Seasons

di ValentinaRenji
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Rain ***
Capitolo 2: *** Cold ***
Capitolo 3: *** Fog ***
Capitolo 4: *** Why? ***
Capitolo 5: *** Party ***
Capitolo 6: *** Past ***
Capitolo 7: *** Problems ***
Capitolo 8: *** Orphanage ***
Capitolo 9: *** Snow ***
Capitolo 10: *** Desire ***
Capitolo 11: *** Lunch ***
Capitolo 12: *** Hawaii! ***
Capitolo 13: *** Sun ***
Capitolo 14: *** Restaurant ***
Capitolo 15: *** Revenge ***
Capitolo 16: *** Lost ***
Capitolo 17: *** Son ***
Capitolo 18: *** Far away ***
Capitolo 19: *** Betrayal ***
Capitolo 20: *** Miss You ***
Capitolo 21: *** Come back ***
Capitolo 22: *** Epilogo ***
Capitolo 23: *** Extra n° 1 ***
Capitolo 24: *** Extra n° 2 ***
Capitolo 25: *** Extra n° 3 ***



Capitolo 1
*** Rain ***


CAPITOLO 1:     Rain


“Kami … che brutto tempo …”
La pioggia gelida precipita dal cielo grigiastro, pallido, coperto da una fitta coltre di nubi dense, affollate, cariche da giorni ormai e ancora sembrano non voler smettere di piangere tanto fortemente.
Le strade di Tokyo sono affollate da un andirivieni di persone continuo, un brulicare di piccole formiche colorate armate di ombrello e stivali da pioggia, cappotto pesante, guanti e sciarpa. Novembre è appena arrivato e con sé ha portato il gelo, le lunghe giornate plumbee e umide, la foschia algida della notte che arriva sempre più presto, sgranocchiando le ore di luce come un tarlo.
Grimmjow si massaggia i capelli bagnati, tamponandoli con un asciugamano improvvisato mentre assapora con piacere il caldo tepore interno all’edificio, rassicurante, rinvigorente.
Butta l’occhio, azzurro come il cielo d’estate, sull’orologio al polso e controlla l’orario: 8.00 in punto, perfettamente giusto, anzi, a dir la verità anche in anticipo a giudicare dall’atrio vuoto della grande struttura; il palazzo, come la maggior parte di quelli della gigantesca città, è decisamente alto, ripartito in una moltitudine di piani, scale, ascensori, ampie vetrate che mostrano il mondo dall’alto, come se ci si trovasse in paradiso. Eppure quello non è esattamente l’Eden, anzi, talvolta potrebbe risultare l’esatto contrario, soprattutto quando le pratiche da svolgere si accumulano le une sulle altre in piramidi invalicabili oppure quando clienti troppo spocchiosi, o altresì troppo esigenti, sembrano volerti corrodere l’anima con le loro lamentele o ti fanno perdere un sacco di tempo prezioso.
L’atrio è spazioso, le pareti bianche delimitano la vasta area tappezzata da un mobilio grigio, metallico, moderno ma essenziale. Al centro si trovano diversi sportelli di informazione e consulenza rivolti al pubblico ma al momento devono ancora essere aperti; un leggero odore di vaniglia emesso dai diffusori per ambiente pervade dolcemente la stanza, contrastando con il meteo aspro e impervio che scuote le strade e le autovetture all’esterno. Il ragazzo socchiude gli occhi, passando una mano fra le ciocche turchesi ancora umide, assaporando quell’aroma delicato e la quiete del mattino, tranquillità che sarebbe ben presto sfumata con l’arrivo dei colleghi e, soprattutto, dei clienti.
La sala si biforca poi in vari corridoi, abbelliti da quadri colorati tenuamente, astratti, le cornici dal design sottile ed elegante; a indicare i vari uffici ai piani superiori e le loro diverse funzioni un cartello rappresentante una mappa dei piani arricchita da simboli e frecce facilmente comprensibili.
“Buongiorno Grimmjow, hai già bevuto il caffè oggi?”
Un uomo dai capelli argentati e lo sguardo beffardo, quasi socchiuso, scruta felino Grimmjow senza mai assopire il tagliente e ironico sorriso impresso sulle labbra sottili. La sua carnagione è chiara, anzi, chiarissima, talmente pallida da sembrare un raggio di luna.
“Avvocato Gin, buongiorno a lei.” Mormora l’azzurro, corrucciando le sopracciglia: ecco, il suo momento di serenità è già terminato. Sbuffa impercettibilmente, fra sé e sé: in fondo lo sapeva bene che non quell’attimo magico non poteva durare in eterno. Eppure Ichimaru Gin, di prima mattina fra l’altro, era simile al corvo della disgrazia. Certo, non che portasse cattive notizie, ma quella sua aria perennemente divertita, il sorriso fittizio sempre impresso nel viso affilato gli danno un certo che di pericoloso, malvagio, insano. Non sa perché eppure è questo ciò che gli trasmette ogni volta, da tre anni ormai, da quando è stato assunto a lavorare in quel grande edificio dedito al lavoro sociale.
“E il caffè l’hai bevuto si o no?” ghigna l’avvocato passando un dito sottile sulla propria guancia candida.
“No, non ancora.”
“Ohh allora accompagnami in ufficio, beviamolo insieme, così mi farai compagnia. Il direttore deve ancora arrivare ed io sono tutto solo.”
Si sistema il maglione nero, elegante, dalle cui maniche spuntano i risvolti di un’altrettanto pregiata camicia, della medesima tinta. Si sfrega le mani sulle braccia, mostrando due iridi color ghiaccio, tanto chiare da sembrare trasparenti.
“Fa proprio freddo oggi eh, Grimmjow?”
Il giovane annuisce sbottonandosi il cappotto lungo e grigio, bottone dopo bottone. Piccole goccioline d’acqua cadono sul pavimento lucidissimo, punteggiandolo di luce. Lo appoggia sull’attaccapanni, racimola cellulare e portafoglio per poi avviarsi con il collega verso la rampa di scale.
I loro passi riecheggiano rimbalzando sui muri freddi, il silenzio è pungente come il freddo di questo inverno piovoso.
“Cosa fai oggi Gin? Stai giù o aiuti il capo?”
L’altro schiude ulteriormente la smorfia, voltandosi appena verso l’interlocutore.
“Oh, ancora non lo so. In teoria oggi non ho appuntamenti perciò credo di stare giù allo sportello. Ma se il direttore vuole una mano con le scartoffie non posso rifiutare.”
Il secondo piano si illumina di un bianco artificiale, prodotto dai faretti a neon posizionati sul soffitto bianco. Dalle grandi vetrate si può osservare l’uggiosità incombere sul grigiore dell’asfalto, sulle insegne colorate dei negozi sottostanti, sui taxi parcheggiati ai margini della strada. Grimmjow punta l’occhio su alcuni studenti, forse poco più giovani di lui, che sfidano il maltempo con ombrelli e giubbotti impermeabili, stringendo forte lo zaino e correndo lungo il marciapiede.
Probabilmente sono in ritardo. Riflette, senza distogliere le iridi cerulee dal via vai di persone: e pensare che anch’io potrei ancora essere al loro posto…
Un profumo denso e amaro gli punge le narici, inebriante, distogliendolo dalla folata di pensieri nella mente:
“Grazie.”
Afferra cautamente il bicchierino di plastica bianca colmo fino all’orlo, sottraendolo dalla mani affusolata di Gin che glielo stava porgendo gentilmente anche se troppo ravvicinato al volto dai lineamenti decisi, mascolini.
“Di nulla!”
Con il costante ghigno schiuso fra le labbra mescola divertito lo zucchero nel proprio caffè, lanciandosi sulla sedia girevole e stiracchiando gli arti, simile ad un gatto appena sveglio.
Il profumo di Ichimaru, fragranza pregiata dalle note delicate, invade la stanza ombreggiata prevaricando l’aroma di vaniglia.
“Hai dormito male?” domanda l’altro con disinteresse, forse senza nemmeno accorgersi di aver appena pronunciato una frase.
“Hmm .. no, non proprio male. Ho solo faticato a prendere sonno, forse ho assunto troppa caffeina durante la giornata. Ma d’altronde … non ho nemmeno il tempo per mangiare … in qualche modo devo tenermi su.”
Dalla tasca dei pantaloni bianchi estrae una caramella alla menta, scartandola rumorosamente e ficcandola in bocca:
“Vuoi?”
Grimmjow, il bicchiere ancora mezzo pieno fra le mani, scuote la testa in segno di diniego, senza celare un lampo di disgusto:
“No grazie … non amo l’accoppiata caffè+menta.”
“D’accordo. Uff, oggi sembra proprio che la pioggia abbia reso tutti ritardatari vero? Va be dai raccontami qualcosa allora … come procede il lavoro?”
“Complessivamente bene … ormai ho imparato a memoria tutte le normative e le leggi… anche se cambiano continuamente.”
“Potevi fare l’avvocato come me.”
“Non credo, non fa per me. Preferisco rimanere un operatore sociale.”
“Cosa ci trovi di bello nel passare tutta la giornata ad ascoltare gente frignona che ti spiattella in faccia i suoi problemi? Cioè dico io … cavoli loro … nemmeno ti pagano.”
“E tu cosa ci trovi di divertente nello spillare soldi alla gente che ha bisogno d’aiuto e lo implora a te?”
“Ma come siamo sentimentali …”
“Non è questo. Semplicemente non devi criticare la mia attività, poiché la tua non dovrebbe essere tanto diversa. In fondo sei qui solo come consulente, non dovresti accalappiarti chi ti chiede aiuto con servizi extra. Cosa che invece fai sempre.”
Gin ridacchia, scostandosi un ciuffo argento dalla fronte.
“Già hai ragione … però io non li obbligo. Propongo e basta … sono loro ad accettare …”
“Lo fanno perché sono disperati. Se si rivolgono a noi è perché si sono ritrovati in una situazione di disagio. Non gliene serve altro in più … e a caro prezzo …”
“Suvvia, il Centro Espada è nato proprio per questo no? Siamo un insieme di specialisti a servizio della comunità, meglio di così.”
Kami, quanto lo irrita quell’uomo! Se solo potesse lanciargli in testa il fermacarte lo farebbe più che volentieri.
Il Centro Espada, questo è il bizzarro nome dell’edificio, è infatti un complesso di servizi volti al pubblico: consulenza lavorativa, sportello informativo, avvocati, servizio medico di base gratuito, assistenza sociale, supporto psicologico, servizio sindacale; un consultorio più innovativo e  moderno, più efficiente insomma, sviluppato  in larga scala e con minuziosità. Chiunque ha la possibilità di accedervi: giovani in cerca di aiuto per qualsiasi ragione, anche la più banale, famiglie in crisi, individui alla deriva, o semplicemente qualcuno che non sa come compilare questa o quella carta, che non conosce una determinata normativa e non sa come agire, che vuole risolvere un contenzioso e non ha idea di come gestire la situazione.
Un centro all’avanguardia, socialmente utile, unico nel suo genere.
La porta dell’atrio al piano terra sbatte sonoramente, forse trascinata dalla corrente del vento impetuoso che soffia fra gli alti grattacieli: un mugugno sommesso e scocciato affianca l’ovattato rumore dei passi, ben presto moltiplicato, amplificato, associato ad una moltitudine di suoni e rumori ormai consueti, quotidiani.
“Pare che siano arrivati tutti. Bene, torno al mio ufficio. Grazie del caffè Gin.”
L’avvocato inclina buffamente la testa e scuote la mano, in cenno di saluto finchè Grimmjow chiude la porta alle sue spalle.
“Tsk.”
Sbuffando si allontana velocemente, pronto ad affrontare una nuova lunga mattinata anche se a dir la verità in questo momento il suo unico desiderio è tornare a casa, nel suo appartamento monolocale, e lanciarsi nel morbido letto ad una piazza e mezza avvolgendosi nel piumone, al caldo, per dormire fino metà pomeriggio.
Assorto in quei pensieri non si accorge di sbattere involontariamente contro qualcuno che, accigliato e grigio in volto, sta salendo le scale mentre lui è intento a scenderle.
“Mi scusi non vole….. Ah, sei tu.”
Due occhi smeraldo si posano sul suo volto, chiusi nel silenzio, osservandolo con gelida e distaccata intensità.
Si scrutano per pochi istanti, per proseguire poi ognuno nella propria direzione.
“Almeno potevi salutare, psicologo di sto cazzo.”
Il ragazzo si volta tristemente, lanciando fluttuare i capelli corvini semilunghi, aderenti al volto magro, latteo. Lo trafigge con le iridi verdi, ferendolo con uno sguardo simile ad un pugnale affilato.
“Buongiorno.” Asserisce monocorde, totalmente apatico.
“Mi domando come i pazienti riescano a non suicidarsi dopo le sedute con te.”
Come tutta risposta ottiene un’alzata di spalle, nulla di più. Il moro si volta del tutto, continuando placidamente la sua strada.
Ulquiorra Schiffer. Lo psicologo più depresso della storia. La pigna nelle mutande peggiore di Tokyo. Il peggiore vicino d’ufficio che potessi desiderare.
In quei pensieri poco piacevoli Grimmjow si lascia finalmente cadere sulle sedia girevole nera e morbida, buttando il capo pesante sulla scrivania, sopra una pila di carte da compilare.
Socchiude le palpebre dopo aver controllato d’essere solo nel proprio ufficio e soprattutto dopo essersi assicurato che non ci fosse nessuno nel corridoio: la sua porta è, purtroppo, di vetro lavorato e rende difficile nascondersi quando l’unico vero obiettivo è dormire un’ora in più.
 
* * *
 
 
 
“Buongiorno, c’è nessuno?”
Nessuna risposta.
“Buongiorno? Ei? È uno sportello senza personale??”
Il ragazzo si morde il labbro, agitato. Con una mano massaggia la chioma arancione, sbarazzina, mentre sbatte con impazienza la punta del piede contro il pavimento, traballando. Il fiato è corto dalla tensione, le guance leggermente arrossate, gli occhi nocciola, espressivi, lasciano trapelare l’ansia del momento.
“Buongiorno, ha bisogno d’aiuto?”
Una voce giovanile, dall’accento leggermente saccente, interpella il giovane di fronte allo sportello, facendolo sobbalzare.
“Oh! Ehm! Si! Si grazie!”
“Sta bene?”
Il segretario si avvicina a quello che sembrerebbe essere uno studente spaesato, infreddolito e bagnato, tremante, con tutta l’aria di sentirsi perso.
Si sistema gli occhiali, scostando un ciuffo dai riflessi blu, per poi appoggiare la cartella di pratiche stretta fra le mani fino poco prima.
“Allora? Mi dica, su.”
“Oh ehm ecco … mi hanno detto che dovevo rivolgermi allo sportello in entrata… e credo sia questo … però non c’è nessuno.”
L’altro, corrugando la fronte, gli fa cortesemente cenno di aspettare e scompare immediatamente dietro la porta bianca per poi fare nuovamente capolino dopo una manciata di minuti.
“Sistemato. Prego, le ho trovato l’operatore.”
Oltre il vetro giungono aspre imprecazioni, probabilmente rivolte al segretario:
“Ishida la prossima volta ti ammazzo! L’unica volta che non c’è il direttore cosa fai? Eh? Vieni a svegliarmi? Potevi pigliartelo te visto che tanto sai sempre tutto!”
Il segretario sbuffa, raccogliendo le pratiche ed allontanandosi stizzito, abbandonando lo studente al suo destino.
Quest’ultimo, con voce tremolante e indecisa, si rivolge allo spaventoso essere di fronte a lui:
“Buongiorno, io sono …”
“Buongiorno un cazzo!”
“Mi scusi non volevo disturbarla.”
Una domanda preme sulla lingua del ragazzo ma fortunatamente riesce a frenare le parole prima che sia troppo tardi: perché diamine porta una benda sull’occhio? Sembra un delinquente, che razza di gente c’è qui!?
“Ok, niente buongiorno. È …  è lei l’addetto al pubblico?”
L’uomo digrigna i denti, passandoci successivamente la lingua appuntita. Con fare sbarazzino scosta la chioma nera e liscia per poi rispondere sgomento alla tanto agognata domanda:
“Purtroppo si. Cosa vuoi?”
“Mi chiamo Kurosaki Ichigo. Sono il nuovo stagista. Mi è stato detto di presentarmi a quest’ora esattamente qui.”
“Non ne so nulla. Arrivederci.”
“Nnoitra Jilga, è questo il modo di rivolgersi ad un nostro futuro collega?”
Una voce profonda, celatamente roca, immobilizza all’istante l’operatore, costringendolo a sgranare le iridi nere come la pece.
“Direttore!”
Deglutisce sonoramente, il volto paonazzo e i pugni tremanti.
“Allora? Voglio una risposta. Ora.”
L’uomo che parla è alto, massiccio, muscoloso anche se l’ampio cappotto nero, lussuoso, cela quello che dev’essere un fisico atletico, probabilmente statuario.
I capelli castano scuro sono tirati all’indietro, un solo ciuffo ricade dolcemente sulle fronte, sfiorando il naso dritto, perfetto. Due grandi occhi mogano osservano seri l’impiegato decisamente scortese, lasciando trapelare un moto di disapprovazione.
“Mi … mi dispiace direttore.”
“Non deve accadere mai più. Mi sono spiegato?”
Il tono di voce è calmo, come la quiete prima della tempesta. Ad un primo ascolto potrebbe apparire cortese, dolce, ma in realtà è profondo come l’oceano, denso di correnti travolgenti, un vulcano pronto ad eruttare lava incandescente.
“Allora. Sei il nostro nuovo stagista, è così?”
Il ragazzo annuisce, protendendo la mano per presentarsi.
“Kurosaki Ichigo.”
L’uomo ricambia, allungando la sua, grande, curata e calda:
“Aizen Sosuke.”
Sorride amichevolmente ma lo sguardo è troppo irrequieto per essere sostenuto anche solo più di un secondo.
“Mi scuso per il comportamento di Nnoitra. Con lui farò i conti dopo. Vieni con me, ti accompagno dal tuo tutor d’accordo? Lui ti spiegherà ogni cosa e vi metterete d’accordo. Ti mostrerà la struttura e ti insegnerà il lavoro. Con chi hai parlato al telefono?”
Ichigo riflette per una manciata di attimi:
“Un certo Ichimaru Gin.”
“Capisco. Va bene, non è lui che ti accompagnerà, ma avrai modo di conoscerlo lo stesso. Ti accompagno al suo ufficio. Ma se hai bisogno di me non esitare a cercarmi, per qualsiasi cosa sono a tua disposizione.”
“La ringrazio signor Aizen.”
Finalmente la situazione sembra migliorare: ok, il posto è quello giusto. Ho trovato il direttore in persona e non sembra nemmeno terribile. Ok, calma e sangue freddo. Ora incontrerò il tutor, basterà fargli una buona impressione, imparare in fretta e fra un po’ di mesi il lavoro potrà essere mio. Semplice no?
Senza nemmeno rendersene conto ha risalito velocemente due intere rampe di scale ignorando bellamente le raccomandazioni del direttore ed accorgendosene, purtroppo, troppo tardi.
“Bene, ora ti lascio, hai capito tutto allora?”
Merda. No. Un bel niente.
“Certo! La ringrazio!”
Aizen annuisce, lasciandolo solo di fronte ad una porta bianca e chiusa. Accanto allo stipite una targhetta riporta scritto: Avvocato Ichimaru Gin.
Ok, dev’essere questo. Iiinspira. Eeespira. Vai.
Bussa, attendendo una risposta.
Una voce melliflua e divertita risponde prontamente:
“Avanti!”
Lo studente varca la soglia con un certo timore, tentando con coraggio di non mostrare la propria incertezza e goffaggine.
“Buongiorno, ho parlato pochi giorni fa al telefono con lei. Sono il vostro nuovo stagista, Kuros…”
“Kurosaki Ichigo? Si, mi ricordo di te. Benvenuto!”
Lui annuisce, inquietato da quell’uomo dal ghigno perfido e i capelli assurdamente privi di colore, quasi bianchi, come le pareti dell’intero palazzo.
Si fissano entrambi, scambiandosi occhiate curiose e –da parte di Ichigo- assolutamente terrorizzate.
“Beh, mi dispiace ma ho molto da fare. Che ne dici di parlare direttamente con il tuo tutor?”
Kurosaki non ci capisce più nulla. Passa una mano nel manto ramato, nervosamente.
“Come vuole …”
“Perfetto!” esulta Gin, afferrando prontamente il telefono sulla scrivania.
Digita velocemente un codice, le dita esperte puntellano i numeri con velocità incredibile.
Dopo una breve attesa si rivolge al soggetto dall’altra parte della cornetta:
“Vieni su, abbiamo bisogno di te.”
“…”
“Sì, ci servi adesso.”
Butta giù la linea immediatamente, tornando a rivolgere un sorriso finto al nuovo collega, schiudendo le palpebre e lasciando intravedere due chiarissime iridi azzurrognole, tremendamente gelide.
“Un po’ di pazienza Kurosaki Ichigo. Tra un momento arriva. Nel frattempo … vuoi un caffè?”



Buonasera lettori!
Questo è il primo capitolo della mia nuova storia, piuttosto diversa dalla precedente!
Che dire, sicuramente molti personaggi devono ancora essere svelati e ciò avverrà nei prossimi capitoli. Mi auguro possa piacervi, anche se è solo l'inizio :)
Fatemi sapere cosa ne pensate, se avete domande o desiderate vedere scritto qualche avvenimento in particolare. Accettatissimi consigli e quant'altro di costruttivo!
A presto,
Baci :*
Valentina

 

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Capitolo 2
*** Cold ***


CAPITOLO 2:    Cold

 
“E così tu sei lo stagista … perfetto, ci mancava solo questa.”
Grimmjow inspira una boccata di fumo, tenendo saldamente la sigaretta fra le dita. Trattiene il fiato e poi espira la matassa grigiastra, scrutando il cielo denso di nubi, ancora affollato da un grigiore malinconico e novembrino. Si stringe con forza nel cappotto, sistemando la sciarpa, cercando di non tremare per il freddo.
Gli occhi nocciola di Ichigo lo fissano costantemente, senza mai distogliersi, carpendo ogni movenza, dettaglio, gesto.
“Ah?” l’azzurro si volta verso il giovane silenzioso, trafiggendolo con le iridi turchesi.
Con movimenti scattosi estrae il pacchetto di Malboro dalla tasca, porgendolo verso l’altro:
“Vuoi?”
“Non fumo, grazie.”
“Ah, ma allora sai parlare.”
Ichigo arrossisce di fronte a quella battuta tanto veritiera da far male: che stupido che sono … da quando sono con lui non ho spiccicato nemmeno una parola … sarà trascorsa una mezz’ora abbondante e non ho detto niente. Mi scambierà per un inetto, un ignorante, un ….
“Pivello, non stare lì a rimuginare. Non vado di certo a fare il leccaculo al capo spifferandogli cazzate del tipo: lo stagista è antipatico, lo stagista ha fatto questo, ha fatto quello …”
Mentre dice quelle parole imita una voce acuta, probabilmente di qualche collega non proprio amato, risultando buffo a dispetto dell’aria massiccia e vagamente minacciosa.
La verità è che Ichigo, dal primo momento in cui l’ha visto, ne ha provato un’intensa soggezione. Non sa perché, né come sia possibile eppure quella persona con pochi anni in più di lui lo fa sentire immensamente inadatto, sbagliato, incapace. E non sa come agire, cosa fare.
Una soffiata di vento gelido li avvolge in aghi algidi, facendo sussultare entrambi nonostante siano ben coperti e protetti.
“Il direttore non si arrabbierà se …”
“Se scopre che sto fumando all’ultimo piano invece che portarti a visitare l’edificio? Si probabilmente si potrebbe arrabbiare. Ma non lo scoprirà quindi non devi temere nulla.”
“Come fa a esserne tanto certo?”
Grimmjow ride istericamente, tradendo il bell’aspetto e gli abiti raffinati. Non riesce a trattenere un ghigno dai canini sporgenti ed una strana nuova luce accende quegli occhi persi:
“Buahaha pivello non darmi del lei! Sono Grimmjow, tutto qui. A proposito, come hai detto che ti chiami?”
“Kurosaki Ichigo.”
Inspira un’ulteriore boccata di fumo, riempiendosene i polmoni, recuperando la calma traballante fino pochi minuti prima.
“Ichigo ah ? D’accordo, allora per me sei Fragolo.”
Il giovane sgrana gli occhi color caramello, scaldandosi di rabbia:
“Cosa?? Fragolo?? Che razza di nomignolo è??”
“Il tuo.”
“No!”
“Che caratterino … prima eri muto come un pesce e ora parli anche troppo.”
Kurosaki si morde la lingua, pentendosi di quello scatto d’ira immediatamente, tanto da voler fuggire via appena possibile e dimenticare la brutta esperienza.
I minuti trascorrono in silenzio, scanditi solo dal respiro dell’operatore sociale che ogni volta si trasforma in una piccola chiazza di vapore, denso e tiepido.
Dall’ultimo piano, il più alto, è possibile osservare l’intera Tokyo: i suoi grattacieli svettanti, il traffico insistente, i templi isolati, persone e vetture minuscole come briciole dotate di vita propria, in continuo movimento.
Grimmjow è appoggiato alla ringhiera di ferro, incurante della superficie bagnata e gelida a contatto con il cappotto, le iridi cerulee vagano irrequiete da un’antenna parabolica ad un’altra, dalle file di lampioni ai semafori. Sopra di lui la fitta coltra di nubi ricomincia ad affollarsi, amalgamandosi, scontrandosi e contorcendosi in uno spesso strato perlaceo.
“Vengo spesso qui.”
Rompe il silenzio, senza guardare il nuovo collega in parte a lui, ma certo di essere ascoltato.
“Mi aiuta a pensare.”
Aggiunge infine, lasciando precipitare il mozzicone nel vuoto dopo averlo rigirato nervosamente fra le dita.
“Andiamo, gli uffici non si visitano da soli.”
Si volta, assicurandosi di essere seguito dallo stagista ma si accorge ben presto di non essere solo:
“Cazzo. Non ci voleva.”
Due occhi smeraldo si puntano sui suoi, spaventosamente inespressivi, immobili; solo dopo un tempo apparentemente infinito scorrono altrove, delineando la figura di Ichigo in ogni suo dettaglio, apaticamente.
“E lui chi è?” domanda monocorde, senza alcuna emozione nella voce.
“Uno stagista nuovo.” Risponde aspro l’azzurro, strattonando il ragazzo ed affrettando il passo.
“Non serve che te la dai a gambe. Non lo dico ad Aizen-sama.”
Kurosaki rimane immobile, trattenendo il respiro: percepisce un’intensa e soffocante tensione, così forte e opprimente da desiderare di sprofondare nel cemento, di dissolversi, sparire da lì immediatamente.
“Tsk, per me puoi dirgli ciò che ti pare.”
Con una smorfia di disgusto si allontana nervosamente senza mollare la presa dal braccio del giovane, sgualcendogli appena gli abiti.
Disdegna l’ascensore, lanciandosi in un’avventata discesa, saltando gli scalini due a due e rischiando più volte di inciampare. Con il fiatone si ritrova finalmente davanti al proprio ufficio, la porta socchiusa, le pile di documenti ancora imperiali sulla grande scrivania.
“Vieni Fragolo, facciamo quattro conti.”
Entra nella stanza, scrutando sottecchi la curiosità del ragazzo, il bel viso magro e delicato, i capelli umidi e lucenti; gli porge una sedia, simile alla sua e lo invita a sedersi proprio accanto a lui.
“Allora, questo è il tuo spazio ok? Lì metti le tue cose, quello che ti pare, quello è il portatile ma attento a non prendere virus sennò sono affari tuoi. Questo invece è il mio, con le mie fottute carte perciò attento a non spargerle in giro sennò poi non riesco più a sistemarle. Intesi?”
Ichigo annuisce, leggermente agitato e soprattutto invaso da una strana sensazione determinata da quella distanza troppo ravvicinata.
“Domande?”
L’odore di fumo e cenere si è mescolato a quello del buonissimo profumo di Grimmjow, maschile, speziato, inebriante, creando un’essenza indescrivibilmente unica e pungente che sfiora di continuo le narici di Kurosaki, solleticandole piacevolmente.
Scuote il capo, assicurando di aver capito alla perfezione quelle semplici regole di base.
“Bene, altre cose … hmm, si. Ecco Fragolo questo è il tuo orario: è identico al mio, perché devo starti dietro come una chioccia e insegnarti praticamente tutto. Quindi domattina alle 8.00 qui. Per quanto riguarda le mansioni le faremo insieme pian piano. Pausa pranzo alle ore 12.00 se sei fortunato, altrimenti resti qui e muori di fame. Fine turno alle ore 18.00, ma anche in questo caso è tutto relativo.”
Fragolo annuisce senza distogliere le iridi nocciola da quelle turchesi del coetaneo. Nei suoi occhi arde finalmente la decisione, l’intraprendenza, la voglia di riuscire, di vincere, di farcela.
“Perfetto, se non hai nulla da chiedere iniziamo. E che si fotta il giro dell’edificio.”
Il compagno abbassa lo sguardo, imbarazzato, cercando di nascondere la sua incertezza riguardo quella decisione.
“Che c’è? Volevi farlo?”
“N.. no ma …”
Un tonfo sordo, rumore di scatoloni che cadono e di altri oggetti che sbattono confusamente contro il pavimento.
Ichigo sobbalza trattenendo a stento un urlo di spavento mentre il collega ficca le dita lunghe fra le ciocche azzurre, sospirando come se fosse la cosa più normale del mondo.
“Kami … anche questa mattina … di nuovo …”
“C… cos’è stato??”
“Aspetta …”
Il turchese alza lo sguardo in attesa di ulteriore trambusto che non esita a presentarsi immediatamente, accompagnato da urla isteriche provenienti dal corridoio:
“Un giorno o l’altro ti faccio fuori eh! Non credere di farla franca! Merda merda merda!!”
La voce si avvicina frenetica accompagnata dal rumore di passi veloci e pesanti, sempre più concitati.
Un uomo entra furioso nell’ufficio targato Grimmjow Jeagerjaques continuando a sbraitare verso un’entità momentaneamente sconosciuta.
L’operatore, senza battere ciglio, estrae una bottiglietta d’acqua dal cassetto della scrivania e la porge al malcapitato, il quale la afferra avidamente bevendone un sorso.
Ichigo, gli occhi sgranati e il volto pallidissimo, osserva sconcertato la scena ripetendosi mentalmente che non può essere vero, non può essere realmente finito in quel covo di pazzi. Non lui!
Di fronte a lui l’uomo tremante di rabbia stringe con forza la bottiglia semivuota, facendone scricchiolare la plastica sottile. Indossa un camice bianco, abbastanza aderente al fisico alto e snello, sulle cui spalle sono adagiate ciocche rosate, morbide, lisce. Dagli occhiali bianchi due iridi ambrate, quasi color oro, trasudano odio e rancore.
Le labbra sottili si dischiudono per parlare ma ne esce solamente un ringhio sommesso, feroce.
“Prendi.”Grimmjow gli lancia al volo una sigaretta, prontamente afferrata dall’altro ma viene restituita al mittente con straordinaria delicatezza.
Finalmente si calma, lasciando spazio ad una voce ancora inarcata di rabbia ma più sinuosa, ondeggiante come le onde del mare.
“Grazie Grimm, ma ho smesso.”
“Come hai fatto?”
Il medico solleva la manica bianca della divisa, mostrando un cerottino applicato sulla pelle nuda e chiara.
“ E funziona?” domanda Jeagerjaques con una punta di incredulità.
“Più o meno. Basta convincersi di sì.”
Sospira, accorgendosi solo ora del nuovo arrivato al quale si avvicina con passo felpato, simile a un felino.
“Szayel Aporro Grantz, medico, ufficio al primo piano , porta a destra. Tu sei …?”
Gli sorride malizioso, scostando una ciocca pastello dalla fronte.
“Kurosaki Ichigo. Stagista, forse futuro collega. Al momento in questa stanza.”
“Oh, che cosa carina. Perché a me non capitano mai queste fortune?”
“Perché tu hai già Nnoitra e i suoi scherzetti …” ridacchia Grimmjow sgolandosi con quell’insana risata isterica.
“Taci, l’ha fatto di nuovo.”
Ichigo osserva i due notando in loro una confidenza ammirevole e probabilmente un’amicizia che li unisce anche fuori dall’ambito lavorativo. Vorrebbe chiedere cos’è accaduto, perché quel buffo dottore effeminato aveva combinato quel disastro pochi minuti fa ma sa di non avere ancora il diritto di porre questo genere di domande.
Come se avesse colto la sua curiosità Grimmjow si rivolge a lui, ghignando:
“Hai presente il tipo allo sportello? Il primo che trovi?”
Oddio, quel tipo … particolare … di prima.
“Sssi.”
“Ecco. Si diverte a rompere l’anima a Szayel ogni giorno, in un modo o nell’altro. Dal casino di stamattina deduco che deve avergli corretto il caffè con qualcosa di terribile.”
“Il cappuccino, prego. E sì, con l’aceto. Cristo! Aceto! Che schifo! E dovevi vedere come se la rideva il bastardo!”
Tira un pugno sul tavolo, riappropriandosi della sigaretta precedentemente restituita ed accendendola con foga. Si lancia verso la vetrata, aprendone uno spiraglio, quel che basta per non far scattare l’allarme anti incendio.
“Avevi detto di aver ..”
“Sta zitto. Fanculo!”
Inspira profondamente, rabbrividendo al contatto dell’aria gelida sulla pelle scoperta del collo.
“Nnoitra in realtà gli corre dietro da anni ma per vendicarsi fa così.” Ghigna l’azzurro mentre firma una carta dopo l’altra, come un automa.
“Balle. Fa così perché è un idiota e basta. Non ci sono altri motivi. Non cerchiamo intelligenza dove non c’è per favore.”
Ichigo si intromette nel discorso, spinto dal desiderio di appropriarsi di quel mestiere il prima possibile per riuscire a comprendere, almeno in parte, quell’orda di folli.
“Mi scusi Szayel Aporro – sama, posso chiederle quale ruolo svolge in questa struttura?”
L’altro sorride, sbuffando un rivolo di fumo tetro.
“Come sei formale , sono Szayel. Comunque eseguo visite generiche gratuite, ascolto i dubbi dei marmocchi nella stagione degli accoppiamenti, se le cose vanno mano gli paro il fondoschiena, cose del genere. Credimi se ti dico che vorrei essere da tutt’altra parte.”
“Cosa vorresti fare?”
Un bagliore si accende negli occhi giallastri di fronte a quell’inaspettato interesse.
“Vorrei dedicarmi alla ricerca, sperimentare in laboratorio tutto il giorno, inventare, scoprire … ed invece sono qui tutto il giorno ad ascoltare sempre le solite cose e a beccarmi l’aceto nel caffè.”
“Oh .. mi dispiace …”
Grimmjow gli dà una pacca sulla spalla, porgendogli un plico di fogli da compilare:
“Su non fare quella faccia triste Fragolo! Lo scienziato non se la passa male! E ora aiutami sennò niente pranzo.”
Il medico fa l’ultimo tiro di sigaretta e, ritrovata la calma, si avvia in silenzio verso il suo studio , lasciando i due colleghi a scribacchiare, timbrare e firmare.
 
“Mi gira la testa, quanti fogli abbiamo riempito Fragolo?”
“Ho perso il conto.” Risponde l’altro massaggiandosi le tempie doloranti.
“Grimmjow, la penna non scrive più.”
“Fa vedere.”
Allunga la mano dai palmi grandi e morbidi per afferrare il piccolo oggetto, sfiorando inavvertitamente il dorso di quella del giovane, percependola delicata ma fredda, intirizzita. Approfondisce allora il contatto, posandoci le dita sopra e tastandone la temperatura con espressione seria.
“Sei congelato.”
“Mi dispiace, non credevo facesse così freddo oggi…”
“Di che ti scusi, pivello.”
Si alza in piedi all’improvviso, sfilando la giacca grigia e porgendola al collega, rimanendo vestito con una semplice camicia bianca dal tessuto profumato e visibilmente apprezzabile al tatto.
Gliela pone sulle spalle, con naturalezza, come se avesse ripetuto quel gesto ogni giorno della sua vita.
Ichigo arrossisce di fronte a quell’inaspettata gentilezza, bofonchiando parole incomprensibili, agitate proprio come lui in questo esatto istante.
“Sei talmente rosso da sembrare davvero una fragola.”
“I.. io .. non …”
“Dai mettila, io sono abituato. La indosso solo per proforma. Alziamo il calore del termosifone, così tra qualche ora starai meglio.”
Con imbarazzo la indossa cautamente, attendo a non sgualcirla minimamente, apprezzandone il profumo intriso nel tessuto e anche la comodità, poiché probabilmente è più grande di una o forse due taglie.
Si sente piccolo, nuovamente indifeso, fragile, un bambino disperso in una realtà nuova e complicata.
“Andiamo a mangiare pivello, ce lo siamo meritato. Per essere il tuo primo giorno non sei niente male, devo dirlo.”
 
 
* * *
 
“Che faccia triste, qualcosa non va Ulquiorra?”
Il moro alza lo sguardo verde sull’interlocutore, inclinando gli angoli della bocca, disgustato, alla vista di quel ghigno terribilmente ironico e meschino, talmente tanto effimero da fare ribrezzo perfino a lui che di emozioni ne ha sempre provate poche.
“Dove stavi andando di bello, Schiffer? Hai già finito il turno?”
“Affari miei.”
Il moro si stringe nel cappotto lungo e nero, proteggendosi da una folata di vento algido. In piedi, di fronte a lui, Gin sorride beatamente stringendo fra la mani una ventiquattrore blu scuro, colore che contrasta con la pelle candida.
Le strade sono meno affollate del solito, forse per il gelo, forse per l’orario di pranzo, forse per le folate pungenti come aghi che ti congelano fino alle ossa.
L’asfalto grigio, ancora puntellato di pozzanghere, è percorso da automobili strombazzanti e da pedoni infreddoliti che, proprio come Ulquiorra, si coprono fino al naso per tutelarsi dall’inverno infame.
Una goccia gli cade sul volto pallido, costringendolo ad aprire l’ombrello per ripararsi.
“Posso stare sotto con te? Se mi bagno dovrò stare zuppo tutto il pomeriggio.”
L’idea di Gin così vicino gli dà il voltastomaco  ma non gli piace l’idea di lasciarlo sotto un’imminente acquazzone:
“Tieni.” Gli porge l’ombrello con indifferenza, privandosene. Piuttosto rimane lui piombo, ma già non può accettare la presenza dell’avvocato in circostanze normali, figuriamoci in questa occasione.
“Ma come siamo freddi Ulquiorra caro.”
“Mi dai la nausea.”
“Io? Ne sei certo? Non è il nuovo amichetto di Jeagerjaques a farti questo effetto?”
Sibila quest’ultima frase con malizia, con una trasparente vena di perfidia e sadico divertimento.
Schiude le iridi color ghiaccio, scrutando meglio lo psicologo dal volto assolutamente depresso.
“Ah … allora ho ragione io … è questo il motivo. Ma non preoccuparti, a me puoi dirlo. Sappiamo entrambi quanto desideri il belloccio azzurro no?”
Ulquiorra sente il cuore perdere un colpo, nel viso magro si dipinge un’espressione sconcertata, stupefatta, tradita dalla non voluta rivelazione.
“Te lo ripeto. Fatti gli affari tuoi e non annoiarmi con le tue sciocchezze.”
Chiude l’ombrello con estremo disgusto, lanciandolo al collega impertinente per avviarsi a passi decisi verso l’entrata della struttura.
“Grazie mille Ulquiorra-chan! Ti restituirò il favore!”
 

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Capitolo 3
*** Fog ***


Dedico questo capitolo alla carissima Lucy che oggi (23 giugno 2014) compie gli anni!
Tanti Auguri di Buon Compleannooooo <3 <3 <3
Un bacione!


CAPITOLO 3: Fog



“Aizen-sama … non capisco.”
Le labbra dell’uomo si separano appena dalla palle arrossata dell’altro, uno spazio minuscolo, impercettibile, uno spiraglio ritagliato minuziosamente per riuscire a scandire poche parole fra un sospiro e l’altro.
“Mi sorprendi … di solito, capisci sempre tutto al volo.”
Sorride malevolmente mentre ricomincia l’attacco su quelle labbra sottili, carezzando con le dita le gote liscissime e morbide, profumate, mentre con l’altro arto stringe il bacino ferramente, in una morsa d’acciaio, sgualcendo le vesti candide come neve.
“Per favore, si fermi Aiz….”
Un gemito inaspettato interrompe quella frase, costringendolo a stupirsi di se stesso, a sgranare gli occhi ambrati colto dalla malcelata sorpresa.
Il direttore ridacchia, con quella voce roca e bassa, calda da far impazzire chiunque, concentrandosi poi sul lobo dell’orecchio dell’amante, mordendolo e succhiandolo avidamente.
“Cosa stavi cercando di dirmi?”
Due mani afferrano le spalle di Sosuke, affondando le unghie nella carne muscolosa, strappando un lamento all’uomo dagli occhi mogano, sapientemente socchiusi e languidi.
“Capisco … volevi dirmi di smetterla?” sussurra piano, esplorando con i palmi caldi e delicati prima il ventre, poi la schiena ed i pettorali di Szayel. Lui tiene le palpebre chiuse, le sopracciglia corrucciate in una smorfia di disappunto, ma a dispetto dell’apparenza si lascia carezzare, strattonare, graffiare, imitando a sua volta quei gesti famelici, impazienti.
I capelli rosati gli ricadono dolcemente sulla fronte e sulle spalle, ancora vestite dall’aderente camice bianco, come la nebbia che pervade la città in quel mattino invernale.
La foschia aleggia statica e gravosa fra gli svettanti grattacieli, il volto scarno della nebbia morde i passanti con i suoi aguzzi denti algidi, gelandone le ossa. Il cielo perlaceo nasconde un pallido sole, malato, dai raggi fievoli e tremuli come fiammelle morenti. Quel mattino gocce di brina aderiscono ai rami dei pochi alberi, il fusto nero ed alto, i rami slanciati verso la volta celeste dalle tonalità grigiastre.
Fra le strade asfaltate e rombanti s’insinua il profumo di brioche appena sforzate, mescolato all’olezzo dello smog; voci di studenti, brusio di bambini, parlottare confuso di lavoratori: chi al telefono, chi con qualche collega, chi da solo.
“Aizen- sama …”
Senza nemmeno accorgersene le sue labbra pronunciano quel nome con facilità, gli scivola sulla lingua come una caramella, come un fischio, con semplicità. Non si domanda più perché, per quale motivo il suo capo lo ha voluto lì, alle 8.00 in punto, senza alcuna spiegazione. Non si chiede per quale motivo il suo direttore non gli ha fornito alcuna spiegazione, semplicemente ha richiuso elegantemente alle sue spalle la porta dell’ufficio e gli si è fiondato addosso, sbottonando la divisa da medico con violenza per poi dedicarsi a cure più giocose, sinuose.
Il rifiuto iniziale è stato travolto, trascinato via dall’impeto di rispondere con altrettanto desiderio a quelle particolari attenzioni, di lasciarsi coinvolgere in tali attività poco attinenti al lavoro ed altrettanto poco caste.
Una scia bollente gli percorre la mandibola, il collo, le clavicole, lasciando segni color porpora al proprio passaggio: brividi profondi percorrono la pelle lattea, facendolo sussultare ad ogni tocco, lasciando cadere rovinosamente il camice a terra, sul morbido tappeto blu, insieme al resto dei vestiti.
“Grantz …”
La sua voce, kami. La sua maledetta dannatissima voce .
Apre gli occhi dorati svogliatamente, privato improvvisamente di quelle mani tanto apprezzate, incrociando lo sguardo abissale del proprio capo. Lo fissa in silenzio, attendendo le prossime parole.
“Sappi che non sei costretto. Se non ti va quella è la porta, amici come prima. Tu al tuo posto, io al mio.”
“Adesso me lo dice? Non crede sia troppo tardi?” ringhia, più per il dispiacere di aver interrotto il piacevole momento che per qualsiasi altra ragione.
“Allora?”  sul volto dell’uomo prende forma un ghigno malizioso.
“Hmm beh, a quest’ora non ho molto lavoro da svolgere.” ghigna l’altro di rimando, con il medesimo tono.
“Perfetto.”
Le labbra di fuoco affondano sul ventre nudo, scendendo sempre di più, fino a giocare con la zip dei jenas scuri ed attillati, aderenti, eleganti.
Le dita sottili di Szayel, che ancora indossano i guanti propri del mestiere, stringono avidamente le ciocche castane e lucenti, cullando il movimento ritmico di quanto segue a breve.
Soddisfatto, il direttore risale al collo pallido stampando un ultimo bacio, voltando con decisione il corpo ben definito e appena muscoloso del dottor Aporro. Di fronte agli occhi color cioccolato la paradisiaca visione di quella schiena chiara e liscia gli fa vorticare la testa, tanto da perdere la ragione.
Lo afferra sui fianchi stretti, mordendo le scapole, lanciandolo sulla scrivania. Grantz atterra abbastanza rovinosamente, urtando i gomiti sonoramente, tanto da far cadere a terra alcuni portapenne ed una manciata di fogli, che s’adagiano lentamente sul pavimento lucido, simili a piume.
Sosuke getta un’occhiata frettolosa all’orologio appeso sulla parete biancastra, inclinando amaramente il sorriso dipinto sul volto angelico:
“Ahi ahi, il tempo scorre troppo in fretta.”
Szayel fa scorrere le iridi nella direzione della voce, cercando di girare il viso verso tale fonte ma un affondo lo fa urlare, mozzandogli le parole nella gola, riempiendo la stanza tiepida e madida del loro profumo intenso con il solo suono dei suoi crescenti ansimi e mugolii, accompagnati dai respiri del direttore, sempre più profondi e bisognosi.
“Grantz … non credevo che tu fossi così bello … sotto quel camice …”
Vorrebbe rispondergli, vorrebbe urlargli in faccia di non prenderlo in giro ma allo stesso tempo vorrebbe domandargli se davvero crede in quanto ha appena affermato. Schiude le labbra rosee a fatica, per sussurrare qualcosa ma non ci riesce e ricade in quel travolgente vortice di lussuria.
 
 
“Ti dico che non ci credo nemmeno se mi paghi.”
“Perché no Grimmjow? In fondo faccio le veci di Aizen-sama, ti ho solo riportato le sue parole.”
“Non prendermi per il culo Gin.”
L’avvocato si scosta le ciocche argentee dalla fronte, sorridendo amabilmente al collega. Quest’ultimo stringe rabbiosamente la sciarpa nera, trascinandola per terra sul pavimento lindo e lucente.
“Fiuu che bel calduccio. Faceva proprio freddo fuori eh?”
“Non me ne frega un cazzo. Esigo spiegazioni, ADESSO.”
“Stai calmo, sono appena le 9. Ritieniti fortunato di iniziare più tardi oggi, no?”
L’azzurro bofonchia qualcosa, brontolando, mentre mordicchia il tappo di una penna estratta da chissà quale tasca del cappotto scuro: tutto in quelle prime ore della mattina sembrava andare storto, già dal primo momento in cui i suoi piedi intirizziti dal freddo hanno toccato il parquet nell’atto  di alzarsi dal letto accogliente. Non è bastato il frigo vuoto, la lavatrice piena, l’umidità della nebbia gelida e appiccicosa. No, non è bastato il principio di raffreddore ed il mal di stomaco mattutino, no! Ci si è messo anche Ichimaru Gin, incontrato a metà strada nel medesimo intendo di recarsi a lavoro.
Con quel suo ghigno volpino lo ha guardato ed ha salutato con il solito finto entusiasmo, prendendolo a braccetto con una signorina gioiosa e scandendo con impalpabile soddisfazione quel tarlo che continua a tormentarlo da tale momento.
“Buongiorno Nnoitra!” esclama felice l’uomo, lanciandogli la giacca firmata ed appoggiandosi con nonchalance al vetro dello sportello.
“Come stai oggi ?”
Il ragazzo dai capelli corvini gli urla qualcosa di incomprensibile, con la conseguenza di farlo ghignare ancora di più.
Come un uccellino in primavera zampetta poi verso Grimmjow, lanciandogli uno sguardo glaciale, mostrando leggermente le iridi antartiche.
“Mi segui in ufficio o preferisci parlare con Aizen-sama?”
“Non ti credo nemmeno se vuoi bastardo. È sicuramente un brutto scherzo. Parlo con il capo.”
I grandi occhi azzurri scrutato agitati il salone semivuoto, percorrendo i contorni dell’essenziale mobilio, soffermandosi sulle rampe di scale ormai ben note, adagiandosi sulle cornici dei quadri colorati.
Sospira, grattandosi il capo turchese con le dita ancora arrossate dal gelo:
“L’hai già detto ad Ulquiorra?”
“No, ancora no! Se non ti avessi trovato per strada a quest’ora dovrei ancora darti la bella notizia.”
Sorride, gongolante, stringendosi nella camicia viola e aderente con un cenno lusinghiero.
“Beh, andiamo insieme allora. Così tu parli con Aizen-sama ed io gli consegno le mie scartoffie. Ok?”
“Forse è meglio aspettare. Se Kurosaki arriva e non mi trova magari ….”
“Da quando ti preoccupi così tanto per uno stagista?”
L’operatore è pronto a controbattere, la furia gli preme il petto ma l’avvocato lo blocca sapientemente, indicandogli il segretario poco lontano, alle prese con la fotocopiatrice.
“Non ti preoccupare, ci pensa Ishida.”
Grimmjow sbuffa, ficcando le mani in tasca con rabbia e avanzando verso il corridoio a grandi falcate. L’altro lo segue in silenzio, ridacchiando sommessamente, con calma e tranquillità.
Giunto al secondo piano si ferma un attimo, il giusto per riprendere fiato dopo gli infiniti scalini, lasciandosi raggiungere dal collega:
“Hmm la porta è chiusa, probabilmente Aizen-sama deve ancora arrivare… va bè, gli appoggio le carte sulla scrivania, così non serve che torno su più tardi.”
Senza esitare due volte afferra con sicurezza la maniglia d’acciaio, mentre Grimmjow illumina il piccolo atrio accendendo i neon allineati sul soffitto.
Gin spalanca la porta bianca, ignorando bellamente la scena di fronte ai suoi occhi per una piena manciata di secondi:
“Grantz? Cosa ci fai tu ….”
Le parole gli muoiono nella gola, arsa come non mai. Gli occhi color ghiaccio si spalancano totalmente, puntandosi sulla slanciata figura del medico intenta a riabbottonarsi il camice sgualcito, i capelli scompigliati e gli occhiali appesi al colletto della maglia. Sosuke seduto sulla grande sedia girevole, le guance arrossate, la giacca ancora sul pavimento insieme a qualche foglio.
Come se nulla fosse rivolge le iridi mogano sui due inaspettati ospiti, porgendo loro i più cordiali saluti:
“Buongiorno cari colleghi. Cosa posso fare per voi?”
Gin trema come una foglia, senza emettere alcun suono; il cuore perde un battito, gli perfora il petto con un dolore lancinante, mentre le tempie pulsano convulsamente. Stringe le carte fra le mani, come se fossero un’ancora di salvezza, un salvagente nell’oceano.
Grimmjow invece squadra Szayel con uno sguardo che lasciava trapelare un “Cosa cazzo stai facendo??”.
“Grantz, ti spiace lasciarmi solo con i nostri colleghi?”
Il medico annuisce, filando fuori dall’ufficio più veloce della luce. I suoi passi rapidi echeggiano nel corridoio vuoto, giungendo alle orecchie dei presenti sempre più distanti ed ovattati.
Grimmjow rompe il silenzio, avvicinandosi incerto verso la scrivania disordinata.
“Mi dispiace disturbarla. Ma … avevo alcune questioni da porle sul…”
“Sulla conferenza ad Osaka?”
“Esatto. Gin mi ha accennato l’argomento ma …”
“Già, noto con dispiacere che questa mattina non è in gran forma. Gin, puoi andartene a casa.”
Ichimaru sgrana ulteriormente gli occhi, sobbalzando su due piedi.
“Cosa??”
“Ho detto che te ne puoi andare a casa, Gin.”
“Non vedo perché dovrei …”
“Perché stai male, avrai la febbre. Va a casa e riposati. Torna quando starai meglio.”
Gli occhi color cioccolato lo puntano trucemente, trapassandolo con autorità ed imponenza.
L’avvocato sbatte le carte sul tavolo, colmo di odio, andandosene senza salutare nessuno per sbattere con forza la porta alle sue spalle, abbandonando Sosuke e Grimmjow nel silenzio più assoluto.
 
* * * 
 

“Bene, ora che siete entrambi qui sono felice di spiegarvi dell’importante conferenza a cui parteciperete.”
Ulquiorra fissa inespressivo il proprio capo, adagiandosi meglio nella poltroncina blu, confortante e morbida. Lancia una piccola occhiata al collega dalla chioma azzurra, tutt’altro che tranquillo: il piede tamburella nervosamente sul tappeto, producendo un suono impercettibile ma insistente e, a suo dire, fastidioso. Le iridi cerulee trapelano irrequietezza, sono simili al mare in subbuglio , alle onde che si infrangono sulla scogliera.
È anche questo che mi piace di lui. Quello sguardo lontano, inafferrabile.
La voce del direttore lo distoglie da quei pensieri, costringendolo a proiettare altrove la sua attenzione.
“Come vi sarà già stato accennato nei prossimi giorni ci sarà un’importante conferenza nella città di Osaka e il nostro Centro Espada ha l’opportunità di partecipare. Capite l’importanza vero?”
Schiffer annuisce, lasciando fluttuare le ciocche corvine e lisce lungo le spalle esili.
“Molto bene. Ci sono stati offerti due posti ed io, con l’aiuto di Gin, ho deciso di inviare voi. È una grande occasione per farci conoscere, dovrete partecipare ed esporre un discorso riguardo la nostra iniziativa poiché in palio ci sono fondi cospicui … se veniamo notati potremmo guadagnarci molto ed incrementare i profitti in tutti i sensi, ampliandoci ed assumendo una posizione di rilievo. Fin qui tutto chiaro?”
Il moro annuisce, imperturbabile e serio, l’azzurro sbuffa senza alcun ritegno, lanciando occhiatacce al collega mal sopportato.
“Non capisco perché doveva scegliere proprio me!” sbraita, ormai al limite della pazienza.
“A dir la verità caro Grimmjow è stato Gin ad insistere perché mandassi te insieme ad Ulquiorra. Probabilmente ha notato in voi del potenziale. Mi fido delle sue scelte, perciò andrete voi due. L’aereo è dopodomani alle ore otto di sera. Mi raccomando, puntuali. Ecco, questi sono i vostri biglietti. E questo è un depliant che vi mostrerà tutto il resto. Gin ha già pensato alla stanza d’albergo, al servizio taxi e qualsiasi altra cosa. Vi basta leggere quanto vi ho appena dato e non ci saranno problemi, è scritto tutto qui.”
Gentilmente porge una cartellina di plastica trasparente ai colleghi, salutandoli altrettanto cordialmente.
 
 I due abbandonano la stanza, attraversando pensierosi i corridoi deserti senza scambiarsi una parola fino all’ufficio dello psicologo.
“Vuoi entrare Grimmjow? Dobbiamo leggere le carte.”
“Non me ne frega un cazzo.”
“Capisco. Ma non importa, devi informarti lo stesso.”
Fra i due già scintillano micce di tensione, così aspra da far sudare freddo ad entrambi. Dalla porta socchiusa dell’ufficio filtra la luce biancastra del cielo plumbeo, proveniente dalle ampie e linde vetrate.
“Grimmjow! Eccoti!” Un ragazzo dai capelli ramati e l’aria leggermente spaesata si avvicina all’azzurro, gli occhi colmi di gratitudine e sollievo.
“Fragolo!”
Il giovane corre accanto al proprio tutor, lasciando cadere l’occhio sulle carte strette nelle mani del moro.
“Sono per noi quelle?” domanda ingenuamente, il viso corrucciato in un’espressione quasi bambinesca.
“Hmm non proprio. Anzi, anzi si! Ecco Ulquiorra lui è il mio stagista no? Bene, spiega tutto a lui, dopo me lo riferirà! Devo scappare mi spiace!”
Schiffer sgrana le iridi smeraldo, senza però mostrare altri segni di stupore, a differenza di uno sconvolto ed imprecante Ichigo, caduto in preda al panico.
“Va be, non importa. Seguimi Kurosaki, non ho altra scelta, le vedremo insieme.”
I due si accomodano nella piccola stanza naturalmente illuminata, leggermente fredda e dal profumo di vaniglia, proprio come il resto dell’edificio.
Grimmjow invece si fionda come un fulmine verso l’ufficio targato Szayel Aporro Grantz, irrompendo con foga, simile ad una fiera indomita, ad un cavallo imbizzarrito.
La porta sbatte tanto sonoramente da riecheggiare fra i corridoi in penombra dell’intera struttura.
“SZAYEL SEI UN COGLIONE CHE COSA CAZ…”
La paziente urla dallo spavento, mentre il medico sussulta visibilmente, lasciando oscillare lo stetoscopio da una mano all’altro nell’intento di non farlo cadere rovinosamente a terra.
Le iridi dorate trafiggono con rabbia quelle azzurre del collega, lasciando spazio ad un aspro tono di voce, seguito da un ironico applauso.
“Complimenti Jeagerjaques, è questo il modo di irrompere mentre qualcuno sta lavorando? Clap, clap.”
“Ma taci idiota. Cosa diavolo ti salta in quella maledetta testa da confetto, eh??”
La ragazza, sempre più spaventata, si stringe fra le braccia arretrando di qualche passo, distanziandosi da quello spaventoso essere turchese. Il dottore cerca di tranquillizzarla, accennandole il lettino bianco adiacente a lei:
“Signorina Inoue, la prego di perdonare questo … invasato. Se vuole accomodarsi intanto ….”
La giovane sorride amabilmente, scostando i lunghi capelli ramati dalle spalle minute:
“La ringrazio non importa. Mi bastava il certificato, non si disturbi. In caso tornerò più avanti visto che ora è impegnato. Davvero, nessun problema!”
Svelta indossa il giubbotto rosa, sistemando dolcemente il grazioso cappellino con il pon pon per poi salutare timidamente i due uomini ed allontanarsi in fretta.
Rimasti soli i due si lasciando andare all’ira:
“Cosa cazzo combini? Far scappare i pazienti?? Eh??”
“Cosa combini tu piuttosto!! Cosa ci facevi nell’ufficio di Aizen stamattina!!”
“Non sono affari tuoi!”
“E’ un viscido, fa schifo! Come puoi lasciarti mettere le mani addosso da quello lì!”
Le iridi ambrate osservano la nebbia fuori dalla larga finestra, indugiando sulle insegne intermittenti e sui taxi in sosta. Carpisce ogni particolare, beandosi del profumo di disinfettante impregnato nella stanza.
“Kami Szayel … solo te puoi ficcarti ogni volta in queste situazioni … sei proprio un’idiota… non ne posso più.”
Si butta a sedere sulla barella, facendola oscillare pericolosamente e slittare di pochi centimetri.
“Szayel sono stufo … a che ora finisci il turno oggi?”
Il medico squadra l’orologio al polso, sospirando:
“12.30 … fra dieci minuti. Potevi aspettare che finissi almeno.”
“Vieni con me, devo uscire da qui o divento pazzo.”
“Come se non lo fossi già …”
Ridendo infila una manica del cappotto, incurante dell’attrito con il camice lungo e bianco. L’amico estrae il pacchetto di Malboro, porgendogliene già una con sguardo truce, torvo, mentre entrambi si avviano verso l’uscita.
“Dì Grimmjow … sei incazzato per colpa mia?”
“No.”
“Sicuro?”
“….Sì.”
Camminano spediti verso una meta indefinita, a passo talmente veloce da causare un forte fiatone. L’azzurro inspira profonde boccate di fumo, rabbioso, e sbuffa nuvolette di vapore grigiastro mentre avanza a larghe falcate, inseguito da un trotterellante Szayel coperto fino al naso.
“Dove stiamo andando?”
“Al supermercato.”
“EH?? Io voglio andare a casa!”
“No, adesso andiamo al supermercato!”
Con mano ferma gli stringe il braccio, trascinandolo nella direzione desiderata. I gelidi minuti scorrono veloci, il vento freddo sferza il loro viso candido e la nebbia aderisce ai capelli umidi di entrambi.
Finalmente si trovano di fronte ad un grande ipermercato, l’imponente scritta ne troneggia il tetto in tutta la sua maestosità, invitando chiunque ad entrare e acquistare qualsiasi cosa.
Grantz tossicchia, gli occhiali appannati dalla corsa e dal vapore:
“Contento? Vai, compra e torna. Pf, non ci crederai ma mi hai fatto venire caldo … ti odio…”
Annoiato si slaccia il cappotto, sfilandolo con attenzione e stringendolo fra le mani: immediatamente brividi pizzicanti gli percorrono la schiena, infastidendolo appena, solleticandogli la pelle delicata rimasta arrossata dai baci roventi ricevuti poche ore prima. Arrossisce ripensando a quanto accaduto, lo stomaco si contorce dall’agitazione ma lo sguardo pensieroso dell’amico lo distoglie da qualsiasi altro pensiero nella mente.
“Che c’è adesso?” bofonchia stringendo fra le labbra sottili la sigaretta accettata in precedenza, avvicinando ad essa l’accendino.
Inspira una prima boccata, lasciandosi invadere dalla sensazione rilassante, da quel fumo liberatore di pensieri. Osserva la cappa grigia sopra di sé, la coltre di nubi perlacee dalle quali emerge un pallidissimo sole effimero.
“Szayel voglio fare qualcosa di stupido.”
Quelle iridi azzurre, spiritate, non premettono nulla di buono. Nemmeno il ghigno dai canini sporgenti, nemmeno la risata isterica accompagnata dall’estrarre una monetina dalla tasca.
“Grimm … cosa … cosa stai facendo?”
Infila la moneta in un carrello, sfoderandolo dalla fila come un cavaliere con il suo destriero, ammirandolo orgoglioso e compiaciuto.
“Perfetto! Ho sempre desiderato un carrello!”
Il dottore sgrana le palpebre, strabuzzando le due perle dorate, strozzandosi con il fumo della sigaretta:
“Ma tu stai male!! Qualsiasi cosa hai in mente non farla!!!”
Un’altra risata isterica, più forte della precedente: due braccia forti che lo sollevano a peso morto, gettandolo all’interno del carrello metallico, dalle piccole rotelle.
Szayel atterra malamente, urtando il fondoschiena sulla trama dura e umidiccia:
“CHE CAZZO FAI! METTIMI GIU!!”
In lontananza delle voci in prossimità dell’ipermercato si sgolano contro i due teppisti:
“Cosa credete di fare! Delinquenti!”
I due colleghi si fissano per una manciata di secondi: lo sguardo divertito e spavaldo di uno , contro l’espressione scioccata ed innervosita dell’altro.
“Pronto dottor Grantz? Si parte!”
Una spinta ed il ragazzo dal manto turchese si lancia in una corsa folle, spingendo il sobbalzante carrello contenente il povero Szayel, che ad ogni buca o semplice sassolino viene scosso da urti e botte tremende, accompagnate dalle sue esclamazioni di dolore e disappunto.
Dopo continui slalom fra i pedoni, vari sorpassi e qualche rischio di incidente, Jeagerjaques si decide finalmente a calmare l’impazzata, rallentando il passo e concedendo una tregua al disastrato passeggero.
Quest’ultimo, steso di schiena e con le gambe all’aria, si rimette seduto alla bell’e meglio, massaggiandosi i glutei ammaccati e sistemandosi i capelli completamente scompigliati.
“E adesso cosa te ne fai di un carrello?”
“Non ne ho idea, ma è stato un affare non credi?” ansima esausto, ridendo fra una parola e l’altra.
“Facciamo cambio?” ridacchia il simil-confetto, trattenendo a stento una fragorosa risata.
“No dai, non sei bravo come me a pilotare questo aggeggio.”
“Come vuole capitano. Mi può portare a casa?”
“Ma certo!”
“Perfetto, dritto e poi a sinistra, corri!”
 
Nel frattempo…
“Ehm … Ulquiorra-sama, hai visto anche tu quello che …”
“Sì Kurosaki, sì. Li ho visti anch’io. Non era un’allucinazione.”
I due colleghi si fissano sconcertati, lasciando chiudere alle proprie spalle la porta scorrevole del grande palazzo. Finalmente di fronte a loro si estende il profumo della città, i suoni ed i rumori che la caratterizzano, l’aroma di caffè fragrante e caldo s’espande per le vie.
Gli occhi smeraldo del ragazzo incrostano quelli nocciola dello stagista, chiedendogli forse pietà o semplicemente esprimendo un enorme rammarico.
“Spero che ad Osaka non mi porti in giro dentro ad un carrello.”
Ichigo ride leggermente, portandosi una mano sulla bocca: in fondo quello psicologo non gli sta antipatico; sulle prime lo inquietava, così freddo e distaccato, ma imparando a conoscerlo non gli sembra per nulla male come persona. Anzi, affidabile e in fondo gentile.
“Beh dai … il dottor Grantz non sembrava dispiaciuto. Magari è divertente.”
“Mah, magari. In ogni caso temo di scoprirlo a breve.”

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Capitolo 4
*** Why? ***


CAPITOLO 4:  Why?



La pioggia picchietta dolcemente sui vetri lindi della finestra, adagiando le proprie goccioline sulla superficie liscia e fredda. Le pozzanghere e le chiome degli alberi sono urtati dal costante ticchettio, avvolti da un cielo plumbeo, grigiastro, denso di nubi scure scosse dal vento gelido. Il rumore placido e costante è accompagnato da quello più distinto del getto della doccia, attutito solo dalla porta chiusa del bagno e dal vocio sommesso, quasi inudibile, del piccolo televisore acceso.
Ulquiorra si accoccola maggiormente sotto alle coperte calde, fissando con interesse le punte dei grattacieli svettanti fuori dalla finestra, così alti e affusolati, simili ad aghi affilati. I suoi occhi smeraldo si perdono in quel panorama a lui noto, nonostante la città non sia la sua cara Tokyo, bensì Osaka. Si crogiola nel tepore delle lenzuola di flanella apprezzando l’atmosfera avvolgente e protettiva, lontana da quel maltempo che da giorni scuote le città. Il freddo di dicembre ormai avvolge le ossa, strizza le guance arrossandole e trasforma ogni respiro in rivoli di vapore denso e biancastro.
Lancia uno sguardo alla sveglia appoggiata sul comodino, felicitandosi dell’orario: appena le undici di mattina, per fortuna. Sbadiglia, assonnato, a causa della lunga notte passata in bianco a causa del notevole e sfinente ritardo dell’aereo, delle lamentele di Grimmjow e degli inutili ed esasperanti giri per la città alle tre di mattina per trovare l’albergo poiché il taxi non ha avuto la benché minima intenzione di aspettarli ed anno dovuto affrontare una lunga, lunghissima passeggiata. Con tanto di valigia e bagagli.
La porta del bagno si apre lasciando disperdere il profumo del bagnoschiuma al muschio bianco in tutta la camera. Il collega sistema l’asciugamano intorno alla vita, rabbrividendo appena e strofinando le mani sulle braccia per riscaldarsi; osserva sgomento lo psicologo infagottato nel letto. Esatto. Nello stesso letto. Un grande letto matrimoniale, a due piazze. In una stanza che spetta a entrambi.
“Che situazione di merda.” Ringhia con disappunto, tremante, dimenticando per un attimo il freddo che lo attanaglia.
“Finiscila, hai già fatto una scenata prima. Adattati.”
“Adattarmi? Meno male che quello stronzo di Gin avrebbe dovuto pensare a tutto! E cosa fa? Prenota una camera sola! Capirei se avesse due letti singoli ma no, no! Uno solo! Per chi ci ha preso eh? Una coppia di sposini novelli? Porca put…”
Ulquiorra sbuffa, tirandosi a sedere per osservare meglio il collega profondamente arrabbiato.
“Te l’hanno già spiegato alla reception. Dev’esserci stato un fraintendimento. E non ci sono altre stanze libere, quindi se vuoi dormire ti adegui. Non ho la peste. Io sto qui e tu stai là.”
Indica l’altro lato del materasso con l’indice magro e latteo, sistemandosi il colletto del maglione grigio.
“E ora se non ti spiace stai zitto, vorrei dormire. Sono sfinito.”
Un lampo di odio invade le iridi azzurre dell’altro, che inizia a sbraitare come un ossesso contro il malcapitato coinquilino.
“Dormire? Anch’io vorrei dormire! Ma non ci riesco in questo schifo!”
“Schifo? È pulito, ben arredato, atmosfera piacevole … l’unico elemento di disturbo sei tu.”
L’espressione serissima e priva di emozioni, quello sguardo scettico, cinico, imperturbabile, tutti questi aspetti causano in Grimmjow un’ira funesta, animalesca, incontenibile. Ringhia impercettibilmente, scrutando con rancore il collega assonnato anche se qualcosa appare diverso in quelle iridi verdi come la foresta più fitta.
“Cos’hai da fissare?”
Schiffer arrossisce, spostando immediatamente l’attenzione sul pavimento color ciliegio.
“Nulla …”
“Nulla un cazzo, tu mi stavi fissando.”
Nega, scuotendo la testa con indecisione, lasciando fluttuare i capelli corvini lunghi fino alle spalle esili.
“Ti stavi domandando come mi sono procurato questa?” domanda l’azzurro indicando una lunga cicatrice che gli squarcia il petto fino l’addome.
Ulquiorra annuisce, rincontrando quegli occhi turchesi e profondi come l’oceano.
“Immaginavo.”
Si siede sulla propria parte di letto, incurante della bassa temperatura e del rischio di accaparrarsi qualche malanno. Sembra pensieroso, lontano, improvvisamente calmo anche se solo all’apparenza.
“Di solito a chi me lo chiede racconto una bugia. Mi assicuri di non raccontarlo in giro?”
“D’accordo.”
“Un po’ di anni fa, ancora prima di lavorare al Centro Espada, Szayel viveva insieme a suo fratello maggiore, Iilforte. Ero amico di quest’ultimo … anzi a dir la verità forse qualcosa di più e proprio per questo motivo posso assicurarti che il loro rapporto era davvero strettissimo. Un giorno però, quando sono mancati i loro genitori, hanno avuto una bruttissima lite e …”
Ulquiorra sobbalza, un forte crampo gli stringe lo stomaco:
“Anche a lui sono …”
“Sì, era giovanissimo… Doveva ancora laurearsi. È stato un colpo terribile per lui ma sai com’è  fatto … quando qualcosa lo preoccupa non ne parla e fa finta che non gli interessi minimamente. Iilforte era disgustato dal suo comportamento e voleva costringerlo a presenziare al funerale. Hanno litigato di brutto, credo si siano pure messi le mani addosso. Lui era intenzionato ad andarsene di casa e lasciare solo Szayel; allora mi ha telefonato chiedendomi di uscire perché doveva parlarmi per convincere Iilforte a restare ma quando ci siamo incontrati era totalmente sconvolto. Nonostante non avessi ancora un grande rapporto con lui è scoppiato a piangere come un bambino.”
Scuote la testa, le sopracciglia corrucciate di fronte a ricordi tanto tremendi. Schiffer non schioda le iridi smeraldo dal collega, bevendo ogni parola senza nemmeno fiatare.
“Era così disperato da non accorgersi di una macchina che arrivava a tutta velocità. Io l’ho vista in tempo, ho avuto solo pochi attimi e mi sono lanciato verso di lui per cercare di tirarlo in salvo perciò sono stato centrato al posto suo. Non so nemmeno come faccio a essere ancora qui.”
Le labbra pallide e sottili di Ulquiorra si piegano in una smorfia di malcelato stupore:
“Tu hai fatto questo? Hai salvato il dottor Grantz?”
“Sì, IO. Per quanto puoi considerarmi un benemerito idiota, coglione o quello che ti pare sappi che anch’io ho combinato qualcosa di buono nella vita. Solo che a differenza tua non me ne vado in giro con quella faccia da culo mostrandomi superiore a tutti! Fanculo, non so nemmeno perché mi sono messo a raccontarti qualcosa.”
Con rabbia afferra un maglione accasciato sulla valigia aperta, indossandolo frettolosamente e coprendo lo sfregio sul corpo scultoreo.
“Mi dispiace.” Sussurra il collega, osservandolo mestamente.
“Di cosa?”
“Di tutto. Di quello che ti è capitato… di quello che è successo a Grantz … dell’impressione che ti do.”
“Non è un’impressione … tu sei un montato del cavolo. E ora voltati, devo vestirmi.”
L’uomo non controbatte, si limita ad infilarsi totalmente sotto le coperte e girarsi verso la finestra, completamente rigata da infinite goccioline. Dalle lenzuola sbucano solo poche ciocche di capelli neri, sottili, profumati; la sua mente continua a rimuginare su quella storia straziante, sul dolore che deve aver affranto Szayel per chissà quanti anni e che forse tutt’ora lo affligge, sugli insulti ricevuti gratuitamente.
Ascolta il rumore della pioggia incessante, accompagnato dal fruscio dei vestiti infilati da Grimmjow. Poi uno sbuffo d’aria fredda ed infine la presenza di un altro corpo, decisamente massiccio, poco lontano da lui.
Non sa perché, non lo sa davvero, ma desidera fortemente voltarsi e buttarsi fra quelle braccia muscolose, stringersi contro quel ragazzo spavaldo e arrogante, impetuoso come un cavallo al galoppo, vorrebbe sentire il suo calore sulla propria pelle bianca come la neve, vorrebbe stargli così vicino da poterne sentire ogni battito del cuore.
Perché? Perché sto pensando a queste cose? Cos’è questa strana sensazione nel petto? Brucia, fa male. Sto sudando, improvvisamente fa caldo e mi manca il respiro. Che malattia è?
Il cuore scalpita imbizzarrito, così forte da far temere allo psicologo che chiunque possa udirlo ed accorgersi di quello stato pietoso.
La voce roca di Grimmjow rompe il silenzio, avvolto dallo scroscio continuo dell’acquazzone.
“Ehi Ulquiorra…”
Nessuna risposta.
“Stai dormendo?”
Nulla.
“Va be meglio così. Volevo solo dirti che mi dispiace … per le brutte cose che ti ho detto … è solo che a volte mi stai sulle palle. Toh, scusami. Bene l’ho detto!”
Sospira soddisfatto, concludendo quel breve discorso intriso d’imbarazzo.
Le iridi cerulee delineano la figura del collega sdraiato su un fianco a nemmeno un metro da sé: è magro, abbastanza alto, il viso nascosto dal manto ossidiana ha lineamenti delicati e un po’ malinconici. Le labbra fini e chiarissime appaiono sempre morbide, mai screpolate, sempre perfettamente lisce, da baciare.
È questo il pensiero che attraversa la mente di Jeagerjaques: voler assaggiare quelle labbra, voler posare le proprie su di loro e sentirne la consistenza, il sapore, il profumo.
Cosa diamine sto pensando? Dev’essere la stanchezza.
Passa una mano fra la chioma sbarazzina, scompigliandola ulteriormente, infilandosi sotto le coperte calde.
“Non importa.”
La voce di Schiffer lo colpisce come uno schiaffo nell’orgoglio, lo fa vacillare.
“C..cosa? Eri sveglio?”
“Sì.”
“Vaffanculo.”
“Ok.”
Con gesto rapido e sinuoso il moro si sfila il maglione, rimanendo in canottiera e pantaloni. Il volto latteo è palesemente arrossato, una goccia di sudore scende lungo la fronte corrucciata.
Si solleva a sedere, ansimando leggermente per quell’ondata tropicale improvvisa, sgranando le perle smeraldine ed esauste. L’altro si volta leggermente verso di lui interrogandosi interiormente sul motivo di tanto trambusto.
“Stai male?”
“Non lo so. Credo di si ma è strano.”
“Che razza di risposta è questa?” sbraita il turchese in preda alla collera. Finalmente ha trovato la posizione ideale per schiacciare un sonnellino e cosa succede? Il signor muso duro non si sente bene!
“Non lo so, mi sento strano. Mi gira la testa, ho un caldo terribile ma allo stesso tempo freddo. E poi ho una strana sensazione nello stomaco. Sembra aggrovigliarsi.”
“Forse è lo stress. Dormi e ti passa. N-O-T-T-E.”
“Pomeriggio ormai. Ah, ti ricordo che alle sei abbiamo la conferenza.”
“Non serviva, lo so già. Ma se non mi lasci dormire almeno una fottuta ora alla conferenza ci vai da solo.”
“D’accordo.”
Un’altra ondata di caldo stavolta lo costringe a togliere anche la canotta senza maniche, lasciandolo a petto nudo. Inaspettati addominali scolpiti segnano l’addome ed il ventre, delineandolo come una statua greca, un incrocio di perfezione che concilia dionisiaco ed apollineo.
Sospira, sdraiandosi nuovamente, il viso rivolto verso il soffitto spoglio. Osserva il grande lampadario barocco, ascolta il suono del vento ed il respiro quieto del compagno di lavoro.
Un brontolio irrompe nella stanza, spezzando quel piccolo ritaglio di pace. Un brontolio proveniente dallo stomaco del moro, seguito a ruota da un altro ancora più forte.
Jeagerjaques si volta del tutto, girandosi su un fianco rivolto verso il collega, rosso di imbarazzo.
“Non me lo dire.”
“Non preoccuparti, non ti trascinerò in giro per supermercati come faresti tu.”
“….Hai fame?”
“Me la tengo.”
Ne osserva il petto nudo e candido, vorrebbe affondarci i canini e saziarsi di quella pelle pallida come un raggio di luna.
Kami … fammi addormentare o ne esco pazzo.
“Non voglio ascoltare il tuo stomaco per le prossime ore. E tanto ormai non riesco a prendere sonno. Chiamiamo il servizio in camera?”
Ulquiorra annuisce, portando la mano sottile sul ventre come per attutirne i ruggiti.
Dopo pochi minuti i due compagni stanno spiluccando svariati cibi qua e là da un largo vassoio ben assortito: tartine, panini, frutta, ciambelle. Dolce e salato per soddisfare ogni gusto.
Ulquiorra morde un tramezzino prestando attenzione a non spargere briciole mentre il collega sbrana qualsiasi cosa gli capiti sotto mano senza alcuna precauzione o ritegno. Fra un morso e l’altro guarda distrattamente la televisione ma Schiffer non è certo che la stia seguendo realmente.
Si alza in piedi scrollandosi di dosso quei pochi residui rimasti dal pasto.
“Ti serve il bagno o posso andare a lavarmi?”
“Vai pure, io chiamo il direttore intanto.”
Il corvino annuisce, allontanandosi lentamente con la premura di portare con sé gli abiti nuovi da indossare.
La porta si chiude e subito dopo il rumore del getto d’acqua calda nella doccia invade la camera.
“Pronto Aizen-sama? Sono Jeagerjaques”
“…”
“Ah, Gin sei tu. Posso parlare con il capo?”
“…”
“Tsk, va be allora posso dire a te? Poi gli riferisci.”
“…”
“Digli che è tutto a posto per ora. Alle sei abbiamo la conferenza, faremo del nostro meglio.”
“…”
“Ci sentiamo.”
Butta giù il telefono, interrompendo le chiacchiere di Ichimaru su chi-ha-fatto-cosa o su sai-cos’ha-combinato-Nnoitra-oggi. Si scrolla le briciole dal petto, lasciandole precipitare sul pavimento di parquet per tuffarsi sotto al piumone avvolgente. Finalmente il letto è a sua disposizione, può sgranchirsi e stiracchiarsi senza il timore di urtare quello spettro spocchioso, anche se i cuscini sono pregni del suo profumo. Gradevole, ad essere sinceri.
Le pesanti palpebre scendono, il sonno inizia a cullarlo nel suo abbraccio, la pioggia canta una ninna nanna dolcissima ed irresistibile. Non riesce a tenere gli occhi aperti, in fondo è tutto perfetto: il maltempo fuori, il tepore della stanza, coperte morbide, pancia piena e poi … e poi quel profumo delicato, familiare, quel profumo che vorrebbe addosso ma che per ora va bene così, solamente accanto, il giusto per accompagnarlo nei sogni.
Quando Ulquiorra esce dalla doccia si avvicina in silenzio al materasso, attento a non causare rumore. Spegne delicatamente il televisore, lasciando regnare il canto del cielo in lacrime.
Si insinua fra le lenzuola impercettibilmente, tentando di non disturbare l’azzurro, il volto finalmente sereno e rilassato, disteso, adagiato sul cuscino dalla fodera dorata.
Lo fissa per qualche minuto, temendo perfino di respirare, leggermente tremante per l’inconsueta e sconosciuta emozione che gli stringe lo stomaco. Sa cosa sta per fare ma non riesce a capacitarsene. Lo sa, conosce quel gesto, lo ha visto mille volte nei film, lo ha lui stesso ripetuto altrettante, per puro svago, per sentirsi normale, nonostante il suo cuore rimanesse irreparabilmente gelido.
Lo sa bene, eppure non sa perché lo sta per fare. Non ne conosce il motivo, la ragione. Non sa spiegarsi cosa sono quelle sensazioni sempre più forti che gli causano una nausea piacevolissima, elettrizzante.
Si avvicina discreto al viso assopito dell’azzurro, così tanto da poter respirare la sua stessa aria. Strofina appena la punta del piccolo naso contro quella dell’altro, un contatto breve ma sufficiente a causargli profondi brividi lungo la schiena nuda.
Dolcemente appoggia le labbra fredde e vellutate su quelle di Grimmjow, castamente, come un bacio fra bambini. Ne percepisce il calore, la delicatezza, sembrano fatte di seta pregiata. Si separa un attimo, una manciata di secondi, sbattendo le palpebre.
Cosa sto facendo? Ho appena … ho appena baciato Grimmjow.
Dire che non gli importa sarebbe una bugia. Gli importa, eccome! Ma non riesce a resistere, forse non avrà più una simile occasione per tastare con mano , anche solo per una volta, una sfaccettatura dell’amore. Forse quando tornerà all’algida Tokyo il suo collega ricomincerà ad evitarlo come se avesse la peggiore malattia infettiva di tutti i tempi perciò ora si prenderà una minuscola parte di lui, un ritaglio del suo cuore anche se purtroppo non glielo potrà mai dire.
Lo bacia ancora una volta, sfiorando la guancia con le dita sottili, carezzando una ciocca di capelli azzurri.
Frettolosamente torna al suo posto, nel suo angolo di letto, voltandosi da tutt’altra parte e sprofondando in un sonno buio, privo di sogni.
 
 * * *

 
“Ti ammazzo. C’è poco da dire, ti ammazzo!”
Nnoitra ride acutamente, senza più fiato nei polmoni e piegato in due dal divertimento.
Le lacrime gli scendono dagli occhi ametista mentre due pugnali dorati lo trafiggono a pochi metri di distanza.
“Kami Jilga ma cosa cazzo ti ho fatto per farmi odiare così tanto eh??”
Il dottore porta le mani sulla chioma rosata, maledicendo mentalmente il destino infame per avergli fatto trovare un collega tanto meschino.
Fra una risata e l’altra Nnoitra riesce a parlare, con il risultato di alterare ancora di più Szayel:
“Ahahuauahahah! Cosa fai adesso che non hai il fidanzatino a pararti il sedere ah?”
Le iridi ambrate s’infuocano, le mani candide iniziano a tremare dal nervosismo:
“Cosa hai detto scusa?”
Pone la domanda con calma, scandendo bene le parole, mentre con le dita solleva dalla scrivania i fogli zuppi di caffè gettandoli nel cestino della spazzatura.
“Ho detto …” inizia ghignando l’altro:
“Cosa intendi fare adesso … che non c’è Jeagerjaques a sbatterti.”
Due mani si avventano al suo collo magro non appena termina di pronunciare la frase. La stretta è forte, iraconda e l’aria inizia a mancare.
“Cosa …cosa …”
“Prova a ripeterlo.”
Jilga schiude le labbra per parlare ma non riesce a proferire più alcun suono. Nelle iridi giallastre del medico in questo momento riesce solo a scorgere una lucida, palese follia.
“Tu non hai idea del rapporto che lega me e Jeagerjaques. Se non conosci le cose taci e tieni la lunga lingua che ti ritrovi fra i denti. Io non ti voglio più vedere hai capito? Non solo mi hai fatto perdere il lavoro di un mese …. Ma non contento vieni qui a sfottermi. Ma per chi mi hai preso? Per un idiota? Sparisci. Ora.”
Lascia la presa dal collo, permettendo al collega di riprendere fiato. Quest’ultimo ghigna, scostandosi un ciuffo scuro dalla fronte, facendo tintinnare i bracciali ad anello che porta al polso.
Un moto di rammarico lo invade nel petto, nonostante il senso di colpa non risulta essere di certo una sensazione a lui ben nota.
Osserva immobile il dottor Grantz mentre sistema alla meglio i pochi fogli intatti, pulendo con uno straccio il vetro della scrivania, appiccicosa e marroncina.
L’aroma di caffè intriso a quello del detersivo per vetri gli punge le narici, pungendolo dal dispiacere.
Forse stavolta ho esagerato.
Quel pensiero prende forma nel constatare che il caffè bollente precedentemente versato non solo ha imbrattato tutta la pila di documenti ma ha mandato in tilt il computer portatile che ora non intende né accendersi né funzionare. Computer contenente chissà quanti altri dati, probabilmente accumulati negli anni.
“Ehm … è .. è rotto?”
“Vattene. Giuro che se ti vedo ancora una volta a qualche metro da me quel collo te lo spezzo.”
Nnotra è pronto a ribattere ma una voce profonda e roca interrompe il diverbio, facendosi spazio nella stanza caotica.
“Cosa sta succedendo qui, cari colleghi?”
Aizen scruta interessato la scena, appoggiato allo stipite della porta. Con una mano giocherella con la cravatta scura mentre con l’altra sistema il ciuffo castano che ricade elegantemente sulla fronte.
“A…Aizen …sama!” Nnoitra deglutisce, pronto al licenziamento in tronco.
“Nulla. Nnoitra mi ha portato il caffè ed io per sbaglio l’ho rovesciato. Sono .. molto stanco … ultimamente.”
Jilga sgrana le iridi lilla, senza celare il palese stupore.
Ma come? Dopo il casino che ho fatto … lui …
“Stava giusto per andare a prendermi un altro straccio per pulire,vero?”
Nnoitra sussulta ed annuisce, gli occhi ancora sconvolti da quel comportamento.
“S.. si. Vado subito !”
Esce di corsa dalla stanza ma la voce del direttore lo immobilizza.
“Non serve Jilga. Torna al tuo sportello, lo aiuto io a sistemare qui.”
“Ma … ma Aizen-sama ..”
“Ho detto: torna a lavoro.”
Il moro biascica un sì incerto e sparisce lungo il corridoio in fretta, tornando al grande atrio profumato di vaniglia.
Il capo entra nella stanza chiudendo la porta alle proprie spalle. Le sue iridi mogano si appoggiano sulla figura slanciata del medico intento a sistemare nervosamente il disastro causato da quell’impiccione.
Si avvicina a lui con passo felpato, simile ad un felino, posandogli una mano calda sul mento.
“Va tutto bene?”
Szayel alza il volto dai lineamenti delicati, incontrando lo sguardo del proprio datore di lavoro.
“Sì, non si preoccupi Aizen-sama.”
Lui sorride, stampandogli un bacio sulla fronte.
“Quando siamo soli mi puoi chiamare Sosuke.”
Le dita lunghe e sinuose iniziano a slacciargli i bottoni del camice bianco, esperte e disinvolte, lasciandolo scivolare a terra immediatamente.
“Mi sembri preoccupato, Szayel.”
“Davvero, non è nulla.”
“Jilga ha fatto qualcosa ?”
Si, ha fatto molte cose. Troppe cose. Se sono in questo casino è solo colpa sua. Vorrei ammazzarlo!
“No …”
“Come sei pallido … ti stai forse ammalando?”
“No, le ho detto che ….”
Un bacio gli smorza le parole in gola, inumidendogli le labbra sottili ed arrossandogli le guance.
L’uomo coglie una ciocca pastello, giocandone, ammirandola con attenzione.
“Szayel … che bel nome. Ti si addice, è magnifico … come te, d’altronde …”
Una fila di baci bollenti sul collo, sulla mandibola, sulle clavicole.
“Aizen-sama…”
“Sosuke, chiamami Sosuke…”

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Capitolo 5
*** Party ***


CAPITOLO 5: Party



“Com’è triste questo posto senza Grimm … ahh quando torna? Tu lo sai, Kurosaki?”
Il ragazzo dai capelli arancioni scuote la testa, sistemando le proprie poche cose sulla scrivania del dottor Grantz.
“Mi dispiace, non ne ho idea. So solo che la conferenza doveva essere ieri sera e che oggi aveva una riunione con chissà chi …”
“Hai le idee confuse quanto me. Che ne dici, gli telefoniamo?”
Szayel afferra il telefono, digitando velocemente il numero di cellulare dell’amico, ma la mano dello stagista gli coglie dolcemente il polso nell’atto di fermarlo:
“Sono appena le 8 di mattina, forse sta dormendo … non è il caso di …”
Le iridi ambrate scintillano sotto alle lenti degli occhiali dalla montatura bianca, in loro un lampo di divertimento.
“Appunto, gli diamo il buongiorno!” ridacchia, passando la lingua sul labbro superiore come se stesse gustando il dolce più prelibato del mondo.
Ichigo sospira, domandando fra sé e sé cos’ha fatto di male per passare quei pochi giorni in compagnia del folle medico. Ad aiutarlo, fra l’altro.
Forse gliel’ha chiesto Aizen-sama? Eppure a me non ha detto nulla … Nessuno mi dice mai nulla! Mi trovo sempre sballottato da un ufficio all’altro, ogni giorno è una cosa diversa.
L’uomo dalle ciocche rosate porta la cornetta all’orecchio, aderendovi con enfasi mentre ascolta gli squilli a vuoto ripetitivi e costanti.
“P… pronto?”
“Buondì Grimmjow! Dormito bene?”
“Chi … parla?” l’azzurro sbadiglia sonoramente, facendo sorridere l’amico dall’altra parte della linea.
“Sono Szayel. Io e il tuo stagista volevamo sapere come stai.”
“E ti pare il caso di disturbarmi proprio adesso? Ho un sonno allucinante!”
“Suvvia, a quest’ora dovresti già essere a lavoro.” Sussurra il dottore con una punta di malizia.
“Tsk. Ma com’è che c’è Fragolo con te? Non dovrebbe essere al mio posto?”
“Hmm no. Gin mi ha detto di prendermelo finchè non torni. Allora l’ho piazzato sulla mia scrivania e mi sta dando una mano con le carte che quell’idiota di Nnoitra ha distrutto.”
“Cos’ha fatto??”
“Lascia stare, te lo racconterò quando torni. Ecco appunto, quando ?”
“Mah dovrei partire domani pomeriggio …”
“Con Ulquiorra come procede? Non lo sento, è vivo?”
“Non so dove sia, mi sono svegliato ma non è qui con me.”
“Ah capisco .. no aspetta: siete nella stessa camera??”
Grantz sgrana gli occhi dorati, facendo sussultare anche il povero ragazzo accanto a lui.
“No cioè sì però credimi che non è come sembra!! So a cosa stai pensando, sei un pervertito!”
“Uuuuuhhh!!”
“No niente uuh!! Ti-saluto-ciao-non-stuprare-Fragolo.”
Riattacca bruscamente, lasciando i due colleghi appesi al filo della curiosità.
Entrambi si scrutano dubbiosi, trattenendo le risa.
“Cosa ti ha detto?”
“Di non stuprarti.”
“Ahm. Ehm. Ok, altro?”
Qualcuno bussa alla porta, interrompendo la concitata conversazione.
“Szayel Aporro-sama?”
Un ragazzo biondo, dai capelli corti e leggermente scompigliati, appare sulla soglia dell’ufficio con aria timida, fra le mani arrossate un termos cilindrico color acciaio, il tappo nero ben sigillato.
“Tesla?”
Il giovane annuisce accennando un sorriso nervoso nell’attesa d’ottenere permesso di entrare.
“Vieni, vieni pure. È da tantissimo tempo che non ti vedevo … come stai?”
“Bene la ringrazio …”
“Sei ancora allo sportello con il coglio… ehm, con Jilga?”
“Sì… ecco, in effetti è stato lui a mandarmi qui.”
L’espressione del dottore diventa improvvisamente seria, le sopracciglia color pastello si corrugano pensierose ed anche le labbra sottili si arricciano con disgusto.
“Hm. Perché?”
“Nnoitra- sama mi ha cortesemente chiesto di portarle questo.”
Timidamente Tesla allunga il termos caldo verso Szayel, poggiandolo con cautela sulla scrivania.
“Grazie Tesla ma non lo voglio, chissà cosa ci ha buttato dentro.”
“Nulla Szayel Aporro- sama, l’ho preparato io stesso.”
L’uomo afferra l’oggetto metallico, osservandolo minuziosamente. Ne svita il tappo con estenuante lentezza, tastando con i polpastrelli morbidi la superficie liscia e tiepida. Appena riesce a svitarlo dal termos sfugge un rivolo di vapore dalla fragranza amara e rigenerante, bollente, un profumo di buonissimo caffè appena uscito dalla moka.
“Posso fidarmi? Se è uno scherzo vi faccio licenziare entrambi stavolta.”
Versa il liquido marroncino in un bicchiere di carta, annusandone il contenuto senza distogliere lo sguardo minaccioso dall’assistente. Ichigo osserva l’inquietante scena ammutolito, immobile come una statua.
Lo assaggia cautamente, assaporandolo sospettoso per alcuni istanti, per poi annuire concentrato.
“Sembra normale … a cosa devo tanta gentilezza?”
“Non lo so, non mi ha detto nulla.”
“Non importa. Grazie Tesla.”
Il ragazzo saluta con un cenno della mano, allontanandosi in fretta nel corridoio semibuio.
Il medico versa il caffè allo stagista, offrendoglielo in un bicchiere simile  di plastica decorato con immagini di Winnie Pooh. Kurosaki lo afferra delicatamente, attento a non scottarsi, ma le sue iridi nocciola tradiscono la sua curiosità.
“Tranquillo, non è mio. Me l’ha regalato la figlia di un mio cliente affezionato. Si chiama Lilinette.”
“Che pensiero carino.”
“Sì è una brava bambina… in fondo.  Anche se fa i capricci ogni volta. Mi domando come faccia Stark ad essere tanto paziente.”
“Suo padre?”
“Sì. Magari un giorno di questi passano a trovarmi, in caso te li faccio conoscere.”
Il ragazzo sorride, felice delle piccole confidenze e dei modi gentili che mai si sarebbe aspettato da quell’apparente folle.
“Scusate, è aperto?”
No guarda, è chiuso, sigillato, imbustato come un affettato.
“Certo.” Ringhia il medico, sorseggiando le ultime gocce di caffè.
Una ragazza dai lunghi capelli verdi acqua e dai grandi occhi color sabbia avanza leggermente, sorridendo amabilmente. Sul capo porta un berretto di lana bianca a forma di teschio, il corpo avvolto in un giubbotto morbido e candido.
“Buongiorno, mi chiamo Neliel …”
“Cosa posso fare per te?”
La donna estrae un piccolo pacchettino colorato, adornato da un fiocco dorato e liscio.
“Ehm … ecco … potrebbe consegnare questo a un certo … Nnoitra Jilga?”
Szayel tossisce, strozzandosi con il caffè, mentre Ichigo corre in suo soccorso facendo cenno alla giovane di attendere qualche secondo.
Appena il medico riprende fiato la osserva sconvolto, senza nascondere l’espressione esterrefatta sul proprio volto.
“In tutta la mia vita mi sarei aspettato qualsiasi cosa, ma mai e poi mai una donna interessata a quell’idiota. Comunque d’accordo, dammelo pure.”
 
