DEEPLY

di Yajirushi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Hate ***
Capitolo 2: *** BoyNextDoor ***
Capitolo 3: *** School ***
Capitolo 4: *** Letter ***



Capitolo 1
*** Hate ***


#Hate#

 

Whitey... Elizabeth Whitey” la portinaia mi diede le spalle, tuffandosi letteralmente in un cassetto pieno di chiavi alla ricerca di quella giusta. “Withey.. Whitey.. forse nell’altro cassetto” la ricerca sembrava interminabile, perciò decisi di passare quei pochi minuti spulciando i pochi nomi rimasti nella rubrica del mio cellulare: Ashton, il mio migliore amico da sempre; Jane, mia cugina, per me praticamente una sorella e... mamma, con tre cuoricini accanto. Accarezzai quel nome col pollice, strisciando sul display luminoso e chiedendomi che ci faceva quel nome lì, ancora con me quando avevo deciso di lasciarmi tutto alle spalle e ripartire da zero. La portinaia dovette accorgersi del mio sorriso triste, perché mi rivolse uno sguardo di quasi pietà prima di affermare: “Appartamento 266, secondo piano. Suo fratello è passato poco fa e ha già preso la chiave” Ringraziai scappando verso le scale per evitare altra compassione di cui proprio non avevo bisogno. Poggiai un piede sulla scala, il primo passo, il secondo e... fermi tutti, io.. io non avevo un fratello! I secondi che seguirono li passai a scavalcare coppie di gradini, rischiando di cadere o di farmi scoppiare un polmone per il troppo ossigeno consumato. Arrivata all’appartamento poggia una mano sulla maniglia e l’aprii, sorprendendomi di non trovarla chiusa a chiave. La richiusi alle mie spalle e lo vidi, lì, ben composto sulla poltrona in pelle al centro della stanza. Nei suoi occhi scuri e taglienti e nelle sue labbra carnose potevo riconoscere il ragazzo orientale che i miei avevano adottato a distanza solo pochi mesi prima. Lo stesso ragazzo che avevo visto solo poche volte, prima dell’incidente, e che era riuscito a rendermi quei giorni un vero inferno. Che avesse deciso di condividere l’appartamento? Davvero, non potevo chiedere di peggio come punizione. Feci un passo e “Calum” lo chiamai. Lui scavallò le gambe con estrema lentezza. “Lizzie” mi fece eco. Odiavo, trovavo davvero irritante il fatto che mi chiamasse come permettevo di fare solo a mia madre. Notai diverse borse straripanti di t-shirt gettate sul divano, ormai le sue intenzioni erano abbastanza evidenti, ma cercai di contenermi e glielo chiesi comunque: “Che ci fai qui?” rimase immobile, insopportabilmente tranquillo, alzò un sopracciglio. “Volevo aiutarti” lo fissai incredula. Nella mia mente si aprivano mille possibilità, e nessuna che fosse collegata a quel tipo portava a qualcosa di buono. Continuai a fissarlo, ma perché non si muoveva? “E allora?” chiesi, suscitando in lui una piccola risata malefica. “Ho detto volevo” accarezzò la pelle della poltrona e finse di dormire. Davvero, quel tipo non poteva restare nel mio appartamento. Il campanello suonò all’improvviso e io scattai come un soldato, in cinque secondi nascosi quel disastro di borse e indumenti -scoprendoci in mezzo anche un paio di mutande femminili- e li gettai in cucina. E avrei gettato lì anche Calum, se solo non avesse insistito nel suo volermi ‘aiutare’. “Resta qui” ordinai, puntandogli contro un dito. Calum annuì semplicemente, mi illusi che forse aveva capito l’importanza della situazione. Mi sistemai i capelli nonostante “Sembri comunque una disperata” soffiò il moro alle mie spalle, e aprii. Tre uomini entrarono in casa salutando professionalmente, due di loro portavano il tesserino di riconoscimento appuntato al petto. Chiusi la porta e notai con mia grande sorpresa che Calum li aveva fatti già accomodare sul sofà, offrendo loro persino un caffè che rifiutarono con gentilezza. L’uomo più anziano venne subito al punto e “Signorina Whitey” mi chiamò, io mi strinsi nella poltrona accanto a Calum sperando che le sue proteste non fossero troppo evidenti. “Innanzitutto, l’associazione le fa le sue più sentite condoglianze” annuii, avrei preferito sorvolare il dettaglio. “E poi, la S.I.A. ha l’obbligo di annunciarle che questo pomeriggio, in sede ufficiale, si terranno le selezioni per le componenti della nazionale di nuoto. E che lei, signorina Whitey, è stata sorteggiata per provarci” mi trattenni dall’urlare, quella notizia proprio non me l’aspettavo. Tirai a Calum un pizzicotto e sorrisi, sorrisi come un’idiota da ricovero. La successiva mezz’ora la passai ad ascoltare istruzioni e obblighi, e fui talmente assorta dall’argomento che solo negli ultimi cinque minuti mi accorsi di un particolare. Di quei tre uomini, uno era un ragazzo all’incirca della mia età. Era esile, aveva capelli biondo cenere portati all’insù, un piercing sul labbro inferiore e profondi occhi blu che usava per fissarmi, costantemente e con ardore. Che diavolo aveva da guardare poi.. Quando i tipi lasciarono l’appartamento, Calum si gettò sul letto, sul mio letto, senza degnarmi di uno sguardo. Di sicuro era geloso dei miei progressi, perché io ero arrivata in alto mentre lui non aveva fatto altro che farsi mantenere a distanza dai miei. Tsk, quanto era infantile. Presi il mio diario e cominciai a scarabocchiarci qualcosa, quando “Lo conosci?” mi chiese, fissando il soffitto. Esitai. “Chi, il biondo?” lo vidi annuire e sospirai. “No, ma comunque non sono affari tuoi” e saltò giù dal letto meglio di uno stuntman, facendomi quasi venire un infarto e parandosi davanti a me, le braccia spalancate e un’espressione spaventosa. “Se quello ti sfiora con un dito, io glielo spezzo” quasi ringhiò “quel tipo non mi piace” Cosa? E chi era lui per giudicare uno sconosciuto? Forse non si era mai soffermato più di tanto a giudicare se stesso. Il fatto che parlasse di me mi infastidì. “Ripeto: non sono affari che ti riguardano” Calum sospirò bloccandosi all’improvviso, forse rendendosi conto di quanto stavamo esagerando, e si rituffò sul mio letto, in silenzio. Poco dopo lo sentii sussurrare un “Che stai facendo?” con voce fioca, colpevole. Cercai di sdrammatizzare quella cavolata e “Aggiungo un punto alla lista delle cose che odio di te” risposi, sorridendo. Lui sembrò gradire il mio sforzo e sogghignò: “Ah, sì? E finora a che numero sei?” Finsi di leggere, uno.. due.. “Tre” affermai convinta. “Cioè?” Gli mostrai il diario con la lista, che lui prontamente lesse, leggermente contrariato ma sorridente: “Odio quando il mio fratellastro si comporta da iperprotettivo del cavolo

