reso tutto più cinematografico, più teatrale o poetico. O forse tutto più squallido.
Oh, sì, vai. Bravo ragazzo, si era sentito sussurrare all’orecchio. Fai il tuo spettacolo, Masky ha fatto il suo, due settimane fa, ora tocca a te.
Già, toccava a lui. Era lui quello che amava la teatralità. Era lui. Ticci Toby era il violento e Masky l’artista.
Poco dopo era dove gli era stato ordinato di essere. A casa del pezzo mancante.
Matteo Giusti aprì la porta di casa e il ragazzo lo sentì andare in bagno a sciacquarsi la faccia. Il pezzo mancante uscì dal bagno e andò in cucina, aprì il frigo. Lo richiuse, andò a letto e si addormentò di colpo.
Accese la videocamera, il ragazzo, e la puntò su di se.
Che lo spettacolo abbia inizio.








* Letteralmente: "Lui lascerà il tuo corpo non per mangiare / ma appenderà il tuo cadavere il un albero". Questi due versi sono tratti dalla poesia ottenuta raccogliendo le 16 pagine del videogioco "Slender HOSPICE" creato da Marc Steene e Wray Burgess

 

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Capitolo 6
*** FOLLOWS - parte quarta: ansia, influenza, Splendorman ***


Ciauz!
Da un po’ che non ci si vede, eh?
Spero che vi piaccia, il capitolo. Lo so, ho variato le origini dei ‘fratelli’ di Slendy, però lo faccio con chiunque.
Vi chiedo di recensire, please, anche se la vostra recensione è neutra o negativa: noi ficcinari viviamo di questo.
Un bacione,
Shetani
 
 
 
