Gunslinger

di FEDERICAIMBRIALE99
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 3: *** Come tutto ebbe inizio ***
Capitolo 3: *** Il primo incontro ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Ci sono sere, sere d’estate, in cui l’aria non sa d’altro che di malinconia. Oltrepassata quella finestra, in piedi, su quel balcone, stendi le braccia e come un fantasma ti lasci attraversare dal vento freddo che oltrepassa ed illumina ogni foro dell’anima. La cosa che più ti stupisce è che non è il vento in sé ad esser’ freddo: sei tu che sei fredda dentro. E quella massa d’aria, leggera, non è altro che un insieme di emozioni, le tue emozioni. Che ti lasci scappare pur non facendole scappare mai. E’ questo che succede quando reprimi un sentimento: se anche per un solo istante ti sembra di averlo lasciato andare per sempre, liberato nell’ aria, ecco che ritorna da te, come un’ondata di vento. Un vento d’estate: caldo, ma che rinfresca, anzi,  congela. E nel preciso momento in cui ti lasci attraversare di nuovo da quest’emozione, non ti senti più viva. E’ come se il tempo e lo spazio in un istante svanissero  e tu stessa con loro. Sei Morta. Non provi più niente, ad eccezione di una strana sensazione, la sensazione più brutta che si possa provare. Che non è tristezza, non è solitudine: è semplicemente rassegnazione. Il sentimento all’apparenza più innocuo di tutti alla fine può rivelarsi il più orribile, il più pericoloso. E’ terribile questa rassegnazione. Non senti più niente, non percepisci il mondo che ti circonda. Lassù, in alto: il cielo, la luna e le stelle. Ma vedi nero. Di fronte a te ci sono quegli alberi, gli alberi che profumano d’estate, che nascondono tante cose. Ma vedi la nebbia. Nell’aria: il rumore delle cicale, quello del vento contro le serrande. Ma non ascolti. Quel profumo di freschezza, di felicità. Ma non lo senti. Sei Morta. Non senti niente,se non la tua incapacità di non sentire. E non pensi a niente, se non a lui.
Lui, quasi non riesci a pronunciarlo il suo nome, tanta è la rabbia. O forse, più che rabbia è disgusto, o tristezza. Non lo sai nemmeno tu. E’ strano: l’unica persona in grado di capire quello che stai provando adesso ha perso ogni lume della ragione. Non sai cosa sta accadendo, non sai dove ti trovi, non sai perché. Hai perso la ragione, hai perso tutto, hai perso te stessa, perché hai perso lui. Nonostante pensi alla cosa che ti ha ferita di più al mondo, non riesci a stare male. O meglio, Stai male (ammesso che tu sappia ancora cos’è, lo stare male), ma non sei triste, non piangi. Non ci sarà nessuna lacrima questa volta, nessun’ singhiozzo. Niente lacrime. Insieme al corpo si  raffredda anche lo spirito, e allora anche le lacrime si raffreddano. E c’è talmente tanta confusione che ti ci perdi, in questa confusione, e alla fine ti arrendi, rassegnandoti alla tua rassegnazione. Non capisci. Non ti rendi conto. Non senti niente. Non puoi immaginare. Esattamente come me, quella sera. Non potevo immaginare. Non lo sapevo, non sapevo di trovarmi a casa mia, alle dieci di sera, sul terrazzo dell’undicesimo piano di un grattacielo della città di Pesaro, Provincia omonima, Marche, Italia, Europa, mondo. Non sapevo di essere lì, non sapevo di esistere. Non sapevo che, qualche minuto dopo, avrei cercato di porre fine alla mia inutile vita gettandomi proprio da quel balcone. Non c’era lucidità. Non avevo progettato niente prima. Era uno di quei momenti. In preda al panico, non capisci più niente. Sei come avvolta da un’enorme nube oscura. Ti addormenti, ma il tuo corpo è sveglio. Il cervello va in blackout. E’ quello che succede. Era già accaduto prima di allora, almeno una volta alla settimana mi trovavo in questo stato di incoscienza. Ma non mi era mai successo qualcosa di così grave. Mi ero persa, smarrita. Mi stavo autodistruggendo senza nemmeno saperlo. Ero come in coma. Il cervello, in quei momenti, non funzionava più. Non ero pazza: solo innamorata.
