Falso d'autore

di Clockwise
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Melancholia ***
Capitolo 2: *** Sherlock's Time ***
Capitolo 3: *** L'intelligenza superiore di Matisse e della signora Holmes ***
Capitolo 4: *** Retrouvailles ***
Capitolo 5: *** 233 Hertz ***
Capitolo 6: *** Dipinto a Belgravia ***
Capitolo 7: *** Echi di voci di amici ***
Capitolo 8: *** Linea disturbata a Camden Town ***
Capitolo 9: *** Scheletri nell'armadio ***
Capitolo 10: *** Bilbo Baggins e i biscotti bruciacchiati ***
Capitolo 11: *** Ben ***
Capitolo 12: *** Chiaroscuro ***



Capitolo 1
*** Melancholia ***


Non ho la più pallida idea di dove sia uscita fuori, è un po' folle. Spero possiate apprezzare comunque.
Collegata all'altra one shot "Carboncino e Olio su Tela", non serve leggerla per capire, ma se volete sapere come si sono conosciuti...
Il titolo non mi convince, spero me ne venga presto uno migliore... Se ne avete uno voi (ammesso e non concesso che qualcuno legga questa storia) non esitate a suggerirlo, insieme a qualsiasi pensiero/commento/critica vogliate fare, per favore!
Enjoy
-Clock



 
Falso d'autore




Capitolo 1

Melancholia
 
 
 
Sbuffò e si allontanò dalla tela.
«C’è qualcosa che non va, ma non capisco…»
Piegò la testa di lato, si tolse gli occhiali lasciandoli fra i capelli e socchiuse gli occhi.
«Gli occhi. I suoi stramaledettissimi occhi.»
Si avvicinò alla tela.
«I suoi occhi non sono azzurri e basta, no – mica poteva essere così facile, con un tipo come lui, deve complicarmi la vita. C’è del verde salvia, del rosso inglese, del blu di Prussia, del citrino…» elencò piano, cercando i tubetti di colore dalla scatola ai suoi piedi. Tenendo la tavolozza in equilibrio sulle gambe, vi spremette i colori, li richiuse in fretta e, scelto il pennello più sottile che avesse, lo intinse prima nell’olio di lino, poi nei colori, iniziando dal verde. Li stese con precisione certosina, trattenendo il respiro. Si allontanò di nuovo dalla tela e piegò il capo di lato.
«Ora ci siamo… Che ne dici, Matisse?»
Il gatto, richiamato, tornò dal suo giro di ispezione dei quadri nello studio e si strusciò sulle caviglie della padrona, alzando il capo.
«Ti piace, eh? Sì, posso dirmi contenta. E dire che l’ho dipinto praticamente tutto a memoria, basandomi solo su degli schizzi, eh. Brava, Mel.»
Si strinse le mani in segno di approvazione, congratulandosi con sé stessa. Matisse la guardò piegando il capo di lato.
«Che c’è? Qualcuno dovrà pur farmi i complimenti. Lo sai, sono una persona schietta, se una cosa è bella lo dico, se è brutta, pure. Ed è positivo che un artista sappia essere obiettivo, così può auto criticarsi efficientemente, capire quando va bene e quando no. Però uno non deve mai essere del tutto soddisfatto, questo no, perché se hai già raggiunto la perfezione, o credi di averlo fatto, poi non hai più nulla che ti spinga a migliorare. È un bene che la perfezione non esista, se la vedi in questo senso, così puoi sempre cercare di raggiungerla.»
Si alzò dallo sgabello e prese il vasetto con l’olio e la bottiglietta di essenza di trementina. Si diresse verso la porta, lanciando un’ultima occhiata al dipinto fresco.
«Però tu sei perfetto, non c’è storia. Mi sa tanto che porterò alla mostra anche te, ma lui non deve vederti oggi...» mormorò, coprendolo con una stoffa, attenta che non toccasse la tela.
«Vieni, Matisse, è ora di mangiare.»
Il gatto la seguì agitando la coda contento.
 
 
Mel Tipperary aveva imparato ad amare la sua vita.
Lavorava come restauratrice in vari musei, ma aveva comunque il tempo e le energie per dedicarsi alla pittura, ciò che amava davvero fare. Aveva vinto una borsa di studio mentre frequentava l’ultimo anno alla Royal Academy che le dava la possibilità di allestire, in una piccola Galleria vicino a Covent Garden, una mostra tutta sua, che si sarebbe tenuta di lì a tre giorni, e non vedeva l’ora. Aveva anche già venduto qualche quadro e ottenuto riconoscimenti, sia a scuola che fuori, e anche un paio di menzioni in una rivista di arte contemporanea.
Aveva un piccolo appartamento in affitto che condivideva con il suo adorato Matisse. La sua vita sociale non era granché, ma aveva quei pochi amici che le bastavano per una birra il venerdì sera e un po’ di compagnia ogni tanto. Non aveva un fidanzato né alcun tipo di relazione romantica, ma non gliene importava molto: se, da qualche parte nel mondo, c’era qualcuno disposto a sopportarla e a non scappare via dieci minuti dopo averla conosciuta, sarebbe arrivato, prima o poi, ma lei non aveva nessuna intenzione di aspettarlo sospirando.
Ne aveva passate di tutti i colori, in passato, era stata oppressa da problemi che le erano sembrati insormontabili, li aveva resi peggiori di quanto non fossero autosuggestionandosi, ma aveva imparato la lezione, e adesso prendeva la vita con filosofia e un gran sorriso.
Al contrario di Benedict.
Aveva conosciuto quell’uomo dal nome pomposo due settimane prima, in un café, perché aveva un viso così curioso che non poteva non ritrarlo; gli aveva lasciato il numero di telefono, e da allora aveva riempito un blocco intero con suoi schizzi in ogni posizione: di profilo, a tre quarti, a figura intera, addormentato, ridente, con aria assorta…
Benedict la affascinava, inutile negarlo. Sentiva tutte le esperienze, le vite che aveva vissuto – sulla sua pelle o su un palcoscenico – in ogni suo gesto, percepiva il romanzo della sua vita guardandolo negli occhi, vedeva che grande uomo nascondesse dietro una maschera di stanca cortesia e gentilezza ed era sempre più impaziente di leggerlo e scoprire cos’aveva vissuto, conoscere tutte le sfaccettature del suo essere, prenderlo per mano e vivere qualcosa di nuovo, aggiungere una pagina.
Ma oltre a questo e al fatto che riuscisse a sopravvivere pressoché indenne ai suoi sproloqui, quello che l’aveva colpita di lui era quella malinconia che ogni tanto gli rannuvolava gli occhi, quelle rughe che gli attraversavano la fronte. Voleva capire a cosa fossero dovute, trovare la malinconia e farla a pezzi, per non lasciare più che oscurasse quegli occhi celesti. Avrà anche avuto la faccia più strana che Mel avesse mai visto, ma aveva degli occhi niente male.
«Artisticamente parlando, ovvio. Non guardarmi così, Matisse.»
 
 
Benedict sarebbe arrivato a momenti per accompagnarla a Tate Modern come avevano pianificato da tempo, quindi si liberò del camice da lavoro, si sciolse i capelli e si sdraiò sul divano, afferrando il cellulare e lasciando che Matisse le si acciambellasse sui piedi. Chiamate perse a non finire che ignorò come al solito – non badava mai al suo cellulare, avrebbe potuto perderlo e non accorgersene – e tre messaggi: la mamma che le rimproverava di non farsi sentire mai, il professor Keane che si scusava perché non sarebbe potuto essere alla mostra e… aggrottò le sopracciglia. Non conosceva quel numero, ma era un augurio per la buona riuscita della mostra, firmato “your friend”.
«Se ti avessi conosciuto, che è il presupposto per essere amici, avrei salvato il tuo numero!»
Premette il tasto per rispondere, ma suonò il citofono. Gettò via il cellulare e saltò in piedi, correndo a rispondere. Matisse, che era stato sbalzato via di malagrazia, la guardò perplesso e un po’ irritato.
«Che c’è? Non posso mica farlo aspettare.»
Il gatto assottigliò gli occhi, scettico. Mel guardò altrove, a disagio.
«Vorresti insinuare qualcosa? Ma ti sei fumato il cervello? Solo perché sono corsa a rispondere buttandoti giù non vuol dire che Benedict…» avvampò e rimase a corto di parole. Lei. Matisse agitò la coda, trionfante. Mel assottigliò gli occhi.
«Gattaccio permaloso.»
 
°°°
 
Sabato, 30 marzo.
Benedict era sempre stato un tipo preciso e ordinato, sempre in orario.
Il giorno della mostra di Mel era in ritardo colossale.
Chissà perché.
Non era nemmeno mai stato un tipo vanitoso, men che meno narcisista o ossessionato dal suo aspetto, tutt’altro.
Quel giorno aveva gettato all’aria il suo guardaroba, cambiato sei camicie e passato venticinque minuti davanti allo specchio alle prese con i suoi capelli.
Manco fossi una tredicenne al primo appuntamento.
Ed essere un attore gli aveva insegnato a controllare le proprie emozioni e a non farsi prendere dall’ansia.
Quel giorno si torceva le mani davanti alla porta della Galleria, chiedendosi se dovesse entrare o no, sciorinando infiniti “e se…” insensati.
Eh no, bello, sei arrivato fin qui, adesso entri e non fai storie. E niente ‘ma’.
Inoltre, Benedict era sempre stato in grado di conversare civilmente con la sua voce interiore e venirci a patti.
Quel giorno non aveva i nervi per opporvisi e la lasciava sbraitare come una vecchia suocera.
Ehi! Modera i termini.
Oh, al diavolo! pensò, spinse la porta ed entrò, lo stomaco in subbuglio.
Porca la miseria, guarda in che stato è riuscita a gettarti quello scricciolo, un uomo adulto e vaccinato come te…
Si guardò intorno nel piccolo atrio pieno di gente sconosciuta con calici si spumante in mano, chiedendosi dove fosse Mel.
«Benedict!»
L’uomo si voltò sorpreso e sollevato – almeno adesso non avrebbe più dovuto badare alla sua vocina.
Pff. Credici.
«Mel! Che bello vederti. Stavo diventando matto.»
La ragazza piegò il capo di lato, perplessa. Benedict si affrettò a rimediare.
«Stai benissimo così» disse, ammirando per un attimo il vestito chiaro che le fasciava la figura minuta, i capelli scuri sciolti sulle spalle e gli occhi scintillanti, liberi dagli occhiali.
«Oh, grazie» sorrise la ragazza. «Non metto mai vestiti, mi mettono a disagio, non so mai dove mettere le gambe, ma oggi era un’occasione speciale, quindi ho fatto uno sforzo. Anche tu non sei male.»
Benedict sorrise, poi le porse un braccio con fare galante.
«Posso avere l’onore di farmi mostrare le opere dall’artista stessa?»
«Come no!» rise lei, mettendo il braccio sotto il suo. «Ma dovrai aspettare: prima c’è un discorso del direttore della Galleria, poi il rettore della mia vecchia università, perché questa mostra è tipo una borsa di studio che ho vinto, poi un paio di foto, poi si entra. Ok?» disse, sorridendo eccitata. Benedict le sorrise di rimando. Si sentiva pieno di energie, giovane e con una risata pronta a gorgogliare da un momento all’altro dietro ai frequenti sorrisi. Erano secoli che non si sentiva così bene.
Però, chi l’avrebbe mai detto: uno scricciolo dalla parlantina esagerata che ti fa sentire così… Tanto di cappello, Mel!
Fu risvegliato dai suoi pensieri ad un ometto grassoccio con un invidiabile paio di baffi che era arrivato correndo e aveva preso la ragazza per un gomito, agitato.
«Melancholia! È successa una cosa terribile!» ansimò, spalancando gli occhietti. Benedict corrugò le sopracciglia.
«Signor Reeves, cos’è successo?» domandò la ragazza, iniziando ad allarmarsi. Il quieto mormorio che invadeva l’atrio stava diventando presto una rumorosa confusione, Benedict vedeva le persone agitarsi e lo champagne sgocciolare dai calici. Mel strinse la presa sul suo braccio mentre attorno a loro iniziava a formarsi una piccola folla e il signor Reeves, il rettore dell’Università, boccheggiava senza sapere da dove cominciare.
«I quadri, hanno… Hanno rubato dei quadri!» esclamò.
Benedict trattenne il respiro e guardò Mel, aggrappata al suo braccio, pallida.
«Che cosa?» mormorò. Il signor Reeves deglutì e si asciugò il sudore sulla fronte con la manica della giacca.
«Sono spariti tre quadri. Quello… della metropolitana, il tramonto e il ritratto… I pezzi forti della mostra.»
Mel iniziò a tremare.
 
 
«Le telecamere della sicurezza sono state manomesse: quelle che monitoravano le sale con i tre quadri sono state messe in pausa per un minuto e quarantacinque secondi fra le sei e trentatré e le sei e trentacinque di questo pomeriggio, circa mezz’ora prima che la mostra iniziasse, prima che gli invitati iniziassero ad arrivare. Esaminando il video, notiamo che alle sei, trentatré minuti e diciassette secondi l’orologio qui in basso si ferma, e riprende alle sei, trentacinque minuti e due secondi. Stessa cosa per la telecamera che dà sul piazzale nel retro, è stata bloccata per tre minuti dalle sei e trentadue alle sei e trentacinque. I corridoi che portano dalle sale alla porta che dà sul piazzale non sono sorvegliati. Gli invitati presenti sono sotto interrogatorio adesso, il personale è già stato interrogato. Le uniche note rilevanti sono le seguenti: un addetto al magazzino, tale Robert Callingway, si è appisolato durante l’orario di lavoro dalle sei e trenta fino alle sei e quaranta, quando è stato svegliato dal rumore della porta che sbatteva, ma non è riuscito a vedere chi fosse passato; Tom Edwinson, addetto all’archivio, che fumava una sigaretta nel piazzale intorno alle sei e trenta, dice di aver visto entrare un camion e un passaggio di quelle che sembravano tele imballate, ma non sa dire se entrassero o uscissero dalla galleria, e il camion è uscito pochi minuti dopo; infine, la signorina Adelaide Richmond, una degli invitati, che si trovava nel bagno intorno alle sei e trenta, dice di aver visto sotto la porta di uno dei gabinetti delle scarpe da uomo e di aver sentito fruscii di vestiti, ma non è rimasta ad indagare ed è corsa in uno stanzino vuoto adiacente le sale della mostra per, hem, incontrarsi con il signor Jed Anderson, ed entrambi dicono di aver sentito chiaramente qualcuno passare davanti alla porta ed entrare nelle sale, ma non tornare indietro. I due erano troppo, come dire?, occupati per fare caso all’ora, ma possiamo supporre che fossero proprio le sei e trentatré, l’ora del furto.»
L’ispettore McConaghan si schiarì la gola, con aria professionale e pomposa: era visibilmente contento dell’efficienza con cui stava svolgendo il suo lavoro.
Separato o divorziato, la sua carriera in polizia è una sorta di vendetta contro il crimine che gli ha tolto una persona importante… dedusse Benedict, socchiudendo gli occhi.
Ora cominci pure a dedurre. Stai messo proprio male, lasciatelo dire.
Anche solo il fatto che mi metta a discutere con te non è proprio indice di sanità mentale, dovresti averlo capito.
Touché.
«Ma non è tutto: il ladro ha lasciato un messaggio sulla parete vuota occupata dal ritratto. Eccolo qui.»
Benedict sentì Mel accanto a sé trattenere il fiato e irrigidirsi. Si allontanò da lui per avvicinarsi alle fotografie che l’Ispettore aveva in mano.
«“Guardati dai falsi d’autore”. Signorina Tipperary, devo chiederle se sa a cosa potrebbe riferirsi questa scritta… Signorina Tipperary?»
L’ispettore si guardò intorno, spaesato, con il resto degli agenti, il direttore della Galleria, il rettore dell’università e Benedict.
«Oltre ai quadri, adesso sparisce anche l’artista. Ah-ha!»
I presenti si voltarono verso l’ispettore, che si fece piccolo piccolo sotto i loro sguardi e si pentì amaramente della battuta infelice.
Benedict sospirò e uscì.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 

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Capitolo 2
*** Sherlock's Time ***


Sono tornata a tormentarvi!
Grazie di cuore a chi ha letto lo scorso capitolo, lo ha commentato e lo ha inserito fra preferiti/seguiti: siete un motivo per andare avanti!
Nello scorso capitolo ho fatto un errore (che B mi ha fatto notare ma era ormai troppo tardi - grazie comunque): ho scritto che il signor Reeves è il direttore della Galleria, mentre è il rettore dell'Università, un vecchio professore di Mel. Provvedo a correggere nello scorso capitolo e scusate l'errore.
I riferimenti nella prima parte si rifanno sempre all'altra one-shot.
A presto (spero)
-Clock

 
  Capitolo 2
Sherlock’s Time
 
 
 
Sentì dei passi dietro si sé, ma non si voltò. Sapeva benissimo chi fosse.
«Tieni.»
«Grazie» mormorò, prendendo il tè dalle mani di Benedict.
«Non dovresti stare qui, fa freddo» disse, sedendosi accanto a lei sul cassone di metallo nel piazzale sul retro della Galleria, fra camion e casse. Si sfilò la giacca e gliela posò sulle spalle.
«Non fa niente. Grazie, Ben.»
Rimasero in silenzio per un po’, ed era stranissimo per Benedict: di solito, Mel stava zitta solo quando dormiva.
«Che quadri erano?» domandò, non osando guardarla.
«I miei preferiti, quelli a cui avevo lavorato di più. La metropolitana era il più grande, olio e acrilico, e la tela me l’ero dovuta preparare da sola, perché  non ne trovavo una così grande già pronta; era la stazione di Victoria, c’erano le facce della gente… Ci stavo lavorando quando ci siamo conosciuti.»
Benedict socchiuse gli occhi, tentando di ricordare.
«Ho inserito nel quadro gli schizzi che ti ho fatto quella volta, tecnicamente ci sei anche tu. Poi il tramonto era un’altra tela grande, un metro per settanta, penso, e c’era solo un tramonto, con delle figure nere in contrasto e il cielo era dipinto in modo.. sì, tutto mio. Poi un ritratto, sempre a olio, sempre grande. Ho lavorato per mesi a tutti e tre, e sono importantissimi per me, vogliono dire tanto.»
Prese un sorso di tè, le spalle esili curve.
«Non capisco perché debbano avermeli rubati. Insomma, non sono famosa, non valgono tanto. Non…»
«Chi li ha presi, lo ha fatto per ferirti, sapendo cosa rappresentavano per te.»
Mel alzò gli occhi su di lui, un piccolo sorriso che le tirava un angolo di labbra.
«No shit Sherlock, ti stai dando da fare. Continua.»
Benedict rise e Mel lasciò che la sua risata gorgogliante le scivolasse addosso: la faceva sentire meglio.
«Dev’essere stato qualcuno che ti conosceva» riprese, tornando serio. Mel annuì, in silenzio.
«Sicura di non aver ucciso il gatto di nessuno, rubato qualche fidanzato, avvelenato qualcuno, fatto ritratti offensivi, non so… Sei piuttosto pericolosa quando ti ci metti.»
Mel finse di pensarci su.
«No, non negli ultimi tempi.»
«Beh, dovremmo cominciare a indagare sulle tue passate e presenti relazioni, allora, e cercare di scoprire chi è che hai mortalmente offeso.»
«Suona bene, Sherlock. Ci vediamo domattina a Baker Street?» chiese, stando al gioco, tentando di non sorridere.
«Ah, no, domani mattina devo fare un salto al Bart’s, poi ho merenda con Moriarty, ma potrei essere libero per le tre.»
Da dove diamine aveva tirato fuori quest’energia, questa voglia di scherzare, quando era seduto su un cassone di metallo, stava morendo di freddo – hai voluto fare il galante! – e qualcuno aveva appena rovinato la prima mostra di una sua amica?
Amica, eh?
Mel rise e a Benedict si allargò il cuore.
«Dai, ti accompagno a casa» disse, guardandola con dolcezza. Mel sospirò, bevve l’ultimo sorso di tè e saltò giù dal cassone, seguita dall’uomo. Si incamminarono verso l’uscita.
«Melancholia, eh? Un nome pittoresco
«Fai poco lo spiritoso, Benedict Timothy Carlton Cumberbatch. Porca miseria, è peggio di uno scioglilingua.»
«Come vuoi, Melancholia
«Benedict Timothy… No, non posso ripeterlo. Piantala e basta.»
«Perché ti dà fastidio? È un bel nome. Melancholia… Sa di greco.»
«Smettila, o…»
«O? Cosa mi fai, Melancholia
«Hai scelto proprio la giornata sbagliata, Benedict…»
In breve, finirono per rincorrersi nel parcheggio della Galleria, con Benedict che cercava di schivare il bicchiere di carta del tè e le scarpe di Mel, e lei che tentava di non morire asfissiata – fra il correre, il ridere e il fatto di essere fuori allenamento, ci mancò davvero poco.
Benedict si fermò di botto, si volse e la catturò fra le braccia, sperando capisse che i battiti accelerati del suo cuore erano dovuti alla corsa.
Ah-ha. Come no.
Mentre le risate si spegnevano, ripresero scarpe e giacca e si incamminarono verso casa.
«Comunque è davvero un bel nome, Melancholia, è particolare.»
«Zitto, Sherlock.»
Benedict sorrise, ma non continuò.
 
Mel non aveva mai avuto particolari problemi con il suo nome, semplicemente era stata chiamata Mel da tutti da che aveva memoria. Ma era un tipo che, quando si trovava davanti a qualcosa che la spaventava, si infuriava e scappava via. E sentire la voce da violoncello di Benedict pronunciare il suo nome le aveva dato brividi che mai avrebbe pensato di provare, e non capiva perché.
Ma, ovviamente, non gliel’avrebbe mai detto.
 
°°°
 
Domenica, 31 marzo.
Il signor Reeves aprì la porta.
«Melancholia. Prego, entra» disse affettuosamente, mettendo una mano sulla spalla della sua ex-allieva.
«Buongiorno signore. Lui è Benedict, un mio amico. È un attore, forse lo conosce, è abbastanza famoso…»
I due uomini si strinsero la mano, poi l’anziano rettore li fece entrare e accomodare in soggiorno. Versò il tè nelle tazze e lo offrì agli ospiti, poi si sedette con un sospiro.
«Allora, avete saputo altro da ieri sera?»
Mel scosse la testa.
«L’ispettore McConaghan ha detto che ci terrà informati su eventuali sviluppi.»
Curioso che l’ispettore si dedichi tanto ad un caso minore come questo, i motivi sono due: o questo è il primo incarico che gli viene affidato, di cui è pienamente responsabile, oppure si è invaghito di Mel, il che mi autorizzerebbe a dargli un pugno sul naso… pensò Benedict, prendendo un sorso di tè.
Oh, Signore… Piantala, Sherlock.
«Davvero non capisco, mia cara, perché qualcuno dovrebbe farti una cosa del genere…» disse il professore, guardando la ragazza come un nonno guarda sua nipote.
«Io e Ben pensiamo che sia stato qualcuno che mi conosce, perché i quadri non erano casuali: hanno preso quelli a cui tenevo di più, i migliori. Solo i miei amici e qualcuno di voi professori sapeva dei quadri, insomma…»
«Pensare che un tuo amico ti abbia rovinato la mostra è disgustoso…» commentò il professore. «Eppure dev’essere per forza così: chi altro avrebbe saputo quali quadri scegliere? Ma quello che mi chiedo è perché? Perché qualcuno dovrebbe avercela con te?»
Mel si strinse nelle spalle, abbassando gli occhi. Benedict frenò l’impulso di metterle un braccio intorno alle spalle.
«Oh, be’, per adesso non pensarci. Ho parlato con il Direttore» iniziò il signor Reeves, più festoso. «Ha detto che è disposto a farti rifare la mostra.»
«Davvero?» esclamò Mel, alzando la testa di scatto. Il professore annuì.
«Diciamo che farai a cambio con un altro artista che avrebbe esposto il mese prossimo: lui esporrà per un mese dalla prossima settimana, nel frattempo tu potrai ritrovare i quadri o farne di nuovi. Si inaugura il ventisette aprile prossimo, se tutto va bene. Dovrò ricordarmi di chiedere a quel McConaghan un paio di agenti per la serata…»
Gli occhi di Mel scintillavano.
«Oh, grazie mille, signor Reeves!» esclamò, alzandosi ad abbracciarlo. Il professore rise, battendole una mano sulla schiena.
«Oh, mia cara!»
Mel tornò a sedersi e sorrise a Benedict.
Chiacchierarono ancora un po’, finché Mel non vide che era ora di andarsene.
«Grazie di tutto, professore, a presto!»
«A presto, cara. Buona fortuna.»
La ragazza uscì. Benedict, dietro di lei, si voltò verso il professore e gli strinse la mano. Corrugò le sopracciglia quando l’anziano strinse la presa.
«Sono sicuro che tu non abbia nulla a che vedere con questa storia…» sussurrò, assottigliando gli occhi. Benedict lo fissò sorpreso e indignato.
«Certo che non ho nulla a che vedere, non farei mai niente di male a Mel, e non sapevo nulla dei quadri, non li ho nemmeno mai visti.»
Il professore allentò la presa, ma non lo lasciò andare.
«Perdonami. Ma non si è mai al sicuro, ormai, basta poco per diventare tanti Bruto e Cassio, basta davvero poco…»
Benedict lo scrutò quasi spaventato. L’unica cosa che voleva era scappare da quel vecchio.
«Proteggi Mel. Ne ha bisogno.»
«Non serve dirlo. Arrivederci» disse, la voce bassa e gli occhi freddi. Il signor Reeves gli lanciò un’ultima occhiata penetrante prima di lasciargli la mano e chiudergli la porta in faccia. Ancora sconcertato, Benedict raggiunse Mel sul marciapiede.
«Che ti ha detto?»
Si strinse nelle spalle, evitando il suo sguardo. Non voleva farle sospettare del suo vecchio professore, sembrava riporre tanta fiducia in lui…
«Di stare attento a te» rispose, incamminandosi, il lungo cappotto scuro svolazzante dietro di sé.
«Che intendeva dire?» domandò Mel, seguendolo. Senza badare a dove andava, inciampando su una mattonella fuori posto, fu afferrata da Benedict secondi prima di finire faccia a terra.
«Farti da babysitter.»
Mel rise e Benedict si rasserenò.
 
 
Parlare sull’autobus fu impossibile.
«Che razza di esibizionista. Il cappotto di Sherlock dovevi metterti, come se non fossi già abbastanza riconoscibile!»
«Volevo calarmi nel personaggio per aiutarti nelle indagini. Chi meglio di Sherlock?»
«In un autobus affollato al centro di Londra! Geniale.»
«Chi è che ha voluto prendere l’autobus?»
«I comuni mortali come me non possono dilapidare il patrimonio per andare in taxi.»
«Ma io non sono un comune mortale.»
Mel gli lanciò un’occhiata scettica. Scoppiarono entrambi a ridere.
«Sarai morto di caldo, con quel cappotto di lana, ad aprile, e quella massa di ragazzine addosso…»
«Ehi, non sarai gelosa…» ridacchiò.
«Ma per piacere…» sbuffò lei, voltandogli le spalle con uno svolazzo dei capelli.
Inserì la chiave nella toppa, ma trovò la porta già aperta. Raggelò e guardò Benedict. Lui le mise una mano sul braccio, socchiudendo le labbra per parlare, ma lei gli afferrò la mano e la strinse con forza. Benedict deglutì e si portò davanti a lei. Spinse la porta lentamente, tentando di fare meno rumore possibile.
Tanto se c’è qualcuno dentro vi avrà già sentito da quando stavate sulle scale!
Ignorò la sua vocina e fece un passo avanti nello studio. Mel, dietro di lui, era quasi in apnea.
Fece capolino molto, molto cautamente, aguzzando le orecchie, attento a captare qualsiasi rumore…
«Ma quello è Sherlock Holmes!»
Benedict sobbalzò e pestò un piede a Mel.
«Scusa, oddio, scusa… Tutto bene? Sì, sì, sono Sherlock.»
«Sì, certo, tutto…»
«Oh, porca puttana. Venite, c’è Sherlock Holmes!»
Benedict dedicò finalmente la sua attenzione al ragazzo mingherlino con i capelli rossi che aveva urlato e saltellava al centro dello studio con un dito puntato contro di lui.
«Oh, mio Dio, è assurdo, non ci credo. Oh, mio Dio. Io sono Ned, Ned Jordan» disse, stringendogli la mano con foga. Benedict sorrise, presentandosi.
«Come se non sapessi chi sei! Oh, Dio, non ci credo. Sei più basso che in televisione e… hai anche il cappotto! Oh, Dio, posso provarlo? Tipregotipregotiprego…»
«Ned, per l’amor di Dio, lascialo respirare! Non sai che colpo ci hai fatto prendere, facci entrare» disse Mel, spingendo Benedict in avanti e chiudendo la porta dietro di sé.
«Come hai fatto ad entrare?»
«Ci ha aperto la signora Hemingway» rispose distrattamente il ragazzo, senza smettere di fissare adorante Benedict, che iniziava a sentirsi a disagio. Mel scosse la testa, liberandosi della giacca e borbottando qualcosa contro la signora Hemingway, la padrona di casa impicciona della porta accanto. Alzò gli occhi al cielo allo sguardo da cagnolino di Ned e fece strada verso il soggiorno.
«Vieni, Ben, ignora la fangirl…»
«No, no, non ignorarmi!» protestò Ned, seguendoli. In soggiorno due ragazze sedevano comodamente sul divano, una, dai capelli neri, sfogliando un libro, l’altra facendo zapping in Tv.
«Ma ci siete anche voi due!» esclamò Mel. Che chiunque potesse entrare in casa sua non era rassicurante…
«Mel, tesoro!» esclamò la prima, posando il libro e alzandosi con grazia per salutarla.
«Ned, perché gridavi prima, sembrava che… Oh, per le galosce di mia nonna, tu sei Benedict Cumberbatch!» urlò l’altra, alzandosi di scatto e affrettandosi verso di lui, spingendo via Ned che gli stava accanto.
«Io sono Bernadette, ma puoi chiamarmi Bernie.»
«Benedict, tanto piacere.»
«Ooooh….» esultò, deliziata, stringendogli la mano. Mel sbuffò, incrociando le braccia.
«Volete smetterla? Non capisco perché tutte queste feste, è solo un tipo qualunque con un lavoro particolare, insomma…»
«Oh, Mel, non fare la gelosa, non te lo rubiamo» la stuzzicò Bernie.
«Almeno lasciatelo respirare, su…» continuò Mel, facendo cenno di sedersi. «Ah, Ben, questa è Ruth. Ruth, Benedict» disse, presentandogli la ragazza che era rimasta in disparte, rossa in viso. Benedict le strinse la mano, socchiudendo gli occhi. Aveva qualcosa di familiare, come un vago velo, ma non sapeva perché.
Finalmente si sedettero e Bernie andò in cucina, preparando da bere, conscia dell’incapacità di Mel di gestire ospiti.
«Come mai siete venuti?» chiese Mel, cercando Matisse in giro per la stanza.
«Abbiamo saputo della mostra di ieri» rispose Ruth, guardandola nervosamente. «Volevamo parlarne, ma la signora Hemingway ci ha detto che eri uscita, però ci ha fatto entrare.»
«Ci dispiace tanto non essere venuti, ieri sera, Mel, ma te l’ho detto, mamma non stava bene, Ned è rimasto con me…» disse Bernie, dalla cucina, voltandosi verso Mel.
«E io… avevo quell’impegno…» si scusò Ruth, abbassando il capo.
«Ve l’ho già detto, non fa niente. Anche perché non c’è stata nessuna mostra.»
«Abbiamo saputo. Come mai?» disse Bernie, raggiungendoli con un vassoio con dei bicchieri pieni di aranciata. Si sedette vicino a Ned e gli diede una gomitata, perché smettesse di fissare Benedict, seduto scomodamente accanto a lui. Mel fece uscire Matisse dalla sua camera da letto, dove si era rintanato, afferrò una sedia e raggiunse gli altri.
«Hanno rubato tre quadri: la metropolitana, il tramonto e il ritratto. Il ladro ha bloccato le telecamere, non si sa molto» raccontò, scura in viso.
«Quindi niente mostra?» chiese Ned, dopo qualche istante di silenzio, passando un braccio intorno alla vita di Bernie.
«No: il signor Reeves ha parlato col direttore della Galleria, me la fanno rifare fra un mese, durante il quale devo ritrovare i quadri o farne altri.»
«Be’, ma è una buona cosa» sorrise Bernie, allungandosi per prenderle una mano. Mel sorrise. 
Rimasero in silenzio per un po’.
Mel alzò gli occhi su Benedict, accorgendosi che si mordicchiava il labbro, a disagio.
«Questi erano tutti miei compagni di università, Ben. Ned e io seguivamo gli stessi corsi, e adesso lui è un illustratore di fumetti nerd…»
Il ragazzo strabuzzò gli occhi.
«Se Superman e Spiderman sono nerd per te, io sono orgoglioso di essere nerd» proclamò fiero. Benedict si voltò verso di lui.
«Lavori in quei fumetti? Wow, è grandioso, io li adoravo!»
E conosco Loki di persona. Ma questo non glielo dirò.
Ned lo fissò in silenzio con gli occhi sgranati e un sorriso ebete, annuendo. Dentro di sé urlava.
Mel nascose un sorriso.
«Anche Ruth era al nostro corso, ma adesso ha cambiato strada e fa la modella» continuò. Ruth arrossì e guardò altrove.
«Del resto, guarda che bel faccino che ha…» fece Bernie, dandole un pizzicotto affettuoso sul braccio. 
«Uscire con lei, al college, era uno strazio: non c’era un ragazzo, dico uno, che ti guardasse, dopo che avevano visto lei. Era terribile» raccontò Mel, facendo ridere Bernie e arrossire ancora di più la ragazza. 
In effetti, dovette constatare Benedict, era molto bella, con i grandi occhi azzurri, i tratti decisi e la massa di ricci scuri.
Ma non batte quell’altra, eh?
«Invece io ho fatto design, ho incontrato Ned in biblioteca, mi ha chiesto di uscire, ho conosciuto Ruth e Mel e sono finita in questo circolo di matti» raccontò Bernie. 
«E io e Ruth ancora non ci siamo messe d’accordo sui nomi dei vostri figli, dopo quasi dieci anni…» disse Mel.
I ragazzi risero e Bernie diede un buffetto sulla mano alla ragazza, arrossendo. Ned la baciò sulla guancia, scherzosamente. Mel si rivolse a Benedict.
«E tu dove hai studiato? Sei andato all’Università?»
«Posso dirtelo io se vuoi» disse Ned, beccandosi un’occhiataccia sia da Bernie che da Mel, mentre Benedict rideva.
«Sono andato all’Università di Manchester e alla LAMDA a Londra, ho studiato Teatro.»
«Ah-ha, sei attore secchione…» mormorò Bernie.
«In cosa hai recitato la prima volta?» chiese Mel. Benedict socchiuse gli occhi cercando di ricordare, poi rise.
«La mia reputazione andrà a farsi friggere ma… Ho fatto Titania, la regina delle fate.»
Gli altri lo guardarono increduli e perplessi.
«Come diavolo ti hanno preso? Hai una voce da trombone!» esclamò Mel, facendo ridere Bernie e Ned.
«Avevo dodici anni!» si affrettò a spiegare Benedict, alzando le mani. Mel annuì, sollevata, poi sogghignò.
«Sai che potrò ricattarti per sempre? Che dirò a chiunque ti conosca e voglia ascoltarmi che hai interpretato Titania la regina delle fate, omettendo casualmente il fatto che avevi dodici anni?»
Benedict abbassò la testa e alzò le mani in segno di resa.
«Tenterò di non suscitare mai la vostra ira: sarò alla vostra mercé, milady, da ora e per sempre.»
Bernie e Ned esultarono, come se stessero seguendo la loro soap opera preferita.
«Te lo sei accalappiato, Mel!» esclamò Bernie.
«Ora sono cavoli tuoi, amico» disse Ned, battendo una pacca sul braccio di Benedict con aria compassionevole. Mel arrossì e gli altri risero.
Continuarono a chiacchierare e scherzare, e Benedict si trovava benissimo con loro, perfettamente a suo agio. Solo Ruth rimaneva in disparte, lanciandogli ogni tanto occhiate oblique che lo confondevano.
Stava raccontando un episodio divertente che gli era capitato a scuola, quando il cellulare gli notificò un messaggio. Senza smettere di parlare, lo tirò fuori di tasca e controllò. Ammutolì e alzò lo sguardo su Mel.
«È l’ispettore McConaghan, dobbiamo andare. Hanno una pista.»







