Muriel

di KeyLimner
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Da lontano ***
Capitolo 2: *** Incontro ***
Capitolo 3: *** La principessa irlandese ***
Capitolo 4: *** Tradimento ***
Capitolo 5: *** Ritorno ***
Capitolo 6: *** Un gioco pericoloso ***
Capitolo 7: *** Eric ***
Capitolo 8: *** Contrasti ***
Capitolo 9: *** Divergenze ***
Capitolo 10: *** Collisione ***
Capitolo 11: *** Tregua ***
Capitolo 12: *** Colpo di grazia ***
Capitolo 13: *** Samantha ***



Capitolo 1
*** Da lontano ***


Tra le ombre proiettate dalle dune di sabbia sotto la luce del sole basso sull’orizzonte, sedeva un gruppo di ragazzi dall’aria singolare.
Stavano buttati sugli asciugamani distesi alla rinfusa, e accavallati com’erano gli uni sugli altri sembravano quasi parti discordanti di uno stesso deforme organismo. Erano in sei. Quattro ragazze e due ragazzi… più un piccolo russel terrier che scorrazzava allegramente fra loro scodinzolando e lasciando pendere la molle lingua rosata.
Era una comitiva allegra e chiassosa. Il classico gruppetto di adolescenti esaltati in cerca d’emozioni, pieni di desiderio di rivalsa verso un mondo ancora da conquistare, che suscita in loro un timore inconfessato. Si difendevano dalla paura di quel mondo ostile cercando l’uno il sostegno dell’altro, facendosi stampella delle rispettive debolezze… rinchiudendosi in un mondo tutto loro nel quale potevano rifugiarsi dalle minacce dell’esterno.
Mille cose si sarebbero potute leggere sui loro volti, mille messaggi nascosti nei loro silenzi, nei loro sguardi che volevano mostrarsi sfacciati ma fuggivano verso orizzonti lontani, verso sogni inespressi… mille significati nel modo in cui scorrevano gli schermi dei cellulari fingendo di rispondere a chissà quanti e quanto importanti messaggi, mentre in realtà armeggiavano senza scopo solo per trovare una via di scampo, una scusa per restarsene in disparte. Per chi sapeva leggere tra le righe di quei discorsi sguaiati, spesso sconci - che eccitavano le occhiatacce delle vecchiette (alle quali peraltro i meno timidi erano ben felici di rispondere con sguardi impertinenti che ribadivano il loro diritto a essere, a occupare un posto nel mondo) - esisteva una differenza sottile fra le parole dette per pura forma e quelle che venivano dal cuore. Entrambe, però, svelavano, grazie al loro tono, alla particolare inflessione della voce, i sentimenti di chi le sputava o se le lasciava sfuggire. Nella rigida gerarchia del gruppo - fondamentalmente è sempre la stessa, le differenze sono puramente formali -, ogni gesto e ogni parola avevano il loro significato, la loro funzione, il loro peso. Se da una parte, dunque, le prime esprimevano il preciso intento di guadagnarsi o tenersi stretto un posto, le seconde erano perlopiù un errore, un qualcosa che sfuggiva all’attenzione e diventava subito motivo di vergogna… che poteva determinare un’inevitabile caduta, oppure al contrario rivelarsi una preziosa e inaspettata risorsa.
Questi modi costruiti e prevedibili suscitarono in Muriel - che li osservava da lontano con il solito misto di timore e ammirazione che l’assalivano al pensiero di essere al di fuori di certe dinamiche, indipendente, libera dall’esigenza di accattivarsi il giudizio altrui e lottare per conquistarsi il rispetto altrui - non uno sprezzante senso di superiorità,  ma una sorta di bonario divertimento… e anzi, un desiderio intenso di entrare a far parte di quelle dinamiche… un desiderio (come era inevitabile) che restava puramente teorico e non si sognava neanche di sfociare in un tentativo pratico.
Tra tutti, quella che spiccava maggiormente era una ragazza piuttosto in carne che svettava proprio nel mezzo della combriccola, e la cui voce sovrastava le altre con un’autorità imperiosa che non lasciava dubbi su chi fosse il capo. Era stata proprio la sua voce ad attirare l’attenzione di Muriel. Aveva un viso rotondo con lineamenti morbidi, ma atteggiati ad un contegno orgogliosamente provocatorio, e capelli neri alla radice che sfumavano in un rosso inglese verso le punte, raccolti in una serie di treccine fermate dietro il capo da un mollettone.
I suoi discorsi erano sfacciati, impudici, le parole che usava spesso irriverenti, il suo tono perlopiù arrogante. Si rivolgeva agli altri con l’aria di lanciare loro implicite sfide, tese a dimostrare la propria sicurezza (una sicurezza che si smentiva nella sua stessa ostentazione), e soprattutto a ribadire continuamente il proprio potere, troncando sul nascere ogni germe di ribellione. Ovviamente, nessuno osava ribattere a queste sfide, ed era evidente che per chi ci avesse provato - anche solo in modo velato - sarebbe stata subito guerra aperta.
Muriel la osservò con ammirazione.
Quando udì un vagito e vide per la prima volta la creatura che teneva in braccio - che fino ad allora era stata nascosta dal giovane al suo fianco - rimase di sasso. Vedere la ragazza scoprire il seno e avvicinarlo alla bocca del piccolo, il cui pianto si placò immediatamente mentre si attaccava avidamente alla mammella, fu come scoprire un’altra faccia di lei. Come se la giovane le avesse lasciato intravedere per un momento uno spiraglio, dietro il quale facevano capolino le forme di pensieri nascosti, di un travaglio, di una storia.
Forse percependo l’intensità del suo sguardo, la ragazza si voltò improvvisamente in direzione di Muriel, e anche attraverso le spesse lenti degli occhiali da sole ella seppe che stava guardando lei. In quel lungo sguardo carico di sottintesi, mille parole fluirono tra loro.
Spaventata, Muriel si voltò di scatto.

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Capitolo 2
*** Incontro ***


Il mattino seguente, si alzò stranamente presto.
La luce del sole era ancora pallida quando aprì gli occhi sul soffitto del bungalow e guardò fuori dalla finestra. Cercò qualche residuo di sonno a cui aggrapparsi, ma era completamente sveglia. Dopo un po’ cominciò a sentirsi irrequieta, e provò il bisogno di muoversi. Socchiuse la porta della camera di sua madre quando vi passò davanti. Stava ancora dormendo. Cercando di non fare troppo rumore, infilò le chiavi e il portafoglio nella borsetta e uscì.
Andò a sedersi al bar del villaggio turistico, ad uno dei tavolini più vicini al bordo del grande terrazzo, dove si poteva abbracciare con lo sguardo l’intera distesa del mare. Attorno a lei, pochi altri clienti mattinieri, perlopiù signori di una certa età.
Ordinò un succo all’ananas, e mentre lo sorseggiava prese a sfogliare le pagine del libro che le aveva regalato sua madre per ammazzare il tempo.
Non seppe dire quanto a lungo restò così. Il bar pian piano si popolò, mentre il sole saliva lentamente nel cielo e si faceva più caldo e luminoso. Finì presto il suo succo, e il bicchiere vuoto rimase a lungo sul tavolino davanti a lei, mentre le sue pupille seguivano intente le righe d’inchiostro sulle pagine.
D’un tratto, sollevò lo sguardo per rilassare un attimo gli occhi stancati dalla lettura. Vagando, i suoi occhi caddero sul bancone del bar… e la vide. Stava languidamente appoggiata al tavolo di legno, e si arrotolava una ciocca con aria pensosa.
La guardò intensamente, finché la ragazza, con naturalezza, si voltò nella sua direzione. Il cuore di Muriel ebbe una battuta d’arresto. Sì. Non c’era dubbio: stava guardando proprio lei.
Si voltò, arrossendo fino alla punta dei capelli. Dopo un po’ tornò timidamente a guardare nella sua direzione, e vide che la sconosciuta la stava ancora fissando, con un’intensità sconcertante.
Restarono per un po’ così. Poi la ragazza si girò verso la barista, ordinò qualcosa e si dispose in attesa. La donna le mise davanti un bicchierone di vetro in cui fece cadere qualche cubetto di ghiaccio, innaffiandoli poi di coca cola. La ragazza prese il drink, aggiungendovi un cannuccia. Poi si girò, e venne decisa verso di lei.
Muriel spalancò gli occhi. Non poteva crederci.
«Ehilà», fece la giovane, sedendolesi di fronte con nonchalance.
«Ciao», rispose lei, ancora incredula. Le mancava il fiato.
«Sei qui da molto? Non ti avevo mai vista in giro».
«No… io e mia madre siamo appena arrivate. Voglio dire, da qualche giorno». Scrutò gli occhi dell’interlocutrice per cercare di capirne i pensieri. Erano grigi, di una consistenza quasi metallica.
La osservarono in attesa. «Tu invece?», si affrettò quindi ad aggiungere, terrorizzata al pensiero che se ne andasse. «Da quanto sei arrivata?».
Scrollò le spalle. «Un paio di settimane. Vengo qui tutti gli anni. Riparto a fine mese».
Ci fu un attimo di silenzio. La ragazza abbandonò la schiena sullo schienale e accavallò le gambe. Senza degnare di uno sguardo il bicchiere della coca Cola, si accese una sigaretta e prese a fumare con noncuranza. Muriel la osservò rapita, mentre con un gesto aggraziato (che creava uno strano contrasto con la sua persona, senza per questo risultare stonato) si portava alla bocca quel tubetto di carta e tabacco e aspirava a lungo, socchiudendo gli occhi, per poi buttare fuori il fumo tutto d’un fiato, quasi avesse fretta di liberarsene. Era così affascinante… Se avesse avuto un minimo di talento come scrittrice, avrebbe potuto passare ore a descrivere il movimento della sua mano… la danza delle volute grigio-bluastre che eruttavano con violenza dalle sue labbra e si disperdevano nell’azzurro del cielo.
Ma non aveva affatto talento.
La giovane la scrutò a lungo, come soppesando le sue movenze. Muriel non riuscì a sostenerne lo sguardo. Si sentiva terribilmente a disagio.
«Come ti chiami?».
«Muriel».
«Nome interessante. È tipo arabo o indiano?».
«No… irlandese».
«Sei irlandese, quindi?».
«Mia nonna lo era. Si è trasferita qui prima che mia madre nascesse».
«Ah. E che cosa significa "Muriel"?».
«Boh… Mi pare “lucente come il mare”… una cosa del genere».
«Fico».
Ci fu una piccola pausa.
«Tu invece?», chiese timidamente.
«Samantha. Un nome più ordinario. In un certo senso con meno responsabilità. Un nome come il tuo bisogna saperlo portare». Le lanciò un’occhiata di sfida. Fece un cenno al libro appoggiato sul tavolino. «Che leggi?».
Muriel guardò il libro incredula, come stupendosi che fosse lì. «Questo? “Orgoglio e pregiudizio”… di Jane Austen».
«Mm. E ti piace?».
«Be’… direi di sì. Mi sta prendendo un sacco». Altra pausa. «L’hai letto?».
«No, però ho letto “Ragione e sentimento”, di Jane Austen».
«E… ti è piaciuto?».
«Sinceramente… non tanto. Per carità, non dico che sia un brutto libro… cioè, ha sicuramente il suo valore, come ritratto della società dell’epoca… voglio dire, è senza dubbio un perfetto affresco della società vittoriana, come doveva intenderla una ragazza dell’epoca… ma il fatto è che forse è proprio quel tipo di società che non mi va tanto a genio. Con tutti quei comportamenti impacchettati… le regole… il galateo… le futili chiacchiere attorno ai matrimoni e a tutte le stronzate che ci girano intorno. I personaggi sembrano quasi soffocare. Io preferisco autori come Oscar Wilde… Virginia Woolf… Sai, più rivoluzionari. Più anticonformisti».
Muriel non era del tutto d’accordo. Era convinta che anche quelle di Jane Austen fossero… sì, delle eroine, in certo senso, di un anticonformismo meno esplicito, meno violento, più raffinato e morbido. In fondo, chiunque sia almeno un po’ se stesso un minimo anticonformista deve esserlo. Il che non implica la ribellione… implica saper pensare con la propria testa. Non lasciarsi condizionare. Ma preferì non esprimersi. Alzò le spalle.
«Tu hai mai letto Wilde?».
Muriel scosse la testa.
«Nooo! Devi assolutamente leggere “Il ritratto di Dorian Gray”. È bellissimo. Uno dei più grandi capolavori della letteratura di tutti i tempi, ne sono assolutamente convinta. E “Una stanza tutta per sé”, di Virginia Woolf?».
Muriel scosse di nuovo il capo, sentendosi terribilmente ignorante.
«Mi piace un sacco Virginia Woolf, ha uno stile fantastico. Hai presente, no? La tecnica del “flusso di coscienza”. Vale a dire… lasciare le parole scorrere senza cercare di fermarle, di rinchiuderle in paletti. Il risultato è che alla fine ti ritrovi sulla carta tutto l’animo umano, senza mediazioni».
«Sì, me lo ricordo… ne avevamo parlato in classe, una volta…».
«Che scuola fai?».
«Linguistico. Tu?».
«Artistico. L’anno prossimo ho la maturità».
«Ah». Muriel si sentì molto piccola e ingenua.
«Tu a che anno stai?».
«Secondo…».
Scoppiò a ridere. «Ti facevo più piccina, sai? Con quel visetto sottile sottile, e quel fisico così minuto…».
Muriel arrossì. «Sei qui con i tuoi?», chiese, per sviare il discorso.
«Nah. Amici».
«Ah. Quelli con cui stavi ieri in spiaggia».
«Sì, quelli».
«Sono più piccoli di te».
Scrollò le spalle. «Per la maggior parte. Giovanni ha la mia età… ma in realtà è immaturo come gli altri. Sono dei mocciosetti. I più grandi quest’anno non sono venuti, se ne sono andati insieme a Berlino. Mia madre ha rotto col fatto che quest’anno papà ha perso il lavoro e dobbiamo tirare un po’ la cinghia, quindi non mi ha mandato. Che palle».
«Mi dispiace per tuo padre…».
Fece di nuovo spallucce. «La compagnia per cui lavorava sta in rosso. Ha licenziato un botto di gente. Probabilmente fallirà».
«Di cosa si occupava?».
«Marketing. Vendita di saponi, shampoo, creme idratanti… roba così». Sembrava l’argomento la annoiasse. «Ma tu stai in bungalow o tenda?».
«Bungalow».
«Ah… io in tenda. Non lo so, una vacanza in tenda mi è sempre sembrata più autentica. Sei più a contatto col terreno, non so se mi spiego…».
«Sì… ho capito».
Samantha aveva appena finito la sua sigaretta. Con un guizzo, si allungò verso il centro del tavolo e spiaccicò il mozzicone nel posacenere. Poi si alzò.
«Vabbè, io vado. Quegli sfaticati dei miei amici si saranno svegliati ormai».
Anche Muriel si alzò in piedi, non sapendo bene che fare. Restò lì impalata, sentendosi una deficiente.
«Allora ci vediamo in giro».
«Sì, certo».
Muriel guardò la ragazza allontanarsi a passo fiero, finché non fu sparita fra gli alberi della pineta antistante la spiaggia. Poi si lasciò cadere di botto sulla sedia. Ancora stentava a credere a ciò che era appena successo.