 
* * *
 

Osaka, la sera precedente …
 
“Kami Ulquiorra dove siamo finiti? Questo è un posto per fighetti.”
“Ho sempre pensato che ti piacessero questo genere di cose, mi stupisci.”
“Mah, non ne vado matto. Per quanto tempo siamo confinati qui? Ho sonno…”
I due ragazzi si stringono nel lungo cappotto, osservando con sguardo accigliato il locale poco distante da loro, illuminato con luci a neon viola e blu. Un’atmosfera del medesimo colore traspare dalle vetrate dell’ingresso, lasciando intravedere un lungo bancone ricco di cocktail complicati e altri aperitivi.
Gli occhi smeraldo del moro si posano su quelli azzurri del collega, osservandolo con circospezione:
“Sicuro che siamo nel posto giusto?”
“Ma ti pare? Io ho seguito te! Fino a prova contraria sei tu quello che ha ascoltato la conferenza!”
“Se è per questo nessuno ti ha costretto a giocare a Candy Crush per tutto il tempo … sarei stato sollevato anch’io se avessi regalato anche solo un secondo di attenzione a quello che stavano dicendo.”
Grimmjow imita le espressioni del compagno, mimandolo divertito e dandogli una sonora pacca sulla spalla.
“Dai Schiffer sei sempre così serio! Ma hai visto che gente c’era? Erano uno più strambo dell’altro, anche il fatto che abbiano preparato questa festa post-conferenza invitando tutti i presenti la dice lunga … sono venuti qua per farsi una vacanza, altro che!”
“Sarà … ma … comunque noi dobbiamo essere professionali.”
La luce giallastra dei lampioni lungo la strada gli illumina il volto magro e bianco, mentre i ciuffi corvini gli ricadono dolcemente sulla fronte, appena smossi dal vento gelido.
Una voce gentile alle loro spalle li accoglie calorosamente:
“Ah ragazzi! Voi due siete quelli di Tokyo, giusto?”
Un uomo dalle iridi nocciola e lunghi capelli bianchi sorride affabile, sventolando una mano in cenno di saluto. Accanto a lui un collega dalla struttura più imponenti, la chioma castana leggermente ondulata raccolta in una coda abbellita da qualche fiore, per coprirsi indossa un inusuale poncho rosa.
“Buonasera.” Scandisce monocorde Ulquiorra, soppesandoli con lo sguardo.
“Scusateci non ci siamo ancora presentati … io sono Ukitake Jushiro. Lui invece è Shunsui Kyoraku. Eravamo qualche fila davanti dietro di voi. Molto piacere!”
Si stringono la mano, ricambiando le presentazioni ed i convenevoli.
Kyoraku si avvicina amichevolmente a Grimmjow, appoggiandosi sulla spalla di quest’ultimo:
“Quel livello ha fatto dannare anche me. Pensa che ci ho messo giorni! Prima finalmente ho raggiunto il 314.”
Ride sonoramente, divertito, avviandosi verso l’entrata del locale.
Una donna davanti l’ingresso lo raggiunge a passo veloce, sul volto un’espressione seria e coincisa adornata da un paio di semplici occhiali da vista.
“Ahh Nanao- chan! Come sei bella stasera!”
Lei arrossisce, lasciandosi prendere sotto braccio e facendo strada al gruppo. Jushiro nel frattempo chiacchiera felicemente con Ulquiorra, che lo ascolta interessato sfregandosi le mani bianche e affusolate per riscaldarsi.
“Io sono un insegnante alle scuole materne, mentre il mio collega è un professore di filosofia all’università di Osaka anche se sono più le lezioni che trascorre a bere sakè con i suoi studenti che quelle in cui effettivamente spiega.”
Ride, intervallato da colpi di tosse, lasciandosi seguire dai due ragazzi.
“Eccoci!” urla Kyoraku fiondandosi nel locale e salutando tutti i presenti.
Grimmjow e Ulquiorra sgranano gli occhi: è un posto grandissimo, all’apparenza anche abbastanza costoso, lussuoso, uno di quelli in cui le persone altolocate si rifugiano nei weekend fino alle prime luci dell’alba. La musica di sottofondo è rilassante, un jazz liscio come l’olio, sinuoso come le onde del mare. Le luci soffuse dalle tonalità del crepuscolo protraggono i propri aloni sul pavimento lucido, sul bancone pulito, sui divanetti morbidi e sofisticati, modernissimi. Alle pareti strane lampade dalle forme bizzarre, intervallate da quadri di svariate dimensioni. I presenti, elegantemente vestiti ed agghindati, chiacchierano sommessamente stringendo fra le mani un calice di aperitivo o una tartina salata. Ridono, bisbigliano, fanno conoscenza scambiandosi biglietti da visita o anche solo lanciandosi in conversazioni di lavoro o sulla propria vita al di fuori di quell’ambito.
Jushiro accompagna i ragazzi in uno spazio poco affollato, indicandogli volti familiari, visti durante la conferenza per dar loro qualche informazione utile:
“Vedete quell’uomo con i capelli neri? Quello con la cravatta scura, esatto. Lui è Kuchiki Byakuya, il responsabile dell’evento. Credo sia una delle figure più importanti stasera. Invece vedete quella coppia laggiù?”
“Quale? Quella donna abbronzata con i capelli viola e il vestito blu insieme al tipo strambo?” domanda l’azzurro stringendo le palpebre per vederci meglio.
“Sì: sono i coniugi Urahara, Yoruichi e Kisuke. Loro gestiscono uno speciale reparto di ricerca scientifica all’interno dell’università di Tokyo, ne avrete già sentito parlare immagino. Vogliono ampliare il progetto ed estenderlo a più città del Giappone. Che bella idea vero?”
Ulquiorra annuisce serio, attento ma del tutto annoiato e deluso: quell’uomo è senza dubbio adorabile, ma i suoi pensieri sono decisamente altrove … da quando ha scambiato quel bacio si sente diverso, come se stesse affondando in un vortice di emozioni che gli straziano lo stomaco e gli stringono la gola. Non sa perché ma il suo unico desiderio è quello di tornare in albergo  e infilarsi sotto le coperte calde per percepire accanto a sé il corpo caldo e sereno del collega immerso nel sonno. Vorrebbe rimanere da solo con lui per poterlo guardare addormentato, con quei lineamenti decisi e le labbra socchiuse, con i capelli scompigliati sul cuscino e sulla fronte. Sarebbe capace di osservarlo tutta la notte, non si stancherebbe mai, ne è certo. Ora invece si trova in un posto affollato che lo separa ulteriormente da lui, privandolo di quegli unici attimi in cui potrebbe trascorrere del tempo insieme alla persona che gli ha rubato il cuore, quell’organo di cui ha sempre ignorato l’esistenza.
Il solo pensiero di questo spreco lo fa star male, incupendolo in uno scuro silenzio.
“Ehi tutto bene?”
La voce di Grimmjow lo riporta alla realtà, costringendolo ad alzare le iridi verdi su quelle cerulee del collega che sorseggia svogliatamente un drink.
“Diamine Schiffer! Mi metti il male di vivere solo a guardarti. Sei più serio del solito.”
Lui non risponde, si limita a fissarlo inespressivo, causando nell’altro un moto di rabbia.
“Anch’io sono stanco ma vedi di fartela passare e divertiti per una sera! Tanto poi quando torneremo a Tokyo tornerai ad essere il musone di sempre.”
Il musone di sempre … quando torneremo … Cos’è questo rammarico? Perché non voglio tornare?
L’azzurro sbuffa, porgendo un calice mezzo pieno al compagno:
“Sei proprio strano … di solito non ci pensi su nemmeno mezzo secondo a spegnermi con qualche frase delle tue. Da quando siamo qui potrei anche dire che mi tratti decentemente.”
Quelle parole lo colpiscono come un pugno, una verità scomoda che non vuole ammettere nemmeno a se stesso. Una fitta alle tempie lo coglie improvvisamente, costringendolo a corrugare la fronte dal dolore; stringe la palpebre, massaggiando la fronte con le dita sottili.
“Ragazzo tutto bene?” Jushiro si avvicina premuroso al moro, tastandogli le guance con il dorso della mano.
“Scotti… vuoi che ti accompagno all’alloggio?”
Schiffer scuote la testa, sospirando. L’uomo lo conduce ad un divanetto, sedendosi accanto a lui per fargli compagnia mentre gli narra mille vicende di quelle piccole pesti nella sua classe, con l’intento di farlo sorridere almeno un po’ e di distrarlo dal probabile malanno di stagione.
“Ehi carino … sembra che il tuo amico non se la passi tanto bene…”
Una donna di piccola statura ma dal fisico formoso e atletico si avvicina sinuosamente a Grimmjow, ghermendolo su un fianco con le proprie braccia sottili e candide. I capelli viola sono raccolti in morbidi boccoli che le ricadono sulle spalle minute, contrastando con l’abito bianco e attillato che risalta le curve femminili.
Il ragazzo la osserva stranito, leggermente scocciato dalla presenza di questa donna dallo sguardo malizioso.
“Io sono Cirucci. E tu?”
“Grimmjow Jeagerjaques.”
“Che bel nome … e che carino che sei … è da quando sei arrivato che mi hai colpito sai?”
“E quindi?”
“E quindi? Come sarebbe a dire? Che razza di modi sono questi?”
Lui ringhia disgustato, voltandosi di spalle per allontanarsi da quella scocciatrice ma viene afferrato per il polso da una stretta inaspettatamente decisa e forte.
“Scusami ok non dovevo scaldarmi! Ma non puoi ignorarmi così! Vorrei conoscerti.”
“Me ne vado domani, non mi interessa.”
“Non importa, la notte è ancora lunga.”
Sorride languidamente, avvicinandosi con passo felpato ed aderendo al corpo scultoreo. Ne carezza il petto caldo, infilando l’indice sotto un bottone della camicia nera mentre con l’altro braccio gli cinge i fianchi.
“Vuoi ballare con me?”
Le iridi viola si posano speranzose sul volto sconcertato dell’azzurro, indeciso sul da farsi.
“Donna, levati. Lo stai importunando.”
La voce seria di Ulquiorra, incrinata da una vena di disprezzo, irrompe fra i due come una folata di vento algido, simile ad una folata di aghi appuntiti.
Le guance sono arrossate, il viso pallido è reso ancora più smunto dalla stanchezza e dalla febbre, ma nonostante il malessere rimane impettito e immobile, le braccia conserte.
Grimmjow non può fare a meno di pensare a quanto sia bello quell’uomo dai capelli corvini e gli occhi tristi, con quella giacca scura a definirne la figura magra. Non riesce a non perdersi in quelle iridi smeraldine e profonde, quelle foreste fitte e misteriose.
“E tu chi saresti? Non eri mezzo morto fino poco fa?”
La domanda retorica è sostenuta da un tono provocatorio, sibillino, perfido.
“Purtroppo per te no, non ancora. Togliti immediatamente.”
“Ulquiorra calmati, sarà solamente ubriaca.” Suggerisce Grimmjow scrutando dall’alto della sua statura la piccola donna mentre punta i pugni sui fianchi stretti.
“Ubriaca?? Io??? Come ti permetti! Guarda che …”
Schiffer afferra l’azzurro per un braccio, trascinandolo via dalla fonte di tanto baccano che rimane con la bocca aperta e le parole a mezz’aria, gli occhi sgranati.
“Andiamo.”
Il tono di voce è deciso, fermo, irremovibile.
“Ulquiorra cosa cazzo ti prende stasera?”
Il moro cammina a passo spedito, diretto verso una meta confusa, proprio come la sua mente accaldata dalla febbre ed il corpo rovente.
Entrano in una stanza lontana dal caos della festa, illuminata da faretti di bianca luce a neon, il marmo delle piastrelle è liscio e lindo. Chiude la porta alle sue spalle con malcelata ed insolita rabbia, lasciandola sbattere con fragore.
“Ahm … se volevi che ti accompagnassi in bagno bastava chiederlo …”
Le dita tremanti sono ancora aderenti all’arto di Jeagerjaques e lo scottano con il loro tocco infuocato, emanando un cospicuo, febbrile calore.
Barcolla instabile, gli manca il respiro ed anche la vista si offusca di tanto in tanto, illuminando gli occhi con involontarie lacrime cristalline.
Si avvicina al lavandino aprendo l’acqua fredda per rinfrescare il volto accaldato, lasciandolo percorrere da mille piccole goccioline refrigeranti.
Grimmjow gli si avvicina lentamente, osservando avidamente i lineamenti dolci di quel viso stanco, carezzando con lo sguardo le ciocche umide adagiate sulla fronte.
“Vado a chiedere a Jushiro se ha qualche medicina con sé, aspettami qui ci metto un secondo.”
“No …”
Il cuore di Ulquiorra batte all’impazzata nel petto come se volesse scoppiare da un momento all’altro. Lo stomaco si contorce dall’agitazione ma nulla gli impedisce di abbracciare l’azzurro spontaneamente, come un bambino con il proprio peluche preferito. Si lancia a lui con stanchezza, lasciandosi afferrare al volo e portando le proprie braccia esili lungo la schiena massiccia e tiepida.
Chiude le palpebre, inspirando il profumo che tanto ama e riempiendosene le narici fino ad inebriarsene.
Ulquiorra … cosa stai facendo?
L’altro sgrana le iridi cerulee, stupito e immobile, lasciandosi travolgere da quel gesto inaspettatamente affettuoso, un grido d’aiuto, uno slancio di dolcezza inimmaginabile, soprattutto se l’autore è quel ragazzo perennemente serio ed imperturbabile, colui che mai in vita sua ha immaginato di provare certe sensazioni.
Porta una mano sulla chioma corvina, carezzandola con leggero imbarazzo , apprezzandone la sofficità e la morbidezza al tatto. Fra le dita rigira le ciocche scure, attorcigliandole e lisciandole in un gioco continuo.
Sono così fini …
Schiffer bofonchia qualcosa di incomprensibile, la frase si spegne come una fiammella flebile lasciando dietro di sé un eco confuso.
“Cosa dici?”
“Non voglio  … vederti con quella donna.”
Posa il palmo rovente sulla guancia liscia dell’azzurro, carezzandola con il pollice candido.
Grimmjow non si sottrae a quel contatto improvviso, anzi, si lascia sfiorare delicatamente mentre si avvicina ulteriormente al volto del collega nonostante la sua mente gli stia gridando di fermarsi, di smetterla, di rinsavire immediatamente.
“E perché non vuoi vedermi con lei?”
Sono talmente vicini da sfiorarsi la punta del naso, da respirare l’uno le parole dell’altro.
“Perché … voglio vederti con me.”
Ulquiorra rompe la distanza lasciando aderire le proprie labbra sottili a quelle umide del compagno, assaporandolo con decisione e passione. Lo assaggia con la punta della lingua, succhiandogli il labbro inferiore per poi dedicarsi ad una lotta stremante, da lasciarlo senza fiato.
Jeagerjaques ricambia con foga le sue attenzioni, stringendolo in quell’abbraccio caldissimo, tastando il corpo bollente sotto le vesti scure. Lo bacia con foga, desiderio, con un bisogno ignorato, trascurato per un tempo troppo lungo.
Si separano un istante, ansimanti, fissandosi negli occhi con ardore:
“Kami Ulquiorra … finirai per far ammalare anche me …”



Ciao lettori!
Grazie a tutti coloro che hanno inserito questa storia fra i preferiti, che la seguono e che la ricordano. Grazie a chi legge ogni capitolo, grazie a tutti di cuore!
Spero che per ora la storia vi piaccia.
Baci :***
Valentina

 

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Capitolo 6
*** Past ***


Questo capitolo è una finestra sul passato di due dei nostri protagonisti :)
Buona lettura!


CAPITOLO 6: Past

 

Passato …


La nebbia cola dai rami scuri degli alberi spogli, simile alla saliva acquosa fra le fauci di un lupo bramoso di sangue. Aderisce ai corpi dei pochi passanti mordendoli con i suoi aguzzi denti di gelo, abbraccia ogni cosa nella sua stretta soffocante.
Szayel gira la chiave nella serratura della porta, roteandola dolcemente con un sonoro clic. Entra in silenzio, togliendo le scarpe umide per appoggiarle nell’apposito contenitore di legno chiaro.
“Kaasan? Tosan? (1*) Sono a casa.”
La voce si spegne nel corridoio in penombra, lasciando spazio ad un amaro ed assordante silenzio. Deglutisce, lasciando cadere a terra la borsa a tracolla colma di libri, che scivolano all’esterno del fragile contenitore spargendosi in un ventaglio di colore con un fruscio impercettibile.
“Kaasan? ….”
Non c’è il profumo del pranzo appena cucinato, non c’è il rumore della televisione accesa sul solito telegiornale, né la radio con la sua musica allegra. Non c’è lo sbatacchiare delle pentole sui fornelli, il suono dell’acqua nel lavabo.
“…. Tosan?”
Il silenzio regna sovrano, un oblio oscuro, un vortice di terrore che imprime i suoi artigli in ogni oggetto, ogni dettaglio, in ogni granello di polvere. Fa male, è un dolore atroce, fa così male da non riuscire a respirare.
Cammina lentamente, ignorando le fitte allo stomaco ed il bruciore agli occhi. Snobbando le occhiaie che gli solcano il volto stanco e pallido a causa delle notti insonni, fingendo di non vedere quei lividi violacei sulla guancia, sul collo e sulle scapole.
“Iilforte?”
Il ragazzo dai lunghi capelli dorati rimane seduto sulla sedia di legno bianco, i gomiti appoggiati al tavolo della cucina, il capo fra le mani.
Accanto a lui due valigie piene fino all’orlo, le cerniere chiuse, il cappotto appoggiato sulle ginocchia.
“Iilforte non vorrai davvero …”
Non risponde, si limita a sospirare stringendo la presa delle dita sottili fra le ciocche bionde e morbide.
“Mi odi così tanto?”
Istintivamente si massaggia un ematoma bluastro procuratosi da quella lite che li ha irrimediabilmente divisi, corrugando le sopracciglia dal dolore.
Dalla finestra della stanza si intravede il piccolo giardino arso, colmo di pozzanghere dovute alle incessanti piogge dell’ultima settimana. Il cielo grigio, perlaceo, si protende in infinite dense nubi.
L’altro finalmente si alza, evitando di guardarlo negli occhi ambrati. Spinge la sedia verso l’interno del tavolo, lasciandola stridere a contatto con il pavimento. Senza dire una parola afferra le valige e si allontana a passo veloce, stringendo i denti, mordendosi le labbra.
Il fratello lo insegue, stringendogli il polso magro in una morsa d’acciaio:
“Codardo! Non ci credo! Perché te ne vai senza darmi nessuna spiegazione! Potevi almeno chiedermi di venire con te …”
“Fottuto bastardo. Hai vent’anni, puoi benissimo cavartela da solo.”
Sgrana le iridi dorate, impietrito da quelle parole colme di odio e rabbia.
Il maggiore alza lo sguardo su di lui, sbiancando di fronte agli evidenti segni della colluttazione, quelle macchie di colore scuro su un fisico tanto esile, gracile, giovane. Ingoia una manciata di lacrime, avviandosi nuovamente verso l’uscita.
“Fermati! Non è colpa mia se Kaasan e Tosan sono … sono ….”
“Invece sì.  Tu: il loro preferito. Sempre il più bravo, il più intelligente, quello che vince le borse di studio, vero? E io invece … quello che non esiste, l’incapace, l’ignorante, quello che non ha mai combinato nulla di buono nella vita.”
“E te la prendi con me? È un dato di fatto, la colpa è solo tua.”
“Se sei così tanto illustre allora cavatela da solo. Stammi bene.” Ringhia pieno di collera, soffiando quella cattiveria come un gatto in procinto di graffiare la preda.
“Resta …”
La frase muore come un soffio di vento flebile, come un condannato che sussurra le ultime volontà prima di spegnersi.
Con uno strattone si libera dalla presa del più giovane, correndo verso la porta principale. La spalanca, lasciando invadere la casa dalla pallida luce malata dell’inverno. Il profumo della foschia e della terra bagnata s’insinua nel corridoio, insieme al freddo pungente, così algido da far tremare entrambi.
O forse quei brividi sono fonte di tutt’altra sofferenza.
Indugia sulla soglia, dondolando mollemente.
“Non cercarmi, ho cambiato numero. E comunque vado via anche da questa città.”
Un tonfo sordo, l’alone biancastro spezzato improvvisamente, passi che si allontanano, il motore di un auto che si accende frettolosamente e sfreccia via, lontano.
Un grido, un urlo talmente disperato da lacerare il cuore, lo strazio di un’anima ridotta a brandelli, frantumata in infiniti cocci taglienti.
Szayel cade in ginocchio, proprio lì, accanto ai libri sparsi sul mogano liscio e pulito. Le iridi giallastre scorrono sui grafemi dei titoli, carezzandone la forma, beandosi di quello stralcio di normalità, aggrappandosi con tutto se stesso a quel poco di vita rimasta. Le legge uno per uno, ricominciando da capo per chissà quanto tempo. Potrebbero essere trascorse ore ma lui rimane così: trafitto, sgomento, l’angoscia che lo corrode come un fuoco scarlatto, le ciocche rosa madide di sudore aderenti alla fronte. Gli occhi chiari sconvolti, fissi sulla catasta di testi, immobili.
Le mani tremano mentre le labbra secche biascicano qualcosa simile ad una nenia, una ninna nanna, una culla per fuggire dall’orrore precipitatogli addosso in un solo colpo.
Nessuna lacrima gli riga il volto magro, ma il terrore nel petto è così forte da offuscargli la vista e privarlo della voce.
“Anatomia umana …. Microbiologia …. Immunologia …”
Di nuovo, ancora una volta:
“Anatomia umana … microbiologia … imm…”
Sente i sensi svanire, le tempie pulsare, il dolore prende possesso di quella piccola fiammella di lucidità rimasta.
“La mia vita … non esiste più. Ho perso tutti …”
 
 
Tre settimane dopo …
 
Din don!
Szayel si alza faticosamente dal letto, sollevandosi sulle braccia scarne e chiare. Si incammina lentamente verso la porta, ignorando le proprie condizioni, senza domandarsi nulla su chi possa essere o che notizie porta con sé. Si sente un automa, un’ameba che sopravvive per qualche strano scherzo divino, un fantoccio oramai privo di volontà e ragione, pervaso solamente da uno strazio così forte da mozzare il respiro.
Si appoggia al muro, traballando, tentando di mantenersi in piedi nonostante le poche forze.
Due occhiaie scure gli solcano il volto smunto, pallido come un lenzuolo; i capelli puliti ricadono morbidi ma scompigliati sulle spalle, incolti, opachi, privi della loro solita lucentezza rosea, smorti proprio come quegli occhi dorati, geniali, che ora sembrano meramente perle spezzate.
Non gli importa di presentarsi con addosso solamente un paio di hakama bianchi, non gli interessa mostrare a chiunque il torace magro, reso scarno dai morsi della fame trascurata per troppi giorni. Lungo le clavicole sporgenti ed i fianchi spicca ancora qualche segno violaceo che contrasta con la chiarezza della pelle candida. Non sente freddo, nonostante la temperatura all’esterno rimanga costantemente attorno allo zero. Ignora i brividi lungo la schiena ossuta, ignora lo stomaco avvizzito, ignora i crampi, la voglia di piangere.
Din don.
Sospira, affannato, raggiungendo finalmente la porta. Un flash lo fa barcollare, l’immagine di suo fratello che si allontana per sempre, i suoi libri riversi sul parquet.
Afferra la maniglia stringendola nella mano lattea, girandola dolcemente per mostrarsi finalmente all’ospite inaspettato.
Le labbra sottili si schiudono in una breve smorfia di sorpresa ma subito si spengono, impedendo alla voce di uscire, lasciando attonito lo spettatore.
Da quanto tempo è che non parla con qualcuno? Da quanto tempo è che non parla almeno a se stesso?
“Szayel  … kami … cosa … cosa…”
Il ragazzo sulla soglia sgrana le iridi azzurrissime tentando di balbettare qualcosa.
Cosa ti hanno fatto? Come ti sei ridotto? Come ha potuto tuo fratello abbandonarti proprio ora? Come ha potuto lui … proprio lui … il mio ragazzo … farci questo.
Si fissano per interminabili secondi, entrambi in silenzio, entrambi nell’attesa di trovare le parole giuste per dire qualcosa. Qualcosa che preservi intatti i loro sentimenti.
“Senti Szayel … so cos’è successo … lui ha fatto lo stesso anche con me più … più o meno … mi dispiace.”
Si stringe nel giubbotto blu, tremando per il gelo.
“Entra.”
Il giovane gli fa strada nel corridoio buio, a piccoli passi, guidandolo verso il soggiorno ordinato, privo di vita, spoglio. A pochi passi di distanza il ragazzo dai capelli turchesi osserva sgomento l’eccessiva magrezza dell’amico, le scapole evidenti sotto il manto confetto.
Nella sua mente lo ricorda in lacrime, rotto da pianto, prima dell’incidente. Si porta una mano al petto, carezzando la cicatrice fresca, appena rimarginata, ancora dolorante.
“Mi dispiace Grimmjow di non essere venuto a trovarti in ospedale …”
Szayel si siede sul divano, stringendosi nelle spalle tremanti, seguito dall’azzurro. La sua voce è flebile, così sottile da sembrare inudibile.
“Di che ti scusi … dispiace a me non essere venuto qui prima.”
“Non ne hai motivo … in fondo ti ho solo causato guai … per colpa mia tu …”
Non riesce a terminare la frase, due labbra morbide e calde si posano sulle sue, inumidendole calorosamente, scuotendole con un bacio inaspettato, dolce, colmo di sentimento.
Due braccia forti lo stringono, cingendolo in un abbraccio bollente, affettuoso.
“Non dirlo nemmeno per sogno. Non sei solo, non sei più solo! Non sarò un gran che lo so … sono un poco di buono, causo risse un giorno si e uno sì, non vado benissimo negli studi però … ora ci sono io a proteggerti. Non ti lascerò più soffrire.”
Szayel appoggia stancamente la fronte sulle spalla del ragazzo, sciogliendosi in infiniti singhiozzi. Il corso esile sussulta, tremante, mentre le lacrime scendono copiose e calde bagnandogli le guance ed inumidendo la felpa dell’amico.
Una mano gli carezza le ciocche di capelli rosati cercando di calmarlo, mentre l’altra continua a tenerlo stretto a sé, intenta a non lasciarlo mai più.
“E’ una promessa … non ti abbandonerò mai.”
“Perché … perché fai questo per me …”
“Non meriti di soffrire Szayel … Dai, vieni con me, vestiti. È ora di cambiare aria.”
Il giovane alza gli occhi gonfi di lacrime, puntandoli in quelli cerulei dell’amico.
“… cosa?”
“Da quanto tempo è che non esci da qui? Devi tornare a lezione, non puoi buttare via tutto …”
Grantz scuote la testa con convinzione, portando le mani sulle tempie.
“Non mi va ancora.”
“Devi anche mangiare qualcosa.”
Osserva con scrupolo il fisico scarno, coprendolo con una coperta trovata sotto ad un cuscino del sofà.
“Non ci riesco … sto male …”
“Almeno un pochino, ti faccio compagnia io. Qual è il tuo piatto preferito?”
Szayel lo squadra stranito, soffermandosi qualche secondo a riflettere.
“Credo … la pizza ...”
“Bene, allora adesso ne ordiamo una d’accordo? Anzi due! Una per me e una per te! Senti, che giorno è oggi?”
“Non ne ho idea …”
L’interlocutore estrae dalla tasca il cellulare ammirandone lo schermo:
“E’ venerdì. Bene, ti va di fare un patto?”
“Che cosa?”
“Da oggi in poi ogni venerdì delle nostra vita lo trascorreremo davanti alla tv mangiando pizza e guardando film del cazzo! E se saremo tristi per qualche motivo ce lo diremo, se saremo arrabbiati ci azzufferemo, se saremo felici finiremo a letto ma in ogni caso non resteremo mai più da soli. E sai che ti dico? Quando riusciremo a finire gli studi e a trovare lavoro niente spezzerà questo patto, al massimo dal venerdì si passerà al sabato, a costo di farci licenziare. Se tu ci stai, io ci sto.”
Szayel accenna un sorriso, stringendosi nella coperta.
“Ci sto.”
 
 
Qualche anno dopo …
 
“Non ci posso credere, siamo stra fortunati cazzo! Lavorare nello stesso posto, non avrei mai sperato tanto!”
Grimmjow saltella nervoso per la cucina, sorseggiando distrattamente un bicchiere di thè.
“E comunque te l’ho mai detto che il tuo thè fa schifo?”
Szayel annuisce ridendo, togliendogli la tazza fumante dalle mani.
“Lo dici ogni volta Grimm.”
L’azzurro ride sonoramente, mostrando i canini sporgenti.
“Qual è il film di oggi?”
Il medico neo laureato riflette qualche secondo, passandosi le dita nella folta chioma lucente e profumata.
“Che ne dici di un horror?”
“Alla grande!”
L’amico si lancia sul divano, scostandolo di qualche centimetro a causa dell’urto. Nelle mani stringe il telefono, le dita agili compongono il numero della pizzeria poco lontano dal condominio in cui abitano.
“Il solito Grantz?”
“Ovvio. Mi raccomando sen…”
“Lo so, senza origano.”
“Bravissimo. Esatto.”
Ridacchia fra sé, sistemandosi la comoda maglia sul petto scolpito, longilineo, mentre scruta sottecchi il ragazzo sgangheratamente adagiato sul sofà.
“Senti Grimm …”
“Che c’è?”
“Se decidono di tenerci entrambi … e riusciamo a costruirci qualcosa di meglio … non smetteremo di essere amici … vero?”
Il turchese strabuzza gli occhi , alzandosi di scatto:
“Idiota, scherzi? Non ti sono bastati questi anni per convincerti ? Per quanto mi riguarda puoi diventare milionario, costruirti una villa gigantesca e ingozzarti di caviale tutti i giorni ma ogni venerdì sera tornerai ad essere un plebeo come me e ti costringerò a mangiare la tua pizza senza origano.”
Ride, afferrando l’amico per trascinarlo sul tappeto, accanto a lui.
“Da vere pantere ceniamo qui stasera!”
“Anche perché l’altra volta ti è esplosa la coca cola sul divano …”
“Non ricordarmelo, mi fa incazzare.”
“Guarda che è colpa tua, io ti avevo avvisato di non aprirla ma tu …”
Di nuovo quelle labbra, quelle colline morbide di cui ormai conosce ogni centimetro, quelle ali d’angelo sulla sua bocca sottile.
Lo divora affamato, ricambiato nel bacio, le mani del più giovane vagano fra le ciocche azzurre, scompigliandole, tirandole dolcemente.
Si separano qualche istante, per prendere fiato:
“E’ scomodo sul tappeto, lo sai?”
Grimmjow ridacchia maleficamente, mormorando un “Lo so” divertito, sfilando espertamente i pantaloni della tuta dell’altro, che ricadono poco lontano con un fruscio sinuoso.
“Ho capito che hai fame ma non puoi mangiare me.”
Szayel ride, lasciandosi solleticare i fianchi ed il petto dall’invisibile ricrescita di barba dell’azzurro, arrendendosi a quelle effusioni calde, riempienti.
Grazie Grimmjow … per aver mantenuto la tua promessa. Grazie per avermi reso finalmente felice.
Credevo … di essere senza futuro. Di non avere più nulla. Credevo che la cosa giusta fosse abbandonarmi al dolore e lasciare che mi portasse via . Non te l’ho mai detto ma … anch’io ti proteggerò sempre.
 
Quando apre gli occhi la notte è calata da qualche ora: dalla finestra della camera si intravede la luce della luna, i raggi argentei illuminano il cielo con la loro magia. La brina splende sulle imposte dei balconi, simile ad un tesoro di gemme preziose e sfavillanti, fatate.
Si accoccola fra le braccia dell’amico, immerso  in un sonno profondo e sereno. Lo osserva in silenzio, inspirando il suo profumo delicato, accompagnato dall’aroma del bagnoschiuma.
Allunga una mano carezzandogli i capelli rosati, coprendolo meglio con il morbido piumone del letto per non fargli prendere freddo. Si allunga cautamente, stampandogli un bacio sulla spalla nuda, esattamente sopra alla piccola macchia rossa causatagli da lui poche ore prima.
Lo stringe a sé, sorridendo, reprimendo l’istinto di fiondarsi nuovamente su lui ed assaggiarlo ancora, di avventarsi su quella pelle tanto linda e chiara.
Cosa siamo, alla fine? Fidanzati? Amanti? Compagni? Nessuno ha mai posto vincoli, regole. Nessuno ha mai sancito nulla, se non la felicità l’uno dell’altro. È solo questo che conta. Non c’è gelosia, non c’è brama, non c’è voglia di possederci come se fossimo oggetti: perché dovremmo trincerarci in questa gabbia? Noi ci apparteniamo già. Se lui è vivo, se lui esiste, è perché gli sono stato vicino. E lo stesso, in fondo, vale per me. Abbiamo inseguito sogni diversi, ma con la stessa meta. Abbiamo incontrato difficoltà, siamo caduti, ci siamo rialzati. Azzuffati ogni tanto, forse amati qualche volta. Ma che dico, solo qualche volta? Ogni giorno della nostra vita. Ma non è quel sentimento da favola, quello da coppiette felici. È qualcosa che va oltre, che trascende qualsiasi definizione. Cosa siamo? Amici, forse qualcosa di più. Amici con un brutto carattere, con strane tendenze, con un passato da cancellare. Però siamo amici, e questo non potrà mai cambiare.
E se esserlo significa allora trovarci nudi nello stesso letto allora fanculo, significa che siamo grandi amici!
Basta, basta con questi discorsi, sembro una ragazzina di dodici anni. Meglio se torno a dormire…
Buonanotte Szayel, ti voglio bene.
 
 

1*: Kaasan : madre; Tosan: padre.



Grazie a tutti i lettori :)
Nei prossimi capitoli riprenderò la storia al presente ma non mancheranno altri scorci passati riguardarti tutti gli altri personaggi. Spero vi piaccia l'idea, fatemi sapere che ve ne pare:)
Baci,
Valentina <3

 

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Capitolo 7
*** Problems ***


CAPITOLO 7: Problems

 
Finalmente ora di pranzo … non ne potevo più di stare chiuso qui dentro. Porto subito l’ICF europeo ad Aizen-sama e me la defilo il prima possibile … sperando di non trovarlo in ufficio. Altrimenti addio pausa.
Il medico abbandona il proprio camice sul lettino del piccolo ambulatorio dalle pareti bianche, lisciandosi il maglione beige che ricade dolcemente sui fianchi stretti. Sbuffa appena, afferrando il sottile manuale ed avviandosi verso il corridoio, non prima di aver chiuso a chiave la porta. Lancia un’occhiata distratta alla targhetta con il suo nome appesa accanto allo stipite per poi lasciar vagare le iridi dorate sulla figura di Ichigo poco lontano da lui, alle prese con la fotocopiatrice.
“Qualcosa non va?”
“N.. no tranquillo. Ci riuscirò … prima o poi.”
“Bene. Porto questo al piano di sopra e poi andiamo nella mensa qua vicino. Aspettami giù nel salone grande, ti raggiungo subito.”
“E le fotocopie?”
“Lasciale lì, le farà Ishida. Mal che vada ci pensiamo domani, io per oggi ho finito...”
“Ma si arrabbierà! E .. e poi aspetta! Se poi vai a casa io con chi rimango?”
“Vedo che hai già iniziato a conoscerlo … chi se ne frega, che si arrabbi pure. E tu … tu bo, finirai con Gin.” Ghigna malignamente, passandosi una mano fra i capelli rosati.
“Faccio in un secondo.”
Così dicendo si avvia velocemente lungo le scale, senza perdere la postura fiera ed orgogliosa, saltellando di tanto in tanto. Giunto di fronte alla meta bussa lievemente, arrossendo, sperando con tutto se stesso di non ottenere alcuna risposta. Attende qualche secondo, regalandosi un sospiro di sollievo nell’accorgersi d’essere fortunatamente solo: certo, gli piace Aizen-sama, gli piace davvero tanto! E’ un uomo dal fascino irresistibile, dalla passione eccezionalmente travolgente, elegante, raffinato. Ma non prova nulla di più se non mera attrazione fisica. Apprezza il suo corpo scultoreo, quegli occhi di cioccolato profondi come l’abisso, adora le mani calde sul proprio ventre … ma quando si allontanano e rimane da solo quell’uomo sparisce dalla sua mente, come un fantasma di fumo. Scompare, si dissolve da ogni pensiero, nonostante gli rimanga il buonissimo profumo addosso, nelle vesti, o piccoli segni rossi sul corpo pallido.
Sorride, pensando che per un attimo ha vagamente creduto di essersene innamorato ma quella folle idea è svanita in un lampo, nella stessa velocità in cui è sorta.
Innamorarsi… che idiozia... Non ho tempo per queste cose, purtroppo. E nemmeno voglia.
Varca la soglia della stanza in penombra, assaporando la fragranza di vaniglia unita allo splendido Chanel Blue del proprio capo. Osserva accigliato la scrivania, il volto serio, mentre valuta con attenzione il posto migliore dove posizionare il manuale, notando con piacere uno spazio vuoto accanto ad un bellissimo trofeo dorato e scintillante: una coppa intarsiata da finissimi e pregiati dettagli, primo premio del torneo di Kendo vinto ovviamente da Sosuke qualche anno prima, un oggetto raffinato, grande fonte d’orgoglio per il direttore.
Qui andrà benissimo.
Tranquillamente protende le braccia adagiando l’ICF con meticolosità ma un’inaspettata voce alle sue spalle lo fa trasalire, costringendolo a sussultare visibilmente, tanto da non fargli trattenere un mozzato urlo di spavento.
“Yo Grantz! Era buono il caffè?”
Dalla sorpresa il medico urta inavvertitamente il lucido trofeo, facendolo cadere rovinosamente a terra.
“No no no no no !!!!”
Sgrana le iridi ambrate lanciandosi sulla coppa con foga: quest’ultima traballa fra le sue dita sottili, scivolando all’ultimo momento per sfracellarsi sul pavimento lindo con un sonoro tonfo, seguito da un rumore paragonabile a quello di un vetro in frantumi.
“Merda merda merda!!!”
Nnoitra, dietro di lui, deglutisce tremante, scrutando con angoscia la magra figura portarsi le mani nella chioma morbida, scuotendo la testa con orrore.
Lo aveva raggiunto per scusarsi di persona, cercando di farsi perdonare per il danno provocato. Non sapeva ancora cosa dirgli con esattezza, si era ripromesso di rifletterci al momento: in fondo non è mai stato un asso in questo genere di situazioni. Anzi, a dire la verità probabilmente non si è mai scusato con qualcuno in tutta la sua vita. Ed invece ora ha provocato un altro disastro, mille volte più grave del primo!
Lancia un’occhiata alla porta ancora aperta, muovendo un passo in tale direzione.
“Non pensare … di passarla liscia …. Nnoitra Jilga.”
La voce è scossa dall’ira, sembra quasi un ringhio sommesso e rabbioso, tanto pervaso di rancore da far rabbrividire il moro. Sa bene, molto bene, quanto sia folle il suo collega. Sa anche che si abbandona spesso a scenate isteriche, per poi lasciarle a metà ed andarsene in silenzio come se nulla fosse, con quello sguardo saccente, superiore, da altolocato, che ti lascia intendere di essere un vero idiota. Ti volta le spalle e si ammutolisce all’improvviso, chiudendosi in chissà quali ragionamenti, lasciando talvolta trapelare un ghigno infido sul volto dai lineamenti femminili.
Non è mai riuscito a comprenderlo, né ad entrare in quel suo mondo misterioso e complesso, in quella realtà in cui desidererebbe aprirsi un varco per nuotarvi dentro.
“Szayel ti giuro che nemmeno stavolta l’ho fatto apposta.”
Biascica delle scuse inudibili, sussurrando mentre indietreggia di qualche passo: non si stupirebbe affatto se quel matto furibondo lo prendesse per i capelli e lo costringesse a pulire il tutto con la lingua, ne sarebbe assolutamente capace.
Il dottore si volta di scatto, puntando le perle giallastre su quelle ametista dell’altro: lo fissa in silenzio, sistemandosi gli occhiali bianchi con l’indice. Lancia un’ultima occhiata al cumulo di macerie e frammenti per poi dedicarsi nuovamente alla fonte del guaio. Si rivolge a lui con voce inaspettatamente calma, con quel tono serpentino e sinuoso, malevolo:
“Dobbiamo trovare una soluzione. E alla svelta Jilga… altrimenti …”
“Altrimenti?”
“Siamo licenziati. In tronco. Bye bye, adios, a mai più rivederci. Capisci cosa intendo brutto coglione?”
Sì, lo capisce eccome. Si morde il labbro inferiore, maledicendosi per averlo colto di soppiatto, pensando di fargli .. di fargli cosa? Una sorpresa? Si sente sciocco ed inutile, ma soprattutto responsabile per l’accaduto.
È vero, oggettivamente parlando non è stato lui a rompere il trofeo. Ma se non avesse spaventato Szayel a quest’ora sarebbe ancora intatto e brillante. Cosa che .. beh, che non è più.
“Senti Grantz potremmo …”
“Taci. Sto pensando.”
Ammutolisce, portandosi una mano sulla bocca dalle labbra sottili, mentre l’altra gioca nervosamente con una ciocca di capelli.
“Ok, ho un’idea. Ma abbiamo poco tempo, dobbiamo correre.”
“Cosa dobbiamo fare?”
“Ci serve un piccione.”
“COSA??”
“Aizen-sama tornerà fra un’ora massimo. Ma dobbiamo essere previdenti perciò è bene sbrigarcela in 40 minuti, non di più. Siamo fortunati, Gin non c’è oggi, ha il turno di pomeriggio.”
“Ok ma a cosa ci serve un …”
“Non interrompermi. Andiamo al negozio di animali, compriamo un piccione, torniamo qui e lo lasciamo nell’ufficio. Spargiamo in giro qualche piuma, socchiudiamo la finestra e lasciamo che Aizen-sama scarichi tutta la colpa sul volatile. Così non sospetterà di nessuno e noi la passiamo liscia. Tutto chiaro?”
“Tu sei da rinchiudere! Non puoi fare una cosa del genere!”
“Hai forse una proposta migliore?”
Nnoitra digrigna i denti, sistemando meglio la benda bianca adagiata al volto magro e affilato. Una stretta incredibilmente decisa gli afferra il polso, trascinandolo con urgenza nei corridoi, in una cosa a perdifiato, rischiando più volte d’inciampare sugli scalini.
Giunti nella sala principale si osservano attorno con circospezione , saggiando la situazione di apparente calma, simili a due ladri prima del grande colpo.
“Perfetto, via libera.”
Ichigo, già avvolto nel proprio cappotto, osserva con aria interrogativa i due uomini nascosti dietro a un muro, come militari in trincea che si riparano dalle bombe. Addirittura contano fino al tre prima di uscire allo scoperto, ricominciando a correre all’impazzata, travolgendo il povero stagista.
“Ehi ehi piano! Dove andate! La mensa sta per chiudere?”
Le iridi nocciola, sconcertate e spaesate, si puntano su quelle dorate di Szayel, che lo prende per le spalle con un volto disperato:
“Ascoltami Ichigo. Posso fidarmi di te?”
“S… sì… perché?”
“Perdonami ma oggi salterai la pausa pranzo. Ti giuro che te ne offrirò all’infinito ma è questione di vita o di morte. Ti giuro anche che metterò una buona parola per farti assumere nel caso non venga licenziato prima!”
Lo scrolla con forza, stringendo le dita sottili sul corpo del giovane:
“Aizen-sama non deve entrare in ufficio finchè non torniamo. Nessuno e ripeto NESSUNO deve entrare lì dentro, intesi? Non fare entrare anima viva!!!”
“Come faccio?!”
La sua domanda si spegne nel vuoto, come una flebile fiammella, poiché i due complici sono giù spariti all’esterno della struttura ed ora si lanciano a capofitto fra le strade, senza più fiato nei polmoni, urtando contro passanti incolleriti e travolgendo qualche povero bambino. Ad uno addirittura fanno cadere il cono gelato, causando un forte pianto accorato seguito dalle imprecazioni della madre.
“Corri Nnoitra corri!”
“Dov’è il negozio??”
“COSA?? IO STAVO SEGUENDO TE!! CREDEVO CHE TU LO SAPESSI!!”
“Ma ti pare??? Non è nemmeno stata mia l’idea!”
Si fermano in mezzo alle strisce pedonali, scrutandosi negli occhi in cagnesco, con la faccia di chi si metterebbe le mani addosso se solo ne avesse la possibilità.
“Adesso tu mi dai un cazzo di piccione Jilga o io …”
“O tu cosa?? Mi fai licenziare?? Lo faranno a prescindere ormai!”
Si guardano attorno, cercando fra le insegne dei molteplici negozi una che potesse appartenere ad uno shop di cuccioli e stavolta la fortuna è dalla loro parte:
“Eccolo!!”
Come due proiettili si avviano verso la soluzione dei loro problemi, pregustando soddisfatti la vittoria e la salvezza a portata di mano.
Entrano rassicurati, lasciando tintinnare il campanellino appeso alla porta d’ingresso, facendosi successivamente spazio fra le gabbiette di criceti e coniglietti pelosi.
Una ragazza dai lineamenti dolci e le iridi grigie li saluta cordialmente, stringendo affettuosamente fra le braccia un gattino fulvo immerso nelle fusa.
“Buongiorno Dottor Grantz, che sorpresa vederla qui.”
“Signorina Inoue?”
Lei sorride amabilmente, annuendo, salutando i clienti con un allegro cenno.
“In cosa posso esservi d’aiuto?”
“Oh ecco … avete un piccone?”
La giovane ridacchia sommessamente, riflettendo per una manciata di secondi:
“Mi dispiace ma come potete notare abbiamo solo canarini, pappagallini e altri piccoli uccellini. Non abbiamo altro.”
“Ma ci serve!” sbraita il moro sull’orlo di una crisi di nervi.
“Stia calmo la prego … mi dispiace tanto davvero!”
“Maledetta donna venditrice di uccelli!”
Il ragazzo è pronto a scaraventarle addosso un coniglietto quando la mano di Szayel si posa sul roditore, riponendolo dolcemente nella teca.
“Stai calmo. Ok Inoue-san … non fa niente. Non importa. Dammi lo stesso del mangime per piccioni.”
La giovane gli procura immediatamente un sacchetto colmo di semini, leggermente impaurita da quel pazzo dai lunghi capelli corvini, con quello sguardo ametista glaciale e temibile.
“Ve lo regalo ehm … arrivederci!”
A piccoli e veloci passi si allontana dietro alla cassa, augurandosi di rimanere sola al più presto.
Grantz si catapulta fuori dal negozio trascinando il complice lungo il marciapiede umido.
“Si può sapere dove stiamo andando adesso?”
“A catturare uno di quei bastardi …”
“Cosa? E come intendi fare? Non abbiamo nemmeno un retino idiota!”
“Aspetta e vedrai…” sul volto del medico si profilo uno di quei ghigni malvagi che lo contraddistinguono.
Dopo pochi minuti di corsa si ritrovano in un vicolo cieco e buio, una stretta insenatura gelida fra gli alti grattacieli di Tokyo. Il dottore apre il sacchetto bianco, lanciando un mucchietto di semini a terra: immediatamente un piccone grigiastro e grassoccio plana dall’alto, atterrando sul cibo ed iniziando ad abbuffarsi, seguito da un altro e poi un altro ancora.
“Ecco i tuoi piccioni. E adesso?” ringhia Jilga, tremante dal freddo.
Con scatto felino il collega gli svuota addosso il contenuto del sacchetto, riempiendolo di mangime dalla testa ai piedi: le minuscole briciole gli scivolano fra i capelli lisci, sotto ai vestiti pesanti, addirittura dentro ai pantaloni, costringendolo ad imprecare come un ossesso.
“Szayel maledetto!”
Uno stormo di piccioni gli fionda addosso, aggrappandosi al maglione con le zampe acuminate, svolazzando e sbattendo le ali, beccandolo qua e là tubando e cinguettando.
“Toglimeli! Toglimeli! Giuro che ti ammazzo!”
Szayel si sfila il maglione, buttandosi addosso ad un pennuto ed acciuffandolo all’interno del capo d’abbigliamento. Gli occhi dorati scintillano furbamente da dietro le lenti degli occhiali, mentre un risolino divertito gli esce dalle labbra sottili.
“Preso! E’ ora di tornare indietro!”
 
Nel frattempo, al Centro Espada …
 
“Aizen-sama … oh, è già .. ehm, è già qui?”
Ichigo deglutisce nervosamente, sistemandosi la giacca chiara, mentre gli occhi indagatori del direttore setacciano la sua figura con peculiare minuziosità.
“Kurosaki … è da un po’ che non ti vedevo … come procede la tua permanenza qui? Ti trovi bene?”
Szayel e Nnoitra non sono ancora tornati. È la mia occasione per iniziare un discorso e tenerlo qui. Altrimenti … loro … potrebbero essere licenziati … qualsiasi cosa abbiano fatto. Devo aiutarli.
Sorride malamente, scompigliandosi il manto arancione e sbarazzino.
“Va .. va tutto a meraviglia! E lei come sta?”
Bene, così … deciso Ichigo … deciso.
“Tutto bene, grazie Kurosaki.”
Il ragazzo si morde un labbro, invaso da un forte senso di inferiorità: quell’uomo massiccio ed elegante, con quell’espressione seria e coincisa, … tutto di lui lo mette in soggezione.
Sosuke nota l’agitazione sul delicato volto dello stagista e gli si avvicina leggermente, poggiandogli una mano sulla spalla:
“Ho l’impressione che tu abbia qualcosa da dirmi. Sbaglio?”
Cogli la palla al balzo, ora o mai più.
“Sì … in effetti … sì.”
“Vieni in ufficio allora, ne parliamo lì con comodità.”
Si mette male, malissimo, infinitamente male!
“NO!! NO! IN UFFICIO NO! Ehm volevo dire … non si scomodi … volevo … volevo offrirle un caffè!”
Lui esita qualche secondo, corrucciando le sopracciglia castane, per poi distenderle ed accennare una smorfia divertita.
“Sei un ragazzo gentile. Ora capisco perché parlano tutti bene di te, sei così premuroso.”
“Tutti …?”
“Sì, anche Ulquiorra. Mi ha detto che l’altro giorno l’hai aiutato con uno scatolone anche se non era un tuo compito.”
“Sì è vero .. ma era davvero pesante, lui sembrava in difficoltà … non dovevo?”
Lo sguardo del capo si addolcisce, lasciando spazio ad un sorriso rassicurante.
“No, anzi, ti sei comportato davvero in maniera ammirabile. D’accordo, offrimi questo caffè se ti fa piacere, lo accetto volentieri. Così mi racconti le tue prime impressioni su questo posto.”
“Certo … la ringrazio Aizen-sama …”
 
* * *
 
Osaka, poche ore prima…
 
Grimmjow ripone il cellulare sbuffando, maledicendo mentalmente il folle collega e le sue strane manie di telefonargli alle otto di mattina … di proposito. Immagina la sua faccia sbeffeggiante, quel ghigno divertito mentre compone il suo numero e lo saluta come se nulla fosse:
L’ha fatto apposta! Se non mi martoria l’anima non è contento, non può iniziare bene la giornata.
Inoltre, ad accrescere il suo malumore, è la musica proveniente dalle casse situate lungo i corridoi, che già così presto invade le stanze e la hall dell’hotel.
Un’altra rottura di coglioni, perfetto. Chi diavolo ha avuto questa malsana idea….
Ringhia sommessamente, bofonchiando qualche imprecazione sottovoce fra un sospiro e l’altro. Gli occhi cerulei, ancora socchiusi dal sonno, lanciano uno sguardo al cielo perlaceo e vasto, un deserto di nubi biancastre ancora colme di pioggia, talmente dense da filtrare i raggi del sole scarno trasformandoli in mere lacrime pallide. La loro luce chiara e smorta illumina placidamente il corpo immobile di Ulquiorra, comodamente adagiato fra le coperte morbide e profumate, i capelli corvini sparsi sul cuscino e sul collo latteo; il petto nudo e leggermente definito emerge dalle lenzuola, scoprendo la perfezione di quella pelle invitante e morbida, percorsa da qualche piccolo segno rosso risalente alla sera precedente.
Il collega lo fissa intensamente, ripensando alla bugia detta poco prima a Szayel: non è vero che non sapevo dov’era … ma non mi andava che quel sadico svegliasse anche lui. Non dopo la notte che ha passato.
Allunga la mano sulla fronte dell’uomo, tastandola con cautela e delicatezza, accertandosi che la temperatura fosse scesa almeno in quell’arco di ore: il povero Schiffer, infatti, non solo è svenuto durante il party ma ha anche trascorso le ore seguenti rigirandosi nel letto, mugolando dal dolore agli arti e allo sterno a causa della febbre troppo alta, completamente sudato e ansimante per colpa degli incubi ricorrenti.
Grimmjow non ha potuto far altro che caricarlo sulle spalle, portandolo di peso alla camera, dileguandosi misteriosamente dalla festa per poi aiutarlo come meglio poteva, ora dopo ora: prima una pezza bagnata sulla fronte, poi fargli aria con un ventaglio, poi le pastiglie antifebbrili, poi ancora urlargli contro insulti esasperati ed infine crollare addormentato in un angolo del materasso.
Il contatto con il palmo caldo e rassicurante dell’azzurro sveglia il moro, che socchiude lentamente le palpebre pesanti come macigni: la vista  offuscata, annebbiata, impiega qualche istante per focalizzarsi meglio sulla figura seduta accanto a lui ed infine sugli altri oggetti presenti nella stanza.
Si sente estremamente stanco, sfinito, come se un branco di cavalli gli fosse appena galoppato addosso strapazzandolo come un abito nella centrifuga della lavatrice; la testa è pesante, dolorante e lunghi brividi di freddo gli percorrono la schiena nuda e pallidissima. Con un impercettibile imbarazzo posa le tristi iridi smeraldo su quelle turchesi del collega, attendendo qualche imprecazione o sfuriata che, inaspettatamente, non intende arrivare.
“Come stai?”
Il corvino socchiude le labbra sottili per parlare ma una fitta alla gola lo fa trasalire, contorcendo il volto in un’espressione di dolore.
Grimmjow scompare in bagno all’improvviso, saltando giù dal letto come una pantera, ritornando poco dopo stringendo fra le mani un bicchiere colmo d’acqua fresca.
“Tieni.”
Glielo porge bruscamente, attendendo con impazienza gli estenuanti placidi movimenti dell’altro che , con tutta calma (e non senza fatica), si mette a sedere e beve a piccoli sorsi il contenuto limpido.
Appoggia il bicchiere sul comodino e si schiarisce la voce, sfiorando con le dita magre il collo stellato di succhiotti bluastri, arrossendo appena sulle gote.
“Sto meglio … grazie.”
“Non mi sembra. Hai ancora la febbre?”
“Non credo.”
Rimane in silenzio, abbassando lo sguardo per fissare il motivo regolare delle coperte di flanella, lasciando scorrere i propri pensieri convulsamente nella mente. Sospira, trovando finalmente il coraggio e la giusta motivazione per porre la domanda che continua ad angustiarlo.
“Grimmjow … devo parlarti.”
“Immaginavo.”
Dal corridoio The Hell Song accompagna il momento, ravvivando con le sue note assolutamente perfette (nonostante poco mattutine) quella prossima conversazione.
 
Tutti quanti hanno i loro problemi 
Tutti quanti ti dicono la stessa cosa 
È solo una questione di come li risolvi 
E sapere come cambiare le cose con cui hai finito 
 
Si infila sotto le lenzuola, accoccolandosi in quel piumino avvolgente e tiepido in attesa del fatidico discorso di Schiffer. Adagia il capo sul cuscino, steso di fianco in modo da poterlo osservare direttamente.
“Ieri sera … noi … ci siamo baciati.”
“No, tu mi hai baciato.” Ride sguaiatamente, mostrando i canini sporgenti. “Anzi, mi sei letteralmente saltato addosso!”
“Fino a prova contraria non sei tu ad essere pieno di … questi.” Il moro indica gli ematomi sul proprio corpo, spegnendo gelidamente la risata del compagno, ora innervosito.
“E allora? Non sembrava che ti dispiacessero .”
 
Mi sento come se avessi realizzato 
Quanto in fretta la vita possa essere compromessa 
Un passo indietro per vedere quel che sta accadendo 
Non ci posso credere che questo sia successo a te 
 
“E’ proprio questo il punto …” sospira mestamente, rabbuiando le iridi verdi con note cupe, impenetrabili:
“Io non riesco a ricordare se …. Se …. Se abbiamo …”
“Se abbiamo fatto anche altro?” conclude con scherzo Grimmjow, divertito dal comportamento impacciato e timoroso del collega che annuisce sconsolato e teso.
“No, tranquilla verginella. Sei ancora intatto.”
“Io non sono … mah, cosa sto a spiegarti gli affari miei.”
L’azzurro gioisce interiormente nel vederlo cogliere la sua provocazione: lui, l’eterno impassibile, l’uomo senza sentimenti, che finalmente si scalda per un argomento tanto banale. Sorride malignamente, avvicinandosi verso il ragazzo, sinuoso come un felino.
“Cosa stavi per raccontarmi? Che non sei ….. cosa..?”
Ulquiorra rimane immobile, lasciando che la distanza fra loro si accorciasse tanto da poter sentire il respiro dell’altro sulla propria pelle fredda. Scuote la testa sconsolato, sdegnando il collega impertinente con una delle sue espressioni trapelanti superiorità.
“Lo sapevo che erano tutte bugie, verginella.”
“Non devo di certo rendere conto a TE della mia vita privata.”
“Tutte scuse.”
“Lasciami in pace, sei assillante.”
Tenta di voltarsi, rabbrividendo, ma un palmo grande e dal calore intenso si appoggia sul suo petto, costringendolo a rimanere in quella posizione.
“Dimmi la verità Ulquiorra.”
La testa inizia a vorticare, gli occhi a bruciare. Esasperato sospira, portandosi una mano sulle tempie pulsanti.
“Poi mi lasci in pace?”
“Forse. Se mi rispondi per bene può darsi…”
“Cosa vuoi.”
“Innanzitutto voglio sapere cos’avevi intenzione di combinare ieri sera. Sono irresistibile, lo so. So anche che sono un figo da paura ma non credevo di esserlo così tanto da farti cambiare sponda … psicologo.”
Ulquiorra deglutisce amareggiato, sconcertato nel ricordare che fra tutte quelle immagini confuse solo una gli è rimasta impressa vividamente nell’anima: quelle labbra morbide ed umide, l’inebriante sensazione donata dal loro sfiorarsi sempre più affamato, le scariche di brividi dettate da ogni tocco, da ogni morso, da ogni lasciva carezza. Si morde la lingua, deciso a non proferire più alcuna parola ma ciò gli risulta impossibile.
“Mi hai fatto prendere un colpo tremendo quando sei svenuto in mezzo al bagno ...”
“Mi dispiace.”
“Non dispiacerti, altrimenti a quest’ora non saresti più intatto.”
“Ti ho già detto che non sono vergine. Ho già avuto le mie esperienze. E ora fatti gli affari tuoi.”
“Stavi solo giocando Ulquiorra?”
La sua voce si fa improvvisamente seria, roca, profonda, mista ad un velo di tristezza.
“No …”
“Allora perché?”
Le grandi perle azzurrissime fissano quelle cristalline del moro, invadendolo della stessa emozione provata la sera prima; quella sensazione prepotente ed insidiosa ma assolutamente stupenda che solo Grimmjow sa regalargli.
“Perché altrimenti non avrei avuto più alcuna occasione per farlo.”
 
È solo un problema a cui sono di fronte 
Non sono lunico che odia starsene a guardare 
Le Complicazioni sono le prime dirette in questa linea 
Con tutte queste immagini che scorrono attraverso la mia mente
 
A quelle parole il turchese sobbalza, come se una lancia gli avesse appena perforato il petto:
“Tu cosa? Da quanto tempo ti passava per la testa questa cosa?”
Il ragazzo non risponde, si limita a stringersi nelle spalle scoperte con dignità e orgoglio.
Grimmjow lo scuote bruscamente, strappandogli un gemito di disapprovazione.
“Ulquiorra!”
Il moro sembra sul punto di scoppiare. Forse non in lacrime, nonostante le guance color porpora e gli occhi lucidi. Ma il suo cuore sta per esplodere, questo è più certo che mai.
“Da anni. Da anni ok? Sei contento? Tu mi piaci da anni, come te lo devo dire. È solo che … ho sempre avuto l’impressione … di essere solamente uno schifo per te. Non sono stupido: tutti gli sguardi disgustati che mi lanci … lo scherno nei miei confronti … il disprezzo … mi sono accorto di ogni cosa. Non so perché mi odi tanto, ma il tuo orrore non è ricambiato.”
“Questo perché mi hai sempre guardato dall’alto in basso come se fossi un pezzente! Tratti tutti come degli idioti!”
“Non è vero. Solo chi lo è davvero si sente trattato come tale.”
“Vedi? È questo che mi fa incazzare! Sempre serio con bacchetto di legno! Non ridi mai, non cambi mai espressione! Ma che vita di merda è la tua?”
La pressione di Grimmjow si allenta, lasciando un alone rosato sulla pelle del corvino che istintivamente si rifugia sotto le coperte voltandosi, dando la schiena al maleducato interlocutore.
“Pensavo di poter avere una conversazione civile con te ma evidentemente mi sbagliavo. Dimentica quanto detto e quanto accaduto.”
 
Conoscere infinite conseguenze 
Mi sento così inutile in questo… 
Non puoi far marcia indietro
 
I minuti scorrono silenziosi, scanditi dal respiro leggero di Ulquiorra e da quello più agitato di Grimmjow. Quest’ultimo osserva la figura magra del compagno stesa poco lontano da lui, inerme e provata dalla febbre:
Si è addormentato di nuovo? Infame …
Nel petto prova un profondo dispiacere, un rammarico mai provato prima: gli dispiace aver trattato con tanta durezza il collega ma quell’atteggiamento indifferente lo manda su tutte le furie, è inevitabile!
Eppure … eppure non resiste e nuovamente appoggia la mano sulla sua fronte, accertandosi di tener sotto controllo la febbre.
Osserva la pelle chiarissima della schiena, bianca come il latte, senza alcuna imperfezione ed istintivamente poggia le labbra con delicatezza sulla superficie profumata e liscia. Inizia a baciarla lascivamente, quasi con dolcezza, senza cedere alla tentazione di tormentarla con morsi audaci e famelici.
Allunga le braccia cingendogli i fianchi, portando i palmi caldi sul ventre magro dell’altro, facendolo sobbalzare scompostamente.
Aderisce al suo corpo freddo, avvicinando il volto a quello del moro ed iniziando a baciarlo sulla guancia, costringendolo a voltarsi ed incontrare le sue labbra.
Gli occhi smeraldo lo osservano interrogativi, feriti dalla conversazione precedente, trapelanti malinconia.
“Mi dispiace.”
Un sussurrio appena percettibile, soffiato sulla bocca schiusa di Ulquiorra seguito da un impetuoso bacio avido e bollente, affamato.
Il corvino non oppone resistenza, anzi, si lascia invadere dal sapore del compagno, desiderando silenziosamente di poter rimanere stretto a lui per sempre. Si lascia carezzare docilmente i capelli scuri e lisci, le guance, il petto, ricambiando quelle attenzioni affettuose sfiorando timidamente l’azzurro, beandosi di quel tocco breve e intenso, le emozioni così forti da fargli mancare il respiro.
La lingua del collega, ormai sopra di lui, gioca con la sua, mordicchiando talvolta il labbro inferiore o leccandolo maliziosamente.
Sussulta visibilmente quando percepisce le dita di Grimmjow insinuarsi sotto l’elastico dei pantaloni della tuta. Le iridi verdi scrutando spaesate il volto concentrato e accaldato dell’altro, distraendolo per un attimo dalle sue intenzioni.
“Lo sapevo che in realtà eri una verginella.” Ghigna trionfante e soddisfatto, senza ritrarre la mano dal basso ventre del ragazzo.
“No è solo che … con un altro uomo … io …”
Ulquiorra che cerca di giustificarsi. Questa me la segno. Devo scrivermela assolutamente da qualche parte!
Eppure … il suo sguardo innocente … il suo calore che aumenta sempre di più … le labbra socchiuse ed invitanti … è così terribilmente eccitante.
“Fin’ora sei stato a letto solo con delle donne?”
Ulquiorra annuisce, tremando. Forse dal freddo, forse dall’agitazione.
“Non sono gay. Tu sei … un’eccezione.”
Si sofferma un momento su quel termine, riflettendo sulla correttezza del termine usato. Ma in fondo non gli importa più: gli interessa solo essere divorato e straziato da quelle fauci che ama da troppo tempo, desidera ardentemente provare anche per un minuscolo secondo la sensazione d’essere realmente vivo, di esistere sinceramente in questo mondo grigio e soffocante, di tastare con mano che l’esistenza non è solamente una dimensione nebbiosa lacerata dal dolore ma che può essere qualcosa di meglio.
“Ma non fermarti. Non … non intendo tirarmi indietro.”
Si solleva faticosamente premendo i gomiti sul materasso, raggiungendo il compagno per stampargli un bacio delicato sulle scapole. Gli arti magri e candidi gli cingono la schiena mentre le labbra vagano sul petto muscoloso e scolpito, facendolo sospirare e sussultare ad ogni piccolo morso.
Lentamente, lasciando percepire una malcelata urgenza, gli sfila i pantaloni e lo lascia ripetere su di sé il medesimo gesto, permettendo ad entrambi di osservare per la prima volta il corpo quasi completamente nudo l’uno dell’altro. Grimmjow si stupisce di come possa essere perfetto quel fisico asciutto e bianchissimo, tremendamente magnifico, così stupendo da volerlo ricordare per il resto dei suoi giorni.
Ulquiorra invece prova un certo timore di fronte alla struttura massiccia del collega ed il suo sguardo infuocato non promette nulla di buono, anzi, lo induce a deglutire nuovamente e a tremare ancor più scompostamente.
 
Parte di me, non sarà daccordo 
Perché non so se è per davvero 
Improvvisamente, improvvisamente 
Non mi sento così insicuro
 
“Quando torneremo … continueremo a ignorarci come se niente fosse ?”
La voce del moro è incrinata dal dispiacere e dall’emozione, il suo fiato scosse spezza le parole come vento fra le foglie d’autunno.
Con un gesto secco Grimmjow gli sfila i boxer, lasciandolo totalmente scoperto, sogghignando leggermente:
“Non ci pensare nemmeno.”
“Veramente?”
“Veramente.”
“Allora prendimi adesso. Io … non voglio più aspettare.”
“Non me lo farò ripetere due volte … Ulquiorra.”
Ulquiorra… in fondo non è un brutto nome. Anzi … è complesso … ma gli calza a pennello. Anche lui è una persona particolare. Ulquiorra … Ulquiorra … non suona più così male.
È forse un sorriso quello?
Sta sorridendo?
No … impossibile me lo sto immaginando …
Sgrana le iridi azzurre, continuando ad accarezzare il compagno, notando con piacere gli occhi socchiusi e le labbra sottili inarcate in un piccolo sorriso. Certo, minuscolo. Ma sincero.
Sta sorridendo davvero … Ulquiorra .
 
Perché le cose che contano di più 
Non vanno mai a finire come scegliamo noi? 
Ora che lo scopro, non è così male 
Non credo tu sapessi... cosa avevo. 


 

Lettori ... non so voi ... ma io ho paura per quel piccione .. o meglio... della reazione di Aizen quando scoprirà il tramaccio ^-^'''''''
Deeetto questo! Spero vi sia piaciuto questo capitolo :) 

La canzone riportata a destra è The Hell Song (from Sum 41) e l'ho scritta già "tradotta" in italiano ... l'ho trovata perfetta per quella situazione :)


Perdonate eventuali obrobri grammaticali o ripetizioni, sono stanchissima non riesco a ricontrollare :(

Attendo con piacere un vostro parere, nel frattempo vi ringrazio tutti e vi mando un bacio :***
A presto,
Valentina :)

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Capitolo 8
*** Orphanage ***


CAPITOLO 8: Orphanage


Quella mattina il freddo è meno pungente del solito e la pioggia ha finalmente cessato di scendere: il cielo perlaceo è ancora denso di nubi cariche d’umidità, la loro presenza affollata ed omogenea è una cappa grigiastra e soffocante, una coltre tanto spessa da nascondere il sole flebile di dicembre.
Ulquiorra cammina placidamente lungo il marciapiede, poco lontano dal centro città di Tokyo, in un’appartata via secondaria: piccoli negozi si susseguono uno dietro l’altro, le vetrine illuminate ed agghindate, alcune già mostrano in bella vista alberi di natale decorati con fiocchi e luci dei più svariati colori; dai cafè si sprigiona il profumo delle bevande calde ed il vocio proveniente dal mercatino poco lontano giunge fino alle orecchie del ragazzo, semicoperte dal berretto scuro e morbido. Ciocche di capelli corvini gli ricadono sulla fronte, leggermente schiacciate dal copricapo invernale, mentre altre si adagiano sulla sciarpa della medesima tinta, sembrano lievemente mosse, ondulate. Gli occhi smeraldo scrutano imperturbabili il mondo attorno a lui, le persone al telefono, le auto sulla strada, i bambini mano nella mano con la propria madre, coppie innamorate a passeggio, le bancarelle colme di leccornie e spiedini all’orizzonte. Si ferma qualche attimo, osservando i guanti che indossa per proteggere dal gelo la pelle lattea:
Sono mai stato preso per mano da qualcuno? Ho mai passeggiato accanto a una persona che non fosse me stesso?
Muove lentamente le dita, come per sgranchirle, mentre questi pensieri gli pungono la mente come api insidiose, aggredendolo con una fitta allo stomaco: no, nessuno lo ha mai preso per mano né mai ha assaporato la gioia di visitare i mercatini di natale con un amico, una ragazza, la persona amata.
La bocca sottile si incrina in un’espressione mestamente triste, riprendendo il passo verso la propria destinazione, la mente ancora avvolta nei pensieri anche se sono rivolti a tutt’altro argomento …
Sono stato veramente un cretino ad Osaka. Chissà cosa mi è preso per dire a Grimmjow tutte quelle cose … non avrebbe mai dovuto sapere cosa provo. Non avrei mai dovuto andarci a le….
Sospira, abbandonandosi a qualche colpo di tosse: nonostante le cure immediate e le grandi quantità di tachipirina non è ancora riuscito a vincere l’influenza, che continua a tormentarlo con i suoi fastidiosi sintomi.
Cosa provo veramente? Per anni ho desiderato che s’accorgesse di me … che potesse ricambiare anche solo in parte ciò che provo per lui … io stesso avevo finalmente iniziato a credere di non volerlo più così tanto. Speravo di averlo scordato, di poter fingere che tutto vada bene. E poi invece mi sono ritrovato a vomitargli addosso tutte le parole che per tutto questo tempo ho tenuto solo per me. Così, da un momento all’altro, mi sono trovato a dormire abbracciato alla persona che prima mi trattava come un appestato. E ora cosa devo fare?
 
Per l’intero viaggio di ritorno Ulquiorra ha osservato il proprio collega tranquillamente addormentato ridosso al finestrino del treno. Si era assopito come un bambino troppo stanco per rimanere sveglio, nonostante l’euforia del viaggio. Lo aveva guardato talmente tanto da poter ricordare dettagliatamente ogni suo particolare, ogni sussulto della cabina, ogni suo respiro, movimento. Gli si era seduto accanto anziché di fronte, ingenuamente, come una ragazzina che segue innamorata il proprio idolo e ritaglia ogni briciola di tempo insieme a lui, consumandolo con foga.
Rimugina disgustato questa similitudine, provando un forte senso di stupidità e vergogna, meravigliandosi di come abbia cercato disperatamente il calore di quell’uomo dai capelli azzurri, la sua calda vicinanza, anche un semplice sfiorarsi di mani. Affascinato ripensa alla strana ma bellissima sensazione regalatagli da quei tocchi delicati e decisi sulla propria pelle chiara, al sapore delle sue labbra affamate, al profumo intriso negli abiti ancora chiusi nella valigia.
Benedice mentalmente d’essere ritornato proprio giovedì sera e di avere come giorno libero il venerdì; senza contare che la struttura rimane chiusa l’intero weekend ed oggi è solamente sabato:
meglio così, non lo vedo fino a lunedì. Ho abbastanza tempo per inventarmi una soluzione. O per decidere il da farsi … senza contare che per ora non si è nemmeno fatto vivo. Una telefonata, un messaggio … nulla. Che sciocco, cosa mi aspettavo? Che importa, ho ancora domani per riflettere.
Si ferma improvvisamente, sobbalzando, riscuotendosi da quella miriade di sensazioni: scruta il grande cancello in ghisa nera, alto e imponente, allungano verso il campanello l’indice ancora avvolto nel guanto.
“Chi è?”
“Ulquiorra.”
“Ah! Apro subito!”
Un rumore metallico, poi uno scatto della serratura: il ragazzo si avvia nel lungo viale di ghiaia, una stradina non troppo larga che divide a metà un grande prato bruciato dall’algida temperatura. Alberi scuri e privi di foglie si stagliano nel terreno, protendendo i rami spogli e scarni verso il cielo ovattato e cupo.
Con passi veloci si avvicina alla decadente struttura, notando a malincuore la vernice dei muri scrostata, le crepe vistose e qualche tegola frantumata per terra. Sale i pochi scalini che lo separano dall’entrata, trovando una donna minuta ed esile ad attenderlo sulla porta. Gli sorride, puntando i grandi occhi blu sui suoi, scostandosi i capelli scuri lunghi fino alle spalle.
“Rukia.”
“Yos! Sono felice che sei venuto a trovarci oggi! Avevo proprio bisogno di una mano!”
La donna lo invita a entrare con un cenno del capo, facendogli strada nel piccolo e freddo soggiorno: lo sguardo di Schiffer cade sulla grande scrivania di legno antico posizionata proprio al centro della stanza, protetta da enormi scaffali colmi di vecchi libri adagiati alle pareti. Un tappeto malconcio, color senape, protegge il pavimento bianco e pulito.
Con un piede scosta malamente qualche peluche, raggruppandolo insieme ad un’alta catasta di giocattoli ammucchiata in un angolo in penombra.
“Scusa il disordine … lo dico sempre ai bambini di non venire qui a giocare ma quando è di turno Stark loro fanno di tutto … lui gli permette qualsiasi cosa …”
Sbuffa sonoramente, pronunciando il nome del proprio collega con una punta di stizza.
“Lo sai anche tu quanto gli piaccia dormire no? Ma farlo a lavoro mi sembra esagerato! E poi sua figlia, quella piccola peste … sai cos’ha combinato insieme agli altri bambini?”
Ulquiorra tossicchia, portandosi una mano alla bocca, cercando di inalare meno umidità possibile:
“Cos’ha fatto?”
“Ha quasi demolito questo orfanatrofio! Anzi scusa … “casa d’accoglienza”. Tsk, accoglienza? Ma ti prego, guarda che condizioni … nessuno ci dà i fondi per ristrutturare questo posto … siamo sottopagati … è malsano, cade a pezzi, e fra un po’ non c’è nemmeno spazio per tutti! Guarda!”
Dà un pugno alla parete, scrostandone un pezzo di intonaco:
“Vedi?”
Lui annuisce mestamente, stringendosi nel cappotto. La donna continua le sue lamentele:
“Abbiamo dei turni allucinanti: siamo solamente in due, dobbiamo provvedere a tutto noi. Certo, ci sono anche i volontari ma … ormai vengono sempre meno. L’unico su cui possiamo sempre contare sei tu …”
Gli rivolge un sorriso colmo di gratitudine, versandogli in una tazza del thè caldo profumato di limone:
“Questo posto era così malmesso anche quando ci vivevi tu?”
“Da quello che ricordo sì.”
“Diamine … quanti anni sei rimasto qui? Non te l’ho mai chiesto …”
Ulquiorra abbassa lo sguardo, la voce si affievolisce come una fiammella soffiata dal vento:
“Da quando avevo 4 anni … fino alla maggiore età …”
La donna sbianca in volto, domandandosi come sia possibile che, nonostante tutto il tempo da lui passato in quell’orfanatrofio, ora continui ad avere la forza e volontà di tornarvi ogni settimana ad aiutare altri bambini che, come lui, sono soli al mondo.
“Lavoro qui solo da qualche anno … mi hanno detto che la gestione precedente era terribile …”
“Non mi va di parlarne.”
“Scusami, non volevo …”
Un bambino fa capolino dalla soglia della porta, correndo incontro al ragazzo e saltandogli addosso, abbracciandolo:
“Ulqui-chan! Oggi ci leggi una storia?”
Immediatamente altri piccoli si affollano nella stanza, tirandolo per il cappotto, sfilandogli la sciarpa per usarla come corda da saltare, lanciando in giro i guanti in una guerra di aeroplani.
Lui si avvicina al mobile colmo di libri, le iridi verdi scorrono sui titoli, soffermandosi su uno in particolare. Afferra delicatamente il libro fra le mani bianche, soffiandone via la polvere per poi rivolgersi al bimbo:
“Ti va bene questo? So che è il tuo preferito…”
Lui batte la manine dalla felicità, saltellando:
“Sii! Jack e il fagiolo magico!”
Anche gli altri gioiscono, iniziando a correre come una mandria di cavalli verso la rampa di scale che conducono al piano superiore. Solo il piccolo rimane, tirando un lembo della manica di Ulquiorra:
“Ulqui-chan … tu lo sai perché mi piace tanto questa storia?”
Scuote la testa in segno di diniego, lasciando ondeggiare i capelli corvini.
“No, perché?”
“Perché quando sarò grande voglio essere forte e intelligente come Jack … proprio come sei diventato tu.”
Sparisce anch’egli nel corridoio, inseguendo gli altri compagni, con la promessa di essere raggiunto presto.
Rukia gli pone  la piccola mano sulla spalla, mettendosi in punta di piedi:
“Ti vogliono proprio bene, eh?”
“Non credo.”
“Come sarebbe a dire? Non hai visto come ti hanno accolto?”
“E’ un sentimento effimero, lo fanno solo perché è l’unico modo per distrarsi dalla loro situazione. Appena vivranno in un posto migliore si dimenticheranno di me.”
“Non dire così … loro ti vogliono bene davvero. Mi chiedono sempre di te …”
Ulquiorra sorseggia distrattamente il thè, lasciandosi carezzare il volto magro dal vapore fumante.
“Piuttosto …. Ti fermi a pranzo oggi? Ci sono spaghetti di riso.”
“D’accordo … grazie.”
“Finisco di sistemare le carte e arrivo!”
 
“… E vissero per sempre felici e contenti.”
“Wow! Che bella storia!”
I bambini applaudono, gli occhi pieni di emozione, l’immaginazione già al galoppo. Seduti in cerchio puntano i loro occhietti su Ulquiorra, che porge il libro verso di loro per mostrare l’ultima immagine rappresentante Jack e sua madre ricchi e felici insieme alla gallina dalle uova d’oro.
“Secondo te esistono le galline magiche?” chiede uno dai capelli biondi e mossi, grattandosi il mento.
“No. Ma sarebbe bello se ci fossero.” Risponde il ragazzo, accennando un sorriso.
Il bimbo che lo aveva tirato per la manica gli salta in braccio nuovamente, accoccolandosi sulle sue gambe:
“Ulqui-chan, ma è vero che anche tu abitavi qui una volta?”
“Sì.”
“Ed eri contento?”
No …
“Sì.”
“Hai ancora gli amici con cui hai passato il tempo quand’eri qui?”
Amici? Quali amici?
“Diciamo che mantengo i contatti con uno di loro. Lavoriamo nello stesso edificio.”
I piccoli lo fissano assorti, esclamando un sonoro “wooo!” all’unisono.
“E come si chiama??”
Anche Rukia, seduta in disparte, lo scruta interessata, unendosi alla curiosità degli ospiti.
“Già, chi è??”
“Non so se a lui va che dica il suo nome.”
“Perché??” domandano rattristati.
“Perché i nostri compagni non erano bravi come voi. Lo prendevano sempre in giro e lui non vuole ricordare quei brutti momenti.”
“Come mai lo prendevano sempre in giro Ulqui-chan?”
Il ragazzo scompiglia affettuosamente i capelli all’insistente interlocutore, alzandosi in piedi:
“Non ha importanza. Su, andiamo, è ora di pranzo.”
 