 


"No shit Sherlock" è un'espressione gergale che si usa per prendere in giro qualcuno che dice l'ovvio.
Sì, secondo Wikipedia, Benedict Cumberbatch è stato Titania. Quell'uomo non smetterà mai di sorprendere.

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Capitolo 3
*** L'intelligenza superiore di Matisse e della signora Holmes ***


Note veloci veloci. Grazie a chi continua a leggere, seguire, preferire e recensire - grazie di cuore!
Vi pregherei comunque di dirmi cosa ne pensate: essendo il mio primo esperimento in questo genere, sono piuttosto insicura e vorrei sapere se pensate che sia verosimile o fa schifo o non lo so...
Nel prossimo capitolo si balla, stay tuned!
-Clock



 
Capitolo 3
L’intelligenza superiore di Matisse e della signora Holmes
 
 
 
Matisse non amava gli estranei ed era estremamente geloso. Necessitava di un bel po’ di tempo e svariate indagini, che includevano zampate, fusa e occhiatacce, per decidere se il nuovo venuto gli andasse a genio o meno. Voleva assicurarsi che nessuno facesse del male alla sua Mel, in fondo.
 
«Matisse ti adora.»
Benedict si portò la mano graffiata al petto.
«Bel modo di dimostrarlo» sbuffò.
«Sei tu che l’hai toccato. Te l’ho detto, dev’essere lui il primo a venire da te. Gli piace dettare le regole del gioco, è estremamente possessivo.»
Benedict la guardò incredulo. Lei sorrise innocente e gli prese la mano.
«Sono solo graffi, dai. Ti prendo un cerotto» disse e si allontanò verso il bagno. Benedict l’attese in piedi al centro della stanza, gli occhi incollati a quelli del felino.
Vincerò io, piccola palla di pelo. Non staccherò gli occhi nemmeno…
«Vieni qui.»
La sua attenzione fu deviata dalle piccole mani della ragazza che gli prendevano la sua e applicavano un cerotto azzurro con dei dinosauri sul dorso. Matisse miagolò trionfante.
Maledizione, il gatto ha vinto.
«Grazie.»
«Niente. Comunque è vero che ti adora: non fosse stato così, ti avrebbe soffiato contro e non si sarebbe strusciato sulle tue caviglie tutto il tempo» disse Mel, indicando il gatto che sembrava intenzionato a lasciare tutto il suo pelo rossiccio sul fondo dei pantaloni di Benedict.
La ragazza sorrise e si gettò sul divano. Benedict si avvicinò lentamente, timoroso di seccare il gatto con movimenti troppo bruschi. Le si sedette accanto, infine, mentre Matisse si allontanava verso il suo cantuccio con il cibo.
Mel sospirò e appoggiò la testa sulla sua spalla.
«Un ladro internazionale che se la prende con me. È assurdo.»
Benedict annuì, concentrandosi su quello che avevano appena sentito alla centrale e non sul dolce peso sulla sua spalla.
 
«Karl Rottenberg, noto critico d’arte svizzero, conosciuto anche con il nome d’arte di Mastro Leonardo. Falsario affermato, nel tempo libero ruba quadri di artisti poco noti e li rivende sul mercato nero o addirittura agli artisti stessi quando questi hanno raggiunto la fama; esperto di arte, sa riconoscere quando un artista andrà lontano e colpisce quando ancora è sconosciuto. Michel Avignon, Mon a-Lìs, Joseph Starrynight e Rosa Guernica, fra gli altri, sono stati tutti derubati da Rottenberg agli inizi della loro carriera. Ha agito per moltissimi anni nell’ombra, solo di recente siamo riusciti a collegare i furti ad unico nome, quando Rottenberg ha fatto un passo falso pochi anni fa, ma non siamo riusciti a prenderlo e da allora sembra scomparso. Questo sarebbe il suo primo furto dopo anni. È probabile che abbia una vasta rete di complici, in un giro di denaro nero non indifferente. Pensiamo, signorina Tipperary, che possa essere lui l’uomo che cerchiamo.»
 
«Guarda il lato positivo: se ha scelto di derubare te vuol dire che hai del potenziale e spera di guadagnare cifre esorbitanti sui tuoi capolavori quando diventerai famosissima.»
Mel alzò la testa dalla sua spalla per guardarlo.
«Oh, questo sì che è confortante.»
Benedict le lanciò un’occhiata e rise. Lei tornò ad appoggiarsi a lui, lasciandosi scappare un sorriso.
 
«Che cosa vi fa pensare che sia lui e non qualcun altro?» domandò Mel, scettica. L’ispettore McConaghan raddrizzò la schiena, mostrando un sorrisino compiaciuto.
«Un ladro della sua statura lascia sempre la sua firma, e anche stavolta non è mancata.» Con un svolazzo della mano, tirò fuori delle fotografie.
«In nessun caso Rottenberg aveva lasciato messaggi, ma la prego di notare questo piccolo simbolo qui. Potrebbe passare per un punto sulla ‘i’, ma è in realtà un minuscolo timbro che rappresenta l’Uomo Vitruviano, noto disegno di Leonardo da Vinci, eseguito nel…»
«Conosco Leo, grazie, ci vado al pub tutti i mercoledì, ora vada avanti» ringhiò Mel, impaziente, suscitando risatine nei presenti. L’ispettore si schiarì la gola, rosso sul collo.
«Certo, in ogni caso. Rottenberg lascia sempre un simbolo associabile a Leonardo da Vinci: una volta uno smile dal sorriso un po’ obliquo, poi qualcosa di riconducibile ad un velivolo, due mani stilizzate che si sfiorano, un paio di volte anche l’Uomo Vitruviano. Mai aveva lasciato messaggi, tuttavia. Forse lei aveva qualcosa di speciale, signorina Tipperary…» fece l’ispettore, deciso a vendicarsi.
Giuro che gli do un pugno.
«Ovvio, ho una storia segreta con Rottenberg e sono un palo portante del mercato nero; mi avverte di stare attenta a non farmi truffare e a fidarmi solo dei veri falsari» sorrise melliflua la ragazza, piegando la testa di lato, fra le risate degli altri poliziotti e Benedict.
«Mi spiace deluderla, ispettore, ma le ripeto che non ho la più pallida idea di che cosa significhi quella scritta.»
McConaghan deglutì e incassò il colpo, abbassando il capo.
Io gli spacco il naso comunque.
 
«Non so davvero cosa pensare, Mel. Forse è stato questo Rottenberg, c’è l’Uomo Vitruviano…»
«Ma quale uomo e uomo! I quadri erano troppo ben scelti…»
«Forse erano i migliori della mostra, quelli che gli avrebbero fruttato di più fra qualche anno.»
Mel sospirò.
«Bah, non lo so. Non avevo mai sentito parlare di uno che rubasse quadri di artisti non famosi per poi aspettare che avessero valore, è assurdo. E resta il fatto che, anche se è stato lui, non riavrò mai quei quadri indietro.»
«No, Mel, non essere così disfattista: li ritroveremo, vedrai» cercò di rassicurarla lui, deglutendo. Avrebbe voluto abbracciarla, o almeno accarezzarle i capelli, ma gli sembrava di essere di pietra. Perché Mel riusciva ad essere così naturale, dolcemente appoggiata a lui, come se lo facesse di continuo, mentre lui non era capace nemmeno di sfiorarla?
Sherlock ti ha insegnato la lezione sbagliata.
«Certo, un ladro internazionale che l’ha fatta in barba alla polizia per anni si farà catturare da una ragazzina e un attore» fece Mel, amara. «Non siamo in un telefilm, Ben.»
Ok, se non le dai un abbraccio ora lei si scosterà e sarà incavolata con te per tutto il pomeriggio. Vedi che devi fare.
Benedict mosse una mano con l’intenzione di posarla sulla spalla della ragazza per confortarla, ma, dato che il corpo di Mel appoggiato sullo schienale del divano le ostruiva la strada, fu costretto a muoverla più bruscamente di quanto avrebbe voluto. Mel, interpretando il gesto come un modo silenzioso e nemmeno troppo cortese per chiederle di allontanarsi, si scostò, scura in volto.
Sei un incapace.
Benedict deglutì, cercando qualcosa da dire per rimediare.
«Sherlock lo dice sempre, sai.»
Mel voltò la testa verso di lui.
«Cosa dice?»
«Che Scotland Yard è un manipolo di idioti.»
Lei lo guardò perplessa.
«Questo è davvero d’aiuto.»
Genio.
Si alzò, vagamente seccata, e si diresse verso la cucina.
«L’ora di pranzo è passata da un pezzo, in effetti, ma io ho voglia di mangiare qualcosa. Ti unisci a me? Ti avverto, potresti non tornare mai più a casa tua, o perlomeno, non con le tue gambe o con questo aspetto.»
Il tono solitamente brioso si era spento e tinto di irritazione, freddezza e delusione. Non sembrava scherzasse e Benedict capì che avrebbe fatto meglio ad andarsene, non tanto perché lo volesse, ma perché sembrava chiaro che lei non gradisse più la sua compagnia. Tentò di sorridere.
«Grazie, ma ho un po’ da fare. Magari un’altra volta.»
Lei annuì e si voltò verso il lavandino, dandogli le spalle. Benedict si alzò, si mise il cappotto e le si avvicinò.
«Io vado, allora.»
«Va bene. Ci vediamo» disse, sforzandosi di essere cordiale, rivolgendogli una rapida occhiata.
Benedict si avvicinò ancora e le posò una mano sulla schiena, quasi come avvertimento, prima di chinarsi su di lei con l’intenzione di salutarla con un bacio sulla guancia. Lei voltò la testa per una frazione di secondo, intuì quello che lui pensava di fare e la riabbassò di colpo, lasciando che i capelli le nascondessero le guance.
Benedict strinse le labbra e le lasciò una carezza impacciata sulla schiena, poi si volse e se ne andò silenziosamente, maledicendosi.
Sparita l’ultima ombra di lui dal pavimento, Mel si lasciò andare e incassò la testa fra la spalle, sorreggendosi al ripiano. Come diavolo aveva fatto a comportarsi così, cosa le era saltato in testa? Con Ben, che era sempre stato così gentile e premuroso e…
Deglutì, strizzando gli occhi, cercando di liberarsi della piacevolissima sensazione di calore che la sua mano le aveva lasciato sulla base della schiena.
Stava andando tutto a rotoli. Sapeva benissimo che nonostante la facciata allegra, spensierata e variopinta, la sua vita si reggeva su pilastri di stuzzicadenti, ma era comunque devastante vedere il suo castello di carte crollarle addosso spazzato da un vento prepotente. Prima quei maledettissimi quadri, adesso Benedict e questa sensazione di caldo alla bocca dello stomaco, così dolce ma così terrificante e inaspettata… Provava qualcosa per lui? E cosa? Era sicuro, poteva fidarsi? Erano così diversi…
Ricordava fin troppo bene cos’era successo l’ultima volta e non voleva che si ripetesse.
Il miagolio di Matisse la riportò nella realtà. Riaprì gli occhi e abbassò la testa verso di lui.
«Che c’è?» chiese dolcemente, stanca. Troppe cose tutte insieme.
Lui miagolò, girando su sé stesso. Balzò sul divano, annusando dove Benedict si era seduto e miagolò di nuovo.
Mel stiracchiò un sorriso.
«Io gliel’ho detto che l’adori. Vacci piano, eh, che divento gelosa.»
 
 
°°°
 
Di poche cose Wanda Ventham era certa. Una di queste era che suo figlio non stava bene, inutile quante volte cercasse di negarlo.
«Due sono le cose: o mangi poco e fumi troppo o ti vedi con una ragazza.»
«Mamma…»
«Ah-ah!» lo ammonì sua madre, puntandogli l’indice contro, sgranando gli occhi. «Siedi lì e parliamone con calma. Zucchero?»
Benedict sospirò e si sedette.
«Due, grazie.»
«Allora» esordì sua madre, versandogli il tè e aggiungendo lo zucchero. «Come si chiama?»
«Mamma, chi ti ha detto che…»
«Per favore, Benedict, non sottovalutare il mio sesto senso di madre. Ora, rispondi e non svicolare: come si chiama?»
«Mel» sbuffò Benedict fra i denti, prendendo la sua tazza. Sua madre aggrottò le sopracciglia.
«Melissa?»
«Diminutivo di Melancholia.»
Parve meravigliata.
«Però. Molto particolare. Mi piace.»
Per tutta risposta, Benedict grugnì. Sì, sapeva a cosa corrispondesse la nozione di “particolare” per sua madre: generalmente quello che gli altri definivano strambo. Bastava vedere come aveva chiamato suo figlio.
«Che cosa hai combinato?»
«Perché dovrebbe essere colpa mia?» si difese, incredulo. Lei piegò la testa di lato.
«Perché sappiamo tutti che sai essere un imbranato totale quando ti impegni.»
Batti cinque, mamma! È quello che gli dico da tutto il giorno.
Benedict aprì la bocca, non trovò una replica e strinse le labbra con disappunto.
«Che cosa hai combinato?» ripeté sua madre, con più dolcezza. Lui sospirò, frustrato.
«È questo il punto: non ne ho idea!» disse e in breve le raccontò quanto successo la sera prima e quella mattina.
Sua madre ascoltò in silenzio, annuendo.
«Le hai fatto capire che l’aiuterai e le sarai vicino?»
Benedict si strinse nelle spalle, preso in contropiede.
«L’avrà capito.»
«Non siamo tutti Sherlock, Ben. Anzi, nemmeno lui lo capirebbe» lo rimproverò teneramente sua madre, sorridendo. Lui abbassò la testa, sentendosi tornato bambino. Certe cose non cambiavano mai.
La donna si sporse verso di lui e gli prese una mano.
«Falle vedere che ci tieni. Non aver paura di fare la prima mossa, tesoro.»
Lui sollevò lo sguardo.
«Come sai che a me interessa così tanto? Voglio dire…»
… Non ci sei arrivato nemmeno tu, coglione come sei.
«Di nuovo, non insultare il mio sesto senso e le mie capacità deduttive, Ben. Sono tua madre e la madre di Sherlock Holmes. Non credevi mica che avesse preso da tuo padre?»
Benedict sorrise.
«Preso che cosa?»
«Oh, ciao caro» trillò Wanda, alzandosi e accogliendo suo marito, entrato con aria sospettosa. Benedict rise.
«Prendi un tè? È appena fatto… Hai visto, Ben è passato a trovarci…»
L’uomo si lasciò condurre su una poltrona, ma non ebbe neanche il tempo di rivolgere una parola a suo figlio che questi si era già alzato.
«Grazie per il tè, mamma, era buonissimo. Ci rivediamo presto papà, ho una cosa da fare.»
«A presto, tesoro» lo salutò tranquilla Wanda, mentre suo padre lo fissava incredulo.
«Ah, non dimenticarti di lasciarmi il suo indirizzo!» gli disse sua madre, versando il tè al marito.
«Indirizzo di chi?» chiese questi alla moglie. Lei sorrise misteriosa.
«Niente, niente.»
Suo marito le rivolse un’occhiata inquisitoria, come per intimarle di non prenderlo in giro. Lei se ne accorse e distese il suo sorriso.
«Zucchero?»
Suo marito intese che si trattava di qualcosa fra lei e loro figlio, una prova che lui doveva affrontare nella lunga corsa che è la crescita, a cui un giorno avrebbero guardato con affetto, col famoso senno di poi. Rise.
«Due, grazie.»
Benedict, non visto nell’atrio, sorrise. Un’intesa e delle scintille anche solo simili a quelle che volavano fra gli occhi dei suoi genitori erano uno dei suoi più grandi sogni. Così semplice all’apparenza, ma così irraggiungibile, alla fine, almeno per lui. Lo avrebbe mai visto avverarsi? Scacciò immediatamente il viso che gli si era affacciato alla mente – anzi, i visi – e si volse. Aprì la porta e fu investito da una folata di vento.
Quanto, davvero, era importante Mel per lui? Fino a che punto quella ragazza loquace simile a una libellula sarebbe riuscita ad entrargli nella mente e nella vita? Ne valeva la pena? Lui lo voleva? Poteva dire di conoscerla così bene, di fidarsi a tal punto da voler continuare a vederla, lasciare che le loro esistenze si legassero ancora, magari più profondamente? Cosa provava per quella ragazza?
Benedict sospirò. Come per tante altre cose, non ne aveva la più pallida idea.
Ma sapeva cosa fare nell’immediato futuro, era già un punto di partenza.
 
°°°
 
«È una proposta interessante. Non sapevo nulla di questa storia, e devo ammettere di essere piuttosto preoccupato: ho agito d’impulso, e di solito non lo faccio mai, e prevedo che potrebbero esserci ripercussioni sgradevoli. Sì, la tua proposta è molto interessante, la terrò in considerazione.»
«Grazie, signore.»
«Mi sorprendi, comunque. Non ti pensavo capace di cose simili.»
Alzò il viso sfoderando un sorriso amaro che scintillò nella penombra.
«Fra amore e follia il passo è più breve di quanto si creda. È amore che mi spinge ad agire, o pura follia? Non lo so, signore, ma so cosa voglio fare. E la mia proposta, come ha notato lei stesso, può aiutare entrambi.»
L’uomo deglutì e fece un cenno di approvazione con la testa, ammirato e quasi spaventato.
«Direi che si può fare, allora.»
Si strinsero la mano.
 
°°°
 
Lunedì, 1 aprile.
Il gioco inizia a farsi interessante.
Il cellulare tremò nella mano di Mel. La ragazza si volse verso Matisse.
«Cosa vuol dire?»
Per tutta risposta, lui miagolò e si acciambellò sul divano, dove si era seduto Benedict il giorno prima. Mel sospirò.
«Devo chiamarlo, vero?»
Matisse agitò la coda, approvando. Niente da fare, quel gatto era maledettamente intelligente. 


 








 

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Capitolo 4
*** Retrouvailles ***


Ammesso e non concesso che ci sia qualcuno all'ascolto: temo che il prossimo capitolo tarderà un po', causa rivolta dei personaggi. Chiedo perdono.
Per il resto, un grazie di cuore a chi continua a leggere/recensire/preferire/seguire questa follia.
Il titolo è in francese perché fa più figo. E scusate anche la demenza di questo capitolo.
Auf Wiedersehen
-Clock




 
Capitolo 4
Retrouvailles
 
 
 
Martedì 2 aprile.
Mel aggrottò le sopracciglia, curvandosi sul libro di ricette.
«Separare la chiara dal tuorlo e aggiungere al composto» lesse. «Come diavolo faccio a separare? E che ci metto dentro, poi? La chiara o il tuorlo? Aiuto Matisse, come diavolo faccio?» gemette, sconfortata, gettando un’occhiata preoccupata al contenuto della scodella, che non prometteva niente di buono.
«Va be’, magari non è fondamentale, andiamo avanti. Prendere gli asparagi, pulirli e tagliarli a piccoli pezzi. Mh, posso riuscirci. No, aspetta un momento. Io non ho asparagi.»
Matisse le rivolse un’occhiata di disapprovazione, schioccando la coda dalla sua postazione sul microonde. Mel se ne accorse.
«Non guardarmi così, non c’era scritto nel titolo che servivano gli asparagi!»
Matisse assottigliò gli occhi.
«Oh, giusto avrei dovuto leggere gli ingredienti prima. Be’ ma magari non sono importanti nemmeno questi e possiamo evitarli…»
Tornò a rivolgersi alla scodella, notando che l’aglio, l’olio e la pancetta iniziavano ad avere un aspetto allarmante. Mordicchiandosi il labbro, tentò di smuoverli un po’ con il cucchiaio di legno, ma niente da fare: ormai erano una cosa sola.
«Oh, e va bene» disse sconfortata, lanciando il cucchiaio nel lavandino e liberandosi del grembiule. Raggiunse il divano e frugò con foga fra i cuscini e le coperte finché non trovò il cellulare, borbottando qualcosa su cinese e indiano e la speranza di ottenere un pranzo commestibile.
Trovò l’apparecchio e notò un messaggio da un numero sconosciuto. Lo lesse corrugando le sopracciglia.
Piacevole finesettimana? Attenta a Bruto.
«Ma che diavolo…?» iniziò, leggendolo ancora una seconda e una terza volta.
«Che diavolo vuol dire, chi è che mi manda messaggi, oh Dio, non ci capisco più niente, voglio tornare alla mia vita banale e normale, io non conosco nessun Bruto, porca miseria…» si lamentò, passandosi una mano sulla fronte, cercando di non farsi prendere dal panico. Matisse miagolò e saltò giù dal microonde, raggiungendola.
«Cosa diamine succede, Matisse?» mormorò, sconfortata e impaurita sentendosi improvvisamente piccola e sola. Il trillo del campanello la fece sobbalzare. Gettò la testa indietro, esausta.
«Io non ho mai chiesto tutto questo, non volevo sconvolgimenti... Una vacanza, voglio una vacanza, solo una vacanza…» sospirò, ciabattando fino all’atrio.
«Una vacanza tutta per… Porca puttana, Benedict!»
«Ciao anche a te» sorrise l’uomo, imperturbabile. Mel ebbe il buon gusto di arrossire lievemente.
«Cosa ci fai qui?»
«Porto il pranzo» disse lui, sollevando un sacchetto di carta.
«Cinese?»
«Tailandese. Squisito.»
«Mh. Ok» acconsentì, facendosi da parte per lasciarlo passare. «Non hai suonato il citofono» si accorse.
«La signora Hemingway portava fuori la spazzatura e mi ha fatto entrare.»
«Quella donna deve smetterla di aprire a chiunque. Ovvio che poi mi rubano quadri…» borbottò, tornando in soggiorno, seguita dall’uomo. Matisse lo accolse festosamente, strusciandosi sulle sue caviglie e inarcando la schiena.
«Stavo per chiamarti ieri, ma poi ho avuto da fare… Come mai sei venuto?» gli chiese di nuovo, tornando a occuparsi dei rimasugli del suo pranzo, ostentando indifferenza. Benedict, stringendo le labbra, posò il sacchetto sul banco della cucina e si tolse la giacca, deciso a mettersi a suo agio. Lei lo osservò con la coda dell’occhio.
«Il piano è questo: pranziamo e poi usciamo a cercare Rottenberg.»
Finalmente si volse a guardarlo, sollevando un sopracciglio.
«Come, non vuoi invitarlo a pranzo?» chiese, sarcastica. «Sto preparando una squisitezza da leccarsi i baffi…»
Benedict chiuse un attimo gli occhi.
«Non ho voglia di giocare, Mel. Se vuoi venire con me, possiamo trovare Rottenberg, so quasi per certo dove si trova. Se non vuoi, me ne tiro fuori» disse, più duro di quanto avrebbe voluto, puntandole addosso i fari azzurri.
Mel abbasso gli occhi e sospirò.
«Mi dispiace, Ben. Sono scontrosa e antipatica e tu non te lo meriti, ma è che con tutti questi casini non ci capisco più niente, non so più di chi fidarmi, mi arrivano messaggi e io…» chiuse gli occhi. «Mi dispiace. Vengo con te più che volentieri, grazie.»
Benedict le si avvicinò e la abbracciò, beandosi per un paio di secondi del contatto con il corpo esile della ragazza. La lasciò andare, Mel riaprì gli occhi e gli sorrise. E lui le sorrise di rimando, un sorriso caldo e confortante e pieno d’affetto e i suoi occhi erano così brillanti e…
Matisse miagolò rovinando tutto.
Spacca il secondo quel gatto.
 
°°°
 
«A chi scrivi?» chiese, sporgendosi da oltre la sua spalla per sbirciare il telefonino.
«A Ruth. Sarebbe dovuta venire oggi pomeriggio per posare un po’, visto che devo cominciare a lavorare sui nuovi quadri, ma le chiederò di venire domani mattina, tanto io non lavoro.»
Benedict annuì, spostando lo sguardo sulla città che scorreva fuori dal finestrino dell’autobus.
«Ruth dice che ti conosce, cioè, non nel senso che ti conosce perché ti ha visto in Tv, ma perché avete più o meno lavorato insieme, o avreste dovuto… è stata parecchio vaga, me ne ha parlato una volta sola tanto tempo fa e poi mai più» disse Mel, continuando a digitare. Benedict volse la testa verso di lei, corrugando le sopracciglia. Forse per questo aveva la sensazione di averla già vista, eppure non riusciva a ricordare dove o come…
«Mi dispiace davvero, ma non ricordo affatto. Era un’attrice? In cosa?»
Mel si strinse nelle spalle, il capo ancora chino.
«Non me lo ha detto, non lo so. Glielo chiederò prima o poi, quando sarà sbronza.»
Rimasero per un po’ in silenzio, poi, improvvisamente, Ben si volse verso di lei.
«Prima hai detto qualcosa su dei messaggi.»
Mel corrugò le sopracciglia, cercando di ricordare a cosa si riferisse.
«Oh, certo. Sì, me ne sono arrivati due, anonimi, uno ieri e uno oggi. Ecco.» Gli tese il cellulare perché potesse leggerli.
Lui si adombrò. Bruto.
Basta poco per diventare tanti Bruto e Cassio.
Reeves.
Doveva dirglielo? Strinse le labbra. Non aveva alcuna prova concreta, non poteva accusarlo così, Mel sarebbe stata male. E, tecnicamente, era Rottenberg il colpevole. Chissà perché l’ipotesi del ladro internazionale non lo convinceva molto. Che Sherlock e il suo disprezzo per Scotland Yard l’avessero contagiato?
«Ben? Che ne pensi?» lo richiamò Mel, guardandolo preoccupata. Lui sospirò.
«Non è un indizio.»
«è inquietante.»
«Non ti succederà niente, vedrai.»
Mel lo pregò con gli occhi di mantenere quella promessa inutile, poi tornò a guardare fuori dal finestrino.
 
°°°
 
Non soffiava neanche un alito di vento e Mel stava soffocando, nel suo cappotto troppo pesante. Inoltre era rannicchiata in una posizione scomodissima e iniziava a farle male una gamba. Tentò di muoverla, ma urtò Benedict. Lui le intimò di fare silenzio, posandosi un indice sulle labbra e lanciandole un’occhiata ammonitrice. Lei alzò le mani in segno di scusa e l’uomo tornò a voltarsi e a sbirciare dal bordo del cassone dietro il quale erano nascosti.
«Io ancora non ho capito perché diamine…»
«Shh! Arriva, zitta!» sibilò Benedict, abbassando la testa fino a che solo gli occhi e il suo ridicolo berretto irlandese nero fossero visibili.
Dei passi rieccheggiarono nel vicolo con studiata lentezza. Poi una strascicata voce maschile parlò in tedesco. Non sentirono risposta, quindi probabilmente l’uomo parlava al telefono.
Benedict abbassò la testa e guardò Mel.
«È lui» sillabò, prima di tornare a spiare.
L’uomo camminava nella loro direzione e si fermò a un metro dal cassone, davanti all’entrata secondaria dell’albergo. Smise di parlare e chiuse la telefonata.
Benedict guardò Mel e annuì.
«Ora. Sai che devi fare» sussurrò. Lei roteò gli occhi, seccata da tutta quella teatralità e si alzò in piedi. Benedict strizzò gli occhi. Non poteva farsi avanti in maniera più naturale, non saltando su come un fungo?
La ragazza avanzò verso l’uomo con la testa piegata di lato come se stesse cercando di capire chi fosse. Poi sembrò realizzare tutto d’un tratto e spalancò gli occhi.
«Non posso crederci, io… Papà!» esclamò e corse ad abbracciarlo, con un entusiasmo esagerato. Sia l’uomo che Benedict assunsero la stessa espressione incredula.
«Ma si può sapere che cosa-» esclamò prima di rendersene conto, alzandosi e voltandosi verso i due. L’uomo rivolse un’occhiata confusa anche a lui.
«Be- Ten!» fece lei, fingendo di asciugarsi una lacrima e scostandosi dall’uomo. «Guarda, ho ritrovato il padre che credevo di aver perso per sempre! Non è meraviglioso?» disse, guardandolo con un’espressione di incredula gioia, sgranando appena gli occhi in segno di avvertimento. Benedict compose in fretta la sua faccia in un sorriso meravigliato.
«Oh, cara è incredibile!»
«Potete spiegarmi cosa succede? Chi siete voi?» domandò l’uomo, con un forte accento.
«Io… ancora non riesco a crederci… Sono tua figlia!» disse Mel, fingendosi emozionata. «Lui è il mio…» iniziò, indicando Benedict con il pollice, ma esitò.
«Amico.»
«Fidanzato.»
Lo guardò stupita.
Però. Mica male, don Giovanni.
Lui fece un ampio sorriso che aveva un che di inquietante e le mise un braccio intorno alle spalle.
«Dobbiamo ancora abituarci all’idea» spiegò, rivolto all’uomo.
Sì, dobbiamo abituarci.
«Sentite, siete molto carini, ma io non ho nessuna figlia, avete sbagliato persona…»
Mel si portò una mano alla bocca, sussultando.
«Vuoi dire che… che la mamma non ti aveva detto niente?» domandò, spalancando gli occhi e portandosi la mano al petto.
Non la facevi così drama queen, eh?
L’uomo scosse la testa.
«Io non… Non ho idea di che cosa…»
«Forse è meglio se ci sediamo in un posto tranquillo» propose la ragazza, sorridendo, dimentica del – presunto – turbamento di pochi secondi prima. «Alloggi qui, non è vero?» chiese, indicando con la testa l’albergo accanto a loro. L’uomo annuì e fece loro cenno di seguirlo, ancora basito.
«Ah!» saltò su lei, facendo sobbalzare tutti. «Tesoro, perché non vai in macchina a prendere quella bottiglia di vino?» chiese, sbattendo le ciglia con fare amabile e vagamente intimidatorio. Benedict non si sarebbe sognato di dirle di no per tutto l’oro del mondo.
«Certo cara, torno subito. La stanza…?»
«219» rispose l’uomo. Benedict sorrise e si allontanò, chiedendosi febbrilmente dove fosse il supermercato più vicino.
Mel sorrise a trentadue denti al suo nuovo padre, che trasalì.
 