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Capitolo 3
*** La principessa irlandese ***


Il giorno seguente, Samantha venne ad invitarla a giocare a palla sulla spiaggia con la sua combriccola. Lei la seguì docilmente… anche se la situazione le appariva piuttosto irreale.
Gli altri la accolsero come una di loro. Del resto, se aveva ricevuto l’approvazione della capobranco voleva dire che era senz’altro una a posto. All’inizio le fecero un sacco di domande, ma quando capirono che non era una tipa molto espansiva la lasciarono in pace, e lei poté finalmente rilassarsi e limitarsi ad osservarli in silenzio.
Ovviamente, quella che scrutava con più attenzione era Samantha.
Sapeva perfettamente com’era che agivano le persone come lei: periodicamente si sceglievano un protetto… prevalentemente un soggetto debole, di quelli che tendono ad appoggiarsi a qualcuno più forte di loro senza troppe proteste - a tale proposito lei (lo sapeva bene) era un bersaglio ideale - e lo inserivano nei propri favori. Il risultato era che gli altri (che invariabilmente si ritenevano migliori e più degni di lui di una tale attenzione privilegiata in virtù di una più lunga tradizione di fedeltà) restavano esterrefatti di fronte al fenomeno, e si rodevano dentro per l’invidia. Ma nessuno osava alzare la voce contro quella palese ingiustizia, che la capobranco non mancava di ostentare, come sfidandoli a reagire. Era un modo astuto di testare la loro lealtà. Chi osava insorgere, ovviamente, incontrava la sua dura opposizione… e gli altri, pur condividendone le motivazioni, restavano in silenzio davanti alle sue richieste d’aiuto. Così, il malcapitato si ritrovava isolato. E una volta eliminata la pecora nera, la comunità si ritrovava ancora una volta purgata… e la fedeltà dei sottoposti, così rinforzata, veniva lautamente ricompensata. A quel punto - e solo allora - il capo poteva abbandonare la propria politica di favore per riabbracciare tutti i suoi fratelli, fieri come galletti dell’integrità dimostrata. Così prendeva due piccioni con una fava: da una parte, un branco di obbedienti cagnolini che le scodinzolava ai piedi con rinnovato vigore, dall’altra, un nuovo adepto, reso più fedele che mai dall’onore ricevuto, che da una condizione infima lo aveva innalzato sino ad un rango cui mai avrebbe osato ambire.
Muriel poteva percepire con estrema nitidezza il dipanarsi di quel piano dietro ogni singolo gesto di Samantha. Riconosceva ogni filamento della tela che come un industrioso ragno si adoperava a tesserle attorno. Ciononostante, non fece niente per svincolarsi. Non ne aveva alcun desiderio. Provava semmai un’insana curiosità di vedere in che direzione l’avrebbero condotta. Forse, la verità era che c’era già dentro fino al collo…
Al tramonto, si salutarono e tornarono ciascuno alle proprie postazioni, i ragazzi nelle loro tende, Muriel nel suo bungalow. Quella sera poté raccontare a sua madre di aver stretto amicizia con dei ragazzi del villaggio, e lei ovviamente ne fu molto felice. Non capitava spesso che sua figlia riuscisse a farsi dei nuovi amici. Si informò morbosamente su ciascuno di loro, restando molto delusa dalla scarsa dovizia di particolari che la figlia era in grado di fornirle.
Il giorno successivo i ragazzi vennero a salutarla con naturalezza. Quando li vide, sua madre si sfilò gli occhiali da sole e sfoderò il suo migliore sorriso a trentadue denti, che fece increspare le sottili rughe attorno ai suoi occhi. Muriel le vide aprirsi sulle sue gote e diramarsi lungo varie direzioni come crepe su terra screpolata all’aprirsi di un crepaccio. I ragazzi risposero in modo laconico alle domande invadenti della donna, che infrangevano con la loro eccessiva enfasi e il loro tono squillante il silenzioso codice che vincola ragazzi e adulti ad un rispettoso distacco. La guardarono dall’alto in basso, lanciando occhiate eloquenti al suo appariscente sombrero (comprato anni prima ad una bancarella in un impeto di sciocca esaltazione). Muriel si vergognò terribilmente. Mortificata, li tirò via il prima possibile.
Quello stesso rituale si ripeté più o meno invariato per tutte le mattine a venire, salvo che sua madre (dopo una dura strigliata da parte sua) si mostrò più riservata, sforzandosi di contenere la propria esuberanza e di limitarsi a guardare con ansia i giovani che si allontanavano al di sotto delle falde del sombrero. Dopo un po’, fu Muriel stessa a dirigersi spontaneamente verso gli altri e a unirsi a loro. In breve tempo era diventata una presenza scontata nel gruppo.
Era bello sentirsi parte di qualcosa. Appartenere a qualcosa. Muriel non aveva mai avuto un particolare spirito gregario, però doveva ammettere che anche per uno spirito solitario come lei la sensazione di venire accettata aveva un sapore piuttosto dolce.
Naturalmente la sua massima stima andava sempre a Samantha. Provava per lei qualcosa di simile alla devozione; gli altri non erano che sacerdoti del suo culto, da rispettare più per la loro funzione che per loro stessi. Una parte di lei osservava con curioso distacco le trame nelle quali la imbrigliava, seguendone i movimenti per cercare di indovinarne la direzione ma senza far nulla per cambiarla… l’altra ne era già totalmente invischiata.
La ragazza era estremamente volubile. A tratti si mostrava premurosa e attenta, a tratti la denigrava quasi senza motivo. Muriel non poteva che restare ferita in questi casi, nonostante tutto, e si rendeva perfettamente conto di quanto ciascuno di quegli scatti contribuisse a renderla sempre più sottomessa, vincolandola a ricercare in ogni modo - ed elemosinare a volte - la sua approvazione.
Si chiedeva spesso di chi fosse il bambino. Il suo nome era Francesco. Lo aveva dedotto sentendolo chiamare così dai ragazzi, perché non aveva mai avuto il coraggio di fare domande dirette in proposito… non sapeva neanche lei perché: aveva come l’impressione che si trattasse di un oscuro tabù.
Veniva sempre con loro in spiaggia, e i ragazzi lo vezzeggiavano e lo coccolavano come se fosse la loro mascotte. Era un bambino bellissimo… e somigliava tantissimo a Samantha: aveva i suoi stessi occhioni grigi, i suoi stessi riccioli scuri… persino il suo stesso atteggiamento imperioso (probabilmente per via delle tante attenzioni che gli riservavano: lo trattavano come un piccolo principe). Per un attimo Muriel credette quasi che fossero fratelli… ma poi ricordò di averla vista allattarlo e concluse che non poteva esserci che un’unica spiegazione.
Samantha le aveva detto di essere all’ultimo anno di liceo… quindi non poteva avere più di una ventina d’anni, se anche fosse stata bocciata un paio di volte… la cosa la lasciava sconcertata. Ma, come abbiamo già detto, non fece domande.
Poi… accadde. E fu allora che tutto ebbe inizio.
Samantha le disse di volerla portare in un posto. «Non fare domande», tagliò corto quando lei accennò a chiederle di cosa si trattasse.
La condusse attraverso il boschetto antistante la spiaggia, coprendole gli occhi con le mani. Muriel non vedeva dove metteva i piedi e inciampava in continuazione.
«Mi dici dove stiamo andando?», le domandò ridendo dopo svariati minuti, divertita dalla situazione.
«Lo vedrai».
Quando le permise nuovamente di guardarsi intono, si trovavano in una radura, al centro della quale campeggiava un piccolo capannone in legno semidiroccato.
«È qui?».
«Sì. Questo è il mio posto segreto. L’ho scoperto qualche anno fa girando per il boschetto. Pare che fosse di proprietà del guardiacaccia della zona. Quando è morto in un incendio, nessuno l’ha sostituito, ed è stato abbandonato».
Muriel fece il giro del capannone, osservandolo con aria critica.
«Ma non c’è il pericolo che ci crolli addosso?».
«Maddai! Non essere fifona».
La ragazza si avviò con passo deciso innanzi a lei, e Muriel, dopo una lieve esitazione, non poté che seguirla con rassegnazione. Dentro, l’edificio era altrettanto cadente. C’era odore di muffa, e le travi scricchiolavano in modo inquietante sotto i loro piedi. Alle pareti stavano appoggiati attrezzi di vario genere, avviluppati in ragnatele biancastre che Muriel stava attenta ad evitare al proprio passaggio.
Si sedettero sul pavimento, e Samantha prese a parlare subito a raffica del più e del meno. Muriel la seguiva a testa bassa, continuando a guardarsi intorno con circospezione. Il pensiero che tutto ciò che aveva intorno un tempo era stato di proprietà di qualcuno che adesso non c’era più… e che standoci dentro loro in qualche modo ne stavano infraggendo la sacralità… non voleva staccarlesi di dosso. Mentalmente, si scusò con il povero spirito del guardiacaccia, sperando in tal modo di riuscire a placarlo.
«Vuoi sapere da dove viene Francesco?».
Muriel si riscosse di colpo nel sentire quelle parole. Non ne stavano parlando… Samantha aveva tirato fuori l’argomento dal nulla, e ora la guardava intensamente come studiando la sua reazione.
«Non devi parlarmene se non vuoi», le rispose lentamente, con cautela.
Samantha alzò gli occhi al cielo. «Cazzate. Tutti quelli che mi vedono con lui muoiono dalla voglia di sapere perché una ragazzina di diciott’anni se ne va in giro con un poppante appresso… solo che nessuno ha le palle di domandarmelo. Be’, in realtà io non me ne vergogno affatto. È stata mia la decisione di tenerlo. E non perché sia contraria all’aborto o stronzate del genere. Semplicemente, l’ho fatto. Punto. Può darsi che si stata un’incosciente… e non credere che non sia in grado di leggere nello sguardo degli altri che lo pensano, anche se non lo dicono mai ad alta voce. Ma sai che c’è? Non me ne frega niente. È stata una mia scelta… e me ne assumo tutte le responsabilità».
Muriel chinò il capo, intimidita. «Ma… chi è il padre?».
Lei fece spallucce. «Un coglione. Non stavamo neanche insieme all’epoca. Eravamo entrambi ubriachi. Stavamo in una roulotte assieme agli altri ragazzi, ma loro erano tutti fuori. Lui voleva che lo facessimo… io non volevo, non mi andava, ma non ero abbastanza lucida per oppormi». Serrò la mascella. «Quando ha scoperto che ero incinta non si è fatto più vedere, ovviamente. Ha cercato di convincermi ad abortire… ha anche alzato la voce… ma io l’ho mandato a quel paese. È stato meglio così. Non l’avrei voluto tra i piedi un tipo del genere».
«Ma… come mai hai deciso di tenerlo? Scusami se sono indiscreta. Non ti sto accusando… voglio solo capire. Non è facile per una ragazza così giovane crescere un bambino… da sola, per di più».
«Te l’ho detto, non lo so. Io stessa avevo sempre pensato che se mi fossi trovata in una situazione del genere non avrei esitato a fare quella che viene comunemente considerata “la scelta giusta”. Ma poi… non so. Quando mi sono trovata davanti alla necessità di scegliere per davvero, qualcosa dentro di me mi ha detto che non dovevo essere vigliacca. Che avrei dovuto considerare questo scherzo inatteso della sorte come una risorsa piuttosto che come una limitazione, una catena da cui liberarmi. Se avessi rinunciato, la mia vita forse sarebbe filata liscia come l’olio… ma avrei potuto perdere un’avventura che non mi sarebbe mai più capitata… e che avrei rimpianto per sempre. Lo so, potrà sembrarti stupido, ma è così. E inoltre… be’, questo forse ti apparirà ancora più incomprensibile, ma… ho come avuto la sensazione che regalandomi Francesco la vita mi stesse offrendo una possibilità di riscatto».
«In che senso? Non credo di seguirti».
«Muriel… io ho sempre avuto una vita di merda. Non è per fare la vittima… è una cosa che non sopporto. Non mi sono mai pianta addosso. Ma la mia famiglia è oggettivamente un casino. Mio padre era un alcolizzato, picchiava sempre mia madre e qualche volta ha anche alzato le mani su di me e su mia sorella. Niente di particolarmente originale… la solita storia. La solita disgustosa scena che vediamo reiterarsi mille volte attorno a noi, senza che possiamo farci nulla. Fatto sta che quando è morto non ho neanche pianto per lui. Lo odiavo. Mia madre invece… lei era una debole. Alla sua morte, non ce l’ha più fatta a mandare avanti le cose. Ha cominciato a drogarsi… era patetica, non sapevo se provare pietà o disgusto per lei. È stata mia sorella a prendere in mano la situazione. Faceva la spesa, preparava la cena, metteva in ordine la casa, soprattutto quando mia madre combinava qualche macello… e nel frattempo non ha smesso di studiare. Faceva architettura, all’epoca. Io l’ammiravo tantissimo. Sai, penso sia stata lei a trasmettermi la sua forza… ed è per non deluderla che cerco di non crollare mai… come mia madre». Fece una pausa. «Poi la mamma ha sbroccato completamente. Un giorno siamo tornate a casa dopo essere state una settimana al mare, ad agosto… con i soldi che mia sorella aveva risparmiato da un suo lavoro al bar sotto casa… e l’abbiamo trovata in uno stato pietoso. Stava accasciata a terra, circondata da sacchetti della spazzatura pieni di mosche, e delirava. Quando ci ha viste entrare, ha cominciato a urlare come una pazza, dicendo che l’avevamo abbandonata, e che eravamo due ingrate… due ingrate…». I suoi occhi lampeggiarono. «Era palesemente ubriaca. Potevo sentire l’odore dell’alcol a chilometri di distanza.
Mia sorella le ha urlato contro. Hanno litigato furiosamente, lanciandosi anche oggetti. Ricordo che ero terrorizzata. Poi, all’improvviso, mi ha afferrato per il braccio e mi ha trascinata fuori. “Ce ne andiamo”, ha detto. E ce ne siamo andate sul serio. Per sempre. Con le urla di mia madre che ci seguivano per tutto il vialetto… e che hanno continuato a seguirci ancora a lungo, nella mia testa.
Siamo andate a stare da una sua amica per un periodo. Poi abbiamo trovato una casa in affitto, e ci siamo trasferite lì. All’epoca io avevo quindici anni e lei ventitré. Da allora sono passati più di quattro anni. Nel frattempo, mia sorella si è laureata e ha cominciato a lavorare a tempo pieno. Io l’aiutavo come potevo… ma lei insisteva sempre che studiassi, perché avessi l’opportunità di costruirmi un futuro e non andassi a finire come i nostri genitori».
Muriel tacque un attimo, impressionata. «E… tua madre che fine ha fatto?».
«Bah. L’ultima volta che siamo andate a trovarla, era in una condizione ancora peggiore di quella in cui l’avevamo lasciata. Mi faceva ribrezzo. So che adesso ha perso la casa. Vive per strada. Di tanto in tanto mia sorella le porta qualcosa da mangiare. Non le dà mai denaro perché sa che lo spenderebbe per la droga. Ormai ha perso anche quel briciolo di dignità che le rimaneva». Abbassò la testa. «Quando ti ho detto della vacanza a Berlino… e del fatto che mio padre aveva perso il lavoro… ovviamente era una bugia. Semplicemente, mia sorella non poteva permetterselo. Punto».
«Ma perché? Che bisogno c’era di mentire?».
«Lo so che è sciocco. E non ce l’ho neanche con mia sorella perché non possiamo permetterci tante cose, figurati. È solo che mi rode che per colpa di quei depravati dei nostri genitori non possiamo permetterci la maggior parte delle cose che per tutti appaiono più scontate. Mi fa una rabbia… È per questo che ho deciso di tenere Francesco. Per dargli la possibilità di crescere in una famiglia diversa dalla mia. Per dimostrare a me stessa di essere migliore di mia madre. Di avere fegato».
«Capisco».
Ci fu una lunga pausa.
«Tu invece?», le chiese poi Samantha. «Perché vivi con tua madre? Tuo padre che fine ha fatto?».
Muriel si rannicchiò in se stessa. «Non l’ho mai conosciuto. Mia madre è sempre prodiga di complimenti nei suoi confronti… ma tende a sorvolare sulla realtà dei fatti: che ci ha abbandonate. È che… lei guarda sempre tutto con questo stupido ottimismo… vuole vedere sempre luce dappertutto. Non accetta il fatto che possa esserci del buio. L’unica volta che ho provato a farle notare che papà non doveva essere proprio questo stinco di santo se è sparito senza lasciare nessuna traccia, è scoppiata a piangere, e non ha smesso più per tutto il pomeriggio. Mi ha fatto una tale pena che mi sono sentita terribilmente in colpa. Poi la sera esibiva di nuovo quel suo sorriso smagliante, ed era pronta a parlare di ogni genere di sciocchezze. Non me la sono più sentita di tirare di nuovo in ballo l’argomento. Ho preferito lasciarla nella sua piccola bolla di sapone rosato».
Quando ebbe finito di parlare, le batteva forte il cuore. Non aveva mai parlato della sua famiglia con qualcuno… e la consapevolezza di essersi aperta con una ragazza che conosceva da pochi giorni le provocava un certo stupore.
Samantha le prese una mano, distogliendola di colpo dai suoi fantasmi. Spalancò gli occhi quando alzò lo sguardo e si ritrovò a pochi centimetri dal suo volto.
«Hai gli occhi blu», le disse Samantha.
Rimase confusa.
«Cosa?».
«Hai gli occhi blu. Non me ne ero mai accorta. Sono così scuri…».
Si avvicinò sempre di più a lei, e Muriel sentì il cuore palpitare ad un ritmo sempre più vertiginoso… finché le loro labbra aderirono le une alle altre. Allora il suo cuore parve fermarsi del tutto.
Si unirono come fanno le onde del mare, rifrangendosi le une sulle altre con movimenti prima sinuosi e poi violenti, sempre diversi nella loro misteriosa danza. I loro capelli si intrecciavano, abbracciandosi come rami di corallo sul fondo degli abissi, e così le loro mani, i loro arti frementi. A Muriel parve che gli elementi della natura si reincontrassero tutti assieme nel gioco dei loro corpi che si cercavano, si trovavano, si agganciavano e infine tornavano a separarsi per poi cercarsi e trovarsi ancora. In quella comunione dei corpi e degli spiriti le parve che la natura portasse a compimento un qualche magico rituale al quale si preparava da secoli.
E alla fine di tutto, quando le tempeste si furono placate e i venti spirarono su di loro come una morbida brezza, i loro occhi si guardarono come gabbiani sulla cresta del mare finalmente piatto, che dopo un lungo viaggio insieme si conoscono alla perfezione e non hanno più nulla da dirsi, nessuna paura di guardarsi dritto in faccia senza cercare scorciatoie.
Samantha le scostò una ciocca dal volto.
«La mia piccola principessa irlandese…», sussurrò.

