All'Ombra degli Scaffali

di Aranel33
(/viewuser.php?uid=685612)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ***
Capitolo 2: *** Cpt I ***
Capitolo 3: *** Cpt. II ***



Capitolo 1
*** Prologue ***


Il sole di settembre incrociava obliquo il vetro dell'autobus. Con le mani sollevai gli occhiali da sole in modo da poterli usare come specchio. Non che fossi particolarmente vanitosa o maniacale verso il mio look come molte (troppe) mie coetanee: semplicemente quella mattina avevo un esame e arrivare sudata, trafelata e spettinata non era il massimo. Mentre continuavo a fissare il mio riflesso, accertandomi che il trucco non si fosse sbafato a causa del caldo e della corsa per riuscire a prendere il mezzo, mi ritrovai ad alzare gli occhi. Per trovarne un altro paio. Un bellissimo paio di occhi scuri, onore al vero. Avevo sempre amato gli occhi scuri: tra le varie colorazion erano quelli che meglio rendevano la profondità e l'abisso dello sguardo, il colore che più facilmente mi incantava. Amavo quell'incerta sensazione di un salto in basso, lo sguardo abissale che ti acchiappava anche solo leggendo la lista della spesa. Comunque, tempo di un attimo, giusto un battito di ciglia, e avevo distolto lo sguardo, rivolgendolo agli occhiali e infilandomeli. Anche lo sconosciuto dai begli occhi, seduto a qualche metro da me in un sedile rivolto dalla mia parte, aveva adesso dedicato l'attenzione a qualcos'altro; nella fattispecie un fascio di fogli, forse appunti o dispense.
Non rialzò più lo sguardo per le successive due fermate e io mi ritrovai a tenerlo d'occhio e a studiarlo più per noia che per una ragione precisa, come molte altre volte mi era capitato. Fu così che notai tranquillamente i capelli scuri spettinati, la camicia azzurra spiegazzata con le maniche arrotolate fino ai gomiti e lo zaino nero totalmente anonimo, distraendomi dall'idea dell'esame e tranquillizzandomi. Giusto prima di scendere, mentre si stavano aprendo le porte, gli lanciai un'ultima occhiata.. Non fosse che lui in quel momento alzò a sua volta lo sguardo. Sbiancai e mi irrigidii per l'essermi fatta notare e mi affrettai a scendere. In breve, neanche un minuto, avevo ovviamente già scordato l'accaduto e il fatto che quel tizio esistesse, tornando alla realtà. Dura e concreta come l'asfalto su cui poggiavo i piedi. Stessa realtà che prevedeva di lì a poco un esame.. E quelli sì che erano problemi. Non l'incrociare lo sguardo di studenti sconosciuti che mai più avrei rivisto.


L'esame in qualche modo andò: sarebbe potuto andare un po' meglio ma anche ben peggio, ragion per cui non avevo motivo di sentirmi delusa. Mi ero appena districata dai colleghi di facoltà, con la promessa di uscire insieme a festeggiare l'esame andato e il fatto che ci sarebbe di nuovo stato tempo di respirare. In realtà questo tempo potevano averlo loro, non io.
Avevo recentemente discusso ancora una volta con i miei a causa di affitto, rette, costo dei libri e così via. E ancora una volta mi ero ritrovata a far cozzare la mia esistenza con il fatto che così non poteva andare avanti, chiedere di più alla mia famiglia era scorretto da parte mia ma avevo anche un bisogno fisico di soldi. Ragion per cui era ora che, a 22 anni, mi trovassi un qualche lavoro. Dopo un'accurata scelta durata giorni e riflessioni ero arrivata a fare domanda per un paio di impieghi: la commessa in un negozio di fiori o in uno di libri. Ad essere sincera speravo proprio in questo secondo impiego: ero vissuta nelle librerie e nelle biblioteche fin salla più tenera età e, seppur la più che maggiore età. quei luoghi continuavano a vestire delle vesti in un qualche modo sacre: l'odore delle pagine, la consistenza dei vari tipi di copertina, i giochi cromatici che si intrecciavano sugli scaffali. Molto di bello, ancora di più di affascinante.
Ecco perchè volevo entrare a lavorare dal libraio ed ero anche abbastanza sicura che mi avrebbe assunto: l'orario era quasi quello di un commesso normale ma lo stipendio offerto la metà; per intenderci, uno sfruttamento. Ciò però non mi interessava: una studentessa di 22 anni, diplomata a uno scientifico e senza ancora uno straccio di laurea, chi è che non la sfrutta? Nessuno. Ecco quindi che, delle tante domande fatte (tra cui quella ad un fioraio piuttosto che a un fast food), io speravo in quella. Mi avrebbero pagato ancora di meno ma avrei avuto la possibilità di far un lavoro che mi piaceva. Tra il vivere vendendo libri o far la cameriera non c'era paragone. Inoltre ero sicura che facendo un lavoro che davvero mi piaceva avrei sentito meno la stanchezza e la pesantezza di lavorare e studiare.