 
 FOLLOWS – parte quarta: ansia, influenza, Splendorman
 
 
Matt si stiracchiò abbondantemente e scalciò un piede, tentando di levarsi il lenzuolo che vi si era attorcigliato a guisa di boa. Sbadigliò e sbruffò; strascicò i piedi fino alla cucina e mangiò una fetta di crostata all’albicocca.
Amava la propria vita: era comoda e agiata, suo padre gli aveva lasciato una ricchissima eredità che gli sarebbe durata per moltissimi anni, dato che risparmiava e comprava solo ciò di cui aveva veramente bisogno, questa nuova vita casta e pura aveva quasi totalmente cancellato – o ‘deletato’, avrebbe detto quando era ancora un piccolo teenager nerdaccione – quella fatta di ricatti, vandalismo e paura. E di questa nuova vita amava in particolar modo fare dei lavoretti gratuiti di restauro, di manodopera e quant’altro – forse una sorta di ennesima ammenda a quella terribile notte, chissà…
Come se fosse stato reduce d’un terribile sforzo, si sedette di peso sull’amaca nella veranda, accendendo il Wi-Fi del cellulare e lasciando che Matisse gli si acciambellasse sullo stomaco.
“Huh”
Internet non andava molto bene – beh, togliamoci pure il ‘molto bene’.
Guardò l’orologio sul cellulare: le quattro e mezza di notte.
Bah.
L’insonnia era sempre più prepotente, negli ultimi giorni. Non se ne sapeva dare una ragione, era forse dovuta ad un altrettanto inspiegabile ansia, una lievissima paranoia – quasi inesistente.
Si fece una doccia, giusto per distrarsi dall’inquietudine, mangiò latte e cereali con Matisse sulle ginocchia che tentava di persuaderlo a lasciargli mangiare i cereali che mai aveva e avrebbe assaggiato e accese la radio.
Oggi la radiocronaca diceva: “…ero a letto, mi sveglio e vedo questo tizio in felpa nera e jeans che mi fissa con la sua maschera blu dagli occhi neri versanti nere lacrime dipinte. Tenta di accoltellarmi e scappo…”; poi l’inviato interruppe il discorso, blaterando sul cannibale in circolazione da vent’anni.
Il biondo cambiò stazione: di quel ‘Eyeless Jack’ non poteva importargli di meno.
Sbruffando, ancora in pigiama, Matt andò svogliatamente a controllare la posta. Nella cassetta delle lettere trovò la bolletta della luce, un fascicolo pubblicitario di un qualche campeggio che non lesse nemmeno e un sacchettino nero sul quale, con la tecnica punto-croce e del filo marrone, vi era disegnato uno smile triste. Lo aprì, curioso, e vi trovò una cassetta VHS.
‘Siamo nel 2014, chi le guarda le VHS!!!’ pensò.
La cassetta non aveva il titolo, nessuna particolarità; entrando in casa la mise su un comodino e se ne dimenticò in fretta.
Stropicciò il sacchettino per gettarlo via ma esso produsse un rumore cartaceo. Dentro, infatti, v’era la busta di una lettera, senza indirizzi o altro. La aprì ed estrasse un foglio. In maniera piuttosto infantile e stilizzata, v’era disegnato un uomo privo di viso con qualche albero. Scritta verticalmente, v’era la parola “FOLLOWS”.
‘Follows?’ pensò Matt. ‘Segue… seguire…?’
Il biondo sbatté le mani lungo i fianchi; in effetti si sentiva seguito… spiato… o si stava solo facendo impressionare?
Con un autocontrollo invidiabile – nonostante l’inquietudine – andò nel ripostiglio, rovistò in mezzo a tutti gli scatoloni e ai ninnoli che conteneva ed estrasse un lettore VHS, lo collegò al televisore nel minuscolo salotto e prese in mano la cassetta. Esitò ad inserirla, gli tremavano lievemente le mani, ora.
Di che aveva paura?
Dello stupido scherzo di qualcuno?
O forse… forse temeva di scoprire di non aver avuto allucinazioni, quella sera di diciassette anni prima… quella notte di fuoco e di morte…
No. Non doveva temere il frutto della sua immaginazione… ciò che gli aveva narrato Ren sul fascicolo di disegni e su ciò che era inspiegabilmente avvenuto nell’ufficio del commissario erano tutte coincidenze… di sicuro l’animazione era ripartita in loop per un guasto tecnico… sì, aveva bisogno di dirsi che era così.
Premette il tasto ‘play’ e il vecchio apparecchio riavvolse il nastro per poi farlo partire.
 
La prima inquadratura era incentrata su un foglio bianco con un disegno: un cerchio contrassegnato da una ‘x’.
Poi il teleobbiettivo si mosse. Il sole stava sorgendo, vi fu un primo piano della finestra che dava nel salotto della casa di Mat, colui che faceva le riprese si allontanò lentamente fino a far entrare nello schermo tutta la piccola casa.
Si voltò e si diresse verso il piccolo bosco. Quel regista improvvisato camminò per interi minuti, poi si fermò e puntò verso l’alto.
Matt gemette e trattenne a stento un conato di vomito: appeso ad un albero, con dei rami che gli trapassavano il corpo in punti non vitali, v’era Renato, che si contorceva e gemeva.
Il biondo si ritrovò congelato al proprio posto, guardò come in trance la propria casa, lo sconosciuto che sbloccava qualcosa nel suo coputer. Quel qualcosa era il video inviatogli da sua sorella.
“Ti prenderà” disse l’intruso.
Poi il video terminò; Matt prese il telefono e chiamò la polizia, correndo frettolosamente verso il bosco.
 
