In Un Angolo

di mormic
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** CAPITOLO 1 ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO 2 ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 3 ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO 4 ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO 5 ***
Capitolo 6: *** CAPITOLO 6 ***
Capitolo 7: *** CAPITOLO 7 ***
Capitolo 8: *** CAPITOLO 8 ***
Capitolo 9: *** CAPITOLO 9 ***
Capitolo 10: *** CAPITOLO 10 ***
Capitolo 11: *** CAPITOLO 11 ***
Capitolo 12: *** CAPITOLO 12 ***
Capitolo 13: *** CAPITOLO 13 ***
Capitolo 14: *** CAPITOLO 14 ***
Capitolo 15: *** CAPITOLO 15 ***
Capitolo 16: *** CAPITOLO 16 ***
Capitolo 17: *** CAPITOLO 17 ***
Capitolo 18: *** CAPITOLO 18 ***



Capitolo 1
*** CAPITOLO 1 ***


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CAPITOLO 1
 
Fisso lo schermo e cerco di non spegnere il sorriso che con tanta abilità so sempre far arrivare sul mio viso, anche quando da sorridere non dovrebbe esserci proprio niente, come in questo caso. Certo, sono seduta su una comodissima poltrona di pelle blu, ma l’odore in questa stanza è nauseabondo e la compagnia poco piacevole.
E sono appena cominciati i settantacinquesimi Hunger Games.
La cornucopia è al centro di uno specchio rotondo di acqua e i sessanta secondi stanno per scadere. Quando suona il gong trattengo il respiro nel vedere Katniss tuffarsi e nuotare dritta verso di essa. 
Sa anche nuotare, la mia vincitrice.
Tutto intorno a me, sui divani dove gli altri mentori e vincitori, nonché gli strateghi, stanno beatamente stravaccati in posizioni che poco si addicono al contegno, si alza un chiacchiericcio concitato.
Mi volto e, senza smettere di contrarre le labbra in un sorriso che solo io so essere finto, cerco Haymitch con gli occhi. È seduto al lungo bancone del bar, sotto una lampada sospesa di luce gialla e sorseggia il suo cocktail con una cannuccia, facendo più rumore possibile.
Un brivido di fastidio mi percorre, ma mi raddrizzo sulla schiena, accavallando le gambe e mi volto di nuovo, dopo che anche lui aveva guardato verso di me.
Solo il bel Finnick arriva prima di Katniss alla cornucopia.
E mentre i due si parlano, l’inquadratura è molto più ampia, ma non riesco a trovare comunque Peeta.
Se si è tuffato starà annegando, ne sono certa.
Il sorriso è ancora lì, mentre osservo quello che accade e sento vacillare la mia sicurezza.
Avanti Mellark. Dove sei?
La regia cambia telecamera e finalmente appare.
Ancora asciutto. Ancora sul suo piedistallo in mezzo all’acqua. Guarda verso Katniss, lo so.
Ma lei sta ancora parlando con Finnick e mentre l’inquadratura si posiziona nuovamente su di loro, noto un oggetto che riflette la luce del sole come il metallo dorato della cornucopia.
Riconoscerei quell’oggetto anche se fosse ridotto in una miniatura. L’ho disegnato io.
Il braccialetto.
Nessuno oltre me lo nota, sono tutti concentrati a ridere delle battute che si scambiano Finnick e Katniss.
Eppure c’è qualcun altro, in quel salone del centro di addestramento fatto a posta per guardare gli Hunger Games in un maxi schermo, che sa che non è di Finnick.
Mi volto ancora e trovo gli occhi di Haymitch puntati su di me.
Il suo sguardo è cristallino, di un grigio chiaro sotto la luce della lampada del bar, ed è fisso nei miei occhi per dirmi qualcosa.
Che stupida sono stata. Avevo messo tutto il mio impegno per realizzare quel bracciale, perché Hamitch si sentisse membro di una squadra, perché i nostri vincitori sapessero di avere un mentore che lavorava per loro non visto, perché ci sentissimo tutti parte di un gruppo vincente.
Penso di essere mortificata per come lo ha dato via.
Penso di detestare Finnick e il suo vizietto di ammaliare tutti, uomini compresi.
Ma so che Haymitch non è uno da comprare facilmente. Semmai è lui, quello in grado di portare dalla sua parte chiunque voglia. Abilità estremamente utile la scorsa edizione dei giochi, quando i paracaduti per i nostri ragazzi sono stati fondamentali per la loro sopravvivenza; dote sprecata in ventiquattro anni di tributi mal nutriti, sgraziati, maleducati e poco intelligenti.
Quindi in realtà, perché è Finnick ad avere al polso quel bracciale?
Ora che lui e Katniss sembrano alleati so che fosse un segnale per lei, ma perché quei due occhi continuano a fissare la mia schiena, ne sono sicura, mentre cerco di capire cosa significhi per me?
Non mi volto più.
Non ho intenzione di far credere a quell’insensibile che possa esserci rimasta male.
Io questa soddisfazione proprio non gliela do.
Mi assesto di nuovo sulla poltrona, posando le mani sul ginocchio accavallato e pianto i miei occhi sullo schermo gigante, fingendo che mi interessi davvero, nascondendo al mondo quanto sia devastante, per me, guardare i ragazzi che io sorteggio ogni anno per mandarli al macello.
Ma ho due vincitori nell’arena quest’anno.
Non mi deluderanno.
Uno dei due tornerà a casa intero, alleviando la mia tortura annuale di dover tornare nel 12 con due bare di legno.
E finita questa edizione della memoria, mi dimetto.
Ne ho le scatole piene di questo lavoro, ma soprattutto di Haymitch Abernathy, del suo lezzo costante di alcool, delle sue maniere da villano, del suo modo di prendersi quello che non gli appartiene e della sua abitudine di svendere quello che gli viene regalato.
Osservo Finnick portare a nuoto Peeta alla cornucopia, Peeta salutare Katniss con un bacio – quanto sono teneri – e allontanarsi nella giungla insieme a Mags.
Per oggi basta.
Seguirò i giochi nella mia stanza.
“Felici Hunger Games a tutti!” esclamo alzandomi di scatto.
In pochi sollevano il bicchiere in segno di saluto. I più sono ancora intenti a conversare tra loro o a fissare lo schermo.
Poco importa. Sono abituata a sgomitare, a sbracciarmi, metaforicamente parlando, perché qualcuno mi veda, nell’angolo in cui sembro nascosta al mondo.
Abbandono la mia poltrona ed esco con la mia andatura ritmica sui tacchi alti, sentendomi finalmente libera di far morire quel sorriso di copertura, cercando di ricacciare indietro le lacrime, convinta che potrò finalmente zittire quel disagio con un bel bagno caldo e dimenticare per un’oretta questa realtà soffocante, infilandomi volontariamente nel mio angolo di solitudine, di cui ho tremendamente bisogno.
Sto per chiamare l’ascensore, quando una mano si interpone tra il mio dito e il pulsante.
“Effie, dobbiamo parlare” dice secco.
“Non c’è niente che devo dirti” rispondo piuttosto gelida.
“Ma io si” insiste lui.
Mi giro verso di lui e lo sguardo di Haymitch parla più eloquentemente di quanto potrebbero fare le sue parole.
Adesso so che c’è molto di più dietro quel braccialetto al polso di Finnick Odair.


Nuova idea!
Spero possa essere di vostro gradimento!
Mi raccomando, recensite!!! Io mi rimetto subito al lavoro!
Mor
 

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Capitolo 2
*** CAPITOLO 2 ***


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CAPITOLO 2
 
Lo guardo sorridendo, di quel sorriso che uso come arma di difesa e come strategia lavorativa, ma lui mi fissa, aspettando che me lo tolga dal viso.
“E va bene – accetto tornando seria – cos’è tanto importante?” chiedo.
“Non qui” dice lui afferrandomi la mano e trascinandomi per le scale.
“Haymitch, sono dodici piani!” protesto io.
“Niente ascensore” replica asciutto.
Inizio ad innervosirmi, ma non protesto.
Non c’è niente in quest’uomo che vada nel verso giusto.
Neanche il senso delle scale: invece di salire, scendiamo.
Dopo mezza rampa di scale si infila in una porticina socchiusa e mi trascina dentro.
È buio, il soffitto è tanto basso che quasi ci sbatte la testa e io sono costretta a camminare a capo chino, per evitare che mi si rovini l’acconciatura.
Quando meno me lo aspetto si ferma e gli vado addosso, sbattendo il viso sulla sua schiena.
“Ahi” dico massaggiandomi la fronte.
Lui accende una lampadina dalla luce tremolante.
Mi guardo attorno rapidamente e rabbrividisco.
“Siamo in un… bagno?” domando nauseata.
Arriccio il naso per il lezzo persistente e contraggo il viso in una smorfia disgustata.
Saltello un paio di volte sul posto, sperando di non toccare nulla.
“Qui è sicuro” dice lui girando il capo prima a destra e poi a sinistra, per controllare.
Che ci sarà da controllare, poi. Siamo in uno scantinato due metri per due in compagnia di una tazza incrostata e un lavandino per metà divelto dal muro.
“Si può sapere cosa diamine succede?” chiedo pretendendo delle spiegazioni esaustive.
“Ho un piano” mi dice lui senza troppi preamboli.
“Un… che?” domando senza aver capito.
“Abbiamo un piano per tirarli fuori vivi. Tutti”.
Mi guarda fissa negli occhi, aspettando che io dica qualcosa.
Rimango muta più di qualche secondo, inclinando la testa da un lato, come se improvvisamente la lacca nei miei capelli fosse diventata eccessivamente pesante da sorreggere.
“Abbiamo…” inizio.
“Io e Plutarch” continua.
“Plutarch…” proseguo.
“Il nuovo stratega” specifica.
Ancora silenzio. Se inclino ancora un po’ la testa rischio di farla scivolare via dal collo.
“Tutti…” riepilogo.
“I ragazzi, Odair, Mason, Mags, Beete, Wiress. Chaff, Seeder…” elenca.
Sgrano gli occhi dallo stupore.
“Sei ubriaco…” gli dico cercando di allontanarmi. Quello che dice non ha senso.
“Ho bevuto aranciata, lo giuro”
Ha ragione, ne sento l’odore.
“L’avrai sicuramente modificata con qualche porcheria” gli dico, testarda, rifiutandomi di capire.
Perché in realtà ho già compreso cosa sta tentando di dirmi, ma non voglio accettarlo.
Io non c’entro niente in questa storia. Sono una cittadina di Capitol City che ha avuto un lavoro di tutto rispetto per dieci anni. So cosa sia una mietitura perché ne ho viste due dozzine prima di cominciare a lavorare e perché adesso sono io ad infilare la mano nella boccia di vetro. Ma non ho idea di cosa voglia dire sentirsi chiamare. Il mio nome non è mai stato in quella boccia. Non ho mai corso il rischio di finire in un’arena. Io ci accompagno la gente. Certo, in dieci anni ho avuto modo di confrontarmi con la sofferenza altrui, ma ho imparato a lasciarla lì, senza farmi coinvolgere, crogiolandomi nella speranza che prima o poi sarei riuscita a riportare a casa qualcuno vivo. E ci ero riuscita, finalmente. Finalmente avevo non uno, ma due vincitori. Due ragazzi intelligenti, forse lei un po’ rude, ma svegli ed in grado di cavarsela, di nuovo.
Così avrei potuto tenere a bada ancora per qualche settimana il fastidio che sentivo, sopendolo con la certezza fittizia di vederli uscire sani e salvi da quella giungla infernale.
Nel mio mondo non erano comprese paure, tentennamenti, fragilità, empatia. Non potevo permettermi di ridurmi come Haymitch. Non potevo attaccarmi ad una bottiglia per evitare di soffrire. Avevo deliberatamente scelto di sentirmi distaccata, come se il mio fosse un lavoro come tanti; organizzavo riunioni, eventi, coordinavo set di ripresa, gestivo gli incontri, scrivevo discorsi. Questo era il mio mestiere.
Lascia perdere Effie, sei già coinvolta. Inutile negarlo.
“Hanno bisogno di te” mi dice interrompendo il silenzio, come se avesse letto ogni mio singolo pensiero.
Lo odio. Lui conosce bene il mio punto debole.
“No, hanno bisogno del loro mentore” rispondo cercando una scappatoia.
“Allora è il loro mentore ad avere bisogno di te” dice afferrandomi per le spalle.
Metti giù le mani, Hay.
Chiudi quegli occhi e non guardarmi così, mi sento nuda.
È improvvisamente come guardarsi allo specchio; prima del trucco, prima di sistemare i capelli, prima di infilare il vestito del giorno, prima di cominciare a sorridere.
“Non voglio entrare in questa storia” ammetto a fatica.
“Ci sei già dentro. Tu vuoi bene a quei ragazzi” sorride lui.
È un sorriso vero, questo, privo di ogni sorta di stupido sarcasmo.
Sono in trappola.
“Io adoro quei ragazzi” ammetto alla fine.
Perché mi sento improvvisamente sconfitta?
“Lo so, bocca di baci” mi dice abbracciandomi.
Io mi scosto rapidamente.
“Avanti, spara” gli dico senza fronzoli, guardando fermamente in quegli occhi così mutevoli.
Oramai so che non posso più nascondermi.
“Siamo in contatto con i ribelli. E con il distretto 13” comincia.
“Che scemenza, il 13 non esiste più” dico io cacciando via l’idea con un gesto isterico della mano che non so contenere.
“Esci da questa tua testa da capitolina, Effie. Sai perfettamente che viviamo sotto un regime che cerca di farci fessi” ribatte brusco.
Eccome se lo so. Ma io devo far finta di niente.
Vorrei tanto continuare a credere nelle loro bugie.
Ma dal Tour della Vittoria tutto è cambiato. Dentro di me. Fuori ho continuato ad essere la stessa di prima.
Cosa ho fatto perché Haymitch se ne accorgesse?
“Un regime che non si può sconfiggere” gli dico amaramente.
“Un regime è tale finché c’è gente che lo ignora, facendosi andare bene tutto. E a te non piace che abbiano infilato di nuovo i nostri ragazzi nell’arena con l’intento preciso di farli fuori” insiste caparbio.
“Certo che no! Sono i miei vincitori!” trillo cedendo di nuovo all’isteria.
“Ma tu sei brava a far finta di niente. Ti sei allenata per anni” mi dice.
Mi fa sentire come se fossi un mostro.
Lo sono?
Ho sempre guardato i miei tributi come un fattore che manda al macello le proprie bestie, senza alcun rimorso, perché possa sfamare la famiglia e tenerla lontana dai morsi della fame.
Assecondare il sistema perché la vita di tutti andasse avanti tranquilla. La mia compresa.
Era un patto con il male, adesso lo so.
Ora non posso tirarmi indietro.
Non se esiste una possibilità di salvare i miei vincitori. I miei ragazzi innamorati.
“Cosa devo fare?” domando rassegnata all’inevitabile.
“Dovrai essere le nostre orecchie. Il tuo lavoro ti permette di aggirarti tranquillamente tra una moltitudine di persone senza destare sospetti. Abbiamo bisogno di un nucleo all’interno di Capitol City che faccia parte della resistenza. Plutarch ha i suoi contatti, ma, sebbene il suo ruolo gli conferisca un alibi perfetto, è troppo esposto. Sei una donna intelligente, Effie, anche se scegli ogni giorno di mostrarti come una stupida, superficiale e urticante donna modaiola.
Dovrai arruolare nuovi membri per la causa, in modo che il piano fili liscio” spiega rapidamente.
“La causa? Fino a dieci minuti fa non esisteva nessuna causa, per me” dico, resistendo ancora.
“Hai un buon motivo, adesso. Sarai dei nostri?” chiede chinando il viso in avanti, per guardami meglio.
Cerco di sfuggire al suo sguardo, ma i suoi occhi mi inchiodano.
“Se serve a salvare Katniss e Peeta, sì” accetto in un soffio di fiato.
Haymitch mi abbraccia, come volesse sugellare il nostro accordo in quella maniera, poi afferra nuovamente la mia mano e mi trascina via da quel posto dimenticato da Dio.
 
 
È veramente complicato scrivere di Effie, ma ci sto provando, dando un senso a tutte le idee che mi ero fatta. Spero di non perdermi, quindi, per favore, recensite ed aiutatemi a districare questa enorme matassa che ho nella testa!
A presto!
Mor

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Capitolo 3
*** CAPITOLO 3 ***


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CAPITOLO 3
 
Appena riemergiamo al piano terra, lo stesso del salone di proiezione, Haymitch toglie il braccio che teneva sulle mie spalle e si affretta a scostarsi qualche passo più in là.
Rimango un attimo basita, poi cerco di eliminare dalla mente tutti i dubbi che si sono appena appropriati della mia lucidità e capisco che non vuole che ci vedano troppo a contatto. Forse per non destare sospetti.
Si volta e vuole dirmi qualcosa, ma il rumore di passi pensati venire dall’altro lato dell’immenso atrio gli fa morire le parole in gola. Lo vedo strofinarsi le mani e masticare la lingua in segno di nervosismo. Tutti gesti che chiunque lo abbia avuto vicino per una giornata assocerebbe alla sua dipendenza ed dalla mancanza di alcool in corpo. Non io. Quel suo tipo di frustrazione ha un'altra origine.
Senza pensarci su, accendo prontamente il mio sorriso dedicato al lavoro e indosso quell’espressione tipica, un po’ da scema, un po’ da gallina, che fa si che il mondo esterno mi noti, ma non mi dia troppo peso.
Credo che sia questo che intendeva Haymitch. Mi sono concentrata per così tanto tempo sull’essere considerata una vera cretina, molto efficiente, affidabile, concentrata nel proprio ruolo, ma pur sempre una banalità qualsiasi di Capitol City, che probabilmente sarà la mia unica vera potenzialità per riuscire a non farmi inghiottire in questo gioco al massacro che si sta innescando tutto intorno a noi.
Da lontano vedo avvicinarsi una figura non molto alta, ma piuttosto massiccia; la camminata pendente leggermente da un lato e il sorriso fisso non possono confondermi: Plutarch Heavensbee.
“Ehi mentore! – apostrofa ad Haymitch ancora distante, mentre i suoi passi si fanno più pesanti e più rumorosi – non dovresti essere nel salone in cerca di sponsor?” gli domanda allargando il suo sorriso.
“Si, bè, sai, certe cose non possono essere rinviate!” esclama indirizzando un pollice verso di me, accennando solo il gesto.
“Haymitch!” protesto scandalizzata, ma ovviamente, vengo fraintesa.
“Oh, Effie, sta tranquilla! Conosco più segreti piccanti io, nascosti in questo posto, che i diretti interssati! Sarò muto come un avox!”.[1]
Il senso dell’umorismo di Plutarch non mi è mai piaciuto. È convinto di essere spiritoso, ma è urticante come la puntura di un insetto. Eppure, visto il mio nuovo ruolo, dal momento che so che lui ed Haymitch stanno parlando di altro, cioè del mio arruolamento appena avvenuto, mascherando la conversazione con delle pessime battute su una nostra presunta scappatella, lascio correre e, come al solito, rispondo con un sorriso.
“I miei ragazzi sono ancora vivi?” domanda Haymitch.
Nel suo tono, che vorrebbe far apparire divertito e canzonatorio, noto una punta di apprensione in più rispetto ai suoi canoni.
“Vivi. Continuano a camminare nella giungla, ma non so proprio se troveranno una meta!” dice Plutarch ridendo di cuore.
Non ho la minima idea di cosa stia parlando. Probabilmente Haymitch invece lo sa perfettamente.
Decido che non voglio saperlo.
Nonostante dovrei essere più elettrizzata di come mi sento, più coinvolta, forse un po’ destabilizzata alle rivelazioni dell’ultima ora, piuttosto impaurita per quello che potrebbe capitarmi, addirittura forse arrabbiata con Haymitch per avermi tirato dentro ad un’idea così folle, tutto quello che voglio è congedarmi con educazione e andare a preparare il mio agognato bagno caldo.
“Se mi permettete, lascerei a voi uomini tutto il divertimento – improvvisamente mi coglie il terrore di dire qualcosa di sbagliato – ed approfitterei per tornare nel mio alloggio. Felici Hunger Games!” esclamo allontanandomi.
“Oh, anche a te!” mi grida Haymitch dietro.
Sento Plutarch ridere, ma sono già davanti l’ascensore, nella speranza, finalmente, di riuscire a premere quel dannato bottone.
 
Quando sono in camera mia, al dodicesimo piano, mi sento finalmente libera di togliere i tacchi e di tuffarmi a faccia avanti sul letto, strofinando il naso contro le morbide e profumate lenzuola di seta.
Questo lavoro mi sfianca.
Mantenere alta la superficialità che mi contraddistingue, mi stanca.
Fare la parte della stupida, perennemente, senza abbandonare mai il ruolo che Capitol City ha scritto per me, è sfiancante.
Ignorare le cose orribili che ho visto durante il Tour della Vittoria, far finta che niente stia accadendo, che ciò che mi ha chiesto Haymitch non sia altro che una nuova parte da recitare, priva di rischi, convincermi che i miei ragazzi vinceranno ancora, entrambi, mantenere alto l’umore e infischiarmene delle condizioni disumane che tutti vivono all’infuori di noi capitolini: questo è il mio obiettivo.
Non accendo nemmeno l’enorme tv che ho in camera.
Per un’ora concederò alla mia testa solo il vuoto, ai miei polmoni il vapore caldo del bagno ed ai miei muscoli l’avvolgente protezione dell’acqua e il ristoro dei sali minerali.
Ma quando mi immergo nella vasca idromassaggio, la sensazione di rilassatezza è tale che non sono capace di frenare i pensieri.
Perché ho accettato la proposta di Haymitch?
Perché non sono capace di fingere così bene da crearmi la solida illusione che tutto vada bene, davvero bene?
In fondo a me cosa importa della fame, della sofferenza, delle privazioni, delle costrizioni, della cattiveria, di cosa accade negli altri distretti?
Ho un ottimo lavoro, ho la possibilità di frequentare i migliori ambienti di Capitol City, un buono stipendio, vestiti in abbondanza, un appartamento tutto per me e la libertà di oziare e godermi i miei soldi per dieci mesi l’anno. Per quale motivo dovrei accettare di mettere a repentaglio tutto quello che ho?
Lo so perfettamente perché.
Perché ho sbagliato.
Perché non ho mantenuto la mia professionalità.
Perché mi sono… distratta.
Ho perso la concentrazione e mi sono ritrovata a guardare le cose senza nessun filtro, lasciando che mi apparissero esattamente per quello che erano.
Mi sono affezionata ai ragazzi. I miei vincitori. I miei amanti sventurati.
In silenzio ho osservato quello che avevo attorno e ho visto Haymitch uccidersi lentamente bevendo, perché ci ha provato in mille altri modi, ma i tentativi gli sono costati più cari della morte stessa; ho visto Katniss e Peeta fingere di essere innamorati e poi innamorarsi davvero; li ho sentiti leggere i discorsi che io avevo scritto loro e vederli spegnersi sotto il peso di quelle menzogne; ho visto i pacificatori rimetter ordine a suon di frustate come neanche un macellaio avrebbe infierito sulla carne; ho sentito mille discorsi di Snow e accorgermi di tutto quello che non diceva; ho ascoltato l’annuncio per i giochi della memoria e capire che era una condanna a morte.
La mia leggerezza mi è costata cara.
Sono stata capace di ignorare tutto questo, ma questo è quello che sono solo riuscita a far credere a tutti.
Sono io a non crederci più.
Il mio mondo incantato, fatto di perfezione, di trucco scintillante e momenti di gloria è svanito.
Immergo tutta la testa, scivolando sotto il pelo della schiuma e blocco il respiro.
Apro gli occhi e cerco di vedere attraverso l’acqua. Niente però sembra avere un contorno nitido e distinguibile, tutto è offuscato, le forme tremule, insicure, instabili. Esattamente come mi sento io.
I polmoni sono a corto d’aria.
Riemergo e riprendo aria con foga, aggrappandomi al bordo della vasca.
Io non ce la faccio.
Non posso fare nulla di quello che Haymitch mi ha chiesto. Io non so gestire la realtà.
Uscirò da questa vasca, mi vestirò e tornerò a pensare al mio lavoro, esclusivamente al mio lavoro, fino alla fine dell’Edizione della Memoria e poi… poi mi troverò altro da fare.
Basta estrarre nomi.
Basta lezioni di buone maniere.
Basta sperare che mi assegnino un distretto più prestigioso, con più possibilità di vittoria.
Basta pazzi ubriaconi che svengono sul tavolo o vomitano sul pavimento.
Basta contatti con altri distretti.
Scenderò e dirò ad Haymitch che non se ne fa niente. Questo è poco ma sicuro.
 
Di nuovo in tiro e su tacchi vertiginosi spalanco a due braccia le ante del salone degli strateghi, pronta ad affrontare qualsiasi cosa, adesso, con il mio equilibrio ritrovato.
Vago con lo sguardo in cerca di Haymitch e lo trovo sulla poltrona che prima occupavo io, quella nell’angolo. È ubriaco. Lo vedo da qui.
Mi avvicino, decisa a tirarlo fuori di lì per poterci parlare, ma quando gli sono accanto purtroppo i miei occhi sono rapiti da quello che sta accadendo sullo schermo.
Katniss, Finnick, Mags e Peeta, avanti a tutti, stanno ancora camminando nella giungla.
Non mi sono persa molto.
Poi all’improvviso Peeta rimbalza via e cade a terra, facendo cadere Finnick e Mags.
Katniss urla.
Lui è immobile. Al suolo. Katniss è su di lui. Lo scuote, ma non accade nulla.
È morto.
Il mio vincitore è morto.
Rimango impietrita. La bocca aperta.
Sento le forze scivolare via, la mia sicurezza morire insieme a lui.
Peeta.
No.
Quello che accade dopo è davanti ai miei occhi, ma non riesco a vederlo.
Non sento nessun suono.
Solo la mano di Haymitch sul fianco mi desta.
Rimetto sul viso il sorriso, ma lo sento inclinato, debole.
“Effie” mi chiama Haymitch.
Non mi muovo.
Lui si mette davanti ai miei occhi e mi guarda.
È bianco in viso, gli occhi spenti, i capelli spettinati.
“Haymitch” dico tremante.
“È vivo” mi dice, quasi sotto voce.
Non riesco a credergli. L’ho visto morire con i miei occhi.
Lui si accorge che qualcosa non va in me e mi porta fuori.
Mi mette le mani sulle spalle e stringe, per cercare di riportarmi alla realtà.
Non era questo il mondo dove volevo finire.
“Effie, è vivo” mi ripete.
“Io… ero tornata per dirti… non volevo far parte delle tue follie… ma non credevo… non pensavo che…” farfuglio agitando le mani, sbattendo gli occhi, ricacciando indietro le lacrime.
“Ti accompagno in camera” mi dice.
“No – rispondo in fretta – devo rimanere. Dobbiamo trovare degli sponsor”.
Haymitch mi guarda a lungo negli occhi. Poi sorride. È un sorriso carico di tristezza.
“Dobbiamo portarli fuori di lì, Effie” mi dice e improvvisamente mi abbraccia, stringendomi la testa contro il suo petto.
“Non ho idea di cosa fare” ammetto.
Improvvisamente mi accorgo che con lui non ho nessuna maschera addosso.
Sono semplicemente io.
“Stanotte, a mezzanotte, nella mia stanza” mi dice.
All’inizio il mio cervello, ancora sotto shock, mi fa credere che sia una proposta indecente, poi capisco che è l’appuntamento per una riunione, ma intuisco anche che sia una buona copertura. A chi interesserebbe se una capitolina e uno del giacimento del distretto 12, che lavorano insieme, se si incontrano in privato, di notte?
A nessuno importa in quale letto mi infilo.
Svampita e adesso anche di facili costumi.
Ottimo.
Non sarò mai in grado di gestire questa cosa.
Ma devo tentare, fare di tutto, perché questa pazzia riesca a salvare i miei vincitori.
 
 
 
Chiedo scusa in anticipo se questo capitolo potrà sembrarvi sconnesso, slegato. In realtà seguire i pensieri di Effie, così come li ho sempre immaginati, assomiglia a zigzagare tra idee molto diverse tra loro. Ho sempre pensato che non potesse REALMENTE essere tanto stupida, per cui ho sempre fantasticato sulle sue potenzialità. Forse dovrei inserire tra le note un OOC, non so…
Spero questo capitolo possa interessarvi e spero che possiate lasciare una recensione e le vostre idee e critiche, sempre fondamentali per orientarsi ;)
Grazie
Mor
 
[1] Scusate, non ho mai accettato che nella traduzione italiana avessero tradotto avox in “senza-voce”!!
 

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Capitolo 4
*** CAPITOLO 4 ***