 

 

Salve a tutti! Vorrei avvisarvi che ho in mente tanti bei casini che scopriremo nel prossimo capitolo, e tanti pensierini che ho intenzione di mettere a tacere... se vi ho incuriositi, buona lettura ;) Otaku.

 

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Capitolo 2
*** BoyNextDoor ***


#BoyNextDoor#

Dopo la mia prima notte passata sul pavimento, anziché nel mio caldo e accogliente letto, feci una scoperta davvero traumatizzante: Calum amava girare per casa nudo, o quasi. Lo vidi aggirarsi per la stanza con indosso solo i boxer, una mano a grattarsi il ciuffo ribelle e una sul fianco. Cercava qualcosa, qualcosa di estremamente vicino perché mi sfiorò con una mano, acchiappando l’oggetto dei suoi desideri. Quando lo tirò fuori, mi stupii di aver dormito sul suo cellulare. Un momento... in realtà la cosa non mi stupiva affatto! Era per colpa di quell’idiota se, oltre al freddo, avevo patito un dolore insopportabile al fianco! Buttò il cellulare sul mio letto, poggiò entrambe le mani sui boxer e... “No! Fermo!” urlai, facendo saltare la mia copertura da dolce adolescente addormentata. Calum scoppiò, la sua risata aveva qualcosa di troppo malefico per i miei gusti. “Ahaha! Sapevo che eri sveglia!” Presi un cuscino, lo caricai come fosse un fucile e glielo sparai dritto in faccia. Calum cadde come un salame contro la porta, quella proprio non se l’aspettava. Mi fissò stupido dal basso della sua posizione rannicchiata, massaggiandosi il suo bel nasino orientale. Ero ancora incollata al pavimento e lui aveva ricevuto la punizione, ma la cosa mi sembrava troppo divertente per finire lì.. Mi alzai di scatto, seguita a ruota da quell’idiota che mi rincorse per ogni stanza, cercando di fermarmi in qualche modo. Io correvo per un motivo che neppure ricordavo, magari avevo solo bisogno di divertimento, presi un altro cuscino e lo colpii in pieno stomaco. Lo vidi accartocciarsi e soffiare un “Picchia duro la ragazza!” mentre già si riprendeva colpendomi con degli acini d’uva rubati dalla credenza. “Ehi, sprecone, la mamma non ti ha insegnato che non si gioca col cibo?” sorrise e rallentò.. fino a fermarsi del tutto, l’espressione distrutta. Quando si lasciò cadere sulla poltrona capii che quella reazione era colpa mia, perché in un attimo, nominando la mamma per gioco, avevo riportato alla mente ricordi sgradevoli per entrambi. Non gli dissi nulla, semplicemente mi vestii e uscii. Via da casa, via da quegli occhi tristi, via da tutto. Presi il cellulare e composi il numero del mio migliore amico. “Ashton? Ho bisogno di parlarti”

