Il cliente ha sempre ragione

di Gaber_Ricci
(/viewuser.php?uid=231544)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Effrazione senza furto ***
Capitolo 2: *** Risate ***
Capitolo 3: *** Coleen ***
Capitolo 4: *** Il cliente ha sempre ragione ***



Capitolo 1
*** Effrazione senza furto ***


“Non essere ridicolo” disse Matt Murdock, nascosto dietro la maschera da diavolo, alzando la testa verso l’uomo che gli aveva parlato. Era un gesto automatico, che aveva imparato quando ancora vedeva e che il suo corpo, ostinatamente, si rifiutava di dimenticare. Forse perché, più di lui, comprendeva che non erano le acrobazie in cui si produceva quando si scazzottava con questo o quel malvivente, a tenere al sicuro la sua identità segreta e, soprattutto, il fatto che fosse cieco (da bambino aveva visto una funambola cieca, al circo), quanto tutti quegli atteggiamenti apparentemente naturali, che non facevano sospettare ad alcuno che lui avesse qualcosa in più (o in meno) dell’Uomo Ragno. Prudenza in quel caso inutile, comunque: Charlie Cox sapeva perfettamente chi lui era, ed era ben deciso a far fruttare la cosa al massimo delle sue possibilità.
“Ragazzo mio” gli rispose “non sono mai stato così serio. Tu devi trovarmelo: ed in fretta, pure. E se vuoi prendertela con qualcuno, telefona al tuo deputato, il carissimo Alvin Kelley, che poco civicamente ha deciso di tirare le cuoia nel bel mezzo del suo mandato e così facendo ha reso necessarie queste elezioni suppletive che si avvicinano a passi da gigante, e che Benjamin Hood non ha certo intenzione di perdere”. Per essere un viscido, arrivista, bastardo figlio di puttana, Cox parlava sempre troppo, pur senza dire mai più di quanto voleva: si vedeva, che aveva studiato legge. Per fortuna, non nella mia stessa università, si era ripetuto Matt, più di una volta.
“Non perderà”, disse, per sviare il discorso.
“Ne sono sicuro anch’io. Nonostante le brillanti operazioni condotte da questo reparto, infatti”. Devil percepì che gli angoli della sua bocca si stavano sollevando in un sorriso beffardo. “Il tasso di criminalità in questa grande, splendida, complicata metropoli continua ad essere troppo, troppo alto… forse perché, da qualche tempo, il nostro diavolo custode non veglia più su di noi saltellando di tetto in tetto… troppo alto, dicevo, perché tutti i bravi newyorkesi non accorrano in massa a riempire di preferenze il buon Hood ed il suo geniale piano di prelevare dalla disoccupazione tanti bravi, robusti, ottusi giovani per rinforzare il malandato corpo della polizia. Purché, ovviamente, questi si occupino poi solo di quegli spacciatori che coi loro prezzi concorrenziali stanno rovinando il mercato a Kingpin. Per me, sono felice di abitare nel New Jersey. Tu per chi voterai?”.
“Non credo che Devil sia iscritto alle liste elettorali”.
“Buona questa. Sigaretta?”.
“No”.
Sentì la pietra focaia mandare scintille, poi, l’odore del fumo. Col tempo, aveva imparato a distinguere le diverse miscele di carta, catrame e nicotina, e Cox se ne portava sempre addosso una tanto particolare (figurarsi) che avrebbe potuto distinguerlo dall’odore, in mezzo ad una folla, meglio di come avrebbe potuto farlo Wolverine. La cosa poteva tornargli utile, nel caso avesse deciso di ucciderlo.
Scosse la testa. “E allora, posso sapere perché sono qui, invece che a casa mia, nel mio letto, a farmi una bella dormita o a godermi la compagnia di una donna?”.
“Semplice: perché il nostro prossimo deputato è pazzo come un cavallo. Ricordati che parliamo di uno che voleva circondare Harlem con un muro. Deve aver letto troppi numeri del New Frontiersman”. Si fermò per dare una tirata; Devil sentì un brivido scendergli giù per la schiena e, per scacciarlo, chiese: “E questo, cosa c’entra col fatto che abbia subito un’effrazione?”.
“Si vede che non frequenti gli ambienti. E dovresti, fidati, ti eviterebbe un bel po’ di rogne, ad esempio questa che risponde al nome di Charlie Cox”. Stavolta non ci fu bisogno di percepire un bel niente: la risata fu tanto forte che l’avrebbe sentita anche un sordo. “Ad ogni modo, uno che non è paranoico, non andrà mai a posare le sue nobili chiappe su un seggio del Congresso. E lo sai perché?”. La sigaretta sfrigolò fino a spegnersi. “Perché gli elettori sono più pazzi degli eletti. E Hood potrebbe avere ragione, a credere che, se come teme, a qualche giornale pseudo – progressista venisse in mente di tirar fuori un bel titolone ad effetto, tipo Se non riesce a proteggere la sua casa, come può proteggere la città?, con sotto la sua foto, perderà quei due o tre milioni di voti che s’aspetta di prendere. Ad ogni modo, se non ci sbrighiamo a portargli un colpevole, il nostro amico inizierà a credere che qualcuno l’abbia pagato apposta, quel ragazzo strafatto di crack che gli è entrato in casa per fregargli l’argenteria, e che, poveraccio, nemmeno quello è riuscito a fare…”.