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Capitolo 4
*** Tradimento ***


La mattina seguente, a Muriel parve naturale cercarla. Aveva il cuore in tumulto al pensiero di sentir reiterarsi quella magia, quel sentimento di comunione primordiale… ma la trovò sulla banchina, avviluppata ad un patetico bodybuilder così pieno di muscoli che pareva l'avessero gonfiato con una pompa per canotti.
Quando li vide, all'inizio non poteva crederci. Poi sentì il sangue salirle alla testa.
Seguì con disprezzo quelle mani sudaticce che avviluppavano le carni che le sue mani avevano percorso con tanta delicatezza, profanando una sacralità che sentiva ormai appartenerle, e mentalmente strappò quelle mani e le gettò ai pesci del mare dopo averle ridotte in minuscoli brandelli sanguinolenti.
«Ehi», fece, sentendo quella rabbia esondare dalla sua gola in un’ondata rovente. I due sembrarono non sentirla, e rimasero appiccicati l’uno all'altra come meduse.
Si avvicinò a larghe falcate.
«Ehi!», ripeté, a voce più alta.
Lì separò con violenza, e il bodybuilder la guardò sconcertato.
«Ma sei fuori?!», le urlò Samantha spintonandola con violenza. «Che diavolo ti salta in mente?».
«Sei una troia!», le urlò lei. «Una schifosa troia!».
«Abbassa la voce. E datti una calmata», sibilò Samantha. La afferrò per un braccio e la trascinò via. Si fermarono dietro il muro dei bagni, nascoste alla vista.
«Senti», esordì Samantha. «Io non so cosa tu abbia dedotto da quello che è successo ieri sera… ma non farti venire strane idee. Siamo state insieme. Siamo state bene. È stato divertente. È successo, ok. Ma non significa niente… chiaro? Quindi non ti sognare di venire qui ad avanzare ottuse pretese… o te la faccio passare io la voglia di fare scenate. Ricevuto?».
Muriel era ancora incredula. Lacrime calde le scorrevano come torrenti lungo le guance. Frugava nel suo sguardo per cercare di scorgervi una scintilla della passione della sera precedente, ma non vedeva niente… niente… Eppure era certa che anche lei era stata partecipe della stessa emozione che aveva sentito sgorgare da una fonte sconosciuta dentro di sé. L’aveva percepita scorrere fra di loro… l’aveva vista ardere nei suoi occhi come nei propri. Si era immaginata tutto?
Samantha la lasciò andare di colpo e se ne andò senza degnarla di un saluto.
Muriel la guardò allontanarsi attonita. Le lacrime non smettevano di scorrere. Cadde in ginocchio, la testa fra le mani. Non si era mai sentita così ferita in vita sua.

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Capitolo 5
*** Ritorno ***


Il resto della vacanza fu una lenta tortura.
Ogni mattina, vedeva Samantha col suo ragazzone-giocattolo, che non le prestava la minima attenzione. Li guardava con odio. Anche gli altri ragazzi, sulla scia della loro leader, smisero di rivolgerle la parola, guardandola con nuova ostilità. Ma a Muriel non importava niente di loro. L’unica indifferenza in grado di ferirla era quella di Samantha.
La mattina seguente, sua madre la tempestò di domande sul perché evitasse i suoi nuovi amici, ma la ignorò. Tenne sul calendario nel suo bungalow il conto alla rovescia dei giorni che la separavano dalla partenza. Quando finalmente giunse il momento di tornare, voleva quasi piangere per la gioia.
A casa, la sua routine riprese come al solito. Di nuovo le sue giornate erano scandite dalla scuola, dai compiti, dalle uscite il sabato sera. E di nuovo tutto sembrava immerso in un avvilente oceano di grigio. Non che fosse una novità per lei. Era stata sempre abituata a nuotare in acque tiepide, mai gelide o roventi, e i suoi occhi si erano pian piano abituate a quei colori spenti. Ma adesso… sembrava che la luce di Samantha l’avesse accecata. Non riusciva più a trovare niente di bello in ciò che la circondava.
Poi, un giorno, la rivide.
Era all’uscita di scuola, appoggiata al palo di un lampione. I suoi capelli non erano più rossastri, ma di un verde brillante.
Quando la scorse, rimase paralizzata. Si guardarono intensamente da lontano.
«Scusatemi», disse agli altri del suo gruppo, allontanandosi da loro per andarle incontro.
Quando le fu vicina, lei le sorrise.
«Che cosa ci fai qui?».
Fece spallucce. «Ho scoperto che andavi a scuola da queste parti e ho pensato di venire a farti un saluto, visto che abito anch’io in città. Come te la passi?».
Muriel non rispose subito. Una parte di lei avrebbe voluto prenderla a schiaffi… ma si arrese presto a quella che invece la supplicava di non far sì che se ne andasse.
«Bene. Tu?».
«Se ce ne andiamo in un posto più tranquillo, te lo racconto».
Muriel la seguì arrendevole, ignorando gli amici che la chiamavano a gran voce da lontano.
Andarono a sedersi su una panchina in un giardino pubblico. Samantha le chiese come avesse passato il resto dell’estate, e lei rispose che era rimasta a casa a morire di caldo. Poi ascoltò i suoi racconti sulla sua emozionante vacanza a Berlino, dove aveva raggiunto il resto della comitiva dopo aver supplicato sua sorella di lasciarla andare, promettendo di provvedere alla spesa con qualche lavoretto part-time al suo ritorno. Avevano dormito due volte per strada, raccontò, quando nel mezzo della notte si erano trovati troppo lontani dall’ostello in cui alloggiavano - e troppo sbronzi - per farvi ritorno. Avevano incontrato gente di tutti i tipi.
«E… il bodybuilder?»
«Ah quello? Era solo un bambolotto, un divertimento di passaggio».
Dopo ce n’erano stati altri, e più interessanti. (E lei? Era anche lei un giocattolino? Questo Muriel lo pensò ma non lo disse. Non ebbe il coraggio).
Mangiarono un gelato e girarono per il centro come due vecchie amiche. Poi, la sera, finirono per rifugiarsi nel camerino di un centro commerciale… e fecero l’amore. Sembrò che il tempo non fosse mai passato. Che tutta la loro vita, da agosto a quel momento, fosse stata solo un sogno.

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Capitolo 6
*** Un gioco pericoloso ***


Continuarono a vedersi. Ogni volta si incontravano quasi con stupore, come se entrambe non capissero cosa aveva portato i loro binari ad incrociarsi… come se in definitiva si fossero incrociati forse solo per sbaglio.
Muriel scoprì che Samantha, superati gli esami, aveva iniziato a frequentare il primo anno all’Accademia di Belle Arti. Era bravissima a disegnare. La sua tecnica prediletta era il carboncino, ma spesso realizzava grandi dipinti ad olio o con l’aerografo su cui lavorava per tempi piuttosto lunghi. Quando sedeva davanti a un dipinto, sembrava subire una completa metamorfosi. Era in grado di sedere per ore e ore davanti alla stessa tela senza mostrare il minimo cenno di affaticamento, e dimostrava una costanza e una precisione quasi ossessive, che sorprendevano non poco rispetto al tipo di persona che dava mostra di essere nella vita di tutti i giorni… sempre così esuberante e irrequieta, piena di frenesia. Mentre dipingeva, Muriel poteva vedere il suo volto tendersi nella concentrazione, e le sue espressioni riflettevano con estrema precisione i gesti della sua mano, con i quali trasportava quelle stesse emozioni sulla tela. Osservando il lavoro finito, poteva ripercorrere ogni istante del lavoro solo osservando i segni rimasti impressi sulla superficie del quadro, e innanzi a ciascuno le affiorava alla mente l’immagine del volto di Samantha in quel preciso momento, come se il disegno fosse un’enorme carta geografica che ripercorreva in modo pedissequo le tappe della sua elaborazione.
Più di una volta la ragazza la prese come modella per un ritratto. Muriel non avrebbe mai scordato la prima volta in cui la fece posare nuda. Sedeva su una sediolina di legno scuro che per qualche ragione le ricordava la casa della sua amata nonna, morta dieci anni prima, quando lei aveva poco più di cinque anni. Percepiva il freddo del sedile sotto la pelle, più vicino a lei di quanto fosse abituata: poteva sentire la carne e il legno incontrarsi (o scontrarsi), e le due superfici aderire l’una all’altra con una tale naturalezza che quasi la sorprendeva che non si fondessero tra loro. Le folate di vento gelido che tratti irrompevano nella stanza dalla finestra spalancata la facevano rabbrividire, ma non osò mai interrompere Samantha per chiederle di chiuderla. La ragazza appariva completamente assorbita dal proprio lavoro: studiava ogni piega della sua pelle, ogni ciocca dei suoi capelli, ogni ansa dei suoi fianchi con uno scrupolo che la metteva a disagio… e nonostante già molte volte fosse stata nuda davanti a lei, aveva l’impressione che mai Samantha l’avesse spogliata come facevano adesso i suoi occhi indagando il suo corpo pezzo dopo pezzo. Le faceva venir voglia di abbassare lo sguardo. Ma non poteva: doveva restare immobile. E quel contatto visivo forzato da un lato la imbarazzava, perché aveva l’impressione che attraverso di esso Samantha potesse leggere nella sua anima, dall’altro la eccitava, perché istituiva tra loro una connessione che solo l’amore… e forse nemmeno quello… era in grado di creare.
Quando Samantha posò il pennello e la chiamò a contemplare il risultato, trattenne il fiato nel vedere non tanto il proprio volto - la cui somiglianza era approssimativa - ma la propria anima, sulla tela. Avvertì nuovamente il percorso di quegli occhi indagatori sul proprio corpo e li sentì rubare la sua identità brano a brano per imprigionarla e imprimerla sul foglio. Da allora, ebbe la definitiva certezza che Samantha si era completamente impossessata di lei. Aveva risucchiato la sua essenza come argilla morbida, e adesso poteva plasmarla a suo piacimento.
E quella fu solo la prima di numerose sessioni di posa. Muriel divenne il suo soggetto prediletto. E ogni volta che la ragazza contemplava il risultato di tali sessioni, aveva l’impressione che Samantha avesse catturato un altro pezzetto della sua anima.
Muriel, come Samantha scoprì ben presto con somma delusione, non era invece quel che si dice un’amante dell’arte. Più volte la ragazza tentò di risvegliare il suo entusiasmo portandola a visitare varie mostre in centro, ma scoprì ben presto che le uniche opere in grado di toccarla davvero nel profondo erano le sue. Presto dovette rassegnarsi alla sua refrattarietà, e Muriel poté tirare un sospiro di sollievo al pensiero che non avrebbe più dovuto trattenere gli sbadigli tra i meandri di interminabili gallerie.
Ma se da un lato Muriel era totalmente in balia della sua dispotica compagna, altrettanto non si poteva dire per Samantha, che seguitava a vivere con la solita libertà. Muriel soffriva per questo. Spesso si era arrabbiata e aveva dato in escandescenze, all’inizio, ma Samantha aveva rivendicato caparbiamente la propria indipendenza, studiando con cura i punti dove colpire per metterla a tacere. Pian piano, la rassegnazione aveva avuto la meglio sulla frustrazione e sull’ira, anche perché man mano che cresceva la sua dipendenza da lei, Muriel era sempre più terrorizzata al pensiero di non vederla tornare da lei. Ogni volta che litigavano, era in grado di aspettarla per giorni chiusa in casa, per paura che quando sarebbe venuta avrebbe potuto cambiare idea non trovandola lì ad accoglierla. Solo una volta, dopo una sfuriata epica, prese l’iniziativa e uscì a fare la spesa per sua madre, ma mentre girava col carrello tra gli scaffali fu presa da un tremendo attacco di nausea e dovette tornare a casa correndo, senza neanche curarsi di rimettere sugli scaffali le scatole di cereali e i barattoli di sugo. Dopodiché passò il resto del pomeriggio a fissare il telefono, aspettando che squillasse.
Del resto, da parte sua, Samantha era sempre tornata. Quando entrava in casa sua, prima di metter su la sua solita faccia di bronzo, faceva capolino nei suoi occhi una palese traccia di nervosismo, ma si placava subito innanzi alla remissività della compagna, che le permetteva di riacquistare il suo usuale contegno.
Muriel non riusciva a confessare la loro relazione a sua madre. Ogni volta che era sul punto di farlo, un nodo le attanagliava la gola e doveva desistere. C’era da dire, però, che Samantha non le faceva mai pressione in tal senso. Quando veniva a cena a casa sua, recitava diligentemente la parte dell’amica protettiva, parlava di tutto, dell’università, delle mostre… Poi salivano in camera sua, e Muriel chiudeva la porta della stanza con la piccola chiave d’ottone arrugginita e si voltava verso la compagna, che l’aspettava con un sorrisetto malizioso sul letto. Anche sforzarsi di fare piano… tapparsi la bocca con le mani a vicenda per impedirsi di gridare… soffocare i gemiti con i baci… tutto questo era parte del gioco. Contribuiva a renderlo più eccitante.
Era questo che facevano?
Un gioco?
Muriel non riusciva a smettere di essere ossessionata da quel pensiero. Ci pensava continuamente… e si torturava spesso nell’impossibilità di trovare una risposta. Ma non le riusciva di inserire ciò che facevano in uno schema conosciuto, in una cornice rassicurante che le avrebbe concesso di dare una definizione a quel sentimento che non era neanche riuscito neanche a lei di comprendere fino in fondo. Forse, in fondo, ciò che realmente la attraeva di quel sentimento era la sua refrattarietà ad essere costretto in uno schema prestabilito: il loro amore - se così lo si poteva chiamare - era anarchico; un animale ribelle che non si prestava ad essere domato, e si imbizzarriva ogni qualvolta si tentava di legarlo.
Se si trattava effettivamente di un gioco, ad ogni modo, era un gioco molto pericoloso. E Muriel sapeva… ma non sentiva di poter fare niente al riguardo… che probabilmente prima o poi qualcuno avrebbe finito per farsi male. Molto male.