* * *
 
Passato …
 
Le ultime foglie si staccano dagli alti rami scuri dei possenti alberi, trasportate dal vento freddo di novembre. Il cielo è sereno, avvolto in un caldo tramonto di fine autunno che tinge il cielo di rosa ed arancione, carezzando le nuvole sparse e lontane, simili a cumoli di zucchero filato.
Quel dolce a dir la verità non lo conosceva per davvero, ne aveva sentito il profumo solo una volta quando camminava per la fiera con i propri genitori, prima che loro lo abbandonassero davanti a quell’edificio, biascicando un semplice “Aspettaci, torniamo presto.”
Aveva visto altri bambini con quella matassa bianca fra le mani impiastricciate, soprattutto in occasione delle festività che adornavano la città di luci e lanterne ma lui no, non aveva mai colto l’occasione di assaggiarlo e, in verità, non gli sarebbe dispiaciuto affrontare quella golosa esperienza soprattutto oggi che è il suo compleanno: 11 novembre, il secondo ormai che trascorre da solo. Le insegnanti sono troppo occupate degli altri compagni per accorgersi che lui, oggi, ha un anno in più, che sta crescendo anche se nessuno si accorge della sua esistenza. E chi lo fa non si risparmia alcuna derisione, insulto, beffa: lo guarda con superiorità, dall’alto in basso, come se fosse una bestia da tenere rinchiusa in qualche stanza buia.
Forse sono davvero un mostro come dicono. Ecco perché mamma e papà non sono più tornati a prendermi.
Porta la piccola mano sulla benda che gli copre parte del volto, tastando quella zona insensibile al tatto, impermeabile al dolore.
Forse … forse è per colpa di questo.
Nnoitra corre allo specchio, puntando l’unico occhio color ametista sul proprio volto sfigurato, scostandosi i capelli scurissimi dietro le orecchie:
E’ per questo che mi odiano tutti? È per questo che gli altri bambini non giocano con me?
Un fruscio alle sue spalle lo costringe a voltarsi, spaventato:
“Cosa fai storpio? Guardi quanto sei brutto?”
Un gruppo di compagni inizia a canzonarlo, come sempre, puntandogli contro l’indice e dandosi gomitate fra loro:
“Cosa c’è, ti sei accorto di fare paura?”
Ridacchiano, dandosi forza a vicenda.
“Già, perché non vai a nasconderti? Non vogliamo gli spaventapasseri, qui!”
“Fai schifo, dovevano abbandonarti prima!”
“Vattene via, non sei come noi!”
Nnoitra sente la gola stringersi in un nodo, le lacrime accalcarsi nell’occhio impedendogli di vedere chiaramente.
“Io vi supererò tutti un giorno. Diventerò migliore di tutti voi!”
Sbraita con rabbia, avventandosi sul gruppetto con foga, tirando caldi e pugni senza ritegno, colpendoli istericamente.
“Io vi batterò tutti! Ve lo posso giurare!”
Un’insegnante accorre angosciata, separando il piccolo Jilga dal resto del gruppo e sbattendolo in una stanza vuota in cui vi rimarrà tutta la notte.
“Sei un diavolo! Perché hai picchiato i tuoi compagni!”
“Perché loro …”
“Ti sembrano cose da fare? Sei un mostro! Sei diverso da loro, ficcatelo in quella testa vuota che ti ritrovi!”
Così dicendo si chiude la porta alle spalle, girando la chiave sonoramente, lasciando sprofondare la camera nel silenzio.
Dalla grande finestra gli ultimi raggi di sole scaldano le mura bianche ed il tappeto verdognolo, color oliva, inondando con la loro calda luce la figura del piccolo, ancora in piedi di fronte alla porta chiusa.
“Bastardi, schifosi bastardi! Io … io vi supererò …”
Un rumore in un angolo lo fa voltare nervosamente, scoprendo di non essere solo in quella stanza: un bambino pallido e magro, dai capelli neri e gli occhi tristi, è accovacciato lontano, accanto all’entrata del bagno. Sembra piangere, singhiozzare silenziosamente, ma il suo volto è privo di qualsiasi espressione diversa dalla più profonda malinconia:
“E tu chi sei?”
Il piccolo non risponde, appoggiando la testa sulle ginocchia strette al petto.
“Ehi! Ti ho chiesto come ti chiami!”
A grandi passi si avvicina all’altro, prendendogli le spalle e scrollandole con rabbia.
“Odio essere ignorato! Mi vuoi rispondere?”
Finalmente lo strano individuo alza le iridi smeraldo, puntandole su quella ametista di Nnoitra, causando in lui una forte soggezione.
“Mi chiamo Ulquiorra Schiffer.”
“E non mi chiedi come mi chiamo io?”
“No.”
“Perché?”
“Perché non mi importa.”
Un brontolio proveniente dallo stomaco di entrambi spezza la loro conversazione, facendoli arrossire lievemente, facendo calare la stanza nel silenzio.
Dopo pochi minuti Jilga gli rivolge nuovamente la parola:
“Perché ti hanno messo qui?”
“Affari miei.”
“Quanti anni hai?”
“Affari miei.”
“Sei una palla!!”
Disgustato si allontana da quel pupazzo di neve, appoggiandosi alla finestra: dall’alto il paesaggio cambia totalmente: sembra di poter dominare il mondo intero, tutto ciò che vedi appare come un regno da governare, piccolo alla vista, tanto minuscolo da poterlo prendere fra le mani. Le case lontane dai camini fumanti sembrano un modellino ben costruito, abbellito dagli alberi, dalle auto, dai corvi che volano fra gli ultimi raggi di sole.
“Ho fame…”
“Siamo in castigo, per oggi rimarremo senza cena.” Asserisce seriamente Ulquiorra, stringendosi ancora di più fra le braccia.
“Ho una caramella. Se te la do mi dici perché sei qui?”
L’altro riflette per qualche minuto, passandosi le dita sottili fra le ciocche scure:
“Mangiala tu, te lo dico lo stesso.”
“Allora?”
“Perchè sto sempre da solo, dicono che è sbagliato … ma io sto bene così.”
“E quindi ti hanno messo in castigo?”
“Ormai mi buttano quasi sempre qui.”
“Infatti non ti ho mai visto prima. Non vieni mai a giocare in giardino?”
“No, preferisco stare in camera da solo.”
“Ahh..”
Nnoitra scarta la caramella, mettendola in bocca. L’aveva rubata qualche giorno prima nell’ufficio al piano terra, senza che nessuno se ne accorgesse. Era il suo trofeo, la sua vendetta verso quelle insegnanti ostili e quei compagni babbei, ma la fame è troppa e non poteva tenerla lì a lungo.
“Lo sai Ulquiorra che oggi è il mio compleanno?”
“Auguri.”
“E tu quando fai gli anni?”
“Il primo dicembre.”
“Manca poco! Verranno i tuoi genitori a farti gli auguri?”
Il piccolo scuota la testa con un segno di diniego, trincerandosi nel silenzio. I grandi occhi verdi si puntano sul nuovo amico, forse l’unico che in tutta la sua vita abbia cercato di rivolgerli la parola per più di due minuti. Quindi può considerarlo come tale, no?
Rovista nella tasca, estraendo un panino candido e ancora morbido, dalla mollica pastosa.
“Se hai fame tieni.”
Nnoitra sgrana l’iride violacea, sconvolto da tanta gentilezza.
“Cosa??”
“Tanti Auguri, no? Tieni.”
Si alza in piedi, rivelando il fisico gracile ed esile:
“Tieni, prendi.”
Gliela ripone fra le mani, allargandogliele con convinzione e poi richiudendogliele sul panino.
“Tu … tu non lo vuoi?”
“Non mi piace il pane. È quello del pranzo di oggi, se non lo mangi si arrabbiano .. allora l’ho nascosto.”
Lo mangia in silenzio, sedendosi accanto all’altro strano bambino. Inizialmente pensava fosse un tipo strambo, losco, forse cattivo. Ti fissa con quegli occhiacci verdi senza parlare, fa un po’ paura a dire la verità. Ma con sua grande sorpresa è gentile, davvero tanto.
Ormai il cielo è buio, la luna fa capolino accanto a Venere illuminando con la sua falce l’immenso manto blu.
Nnoitra si lecca la punta delle dita con la lingua affilata, facendo ridacchiare l’amico.
“Perché ridi?”
“Perché sei buffo.”
“Non ti faccio schifo?”
L’altro sussulta, stupendosi di quella domanda:
“Perché dovresti?”
Si indica la benda sull’occhio, sul volto un’espressione sgomenta.
Schiffer allunga l’indice sfiorando il tessuto bianco per poi ritrarre tranquillamente la mano, nonostante l’altro sia balzato in piedi veloce come un grillo.
“Cosa cavolo fai?”
“Niente.”
Imbronciato si siede nuovamente, scoprendosi un braccio e massaggiandolo con cura.
“Ti fa male?” chiede Ulquiorra schiudendo le labbra sottili.
“Un po’. Mi hanno lanciato i sassi.”
Sospira, continuando a tastare l’arto dolorante.
“Ma vedrai: quando sarò grande io diventerò il migliore!”
 
 
* * *
 
Torniamo al presente …
Tokyo, Sabato, ore 11.30
 
Szayel sbadiglia, affondando la fronte nel cuscino del sofà. Si avvolge nella morbida coperta, sbattendo più volte le palpebre per abituarsi alla luce del giorno. Le iridi dorate ondeggiando da un mobile all’altro, annacquate dal sonno, definendone i contorni sfocati.
Tasta malamente il poggiolo del divano, poi la spalliera, il tappeto, il pavimento:
dove diavolo sono i miei occhiali?
“Stavi cercando questi?”
Grimmjow si lascia cadere stancamente, precipitando sulle gambe dell’amico:
“Ahia! Levati cazzo!”
“Ahuahah come siamo incazzosi appena svegli!”
Szayel mugugna qualcosa, afferrando la montatura bianca e posizionandola accuratamente mentre l’amico ride di gusto.
“Mi hai fatto male.”
“Quante storie, e poi è il mio divano, ho tutto il diritto di sedermi quando voglio.”
“Non se è già occupato da qualcuno!” sbraita il medico lanciandogli addosso il telecomando.
“Hai smaltito male la sbornia vedo. Forse dovevi bere un po’ meno …”
“Dovevamo festeggiare il tuo ritorno a Tokyo no? E poi era il nostro Pizzadì”
“Bella scusa, sono stato via solo due giorni e mezzo!”
Grantz ridacchia, lasciando schiudere le labbra in un ghigno malizioso:
“Vedo che in quei due giorni e mezzo ti sei dato da fare.”
Si scosta le ciocca rosa dalla fronte, legandosi i capelli in una piccola coda, con l’indice indica le macchie rosse sul collo dell’azzurro, premendo il polpastrello su di loro.
Grimmjow diventa paonazzo, balzando in piedi come una pantera.
“Non è vero!”
“Te li sei fatti da solo? Ci credo proprio.”
Si stiracchia comodamente, decidendo infine di alzarsi nonostante la precedente intenzione di crogiolarsi ancora un po’ sotto la coperta.
“Avanti, chi è il fortunato?”
“Nessuno!!”
Fugge correndo in bagno, chiudendosi a chiave e lasciando fuori l’amico.
Apre il getto d’acqua della doccia, abbandonandosi al suo tepore rifocillante e piacevole. Dall’esterno della stanza una voce innervosita lo raggiunge, riscuotendolo dallo stato meditabondo:
“Non finisce qui, lo scoprirò sappilo!”
Un attimo di silenzio, poi riprende:
“E poi ricordati che oggi pomeriggio c’è la fiera del fumetto e noi ci andremo! E … un’altra cosa! Ho visto le ciambelle che tieni nel frigo … sappilo, le ho viste. E ora vado a mangiarmele!”
Sente i passi allontanarsi sempre di più, fino a scomparire.
Sorride divertito, passando la spugna sul petto scultoreo:
“Le ho prese per te, baka!”

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Capitolo 9
*** Snow ***


CAPITOLO 9: Snow


 
La luna splende bianca come la neve nel cielo stellato, spettro latteo madre degli astri celesti. La sua luce è così chiara da carezzare le nuvole allungate e veloci, simili a velieri che solcano onde scure e profonde, navi sospese nell’abisso. È meravigliosa, affascinante, magnetica: sublime e dal fascino pericolosamente stravolgente, proprio come l’aria di mistero e solitudine che avvolge il corpo nudo di Ulquiorra immerso nell’acqua fumante fino alle scapole.
I grandi occhi verdi scrutano minuziosamente le rocce umide che delimitano la sorgente termale, beandosi del profumo di petali  sparsi tutt’attorno, lasciando percorrere il volto magro da piccole solleticanti goccioline. I capelli corvini ricadono bagnati sulle spalle magre, appesantiti e leggermente più lunghi e lisci: la sua pelle appare talmente morbida e delicata da sembrare un dolce appetitoso pronto per essere morso e gustato in ogni sua parte.
Grimmjow si ridesta da questi pensieri per nulla casti appena in tempo, fremendo leggermente e sussultando nell’accorgersi d’avere quelle iridi verdeggianti puntate addosso, anch’esse silenziosamente immerse in chissà quale riflessione.
L’azzurro si sgranchisce le braccia lasciandole riemergere qualche secondo, cambiando improvvisamente idea a causa del freddo pungente esterno alla pozza bollente: pizzicanti brividi gli percorrono la schiena e il collo, inducendolo ad abbandonare la sua comoda posizione per abbandonarsi ad un veloce nuotata disinvolta che lo conduce, inevitabilmente, accanto al collega.
“Non ti farà male stare in ammollo come un panno?”
Il moro solleva lo sguardo verso di lui, attendendo qualche secondo priva di rispondere senza alcun segno d’emozione nella voce:
“Perché mai?”
“Come sarebbe a dire perché? Sei svenuto pochi giorni fa, tossisci ancora come un disgraziato e mi chiedi pure perché??”
“Ma sto bene adesso.”
Arrossisce, mordendosi il labbro inferiore per la bugia appena detta: da quando Ulquiorra Schiffer mente? 
Ripensa al motivo che lo ha indotto ad auto convincersi di essere in piena salute: poter trascorrere quel weekend insieme al ragazzo che gli ha rapito il cuore, passare insieme a lui anche solo cinque minuti in più di quanto sperato, nonostante fino a quel mattino la sua mente si trovasse in una moltitudine di dubbi confusi e desideri altinelanti. Ed ora eccolo qui, a nemmeno mezzo metro di distanza da Grimmjow Jeagerjaques, entrambi immersi nel vapore caldo e nell’acqua della medesima temperatura, avvolti da una delicata fragranza inebriante, protetti dal candore della luna svettante nel cielo invernale.
Una folata di vento gelido scuote entrambi, ridestandoli dal torpore come una sveglia che suona alle prime ore del mattino: si voltano nel medesimo istante, lanciandosi un’occhiata trapelante curiosità ed un leggero imbarazzo. Il turchese punta le proprie perle cerulee sul compagno, due scrigni caotici ed intensi, due universi che ghermiscono chiunque li fissi troppo a lungo. È questo ciò che pensa l’altro riguardo quegli occhi, uno dei tanti aspetti che apprezza e ammira in quell’uomo. Se sono realmente lo specchio dell’anima allora lui non può essere un normale ragazzo: lui dev’essere speciale, lo è certamente. Lo è perché ogni volta che gli si siede accanto lo fa tremare. Perché la sua sola presenza lo rende più bollente della febbre. Perché per una notte gli ha fatto dimenticare il dolore che cela nel proprio cuore. I brandelli che nasconde nel proprio spirito giorno dopo giorno, come uno scheletro da chiudere nell’armadio.
“A cosa pensi?”
Le iridi verdi vengono attraversate da un lampo di luce, rendendo evidente il disagio provocato in lui da quella domanda: è evidente che stesse pensando al collega, assolutamente lampante. E lui se n’è immediatamente accorto.
“Sono qui. Perché non ne approfitti per parlarmi, invece che rimuginare?”
Rimane in silenzio, immergendosi ulteriormente nell’acqua fino alla punta del naso.
“Non dirmi che non sai cosa dire. Ulquiorra Schiffer che rimane senza parole? Questa è bella.”
Non risponde, lasciando avvicinare a sé il corpo massiccio di Grimmjow.
Dopo un’attesa simile ad interi anni luce la sua voce prende forma, fluendo come quella della piccola cascatella e del vento fra i rami spogli:
“Non mi sarei mai aspettato di ricevere questo invito … da te …”
L’altro sgrana gli occhi, lasciandosi poi andare ad un sorriso divertito.
“Pensavi che ti piantassi in asso senza più badarti?”
“Sì, in effetti pensavo proprio questo.”
Sospira, assaporando il profumo della notte e del terriccio umido, ricoperto da muschio, poco lontano da loro.
“Non nego di aver soppesato questa alternativa.” Ghigna malignamente, svelando i canini quasi felini.
“Perché non l’hai fatto allora …”
Con un braccio cinge i fianchi del moro, che sobbalza inaspettatamente: le sue guance si tingono di rosso ed il collo magro viene ben presto ricoperto da infiniti minuscoli brividi.
“Non mi andava di finire tutto così. Volevo … conoscerti meglio … certo, fosse stato per me avrei fatto iniziare questa conoscenza reciproca da lunedì ma come ti ho detto … quel ficcanaso di Grantz …”
“Mi dispiace a dir la verità. Aveva sicuramente progettato di venire qui con te.”
“Ma no, cosa vuoi che gli importi! Se mi ha regalato i biglietti significa che gli andava. È fatto così, non cimentarti a comprenderlo, nemmeno uno psicologo come te potrebbe riuscirci.”
“Si ma …”
“Non preoccuparti, te l’ho detto. Aveva comprato questi due biglietti ma appena ha notato il succhiotto che TU mi hai lasciato non si è dato tregua e mi ha assillato tutta la mattina chiedendomi chi fosse il fortunato.”
“E tu ….?”
“Ho dovuto dirglielo. Non puoi capire quanto sia snervante se si impegna… ha quasi distrutto …”
Ringhia rabbiosamente sotto lo sguardo attonito del moro.
“Ahh lascialo perdere quel folle. È matto da legare. Appena ha saputo che eri tu ha gongolato come un bastardo e mi ha spiaccicato in faccia i biglietti …”
“Credevo che avesse in programma di andare con te alla fiera oggi pomeriggio.”
“Era quello che credevo anch’io, ci teneva parecchio. Ma non ha accettato scuse … ha detto che non dovevo preoccuparmi e che aveva già in mente qualcun altro con cui andare.”
“Chi?”
“Non ne ho idea e, conoscendolo, non voglio nemmeno saperlo. Dopo la faccenda del piccione poi … meno male che eravamo via.”
“Aizen-sama li ha scoperti?”
“Pare di no ma anche se fosse non gli farebbe niente. Si sono dati tanta pena per niente, il capo non licenzierebbe mai Szayel.”
“Allora non era solo una mia impressione.”
“Purtroppo no … bah, affari suoi. Se non va a immischiarsi in qualche casino non è contento. Chissà se il pacchettino che aveva in tasca oggi era da parte sua.”
“Un regalo da parte di Aizen-sama? Impossibile … magari era per te.”
“Per me? Ma figurati, quel maledetto non ha la grazia di impacchettare un regalo … l’ultima volta che me ne ha fatto una lo ha nascosto nel microonde, capisci? Nel mio fottuto forno microonde.”
“Era un bel regalo?”
“Non l’ho mai saputo, è esploso prima che potessi accorgermene. E si è pure offeso!”
Ulquiorra ridacchia, annuendo, avvicinandosi al petto robusto e muscoloso del compagno ed abbandonando il capo umido e pesante sulla sua spalla. Un gesto infantile, spontaneo, colmo di quell’innocenza che caratterizza ogni azione del moro. Sembra un piccolo animale appena aperto alla vita, un neonato che ancora non conosce le sfumature dei propri sentimenti ed un po’ se ne spaventa, un po’ ne è attratto. Vorrebbe ispezionarle tutte, riempirsene il petto, ma sono troppo forti e lo terrorizzano nel profondo delle viscere.
Le dita di  Jeagerjaques percorrono lentamente i lineamenti del viso ovale, carezzandoli con dolcezza a dispetto del suo solito modo di presentarsi irruento e travolgente. Le passa delicatamente sulle labbra sottili, giocandovi, per poi risalire alla fronte dove scosta alcune ciocche nere come l’ossidiana.
Il collega sussulta ad ogni tocco, inspirando profondamente per rimanere in sé, per non perdersi nella galassia di quelle vorticose emozioni.
Vorrei accarezzarti anch’io.
Vorrei baciarti.
Vorrei … morderti?
Vorrei … vorrei solo dirti che ti … che io ti …
Si morde un labbro, stringendosi ulteriormente a quel corpo caldo e rassicurante.
Due braccia forti lo stringono, avvolgendolo come ali, le stesse che lo hanno protetto durante le notti ad Osaka, le medesime di cui ha sentito la mancanza una volta tornato a Tokyo.
“Cosa c’è, non mi vuoi più verginella?”
“Smettila di chiamarmi verg…”
Due labbra prepotenti si posano sulle sue, lasciandolo ad occhi sgranati, il cuore palpitante ed indomito, le spalle tremanti. Lo bacia con foga, senza violenza o cattiveria, semplicemente con ardore. Ben presto il moro si abbandona a quell’abbondanza d’attenzioni, allungando le proprie esili mani sul collo dell’azzurro, carezzandolo leggero come velluto lungo gli addominali scolpiti, la schiena, i fianchi, le cosce.
“Che furbetto.” Ghigna malizioso Grimmjow quando ritrova le dita affusolate aderenti al proprio bacino.
Ulquiorra arrossisce ma non cela il piccolo sorriso dipinto sul volto pallido.
Scruta la lunga cicatrice sul petto del compagno, ricoperta da piccole goccioline.
L’altro lo osserva assorto, imprimendosi nella mente quei lineamenti angelici, quelle iridi preziosamente cristalline, il colore inusuale della pelle chiarissima senza alcuna imperfezione, il contrasto del folto manto d’ebano che ricade compostamente sulle spalle gracili. Gli manca il respiro, è una creatura troppo perfetta.
“Sai … sembri un vampiro.”
“Cosa? Perché?”
“Perché oltre ad essere bianco come la neve sei anche misterioso e strano, come loro. E poi non lo so, hai qualcosa di magnetico che non mi permette di starti lontano.”
Così dicendo lo stringe a sé, premendo il proprio corpo contro il suo, lasciandolo sedere sulle gambe rivolto verso di lui, in modo da potersi scrutare in volto.
Le spalle nude del moro emergono dall’acqua lasciandosi ghermire dall’algida temperatura che costringe il ragazzo ed emettere un mugolio di disappunto.
“Hai freddo? Vuoi che torniamo in camera?”
“Non importa, possiamo stare ancora un po’.”
Come risposta una serie di baci invitanti e lascivi gli percorre le clavicole ed il collo, la mascella, il petto mentre le sue dita stringono le ciocche azzurre ed umide con forza, ma senza rabbia.
Placidamente la luna scompare dietro una fitta coltre di nubi perlacee, che sempre più affollate si uniscono nel cielo notturno in un unico manto omogeneo e compatto, un velo diverso dal grigiore piovoso dei giorni precedenti:
“Secondo te nevicherà?” sussurra Ulquiorra, interrompendo i baci del collega.
“Eh? Cosa?” le iridi blu lo squadrano sospettose, indispettite dall’interruzione.
“Ti ho chiesto se, secondo te, nevicherà.”
Alza lo sguardo verso il cielo, notandone il cambiamento.
“Certo che sei strano forte … in ogni caso, non ne ho idea. Ma … per precauzione meglio spostarsi in albergo, che ne dici?”
“Dico che si può fare.”
 
Quando Grimmjow abbandona a malincuore quel corpo caldo i suoi sensi sembrano sollevarlo fino al paradiso più celestiale e divino che l’uomo abbia mai potuto conoscere. Una profonda sensazione di benessere e rilassamento lo pervade totalmente, nonostante il fiatone ancora impresso nei polmoni ed il profumo del compagno tatuato nella pelle rosea. Ulquiorra lo abbraccia, steso su un fianco, adagiato su di lui: silenzioso, anch’egli ancora affannato, le palpebre socchiuse.
La stanza si riempie del loro respiro via via sempre più regolare, accompagnato dal lontano e perpetuo sciacquio della sorgente: nessuno dei due intende parlare, entrambi desiderano abbandonarsi alla stanchezza e al sonno che li sta trascinando nel mondo dei sogni, avvolti dalle morbide coperte e dal tepore della camera dalla pareti di legno dorato, color miele. Eppure Grimmjow interrompe la quiete, destando il ragazzo dal suo torpore:
“Senti Ulquiorra, mi stavo domandando una cosa …”
“Spero sia importante.” Mugugna appena, la voce leggermente impastata dal sonno.
“Qual è il tuo colore preferito?”
“Eh?”
Il moro lo fissa spaesato, incrociando le magnifiche iridi azzurre del compagno.
“Perché me lo chiedi?”
“Te l’ho detto, mi va di conoscerti meglio. Certo, il modo che abbiamo usato fin’ora mi aggrada tantissimo ma vorrei sapere altro di te.”
“E cosa vuoi sapere? Ci vediamo ogni mattina a lavoro, credo che tu mi conosca abbastanza.”
“Non so nulla di te. Non so la tua storia, non so cosa ti piace né cosa ti dà fastidio. Non conosco i tuoi amici, i tuoi gusti, i tuoi passatempi … vedi? Non so niente. Raccontami qualcosa, voglio ascoltarti.”
“Non so da dove incominciare. Non ho un gran che da offrirti, mi dispiace …”
“Parti dalle cose più semplici.”
Lo accarezza lungo le costole, solleticandolo.
“Il mio colore preferito … il blu forse.”
“Cibo preferito?”
“Non credo di averne uno. Non gli ho mai dato tanta importanza.”
“Ho notato ... da tanto sei magro …”
Ulquiorra arrossisce, stringendosi nelle coperte.
“Non importa, dimmi i tuoi passatempi.”
Aspetta silenziosamente una risposta ma il respiro regolare e sereno del ragazzo scivolato nel sonno conclude quella breve chiacchierata. Lo guarda assorto, sorridendo compiaciuto per poi spostare le iridi chiare sul paesaggio esterno alla finestra: fiocchi di neve turbinano in una danza magica, piccole farfalle effimere e fragili che sbattono le ali cadendo dal cielo. Vorticano in piccoli turbini, attutendo ogni suono ed ovattandolo con il loro gelido candore per adagiarsi infine al suolo già quasi interamente bianco.
Aveva ragione … sta nevicando …
Osserva il collega addormentato accanto a lui, ancora stretto al suo corpo caldo, immerso nelle coperte. Senza accorgersene paragona la sua pelle pallida al colore della neve volteggiante nel bosco attorno alla struttura e con immenso piacere ne apprezza la particolare somiglianza: è un fiocco di neve quello vicino a lui, un piccolo, fragile, candido, meraviglioso coriandolo di ghiaccio.
 
 
* * *
 
Sabato pomeriggio, Tokyo, Fiera del Fumetto
 
“Ti prego Fragolino!”
“No, no e ancora no! Te lo puoi scordare!”
“Ehi, come sarebbe a dire no? Guarda che fino a prova contraria sono un tuo superiore!”
Szayel continua a scuotere Ichigo per le spalle, fissandolo con le iridi dorate sotto lo sguardo divertito di Nnoitra.
“Mettiamo le cose in chiaro Szayel Aporro Grantz: 1: Mi chiamo Kurosaki Ichigo, non Fragolo, Fragolino o qualsiasi altra cosa simile. 2: è tornato Grimmjow quindi ora non hai più nulla a che fare con me. 3: a prescindere non siamo a lavoro quindi non puoi pretendere nulla! 4: anche se fossimo a lavoro non ti aiuterei lo stesso perché è l’idea più idiota che io abbia mai sentito!”
“Non me ne frega un cazzo Fragolino, è l’occasione della nostra vita e dobbiamo coglierla.”
Il ragazzo inarca con disappunto un sopracciglio, osservando pensierino l’enorme bando della gara cosplay esposto su un enorme cartellone.
“Non vedo perché vincere una fornitura di ciambelle per un anno dovrebbe essere l’occasione della mia vita.”
“Perché le amo, ovvio no?”
“Esatto, tu! Non io, quindi arrangiati.”
“A me piacciono!” sghignazza Jilga torcendosi le mani.
Si volta, pronto a dileguarsi nella marea di gente accalcata attorno alle bancarelle colme di manga d’ogni genere ma una stretta ferrea lo costringe a rimanere immobile, incapace di avanzare anche di un solo passo.
“Che tu lo voglia o no mi dai una mano!”
“Ascoltami testa vuota, se anche volessi aiutarti me lo dici come facciamo eh? Hai scoperto questa cosa cinque minuti fa! Zero costume, zero idee, zero materiali, zero tutto!”
Nnoitra continua a ridacchiare acutamente, osservando compiaciuto i due litiganti.
“E va bene KUROSAKI ICHIGO, per questa volta ti assecondo ma scordati che me la dimentichi facilmente!”
“Finiscila di fare tante storie, ora te ne vado a prendere una ok?”
“Due.”
“Una!!”
“DUE.”
“Sei poi stai male cazzi tuoi.”
Si allontana a grandi falcate lasciandosi alle spalle un Grantz dal sorriso soddisfatto ed un Jilga alquanto dubbioso.
“Sei come i mocciosi, ti riempi di zuccheri e poi diventi isterico.” Lo canzona il moro, ciondolando su una gamba.
“Taci, mi è rimasto ancora un po’ di quel mangime per uccelli …”
Il corvino deglutisce, balzando lontano dal medico ghignante.
“E ora vieni con me.”
“Cosa ti prende?”
“Ti pare che io lascio perdere un’opportunità del genere Jilga?”
Con l’indice indica una frase sottolineata scritta in grassetto: presente anche la categoria original.
Kurosaki emerge dalla mandria dei presenti posando stizzito in mano al dottore due ciambelle decorate con glassa colorata.
“Oh, che carino, grazie Ichigo.”
Sta per addentarne una quando uno scintillio malvagio gli percorre lo sguardo dorato:
“Avete notato che la votazione sarà data dal pubblico?”
“E allora?”  chiede il più giovane stringendo le braccia al petto con aria corrucciata.
“E allora!? Guardate bene, sono prevalentemente donne. E noi siamo tutti e tre dei fighi da paura! A che serve travestirci, le manderemo in visibilio solo con la nostra presenza.”
“Tu sei da sopprimere.” Ringhia Nnoitra prendendo per il braccio il ragazzo dai capelli ramati ed allontanandosi.
“Ah che peccato … mi vedo davvero costretto a spiegare ad Aizen-sama l’incidente del suo trofeo …”
I due fuggiaschi si immobilizzano di colpo, scrutando sottecchi la finta smorfia dispiaciuta dell’amico.
“E va bene, cos’hai in mente?”
“Seguitemi in auto, dovrei avere qualcosa nel bagagliaio.”
“Tipo .. cosa?” domandano in coro gli altri due.
“Mah … qualche camice … una katana … altre cosette così. Seguitemi e basta. Ahh se solo ci fosse Grimmjow!”
 
Qualche ora dopo …
 
Szayel osserva compiaciuto il suo abbonamento annuale, gli occhi scintillanti di felicità e l’acquolina in bocca. Lo rigira con gioia fra le mani, pregustando la bontà di infinite quantità di ciambelle d’ogni genere: alla crema, al cioccolato, glassa, marmellata.
“Grantz… a… aiuto …”
La voce strozzata dei due amici lo raggiunge, scomodandolo dai suoi golosi sogni ad occhi aperti.
Lui si volta stizzito, fulminandoli con un’occhiata truce.
“Che c’è?”
“Tiraci fuori di qui!”
“Hmmm … no!”
Con un sorrisetto divertito ricomincia a fissare il premio, lasciando gli amici in balia dell’enorme gruppo di donne urlanti e scalpitanti attorno a loro: cinguettanti ed estasiate le giovani si accalcano addosso ad Ichigo e Nnoitra complimentandosi per il bellissimo show, chiedendogli appuntamenti, il numero di telefono, di sposarle, di uscire con loro, domandandogli se sono già impegnati, quanti anni hanno, se potrebbero essere il tipo giusto per loro.
“Eh..ehm ragazze .. vi prego … un po’ di modo! Noi …”
Ichigo balbetta imbarazzato mentre tenta di scapolare un abbraccio dopo l’altro; osserva frustrato il collega in lontananza, i capelli rosa raccolti in una coda e gli occhiali da sole, Rai-ban a goccia per nascondergli il volto magro:
Che bastardo furbo … ci lascia in balia di queste invasate e si camuffa per non farsi riconoscere …
La risata acuta di Nnoitra lo fa trasalire dai suoi pensieri, innervosendolo ulteriormente: com’è possibile che quei due fino al giorno prima si inseguivano per ammazzarsi ed improvvisamente si sono alleati? La loro coalizione è ancora più insopportabile di quando erano due entità distinte.
“Dai Ichigo non fare quella faccia… in fondo l’idea di fare uno spogliarello davanti a tutti non è stata tanto malaccio no? Guarda, ci adorano!”
Scoppia in un’altra fragorosa risata, passandosi la lingua appuntita sul labbro superiore, gesto che non passa inosservato alle sue fan, le quali gli si avventano addosso più di prima.
Kurosaki arrossisce, sgattaiolando via dal gruppetto impetuoso.
Adesso gliela faccio pagare!
Si avvicina velocemente verso Grantz, raggiungendolo in fretta:
“Ti conviene mettere giù quel foglio altrimenti lo perderai.”
“Perché mai?”
“Per questo!”
Con disinvoltura gli toglie gli occhiali da sole e gli scioglie la coda lasciando fluire i morbidi capelli:
“Ragazze? Guardate chi ho trovato!”
L’ammasso di donne si volta verso di lui e con grande gioia si avventa addosso al dottore, buttandolo perfino per terra ed assillandolo di proposte e domande.
“Fra…Fragolo … maledetto …”
Ma cos’hanno combinato i nostri colleghi per farsi adorare così tanto dal pubblico femminile?
Uno dopo l’altro hanno elegantemente sfilato sul palco vestiti con uniformi da medico, sfilandosele poco a poco in un lascivo spogliarello che ben presto ha permesso alle giovani di apprezzare il  loro fisico scolpito, quei muscoli accennati e marmorei, ben delineati, la loro snellezza.
Nnoitra pareva divertirsi parecchio, lanciando occhiate fintamente maliziose alle ragazze urlanti, soprattutto quando una di loro gli ha lanciato un reggiseno e lui l’ha raccolto mandandole un bacio con la mano. Ichigo invece era piuttosto impacciato, completamente paonazzo in volto e la sua dolcezza ha colpito inevitabilmente parte della giuria. E poi Szayel, determinatissimo, ha concluso il numero sbalordendo tutti, amici inclusi, con un numero da fachiro: ha ingoiato la propria katana, già strana di per sé, fino all’elsa, per poi estrarla indenne ed inchinarsi ad un pubblico entusiasta. Non c’erano dubbi, il premio era già nelle loro mani, ma mai avrebbero immaginato di non potersi più scrollare di dosso quelle fan in preda ad una crisi ormonale.
 
Finalmente, dopo un’ora di angoscianti promesse quali “Vi chiameremo tutte” “Ma certo che ci rivedremo” i tre amici riescono a ritagliarsi uno spazio per loro e visitare finalmente la fiera, camminando fra le bancarelle.
“Ragazzi io vado a casa, sono sfinito … e poi ho promesso a mio padre di aiutarlo a preparare la cena oggi.”
“Che bravo Fragolino! Non ti preoccupare, divideremo il premio in tre parti e una sarà tua, te la sei meritata.”
L’uomo dalle ciocche rosate ammicca divertito, salutando il giovane con una mano.
“Pare che siamo rimasti io e te … andiamo al padiglione play?” chiede il medico stiracchiandosi stancamente.
“Ci giochi anche tu?”
“Puoi giurarci…”
Uno sguardo d’intesa corre fra le iridi ambrate di uno verso quelle ametista dell’altro:
“Grimmjow mi ha imprestato Dark Souls II giusto l’altro giorno … devo ancora iniziarlo.”
“Ero proprio intenzionato ad acquistarlo oggi.”
“Che ne dici di venire più tardi a casa mia e giocarci?”
Nnoitra lo squadra dall’alto della sua statura, ingoiando la sorpresa di quell’invito, leggermente turbato da quel carattere mutevole come la luna ed altrettanto intrigante, a tratti folle, gentile, caparbio, egoista ma allo stesso tempo l’esatto opposto di quanto appena descritto. Quell’uomo è tutto ed il contrario di tutto, un mistero vivente.
“Hmm , perché no.”
“Perfetto! Uh guarda, sbaglio o quello è Call Of Duty III? Kami, l’ho sempre voluto ma ho sempre dato la precedenza ad altri!”
Grantz si avvicina saltellando all’oggetto dei suoi attuali interessi, trascinando dietro di sé l’amico.
“Si dà il caso che io ce l’abbia e che oggi mi sento talmente buono da prestartelo.”
Ghigna Nnoitra, inarcando le labbra fini in uno dei suoi soliti sorrisi malevoli.
Le iridi dell’altro si illuminano di gratitudine:
“Davvero? Oh sarebbe fantastico!”
Continuano la passeggiata vicini, commentando questo e quel gioco, dandosi consigli sulle migliori strategie per vincere o sconfiggere i nemici, sulle armi da usare e come potenziare il proprio personaggio. Di tanto in tanto sfogliano i manga, altra passione in comune, criticando i dettagli più impensabili o elogiandone la trama, il disegno, il finale, la crudezza delle scene.
“Non credevo avessi i miei stessi interessi.”
“Se è per questo mi credevi un coglione, Grantz.”
“Ma lo sei.”
“Cos’hai detto??”
Il rosato ride, scostandosi dietro le orecchie le ciocche color pastello.
“Scherzavo, scherzavo. Ti preferisco come amico che come nemico. Almeno non rischio più avvelenamenti di prima mattina …”
“Non contarci.”
“Pff, ti passerà la voglia quando ti straccerò alla play. Resti a cena?”
“Volentieri.”
 
Sarebbe stata una lunga, lunghissima serata …



Che bello sono riuscita ad aggiornare prestissimo! Che ve ne pare di come sta procedendo la storia?
Grazie a tutti per seguirmi, grazie a chi ha recensito e ha inserito la storia fra seguite/preferite/ricordate.
Vi mando un bacio,
a presto!
Valentina :)

 

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Capitolo 10
*** Desire ***


CAPITOLO 10:   Desire

 
Le coperte sono morbide, avvolgenti, intrise del profumo intenso e solleticante di quell’uomo tanto folle quanto intrigante che ora dorme sullo spazioso divano dopo aver gentilmente ceduto la propria camera all’amico.
Nnoitra si stringe in quelle lenzuola avorio assaporandone l’essenza, immaginando accanto a sé il collega e rimanendo amaramente deluso nel non trovarlo lì, dov’è intento a pensarlo.
Si rigira nervosamente, prima di lato, poi su un fianco, infine supino, poi di nuovo con il volto verso il soffitto e le braccia dietro la nuca: cos’è che lo turba così tanto? Per quale motivo, nonostante l’ora tarda, i suoi occhi stanchi non cedono al sonno? Le iridi ametista non mostrano alcuna intenzioni di chiudersi e lasciarsi andare alla morsa di Morfeo, bensì scrutano lascivamente i fiocchi di candida neve volteggiare lentamente nel cielo scuro della notte per adagiarsi dolcemente sul piccolo giardino oramai completamente bianco.
Sospira, schiudendo le labbra nel consueto ghigno, mentre lo sguardo divaga sull’arredamento spoglio e semplice, basilare, forse anche troppo normale per appartenere a quello strambo individuo: le pareti sono di un’unica tinta, completamente prive di quadri o qualsiasi abbellimento mentre il mobilio è di legno leggero, dalla tonalità chiara , la superficie liscia e pulita sovrastata da pochi oggetti: una spazzola, una boccetta di profumo, dei libri, due scatole di lenti a contatto, una sveglia. Sul comodino, posizionato accanto al letto ad una piazza e mezza, una piccola lampada grigia e metallica, molto moderna, sulla cui base sono affollate piccole confezioni di chissà quali medicinali. Inizia a contarli, uno ad uno, giusto per passare il tempo ma ben presto la voglia di ficcanasare in quella stanza completamente a sua disposizione prende il sopravvento su di lui.
Allunga la mano affusolata, illuminata dal placido candore algido proveniente dall’esterno, incrementato dalla luce a neon del lampione adiacente all’abitazione; cautamente afferra gli oggetti incriminati, portandosi a sedere comodamente, per poi leggerne la dicitura:
Chissà che problemi ha … hmmm … queste sono per il mal di testa … beh, ovvio, con tutte le incazzature che gli ho fatto prendere … queste per il mal di stomaco … spero che non abbia l’ulcera per causa mia … e queste? Hmm gocce di valeriana per dormire meglio … e questo? Cos’è?
Rigira fra le dita un oggetto piccolo e bianco, estraendone il foglietto illustrativo per informarsi sulla funzione:
Non credevo fosse anche asmatico … poveretto, ecco perché in primavera mi voleva uccidere più volte del solito …
Ripone i farmaci al loro posto, deglutendo un piccolo nodo nella gola, una manciata di rimorso e dispiacere per i fastidiosi comportamenti assunti nel recente passato; si scosta i capelli corvini dietro le spalle, rammaricandosi d’aver esagerato verso quell’uomo che, in fondo, pare essere gentile, anche troppo visto come si è comportato con lui!
Si guarda attorno, cercando nuove cose da esplorare, soffermandosi sulla strana katana appesa al muro: la sua elsa è particolare, assomiglia ad una molecola, e la lama (ora inserita nel fodero) è decisamente affilata e tagliente. Una spada per combattere, non di certo da collezione.
Chissà cosa se ne fa di una katana … oltre a ficcarsela giù per la gola, s’intende …
Si solleva silenziosamente, appoggiando i piedi nudi sul pavimento di legno attento a non produrre il benché minimo rumore; a piccoli passi si avvicina all’armadio, aprendo svogliatamente le ante e passando i polpastrelli su quei capi appesi ordinatamente, carezzandoli con disinteresse. Passa ai cassetti, notando con una punta di disprezzo l’estrema precisione con cui tutto il vestiario è piegato, inserito, adagiato, ben riposto e profumato.
Afferra un libro dalla copertina variopinta, sfogliandolo accigliato senza capire un accidente di tutte quelle parole scientifiche per riporlo immediatamente accanto agli altri manuali: ok, quel genere non fa assolutamente per lui.
Si riaccomoda fra le coperte, vagamente deluso per non aver trovato nulla d’interessante fra quelle quattro pareti meste, niente che potesse spassarlo anche solo per un minuto, svagandolo dall’assenza di sonno e dalla strana sensazione d’incompletezza che continua a ghermirlo, persistente.
Non sa perché, non lo sa davvero, ma il suo unico desiderio in questo momento è poter stare ancora accanto a Szayel, poter parlare con lui, averlo vicino anche solo fisicamente, come qualche ora prima quand’erano entrambi seduti sul divano intenti a guardare la televisione.
Scuote la testa, cercando di sbarazzarsi di quel groviglio di confuse sensazioni mentre il suo unico occhio cade sui cassetti del comò; si morde il labbro inferiore, allungando la mano sul piccolo pomello di ciliegio, indeciso sul da farsi: la tentazione di scoprire qualcosa di più su Grantz, magari qualche album di fotografie o, perché no, un diario? La voglia di addentrarsi nella sua vita privata e indagare sulla situazione sentimentale, scovando chissà quale fidanzata o addirittura moglie? Dall’altra parte, però, il senso di colpa causato dal ficcanasare ingiustamente in una camera che non è la propria, nella casa di un amico, forse l’unico che abbia mai avuto fin’ora.
Scansa i dubbi e i freni, aprendo con un gesto secco il largo cassetto che si rivela inaspettatamente profondo e colmo di oggetti accatastati alla rinfusa, caotici, completamente diversi dall’ordine vigente tutt’attorno.
Con un velo di soddisfazione inizia ad estrarne il contenuto, soffermandosi su ogni particolare, analizzandone dettagli e sfumature: batterie per la sveglia, una macchina fotografica, un cellulare di riserva, un ventaglio, qualche penna, un segnalibro, una crema per il corpo, vecchi documenti.
L’iride ametista guizza su quest’ultimi, appropriandosene in fretta ed ammirandoli uno per uno, iniziando dalla patente: la foto è leggermente rovinata e Szayel è un giovane appena maggiorenne dal sorriso spento e i capelli corti, sempre dello stesso buffo colore. Ben presto altre fotografie emergono da quell’antro di cianfrusaglie, destando l’attenzione e l’interesse del moro.
E questo chi è?
Rigira fra le mani l’immagine di due giovani, entrambi intorno ai dodici anni, quello dal lungo manto biondo e liscio che tiene sulle spalle l’altro, dalle ciocche rosate. Un’altra li vede vicini e sorridenti accanto a due adulti entrambi felici, radiosi. Le illustrazioni si susseguono una dietro l’altra, come un fotoromanzo in cui entrambi assumono lineamenti sempre più adulti, appaiono cresciuti, più grandi ma nonostante ciò sempre sereni, l’uno legato all’altro.
Con sua inaspettata sorpresa nota che si assomigliano moltissimo, lo stesso portamento, la medesima forma del volto, la struttura fisica; a confermare la bozza d’ipotesi che cela nella mente e proprio una dedica dietro all’ultima foto, che ritrae i due ragazzi intenti a soffiare su una torta di compleanno con diciotto candeline: Tanti auguri per il vostro diciottesimo compleanno carissimi Yylfort e Szayel. Con affetto, i vostri genitori.
Passa l’indice sul mento affilato, sbattendo le palpebre pesanti e trattenendo a stento uno sbadiglio.
Non sapevo avesse un fratello … probabilmente sono gemelli dato che compiono gli anni lo stesso giorno. Eppure è così strano, non lo ha mai nominato …
Ripone con cura i vari cimeli, attento a sistemarli esattamente com’erano prima di analizzarli ma un nuovo oggetto d’interesse lo induce a temporeggiare ulteriormente: un piccolo e sottile album, sommerso dalla confusione degli altri materiali, incastrato nell’angolo più lontano del mobile.
Lo districa da quel caos ed inizia a sfogliarlo con interesse, sgranando l’iride violacea: fotografie di Szayel e Grimmjow si susseguono una dopo l’altra, delineando la loro storia d’amicizia e forse qualcosa di più, dati i baci intrappolati dal flash e  i loro sguardi ridenti.
Non ci credo … N.. non ci credo. Io non …
Un pensiero terribile gli provoca una fitta al petto, talmente forte da fargli tremare il respiro.
E se stessero ancora insieme? No … calma Nnoitra. È impossibile. Altrimenti non lo avrebbe mandato al centro termale con Ulquiorra. Esatto … non può essere.
Tira un sospiro di sollievo, gettandosi nuovamente fra le coperte ed inspirando profondamente il profumo del collega, il volto immerso nel morbido cuscino.
Socchiude le palpebre, ripercorrendo il pomeriggio trascorso insieme a lui come se stesse rivedendo il proprio film preferito per la millesima volta, assaggiando i ricordi ancora vividi e freschi per inebriarsi delle stesse sensazioni ed emozioni vissute poche ore prima.
Ripensa all’assurdo combattimento affrontato giocando a Dark Souls II, alle complesse tattiche di combattimento dell’amico e al suo esultare nell’averlo stracciato miseramente, aggiungendoci anche qualche presa in giro e sbeffeggiamento, non senza il solito ghigno di scherno. Lo aveva fissato nelle iridi ambrate, ricambiando l’aria di sfida ma colmandosi intimamente della loro insolita bellezza dorata.
Sorride, lasciando vagare ancora il suo pensiero al momento della cena: Szayel si era scusato di non avere grandi cose in frigo, di dover ancora fare la spesa e di non essere un grande cuoco a prescindere. Nonostante ciò si è decisamente impegnato nel preparargli una specie di pasta al sugo che in fondo non era neppure malaccio, considerando che era una delle prime volte che si cimentava in tale impresa. A detta sua, infatti, se non aveva ospiti in casa si sostentava all’infinito con insalata e cereali perché erano le uniche cose che non necessitavano squisite competenze culinarie. E poi, sinceramente, non aveva nemmeno voglia di destreggiarsi ai fornelli poiché vivendo da solo nessuno avrebbe provato malinconia nel non poter condividere con nessuno le sue pietanze.
Già durante la cena il cielo aveva dato inizio al proprio gioco di gelidi coriandoli, soffiando vorticosi turbini candidi e ululanti che hanno indotto il medico ad invitare l’amico a restare per la notte. Gli aveva preparato un bagno caldo, lasciandogli abiti puliti e stirati accanto alla vasca colma fino all’orlo d’ acqua bollente. Il moro si era allora seduto sul piccolo sgabello, iniziando a bearsi del caldo getto della doccia, passando la spugna colma di bagnoschiuma dalle note mielate sulla pelle arrossata da quell’ avvolgente tepore.
Infine sono stati così, seduti tanto vicini da potersi sfiorare, su quel divano abbastanza spazioso per entrambi, infagottati in una coperta in pile dalla fantasia floreale nell’intento di rilassarsi guardando la televisione. In realtà i loro sguardi sfuggevoli si sono intrecciati più volte, tanto casualmente quanto di proposito, tradendo sempre un certo stupore nell’accorgersi d’osservarsi a vicenda.
Ed eccolo lì, addormentato placidamente con il capo appoggiato al poggiolo del divano, comodamente raggomitolato come un gatto, la gamba sinistra distesa sopra a quelle sbracate di Nnoitra. Si era beato di quel contatto finchè con fare confuso ed impastato dal sonno l’amico gli ha sussurrato di andare pure a dormire nel suo letto e che lui sarebbe rimasto lì. Gli ha parlato tenendo gli occhi chiusi, biascicando quella frase dalla labbra appena dischiuse, lasciando che fosse il compagno a togliergli gli occhiali da vista per riporli sulla mensola accanto al televisore. Nel sfiorargli la guancia il suo cuore ha sussultato, un lungo brivido gli ha percorso la schiena simile ad una scossa elettrica che percuote l’intero organismo, contraendo lo stomaco ed ogni singolo muscolo.
Ed ora è disteso sul materasso confortevole a rimuginare in continuazione, ignorando la stanchezza ed opponendosi alla rabbia provocata da quelle foto con Grimmjow: com’è possibile che fra lui e quell’azzurro ci sia stato così tanto? Come può essere che Szayel provi interesse verso un individuo tanto inutile?
È questo ciò che pensa Jilga, ciò che sente dentro di sé. Non ha mai apprezzato Jeagerjaques, con quella sua mania d’essere sempre controcorrente, di opporsi perennemente a chiunque, di fare sempre di testa sua e dimostrarsi infine debole e bisognoso di qualcuno accanto. No, no davvero: non lo ha mai sopportato, ne intende iniziare a farlo in futuro.
Sbuffando si alza dal letto, stiracchiandosi ed avviandosi silenziosamente fuori dalla camera. La casa è deserta, completamente buia e priva d’alcun suono; in punta di piedi scende le scale di parquet, trattenendo il respiro per non fare rumore anche se la sua indole travolgente come un tornado irrompe nell’immediato momento in cui rovista nelle tasche del proprio cappotto appoggiato sul divano mentre cerca un accendino ed una sigaretta: il suo trambusto è talmente forte da svegliare un’intera città, senza contare le imprecazioni che lo accompagnano. È proprio in quel momento che si accorge della porta d’entrata socchiusa e del divano completamente vuoto; indossa frettolosamente il giubbotto, scordandosi il pretesto per cui era giunto fino lì e si avvia verso l’esterno, affacciandosi sulla soglia: Szayel gli da le spalle, avvolto nella coperta di pile, fra i capelli qualche fiocco di neve. La sua figura alta e slanciata appare tremare impercettibilmente, come un filo d’erba scosso dal vento autunnale.
Porta la sigaretta fra le labbra sottili, inspirando profondamente per rilasciare una piccola manciata di fumo qualche secondo più tardi; le iridi ambrate sono perse nella fitta coltre di nubi dense e scure, rischiarata dal pallido riflesso delle strade immacolate, ormai totalmente coperte da un considerevole strato di neve.
“Yo.”
Il collega si volta sorpreso, sussultando, mentre espira una boccata di fumo.
“Ehi. Non riesci a dormire nemmeno tu?”
Nnoitra scuote la testa, lasciando ondeggiare le ciocche lunghe e scure.
“Non riesco ad addormentarmi. Tu invece perché sei sveglio?”
“Non lo so … vuoi?”
Dalla tasca estrae un pacchetto di sigarette quasi vuoto, offrendone una all’amico che accetta volentieri portandosela voracemente verso la bocca ed accendendola con altrettanta necessità.
“Sembri nervoso. È successo qualcosa?”
“N.. no .. nulla. Sono solo stanco.”
“Anche a me succede a volte … va bè, facciamoci compagnia. Vuoi una tisana?”
Si volta completamente verso di lui, quasi sorridendo, sovrastato dal roseto rampicante nero e spoglio ora abbracciato dal manto bianco e gelido. Le spine minute pungono quei fiocchi cadenti e algidi, sferzandoli con la loro punta acuminata per poi lasciarsi carezzare docilmente ed unirsi al loro candore.
“Fiorisce a maggio. È di colore bianco, è una qualità che rilascia un buonissimo profumo.”
“Non ti fa venire l’allergia?”
“Come fai a saperlo?”
“Ehm .. non lo .. non lo sapevo … lo supponevo, ecco.”
Szayel lo squadra con poca convinzione, puntando le sue perle dorate su quella cristallina dell’altro. Ricomincia a far vagare le dita sottili sotto la coperta, riesumando infine un piccolo pacchetto regalo, leggermente ammaccato.
“Mi ero dimenticato di dartelo. Me l’ha consegnato una ragazza raccomandandomi di darlo a te.”
“Cosa?!”
“Anch’io ci ho messo un po’ a convincermene. Ultimamente sei meno sfigato del solito Jilga.”
Di nuovo quel lampo folle negli occhi, la voce melliflua, un ghigno divertito sulle labbra schiuse.
“Tsk, senti chi parla. Almeno io ce l’ho una ragazza che mi corre dietro.”
Il medico ridacchia, sbuffando un rivolo di fumo grigiastro ed arrotolando sull’indice una ciocca pastello.
“Non sono interessato a questo genere di cose. Potrebbe corrermi dietro l’intero mondo che continuerei a vivere come se nulla fosse.”
Inspira l’ultimo tiro di sigaretta, spegnendola poi sul posacenere appoggiato a terra, sullo scalino e rimettendosi in piedi con tranquillità, non prima d’aver lisciato la coperta con la mano arrossata dal freddo.
“Beh, non lo apri?”
Nnoitra stringe il pacchetto fra i palmi tremanti dal gelo, posando la propria attenzione sul bigliettino a forma di cuore dalla bellissima scrittura, leggermente infantile e tondeggiante: Un piccolo pensierino per te. Spero ti piaccia, vorrei incontrarti presto! Un bacino, Neliel.
“E  chi cazzo è questa Neliel??”
“Hmm se non ricordo male è una bella ragazza, anche troppo per te. Media statura, magra, tette enormi, capelli verde acqua lunghi e mossi, …”
“Ah! Ho capito!”
Il moro annuisce, lasciando riaffiorare i ricordi nella mente sotto lo sguardo attonito dell’amico.
“E’ quella ragazza che è venuta a chiedermi informazioni l’altro giorno! Volevo rifilarla a Tesla ma quando serve non c’è mai …”
“Almeno lui non dorme per l’intero orario lavorativo come fai tu.”
“Vogliamo parlare di te? Fai tutto tranne che lavorare.”
“Cosa farei? Fammi qualche esempio.”
Nnoitra inspira, rilasciando dopo poco una piccola nuvola di fumo. Sul naso appuntito si poggia dolcemente un minuscolo fiocco di neve, solleticandolo e pungendolo al medesimo istante.
È la mia occasione … per scoprire se certe dicerie sono vere o false. E forse … per farmi avanti con lui.
“Ad esempio fumare nell’ufficio di Grimmjow.”
“Questione di cinque minuti, trova qualcosa di meglio.”
Risponde con aria spensierata e assorta senza nemmeno degnarlo di uno sguardo.
“Con qualcosa di meglio intendi i giochetti nell’ufficio di Aizen-sama? Quelli dovrebbero portarti via un po’ più tempo.”
Grantz rimane immobile mentre le sue iridi giallastre puntano sorprese l’interlocutore. Estrae velocemente un’altra sigaretta, accendendola con foga dando le spalle all’altro, che lo incalza sbeffeggiante.
“Allora?”
Non risponde, si limita ad osservarlo a lungo per poi  voltarsi completamente verso la strada poco lontana dal cancello.
Spazientito, il moro si avvicina all’amico, afferrandolo per una spalla.
“Mi vuoi badare? Si o no?”
“Cosa te ne importa? Non sei mica mia moglie.”
Deglutisce, gelando al solo pensiero:
“N.. ne hai … una?”
“Ma figurati, non ci tengo ad un simile impiccio.”
“Ah … meno male … ehm, comunque, voglio una risposta.”
“Non l’avrai Jilga.”
“Perché?”
Sbraita inferocito, afferrando Szayel con forza e strattonandolo bruscamente verso di lui, costringendolo a girarsi che lo voglia o no. Gli afferra il mento fra le mani ferree, puntando l’iride lilla su quelle furbe dell’altro.
“Io voglio saperlo altrimenti …”
“Altrimenti cosa?”
Con calma esasperante ed estrema indignazione si scosta da quella presa marmorea, allontanandosi stizzito verso la porta d’entrata; inspira profondamente il fumo amaro e poi lascia cadere a terra il mozzicone, ripromettendosi di raccoglierlo il giorno seguente.
La luce bianca del lampione illumina entrambi, impallidendo la loro pelle già naturalmente lattea, rendendola simile ad un tutt’uno con quel manto di seta che avvolge il mondo e la notte.
“Fatti una vita e non indagare nella mia.”
Gli risponde così, la voce stranamente seria ed aspra, per poi varcare la soglia di casa e lasciarlo completamente solo.
Il corvino frena un impeto di rabbia, l’istinto di inseguire quel bastardo e … e … e cosa?
Sbatterlo contro al muro ed imprimere sul suo corpo indelebili segni che facciano capire a quell’idiota di Aizen-sama che Szayel Aporro Grantz è suo e solo suo. Vorrebbe urlargli contro che è uno stupido a non essersi mai accorto dei suoi sentimenti. Che è un folle perverso e sadico quando tratta malissimo i suoi sottoposti ma che nonostante ciò si è sempre dimostrato affidabile e intelligente.
Vorrebbe … vorrebbe solo entrare nella sua vita. E rimanerci. Per sempre.
Si siede sullo scalino, trattenendo lacrime calde di delusione e ira, ignorando lo stretto nodo alla gola che gli fa mancare il respiro al solo pensiero di quel ragazzo fra le braccia di un altro. E non uno qualsiasi, bensì quel tanto odiato direttore tanto impeccabile quanto falso e meschino sotto la sua apparenza da uomo perfetto e perbene.
La carta del piccolo pacco regalo lo riporta alla realtà, strappandolo da quei pensieri terribili e colmi d’odio.
La strappa svogliatamente, aprendo la scatola, trovando con sua sorpresa un portachiavi semplice, di metallo, a forma di teschio, proprio come il cappellino che portava Neliel.
Non capisco perché sia tanto gentile con me. Non mi interessa, non l’ho nemmeno trattata bene. Mah, le femmine ..
Lo ripone nel contenitore, ficcandoselo in tasca senza riguardo e ripromettendosi interiormente di ringraziarla se mai l’avesse incontrata di nuovo.
 
Quando ritorna nell’abitazione una piccola lampada dorata adagiata accanto al sofà rischiara l’atmosfera, illuminando con il suo caldo alone i mobili adiacenti ed il tappeto chiaro. Sul divano la magra figura del collega appare comodamente seduta, la schiena appoggiata su un morbido cuscino, fra le mani ,ancora intirizzite dal gelo, un libro di letteratura (probabilmente un romanzo dato lo spessore cospicuo) fitto di parole.
Solleva le iridi ambrate per una frazione di secondo, quanto basta per assicurarsi che a rientrare sia il suo amico e non uno sconosciuto casuale per poi ritornare alla sua attività, ignorandolo bellamente.
Nnoitra sosta in piedi, vacillante, indeciso sul da farsi. Sfila il cappotto, indugiando,  e senza nemmeno accorgersene si avvicina all’altro sempre di più, passo dopo passo, fino a stagliarsi di fronte a lui in tutta la sua altezza.
“Che vuoi?”
La voce di Szayel appare monocorde, priva d’emozione. Sistema gli occhiali con l’indice, poggiandoli meglio sul naso dritto, perfetto.
L’amico non sa cosa rispondere, rimane a fissarlo in silenzio, passando la lingua appuntita sui denti lineari.
L’altro gira la pagina, lanciandogli un’occhiata sprezzante.
“Mi togli la luce. Puoi spostarti?”
Il suo libro gli viene strappato dalle mani e fatto volare sul tappeto, sul quale atterra con un tonfo sommesso.
“Che cazzo fai!”
Balza in piedi, ringhiando la sua rabbia mentre un fulmine malevolo gli attraversa lo sguardo iracondo.
Sta per scoppiare, il moro lo sa bene. Più volte gli è capitato di sentirlo sbraitare ai suoi sottoposti o a chissà quale paziente e la sua furia arrivava ben udibile dal suo studio (primo piano) alla trafficata sala d’ingresso della struttura. Gli insulti volavano come caramelle all’epifania e avrebbe giurato di aver chiaramente udito più volte volare qualche oggetto, forse dei fermacarte, ci può scommettere.
Tace, osservando le mani tremanti di Grantz strette in due pugni, talmente serrati da sbiancare le nocche.
“Perché sei così arrabbiato Szayel?”
Lui sgrana gli occhi, sbattendo più volte le palpebre.
Sente cingere il proprio braccio sinistro dalla mano calda di Jilga, che lo stringe dolcemente, senza intenzione di strattonarlo o trattenerlo. È una presa di quelle che non ti vogliono possedere, bensì che ti supplicano di non andartene e restare ancora un po’.
“Stai tremando.”
Si morde il labbro inferiore, maledicendo il proprio inutile organismo per essere tanto trasparente.
“Fatti i cazzi tuoi!”
Il suo corpo sussulta ulteriormente, scuotendolo come un albero sferzato dal temporale.
“Devi avere la coscienza veramente sporca per reagire in questo mondo, eh Grantz?”
Ghigna con scherno, sfidandolo. Non gli importa delle conseguenze, non intende lasciar perdere. Quando Nnoitra Jilga si mette in testa qualcosa nulla può dissuaderlo dal portarla a compimento.
“Tsk, non credo di averne una.”
“Ne hai una eccome … altrimenti non ti scalderesti tanto … cosa c’è, Szayel Aporro, ti mancano le sculacciate del capo? O forse vuoi andare a frignare da lui per le cose che ti sto dicendo? Magari ti consola mettendoti le mani nel cavallo dei pantaloni, che ne dici?”
“Smettila!”
Alza un braccio per tirargli un pugno con tutta la forza che possiede nella sua corporatura longilinea ma viene prontamente fermato dall’altro, che ride acutamente stringendogli divertito il polso.
“Sei pure manesco, cosa ci avrà trovato Aizen-sama in te? Capisco che hai un bel fondoschiena però …”
L’altro si dimena alterato, tentando di colpire in ogni modo il rivale che continua a sfuggirgli e fermare ogni colpo con velocità e astuzia. Stufo di quel gioco lo afferra saldamente sulle clavicole, spingendolo con forza sul tappeto e sedendosi sopra di lui, impedendogli così qualsiasi altro movimento. Le ginocchia gli bloccano le gambe mentre le mani fermano le braccia, lasciando inerme un ansimante Szayel pervaso dall’ira, immerso nelle più svariate imprecazioni e maledizioni.
“Adesso rimani lì finchè non ti dai una calmata”
“Non prendo ordini da te.”
Il moro aumenta la pressione del proprio peso facendo mugolare di dissenso il collega.
“Io non ti giudico d’accordo? Voglio solo sapere perché ti lasci trattare come un giocattolo da quel viscido. Potresti avere chiunque, sei bellissimo, quando vuoi sai essere gentile, hai tante qualità che potrebbero piacere al pianeta intero se solo ti svegliassi. E tu cosa fai? Vai a farti mettere le mani addosso da un uomo che ti usa come un oggetto per soddisfare i suoi capricci e tu da bravo cagnolino li assecondi in tutto e per tutto. Si può sapere che fine ha fatto quello stronzo isterico che lancia il portaombrelli ai pazienti? O che mi insegue per tutti i corridoi con la spillatrice? Dove sei finito, Szayel?”
Il ragazzo lo fissa in silenzio, il cuore palpitante a mille ed il respiro corto, affannato, compresso nel petto che si alza ed abbassa faticosamente. Gli occhi sgranati e lucidi fissano l’altro sopra di lui, in loro un’espressione densa di sconforto e frustrazione, ma anche sorpresa per quelle parole inaspettate dette da un individuo da lui usualmente classificato come inetto ed ignorante.
“Che fine ho fatto dici … se non attento più alla tua incolumità personale è solo perché hai smesso di infastidirmi … Ed inoltre deduco che tu non ci senta abbastanza bene: giusto l’altro giorno ho quasi ficcato la testa di Lumina nel tagliacarte.”
“No, tranquillo, l’ho sentito eccome. Il punto è un altro …io …”
“Tu non riesci a capire che non mi sono rimbecillito all’improvviso, non sono un adolescente innamorato. Credi che me ne importi qualcosa del capo? Pensi che la notte stia sveglio a fantasticare sul nostro bel futuro insieme? Ti sbagli Jilga… non me ne importa nulla di lui. L’ho fatto perché in quel momento mi andava. Tutto qui.”
Respira profondamente, recuperando il fiato per parlare nuovamente, ignorando il batticuore ed il sudore freddo che gli scende lungo la schiena.
“Non sono il suo giocattolo, se non voglio fare una cosa non la faccio e basta. Non so chi ti abbia riferito queste cose, né so perché ti importa tanto. Ma a questo punto chiedimi quello che ti pare, almeno poi sei in pace con te stesso.”
“Voglio sapere perché hai accettato.”
“Vuoi davvero saperlo?”
Nnoitra annuisce, lasciando cadere davanti al volto magro il manto scuro come la notte.
“L’ho fatto perché mi sentivo solo.”
Una lacrima trasparente e salata cola invisibile sulla guancia del medico, precipitando nel tappeto, lasciando solo una scia umida al suo passaggio.
“Szayel …”
“Ormai è qualche anno che mi sono trasferito qui. Io e Grimmjow avevamo deciso di non condividere più lo stesso appartamento perché era giusto così, che ognuno si facesse la propria vita, finalmente ci sentivamo pronti. Ero abbastanza felice, credevo di potermi costruire una realtà mia anche se non sapevo ancora esattamente quale ed invece … più passa il tempo più mi sento vuoto dentro.”
“Non colmerai questo vuoto andando a letto con il capo.”
“Lo so anch’io, sono stato uno sciocco. Ma essere considerato da qualcuno … essere voluto … desiderato … per pochi secondi mi ha reso vagamente felice di nuovo. Mi andava di riprovare quella sensazione.”
“Se volevi provarla potevi venire da me invece che da Aizen-sama.”
La sua voce è grave, triste, vacillante.
“Cosa…..?”
“Secondo me non hai motivo di sentirti in questo modo. Bene o male hai un amico con cui sei sempre insieme, un buon lavoro, una casa tua. A differenza mia hai molto, credimi. Ma ok, forse anche un genio come te può non comprenderlo però … te lo ripeto: se volevi essere considerato da qualcuno potevi venire da me. È vero io … ti ho infastidito per troppo tempo ma … l’ho fatto solo per ricordarti che esisto.”
Il suo volto è serio, deciso, forse anche celatamente emozionato.
“Se il tuo intento era quello ci sei riuscito.”
Percepisce la presa allentarsi sui polsi ma nonostante ciò rimangono immobili, nessuno osa muovere nemmeno un muscolo.
“E se io ti avessi cercato cosa avresti fatto per me?”
Le sue parole sono un sussurrio, un soffio di vento impalpabile.
“Qualsiasi cosa. Se quello che volevi era essere sbattuto fino allo sfinimento sulla barella nel tuo ambulatorio l’avrei fatto. Se invece volevi andare anche solo a prendere un gelato insieme io ti avrei accompagnato. Te l’ho detto, qualsiasi cosa…”
“Sei ancora della stessa idea?”
Sorride appena, lasciandosi scostare una ciocca rosata dalla fronte.
“Certamente.”
“Puoi fare una cosa per me?”
“Che cosa?”
“Baciami.”
“Eh??”
Nnoitra sgrana gli occhi, scosso dalla richiesta tanto sperata ma improvvisa come un fulmine a ciel sereno.
L’altro coglie il suo stupore, ed accentua il sorriso tramutandolo nel consueto ghigno.
Eccolo, è proprio quello il Szayel che gli piace da impazzire: quel folle e scontroso medico facilmente irascibile, sadico, perverso e sinuoso come un felino.
“Baciami.”
Si alza sui gomiti, aggrappandosi al collo magro del collega ed attraendolo a sé. Si sporge in avanti, catturando le sue labbra in un bacio umido, con il retrogusto delle precedenti sigarette; un bacio che lo induce ad affondare le unghie nella carne dell’altro, un bacio che lascia entrambi senza fiato, fra un morso e l’altro su quelle labbra invitanti. Il dottore lecca delicatamente le clavicole nude del compagno passando su di loro la punta della lingua lasciva e giocosa. Percepisce le mani affusolate dell’altro stringergli il bacino stretto, passando le dita sulle sue ossa sporgenti ritenute dal moro estremamente sensuali. Lo lascia giocare con i propri indumenti, passare i palmi roventi sulla pelle altrettanto calda, permettendogli di saggiarla con il tatto, assaporandone la liscia morbidezza. Nnoitra socchiude le palpebre inebriandosi del contatto con il proprio amante, gustando in ogni suo dettaglio quel momento segretamente racchiuso nei suoi sogni più nascosti.
“Jilga …”
“Che c’è.”
Risponde infastidito, per niente intento ad abbandonare le mani da quell’uomo finalmente suo.
“Credo che tu stia correndo troppo.”
“AH? Come sarebbe a dire? Perché?”
Szayel sghignazza, indicando la mano del collega infilata sotto il fiocco dei propri hakama bianchi, intenta ad infiltrarsi oltre l’elastico dei boxer.
“Non sei credibile Grantz.”
“No? Non ho la faccia di una brava persona?”
“Affatto.”
“Che peccato …”
Ghigna divertito, passandosi la lingua sulle labbra umide.
Si solleva in piedi, lasciando l’amico sbigottito e rammaricato.
“Dove credi di andare??”
“A dormire, mi sento improvvisamente stanco …”
Il ghigno aumenta ulteriormente, coinvolgendo una strana luce maliziosa negli occhi dorati.
“Sei un bastardo.”
Le parole del moro sembrano un ringhio sommesso, accentuato dall’espressione corrucciata e dalle sopracciglia corrugate.
“Meglio così Nnoitra … vorrà dire che ti piacerò ancora di più.”
No, non può farcela. Davvero, vorrebbe resistere ai suoi istinti, ma quel maledetto istigatore lo manda fuori di sé, gli fa perdere il controllo.
“Mi piaci già troppo.”
Senza dargli il tempo di rispondere lo afferra per i fianchi, sollevandolo e buttandoselo in spalla, approfittando della differenza d’altezza.
“Cose serie Jilga?”
“Serissime Grantz.”
“Diamine allora da oggi in poi non posso più cercare di soffocarti con lo stetoscopio …”
“Non preoccuparti, continuerò ad avvelenarti il caffè solo per darti un buon motivo per farlo.”
Sghignazzano entrambi, complici, mentre il moro sale velocemente le scale, quasi saltandole, per lasciare infine cadere il collega sul materasso morbido, avventandosi immediatamente su di lui ed assalendolo di baci, morsi, respiri, tocchi bruschi alternati ad altri più cauti e gentili; improvvisamente gli abiti appaiono troppo stretti, limitanti, devono essere tolti al più presto, diventano una priorità assoluta ed urgente: Nnoitra sfila la maglia al compagno, non prima d’aver lanciato la propria in chissà quale angolo della stanza. Si spoglia completamente, con una fretta indescrivibile tanta è la voglia di amare con tutto se stesso quel corpo e quell’anima che lo hanno profondamente colpito. Rimane con addosso solamente i boxer scuri ed attillati mentre l’amico, ora diventato certamente qualcosa di più, lo invita ad attendere e temporeggia continuando ad indossare gli hakama chiari e larghi.
“Te li strappo a morsi se non ti sbrighi a toglierli.”
“Mi spiace Jilga, a me piace giocare. E intendo fare a modo mio.”
Si avventa sul ventre dell’amante, baciandolo, lasciando una scia bollente che scende sempre più giù, fino alle cosce nude, per poi risalire e continuare quel contatto altinelante, bruciante, terribilmente desiderabile. Inutile descrivere la flebile resistenza dell’altro nel sentire scivolare via e lontano il proprio ultimo indumento, rimanendo completamente a disposizione di Szayel e delle sue mani bramose, leggere, che gli solleticando la pelle trasmettendogli brividi continui che percorrono l’intero corpo. Le lappate non tardano a susseguirsi, sempre più affamate ed intense, costringendo il moro a separarsi contro voglia da quel bellissimo gioco che mai ha vissuto prima, affondando le proprie dita nella chioma rosata del collega ed allontanandolo da sé con poca convinzione.
Respira affannosamente, tremante, puntando l’iride violacea sul fiocco candido degli hakama.
“A…Adesso basta.”
Con foga spoglia completamente il collega, portandolo a sedere fra le proprie gambe, petto contro petto, le bocche talmente vicine sfiorarsi in baci famelici e colmi di passione.
Szayel ghigna teneramente, appoggiando la fronte sull’incavo della spalla di Nnoitra, lasciandolo esplorare il proprio corpo caldo in ogni curva ed insenatura, apprezzando le carezze lungo la schiena fino alle natiche sode, poi sui fianchi, sulle cosce e di nuovo sulle costole, sul collo, sulla guancia.
Questa volta si che mi sono cacciato in un bel guaio … proprio io, che credevo di non avere tempo per innamorarmi. Temo di doverlo trovare ora, questo famigerato “tempo”. Eppure … non sembra tanto spiacevole.
Sorride, lasciando un piccolo bacio sul collo arrossato del moro.
“Tutto bene Szayel?”
“Mai stato meglio.”
 
La neve ricomincia a turbinare vorticosamente, attutendo le voci, i respiri, le sensazioni, l’amore. Il suo candore echeggia fra le vie, lungo le strade bianchissime, danzando la magica sinfonia dell’inverno.
 


Capitolo un pò lunghetto (colgo l'occasione per ringraziare i superstiti che sono riusciti ad arrivare vivi fin qui xD) dedicato alla mia coppia yaoi preferita: Nnoitra e Szayel. Li amo, non posso farne a meno XD
Ma non preoccupatevi, dal prossimo capitolo ritorneranno Grimmjow e Ulquiorra ed anche personaggi secondari come Gin ed Ichigo inizieranno ad assumere un ruolo più importante, diventando decisivi nella storia.
A presto quindi,
un bacio a tutti :****
Valentina:)

 

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Capitolo 11
*** Lunch ***


CAPITOLO 11:   Lunch


 
“Wow, ma è grandissima!”
Ichigo stringe entusiasta il braccio del suo tutor, roteando le iridi nocciola per catturare ogni dettaglio dell’immensa sala dai tavoli bianchi, come la neve gelida ammucchiata ai bordi delle strade trafficate.
Grimmjow ridacchia, seguito a pochi metri di distanza da un silenzioso (e stranamente tranquillo) Szayel Aporro.
“Che ti avevo detto Fragolo? È tutta un’altra cosa rispetto alle mense delle università! Guarda, c’è anche la tv!”
Orgoglioso indica il grande schermo al plasma aderente ad una parete dalla tinta chiara, probabilmente color panna, mentre le grandi finestre permettono alla luce perlacea del cielo d’invadere l’ampio spazio, senza utilizzare i faretti a neon incastrati nel soffitto.
Lo stomaco dei due colleghi brontola, inebriato dal buonissimo profumo di cibo aleggiante fra le mura alte:
“Hai fame?”
“Un po’”
Lo stagista passa una mano fra i capelli ramati, arrossendo lievemente dall’imbarazzo.
“Allora vedrai ora ti piacerà ancora di più! Hai tantissima scelta!”
Si avvicinano al lungo bancone self-service, passando la tessera identificatrice sull’apposito pass ed accedendo alla zona adibita alla ristorazione: vassoio, posate, bicchieri e una scelta tanto vasta da mandare in crisi chiunque.
L’azzurro ride sguaiatamente, notando l’espressione indecisa e dubbiosa del sottoposto:
“Prendiamo di tutto Fragolo! Tanto abbiamo due ore e mezza di pausa!”
Riempiono i propri vassoi fino all’orlo, contando di ripassare più tardi per il secondo giro quando il ragazzo, accigliato, si accorge che manca qualcosa … o meglio, qualcuno:
“Grimmjow dov’è andato Szayel?”
“Ah, non preoccuparti lui è già andato a sedersi, non gli piace fare la fila.”
“Ma non c’è la fila.”
“Non cimentarti a capirlo Fragolo, è troppo difficile.”
Si voltano entrambi verso il medico dalla chioma rosata, raccolta in una minuscola coda bassa; ricambia il loro sguardo ghignando sommessamente e salutandoli con la mano. Un brivido d’inquietudine attraversa la schiena di Kurosaki, facendo sghignazzare l’amico:
“Non preoccuparti, non è cattivo come sembra.”
“Ma …”
Il turchese aggrotta le sopracciglia, puntando le iridi cerulee su quelle nocciola dell’altro:
“Non avrete mica combinato qualcosa mentre non c’ero, vero?”
“COSA?? No!! È solo che si comporta in un modo un po’ … strano.”
“Non farci caso Fragolo, ci farai l’abitudine. Hai preso il dessert?”
“Kami, c’è anche quello??”
“Ovviamente!!”
Aggiunge due piattini contenenti una grande fetta di torta, completando l’opera futuristica composta da ogni genere di cibarie, contorni, frutta e bibite il tutto accatastato in un bazar di leccornie.
Dondolanti e decisamente instabili si allontanano finalmente dal bancone, ponendo un momentaneo termine alla razzia di alimenti, per avviarsi entusiasti verso il tavolo scelto dal medico, che nel frattempo pulisce i proprio occhiali con un panno blu, disinteressandosi al resto del mondo attorno a lui.
I due colleghi si lanciano sulle sedie, appoggiando pesantemente il bottino di guerra con l’alto rischio di far traboccare qualche polpetta di riso o spicchio di mela.
“Tu non pranzi Szayel?”
L’interpellato alza la mano facendo cenno al giovane di attendere; le perle ambrate si spostano sulla figura massiccia dell’azzurro che, come se fosse una cosa abituale, alza il proprio vassoio estraendone un altro per l’amico.
“Ecco qua, viziato.”
Il dottore squadra il proprio piano ancora vuoto, protendendo il palmo della mano con un’espressione fra il divertito e il perverso:
“Forchetta.”
Il collega gliela appoggia scocciato, sbuffando.
“Coltello.”
“Non puoi alzare il culo e andarteli a prendere??”
“No perché tanto me li hai già presi tu.”
Ghignando indica la rimanente posata avvolta in un tovagliolo bianco, adiacente a quello che doveva essere il suo pranzo.
“Ecco, tieni. Se non ti va bene quello che ti ho preso però non rompere, perché non intendo alzarmi per te eh!”
Gli lancia quanto richiesto, lasciando sul volto dell’altro una palpabile soddisfazione.
Grantz afferra allora la forchetta, affondandola nell’insalata dalle piccole foglie verdastre.
Ichigo sgrana gli occhi, cercando lo sguardo apprensivo di Grimmjow:
“Ma mangia solo quello?!”
“Si, fa sempre così. Mi sono stufato di dirgli che l’insalata è un fottuto contorno, non un pranzo.”
L’uomo dalle ciocche pastello ridacchia, lanciando un pomodorino all’amico:
“Non sono mica come voi due che vi ingozzate come maiali.”
“Tutte palle, lo fai perché vuoi rimanere magro e bello perché sei un narcisista del cazzo.”
Si scambiano una breve occhiataccia, ma ben presto il medico annuisce, addentando una manciata di carote alla julienne:
“Sì, credo che tu abbia ragione. Ma d’altronde anche se volessi non mangerei ugualmente così tanto se poi devo tornare a lavoro … rischierei di addormentarmi sulla scrivania.”
“E’ vero, ma chi se ne frega. Giusto Fragolo?”
Il ragazzo posa le bacchette con cui stava riempiendo la propria bocca di riso fino qualche secondo prima, bofonchiando qualcosa di incomprensibile.
“Giusto, al diavolo le tue paranoie doc, buon appetito!”
Si lancia con gusto sulle pietanze ancora bollenti, divorandole come una pantera affamata dopo una lunga caccia.
“Sei un animale. Non sarai mai 186 cm per 67 kg come il sottoscritto, puah.”
Lo fissa fingendosi disgustato, mentre nel suo sguardo guizza un lampo di curiosità:
“Senti Grimm … dov’è Ulquiorra?”
“No.. non lo fo.. pefchè?”
“L’ho incontrato questa mattina, mi aveva detto che sarebbe venuto qui anche lui. Ma non lo vedo, strano … di solito è puntuale.”
“Avrà avuto da fare.”
Alza le spalle disinteressato, sorseggiando avidamente dal proprio bicchiere.
Il collega rigira svogliatamente la forchetta fra i pomodori rossi e maturi, osservandoli con disgusto.
“Sei un idiota, perché mi hai preso l’insalata con i pomodori? Lo sai che non mi piacciono!”
“Chiudi un po’ quella bocca!”
Ichigo ride sottecchi, divertito dallo strano rapporto fra i due compagni di lavoro.
Sposta le proprie iridi castane sul collega seduto accanto a lui, beandosi del suo bellissimo profilo, delle ciocche di capelli adagiate sulla fronte, di quei lineamenti mascolini e delicati al medesimo tempo.
Il suo cuore sussulta ad ogni singolo gesto, particolare, dettaglio, ad ogni parola, respiro dell’altro, rendendogli il viso paonazzo e le mani tremanti.
Ichigo ripigliati … è appena lunedì … non puoi passare tutta la settimana in questo modo … ho già trascorso l’intera mattina a fissarlo, devo smetterla.
Aporro coglie la sua titubanza, incalzandolo con uno dei suoi soliti sguardi indagatori, quelli che ti pongono la domanda nonostante ne conoscano già la risposta.
“A cosa pensi Fragolino bello? Sei diventato tutto rosso.”
Le labbra sottili ghignano sussurrando quella frase in modo amichevole mentre le dita fini sono intente ad aprire la bottiglia d’acqua naturale.
“A … a … nulla … io … non .. non pensavo a nulla!”
Jeagerjaques si volta verso lo stagista, incuriosito, per poi ridere sgangheratamente e dargli una sonora pacca sulla spalla:
“Ah Fragolo, cosa combini?”
“N … niente!”
La voce trema scompostamente, al colmo dell’imbarazzo, come un bambino alla scoperta di un mondo completamente nuovo e sconosciuto che lo spaventa al solo pensiero.
Fortunatamente una voce acuta irrompe fra i presenti, ponendo fine al suo strazio.
“Yo.”
Nnoitra si lancia a sedere accanto al medico, allungando con spontaneità il braccio attorno alle sue spalle, sotto lo sguardo attonito dell’azzurro.
“Ehilà.”
Il ragazzo dalla montatura bianca lo saluta mellifluamente, concedendogli quel contatto fisico amichevole ma allo stesso tempo complice, intriso di un significato ben più profondo che trascende il semplice legame lavorativo.
“Non pensavo di trovarti qui caro.”
“Infatti stavo per andare a casa ma ho incontrato il depresso lungo le scale e mi ha chiesto di avvisarvi che non può venire.”
Grimmjow alza un sopracciglio, domandandosi da quando quei due avessero tanta confidenza e soprattutto per quale assurdo motivo dopo tutte le loro scenate ora chiacchierino allegramente come se nulla fosse mai accaduto. Leggermente infastidito si rivolge al moro, grattandosi il capo:
“Intendi Ulquiorra…?”
“Ovviamente.”
“Hmm .. beh grazie per l’avviso, ora puoi anche andartene.”
Szayel sobbalza, lanciandogli uno sguardo truce:
“Che scortese.”
Jilga si alza dalla sedia, sbuffando con astio mentre l’odio verso quel collega infame lo invade come un fuoco scarlatto.
“Non importa Grantz, tanto sono venuto solo per dirvi quello.”
“Andiamo a fumarci una sigaretta.”
Il medico lo segue, cingendogli i fianchi ed avviandosi insieme a lui verso l’uscita, ignorando bellamente il volto furioso dell’amico e quello basito dello stagista.
 
“Davvero sei venuto qui solo per dirci quello?”
Espira un rivolo di fumo, stringendo la Malboro fra le dita arrossate e tremanti dal freddo. Fissa il collega ripetere la sua stessa azione, stringendosi nel cappotto mentre gli stivali neri calpestano la neve congelata e scricchiolante.
Szayel sistema meglio la sciarpa per coprire il collo magro, attendendo la risposta dell’altro:
“Certo, cosa credevi?”
“Oho, ma nulla … nulla. Semplicemente non ti facevo tanto gentile Jilga.”
Il corvino scoppia in una risata acuta, passando la lingua appuntita fra le labbra.
“Se ti va posso farti compagnia mentre sei in pausa.”
“Per stavolta te lo concedo. Sia chiaro, non lo faccio per te.”
“Esatto: sia chiaro che nemmeno io sono venuto qui solo perché mi andava di vederti e ho usato la richiesta del depresso come pretesto.”
Il medico ridacchia, inspirando profondamente dalla sigaretta.
“Chiarissimo Nnoitra.”
“Praticamente ovvio.”
Il moro punta la propria iride lilla sul compagno, lasciando affiorare sul volto affilato un sadico ghigno divertito:
“Mi stavo domandando … hai ancora mal di schiena?”
“Taci!!”
 
* * *
 
 
Il piccolo studio colmo di libri odora di carta stampata, di biblioteca, silenzioso come il suo proprietario, in perenne penombra, illuminato solo dal chiarore del cielo di mezzogiorno ancora perlaceo, promettente neve vorticosa ed algida, le nubi dense e spumose come schiuma del mare. Lungo le pareti alti scaffali contengono manuali d’ogni genere, la scrivania di vetro ospita un pc portatile ed un folto blocco d’appunti accompagnato da un astuccio semivuoto e scarno, riempito con l’essenziale: una matita, una gomma, una penna nera ed un temperino.
Ulquiorra siede tranquillamente sulla propria poltroncina blu, osservando placido l’inaspettato paziente accomodato di fronte a lui, le mani che si torcono nervosamente, la frangia argentea davanti agli occhi socchiusi e felini, le labbra schiuse in una smorfia fintamente sorridente.
“Ichimaru Gin. Prego, ti ascolto.”
L’uomo sospira, grattandosi il capo mentre con le dita magre sistema nervosamente la cravatta nera. Rimane in silenzio per qualche minuto, tamburellando il piede sul tappeto persiano mentre il cuore palpita velocemente, simile ad un treno in corsa.
Schiffer aggrotta le sopracciglia senza dar altro segno d’emozione, sospirando impercettibilmente di fronte a quell’individuo tanto indeciso:
“Hai detto di avere urgente bisogno di parlarmi, spiegami allora. Sei qui per questo, no?”
L’altro annuisce, ridacchiando per alleviare la tensione, puntando il suo viso da volpe su quello serio e coinciso dello psicologo.
“Ecco … io non sono più tanto sicuro di volerlo fare.”
“D’accordo, non ti obbligo.”
“No obbligami! Almeno mi tolgo questo peso! Io … ho bisogno … di un aiuto.”
“Qual è il problema?”
Il ragazzo dalla chioma color neve abbassa il capo, simile ad un bambino imbarazzato di fronte al resto della classe.
“Mi assicuri di non farne parola con nessuno?”
“Certamente, è il mio lavoro. Devo mantenere il segreto professionale.”
“Ok … Ulquiorra… Mi sono rivolto a te perché mi sembri l’unico qui dentro in grado di potermi dare un buon consiglio. Il … il mio problema è che … io mi sono …”
La voce trema flebilmente, le palpebre si sollevano lasciando spazio a due meravigliose perle glaciali:
“Io mi sono innamorato.”
Il moro solleva le spalle, raddrizzando la schiena in una posizione d’ascolto più attenta e vigile:
“Capisco. Ma per ora non sembra essere un problema Ichimaru.”
“No hai ragione: di per sé non è un problema. Però io mi sono innamorato di una persona che non mi vuole. Cioè io pensavo che mi volesse, capisci? Perché mi ha sempre trattato come se contassi molto per lui. E poi all’improvviso tutte le mie convinzioni crollano come un castello di carte da gioco. Mi accorgo di non essere null’altro che una pedina del suo puzzle, no? Di non valere nulla, di essere solo un soggetto come tanti altri, uno di quelli che incontri ogni mattina quando cammini per strada recandoti a lavoro. Io ci credevo veramente, ero quasi sicuro di essere ricambiato. Ma poi … ma poi …”
L’uomo dall’altra parte della  scrivania annuisce in silenzio, lasciando sfogare il collega, accennando più volte per farlo proseguire nella propria auto-narrazione. I ciuffi corvini fluttuano sulla fronte pallida, incorniciando due splendidi iridi smeraldo avvolte dalla penombra della stanza.
L’avvocato si stringe nelle braccia, cercando di riscaldarsi; il suo sguardo triste si perde fra le alte cime dei grattacieli fuori dalla finestra del piccolo studio.
“Mi dispiace per la temperatura poco gradevole. Purtroppo il termosifone è rotto da questa mattina e nessuno si è ancora adoperato per ripararlo. Vuoi il mio cappotto?”
Lui scuote la testa, spezzando il  racconto, osservando l’altro con espressione supplichevole, in attesa d’una risposta.
“Ichimaru, personalmente ritengo che la tua situazione sia decisamente meno grave di quanto appaia.”
“Seriamente?”
“Seriamente. Cogliendo il fulcro del tuo discorso ho tratto le seguenti conclusioni, seppur ancora ampiamente relative: tu sei interessato ad Aizen-sama, verso di lui provi qualcosa che va ben oltre la mera infatuazione. Credevi di avere un legame speciale perché ti affida sempre gli incarichi più importanti e perché avete una conferenza che trascende un ordinario rapporto datore di lavoro/dipendente. Queste tue speranze si sono sgretolate nel momento in cui l’hai scoperto in atteggiamenti ambigui con il nostro collega Szayel Aporro, perciò ne hai dedotto ovvie conclusioni ed ora vivi una situazione di disagio caratterizzata da angoscia e tristezza. Ho tralasciato qualcosa?”
Gin lo fissa con gli occhi spalancati, sconvolto da tanto intuito e precisione nello stendere un così dettagliato riassunto:
“Come … come sapevi tutte queste cose?”
“Ho semplicemente ragionato. In ogni caso ritengo che dovresti essere felice di questa situazione: se Aizen-sama usualmente si affida al tuo aiuto e ti riserva un trattamento privilegiato ne deduco che lo faccia solamente per i tuoi meriti, senza doppie finalità, cosa che non si può affermare con certezza nel caso del dottor Grantz.”
“Potresti spiegarti maggiormente?”
“D’accordo. Se il nostro direttore si fida di te lo fa unicamente perché ti considera una persona di valore, perché apprezza le tue qualità come individuo ed avvocato perciò ha deciso di averti al suo fianco. Io non voglio essere di parte, desidero mantenermi neutrale ai vostri affari ma è un dato di fatto che, in questa eventualità, gli atteggiamenti di Aizen-sama nei confronti del collega Aporro non sono di certo frutto di un suo apprezzamento verso i risultati operativi di quest’ultimo. Anzi, essendo a conoscenza della sua poco ammirevole condotta, potrei persino permettermi d’affermare che se non lo ha ancora licenziato è solo in quanto ne apprezza l’aspetto estetico. Tutto qui.”
Sorride, sorpreso da quelle rassicuranti parole:
“Quindi se mi apprezza per quello che sono ho ancora qualche speranza con lui?”
“Teoricamente sì. Se ciò che lo lega a Grantz è solo attrazione fisica potrebbe accadere che la fiamma del loro interesse si spenga ben presto, in fondo Aizen-sama è un uomo intelligente, sa meglio di noi che Szayel Aporro è un individuo decisamente estraneo ai canoni della normalità. Pertanto, secondo questa logica, hai una buona percentuale di successo futuro.”
Il  volto precedentemente triste ed afflitto dell’avvocato si illumina di speranza, arrossendo lievemente sulle gote di quella pelle lattea come la luna. Inspira il profumo antico di quel luogo esente allo scorrere del tempo, ringraziando interiormente l’infinita pazienza e tranquillità di Ulquiorra, perennemente serafico e attento.
La scrivania improvvisamente vibra, lasciando inondare la stanza dalla suoneria squillante del telefono ad essa appoggiato. Il moro solleva la cornetta portandola all’orecchio, giocherellando con la penna nera isolata su quel vetro lindo e trasparente.
“Capisco … tra quanto?”
“….”
“D’accordo. Ci saremo.”
“…”
“Si, li avviso io.”
“…”
“Arrivederci, a tra poco.”
Ripone l’oggetto, reindirizzando la propria attenzione sul collega di fronte a lui:
“Aizen-sama mi ha avvisato di raggiungerlo nella sala riunioni tra venti minuti, ha una comunicazione importante per tutti i suoi dipendenti.”
“Ti ha detto di cosa si tratta?”
“No, non ancora. Se non c’è altro che possa fare per te mi permetto di congedarmi, devo contattare gli altri colleghi per avvisarli di questa variazione di programma.”
“No, ti ringrazio, va bene così.”
Estrae dalla tasca un bellissimo portafoglio di pelle nera, abbellito da fini cuciture ed intarsi eleganti.
Pone le proprie iridi artiche sull’esile ragazzo concentrato nel digitare sul telefono dell’ufficio i numeri telefonici dei compagni, scrupoloso nel non sbagliare nemmeno una cifra.
“Ulquiorra, non conosco le tue tariffe, quanto ti devo?”
Lui alza le perle verdi come la foresta più profonda, scrutandolo con poca convinzione.
“Cosa…?”
“Ti devo pagare per il nostro colloquio, no?”
“Ichimaru Gin, con tutto il rispetto nei tuoi confronti, ma non l’ho fatto per essere retribuito. Ti ho solamente dato un aiuto, come tu hai fatto con me.”
L’altro sogghigna, riassumendo la solita espressione sibillina e divertita:
“Ahhh dunque ti sei accorto che la camera matrimoniale non è stato un semplice errore?”
“L’avevo intuito ancora prima di scoprirlo, quando mi è stato comunicato chi era il mio compagno di viaggio.”
“Ti sono stato utile alla fine?”
“Decisamente. Grazie, Gin.”
“Grazie a te Ulquiorra. Spero … di poter instaurare un rapporto amichevole con te.”
 