“Cosa?” lo interruppe Matt. “Dalla casa di Hood non mancava niente?”.
“Neanche una spilla da balia”.
“E come avrebbe fatto, ad accorgersi dello scasso?”.
“Niente di più facile: porta forzata”.
“Tutto qui?”.
Cox fece un mugolio d’assenso, e Devil tacque. Improvvisamente, il caso iniziava ad avere qualche interesse… o, meglio, avrebbe iniziato ad averlo, non fosse stato che un contratto tra gentiluomini chiamato ricatto lo obbligava comunque ad occuparsene.
“Questo è strano, non ti pare?” chiese il Diavolo, alla fine.
“Bah. Francamente, non mi interessa: lui vuole che troviamo chi è stato, noi glielo troviamo. E poi, gli facciamo capire che non deve raccontarlo a nessuno. Intendi?”.
“Intendo. Quello che non mi è chiaro è perché non lo fa fare a qualcuno dei salariati del suo amico Kingpin”.
“Gli riderebbe in faccia se glielo credesse, probabilmente”. Lo stava fissando, di sicuro. “E poi, se davvero è un ragazzino con troppa eroina in corpo ad avere avuto questa idea che non riusciamo ad esimerci dal definire geniale, sicuramente è un loro cliente. E il cliente, si sa, ha sempre ragione: anche quando va a rompere i coglioni al tuo principale referente politico”. Le molle della poltrona: si era seduto. “Tutto chiaro? Ora puoi lavorare più tranquillamente, o ci sono altre domande?”.
“Sì, una. Come lo trovo, quello specifico anonimo imbecille eroinomane, in una città di otto milioni e mezzo di anonimi, che offre a ciascuno un buon motivo per diventare imbecille e cedere alla lusinga dei paradisi artificiali?”.
“Oh, quello è un tuo problema: io il mio l’ho fatto, ora sta a te. E ricorda: il cliente ha sempre ragione. Specialmente quando, come nel mio caso, il tuo prezzo è costato tanta fatica”.
“Fatica un trucco ed un ricatto?”.
“E la mia integrità dove la metti?”. La risata lo accompagnò mentre spiccava il salto verso l’edificio vicino.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Risate ***


Mentre rientrava dalla finestra, due domande lo assalirono di sorpresa, alle spalle, come il più infame degli avversari. La prima fu: chissà se a qualcuno è mai venuto il capriccio di farmi sbagliare casa. Attenzione, solo per voi stasera, ecco Devil, l’uomo senza paura, che, ops!, finisce nel bagno di una sformata cinquantenne che si fa il bagno! Riuscirà il supereroe (che, per chi non lo sapesse, è non vedente! Risate!) a sfuggire alle ire della signora, convinta o forse speranzosa, che egli sia quel misterioso maniaco che la spia da ormai cinque anni, tre mesi, due settimane e quattro giorni, ed al lancio degli oggetti più comici che si siano mai visti in un bagno ed in un albo a fumetti? Scopritelo, in questo numero speciale!
Ripensò alle umiliazioni che aveva dovuto sopportare in tanti anni di esistenza. Non gli pareva si fosse mai arrivati a tanto, pur essendoci andati tante volte pericolosamente vicini. Ringraziò Pretesto, da tempo suo unico Dio, per questo E perché quello che sentiva sotto la mano era, di nuovo, il suo comodino.
Non dovrei provare nostalgia, vero?, era la seconda. E no, non dovrei, la banale risposta. Nel resto del dialogo, consumato da almeno sei mesi di ripetizioni, comparivano Batlin’ Joe, Karen Page ed il cazzo di casino che era capitato l’ultima volta che qualcuno aveva capito chi c’era dietro quella maschera (che, per fortuna, ai piani alti avevano fatto disegnare a qualcuno capace, che altrimenti l’avrebbe portato letteralmente scritto in faccia, che era cieco), e Matt evitò di avviarlo, per non dover ammettere che perfino di quel cazzo di casino aveva nostalgia, e delle pallottole da estrarre dal braccio alla bell’e meglio, e dei calci in faccia, e…
Se non altro, erano situazioni da cui, in un modo o nell’altro, sapeva come uscire. Da queste, invece… dove andarlo a cercare, quel ladruncolo? Che doveva fare, sollevare da terra uno ad uno i soliti sospetti, sbatterli contro un muro, avvicinarsi tanto da poter far loro pensare che voleva mangiarseli, e poi domandare: “Sei tu che l’altra notte sei stato da Hood?”. Avrebbe fatto un gran casino e si sarebbe divertito non poco. Ma qualcosa gli diceva che al deputato sarebbe venuto un colpo. Forse, i suoi informatori…
Oh, porca troia!, quasi urlò, mentre si sfilava la casacca del costume, la lanciava e la sentiva atterrare da qualche parte vicino al letto (sì, fu un porca troia molto lungo o, meglio, ripetuto parecchie volte). Di lavoro d’ufficio gliene bastava già uno e, Cristo, odiava troppo Cox per dargli la soddisfazione di correre dietro alle sue missioni come un cane affamato e sbavante dietro un osso di gomma.