“Perciò vive da te, adesso” sospirai, Ashton era specializzato nel capirmi e decifrare il mio sguardo. Sorrise, portandosi le gambe al petto e “E a te la cosa dà fastidio” disse, sicuro. Tentennai, di fastidio.. mi dava fastidio, anzi, mi dava sui nervi. Solo il fatto che girasse per casa semi nudo era un campanello d’allarme, ma Calum, ecco, lui... lui stava soffrendo almeno quanto me e forse... forse persino di più, perché infondo i miei sono morti lasciandolo solo proprio quando aveva trovato una famiglia su cui contare. Avevo sentito dire che, in casi del genere, ragazzi come lui si sentono in colpa perché credono di portare sfortuna alle famiglie ospitanti. “Non so.. forse sì” risposi, Ashton fissò il cielo, quel manto azzurro che, pian piano, si copriva di nuvole bianche luminose e tondeggianti. Pensai che sarebbe stato bello, guardare il cielo con Calum. “Ma che diavolo vado a pensare!” esclamai senza neanche rendermene conto, mentre Ashton insisteva col chiedermi di inviargli qualche foto del mio fratellastro con la scusa di non averlo mai visto. “Sì, certo” affilai lo sguardo “non è che le foto ti servono per.. altro?” Ashton arrossì di colpo. Amavo vederlo così, era talmente.. adorabile! “Amico, sei gay fino all’osso” lo spinsi, facendogli perdere l’equilibrio sulla panchina e “E tu sei schifosamente etero” mi salutò, prendendo le sue cose e allontanandosi verso l’uscita del parco.

E adesso? Che potevo fare? Rimasi immobile sulla panchina fissando dei bambini che giocavano a palla. Ridevano e sembravano così felici, che nulla avrebbe potuto farli smettere di sorridere in quel momento. E non era giusto, perché anch’io volevo poter sorridere sempre, nonostante tutto. E invece quel privilegio mi era stato tolto una bella sera mentre guardavo la tv e le trasmissioni furono improvvisamente interrotte, mentre le immagini di un’auto a fuoco mi bruciavano gli occhi... Dovevo pensare ad altro, distrarmi una buona volta. Futuro. Ecco un bell’argomento a cui pensare. A breve avrei saputo gli esiti delle selezioni del giorno prima, quando Calum si era offerto di accompagnar mici nonostante il nostro piccolo battibecco. L’elenco delle sue parole era ancora fresco nella mia mente...

“Dove vai?” Calum mi bloccò, ponendosi tra me e la porta. Lo spinsi via, non avevo molta voglia di parlare. “Vengo con te” guardai i suoi occhi, che prontamente distolse tornando ad ammirarsi i calzini. “So guidare benissimo” fece spallucce e “Anch’io, da tre anni” rispose, infilando le scarpe e preparandosi ad uscire.

Cosa diavolo gli era preso ancora non l’avevo capito. Ma era stato gentile, e questo meritava un premio. Magari un bel dolce fatto in casa perché, modestamente, io sono una maga nel preparare dolci! Mi alzai in fretta uscendo dal parco e correndo verso casa. Gli ingredienti erano tutti in frigo, perciò non mi restava che bussare, farmi aprire e... “Buongiorno” mi voltai, un ragazzo mi aveva appena salutata. Lo osservai, i capelli biondo cenere e il piercing sul labbro inferiore.. il tizio della S.I.A. “Buongiorno” risposi, lasciando la presa sulla maniglia e raggiungendolo. “Così lei è la signorina..” Whitey, Elizabeth Whitey” il tipo mi porse la mano, gentilmente. “Luke Hemmings, il suo novo vicino, a quanto pare” ok, quel Luke era davvero simpatico. E poi era semplice, diretto quasi quanto... Calum. Accidenti. “Scusa io.. ho una torta da preparare e non vorrei..” tentai di scusarmi, ma Luke sorrise rassicurante e “Tranquilla, Lizzie. Posso chiamarti Lizzie, no?” annuii. Quel tipo poteva chiamarmi come gli pareva.. “Allora.. ci si vede” aprì la porta del suo appartamento “Lizzie” e la chiuse alle spalle. Entrai nel mio e non so come riuscii a non urlare per lo spavento. Calum era di fronte a me, ancora mezzo nudo, ma i boxer sembravano aver magicamente cambiato colore. Tra le mani aveva... il mio lucidalabbra? “Calum ma che diav..” “Io l’avevo detto..” mi interruppe, puntandomi contro indice e lucidalabbra “..che gli avrei spezzato un dito”

 