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Capitolo 7
*** Eric ***


La notte splendeva di una luce cupa.
È strano a dirsi: la notte splendeva. Ma era così. La notte splendeva, illuminata non dalle stelle, che Muriel cercava nel cielo inutilmente, soffocate com'erano dai bagliori artificiali della città, ma dalle pallide luci dei lampioni che costeggiavano la strada fuori dal cancello. Seguì il loro profilo sinuoso fin dove le due file si congiungevano in un punto ideale sulla linea scura dell'orizzonte.
Nel vederla assorta, Francesco le tirò un lembo della veste per attirare la sua attenzione. Muriel abbassò lo sguardo verso di lui e sorrise dolcemente.
«Che c'è, piccola peste?».
Lui le mostrò tutto soddisfatto una foglia secca che aveva raccolto. Lei la prese. Era davvero bella. Le nervature irregolari si diramavano come una ragnatela verdastra sulla sua superficie a tratti ingiallita, che sfumava in un marroncino un po' rossastro alle estremità, lasciando affiorare alcuni sprazzi di verde nel cuore vellutato.
«Che bella!», esclamò.
Il bimbo sorrise tutto soddisfatto. I suoi occhi sì accesero di una lucina maliziosa… e all'improvviso Muriel poté vedere il volto di Samantha sovrapporsi al suo, risucchiarne i lineamenti e l'espressione fino a trasfigurarli. Quella vista le apparve così nitida che dovette distogliere lo sguardo per sfuggire alla sua intensità. Si ritrovò dunque a cercare Samantha nella folla circostante, e la trovò all'altra estremità del balcone, le labbra tinte di rosso cremisi che incorniciavano il suo enorme sorriso. Aveva tra le mani un calice di vino rosso, cui d'un tratto la vide attingere con molta eleganza. Il colore del vino si confuse per un attimo con quello delle sue labbra.
Davanti a lei c'era un ragazzo piuttosto piacente, col quale sembrava discutere animatamente. Nel guardarlo, provò un'acuta fitta di gelosia... e di impotenza. Serrò le dita attorno ad un lembo della sua gonna fiorata.
«Bella festa, non trovi?».
Sì voltò di scatto, atterrita da quella voce improvvisa alle sue spalle. Innanzi a lei stava un tipo alto e avvenente, il volto olivastro segnato da un sorriso tranquillo.
«Sì... divertente», rispose distrattamente.
«Non sembri molto convinta».
«Ma sì che lo sono... è solo... Sono solo un po' stanca, ecco tutto».
Il tipo la osservò per un attimo, poi prese una sedia e si mise a sedere tranquillamente al suo fianco, senza curarsi di non essere stato in alcun modo invitato.
«Non sei una tipa festaiola, non è vero?».
«No, non molto», ammise lei. Che cosa vuole questo, adesso?, pensò, irritata. Non era per niente in vena di fare conversazione.
«Scommetto che Samantha ti ha trascinato qui a forza. Sa essere molto convincente quando vuole».
Muriel si strinse nelle spalle. «Le serviva un'accompagnatrice. Non avevo niente da fare stasera…».
Lui la scrutò con un'intensità che riuscì a metterla a disagio. Chinò il capo, imbarazzata. Dopo un po', tornò a guardare Samantha di sfuggita... che stava ancora chiacchierando con quel tale.
«La ami molto?».
«Cosa?!». Muriel arrossì fino alla punta dei capelli e distolse subito lo sguardo.
«Si vede lontano un miglio che ci tieni a lei. Dal modo in cui la guardi».
La ragazza non seppe che rispondere. Prese a fissarsi le mani.
«Sai», fece l'uomo, assumendo una posizione rilassata, «è la prima volta che la vedo con una come te».
«Che vuoi dire? Come sarebbe una come me?».
«Be', sai... Il tipo che alle feste sta seduto all'angolo e arrossisce alle domande di uno sconosciuto, direi».
Naturalmente quelle parole la fecero arrossire ancora di più. Serrò la mascella.
«Comunque... non stiamo insieme. L'ho solo accompagnata».
«Certo», disse lui, nient'affatto convinto. Fece una pausa. «Eppure... credo che anche lei ti ami molto».
Muriel sentì il cuore fermarsi. Spalancò gli occhi. Subito dopo il sangue riprese a scorrere nelle sue vene con velocità raddoppiata.
«Non l'avrei mai detto... ma a quanto pare sei proprio il tipo di persona giusta per lei. Non l'ho mai vista guardare nessuno in quel modo».
«Guarda... temo che tu abbia preso un granchio. Non c'è niente fra me e lei».
«E invece io ti dico… e mi vedo costretto a sottolineare - con una certa immodestia, lo riconosco - che io non mi sbaglio quasi mai… che è così. Conosco Samantha da secoli, dolcezza. E ti ripeto che è pazza di te. Anche se non lo ammetterà mai. È un tipo difficile, Samantha. Forse il più difficile che io abbia mai incontrato. Finora non credo di averla mai vista veramente innamorata, ma per com’è fatta so per certo che ha una paura matta di legarsi troppo... di restare imprigionata. Quindi farà di tutto per ribadire la propria autonomia. Anche facendoti del male sé necessario. E facendone a se stessa. Devi essere forte per sostenere l'amore di una persona come lei. Credi di essere abbastanza forte, mia cara... scusa, non ti ho ancora chiesto il tuo nome...?».
«Muriel», rispose lei quasi automaticamente, ancora troppo stordita perché il pensiero che uno sconosciuto che non conosceva neanche ancora il suo nome si fosse appena messo a sputare sentenze su di lei penetrasse a fondo nella sua psiche. La consapevolezza arrivò con qualche istante di ritardo, ed ella si riscosse e cercò di recuperare un contegno. «Senta», disse allora, dandogli improvvisamente del lei (e rendendosi conto con stupore di avergli dato del tu fino a quel momento), «io non so chi diavolo sia lei né cosa la renda così sicuro nel pronunciare simili affermazioni azzardate circa la mia vita sentimentale, però davvero non credo che...».
Tuttavia la sua arringa, che cominciava a farsi piuttosto infervorata, fu interrotta dall'arrivo di Samantha, che si fece loro incontro con un sorriso che andava da un orecchio all'altro.
«Eeeeriiiiic!», esclamò, scandendo le vocali con l'eccessiva enfasi che riservava a pari merito agli amici di lunga data e ai suoi più accesi rivali, la voce che si elevava in un acuto prolungato per poi precipitare con una brusca impennata. Muriel si figurò nell'atto di disegnare quel suono su un ipotetico diagramma: il segno che si andò tracciando nella sua mente era un'ampia parabola di colore rosso acceso.
«Quanto tempo!».
Eric si alzò per baciarla su entrambe le guance.
«Troppo tempo, dolcezza».
«Com'è che non ti si vede più in giro? Un tempo spuntavi come un fungo ad ogni angolo della strada».
«Eh... sono stato molto occupato ultimamente. Sono appena tornato da un breve viaggetto in Australia… per un incontro con un famoso collezionista d'oltreoceano».
«Fino in Australia? Caspita. La tua fama adesso supera il Pacifico allora? E dal momento che sei ormai così celebre, questo famoso collezionista non avrebbe potuto scomodarsi per venire ad assistere ad una delle tue mostre?».
«No, perché sfortunatamente questo famoso collezionista ha una terribile fobia per l'aereo da quando entrambi i suoi genitori sono precipitati nell'Atlantico durante un viaggio verso gli Stati Uniti. Quindi, come si suol dire, se la montagna non va a Maometto...».
«...Allora Maometto andrà alla montagna. Capisco. Dunque avrai senza dubbio un sacco di cose da raccontarmi... Ma hai già conosciuto la mia amica Muriel?», fece poi, come ricordandosi all'improvviso di lei.
Lui la guardò con un sorriso. «Sì, ho già avuto il piacere di fare la sua conoscenza. In realtà stavamo giusto chiacchierando del più e del meno prima che tu arrivassi. Un fiore davvero incantevole... e naturalmente sei stata tu a coglierlo. Come al solito il tuo buon gusto si dimostra infallibile».
Samantha rise di gusto. «Quanto sei stupido. Eppure come sempre non ti sbagli. Non è vero, mia cara Muriel?».
Si inarcò verso di lei per baciarla. Muriel ricambiò con una certa rigidità. La infastidiva il modo in cui quei due parlavano di lei come se non fosse presente... come se fosse un cavallo di razza e non un essere umano dotato di volontà. Si scansò in fretta. Samantha però non parve farci caso.
«Comunque... Muriel... ti presento Eric... Io e lui siamo amici di lunga data. Cioè... da quando sedevamo allo stesso banco al liceo...».
«E da allora non è cambiata affatto», scherzò il giovane. «Voglio dire... sempre la solita iena acida, da sei anni a questa parte».
«E tu sempre il solito spaccone».
Lui le fece la linguaccia. Muriel suo malgrado sorrise tra i baffi. Sembravano proprio due scolaretti che si punzecchiavano vicenda.
«Ma di cosa avete parlato in mia assenza? Vi ho visti piuttosto accesi quando sono arrivata. Non l'avrai trascinata in uno dei tuoi dialoghi sopra i massimi sistemi già al primo incontro...».
«Nah. Non lo farei mai con una povera dolce fanciulla innocente come lei».
«Con me non ti sei mai fatto tanti scrupoli...».
«Infatti tu non sei mai stata una fanciulla dolce e innocente».
Samantha alzò gli occhi al cielo, poi si voltò verso Muriel. «Quando ci siamo conosciuti», spiegò, «stavo leggendo uno di quei romanzetti rosa stupidi che leggono le tredicenni... sì, ho avuto anch'io quel periodo buio, e me ne vergogno molto... e lui ha passato un'ora a smontarmi sostenendo che quel genere di libri sono il tipo di letteratura...»
 «Non credo di aver usato il termine "letteratura" per definirli», la interruppe Eric. «Non avrei mai osato usare tanta blasfemia nei riguardi della letteratura... quella vera, intendo».
«D'accordo», esclamò Samantha, alzando gli occhi al cielo. «Diciamo allora che li ha definiti i... romanzetti... va bene così?... più conformisti e antifemministi che siano mai stati scritti nella storia del genere umano, e che sono una fabbrica di adepti per la società capitalista. E per argomentare la sua tesi ha sfoderato tutta la filosofia occidentale... diciamo dal secondo ottocento in poi. Non ho più avuto il coraggio di aprirne uno».
«C'è da dire che però da allora sei migliorata parecchio. Non è più così facile metterti a tacere adesso».
«Resta il fatto che continui ad essere una delle pochissime persone ancora in grado di zittirmi... ma solo di tanto in tanto. Ad ogni modo, se non vi stavate dilungando in dissertazioni filosofiche, devo dedurre che stavate sparlando di me».
«La solita egocentrica...».
«Be', ho ragione però».
«E che cosa te lo fa pensare? Ci sono centinaia di argomenti di cui parlare... la musica, il cinema l'arte, lo spettacolo... lo sport... il lavoro volendo».
«Be', sfortunatamente per te Muriel non è particolarmente patita di arte né di cinema, e i vostri generi musicali sono totalmente inconciliabili. E poi Muriel va al liceo... il che rende piuttosto arduo affrontare una conversazione sulla vostra vita professionale».
«Resta lo sport».
«Eric... io e te sappiamo benissimo che l'ultima partita a cui hai assistito è stato un incontro di pallacanestro cui siamo capitati solo per sbaglio perché Marco voleva fare a botte con un tifoso che gli aveva fottuto la ragazza, e noi cercavamo in tutti i modi di dissuaderlo. E non dirmi che ti sei divertito perché hai passato tutto il secondo tempo a chiedermi quanto mancava alla fine del match».
«Be', sì... ammetto che la pallacanestro mi fa abbastanza schifo. Però non mi dispiace il tennis da tavolo».
«Ti informo subito che invece Muriel lo detesta. Quindi vedi bene che non vi restano altri argomenti in comune se non… la sottoscritta. A meno di non voler ipotizzare una discussione su spettacolari partite a biglie - di cui ignoro l'esistenza - tra i sei e i dieci anni... o su qualche argomento altrettanto improbabile. Il che avvalora la mia tesi e fa crollare miseramente la tua».
«Intendi dire la mia tesi sul tuo egocentrismo? Rassegnati. Ci vorrebbe molto più a farla crollare. Ad ogni modo... mi addolora ammetterlo, ma stavamo parlando proprio di te».
«Oh. Saresti capace di continuare una discussione per ore pur di non ammettere che hai torto. E di cosa parlavate esattamente?».
«Questi - se permetti - sono affari nostri». Fece l'occhiolino a Muriel, che chinò il capo non sapendo bene come intervenire.
«Ah, ho capito. Alzo le mani» - e accompagnò effettivamente le parole con un ampio gesto delle braccia, per enfatizzare. Poi guardò l'orologio da polso. «Vorrei davvero restare a chiacchierare, ma domani ho un esame, e siccome non voglio arrivarci con delle occhiaie che arrivano fino al mento, credo sia meglio cercare di andare a letto a un'ora più o meno decente».
«Samantha versione studentessa diligente mi è ignota... è sicuramente un fenomeno che merita un’analisi più approfondita. Comunque è un peccato. Dobbiamo assolutamente rivederci per verificare a che punto siamo con le nostre vite».
«Assolutamente, tesoro! Allora a presto. Chiamami. Tu vieni con me, Muriel? O preferisci restare?».
Muriel scosse il capo violentemente, e si alzò con tale foga dalla sedia che rischiò di mandarla a gambe all'aria. Arrossì fino alla punta dei capelli... forse per la centesima volta quella sera.
«Allora ciao, cara Muriel», le disse Eric, guardandola con un'intensità sconcertante. «È stato un piacere conoscerti. Spero di rivedere presto anche te».
«Sì... certo...». Muriel strinse di sfuggita e quasi con sospetto la mano che le porgeva. Ebbe appena il tempo di notare che aveva una pelle estremamente liscia... e delle mani forse un po' troppo affusolate per un ragazzo. Poi scappò dietro Samantha, che aveva preso a salutare gente a destra e a manca.

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Capitolo 8
*** Contrasti ***