°°°
 
Può un allocco simile essere un ladro internazionale che l’ha fatta in barba a tutti con una doppia identità per anni?
Benedict aprì piano la porta della stanza, sentendo la voce insolitamente acuta e ciarliera di Mel dal piccolo soggiorno adiacente. Poggiò la bottiglia su un cassettone e decise di approfittare del fatto che non l’avessero sentito per ispezionare la stanza. Poco probabile che, se anche il ladro era quel tedesco di mezza età dall’aria ottusa, avesse i quadri con sé in albergo, ma magari aveva qualche recapito o indirizzo o qualsiasi indizio… Mentre frugava fra le cose dell’uomo, non poté fare a meno di sentire le assurdità che Mel gli rifilava nell’altra stanza.
«Mary, proprio Mary si chiamava la mia povera mamma. Se n’è andata il mese scorso, e mi aveva lasciato qualche foto di te e un paio di lettere e…»
«Non ci siamo mai scritti lettere, ho frequentato Mary per tre settimane soltanto e non ricordo nemmeno che… Insomma, non ricordavo di esserle stato tanto intimo…»
«Be’, come si dice… La pagnotta è arrivata in fretta.»
Benedict scosse la testa. Tutta quella situazione era assurda.
«E di che ti occupi nella vita? La mamma diceva che eri una specie di artista, ti piaceva l’arte…»
«Sono un dentista.»
Mel non rispose e Benedict fece una smorfia.
Inventati qualcosa, inventati qualcosa…
«L’arte dell’odontoiatria, elettrizzante. Niente arte più… classica, Karl?»
«No, io non mi chiamo Karl, il mio nome è Viktor.»
«Come?» fece Mel, fingendosi sbalordita. «Dietro le foto che mi ha fatto vedere la mia mamma c’era scritto chiaramente Karl…»
Benedict, con la sensazione che stavano facendo un gigantesco buco nell’acqua e che sarebbero finiti nei guai, posò la bottiglia su un cassettone per concentrarsi sull’agenda che aveva trovato sul comodino. Iniziò a sfogliarla febbrilmente, cercando una qualsiasi indicazione, un nome…
Victoria Station
Sobbalzò, leggendo quel nome, pensando si riferisse al quadro di Mel, e urtò contro il cassettone.
«Chi c’è di là?»
Benedict strizzò gli occhi, tenendosi il gomito che urlava di dolore e facendo cadere l’agenda. Victoria Station era comunque solo il luogo di un appuntamento, apparentemente. E l’agenda recava il nome di Viktor Duff, quindi avevano fatto proprio un grande buco nell’acqua.
Sentì dei passi e la voce di Mel che tentava di fermare l’uomo con scuse patetiche.
«Cosa ci fai tu qui? Guardi nella mia roba?» esclamò l’uomo, irato.
Benedict si immobilizzò, preso in contropiede.
«Ho portato il vino…» tentò, afferrando la bottiglia.
Lo sguardo dell’uomo saettò da lui al cassetto aperto all’agenda a terra. Benedict poteva vederlo sommare gli elementi insieme e arrivare al risultato che…
«Volete derubarmi! Delinquenti che non siete altro! Al ladro! Al ladro!» urlò, agitando le braccia.
«No, non è vero, noi…» tentò Mel, portandosi fra Ben e l’uomo.
«Mel, scappa!» urlò Benedict, aprendo la porta. Mel schivò le braccia mulinanti dell’uomo e lo seguì. Corsero fuori dalla stanza, verso l’ascensore.
«Occupato, porca puttana…»
«Ben, le scale!»
Si buttarono giù per i gradini correndo a perdifiato, inseguiti dalle urla dell’uomo e dalla confusione che aveva sollevato negli altri inquilini dell’albergo.
«Dimmi di nuovo di chi è stata la brillante idea di giocare al detective!» gridò Mel, inciampando nel tappeto che ricopriva le scale. Benedict l’afferrò per il braccio appena in tempo.
«Zitta e corri!»
Dopo aver sceso tre piani, trovarono l’ascensore aperto e ci si fiondarono, fra gli sguardi stupefatti delle persone che ne erano appena uscite. Benedict rivolse loro un sorriso affabile e allo stesso tempo inquietante e premette il bottone del piano terra.
Una volta al sicuro dietro le porte chiuse, entrambi lasciarono andare un sospiro.
«Guarda tu se non…» iniziò Mel, ma Benedict la zittì con una mano, riprendendo fiato. L’ascensore trillò, una volta arrivati, e i due si precipitarono fuori, con le urla dell’uomo e di chi lo aveva seguito ancora sulle scale. Travolsero una signora con il suo chihuaua e un fattorino, quindi continuarono a correre lungo il marciapiede finché non videro un taxi venire verso di loro. Benedict alzò un braccio per fermarlo, senza smettere di correre.
«Entra, entra!» la esortò, quando l’auto si fermò davanti a loro. Alle loro spalle, sentiva ancora le urla dell’uomo. Entrò anche lui nella vettura e sbatté lo sportello.
«Hyde Park, in fretta.»
L’auto partì e i due videro l’uomo continuare a sbraitare e agitare le braccia sul marciapiede davanti all’albergo. Finalmente al sicuro, si abbandonarono sullo schienale con un sospiro, ansimanti, scompigliati e arrossati.
«Il tailandese mi sta tornando indietro, accidenti a te.»
Benedict la guardò e Mel incrociò il suo sguardo. Scoppiarono a ridere.
 
°°°
 
«Qui va bene?»
Mel annuì, così Benedict si lasciò cadere sulla panchina, allungando le gambe davanti a sé e gettando indietro la testa. Mel si sedette accanto a lui, e per un po’ nessuno dei due parlò.
«Devi spiegarmi un sacco di cose.»
Benedict sorrise, chiudendo gli occhi.
«Da dove inizio?»
«Per esempio da come diavolo t’è venuto in mente che quel povero disgraziato dovesse essere Rottemberg, un ladro di fama internazionale scomparso dalla circolazione da anni.»
Benedict riaprì gli occhi e guardò il laghetto davanti a sé, un principio di sorriso che gli increspava le labbra.
«Ho ingaggiato un investigatore privato.»
«Tu che cosa?»
Benedict le rivolse un’occhiata divertita.
«Oh, andiamo, anche lo Sherlock Holmes dei libri diceva sempre che la polizia era una manica di incapaci. Del resto, lui ci viveva dell’incapacità di Scotland Yard…»
Mel rimase in silenzio, combattuta fra la voglia di prenderlo a schiaffi e gettarlo nel lago o il ridere fino a sentirsi male.
«Hai ingaggiato un investigatore privato. Quando?»
«Lunedì mattina.»
«Oggi è martedì. Lo sai vero che un detective come Sherlock Holmes non esiste e che nessuno potrebbe riuscire a trovare un ladro internazionale apparentemente scomparso in un giorno?»
Benedict si strinse nelle spalle.
«Hai ingaggiato un imbecille!»
L’uomo scoppiò a ridere.
«Ma sembrava plausibile!»
«E poi scusa, quale detective lascia che il suo cliente dia la caccia al criminale?»
«Noi non dovevamo dargli la caccia, solo assicurarci che fosse lui l’uomo che cercavamo, così poi lui l’avrebbe incastrato e chiamato la polizia.»
«Un investigatore pigro, hai trovato, ma dimmi tu…»
«Dai, è stato divertente, però.»
Lei lo guardò sbalordita.
«Divertente? Per te forse, che non hai saputo resistere alla tentazione di diventare per un po’ Sherlock anche nella vita reale, dimentico del fatto che io non sia il dottor Watson e che non abbia alcuna intenzione di diventarlo, grazie mille!»
Benedict rise, gettando la testa all’indietro. Mel scosse la testa e si appoggiò allo schienale. Lui diventò improvvisamente serio.
«Non gli hai detto il tuo nome, vero?»
«No, gli ho detto di chiamarmi Rose, e tu sei Ten. Mi sa che non l’ha capita. Tu hai trovato niente?»
Benedict scosse la testa.
«Abbiamo preso un bel granchio.»
Mel sorrise.
«Non ti facevo un tipo così avventuroso e avventato, comunque. Mi sembravi più uno tranquillo e riflessivo, di quelli che pensano, pensano e alla fine, dopo mille pagine di ragionamenti peggio di Amleto, decidono di fare qualcosa, ma ormai è troppo tardi, lo avrebbero dovuto fare prima perché le cose mica stanno ad aspettare te che rifletti.»
Benedict la guardò, incuriosito e ammirato.
«Ti ho sorpreso? Be’, è vero, di solito sono così come tu mi hai descritto: penso, penso e non faccio nulla.»
Lei lo guardò, invitandolo a continuare.
«Sai, c’è stato un periodo della mia vita, tipo otto o nove anni fa, in cui avevo deciso che non valeva la pena aspettare nulla, che nulla avrebbe aspettato me, che volevo vivere ogni istante. E allora mi buttavo sugli sport estremi, provavo cose nuove tutti i giorni, ero sempre pieno di adrenalina… Poi, non so bene perché, o quando, forse quando io e la mia ragazza ci siamo lasciati dopo essere stati insieme per dieci anni, forse quando ho iniziato a diventare famoso, forse quando mi sono reso conto che ho quasi quarant’anni e un pugno di sabbia in mano, e ho iniziato a riflettere, a muovermi al rallentatore, a chiudermi in me stesso. Me ne rendo conto adesso perché capisco che, due mesi fa, non avrei mai fatto una follia come quella di oggi, ma dieci anni fa sì. Vuol dire che sto cambiando.»
La guardò, e Mel si sentì improvvisamente piccola, davanti a quegli occhi chiari come il cielo dopo l’alba e sfavillanti come perle, sperduti in quel viso così particolare. La sera calava lenta su di loro, i lampioni iniziavano ad accendersi e Mel sentiva gli istanti dilatarsi fino a perdere significato, vedeva le ciglia e ogni sfumatura degli occhi di Benedict, persa fra il tempo e la realtà.
«Forse tu mi stai cambiando, Mel. Del resto, ho incontrato te, quasi un mese fa, e da allora… Probabilmente, se fossi rimasto lo stesso, non avrei trovato il coraggio di ammettere tutto questo.»
Sorrise, e gli occhi si socchiusero, incorniciati da pieghe benevole e sagge. Mel avrebbe voluto dipingere tutte quelle linee, ad acquerello, olio, acrilico, ogni tecnica che conoscesse, per non dimenticarle mai.
E allora Benedict, che adesso iniziava a vedere dalla sommità del colle il nuovo territorio a cui si stava avvicinando, con cautela, un passo alla volta, preso da chissà quale follia, decise che voleva avventurarvisi ora e subito, e non lasciarsi scappare l’occasione. Vedeva lì un sentiero rapido che lo avrebbe portato a valle, e allora chissà quali e quante meraviglie avrebbe trovato… Certo, sarebbe stato anche pieno di insidie ma, forse, ne valeva la pena. Di sicuro, se non iniziava ad esplorare, non l’avrebbe mai saputo.
Quindi, Benedict la baciò. 









 

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Capitolo 5
*** 233 Hertz ***


Ho fatto prima di quanto credessi: i ragazzi hanno collaborato (sotto minacce di morti fra atroci sofferenze, hem... =D). Capitolo un po' di passaggio, spero ardentemente di non deludere le vostre aspettative - se mai qualcuno ne aveva.
E niente, grazie di cuore a chi legge/segue/preferisce e chi recensisce - mi fate felice =)
Goodbye and Goodnight! (Uh, oggi è quattro luglio! Party in the USA! Sì, ok, non c'entra niente.)
-Clock

 
 
 
 
Capitolo 5
233 Hertz
 
 
 
Mercoledì 3 aprile.
 
Il silenzio era inusuale per Mel, per questo tanto speciale.
 
Avrebbe dovuto ritrarre Ruth, è vero, che era seduta sulla vecchia poltrona e le offriva un profilo davvero invitante, ma Bernie e Ned, seduti sul divano a guardare Il Signore degli Anelli erano un quadretto irresistibile: lui, con le sopracciglia corrugate e l’espressione concentrata nel cercare di seguire il film, Bernie mollemente appoggiata a lui, lo sguardo pensieroso e lontano dal film; la mano di Ned le cingeva il fianco con disinvoltura, entrambi sembravano così naturali l’uno con l’altra, due parti di una stessa cosa. Mel non poté dire di no.
Uno scheletro della composizione era fatto, ora doveva decidere se continuarlo con le ombre e i chiaroscuri o completarlo con dei pastelli colorati. In effetti, la luce del mattino, i capelli rossi di Ned in contrasto con la maglia verde, la chioma dorata di Bernie e la sua maglia color prugna erano troppo belli per non essere immortalati anche sullo schizzo. Si alzò in cerca dei pastelli.
 
Il silenzio si dilatava lungo e interminabile, togliendo significato al tempo; loro due, cristallizzati in quell’istante infinito, lasciavano sfogare in quel silenzio le loro tempeste. Vibravano, come due diapason, cantando la stessa nota, le labbra ancora calde e formicolanti, i petti colmati di un’emozione indescrivibile. Il lago sfavillava, sembrava palpitare a tempo con i cuori forsennati. Non parlarono per lunghi minuti, lasciarono semplicemente scorrere le emozioni sulla pelle, guardando il lago luminoso, cercando di capire. Ma la vibrazione era più forte di tutto.
 
Con un improvviso calore nello stomaco e un sorriso al ricordo, prese la scatola di pastelli dallo scaffale e tornò al suo posto. Iniziò con i capelli di Ned, sbizzarrendosi con il rosso carminio, il veneziano, dell’arancione e addirittura del giallo zafferano, che poi stese ampiamente anche sui capelli di Bernie, scurendoli con della terra di Siena, schiarendoli con del giallo di Napoli.
 
Non era un silenzio scomodo, tuttavia: stavano bene, in silenzio l’uno accanto all’altra. Sembrava di stare in un dipinto.
Mel sapeva che Ben aspettava un suo gesto, lasciava a lei di decidere come andare avanti. E Mel avrebbe potuto baciarlo a sua volta, ma poi chissà dove sarebbero arrivati – forse era troppo presto. Ben era un gentiluomo, e accettò il silenzio della ragazza. Anche quando lei si alzò non si scompose, non si rabbuiò. Comprese.
 
Passò ai vestiti – verde foresta, verde scuro, verde oliva e melanzana, prugna e malva. Allontanò un attimo il viso piegando il capo di lato. Lanciò un’occhiata ai due.
«Sì, e della Siena per i pantaloni…» mormorò. «E potrebbero essere sospesi da qualche parte, così potrei usare un sacco di colori…»
Ned spostò lo sguardo su di lei.
«Oh, Mel, ma allora parli! Che ti prende, non hai aperto bocca da quando siamo arrivati?»
Ma lei era di nuovo da un’altra parte.
 
«Ci vediamo domani?»
Lui annuì, senza guardarla. Quando lo fece, aveva gli occhi quasi argentei.
«Ti chiamo all’ora di pranzo.»
«Ok. Buonanotte, Ben.»
«Buonanotte, Mel.»
Si allontanò di qualche passo, sentendosi una fanciulla di un qualche Degas o Renoir. Si avvicinò e gli posò un bacio sulla guancia – una pennellata.
«Grazie, Ben.»
Lui aveva sorriso.
«Non c’è di che.»
 
«Pronto, Dottore chiama Mel, il Tardis è pronto a partire, ultima chiamata a bordo…»
«Oh, sei un tale nerd, tesoro mio…»
«C’è stata un invasione di Dalek! Moriremo tutti!»
«Ned, piantala di urlare o ti faccio una rapa al posto della testa» sibilò Mel, assottigliando gli occhi mentre frugava fra i pastelli alla ricerca del blu di Prussia.
«Uh, stai disegnando me? Wow, che figo» fece lui, sorridendo lusingato. Mel gli lanciò un’occhiataccia da sopra il foglio. Finse di non notare lo sguardo ferito di Ruth.
«Comunque, dove sei stata ieri? Ho provato a chiamare ma non ha risposto nessuno» disse Bernie.
«E hai disdetto anche con me…» le fece notare Ruth.
«Oh, io… Siamo andati a caccia del ladro.»
«Cosa?»
«Chi?»
«Che figo! Voglio anch’io Sherlock come amico, non è giusto…»
«Io e Ben.»
Io e Ben. Il suono le piaceva. Tentò con tutte le forse di impedirsi di sorridere.
«Ora è tutto chiaro» fece Bernie, con un sorriso malizioso e l’aria di chi ha capito tutto. Ruth sorrise.
«E non hai niente da dire? Tu? Molto strano» rincarò Ruth. Mel arrossì. Ned lanciò un’occhiata allarmata a turno a tutte e tre.
«Ehi, no, eh. Niente complicità fra donne. Ora vi metterete a parlare di dettagli romantici e svenevoli e di che cosa hanno combinato Mel e Benedict, cose che io non voglio nemmeno immaginare» disse, sollevando le sopracciglia e sollevando i palmi della mani.
«Quindi, vado a fare un giro con Matisse così potete raccontarvi i vostri sordidi segreti…»
«Guarda che non è un cane» gli fece notare Mel, fra le risate delle altre.
«È uguale, vado da solo, basta che non vi sento.»
La ragazza si nascose ancora dietro il foglio e, una volta che il ragazzo le ebbe lasciate, raccontò, prima a tentoni, poi con la consueta scioltezza, della rocambolesca avventura del pomeriggio precedente, dell’assurda situazione in cui si erano cacciati e infine di come lui l’avesse baciata, sulla panchina davanti al laghetto. Tacque tutto quello che aveva sentito e pensato, perché non era mai stata tipo da confidenze intime; si limitò ad esporre i fatti con un sorriso idiota, le guance colorite e una stupida aria da ragazzina. Alla fine, Ruth sorrideva e Bernie aveva quasi le lacrime agli occhi.
«Oh, mio Dio. La nostra Mellie sta crescendo!»
Mel rise e abbassò gli occhi. Colse un lampo strano negli occhi di Ruth, ma quando tornò a guardarli era sparito e la ragazza le sorrideva con il consueto calore.
 
°°°
 
Finalmente liberatasi da quelle pettegole delle sue amiche e da un imbarazzato Ned – non voglio nemmeno pensare a te con… Insomma, la nostra Mel! È come vedere una sorellina che se ne va con uno… E che uno! Benedict Cumberbatch! –, poté rannicchiarsi sul divano con il telefono in mano e Matisse in grembo. Aveva già composto il numero, doveva solo raccogliere le forze per chiamare. Matisse infilò la testa sotto la sua mano, spingendo il muso contro il telefono.
«Ok. Vado. Anche se non dovrebbe essere la ragazza a chiamare per prima, di solito è il contrario, insomma, e io che pensavo che fosse un galantuomo… No, Matisse, devo farmi desiderare e aspettare che chiami lui, e poi ieri sera è lui che mi ha baciata, quindi deve sforzarsi e farmi la corte come si deve… Ora che ci penso, aveva detto che avrebbe chiamato lui, ma è quasi l’una e non l’ha ancora fatto… Forse ha avuto qualche problema…»
Matisse le lanciò un’occhiata scettica.
«E poi, metti che lo disturbo? Che ne sai, magari sta recitando un film importantissimo che rivoluzionerà la storia del cinema e deve interrompersi e rovinare tutto perché gli squilla il cellulare. Dai, pensa che cosa terribile. No, chiamerà lui.»
Matisse rinunciò e si voltò per scendere dal suo grembo.
«No, no, ok, lo chiamo. Però resta qui.»
Ma il gatto, deciso a farle imparare la lezione, rimase a guardarla dall’altra parte del divano. Mel prese un respiro e premette il verde.
«Vuoi vedere che non risponde, tanto… Che poi non capisco da dove mi venga tutta questa agitazione. Insomma, ieri non mi facevo tutti questi problemi, con Ben, era un amico e basta. Da dove vengono tutte queste storie, nemmeno avessi quattordici anni… Fosse bello, poi! Ha quella faccia da lontra… Però bacia da Dio, eh Matisse. Mamma mia. Sa il fatto suo, sì, e poi quando stai lì, insomma, non pensi mica alla forma degli occhi o al suo naso strano… Le labbra saranno pure informi, però sa usarle il ragazzo, eccome…»
«Mi lusinghi.»
«Oh porca di quella vacca con le mutande di mia nonna! Mi hai sentito?»
«Sì, cara. Ti ringrazio.»
Mel arrossì oltre ogni dire. Se Matisse non fosse stato un gatto avrebbe riso. 
«Oh, merda… Ma non potevi farti sentire prima, scusa? Razza di maleducato, origli i miei discorsi con me stessa, non va bene per niente, ecco che la fiducia reciproca fa a farsi benedire…»
La sua risata la fece rabbrividire anche attraverso il telefono.
«Perdonami per non averti chiamato prima, ero sul set e ho appena finito. Che ne dici se andiamo a prenderci un fish and chips? Conosco un posto ad Hammersmith che è fantastico.»
Lei tornò a respirare e a scolorirsi.
«Ok, ci vediamo vicino al ponte? Non conosco Hammersmith tanto bene.»
«Va bene. Fra mezz’ora?»
«Ok.»
«A dopo.»
Poteva giurare che stesse sorridendo, il bastardo.
 
°°°
 
Benedict spostò lo sguardo sul fiume illuminato dal sole impavido di quel giorno, con un ombra di sorriso sulle labbra.
«Così sarei un buon baciatore, eh?»
Mel arrossì e assunse un’espressione inviperita.
«Sei un indiscreto del cavolo, altroché!»
Lui rise, inumidendosi le labbra.
«Non eri di quest’opinione ieri sera.»
Lei abbassò gli occhi sui resti del suo pasto.
«Brutto bastardo…» borbottò. Il sorriso di Benedict si allargò, accompagnato da uno sguardo malizioso.
«Ah, attenta con le parole. Potrei elargirti un altro assaggio delle mie abilità, ma solo se ti comporti bene.»
«Ah, sì? Pensi che non sia capace di prendermi ciò che voglio anche da sola?» lo sfidò lei, risoluta.
«Allora lo vuoi…»
Arrossì di nuovo.
«Maledizione.»
Benedict rise e si alzò, dirigendosi verso l’interno del locale per pagare il conto. Mel si alzò e si avvicinò al muretto che costeggiava il fiume accanto al pub dove avevano appena pranzato. Benedict la raggiunse poco dopo.
«È proprio un bel posto. E c’è una luce incredibile, sai che bei ritratti verrebbero, pieni di contrasti, luci forti e ombre ancora più forti, fantastico… Vieni qui» disse Mel, issandosi sul muretto, abbastanza ampio perché potesse sedersi a gambe incrociate, e fece segno all’altro di sedersi accanto a lei. Lui si sedette e si girò fino ad avere le gambe penzoloni dalla parte del fiume.
«Ci fanno le gare di canottaggio, sai, e il sabato è pieno zeppo di gente e birra… Io sono nato qui, verso quella zona…» raccontò lui, spaziando con la mano un’area oltre il ponte alla loro sinistra. Lei lo ascoltò distrattamente, frugando nella sua borsa di tela alla ricerca del blocco e della matita. Trovati i suoi strumenti, si sistemò il blocco in grembo e alzò lo sguardo verso di lui, socchiudendo gli occhi.
«Pronto? Non so come dovresti metterti, ti ho ritratto in tipo tutte le pose possibili… Fumi?»
Lui aggrottò le ciglia all’improvviso cambio di argomento.
«Sì, perché?»
«Perfetto, vuoi fumare adesso?»
«Non ti dà fastidio? Tu non fumi.»
«Sì, ma non ti ho mai ritratto mentre fumi, e saresti parecchio figo. Ho un accendino se vuoi.»
Lui sorrise e scosse la testa, tirando fuori di tasca l’accendino e un pacco di sigarette.
«Perfetto» fece lei, e abbassò la testa sul foglio, iniziando ad abbozzare la testa. Lui la guardò con un sorriso tenero e sghembo, la sigaretta fra le labbra chiuse. Mel alzò gli occhi e incontrò quell’espressione. Si sciolse.
«Cosa c’è?» chiese dolcemente, incuriosita. Lui scosse la testa, chiudendo gli occhi.
Cosa ho fatto per meritarmi tutto questo? Grazie.
«Penso solo che potresti non baciarmi più, dopo che avrò fumato.»
Lei socchiuse gli occhi.
Sapeva che non si trattava di questo, c’era molto di più in quello sguardo al contempo malinconico e felice, ma non volle indagare.
«E chi ti dice che io voglia baciarti? Se ti comporti bene e fai il bravo modello, allora, forse…»
Benedict rise e tornò a guardare il fiume.
 
°°°
 
Ruth si tolse gli occhiali da sole, socchiudendo gli occhi. Sì, erano proprio Mel e Benedict, seduti sul muretto. Lei lo stava probabilmente ritraendo, perché era china su un blocco da disegno e alzava continuamente lo sguardo da lui al foglio, mentre lui fumava e parlava. Ogni tanto ridevano. A un certo punto, lui si sporse a darle un bacio veloce sulla guancia. Mel arrossì – Ruth poteva vederlo da quella distanza – e gli puntò un dito contro, come per rimproverarlo. Lui rise gettando la testa indietro. Ruth si sentì morire, preda di emozioni violente che non voleva conoscere.
Prima di poter veramente ponderare le conseguenze delle sue azioni, raccolse la borsa e si alzò dalla panca del pub dove era seduta, avvicinandosi ai due.
«Mel! Che bello vederti!»
«Ruth! Ciao, che ci fai qui?» la accolse Mel, sorpresa. Ruth si strinse nelle spalle, sorridendo affabile.
«Ciao, Benedict.»
«Ciao» la salutò lui, esitante, ruotando su sé stesso per non darle le spalle.
«Allora, che fate di bello? Siete venuti a pranzo?» domandò la ragazza, scuotendo la testa per scacciare i capelli che le finivano in bocca, mossi dall’improvviso vento che si era alzato.
«Sì, abbiamo mangiato fish and chips perché il gentleman, qui, porta la sua ragazza a mangiare fish and chips come due quindicenni qualsiasi, non so se mi spiego» scherzò Mel.
“La sua ragazza”! Hai fatto tombola, bello!
Benedict si finse indignato.
«Pensavo fossi una ragazza alla mano!»
«Sarò pure alla mano, ma tu potevi sforzarti un po’ di più…»
«Ah, sì? Bene, allora domani andiamo a mangiare caviale ed escargots sul Tamigi.»
«Cosa? Escrementi? Di bene in meglio…»
Benedict rise, scuotendo la testa.
«Sono lumache. È francese» spiegò. Mel incrociò le braccia.
«Guarda che non c’è bisogno di sfoggiare il tuo francese aristocratico per fare colpo, sai.»
«Ah, davvero?» fece Benedict, sorridendo malizioso e avvicinando il viso a quello della ragazza.
«E di cosa c’è bisogno?»
Mel arrossì e si voltò repentinamente la testa verso Ruth, che sorrideva. Benedict rise e si tirò indietro.
«Non fargli caso, è un idiota. Allora, che ci fai qui?»
La ragazza si strinse nelle spalle, inventandosi qualcosa. Chiacchierò per pochi minuti con Mel, la testa altrove, il cuore sanguinante. Benedict non smetteva di guardarla e a lei sembrava che i suoi occhi la perforassero.
«Stavi disegnando, posso vedere?» chiese ad un tratto, più gioviale di quanto non si sentisse. Mel le porse il blocco.
«Sono solo schizzi, eh, niente di che, però c’è una luce così bella…»
«Sono molto belli» constatò Ruth, accigliata. Glieli restituì stiracchiando un sorriso.
«Come sempre. Ora scusatemi, ma devo andare. Divertitevi!» disse e si allontanò sventolando una mano. Si congratulò con sé stessa: niente in lei tradiva quello che veramente provava, era una perfetta maschera.
Mel corrugò le sopracciglia.
«Bah, ogni tanto è strana. L’altra volta faceva la timida, adesso… Boh» sollevò le spalle, tornando ai suoi schizzi. Benedict si rimise nella posizione di prima.
«Ti ho mai parlato di Keane?»
«Chi?»
«Un mio vecchio professore all’Università. Insegnava Disegno dal vero. Era parecchio strano, circolavano un sacco di voci su di lui. Tipo, che alzava i voti alle ragazze che… Be’, ogni tanto invitava qualcuna a pranzo fuori o qualcosa del genere, con il pretesto di voler discutere di tecnica… Ovviamente in segreto, se l’avessero beccato avrebbe perso il posto, e poi queste ragazze, bum, tutte A in disegno. L’ha chiesto anche a me una volta» abbassò la voce, adombrandosi. «Ma ho rifiutato. Ho avuto B tutti gli anni, pur essendo migliore di parecchi. Solo all’esame finale ho preso il massimo. Non so perché mi è venuto in mente, forse perché sto ritraendo te, o perché ricordo che aveva un buon rapporto con Ruth. La salutava sempre, nei corridoi, parlavano spesso dei disegni, di mostre… Io non ci sono mai andata troppo d’accordo, e dopo quella volta… Dicevano che avesse un figlio che era poco meno che un criminale, entrava e usciva di prigione… Dicevano che lui stesso fosse stato in prigione, una volta. Bah, fantasmi nelle Università di Londra.»
Gli lanciò un fugace sorriso. Lui rimase in silenzio, senza sapere che dire.
Ok, ora prendi tutto questo e infilalo in una stanzetta del tuo Mind Palace, da bravo, non si sa mai…
«Comunque… Ta-daa!» esclamò, girando il blocco verso di lui. Benedict avvicinò il viso, socchiudendo gli occhi per vedere meglio, ostentando un’aria indifferente.
«Mh. Non male.»
«Non male? Sono fantastici! Guarda questo, ci sono questi zigomi che sembrano lame, e la sigaretta dimenticata fra le labbra e il fumo… Ah, vedrai come viene bene ad acquerello, o addirittura ad acrilico, solo bianco e nero…»
Benedict sorrise mentre lei si riprendeva il blocco.
«Ecco, forse qui ci vuole un po’ più di nero… Aspetta, adesso…»
Sollevò lo sguardo con l’intenzione di controllare un dettaglio, ma si ritrovò il viso di Benedict molto più vicino di quanto necessario. Sussultò, e lui sogghignò.
«Per oggi basta, tu sei stata bravissima e io un modello perfetto, ma adesso sono stanco e voglio un premio…» mormorò, la voce roca.
Mel arrossì e Benedict sorrise davvero, prima di avvicinarsi così tanto che Mel fu costretta a lasciar cadere il blocco da disegno in grembo – Benedict richiedeva la sua totale attenzione. E di nuovo, quando riaprì gli occhi e lo guardò – aveva gli occhi dello stesso colore pallido e luminoso del fiume e del cielo, quasi bianco – sentì di nuovo quella vibrazione dentro di sé, quell’indescrivibile emozione (233 Hertz). Sorrise e lo baciò di nuovo.
 
Dall’altro lato del fiume, Ruth strinse i pugni fino a conficcarsi le unghie nei palmi.
 