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Capitolo 3
*** School ***


#School#

Non sentii nessun rumore quella mattina, ma le tende erano comunque già spostate e una tazza di latte fumante poggiata sul piano della cucina. Mi alzai controvoglia, cercando in tutti i modi di pensare a qualcosa di bello, di positivo... ma per quanto mi sforzassi, l’idea di tornare a scuola rendeva tutto più difficile. Pensai a quante condoglianze avrei sorbito, a quanti sguardi di pietà e compassione i prof mi avrebbero rivolto, mentre i ragazzi mi avrebbero odiato per lo stesso motivo, l’attenzione sconsiderata degli adulti. Diedi un’occhiata alla sveglia: le 7.00. Strano che non avesse suonato. Mi trascinai in cucina bevendo dalla tazza, chiedendomi dove diavolo si fosse cacciato il mio fratellastro. Calum, accidenti a lui. Dire che quella sera l’avevo ferito era una leggerezza.. Decisi di mettere da parte l’orgoglio e tornai in camera da letto, gli avrei chiesto scusa, mille volte scusa, ma il suo letto era vuoto e intatto. Che non avesse dormito affatto lì? Cavolo, che nervi! Adesso mi rendeva difficile persino farmi perdonare! Mi vestii in fretta uscendo di casa, ignorando la porta dell’appartamento accanto, in procinto di aprirsi.

Ashton studiò la mia espressione stressata e “Cavolo, sei proprio messa male” affermò, passandomi una mano sul viso fingendo una carezza, mentre in realtà tentava di coprirmi dagli sguardi carichi di pietà degli altri ragazzi. Lo ringraziai mentalmente e presi un libro dal mio armadietto. Lo salutai, ma Ashton non sembrava intenzionato a lasciarmi. “Sensi di colpa?” ecco, un altro punto a suo favore. A volte il suo talento da decodificatore ambulante poteva rivelarsi davvero fastidioso. “Mm.. non mi va di parlarne” mugugnai, dandogli le spalle. Mi allontanai in fretta, un passo più svelto dell’altro, ma lo sentii comunque urlare un “Certo, buona giornata anche a te, fiorellino!” Tsk.. che idiota.

“Lezione di chimica? Mm.. interessante...” passai un dito sul mio programma, il mio schifosissimo programma di lezioni. Tutte quelle materie sembravano un’accozzaglia di cose improponibili, con giorni talmente faticosi da sembrare un incubo, e giorni in cui si susseguivano religione, arte e musica. In poche parole, un paradiso. Quel giorno, per mia sfortuna, apparteneva alla sfilza dei giorni sotto la voce ‘incubo’. La chimica la odiavo, l’avevo sempre odiata e non avrei mai, MAI cambiato idea. Perciò, considerando che quello era il mio primo giorno... ma sì, perché no, un’ora in meno non uccide nessuno. Ne approfittai per fare un giro della scuola, scoprendo aule munite di qualsiasi cosa, dai microscopi alle macchine per cucire, da lavagne interattive a modelli anatomici più che realistici. Uno di quelli, in particolare, mi colpì per un dettaglio: gli occhi da gatto, due mandorle perfette. Li sfiorai, li studiai. E inevitabilmente quelli di Calum li sostituirono nella mia immaginazione. “Odio il senso di colpa” sussurrai al manichino sfiorandogli un muscolo scoperto “non trovi che sia.. insopportabile?” Il modello mi fissava. Restava immobile. Stavo rimbambendo se credevo davvero che un pezzo di plastica lavorata mi avrebbe risposto. Eppure, qualcosa sentii... “Sì, lo penso anch’io” sobbalzai, qualche provetta di liquido colorato pagò il prezzo della mia disattenzione. Mi chinai per rimediare, scegliendo di lasciar perdere non appena il proprietario di quella voce si fece avanti. “L.. Luke?”

