Racchiudimi in un libro.

di Ellen Dancer
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dispersa. ***
Capitolo 2: *** Bianco. ***



Capitolo 1
*** Dispersa. ***


Aprì gli occhi.
Era notte fonda, una di quelle senza luci, quasi come se nel cielo avessero spento tutte le stelle con un soffio. Cercò di mettere a fuoco la vista, ma era talmente buio che non riusciva a vedere neppure le sue stesse mani. La sua testa minacciava di esplodere ed era così pesante che non riusciva a sollevarsi neppure su quel pavimento freddo.
Ma dov’era?
Provò a muovere le gambe ma sembrava quasi che non volessero rispondere ai suoi stimoli, le sue stesse braccia giacevano inermi sul suo corpo disteso.
Un rumore richiamò la sua attenzione, distogliendola dall’incapacità di muoversi.
Sembrava provenisse da un treno, quella sorta di fischio che produce alle partenze e agli arrivi.
Provò nuovamente a muoversi, ma tutti i suoi tentativi furono vani.
«C’è nessuno
La sua voce rimbombò in quella che doveva essere una stanza davvero piccola.
Nessuno rispose.
«C’è nessuno?»
Gridò di nuovo mettendosi in ascolto.
Nessuno rispose neppure stavolta, eppure riusciva ad udire dei piccoli rumori, come dei corpi che strisciavano sul pavimento.
«Aiutatemi vi prego.»
Il panico prese il sopravvento su di lei, mentre il suo cuore cominciava ad accelerare.
Si sentiva in trappola, come se qualcuno l’avesse rinchiusa in un contenitore, eppure sapeva di non essere sola. D’un tratto, qualsiasi cosa si stesse muovendo, si fermò di colpo, lasciandola rotolare fino alla parete.
Batté violentemente la testa, prima di udire delle voci in lontananza.
Tutto ciò che poté fare, fu rimanere ferma, nonostante aveva voglia di correre il più lontano possibile e scappare da quel posto, ovunque si trovasse.

«Dobbiamo portarli dentro, prima che l’effetto del siero svanisca e si sveglino.»
Una voce maschile e acuta sembrava provenire dalle sue spalle, nonostante fosse separata da qualcosa.
Era come poter udire una persona che si trova in un’altra stanza, o dietro la porta.
Una luce violenta colpì i suoi occhi, preceduta da un suono che indicava che era stata aperta la via d’ingresso o d’uscita.
Istintivamente chiuse gli occhi, non potendo muovere le braccia, reprimendo il bisogno disperato di vedere dove si trovasse.
«Fate in fretta, non ci rimane molto tempo! Il treno ripartirà tra tre minuti per altri ventiquattro ragazzi.»
Voleva gridare, scappare e mettere a tacere quelle voci che non riconosceva.
Per un attimo aprì gli occhi, ma ancora non si erano abituati a quella luce intensa. Riuscì a scorgere però, l’interno di una carrozza e tre ombre che dovevano appartenere a tre uomini.
«Ehi Drew, questa qui è sveglia!»
Una voce troppo vicina esclamò in tono allarmato. Seguirono subito movimenti, gli altri due probabilmente stavano accorrendo per lei. Aveva sempre di più il respiro affannato, come se avesse corso una maratona, mentre il cuore rischiava di saltarle fuori dal petto.
«Mettila di nuovo a dormire.»
Percepì un click sul suo braccio e un lieve dolore terminò con la perdita dei sensi.
Tutto tornò nero
.