°°°
 
Giovedì 4 aprile.
«Non capisco davvero perché dovremmo fare una cosa del genere, è molto rischioso…» disse finalmente l’uomo, dopo aver ascoltato in silenzio. Giurò di vedere un lampo negli occhi dell’altra persona e rabbrividì.
«Perché quella razza di sgualdrina deve iniziare a capire e a pagare. E così anche lui.»
L’uomo scosse la testa, rattristato.
«Come puoi fare una cosa del genere? Pensavo che tu e lei…»
«Si sbagliava» sibilò. «E adesso, è d’accordo con me?»
«Lui si arrabbierà tantissimo, è davvero stupido e pericoloso, secondo me…»
«Non mi interessa la sua opinione, mi dica solo se è d’accordo o no!» ringhiò, sbattendo il pugno sul tavolo e alzandosi di scatto, sporgendosi verso l’altro, le mani ancorate al ripiano del tavolo. L’uomo si ritrasse nella sedia.
«C-come vuoi allora. Ok. Lo facciamo.»
«Bene.»
Si tirò indietro e si chinò a prendere il cappotto sulla sedia. Senza altre parole, si voltò e si incamminò verso la porta, tirando fuori un pacchetto di sigarette e infilandosene una fra le labbra, con grazia felina.
«Veda di fare in modo che lui non sappia niente. è una cosa fra me e lei.»
Se ne andò, lasciando l’uomo tremante.
 
 
 
 
 
 
 
 233 Hertz è la frequenza del Si bemolle.
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 6
*** Dipinto a Belgravia ***


Buondì!
Ringrazio di tutto cuore chi legge/segue/preferisce/recensisce e mi scuso perché non so quando il prossimo capitolo vedrà la luce - è un periodo difficile, altro richiede la mia attenzione. Spero di non deludervi e riprendere presto, ma, per amor di correttezza, vi metto in guardia e non vi prometto niente. Perdonatemi.
Spero di non deludervi con questo capitolo, fatemi sapere che ne pensate! Ah, la storia sarebbe ambientata nel 2013, intorno a marzo-aprile, a scanso di dubbi. E sempre a scanso di dubbi, io adoro Martin Freeman. 
A presto, spero!
-Clock



 
 
Capitolo 6
Dipinto a Belgravia
 
 
 
Venerdì 5 aprile.
Matisse soffiò, inarcando la schiena. Ned arretrò, una mano tesa davanti a sé come per allontanare il gatto.
«Mel, il tuo gatto sta attentando alla mia vita!»
«Era ora che qualcuno si accorgesse di che spreco di spazio sei. Vai così, Matisse» rispose Mel, senza scomporsi. Bernie rise e gettò un’occhiata da dietro le sue spalle al quadro con cui era occupata.
«Ma è…»
Mel si voltò e sorrise.
«Oh, tesoro…» fece Bernie, sciogliendosi e mordendosi il labbro inferiore, le mani al petto. Mel arrossì e abbassò lo sguardo, tornando a dipingere.
«Sai, non pensavo che, dopo quello che è successo, avrei potuto di nuovo lasciarmi andare così, ma non posso farci niente… Forse dovrei stare più attenta…» mormorò.
Bernie si chinò ad abbracciarla da dietro.
«Ti meriti tutta la felicità di questo mondo. Non fartela sfuggire.»
Sorrisero, guardando l’uomo nel quadro.
«E sei così maledettamente fortunata, guarda chi ti sei trovata!» esclamò Bernie, facendola ridere.
«Voglio dire, io sono anni che sopporto Ned e non ne cavo un ragno dal buco, e tu…»
«Meeellieeee! Fai venire via il tuo gatto! Mi sta guardando storto!»
Le due ragazze si scambiarono un’occhiata, alzando gli occhi al cielo, prima di scoppiare a ridere. Mel si alzò e si diresse nel soggiorno, seguita da Bernie.
«Allora, verginella, dov’è il drago che ti minaccia?» lo schernì Bernie, avvicinandosi a Ned, che nel frattempo stava rannicchiato contro il bancone della cucina, tentando di tenere le gambe il più lontano possibile da Matisse.
«Guardalo e dimmi se non ti mette paura! Tutto rosso con quegli occhiacci gialli…»
Matisse miagolò, risentito.
«Ok, no, no, sei bellissimo, sei bellissimo…»
Bernie scoppiò a ridere, guardandoli con le braccia incrociate sul petto, mentre Mel prendeva il cellulare sul tavolo che le aveva appena segnalato un messaggio. Lo lesse e impallidì.
 
°°°
 
«… Allora Amanda ha detto a mia madre che… Ben?»
Martin corrugò le sopracciglia. Perché il suo amico continuava a fissare il tappeto con quello sguardo vacuo e quell’inutile sorrisino? Insomma, sapeva di non stare raccontando nulla di così interessante, ma, diamine, non si vedevano da un mese, un po’ di considerazione!
«Gli Hobbit colonizzeranno la Terra. Ben, mi ascolti?»
«Hobbit, cosa?» fece Benedict, sbattendo le palpebre, come appena sveglio. Martin piegò la testa di lato, vagamente seccato.
«Si può sapere dov’eri?»
L’altro fece un gesto con la mano come per dirgli di lasciar stare, lasciando affiorare ancora quel sorrisetto idiota. Martin si sporse verso di lui.
«Ben, posso dirti una cosa? Da amico?»
Lui lo guardò incuriosito.
«Sei un benemerito coglione. Lei chi è?»
Benedict sbuffò, ma Martin lo conosceva troppo bene per non capire che in parte recitava e non era seccato.
«Perché tutti pensate che ci sia una lei di mezzo…»
«Perché solo una donna può farti avere quell’aria da fesso. Ora sputa il nome.»
Benedict, con un sospiro, gli raccontò tutto quanto. Martin lo ascoltò appoggiandosi allo schienale della poltrona, corrugando lievemente le sopracciglia, sparita ogni traccia della benevola esasperazione di prima. Benedict se ne accorse e il suo sorriso scivolò via.
«Cosa c’è?» chiese corrugando le sopracciglia, una volta terminato il suo resoconto. Martin sospirò e abbassò lo sguardo, puntandolo sul piede che dondolava, appoggiato al ginocchio.
«Da quant’è che vi conoscete?»
«Più un mese. Ma…»
«è troppo presto, Ben.»
«Non vuol dire niente, non la conosci…»
«Quanti anni ha?»
Benedict strinse i denti.
«Ventisei.»
«Ventisei?» Martin strabuzzò gli occhi. «Ben, tu ne hai undici in più.»
«Quasi undici.» Tecnicamente, ne avrebbe compiuti trentasette a luglio.
«Non giocare, Ben. è troppo giovane, state affrettando le cose, a te serve una donna stabile, lo sai, non una ballerina che un giorno c’è e l’altro non si sa. È un’artista, libera e indipendente, pensi davvero che possa stare dietro ad un attore famoso dieci anni più vecchio di lei? E se volesse solo i tuoi soldi?»
«Sapeva a malapena chi fossi!» la difese subito Benedict, iniziando ad adirarsi. «Andiamo sempre in autobus, non vuole mai che le paghi il pranzo se il ristorante è appena costoso, insiste per fare a metà, e se avesse voluto approfittare della mia fama mi sarebbe già saltata addosso.»
Martin chiuse gli occhi, inspirando pesantemente.
«Senti, io voglio solo che tu stia bene, non voglio che lei ti faccia soffrire, ma è così giovane, Benedict…»
«Anch’io mi sento giovane quando sono con lei!» esclamò Benedict, ammettendo per la prima volta anche con sé stesso quanto la differenza di età lo spaventasse. «Lo so che, se anche le cose dovessero andare avanti, non si farebbero mai veramente serie, perché lei è giovane e non ha i miei stessi desideri, ma io sto bene con lei, e non me ne frega niente di quanti anni di differenza abbiamo. Per adesso non pesano.»
Martin lo guardò, un misto di preoccupazione e una punta di rabbia. Sospirò.
«Per adesso.»
Benedict aprì la bocca per contraddirlo, ma Martin sollevò una mano in segno di resa.
«Va bene, basta così, non sono fatti miei, perdonami. Ma stai attento.»
Benedict distolse lo sguardo. Rimasero per qualche minuto in un silenzio sgradevole.
«In ogni caso, Gatiss mi ha mandato un e-mail: riprendiamo la settimana prossima.»
«Sì, ne ho ricevuta una anch’io.»
Martin sorrise.
«Contento? Io non vedo l’ora.»
«Già, neanche io» fu la risposta piatta di Benedict. Martin inspirò stringendo la mascella.
«Ok, Ben…»
Fu interrotto dallo squillo del cellulare dell’altro.
«Scusami» mormorò Benedict, prendendolo dal tavolo.
«Ti spiace se rispondo?» disse, guardandolo con una punta di sorriso. Martin sospirò e fece un gesto con la mano per dargli il via libera.
«Ciao. Come s- Cosa? Scandalo in Boemia… Ma dove, aspetta… Ok, arrivo. Cosa? Sì, ok, arrivo subito. No, tranquilla. A fra poco, aspettami.»
«Che succede?»
Martin lo guardò preoccupato, alzandosi in piedi con lui.
«Andiamo. The game is on, dottor Watson.»
 
°°°
 
Ned, vedendo entrare nel salotto della sua amica Sherlock – che ormai avrebbe dovuto iniziare a chiamare Benedict – accompagnato dallo Hobbit in persona, dovette fare appello a tutto il suo rispetto per Mel per impedirsi di saltellare e lanciare gridolini.
«Cos’è successo?» chiese Benedict, appena entrato, la preoccupazione stampata in volto, posando la mano sul braccio di Mel. Lei lo guardò interdetta per un secondo, spostando lo sguardo da lui a Martin. Benedict se ne accorse, e si affrettò a fare le presentazioni.
«Ah, giusto. Martin, loro sono Mel, Bernadette…»
«Bernie.»
«Sì, Bernie, e Ned. Lui è Martin.» Bernie e Ned fecero appena in tempo ad alzare una mano e abbozzare un goffo sorriso, che Benedict era tornato alla carica. «Cos’è questo messaggio?»
Mel gli tese il cellulare e Benedict lesse.
Lo scandalo non è in Boemia, ma il tuo amico Leo ti aspetta. Fai presto.
«È sempre l’anonimo?»
Mel annuì.
«Non riesco a vedere il numero, né rispondere o richiamare. Ma non mi aveva mai detto di fare presto, che vuol dire?»
Benedict batté ritmicamente il piede sul pavimento, riflettendo. Martin incrociò le braccia sul petto, assumendo la stessa espressione preoccupata e pensierosa di Ned e Bernie, tutti in piedi nel soggiorno.
«Lo scandalo non è in Boemia…»
«Uno Scandalo in Boemia è un racconto di Sherlock Holmes, nei libri» disse Ned.
«Giusto! E noi abbiamo girato Scandalo a Belgravia, nella seconda stagione di Sherlock!» disse Benedict, indicando il ragazzo con l’indice. «Non è in Boemia, quindi è a Belgravia, dobbiamo andare lì!»
«Ok, ma la seconda parte?» chiese Bernie, incrociando le braccia a sua volta.
«Il tuo amico Leo… Leonardo da Vinci. Che c’entra Leonardo da Vinci con Belgravia?» disse Mel, guardando Benedict. Lui scosse la testa, affranto. Voleva darle una risposta con tutto il cuore, ma non aveva idea…
«Cosa diamine c’è a Belgravia, è un quartiere residenziale di ricconi…» disse Bernie, cercando di ricordare se lei ci fosse mai almeno passata.
«Forse è un riferimento all’Italia, c’è l’ambasciata italiana lì? O un ristorante, o una galleria d’arte…» tentò Benedict. Martin scosse la testa vigorosamente, illuminandosi.
«Belgrave Square! È una specie di parco, c’è una statua gigante dell’Uomo Vitruviano!» esclamò, trionfante.
«Muoviamoci» li esortò Benedict, prendendo Mel per mano e correndo verso la porta. «Staremo stretti in macchina, ma non possiamo prendere la metro» annunciò, mentre si precipitavano giù per le scale.
«Perché no?» domandò Bernie, dietro di lui.
«Perché il genio ha avuto la brillante idea di mettersi il cappotto di Sherlock, ha i capelli lunghi perché fra poco iniziamo a girare ed è accompagnato dal dottor Watson» ringhiò Martin, facendo ridere Bernie e Ned e strappando un sorriso anche a Mel. «Direi che non passeremmo inosservati.»
«The game is on, entra nel personaggio e smetti di brontolare!»
«Il mio personaggio brontola un sacco, soprattutto contro Sherlock, se permetti lo conosco bene…»
«Uh, a proposito, come fa Sherlock a tornare vivo? L’ha aiutato Molly e gli Irregolari di Baker Street, vero? E senza Moriarty chi sarà il cattivo adesso? E…»
Bernie lanciò un’occhiataccia al suo ragazzo, ma Benedict e Martin si limitarono a scambiarsi uno sguardo e ridere.
«Non ne abbiamo la più pallida idea neanche noi.»
«Perché secondo me…»
Mel alzò gli occhi al cielo, lasciandosi scappare un sorriso.
 
°°°
 
«Dov’è questa statua?»
«Non lo so, qui da qualche parte…»
«Aspettate, un messaggio!» esclamò Mel, tirando fuori il telefono dalla tasca col cuore in gola. Lo lesse insieme a tutti gli altri, che guardavano da dietro le sue spalle.
Il cuore sta per bruciare. Tic toc.
«Cosa cazzo…» iniziò Martin, tirandosi indietro, spaventato. Mel era sbiancata, gli altri tre erano spaventati.
«Ok, niente panico, magari è solo uno scherzo…» tentò Benedict, alzando i palmi delle mani. «Stiamo calmi e troviamo questa statua. Io e Mel andiamo da quella parte, voi andate dritti. Non sarà così grande questo posto.»
Gli altri annuirono approvando il piano di Benedict e si divisero. Lui e Mel si incamminarono velocemente lungo la strada alla loro sinistra.
I lampioni iniziavano ad accendersi. Il silenzio li opprimeva, minaccioso.
«Cosa pensi che possano aver…» iniziò lui, senza sapere come continuare.
«Non lo so, non lo so!» esclamò lei, frustrata e preoccupata. «Non so veramente cosa mi sia rimasto che abbia un qualche valore, i miei quadri li hanno presi, e come avrebbero fatto ad entrare? Sono rimasta quasi sempre in casa…»
Benedict affrettò il passo, irato. Sperava davvero di non trovarsi mai fra le mani chi stava facendo tutto questo a Mel, o quella persona si sarebbe trovata in una situazione così spiacevole…
Lo squillo del suo cellulare li fece sobbalzare.
«Martin… Ok, arriviamo. No, non… Arriviamo.»
Chiuse la comunicazione e la guardò.
«È di là, l’hanno trovata.»
Mel avrebbe voluto chiedergli se sapeva cosa fosse successo, ma realizzò mentre correvano indietro che non voleva saperlo.
 
°°°
 
L’uomo annuì, un’espressione di ammirazione e rispetto sul volto.
«Non mi sarei mai aspettato nulla del genere… Onestamente, all’inizio pensavo sarebbe stato un impiccio, invece… Sono colpito» disse lentamente. Aveva un modo particolare di pronunciare le parole, calcando leggermente sulle consonanti e strascicando le vocali.
L’altro uomo si passò due dita nel colletto della camicia, come per allentarla, a disagio.
«Sì, ecco… Deve rimanere fra noi che gliel’ho detto. Non avrei dovuto, ecco, però non volevo… Avevo paura che, insomma…»
«Capisco, non c’è bisogno di dire nulla. So quando essere discreto a mia volta. Ma terrò un occhio aperto. È certamente… interessante. Sa, devono esserci emozioni fortissime dietro le sue azioni… Ammirevole, davvero.»
L’altro deglutì, spaventato. Un vaso di terracotta fra botti di ferro.
 
°°°
 
Nessuno di loro l’aveva mai vista così. Mel tremava, e l’intensità della sua rabbia, vergogna e paura le aveva creato il vuoto attorno e fatto salire le lacrime agli occhi. Gli altri le stavano lontani, timorosi, come se potessero venire scottati da quelle emozioni violente.
Martin, Ned e Brnie avevano fatto il possibile per salvare il salvabile, ma ormai il danno era fatto. Quando Mel e Benedict erano arrivati, il fuoco si era già mangiato la parte inferiore del dipinto, che era strappato in più punti.
Un grande ritratto di Benedict – busto, grandezza naturale se non più grande, tempera e acrilico su stoffa, niente di pregiato, fatto di fretta, ma straordinariamente somigliante. Una scritta, in giallo, copriva il petto e parte del volto: falso. Il ritratto era incastrato fra il quadrato e il cerchio della statua dell’Uomo Vitruviano, coprendole la testa e parte delle spalle, e qualcuno gli aveva dato fuoco.
Era una copia maldestra del ritratto che lei gli aveva fatto e che le avevano rubato – sarebbe dovuta essere una sorpresa per lui, una specie di regalo, una cosa intima e preziosa, solo per loro, per suggellare la strana amicizia che avevano costruito. E invece.
Il cuore sta per bruciare.
Oh, metafore. Non le erano mai piaciute.
Benedict la strinse fra le braccia, nel tentativo di proteggerla.
 
 
Martin si guardò intorno, nervoso.
«Possibile che non ci sia nessuno che abbia visto niente in questo stramaledettissimo parco?» disse, frustrato, camminando davanti alla panchina su cui erano seduti gli altri, scrutando il parco deserto.
«Anche se ci fossero farebbero finta di niente: siamo inglesi» commentò Benedict, amaramente. Ned si massaggiò la tempia con le dita, guardando il dipinto ripiegato poco distante da lui.
«Dovremmo denunciarlo alla polizia. Se non altro per la storia dei messaggi anonimi.»
Gli altri annuirono e Benedict tirò fuori il cellulare. Pochi secondi dopo si alzò e si allontanò per parlare con l’Ispettore.
Mentre gli altri tre parlottavano a bassa voce, spaventati e irati al tempo stesso, Mel rimase in silenzio, guardando la schiena dritta di Benedict. Perché fare una cosa simile? Che volevano dire? Cosa volevano da lei? Chi era stato? Poteva pensare ad alcuni nomi, ma non voleva, perché faceva male. Non poté evitare di pensare che sembrava un attacco in qualche modo diretto anche a lui, il che la fece sentire ancora peggio. Si prese la testa fra le mani, serrando gli occhi. Le sembrava di essere in un incubo, l’unica cosa che voleva era svegliarsi…
Scattò in piedi e raggiunse Benedict, le braccia incrociate sul petto. Probabilmente Bernie, Ned e Martin in quel momento la stavano guardando come si guarda un animale pericoloso, ma si impose di non pensarci. Ah, era stato un piacere conoscere Martin, fra parentesi, anche se non poteva dire lo stesso per lui; del resto, non è che si fossero parlati granché. O del tutto.
Benedict chiuse la telefonata e ripose il cellulare. Posò lo sguardo accigliato sulla statua dell’opera di Leonardo, pochi metri alla loro destra, come se fosse colpa sua. Poi, con un sospiro, si voltò verso Mel e la accolse fra le sue braccia. Era così piccola che scompariva.
Falso.
In testa, l’espressione folle del suo collega Andrew Scott mentre recitava nei panni di Moriarty, qualche anno prima, a bordo di una piscina.
I’ll burn the heart out of you.
Strinse Mel più forte, strizzando gli occhi.
Falso, falso, falso. Benedict è un falso.
 
°°°
 
Sabato 6 aprile.
Bruce Gallagher era di Liverpool, e con un cognome come il suo e in una città come quella, non poteva che lavorare in un negozio di dischi, finita la scuola. Dopo il fallimento del negozio, si era trasferito a Londra seguendo la sua banda di amici inseparabili sulla loro Ford sgangherata. Mentre loro studiavano alla UCL seguendo le loro chimere, lui, ancora all’oscuro di quale fosse la sua strada nella vita, aveva trovato posto in un Hard Rock Café, per ingannare l’attesa. Lì aveva conosciuto Mel, all’epoca diciassettenne, e le aveva servito un caffè alla cannella. Lei lo aveva guardato da sotto in su e l’aveva invitato a sedersi con lei. Lui aveva sorriso e da lì era iniziata.
Forse era stato il fascino dell’aria da artista fallito, boheme, la barba ispida, l’orecchino, il sorriso sghembo che gli visitava continuamente il bel viso, la maturità dei suoi diciannove anni.
Mel era caduta.
Curiosamente, era a lui che doveva la sua passione per l’arte. Le era sempre piaciuta, chiaro, ma non l’aveva mai presa sul serio. Aveva iniziato a frequentarlo e contemporaneamente a disegnare. Aveva scoperto di essere piuttosto brava, considerando che non disegnava dai tempi delle elementari, quindi aveva perseverato. Il suo rapporto con Bruce si intensificava mentre lei si addentrava nel carboncino, nell’acquerello, nell’olio e dilapidava i suoi risparmi in manuali e materiali. Ormai, come Bruce, l’arte era entrata in lei e non aveva intenzione di uscire, si era annidata lì, sottopelle. Aveva dovuto strappare via Bruce, alla fine, per sopravvivere, ed era stato doloroso. Ma era rimasto più spazio per tele e pennelli, poi.
Erano stati insieme per più di un anno – mesi burrascosi, a tratti bui e nebbiosi; Mel aveva fatto cose che né lei né chiunque la conoscesse avrebbe mai sognato potesse fare. Anche dopo essersi allontanati, la sua ombra aveva continuato ad incombere su di lei per tantissimo tempo.
Si erano amati, si erano odiati.
Bruce aveva saputo, tramite echi di voci di amici comuni, che Mel non l’aveva mai perdonato, che si era trasferita dall’altra parte di Londra e aveva tagliato i ponti con quasi tutti quelli che conosceva, con la sua stessa famiglia, per non avere mai più niente a che fare con lui.
 
Con il suo solito ghigno, Bruce suonò il campanello. 








 

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Capitolo 7
*** Echi di voci di amici ***


Hello people!
Sono tornata prima del previsto, con un capitolo piuttosto discorsivo e sconclusionato, temo, ma mi sembrava necessario. 
Un grazie sentito a chi legge, in particolare alle meravigliose ragazze che hanno recensito e preferito - siete un motivo per continuare.
Spero di non deludervi, a presto!
-Clock




 
 
 
 
Capitolo 7
Echi di voci di amici
 
 
 
Sabato 6 aprile.
Matisse fece capolino nel soggiorno, saggiando l’aria, guardingo. Se i suoi muscoli facciali glielo avessero consentito, avrebbe storto il naso.
Cartoni di pizza giacevano a terra accanto a lattine solitarie. Erano sparse qua e là una borsa, giacche, scarpe, un pacchetto vuoto di sigarette, il blocco da disegno. Mel dormiva sul divano: originariamente doveva essere stata seduta, ma era scivolata in basso, allungando le gambe e finendo con le testa poggiata sul petto dell’uomo che, a sua volta, le aveva poggiato la testa in grembo e dormiva supino con le gambe ben oltre il bracciolo del divano. La televisione era ancora accesa, senza volume.
Il gatto voltò sdegnosamente le spalle alla scena desolante e se ne tornò nella camera di Mel quando il campanello squillò, oltraggiante.
Mel si tirò su grugnendo, cercando, per quanto potesse, di non disturbare Benedict, apparentemente sordo al trillo del campanello. Ruotò il collo indolenzito, strizzando gli occhi, scacciando gli ultimi brandelli dei sogni agitati che l’avevano perseguitata fino a quel momento.
Si alzò, infilò un cuscino sotto la testa di Benedict e si trascinò fino alla porta, maledicendo chiunque fosse che arrivava alle…
Controllò l’orologio.
Undici di sabato mattina. Ok, l’orario era ragionevole, erano loro due i pigri che meritavano di essere puniti.
Aprì la porta stropicciandosi gli occhi miopi, ma la persona che attendeva oltre questa, con un sorriso sghembo e i capelli arruffati ad arte, la svegliò di colpo meglio di una doccia fredda.
« Bruce? Porca miseria!»
«Buongiorno, Mellie, vedo che non hai perso le buone abitudini» sorrise il ragazzo, rivolgendole un’occhiata inquisitoria da capo a piedi. «E sei sempre più bella.»
Mel si irrigidì, la faccia una maschera di pietra. Gli sbatté la porta in faccia.
Chiuse gli occhi e strinse i denti mentre un altro trillo le trapanava le orecchie. Sentì Benedict muoversi nella stanza accanto, quindi riaprì la porta di scatto.
«Sparisci» sibilò. Lui sogghignò.
«Altrimenti? E perché parli a bassa voce, chi c’è? Il tuo nuovo ragazzo?» fece, beffardo.
«Quanto vorrei prenderti a schiaffi, adesso…»
Lui rise, innervosendola ancora di più.
«Chi ti ha fatto entrare? La signora Hemingway?» chiese lei.
«Chi, la vecchietta con gli occhiali?»
Mel roteò gli occhi.
«Dovevo immaginarlo. Be’, non è stato un piacere rivederti, ora puoi andartene.»
«Ma io non voglio andarmene!» rise lui, appoggiandosi con una mano allo stipite della porta, guardandola sempre con il suo sorriso ammaliante. Non era cambiato di una virgola.
«E che sei venuto a fare?»
Si strinse nelle spalle.
«Non si può salutare una vecchia amica?»
«Io non sono tua amica, e ora fammi il favore di andartene dalla mia porta. Non voglio più vederti, Bruce, mai più. Vattene» disse, guardandolo negli occhi, estremamente seria. Lui indietreggiò di un passo, sollevando i palmi della mani.
«Come vuoi, non insisto. Volevo chiedere il tuo perdono e dimostrarti che sono cambiato e inizierò lasciandoti il tuo spazio e comprendendo il tuo stato d’animo.»
«Oh, ti sei messo a fare psicologia, adesso?» lo schernì lei, incrociando le braccia. Lui abbassò la testa.
«Mi trovi al 47 di Partington Road, Camden Town, in caso cambiassi idea.»
«Aspetta e spera. Addio» disse, secca, chiudendogli la porta in faccia. Attese davanti alla porta, il petto che si alzava e si abbassava affannosamente, finché non sentì i suoi passi allontanarsi giù per le scale. Allora tirò un respiro di sollievo e tornò in soggiorno da Benedict, che continuava a dormire.
Si sedette accanto a lui, sul bracciolo del divano, prendendosi la testa fra le mani. Cosa diamine ci faceva Bruce Gallagher davanti alla sua porta? Come aveva avuto il suo indirizzo, perché l’aveva cercata? Cosa voleva da lei? Erano passati quasi dieci anni, perché adesso, proprio adesso, saltava fuori di nuovo? Tutta una serie di ricordi le sfilò davanti agli occhi, impietosa. Li chiuse forte e scosse la testa. Non voleva, non doveva pensarci, era una storia passata, finita. O forse no? (Era venuto a bussare alla sua porta. E il petto le faceva curiosamente male.)
Si voltò verso Benedict e gli passò una mano fra i capelli ondulati. Il gesto la calmò completamente. Osservò il suo viso addormentato e le sembrò di essere a un passo dal Paradiso – se mai esisteva, doveva essere qualcosa del genere.
Bruce probabilmente usciva adesso dal palazzo e, chissà, magari si era voltato indietro verso la sua finestra, se si fosse affacciata sarebbe stato lì… Scosse la testa, tornando ad accarezzare Benedict, sentendosi improvvisamente in colpa. Forse non meritava di stare lì, sicuramente qualcun altro era degno più di lei di godere della compagnia di un uomo simile, tanta fortuna non era per lei, ma era così confortante, per quanto egoistico, averlo lì accanto a lei… Gli era così grata.
Benedict sorrise.
«Buongiorno» mormorò, senza aprire gli occhi.
«Buongiorno a te. Dormito bene?»
Lui aprì gli occhi e si tirò su, lasciandole un bacio veloce sulle labbra.
«Benissimo» mormorò, con l’aria di chi è reduce da una battaglia. Mel lo guardò scettica.
«Ero sarcastica.»
Benedict lasciò cadere le spalle che aveva raddrizzato con immenso dolore dei suoi muscoli e si massaggiò la base della schiena.
«Ok, ho la schiena a pezzi. Ma non importa» disse sorridendo, sempre con quella voce bassa e morbida che Mel suppose fosse normale appena sveglio. Si appoggiò allo schienale del divano, chiudendo gli occhi.
«Che ore sono?»
«Le undici.»
«Le undici?» spalancò gli occhi e si drizzò. «Dovevo andare a pranzo da Martin, con tutta la famiglia... A che ora ci siamo addormentati ieri?»
«Tu alle due, io un po’ più tardi.»
Non riuscì a dirgli che nemmeno la sua presenza era riuscita a calmarla, ad allontanare i brutti pensieri dalla sua mente e che si era svegliata e riaddormentata innumerevoli volte.
Benedict scosse la testa, ricordando la stanchezza, la rabbia, la paura e la frustrazione che li avevano accompagnati la sera prima e spinti ad addormentarsi abbracciati davanti alla televisione.
Che tristezza. Martin ha ragione a dire che sei vecchio.
«Io invece erano secoli che non mi alzavo così tardi e dormivo nove ore filate. E stavo anche su un divano scomodo.»
Mel sorrise, alzandosi.
«Hai tempo di fare colazione? C’è della frutta, dei cereali e forse un po’ di pane e marmellata…»
«Certo, qualsiasi cosa andrà benissimo. Dovevo andare verso l’una, farò in tempo.»
Usarono a turno il bagno e Mel si cambiò i vestiti stropicciati della sera prima, per poi dedicarsi alla colazione. O almeno, ci provò.
«Ti taglierai un dito, sta ferma!»
Benedict le tolse gentilmente il coltello e la pera di mano.
«Fatti in là, prendi i cereali. Hai dello yogurt?»
Mel controllò nel frigo e trovò due vasetti di yogurt bianco.
«Perfetto» sorrise Benedict, sbucciando la pera e tagliandola a spicchi. «Ora prendi due tazze o due ciotoline e mettici lo yogurt e i cereali.»
Mel eseguì in silenzio, concentrata.
«McConaghan ha scritto che possiamo passare in centrale verso le tre, comunque, per lasciare una dichiarazione sulla storia dei messaggi e del dipinto.»
Mel annuì, posando le due ciotoline accanto a lui. Benedict vi lasciò cadere dentro i pezzetti di pera, passando poi ad occuparsi delle prugne e di una mela.
«Chi era prima alla porta?»
Mel sussultò.
«Hai sentito?»
«Il campanello mi ha svegliato» rispose Benedict con semplicità, guardandola. Lei abbassò lo sguardo e si strinse nelle spalle.
«Nessuno, avevano sbagliato piano.»
Benedict corrugò le sopracciglia.
«Mi sembrava che aveste…»
«Ehi, dov’è Matisse? È da ieri sera che non lo vedo» lo interruppe precipitosamente la ragazza.
«L’ultima volta l’ho visto che entrava nell’altra stanza.»
«Sì, in camera, vado a vedere, torno subito.»
Benedict continuò a guardarla, sospettoso. Perché gli mentiva? Chi era alla porta, perché non voleva parlargliene? Tornò alle sue prugne, accigliato.
 
Bruce, dalla strada, si voltò verso quella che supponeva la finestra di Mel, pensieroso. Poi salì sull’autobus verso Camden.
 
°°°
 
Strofinò il dischetto di cotone sull’occhio, eliminando gli ultimi rimasugli di trucco. Sbatté le palpebre, gli occhi leggermente irritati per colpa dello struccante, e incrociò il suo riflesso allo specchio. Abbassò subito gli occhi, riponendo le sue cose nella borsa e alzandosi.
«Ci vediamo lunedì, splendore!» le urlò dietro Pedro, dalla sua postazione dietro la macchina fotografica, alle prese con una nuova ragazza. Lei sventolò una mano nella sua direzione, sforzandosi di sorridere.
«A lunedì, bellezza, e non fare tardi, mi raccomando» ghignò Dan, dandole una pacca sul sedere mentre passava. Ruth lo fulminò con lo sguardo, scansandosi, ma non poté fare altro – era il suo capo. Si chiuse la porta lasciandosi alle spalle la risata viscida dell’uomo, assaporando il tepore della tarda mattinata.
Camminando verso la fermata dell’autobus, si accese una sigaretta, cercando di non pensare a quanto fosse squallido il suo lavoro: posare per un fotografo messicano gay che tentava di svendere i suoi scatti banali a un viscido grassone che giocava a fare il playboy, direttore di una rivista di moda da quattro soldi.
Soffocò una risata amara.
Mel aveva passato un’adolescenza da cani, aveva iniziato a dipingere tardi, si era diplomata in un’accademia prestigiosa, aveva vinto una borsa di studio, avrebbe allestito una mostra e usciva con un attore famoso.
Lei aveva avuto un’infanzia e un’adolescenza splendide, aveva vinto concorsi di disegno da quando era bambina, si era diplomata senza difficoltà, aveva avuto decine di ragazzi, e adesso si ritrovava a fare la modella sottopagata. Ah, l’ironia.
Si sedette sulla panchina sotto la tettoia della fermata, accanto a una coppia di turisti tedeschi, tirando fuori il cellulare.
«Mel? Ciao, come va? Bernie mi ha detto di ieri, mi dispiace così tanto…» Gettò la cicca a terra e osservò il suo piede calpestarla.
«Sei da sola? Ti va se andiamo a pranzo insieme? Soho? Ok, ci vediamo lì, a dopo.»
Un autobus si fermò davanti a lei.
 