Erano passati anni.
Ci aveva provato davvero, a non crederci, ma ancora ricordava quella creatura così cupa, così spaventosa, intoccata dalle fiamme che corrodevano la casa di George Cooper.
Era forse una maledizione, quella sua e dei suoi due fratelli? Quella di divenire dei mostri?
Evidentemente sì.
Gli sovvenne alla mente il suo fratello maggiore, quando l’unica donna a cui offrì il proprio cuore, lui si suicidò, e poi tornò dall’aldilà grazie ad un uomo elegantemente vestito che gli offrì vendetta in cambio dell’anima di colei che aveva spezzato quel cuore. Ma l’uomo elegante, che poi lui aveva riconosciuto come Mefisto, aveva intrappolato suo fratello – conosciuto come Sexual Offenderman – in un circolo infinito di seduzione e sangue: quella donna era ormai morta; e nessuno, oltre al minore dei fratelli, avrebbe mai saputo che aveva rifiutato il più grande per non obbligarlo a starle accanto negli ultimi mesi di vita lasciategli dal cancro.
Poi pensò al mezzano dei fratelli: anche lui intrappolato in un’infinita scia di sangue, anche lui senza memoria, condannato a cercare un figlio che non esiste più.
E lui?
Lui com’era diventato un mostro?
Ricordava di aver assistito all’arresto dei vandali che avevano incendiato la casa del fratello, di aver visto quello che tutti chiamano Slenderman tra le fiamme, e poi di essersi ritrovato così, con la faccia bianca, un perenne sorriso, occhi neri e profondi, cappello a cilindro, papillon rosso, smoking nero a pois colorati.
Morto per un infarto, avevano detto i paramedici sul posto. Non c’era stato più nulla da fare.
Era caduto nella trappola di Mefisto, ora avrebbe dovuto mietere vittime su vittime sperando di beccare i fratelli dei quali non rimembrava nulla, attirandole con canti, balli e risate.
E invece aveva ingannato il Diavolo: lui non aveva accettato quel patto per ripicca, ma per fermare le stragi che i fratelli compivano. Lui, l’Anima non l’aveva mai persa, così usava i propri poteri per divertire davvero, per proteggere. Lui ricordava che Slenderman e Sexual Offenderman erano i suoi fratelli, ricordava perché erano così.
Voleva metter fine a tutto ciò.
Splendorman.
Lo chiamavano Splendorman.
E ora si trovava in un bosco, ad Altissimo, a guardare Matthew Giusti che piangeva e si disperava mentre la polizia estraeva dei rami dal corpo martoriato di Renato Sandri, ormai freddo e in pieno rigor mortis

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Capitolo 7
*** FOLLOWS – parte finale: Hoody, Masky, Ticci Toby, piani. ***


Salve!
Siamo arrivati alla fine della ‘raccolta’ FOLLOWS! Yeeeeee!!!!
Dalla prossima volta, si incomincerà con ALWAYS WATCHES, NO EYES!
Devo darvi una piccola nota su questo capitolo:
1: spero che, anche nei precedenti capitoli, si sia capito che le parti in corsivo (tranne quella dell’ultimo capitolo) sono dedicate allo Slender.
2: per capire chi sono Alex, Brian e Tim dovreste aver visto i video (entry) del canale You Tube ‘MarbleHornets’. In caso contrario, fatelo. Vi sono i video d’accompagnamento del canale ‘totheark’, anche. È tutto in inglese, quindi vi consiglio il canale ‘SCP MarbleHornets ITA’, dove ci sono sia le entry che i video di ‘totheark’ (inseriti cronologicamente correttamente) con sottotitoli italiani.
 
Un bacione,
Shetani
 
 
FOLLOWS – parte finale: Hoody, Masky, Ticci Toby, piani.
 
Hoody si avvicinò a Masky.
“Daniele”, gli disse, “cosa c’è che non va?”
“Luca, dovresti proprio smetterla di infastidirmi” sbottò l’altro. “E Lui non vuole che ci chiamiamo per nome”
“Lo so, lo so”
Hoody si sedette accanto all’amico, su quella pendenza erbosa e graffiata dal vento.
“Non mi hai ancora detto che succede”
“Non lo so. Quel tizio, quello che ho disegnato, mi pareva famigliare. A volte mi chiedo se mi avrebbe amato”
Tacquero per un istante.
“Secondo te, Lui ci vuole bene davvero?”
 
Li amava davvero?
Quella domanda, origliata grazie al vento, quella domanda posta in quei rari momenti di libertà che Lui concedeva, lo lasciò perplesso.
Masky davvero dubitava?
 