 
 Ed è stato allora che -23 Giugno 2013, ore 22.04-, in preda alla mia rassegnazione, mi sono seduta sul balcone, in attesa di buttarmi. All’improvviso, guardando giù, ho sentito il cuore stringere nel petto, e mi sono chiesta perché battesse così forte. Non capivo, in fondo  non c’era ragione di preoccuparsi. Avrebbe fatto male, questo sicuro. Quanto male non avrei potuto dirlo. Volevo solo smettere di pensare a tutte queste cose inutili. Io ero inutile. Non mi sentivo viva, questo era l’importante. Dovevo morire, ma per me ero già morta, quindi mi sono chiesta addirittura come mai il mio cuore continuasse a battere. Non importava. Tanto, qualunque fosse stata la mia preoccupazione sarebbe finita presto, come tutte le altre cose, come la rassegnazione.
Non avrei voluto di certo saltare, sapevo che non ce l’avrei fatta. Avrei dovuto fermarmi e sarebbe stato peggio. Volevo farla finita, per cui ho optato per una leggera spinta. Innanzitutto ci si deve sedere adeguatamente. Prima una gamba, poi l’altra. Bastano solo un po’ di coraggio e di pazzia. Vedevo i miei piedi ondeggiare nel vuoto. Piedi che avevano camminato per le polverose vie di una strada senza meta, senza fine. Stava andando tutto alla perfezione, tutto secondo i piani. Piani di un di un attimo di follia. Ma mentre le mie mani si preparavano al grande salto nel vuoto, sentì qualcosa disturbare la mia rassegnazione. Qualcosa di freddo, ma allo stesso tempo caldo. Non era il vento, ma una lacrima. Fosse stata una sola. Una lacrima, due, che mi riportarono alla realtà. La crudele realtà. E il fiume di lacrime si è trasformato in mare quando mi sono resa conto di dove realmente fossi. Guardare i miei piedi, il vuoto, quella sera mi ha sconvolta. Avrebbe sconvolto chiunque. Non sentivo più il cuore a causa della velocità con cui mi martellava il petto. Ero scioccata, ma riuscì a scendere. Tremavo. Era finita. Avevo combattuto contro me stessa e avevo vinto, di nuovo. Rientrai in casa. Adesso ero seduta su di una macabra sedia di legno dentro una stanza macabra, rossa e bianca, ma senza colori. Il mondo per me era senza colori perché ero stata io a perderli. La mia tavolozza non era stata invasa dal grigio: non esisteva più, come non esistevo io. Quella sera, però, seduta su quella sedia, mi sono sentita al sicuro per la prima volta. Al sicuro, salva da me stessa. Non avrei voluto morire veramente, come potevo essere stata così stupida? Però non era colpa mia, non al cento per cento. E’ qualcosa che non riuscirò mai a spiegare a nessuno. E poi, infondo, la mia vera morte, era già accaduta tempo prima ed era stata la morte spirituale, che è peggio della morte fisica: quando muori fisicamente, non soffri.
Una volta tranquillizzatami, mi sono alzata e ho messo un pentolino d’acqua calda sul fuoco. Poi ci ho immerso una bustina che doveva contenere camomilla e sono tornata a sedermi. Fissavo il gas, inerme, ancora incredula su quanto accaduto prima. Era finita –pensavo-. Poi un altro pensiero m’inondò la mente: perché non ero riuscita a portare a termine il mio progetto? Ero troppo fraglie, troppo, non avrei dovuto esserlo. Ecco perché mi andava tutto male: non riuscivo a portare a termine niente. Ero una bambina, un’ insulsa bambina che a soli quattordici anni pretendeva di sapere come funziona il mondo, e che pur non essendo riuscita a portare a termine ciò che si era imposta, si era rassicurata facendosi un’ insulsa camomilla. Come se avesse potuto cambiare qualcosa. Non cambia niente! non cambierà mai niente! Al diavolo il mondo, al diavolo la camomilla, al diavolo tutto! Spensi il gas. Andai in bagno e aprì il cassetto, ruppi il temperino per le matite da trucco e iniziai a strofinarmi quella lametta argentata sul braccio, avanti e indietro. Prima delicatamente, poi sfregando sempre più forte fino a raschiare via la pelle. E piangevo. Continuavo a piangere. Come se fossi due persone diverse, come se stessi lottando contro me stessa. Era la mia punizione. Quella che ogni giorno mi infliggevo, e nessuno sapeva niente di tutto questo. Ero sola, volevo esserlo. Vedere quelle gocce di sangue scorrermi sul braccio mi soddisfava e spaventava allo stesso tempo. Continuai a spingere sempre più in profondità, avrei potuto benissimo morire dissanguata. Non m’importava. Di nuovo. Volevo solo farla finita. Un’altra volta. Smisi di piangere, delle lacrme rimase solo l’ostinatezza. Suonò il campanello. Merda. A quel punto non c’era più niente da fare:come sempre ti infili la felpa, apri a tua madre, fingi un sorriso e vai a dormire, attenta a non sporcare le lenzuola, per risvegliarti il giorno seguente e ricominciare.