L’avevo riconosciuto subito solo grazie al famigerato piercing sul labbro, altrimenti ci avrei messo un secolo a collegare quel viso al suo nome. Luke indossava un camice bianco, una mascherina dal vetro blu e dei guanti gialli da vero chimico. Subito dopo avermi scoperta mi suggerì di scappare se non volevo pagare per quelle provette distrutte, e lui propose un posto dove saremmo stati tranquilli almeno fino all’inizio delle mie prossima lezione: il giardino. La zona era tranquilla e ricca di verde, alcuni ragazzi leggevano o chiacchieravano sul prato, e Luke seguì il loro esempio invitandomi a fare altrettanto. Restammo in silenzio per un po’, finché “Ti senti in colpa per non avermi salutato, questa mattina?” rimasi impietrita. Che diavolo..oh, già! La porta socchiusa.. Scossi il capo. “Ci sentiamo importanti, eh?” mi sentivo.. strana, talmente rilassata che le parole uscivano da sole senza che i neuroni dovessero faticare troppo. Scoprii che con Luke riuscivo a non pensare, e la cosa mi allettò parecchio. “Ma io sono importante” sorrise sghembo, puntandomi l’indice contro “e questa è una delle cose che imparerai frequentando la scuola” Avevo un mucchio di domande da fargli. Prima: stai scherzando? No, perché a me sembra proprio uno scherzo. Seconda: perché cavolo non sei a lezione? Terza: sei così carino a passare il tuo tempo con me... ehi, questa non è una domanda! Sveglia, Lizzie, sveglia! Non potevo imbambolarmi davanti a quegli occhi blu, non potevo farmi ammaliare da quel piercing e non potevo fargli notare che... che in realtà non ci riuscivo, non riuscivo ad ignorare quel ben di dio che mi ritrovavo ad ammirare. Dannazione, Lizzie! “Eeehii” una mano mi sventolò davanti e sobbalzai ancora, due volte nello stesso giorno e due volte davanti a lui. “Credi che io sia... facilmente suggestionabile?” Coosa?! Ma che cavolo andavo a chiedergli! Vorrei una spillatrice per tapparmi la bocca e intrappolare i pensieri solo nella mia testa. Oppure vorrei morire. Gli occhi di Luke mi rassicurarono subito, almeno potevo sentirmi più sollevata. Sospirò e “Nah.. direi che sei più.. facilmente amabile” rispose, lasciandomi letteralmente a bocca aperta. Stringi le labbra Lizzie, o la tua bocca diventerà nido per insetti. Seguii le istruzioni della sottile vocina nel mio cervello e guardai l’orologio al mio polso: le 10.15. Scattai in piedi e “Porca miseriaaa!!!” urlai seriamente spaventata: un’ora di assenza era accettabile, ma un ritardo di un quarto d’ora a storia... con quella professoressa... dovevo correre se volevo avere salva la pelle. Luke rideva divertito, ma il tempo per salutarlo non era abbastanza e mi allontanai volando-se possibile-, scuotendo semplicemente la mano e lanciando un “Ci vediamo!” a quel ragazzo bellissimo, ancora steso sull’erba.

“Storia... storia... dove diavolo è l’aula di storia?” attraversai i corridoi credendo di restare a corto d’ossigeno da un momento all’altro, e solo ora capivo cosa provava la portinaia ad ogni ricerca di una chiave: rabbia, ansia e paura. Io, per esempio, avevo paura di finire nella classe sbagliata sorbendomi un doppio rimprovero. Dovevo sbrigarmi, la speranza di trovare quella dannata classe sfumava sempre di più, quando notai un cartello attaccato su una porta che quasi mi parlò. “Aula di storia!” ero quasi felice, e l’emozione di averla trovata fu talmente tanta, che solo dopo averci fatto irruzione mi accorsi davvero del casino che avevo combinato. Lo sguardo della prof rischiava di incenerirmi a momenti, e la bacchetta di legno di legno che stringeva fra le mani sembrava non aspettare altro che posarsi sul mio didietro. Deglutii, quella prospettiva faceva sudare freddo. “Miss... miss Prior, che piacere.. io ehm..” “Silenzio!” tuonò, mentre la bacchetta schioccò forte sulla cattedra. “Lieta di averla alla mia lezione, signorina...” “Whitey” La prof mi lanciò un’occhiataccia. “Non ho chiesto il tuo nome” sentii il sangue raggelarsi mentre la Prior parlò ancora, stavolta per indicarmi il mio posto. I ragazzi mi osservavano, alcuni con ammirazione, altri con indifferenza o pietà. Mi toccò il banco nell’angolo a destra, ultima fila. Non potevo chiedere di meglio per essere lasciata in pace. Quasi come un fulmine un’idea mi passò per la mente, anzi, più che un’idea un vero e proprio terrore. Mi tastai la sacca trovandoci solo una bottiglietta d’acqua e un quaderno con due penne. Mi diedi un sonoro schiaffo sulla fronte tanto da far preoccupare persino quell’insensibile della Prior. Merda, dove cavolo era finito il mio libro?!

 

 

Ringrazio i recensori e i lettori che semplicemente leggono, sperando che alla fine mi lascino un commento come regalino... E poi vorrei dire una cosa a questa bellezza: “Sì tesoro, per me sei moooooolto importante :3”

 