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CAPITOLO 4
 
“Allora, i miei ragazzi hanno sete! Chi vuole essere il mio sponsor?” domanda Haymitch
praticamente urlando, rientrando in scena come se nulla fosse accaduto.
Io gli sto dietro elargendo grandi sorrisi a tutti coloro che si sono voltati a guardarci.
Questa edizione della memoria ha creato ovviamente uno scenario particolare: molti distretti, come
il 7 e l’11, l’8 e il 10 non hanno nessun mentore, perché sono stati loro ad essere spediti nell’arena.
Il distretto 4, quello di Mags e Finnick, ha solo Annie, ma nelle sue condizioni psichiche è più una
spettatrice silenziosa e lacrimevole. Ci sono gli accompagnatori, come me, ai quali però non è concesso cercare sponsorizzazioni per il loro distretto, che se ne rimangono sui loro divani e sulle loro poltrone, chiacchierando come se stessero guardando un qualsiasi programma televisivo, completamente distaccati.
Ero così anche io fino a due anni fa.
Poi ci sono i mentori dei distretti 1 e 2 che sono un numero indescrivibile.
D’altronde vincono sempre loro, quindi negli anni hanno accumulato talmente tanti mentori che ho saputo, durante i settantaquattresimi Hunger Gamen, che Cato e Clove si sono addirittura potuti scegliere da soli chi li avrebbe dovuti seguire, tenendo un mentore a testa. Il grosso del lavoro quindi sarà soffiare a tutti i presenti del distretto 1 e 2 possibili alleanze.
Haymitch comincia ad offrire da bere a tutti quelli che l’anno precedente erano sembrati papabili per un eventuale sponsor e io lo assisto nel suo lavoro, più ascoltando che parlando. Si accomoda al bancone accanto ad un ricco proprietario di una catena di negozi capitolini che quest’anno è stratega per la prima volta. Scambia qualche battuta spiritosa, ironizzando sulle divise dei tributi di quest’anno e poi abbandona il campo, sapendo che da un soggetto simile, in questa circostanza, avremmo potuto ricavare poco.
Passiamo in fretta a parlare e bere con altri tre personaggi, ma tutti e tre sono convinti che due ragazzini possono veramente poco contro ventidue veterani, anche se sono riusciti a formare un’alleanza. Il quarto ha un’aria opulenta, un largo sorriso mentre osserva gli Hunger Games e prende appunti su un blocco poggiato sul bracciolo del divano che occupa per intero.
Haymitch lo saluta e gli si accomoda di lato, sedendosi sulla poltrona accanto al sofà.
Si salutano, scambiano un paio di battute, io rimango in piedi tra i due, non sapendo bene dove potermi sedere, o per meglio dire, non avendo un briciolo di posto per sedermi, perché entrambi non mi lasciano un pizzico di posto, e cominciano a ridere, entrambi brilli. Opto per accomodarmi discretamente sul tavolino da salotto, accavallando le gambe e posando le mani sulle ginocchia.
Schiena dritta, Effie Trinket.
La conversazione si sta concentrando sulle potenzialità dei favoriti, quando Haymitch getta l’amo.
“Andiamo! – esclama gettandosi indietro sullo schienale della poltrona, rischiando di rovesciarsi il cocktail sui pantaloni – Hai mai visto qualcuno tirare una freccia come fa Katniss? Ha delle altissime possibilità di colpire Gloss ancora prima che lui la avvicini. E poi è mille volte più bella di Cashmere! Dovrà pur valere qualcosa!” aggiunge giocando una carta veramente improbabile.
Ma sembra funzionare e io mi costringo a non strabuzzare gli occhi e cominciare a balbettare quando sento la risposta che gli arriva.
“Mi piacerebbe proprio che vincesse! Dopo Finnick credo che ci sia bisogno di una ventata femminile qui a Capitol City!” esclama scoppiando a ridere.
Io so cos’è Finnick per questa gente.
Katniss non sarebbe mai capace. A meno che…
Non voglio neanche pensarci.
Strattono Haymitch per la camicia, voglio andare via di lì, ma lui mi guarda, capisce ogni cosa dai  miei occhi e invece di rispondermi fa finta che lo stia chiamando per fargli riempire di nuovo il bicchiere, così me lo porge. Io chiamo un inserviente e glielo consegno.
Alla fine si accordano per una cospicua somma, Haymitch gli stringe la mano, io sono costretta a farmi abbracciare e ci allontaniamo.
“I soldi sono molti per provenire da un solo stratega. Ma non abbastanza per poter mandare acqua per tutti” bisbiglia Haymitch mentre camminiamo nel labirinto di poltrone e spettatori che affollano il salone.
Nel frattempo s’è fatta sera e la prima notte di giochi riempie sempre il centro di addestramento. È la miglior occasione per le trattative, nonché un evento mondano tra i più importanti dell’anno,
almeno che non accada assolutamente niente. A parte ovviamente il riepilogo dei caduti durante il bagno di sangue iniziale.
“Mandiamo loro una pala per scavare e trovare l’acqua” gli rispondo con leggerezza, cercando di fare una battuta stupida, senza neanche sapere quello che ho appena detto.
Haymitch mi guarda, bloccando il suo bicchiere a metà, quando la cannuccia fucsia appena sfiora le sue labbra. Sarà il decimo cocktail che beve da quando abbiamo cominciato.
“Scavare? Effie, sei un genio!” mi dice baciandomi sulla fronte.
Io mi guardo rapidamente attorno, sorridendo imbarazzata, nella speranza che nessuno abbia visto quel gesto veloce. Poi lo fisso aspettando una spiegazione.
“Sono in una giungla Effie! Possono ricavare l’acqua! E una spillatrice ha una dimensione sufficientemente ridotta per entrare nel contenitore del paracadute” mi spiega.
In un attimo siamo entrambi nel corridoio che porta alla palestra del centro di addestramento, ma invece di arrivare in fondo a metà del lungo condotto voltiamo a destra seguendo le guida viola disegnata sulle pareti che indica “approvvigionamenti”.
L’omino che ci accoglie è alto quasi la metà di me, ha un paio di occhiali tondi e stretti, ma con lenti molto spesse e i capelli quasi del tutto caduti.
Che cosa ridicola. Oramai nessuno a Capitol City soffre più di calvizie. Quell’uomo sembra uscito da un racconto di un paio di secoli fa.
Haymitch poggia tutti i soldi sul bancone quasi sbattendo la busta.
“Una spillatrice. Distretto 12. Katniss Everdeen” dice brusco. Ma io so che c’è soddisfazione nella sua voce.
“Vuole scrivere un messaggio?” domanda l’opmino alzando solo gli occhi, ma non la testa.
“No. Capirà da sola” taglia corto Haymitch e in fretta stiamo già tornando indietro.
“Se sei così amico di Plutarch, perché non chiedi a lui di mandar loro l’acqua?” domando io.
Il corridoio è deserto, ma sbaglio a sentirmi libera di parlare.
“Plutarch è il grande stratega, lui non può fare niente per aiutarli. A parte non scagliargli contro qualche ibrido, come ha fatto Seneca lo scorso anno. Come se poi non fossero abbastanza i guai che li aspettano” mi risponde.
Sono sorpresa di aver ottenuto una spiegazione, seppur molto sommaria.
Di solito Haymitch non ha mai condiviso con me nessuna informazione al riguardo.
Ma ovviamente quest’anno la situazione è contingente.
Credo che in realtà mai Haymitch abbia saputo cosa sarebbe accaduto dentro l’arena e non so se queste informazioni lo rendano più ansioso o più operativo.
Non mi sembra il solito, veramente. Da quando siamo arrivati al centro di addestramento con Katniss e Peeta l’ho sempre visto bere, ma mai ridursi ad un ombra. C’è qualcosa nei suoi occhi di... inaspettatamente sveglio.
Torniamo verso il gran salone con passi svelti, allineati, come fosse una marcia. Ed entriamo in tempo per vedere Il paracadute arrivare tra Finnick e Katniss.
“Bisogna dire che il sistema è alquanto efficiente” commento meravigliata.
Ma qualcosa non va. Vedo i ragazzi passarsi di mano in mano la spillatrice, senza capire cosa sia. Mags tenta addirittura di farlo passare per una specie di amo da pesca.
“Avanti ragazza, usa la testa!” mormora Haymitch al mio fianco. Poi guarda l’orologio.
Non manca molto a mezzanotte.
“Pensi che lo capirà?” domando sottovoce, preoccupata.
“Ce la farà, non ti preoccupare” mi dice.
Vorrei dire a lui la stessa cosa, ma preferisco rimanere in silenzio.
Guardo l’orologio accanto al maxi schermo, io non ne porto, rovinerebbero la linea sottile del mio braccio, e penso che devo allontanarmi dal salone prima che lo faccia Haymith, per non destare sospetti.
“Va bene. Per oggi è abbastanza. Che quella ragazzina, o qualcuno di loro, capisca che fare con quell’arnese. Io mi ritiro nelle mie stanze!” esclamo alzando di un poco il tono di voce, in modo che chiunque possa sentire, se vuole.
Non dico niente ad Haymitch, neanche lo guardo, semplicemente esco, con il mio portamento eretto, non sapendo bene se sperare che qualcuno mi presti attenzione o mi ignori completamente.
Quando sono fuori del salone mi sento invecchiata di mille anni.
Se sto così, già adesso che non ho fatto nulla di diverso da quelli che sono i miei compiti come accompagnatrice, non voglio immaginare cosa mi aspetta quando comincerò ad eseguire le direttive di Plutarch.
Una parte di me continua a pensare che non vuole avere niente a che fare con loro e le loro manie sovversive, ma so di non poter abbandonare i miei ragazzi al loro destino senza che io faccia nulla.
Lo so che pagherò caro l’amore per loro, cresciuto senza controllo, senza che neanche me ne accorgessi.
Hanno solo diciassette anni. Hanno vissuto solo la metà della mia vita, affrontando cose che non immagino nemmeno. Non posso abbandonarli.
Maledetta distrazione.
Se solo non mi avessero richiamata, questa mattina, per dirmi che potevo (e in realtà era un “dovevo”) tornare al centro di addestramento, perché erano riusciti a calmare le acque (e non volevo sapere come) durante la notte, visti i tafferugli dopo la dichiarazione esplosiva di Peeta che Katniss fosse incinta.
Era solo ieri? Mi sembravano passati giorni.
Katniss non è incinta. Io lo so. Un’accompagnatrice si occupa di molte cose, tra cui assicurarsi che i suoi tributi stiano bene, che siano nutriti, puliti, educati e… sani.
Io so tutto della salute di Katniss Everdeen.
Se fosse stata incinta io l’avrei saputo. E avrei dovuto comunicarlo tempestivamente agli strateghi, che lo avrebbero comunicato al presidente e a quel punto qualcuno avrebbe preso un provvedimento, ne sono certa.
Io non ho comunicato nulla a nessuno.
Il terrore mi assale.
Il presidente ha un’arma contro di me.
Vorrà indagare, ammesso che non lo abbia già fatto, se quello che ha detto Peeta corrisponde alla verità. Se non troverà nulla avrà due opzioni: incolpare esclusivamente Peeta di aver mentito o sospettare che io abbia nascosto le prove.
Mi fermo tremante davanti la porta della mia stanza incapace di muovermi.
Ed è li che mi trova Haymitch.
“Tutto bene, bocca di baci?” chiede aprendo la porta della sua stanza, di fronte alla mia.
Io sono ancora immobile, in silenzio, con i pensieri bloccati, a fissare per terra, di spalle a lui. Non so cosa dire.
Improvvisamente l’unica cosa a cui sono in grado di pensare è che, stavolta, i ragazzi non sono gli unici a rischiare la vita.
Stavolta?
Sei proprio una scema Effie Trinket. Hai sempre rischiato e non lo hai mai saputo.
Ovviamente no. Non ho mai infranto una regola. Mai oltrepassato i limiti. Mai fatto qualcosa di testa mia. Mai dato un solo motivo per essere richiamata all’ordine.
Fino ad oggi.
Ma se fosse successo sei anni fa, sarebbe stato lo stesso. E tu lo sai.
“Katniss non è incita” riesco a dire.
“No. Non lo è” risponde lui semplicemente.
A quel punto mi giro e riesco ad alzare gli occhi su di lui.
"Snow adesso ha un pretesto" penso ad alta voce.
"Io lo sapevo che sotto capelli e trucco avevi del cervello, ragazza" mi dice sorridendo.
Sento le lacrime salirmi agli occhi.
"Sono solo una povera stupida" dico piangendo.
"A questo si può porre rimedio. Vieni, entra" mi dice.
Non mi resta che seguirlo.
Appena entriamo mi porge un fazzoletto. Di stoffa.
Devo ammettere che è la sorpresa più grande della giornata.
Haymitch Abernathy possiede un fazzoletto con le sue iniziali e me lo porge come farebbe un gentiluomo con una lacrimevole signora seduta sul suo divano.
Ma cosa è successo al mondo?
"Plutarch dovrebbe essere qui a momenti" mi dice tranquillizzandomi.
"Non posso farcela, Haymitch" gli dico continuando a piangere.
È sufficiente e me che Snow possa avere un'arma contro di me per sapere che non c'è la farò a sopportare altro.
"Certo che c'è la farai, bocca di baci" dice sedendosi accanto a me sul divano.
"Tieni" gli dico porgendogli il fazzoletto oramai fradicio.
"Te lo regalo, grazie" risponde lui sorridendo.
"Da dove vengono tutti questi sorrisi, oggi, Haymitch?" gli domando.
"Non posso permettermi di fare lo stronzo con te, bocca di baci" ammette passandomi un braccio sulle spalle.
"Lo hai sempre fatto" gli faccio notare.
"Non posso più, ora che sei diventata un essere pensante" mi canzona.
"Lo sono sempre stata" mi difendo, non trattenendo un singhiozzo.
"Io lo sapevo. Tu però no" ride sui miei capelli, perché ha poggiato la sua guancia sulla mia testa, avvicinandomi a lui.
"Avevi ragione. È così che si tratta una stupida" dico e scoppio a piangere di nuovo.
Per fortuna non ha rivoluto il fazzoletto.
"Si, è così che sapevo comportarmi. Adesso però devo prendermi cura di quei ragazzi. E di te. Fosse l'ultima cosa che faccio nella mia vita" mi dice.
Non so come reagire alle sue parole.
Temo che il mio sistema nervoso non possa reggere ulteriori colpi di scena, oggi.
"Dov'è il vecchio ubriacone che conoscevo?" domando.
"È sempre qui, pronto a saltar fuori quando ne avrò bisogno. Ma non oggi. Oggi non posso permettermelo" spiega tristemente.
Mi aggrappo alla sua camicia e singhiozzo per un po'.
"Non ti avevo mai vista piangere" mi prende in giro dopo qualche minuto.
"Perché sei uno zotico e un menefreghista e non ti è mai importato di sapere qualcosa di me o di capire quello che provavo" lo rimprovero con sincerità.
Forse troppa.
"Non mi hai lasciato molte alternative" si giustifica lui.
Io, quella sempre presa da cartoncini da scrivere, abiti da mettere, feste da organizzare e lezioni di galateo. Certo che no.
"Oggi te ne ho date troppe" osservo scostandomi da lui.
"Troppe lacrime e pochi baci" dice.
Nei suoi occhi ancora il grigio movimentato di una tempesta.
Ogni volta, negli ultimi dieci anni, che le nostre labbra si sono toccate è stato perché lui pensava che fossi una bambola da cui prendersi ciò che voleva. Ma non erano mai stati veri baci. Nella maggior parte dei caso era ubriaco, o mezzo addormentato e io mi ero ritrovata, assolutamente contro ogni mia volontà, a dover fare da balia ad un uomo che non era in grado di tenersi i piedi.
Solo con l'arrivo di Peeta, il ragazzo più gentile che avessi mai conosciuto, sono stata esonerata da quello squallore, anche se purtroppo di bacio a Haymitch ne aveva rimediato comunque più di uno.
Non sentivo niente, quando succedeva. Semplicemente lo lasciavo fare, sperando di tranquillizzarlo e non incappare nei suoi scatti d'ira. Non avevo mai sentito nulla, eccetto quel pomeriggio, in cui gli avevo regalato il braccialetto.
"Se vuoi un bacio prendilo, lo hai sempre fatto" gli dico fredda.
"Non voglio più prendere..."
Sgrano gli occhi.
Non è possibile. Deve avermi messo una qualche droga nell'acqua che ho bevuto prima. Queste sono allucinazioni. Non capisco.
Sento una certa elettricità tra me e lui.
Immagino sia per la complicità accumulata negli anni. Forse per la pressione cui siamo sottoposti con Katniss e Peeta nell'arena.
Rimango lì, semplicemente a guardare quelle nuvole che si muovono nei suoi occhi, senza sapere cosa dire o cosa fare.
E in quel momento si apre la porta.
"Ehi piccioncini! Diamoci una mossa, s'è fatto tardi!" esclama Plutarch entrando, seguito da un uomo che non conosco.
Haymitch non si muove prima di avermi guardato un altro paio di secondi, poi mi bacia sulla fronte, ancora, e tutto quello che ci siamo detti sembra svanire in una nuvola di fumo.
 
Di nuovo qui.
Vedo che leggete, ma non commentate. O ancora non vi siete fatti un’idea precisa oppure comincerò a credere che questa storia non vi piaccia affatto!
Datemi fiducia, ve ne prego. Arriverà lontana ;)
Spero di trovare nuove recensioni, perché come sempre sono l’ossigeno per l’ispirazione ;)
Grazie di cuore!
Mor

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Capitolo 5
*** CAPITOLO 5 ***


CAPITOLO 5
 
“Sei tu che te la prendi comoda, Heavensbee!” esclama Haymitch alzandosi di scatto dal divano, lasciandomi lì a far finta di non aver pianto.
Siano benedetti i cosmetici resistenti all’acqua.
“Poche storie, Haymitch! Adesso siamo qui, non perdiamo altro tempo!” ribatte Plutarch, beffardamente allegro, andandosi a sedere sulla poltrona alla mia destra.
Haymitch si riposiziona accanto a me, un po’ più distaccato, e il tipo che non conosco si siede sulla poltrona alla sua sinistra.
“Katniss è riuscita ad usare la spillatrice che le hai mandato” dice Plutarch, adesso serio, gli occhi azzurri fissi in quelli grigi di Haymitch.
“Sapevo che ce l’avrebbe fatta. Un problema è risolto. Speriamo che non la perdano e almeno questa sarà una cosa di cui dovremo smettere di preoccuparci” dice lui.
Vedo nei suoi occhi passare una folata di sollievo, le sue spalle rilassarsi un attimo, come si fossero alleggerite di un carico, poi, repentinamente, cambiano di nuovo atteggiamento e si contraggono di nuovo. Si sporge in avanti e posa i gomiti sulle gambe, unendo le mani. Di nuovo quel suo gesto nervoso.
“Non abbiamo molto tempo – inizia Plutarch – dovrai darti da fare, vecchio, per trovare nuovi sponsor, perché presto i ragazzi dovranno affrontare qualcosa di molto peggio della sete” dice.
Non so stare ferma, seduta ad ascoltare, così mentre loro parlano io, improvvisamente colta dalla necessità di fare qualcosa, qualsiasi cosa, mi avvicino al tavolo dei liquori e verso da bere per tutti.
“In quale settore dell’orologio sono?” domanda Haymitch preoccupato.
“In quello della nebbia. Si sono accampati per la notte. Se non si muoveranno li raggiungerà tra circa due ore” spiega Plutarch secco.
Orologio?
Velocemente la mia memoria scorre le immagini dall’alto dell’arena: il cerchio d’acqua, la cornucopia al centro, il suo braccio proteso, i dodici settori.
“Devo trovare uno sponsor entro due ore” dice Haymitch in un filo di voce.
Non c’è bisogno che mi spieghi perché sembra già solo questo una missione quasi senza speranza.
Due ore.
Impossibile.
“Alle tre sarà il turno delle scimmie” continua Plutarch.
Credo di non aver capito con esattezza di cosa stiano parlando, a parte l’orologio.
“Nebbia, scimmie, non mi sembrano dei grandi problemi…” osservo forse un po’ troppo ad alta voce.
“Non lo sarebbero se la nebbia non fosse una nuova versione letale dell’acido fluoridrico e le scimmie degli ibridi carnivori e molto affamati” spiega brevemente l’uomo che non conosco.
Il mio sguardo si sposta su di lui, a disagio. È giovane, forse sulla trentina, capello scuro. Indossa dei finti occhiali con una sottile montatura nera; finti perché nessuno a Capitol City ne ha più bisogno: i difetti della vista si risolvono a suon di laser e colpi di micro bisturi.
“Non credo ci abbiano presentati” faccio notare, piuttosto risentita.
“Colpa mia. Effie Trinket, il mio sceneggiatore, Augustus Oldage” ci presenta.
Improvvisamente, non so perché, sono arrabbiata.
“Quindi è lei che scrive questi meravigliosi colpi di scena del copione” osservo acida.
“Effie…” cerca di riprenderemi Haymitch, capendo che sto per arrabbiarmi. Cosa che per altro non succede mai.
Ma credo che oggi il vaso di Pandora sia stato aperto.
“I giochi devono essere veri, Effie. Se non diamo agli spettatori ed al presidente del buon materiale la nostra principale copertura salta. Non possiamo insospettire nessuno” spiega Plutarch.
Io sono in piedi, con il vassoio e quattro bicchieri pieni in mano, e tutto trema tintinnando.
Riesco a chinarmi per offrire da bere. Plutarch è il primo a prendere lo scotch, cercando di bloccare i suoi occhi nei miei. Io mi volto in fretta, girandomi verso Haymitch. So che se guarderò lo stratega negli occhi ogni mia educazione andrà a farsi benedire.
“Quindi, se il principio è lo stesso, nessuno dei ragazzi sa di essere in un orologio” osservo asciutta.
“No, nessuno” conferma Plutarch.
“Non potevamo permetterci errori. Se qualcuno nell’arena avesse reagito prima dei dodici orrori, qualcuno avrebbe potuto mangiare la foglia” spiega Augustus.
“Dodici orrori?” domando sbigottita.
“Sono gli Hunger Games, Effie. Non una passeggiata di salute” aggiunge Plutarch, con una punta di leggerezza che suona davvero fastidiosa.
“Li decimerete, così” sospiro, sentendo improvvisamente le braccia molli. Per fortuna Haymitch intercetta il vassoio prima che mi cada dalle mani. Mi lascio cadere di nuovo sul divano, sconfitta.
“Finché non capiranno di essere in un orologio e come funziona. A quel punto saranno più sicuri. Nel frattempo gli orrori serviranno, non solo a distrarre il pubblico e Capitol City dal nostro vero obiettivo, ma sgombreranno anche il campo da eventuali nemici pericolosi”. Devono resistere solo tre giorni, Effie” spiega Haymitch.
Non commento. C’è poco altro che io possa dire senza sembrare lagnosa e polemica.
“Abbiamo messo a punto il sistema di comunicazione con chi sarà nell’arena; Finnick, Mags e tutti gli altri tributi che fanno parte della causa, sono stati avvertiti prima che salissero nel loro ascensore dai loro stilisti. È stata una gran fortuna che tutti abbiano deciso di collaborare” spiega Plutarch.
“Come funziona?” domanda Haymitch scolandosi in un sorso il suo bicchiere.
Credo che berrò anche io.
“Invieremo loro del pane. Il tipo indicherà il giorno, il numero di panini l’ora della fuga. Non si dovranno preoccupare di raggiungere un punto di incontro, perché l’overcraft che stiamo preparando per l’operazione è quello con cui preleviamo i corpi nell’arena, per cui con il localizzatore a bordo riusciremo ad individuarli con esattezza. Questo comporta però che se anche Capitol City si accorgerà di quello che stiamo facendo, anche loro potranno localizzarli. Per questo, ai tributi ribelli è stato comunicato di rimuovere il cip dal braccio di Katniss e Peeta in caso di emergenza. Saranno gli unici a non sapere cosa starà accadendo” continua Plutarch.
Un terribile mal di testa comincia ad affacciarsi alle mie tempie.
E anche milioni di domande. Ma abbiamo pochissimo tempo, quindi è meglio che le tenga per me.
“Notizie dal 13?” chiede Haymitch stringato.
“Sono riuscito a mettermi in contatto poco meno di mezz’ora fa. Ecco spiegato il nostro leggero ritardo. Se tutto va come previsto il riscatto avverrà tra quarantotto ore” Plutarch si sistema meglio sulla poltrona e sorride soddisfatto.
“In quarantotto ore con tutte le trappole che avete piazzato in quella maledetta cupola potrà succedere di tutto” osserva Haymitch con una smorfia di disappunto.
“È a questo che serve il tuo lavoro. Trova degli sponsor e il modo di tenerli in vita” gli dice Plutarch freddamente.
“Ehi, amico, non ti scaldare. Lo so perfettamente quello che devo fare. Sono venticinque maledetti anni che faccio questo diavolo di lavoro” borbotta Haymitch riempiendo di nuovo il bicchiere.
“Ora, passiamo a ciò che dobbiamo chiedere alla signorina Trinket”.
Gli occhi di Plutarch si fissano su di me e sembra stiano aspettando che faccia qualcosa. Io non ho assolutamente nulla da dire, devo solo ascoltare, finalmente, ciò che mi verrà richiesto.
Perché vorrei stringere la mano di Haymitch, ora?
Incrocio le dita sulle ginocchia accavallate e aspetto.
Plutarch rimane in silenzio. August sembra impegnato a prendere non so quale tipo di appunti (non dovrebbe essere una riunione segreta?), poi mi rendo conto che la penna che ha tra le mani non ha la punta e che il blocco in realtà è un pannello di controllo ultrasottile. Credo che stia guardando i giochi mentre noi parliamo.
La cosa mi irrita.
“Sono ancora tutti vivi, giusto?” domando improvvisamente, nervosa.
Sento Haymitch non riuscire a trattenere un verso che riconosco come risata.
Plutarch tossisce, nasconde i colpi dietro un pugno e le guance gli si arrossano.
Il signor Oldage alza gli occhi dal piccolo schermo, ma li tiene sempre nascosti dietro il suo finto paio d’occhiali. Il suo colorito se ne è andato, assieme alle sue parole.
“Si, signorina Trinket” riesce a dire quasi balbettando.
“Bene, allora possiamo anche spegnere, momentaneamente, no?” chiedo cercando di non dimenticare la cortesia di cui sono sempre capace, anche quando nella testa vorticano solo possibili insulti.
Oggi è più difficile.
“Non può, Effie. Dobbiamo avere sempre tutto sotto controllo” spiega Plutarch.
Trattengo a stento uno sbuffo spazientito. Il loro controllo non servirà a tenere vivi i miei ragazzi. Servirà solo a vederli morire in diretta.
“Va bene” acconsento controvoglia.
Plutarch mi squadra ancora prima di riprendere il discorso. Haymitch invece è intento ad osservare il suo bicchiere. Sembra leggermente divertito.
“Effie – Plutarch passa al mio nome per sembrare più amichevole, lo so – abbiamo bisogno che tu stabilisca un contatto utile con Tigris Dumas” conclude rapidamente.
Mi da l’impressione che abbia voluto stringare in questa semplice frase mille segreti che non conosco.
“Tigris? La stilista?” chiedo allibita.
Tigris Dumas è una vecchia stilista che ha partecipato ad almeno trenta edizioni degli Hunger Games. Ha cominciato giovanissima come membro dello staff preparatori del distretto 4, facendo una rapida ascesa fino a diventare una delle più ambite stiliste non solo dei Giochi. Qualche anno prima era misteriosamente scomparsa dalla circolazione e si era dimessa, cosa alquanto rara, senza una valida motivazione.
Non capisco cosa possa avere a che fare con tutta questa storia.
“Sì, la stilista. So da fonti sicure che è ancora a Capitol City e, vista la sua repulsione per gli Hunger Games e soprattutto per il sistema, potrebbe essere un elemento cardine con il collegamento alla Capitale, dopo il riscatto dei tributi” prosegue fornendo spiegazioni che mi creano solo altre domande.
“Repulsione per gli Hunger Games?” domando ripetendo ciò che ho appena ascoltato.
È Haymitch questa volta a rispondermi.
“Tigris ha abbandonato il suo lavoro perché non sopportava più l’idea di vestire ‘ragazzi sacrificali che venivano mandati al martirio come dimostrazione di virilità di un sistema dittatoriale e oppressivo’ – dice imitando goffamente la sua voce – non credo riuscirò più a dimenticare questa frase” ammette bevendo.
A quanti bicchieri siamo?
“E dal momento che Cinna non potrà più seguire Katniss…” ricomincia Plutarch, ma lo interrompo con veemenza. Qualcosa qui non quadra.
“Che sciocchezza! Cinna non lascerebbe mai Katniss!” esclamo ingenuamente.
Guardo Haymitch, sperando che abbia una buona spiegazione anche questa volta, ma lui rimane silenzioso e torce entrambe le mani attorno al bicchiere.
“Cinna è stato fatto prigioniero questa mattina” liquida brevemente Plutarch.
Haymitch sgrana gli occhi e io ho un forte giramento di testa che non mi permetterà di alzarmi dal divano, che è quello che vorrei fare, perché la notizia è a dir poco sconvolgente.
La confusione che mi attanaglia non mi permette neanche di realizzare che vorrei piangere.
“Plutarch! – esclama Haymitch, quasi abbaiandone il nome – Effie non sapeva di Cinna!” esplode.
Non sapevo cosa? Cos’è che devo sapere? Perché Haymitch sembra tanto scosso adesso?
“Bè, avresti dovuto dirglielo” controbatte lo stratega.
“No che non avrei dovuto! L’avrei spaventata a morte! Esattamente come hai fatto tu adesso!”.
Haymitch si alza dal divano e comincia a percorrere a grandi passi tutto il salotto.
“Sta bene?” domando tremante.
“Non sappiamo se sia effettivamente ancora vivo. Dopo aver fatto bruciare a Katniss l’abito da sposa sul palco delle interviste, ha dichiarato guerra aperta a Snow, dimostrando di essere un ribelle. Il loro intervento è stato tempestivo”.
Batto una, due, tre volte le palpebre, nella speranza che gli occhi riassorbano le lacrime. Ma non riesco a respirare.
Cinna è il migliore. Un genio assoluto. Un uomo di buon cuore.
Non posso credere che… non riesco neanche a formulare il pensiero.
Avrà mai fine questa giornata?
Qualsiasi parola cerchi di far uscire dalle mie labbra, mi si strozza in gola.
“Effie, sei l’unica che può avvicinare Tigris senza destare sospetti. Uno dei tuoi compiti da accompagnatrice è occuparti di eventuali sostituzioni per defezioni dello staff, giusto? Se questi Giochi non fossero una farsa, cosa accadrebbe se Katniss dovesse vincere di nuovo? Avrebbe bisogno di uno stilista! Ora: ufficialmente Plutarch dovrebbe comunicarti che Cinna è stato rimosso dall’incarico, quindi tu hai il diritto di cercare un rimpiazzo, contattando gli stilisti che ritieni più idonei. I contatti con loro, se effettuati da te, non potrebbero destare alcun sospetto. Ecco perché ti stiamo chiedendo di raggiungere Tigris Dumas” conclude Haymitch.
Forse ho ascoltato solo la metà delle parole che ha pronunciato. Il resto lo sentivo rimbalzare contro il cilindro di cristallo dentro il quale mi sento di essere finita.
Costringo il mio cervello a lasciare andare l’argomento Cinna velocemente, perché vedo Plutarch già ai blocchi di partenza, pronto a scattare dalla poltrona.
Non mi lascia neanche il tempo di reagire, di assimilare ciò che mi hanno detto, di capire in cosa realmente mi sto infilando quando aggiunge.
“Hai quarantasette ore per stabilire il contatto, dopo di che, alle undici di sera, dovrai essere assieme ad Haymitch sul tetto del centro di addestramento, il campo di forza sarà disattivato e potremmo venire a portarvi via. Se per un qualsiasi motivo non dovessi riuscire a farcela, trova un posto dove nasconderti, perché non credo che Snow vorrà lasciare qualcuno di noi, e per noi intendo chiunque abbia avuto contatti diretti con i tributi negli ultimi cinque anni, libero di fare la propria vita. Troverò il modo di farti avere una lista di contatti sicuri”.
Ascolto quel fiume di parole cercando di non dimenticare neanche una virgola.
Poi mi torna in mente lo stesso pensiero che mi aveva immobilizzata prima di entrare nella camera di Haymitch.
“Plutarch – lo fermo mentre già si sta alzando – Katniss non è incinta” dico rapidamente, afferrandolo per un polso.
“No, lo so - scambia una rapida occhiata con Haymitch - Snow mi ha già chiesto di fare rapporto sulla questione. Sarò costretto a dirgli che non ho nessuna prova al riguardo. Che non sono stato ragguagliato su nulla. Che non mi hai avvertito di nessun particolare problema. Questo ci lascia due speranze, lo sai: Snow potrà credere che Peeta si sia deliberatamente inventato tutto o credere che il team, e in particolar modo tu, abbia scelto di non dire nulla. Certo, la tua nuova preoccupazione di voler sembrare una squadra a tutti i costi non aiuterà. Ma se conosco Snow, non si è bevuto neanche una virgola della storiella del bambino. In ogni caso, a questo punto, non fa molta differenza” conclude, aspettando una mia risposta.
Ma non ho niente da dire. Ha ragione.
Adesso capisco perché Haymitch mi ha tirata dentro questa faccenda. C’ero già dentro con tutte le scarpe.
Non avevo capito la gravità della questione, fino a quell’attimo davanti la porta.
Haymitch ha trovato una via di fuga anche per me.
Sono scossa a tal punto che quando Plutarch e August si alzano per andare via, riesco solo a farfugliare dei saluti veloci, guardali andare via e osservare in piedi, a bocca serrata, che si chiudono la porta alle spalle.
Il mio silenzio vale più di mille altre parole.
Haymitch si avvicina e mi abbraccia di nuovo, posando il suo mento sulla mia testa.
"Non avere paura, bocca di baci. Ce la faremo".
 
Salve a tutti!
Mi scuso enormemente per il lungo tempo di attesa per questo capitolo, ma ho avuto giorni movimentatissimi!
La nostra Effie Trinket è ufficialmente un nuovo membro della ribellione!
Non vedo l’ora di andare avanti e spero di farlo il prima possibile!
Per adesso.. spero vi piaccia!
Recensite, ve ne prego!
Mor

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Capitolo 6
*** CAPITOLO 6 ***


CAPITOLO 6
 
Sono ancora li tra le braccia di Haymitch quando il senso di urgenza ci coglie alla sprovvista. Per un attimo abbiamo dimenticato che non abbiamo tempo, che i ragazzi hanno bisogno del nostro aiuto, che ho solo due giorni scarsi per rintracciare una persona che è sparita dalla circolazione anni fa e poi scappare da Capitol City per andare nel tredicesimo distretto.
E io non avevo neanche idea che esistesse un 13.
Ho evitato di chiedere, di fare osservazioni, di cercare spiegazioni per quell’elenco di follie che mi avevano appena propinato.
Quello che ho capito è che la ruota su cui sono salita gira ad altissima velocità, che io non posso fermarla, rallentarla e non posso neanche scendere. Posso solo correre e rimanere in equilibrio come meglio riesco.
Quindi non c’è tempo di mettersi a piangere, di mettersi a fare domande o di puntare i piedi sui modi.
Il volto di Cinna mi passa davanti gli occhi in un lampo, ma cerco di cacciarlo via.
Catturato, non ucciso.
Per ora non c’è altro.
“Dobbiamo andare, bocca di baci. Tutto a posto?” mi domanda Haymitch facendo scontrare le nuvole dei suoi occhi con i raggi dorati dei miei.
“Tutto bene. Posso farcela. Posso trovare Tigris. Un bel respiro e comincia il conto alla rovescia” gli dico cominciando a sciogliere le mie spalle dal suo abbraccio.
Ma lui mi blocca. Mi stringe di nuovo con un braccio e con il dorso dell’altra mano mi accarezza il viso, avvicinandosi talmente tanto che i nostri due nasi quasi si sfiorano.
“Ricordati quello che ho detto a proposito dei baci e del chiedere – mi dice in un sorriso obliquo – e poi la nostra copertura deve essere reale” aggiunge quasi ridendo
“Haymitch Abernathy, se credi che in un momento del genere io possa anche lontanamente pensare ai piaceri della carne, ti sbagli di grosso!– esclamo risentita – e hai decisamente esagerato con i bicchieri stasera, perché hai l’odore di una distilleria!” lo rimprovero posandogli i pugni sul petto e cercando di allontanarlo.
Lui però mi stringe ancora e io so che sto lottando una partita già persa, perché la sua forza fisica è dieci volte la mia e la sua forza mentale, quando decide di usarla, ha il potere di comandarmi come vuole.
“Se non cedi, bocca di baci, dovrò cambiarti il soprannome. E magari darlo a qualcun’altra” mi dice sussurrando sulle mie labbra.
“Odio quel soprannome” gli rispondo iniziando a cedere.
“Odi di più che io lo regali ad un’altra” mi dice lui sempre più vicino.
“Non esiste nessun’altra che ti bacerebbe” gli dico cercando di resistere, ma la mia voce è un filo.
“Non sai quanto ti sbagli Effie Trinket” conclude quando le sue labbra sono già posate sulle mie.
Mentre le sue mani sono voraci sulla mia schiena non posso fare a meno di chiedermi se questa volta è stato lui a prendersi il bacio oppure sono stata io a regalarglielo con tanta facilità.
Gli è bastato giocarsi la carta della gelosia e sei capitolata, Effie. C’è decisamente qualcosa che non va, oggi, in te.
Ovvio che no. Che giornata assurda è mai questa? Non so neanche se domani mattina sarò viva.
Haymitch mi guarda di nuovo negli occhi. Poi scioglie l’abbraccio e si allontana, afferrando un bicchiere dal tavolino da salotto che credo non fosse neanche il suo.
“Non c’è tempo, bocca di baci, per cedere a certe pulsioni. Sparisci di qui e fammi lavorare, per favore” mi dice.
La frase dovrebbe essere terribile, di una scortesia fuori del comune, ma sono io che lo ho appena guardato in quei mutevoli occhi grigi e sono io che leggo tutto quello che non sa dire. Io so che quel sorso di scotch è per mandare giù l’amaro che gli lascia la consapevolezza di non potersi prendere altro. O forse la certezza che se pure volessi regalargli tutto il mio corpo, non potrà averlo stasera.
E poi, in quegli occhi, negli anni, ho imparato a cercare la verità.
E la verità è che Haymitch Abernathy vuole portarmi con lui nel 13.
Sono tanto certa di questo che non posso trattenere un sorriso, uno vero, però.
Mi avvicino di nuovo a lui e sono io ad accarezzargli il viso stavolta, strofinando lievemente le dita sulla sua barba incolta.
“Tieni vivi i miei ragazzi” gli dico salutandolo.
“E tu riporta quelle due gambe mozzafiato sul tetto, domani” ribatte.
Non c’è altro che possiamo dirci.
Haymitch detesta i saluti, so che se mi lasciassi andare a strani sentimentalismi, si affogherebbe in quella maledetta bottiglia di scotch invece di tornare nel salone a lavorare, quindi non aggiungo altro. Semplicemente mi giro sui tacchi ed esco.
E quando mi sono chiusa dietro la porta della mia stanza, finalmente posso abbandonarmi ad un pianto disperato.
 
Mi sveglio all’alba, quando dall’enorme finestra della mia camera filtrano i primi raggi obliqui del sole.
Ho dormito poco più di un paio d’ore, ma me le faccio bastare.
Non accendo neanche il televisore: guardare i miei ragazzi affrontare chissà quale settore del diabolico orologio mi farebbe stare solo peggio di come mi sento e non ho bisogno di ulteriore nervosismo. Se accadrà qualcosa verrò avvertita, in un modo o nell’altro, per cui so, che se non riceverò alcuna comunicazione, non sarà successo niente di rilevante.
Mi vesto e mi sistemo come se fosse un giorno normale: capello mosso ad onde e boccoli, trucco color oro, labbra rosa solo al centro, un bel po’ di cipria in modo da ricordare un’orientale, ed un meraviglioso tailleur giallo con giacca corta in vita e gonna stretta al ginocchio. Mancano solo le scarpe e sono perfetta.
Nel perfetto stile modaiolo di Capitol City.
Non mi interessa niente di seguire la moda al momento, ma se non devo dare nell’occhio non posso cambiare i miei atteggiamenti, anche se sarei volentieri uscita con una tuta di addestramento di Katniss.
Lascio il centro di addestramento di buon’ora, scambiando un rapido saluto solo con il custode nell’atrio, l’unico presente a quell’ora del mattino.
Arriverò a casa mia, lì potrò accedere al mio archivio volutamente retrò (agendine scritte fitte fitte a mano in anni di lavoro) e cercare l’ultimo contatto che ho avuto con Tigris; questo è l’unico punto di partenza decente che ho trovato. Non dovrò chiedere a nessuno se non per necessità, in modo da non lasciare molte tracce da seguire. Nonostante Plutarch mi abbia offerto la copertura necessaria, preferisco non destare sospetti chiedendo.
Decido che, visto la meravigliosa giornata e la frescura mattutina, posso tranquillamente fare una passeggiata a piedi.
Ma camminare per Capitol City questa mattina è un incubo: chiunque mi posa gli occhi addosso sento che cerca su di me un indizio compromettente, ogni sorriso equivale ad uno smascheramento, ogni bambino che mi urta camminando un segnale.
Ogni sguardo che ricevo è uno sguardo di accusa, perché sono una traditrice, perché sto mettendo tutti loro in pericolo.
Ah si? Be’, cari miei, in vero pericolo ci sono i miei ragazzi ora, chissenefrega di tutti voi!
Effie!
Quasi mi rimprovero da sola di tanta silenziosa impertinenza.
Sorrido soddisfatta della mia presa di posizione, affronto a testa alta tutti gli altri visi che incrociano il mio cammino e finalmente sono a casa.
Entrando ho la sensazione di essere stata via per settimane, invece manco solo da un giorno.
Il mio piccolo mondo di riservatezza, a volte di ricercata solitudine, fatto di pareti rosa e argento, di piccoli servizi da caffè in porcellana sulle mensole del salone e da un bagno grande quanto la camera da letto, adesso mi sembra improvvisamente opprimente. L’enorme finestra che da su strada non aiuta a sentirmi meno soffocata, forse perché è una enorme vetrata che non si apre, fatta di spesso vetro infrangibile e specchiata dall’esterno verso l’interno, in modo che nessuno possa guardare dentro.
Abito in un centralissimo quartiere fatto di piccoli appartamenti a schiera ad un solo piano. I viali sono bellissimi, bordati di alberi da frutto e piccoli arbusti. Abbiamo ampli marciapiedi ed un efficientissimo sistema di raccolta rifiuti a scomparsa, tanto spazio e i servizi tutti a portata di mano, consegne a domicilio per i generi di prima necessità e manutenzione convenzionata di tutti gli apparecchi tecnologici in dotazione all’appartamento.
Nonostante questo, stamattina tutto verte su una gradazione di squallore che mi da la nausea.
Tutte queste comodità, questi segni di civiltà fittizia, questi ninnoli che vogliono proiettare un’immagine perfetta e curata di noi, questa smania per l’educazione, per la moda, per la mondanità, per spiccare e poi… poi mandiamo ogni anno al macello dei ragazzini e li guardiamo mentre muoiono, divertendoci.
Il genere umano commette sempre gli stessi errori.
Ho studiato, io. Non sono proprio una cretina.
Certo, probabilmente se mio padre non avesse avuto una naturale curiosità verso il mondo antico, in particolare la storia dell’impero romano, non avrei mai trovato libri del genere da leggere, imparando che Panem prende il nome dalla parola latina e che i romani erano soliti accoppiarla con Circenses per indicare qualcosa di molto preciso. Qualcosa che ogni anno ho visto ripetere davanti ai miei occhi in una ciclicità infinita: l’arena e i tributi, gli ibridi, le trappole, esattamente come nell’antica arena di Roma, e le belve feroci, i gladiatori, le botole, ma soprattutto…il pubblico.
Un pubblico assetato di sangue, che si divertiva al suono del clangore dei combattimenti, che incitava alla cruda violenza , che si radunava per assistere ad uno spettacolo di morte. Un popolo che veniva ammansito con la distribuzione del pane e l’entrata gratuita per assistere ai giochi.
Sono passati migliaia di anni e noi siamo l’esatta replica di quel momento.
L’essere umano non cambia mai.
Trovo, in una scatola del mio ordinatissimo stanzino, tutte le agende degli anni passati e trovo un indirizzo, risalente a non so quando, di Tigris segnato su un biglietto di invito per una festa.
Cerco qualcos’altro, magari di più recente, ma all’epoca non era tanto difficile trovarla, vista la sua appariscente maniera di frequentare tutti gli eventi più importanti della capitale. Inoltre il suo atelier era a due passi dal centro della moda e lei lavorava giorno e notte.
Non ho altro.
Infilo il biglietto in tasca e rimetto tutto nella scatola.
È poco, ma è pur sempre un punto di partenza.
 