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Capitolo 3
*** Come tutto ebbe inizio ***


Ogni giorno, ogni giorno era lo stesso per me. Era un circolo vizioso. Un circolo che non sono mai stata in grado di controllare. E’ così, purtroppo. Ci sono cose che non puoi controllare. Ma mi chiedevo, e mi chiedo tutt’ora: come può qualcosa che nasce dentro di te sfuggire al tuo controllo­? La sola impossibilità di controllarmi era diventata la mia più grande esasperazione. Mi ero persa dentro me stessa o avevo perso me stessa dentro me? Era come se qualcosa si fosse impossessata del mio corpo. Un qualcosa di grande, che cresceva, diventava più forte, mentre io mi indebolivo. Proporzionalità inversa. Perché la vita non è come la matematica? Perché per ogni problema non esiste un’unica soluzione? Perchè i tuoi calcoli sono sempre sbagliati? Perché per ogni incognita non esiste un solo valore e per ogni valore una sola incognita? Perché non basta risolvere un’espressione per arrivare al risultato? Ecco perché odio la matematica, perché non è come la vita. E questo era l’antipodo della matematica, l’esatto contrario. Non c’era logica. E la cosa mi spaventava. Ma con il tempo ci si abitua a tutto. Avevo solo paura che poi, abituandomi, avrei creduto normale qualcosa che non lo è mai stato. E questo non era normale. Ma c’era una ragione per la quale non lo era. C’era una ragione per la quale mi ero persa. C’era una ragione. C’è sempre una ragione. Molte volte la soluzione di un problema è contenuta nella sua origine. Io la conoscevo, l’origine. Sapevo bene qual’ era la causa del mio malessere. Cercavo di ignorarlo, ma non si può ignorare qualcosa che vive dentro di te.
Ho sempre cercato di ignorarlo, ma tutto ha avuto inizio pochi mesi prima, il giorno in cui ho conosciuto lui. Che in realtà non l’ho proprio conosciuto. Che in realtà non lo conosco nemmeno adesso. E’ strano, e se dovessi descriverlo direi che in realtà tutto ha avuto inizio non il giorno in cui l’ho conosciuto, ma il giorno in cui ho imparato a conoscerlo. Perché ci conoscevamo già, e questo non mi ha mai causato alcun problema. Perché c’è una bella differenza, tra ‘conoscere una persona’ ed ‘imparare a conoscerla’. Conoscere non richiede nessuno sforzo. ‘Imparare a conoscere’ sì. Sinceramente non so dire proprio con esattezza cosa mi abbia colpito così tanto in lui da farmi desiderare di voler imparare a conoscerlo, è stato insolito. Perché dopo due anni e mezzo di scuola media insieme pensi di averla inquadrata una persona. Come io pensavo di aver inquadrato lui. E questo era quello che vedevo quando lo guardavo: un ragazzo di media statura, forse un po’ più bassa della media. Capelli castani e occhi del medesimo colore. Sul volto un velo di lentiggini quanto basta per donargli l’espressione di un adulto che nel cuore era sempre rimasto bambino. Sempre sorridente. Sempre con la chitarra in mano: l’unica cosa al  mondo che sarebbe stato capace di amare più di una persona, l’unica cosa in grado di farlo sentire realizzato. Tutto il resto sembrava superficiale per lui. Era bravo a scuola, ma studiava più che per voglia, per dovere. Non c’era passione nei suoi occhi, non la stessa passione che gli illuminava il volto quando suonava. Non la stessa passione che illuminava anche i volti degli altri quando suonava. La sua vita ruotava intorno ad una sola cosa. Devo ammettere che, per essere un ragazzo di appena tredici anni, era piuttosto bravo. Troppo bravo per la sua età, ma poco per vantarsi in quel modo. A volte sembrava che suonasse solo per ricevere complimenti, quasi lo facesse a posta, a fare il finto modesto. Non potevo sapere le cose che si nascondevano dietro quel ragazzo. Non potevo saperlo perché non avevo mai avuto modo di scoprirlo. Non fino a quel giorno. Non fino a quel freddo pomeriggio di gennaio, un pomeriggio che solo lui sarebbe stato in grado di riscaldare.