 
* * *
 
“Cari colleghi, ho per voi due notizie: una positiva, l’altra negativa.”
Il direttore osserva con fiera fermezza la sua equipe di dipendenti seduti vicini nelle varie sedie grigie, metalliche ed alte attorno ad un lungo tavolo nero e lucido, assortito con tazze colme di thè fumante.
L’uomo ne beve un sorso, mantenendo sospeso quel filo d’agitazione che aleggia fra i presenti.
Alla sua destra Nnoitra sbuffa sonoramente mentre punzecchia il povero segretario Uryu con una matita appuntita appositamente per quello scopo, stizzendolo ad ogni puntura.
Di fronte a lui il dottor Grantz fissa sottecchi il proprio superiore, tenendosi a debita distanza da lui nel tentativo di non essere acciuffato più tardi. Allo stesso tempo lancia occhiatacce a Grimmjow che catapulta palline di carte a Ichigo, trattenendo malamente le grosse risate provocate dall’ira del povero stagista, seduto fra Nnoitra e Ulquiorra. Vicino all’azzurro, infine, l’avvocato Gin sorride felino al direttore, aspettando pazientemente il suo discorso.
“Quale notizia preferite ricevere per prima?”
I presenti si guardano l’un l’altro, sussurrandosi brevi opinioni decisamente contrastanti.
“Gin, dimmi il tuo parere, che notizia preferisci?”
L’interpellato ghigna, dando spazio alla sua voce melliflua e allegra:
“Quella negativa Aizen-sama.”
“D’accordo: la notizia negativa è che non trascorrerete il Natale a casa vostra.”
Il medico solleva le spalle disinteressato, appoggiando i gomiti sulla tavola, mentre un sommesso mormorio inizia ad invadere la stanza spaziosa.
“Per quale motivo?”
Chiede svogliatamente Grimmjow, giusto per soddisfare la curiosità.
“Non avere tanta fretta Grimmjow Jeagerjaques.”
Il ragazzo dalla chioma turchese sbuffa, lasciandosi cadere sullo schiena della sedia con le braccia conserte dietro la testa.
“E la notizia positiva?”
Domanda timidamente Ichigo, arrossendo nel porre la questione.
Il suo superiore sorride affabilmente, sistemando il ciuffo di capelli castani che ricade sensualmente sulla fronte:
“Questa mattina ho ricevuto una telefonata da Osaka, da un uomo che dice di chiamarsi Ukitake Juushiro. A quanto pare i nostri due colleghi Ulquiorra e Grimmjow hanno fatto una talmente buona impressione alla seconda riunione che il direttore generale dell’ iniziativa Kuchiki Byakuya ha piena intenzione di conoscerci tutti personalmente. Pertanto ha richiesto un secondo incontro dove desidera incontrare gli altri membri della nostra equipe. Vivissimi complimenti cari colleghi.”
Applaude lentamente in onore dei due dipendenti, compiaciuto, orgoglioso e soddisfatto del loro operato, felice di aver seguito il consiglio di Ichimaru nell’inviare proprio loro due e non altri.
“Purtroppo non posso lasciare scoperto il Centro Espada pertanto necessito d’almeno uno di voi che rimanga qui mentre gli altri saranno assenti per circa una settimana e mezza. Qualcuno si propone?”
Il segretario Ishida alza la mano, seguito a ruota da un più titubante Szayel che riceve immediatamente un’occhiata intimidatoria e truce del proprio capo.
“Grazie per la tua disponibilità Ishida Uryu, non ti dispiace?”
“No Aizen-sama, per me non c’è alcun problema.”
Con un gesto esasperato strappa di mano la matita a Nnoitra, ficcandosela in tasca paonazzo di rabbia, benedicendosi per rimanere in santa pace, finalmente, per un lasco di tempo insperato.
“Perfetto, allora rimarrai qui con Tesla, è un bravo ragazzo anche lui.”
Si accarezza il mento con l’indice, rivolgendo nuovamente le iridi mogano su quelle dorate del dottore, soffermandosi sulla divisa bianca e sulla figura esile.
“Ma tu, Szayel Aporro, perché mai intendi rimanere qui? Quando ho detto che vuole conoscere tutti, intendevo proprio TUTTI.”
Il ragazzo dalle ciocche pastello sistema con simulata tranquillità la bianca montatura degli occhiali, sciogliendo la coda che tiene legati i capelli ondulati.
“Mi duole contrastare la sua volontà Aizen-sama, ma purtroppo ho molto lavoro da svolgere e mi rammarica enormemente trascurare i miei pazienti. Inoltre non ritengo di essere così tanto rilevante in questa situazione, sicuramente la mia presenza non si rivelerà determinante, non credo d’avere grandi doti da esibire a questo Kuchiki Byakuya.”
Scosta un ciuffo rosato dietro le orecchie, deglutendo.
Chi di loro potrebbe credere a tali fandonie? Un essere narcisistico come lui, egocentrico e sprezzante verso il resto del mondo e buona percentuale dei propri clienti che in pochi secondi smentisce il proprio comportamento visto in tutti i suoi anni di servizio? Poco, davvero poco credibile. Nonostante ciò Sosuke sembra stare al gioco, mantenendo la calma con eleganza:
“Capisco il tuo punto di vista ed apprezzo la tua… umiltà, ma personalmente ritengo che tu possa essere fonte d’interesse per Kuchiki pertanto verrai. Non contrastarmi, ho già deciso.”
“Come vuole Aizen-sama.”
Un brivido freddo gli percorre la schiena, soprattutto quando si accorge dello sguardo furioso di Jilga puntato esattamente verso di lui.
“In ogni caso, miei cari, se non ci sono altre obiezioni verrete tutti: Gin, Ulquiorra, Grimmjow, Nnoitra, Szayel ed Ichigo.”
Lo stagista sobbalza, trattenendo a stento la felicità e l’emozione mentre un largo sorriso gli solca il volto giovane e liscio.
“Dimenticavo di dirvi un dettaglio relativamente importante: Kuchiki è in vacanza nel suo hotel nell’arcipelago delle isole Hawaii, pertanto di ospiterà nella sua residenza accogliendoci nel migliore dei modi. Partiremo dopodomani, fate le valige e portatevi la crema solare. Vi auguro una buona giornata.”
 
“Hawaii??”
Ichigo salta sulla sedia, sussultando nel medesimo istante in cui il proprio superiore compie lo stesso gesto: si scambiano un’occhiata d’intesa, alzandosi in contemporanea e battendosi il cinque con entusiasmo.
“Fragolo posso darti in pasto agli squali!”
“E io posso vederti ballare con le collane di fiori e le noci di cocco!”
Nnoitra si unisce alla loro felicità ridendo acutamente e proponendo nuove attività ludiche particolarmente similari allo stile delle precedenti, quali : fare surf usando l’azzurro come tavola oppure abbandonarlo su una costa sperduta e scappare via.
Mentre i tre colleghi si scaldano al solo pensiero di crogiolarsi sotto al sole bollente stesi fra sabbia finissima e calda Ulquiorra e Szayel si fissano inquietati, contraendo le labbra in una smorfia sgomenta:
“A te piace il mare Schiffer?”
“Lo odio.”
“Anch’io. Dobbiamo proprio?”
“Così pare.”
Gin si avvicina al proprio direttore, posandogli le mani sottili sulle spalle massicce, rivolgendogli un sorriso sinceramente sorpreso:
“Aizen-sama, hai già acquistato la crema?”
“Non ancora Gin, perché?”
“Le andrebbe di venire con me?”
Lui annuisce, posando le iridi cioccolato sul viso magro e pallido del collaboratore:
“D’accordo, caro Gin.”

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Capitolo 12
*** Hawaii! ***


CAPITOLO 12: Hawaii!

 
L’aereo solca il cielo terso e lindo, enorme manto di velluto azzurro come il mare puntellato da sottostanti piccole nuvole simili a montagnole di panna montata, dall’apparenza soffice come cotone.
Il rumore dei motori è attutito dalla musica di sottofondo distribuita da piccole casse nere sapientemente posizionate in strategici punti interni, permettendo ai passeggeri di rilassarsi sui comodi e spaziosi sedili ammirando l’infinito oceano esteso sulla superficie terrestre, le sue acque profonde baciate dai raggi chiari del sole limpido ed avvolgente, scosse da correnti, increspate da infinite onde.
Ichigo scorre quelle immagini stupefacenti imprimendole nelle grandi iridi nocciola: le sue sopracciglia ramate si sollevano in espressioni di meraviglia mentre osserva assorto tale meraviglia della natura assaggiando per la prima volta in tutta la sua vita la magia del viaggiare in aereo. Un piccolo sorriso affiora fra le sue labbra rosee, intenerendo i colleghi di fronte a tanta ingenuità e spontaneità.
Accanto a lui Ulquiorra dorme placidamente, le palpebre serrate e pesanti, il respiro talmente calmo da sembrare inesistente; le ciocche corvine gli ricadono mollemente sulla fronte leggermente sudata, contrastando con la pelle più bianca del latte e profumata delicatamente. Il giovane vicino a lui di tanto in tanto gli regala qualche occhiata per accertarsi che stia bene e che le pastiglie somministrategli per calmarlo non siano risultate troppo forti per lui.
Dietro di loro Grimmjow e Szayel sfogliano una guida turistica dell’arcipelago, commentando questa o quella destinazione, supponendo cosa potrebbe essere più interessante da visitare e facendo supposizioni su come si rivelerà questa settimana e mezza fuori dall’ordinario. Talvolta il medico allunga la mano verso il povero Schiffer, assicurandosi che stia bene, per poi tornare comodamente appoggiato al sedile e re immergersi nelle chiacchiere con l’amico.
Alle loro spalle Nnoitra osserva il paesaggio esterno, puntando l’iride ametista in quella marea bluastra e profonda, le cuffie alle orecchie e l’mp3 acceso per ingannare il tempo. Il suo vicino Gin, invece, guarda svogliatamente un film sul proprio tablet, assopendosi di tanto in tanto, lasciandosi trascinare dalla stanchezza per dimenticare lo stress dell’imbarco.
Pochi posti lontano dal gruppo il leader Aizen si diletta in una fitta conversazione con quella che pare essere una ritrovata conoscenza di vecchia data, una donna formosa e bellissima, dai lunghi capelli biondi e gli occhi verdi di nome Halibel.
Dei piccoli, sommessi mugolii paragonabili a quelli di un gattino durante le fusa o, in alternativa, di un animaletto simile fanno sussultare la combriccola, che si scambia uno sguardo agghiacciante:
“O no, Ulquiorra sta per svegliarsi! Qualcuno lo sedi di nuovo per favore!”
“Calmati Grimmjow! Non posso più dargli nulla altrimenti rimarrebbe moribondo per tutta la giornata baka!”
“Non me ne frega un cazzo Confetto, tu ora gli dai quello che ti pare ma lo fai tornare a dormire. Manca un’ora e mezza all’arrivo e non ho intenzione di doverla trascorrerla con un cadaverino impanicato, a costo di dargli un tranquillante per cavalli o tramortirlo con l’estintore hai capito?”
Gli occhi blu guizzano come saette dall’amico al compagno davanti a lui in procinto di svegliarsi. Schiffer sbadiglia, stiracchiando le braccia come se fosse nel proprio letto, rilassato e sereno dopo una lunga dormita. Sbatte le palpebre più volte, gli occhi verdi ancora annacquati incontrano il radioso sorriso di Ichigo.
“Buongiorno Ulquiorra, ben svegliato!”
Ah? Cosa ci fa Kurosaki nel mio letto?
Perplesso si strofina il volto chiaro, tastando con la mano libera le proprie gambe indolenzite ed incontrando qualcosa che lo riporta immediatamente alla realtà, provocandogli una lunga scia algida lungo la schiena: la cintura del sedile.
Deglutisce, voltandosi con espressione terrorizzata verso i due colleghi dietro di lui, dalle lebbra tremanti non esce nemmeno una parola.
“Szayel cosa facciamo adesso?”
“Nulla, aspettiamo. Mi passi la rivista?”
Con un moto di rabbia l’azzurro afferra il giornale dalla copertina colorata per colpire l’amico in testa con un gesto secco e stizzito, lasciandolo sobbalzare dal dolore e dalla sorpresa. Si massaggia il capo con una smorfia sofferente, cercando di parare gli altri colpi sempre più veloci e assassini.
Lo psicologo li fissa immobile di paura, cercando di allontanare dalle proprie orecchie il rumore del veicolo e il conseguente panico dettato dalla claustrofobia e dal terrore di precipitare nel vuoto da un momento all’altro.
Inizia a tremare convulsamente puntando le perle smeraldo su quelle cerulee del compagno, supplicandolo silenziosamente di salvarlo da quell’inferno. La testa gli duole leggermente, è pesante e l’aria sembra mancargli del tutto, i polmoni appaiono come sacchetti vuoti e accartocciati su se stessi. Lo stomaco si stringe provocandogli una fitta di dolore ed istintivamente si stringe il ventre trattenendo la nausea che lo assale come una bestia famelica. Lo stagista, preoccupato, cerca inutilmente di aiutarlo provocando solamente l’effetto di agitarlo ulteriormente:
“Ehi guarda me ok? Parliamo un po’ così ti distrai d’accordo?”
Il corvino accetta quella proposta ma non appena si volta verso Ichigo non può evitare di scrutare l’oceano fuori dall’oblò: e l’angoscia prende il sopravvento sui suoi nervi saldi e sul suo temperamento generalmente apatico ed insensibile.
Sgrana gli occhi alla vista di tale orrore, il cuore inizia a palpitare a mille e confusamente slaccia la cintura per alzarsi con foga dal sedile ed avventarsi nel passeggero dietro di sé, afferrandolo per le spalle massicce e minacciandolo di portarlo via da quell’oblio o l’avrebbe ammazzato lui stesso.
“Grimmjow fammi scendere! Fammi scendere non respiro! Grimmjow fottuto coglione fammi scendere ORA!!”
Il ragazzo, fra le mani ancora stretta la rivista, indugia qualche secondo sull’opportunità di stordirlo con quell’oggetto e farlo tornare nel mondo dei sogni ma gli occhi spaventati del moro lo dissuadono da quel malevolo proposito, nonostante le risate beffarde del dottor Grantz non lo invitano di certo a prendere una qualsiasi decisione salubre.
Cerca con lo sguardo l’aiuto dei propri colleghi ma scopre sgomento di non poter trarre benevolenza da nessuno: Aizen è ancora immerso in ricordi passati con la donna formosa, Gin dorme beatamente sulla spalla di Nnoitra che a sua volta si è addentrato nel regno di Morfeo, con le cuffie alle orecchie fra l’altro.
Aporro inoltre non sembra voler condividere quella difficoltà con lui ed Ichigo … beh Ichigo ha solo fatto degenerare il danno.
Sospira profondamente, cercando di trattenere l’istinto omicida e mantenere la calma. Gli ferma le mani tremanti stringendone i polsi sottili, impedendogli così di strattonarlo ancora:
“Ascolta Ulquiorra, è un fottutissimo aereo ok? È pieno di passeggeri, quindi se la gente lo usa vuol dire che funziona! Ora finiscila di agitarti che metti ansia anche a me!”
“Portami via, fammi scendere, fammi scendere ora!”
Boccheggia, sulla fronte gocce di sudore gelido ricadono lungo le tempie inumidendo le ciocche scure aderenti alla pelle lattea.
Trema talmente tanto da sembrare uno di quei pupazzetti a cui tiri la cordicella facendoli vibrare.
Pensa Jeagerjaques, mordendosi le labbra dal crescente nervosismo.
Improvvisamente l’uomo spaventato a morte gli crolla fra le braccia apparentemente privo di vita, accasciandosi come una foglia secca, senza muovere più alcun muscolo.
“Ulquiorra … Ulquiorra ehi … ohi!”
Inizia a dargli schiaffi sulla faccia e a scuoterlo ma una mano candida gli mostra una siringa vuota spiaccicandogliela proprio sotto al naso:
“Meno male che mi sono pensato di portarlo via con me.”
Sospira soddisfatto il medico, lasciando scintillare le iridi ambrate con venature di orgoglio professionale.
“Che roba gli hai iniettato?”
“Ah nulla di che … una cosa ideata da me … ma non preoccuparti al risveglio starà benissimo, una favola!”
“MA TU STAI MALE!”
“Dimentichi che sono anche un ricercatore?”
“Non iniziare con questa storia, li so a memoria i tuoi premi scientifici ormai.”
“Molto bene allora.”
Velatamente stizzito da quell’assenza di interesse accende l’i-pod ed infila le piccole cuffie, impostando la riproduzione casuale dei brani , lasciando vagare l’attenzione altrove, fuori dal minuto oblò.
L’amico ripone Schiffer al proprio posto, ammirando i suoi bellissimi lineamenti finalmente tranquilli, quelle labbra sottili e chiare dischiuse in una smorfia tanto angelica quanto invitante; vorrebbe baciarlo, affondare la sua bocca in quelle colline vellutate, vorrebbe assaggiarlo, inspirare il suo profumo di nuovo e di nuovo ancora. Nonostante questo prepotente istinto ritorna alla propria poltroncina, riaccomodandosi (sbracandosi in realtà) comodamente, sistemando la camicia floreale stropicciata precedentemente dal collega invasato.
Nota lo sguardo sibillino del dottore posarsi proprio su quel capo d’abbigliamento e nota le sue sopracciglia inarcarsi in una smorfia presumibilmente di stupire, difficile da decifrare a causa dei grandi occhiali da sole da lui indossati pochi secondi prima.
“Che hai da fissare?”
Parte della cicatrice emerge dall’apertura sul petto, tradendo la pelle rosea e liscia, scultorea come marmo.
Szayel toglie le cuffie, grattandosi il mento.
“Allora?”
“Mi sono accorto solo ora del tuo … discutibile … gusto.”
“Cosa stai insinuando Aporro?”
“Ti mancano solo le noci di cocco sulle tette.”
“Devo ricordarti che sono un uomo?”
“Allora dovresti mettertele sul …”
Un altro colpo di giornale lo colpisce il testa, costringendolo a tacere e mordersi la lingua dolorosamente.
Sbottona il primo bottone della sua camicia bianca ed aderente, complimentandosi con se stesso per il proprio gusto sobrio e assolutamente perfetto.
“… E comunque Szayel almeno io, a differenza tua, non ho i capelli da Barbie !”
Scoppia a ridere sguaiatamente, mostrando l’intera dentatura all’intero pubblico di passeggeri esterrefatti ed intimoriti da quei due strani individui.
“Ehi non sono da Barbie! Non è colpa mia se sono nato così!”
Ridacchia di rimando, mostrando anch’egli i propri denti bianchi e strani: rispetto all’amico i suoi canini sono più piccoli e meno evidenti ma stranamente appuntiti, simili a quelli di uno strambo vampiro.
Sono passate quasi sei ore dalla partenza, un’improvvisa stanchezza lo coglie e, cullato dalle chiacchiere del collega e dello stagista, crolla in un sonno profondo e buio.
 
 
“Benvenuti all’Hotel Kuchiki! Siamo veramente lieti di ospitarvi qui!”
Juushiro abbraccia calorosamente i due ragazzi precedentemente conosciuti dando loro pacche amichevoli sulla schiena, goffamente ricambiate da Ulquiorra (poco abituato in questo genere d’atteggiamenti) e accettate volentieri da Jeagerjaques.
“Vi prego di presentarmi il resto della vostra equipe, siamo veramente molto felici di incontrarvi!”
L’uomo dai lunghi capelli bianchi emette qualche colpo di tosse e ricomincia a sorridere amabilmente verso gli ospiti, ascoltando le presentazioni d’ognuno  e salutandoli con riverenza.
“Io sono Aizen Sosuke, il direttore della struttura. Loro sono i miei fedeli colleghi, da sinistra: Grimmjow Jeagerjaques assistente sociale, Ulquiorra Schiffer psicologo, Szayel Aporro Grantz medico e ricercatore, Ichimaru Gin avvocato e mio fidato consulente, Nnoitra Jilga contabile e operatore rivolto al pubblico ed il più giovane ma ben promettente Kurosaki Ichigo, futuro operatore sociale ed attualmente stagista presso l’ufficio di Grimmjow. Noi siamo il team Espada, grazie per la vostra gentile ospitalità, ne siamo onorati.”
Ukitake porta le mani al petto con somma gioia, apprezzando quel gruppo variamente assortito e dagli individui singolari.
Il sole caldo carezza i loro volti stanchi, la brezza salmastra s’insinua fra i capelli e gioca con le ciocche morbide. La temperatura intorno ai 28 gradi è assolutamente gradevole, avvolgente e rilassante, completamente diversa dal gelo di Tokyo e dei suoi alti cumuli di neve algida.
Le palme alte e verdeggianti affiancano le strade asfaltate e trafficate, illuminate da un cielo completamente sgombro di nuvole, dipinto d’un magnifico color ciano brillante. Ma quale inverno? Questa è una perenne estate dalle note fiorite delle buganville rosse ed arancio, dai grandi cespugli frondosi e dal rumore delle onde dell’oceano pacifico che si infrangono sulle spiagge di fine sabbia bianca.
Alle spalle dei presenti si staglia un alto e meraviglioso hotel dalle enormi vetrate lucenti che riflettono i raggi del sole caldo. Attorniato da una fitta vegetazione, l’albergo si differenzia dagli altri lungo il tragitto fin’ora percorso per la sua straordinaria eleganza, per il design moderno e raffinato, che non passa assolutamente inosservato.
Cogliendo lo sguardo assorto di Grimmjow l’uomo dalla chioma candida sorride dolcemente, rivolgendosi a tutti i colleghi:
“Siete sorpresi vero? Anch’io lo ero la prima volta. È un cinque stelle, Kuchiki-sama è veramente un uomo generoso per ospitarci qui. Mi ha anche già comunicato quali sono i vostri appartamenti anche se …”
“Appartamenti??”
L’azzurro sgrana le iridi turchesi, mostrando un forte stupore incredulo nella voce squillante.
“Ma certo, con tanto di suite, cucina, soggiorno ed ogni confort immaginabile.”
Ulquiorra, ancora dondolante e con la testa estremamente pesante prende la parola, nonostante gli risulti difficile parlare a causa della bocca impastata e del completo torpore in cui è sigillato.
“Mi scusi Ukitate-kun, cosa stava dicendo poco fa? Anche se … cosa?”
“Giusto caro Ulquiorra! Ma prima dimmi, come stai? Sei sempre così pallido, vedrai che la tua salute migliorerà molto stando qui!”
“La ringrazio.”
“Oh giusto giusto tu vorresti sapere il resto vero? Stavo dicendo, anche se siete un po’ troppi rispetto a quanto ci aspettavamo. Non fraintendente, siamo felicissimi di avervi qui, anzi, è per noi un vero piacere potervi conoscere tutti! Ma non abbiamo abbastanza stanze a disposizione, spero non sia un problema per voi condividerne alcune.”
Preoccupato punta le iridi color cioccolato sui ragazzi, che lo rassicurano con convinzione.
“Perfetto allora! Seguitemi nella hall, vi presento il resto del nostro gruppo.”
 
La sala è spaziosa, enorme, ampia e luminosa, dalle tonalità chiare che permettono alla luce di invadere l’intera struttura regalandole un’atmosfera delicata, magica, rilassante. Il pavimento è di parquet chiaro, tinta miele, accogliente, sposato sapientemente con le pareti avorio abbellite da magnifici dipinti locali e da piante rare e pregiate, mantenute in splendida forma.
Davanti alla reception delle persone sembrano attendere Juushiro, fra loro anche i già noti Nanao e Shunsui, quest’ultimo saluta i giovani con un entusiasta cenno della mano.
“Sono lieto di presentarvi i più stretti collaboratori di Byakuya Kuchiki: lui è Abarai Renji, il suo vicedirettore.”
Indica un alto ragazzo dalla folta chioma rossa come il fuoco scarlatto, ricoperto di tatuaggi tribali e dall’aspetto tutt’altro che affidabile.
“Loro invece sono Kurotsuchi Mayuri e sua figlia Nemu, sono entrambi due importanti ricercatori nell’ambito della scienza.”
Lascia spazio ad uno strambo personaggio dal capo rasato, con una sola striscia verticale di capelli blu, le pupille gialle ed inquietanti. Sua figlia, dai lineamenti dolci e i grandi occhi verdi, sembra una creatura celestiale in confronto al padre dall’aspetto folle.
Szayel storce il naso dritto in un’espressione contrariata, scrutandoli con sospetto: odia la concorrenza e, soprattutto, nessuno può essere migliore di lui, nemmeno lontanamente. È inaccettabile.
L’uomo bizzarro irrompe nei suoi pensieri con voce melliflua, unica nel suo genere, inesplicabile:
“Ma tu sei Szayel Aporro Grantz … lo scienziato di Tokyo … molto interessante.”
Nemu completa l’enunciato del genitore con estrema piattezza:
“Abbiamo letto i tuoi articoli nel giornale.”
“Onorato.”
Risponde il ragazzo dal manto roseo con mal celato disgusto, mentre un senso di estrema superiorità lo invade da capo a piedi.
Con gentilezza Juushiro riprende le presentazioni, annunciando una donna minuta che si avvicina a lui con passo femmineo e deciso, ancheggiando sensualmente.
“Infine lei è la nostra bellissima Cirucci Thunderwitch! Lei e suo marito collaborano con noi in importanti progetti di design. Oggi lui non può presenziare ma lo conoscerete sicuramente nei prossimi giorni.”
Ulquiorra e Grimmjow sgranano gli occhi disgustati e stupiti da quell’inaspettata presenza, trattenendo un moto di nausea quando lo sguardo violaceo e malizioso di lei si appoggia proprio su di loro con luce famelica, per poi bearsi di tutti gli altri uomini lì presenti.
Inutile descrivere i pensieri astiosi nella mente di Ulquiorra e le definizioni di Grimmjow verso quell’esemplare di “donna”.
Lei rigira divertita una ciocca di capelli scuri fra le dita sottili, sorridendo civettuola:
“Kuchiki vi invita a cena questa sera, al momento è in escursione lungo le coste dell’isola. Se volete nel frattempo vi accompagno ai vostri alloggi, così potrete sistemare i bagagli e riposare …”
Ammicca, arricciando le labbra carnose in un grazioso bacio.
“Prego, vi faccio strada!”
Gli ospiti si avviano verso l’ascensore dorato, abbastanza spazioso da contenere agevolmente tutti senza costringerli a comprimersi come sardine in una scatola di latta.
La donna coglie l’occasione di quella vicinanza per strusciare il seno prepotente addosso a Grimmjow, che disgustato balza in avanti dalla sorpresa e dal disprezzo:
“Razza di put…”
Ulquiorra gli porta una mano sulla bocca per interrompere la tanto velenosa esclamazione, costringendolo ad ingoiare sonoramente la rabbia, deglutendo sonoramente.
Lei ride, lo sguardo alto e colmo d’orgoglio, stranamente dignitoso e deciso per una donna tanto civettuola e frivola, dall’apparente scarso spessore emotivo, soprattutto dopo aver saputo che è addirittura sposata.
“Non sei felice di rivedermi carino?”
Lui digrigna i denti sotto l’inquietudine dei colleghi, maledicendo mentalmente il proprio superiore per essere rimasto nella hall e per non districarlo da quell’impiccio assolutamente spiacevole.
Fortunatamente un trillo autorevole indica l’arrivo al piano predestinato, lasciando scorrere le porte dell’ascensore con un fruscio sottile per lasciare spazio ad un lungo corridoio dalle pareti intonacate di un avorio lindo abbellito da spatolate lucide. I pregiati lampadari di vetro finemente decorato inondano di luce chiara quello spazio orizzontale che congiunge tutti gli appartamenti nel medesimo spazio.
La giovane distribuisce tre copie di chiavi, aggiungendo che la quarta, spettante ad Aizen-sama, l’avrebbe consegnata a lui personalmente.
Con un certo malevole ghigno squadra nuovamente i bei ragazzi di fronte a lei, soppesandoli uno per uno e valutandone la bellezza, il fascino, il probabile carattere, le possibilità di conquistarlo: è sempre stata così Cirucci, tanto sfrontata quanto elegantemente abile nel proprio gioco seduttore.
“Bene, me ne vado miei bei ragazzi, ci rivediamo più tardi. Fate i bravi, nel frattempo …”
 
Ulquiorra si lascia cadere stancamente sul letto spazioso, affondando nel morbido materasso ricoperto da lenzuola soffici, delicate, proprio come le sue ciocche corvine sparse sul cuscino profumato di fiori, probabilmente rose e oleandro.
Le palpebre premono pesantemente fino a chiudersi, il respiro si affievolisce conducendolo ad uno stato di torpore dal risveglio difficoltoso, gli arti insensibili e la mente dispersa in una lontana dimensione: si sente stanco, stanco davvero da morire e l’atmosfera creata dalle veneziane abbassate, il rumore delle onde che s’infrangono sulla vicina spiaggia e la piacevole brezza marina non lo aiutano di certo a mantenersi vigile.
A malincuore ricorda di aver lasciato la propria valigia accanto al comodino, ancora intatta e ben sigillata, prima di barcollare indecentemente verso quell’eden tanto desiderato ed abbandonarsi ad uno stato di malsano dormiveglia, probabilmente provocato dagli strani intrugli di Aporro.
Grimmjow entra nella stanza dopo circa mezz’ora trascorsa a contrattare con il proprio amico rosato sul fatto che dovesse ospitare lui Ichigo perché nel suo appartamento vi è una camera da letto in più mentre nel suo no. Dopo un’iniziale resistenza accetta finalmente la proposta, a patto che non riceva alcuna lamentela in caso d’effetti collaterali provocati dal calmante utilizzato su Schiffer.
Le sue labbra sottili si schiudono in una smorfia preoccupata nel vedere il povero collega riverso immobile sul letto, pallido come non mai. Si sdraia accanto a lui, controllando l’istinto di protendere la mano in una carezza avida di quella pelle lattea, desiderosa d’accertarsi che il suo piccolo Ulquiorra stia bene; una formicolante stanchezza lo coglie all’improvviso, cullandolo nel sonno mentre lo sguardo si perde sui dolci lineamenti del compagno prima di congedarsi nel buio dei suoi sogni.
 
Nella dimora accanto, invece, un annoiato medico si aggira fra le stanze spaziose e pienamente illuminate, scrutandone il mobilio moderno ed elegante, decisamente di buon gusto e , soprattutto, raffinato e costoso. Nulla di più pregiato, a dir poco. Passeggia pigramente accanto al tavolo rettangolare di vetro troneggiante al centro del grande soggiorno, attorniato da sedie del medesimo materiale delicatamente intarsiate con filamenti metallici. Sullo sfondo un pregiato sofà a penisola di materiale bianco come la neve, arricchito da cuscini della medesima tinta e da una bellissima pianta fiorita poco lontano. Lo schermo nero del gigantesco televisore al plasma rimane immobile, privo di qualsiasi comando ma, ci può scommettere, è sicuramente anch’esso d’alta qualità.
Annusa svogliatamente il mazzo di fiori color caramello riposto in un vaso finemente lavorato al centro del tavolo, inebriandosi di quel profumo fino a starnutire sonoramente, maledicendo l’allergia perenne.
Concede uno sguardo distratto alla cucina dalle tonalità chiare, come la luce solare che inonda l’appartamento grazie alle enormi vetrate proiettate sulla costa sabbiosa, l’oceano cristallino in un ondeggiante movimento.
Decide di andare a trovare Ichigo e Nnoitra quando la voce di quest’ultimo gli punge le orecchie come delle unghie su una lavagna:
“Prendilo Ichigo! Prendilo cazzo!”
“Ma è volato via!!!”
“Inseguilo!!”
I due ragazzi si precipitano fuori dalla stanza come razzi, travolgendo il povero medico dal naso arrossato.
“Seguici, chiama anche Grimmjow è urgente!! Una gazza mi ha rubato il passaporto!!”
Il corvino si catapulta fuori dalla porta dell’appartamento ferocemente, al suo seguito un Ichigo paonazzo ed un dottor Grantz decisamente divertito.
 
* * *
 
 
Quel campo di granturco ha qualcosa di inquietante. Di estremamente inquietante. Forse a causa degli altissimi steli delle piante, allineate l’una accanto all’altra ad una distanza talmente sottile da risultare inesistente. Forse è il loro colore verde scuro, scurissimo, un pugno nell’occhio sotto quel cielo grigiastro promettente un’oramai annunciato temporale. E non un temporale qualsiasi, bensì uno di quelli estivi con tanto di tuoni rombanti, lampi saettanti che squarciano le nubi dense, vento ululante carico d’umidità.
O forse ancora a rendere così macabro quel posto è il gracchio dei corvi svolazzanti, dalle piume nere e lucenti, un verso tanto roco quanto graffiante da far apparire quel luogo isolato come il set di un film horror.
Infine potrebbero contribuire gli innumerevoli sciami di insetti che mordono voracemente la pelle pallida di Ulquiorra, costringendolo a grattarsi malamente, il corpo fradicio di sudore arrossato ed escoriato.
In conclusione potrebbero essere tutti questi fattori sommati insieme anche se il giovane psicologo la pensa diversamente:
Ho sempre amato le zone … campestri. Ma essere dispersi nel bel mezzo di un campo di granturco … a poche ore dalla cena con l’illustre Kuchiki Byakuya … no, non rientra decisamente nelle mie passioni.
Soprattutto se oltre a me sono dispersi anche tutti gli altri.
Il corvino avanza incespicando, scostando i ciuffi madidi di umidità dalla fronte gocciolante, spostando le pannocchie avvolte da quelle foglie pruriginose per costruire un sentiero, mentre tale vegetazione gli punzecchia gli arti, costringendolo a fermarsi continuamente portando le mani su ogni lembo nudo, non protetto dagli abiti smembrati e incrostati di fango.
Un sbuffo profondo gli risale dalla gola: socchiude le palpebre, inspirando profondamente per mantenere saldi i propri nervi d’acciaio e riconquistare la calma in via di perdizione.
Eppure non riesce a capacitarsi di come sia potuto essere coinvolto in quell’assoluto disagio vivente. Come sia riuscito ad essere tanto sciocco da seguire il proprio compagno in una corsa folle in mezzo alla vasta piantagione, che a sua volta rincorreva Szayel , intento ad acciuffare Nnoitra e Ichigo che, per concludere, dovevano catturare qualcosa attualmente ancora non identificato. Pareva un volatile ma non ne è tanto certo da potervi scommettere.
Aizen- sama ci licenzierà tutti. Nessuno escluso. Faremo una pessima figura davanti a Kuchiki, verremo rispediti a Tokyo a calci nel culo. Devo ritrovare almeno qualcuno e uscire da qua.
Un fruscio dietro le sue spalle, qualche imprecazione sputata da denti digrignati ed una voce melliflua accompagnata da goffi passi e qualche rovinoso tonfo.
“… Szayel Aporro?”
“.. Merda!”
Sì, è lui.
Le alte piante si scuotono bruscamente, fino a far apparire una chioma rosata, i capelli scompigliati ed intricati, fra le ciocche pastello foglie verdastre e pennacchi secchi, rimasti appiccicati anche ai pantaloni aderenti rotti in più punti, unico capo d’abbigliamento da lui indossato. Il petto completamente nudo è arrossato in più punti a causa del sole cocente alto fino mezz’ora prima e delle punture di zanzara. Nel suo sguardo ambrato non vi è alcun briciolo d’umanità, solo un terribile folle nervosismo.
I due colleghi si scrutano per qualche secondo in silenzio, il medico assottiglia le palpebre per mettere meglio a fuoco quella figura a lui confusa, sfocata, dai confini sfumati.
“.. Schiffer? … sei tu? Sei tu vero?”
“Certo che sono io.”
Lo scruta attentamente, notando l’assenza della bianca montatura:
“Hai perso gli occhiali?”
“No quelli sono in albergo … mi sono scivolate le lenti a contatto mentre correvo … non ci vedo un cazzo.”
Tasta confusamente la tasca, estraendo un pacchetto di sigarette sfortunatamente vuoto, biascicando qualche insulto confuso fra le labbra schiuse, sotto le iridi smeraldo di Ulquiorra che lo fissano anonimamente.
“Non che hai una …”
“Non fumo.”
“Ti pareva … non solo siamo persi in mezzo a un fottutissimo infinito campo ma siamo anche senza cellulare e con chi dovevo incontrarmi? Con te! Che non hai nemmeno una maledettissima sigaretta!”
Lo psicologo sospira scuotendo il capo esasperato, dannandosi mentalmente per aver desiderato per un istante di trovare compagnia in quella vallata afosa e pizzicante: se quel collega doveva essere proprio Szayel era decisamente meglio rimanere soli. Soprattutto se appare in palese carenza di nicotina.
Con rammarico liscia i pantaloni ridotti a brandelli, grattandosi le braccia qua e là per assopire la pruriginosa sensazione causata dai moscerini e dall’allergia:
“Aporro, temo che stia per piovere. Sarà meglio sbrigarsi. Non possiamo rimanere qui a fissarci tutto il giorno.”
Gli volge le spalle, avviandosi verso una direzione indefinita, spostando le fronde pizzicanti con cautela ed una punta di stizza, quando la voce solitamente melliflua del dottore lo blocca, tramutandosi in una supplica disperata:
“Aspettami Schiffer! Non ci vedo! Non piantarmi qua!”
Il moro si ferma, soppesando quell’uomo stancamente seduto su uno spazio libero di terra arida, immerso dalla vegetazione, intento a trafficare e manipolare qualcosa con grande attenzione, portandosi l’oggetto non definito tanto vicino agli occhi da lacrimare.
“… Cosa stai facendo Grantz?”
“Nienfte.”
Ulquiorra lo raggiunge inquietato, analizzando quello strano filtro fra le labbra del medico e quelle foglie giallognole arrotolate nella sua mano, strappate dalla base delle piante.
“Non vorrai mica …”
“Senti io ho bisogno di fumare ok? Altrimenti non ragiono!”
Con disinvoltura accende la fiamma dell’accendino, portandolo all’estremità dell’ambigua sigaretta improvvisata, bruciacchiandone il contenuto ed invadendo l’aria di un nauseante olezzo di bruciato.
Grantz inspira soddisfatto, tossicchiando, per ripetere l’azione nuovamente, sempre più soddisfatto della sua opera, sotto le smorfie attonite del corvino.
Improvvisamente si lascia cadere all’indietro, stendendosi di schiena ed iniziando a ridere all’impazzata, così tanto da sentir dolere gli addominali.
“Szayel …?”
Il medico inala un’altra boccata di fumo, asciugandosi le lacrime agli occhi per ricominciare a sgolarsi nuovamente, mettendo a grave repentaglio la pazienza del povero psicologo, al limite della sopportazione.
“Ulqui-chaaaaan. Guarda nel cielo! Le nuvole parlano!”
“Cosa diamine ti sei fumato.”
L’altro ricomincia a singhiozzare dal divertimento, ma tutt’a un tratto balza in piedi, fiondandosi addosso al malcapitato, scrollandolo per le spalle ed iniziando a piangere copiosamente.
“C..che succede ora?”
Il medico imbroncia il labbro inferiore, tirando su con il naso, passando il dorso della mano sulle guance sporche di fango:
“Non mi amano.”
“Chi non ti ama Aporro?”
Ma perché devo fare il mio lavoro anche quando siamo in … “vacanza” …
“Gli ortaggi.”
“AH???”
“Gli ortaggi non mi amano! NON GUARDARMI COSI’! Non sono pazzo!”
“Va bene, allora quando torniamo parleremo con loro e ci metteremo d’accordo … ok?”
“… ok.”
“Bravo, ora che ne dici di mettere giù la sigaretta e andare a cercare gli altri?”
“….. va bene ma dammi la mano. Ho paura di perdermi.”
Il moro deglutisce la rabbia, acconsentendo alla richiesta di un Grantz inebriato da chissà quale sostanza (chissà cos’ha raccolto anziché granturco) privo di occhiali e, per il momento, di ragione.
Peggio di così non può andare.
Una pesante goccia di pioggia lo colpisce in pieno viso, facendolo sussultare dalla sorpresa. Ben presto viene seguita da un’altra, ed un’altra ancora, finchè il cielo con un rombo perforante annuncia ufficialmente l’inizio di quello che pare essere un temporale in piena regola.
Catini di liquido gelido si riversano sulle loro teste già fradice, inondando il campo con larghe pozzanghere, rendendo il terreno estremamente scivoloso, causandogli un elevato numero di rovinose cadute.
Ritiro tutto: non c’è fine al peggio. E con questo acquazzone non riesco nemmeno a sentire le eventuali voci degli altri.
Tremanti di freddo continuano la difficoltosa camminata, tirandosi a vicenda per lunghi minuti, finchè vengono travolti da qualcosa di inaspettato. O meglio … qualcuno.
Un ragazzo dai lunghi capelli neri rovina addosso ad Ulquiorra, che trascina il collega nella caduta , facendo precipitare tutti e tre a terra, con un sonoro SCIAC!
“Nnoitra!”
Grantz si lancia addosso al compagno, abbracciandolo affettuosamente con il rischio di farlo soffocare fra le pannocchie.
“Ohi cosa stai facendo!”
Più sorpreso che alterano se lo toglie di dosso, constatandone le pessime condizioni, lanciando uno sguardo interrogativo ad Ulquiorra che risponde con un’alzata di spalle.
Seduto a cavalcioni su di lui, il rosato si diverte a punzecchiarlo con uno stelo d’erba rinvenuto lì vicino, ridendo esasperato fino a tossire.
“Bene, ora siamo in tre. Chi manca?”
Asserisce lo psicologo, il volto quasi interamente coperto dalla chioma scura piomba d’acqua, aderente alla pelle lattea.
“Ichigo e Grimmjow.”
“Tu li hai incontrati prima di trovare noi?”
Nnoitra scuote il capo, stizzito dagli scrosci d’acqua e dalle vesti appesantite e fredde.
“Nemmeno incrociati … Abbiamo qualche possibilità di rintracciarli?”
“Forse, se facciamo rinsavire quell’idiota potrebbe rimettersi a pensare e portarci da loro. Conosce Grimmjow meglio di tutti noi, saprà certamente anticiparne le mosse.”
Indica il medico seduto nel pantano, intento a strizzarsi i capelli nonostante il temporale persistente.
“Proviamo.”
“Come?”
“Non ti preoccupare. Tienilo fermo Schiffer.”
Il corvino, seppur indugiando, afferra saldamente il medico, ghermendolo alle spalle in modo da tener ferme le braccia e non permettergli resistenza.
Jilga gli si avvicina minaccioso, afferrandogli il mento fra le dita sottili, sbraitandogli in faccia:
“TI DAI UNA SVEGLIATA O NO?”
“Oho..?”
Ringhia rabbiosamente, sferrando una sberla sul volto del compagno che sgrana gli occhi dallo spavento contemporaneamente al collega dietro di lui.
“E ADESSO?”
L’altro sbatte le palpebre, ma la sua espressione continua ad essere vaga, assente, ancora in un altro mondo lontano chilometri da quello reale.
Un altro schiaffo lo scuote violentemente, seguito da un incontrabile raffica di atti simili, che finalmente sembrano dare i loro risultati: il ragazzo dal manto pastello inizia a sbraitare violentemente, maledicendo il suo persecutore ed ingiuriandolo a non finire.
“Szayel ci sei ora?”
La voce gelida di Ulquiorra lo riscuote dal torpore, costringendolo a portarsi una mano sulla guancia dolorante di fronte ad un Jilga dal ghigno compiaciuto.
“Me la pagherai … stronzo …”
“Non è colpa mia se ti fumi quello che capita. E ora portaci fuori da qui.”
Ride acutamente, pestando qualche pannocchia per creare un piccolo spiazzo privo di quell’odioso fogliame decisamente propenso ad appiccicarsi alla pelle.
Aporro si carezza il mento con l’indice, immergendosi nelle proprie congetture mentali per una manciata di minuti, mugolando talvolta di dissenso, talvolta di soddisfazione. Finalmente alza le perle dorate sui due colleghi in attesa, esprimendo mellifluamente il giudizio finale:
“Ho riflettuto abbastanza per giungere a questa conclusione: quando siamo partiti a correre Grimmjow ed Ichigo erano abbastanza vicini e come tali sono rimasti poiché Jeagerjaques, in qualsiasi evenienza, non abbandonerebbe mai il suo stagista. È un idiota ma sa essere responsabile con i sottoposti. Perciò abbiamo l’89% di ritrovare entrambi in un colpo solo. Propongo che Ulquiorra salga sulle spalle di Nnoitra e guardi dall’altro se vede una testa arancione o, in alternativa, una azzurra.”
“E perché diamine non lo avete fatto prima??”
Sbraita Jilga, infuriato e paonazzo.
“Perché, razza di ignorante, eravamo isolati ed a meno che non salissimo sulle spalle di un fantasma ci era impossibile farlo! Ed io sono senza occhiali! E Grimmjow è troppo stupido per pensare ad una soluzione del genere! Si sarà certamente seduto dove si trovava dopo pochi minuti aspettando che le cose si risolvano da sole.”
Dopo pochi minuti Ulquiorra è comodamente seduto sulle spalle del collega, le gambe tenute strette dalla sua presa e le mani sul capo umido e scivoloso dell’altro. Dal basso il dottore si passa la lingua sui canini appuntiti, ringraziando se stesso per la nobile idea ed il fato per aver donato al suo compagno tale altezza notevole.
Il corvino più in alto sobbalza, parandosi gli occhi con il palmo candido:
“Li vedo.”
“Dove? Dove sono?”
Urla il ragazzo su cui è appoggiato, sovrastando gli scrosci di pioggia:
“Sono poco lontano da noi, stanno … stanno ridendo come invasati ..?”
Szayel sogghigna, tastando l’accendino nella tasca: ahh Grimmjow, buon sangue non mente!
 
 
Gin sgrana gli occhi color ghiaccio dalla sorpresa, portandosi le mani candide alla bocca nel vano tentativo di trattenere un urlo. Di fronte a lui cinque ragazzi grondanti da capo a piedi, sporchi quasi interamente di fango, mezzi nudi, apparentemente reduci dalla terza guerra mondiale, fra i capelli foglie stoppose e frammenti di steli, la pelle scoperta escoriata e graffiata, in alcuni punti appena gonfia e scottata.
“Che cosa … ragazzi … cosa …”
Balbetta qualcosa di incomprensibile in piedi davanti l’entrata del maestoso hotel, scostandosi il colletto della camicia raffinata per deglutire meglio, o forse per riuscire a colmare i polmoni d’aria.
Ichigo e Grimmjow, ancora scossi dalle sigarette improvvisate, cercano di trattenere malamente le risa, mentre un esasperato Ulquiorra lancia loro occhiatacce truci. Szayel si torce i capelli fra le dita in leggero imbarazzo, cercando di coprire il petto scoperto percorso da brividi di freddo; Nnoitra lo osserva sottecchi con un’espressione vagamente perversa dipinta sul volto affilato.
Una splendida equipe, non c’è che dire.
Un unico problema: non è decisamente nella condizione più salubre per presentarsi alla cena con Byakuya che avverrà fra esattamente ….
“Un’ora. Avete un’ora di tempo per ripulirvi, tirarvi a lucido, togliervi quelle espressioni sconvolte dalla faccia e farvi trovare impeccabili nella sala ristorante. Un’ora!”
Altera la voce con autorità, senza celare però un ghigno divertito da quello spettacolo bizzarro.
Trattiene un risolino, avvicinandosi allo stagista barcollante:
“Kurosaki, me lo dici tu dove siete stati prima che sia Aizen-sama a scoprirlo?”
“Ci .. ci siamo persi … in un campo di granturco.”
“E perché mai vi siete addentrarti in un campo di granturco?”
“Perché una gazza ladra ha rubato il passaporto a Nnoitra … che l’aveva appoggiato solo un attimo …”
L’uomo dalla chioma argentata sorride , guardandosi attorno furtivamente:
“Entrare veloci finchè non c’è nessuno, ma non ritardate, si dice che a Kuchiki non piaccia aspettare.”
Il gruppo sgattaiola silenziosamente nella hall fortunatamente deserta, lanciandosi in una corsa folle verso l’ascensore, chi ridendo, chi sospirando.
Gin scuote le ciocche chiarissime, ridacchiando interiormente:
Sarà una serata … divertente.

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Capitolo 13
*** Sun ***


CAPITOLO 13:   Sun
 

 
L’aria tiepida carezza la pelle arrossata, baciata dai raggi di un sole splendido e cristallino; profumata di salmastro s’insinua fra i capelli scossi dalla brezza marina, inebriando con la sua magica essenza le narici e lo spirito. Le onde si infrangono sulla barca bianca, spumose, tagliate in due dalla forma affusolata e veloce.
L’oceano si estende davanti ai loro occhi assorti, le palpebre talvolta si socchiudono per inspirare profondamente quello stralcio di paradiso, riempiendosene i polmoni fino in fondo, per poi sollevarle nuovamente ed imprimere nella mente la costa alle proprie spalle , delimitata da rilievi montuosi d’origine vulcanica, ricoperti da fitta vegetazione tropicale.
L’acqua tersa lascia intravedere il fondale decorato da infiniti coralli ed altre meravigliose specie marine, pesci colorati guizzano da un anemone all’altro come piccole saette, altri dalla forma più allungata e simili a serpenti s’inabissano sul fondale camuffandosi con le stelle marine, i ricci acuminati e qualsiasi altra cosa immaginabile. Poco più avanti un dislivello sancisce il termine della barriera e l’inizio di quello che pare essere un infinito spazio profondo, blu come la notte ed altrettanto affascinante.
Il cielo terso, simile ad una tela intrisa di lapislazzuli, regna sovrano, manto azzurro privo di nuvole; si specchia soavemente sulla superficie mossa del mare, increspata dai soffi del vento e dallo scontro di correnti contrastanti.
Grimmjow, Ichigo e Nnoitra sono seduti sul lato sinistro dell’imbarcazione, assorti da quello spettacolo inusuale, gli occhi divagano da un particolare all’altro senza tralasciare nemmeno la benché minima piccolezza, dal semplice capolino di un pesce pagliaccio al canto dei gabbiani svolazzanti, le ali bianche stese come aerei.
Di fronte a loro Ulquiorra, Szayel ed Aizen, mentre Gin Ichimaru si destreggia alla guida del veicolo, mostrando le proprie abilità con sommo piacere dei presenti.
Essere a bordo di uno spazio relativamente ristretto in compagnia del proprio datore di lavoro è una sensazione alquanto strana, forse non propriamente imbarazzante, ma anche dire che incute una certa soggezione sembra sminuire l’atmosfera creatasi. Lui non indossa più quell’aria autorevole e severa stampata nel volto quando cammina fra i corridoi del Centro Espada: appare rilassato, soddisfatto della precedente cena con il nobile Kuchiki Byakuya e dei risultati fin’ora ottenuti. Sì, è possibile affermare che oggi sia davvero di buon umore e che la gita mattutina gli regali ulteriormente sensazioni positive.
Vederlo poi in costume, il corpo massiccio e scultoreo nudo ai caldi raggi solari, leggermente abbronzato, i capelli castani all’indietro ed il ciuffo scosso dalla brezza è una visione fra il paradisiaco e l’inimmaginabile. Eppure è reale: lui è lì, accanto ai colleghi più fidati, una confidenza nuova ed amichevole fra loro che sfocia nel chiacchierare amabilmente.
Sistema i suoi Ray ban Wayfarer da sole sul naso perfettamente dritto, osservando la schiena dell’avvocato celata da una canottiera bianca  e sottile, che lascia intravedere la pelle chiarissima profumata da crema al cocco ultraprotettiva.
“Adesso stiamo per superare la barriera ed introdurci nell’oceano aperto. Sarà una manovra un po’ difficile a causa dell’incontro di correnti e delle onde, ma non spaventatevi non affondiamo. Saremo solo un po’ scossi.”
Sorride furbo, socchiudendo le palpebre con aria felina e divertita.
I ciuffi argentei riflettono la luce delle dieci, apparendo candidi come neve, lisci come seta. Ricadono mollemente sul volto disteso del ragazzo, donandogli un’espressione quasi, e dico quasi, simpatica.
“Non ti scotti senza crema?”
“Tsk, Fragolo, a me non serve!”
“Sei sicuro?”
“Ma certo! Che domande!”
Sbeffeggia con alterigia lo stagista intento ai aiutare lo psicologo a spalmare la crema sulla pelle lattea, facendo attenzione a non tralasciare nessuno spazio.
“Grazie Kurosaki.”
“Nessun problema, figurati.”
Il manto corvino ricade dolcemente fino le spalle, i rivoli di vento giocano con quelle ciocche sottili dall’aroma di bagnoschiuma, facendo distratta l’azzurro dai suoi pensieri per osservarlo da dietro le lenti scure, beandosi di quell’aspetto magro, esile, eppure incredibilmente attraente, etereo.
Sosuke distende le braccia, stiracchiandosi, rivolgendo un affabile sorriso ai propri colleghi, in particolare al più giovane.
“ Miei cari amici. Dopo un’attenta riflessione ho rinvenuto delle importanti comunicazioni per voi. La prima riguarda Kurosaki.”
Lui sobbalza, il cuore palpita nel petto, il respiro graffia i polmoni. Un forte brivido gli percorre la schiena.
“Sei molto giovane e ti sei dimostrato degno del lavoro che intendo affidarti. Ti sei inserito ottimamente nel nostro team ed io stesso sono molto soddisfatto di te. Pertanto ho deciso di assumerti definitivamente, non come stagista, ma come operatore a tutti gli effetti. Avrai anche un ufficio personale, anche se dovrai attendere ancora un po’ perché stiamo ristrutturando l’ala ovest della struttura. Appena i lavori saranno terminati manterrò la parola data. Cosa ne pensi?”
Non riesce a credere a quanto ha appena ascoltato. Non può essere vero, lui è stato assunto. Da Aizen sama. Lui! Assunto a tutti gli effetti! Un sorriso smagliante affiora fra le labbra, le iridi nocciola brillano di felicità tanto da far tremolare la voce nel sentito ringraziamento. Per poco non balza in piedi esultante, non vede l’ora di telefonare a suo padre ed alle sorelle per raccontare la splendida notizia.
“Penso che è fantastico! Grazie di cuore!”
Così ingenuo,così spontaneo. Il capo apprezza questa naturale bontà in lui, l’innata propensione ad aiutare il prossimo ed essere sempre se stesso in qualsiasi circostanza. È davvero contento della sua decisione.
“Mi fa piacere. Ora, Grimmjow e Ulquiorra, che dire ? Se siamo qui oggi il merito è solamente vostro quindi chiedetemi ciò che volete e lo avrete immediatamente. Non credo vi sia altro che posso fare per mostrarvi la mia gratitudine.”
“La ringrazio Aizen sama, ma non voglio nulla. Va bene così.”
Risponde algido Ulquiorra con la solita pacifica espressione dipinta sul viso tenue.
Grimmjow annuisce, dandogli il consenso di parlare anche a nome suo anche se, in realtà, non ascoltato nemmeno una parola del discorso tanto è assorto a fissare il compagno di fronte a lui.
“Devo dire che sono molto soddisfatto anche di te Szayel Aporro …”
Si volta verso il medico seduto accanto a lui, che fino a quel momento non ha proferito parola, gli occhi dorati fissi verso il basso, le sopraciglia corrugate in una smorfia sofferente.
Nnoitra digrigna i denti nervosamente, soppesando con rabbia la frase del direttore, pervaso dalla gelosia.
“… I tuoi pazienti aumentano sempre di più, ti vedo spesso rimanere anche oltre l’orario lavorativo. Senza contare che mi capita spesso di leggere i tuoi libri di scienza e … Szayel Aporro? Stai bene?”
L’uomo porta il palmo della mano sul mento dell’altro , sollevandolo fino a potersi perdere in quelle iridi ambrate, notando discretamente un certo malessere segnato in quelle gote stranamente pallide rigate di sudore gelido.
“Chiedo scusa Aizen sama ma temo di non sentirmi molto a mio agio su questa barca … Sono mortificato, non credevo di soffrire il mal di mare.”
“Non ti preoccupare caro Szayel, sei fortunato ho portato con me un cerotto per contenere la nausea. Aspetta, te lo metto subito …”
Gli afferra delicatamente il polso, adagiando il medicinale con cautela sotto lo sguardo truce di Gin e quello ancora peggiore di Jilga:
Questo è troppo. Non lo deve toccare. NON. DEVE. FARLO!!
Inspira profondamente, fumando di rabbia, paonazzo, i pugni stretti e tremanti.
Grantz deglutisce, tenendo la fronte vorticosa fra le dita, cercando di trattenere i conati che gli salgono nell’esofago ad ogni onda infranta sulla barca, assuefatto dal perpetuo oscillare.
Nemmeno si accorge delle premure del direttore né del crescente nervosismo fra i due contendenti. Nemmeno si rende conto delle manovre di Ichimaru sempre più scattose e violente, propriamente intende a farlo stare ancora più male del previsto.
Come conseguenza il ragazzo dalla chioma rosata si accascia su se stesso mugolando, finendo fra le braccia di un preoccupato Sosuke che lo stringe al petto con cautela.
Infervorato da tale gesto Nnoitra si avventa su di loro, strappando il povero dottore dalla stretta del castano che ricambia il furto con un ringhio sommesso.
“Cosa combini Jilga, non vedi che sta male?”
“Me ne prendo cura io! Lei non si disturbi …”
Sputa quelle parole ferocemente, sibilandole dal ghigno contratto mentre il medico si lancia sul bordo del veicolo , rimettendo sfinito fra un’onda e l’altra, le dita strette al bordo d’acciaio, i ciuffi pastello aderenti al volto sudato.
Il capo lo raggiunge tranquillamente, posando le iridi cioccolato sul corpo morso dai brividi dell’amante distrutto, carezzandogli la testa distrattamente, celando agli altri colleghi il reale rapporto che li lega.
“Gin riportaci a riva. Mi dispiace rovinarvi la gita, continuate senza di noi.”
“Ma … ma .. Aizen sama! Così lei se la perde!”
“Non preoccuparti caro Gin, io ho già fatto un giro qui ieri pomeriggio con il signor Ukitake. Portaci indietro finchè siamo vicini alla costa, poi voi continuate pure. Io … accompagnerò il dottor Grantz nella sua stanza. E mi assicurerò che stia bene.”
Fra un conato e l’altro del medico Nnoitra si morde la lingua affilata, ingoiando un’infinita lista dei peggiori insulti da urlare contro quell’infame direttore.
“Rinuncio io Aizen sama, lei stia qui.”
“No Jilga. È un ordine.”
Allunga il braccio sul fianco di Szayel, tenendolo in equilibrio ed aiutandolo a scendere dalla barca, raggiungendo in fretta la riva. Appena i suoi piedi toccano la calda, e soprattutto immobile, sabbia il rosato si lascia stancamente cadere sull’asciugamano steso poco lontano , raggomitolandosi su se stesso in preda a crampi allo stomaco.
Percepisce una voce intenta a salutare qualcuno più lontano, poi l’ovattato suono dei motori, ed infine un’ombra gli copre la luce del sole insieme alla presenza del direttore seduto aderente a lui.
“S… Sosuke … mi dispiace …”
“Non preoccuparti, è Ichimaru ad avere una guida troppo … sportiva.”
Il moribondo tossicchia, steso su un fianco, le perle dorate rivolte verso quelle mogano del suo superiore.
“Hai una bella voce quando sussurri il mio nome …”
Gli posa il palmo sulla fronte, tastandolo gentilmente.
“Vuoi un bicchiere d’acqua?”
“No … la ringrazio. Ancora cinque minuti e torno in albergo.”
“Hai dimenticato di darmi del tu?”
Si sdraia accanto a lui, beandosi del tepore del sole mattutino, schiudendo le labbra in un sorriso.
“Puoi dirmi una cosa Szayel?”
“Cosa?”
Bofonchia l’altro, stringendo il ventre con angoscia.
“Era buona la canna che ti sei fumato ieri con le foglie delle pannocchie?”
Il medico sgrana gli occhi, girandosi di scatto verso quell’infido serpente dalle sembianze umane.
“E lei come … come …”
“Ti ricordo che dalla mia stanza si vede proprio quel campo, Szayel Aporro.”
“E allora non poteva venire a tirarci fuori invece che lasciarci prendere l’acquazzone?”
“No. Ero interessato a vedere cosa vi inventavate. Siete stati bravi, devo dire, vi siete presentati a cena impeccabili come veri uomini per bene. Non ti preoccupare, mi avete divertito.”
Sospira di sollievo, mettendosi a sedere stancamente.
“Vuoi visitare il centro città insieme a me?”
Lo domanda così, non da superiore a sottoposto, non da datore di lavoro a collega: lo chiede e basta, con semplicità, come un ragazzino che desidera passare del tempo con un amico, come se non contasse nulla il grado che li separa e l’intima relazione che li accomuna. Lo propone gentilmente, sorridendo.
“Mi stai chiedendo di fare una passeggiata insieme?”
“Sì. Cosa c’è di strano?”
Nulla, in effetti nulla. Ma vederlo indossare solo delle infradito ed i pantaloni del costume rende il tutto alquanto bizzarro. Senza contare che, diamine, lui è Aizen sama! Uno degli uomini più potenti di Tokyo!
Grantz raccoglie qualche secondo per riflettere, cercando d’ignorare le sensazioni contrastanti che si affollano nel petto: da una parte miliardi di campanelli d’allarme che gli urlano di non farlo, di non accettare o se ne pentirà amaramente; dall’altra una voce che gli dice di non farsi tante paranoie ed andare, in fondo è solo una passeggiata no? Non è un matrimonio, gente! Un casto ed innocuo giretto.
Sistema gli occhiali pensieroso, mordendosi il labbro inferiore più per sfizio che per nervosismo.
“D’accordo. Ma prima sarà meglio cambiarci.”
E salire in appartamento. Lontani. Molto lontani. Infinitamente lontani.
Si rimettono entrambi in piedi, afferrando l’asciugamano umido ed avviandosi lentamente verso la residenza Kuchiki.
 
 
Non li vedo più! Non li vedo! Maledizione!
Nnoitra ficca le dita sottili nella lunga e folta chioma, stringendo la palpebra per scrutare meglio la riva ormai lontana. La barca solca le onde velocemente, a pilotarla un furioso Gin chiuso in un gelido silenzio.
Ulquiorra scruta assorto il panorama montuoso, tastando talvolta l’acqua con la punta delle dita, sorpreso dalla sua temperatura piacevole, beandosi di quei tocchi furtivi, quasi giocosi.
Le cerulee iridi di Grimmjow si perdono fra le increspature dell’oceano, sorprendendosi ad ogni piccola medusa, ad ogni tartaruga marina, ai piccoli innocui squali. Lo sguardo divaga continuamente fra quelle meraviglie della natura, finalmente rilassato, appagato, sereno: si trova in un posto stupendo, con il suo migliore amico di sempre (abbandonato sulla riva a causa del mal di mare), il proprio compagno e … e il suo nuovo amico Ichigo. Esatto, perché quel ragazzino dai capelli ramati e gli occhi da cerbiatto non è un semplice stagista, bensì molto di più. Una persona che desidera avere accanto nel tempo, anche se non ne conosce il motivo. Forse apprezza la sua testardaggine, la prontezza nell’aiutare gli altri, l’altruismo, la sua innata empatia, la profondità del suo cuore. È giovane, poco più di lui, eppure ha una maturità che Grimmjow stesso non raggiungerà nemmeno fra dieci anni. È giovane, poco più di lui, eppure ha una maturità che Grimmjow stesso non raggiungerà nemmeno fra dieci anni: lo ammira, anche se a volte la sua ingenuità gli fa salire nello stomaco un nervoso così forte da scommettere che prima o poi gli si creerà un foro nel ventre.
L’oggetto dei suoi pensieri afferra saldamente la ringhiera color acciaio, assaporando la brezza cullata dalla salsedine ed il suono delle onde. Le ciocche arancione fluttuano come steli d’erba, solleticando i lineamenti gentili e dolci. L’azzurro non sa di essere spesso osservato sottecchi da quel giovane collega, non sa nemmeno di essere spesso nella sua mente, non sa di fargli sussultare il cuore ad ogni parola, gesto, movenza.
Non immagina lontanamente che Kurosaki Ichigo sia incredibilmente innamorato di lui, all’oscuro dei sentimenti che scorrono fra Schiffer e Jeagerjaques.
“Ohi, Fragolo.”
Sobbalza, voltandosi velocemente verso la fonte di quella voce, incrociando le scintillanti iridi turchesi del collega:
“Grimmjow!”
“Ti stai divertendo?”
Annuisce, mostrando uno dei rari sorrisi mai apparsi fra quelle labbra rosee.
“Bene bene, sono contento che ti stai divertendo Fragolo! Dopo pranzo voglio provare a fare surf. Ulquiorra non ne vuole sapere, tu ci stai?”
Indica stizzito il moro isolato in un angolo della barca, intento a spalmare l’ennesimo strato di crema protettiva sulla pelle rossa e bollente, le iridi verdi apatiche come al solito.
“Ecco veramente io … non so se ne sono capace …”
“Ma dai, il tipo losco … quello .. hm … Abarai? Si, ecco, Abarai Renji! Ieri sera ha detto che ci insegna tutto lui no?? Dai Fragolo sarà una figata!”
“Se lo dici tu …”
Pur di trascorrere anche un solo secondo in più insieme a lui si sarebbe volentieri dato in pasto agli squali, se necessario.
Nnoitra, inviperito, continua a camminare avanti e indietro fra i due comunicanti, stizzendo a dismisura l’azzurro:
“Jilga ti vuoi levare cazzo! Sto parlando con Fragolo!”
Il corvino non risponde, si limita a ringhiare qualcosa di incomprensibile continuando a torcere le ciocche d’ebano fra le dita magre, simile ad un cane inferocito ed agitato.
Ichigo si avvicina all’amico, cercando di sussurrare impercettibilmente:
“Che cos’ha?”
“Tsk, sta morendo di gelosia quell’idiota.”
“NON SONO GELOSO!”
Grimmjow ride sguaiatamente, mostrando al mondo l’intera dentatura bianca e felina:
“Che c’è Jilga, hai paura che Szayel non ti badi più? Fai bene! Avrebbe ragione!”
“Chiudi quella boccaccia!”
“Ma dai, con quel caratteraccio che ti ritrovi hai ancora speranze che ti calcoli? Lo dico per te, scordatelo!”
Il moro gli si avventa addosso, scaraventandolo con forza in acqua, nella quale precipita con un sonoro tuffo ed una conseguente cascata di goccioline.
Riemerge poco dopo, completamente zuppo ed inferocito:
“Ti ammazzo! Puoi scommetterci che non torni vivo da qui!”
Ulquiorra osserva imperturbabile la scena, senza muovere un dito per aiutare il compagno a risalire a bordo, provocando in quest’ultimo ulteriore ira:
“Ulquiorra tirami su cazzo!”
“No Grimmjow, te la sei cercata.”
“Fragolo mi tir…. AH! AH COS’E’ QUESTA COSA! BRUCIA! KAMI BRUCIA!”
Incespicando si aggrappa alla scaletta di metallo, simile ad un gatto fradicio che tenta di salvarsi dal bagnetto settimanale, rovinando bruscamente in mezzo ai presenti, la gamba incriminata stretta fra le braccia. Sul volto un’espressione di dolore e ferocia, sull’arto una purpurea striscia rossastra:
“Ai ai Grimm chan! Sembra che una medusa ti abbia fatto le coccole!”
Squittisce Gin commentando divertito la scena.
“Brucia da morire …”
“Nessuno ha una crema?”
I colleghi fissano Ulquiorra, il fautore della domanda, scuotendo la testa con dissenso.
“Male. Ichimaru, temo che stavolta siamo davvero costretti a tornare indietro.”
“Tanto meglio, tanto fra poco è ora di pranzo!”
Nnoitra sgrana l’iride ametista, esultando interiormente per la felicità.
Eppure, quando metterà piede nell’albergo e si accorgerà che né Szayel né Sosuke sono presenti è inutile dire che la gioia scivolerà via come la spuma delle onde sul bagnasciuga.
 
 
Turisti e locali brulicano lungo le vie affollate, delimitate da lunghi filari di altissime e verdeggianti palme scosse dalla brezza piacevolmente tiepida. Nuovi profumi percorrono le strade della città, inebriandole con l’essenza dei cibi saporiti, dei drink estivi, ritmando i passi con musiche allegre, colorando ogni cosa con fiori delle più molteplici varietà.
Vinto l’imbarazzo iniziale Szayel ed Aizen chiacchierano amabilmente, scambiandosi talvolta qualche battuta, altre volte ritornando su argomenti più seri, comodamente seduti al tavolo di un locale tradizionale sotto la refrigerante ombra di un gigantesco ombrellone, fra le mani una bibita fresca.
“Quindi davvero quella che hai incontrato in aereo era la tua ex moglie?”
“Ah, si, una donna adorabile. Sono sempre felice di rivederla. E tu Szayel? Sei sposato?”
Il medico arrossisce, ridendo a quella domanda.
“Oho! Ti sembro una persona legata al vincolo del matrimonio?”
Alza le mani con espressione complice e furbesca, definendo fra le labbra sottili il solito ghigno beffardo e folle.
Sosuke appoggia con eleganza gli occhiali da sole sul tavolo, permettendo alle iridi mogano di appoggiarsi intensamente su quelle giallastre del collega.
“Lo sospettavo. Ma a dir la verità non ne ero veramente certo, caro Szayel.”
“Perché mai?”
Risponde mellifluamente, sinuoso, con quel tono di voce a cui nessuno potrebbe resistere nemmeno volendolo con tutto se stesso.
L’altro, per tutta risposta, indica l’anello d’oro bianco sull’anulare della mano destra, un piccolo cerchio semplice, non lavorato, simile ad una fedina.
“Oh, questo. Dovevo intuirlo... Ma non è nulla di simile, nessun legame amoroso. Solo … un ricordo. Di una persona che non c’è più.”
“Sono troppo indiscreto se ti chiedo di chi si tratta?”
“Nessun problema, si tratta di mia madre. Era la sua fede nuziale. Quando è morta mi sono ripromesso di portarla io, per non dimenticarla mai.”
Il direttore sgrana appena gli occhi, colpito da una spiegazione tanto colma di dolore, una sofferenza che non era mai riuscito a scorgere prima di quell’istante. Il dottor Grantz è un vero mistero per lui, e forse è proprio questo il motivo per cui si sente incredibilmente attratto da lui, non solo fisicamente, ma anche come persona vera e propria: inizialmente lo desiderava allo stesso modo in cui si può bramare un oggetto, per soddisfare il piacere di un istante e tornare a casa sazi fino al giorno seguente. Ma le giornate sono trascorse e … e in lui è cresciuto un interesse nuovo: la voglia di sapere la sua storia, il passato, le ambizioni future. Conoscere meglio il carattere, la vita di quel ragazzo dal volto beffardo e le parole taglienti. Scrutare oltre l’apparenza di impeccabile medico per carpirne le sfumature più nascoste.
“Non l’ha tenuta tuo padre, come da usanza?”
“Sono morti entrambi nello stesso momento.”
“Mi dispiace.”
Il tono tradisce palesemente le parole, mostrando la totale assenza di quella sensazione: vuole sapere di più, sempre di più, a costo di scavare negli armadi più bui, riempiti di scheletri fino a scoppiare.
“Hai tenuto tu anche la sua vera?”
Grantz abbassa lo sguardo, sgomento, sussurrando con tristezza:
“No, l’ha tenuta mio fratello.”
Un fratello? Non ne ho mai sentito parlare.
“Ma abitiamo lontani, non lo vedo spesso ecco.”
“Girano strane voci su di te, ma sono certo che non sono vere.”
“Non mi stupisco, ne sono sempre girate molte.”
“Voci che parlano di una relazione fra te e Jeagerjaques, per esempio.”
Aporro scoppia a ridere, mostrando i piccoli canini appuntiti.
“Questa è una bella farsa. Siamo amici da molti anni ma lui sta con Ulquiorra! Kami, che pazienza che ha Schiffer per sopportarlo.”
Sosuke sistema i capelli castani portandoli indietro con una mano, appoggiando la guancia al dorso dell’altra, assorto da tante rivelazioni.
“Con Ulquiorra? Non lo avrei mai  immaginato. E tu? Se non sei sposato, cosa sei? Non farmi credere che un bel ragazzo come te sia single, potrei offendermi. Anche se davvero, ero convinto avessi una moglie da qualche parte.”
“Ne siete tutti convinti, chissà perché vi do questa sensazione.”
“Una donna non si lascerebbe sfuggire per nulla al mondo un bel dottore come te.”
“Ho un carattere un po’ … particolare. Non resisterebbero per più di un giorno insieme a me. E poi, in ogni caso, non ho tempo né voglia di dedicarmi a una relazione coniugale, preferisco le mie ricerche.”
“Capisco. Ammirevole da parte tua.”
Szayel appoggia una sigaretta alle labbra, accendendola delicatamente: veramente non ha intenzione di ritagliare uno spazio del suo tempo per Nnoitra?
I suoi pensieri vagano nella mente mentre inspira una boccata di fumo per chiarire le idee, incalzato dalle domande di Aizen sama.
“A chi pensi?”
“Nessuno in particolare.”
“Sei proprio un tipo riservato, eh? Non importa, non sono geloso. Spero che fra voi vada bene. Se ti va di parlarne, dato che siamo qui, ti ascolto.”
Di nuovo quei trilli d’allarme: fidarsi e confidarsi con lui o mantenere debita distanza?
Fortunatamente uno stridulo urlo femminile seguito da una esile figura dal manto violaceo irrompe la conversazione: la donna si siede felice accanto al rosato, accavallando le gambe con eleganza, schiudendo un saluto dalle labbra carnose tinte di rossetto scuro.
“Sosuke Aizen che piacere rivederla! E c’è anche il suo scienziato! ”
“Cirucci. Piacere nostro.”
In lontananza Ukitake saluta il direttore a grandi cenni, costringendolo ad alzarsi per andare a chiacchierare con lui.
“Mi assento un attimo, scusatemi. Grantz, perché non scambi qualche parola con la signorina Thunderwitch?”
Sbuffa contrariato, inspirando nuovamente:
“Come vuole.”
La donna sorride maliziosa, scostando una ciocca prugna dalle spalle magre, puntando le sue grandi iridi cristalline su quelle stizzite del ragazzo:
“Ti chiami Szayel non è vero?”
“Infatti.”
“Ma voi di Tokyo siete tutti così noiosi? Mi date i nervi.”
“Con tutto il rispetto signorina ma dopo essere stato fissato da lei per tutta la cena di ieri sera credo sia comprensibile il mio sgomento nel temere di ricevere lo stesso trattamento per le prossime ore.”
Lei ridacchia, portando le delicate mani davanti alla bocca.
“Hai ragione, che meschina. Diamoci  del tu, d’accordo? Non l’ho fatto con cattive intenzioni. Il fatto è che …”
Lui solleva le iridi ambrate su quelle incuriosite della giovane, sistemandosi gli occhiali sapientemente.
“… Non mi crederai ma sei praticamente identico a mio marito! Ti trovavo così buffo! Ti ho fissato per questo. Non so cosa ti abbiano raccontato il depresso e il culturista su di me però…”
Lui la interrompe, disgustato da tante chiacchiere, imbronciando le labbra in una smorfia stizzita:
“Non mi hanno detto nulla, non hanno parlato di te. Bene, spero tuo marito sia un bell’uomo almeno, così posso prendere la tua affermazione come un complimento.”
“Oh si, non si può dire che sia brutto. Ma lo vedrai domani, ci raggiunge qui.”
E cosa me ne importa? Buon per te femmina.
“Lui però non ha i capelli rosa. Sono biondi e lunghi, e poi ha gli occhi castani.”
Non dà peso a quel racconto non richiesto, lasciando vagare lo sguardo sull’alta figura di Sosuke, immersa in chissà quale conversazione con un Ukitake dall’adorabile sorriso.
Si maledice, rimproverandosi di rimanere in albergo la prossima volta. Quella donna gli dà davvero i nervi.
Il suo modo di fare apparentemente affabile è una mera calcolata costruzione: è palesemente finto, cela malamente la palpabile arroganza iniettata nelle sue vene, un senso di superiorità che sembra forgiarla da secoli, proprio com’è presente anche in lui.
Una frase lo riscuote dal torpore, facendolo voltare stancamente verso di lei:
“A dir la verità sei più carino i lui.”
“Dimmi un po’, tuo marito lo sa che civetti da un essere di sesso maschile all’altro continuamente quando lui non c’è?”
Lei digrigna i denti irosa , ma un lampo di tristezza le attraversa le iridi scure e malinconiche:
“E’ solo colpa sua.”
Che noia … ma per chi mi ha scambiato? Non sono uno psicologo, dovrebbe andare da Ulquiorra.
“Il fatto è che Yylfort non mi bada più da tanto tempo ormai … lavoro, lavoro, sempre lavoro!”
Szayel si strozza con la propria saliva, tossendo malamente e sgranando le perle giallastre:
“Come hai detto che si chiama??”
“Yylfort perché? Lo conosci?”
Lei sbatte le palpebre, le lunghe ciglia abbellite da mascara nero si muovono graziosamente, ingenue.
Non è possibile. Non può essere. Insomma in mondo è troppo vasto perché sia proprio lui. È improbabile.
Cosa sono andato a pensare …
Inviperita dal non ottenere una risposta la donna si porta le mani sui fianchi stretti, sbattendo a terra un piede, nervosa:
“Oh? Sei sveglio?”
“Stai zitta. Stavo pensando se lo conosco o meno.”
“Ho una sua foto, bastava chiederla!”
Estrae dal portafoglio una fototessera leggermente sgualcita ai bordi, che mostra esattamente Yylfort Grantz, il fratello di un ormai sconvolto Szayel Aporro.
In una frazione di secondo la sua diabolica mente riesce a sopraffare lo sgomento, le fitte allo stomaco, i dolorosi battiti del cuore.
Un ghigno, forse il peggiore di tutta la sua vita, si schiude fra le labbra sottili. Negli occhi un lampo di vendetta, nella gola una risata risale dal profondo e gli servono tutte le sue forze per trattenerla e mantenere un’espressione normale.
“No, mi spiace, non lo conosco.”
Vendetta, pura semplice algida vendetta.
“Signorina Cirucci, te l’ho già detto che tuo marito è veramente uno sciocco a farsi sfuggire una magnifica creatura come te?”
Attonita lo squadra da capo a piedi, inquietata e al medesimo istante piacevolmente sorpresa da quel repentino cambiamento.
“Dici … davvero?”
“Assolutamente. E’ … straziante … sapere che lui sarà qui già domani.”
“Per quale motivo?”
Si scrutano complici, come rondini che danzano nel cielo estivo.
“Perché avrei il desiderio … di trascorrere del tempo con te.”
Lei arrossisce improvvisamente di fronte a quell’inaspettata (seppur finta) gentilezza.
Finalmente ottiene le attenzioni tanto ricercate, uno sguardo posato su di lei e su null’altro.
“Beh … io oggi … sarei libera …”
“Posso avere l’onore di fare una passeggiata insieme a te, signorina Cirucci?”
La voce sinuosa, un felino che fa le fusa.
Le porge il braccio, in attesa di poter cingere quello di lei, atto che avviene dopo qualche secondo.
Si incamminano lentamente, vicini da potersi sfiorare e percepire il calore dell’altro fino a percepire lunghi brividi ricoprire la pelle baciata dal sole.
 