Persa nelle mie ragioni lanciai un'occhiata al cellulare: era arrivata la conferma del colloquio "Signorina le confermo il colloquio alle 17 nella libreria. Cordiali saluti, prof. Alinari".
Ed erano le 16.
E ciò significava correre.
E in fretta pure.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Cpt I ***


Prima di un esame, prima di un test, prima di una qualunque prova ho sempre sentito quel che di fatalità in quello che sto per fare. L'ansia di quando sei di fronte ad un dirupo e non ci sono storie: non resta che saltare, affrontare la vertigine che si scava immensa dinanzi ai tuoi piedi per andare avanti. Con sempre chiara la consapevolezza che un attimo prima tutto è ancora possibile, quello dopo sai che ciò che è fatto è fatto e non si torna più indietro.
Ecco, nello stesso momento in cui posai la mano sulla maniglia del negozio sentii quella stessa autentica sensazione invadermi. Né prepotente né tantomeno totalizzante ma presente sì, accucciata da qualche parte tra collo e addome, acquattata tra laringe e bronchi, pulsava e mi scuoteva, facendo lentamente mescolare l'adrenalina al sangue. Feci un'ultima volta mente locale e preso un respiro profondo entrai, spaventata quanto eccitata dall'idea di trovare il modo di farmi assumere. Spaventata perché sì, io volevo quel posto; avevo qualcosa da perdere e ancora tutto da giocare.
Infatti, nello strano annuncio che accompagnava l'offerta, non era richiesto di presentare alcun curriculum, alcuna certificazione, alcun diploma. Era bensì chiesta competenza e massima serietà (testuale) ma senza alcun bisogno di prove cartacee.
Quando avevo poi telefonato la voce dall'altro capo aveva semplicemente affermato che "sarebbe stato valutato di persona dal responsabile", in modo criptico, tagliando breve e riattaccandomi; un modo che molti definirebbero a giusta ragione assurdo, soprattutto considerata l'epoca attuale.
Nell'entrare tesi quindi il viso nel sorriso rassicurante che di solito usavo per le situazioni in cui volevo riuscire simpatica, sforzando di dare tranquillità e apertura allo sguardo. Anni di teatro mi avevano insegnato che il linguaggio del corpo dice tutto e quello era proprio uno di quei casi in cui è necessario sfruttare lo charme fino in fondo, considerato che sa Dio in cosa mi avrebbero valutato.
Speriamo solo non abbia ragione Ludovica, fu l'ultimo pensiero, tornando alle parole di una mia amica che aveva sostenuto che mi avrebbero "sessualmente sfruttato". Come se fossi stata il tipo di persona che si lascia circuire in modo simile!