Erano le quattro e trenta e, come ogni giovedì, mi trovavo a scuola per le lezioni di pianoforte: seduta in quella stanza rettangolare e piena di scaffali che si usa chiamare biblioteca. Ma quella era troppo strana per essere una biblioteca, troppo poco strana per non esserlo. Tre o quattro scaffali, una finestra, ed un pianoforte al centro. Era qui che, per me, la realtà cessava di esistere. Quando suonavo, in quella stanza, sentivo il resto del mondo dissolversi con il sovrapporsi delle note, come se nessuno potesse più parlare eccetto  la musica, la mia musica. E’ incredibile come l’arte riesca a dire cose che noi non saremmo mai in grado di dire. E la musica parla, dice tante cose. E’ per questo che la amo così tanto. Voglio sentirmi libera di esprimere tutto quello che provo senza dover effettivamente farlo. Chi vuole capire capirà. Chi saprà leggere tra le note, tre le righe, potrà capirlo. Non tutti sono in grado di farlo, ma quando ci riesci è bellissimo. La musica è bellissima. Quel giorno è stato bellissimo. E non lo dimenticherò mai.
Appena finita la lezione, appena chiusa la porta, un’altra melodia ha invaso l’aria consumata del corridoio. Mai sentita prima di allora. Ma in quel momento ho avuto l’impressione che, visto il mio stato d’animo, fosse la canzone perfetta per me. E lo era, eccome se lo era […] Ho cercato di capire da dove provenisse quel dolce suono e i miei infallibili sensi mi hanno condotta alle scale che portano alla macchinetta del caffè. Mi sono guardata timidamente intorno, e ad un’tratto l’ho visto. Lui. Bello come solo lui avrebbe saputo essere facendo ciò che amava fare. Il nome ‘Domenico’ deriva dal latino ‘Dominicus’ e significa ‘Consacrato al signore’. Niente di speciale a dirsi. Ma secondo la religione, chi sta nel cielo insieme a Dio? Gli angeli, esattamente. Domenico era un angelo. Il mio angelo. Sceso in terra per salvarmi e io nemmeno lo sapevo. Appena mi ha vista arrivare ha smesso di suonare, spezzando l’incantesimo.
 ‘Ti disturbo?’
‘Ma figurati’-  mi sorrise.
‘Cosa stavi suonando?
‘Cosa? Intendi questo?’- strimpellò due accordi con la chitarra
‘Esatto.’
‘E’ un pezzo degli Avenged Senvenfold.’
Gli Avenged sono il suo gruppo musicale preferito. Una band metal. Li suona spesso. Io non amavo molto il genere, e non mi piacevano nemmeno le canzoni che a volte mi costringeva ad ascoltare, ma questa era diversa. Aveva un qualcosa di speciale.
 -Riprese a parlare-‘ So che probabilmente sarai una di quelle ragazze a cui piacciono gli One Direction e cazzate varie, ma gli Avenged Sevenfold sono un gruppo metal formato nel 1999 dal cantante M.Shadows. E’ bella, vero?’
‘Cosa? La canzone? Oh si, mi piace molto, almeno per quello che ho sentito. Come si chiama?’