 
Mi scuso per la brevità del capitolo, ma sto passando un periodo piuttosto indaffarato, quindi, con mio sommo dispiacere, il tempo per dare forma a tutte le mie idee è veramente poco! Questo è un capitolo di passaggio… ora comincia l’azione!
Grazie a tutti!
Mor

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Capitolo 7
*** CAPITOLO 7 ***


CAPITOLO 7
 
Prendo un taxi e mi avvicino all’indirizzo scritto sul vecchio invito che ho stretto tra le mani. Non voglio andare nel punto esatto, voglio lasciare una traccia piuttosto vaga dei miei spostamenti.
Comincio a credere di essere diventata piuttosto paranoica.
Ma so che esiste un piccolo giardino privato che collega il mio falso punto di arrivo con il posto che voglio raggiungere.
È recintato, ma ha un cancello nascosto sotto un ampio cespuglio che rimane sempre aperto e che non si vede dalla strada. Io lo so perché una volta, inciampando sui miei vertiginosi tacchi, sono caduta nella siepe e il cancelletto s’è rotto, lasciandomi atterrare nel giardino.
Che momento imbarazzante.
Non solo qualcuno poteva avermi vista, ma c’era una possibilità che fossi stata io a rompere la serratura.
Oddio che figuraccia.
Ci sono ripassata a piedi molte volte e ogni volta ho aspettato che la strada fosse meno popolata di passanti, per appoggiarmi vagamente al cespuglio, premere e far aprire il cancello. Ogni volta lo trovavo aperto.
Finchè un giorno l’ho attraversato completamente sbucando esattamente dove voglio arrivare ora, passando per un cancello esattamente uguale a quello di entrata.
Consegno la mia carta al tassista, aspetto il pagamento e scendo lentamente dal taxi.
Il cespuglio è esattamente incolto come lo ricordavo, al punto da farmi pensare che qualcuno lo mantenga così appositamente. Non è neanche cresciuto.
Mi guardo intorno e oggi sono contenta che tutti i passanti di Capitol City siano distratti da altro.
Li sento parlottare veloci con lo stesso ritmo della loro andatura, passarmi accanto e neanche notarmi. Qualcuno parla di Peeta e Katniss.
Serro le labbra strette tra i denti, perché so che potrebbe uscirmi qualche lamento, quindi attendo che mi siano oltre ed azzardo.
Il cancello si apre, come sempre.
All’interno le fronde fitte degli alberi quasi non lasciano penetrare la luce del giorno.
I suoni della capitale improvvisamente si affievoliscono e i miei passi rapidi lasciano quasi un’eco dietro di loro.
Ci vuole poco.
Salto un intero isolato.
Arrivo di corsa.
Il posto è giusto. Davanti a me precisamente l’ingresso indicato nell’invito.
Possibile che non esista una maniera più facile di rintracciare Tigris, senza dover partire de un invito di sei anni prima?
Prendo fiato, stiro nervosamente la mia gonna con le dita e riaccendo il ritmico ticchettio del mio passo.
Suono il campanello.
Nessuna risposta.
Busso alla porta.
Nessun segno.
Le imposte sono chiuse, le finestre anche. Nessun segno di vita dall’interno.
È chiuso.
Sento le spalle scendere per lo sconforto.
Sventolo l’invito sulle dita.
Mi guardo attorno con impercettibili scatti.
Devo trovare un altro modo.
Giro su me stessa ed attraverso di nuovo la strada, avvicinandomi quasi a mano tesa all’entrata del giardino.
Ma in quel momento note che sulla soglia del giardino, proprio sul bordo del cancello, con una mano ossuta posata sul ferro, c’è una vecchina che mi osserva.
Sto per fare dietro front, impaurita, nella sola speranza che non mi abbia notata, quando invece mi sorride.
Non ho scampo. Ce l’ha proprio con me.
Vorrei guardarmi attorno, ma chissà perché penso che l’anziana signora se ne accorgerebbe interpretando il mio gesto come un tentennamento o un segnale per chissà chi, quindi mi trattengo e decido velocemente se proseguire verso il giardino come nulla fosse o rispondere distrattamente al sorriso, senza dargli troppo peso ed avviarmi per la strada.
Ma la vecchina è ancora lì che mi fissa ed è tanto magnetica che non so correggere la mia traiettoria.
Quando sono troppo vicina, per i miei gusti, mi parla.
“Signorina Trinket, buonasera” dice non lasciando sfuggire i miei occhi dai suoi.
Un brivido di terrore mi lascia per qualche secondo senza fiato.
La guardo, quasi sentendomi scivolare gli occhi fuori delle orbite, e rimando in silenzio, incapace di formulare una qualsiasi risposta. O anche solo una domanda. Magari la più logica.
Come conosce il mio nome?
“Signorina Trinket, venga – mi invita ad entrare – lei non si ricorda di me, ma io non potrei mai dimenticarmi di lei” dice come a voler rispondere all’interrogativo rimasto solo nella mia testa.
“Mi scusi signora, vado piuttosto di corsa” dico, sperando di sembrare sincera e convincente.
“Bene, allora passi per il giardino. La via è molto più breve” dice.
Ogni parola che esce dalle sue labbra sottili e rugose mi mette una paura matta.
Come fa a sapere dove sto andando? La via è molto più breve per…dove?
Purtroppo non trovo una valida scusa per non seguirla, perché l’unico modo che mi viene in mente è darmela a gambe, ma so che se lo facessi desterei solo altri mille sospetti.
L’unica via di fuga è rischiare.
Così in silenzio la seguo, mentre la sua mano ossuta si sposta dal cancello al mio gomito.
Ha un tocco leggero, ma deciso.
“Mi scusi, io…” farfuglio, ma la vecchia si interrompe.
“Sessantasettesimi Huger Games, ero una delle sarte della signorina Tigris. Si complimentò con me per le meravigliose decorazioni di lustrini che avevo fatto per i costumi usati durante la parata. Era un complimento sincero. Non dimentico mai un complimento sincero” dice allegramente.
La paura comincia a scemare, sostituita dal sospetto che la vecchietta non abbia proprio tutte le rotelle a posto.
“Mi scusi – le dico riconquistando un po’ di calma – proprio non mi ricordo…” ammetto con tristezza.
L’anziana signora sembra ancora così entusiasta di quel vecchio complimento che pare proprio un peccato non ricordarsene.
“Oh, ma non può ricordarlo. In fondo non lo ha detto direttamente a me, ma alla signorina Tigris!” esclama divertita.
“Oh, capisco!” esclamo senza riuscire a trattenermi.
“Eravamo proprio lì dentro quando l’ha fatto! – indica con precisione la porta a cui ho bussato poco fa – io passavo per caso con il mio bicchiere e ho sentito tutto! Ha detto: ‘l’idea dei lustrini che ricordassero le onde del mare è stato geniale Tigris’ disse!” e conclude.
Cerco di non aggrottare la fronte nel pensare che non era affatto un complimento rivolto a lei, per non sembrare scortese.
Questa signora deve aver perso qualche venerdì già prima della vecchiaia.
“Al ricevimento in onore del nuovo atelier di Tigris!” dico invece, sperando che fingere di ricordare sia abbastanza.
“Esattamente!” risponde eccitata.
Nel frattempo ci siamo incamminate e passiamo sotto le fronde ombrose degli alberi.
Siamo quasi arrivate dall’altro lato del giardino, quando tento una soluzione che rasenta la disperazione.
Non ho molte alternative. E se avrò una risposta non solo potrà essere un successo, ma una clamorosa botta di fortuna.
“È un vero peccato che Tigris si sia ritirata dalle scene” ammetto con rammarico.
“Si. Una stilista dotata di grande talento. Ma non si è ritirata. Credo che dopo l’ultima operazione di ricostruzione facciale sia diventata un personaggio non gradito. In fondo, a chi piace una donna che va girando per i ricevimenti ufficiali con le labbra feline sporche di sangue e il piatto pieno di carne cruda?” domanda costernata.
Avevo completamente dimenticato quel dettaglio.
E la lucidità con cui la vecchietta fa l’osservazione fa tornare i brividi.
“Spero per lei che abbia messo da parte sufficienti soldi per godersi la vita una volta spenti i riflettori” dico tristemente.
“Non credo, altrimenti non avrebbe avuto motivo di aprire quella topaia di negozio di abiti usati in centro” spiega con noncuranza.
Ed eccolo lì.
Il mio colpo di fortuna.
Se sei positiva, Effie, puoi ottenere qualsiasi cosa!
“Un negozio di abiti usati? Da non crederci!” trillo assolutamente scioccata dalla notizia.
Lo sono effettivamente, ma funziona nel mantenere la conversazione sul tono informale del pettegolezzo da retrobottega.
“In pieno centro, proprio sulla via della Locanda Fiorita! Ma è talmente un bugigattolo che se non lo conosci non lo vedi nemmeno! Che epilogo amaro!” esclama indignata.
La sua mano ossuta è sempre sul mio gomito e mi fa sentire estremamente a disagio.
Ma questa signora è una fonte inestimabile di informazioni.
Quasi non credo alle mie orecchie.
Ed alla mia fortuna.
“Davvero una brutta fine” concordo scuotendo il capo.
“Oh, signorina Trinket! Ma non è mica morta! – mi riprende con vigore – potrebbe anche andare a trovarla, la trova sicuramente lì, tranne nelle ore dei pasti!” dice sicura.
“Bè, come le dicevo, vado piuttosto di fretta…” rispondo, non perdendo la prima scusa.
“E non cercava lei, quando ha bussato lì giù” chiede.
Ma che razza di impicciona…
“No, speravo ci fosse qualcuno perché vorrei organizzare un ricevimento privato in caso uno dei miei tributi vincesse…” comincio con la falsa spiegazione.
“Allora torni dopo le quattro di oggi pomeriggio. Non aprono mai prima” spiega rapida.
“E lei come fa a saperlo?” chiedo.
Forse però avrei dovuto evitare. Ma la curiosità è stata troppo forte.
“Oh, signorina Trinket! Io abito qui!” dice.
E stavolta indica la casa immersa nel giardino.
A volte cadere non è sconveniente come sembra.
Che fortuna sfacciata, Effie Trinket!
 
 
Salve pubblico!
Questo capitolo arriva con moltissimo ritardo e molto scetticismo dopo la mia pausa forzata causa trasloco! Ma finalmente ce l’ho fatta!
Spero possa piacervi, anche se dai toni decisamente meno drammatici dei precedenti.
In fondo Effie è sempre Effie, per quanto coinvolta nei diabolici piani di Plutarch e un tocco di leggerezza è sempre dovuto!
Spero di poter aggiornare con più costanza, ma l’estate incombe e dove trascorrerò le mie umili vacanze non so se avrò una connessione buona per poter pubblicare, quindi se mi assenterò di nuovo troppo a lungo spero possiate perdonarmi!
Ogni critica ed osservazione è sempre gradita!
Un abbraccio
Mor

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Capitolo 8
*** CAPITOLO 8 ***


CAPITOLO 8

Non riesco ancora a credere di aver avuto tanta fortuna. Sono sempre stata un’ottimista, questo è vero. E ho pronunciato il motto di Panem un’infinità di volte in vita mia, ma visti tutti i tributi a cui avevo augurato che la fortuna potesse essere sempre a loro favore ed essendo riuscita una sola volta a partecipare al tour della vittoria, credevo che la sorte avesse ben altri compiti che comportarsi bene con qualcuno. Ho sempre creduto che l’impegno e la dedizione avrebbero garantito i risultati del successo, che la tenacia avrebbe ricompensato gli sforzi e che la passione avrebbe portato buoni risultati, ma non che una fortuna veramente sfacciata mi avrebbe aiutata oggi.
Eppure eccomi qui, con un sorriso soddisfatto, a camminare per le strade di Capitol City, con un’informazione per cui credevo avrei dovuto faticare tutta la giornata.
Ho deciso di avviarmi a piedi verso il negozio di Tigris, sempre convinta di dover lasciare meno tracce possibili da seguire.
In realtà so troppo poco di questo fantomatico piano di Plutarch per potermi sentire tranquilla, ma ho deciso di relegare l’ansia in un angolino silenzioso della mia coscienza, in modo da non lasciarmi intralciare nel compito che mi è stato assegnato.
Fino ad un paio di ore fa pensavo che non sarei mai riuscita a rintracciare la stilista, ma ora mi sento pervasa di nuovo dal mio incrollabile ottimismo e credo che potrei veramente farcela.
In fondo la giornata è lunga e ho tutto il tempo di occuparmi della faccenda per poi farmi trovare al punto di incontro con Haymitch, domani.
Sono allegra e fiduciosa e ora passeggiare per le strade della mia città non mi sembra più tanto scomodo come questa mattina appena uscita.
Le persone vestite di ogni colore contagiano il mio spirito e ad ogni passo le mie spalle si sollevano un poco di più, come alleggerite.
Il negozio effettivamente non è distante e la vecchia aveva ragione, se non avessi saputo cosa cercare, probabilmente non lo avrei neanche notato.
Le luci sono spente e i manichini nella vetrina sono sciatti e impolverati, come se nessuno avesse cambiato i loro indumenti da anni. La porta ha una maniglia rotonda di metallo, sverniciata dal tempo e il solo pensiero di doverci posare la mano mi fa venire i brividi. Cerco di avvicinarmi al vetro e di curiosare dentro, ma è buio e una fila di stand pieni di abiti di ogni tipo ammassati sulle stampelle, copre la maggior parte della visuale.
Devo rassegnarmi. Non c’è alternativa al provare ad entrare.
Piuttosto di non toccare quella sudicia maniglia provo a spingere con i palmi delle mani sul vetro, ma purtroppo la porta rimane chiusa.
Prendo un bel respiro e provo a girare la maniglia.
La porta si apre, un campanellino suona e noto per la prima volta un bagliore azzurrino e instabile provenire dal fondo del negozio.
“Buongiorno. Se sei nuovo sappi che questa settimana abbiamo in promozione la biancheria intima imbottita” dice una voce graffiante e rauca che viene dalla stessa profondità del bagliore.
Biancheria imbottita? Cioè, tiene caldo o aggiunge volume nei posti giusti?
Scuoto la testa per cacciar via la domanda e mi avvio timidamente verso la luce intermittente. 
Avvicinandomi comincio a capire che si tratta della luce di una televisione.
“Anche avessi bisogno di un reggiseno imbottito, se non accendi le luci dubito che riuscirei a trovarne uno, in mezzo a tutte queste cose!” esclamo senza riuscire a trattenermi.
“Oh miseriaccia! - un’esclamazione di stupore arriva seguita immediatamente dal rumore di una sedia strusciata velocemente per terra, poi dei passi rapidi - Effie Trinket, sei l'ultima persona che mi immaginavo di accogliere qui dentro!" ammette con sarcasmo.
Batto un paio di volte le palpebre, indecisa su come reagire, mentre lei appare da dietro un appendiabiti colmo di giacche logore sulle sfumature del marrone.
Il tempo e la chirurgia estetica non sono stati clementi con Tigris.
Tra lei e un gatto anziano ora ci sono poche differenze, forse le uniche sono che lei continua, per fortuna, a camminare su due zampe e il fatto che sia in grado di parlare, anche se non capisco bene come, dal momento che la pelle del suo viso è stata talmente tirata che muovere le labbra potrebbe essere piuttosto scomodo.
"Ciao Tigris" la saluto con cautela.
Ora che sono qui non ho la minima idea di cosa dirò e come farò a tirar fuori un argomento tanto delicato.
Avrei dovuto pensarci prima.
Che vergogna.
Effie Trinket, la regina dell'organizzazione, esce di casa per una missione impossibile senza avere una scaletta da seguire.
Spero non se ne accorga.
Non sarebbe un punto a mio favore.
Però non è che devo fare un colloquio di lavoro. Qui nessuno giudicherà le mie capacità. Al massimo è la credibilità di quello che dirò, ma soprattutto di come lo dirò che farà la differenza.
"Due motivi potrebbero portarti in questo buco impolverato: sei improvvisamente diventata povera, alternativa in cui non credo, dal momento che ti ho vista in tv solo un paio di giorni fa; oppure cerchi una stilista e allora hai proprio sbagliato. Io non lavoro più per quelle merde" dice, abbozzando un sorriso che sembra più il soffio silenzioso di un gatto.
"Oh, che brutte parole! Da quando sei sparita sono cambiate molte cose!" rispondo infastidita. Si da il caso che se lavoro con certi personaggio posso essere considerata della stessa...pasta anche io.
"Come ad esempio che tu quell'ubriacone di Abernathy siete riusciti ad avere dei vincitori? Due in un anno! Un vero miracolo! Chi vi siete dovuti lavorare per riuscirci?" chiede, mostrando di nuovo i denti.
Vorrei saperlo fare anche io ora, ma ingoio un profondo respiro e sorrido.
"I miei vincitori hanno fatto tutto da soli! Katniss è una vera combattente e Peeta possiede una brillante intelligenza!" li difendo alzando un po' il tono della voce. Non mi aspettavo proprio che il colloquio potesse essere tanto terrificante e sbagliato.
Che mi aspettavo? Due chiacchiere tra amiche davanti ad un tè?
"Si, tanto intelligenti da farsi spedire due volte di seguito nell'arena! Un vero primato di cui andar fieri!" sottilizza. E questa volta scoppia a ridere, con un suono che somiglia per metà alle fusa di un gatto.
Ma che diavolo di interventi ha fatto?
"Non è di sicuro colpa loro" dico diventando piuttosto acida nel tono. Questa donna è riuscita a farmi perdere la pazienza in pochi minuti. Dubito che riuscirò a mantenere la calma per poter affrontare un qualsiasi discorso.
"No? Allora il problema è che nel 12 li fanno tutti così" dice con leggerezza.
"Proprio no! - esclamo fu furiosa - il 12 non aveva mai avuto un volontario!" 
"Mentre un sovversivo invece si..."
L'ultimo commento mi lascia senza parole.
Quello che ha detto Haymitch a proposito di Tigris è completamente sbagliato.
Non c'è nessuna potenziale ribelle in questa donna. Non può esservi in una che sta sputando veleno proprio sulla situazione che ha fatto aprire un occhio a me. Se l'ho fatto io, credo di poter determinare con assoluta sicurezza che debba essere un requisito fondamentale per qualcun altro.
"Va bene, Tigris. È stato un piacere ritrovarti. E comunque ero entrata qui per caso, giusto per dare un viso al venditore fuori di testa che osa trattare una vetrina così. Buona giornata" dico girando sulle punte e inforcando la via d'uscita.
Sento richiudersi la porta del negozio.
Rimango per qualche attimo ferma sullo zerbino, incredula.
Ho ricevuto solo insulti, entrando in questo postaccio.
È ora di pranzo.
Sono in centro.
Scelgo un bel posticino dove andare a mangiare qualcosa e non ci penso più.
A stomaco pieno sarò sicuramente in grado di trovare una giustificazione plausibile da dire a Plutarch riguardo l'impossibilità di reclutare Tigris Dumas per una qualsiasi cosa.
Si è creata una cuccia di stracci e soffia a chiunque entri.
Scema di una gatta.
Spiego la gonna gualcita, tiro verso il basso la mia giacca tendendo la stoffa, do un leggero colpo di capo per confermare a me stessa che sto facendo la cosa giusta e mi avvio verso una caffetteria poco distante che conosco.
Ma questa volta, durante il tragitto, le mie spalle si afflosciano progressivamente, fino a quando non mi accascio sulla sedia dal cuscino a righe che appartiene ad un tavolino tondo con la tovaglia della stessa fantasia.
Mi sento stremata.
Fisso per qualche secondo la piantina dalla chioma perfettamente dritta ,usata come centro tavola.
Sembra erba gatta.
E improvvisamente mi domando come stiano i miei ragazzi nell'arena.
Basta voltare le spalle alla strada e sporgere leggermente il capo verso l'interno della caffetteria, perché, come in tutti i negozi di Capitol City, troverò un televisore che proietta i Giochi.
E infatti eccoli lì, vivi, che camminano su uno dei raggi dell'orologio, in direzione della cornucopia, accompagnati da un gruppo improbabile di alleati. Improbabile per chi non sa. Non per me.
La presenza al loro fianco di Finnick, Johanna e persino di Beete, mi rassicura.
Non ho bisogno di guardare altro. 
Sono ancora vivi, per fortuna.
Ma è la mia, di fortuna, che oggi ha già sparato tutte le sue cartucce.
Era impossibile che dopo aver impiegato così poco per scoprire dove trovare Tigris, poi sarei anche riuscita a convincerla senza dire nulla.
A volte, Effie, sei proprio una sciocca.
Sì, è vero sono sempre io a dire che con la passione e l'impegno si ottiene tutto, ma questa donna è intrattabile, non ho idea di come fare.
Un cameriere dalla divisa improbabile (quel verde pistacchio non gli dona per niente, dovrebbe richiedere un abbigliamento più dignitoso)  si avvicina e mi chiede di ordinare. Non ho neanche letto il menù, ma quando sto per aprire bocca vengo interrotta da una figura che si siede al mio tavolo e che parla al posto mio.
"Due insalate di granchio e dell'acqua demineralizzata" dice cacciando via il cameriere con un gesto della mano.
Io la osservo in silenzio. Tigris ricambia lo sguardo con i suoi occhi gialli.
Passa più di qualche attimo.
Poi mi sblocco, perché non sono brava a tenere un silenzio simile.
"Granchio? Come fanno ad averne? Il tempaccio nel 4 ha rallentato le battute di pesca. Dei miei amici hanno avuto difficoltà a reperire dei semplici gamberetti" chiedo con leggerezza.
Mi osserva ancora e aspetta a rispondere. I suoi occhi si riducono a due fessure.
"Allora lo sai" dice in un soffio.
"So cosa?" domando alzando le spalle.
"Che mangerai del granchio surrogato" risponde.
E so per certo che non stiamo parlando di pesca, maltempo e crostacei.


Chiedo infinitamente scusa, ancora, per non aver modo di aggiornare con più costanza, ma spero di nuovo che possiate perdonarmi.
La nostra Effie ha trovato Tigris! Che donna fortunata davvero!
Spero di non allontanarmi troppo dalla Effie che tutti conosciamo, anche se solo attraverso gli occhi di Katniss.
Vedo che leggete, ma non commentate. È un peccato. Perché le recensioni aiutano l'estro e l'ispirazione, ma soprattutto lo fanno le critiche costruttive!
Spero di potervi leggere presto ;)
Grazie a tutti!
Mor

Ps, se ci sono errori, per favore, fatemeli notare che cercherò di correggere. Al momento scrivo da un tablet e ho difficoltà a controllare per bene!

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Capitolo 9
*** CAPITOLO 9 ***


CAPITOLO 9

"Allora proprio non capisco perché dobbiamo mangiarlo. Sarà pessimo"
"Perché è bene conoscere sapori diversi da quelli cui siamo abituati. La vita a volte potrebbe prendere pieghe inaspettate" mi dice guardandosi fissa, senza mai battere le palpebre.
Sta cercando di farmi la morale?
"È quello che ti è successo?" azzardo.
"No, quello si chiama scegliere. È quello che è accaduto a te, invece" dice, facendomi gelare il sangue.
Non ho idea di come mandare avanti questa assurda conversazione, ma fortunatamente il cameriere ci interrompe portando a tavola il nostro pranzo.
Osservo il piatto che ho davanti e non ho difficoltà a capire con il primo sguardo che la polpa bianca striata di arancione sia artificiale. La sua perfezione geometrica è inconfondibile.
Come possono servire una cosa simile? Possibile che i capitolini non si accorgano della differenza?
Ma probabilmente tutti si accontentano della scusa del mal tempo e non vanno oltre.
Io guardo ancora il piatto, poi Tigris, incapace di iniziare il pasto.
"Non è tanto male, avanti. Buon appetito" 
Se non fosse che sembra cibo per gatti.
Riesco a sorridere e in forchettate il primo boccone.
Credo che dovrei essere io a dover dire qualcosa, ma proprio non so da dove partire e, tra l'altro, masticare con la bocca aperta non è decoroso, nemmeno se di fronte hai una persona che se ne infischia delle buone maniere e pilucca con le dita dal piatto scegliendo i bocconi.
Sta mangiando solo la polpa. 
È proprio cibo per gatti.
"Perché hai ordinato un'insalata per poi mangiare solo quello che ti pare?" le domando pulendomi la bocca con il tovagliolo di carta. Quanto siamo caduti in basso? 
Neanche un decente tovagliolo di stoffa?
"Per essere libera di scegliere. Prender ciò che voglio anche in mezzo a cose che non mi piacciono" dice lentamente. 
"Se non ti piace qualcosa puoi semplicemente evitarla" le faccio notare.
"O scegliere di non vederla. Ma non sono capace, purtroppo" finisce di mangiare e scansa il piatto praticamente ancora pieno.
"Allora puoi provare a cambiare. Se non ti piace l'insalata, prendi solo il granchio"
"Non servono granchio da solo. Da queste parti o fai come dicono loro o devi scegliere e accontentarti del poco che rimane"
"Da queste parti..." dico lasciando aperta la frase.
Tigris sgrana per un attimo gli occhi e le sue pupille si dilatando.
Ora ho la sua completa attenzione.
"Non c'è modo di cambiare ristorante, a questo,punto. Hai quasi finito di mangiare" aggiunge dopo un attimo, con un tono di leggera polemica.
"Per il momento no, ma magari per cena possiamo provare da un'altra parte!" esclamo entusiasta.
Lei mi scruta per qualche secondo, poi sembra sorridere.
"Conosco un posto dove fanno una fonduta di carne eccezionale! Sembra non ci sia stato nessun flagello meteorologico nel distretto. La carne sarà freschissima" 
A questo punto assottiglia lo sguardo, come se stesse prendendo la mira con entrambi gli occhi.
"Non vedo l'ora!" quasi saltello sulla sedia dalla soddisfazione.
Finiamo il pranzo intavolando una conversazione singhiozzante.
Oramai, credo per entrambe, qualsiasi cosa diciamo ha la possibilità di significare altro ed ad un certo punto comincia a farmi male la testa, nel tentativo di rimanere concentrata e non cadere in errori.
Ci salutiamo poco distanti dalla caffetteria.
Tigris torna al suo negozio.
Io... io non so bene cosa fare.
Si presupponeva che impiegassi molto di più nel portare a termine il mio compito.
Mi avvio verso casa a piedi, decisa a comportarmi come se nulla fosse.
Mi fermo anche in un paio di negozi, giusto per comprare delle piccole cose di tutti i giorni.
In ogni negozio ho occasione di dare una controllata ai miei ragazzi nell'arena.
Stanno bene, hanno capito di essere in un orologio, quindi forse ora sono leggermente più al sicuro. Certo, mancano più di trenta ore al riscatto, ma sono in una buona squadra e conoscono il gioco.
Distolgo lo sguardo dallo schermo, dove i ragazzi sono ancora sull'isola della cornucopia e hanno appena respinto un attacco di Gloss, Cashmere, Brutus ed Enobaria. Wiress purtroppo non ce l'ha fatta, ma il povero Finnick s'è preso una coltellata per parare una lancia diretta a Peeta.
Sono ancora tutti interi.
E Katniss abbraccia Peeta come se fosse il suo unico pensiero.
E tutto ok. Sono vivi. I ragazzi proteggeranno i miei vincitori. Ce la faranno. Manca poco.
Poso sul bancone della cassa il completo di biancheria intima che ho scelto (è un piccolo regalo per me, per aver compiuto un'impresa!) e attendo che la commessa si volti e mi serva.
Ma lei è tutta presa a fissare Katniss e Peeta che si abbracciano.
Schiarisco la gola, nella speranza che si volti.
Eppure non sortisco effetto.
Chissà perché adesso la cosa mi infastidisce.
Mi sento come se qualcuno stesse spiando i miei ragazzi dalla serratura mentre loro dormono insieme. Una violazione della loro intimità. Un'intrusione nelle loro vite.
Tossisco appositamente, con più energia di quanto un normale colpo di tosse richiederebbe, e comincio a tamburellare le unghie colorate sulla cassa.
Mi sto irritando.
Con lentezza, girando lo sguardo solo dopo aver voltato il collo, la cassiera finalmente mi presta attenzione, mi guarda per un secondo e poi sgrana gli occhi.
Mi ha riconosciuta.
Annaspa qualche secondo come se le mancasse l'ossigeno, neanche fosse un pesce appena pescato e poi riesce a chiudere la bocca e parlare.
"Signorina Trinket! Mi scusi, io... Non riesco a togliere gli occhi dallo schermo!" dice tutta trillante.
Il mio sorriso si spegne.
È proprio per questo motivo che i miei vincitori sono di nuovo lì, stupida oca.
"Ho notato" dico gelida.
"Quei poveri ragazzi! Dover affrontare tutto questo, di nuovo, in attesa del loro bambino!" dice ancora.
Evidentemente non è rimasto un barlume di sanità mentale in questo posto flagellato dal demonio.
"Un vero peccato, sì - sto per dire "ringraziamo il nostro presidente", ma ho l'accortezza di tacere - non preoccuparti tesoro, i miei vincitori se la caveranno, o almeno uno dei due lo farà sicuramente" dico con tutta l'indifferenza di cui sono capace. In realtà mi sento svenire se solo penso che potrebbe finire molto peggio.
"Non credo ci sarà una nuova regola quest'anno, che possa salvarli di nuovo entrambi, vero?" mi domanda come se fossi io la Stratega.
"Purtroppo non sono io a prendere queste decisioni, tesoro. Non preoccuparti e goditi i giochi. Il vostro supporto è fondamentale per loro!" la incoraggio, nascondendo quasi con cattiveria quanto in realtà Katniss odi profondamente chiunque venga da Capitol City e quando Peeta sia solo bravo a raccontare quello che si vogliono sentir dire.
Manica di imbecilli.
Ma perché oggi tutto ha una sfumatura di colore diversa? Come se stessi guardando tutto con gli occhi grigi, arrabbiati e intelligenti di Haymitch? 
È scattato un meccanismo che non sapevo di avere nella mia capacità di ragionamento.
Mi piace!
Ma mi fa sentire arrabbiata. 
"Hanno tutto il nostro appoggio!" esclama la cassiera mentre passa i miei articoli allo scanner.
Sì, come no. Grazie dell'aiuto.
Passo la mia carta, tranquilla che se la tracceranno, non troveranno nulla di compromettente, visto che il negozio è vicino dove abito e soprattutto ad una signora come me nessuno potrà negare la necessità un bel completo di pizzo bianco.
Saluto a denti stretti e me ne vado, dritta verso casa.


Salve salvino!
La storia va avanti, anche se lentamente, ma spero sia cosa gradita!
Aggiorno con moooolta lentezza rispetto ai miei ritmi, ma d'estate è tutto un po' più complicato!
Baciassimi assolatissimi per tutti!
Kisses and Hugs
Mor

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Capitolo 10
*** CAPITOLO 10 ***


CAPITOLO 10
 
A che sarà servito poi comprare un completo di biancheria intima se devo darmi alla fuga tra un giorno? Lo metto in valigia?
Certo. Già mi vedo: corro dietro un overcraft che è decollato senza di me e la valigia si apre, generando una ventata di frizzante ilarità in tutti quelli che mi guardano.
Ridono perché mi hanno lasciata a terra o perché il mio reggiseno di pizzo bianco svolazza sotto il vento delle turbine a reazione?
Mi sto facendo prendere dal nervosismo, ma proprio non avevo contemplato l’idea di avere un intero pomeriggio senza uno straccio di cosa da fare.
Le parole di Haymitch mi esplodono nella testa. Quelle di Plutarch accendono la miccia.
Non ho modo di uscire da questo vortice di agitazione che mi sta mangiando.
Ho rischiato anche di rovinare la manicure mordendomi le unghie.
Basta.
Datti una calmata.
In un modo o nell’altro queste ore passeranno e sarai a cena con Tigris. Che tu abbia perso il lume della ragione inseguendo paure e fobie o che sia rimasta lucida.
Potrei accendere la televisione e guardare i giochi, ma non ce la faccio. Non posso più guardare quel valzer con la morte senza che i miei nervi cedano definitivamente.
E se i ragazzi dovessero morire prima del riscatto?
Mi guardo attorno e ciò che vedo è la mia casa, ordinata, pulita, illuminata dalla mia immensa finestra, silenziosa, vuota.
Ho fatto del mio mestiere la mia vita, cercando di sostituire quello che manca, senza neanche sapere che c’è un enorme vuoto che ho tentato di colmare.
Le feste, i viaggi, l’organizzazione, i vernissage, la programmazione, i contatti, le conoscenze, mille visi, centinaia di nomi, ma nessuno che io possa abbracciare come una famiglia.
Io sono sola.
Ero sola e neanche lo sapevo.
Perché non provavo solitudine. I momenti in cui non ero contornata da persone erano solo dei passaggi obbligati.
Ora invece la solitudine mi avvolge.
È venuta fuori per caso, dopo aver lasciato i ragazzi la sera dell’intervista.
Tornare a casa nel caos, senza poter rimanere al centro di addestramento, lontana dalla macchinazione dei giochi, è stato l’inizio.
Comincio a sistemare sul letto, con meticolosa attenzione, quelle cose che voglio portare con me. Cerco una valigia e la riempio con cura, osservandola soddisfatta quando la chiudo e la poso in piedi accanto al comodino.
Ora mi sento più tranquilla.
Ora so che devo fare.
Che ci faccio qui a perdere tempo?
Devo tornare al centro di addestramento, più vicina ai miei vincitori di quanto possa essere.
E magari comunicare ad Haymitch le novità.
Chissà quanto sarà contento.
Per la cena c’è tempo. Troppo.
E io non so aspettare senza niente da fare.
Mi sistemo i capelli, contenta del loro oro luccicante, ed esco.
 