Qualsiasi piano illuminante la sua mente si fosse sforzata di partorire per venire fuori da quell’impiccio, avrebbe potuto attendere fino all’indomani mattina. O, almeno, fino a che non si fosse lavato (cosa di cui sentiva il bisogno pur non avendone bisogno, non so se capite).
Fu quando si era convinto che quella notte non avrebbe potuto rovinargliela neppure un’inondazione, e si stava avviando verso la doccia fischiettando, con malcelata soddisfazione, I shot the sheriff, che suonò il telefono. Alzò la cornetta e qualcuno gli disse che Coleen era morta.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Coleen ***


Matt volava di palazzo in palazzo, tenendosi aggrappato alla sua corda e tendendo l’orecchio per cogliere qualunque indizio la città che stava interrogando poteva dargli: ogni conversazione, ogni bestemmia, ogni lieve alterazione del battito cardiaco che rivelasse che una menzogna stava venendo detta. Tutto questo, per scovare e minacciare un uomo che, in altri tempi, avrebbe protetto ed aiutato.
Aveva fatto un tentativo con gli informatori: non era servito a niente, se non a far quasi venire un vecchio Al che se l’era visto comparire all’improvviso davanti a testa giù che penzolava da un palazzo, come se fosse l’Uomo Ragno. A tutti, aveva fatto la stessa domanda: “Non ti dirò cos’è accaduto, ma se lo sai, capirai. Hai idea di chi sia stato?”. Un cazzo di enigma, ma anni di selezione avevano fatto in modo che i suoi informatori comprendessero anche quando parlava come l’oracolo di Delfi: e tutti avevano scosso il capo, segno che a far visita non invitato a casa Hood era stato davvero un balordo qualsiasi, e non un raffinato scassinatore lautamente ricompensato da qualche avversario politico o economico (non che facesse grande differenza). Questo rendeva le cose più difficili: meglio. Più tempo avrebbe dovuto dedicare a quella ricerca (che, ovviamente, era importante perché Cox sapeva chi era lui, e perché era noto che Cox facesse parte della corte di Kingpin, e perché Kingpin già una volta… cazzate), meno ne avrebbe avuto per pensare ad altro. Quella notte, uscire fuori a svagarsi assumeva tutto un altro significato.
Niente alcol. Niente musica. E, per l’amore di Dio, niente donne. Doveva rimanere lucido. Il suo senso radar doveva funzionare al massimo delle sue possibilità. Doveva evitare come la peste incontri ravvicinati con qualsiasi donna volesse perseguire il fine paradossale di riscaldare il suo corpo levandogli di dosso i vestiti. Perché nella sua mente, l’unico posto dove ancora esistevano le immagini, avrebbero avuto, tutte, lo stesso volto: un volto che non aveva mai visto. Quello di Coleen.
Sei una contraddizione che cammina, Matt Murdock, si era ripetuto tutto il giorno; e che rischia di schiantarsi contro un palazzo, se non sta un poco più attento, aveva aggiunto, quando era giunto a tanto poco dall’andare a decorare con una bella macchia rossa il vetro di un grattacielo da far gridare di terrore un broker che faceva gli straordinari. Ti adorava ben oltre i tuoi meriti, sarebbe morta per te e senza dubbio l’avrebbe preferito al modo in cui è morta. L’hai rifiutata perché sei uno stronzo, ed ora, guardati (ah ah ah), penzoli in giro cercando di tenere lontano il fatto che a vent’anni è finita a fare compagnia a tuo padre, a Karen, ad Electra ed a tutti quelli che hanno avuto la sfortuna di amarti. E, oh, già!, c’è anche quell’altra piccola questione.
Quando l’aveva conosciuta, Coleen non aveva neppure due anni. Il muro di Berlino era appena caduto, e la neonata Russia sentiva il bisogno impellente di dimostrare che, in quanto a capacità commerciali, non andava seconda a nessuno, figurarsi agli odiati yankees. Il capitano di quella nave doveva essere un vero e proprio orgoglio, per i suoi compatrioti: era riuscito a strappare addirittura un terzo (gli altri due se li erano divisi, alla pari, i genitori e gli intermediari) dell’assegno da quattrocentomila dollari che taluni anonimi avevano staccato, nel segreto delle loro stanze, per aggiungere ai container stipati di viveri puzzolenti che portava sul ponte dell’altro carico, ben nascosto nella stiva, e per portarlo da Nachodka, attraverso il canale di Panama, a New York, nella patria dei liberi e dei forti. Dove lei arrivò, come tutti gli altri, ormai priva perfino di un nome. Non che questa fosse la mancanza più grave.