°°°
 
La piccola creatura bionda in braccio a lui alzò il viso.
«Come si chiama la tua fidanzata?»
Benedict la guardò stupito, producendo un poco elegante «Eh?»
Amanda ridacchiò, mentre Martin riprendeva sua figlia con un irato «Grace!»
La bambina ignorò entrambi e non staccò gli occhi da quelli di Benedict.
«Ieri sera mamma e papà hanno detto che hai una fidanzata. Come si chiama?»
«Non avresti dovuto sentire!» protestò Martin.
«Be’, lei non è proprio una fidanzata…» iniziò Benedict.
«Vi sposerete? E farete tanti bambini?»
«Grace, adesso basta» disse Martin, serio, mentre Amanda rideva nascondendosi nel tovagliolo e Joe, il più grande, guardava la sorella minore con disgusto e Benedict quasi con delusione – pensava che lo zio Ben fosse troppo figo per tutta questa roba da ragazze, e invece...
Benedict si arrese.
«Si chiama Melancholia, ma tutti la chiamano Mel.»
Aveva sperato invano che avrebbero sorvolato sulla storia di Mel, quel giorno, ma apparentemente Martin aveva raccontato alla moglie quello che era successo il pomeriggio prima.
La bambina arricciò il naso.
«Che nome buffo. Come il tuo» affermò, per poi sistemarsi più comodamente sulle gambe dell’uomo e giocherellare con l’orlo della gonna.
Amanda aggrottò le sopracciglia.
«Melancholia? È di Londra?»
Benedict la guardò sorpreso.
«A quanto ne so, sì. Perché?»
Lei guardò Martin, come se potesse ritrovare la risposta sul suo viso perplesso.
«Non vorrei sbagliarmi, ma… Mia nipote ha fatto le superiori alla Acland Burghley, a Camden, e aveva sentito parlare di una ragazza che si chiamava Melancholia, se la ricorda per il nome particolare.»
Benedict corrugò le sopracciglia.
«E cosa aveva sentito dire?»
Amanda si mosse a disagio sulla sedia, sempre guardando Martin. Lui sembrò capire e si alzò da tavola, facendo cenno a suo figlio di imitarlo.
«Bambini, perché non andate a giocare in camera per un po’ e lasciate i grandi a chiacchierare?»
«No, io voglio stare con zio Ben!» protestò Grace, sbattendo i pugnetti sulle gambe.
«Se fai la brava, fra un po’ Ben giocherà con te, va bene?» promise Martin, tirandola giù dalle gambe dell’amico. Lei lo guardò sgranando gli occhi.
«Lo prometti, zio Ben?»
Lui le sorrise con tenerezza, sebbene una linea di preoccupazione per quello che Amanda aveva detto gli solcasse la fronte. Promise con tanto di mano sul cuore, ma la bambina non fu soddisfatta finché non ebbero suggellato la promessa stringendosi i mignoli. Amanda, intanto, aveva finito di sparecchiare e portato dentro il caffè.
«Ti adora, sai?» sorrise. Benedict le sorrise di rimando.
«È ricambiata, insieme al fratello. Adoro i bambini.»
«Dovrai giocare al detective con tutte e due, preparati» annunciò Martin, tornando nella sala da pranzo e chiudendosi la porta alle spalle. Benedict annuì, la mente altrove.
«Cosa stavi dicendo, prima?» domandò ad Amanda, mentre questa serviva il caffè. Lei finì di sistemare le tazzine e si risedette prima di parlare.
«Non voglio spettegolare, e non so quanto attendibile possa essere, è una specie di voce di corridoio, temo, ma, ecco… Mia nipote mi ha detto di questa ragazza che, circa dieci anni fa, quando mia nipote era al primo anno e questa ragazza all’ultimo, era, diciamo, famosa per, ecco…»
«Sei una racconta-storie pessima, lasciatelo dire, tesoro» commentò Martin, girando il cucchiaino nel suo caffè. Amanda gli diede una gomitata e lo rimproverò con lo sguardo, poi inspirò e riprese.
«Insomma, c’era questa ragazza, temo proprio la tua Melancholia, che a metà dell’ultimo anno aveva lasciato la scuola, per poi tornarci e ripetere l’anno in autunno. E dicevano che l’avesse fatto perché… Beh, ma sono soltanto voci, e forse non parliamo nemmeno della stessa persona…» tentennò, senza guardare Benedict negli occhi.
«Amanda» la esortò lui, il cuore che batteva nervoso. «Per favore.»
«E va bene.» Trasse l’ennesimo respiro. «Dicevano che fosse finita in un centro di riabilitazione per tossicodipendenti.»
 
°°°
 
«Bernie mi ha detto…»
«Non voglio parlarne» disse, più aspramente di quanto avrebbe voluto. «Se non ti dispiace.»
«No, figurati.»
Mel abbassò lo sguardo sul menù, senza realmente vederlo. Lo posò irritata.
«Hai già scelto?» chiese Ruth, guardandola da sopra il suo menù.
«Spaghetti di soia con gamberi, come al solito. Tu?»
«Prenderò quelli con il pollo.»
Mel annuì, lasciando vagare lo sguardo sul resto dei tavolini esterni del locale in cui stavano pranzando.
«È venuto Bruce stamattina.»
Ruth spalancò gli occhi.
«Bruce Gallagher? E che voleva?»
Mel si strinse nelle spalle.
«Non lo so. “Salutare una vecchia amica”. Come no. Non lo so, non so che pensare. Sono dieci anni che non lo vedo, e mi va benissimo così. Adesso mi spunta fuori e c’era Ben nell’altra stanza…»
«Si sono incontrati?» chiese l’altra, giocherellando con il menù.
«No, per fortuna. Ben non sa niente.»
Ruth sollevò le sopracciglia sorpresa, guardandola.
«Non gli hai detto niente?»
«No, ed è meglio che non sappia mai niente.»
«Mel…»
«Sì, sì, va bene, le bugie avranno pure le gambe corte ma non voglio che Bruce mi rovini la vita un’altra volta! Le cose con Ben andavano così bene…»
Ruth abbassò lo sguardo e Mel la sentì muovere le gambe nervosamente e darle un calcio senza volere. Piegò il capo di lato e corrugò le sopracciglia.
«Ruth, va tutto bene?»
«Mh? Sì, perché non dovrebbe?» fece lei.
«Non so.» Abbassò lo sguardo, giocherellando con le bacchette. «Forse ho fatto qualcosa che ti ha dato fastidio? C’entra Ben, magari?»
Si rendeva conto, dopo aver fatto un giro la notte prima su social network e siti simili, mentre Ben dormiva, che l’uomo aveva una nutrita cerchia di fan a dir poco assatanate e che era un bersaglio molto ambito da parte della popolazione femminile del pianeta. Era presunzione, da parte sua, pensare che anche a Ruth potesse piacere?
«Benedict? Non capisco, che vuoi dire?» disse Ruth, unendo le mani in grembo.
«Insomma, non è che… Boh, visto che è un attore noto, magari a te, non so, piace o qualcosa…»
«No» sorrise Ruth, sincera. «Puoi star certa che non mi piace, almeno non in quel senso, e sono felice per te.»
«Allora non sei... Boh, gelosa?»
Ruth sbatté lentamente le palpebre una volta.
«Puoi star certa di no.»
Anzi, aggiunse mentalmente.
Mel annuì, sollevata, mentre un cameriere si avvicinava per prendere le loro ordinazioni.
 
°°°
 
Benedict sentì il mondo chiuderglisi addosso. Deglutì a fatica.
«Tossicodipendente?»
Amanda si passò la lingua sulle labbra, sentendosi in colpa.
«Forse non avrei dovuto dirtelo, forse non è nemmeno vero…»
«Hai fatto bene, invece» interloquì Martin, scuro in volto. «Odio dovertelo dire, Ben, ma…»
«Non dire che me l’avevi detto» disse fra i denti l’altro. Amanda si stropicciò le mani, dimentica del suo caffè ormai freddo. Le mani di Ben tremavano impercettibilmente, chiuse a pugno; le nocche di Martin erano bianche.
«Mi dispiace, Ben…» iniziò la donna, ma lui la fermò con un cenno della testa.
«Va tutto bene, Amanda, non è mica colpa tua.»
Martin incrociò le braccia al petto, lasciandosi andare sullo schienale.
«Devi parlarle. Potrebbe essere davvero…»
«Va bene, ma in fondo non ha tanta importanza, no? Voglio dire, sono passati dieci anni.»
«Mh. E allora perché non te ne avrebbe parlato? Sono passati dieci anni, se fosse una storia vecchia e sepolta non avrebbe avuto problemi a parlartene, no?» disse Martin.
«Non è qualcosa che confidi al primo arrivato…»
«Ma tu non sei il primo arrivato, anzi. Vi conoscete da tempo, no?, state insieme, passi la notte da lei…»
«Non è come pensi…»
«Non ti sei rifatto la barba e i tuoi capelli fanno pena, hai le scarpe e i pantaloni di ieri e due occhiaie grandi così, non ci vuole tanto, Sherlock.»
«Non sai di che parli, smetti di credere di darmi lezioni…»
«Io sto solo cercando di guardarti le spalle, visto che tu sei così idiota da-»
«Nessuno ti ha chiesto niente, posso benissimo-»
«Lei ti sta usando per i tuoi soldi, non è difficile da capire-»
«Tu non sai niente di lei.»
«A quanto pare nemmeno tu!»
I due uomini si guardarono, ansimando leggermente. Amanda deglutì, spostando lo sguardo da uno all’altro.
La cosa peggiore era che non aveva ancora finito di parlare. Ma forse avrebbe rimandato ad un’altra volta.
 
°°°
 
La signora si sistemò il giacchetto color indaco, raddrizzando le spalle, e diede un’ultima aggiustata al fiocco della scatola di biscotti. Poi suonò il campanello. Benedict le aveva detto che nel primo pomeriggio Mel sarebbe stata alla centrale di polizia per gli avvenimenti del giorno prima, e che lui non avrebbe potuto accompagnarla perché aveva avuto un imprevisto in Sherlock – cosa che a sua madre puzzava molto di scusa –, ma supponeva che sarebbe stata in casa più tardi. Wanda non aveva voluto fare altre domande, perché Benedict sembrava piuttosto di malumore e quand’era così tendeva a chiudersi in sé stesso e parlare solo dopo un po’, quando aveva metabolizzato il tutto, se aveva voglia. Nel frattempo, Wanda, a cui non era mai piaciuto starsene con le mani in mano, aveva impastato e infornato una teglia di biscotti, per poi riporli in una scatoletta infiocchettata appena in tempo per l’ora del tè.
«’Sera. Come posso aiutarla?»
La donna alzò gli occhi verso la ragazza davanti a lei. Le rughe d’espressione intorno ai penetranti occhi azzurri divennero più marcate quando sorrise.
«Ti piace la cannella, cara?»
 






 

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Capitolo 8
*** Linea disturbata a Camden Town ***


Buon non compleanno a tutti.
Temevo di non farcela e invece sono qui con un nuovo capitolo sbucato fuori dal nulla mentre cercavo di fare altro (yeah).
Parlando della storia, ho due notizie: non manca molto alla fine (salvo imprevisti e rivolte di personaggi) ma sarò via per un mese senza alcuna possibilità di aggiornare; decidete voi quale notizia è buona e quale cattiva.
Infine, un enorme grazie fluffoloso a tutte le meravigliose persone che seguono/preferiscono/recensiscono. Davvero, non so come ringraziarvi. Mi dispiace davvero immensamente dovervi lasciare per tanto tempo senza aggiornamenti, ma non posso fare altro purtroppo.
Spero di non deludervi! =)
-Clock



 
Capitolo 8
Linea disturbata a Camden Town
 
 
 
Non era tanto la cosa in sé che lo tormentava, quanto il fatto che non gliel’avesse detto. Perché? Temeva che lui si sarebbe allontanato per una storia di tanti anni prima? Che si sarebbe scandalizzato? Andiamo, pensava sapesse che era un uomo di miglior giudizio.
Non si fidava di lui, era questa la verità, alla fine, ed era fottutamente dolorosa. Perché lui si era fidato. Si era buttato in esplorazione, aveva corso giù per il pendio – da bravo idiota –, si era preso un bel tronco in fronte e adesso non gli restava che leccarsi le ferite.
Forse Martin aveva ragione, dopo tutto, forse voleva davvero approfittare della sua fama. Ma no, era assolutamente impossibile. Aveva risolto con Martin, alla fine, grazie anche all’intervento di Amanda, ma si rifiutava di credere alle sue parole, anche se queste continuavano a ronzargli in testa.
Rimanere da Mel, la sera prima, aveva significato tanto per lui. Non perché avessero fatto niente di particolare – anzi, proprio per questo. Si era sentito parte della sua vita, parte di quella casa, al suo posto. Avevano passato una serata di una banalità quotidiana terribile e Benedict aveva avuto l’impressione che fosse perfettamente naturale, aveva scorto l’immagine di molte altre serate simili che li aspettavano, nell’ordine naturale delle cose. Abbracciato a quella ragazza, davanti ad un film banale che nessuno dei due seguiva, con un cartone della pizza sulle ginocchia, Benedict era stato felice di una felicità totale e completa, rilassante. Per questo aveva dormito tanto a lungo, nonostante tutto quello che era successo appena poche ore prima, perché si era sentito a casa, al caldo, come un bambino.
E adesso scopriva che, come al solito, si era perso in fantasticherie e la vita era venuta a schiaffargli la verità in faccia.
Spense la sigaretta sul davanzale e gettò la cicca nel posacenere. Inspirò un’ultima volta, poi prese il posacenere e richiuse la finestra. Lasciò l’oggetto sul tavolino e si gettò supino sul divano, ad occhi chiusi.
Doveva fare qualcosa. Parlarle.
Sì e che le dici? “Ehi, ciao, ho sentito che ti drogavi. Dimmi, è vero?”
Mh. Forse poteva prendere la cosa più alla larga, arrivarci per vie traverse…
Sì, certo. “Sai, un mio amico faceva uso di sostanze stupefacenti. Non è che, per caso, anche tu…?”
No.
Puoi sempre ubriacarla e farla parlare. O attaccarla a una macchina della verità. O prendere in ostaggio il gatto e ricattarla, o…
No. Non c’era molto da fare, in verità, e, a dirla tutta, non voleva nemmeno obbligarla a confidarsi con lui. Gli teneva segreti? Bene, se ne sarebbe pentita, prima o poi, ma nel frattempo lui non poteva starle dietro come un cagnolino fedele.
Per fortuna le riprese della terza stagione di Sherlock sarebbero iniziate lunedì, così sarebbe stato impegnato, non avrebbe pensato a lei e avrebbe avuto poche occasioni di vederla. A ben pensare, in una sola settimana erano successe così tante cose, così tante erano cambiate. Bisognava fermarsi a prendere un respiro. Un po’ di tempo lontani avrebbe fatto bene a entrambi. Non aveva intenzione di ignorarla o tenerle il muso, no, solo guardarsi intorno, capire come stavano davvero le cose, come si sentivano. Era tempo di fare un po’ lo stronzo. Non era da lui, ma…
Alle ragazze piacciono gli stronzi.
Da quando in qua?
Lo sanno tutti, dove diamine vivi?
Guarda che sei nella mia testa.
Gne gne gne.
Idiota.
Saputello.
Chiuse gli occhi e scosse la testa. Se la situazione con la sua voce interiore andava avanti così, avrebbe dovuto vedere un analista, prima o poi, altroché.
 
°°°
 
Il gatto la scrutò assottigliando gli occhi. La signora si chinò verso di lui.
«Come si chiama questo bel micio?»
«Cos-? Ah, lui è Matisse» rispose Mel, dalla cucina, per poi voltarsi di nuovo verso i fornelli, preoccupata. Wanda colse il suo nervosismo e si alzò dal divano, andando verso di lei. Con la stessa gentilezza che Benedict le aveva usato quella mattina, la allontanò dal fornello e si occupò del tè, senza dire una parola, muovendosi sicura.
«Ecco fatto, cara. Vieni a sederti, mentre si prepara.»
Mel annuì e la seguì. Matisse saltò sul divano fra le due e si avvicinò a Mel, continuando a guardare circospetto l’altra donna.
«Le dà fastidio? Lo caccio via?» chiese Mel.
«No, affatto.»
La ragazza annuì, osservando la donna aprire la scatola e rivelare i biscotti all’interno che sparsero un profumo invitante. Scattò in piedi a prendere un piatto e ve li mise dentro.
Si morse il labbro, nel silenzio scomodo, non osando chiedere alla signora cosa fosse venuta a fare.
«Benedict mi ha detto che siete diventati piuttosto… amici» iniziò Wanda, prendendo un biscotto.
«Sì» disse Mel, senza guardarla.
«Oh, ti prego, sta tranquilla, cara. Non voglio mettermi in mezzo a voi due: avevo il pomeriggio libero ed ero curiosa di conoscerti, tutto qui. Se sei in imbarazzo tolgo il disturbo» disse la donna, sorridendo benevola.
«Oh, no, non se ne vada» si affrettò a dire Mel, alzando finalmente gli occhi. «Scusi se non parlo tanto come al solito, è che sono un po’ giù questi giorni, insomma…»
«Non scusarti, cara. Ben mi ha detto tutto.»
Mel annuì. Matisse fece un passo verso l’altra donna.
«So che sei un’artista. Posso vedere qualcosa?»
Mel esitò. Di solito non era molto entusiasta di mostrare le proprie opere al primo sconosciuto che bussava alla sua porta, ma quella signora le ispirava fiducia, dopo tutto. Ed era la madre di Ben. E avevano gli stessi occhi.
Il fischio del bollitore reclamò la loro attenzione mentre Mel mostrava ad un’affascinata Wanda il suo blocco da disegno, le bozze dei quadri che intendeva realizzare e quelli che avrebbe esposto, incrociando le dita, fra tre settimane. Arrossì quando la donna si soffermò sul ritratto di Benedict che aveva iniziato quel giorno al fiume ad Hammersmith.
Tornarono in soggiorno, sistemarono il tè e si sedettero sul divano a berlo, in silenzio.
«Sei molto brava, tesoro, non serve dirtelo» disse piano Wanda, soffiando sul tè. Mel la ringraziò.
«Quel ritratto è magnifico. Ben l’ha visto?»
Mel scosse la testa.
«Non sa niente. Volevo fargli una sorpresa.»
Wanda annuì. Forse stava diventando una vecchietta sentimentale con l’età, ma nessuno avrebbe potuto dipingere un ritratto del genere senza un minimo di affetto o coinvolgimento. Stillava amore da ogni pennellata, dalla precisione del tratto, dalla scelta dei colori, dallo sguardo di Ben dalla tela. La riempiva di gioia che suo figlio avesse trovato qualcuno che lo ritraesse così. Si chiedeva solo se sarebbe stato capace di leggere fra le pennellate e capire, un giorno.
«Sono contenta per voi due. State attenti e rimanete vicini.»
Mel sorrise e annuì. Avvertiva la tenerezza e la dolcezza di una mamma, nelle sue parole, e mancò poco che si commuovesse.
Matisse si avvicinò a Wanda e la guardò come per chiederle il permesso. Lei fece un cenno con il capo e lui le saltò in grembo, acciambellandosi sulla sua gonna scura. Mel spalancò gli occhi quando vide che il gatto aveva chiuso gli occhi e si lasciava carezzare placidamente. Per poco il tè non le andò di traverso quando si accorse che faceva le fusa. Con una persona che aveva conosciuto da quindici minuti!
Mel e Wanda chiacchierarono ininterrottamente, bevvero tè e mangiarono i fragranti biscotti alla cannella.
«Sono deliziosi. Potrei prendere in considerazione l’idea di mettere a rischio la casa e cucinarli.»
«Mettere a rischio?»
«Oh, be’, io e i fornelli non siamo molto a amici. Vado molto più d’accordo con i pompieri, o l’estintore.»
Wanda sgranò gli occhi, leggermente spaventata. Forse non doveva incoraggiare quei due, dopotutto, se teneva all’incolumità di suo figlio.
Mel l’accompagnò alla porta quasi due ore dopo, con la promessa di rivedersi – con o senza Ben.
La ragazza sparecchiò e sistemò il soggiorno sorridendo. La signora Cumberbatch era la cosa più simile ad una madre, una zia, una nonna o una sorella grande che avesse avuto da anni. Ed era una bella sensazione.
 
°°°
 
Mercoledì 10 aprile.
Mel sorrise ma non poté reprimere una fitta di senso di colpa.
Ben era stato piuttosto distante, gli ultimi giorni, si erano visti poco, e adesso lui era a Bristol per girare e sarebbe stato via fino a sabato. La cosa la turbava non poco, ma da un lato era un sollievo non dover continuare a vederlo come se niente fosse. Si pentiva amaramente di avergli mentito su Bruce, quel sabato mattina – la sua espressione dubbiosa continuava a visitarla indesiderata ogni notte –, ma non avrebbe saputo come emendare. Sperava che la lontananza agisse al posto suo.
Nonostante stesse lavorando, le inviava spesso messaggi, anche solo per chiedere come stava, e la cosa la faceva sentire solo peggio. Nessuno era mai stato così premuroso con lei.
Stava per rispondere, quando il cellulare le squillò fra le mani. Aggrottò le sopracciglia. Numero sconosciuto. Imponendosi di mantenere la calma e la voce ferma, raddrizzò la schiena sulla sedia e rispose.
«Pronto?»
«Mel? Sono Bruce.»
Chiuse gli occhi, tornando a respirare e mandandolo mentalmente a quel paese.
«Cosa vuoi?» sputò.
«Ciao, sì, sto bene anche io, grazie dell’interessamento. Tu invece, come te la passi?»
«Smetti di fare il coglione e dimmi cosa vuoi.»
«Solo parlare. Un caffè?»
«Bruce, non capisco perché diamine tutto questo interesse all’improvviso. Non ci sentiamo per dieci anni e poi…»
«Sono tornato a Londra due settimane fa. Ho saputo della mostra, anche se non sono riuscito a venire.»
«E dove sei stato?»
«Sono tornato a Liverpool. Poi ci sono stati un po’ di casini a casa, e sono venuto di nuovo a Londra.»
Mel sbuffò. Tipico di Bruce, scappare dai problemi e far finta di niente.
«Ho messo la testa a posto, però. Ti giuro, Mel, sono cambiato. Non mi faccio più, non fumo, bevo solo a Capodanno. E mi sono messo al lavoro, ho fatto un corso e adesso lavoro in un ristorante. Apprendista, per adesso, ma sto migliorando. Fra qualche anno diventerò cuoco. E mi sono preso un cane.»
«Mh. Vivo o di peluche?» fece, sarcastica e poco impressionata.
«Vivissimo. Allora, un caffè a Camden? Ti ricordi, come faceva quella canzone di Morrissey, Come Back to Camden…» canticchiò. Mel strinse i denti. Conosceva benissimo quella canzone: l’aveva sentita tre volte e aveva pianto tutte e tre le volte.
«Preferisco i gatti.»
Sentì Bruce ridacchiare.
«Ah, non sei cambiata affatto. Ti ricordi l’Elephant
«Certo.»
«Perfetto. Se non hai impegni, potremmo…»
«Venerdì, alle sei.»
«Sapevo che ci sarei riuscito alla fine…» Maledizione, poteva sentirlo sogghignare. «Oh, e dove hai lasciato il fidanzato? Viene anche lui?»
«Chi ti ha dato il mio numero?»
«Ti ricordi la vecchia Sally? La vostra vecchia vicina di casa? È la mia vicina di casa adesso, a lei l’aveva dato tua madre. A proposito, da quant’è che non la vedi, ha detto…»
«Addio.»
Gli riattaccò il telefono in faccia e dovette fare ben più di un paio di respiri profondi prima che le mani smettessero di tremare e la mente fosse sgombra abbastanza per poter rispondere al messaggio di Benedict – cosa che fece con un enorme nodo allo stomaco. Poi gettò il cellulare nella borsa maledicendolo e tornò a lavorare al suo ultimo restauro.
 
°°°
 
Giovedì 11 aprile.
Benedict scosse la testa, sorridendo. Martin lo guardò interrogativo e lui alzò il cellulare.
«Mia madre. È andata a trovare Mel e dice che ha rischiato l’infarto guardando nel suo frigo.»
Martin sorrise piano, abbassando gli occhi sulle sue scarpe. Intorno a loro, tecnici e membri della crew si muovevano indaffarati dando indicazioni alle comparse, fra cui parecchi bambini. Appena Amanda avesse finito al trucco, avrebbero iniziato a girare.
«Non vedo l’ora di vederti finire in un falò» disse Benedict, chino sul telefono. Martin gli lanciò un’occhiata fra il divertito e l’irritato.
«Spiritoso.»
Si dondolò sui talloni, mordendosi il labbro.
«Hai parlato con Mel per… quella cosa?» domandò piano, con aria casuale.
«No.» La voce di Ben, al contrario, era chiara e forte. «Ci rivedremo sabato e allora parleremo, se vorrà. Ma non voglio metterla sotto pressione. Le lascerò il suo tempo.»
Martin annuì e si tenne i suoi commenti per sé, con uno sforzo non indifferente.
Fecero loro cenno di avvicinarsi. Benedict ripose il cellulare e si incamminò verso il centro della piazza con Martin.
«A più tardi, allora, tenterò di salvarti la vita.»
«Niente penny for the guy
«Ops, no.»
«Ahi. Salvami in fretta allora.»
«Vedrò che si può fare.»
Lo guardò allontanarsi verso il regista e Amanda, il lungo cappotto svolazzante dietro di lui.
Sapeva benissimo che Ben era un grande attore, perfettamente capace di nascondere qualunque emozione sotto una maschera di ironia e calma, ma lui era Martin, il Watson del suo Sherlock, lo conosceva come le sue tasche e poteva vedere benissimo il risentimento, la delusione e l’amarezza sotto gli strati di trucco. Ma proprio in virtù della loro amicizia e per il bene del loro lavoro – non era ancora tempo di prenderlo a scazzottate, avrebbero girato quelle scene a Londra, appena tornati – decise di non fare domande.
Tutto sommato, il ruolo del dottor Watson gli veniva particolarmente naturale.
 
°°°
 
Venerdì 12 aprile.
Camden. Erano quasi dieci anni che non ci metteva più piede, dopo averci vissuto per quasi tutta la vita. Aveva dimenticato quanto fosse vivace, colorata, ma, almeno per lei, oscurata da segreti e ricordi seppelliti.
L’Elephant’s Head era rimasto esattamente uguale a come lo ricordava – pieno di gente, rumoroso e con un odore di birra che ti rimaneva addosso per tutto il giorno. Non era più abituata a posti del genere, ormai frequentava poco locali e pub, figurarsi poi affollati e vivaci come l’Elephant.
Bruce le fece un cenno dal tavolo a cui era seduto e lei si avvicinò.
«Mel! È bello vederti.»
«Non posso dire altrettanto.»
Si sedette, infastidita da tutta quella gente e quella musica ad alto volume. Forse un pub a Camden il venerdì sera non era stata esattamente una scelta oculata.
«Facciamo questa cosa in fretta. Che devi dirmi?»
Bruce sorrise.
«Tranquilla. Cos’è, hai da fare? Devi andare via presto?»
«No» rispose lei, a malincuore, incrociando le braccia.
«E allora rilassati» sorrise lui, poggiandosi sullo schienale della sedia e attirando l’attenzione del cameriere.
«Una chiara piccola per me e…»
«Anche per me, grazie.»
Quando il cameriere si fu allontanato, si rivolse a Bruce.
«Pensavo non bevessi più.»
«Oh, andiamo, non vorrai condannarmi per una birretta? E poi, è un’occasione speciale» ammiccò lui.
«Di cosa vuoi parlare, Bruce? Cosa vuoi, perché mi cerchi?» domandò, spazientita.
«Che acidella. Non parlerò del passato, se non vuoi. Volevo solo sapere che vita fai, chi sei diventata…»
«Non sono affari tuoi.»
«Ma che male c’è? Voglio riallacciare il rapporto. Solo… Mi sei mancata, Mel, tutti questi anni.»
Mel inspirò stringendo i denti.
«E va bene. Parliamo
Davanti alla sua birra Mel ritrovò a poco a poco la sua solita loquacità e un po’ della sua esuberanza. Sorrise persino, un paio di volte. Bruce, dal canto suo, tentava di essere meno ironico, invadente e indiscreto possibile – meno Bruce, insomma.
«Stai con qualcuno?» le chiese, alla fine. Era la domanda che, nemmeno troppo sorprendentemente, aveva voluto porle fin dall’inizio. Non perché fosse geloso – qualsiasi tipo di sentimento romantico era stato soffocato da tempo –, ma perché pensasse fosse giusto sapere, per lui. Era curioso di sapere chi si prendeva cura della sua Mel, adesso.
Lei abbassò gli occhi e annuì.
«C’era anche lui sabato mattina? Per questo non mi hai fatto entrare?»
«Non ti avrei fatto entrare comunque.»
Bruce sogghignò.
«Comunque sì, c’era.»
«Ah, stiamo già a livelli alti!»
«Non è come pensi!» lo redarguì lei, dandogli una pacca sul braccio, sorridendo suo malgrado. Lui rise.
«Chi è, cosa fa, come si chiama, quanti anni ha, vivete insieme, da quanto… ?»
«Ma insomma! Offrimi delle patatine e potrei prendere in considerazione l’idea di parlartene» disse lei, alzando il mento.
«Non sei davvero cambiata per niente…» sbuffò lui, per poi accontentarla. Lei sorrise.
Continuarono a parlare mentre la sera calava oltre le finestre e il pub diventava sempre più affollato. Mel gli raccontò dei quadri, spiando la sua reazione. Il ragazzo sgranò gli occhi, poi chiuse i pugni.
«Non è possibile… Chi cazzo può essere così stronzo?»
Mel si strinse nelle spalle, in qualche modo rincuorata. Rimasero in silenzio per qualche minuto.
«Ho parlato con tua madre, l’altro giorno.»
«No.»
«Mel…»
«Ho detto no.»
«Non vi parlate da Natale, è possibile?»
«Non sono fatti tuoi» disse lei, il volto di granito, gli occhi duri. Bruce strinse la mascella.
«È preoccupata da morire. Praticamente non sa più chi sei.»
«Avrebbe potuto occuparsene prima.»
«Mel, non fare la bambina, ormai non hai più motivo per non parlarle, sei solo orgogliosa…»
«Ho detto che non sono fatti tuoi. Ora piantala.»
«Mel…»
«Bruce, smettila! Non sai chi sono, è come se non mi conoscessi più, piantala di dirmi cosa fare, non sai niente!»
Lui abbassò lo sguardo e alzò le mani. Lei inspirò, costringendosi a calmarsi. Guardò l’orologio.
«Comunque devo andare, è tardi, devo chiamare Ben…» disse, iniziando ad alzarsi e a raccogliere la sua borsa.
«Ah, è così che si chiama allora, Ben. Benjamin?»
«Benedict» lo corresse lei, infilandosi la giacca, in colpa. Sentiva di aver profanato qualcosa, pronunciando il suo nome in un luogo del genere, davanti a Bruce. Si diede della stupida e scrollò le spalle.
«Benedict. Che nome pomposo» sogghignò Bruce. Bile filtrò fra le sue vene.
«Mica male, sei passata da un poveraccio di Camden a un riccastro dei quartieri alti, complimenti. Cosa fa, si diletta con un’artista bohémienne nel tempo libero, fra Ascot e l’Opera, con champagne e cucina italiana? Hai scelto bene, chissà che bei regali…» sputò Bruce, prima di potersi trattenere. Mel arrossì di rabbia.
Uno schiaffo sonoro fece voltare più di qualche testa, ma il locale era troppo affollato perché vi si prestasse troppa attenzione.
Bruce si massaggiò la guancia, sfregandosi la barba ispida, gli occhi incollati a quelli furenti della ragazza.
«Parla un’altra volta così di lui…» iniziò Mel, in piedi davanti a lui, la voce tremante, il sangue nelle orecchie, la mano formicolante.
«E cosa? Mi schiaffeggerai di nuovo?» soffiò lui, alzandosi repentinamente e afferrandole un polso, avvicinando il viso a quello della ragazza. Lei trattenne il fiato, mentre la presa di lui si faceva più salda.
«Bruce
Lui assottigliò gli occhi, scrutando in quelli della ragazza, il viso arrossato, e poi la lasciò andare all’improvviso, allontanando la mano come se scottasse. Chiuse gli occhi e respirò.
«Scusami. Non so cosa mi sia preso» mormorò, abbassando le ciglia scure.
«Pensavo davvero fossi cambiato» disse Mel, delusa. «Non farti mai più vedere.»
Si mise la borsa in spalla e uscì.
Bruce si lasciò cadere di nuovo sulla sedia e seppellì il viso fra le mani.
 