Il centro di addestramento pullula di persone.
Sembra che la nuova alleanza tra tributi abbia scatenato un frenetico gioco d’azzardo.
I mentori sono impegnati in una rivalità nella caccia allo sponsor fuori dell’ordinario.
È evidente che preferire un tributo piuttosto di un altro, all’interno di quella che sembra al momento una solidissima alleanza tra Peeta, Katniss, Finnick, Beete e Johanna, sia piuttosto complicato. Johanna ha la rabbia, Beete la geniale intelligenza, Finnick la lucidità, Katniss la determinazione e Peeta…
Oh, lo so, nessuno starà scommettendo su Peeta. Nessuno sponsor vorrà aiutarlo. È evidente agli occhi di tutti che sia nel posto sbagliato.
Cerco Haymitch tra la folla accalcata davanti al bancone del bar, ma non c’è.
Sono dieci anni che lo osservo fare il suo mal tollerato mestiere, ma mai come durante gli ultimi due giochi l’ho visto lavorare tanto.
Da quando Katniss è entrata nell’arena per i settantaquattresimi Hunger Games è come se riuscisse, per tutta la durata dei giochi, ad essere una persona, più che un animale impaurito. Non beve, se non quel tanto che basta per socializzare, non rifiuta i brindisi con gli sponsor e gli strateghi, ma è sempre lucido, gli occhi accesi, lo sguardo attento.
Non me lo aspettavo lo scorso anno.
Ma sapevo si sarebbe ripetuto anche quest’anno.
Allora perché lo cerco al bar?
Abitudine.
È tra le poltrone che devo cercare.
Nelle sale scommesse.
Davanti ai tabelloni per le quotazioni.
Alla sezione approvvigionamenti.
Muovo gli occhi rapidamente e lo vedo in piedi, di spalle, nel suo completo grigio, i capelli lisci, tagliati pari all’altezza delle spalle.
Se c’è una cosa per cui sono grata ai preparatori è che riescono ogni volta a ripulire Haymitch dalle pessime condizioni in cui sale sul treno per Capitol City ogni anno.
Ringraziando il cielo sono così bravi da togliere tutti gli strati di abbandono di cui si veste durante l’anno e gli restituiscono l’aspetto di un uomo ancora robusto, se vuole di un’intelligenza pericolosa, dall’aria vagamente misteriosa.
A dirla tutta non proprio vagamente. Quello che gli passa per la testa credo sia un mistero per tutti come per me.
Eppure io so leggere qualcosa nei suoi occhi, che il resto del mondo, eccetto forse Peeta, ha scelto di non vedere.
Mi avvicino, sorridendo agli sguardi che incrociano il mio, e mi affianco al mentore della mia squadra oro.
Quando le nostre spalle si sfiorano lui gira leggermente il capo, per sincerarsi che sia io, e senza smettere di parlare con le quattro persone che ha di fronte, mi cinge le spalle con un braccio e mi attira a sé.
Un gesto semplice, ma poco usuale per uno come lui.
Gesto che non sfugge all’uomo alto e scuro di pelle che ho di fronte, che mi guarda ammiccando e sorridendo con malizia.
Io devio lo sguardo e poggio la mia mano sul petto di Haymitch, giusto per rincarare la dose.
Non so perché lo faccio, forse per sfida. Perché quello sguardo indagatore ha poco da scoprire. Si facesse i fatti suoi. Cercasse le conferme che più preferisce. Se Haymitch mi abbraccia non sono fatti suoi.
Però a pensarci bene, quell’abbraccio è carico di significato.
Strizza la mente, Effie. Te lo ha detto ieri.
È la vostra copertura, no?
Dovete far credere a tutti che siete amanti. Degli amanti un po’ troppo ingenui. Pronti a darvi in pasto ai pettegolezzi di Capitol City, fingendo di esserne completamente inconsapevoli.
E brava Effie.
Quella mano è stato il vero colpo di genio.
Haymitch stringe la presa, quando sente il mio tocco delicato sul bavero della sua giacca, e per un attimo la mia convinzione che sia solo un gioco vacilla, perché sento passare altro, oltre al calore della sua pelle.
Ma è solo un attimo.
Lui continua a parlare, con disinvoltura, ridendo di alcune osservazioni sul carattere di Katniss della donna dalle sopracciglia viola, e la sua mano rimane saldamente aggrappata al mio fianco, così come la mia sul bavero della sua giacca grigia.
Mi unisco alla conversazione, con la leggerezza e la futilità di cui solo io sono capace, non sapendo neanche bene da dove la tiro fuori e in un batter d’occhio Haymitch ha stretto un accordo per una nuova sponsorizzazione pro Katniss.
Quando c’è il materiale giusto, non denutrito e piuttosto combattivo, il suo lavoro sa farlo proprio bene.
Si libera dal nostro abbraccio solo per stringere le mani e sugellare l’accordo, ma subito mi posa il braccio sulla spalla e mi porta via, facendomi accomodare ad un tavolinetto appartato, su di una comoda poltroncina di pelle rossa dai braccioli d’acciaio.
“Povero Peeta. Nessuno scommetterà su di lui” lamento quasi tra me, ma certa che lui sentirà, nonostante la confusione che ci circonda.
Non ho mai visto il salone così gremito.
Effettivamente non ho mai neanche partecipato ad una edizione della memoria.
“Oh, non credere, zucchero” mi dice puntando il dito al tabellone delle quotazioni.
Peeta è secondo solo a Katniss.
“Magicamente sono mentore di due favoriti” dice sorridendo, ammiccante.
Lo guardo stupita.
“Ma come può essere?” domando confusa.
“A quanto pare parte degli sponsor ha mangiato la foglia e ha notato che la squadra protegge Peeta. Ovviamente nessuno si fa la giusta domanda, mentre Katniss ha praticamente dichiarato al mondo che morirà pur di proteggerlo – offrendoci un’altra meravigliosa copertura a sua insaputa, ma questo non lo aggiunge, non può, in mezzo a questa folla – capisci bene che se Everdeen è tanto determinata, le quotazione di Peeta non possono che salire” Haymitch è a dir poco raggiante.
“Perché se Katniss riuscirà nel suo intento, non potrà che vincere lui, ovvio”
“Esatto. Quindi zucchero, come vedi, il tuo ragazzo quest’anno va alla grande”.
Mi sorride e cerca la mia mano sul tavolino.
Io sussulto, ma non la ritraggo.
“Ora che devo fare, intrecciare le mie dita alle tue?” chiedo con una punta eccessiva di provocazione.
“No, ora dovresti baciarmi qui, davanti a tutti e li faremo secchi – ride – ma credo sarà sufficiente parlare tra noi a bassa voce, facendoci i fatti nostri” dice sorridendo.
Sto al gioco e il mio viso si avvicina al suo, sul tavolo.
“Potrebbero sentirci, se veramente volessimo farci gli affari nostri” gli faccio notare.
“Non esiste posto più sicuro di questo. A meno che non ci siano cimici su tutti i tavolini, nessuno sarebbe mai così pazzo da parlare di argomenti scottanti qui dentro” le sue labbra sono quasi sul mio viso.
“A parte noi due”
“Non credo che chiacchierare sia più sufficiente per la nostra copertura, bocca di baci” dice sfiorandomi il naso con il suo, sperando di convincermi con così poco.
Se non ci fosse questo esile e piccolo tavolino in mezzo, le chiacchiere sarebbero finite da un pezzo.
“Placa i sogni di gloria, Hay. Il tuo successo come mentore non ha nessun effetto su di me” lo avverto blandamente.
Non ho convinto neanche me stessa.
So che un gioco.
Ma è pericoloso.
“Un vero peccato – mi dice in un orecchio – tutta questa storia potrebbe avere sul serio un risvolto piacevole” dice lui, respirando le parole sul mio viso.
“Certo, se non stessimo giocando con la morte” gli faccio notare con un sorriso, mentre i miei occhi scendono rapidi sulle sue labbra.
I preparatori sanno fare un ottimo lavoro. La barba appena accennata, ma curata, con un paio di sfumature di grigio sul biondo cenere, è perfetta. Sembra gliela abbiano dipinta sul viso. Eppure sembra così morbida…
Effie Trinket! Datti un contegno e mettiti in quella testolina nascosta dai tuoi magnifici capelli che tutti credono una parrucca che state lavorando!
“Sei sexy quando sei preoccupata, bocca di baci” mi dice quasi ridendo sulle mie labbra.
“E tu molto più affascinante quando sei sobrio. Devo dirti una cosa” gli dico senza allontanarmi.
Se qualcuno ci sta guardando non avrà alcun dubbio su ciò che stiamo facendo.
Per tutta risposta una mano di Haymitch si allunga, afferra la barra d’acciaio sotto la mia seduta e mi attira a lui, con una mossa rapida, piazzandomi una mano sul sedere, scansando non so bene come il tavolino che ci divideva.
Santocielo. Quest’uomo ha un’anima focosa da qualche parte.
Ho sempre pensato che fosse impeto da eccesso di alcool.
D’altronde l’ho visto sobrio solo un’altra volta. Completamente sobrio, intendo.
“Dimmelo qui. Sarà più interessante” mi dice incatenandomi con lo sguardo.
La mia guancia allora sfiora la sua e gli sussurro in un orecchio.
“L’ho trovata. Ceno con lei” dico con il tono più seducente che conosco.
Sono soddisfatta di me. Però comincio seriamente ad essere confusa.
Quali parti sono lavoro e quali no?
Haymitch non risponde, ma mi afferra per una mano, mi fa alzare e mi porta via.
“Bel lavoro, zucchero. Ora saranno tutti convinti che mi hai appena sedotto” mi bisbiglia mentre usciamo dal salone.
“Sei una serpe, Haymitch Abernaty!” gli dico falsamente offesa.
“E tu il più bel culo che ci sia nei paraggi”.
 
Riusciamo ad evitare la folla che attanaglia il salone e ad allontanarci senza essere braccati da nessuno, anche se nel percorso Haymitch è costretto a fare più di un cenno di saluto a quelli che incrociamo.
Ci chiudiamo in uno stanzino delle scope nascosto dietro una porta invisibile che non avrei neanche notato, se Haymitch non mi ci avesse spinta contro nel tentativo di baciarmi e si fosse aperta e richiusa dietro le sue spalle.
Nell’oscurità sento il suo naso sul mio e il suo respiro tentennare un paio di secondi contro le mie labbra, prima che accenda la luce e mi fissi con i suoi occhi grigi aspettando una spiegazione.
Ho bisogno di sbattere un attimo le palpebre per uscire dalla parte prima di riuscire a parlare.
“È stato più facile di quanto credessi. Un vero colpo di fortuna. Ha aperto un negozio in centro, un buchetto pieno di cose che neanche si nota dalla strada. È sepolta viva sotto montagne di abiti usati” gli dico rapidamente. Non possiamo sparire a lungo.
“Un ottimo nascondiglio. Che finaccia, povera Tigris” dice passandosi una mano tra i capelli.
“Non credo le dispiaccia. Mi ha fatto capire che ha ancora parecchi motivi per odiare i sistemi di Capitol City. Stasera ci vediamo per cena” spiego.
“Bene. Plutarch ne sarà contento. Più tardi ci penso io ad aggiornarlo. Tu, per favore, cerca di passare meno tempo possibile da sola in giro per la città, intesi?” domanda e vedo nei suoi occhi un alone di preoccupazione.
“Sei incredibile. Prima con il tuo amico mi affidi un incarico in giro per la città e poi mi chiedi di rimanerci da sola il meno possibile” le sue indicazioni mi esasperano.
“Ti sto solo dicendo di ridurre al minimo la tua permanenza fuori di qui. Mi è costata una certa fatica non scompormi quando ti ho vista arrivare” ammette sorridendo.
“Eri preoccupato?” gli domando sorridendo, forse con eccessiva curiosità.
“È che sono abituato ad averti tra i piedi quando sono qui” cerca di liquidare l’argomento.
Non insisto. Ma so che è una mezza verità bella e buona.
“Non aggiungere altre ansie al tuo lavoro. Stasera riferirò a Tigris quello che devo e tornerò a casa a dormire. Domani mattina presto sarò di nuovo qui. A meno che non abbiate altri incarichi per me, non ho altro da fare. La valigia è già pronta…” comincio con il mio fiume di parole, ma Haymitch mi interrompe.
“Una valigia? Effie Trinket, sei un vero caso disperato. Qui progettiamo la fuga per la rivoluzione e tu pensi a fare le valigie. Disfatene. Potrebbe essere un indizio troppo palese” mi avverte. Gli trema quasi la voce.
“Oh, ma quale indizio! Tutti sanno che dopo i giochi mi concedo sempre una super rilassante vacanza! Non c’è niente di anomalo – cerco di ammansirlo – sta tranquillo” gli dico posandogli di nuovo la mano sul petto. È un gesto di sincero affetto.
“Sarò tranquillo solo se tornerai a dormire qui stanotte e se ti disferai di quella valigia appena puoi” mi dice senza allontanarsi.
“Va bene. Tornerò qui a dormire” gli prometto senza giurare.
I nostri occhi si scrutano.
Di nuovo quella sensazione di osmosi.
Ma è un attimo.
Mentre percepisco che Haymitch sta per avvicinarsi di più, il suono di una cannonata ci fa saltare dal terrore ed usciamo di corsa dallo stanzino.
 
 
Ci ho messo troppo, troppo, troppo tempo, lo so.
Non voglio giustificarmi, sono imperdonabile.
Ci siamo quasi. E non vedo l’ora.
Tra qualche capitolo sapremo che fine ha fatto Effie e perché!
Spero sia di vostro gradimento e spero lascerete un commento!
Inoltre, devo assolutamente ringraziare Vale per i suoi preziosissimi consigli e perché mi ha fatto ritrovare la strada per non perdermi in questa avventura!
Spero stiate tutti leggendo la storia che scrive con Vale (si fanno chiamare Socia1 e Socia2, come se non fosse già abbastanza confusa la faccenda!!) “L’Atlante delle Nuvole” e semplicemente meravigliosa! Questo è il link http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2614435&i=1
Grazie a tutti
Mor

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Capitolo 11
*** CAPITOLO 11 ***


CAPITOLO 11
 
Sento il cuore cercare di saltarmi fuori della gola.
Haymitch corre come un forsennato e mi si trascina dietro tirandomi per una mano di cui non molla le dita.
I miei tacchi mi impediscono di correre come vorrei, ma cerco di stare al suo passo, senza finire con il mento sul marmo lucido dei corridoi.
L’esplosione del cannone mi sta ancora facendo tremare le membrane dell’orecchio.
Ma anche questo fa parte dei giochi.
Lo sparo è un richiamo anche per chi è fuori.
Aggiorna il tabellone delle scommesse.
Ricalibra le attenzioni degli sponsor.
A volte manda a riposare qualche mentore.
Lo trasmettono in diffusione sonora per tutta Capitol, neanche fosse un richiamo al festino.
Per me è solo un colpo in pieno stomaco. Una corda stretta intorno al collo. Un artiglio serrato attorno al cuore.
Non sarei dovuta rientrare.
A casa non avrei acceso la televisione e non sarei stata costretta a mantenere i miei nervi ancora ordinati e al loro posto.
Adesso sarei a fare un altro bel bagno bollente, invece di correre a perdifiato sentendo la vita scivolarmi via soppiantata dalla paura.
Entriamo nel salone ancora mano nella mano, trafelati come due che hanno appena ricevuto una pessima notizia e ancora non l’hanno ingoiata del tutto.
Il primo sguardo va al tabellone.
Per non guardare nello schermo gigante, per il terrore di vedere uno dei nostri ragazzi martoriato da chissà quale diavoleria scattata in quel diabolico orologio.
Ma i nomi di Katniss e Peeta sono ancora in cima alla classifica.
Sono ancora lì, ancorati al primo e secondo posto, come niente fosse accaduto.
Sono salvi.
Sono ancora vivi.
Sento Haymitch cercare di recuperare il respiro accanto a me, mentre mi accorgo solo vagamente del sangue che ricomincia a fluire irrorandomi di nuovo i muscoli e dei polmoni che cercando di prendersi l’aria più lentamente.
La folla è ora tutta verso il maxischermo.
Centinaia di nuche reclinate leggermente all’indietro, che tengono fissi gli sguardi sui giochi. Una distesa di spalle immobili, in attesa di capire.
Lo stemma di Panem interrompe la diretta e da il segnale per il ragguaglio veloce.
Le immagini trasmesse parlano chiaro: l’uomo del distretto 10 si è tolto la vita tagliandosi a pezzi.
Da solo.
L’uomo di cui non ricordo il nome, anche ora che scorre a caratteri tridimensionali sotto le immagini ciniche, violente, montate appositamente per essere più forti, come fossero un film dell’orrore, accompagnate da una colonna sonora che fa alzare i peli sulle braccia, immagini che la regia, e qualche operatore particolarmente cinico, mandano in onda inesorabili, in un montaggio serrato dei momenti salienti della sua settantacinquesima edizione.
“Si è suicidato?” sento Haymitch domandare sconvolto, ancora con il fiatone, inclinato in una brutta direzione in cui forse riesce a non sentire il dolore alla milza.
“No. Lo ha ammazzato Caro Loeb” sento rispondergli dall’uomo di colore con cui prima stava parlando e da cui ha ottenuto una sponsorizzazione.
Il nome mi dice qualcosa, ma sto cercando rapidamente di ricordare quando Haymitch inizia a tossire, dapprima come se avesse un leggero fastidio in gola, poi come se cercasse di non soffocare.
Il nome scivola via assieme alla ricerca del ricordo e mi distraggo dalle immagini aiutandolo con qualche blando colpo sulle spalle che riescano a farlo respirare di nuovo.
“Caro Loeb?”
Non è una domanda.
Lo dice tra un colpo di tosse e l’altro, mentre guarda il pavimento piegato in due, attendo a parare l’assalto della tosse.
Ed improvvisamente ci sono.
La ragazzina più piccola mai entrata nell’arena.
Dodici anni il giorno della mietitura.
Distretto 12, ovviamente.
Non l’ho estratta io.
Io ero ancora una ragazza appena uscita dallo sviluppo.
Ventiseiesima edizione.
Il primo tributo femmina di Haymitch.
Coraggiosamente scappata alla carneficina del bagno di sangue iniziale.
Ultima vittima dei giochi prima dell’annuncio del vincitore.
Il ragazzo del distretto 10 era suo alleato.
Ma erano rimasti solo loro due.
E ancora non mi ricordo come si chiama il tributo.
Ho impressa nella mente solo l’immagine di quella ragazzina, il volto diviso a metà da un fendente di mannaia, che ancora lo guarda, come se fosse viva.
Eppure ci ha messo quasi un minuto a cadere a terra, morta.
Haymitch lentamente si rimette dritto e cerca di nuovo la mia mano.
Stavolta so per certo che non è per far sì che qualcuno pensi chissà cosa abbiamo fatto nello stanzino delle scope.
Stavolta so che se fossi una bottiglia lo preferirebbe.
Mi berrebbe tutta in un colpo.
Per zittire quel nome nella testa.
Per non ripercorrere in un colpo di tosse gli ultimi venticinque anni e dare un nome e un viso a tutti quei morti.
Ma, per uno di loro, il nome l’ho trovato io: Jonah Mcmahon.
L’uomo del distretto 10, appena ucciso dalla sua stessa vittima.
L’unica.
Jonah per vincere ha dovuto uccidere solo Caro.
 
Questi giochi sono una farsa.
È solo un'altra trovata di Snow per chiuderci la bocca per sempre.
Le alleanze sono inutili.
Le sponsorizzazioni non servono.
Da qui uscirà solo chi vorrà lui e sarà sicuramente un tributo del distretto 2.
I cagnolini fedeli.
Sempre pronti ad accontentare le nuove pretese.
Io adesso me ne vado di qui, in un modo o nell’altro, a costo di cercare a mani nude una via di uscita dal campo di forza.
Devo solo capire come funziona.
Haymitch l’ha usato come un elastico.
Dovrà pur avere un punto debole.
E se continuo a camminare, prima o poi ci arriverò.
Sempre se riesco a seminare quella maledetta ragazzina che mi segue da ieri pomeriggio.
L’ho vista, ieri, mentre si nascondeva dietro un albero e mi seguiva.
E adesso se ne sta di nuovo lì, qualche passo indietro, senza preoccuparsi di fare rumore.
Se mi vuoi seguire, stupida ragazzina, fa pure.
Io non mi fermo.
Non mi interessa se esci di qui con me.
L’importante è che non mi disturbi.
Questa arena non può essere grande all’infinito.
Prima o poi finirà e io riuscirò ad uscire.
Me ne vado da questo schifo di paese.
Dal distretto non si può uscire, ma se mi tolgo quel maledetto localizzatore, quando mi riacchiappano?
Si fottesse pure Haymitch con le sue idee rivoluzionarie.
Non siamo mai stati amici io e lui.
Da quando gli ho ucciso quella maledetta ragazzina.
E che dovevo fare? Farmi ammazzare quando ero riuscito ad arrivare alla fine?
Certo, per un attimo ci ho pensato.
Ma giusto un attimo.
Poi mi sono accorto che avevo smesso di respirare da quando ero salito sul treno per Capitol e avevo ricominciato solo al colpo di cannone dell’ultimo tributo andato in gloria.
E se ricominci a respirare non vuoi smettere.
Si, l’ho ammazzata. E allora?
Che dovevo fare? Aspettare che risolvesse la situazione il meraviglioso stratega che aveva ideato quell’arena?
Che il presidente facesse il pollice verso con una mano e con l’indice dell’altra indicasse me?
Ho fatto quello che dovevo, ragazzina.
Smettila di seguirmi.
Smettila di seguirmi o ti affetto di nuovo.
E no. Non sei mai nei miei incubi.
Tu non sei niente.
Sei solo una stupida che mi segue ovunque vada.
Non sei lei.
Lei è morta.
È lei che si è piazzata nei miei incubi e non mi lascia da ventiquattro anni.
Lei non è come te.
Lei ha il viso diviso a metà.
E tu sei tutta intera.
Sono io che l’ho spaccata.
Lo so bene.
Non avvicinarti.
Ho da fare qui.
Ho sete e non sono riuscito a trovare una maledetta goccia d’acqua, dopo aver trovato quella foglia piena di rugiada ieri pomeriggio.
Ah, no. Vero.
Ne ho trovata una anche poco fa.
Quasi non mi sono accorto di aver bevuto.
Maledetta arena.
Che caldo.
E con te che mi segui da ieri, sudo ancora di più.
Mi fai caldo.
Ma perché non ti vai a fare un giro da qualche altra parte?
Sono quasi arrivato, lo sento.
Non può essere infinita questa arena.
Prima o poi vedrò il campo di forza e allora comincerà il lavoro.
Ecco, vedi?
Eccolo lì.
Lì gli alberi sembrano finti.
Guarda quello, quello lì a destra. Ha solo metà tronco.
Eccoci arrivati.
Ah, ti avvicini, eh? Vuoi uscire pure tu?
Bè, ragazzina, se credi di farmela sotto gli occhi ti sbagli di grosso.
Ora ti faccio vedere.
Ecco qui.
Questa l’ho presa, altro che il bagno di sangue.
Si fottessero tutti.
La mia mannaia non la tocca nessuno.
Stai lontana di ho detto!
Io adesso faccio un bel buco qui e mi sfilo questo maledetto localizzatore.
Ecco qui.
Nessun dolore.
La ferita si rimarginerà.
Sta lontano!
Non ti voglio qui!
Vattene!
Va’ via!
Sei troppo vicina.
Ma io ho la mia mannaia.
Se ti avvicini ancora ti ammazzo, lo giuro.
Io voglio uscire vivo di qui.
Ferma!
Guarda, lo vedi?
Eccolo li.
Un minuscolo puntino instabile.
Lo vedo.
Accanto al tronco a metà.
Tu lo vedi?
Ragazzina?
Ragazzina, dove sei?
Dovrei essere piccolissimo per entrare lì dentro.
Devo farmi venire un’idea.
Hai ragione ragazzina.
Dovrei essere alto quanto te, sottile come un ago e passerei come un punto di cucito.
Hai ragione ragazzina.
Grazie.
Grazie mille.
Adesso ci penso io.
Ehi, ragazzina.
Le somigli.
Sei come Caro, ma non sei spezzata.
I tuoi occhi sono separati solo dal naso.
Mi dispiace, ma devo lasciarti qui.
Ehi. Che fai?
No.
Va’ via, ti ho detto.
Non avvicinarti.
Nooooooo!
 
Guardo, con gli occhi strabuzzati, Jonah cercare di divincolarsi.
Quel suo parlottare, costantemente, come non riuscisse a contenere i pensieri senza dar loro un suono, ha ricreato la sua ossessione.
Ha bevuto la rugiada, non sapendo che alle sei, per chiunque in quel settore, si materializza qualcosa da bere, qualcosa dal sapore dell’acqua, ma che contiene un potente allucinogeno.
Ha avuto ventiquattro ore di visioni che lentamente hanno preso realmente forma, come se le sue parole ricreassero fisicamente le follie della sua mente drogata.
Ed è apparsa Caro.
Ha vagato senza meta all’interno dello stesso settore per un giorno intero.
Senza arrivare da nessuna parte e senza uscirne mai.
Impazzendo lentamente. Guardando l’ibrido di Caro prendere forma sotto i suoi occhi, fino a quando non l’ha riconosciuta e lei non lo ha abbracciato.
È stata la scena più disgustosa e terrificante che abbia mai visto.
Con la mannaia in mano, per cercare di divincolarsi, si è fatto a pezzi da solo, senza neanche sentire dolore.
Come se una gigantesca bestia lo avesse fatto a brandelli.
L’artiglio per il recupero del cadavere è dovuto scendere cinque volte al suolo per ripescare tutti i pezzi.
Haymitch è sulla poltrona rossa, la stessa che poco prima l’ha visto acceso di un fuoco quasi sconosciuto, ora lo tiene seduto, mollemente, dondolando, riverso in avanti, sperando insieme a me che non gli vomiti addosso, nel tentativo di liberarsi di quei ricordi dilanianti che lo stanno tormentando.
Siamo in disparte.
E spero, per una volta, che tutti credano che sia ubriaco fradicio, anche se il drink che ci hanno portato è ancora intatto sul tavolino.
“Hay, ti prego” gli sussurro.
Non deve farsi vedere così.
Non può.
“Va via, bionda. Voglio attaccarmi a del whisky e mandare a farsi fottere questo lavoro di merda” mi dice.
Osservo i capelli che gli coprono il viso oscillare davanti le sue parole.
“Non ci penso nemmeno” dico sbrigativamente.
“Vattene, Effie. Ti prego” mi dice.
“Stai… piangendo?” domando più sconvolta che se stessi guardando di nuovo Jonah che si ammazza.
“No, è un nuovo sistema di lavaggio automatico del viso. Lasciami in pace e vattene” mi risponde sarcastico e antipatico come se davvero avesse tracannato chissà quante bottiglie.
“Siamo una squadra. E qui tutti credono io sia la tua amante. Non me ne vado finché non mi metti una mano sul culo e festeggi con me il fatto che Katniss e Peeta siano ancora vivi. Perché per quanto tu ti senta inutile, colpevole, martoriato, privato della tua dignità, ti devi ricordare che sei l’unico mentore che ha fatto sopravvivere entrambi i suoi tributi nella stessa edizione. Che adesso hai il compito di proteggerli di nuovo. Che quei due ragazzi hanno bisogno di te, perché hanno sempre avuto milioni di speranze più di tutti gli altri che hai, che abbiamo, accompagnato. Sono dieci anni che ti seguo, che estraggo dei maledetti foglietti, che declamo con il sorriso i nomi di morti. Siamo una squadra, Haymitch Abernathy e tu non mi mollerai proprio ora” dico.
E senza pensarci più, zittendo il mio torrente in piena, gli alzo la testa con una mano e lo bacio, fregandomene di dove siamo, lasciando lui più stupito di tutti gli altri nella sala, che forse neanche ci hanno visti.
Il suo viso è stretto tra le mie mani e non gli permette di allontanarsi.
È la prima volta che lo bacio di mia iniziativa.
Ed è l’unico bacio che sento mio.
Non so veramente perché diamine glielo stia dando, ma so per certo che è stata una buona idea, forse l’unica che l’avrebbe strappato all’autocommiserazione distruttiva.
Le sue mani afferrano di nuovo entrambe le barre d’acciaio sotto la mia sedia e mi attrae tra le sue gambe, affinchè il nostro bacio non sia solo un contatto tra bocche, ma l’adesione di due corpi seduti.
Adesso ce le ho tutte e due le sue mani sul culo.
Ha le mani grandi.
Sono calde.
“Cazzo, Effie. Sai essere davvero convincente, quando vuoi” dice aggrappato ai miei occhi con tutte le nuvole dei suoi.
“E spero di essere stata sufficientemente chiara. Una squadra, Hay. Io vado a sbrigare le mie faccende e tu occupati delle tue. E porta il tuo broncio dove sai e quando sai, così che io possa strapazzarlo ancora, almeno per questa notte”.
Oh.
L’ho detto a voce alta.
Il nostro gioco deve essere il più realistico possibile.
Hunger Games. Una squadra. Due nell’arena. Due fuori. E creare coppie di sventurati amanti è il nostro mestiere.
Caccio via l’immagine nauseante di Jonah con la mannaia e mi concentro su ciò che dovrò fare stasera.
Mi alzo. Mi sistemo la gonna longuette. Tiro i bordi della mia giacchetta corta.
Uh. Che cosa carina. Sono vestita anche io con un tailleur grigio.
Io non lo indosso mai il grigio.
Si, siamo decisamente una squadra, ora!
Haymitch mi segue con lo sguardo mentre faccio tutto questo, compreso rendermi conto del colore del mio vestito, e rimane seduto, con un sorriso sbieco tra la barba incolta.
Mi volto per andare.
Ed è allora che sento la sua mano afferrare la mia e tirarmi sulle sue ginocchia.
Cado all’indietro e lo guardo.
Qualcosa nel mio stomaco pulsa fastidiosamente.
È impossibile che qualcuno non abbia notato… questo.
“Contaci, bocca di baci” mi dice, affogando il suo viso nel mio.
Ecco fatto. Mi toccherà ripassare da casa e fare una doccia gelata.
 
 
Eheheheheh rimaniamo un po’ tutti così, con l’immagine di Haymitch e Effie piuttosto occupati in qualcosa che non è proprio lavoro ;)
Spero che questo capitolo riesca a rendere e che esprima al meglio le mie strampalate idee, a volte è piuttosto faticoso, ma sempre divertente!
Anche se credo arriveranno belle batoste!
Come al solito ringrazio Vale&Vale che con le loro parole riescono a darmi sempre la giusta spinta per non mollare ;)
Spero a presto
Mor

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Capitolo 12
*** CAPITOLO 12 ***


CAPITOLO 12
 
Ho mandato a memoria in fretta il messaggio che Plutarch vuole far avere a Tigris.
Sono tornata a casa a cambiarmi.
Ho guardato la valigia e l’ho lasciata lì, senza avere il tempo di fare ciò che Haymitch mi ha chiesto.
Ora sono di nuovo davanti al negozio e aspetto, nella penombra del crepuscolo, che Tigris finisca di chiudere la porta con la dozzina di lucchetti e catene che ha portato fuori sferragliando come una ferramenta.
Alla faccia dell’alta tecnologia.
Contro ogni mio senso di rigore ho anche acceso una sigaretta.
Qualcosa che a Capitol City è praticamente un tabù, una cosa proibita, un atto di ribellione, qualcosa di cui vergognarsi.
Ma Tigris aveva questo pacchetto mezzo aperto sul bancone e non ho saputo resistere. Non fumavo una sigaretta da almeno dodici anni.
Lei tiene la sua tra le labbra feline, mentre con entrambe le mani armeggia per avvolgere la catena attorno alle enormi maniglie tubolari del suo negozio, e il fumo si avviluppa salendole lungo il viso, facendola sembrare una canna fumaria.
La sola immagine mi rivolta lo stomaco. Adesso puzzeremo di tabacco bruciato per tutta la sera.
Schifata, faccio un ulteriore tiro dalla mia e la getto a terra, schiacciandola con il plateau delle mie scarpe rosa.
Il vicolo è buio, per fortuna, e con il negozio completamente spento, è impossibile che ci vedano dalla strada. In più, a quest’ora, quasi nessuno è in giro.
Non vorranno perdersi il riepilogo serale di questa giornata di giochi. Figuriamoci.
Tigris mi guarda, i suoi occhi scintillano nell’oscurità, come fossero veramente occhi felini. Assottiglia lo sguardo e le sue pupille si riducono a due fessure, come percependo più luminosità.
“Tranquilla, bocconcino. Non ci vedrà nessuno. Abito qui sopra” mi dice, capendo perfettamente i miei pensieri.
Sono nervosa.
Si vede così tanto?
Che ne so io se Capitol non ha un sistema di telecamere a circuito chiuso distribuito in ogni angolo della città?
“Qui sopra? – domando curiosa – ma dove…”
“Si sale da qui. Vecchi sistemi” dice brevemente.
Non avevo notato, fino a quell’istante, la scala ritraibile chiusa un metro e mezzo sopra la porta del negozio. Una scala di emergenza. Un sistema di fuga ereditato dai tempi passati, ma in disuso da secoli.
“Non sapevo che esistessero ancora cose del genere” ammetto in un soffio di voce.
“Siamo in centro. Alcuni edifici sono davvero vecchi” spiega alzando le spalle, liquidando la questione.
“Mi costerà parecchia fatica arrampicarmi lì su con queste” mi lamento, alzando un piede e mostrando i tacchi vertiginosi.
“Toglile. Di sicuro non te le rubo” e scoppia in quella sua strana risata che somiglia al soffio di un gatto. Poi estrae da non so dove, un tubolare metallico con un gancio, afferra l’ultimo gradino della scala e la apre, ma fa cenno di andare avanti.
Solo quando sollevo la testa mi accorgo che quello è l’edificio più basso del circondario.
Sembra fuori posto.
Eppure è perfetto lì dov’è.
Un ultimo baluardo di quello che fu.
Chissà perché mi viene da sorridere.
Dopo una sigaretta illegale, una scala antincendio, una prossima conversazione complottistica e il fatto che sia diventata una specie di messaggero della resistenza rivoluzionaria, togliermi le scarpe e salire a piedi nudi mi sembra davvero poca cosa.
Però sporcherò i miei meravigliosi collant di filo di seta.
Che peccato.
 
“Insomma, cos’è che devi dirmi?” domanda Tigris.
La domanda arriva diretta, senza preamboli, accompagnata da un lungo sguardo indagatore che mi penetra fino alle ossa.
Mi sento nuda di fronte a quegli occhi gialli.
Faccio mente locale e ripasso velocemente tutti i punti importanti.
In realtà mi accorgo che faccio fatica a parlare.
Il cibo che ho di fronte non mi aiuta.
Accanto al mio bicchiere, pieno di vino rosso, il tegame della fonduta emana un forte odore di olio bollente e fuma come fosse la sigaretta che ho spento qualche ora fa. Ciò che non sopporto è la vista della carne cruda, separata in tanti piccoli bocconcini su un piatto bianco dal bordo ricamato in morbidi intrecci. Sopporto ancor di meno il pensiero di infilzare i tocchi ancora rossi di sangue per gettarli nell’olio bollente. Per non parlare del brivido che mi sale lungo il collo ogni volta che il mio sguardo cade accidentalmente sulla tartare al coltello che ho nel piatto. Tutto quello che c’è sul tavolo al momento mi ricorda il festino iniziale dei giochi. Ho come l’impressione di mangiare la gamba mancante di Peeta.
Deglutisco a fatica e cerco la voce per cominciare.
Incredibile che ora mi manchi.
“C’è una ribellione in atto – inizio d’effetto – tutti i tributi saranno fuori in poco più di ventiquattro ore” dico in un solo respiro.
Per un attimo non ottengo nessuna sua reazione, poi Tigris sposta il peso in avanti, poggia i gomiti sul tavolo e la testa sulle mani incrociate. E mi fissa.
“E a me cosa dovrebbe importarmene?” domanda annoiata. Ma i suoi occhi tradiscono la forza della sua curiosità.
Tentenno, temendo di aver cominciato nel peggiore dei modi.
Oltretutto ho appena spifferato, come fosse un’informazione senza importanza, il fulcro del piano dei ribelli, quando ancora non ho avuto realmente modo di assicurarmi che Tigris sia la persona giusta.
“Va avanti” mi incita.
“I sistemi di difesa scatteranno all’istante. Qui a Capitol saremo tutti al sicuro – trattengo un sospiro di sollievo per essere riuscita a dire la piccola bugia che mi era stata ordinata: ho detto “saremo” e non ho fatto scappare, come temevo un “sarete” che mi avrebbe tradita subito – ma nei distretti è già cominciata la rivolta e prima o poi arriverà anche da noi” continuo.
Tigris mi interrompe subito.
“Cosa vuoi che gliene freghi, alla cittadinanza di Capitol?” mi domanda freddamente.
“All’inizio non gliene importerà nulla, ne sono sicura. Ma quando cominceranno a scarseggiare tutte le loro derrate provenienti dai distretti, credo proprio che la rivolta sarà la loro preoccupazione principale” dico convinta.
Tigris sembra accettare la risposta.
“Non hanno speranze di farcela. Che escano o no tra ventiquattro ore, tra quarantotto sarà tutto finito” minimizza.
“Credimi, non sarà così” le dico, allungando una mano sul tavolo e afferrandole il braccio.
Non so perché l’ho toccata. Ma sono assolutamente certa che non sarà così e forse le parole non sarebbero bastate per dare la giusta forza alla mia convinzione.
Tigris guarda la mia mano sul suo braccio e io la ritraggo imbarazzata.
“Non possono nulla contro la potenza di Snow. Ha armi, l’appoggio incondizionato di tre distretti, il potere decisionale sulla logistica degli altri nove e affama il popolo a tal punto che nessuno avrà la forza di alzare un dito. Usciranno da quell’arena per finire direttamente nelle celle presidenziali. Fidati” mi spiega.
È fredda.
Non un velo di quell’ardore ribelle che ho visto oggi pomeriggio.
Rassegnata.
“I distretti si sono già sollevati. L’ho visto durante il tour della vittoria. Il meccanismo è già in atto. E poi Plutarch saprà sicuramente come muoversi” dico.
“Plutarch?” domanda Tigris sbalordita.
Forse non avrei dovuto nominarlo adesso.
Avrei dovuto aspettare.
Maledizione. Io non so portare avanti questa conversazione.
“Sì, Plutarch” confermo cercando di non vacillare.
“Maledetto stratega. Devo ringraziare anche lui se sono finita a vendere panni sporchi” borbotta riempiendosi di nuovo il bicchiere di vino e scolandolo alla goccia in poco meno di un secondo.
“Avrà avuto i suoi buoni motivi” mi lascio scappare.
Appena mi rendo conto di ciò che ho detto mi tappo la bocca e sgrano gli occhi, ma Tigris sorride.
“Ovvio. Ora capisco anche quali” ammette non spegnendo quello strano sorriso obliquo dalle labbra sottili.
“Ti stava tenendo buona e lontana” dico.
Mi domando da dove mi vengano certi pensieri. Di solito l’intelligenza la spengo di proposito la mattina appena mi sveglio, ma tutti questi movimenti illegali, questi sotterfugi, questi toni complottistici, non fanno che tenerla accesa e vigile.
“Mi ha resa lontana, inaccessibile e dimenticata. Solo così sarei potuta tornargli utile” dice.
Poi afferra un bastoncino di legno, infilza un boccone dal piatto bianco e lo immerge nell’olio bollente.
Per qualche secondo rimaniamo in silenzio ad ascoltare la carne sfrigolare.
Ho come l’impressione che Tigris abbia capito prima che io potessi spiegare.
“Hanno il sostegno del 13” le dico di getto.
Tigris sgrana gli occhi e quasi si strozza con la carne.
“Ne sei sicura?” domanda deglutendo in fretta.
“È li che porteranno i tributi”.
Tigris si alza e comincia a camminare avanti ed indietro dall’altro lato del tavolo.
Ora è improvvisamente eccitata.
Invece a me è aumentato il nervosismo.
Sono tutte cose che Plutarch mi aveva chiesto di rivelarle. Eppure non mi sento sicura. La paranoia che qualcuno stia ascoltando mi sta divorando.
“Questo cambia ogni cosa. Sapevo che c’era dell’altro. Se il tredici è ancora in piedi questa è la rivoluzione” dice rapidamente.
Il ronzio che sento sotto le sue parole sembrano fusa di gatto.
“Così parrebbe” ammetto stancamente.
“Cosa devo fare?” domanda attenta.
“Diventare un contatto sicuro. Mantenere la tua vita così com’è. E aspettare. Quando sarà il momento, Plutarch troverà il modo di contattarti. Ma deve essere sicuro di avere la tua disponibilità” le spiego.
È fatta. Ho detto tutto quello che dovevo.
“Puoi dirgli di averla tutta. Non vedo l’ora di vedere quel bastardo di Snow con il culo per terra”.
“Bene. Il mio lavoro è fatto. Torno a casa. Grazie per la cena” le dico con cortesia, alzandomi e tendendole la mano.
Lei la afferra e la stringe forte.
“Ma non hai toccato cibo…” mi fa notare.
Non voglio offenderla. Odio la carne cruda.
“Credimi. Dopo gli ultimi due giorni credo che il mio stomaco si sia chiuso definitivamente”.
 