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Capitolo 4
*** Letter ***


#Letter#

“Ecco” sobbalzai, lo schermo super luminoso di un cellulare si era appena materializzato davanti ai miei occhi. Affilai lo sguardo, la mia espressione concentrata doveva essere davvero inguardabile perché, pochi secondi dopo, Ashton allontanò il cellulare dal mio naso e “Sei strabica per caso?” domandò, coprendosi la bocca e scoppiando a ridere da solo. Gli sottrassi nuovamente il cellulare e osservai meglio quella foto. Un ragazzo, curvo su un banco pieno di fiale blu, scarabocchiava qualcosa su un quaderno. Il viso si vedeva appena, ma quel tanto bastava a riconoscere in lui un ragazzo davvero carino, con un particolare alquanto strano che, di certo, non passava inosservato: i suoi capelli, arruffati e pieni di cera, erano di un curioso blu oltremare. Guardai interrogativamente Ashton che arrossì, dandomi una pacca amichevole sulla spalla che però bastò a farmi cadere dal letto. Sì, quando Ashton era in imbarazzo, diventava inconsapevolmente violento. “Allora?” lo fissai, gli occhi lucidi e un sorriso da ebete che non accennava a diminuire. “E’ il ragazzo che mi piace” asserì, lasciando una me stupita e ancora dolorante immobile sul pavimento, impietrita. Le possibili opzioni erano due: la prima, abbracciare Ashton per la gioia fino a farlo soffocare e tempestarlo di domande; la seconda, comportarmi da adulta, farmi un po’ gli affari miei e lasciare che se la cavasse da solo. Ovviamente, scelsi la prima opzione. “Come si chiama? Quanti anni ha? Come l’hai conosciuto? È..” “FRENA!” Ashton mi schiaffò una mano in faccia, nel tentativo malriuscito di tapparmi la bocca. Dio, quant’era sudato! “Si chiama Michael, è un anno più grande di me e, non ci crederai, l’ho conosciuto grazie a te, fiorellino!” e mi abbracciò, mi stritolò talmente forte che del suo interminabile racconto capii soltanto che Ashton e Michael si erano conosciuti il giorno prima, scontrandosi in corridoio mentre Ashton cercava il mio libro di storia dopo aver terminato il suo test di matematica – libro che,tra l’altro,non aveva trovato. Perciò, a conti fatti... sì, quell’incontro era stato proprio merito mio. E gli avrei fatto pesare quel debito a mio favore per tutta la vita. Chi l’avrebbe detto che sono anche un bravo cupido? Ridevamo per non so cosa quando, infilando la mano sotto al cuscino, Ashton ne tirò fuori una piccola lettera dalla busta rossa su cui spuntavano due piccole parole nere. Vidi Ashton tentare di fare il misterioso, lo sguardo corrucciato e una mano a grattarsi i ricci che gli cascavano sugli occhi. Strinse forte la busta, la girò, la annusò persino. Poi, come se niente fosse, la lasciò penzolare davanti ai miei occhi tenendola ferma tra indice e pollice. “Cos’è?” chiesi, osservandola a mia volta. Ash sorrise quasi... malizioso? e “E’ per te, mi sembra” rispose, lasciandola cadere sulle mie gambe. L’afferrai subito e “Per Elizabeth” lessi, cominciando ad aprirla prima con calma, poi con sempre più fretta fino a ridurre la carta in un’ infinità di coriandoli rossi. Mi irrigidii leggendo un nome nell’angolo in basso a destra, un nome che di certo non mi aspettavo di trovare proprio lì, in una lettera destinata a me. Calum. Cosa poteva aver scritto? Che aveva deciso di lasciare l’appartamento? Di cambiare città? Oppure aveva trovato un lavoro? Oppure... “Chi l’ha scritta?” ringraziai Ashton mentalmente per aver interrotto quel flusso interminabile di pensieri. Lo guardai negli occhi e lui fece lo stesso, e per qualche istante era come se Ashton leggesse i miei pensieri, tutte le domande insensate che mi stavo ponendo senza motivo. Annuì semplicemente, mi disse di aver capito. Recuperò il suo cellulare avvicinandosi alla porta e “Chiamami” ordinò con un sorriso tirato sulle labbra, uscendo e sparendo lungo le scale. Io, intanto, sentivo di amare sempre di più quell’amico, quello strano tipo che solo un anno prima reputavo un pazzo che ci provava, mentre adesso per me era tutto. Era un fratello. Scossi il capo, adesso non potevo pensare a lui. Adesso, dovevo pensare ad un altro fratello, uno più silenzioso e truce, uno che in tanti anni non ero mai riuscita a comprendere. Presi un respiro profondo e...

 

Ciao, Elizabeth (non ti chiamo Lizzie, so che ti infastidisce),

questa è la lettera che ho scritto per te questa notte e che non credo riceverai mai. Se stai leggendo adesso, vuol dire che ci ho pensato su e ho cambiato idea. Oppure, cosa improbabile, l’ho semplicemente dimenticata in giro... –se è così, allora rimettila subito a posto!!!-

Comunque, ti scrivo perché ci sono un paio di cose che devodirti prima di partire, cose che devi sapere, ma che non avrò mai il coraggio di dire guardandoti negli occhi.

Prima di tutto, io so.. lo so che mi odi. E lo capisco, fidati, perché anch’io ricordo come, appena arrivato nella mia nuova casa- la tua casa- i nostri genitori prestavano infinite attenzioni a me trascurando, involontariamente, te.