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Capitolo 2
*** Bianco. ***


Il suo risveglio non fu affatto indolore. Sentiva la testa girare, insieme a tutta quella stanza di cui poteva osservare solamente il soffitto bianco. Quando cercò di stropicciarsi gli occhi, le sue braccia erano tornate a muoversi, anche se ogni movimento le costava una fatica eccessiva. Cercò di sollevarsi, scoprendo di essere su un letto troppo piccolo e scomodo per essere quello di casa. Una serie di fili erano stati applicati con delle mascherine al suo petto e un monitor controllava il suo battito cardiaco. Dov’era finita? Intorno a lei c’erano una decina di letti vuoti, con le lenzuola stropicciate segno che qualcuno aveva dormito lì recentemente. Tutto però era troppo bianco, il soffitto, le pareti, i letti e persino quei pochi comodini che si trovavano sparsi per la stanza. Non c’era anima viva, l’unico rumore proveniva dal monitor che rilasciava un tic continuo. Si mise seduta, sorreggendo la sua testa con entrambe le mani, cercando di capire dove si trovasse e come fosse finita lì. L’ultimo ricordo che aveva era una cabina buia, che doveva essere la carrozza di un treno e delle voci maschili che parlavano di nuovi arrivi e altri ragazzi. Eppure sembrava che le avessero rimosso tutto ciò che potesse ricollegarla a come fosse finita in quel dannato posto. Non ricordava di essere salita su un treno e tanto meno di essere stata rapita, ma non poteva essersi semplicemente materializzata lì. Quando riuscì a mettere completamente a fuoco la sua vista, staccò tutto ciò che la teneva ancorata a quel letto, ogni singolo filo compreso quello della flebo e si lasciò cadere a terra, scoprendo che i suoi vestiti erano stati sostituiti da una lunga stoffa bianca, tipica degli ospedali. A piedi scalzi, con uno scarso equilibrio, esplorò la stanza cercando una via d’uscita. Nonostante volesse solamente gridare, cercò di rimanere calma, avvicinandosi agli altri letti e sfiorando quelle lenzuola come se cercasse qualcuno. Con una fretta che non sapeva di avere, cominciò ad aprire ogni comodino, alla ricerca di qualcosa che potesse risultarle utile in quella che sarebbe stata la sua fuga. Recuperò solamente un paio di forbici, perché tutto ciò che c’era in quei cassetti, erano poche garze e qualche ago, ma sperava che fossero state sufficienti. Si avvicinò alla porta, rallentando il passo e abbassò la maniglia sperando che non ci fosse nessuno all’esterno. Si affacciò cautamente e l’intero corridoio che si apriva in due direzioni, sembrava essere vuoto. Socchiuse la porta e si diresse verso sinistra, con le forbici in pugno e un’ansia che sembrava scioglierla dentro. Anche lì era tutto bianco, il corridoio svoltava più volte a sinistra e sembrava interminabile. Per quante volte continuasse a cambiare direzione, c’era sempre una nuova strada da seguire. Cominciò così a correre, provando la sensazione di essere seguita, nonostante regnasse il silenzio, tornando indietro sperando di trovare una via d’uscita o almeno un posto in cui nascondersi. Non ricordava da quanto tempo stesse correndo, ma ad un tratto si ritrovò di nuovo al punto di partenza. La porta della stanza però, invece di essere socchiusa come l’aveva lasciata lei, era completamente spalancata. Indietreggiò avvolta da un misto di paura e di curiosità, pregando che all’interno ci fosse un altro ragazzo e non uno di quelli che l’aveva portata lì. Senza fare il minimo rumore, si nascose dietro una rientranza del muro e si mise in ascolto. «Candidata numero 2115, è pregata di rientrare nella stanza.» Una voce femminile sembrava provenire dalla stanza nonostante l’eco si ripeteva per tutto il corridoio. Non si mosse, quasi paralizzata dalla paura. Non riusciva a pensare più a nulla, se non ad una soluzione su come scappare di lì. Lentamente, con le spalle alla parete, cercò di tornare sui suoi passi ma subito dopo sentì scontrarsi con qualcosa. Si voltò sollevando gli occhi, trovandosi di fronte tre uomini dall’altezza fuori dal normale, vestiti completamente di bianco con un logo celeste che era stato cucito sulle loro giacche. Non riuscì nemmeno a pronunciare una parola, che si sentì afferrare per entrambe le braccia, mentre veniva sollevata dal pavimento. «Lasciatemi andare, lasciatemi andare!» Gridò scalciando e dimenandosi con tutte le sue forze. La loro presa però era salda e troppo forte da non sembrare nemmeno umana. «Lasciatemi!!!!» Le sue grida furono del tutto vane, perché venne trasportata fino all’interno della stanza come se fosse completamente senza peso. Quando finalmente i suoi piedi toccarono di nuovo il pavimento, si ritrovò davanti una signora bionda, appena sulla quarantina, che aveva una bellezza quasi accecante, ma allo stesso tempo mortale. Guardarla la faceva sentire estremamente piccola e il solo pensare di avere i suoi occhi addosso, le faceva desiderare di nascondersi e correre lontano. «Benvenuta nella zona 4, questi sono i suoi vestiti è pregata di indossarli immediatamente e di recarsi presso l’area istruttiva dove le verranno date le risposte alle sue domande. Doveva essere già lì in questo momento, non amo i ritardi, ma mi hanno riferito che le hanno dovuto somministrare nuovamente il siero perché l’ha rigettato troppo presto quello precedente.» Le sue parole sembravano taglienti, come se potessero provocarle delle ferite. Non riuscì nemmeno a risponderle, perché sembrava essere paralizzata su quel pavimento troppo freddo per non indossare le scarpe. Qualche secondo dopo, lei si alzò ed uscì, lasciandole una pila di vestiti sulle braccia e un avvertimento che le faceva scoppiare la testa. Si lasciò cadere a terra e pianse, pianse perché aveva solamente voglia di tornare a casa e dimenticare quelle poche ore trascorse nel nulla. Con i vestiti ancora in mano, gridò, cercò aiuto, ma nessuno arrivò a soccorrerla.

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