Torno a casa a piedi, ma non entro.
Mi fermo davanti la porta e chiamo un taxi.
Voglio tornare al centro di addestramento il prima possibile.
Devo dire ad Haymitch che ce l’ho fatta.
Quando arrivo tutto è calmo.
Il salone si è svuotato, strateghi e sponsor sono nelle loro stanze.
Probabilmente anche i tributi avranno trovato un modo per passare la notte.
Salgo al dodicesimo piano e apro con il mio badge la porta della suite di Haymitch.
L’immenso angolo cottura ha le luci accese. Continuo a non capire perché le suite abbiano la cucina se nessuno le usa. Il salone invece è in penombra e dal cambiare colore della luce capisco che solo il televisore è acceso.
Haymitch è sulla poltrona, la bottiglia di gin in mano, una gamba accavallata sul bracciolo, lo sguardo assente.
Ha bevuto.
Improvvisamente sento il terrore gelarmi l’ossigeno nei polmoni.
Non so niente di quello che succede nell’arena da oggi pomeriggio.
Lascio cadere la borsa a terra, accanto all’isola della cucina e mi avvicino lentamente.
“Hay?” lo chiamo con un fil di voce.
Lui non si muove.
La sua espressione fissa in un grugno che non so decifrare.
“Haymitch?” riprovo quando sono inginocchiata accanto all’altro bracciolo e cerco di guardarlo negli occhi. Ma lui ha lo sguardo fisso di fronte a sé, verso un punto non ben definito.
“Ehi? Sei lì?” domando ancora, accarezzandogli la mano abbandonata giù dal bracciolo, quella che tiene mollemente la bottiglia di gin.
“Sono fottuto, Effie” dice poi, senza distogliere lo sguardo dal niente che lo trattiene.
“Che succede. I ragazzi stanno bene?” domando ansiosa.
E non riesco a trattenere l’altra mia mano, che adesso gli accarezza la testa.
Da quando sento questo stupido e irrefrenabile istinto di prendermi cura di lui?
“Benone. Adesso. Domani invece, se qualcosa andrà storto, io li avrò distrutti”.
Le sue parole sono un sussurro strascicato. Sta facendo fatica a far uscire le parole.
“Perché? Domani saranno liberi…” inizio.
Ma la diga si apre.
Le sue dita si stringono di nuovo attorno alla bottiglia e le sue gambe scattano in piedi.
Prima che possa capire costa sta per accadere, la bottiglia vola per la stanza e si schianta sulla porta della suite, andando in frantumi, in una cascata di liquore e vetri.
Istintivamente salto, le mani sulle orecchie, le lacrime agli occhi.
Non capisco.
“Dovevo esserci io in quell’arena!” grida.
Sembra il ruggito di un leone ferito.
“Haymitch, non potevamo fermare Peeta… si è offerto volontario” gli ricordo inutilmente.
Mi sento così impotente, inutile.
“Avresti dovuto estrarre il suo nome…” dice.
Mi sta accusando di qualcosa?
“Non sono io a scegliere cosa estrarre…” mi giustifico.
Ora ho come l’impressione di essere rimpicciolita. E vorrei farlo fino a scomparire.
“Se ci fossi io in quell’arena, sarei sicuro di poter salvare tutti e due…” la sua voce si incrina.
“Haymitch, domani a quest’ora saremo…” inizio, ma mi interrompe con rabbia.
“Domani a quest’ora potremmo essere tutti morti. O peggio. Potrebbe essere morto uno dei due… e così avrò ucciso anche l’altro” e improvvisamente, così come era arrivata, la sua rabbia scompare, lasciandolo ingobbito e stanco, in piedi al centro del salotto, che ancora non mi ha rivolto uno sguardo.
“Ma perché dici così?” riesco a domandare.
“Perché si amano, Effie” sussurra.
“Certo che si amano. Loro sono gli sventurati amanti” dico io, sperando che sia tutto lì, racchiuso in quella stupida definizione che abbiamo creato.
“No, Effie. Si amano davvero. Li ho visti. Sulla spiaggia. Dichiararsi un amore incondizionato senza nominarlo mai. Li ho guardati baciarsi per non so neanche quanto tempo. Io li conosco Effie. Se ne perdo uno, uccido l’altro” dice accasciandosi a terra, il capo chino, le mani tra i capelli.
Mi avvicino carponi e lo stringo a me.
“Sei sicuro che non stessero recitando?” domando speranzosa, ma conosco perfettamente la risposta.
“Peeta non ha mai finto, lo sai. Il problema è Katniss. Lei non se ne rende neanche conto”.
Rimaniamo lì, abbracciati a terra, senza aggiungere altro.
Capisco la sua disperazione. È talmente forte che per qualche minuto attanaglia anche me.
“Hay, qualsiasi cosa accada, non sarà colpa tua”.
“Non sono io ad averli buttati in quella maledetta arena, no. Ma è una mia responsabilità tenerli in vita. Non me lo perdonerei mai…”
Se non conoscessi davvero Haymitch Abernathy, crederei che stia piangendo.
Ma non versa lacrime. Si aggrappa a me, invece, e nasconde il viso sul mio petto.
“Li salveremo. Saranno al sicuro, vedrai. Smetti di vedere le cose nere. Abbi un po’ di fiducia. E adesso alziamoci di qui e mangiamo. Ho una fame terribile” gli dico, cercando di sorridere. Cercando di scacciare la disperazione che dilaga.
Ma Haymitch non solleva il suo viso dal mio seno.
“Ti prego, non togliermi anche questo” sento dirgli sulla mia camicetta.
“Cosa non devo toglierti?” chiedo senza capire.
“La sensazione di essere ancora un uomo”.
Sento le lacrime arrivare di nuovo ad offuscarmi la vista.
Ho tra le braccia un uomo consumato dal dolore e dall’inesistente stima di sé stesso. Un uomo che rifiuta ogni sorta di contatto umano. Ogni aiuto. Che rifiuta chiunque cerchi di entrare nella sua vita, prima ancora che ci provi.
Lo fa con tutti.
Tranne con Peeta.
Tranne con me.
Non lo farebbe neanche con Katniss, se anche Katniss non fosse esattamente come lui e cacciasse via chiunque allo stesso modo.
Haymitch è solo.
È solo se escludo noi.
E allora capisco un po’ di più. Capisco che non è solo la paura di spezzare definitivamente uno dei suoi due ragazzi. C’è anche la paura di non poterli più guardare negli occhi, se qualcosa dovesse andare storto. C’è la paura di perderli. Di perdere il loro strano rapporto. Di perdere qualcuno che ama davvero.
Ed è tutta questa pienezza di sentimenti mal celata che mi fa cedere.
Non riesco a trattenermi.
Non posso far finta di non provare quello che provo.
A questo punto le lacrime scorrono da sole, trovando una loro via verso la camicetta, proprio accanto la guancia di Haymitch.
Lui solleva lo sguardo e pianta i suoi occhi color tempesta nei miei.
“Bocca di baci, ti prego, non farmi questo”.
La sua mano raggiunge delicatamente la mia guancia e il suo pollice scaccia le mie lacrime.
Sorrido sotto quel tocco delicato, non credendolo capace di gesti simili, di parole simili.
“E tu smettila di essere così maledettamente sensibile. Non sono abituata!” trillo sperando di nascondere tutto dietro la mia solita facciata da oca giuliva.
Non ottengo l’effetto desiderato.
O forse, invece, ottengo quello che voglio di più.
La mano di Haymitch è ancora sul mio viso, il pollice a sfiorare le mie labbra, la sua testa sul mio seno, le nostra ginocchia sul tappeto, i nostri corpi troppo vicini.
Non ho neanche il tempo di perdermi in quelle nuvole minacciose.
Mi abbandono tra le sue braccia e lascio che la sua barba mi punga il viso e la bocca. Lascio che mi baci con una tale disperazione che pare quasi voglia farmi entrare nel suo corpo.
D’un tratto io e lui siamo un solo essere.
Cadiamo sdraiati sul tappeto e le nostre gambe si intrecciano.
Le nostre bocche non si dividono un attimo mentre le sue mani sfilano la mia camicia da dentro la gonna e si insinuano sulla mia pelle, con un calore che non credevo fosse possibile.
Le sue mani sono ruvidi e rudi, ma il mio corpo sembra accendersi sotto il suo tocco.
Io lo so che quest’uomo mi farà impazzire.
È grigio.
È ammaccato.
È intrattabile.
È un alcolizzato.
È irruento.
È incontrollabile.
Ma ha qualcosa dentro, che mi attrae come un orso con il miele.
E so che quando riuscirò ad assaggiarlo, non riuscirò più a farne a meno.
Mi ritrovo sotto il suo corpo, i nostri bacini così attaccati, il suo peso sul mio petto e i suoi occhi di nuovo nei miei, le mani a circondarmi il viso. Mi scansa i capelli dalla fronte.
“Bocca di baci… che soprannome azzeccato…” mi dice sorridendo.
“Direi che la nostra copertura non può saltare a questo punto…” sorrido anche io.
“Oh, ma è stato tutto studiato. Per essere sicuri dovremmo darci da fare…” dice dandomi una leggera spinta.
Sento che potrei perdere il lume della ragione. Ora. In questo preciso istante.
Ma se c’è una cosa che so fare in maniera egregia è controllarmi.
Non posso mettere altre cose in gioco oggi.
Rischierei il collasso.
Già così è difficile rimanere lucida.
Eppure quanto vorrei, quanto mi piacerebbe poter far finta che questo maledetto mondo fosse un altro.
“Non se ne parla, ho una fame terribile” gli dico cercando di levarmelo di dosso.
Ovviamente non lo smuovo di un millimetro.
“Sapessi che fame ho io, invece” dice con malizia.
“Oh, lo so eccome. Si sente… Levati, Hay, ho intenzione di chiamare il servizio in camera” gli dico cercando di nuovo di alzarmi.
“Se solo potessi averlo anche io, un servizio in camera…”
E improvvisamente c’è solo una cosa che possiamo e riusciamo a fare: ridere.
Ridere. Ridere Ridere.
Perché forse domani, non potremo farlo più.
 
Chiedo scusa per l’attesa…
Ammetto di non averlo neanche riletto, spero non ci siano errori e visto che è tardissimo, non trovo altro da dire se non che spero davvero che vi piaccia…
Mor

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Capitolo 13
*** CAPITOLO 13 ***


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CAPITOLO 13
 
Mi sveglio ancora abbracciata al petto nudo di Haymitch, i polpastrelli solleticati dai suoi pochi peli grigi del petto.
Mi avvolgo nelle coperte e strofino la guancia sulla sua spalla, accomodandomi meglio, avvicinandomi più a lui, posando la mia gamba sulle sue, avvolgendolo.
Quelle lacrime trattenute ieri sera e poi le risa, hanno avuto su di me un effetto calmante.
Guardarlo quasi cedere sotto il peso della colpa che sente, sotto la montagna che credo porti sulle spalle, ha svelato l’uomo che ho sempre creduto di riconoscere dietro la sua imposizione di fingersi disinteressato, cinico e volgare. Stranamente mi sento meno spaesata questa mattina. Come se il suo lato umano fosse servito a scacciare il mio senso di solitudine. Ora so che posso condividere, anche senza utilizzare le parole, tutte le torture dell’animo che non so combattere e che anche io celo sotto l’immagine di donna leggera, nascondendo la vera me stessa come lui maschera il suo.
Haymitch ha vissuto una vita completamente diversa da quella che è spettata a me qui a Capitol City, eppure siamo due anime sole. Essere rimasti gli unici superstiti di una famiglia ci accomuna e tutto ciò che ci è possibile donare non possiamo e non riusciamo a regalarlo ad altri se non ai nostri simili. Perché tra me e lui non è necessario dover spiegare ciò  l’altro con lo sguardo di un solo occhio sa cogliere e capire.
Ed ora, avvinghiata al suo corpo, mentre sento il suo respiro ancora pesante del sonno, dimentico, per un attimo, tutti i meccanismi in cui siamo coinvolti, le bugie, i sotterfugi, le macchinazioni politiche, e il dovere di salvare i nostri due ragazzi.
Ora ci siamo solo noi, in un enorme letto di una suite del centro di addestramento, le mie mani che lo accarezzano e la sua, che per tutta la notte, non si è mai scostata dal cingermi il fianco, coperto solo da una sua maglietta.
Non sono neanche tornata nella mia stanza a prendere un pigiama.
Non mi alzerò prima di lui per sistemare i capelli o per truccarmi. Non gli rivelerò di prima mattina la falsa me che conosce bene, non dopo avermi dato la possibilità di abbracciare il vero lui.
Lui così vittima, così fragile, così sfacciato da cercare il contatto con i miei seni mentre cercavo di dormire.
Lui, a cui ieri sera ho regalato il conforto delle mie braccia.
Mi vedrà per quella che sono, non come tante altre mattine in cui ha fatto finta di non guardare, infilando lo sguardo nella sua tazza da tè piena di liquore.
Non voglio svegliarlo, ma respirare l’odore della sua pelle mentre ancora dorme, strofinando ancora la testa sulla sua spalla e strusciando la punta del naso sul suo collo.
Sorrido.
Avevo dieci anni quando lui ha vinto i suoi giochi.
E mi faceva una paura cane.
Ora invece è qui, che dorme come un bambino, mentre tutto il mio corpo è adiacente al suo.
Sorrido per un istante felice e meravigliata di come la vita sia sempre pronta a sorprendermi.
È il silenzio con cui ho sorriso e mi sono mossa che lo sveglia.
“Se strofini ancora un po’ quella gamba sul mio uccello, ci sarà poco che io possa fare per trattenermi e non diventare un animale” biascica ad occhi ancora chiusi.
“Conosco la tua versione animale. Ma devo dire che il tuo essere uomo mi piace di più” gli dico racchiudendo in una frase tutti i pensieri del mio risveglio.
“Siamo nudi. Mi sono ubriacato e non ricordo di averti strapazzata?” domanda.
Sembra stia scherzando, ma c’è un tono di allarme nel modo in cui lo chiede.
“Bè, non proprio nudi. Io ho la maglietta e tu le mutande” gli dico raggomitolandomi su di lui. Se posso stare altri due minuti così senza che lui si alzi, ne approfitto, cercando di afferrare di nuovo la pienezza di quell’istante di felicità che mi ha fatto sorridere.
“E per quale dannato motivo tu invece sei senza?” chiede riuscendo a fatica a trattenere le risa. Lo sento dal vibrare del suo petto sotto il palmo della mano.
“Se non lo ricordi allora eri ubriaco davvero e non me ne sono accorta. Eppure credo di saper riconoscere, ormai, quando perdi il contatto con la realtà. Di solito svieni sul pavimento stringendo un coltello” lo canzono con leggerezza.
“Non credo di averti mai vista tanto bella come quando sei uscita dalla doccia ieri sera, bocca di baci” dice stringendomi improvvisamente il fianco e attirandomi a lui.
Sotto la mia gamba, qualcosa si tende. Tra le mie qualcosa si schiude.
“Neanche io, quando mi hai chiesto di non allontanarti”.
Alzo il viso dalla sua spalla e lo guardo, dritta in quegli occhi che stamattina sono quasi azzurri, cristallini.
Osservo il suo labbro sbieco e imbronciato e lo bacio con delicatezza.
Un altro nuovo modo di baciarlo.
“Questa dinamica, tra noi due, sta diventando pericolosa” mi dice, portandomi su di lui e mettendo entrambe le mani sulle mie natiche.
Non c’è niente in quello che facciamo che mi sembri strano, innaturale o inaspettato.
È semplicemente così. Senza altro.
“Non è tra le cose che al momento mi preoccupano di più” gli rispondo, le mani poggiate sul suo petto, i gomiti sul materasso, come se stessi prendendo il sole.
“Invece dovrebbe, bocca di baci. Non sono una persona facile” ammette, i nostri sguardi incatenati.
“Niente è facile Haymitch” piazzo lì, senza pensare troppo.
“Sarebbe molto facile prendermi quello di cui ho voglia, invece” ammette sorridendo.
“Potrebbe essere facile, se te lo lasciassi fare” lo provoco.
“Non mi piacciono le donne accondiscendenti”.
“E a me gli uomini troppo delicati”.
Per questo mi ritrovo una sua mano sulla nuca che mi attira a lui e che non mi libera mentre la sua bocca mi divora, mentre l’altra si avvinghia al mio sedere.
Non c’è una sola parte di lui che non sento contro il mio corpo.
Il bacio è famelico, assetato, tormentato. Ma si ferma.
I suoi occhi di nuovo nei miei.
“Levati di torno, rifatti il tuo trucco e va’ a fare il tuo lavoro, bocca di baci, perché altrimenti davvero non rispondo di me” mi avverte, mordendomi un’ultima volta il collo.
“Come sei integerrimo. Nudo tutte le tue solite prerogative scompaiono come i vestiti” lo provoco di nuovo.
Ma perché lo faccio?
È che adoro guardare mentre finge di essere uno stronzo.
“Vai a vestirti, non ti darò quello che vuoi” minaccia con finta autorità.
“Questo – dico baciandolo sul petto, all’altezza del cuore – è quello che volevo. Niente altro” dico scivolando via da lui ed alzandomi dal letto.
“Non cercare dove è tutto morto. È più in basso che sono vivo” scherza.
“Certo, ho sentito. E se lo lasciamo lì, così rimarrà!”
Ho girato contro di lui il suo stesso umorismo.
È divertente!
È divertente vedere che si alza di scatto, mi acchiappa per la vita mentre cerco di allontanarmi e si avvicina per mordermi il sedere.
Mi lascio sfuggire un gridolino di sorpresa, e mi divincolo, ma ovviamente Haymitch e mille volte più forte di me.
“Decido io cosa lasciare in vita, bocca di baci. È il mio mestiere”.
Ricado seduta sul letto, stretta tra le due braccia.
“E il mio quello di assistere il distretto fino alla fine dei giochi. Non te! Vado a vestirmi” taglio corto e mi alzo.
Lui mi guarda ancora sdraiato sul letto.
“Ancora non ho capito perché sei senza mutande…” ribadisce lui, grattando vistosamente nelle sue.
“Dormo sempre senza biancheria” gli dico afferrando un paio dei suoi pantaloni dal borsone rovesciato a terra.
“Tu mi farai diventare pazzo, zucchero” dice mordendo un cuscino.
“Neanche io sono una persona facile, Haymitch”.
E detto questo raccolgo le mie cose e sparisco nella mia suite.
 
Il trucco, i capelli, l’abbigliamento e le scarpe sono comparse di nuovo.
La mia divisa per affrontare Capitol City e la settantacinquesima edizione della memoria è tornata. La maschera di nuovo su.
Esco dalla stanza pronta per tornare un momento a casa e disfare quella valigia che ho lasciato lì, sentendomi colpevole per non averlo fatto prima.
Non so perché per Haymitch sia tanto importante, ma ha cominciato a dare un po’ di sintomi di ansia anche a me. Non è più tornato sull’argomento, dopo ieri, ma il discorso mi è sembrato si trattenesse nell’aria. Una specie di nuvola che proiettava la sua ombra come un monito.
Devo assolutamente rientrare e disfarmi di questo impiccio. Non ho nessuna intenzione di commettere errori. Non ho mai sbagliato sul lavoro. E seppure questo ultimamente più che un lavoro sembri una follia globale, che esula da qualsiasi schema io abbia mai seguito, sento ugualmente la necessità di essere impeccabile.
Sono la tipa che quando le viene affidato un compito, lo porta a termine, solitamente in maniera perfetta.
Non sarò da meno ora, figuriamoci, con Plutarch come leader.
Esco dal centro di addestramento tirata a lucido come ogni giorno. Talmente tanto in tiro che, visti gli sguardi carichi di attenzione, mi viene da pensare di aver esagerato.
Prendo un taxi alla stazione sul viale alberato ed in pochi minuti sono a casa.
Striscio la mia carta ed abbandono la vettura, posando con lentezza il tacco delle mie scarpe gialle.
Il giallo è un colore che mi diverte e si intona con l’oro dei miei capelli.
Mi fermo sul marciapiede e fisso la porta di casa.
Mi soffermo per qualche minuto.
Qualcosa non va.
Eppure ho difficoltà a capire cosa.
Sento il taxi ripartire e lasciarmi lì impalata.
Ed ecco il dettaglio.
Il vaso accanto al portone, che di solito è inclinato sulla differenza di livello tra il vialetto e l’aiuola, è improvvisamente dritto. Ci tengo che rimanga sbieco, perché scola l’acqua con cui lo annaffio verso l’aiuola e non bagna il vialetto, facendomi portare lo sporco in casa. È stato spostato tutto sul cemento. E deve essere caduto e poi rimesso lì, perché la terra sotto la pianta sembra completamente rimestata.
O ho una talpa nel vaso, e in tutta Capitol gli unici animali sono i canarini del presidente Snow, oppure qualcuno è stato sui miei gradini di ingresso e ha urtato la pianta.
Apro casa come se nulla fosse, perché nessuno mi noti, ma in realtà credo di avere il cuore fermo e il cervello annacquato.
Appena apro la porta osservo con cautela tutto quello che ho sistemato qui io stessa.
Sembra tutto in ordine.
Il mio modesto angolo cottura è ancora in ordine.
Il divano tirato e senza una piega.
La finestra quadrata ed enorme che illumina il salotto perfettamente cristallina.
La porta del bagno ancora chiusa.
Il libro con tutti i nomi delle edizioni passate degli Hunger Games ancora aperto sulla lettera A, lì dove l’ho lasciato.
Ma continuo ad avere la sensazione che qualcuno si sia avvicinato troppe alle mie cose.
In camera da letto ogni cosa ordinatamente al suo posto.
Potrebbero fare delle foto per un dépliant, qui.
Tutto in ordine, sì, tranne il telefono retrò che ho sul comodino.
Quello ha un’inclinazione diversa da come io l’ho sistemato.
Osservo la piccola cassettiera e noto un’assenza.
Ora ho capito.
La mia valigia non c’è più.
 
Panico.
Il mio nuovo completo di pizzo!
Effie! Qualcuno è stato qui. Hai qualcosa di peggio a cui pensare!
Qualcuno è stato qui e mi ha anche rovesciato il vaso, caspita.
Effie, fregatene del vaso. Tra poco più di dodici ore questa non sarà neanche più casa tua.
Non sarà più casa mia.
Improvvisamente mi sento come se il treno che attraversa Panem da un capo all’altro si fosse schiantato sopra di me, vagone per vagone.
L’enormità di quello che sto per affrontare mi schiaccia fino a togliermi il respiro.
Mi siedo lentamente sul bordo del letto, le mani tremanti sulle ginocchia e smetto di parlare con me stessa, iniziando invece a domandarmi freneticamente cosa dovrei fare.
Chiamare Haymitch?
Non se ne parla, come gliela dico una cosa del genere al telefono?
Suonerebbe tipo “Sai, la valigia che avevo preparato per fuggire nel 13 con voi ribelli? Me l’hanno appena fatta sparire da casa”.
Non se ne parla.
Dovrei inventarmi tutta una conversazione in codice su due piedi e sperare che lui ne afferri il vero significato.
È troppo complicato.
Soprattutto ora che il mio cervello ha deciso di sdoppiarsi in due personalità diverse.
Rimango ferma e immobile seduta sul letto, le ginocchia unite, le mani fredde sopra il bordo della gonna, gli occhi vacui.
Mentre dentro un uragano di indecisioni è in tempesta.
Torno al centro di addestramento.
Scappo da Capitol City.
Mi costituisco.
Chiedo udienza al presidente e spiffero tutto.
Mi faccio deportare nell’arena.
Chiamo un’amica e parlo con lei al telefono come se nulla fosse mai accaduto.
Quale amica?
Non ho amiche.
Ho solo colleghe.
E il mio parrucchiere.
Forse potrei chiamare lui.
Alzo il telefono e faccio il primo numero che mi viene in mente.
Ma sono maldestra, le mani tormentate dai tremori dell’isterismo, e il telefono mi cade, aprendosi in due.
Dentro, visibile come uno specchio che riflette il sole, una microspia attaccata con del plastico.
Vorrei gridare, ma non oso.
Il rumore del telefono che cade a terra in pezzi è l’unico che ho prodotto.
Mi tappo la bocca con una mano e con l’altra cerco di afferrarlo e rimetterlo a posto.
Mi stanno controllando.
Da quanto?
Ho mai detto niente di compromettente al telefono?
Mi hanno seguita?
E se avessero messo delle cimici anche nelle nostre suite al centro di addestramento?
Pensa Effie, pensa.
No, il centro di addestramento è sotto la responsabilità di Plutarch. Se così fosse, lui lo saprebbe. E se lo avesse saputo, non ci avrebbe fatto fare una riunione di mezzanotte in camera di Haymitch.
Improvvisamente ripenso a lui, steso nel letto, che dorme con me abbracciata al suo corpo.
Poi la mente torna indietro, fino al momento in cui mi ha chiesto di disfarmi della valigia.
Se ero già sotto controllo, trovarla avrà dato al governo la certezza che sia invischiata in qualcosa.
Ma se non hanno registrazioni non possono collegare la valigia a niente altro se non alla mia solita vacanza post Hunger Games.
Respira Effie.
Respira e pensa.
Devi uscire in fretta a qui.
Fa finta di essere passata a prendere qualcosa che poteva servire al tuo lavoro.
Controlla in fretta che non abbiano preso altro ed esci.
Come se niente fosse accaduto, ricorda.
La mia agenda con i contatti è ancora aperto sul mio tavolo della cucina.
L’indirizzo di Tigris che avevo trovato mancava già, ce l’ho ancora nella tasca interna della mia giacca gialla.
L’ho passato da un vestito all’altro assieme alla mia carta per i pagamenti.
Almeno questa è una buona cosa.
Per il resto sembra tutto come l’avevo lasciato.
Posso prendere l’agenda e… e il libro dei tributi sopra il tavolo. Ogni accompagnatrice che si rispetti ne ha uno sempre con lei, aggiornato all’ultima edizione. Vi sono segnate interviste, abbigliamento dei tributi, sponsor e sponsorizzazioni, stralci salienti di interviste. È come un manuale da studiare e seguire per evitare che i giochi diventino ripetitivi, per non incappare nell’imbarazzante situazione di aver fatto o deciso di fare qualcosa che è già successo.
Si questo può andare.
Afferro l’agenda, rimetto all’interno tutti i miei foglietti sparsi, chiudo l’enorme tomo ed esco di casa in fretta.
Non vedo l’ora di essere di nuovo al centro di addestramento e al sicuro accanto ad Haymitch. Lui non permetterebbe mai che mi accadesse niente di male.
 
Quando entro di nuovo attraverso le enormi porte vetrate, passo l’atrio, un enorme buco scavato fino alla cima del terrazzo, al tredicesimo piano, e mi precipito nel cuore delle attività giornaliere.
Cerco di non dare a vedere quanto io sia sconvolta, ma i sorrisi e i saluti di routine mi sembrano eccessivamente tirati per apparire veritieri.
Haymitch non c’è.
E il mio mondo sprofonda.
Stringo forte a me l’enorme libro e l’agenda e le mie unghie, inavvertitamente, graffiano le copertine. Una addirittura si rompe.
La fitta di dolore mi fa sbattere gli occhi e scivolare lo sguardo.
Vedo Plutarch farsi largo tra la folla e venirmi incontro.
Si fa largo, la sua possente corporatura ondeggiante, tra le persone che affollano questo posto come se ci fosse perennemente una festa in corso, c’è chi beve cocktail di prima mattina, chi parla, chi afferra dai vassoi porti dagli avox sandwich e tartine come se non mangiasse da giorni, chi parlotta in un angolo e chi intrattiene conversazioni rumorose e plateali al centro della sala. Come se fossero ad un ricevimento.
Solo adesso mi domando cosa c’entro io qui.
Cosa ci faccia la vera me, stretta a questi due volumi, mentre il resto del mondo sembra girare improvvisamente alla rovescia.
Eppure tre giorni fa ero una di loro.
Solo tre giorni fa.
Tre giorni fa ero ignara ed inconsapevole.
E credevo di essere felice.
Ora mi sento solo devastata. Impotente. Controllata. Immobile. In pericolo.
“Signorina Trinket, la stavamo cercando” dice.
L’uso del plurale mi fa cercare qualcun altro con lo sguardo. Spero si Haymitch, ma è solo Oldage, con i suoi occhialetti finti sulla punta del naso e la sua cartellina stretta al petto.
Sembra un topo.
Mi è veramente antipatico questo tipo.
E non mi fido.
“Ditemi pure” dico con cortesia, sperando che la voce non tremi.
“Non qui signorina Trinket. Da questa parte”. Plutarch mi indica con una mano la direzione dell’uscita e Oldage mi fissa da sopra quegli occhiali inutili.
Mi avvio in silenzio e li sento entrambi dietro di me.
Adesso, oltre le mani, tremano anche le gambe.
Camminiamo in silenzio per il lunghi corridoi del pian terreno, in un ritmo di suola e tacchi che somiglia ad una marcia militare, il passo sincronizzato, l’oscillare delle spalle precisi come metronomi.
Una serie di porte si allunga verso la fine del corridoio, che appare lunghissimo alla luce delle lampade a luce fredda e per colpa degli innumerevoli pareti specchiate.
Lo sguardo mi cade sulla mia immagine riflessa.
Sono uno spettacolo orribile.
Le labbra tumefatte, quasi blu, gli occhi incavati.
È questo l’aspetto della paura?
“Eccoci, signorina Trinket – Plutarch apre una delle porte e mi invita ad entrare con un gesto della mano – qui saremo più comodi”.
La stanza si apre svelando una scrivania al centro e quattro sedie.
Anche qui sulle pareti, c’è uno specchio che corre in orizzontale da un angolo all’altro, tranne che sulla parete della porta.
La vernice è gialla.
Ma questo giallo non mi diverte affatto.
Sembra sarcasticamente ironico.
“Si accomodi – accenna alla sedia – dovremmo farle qualche domanda” dice con calma.
Il tono che usa non mi è familiare.
Non ha niente a che vedere con quello che ha usato quando ci siamo parlati nella suite di Haymitch.
Haymitch. Ma dov’è?
“Qualche domanda? A proposito di cosa?” chiedo sperando di sembrare tranquilla.
Tutto mi fa pensare che sto per infilarmi in una strada senza uscita.
O dentro un baratro.
“A proposito del suo team. Non lo prenda come un interrogatorio, per favore. Mi sembra troppo nervosa. Vogliamo solo conoscere alcuni dettagli per analizzare la situazione” aggiunge.
Le sue labbra parlano con me, ma i suoi occhi sembrano voler dire tutt’altro.
“Certo allora. Chiedete pure” dico accondiscendente.
“Bene – Oldage afferra il suo blocco dalla cartellina ed estrae una penna dall’asola di stoffa – saltiamo i preamboli formali, tutti noi abbiamo ben altro lavoro da fare. Mi dica, è vero che il signor Mellark e la signorina Everdeen dormivano insieme sul treno del tour della vittoria?” chiede Plutarch.
E Oldage fedelmente scrive.
Lo guardo perplessa.
Capitol non ha un sistema più moderno per registrare le conversazioni?
E sarebbe meglio dire interrogatori, altro che no.
Io sono seduta da un lato della scrivania, Oldage al lato del tavolo, più distante, con il blocco sulle ginocchia, e Plutarch in piedi dall’altro lato.
“Sì, è vero” dico secca. Questa so che è un’informazione che posso dare.
“E lei ha mai assistito ad atteggiamenti di intimità tra i due?” chiede ancora.
“Cosa intende per intimità? Intende se li ho colti in flagrante mentre…” inizio, ma per fortuna lui mi interrompe.
“No. Intendo semplicemente se li ha mai visti scambiarsi tenerezze anche durante la giornata, non solo la notte”
“Peeta è tenero con Katniss anche quando lei è vistosamente arrabbiata con lui. Certo che sì!” esclamo scandalizzata dalla consistenza della questione.
“Quindi è plausibile pensare che tra i due ci fosse qualcosa di evidente? Che so, una relazione” ipotizza.
Che razza di domanda.
“Direi proprio di sì! Sono fidanzati. Si sono anche sposati, voglio dire, almeno con quello strambo rito del loro distretto, che non ha nessuna validità legale” rispondo costernata.
“Signorina Trinket, se lei crede che i due siano una vera coppia, perché non si è mai assicurata che non combinassero nulla che potesse rovinare loro la carriera?” domanda ancora.
Una vera coppia?
Rovinare la carriera?
“Signor Heavensbee, tutto ciò esula dalle mie competente!” rispondo stizzita.
“Ma non esula dalle sue competenze controllare le condizioni fisiche dei suoi tributi e controllare ogni eventuale anomalia tempestivamente a noi” osserva alzando un sopracciglio.
“Ed è esattamente quello che ho fatto. Dal momento che non c’erano particolari significativi, non c’è stato bisogno di nessuna comunicazione” spiego velocemente.
“E allora perché la signorina Everdeen è incinta e il comando non ne sapeva nulla?”
“Semplicemente perché neanche io lo sapevo. Le analisi di routine erano tutte a posto” mi giustifico. Questa conversazione è surreale. Plutarch sa benissimo che Katniss non è incinta. Sta cercando di farmi capire qualcosa.
Non lo conosco bene, ma adesso so per certo che sta facendo con me quello che io volevo fare telefonando ad Haymitch. Parlare in codice.
Il telefono.
La microspia.
La valigia sparita.
Siamo tutti sotto controllo.
“Mi dispiace contraddirla, signorina Trinket, ma la vostra routine ha creato non pochi disguidi” va avanti lui.
“Oh. Mai io non ho fatto nulla per violare i regolamenti. Mi sono attenuta strettamente alle regole” dico. Ovviamente la mia frase vuole essere un ulteriore messaggio: non ho parlato con nessuno, non ho detto nulla, nessuno mi ha vista, il contatto con Tigris è sicuro.
Lo capirà?
“E di questo siamo tutti felici – fa una pausa. Ha capito, ne sono certa – ma vorremmo, se per lei non è un problema, che non abbandonasse il centro di addestramento per il resto della giornata, nel caso in cui dovessimo farle altre domande” dice.
Questo è un ordine, ma suona anche come avvertimento: “non allontanarti” dice.
Non ne ho nessuna intenzione.
“Non deve preoccuparsi di questo, signor Haevensbee. Oggi ho decisamente un mucchio di cose da fare qui. Abbiamo sempre un tributo da dover far vincere. Almeno uno dei due, intendo” sono glaciale mentre lo dico, come se questi giochi fossero esattamente come tutti i dieci che ho seguito attivamente, ma dentro mi sento morire. Le parole di Haymitch mi rimbombano nella testa. “Domani a quest’ora potremmo essere tutti morti. O peggio. Potrebbe essere morto uno dei due… e così avrò ucciso anche l’altro”
Il gelo passa dalle mie parole al mio corpo, attangliandomi in una morsa rigida e senza scampo.
“Sono contento di sentirglielo dire. Vedrà, saremo in grado di gestire perfettamente la cosa e non ci saranno problemi con nessuno. Questa edizione della memoria è la migliore che abbiamo mai avuto. Se uno dei suoi tributi vincerà, mi creda, sarà libera di prendersi una vacanza per i prossimi sei mesi. Ammesso che non sarà tanto stanca da non riuscire a fare nemmeno le valigie!” esclama ridendo.
E al suono di quella parola vorrei alzarmi dalla sedia e scappare. Ma rimango immobile, le punte delle dita ancora strette sui miei due volumi, tanto forte da essere diventate quasi blu per mancanza di sangue.
La mia valigia.
Plutarch mi sta confermando che la hanno loro.
“Mi creda, non sarò mai abbastanza stanca per preparare le mie cose e andare in vacanza!” esclamo felice.
Se solo potessi vedermi da fuori, sarei certa di non lasciar trasparire nulla.
Plutarch scoppia nuovamente a ridere e io lo assecondo, aspettando che smetta.
È Oldage ad interromperlo, con discrezione però.
“Signorina Trinket, le lasciamo una copia di ciò che ci siamo detti, è un suo diritto. La conservi, potrebbe tornare utile”e così dicendo strappa una copia dal blocco, la piega con cura e me la porge.
Io afferro il foglio, lo infilo nella mia agenda, li saluto stringendo loro le mani ed esco, ripercorrendo quell’enorme corridoio inquietantemente pieno di specchi per arrivare di fretta all’ascensore, schiacciare il tasto dodici e lasciarmi scivolare a terra scorrendo la schiena sulla parete, fino a lasciarmi andare a tutti i tremori che ho trattenuto fino adesso.
Il libro dei tributi e l’agenda mi scappano dalle mani, e il foglio che mi ha appena consegnato Oldage mi si apre davanti agli occhi. Il mio sguardo si inchioda, assieme al respiro.
Al posto della firma di Oldage, c’è uno scarabocchio che dovrebbe sembrare tale, ma c’è scritto: “Stanza 217”.
Piangendo, pulendomi il viso con il dorso delle mani congelate, mi alzo, cerco di darmi una sistemata, aspetto che l’ascensore arrivi al dodicesimo e poi, a piedi, scendo fino al secondo.
La stanza 217 è la camera di un avox al servizio del distretto 2, lo so, perché chiunque altro avrebbe una suite. Più che una camera so che mi troverò di fronte un loculo con un letto rialzato e un tavolino per una persona infilato sotto.
Non sapendo se bussare o meno, afferro la maniglia e la giro.
La penombra non mi lascia capire, ma appena la porta si apre, due braccia mi afferrano e mi attirano verso un abbraccio di ferro.
“Santo Dio, Effie. Sei viva”.
Riconosco il suo profumo prima ancora di riconoscere la sua voce.
“Hay” dico solo.
E a quel punto niente riesce a frenare il pianto che mi scuote, come fossi una bambina.
 