Quella non fu l'ultima volta in cui Muriel si trovò in compagnia di Eric.
Meno di due settimane dopo, Samantha la chiamò per dirle che il ragazzo le aveva invitate ad una cena con alcuni altri suoi amici. Lei inizialmente era restia ad accettare.
«Maddai!», esclamò Samantha. «Guarda che si tratta solo di pochi intimi. E poi sono tutti molto amichevoli. Su, non fare la misantropa! Eric ha insistito perché portassi anche te. Ci tiene. Non so che cosa gli hai fatto... ma devi averlo colpito molto. E fidati che Eric non è uno che dà spago a tutti. È un tipo molto, molto selettivo».
Wow, sono proprio onorata di essere nelle sue grazie..., pensò Muriel con una certa acidità. Ma non lo disse. Alla fine cedette alle insistenze dell’amica - come sempre - e l'accompagnò.
In effetti fu una serata piuttosto piacevole. Come ogni volta che usciva con Samantha, erano tutti più grandi di lei, ma furono abbastanza carini da non farla sentire in soggezione. Eric inizialmente non le rivolse più di poche parole. Si limitò ad osservarla da lontano, come se la stesse studiando. A un certo punto... non ricordava bene come fosse saltato fuori l'argomento... le si rivolse di colpo dicendole: «Samantha mi ha detto che siete andate insieme a quella mostra che stanno dando ultimamente... quella sull'arte povera».
«Ah. Sì».
«Ti è piaciuta?».
Esitò un attimo prima di rispondere, incerta se mentire o meno. Alla fine optò per la verità. «Non molto», ammise.
Eric inclinò il capo incuriosito. «Come mai?».
La ragazza scrollò le spalle. Si accorse in quel momento che Samantha, al suo fianco, seguiva le sue movenze con attenzione, senza guardarla in modo diretto, come se valutasse il suo comportamento, e questo la irritò e la spinse a irrigidirsi ancora di più.
«Non so. Non mi è piaciuta e basta».
«Non sei un'amante dell'arte moderna, vero?».
«In generale... no. Cioè, dipende. Samantha mi ha portata a un sacco di mostre... e alcune erano davvero belle, non è che voglio generalizzare... tipo mi ricordo una bellissima mostra su Klimt che abbiamo visto qualche mese fa... Però cose come tele strappate, plastica bruciata, ruote di bicicletta o... cumuli di stracci e giocattoli realizzati con materiali di scarto, noci e foglie... quelle veramente non le capisco. Non mi dicono niente».
Le sue parole si fecero sempre più taglienti man mano che proseguiva, forse per l'influenza delle labbra strette di Samantha, della sua mano che si serrava attorno alla forchetta; per una sorta di orgogliosa rivendicazione.
Eric però non si scompose. Non parve scandalizzato. Né esibì quell'espressione di malcelato disprezzo che attraversa il volto di tanti cosiddetti "intenditori" innanzi a commenti poco accondiscendenti che indubbiamente interpretano come segni di ignoranza o semplicismo. Al contrario. Diede mostra di riflettere attentamente su quanto aveva detto.
«Il dibattito sull'arte moderna in realtà è molto controverso», disse dopo un po’, con tono calmo. «Molti sostengono che la semplificazione delle forme, ridotte ai minimi termini ai fini di una comunicazione più essenziale - e per certi versi più profonda -, sia uno dei tanti segni dell'impoverimento della cultura a cui stiamo assistendo negli ultimi anni. Del resto, accostando una tela di Leonardo da Vinci e una di Burri… un minimo di disorientamento è più che comprensibile. Questo accade - naturalmente - se vogliamo inserire l'arte in un contesto… in una prospettiva… in cui è possibile stabilire se ciascuna evoluzione costituisce un fattore di progresso o di regresso, rispetto a certe forme canonizzate assunte come modello. Un po' come chi si ostina a valutare l'arte classica in relazione a quella che l'ha preceduta, e viceversa, senza considerare ogni periodo come a sé stante. Per molto tempo si è stati incapaci di esaminare quelle forme artistiche senza il pregiudizio dell'uomo “culturalmente evoluto”, che giudica ogni modello culturale che l'ha preceduto un abbozzo, un'anticipazione del proprio, ed è incapace di comprendere che ogni cultura è inserita in un contesto chiuso… che non è un prima né un dopo di niente. Le korai non sono il modello grezzo su cui si svilupperà la statuaria monumentale di stile classico-severo: sono semplicemente l'espressione di un gusto diverso, il prodotto di tecniche diverse che non sono più arretrate perché la popolazione presentava un livello più basso di cultura, sono semplicemente indice che in quel determinato contesto le tecniche allora in possesso erano perfettamente idonee a ciò che si proponevano di realizzare, e non si avvertiva l'esigenza di un'evoluzione. Ossia, il canale era adeguato alla modalità espressiva. Un po' come... per dire - anche se può sembrare che non c'entri nulla... il pregiudizio di superiorità degli Spagnoli davanti alla popolazioni amerinde impediva loro di capire che la diversità degli Indios era considerabile un fattore di inferiorità solo sulla base di criteri relativi. Tanto per dirne una, gli Europei restarono molto sorpresi di scoprire che gli indiani d'America non avessero la ruota. Ma... se ci pensi... questo è più che comprensibile, dal momento che non possedevano animali da traino…».
«Sì, d'accordo», tagliò corto Muriel, intuendo che avrebbe potuto andare avanti su quella linea per ore. «Però noi abbiamo effettivamente… un livello notevole di evoluzione tecnica, come dici tu... e considerato questo… ho qualche difficoltà a definire un cumulo di stracci un capolavoro. Poi magari sono io ad essere chiusa, non lo so».
«Non era assolutamente mia intenzione insinuarlo. Stavo solo facendo alcune considerazioni. Niente ti impedisce di pensarla così, solo... Per parte mia, sono convinto che l'arte... l'arte in ogni sua forma, anche quella che più difficilmente ci si persuade a chiamare con questo nome... sia l'unica vera arma capace di esorcizzare i nostri demoni, laddove la scienza, la religione, l'ideologia... persino la filosofia, o almeno gran parte di essa, nel suo tentativo esasperato di razionalizzare ogni cosa... non riescono che a tentare goffamente di eliminarli, di dominarli, di negarli. Tutte queste forme di interpretazione del mondo sono scadute, o scadranno a breve. L'arte invece ha rivendicato la propria immortalità nell'ambito delle cose umane. L'arte nel tempo è stata capace di evolversi, di adattare le proprie forme attorno ai contorni di un mondo in continua trasformazione e del nostro modo di percepirlo. L'arte non è mai obsoleta: è sempre in grado di rinnovarsi e mostrare all'uomo una faccia originale in grado di stupirci ed emozionarci. È come un gigantesco specchio che svela l'animo umano... l'animo umano in tutte le sue innumerevoli sfaccettature, dalle più sublimi alle più miserabili. Rendendo l'uomo costantemente consapevole del propria grandezza e al contempo della propria miseria... aprendo la speranza di orizzonti sempre più ambiziosi e al contempo sbattendogli in faccia con tragicità o ironia i suoi limiti. Egon Schiele disse: "L'arte non può essere moderna, l'arte appartiene all'eternità". E io credo che avesse ragione. Un artista del passato - un Michelangelo, per dirti - e un artista di oggi non sono in fondo poi così diversi: diversi sono i mondi che raffigurano. Il genio dell'artista moderno, che impone alla nostra attenzione la demistificazione del bello, dell'estetica che fino ad oggi ha dato il nome all'arte in ogni sua forma, offrendoci tele strappate, squarciate, ricoperte di informi chiazze di colore e persino bianche, cumuli di rifiuti compressi, o addirittura - come in effetti è stato fatto - provocatori e sconvolgenti barattoli delle sue feci... è forse davvero solo pazzia. Ma è una pazzia che ci riguarda. Che ci coinvolge. Che fa parte di noi, in fondo… salvo che in noi rimane inconfessata. E davanti ad essa non possiamo restare indifferenti. È la pazzia dell'uomo moderno, che assume forme concrete e ci permette di essere osservata. Che ne restiamo indignati o affascinati, la nostra reazione non può essere che di sconcerto».
Muriel restò un po' spiazzata. Rifletté a lungo sulle parole di Eric prima di rispondere, temendo di farlo in modo sciocco. «È che...», disse infine, un po' incerta. «Non sono sicura che la sensazione di sconcerto - come dici tu - che suscita basti a definire un'opera d'arte. Per me, per chiamarsi opera d'arte, un oggetto deve essere comunque qualcosa di... bello». Effettivamente suonava molto stupido. Ma non esisteva a suo avviso un modo migliore per esprimere il concetto.
Eric scrollò le spalle. «Questione di punti di vista, te l'ho detto. Il dibattito è sempre aperto. Ma…». Alzò la voce, rivolgendosi a tutti i commensali. «Vedo che avete tutti finito di mangiare, e, sarò pure all'antica, ma non mi piace lasciar discutere i miei ospiti davanti a dei piatti vuoti. Oggi pomeriggio ho preparato un dolce ai frutti di bosco con le mie manine e dovete darmi il vostro parere al riguardo… ma» - e si voltò con un indice alzato con aria ammonitrice prima di sparire in cucina - «dovete essere sinceri».
Quando se ne fu andato, Samantha accostò le labbra all’orecchio di Muriel e disse: «Se non eri interessata alla mostra a cui ti ho portato, potevi anche dirmelo».
«Perché», ribatté lei, gelida, «ho mai avuto voce in capitolo?».
La giovane alzò gli occhi al cielo. «Oh, certo. Dimenticavo. Dimenticavo che sono io quella cattiva e dispotica. È sempre colpa mia».
«Be', diciamo che non lasci molto spazio al prossimo. Esiste solo quello che vuoi fare tu… quello che piace a te. Per te è sempre "io, io, io". E basta».
«E piantala di fare la vittima!», sbottò Samantha. «Se solo cercassi di far valere la tua volontà di tanto in tanto, anziché piangerti addosso, le cose andrebbero diversamente. E non mi riferisco soltanto alle mostre».
Per Muriel fu come uno schiaffo in faccia. Aprì la bocca per ribattere, ma immediatamente sentì la gola stringersi e seppe che se l'avesse fatto sarebbe scoppiata in lacrime. Quindi la richiuse e si voltò dall'altra parte. Si ritrovò a fissare il proprio volto nella superficie vitrea della bottiglia. La sua pelle appariva verdognola per via del riflesso, sicché dava l’impressione di essere un po’ malaticcia. Senza contare il volto sfatto come dopo una corsa, e il trucco leggermente colato all’angolo dell’occhio sinistro.
Samantha la sottrasse senza volerlo a quell'immagine prendendo la bottiglia per versarsi un bicchiere di vino. Nel proprio calice Muriel poté vedere la sua figura accostare la coppa alle labbra e sorbirlo a piccoli sorsi con aria fiera, la mascella rigida come se le arcate dentarie fossero serrate da uno strato di calce. Per un momento ebbe l'impulso di strapparle il bicchiere di mano e spaccarglielo su quella faccia da schiaffi. Per reprimerlo, sì ficcò le unghie nella mano fino a farsi male.
«Vado in bagno», annunciò, ansiosa di fuggire da quel tavolo.
Samantha alzò le spalle con noncuranza. Le diede le spalle e si rivolse al suo vicino con un sorriso smagliante.
Muriel indietreggiò senza smettere di guardarla, sentendo una spiacevole sensazione afferrarla alla bocca dello stomaco. Devo andarmene da qui, pensò, nauseata. E finalmente si voltò e si diresse quasi di corsa  verso la toilette.

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Capitolo 9
*** Divergenze ***


E arrivò anche per Muriel il tempo della maturità.
Il periodo prima degli esami parve interminabile, non vedeva l'ora di fine. Alla fine riuscì a cavarsela con un punteggio decente… non proprio eccellente, ma nemmeno sotto la media. Come si era aspettata, insomma.
Venne quindi l'ora di prendere una decisione circa l'università. Non ci aveva mai pensato seriamente. Aveva preso in considerazione un paio di ipotesi, ma in realtà quando fu davvero ora di scegliere rimase completamente spaesata. Alla fine optò per la facoltà di lettere, malgrado sua madre e tutti i suoi amici l'avessero ammonita circa la pericolosità di quella scelta. "Non troverai mai un lavoro, con una laurea in lettere", le ripetevano come una cantilena. E la invitavano a iscriversi piuttosto a economia, ingegneria, giurisprudenza... ma lei aveva già deciso. Cercò di convincere sé stessa che la soddisfazione di Samantha (contenta di vederla finalmente prendere una decisione in modo autonomo, senza lasciarsi condizionare dall'opinione altrui) non c'entrasse nulla con la propria risoluzione, ma in cuor suo sapeva benissimo che non era così. Sapeva benissimo che era anche per conquistarsi la sua stima, per meritarsi il suo rispetto - non necessariamente per averlo, badate bene, ma soltanto per meritarlo - che aveva deciso di mettere da parte il buon senso e seguire caparbiamente la propria strada, anche se era quella meno ovvia, quella con meno sbocchi.
Cominciò subito a seguire i corsi, e in breve tempo si scoprì - se non proprio brillante - quantomeno curiosa e costante, e adesso che poteva concentrarsi su qualcosa che le interessava veramente otteneva anche ottimi risultati. Ciò le procurava notevoli soddisfazioni. E Samantha, per una volta, sembrava fiera di lei. Questo non poteva non influire.
I suoi compagni di corso erano molto simpatici. Riuscì a legare in poco tempo con un gruppo che prese a frequentare in modo abituale, malgrado la propria timidezza. Certo, non mancavano nell'ambiente i soliti accademici saccenti, sempre pronti a puntualizzare su tutto e a sfoderare la loro vasta erudizione a scopi puramente narcisistici.
«Avresti dovuto vedere con quale presunzione si è messo a smontare con argomentazioni futili e del tutto marginali la mia affermazione su Pasternak», si lamentò un giorno con Eric (col quale erano diventati col tempo buoni amici) circa un professore specializzato in letteratura russa della sua facoltà. «Voglio dire... sapere a memoria l'elenco delle edizioni critiche che sono state redatte de "Il dottor Zivago" non ti rende automaticamente un esperto di Pasternak. Non me ne frega un accidente se il professor tal dei tali ha espresso il proprio parere in merito a tale questione traendone la tale conclusione. Lo studio di un testo andrebbe fatto innanzitutto sul testo, e poi eventualmente approfondito tramite i commenti dei vari critici. Scommetto che il signor So-tutto-io non riuscirebbe a leggere una sola pagina di un qualunque romanzo senza prima consultare una qualche edizione critica».
«Purtroppo gli ambienti accademici sono pieni di persone del genere», rispose Eric, senza scomporsi. «Persone piccole piccole, che credono di poter accrescere la propria statura accumulando nozioni su nozioni senza andare al fondo di nulla. Lasciale parlare. È la loro unica soddisfazione».
«Be', lo trovo molto triste. È indice di incredibile pochezza morale. Preferisco mille volte un ignorante capace di apprezzare un buon libro senza sapere tutto sulla vita dell'autore e sul periodo storico di riferimento... piuttosto che un imbecille laureato con la sensibilità di un calzino. E gente come lui dovrebbe anche contribuire a formare la cultura di tanti giovani studenti. Ma c'è una differenza fra cultura ed erudizione, per come la vedo io. Fra l'altro... ha poca importanza che ti insegnino la data di nascita e di morte di uno scrittore senza insegnarti in che modo le sue opere possono contribuire a crearti una tua morale. La cultura dovrebbe essere somministrata come farmaco per la saggezza, non come pura nozionistica, fine a sé stessa. Senza saggezza, la cultura non è che un'inutile fronzolo da ostentare per accrescere le dimensioni del proprio ego».
Eric sorrise. «Sai, con quest'affermazione hai praticamente parafrasato un passo di Salinger. C'è un personaggio in un suo romanzo cui viene messa in bocca praticamente la stessa cosa, e in un contesto simile fra l'altro».
«Che romanzo?».
«"Franny e Zooey"».
«Ah. Non l'ho letto».
«Non è tra i più conosciuti di Salinger. Però l'ho trovato veramente bello. È da lì che ho tratto gran parte della mia filosofia di vita».
«Ah, sì? E quale sarebbe la tua filosofia di vita?».
Eric sorrise nuovamente. «Penso che ormai tu l'abbia già in parte intuita».
Anche Muriel sorrise. «Comunque lo leggerò».
Fra lei e Samantha le cose continuavano ad andare più o meno come sempre. Avevano alti e bassi. Continuavano a prendersi e lasciarsi in un tira e molla infinito. I litigi erano all'ordine del giorno. Eppure... qualcosa continuava a tenerle unite nonostante tutto. Qualcosa che nessuna delle due riusciva veramente a spiegarsi, malgrado per farlo spendessero tante parole, credendo ogni volta di aver raggiunto il nocciolo della questione... salvo poi scoprire all'improvviso una nuova sfaccettatura di quel gigantesco prisma che faceva crollare miseramente tutta l'architettura innalzata sino ad allora. Erano come due calamite legate da un filamento elastico: quando i poli uguali si incontravano si respingevano a vicenda finché l'elastico non le obbligava a tornare a unirsi, per poi respingersi e unirsi ancora.
Una volta anche la sorella di Samantha, Maria - con cui Muriel aveva finito per legare in parte, avendola frequentata in modo accidentale ogni volta che andava a casa di Samantha - fece un'osservazione del genere.
«Sai, a prima vista potrebbe sembrare che tu e Samantha siate due persone completamente diverse, ma in realtà avete parecchi punti in comune».
Nessuno aveva mai fatto un'affermazione simile, quindi Muriel rimase un po' spiazzata. «Che vuoi dire? In che senso?».
«Be'... avete entrambe questo modo di affrontare le cose così… totalizzante, come se di ogni cosa voleste succhiare via tutta la sostanza, cavarne tutto il significato. Lei lo fa in modo palese, quasi aggressivo - perché lei ha sempre avuto un temperamento aggressivo. Tu invece... be’, sei indubbiamente più discreta nel farlo, ma in qualche modo lo fai anche tu».
Muriel vi rifletté un po' su. «In parte hai ragione. D'altra parte, però... si potrebbe dire che siamo completamente diverse anche in questo. Lei è... mi verrebbe da dire "più superficiale", ma so che non è la parola adatta. "Superficiale" ha una connotazione dispregiativa. E io non voglio assolutamente affermare di essere più profonda di lei o roba simile, anzi, spesso rispetto a lei mi sento quasi stupida... una bambina vicino a una donna matura».
«Definire Samantha una donna matura è un po' una forzatura», ridacchiò Maria.
«Quello che voglio dire è che la sua è solo una profondità... diversa, ecco tutto». E come al solito, non sapeva come dire ciò che avrebbe voluto dire. Però ce l'aveva ben chiaro in testa. Ciò che intendeva era che lei aveva la tendenza ad aggrapparsi alle cose, a scavare loro dentro... quasi a volerle smembrare a volte. Era un tipo di profondità, la sua, che si potrebbe definire quasi morboso. Samantha, invece... Lei fluttuava sulle cose. Passava con la rapidità di un tornado, così veloce che non riuscivi mai ad afferrarla, la vedevi sfrecciare sopra di te e un attimo dopo era già sparita, e ti lasciava a guardarti intorno come un baccalà per cercare di capire che fine avesse fatto. Toccata e fuga. Ma nel passaggio acchiappava tutto quello che le passava sotto le mani... e lo faceva con l'agilità di un ghepardo. E lo portava con sé verso la prossima meta, facendone tesoro.
Ma con Maria non c'era bisogno di entrare nello specifico. Lei capiva senza bisogno di specificazioni. Infatti annuì.
«Sì, credo di aver afferrato il concetto. Eppure... continuo a pensare che ci sia qualcosa che vi unisce».
Muriel non capì mai se Maria sapesse o no di loro due. Certe volte, da come le parlava, dava l'impressione di alludervi, ma non fece mai nessun riferimento esplicito, né Muriel domandò mai nulla in proposito. Probabilmente qualcosa doveva averlo intuito, ma non era certa che Samantha gliene avesse parlato apertamente.
Maria era molto diversa da Samantha. A livello fisico si somigliavano parecchio, ma Maria era più alta e aveva degli occhi più grandi e scuri, da cerbiatta, ma non per questo meno profondi: sembrava che al loro interno ci fossero degli oscuri ruscelli in perenne movimento, che scorrevano tra le valli e le insenature formate dai ripiegamenti dell'iride senza mai fermarsi. Ma la differenza stava soprattutto nell'atteggiamento, che era più pacato, più contenuto. Non che fosse meno forte della sorella. Semplicemente, la sua forza era nascosta, tenuta a bada, come una fiera pronta a liberarsi nel momento del bisogno. Ma quando veniva fuori... A Muriel era capitato poche volte di vedere Maria arrabbiarsi sul serio, ma la sua rabbia era tra le cose più temibili che avesse mai sperimentato. Quando si arrabbiava un gelo artico piombava di colpo su di lei irrigidendone il portamento, serrando la sua mascella come se i denti all'improvviso sì fossero fusi insieme, immobilizzando le sue iridi e spazzando via ogni traccia di dolcezza. Anche quando era veramente in collera, non urlava mai: la sua voce sembrava però gonfiarsi come un oceano con l'alta marea, caricandosi di sonorità più cupe senza che ciò né alterasse il timbro... e a sentire quella voce spaventosa veramente avresti preferito sentirla gridare. Del resto, pensava Muriel, per tenere in riga una come Samantha - soprattutto da sola - dovevi per forza sviluppare un certo grado di autorevolezza o non né uscivi vivo. Era una questione di sopravvivenza. E lei lo stava imparando a sue spese…