Gunslinger
Mi fece cenno di avvicinarmi a lui e io spostai timidamente la custodia della chitarra per sedermi. Dopodichè riprese a suonare cantando le parole del testo per farmi capire come realmente fosse la canzone.
Yeah, You’ve been alone
I’ve been gone for far too long,
But whit all that we’ve been trought,
After all this time I’m coming home to you.
E’ proprio vero, che la musica parla. E in quel momento ho avuto come l’impressione che tutto il nostro destino fosse racchiuso in quella canzone. In quella bellissima canzone. E ascoltandola, mi sono sentita viva per la prima volta. Non so come spiegarlo, ma è come se con quella canzone lui fosse riuscito a dirmi ciò che mi era sempre sfuggito e che sfuggiva agli altri, ogni singolo giorno. Lo guardavo. All’improvviso qualcosa è cambiato dentro me. Mi sentivo bene. Libera da ogni pensiero. Ho chiuso gli occhi e appoggiato dolcemente la testa sulla sua spalla sinistra. In quel momento, su quella fredda scalinata, esistevamo noi due e basta. Io, lui, e quella canzone. La nostra canzone. Gunslinger.

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Capitolo 3
*** Il primo incontro ***


Nei giorni seguenti non ho fatto altro che ascoltarla, e insieme ai miei gusti musicali, anche il nostro rapporto è cambiato. Scherzavamo e ridevamo insieme. Quasi ci conoscessimo da una vita. E, cosa ancora più strana, ha iniziato ad aprirsi con me. Il ragazzo che non parlava apertamente con nessuno se non attraverso una chitarra, si fidava di me. Giorno dopo giorno stavo iniziando a capire la persona meravigliosa che fosse. Ogni pomeriggio mi chiudevo dentro la mia stanza ripensando a quel momento, mentre le note scorrevano veloci.
‘Sì, sei stata sola. Sono stato via per molto tempo. Ma con tutto quello che abbiamo passato, dopo tutto questo tempo sto tornando a casa da te.’
 In quei giorni era come se Domenico fosse la mia casa, la mia unica casa. l’unico posto in cui mi sentivo davvero al sicuro. E non mi ci è voluto molto per capire realmente chi avessi al mio fianco. Il ragazzo vanitoso, superficiale, per me non esisteva più. Lo guardavo e riuscivo a vedere solo la bellezza infinita, quella senza difetti, senza imperfezioni, quella che non esiste. Ma lui era reale, e anche i miei sogni lo stavano diventando. Può sembrare stupido o superficiale, ma non riesco nemmeno a spiegare quanta importanza avesse per me avere una persona sulla quale poter sempre contare, una persona che mi ascoltasse e che non facesse solo finta, insomma, una persona vera. E lui era vero, non troppo bello per esserlo, non troppo surreale per esserlo, ma bello, surreale e vero allo stesso tempo.
E così ho trascorso quei giorni, tra la scuola, i compiti, e le lezioni di pianoforte, nella più totale monotonia. Come tutti gli anni, come tutti i mesi di gennaio. Questa volta però non era uguale alle altre, solo simile. Perché tra tutta questa monotonia, sono riuscita a trovare una via d’uscita, il punto in cui l’anima si tranquillizza e il cervello smette di pensare, in quel luogo che fa venire solo voglia di smettere di pensare, e dissolve i problemi che sembrano quasi inutili. Era così che mi sentivo due volte alla settimana, su quella scalinata giallo limone, con l’unica persona che avrei voluto al mio fianco, l’unico mio desiderio. Mi perdevo tra le dolci note, e a volte mi immergevo così in profondità da non riuscire più a trovarmi. Dopo le lezioni di musica, ci sedevamo e ci raccontavamo tutto quello che ci si può raccontare. Lui suonava per me e mi chiedeva qualche consiglio. Era stupendo che qualcuno mi desse così tanta importanza, era fantastico che a qualcuno stesse tanto a cuore quello che dicevo. Anzi, forse la verità era che lui era fantastico, l’unica persona in grado di farmi sentire così.
Di tutti quegli incontri, voglio ricordarne uno in particolare, che mi ha sconvolta segnata così tanto che nemmeno io saprei dirlo, il primo di una serie d’incontri posti su una via diretta al paradiso che però mi ha portato altrove.