 


Ciao lettori!
Non temete, la cena verrà descritta più avanti, non me ne sono scordata <3
Grazie a tutti di cuore, 

Un bacione :**

Valentina :)

 

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Capitolo 14
*** Restaurant ***


CAPITOLO 14:  Restaurant
 
 
 
Facciamo un passo indietro…
 
Quinto piano, Hotel Kuchiki, sala ristorante.
Ore 20.30
 
 
La luce bluastra della sera illumina la raccolta ed accogliente sala, carezzando a lume di candela il pavimento di legno chiaro come il miele e le sedie di eco-pelle nera più della notte. Luci soffuse rischiarano l’atmosfera elegante e raffinata, emanate da faretti tondeggianti dall’alone dorato sapientemente incastonati nel soffitto bizzarro, composto da un intarsio di sassi e ciottoli scuri, color ossidiana e petrolio, un mosaico lussuoso, elitario. Al centro della stanza un lungo tavolo rettangolare dalla superficie liscia e pregiata sfoggia il suo manto d’ebano , apparecchiato con una graziosa tovaglia finemente lavorata abbellita da calici di cristallo sottile e capiente. Le pareti riprendono la trama del soffitto, in un gioco di sfumature all’avanguardia e dettagli, sfaccettature elaborate, nulla lasciato al caso.
Tutt’attorno grandi vetrate a specchio regalano una generosa vista sull’oceano, concedendo agli occhi assorti di divagare fra le onde copiose, bianche di spuma diafana, scie perpetue che baciano la riva umida e sabbiosa; come sottofondo Crystal Castles, Untrust Us: nulla di più appropriato per quel momento.
Un magnifico Grimmjow dai capelli appena ritoccati dal gel e tirati all’indietro apprezza tale scelta musicale, sistemando la cravatta nera, accessorio fondamentale per ricamare il bellissimo smoking aderente al corpo snello e atletico, la giacca scura delinea le spalle larghe e massicce sulle quali ricadono morbide ciocche azzurre ancora profumate di shampoo. Si siede adagio, appoggiando la guancia al dorso della mano in attesa dei propri colleghi e, soprattutto, dell’organizzatore dell’evento, il tanto atteso Kuchiki Byakuya.
Accanto a lui Szayel rigira stancamente una ciocca rosata fra le dita sottili, ridacchiando ancora sotto l’effetto della canna fumata in mezzo al campo poche ore prima, nonostante dal suo aspetto esteriore nessuno potrebbe immaginare nemmeno lontanamente quanto accaduto: lo sguardo ambrato scintilla beffardo sotto l’aiuto delle lenti a contatto, finalmente libero dalla bianca montatura degli occhiali. I capelli, non asciugati dal phon, ricadono liberi e ribelli sulla fronte, sulle spalle, in un ordinato ed ondulato piacere visivo. Anch’egli indossa abiti eleganti, leggermente più sobri rispetto quelli dell’amico ma ugualmente raffinati nella giusta maniera da risaltare la sana magrezza del suo metro e ottantacinque. La camicia dalle tonalità bianche, leggermente lavorata sulle maniche e sui bordi, gli conferisce un’aria quasi aristocratica, ma allo stesso tempo essenziale ed interessante: inutile dire che gli sguardi della giovane Cirucci, appena arrivata insieme all’armadio di nome Renji, sono tutti per loro.
I due ospiti salutano i colleghi di Osaka, ora seduti di fronte, non inglobandoli però nel loro scambio di battute.
Grantz si avvicina all’orecchio dell’azzurro, sussurrando sul suo piercing Helix color acciaio in modo talmente percettibile da risultare difficile la comprensione delle parole:
“Mi viene da ridere Grimm.”
L’altro sgrana le iridi turchesi infastidito, tirandogli un calcio invisibile agli occhi:
“Non farlo, non iniziare. E non farti venire strane idee … ti conosco.”
Il medico imbroncia il labbro inferiore in un’espressione avvilita, ridacchiando sommessamente nell’intento di fissare con attenzione il calice vuoto di fronte a sé: non sa bene il motivo ma lo trova immensamente divertente.  Davvero, se solo potesse scoppierebbe e ridere a squarciagola da tanto lo trova spassoso.
Si ricompone, schiarendo la voce con un colpetto di tosse che attira l’attenzione della donna e del ragazzo dai lunghi capelli carminio raccolti in una lunga treccia che ricade mollemente lungo la schiena possente. I tatuaggi neri sfavillano sulla pelle abbronzata anche se, a parere del dottore, sono troppi e per giunta di cattivo gusto, senza contare quella inadeguata bandana bianca stretta alle tempie.
Ichigo, seguito da un esausto Ulquiorra e, poco più distante, un apparentemente iroso Nnoitra, giunge sorridente, sedendosi accanto ad Aporro. Di fronte a lui Schiffer (accanto al rosso) e Jilga.
Tutti e tre indossano vesti dal tessuto sottile, leggero, adatto alla tersa serata estiva, alquanto aderente, quanto basta per definire le loro forme perfette, soprattutto quelle di Kurosaki che colpiscono Grimmjow con una fitta allo stomaco di fronte a tanta desiderabile ed appetibile giovane bellezza: inutile dilungarsi in complessi giri di parole quando basta affermare che quel ragazzo dal volto dolce ed innocente emana un fascino irresistibile, inebriante, che colpisce chiunque.
Il chiacchiericcio di Ukitake e Shunsui, con la bella Nanao, irrompe allegramente, lasciando spazio ai due uomini di cui uno, il castano, già apparentemente alticcio, dal perenne buon umore.
“Ma di che personaggi si circonda questo Kuchiki?”
Biascica Nnoitra, sistemando la benda sull’occhio posandoci sopra una ciocca corvina, avvicinandosi ad Ulquiorra per porgli la domanda.
Quest’ultimo alza le spalle scrollandosi la responsabilità di una qualsiasi risposta, riponendo lo sguardo smeraldino sul compagno di fronte a sé, accennandogli un sorriso impercettibile che viene immediatamente colto con piacere.
“In effetti caro …”
La pettegola di Szayel si protrae verso Jilga con aria complice, sorridendo malevolmente:
“ … sembrano più un branco di circensi che un’equipe d’alto livello. Ma chissà, l’apparenza inganna.”
Scosta un ciuffo pastello dietro le orecchie, inclinando le labbra in una smorfia compiaciuta, nonostante la stizza causata dalle iridi violacee di Cirucci continuamente fisse su di lui.
L’atmosfera si raffredda quando Aizen e Gin raggiungono il gruppo,ponendosi a capotavola accanto al posto riservato a Byakuya, ora insieme a loro, lo sguardo severo, blu come l’oceano, i lunghi capelli neri e morbidi sciolti sulle spalle; la pelle pallida come la Luna risalta sotto quel contrasto meraviglioso, donandogli un aspetto austero, quasi vampiresco.
Vengono ripetute le presentazioni, supportate dal beffardo ed indagatore ghigno di Ichimaru che scruta i colleghi da capo a piedi alla ricerca della completa perfezione: Aizen sama, il suo amato direttore, ha affidato a lui il compito di tenerli tutti sott’occhio perciò si augura con tutto il cuore che fra i loro bei capelli non vi sia alcun chicco di mais né qualsiasi altra cosa simile.
Già dopo un abbondante quarto d’ora la situazione appare più rilassata e distesa, i presenti chiacchierano fra loro, già disinteressati all’importante Kuchiki che discute di politica ed affari interni con Sosuke, le iridi mogano puntante in quelle scure dell’altro in un attento ascolto.
Vengono portati i primi cestini di pane in quello che pare essere un ristorante in puro stile occidentale, uno di quelli che nessuno di loro avrebbe nemmeno mai sognato di vedere se non nei film al cinema o in streaming sul pc di casa.
Un frastuono di passi disorganizzati e scalpitanti interrompe la tavolata, costringendo tutti i presenti a voltarsi verso la fonte del frastuono: un accigliato Kurotsuchi, seguito dall’inespressiva figlia Nemu, fa capolino accanto a Byakuya, mostrando una divertita linguaccia ai colleghi ed una buffa risata:
“Scusate il ritardo, stavo facendo degli … esperimenti. Vero Nemu?”
“Sì, Mayuri sama.”
Si accomodano al capo tavola opposto, pericolosamente vicini all’acerrimo rivale Grantz che già percepisce lo stomaco contorcersi dal crescente nervosismo e dallo sgomento di avere nei paraggi quell’essere odioso, la cui sola faccia fa venire i brividi. Come se non bastasse l’uomo dalla striscia di capelli bluastri gli compare alle spalle, ridacchiandogli tanto vicino alle orecchie da farlo trasalire sulla sedia con tanto di urlo spaventato, cosa che suscita in lui ulteriore ilarità.
“Che piacere averti qui Grantz … dove hai lasciato i tuoi occhiali a forma di cuore questa sera?”
Il dottore sembra non capire il significato di quella presa in giro, ma dopo pochi attimi di riflessione ne intuisce il riferimento alla propria omosessualità o, più probabilmente, al semplice fatto di avere i capelli rosa, ipotesi confermata dalla domanda seguente:
“Ma dimmi, li tingi o sei nato così?”
Digrigna i denti, passandovi sopra la lingua.
“Sono miei.”
“Ohhh!”
Si porta una mano alla bocca, fingendo stupore mentre la figlia lo interrompe atona:
“Mayuri sama suppone che lei sia rosa anche in altri posti.”
Aporro arrossisce palesemente ma il volto assume connotati più seri e duri, scocciati da quell’inutile blaterare: insomma ,se proprio devono aprire la bocca almeno che lo facciano per discutere di materie scientifiche, quei ciarlatani!
“Non capisco come trova il tempo per tanto insignificanti congetture quando vi sono materie più urgenti, illustre Kurotsuchi.”
Marca appositamente il termine “illustre” con voce melliflua ed ironica, controbattendo all’astio del nemico con altrettanto ingegno.
Conclude il proprio pensiero, raccomandandosi di rimane calmo:
“E’ certo vero che siamo in vacanza e di tempo ne abbiamo quindi a volontà ma un vero scienziato, di ore e secondi, non ne ha mai abbastanza, mio caro.”
L’uomo annuisce, rimanendo in silenzio, assorto ed entusiasta.
Morde un grissino rabbiosamente, giusto per distrarsi da quello strazio e dallo sguardo famelico di Nnoitra, aggiuntosi a quello della donna: a quanto pare oggi è un soggetto alquanto ambito.
Un piede lo carezza sinuosamente sulla caviglia, solleticandolo a sorpresa: si osserva attorno, cercando un volto complice ma chiunque è impegnato in qualche conversazione e sembra non badarlo minimamente e, chi invece lo desidera palesemente è troppo distante, eccetto Nnoitra.
Alza appena la tovaglia, il giusto per notare che le gambe del compagno sono incrociate sotto la sedia e non si avvicinano minimamente alle sue, a differenza di quelle di …
“Grimmjow.”
“Sì?”
“Che cazzo fai?”
“Ah??”
“Perché mi stai facendo piedino?”
L’azzurro sgrana le iridi chiare, assumendo un’espressione sconcertata:
“Lo stavo facendo a te?”
“Si idiota.”
“Scusa, volevo farlo a Ulquiorra!”
Il moro alza la mano pallida in segno di resa, scuotendo il capo.
“Grazie del pensiero, ma non serve, grazie.”
Grimmjow scoppia a ridere sguaiatamente, mostrando i canini ben affilati mentre la voce di Ichigo gli giunge confusa alle orecchie: sembra parecchio indaffarato a chiacchierare con Abarai, entrambi decisamente coinvolti nel discorso, talvolta anche piuttosto accesi ed apparentemente rivali.
La prima portata, un antipasto di pesce fresco di giornata, viene servita su eleganti piatti di porcellana candida e lucente, sfiziando i presenti anche alla sola vista di quella meraviglia culinaria, accompagnata da caraffe d’acqua fresca e bottiglie di vino pregiato.
Il cameriere si rivolge a Grimmjow e Szayel, chiedendo se vogliono bere quel prezioso alcolico ma la risposta negativa, inaspettatamente, giunge alle orecchie di tutti:
“Noi no, grazie.”
“Grantz? Jeagerjaques? Non sapevo che foste astemi.”
Asserisce incredulo Shunsui, per il quale è in ogni caso inconcepibile rifiutare anche un solo goccio del più scarso sakè in circolazione: non che sia un ubriacone, piuttosto un individuo dall’incredibile tendenza al festeggiamento.
“N.. no non lo siamo ma … per oggi è meglio … evitare ecco.”
Cerca di spiegare l’azzurro con purtroppo poca convinzione, trattenendo malamente una risata priva di motivazione.
Non possiamo davvero permettercelo.
“No no ragazzi! Male male! Non siete a lavoro! Siamo in vacanza!”
Il castano si alza, ignorando le proteste del pacifico Ukitake, prendendo di mano la bottiglia e riempiendo i due calici fino all’orlo con un grande sorriso stampato sul volto dalla barba appena accennata.
“Brindate con noi! Oooh!”
A questo punto è impossibile tirarsi in dietro, in fondo qualsiasi sia l’effetto la colpa ricadrà su quell’uomo amante della baldoria no? Giusto vero?
Si scambiano una breve occhiata, sorseggiando poi dai bicchieri fino a svuotarli pian piano, portata dopo portata.
A quel punto rimanere persone dignitose e serie risulta del tutto impossibile, e stiamo parlando solo di metà cena; nemmeno Kuchiki ed Aizen sembrano completamente sobri, ciò è suggerito dai loro volti arrossati e dal sorriso fra le labbra di Byakuya, cosa sorprendente a detta dei suoi sottoposti: ecco perché non sembra accorgersi delle risate scomposte dei due scienziati, ora seduti vicini mentre si tengono a braccetto e si scambiano barzellette su temi di biologia e chimica incomprensibili persino a loro, scoppiando a sganasciarsi ancora prima di terminare le frasi.
“E … e allora l’atomo Au disse alla tavola periodica degli elementi …”
Kurotsuchi si piega su se stesso senza fiato, le lacrime agli occhi e la bocca spalancata dalle risate ancor prima di concludere il racconto. Due braccia esili gli cingolo il petto e delle labbra morbide gli stampano un bacio sulla guancia, per poi sprofondare in un abbraccio alticcio ed affettuoso:
“Ti voglio tanto bene Mayuri Kurotsuchi anche se un giorno ti ucciderò.”
Grantz biascica quelle parole crollando in una risata isterica, supportata dalle risa dell’altro che trova assolutamente divertente quello spettacolo malsano.
Nnoitra, in preda alla più perfida gelosia mai provata in tutta la sua vita, afferra un braccio al medico strattonandolo, cercando di fargli mollare la presa da quello che due ore prima era il suo peggior rivale e concorrente mentre ora pare essere l’orsacchiotto della buonanotte.
Gli duole ammetterlo ma, nonostante la mente annebbiata, riesce ad invidiare Grimmjow e Ulquiorra, spariti da tavola per abbastanza tempo da fargli intendere che no, non si sono assentati per prendere una semplice boccata d’aria insieme.
Riesce a immaginarseli confusamente infiltrati in qualche bagno stretto, o dietro un angolo buio intenti a scambiarsi colpevoli effusioni ed il solo pensiero lo fa ribollire di rabbia: perché lui no e loro si?
Perché non può appartarsi anche lui con il bel Grantz e magari donargli qualcosa di più di una semplice carezza?
E invece no, il rosato dottore è intendo a ridere, ubriaco fradicio, accasciato su quello che ritornerà ad essere il peggior essere vivente sulla faccia della terra non appena ritornerà in sé.
Si morde le labbra stizzito, deciso a dare una svolta a quella disgustosa situazione: tanto chiunque è così impegnato a sbronzarsi, direttori inclusi, che quell’orda di festaioli non si accorgerebbe neppure se scomparisse l’oceano stesso sotto i loro occhi.
Si alza in piedi, reggendosi malamente sulle gambe, riuscendo a strappare (non senza fatica) il compagno dalle grinfie del ricercatore di Osaka.
Se lo carica sulle spalle, ignorandone le proteste, avviandosi a passo deciso (o almeno, così gli pare) verso una porta dalla scritta toilette.
Entra furioso, sbattendo la porta alle sue spalle ed accertandosi d’essere solo in quello spazio lindo e, fortunatamente, profumato di sapone.
Gira la chiave nella serratura, adagiando Szayel sul pavimento di parquet chiaro attento a non fargli male.
Quest’ultimo lo osserva spaesato, socchiudendo gli occhi in due fessure per delinearne meglio la figura ed ecco che un magico barlume di lucidità affiora in quello sguardo perso:
“Nnoitra dove mi hai portato?”
“A farti fottere.”
“In pasticceria?”
“Non in quel senso … al diavolo, cosa sto a spiegarti!”
“Ma io voglio un pasticcino al cioccolato.”
“Stai zitto.”
Slaccia la cerniera dei pantaloni stretti con urgenza, di fronte ad un Grantz malamente seduto per terra che lo fissa con aria assente.
I dubbi, inevitabilmente, lo assalgono proprio mentre la sua intenzione ricade sull’abbassare i boxer aderenti.
“Ehm … Szayel … senti … ti ricordi come si fa … vero?”
L’iride ametista guizza sul volto dell’altro, che scruta interessato il suo basso ventre.
Annuisce con convinzione, mettendosi in ginocchio e lasciando espirare di sollievo il corvino anche se tale liberazione interiore pare essere espressa troppo presto: non appena tenta di sistemarsi in una posizione consona alle azioni che dovrebbero, e dico dovrebbero, seguire di lì a breve il medico rovina sul pavimento con un tonfo sordo, rotolandosi sulla schiena e scoppiando a ridere senza fine.
Il moro, la mano ancora sull’elastico, si morde la lingua per non urlare dall’ira:
“Cosa .. . cosa cazzo hai da sbellicarti idiota!”
Un rumore poco rassicurante lo coglie alle spalle, lasciando apparire Grimmjow, la cravatta slacciata e la camicia sbottonata aperta sul petto nudo ed arrossato, dall’evidente cicatrice; dietro di lui compare poco dopo Ulquiorra, la mano sugli occhi languidi per ripararla dai faretti troppo luminosi. Entrambi sembrano alticci quanto loro, anche perché in una qualsiasi evenienza normale Schiffer non sarebbe mai evaporato da una cena con i propri datori di lavoro per darsi ad un sano e folle divertimento con il proprio ragazzo.
L’azzurro socchiude le palpebre, cercando di definire meglio la scena: il suo amico Aporro per terra in preda a risate isteriche, Jilga con i pantaloni abbassati e la mano davanti all’intimità poco coperta e lo sguardo terribilmente feroce.
“Che cosa ci fate voi qui?”
“Dovrei chiedervi la stessa cosa.”
Sputa il corvino dai lunghi capelli sbuffando, ancora più invidioso della loro “fortuna”.
Di fronte a quella scena Ulquiorra non riesce a trattenersi e scoppia a singhiozzare dal divertimento, accasciandosi anch’egli sul pavimento, appoggiando la fronte sudata sulle ginocchia.
Ma, com’è risaputo, non c’è fine al peggio.
La porta si apre tranquillamente, lasciando entrare Ichigo che, evidentemente, è entrato lì dentro senza alcun secondo fine, inconsapevole del delirio che vi alberga momentaneamente.
Sgrana le perle nocciola, portandole su tutti i presenti ed analizzando l’accaduto senza però riuscire a comprenderlo; uno sgomento Jilga si domanda perché diavolo la porta non è più chiusa a chiave, mandando a quel paese anche questi nuovi dubbi.
Il ramato schiude le labbra intento a parlare, perplesso:
“Ulquiorra … sta ridendo??”
Cosa gliene importa di Nnoitra semi nudo, di Grimmjow stravolto e di Szayel strafatto: Schiffer per una volta nella sua vita non è serio! E questo è davvero qualcosa di spettacolarmente strano!
Il più alto inizia a sbraitare, spingendo i presenti fuori dalla stanza con poca delicatezza:
“Tutti fuori! Andare a farvi gli affaracci vostri e lasciatemi solo con lui!”
Indica il compagno ancora per terra, le mani conserte al ventre nel tentativo di trattenere gli addominali doloranti, non più intento a ridere ma in ogni caso assorto nel fissare il mobilio chiaro trovandolo estremamente spassoso, le iridi vagano fluttuando da un oggetto all’altro: il barattolo contenente sapone, un quadro appeso rappresentante delle conchiglie, il candido asciugamano.
Ichigo deglutisce, cercando di far ragionare il corvino che, nella foga, ha già lanciato malamente all’esterno gli altri due colleghi ancora scompigliati.
“Senti non è il caso ehm … di rimandare?”
“Fanculo.”
“Ukitake e Shunsui sono scesi in spiaggia, ci stanno aspettando.”
Il moro sbuffa sonoramente caricandosi in spalla il medico rantolante ed uscendo dalla toilette, non senza tirare una spallata allo stagista.
“Beh? Cosa stai lì Kurosaki? Andiamo.”
 
Le onde scandiscono il ritmo del tempo, bagnando la sabbia umida e fresca, ricoprendola si spuma salmastra e frammenti di meravigliose conchiglie madreperlate per poi rapirle nuovamente con sé e trasportarle sui fondali dell’oceano.
Il cielo terso estende il proprio manto di velluto nero sulle montagne lontane, sulle luci della città, sulla spiaggia scossa leggermente dalla brezza marina, mentre innumerevoli stelle puntellano il cielo simili a polvere di diamante.
Ulquiorra affonda il capo sulla spalla del compagno, entrambi stesi sul bagnasciuga, i piedi nudi solleticati dalle acque scure, la sabbia sottile fra le vesti slacciate.
L’azzurro porta una mano fra le ciocche corvine, stringendole ed accarezzandole, inspirando il profumo dell’oceano e quello del collega abbracciato a lui, il respiro sereno e le palpebre socchiuse.
Un forte calore nel petto lo inebria totalmente, espandendo la sensazione di benessere in ogni parte del corpo percorso da brividi. Il petto nudo dagli addominali scolpiti sussulta al tocco delicato dei polpastrelli del moro, che delinea la lunga cicatrice con un gesto impercettibile, simile ad una piuma.
Da quante ore siamo qui? Oh, chi se ne importa.
Scruta sottecchi Schiffer, portando le iridi turchesi sul suo torace pallido, sulle spalle candide come neve, sui pantaloni aderenti sbottonati contrariamente alla sua abitudine d’essere perfettamente in ordine. I capelli scuri ricadono mollemente sulle spalle esili, sul collo percorso da baci, sulle guance.
Sei bellissimo.
Sbatte le palpebre, puntando le iridi smeraldo sull’azzurro, come se avesse colto quel pensiero e volesse accertarsi della sua effettiva veridicità. Schiude le labbra sottili in un accenno di sorriso, dettato probabilmente dall’alcol, ma in ogni caso sincero, leale, spontaneo.
A quella visione Jeagerjaques non riesce a trattenere i muscoli dall’evitare uno scatto felino, portandosi prontamente a cavalcioni sul compagno, ora aderente alla sabbia, il viso rivolto alla cappa celeste, gli occhi puntati su quelli dell’altro.
Si avvicina all’amato, unendo le proprie labbra affamate alle sue, nel vano tentativo di saziarsene anche se, ormai lo sa, non gli basterà mai.
“Ulquiorra.”
Gli sussurra nell’orecchio, indifferente alle risate lontane di Juushiro e Kyoraku, agli schizzi d’acqua, alle proteste di Jilga, alla fuga di Ichigo da quella che pare essere una gara di gavettoni successiva ad un lungo bagno notturno fra quelle acqua placide.
Poco distante da loro il dottor Grantz dorme placidamente riverso su un asciugamano, vestito di tutto punto, assopito come un bimbo nella culla: una scena alquanto comica considerando che ci si trova nel bel mezzo della notte in una spiaggia praticamente deserta e lui sembra un uomo d’affari teletrasportato lì per qualche arcano e mistico motivo.
“Grimmjow. C’è una cosa che voglio dirti da tempo.”
L’azzurro interrompe la bollente scia di baci sul petto nudo del compagno, sollevandosi sui gomiti fino a poterlo osservare in quelle perle verdeggianti.
“Forse me ne pentirò ma sono ubriaco, quindi mi perdonerai … vero?”
Inspira, riempiendo d’aria i polmoni per farsi coraggio.
“Io ti amo Grimmjow.”
Lo dice tutto d’un fiato, svuotandosi come un palloncino, esalando finalmente un sospiro soddisfatto.
Il collega sgrana gli occhi, quella frase riecheggia nella sua mente, le parole rimbalzano da una parete all’altra stordendolo, travolgendolo in un’onda più grande delle precedenti composta da sensazioni talmente forti da attorcigliargli lo stomaco.
“Sei serio?”
“Ci provo.”
“Mi ami?”
Il corvino annuisce, portando le proprie mani su quelle dell’altro, stringendole dolcemente.
“Non mi chiedi se anch’io … ecco …”
“Non siamo in un film.”
“Cosa vorresti da me, Ulquiorra?”
“Trascorrere insieme il resto della nostra vita.”
Un bacio gli si posa sulle labbra schiuse, veloce, fuggitivo, assorto.
“E poi?”
“Nulla. Questo mi basta. Ma forse sto già chiedendo troppo.”
Infila le dite nel manto azzurro, giocherellando con un ciuffo sulla fronte. Potrebbe perdersi in quelle iridi caotiche e profonde, in quei pozzi senza fondo, in quegli spettri bluastri.
Potrebbe perdersi per sempre e non gli causerebbe dolore: sopporterebbe tutto, eccetto separarsi da quel ragazzo.
Credeva di avere un cuore atrofizzato, d’essere un semplice corpo composto da organi ma privo d’emozioni.
Credeva di essere un sacco vuoto che nessuno sarebbe mai stato in grado di colmare.
“Grimmjow … mi sbagliavo.”
“In cosa?”
“Nulla … nulla.”
Ti amo anch’io, Ulquiorra. Anche se , probabilmente, non te lo dirò mai. Eppure, i tuoi occhi mi dicono d’averlo già capito.

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Capitolo 15
*** Revenge ***


CAPITOLO : Revenge


 
Il suono delle onde oscilla fra le fronde delle palme verdeggianti scosse dal vento, fra i grandi gazebo bianchi come il pavimento di legno pregiato, fra il tintinnio dei cubetti di ghiaccio nelle bibite appoggiate al grande tavolo rotondo protetto dall’ombra della tenda chiara. Il sole brilla sereno nel cielo terso, i raggi carezzano dolcemente la sabbia cristallina, accompagnato dal profumo salmastro dell’oceano indomito e da quello più sfizioso di una grigliata quasi pronta da gustare, ancora sulla griglia incandescente immersa in un leggero fumo, capeggiata da un Ichimaru Gin perfettamente immerso nei suoi panni di cuoco improvvisato.
E bisogna sottolineare che se la cava piuttosto bene, soprattutto grazie all’entusiasta Shunsui, che nel contempo offre sakè a tutti i presenti, ed Ukitake che controlla le giuste quantità di aromi, sale e spezie.
Il clima è rilassato, disteso, come la tovaglia linda sulla tavola, liscio come le barche che infrangono la superficie trasparente tagliandola a metà con un sottile fruscio.
Grimmjow ed Ulquiorra sono stesi su un comodo divano da esterno, i bianchi cuscini morbidi accolgono i loro corpi vicini, leggermente scottati dall’uscita mattutina, in particolare quello del moro, che da latteo è divenuto rossastro in più punti. Il ragazzo dai capelli turchesi sorseggia distrattamente  il proprio drink, scrutando dalle lenti scure degli occhiali da sole il suo compagno tranquillamente adagiato allo schienale, le braccia elegantemente riposte lungo i fianchi, le mani che si cingono. Guarda lontano, l’orizzonte blu sfavillante di riflessi argentati, le perle smeraldo si fondono pensierose in quel tutt’uno meraviglioso dimenticando il resto del mondo, assorto, la brezza sinuosa fra le ciocche corvine dalle note fruttate.
“A cosa pensi, Ulquiorra?”
Il più giovane sussulta, voltandosi verso l’interlocutore, gli occhi grandi appena sgranati per la sorpresa, le labbra sottili schiuse. Sbatte le palpebre, come per ridestarsi dal suo ipnotico sonno.
“A nulla di importante.”
L’altro sbuffa, sollevando gli occhiali per puntare le sue iridi cerulee su quelle altrettanto terse dell’altro.
“Senti Verginella …”
“Sei stressante quando fai così.”
Lo interrompe freddo come il ghiaccio, corrugando impercettibilmente un sopracciglio, portando poi una mano davanti al volto per coprirsi dal sole.
“Non sperare che smetta di chiamarti in quel modo.”
“Ti pare il genere di nome da propinarmi di fronte ai nostri colleghi?”
Grimmjow scoppia a ridere sguaiatamente, attirando l’attenzione di Ichigo, impegnato ad apparecchiare scrupolosamente. Lo osserva di soppiatto, il manto ramato scosso dal vento, le iridi nocciola colme di emozione anche solo nel sentire quella voce che lo riempie di brividi ogni volta.
Cosa si starà dicendo con Ulquiorra?Diamine, perché mi perdo a pensare queste cose. Stanno parlando, è ovvio no? Di cosa mi preoccupo? Anche se …
Anche se la sera precedente ha ritenuto alquanto strano trovarli insieme in bagno, entrambi con le camice sbottonate ed i capelli arruffati. Ma l’alcol, fortunatamente,ha fatto il suo egregio lavoro inebriando le loro menti ed offuscando i ricordi, lasciandoli scorrere come sabbia fra le dita.
Sistema diligentemente i tovaglioli e le posate, assumendo la consueta espressione seria, accigliata, da ragazzino perennemente imbronciato.
Poco lontano da lui Nnoitra Jilga cammina avanti e indietro, lungo la ringhiera metallica che delimita l’enorme terrazza proiettata sull’oceano. Sembra un cane incatenato a cui hanno rubato l’osso, una bestia inferocita pungolata da spine ed aghi sulle zampe, un animale irrequieto e famelico. Il petto nudo s’alza e s’abbassa sotto il ritmo irregolare del respiro infervorato, le mani sono ficcate malamente nelle tasche del costume largo, le lunghe ciocche ossidiana ricadono ondeggianti lungo le spalle e la schiena conferendogli un’aria preoccupata, decisamente.
Talvolta sembra imprecare a denti stretti, rimuginare, bisbigliare chissà quanti e quali improperi, insulti; ogni minuti estrae l’i-phone dalla tasca per controllarlo amaramente, ricacciandolo indietro ogni volta senza alcun risultato, sempre più iracondo ed ansioso.
Grimmjow si rivolge nuovamente ad Ulquiorra, girando una ciocca scura fra le dita, giocandoci gentilmente.
“Ti pare che devo farmi problemi per questi individui qui?”
“Preferirei di si.”
L’azzurro alza le spalle con una smorfia, puntando la propria attenzione verso Jilga, innervosito dal suo continuo andirivieni proprio di fronte a lui. È conscio che il loro rapporto non sia proprio dei migliori, anzi, potrebbe scommettere con certezza che la loro reciproca antipatia è in capace di sfociare nell’odio più rancoroso e profondo che un essere umano abbia mai visto. Eppure, nonostante ciò, lo ha perennemente tollerato anche se non apprezza di certo la sua frequentazione con l’amico Szayel, che pare essere l’oggetto dell’attuale angoscia del collega.
“Jilga piantala cazzo!”
Il ragazzo si ferma improvvisamente, lanciandogli un’occhiata truce, intrisa di rabbia.
“Che diavolo vuoi?”
“Voglio che la smetti di fare i solchi sul pavimento! Mi dai i nervi.”
Schiffer sospira rassegnato, domandosi silenziosamente per quale assurdo motivo il suo compagno dev’essere per forza un tale attaccabrighe.
“La  smetterò quando quell’IDIOTA verrà qui a fare i conti.”
Capisce esattamente di chi sta parlando. E quel tono arrogante e possessivo non gli piace affatto.
“Bada a come parli Jilga. Farebbe solo bene a starti alla larga.”
“Stai zitto Jeagerjaques, non sei la sua balia. O mi sbaglio?”
Ulquiorra, che ha compreso la situazione ancora prima del suo degenerare, afferra il braccio del compagno, inducendolo a trattenersi e mantenere la calma.
“Tsk, sei veramente un idiota. Non so cosa ci trovi Szayel in te.”
“Dovresti dirmelo tu visto che te lo sbattevi prima che si degnasse di badarmi!”
Sputa quelle parole con odio, il fuoco gli arde nel petto corrodendolo fino a ridurlo in polvere.
Grimmjow deglutisce una manciata di saliva, percependo sulla propria pelle lo sguardo indagatore del compagno, silenzioso come sempre, la sua presenza simile ad un abisso profondo come la morte.
“Non sono cose che ti riguardano Jilga. E se questo ti dà fastidio vedi di fartela passare.”
Dei passi poco lontani, due ombre che si avvicinano tranquillamente. E tre paia di occhi che si posano bruscamente sui due nuovi arrivati.
“Oho, cosa avete da fissarmi?”
Il medico sorride compostamente, portando all’indietro un ciuffo rosato , sistemando al contempo gli occhiali. Accanto a lui Cirucci inarca le labbra carnose, deliziosamente tinte di rossetto, in una smorfia svogliata, scocciata da tanta attenzione immotivata nei loro confronti.
Nnoitra si avvicina minaccioso al dottore, afferrandolo per  le spalle con foga, premendolo a tal punto da farlo sussultare. Lo fissa dall’alto della sua statura, scorgendo stupore in quelle iridi ambrate e furbe.
“DIMMI-DOVE-CAZZO-SEI-STATO.”
“Ah…?”
Inarca un sopraciglio pastello, scrutandolo con sufficienza. Con una mano scosta disgustato la presa dell’altro, allontanandosi di poco, quando basta per distanziarsi a sufficienza.
“Dove sei stato?? Ti ho chiamato ma non ti sei degnato di rispondere nemmeno una fottuta volta!”
“E allora? E’ quindi il caso di fare tante scenate?”
Si volta verso Grimmjow, cercando in lui uno sguardo comprensivo, chiedendogli cosa diavolo era successo nelle poche ore che li hanno separati. L’azzurro scuote la testa disgustato, stringendo i pugni tremanti.
“Cosa hai combinato con Aizen sama mentre eravate soli eh? E hai il coraggio di presentarti qui con quella faccia?”
Sbraita feroce contro un imperturbabile Grantz, che cinge dolcemente il braccio della bella Cirucci, avvicinandola a sé.
“Andiamocene cara, non voglio perdere il mio tempo in questo modo.”
La ragazza scoppia in una risatina divertita, indicando il corvino di fronte a loro per canzonarlo con scherno.
“Non so che rapporto tu abbia con il dottor Grantz ma sei proprio uno stupido. Non so nemmeno cosa siano certe insinuazioni ma sappi che è stato tutta la mattina con me, mentre voi eravate in barca.”
Lui sbianca, deglutendo. L’iride ametista percorre la figura del compagno, decisamente seccato, passando poi a quella della donna ed un modo di ulteriore ira lo pervade: perché diamine è avvinghiata al suo ragazzo? Come si permette?
Non riesce nemmeno a terminare i propri ragionamenti che la gentile voce di Ukitake lo incalza, sorprendendolo. L’uomo stringe fra le mani una bustina sale, sorridendo amabilmente.
“Cirucci ha ragione ragazzo, ho incontrato il tuo collega ed Aizen-sama in città e da quel momento il vostro direttore è stato con me. Quindi non preoccuparti, goditi questa bella giornata, su!”
Senza nemmeno accorgersene inizia a tremare, la gola diventa arsa, la saliva pare dissolversi dalla bocca asciutta, la lingua tenta di inumidire le labbra.
L’ha combinata grossa. Enorme. Colossale. E lo sa benissimo.
Si maledice mentalmente, domandandosi come possa essere stato tanto stupido di dubitare di Szayel, dopo quello che v’era stato fra loro. È vero, quello scienziato sarà anche folle, manesco, talvolta isterico, però se dice una cosa chiunque sa che la mantiene in qualsiasi eventualità.
L’unico che l’ha scordato … sono stato io.
Morde il labbro inferiore, abbassando lo sguardo, la testa china, i capelli ricadono lungo il volto magro ed affilato.
Vorrebbe dirgli che gli dispiace ma le parole si bloccano nel petto, si rifiutano di uscire.
E quelle iridi dorate, quelle iridi caotiche e temibili che l’avevano scrutato nel profondo più volte ora lo fissano distaccate e deluse, sgomente, disgustate.
“Ho di nuovo la nausea, a più tardi.”
Il rosato si congeda così, non una frase di più. Ignora la mano del moro che si tende verso di lui, ignora le perle nocciola di Ichigo che, dispiaciuto, ha osservato tutto da lontano, sperando che ogni cosa si risolvesse per il meglio.
Scende gli scalini bianchi che lo riportano alla spiaggia, abbelliti da una lunga linea di palme alte, scosse dal vento. Al suo fianco Cirucci lo segue in silenzio, abbandonando senza replicare il pranzo in compagnia a cui anche lei è stata invitata. Gli cinge il braccio a sua volta, beandosi di quella stretta forte, calda, di quel contatto con un uomo all’apparenza strano ma, come ora ha potuto notare, sicuro di sé e dal carattere mutevole come la luna. Riesce ad oscillare dalla placidità più assoluta al gelo totale, privo di scrupoli.
Quell’uomo la interessa misteriosamente, cancellando dalla sua mente l’immagine del marito Yylfort, da lei oramai considerato un buono a nulla, in grado solo di seguire il lavoro, niente altro. Un uomo succube del proprio capo, un uomo incapace a prendere decisione autonome, un uomo che pare essersi scordato di lei tanto da indurla a ricercare briciole d’amore in chiunque altro.
Cirucci non è una sciocca, sa bene che il ragazzo a cui è vicina non ha amore da dare. Non a lei, almeno.
Sa che probabilmente il suo cuore è freddo come una pietra. Ma le sta bene perché, in fondo, si sente profondamente simile a lui. Ed è per questo che ha deciso di accompagnarlo ovunque sia diretto, perché quella sensazione di uguaglianza la rassicura, la scalda dentro inspiegabilmente.
Mantiene il silenzio, nonostante desideri domandargli moltissime cose, dal motivo di quella lite, alla prossima destinazione da raggiungere: fortunatamente è lui ad intraprendere una conversazione.
“Mi spiace per il disagio, Cirucci cara. Il mio collega deve aver preso troppo sole questa mattina.”
“Sembrava un fidanzato geloso.”
“Non è più problema mio.”
Lei sgrana gli occhioni violacei, portandoli all’insù per carpire il viso femminile del medico, interrogativa.
“Non ti preoccupare. Prima o poi gli passerà.”
Si arresta, sciogliendo l’intreccio creatosi fra loro, poggiando l’indice leggero sul collo di lei, scendendo lento fino alle clavicole, in una carezza fine, di piuma.
“Sei davvero bellissima.”
Le gote della giovane arrossiscono, il suo castello d’arroganza e sfacciataggine si sgretola in mille frantumi.
Il suo fuoco interiore viene spazzato via da un’onda troppo impetuosa per essere fermata.
Finalmente si ricordava il significato di esistere, anche solo per un secondo.
Si sente fragile, come una rondine caduta dal nido.
“Vuoi pranzare con me, Cirucci?”
Lei annuisce, simile ad una bambina appena sbocciata al mondo dei sentimenti.
“Molto bene, ne sono contento. Vieni con me, allora.”
 
* * *
 
 
 
“Nnoitra, vorrei parlarti.”
Il pranzo è terminato da due ore abbonanti, Shunsui festeggia ebbro con la bella Nanao mentre Ukitake, Ichigo e Gin si sono allontanati per passeggiare lungo il bagnasciuga. Il moro si siede accanto al ragazzo, il cellulare ancora stretto fra le mani in attesa di una telefonata che non intende arrivare.
Si accovaccia accanto a lui, su quegli scalini che bianchi che hanno visto allontanarsi il dottore e che ora sono tristemente fissati da Jilga, chiuso nel suo silenzio e nella solitudine.
Ascolta la richiesta di Ulquiorra ma non muove nemmeno un muscolo per rispondergli. Lascia che si accomodi ugualmente, le grandi iridi smeraldo posate malinconicamente sulla sua slanciata e magra figura.
“Che vuoi Schiffer?”
“E’ da un po’ di tempo che devo chiederti una cosa.”
“Spara.”
Ulquiorra sospira, riordinando le giuste parole, dando voce al suo pensiero:
“Abbiamo bisogno di più personale all’orfanatrofio e …”
“Scordatelo.”
Lo interrompe bruscamente, voltandosi di scatto per lanciargli un’occhiata omicida.
“Capisco. Ma gradirei se ci riflettessi almeno un istante, per favore.”
Solitamente l’estenuanti calma e serietà del corvino provocano in chiunque moti di nervosismo, intolleranza dovuta al temperamento algido e freddo più della neve d’inverno. Eppure, a Nnoitra, quel carattere ispira serenità: a differenza di molti ha sempre apprezzato il giovane sia per il tuo temperamento che per l’intelletto spiccato. Ha sempre gradito la sua vicinanza, tanto da riservargli un atteggiamento più gentile rispetto quello solitamente assunto verso chiunque altro anche perché, in fondo, lo considera tutt’ora l’unico amico di cui si possa fidare.
“Non è il momento Ulquiorra.”
“Lo so. Mi dispiace per quello che è successo, sei stato troppo precipitoso.”
“Tu credi che davvero non abbia fatto nulla mentre era con Aizen sama?”
“Temo che stavolta sia davvero andata così.”
“Merda …”
Digrigna i denti dalla disperazione, sotto lo sguardo laconico del collega.
“Cosa dovrei fare? Sei uno psicologo, dimmelo tu.”
“Non serve avere una laurea in psicologia per capirlo. Semplicemente cercalo e chiaritevi, scusati e spera che ti perdoni. Tutto qui.”
Nnoitra annuisce, puntando l’iride ametista su quelle verdi dell’altro.
“Lo so che stai con quello là.”
“Si chiama Grimmjow.”
“Tsk!”
“So che lo disprezzi. Ma non sono venuto qui per parlare della mia relazione con lui.”
Le ciocche scure gli cadono vellutate sul viso candido, contrastandone il pallore lunare.
“So che non ti va di tornarci Nnoitra. Nemmeno a me fa piacere, lo sai. Però quel posto sta cadendo a pezzi ed è sempre più affollato di bambini come noi. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti a tenerlo in piedi, lo capisci questo vero?”
“Perché fai tutto questo? Perché mi costringi a tornare in quell’inferno che ci ha rovinato la vita?”
“Non è più come una volta.”
I raggi del tramonto si sciolgono fra le onde spumose, disperdendo i loro tenue oro nell’oceano profondo. il cielo si dipinge gradualmente di tonalità aranciate e rossastre, l’aria salmastra inebria le narici carezzando le fronde delle alte palme adombrate. Poco lontano da loro Grimmjow osserva l’orizzonte, estraneo a quella conversazione, immerso in affollati pensieri su quanto confessato dal compagno la sera precedente.
Un “Ti amo” limpido come l’acqua, indelebile nella mente, estraneo ai ricordi offuscati dell’alcol, alla confusione dei gesti, delle azioni, delle parole.
Non vuole più rimanere sulle spine.
Abbandona la tranquillità avvicinandosi al collega dalle perle smeraldo, tastandogli delicatamente la spalla.
“Andiamo?”
Ulquiorra lo scruta con leggero dissenso, sollevandosi comunque dallo scalino.
“Ci penserai, Nnoitra?”
“Ci penserò.”
 
Stesi sulla riva del mare osservano lo spettacolo cristallino proteso di fronte ai loro occhi sognanti, ancora increduli di trovarsi esattamente lì, proprio in quel momento.
L’azzurro stringe l’amante al petto, assaporandone il profumo, la delicatezza, l’apparente fragilità.
Quel ragazzo lo fa impazzire, lo rende una persona diversa: non ne ha più dubbi.
“Ulquiorra, eri serio ieri notte?”
Il giovane riflette qualche attimo, scrutandolo attentamente in silenzio.
“Quando, esattamente?”
“Quando ….”
Deglutisce, arrossendo visibilmente. Non è un tipo timido, no di certo! Ma quando si tratta di certi argomenti diventa fragile come un vaso di cristallo, soprattutto quando è coinvolto anche Schiffer.
“Quando mi hai confessato … quella cosa.”
Il moro sembra davvero non capire: un nodo terribile si stringe nella gola del collega. Possibile che fosse solo effetto della sbronza? Non lo pensava veramente? Si è solo illuso?
“Scusami Grimmjow, prova ad essere più chiaro.”
Non riesce a trovare le parole giuste, le fottute parole.
Lascia che sia la bocca a parlare, azzera i pensieri, chiude gli occhi.
“Hai detto di amarmi.”
Sembra quasi urlarlo tutto d’un fiato, come per liberarsi da un peso enorme e soffocante che mozza il respiro.
Ulquiorra sgrana appena gli occhi, attonito, sorpreso, perdendosi nelle iridi terse, turchesi, del compagno.
“Davvero l’ho detto?”
“L’hai detto.”
Riflette per una manciata di minuti che appare più lunga dell’eternità. Poi , finalmente, si decide a riprendere la conversazione con l’azzurro.
“La cosa ti ha comportato qualche problema?”
“Cosa?! No assolutamente no! Cioè si! Ma anche no! Volevo solo sapere se eri serio.”
“Sarò onesto, Grimmjow, non ricordo di averlo detto. E se fossi stato cosciente non mi sarebbe mai sfuggita un’affermazione del genere.”
Il compagno si sente gelare, il cuore pare spezzarsi e contrarsi dolorosamente, lo stomaco si contorce su se stesso: da quando quel dannato collega è diventato così importante per lui? Perché è divenuto così essenziale?
“Quindi non lo pensavi davvero?”
“Ti sbagli.”
Grimmjow sussulta, il volto felino contratto in una smorfia stupita, speranzosa.
“Mi conosci, Grimmjow. Sai che non direi mai una cosa simile. Ma questo non significa che non la penso davvero. Evidentemente l’alcol mi ha fatto dire cose che avrei preferito tenere per me. Non vuol dire che siano false.”
Il ragazzo dal manto turchese lo fissa con ardore, stringendogli le mani in una morsa calda, intrepida.
“Mi ami, Ulquiorra? È questo che mi stai dicendo?”
Il corvino arrossisce, rimanendo comunque inespressivo, serio, pacato.
“Sì.”
“E … e …”
E adesso? Adesso che lo ha sentito per davvero cosa deve fare?
Si morde un labbro, indeciso sul da farsi, agitato come un ragazzino innamorato per la prima volta. Ma forse, non è realmente così?
“E non mi chiedi se ti amo anch’io?”
“No.”
“Perché no??”
“Se vorrai sarai tu a dirmelo.”
Nemmeno il tempo di respirare, le labbra dell’uno su quelle dell’altro, un bacio che li fa stendere sulla sabbia finchè i corpi aderiscono in una stretta avvolgente e rassicurante, una strana e nuova sensazione invade entrambi da capo a piedi.
Si separano, i nasi così vicini da sfiorarsi.
“Voglio dirtelo.”
“Ti ascolto …”
“Ti amo anch’io, Ulquiorra.”
 
 
* * *
 
La verità è che quel comportamento lo aveva ferito terribilmente. Non solo ci era rimasto male, ma gli era parso di essere trafitto da una lancia nello stomaco tanto forte da fargli mancare il respiro.
Perché Nnoitra non si fidava di lui? Per la prima volta in tutta la sua vita aveva deciso di aprirsi con qualcuno, di accettare un amico che non fosse Grimmjow. Aveva accettato l’alchimia che scorreva fra loro, l’aveva assecondata, l’aveva accolto nella propria casa. E perché, perché riceve questo?
Guarda il corpo nudo della donna abbracciata a lui, le coperte spiegazzate la coprono appena, la brezza del mare s’insinua dall’enorme finestra semi aperta. Inspira una boccata di fumo dalla sigaretta accesa, portandola alle labbra placidamente, desiderando di riempirsi i polmoni di quel veleno fino a soffocarli del tutto , per scoppiare e svanire, scomparire in una nuvola grigiastra.
Espira, socchiudendo le palpebre, beandosi di quell’attimo di tranquillità finalmente raggiunto, districandosi dalle controversie del mondo esterno, dall’ignobile comportamento dell’ormai ex fidanzato, dalla sua vita grama e triste.
Percepisce un movimento lungo il suo fianco, il tocco della ragazza sulla pelle ancora calda e arrossata, la lingua sinuosa ed umida mentre lascia scie bollenti sul petto, mordendolo e succhiandolo voracemente.
Riapre le palpebre, sposando su di lei le iridi dorate, stufe ormai di reggere quel gioco infausto ed ingiusto.
Ma a lui non importa perché, in fondo, nella vita la parola “giustizia” non ha mai voluto rendergli i conti.
Incrocia lo sguardo ametista e malizioso, felino, non ancora sazio, supplicante.
“Ancora una volta, Szayel Aporro. Ti prego …”
Gli sussurra nell’orecchio, stringendosi di più a lui, sfiorandolo con quel corpo giovane e curvoso che ogni uomo desidererebbe , chiunque, ma non lui.
Sorride beffardo, spegnendo la sigaretta non ancora consumata nel posacenere accanto al matrimoniale, espirando un ultima volta prima di afferrarle il bacino e portarla con destrezza a sedersi sopra di lui.  La fissa indifferente, quasi disgustato dai seni sodi, pallidi, dal  ventre piatto, dalle cosce invitanti. I capelli scuri le ricadono gentilmente sulla schiena, sulle spalle, sul volto, conferendole un’aria eterea, angelica, tradita dalla luce affamata e triste negli occhi lucidi di piacere e malinconia.
L’ho sempre saputo che mio fratello è un inutile incapace. Guarda le apparenza, ma non è in grado di accorgersi delle infinite crepe che si porta addosso. Basterebbe sfiorarne una e tutto il suo mondo sfalsato si ridurrebbe in poltiglia.
Osserva la donna che si muove sopra di lui, disinteressato, immerso nei suoi pensieri. Incontra talvolta le sue labbra, quanto basta per assecondarla, assaporando nelle fauci l’amaro gusto della vendetta.
Le stringe i fianchi, domandandosi come sia possibile per lui condividere lo stesso letto con la moglie dell’ormai odiato fratello. Geme senza nemmeno accorgersene, sperando di terminare quel supplizio il prima possibile, di correre a farsi una doccia gelida ed infine chiudersi in una stanza al riparo da tutto e da tutti.
Lo sapeva bene, lo sapeva fin dall’inizio  che quella donna porta dentro di sé un immenso vuoto. L’ha letto nei suoi occhi vitrei, bisognosi d’attenzioni e affetto, di un sentimento che non le viene più donato da chissà quanto tempo.
Non cambierai mai, eh Yylfort?
Eppure ha provato interesse verso di lei solo nel momento in cui ne ha scoperto l’identità, solo quando nella mente perversa si è profilato un malvagio ideale di vendetta: voleva possederla, farla sua, assaggiare la stessa carne che il fratello ha tastato più volte, godendo della semplice idea di sottrargliela anche solo per una notte.
Ma ora, esattamente ora che ha ottenuto quanto agognato, la soddisfazione sembra essersi dissolta nel nulla.
Conosce le probabili conseguenze delle sue azioni, le sa benissimo. Sa anche che con Nnoitra non vi sarà più alcuna possibilità di tornare insieme.
Certo, solo nel caso in cui venga a saperlo.
Ma Szayel Aporro non è un bugiardo e pertanto non sbandiererà quanto commesso ma, eventualmente, nemmeno lo negherà.
Come sono finito in questa situazione?
Una rabbia improvvisa lo coglie, facendolo sussultare sotto il corpo caldo e sudato di Cirucci.
La afferra con foga, invertendo le posizioni, lasciandola stendere sul materasso per poi avventarsi su di lei, con tutto l’odio e il dolore che porta dentro.
Vuoi vedere cosa faccio alla TUA donna Yylfort? Vuoi vedere quanto ti apparterrà quando sarai qui?
Inizia a morderla voracemente, lasciando segni bluastri seguiti dalle grida della ragazza, che preme le sue dita sottili sulla sua schiena, avvinghiandosi al suo carnefice come una vittima alla disperata ricerca della salvezza.
Lui vuole stigmarla, imprimerle nella pelle candida i segni del suo passaggio, segnarla indelebilmente come per scriverle addosso di esistere ancora, in questo mondo grigio; la bacia violentemente, violandola senza pudore né delicatezza fino a farle inarcare la schiena dal dolore e dal piacere crescente, che si concretizza nei reciproci sospiri e mugolii sempre più densi ed intensi.
Le ciocche rosate ricadono umide sulle spalle esili, spettinati, gli occhiali dalla bianca montatura sono appoggiati sul comodino accanto al posacenere quasi vuoto.
La osserva assorta, le palpebre chiuse a celare le iridi viola, le labbra soffici schiuse sensualmente. Inclina le proprie in una smorfia rammaricata, continuando a muoversi in lei senza alcun sentimento nel cuore, senza alcuna barriera nella mente.
Gli sembra di muovere una marionetta, di usare un oggetto inanimato, senza anima. Il suo è solo un gioco malevolo, una recita di cui lui ne è l’attore principale. Ha interpretato il ruolo con successo ma ora è stanco di fingersi interessato a qualcosa che, normalmente, non avrebbe attirato nemmeno minimamente la sua attenzione. Una voce nella testa gli suggerisce di sentirsi in colpa eppure in lui alberga solo un macabro vuoto.
Nemmeno la vista di quel corpo femminile martoriato dalla sua foga e dai morsi famelici riesce a procurargli un accenno di dispiacere. Non gli importa, proprio come non rientrano nelle sue preoccupazioni le eventuali reazione del rispettivo marito e del suo compagno.
Ad essere sincero con se stesso, non gli va nemmeno di sfogarsi con il suo amico Grimmjow, né di rivangare questo argomento più del necessario: è chiuso, riposto in un cassetto, e lì vi deve rimanere.
Cirucci lo stringe forte, abbracciandolo affettuosa, prima di lasciarsi andare esausta ad un ultimo gemito passionale e ricadere di schiena sul materasso, dolcemente.
Respira ancora affannosamente, quando lui si rialza in silenzio, dandole le spalle.
“Ehi, dove vai?”
Senza alcuna parola si riveste, ignorando le proteste attonite di lei e le continue richieste di spiegazioni.
Indossa gli occhiali, potendo finalmente rimettere a fuoco la figura magra della donna intenta a coprirsi con le lenzuola bianche.
“Szayel … dove stai andando?”
Sembra quasi sull’orlo delle lacrime. Eppure, a lui non importa.
Le labbra si schiudono in un ghigno mellifluo, beffardo, calcolatore.
Ora che la vendetta è stata portata a termine, non ha più senso gettare il suo tempo in qualcosa che non lo aggrada: l’abbandona lì, in un letto sfatto via via più freddo, le coperte ammucchiate, i vestiti sparsi sul pavimento. L’abbandona nonostante calde righe le solchino le guance, frutto di un doppio dolore nel petto, di una rimarcata delusione, di un coltello rigirato nella piaga.
Ma lui non è ancora soddisfatto.
Afferra la maniglia della porta, lanciandole un ultimo sguardo follemente algido:
“Ah, Yylfordt Grantz è mio fratello.”

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Capitolo 16
*** Lost ***


CAPITOLO 16: Lost


 
Quella mattina il mondo sembra sospeso in una bolla di sapone oscillante fra sogno e realtà: scrosci di pioggia fresca precipitano dal cielo plumbeo senza sosta, unendosi alla superficie dell’oceano in un unico manto grigiastro, una seta smossa dalle spumose onde, increspata dal vento, puntellata dalle infinite minuscole goccioline che si fondono le une alle altre in vibranti cerchi concentrici.
Gin Ichimaru osserva assorto il malinconico spettacolo, assaporando l’aria salmastra dalla finestra semiaperta. Le grandi vetrate si sporgono sull’indefinito orizzonte marino, concedendogli una visuale meravigliosamente nostalgica, una nicchia solo sua in quell’altro piovoso e perlaceo. Le sue iridi color ghiaccio divagano sulla sabbia bagnata, sui continui mutamente del bagnasciuga, sulla spuma delle onde che lì si infrangono; stringe le braccia nude al petto, sfregandole, per scacciare un profondo brivido passeggero provocato probabilmente dallo sbalzo di temperatura rispetto l’afosa giornata precedente.
La luce biancastra e chiara illumina la pelle lattea, pallida, nonostante il sole non abbia mai smesso di scottarla dall’arrivo nella città dell’eterna estate; i capelli argentati e morbidi ricadono dolcemente sulla fronte, setosi, corona di un volto dai lineamenti delicati, eterei, furbescamente angelici.
Sospira, sistemando meglio la canotta bianca usata come pigiama, ascoltando il soffuso canto del temporale: cosa avrebbero fatto oggi? Aizen sama , che fin da subito l’aveva prescelto come suo diretto coordinatore delle attività, non gli aveva lasciato detto nulla, nemmeno un messaggio né un biglietto.
Forse vorrà riposare e lasciare a tutti la giornata libera. Probabilmente anche Kuchiki non ha più voglia di scarrozzarci per tutta l’isola.
Aizen sama …
Le labbra sottili si increspano in una smorfia dispiaciuta.
Ripensa ai suoi occhi mogano, cioccolato, una tinta talmente profonda da essere indescrivibilmente stupenda in ogni sfumatura. Ripensa alla chioma castana, scura come i tronchi degli alberi, a quel ciuffo che ricade composto sulla fronte. Gli è stato accanto così tante volte eppure non li ha mai carezzati neanche una volta. E questo gli fa male , gli provoca una lacerante fitta nel petto, una morsa sgomenta nello stomaco, un sospiro mesto sussurrato tristemente.
Perché non si accorge di me ? Perché mi tratta solamente come un collega suo pari?
Nelle mente echeggiano le parole di Ulquiorra, rassicuranti, che lo cullano come una nenia, accendendo il lume della speranza.
Non ho più tempo … gli anni scorrono ed io rimango immobile.
Abbandona la finestra, avvicinandosi alla grande cucina spaziosa dall’elegante e moderno mobilio bianco, concedendosi una tazza di thè preparato la sera prima. Lo sorseggia distrattamente, tamburellando le dita sulla tazza di porcellana raffinata dalle decorazioni floreali, probabilmente petali di ciliegio, indifferente ad un crescente, seppur attutito, rumore di passi nel corridoio: solo quando sente qualcuno bussare alla porta rinsavisce, spogliandosi di quella patina di riflessioni per indossare l’usuale maschera beffarda, il ghigno da volpe proprio di quel volto candido.
Sussulta appena, appoggiando il recipiente sul tavolo di vetro trasparente per avviarsi senza fretta all’entrata, leggermente sollevato d’essere stato finalmente destato da tale gabbia di torpore opprimente.
Quando tira la maniglia verso di sé, però, il cuore perde un battito.
“A… Aizen sama!”
Davanti a lui, Sosuke sorride placidamente, lo sguardo magnetico puntato nelle iridi azzurrissime, il corpo massiccio e scultoreo coperto da una banale maglia a maniche corte chiara ed un paio di pantaloni lunghi di stoffa leggera.
Quella visione lo pietrifica, abituato a confrontarsi con il direttore perennemente in ambito lavorativo, con tanto di giacca e cravatta, valigetta, cappotti firmati. Ora invece è esattamente lì, a nemmeno mezzo metro di distanza, simile ad una normale persona sveglia da neanche mezz’ora.
Vorrebbe dirgli qualcosa di sensato ma la prima cosa che gli salta in mente è:
Cosa ci fa lei qui? E soprattutto, cosa ci fa lei qui in vesti così …. Umane?
Umane, esatto. Perché ai suoi cristallini occhi quell’uomo non è mai stato al semplice livello di qualsiasi altra persona; no, lui era ed è ancora qualcosa di più, un dio, un essere trascendente, irraggiungibile, perfetto in ogni suo aspetto.
Deglutisce, serio, coinciso; la bocca arsa, la mano ancora poggiata sulla maniglia, il respiro bloccato nei polmoni.
Il direttore sorride bonario, avvicinandosi di poco, quanto basta per far sussultare il povero ragazzo.
“Mi fai entrare, avvocato Gin?”
“Prego …”
Si sente scosso come le onde là fuori, stravolte dal vento seppur flebile, come le fronde delle palme, come gli steli d’erba verdeggiante. Si scansa velocemente, lasciando passare il moro che si accomoda nel confortevole appartamento.
“Vuole … del thè? Ha già fatto colazione?”
Le perle cioccolato s’adagiano sulla magra e slanciata figura dell’avvocato, imbarazzato dal proprio abbigliamento casalingo, alquanto sconveniente vista la persona con cui si trova al momento, le gote arrossate dalla vergogna.
“Grazie Gin, lo bevo volentieri. Se ti va possiamo scendere insieme a fare colazione, più tardi.”
“Ma … ma certo Aizen.”
Le parole graffiano la gola, ghermite da un nodo indissolubile, strozzante, denso.
“Molto bene. Anche perché prima volevo parlarti.”
Sobbalza, brividi mordono famelici la schiena lattea.
“Di …cosa?”
Gli porge una tazza di thè verde, sedendosi sul sofà bianco di fronte a lui, intrepido, ansioso.
“Mi dica, Aizen sama.”
“Suvvia, Gin, non serve essere così formali.”
“Ma …”
“Sei veramente strano, ultimamente.”
Il più giovane sgrana gli occhi, irrigidendosi.
Se n’è accorto? Ma certo … come ho potuto pensare di poterlo tenere nascosto.
Aizen nota l’espressione accigliata, le sopraciglia corrugate, l’aria grave.
“C’è qualcosa che vuoi dirmi, Gin?”
La pioggia si fa più forte, cola sulle ampie vetrate a specchio, picchiettandola con foga; nel cielo regna una cappa scura, attraversata da lampi fugaci e tuoni rombanti, il suono dell’oceano simile ad un uggioso ululato.
“Perché sei così triste, Gin? C’è qualcosa che non va? È da abbastanza tempo che mi sembri … turbato. Puoi parlarmene.”
Sorride, poggiano la guancia sul dorso della mano, come suo solito, in attesa di una risposta.
“Dimenticavo, devi chiamarmi Sosuke. Devo ricordartelo sempre, vero Gin?”
“Le chiedo … ti chiesto scusa Sosuke.”
“Allora, cosa c’è che non va? Mi dispiace così tanto vederti giù di morale.”
“Non credevo l’avesse notato.”
“Io noto sempre tutto, Ichimaru Gin. Ma non sempre lo sottolineo.”
Le perle cerulee cadono sul petto liscio, marmoreo, visibile sotto la stoffa profumata di pulito, linda. Scende lungo le braccia forti, risale sul collo possente, sul volto dai tratti decisi, sulle labbra appena carnose.
Perché spiegargli ciò che prova?
Perché sprecare il suo tempo per un sentimento che non troverà mai un lieto fine?
“E’ per la tua storia con Izuru Kira?”
Quella domanda lo sorprende come una secchiata d’acqua gelida nella più fredda mattina invernale.
È vero, il suo superiore conosceva il fidanzato, il dolce Izuru, bambola dalla perle di porcellana e le splendide iridi turchesi anche se, tutt’ora, non si capacita di come possa essersene ricordato; in fondo glielo aveva nominato di rado, durante le loro commissioni svolte insieme o le innumerevoli pause fra noiose riunioni. Quell’uomo è veramente formidabile.
“Ahm … no Sosuke … tra me e lui … beh ecco, è finita da un pezzo.”
“E’ questo che ti rattrista?”
“No … affatto. Non potevo più stare insieme con un ragazzo che non amavo. Anche se così facendo gli ho spezzato il cuore.”
“Si sarà sentito tradito … e abbandonato.”
“E’ così. Ma ho preso le mie scelte, assumendomene le rispettive responsabilità.”
il direttore annuisce, sistemando la ciocca marrone sulla fronte, lo sguardo magnetico ogni secondi più ipnotico, caldo, un abisso senza via d’uscita.
“Mi piace questo lato di te. In fin dei conti riesci a seguire ciò che ti suggerisce la mente, anziché affogare nel lato emotivo. Sono felice di averti nel team, mi fido ciecamente di te.”
“Grazie, ne sono onorato.”
“Sei un ragazzo divertente.”
Il tono della voce è cambiato, più roco, profondo, giocoso, maggiormente simile ad una sfida che ad una affermazione.
Si alza dal divano lentamente, porgendosi lentamente verso Ichimaru, immobile, gelido.
Con ferma dolcezza afferra il mento fra il pollice e l’indice, costringendo il giovane a fissarlo negli occhi, schiudendo le palpebre, scrutando a fondo in quei due pozzi talmente chiari da sembrare trasparenti.
I nasi sono talmente vicini da sfiorarsi, i respiri si uniscono all’unisono, le bocche pericolosamente attratte simili a calamite.
“Mi dispiace averti fatto aspettare … Gin.”
Si unisce alle sua labbra morbide, mantenendo la presa sul mento sottile, portando l’altra mano nella chioma argentata , stringendone le soffici ciocche fini, approfondendo il bacio tanto da lasciare entrambi senza fiato.
Un attimo di stupore, un fremito, il bagliore di un lampo. Il tempo pare fermarsi, avvinghiato alle lancette dell’orologio che non ticchetta più: l’unico rumore è il semplice battito nel petto, sincero, primordiale, ritmico.
Si assaggiano a lungo, dedicandosi a quelle labbra infuocate dal sapore tanto agognato, atteso, ora finalmente impresso nella lingua, nella pelle. Ichimaru inspira il profumo del compagno inebriandosene, tremando dall’emozione di poter finalmente carezzare quel manto castano, dall’incredibile sconvolgimento di poter toccare quella pelle, tastarla, stringerla.
Lo abbraccia, sprofondando nelle due colline rosee, umide di baci, assaporandole ancora e ancora, fino a saziarsene. Non desidera null’altro, solo continuare a sentirne il calore addosso, le mani grandi nel manto candido, i pollici che talvolta carezzano le guance.
Non riesce a capacitarsene, teme sia solo un sogno da cui non vuole risvegliarsi eppure quella sensazione nel ventre è tanto reale da farlo rabbrividire.
“Sosuke … lo sapevi vero?”
“Sì, Gin.”
“Da quanto?”
“Da sempre.”
Aizen sta per avvolgerlo nuovamente in un caldo bacio quando un veloce rumore di passi nel corridoio distoglie la sua attenzione, soprattutto quando la porta si spalanca con un tonfo sordo ed uno spaesato Ichigo si precipita nell’appartamento con addosso solo dei boxer neri, i capelli arruffati, il petto nudo e chiaro, come se si fosse appena svegliato.
“Ichimaru! Ichimaru!”
Chiama a gran voce, cercando con le iridi nocciole la figura dell’avvocato che, ben presto, si scioglie dalla stretta del direttore presentandosi malamente di fronte al collega con il fiatone.
“Che succede, Kurosaki? Perché sei conciato così?”
“Oh … ehm …”
Arrossisce, cercando di coprirsi con le mani, paonazzo di vergogna.
“Stavo … stavo dormendo. È successo un disastro per favore corri! Non trovo Aizen sama, non sapevo chi altri chiamare, mi dispiace …”
Solo dopo aver pronunciato quella frase si accorge della presenza del sopracitato capo, sprofondando ulteriormente nella timidezza.
Schiude le labbra per pronunciare qualcosa ma il determinato direttore si avvia determinato verso l’uscita, seguito dall’avvocato.
“Andiamo. Fammi strada Kurosaki.”
 
 
* * *
 
Quando quel pazzo furioso aveva letteralmente picchiato la porta come se volesse demolirla era ancora avvolto nel sonno, assopito fra le lenzuola pulite e profumate d’oceano, stretto all’esile compagno dalle ciocche corvine. Percepiva il calore della sua pelle lattea, la schiena aderente al petto massiccio, abbracciati come una conchiglia posata sul bagnasciuga da un’onda sinuosa.
Respirava piano, sereno, il volto stranamente disteso in un’espressione beata, accompagnato da un’altrettanto rilassato viso dell’amante, anch’egli cullato nel mondo dei sogni.
Qualcosa però ne aveva disturbato la quiete, baciata dal canto della pioggia, tanto da costringere Ulquiorra a sollevare le palpebre stanche per guardarsi attorno sospettoso, le iridi smeraldo annacquate, la mente ancora confusa dallo strano risveglio.
Aveva scosso Grimmjow scrollandolo dolcemente, due perle di un incredibile azzurro s’erano posate interrogative su di lui, domandandogli silenziosamente perché diavolo lo stava svegliando alle sette di mattina quando non vi erano impegni in vista.
Una scarica di pugni sulla porta (sì, pugni, perché quello non era di certo bussare!) l’avevano fatto sussultare: una raffica di ingiurie invade l’aria nella stanza, le sopraciglia turchesi aggrottate, un’aria aggressiva stampata nello sguardo. Balza giù dal letto, pronto a ringraziare con tanto di interessi l’indesiderato molestatore, correndo rabbioso da una stanza all’altra fino a raggiungere la porta d’ingresso, strattonandola verso di sé con stizza.
“Chi cazzo rompe a quest’ora!”
Spalanca quello strato di legno che lo divide dallo scocciatore, rimanendo assolutamente di stucco:
“Fragolo…?”
Il ragazzo dal manto ramato sostava con un pugno ancora a mezz’aria, gli occhioni spalancati, sul viso dai lineamenti gentili era dipinta un’espressione agitata.
“Che succede Fragolo?”
“Per favore vieni! E’ successo un casino!”
“Cosa?? Stai bene?”
“Per favore muoviti!”
Ulquiorra compare alle spalle del compagno, passando le dita magre sugli occhi annacquati, fissando leggermente sorpreso la strana scena.
“Vieni anche tu Ulquiorra ti prego.”
“ … Perché?”
“Un tizio biondo! E Szayel! Poi Nnoitra!”
Inizia a sbraitare, accavallando le parole, balbettando, respirando affannosamente.
“Calmati.”
Lo interrompe il moro, pacifico come sempre.
“Chi ha fatto cosa?”
“C… credo che Szayel .. stia per uccidere un tizio biondo.”
“Oh merda, andiamo.”
 
Infatti, poco prima ….
 
L’appartamento è immerso nella quiete totale, Ichigo dorme sereno nella sua stanza, Szayel nell’altra e Nnoitra nel divano, coperto da un morbido lenzuolo imprestatogli dall’amico Ulquiorra, per evitare il rosato con cui condivide la camera. La pioggia accompagna il placido sonno, con i suoi scrosci ritmati, malinconici, tristi. Il vento sferza le finestre, sibila fra le fronde della palme, solleva la spuma delle onde scosse. Il corvino fissa il soffitto in silenzio, ascoltando quella musica uggiosa, rimuginando quanto accaduto il giorno precedente, cercando inutilmente di sopprimere le dolorose fitte allo stomaco causate da chissà quale celato rimorso.
Annoiato accende una sigaretta, inspirando a pieni polmoni il suo veleno grigiastro, espirando lentamente fino a placare ogni moto di dissenso nel petto dalla pelle fredda. Un rumore di passi attira la sua attenzione, inducendolo a destarsi, ponendosi seduto, in ascolto: in certi casi anche una mosca appoggiata alla parete può risultare estremamente interessante.
L’iride ametista scorre in direzione del corridoio esterno all’appartamento, ascoltando quella cadenza di passi che suona … familiare alle sue orecchie.
La sgrana appena, incuriosito, in attesa di qualcosa che non tarda a presentarsi.  Vede la maniglia girarsi, la porta socchiudersi, un uomo di nemmeno trent’anni entrare cautamente nell’intento di celarsi nell’ombra.
“Ah? E tu chi saresti?”
L’ospite sobbalza, voltandosi di scatto verso l’interlocutore dalle lunghe ciocche scure posate sulle spalle nude.
“Chi sei tu, piuttosto.”
Un moto di rabbia lo pervade, digrigna i denti.
“Come chi sono? Sono la persona che alloggia qui accidenti!”
“Davvero?”
Il ragazzo dalla lunga chioma bionda e liscia sbatte confuso le palpebre, avvicinandosi di qualche passo al divano. Le perle nocciola scorrono sulla sigaretta accesa, sul volto affilato intriso d’ira, sugli addominali scolpiti.
“Devo … devo aver sbagliato … io credevo .. ci fosse Szayel qui.”
Il corvino balza in piedi, sconvolto, in preda al panico.
“COSA?? ANCHE TU?? BASTA E CHE CAZZO! Non è possibile che quell’idiota sia sempre in mezzo!
“Lo conosci?”
Ovvio che lo conosco! Ci sto assieme! Anzi, forse ci stavo … insieme … visto che si è chiuso in camera e non è più uscito da lì.
“Tsk, cosa te ne frega. Non so nemmeno chi sei.”
“Yylfort Grantz.”
Gr… Grantz?
“Sì, sono suo fratello. Posso sapere dove trovarlo?”
I … io non sapevo che avesse un fratello. Non me l’ha mai detto … o forse l’ha fatto? Sono uno stupido … io … non l’ho mai ascoltato.
“E’ in camera. Ma non credo voglia uscire … è un po’ … stressato.”
“Potresti andarmelo a chiamare?”
Jilga temporeggia inspirando una boccata di fumo, portando una mano sulla fronte, atterrito.
“Temo … che non mi darà retta.”
Una voce li sorprende alla spalle, una voce che emerge dalla penombra e spiazza entrambi, irrigidendoli:
“Non serve, sono già qui. Oho, che piacere Yylfort, a cosa devo la tua visita?”
Ghigna beffardo, le braccia conserte, le labbra schiuse nel più ipocrita e meschino sorriso mai visto in tutta la vita del fratello, che rabbrividisce alla sua semplice presenza.
“Szayel. È vero?”
Il rosato fissa il biondo negli occhi, sfidandolo.
“Cosa dovrebbe essere vero, caro fratello?”
“Che ti sei scopato mia moglie.”
Nnoitra per poco non si strozza con la sua stessa saliva. Istintivamente si gira verso il compagno, deglutendo. Non l’ha mai visto così terribilmente glaciale, gelido, follemente imperturbabile ed assolutamente divertito. Vorrebbe delle risposte ma il forte rammarico interiore gli impedisce di proferire alcunché. Si limita a guardarli, spettatore, stretto nel suo angolo di realtà.
“E anche se fosse? Sono affari tuoi se non sai tenere al guinzaglio il cane che hai comprato.”
L’altro diviene paonazzo, avventandosi contro il più giovane, afferrandolo sul collo.
“Lei non è un cane! Ho visto cosa lei hai fatto! Mi disgusti!”
Stringe la presa sul corpo immobile, per nulla spaventato, anzi: decisamente si crogiola in quella situazione angusta, assaporando l’odio del fratello ad ogni gesto, movimento, sibilo.
Yylfort sa bene che , se solo lo volesse, a quest’ora Szayel lo avrebbe già steso con un solo dito. Ed invece rimane in silenzio, ghignante, le perle ambrate puntate nelle sue castane, per nulla intento a svincolarsi da quella presa che gli fa mancare il respiro. Percepisce il suo battito cardiaco accelerare, probabilmente per la carenza d’aria, nota le guance arrossarsi.
Nnoitra lo prende violentemente per le spalle, cercando di strapparlo in quel tentativo di omicidio.
“Lo stai ammazzando, finiscila o ti ammazzo io!”
Senza nemmeno farsi vedere il medico si svincola dalla presa dell’altro Grantz, portandosi di fronte al collega con grande sorpresa di quest’ultimo:
“Stanne fuori … Jilga.”
Lo trafigge malignamente con lo sguardo rancoroso, senza ottenere però alcun risultato.
“Scordatelo! Io non ci credo che tu abbia fatto una cosa simile!”
“Credici allora.”
“C… cosa? Stai scherzando vero?”
“Affatto. Mi sono fatto sua moglie mentre tu eri chissà dove.”
“Non ci credo. Tu … tu stai insieme a me!”
“No, noi non siamo insieme. Né ora né mai.”
Quelle parole gli fanno mancare il sangue alla testa: una vampata di disperazione gli morde ogni muscolo, lo stomaco si contorce, il cuore sembra scoppiare. Non si rende nemmeno conto di sferrare un pugno perfettamente dritto sul naso del dottore, non concepisce in tempo d’essere stato lui a farlo cadere all’indietro, rovinando sul pavimento, un fiotto di sangue dalla narice alla bocca, fino al collo, alla canotta bianca ora macchiata di rosso vermiglio.
Si guarda le nocche tremanti, osservando poi il compagno trattenere il liquido porpora con una mano, malamente, e fissarlo con gli occhi più colmi d’odio che avesse mai incontrato.
Vorrebbe morire, ma la sofferenza glielo impedisce; lo ancora lì, senza fiato in corpo, scosso da fremiti di una paura sconosciuta, insolita: il terrore di perdere qualcuno.
Noi non siamo insieme. Né ora né mai. Né ora ….. né mai.
Inutile dire che Ichigo, svegliato da tanto chiasso, accorre sulla scena, sbiancando alla vista del dottore inferocito e sporco di sangue, di un tizio biondo mai visto e di un Nnoitra più sconvolto che mai.
Inutile anche sottolineare quanto sia aumentata la sua preoccupazione non appena il rosato dottore ha iniziato a cercare di colpire il fratello con un vaso di cristallo adagiato sul tavolo del soggiorno e , non riuscendovi, si è accontentato di azzuffarsi con lui simile ad un gatto soffiante. Prova a separarli, inutilmente, cerca un insperato aiuto in Jilga ed infine corre in cerca dell’azzurro che, prontamente, lo segue insieme al fidato Ulquiorra.
“Yylfordt?”
Grimmjow spalanca le iridi azzurrissime, senza fiato nei polmoni.
È davvero quel … Yylfort?
“G… Grimmjow … anche tu … qui?”
Il ragazzo dalla chioma turchese inizia a ridere sguaiatamente, facendo rabbrividire i presenti: non anticipa nulla di buono, assolutamente nulla.
Felino si avventa sul biondo, separandolo da Szayel per dedicargli una razione di violenza tutta per lui. Alla vista del naso insanguinato dell’amico, poi, perde completamente controllo di sé.
“Come ti permetti bastardo eh? Non ti è bastato piantarci in asso una volta? Non eri contento vero? Devi morire, devi morire!”
Allibito, Ulquiorra osserva apatico la scena, grattandosi il mento con l’indice.
“Grimmjow … non sprecare il tuo tempo con certa spazzatura.”
Ma il compagno lo ignora bellamente, continuando a maltrattare l’ex fidanzato.
“Posso capire me, anche se scusanti non ne hai lo stesso … ma tuo fratello. Tuo fratello!! Lo hai abbandonato proprio quando aveva bisogno di te! Se non fosse stato per me a quest’ora avrebbe fatto la peggiore fine che tu possa immaginare! E la colpa sarebbe TUA!”
“Mi pare … che stia anche troppo bene …”
“Sta bene perché da quando sei SPARITO me ne sono preso cura IO!”
Si volta verso l’amico, livido di rabbia.
“Stai bene Szayel? Vuoi che lo ammazzo?”
“No. In fondo questa volta ha ragione ad avercela con me.”
“NO CHE NON HA RAGIONE! Qualsiasi cosa tu abbia fatto non sarà mai pari alla sua!”
Yylfordt abbassa lo sguardo, inspirando, cercando di ignorare il dolore delle botte ricevute.
Perché è andato lì? Voleva veramente far valere i suoi diritti di marito tradito o voleva solamente … accertarsi che suo fratello stesse bene?
Il senso di colpa lo corrode viscidamente, graffiandolo dall’interno, scalfendo la corazza d’orgoglio e presunzione probabilmente congenita anche nell’altro Grantz.
Grimmjow ha ragione.
Non solo lo ha piantato in asso, senza fornirgli una benché minima spiegazione.
Non contento si è trasferito ad Osaka, cambiando indirizzo, numero telefonico, abbandonando il fratello pochi giorni dopo la morte dei loro genitori. Stava veramente scappando da lui? O forse cercava salvezza da se stesso?
Qualsiasi sia la risposta ora non ha più importanza: gli anni sono trascorsi, loro sono cresciuti, si sono creati due vite separate e diverse. E lui sa di aver sbagliato, ma non riesce ad ammetterlo.
“Cosa sta succedendo qui?”
Aizen e Gin compaiono sulla porta, palesemente seccati, fulminando i presenti con sguardo truce.
Il biondo si rimette in piedi barcollando, indicando il fratello ancora a terra, sul pavimento lucido.
“Il suo dipendente … il suo dipendente … è andato a letto con mia moglie!”
Sbraita, ringhiando, sotto le iridi profonde di Sosuke. Scruta il collega macchiato di sangue, poi uno spaventato Kurosaki, un indifferente Schiffer ed un animalesco Grimmjow.
Povero sciocco … credi davvero che io non sappia chi sei e cosa hai fatto, Yylfordt Grantz?
Gli si avvicina lentamente, alle sue spalle Ichimaru sorride  divertito, simile ad una volpe, conscio delle intenzioni del direttore.
Afferra il volto escoriato del ragazzo dalla lunga chioma chiara, cingendone il mento con due dita.
“I miei subordinati ti hanno fatto questo?”
Annuisce, pregustando il profumo del licenziamento in tronco.
Profumo che svanisce non appena riceve un pugno tanto forte da fargli mancare i sensi per qualche secondo.
“Hanno fatto bene, misero meschino. Stai alla larga da loro.”
Il capo annuisce compiaciuto della propria opera, tornando tranquillamente al suo appartamento con un ancor più ghignante Gin, probabilmente intento a riprendere le loro attività lì dov’erano stati interrotti.
 
Inutile dire che , per il resto della vacanza, le cose non sono letteralmente andate per il meglio:
Szayel si è chiuso per il resto della settimana nella propria stanza, spacciandosi per malato ed a nulla sono valse le insistenti supplice di Ichigo, preoccupato, e dell’azzurro. Quest’ultimo, invece, ha trascorso sereni giorni con Ulquiorra a prendere il sole e sguazzare nell’acqua cristallina insieme a Ukitake e Shunsui.
Nnoitra è sparito dalla circolazione, ritirandosi probabilmente in qualche angolo dell’appartamento ad attendere un insperato spostamento del compagno e , nel frattempo, a disperarsi fumando più di una ciminiera.
Gin e Aizen hanno trascorso più ore nella loro camera che con i colleghi ma, sinceramente, nessuno ha sentito la loro mancanza. Nessuno, eccetto Kuchiki, che per molti giorni si è domandato dove fossero scomparsi i suoi invitati.
Cirucci ed Yylfordt non si sono più fatti vedere in giro e nessuno ha idea di come si sia conclusa la loro relazione.
Ichigo è rimasto in gradevole compagnia con Grimmjow e Schiffer, sperando di travisare i loro gesti e di poter continuare a celare una speranza nel suo cuore.
 
I guai però, non sono ancora finiti.
Anzi, non è esagerato affermare … che sono appena incominciati.
 

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Capitolo 17
*** Son ***


Dedico questo capitolo a ......

Lucy che mi ha fornito tutti i peggiori appellativi che userà Nnoitra XD E che faremo santa perchè mi segue, supporta (e sopporta) sempre.
E alla mia Sis Valentina (anche lei) che mi segue sempre e c'è in ogni momento!
Grazie girls!



CAPITOLO 17:  Son


 
Tokyo, quasi un anno e mezzo dopo.
Metà Marzo, ore 10.30
 
 
Quella scena gli causa il voltastomaco. Ogni santa mattina, ogni santo giorno.
Non vi è volta in cui quell’organo interno non si agiti alla sola vista di tante mielose smancerie intrise di falsità, una recita nota sia a lui, spettatore, sia a chi la interpreta.
Sempre la solita storia, da ormai un anno e mezzo.
Il moro lo avvista già in lontananza, quando si appresta ad attraversare le strisce pedonali per raggiungere il grande palazzo dalle ampie vetrate, o anche quando parcheggia l’auto nel parcheggio in sua prossimità, lanciandogli perenne occhiate truci, colme d’odio.
Lo fa mentre una bellissima ragazza dai lunghi capelli verde acqua lo accarezza dolcemente, cercando i suoi baci, le sue carezze, sussurrandogli parole dolci nell’orecchio, scostandogli le lunghe ciocche nere con delicatezza , senza nemmeno accorgersi che l’iride ametista dell’amato non è affatto puntata su di lei.
Non può negarlo, tutto questo lo fa davvero vomitare.
Ormai è da mesi che rinuncia alla colazione poiché in ogni caso la rigetterebbe, dalla stizza e dalla rabbia.
Non lo accetta, non ci riesce: non può concepire che quell’idiota di Nnoitra si sia fidanzato con la cara Neliel solo per rovinargli la vita, sbattendogli in faccia giorno dopo giorno la sua storia d’amore, ricalcando la ferita di chi invece vive in solitudine e non trova nessuno accanto quando si sveglia la mattina.
Il destino inoltre vuole che, neanche farlo apposta, i loro turni si incrocino a tal punto da farli incontrare sempre: cosa che non giova di certo alla salute mentale del dottor Grantz, precipitato in un baratro di stress e frustrazione.
Deglutisce l’amaro nodo stretto nella gola, avvicinandosi velocemente all’entrata dell’alto palazzo; vuole solo entrare, trascorrere le sue ore lavorative in santa pace e poi tornarsene a casa il prima possibile ed estraniarsi finalmente da questo vortice opprimente che lo priva d’ogni energia.
“Buongiorno Dottor Grantz!”
Cinguetta la giovane, separandosi dal fidanzato per qualche istante.
“Ciao Nel.”
“Come sta oggi il piccolo Haru?”
Il medico guarda il piccolo fagotto stretto fra le braccia, scostandogli una ciocca rosata dal volto.
“Oho, pare stare bene.”
Il bimbo sposta le iridi nocciola sulla giovane, abbozzando un sorriso e tenendo la manina verso di lei che sgrana i grandi occhi color sabbia, esultando.
“Kami quanto è adorabile! Posso ?”
Szayel annuisce, porgendole il pargolo con cautela, come se si trattasse d’un prezioso oggetto di cristallo che potrebbe frantumarsi da un momento all’altro. Non si volta verso il moro ma sa bene d’avere addosso il suo sguardo pieno d’astio.
Nel schiude le labbra felice, radiosa, sfiorando il nasino all’infante con la punta della dita, facendolo ridacchiare affettuosamente.
“E’ veramente uguale a Lei dottor Grantz, è tutto suo padre !”
“Grazie cara Nel. Scusa ma ora devo andare, i pazienti mi aspettano.”
“Vuole … vuole che glielo tengo un po’? Non la disturba?”
“Sei molto gentile ma non preoccuparti, non mi arreca alcun fastidio. E poi in caso mi aiutano gli altri colleghi. A presto, buona giornata.”
Riprende in braccio Haru, senza degnare di un solo sguardo il collega che, astutamente lo afferra per un braccio.
“Nel ti spiace lasciarci soli un momento?”
Lei gli stampa un bacio sulla guancia, annuendo ed allontanandosi in fretta, facendo calare fra i due un silenzio carico di tensione.
“Che vuoi? Sono in ritardo.”
“Non puoi continuare a portare … quello … a lavoro.”
Indica sprezzante il neonato intento a succhiare un ciuccio azzurro, la manina tesa verso il manto pastello del padre, impegnata a tirarne le lunghe ciocche setose facendogli talvolta male.
Il medico inarca un sopraciglio , per la stizza di quel gioco snervante e per il fastidio arrecatogli dal collega impiccione.
Quello ha un nome.”
Quello è un mostro.
Aporro sospira, stringendo il piccolo fra le braccia, fissando il volto tondo, dalle guance paffute e morbide, pallide, gli occhi espressivi dalle lunghe ciglia.
“Non è un mostro. Smettila di chiamarlo così ogni volta che lo vedi, lasciaci in pace.”
“Sei uno smidollato.”
“Ok, come ti pare. Posso andare ora?”
Una mano gli si para davanti, impedendogli di proseguire. Nnotira sembra perdere le staffe, digrigna i denti, sputandogli parole piene di rancore.
“E’ un errore, uno schifosissimo errore. E tu non solo sei un idiota, ma sei anche un ipocrita meschino!”
“Temo di aver imparato da te ad esserlo. Ora basta, mi stai innervosendo.”
“E’ da quando è nato che te lo porti dietro, mi dai i nervi!”
“Ha solo sei mesi Nnoitra e causa certamente meno fastidi di te. Quindi taci.”
Lo sorpassa malamente, ingoiando una manciata di lacrime represse da chissà quanto tempo.
Carezza i capelli morbidi di Haru, stringendolo a sé per darsi coraggio, per farsi forza, avviandosi stancamente verso il proprio ambulatorio.
Haru … tu non sei un errore.
È vero, non mi sarei mai aspettato di diventare padre così, senza alcun preavviso, da un giorno all’altro. Però … però ciò non toglie che tu sia mio figlio. E quindi da quando sei nato è mio dovere proteggerti e darti una vita migliore di quella che ho avuto io.
Anche se … mi sento così terribilmente … stanco.
 
È vero, non se lo sarebbe proprio mai aspettato: lei aveva bussato alla porta di casa sua, una tiepida sera di settembre, stringendo fra le braccia esili un minuto fagotto mugolante.
Si erano guardati, forse senza neppure riconoscersi all’istante, entrambi portavano lo stupore negli occhi.
Non aveva capito immediatamente perché quella donna dai lunghi capelli violacei si trovasse lì, sull’uscio della sua abitazione, nel volto dipinta la vergogna e l’ira, il corpo tremante dalla rabbia e dall’imbarazzo.
L’aveva scrutata a lungo, in silenzio, con ancora addosso il camice da medico poiché era appena rientrato da lavoro e, a dirla tutta, quel giorno i pazienti lo avevano fatto letteralmente impazzire, uscire di senno.
“Cirucci?”
Non riusciva a crederci, non trovava alcuna spiegazione logica del perché la moglie di suo fratello sostasse in piedi, oscillante, a nemmeno un metro da lui. E con quella faccia, fra l’altro.
Lei gli aveva buttato fra le braccia il fagotto, come se dovesse gettare un sacco della spazzatura, trattenendo a stento lacrime di rancore.
“Tienitelo, è tuo!”
Lui non capiva.
Aveva abbassato le iridi dorate su quello che a tutti gli effetti è un neonato di pochi giorni, un neonato bellissimo.
Era minuscolo, fragile, dai lineamenti dolci ed il temperamento quieto. Si lasciava avvolgere dal padre improvvisato senza fiatare, stretto in due braccia inesperte, impacciate.
“Cosa?”
“E’ tuo figlio maledetto bastardo, adesso te lo tieni!”
“Ma …”
L’aveva guardato nuovamente, in silenzio. In tutta la sua vita ne ha visti molti di bambini, di ogni età, portati appresso dai suoi pazienti e visitati occasionalmente. E, a prima vista, quello pareva avere nemmeno una settimana di vita.
Nonostante il panico, la sua mente carpiva perfettamente al volo la situazione, sgomenta.
“Vuoi davvero lasciarlo a me? Non ti importa di …?”
“Di lui ? No, non mi importa nulla. È come se non esistesse. Nemmeno tu esisti.”
“Potresti pentirtene. È pur sempre tuo figlio.”
“Lui non è mio figlio! Non lo riconosco come tale!”
Il medico ghignò tristemente, portando al petto quell’essere dal calore umano, cullandolo.
“Tu e mio fratello … vi siete davvero trovati.”
“Non è questo il momento di farti gli affari nostri!”
Sbraitava ferocemente, dandogli le spalle e ritornando di corsa verso il taxi posteggiato di fronte al cancello.
“Addio Szayel.”
“U. .. un attimo! Non ha un nome ?”
La donna ha sbattuto la portiera, la vettura è sparita nella strada di quella via poco affollata, baciata dai raggi del tramonto aranciato, trafitto d’oro, ultimi caldi raggi d’inizio autunno.
“Oh diamine … questo si che è un bel casino.”
Scambiò un’occhiata incuriosita con quello che, evidentemente era suo figlio, domandandosi quale poteva essere il suo nome.
“Hai i capelli rosa come i petali di ciliegio … come la primavera. Ti va bene Haru?”
Il piccolo emise un versetto, muovendo le labbra sottili con simpatia.
“Bene Haru. Vediamo d’andare d’accordo allora.”
 
 
E ora … e ora sono trascorsi sei mesi da quando gli è stato affidato un figlio che nemmeno sospettava di avere. E la sua vita è certamente cambiata.
Una mano gli si posa sulla spalla, dandogli una sonora pacca che lo fa trasalire mentre ripone Haru nel passeggino accanto alla scrivania.
“Ohi Szayel! Come andiamo oggi eh?”
“Grimmjow … quante volte te lo devo dire di non sorprendermi in certi momenti?”
Si gira verso il collega, incrociando due divertite iridi più azzurre del cielo.
“Uau doc, che occhiaie! Dormito male vero?”
“Fottiti.”
“Hmm già. Beh senti, io torno in ufficio, Ulquiorra mi ha detto di riferirti che se hai bisogno sai dove trovarlo.”
“Grazie.”
Grimmjow si avvia verso la porta, fermandosi a pochi passi dal corridoio. Scruta preoccupato il viso stanco dell’amico, le occhiaie scure sotto agli occhi, il camice una volta attillato ora largo sul suo corpo snello ed alto.
Ma ciò che lo allerta di più è la tristezza nello sguardo, le labbra che non si schiudono più in alcun sorriso se non verso il figlio.
“Senti Szayel … sicuro che va tutto bene? Sai che io …”
“Nessun problema, davvero.”
“E’ colpa di Nnoitra? Ancora?”
“No veramente … torna a lavoro, per favore.”
“Dovresti prenderti qualche giorno di ferie. Magari puoi venire a stare un po’ da noi .”
Il medico lo liquida con un cenno della mano, lasciandosi cadere sulla sedia ed accendendo il pc portatile color acciaio, attende che l’amico esca dalla stanza dalle bianche pareti, richiudendo la porta alle spalle nonostante l’andamento perplesso, indeciso se rimanere o andarsene.
In effetti, a pensarci bene, da quando è iniziata la sua convivenza con Ulquiorra ha leggermente perso di vista l’amico dalla chioma pastello poiché egli per primo si è estraniato dalla loro relazione, probabilmente nel tentativo di fargliela vivere al meglio e non essere un peso per loro, nonostante i ripetuti inviti a trascorrere del tempo insieme, anche in compagnia di Haru. Ma nulla, i suoi dinieghi sono costanti.
Mi dispiace Grimm. Non prendertela se mi sono staccato da voi, ma non posso permettere che i miei problemi gravino sulla vostra felicità. Ora convivete, siete una coppia fissa, state bene insieme, ve lo leggo negli occhi. A costo di sembrare un cretino … non rovinerò nulla fra voi.
Appoggia la testa pesante sulla superficie liscia e fredda della scrivania, la fronte coperta da ciuffi rosati, il petto compresso in un sospiro esasperato. Vorrebbe una sigaretta, la desidera come un disperso nel deserto sogna una sorgente d’acqua.
La mano affusolata tasta le tasche dei jeans alla ricerca dall’agognato pacchetto, non trovandone alcuno.
“Merda.”
Rimane con la mano a penzoloni lungo il fianco, il capo affondato fra le carte, la smania nel petto.
Percepisce un colpo di tosse poco lontano da lui ma rimane immobile, non gli importa affatto.
“Non dovresti dire parolacce davanti ai bambini.”
Si solleva appena, incrociando due iridi glaciali ed una chioma ondulata, castana.
“Stark.”
Forse quella giornata può ancora migliorare.
“Come stai dottor Grantz?”
Il medico ride mestamente per quella consueta formalità, beandosi delle presenza dell’amico di vecchia data, una visita finalmente gradita nel grigiore di quelle ore tristi.
“Potrebbe andare peggio. E tu come stai?”
L’uomo alza le spalle, avvicinandosi al piccolo Haru intento a morsicchiare un sonaglio di plastica.
“Com’è cresciuto! Ti assomiglia sempre di più.”
“E’ un complimento?”
“Sì, a meno che non diventi folle come te.”
Ridono entrambi, complici, entrambi con alle spalle la medesima situazione, la medesima amarezza.
Solo Stark può capirlo pienamente, solo lui può davvero stargli accanto.
“Lilynette?”
“E’ a scuola, le porterò i tuoi saluti. Sono venuto qui per informarti che questa sera usciamo.”
“Stark grazie per le attenzioni ma …”
“Niente ma. Hai bisogno di distrarti, ti si legge in faccia che stai per esplodere. E poi volevo parlarti di una cosa importante …”
“Cosa ?”
“Beh ecco … ho perso la testa per una mia collega.”
“Oh no di nuovo.”
“Sono serio, questa volta è diverso Szayel! Non riesco a togliermela dalla mente. Usciamo insieme da un po’ di tempo, lei sembra ricambiare e …”
“Ok, ok ho capito. Chi è la sfortunata?”
Il castano abbozza un sorriso sognante, seguito da uno sbadiglio.
“Kuchiki Rukia. Voglio chiederle di sposarmi.”
“Piano piano! D’accordo, sei veramente un caso perso. Dimmi dove ci troviamo.”
“Mah, fatti trovare a casa mia per le sette e poi ci inventeremo qualcosa.”
“Come vuoi, ma non farti trovare addormentato come ogni volta.”
 