Era stato Devil, ad occuparsi per primo della questione. Aveva compreso ben presto, tuttavia, che non avrebbe potuto venirne a capo, senza ricorrere a Matt Murdock. Era stata una delle prime volte che aveva invertito il suo abituale modus operandi. Una delle prime volte che finì sui giornali col suo vero nome. Una delle prime volte che Kingpin ebbe modo di odiarlo, anche senza guardarlo attraverso la maschera: che un terzo di quattrocentomila dollari moltiplicato per ventiquattro bambini, capirete, fa schifosamente tanti soldi.
Fu anche una delle prime volte che, lavorando per la giustizia, finì per andare a sbattere contro la legge.
Madre Victoria, superiora di un gruppo di suore che condividevano con lei la missione di accudire orfani e l’appartenenza ad un ordine ambiguamente dedicato all’adorazione del Sacro Corpo di Nostro Signore, aveva deciso che il nome più adatto per quella bambina era Coleen; e lui aveva deciso che il cognome Murdock le sarebbe stato bene. Era stato allora che, all’improvviso, era comparso Bastian Myers.
Myers era la prova vivente che il denaro poteva comprare tutto, tranne una moglie fertile che non meritasse una visita dei suoi sicari prima di aver potuto scodellare fuori almeno un cazzo di bambino. Coleen era stata scaricata sulla banchina del molo con stampato in fronte, a fuoco vivo, il suo indirizzo, circostanza che Matt non aveva potuto riferire in tribunale, che l’ultimo che aveva avuto l’ardire di pronunciare il nome Myers in quelle sacre stanze aveva finito per lasciare questa Terra col cranio spappolato da una statua della Giustizia cieca tragicamente scivolata giù dal suo basamento (aveva del senso dell’umorismo, bisognava ammetterlo).
Il suo nome comparve sotto quello di Matt meno di una settimana prima della causa di affidamento. Un bel risparmio: qualcosa che sarebbe stato costretto a comprare, di nascosto, per ben quattrocentomila dollari, ora Myers poteva prenderselo, alla luce del sole, a costo zero, senza nemmeno quei pochi spiccioli che di solito servono per corrompere un giudice. Signore e signori, solo per voi qui stasera: in un angolo Matt Murdock, avvocato al suo primo incarico importante, figlio di un uomo dai trascorsi non limpidissimi, privo di relazioni sentimentali stabili, e per di più cieco. Dall’altra Bastian Myers: proprietario di tutto, comprese fabbriche che, alla bisogna, possono produrre mogli perfette (sia pure a scadenza) e fedine penali nuove di zecca per qualunque ascendente o discendente fino alla cinquantaduesima generazione. Ehi, guardate Myers: sta dicendo “Lo butto giù alla seconda ripresa!”. Predizione azzeccata: se Coleen aveva finito per crescere fino a diciassette anni con madre Victoria e le sue consorelle dal morboso interesse per il Corpo di Cristo, infatti, non era stato per l’insperato coraggio di un uomo di legge: no, era stato solo perché, quando Myers l’aveva presa in braccio per la prima volta, Coleen gli aveva sputato in faccia. Lui era lì, quel giorno. Non aveva mai rimpianto tanto di essere cieco.
Nulla sarebbe servito a lavare quell’insulto. Non il fatto che lei avesse due anni. Non che di anni ne fossero passati quindici. Neppure un cancro incurabile. Chiunque conoscesse Myers, anche solo di fama, avrebbe dunque sentito la sensazione dell’inganno che pervase loro due, quando il suo testamento venne aperto e Coleen dichiarata sua erede universale.
Doveva esserci qualcosa dietro, se non altro il desiderio di umiliare e far rodere il fegato a tutta quella banda di iene che gli si era fatta attorno sperando che il cancro che gli stava mangiando il pancreas gli mandasse in pappa anche il cervello. Ma quello era fin troppo facile, da fare, e poi perché proprio Coleen? Lo capirono, quando il vecchio notaio lesse l’ultima clausola: “Come unica condizione, pongo che lei debba portare il mio cognome”.
Matt la convinse ad accettare. Quel giorno, si rese conto di essere invecchiato, e di essere invecchiato male, e di quanto la sua innocenza lo abbagliasse. Fu per quello che rifiutò, ogni volta che lei glielo chiese: la prima volta, quella sera che ebbe il primo attacco.
Stavano studiando l’assetto societario di una delle grane che Myers le aveva lasciato insieme al suo cognome. Un coacervo talmente ben congeniato di pezzi di merda fumante ed angeli incapaci di sentirne la puzza (Matt riusciva quasi a vedere il malato terminale Myers che sghignazzava mentre architettava quella trappola), che gli era venuta voglia di proporre a Coleen di fare come Alessandro Magno col nodo di Gordio: vaffanculo, un colpo di spada e finita lì, rifondiamola da zero e chi se ne frega delle penali miliardarie e degli amici degli amici degli amici degli amici di Kingpin che potevano risentirsene. “Abbiamo accettato di farci carico dell’impero del male di Myers” disse, sfoderando tutta la sua retorica e ricorrendo codardamente alla prima persona plurale “proprio per tentare di cavarne qualcosa di buono e…”. Lei aveva emesso uno sbuffo tanto simile a quelli di disappunto che tirava fuori quando lui si lanciava in quei discorsi, da non allarmarlo minimamente. Il terrore l’aveva invaso quando aveva udito il suo cuore che impazziva e lo schianto quando si abbatté priva di sensi dalla sedia sul pavimento.