 







 

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Capitolo 9
*** Scheletri nell'armadio ***


E sono tornata.
Ciao gente! 
Durante il mese di assenza forzata sono riuscita a scribacchiare qualcosa (buona vecchia penna e sante note del cellulare) che, con l'aggiunta di scene riciclate che vegetavano nel computer, voilà, capitolo nuovo. Capitolo che vi autorizza tranquillamente a gettarmi qualsiasi cosa abbiate a portata di mano, insultarmi, quello che vi pare, così come i prossimi che, prima che mi dimentichi, sono tre, più questo. Sì, siamo quasi alla fine e dato che non voglio rovinare tutto e il tempo libero mi sta scivolando via man mano che si avvicina la scuola, non vi garantisco niente su quando vedranno la luce, scusate.
Un ringraziamento sentito e gigante alle persone che seguono/ricordano/preferiscono/recensiscono - non sarei a questo punto senza di voi - grazie, davvero.
Alla prossima
-Clock



 
Capitolo 9
Scheletri nell’armadio
 
 
 
 
Lunedì 15 aprile.
Aveva finito di lavorare a mezzogiorno e non le aveva inviato nemmeno un messaggio, nonostante fossero quasi le otto.
Fai progressi.
Si sentiva un verme.
Il prezzo di fare lo stronzo.
Nemmeno lei gli aveva scritto, né l’aveva chiamato, a pensarci bene.
Avrà avuto da fare.
Anche lui aveva avuto da fare, con Sherlock.
Non cercare scuse e ammetti che non sei capace di fare lo stronzo. Non riesci nemmeno a liberarti di me.
Sospirò e alzò una mano per attirare l’attenzione del cameriere, ma sentì qualcuno dietro di lui esclamare:
«Ehi! Tu sei il tipo della tv! Sherlock Holmes!»
Benedict si voltò, per cercare la voce maschile che aveva parlato, e si trovò davanti un ragazzo di nemmeno trent’anni, con capelli scarmigliati, un orecchino, una bottiglia di birra e un sorriso un po’ brillo.
«Sì, sono io» sorrise mestamente Benedict.
«Wow, sei un grande, amico. Ti offro una birra?»
«Oh, grazie, molto gentile.»
«Figurati, amico.»
Gli fece spazio al suo tavolo e lo osservò sedersi con movimenti incerti. Il ragazzo parve accorgersene e sorrise un po’ goffamente.
«Questo è quello che succede quando perdi il controllo: sei sballato alle otto di sera. Triste.»
Benedict sorrise – puoi capirlo, l’hai fatto anche tu –, mentre il ragazzo chiamava un cameriere e ordinava due Guinness.
«A cosa stai lavorando? Sherlock
Benedict annuì.
«Abbiamo iniziato a riprendere la settimana scorsa.»
«Oh, che figo!» esclamò il ragazzo, sorridendo entusiasta. «Non ho seguito molto la serie, veramente, giusto qualche puntata, ma sarebbe da vedere tutta. E te sei parecchio bravo, amico, insieme a tutta la combriccola, lì, davvero.»
«Grazie» sorrise Benedict, piegando la testa. Arrivarono le birre, e i due brindarono «Alle storie!», come propose il ragazzo. 
Benedict corrugò le sopracciglia, dopo aver trangugiato un sorso.
«Storie?»
«Storie. Te sei un attore, se non ne sai te di storie. Io non sarò un gran letterato, e poi quando bevo divento particolarmente ignorante, senti come parlo, ma insomma… sei un attore, racconta una storia.»
Benedict si accigliò ancora di più. Perché adesso doveva raccontare storie a sconosciuti ubriachi? Ok che gli aveva offerto la birra, ma…
«Non saprei cosa dire… Perché non cominci tu?»
Fifone.
Il ragazzo ci pensò su.
«Mh. Si può fare. Inizio io, allora.»
 
°°°
 
Lunedì 15 aprile, ore 16.30, casa di Mel.
«Hai mai visto i disegni di Ben?»
Mel deglutì rumorosamente il suo sorso di tè bollente, ustionandosi.
«Disegni?» gracchiò. La signora Cumberbatch la guardò sorpresa.
«Sì, i disegni di Benedict. Ha sempre avuto interesse nell'arte, alle superiori dipingeva ad olio, ma non ho idea di dove abbia messo quelle tele... Era piuttosto bravo, anche se dice di no, mi ha fatto un ritratto una volta...» raccontò la donna, sgranocchiando un biscotto. Grattò Matisse dietro le orecchie, accovacciato accanto alle sue caviglie. Guardò Mel, che era ammutolita.
«Cosa c'è, cara?»
Mel la guardò, smarrita, e scosse la testa.
«N-niente, solo, io... Non lo sapevo.»
La donna si accigliò.
«Benedict non ti ha detto nulla? Non ti ha mai parlato dei suoi disegni?»
Mel scosse la testa. 
«Oh, quel ragazzo. Si prenderà una bella strigliata non appena metto le mani su di lui.»
Matisse agitò la coda per manifestare la sua approvazione e si strusciò sulle caviglie di Mel, miagolando come per chiederle di non crucciarsi, assicurandole che gliel'avrebbe fatta vedere lui a Benedict. 
Mel stiracchiò un sorriso: fra Matisse e sua madre combinati, Ben avrebbe avuto di che preoccuparsi.
 
°°°
 
Prese un altro sorso di birra e iniziò a raccontare, lo sguardo distante.
«Mi ero appena trasferito a Londra con degli amici, avevo nemmeno vent’anni. Lavoravo, perché non c’erano abbastanza soldi per il college e io non ero proprio un tipo da libri. Lavoravo in un bar. E, per farla breve, ho incontrato una ragazza. La prima volta abbiamo chiacchierato, la seconda le ho offerto un caffè e insomma, sai come funziona, no?, una cosa tira l’altra… ci siamo messi insieme. Era una cosa seria, insomma, lei era proprio la mia ragazza, andavo a prenderla dopo scuola e la accompagnavo in giro e tutto. Le volevo bene. Sai, sono il fratello piccolo, a casa, non ho mai avuto nessuno da proteggere, proteggevo solo me stesso dalle botte di papà e dei miei fratelli. Lei era il mio uccellino, era qualcuno che potevo coccolare e accudire. Le volevo bene, davvero. Davvero.»
Il suo sguardo si allontanò ancora, malinconico, nei meandri di memorie scolorite.
«E poi, ho mandato tutto a puttane. I miei amici si facevano. Droghe leggere, il sabato sera, niente di che. Cioè, niente di troppo serio. Relativamente. Insomma, io mi facevo con loro e… Non ricordo bene perché anche lei sia finita in mezzo, ma ha finito per farsi anche lei. Insieme a me, i primi tempi, con i miei amici, prima di rado, poi sempre più spesso. Poi da sola, anche una volta al giorno, anche a scuola. Diceva che ne aveva bisogno, che tutto andava meglio dopo una canna. Io spesso ero sballato quanto lei se non di più, quindi non ci facevo tanto caso. Passerà, dicevo. Ma, vedi, la differenza è che io mi facevo per noia o per divertimento o per sentirmi figo o che so io, ma, a parte la dipendenza fisica, potevo stare senza. Lei no. Lei diventava totalmente insofferente al mondo, quando non era fatta. Le faceva tutto odio, non sopportava niente, ma niente: dal governo, alla scuola, ai suoi genitori, ai suoi coetanei, agli autobus e ai commessi nei negozi. E si faceva sempre più spesso, diceva lei, “per stare bene”. È assurdo, non è vero?»
Tacque, meditabondo.
«Non le bastavo nemmeno io. Le droghe si sono appesantite e diventavano sempre più frequenti. Ormai eravamo dentro, capisci?, era difficile tirarsene fuori. Lei dipingeva, sai, e faceva delle cose… da un lato meravigliose, dall’altro inquietanti: non sapevi mai bene cosa avevi davanti. Un minuto sembrava una cosa, un minuto dopo un’altra. Sogni e incubi. Era bravissima. Dipinge ancora, sai? Ha fatto una mostra un po’ di giorni fa. O avrebbe dovuto, ho sentito che qualcosa è andato storto…»
Benedict si drizzò sulla sedia, improvvisamente più attento, con uno spiacevole nodo allo stomaco.
 
°°°
 
Domenica 14 aprile, ore 19.45, Skylon Restaurant, Southbank.
«Pronto? O-Olivia? Ciao, cosa…? Sì… Sì, grazie. Tu?»
Era nervoso, continuava a passarsi la mano fra i capelli, le sopracciglia corrugate. Si accorse del suo sguardo e i suoi occhi saettarono subito via. Alzò un dito e mimò uno “scusa” con le labbra, mentre si alzava e si allontanava di qualche metro, parlando al telefono, sempre nervoso, sempre agitato.
Mel non distolse gli occhi da lui un attimo, quasi accusatoria. (Perché tutto questo nervosismo, imbarazzo? Con chi stava parlando?)
Quando ritornò da lei, visibilmente sollevato e con le guance colorite, sfuggì di nuovo ai suoi occhi.
«Perdonami.»
«Figurati» disse lei, socchiudendo gli occhi. «Chi era?»
Benedict sorrise e fece un gesto vago con la mano.
«Oh, una… vecchia amica. Era parecchio che non la sentivo.»
I suoi occhi saettarono di nuovo verso di lei, ma li abbassò subito. Mel passò ad esaminare il menù, sovrappensiero, chiedendosi perché le mentisse.
 
°°°
 
«In ogni caso, siamo arrivati all’eroina. Ci è voluto un po’, ma ci siamo arrivati. E allora è stato il disastro. Io ero quello messo meglio: avevo paura degli aghi, quindi mi facevo pochissimo, per lo più sniffavo. Ma lei… Ha cominciato a marinare la scuola. A svendere i suoi quadri per procurarsi i soldi. Di solito trovavamo noi tutto, ma quando ha iniziato a volere di più, ha venduto i quadri. Anche dieci sterline per tele che ne valevano cinquanta, se dieci sterline erano l’obiettivo della giornata. Era così. Scappò di casa, venne da noi. E ricordo che per un finesettimana, forse, siamo rimasti da soli, e ricordo dei giorni meravigliosi – lei stava bene, io cucinavo per lei, scherzavamo e andavamo per il mercato di Camden a comprare stupidaggini. A te sembrerà idiota, ma io ricordo benissimo quei giorni come se fossero stati la settimana scorsa, e li custodisco come gioielli. E guarda, amico, che alla fine sono ricordi tutto quello che rimane» disse il ragazzo, con occhi prematuramente saggi nel viso giovane. 
 
°°°
 
Domenica 14 aprile, ore 22.37, davanti a casa di Mel.
Lo guardò, cercando di leggergli negli occhi cangianti.
«Va tutto bene, Ben? Se qualcosa non dovesse andare, me lo diresti?»
Era seriamente preoccupata, Benedict lo capiva. Sorrise, dissipando le domande e i dubbi che gli annuvolavano la fronte, nascondendoli per il momento.
«Certo, va tutto bene» mentì.
Mel socchiuse gli occhi, non convinta.
E ti chiamavano attore.
Ben la baciò, in un tentativo di ritrovarla – ritrovare sé stesso –; invano. 
 
Mel lo sentiva distante – dove?; lo strinse a sé.
 
°°°
 
Rimasero in silenzio, riflettendo sulle parole rimaste sospese fra loro, poi il ragazzo riprese, stringendosi nelle spalle.
«Comunque, puoi immaginare il resto. I suoi genitori l’hanno ritrovata, hanno scoperto tutto, è successo il finimondo. Quella sera stessa ha esagerato, è finita all’ospedale. È stata ricoverata per giorni. Lei era anemica ed era dimagrita tantissimo, è stata a un passo dalla…» Deglutì, senza il coraggio di finire la frase, gli occhi lucidi. «Aveva diciotto anni. Suo padre ha perso il lavoro quando hanno saputo che la figlia aveva problemi di droga – lavorava in non so quale azienda importante. Sua sorella è scappata di casa, in quel periodo, a sedici anni, anche se non so quanto sia collegato a lei. Lei è stata ricoverata in una clinica, un centro o come diavolo si chiamano quei posti. Così, da un giorno all’altro, non l’ho più vista. Nemmeno un saluto, sai.»
Tacque e abbassò lo sguardo, mettendo fine al racconto. Il cuore di Benedict batteva veloce, doloroso.
 
°°°
 
Domenica 14 aprile, ore 22.14, secondo piano dell’autobus per Greenwich.
«Ho sempre voluto un fratello. Lo chiedevo ai miei genitori come regalo di compleanno, quand'ero più piccolo, ma sono rimasto solo. Tu hai fratelli o sorelle?»
«Una sorella.»
«Grande o piccola?»
«Due anni più piccola.»
Benedict la guardò, sorpreso dalle risposte secche e lapidarie. Mel fissava dritto davanti a sé fuori dal parabrezza dell’autobus a due piani. Ben, prevedendo che forse si stava addentrando in territori pericolosi, continuò.
«Come si chiama?»
«Andrea, ora possiamo parlare d'altro, per favore? Non amo parlare della mia famiglia.»
«Oh. Sì, certo, scusa. Non volevo essere invadente, io...»
«Certo, tranquillo.»
Continuò a guardare fuori; le luci della sera di Londra si riflettevano sulle lenti degli occhiali.
 
°°°
 
«Non so perché ti abbia raccontato tutto questo, alla fine, è la prima volta che lo racconto a qualcuno, dopo dieci anni… Di solito non parlo nemmeno così tanto, faccio lo stronzo ironico e basta, mi sa che è colpa dell’alcol. Ma adesso va tutto bene, comunque, sai? Non l’ho più vista, sono tornato a Liverpool, da dove vengo. Sono venuto a Londra tipo due settimane fa, dovevo cambiare aria. Ho messo la testa a posto, lavoro in un ristorante, stesso proprietario di quello di Liverpool. Lei invece fa la pittrice. Ha anche un fidanzato, un tipo dei quartieri alti, pare, ma non sono geloso. Sono felice per lei, se lei è felice. Ho già fatto abbastanza danni in passato, anche se non volevo. Lo giuro, non ho mai voluto farle del male, né a lei né a nessun altro, anche se lei lo ha creduto per dieci anni e continua a farlo. Mi odia, ha dato la colpa di tutto a me, e se vogliamo essere veramente sinceri non è proprio tutta colpa mia, ma piuttosto che dirglielo o farle prendere la sua parte di colpa, se di colpa si può parlare, mi tengo tutto e la lascio andare, se risolve la situazione. Non sono poi così cattivo alla fine.»
Guardò Benedict come chiedendo rassicurazione, smarrito.
«Io-io sono certo che tu sia un’ottima persona. Hai solo… perso la strada per un po’.»
«Già, dev’essere andata così. Oh, be’, speriamo solo che voglia parlarmi ancora. L'ho rivista e ho fatto un po' un casino. Mi sa che ho rovinato tutto. Avrei dovuto stare più attento, non vede la sua famiglia da chissà quanto e io pretendevo...»
«Scusa?»
Il ragazzo sollevò gli occhi dal boccale.
«Non parla con sua madre da Natale, non si vedono da quello prima, ha un nipote di un anno che non ha mai visto.»
Il ragazzo abbassò di nuovo gli occhi e il silenzio si aprì fra loro. Il cuore di Benedict accelerò mentre un pensiero si faceva strada nella sua mente.
«Ehm, posso chiederti come ti chiami? Non penso tu me l’abbia detto…»
«Davvero? Che razza di idiota… Scusami, io sono Bruce, Bruce Gallagher.»
Si strinsero la mano. Benedict si schiarì la voce, guardando il tavolo.
«E, hem… La ragazza? Posso sapere il suo nome?»
Come se ne avessi bisogno.
«Ah, be’… Lo dico a te perché mi fido, anche se non so perché, ma guai se dici ad anima viva di questa conversazione, chiaro?» si raccomandò Bruce, puntandogli un indice contro. Benedict alzò le mani e sollevò le sopracciglia. L’altro annuì, soddisfatto.
«Mel.»
 
°°°
 
Giovedì 18 aprile.
«E anche questa è fatta. Non male, cara.»
«Grazie, Mrs Cumberbatch.»
La donna sbuffò e mise le mani sui fianchi.
«Quante volte ti ho detto che puoi chiamarmi Wanda?»
Mel sorrise e si strinse nelle spalle, scuotendo la testa.
«Non credo ci riuscirò mai. Mrs C. è il massimo a cui posso arrivare.»
Wanda sbuffò fingendosi esasperata. Rimirarono in silenzio la teglia di biscotti al cioccolato nel forno. Alcuni aborti di pasta frolla dalle forme improbabili e dall’odore preoccupante giacevano miserabili sul ripiano. Wanda se ne accorse e si affrettò a gettarli nella pattumiera: mai aveva fallito così vergognosamente, anche il primo tentativo di Ben con i biscotti era stato più dignitoso. Ovviamente, non aveva avuto cuore di dirlo alla ragazza, che adesso guardava il forno orgogliosa. 
«Visto? Ce l’ho fatta. Tu che non ci credevi.»
Matisse le rivolse un’occhiata sdegnata, per poi voltarle le spalle. Ruth si appoggiò al bancone con gli avambracci, ridendo. Per sua sfortuna – o fortuna, dipende dai punti di vista – era arrivata solo pochi minuti prima, non in tempo per assistere la signora Cumberbatch nel suo tentativo di istruire Mel sull’arte pasticciera, ma abbastanza per scambiare due chiacchiere con la donna e arrossire involontariamente al suo cognome.
«Direi che la prossima volta puoi tentare con un pan di Spagna.»
Mel guardò la donna con gli occhi brillanti e un cipiglio fiero.
«Se continuò così, in un mese cucinerò un pranzo per tutti!» dichiarò. Wanda rise con affetto – sembrava un personaggio di un fumetto, con gli occhiali fra i capelli scarmigliati, tracce di farina sulle guance, le mani sui fianchi e le gambe divaricate. Mancava un mantello svolazzante.
«Quello che vuoi tesoro, ma dammi un po’ di tempo per fare testamento, prima.»
Mel sembrò sgonfiarsi e spalancò la bocca, mentre Ruth rideva e Matisse la guardava come per dire “te l’avevo detto”.
«Mrs C! Così non vale!»
La donna scoppiò a ridere e le diede un buffetto sulla guancia.
«Facci l’abitudine, tesoro.»
Declinò l’offerta di un tè («Ho anche imparato a farlo! E non è velenoso.») ed andò a casa con la promessa di tornare il giorno dopo per assaggiare i biscotti.
Rimaste sole, Ruth aiutò l’amica a rassettare la cucina e si sedette con lei sul divano, con una tazza di tè fra le mani.
«Come mai la madre di Benedict ti aiutava a fare i biscotti?»
Mel sorrise e le raccontò della sua visita due sabati prima.
«Poi è tornata altre volte e ha detto che mi avrebbe insegnato a cucinare. È molto simpatica, mi fa piacere che venga. E poi, insomma… A volte, nei modi di fare, assomiglia un po’ a Ben. E, non so, ultimamente è strano…»
«Ancora a Bristol?»
«No, è tornato sabato.»
«E cosa succede?»
Mel sospirò fra i vapori della bevanda.
«Non lo so, suppongo sia stanco. Ha degli orari assurdi, a volte lavora per notti intere.»
Ruth abbassò gli occhi, riflettendo. Era il momento di dirglielo? O avrebbe dovuto aspettare ancora?
«Ma ho paura ci sia qualcos’altro, non può essere solo stanchezza. È da domenica sera che non lo vedo, ha detto che sta lavorando molto. Non ne dubito, certo, però… non so. Insomma, nemmeno una visita, un tè insieme. Chiama pochissimo e non risponde quasi mai. Sarà il lavoro, per forza...» mormorò Mel, rivolta al tè. Tacque sulla storia della pittura di cui non le aveva parlato, o della telefonata di quella Olivia, non le sembrava il caso di infierire.
Ruth trattenne il respiro. Ci siamo, è il momento, si disse. Vai.
«Gli hai parlato di Bruce? Che l’hai incontrato?»
Mel scosse la testa, assorta nei suoi pensieri. D’un tratto parve illuminarsi.
«Pensi che abbia saputo che l’ho visto? Per questo non mi parla?» chiese, preoccupata. Ruth fece spallucce e poggiò la tazza ormai vuota sul tavolino, accavallò le gambe.
«Fossi in te non mi tormenterei più di tanto. Forse, ha i suoi scheletri con cui fare i conti.»
Mel corrugò le sopracciglia.
«Che vuoi dire?»
Ruth trasse un respiro e ancorò gli occhi chiari a quelli dell’amica.
«Ti ho mai raccontato di come l’ho incontrato?»
 
Quando le ragazze alzarono la voce discutendo, Matisse rizzò il pelo e soffiò contro Ruth.
 
Mel la abbracciò e le portò dei fazzoletti, voltandole le spalle per chiudere gli occhi e tornare a respirare normalmente stringendo i pugni, le nocche bianche e le unghie conficcate nei palmi, in ferite di indignazione e delusione.
 
°°°
 
Sabato 20 aprile.
«Ovvio che soffrirà, è quello che vogliamo. Pensavi davvero che stessimo pianificando tutto questo per degli stupidi quadri, Seb? Cosa?»
Un sospiro accondiscendente.
«Sì, puoi tenerti il tramonto. No, la stazione è mia, va in salotto. Sì, anche il ritratto. Cielo, no, come ti viene in mente?» esclamò, scandalizzato. Strabuzzò gli occhi.
«Perché voglio usarlo come bersaglio per freccette.» Sbatté le palpebre, serio. 
Mentre Sebastian parlava, infilò la mano che non teneva il telefono in tasca e prese a passeggiare per la stanza.
«Esatto. Cominci a capire, finalmente. Bene, occupati dei dettagli.»
Si fermò alla scrivania e piegò la testa di lato, scorrendo pigramente delle foto con le lunghe dita affusolate. Una coppia, un uomo e una ragazza, sorridenti, ignari – felicità rubata.
«Oh, cos'è tutto questo sentimentalismo, Seb? Da quando in qua ti importa di chi fai saltare in aria? È una vittima come un'altra. Un po' speciale, forse. Il cuore
Sgranò gli occhi, lo sguardo lontano, oltre le fotografie.
«Il cuore puro dell'innocente fra le fiamme infernali del peccato di colui che ama.»
Sebastian non capiva bene di cosa parlasse: l'uomo si trovava in una dimensione nota solo a lui, una metafora – come quella volta, sul tetto, fra le ombre degli angeli.
«Ah, che poeta sprecato.»
Sospirò, piegando la testa di lato.
«Non devo ripeterti il motivo per tutto questo, giusto?»
Tamburellava con le dita sul legno lucido – Bach, partita numero uno –, accanto ad una scritta incisa con un coltellino pregiato abbandonato lì accanto – tre lettere:
I. O. U.
Dall’altra parte del telefono, il silenzio. L’uomo sollevò le sopracciglia.
«È iniziata, Seb.»
Sebastian Moran rabbrividì.
Una falce di sorriso illuminò il volto dell'uomo – fiera notturna, aracnide, incubo di bambino, inconfessabile spettro segreto di uomo, ghignante teschio di pirata – e fiamme mortifere danzarono nei suoi occhi neri.
«La Caduta.»
Carezza di morte sussurrata dal vento dell'Est.
«Boom.» 












 

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Capitolo 10
*** Bilbo Baggins e i biscotti bruciacchiati ***


'Sera gente!
Non è stato facile tirare fuori questo capitolo, l'avrò riscritto venti volte. Spero che il risultato sia buono e non vi deluda, ma ho un po' paura di stare commettendo un errore madornale. Vi prego, fatemi sapere che ne pensate.
Detto questo, un grazie stra-mega-gigante alle meravigliose persone che leggono/seguono/preferiscono/ricordano/ recensiscono: davvero, grazie infinite.
Vi lascio al capitolo, 
a presto!
-Clock
Ps: lo so il titolo è demenziale, ma non mi veniva in mente altro. Se riesco, lo cambio.



 
Capitolo 10
Bilbo Baggins e i biscotti bruciacchiati
 
 
 
Sabato 20 aprile.
Martin chiuse gli occhi e si prese la radice del naso fra indice e pollice.
«Ben, dimmi che non l’hai detto davvero.»
«Ma è così!» insisté Benedict, dall’altra parte del telefono. «è come se me lo vedessi davanti agli occhi: Moriarty parla con Moran, e le fotografie, e I.O.U., e il cuore che brucerà nell’inferno e… Moriarty ha rubato i quadri per vendicarsi di me, perché non ci credi, è così ovvio! E ora farà saltare in aria tutto e io vedrò Mel bruciare perché lui vuole bruciarmi il cuore, e dobbiamo fare qualcosa e…»
«Ben, quanto hai bevuto?»
«Io non ho bevuto
«Ben
«Va bene» sbuffò. Silenzio mentre si sforzava di contare. «Ok, forse un paio di birre più del solito, ma non sono ubriaco
«Oh, certo. Infatti non mi hai appena raccontato di come Moriarty stia congetturando insieme a Lord Moran contro di te.»
«Ma è vero! Me l’ha detto Andrew.»
Martin sospirò.
«Ti rendi conto che Andrew interpreta e basta Moriarty e che ti stava probabilmente prendendo in giro?»
Ben aggrottò le sopracciglia.
«Perché dovrebbe? Lui è un amico, non mi prende in giro…» farfugliò, e Martin pensò che sembrava tanto Grace, in quel momento.
«Dove sei?»
«A casa.»
Martin sospirò, andando a prendere la giacca.
«Non muoverti, arrivo.»
«Yuppie!»
 
°°°
 
Birra, vino, gin e Jack Daniels. Gli ABBA a tutto volume. E un Benedict stravaccato sulla poltrona a testa in giù con i piedi sullo schienale che declamava Amleto.
«E io che pensavo di averle viste tutte.»
Ben lo guardò confuso dalla poltrona.
«Bilbo Baggins» disse piano, socchiudendo gli occhi e ruotando la testa, come se faticasse a riconoscerlo.
«Bilbo!» esclamò poi, spalancando gli occhi e le braccia, rischiando di cadere e fracassarsi la testa sul pavimento.
«Ciao, Ben.»
«Andiamo a ballare.»
«Ballare?»
«Sì! Lo sai perché?»
«Non so se voglio saperlo…» gemette Martin, prendendolo per le braccia e tirandolo su.
«Per trovare la nostra Dancing Queen! Tutti ne abbiamo bisogno! Young and sweet, only seventeen» esclamò, gli occhi spalancati. Martin scosse la testa e lo rimise in piedi senza tanti complimenti. Benedict sbatté le palpebre mentre il sangue defluiva dal cervello, poi accennò qualche passo di danza cantando Waterloo insieme agli ABBA.
«One night, Napoleon did surrender…»
Completamente stonato e fuori tempo.
«Oh, Gesù.»
«Vieni Bilbo!»
Martin chiuse gli occhi, cercando la pazienza dentro di sé. «Ok, ora piantala e vieni di là a bere un po’ d’acqua, poi fatti una doccia e fila a letto.»
«L’acqua è noiosa! Prendiamoci del sidro, come dei veri nani!» propose, come se fosse una brillante idea, mentre iniziava a piroettare, inciampava nei suoi stessi piedi e finiva tempestivamente fra le braccia di Martin.
«Gesù, Ben, questa è l’ultima volta che…»
«Ooh, Bilbo, ma che bel nasino da folletto che hai…»
«Fila in cucina» comandò Martin, cercando di ignorarlo mentre gli faceva il solletico sotto il mento ridacchiando in maniera ridicola. Lo trascinò in cucina e gli mise un bicchiere d’acqua fra le mani. Lo osservò bere avidamente e schioccare le labbra soddisfatto, guardandolo con aria vacua. Poi sembrò riacquistare un minimo di lucidità perché sbatté le palpebre e aggrottò le sopracciglia.
«Martin? Che ci fai qui?»
«Sostituisco Bilbo come babysitter» affermò Martin, impassibile. Ben lo osservò perplesso. Poi decise che quello era un buon momento per vomitare e corse in bagno.
 
 
Finì di sistemare le bottiglie mentre Benedict ritornava dal bagno pallido e sudato. Crollò sulla poltrona tenendosi la testa fra le mani.
«Ora puoi spiegarmi cos’è successo?» chiese Martin sedendosi sul divano proteso in avanti, i gomiti sulle ginocchia, preoccupato. Benedict grugnì e si tirò su, appoggiando la testa indietro sullo schienale e chiudendo gli occhi.
«Ero uscito con Andrew per una pinta e gli ho parlato di Mel e lui ha detto quella cosa su Moriarty, poi… Sono tornato a casa e forse ho sognato, ma non ricordo di essermi addormentato, ricordo solo Moriarty parlare al telefono e poi… Devo aver cominciato a bere e ripensando ad Andrew e al sogno ti ho chiamato e… Dio, quanto ho bevuto.» Si coprì gli occhi con una mano, gemendo.
«Ma perché hai bevuto? Non ti era bastata la pinta con Andrew?» domandò Martin, guardando il relitto che era diventato quell’uomo solitamente composto ed elegante.
«Perché sono un idiota.»
Gli raccontò a fatica di quello che era successo negli ultimi giorni, dell’incontro con Bruce Gallagher, di come non vedesse Mel da una settimana e non la sentisse quasi più.
«Ecco perché eri così depresso sul set. Scusa, non potevi parlarmene prima?» sospirò Martin, provando un moto d’affetto per quell’idiota pallido come un cencio gettato sulla poltrona davanti  a lui.
Il cencio non rispose, si limitò a grugnire e cambiare posizione, abbassando la testa. Socchiuse un occhio per guardare Martin.
«Devo parlare con Mel, vero?»
Martin allargò le braccia e sollevò le sopracciglia.
«Però. Ti è servita una sbronza per capirlo, ma ci sei arrivato finalmente.»
Ben aprì anche l’altro occhio, notando una leggera irritazione nel tono dell’amico.
«Pensi ancora che devo starle lontano, vero?»
«Cosa? Io? Dopo quello che mi hai raccontato? Perché mai?» fece Martin, sarcastico. Ben chiuse gli occhi e sospirò.
«Martin…»
«Questo non rafforza assolutamente l’ipotesi che lei voglia sfruttarti, affatto, anzi, è una coraggiosa prova di fiducia…» continuò, sullo stesso tono.
«Martin, ti prego.»
Martin sbuffò, incrociando le braccia e puntandogli un dito contro.
«Va bene, per stasera basta. Ma non credere di poter continuare così. Devi parlarle una volta per tutte. Questa è l’ultima volta che ti vengo a raccattare dopo che hai annegato i tuoi dispiaceri amorosi nell’alcol.»
Ben grugnì il suo assenso, chiudendo di nuovo gli occhi.
«Hai ragione. La prossima volta sarà sidro.»
 