 
* * *
 
“Ci sai davvero fare con i bambini.”
“Così pare.”
Ulquiorra fa saltare dolcemente Haru sulle proprie gambe, facendolo ridere divertito sotto lo sguardo perplesso del compagno dalle ciocche color ciano.
Il bimbo ridacchia, tendendo le manine verso il corvino nel tentativo di afferrare i ciuffi neri, ripetendo felice quello che pare essere il suo nome, come una nenia: “U-chi, U-chi”.
“Sa già parlare?”
Grimmow si gratta il mento dubbioso, avvicinandosi a quell’essere a lui sconosciuto dalle grandi perle caramello e i capelli del padre.
“Solo qualche parola, sillabe ripetute … nulla di strano. Certo … per la sua età ne sa anche troppe. È davvero molto sveglio.”
“E’ figlio di Szayel , non poteva essere altrimenti.”
Il corvino scioglie gentilmente la presa di quelle dita ferree sui ciuffi ossidiana, stringendo lieve le piccole mani sui suoi palmi, teneramente; il collega non può fare a meno di notare che, sotto quello strato di apatia e disinteresse verso il mondo intero, si nasconda in lui un lato diverso, una parte nota solo a lui, talmente fragile da essere compresa solo attraverso piccoli gesti.
“Scusate se ci ho messo tanto, non trovato l’omogeneizzato.”
Il medico accorre al tavolo della mensa, trafelato, lanciandosi sulla sedia ed appoggiando sulla superficie liscia il pranzo per Haru.
“Bene. Vedo che hai fatto pratica.”
Sottolinea Ulquiorra soddisfatto, soppesando con lo sguardo la pappa preparata dal collega, ora intento a propinarla al figlio che, divertito, la assaggia fra un urletto e l’altro.
“Pa-pa-pa-pa”
Gli occhi dell’uomo sembrano luccicare di gioia nel sentire quei balbettii, tanto da apparire lucidi, cristallini, di vetro.
“Cosa vuoi per pranzo Confettino?”
“Niente grazie.”
Ichigo, arrivato da poco , sgrana gli occhi sconcertato.
“Scherzi vero? Devi mangiare qualcosa, sei trasparente.”
Grimmjow scoppia a ridere sguaiatamente, tirando pacche sulla spalla del ramato:
“Sei una crocerossina Fragolo, hai sbagliato lavoro!”
Sparisce dal gruppo per andare a rifornire i vassoi, continuando a sgolarsi da solo mentre cammina a grandi falcate, scrutato dagli smeraldi gelidi del compagno, sulle sue gambe ancora il bimbo affamato e gioioso.
“Grazie per avermelo tenuto Ulquiorra, ora non disturbarti lo tengo io.”
“Figurati, mi fa piacere. Ci sono abituato.”
“Per il lavoro all’orfanatrofio?”
Il moro annuisce, facendogli cenno d’abbassare la voce.
“Non gliel’hai ancora detto?”
“No.”
“Cosa aspetti?”
“Non … non lo so.”
Sulla pelle lattea del volto si profila una smorfia di sconforto, ma l’arrivo del collega con una montagna di cibarie sul vassoio lo distoglie da quei pensieri complicati, costringendolo ad apostrofarlo con quel suo tono serio, algido, cinico.
“Hai portato da mangiare per un esercito, Grimmow?”
“Tsk, tu ci sottovaluti. Vero Fragolo?”
Il più giovane annuisci, afferrando le bacchette e scambiando un’occhiata complice con il collega famelico.
Il suo sguardo cambia quando una figura alta e slanciata si profila alle spalle dello psicologo, scrutando i presenti con note d’agitazione. L’azzurro, allarmato, balza sull’attenti.
“Jilga … che vuoi?”
Il dottore, impegnato a cibare il figlio, nemmeno si accorge di quell’interruzione, perpetuando la propria attività con dedizione.
“Non mi interessi tu sfigato. Devo parlare con lo psicopatico.”
I ragazzi si osservano per una manciata di secondi, perplessi, finchè Ulquiorra si decide ad intervenire:
“Quale di noi quindi?”
Grimmjow ed Ichigo annuiscono con la bocca piena, corrugando le sopraciglia.
“Con Grantz.”
“E’ impegnato non lo vedi?”
Ruggisce l’azzurro, intento a lanciargli dietro la bottiglietta d’acqua.
“Non me ne frega!”
Posa una mano sulla spalla dell’ex compagno, facendolo sussultare dalla sorpresa; sgrana le iridi dorate, sbattendo più volte le palpebre, come se si fosse appena risvegliato da un sogno.
“Ah? Nnoitra? Cosa vuoi? Da quanto sei qui?”
“Vieni fuori.”
“D’accordo.”
Pulisce la bocca al figlio con il bavaglino ricamato appositamente da Orihime, infilandogli il giubbotto per non fargli prendere freddo, con cura, amore.
“Se vuoi te lo tengo io.”
“Grazie Ulquiorra, pranza tranquillo, lo porto con me.”
Prende il piccolo fra le braccia, stretto contro il camice bianco sapientemente abbottonato, intento a giocare con il bavero bianco; si avvia verso l’uscita, seguito dal collega, completamente indifferente a quanto sta per essergli detto: prova solo una forte stretta allo stomaco, un senso di vertigine e claustrofobia che lo fanno sudare lungo la schiena percorsa da brividi.
Escono all’aperto, nel piazzale esterno alla mensa, puntellato di persone sparse qua e là, chi da solo, chi al telefono. I raggi del sole di metà marzo illuminano la loro pelle non ancora abituata alla primavera, al cielo terso privo di nuvole, alle prime gemme sugli alberi, al profumo della terra che si sveglia.
“Cosa devi dirmi?”
Sofferente si appoggia al muro con la schiena, rammaricandosi di non aver con sé alcuna sigaretta, soprattutto quando vede il collega estrarne una e portarla alla bocca.
“Nel mi ha lasciato.”
“E allora?”
“Dice che ti corro ancora dietro.”
“Ripeto, e allora?”
“E allora sono venuto a dirti che non è così! Si sbaglia! Io ti odio!”
Il medico sospira, puntando le perle ambrate verso la cappa di velluto ciano che li sovrasta.
“Se veramente fosse come dici non avresti avuto bisogno di venire qui a darmi spiegazioni.”
Colpito e affondato.
Jilga sussulta, livido di rabbia, tremante da quella pugnalata inaspettata. Qualcosa, però, mitiga i suoi bollori interiori, qualcosa che pare soffocarlo secondo dopo secondo: è la prima volta che si trova di fronte a lui in tranquillità, la prima dopo un anno e mezzo. In tutti questi mesi non si era accorto di quanto è dimagrito, di come i capelli gli arrivino oltre le spalle, delle occhiaie scure; non si è accorto della profonda tristezza di quelle perle in cui si sarebbe volentieri perso; non si era accorto di come si appoggia sfinito su qualsiasi superficie solida, come per sorreggersi perché senza forze.
Istintivamente le sue labbra si muovono, pronunciando un “va tutto bene?” ma la risposta che ottiene è certamente negativa: Szayel barcolla, propinandogli il bimbo fra le braccia, scappando via di corsa bofonchiando qualcosa del tipo “Scusami torno subito”, la mano stretta sulla bocca.
Il corvino rimane interdetto, spaventato dal dover tenere una creatura così indifesa, un essere tanto fragile quanto perfetto che lui ha sempre denominato mostro.
Un nodo gli stringe la gola alla semplice vista di quella nocciole innocenti, del sorriso sincero, dei balbettii che ripetono la parola papà, delle ditina posate sul volto affilato. Gli tirano dolcemente la benda, poi i capelli, la giacca.
“Ehi! Smettila marmocchio!”
Eppure la voce si smorza, tremante, priva di convinzione, flebile come una fiammella morente. Cos’è questa sensazione nel petto? Questo calore? Cos’è questo nodo alla gola?
Le labbra sottili si inarcano in un involontario sorriso, senza che se ne renda conto.
“Andiamo a cercare tuo padre, su. Quel baka non si smentisce mai vero? Devi dirglielo: baka.”
Cosa diavolo sto facendo? Sto parlando come un idiota ad un marmocchio!
Sbuffa, cercando di posizionare meglio Haru fra le braccia, avviandosi nella direzione in cui si è dileguato il collega, trafelato.
Dopo vari minuti trascorsi a girovagare senza meta (e senza risultati) finalmente si reca alla toilette della mensa, dove trova l’ex compagno intento a lavarsi il volto pallido, malaticcio, magro.
Un crampo al ventre lo riscuote, facendolo avvicinare a quel corpo con il fiatone, i ciuffi pastello umidi.
“Cos’hai?”
“Nausea.”
“Ehm … vuoi del thè?”
“No. Rigetto qualsiasi cosa, grazie lo stesso.”
Gli sottrae il bimbo, sfiorandolo, riportandolo fra le proprie braccia e quel tocco distratto per poco non fa svenire il corvino: una miriade di sensazioni ed emozioni lo graffia nel petto, nel cuore, lo divora con le sue enormi fauci, lo dilania in un dolore straziante e senza fine. Gli manca il respiro, la mente è così confusa da non riuscire a comporre alcun pensiero sensato:
come ho potuto essere tanto stupido? L’ho piantato in asso da un anno e mezzo. È vero lui … lui è stato terribile con me. Mi ha detto cose che mi hanno fatto precipitare nella disperazione più assoluta. Però … se solo avessi realmente visto … se solo avessi chiesto delle spiegazioni invece che odiarlo a priori e tormentarlo per tutto questo tempo … forse ora non starebbe così male. E nemmeno io soffrirei così tanto.
Si accorge delle iridi giallastre puntate su di lui, in attesa di qualcosa, di una parola, di un gesto.
Sono stato un idiota. Il baka sono io. L’ho lasciato solo, anche quando aveva bisogno di qualcuno vicino. Come ho potuto pensare che potesse cavarsela da solo con un neonato in casa da un giorno all’altro? Io, proprio io che sono stato piantato a vita in un orfanatrofio ho lasciato che un altro bambino potesse soffrire dolori simili. E cosa ho fatto? Nulla, assolutamente nulla. L’ho abbandonato in un angolo, chiamando suo figlio con i peggiori appellativi esistenti. Gli ho rovinato la vita per un anno e mezzo facendolo sentire uno schifo per qualcosa di cui in verità non ha colpa. Potrà mai perdonarmi? Dopo che gli ho detto di odiarlo?
Dopo che l’ho ferito così profondamente?
Non riesce a terminare quei ragionamenti che si ritrova Haru nuovamente fra le braccia: non vede nemmeno sparire il dottore; solo in seguito viene raggiunto dai suoi conati sofferenti, oltre il muro piastrellato. E si accorge che se quella persona sta male, è anche causa sua. Che se soffre , anche lui non può stare bene. Perché?
Perché lo amo.
 
* * *
 
Il piccolo soggiorno è illuminato dagli ultimi raggi del tramonto, immerso in una calda luce avvolgente, dalle tonalità del fuoco. Stretti sul divano del loro appartamento Ulquiorra e Grimmjow guardano un film, avvolti in una coperta di pile, uniti in un abbraccio; il corvino appoggia la fronte sull’incavo della spalla del compagno, stampandogli un bacio casto sul collo massiccio.
“Sei pensieroso Grimmjow.”
L’azzurro sposta sul collega le iridi cerulee, destandosi dal torpore, avventandosi sulle labbra dell’altro con un bacio famelico, violento, uno di quelli che ti lasciano senza fiato.
“Ti sembro ancora pensieroso?”
Al moro sfugge un sorriso, le gote si arrossano, gli smeraldi si spostano sul tappeto morbido adagiato sul pavimento. Sembra un bimbo timido ed imbarazzato che cerca di nascondere i suoi sentimenti: e questo aspetto di lui, questa purezza, ingenuità, piace da impazzire al compagno che inizia a tempestarlo di baci.
“Non vuoi vedere la fine del film?”
Asserisce il più piccolo, carezzandogli la guancia con quelle dita sottili e chiare.
“Per te mi vedo proprio costretto a rinunciare.”
Ride sguaiatamente, tuffandosi sulla pelle scoperta dell’amante, sfilandogli con destrezza la maglia dal collo a V di tessuto blu.
Lo ama, lo ama da impazzire: il fisico esile, la pelle tenue come la neve, l’espressione malinconica.
Ama i suoi modi gentili, la sua calma, l’intelligenza, l’ingegno, il modo in cui riesce a farlo sentire speciale ogni giorno.
Lo stringe a sé, inspirandone il profumo fino a riempirsi i polmoni, spegnendo la televisione e lanciando il telecomando a terra malamente, senza grazia, cosa che fa incrinare dal disappunto le labbra dello psicologo.
“Mi piaci soprattutto quando ti arrabbi.”
Glielo sussurra sinuosamente all’orecchio, mordendone il lobo, in attesa di ricevere le stesse attenzioni, che non tardano ad arrivare.
“Sai una cosa Ulquiorra?”
“Cosa …?”
“Sono … felice … di tutto questo.”
“Tutto questo?”
“Sì. Di te, della nostra casa, di quello che ci siamo costruiti. Della nostra storia.”
I pantaloni scivolano via, con un fruscio leggero, cadendo sul pavimento.
“Ho sempre vissuto da solo fin’ora Grimm.”
Grimm. Quando lo chiama con così tanta confidenza sente che potrebbe sciogliersi in una manciata di secondi.
“Ti trovi male ora?”
“Affatto. Non potrei più … accettare la situazione di prima. Alla fine non abbiamo tanto. È un appartamento piccolo, forse ti aspettavi di meglio. E anch’io beh … non mi sento tutto questo gran che.”
L’azzurro sgrana le iridi turchesi, sorpreso da quella confessione: Ulquiorra non si sente abbastanza per lui? Credeva d’essere lui quello a non essere all’altezza dell’amante ed ora scopre che è una paura condivisa, intima in entrambi.
“Sei anche troppo per me.”
Invade la sua bocca, assaggiandolo con la lingua, beandosi del calore di quel corpo steso sul sofà, fremente, bollente solo per lui e nessun altro.
“Ti amo Ulquiorra.”
“Mi sorprendo ogni volta che me lo dici.”
“Allora dovrai sorprenderti all’infinito.”
 
Quando riapre gli occhi la luna è già alta nel cielo notturno, lago di pece coperto da nubi placide che coprono l’astro lucente come velieri eterei che solcano l’oceano.
Sbatte le palpebre, muovendo appena il volto per scostare le ciocche scurissime del compagno ancora addormentato su di lui; lo osserva in silenzio, beandosi dei lineamenti assopiti, teneri, delicati, del petto nudo e candido che si alza e s’abbassa al ritmo del respiro sereno.
Come ho fatto a vivere senza di lui prima?
Sistema la coperta calda attorno al corpo dell’amato, alzandosi dal divano con cautela, attento a non svegliarlo.
Senza far rumore raccatta i pantaloni ancora afflosciati sul pavimento, recandosi sul balcone della cucina per accendere una sigaretta; il freddo delle notte lo punge, simile a rovi conficcati nella carne, il vento s’insinua fra i capelli scompigliati facendolo rabbrividire.
Inspira una boccata di fumo, riempiendosene totalmente, espirandola piano: per la prima volta in tutta la sua esistenza si sente completo, appagato, soddisfatto.
Sorride intimamente, inspirando un altro rivolo di fumo grigiastro, pensando così intensamente al bellissimo Ulquiorra da avere la sensazione si sentire le sue braccia cingerlo ancora, calde, strette al suo corpo scultoreo.
Abbassa lo sguardo, sorpreso: non è solo un’impressione.
Due esili arti lattei lo cingono dolcemente, il volto dell’amato è appoggiato alla schiena, il resto del corpo è ancora avvolto nella coperta in cui l’aveva avvolto poco prima.
Rimangono così, in silenzio, senza bisogno di proferire alcunché. Due corpi, un’unica anima. La luna alta nel cielo testimone di quella promessa d’amore eterno , della profonda sincerità dei loro sentimenti.
Le mani di Grimmjow si posano su quelle più minute del compagno, scaldandole con il loro tepore.
“Ti amo Grimmjow.”
“Per sempre?”
“Per sempre.”



E con questo me ne vado in vacanza lettori miei <3
Non temete tornerò presto, almeno vi ho lasciato con un capitolone bello ricco.
Scusate eventuali errori, non ho tempo di ricontrollare ora !

Un bacio, Valentina :*

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Capitolo 18
*** Far away ***


CAPITOLO 18: Far away


 
Ogni volta che me ne vado una sensazione tetra invade il petto, un’ondata intensa, dolorosa, profonda. Mi travolge senza nemmeno il tempo di pensare …
Il treno di partenza e quello di ritorno sono scritti sul biglietto, ben evidenziati, stampati con chiarezza: l’orario, il binario, la classe. Ma … non per questo io torno realmente indietro, insieme a quei bagagli scarni , essenziali, in quel triste vagone carico di persone.
Perché il mio cuore è così vuoto quando mi allontano da te?
Perché mi sento come un guscio privo di alcuna sostanza al suo interno quando i chilometri ci separano?
Improvvisamente, senza motivo, tu non esisti più: vi è solo questo mondo grigio, indolenzito da una spessa coltre di nubi dense.
Cammino nelle strade affollate, respiro l’aria umida della nuova città dalle vie a me sconosciute, eppure ciò che provo è l’oblio più assoluto; nulla pare poter scaldare l’inverno che mi alberga nel petto, la mente è povera di ricordi e di spiegazioni ai miei perché.
E così tutte le belle parole usualmente decantate in silenzio mentre ti osservavo assorto si sgretolano come rocce corrose dall’usura del tempo.
Io non esisto.
Tu non esisti.
Nulla, in realtà, esiste.
Mi sento un morto che cammina.
Il tuo profumo sui miei abiti …. Fa male. E’ peggio di una pugnalata nello sterno: perché vuoi ricordarmi ogni istante la tua presenza ? Perché non ti decidi a sparire quando mi sento soffocare inesorabilmente?
Lancio la canotta sul letto, lontano dal mio esile corpo poco distante, in piedi, per sbarazzarmi di …
Di cosa?
Poi una telefonata, la tua voce.
Solo ora mi accorgo di una cosa, Grimmjow: sei la medicina ad una malattia di cui tu stesso ne sei causa.
Non sono più io.
 
“Pronto?”
“Ehi. Ulquiorra.”
“Ehi.”
Silenzio, i secondi scorrono come sabbia fra le dita.
“Come … come va? Sei già arrivato all’albergo?”
“Sì. Da un’ora, circa.”
“Hmm. Bene ehm. A .. a che ora hai la conferenza?”
Perché tanta freddezza? Perché tanto distacco?
“Alle cinque.”
“Senti … Ulquiorra…”
Ci siamo.
“Cosa?”
“Perché non mi hai detto nulla? Mi sono svegliato e non c’eri, ho … ho pensato il peggio.”
“Mi dispiace. Aizen sama mi ha avvisato all’ultimo momento.”
“Ultimamente ti avvisa troppo spesso in ritardo. Mi fa incazzare.”
“Non importa. Ci ho fatto l’abitudine.”
Da quando le bugie mi scivolano dalle labbra con tanta facilità?
“A me importa invece. Ormai sono più i giorni in cui sei in giro che quelle in cui stiamo insieme. Una settimana di qua, una di là! Cazzo, perché non ci manda qualcun altro ah?”
“Grimmjow … chi altri potrebbe mandare? Grantz ha il bambino a cui badare, Kurosaki ha l’agenda piena anche oltre al normale orario, tu non presteresti attenzione, Jilga …”
“Tsk, Jilga è un idiota punto e basta, lascialo alla reception e non nominarlo più, mi dà i nervi.”
“Capisco … Ha fatto qualcosa questa mattina?”
“No, ma esiste. Questo mi basta per odiarlo.”
“Come vedi sono l’unico abbastanza normale da essere mandato a fare le sue veci.”
“E perché non manda Ichimaru! Quella dannata volpe con quel ghigno stampato sulla faccia …”
“Smettila. Non ho tutto il giorno per stare a chiacchierare con te al telefono.”
Cosa sto dicendo …?
Grimmjow deglutisce, le iridi cerulee sgranate dalla sorpresa.
“D’accordo … d’accordo. Acido come sempre noto. Almeno servissero ad addolcirti questi schifosi viaggi di lavoro. Beh ti saluto allora.”
“Buona giornata.”
“Ah! Dimenticavo!”
“Che cosa?”
Dimmelo.
Dimmelo ti prego.
Dimmi che mi ami.
“Aizen sama ha detto che starai via una settimana, è la verità?”
“Purtroppo si. Devo presenziare a diverse attività.”
“Va … va bene … se vuoi mi prendo qualche giorno di ferie e ti raggiungo. Visiteremo la città ti va?”
“No. Non ve n’è bisogno. Grazie lo stesso. Devo … devo andare, a presto.”
Riaggancia freddamente, portando una mano davanti alla labbra sottili, incredulo del proprio comportamento algido come una lama conficcata nella carne.
A Tokyo  l’azzurro, in piedi di fronte alla scrivania dell’ufficio, fissa sconcertato lo smarthphone ancora stretto fra le dita tremanti, intirizzito da una crescente angoscia priva di motivazione, un nodo stretto nella gola, il respiro irregolare, la nostalgia nel ventre.
 
Grimmjow …
Ieri notte ho pianto senza che te ne accorgessi, rannicchiato come un gatto in un angolo del nostro letto, il volto schiacciato dal palmo della mia pallida mano per trattenere a stento il rumore dei singhiozzi. Sentivo le lacrime calde bagnarmi le guance, copiose, le percepivo sciogliersi lungo il collo candido intento a deglutire sommessamente il dolore aggrovigliato nella gola.
Onestamente, avrei intensamente desiderato di sentire le tue dita sulla pelle, il tepore di un abbraccio e la tua rassicurante voce sussurrante un “va tutto bene” anche se fin’ora non l’hai pronunciato nemmeno una volta; forse perché tutto è sempre proceduto per il meglio, forse perché sei semplicemente fatto così.
Poco importa, va bene ugualmente, lo capisco.
Lo accetto.
Rinchiuso nel buio della stanza ho contato ogni battito, ogni lacrima troppo fragorosa, il cuore a mille per la paura di svegliarti, di mostrarmi per quello che realmente sono: un debole; un fragile codardo che si cela perennemente dietro un’illusoria maschera di pietra per nascondere una sofferenza corrosiva come il veleno.
Ora sono anche un bugiardo, che non ti informa delle sue partenze, che scarica la colpa sul datore di lavoro.
So di tornare, so di rivederti presto.
E allora perché mi ritrovo sempre più spesso a piangere come un bambino?
Perché scappo dalle tue iridi turchesi e non ti confesso cosa mi preme dentro?
Perché non ti ho mai parlato del ghiaccio che alberga nella mia anima?
Come mi sento sciocco a pensare certe cose: se mi guardo nello specchio ciò che vedo è uno stupido liceale inesperto ed impacciato nel momento della resa dei conti con i propri sentimenti. Cosa che, ormai, non sono più da tempo.
Eppure solo tu fai vacillare le mie certezze con tanta violenza, troppa forse, al punto da rendermi patetico perfino di fronte a me stesso.
Sappiamo entrambi che, tutto questo, non te lo svelerò mai.
 
Il moro sospira, lasciandosi cadere sulle morbide lenzuola profumate di fresco, i capelli corvini sparsi sul manto chiaro , le palpebre socchiuse.
Per un attimo immagina di averlo lì, accanto al suo corpo infreddolito da un inverno prolungato,  disteso vicino a lui con quel ghigno impudente e quello sguardo caoticamente magnetico; lo immagina con addosso le vesti domestiche, una felpa ed un paio di jeans, o i pantaloni grigi della sua tuta preferita.
Lo immagina intento a raccontare quanto odia Jilga o quanto gli dà i nervi il collega Kurosaki, nonostante sia noto a tutti che, in realtà, non gli vuole affatto male.
Gli sembra di vederlo ridere sguaiatamente, con i canini pronunciati e le sopraciglia  corrugate, ma subito si dissolve lasciando spazio ad un vuoto enorme, ad un abisso senza fine.
Non prova nulla, non ci sono sentimenti nel cuore: solo un pungente rammarico, una sgomenta sensazione d’incompletezza, un’ondata di malinconia dai contorni vaghi.
Possibile che lo ami solo quando lo ha fisicamente appresso?
Possibile che tutte quelle sensazioni, che i progetti per il futuro, che i sogni … svaniscano nello stesso istante in cui si allontanano?
Questo non è amore.
Le iridi smeraldo vagano apatiche sulle pareti tinta crema, sul lampadario di cristallo, sul mobile di legno antico aderente al muro di fronte a sé.
Forse dovrei chiamarlo io, stavolta. Parlarne con calma, spiegargli la situazione.
No … Grimmjow … non capirebbe.
 
La verità è che gli manca, gli manca da morire.
Gli manca così tanto da volerlo accanto ogni ora del giorno e della notte, da stare male alla mera idea di doversene separare un secondo oltre il necessario; lo ama, eccome.
Ma a volte i sentimenti sono così forti da produrre nelle persone una reazione opposta, contraria, paradossale.
Si desidera così tanto qualcuno da allontanarlo , per scacciare gli spauracchi della paura e dell’abbandono. Lo si tiene distante, lo si odia, lo si riduce a zero per cancellarlo dai pensieri e vivere in una realtà grigia, piatta, scarna d’emozioni ma rigida di sicurezze: ad esempio la certezza di non poter essere feriti, di non soffrire affatto, di non piangere più.
A volte l’amore eccede i limiti umani, a volte è più forte ed impetuoso di un fiume che scavalca gli argini invadendo il paese sottostante: è talmente violento da spazzare via qualsiasi cosa, anche la sanità mentale, i valori, i condizionamenti, i timori. Ti travolge e basta, trascinandosi nel suo corso senza possibilità di salvezza.
Eppure, se descrivere quest’ambivalenza risulta difficile, ancora peggiore risulta riconoscerla in se stessi ed accettarla, facendo crollare i muri di apatia ed indifferenza costruiti al fine di proteggersi dai rovi che ogni sentimento trascina insieme a sé. Ed Ulquiorra, ancora, pare non riuscire a cogliere questo sottile ragionamento, quest’ultimo tassello del puzzle della sua storia.
Erroneamente, crede che il vuoto interiore sia solo un frutto di una storia irreale, impossibile, da troncare all’istante. Una perdita di tempo, detto schiettamente.
Una fitta di dispiacere lo assale allo stomaco, dissolvendosi velocemente: deve porre fine a questa tortura, a questo lungo supplizio che si prolunga ormai da oltre un mese.
Deve farlo.
Adesso.
Afferra il telefono, digitando velocemente il numero del compagno.
Dopo pochi squilli ecco la sua voce: roca, calda, profonda come sempre.
“Ulquiorra!”
Sembra felice, sorpreso, sollevato.
Il moro immagina l’espressione del suo volto, probabilmente curiosa, gli occhi spalancati come un gattino, azzurri come il cielo.
“Grimmjow. Devo parlarti.”
“Proprio ora? Ho un cliente.”
“Non ti ruberò molto tempo.”
“D’accordo, se è indispensabile dimmi pure.”
“Non so come dirtelo.”
Improvvisamente le parole sembrano aggrapparsi alla lingua, graffiare ed urlare, ribellarsi per non uscire da quelle labbra sottili e chiare, ora tremanti e dubbiose.
“Dirmi cosa?”
“Mi dispiace, non ti amo più.”
“COSA? CHE CAZZO HA I DETTO??”
Il cliente sobbalza sulla poltroncina, stringendone i poggioli con aria sconcertata. Lancia uno sguardo verso la porta, pregando intimamente di venire salvato al più presto dal segretario con gli occhiali e l’aria impeccabile, o da qualsiasi altro individuo presente nella struttura.
“Mi dispiace Grimmjow. Dico sul serio.”
“NO TU ORA MI SPIEGHI QUESTA STORIA!”
Sbraita furiosamente, scagliando un pugno rabbioso sul tavolo che, ultima goccia in vaso già colmo, fa scappare il cliente a gambe levate, in una frazione di secondo.
“Non c’è nulla da spiegare  sono stato chiaro.”
“CHIARO?? Per te essere chiaro cosa significa eh?? Convivere da quasi un anno e mezzo facendo sembrare che va tutto bene? Ci credevo cazzo! Non ti sei mai lamentato di niente, com’è possibile che … che …”
Senza nemmeno accorgersene lascia cadere il telefono, la voce si smorza nella gola, gli occhi bruciano dolorosamente.
Come ha potuto fargli questo?
Andava tutto a meraviglia, eccetto le usuali liti ma … non può credere siano quelle la causa di una reazione del genere. Non ci vuole credere.
Che ti è successo, Ulquiorra?
Abbandona l’ufficio, correndo nel corridoio pienamente illuminato dalle lampadine a neon, pallido come la pelle del suo amato, trafelato, in una corsa senza meta né fine.
Senza nemmeno accorgersene urta qualcuno, facendolo sbattere rovinosamente contro la parete chiara: una lunga stila di imprecazioni familiari gli giunge alle orecchie, riportandolo alla realtà.
“Razza di idiota! Non guardi dove vai? Cos’hai in quella testa vuota?”
“Jilga. Tsk, sempre in mezzo ai piedi.”
“Non sono io ad averti quasi ammazzato senza accorgermene!”
“Quante storie! Aspetta perché … cosa … cosa ci fai con Haru?”
“Ah? Il marmocchio?”
“Lo stai rapendo! O kami! Tu lo stai rapendo razza di pedofilo! Cosa vuoi fargli ah? Stuprarlo e poi sgozzarlo! E appenderlo nel tuo ufficio! Aspetta, ma tu non hai un ufficio. O forse si? In ogni caso mettilo giù subito!”
Il bambino osserva inquietato quell’essere urlante dai capelli turchesi e scompigliati, tirando con forza una ciocca corvina dell’uomo che lo stringe fra le braccia, incredulo, l’iride ametista sgranata dall’indignazione.
“Cosa blateri micio! Torna a giocare con i gomitoli! Tsk,  non ci tengo ad avere questo scherzo della natura fra i piedi , cosa vai a pensare. E comunque si che ho un ufficio, ma non lo uso per stuprare bambini a random.”
“Non ci credo nemmeno se mi paghi razza di incompetente! Dov’è suo padre? Dove l’hai nascosto bastardo!”
“Ma tu sei pazzo! Ti porto io a vedere dov’è.”
Lo afferra malamente per un braccio, strattonandolo iroso verso l’ambulatorio del dottor Grantz, spalancando sonoramente la porta.
Le iridi cerulee inquadrano una figura magra, il capo appoggiato sulla scrivania, il manto rosato disteso su carte distrattamente compilate sparse su tutta la liscia superficie. Respira piano, immobile, placido.
“Eccolo, contento?”
“Cosa … cosa sta facendo?”
“Non lo vedi baka? Sta ronfando come un ghiro.”
Grimmjow si avvicina lentamente, punzecchiandolo con l’indice senza ottenere però alcun movimento; preoccupato lo scuote sgarbatamente, ma come risposta ascolta solo dei sommessi mugolii scocciati e flebili.
“Vedi? Sta dormendo.”
“Questo non spiega cosa ci facevi con suo figlio in corridoio.”
Il moro arrossisce, abbassando lo sguardo, la voce sottile.
“Ero entrato e … e l’ho trovato così. Ho visto  che il marmocchio era sveglio invece e … pensavo avesse fame … ecco.”
Il piccolo Haru allunga la manina fino a sfiorare la benda bianca posta sull’occhio del ragazzo, giocandovi allegramente, ridacchiando con gorgheggi divertiti, solari. La tira leggermente verso di sé, gioendo, mentre l’altra mano scuote con forza un sonaglio di plastica.
Grimmjow li osserva mestamente, cercando di cacciare indietro le lacrime in procinto di precipitare.
“Lo ami davvero tanto , eh Jilga?”
Il corvino sobbalza, punto nel vivo da una domanda tanto inaspettata , diretta, cruciale.
“Non .. non so di cosa parli. E comunque fatti gli affari tuoi.”
“Se non fosse stato lui … probabilmente avresti lasciato il bambino morire di fame. O in alternativa chissà quali arcanerie avresti combinato.”
“A forza di stare con Ulquiorra sei diventato uno psicologo anche tu?”
Digrigna i denti, scostando gentilmente le dita dell’infante dalla benda, senza smettere di fissare il collega ostile. Eppure gli sembra diverso, sull’orlo di una crisi, terribilmente scosso da qualcosa a lui ignoto.
Non appena ha pronunciato quel nome si è scosso, ha sgranato le iridi terse come il cielo, ha schiuso le labbra in un’espressione attonita. Il cuore si è fermato per una manciata di secondi.
Ulquiorra, l’uomo che gli ha rubato l’anima ed ora gliela restituisce a brandelli. Perché, perché tutto questo?
Scruta Nnoitra, sottecchi, lasciandosi cadere sulla barella di quel piccolo ambulatorio più assomigliante ad uno sgabuzzino che ad un ambiente medico. Inala il profumo di disinfettante, pregustando il sapore acre di una sigaretta; ne ha bisogno, vuole riempirsi del suo veleno per scordare il dolore, anche solo per un attimo.
“Non dovresti essere giù al tuo banco informazioni?”
“Ho staccato da mezz’ora.”
Sussulta nuovamente, alzando gli occhi vitrei verso il collega più giovane.
“Hai staccato mezz’ora fa … e sei ancora qui … solo per lui?”
Indica il dottore assopito, le braccia allungate sulla scrivania, le ciocche pastello spettinate e confuse.
Nnoitra sospira, inclinando le labbra in una smorfia sofferente, annuendo.
“Non riesci davvero a darti pace … ti ha chiaramente detto di non volerne sapere di te … e invece ti ostini ad importunarlo continuamente. Non hai paura che finisca per odiarti?”
“Può odiarmi, se vuole. Può pensare quello che gli pare, anche le cose peggiori del mondo. Ma in ogni caso quello che provo per lui non cambierà in nessun caso.”
“Cosa provi per lui?”
“Non lo so. Qualcosa di grande, comunque.”
Entrambi evitano di fissarsi, distogliendo lo sguardo e rivolgendolo altrove: chi sulle confezioni d’antibiotico, chi sul lavabo d’acciaio.
“Perché mi fai queste domande? Stai con Schiffer da più di un anno, certi argomenti li conosci certamente meglio di me.”
Già. Perché ti sto facendo queste domande?
In piena sincerità non mi importa davvero nulla di te, della tua storia, dei tuoi problemi.
Allora perché ora sono io ad assillarti come un idiota?
Ho davvero bisogno di capire … cos’ho sbagliato per allontanare Ulquiorra da me .
E se invece non avessi fatto nulla? Se lo colpa non fosse mia?
Sempre che esista una colpa.
Passa una mano fra i capelli, scompigliandoli, estraendo una Malboro dal pacchetto stretto nella tasca dei pantaloni aderenti e scuri. La porta alle labbra, avviandosi fuori dall’ambulatorio in silenzio, sotto l’iride violacea del collega.
Non ti lascerò andare tanto facilmente, Ulquiorra. Costi quel che costi.



Buondì lettori! 
Sono tornata dalla vacanze (depressa) quindi ecco un capitolo degno del mio stato d'animo D:
Spero vi sia piaciuto ugualmente! 
Un bacino :***
Grazie a tutti <3

Valentina <3

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Capitolo 19
*** Betrayal ***


CAPITOLO 19:  Betrayal
 

“Cosa? Cosa sta dicendo? Che storia è questa?”
Il ragazzo sbatte un pugno sull’ampia superficie liscia, linda, facendo traballare l’intera scrivania; le penne oscillano nei loro contenitori di vetro cristallino, una manciata di fogli cade a terra con sommesso fruscio.
“Grimmjow, calmati.”
“Calmarmi? C’è qualcosa che vada bene in questo schifo di giornata?”
“Sono il tuo direttore, non rivolgerti a me in questo modo.”
L’azzurro lancia un’occhiata furente all’uomo comodamente adagiato alla poltrona di pelle scura, la guancia appoggiata al dorso della mano rosea, il consueto ciuffo mogano scostato con gesto abituale. Sente il peso di quelle iridi cioccolato, percepisce il profondo abisso celato da quei pozzi penetranti, il respiro sembra mancare.
Odia avere a che fare con lui, odia averlo accanto e soprattutto … odia essere ripreso da lui cinque minuti prima di andarsene dal posto di lavoro.
Vorrei solo tornare a casa, abbracciare Ulquiorra e …
Le labbra si inclinano in una smorfia sgomenta, ignorando bellamente la ramanzina di Aizen sama sull’obbligo di non dover far fuggire i clienti a gambe levate.
Ulquiorra … perché ti stai comportando così. E’ vero, mi sono accorto dei tuoi cambiamenti ma … Kami! Dicevi di amarmi così tanto … come hai potuto abbandonarmi di punto in bianco senza alcuna spiegazione. Tu poi, perennemente riflessivo e minuzioso. Cosa ti è successo?
Forse … hai trovato un altro ragazzo?
No … impossibile.
Ulquiorra non … non …
“ … Mi stai ascoltando Grimmjow?”
“Ah? Tsk. Non me ne frega un cazzo. Io me ne vado.”
“Tu non vai da nessuna parte finchè non lo dico io. Ritorna seduto.”
Non alza la voce eppure quel tono secco e coinciso costringono il dipendente ad irrigidirsi, a lottare con tutta la propria volontà per non eseguire quell’ordine, rimanendo in piedi come una statua, immobile, la schiena percorsa da brividi. Sta giocando con il fuoco e lo sa bene ma , sinceramente, non gli importa poi molto: la sua priorità è schiarirsi le idee, chiarire le cose con Ulquiorra e tornare finalmente a casa per addormentarsi fino al mattino seguente, esente dalle preoccupazioni e dall’angoscia.
Fortunatamente la discussione viene interrotta da un mesto bussare alla porta, subito aperta con fare confidenziale. Una voce melliflua s’insinua fra i due litiganti, gelando l’atmosfera tesa, pungente, sospendendola come un filo appeso nel vuoto.
“Ohm … chiedo scusa per il disturbo … devo rubarle solo cinque minuti.”
“Non ti preoccupare Szayel Aporro, siediti pure accanto a Grimmjow.”
“Oh no no, non serve grazie. Sono venuto solo per consegnarle questo.”
Il medico estrae dalla tasca del camice bianco una chiavetta usb, le iridi ambrate scintillanti sotto la bianca montatura si poggiano sull’amico dal manto turchese, domandandogli silenziosamente il motivo di quell’espressione corrucciata, simile a quella di una persona in preda all’ira più totale.
Distoglie lo sguardo dorato dopo pochi secondi, dedicandosi con finta reverenza al direttore , porgendosi sulla scrivania con quel solito atteggiamento ambiguo, giocoso, i gomiti poggiati sulla fredda superficie.
Il capo accenna un sorriso, scrutando il piccolo oggetto nel palmo della mano.
“Chi ti manda qui?”
“L’avvocato Ichimaru. Doveva correre a sbrigare delle faccende, mi ha pregato di portarla da parte sua. Ha detto di riferirle che contiene i dati da lei richiesti ieri pomeriggio.”
“Ti ringrazio. Come sta tuo figlio?”
Un lampo di gioia attraversa le perle giallastre, facendogli abbozzare un sorriso senza nemmeno accorgersene.
“Sta bene, al momento sta dormendo nel mio ambulatorio. Infatti la prego di scusarmi, ma devo tornare da lui.”
“Nessun problema, grazie nuovamente.”
Lo saluta con un cenno della mano, osservandolo in silenzio mentre si allontana, le mani conserte dietro la schiena slanciata.
“Dovresti essere più responsabile Grimmjow, prendi esempio dal tuo collega.”
Il giovane sgrana le iridi cerulee, strozzando un urlo di rabbia nella gola. Deglutisce, passando le dita fra le ciocche scompigliate.
“Tsk, procreare in giro e ritrovarsi padre senza saperlo lo trova indice di persone responsabili?”
“Non ho detto questo. Sottolineo invece che si è assunto piena responsabilità del problema, ponendovi rimedio a sue spese. Cosa che dovresti fare tu: invece hai lasciato fuggire un cliente che probabilmente, nel migliore dei casi, ci manderà una denuncia.”
“Quante storie! Non perderò altro tempo a discutere di certe cazzate! Me ne vado a casa.”
Spinge rumorosamente la poltrona verso il direttore, dandogli le spalle, fuggendo a grandi falcate da quell’inferno opprimente, odioso, soffocante.
Prima il proprio compagno che impazzisce.
Poi il superiore che non apprezza il suo operato.
Cosa manca, adesso?
Sono passati tre giorni …
Estrae lo Smarthphone dalla tasca dei jeans attillati, aderenti, controllando lo schermo vuoto: zero chiamate, zero messaggi.
Sospira, estraendo con rabbia l’ultima Malboro del pacchetto ormai vuoto, portandola fra le labbra con stizza, senza nemmeno accorgersi di trovarsi di fronte all’ufficio di Ulquiorra Schiffer.
Rilegge il suo nome per quella che gli pare essere un’infinità di volte, non riesce neppure a contarle. Le pupille oscillano dalla targhetta con incise le parole alla porta chiusa, dondolando come una barca fra le onde del mare. Vorrebbe entrare, inspirare il profumo del suo ragazzo, del suo amante, della sua stessa vita.
Vorrebbe accarezzare la sedia su cui lo ha visto accovacciato più volte, dedito a compilare chissà quale diagnosi in fogli densi di scritte nere, il piccolo astuccio ordinatamente riposto in un angolo della scrivania, la luce esterna che filtra dalle veneziane abbassate inondando quel ritaglio di spazio con un caldo alone aranciato.
Sembra più uno studio, un’ala di una casa che l’ufficio di uno psicologo. Anzi, Ulquiorra stesso sembra un comune individuo privo di abilità particolari, immerso nel male di vivere, assuefatto dall’apatia. Ed invece trascorre ore ed ore ad ascoltare i suoi pazienti con attenzione e scrupolosità, ad annotare i loro problemi, le loro ansie per aiutarli infine a trovare una soluzione ed abbracciare finalmente la felicità.
E tu, Ulquiorra? Perché hai rinunciato alla felicità?
Non ti basto più?
Cosa cerchi realmente?
Una fitta gli perfora il ventre al solo pensiero di dover tornare nell’abitazione che condivide con lui, dove si trovano ancora le sue cose, i suoi vestiti, i suoi quaderni. Vorrebbe riabbracciarlo, riaverlo accanto ma le glaciali parole dell’addio risuonano assassine nella mente, con forza sempre maggiore, un coltello conficcato nella carne che lo squarcia dolorosamente.
“Non voglio tornare a casa …”
“Perché?”
Sobbalza, voltandosi di scatto verso la fonte di quella voce a lui ben nota.
Da quanto si trova lì?
Sbatte le palpebre incredulo, fissando la chioma ramata di Ichigo, intento a scrutarlo con aria altrettanto corrucciata e dubbiosa. I primi raggi del tramonto invadono il corridoio vuoto con tiepida essenza aurea, baciando i loro visi d’oro e arancione, donando riflessi rossastri a quelle ciocche scompigliate dal colore inusuale.
“Fragolo … che ci fai qui.”
Il collega ride spensierato, grattandosi il capo distrattamente.
“Ci lavoro!”
Grimmjow grugnisce imbronciato, bofonchiando qualcosa di incomprensibile, limitandosi a lanciare un’occhiata truce al giovane poco distante da lui.
“Va … va tutto bene?”
L’azzurro non risponde, dedicandosi alla ricerca dell’accendino disperso in qualche tasca: la sfortuna però colpisce ancora.
“Merda.”
L’eco dei passi fra le pareti spoglie e chiare, la distanza che svanisce, una mano che si poggia sul suo braccio.
Incontra due perle nocciola, dalle sfumature caramello, deglutisce, privo persino della forza per respirare.
Perché quel contatto irradia un tale calore?
Perché la sua mano è così rassicurante?
Cos’è questa sensazione … avvolgente?
Si fissano per un attimo, vicini da inspirare il profumo l’uno dell’altro, inebriandosene fino a star male.
Grimmjow non si era mai accorto (fino a quel momento) di quanto fosse cambiato colui che, fino ad un anno e mezzo prima, era un semplice stagista dai jeans strappati e la camicia malamente abbottonata: si sofferma sulla giacca blu sapientemente abbinata alla camicia bianca, linda, impeccabilmente aderente al fisico maturo tanto da sembrare una seconda pelle. Scende, incorniciando i jeans scuri ed eleganti, risalendo di nuovo fino alle ciocche ramate che ricadono dolcemente sul volto dai lineamenti semplici, gentili, giovanili.
Per la prima volta, senza rendersene conto, pronuncia il suo nome.
“Ichigo.”
Il ragazzo sussulta, sgranando gli occhi dalla sorpresa, paonazzo in volto.
“Finalmente non mi chiami più con quello stupido soprannome.”
Cerca di ridere ma l’emozione soffoca qualsiasi intenzione nel petto. Si limita a stringere la presa sul braccio del collega, beandosi di quel calore tanto desiderato, di un contatto insperato con la persona che ama dal primo istante in cui l’ha incontrata.
“Senti Grimmjow … sei sicuro di stare bene?”
“No … non sto bene.”
“Se vuoi puoi parlarmene. Magari non troveremo una soluzione, a dire la verità non sono nemmeno bravo a dare consigli però possiamo discuterne assieme a ragionarci, ok?”
Nel dire quelle parole arrossisce, la voce tremula tradisce l’apparente convinzione, facendo trapelare ogni sfaccettatura d’insicurezza, di timore, di orgoglio.
“Non sei cambiato per niente …. Fragolo.”
“Oh no! Ancora! Pensavo avessi smesso finalmente!”
Grimmjow ridacchia, sospirando:
“Non contarci troppo, pivello.”
Si avviano insieme lungo le scale, ognuno immerso in muti pensieri , accompagnati solamente dall’eco dei passi disperso fra le pareti dell’enorme struttura.
“Grimmjow …”
“Cosa?”
“Se non vuoi andare a casa … ecco … possiamo fare una passeggiata.”
Il cuore gli esplode nel petto, scalpita a mille, pare voler scappare dalla cassa toracica e palpitare all’infinito. Le gote assumono una colorazione carminio, le dita si arrovellano fra loro in istanti interminabili di trepidazione.
E’ la mia unica occasione per trascorrere un po’ di tempo con lui. Da quando mi hanno assunto a pieni titoli non condivido più l’ufficio con Grimmjow ed è già tanto se lo vedo di sfuggita durante la pausa pranzo.
Mi basta stargli accanto qualche minuto … per essere davvero felice.
Inspira profondamente senza staccare lo sguardo dalle perle turchesi del collega.
“D’accordo … perché no. Andiamo, allora.”
 
 
Ichigo si sente in paradiso.
Osserva le onde infrangersi sul bagnasciuga, spumose, illuminate solo dagli ultimi raggi di un sole ancora invernale ormai quasi scomparso dietro l’orizzonte marino dal manto increspato.
Inspira l’aria salmastra beandosi della brezza fresca fra i capelli, godendo il meraviglioso panorama di quella piccola baia dimenticata dal resto del mondo. Dietro di sé la vegetazione cresce maestosa, intarsiando i tronchi scuri con felci dalle piccole fronde, rimpicciolendosi via via che s’avvicina alla linea sabbiosa che la separa dalle acqua salate.
Si stringe fra le braccia, espirando un rivolo di vapore.
“Hai freddo?”
Annuisce, continuando a camminargli accanto, due linee parallele, vicine, avvolte nei rispettivi cappotti.
“Un po’. La sera fa ancora freddo … soprattutto qui.”
“Hai ragione. Però è bello, no?”
Il giovane lo osserva in silenzio, pensando che in realtà la cosa più bella consiste nell’essere lì, con lui.
Ripensa alla loro chiacchierata, ai passi attutiti dalla sabbia, al suono musicale delle onde, alle conchiglie abbandonate sulla  riva umida. Ripensa al tramonto tiepido, avvolgente, sorprendendosi nel constatare che è la prima volta che lo osserva insieme a qualcuno che non sia suo padre o le sue sorelline.
“Non mi hai ancora detto perché non vuoi tornare a casa …”
Grimmjow si ferma improvvisamente, ficcando le mani in tasca, sul volto dipinta un’aria lugubre. Lancia uno sguardo distratto al mare, sempre più scuro proprio come il cielo che si prepara ad accogliere la notte.
Poi si volta, puntando le iridi cerulee in quelle nocciola del collega.
“Non ha più importanza Fragolo. Sto meglio ora.”
“Stai mentendo! Ma .. ma non importa. Se non vuoi dirmi cosa c’è che non va … anche se vorrei aiutarti in qualche modo.”
L’azzurro sorride mestamente, ripercorrendo mentalmente quell’ora trascorsa con Kurosaki: in effetti hanno discorso di qualsiasi argomento, dalle rispettive passioni nel tempo libero ai problemi lavorativi, dal cliente peggiore del mese alla gentile signora che, ogni fine settimana, regala ad Ichigo una scatola di cioccolatini fondenti. Hanno chiacchierato del loro passato, della famiglia del ramato che, a detta sua, è leggermente singolare, particolare, dettaglio che ha suscitato curiosità in Jeagerjaques.
Non riesce a capacitarsene eppure, in quei circa sessanta minuti, non ha pensato nemmeno una volta ad Ulquiorra e al dolore che il suo semplice nome gli provoca nel petto. Non ha sentito le fitte della sua assenza, non ha provato l’angoscia del suo silenzio dopo tali parole terribili.
Si è sentito … bene. Libero, sereno, colmo di un calore nuovo ed indescrivibile, del tutto diverso dalla sensazione solitamente trasmessagli dal corvino.
È così immerso nei pensieri da non accorgersi d’essere ritornato alla macchina, parcheggiata in una piccola radura scura, attorniata dalla vegetazione, di fronte ad essa solo il mare.
“Meno male c’è ancora un po’ di luce, altrimenti non l’avremmo ritrovata più.”
“Dovrebbero mettere dei lampioni, non credi?”
Grimmjow preme la chiave, facendo lampeggiare le luci del veicolo ed aprendo la portiera, infilandosi all’intero della vettura sul sedile del conducente. Ichigo segue i suoi movimenti, chiudendosi all’interno con un tonfo secco.
L’azzurro accende l’ultima sigaretta, conservata fino quel momento, espirando il fumo grigiastro all’esterno del finestrino appena abbassato, ricominciando a parlare:
“Forse … ma se li mettessero … rovinerebbero la bellezza di questo posto.”
“Già hai ragione. Non ci avevo pensato.”
“Ovvio che no. Sei una fragola, come potevi farlo?”
Ichigo apre la bocca per imprecargli contro che no, non è una fragola e di smetterla di chiamarlo così quando due labbra si posano sulle sue, spegnendo ogni tentativo di protesta come una pioggia improvvisa su una flebile fiamma. Sgrana le iridi caramello, tentando malamente di respirare, confuso, le labbra ancora unite, il caldo palmo di Grimmjow sulla sua guancia liscia; il cuore batte talmente forte da provocargli dolore nel petto.
Il ragazzo dal manto turchese si separa dal collega di qualche centimetro, quanto basta per scrutarlo negli occhi languidi e sussurrargli le parole direttamente sul volto arrossato, scosso, sorpreso, ingenuo.
“Ichigo …”
Lascia cadere la sigaretta all’esterno del finestrino, portando l’altra mano sul fianco del più giovane ormai in balia di ogni suo gesto; lo bacia nuovamente, approfondendo l’umido contatto, giocando con la sua lingua, affamato, assetato, famelico.  Desidera ardentemente provare quel calore in tutto il suo corpo, inebriarsene per non soffrire mai più. Vuole Ichigo, lo vuole adesso, perché nessuno prima d’ora è mai riuscito a dissolvere i suoi demoni con una semplice passeggiata lungo la riva del mare.
Kurosaki socchiude le palpebre, abbandonandosi al bacio dell’altro, convinto di vivere un sogno magnifico, incredulo di veder finalmente realizzata la sua ambizione più grande. Percepisce la mano di Grimmjow scivolare sotto la camicia aderente, carezzare gli addominali accennati, tastare ogni lembo di pelle rovente, dedicandosi poi a sbottonare con malcelata fretta i piccoli bottoni bianchi dell’indumento, uno dopo l’altro, fino a sfilarlo totalmente.
Sussulta, non per l’improvviso freddo, non per le carezze, non per i morsi lungo il collo e le clavicole.
Sussulta perché ha paura, confinato in una soffocante ambivalenza di desideri ed emozioni.
Mantiene gli occhi chiusi, percependo la scia di baci scendere lungo l’addome; porta le sue dita fra le ciocche azzurre del collega, stringendole per avvicinarlo ed allontanarlo al medesimo tempo. Quando sente le sue mani scendere, però, si sottrae inevitabilmente, la schiena aderente alla portiera chiusa, il petto scosso dal respiro irregolare.
Grimmjow sbatte la palpebre, perplesso, corrugando le sopraciglia.
“Che succede?”
Kurosaki arrossisce, abbassando lo sguardo, paonazzo di vergogna, livido di timidezza.
Istintivamente si riabbottona i pantaloni, aderendo ulteriormente alla superficie fredda della vettura, evitando il contatto visivo con l’altro che, rude, gli afferra il mento, costringendolo a guardarlo.
“Fragolo …”
Non risponde, si limita a deglutire, incrementando l’espressione accigliata dell’altro.
“Fragolo ……”
Il viso è ormai rosso come un pomodoro.
“Fragolo tu …”
“Non l’ho mai fatto ok?”
Sbraita istintivamente, come un cucciolo che abbaia ferocemente per difendersi dal predatore che lo spaventa a morte, indossando una corazza di coraggio per celare la fragilità interiore.
Nel dire quelle parole , però, la sua voce trema, come il resto del corpo magro.
Grimmjow si blocca, immobile, per la prima volta in tutta la sua vita si trova privo di idee su come affrontare una situazione.
“Nemmeno con una …”
“NO CON NESSUNO OK?”
L’azzurro non può fare a meno di ghignare: quel giovane casto, ingenuo, dal cuore puro e gentile ora è di fronte a lui simile ad un cerbiatto spaventato, tremante come una foglia, negli occhi la paura unita al desiderio. Non può resistergli, non intende tirarsi indietro proprio ora, ma al medesimo tempo non vuole costringerlo a compiere azioni di cui potrebbe pentirsi.
Cinge piano la sua mano, portandola lentamente verso di sé, appoggiandola sul petto ancora vestito dalla camicia nera:
“Sbottonala.”
Lo accompagna nel movimento, piano, intrecciando le dita con inaspettata dolcezza, finchè il tessuto si apre a metà lasciando scorgere la lunga cicatrice sul petto.
Ichigo si sporge timidamente verso lo sfregio, iniziando a baciarlo con semplicità, impacciato, cercando di emulare quando vissuto pochi attimi prima nonostante le sue idee siano ancora confuse.
Grimmjow sospira, rabbrividendo a quel contatto, abbassando impercettibilmente il sedile fino a trovare il corpo del giovane sopra al suo, la pelle chiara ed invitante illuminata dai raggi della luna da poco salita nel cielo ossidiana.
Lo sente sussultare, respirare faticosamente, lo sente fremere di paura ed emozione, soprattutto quando gli cinge il bacino con le mani, ribaltando le posizioni con un colpo di reni, trovandosi ora faccia a faccia, così vicini da unirsi nuovamente in un lungo bacio.
Ichigo stringe le spalle nude dell’amante, assaporandolo intensamente mentre percepisce la sua mano insinuarsi nei pantaloni ora sbottonati, sussultando ad ogni stretta, movimento, carezza, tocco. Si sente morire d’imbarazzo e di piacere, non riesce a trattenere i gemiti che, sempre più copiosi e intensi, scivolano fra le labbra giungendo alle orecchie dell’azzurro come una melodia profonda.
Una forte calore lo invade interamente, facendogli inarcare la schiena ed urlare, graffiando la pelle rosea del compagno che ghigna compiaciuto. Kurosaki schiude la palpebre, frastornato, cercando di riacquisire consapevolezza di sé, di cos’è appena accaduto , del perché il cuore palpita tanto forte.
Non appena se ne rende conto però viene invaso dal panico: inizia a gesticolare, rosso fino al collo, balbettando agitato, cercando di allontanarsi dal carnefice intento a leccarsi le dita con sguardo malizioso.
“Sm … smettila! Pervertito! Stammi lontano!”
“Troppo tardi.”
“C… cosa … no no ehi! Fermo!”
“Sei mio Fragolo.”
Lo bacia con dolcezza ponendo la parola fine alle sue repliche, facendolo sciogliere come neve al sole.
I pantaloni di entrambi scivolano via, adagiandosi sui tappetini dell’auto spenta. Un momento di silenzio, scandito solamente dai respiri dei due presenti; si guardano negli occhi, specchiandosi l’uno nell’altro.
Kami Grimmjow … sei bellissimo.
Non hai idea di quanto posso amarti.
Spero solo che tu non mi stia usando come ...
“Non pensarlo nemmeno.”
“Cosa!?”
“Non ti sto usando. Mi piaci veramente.”
Ichigo deglutisce, tremando, le iridi nocciola posate su quelle azzurre dell’amante. Un bacio, poi lo sguardo cade sugli addominali scolpiti  che iniziano a muoversi piano, accompagnati da un forte dolore per il più giovane, che non riesce a trattenere un urlo, aggrappandosi alla schiena del compagno.
“Per favore, piano!”
“Shh.”
“Grimmjow per fav…”
La mente si annebbia, non ragiona più, i corpi si fondono, proprio come le loro anime. Non esiste nulla, non c’è  spazio per le preoccupazioni del mondo: ci sono solo loro, niente altro.
 
* * *
 
“Fragolo … forse è meglio che torno a casa. Non credo sia una buona idea.”
L’azzurro fissa il compagno seduto accanto a lui, la mano stretta sulla maniglia della portiera della macchina spenta accostata adiacente al marciapiede. Gli passa le dita fra i capelli rimati ancora scompigliati, sistemandone una ciocca ribelle, con dolcezza.
“Davvero, non è un problema!”
“Fragolo … non vuoi farmi conoscere la tua famiglia e presentarmi come tuo legittimo fidanzato … vero?”
“COSA? Che diavolo ti salta in mente baka! Non mi è nemmeno passato per la testa!”
Arrossisce, stringendo i pugni stizzito.
“Ho solo pensato che non volendo tornare a casa tua ti avrebbe fatto piacere stare nella mia finchè non ti senti meglio.”
“Sto già meglio.”
Osserva l’abitazione dal piccolo giardino, incerto sul da farsi; poi qualcosa attrae la sua attenzione: un uomo sporto dalla finestra che gesticola animatamente, sul volto un sorriso raggiante ed un’espressione buffa.
“Ehm … Fragolo .. lo conosci?”
“… E’ mio padre.”
“Uhm . Pare un tipo … bizzarro. Beh, andiamo.”
Scendono dalla macchina in contemporanea, assaliti dai festosi saluti di Isshin:
“Ichigooooooooo! E’ pronta la cenaaaaaaaaaaaaaa!”
L’uomo si catapulta addosso al figlio sferrandogli un calcio, che viene prontamente evitato e ricambiato con un pugno in pieno volto che fa sobbalzare il povero Grimmjow.
“Vecchio! Siamo appena sul cancello e tu ci accogli così?”
Il padre di Ichigo sembra accorgersi dell’ospite sono in quel momento: lo fissa per qualche istante, nel volto un’aria entusiasta seguita da un abbraccio affettuoso e numerose pacche sulle spalle.
“Che bel giovane! Sei un suo collega? Vieni a cena da noi! Vuoi restare vero? Anche a dormire? Anche per sempre se vuoi!”
“Vecchio!”
Ichigo lo sorpassa a grandi falcate, trascinando uno sconvolto collega per il braccio, seguito dagli urletti gioiosi del capofamiglia che, per l’intera cena seguente, non ha fatto altro che comportarsi buffamente facendo ridere sinceramente Grimmjow, attorniandolo di un calore familiare mai avuto in vita sua.
“Allora Grimmjow! Tu e mio figlio avete già vissuto il periodo degli accoppiamenti?”
L’azzurro ride sguaiatamente, mentre il compagno si soffoca con un sorso d’acqua, maledicendo mentalmente il vecchio per il suo atteggiamento impiccione.
“Siamo solo dei colleghi diamine! Come te lo devo dire!”
“Ok ok scusa Icchy. Allora la prossima volta che … lavorate insieme … nelle vostre … sedute professionali … ricordati di abbottonarti i pantaloni!”
Ride divertito, ammiccando, per poi lanciarsi sul divano con Karin e Yuzu lasciando alle sue spalle un figlio completamente paonazzo ed un ospite in preda a convulsioni causate da eccessiva ilarità.
Terminata la cena Grimmjow vede per la prima volta la camera del suo collega: è semplice, spoglia, intrisa del suo profumo. Il letto singolo è aderente alla parete, sovrastato dalla finestra mentre nell’altro lato vi è una scrivania sovrastata da qualche libro ed infine un armadio a muro dalle ante color avorio.
Lo apre, estraendone un futon, nonostante il suo letto pare abbastanza grande per entrambi: certo, non spazioso, ma pare una missione fattibile.
Grimmjow lo osserva accigliato, ascoltando la voce di Isshin proveniente dal soggiorno al piano inferiore intento a commentare il programma televisivo.
“Cosa c’è? Se preferisci ti lascio il letto. Tieni.”
Gli lancia una maglia abbastanza larga, lasciandogli intuire che consiste nel suo pigiama. Si volta, dandogli le spalle, spogliandosi con pudore, sfilando timidamente gli indumenti certo di essere osservato.
Il collega si lascia cadere sul letto, sospirando, senza distogliere le perle bluastre dalla schiena chiara del più giovane.
“Certo che sei un tipo strano. Abbiamo fatto ses…”
“SHH! Non dirlo!”
“Ti imbarazza tanto?”
Non ottiene risposta ma , fortunatamente, lo squillo dello Smarthphone gli impone un temporaneo termine nell’importunare verbalmente fragolo. Sbuffa, aprendo la telefonata senza nemmeno guardare il mittente.
“Pronto?”
“Credevo fossi morto.”
“Non sono morto idiota.”
“Oho, si l’ho notato. Hmm senti, posso chiederti un favore?”
“Dimmi.”
“Posso usare la tua stampante? La mia si è appena inceppata.”
“D’accordo, ma non sono a casa. Vai pure comunque, tanto hai le chiavi.”
“Non sei in casa? È già tornato Ulqu…”
“FOTTITI!”
Butta giù la chiamata, spegnendo il cellulare con un sonoro grugnito.
“Maledetto Szayel, che scocciatura.”
Si spoglia velocemente, indossando la maglia imprestatagli da Ichigo, coprendo il fisico scultoreo.
Incrocia il suo sguardo, notandovi una nota malinconica, triste, cupa, una patina velata.
“Scusami … solo ora mi rendo conto di cosa ti ha causato tanto malessere. È per Ulquiorra, vero? Mi dispiace così tanto … non credevo … anzi, non ho voluto credere …”
“Non dirlo nemmeno. E’ vero ha a che fare con lui ma tu non hai rubato nulla a nessuno se è questo che ti preoccupa. Io e Ulquiorra non stiamo più insieme per quanto … per quanto la cosa sia ancora molto indefinita.”
“Ho rovinato la vostra relazione.”
Come una pantera l’azzurro balza dal materasso, avventandosi su Kurosaki, baciandolo con foga. Lo stringe fra le braccia, sollevandolo dal pavimento, cadendo insieme sul letto del ramato. Si stendono su un fianco, vicini, infilandosi sotto le lenzuola di flanella per scaldarsi nonostante non ve n’è bisogno.
“Fragolo non ti dirò tante smancerie, ma sappi che non hai rovinato niente quindi non farti paranoie inutili. Chiaro?”
L’arancione annuisce, allungando un braccio per spegnere la lampada dall’alone dorato, lasciando invadere la stanza dalla sola luce della luna e dei lampioni lungo la via.
Quella notte si sono amati altre volte, stretti l’uno all’altro, avvolti dalle morbide coperte, le bocce aderenti proprio come i loro corpi bollenti. Si sono desiderati ardentemente, mentre nelle altre stanze la quotidianità scivola placidamente, scandita dai ticchettii dell’orologio: ma per Ichigo e Grimmjow il tempo ha smesso di scorrere, non esiste più. Vi è solo la camera semi buia, il loro respiro, i gemiti sommessi, ma soprattutto vi è un calore nuovo ed indescrivibile, un fuoco nato solo dalla collisione delle loro anime, una luce che scalda entrambi nel profondo cancellando ogni spina del dolore.
Si sono addormentati abbracciati, sfiniti, le palpebre pesanti, i capelli arruffati. Si sono assopiti senza alcun pensiero nella mente, senza alcun nodo aggrovigliato nella gola.
Si sono amati e basta, come due persone che finalmente riescono a trovare una sorgente cristallina in cui specchiarsi ritrovando il proprio riflesso.
 
 
 

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Capitolo 20
*** Miss You ***


CAPITOLO 20: Miss you


 
Nel corridoio buio echeggiano dei passi veloci, ritmati, spediti, squarciando il silenzio dell’enorme struttura vuota, deserta, priva di vita. Le veneziane abbassate lasciano filtrare appena la flebile luce dell’alba, accompagnata da qualche rumore scomposto proveniente dalla strada perennemente trafficata, rombi di motore, chiacchiere di persone alticce che hanno trascorso la notte fra un bagordo e l’altro.
Nnoitra prosegue dritto, attraversando frettoloso il lungo corridoio in penombra dall’usuale profumo di vaniglia e detersivo per pavimenti, soffermandosi appena davanti ad una porta bianca, a lui ben nota, una porta che ha contemplato innumerevoli volte senza mai trovare il coraggio di varcarla.
Legge silenziosamente la targhetta, deglutendo sgomento.
“Ambulatorio medico, Dott. S. A. Grantz”
Baka. Ti odio.
Stringe i pugni con tanta forza da provare dolore, le nocche impallidiscono, il viso si contrae in una smorfia livida di rabbia.
Perché ti comporti sempre così? Perché mi ignori perennemente nonostante io faccio di tutto per ricordarti che esisto? Infame … quando mi guardi sembri non vedermi. I tuoi occhi mi trapassano come se fossi trasparente.
Mi dispiace dover ricorrere a questo. Mi dispiace dover arrivare a un livello così … misero. Ma voglio capire cosa diavolo ti passa per quella testa malata che ti ritrovi.
Forse così … riuscirò a mettermi il cuore in pace. Una volta per tutte …
Inspira, lanciando un’ultima occhiata alla porta chiusa, ricominciando a camminare verso la propria meta, ben presto raggiunta.
Controlla l’orologio, una goccia di sudore scende lungo la tempia pallida: ha ancora tempo, molto tempo. E poi insomma, è l’alba di una domenica mattina, nessuno è in servizio quindi … chi mai potrebbe interromperlo in questo esatto momento? Non c’è motivo di agitarsi.
Posa la mano tremante sulla maniglia, tirandola piano verso di sé: l’ufficio di Grimmjow è immerso nell’ombra, sulla scrivania infinite pile di fogli si estendono in tutta la loro altezza, simili a montagne dalla vetta acuminata. Altre cartelline, maggiormente corpose, sono addensate agli angoli della stanza, mentre sul pavimento sono riversi pacchetti vuoti di sigarette, intervallati da mozziconi malamente nascosti e da residui di matite temperate; inspira l’aria dalle acri sfumature di fumo, accendendo cautamente la lampada esiliata sull’orlo della liscia superficie, inondando di luce giallastra il caos vigente.
Kami che disastro … è anche peggio del mio. Quando condivideva questo porcile con Kurosaki ci si poteva specchiare sul pavimento. Bleah, il solito contadino. Non riesco a capire cosa ci trovi Szayel in lui …
Beh , da qualche parte bisognerà pur partire! Sono tanto amici no? Dovrò pur trovare qualcosa, dato che nell’ufficio di Aizen sama non ho trovato nulla.
Beh, qui sarà più semplice: se anche sposto delle cose non se ne accorgerà nessuno.
Sbatte la palpebra, aprendo un cassetto color acciaio, frugandovi dentro indegnamente. Rovista per mezz’ora abbondante ma ciò che trova sono solo moduli, fac-simili, ricevute ed altre scartoffie varie.
Si lascia cadere sul tappeto stancamente, esausto ed avvilito quando l’attenzione cade su un elemento che non aveva notato prima: forse la fortuna è dalla sua parte.
Quella non è la borsa di Grimmjow?
Un ghigno famelico si apre sul volto affilato, la lingua passa fra i denti come un lupo intento a divorare la preda. Si avventa letteralmente sulla valigetta nera, abbastanza grande da contenere molteplici cartelline ed il pc portatile. Sfila la cerniera, prendendo fra le lunghe dita quest’ultimo oggetto, accendendolo senza indugiare nonostante il senso di colpa alberghi pungente nel petto e nel ventre.
Scorre il cursore sulle icone del desktop, indeciso su cosa stia effettivamente cercando: le osserva una ad una , fredde, immobili come statue prive di vita.
Sono solo uno stupido …
Apre svogliatamente la casella delle mail, giusto per togliersi lo sfizio di rovistare nella vita privata del collega dal manto azzurro e ficcanasare nei suoi affari, nudo di speranze nei confronti del roseo dottore. E finalmente si rende conto di sbagliare pienamente non appena l’iride ametista inquadra numerosi messaggi scambiati fra i due, nonostante risalgano ad una cronologia datata, probabilmente tre o quattro anni fa.
Chissà se ne vale la pena leggerli. All’epoca non ci salutavamo nemmeno, probabilmente non sapeva nemmeno il mio nome. Beh … non sono certo che lo sappia neppure adesso.
Ne apre uno scegliendolo casualmente, leggendo accigliato lo scambio di battute fra i due:
 
Grimmjow: Idiota eri sparito! Ti ho cercato ovunque razza di baka!
Szayel: Scusa non ho avuto modo di telefonarti, solo a metà strada mi sono accorto di aver lasciato il cellulare a casa. Ti sto scrivendo dal pc ora, ma ha poca batteria.
Grimmjow: Dove diavolo sei?
Szayel: Stai calmo Grimm, sono andato a cercare mio fratello. Ieri sera sono uscito con Stark ed un suo amico di Osaka ha detto di conoscere un ragazzo biondo con il mio stesso cognome così sono partito ma non ho ancora trovato nessuno. Mi sento un idiota.
 
Nnoitra sgrana la perla violacea, il fiato mozzato nei polmoni: possibile che suo fratello sia proprio quell’Yylfort? Che si riferisca proprio a quel ragazzo con cui si sono azzuffati quasi due anni prima?
Quello di cui aveva trovato delle fotografie a casa del medico?
 
Grimmjow: Lo sei, infatti. Quando pensi di tornare?
Szayel: Non lo so, pensavo di partire questa sera, anche perché domani ho il turno di mattina.
Grimmjow: Devi smetterla di buttare via così il tuo tempo libero. Yylfort ormai è andato via da anni, se gli interessavi sarebbe già qui da un pezzo! Un idiota come lui che ti pianta in asso nel momento del bisogno non è nemmeno da considerare come un fratello.
Szayel: Gentile come sempre. Ho la batteria al 10% , ora stacco. Ti telefono quando arrivo.
Grimmjow: Ok baka.
 
Che storia è mai questa?
Fratello? Abbandono? Ricerca?
Perché non mi ha mai detto nulla? Perché non ne so niente, perché scopro le cose solo per caso?
Un moto d’invidia gli trafigge il cuore al solo pensiero della confidenza fra Aporro e Grimmjow; ringhia rabbioso, torcendosi le mani ed imprecando mentalmente per la demoralizzazione. Sospira, cercando vagamente altre conversazioni degne di nota, senza però riscontare alcun risultato.
Ripone il pc nella borsa sbuffando, l’ira si dilaga nelle carni come un’ondata di veleno inducendolo a cercare ancora e ancora , se non fosse per un tonfo sordo proveniente da una stanza poco lontano da quella in cui si trova attualmente, seguito da una sonora imprecazione udibile anche dall’altra parte del globo.
Urlata da una voce a lui ben nota.
Senza nemmeno accorgersene le gambe iniziano a muoversi per conto loro, la mente si azzera conducendolo all’esterno dell’ufficio fino all’ambulatorio adiacente, la porta aperta ma l’interno avvolto nel buio. Si staglia di fronte all’uscio in tutta la sua slanciata altezza, cercando con lo sguardo l’origine del frastuono, ma non vedendo nessuno.
“… Chi c’è là?”
Percepisce dei mugugni sommessi provenire dal pavimenti, uniti ad un rantolio addolorato; tasta la superficie liscia della parete frettolosamente, alla ricerca dell’interruttore che, fortunatamente, scova dopo una manciata di secondi.
La luce bianca delle lampadine a neon invade il corridoio e l’ambulatorio, accecando i presenti per un attimo: i due si guardano sorpresi, sbattendo più volte le palpebre per l’inaspettato chiarore e per lo stupore.
Il medico si massaggia il ginocchio dolorante, ancora riverso per terra, il piede sinistro incastrato in un grande scatolone di medicinali e numerose scatole sparse sul pavimento.
“Vuoi stare a fissarmi ancora per molto o pensi di aiutarmi a tirarmi su?”
Nnoitra deglutisce, sobbalzando, muovendo un passo incerto verso il collega buffamente steso a terra.
“Cosa ci fai lì Grantz?”
“Quanta formalità … avevo voglia di abbracciare il tappeto, comunque.”
“Ah capisco .. no aspetta, tu mi stai prendendo in giro!”
Il dottore fa una smorfia contrariata, mimando le ultime parole del corvino. Cerca di sollevarsi ma una fitta alla gamba lo costringe a rimanere immobile, digrignando i denti dal dolore.
“Scatoloni del cazzo, appena trovo Lumina gli spezzo il collo. Quante volte glielo devo dire di non lasciarli qui.”
“Potevi accendere la luce, avresti evitato di cadere come un pero.”
“Taci e aiutami.”
Il moro si avvicina ulteriormente, protendendo la mano affusolata verso il collega, senza accorgersi però di una simpatica e scivolosa scatoletta di Nurofen insinuatasi sotto alla suola dell’anfibio di pelle nera.
Inutile dire, che in una frazione di secondo, si ritrova addosso al dottore con tutto il suo peso, piombandogli sopra malamente, strappandogli un verso sgomento.
“Aia … aia … aia.”
Non si rende subito conto di quanto accaduto: riesce solo a percepire il profumo del collega, lo stesso respirato nelle notti trascorse insieme, lo stesso che ogni volta lo inebriava a tal punto da volerlo sempre impresso nella propria pelle. Le zone in cui i due corpi sono a contatto sembrano bruciare, bollenti, come ad implorare la felicità di potersi sfiorare di nuovo, ancora una volta. Non si accorge di rigirare fra le dita una ciocca rosata, ne di tastarne la morbidezza, la sofficità, assorto. Ascolta il respiro dell’altro sotto di sé, si bea di quel contatto caldo, rassicurante ed al medesimo istante terribilmente straziante.
Vorrebbe che il tempo si fermasse, vorrebbe rimanere così per sempre.
Istintivamente porta il palmo sulla guancia di Szayel, carezzandola dolcemente, immerso nei ricordi, senza più coscienza di tutto il tempo intercorso fra la loro relazione ed i giorni attuali.
Cerca lo sguardo del medico, cerca quelle perle ambrate e maliziose, quei pozzi di follia in cui si smarrirebbe volentieri ma ciò che incontra sono due palpebre strette dal dolore, il labbro inferiore tremante, le sopraciglia corrugate.
“O.. Ohi stai bene?”
“Il ginocchio.”
“Cosa?”
“Togliti dal mio fottutissimo ginocchio cazzo!”
Sbraita ferocemente, scostando il collega allibito con forza. Cerca di mettersi a sedere malamente, massaggiando l’arto dolorante per constatarne lo stato.
“Per un pelo è tutto intero. La prossima volta se proprio devi cadere, signor-con-la-luce-accesa-non-inciampo, fallo da un'altra parte. Per poco non mi ammazzavi.”
“Tsk, colpa tua che sei rincoglionito. Dove hai lasciato il mostro?”
“Fatti gli affari tuoi, non sono un padre degenere.”
“Grazie dell’informazione, ne avevo davvero bisogno. Spero tu non l’abbia lasciato da solo in qualche cantone.”
“Ovvio che no. Sei diventato anche cieco, ora? Ok che hai un occhio solo ma …”
Ride malignamente, mostrando un ghigno strafottente e divertito che manda in collera Jilga.
Apre la bocca per sbraitare, quando la voce del piccolo Haru attira la sua attenzione: si rimette in piedi, spolverando i jeans con le mani, scorgendo un passeggino blu proprio accanto alla porta, al suo interno un bimbo divertito alle prese con una siringa vuota e senza ago. La morde giocosamente, rigirandola fra le minuscole manine come se fosse un tesoro prezioso.
Non appena si accorge del corvino lancia un versetto, protendendo le braccia verso di lui:
“Noi-ta, noi-ta!”
Szayel sgrana gli occhi, le labbra schiuse dallo stupore.
“Cosa ha detto? Come … come …”
Si arrampica sulla scrivania, sollevandosi a forza nonostante il ginocchio dolga ancora parecchio. Zoppicando si avvicina al figlio, prendendolo fra le braccia affettuosamente, con cura.
“Cosa hai detto Haru?”
Il bimbo afferra una ciocca di capelli rosata, tirandola più volte.
“Pa-pà.”
Indica il collega, puntandolo con l’indice.
“Etto, Noi-ta.”
Balbetta quelle parole come se si trattasse della cosa più ovvia del mondo: guarda papà, quello è Nnoitra.
Quest’ultimo abbassa lo sguardo, consapevole di avere addosso le iridi ambrate del dottore, conscio che la sua maschera d’indifferenza e freddezza si sta via via sgretolando, irrimediabilmente.
“Senti Szayel io …”
Un suono di passi lungo il corridoio, l’eco di una corsa a perdifiato, una testa arancione che fa capolino dall’uscio.
“Kurosaki?”
Il giovane arrossisce, portando una mano fra le ciocche ramate e scomposte. Ansimante cerca di proferire qualcosa, le parole interrotte dal fiatone e dall’agitazione.
“Per fortuna vi ho trovato.”
“Che succede?”
Domanda il medico, ora seduto sulla scrivania, fra le braccia Haru.
“Ecco … io … Grimmjow … noi … cioè lui …”
“Calmati, cos’ha fatto Grimmjow? Dov’è adesso?”
“Non lo so! Mi sono svegliato e non c’era più! E ho trovato .. ho trovato questo sul tappeto accanto al letto e …”
Estrae dalla tasca un volantino colorato raffigurante la città di Moka, porgendolo tremante a Nnoitra.
“Non risponde alle chiamate, non ha lasciato nessun biglietto, io … io…”
“Ehm magari è andato lì no?”
Prova a suggerire il moro con poca convinzione, grattandosi il mento con l’indice.
“Fa vedere?”
Szayel gli si avvicina, scrutando con attenzione il volantino.
“Se non sbaglio è lì che si trova Ulquiorra. Beh perché ci stupiamo tanto? Sarà andato a trovarlo. In fondo sono solo due ore di auto, non è un viaggio eccessivo.”
Gli occhi di Ichigo si colmano si lacrime, le guance diventano color porpora.
“Lui … aveva detto che …”
Grantz sbatte la palpebre, intuendo la situazione. Un ghigno beffardo si fa strada sul volto candido, la mano si posa sulla spalla del più giovane.
“Elencami brevemente i fatti salienti accaduti da ieri sera a questa mattina.”
“Non giudicarmi per favore.”
“Oho, non lo farei mai.”
“Ecco … Io e Grimmjow … noi.”
“Su dillo, non vergognarti, siamo tutti adulti e vaccinati , che male c’è se ci sei andato a letto? Ulquiorra o no, se era ciò che volevate, avete fatto bene a farlo. Te lo si legge nel tuo bel faccino lo sai?”
Ridacchia divertito, riponendo il piccolo Haru nel passeggino.
“Cosa dovrei fare? E perché voi siete qui?”
Szayel solleva una cartellina trasparente, avviandosi verso l’uscita.
“Avevo scordato questa. Devo andare a dare la colazione ad Haru, fammi sapere se lo trovi. Proverò a telefonargli anch’io, magari più tardi. Beh … quando avete finito chiudere la porta, per favore.”
Se ne va senza troppi convenevoli, abbandonando i due colleghi frastornati nel più totale silenzio ed imbarazzo.
Ichigo arrossisce, cercando una via di fuga da quella situazione: come può riuscire a trovare Grimmjow? Vorrebbe appellarsi a Nnoitra ma, in tutta onesta, quel ragazzo non gli ha mai ispirato il massimo della fiducia … né della simpatia. Ma quando l’acqua arriva al collo, si sa, bisogna imparare a nuotare.
Anche se … pare che stavolta non sia necessario.
“Che aspetti Kurosaki? Andiamo a cercarlo, no?”
“Nnoitra … davvero tu .. verresti con me?”
“Yo!”
Il giovane sorride raggiante, il cuore gli batte all’impazzata dalla felicità.
“Davvero lo faresti? Anche se tu e Grimmjow non … non andate d’accordo?”
“Ma certo! Così appena lo troviamo lo prenderò a calci nel sedere come si deve per averti piantato qui! Ne ho le tasche piene di certa gente …”
“Ma … io non ho la macchina …”
“Nessun problema !”
Estrae un paio di chiavi dalla tasca, facendolo oscillare rumorosamente:
“Usiamo la mia, anche se è un po’ … datata. Andiamo Kurosaki, il tempo stringe.”
 
* * *
 
Non ci riesce a credere.
Non ci vuole … credere.
Non è possibile che non ne vada giusta una. Il tempo stringe … e un bel niente:
“Siamo rimasti a piedi Kurosaki.”
“No dai. No.”
Il ramato passa una mano tremante fra le ciocche aranciate, scompigliandole nervosamente; lancia un’occhiata agitata al collega, le dita strette al volante, l’altra mano intenta a girare a vuoto la chiave mentre il piede preme disperatamente sulla frizione.
Alza l’iride ametista sul collega con aria grave.
“E’ morta davvero. Dev’essere la batteria … merda.”
“Ehm … a dir la verità … aveva l’aria di qualcosa che si sarebbe sfasciato a prescindere …”
“Cosa stai insinuando? Con lo stipendio che mi danno è già tanto che ho questa carretta.”
“Avevi.”
“Avevo.”
Il più giovane sospira, cercando di ricacciare indietro lacrime calde, pungenti di disperazione.
Cos’ha fatto di male per meritare una così negativa provvidenza divina?
Ripensa alla successione dei fatti, sgomento, mordendo il pollice come un bambino alla lavagna.
Erano saliti in auto velocemente, dopo una lunga corsa per le scale del Centro Espada, rischiando di inciampare a rotolare rovinosamente fino al piano terra e, ovviamente, avevano lasciato ben spalancata la porta dell’ambulatorio del Dottor Grantz (proposta di Nnoitra). Dopo aver rianimato il motore nel peggiore dei modi hanno infranto qualsiasi limite ed indicazione stradale, ignorando bellamente l’autostrada ed imboccando una sperduta strada fra i campi che , a detta del guidatore corvino, era una scorciatoia; notare attentamente che, alla domanda di Ichigo “Ma hai già fatto questa strada?” la risposta è stato un sonoro “No!” seguito da un’alzata di spalle.
Nonostante ciò la situazione era ancora abbastanza sopportabile, se non contiamo la guida “sportiva” del moro, le brusche frenate, gli insulti ai pedoni, un’innata avversità verso i taxi, le ingiurie contro i ciclisti, il divertimento procurato dalle curve strette prese a grande velocità.
Solo quando dal cofano erano iniziati ad uscire strani fumi grigiastri aveva iniziato a preoccuparsi, timore accresciutosi minuto dopo minuto da strani rumori gorgheggianti e dalla faccia tranquilla di Jilga secondo il quale “Era normale, tutte la macchine lo fanno!”.
Ed ora eccoli, accostati in una via sperduta ad un’ora da Tokyo, a metà strada fra loro e la meta. Tutt’attorno campi brulli, non un benzinaio, non una casa. Nulla di nulla. Solo Ichigo, Nnoitra ed una macchina che, se ha ancora su le ruote, è già troppo.
Scendono entrambi dalla vettura invasa da un acro odore di bruciato, cercando di constatare il danno, apparentemente irrimediabile.
“Cosa facciamo?”
Nnoitra assume un’espressione pensierosa, l’indice posto sul mento appuntito, lo sguardo rivolto verso il cielo plumbeo della mattina.
“Proviamo a fare l’autostop.”
“Cosa?? No!! Non possiamo telefonare al dottor Grantz e …”
“MAI. DOVESSI MORIRE QUI.”
“Perché? Lui verrebbe a prenderci non ..”
“Ho detto … MAI.”
Ichigo deglutisce, inquietato dall’aria minacciosa del collega; si sente tirare per un braccio, costretto così a seguire il corvino in mezzo alla strada deserta alla ricerca di qualche passante casuale.
“Kurosaki, mi raccomando: dobbiamo farli fermare, quindi fai gli occhi dolci e mostra il sedere.”
“Scusa?? Perché dovrei fare una cosa del genere?”
“Perché fra i due il più bello è il tuo, idiota.”
“Ma … ma ..”
Arrossisce, sobbalzando allo schiaffo ricevuto sulle natiche da uno sghignazzante Jilga.
“Aia ehi!”
“Vi siete dati da fare ah?”
Ride acutamente, ricercando all’orizzonte una possibile vettura.
“Ehi ehi guarda là! Inizia a gesticolare Kurosaki!”
Iniziano a saltare, urlando con quanto fiato hanno in gola, cercando di farsi notare dalla macchina sulla loro corsia il cui guidatore, spaventato, accelera senza degnarli d’attenzione.
La stessa cosa accade ancora e ancora, all’infinito finchè Ichigo, stufo, prende in mano la situazione.
“Adesso basta, sono stufo di attirare solo camionisti arrapati! Che diamine, per poco uno non ci tirava su a forza! Adesso telefono a Szayel!”
Afferra il cellulare cercando il contatto del medico, sommerso da una valanga di insulti del più svariato genere. Fortunatamente deve attendere solo pochi squilli.
“Pronto?”
“Szayel! Sei tu vero?”
“Sono io, che c’è?”
Affina l’udito, percependo un ovattato digitare, probabilmente sulla tastiera del pc.
“Scusa se ti disturbo ma dovrei chiederti un favore davvero … enorme.”
“Ti ascolto.”
“Vedi la macchina non va più e ora …”
“Oho, che sfortuna. D’accordo, mandami un messaggio con la via.”
“Grazie! Grazie grazie grazie!”
“Calma, calma. Dammi solo un po’ di tempo, ho male al ginocchio quindi ci metterò più del previsto.”
“Nessun problema, grazie davvero!”
Entusiasta termina la chiamata, esultando.
“Nnoitra hai visto? Adesso viene a prenderci!”
L’altro grugnisce stizzito, livido di rabbia, appoggiandosi alla vettura defunta.
Inspira l’aria profumata di terra brulla, il vento freddo della mattina che porta con sé echi di pioggia.
All’improvviso un lampo di luce saetta nello sguardo perso sull’asfalto grigio: scuote la spalla di Ichigo con forza, incredulo, indicando fremente una corriere poco lontana.
“Kurosaki! Kurosaki corri! Sta andando esattamente nel nostro stesso posto vai ORA!!”
“E tu?”
“Io aspetto qui, non posso abbandonare la macchina ma giuro che ti raggiungo! VAI ADESSO!”
Il ramato si sbraccia, correndo a perdifiato verso il grande veicolo che lo accoglie a bordo subito dopo, nonostante l’espressione perplessa del conducente. Dall’interno saluta Nnoitra con un gesto della mano, sorridente, la fiducia dipinta nel visto dai lineamenti dolci, lo sguardo ricolmo di gratitudine.
In fondo il suo collega non è poi così terribile, nonostante ora si trovi da solo, in una strada semideserta, avvolto dal nulla e, cosa peggiore  … ad un passo da un incontro ravvicinato con l’ultima persona con cui desidererebbe passare del tempo. E questa volta nessuno dei due può sfuggire.