“Avanti. Calmati. È tutto a posto. Calmati” mi ripete strofinando le grandi mani sulla mia schiena, senza smettere di stringermi, senza smettere di bisbigliare nelle mie orecchie, mentre i miei singhiozzi sono tanto forti che temo ci sentiranno. Ma non so fermarmi.
Io non sono fatta per questa vita.
Dove sono le mie certezze? Il calore delle mie cose? Le mie frivole passioni? I miei rifugi sicuri?
Ora l’unico posto dove mi sento a casa, protetta, è tra le braccia di Haymitch, ma so che è solo una sensazione passeggera, perché potrei perdere anche questo, da un momento all’altro, e sarei sperduta in mezzo ad un oceano di squali pronto a divorarmi.
Non ho più nulla.
Non posso tornare a casa. Non ho più il mio lavoro, non ho più nessuno da cui andare senza coinvolgerlo in questa storia.
Mi sento sola.
Sola e distrutta.
Disperata.
Inadeguata.
Sprovveduta.
Piccola.
Una pedina.
Sono solo un piccolissimo elemento di un insieme che si dimenticherà facilmente di me.
“Effie, ti prego. Cerca di calmarti” mi continua a chiedere Haymitch.
Ma non so neanche rispondergli.
Non riesco a smettere di scuotermi, singhiozzando sempre più forte.
Odiandomi sempre di più, per non aver saputo trattenere una indegna crisi isterica.
Ma come posso far finta che vada tutto bene? Dove posso trovare una scusa per calmarmi, un appiglio che mi faccia credere che andrà tutto bene?
Non ho più nulla.
“Me lo dici io che faccio, se qualcosa andrà storto? Non sarò mai in grado di cavarmela, senza di te” riesco a far uscire, la frase sconnessa dai singulti, gli occhi pieni di lacrime e il viso ridotto ad un mascherone di trucco colato.
Ho sporcato anche la bellissima giacca grigia di Haymitch.
Cerco di pulirla, ma lui blocca la mia mano, alzandomi il mento e cercando il mio sguardo.
“Non sarai senza di me, zucchero. Siamo in questa cosa insieme, siamo una squadra” mi dice chinando il capo, per essere sicuro che lo guardi davvero.
“Sì” balbetto.
Non so se credergli o meno.
Ma non posso che fare affidamento sulle sue parole.
Su questo strano, nuovo Haymitch pieno di tenerezza e compassione.
“Adesso asciugati il viso e ascolta” mi chiede, porgendomi il suo fazzoletto di cotone.
Io mi soffio rumorosamente il naso e poi cerco di ascigarmi gli occhi. Devo aver peggiorato lo stato del trucco distrutto, perché Haymitch sorride.
“Devo essere un mostro” bisbiglio piena di vergogna.
“Ad essere sinceri non pensavo ti avrei mai vista ridotta così, bocca di baci”.
La sua ironia, sempre presente al richiamo, fa sorridere anche me.
“Perché siamo dentro questo postaccio?” domando voltando il capo con disgusto.
Le camere degli avox sembrano celle di un carcere a vita. Mettono i brividi.
“Perché Plutarch ha dovuto escogitare un modo di avvisarci che le nostre suite, da questa mattina, non sono più sicure. Così come il resto del centro di addestramento. E nessuno metterebbe una microspia in un posto dove un avox non è in grado di parlare neanche con sé stesso. Faremo procedere la giornata senza nessun riferimento a questa notte. Continueremo con il nostro lavoro, come se questa edizione dovesse andare avanti come tutte le altre e cercheremo, qui e lì di dare forza alla nostra copertura. D’altronde non abbiamo mai passato tutto questo tempo a lavorare fianco a fianco per i nostri tributi, negli ultimi dieci anni. Sarebbe veramente troppo sospetto. Quindi sappi che potrei strapazzarti da un momento all’altro! – esclama, e aspetta che io sorrida di nuovo, tra i singhiozzi che lentamente vanno scemando, prima di continuare – quando si avvicinerà la mezzanotte ci ritireremo con una scusa che dovrà essere plausibile, perché nel frattempo nell’arena accadrà qualcosa che nessuno si perderebbe per andare a dormire. Dopo di che, approfittando dell’attenzione di tutti fissa sui giochi, saliremo sul tetto e aspetteremo che Plutarch, dalla sala comandi, spenga il campo di forza. A quel punto dovrebbe comparire l’overcraft che ci porterà via. Impiegherà solo un paio di minuti, dopo che saremo saliti a bordo, a raggiungere l’arena, quindi non sono ammessi ritardi di nessun tipo. Se uno dei due rimane indietro, l’altro non farà niente di stupido per aiutarlo, intesi?” domanda cercando ancora la sicurezza di avere la mia totale attenzione e comprensione.
“Non posso prometterti una cosa del genere, Hay. Non vado da nessuna parte senza di te. Non posso affrontare un distretto che non conosco, senza sapere che almeno tu mi guarderesti sapendo di conoscermi davvero. Ti prego, non chiedermelo” lo imploro.
“Promettimelo, o ti assicuro che ti lascerò qui. Non possiamo permettercelo” mi dice improvvisamente duro.
“Questo vuol dire che mi lasceresti?” chiedo impaurita.
“Non dovrò farlo, ma se dovrò scegliere tra i ragazzi e… bè, lo sai” taglia corto.
Ovvio che lo so.
Io sono solo un’amica piuttosto stramba. Loro invece sono il suo tentativo di redenzione.
Non posso chiedergli tanto.
“Lo so. Però non accadrà, vero?” domando intimidita.
“No. Non accadrà. Rimani con me. Fai finta di nulla. Recita, per favore. Recita quello che vuoi. Ma per favore, abbi fiducia in questo piano. È il migliore che si sia mai fatto. E abbiamo Plutarch dalla nostra. Per favore, ora diamoci una sistemata e usciamo. Ma non toccare i capelli. Così spettinati sono perfetti” dice, scostando solo una ciocca dalla mia fronte.
“Allora anche la tua giacca” rispondo spazzolando via il mascara dalla sua spalla.
“Usciamo” dice facendo per muoversi.
“Aspetta – lo interrompo – quell’interrogatorio…” sto per chiedere, ma questa volta mi ferma lui.
“Sì, lo hanno fatto anche a me” sorride.
“Ti hanno chiesto di Katniss e Peeta?” domando preoccupata.
“No, mi hanno chiesto di me e te” dice lui, sorridendo ancor di più.
Batto un paio di volte le palpebre, prima di parlare.
“Di me e te?”.
“Sappi, che se qualcuno dovesse chiederlo, c’è un motivo ben preciso per cui ti chiamo bocca di baci”.
Lo guardo inorridita. Non può aver detto queste cose a Plutarch, sapendo che poteva ascoltarle a chiunque.
“Non avrai osato davvero…” la mia voce trema.
“Ho dovuto, zucchero. Qualcosa dovevo pur dire che sembrasse assolutamente nelle mie corde. E dovevamo parlare di te, altrimenti non avrei capito il messaggio di Plutarch” spiega. E non afferro il perché sembri ancora così divertito. Mi nasconde qualcosa.
“Io pensavo che i miei baci ti piacessero” ammetto avvampando di imbarazzo.
“Certo che mi piacciono. Ma è un altro genere di baci, quello di cui parlavo con Plutarch” dice chinando lo sguardo.
È più forte di me. La mano parte prima che io possa fermarla.
E in un attimo le mie dita lasciano il loro segno sul suo viso.
 
Questa giornata è interminabile.
Per tutto il tempo fingiamo di lavorare e alterniamo la noia a momenti in cui lavoriamo davvero. I ragazzi nell’arena sembrano cavarsela piuttosto bene. Hanno capito da quali settori devono stare lontani e non si allontanano mai dalla spiaggia, se non per fare un sopralluogo all’albero dove hanno scelto di legare il filo.
Il piano di Beete è talmente perfetto che nessuno stratega si sognerebbe di movimentare la situazione con qualche trovata geniale che costringa i tributi ad incontrarsi per forza. Sono tutti in attesa di vedere come evolverà la cosa. E noi approfittiamo della calma per continuare a studiare i punti deboli dei tributi, facendo così credere in giro che, quando arriverò il momento di sciogliere l’alleanza, saremo pronti a reagire per dare le giuste indicazioni a Katniss e Peeta. Haymitch non perde occasione per rimarcare che se dovrà essere costretto a scegliere chi aiutare, aiuterà il ragazzo.
Non so se anche questo serva o no a depistare chi nutre sospetti, ma a volte mi infastidisce l’astio con cui parla del temperamento di Katniss. Non si accorge di dipingerla come il resto del mondo vede lui.
Evito di dirgli tutte queste cose.
Ma le tengo buone per dopo, magari potranno essere utili per creare la scusa per la fuga.
D’altronde lo schiaffo che gli ho disegnato sul viso qualche ora fa ha interrotto il nostro discorso senza avere il tempo e il modo di decidere insieme cosa fare.
Adesso questa mancanza sta mandando in tilt i miei pensieri, perché non ho idea di cosa e come faremo. Temo la mezzanotte. Neanche fossi una bambina che ha paura del buio.
Siamo nel salone, circondati dall’alta società di Capitol, e continuiamo a discutere su quale degli sponsor potrà appoggiare Peeta invece di Katniss.
Siamo di nuovo seduti a quel basso tavolo del giorno prima, uno di fronte all’altra, il libro aperto davanti a noi.
Ascolto Haymitch sostenere la sua tesi, ma non lo seguo veramente.
Scarabocchio su una pagina vuota della mia agenda stupidi ghirigori, fino a quando non mi accorgo che uno somiglia eccessivamente alla spilla che Kastniss insossa sempre, quello della ghiandaia, e mi affretto a cancellarlo con tratti nervosi e pesanti.
“Effie, mi stai ascoltando?” mi domanda nervoso.
Stacco la penna dal foglio e diniego con piccoli movimenti della testa.
“Sono stanca, davvero. Questa giornata non finisce mai. E non ho davvero intenzione di scegliere tra uno dei due” rispondo sinceramente.
“Prima o poi dovrai farlo. Sai perfettamente che non potrà succedere di nuovo che escano tutti e due vivi dall’arena” dice sbrigativamente e senza alcun tipo di sentimento.
Ovviamente sono parole vuote. Ci stiamo affaticando tanto proprio perché sia effettivamente così.
Ma la tensione mi fa perdere di vista ciò che è vero da ciò che è finto e sento solo il nervosismo montare.
“Vorrei solo essere in camera mia, in un bagno bollente e profumato” ammetto.
“Fidati, anche io lo preferirei, soprattutto se fosse nella tua stessa vasca” mi dice.
So che è la nostra copertura. Che doveva dire una cosa del genere.
Ma il fastidio è cresciuto a tal punto che sono stanca di ascoltare cose che non sarebbero vere, se non fossero dette oggi, in questo momento.
So perfettamente che se non fossimo entrambi così coinvolti in questo piano ci staremmo ignorando come negli anni passati.
Sono cosciente del fatto che Haymitch non direbbe nulla del genere seriamente, ma solo per provocarmi.
Invece ora, mi assale il dubbio e mi accorgo che vorrei fosse vero.
Vorrei sul serio che Haymitch preferisse essere in una vasca piena di schiuma con me, piuttosto che chino su un libro che conosce a memoria perché ha vissuto in prima persona tutte le storie e le fandonie che ci sono scritte.
Gli ultimi tre giorni sono stati utili solo a farmelo vedere sotto un’altra luce e purtroppo in questo momento non sono davvero sicura che la cosa mi piaccia o meno.
Sarebbe stato tutto maledettamente più semplice.
Avrei continuato ad assecondare le sue follie e i suoi modi da minatore, sapendo che la nostra convivenza forzata avrebbe dovuto funzionare solo per qualche settimana l’anno.
Avrei accettato di tenerlo buono come meglio potevo e sapevo fare.
Non lo avrei guardato con ansia, alla ricerca di un messaggio nascosto in ogni sua frase.
Non sarei stata schiava del desiderio di sentirgli dire altre frasi cariche di sensibilità e delicatezza.
“Andiamoci a fare un bagno, allora” propongo. E anche questa frase è solo per la nostra stupida copertura.
“Stanotte, zucchero. Stanotte” mi risponde.
I suoi occhi grigi, adesso calmi, mi fissano a lungo.
Cosa vuoi da me, Haymitch?
Stai facendo con me lo stesso gioco che hai fatto con Katniss lo scorso anno, quando un semplice bacio equivaleva ad una semplice zuppa.
Mi stai chiedendo di osare di più?
Se la logica è la stessa credo proprio di sì.
Allora mi avvicino e lo bacio. Ma è un bacio che non sa di niente.
Delusa mi allontano.
Non possiamo esserci veramente noi in questo salone.
Siamo due surrogati della nostra ombra.
Che delusione.
La mia testa non può fare a meno di allontanarsi dal pensiero delle ore che scorrono. Dalle domande inutili con cui mi distrae. Dalla preoccupazione e l’ansia che mi attanaglia.
Dal brutto presentimento che mi sta corrodendo.
“Sai fare di meglio” mi bisbiglia nell’orecchio.
“Adesso non so fare proprio nulla” ribatto indispettita.
“Peccato. Sarebbe stato divertente” mi provoca.
“Be’, allora pensaci tu”.
“Andiamo a prenderci da bere” mi dice alzandosi e afferrandomi la mano.
Lo seguo come un cagnolino fedele, facendomi trascinare in mezzo alla solita folla che, in piedi, occupa la maggior parte della superficie del salone.
Gli Hunger Games sono una maledetta festa per questa città.
Inizio ad odiarvi tutti.
Ignoranti caproni.
Non mi accorgo che Haymitch si ferma e gli sbatto contro.
“Lo so che ti piace starmi sempre attaccata, zucchero, ma siamo arrivati al bancone e ho delle priorità nella vita. Che bevi?” domanda avvicinandomi con un braccio attorno alla vita.
Non toccarmi se non è vero. Giù le zampe.
Non dico nulla, ci penso su e poi chiedo un cocktail di cui mi piace il nome, ma di cui non conosco il sapore.
Ci servono rapidamente.
Haymitch trangugia velocemente dal suo bicchiere, io faccio fatica a deglutire.
Vorrei di nuovo una sigaretta.
Ma non potrei neanche uscire per fumarla.
Al massimo potrei sul tetto del centro di addestramento, ma non credo sia il caso di allontanarmi.
Forse l’alcol è una buona alternativa. Se funziona da anni con Haymitch può aiutare anche me.
 
Dal cocktail in poi le cose sono più semplici.
La mente è leggermente affaticata, come cercasse di orientarsi in mezzo alla nebbia, e questo non le lascia molto spazio per addentrarsi lungo sentieri pericolosi.
Continuiamo a parlare seduti a quello che ormai è il nostro tavolo, spesso Haymitch cerca la mia mano e intreccia le nostre dita e io guardo tutto come se fossi fuori del mio corpo.
Questa situazione mi appartiene come un paio di scarpe da ginnastica.
Per lo meno essere brilla fa scorrere le ore più velocemente.
Ma continuo a sognare il mio bagno bollente.
 
Arriva l’ora di cena.
Non è successo più nulla da quando i ragazzi nell’arena sono tornati alla spiaggia in attesa della mezzanotte.
Quando li abbiamo visti fare un banchetto di ostriche è venuta fame anche a noi, e come a noi, è venuta fame a tutti.
Il salone si è improvvisamente riempito di avox che passano con vassoi carichi di cibo.
Afferro qualcosa e mangio, ma è tutto senza sapore. E purtroppo mi accorgo che il mio stomaco rifiuta il cibo.
Lascio perdere anche di mangiare.
Questa giornata non avrà mai fine.
 
Poi, improvvisamente, sono le dieci.
I ragazzi hanno cominciato la loro scalata verso l’albero del fulmine da circa un’ora.
Guardarli salire a fatica, appesantiti dal banchetto sulla spiaggia, mi fa venire la nausea.
Ma più di tutto me la fa venire quella perla nascosta nella tasca di Katniss.
So che anche Haymitch ci sta pensando.
Se ne fossi capace pregherei.
Non riesco più a tollerare di essere qui, immobile, incapace, impossibilitata, ad aspettare che accada qualcosa programmato da altri.
Io di solito ho il controllo di tutto.
Ma solo oggi ho scoperto che in realtà era solo un controllo apparente.
Beata ignoranza.
Sento Haymitch diventare nervoso.
Abbiamo parlato per tutto il giorno tra di noi e poi con tutti gli sponsor disposti a darci ascolto. Sono sfinita.
Bere non è stata una buona idea.
Sono confusa.
Eppure è stato un solo cocktail.
Al diavolo. Ora è il momento di farsi venire un’idea, Effie.
Tra poco lì dentro sarà l’inferno e voi avrete la vostra occasione. Non sprecarla.
Ma non ho tempo di escogitare qualcosa.
Improvvisamente, dal fondo della sala, noto Plutarch che appare.
Si ferma a parlare con un paio di persone che sembrano arrivate da poco, ma guarda noi.
Guarda Haymitch.
Basta quello sguardo perché si capiscano e mi taglino fuori dalla loro conversazione non verbale.
Improvvisamente la mano di Haymitch cerca la mia e la stringe, forte. E so che questo non fa parte della nostra stupida recita.
Improvvisamente il tempo è scaduto e la mia amarezza deriva solo da una strapazzata mai ricevuta.
Stupida femmina. Lascia perdere. Non è mai stato il tuo tipo.
“Diamine, ragazzo. Prendi quella maledetta spoletta e togliegliela dalle mani! Cazzo, sei un uomo! Fatti rispettare!” esclama a voce alta, inveendo contro lo schermo, come se stesse guardando un incontro di lotta. Un mormorio di approvazione e di scherno si solleva dalla folla.
“Io non la sopporto più questa tua idea di far vincere Peeta, Haymitch!” esclamo improvvisamente.
Ecco che torna quello che ho tenuto per me.
“Zucchero, credimi. Tu non capisci niente di giochi” mi dice lui.
Stiamo litigando vistosamente, di proposito.
“Per favore, non dirmi che non ne capisco niente. È il mio lavoro” gli dico duramente.
“Credimi. Non lo è. Non sei mai stata in una fottuta arena. Tu non sai niente dei giochi” mi risponde.
È così carico di astio, e ha bevuto talmente tanto, che non posso essere sicura che quella che mi sta vomitando addosso sia davvero una rabbia di convenienza.
“Sono dieci anni che ti sopporto, tu, i tuoi modi da selvaggio, il tuo ritenerti talmente superiore da non aver mai bisogno di nessuno, tu e il tuo stupido modo di affrontare la vita” ribatto con fermezza.
“Tu mi sopporti, zucchero? E io? Che ho dovuto assecondare ogni tuo foglietto, ogni tuo promemoria, ogni tua fissazione per le posate e per le stronzate come le buone maniere? Katniss si farà ammazzare con la sua arroganza, credimi!” esplode.
“Katniss farà di tutto per proteggere Peeta!” esclamo con orrore.
“E’ per questo che vincerà lui! Fattene una ragione, bocca di baci, non uscirà viva da quella maledetta arena!”
I suoi occhi bruciano come carboni ardenti.
È spaventoso.
Le labbra mi tremano.
Rabbia o spavento?
Cogli l’attimo, Effie. Il tempo scorre.
“Ne ho abbastanza!” urlo.
Mi volto per lasciarlo lì, in mezzo a tutti, e scappare.
Ma Haymitch mi afferra violentemente il braccio e mi volta, solo che nel movimento il bicchiere pieno gli scivola e mi rovina addosso, inzuppando il mio adorato vestito giallo.
Sbarro gli occhi per la meraviglia e per un attimo i suoi si spengono.
“Oddio, adesso sarai costretta a buttarlo…” inizia lui abbassando la voce.
Da qualche parte qualcuno bisbiglia un “l’ho detto io che una capitolina e un raccogli carbone non sono fatti per stare insieme”.
Sento le lacrime arrivare di nuovo sul bordo delle ciglia.
“Oh, al diavolo!” sbotto e mi volto di nuovo.
Questa volta nessuna mano mi trattiene. Né quella di Haymitch né quella di nessun altro, anzi: si apre un corridoio di persone che si scansano, pronte a non intralciare la mia fuga.
Solo le parole di lui mi seguono.
“Zucchero! – mi chiama urlando – zucchero! È solo un vestito! Torna indietro!” mi chiama.
Ma so che devo scappare, correre, correre il più in alto che posso.
 
È successo qualcosa. Ne sono sicura.
Plutarch è sceso per poterci avvertire.
E a modo suo l’ha fatto.
Cosa non lo so. Ma so che devo arrivare sul tetto il più presto possibile.
Uscendo dal salone ho sentito che Haymitch mi correva dietro, ma non mi sono voltata a guardare. Questo era l’accordo.
Al quinto piano di scale di corsa mi fermo un secondo a riprendere fiato.
Non ho mai fatto tanti piani a piedi.
Sta per esplodermi il cuore.
Poi sento dei passi veloci, qualche piano sotto di me e la paura mi blocca il respiro in gola.
Mi affaccio per la tromba delle scale e vedo il bordo di una manica grigia che sfiora il mancorrente.
È Haymitch.
Devo aspettarlo?
Aspetto.
Devo riprendere fiato.
Mi raggiunge in pochissimo tempo.
“Che ci fai ferma qui? Continua a salire”.
Ma non ce la faccio. Non riesco quasi a parlare.
“Cosa è successo? Perché stiamo già andando al tetto?” domando ansimando.
“Credo si sia realizzata una delle ipotesi di Plutarch. Maledizione. È presto”
Mi afferra per un braccio e mi trascina dietro di lui.
Lo seguo a fatica. Sento il petto esplodermi. Solo altri otto piani. Non posso farcela.
“Ma perché diamine non hai preso l’ascensore?” domanda arrabbiato.
“Ho pensato che potessero bloccarlo e catturarmi” rispondo con il fiatone.
Le gambe mi fanno male.
I tacchi non aiutano la salita.
“Vedi che ho ragione quando dico che non sei affatto stupida? – so che dovrebbe essere un complimento – però adesso dovrai fare sette piani a piedi” mi dice rammaricato.
“Otto. Ne mancano otto” lo correggo cercando di prendere il ritmo.
Passo. Fiato. Passo. Fiato.
“No, solo sette. Usciamo al dodicesimo. Dobbiamo aspettare”.
Sono troppo sconvolta per chiedergli cosa. Posso solo sperare di arrivare viva al dodicesimo piano.
 
Incredibilmente ce l’ho fatta.
Sono davanti alla porta della camera di Haymitch e cerco di riprendere fiato mentre lui rovista tra le sue cose.
Il corridoio è vuoto. Nessuno è qui.
E mi sembra strano, perché era piuttosto evidente che sarei salita in camera a cambiarmi.
Forse non ci stanno cercando. Forse l’allarme era eccessivo.
Haymitch mi chiama da dentro e, poggiandomi con una mano alle pareti, riesco ad entrare.
Si sta cambiano, frettolosamente. Senza fare rumore.
“Ehi, dolcezza. Non ti sei ancora cambiata quel disastro di vestito” mi dice.
Non possiamo parlare davvero, qui dentro. Dobbiamo mantenere la possibilità che stiano controllando e pensino che non siamo coinvolti.
“No. Dovevo smaltire la rabbia” gli dico.
Lui si ferma e mi guarda, la maglietta infilata in testa, ma ancora non scesa fino ai fianchi.
“Mi dispiace per averti detto certe cose. Insomma. Mi conosci. Dico un sacco di cazzate”
Così sembrerà che stiamo facendo pace.
“E perché mi hai seguita, se pensavi di non venire a bussare alla mia porta?” domando costernata.
“Perché sapevo che dovevo aspettare che ti calmassi. Ma volevo essere a portata di voce e lontano da tutta quella gente, lì sotto” ammette.
Oddio. Continuo a non capire quale sia la realtà e quale la finzione.
“Come facevi a sapere che fossi qui fuori?” domando.
In realtà vorrei chiedergli perché mi vuole qui dentro.
“Ho lasciato la porta aperta. E ti sentivo respirare. O meglio, piangere” dice.
Bravo, il fiatone può confondersi con il pianto.
“Non piangevo. Ho avuto bisogno di scaricare i nervi. Avevo il fiatone” dico.
“Ultimamente sei troppo irascibile. Non ti ho mai visto tanto arrabbiata e così spesso, in dieci anni” continua, finendo di infilarsi la maglietta.
“Questo perché ti evitavo. Adesso invece è tutto troppo difficile. Con te così addosso e così convinto delle tue idee mi sento una bambola di pezza. Non posso dire la mia. Non mi ascolti. Niente di quello che dico è da prendere in considerazione”
“Io ti prendo in considerazione. Ma tu parli troppo” dice.
E si avvicina, per abbracciarmi.
Non so perché glielo lascio fare. Forse perché ho bisogno delle sue braccia che mi tengano, per non crollare a terra esausta.
Sarà una lunga, lunga notte.
Anche se i minuti scorrono al triplo della loro velocità.
“Non litighiamo più. Sono un coglione, lo sai” mi dice stringendomi.
“Si, sei un coglione” confermo abbracciandolo anche io.
E questo abbraccio è vero.
Poi lui si avvicina al mio orecchio e bisbiglia così sommessamente che faccio fatica a capire.
“Stanno arrivando, tranquilla”.
Non rispondo. Ma lo stringo ancora più forte.
“Non mi piace quando mi tratti così” gli dico, del tutto sincera.
“Non piace neanche a me trattarti così, bocca di baci. Lo dico sempre che lavorare insieme non è una buona idea” dice sorridendo.
So che questo è un sorriso di circostanza, eppure i suoi occhi non lo tradiscono.
“Come se avessimo un’alternativa. Se non lavorassimo insieme non potremmo avere una relazione” gli faccio notare.
“Dico che dieci anni di allenamento dovrebbero essere più utili” mi canzona.
Siamo ancora abbracciati. Haymitch nel silenzio sfila qualcosa dalla mia tasca.
È il foglietto dell’appuntamento nella stanza 217.
“È evidente che non servano a molto” gli faccio notare.
La nostra conversazione va avanti, ma nel frattempo lui si allontana, prendere anche il suo foglio e li mastica per un po’.
È piuttosto buffo, ma non ho la forza per ridere.
Sparisce un attimo al bagno e sento tirare la catena.
“Vorrà dire che dovremmo fare altri dieci anni di allenamento” dice tornando.
Sono di nuovo stretta a lui.
“Ha ragione quel tipo” ammetto con tristezza.
“Quale tipo?” domanda lui spaesato.
“Quello nel salone che, mentre mi urlavi contro, ha detto che una capitolina e un minatore non sono fatti per stare insieme” spiego brevemente, ma con rammarico.
So che ha ragione. E d’altronde niente è più vero: io e Haymitch non abbiamo una relazione.
“Credimi. Quel tipo con capisce un cazzo” taglia.
Le sue mani sono improvvisamente tra i miei capelli, le sue labbra mischiate alle mie, le nostre bocche unite in un bacio caldo, morbido e vigoroso.
E questo è vero.
Un vero bacio.
Il primo vero bacio, carico di pensieri, pieno di emozione, che Haymitch mi da.
“Non è vero che non mi sopporti, allora” gli dico aggrappandomi con le mani alla sua schiena.
Dopo tutto l’allenamento con Peeta è tornata ad essere piuttosto vigorosa.
“No, questo è vero. Ma sono un giocatore. Mi piacciono le sfide” dice baciandomi ancora.
Mi abbandono a lui. Completamente soggiogata dalla sua barba che mi strofina il viso.
Stiamo perdendo tempo.
Ma non vorrei dover andare da nessuna altra parte.
Haymitch che mi stringe è la sola cosa che sembra veramente concreta in questi giorni di follia.
Poi dei rumori nel corridoio catturano la nostra attenzione. Allontaniamo i nostri visi, ma non scostiamo i nostri corpi.
I passi si fermano.
Squilla il telefono.
Haymitch risponde al secondo squillo.
“Sì. Sicuro. Arriviamo” dice e poi attacca.
“Arriviamo dove?” domando spaventata, di nuovo.
“Al piano terra. Hanno delle domande per noi”.
Mi prende la mano e s’incammina.
Fuori della porta ci sono due guardie che ci aspettano per scortarci.
Sento la mano di Haymitch che si stringe troppo alla mia.
Chi era al telefono?
Non faccio in tempo neanche a cercare la prima risposta sciocca che mi passa per la mente che Haymitch ha tagliato la gola di quello di fronte a lui e rotto il collo dell’altro stringendolo tra le braccia.
Io sono sotto shock.
“Dolcezza. Andiamo. Ci aspettano” dice.
Ma invece di andare all’ascensore, torna alle scale.
Poi tutto accade in un attimo.
Altre guardie dal fondo del corridoio si avvicinano di corsa.
Haymitch accelera il passo fino ad arrivare a correre, ma io non riesco a stargli dietro.
Mi trascina per la mano, ma le gambe non mi tengono più.
Le guardie si avvicinano e ci urlano di fermarci.
Poi scavalcano i corpi dei loro colleghi e ci sono quasi addosso.
Le scale per la terrazza sul tetto sono a pochi passi.
Ma le guardie cominciano a sparare e siamo costretti ad appiattirci contro il muro, sperando che non ci prendano.
Haymitch si muove di nuovo, chinando la testa e io lo seguo, la mia mano inamovibile nella sua.
Le guardie hanno ricominciato a correre e a gridare di fermarci. Ma non sparano.
Vogliono prenderci vivi.
Noi inforchiamo le scale e cominciamo a salire.
E scopro con orrore che mi sono sbagliata.
La terrazza e il dodicesimo piano non sono separati solo da un solaio; tra l’uno e l’altro ci sono altri due piani di quelli che credo siano locali tecnici.
Non ce la farò mai a fare altri tre piani.
 
“Forza Effie. Non ci raggiungeranno. Saranno qui tra pochi istanti!” mi incita Haymitch.
Io mi sto lentamente accasciando.
“Va avanti. Ti sto rallentando. Abbiamo troppo poco tempo”
“Forza. Non ti lascio indietro” mi dice.
Le guardie si avvicinano.
Sparano un altro colpo, nella speranza di spaventarci, ma non funziona.
“Va avanti Haymitch, arrivo” gli dico.
Sto per arrendermi. Le gambe non si muovono.
Siamo quasi al secondo piano fantasma.
Haymitch continua a trascinarmi.
Poi le porte dei piani sottostanti improvvisamente si aprono ed altre guardie si riversano per le scale. Inseguendoci.
Sono troppi.
E sono troppi vicini.
La paura mi fa scattare di nuovo. I muscoli tornano a funzionare.
Una sola rampa e ce l’avremo fatta.
Ma la mia più grande paura diventa realtà.
Le mie maledette scarpe con il tacco mi tradiscono sotto il peso di una storta. Le gambe cedono definitivamente, la mia mano scivola dalla stretta di Haymitch e io cado, rotolando giù per la rampa dietro a noi.
Haymitch mi fissa, gli occhi carichi di orrore, e so che tra pochi secondi sarà sparito.
Non posso chiedergli di scegliere.
Lo so.
Sceglierà i ragazzi.
Sceglierà la possibilità di una libertà che non ha mai conosciuto.
Sceglierà di lasciarmi indietro.
In fondo chi sono io?
Rotolo all’indietro rimbalzando da un gradino all’altro, sbattendo la schiena e la testa, le gambe inerti che seguono gli urti. Provo dolore ovunque, ma sono talmente tanti i colpi dei gradini che non riconosco nessun dolore particolare.
Rotolo giù fino a fermarmi sul pianerottolo successivo.
Haymitch è ancora immobile a guardarmi e vedo tutte le sue convinzioni sciogliersi nell’attimo in cui i nostri occhi si trovano.
“Va via!” gli urlo.
Poi provo a rialzarmi, ma la gamba cede sotto l’esile peso del mio corpo.
Fa troppo male. Sento il corpo ridotto in pezzi. Ogni angolo è dolorante, ma dalla gamba, all’altezza della coscia, sale un dolore che non posso sopportare.
Mi accascio di nuovo.
Le lacrime scorrono dai miei occhi senza il mio permesso.
Haymitch è ancora lì, immobile, un piede sceso di un gradino verso di me, bianco come la maglietta che indossa.
“Vattene!” gli grido.
Poi il fragore dei motori dell’overcraft inonda lo spazio e so che tutto è finito.
Non raggiungerò mai il 13.
Haymitch non può scendere a prendermi.
“Vattene” dico ancora, questa volta senza gridare, forse più a me che a lui.
Ma le guardie sono su di me.
E nel momento in cui le loro braccia mi sollevano da terra, vedo Haymitch correr gli utlimi gradini e sparire dietro l’enorme porta di ferro che dà sul terrazzo.
Alla fine ha scelto.
E, ovviamente, non ha scelto me.
 
Sento più mani tenermi in piedi e il rumore dell’overcraft allontanarsi.
Il dolore alla gamba è intollerabile.
Ma lo è di più l’abbandono che mi gela il cuore.
È tutto finito, Effie. Se ne è andato. Adesso va via anche tu.
E tutto diventa buio.
 
 
 
Questo capitolo è stato difficile e lunghissimo, ma non potevo dividerlo.
Credo che sapessimo tutti come sarebbe andata a finire, ma scrivere queste parole è stato come viverle davvero.
Qualcuno di voi noterà che la rottura della gamba di Effie potrebbe essere un’idea rubata al meraviglioso Atlante delle Nuvole, ma non è così. Questa idea è frutto di una conversazione inaspettata, alla ricerca di una chiave narrativa e solo dopo c’è stato il pensiero del collegamento con l’Atlante. Spero di non aver deluso le aspettative di Vale&Vale (alias dr_peenis) e le ringrazio infinitamente per la loro disponibilità, per il loro aiuto costante e per avermi permesso di poter scrivere questo, rendendo la mia FF una sorta di prequel della loro. Adesso so di avere una enorme responsabilità. Spero di esserne all’altezza.
Se qualcuno di voi non avesse ancora letto l’Atlante (cosa di cui dubito fortemente) questo è il link http://www.efpfanfic.net/viewstoryv.php?sid=2614435.
Lo troverete splendido.
Ringrazio inoltre Allegambe, di qualcosa che lei sa ;)
Recensite, se volete e se potete. Ho bisogno di sapere cosa ne pensate e le recensioni sono un buon motore per l’ispirazione, quindi ho davvero bisogno di voi!
Grazie per esservi fermati a leggere.
A presto
Mor

ps. ho corretto gli errori.... scusate!