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Capitolo 10
*** Collisione ***


Muriel camminava per la strada.
Quel mattino si era svegliata con un leggero senso di nausea, che a tratti si tramutava in violente fitte che le trafiggevano lo stomaco come puntelli acuminati. Era strano a dirsi, ma il dolore le aveva sempre provocato un bizzarro senso di disgusto. Non era il dolore in sé a infastidirla, quanto piuttosto la maniera in cui la rendeva consapevole del funzionamento dei suoi organi interni. È una cosa a cui normalmente non si fa caso - al fatto di avere uno stomaco, un fegato, dei polmoni... Finché lavorano correttamente, stanno semplicemente lì a svolgere i loro compiti indisturbati, senza farsi notare, e si può tranquillamente fingere che non esistano. È quando all'improvviso un ingranaggio di quel gigantesco e ben oliato meccanismo comincia a mostrarsi difettoso che ci accorgiamo di non essere in piedi in virtù di qualche strana e sconosciuta magia, ma che esistono miriadi di piccoli circuiti invisibili sotto quella pelle che a prima vista appare tanto liscia e impenetrabile, e che in definitiva non siamo che un'enorme macchina ben congegnata, nient'affatto indistruttibile.
Allo stesso modo quella mattina Muriel era dolorosamente consapevole delle contrazioni spasmodiche delle pareti del proprio stomaco e dell'agitarsi dei succhi gastrici al loro interno nel tentativo di corrodere i resti della colazione di quella mattina, di cui poteva sentir galleggiare i pezzi all'interno di quel liquido denso... e quella consapevolezza la ripugnava. Si sforzava di non pensarci, ma ogni scossa del suo stomaco le riportava suo malgrado la mente a quell’orrida visione.
Camminava lentamente sotto le fronde fiorite che gli alberi del viale protendevano verso di lei, quando di colpo fu assalita dall'acuta percezione che la sua vita fosse come sospesa. La sentiva aleggiare da qualche parte sopra la sua testa, vicina ma irraggiungibile. Si girò intorno per cercarla, ma con stupore i suoi occhi non incontravano che strade, palazzi, e un cielo così azzurro che pareva finto, come un telo di silicone steso a coprire lo squarcio che si apriva tra i tetti, i comignoli, le antenne e il campanile della chiesa in mezzo alla piazza.
Fu a quel punto che provò il desiderio - il bisogno - di fuggire.
Ma la sua vita era troppo lontana... troppo vicina e troppo lontana... per accompagnarla nella fuga e guidarla sulla via della salvezza. Era già fuggita, lei. Ma non era andata molto lontano: qualcosa, la fame di carne che è la benedizione e insieme la condanna di tutte le anime sue sorelle, la teneva ancora agganciata a quella pallida ragazza... incatenata a lei fino al momento in cui avrebbe deciso di staccarsene. O fino al momento in cui qualcun altro avrebbe preso quella decisione per lei.
Di colpo, si rese conto che i suoi passi avevano preso autonomamente a seguire una direzione diversa. Quella non era la strada dell’università.
Decise di lasciarsi trasportare dai piedi, che in quel momento parevano essere l’unica parte di lei ad avere una vaga idea di cosa stesse facendo. Ci mise un po’ a capire di essere sulla via di casa di Eric.
Non sapeva perché fosse lì. Tuttavia, proseguì meccanicamente lungo il vialetto d’ingresso e sempre come un automa suonò il campanello. Rimase lì impalata mentre dall’interno le giungeva il rumore di una sedia spostata sul pavimento e di passi che si avvicinavano ciabattando. Quando le aprì, il giovane restò di sasso.
«Muriel! Non dovresti essere all’università a quest’ora? Che ci fai qui?».
Già, che ci faccio qui?, domandò lei a se stessa. «Mi fai entrare?», chiese con voce roca, evitando la domanda.
«Ma certo».
Eric si fece da parte per lasciarla passare. Muriel entrò un po’ in soggezione. Si guardò intorno con aria circospetta. Era la prima volta che si trovava in quella casa senza Samantha. Si bloccò nell’ingresso, non sapendo bene che fare.
«Ti preparo una tazza di tè?», le chiese Eric, vedendola in difficoltà.
Lei accolse subito il suggerimento e lo ringraziò. L’uomo l’accompagnò in soggiorno e poi sparì in cucina. Mentre lo aspettava, Muriel andò a sedersi su una delle graziose poltroncine imbottite davanti al tavolino, e prese a torcersi le mani in grembo. Dopo un po’, Eric tornò con un vassoio su cui stavano poggiate una teiera colma di tè fumante e due tazze. Lo posò sul tavolo e riempì le tazze, poi gliene porse una e si sedette di fronte a lei.
«Allora», fece a quel punto. «Mi dici che ti prende? Hai una pessima cera».
Muriel prese a sorbire il suo tè in silenzio, prendendo tempo. «Hai comprato delle nuove tende», osservò dopo un po’, quando il suo sguardo vagando cadde sulle finestre.
Lui lanciò un’occhiata in quella direzione, poi tornò a voltarsi verso di lei. «Sì. Le ho prese la settimana scorsa. Quelle vecchie mi avevano stufato. Non ce la facevo più a vedere quel beigiolino triste tutti i giorni… quindi un giorno mi sono magicamente ritrovato al centro commerciale».
«Hai fatto bene. Queste sono più intonate alla stanza. E lasciano passare più luce».
Ci fu una nuova pausa.
«Hai visto quanti fiori ci sono nel viale?», le chiese Eric dopo un po’, cercando di toglierla dall’imbarazzo.
«Sì! Sono bellissimi. E spargono attorno un profumo meraviglioso».
«La primavera sta arrivando, finalmente. Quest’anno l’inverno è sembrato interminabile».
«Già».
Dopo quella frase, il silenzio prese a dilatarsi in modo intollerabile. Muriel rimase immobile con la tazza vuota in mano, incapace di dire alcunché. Ad un certo punto fece per versarsi dell’altro tè, tanto per fare qualcosa, ma le sue mani tremavano leggermente, e dovette impegnarsi per non farlo traboccare. Quando se la portò alle labbra, riuscì a prendere a malapena un sorso prima che il sapore le divenisse intollerabile. Dovette posare la tazza. Aveva la fronte imperlata di sudore.
Eric osservava attentamente ogni suo movimento con aria preoccupata.
«Tutto a posto?».
Lei annuì con difficoltà. Dentro di sé, però, sentiva il disagio crescere. A un certo punto, non riuscì più a tollerarlo.
Sollevò lo sguardo di scatto, e si ritrovò il volto accorato di Eric a un soffio dal proprio. Improvvisamente, sentì il cervello scollegarsi. Senza pensare a quello che stava facendo, si protese di scatto verso di lui e coprì in un balzo la distanza che li separava.
Le loro labbra s’incontrarono… o meglio, scontrarono a mezz’aria con violenza e quasi con stupore. Eric s’irrigidì per un istante, sorpreso. Poi il suo corpo si ammorbidì, e le mani le afferrarono dolcemente i gomiti, stringendola teneramente.
Fu un bacio strano. Molto diverso da quelli cui Muriel era abituata. Del resto, l’unica persona che avesse mai baciato era Samantha. Esplorò la bocca di Eric con determinazione, quasi con violenza, come cercando di risucchiarne il sapore… un sapore spesso, sconosciuto. Ma per tutto il tempo, ciò di cui fu maggiormente consapevole rimase il fastidioso pizzicorino della sua corta e ruvida barbetta sulle guance.
Ad un tratto, lui la scostò da sé con una lieve pressione delle mani.
Si guardarono a lungo negli occhi. Lui sembrava la stesse studiando per controllare la sua reazione. Muriel sentiva il cuore battere forte.
«Muriel… Questo… questo è sbagliato», disse Eric lentamente, con cautela, senza staccare per un attimo lo sguardo dal suo.
Muriel sentì un nodo stringerle la gola. Abbassò lo sguardo.
«Non è quello che vuoi veramente. Lo so io, e lo sai anche tu. Sarebbe troppo semplice da parte mia approfittare di un momento di debolezza da parte tua. E ti assicuro che te ne pentiresti».
Muriel annuì debolmente. Il nodo nella sua gola non accennava ad allentarsi, e a un certo punto le lacrime che aveva cercato fino a quel momento di contenere sgorgarono dai suoi occhi a fiotti incontrollabili. Dovette rimettersi a sedere per non crollare. Si coprì il volto con le mani, mentre violenti singhiozzi le scuotevano il petto.
Eric si sedette accanto a lei e le cinse la vita con un braccio. Lei abbandonò il capo contro il suo petto, inzuppandogli la camicia di lacrime salate.
«Povera piccola Muriel…», mormorò lui con tono paterno, accarezzandole i capelli. «Cosa c’è che non va?».
«Non lo so, Eric… non lo so». Aveva la voce talmente rotta che aveva difficoltà a parlare.
«È per Samantha?».
«Per lei… per tutto. È tutto così maledettamente difficile. Non lo so. Mi sembra che ogni cosa sia un’altra montagna enorme da scalare sulla mia strada, e… non credo di averne le forze».
«Ma sì che ce le hai… Ehi… ehi…». Le prese il mento e la costrinse a guardarlo. «Ricordi quando ci siamo conosciuti?».
Lei annuì.
«E ricordi cosa ti dissi? Ti dissi che quello di Samantha è un amore difficile da sopportare. È un amore tanto violento che ha il potere di corroderti, se non lo affronti. Tu sei una ragazza molto sensibile, è vero… ma questo non vuol dire che tu sia una debole».
«Invece lo sono… e non faccio che dimostrarlo continuamente a me stessa e a tutti gli altri. Io ci provo ad essere la persona che Samantha desidera, te lo giuro, ci provo con tutta me stessa… è che mi sembra di non riuscire mai a fare abbastanza. Lei è troppo esigente. Pretende troppo da me. E nonostante tutti i miei sforzi, ha sempre quella maledetta aria di sufficienza… è così mortificante…».
«Forse perché semplicemente ti stai sforzando troppo di essere qualcosa che non sei. Magari invece è lei che si sbaglia. Imparerà ad apprezzarti per quello che sei col tempo, vedrai… si accorgerà di star esagerando».
«A volte vorrei quasi che se ne andasse», esclamò Muriel all’improvviso. Quelle parole uscirono da lei come un getto di bile amara, sbalordendola. Subito si sentì male per quello che aveva detto, ma ormai il fiume era uscito dagli argini e non poteva far altro che assecondarlo. «So già che io non avrei mai la forza di lasciarla, il solo pensiero mi fa star male… però anche stare con lei mi logora, e a volte penso quasi che se fosse lei ad andarsene… se non mi lasciasse altra scelta… sarei costretta a farmene una ragione. E forse dopo starei anche meglio».
«Eppure non se ne va, non è vero?».
«No».
«E questo non è un segno?».
«È solo un altro segno che il nostro è un amore fottutamente malato!», sbottò Muriel. «È il segno che nessuna delle due riesce a staccarsene… che nessuna delle due riesce veramente a guarire. Continuiamo a farci del male… Siamo completamente diverse. E le nostre non sono di quelle diversità che si completano a vicenda: sono diversità in rotta di collisione, che sfregano l’una contro l’altra generando un terribile attrito. Abbiamo sogni incompatibili, ed è evidente che prima o poi una delle due dovrà sacrificare la propria felicità per quella dell’altra. È inevitabile che una di noi due debba spegnersi perché l’altra abbia l’opportunità di brillare».
«Muriel… ma cosa dici… Sei solo un po’ provata, adesso. Non riesci a guardare le cose con la dovuta lucidità. Ma vedrai che con una camomilla e una buona nottata di sonno passerà tutto».
No! No! Eric non capiva… non capiva… E come avrebbe potuto capire? Come avrebbe potuto una qualunque persona sana di mente capire quanto dolore le provocasse quel cancro che da tempo si era annidato dentro di lei e proliferava sempre più rapidamente infettando tutti i tessuti circostanti? Era da tempo che era consapevole dell’ingombrante presenza di quell’orrenda massa tumescente nel suo petto, e sapeva anche che quanto più le avesse lasciato il potere di espandersi, tanto più difficile sarebbe stato asportarla. E tanto più grave sarebbe stato il danno. Se avesse atteso troppo, probabilmente, l’infezione alla fine sarebbe stata tanto estesa che non sarebbe sopravvissuta alla sua rimozione. Forse, in definitiva, era già troppo tardi adesso. Solo il pensiero di separarsi da Samantha le faceva mancare il respiro…
Ma forse aveva ragione Eric. Forse stava esagerando. Forse davvero una camomilla e una nottata di sonno sarebbero bastate a sistemare tutto. Forse era lei a ingigantire sempre tutto con la sua maledetta testa.
«Ma sì», disse con un filo di voce. «Forse devo solo provare a calmarmi un po’».
«Ecco. Brava. E adesso corri all’università… se non hai già perso l’inizio del corso».
«Sì… dovrei farcela, se mi sbrigo». Si alzò a fatica e si ricompose. Si asciugò il volto, e tirato uno specchietto impolverato fuori dalla borsetta si tamponò gli occhi per sistemarsi il trucco colato. Quando ebbe finito, recuperò le proprie cose, si rimise addosso la giacchetta di jeans, si ficcò la borsetta a tracolla. «Grazie, Eric… Grazie di tutto. E scusami, davvero. Non volevo irrompere così in casa tua».
«Scherzi!? Piccola, guarda che mi offendo se mi dici così. Tu sei e sarai sempre la benvenuta in questa casa. E non esitare a rivolgerti a me ogni volta che ne senti il bisogno, chiaro?».
Muriel sentì un’ondata di affetto verso di lui. «D’accordo… me ne ricorderò. Allora, ciao».
«Ciao, tesoro. E la prossima volta, voglio vederti con un bel sorriso, mi raccomando».