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Capitolo 21
*** Come back ***


CAPITOLO 21: Come back
 
 
Nnoitra espira una manciata di fumo grigiastro, guardandolo distrattamente dissolversi nell’aria densa, promettente una pioggia imminente. Molleggia il piede sinistro più volte, giocherellando con i mozziconi di sigarette accumulatesi minuto dopo minuto, nella logorante attesa del tanto agognato incontro: la gola arsa, il cuore dai battiti così veloci da temere di non reggere ancora per molto.
La mente, immersa in mille pensieri e congetture, pare non accorgersi nemmeno di una macchina sportiva, color argento, accostata proprio accanto a lui; solo dopo qualche minuto nota un finestrino abbassato ed il volto di un uomo accigliato, la sigaretta accesa fra le labbra inclinate in una smorfia contrariata, lo sguardo peggiore mai visto in vita sua.
Improvvisamente le gambe sembrano cedere, la pelle bollire, l’ira si unisce al dolore in un groviglio denso, un macigno pesante e onnipresente.
Balbetta qualcosa ma la voce incrinata non riesce a formulare alcuna frase di senso compiuto.
“Tu non sei Kurosaki.”
Poggia la Malboro fra le dita sottili, scostandola dalle labbra per espirare il fumo, senza staccare le iridi dorate dal collega in piedi, rigido come un blocco di ghiaccio, poco distante da lui.
“Beh … da dove incominciare … dov’è Ichigo?”
Le gocce di pioggia iniziano a cadere copiose, una dopo l’altra, algide, in una musica dalle note tristi, affollate le une sulle altre.
“Dai, sali. Sei fortunato, se c’era il sole ti lasciavo lì.”
Nnoitra oscilla per qualche istante, titubante, la mano sulla maniglia della portiera; rabbrividisce, forse per l’emozione, forse per la temperatura bruscamente calata, decidendosi finalmente a salire sul sedile accanto a quello del medico. Non appena si accomoda non può che benedire il tepore dell’auto, la morbidezza del sedile, il rassicurante rombo di un motore normale, che ancora funziona. Subito però, la bella sensazione svanisce alla mera consapevolezza di trovarsi in sua compagnia.
Nonostante ciò, Grantz sembra non farci alcun caso, anzi, si comporta normalmente, indossando la sua maschera quotidiana nell’usuale recita dal profumo di farsa.
Lancia un’occhiata agli specchietti, immettendosi nella strada per proseguire il viaggio, dopo aver lasciato cadere la sigaretta ancora a metà fuori dal finestrino.
A differenza di Nnoitra guida tranquillamente, come se si trattasse di una normale scampagnata e non di un salvataggio estremo ad una storia d’amore appena iniziata; i tergicristalli detergono il vetro lindo, scostando l’eccessiva acqua piovana facendola scorrere ai lati della vettura. Una smorfia di dolore attraversa il volto del medico, accompagnata da un gemito sommesso.
“Non ce la faccio più …”
La perla violacea, prima fissa sulla pelle degli anfibi puntellata da goccioline, si sposta sul viso sofferente del compagno, le sopraciglia pastello corrugate, le labbra incrinate. Solo allora si accorge del ginocchio strettamente fasciato, lasciato scoperto dal pantalone  della tuta scura arrotolato sulla coscia.
“Ti fa male?”
“Troppo. Non potrei nemmeno guidare. Ti spiace se mi riposo qualche minuto?”
Accosta in uno spiazzo d’erba che collega la strada ad un campo, spegnendo la vettura, lasciandola invadere dal silenzio e dal suono della pioggia scrosciante che, ben presto, occlude ogni visuale.
Con cura massaggia l’arto dolorante, mugugnando, senza degnare d’attenzione il corvino accanto a lui, immerso in una crescente agitazione. Tossicchia, ghermito da pizzicanti brividi lungo la schiena. Due iridi giallastre lo squadrano con freddezza, rimanendo impudentemente fisse su di lui, in silenzio.
“Che hai da guardare?”
“Sei bagnato.”
Allunga l’indice sulla guancia pallida del moro, pulendo una gocciolina di poggia con semplicità; Nnoitra sobbalza a quel contatto, socchiudendo le palpebre mentre un rancore covato da troppo tempo inizia a farsi strada nel petto, come un’onda anomala, un uragano. Digrigna i denti, inspirando a fondo per calmarsi, scostando la mano del dottore con un gesto secco, sgarbato, stizzito.
“Levati cazzo.”
Szayel sgrana le iridi ambrate, sorpreso, ritirando la mano lentamente, deluso.
“Volevo solo asciugarti.”
“Non serviva.”
Deglutisce, sbuffando nervosamente. Le mani si contorcono su se stesse, la lingua sfiora i denti bianchi, stretti in una morsa.
“Certo che prima di cimentarti in questa impresa potevi almeno revisionare la macchina.”
“Stai zitto. E’ stato … inaspettato.”
“Tsk, è già tanto che vada avanti.”
“La vuoi piantare? Non sono un medico pieno di soldi che può permettersi qualsiasi cosa!”
Il rosato ghigna divertito, ridacchiando sommessamente, il capo appoggiato al volante nero.
“Purtroppo potrei averne di più ma questo lavoro è abbastanza limitante.”
“Ne ho abbastanza di sentire le tue stupidaggini, accendi la radio.”
“Non funziona. Ho un cd, se vuoi.”
“Quale?”
Grantz fruga nel portaoggetti accanto al sedile, riesumando un cd dei Muse, l’unico che sia mai entrato in quella vettura. Glielo porge candidamente, notandolo sbiancare.
“E’ quello che ti ho regalato.”
Il rosato annuisce, senza distogliere il contatto visivo.
“Puoi ascoltarlo se vuoi.”
“No … non importa.”
Devo cambiare discorso. Devo farlo alla svelta, subito, ora.
“Ehm … come sta lo scherzo della natura?”
“Non sono affari tuoi. E non chiamarlo così in sua presenza.”
Il piccolo emette un versetto gioioso, adagiato nel seggiolino per neonati dietro al sedile del passeggero, fra le manine il solito sonaglio che pare divertirlo da morire.
Nnoitra non si accorge nemmeno di tirare un pugno sulla propria gamba, livido di rabbia. Né di sputare addosso una raffica di parole poco gentili al collega; si accorge solo dei suoi occhi sbarrati, del ghigno che lentamente scompare lasciando posto ad un volto appena rammaricato.
“Fottiti cazzo! Sei un idiota! Non sono affari miei? Come sarebbe a dire che non lo sono ah? Chi credi che ti abbia tenuto quel marmocchio mentre passavi le ore a dormire beato in ufficio! Chi credi che sia rimasto lì anche per ore dandogli da mangiare, cambiandolo e facendolo giocare ah? A volte ho perfino perso la metro, pioggia o sole che ci fosse! E per cosa poi? Per sentirmi dire che non sono affari miei? Ti odio cazzo, ti odio da morire.”
Sbraita ferocemente, simile a latrati di un cane ferito, urla così prepotentemente da stizzire il medico, che rimane ugualmente in silenzio, fissandolo impietrito.
“Mi dai veramente sui nervi! Sei un verme, non sei un uomo! Sei un parassita senza sentimenti, che gioca con quelli altrui sfruttandoli a suo piacimento. Tu giochi con gli altri senza alcun ritegno, li tratti tutti come misere cavie da laboratorio da gettare quando non ti servono più e non ti importa di quello che lasci al tuo passaggio, non te ne importa niente! E ora sei anche padre! Cosa insegnerai a tuo figlio, spiegamelo! Gli insegnerai a guardare tutti dall’alto in basso come fai tu? A sentirsi sempre superiore e legittimato a comportarsi da stronzo?”
Sembra sull’orlo delle lacrime, gli occhi bruciano ma nessuna scia umida riga ancora il volto affilato.
Szayel sospira, inarcando un sopraciglio.
“Io … credevo fosse Grimmjow ad accudire Haru. Ho passato un periodo davvero difficile, non puoi capire.”
“Baka. Tu, tu sempre e solo tu. Non ti passa mai per la testa che esistono anche gli altri? Che anche qualcuno che non sei tu può soffrire o passare un brutto periodo? E poi nessuno ti ha chiesto di andare a letto con la moglie di tuo fratello mentre stavi insieme a me! E non negare perché sarebbe una bugia disgustosa! Mi è bastato sentirlo una volta. Per tutto questo tempo … ho aspettato delle scuse che non sono mai arrivate … e tu ogni giorno mi passi davanti ignorandomi, come se non valessi nulla! Come se quello che c’è stato fra noi sia peggio di niente.  Sei un mostro, sei vuoto dentro! Non riesco a capire come possano i tuoi genitori essere fieri di un figlio come te!”
Grantz sussulta, bofonchiando qualcosa di incomprensibile, tremante di rabbia.
Come ha osato sputare addosso alla sua vita privata senza nemmeno sapere anche un solo dettaglio a riguardo?
“Taci, sei buono solo a sprecare ossigeno Nnoitra. Tu non sai niente sulla mia famiglia quindi …”
“Non so niente perché tu mi hai sempre escluso! Non ti sei mai degnato di raccontarmi qualcosa, nemmeno la più insignificante. Tutto ciò che so sul tuo passato ho dovuto scoprirlo da solo o sono stati terzi a raccontarmelo. Mi disgusti.”
“Cosa sai di me, allora?”
Nnoitra indugia, passando goffamente una mano fra le ciocche scure.
“Ecco … sei laureato in medicina e chirurgia … hai un fratello di nome Yylfort che vive a Osaka ed ora ha un nipote nato per errore. Ed il resto dovresti dirmelo tu diamine! Non hai nemmeno una fotografia in casa, nulla, sembri solo al mondo!”
“E’ quello che sono. Mi è rimasto solo Haru.”
“Cazzate! Credi che non ti abbia visto in giro con quel tizio con gli occhioni azzurri ah?”
“Oho … era castano?”
Ridacchia beffardo, sistemando una ciocca pastello dietro le orecchie.
“Sì.”
“Alto, magro, con il cappotto peloso?”
“Esatto.”
“Come sei stupido. E’ Stark, come fai a non ricordartelo. L’ho accompagnato a comprare un anello per la sua futura moglie. Soddisfatto?”
Nnoitra si sente sprofondare nella vergogna più totale. Come si è ridotto? Dov’è finito il suo orgoglio?
“Visto che hai addirittura frugato nel computer di Grimmjow mi vedo costretto ad accontentarti così, una volta per tutte, la finirai. Come avrai potuto notare io e mio fratello non andiamo molto d’accordo. Lui ha lasciato casa quando avevo appena vent’anni, dopo la morte dei nostri genitori, qualche giorno prima del funerale.”
Il corvino sente l’aria mancare nei polmoni, la vista si annebbia per una manciata di secondi.
Come fa a saperlo? Come … come … e perché improvvisamente sono io a sentirmi in colpa?
“Un giorno sono tornato a casa e l’ho trovato con le valige pronte, in procinto di andarsene. Ha cambiato numero di telefono e indirizzo. Da quel giorno mi è stato vicino solo Grimmjow, quello che tu non perdi occasione di insultare. Mi ha salvato la vita.”
“Io credevo che voi due …”
“Credevi sbagliato. E credo che ora tu possa anche capire perché ho agito in quel modo con Cirucci. Non nego di aver sbagliato però … è stato un insieme di fattori che mi hanno indotto a comportarmi in quel modo.”
Una lacrima riga il volto di Jilga, ferito, smembrato, frantumato in mille pezzi.
“Perché non mi hai mai detto niente. Perché … valevo davvero così poco? Se solo mi avessi raccontato tutto questo non sarebbe accaduto niente. E invece mi hai trattato come un estraneo, anzi, peggio. Mi dai la nausea. Per tutto questo tempo … ho sofferto come un cane. Per chi? Per un medico strafottente e psicopatico! Odio me stesso per essermi sacrificato così tanto, odio te, odio tuo figlio, vi odio.”
Esce dall’auto sbattendo la portiera, sparendo alla vista del rosato che, dopo alcuni istanti, si vede tirare fuori di peso dalla vettura da due braccia forti strette sul petto.
“Che cazzo fai Nnoitra!”
“Me lo vado a cercare da solo Kurosaki.”
“N .. no ehi aspetta. È la mia auto, cosa pensi di fare? Lasciami andare! E c’è mio figlio dentro! EHI! OHI!!”
Szayel si divincola dalla presa del moro, ruzzolando a terra come un sacco pesante, rimando seduto nell’erba, sotto la pioggia scrosciante, guardando il collega salire nella sua auto e partire velocemente, lasciandolo lì.
Fantastico … sono senza auto, senza cellulare e con Haru fra le mani di questo psicopatico. E non riesco nemmeno a camminare, ottimo insomma.
Si arrampica al gardrail di ferro, cercando di imprimere il minor sforzo possibile sul ginocchio dolorante, riuscendo a rimettersi in piedi dopo pochi vani tentativi. I capelli zuppi grondano acqua, proprio come le vesti intrise in ogni fibra di tessuto, aderenti alla pelle gelida scossa dal freddo.
Maledizione … ho lasciato il giubbotto in auto.
Si stringe fra le braccia, cercando di riscaldarsi, domandandosi fra quanto qualcuno si sarebbe degnato di raccoglierlo, sperando intimamente che quel qualcuno non sia Nnoitra perché in quel caso … beh … dire che intende ucciderlo con le sue stesse mani è riduttivo.
Eppure, ancora una volta, deve sorprendersi: la sua stessa macchina riappare mezz’ora dopo, accostandosi nel medesimo punto in cui era partita, fortunatamente ancora tutta intera. La pioggia continua a scendere fitta dal cielo plumbeo, picchiettando violentemente il corpo intirizzito del medico, scosso dalla rabbia e dal gelo.
Aspetta qualche minuto, sconcertato, decidendosi poi a salire nella propria vettura dalla parte del passeggero. Non appena richiude la portiera le sue urla isteriche invadono l’abitacolo.
Afferra Jilga per il bavero della semplice maglia nera, tirandolo verso di sé con foga, urlando stizzito che poteva morire di freddo e che è davvero un idiota.
Qualcosa, però, gli fa morire le parole in gola.
Lacrime calde gli bagnano la mano algida, scese copiose dalle guance arrossate e umide; il loro tepore scioglie gli aghi del freddo conficcati in quella carne esposta all’acquazzone troppo a lungo, penetrando oltre ad essa, giungendo fino al cuore di Grantz, che perde un battito.
Addolcisce la presa, piano, abbandonando la stretta lentamente, indugiando. Porta le dita sul volto del compagno, sfiorando il suo pianto, percependo il suo dolore profondo come l’abisso.
“E… ehi Nnoitra.”
Trema, non sa nemmeno lui perché. Si sfila le vesti bagnate, aumentando il livello di riscaldamento della macchina. Lascia cadere a terra la felpa zuppa, mostrando il petto nudo e pallido, magro, lievemente segnato dalle ossa dello sterno. Si copre con il cappotto nero, cercando di riscaldare il corpo congelato, ancora scosso, mentre lancia uno sguardo al piccolo Haru, divertito come sempre, assicurandosi che stia bene.
Il corvino non risponde, semplicemente si divincola dal tocco del collega, mordendo il labbro inferiore con rabbia, livido d’ira e sofferenza. L’iride ametista si punta nelle sue dorate, sfidandolo a fare qualsiasi cosa perché in ogni caso, peggio di così, non può stare.
“Non credevo che saresti tornato indietro.”
“Non montarti la testa. Avevo semplicemente paura di venire denunciato.”
“Paura fondata dato che ti sei preso mio figlio.”
“Non mi ricordavo che il mostro fosse lì dietro.”
“Portami a casa e sparisci dalla mia vita, non ti voglio più vedere.”
 
* * *
 
Il ramato corre a perdifiato nei lunghi corridoi, infiniti ai suoi occhi nocciola, cercando disperatamente la stanza numero 12. I suoi passi echeggiano fra le pareti vuote, color crema, abbellite da uno spatolato beige e da quadri rinomati di natura morta. Il fiato è spezzato, i polmoni compressi nella disperata ricerca di ossigeno, le ciocche aranciate ricadono  scomposte sul volto serio, accigliato, in modo disordinato.
Eccola!
Senza nemmeno rendersene conto si avventa sulla porta della camera, aprendola con un sonoro tonfo, rischiando di cadere rovinosamente a terra: le perle castane guizzano da un mobile all’altro, inquiete, alla ricerca di un disperato segno della presenza del suo amato.
Ciò che trovano, però, non corrisponde esattamente alle sue aspettative.
Ulquiorra lo osserva stranito, i grandi occhi smeraldo sgranati dallo spavento e dalla sorpresa, le labbra schiuse in un’espressione sconvolta, la pelle del volto più pallida del solito. I ciuffi corvini ricadono soffici sulle spalle esili, coperte da un semplice maglione grigio, un po’ usurato, probabilmente uno di quelli soliti da indossare quando non si deve uscire.
Immobile, seduto sul letto, fissa in silenzio il giovane ospito, che guardingo setaccia la zona aprendo antine, armadi, porte, guardando addirittura sotto al materasso.
“Kurosaki …?”
Ichigo sussulta, accorgendosi solo ora della presenza del malinconico collega. Inutile dire che le sue guance si tingono immediatamente di un porpora rosso come il fuoco.
“U.. Ulquiorra. Che … che sorpresa.”
“Dovrei dirlo io. Cosa ci fai qui? Perché rovisti in giro?”
Deglutisce, non sapendo da che parte iniziare per spiegargli l’accaduto. E poi, come dirgli che la sera precedente ha dormito insieme al suo ragazzo?
Anche se, nella mente, gli risuona la voce di Szayel (seguita dal suo sguardo malizioso e ammiccante) intenta a suggerire che oltre a dormire hanno fatto ben altro.
Strofina le dita sulle tempie per cancellare quella visione fastidiosa, punto dalle attenzioni sempre più cupe del moro, raggomitolato su se stesso.
“Kurosaki, allora? Non ho molto tempo, tra un’ora devo prendere la metro.”
“Uh! Ehm cioè volevo dire … sei già di ritorno?”
“Sì.”
“Ah! Ero convinto che … ecco … tornassi … più tardi.”
“Ho sbrigato le faccende prima del previsto. Ora posso sapere chi ti manda qui?”
Kurosaki sospira, ciondolando, le mani strette fra loro, le sopraciglia corrugate: l’ultima cosa che desidera è essere lui ad insinuarsi nel bel mezzo di una relazione fra altre persone. Come se l’avesse scelto, poi! Grimmjow gli è saltato addosso senza dargli possibilità di replica! E lui … lui beh, non è che abbia posto così tanta resistenza. Ma in fin dei conti, non ha mai desiderato, nel suo cuore, di rovinare la loro storia, né di appropriarsi dell’azzurro. Li ha sempre rispettati e l’avrebbe fatto per sempre, se solo le cose non avessero preso quella piega imprevista.
Evidentemente, il destino vuole che sia lui a mettere in chiaro i fatti.
“Vedi io … sono venuto qui perché stavo cercando Grimmjow.”
Schiffer si irrigidisce, cambiando espressione, improvvisamente attento.  Un lungo brivido percorre la schiena lattea, gelandolo.
“Cos’è successo Kurosaki? Dov’è finito?”
“Non lo so! Questa mattina non l’ho trovato, non ha risposto al telefono e così … ho pensato che fosse venuto da te.”
“E perché, anche se fosse, ti sei precipitato qui? Non potevi aspettare?”
Ichigo inghiotte l’imbarazzo, sgomento, le guance bollenti dal rossore.
Devo proprio dirglielo?
“Ero preso dal panico, non sapevo cosa fare, Nnoitra mi ha proposto di accompagnarmi e quindi … eccomi.”
“E dov’è Jilga ora? Non lo vedo.”
“Ecco … lui è rimasto … a metà strada. Per un piccolo inconveniente. Ma non ti preoccupare! Ho chiamato Szayel e ci penserà lui!”
Ulquiorra si carezza il mento con l’indice, pensieroso.
“Capisco. Immagino che tornerà a casa a piedi , allora.”
Si alza in piedi con tranquillità, chiudendo la cerniera della valigia appoggiata su un angolo del letto.
“Mi dispiace che tu abbia fatto tanta strada per niente Kurosaki, purtroppo Grimmjow non è qui. Ora devi scusarmi ma devo raccogliere le ultime cose o rischio di perdere il treno.”
“Senti Ulquiorra … io …”
Non riesce a finire la frase perché due braccia forti gli cingono il petto, abbracciandolo all’improvviso.
Sussulta, inspirando quel profumo a lui famigliare, quell’essenza desiderata per quasi due anni. Vede Ulquiorra, poco distante da sé, sbarrare gli occhi ed inarcare le sopraciglia, sconvolto, mentre percepisce un forte calore addosso al proprio corpo, aderente a quello del nuovo arrivato esattamente dietro di lui.
“Grimmjow!”
Si volta quando basta per incontrare le sue labbra morbide, soffici, dal tepore inconfondibile e dal gusto di sigarette e cioccolata; tutti i pensieri svaniscono, scivolano via, come acqua sulla pelle, svuotando la mente e beandolo appieno di quel contatto insperato, travolgente come un uragano impetuoso.
L’azzurro lo stringe forte, simile a chi ritrova qualcuno che temeva disperso e non intende lasciarlo andare mai più. Lo abbraccia con passione, stringendo le palpebre, il respiro compresso nel petto scultoreo.
Quando si separano dal bacio le iridi cerulee del più alto incontrano quelle caramello del compagno, gentili come una carezza, intrisi di preoccupazione.
“Mi hai fatto prendere un colpo Fragolo. Quando trovo Nnoitra lo ammazzo, lui e le sue idee del cazzo!”
“Ma … quando mi sono svegliato tu … e poi … io ..”
Sembra sull’orlo della lacrime, i grandi occhioni da cerbiatto sono lucidi, vitrei, cristallini, la voce trema come foglie sventrate dal vento.
“No Fragolo calmati! Hai frainteso tutto! Io non volevo piantarti. Solo che … beh ecco, come spiegartelo … Ho dato il permesso a Szayel di usare la mia stampante poco prima di andare a dormire. Però poi ho sognato che la distruggeva e lo sai che potrebbe accadere veramente. Mi sono anche ricordato di avere un microonde in casa e lui ha una malsana passione per quegli aggeggi così mi sono precipitato a controllare che fosse ancora tutto intero … però mi è preso un colpo di sonno e sono crollato sul divano. Scusami, non volevo spaventarti.”
Ichigo non sa se ridere o piangere per quella situazione. Sa solo che le braccia dell’amato strette a sé gli fanno dimenticare ogni preoccupazione, lo liberano dall’ansia che gli ha stretto lo stomaco per tutta la mattina.
“E alla fine era tutto a posto?”
“Diciamo che ho salvato la situazione all’estremo.”
Un colpo di tosse li riporta alla realtà, facendoli voltare nel medesimo istante verso il corvino, a un metro di distanza da loro.
Li fissa seriamente, il volto scuro, cupo, le perle verdi trafitte di tristezza.
“Grimmjow.”
“Ulquiorra.”
“Non hai nulla da dirmi?”
“Non più, ormai.”
“Capisco.”
Annuisce appena, un semplice cenno del capo, ciuffi d’ebano ricamati sul volto magro, candido come la neve.
Afferra la valigia, privo di parole e d’espressione, lanciando un ultimo sguardo ai presenti, senza rancore, senza rabbia. Solo un grande vuoto nel petto, come se una voragine lo stesse divorando lentamente, saziandosi d’ogni nota di strazio, smembrando l’anima in mille brandelli.
Ichigo non ne è certo, ma gli pare di aver intravisto una lacrima su quelle guance pallide. In ogni caso non lo scoprirà mai.
Li sorpassa in silenzio, varcando la soglia della porta lentamente, conscio che quella potrebbe essere l’ultima volta in cui può esprimere i suoi sentimenti.
“Addio Grimmjow. Ti ho amato veramente, mi dispiace solo … di averlo capito troppo tardi.”
Le iridi turchesi del collega raggiungono le sue, smeraldo, simili a due mani che si sfiorano prima di separarsi per sempre.
Cala il silenzio, scandito solamente dai passi di Schiffer, via via più lontani fino a scomparire del tutto.
Il ramato si scioglie in un pianto copioso, incapace a trattenere tutto quel dolore che gli brucia la pelle, tutta la paura, il senso di colpa, l’odore acre del tradimento.
Singhiozza come un bambino fra le braccia dell’azzurro, basito, stringendosi a lui con forza, aggrappandosi per non cadere nel baratro buio ed infinito creatosi sotto di lui.
“Ehi … Ichigo non piangere … mi dispiace … non avrei dovuto coinvolgerti in questo casino.”
“E’ colpa mia, è tutta colpa mia! Ora potreste essere ancora insieme e invece …”
“Shh.”
Posa dolcemente le labbra su quelle increspate dell’amante, bloccando i suoi singhiozzi. Lo carezza delicatamente, passando il pollice sulla guancia arrossata, calda, umida.
“Non è colpa tua Fragolo. E’ stato Ulquiorra a porre fine alla nostra storia, che ora ne sia pentito  o meno. E sinceramente … per quanto potesse amarmi … nulla è paragonabile alla sensazione che mi regali tu , anche con un semplice sguardo.”
Il giovane dalla chioma arancione sembra calmarsi, ancorandosi al compagno con sentimento, inspirando a fondo il suo profumo buonissimo.
“Che si fa, Fragolo?”
“Cosa?”
Alza le perle nocciola sconcertato, cercando di assumere un’espressione seria, sicuro che a breve verrà canzonato come un “pivello” da colui la cui fase di consolazione non va oltre i dieci minuti.
“Beh, ormai siamo qui. Che ne dici di prenderci una giornata per noi? Visitiamo la città.”
Ichigo sobbalza, straboccante di felicità, il cuore in gola.
Io e Grimmjow insieme? Una giornata … tutta per noi?
Sorride raggiante, il viso illuminato dall’emozione e dalla gioia di trovarsi finalmente al suo fianco, di poterlo stringere senza timore; la speranza di poter trascorrere altre notti accanto a lui, con la sua mano sopra la faccia, relegato in un angolo minuscolo del letto. Ma va bene così, va più che bene.
Anzi, non gli dispiacerebbe affatto trascorrere in questo modo ogni singolo secondo della propria esistenza.
 
Nonostante l’aria fredda e l’aria densa di umidità il giro della città ha entusiasmato entrambi, ora seduti davanti ad un caffè fumante, vicini, in un accogliente bar dai tavoli di ciliegio. Ridono, scherzano, si tirano pacche l’uno sul capo dell’altro per poi scoppiare a sgolarsi sguaiatamente attirando l’attenzione dei passanti, dei bambini, dei presenti che trovano così strano vedere due ragazzi abbracciati, scambiarsi parole nell’orecchio, sfiorarsi le mani.
Chissà perché le persone si straniscono sempre, di fronte alla felicità.
Grimmjow se lo domanda, ignorando gli sguardi perplessi e le facce contrariate, puntando ogni briciola di attenzione verso quell’ingenuo demone dai capelli ramati finalmente libero dalla sua solita aria imbronciata. Gli scompiglia i ciuffi sbarazzini con il palmo della grande mano, sorridendo.
“Cosa ti aspetti Fragolo?”
“Da cosa?”
“Da noi.”
Per poco il più giovane non si strozza con un sorso della bevanda calda.
“Di noi? Stiamo insieme?!”
“Beh … dopo quello che è successo direi di si. Che tu lo voglia o no, ho deciso ormai eh, Kurosaki!”
Mostra i canini in un ghigno felino, leccandogli la guancia malizioso e divertito, intendo a godersi lo spettacolo del suo imbarazzo.
Arrossisce, coprendosi il volto con le dita affusolate, paonazzo.
“I .. io non credevo … ma … per me va .. va bene!”
“Meglio così. E poi tua sorella cucina davvero bene. Il massimo che so fare io è accedere il fornello …”
“Non stai con me solo per venire a cena a casa mia vero?! Fatti preparare qualcosa da Szayel! Magari nel microonde.”
“NO! Per carità NO! Anzi, quando verrà a trovarci a casa nostra (e credimi, lo farà di certo ficcanaso com’è) ricordami di nasconderlo in cantina. O chissà cosa farà esplodere stavolta.”
“Casa nostra?”
“Perché quella faccia? Tu lavori, io lavoro. Io ti voglio scop…”
“Grimmjow!”
L’azzurro inarca un sopraciglio, divertito, tirandolo a sé con un braccio.
“Quello che intendevo è che non c’è motivo di non vivere insieme. Insomma, non potrei mai stare meglio con nessun altro! Quindi perché aspettare? E poi anche tuo padre ne sarà felice.”
“Ma tu vivi con Ulquiorra, ci vorrà del tempo per sistemare le cose.”
“Per quando mi riguarda può tenersi l’appartamento, se vuole. Ne troveremo uno solo per noi, tanto eravamo in affitto. E poi non è tipo da creare problemi … gli parlerò a lavoro, appena lo trovo d’accordo? Anche se conoscendolo a quest’ora sarà sicuramente tornato nella casa dove abitava prima che ci trasferissimo.”
“Se vuoi per sicurezza puoi tornare a stare da me.”
“Volentieri pivello.”
“Smettila di chiamarmi piv…”
Un altro bacio, così impetuoso da far ondeggiare la tazzina del caffè semipiena. Socchiudono le palpebre, beandosi appieno di quel momento magico, sospeso nel tempo e nello spazio come una bolla di sapone.
L’azzurro pone le mani calde sui lineamenti gentili del compagno, avvicinandosi a lui così tanto da far sfiorare le punte dei nasi.
“Ichigo … non ti so dire quanto durerà fra di noi … e se penso questo .. è solo perché non riesco ad immaginare una fine. Se esistono altre vite dopo la morte ti assicuro che ti verrò a scovare e ti inseguirò finchè non riuscirò a portarti di nuovo al mio fianco.”
Il ramato sorride, innamorato fino all’orlo, perso nei suoi stessi sentimenti forti come il fuoco.
“E se io diventassi uno shinigami? Tu saresti un diavolo, non riusciresti mai a prendermi.”
Ride giocoso, rimembrando quegli Dei della Morte che tanto lo affascinavano quand’era bambino.
“Stanne certo Kurosaki … ti verrei a prendere ovunque ti trovi, a costo di dover combattere con te.”
“Affare fatto, in ogni caso vincerò io.”
“Non scherzare, io sono il re!”
Ride sguaiatamente, stampandogli un bacio sulla fronte.
Andiamo! Ci sono molte altre cose da vedere!
Forse è vero, un lieto fine esiste per tutti.
 
* * *
 
La pioggia ha smesso di cadere dal cielo ancora grigio, denso di nubi decisamente poco primaverili, l’aria fredda ed umida sferza il volto dei passanti nelle affollate vie di Tokyo, inducendoli a ripararsi in qualche cafè o negozio dalle vetrine illuminate.
Una macchina grigia, vuota, è parcheggiata poco lontano dall’imponente struttura del Centro Espada, sfondo tetro in un ambiente ricoperto d’asfalto ed alti grattacieli.
Szayel cammina tranquillamente sul marciapiede che conduce all’entrata del palazzo dalle enormi vetrate, affiancato da un silenzioso Nnoitra dal capo chino e i denti digrignati.
Stringe il figlio a sé, controllando con cautela che sia ben coperto dal giubbino per non prendere freddo, mentre l’altra mano scosta una ciocca rosata dietro l’orecchio.
Procede zoppicante, fingendo una calma che in realtà ha abbandonato il suo animo da abbastanza tempo per definirsi sull’orlo di una crisi di nervi.
Punta le iridi dorate su quella ametista del collega, scrutandolo con sufficienza.
“Te lo ripeto per l’ultima volta, da oggi tu non esisti. Quindi fa quello che vuoi della tua vita, ma ignora completamente la mia. E smettila di seguirmi, non so per quanto ancora riesco a rimanere tranquillo.”
Il corvino nota le mani tremanti del medico, presumibilmente dall’eccessivo nervosismo immaginando che la sua destinazione è il proprio ambulatorio nella speranza di trovare uno dei suoi sottoposti a cui vomitare addosso tutta la rabbia, magari scagliando loro contro un portapenne di metallo (nel migliore dei casi).
Si ferma , ferito nel ventre da una fitta di dolore. È questo il sapore dell’addio? Lo credeva più amaro. Ciò che prova è solo un enorme baratro, una latente disperazione che corrode l’anima poco a poco.
Estrae una sigaretta dal pacchetto ormai vuoto, portandola alle labbra nel vano tentativo di distrarsi, il medico pochi passi distante da lui.
Non piangere.
Non piangere.
NON PIANGERE CAZZO.
Vorrebbe rincorrerlo.
Vorrebbe inseguirlo, tirargli un pugno urlandogli in faccia quanto lo ama.
Vorrebbe sputargli addosso tutte le parole che lo uccidono dentro, vorrebbe confessargli che lo ama così tanto da morire ogni mattina appena apre gli occhi al nuovo giorno.
Vorrebbe abbracciarlo, baciarlo, convincerlo che il suo amore basta per entrambi e di fidarsi, di abbandonarsi a lui ed aprirsi lentamente, con il tempo.
Vorrebbe dirgli apertamente di essere ossessionato da quegli occhi ambrati e da quelle ciocche pastello, dal suo carattere ambiguo e fondamentalmente folle.
Eppure i piedi sembrano ancorati al suolo, troppo pensanti per muovere anche un solo passo, la mente resettata, la gola talmente arsa da dolere.
Inizialmente non riconosce subito quella voce, né le presta attenzione.
Poi, non sa esattamente come, giunge fino alle sue orecchie. Allora alza al volto, incontrando i grandi occhioni Haru, simili a quelli del padre seppur più scuri, la manina protesa verso di lui, il sorriso felice fra le guance tondeggianti e morbide.
Diamine, quel marmocchio non ha nemmeno un anno ed è già così intelligente. Buon sangue non mente, ah?
Il dottore ignora i gorgheggi del figlio, la sua cantilena gioiosa, proseguendo in silenzio, determinato seppur instabile a causa del ginocchio terribilmente dolorante.
“Noi-ta! Noi-ta!”
Il bambino continua a chiamarlo, senza ottenere risposta. Il sorriso si inclina in una smorfia delusa, trasformandosi ben presto in un labbro tremolante e in due iridi colme di lacrime. La voce si inclina e, per la prima volta in tutta la sua breve vita, piange.
Grantz si ferma sorpresa, scrutandolo incredulo mentre lo vede arrampicarsi sulle proprie spalle per non perdere di vista il corvino, l’iride ametista sgranata, il volto pallido assorto.
Haru continua a protendere i suoi arti verso il moro, cinguettando il suo nome, tirando le ciocche chiare del padre come per urlargli contro di correre, di non perdere tempo, di non separarlo da quello strambo tipo altissimo che lo diverte così tanto quando lui dorme perché non ce la fa più a rimanere sveglio dopo lunghe notti insonni.
Si volta, camminando malamente verso Jilga, rigido come un’asse di legno.
Ora nemmeno un metro li separa ed il bimbo dalla chioma rosa ricomincia a sorridere, afferrando una ciocca d’ebano e tirandola a sé.
Nnoitra lo sfila dalle braccia del padre, portandolo fra le proprie, stringendolo con amore, con un affetto mai trapelato dalla sua natura aggressiva e violenta che è sempre stato solito mostrare.
Lo lascia giocare con la benda, tirare il manto liscio e scuro, apprezzando il tocco gentile di quelle dita minute sul suo mento glabro.
Alza appena lo sguardo, incrociando due perle dorate e lucide, vitree.
“Sono un padre di merda.”
Il corvino guarda attentamente il bambino, dandogli un buffetto sulle guance.
“Non è denutrito, cresce, parla anche troppo. Non credo tu faccia tanto schifo, parrebbe ancora vivo no?”
Gli strappa un sorriso triste fra le labbra appena schiuse, scrutandolo sottecchi mentre inspira una manciata d’aria.
“Certo … quando ho saputo che eri padre ho pensato: cazzo … se tratta suo figlio come le sue piante è finita!”
Ride acutamente, divertito dal solletico procuratogli dal piccolo.
“Se non ci fossi stato tu credo che avrebbe fatto la stessa fine.”
Rimangono un attimo in silenzio, guardandosi negli occhi l’un altro, sospesi come un filo.
“Stai ancora male Szayel?”
“Un po’.”
“Se vuoi … beh se vuoi posso cucinare io per te, qualche volta.”
“Uhm. Che cosa?”
“Non lo so, ma posso guardare su internet qualche ricetta e provare no?”
“Forse possiamo usare il microonde.”
“Ok. Anzi … no , meglio di no. Ho una brutta impressione.”
Il dottore sbuffa scocciato, amareggiato dalla poca fiducia dei suoi amici riguardo il difficile rapporto fra lui e gli elettrodomestici.
Porge le mani verso Haru, goffamente, cercando di riprenderlo senza sfiorare il collega.
“Puoi … puoi darmelo se ti da fastidio.”
Nnoitra si finge pensieroso, tradendo il suo tentativo di fare il duro con una nuova luce nei suoi occhi. Anzi. Nel suo occhio.
“Mah … no dai. E’ un mostro ma non mi dà poi tanto fastidio.”
Ridacchiano entrambi, impacciati come due ragazzini del liceo che hanno vissuto certe storie d’amore solo attraverso i film del sabato sera.
Haru ride mordendo il suo sonaglio, tirando una ciocca ossidiana con tanta forza da far abbassare il capo al ragazzo che, così facendo, si ritrova inaspettatamente vicino al volto del medico, più basso e minuti di lui.
Appoggia la sua fronte a quella dell’altro, sussultando a quel contatto così stretto, pericoloso, vietato.
Capisce che non è questo il momento di porsi domande, né di pensare alle conseguenze.
Scende piano, sfiorandogli il naso fino a incontrare le sue labbra, le sue splendide labbra.
Da quanto tempo le ha desiderate? Non lo sa, ma ciò che è certo è che sono meravigliosamente dolci.
Inutile dire che il cuore sembra collassare quando si accorge di essere ricambiato in quel bacio, quando sente la lingua di Grantz sfiorarlo lievemente, più per gioco che per malizia fine a se stessa.
Lo bacia a lungo, lasciando giocare il piccolo Haru con i loro capelli, ridente, mentre anche le loro anime finalmente possono gioire.
Quando si separano il fiatone li assale, seguito da un calore dimenticato da troppo tempo, dalla sensazione di aver finalmente trovato il proprio posto nel mondo.
“Mi dispiace Nnoitra, per tutto. Sono stato un idiota. Perdonami.”
“Si sei veramente un cretino.”
“Andiamo a casa?”
Annuisce, prendendolo sottobraccio.
“Andiamo a casa.”
 
I know you’ve suffered
But I don’t want you to hide
It’s cold and loveless
I won’t let you be denied …

 
I want to reconcile the violence in your heart
I want to recognise your beauty’s not just a mask
I want to exorcise the demons from your past
I want to satisfy the undisclosed desires in your heart



COMUNICAZIONE IMPORTANTE:
Ciao lettori! Questo è il penultimo capitolo! Il prossimo sarà l'epilogo nonostante terminare una storia sia sempre terribile per me ... bisogna pur farlo prima o poi.
Già da ora vi ringrazio tutti, sperando di avervi lasciato un ricordo di questa lettura, augurandomi che abbia trovato un piccolo posticino nel vostro cuore. Mi seguite in numerosi e di questo vi mando un bacio con tutto il cuore.

Siccome mi dispiace molto terminare questa storia (ed alcuni di voi hanno mostrato lo stesso dispiacere) ho deciso che , se volete, scriverò degli extra da aggiungere: sarete voi a scegliere su quale personaggio e/o situazione in particolare li volete. Ad esempio, volete sapere di più sul passato di Aizen sama o sulla vacanza alle Hawaii? Chiedete dove volete e vi sarà dato più che volentieri :)

Detto ciò vi saluto, aspettandovi nel prossimo capitolo :) 
PS: la canzone riportata alla fine è Undisclosed Desires dei Muse.

Un bacio,
Valentina :****


 

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Capitolo 22
*** Epilogo ***


EPILOGO: Happy End
 
Sei anni dopo …
 
Estate
Le luci della città scorrono lontane, separate alla vista dal vetro del finestrino lindo. Si susseguono veloci, piccole lucciole giallastre e bianche così piccole da poter essere ghermite con un dito, gocce lattee simili a stelle sparse sul territorio collinoso sottostante. L’auto sfreccia sulla strada elevata, dritta nella sua corsia avvolta dal buio della notte, profumata di fresco, di fine estate, di erba umida, un’essenza consona e ormai nota che annuncia il termine di agosto e, con esso, delle ferie estive.
Le iridi nocciola di Ichigo scrutano assonnate il panorama distante, il capo adagiato sul poggiatesta del sedile, la fronte coperta da lunghe ciocche ramate, cornice aranciata di quel volto dai lineamenti dolci. Le palpebre pesano, abbassandosi minuto dopo minuto, il corpo sprofonda lentamente in uno stato di torpore per poi assopirsi quasi del tutto, accoccolato nella felpa leggera con le braccia conserte.
Grimmjow continua a guidare spedito, lanciando di tanto in tanto un’occhiata al navigatore giusto per accertarsi di percorrere il giusto ritorno, soffermandosi ben più spesso a divorare con le perle cerulee il suo compagno addormentato accanto a lui, un’espressione angelica dipinta sul viso, le labbra appena dischiuse.
Sono trascorsi quasi sette anni da quando stanno insieme eppure, ogni volta che incontra il suo sguardo caramello, il cuore inizia a battere come se fosse la prima. Il tempo scorre impalpabile eppure ha la sensazione di non essere mai sazio di quel giovane sempre accigliato: convivono in un piccolo appartamento poco lontano dal Centro Espada, loro attuale luogo di lavoro dove operano insieme ogni mattina, alternando i turni alla vita privata in un'unica realtà bizzarra, dove le pile di carte da compilare vengono sostituite da pile di maglie da stirare e viceversa. Eppure, sente che nonostante tutto, nulla è mai abbastanza: non lo bacerà mai tanto da essere stufo, non smetterà mai di desiderarlo, proprio come non cesserà di essere felice quando ogni mattina si sveglierà al suo fianco, magari rilegandolo in un angolo del letto e rubandogli tutte le coperte come al solito.
Dal canto suo, Kurosaki, ammette che non è poi così male abbandonarsi alle sue carezze bollenti, arrabbiarsi quando lo nomina “Fragolo” o “Pivello” nonostante il tempo dei dislivelli sia trascorso da un pezzo. E, in tutta sincerità, sorride quando si sveglia di notte schiacciato dal peso del compagno, disteso a stella sul materasso, immerso in un sonno così profondo e beato da non poterlo destare.
Entrambi devono ricredersi: se l’amore esiste, allora non ci sono più dubbi che possa perpetuarsi per sempre.
Due labbra si posano sulle sue, sfiorate dolcemente dalla lingua umida dell’azzurro, le sue dita immerse nella chioma aranciata e soffice, dai ciuffi sbarazzini.
Ichigo sussulta, sbattendo le palpebre più volte, ancora inebriato dal torpore del sonno.
“La principessa si è svegliata?”
Lo sente sghignazzare, immaginando il suo ghigno famelico e sadico, divertito dal riempirsi la bocca con quelle espressioni canzonatorie e buffe.
Sbuffa fintamente scocciato, allungando le braccia per stiracchiare i muscoli indolenziti: la luna è ancora alta nel cielo, il silenzio delle strade vuote la accompagna in un muto canto cullato dalla sua luce argentea.
“Perché ci siamo fermati Grimm? Manca ancora molto?”
“Mezz’ora e siamo arrivati Fragolo.”
“Abbiamo un guasto?”
“Hmm . No.”
“Allora cos…”
Non riesce a terminare la frase poiché le loro labbra si uniscono di nuovo, più prepotentemente, con foga, tanto da lasciarli senza fiato. Socchiude le palpebre, rabbrividendo al tocco di quelle mani calde sui propri fianchi candidi, flettendo il collo all’indietro con movenza abituale per bearsi appieno di una scia di piccoli morsi incandescenti sulla pelle inaspettatamente bramosa.
Cerca di porre una vana resistenza, biascicando qualcosa di incomprensibile, ottenendo però una risata divertita ed il fruscio della felpa che scivola via dal suo corpo.
“Sei poco convincente Fragolo …”
“D…dai siamo accostati … se passa qualcuno?”
“Sono le due di mattina, non passa nessuno. E non piagnucolare in quel modo, sei illegale.”
È proprio vero, a volte il destino sembra giocare una partita assurda, senza regole né logica, un cammino intervallato da lanci di dado che ti cambiano per sempre la vita stravolgendola come un’onda anomala.
È così che va a volta, quando due anime distanti si incontrano e si rincorrono senza nemmeno saperlo, cercando di sfiorarsi per poi allontanarsi quando quasi le mani possono toccarsi. E poi un giorno si ritrovano strette in un abbraccio caldo come il fuoco, senza perché, senza risposte, senza ragione.
Semplicemente, si ritrovano insieme.
Quando ami è come se i poli del reale si invertissero: piacere e dolore si uniscono in un agglomerato di sensazioni, desideri ed emozioni non sempre facili da scindere e capire. A volte ti svegli la mattina pieno di energia e poi invece ti accorgi di dover fare i conti con i problemi della giornata, con le complicazioni condivise insieme al tuo compagno, con le esigenze di una vita nuova non più legata all’egoismo e alla facilità della solitudine. Due corpi, due anime, un cuore solo.
Questo facilita e complica ogni cosa nel medesimo istante eppure, allo stesso tempo, rende il mondo un posto meraviglioso.
Che sia così per chiunque? Non lo so, me lo chiedo spesso.
Nel mio caso, però, ne sono certo.
Sei tu, Grimmjow, a rendere migliore il mio mondo.
“Ehi … Fragolo.”
Lo sente sussurrare all’orecchio, il petto nudo sopra il suo, i respiri compressi nei polmoni, le dita intrecciate.
“Mmh.”
“Non vedo l’ora di tornare a casa.”
“Non ti sono piaciute queste vacanze?”
“Sì molto. Però … casa nostra è sempre casa nostra.”
Nostra …
Nostra.
Sorride, stringendolo a sé dolcemente, inebriandosi del suo profumo avvolgente.
“Hai ragione. Sono felice anch’io di tornare a casa.”
 
 
 
 
 
Autunno
Le foglie ondeggiano dolcemente, cullate dal vento flebile e giocoso d’inizio ottobre, tinte di mille caldi colore dalle tonalità del tramonto. Si adagiano sui marciapiedi, sui giardini, sulle strade, puntellandole di vita e fruscii sinuosi, per poi ricominciare la loro corsa dettata dalla brezza.
Il sole deve ancora spuntare all’orizzonte, negli appartamenti degli alti condomini le sveglie riposano nella nenia di una domenica mattina non ancora iniziata.
Ulquiorra dorme placidamente, i ciuffi corvini sparsi sul cuscino, le labbra leggermente dischiuse, avvolto in calde lenzuola di flanella. Respira piano nel buio della stanza, assopito, le mani mollemente adagiate accanto al volto magro, pallido, il corpo esile steso su un fianco.
Una mano posata sulla spalla ossuta lo sveglia gentilmente, facendo seguire al gesto un malcelato, seppur educato, sbadiglio. Le iridi smeraldo cercando di distinguere, annacquate, le figure della camera immerse nell’oscurità mentre la mano afferra, dopo svariati tentativi, l’interruttore della lampada a stelo adagiata sul comodino accanto al letto.
Un alone dorato invade la stanza dalle pareti color crema, accecandolo per una frazione di secondo. Sbatte le palpebre, voltandosi verso la donna stesa accanto a lui, i grandi occhi grigi spalancati in un’espressione preoccupata, le labbra soffici contratte in una smorfia agitata.
“Cosa succede?”
Lei abbassa lo sguardo, stringendosi nelle spalle. I lunghi e soffici capelli ramati ricadono dolcemente sulle spalle e sul petto, leggermente scompigliati, incorniciando il volto dai lineamenti delicati e tenui.
“Ho fatto un brutto sogno.”
Inghiotte le lacrime agli angoli degli occhi, portando le mani affusolate sul ventre rigonfio, tondeggiante, una morbida collina coperta da una vestaglia a fiori rosa.
“Vieni qui …”
Con un sorriso radioso accoglie l’invito, lanciandosi fra le braccia del marito, accoccolandosi su di lui tanto da respirarne il profumo e crogiolarsi nel calore dei propri corpi vicini.
“Cos’hai sognato Orihime?”
“Era un sogno complesso … Non te lo so spiegare. Mi sento così agitata …”
La mano pallida di Ulquiorra la stringe a sé, carezzandole dolcemente la schiena. La copre con scrupolo, accettando un gentile bacio sulla guancia come ringraziamento.
“Ormai manca poco, è normale che tu sia agitata.”
“Tu non lo sei Ulquiorra? Non sei emozionato?”
Posa le perle verdeggianti su di lei, il volto imperturbabile, glaciale, spento come sua natura, senza rispondere. Ma ad Inoue sembra non importare, poiché lo abbraccia con ancora più forza, serrando le palpebre ed allargando il sorriso: lo conosce da tempo ormai, sono sposati da due anni e sa per certo che, dietro quella maschera di cera bianca, si nasconde un animo sensibile e buono, delicato come una foglia d’autunno. Sa con certezza che non appena stringerà la loro figlia fra le braccia sentirà il cuore sciogliersi come brina al sola.
“Senti Ulquiorra…”
Lo chiama piano, tenue, con quella voce sottile da eterna bambina che lo ha sempre ammaliato.
“Mi stavo domandando … non vedi proprio più i tuoi vecchi colleghi?”
Lui sussulta, irrigidendosi, i muscoli del corpo contratti proprio come lo sgomento sul suo viso candido.
“No, non ho alcuna notizia su di loro.”
È vero, non ne ha nemmeno una.
Spegne la luce con calma, lasciando ripiombare la stanza nell’oscurità: ha perso il conto di quanti anni siano trascorsi da quel giorno, dall’istante in cui ha oltrepassato la soglia del Centro Espada, voltandole le spalle con la decisione racchiusa nel petto di non tornarvi più, lo scatolone con i suoi pochi oggetti stretto fra le mani, il sole non ancora alto all’orizzonte in un’alba tardiva. Se n’era andato così, in silenzio proprio com’era arrivato, allontanandosi a passi leggeri senza guardarsi indietro, lasciando una semplice lettera di dimissioni sulla scrivania dell’ufficio di Aizen sama.
“Mi sembravate un team molto affiatato.”
E lo erano. Ma qualcosa si è spezzato e tutt’ora ne sente il peso della colpa più forte che mai.
Sono stato io a dirgli di non amarlo più.
Sono stato io a costruirmi addosso un castello di paure e ipocrite false convinzioni nate dal timore di affezionarmi troppo, nonostante fosse trascorso un anno e mezzo, nonostante vivessimo insieme. Sono stato uno sciocco e ne ho pagato le conseguenze perdendoti, Grimmjow.
All’inizio ero ferito, credevo che la colpa fosse solo tua e di quello stagista impertinente. Mi sentivo tradito, mutilato, soffocato.
Ma i giorni sono trascorsi, con loro il tempo, ma non il dolore. Ed ho capito che l’errore è stato solamente mio.
Ma a cosa serve rimuginarci ora?
Sono sposato, adesso.
Sto per avere una figlia.
Ma questa volta non voglio negare a me stesso che si, forse mi piacerebbe vederti ancora una volta solo per chiederti come stai, nonostante mi fossi ripromesso che quel giorno in albergo sarebbe stata l’ultima occasione per imprimere la tua immagine nella mente.
Ed alla fine … non è forse stato così?
Se n’era andato così, senza avvisare nessuno, senza dare alcuna spiegazione. Era sparito dalla città, dall’appartamento, dalle vie continuamente affollate di persone: tutte, eccetto lui.
Si era rifugiato nel proprio mondo, prendendo in mano quell’orfanatrofio che lo aveva accudito e dedicandovi anima e corpo, giorno e notte, rendendolo un posto migliore, incentrandosi in mille attività con il solo fine di non pensare. E poi era arrivata lei, così, per caso. Si erano scontrati sul marciapiede, ognuno immerso in chissà quale dimensione tanto da ruzzolare a terra e cercare una scusa, imbarazzati e rossi in viso.
Ed ora la ha accanto, il ventre tondeggiante sotto la sua mano, i suoi lunghi capelli ramati sparsi sul cuscino.
“Scusami … sono stata una sciocca. Forse ti ho evocato brutti ricordi.”
“Non preoccuparti Orihime.”
La sente sospirare ed aggrapparsi a lui con più forza, nel tentativo di abbracciarlo con affetto.
“Ti sto tenendo sveglio mi dispiace tanto … è che continua a scalciare e non mi fa dormire.”
“Andiamo in cucina se vuoi, ti preparo un thè.”
Lei sorride, beandosi di quella sottile gentilezza, di quel gesto di silenzioso amore dettato dai gesti, dagli sguardi che sente di saper finalmente comprendere ed apprezzare in ogni loro sfumatura.
“Quando nascerà la piccola ti piacerebbe farla conoscere ai tuoi vecchi colleghi?”
Gli stringe la mano, intrecciando le dita affusolate con le sue.
“Non lo so, a dire il vero non ci ho mai riflettuto.”
“Però non è una cattiva idea, giusto?”
“D’accordo, non c’è fretta Orihime.”
“Ma lo faremo, vero?”
“Sì, prometto di sì.”
 
 
Inverno
La neve cade sofficemente dal cielo perlaceo denso di soffici nubi, simili a batuffoli di cotone addossati gli uni agli altri per celare un tesoro prezioso. Come piume i fiocchi turbinano lenti, in una danza dalle movenze eleganti e semplici che termina nell’adagiarsi dolcemente sul suolo già bianco.
I passi scricchiolano sul manto candido, sprofondando nella sua effimera consistenza, lasciando dietro di sé orme destinate ad essere ricoperte in breve tempo; i rami scuri degli alberi celano la loro cupa ossidiana sotto quel cappotto tenue, avvolti dal gelo dell’inverno e dalla prima nevicata del nuovo anno.
Dalle finestre delle case dal camino fumante, trapelano caldi aloni di luce dorata, stelle nel buio precoce della sera , fiaccole di calore e familiarità.
“Guarda! Guarda! Ho trovato un bastoncino!”
Il piccolo protende la manina inguantata verso l’uomo davanti a sé, mostrandogli fieramente un legnetto dritto, intirizzito dall’algido clima, umido; gli occhi nocciola guizzano sul sorriso divertito dell’altro fino al berretto blu calato sulla fronte pallida tanto da lasciare scoperto solo l’occhio ametista ed il naso dritto. Una mano gli si posa sul capo roseo, sistemandogli meglio il cappellino dal buffo pon pon.
“Prendi freddo lo sai? Tuo padre ci ucciderà quando scoprirà che siamo qui fuori.”
Il bambino ride portando le manine davanti al volto arrossato dal vento, una ciocca pastello ricade ribelle su un angolo del viso chiaro, sfuggendo alle grinfie dell’abbigliamento pesante.
Nnoitra gli stringe appena la sciarpa di lana, scrupoloso, per poi accucciarsi davanti a lui.
“Vuoi fare un pupazzo di neve Haru?”
“Sì!”
Il piccolo gioisce, lanciando in aria manciate di coriandoli bianchi rubati al terreno latteo a causa della felicità. Un frammento ghiacciato si posa sullo zigomo del corvino, che rabbrividisce a tale contatto inaspettato, socchiudendo la palpebra e sussultando senza nemmeno rendersene conto.
Lancia un’occhiata verso la finestra della cucina , scorgendo la figura del compagno intento a trafficare sul tavolo, probabilmente per sistemare il contenuto delle borse della spesa e riporlo nel giusto posto prima di preparare la cena. Sorride, certo di essere stato osservato abbastanza a lungo da quando ha varcato la soglia di casa per avventurarsi con il piccolo Haru in quel mondo delle meraviglie.
Una palla di neve lo colpisce in pieno volto, facendogli perdere l’equilibrio tanto da farlo ruzzolare per terra con un tonfo attutito dalla morbidezza del suolo; il bimbo gli si avventa addosso ridendo, rubandogli il berretto lasciando così fluire i lunghi capelli ebano che si sparpagliano sul bianco come fili d’erba.
“Sei una peste.”
“Lo dici anche a papà.”
“E quindi?”
“E quindi non ti dà fastidio davvero.”
Jilga sospira esausto, divertito da quelle parole perspicaci, mai state tanto appropriate come in quell’istante: Haru Grantz è davvero un bimbo intelligente per la sua età e la sua lingua segue di pari passo i progressi della crescita come un pozzo della verità che ti sorprende ad ogni parola con la sua genuina sincerità e schiettezza.
“Hai ragione, siete due brutte pesti.”
Il piccolo abbozza un risolino, stringendosi nel giubbotto.
“Prenderemo un raffreddore lo sai Haru?”
“Sì, ma sto aspettando.”
“Cosa?”
“Ogni volta che lo dici a papà … poi gli fai il solletico.”
“Il solletico ah…. ? Preparati allora!”
Felino gli infila le dita algide fra la sciarpa ed il collo, pizzicandolo dolcemente mentre si dimena divertito, sguazzando nella neve. Ascolta la risata cristallina, le palpebre dalle lunghe ciglia serrate, la chioma rosata e spettinata aderente al viso magro e roseo.
“Oho cari, ho l’impressione che domani avrò due nuovi pazienti.”
Entrambi si voltano verso la voce alle loro spalle, paralizzati, come due infanti scoperti durante una marachella. Si lanciano un’occhiata d’intesa, assumendo l’espressione più innocente che un essere umano sia in grado di simulare. Ma è di Nnoitra Jilga che stiamo parlando, e del figlio del suo collega nonché compagno Szayel: come possono essere credibili con quelle iridi furbastre e folli?
“Volevamo fare un pupazzo di neve papà!”
Il medico stende le labbra sottili in un sorriso complice, estraendo dalla tasca del cappotto una carota per porgerla poi al figlio:
“Tieni, per il naso.”
Haru gli balza in braccio, stringendolo con forza fra gli arti esili protetti dal piumino caldo:
“Grazie papà! Posso?”
Szayel annuisce con un cenno del capo, osservando il piccolo correre poco più distante e mettersi immediatamente al lavoro con diligenza nella costruzione del pupazzo.
Tende una mano verso il moro, aiutandolo a rialzarsi e a ripulirsi dai fiocchi gelidi, non senza qualche starnuto di intervallo.
“Ho l’impressione che domani dovrai prenderti il giorno libero Nnoitra caro.”
“E lasciarti da solo in ambulatorio? Tsk, non resisteresti un secondo senza di me Confetto.”
La perla violacea si punta su quelle dorate del dottore con finta sfida, accompagnata da una risata acuta.
“Credi che abbiamo fatto bene?”
“Ci pensi ancora ah?”
Il rosato annuisce, grattandosi il mento con l’indice.
“Mi domando davvero se dimetterci dal Centro Espada e metterci in privato sia stata la scelta giusta. Certo, i guadagni sono triplicati, i pazienti anche e forse è anche grazie a te … non credevo sapessi fare qualcosa.”
Riceve una gomitata stizzita sul fianco, seguita da un brontolio sommesso.
“Certo che so fare qualcosa! Tu li visiti , io gestisco il resto. Facile no?”
“Già però … mi dispiace aver lasciato Grimmjow da solo in quel posto. Ormai ero abituato a vederlo ogni giorno .”
“Non è da solo, c’è Ichigo con lui. E poi perché sprechi tempo a rimuginare? Sono trascorsi tre anni ormai e li vediamo ogni fine settimana … come minimo. Anche Haru si preoccupa se salta la pizza del venerdì ormai.”
“Hm, forse hai ragione. Questo tempo mi fa venire un po’ di nostalgia.”
Due labbra si posano sulle sue, catturandole in un bacio delicato, avvolgente, caldo. I polpastrelli freddi bruciano al contatto con la pelle liscia del viso, mantenendolo vicino al volto dell’altro, per unirsi nuovamente prima di guardarsi negli occhi.
“Hai ancora malinconia?”
“Sarei tentato a dirti di sì solo per vedere cosa mi riservi.”
Ammicca maliziosamente, la voce melliflua e sinuosa incentivata da un ghigno beffardo.
“Papà! Papà!”
Szayel punta le iridi dorate sul figlio in piedi accanto al cancello del piccolo giardino, la carota ancora stretta fra le mani, sul volto dipinta un’espressione perplessa.
“Cosa fai lì Haru?”
“Papà questo signore vuole parlare con te!”
Il medico sbatte le palpebre dubbioso, accorgendosi solo in quella frazione di secondo di un uomo in piedi sul marciapiede, infagottato da capo a piedi, la figura ugualmente snella e slanciata.
Si avvicina titubante, lasciando il compagno sugli scalini poco distanti dalla soglia di casa, vicino al roseto  spoglio ricoperto di neve. Il manto chiaro scricchiola ad ogni passo, infiltrandosi nei pantaloni della tuta e nel tessuto delle scarpe.
“Grazie Haru, vai pure a giocare.”
Il bambino lancia un ultimo sguardo ai due ormai vicini, separati da mezzo metro, per poi voltarsi e ricominciare la propria minuziosa opera di scultura.
Si scrutano per qualche secondo, in silenzio, cercando forse le parole da dire o forse un cenno di comprensione. Il primo a parlare è il medico.
“Mi dispiace ma … non credo di conoscerla.”
Effettivamente, chiunque stenterebbe a riconoscere una persona bardata da berretto, sciarpa e lungo cappotto, nonostante il gelo pungente ed il vento algido.
L’estraneo sospira, scostandosi i lembi di tessuto quanto basta per mostrare il viso magro e affilato, dai lineamenti decisi nonostante delicati, due perle castano scuro regine indiscusse di quel volto particolare.
“Sono io Szayel.”
Il rosato inclina le labbra in una smorfia disgustata, scostandosi una ciocca pastello dietro le orecchie.
“Yylfordt? Non mi sarei mai aspettato una tua visita. È perché a Natale si è tutti più buoni?”
Il fratello incassa il colpo deglutendo, abbassando lo sguardo contrito per poi cercare di rialzarlo fino a rincontrare quelle iridi ambrate e saettanti.
“Non so da dove partire … io …”
“Entra.”
“… cosa?”
“Entra. O vuoi stare lì per sempre?”
Dopo un breve momento di confusione il biondo si fa avanti, varcando l’ingresso del giardino per seguire il più giovane fino agli scalini dove sosta Nnoitra, visibilmente stranito.
Haru si avvicina saltellando all’ospite inatteso, tirandogli dolcemente un lembo della manica.
“Ciao! Chi sei tu? Un amico di mio papà? O un paziente?”
“E … ecco ..”
Balbetta qualche parola incomprensibile, ghermito dall’imbarazzo e dalla terribile sensazione di sprofondare sempre più giù secondo dopo secondo.
“E’ tuo zio Yylfordt, chiedigli se vuole restare a cena.”
“Resti a cena zio Yylfordt?”
Nnoitra schiude le labbra per sbraitare, probabilmente, che quella situazione è assurda! E che no, mai e poi mai avrebbe accettato nella loro casa casa la persona che ha causato le peggiori sofferenze all’uomo che ama. Eppure le parole gli muoiono nella gola non appena incrocia i loro sguardi: una luce diversa, una muta richiesta, un silenzio troppo denso per essere espresso a voce.
“Szayel davvero io …”
“Dimmi solo una cosa Yylfordt.”
Il ragazzo annuisce, i lunghi capelli biondi fluttuanti, adagiati sulle spalle pronunciate.
“Questa volta sparirai di nuovo?”
“No … no! Mi dispiace Szayel , mi dispiace così tanto …”
Come un bambino si ritrova a piangere senza nemmeno accorgersene, le lacrime calde scendono copiose sulle guance gelide, simili a colate di lava ustionante, abrasiva al suo passaggio. Lo afferra per le spalle, tirandolo verso di sé e stringendolo in un abbraccio colmo di dolore e risentimento, il petto si alza e si abbassa al ritmo scomposto dei singhiozzo sommessi, le dita strette sulla schiena esile del fratello che ricambia il gesto con lentezza, incerto, come se stesse vivendo un sogno anziché un avvenimento reale.
Prova a bofonchiare qualcosa ma i singulti sono troppo sgomenti per permettergli di proferire qualsiasi cosa.
“Senti Yylfordt … non serve. Una volta ero arrabbiato e posso giurare che ti avrei spaccato la faccia se solo ti avessi incontrato di nuovo nella mia vita. Però la rabbia ti corrode, ti annebbia la vista e ti fa compiere azioni di cui puoi pentirtene. Però … se ora ho Haru e Nnoitra … le due cose più belle del mondo … credo sia anche grazie a te. A volte non tutti gli sbagli sono poi così nocivi.”
“Sei cambiato … non ti ricordavo così.”
“Avrai tempo per scoprire che in certe cose non sono cambiato affatto.”
 
 
Primavera
“Credevo che saremmo andati a vedere i ciliegi in fiore almeno quest’anno.”
“Come sarebbe a dire almeno quest’anno?”
I due uomini camminano placidamente lungo il viale alberato, sovrastati da splendide chiome rose scosse da una brezza leggera e profumata, adornata da petali leggeri simili a coriandoli tenui.
“Beh,  non abbiamo mai fatto le cose come si deve.”
Il moro abbozza un sorriso divertito, scostando con eleganza il ciuffo mogano sulla fronte.
“Cosa intendi, Gin? Mi stai dicendo che vorresti fare un pic nic sotto i ciliegi come queste famiglie?”
Il collega arrossisce appena, la chioma argentea carezzata dal vento primaverile, sul volto affilato le labbra schiuse nel solito sorriso serpentino.
“Può essere.”
Lo dice semplicemente, con quella schiettezza buffa che lo caratterizza, rendendolo bizzarro ed inquietante nel medesimo istante. Osserva il compagno avanzare tranquillamente, beandosi del suo volto disteso, finalmente rilassato, lontano dallo stress del lavoro e della routine quotidiana: ora sono due persone normali, due innamorati che passeggiano vicini sotto il viale roseo, sfiorandosi le mani di tanto in tanto con finta indifferenza, lasciando scivolare le iridi sulla figura dell’altro per poi sorridere interiormente.
Eppure, la loro è una storia strana, fatta di parole di non dette, di sentimenti mai urlati, di ambiguità, una relazione perennemente sospesa su un filo sopra l’abisso che tremula ad ogni passo.
Nonostante ciò, va bene così: va bene svegliarsi a volte da soli, a volte abbracciati; va bene lavorare spalla contro spalla dando il massimo, fingendo di essere semplici colleghi, per poi spegnere le luci e lasciarsi andare alle effusioni più tenere. Un gioco di maschere, dove nessuno toglie mai la propria completamente, dove ci si deve accontentare di sguardi e cenni ma mai di certezze scritte sul cuore, uno specchio sfalsante ove chi si riflette cambia percezione ed indossa un nuovo ruolo nella recita priva di copione.
“Lo sai che non possiamo farlo Gin. Cosa direbbero i nostri dipendenti se ci vedessero?”
L’avvocato solleva le spalle indifferente, voltandosi appena verso l’interlocutore.
“Le medesime cose che potrebbero dire vedendoci ora, Sosuke.”
“E cosa direbbero, avvocato Ichimaru?”
Odia quando lo chiama così, con formalità, distacco, con una punta di divertimento nel sottolineare quel gradino che li separa, quell’accenno di orgogliosa superiorità, di fredda e meticolosa lontananza.
Ghigna beffardo, trattenendo un risolino.
“Non posso sapere cosa, ma vederci qui a passeggiare per mano o vederci seduti su una stuoia sotto un ciliegio non farà affatto la differenza, Aizen sama.
Il castano sussulta, lanciando un’occhiata infuocata alla dita affusolate del compagno intrecciate alle sue: non se n’era accorto prima tant’era impegnato a mostrarsi coinciso e serio come al solito, reprimendo la voglia di stringerlo a sé e fuggire via, insieme, lontano dagli oneri lavorativi che solo un uomo di prestigio come lui conosce. Sa che non può farlo, sa che ne va della sua reputazione.
Sa che  pettegolezzi strisciano fra i sassi come la più infida serpe, sa che a volte basta una parola per distruggere tutti i sacrifici e il sudore con cui si ha conquistato quello che si possiede.
Allora perché non riesce a sciogliere quel contatto?
Perché prova un forte calore nel petto? Perché si sente bruciare, corrodere, bollire?
Si divincola forzatamente, con gesto scocciato, scrutando Gin dai pochi centimetri d’altezza che lo separano da lui. Punta le proprie perle cioccolato in quelle glaciali del fidato collega, bramandone ogni venatura azzurra, di un colore talmente chiaro da sembrare cristallino, vitreo, artico: a cosa stai pensando Aizen sama? Lo sai che non sarà mai tuo, lo sai che il potere implica rinuncia. Cosa aspetti ad aumentare il passo e a svincolarti da queste catene di piombo?
Il direttore rimane immobile, le tempie pulsanti, la mano ancora protesa verso quella del ragazzo dalla chioma argentea; il vento profumato di fiori carezza i loro volti chiari, smuovendo leggermente le ciocche setose, lisce, vellutate, avvolgendoli di magia in un turbine di petali rosati, minuscoli.
Forse se ne pentirà, forse si troverà patetico non appena si guarderà allo specchio e scorgerà un barlume di umanità nei propri occhi spenti da troppo tempo, pozzi profondi e magnetici: gli sfiora le dita dolcemente, cingendole poi con più sicurezza fino a  raccogliere completamente la sua mano esile, godendo appieno di quell’espressione sorpresa, improvvisamente arrossata, gli occhi sgranati dallo stupore, le labbra sottili schiuse in un accenno di felicità.
Ricomincia a camminare in silenzio, placidamente, composto, senza proferire alcuna parola, beandosi solamente del calore emanato dalla loro unione, dei raggi del sole filtrati dai rami tripudianti di tenue colore. Da quanto tempo non alzava lo sguardo per vedere il cielo?
Le iridi mogano si posano sui tronchi scuri, delineandoli in fretta per dedicarsi poi all’immenso manto rosa che li sovrasta, etereo, scosso dal vento piacevolmente.
“Gin …”
Quanto ama la sua voce? Profonda, roca, da brivido. Non lo sa dire, non lo sa dire davvero.
“Sosuke?”
L’uomo allunga la mano libera indicando uno spiazzo verdeggiante nell’enorme parco, vicino al ciliegio più antico e nodoso della zona, enorme, tanto alto “da poter toccare le nuvole”, come pensava da bambino.
In fondo l’amore implica tornare un po’ piccini, vero? Abbandonarsi alle paure che un adulto non dovrebbe avere, serrare nel cuore i battiti che anche i gesti più insignificanti sanno strappare. Vuol dire ricominciare a mettersi in dubbio, affidarsi all’altro, fare di lui la tua ancora di salvezza quando dentro di te piove e non sai dove fuggire; significa volersi fidare ma avere il terrore di rimanere feriti.
Un leader non dovrebbe perdersi in queste sciocchezze.
Ma se amare è una stupidaggine, allora cos’altro può avere un senso nella vita?
Se l’era chiesto più volte, senza mai trovare risposta. Se l’era domandato quando si era accorto di non desiderare realmente il denaro, il prestigio, la fama.
E allora cos’è che conta davvero?
“Quello che ti fa stare bene”
Gli aveva risposto Ichimaru distrattamente, mentre compilava una delle sue pratiche fitte di parole.
Inizialmente non aveva dato peso a quelle parole ma, con lo scorrere dei mesi e degli anni, un chiodo fisso si era insinuato fra loro, facendosi sempre più insistente e gravoso, tanto sgomento da mozzargli il respiro la notte.
E se fosse lui, a farmi stare bene?
Cosa dovrei fare?
“Tenerlo stretto.”
Aveva concluso così, alzandosi poi dalla poltroncina nera e chiedendogli se desiderava un caffè.
Ti terrò stretto, allora … Gin.
L’avvocato sembra non capire le intenzioni del superiore, fissandolo incredulo ed immobile, scrutando talvolta lo spiazzo indicato pochi istanti prima.
“Cosa c’è Gin? Non volevi guardare bene i ciliegi in fiore, quest’anno?”
“Sì ma …”
Le labbra si incontrano in un bacio casto, estraneo ai passanti, alle paure, al resto del mondo. Gin socchiude le palpebre, inebriandosi del profumo di quell’uomo che ama con tutto se stesso, sussultando al semplice tocco delle sue dita fra i capelli soffici. Sosuke gli carezza dolcemente la guancia liscia, appoggiando la propria fronte su quella dell’altro per poi sentirsi abbracciare calorosamente e cingere come un peluche.
“Ti va bene allora? E’ un posto … carino.”
“Ma non abbiamo la stuoia.”
“Ne compriamo una Ichimaru.”
“Ma non abbiamo nulla per il pic nic.”
“Compriamo anche quello.”
“Non dovremmo prepararlo a casa sorridendo e chiacchierando allegramente come due sposi novelli?”
“Gin …”
“Ok, ok , andiamo a comprare la stuoia!”
Così va meglio.
Decisamente, va molto meglio.
 
Happy End .
 
 
… o forse no?
 
Un’ora dopo
 
“Gin … come siamo arrivati a tutto questo?”
Il compagno si scosta il ciuffo castano dalla fronte, sospirando sgomento, il volto fra le mani, le tempie pulsanti. Come tutta risposta l’avvocato sorride serpentino, soffiando lontano un petalo di ciliegio cadutogli sul naso.
“Non ne ho idea, Sosuke.”
Aizen tossicchia per schiarirsi la voce, mettendosi a sedere più comodamente:
“Dottor Grantz, non la vedevo da anni ma Lei non cambia proprio mai.”
“Chissene frega Sosuke, tanto non puoi più licenziarmi!”
Ghigna beffardo, continuando a lanciargli addosso petali rosei appositamente raccolti per importunare la coppia di colleghi. I suoi capelli pastello si confondono perfettamente con quell’ambiente della medesima tinta, rendendolo simile ad una buffa fatina dei fiori che lancia benedizioni d’amore urlando divertito “Tanti Auguri.”
“Non ricordavo di sopportarti così poco Szayel.”
“Oho, e aspetta che mio figlio cresca, poi saremo in due.”
“No, saremo in tre!”
Yylfordt si lascia cadere accanto al fratello, il piccolo Haru sulle spalle intento a manovrare le lunghe ciocche bionde come redini, divertito, mentre lo zio dà un morso al dolce di soia preparato da Orihime.
“Donna, sono ottimi, veramente!”
La ragazza sorride raggiante, stringendo fra le braccia la piccola bambina di quasi sette mesi dagli occhi smeraldo e la chioma caramello, il volto ovale paffuto e ridente, sveglio, dalla pelle chiara come quella del padre.
“Non faccia così tanti complimenti signor Grantz, mi imbarazzo.”
Stringe la mano al marito, come al solito serio, imperturbabile, ma stranamente rilassato, sereno, rilassato, con una nuova luce nelle iridi verdeggianti.
“Ulquiorra, tesoro, mi passi anche le focacce ai fagioli dolci? Vorrei farle assaggiare al signor Grantz.”
Il biondo annuisce entusiasta, a differenza del fratello che mordicchia distrattamente la quarta ciambella rubata a Nnoitra, ormai rassegnato all’idea di non poterne tenere per sé nemmeno una.
“Szayel brutto parassita lasciamene una.”
“Non piagnucolare, ho la precedenza.”
“Perché mai?”
Sbraita il corvino, protendendosi sopra Aizen sama per insultare meglio il compagno (con grande fastidio del castano).
“Perché io sono rosa.”
“E con questo? Grimmjow, kami, diglielo tu di smetterla!”
L’azzurro si solleva lentamente, sgranchendo le braccia prima incrociate dietro la nuca, fra le ciocche turchesi ancora qualche stelo d’erba chiara.
“Pff , Szayel finiscila: non sei una fata, non fai le magie e soprattutto i tuoi petali mi stanno dando fastidio cazzo!”
Il medico finge una smorfia dispiaciuta, iniziando a lanciare i petali in un’altra direzione.
“Cari colleghi, posso  sapere cosa ci fate tutti qui sulla mia stuoia? Non mi pare di avervi dato appuntamento oggi.”
“Ehm … ehm ci scusi Aizen sama … Non credevamo di trovarla qui, noi avevamo deciso di trovarci oggi per conoscere la famiglia di Ulquiorra e passare un pomeriggio fra vecchi colleghi.”
“Grazie per la spiegazione Kurosaki, quindi avete pensato bene di fiondarvi qui non appena ci avete visto?”
Il ramato copre il volto paonazzo con una mano, indicando timidamente il medico.
“Idea sua.”
“Immaginavo. Beh Ulquiorra mi ha fatto molto piacere rivederti, stessa cosa non posso dire per questo individuo dietro di me. Grantz se non la smetti ti licenzio.”
Haru salta giù dalle spalle dello zio, correndo verso il padre:
“Signore, lei non può licenziare papà. Lui lavora nella sua clinica adesso.”
Sosuke sorride divertito, ascoltando la risata altrettanto allegra di Gin, seduto accanto a lui.
“Allora lo assumo e poi lo licenzio.”
“In effetti da quando te ne sei andato il nostro ambulatorio è leggermente … dedacuto.”
“Cosa intendi Gin?”
Bofonchia Nnoitra, finalmente sovrano di una ciambella (ai fagioli dolci, ovviamente).
“Il nuovo medico non aveva lo stesso … stile.”
L’avvocato sospira, scuotendo il capo come chi ha in mente i peggiori ricordi della sua vita.
“Di chi si tratta?”
“Non lo sapevi? Kuchiki e Aizen hanno unito le società ed ora anche i suoi dipendenti si sono trasferiti a Tokyo. Pertanto … Kurotsuchi ha preso il posto di Grantz.”
Il dottore quasi si soffoca con un sorso d’acqua, smettendo improvvisamente di lanciare i fiori di ciliegio.
“Inaccettabile.”
Sentenzia rabbioso, borbottando come un bambino offeso.
Ichigo e Grimmjow ridono complici, stesi fra gli alti steli smossi dal vento, vicini, le iridi perse le une in quelle dell’altro: a cosa serve guardare il cielo quando puoi trovarlo negli occhi di chi ami?
Le ore scorrono impalpabili, bolle di sapone sospese fra quei rami densi di colore e profumo di primavera, carezzate dal sole , ritmate dal chiasso della compagnia, dalle risate, dai battibecchi, dalle chiacchiere.
Nessuno di loro avrebbe mai pensato di ritrovarsi lì quel giorno, senza più rimorsi, senza più rancori. Di considerarsi semplicemente amici, forse nemmeno più colleghi, ma qualcosa di più: persone che non si smarriranno nel tempo, che avranno sempre un pensiero per chi, nel bene e nel male, ha condiviso con loro parte della propria esistenza e non intende abbandonarla alle sua spalle.
Il sole cala lentamente all’orizzonte, baciando le nuvole con i suoi raggi rossastri, dorati, calde tonalità prima del sonno notturno; le famiglie raccolgono i cestini e le biciclette, i gruppi di giovani si disgregano, l’aria fresca inizia a pungere le braccia nude non coperte dalla t-shirt.
“Sono veramente felice di averti rivisto, Ulquiorra.”
Grimmjow sorride al corvino, la mano stretta a quella del suo compagno Ichigo, l’altra intenta a giocherellare con le chiavi dell’auto parcheggiata poco lontano.
“Anch’io ne sono contento, mi ha fatto piacere.”
“Hai una famiglia bellissima.”
Asserisce il ramato, contemplando la bambina fra le braccia della dolce Orihime che ricambia la gentile frase con un’espressione raggiante.
Le iridi nocciola scorrono placidamente sulle figure in lontananza degli amici, ormai distanti, accetto il direttore e l’avvocato, che chiacchierano fittamente seduti vicini su una panchina, finalmente soli e tranquilli.
I saluti, a volte, sanno essere davvero difficili, soprattutto quando temi che possano essere gli ultimi.
Eppure, oggi, ha la sensazione che le cose andranno diversamente.
“Sentite Ulquiorra … Orihime … vi andrebbe di trovarci di nuovo?”
L’azzurro sgrana le iridi turchesi, stupito dall’intraprendenza di Kurosaki, per poi annuire deciso e puntare le perle cerulee in quelle smeraldo del corvino.
“Ti va, Schiffer?”
Il moro inclina le labbra sottili in un accenno di sorriso, cingendo la moglie dolcemente e dando le spalle ai colleghi, per avviarsi verso la macchina.
Si volta solo un attimo, salutandoli con un cenno del capo e con poche parole, coincise come al solito:
“Ci vediamo domani colleghi.”
I due si lanciano un’occhiata stranita:
“Colleghi??”
Sbraita Grimmjow, aggrottando le sopraciglia.
“Fragolo tu ne sai qualcosa?”
“N.. no io… ora che ci penso però … ieri ho visto Aizen sama trafficare nel suo ufficio.”
“Quel vuole dire che …”
Sorride, abbracciando Ichigo stretto a sé.
“Beh … a domani, Ulquiorra.”
 
 
HAPPY END

 
 


Cari lettori, ho cambiato il nick ma sono sempre io :D Chiedo perdono per il ritardo! Ma devo dare un esame terribile e sono presa davvero ... beh, diciamo che sono presa ... molto male. (Help).
Il primo extra è già pronto quindi non dovrete aspettarlo e a breve aggiorno l'altra storia "More than Friends".
Mi scuso nuovamente, sperando che vi sia piaciuto questo Happy End!
Grazie di cuore per seguirmi <3

Un bacio,
Valentina <3


PS: Un super ringraziamento speciale a Lucia, il mio tesor e alla mia Sis Valentina che leggono sempre i miei lavori e sono due persone stupende! Grazie amori! Un Fragolo per voi <3

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Capitolo 23
*** Extra n° 1 ***


Extra n° 1: Il passato di Nnoitra

 
“Doppio Hamburger e patatine per il tavolo tredici, muoviti!”
 
Odio questo lavoro.
Odio questa schifosa sottospecie di ristorante in stile statunitense, odio le sue pareti di carta da parati, i suoi tavolini zozzi, odio la sua radio con quelle abominevoli canzoni, odio l’unto del cibo addosso.
Odio anche il capo, gli altri colleghi, i clienti.
Mi fa davvero vomitare.
 
Sbuffando il ragazzo afferra il vassoio contenente le pietanze ancora fumanti, camminando a passo spedito verso un tavolo imbucato accanto alle grandi finestre proiettate su una dimenticata strada di Tokyo. Lo appoggia malamente, facendo oscillare la coca cola negli alti bicchieri di vetro spesso nell’intento di sbatterli sulla superficie color ciliegio, già ricolma di briciole anche se, in tutta sincerità, avrebbe volentieri afferrato per i capelli quegli schiamazzanti bambini lì seduti gettandoli di peso nei bidoni della spazzatura.
Ma non può farlo, perché il suo compito è servire loro la cena ed essere quanto più possibile cordiale.
Distribuisce in silenzio i piatti ricolmi fino all’orlo, storcendo le labbra sottili nella consapevolezza di cosa stiano realmente per mangiare: patate bollite in olio riciclato chissà quante volte, carne così scadente che non ha nemmeno il coraggio di toccare. Eppure, sembrano gradire eccome!
 
Bah, peggio per loro. Forse era meglio cercare lavoro in un locale di cucina tradizionale giapponese, almeno non tornerei a casa ogni giorno grondante di schifezze decomposte.
 
Gli volta le spalle digrignando i denti dal nervoso, una ciocca nera e lucida fuoriesce dall’elastico che raccoglie la chioma corvina in una piccola coda alta, ricadendo soffice sulla fronte. L’iride ametista scruta malignamente i clienti entusiasti mentre una morsa sgomenta gli stringe lo stomaco.
Torna in cucina a passo spedito, ficcando in tasca il libretto delle ordinazioni, senza nemmeno degnarsi di ascoltare le risa dei teppistelli intenti ad indicare la benda sul suo occhio e a chiamarlo con i peggiori appellativi.
Li odia, li odia davvero, proprio come non riesce a sopportare il resto del mondo.
Eppure, se vuole pagarsi gli studi e raggiungere un livello migliore di questo, deve sacrificarsi in qualche maniera, che gli piaccia o no. E ne è ben consapevole.
 
“Ohi, monco, ci porti del …”
 
Monco. Ecco uno dei tanti insulti che mi prendo ogni giorno. Non basta il capo che me ne propina una raffica appena mi vede, no. Devono mettersi anche loro.  Col cazzo che te lo porto, alza il culo e vattelo a prendere marmocchio.
 
Inspira profondamente per mantenere la calma, nonostante i pugni stretti tremino di rabbia e le guance si tingano di rosso vermiglio. Qualcosa, però, gli fa sgranare la palpebra, sobbalzare dalla sorpresa e poi trattenere malamente una risata chiusa nella gola.
Non avrebbe mai pensato che quel collega tanto ghignante e apparentemente antipatico fosse in realtà un ragazzo così … così … così tante cose che non sa nemmeno trovare l’aggettivo giusto per descriverlo.
Lo vede avvicinarsi furtivamente, le iridi dorate scintillanti sotto un paio di semplici occhiali, il peggior ghigno sadico mai visto prima dipinto sul viso d’angelo. Ha i capelli rosati, un colore inusuale, lunghi fino metà collo, lisci come la seta.
Silenziosamente si sporge sul maleducato interlocutore, riversando sulla sua testa una cascata di ketchup rossastro che cola copiosamente sui vestiti, sul tavolo, sulla cibaria stessa, gocciolando sul pavimento di piastrelle chiare.
 
“Volevi questo? O preferivi la mayonese?”
 
Nemmeno Nnoitra sa esattamente da dove abbia appena estratto quel tubetto dal contenuto biancastro e denso, e non sa se si tratti realmente di mayonese. Sa solo che in una frazione di secondo si è totalmente aggiunto al ketchup, creando un mix appiccicoso che ricopre il bambino dalla testa ai piedi.
Soddisfatto, il giovane collega lancia sul tavolo i due barattoli vuoti, spolverandosi le mani affusolate sulla divisa grigia, macchiando lo stemma del ristorante.
Lo vede sospirare divertito mentre fissa con aria di superiorità e biasimo la famiglia di cafoni immersa in gridolini acuti e stizziti, avventata sul marmocchio grassoccio e piangente. Soddisfatto porta all’indietro una ciocca di capelli pastello, ritornando alla cassa come se nulla fosse.
Il moro è senza parole: lavora lì da un anno e, da quando è stato assunto, ha sempre visto presenziare quel ragazzo. Possibile che non gli importi essere licenziato? Perché è quello che gli accadrà al 99%. Possibile che si sia appena giocato il proprio posto solo per difenderlo silenziosamente?
Si morde un labbro sottile, pensieroso.
In effetti, prima di quell’istante, non si sono mai parlati. Anzi, non lo hanno fatto neppure in quell’occasione, ma almeno uno sguardo se lo sono scambiato.
La perla violacea del primo ha incontrato le due dorate per un secondo, incrociandole come saette che si sfiorano. È bastato quel contatto visivo per farlo trasalire, per scottarlo e lasciargli addosso una cicatrice che non scomparirà mai.
L’aveva sempre intravisto nello spogliatoio della cambusa, intento a cambiarsi prima di iniziare il turno. Si svestiva in fretta, riponendo il camice bianco (da probabile tirocinante medico, pensava) nella borsa di tessuto scuro, per indossare poi la divisa di quella malsana fotocopia di fast food. Più volte poi, l’aveva osservato leggere dei libri di biologia o altre materie a lui lontane durante la breve pausa pre-serale, rinchiuso in se stesso su quella stretta panchina logora , escludendo il resto del mondo.
Forse è per questo che non gli aveva mai parlato, perché si estraniava da chiunque. Anche quando digitava i conti alla cassa o quando scriveva sui foglietti le ordinazioni: mai una frase che eccedeva la norma, mai uno sguardo che superasse la linea del proprio naso.
Nonostante non paresse un tipo eccessivamente serio gli aveva sempre irrorato una sorta di inquietudine: certo, sorrideva, ma non una di quelle adorabili smorfie gentili e spontanee. No, in lui c’era tutto, tranne che quello. Era più un ghigno usuale, datato, un’espressione di commiserazione verso il prossimo, di malcelato senso di superiorità, aspetti che lo hanno sempre innervosito parecchio.
In tutti quei mesi era morto dalla voglia di chiedergli chi diavolo fosse per trattare gli altri come semplici feticci umani. Proprio lui che lavora in un tugurio come questo, fra l’altro!
Solo quando gli si avvicinava però, cambiava improvvisamente idea, constatando di non sapere neppure il suo nome.
Eppure, in un certo senso, gli era davvero grato: preferiva la sua indifferenza piuttosto delle attenzioni negative dedicategli dal resto degli individui.
Eccetto Ulquiorra, ovviamente.
Lui, il suo compagno di orfanatrofio, era rimasto sempre uguale: taciturno, introverso, serio, coinciso. La sua carriera universitaria nella facoltà di psicologia si era rivelata così brillante da riservargli un rispettoso posto di lavoro nella biblioteca della struttura, dove passava la maggior parte del suo tempo ricavandone uno stipendio dignitoso: lo ammirava, questo è certo. A differenza di molti non provava invidia, anzi, era felice di vederlo realizzarsi e raggiungere i propri sogni. Ed era felice di incontrarlo a volte nella metropolitana per scambiare quattro chiacchiere normale, anzi, addirittura gentili.
Riemerge dai ricordi passati, accorgendosi che , in questo momento, desidera solamente rivederlo per raccontargli quanto gli faccia schifo fare il cameriere tutto fare e quanto sia indietro con gli esami.
 
“Cosa studi?”
 
Non si accorge nemmeno di pronunciare quelle parole, stupendosi intimamente di tanta intraprendenza.
Il collega sgrana appena le palpebre, sbattendole più volte, per poi alzare il volto verso di lui, sorpreso.
 
“Cosa, scusa?”
 
“Niente.”
 
“No davvero, scusami. Stavo battendo uno scontrino, puoi ripetere la domanda?”
 
Nnoitra sbuffa sonoramente, scocciato, passando la lingua appuntita sui denti.
 
“Ti ho chiesto che cosa studi.”
 
“Uhm. Studio chirurgia, comunque.”
 
“Sembri un po’ troppo giovane per essere già a quel livello.”
 
“Hai ragione, lo sono. Ma ho fatto più anni contemporaneamente.”
 
“W.. wow . Quanti anni hai?”
 
“Ventitre. Mi laureo domani.”
 
“Hai un anno in più di me … Complimenti, comunque.”
 
“Mmh mmh, grazie.”
 
Perché sembra che non gliene importi affatto?
 
“I tuoi genitori ne saranno entusiasti immagino.”
 
Il rosato sussulta, aggrottando le sopraciglia della medesima tonalità. Si stringe nelle spalle, cercando di assumere l’espressione più normale possibile mentre il cuore si stringe nel dolore, ignorando la snella figura del corvino allontanarsi dietro la porta della cucina.
Nnoitra non sa che quello sarebbe stato l’ultimo giorno in cui l’avrebbe avuto come collega al ristorante. Mentalmente si ripromette di parlargli il giorno successivo o quello dopo ancora per fargli gli auguri per la sua laurea, magari offrendogli qualcosa da bere. Ovvio, non in quel porcile.
Qualcosa batte nel petto all’impazzata, lo stomaco si contrae dall’emozione; lo scruta sottecchi mentre porta altre ordinazioni ai tavoli, imbambolato, rischiando più volte di inciampare rovinosamente ma salvandosi sempre all’ultimo momento.
 
Che diavolo mi succede?
 
* * *
 
Trascorre una settimana, una lunga attesa sospesa come un filo sopra l’abisso. La panchina vicino alla cambusa è vuota, non vi è alcuna borsa di tessuto scuro ricolma di libri di medicina. Davanti alla cassa sosta infermo un ragazzino imbranato, probabilmente più giovane di qualche anno, forse non ancora maggiorenne. Ha capelli biondo cenere, lisci, di media lunghezza. Si è presentato cordialmente non appena assunto, dicendo di chiamarsi Tesla, sul volto un sorriso smagliante che ha dato la nausea a Nnoitra e , come se non bastasse, ogni volta che lo incontra gli si addossa come un koala senza alcuna intenzione di staccarsi: lo fissa con quelle due grandi color sabbia, colme di ammirazione e devozione.
 
Per cosa, poi?
 
“Ehi, Nnoitra!”
 
“Che c’è?”
 
“Vorresti uscire con me stasera? So che finiamo entrambi alle dieci, manca poco.”
 
“Ah?? Scordatelo pivello.”
 
Sembra rimanerci male.
 
“Perché?”
 
“Beh perché … perché ho da fare!”
 
“Ma non è vero! Vivi da solo, non puoi avere da fare!”
 
“E tu che ne sai?”
 
“Come che ne so? Sono il tuo vicino di appartamento.”
 
Jilga tossicchia imbarazzato, grattandosi il capo pensieroso. Possibile che non si sia mai accorto di lui?
Inoltre tutta quella gentilezza lo mette a disagio, non ne è abituato, senza contare che nessuno prima d’ora l’aveva mai scelto come modello di riferimento.
 
“E va bene.”
 
Magari riesco a levarmi quel maledetto confetto dalla testa.
 
La serata scivola via fra le luci della città e la musica dei locali, fra i passi consumati sui marciapiedi lungo le strade. Nnoitra osserva il ragazzo accanto a lui, il viso giovanile disteso in un’espressione serena  nonostante il peso della fatica e delle numerose ore di sonno arretrato.
Da quanto tempo stanno passeggiando? Non ne ha idea. Sa solo che si sente stranamente bene. Quel ragazzino in fondo non è così male: è spontaneo, leggermente timido, intelligente, ed è anche serio quando ve n’è bisogno, orgoglioso, devoto.
Lo fissa con un misto di stupore e imbarazzo, dall’alto della sua statura, i capelli neri sciolti sulle spalle.
 
“Senti Tesla … perché proprio io? Ci sono un sacco di cuochi lì dentro migliori di me.”
 
Il biondo si ferma, passando una mano fra le ciocche chiare, le gote arrossate.
 
“Perché fin da subito ho capito che tu sei ciò che io stesso vorrei essere, un giorno.”
 
Il corvino scoppia a ridere acutamente, fendendo l’aria fredda di ottobre come una freccia.
Gli posa una mano sulla spalla, leggero, come un padre farebbe con il figlio ancora troppo ingenuo per aprirsi alla vita.
 
“Temo che ti sbagli, ragazzo.”
 
“No! Ne sono certo! Io … io ti ho osservato bene. Anche se tutti ti deridono e ti trattano male tu … resisti. E ogni giorno ti presenti puntuale e lavori sodo. Hai detto che vorresti laurearti in matematica, vero? Sono sicuro che ci riuscirai. Io .. io sarei davvero fiero di me se riuscissi ad esserti uguale, a raggiungere il tuo livello.”
 