Eravamo seduti sul marmo gelido e lui accordava la chitarra. Io mi impegnavo a fissare il pavimento e a contarne le piastrelle, intorno a noi c’era il silenzio. Nessuna parola, nessuna nota. Era una cosa che odiavo. Odio il silenzio, perché quando la bocca non parla parla l’anima, parlano gli occhi. E queste sono le emozioni più sincere: non puoi fingere se parli con gli occhi. Ho sempre avuto paura di lasciarmi andare, ma con lui ogni paura era superflua, quasi inutile, riusciva a spazzare via qualsiasi timore prendesse il sopravvento su di me. Domenico era la mia atmosfera, mi proteggeva da tutto e da tutti senza rendersene conto. Io non gliel’ho mai detto perché non riuscivo a dirglielo, ma infondo era giusto così, c’erano tante cose che ancora non sapeva. Pensavo a tutto questo e intanto lo fissavo, e quando si girava tornavo a guardare il pavimento, solo che non era bello quanto lui. Infatti nel pavimento osservavo il suo riflesso che trovavo in ogni cosa, in ogni circostanza diversa. L’immagine però era sempre uguale, sempre sorridente e con le braccia tese, come se volesse dirmi ‘non sei più sola, ci sono io qui a salvarti’.
Cinque, dieci minuti, e ancora silenzio. Stava diventando davvero strano e imbarazzante, anche se l’avevo capito da subito che qualcosa non andava. Quando sono riuscita a fissarlo senza interruzioni, ho notato che il suo volto era spento. Il suo viso non emanava la stessa luce e felicità di sempre, era gelido. Gli ho chiesto come mai fosse così giù, e non ho avuto niente in risposta se non lacrime, salate e fredde come lui. Non so dirlo con esattezza, ma vedendolo piangere in quel modo, ho sentito come se qualcosa dentro di me si fosse spezzata e avesse scaraventato i pezzi tanto lontano da rendere impossibile la sua riparazione. Era come se, in qualche modo, la sua tristezza si riflettesse su di me, e il fatto di sapere di non poterci fare niente mi faceva ancora più male. E’ stata come una coltellata, schietta, veloce. Le ferite continuavano a sanguinare, e facevano quasi più male a me che a lui. All’improvviso ho sentito il dovere di fare qualcosa per farlo stare meglio, non l’impossibile, ma tutto ciò che in qualche modo avrei potuto fare. Avrei voluto chiedergli spiegazioni, fargli sapere che forse anche io potevo salvarlo come mi aveva salvata lui, ma la mia bocca non emanava nessun’suono, era ferma, immobile, insicura come me. Le mie labbra non rispondevano più ad alcun comando, non riuscivo a pensare ad altro che a lui e alla ‘nostra’ tristezza, che era la sua esasperazione e la mia angoscia. Sono riuscita ad appoggiargli una mando sulla spalla in segno di conforto. Quasi tremavo. Si è girato e ci siamo guardati negli occhi, i suoi rossi e lucidi, i miei vuoti e pieni di compassione. Sono rimasta a fissarlo per molto tempo in cerca di spiegazioni, non so dire quanto, ma a me è sembrato un eternità. Dopo qualche minuto, fortunatamente ho ricevuto quella risposta che tanto attendevo.
‘Scusami, davvero’- Disse con un filo di voce, e improvvisamente si interruppero i singhiozzi.
C’è stata una breve pausa. Non sapevo cosa dire. Il mio obbiettivo era quello di consolarlo e di farlo sentire a suo agio, ma quest’impotenza mi rendeva ancora più debole di quanto non fossi già.
‘Posso sapere perchè stai piangendo? So che parliamo da poco e magari non ti fidi di me, e io non voglio assolutamente sembrarti invadente…’
Mi fissava e il suo viso si faceva sempre più buio e triste. Era sul punto di piangere di nuovo.
‘Vedi, il fatto è che sono convinta che nessuno dovrebbe soffrire così, nessuno dovrebbe farti sentire così.’
‘Te ci riesci però.’