Inoltre c’è una cosa che devi sapere sui tuoi genitori, Fred e Lorna. Entrambi erano stimati giudici, con diverse lauree a carico e specializzazioni che li rendevano richiestissimi nel mondo giuridico. Quando mi adottarono venne affidato loro un caso, uno di quegli omicidi a sangue freddo ad opera della... mafia. Fred sapeva che i mafiosi si sarebbero vendicati, in caso di condanna dell’accusato. Ma lui andò avanti comunque.

Seguì i suoi principi morali. E un certo Morrison fu incarcerato.

Due giorni dopo, la loro auto era in fiamme... e Fred e Lorna bruciavano con essa.

Poco prima dell’incidente Lorna mi chiamò al cellulare. Mi diceva di restare sempre con te, di proteggerti in ogni momento, sempre e comunque. E di non abbandonarti neanche se avessimo litigato... Quella chiamata mi colse alla sprovvista e io annuii semplicemente, in silenzio.

Non sapevo che proteggerti fosse una vera promessa.

Essendo un idiota, scappai comunque.

I tuoi nonni materni si occuparono per un anno o due di te mentre io tornai al mio paese da suor Marie, che mi accolse come un figlio in convento.

Ma nonostante questo, non riuscivo a dormire. Il viso di Lorna mi tornava in mente di continuo, e più sognavo lei, più mi accorgevo delle somiglianze che esistono fra voi.

Stesse labbra sottili; stessi capelli neri, corti e riccissimi; stesso naso irregolare.

E stessi occhi, grandi e marroni. Incredibilmente luminosi.

Dovevo tener fede alla promessa fatta a Lorna se volevo far pace con me stesso; se volevo perdonarmi quella stupida fuga inutile. Dovevo proteggere te, una mini-Lorna, in ricordo di quella vera.

Perciò.. qualche giorno fa sono tornato a Sidney. Ho scoperto che l’appartamento in cui abiti è situato proprio in centro, a poca distanza dalla ferrovia. Così ho contattato il tuo affittuario e gli ho pagato l’affitto del prossimo mese in anticipo così, anche se tu volessi cacciarmi, in realtà non potresti.

Io ho pagato, io resto nell’appartamento con te.

Sono un genio del male, lo so. E questo genio ti proteggerà come promise a Lorna, perciò aspettati che i prossimi affitti saranno magicamente detratti dalla paga di qualcun altro...

Comunque, adesso vivo qui. Vivevo, qui.

Sì, perché stare attento che tu non combini guai, che non ti succeda niente, che torni sempre a casa tutta intera è... una grande, grandissima faticaccia.

E in più, tu non mi ascolti.

Per te è come se fossi inesistente, per te la mia opinione non conta. È ingiusto? Sì, lo è. Mi dai addosso senza sapere niente di me? Sì, lo fai.

Beh, se stai leggendo forse, forse cambierà qualcosa. Ma comunque io non ci sarò più. Parto. Non ti dico dove sono diretto. Però a fine lettera ti lascio il mio numero che, guarda caso, non mi hai mai dato l’occasione di darti. (E lo faccio solo in caso ne avessi estremo bisogno)

Perché parto? Ho gettato la spugna, con te.

E poi volevo dirti che...

Quel tipo, quel Luke... posso dirti solo questo: l’ho già visto da qualche altra parte.. magari in uno di quei brutti, bruttissimi posti che frequentavo anch’io anni fa e... insomma, quel viso non mi ispira certo fiducia..

Ti ho detto di non parlarci, che gli avrei spezzato un dito, altrimenti. Ma tu non mi ascolti e io ho paura. Paura che combini qualche disastro, paura che, anziché perdere tempo ad arrabbiarti con me, dicendomi che io ti sottraggo aria, che ti importuno dandoti ordini che... che io non sono tuo fratello e non deve fregarmi nulla di te –tutte cose che mi hai detto l’altra sera, te l’assicuro- tu perda tempo con quel Luke faccia d’angelo ficcandoti in qualche casino.

Sono stato troppo diretto?

Se lo pensi, allora hai ragione.

Ma io sono così: diretto e spigliato, soprattutto quando tengo a una persona e faccio di tutto per starle accanto, per guardarle le spalle.

Se ancora non capisci cosa ho cercato di fare per Lorna, per Fred... per te.. allora partire è una scelta giusta, un toccasana anche,anzi, soprattutto, per te.

Ti lascerò nonostante quella promessa.

Non mi vedrai più,

nonostante io...

Calum

P.S. Cell. 5678976543

P.P.S. Cerca comunque di non chiamarmi.. vorrei voltare pagina una volta per tutte.