Il desiderio irrazionale di portarla all’ospedale più vicino volando di palazzo in palazzo quasi ebbe la meglio sulla sua usuale prudenza. Attese l’ambulanza consumandosi, contando le extrasistoli che facevano assomigliare il ritmo del suo cuore ad una danza tribale per gli dei della morte. Il sudore, tanto corposo da fargli sentire la testa pesante, gli aveva imperlato la fronte e le tempie.
“Diciotto anni fa” aveva esordito lei, alcune ore dopo, prima di fermarsi, forse per rimasticare le parole di quel dottore che si era appena allontanato. Era state tante, e grevi, e ponderate, ma di cui lui non riteneva che tre brani sanguinanti: “cuore”, “progressiva ed inarrestabile”, “non c’è cura”. Il resto, erano minime consolazioni per indorare la pillola: ma non poteva fregare lui, che aveva studiato alla stessa scuola, come si faceva a dire ad un cliente che c’era una condanna a morte sul suo capo.
Ma lei riprese: “Diciotto anni fa, avresti voluto fare di me Coleen Murdock. Lo vuoi ancora? Perché io sì, lo voglio”.
“Abbiamo quasi trent’anni di differenza, Coleen. Ed io sono cieco”.
“Due sgradevoli circostanze che non ti impediranno di venire al mio funerale”. La sua ironia, così inattesa, non l’aveva sorpreso abbastanza da dire sì. Era già abbastanza difficile dover accettare di dover perdere Coleen, l’ultimo brandello di entusiasmo ed onestà che gli era rimasto (Cox gli aveva già fatto recapitare un faldone di fotografie e l’invito a presentarsi da lui il più presto possibile). Perdere anche una moglie, e per di più prima di aver avuto il tempo di imparare ad amarla come tale, sarebbe stato troppo.
Continuò a proporglisi mentre peggiorava a vista d’occhio; reiterò la richiesta anche quando volle farsi aiutare a redigere il testamento. Dovette purtroppo spiegarle che, anche se madre Victoria probabilmente l’avrebbe fatto, bruciare banconote era un reato federale, e non poteva lasciare a nessuno quell’incombenza, che era puerile, ridicola ed insensata (che era Coleen). L’ultima volta, quasi un’implorazione, era stato il giorno in cui era morte. Forse aveva sperato che il tempo o la pietà avessero temperato il suo egoismo: si era sbagliata. Il modo in cui reagiva alla lettera contenuta in quella busta, unico oggetto del suo lascito indirizzato a lui (per fortuna), lo dimostrava, e…
Cristo santo. Per quanto tempo aveva cazzeggiato a trenta metri d’altezza, pensando a Coleen, le braccia che lo sostenevano per automatismo e non per sua volontà? Eccolo, il grande eroe che doveva rivoltare New York come un calzino, quella notte, incapace anche di capire dove cazzo fosse finito. Quante miglia aveva fatto? Come diavolo avrebbe fatto a tornare indietro, ora?
Si fermò a riflettere su un terrazzo vuoto. Pochi metri più in basso, sentiva un lieve ronzio elettrico, che si nascondeva in mezzo a quello, biologico, di cinquantamila moscerini che agitavano le ali. Un lampione. Se solo avesse avuto un po’ di fortuna…
Senza sapere bene perché (qualcun altro doveva aver deciso per lui, in nome della spettacolarità), superò il parapetto e saltò giù a piedi uniti. Alcuni dei moscerini si scansarono, impauriti. Altri andarono a morire sul selciato, sotto il suo peso. La sua schiena protestò vivamente, dicendo qualcosa di molto simile a: non hai più vent’anni. La mise a tacere, anche il dolore sordo permase.
Rimase in ascolto per rendersi conto se qualcuno l’avesse visto o sentito. Sembrava di no. Si sfilò un guanto ed iniziò a tastare il lampione, sperando che ci fosse… c’era. La barra orizzontale su cui era inciso, leggermente a rilievo, il nome della strada. Lo percorse con le dita; il leggero rilievo della stampa gli disse che era nella Quarantottesima. Bene, non sono molto lontano da casa, iniziò a pensare, prima che un sorriso improvviso facesse deragliare il suo senno. Iniziò a correre, sfiorando in modo febbrile i muri, alla ricerca del 120. Era lì che lui abitava.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Il cliente ha sempre ragione ***


“Non si preoccupi né per la sua incolumità, né per le sue papille gustative: è uno dei migliori vitigni che esistano al mondo, e, come vede, lo sto bevendo anch’io. La vita è troppo breve, per bere vino mediocre”.
“La ringrazio, ma non posso accettare”.
“Cos’è, qualcosa tipo: non posso bere quando sono in servizio?”.
“Una cosa del genere”. E poi devo essere lucido. Il mio senso radar. Ho una città da interrogare. Anche se è quasi l’alba ed ho fottuto tutte le mie possibilità di dare alla mia mente qualcos’altro a cui pensare, quando ho deciso di venire qui da te.