Mentre la porta si chiudeva facendo risuonare un campanello acuto e dal suono argentino, lo sguardo già vagava tra gli scaffali in legno scuro. Quel posto era bellissimo, decisamente, non riuscivo a capire perché non lo avessi notato prima, poiché io ero proprio il tipo di persona che una volta trovati luoghi simili non esitava a divenirne un frequentatore abituale. Un uomo, un'età imprecisata tra i 60 e i 70 anni, spuntò dal fondo dello scaffale per venirmi incontro “Buonasera signorina, posso aiutarla?”, domandò con un'autentica cordialità vecchio stampo, quell'atteggiamento che si può solo ritrovare in persone delle generazioni passate che hanno rigettato con dolcezza e decisione il frenetismo moderno.
“Buonasera a lei.. professor Alinari? Le ho telefonato qualche giorno fa per il colloquio” risposi, incerta.
Il suo sguardo si illuminò “Già, me ne ero dimenticato. Quindi lei è Cassandra Musil. Beh, mi perdoni ma sappia già da adesso che le darò del tu. Non riesco a darti del lei considerato che potresti essere mia nipote.. per quanto riguarda te chiamami direttamente Professore. Vieni con me adesso, ti porto in retrobottega così possiamo parlare con calma” mi sorrise per poi volgersi alle spalle, verso un qualche luogo imprecisato al di là degli scaffali “Christian! Devo fare il colloquio! Ci pensi tu ai clienti?”. “Sì professore!” si sentì mugugnare svogliatamente al di là degli scaffali. A quanto sembra, avevo un nuovo potenziale collega che affondava nella gioia di vivere. Anzi, ci affogava direttamente.
Mentre lo seguivo lasciavo scorrere il mio sguardo, affascinata. L'ansia e le remore si stavano letteralmente nebulizzando di fronte all'odore della carta e del legno stagionato. Una persona che ama i libri non può essere una cattiva persona, mi aveva sempre detto mia nonna; ovvero la donna che mi aveva letto libri su libri quando ero ancora troppo piccola per poterlo fare da sola, colei che mi aveva seguito e ascoltato mentre eseguivo i primi incerti esercizi di lettura, insegnandomi e conducendomi dolcemente in quel meraviglioso mondo della carta stampata.
E sempre lei mi aveva insegnato cosa fossero veramente bontà e cortesia, le stesse che stavo intravedendo nel Professore Alinari. Anzi, nel Professore. 
Camminando a larghe falcate, scandite dal rumore secco prodotto dalle scarpe di cuoio sull'assito di legno, il libraio mi condusse in un piccolo ufficio. La stanza era nel complesso disordinata, completamente sommersa da libri e fascicoli, decorata con almeno due o tre tazze di caffè abbandonate sulle scaffalature e un intenso aroma di sigaro e caffè in sottofondo. Un disordine che però diventava armonico e giusto, perfettamente intonato alle poltrone di pelle. 
“Eccoci qui ragazza mia, prendi pure posto dove trovi e sentiamo un attimo. Come avrai letto da ciò che ho scritto oltre che intuito dalle mie parole a telefono a me non interessa che una persona abbia o meno lavorato in un negozio prima d'ora. Non sto cercando un commesso ma una persona che vende libri; in questo vedo un enorme differenza. Sono dell'idea che saper vendere un libro a una persona parta dal saper stare coi libri. E soprattutto che ne sappia riconoscere il valore” mi sorrise quindi, avvicinandosi a una moka abbanonata dal lato opposto. “Vuoi un po' di caffè?” mi propose.
“Certo, comprendo. Comunque sì, volentieri”, annuii, sempre più interessata da quell'atteggiamento bizzarro ma meravigliosamente affascinante.
“Benissimo, ecco – abbassò la voce mentre si chinava ad prendere un paio di tazze da una credenza mezza sommersa da tomi minimo del 1700/1800 – quindi sono prima di tutto interessato ad avere idea di che persona sei. E' la prima volta che lavori? Studi? Cosa fai della sua vita?”, domandò porgendomi la tazza e scavandomi con uno sguardo azzurro. Mi piaceva a pelle come persona e ciò che diceva ma adesso, forse, stavo di nuovo ricominciando ad avvertire il disagio.
“Ecco sì, è la prima volta che lavoro. Studio al terzo anno Farmacia, ben altro ambito, e mi sono ritrovata con la necessità di un lavoro – sorrisi, in modo da sembrare più umana e meno un automa sotto interrogatorio- e ho visto il suo annuncio. La cifra che offre mi basta per ciò di cui ho bisogno.. e come tipo di lavoro mi piacerebbe e non poco. Prima dell'università avevo una discreta forma di bibliofilia acuta, calata negli anni a causa dell'impegno di studio. La lettura resta comunque una delle mie care passioni” sorrisi, resa timida dal fatto che avevo parlato d'un fiato come una quindicenne in imbarazzo; e me ne rendevo conto solo dopo che mi ero ritrovata senza fiato a fine discorso.
Scoppiò a ridere mentre beveva il caffè “Ecco, c'è già una base su cui lavorare”. Mugulò lasciando vagare lo sguardo al di là della finestra.
“Partiamo dalle basi allora, mia cara lettrice. E rispondi in modo sincero: chi è il tuo autore preferito e perchè”.
Pessoa, facile. Presi un lungo respiro e cominciai a parlare.