Rimasi lì impietrita, le labbra ancora schiuse su quella frase non terminata, quel ‘nonostante io..’ che mi riempiva di dubbi e sensi di colpa. Sensi di colpa. Con quella lettera Calum mi aveva confessato tutto, dal motivo della morte dei miei- etichettato dai giornalisti sotto la spunta ‘incidenti mortali’- al motivo che l’ha portato qui da me, nel mio appartamento. In una città che a lui ricorda solo cose spiacevoli. L’ha fatto per me. O meglio, per una promessa fatta a mia madre e di cui non mi aveva mai parlato.

Devi dirgli grazie, grazie di tutto.

Sentii una chiave intrufolarsi nella toppa e.. Scattò il panico. Afferrai la lettera infilandola sotto il cuscino, presi un calzino che, usando come uno spolverino, risultò davvero molto utile per raccattare i coriandoli di carta rossa e sotterrarli sotto il letto. C’era solo un’altra persona che possedeva le chiavi dell’appartamento. E quella persona era il mio coinquilino, ovviamente. Sobbalzai scattando inspiegabilmente in piedi appena Calum si mostrò, la giacca e i pantaloni scuri eleganti, da cerimonia. Sul suo petto sbucava persino un cravattino rosso. Che andasse ad una festa? Entrò in silenzio, ignorandomi completamente. Lo seguii con lo sguardo per tutto il tragitto che lo portò al suo letto finché... infilò la mano sotto il cuscino. Sentii il cuore perdere un battito, fermarsi letteralmente nel petto per poi ricominciare a pompare quando Calum si allontanò di lì, lo sguardo diretto al mobile accanto. Aprì un cassetto. Lo richiuse, confuso. Sta cercando la lettera. Lo vidi entrare in un panico silenzioso e sofferente che volevo bloccare. Lo arpionai con entrambe le mani con gesto fulmineo appena mi sfiorò, passandomi accanto. A quel tocco rimase inspiegabilmente immobile. Non batteva ciglio, come se la cosa non lo infastidisse e, anzi, infondo forse non lo sorprendesse affatto. Giurai di vedere uno striscione passarmi davanti agli occhi con la scritta:Vuole delle scuse, grande genia. Mi preparai mentalmente, mi schiarii la voce e “Davvero parti?” C..cosa? COOSA?! Non volevo dire questo io.. adesso avrebbe scoperto della lettera e.. Addio, mondo crudele. Aspettai una sua risposta che arrivò inaspettata solo pochi attimi dopo, e che riuscì a deviare il discorso su qualcosa di molto, molto più serio. “Forse” rispose, mettendosi allo specchio e sistemandosi il cravattino, raccolse i miei occhi nel riflesso alle sue spalle e “A te interessa?” In un attimo avevo scoperto un’altra qualità/difetto di Calum: la sua terribile abilità nel mettermi in difficoltà. Lo fissai, mordendomi un labbro che lui fissò a sua volta nello specchio. Intrecciai le dita sul ventre. Abbassai il capo. Mi interessava? Beh, infondo Calum voleva... sì, cercava di proteggermi, insomma. E poi io non volevo restare sola, non di nuovo. A quel pensiero il viso di mia madre s’intrufolò prepotente nella mia mente. Sentivo la sua voce chiedermi di abbracciarlo, di accettare finalmente mio fratello. E se me lo diceva lei, quella era la scelta giusta. “Mi dispiace!” urlai, qualcosa a pungere gli angoli degli occhi “Non è vero che tu mi togli aria! Non è vero che.. che ti odio o che non sei mio fratello perché tu.. tu..” mi bloccai, all’improvviso quel torrente di parole sembrava essersi interrotto. Calum si voltò e mi sorrise. Quel suo sorriso. Era la prima volta che me lo mostrava, e pensai che gli donasse molto, che con i denti bianchi in mostra e le labbra schiuse fosse davvero... carino. Mi aspettavo un abbraccio, ma lui sollevò un sopracciglio e “Perché tu..?” chiese, impaziente. “Perché tu sei mio fratello, Cal.” Perfetto, la prima volta che lo ammettevo e lui era lì ad ascoltarmi, ad allargare sempre più quel bel sorriso luminoso. “E io sono proprio...” “Una stupida?” m’interruppe, sogghignando. Gli feci la linguaccia e “Io avrei detto fortunata ma... va bene anche così” Gli chiesi che diavolo ci faceva vestito così, con quello smoking elegante che, sinceramente, gli stava proprio bene... ok, quest’ultima parte l’ho solo pensata. Calum non rispose, la sua attenzione fu catturata da qualcosa ai miei piedi. Si chinò, posando le ginocchia a terra e afferrando qualcosa di piccolissimo che scomparve nella sua mano. Mi fissò. “Hai visto in giro una busta rossa, per caso?” Rabbrividii, scuotendo il capo forse con troppa forza. Mostrò un ghigno, sollevò un sopracciglio e “Chissà perché...” aprì la mano mostrandomi un coriandolo rosso “...non ti credo”.

Volevo sotterrarmi.

Quello sguardo divertito poteva significare solo una cosa:

Vendetta.

 

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