“Non mi offenda negandomi anche il piacere di averla come ospite, almeno. Mi rendo conto che lei è Devil, ma suppongo che possa accomodarsi qui con me per qualche minuto. Non le farò proposte indecenti, glielo prometto, al contrario di lei io non sono in servizio!”.
Risero. “Io… sì, credo di sì” rispose Devil, mentre con naturalezza individuava una poltrona pochi passi dietro di lui, e ci si accomodava.
Era un’evoluzione imprevista e paradossale: di certo non avrebbe mai pensato che lui si sarebbe mostrato un padrone di casa tanto straordinario, che gli avrebbe offerto vino pregiato e lo avrebbe invitato a sedersi per fare con lui quattro chiacchiere, senza dubbio dottissime ed interessanti (fiutava nell’aria un odore di pelle e muffa che aveva imparato ad associare a libri troppo antichi per essere considerati vecchi). Soprattutto visto che era entrato nel suo appartamento sfondando una finestra.
Quando aveva iniziato a scalare il muro, liscio se non per alcuni appigli che nessun altro sarebbe stato capace di individuare, gli era sembrata una buona idea, per cui valeva la pena sopportare la fatica che comportava. Salire su, fino all’undicesimo piano (sapeva dalla lettera di Coleen che lui abitava lì), sfondare la finestra facendo più casino possibile, svegliare il padrone di casa, individuarlo seguendo le pulsazioni accelerate del suo cuore, sorprenderlo sulla porta della sua stanza da letto, afferrarlo per il brutto pigiama, avvicinarselo al visto (era la seconda volta che aveva quell’idea, quella notte) e quindi dirgli, con la massima calma possibile: “Let me introduce myself, I’m a man of wealth and taste”. Infine, godersi la paura che solo un diavolo poteva infondere in un uomo.
Non era andata così. Prima di tutto, perché lui stava dormendo. In secondo luogo, perché la sua comparsa non l’aveva minimamente spaventato: certo il crash che lui stesso aveva provocato poteva averne mascherato il suono (che comunque, seppure c’era stato, non era durato più di un secondo), ed il suo senso di radar non averlo colto, ma pareva che non avesse contratto un solo muscolo quando, in una tempesta di schegge di vetro, Murdock era atterrato sul tappeto nel suo sfavillante costume rosso. Si era limitato a fissarlo per qualche secondo; poi aveva alzato le spalle ed aveva commentato, con semplicità: “Non posso dire che la sua visita mi dispiaccia, mister Devil, ma le assicuro che le avrei aperto la porta, se avesse suonato il campanello”. Era stato abbastanza per farlo sentire un idiota. Bravo, complimenti, hai fatto la tua entrata ad effetto, signor grande eroe, ed adesso? Cos’hai intenzione di fare? Cosa vuoi dirgli? Salve, in realtà io mi chiamo Matt Murdock e sono qui perché tu vai a letto per soldi con le donne, e per qualche motivo sento il bisogno di vendicare il fatto che tu ti sia scopato una donna che io non ho mai voluto?
Interrogativi stringenti, come si vede, a cui, poco educatamente, stava tentando di dare risposta mentre lui provava, da par suo, a coinvolgerlo senza riuscirci in una conversazione. Alla fine, si arrese, e disse: “Ma vedo che lei non riesce a togliere gli occhi dalla mia collezione di libri, mister Devil. Le piace?”.
“Credo sia più che altro una specie di timore referenziale. Sono poco abituato ad avere a che fare con i libri, e di solito sono di genere diverso”. Di legge. E scritti in braille, quando voglio giocarmi la carta della “pietà per il povero disabile”.
“Comprare libri è un investimento, e non parlo solo della componente economica. Nonostante le assicuri che per almeno uno o due di questi tomi ci sono collezionisti che sarebbero disposti ad uccidere”.
“Non faccio fatica a crederlo. Ho avuto a che fare con persone che sono diventate assassini per motivi molto più futili”.
“Ad esempio”.
“Ad esempio soldi”.
Lui… oh, che cazzo: si erano conosciuti. Aveva avuto modo di rendersi conto che non era l’orco mangiabambine che gli era piaciuto immaginarsi. Poteva ormai chiamarlo Nathan come facevano tutti gli altri, no?
Nathan emise un verso di divertimento, e poi disse: “Non la facevo così idealista, Devil”.
“E perché no? Per mettersi un costume da idiota ed uscire a fare la ronda per New York tutte le notti, ci vuole una buona dose di idealismo”.
“Questo è ovvio, ma io credo anche che lei debba avere un lavoro, di giorno, che le permette di fare quello che fa, di notte. Un po’ come Tony Stark. O Sasha Grey, e spero non ritenga il paragone né offensivo, né ridicolo, visto anche chi lo sta facendo”.
“Ritengo ridicolo ben altro. E comunque preferisco senza dubbio assomigliare a Sasha Grey, piuttosto che a Tony Stark”.
“Però non mi ha risposto”.
“Perché sono abituato a fare le domande, non a dare le risposte”.
“Dovevo immaginarlo. E poi sono io che sono stato indiscreto”.
“Le domande non sono mai indiscrete, le risposte possono esserle, credo di aver letto da qualche parte”.