 

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Capitolo 14
*** CAPITOLO 14 ***


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CAPITOLO 14
 
Questo fottuto distretto è tutto sbiadito.
Qui non hanno la più pallida idea di cosa siano i colori.
Vivono come talpe e conoscono solo tunnel e terra da scavare senza sapere cosa sia un prato verde. Almeno noi al 12, quando ne usciamo vivi, riemergiamo dalle miniere e ci godiamo un po’ d’ossigeno.
Qui invece l’aria è forzata in enormi condotti di acciaio grezzo, dalle volute elicoidali, e respirare è come prendere boccate dentro un sacchetto di carta chiuso.
È soffocante, cazzo.
Mi tocca dare fondo alle scorte di alcol che ho rimediato per variare un po’ la visione delle cose. Almeno quando bevo non ho la cognizione per capire se quello che vedo è reale o no.
Semplicemente volo nel mio mondo fatto di colori e distorsioni, dove il dolore non esiste, dove l’assenza diventa una compagnia e dove il vuoto non è più un buco, ma una coperta.
Sono un cazzo di buono a nulla. Ecco cosa sono.
Sono pure diventato dipendente da antidolorifici.
Certo, se quell’hovercratf non avesse rischiato di cadere mi sarei risparmiato qualche ferita e questo maledetto squarcio sul braccio che mi sta facendo impazzire, ma non avrei riscoperto il piacere di cadere nell’oblio incosciente della morfamina.
Diamine, quella si che è roba forte. Sorrido e lascio scivolare un po’ tra le dita la mia fiaschetta di metallo. Se cade avrò finito la mia razione giornaliera.
Sento le dita serrarsi di nuovo attorno al mio avere più prezioso e bevo.
Un sorso. Un altro. Un altro ancora.
Niente di più facile.

Il dolore al braccio lentamente si sopisce e il pulsare sotto la stretta fasciatura rallenta.
Il tempo si dilata. Ora e prima si fondono.
L'oblio del nulla è vicino.
Se mi sta abbandonando il dolore fisico, tra poco mi lascerà anche l'altro dolore. Quello peggiore.
E finalmente potrò respirare.
Finalmente potrò vedere un po' di quel verde prato che non sapevo nemmeno potesse mancarmi. Non me ne è mai fregato molto dell'erba fresca, dell'odore della primavera e cazzate simili.
Ma questo fottuto posto sembra un gigantesco sepolcro e mi fa venire voglia di strapparmi i vestiti e abbandonarmi alle meravigliose sensazioni della natura incontaminata. Mi fa venire voglia di ubriacarmi steso sotto un bel cielo azzurro.
Azzurro.
Azzurro.
No.
Azzurro no.
Odio questo colore.
È il colore dei miei incubi.
E il peggiore tra i peggiori è quello in cui due occhi azzurri mi fissano.
Sono quelli di Effie in fondo a quella maledetta scala che si trasformano in quelli di Peeta. E mi fissano, enormi, indagatori, senza che io possa nascondermi.
Si fottessero i prati verdi e i cieli azzurri.
Meglio perdere coscienza qui, in questa maledetta tomba, e sperare di creparci il prima possibile.
Mi scolo l'intera fiaschetta e addio scorte giornaliere. Se mi dirà fortuna sverrò e rimarrò incosciente fino a domani.
Addio problema.

Ma sì.
Giù tutto d'un sorso.

E l'oblio mi abbraccia.


L'overcraft trema.
Pensavo fossero piuttosto stabili questi affari volanti. Eppure mentre il cavo d'acciaio si arrotola issando a bordo il corpo di Finnick, abbandonato nell’incoscienza, le paratie in metallo vibrano a tal punto che temo che saltino via i rivetti da un momento all’altro.
Lo so.
Tra poco mi ritroverò a precipitare dentro quella fottuta arena e ci rimetterò finalmente le penne.
Vi ci saranno voluti venticinque anni per togliermi di mezzo, però. Fottuti bastardi.
Dal portellone vedo Finnick, svenuto, avvicinarsi.
Le braccia allargate che pendono inerti fuori della sua imbragatura. I due che sono con me mi spostano di peso per afferrarlo e tirarlo dentro. Li guardo mentre lo adagiano accanto a Katniss e Beete.
Poi il portellone si chiude.
Si chiude.
Perché si chiude?
Il ragazzo è ancora fuori da qualche parte.
Perché?
“No! -  grido – dobbiamo prendere Peeta!” urlo.
I due si scambiano una rapida occhiata, mentre sistemano le braccia di Finnick lungo il suo corpo.
Sembra morto.
“Il ragazzo! È ancora lì giù!” strillo.
Si guardano ancora, poi uno si volta verso di me.
“Ordini superiori. Non possiamo prelevarlo. Ha ancora il localizzatore” spiega a bassa voce, come temesse di prendere uno schiaffo in faccia.
Ed è quello che gli darei, se improvvisamente le mie forze non svanissero in un istante, appena la consapevolezza di ciò che ha detto mi colpisce con la forza della verità.
Non possiamo lasciarci tracciare fino al tredici.
Ma non posso lasciarlo lì.
Non anche lui.
Mi avvento contro il portellone, con la stupida speranza di forzarlo.
Poi tutto accade in un attimo.
Mentre la testa mi esplode in un accecante dolore e i miei occhi perdono la visione della realtà, pieni solo di due paia di occhi azzurri che mi guardano, un rumore assordante si sprigiona da un punto troppo vicino al mio corpo e l’overcraft si piega repentinamente da un lato.
Un altro tipo di dolore mi distrae da quello alla testa e la luce del giorno spacca l’oscurità della stiva dell’overcraft.
Uno squarcio sul portellone.
Uno squarcio sul mio braccio.
Ci stanno attaccando.
Un’altra esplosione e l’overcraft si inclina sul fianco opposto, scaraventandomi contro una paratia.
I due rimangono a stento in piedi. I corpi dei ripescati legati alle loro barelle ancorate al pavimento.
L’aeromezzo si riallinea con l’orizzonte e corro verso Katniss.
Così indifesa, abbandonata sulla sua lettiga.
L’avvolgo con le braccia e con il corpo mentre un terzo colpo fa vibrare nuovamente tutto intorno a noi.
Stringo il corpo di Katniss e aspetto che accada qualcosa.
Aspetto di precipitare.
Aspetto di cadere nell’arena.
Aspetto di morire.
Senza aver salvato neanche uno dei miei due tributi.
Poi l’overcraft vibra di una frequenza diversa e capisco che i motori stanno spingendo al massimo per allontanarsi.
La luce che entra dallo squarcio si affievolisce e allora so che gli scudi difensivi sono stati riattivati.
Allento leggermente la presa su Katniss e mi raddrizzo.
Dal braccio un flusso costante di sangue esce macchiando i suoi vestiti e il pavimento.
Non so cosa fare.
Ho lasciato indietro Effie.
Ho lasciato indietro Peeta.
Due paia di occhi azzurri mi fissano di nuovo da una dimensione di colpa che mai avevo assaggiato.
I due addetti al ripescaggio si allontanano per i corridoi e mi lasciano lì, più esanime dei tre svenuti che ho vicino.
Ho fallito.
Ho fallito.
Ho fallito.
Mi siedo a terra e aspetto che tutto il sangue che ho in corpo finisca.
Ma ho poco tempo per attendere che la morte finalmente arrivi.
Fuori è tutto uno scrosciare di colpi e bombe e scricchiolii e scosse.
Il combattimento è in atto e non posso rimanere qui a compatirmi mentre annego nel sangue, mentre Katniss è ancora viva accanto a me.
Non posso e non devo.
L’ho promesso al ragazzo.
L’ho promesso ad Effie.
C’è ancora qualcosa.
E la morte arriverà forse quando Katniss si sveglierà.
Ora devo alzarmi e tornare al mio compito.
Con il braccio inerte e bianco in volto, mi avvio lungo i corridoi, seguendo i due che mi hanno lasciato indietro.
Superare il corridoio è difficile.
Sembra di essere su una nave in balia di una tempesta.
Seguire un percorso dritto impossibile.
Sbatto ad ogni passo contro una delle due pareti, ma riesco a tenermi in equilibrio.
La battaglia fuori imperversa, anche se sembra niente, confronto quella che sento ruggire dentro.
Non so neanche come, raggiungo la plancia.
Plutarch è ancora in uniforme da stratega e impartisce ordini a raffica, neanche fosse una delle mitraglie del suo overcraft rubato.
Dall’enorme vetrata del centro di comando vedo che tutto fuori è fiamme, fumo e pezzi di detriti.
L’aeromezzo è continuamente scosso dalle esplosioni.
“Falla nel sistema di aerazione!”
“Abbiamo perso lo stabilizzatore di sinistra!”
“Fuori la terza tornata di siluri!”
Le comunicazioni piovono da ogni parte della plancia.
“Ripristino manuale del sistema di condotti d’aria! Bilanciare sensore gravitazionale di destra! Fuoco!”.
Mi avvicino a Plutarch e riesco a mettergli una mano sulla spalla. La mano piena di sangue.
“Devi tenerlo su, vecchio. Devi tenere in vita la ghiandaia” gli dico in un filo di voce.
“Starà su, Hay. Starà su” mi dice.
Annuisco e per un attimo i suoi occhi si posano su di me.
Vedono tutto il sangue che sto facendo colare sulla sua divisa.
Ma tornano subito al loro lavoro.
L’overcraft dondola ancora, senza riuscire a stabilizzarsi per qualche minuto e io rischio di vomitare per la prima volta in vita mia senza l’aiuto dell’alcool.
“Centrato obiettivo primario!”
“Sta precipitando!”
“Non rileviamo altri mezzi in arrivo!”
“Capitol City ritira mezzi di supporto!”
“Pronti ad azionare il sistema di occultamento!”
Plutarch rimane un altro paio di secondi in silenzio. Tira un respiro lunghissimo, come se i suoi polmoni avessero una capacita infinità e poi espira, in un sibilo lungo più di qualche secondo.
Ho le gambe che tremano. Ma non è paura. Non è l’adrenalina che mi abbandona. È semplicemente la mancanza di sangue nel corpo. Ne sto perdendo troppo.
Aspetto che Plutarch parli.
“Attivare occultamento. Rotta verso il 13 a motori spiegati. Andiamocene di qui. Capitol City non riuscirà a starci dietro” ordina infine, lo sguardo fisso verso il cielo nascosto dal fumo della battaglia.
“Il ragazzo…” inizio, ma le forze mi abbandonano.
Lui mi sente scivolare e in un attimo si volta e mi afferra da sotto le ascelle.
Il suo solito sorriso sghembo, tipico di chi si sente un fine umorista, non c’è. Al suo posto un’espressione di serietà che raramente gli ho visto sul viso.
“Fin non è riuscito a togliere il localizzatore a Peeta. Dobbiamo lasciarlo lì. Ora vai a farti medicare o sarai solo una zavorra fino al 13” mi dice.
Colgo per un attimo l’eco di quel sorriso affacciarsi, ma l’espressione non muta.
Forse gli occhi mi giocano strani scherzi.
Sento afferrarmi, issarmi da due persone, e trascinarmi via.
Mi sdraiano su una barella in quella che pare un’infermeria.
Accanto a me scorgo la treccia di Katniss che pende dalla barella accanto.
Non sento nulla quando mi ricuciono la ferita.
Ma ci mettono tanto.
Talmente tanto che mi addormento, ignaro del dolore e mi sveglio quando nessuno è più con noi.
Katniss mi fissa, seduta sulla sua barella accanto a me, il viso trasfigurato dall’odio, gli occhi grigi ridotti a fessure infuocate. Non parla. Mi fissa solamente.
Cerco di mettermi seduto, ma il mio corpo non risponde.
Allora provo a parlarle, ma la mia voce è persa.
Sono immobile.
Non posso muovermi.
Non posso dire nulla.
Guardo nuovamente Katniss e il suo viso sembra trasformarsi. È sempre lei, ma qualcosa, dei piccoli dettagli, la fanno sembrare più cattiva, più pericolosa, terrificante.
I miei occhi non riescono a distogliersi dai suoi.
Mi sento come incatenato.
E questo silenzio mi sta facendo impazzire.
La fisso con talmente tanta insistenza che alla fine tutto ciò che è attorno al mio fuoco visivo perde nitidezza, lasciandomi quasi al buio, senza la possibilità di definire i contorni dell’immagine.
E poi improvvisamente il grigio degli occhi di Katniss comincia a mutare. Da grigi si trasformano in blu e poi si schiariscono. Il taglio cambia. Il colore delle ciglia sfuma.
Ora è Peeta che mi guarda, con l’azzurro delle sue iridi annacquato dalle lacrime. La vista della sua sofferenza è straziante per me. Non posso resistere ai suoi occhi come ho fatto con quelli di Katniss. Con lei reagisco sfoggiando l’aggressività che ho sempre avuto. Di fronte a Peeta sono completamente disarmato. Non c’è niente che possa difendermi dalla sua onesta, dalla sua bontà. Dalla sua capacità di amare il prossimo. Cose per me dimenticate e dolorose, più di una lama nello stomaco.
Vorrei dirgli di andarsene. Di sparire. Di uscire dal mio campo visivo. Non posso fare niente per lui. Non posso salvarlo. Non posso tirarlo fuori di li. Non posso tenerlo in vita.
Gli occhi per un attimo tornano ad essere quelli di Katniss, poi ancora quelli di Peeta e si ingigantiscono, mi avvolgono quasi. E non mi lasciano scampo.
Non posso evitare di guardarli.
Vi prego. Andatevene.
Vi prego.
E alla mia richiesta sembrano iniziare a rimpicciolirsi fino a ridursi a puntini lontani, privi di corpi a cui appartenere, bottoni luminosi che si allontanano, quasi fino a scomparire. La stanza attorno a me è vuota, bianca, luminosissima, senza finestre, pavimenti, pareti e soffitto si confondono. Siamo io sulla barella, legato, muto, e questi due occhi che si allontanano dai miei, ma che feriscono come spilli piantati nei bulbi oculari.
Vi prego.
Vi prego.
Andate via.
Io non posso fare altro.
E appena penso questo, gli acchi diventano giganti di nuovo avvicinandosi al mio viso e inghiottendomi nel loro azzurro.
Gli occhi di Effie mi hanno appena ucciso.
 
Mi sveglio di soprassalto.
Quasi ruggisco.
Il pugnale stretto nella mano sinistra.
Gli occhi ancora chiusi.
Respiro e sono vivo.
E meno fendenti come capita.
E taglio qualcosa.
Sbarro gli occhi e mi ritrovo di fronte Alma Coin, gli occhi gelidi, privi di colore, come tutto il suo distretto, che me li pianta addosso come fossero lame.
Ancora occhi.
Ancora lame.
Non dice una parola.
Sta aspettando qualcosa.
Osservo meglio.
La sua camicia è tagliata a metà all’altezza del seno e uno dei due è… fuori.
Mi accorgo di essere fradicio.
Questa idiota deve avermi svegliato come solo dolcezza aveva osato fare. Solo che Katniss è un’esperta di arene, sa sfuggire ad un fendente mal menato.
La Coin non ha idea di come si schivi un coltello impugnato da un pazzo ubriacone.
Ecco perché si ritrova con una tetta al vento.
Nessuna parola ancora.
Io aspetto.
Potrei solo tirar fuori insulti che colorerebbero più della metà del 13.
“Credo abbia varcato ogni limite, signor Abernathy. Da questo momento le proibisco severamente di toccare più qualsiasi bevanda alcolica si sia portato dietro da quale che sia angolo di Panem. La confino in una cella detentiva fino a che non si sarà completamente disintossicato. La nostra ghiandaia ha bisogno di lei. Ha bisogno del suo mentore lucido. Così non è utile a nessuno. Anzi, è solo uno spreco di energie. La volevo svegliare per dirle che avevamo in programma una riunione per stabilire i prossimi passi, ma la esonero con effetto immediato e fino a nuovo ordine. Spero non abbia nulla da dire” tira fuori tutto d’un fiato.
Io sto zitto.
Riesco solo a guardare la sua tetta che mi fa l’occhietto dalla camicia tagliata.
Ma non li portano i reggiseni nel 13?
Cazzo, Haymitch. Non pensarle neanche certe cose.
L’ultima volta che hai visto un reggiseno hai perso la testa, hai lasciato la sua padrona a Capitol City ed è finita che hai sognato di essere stato ucciso dai suoi occhi.
Lascia perdere le tette. Sei troppo vecchio per certe cose.
E Alma Coin è più vecchia di te.
Goditi questo ultimo strascico di sbronza, perché, a detta del boss qui, non ne avrai per un bel pezzo.
Continuo a stare zitto.
Annuisco.
Mi rifiuto di consegnare il pugnale.
Mi scolo l’ultima gocciolina dalla fiaschetta e mi lascio portare via.
Spero di non finire in una cella bianca e luminosa.
Sarebbe alquanto disdicevole.
 
Incredibile ma vero, eccomi qui.
Per un attimo avevo disperato anche io, ma come vedete, chi non muore si rivede.
Questo è il primo capitolo della seconda parte dell’Angolo.
Haymitch è in un evidente stato confusionale, insomma, come al solito. È tornato alle sue vecchie abitudini. E si becca la galera.
Poverino, è finito in un distretto proibizionista…
OOOOk, la smetto di dire scemate, ma vista l’ora spero possiate perdonarmi un leggero sfarfallio di pazzia.
Grazie per continuare a leggere la mia storia.
Aspetto sempre tante recensioni, ma in realtà non ci spero quasi più… a quanto pare ho dei lettori silenziosi…!!
A presto
Mor

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Capitolo 15
*** CAPITOLO 15 ***


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CAPITOLO 15
 
Guardo il quaderno che ho davanti e ne fisso la copertina.
“CENTRO DETENTIVO” dice al centro, come fosse il titolo di un libro. Ma qualcuno ha sbarrato la scritta e corretto a penna: “DIARIO DI BORDO DI UN ALCOLIZZATO FISSATETTE”.
Ok. Non l’ha scritto “qualcuno”.
L’ho scritto io.
È il motivo per cui sono qui.
Ed è l’unica cosa che riesce a strapparmi ancora un sorriso, costretto qui dentro assieme ad altri strampalati personaggi provenienti da chissà quale distretto, poveri mentecatti vittime di non so neanche cosa.
Sono tutti fuori di testa. Più di me.
Mi hanno rinchiuso in un fottuto manicomio.
Cazzo, il tredici deve essere veramente enorme se qui sotto hanno spazio addirittura per un manicomio.
Oddio.
Forse non sono neanche più nel tredici.
Non vedo la luce da dieci giorni.
Probabilmente questo è l’inferno.
Un girone di anime condannate a vagare per questi corridoi scorticati, trascinando tristemente i piedi tra un passo e l’altro.
Circondato da veri pazzi.
Però nessuno di loro è rimasto per un paio di minuti a fissare una tetta della presidentessa Coin.
Cerco a stento di trattenere ancora le risate.
Una tetta piccola, dal capezzolo chiaro.
Insignificante.
Comica.
Apparsa come una visione dopo uno degli incubi più inquietanti abbia mai fatto. Dopo che gli occhi di Effie mi hanno trafitto uccidendomi nel sonno. Dopo che quelli di Katniss iniettati di sangue mi avevano odiato con tutta la loro forza nella realtà.
È passata una settimana.
Una settimana dalla tetta di fuori.
Due settimane da Katniss che affonda le sue unghie nel mio viso per uccidermi.
Due settimane e due giorni da quando ho lasciato Peeta nell’arena.
Due settimane, due giorni e poco più da quando ho abbandonato Effie con una gamba rotta in fondo alle scale.
Guardo il maledetto quaderno e aspetto di trovare qualcosa che stimoli la mia reattività.
Annotare in sequenza tutti i momenti in cui avrei voglia di afferrare la bottiglia e non poterlo fare è una tortura peggiore che rimanere a bocca asciutta.
Ancora non capisco per quale motivo devo farlo.
A che diamine serve?
Vorrei attaccarmi alla bottiglia almeno tre volte al minuto, non posso segnarle tutte.
Penso alle tette della Coin e sorrido, poi mi vengono in mente le labbra di Effie che urlano “vattene” e mi viene voglia di bere.
Lo annoto.
Due secondi dopo ho lo sguardo fisso sulla mano che regge la penna, lo sguardo vuoto, la mente assolutamente priva di ragionamenti e il pensiero vola alle unghie di Katniss che mi affondano nel viso mentre mi urla che l’ho tradita, che ho abbandonato Peeta. Ho di nuovo voglia di bere.
Lo annoto di nuovo.
Metto una croce sotto il “sì” e poi aggiungo l’ora, specificando i secondi. Lo faccio solo per giocare. Perché non so che ora sia. Non so quando sia l’ultima volta che ho guardato un orologio. Ma mi piace prenderli per il culo.
Detesto scrivere queste stronzate, ma è l’unica cosa che posso fare per evitare di morire di noia o perdermi nel parlare con qualcuno dei miei compagni di avventura, che tanto non capisce una sola parola di quello che dico.
Passano circa dieci secondi e sento che mi manca il culo di Effie.
Ecco.
Questo è decisamente un bel motivo per bere.
Mi concentro su Effie e sulle sue cosce, per non pensare a Peeta, ma ho di nuovo sete.
Di questo passo finirò il quaderno molto presto.
I graffi sul viso mi prudono.
Soprattutto quello sulla guancia sinistra.
Mi gratto e cerco di scorticare via anche il pensiero di Katniss che mi urla che sono uno schifoso traditore, un bastardo.
Quando cerco di annotare sul quaderno perché ho nuovamente voglia di bere, le mie mani tremano e non riesco a tenere ferma la punta della penna sul foglio.
Allargo le dita e aspetto che passi, come faccio da quando oramai i sintomi dell’astinenza mi tormentano.
Non c’è modo di scappare.
Non ho nessuna possibilità di trovare qualcosa con cui stordirmi e mettere a tacere le grida di Katniss che mi girano nel cervello come un disco rotto.
Un unico vantaggio: aver abbandonato loro tre ha cancellato la colpa che sentivo per tutti gli anni trascorsi a fare il mentore.
Se per ventiquattro anni di Hunger Games sono sopravvissuto sulle spalle di tutti gli altri tributi del mio anno e ho mandato a morire quarantasei ragazzini sfortunati, costretto dal sistema dei giochi, ora ho liberamente scelto di abbandonare le uniche tre persone al mondo che potrei considerare davvero parte della mia vita.
Katniss ha ragione.
Sono un traditore.
Ho mentito.
Li ho usati.
Li ho lasciati indietro.
Se le mani smettessero di tremare annoterei di nuovo sul quaderno che devono arrendersi e lasciarmi bere.
Ma le dita non si fermano e i palmi cominciano a sudare.
Io odio questo stato.
Lo odio.
Lasciatemi uscire, maledetti idioti.
Lasciatemi tornare da Katniss.
Lasciate che faccia qualcosa.
Non posso stare ancora qui, in questo posto dimenticato da Dio, a scrivere finti appunti con orari inventati.
Per favore.
Devo trovare un modo, una soluzione, un… qualcosa… che possa farli tornare a casa sani e salvi.
Devo mantenere le mie promesse.
Per favore.
Per favore.
Ma non c’è nessuno qui.
Nessuno ascolta parole che non so far uscire.
Tutto ciò che devo fare è mantenere la lucidità il più a lungo possibile e sperare che quella stronza della Coin mi faccia uscire presto.
Perché Katniss sarà in grado solo di creare casini senza di me.
Afferro il quaderno e mi alzo.
Esco da questa stanza a vetri affacciata su un muro di cemento e mi incammino per il corridoio, sperando di non dover parlare con nessuno.
Il sudore mi imperla la fronte, il tremore alle mani ancora mi fa vibrare le braccia, ma non lascio scivolare il quaderno.
Cammino a testa bassa, nell’intento di raggiungere la mia branda al più presto.
Mi sdraierò, cercherò di dormire e questa maledetta giornata sarà passata come le altre. Una in meno.
Attraverso la sala comune e nel mio campo visivo ci sono solo le fughe delle mattonelle a terra e qualche piede in ciabatte.
Non voglio fermarmi, ma percepisco una voce che conosco e mi blocco di colpo.
Alzo la testa e i miei occhi incontrano quelli di Peeta, sullo schermo della sala comune, dove i matti che abitano qui passeggiano senza una meta, senza rendersi conto di cosa la televisione stia trasmettendo.
“…quando quel filo è stato tagliato, le cose hanno perso ogni logica. Ho solo ricordi frammentari. Ricordo di aver tentato di trovare Katniss. Di aver visto Brutus uccidere Chaff. Di aver ucciso Brutus io stesso. So che lei gridava il mio nome. Poi il fulmine ha colpito l’albero e il campo di forza intorno all’arena... è esploso”.
È stata Katniss a farlo esplodere, Peeta - dice Caesar - Hai visto il filmato”.
“Non sapeva quello che faceva. Nessuno di noi riusciva a seguire il piano di Beetee. La si vede che cerca di capire cosa fare con quel filo” scatta Peeta di rimando.
Va bene, va bene. Solo che sembra una cosa sospetta - dice Caesar - Come se lei facesse parte del piano dei ribelli fin dall’inizio”.
Peeta è in piedi, chino sul viso di Caesar, le mani serrate sui braccioli della poltrona del suo intervistatore.
“Davvero? E faceva parte del suo piano che Johanna per poco non la uccidesse? Che quella scossa elettrica la paralizzasse? Che si scatenassero i bombardamenti? - adesso sta urlando - Non lo sapeva, Caesar! Né io né lei sapevamo niente, solo che cercavamo di tenerci in vita l’un l’altro!”.
Caesar mette entrambe le mani sul petto di Peeta in un gesto che è al tempo stesso difensivo e conciliatorio.
“D’accordo, Peeta, ti credo”.
“Bene” Peeta si allontana da Caesar, tira indietro le mani e se le passa tra i capelli, scompigliando i riccioli biondi accuratamente pettinati. Stravolto, si lascia cadere di nuovo sulla sua poltrona.
Caesar attende un istante, studiando Peeta.
“E il vostro mentore, Haymitch Abernathy?”
Il tremore aumenta.
Il sudore scivola lungo la fronte sugli occhi e brucia.
Li tengo aperti.
Il respiro di blocca.
L’espressione di Peeta si indurisce.
“Non sono a conoscenza di cosa sapesse Haymitch”.
“Potrebbe aver fatto parte della cospirazione?” chiede Caesar.
“Non ne ha mai fatto cenno” risponde Peeta.
Caesar continua.
“Cosa ti dice il tuo cuore?”
“Che non avrei dovuto fidarmi di lui – dice Peeta – Questo è quanto”.
Vorrei andarmene di qui, di corsa, ma gli occhi di Peeta, grandi nello schermo della televisione accesa per sbaglio nella sala comune, mi tengono inchiodato dove sono.
Come se il mio incubo stesse diventando realtà.
Non ha detto che sono un traditore.
Ma si pente di essersi fidato.
Ho fatto tutto per una giusta causa, accettandone i rischi, accettando che avrei potuto perderli entrambi. E sapevo che non avrei mai fatto pace con la mia coscienza. Ma almeno credevo che, se qualcosa fosse andato storto, avrei potuto distruggermi il cervello e spappolarmi il fegato con litri di alcol. Non immaginavo che avrei dovuto disintossicarmi e affrontare il mio inferno perfettamente lucido.
Caesar batte leggermente sulla spalla di Peeta.
“Possiamo fermarci qui, se vuoi.
“C’era altro di cui parlare?” dice Peeta in tono beffardo.
“Avevo intenzione di chiederti cosa pensi della guerra, ma se sei troppo sconvolto...” comincia Caesar.
“Oh, non sono troppo sconvolto per rispondere a questa domanda - Peeta fa un respiro profondo e poi guarda dritto in macchina -  Voglio che tutti voi spettatori, che siate dalla parte di Capitol City o da quella dei ribelli, vi fermiate solo un attimo a riflettere su ciò che questa guerra potrebbe significare per gli esseri umani. In passato, ci siamo quasi estinti combattendo l’uno contro l’altro. Adesso siamo ancora meno di allora. E in condizioni più precarie. È davvero questo che vogliamo fare? Sterminarci completamente? Nella speranza di... cosa? Che una specie più adatta erediti le rovine fumanti della terra?
“Ecco, io davvero... non credo di riuscire a seguirti...” dice Caesar.
“Non possiamo combatterci l’un l’altro, Caesar - spiega Peeta - Quelli di noi che resteranno non saranno abbastanza numerosi per continuare a vivere. Se non depongono tutti le armi, all’istante, intendo, è finita in ogni caso”.
“Quindi... stai chiedendo un cessate il fuoco?” domanda Caesar.
“Sì. Sto chiedendo un cessate il fuoco - conferma stancamente Peeta -  E adesso perché non chiediamo alle guardie di riportarmi nel mio alloggio, così posso mettermi a fare altri cento castelli di carte?
Caesar si gira verso la telecamera.
“Bene. Credo sia tutto. Riprendiamo con le trasmissioni in programma”.
Rimango a fissare lo schermo, anche adesso che sta passando una pubblicità dei cereali. Sono incapace di muovermi.
Era logico che non si fidasse più di me.
Questo pensiero si insinua nella mia mente e inizia a corrodere il poco che ne rimaneva.
Ho considerato almeno un milione di volte tutte le implicazioni delle mie scelte. Eppure… eppure non ero affatto pronto.
Peeta Mellark è solo nelle mani di Capitol City.
Glielo ho consegnato io.
Sarebbe stato meglio scendere nell’arena ed ucciderlo con le mie mani. Ora sarà un arma contro di noi.
Ho dato a Snow un nuovo oggetto di ricatto. Se affogare nell’incoscienza, prima, mi sembrava un buon sistema per fargli credere che non me ne fregasse più nulla, ora so che non basteranno interi barili per far finta di niente.
Le mie mani tremano di nuovo, ma non per gli effetti dell’astinenza.
Questa è rabbia.
Mi lascio andare ad un ruggito disperato e scaglio il quaderno contro il televisore, mandandolo in frantumi.
Gli uomini della sicurezza sono immediatamente su di me, mi afferrano e mi trascinano per i corridoi, mentre mi dibatto come un animale inferocito.
“Fatemi parlare con la Coin! Devo parlarle! Fatemi uscire di qui!” urlo.
Ma non ottengo risposta.
Vengo sbattuto nella mia cella e rinchiuso ancora.
Afferro il letto e lo scaravento contro la porta.
Distruggerei qualsiasi cosa mi capiti a tiro, ma sono stati previdenti, oltre al letto non c’è altro che possa lanciare, a meno che io non voglia smurare un lavandino o sradicare una tazza.
Non mi resta che dare qualche calcio al muro, prendere a pugni la porta, ma poi sono costretto a calmarmi ed aspettare.
Prima o poi avranno bisogno di me.
E allora verranno a prendermi.



no dico... dove sono finiti i commenti dell'autrice?
io ed EFP ultimamente litighiamo...
Volevo semplicemente fare i miei ringraziamenti... a Socia1eSocia2 per sopportare le mie questioni infinite, i miei dubbi e le mie idee espresse nei momenti più disparati sottraendole al loro meraviglioso lavoro sull'Atlante! Quindi chiedo pubblicamente perdono se a volte le distraggo e rallento le loro pubblicazioni: potete prendervela con me!
Grazie a tutte per continuare a seguire la mia storia!
Mor

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Capitolo 16
*** CAPITOLO 16 ***


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Note iniziali: stavolta il mio commento è qui.
Spero riusciate a seguire questo flusso di pensieri e spero che possiate capire Hay, il suo modo frenetico di essere dentro, mentre fuori è tutto calmo, annoiato. Un flan di cioccolato, con il cuore fondente. Anche lui è così: il suo universo è tutto dentro, prigioniero. È le sue uniche due prese d'aria sono gli sventurati amanti.
Forse esiste anche un altro spiraglio, ma... Chissà...
Buona lettura e, se credete possa meritarla, lasciate una recensione, saranno raccolte con gioia.
Mor

CAPITOLO 16

Rompere il letto contro una porta indistruttibile non è servito a molto.
L’unico risultato ottenuto è stato quello di rimanere senza un posto comodo dove riposare.
Ho sistemato il materasso in un angolo e mi ci sono stravaccato sopra, ma devo ammettere che i quaranta di fanno sentire, quando cerchi di alzarti da un’altezza di una spanna da terra.
Ho camminato avanti ed indietro, saltato, battuto ritmicamente la testa contro il muro, cercato di incidere scritte oscene sui muri, cantato a squarcia gola, ripetuto una filastrocca per mille volte di seguito, dormito, mangiato, vomitato, sminuzzato i pezzi del letto in briciole, le ho ordinatamente ammucchiate in un altro angolo e poi scagliate ad una ad una contro il muro, sperando che rimbalzassero, ho avuto incubi, contato numeri che neanche credevo di conoscere e recitato a memoria tutti i nomi dei miei tributi persi nella speranza che l’oblio della colpa mi avvolgesse pur di far passare il tempo più velocemente.
Ma nessuno è venuto qui.
Non so da quanto sono chiuso qui dentro.
Mi passano da mangiare e se ne vanno.
Siamo io, un materasso, un cesso sporco, un lavandino e un asciugamano sudicio.
Ah, e la poltiglia dei resti del letto.
Mi costringo a non pensare a Peeta.
Spero che stia ancora facendo castelli di carte nel suo alloggio, ma so che non è così.
Credevo che prima o poi Katniss avrebbe combinato qualcosa per cui avrebbero avuto bisogno del mio aiuto, ma evidentemente la ragazza può cavarsela bene anche senza di me.
D’altronde sono stato utile solo a farla arrivare nel tredici sana e salva.
Sana.
Discutibilmente sana.
Salva.
Dipende da cosa.
Gli incubi non mi hanno dato tregua. Neanche da sveglio.
Ho un’unica certezza.
Sono sobrio da troppo tempo. A sufficienza per definirmi definitivamente disintossicato fino alla prossima volta in cui riuscirò a mettere mano su una bottiglia.
Eppure sono ancora qui.
Dai.
La tetta della Coin non era niente di così memorabile da dover scontare un ergastolo per averla guardata.
Evidentemente ci tiene particolarmente a decidere chi possa guardarla. Ed esclusivamente con il suo permesso.
In realtà dovrebbero vietarle di farle vedere a chicchessia.
Un crimine contro la decenza umana.
Insultarla non serve a niente, ma quanto meno aiuta il mio sarcasmo ad ottimizzare la noia.
Se posso prendermela con qualcuno è sempre meglio.
Di solito sono personalmente il mio obiettivo preferito, ma dopo un po’ sono noioso anche a me stesso.
Il pensiero va di nuovo agli incubi che ho.
Occhi azzurri ovunque.
Dovrebbero geneticamente proibire la nascita di persone con gli occhi azzurri.
Sono troppo penetranti.
Ti si piantano addosso e non ti mollano più.
Meglio grigi, no?
Sbiatidi e poco incisivi. Privi di profondità. Di sfumature. Piatti. Non c’è niente di cui possono accusarti due occhi grigi.
Sono così sciapi che non ti si fermano neanche nella memoria.
Come l’intero giacimento.
Non siamo mai stati nei pensieri di nessuno.
Il mondo neanche sa che il giacimento non esiste più, lo so.
A chi importerebbe della perdita di un posto tanto povero ed inutile?
Avrebbero potuto lasciarci morire di fame, invece che bombardarci. Avrebbero ottenuto lo stesso risultato senza neanche sprecare i soldi per le bombe.
Ecco, avrebbero tolto dal mondo tutto il grigiume che ne era rimasto, sfruttando la sofferenza di anime silenziose.
Snow si sarebbe tolto dai piedi me, di poco conto oramai, Katniss, Peeta di conseguenza e pure qualche giovincello troppo incline alla battaglia con una lontana potenzialità sovversiva. Sarebbe stato così facile.
Invece no.
A Snow non interessa il silenzio. Non gli interessano i morti. Quello che vuole sono casi esemplari, terrore, sottomissione, ordine inconsapevolmente accondiscendente.
A lui serviamo tutti. Vittime e carnefici. 
Io sono uno dei carnefici. Colui il quale ha dato in pasto i suoi ragazzi al nemico. Entrambi. 
Katniss avrà visto l’intervista, come me.
E come me avrà visto la confusione in Peeta, la sua rabbia nel difenderla, il suo smarrimento riguardo il piano, la sua richiesta incredibile di un cessate il fuoco. Cosa gli avranno promesso per farglielo dire? Katniss sana e salva?
E lei? Come sta lei?
Non riesco a rispondere a questa domanda che mi attanaglia ad un ritmo costante.
Non riesco ad immaginarla lontana da lui. Avrebbe dato la vita per salvarlo, con la stessa avventatezza del giorno della mietitura per salvare Prim. Non riesco a togliermi dalla testa la loro romantica scenetta sulla spiaggia nell’arena. Non c’era niente di costruito in quel momento.
Katniss era sincera.
Io so che ha bisogno davvero di lui.
Nascondo il viso tra le mani, nella speranza che strofinare gli occhi con forza possa scacciare quelle immagini dalla mia testa.
C’è qualcosa di peggio della morte. Lo so bene.
È il dolore.
Ed è quello che ho regalato a quei due ragazzi.
Perché non li ho lasciati a morire nell’arena?
Io e il mio stupido desiderio di non aggiungere altri nomi alla mia lista di caduti.
Era meglio.
Meglio la morte.
Meglio freddi, grigi e immobili, piuttosto che divisi, feriti e lontani.
Un ruggito mi sale alla gola, ma non esce dalla bocca.
Non merito neanche di sfogarmi.
Merito solo di affogarci anche io, nel dolore.