°°°
 
Domenica 21 aprile.
Infilò con attenzione la teglia nel forno e chiuse lo sportello, controllando l’orologio.
Era la terza teglia di biscotti che preparava in due giorni. Apparentemente, fare biscotti, ora che aveva imparato, la calmava.
No, forse non così tanto, visto che aveva fatto almeno cento biscotti senza sapere che farsene e continuava a infornare.
Stava fissando torva lo sportello del forno, quando il campanello squillò, facendola sobbalzare. Si pulì le mani su uno straccio e corse nell’atrio, trovando Matisse accoccolato fra i pennelli – aveva imparato a non starle intorno quando fiutava un umore tempestoso come quello degli ultimi giorni.
«Ben!»
Lui sorrise mestamente.
«Ciao. Come stai?»
Alzò le spalle, senza tentare di nascondere la sua irritazione.
«Al solito. Vieni, entra.»
Si fece indietro per lasciarlo entrare.
«Ho portato dei pasticcini. Macaroons, non so se ti piacciono.»
«Oh, grazie, non c’era bisogno. Vuoi del tè? Sembra in grado di riappacificare nazioni, ed ho imparato a farlo, finalmente…»
«Sì, certo. Grazie.»
«Niente.»
Lo precedette fino al soggiorno senza guardarlo negli occhi e si diresse in cucina, dedicandosi al tè, mentre Benedict si sedeva sul divano e apriva la scatola di macaroons. Matisse venne a salutarlo e lui lo lasciò a strusciarsi sulle sue caviglie.
«Ho solo dell’Earl Gray.»
«Ok, va benissimo.»
«Bene.»
Il silenzio ormai stava diventando insopportabile, oltre il rumore del forno e il concerto che stava producendo Mel sbattendo qualsiasi stoviglia trovasse più rumorosamente possibile. Sapeva di starsi comportando come una bambina, ma non le importava. Era troppo arrabbiata.
«Mi dispiace se sono saltato fuori così senza nemmeno chiamarti, ma…» trasse un respiro. «Io volevo… parlare.»
«Mh, però» fece lei, fingendosi sorpresa, senza voltarsi. «E perché quest’improvviso bisogno dopo tanti giorni, se è lecito chiedere?»
Ben strinse i denti.
«Mel…»
«Cosa c’è che non va, Ben? Perché tutt’a un tratto non mi parli? Perché mi hai mentito? Perché non mi hai mai detto che dipingevi?» strinse i pugni, fissando la teiera. «O non mi hai parlato di Olivia, o di come hai conosciuto Ruth, di quello che le hai fatto, di che stronzo sei stato, perché, perché non mi hai mai portato a casa tua, perché non mi hai fatto conoscere i tuoi amici, perché non mi hai presentato tua madre ma l’hai mandata in incognito, perché?» si voltò, finalmente.
«Cos’è, diventi un altro quando sei con me, fai finta? Perché…?»
Tacque e aprì e richiuse la bocca più volte, cercando le parole, tremante, aggrappandosi al bancone. Ben socchiuse gli occhi e si alzò in piedi. A Mel non era mai sembrato così minaccioso.
«Sono io quello che non è stato sincero? Sono io che ho incontrato il mio ex-ragazzo di nascosto e che non ho detto nulla al mio presunto ragazzo attuale riguardo al mio passato, i miei problemi con la droga, il perché non parlo con la mia famiglia?» La voce di Benedict era bassa e controllata, vibrante di risentimento.
Mel sbiancò e deglutì. Ben allargò le braccia.
«Chi ha più colpe, allora, qui dentro? Chi è che non si è fidato?»
Mel chiuse gli occhi.
«Come l’hai saputo?» sussurrò. A Ben tremò il cuore nel vederla così a pezzi, ma si impose di resistere.
«Amanda, la moglie di Martin, ha una nipote che andava alle superiori nella tua scuola e aveva sentito parlare di te. E lunedì ho incontrato Bruce Gallagher in un pub. Mezzo ubriaco, mi ha offerto da bere e mi ha raccontato la sua storia. E la tua storia.»
Mel fissava un punto nel vuoto davanti a sé, gli occhi lucidi, le mascelle serrate. Ben strinse i pugni.
«“Il tipo dei quartieri alti” che esce con lei non sapeva niente di questa storia, se l’è dovuta far raccontare in un pub da Bruce Gallagher di Liverpool, perché la sua ragazza non si fida abbastanza di lui.»
Mel alzò gli occhi. Il bollitore scelse quel momento per fischiare e Mel spense il fuoco, voltando per un attimo le spalle a Ben.
«Non è una questione di fiducia…»
«Certo che lo è, cos’altro potrebbe essere?»
«Tu non avresti capito… E non ti saresti mai avvicinato a me se avessi saputo» disse Mel, a voce bassa, in contrasto con quella di Benedict, sempre più alta mentre si colorava della rabbia e della delusione repressa di quei giorni.
«Io non mi sarei avvicinato a te? Ma come ti viene in mente? È questo che pensi di me, che sia uno snob dei quartieri alti che non si avvicina ad una ragazza perché questa ha avuto problemi di droga? È questo che pensi?»
Si voltò di nuovo.
«Tu non…»
«E io che dovrei pensare? Adesso che so tutto questo, cosa dovrei pensare? Se non è una questione di fiducia, se la tua paura era che potessi allontanarmi, allora non provi neanche affetto per me. Quindi cos’è che vuoi, la tua fetta di fama?»
Mel spalancò gli occhi.
«Stai davvero pensando che io possa approfittarmi di te?»
«Due più due fa quattro! Io sono un attore abbastanza famoso, tu hai dieci anni meno di me, sei giovane e affascinante, mi nascondi parte del tuo passato perché non vuoi che io mi allontani da te…»
Gli occhi di Mel esprimevano tutta la delusione e la rabbia che le sue labbra tacevano.
«Questo è quello che pensi di me? Sono colpita.»
Benedict si strinse nella spalle, sulla difensiva.
«Perché non mi avresti raccontato nulla allora? Se… se tu avessi provato un affetto genuino, ti saresti fidata, mi avresti parlato, e invece…»
«Credi forse che sia facile? Che sia una storia come un’altra, da raccontare tranquillamente davanti a un tè? Che sia qualcosa da raccontare al primo che capita?» esplose lei, avanzando verso di lui. Matisse li guardava dal suo cantuccio, ipnotizzato.
«Io mi vergogno di quella storia, Ben. Mi vergogno di quello che ho fatto. L’unica cosa che voglio è dimenticarlo, cercare di non pensarci per non rovinarmi la vita, perché ormai è passato e non posso più farci nulla, ma… Non te ne ho parlato perché avevo paura di quello che avresti potuto pensare. Già mi sembrava assurdo che il bello e famoso Benedict Cumberbatch perdesse tempo con una ragazzina che gioca a fare la pittrice, se avesse saputo che la ragazzina aveva avuto un passato da drogata ci avrebbe messo una croce sopra e tanti saluti. E io non volevo perderti. Ma tu… Forse non mi fidavo perché non sapevo… Insomma, che relazione avessimo, noi…»
Tacque, il petto che si alzava e si abbassava mentre cercava con tutte le sue forze di respirare e non piangere.
Benedict abbassò il capo, sentendosi poco meno che un verme.
«Mi dispiace» mormorò, la voce roca. «Avrei dovuto capire. Non avrei dovuto attaccarti così, perdonami.»
Mel annuì, la gola dolorante, gli occhi bassi. Ben, vedendo come cercava di impedirsi in tutti i modi di piangere, fece un passo avanti, sentendosi un essere orribile per averla ridotta così. Senza preavviso, le lacrime zampillarono incontrollate dagli occhi di lei, che gemette, sconfitta. Lui si avvicinò ancora e fece per abbracciarla, ma lei gli voltò le spalle e si asciugò rabbiosamente gli occhi con la manica. Benedict cercò di non sentirsi troppo ferito.
«Mi dispiace, davvero, io…»
«Non importa» mormorò, la voce rauca.
«Mel ti prego… Sopportami ancora un po’, prendiamoci un tè. Dobbiamo capire.»
Mel annuì, prendendo due tazze.
 
 
«Perché non me ne hai mai parlato, Mel?» domandò, dolcemente, guardandola con occhi feriti.
«Perché non sapevo cosa avessimo, Ben. Io… Non mi sentivo abbastanza sicura per parlarti, perché… forse non ti conosco abbastanza, non lo so. Forse abbiamo corso troppo.»
Il tè le riscaldava le mani, ma non lo beveva: era troppo concentrata a guardare il fumo danzare dal liquido bollente.
«Forse. Ma non mi pento. Voglio dire, sono onorato di averti conosciuta, Mel, e di... tutto quanto.»
«Sì. Anch’io. Ma forse dobbiamo… Abbiamo troppe cose in sospeso, forse non…»
«No.»
La guardò, gli occhi duri come gemme grezze. «Non ti lascerò, se è questo che intendi.»
«Ben, ma forse…»
Scostò gli occhi, cercò di sfuggire, come il fumo che le sue dita racchiudevano, ma Ben la inseguì e la incatenò ai suoi occhi, di nuovo.
«No. Ci proveremo finché non funzionerà. Ci vorrà tempo e pazienza, ma io voglio poterti chiamare la mia ragazza, guardare stupidi film sul divano con te, portarti a pranzo dai miei, dormire con te» abbassò la voce.
«Voglio amarti, Mel, e innamorarmi di te.»
Quelle gemme scavavano dentro di lei inesorabili, intrappolando il fumo inerme.
«Per favore. Perdonami e promettimi che ci proveremo, e…»
«Non posso, io…»
«Ti prego. Pensaci, almeno. Pensaci, e poi… vedremo. Che ne dici?»
Spostò di nuovo lo sguardo, che le cadde sul forno e corse poi all’orologio.
Imprecando, si affrettò ad aprire il forno e a tirare fuori la teglia e i biscotti mezzi abbrustoliti. Si accorse della domanda che stava per spuntare dalle labbra di Benedict, ma lo fulminò con un’occhiata e lui richiuse la bocca. Prese un sacchetto di stoffa e ci cacciò dentro i biscotti fumanti.
«Io…»
Tornò da lui e gli cacciò il sacchetto in mano, piantando gli occhi nei suoi.
«Con gli omaggi della casa.»
Se te ne vai adesso, torni a casa tutto intero.
Abbassò il capo e annuì, prendendo i biscotti. Si alzò silenziosamente, afferrò il cappotto e si avviò alla porta. La voce di Mel lo fermò mentre allungava la mano verso la maniglia.
«Forse, la prossima volta, se ti comporti bene, puoi venire a mangiarti dei biscotti fatti come si deve. Potrei perfino chiederti il tuo gusto preferito e cucinarli di conseguenza.»
Lui chiuse gli occhi e sorrise, sollevato. Voltò appena la testa a guardarla, a braccia conserte sulla soglia del soggiorno.
«Alla vaniglia, ricoperti di cioccolato fondente.»
 
°°°
 
Venerdì 26 aprile.
Finì di caricare l’ultima tela e osservò Benedict chiudere cauto il bagagliaio, attento a non danneggiare nulla. Si voltò verso di lei, soddisfatto.
«Fatto. Andiamo?»
Mel annuì, stropicciandosi le mani.
«Grazie per l’aiuto, Ben, so che per te dev’essere una scocciatura, avrei potuto affittare qualcosa, ma davvero…»
«Ehi, non dirlo neanche per scherzo» sorrise dolcemente lui, cercando i suoi occhi. «Ti aiuto più che volentieri, ed è più sicuro portarli noi stessi, almeno li controlliamo.»
Mel annuì e gli sorrise brevemente.
«Andiamo allora.»
Salì sul posto del passeggero. Abbassò il finestrino e si sporse fuori.
«L’ingresso secondario della Galleria, mi raccomando» disse.
Benedict si portò una mano alla fronte in una specie di saluto militare, sorridendo.
«Roger. Ci vediamo lì.» Fece per andarsene, ma esclamò un “Ah!” e si voltò di nuovo verso di lei.
«A che ora è domani?»
«La mostra? Alle sei» rispose Mel. Benedict sollevò i pollici e salì nella sua macchina mentre Ruth saliva accanto a lei e metteva in moto. Le lanciò un’occhiata.
«Avete risolto?» domandò piano.
«Ci stiamo provando. Serve un po’ di tempo» rispose Mel, appoggiando indietro la testa. In realtà si trovavano in una situazione di stallo, nessuno aveva il coraggio di inquisire, scavare nel profondo, richiamare i fantasmi del passato; Mel non aveva ancora risposta a nessuna delle sue domande, ma non riusciva a trovare il coraggio di riformularle e Benedict sembrava essersene del tutto dimenticato.
Ruth annuì, stringendo le dita attorno al volante.
«Solo… Stai attenta, Mel.»
Mel annuì, lo sguardo fisso sulla strada davanti a loro.
 
°°°
 
Sabato 27 aprile, ore 17.02. Giorno della mostra.
«Pronto, signore?»
L’uomo esitò.
«Possiamo sempre evitare, non so se tutto questo sia necessario…»
La figura davanti a lui si irrigidì.
«Le ho chiesto se è pronto, non se ci ha ripensato» disse, la voce bassa e minacciosa. L’uomo deglutì e annuì, dirigendosi a testa bassa verso la porta.
L’altra persona seguì l’uomo con un sorriso.
«Che i giochi abbiano inizio» mormorò e chiuse la porta dietro di sé.
 






 
 

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Capitolo 11
*** Ben ***


Buondì!
Eccoci al penultimo capitolo. Lo pubblico adesso perché potrei diventare matta a tenerlo un altro po' nel pc, non smetterei di metterci le mani sopra. Anche se probabilmente matta lo sono già.
Dopo questo inizio incoraggiante, un altro grande ringraziamento alle bellissime personcine che leggono/ricordano/seguono/preferiscono/recensiscono e vi lascio al capitolo.
Fatemi sapere che ne pensate!
Sul serio, vi prego.
Ciao!
-Clock


 

Capitolo 11
Ben
 
 
 
Sabato 27 aprile, ore 17.43
Si voltò per controllarsi anche da dietro. Raddrizzò la schiena e alzò il mento, tornando a fronteggiarsi davanti allo specchio.
«Che dici, Matisse?»
Il gatto alzò la testa dal cumulo di vestiti sul pavimento dove l’aveva sepolta e le lanciò un’occhiata indolente. Poi alzò una zampa e iniziò a lavarsi lì dove non batte il sole.
Mel scosse la testa e tornò a guardarsi.
I capelli erano sciolti, lisci, lucenti e insolitamente disciplinati. Una camicetta color glicine le fasciava gentilmente il busto abbinata ad una gonna blu scuro di Ruth; un paio di bracciali ai polsi e una collana con un gran pendente argentato; ai piedi le sue fedeli Oxford beige.
«Non sembro troppo vecchia? Ho un’aria così professionale e seria… Bah.»
Lisciò le pieghe della gonna.
«Chissà se piacerà a Ben» mormorò. Spalancò gli occhi quando si rese conto di quello che aveva detto. Intercettò l’occhiata inquisitoria di Matisse.
«Voglio dire… intendevo la mostra, ovvio.»
Lui la guardò sospettoso.
«Non guardarmi così. Non l’ho ancora perdonato, che ti credi.» Tornò a guardarsi. «A volte mi sembra che tutto sia tornato com’era prima, poi lui mi guarda come preoccupato o colpevole e io… mi fa quasi rabbia. Perché è come se non avessimo chiarito nulla, non so… Come se avessimo una questione in sospeso» sospirò, incrociando lo sguardo del gatto.
«Beh, ci penseremo un’altra volta, che dici? Stasera abbiamo una mostra da inaugurare!» sorrise al suo riflesso nello specchio, alzando i pollici.
Matisse fece l’equivalente felino di uno sbuffo e tornò alle sue occupazioni.
Ruth fece capolino dal bagno, sorridendo.
«Stai d’incanto.»
Mel sorrise felice.
«Grazie.»
Le si avvicinò da dietro, splendida in camicia viola e pantaloni neri, e l’abbracciò, guardando il loro riflesso nello specchio. Sorrisero.
«Sono davvero orgogliosa di te. Andrà alla grande.»
 
°°°
 
Ore 17.52
Un disastro. Di nuovo.
Chiuse gli occhi, cercando di mantenere il controllo.
«Non è possibile, non sta succedendo davvero, non di nuovo…» mormorò, stringendo le mani a pugno davanti agli occhi, le unghie conficcate nei palmi. Ned le mise una mano sulla spalla. Ruth era rimasta in silenzio, lo sguardo nel vuoto, mentre Bernie imprecava a mezza bocca in elfico.
«Sono davvero desolato, signorina, non ho idea di come possa essere successo, ce ne siamo appena accorti…» si scusò il Direttore della Galleria, stropicciandosi le mani.
«Quale?» chiese, riaprendo gli occhi e tornando composta.
«L’autoritratto.»
Mel gemette. Era uno dei nuovi quadri, aveva finito di dipingerlo appena una settimana prima. E adesso era sparito. Un’altra volta.
«Questa cosa è assurda… I filmati delle CCTV non mostrano niente, è possibile?» esplose Bernie.
Il Direttore scosse la testa.
«Li stiamo controllando, ma per ora non c’è niente. Probabile che sia stato rubato mentre i quadri venivano portati dentro e posizionati, c’era una gran confusione… Sono davvero desolato, farò il possibile per setacciare il magazzino e il resto della Galleria, ma stiamo quasi per inaugurare, e… La cosa migliore sarebbe far finta di nulla e cercarlo più tardi, alla fine della mostra.»
Mel annuì. Era l’unica cosa da fare. Non poteva perdere l’occasione di esporre, sarebbe potuta essere l’ultima volta che le capitava.
«Va bene.»
«Melancholia! Cosa-cos’è successo, cosa sono queste facce da funerale?»
Il signor Reeves si avvicinò al gruppetto, preoccupato. Il Direttore gli spiegò brevemente l’accaduto. L’uomo si fece paonazzo dalla rabbia, boccheggiando alla ricerca di parole abbastanza forti contro quell’idiota di un Direttore. Alla fine rinunciò, fece un paio di respiri profondi e mise una mano sulla spalla di Mel.
«Fatti forza, cara. Andrà tutto bene, vedrai.»
Lei annuì, senza credergli veramente.
Dov’era Ben quando aveva bisogno di lui?
 
 
Ore 18.12
«Signorina Tipperary!»
Mel si voltò, interrompendo la sua ricerca di Benedict nella sala.
«Ispettore McConaghan, buonasera.»
«Sono stato informato» ansimò l’uomo: evidentemente aveva corso fin lì. «Ci sono degli altri agenti in borghese che indagano, le faremo sapere appena troviamo qualcosa. E, ah, abbiamo localizzato Rottenberg, appena fuori Londra. Delle pattuglie stanno lavorando per acciuffarlo. Speriamo abbia ancora i quadri» riferì, mantenendo la voce bassa con aria cospiratoria.
«Pensa che sia stato lui anche stavolta?» chiese Mel. L’Ispettore sospirò.
«Non abbiamo ancora abbastanza materiale per fare supposizioni. Ora devo andare. Splendida mostra, comunque» disse. Le fece l’occhiolino, contraendo tutta la faccia in un’espressione assolutamente ridicola e raccapricciante e si allontanò. Mel sollevò le sopracciglia e decise di cancellare quell’immagine dalla sua memoria.
 
 
Ore 18.26
Allungò il collo per sbirciare la porta d’ingresso. Sbuffò e guardò l’orologio. Perché era così in ritardo? Era sempre puntuale come uno stramaledetto orologio svizzero, e stavolta…
No, ricordò, anche alla prima mostra era arrivato in ritardo. Erano stati solo pochi minuti, tuttavia, non quasi mezz’ora.
Oh, questa me la paghi, Ben, altro che questioni in sospeso.
Scorse la signora Cumberbatch farsi strada nella sala e sventolare una mano nella sua direzione, accompagnata da un uomo alto dai capelli bianchi che assomigliava in maniera impressionante a Ben. Mel ricambiò il saluto, ma non riuscì ad avvicinarsi alla coppia che una giornalista – la seconda – la catturò piazzandole un registratore sotto il naso, mentre il fido fotografo le sparava il flash in faccia. La signora Cumberbatch le fece gesto di continuare, avrebbe visto la mostra prima. Mel tornò ai giornalisti.
«Buonasera, siamo dello Swan Independent. Bellissima mostra, complimenti. Uno dei quadri è un ritratto dell’attore Benedict Cumberbatch, ci dica, che relazione ha con lui?»
Bella domanda, che relazione abbiamo, Ben?
«Siamo amici» rispose, forzando un sorriso. La giornalista sembrò un po’ delusa mentre annuiva e passava alla domanda seguente e Mel avrebbe voluto batterle una pacca sulla spalla, comprensiva: era delusa anche lei.
 
 
Ore 18.38
«Benedict non è ancora arrivato?» chiese Bernie, mandando giù lo champagne tutto d’un sorso. Mel scosse la testa, guardando per l’ennesima volta l’orologio, il piede che ticchettava nervoso sul pavimento. Bernie se ne accorse e lo fermò gentilmente con la punta del suo, lanciandole un’occhiata di benevolo rimprovero. Ned arrivò con due bicchieri di Coca-Cola in mano, allungandone uno a Mel. Era molto elegante, con la camicia chiara, la cravatta rossa, i pantaloni e le scarpe neri, i capelli pettinati con il gel: non sembrava Ned.
«Non capisco perché tanto ritardo…»
«L’hai chiamato?» chiese Ned, passando un braccio intorno alla vita di Bernie.
«Devo aver lasciato il cellulare a casa, non lo trovo più.»
«Vuoi provare con il mio?» si offrì Bernie. Mel scosse la testa.
«Non so il numero. E comunque non importa, si vede che avrà avuto un imprevisto…» sorseggiò la sua Coca-Cola. Impedì alla sua mente agitata di iniziare a congetturare e collegare fatti slegati – come il fatto che sia Ben che il quadro mancassero – e si guardò intorno.
«Avete visto Ruth?»
«è di là con Keane e Reeves» rispose Ned. Mel spalancò gli occhi.
«Quand’è arrivato Keane? Non l’ho visto.»
Ned alzò le spalle. Mel finì la Coca-Cola e si fece largo fra la folla verso le sale dell’esposizione, elargendo sorrisi e strette di mano e ringraziamenti. La mostra stava andando benissimo, il furto era stato passato sotto silenzio, per fortuna.
«Ed ecco l’artista!»
Mel sorrise e si lasciò accogliere dall’abbraccio del vecchio Rettore, di nuovo.
«Sta andando a meraviglia! Guarda quante persone e giornalisti… Sono davvero fiero di te, nonostante tutto» le disse, allontanandosi e sorridendole con calore. Mel ricambiò il sorriso e lo ringraziò.
«Congratulazioni, è una mostra bellissima.»
La ragazza si voltò verso l’uomo che le aveva parlato e gli strinse la mano.
«Grazie mille, professore. Mi fa piacere che sia venuto.»
«Non me la sarei persa per nulla al mondo» sorrise Gerard Keane, rigido in piedi accanto a Ruth, un calice di spumante in mano. «Sono felice che stia continuando a lavorare, migliora sempre più.»
«Grazie, professore» sorrise lei, lusingata.
«Io te l’ho sempre detto, Gerry, che era una delle nostre studentesse migliori!» disse il Rettore, entusiasta, dando una pacca sul braccio del collega. «Non serve un occhio esperto per dire che la ragazza farà strada e aggiungerà il suo nome ai libri di Storia dell’Arte, vecchio mio» puntualizzò, agitando l’indice sotto il naso dell’altro uomo, che rise, assieme a Ruth.
Mel guardò in basso e arrossì. Gli occhi di Reeves si fecero improvvisamente distanti.
«Davvero tanta strada… Un giorno creerai meraviglie, guarderai a questi quadri e ti sembreranno così semplici…» si riscosse e le sorrise. «Vado a scambiare due parole con il Direttore, vedere com’è la situazione, a dopo, cara.»
Lo salutarono e l’uomo si allontanò, barcollando un po’. Mel si chiese quando champagne avesse bevuto.
«Io… devo andare un secondo, torno subito, Mel» si scusò Ruth, allontanandosi rapidamente a sua volta. “Bagno” sillabò a Mel, con una buffa smorfia allarmata. Lei represse un sorriso, mentre il silenzio fra lei e il vecchio professore si faceva più pesante.
«Ho… Uno dei quadri, il ritratto… è molto bello, le luci sono magnifiche, e il soggetto… Non è per caso un attore? Mi sembra di averlo già visto» disse l’uomo, voltandosi verso di lei, una mano in tasca. Mel annuì. Evidentemente non sapeva nulla del furto.
«Sì, è un attore, ci siamo conosciuti qualche tempo fa e ha posato per me più di una volta a dire il vero…»
«Capisco. Non hai avuto… insomma, essendo un volto noto, chiunque potrebbe fargli un ritratto, basterebbe una foto, perché tu hai deciso di ritrarlo?» domandò, cauto. Mel sorrise, malinconica.
«Non mi interessa se sia un volto noto o meno, potrebbero fargli tutti i ritratti del mondo, ma… Non capiterà mai più che si ritrovi in quella posizione, in quel momento, con quella luce, in quello stato d’animo… ed era con me. L’ho ritratto come io lo vedo, come lo sento, e non penso che qualcun altro lo veda allo stesso modo. E potrei ritrarlo mille volte, non mi stancherei. Voglio dire, io…» trasse un respiro, arrossendo all’improvvisa realizzazione che le era balenata alla mente. Deglutì e strinse i denti. No, no, no, non doveva pensare a lui in quel modo, o l’avrebbe delusa di nuovo, lo stava già facendo…
«Capisco» mormorò l’uomo. A Mel sembrò quasi rattristato – era possibile?
«Beh, ancora complimenti. E… Buona fortuna.»
Mel aggrottò le sopracciglia, mormorando un “grazie” mentre l’uomo si allontanava. Si chiese cosa avesse voluto dire. Poi venne raggiunta da Bruce Gallagher.
 
°°°
 
«Non sono sicuro che tu debba farlo.»
«Ormai abbiamo deciso, non tornerò indietro.»
«Ma perché una cosa del genere, io…»
«Troppo tardi, spiacente. Poteva impietosirsi prima.»
 
°°°
 
Lo fissò per qualche secondo. Il ragazzo allargò le braccia, facendo una smorfia buffa stringendo le labbra e sollevando le sopracciglia.
«I miei complimenti.»
«Grazie. Ora puoi andare, la porta è di là.»
Chiuse gli occhi, scuotendo la testa.
«Mel» mormorò, nello stesso tono caldo e avvolgente di tanti anni prima, quando c’erano solo loro due. La ragazza si impose di calmarsi e chiuse gli occhi un istante. Li riaprì e incontrò quelli di Bruce, dispiaciuti e feriti. Le si avvicinò, porgendole un mazzo di fiori che dapprima non aveva notato. Li accettò con un sorriso mesto.
«Grazie.»
Seppellì il naso fra i petali, assaporando il profumo delle calle delicate. Bellezza, nel linguaggio dei fiori.
Bruce ci sapeva ancora fare, niente da dire.
«Hai già fatto un giro?» gli domandò, guardandolo e notando adesso come si fosse fatto la barba con cura, avesse pettinato i capelli e messo una camicia e delle scarpe eleganti – aveva sempre i jeans e l’orecchino, ma Bruce era Bruce.
Lui sorrise.
«No, sono appena arrivato, perdonami.»
«Posso accompagnarti io, allora?» domandò, e sentì qualcosa dentro di sé lacerarsi: aveva fatto più o meno la stessa domanda a Ben, un mese prima, ma erano cambiate tante cose e adesso lui non c’era, chissà se sarebbe arrivato, ma c’era Bruce, e lei era così confusa…
«Sarebbe un onore.»
Strinse più forte le calle in mano per non lasciarsi andare e gli fece cenno con la testa di seguirla.
Gli mostrò i quadri, sorrise ai suoi complimenti e ai suoi scherzi e pensò che, sì, forse, forse, c’era un po’ di luce per loro.
 
 
Ore 19.07
«Bernie, dov’è Ruth?» domandò Mel, raggiungendo l’amica accanto al tavolo del buffet. Ned e Bruce, poco più in là, si rimpinzavano di tramezzini, in una tacita alleanza fra uomini.
«È scappata via venti minuti fa, suo papà non sta bene» riferì Bernie.
«Cosa? Che cos’ha?»
«Oh, soffre di ipertensione da un po’, l’ha chiamata dicendole che non si sentiva bene… è corsa via. Voleva salutarti, ma era davvero troppo preoccupata, non poteva cercarti.»
«No, certo. Mi dispiace. Speriamo stia meglio.»
«Già.»
Abbassarono lo sguardo entrambe.
 
°°°
 
Benedict scese dall’auto e si incamminò lungo il vialetto costeggiato di erba alta, socchiudendo gli occhi nel tentativo di capire nell’oscurità crescente se stesse andando nel posto giusto. Una costruzione vecchia e piuttosto malridotta, almeno all’esterno, si parò davanti ai suoi occhi. Un paio di finestre al pianterreno erano illuminate, ma non c’era un suono. Continuò ad avanzare, titubante. Tirò fuori il cellulare, ma non c’era segnale. Lo rimise a posto e bussò alla porta d’ingresso, che cedette sotto il suo tocco e si spalancò. Entrò, guardandosi intorno. Non c’era nessuno.
Si affacciò ad una stanza sulla destra, le pareti turchese scuro, pochi mobili di legno, una luce soffusa da diverse lampade sparpagliate in giro e un ritratto di Mel appoggiato al divano.
«C’è nessuno?»
«Ciao, Benedict.»
L’uomo si voltò di scatto. La ragazza gli sorrise dal corridoio, dietro di lui.
«Oh, ciao. Non ti avevo vista.»
 
°°°
 
«Signorina Tipperary!»
Mel e Bernie si voltarono verso l’Ispettore McConaghan che arrivava correndo verso di loro, seguito a ruota da Keane e Reeves. Ned e Bruce si alzarono e raggiunsero le due ragazze, con fare protettivo.
«Abbiamo trovato il quadro rubato.»
 
°°°
 
«Vieni, entra» gli disse, precedendolo nella stanza.
«Grazie» mormorò Benedict, facendo un passo avanti. «Non c’è nessuno? Pensavo di essere arrivato in ritardo» disse, confuso.
«Non sono ancora arrivati» rispose la ragazza, la testa bassa mentre trafficava con il telefonino. Poi sollevò la testa.
«Posso offrirti qualcosa, nel frattempo?» disse sorridendogli, la voce flautata. Benedict aggrottò le sopracciglia: non si era mai comportata così con lui.
«Non mi sembra un posto pronto per una festa. E perché non c’è nessuno? Cosa sta succedendo?»
«Oh, arriveranno presto, non preoccuparti. E allora sì che ci divertiremo.»
 
°°°
 
«Dov’è?» disse Mel, un improvviso flusso di adrenalina in corpo.
«227 Ebbisham Lane, Tadworth» ansimò McConaghan. «Abbiamo appena ricevuto una segnalazione dalla signorina Ruth Almond, ha inviato un messaggio al professore» spiegò, mentre Keane mostrava lo schermo del cellulare con il messaggio di Ruth.
«C’è il ladro?» chiese Mel, senza guardare il telefono. L’Ispettore deglutì.
«Sì.»
 
°°°
 
Corrugò le sopracciglia.
«Cosa sta succedendo?»
«Oh, perché tutto questo sospetto? Non sta succedendo nulla» sorrise lei, piegando la testa di lato. Lo sguardo di Benedict cadde sul quadro. Si adombrò.
«Quello è… è di Mel. Lei dipinge così, lo riconosco, è suo!» esclamò, indicandolo, un’agitazione crescente nel suo stomaco.
La ragazza annuì sorridendo serafica.
«Ci hai messo un po’. Sì, è suo. È qui, invece di essere alla mostra che è iniziata un’ora fa.»
«Di che cosa stai parlando? Tu mi hai chiamato e mi hai detto di questa festa, e venire più tardi perché la mostra sarebbe stata rimandata e…»
«Già, già. Perché non ti siedi? Voglio raccontarti una storia.»
 
°°°
 
Mel annuì perché continuasse, senza tuttavia osare formulare la domanda ad alta voce. E mentre l’Ispettore pronunciava il nome, quel maledettissimo, adorato, nome, poteva quasi sentire il suo cuore venirle strappato via ad ogni sillaba.
«È Benedict Cumberbatch.»
 