Nnoitra estrae una sigaretta dalla tasca, portandola fra le labbra per accenderla. Inspira piano, percependo il fumo scendere lungo la gola ed invaderlo di acre veleno. Perché quel pivello lo ammira dal profondo? Proprio lui … che si è sempre sentito una nullità, un piccolo pesce in perenne guerra contro un branco di infiniti squali.
La mano del più giovane si posa sulla sua, afferrando la Malboro appena iniziata.
 
“Non devi fumare, ti fa male. Anche il mio professore di medicina dice che …”
 
“Cosa? Tu studi cosa?”
 
Tesla ridacchia stupito, lasciando riappropriare l’amico della sigaretta.
 
“Ti credevo ancora uno studente di liceo.”
 
“Ohm, ehm, lo so sembro parecchio più giovane. In realtà  frequento il primo anno nella facoltà di Tokyo.”
 
“Vorresti diventare medico?”
 
“No … a dire la verità no. Ho iniziato questo genere di studi per compiacere i miei genitori ma … sento che non è la strada giusta per me. Sono venuto a lavorare per potermi finalmente mantenere e ricominciare per fare ciò che davvero mi piace.”


“Anche il ragazzo che sostituisci studiava nella tua università.”
 
Tesla sorride, annuendo.
 
“Oh si lo conosco, è un caso eccezionale: nessuno si è mai laureato così giovane in chirurgia! Quel tizio è davvero forte.”
 
Non dovevo forse smetterla di pensare a lui?
Non lo rivedrò mai più probabilmente e anche se dovesse capitare di incontrarlo nuovamente … figuriamoci se potrebbe degnarsi di notarmi. Chissà se ci arriverò mai alla laurea.
Devo togliermelo dalla testa.
 
Sospira, contorcendo le dita, lo sguardo assorto nel vuoto del cielo scuro.
 
“Tutto bene Nnoitra?”
 
“Sì … solo … mi domandavo se tu sai il suo nome.”
 
“Ma come? Avete lavorato insieme e non lo sai?”
 
“Non ci ho mai parlato molto.”
 
“Capisco, nemmeno io. È molto strambo, se ne dicono tante su di lui ma non mi sono mai prestato ad ascoltare i pettegolezzi da corridoio. Si chiama Szayel, mi pare. Szayel Aporro Grantz? Si … mi pare di si. Dicono che viva con un ragazzo bellissimo a pochi isolati da qui. Ma non ci credo, tutte le volte che l’ho visto era sempre da solo.”
 
Per un momento il cuore del corvino cessa di battere: la vista si annebbia, le gambe tremano, una vampata di calore fa strada ad un’ondata di gelidi brividi lungo la schiena ossuta.
 
Convive? Con un altro ragazzo? Un momento, e a me da quando importa?
Sono affari suoi, che faccia quello che gli pare della sua inutile vita! Che stia pure con il più bello del mondo!
Che .. che mi faccia passare il resto dei miei giorni nella gelosia …
Almeno so il suo nome … però non mi resta altro.
 
Sussulta al tocco della mano gentile del biondo sulla sua, sobbalzando dalla sorpresa. Lo fissa nei grandi occhi color sabbia, leggendo nei suoi una dolcezza infinita, densa come una carezza, le labbra sottili distese in un sorriso affabile, buono, uno di quelli che mai avrebbe sperato in vita sua. A volte, le cose belle ti colpiscono più forti di una lama quando si rivelano del tutto inaspettate.
Arrossisce, incapace di agire, senza la minima idea di come rispondere ad un gesto diverso dai pugni e dagli insulti.
 
“Scusami Tesla, io non …”
 
Non riesce a terminare la frase, due labbra si posano sulle sue lentamente, caste, morbide come velluto. Tesla appoggia le proprie mani sulle spalle del moro, premendo per rimanere in equilibrio, in punta di piedi per colmare il dislivello di altezza. Raggiunge le due soffici colline, le palpebre socchiuse, fra le dita i ciuffi ossidiana del più grande, così leggeri, lisci, profumati. Inspira la sua essenza fino a riempirsene i polmoni, il fiato mozzato nei polmoni dall’emozione, il cuore che scalpita all’impazzata.
E adesso cosa fare? Può scommetterci, riceverà sicuramente una carrellata di botte. Tornerà a casa in sedia a rotelle, ha terrore ad aprire gli occhi, non vuole farlo. Non vuole spezzare la magia, non vuole abbandonare quel ragazzo dal perenne broncio e dal volto affilato.
Lo ama dal primo istante in cui l’ha visto, non può accettare di doversi allontanare da lui.
Si separa da quel contatto paradisiaco, tremando come una foglia, mantenendo i palmi delle mani aderenti alle spalle dell’altro, senza il coraggio di guardarlo in viso.
I secondi scorrono impalpabili e veloci, galoppano fra le vie dense di luci a neon provenienti dalle insegne dei locali, rimangono sospesi in quell’angolo di tempo che li avvolge nel silenzio dei sentimenti.
Perché non succede nulla?
Lentamente alza le iridi cristalline dal marciapiede, incontrando quella spaesata di Jilga, le gote arrossate, le dita posate sulle labbra ancora accaldate.
 
“Mi piaci Nnoitra. Mi piaci … tanto.”
 
Il ragazzo dalla chioma ossidiana prova a ribattere qualcosa ma dalla bocca non esce alcun suono. Cerca di comporre una frase di senso compiuto, anche una semplice esclamazione ma smuove semplicemente le labbra senza pronunciare alcunché. Era un bacio, quello? Un bacio vero?
Mai, prima di quell’istante, aveva provato una simile emozione. Né mai , a dire la verità, aveva baciato qualcuno. In fondo, a chi poteva piacere un mostro come lui? Mostro, così si era sempre definito.
Mostro perché il suo volto è sfregiato.
Mostro perché i suoi stessi genitori l’hanno abbandonato senza preoccuparsi di lui, sbarazzandosene come un oggetto rotto.
Quindi non si era mai stupito se le ragazze gli stavano lontano, se l’unico amico che aveva era il silenzioso Ulquiorra, fisicamente perfetto ma caratterialmente molto più strano di lui. 
Ma ora … ora sembra diverso. Qualcuno lo desidera, qualcuno lo apprezza per ciò che è, qualcuno ha guardato oltre la maschera di rancore e odio che indossa ogni giorno.
 
“Tesla mi dispiace, non so come gestire questo genere di cose. Perdi solo tempo, con me.”
 
“Mi piaci, Nnoitra. Se per fartelo capire devo ripeterlo all’infinito allora lo farò.”
 
“Non so nemmeno da dove cominciare. Io non sono capace …non …”
 
“Nessuno è capace, bisogna mettersi in gioco anche se ciò implica avere paura e sentirsi fragili. Ma ne vale la pena, a volte.”
 
“Nessuno mi ha mai detto certe cose.”
 
Arrossisce, grattandosi il capo con una mano, i bracciali al polso tintinnano metallici ad ogni movimento.
“Ti va di andare a bere qualcosa? È un buon inizio.”
 
“D’accordo Tesla. Ci sto.”
 
* * *
 
Tre anni dopo …
 
“Cooosa?”
 
Il corvino lancia un fascicolo di carte sulla scrivania, affacciandosi allo sportello, le mani puntate sulla superficie liscia, puntellate da penne e matite.
 
“Tesla! Tesla cazzo! Stampa quella lettera o il direttore ci ammazza se non la trova! Arriva fra cinque minuti!”
 
“Sì Nnoitra sama.”
 
Al nuovo lavoro lo chiama così, Nnoitra sama, come una persona superiore, come il dio a cui lo ha sempre correlato, idealizzandolo nel cuore come colui da cui prendere spunto in ogni comportamento, atteggiamento, ideale. Per essergli più simile porta addirittura la stessa benda sull’occhio, per concretizzare quel sentimento di adulazione con cui si sveglia ogni mattina e che lo accompagna nel sonno ogni notte.
La loro storia d’amore non era funzionata, ma la loro amicizia sì. Eccome. Seppur … un po’ particolare.
Avevano capito che ognuno è legato da un filo del destino, che l’amicizia a volte sa essere profonda e intensa come l’amore, se non di più. E Tesla può giurare su qualsiasi cosa che ama quel corvino addirittura più di se stesso.
Ama le loro uscite al sabato, ama le sue sfuriate con i clienti poco aguzzi di prima mattina, ama anche gli insulti che gli propina quando è troppo nervoso e non sa con chi prendersela.
Anche se …
Anche se, ultimamente, ha trovato una nuova valvola di sfogo ai suoi turbamenti.
Si diverte a correggere il caffè del nuovo arrivato ogni volta possibile, un ghigno malevolo dipinto sul volto affilato, la risata acuminata sibilata fra i denti. Aceto, matite temperate, olio, qualsiasi cosa gli capiti sotto mano. Il perché di tanto astio non lo conosce nessuno.
Il povero malcapitato allora sbraita istericamente, imprecando ad alta voce, correndo nell’ufficio del proprio collega dai capelli azzurri, nuovo anche lui, per urlare insulti e fumare una sigaretta di nascosto.
E meno male che quello doveva essere il genio di Tokyo, l’astro nascente della medicina, il dipendente più illustre del Centro Espada.
A Nnoitra Jilga, sinceramente, sembrava solamente una femmina mal riuscita con sembianze da confetto.
Eppure … eppure gli pareva di averlo già visto da qualche parte.
 
“Ecco Nnoitra sama, è la carta che mi hai chiesto.”
 
“Siamo salvi.”
 
Dei passi si avvicinano, qualcuno bussa alla porta: il moro si lancia sulla maniglia, aprendo con poca eleganza, il foglio stretto fra le mani, un’espressione fintamente seria sul volto.
Quello che si trova di fronte, però, non corrisponde esattamente alle sue aspettative.
 
“Buondì. Aizen sama ha detto di lasciare a me quanto dovete consegnargli.”
 
L’uomo protende i palmi delle mani tranquillamente, lo sguardo scettico trapelante dalle iridi dorate stranamente prive dei soliti occhiali dalla montatura chiara, un ghigno consueto ma poco divertito schiuso fra le labbra sottili.
Ci può scommettere, giura di averlo già visto.
Il camice bianco aderisce perfettamente alla figura snella, sapientemente abbottonato tanto da esaltare i fianchi stretti ed il petto leggermente scolpito, i muscoli delle braccia e delle spalle.
Sarà anche antipatico fuori maniera, ma è assolutamente meraviglioso.
 
Cosa diamine sto pensando? È uno stronzo che guarda tutti dall’alto in basso! Sarà anche fottutamente bello, ma avere a che fare con lui è peggio di una secchiata d’acqua gelida appena svegli.
Faccio bene a tormentarlo tutto il giorno.
 
“Allora…? Devo aspettare l’anno nuovo o intendi smetterla di fissarmi imbambolato e consegnarmi quella carta?”
 
Il moro sussulta, lanciando un’occhiata al foglio stropicciato fra le dita lunghe e magre.
 
“Sarà meglio che te ne stampi un altro.”
 
“Non serve, glielo porto così.”
 
“Ho detto che ne stampo un altro!”
 
Il medico si stringe nelle spalle, appoggiandosi stancamente allo stipite della porta, intendo a giocherellare con lo stetoscopio appeso al collo.
Raccoglie una ciocca rosata dietro le orecchie, rispondendo mellifluo come consuetudine.
 
“Oho, che galanteria. D’accordo, come vuoi.”
 
Perché diavolo mi è così famigliare??
 
L’iride ametista si posa furtiva sulla targhetta appesa al taschino del camice lindo, leggendone sottecchi il nome.
 
“Dott. Szayel Aporro Grantz”
 
“Sì? Mi chiamo così.”
 
Merda, stavo leggendo a voce alta.
 
“Qualche problema?”
 
Nnoitra scuote la testa, lasciando ondeggiare i lunghi capelli neri.
Ripete quel nome nella mente, aggrappandosi alle lettere, ai ricordi, ai tratti del suo viso, a qualsiasi cosa pur di trovare una spiegazione a quella morsa nello stomaco e a quella sensazione strana che gli stringe il petto.
Un sussulto, un rivolo di sudore freddo.
Medico.
Capelli rosa.
Odioso.
Non sarà mica …?
 
“Grazie caro. Ci vediamo.”
 
Volta le spalle afferrando cautamente il foglio dattiloscritto, allontanandosi dal piccolo ufficio caotico in silenzio, passeggiando tranquillamente con le mani congiunte dietro l’esile schiena.
 
Finalmente ci rincontriamo, Szayel.
 
“Oi Tesla ..”
 
“Sì, Nnoitra sama?”
 
“Hai dell’aceto?”
 
È proprio vero.
Certe persone, a volte, non cambiano mai.

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Capitolo 24
*** Extra n° 2 ***


Ciao lettori! Ci vediamo a fine capitolo con una comunicazione importante :) Buona lettura!

Extra n°2: Il passato di Aizen Sosuke e di Ichimaru Gin


 
Sosuke Aizen è da sempre un ragazzo riservato, con dei grandi occhi mogano talmente scuri da scrutarti nel profondo, due pozze di cioccolato in cui perdersi in ogni istante coronate da un’ordinaria montatura di occhiali da vista. Già a primo impatto di lui si possono capire molteplici aspetti: una vita monotona, opprimente, cadenzata dal ticchettio dell’orologio appeso sulla magistrale parete avorio dell’enorme soggiorno, scandita dall’intervallarsi perpetuo di lezioni e dal voltare delle pagine di innumerevoli volumi. Storia, latino, matematica, teologia, e molte, molte altre materie ancora si susseguono una dopo l’altra durante i lunghi pomeriggi autunnali, scivolando come serpi fra le foglie scricchiolanti e giallastre, avvizzite dai primi freddi serali.
Ha solo diciannove anni, un soffio di giovinezza mai assaporata appieno, una manciata di anni privi di valore, assoggettati dalla personalità chiusa in se stessa, da un volto inespressivo, dallo sguardo vitreo, proiettato altrove in fantasie lontane anni luce dalla mera e tetra realtà.
Sospira, avviandosi verso l’imponente finestra dello studio affollato di libri ordinatamente riposti su incontabili mensole stipate le une accanto alle altre, tanto da parere una biblioteca piuttosto che una semplice stanza di quell’enorme villa in cui è solito trascorrere il tempo dedicandosi alla lettura, concedendosi una vaga distrazione di tanto in tanto nel vezzo di osservare il vasto parco esterno alla struttura, denso di alberi incredibilmente alti e possenti dalle folte chiome ora tinte con colori ottobrini dalle tonalità rossastre, dorate, marroni.
Fissa quel paesaggio per minuti interminabili lasciando scorrere le iridi scure sul cancello di ghisa nera, lontano e austero, fino alla fontana protetta dai rami delle querce e dei vecchi castagni che, scossi dal vento profumato di terriccio umido, lasciando cadere i propri frutti dalle spine acuminate facendoli rovinare al suono con un tonfo buffo.
Ricorda quando da piccino suo padre lo caricava sulle spalle portandolo a raccogliere quelle castagne golose, spingendolo sempre più su per catturarle tutte come se fossero ambiti trofei. Le chiudeva nelle piccole mani, soffiandoci sopra con accuratezza per scaldarle dal freddo della sera baciata dagli ultimi raggi del tramonto quasi spento all’orizzonte, il cielo puntellato dalle prime stelle. Poi lo guardava con l’ammirazione con solo un figlio può riservare verso il genitore che l’ha cresciuto, porgendogliele con orgoglio ed ascoltando gli elogi dell’uomo dalle spalle massicce e dalla corporatura robusta, avvolto da un lungo cappotto grigio, diplomatico, i capelli castani adagiati sulle spalle: quando arrivava a casa era la prima cosa che faceva, sciogliere la coda che li teneva intrappolati per liberarli dalla presa mortale, fluenti e lisci, profumati d’acqua di colonia e matite temperate, probabilmente quelle dell’ufficio in cui lavorava da anni. E Sosuke non si stancava mai di attenderlo, i piccoli palmi adagiati alla finestra del soggiorno che ora ignora completamente, indifferente alle sgridate della domestica ch’era solita ripetergli di spostarsi da lì perché avrebbe sporcato il vetro lindo da lei precedentemente pulito con minuziosità. Ma lui no, non le dava retta e rimaneva in quella posizione per ore, le perle cioccolato puntate sul cancello in attesa di veder rientrare l’automobile nera del padre per poi correre giù per le scale a perdifiato ed andargli incontro, saltandogli in braccio e lasciandosi carezzare i ciuffi mori con affetto, finalmente con il sorriso fra le labbra.
Di lì a qualche anno , però, le cose hanno iniziato ad assumere una piega imprevista.
I minuti scorrevano ugualmente lenti, consumati fra una gomma da masticare ed un thè caldo, corrosi come la legna arsa nel camino del salotto, effimeri come le pagine lette distrattamente senza aver afferrato nemmeno un concetto. Continuava ad aspettarlo davanti alla grande finestra, in attesa di veder comparire il veicolo scuro ben noto, senza però poter mai colmare questo desiderio. Attendeva e attendeva, ma il cancello rimaneva chiuso simile alle grate di una prigione, serrato, invalicabile giorno dopo giorno, notte dopo notte.
Gli anni volavano, con loro le stagioni, i cambiamenti, le scuole, ed il cuore di Sosuke si era lentamente ricoperto di ghiaccio, svuotandosi di quell’amore tenuto segretamente e gelosamente custodito al suo interno, ora gettato ai rovi e trafitto dalle spine. Se lo vedeva durante le festività o i fine settimana poteva considerarsi fortunato ma, ormai, non gli importava più: aveva perso la speranza di poter sostituire, anche per un solo istante, quel lavoro divenuto improvvisamente fondamentale, ragione di vita, base delle continue e latenti assenze dalla vita familiare di quel padre gentile trasformatosi all’improvviso in un fantasma, scarno di quegli abbracci che era solito regalargli ogni giorno, sempre più gravido d’impegni, riunioni, sforzi con l’unico fine di accrescere il suo patrimonio e lanciare nel mercato la propria società ogni istante maggiormente competitiva, produttiva, agguerrita. Era un nocciolo bollente, instabile, una creatura da monitorare costantemente, tanto preziosa da cancellare dalla mente dell’uomo la presenza del figlio trascurato, abbandonato nella solitudine.
Anno dopo anno le castagne continuavano a cadere sul manto erboso del vasto giardino, marcendo ai piedi degli alberi dai fusti nodosi, accoccolandosi fra le radici radicate sul terreno per rimanervi finchè qualche corvo non si fosse deciso a sferzarle con il proprio becco acuminato.
 
Sosuke sospira, allontanandosi dal vetro terso dello studio come per dissipare dalla mente quel terribile ricordo, voltando le spalle al parco leggermente incolto per adocchiare svogliatamente l’ora annotata sul vecchio orologio; le sei e un quarto di sera, tempismo perfetto per concedersi un bagno caldo, avvolgente, immergendosi nella schiuma mielata fino alla punta del naso, allontanandosi dai pensieri e dalle preoccupazioni.
Muove qualche passo distratto verso la porta chiusa, di legno di ciliegio, quando questa si spalanca senza esitazione.
 
“Sosuke. Speravo proprio di trovarti qui.”
 
Il ragazzo inclina le labbra soffici in una smorfia contrita, disgustata, osservando il volto scarno e pallido dell’uomo che una volta era solito chiamare con gli appellativi più affettuosi. Il solo pensiero gli dà il voltastomaco.
 
“Che vuoi?”
 
“Ti sembra questo il modo di rivolgerti a tuo padre?”
 
Cerca di alzare la voce assumendo un tono infervorato, ma la conversazione cade nel più tetro silenzio. Si fissano senza dire nulla, ognuno chiuso in un rimorso personale graffiato da conflitti mai risolti, da parole non dette che spingono per uscire e liberarsi senza però ottenere alcuna valvola di sfogo. Sembra così vecchio ora che gli anni sono scivolati via, abbruttito dalla brama di potere e dallo stress delle notti insonni.
Non gli sembra nemmeno lui.
 
“Non importa.”
 
Biascica infine, riavvicinandosi all’uscio senza distogliere le iridi ebano da quelle mogano del figlio, continuando il discorso senza la stessa convinzione ostentata fino pochi attimi prima.
 
“Hai scelto allora? Che università frequenterai?”
 
Il giovane annuisce, rimanendo compostamente in piedi senza muovere alcun muscolo, rigido come una tavola di legno.
 
“Allora? Che cosa?”
 
Sosuke morde il labbro inferiore, torcendo le dita sottili in un groviglio agognante.
 
“Filosofia.”
 
L’adulto sgrana gli occhi, sbiancando all’istante.
 
“Scusa, cos’hai detto?”
 
“Filosofia. Filosofia teoretica, per l’esattezza.”
 
“Scordatelo.”
 
Il tono aggressivo saetta nella stanza cupa come un tuono a ciel sereno, inondando l’atmosfera di palpabile agitazione, nervosismo, tensione; l’unica fonte di calore è l’alone dorato della lampada adagiata sulla scrivania, una fittizia illusione destinata a svanire come un soffio di vento.
Un pugno sul muro, uno sguardo iracondo e deluso, una smorfia di disprezzo sul volto sciupato.
 
“Tu studierai economia ed erediterai la mia impresa. Non ammetto repliche.”
 
Lo abbandona vomitandogli addosso quell’ordine, lasciando la stanza più vuota che mai, il rumore dei passi attutito lungo le scale avvolte dalla penombra.
 
Economia … che schifo.
 
Ora come ora neppure il bagno caldo gli sembra un’idea allettante.
Qualcuno bussa alla porta timidamente, una chioma di morbidi ricci biondi fa capolino dallo stipite abbozzando un sorriso imbarazzato.
Probabilmente aveva assistito a tutto ma non voleva darlo a vedere. Sosuke fa cenno alla domestica di entrare, notando che stringeva qualcosa nella mano.
O meglio, qualcuno.
 
“Mi dispiace disturbarla signorino Aizen ma ho un’importante comunicazione per lei. Ecco vede …”
 
Avanza di qualche passo, trascinando dietro di sé un ragazzino dalla chioma argentea, la pelle candida come neve, lattea come mai aveva visto in tutta la sua vita. Le labbra sono schiuse in una smorfia beffarda, tanto finta da far apparire il viso magrissimo dai lineamenti dolci simile ad una faccia volpina, disegnata a matita, le palpebre socchiuse in una buffa espressione.
È magro, magro davvero. È così esile da sembrare sull’orlo di sgretolarsi da un momento all’altro, come un vaso di cristallo sull’orlo del tavolo, traballante, instabile.
 
“E’ il figlio di un collega di tuo padre … vedi, ecco … i suoi genitori sono … ecco, non possono più tenerlo con loro.”
 
La donna arrossisce, cercando di celare con una risatina nervosa la bugia appena biascicata dalle labbra carnose.
 
“Da oggi abiterà con noi quindi per favore, cerchi di farlo mettere a suo agio. Fin’ora non ha voluto parlare con nessuno.”
 
“Non parla?”
 
La signora annuisce esasperata, lanciando un’occhiata al piccolo intento a guardarsi attorno con curiosità. Si dilegua in fretta, salutando con urgenza i presenti per liberarsi finalmente di quel peso, di quell’individuo inquietante e gelido come l’inverno.
Il castano lo fissa per una manciata di secondi, soppesandone i tratti fisici, la probabile età, la provenienza.
 
“Come ti chiami?”
 
L’interrogato alza il viso verso il più grande, schiudendo le palpebre tanto da lasciar intravedere due meravigliose perle talmente azzurre e chiare da sembrare trasparenti.
 
“Ichimaru Gin.”
 
“Ciao Gin. Io sono Aizen Sosuke.”
 
“Ti hanno detto tante bugie, lo sai?”
 
Il ragazzo punta le iridi castane su quelle dell’altro, scrutandolo profondamente, assecondando quello strano interesse istantaneamente nato verso quella creatura.
 
“Che genere di bugie?”
 
“I miei genitori sono morti in un incidente d’auto. Io so parlare. E tuo padre mi ha preso solo perché il mio gli ha sempre riempito la testa dicendogli che da grande devo fare l’avvocato e che se gli fosse accaduto qualcosa avrebbe dovuto assicurarsene lui.”
 
“Erano molto amici, evidentemente.”
 
“O forse lo ha solo pagato.”
 
Lo dice con una tale tranquillità da mettere i brividi, indifferente, estraneo alla sua stessa vita, alle vicende che gli stanno cambiando il destino.
E soprattutto, lo dice sorridendo.
 
“Quanti anni hai?”
 
Gli si avvicina di qualche passo, attendendo la risposta.
Gin giocherella con il bottone della felpa azzurrognola, ignorando di proposito l’interlocutore ma fornendogli ugualmente qualche informazione.
 
“Undici.”
 
“E non sei triste?”
 
“Io sono un serpente. La mia pelle è fredda. Non ho sentimenti. Con la punta della lingua … cerco la preda strisciando qua e là … e ingoio ciò che mi piace in un boccone.”
 
 
* * *
 
Quando il vecchio Aizen li ha lasciati era poco più che cinquantenne. Un dolore fulminante al petto, la vista annebbiata, una fragorosa caduta sul pavimento dell’ufficio in cui ormai era solito trascorrere notte e giorno. A nulla erano valsi i tentativi di rianimarlo da parte dei più fidati colleghi, né la folle corsa dell’ambulanza precipitatasi sul luogo di lavoro fulminea, veloce come un battito di ciglia, ma ormai era tutto inutile. “Karoshi” avevano detto i medici, giustificando quell’impensabile mancanza priva di alcun preavviso, sospirando al pensiero dell’ennesima vittima dell’eccessivo lavoro, di quel nuovo soggetto che viveva iniettandosi stress nelle vene anziché sangue.
Quel giorno il cielo di dicembre era incredibilmente plumbeo, così denso di nubi da non far trasparire il benché minimo raggio di sole, così scarno, effimero, malato, sferzato come gli alberi scuri scossi dal vento in quel giardino enorme ed incredibilmente desolato. La domestica dai lunghi boccoli color paglia rigirava nervosamente una ciocca dorata fra le dita grassocce, sudate, sfibrandola con quel tocco agitato, gravido di un panico profondo, un baratro senza argini a cui arrampicarsi. Non sapendo come comportarsi aveva atteso un’intera giornata prima di comunicarlo al figlio silenzioso, rinchiuso in quello studio colmo di libro e manuali, sommerso da pile e pile di fogli scribacchiati d’appunti e schemi d’economia.
Ma ora è il momento di vomitargli addosso la verità, nonostante lo squarcio nel petto.
 
“Entra, lo so che sei lì.”
 
La donna sussulta, mordendosi il labbro inferiore senza nemmeno accorgersene. Entra inferma nella saletta oppressa da una perenne penombra, rischiarata solamente dall’alone dorato della lampada consuetamente posta all’angolo della massiccia scrivania. Cerca di trattenere il tremore scomposto degli arti, tentando di parlare con voce composta nonostante le parole si strozzino nella gola arsa, accavallandosi le une sulle altre senza trovare alcuna via di fuga.
Sinceramente, non sa nemmeno lei per quale motivo si sente tanto tesa: in fondo lo odiava.
Odiava quell’uomo, odiava i suoi modi severi, sgarbati, il suo sguardo sprezzante quando ti scrutava dall’alto in basso ostentandoti la sua superiorità. Detestava il modo in cui aveva abbandonato il figlio a se stesso, confinandolo nelle mura della villa deserta, ormai abitata solo dalla polvere, unica compagnia nello scorrere dei giorni.
Eppure, il solo pensiero di dover  confessare a quel ragazzo neo venticinquenne il decesso del padre la colma di gelido terrore.
Sente le sue iridi mogano addosso, pozzi profondi e silenziosi, spettri di solitudine. La fissano intensamente, senza schiodarsi dalle sue, di un verde chiaro e spento, ponendosi impudenti nell’attesa di ascoltare la comunicazione ormai prossima.
Non c’è più tempo.
 
“Mi dispiace disturbarla ma …”
 
Solo in quel momento si accorge della presenza dell’altro ragazzo, tranquillamente accovacciato sulla panca di legno pesante accanto al camino, le mani protese verso le braci ardenti striate di porpora. Da quanto tempo la sta fissando? Non ne ha idea, ma quel contatto le mette i brividi.
No, non solo quel contatto. Tutto di lui le ha sempre scaturito una terribile inquietudine: la pelle lattea come la neve, i capelli tanto fini da sembrare fili d’argento, il perenne sorriso stampato fra le labbra sottilissime, inarcate in una smorfia beffarda, ferina. Non hai mai capito cos’avesse sempre da ridere, eppure qualunque cosa pareva e pare tutt’ora divertirlo moltissimo.
 
“Oh, c’è anche lei signorino Ichimaru.”
 
Si lascia sfuggire quel rantolo preoccupato, ricominciando a torcersi le mani con maggior foga di prima. Di rimando il giovane sedicenne si stringe nelle spalle, inclinando appena la testa sul lato sinistro senza proferire alcuna parola. Non che l’avesse sentito chiacchierare anche una sola volta da quando si era trasferito nella loro dimora, molti anni prima.
Quel ragazzo non era umano, non poteva esserlo. Aveva qualcosa di talmente sinistro da renderlo più simile a un diavolo che a una creatura della terra. Eppure, il suo compagno di studi sembra pensarla in tutt’altro modo, gradendo la sua silenziosa compagnia e trascorrendovi insieme pomeriggi interi. Talvolta li aveva spiati passeggiare fra le vie del gigantesco parco, vicini, coperti dalle folte chiome dei castagni e dei pioppi in quelle camminate che duravano addirittura ore.
Ma non è di certo questo il momento di rivangare il passato.
 
“Oggi vi porto … una brutta notizia.”
 
Inspira profondamente, deglutendo il nodo stretto nella gola.
 
“Il signor Aizen, suo padre, è deceduto ieri mattina. Mi dispiace … mi dispiace davvero molto. Se vuole saperne di più posso …”
 
“No, va bene così.”
 
La donna si irrigidisce, portando una mano al cuore improvvisamente immobile nella cassa toracica, sconvolto da tanta calma, da tale assenza di sentimenti sul volto giovane e serio, coinciso, sormontato solo dalla semplice montatura scura degli occhiali da vista. Solo ora si accorge di quanto la sua voce assomigli a quella del padre, roca, profonda, suadente.
Un guizzo di curiosità la induce a far strisciare lo sguardo su Gin, rimasto indifferente alla notizia, ancora agghindato da quella falsa smorfia, da quel prototipo di sorriso da serpe incancellabile dal volto angelico. Per tutto il tempo non lo aveva incrinato neppure di una virgola.
Con estrema fatica la domestica imprime forza nelle gambe molli, impedendo loro di cedere e farla rovinare al suolo, sul pavimento di parquet scuro: si sente come se stesse guardando delle immagini in uno specchio distorcente, impossibilitata a riconoscere la realtà in cui per anni aveva vissuto.
 
“Se preferite vi porto la cena qui, magari …”
 
“Non ve n’è bisogno. Lasciaci finire di studiare, probabilmente finiremo tardi. Non aspettarci per cena, credo che usciremo a prenderemo qualcosa fuori.”
 
“Ma signorino! Lo sa che suo padre non …”
 
Il volto dello studente si incupisce, abbassandosi impercettibilmente; le ciocche castane ricadono sulle fronte liscia, le labbra si inclinano in un tetro accenno di sorriso.
 
“Non vuole? Non credo che risorgerà dalla tomba solo per impedirci di uscire la sera. Ed ora và, non voglio ulteriori distrazioni.”
 
Lei si dilegua, il fiato compresso nei polmoni, le figura bassa e tozza sparisce oltre la porta velocemente chiusa con un leggero tonfo, l’eco dei passi lungo le scale si spegne in breve tempo come un mozzicone di candela ormai consumato.
Solo quando è definitivamente sparito, Ichimaru decide di prendere la parola, sollevandosi dalla cassapanca ed avviandosi verso il compagno, immersosi in quegli schemi complessi e densi di parole senza degnarlo di uno sguardo.
 
“Davvero dopo usciamo?”
 
Sosuke alza le perle color cioccolato, incrociando quelle glaciali dell’altro, tanto chiare da sembrare un vetro lavorato a mano. Annuisce, posando il tappo della penna nera nell’astuccio grigio poco lontano dal libro d’economia. Un lampo di entusiasmo si schiude nel viso glabro del più piccolo, che si siede sulla scrivania accavallando le gambe, indifferente al fatto d’essersi appollaiato sopra appunti probabilmente importanti.
 
“Cosa c’è Gin?”
 
“Mi stavo domandando una cosa.”
 
“Che cosa?”
 
“Veramente non ti dispiace neppure un po’?”
 
Aizen alza le spalle, per nulla sorpreso da quell’interlocuzione, ripetendo l’ultima parte della frase accompagnandola con un cenno esaustivo del capo.
 
“Neppure un po’.”
 
Il giovane ridacchia, balzando giù dal mobile come un felino, atterrando sul tappeto leggero, silenzioso, in punta di piedi, affondandoli nel morbido tessuto.
 
“Mi piacerebbe andare al cinema.”
 
“Questa sera?”
 
“Questa sera.”
 
Un attimo di silenzio, poi un muto segno d’assenso negli occhi castani del più grande. Lo scruta allontanarsi zampettando verso il camino dalle braci quasi spente, immerso in chissà quali pensieri, ignoti persino a lui, l’unico con il quale parla apertamente, come un ragazzo normale.
Lo fissa assorto, delineando la schiena magra protetta dal maglione chiaro, decifrando i movimenti delle dita affusolate mentre raccolgono un ceppo di legna da ardere.
 
“Dimmi una cosa Gin. Cosa farai adesso che il vecchio è morto?”
 
Questi si volta sorpreso, sbattendo le palpebre come un cerbiatto; perfino il suo stupore sembra finto e calcolato.
 
“In che senso?”
 
“Hai ancora intenzione di studiare giurisprudenza fra due anni?”
 
“Sì. Ormai è stato deciso, no?”
 
“Sei libero di cambiare, ora.”
 
Gin espira una risata divertita, sbracandosi sulla panca dopo aver lanciato il ceppo sulle ceneri rossastre , gli arti incrociati dietro la nuca dal manto chiarissimo, quasi albino.
 
“Mi va bene lo stesso. Anche tu sei stato obbligato eppure tra nemmeno un mese ti laurei ed erediti tutto quanto. Che bella coincidenza ah?”
 
Cinguetta baldanzoso, proiettando lo sguardo artico nel buio oltre la grande finestra, rischiarato solo dai lontani lampioni adiacenti al cancello di ghisa nera.
Solo dopo molti anni Sosuke scoprirà la vera ragione di questa sua scelta.
 
 
Al termine del rito funebre il parroco ha spontaneamente deciso di appartarsi con i due giovani in un angolo della chiesta vuota, mosso dalla divina bontà del salvatore che vuole raccogliere ogni anima smarrita e ricondurla alla retta via. Li haa guardati con commiserazione, entrambi fasciati nell’abito nero e lindo, entrambi con le guance talmente asciutte da sembrare appena tornati da una passeggiata al supermercato piuttosto che dal cimitero dov’è stato appena sepolto il padre.
Quella visione gli provoca una folata di compassione, povere creature, tanto da fargli allungare la mano sulle loro spalle ed invitarli ad accomodarsi su una panca di legno scricchiolante per ascoltare le sue parole. Lo seguono in silenzio, stringendosi nei cappotti lunghi fino le ginocchia per proteggersi dal gelo particolarmente pungente.
Così giovani, così belli, così incredibilmente vuoti.
 
“Siete credenti, ragazzi miei?”
 
I due si scambiano un’occhiata interrogativa, chiusi nel mutismo, senza distogliere lo sguardo dall’uomo anziano poco distante da loro, fra la mani tremule il testo sacro letto pochi istanti prima. Sorride amaramente, sospirando.
 
“E’ comprensibile perdere la fiducia quando accadono drammi del genere. Ma non dovete preoccuparvi, perché ora è in un posto migliore.”
 
In effetti, non ci vuole molto a trovarsi in un posto migliore della realtà, pensa Sosuke annuendo placidamente giusto per accontentare il parroco che si sta adoperando per alleviare loro il morale.
La verità che trova quella morte assolutamente inutile: decisamente troppo tardiva per permettergli di prendere fra le mani le redini della propria vita e condurla dove preferisce, esaustivamente prematura per concedergli anche solo il piacere di mostrare i frutti dei suoi forzati studi dai risultati, nonostante tutto, perennemente eccellenti.
È inutile mentire, affollare la più intima morale con infinite bugie: alcune persone nascono puramente per insinuare crepe e dolore nell’esistenza altrui; non hanno altri obiettivi, altre finalità: solo debilitarti, farti cadere, soffrire e poi sparire, lasciandoti in solitudine nell’oblio che ti hanno creato attorno.
Ecco perché il suo cuore palpita tranquillamente, indifferente all’olezzo dell’incenso e alla luce tremante delle numerose candele bianche distribuite accanto le alte pareti decorate da rosoni finemente ricamati.
Per l’intera funzione non aveva ascoltato alcuna parola, distante dagli sguardi addolorati della domestica e di una molteplicità di parenti e individui, probabilmente colleghi, mai visti prima.
Quanta ipocrisia, perfino la morte non riesce a debellarla.
Ha continuato a punzecchiare il tarlo dei ricordi nella mente sgombra, ricacciando malamente indietro l’immagine di un bimbo dalle mani piccole che le protende verso una figura più alta e massiccia, porgendogli una manciata di castagne dal guscio duro, con grande orgoglio; lo allontana infastidito, segregandolo in un cassetto lontano destinato a non riaprirsi mai più, luogo dove giacciono le passeggiate improvvisate lungo l’argine erboso del fiume baciato dai raggi del tramonto autunnale sotto il cielo aranciato e roseo, dove rantolano assopite le mattine delle domeniche quando si alzava e dal letto correva in camera del padre, buttandogli le braccia al collo, felice di poter passare l’intera giornata con lui.
Non ha senso rivangarli, ormai. Certe cose possono solo causare dolore.
 
“Potete confessarvi se volete, per liberarvi dai pesi sulla coscienza e tentare di stare meglio. Che ne dici di iniziare tu?”
 
Il parroco indica affabilmente il giovane dalla pelle diafana, colore della Luna, che come unica risposta inarca gli angoli della bocca in un ghigno derisorio, sinistro, inclinando appena il capo verso sinistra, accompagnato dall’oscillare dei capelli fini e soffici , così chiari da sembrare bianchi.
 
“Perché ridi ragazzo? Non sei triste?”
 
“Triste? Io?”
 
Le campane suonano un rintocco, il suono metallico s’espande vibrante fra le panche vuote rimbombando in quel grande spazio desolato.
Lentamente s’attenua, facendo sprofondare i presenti in un gravoso silenzio.
L’anziano si massaggia la fronte, stringendo le palpebre pesanti e sofferenti, sconvolto.
 
“Come puoi non provare sentimenti?”
 
“Sentimenti … Io non li conosco.”
 
Ridacchia, portando le dita affusolate davanti le labbra sottili.
 
“Io sono un serpente.”
 
 
* * *
 
Aizen rigira la cartellina contenente numerose pratiche fra le dita esperte, posandola sulla superficie liscia della scrivania: diamine, riavere Ulquiorra nell’equipe è stato davvero un colpo di fortuna.  Sorride intimamente, annuendo compiaciuto per quel lampo di provvidenza divina che ha permesso al Centro Espada di riacquisire uno dei migliori membri del suo team. Certo, l’assenza di Grantz e Jilga è stata difficoltosa da superare ma nel corso degli anni è riuscito a rimarginare la voragine lasciata indietro dai suoi due ex colleghi, ricucendo i lembi dell’attività ed assumendo un nuovo personale, seppur estraneo, privo di confidenza, separato da un muro invisibile.
Essere un direttore non è di certo un’attività facile: coordinare, organizzare, porre attenzione ad ogni dettaglio, colmare le lacune degli altri e farsi carico delle proprie, tirare il respiro fino all’ultimo secondo della giornata, non sapere cosa significa avere un weekend libero.
Per fortuna, però, con lui c’è l’avvocato Ichimaru.
Gli lancia un’occhiata furtiva mentre digita assorto, le mani scorrono sulla tastiera del portatile come quelle di un pianista nel bel mezzo del suo pezzo forte, i ciuffi chiarissimi ricadono sulla fronte liscia conferendo a quel volto affilato la stessa espressione giovanile e delicata che lo caratterizza da sempre. Kami, quell’uomo lo fa impazzire sotto ogni punto di vista.
Si alza silenziosamente dalla sedia, avvicinandosi al compagno per poi portare le mani sulle sue spalle esili, le labbra posate sulla guancia in un bacio casto, preludio a qualcosa di ben meno ingenuo.
Ichimaru sussulta stupefatto, rivolgendo un’espressione felice al castano.
 
“Che bella sorpresa!”
 
L’amante sorride, passando le dita allungate fra le ciocche argentee, una carezza delicata, seguita dalle labbra di entrambi unite in un bacio maggiormente approfondito, dal retrogusto di caffè e caramelle alla menta, profondo, intenso tanto fa far stringere il manto mogano del direttore fra le mani del collega.
Si separano qualche istante respirando a fondo, ansimanti, divertiti da quel vezzo poco professionale, punzecchiati dal brivido di potersi far cogliere il flagrante in qualsiasi istante.
Il capo si allontana sogghignando, lanciando uno sguardo bramoso ed eloquente in direzione dell’avvocato stravaccato sulla sedia di pelle nera, le braccia ora conserte dietro la nuca, il torace candido coperto da una chiara camicia azzurra.
 
“Comportati bene Ichimaru.”
 
Ammicca divertito, conscio dell’effetto di quelle attenzioni sul corpo bollente di Gin, della magnetica attrazione esercitata su di lui senza limiti. Questi finge una smorfia dispiaciuta, accavallando le gambe per celare …l’emozione, consapevole che a prescindere dal proprio gesto quel furbo direttore lo conosce talmente a fondo da poter prevedere ogni sua mossa.
Decide allora di cambiare strategia, fingendosi indifferente.
 
“Ieri ho incontrato Tia davanti al parcheggio.”
 
Aizen alza le iridi mogano sul collega, chiedendosi a quale gioco stia giocando.
 
“Ah si? Bene, mi fa piacere.”
 
“Stava andando a fare la spesa. Lo sai che ora ha un nuovo marito ed anche una figlia no? Mi pare si chiami … hm … fammi pensare …”
 
“Si chiama Tosen, la figlia non ricordo.”
 
“Ecco, Tosen! Esatto! Ha detto di salutarti.”
 
“Grazie per avermelo riferito Gin. Mi vai a prendere un caffè?”
 
Ichimaru sogghigna, pregustando il sapore della vittoria: è caduto nella sua trappola.
 
“Quando ti annoio mi spedisci sempre a prenderti il caffè.”
 
Sosuke inarca un sopraciglio, scostando con eleganza il ciuffo scuro posato sulla fronte ampia.
 
“E allora?”
 
Gin sorride, avvicinandosi felino fino a sedersi sulle sue gambe come un gatto bisognoso che si struscia sulle gambe del padrone di casa facendo le fusa. Avvicina le labbra al suo orecchio, mordendolo giocosamente prima di sussurrarvi dentro con malizia:
 
“E allora se lo vuoi devi darmi qualcosa in cambio.”
 
Ora capisce, comprende eccome. Non può davvero farci nulla, non può sottrarsi da quella creatura, non può scindersi da lui, dalla sua gelosia, dalla sua brama d’averlo sempre solo per sé, dallo sguardo fuggente, dai modi ambigui, dalla mente complessa.
Da quanto tempo lo ama? Probabilmente da sempre.
Da quando l’ha visto arrivare nel suo studio coperto solo dalla felpa chiara, da quando lo spiava sottecchi mentre scribacchiava i compiti seduto accanto a lui. E’ incredibile come entrambi si siano decisi solamente dopo un’infinità di tempo a dichiararsi ed accettare i rispettivi sentimenti, quando ormai l’età adulta ha posto loro la necessità di cercarsi nuovamente, stavolta per non lasciarsi più.
Non ha importanza il matrimonio fallito lasciato alle spalle, né le numerose relazioni clandestine consumate fra le pareti degli uffici o nella stanza del proprio appartamento lussuoso: nella mente, l’unico e solo era, è, sarà, rimarrà Ichimaru Gin.
Un serpente raro, dalla pelle lattea ed incredibilmente liscia, dall’apparenza distante, dal costante diniego verso i sentimenti: eppure sente il suo amore, tanto forte da bruciarlo, folgorarlo come un veleno corrosivo. Un veleno che scalda entrambi facendoli stare bene.
 
Un serpente, il mio serpente.
Maledetto Gin, come hai fatto a stregarmi in questo modo?
 
Assapora le sue labbra posate sulle proprie, rabbrividisce al contatto di quel corpo magro e sinuoso avvinghiato al suo, stretto, dal tepore gradevole, profumato di bagnoschiuma al muschio bianco. Un ultimo sguardo, prima di abbandonarsi ad una scia di baci bollenti lungo il collo.
 
Un serpente bellissimo.
Un serpente mio per sempre.




Rieccovi! Innanzitutto grazie per essere giunti fin qui, spero che questo capitolo vi abbia trasmesso le stesse emozioni che ho provato scrivendolo. Non so perchè ma ci ho davvero messo il cuore. In fondo non ho mai pensato che Aizen fosse cattivo, piuttosto una persona diventata malvagia a causa di una forte solitudine interiore.

Ed ora passiamo alla notizia felice. Questo è il penultimo extra e il prossimo lascio decidere a voi su chi incentrarlo poichè io amo tutti questi personaggi e non riesco a decidermi XD Vi proporrò una lista , avete un 
massimo di 2 scelte (che potete comunicarmi come e dove volete). Quella più quotata sarà la vincintrice. Se vi saranno pareggi o scelte disparate mi affiderò all'ispirazione del momento. 
Ecco a voi la lista (tutte coppie ufficializzate nel corso della storia o ugualmente accennate):
-Se ho dimenticato qualcuno chiedo perdono ma solo ora mi accordo di aver creato un mostro peggiore di Beautiful-
  • Aizen/Gin
  • Gin/Izuru
  • Aizen/Szayel
  • Szayel/Nnoitra
  • Nnoitra/Tesla
  • Grimmjow/Ichigo
  • Grimmjow/Ulquiorra
  • Grimmjow/Szayel
  • Ulquiorra/Orihime
  • Stark/Rukia
  • Haru da più grande, versione teen (non voglio escluderlo, è adorabileXD)
​Vi ringrazio in anticipo, il vostro aiuto è molto importante.
Grazie di cuore davvero, 

Un abbraccio a voi che mi seguite sempre

Valentina :****

 

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Capitolo 25
*** Extra n° 3 ***


Vi avviso ora (anche se ci rivediamo a fine extra): ho deciso di scriverne un altro che sarà l'ultimo davvero! Detto questo ... a dopo, buona lettura! 



Extra n° 3: Il passato di Grimmjow e Szayel Aporro



Gli ultimi raggi di sole trafiggono la fitta coltre di dense nubi, ora rade all’orizzonte nonostante alcuni cumuli continuino a sovrastarsi sopra i tetti delle case dai muri bagnati e le alte vette dei grattacieli del centro cittadino. Sono ammassi grigiastri, strascico di una pioggia ottobrina durata per l’intero pomeriggio ticchettando con il suo canto autunnale le foglie degli alberi dalle tonalità calde, rosse, aranciate, avvolgenti come il vento fresco che le trasporta per le strade asfaltate in una danza perpetua.
Szayel cammina tranquillamente, appena più spedito del solito per sfuggire alla brezza pungente della sera, così giocosa da insinuarsi fra i capelli soffici e giocarvi, scompigliandone le ciocche rosate, carezzando la pelle liscia del volto, delle mani, del collo. Si stringe nelle braccia, vagliando l’idea di portarsi un giubbotto leggero la prossima volta che torna a casa a quell’ora, terminato il rientro scolastico pomeridiano: ormai le giornate si sono accorgiate, la bella stagione si è consumata come un residuo di candela, mordendo le ore di luce simile ad un topo che rosicchia del pane. Le iridi ambrate scorrono sul grigiore umido della strada, vagando sulle chiome quasi spoglie delle betulle inondate dagli ultimi rivoli dorati del tramonto, riflessi sulla luminosa corteccia candida per poi tornare ai propri passi, notando qualche passante più rapido di lui, lo zaino pesante sulle spalle, la stanchezza della giornata penetrata fino alle ossa.
Diamine, in tutti i suoi sedici anni di vita può decisamente affermare di non aver mai sostenuto tante materie così tremende tutte lo stesso giorno! Anzi, riflettendoci bene, non sono le discipline ad essere noiose o snervanti, è più probabilmente l’insieme di interrogazioni e verifiche affollate tutte insieme nello stesso momento, assemblate alla notevole complessità degli argomenti; per fortuna quello strazio è appena volto al termine: ancora il venerdì e poi si sarebbe profilato un sereno fine settimana privo di studio e preoccupazione, costituito solamente da cioccolata calda (che adora da quando è piccolo), lunghe dormite sotto le morbide coperte di flanella e magari, perché no? Una passeggiata con suo fratello Yylfordt o una serata al cinema. Il tutto intervallato dalla piacevole lettura di un manuale d’anatomia o un romanzo dalle cinquecento pagine in su comodamente accoccolato fra i cuscini del divano.
Sorride fra sé pregustando quella magnifica atmosfera autunnale e le usanze ad essa connesse, avvicinandosi passo dopo passo alla sua semplice casa a due piani dai pavimenti di parquet, al calore della sua famiglia, al consueto abbraccio di sua madre che abbandona i fornelli per salutarlo con affetto domandandogli com’è andata a lezione.
Apre il piccolo cancello con calma, ascoltando l’usuale clic metallico della maniglia, per poi richiuderlo alle sue spalle infreddolite ed avviarsi nel minuto giardino dall’erba ancora verdeggiante, puntellata da mucchietti di foglie simili a buffe gocce di colore precipitate dall’unico alto albero, i rami protesi verso il cielo via via più scuro e bluastro, nudi, ghermiti dalle grinfie dell’algida sera.
 
“Kaasan, Tosan! Sono a casa!”
 
Una lunga chioma rosata fa capolino oltre lo stipite della cucina dalla porta semiaperta, i morbidi boccoli cadono dolcemente sulle spalle minute conferendo alla donna un’aria estremamente eterea ed elegante. E’ giovane, giovane davvero e non dimostra affatto i suoi 37 anni, ma nei suoi occhi neri come la pece si cela la maturità che solo una madre amorevole e saggia può conservare nel cuore; le labbra vellutate si stendono in un sorriso affabile, la luce biancastra del minuto e semplice lampadario donna alla pelle nivea e liscia un aspetto maggiormente delicato e fragile.
Lo saluta con un lieve cenno della mano, timidamente, con quelle movenze essenziali e gentili che la contraddistinguono da sempre.
 
“Bentornato tesoro, com’è andata oggi? Scusa se non mi avvicino ma altrimenti brucio tutto!”
 
Il ragazzo si stringe nelle spalle, cercando di celare la profonda stanchezza ed apparire normale, per non preoccupare la madre particolarmente apprensiva. Accenna un sorriso, avvicinandosi a lei e stampandole un bacio sulla guancia.
 
“Come al solito.”
 
“Allora è andato tutto benissimo.”
 
Cinguetta lei, scandendo quelle parole mentre fissa con attenzione la pentola colma fino all’orlo, mescolandola con cura. Il profumo della pietanza si espande fragrante fra le pareti bianche, stuzzicando l’appetito di entrambi e gli stomaci, che brontolano rumorosamente.
La donna si lascia sfuggire un risolino divertito, osservando con la coda dell’occhio il figlio intento ad appoggiare lo zaino ai piedi del tavolo ed accomodarsi sfinito sulla sedia di legno chiaro, accorgendosi d’un tratto del mestolo colmo di brodo bollente esattamente sotto al suo naso.
 
“Assaggia, oggi è venuta più buona del solito!”
 
Szayel vi soffia appena, lasciando solleticare il mento dai rivoli di vapore profumato. Sorseggia piano, annuendo con il capo per restituire infine la stoviglia alla madre, in attesa del responso.
 
“Ottima davvero! Sei bravissima Kaasan! Yylfordt ti svuoterà la pentola.”
 
Lei scoppia in una risata cristallina, portando le dita affusolate davanti la bocca, con pudore, scostando una ciocca pastello dietro le orecchie e pinzandola con una mollettina marrone.
 
“Sei fortunato allora, non è ancora tornato a casa! Dev’essere rimasto in giro con i suoi amici. Vuoi cenare adesso tesoro?”
 
“No grazie, lo aspetto, mangio insieme a lui.. in fondo è ancora presto, sono appena le sei e un quarto. Vado a cambiarmi.”
 
Dopo venti minuti Szayel può finalmente considerarsi una persona appagata e felice: è comodamente accomodato sull’angolo sinistro del divano, rannicchiato come un gatto, addosso una morbida tuta profumata di pulito come il resto del corpo da poco emerso dal getto bollente della doccia. Si stringe al cuscino, giocherellando con il telecomando della televisione accesa su un qualsiasi telegiornale, finchè il suono inaspettato del campanello lo fa sussultare; balza in piedi, precipitandosi alla porta per aprire a quello che crede sia suo fratello.
Ciò, o meglio chi, trova in attesa sull’uscio lo fa assottigliare le palpebre perplesso, aggrottando le sopraciglia e passando l’indice sulla guancia magra.
 
 E questo tizio chi sarebbe?
 
Osserva incuriosito quell’armadio dalle perle cerulee, azzurre come il cielo estivo e la folta zazzera di capelli turchesi, scompigliati, con alcuni ciuffi sofficemente adagiati sulla fronte.
Si fissano in silenzio per un’eternità di minuti, quanto basta per scambiarsi dei vicendevoli sguardi decisamente perplessi, studiandosi a vicenda. Il primo a prendere la parola è l’ospite dall’aspetto minaccioso, le sopraciglia corrugate, le mani ficcate nelle tasche dei jeans blu scuro.
 
“Yylfordt perché hai i capelli rosa?”
 
Szayel sgrana le iridi dorate all’inverosimile, schiudendo le labbra per l’inaspettata domanda: cosa diavolo si era bevuto quello? E soprattutto chi diavolo è e cosa vuole da suo fratello?
Non risponde, lasciando che l’altro gli si avvicini di un passo, catturando una ciocca pastello fra le dita ed analizzandola scrupolosamente.
 
“Li hai anche tagliati! E sei più basso! Kami, Yylfordt fai veramente schifo  conciato così!”
 
Scoppia a ridere in una fragorosa risata, mostrando al più giovane due canini pronunciati ed un modo di sgolarsi da mettere i brividi a chiunque. Ben presto, però, il suo entusiasmo si frantuma in mille cocci:
 
“Sono suo fratello Szayel, vaffanculo chiunque tu sia.”
 
“S… suo fratello …”
 
"Esatto. Muori. Crepa. Inculati porca miseria."
 
Impallidisce, mordendosi la lingua per la terribile figura appena commessa. In una frazione di secondi il sedicenne rientra in casa, palesemente offeso, cercando di chiudere la porta in faccia a quel maleducato amico di suo fratello quando una mano lo afferra sul polso, salda, sicura, forte. Sussulta, ma cerca di non darlo a vedere. Diamine, quel ragazzetto ha davvero un bel caratterino!
 
“Scusami, scusami! Siete identici, non arrabbiarti! Eddai sicuramente ti è già capitato altre volte di essere scambiato per lui no?”
 
“No.”
 
“Ah ok … ma c’è sempre una prima volta! Ora mi chiami tuo fratello per favore?”
 
“Non è in casa.”
 
Si fissano dubbiosi per qualche istante, soppesando le prossime azioni, cosa dire, cosa fare, se azzuffarsi o meno. Alla fine Szayel opta per le buone maniere, affidandosi ad una corrente interiore di passeggera benevolenza.
Tanto, in ogni caso, gliel'avrebbe fatta pagare in seguito perciò tanto vale non rovinarsi la giornata.
 
“Come ti chiami?”
 
“Grimmjow. Tu invece sei Szayel vero?”
 
Il rosato sbatte le palpebre, stupito, percependo le guance imporporarsi vistosamente: possibile che Yylfordt parlasse a tutti di lui? Chissà cosa gli aveva raccontato, dato che si divertiva parecchio a spiattellare al mondo le cose più assurde che combinava.
Annuisce, ingoiando la curiosità, facendo cenno all'altro di entrare, non senza averlo fissato malamente per un'ultima volta.
 
“Vieni, mio fratello dovrebbe tornare fra poco.”
 
 
* * *
 
Quando Grimmjow si sveglia la luce del mattino invade la stanza con i suoi raggi dorati, caldi, carezze di velluto aureo profumate di ciliegio, di natura in fiore, di vento soffiato dalle membra della stessa primavera inondando di polline le strade, i parchi, le vie, il cielo ricco di queste minuscole figure danzanti leggere come la polvere.
Stropiccia lentamente gli occhi, sollevando placido le palpebre per abituarsi allo splendore del sole splendente all'esterno della finestra dal vetro socchiuso, le veneziane alzate a metà; rabbrividisce appena, stringendosi al petto nudo del biondo ancora assopito al suo fianco, il manto color panna sparso sul cuscino, le labbra schiuse talmente appetibili da indurlo a baciarle avidamente senza nemmeno rendersene conto.
Due perle ebano si puntano sulle gemme cerulee dell'azzurro, un sorriso divertito si schiude nell'esatto istante in cui le bocche si uniscono, due mani afferrano prontamente la canottiera bianca di cotone che ricopre quel petto liscio e muscoloso, massiccio, scultoreo.
 
"Eri sveglio?"
 
Yylfordt ridacchia mellifluo, stringendo a sè il proprio fidanzato per imprimergli un profondo bacio prima di liberarlo e lasciarlo respirare, tuffando le dita affusolate nella zazzera azzurra, soffice, arruffata. Rimane steso tranquillamente, le spalle scoperte punzecchiate dalla fresca temperatura, la schiena percorsa da brividi mentre il resto del corpo è protetto dalle lenzuola dalle note di sapone per il bucato. Fa cenno al compagno di sdraiarsi nuovamente accanto a lui, ma questi rimane seduto su quel materasso troppo stretto per due persone, creato apposta per farle dormire abbracciate tutta la notte inducendole a sfiorarsi e desiderarsi continuamente.
Ma per volere quel diavolo biondo non gli serve di certo un letto singolo, lo brama già abbastanza e da ben tre anni non se n'è stufato nemmeno un secondo, neanche un istante.
Grantz afferra la sveglia poggiata sul comodino, leggendone distrattamente l'ora: le 10 e mezza, nemmeno così tardi considerando la sua terribile pigrizia domenicale che, fin dalla prima infanzia, lo ha sempre caratterizzato.
 
"Che dici, scendiamo a fare colazione? I miei staranno ancora dormendo."
 
Grimmjow lo scruta sbieco, mordendo il labbro inferiore, pensieroso: colazione? Ma quali cereali e latte, l'unica cosa che avrebbe voluto divorare sono quegli addominali meravigliosi, quella pelle rosea ancora profumata di bagnoschiuma, il collo ricettivo già tempestato di macchioline bluastre. Ha una fame destinata a non saziarsi mai, si sente vittima di un piacevole sortilegio al quale non intende sottrarsi.
Gli si lancia addosso, affondando i denti nelle carne morbida, nell'incavo fra il collo e la spalla, facendo mugolare di dissenso il più giovane che, come risposta, inarca la schiena invitandolo a dargli di più, a cibarsi ancora e ancora, facendo di lui ciò che preferisce.
Lo sa bene, lo sa che Grimmjow è un ragazzo particolare: brutale, violento, dalle maniere abbastanza rustiche e spesso prive di tatto e delicatezza. Non sa cosa siano i convenevoli nè le bugie, non ha idea di cosa significhi fare buon viso a cattivo gioco. Jeagerjaques è così, semplice, un animale allo stato brado che mostra immediatamente il peggio di sè, seguendo l'istinto, le pulsioni, le emozioni perennemente forti e vive in lui come lava nelle vene.
Solleva appena le palpebre, lasciando spazio alle iridi color cioccolato fondente di individuare un lungo graffio sull'addome del compagno, intento ora a straziarlo di morsi e baci lungo le ossa sporgenti del bacino,  tormentate da quel contatto bollente, bisognoso, urgente.
Trattiene un gemito, portando la mano fra le ciocche cerulee dell'altro nel vano tentativo di allontanarlo dalla zona di non ritorno, con inevitabile insuccesso.
Poco importa, non gli dispiace affatto. Solamente ... desidera chiedergli una cosa prima d'abbandonarsi completamente alle sue cure e bearsene fino all'ultima lappata, fino a quando la vista s'annebbia ed il cuore batte talmente forte da provocare le vertigini.
 
"Mhm, Grimmjow..."
 
Questi alza lo sguardo, scostando una goccia di saliva dalle labbra con il dorso della mano e lanciandogli un'occhiata perplessa.
 
"Che vuoi?"
 
"Chi ti ha fatto quello?"
 
Indica la ferita con un cenno del capo, i capelli biondi oscillano mollemente.
Il ragazzo non risponde, piuttosto lascia sfuggire un ringhio sommesso, infastidito, ricominciando ad occuparsi alla sua viziosa attività finchè l'altro non riesce a resistere, a contenersi, le gambe nude strette attorno al suo torace finchè il respiro ritorna regolare.
 
"Kami Grimmjow ... di prima mattina... tu vuoi farmi prendere un infarto."
 
Lo sente ridere, mentre passa dispettosamente la lingua lungo le labbra, sul volto impresso un ghigno che non promette nulla di buono.
 
"Hai 19 anni, sei ancora giovane per gli infarti."
 
"Hmm, già ... ma ora rispondimi. Hai fatto di nuovo a botte con qualcuno?"
 
L'azzurro si stringe nelle spalle, ridendo sguaiatamente e tirandolo per i fianchi verso di sè tanto da sfiorarsi.
 
"Anche se fosse? Dovresti esserci abituato. E poi di che ti preoccupi, lo sai che nessuno può battermi."
 
Annuisce, decidendo di lascia scivolare altrove la questione: in fondo, discutere con il suo ragazzo non ha senso, è un caso perso, irrecuperabile; se non fa una rissa al giorno non è soddisfatto e, probabilmente, questo suo aspetto non muterà mai in parte perchè è insito nel suo carattere, in parte in quanto non ha nessuno a cui rendere conto delle sue azioni vivendo da solo, lontano dalla famiglia rimasta in Europa; si era trasferita in Germania da quando aveva appena 14 anni, inviandogli rette mensili per sopravvivere ed un tetto sopra la testa, elementi che di certo non si possono definire come amore genitoriale. Ma a Grimmjow pare non importare, anzi, forse ad uno spirito libero come lui questa situazione può solo che giovare.
 
"Oi Yylfordt, ma a tuo fratello non da fastidio che ogni weekend lo sbattiamo a dormire in soggiorno?"
 
Grantz ridacchia infimo, unendo le labbra sottili con quelle dell'altro in un bacio poco casto.
 
"Credo che dopo tre anni ci abbia fatto l'abitudine. E poi non ha mai fatto storie, quando torno a casa da scuola lo trovo già con le sue cose sistemate accanto al divano."
 
"Ma passa tutto il suo tempo a studiare? Non esce mai con i suoi amici?"
 
Il biondo sgrana le gemme scure come la notte, osservandolo palesemente perplesso.
 
"Amici? A cosa gli servono? Lui ha già me."
 
Lancia un'occhiata al letto vuoto del fratello poco distante dal suo, le lenzuola ben ripiegate e qualche libro sparso sul comodino. Che razza di domanda ha appena ascoltato? Solo lui può realmente capire Szayel, nessuno è in grado di sostituirlo, di prendere il suo posto nè tanto meno intende permetterglielo. Il rosato è cosa sua, e tale deve rimanere.
Parli del diavolo ...
Un colpetto di tosse distoglie dalla conversazioni i due ragazzi, facendoli sussultare dallo spavento.
 
"Mi dispiace disturbarvi e interrompere la vostra adorabile ... scenetta ... ma ho bisogno di quello."
 
Indica una piccola scatoletta bianca appoggiata sulla scrivania, mentre l'altra mano porta al naso un fazzoletto stropicciato Starnutisce numerose volte di seguito, stringendo le palpebre di quelle iridi ambrate ed annacquate, vitree, le guance paonazze come il collo e gli arti.
Tossisce di nuovo, questa volta per davvero, attendendo un cenno di conferma prima di addentrarsi nella stanza indifferente al fatto di ritrovarsi di fronte a due coetanei bellamente nudi interrotti in chissà quale punto cruciale.
Poco importa, l'allergia chiama, dannatissima primavera.
 
"Oi confetto ... che brutta cera che hai."
 
Due lame dorate si puntano nelle perle turchesi dello sfacciato interlocutore, maledicendole silenziosamente, tanto da farlo sogghignare divertito.
 
"Dai Grimm lascialo stare, poverino, ha sicuramente aspettato così tanto per non darci fastidio. Stenditi un pò Szayel, noi scendiamo a fare colazione."
 
Il rosato scuote la testa, facendo loro segno di rimanere comodi. Si sfila tranquillamente la maglia del pigiama, brandendone una dall'armadio ed indossandola sotto lo sguardo interessato dell'azzurro, ripetendo la medesima azione con i pantaloni larghi ben presto sostituiti da un paio di jeans chiari.
Grimmjow non può fare a meno di notare la differenza fra la fisionomia dei due fratelli: il suo compagno è più robusto, probabilmente con qualche centimetro d'altezza in più, massiccio, dai muscoli ben definiti, decisamente snello. Suo fratello è invece più esile, longilineo, quasi femminile sia nel modo di atteggiarsi che nella stessa corporatura esile e raffinata.
La voce del biondo lo riscuote dai suoi pensieri.
 
"Che fai, esci? Dove vai?"
 
"A fare la spesa, Kaasan e Okasan sono usciti, torneranno stasera."
 
Sorride, ripensando alla gentilezza del padre che ogni domenica mattina lascia un sacchetto colmo di brioche e ciambelle sul tavolo conscio di fare un enorme piacere ai suoi figli, soprattutto a Szayel, terribilmente goloso di dolci. Ogni volta che ne addenta uno non può evitare di ripetersi che è l'uomo migliore del mondo, che come li ama lui non è in capace nessuno.
Lui, che trascorre la maggior parte del suo tempo lungo le autostrade del Giappone, volante alla mano per caricare a scaricare ininterrottamente quel camion che lo allontana dalla sua famiglia facendolo ritornare stanco, stremato, ma non privo della voglia di riabbracciare le sue due gioie e di trascorrere del tempo con loro.
E' una persona speciale, una di quelle che venderebbero la propria anima per salvare chi amano e Szayel lo sa bene, sia quando lo ascolta rientrare in casa all'alba, sia quando addenta felice la propria ciambella glassata di fragola.
Spesso si domanda cosa farebbe senza di loro, senza la sua Kaasan e il suo Okasan, finendo sempre con lo scuotere il capo ripetendosi che non vale la pena chiedersi una cosa tanto sciocca, perchè li avrà sempre accanto: li vedrà sorridere fieri il giorno della sua laurea, proprio com'erano entusiasti quando ha comunicato loro pochi mesi prima di aver passato brillantemente il test d'accesso alla facoltà di medicina; li vedrà abbracciarsi e piangere di gioia quando presenterà loro la donna della sua vita e , perchè no? gli comunicherà la data del matrimonio o gli dirà che stanno per diventare nonni.
Ha ragione Yylfordt, a cosa gli servono degli amici? Tutto il calore di cui ha bisogno lo trova fra le mura accoglienti della sua casa.
 
* * *
 
Il rumore delle auto scivola sulle note della notte, scandito dai bagliori delle insegne a neon di quei locali mai dormienti addensati lungo le vie brulicanti, dense di persone che paiono non assopirsi mai.
Dalle veneziane abbassate filtrano ugualmente dei raggi rossastri, intermittenti, destinati ad affievolirsi solo con il sorgere del sole quando ormai non arrecano più alcun fastidio; il vocio della strada risale acido fino alla finestra chiusa di quell'appartamento al quinto piano, insinuandosi fra le crepe e gli spifferi, inondando la stanza fredda con i suoi molesti suoni alticci, spine di una Tokyo perennemente sveglia e malata nel profondo.
Non ce la fa più, non sa per quanto ancora riuscirà a resistere.
Grimmjow passa una mano sulle palpebre abbassate, l'altra poggiata sulla cicatrice ancora fresca, ironicamente dolorante nonostante non dovrebbe fare ancora male. E' lì, immobile, come un tatuaggio impresso nella pelle, una ferita straziante che non si richiuderà mai schiaffeggiandolo ogni istante con la sua mera presenza.
Sospira, ascoltando lo scorrere dell'acqua nel rubinetto, segno che il suo coinquilino si è svegliato ancora una volta, l'ennesima, per rigettare quei pochi bocconi di cena morsicchiati svogliatamente davanti al suo sguardo indagatore, le perle cerulee puntate nelle sue ambrate finchè non si decideva a ficcare in bocca quel maledetto cibo.
Ed allora Szayel lo scrutava con un misto di rabbia e tristezza, portando alle labbra qualche pezzetto dal piatto sempre colmo , giusto per poterlo fissare con lo sguardo di chi vorrebbe urlargli addosso che ecco, ha mangiato e quindi ora deve solamente stare zitto e lasciarlo in pace. Si chiudeva quindi nel silenzio, relegandosi in un angolo del letto e tuffandosi fra le pagine di un libro anche se, ne era certo, probabilmente si limitava a far scorrere le perle giallastre sulle parole affollate senza carpirne realmente il significato.
Evidentemente non era bastato portarlo via da quella casa pregna del passato, non è stato sufficiente allontanarlo dai suoi ricordi per donargli nuovamente una vita normale: sono trascorsi appena due mesi, due mesi intensi costruiti da cambiamenti radicali a spaventosi per due ragazzi come loro a cui la vita sembra non aver nulla da offrire ed il mondo pare avergli voltato le spalle: gli aveva promesso di salvarlo, di risalire insieme dall'abbandono in cui erano stati gettati, gli aveva giurato di non lasciarlo affogare ma ha la tremenda impressione di vederlo appassire giorno dopo giorno senza poter influire in alcun modo. Da quella volta, dal loro primo incontro dopo la dimissione di Grimmjow dall'ospedale, non si erano più sfiorati, nemmeno casualmente: quell'abbraccio e quel bacio consolatorio erano spariti nel baratro della disperazione, dissolvendosi come nebbia al crepuscolo. A dire la verità aveva provato ad avvicinarsi qualche volta ma Szayel si era sempre allontanato, scansandolo come se avesse la peste, come se ogni briciola di calore umano gli corrodesse l'anima facendolo agonizzare e perire. Ed allora aveva accettato il suo distacco, il suo silenzio, le lunghe occhiate cariche di parole ed allo stesso tempo vuote, concluse perennemente con una smorfia dispiaciuta, niente di più.
Lo sente aprire la porta del piccolo bagno, avvicinandosi con passi silenziosi e leggeri al letto condiviso da entrambi in cui ognuno trascorre le notti insonni nel mutismo, confinato nel proprio angolo. Ascolta il fruscio delle coperte, percepisce il calore di quel corpo esile steso su un fianco ora nuovamente accanto a lui; ne percepisce i tremiti, causati dalla stanchezza e dal freddo provocato dal termosifone rotto, trattenendo il respiro nella speranza che, almeno questa volta, non si sciolga in quei singhiozzi scomposti e strozzati dalla mano premuta sulla bocca nel vano tentativo di non farsi sentire dal suo amico. Durano per ore, finchè sfinito crolla in un sonno buio e tenebroso, risvegliandosi il mattino successivo con gli occhi gonfi e l'aria indifferente stampata sul volto.
Tutto questo gli fa male: il suo cambiamento, la sofferenza impressa in quello sguardo vitreo, le labbra prive di qualsiasi sorriso. Ma non solo.
Ciò che gli trafigge il petto, ancor più dell'enorme cicatrice, è la consapevolezza di essere stato abbandonato anch'egli dalla persona che amava da anni: come ha potuto Yylfordt fare le valige e scomparire da un giorno all'altro senza alcuna spiegazione? Come ha potuto condividere con lui anni della propria esistenza ritrovandosi poi con un pugno di mosche fra le mani?
Non solo non lo accetta, ma la rabbia è talmente forte da divorarlo lentamente partendo dall'interno, soffocandolo e bruciandolo al medesimo istante.
Come se non bastasse, per quanto cercasse di non soffermarsi su quel pensiero, la sola presenza di Szayel accanto a lui è uno schiaffo perpetuo: il suo aspetto, i modi di fare, i ricordi; tutto di lui gli riporta alla mente Yylfordt, stringendogli lo stomaco come una morsa dai denti acuminati.
Ed ecco che lo sente sciogliersi in lacrime, ancora una volta, separato da un muro invisibile ed invalicabile costruito da entrambi. Ma oggi no, non lo lascerà consumarsi nel dolore, è stufo di aspettare una soluzione divina che cada dall'alto perchè o te la crei da solo o non arriverà mai.
E, soprattutto, è stanco.
Si volta verso la sagoma dell'amico , allungando appena la mano, sfiorandone le scapole ossute. Questi trasalisce, smorzando un singhiozzo nella gola in fiamme, colto in flagrante. Percepisce il palmo dell'azzurro farsi maggiormente presente oltre la stoffa della maglia, per scendere poi lentamente lungo il suo fianco sottile.
Rimane immobile, rabbrividendo a quel contatto inaspettato, imponendosi di non tremare nella speranza di tranquillizzarlo e farlo tornare a dormire.
Grimmjow, invece, coglie quel silenzio come un invito a proseguire ed allora gli si avvicina, facendo aderire il petto alla sua schiena ed abbracciandolo teneramente, come farebbe un bimbo con il suo peluche preferito quando si sente triste. Gli posa un bacio tenue sulla spalla, sprofondando il viso nei capelli rosati dalle note di miele e muschio, inspirandone a fondo il profumo fino ad inebriarsene. Cerca le sue mani per allacciarle alle proprie, ma non appena le raggiunge il rosato balza in piedi con un urlo soffocato, intimandogli di andarsene, di non osare sfiorarlo e di lasciarlo in pace.
Perchè ...
 
"Io non sono Yylfordt!"
 
Da quando se n'era andato lo ripeteva in continuazione, come per esorcizzare il legame ossessionante che li teneva uniti da sempre, per cancellarlo, calpestarlo, bruciarlo fino a liberarsene per acquisire un'identità propria, solitaria ed unica.
Quelle parole, però, avevano ed hanno il potere di farlo incazzare -detto a parole sue- a dismisura.
 
"Cazzo Szayel, che non sei quell'idiota me ne sono accorto anch'io."
 
"E allora lasciami in pace."
 
Basta, ha raggiunto il suo limite.
Accende la luce tastando malamente la parete gelida dietro il letto, premendo l'interruttore ed inondando la camera con un alone biancastro, incolore. La prima cosa che lo colpisce sono le guance bagnate del compagno, le ciocche pastello aderenti alla fronte sudata, una spalla nuda lasciata scoperta dalla maglia troppo larga che arriva fino alle cosce scoperte.
Lo guarda stranito, intimorito da quelle iridi cerulee dense d'ira, di rabbia, per nulla disposte a lasciarlo sfuggire di nuovo.
 
"Cosa devo fare con te? Dimmelo Szayel. Perchè io non so davvero cosa inventarmi."
 
Il ragazzo sostiene il suo sguardo, incrociando le braccia al petto ma arretrando di un passo; rimane in silenzio, restio a fornire una qualsiasi risposta.
 
"Lo vedi? Non ti lasci aiutare! E sai che ti dico? Sei uno stronzo egoista perchè non te ne frega se fai colare a picco anche me!"
 
Quelle parole sembrano ferirlo, tanto da riempire nuovamente le iridi ambrate di lacrime calde e salate, sull'orlo di colare lungo gli zigomi pallidi. Si morde la lingua, torcendo le mani dall'agitazione, consapevole che l'azzurro ha ragione e non può affatto negarlo.
 
"A me non interessa se ogni giorno te ne vai a lezione con il tuo bel faccino indifferente! Non me ne frega che vai a lavorare e tutti pensano che stai bene! So che non è così perciò come credi che possa stare? E per quanto sappia che non è uguale ... ti ricordo che sono stato piantato in asso anch'io."
 
"Non ti ho chiesto io di fare tutto questo."
 
Una fiammata di rabbia invade il petto dell'azzurro: possibile che esista un essere umano dotato di tanta arroganza e ingratitudine mescolate insieme? Evidentemente si.
Balza dal letto, fulmineo, afferrando i polsi del rosato con una mano mentre l'altra cinge il suo mento, costringendolo a fissarlo.
 
"Razza di idiota inutile e spocchioso. Secondo te avrei avuto la faccia tosta di piantarti dov'eri?"
 
Ora due sono le scelte: o lo picchia come si deve, perchè una passata la meriterebbe eccome, o si sfoga in altra maniera.
Ma ormai è ben noto a tutti che Grimmjow Jeagerjaques non brilla certa per calma e riflessività.
Non lascia il tempo all'altro di rispondere, avventandosi con foga sulle sue labbra, cogliendone il gusto del dentifricio dalle note di menta; lo viola immediatamente, infischiandosene di non essere ricambiato, ricercando ugualmente la sua lingua fino a farlo quasi miagolare di dissenso, le ciocche pastello tirate dalle dita strette sulla cute, i polsi ancora cinti dietro la schiena. Lo lancia sul letto, premurandosi di bloccarlo con il proprio peso lasciandogli alcuna via di fuga e allora, solo allora, si concede di sfilargli la maglia sotto quelle perle sgranate dalla sorpresa e leggermente spaurite perchè, ne è certo, in vita sua non si è mai cimentato in imprese del genere per quanto l'orgoglio gli impedisca di ammetterlo.
Allora un pò sei rimasto uguale, vero?
Ghigna soddisfatto, allietato dal riscoprire lentamente, carezza dopo carezza, quella sua personalità stralunata e buffa, allo stesso modo di un tesoro riesumato dalla sabbia e spolverato con cautela.
Lo tormenta di morsi e baci lungo il collo, le clavicole, i fianchi morsi da brividi, vedendolo arrossire ogni qualvolta sofferma le gemme turchesi sui boxer neri, attillati quanto basta da non lasciar spazio nè all'immaginazione nè alle bugie: forse è solo una mera reazione fisica, forse non è altro che un effetto delle sue attenzioni voluttuose ma il dato palese è che lo vuole, lo desidera tanto quanto lo brama lui in quel momento.
Anche quell'ultimo capo scivola via, ricadendo con un sommesso fruscio sul pavimento: Szayel rimane immobile, fissando spaurito l'azzurro sopra di lui, per nulla rassicurato dai suoi palmi grandi ed umidi, caldi, posati sui fianchi stretti nella piena intenzione di attrarlo a sè.
Farà male?
Il dolore è così forte da dargli l'impressione di soffocare. Conficca le unghie nella schiena di Grimmjow, che ringhia di dolore, godendo dell'aver suscitato almeno una reazione nel compagno fra le sue braccia. Lo osserva stringere le palpebre, i ciuffi chiari sparsi sulle lenzuola madide di sudore, il cuore talmente selvaggio e feroce da essere quasi udibile.
"Non ... non respiro."
Un bacio smorza le sue proteste, mentre un dolore lancinante gli manda in fiamme il ventre , i fianchi, l'addome, costringendolo ad urlare per dare sfogo ad una sofferenza dalla duplice essenza, sia puramente fisica che interiore.
Nonostante ciò, diversamente da quanto si aspettava, non lo supplica di smettere, nè gli intima di allontanarsi.
Si lascia prendere totalmente, forse spinto dalla stanchezza, forse dalla speranza di poter provare a sentire di nuovo qualcosa in quel cuore freddo e vuoto.
E questo qualcosa si riaccende davvero.
Non ne conosce il motivo, nè mai lo capirà negli anni a venire: sa solo che all'improvviso una tremenda voglia di stringerlo a sè lo invade, una voglia di abbandonarsi a lui e ripetergli grazie all'infinito. Di ricambiare quei baci, perchè li merita, perchè è lì con lui e questo già gli basta, vincendo la paura di essere solo un mero fantoccio sostituto del fratello o un passatempo per distrarsi dalla realtà schifosamente cinica..
Inarca la schiena, assecondando i movimenti dell'azzurro e fiondandosi sulle sue labbra morbide, assaporandole pienamente per la prima volta. E ciò che ne deduce è che sono meravigliose.
 
Quando apre gli occhi il cielo è già chiaro da un pezzo, avvolto nella sua cappa grigiastra cullata dai raggi flebili di un malaticcio ed effimero sole invernale. Lo strombazzare dei clacson ed il vocio della domenica pervade le strade di Tokyo, invadendo le mura dell'appartamento immerso in uno statico silenzio, scandito solamente dai ticchettii della sveglia posata sul comodino e dal familiare cric croc dei serramenti non propriamente nuovi, che scricchiolano ad ogni vibrazione del terreno.
"Ohi, ti sei svegliato."
Il ragazzo fa scorrere le iridi ambrate sull'interlocutore tranquillamente seduto accanto a lui, il petto e la cicatrice coperti da una felpa blu notte che non aveva mai visto prima. Si domanda se è nuova, decidendo che in ogni caso gli sta davvero bene; si stropiccia gli occhi ancora annacquati dal sonno, rabbrividendo a causa della temperatura fredda, poco accogliente, stringendosi nelle braccia nude come il resto del corpo morso dalla pelle d'oca.
Mugola qualcosa in risposta, quasi a confermare che sì, è sveglio davvero, ma si infila nuovamente sotto le coperte tiepide cercando di riscaldarsi perchè, è certo, non ha alcuna intenzione di alzarsi senza alcun vestito addosso davanti al suo amico nè tanto meno ha intenzione di dargli la soddisfazione di vederlo in imbarazzo.
 
"Alza il culo Szayel, vestiti che usciamo."
 
Il rosato scosta una ciocca pastello dalla fronte, scrutando perplesso il compagno dalla chioma azzurra e spettinata.
 
"Ah? Uscire? Dove?"
 
"Andiamo a fare un giro."
 
Grantz inclina le labbra in una smorfia contrariata, dispiaciuto dal dover abbandonare quel nido confortevole nel quale avrebbe sonnecchiato volentieri ancora un pò.
Inarca un sopracciglio, stiracchiandosi con un gatto:
 
"Non devi andare a lavoro oggi?"
 
Grimmjow scuote il capo, ghignando soddisfatto:
 
"No, la videoteca è chiusa per una settimana. Ferie!"
 
"Il solito fortunato."
 
"Di cosa ti lamenti? Anche tu oggi hai il giorno libero."
 
"Hmm già, peccato che domani ho il turno di sera in quello schifo di fast food."
 
"Se vuoi ti accompagno a lavoro allora. Facciamo la strada insieme."
 
Szayel annuisce, afferrando una canottiera dal pavimento ed infilandola in fretta,sperando di passare inosservato allo sguardo indagatore del compagno; se solo ripensa a quello che è successo poche ore prima ... kami, che terribile imbarazzo" Potrebbe arrossire da un momento all'altro.
Si schiarisce la voce, invitando Jeagerjaquel a voltarsi per lasciarlo vestire tranquillamente ma questi rimane immobile, le braccia conserte al petto ed il peggior sorriso sadico dipinto sul volto affilato, nel pieno tentativo di farlo arrabbiare.
Lo ascolta piacevolmente sibilare qualche insulto dalle labbra strette, mentre si volta di schiena e si alza stizzito dal letto sfatto, tirandosi dietro la coperta in una rovinosa caduta sul tappeto provocata da una lancinante fitta di dolore partita dai glutei e culminata nella schiena.
In una frazione di secondo si ritrova ad abbracciare il pavimento, accompagnato dalle risate sguaiate dell'azzurro che per poco non rotola dal divertimento nel vederlo in quello stato.
 
"Questa me la paghi, bastardo ..."
 
Grimmjow si asciuga una lacrima dagli occhi, aiutandolo ad alzarsi senza smettere di sghignazzare neppure un secondo.
 
Quando finalmente riescono ad uscire dal portone del condominio sono circa le 10 e mezza passate, ed una pesante foschia grava nei vicoli stretti, bui, e fra le strade stranamente poco trafficate. Numerosi passanti camminano sui marciapiedi colmi di sacchetti, borse, alcuni anche con un ombrello nel caso inizi a piovere da quel cielo cupo , denso di nubi nebbiose.
Szayel si stringe nel cappotto nero, lungo fino metà coscia, rabbrividendo per l'algida temperatura di un inverno straordinariamente freddo, calandosi il berretto bianco sulla chioma rosata e liscia, lasciandone cadere le ciocche soffici sulle spalle. Osserva il compagno ripetere i medesimi gesti, infagottandosi nella sciarpa blu come il giubbotto dal cappuccio peloso e morbido; lo fissa in silenzio, sul volto pallido alcuna espressione nonostante, in realtà, si sente leggermente felice di uscire finalmente di casa per un motivo che non riguardi il lavoro o gli studi.
 
"Dove vuoi andare?"
 
Quella domanda lo riscuote dal torpore, facendolo sobbalzare di sorpresa. Bella questione: dove vuole andare? Non ne ha idea. Gli va bene qualsiasi posto, gli basta solamente stargli accanto perchè ogni secondo in sua compagnia lo fa stare bene.
 
"Non lo so, cosa c'è di interessante la domenica mattina?"
 
"Un cazzo."
 
"Beh, perfetto allora. Che ne dici di fare colazione intanto?"
 
L'azzurro annuisce consenziente, avviandosi insieme lungo il marciapiede diretti verso il centro città per imbucarsi poi in un Cafè abbastanza carino, dai piccoli tavolini rotondi di legno pulito e le poltroncine morbide dove accomodarsi. Consumano tranquillamente il cappuccino e le brioche, chiacchierando del più e del meno, riscoprendo un lato di vita che entrambi avevano scordato, un brandello sbiadito e scarno che finalmente inizia a riprende forma fra un risolino e l'altro, fra una bustina di zucchero lanciata nella chioma rosa ed un pezzo di dolce catapultato fra le ciocche turchesi sotto lo sguardo assassino del barista.
Da quanto tempo non sorridevano? Da quanto avevano scordato che a volte basta poco per ritrovare la serenità?
Certo, le ferite continuano a dolere, ma lentamente possono essere curate nonostante lascino una cicatrice eterna.
 
"Szayel smettila ci stanno guardando tutti. Finiscila."
 
Grimmjow assottiglia le iridi feline puntandole addosso all'amico paonazzo dal divertimento, intento a fare palline di carta con il tovagliolo e a lanciarle addosso ad un gruppo di studentesse sedute poco lontano.
Quest'ultimo scuote la testa in segno di diniego, buttandone una verso di lui.
 
"Stronzo, vuoi la guerra ah?"
 
"Non puoi battermi, micio."
 
"Lo vedremo, confetto."
 
Aveva scordato di quanto ci si potesse divertire con poco o forse il segreto è solamente avere la compagnia giusta: perchè dopo essere stati sbattuti fuori a calci dal bar , invece che arrabbiarsi, hanno iniziato a ridere come matti e a rincorrersi, le guance arrossate dal freddo, i capelli sciolti lungo il collo, scossi dal vento freddo.
Quando si fermano, troppo stanchi per continuare a inseguirsi, si lasciano andare ad una passeggiata dove le mani si allacciano senza nemmeno accorgersene e si stringono tanto da azzerare il gelo dell'inverno e dell'anima.
Hanno ancora il fiatone compresso nei polmoni, goccioline di sudore sulla fronte coperta dal berretto, ma gli occhi sono pieni di vita, lontani dallo spettro vuoto che li attanagliava fino quell'istante.
Le dita si intrecciano in una morsa dalla quale nessuno dei due si vuole sciogliere, entrambi emozionati, continuando a camminare vicini, indifferenti alle occhiate dei passanti o ai loro sguardi accigliati.
 
"Ti va di andare al parco? C'è lo zucchero filato."
 
A Szayel si illuminano le perle dorate: ama lo zucchero filato! A dire la verità ama tutto ciò che è dolce.
 
Anche i baci di Grimmjow sono dolci ...
 
Sorride, portando la mano libera alle labbra, delineandole delicatamente con l'indice sottile.
Annuisce entusiasta, lanciandosi verso il compagno e stampandogli un bacio sulla punta del naso , semplice, casto, sincero.
L'azzurro rimane basito, abbozzando un sorrisetto quasi ebete, diverso dagli usuali ghigni stampati su quel volto liscio.
 
"Piano piano, non farci l'abitudine! E' solo per oggi confetto! ... e poi chiunque sa che a te piace lo zucchero filato."
 
"E' così ... rosa."
 
"Anche tu sei ... rosa."
 
Ridacchiano, complici entrambi nel sapere che non sarà affatto l'ultima volta in cui si terranno per mano camminando per le vie di Tokyo, consapevoli che ben presto diventerà un 'abitudine costellata da baci e carezze, da zucchero filato e film davanti la televisione, dal suono della sveglia il lunedì mattina e dai bronci reciproci dopo una giornata di lavoro.
Ma non importa, perchè finiranno sempre per stringersi sotto le coperte, addormentandosi inspirando l'uno il profumo dell'altro, aggrappandosi a quegli abbracci dal tepore avvolgente per salvarsi da una realtà non più così buia.



Rieccomi! Allora, il prossimo extra sarà sul passato di Nnoitra e Ulquiorra. 
Ho cercato di riassumere in questo e nel prossimo tutte le vostre richieste (vi adoro) quindi ne sono usciti due.
So che è lunghissimo anche questo capitolo chiedo perdonooooo T__T Se vi dico che ho pure tolto una parte mi credete? La troverete nell'extra n°4.
Grazie di cuore a chi è arrivato fin qui e a chi mi segue sempre.
Mi sono emozionata tantissimo a scrivere questo testo, sono arrivata alla fine con le lacrime (sto diventando sentimentale, aiuto) e spero di avermi trasmesso almeno un pò di quanto ho provato io.
Un abbraccio :)

Valentina

 

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