Molti autori e correnti letterarie dopo uscii dall'ufficio. Mi sentivo svuotata, molto più di dopo che avevo fatto l'esame, ma anche esaltata. Esaltata dall'aver potuto parlare per quasi due ore di letteratura, libri, personaggi, poesia e del mio amore per tutto quel mondo, potendo commentare ed esporre il mio giudizio critico e ricevendo punti di vista e osservazioni estremamente lucide da quell'uomo, dettate da una cultura sterminata.
Forse mai avevo conosciuto una persona con una simile conoscenza, sommata a una critica puntuale ma non rigida. Qualunque cosa fosse stata scritta dall'alfabeto cuneiforme ad ora, probabilmente l'aveva letta.
“Allora Cassandra, attacchiamo domani? Dovrai fare una settimana di prova ma penso proprio che il posto sia tuo al quasi 100%” mi sorrise gentile. “Ore 9, va bene?”.
“Va benissimo Professore. Grazie”. La gioia stava decisamente scorrendo nelle vene.
Mentre uscivo sorrisi tra me, esultando. Ero stata promossa, avevo un lavoro e a quanto sembra anche un po' di stima da parte del professore. Che giornata esaltante. Fu proprio mentre uscivo che notai un giovane, camicia azzurra e ciuffo di capelli scuri, che stava sistemando all'angolo opposto del negozio dei libri. Doveva essere Christian-lo-svogliato, meglio non salutarlo dal momento che era stato lui il primo a fregarsene anche se sentiva che prendevo accordi per l'indomani e che sarei presto diventata sua collega.
Ad ogni modo, fu solo dopo aver varcato la soglia che ricollegai camicia e capelli. Erano gli stessi della mattina. “No Diandra, non è possibile.. non è possibile. Sogna meno e gioisci per il lavoro”, mi sussurrai mentre estraevo il cellulare per sentire dove andare quella sera. In fondo, avevo anche un esame da festeggiare.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Cpt. II ***


Prima di tutto VI RINGRAZIO. Chi ha recensito e chi ha incominciato a seguire questa storia. E' il primo lavoro serio che abbia mai fatto.. quindi sono abbastanza insicura. Vi prego quindi di darmi consigli e critiche, di dirmi cosa c'è da cambiare e cosa dovrei migliorare. Spero di riuscire ad andare avanti..
Ma nel frattempo un abbraccio a tutti!
A.