“La ricordavo al contrario”.
“Non insisto, è lei l’esperto nel campo”.
“Già”. Bevve un sorso di vino; Devil lo sentì che gli scendeva in gola. “Non le sembra patetico, questo?”.
“Cosa?”.
“Che mi atteggi a conoscitore di vini ed a cultore di libri rari per avere una qualche forma di redenzione dall’essere una puttana disonesta”.
“La conosco da troppo poco anche solo per dire se la qualifica le stia bene”.
“Questo non ha impedito a me di cercare di includerla nella mia stessa categoria”.
Murdock alzò un sopracciglio. “Spero non si riferisca a quella delle puttane disoneste”.
“No, parlo di quelli che vorrebbero comprarsi la salvezza dal proprio squallore con qualcosa di socialmente accettabile”.
“Quello che faccio io non è socialmente accettabile”.
“Giusto, e quello che faccio io nella società provoca piuttosto una certa noia. Vogliamo dire di personalmente appagante, anche solo per il proprio ego?”.
“Mentirei se negassi che anche questa è una motivazione per quello che faccio”.
Tacquero. Poi Nathan disse, in tono di scusa: “Se solo fosse venuto due giorni fa, Devil, le assicuro che sarei stato un ospite migliore. Ma in effetti due giorni fa ancora non esisteva per lei un motivo per cercarmi”.
Murdock si irrigidì. Come aveva potuto lui… non fece in tempo a terminare la domanda che stava per fargli giocare il titolo di Uomo senza paura, che Nathan continuò: “La manda Cox per l’appartamento del futuro deputato Hood, vero?”.
La frase lo colse talmente impreparato che non fu capace di fingere nulla di più di un “Sì”. Poi, se ne stette semplicemente zitto, e lo stesso fece Nathan. Ma c’era qualcosa di teso, in quel silenzio: pareva che si stesse preparando a parlare a lungo; un discorso complesso, personale. Che lui impedì, chiedendo: “Come fa lei a sapere che lavoro per Cox? E chi le ha detto di Hood?”.
“Le pareti parlano, Devil. E se vuole sapere chi porta quelle voci da me… ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio. Tra le quali agenti di polizia troppo ricchi per il proprio grado, e che trovano delizioso godere della mia compagnia. Per confidarsi, soprattutto. Spero che questo non faccia peggiorare l’opinione che lei aveva di me, o del corpo di polizia”.
“Sono impossibili entrambe le cose, anche se per motivi diversi. Credo che ora accetterò un bicchiere di quel buon vino”.
Glielo verso. Chiese: “L’ho stupita?”.
“Un poco, Nathan”.
“Dunque aveva ragione? Lei aveva avuto l’incarico di spaventarmi?”.
“Sì. Ma ora che l’ho conosciuta, non credo di averne più voglia”.
“La ringrazio per quanto ha detto”.
“Credo, tuttavia, che lei voglia garantirmi che manterrà il silenzio…”.
“Mantenere il silenzio fa parte del mio lavoro. Quella di prima la consideri un’eccezione. E tra l’altro non ho fatto nomi”.
“Allora il mio compito può dirsi concluso. Tuttavia…”.
“Tuttavia?”.
“Tuttavia, vorrei sentire tutta la storia da lei. Sa, lavorando per la polizia, ho una visione piuttosto parziale delle cose.
Ci fu di nuovo quel silenzio, poi un fruscio di stoffa: Nathan gli dava ora le spalle. Iniziò: “Si chiamava Coleen, Devil”. L’Uomo senza paura, non visto, cinse con la mano e strinse forte il bracciolo della poltrona.
“Era diversa” continuò Nathan. “Diversa da chiunque altro abbia conosciuto. Aveva vent’anni e, sa, di solito le mie clienti di sesso femminile sono donne di mezza età, sole nonostante abbiano talvolta un numero di mariti ed amanti superiore a quello dei loro anni, viziate, annoiate, che non possono credere di non poter sentirsi ancora (o di potersi sentire per la prima volta) il centro degli interessi di un uomo, anche di un uomo prezzolato. L’unico modo di accontentarle, per me, è sempre stato il principale ferro del mestiere della nostra categoria: la menzogna”.
“Continui”.
“Ma lei, lei, Devil… non credo di riuscire a farle capire. Avrebbe dovuto conoscerla, perché…”. La voce si spense nel vuoto, e Matt dovette ponderare bene le parole, prima di dire, con la voce un poco incrinata: “Non ne sta parlando come di una cliente”.
Un singulto, che doveva assomigliare ad un sorriso, salì dal suo petto. “Lo vede che ho ragione, quando dico che sono una puttana disonesta? Lei dirà, a ragione: era diversa, dici. Ma hai pensato di non farti pagare? Hai pensato di premiarla per la sua specialità? La risposta è no, Devil. Ma ciò non significa che con lei mi sia comportato diversamente da tutte le altre. Non voglio dire che mi abbia cambiato, sarebbe stucchevole e ciò che è peggio banale. Il nostro incontro mercenario non è durato più di un’ora e mezza. Tuttavia, non avrebbe avuto da me quelle domande, prima, se non avessi incontrato lei. Non avrei cercato di vederla come mon semblant, mon frère, se lei non mi avesse fatto sentire… inadeguato, credo che sia la parola giusta”.