“Non lo so. Immagino di sì, dice di essere nostro padre, dopotutto”
“Però… alle volte mi sveglio e non so nemmeno come ci sono arrivato, nel posto ove dormo. E poi… so che ho quasi sedici anni, ma prima di Lui cosa c’era? Il niente? Lo conosciamo da così poco, eppure è tutto ciò che abbiamo. È strano”
 
No.
Non voleva perdere altri figli.
Con i due precedenti Hoody e Masky gli era bastato.
 
“Sarebbe in grado di… che ne so… ucciderci?”
 
Era stato orribile dover uccidere Brian, il primo Hoody. Orribile. Ma aveva dovuto: dubitava del suo amore, del suo obbiettivo. Si ribellava.
E Tim non aveva sopportato la sua morte. E lo aveva abbandonato.
Aveva perso anche Alex, ma non importava.
Slenderman ripensò a Tim. Ogni tanto lo guardava. Non poteva far altro.
 
“Ucciderci? Masky, non credo proprio!”
 
Invece sì.
Brian lo aveva provato sulla propria pelle.
 
“Mi spaventa”
 
Masky lo temeva.
Perché?
Aveva imparato a controllarli senza farli star male, quindi perché?
 
“Ho una fottuta paura. E quando ha ammazzato quell’uomo è stato come se... se uccidesse una parte di me. Volevo fermarlo ma non me lo ha lasciato fare. Ci controlla, Hoody, ci controlla…”
“Ti ha fermato perché ti vuole bene”
“Il controllo non è amore, idiota!” urlò Masky. Singhiozzava pesantemente, così l’altro sollevò appena la bianca maschera e, con una mano inguantata, gli asciugò qualche lacrima.
“Ma per Lui lo è”
 
Controllare le persone era sempre stato l’unico modo per tenerle al sicuro e averle accanto. Per averle come figli.
Faceva così sin da quando aveva memoria. Da quando era ciò che era.
Era stato un errore?
Era per quello che Brian si era ribellato?
 
“Dovresti smetterla con queste paranoie, sai?” mormorò Hoody.
“F-forse hai ragione”
Hoody s’alzò, stiracchiandosi abbondantemente e sistemandosi la felpa arancione sbiadito. Era nascosto dalla nera maschera con quell’enigmatico smile triste marrone, ma Masky lo sapeva, stava sorridendo.
Spensierato come al suo solito.
“Vieni al fiumiciattolo con me?” chiese.
Masky fece cenno di no col capo. “Preferisco star lontano da quel posto per un po’”
“Okay. Se vuoi raggiungermi, mi trovi là”
Non appena Hoody uscì dal suo campo visivo, il giovane si diresse verso il limitare del bosco.
 
Mi dispiace.
 
“Oh, ciao Toby!”
“Ciao”
“Ti senti bene? Mi sembri strano”
“Sto benissimo” rispose lui in maniera meccanica, grattandosi il mento. Il bavaglio raffigurante un’enorme bocca dentata pendeva morbidamente sul suo petto.
 
Mi dispiace tanto.
 
“Dove stai andando?”
“A fare un giro” mentì Masky, inconsapevole di non poter farlo.
Non senza conseguenze.
“Ti spiace se vengo anch’io?”
L’altro esitò un attimo: da quando aveva memoria, lui, Toby e Hoody erano praticamente fratelli, però aveva una pessima sensazione.
 
Mi dispiace, ma te la sei cercata.
 
“A dire il vero vorrei stare un po’ da solo”
Ticci Toby fece spallucce, poi si sedette.
Masky s’incamminò verso Alvese, irrequieto, mentre il sole morente lo bagnava con i suoi ultimi raggi.
 
Mi dispiace.
 