La sveglia suonò impietosamente alle 7.30. Impietosamente, perché la mia testa non ne voleva sapere di attivarsi né tantomeno i miei occhi.
Scivolai fuori dal letto e mi andai a rinchiudere in bagno, scalza perché anche con tutti i buoni propositi trovare le ciabatte era davvero un'impresa titanica.
Per fortuna le mie coinquiline dormivano ancora e prima delle 8 non si sarebbero svegliate: ciò mi dava libertà di movimento e soprattutto d'azione, ammesso che riuscissi ad aprire gli occhi più di quella fessura che mi permetteva a stento di scansare i mobili.
La sera prima ci eravamo divertiti ma avevamo anche fatto le 4 del mattino. E quattro ore di sonno scarse implicavano che se volevo essere cosciente la base d'asta era tre caffè.
Fu proprio mentre facevo colazione (dopo una lunga doccia mezza ghiacciata in modo da risvegliarmi) che mi tornò alla mente che ieri sera avevo intravisto nuovamente camicia azzurra, ovvero il tizio dell'autobus ovvero il commesso. Incredibile, tre volte in un giorno lo stesso "sconosciuto". Non che ci avessi parlato, sia chiaro, ma avendoci sbattuto contro nella ressa del locale mi ero ritrovata a doverlo notare per forza. Poi vabbe, ero andata avanti e avevo proseguito con la mia serata.
Già, avevo anche deciso una volta per tutte che avrei lasciato Niccolò. Già.

Niccolò era il coinquilino di un mio amico, Raffaele. Ci eravamo conosciuti qualche tempo prima e dopo poco avevamo cominciato a frequentarci. Carino, simpatico, studiava ingegneria ed era indietro di un paio d'esami. Nel complesso una persona normale.. Forse troppo normale. Già. Ma anche se non mi stavo innamorando (e dubitavo le cose sarebbero cambiate in futuro) ci stavo bene e il tempo scorreva in modo semplice quando eravamo insieme. Non fosse che ahimè non eravamo sulla stessa lunghezza d'onda e la conferma era appena arrivata.

La sera prima. Seduti su una panchina ci siamo temporaneamente isolati dal gruppo. Lui mi bacia dolce, fottutamente dolce come al suo solito. Si stacca e mi sorride
-"che ne diresti se quest'estate venissi da me?"
-"in Sicilia dici?" -per la cronaca, era siciliano. Di quelli con capelli biondi e occhi chiari, classici discendenti dei normanni.
-"già, sai, la casa è grande.. E c'è il mare. Inoltre ci frequentiamo da un po'.. Le cose vanno bene. Penso sarebbe giusto conoscessi anche i miei, la mia famiglia" -sorride- "in fondo sei la mia fidanzata, no?".
Ora, a chi mi conosce è chiaro che in una stessa frase le parole fidanzata e famiglia non vanno messe. Proprio no.
Non so perché ho terrore nero di questi concetti ma proprio non li affronto, non riesco e non so se riuscirò.
-"beh.. Ne possiamo parlare. -sorrido- ma con calma.. Non durante una serata così!". Lo bacio, più per nascondergli la mia espressione da panico che per reale dolcezza.
- "ne sarò felice, i miei hanno tanto insistito!" Si stacca, abbracciandomi e guardando l'orizzonte grazie a me. Socchiudo gli occhi e mi abbandono all'abbraccio, cercando di ristabilire una mimica da "fidanzata felice". Cristo, se gli ho detto che stiamo insieme io NON gli ho detto che siamo fidanzati. Sono cose diverse. Il fidanzamento.. Fa paura. E poi deve smetterla di nominare la famiglia. I miei nemmeno sanno che lui esiste.. questo ovviamente non lo sa. Lo so, sono patologica. Però FIDANZAMENTO è una cosa che associo in ordine a catene, cella e io rinchiusa in una cucina. Vabbe, ammetto che forse le cose sono diverse e i tempi diversi.. Soprattutto che ormai non sono più una ragazzina e intorno a me la gente si sta incominciando a laureare e ad andare a convivere. Per non parlare delle coppie tra lo storico e l'epico, presenti ovviamente anche tra i miei amici: insieme da anni e ancora innamoratissimi. Io però non sono qjea persona, non lo sono mai stata. In un rapporto, di qualunque genere, ho lenti tempi di apertura. Con gli amici va meglio e posso dire con gioia di averne di cari e sinceri al fianco da anni. Con i ragazzi..
Con i ragazzi è diverso. Mai stata veramente sola, mai stata veramente con nessuno. Mai ho avuto il cuore in gola per un ragazzo e mai ho sognato un futuro come coppia. Se penso a me tra venti anni mi vedo come donna in carriera più che come madre e moglie affettuosa. Forse è la paura di essere ferita che mi spinge ad essere così, però resta il fatto. Resta il fatto che comunque, ancora oggi, se mi chiedono quando mi fidanzerò seriamente irrigidisco le spalle e sparisco. Ludovica, la mia più storica e cara amica, studentessa di architettura a circa 100 km da qui, mi ha sempre riso in faccia sostenendo che sono una femminista introversa e con una spiccata propensione nell'autolesionarsi. Forse.
Intanto resta comunque che le parole di Niccolò mi mettono ansia. Viscerale. E anche una punta di senso di colpa. Anche se io non l'ho mai illuso, mai gli ho detto che lo amavo. Forse però.. Forse non sono stata abbastanza chiara.
Per fortuna sento la voce di Elena che ci chiama. Sospiro sollevata, volgendomi verso di lei con un sorriso. Salvata in corner.