‘Cosa?’- All’improvviso un altro sentimento aveva preso il posto della tristezza. Era paura, incertezza? Non direi, piuttosto una sorta di senso di colpa. Non riuscivo a perdonarmi il fatto di non aver fatto niente per alleviare il suo dolore, e adesso scoprire di essere la causa del suo male mi aveva fatta sentire inutile com’ ero sempre stata. I miei occhi erano lucidi. Ho fissato il soffitto e contato fino a tre per cercare di non piangere. Avevo finito. Amavo il fatto che qualcuno fosse riuscito a cogliere solo gli aspetti positivi della mia persona, ed ora io ai suoi occhi apparivo un mostro più che una fata. Un terribile mostro contro il più bello e dolce degli angeli. Gli avevo spezzato le ali senza sapere il perché.
‘Non avrei mai pensato di riuscire ad affezionarmi così tanto ad una persona in così poco tempo. Ma con te è tutto diverso. Non so perché ti sto dicendo tutto questo, tu mi fai stare davvero bene e non lo dico per farti un piacere, le mie sono le parole più sincere che sia mai riuscito a dire e che abbia sentito dire. Sono stato deluso tante volte in passato. Mi ero giurato che non avrei mai più permesso che la mia felicità dipendesse da una singola persona, perché tanto se ne vanno tutti. Però con te è diverso, semplicemente perché te non sei come ‘tutti’. Hai un qualcosa di diverso, di speciale o non lo so. Qualsiasi cosa sia la maledico e la adoro allo stesso tempo perché ora buona parte della mia felicità dipende da te. E sento che mi sto illudendo davvero, quindi ti prego di non giocare con il mio cuore: è stato sbattuto e calpestato troppe volte, non lo reggerei più. Quello che stiamo vivendo ora, tutti questi piccoli momenti, hanno un’importanza per me che nemmeno puoi immaginare. Sono davvero importanti, tu sei importante. E ti chiedo di non lasciarmi andare, perché io non lo farò’
Con quelle parole mi ha spiazzata. All’improvviso la stanza è stata attraversata da un’ondata di vento bollente e io sudavo di felicità e paura allo stesso tempo. Come se il mio corpo ne contenesse troppa e avesse bisogno di eliminarne un po’ per non esplodere.
‘Te lo prometto.’
Sì, è stato tutto quello che ho saputo dire. Ma in quel momento le mie parole erano superflue, avevano poca importanza per me perché in testa ripetevo ancora le sue. Però risi, risi tanto, e un sorriso vale molto di più perché inganna meno facilmente delle parole. E non amo nemmeno le promesse, ma come ha detto lui, questa volta era diverso. Era come se mi avesse fatto sbattere la testa così forte da pensare che tutto quello che ho passato l’abbia passato per arrivare a quel momento, e che tutto il mio futuro sarebbe stato solo una sua conseguenza. Mi ha spiegato che il motivo di questa sua grande insicurezza in realtà sta nel suo passato. Nel suo triste passato. Prima aveva tanti amici, persone su cui contare, ma quando si è trasferito, in un piccolo paesino tra Pesaro e Fano, ha perso i rapporti con tutti e persone alle quali aveva affidato la sua stessa vita l’hanno abbandonato lasciandolo solo, sbattendolo in mezzo alla strada come un rifiuto, un sacchetto di spazzatura, una fotocamera usa e getta  che non ti serve più e della quale puoi solo sbarazzarti.
Passiamo anni interi a cercare di scoprire chi siamo, di trovare il nostro posto nel mondo. Io il mio l’avevo trovato, ed era accanto a lui. Ho giurato a me stessa che avrei fatto tutto ciò che era in mio potere per riuscire a fargli credere di nuovo in qualcosa. Qualcosa come l’amore, l’amicizia, cose che per lui erano del tutto prive di significato. Nessuno si salva da solo, non ce l’avrebbe fatta. Sarebbe sprofondato sempre di più negli abissi della malinconia. Ho deciso che il mio compito sarebbe stato quello di riportarlo a galla, di salvarlo, come lui aveva salvato me. E chissà, magari un giorno ce lo saremmo detti, che ci siamo salvati a vicenda. Magari con le guance più rosse del mondo e il cuore che batte come un martello su un’asse che non vuole essere riparata. Non importa come, l’importante era che succedesse. La cosa essenziale per me era sapere che la sua felicità era nelle mie mani: l’avrei coltivata e fatta fiorire all’infinito. 

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