Ovviamente non sono affogato.
Ovviamente sono ancora lucido.
Ovviamente sono ancora qui.
Credo di aver visto, ad occhio nudo, i miei capelli allungarsi di qualche millesimo di millimetro sulle mie spalle, oggi. 
Giuro.
Ho fissato le punte tanto a lungo che davvero ho visto crescerli.
Perché non mi uccide neanche la noia?
Fossi immortale?
Voglio dire, non è assolutamente possibile che questo tedio non mi abbia già ammazzato.
Non c’è riuscita l’arena a quindici anni, Snow e le sue minacce, vent’anni di alcol assunto in quantità sproporzionate, il lutto, le perdite, le botte in testa, il fegato, il coltello sotto il cuscino, una fuga dal regime, lo squarcio lungo il braccio e la tetta di una presidentessa ribelle, possibile che non ci riesca neanche la noia? 
Ma che cazzo deve fare uno per morire?
Come dannazione si fa a sopravvivere a tutto questo ed avere ancora un cervello funzionante?
Per quale fottuto motivo non sono neanche impazzito?
Cazzo!
Meglio demente che così.
C’è una parte di me che non sa cedere. Che non si arrende.
E allora per quale maledetto motivo sto qui dentro e non fuori a darmi da fare? Se devo stare qui, in silenzio, rinchiuso in questo letamaio a perdere tempo, perché non mi fanno uscire e mi tengono occupato in qualche modo, risparmiandomi quantomeno l’agonia della noia?
Avanti dolcezza, combinane una delle tue.
Non sapranno chi chiamare.
Io sono l’unico.

Sono sempre stato un tipo solitario.
O almeno, lo sono da quando sono uscito vivo dall’arena.
Prima… prima ero un istrione. 
Un ragazzino dotato di una vivace intelligenza che mi permetteva di non sforzarmi troppo per ottenere dei buoni voti a scuola.
Avevo del sarcasmo.
Le mie imitazioni degli insegnanti erano famose tra i corridoi.
Tra i ragazzi del giacimento ero quasi famoso.
E tra le ragazzine anche. E questo mi è sempre piaciuto, anche se a me ne interessava una sola.
Avevo quindici anni ed ero impavido.
Strafottente.
Non avevo un padre da molto tempo e questo mi aveva reso indipendente e poco incline a manifestare le emozioni, perché avevo una madre che soffriva e un fratellino piccolo a cui non far vedere il peggio della vita.
Ma vivevamo nel distretto 12. Non potevo nascondergli quanto facesse veramente schifo la nostra esistenza.
Eppure ho sempre fatto scudo con il sarcasmo alla sofferenza.
Prima di incontrare il mio migliore amico.
L’alcol.
Ma questo è accaduto dopo. Solo dopo l’Edizione della Memoria. Solo dopo che ho distrutto il campo di forza.
Solo dopo.
Ho bevuto e bevuto e bevuto, fino quasi a dimenticarmi chi fossi, per poi riscoprirlo quando tornavo sobrio.
Vincere i giochi ha fatto di me una persona ricca.
Non ho finito gli studi e non ho mai avuto bisogno di lavorare.
Tutto ciò che speravo era di crepare, prima o poi, magari per colpa di un fegato ridotto in poltiglia.
L’ho sperato da subito.
Ma quando ho visto che né il dolore né l’alcol mi avrebbero mai ammazzato, ho iniziato ad aspettare, con pazienza.
Non avevo nulla.
Il mio compito era accompagnare alla morte due ragazzi l’anno.
Fino a loro.
Fino a Peeta.
Fino a Katniss. 
La prima volontaria del nostro distretto.
La prima cosa che ho pensato di lei non è stato che fosse stupida, come più volte qualcuno mi ha detto. Ho pensato che la invidiavo. E quando ho realizzato chi fosse e da dove venisse ho avuto paura.
Io e Katniss abbiamo avuto la stessa storia.
È stata una scoperta a dir poco scioccante.
Mi sono sentito di fronte ad uno specchio per la maggior parte del tempo trascorso con lei.
Non ho mai avuto bisogno che parlasse, per capire dove la portassero i pensieri.
E sì: questo mi ha spaventato parecchio.
Fino a quando mi sono accorto che per lei funzionavo allo stesso modo. Anche lei non aveva bisogno di molte informazioni per capire a cosa stessi pensando. Ed è stato molto utile nella sua prima arena.
Lo è stato anche nella seconda.
Ma l’essere così affini a volte è stato anche controproducente. Mi sono dovuto sforzare di fare il contrario di quello che avrei normalmente fatto, ho dovuto mettere da parte l’ostinazione, faticare per plasmarmi e non farle vedere quanto in realtà fossimo perfettamente uguali. 
Io la invidio.
La invidio tutt’ora, da una parte.
Lei si è potuta offrire volontaria per salvare sua sorella. Ha accettato di lavorare come noi le indicavamo per salvare la sua famiglia.
Io non ho potuto fare niente.
Se non incolpare me stesso per non essere morto.
Quando ho cominciato a pensare seriamente alle parole di Plutarch ed al pensiero di una ribellione, però, la nostra similitudine è stata scomoda.
Sapevo che avrei dovuto mentirle. Che avrei dovuto usarla.
E non reagisco mai bene a certe cose.
Ma sapevo che se avesse potuto dire la sua, sarebbe stata d’accordo con me.
Ed è stato peggio con Peeta.
Se con Katniss nascondere tutta la faccenda è stato difficile, ma non impossibile, tradire invece la fiducia, la bontà e la gentilezza di Peeta è stato un calvario.
Una tortura trasformata in agonia da quando ho visto la sua ultima intervista.
Penso costantemente a lui, al suo sapersi prendere cura delle persone, con dedizione, con altruismo, con vigore. È un osso duro, Peeta. Non molla mai. È ottimista. Non si da mai per vinto. È paziente. È calmo. Misurato.
Il mio esatto opposto.
Io suo esatto opposto.
Credevo che fossero talmente lontani l’uno dall’altra che non sarebbero riusciti nemmeno ad allearsi nell’arena dei settantaquattresimi hunger games. E invece…
Invece li ho visti incastrarsi perfettamente, li ho visti giocare insieme e vincere, li ho visti affrontare mano nella mano il tour della vittoria dopo essersi ignorati per mesi, li ho visti sparire nella stessa stanza su un treno sempre in movimento quasi ogni sera, li ho visti e ascoltati quando sono venuti da me, entrambi, a chiedere di salvare l’altro sacrificando loro stessi, li ho visti aver chiaro il perché delle loro scelte e li ho visti assolutamente inconsapevoli delle loro decisioni, li ho visti su quella maledetta spiaggia, prima che si dividessero e li ho visti dilaniati e delusi, rassegnati e inferociti.
Sono i miei due ragazzi.
Li guardo e vedo cosa sono e cosa sarei potuto diventare se la vita fosse andata diversamente.
E mi sento ogni volta come se la mia esistenza fosse tra le loro dita.
Non ho mai guardato i miei tributi come esseri umani. Erano carne da macello. Davo loro qualche sommaria informazione. Qualche nozione di base, un paio di dritte buttate lì a caso. Niente di più. Nessuno di loro avrebbe potuto farcela. Malnutriti, a volte scheletrici, privi di forze.
Loro invece.
Peeta era in forma, con muscoli visibili, un bel colorito sulle guance. 
E lei, seppur il corpo esile, aveva negli occhi il fuoco della vita.
Non volevo accettarlo, ma finalmente avevo degli esseri umani.
E sapevo che sarebbe stato ancora peggio perderli.
Avevo qualcosa da fare, finalmente.
Perché da quando ho loro ho smesso di aspettare.
Ho continuato a bere, sì, ma non aspetto più.
Adesso ho qualcosa da fare.
O almeno lo avrei, se potessi uscire di qui.

Chiudere gli occhi e lasciar volteggiare la realtà.
Il bruciore tra le labbra.
Il fuoco nello stomaco.
La vista annebbiata.
I sensi ovattati.
I pensieri alleggeriti.
Libero di proiettare l'immaginazione verso dimensioni inesistenti, costruendo vite, annullando la morte.
Ripercorrere all'indietro ogni momento e scegliere un dettaglio diverso, per modificare il passato.
Ritrovarsi in un futuro fittizio, ma meno doloroso.
Ricordare nitidamente attimi persi mille anni prima e riviverli come fossero nel presente.
Dire la cosa giusta al momento giusto.
Fare la cosa giusta al momento giusto.
Togliersi soddisfazioni mai avute.
Poter sputare in faccia a Snow.
Poter andare in giro per il distretto con le palle al vento.
E ridere senza motivo.
Passare per pazzo e poter dire ciò che voglio.
Affogare la colpa.
Fottermene del mondo.
Questo è quello che la sobrietà mi ha tolto.
Momenti di fuga irreale, in cui ero libero di fare ciò che volevo, immaginandolo o semplicemente facendolo, senza preoccuparmi troppo delle conseguenze.
Pensarci non serve a nulla.
Ma almeno passo il tempo.
Quella porta si aprirà tra poco. Ne sono ancora certo.

Ma la porta non si apre.
La fisso.
Insistentemente.
E rimano immobile, le braccia incrociate sul petto, la schiena poggiata al muro, una gamba piegata, il piede sulla parete.
Nulla di me si muove.
Anche se continuo a credere di vedere, con la coda dell’occhio, i capelli che crescono.
Sarà un effetto collaterale dell’astinenza.
Ho le allucinazioni.
Eppure la porta rimane chiusa.
I miei occhi non battono neanche le palpebre.
La vedo quasi deformarsi sotto il peso del mio sguardo rigido.
Avanti dolcezza, fa qualche cazzata.
I cardini non girano.
La serratura non scatta.
La porta bianca, lucida, riflette ancora la stessa porzione della mia cella. Non si è mossa di un millimetro.
Questo fottuto distretto le avrà fatto già il lavaggio del cervello?
Sarà già una diligentissima tuta grigia che cammina per i corridoi rispettando gli orari per andare a pisciare?
Non posso credere che Katniss si sia ammansita a tal punto da non doverle servire più.
O forse l’intervista di Peeta l’ha messa totalmente fuori uso?
Ora che sua madre, sua sorella e quello spilungone del finto cugino sono al sicuro e con la pancia piena, magari il suo sistema nervoso sarà stato libero di collassare sotto la mancanza del buon fornaio?
O s’è già fatta spedire a Capitol in una missione suicida per andarselo a riprendere?
No. Sono abbastanza sicuro che in quel caso mi avrebbero già tirato fuori di qui. Perché sarei l’unico abbastanza pazzo da aiutarla in una missione suicida.
E poi... No. Non possono perdere la loro inestimabile ghiandaia imitatrice. Figuriamoci.
Sarebbe più probabile vederla chiusa in una cella fatta di vetro infrangibile. Al sicuro da tutti e da tutto.
Forse ha fatto la mia stessa fine.
Forse come me sta aspettando che arrivi qualcosa di peggio.
Qualcosa che sia una buona scusa per essere liberata.
Avanti maledetta porta. Apriti.
Apriti. O il peggio arriverà qui dentro.

Ho di nuovo perso la cognizione del tempo.
L’unico termine di riferimento che posso usare è l’arrivo dei pasti, ma per quello che mi riguarda potrebbero anche avermi tolto il cibo.
Non ho davvero idea di quanto tempo sia passato.
Giorni? Ore? Minuti?
I pensieri sono oramai confusi.
É tutto mischiato.
Peeta, Katniss, Effie, tributo 1, tributo 2, tributo 3, mio fratello, tributo 15, tributo 21, mia madre, Effie di nuovo... 
É tutto confuso.
Noto solo una certa ritmicità nell’infilarsi nel mio elenco di vittime la faccia di Effie.
La faccia. Poi la voce.
Sento la sua voce chiamare tutti i nomi dei tributi degli ultimi dieci anni.
Mi perseguita.
Mi ha sempre perseguitato.
Sembrava si divertisse così tanto.
Una stupida oca a cui piaceva starnazzare i nomi dei prossimi morti.
La sua voce è sempre stata in ogni mio incubo, sostituendosi con prepotenza alla voce della vecchia incaricata, quella che ha estratto me.
E il suo culo invece si infilava in ogni mio sogno, facendomi svegliare perennemente con l’uccello dritto.
La mia testa grande la odiava. 
La testa piccola, invece, s’è persa per lei.
Chissà quale delle due ha avuto la brillante idea di farne una ribelle.
Chissà quale delle due ha scelto di lasciarla su quelle scale.
Così adesso, invece di avere negli incubi la sua voce e nelle fantasie erotiche il suo culo, mi ritrovo pure ad avere nelle allucinazioni da sveglio i suoi occhi.
Penso a Peeta e Kat e so cosa devo fare.
Poi penso a Effie e i pensieri tornano confusi e senza senso.
L’elenco dei tributi persi si ripete nella mia mente e di nuovo a cadenza ritmica il viso di Effie interrompe la sequenza.
Cazzo, è insopportabile anche quando non c’è.
Lasciami il mio elogio funebre e togliti dalle palle.
Ma non te ne vai, eh? Non lo molli l’osso.
Fanculo a quando mi è venuto in mente di tirarti dentro tutta questa storia.
Avrei dovuto lasciarti oca e scartare l’idea di poterti ammaestrare.
Le oche non si addestrano.
Le oche si ingozzano di mangime e poi si fanno al forno, ripiene, e le si spolpa fino all’osso.
Questo avrei dovuto fare con te.
Spolparti con i denti.
Invece ti ho ammaestrata.
Così bene che mi hai chiesto di lasciarti indietro per salvare i ragazzi.
Non ho fatto neanche questo Effie.
Ti ho lasciata lì, accasciata su una gamba rotta, e non ho neanche salvato i ragazzi.
E ora marcisco qui, mentre il tuo culo chissà dove l’hanno sbattuto.
Il tuo meraviglioso culo.
Perchè non ti ho lasciata oca?
Quanto sarebbe stato più facile tutto, se il tuo viso non fosse stato una presenza costante in ogni mio pensiero?
I ragazzi devono essere il mio pensiero.
Non tu.
Io non posso permettermi distrazioni.
Ma tu sei così invadente, anche quando non ci sei.
Prepotente, indiscreta, fastidiosa, giuliva, eccessiva, sciocca, incosciente, indifferente... E poi, di punto in bianco, diventi intelligente, preoccupata, indignata, attenta, affettuosa, premurosa, empatica, sexy... Incredibilmente sexy.
Ecco.
É la prima volta che il mio elogio funebre finisce con un alza bandiera.
Non è possibile.
Donna! Togliti di mezzo e lasciami con la mia rabbia! Rivoglio il mio dolore! Non posso chiudermi nella mia perversa sofferenza se il ricordo delle sue mani tra le mie me lo drizza in continuazione!
Anni di onorata carriera da alcolista per avere il mio peggior stato mentale da sobrio!
Questa si che è una vergogna!
Lasciatemi qui dentro.
Ci devo marcire.
Devo pensare ai ragazzi e invece mi diventa duro.
Me lo merito.
Lasciate che mi decomponga qui dentro.
Me lo merito.
Non esiste un solo altro mentore, ci scommetto, che vorrebbe farsi la propria annunciatrice.
No.
La realtà è che sono l’unico che non se l’è mai fatta.
Ok, ho capito.
Non è senso di colpa.
È solo una mancata scopata che mi perseguita.
Va bene. 
Troverò il modo di liberare anche lei e porrò fine a questa storia.

E finalmente la porta di apre.


 

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Capitolo 17
*** CAPITOLO 17 ***


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CAPITOLO 17
 
Plinc.
Maledetta goccia.
Plinc.
Io ti odio.
Plinc.
Ma se ascolto te, non sento altro.
Plinc.
A parte i miei pensieri.
Plinc.
Il buio è fastidioso. Ma il silenzio tra un grido e l’altro è peggio. Insopportabile.
C’è dentro tutta un’attesa. Che mi inghiotte.
Plinc.
Plinc.
Non so neanche se ho paura.
Oramai vivo con questo pensiero martellante. Ha il tuo ritmo. Mi fa rimanere senza fiato. Fino a che non pulsa di nuovo.
Plinc.
Soffoco.
Plinc.
Respiro.
Plinc.
Silenzio.
Plinc.
Un grido.
Plinc.
Johanna.
Plinc.
Il tempo non esiste.
È tutto immobile.
Gelatinoso.
Un aspic.
Tranne te. Goccia maledetta.
Plinc.
Eccoti, mi stavo preoccupando.
Plinc.
Si hai ragione, è un po’ da scemi parlare con una goccia.
Ma non sono io a farlo.
È la mia mente che comincia a vacillare, nella disperata ricerca di un’occupazione meno dolorosa di quel pensiero che con la sua vibrazione mi spezza il respiro.
Plinc.
Vero?
Plinc.
Hai ragione.
Plinc.
Non ha molto senso domandarsi in continuazione cosa ci sarà dopo.
Plinc.
Dopo la morte, intendo.
Plinc.
Di sicuro anche da morta, oramai sentirò questo suono.
Plinc.
È tutto il resto che mi mancherà.
Mi mancherà la vita.
Plinc.
Mi mancherà?
Plinc.
Magari il problema è che non sarò cosciente di essere morta.
Plinc.
Ho bisogno di respirare.
Plinc.
Aria.
Plinc.
Soffoco.
Plinc.
Respiro.
Plinc.
Magari sarà come l’anestesia che mi hanno fatto quando ho ricostruito il naso.
Plinc.
No niente.
Plinc.
Non mi ricordo niente.
C’è solo il nulla.
Plinc.
Esattamente come qui.
Plinc.
Ma non c’eri tu a farmi compagnia.
Ho aperto gli occhi e la nebbia si è dissolta, ma prima che si alzasse, non ero neanche cosciente che ci fosse.
Come questo buio.
Non sono certa che ci sia davvero. O se sono bendata. Se sono diventata cieca.
Non c’è. Niente.
Ehi goccia?
Di nuovo grida.
Ma stavolta non è Johanna.

Grazie
Mor

 

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Capitolo 18
*** CAPITOLO 18 ***


...dopo tanto tempo... per chi ogni tanto ancora controlla se aggiorno...

questo è un capitolo che da lungo tempo giace nel mio computer, un capitolo che avevo scritto per il concorso indetto dalle Socie (Vale&Vale dell'Atlante delle Nuvole ndr) dei missing moments. Ovviamente non potevo evitare di raccontare la "pre"storia così come l'ho sempre avuta nella testa e alla fine ne è uscito un crossover tra Atlante e IUA!
Quindi qualcuna di voi magari avrà già letto questo capitolo... altre no...
Per chi non lo avesse letto, ma legge l'Atlante, ci sarà una sorpresa, per chi non fa parte del folle gruppo invece, scriverò una nota in fondo al capitolo!!

BUONA LETTURA!




Il turbinare dei motori romba dentro la carlinga dell’overcraft e il fucile che imbraccio mi vibra tra le mani.
Non sono teso.
Non sono nervoso.
Non sono agitato.
Solo non vedo l’ora di arrivare a destinazione.
Le ore di volo saranno un paio. La tecnologia raggiunta dal 13 è spaventosamente avanzata.
Arriveremo a Capitol City e ci avvicineremo al Centro di Addestramento.
E non vedo l’ora di muovere le gambe.
 
I corridoi del centro di addestramento non li avevo mai percorsi, neanche con la mente.
Katniss non mi ha mai raccontato nulla dei momenti prima delle arene.
Questo posto mi è tanto sconosciuto come lo era il 13 appena arrivati.
Ma so dove devo andare.
Seguire il nostro contatto qui e aspettare che faccia il segno di procedere non è difficile.
Indossa l’uniforme da pacificatore.
E nei dintorni c’è solo lui.
Il che vuol dire che è una spia.
E per un attimo spero che non sia un doppiogiochista.
No.
Non ho affatto paura, ma non mi piacerebbe sparargli nella schiena.
 
Superiamo l’enorme atrio e ci infiliamo correndo giù per le scale che si snodano in un susseguirsi di rampe e pianerottoli fino ai piani sotterranei.
È li che si trovano i prigionieri.
 
La porta delle scale si apre su un nuovo atrio, più piccolo, impolverato e senza finestre.
Il pacificatore ci fa cenno di seguirlo e, dopo aver attraversato un corto corridoio, irrompiamo in una sala più grande, dove ci sono disposte sedie in modo disordinato, un tavolo lungo su un lato.
Le alte finestre hanno sbarre laser e vetri scuri che si notano, anche se fuori è completamente buio.
Non c’è l’ombra di un pacificatore se non il nostro contatto. Ed in realtà è questo l’unico elemento che mi mette ansia. Mi aspettavo più movimento.
La rete di informatori e uomini di Plutarch deve essere più vasta e più efficiente di quanto potessi immaginare.
 
Dopo la stanza, che al buio non ho avuto modo di guardare attentamente, ci aspetta un altro corridoio.
È stretto, ma non abbastanza da dover ruotare il busto per passare.
Il fucile è ancora serrato tra le mie mani guantate.
Sulla porta della cella alla mia sinistra c’è scritto “sala massaggi D1”.
Non è un carcere.
La porta successiva ha la scritta mezza cancellata da una sostanza unta e gelatinosa che qualcuno ha spalmato malamente.
Provo ribrezzo.
Qualsiasi cosa sia non è invitante.
Due porte più giù a destra ricompare una scritta leggibile. Dice: “sala massaggi D4 – uomini”.
Ma che diamine…
All’improvviso il nostro uomo si ferma di colpo e alza il braccio.
Segno che qualcosa non va.
Fa un cenno alzando due dita e capiamo che ci sono due pacificatori nella svolta successiva del corridoio.
Così, in fila indiana, è già incredibile che riusciamo a camminare senza inciampare l’uno sull’altro, e ancora più incredibile è che i gesti siano visibili, nell’oscurità, anche se indossiamo i visori ad infrarossi e i caschi antigas.
Il deserto di questo posto mi faceva pensare ad un’imboscata, sono quasi felice che ci siano due pacificatori non previsti.
Boggs, il primo della fila subito dopo il nostro uomo e subito prima di me, che non mi staccherei da lui e dalla prima linea neanche se mi sparassero ad entrambe le gambe, afferra dalla cintola una delle bombolette di vetro dall’interno violaceo e con sicurezza la lancia sopra la testa del nostro infiltrato.
Pochi secondi più tardi, giusto una manciata, due tonfi sordi ci fanno capire che le guardie sono svenute sotto la pressione assordante del fischio nelle loro orecchie, mentre noi siamo rimasti protetti dai nostri auricolari.
Il cenno è quello di andare.
Un ampio stanzone si apre di fronte a noi.
Scavalchiamo i due corpi privi di sensi e proseguiamo.
 
Seguo Boggs per altri cinquanta passi prima che lui si fermi di nuovo, dopo aver visto bloccarsi il nostro pacificatore.
Una porta blindata chiusa, al centro di un’immensa parete alta e larga ci blocca la via.
Vista l’assenza totale di guardie, Boggs si azzarda a parlare.
“Ok, Hawthorne, alla mia destra. Viktor a sinistra. Walsh, Ribs, Stacey, Donovan, pronti ad entrare”.
La squadra si sposta.
Mi allineo rapidamente in posizione e il pacificatore apre la porta.
Rapidamente Boggs fa cenno di entrare e io sono il primo in assoluto.
Il corridoio che si estende oltre la porta scorre longitudinalmente, allungandosi a destra e sinistra.
Mi infilo subito a sinistra, esattamente dove Boggs mi ha detto di essere.
La cortina di gas narcotizzante è ancora pesante nell’aria e ostruisce la gran parte della visuale. Colgo solo i dettagli vicini.
Una serie di porte sono distribuite tutte alla stessa distanza, una accanto all’altra, sulla parete opposta della porta blindata.
Tubi di acciaio a vista scorrono sospesi a pochi centimetri dal soffitto percorrendo ogni lunghezza.
Le porte sono di metallo pesante, probabilmente blindate come la precedente, e aperte solo in una finestrella chiusa da un vetro infrangibile di sicurezza a doppio strato.
So quello che devo fare.
Guardo rapidamente il pacificatore ribelle e aspetto il mio segnale.
Alza una mano e apre tutte e cinque le dita, poi altre due.
Cella numero 7.
Avanzo alla mia destra e devo avvicinarmi alle porte per leggere i numeri.
Ho davanti la 5. Mi affaccio al vetro e dentro una figura esile giace svenuta in un angolo, le braccia abbandonate sopra la testa, le gambe piegate in un’angolazione naturale, come si fosse appena addormentata dopo una lunga giornata.
So che è l’effetto del gas, che se fosse sveglia non sembrerebbe così… “serena”.
Chi potrebbe esserlo qui dentro?
Non so perché mi sto fermando così tanto a guardare attraverso questo vetro. Forse perché non riconosco la persona.
Ma poi un dettaglio m’inchioda, il casco premuto contro la finestra: la forma delle mani.
Quelle mani erano l’incubo di ogni anno, nel mio caso almeno in sei modi diversi.
Effie Trinket.
Decido rapidamente se entrare e spararle o tornare lucido e passare oltre per cercare la cella numero 7 e seguire il  mio compito.
Opto per la seconda scelta. La lascio lì a marcire e morirà da sola, prima o poi.
La cella seguente è la numero 7.
Apro la porta con un calcio e la guardo spalancarsi.
Ad un soffio dal suo raggio di apertura c’è sdraiata una figura dalla testa completamente rasata.
Espiro con forza: per un pelo non l’ho colpita dritta in testa.
Un pacificatore è nella stessa cella, svenuto anche lui.
Gli sferro un calcio nello stomaco, appena sento il dolore delle frustate sulla schiena riaffiorare in un lampo.
Così, giusto per vendetta impersonale.
Sento la voce di Boggs negli auricolari.
“Entrati tutti?” domanda secco.
“Affermativo” rispondo. E dietro di me altre cinque voci ripetono lo stesso.
Mi abbasso spostando il fucile sulla spalla e giro il corpo in modo da guardare il viso di chi sto salvando.
È Johanna Mason.
Con i capelli rasati non sembra neanche lei. Indossa una leggera tunica bianca sudicia e strappata. Sul corpo innumerevoli lividi e cicatrici appena rimarginate. Una mano ancora immersa in un secchio d’acqua sporca.
Solo allora vedo che il pacificatore ha ancora tra le mani un elettrodo e capisco che abbiamo interrotto la tortura stordendoli con il gas.
Fottuto bastardo.
Mi alzo di scatto e lo colpisco di nuovo con un calcio, questa volta sul viso. L’impatto gli fa scivolare di mano quell’arma micidiale.
Johanna è molto più magra di come l’ho vista l’ultima volta nell’arena. Non sarà difficile sollevarla e portarla fuori di qui.
La isso sulla spalla e la sento gemere.
È un fascio di ossa.
Scricchiola come una fascina di legna.
Le sue anche si puntano sulla mia clavicola.
Geme ancora.
“Fuori, ora”.
L’ordine di Boggs irrompe negli auricolari.
Eseguo come un automa i comandi impartiti.
L’effetto del gas durerà finche saremo fuori, di nuovo sul tetto.
Ripercorriamo la strada a ritroso, superando di nuovo gli unici due pacificatori incontrati, ancora stesi a terra, con il naso sanguinante. Non sono sicuro che siano solo svenuti.
Johanna quasi non pesa sulle mie spalle.
Poi tutto accade velocemente.
Appena ci infiliamo nel corridoio stretto qualcosa non va.
La corrente, che Beete aveva fatto andar via, dal 13, Dio solo sa come, ritorna.
Ed improvvisamente è tutto illuminato.
Una decina di pacificatori ci sbarra la strada, iniziando a sparare.
Siamo costretti ad indietreggiare.
Donovan, che ci precedeva tutti, essendo uno dei due senza prigioniero sulle spalle, cade per primo sotto il fuoco nemico.
Siamo di nuovo nell’enorme stanzone prima delle celle.
Sotto la luce adesso posso vedere che una fila di sedie è disposta a sinistra dietro un lungo tavolo.
Un banco da consolle è alla mia destra, abbastanza alto per potercisi nascondere.
Corro a ripararmi lì dietro, con Johanna sulle spalle, e la adagio sperando di non essere troppo brusco, imbracciando di nuovo il fucile.
Boggs e Viktor sono dietro il lungo tavolo, Peeta e Annie Cresta distesi dietro di loro.
Ribs corre verso di me e adagia il suo prigioniero accanto a Johanna. Di nuovo Effie Trinket.
Non è il momento giusto per chiedere perché diavolo la stiamo salvando e non so davvero se lei e la Mason sono sufficientemente fuori tiro.
 
Dobbiamo uscire vivi di qui, altrimenti sarà stato tutto inutile.
Sapevo dal primo istante che sarebbe potuta essere una missione suicida. E per quanto mi riguardava, non avevo grandi aspettative. Anzi, credevo fosse andato tutto troppo liscio fino a quel momento.
La voce di Boggs si fa sentire di nuovo.
“Walsh, Stacey. È possibile liberare il campo con cimici nane?” domanda.
“Negativo signore, i pacificatori indossano i caschi” sento rispondere Walsh.
“Lanciare fumogeni” ordina allora.
Guardo Stacey lanciare tre bombolette in sequenza nel corridoio, nascondendosi dietro l’angolo.
“Silho” sento chiamare Boggs.
“Sì, signore”.
Poi, negli auricolari, sento un’interferenza e subito dopo altre voci.
“Si sono nascosti nella sala degli interrogatori”
“Sono senza uscita, dov’è la squadra 3? Non si vede niente!”
“Siamo qui, dietro di voi”. La voce di Boggs.
Mi serve qualche secondo per capire che ci siamo appena inseriti nella loro frequenza di comunicazione.
E so che non c’è nessuna altra squadra di pacificatori in arrivo, perché saranno tutti alla sede distaccata del governo, dove Beete è riuscito a far saltare le macchine dell’aria, poste ad intervalli regolari per tutta l’altezza del grattacielo.
“Era ora, qui è un gran casino”
“Siamo in arrivo”
“Prigionieri in fuga. Intrusi nel livello di detenzione. Nessun segno di effrazione. Qualcuno li aiuta da dentro. Il corridoio è pieno di fumo, non riusciamo più a vederli”.
“Fatevi da parte. Ci pensiamo noi” sento Boggs dire.
“Non se ne parla, siamo sul posto. Gli blocchiamo le vie di fuga” reagisce l’altro.
Io blocco anche il respiro, per paura che mi sentano.
“Oppure gliela facilitate” dice Boggs.
“Ehi, ma che diavolo…”
“Ripeto l’ordine. Abbandonate il campo”.
La voce di Boggs è indiscutibile.
“Senti amico, non so chi tu sia…”
“No. Sono io a non sapere chi tu sia. E per quello che mi riguarda potresti essere lì sotto a dare man forte ai fuggitivi. Mi hai appena detto che si sono introdotti con l’aiuto di qualcuno dei nostri. Potresti essere tu. Toglietevi di mezzo. Stiamo lanciando delle granate nel corridoio”.
L’avvertimento sembra funzionare.
Il pacificatore non risponde neppure, ma sentiamo i loro passi allontanarsi rapidamente. Per poi sparire del tutto repentinamente.
Probabilmente hanno sfruttato un passaggio sicuro che non conosciamo.
Non riesco a credere che se la siano bevuta.
 
Ribs ha già in spalla Effie Trinket.
Indossa una canottiera e un paio di coulotte. È talmente svestita che sembra nuda.
Ma non ha lividi.
E io la odio ancora di più.
Per evitare di ucciderla seduta stante, mi volto.
Johanna si sta muovendo, lamentandosi.
Non è possibile che si stia svegliando, ma apre gli occhi e mi guarda.
Mi guarda e rimane di sasso, paralizzata.
Si guarda attorno.
Non è più nella sua cella.
E io non ho la divisa da pacificatore.
Gli occhi sono terrorizzati e dalle pupille dilatate.
Di nuovo nelle orecchie il gracchiare del cambio di frequenza.
“Amici. Usciamo di qui” le spiego tendendole la mano.
Lei non parla, i suoi occhi non si muovono dai miei, nascosti dietro il visore, ma tende una mano.
La isso sulle spalle e ricomincio a correre dietro agli altri.
 
La fuga verso il tetto è fin troppo facile.
I prigionieri svenuti sobbalzano sulle nostre spalle mentre ci muoviamo rapidamente.
Johanna è un peso morto.
Boggs lascia Peeta su una barella e Viktor deposita Annie Cresta su un’altra.
Ribs invece sta lasciando Effie Trinket ad un altro overcraft.
Meglio. Meglio non averla a bordo.
Il pacificatore amico sale con lei.
Spero che la stia mandando a farla torturare da qualche altra parte. Stupida gallina.
Mi avvicino con Johanna sulle spalle e la mano di Walsh mi issa a bordo.
Subito dietro di me Ribs.
“Nove sopra. Donovan perso. Possiamo andare” ordina Boggs.
Io poso delicatamente Johanna sulla barella accanto a Peeta e finalmente mi tolgo il casco.
Lei giace svenuta, gli occhi lividi chiusi, la pelle grigia ed emaciata.
 
“È stato troppo facile” dico a Walsh, grattandomi la testa e sfilando gli auricolari.
Poso il casco a terra.
Tolgo i guanti.
Lascio scivolare il fucile giù dalla spalla.
Scollego il sensore delle mie funzioni vitali.
“Ehi amico! Che ti importa? Siamo a due ore dal 13, dovresti essere contento! Ce l’abbiamo fatta!” esclama.
È un omone dai capelli rossi, con un paio di spalle talmente larghe che forse sono il doppio delle mie.
Ha un sorriso amichevole, e due grandi occhi trasparenti.
“Donovan è rimasto indietro” dico.
Non lo dico con tristezza. È un senso di sconfitta quello che sento.
“Donovan ha fatto il suo lavoro. E meglio morto che in mano a Capitol City. Non ci si lascia prendere prigionieri in questa guerra, Hawthorne” spiega battendomi un paio di pesanti pacche sulle spalle.
“Sì, sì. Lo so” dico.
Ovvio: meglio morti che prigionieri.
Guardo Peeta e Johanna, uno accanto all’altra e vorrei solo vomitare.
 
Quando Katniss lo vedrà dal vivo andrà fuori di testa.
 
Peeta è ancora sotto l’effetto del gas e dorme immobile sulla barella.
Johanna ricomincia a muoversi.
Non so perché me ne sto qui con loro, invece di tornare con gli altri al mio strapuntino.
È come se non volessi lasciare il bottino incustodito.
Cerco di rilassare il collo, ruotando la testa.
Mi massaggio la nuca.
Mi scompiglio i capelli.
Stendo le gambe.
Allungo le braccia e stiro le spalle.
“Non pensavo di essere così pesante, ormai”.
La voce di Johanna mi fa saltare.
“Ehm, no. Effettivamente non lo sei” rispondo, un po’ spaesato.
“Sembra ti sia caricato un bisonte sulla schiena, da come ti stiracchi” mi fa notare.
“Bè, sai, un sacchetto di ossa come te è facile da trasportare, ma piuttosto spigoloso” rispondo.
Lei sorride.
Sorride.
È tumefatta, cinerea, rasata a zero, ricoperta di cicatrici.
E sorride.
L’elettroshock deve averle fuso completamente il cervello.
“Bè, con tutta quella roba addosso neanche tu eri un granché comodo, amico - mi risponde – credo tu mi abbia tatuato la tracolla del tuo fucile sullo stomaco”.
Cazzo.
“Mi dispiace, davvero… io…” farfuglio.
“Ma guarda quanto sei carino quando arrossisci” mi dice.
E sorride di nuovo.
Non so davvero cosa risponderle.
Vorrei trovare qualcosa di sarcastico, qualcosa di spiritoso, qualcosa di intelligente da dire. Credo sia il minimo, cercare quanto meno di alleggerire la situazione.
Invece rimango zitto, incapace di trovare le parole giuste.
Lei mi guarda un altro paio di secondi, seduta sulla sua barella, poi si sdraia di nuovo.
"Sì, sei proprio carino" sussurra.
E ricade nel sonno.
 
È stata l’unica a svegliarsi.
E io ho capito che neanche il gas narcotizzante può far stare zitta Johanna Mason.


note dell'Autrice
ECCOCI!! Per la prima volta in IUA, un pov GALE! Come spiegavo nelle note di inizio capitolo, questo pezzo è nato da una richiesta specifica, ma era un episodio che da sempre avevo in testa per IUA, ovviamente anche se non pensavo l'avrei scritto da questo punto di vista!
Non aggiorno da una vita, lo so, ma sto seguendo un progetto molto ambizioso, che mi porta via la maggior parte del tempo e sebbene IUA abbia uno sviluppo ben definito, non sempre trovo il tempo ed il coraggio di scrivere, correggere e pubblicare. Chiedo perdono.
E ringrazio chi di voi ha continuato a seguirmi e ad incoraggiarmi nonostante il mio lungo silenzio, ma soprattutto ringrazio Vale e Vale, che da SEMPRE mi stimolano e pungolano, nella speranza che io sia meno testona!
Spero vi sia piaciuto e come sempre... lasciate una recensione!
a presto (spero molto prima)
Mor



 

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