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Capitolo 11
*** Tregua ***


E in effetti, il giorno dopo Muriel si era già in parte calmata.
La vita riprese a scorrere con la consueta, rassicurante monotonia, permeata da quel sottile velo di nervosismo che non le riusciva di scrollarsi completamente di dosso, e che però adesso riusciva a tenere più o meno a bada. Lei e Samantha si allontanarono per un po’, senza smettere di frequentarsi del tutto, ma come allentando la pressione in uno sforzo congiunto di limitare gli attriti. Muriel sospettò che dietro quest’improvvisa bonaccia si celasse lo zampino di Eric, che aveva interceduto per lei presso Samantha dopo il suo sfogo convincendola a deporre almeno per un po’ le asce di guerra.
Per contro, in quel periodo lei ed Eric si avvicinarono molto. Nessuno dei due fece più alcun cenno all’attimo di intimità che c’era stato fra loro, né Muriel avanzò più dei tentativi in tal senso.
Un giorno lui la convinse ad accompagnarlo alla mostra di un suo amico. Lei inizialmente era scettica, soprattutto per via dello stile un po’ particolare di quest’ultimo: aveva infatti una strana ossessione - un po’ morbosa - per gli insetti; nelle sue tele se ne trovavano continuamente, insetti di ogni specie, accostati in modo bizzarro, spesso dipinti in file ordinate fra cumuli di utensili ammassati alla rinfusa. C’era qualcosa di quei dipinti che la affascinava. Sentiva che qualcosa in quelle forme strane, in quegli accostamenti grotteschi e surreali, in quelle tinte calde, che davano un’idea dell’arsura, della secchezza, e sembravano solo con lo sguardo trasferirla in un ambiente desertico (al punto che le pareva di poter sentire i granelli di sabbia scricchiolare sotto di lei mentre il vento spostava le dune cambiando continuamente il loro assetto), la toccava nel profondo. Tuttavia, non riusciva ad abituarsi a quelle immagini stridenti. Il suo cervello si ostinava a cercare dei collegamenti che non trovava, e per questo finiva per rifiutarle.
Quando manifestò il proprio sconcerto ad Eric, lui le sorrise. «Ecco che torniamo a quel discorso che facemmo tempo fa a casa mia. Vedi… il problema è che tu ti ostini a cercare la coerenza in ciò che l’artista ti propone. Nell'arte non devi cercare coerenza. Non scrutare nel segreto della sua anima alla ricerca dell'intima contraddizione, quella contro cui potrai finalmente puntare il tuo dito accusatore. Ascolta piuttosto la voce che giunge dal profondo del tuo cuore: ascolta se la senti tremare. E se trema... se all'improvviso ammutolisce, come se non le bastasse l'aria per preferire parola... saprai che quella davanti a te è arte».
Quella frase le fece pensare a lei e Samantha. E non poté fare a meno di rabbrividire.
Assistere alla mostra in compagnia di Eric fu diverso dalle tante volte in cui lo aveva fatto con Samantha. In un certo senso, fu più piacevole. Lui non le dava l’impressione di tenerla sotto esame, come se valutasse ogni suo passo, ogni parola, ogni mutamento d’espressione; con Samantha, era perennemente tesa per paura di deluderla in qualche modo. Eric invece non si aspettava nulla da lei. L’aveva portata lì non per verificare il suo interesse o la sua sensibilità, ma solo per il piacere di condividere qualcosa. Non sentiva l’esigenza di imporle un punto di vista. Non considerava il proprio superiore a prescindere. Si mostrava piuttosto aperto al confronto, ed era anche pronto a lasciarsi arricchire dal suo pensiero, qualunque esso fosse. Quando Samantha non era d’accordo con lei, si limitava ad alzare gli occhi al cielo, spazientita.
Quanto avrebbe dato per poter sperimentare con lei la sensazione che provava con Eric…
Se solo fosse stata in grado di amarlo davvero, sapeva che con lui sarebbe stata sicuramente più felice. Ma purtroppo, non era possibile. Continuava a scrutarlo, sbirciando il suo sguardo mentre si soffermava davanti a un dipinto e inclinava il capo, assumendo quel cipiglio a lui tanto familiare, gli occhi socchiusi per la concentrazione, ma non con sforzo, semmai con una certa rilassata indolenza, come se i pensieri passassero attraverso le sue palpebre con la leggerezza di una brezza marina… e non vedeva in lui nient’altro che un amico, una persona su cui contare. Non c’era un decimo di quella passione violenta che sentiva irrompere dentro di lei ogni volta che guardava Samantha… anche quando litigavano, anche quando avrebbe voluto picchiarla per quanto le faceva male… anche quando le sue parole la ferivano fino a farla piangere.
Era forse la sua solo una concezione distorta dell’amore?
Non era forse quel timido ma rassicurante sentimento che provava per Eric più vicino all’amore di quell’ardore focoso e distruttivo che la legava come una catena indissolubile a Samantha? Forse in fondo confondeva amore e violenza?
Un giorno, mentre tornava a casa da un giro di acquisti (era andata in centro a comprare un regalo di compleanno per sua madre), si trovò ad assistere a una scena commovente.
Faceva un caldo bestiale. L’autobus su cui era salita sembrava un carro bestiame… e naturalmente non c’era aria condizionata. Si sentiva soffocare. Continuava a ricevere gomitate nelle costole da parte della sua vicina, una signora di mezza età che le arrivava alla spalla con un gigantesco cappello piumato che le faceva il solletico al collo, e per quanti sforzi facesse non riusciva a spostarsi per via della calca. Avrebbe voluto ucciderla.
Poi il suo sguardo cadde sul finestrino, dove due cinesi, padre e figlio, giocavano a tris. Il bimbo continuava a disegnare griglie sempre più grandi su quelle precedenti, non capacitandosi di come il padre riuscisse ad averla sempre vinta. Quando segnava col dito una fila di tre X, il bambino restava perplesso a fissarla, con l'uomo che lo osservava pazientemente. Ma durava solo un attimo. Qualche secondo, e il bimbo si accaniva di nuovo sul gioco, alitava sul vetro per cancellare la griglia e ne disegnava subito un altra, applicandovi fieramente il proprio segno (regolarmente quello con cui il padre l'aveva appena sconfitto). Non demordeva.
A un tratto il padre, dopo un quarto d’ora che andava avanti così, sbagliò volutamente per consentire al figlio di allineare finalmente tre palline. Il piccolo osservò ad occhi sbarrati il vetro. Quando realizzò d'aver vinto, scoppiò in una risata argentina.
Quella risata ruppe il velo di tensione che permeava i corpi inquieti accalcati attorno a loro. Fu come se dal finestrino un fascio di luce fosse sceso a illuminare solo quel piccolo angolo di pace tra tutte quelle facce scure, abbrutite dal brusco risveglio, dalle fretta, dalla fatica.
Il bimbo, finalmente soddisfatto, abbandonò il campo di battaglia e si lasciò andare sulla spalla del padre, emettendo un sonoro sbadiglio. L’uomo sorridendo gli accarezzò la testa. Una vecchia signora lì vicino li guardò di traverso perché stavano invadendo il suo spazio.
Come puoi odiare un mondo in cui succedono cosa del genere?, pensò Muriel, sentendo anche le proprie labbra tendersi suo malgrado in un sorriso... un sorriso che si fece strada come una crepa tra i suoi pensieri ombrosi, lasciando che un po' di luce penetrasse in quella gabbia oscura.
Ma ecco che era già quasi la sua fermata. Cominciò a farsi lentamente strada verso la porta. La vecchia signora di prima le lanciò un'occhiataccia quando la urtò inavvertitamente per passare. Ma stavolta non ebbe il potere di turbarla.
Quello era amore, pensò, mentre l’autobus ripartiva. Quello che ti spinge a cercare il bene della persona che ami al di sopra di ogni altra cosa, anche del tuo stesso ego, perché la sua felicità fa star bene anche te. Quello che spinge un padre a darla volutamente vinta al figlio pur di ascoltare il suono della sua risata. Quello che ti spinge nelle liti a fare un passo indietro pur di non rovinare il rapporto.
Volse lo sguardo alle sue spalle, verso lo squarcio di cielo che penetrava dal triangolo formato dalle due file di edifici ai bordi della strada, laddove le sue due estremità si congiungevano idealmente in un punto da cui sbocciava la vastità della volta celeste. Si stupì del loro colore: un rosa acceso, che appariva quasi finto nella sua incredibile vividezza, quasi un angelo dispettoso vi avesse versato sopra un secchio di vernice. Il rosa sfumava in modo netto in un azzurro altrettanto innaturale. Le case e i palazzi si stagliavano su quello strano cielo come casette di pongo, ed era incredibile il contrasto tra il colore scuro di quelle forme estremamente corpose e quello dell'azzurro-rosato su cui si campeggiavano, sul quale stavano come accovacciati batuffoli di nubi dalla consistenza altrettanto gommosa, simile a quella di un marshmallow.
C’è qui un angolo di bellezza, pensò. Un angolo di bellezza in mezzo al brutto, allo squallore… che nasce proprio dove batte il mio cuore.
E nel pensarlo si posò una mano proprio lì, sul cuore, che batteva effettivamente come un placido tamburo, scandendo il ritmo regolare della sua vita. Chiuse gli occhi e inspirò a fondo tonnellate di smog ma anche di ossigeno fresco, che le accarezzava leggero i polmoni. Si sentì in pace.

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Capitolo 12
*** Colpo di grazia ***