Continuavo a rigirare il cucchiaino nella tazza, pensando a cosa fare. Dovevo lasciarlo, certo. Ma come? Quando? Quel giorno o quello dopo? Insieme non potevamo più stare. Affondai le mani tra i miei capelli sbuffando e mi alzai dalla sedia: avrei pensato poi a Niccolò, adesso dovevo solo andare a lavoro. La libreria. I libri e gli scaffali. Sorrisi tra me prendendo la giacca e uscendo di casa, dopo aver salutato in fretta le mie coinquiline.


____________

 

La porta e il campanello all'ingresso. La luce soffusa della mattina che penetrava dalle vetrine e l'odore di carta. Era magico quel posto.
“Buongiorno cara!” mi accolse un Professore carico di libri. “Benearrivata! Appoggia pure giacca, borsa et similia dietro e vieni di qua.. Christian!”.
Un giovane Christian apparì svogliatamente da dietro uno scaffale. Dio, era proprio il tizio dell'autobus allora.
Mi guardò tra lo scocciato e lo scettico, quindi si rivolse al professore “Eccomi, che c'è Professore?”.
“Bene, era ora che conoscessi la tua nuova collega. Cassandra, Christian”. Esclamò.

“Piacere!” esclamai.
Rispose con un “altrettanto” tra il biascicato e il distratto, mentre il Professore continuava “Ecco allora, Christian mostrale il retro e il negozio mentre io finisco di catalogare questi. E, ti prego, SFORZATI di mostrare un minimo di cortesia se non di vitalità”.

Ah, quindi non era un caso che si mostrasse come un morto scocciato per di più dalla mia presenza.

Ci incamminammo in silenzio nel retrobottega, lui a lunghe falcate decise, io quasi correndo per stargli dietro.
Era surreale. Sole 24 ore prima ero seduta su un sedile dell'autobus a guardarlo e a dirmi lo-studente-dai-begli-occhi, e ora gli correvo dietro maledicendolo in turco.
Giunti nel retro mi mostrò tutto con il massimo dell'asetticità. Neanche fosse un.. boh. Non mi veniva in mente qualcuno che avesse meno passione di lui. Un incolla-francobolli forse. Ammesso che esista come mestiere. Chissà, magari chiuso in una centrale postale in un qualche angolo dimenticato da Dio.

Mi risvegliò la sua voce. Con uno sguardo acceso improvvisamente tra l'interesse e lo scherno.
“Scusami cosa hai detto?” no sai, stavo giusto ragionando sugli edifici postali.
“Ti ho chiesto se stalkeri spesso la gente. No sai, ieri in autobus pensavo quasi di aver a che fare con una ninfomane”
“Ma cosa..”
“E l'averti poi ritrovata nel locale..”


Lo preferivo quando faceva il senza vita. Senza dubbio.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2654101