“Inadeguato? Inadeguato in cosa?”.
“Emanava… santo cielo, sto parlando come una soap opera di quart’ordine”.
“Continui. La stavo ascoltando con interesse”.
“E questo dovrebbe preoccuparla. A meno che anche lei, dietro quella maschera, non senta, pesante, il carico degli anni che trascorrono. Ed a meno che anche lei non si sia trovato, come me, di fronte a tanta…”
“Purezza?”.
“Purezza! Sì, esatto! Ha avuto questa fortuna? Non saprei dire né perché, né da cosa abbia derivato quest’impressione, ma ne sono stato abbagliato, come mai prima era accaduto. Forse tutti i giovani sono così, è solo che lei aveva trovato il modo di farci perdere la nostra boria di fronte a chi ha meno anni di noi. Le avevo detto che era molto giovane, vero?”.
“Sì”. Ma non era necessario.
“Ma che aveva una malattia cardiaca incurabile no, credo. È morta ieri, nel tardo pomeriggio. Non ci eravamo salutati da più di ventiquattr’ore. Appena in tempo”.
“Nathan”. Deglutì, ma la poca saliva scese giù nella sua faringe come se fosse vetro triturato. “Come… come si collega tutto ciò all’appartamento di Benjamin Hood?”.
Stavolta il sorriso giunse chiaro alle sue orecchie, e ne colse l’ironia. “Credo lei immagini che uno non finisca a fare il mio lavoro per volontà. Ci è costretto: da scelte sbagliate, da opinioni fallaci, da una maledizione. Questo ultimo caso è il mio. Sono nato povero, Devil; povero e per di più negro, come credo non abbia fatto fatica ad accorgersi: il che, di per se, sarebbe già una tragedia sufficiente. Ma sapere che, nonostante ciò, si sarebbe potuto, e non potere… cosa dovevo fare? Andare a consumarmi il cervello con qualche lavoro sottopagato, con un ricatto dietro salario, che mi avrebbe spezzato la schiena al punto che quando sarei tornato a casa avrei avuto a malapena la forza di picchiare mia moglie (non ho mai alzato le mani su una donna che non me lo abbia chiesto e non mi abbia pagato, nel caso se lo stia chiedendo)? Credevano che fossi sciocco, che fossi ingenuo, che fossi fesso; ma c’era anche un’altra bugia, sulla mia gente, una delle poche lusinghiere, se così si può dire: decisi di sfruttarla. Gli altri ci credettero, ed in breve lasciai il quartiere in cui ero nato ed avevo passato tutta la mia vita”.
“Continuo a…”.
“Mi lasci finire. Ha mai sentito parlare di gentrificazione?”.
“Io…” so perfettamente di cosa sta parlando. Sono un avvocato. Mi sono occupato di espropri illegali compiuti col fine di soddisfare un altro tipo di capriccio di qualche tua cliente: quello di avere un appartamento nel quartiere del momento. Io… “devo averne letto da qualche parte. Dovrebbe essere il processo per cui persone abbienti comprano, restaurano e rendono alla moda appartamenti di zone degradate di una città. Giusto?”.
“Giusto. O, se preferisce: fuori dai coglioni, stronzi negri. Questa casa è del futuro deputato Benjamin Hood, ora”.
“Lei vuole dirmi…”.
“Ci sono cresciuto in quell’appartamento, mister Devil. Ho scavato in mezzo alla polvere che Hood ha fatto nascondere sotto i suoi bei tappeti. Ho mangiato sui mobili che ha fatto a pezzi e mandato in discarica. Ho saltato coi miei fratelli sulle reti sconnesse che sono state sostituite da ricchi baldacchini. Ho…”. Si fermò, ansimando.
“Ha portato lì Coleen?” chiese Devil.
Sentì le vertebre del collo di Nathan scricchiolare mentre si girava a guardarlo. “Mister Devil” disse. “Mi ha chiesto di trattarla come nessuna donna in vita mia. Ha aggiunto che il prezzo non sarebbe stato un problema: ma non ce ne sarebbe stato bisogno. Le ho già detto e ripetuto che era diversa, no? Ho voluto esserlo anch’io. Non ho inventato palle. Le ho raccontato la stessa storia che ho raccontato a lei: ho aggiunto solo un particolare”.
“Ossia?”.
“Ossia, che quella era l’unica casa che avevo abitato ed in cui non ero mai stato con una donna”. Non ci fu bisogno di chiedere se fosse vero.
“Ma… lo sapeva? Sapeva chi viveva lì? Sapeva il rischio che correva? Sapeva che…”.
“Che avrei potuto trovarmi di fronte a quattro sgherri di Kingpin invece che ad un gentleman come lei? Sì, lo sapevo”.
“Ma allora perché…”.
Sentì la mano di Nathan riscaldargli la spalla con una stretta. E poi la sua voce: “Cosa vuole che le dica? Il cliente ha sempre ragione”.
  

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2670943