°°°
 
Ore 19.32
«E mi hai incastrato. Mi hai portato qui, con il quadro, per far credere che l’abbia rubato io» mormorò Benedict. Si sentiva svuotato, come se la storia che le aveva appena raccontato lo avesse fisicamente sfiancato.
«Esatto. Ho anche detto io a Mel di chiederti di darci una mano ieri pomeriggio, quando abbiamo portato dentro i quadri, così saresti apparso nei filmati delle telecamere. Sono stata attenta a fare in modo che solo tu toccassi il quadro, poi l’ho trafugato e l’ho portato qui, ti ho chiamato oggi pomeriggio, mi sono inventata che la mostra avesse dubito un improvviso ritardo e mi sono inventata questa storia della festa a sorpresa prima della mostra qui, ho preso il cellulare di Mel così che non poteste parlare. E adesso ho appena inviato un messaggio alla polizia, dicendo che ho trovato il ladro ed è proprio qui con me.»
«E hai un alibi di ferro, scommetto.»
Lei sollevò le sopracciglia in un’espressione pietosa.
«Il mio povero papà soffre di ipertensione, abita proprio nella casa qui accanto, da dove ti ho visto mentre portavi dentro il quadro. Lui può testimoniare che sono stata a casa fino a pochi minuti fa, il che è vero. È un ex-giudice, daranno ascolto alla sua testimonianza.»
Benedict rimase in silenzio, tentando di riportare i battiti del cuore ad un livello normale.
«Perché hai fatto tutto questo? Continuo a non capire.»
«Non mi stupisce, non hai mai capito molto» sospirò, meditabonda. Si lasciò cadere di traverso su una poltrona, le gambe oltre il bracciolo e la testa reclinata all'indietro sull'altro bracciolo. I lunghi ricci scuri catturarono gli occhi di Benedict, mentre lei parlava – non riusciva a guardarla in viso. 
«Andiamo con ordine. Prima di tutto, non ho parte nel furto dei quadri alla prima mostra, ma non ti dirò il nome del ladro, non voglio rischiare. Comunque sappi che l’ho beccato mentre cospirava prima della mostra con un mio vecchio… conoscente, che era suo complice. Ho promesso di non dire nulla. In realtà mi hanno minacciata, non è che avessi molta scelta. Ma poi ti ho incontrato, da Mel, e tu non ti ricordavi di me. Non ti ricordavi affatto. Ma io sì, non ti avevo dimenticato. Sapevo che conoscessi Mel, me l’aveva detto, ma rivederti mi ha fatto uno strano effetto. E poi, quel giorno ad Hammersmith, non ha fatto che peggiorare le cose. Tu eri con lei e la trattavi come una dama e non ti ricordavi di me.
Ho chiamato il mio amico e gli ho venduto il mio silenzio in cambio del suo aiuto. L'idea di portare il quadro qui e tutto il resto, così come Belgravia, è mia.»
«Ma perché? Siete amiche.»
«Lo so. Ma chi è che soffrirà, alla fine? Lei riavrà il suo quadro, anche se purtroppo non posso fare nulla per gli altri tre, saprà che tu sei coinvolto, ti odierà per sempre; tu la perderai, innocente. Potresti anche guadagnarci un bello scandalo, se non trovassi avvocati abbastanza bravi. Chi soffre?»
«Io» mormorò Ben. Ruth sorrise, felina.
«Tu» miagolò compiaciuta.
«Ma anche Mel.»
«Lei si dimenticherà di te, promesso: me ne assicurerò personalmente. Farai la fine di Bruce. Benedict, Bruce, quante B. Curioso. In fondo, voglio solo proteggerla.»
«Mi dispiace per quello che è successo, ma tutto questo è sbagliato…» mormorò Benedict, iniziando ad essere spaventato.
«Oh, e chi l’ha deciso, Mr Cumberbatch? È così sottile il confine fra giusto e sbagliato, e la vendetta sta proprio in mezzo.»
Sorrise e gli strizzò l'occhio. Ben rabbrividì.
 
°°°
 
Martin si guardò intorno nella sala d’ingresso affollata, allungando il collo per cercare Mel, o Ben, senza risultato. Si strinse nelle spalle e si avviò verso la mostra, rammaricandosi che Amanda non fosse venuta con lui, le sarebbe piaciuta. Chissà perché c’era tutta quella gente, stando al messaggio di Benedict la mostra era appena iniziata, erano le sette e mezza…
Si era soffermato davanti ad un dipinto con una coppia di giovani abbracciati, quando gli capitò di sentire il nome di Benedict. Si voltò per trovare una coppia, una bionda e un rosso – i ragazzi nel dipinto, a guardarli bene, gli amici di Mel di cui gli sfuggiva il nome – che parlavano concitati poco dietro di lui.
«Io non posso crederci, non può essere stato lui! Voglio dire, è Benedict Cumberbatch
«Ssh, abbassa la voce» sibilò la ragazza, guardandosi intorno. Martin si affrettò a voltarsi di nuovo, confidando nella barba e negli occhiali alla Elton John per non farsi riconoscere.
«Lo so, non riesco a capire nemmeno io. Spero sia un equivoco… Non posso credere che abbia davvero rubato i quadri, è assurdo…»
Martin si voltò di scatto, ma li aveva persi fra la folla e non riuscì più a ritrovarli.
 
°°°
 
All’improvviso, la stasi irreale che si era creata venne infranta dall’ululato delle sirene della polizia e da luci abbaglianti che si riversarono nella stanza dalle finestre.
«The game is over» mormorò Ruth, alzandosi con calma. Si avvicinò a lui e gli posò un bacio su uno zigomo, delicato come una carezza. Poi uscì, si fermò appena un attimo dietro la porta per chiudere gli occhi e tornare a controllare il battito del cuore, quindi corse fuori mostrandosi spaventata, piangendo, gesticolando e parlando concitata. Le misero una coperta sulle spalle e le porsero un tè.
McConaghan entrò nella stanza, la pistola in mano.
«Temo di doverla arrestare, signor Cumberbatch. È in un bel guaio.»
Benedict sollevò lo sguardo su di lui, inerme. Si lasciò ammanettare, perquisire e scortare fuori. Si sentiva esausto, privo di forze. Grazie al cielo non c’erano fotografi, solo qualche vicino curioso.
Chiese all’Ispettore se fosse possibile non sollevare troppa polvere. Lui si strinse nelle spalle.
«Faremo il possibile, ma lo verranno a sapere prima o poi» disse, prima di spingerlo dentro l’auto.
«Mel non c’è?» chiese Ben, una volta che l’Ispettore ed un altro agente furono saliti.
«È rimasta alla mostra, per salvare il salvabile. Nessuno sapeva del furto di stasera. Suppongo verrà in centrale più tardi» rispose lui, mettendo in moto. Ben osservò Ruth rimpicciolire davanti alla casa, la sua macchina scorrergli davanti mentre degli agenti la ispezionavano.
Silenzio, dentro di sé. 









 

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Capitolo 12
*** Chiaroscuro ***


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Capitolo 12
Chiaroscuro
 
 
 
Domenica 28 aprile, ore 4.45
La porta della cella si aprì. Benedict sbatté le palpebre più volte, uscendo dal suo dormiveglia, cercando di riconoscere chi era arrivato.
«Non è un cliché quello dei doughnuts dei poliziotti, è la triste verità» disse Mel, una scatola di ciambelle in equilibrio sulla mano mentre un agente chiudeva la porta dietro di lei.
«L’ufficio di McConaghan è pieno di questa roba: lui non ne mangia perché ha paura della carie» raccontò, sollevando le sopracciglia in una buffa espressione eloquente. «Quindi ho pensato che un paio in meno non gli avrebbero fatto né caldo né freddo, ammesso che se ne accorga, non è esattamente un’aquila, se vuoi sapere come la penso, non capisco come abbia fatto a diventare addirittura Ispettore, Sherlock ha ragione, Scotland Yard è piena di idioti…»
Benedict la osservò in silenzio, inebetito, mentre posava i doughnuts sulla branda su cui si trovava lui e si sedeva a sua volta.
«Allora, quale vuoi? Questo dovrebbe essere ripieno di cioccolato mentre questo alla fragola… Vada per la fragola» disse, prendendo una ciambella rosa e addentandola. Si accorse dello sguardo perplesso di Ben.
«Oh, la volevi tu? Guarda, dovrebbe essercene un’altra…»
«Non me ne importa un cazzo dei doughnuts» disse lui, calmo. Mel sollevò le sopracciglia, masticando la sua ciambella. Deglutì.
«Se non ti piacciono basta dirlo.»
Ben spalancò gli occhi e sollevò le mani. Poi esplose.
«Sono in prigione! Da tutta la notte! E tu pensi ai doughnuts?» gridò, stizzito e incredulo. Si alzò e prese a passeggiare agitato avanti e indietro per la piccola cella. Il poliziotto al di là delle sbarre si limitò a lanciargli un’occhiata pigra.
«Mh, ok» fece Mel, alzando le spalle. «Preferisci che mi metta a fare l’isterica, l’offesa, l’arrabbiata, la ferita o…»
«Mel, ti prego» implorò lui, tornando a sedersi, la testa fra le mani. «Che sta succedendo? Puoi spiegarmi, puoi…»
«Prendi una ciambella» disse lei, dolcemente stavolta – basta giocare, lui era esausto, si era divertita abbastanza. Si sistemò più comodamente sulla branda, appoggiando la schiena al muro.
«Sai, francamente, dopo il caos di ieri sera e il mistero di queste settimane, mi sarei aspettata come minimo un pedinamento, un rapimento, un ricatto, invece è stato tutto merito di Martin» iniziò, con una smorfia di disappunto.
 
°°°
 
Sabato, ore 19.45
Era sul punto di uscire da gabinetto quando sentì la porta aprirsi con violenza ed un uomo correre nel bagno. Non sentì aprirsi alcuna delle porte dei gabinetti. E poi, distintamente, Martin sentì piangere.
Da bambino detestava vedere gli adulti piangere, gli sembrava ingiusto; forse una reminescenza di quel sentimento era rimasta, perché aprì la porta d’impeto e si portò accanto all’uomo, appoggiato al lavandino. Questi lo guardò, il viso rigato di lacrime, deformato dai singhiozzi. Si immobilizzò, terrificato, quando vide Martin.
«I-io… Non sono, non ho…»
Lui corrugò le sopracciglia, in un cipiglio da vero dottor Watson.
«Cosa succede, signore…?»
«Ho sbagliato, figliolo. Ho sbagliato.»
Martin non avrebbe mai pensato che si sarebbe ritrovato in quella situazione, mai, nemmeno per un ruolo: nel bagno di una Galleria d’Arte, a fare da confessore ad un uomo disperato che gli raccontava la sua storia.
Storia di un padre che vuole aiutare suo figlio quando questi è nei guai – perché non gli importa se il ragazzo sta andando “sulla cattiva strada” e frequenta cattive compagnie e si urlano in faccia e non si parlano per giorni: è suo figlio, e questo basta; storia di un ladro, un falsario, che lo aiuta, se di aiuto si può parlare, a rubare tre quadri di Melancholia Tipperary, sua ex-allieva.
Qui l’uomo si fermò, tornò a piangere, e Martin si disse che poteva bastare. Gli parlò piano, a lungo, con fermezza, gli raccontò dell’imbroglio in cui il suo amico era finito e lo convinse, alla fine, a costituirsi. Lo aiutò a risollevarsi e a ricomporsi e lo condusse fuori, sorreggendolo fino a Scotland Yard.
Gli parlò, durante il tragitto, lo rassicurò, gli promise che avrebbe dato una mano a suo figlio, che non tutto era perduto. L’uomo lo ringraziò.
Martin vide McConaghan scortare dentro un Benedict rassegnato e stanco, ma non poté avvicinarsi né far notare la sua presenza all’amico o visitarlo più tardi.
L’uomo che era con lui confessò ogni cosa, ma ebbe qualche ritrosia nel rivelare il nome del ladro, temendo una vendetta una volta uscito di prigione. McConaghan fece del suo meglio per assicurargli la protezione di Scotland Yard, ma non ci fu bisogno di molte moine: il ladro, sulla lista dei ricercati da tempo, era morto due giorni prima, per un aneurisma improvviso.
Gerard Keane si lasciò ammanettare dopo essersi fatto assicurare da Martin che avrebbe portato le sue scuse a Mel e a suo figlio e Martin promise, la mano sul cuore. E con un ultimo sorriso mesto, Keane si lasciò condurre via.
 
°°°
 
«Quindi è stato lui, il professor Keane?»
«Già» annuì Mel, addentando il doughnut. «Poi sono tornati alla mostra e mi hanno detto tutto e sono passata qui verso le undici, per vederlo, ma non ho potuto.»
«Niente Rottenberg?» chiese Ben, sollevando un sopracciglio. Mel sorrise, stringendosi nelle spalle.
«Nope. A quanto pare la brillante teoria di McConaghan ha fallito. Probabile che nemmeno esista questo povero Rottenberg.»
Ben scosse la testa, sbuffando una risata.
«Vuoi dirmi che dovrò ringraziare Martin, alla fine?»
Mel stiracchiò un sorriso ad alzò le spalle. Poi il suo viso tornò serio e a lui tornò in mente il motivo per cui si trovava lì.
«Cosa c’è?» le domandò, inquieto. Lei abbassò la testa, nervosa.
«Ruth ti ha parlato di sé?»
Benedict sbatté le palpebre, traendo un respiro. Si era chiesto quando sarebbe arrivata la domanda.
«Sì.»
 
°°°
 
Sabato, ore 19.09
Ruth, con uno sguardo amaro, si alzò e iniziò a passeggiare per la stanza, le mani dietro la schiena, la testa alta, simile ad un felino. Raccontò, la voce flautata.
«2005, Almeida Theatre. Una ragazza, diciassette anni. Sua madre lavora come costumista, la porta con sé a vedere le prove per Hedda Gabler. La ragazza è molto interessata al teatro, le piaceva recitare, da piccola, anche se adesso ha capito che la sua strada è un’altra. Comunque, accompagna la madre, guarda alcuni stralci delle prove. È una ragazza socievole, chiacchiera con gli attori, i tecnici, i colleghi della madre. In particolare, con questo ragazzo, che interpreta George Tesman; si prendono un caffè, chiacchierano del più e del meno. Lei pensa che lui sia davvero affascinante, ed è lusingata che un bel ragazzo come lui, molto più grande di lei, per giunta, le dedichi attenzioni. Chiacchierano durante una pausa, ridono, poi lui torna sul palco, lei torna a casa, la cosa finisce lì. Lei continua a pensare a lui, a fantasticare, ma si costringe a dimenticarlo: è solo un ragazzo gentile e amichevole, lei non è niente per lui.»
Tacque, si fermò. Benedict non riusciva a staccarle gli occhi di dosso mentre un ricordo, lento, iniziava a tornare nebuloso verso di lui. Sì, sì, rammentava vagamente di una ragazza con i capelli rossi e un caffè al distributore automatico, ma…
«La compagnia organizza una festa, la vigilia della prima. La ragazza ottiene il permesso di andarci, in compagnia di una sua amica.» Gli occhi le brillano, sorride al ricordo. «È così elettrizzata! Può rivederlo! E lui è lì.» Il sorriso si allinea in una riga tesa, il volto torna una maschera.
«Ubriaco marcio, sprofondato in una sedia vicino al buffet. Riesce a parlare, in qualche modo, con quelli che si avvicinano – in fondo è il co-protagonista, non certo una comparsa qualunque – ma è così triste
Benedict chiude gli occhi. Ora ricorda.
«Olivia mi aveva lasciato, si era presa una pausa...»
«Oh, beh, questo spiega tutto, suppongo: perché hai bevuto e perché siamo finiti a pomiciare e abbiamo concluso… Uh, era casa tua mi pare?»
Benedict spalancò gli occhi, inorridito.
«Che cosa?»
«Già» fece lei, sollevando le sopracciglia e battendo le mani. «La mattina dopo mi sono svegliata da sola, come una vera puttana. Molto poco galante. Molto poco da Benedict
Ben affondò il viso nelle mani.
«Non è possibile, io…»
Deglutì, chiudendo gli occhi. Ricordava una ragazza addormentata al risveglio, un’orribile senso di colpa che l’aveva spinto fuori di casa per tutto il giorno, che l’aveva fatto stare fisicamente male oltre ad una nausea tremenda – la minima punizione.
«Non avevo idea fossi tu, non ricordo nulla, e so che non vale niente, ma mi dispiace…»
«Hai ragione, non vale niente. La mia relazione più lunga, in questi anni, è durata sei mesi. Hai rubato la mia fiducia negli altri, Benedict.»
Lo guardò, gli occhi azzurri taglienti come vetro.
«Non puoi riportarmela.»
Gli sorrise triste e amara.
«I capelli… erano rossi» mormorò Ben, lo sguardo perso, la voce tremante.
Lei annuì, chiudendo gli occhi.
«Una gloriosa chioma rossa. Era il suo vanto. I capelli sono stati neri da quel giorno. Chissà, forse non voleva assomigliare a lui.»
 
°°°
 
Mel annuì.
«A me ne ha parlato giovedì scorso, ma mi ha chiesto di non dirti nulla. Ero così arrabbiata con te… per questo ti ho tenuto il muso» spiegò. Ben deglutì.
«Sono io quello che deve scusarsi. Non avrei dovuto comportarmi così. Sono stato uno stronzo, è imperdonabile.»
«Beh, nemmeno lei è stata clemente» sospirò Mel, osservando la ciambella smozzicata fra le sue mani.
 
°°°
 
Domenica, ore 3.31.
Non riuscivano a dormire. Erano ore, ormai, che stavano in quello stato catatonico, senza sapere che fare, in quella notte interminabile.
«Mel, devo parlarti.»
Mel alzò lo sguardo verso di lei. Non l’aveva mai vista così preoccupata, tormentata, sconvolta. Insomma, sarebbe dovuta essere lei quella che si stropicciava le mani e passeggiava avanti e indietro, invece di rimanere seduta su pavimento con lo sguardo perso, vuota.
«Dimmi» mormorò. Ruth si sedette davanti a lei, le gambe incrociate. Trasse un grande respiro, poi chiuse gli occhi.
«Benedict è innocente. Sono stata io.»
Riaprì gli occhi, timorosa di scoprire la reazione alla bomba che aveva sganciato. Mel era pietrificata. Deglutì.
«Io…» iniziò, tremante. Sentiva le lacrime minacciarla; si arrese.
«Volevo proteggerti. Dopo quello che era successo a me, sapevo che tipo fosse, non volevo che tu soffrissi, Mel…»
Il bel volto rigato di lacrime nere di mascara, le labbra martoriate fra i denti.
Mel chiuse gli occhi per un attimo.
«Perché non hai voluto che lo affrontassimo e basta? Perché mi hai costretto a non dire niente?» chiese dolcemente. Ruth socchiuse le labbra, ma non trovò la risposta.
«Forse, volevi vendicarti tu? Fargliela pagare?» suggerì. Ruth si strinse nelle spalle.
«S-suppongo di sì, io…»
Le lacrime la tradirono di nuovo. Sembrava una bambina.
«Mel, mi dispiace così tanto.»
Mel l’abbracciò e le carezzò i capelli, lasciando che piangesse sulla sua spalla.
«Che cosa ho fatto, che cosa ho fatto…» continuava a mormorare, soffocata dall’abbraccio dell’amica.
Mel stava in silenzio, senza sapere cosa pensare, e le batteva pacche sulla spalla.
 
°°°
 
«L’hai perdonata?» domandò Ben, piano. Mel si strinse nelle spalle.
«Non lo so. Forse sì, forse devo ancora pensarci, forse mi serve un po’ di tempo. Sono successe tante cose nel giro di una serata. Sai, ero così sollevata alla conferma che non fossi stato tu che… quasi non mi importava più d’altro» disse, abbassando gli occhi.
«Hai dubitato di me?» chiese Ben, lo sguardo basso, prima di potersi frenare. Lei alzò gli occhi, sulla difensiva.
«Cerca di capirmi, Ben: tu eri in ritardo, e non sei mai in ritardo, e avevano rubato il quadro e queste ultime settimane sono state così difficili, avevamo litigato, mi sembrava di non potermi più fidare di te, Ruth mi aveva raccontato quelle cose e anche se il solo pensiero che tu potessi aver fatto una cosa del genere mi faceva venire il voltastomaco, io… cerca di capirmi, non sapevo che pensare, stava andando tutto a rotoli, io…» due lacrime solitarie le rotolarono giù per le guance; le mani erano troppo impegnate a torturarsi a vicenda per asciugarle. «Mi dispiace, mi dispiace così tanto, ma ti giuro, è stato solo per un po’, finché non ho realizzato che tu non mi avresti mai, mai, fatto una cosa del genere, che doveva essere un malinteso, e continuavo a ripetermelo e a sperare di svegliarmi presto da quell’incubo…»
E poi l’ansia, il dubbio e la paura accumulati durante la notte la sopraffecero, e fece del suo meglio per nascondere i singhiozzi dietro una mano. L’abbraccio avvolgente di Ben fu più efficace tuttavia.
«Non è niente, è tutto finito, tranquilla…» sussurrò sui suoi capelli. Voleva baciarli, ma non osava. Non si sentiva alla sua altezza, non lo sarebbe stato mai.
Mel si calmò e sciolse l’abbraccio, asciugandosi gli occhi. Trasse un gran respiro e tirò su con il naso. Rimasero in silenzio per un po’, ciascuno immerso nei suoi pensieri.
«Ha detto che andrà per un po’ da sua madre, in Cornovaglia, Ruth. I suoi sono separati» disse Mel. Ben annuì poi corrugò le sopracciglia.
«Aspetta, e io come faccio ad uscire da qui? Voglio dire… Mi hanno già interrogato e io ho negato tutto, ma non me la sentivo di accusarla…»
«Grazie» disse lei, riconoscente. Sospirò. «Ho parlato con McConaghan, gli ho spiegato tutto quanto, gli ho chiesto di lasciarti andare e non prendere ulteriori provvedimenti. Tecnicamente non avevo sporto denuncia e il quadro è tornato sano e salvo… Mi toccherà uscire a cena con lui, ma non c’è altro da fare» si strinse nelle spalle. Ben fece una smorfia, adirato.
«Se quel… se quell’idiota di un Ispettore da quattro soldi che ha meno intuito di Topolino prova a fare qualunque cosa che non mi aggradi, puoi star certa che gli infilo la licenza su per il…»
«Ben!» lo bloccò lei, allarmata e divertita. «Siamo a Scotland Yard, è praticamente casa sua, non urlare!»
Un piccolo sorriso affiorò sul volto contrariato di lui, che incrociò le braccia. Lei continuò a ridacchiare dietro una ciambella finché il sorriso non svanì lentamente nel silenzio.
«Tu… Davvero non ti ricordavi? Di Ruth, intendo» gli chiese poi, titubante.
«No!» si affrettò a rispondere lui. «E mi sento così male per quello che è successo e se avessi ricordato tutto questo non sarebbe accaduto, avrei cercato di appianare lei cose e sono stato una tale testa di…»
«Ehi» lo fermò lei, posandogli una mano sul braccio. «Non importa.»
«Importa a me! Ho finalmente la prova di essere una persona orribile che non ti merita e che…»
«Smettila» ordinò lei, la presa ferma sul suo braccio, lo sguardo duro, cancellato il sorriso indulgente.
«Sono passati quasi dieci anni. So che sei cambiato e non faresti mai più una cosa simile, perché mi fido di te. E anch’io ho il mio carico di scheletri di cui occuparmi. Ma va bene. È passato. E sai, se c’è una cosa che ho imparato da tutta questa storia, è che dobbiamo accettare il nostro passato, venirci a patti e non tentare di nasconderlo, perché è parte di noi. E magari, così, diventerà meno doloroso e più semplice lasciarcelo alle spalle e guardare avanti. Non siamo solo bianchi, c’è un po’ di nero in noi ed è quello che ci dà spessore, ci rende umani. Come… sai, il chiaroscuro, in disegno: se non dai la giusta quantità di nero all’oggetto, non tirerai mai fuori il volume, rimarrà piatto.»
Benedict la guardò, con gli occhi stanchi e rossi di pianto e così bella e così forte nella sua fragilità: stava imparando a non scappare dai suoi fantasmi, a sistemare le crepe invece di ignorarle, gli si stava mostrando per come era veramente, paure, dubbi ed errori compresi e Ben non avrebbe mai potuto ringraziarla per un privilegio simile. Era annientato da lei e non sapeva che fare.
«Grazie.»
Lei sorrise.
«Siamo pari, no?» disse, prendendo il rimanente della sua ciambella e sistemandosi meglio sulla branda per finirla.
Ti ci vorranno anni per metterti in pari con lei.
Rimasero in silenzio, riflettendo, cercando di raccapezzarsi sugli avvenimenti della serata.
«Mi sembra così irreale, davvero è stato Keane? Sai, all’inizio sospettavo addirittura di Reeves…» disse Ben, piano, pensando ad alta voce.
«Reeves?» Mel sospirò, stringendosi nelle spalle. «Sì, suppongo che tutti abbiamo sospettato di tutti: ho pensato a Bruce, addirittura a Martin, perfino a te» disse Mel, con un sorrisino amaro e dispiaciuto. «E sì, è stato Keane. O almeno, è stato un complice. Sai, alla fine non lo biasimo nemmeno così tanto: ha avuto le sue ragioni. Mi dispiace per i quadri, ma McConaghan ha detto che faranno il possibile per ritrovarli.»
«Cioè non li troveranno mai» completò Ben, cupo. Mel rise, alzando le spalle.
«Come fai ad essere così?» le chiese lui, guardandola con ammirazione.
«Così come?»
«Così… Voglio dire, li hai davvero perdonati? Ruth e Keane? Dopo quello che ti hanno fatto?»
«Certo che li ho perdonati, Ben, e se non l’ho ancora fatto, lo farò» disse lei, serena. «Keane… è un uomo disperato e se fossi stata nella sua stessa condizione avrei probabilmente fatto lo stesso. E Ruth…» sospirò.
«Non giustifico quello che ha fatto e so che avrei tutte le ragioni del mondo di essere arrabbiata con lei, ma… Non ci riesco. Sono così sollevata che tutta questa faccenda sia finita e la capisco. Ha sbagliato, avrebbe dovuto parlarti. Ma non posso odiarla. Suppongo che non la rivedrò per parecchio tempo, e sarà meglio così, ma se solo penso in quale stato debba trovarsi lei in questo momento… Vedi, mi dispiace troppo per lei, come posso essere arrabbiata? Se ha bisogno del mio perdono, glielo concederò. È tutto finito, e, come dice il vecchio Shakespeare, tutto è bene quel che finisce bene, no?»
Benedict l’abbracciò di nuovo, con foga, tanto stretta che poteva a malapena respirare, mandando all’aria la scatola di doughnuts.
«E io? Mi perdonerai mai?» bisbigliò, esitante.
Mel sentì il suo petto vibrare quando parlò, e sorrise.
«L’ho già fatto» sussurrò, e Ben non attese oltre per baciarla, finalmente, a lungo. Senza alcuna intenzione di lasciarla andare.
Grazie, grazie, grazie.
«Insomma! Non è una camera d’albergo, questa!»
Il poliziotto li fissava seccato dall’altra parte delle sbarre, le mani sui fianchi. Si separarono di scatto, rossi in viso. Mel allungò un dito verso Benedict, con aria da santarellina.
«Ha iniziato lui, è lui quello dietro le sbarre.»
Ben cercò di mantenersi impassibile, con scarso successo, mentre le faceva il solletico sui fianchi con le sue lunghe dita sottili. La ragazza si contorse come un’anguilla, cercando allo stesso tempo di sfuggire alle dita di lui e di non scoppiare a ridere. Il poliziotto rivolse loro un’occhiata minacciosa.
«Uscite di lì, forza» abbaiò. Mel e Ben non se lo fecero ripetere due volte, e scoppiarono a ridere appena misero piede nel corridoio.
 
 
Camminarono a lungo per la Londra sonnolenta nell’ora prima dell’alba, parlando. Ben le raccontò della sua storia con Olivia, durata dieci anni; Mel gli parlò di Bruce, di come fosse venuto la sera precedente, con i fiori e tutto. Gli disse che aveva intenzione di mantenersi in contatto con lui, perché meritava un’altra occasione. Gli chiese dei suoi quadri e Ben arrossì, imbarazzato, e si scusò per non averglieli mai mostrati prima, intimidito dalla bravura di lei.
Si trovavano sul Waterloo Bridge; si fermarono e si voltarono verso Est, ammirando abbracciati il Sole che tornava alla vita.
«Non oso pensare a che ramanzina mi farà mia madre appena la rivedo…» mormorò Benedict, suscitando le risa nella ragazza.
«Non ridere, sono serissimo. Ho paura. Anche del tuo gatto, adesso che ci penso. Mi spellerà vivo. E Martin mi ricatterà a vita.»
Mel, intrappolata fra le sue braccia, rise.
« Vuoi dipingere?»
«Oh, ma non sono un granché, nonostante quello che pensa mia madre…»
«Perfetto, ho giusto una tela bianca a casa: ricominciamo» disse, tornando a guardare il Sole che sbatteva le palpebre ed apriva gli occhi, inondando il cielo di colore.
Ben sorrise, la strinse a sé ed abbassò la testa fino a poggiare le labbra sui capelli di lei.
Ricominciare. Con lei. Non vedeva l’ora.
 
Here comes the sun,
Here comes the sun
And I say “It’s alright”…
 
«Ehi, aspetta!» esclamò Ben, rompendo bruscamente l’idillio.
George Harrison ti sta guardando storto. Non si interrompe George Harrison.
«Sì?»
Mel lo guardò interrogativa dal dolce nido delle sue braccia.
«“Falso d’autore”, la scritta, quella che avevano trovato sul muro vuoto sotto uno dei tuoi quadri alla prima mostra… Cos’era?»
La ragazza corrugò le sopracciglia cercando di ricordare, poi sorrise scuotendo la testa.
«Un’opera dell’artista scozzese Pete MacTen, la cui mostra era terminata proprio quel giorno. Aveva scritto direttamente sul muro, non chiedermi perché, forse un tentativo di protesta o di far sentire la sua voce in modi alternativi – arte moderna, sai come sono questi artisti, valli a capire.»
Ben sbatté le palpebre, incredulo. Mel strinse le labbra, sollevando le sopracciglia e alzando le spalle, con aria di finto compatimento.
«Il povero McConaghan non è il brillante detective che si aspettava di essere. Forse dovrebbe staccare i suoi poster di Sherlock Holmes dal muro ed imparare che si trova a Scotland Yard che, come ripete il suo idolo, altro non è che un ritrovo di idioti, quindi lui è fondamentalmente il più idiota degli idioti.»
Ben scosse la testa e finalmente scoppiò a ridere.
Mel sorrise, pensando che avrebbe voluto sentire solo quella risata per il resto della sua vita e che aveva una tela bianca davanti a lei che non vedeva l’ora di riempire e sapeva che non sarebbe stato facile ma ciò nonostante si sentiva elettrizzata e tremante e piena di adrenalina ed entusiasmo e gioia e allegrezza pura e pensava che non voleva più nemmeno immaginare un giorno o un quadro senza Ben – ma ovviamente non poteva dirglielo: aveva una reputazione da difendere, lei – e poi, chi avrebbe sopportato Matisse, a casa?
La risata di Ben si spense e lui abbassò il viso su di lei.
«A che pensi?» le domandò, notando che non aveva riso e lo guardava pensierosa.
«A Picasso.»
Lui corrugò le sopracciglia.
«Picasso? Mh. Io avrei detto Monet. È un’alba molto alla Monet.»
Mel rise.
 
 
 
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Art is a lie that makes us realise the truth.
–Pablo Picasso
 
 
 
 
 
 
 
 


Ultimo capitolo. Ce l’ho fatta.
Prima che mi linciate, spiego: adoro Benedict Cumberbatch e non ho alcuna intenzione di offenderlo o altro, ci mancherebbe; tuttavia, ho scelto di farlo agire in quel modo perché intendevo creare un personaggio a tutto tondo, con pregi e difetti, non un eroe affascinante e basta che, francamente, trovo poco credibile – spero di esserci riuscita; se così non fosse, vi prego ditemelo =) Spero di non aver deluso nessuno con questo finale, sono stata a lungo indecisa.
Ora i ringraziamenti:
Grazie a Mr Cumberbatch, che illumina e rovina le nostre vite con il suo essere adorabilmente affascinante e dolorosamente irraggiungibile (ma la speranza non morirà mai!).
Grazie alla Musa, a cui dovrò sacrificare una torta, per non avermi abbandonato.
Grazie al mio libro di disegno (e a chi me l’ha regalato) su cui ho imparato la tecnica del chiaroscuro.
Grazie a B, che mi ha aiutato tanto e ha scelto il font per il titolo.
E grazie con tanto di abbracci virtuali coccolosi a tutte le meravigliose persone che hanno letto fin qui, hanno preferito, seguito, ricordato e lasciato le splendide recensioni: è per e grazie a voi se ho continuato con tanto entusiasmo. E complimenti per il coraggio. :3
Per i più arditi, un segreto: potrebbe esserci un seguito, un paio di one-shots, massimo mini-longs (dipenderà anche dalla risposta a questa storia: se vedo che vi siete stufate di sentire le mie scemenze su questi due, me ne faccio una ragione e smetto di intasare il fandom e tutti felici =)
Me ne vado, perché ho rotto abbastanza.
Alla prossima, ciao!
-Clock



Desclaimer: con questo scritto non si intende in alcun modo offendere o dare rappresentazione veritiera del carattere delle persone realmente esistenti. Tutti i fatti sono inventati dal mio cervellino fantasioso.

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