Il rumore di un piatto di porcellana che si infrangeva sul pavimento ruppe il silenzio.
«Piantala!», urlò Muriel. «Piantala di trattarmi come se fossi l’ultima delle merde sulla tua strada! Forse non hai capito che non sono il tuo burattino, ma una persona, fatta di carne e sangue, con dei sentimenti! Stronza a me non me lo dici. Ci sono tanti cani al mondo che puoi chiamare stronzi. Io non sono un cane, e tu non hai alcun diritto di trattarmi come tale. Solo io posso, di quando in quando… certi giorni in cui mi odio e ho ragione di farlo. Tu non hai alcun diritto di spingermi ad odiare me stessa senza motivo, per i tuoi stupidi capricci!».
Samantha durante la sua sfuriata la guardò ad occhi sgranati, sbalordita. Non si sarebbe mai aspettata una sfuriata del genere. Quando il piatto aveva urtato il pavimento andando in mille pezzi con gran fragore, aveva sussultato.
Si udì in sottofondo il pianto di Francesco, spaventato da quello scatto improvviso. Ma nessuno lo degnò della benché minima attenzione.
Lei e Muriel si guardarono a lungo in silenzio, Muriel con sguardo affranto e rabbioso allo stesso tempo, sull’orlo delle lacrime e quasi ansante; Samantha ancora impietrita. Poi Muriel le voltò le spalle e se ne andò a larghi passi. Prima di uscire, afferrò il giubbotto sull’attaccapanni. Stava per uscire, quando si fermò di botto.
«Ah», esclamò, guardando Samantha che la fissava ancora ad occhi sgranati. «Un’ultima cosa. Jane Austen era una delle autrici preferite di Virginia Woolf… la tua paladina. Nel caso non lo sapessi». Poi uscì e sbatté la porta dietro di sé con violenza.
Era notte. La strada scarsamente illuminata scorreva confusa sotto i suoi occhi attraverso il velo delle lacrime, che ora le rigavano copiose le gote mentre il suo corpo era scosso da violenti tremiti che non erano dovuti al freddo.
Lo scenario della città notturna si estendeva sotto i suoi occhi come un blocco di bronzo compatto, su cui la luce dorata dei lampioni scolpiva le forme di porte, tegole, alberi e persiane, lasciando oscure porzioni d’ignoto nella massa grezza delle zone in ombra, laddove il fascio di luce si scontrava contro un ostacolo alla sua opera di mirabile artigiano.
Non ricordava più precisamente da dove fosse partita la discussione con Samantha. Probabilmente era qualcosa di completamente irrilevante, a cui entrambe si erano appigliate per avere qualcosa su cui azzannarsi. Anzi, Samantha vi si era appigliata per avere qualcosa su cui azzannarla. Lei, come al solito, aveva subito passivamente la sua ira ingiustificata finché non aveva sentito quell’impeto di ribellione salirle prepotente alla gola.
Da quando avevano affittato quell’appartamento per andare a vivere insieme, le loro liti erano triplicate. La condivisione di spazi, il vedersi tutti i giorni ventiquattrore su ventiquattro avevano contribuito a gettare legna su quel focolare già fin troppo rovente, e ora le fiamme eruttavano fuori dai loro argini sempre più spesso come lupe fameliche, avide di divorare tutto ciò che incontravano sul loro cammino.
Samantha, come sempre, aveva finito per fare leva su uno di quelli che sapeva essere i punti deboli di Muriel.
«Sai perché non ti trovi a tuo agio con i miei amici?», le aveva detto con tono tagliente. «Perché non hai interessi! I miei amici sono tutti impegnati in qualche ambito… Hanno dei sogni… delle ambizioni. Qualche aspirazione. E tu? Che cazzo fai tu? Non ti interessa niente che non sia la tua stupida, fottuta, noiosissima vita quotidiana… sempre uguale. Per questo quando ti parlano stai sempre lì a guardarli con quella faccia da pesce lesso, e finisci per sentirti a disagio tu e mettere a disagio anche loro. A parte la fottuta università e una marea di altre futilità, che cosa fai tu nella tua vita, eh? Ti piace leggere. Leggi. Ma quando si tratta di dare un tuo parere su qualcosa, stai sempre lì a tentennare, come se avessi paura di avere una tua opinione, e le parole bisogna tirartele fuori con le pinze. Mai che dimostrassi di avere un po’ di palle. A parte con me… e Eric».
«Che cosa diamine c’entra adesso Eric?!».
«C’entra eccome. Con lui sì che non hai problemi ad aprirti. Sei sempre “Eric di qua… Eric di là… Eric ha detto questo… Eric ha detto quello…”… neanche fosse il Padreterno!».
«Ma che cazzo stai dicendo? Non ti rendi conto di essere ridicola?».
«Sei tu ad essere ridicola. Nel modo in cui gli sbavi dietro. Sei assolutamente patetica. E pensi pure che non me ne accorga. Fortunatamente lui è troppo intelligente per dare spago a una nullità come te».
Muriel allora aveva sentito un fiotto di bile salirle alla gola. «Ah sì?», aveva esclamato con rabbia. «Perché non vai a chiedergli perché, allora, quando l’ho baciato, tempo fa, lui ha risposto al mio bacio?».
Samantha era rimasta spiazzata. «Vi siete baciati?», aveva detto con voce roca dopo una pausa di silenzio, lentamente.
Il cuore di Muriel batteva all’impazzata. Avrebbe voluto rimangiarsi subito le proprie parole, ma ormai era troppo tardi, e la bomba era stata sganciata. «Sì», rispose allora, con una decisione che non sentiva di avere. «E anche a lungo. E sai una cosa? Se solo avessi insistito… la cosa non sarebbe finita lì». Mentre lo diceva, sentiva un enorme groppo fermo nella gola.
Aveva visto un lampo di sofferenza passare negli occhi di Samantha. E in quel momento si era sentita attanagliare dal senso di colpa. Ma era stato solo un attimo. Poi Samantha aveva chiuso gli occhi, aveva fatto un respiro profondo, e quando l’aveva guardata di nuovo il suo sguardo era nuovamente acceso da quella luce sprezzante e ironica che detestava.
«Sciocchezze. Gli hai fatto pena. Ecco tutto».
«Non è vero!», era sbottata Muriel. «Semplicemente, lui si sforza di guardare il buono che c’è in me, invece di vomitarmi sempre cattiverie addosso come fai tu. E ce n’è tanto. Solo che tu sei troppo occupata a prenderti cura del tuo smisurato ego. Lui no. Lui è una persona molto sensibile e premurosa, e mi ha aiutata tantissimo… a differenza tua che non hai fatto altro che cercare di distruggermi in ogni modo possibile».
«Sei solo una schifosa troia…», aveva sibilato Samantha.
«Ah io?». Muriel aveva alzato la voce. «Chi è che a ogni cazzo di festa a cui andiamo prova l’esigenza di strusciarsi su ogni creatura che respira, che abbia l’uccello o meno, pur di dimostrare il suo incredibile potenziale di seduzione? Io forse?».
«Brutta stronza…».
E lì Muriel aveva perso del tutto la testa.
Non sapendo bene dove andare, vagò un po’ per le strade semideserte come un automa. Di tanto in tanto, delle macchine solitarie passavano e illuminavano l’asfalto con i loro fanali gialli. Le loro luci apparivano incredibilmente irreali, aliene. Avevano un bagliore quasi metallico. Muriel le sentiva penetrarle nelle ossa come un’ondata gelida, e ogni volta si stringeva nel giubbotto come per difendersi.
Dopo un po’, iniziò a piovere.
Muriel si sedette su una panchina, stordita. Le fronde di un albero sopra la sua testa la riparavano appena dalla pioggia, che si faceva sempre più torrenziale, ma lei sembrava non curarsene. Presto, fu completamente zuppa.
Non seppe dire quanto tempo fosse passato quando, dopo che ebbe iniziato un po’ a spiovere, si alzò finalmente dalla panchina e si diresse barcollando verso casa.
Le luci alle finestre erano ancora accese, le uniche in tutto il vicinato. Davanti alla porta, armeggiò un po’ con le chiavi prima di riuscire ad aprire. Quando vi riuscì, udì delle voci provenire dall’interno e si bloccò di scatto, restando fuori dalla porta. Era Samantha.
«…e poi se ne è andata. Così. Senza aggiungere altro. Dio, non so che cazzo le sia preso».
La voce che le rispose proveniva da un apparecchio telefonico. Era quella di Eric.
«Non so che dirti tesoro… ma avevate discusso?».
«Sì». Ci fu una lieve esitazione. «Mi ha detto… mi ha detto che vi siete baciati».
Silenzio.
«È vero?».
Muriel socchiuse leggermente la porta per sbirciare all’interno. Intravide la figura di Samantha seduta al tavolo del soggiorno. Aveva la testa sprofondata nel palmo della mano, e di fronte a lei c’era il telefono da cui proveniva la voce di Eric. Era troppo presa per accorgersi di lei. Al suo fianco c’era il piccolo Francesco, gli occhi ancora rossi di pianto, che la fissava con accoramento senza osare fiatare e ogni tanto le si stringeva addosso, senza però ricevere grande conforto.
«Sì, è vero», ammise Eric dopo una lunga pausa. «Ma è successo tanto tempo fa… È venuta a casa mia. Era visibilmente sconvolta. Mi si è buttata fra le braccia… e non sapevo che fare. Ma non c’è stato niente, davvero. Solo quel bacio. È stato… in quel periodo in cui litigavate in continuazione, quando aveva da poco iniziato l’università. Ricordi? Ne parlammo insieme, e ti dissi di lasciarla in pace per un po’».
Samantha aveva la mascella contratta.
«Perché non me ne hai mai parlato?».
«Non mi sembrava il caso. Te l’ho detto, è stato solo un momento di debolezza. Non è successo niente dopo. Ho pensato fosse meglio archiviare l’episodio. Se l’ha ritirato fuori adesso… probabilmente è stato solo perché era arrabbiata, e voleva ferirti in qualche modo».
«A volte davvero non la sopporto», sbottò Samantha. «Vorrei ucciderla. Sul serio. È come se dentro di lei fosse in frantumi e non riuscisse a mettere insieme i pezzi, ma si sforzasse di apparire integra agli occhi degli altri… senza avere ben chiaro in testa quale immagine di sé vuole dare. E alla fine i suoi sforzi si traducono in una continua ricerca d’approvazione. La cerca negli sguardi, nei gesti, in una lieve contrazione delle labbra… con la disperazione con cui un cane bastonato elemosina una carezza. E a ogni cenno che indichi il suo fallimento la fragile facciata crolla e dietro puoi leggervi tutta la sua sconfitta. Non cerca di combattere. Non si sforza di dimostrare il suo valore. Semplicemente, si arrende. Smette di lottare. Accetta passivamente qualunque tipo di insulto. È questo che mi manda in bestia».
«Samantha… forse sei troppo dura con lei. Dopotutto, è solo un po’ insicura. Tutti lo sono, in fondo, chi più chi meno. Immersi nella violenta tempesta che ci si agita dentro, barcolliamo sotto la furia degli elementi, e non ci riesce di guardarci con la dovuta freddezza. Per questo non è dato a noi definirci, ma agli altri. Noi procediamo a tentoni, incapaci di accendere una luce sul buio in cui brancoliamo per analizzare le cose e istituire i dovuti collegamenti: abbiamo troppa paura (una paura spesso inconscia) di certi angoli… che sotto quel getto implacabile perderebbero il sicuro vestigio delle tenebre… Un osservatore esterno è più imparziale. Quindi… è normale cercare l’approvazione degli altri».
«Sì, ma lei lo fa in modo morboso! A ogni passo si guarda intorno come se cercasse un cenno di assenso. Non ha personalità! Lascia che siano gli altri a dipingerla per lei. Mai che si sforzasse di prendere in mano la sua vita e si cavarne qualcosa di buono. Tempo fa ho scoperto che scrive, sai?».
Muriel sussultò.
«Ah sì?».
«Sì. Tiene un diario su cui annota pensieri e stati d’animo… ma non solo. Fa delle bozze di racconti niente male… anche se li lascia quasi tutti incompiuti. E scrive anche qualche poesia. Ha uno stile molto fluido… non impeccabile, ma se ci lavorasse un po’ potrebbe cavarne qualcosa di buono».
«Non te ne aveva mai parlato?».
«Mai. Ho trovato il diario nel cassetto del suo comodino. Per caso. Non so cosa stessi cercando. Quando ho provato a parlargliene… cercando di convincerla a far leggere i suoi scritti a qualcuno… a pubblicarli magari… mi ha aggredita. Mi ha intimato di non mettere le mani nelle sue cose, e ha detto che sono una ficcanaso e che non ho il diritto di intromettermi nelle sue questioni personali. Ma io volevo solo aiutarla, te lo assicuro! Non era mia intenzione invadere i suoi spazi… semplicemente penso che abbia del talento e volevo convincerla a metterlo a frutto! Ma lei… niente. Sempre questa cazzo di chiusura mentale».
«Dai… cerca di capirla. È una persona riservata. Non le piace condividere le sue cose persi suoi sentimentionali».
«Ho capito, ma lei è troppo riservata! Ai limiti della psicosi! Dovrebbe andare in analisi. Non sto scherzando!».
«Vabbè, adesso stai esagerando. Diciamo che pure tu non è che sei un tipino semplice».
«Sinceramente, non penso di essere una persona orribile come lei mi dipinge. Voglio dire, c’è molto di peggio in giro. Vuole farmi passare per una vipera che cerca in tutti i modi di distruggerla. Sì è vero, a volte sono deliberatamente crudele. Ed egoista, anche. Sto male, e dico agli altri delle cose solo per il gusto di farle star male quanto me, per sentirmi meno strana, meno sola. Riesco a farli sentire in colpa persino quando hanno ragione, a volte. Il problema è che dopo mi sento pure peggio…».
«Ecco appunto».
«Sì, lo so che sbaglio. Ma non posso farci niente. Sono fatta così. E da una parte… sono anche contenta che non tutto vada sempre nel verso giusto, perché almeno mi lascia l’opportunità di ribellarmi per cambiare la situazione. Sono grata ai miei oppressori perché mi danno una ragione per lottare, e per dimostrare ogni giorno che sono viva e ancora in forze, e che nessuno può buttarmi giù. Muriel invece… è una bambola di porcellana. Se non la tratti con i guanti… si rompe».
«Si può amare una persona anche se non è perfetta. Anzi, la si ama di più proprio perché non lo è. In fondo, in ogni persona è contenuto materiale sufficiente per amarla o per odiarla. Si tratta solo di quale frazione del totale si vuol prendere in considerazione. E se anche il bene fosse una frazione infinitesimale, sepolta sotto un oceano di sterco, la si può amare, volendo, anche solo per quella frazione infinitesimale. Basta volerlo».
Ci fu una pausa.
«Capisco quello che dici», riprese Samantha dopo un po’, con voce più grave. «Credimi. Lo capisco, ma… non so se io lo voglio ancora».
Muriel sentì il proprio cuore fermarsi.
«Non è questione di volerlo. Tu la ami, Samantha. Non credo tu possa farci qualcosa. Solo accettarlo».
«Siamo troppo diverse, Eric… non troviamo nessun punto di contatto. Ormai ho l’impressione che stiamo insieme solo per inerzia… e sai che detesto l’inerzia. Forse… dovremo chiudere. Stavolta in modo definitivo».
Muriel si sentì mancare. Si aggrappò alla maniglia, perché all’improvviso aveva l’impressione di non avere più le forze per tenersi in piedi. Provò più volte a deglutire, ma la sua gola era secca… riarsa.
Non poteva tollerare di sentire un’altra parola. Senza nemmeno curarsi di chiudere la porta, si dileguò nella notte, lasciando cadere le chiavi nel fango.
Arrancando con passo pesante, si rese improvvisamente conto che tutta la sua vita, ogni istante, a partire da quel giorno, anni prima, in quel villaggio turistico, aveva ruotato intorno a Samantha. Era stata abbastanza incosciente da far sì che tutti i rami della sua esistenza si articolassero intorno a quell’unico fusto, e non aveva neanche tentato di costruirsi una via di fuga, una strada su cui fuggire nel caso non avesse funzionato. Persino l’università… persino quella era stata in fondo più che altro un modo per conquistarsi la sua stima. Si era sempre sentita inferiore a lei, e il suo amore folle e disperato l’aveva spinta a cercare per tutta la vita un modo per sentirsi all’altezza dell’unica cosa al mondo che riusciva a farla sentire veramente viva, l’unica cosa per cui senza accorgersene aveva sempre sentito che valesse la pena vivere. Tutto il resto erano solo inutili orpelli.
Con Samantha era stata spesso male, al punto che avrebbe desiderato cancellare se stessa pur di smettere di soffrire, dal momento che non era in grado di cancellare lei. Aveva sempre saputo in cuor suo che fra loro due non poteva funzionare, e spesso - come quella volta da Eric - si era anche detta che forse sarebbe stato meglio se si fossero separate. Ma erano solo pensieri astratti. La verità era che non sarebbe mai stata davvero in grado di lasciarla. E se ne rendeva conto sul serio soltanto adesso, adesso che - dopo le parole di Samantha - le riusciva di guardare in faccia la sua vita nella solitudine, e non scorgeva altro che un immenso baratro. Inutile cercare di immaginare un futuro. Inutile pensare di ricostruire qualcosa sulle macerie di ciò che era stato distrutto. Quelle tenebre non erano solo lo sfondo dell’assenza, erano un buco nero che inghiottiva ogni cosa, che ingurgitava tutte le fondamenta che avrebbe potuto collocarvi. Il vuoto era come una nera palude, in cui non c’era spazio se non per la disperazione, e qualcosa di peggio della disperazione, che è l’apatia… la noia della vita e di tutte le sue futili distrazioni.
Questo era ciò che le restava senza Samantha.
E di colpo, seppe cosa fare. E quella consapevolezza le apparve così chiara che d’improvviso sentì l’angoscia svanire e una strana pace scendere su di lei, come se tutto fosse già stato compiuto e il suo corpo e la sua anima fossero gettati in una dimensione in cui non c’era più dolore, né frustrazione.
Non restava che un’unica cosa da fare ormai.

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Capitolo 13
*** Samantha ***


Il suo corpo fu ritrovato, giorni dopo, in riva ad un fiume. Vicino a lei, un’intera fiala di sonniferi. Vuota.
Ci vollero parecchie persone a placare i violenti spasmi della madre venuta a riconoscere la salma, e mesi di terapia non servirono a farla risalire dall’abisso in cui la morte della figlia l’aveva precipitata. Morì dopo un paio d’anni, e sembrava che in quel tempo fosse invecchiata di venti. In molti sostennero che si era lasciata morire per il dolore. E nessuno fece fatica a immaginarlo.
“Una ragazza così giovane e sana…”. La frase sulla bocca di tutti. È impossibile, in queste circostanze, impedire alla gente di pronunciare questo genere di frasi stereotipate. Se nessuno lo fa, gli altri si sentono quasi in dovere di colmare quella lacuna, anche se nessuno crede davvero che questo possa alleviare la sofferenza dei parenti. Semmai, provoca solo una certa irritazione. Ma si sopporta con pazienza… perché non si può fare altrimenti.
Il giorno del funerale, Samantha era presente all’interramento, con un ombrellino nero a ripararla dalla pioggia. Era vestita in modo sobrio, con colori scuri, per una volta struccata e senza nessuna concessione all’estetica. Non piangeva. I suoi occhi erano vitrei, assenti, come globi di ghiaccio immobile. Fissavano un punto imprecisato oltre la bara, sordi alle parole di chi la circondava.
Quando tutti furono andati via, tornò da sola nella chiesa ora deserta. Entrò e si fermò proprio al centro della navata. Fece un respiro profondo.
Sapeva che con lei Muriel si era sempre sentita in soggezione. Aveva sempre avuto l’impressione di poterla manipolare senza problemi… e infatti lei le si abbandonava con una remissività che la lasciava ogni volta esterrefatta. Proprio per questo spesso non le riusciva di sfoderare su di lei tutto il potere di cui era in possesso… perché provava per lei una tenerezza incredibile, anche se non l’avrebbe mai ammesso davanti ad anima viva.
Eppure… sapeva che c’era qualcosa di lei che non era mai stata in grado di cogliere.
Era troppo lontana… Persino quando si credeva tanto al di sopra, in realtà era solo lontana. Lontana dall’unica cosa al mondo - adesso lo capiva - che avrebbe desiderato possedere. Muriel era irraggiungibile per lei almeno quanto ella credeva esserlo Samantha.
Si amavano alla follia, eppure erano state incapaci di amarsi fino in fondo.
L’orgoglio da una parte, il timore dall’altra, avevano impedito alle loro anime di fare il passo che serviva a riempire il vuoto che le separava. Solo a tratti, per brevi istanti, erano riuscite veramente a toccarsi.
Ma erano stati attimi di indimenticabile estasi… attimi che - ah! Perché le era finalmente chiaro solo adesso… solo adesso che era troppo tardi? - non avrebbe saputo rivivere con nessuno.
Ma ormai non c’era niente da fare. Muriel aveva saputo scorgere l’avvento della propria fine, e aveva saputo accoglierla, anzi ne aveva accelerato il corso. Era così pura, lei… così ingenuamente pura… e ingenuamente fedele.
Samantha non si era mai accorta… non se ne sarebbe mai resa conto del tutto, probabilmente… di quanto la invidiasse per questo. Era come se laddove negli occhi di Muriel c’era una finestra limpida, davanti ai suoi campeggiasse una gigantesca e variopinta vetrata arabescata, i cui colori sgargianti, filtrando la luce, la riflettevano sul suo volto in mille diverse sfumature. Che le impedivano di vedere il vero colore del sole.
Anche adesso era lo stesso.
E difatti, con un dolore nero che ancora traboccava nel petto, un dolore che avrebbe potuto a momenti farla esplodere, Samantha si costrinse a farsi forza e alzò le spalle. Sollevò il volto, guardando il rosone arabescato oltre l’altare. Frugò nella borsa cercando una sigaretta. L’accese, e prese una lunga boccata. Come se avesse ancora mille altre cose da fare. Come se la sua vita non fosse finita in quel momento.
Di colpo, si voltò e attraversò la navata a passo deciso, dirigendosi verso l’uscita. I suoi passi rimbombarono come cupi rintocchi sul pavimento.

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