Sarebbe andato nella stazione di polizia, avrebbe indagato su Renato Sandri. E su se stesso.
Alvese era a circa cinque minuti di strada da lì, quindi camminò con calma. Quando s’intrufolò nella caserma, entrò nell’ufficio del commissario Giordani.
Veloce, doveva essere veloce, avrebbero potuto vederlo da un momento all’altro.
Aprì i cassetti della disordinata scrivania, vi frugò dentro ma non trovò niente. Adocchiò alcune cassettiere colme di cartelle, alcune delle quali attirarono la sua attenzione: erano disordinate, come se venissero guardate o aggiornate di continuo.
Le prese e lesse le etichette che le contrassegnavano: ‘Daniele Sandri’, ‘Renato Sandri’ – la più esile -, ‘Luca Cerrato’ ed, infine, ‘Matteo Giusti’. Le infilò nella propria felpa arancione assieme a qualche altra cartella di casi classificati come risolti che, però, gli sembravano famigliari.
Uno di essi era etichettato con ‘Tobia Fochesato’.
 
Mi dispiace.
 
Fu visto da un poliziotto mentre usciva da una finestra, ma corse come mai aveva fatto in vita sua e si nascose in una minuscola grotta nel bosco. Lì, in quel posto che a malapena riusciva a contenerlo, amava rifugiarsi quando stava male od era triste. Nessuno ci era mai stato oltre a lui, tranne Hoody.
 
Mi dispiace, ma non ho scelta. Devo ritrovare il mio bambino. Non posso permettere che tu rovini tutto.
Ticci Toby, tocca a te.
 
“Ti prego, no”
Masky si voltò verso quel mormorio, giusto in tempo per vedere un’accetta conficcarsi nella sua spalla destra, una bocca da cannibale e due occhi spenti, colmi però di dolore.
“Lui ha dei piani per te” si sentì dire.
 
Mi dispiace.
Ma la ricerca della verità ha un prezzo.
 
Hoody sentì il cuore scoppiarli nel petto e la rabbia trapanarli l’anima; l’adrenalina gli circolò in corpo, dilatando le arterie.
Corse verso Ticci Toby, che da quanto sapeva era il fratello maggiore suo e di Masky.
Masky… che ora gemeva e si contorceva…
Hoody passò un braccio attorno al collo di Toby e strinse, strinse forte. L’altro tossì e, stremato, si accasciò a terra.
“Oddio… o mio Dio… Dan! Svegliati! Dan…” mormorò.
Abbracciò il corpo del ragazzo mascherato dopo avergli tolto la felpa e la maglietta: era stato colpito alla spalla destra, al bicipite sinistro, e alla gamba destra con le due accette del maggiore ed era pieno di lividi probabilmente lasciati da dei pugni.
Correndo spesso dei rischi, i tre figli dello Slender erano abituati a portarsi sempre dietro delle bende mediche, così Hoody le estrasse dalla tasca dei jeans e, frettolosamente, le applicò sul corpo dell’amico per poi prenderlo in braccio ed alzarsi in piedi.
“Sei un illuso” mormorò Toby. “Sai perché sono durato ben cinque anni? Perché io ho capito… Lui controlla pensando di amare, ma alla fine rivela la sua vera natura, e ci fa ammazzare tra di noi”. Ridacchiò. “Corri, se vuoi salvarlo. Io sono stanco. Voglio solo riposare”
Hoody non se lo fece ripetere due volte.
 
Mi dispiace. Ma mi hai deluso.
 
Toby rise. Continuò a ridere anche in preda alla tosse di sangue, al mal di testa.
Durante le convulsioni rise ancora più forte: pensò che ora avrebbe dormito per sempre.
“Ma non me lo permetterai, sono il più efficiente, hai altri piani per me, vero? Mi obbligherai a rifare il tour del tunnel degli orrori, vero?”
 
Mi dispiace. Sì.
 
Il giorno dopo, Matt trovò, sul tavolo da cucina, la stessa pagina ricevuta con la cassetta. Ed un post-it: ‘Lui ti segue’.
Scoprì così di non essere mai veramente solo.

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