Un anno per dirsi addio

di Robigna88
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2 ***



Capitolo 1
*** 1. ***


Eccoci qui :D alcuni anni fa scrissi questa storia che poi è finita un po' nel dimenticatoio. Ora ho pensato di proporla a voi sperando che vi piaccia :D Perdonatemi inoltre se ho lasciato in sospeso un po' delle storie che avete imparato ad amare ed avete iniziato a seguire con tanto affetto, ma sono stata un po' impegnata con l'uscita del mio primo romanzo di cui vi lascio tutti i dettagli QUI e che potete acquistare in libreria e sui più comuni siti online come iBS, LibreriaUniversitaria, Unilibro ecc ecc.

Ma ora vi lascio al primo capitolo di questa storia e spero vi piaccia :D a presto, Roby :)



Cecilia/Samuel



1.



New York – Periferia

 

Cecilia Baker aprì gli occhi alle 08.00 in punto.

Spense la sveglia e afferrò il telecomando dello stereo per accenderlo. Premette play e lasciò che la musica inondasse casa.

Si spogliò velocemente a ritmo di Feeling Good, improvvisando un balletto che, nelle intenzioni voleva essere qualcosa di malizioso e sexy, ma che invece era una sequenza di movimenti senza senso e senza armonia.

Aprì l'acqua e dopo aver controllato con la mano che fosse calda al punto giusto, si infilò sotto la doccia.

Si insaponò senza smettere di muoversi e poi si risciacquò chiudendo gli occhi e la bocca, per impedire che lo shampoo finisse dove non doveva.

Chiuse l'acqua ed uscì avvolgendosi in un accappatoio rosa, completo di cappuccio: regalo della sua amica Renee, per il suo venticinquesimo compleanno.

Annodò piano la cinta e si spostò davanti allo specchio.

Lo ripulì dal vapore e osservò il suo riflesso; non aveva un bell'aspetto.

Il suo viso era spento, la sua pelle non più brillante come un tempo e i suoi capelli sembravano di paglia.

Forse è giunto il momento di tagliarli, disse tra sé e sé.

Tolse il cappuccio e li pettinò con amore, con calma, spazzolando una ciocca per volta.

Non voleva che i suoi capelli si rovinassero. Erano l'unica cosa amava di sé.

Anche se molti la consideravano bella, lei – seppur aveva un buon rapporto col suo corpo – non si era mai considerata tale.

Carina si. Ma nella giusta misura, né più né meno.

Non era molto alta, e nemmeno magra come le donne delle pubblicità.

Il suo corpo era obiettivamente armonico. Un po' di forme lì dove erano necessarie per distinguere un ramo secco da una vera donna.

I suoi capelli erano di un caldo castano che a volte, sotto il sole, tendeva al rossiccio, e i suoi occhi di uno strano color nocciola che variava a seconda degli abiti e del trucco che indossava.

La pelle chiara e liscia, i denti sani e due piccole fossette che comparivano sulle guance ogni qual volta rideva di gusto o semplicemente abbozzava un sorriso.

Caratterialmente non aveva particolari rilevanti; socievole, solare e generosa, erano gli aggettivi che più spesso venivano usati per descriverla. Ma oltre ad una spaventosa estroversione, una solarità che per qualcuno era fastidiosa, e una generosità di fondo, Cecilia aveva anche un bel temperamento.

Non si faceva mettere i piedi in testa e non si lasciava intimorire facilmente.

Difendeva quello in cui credeva con le unghie e con i denti, e anche se si arrabbiava raramente, quando lo faceva, era un'arrabbiatura coi fiocchi.

Era sempre in movimento, e per questo Renee, che era praticamente l'unica vera amica che aveva, aveva iniziato a chiamarla “trottola”.

Non aveva viaggiato molto.

Si poteva tranquillamente dire che l'unico viaggio che aveva fatto, era stato quello che dal North Carolina l'aveva portata a New York, per inseguire il suo sogno di vivere da sola.

Si era adattata alla vita solitaria abbastanza in fretta, per nulla spaventata dall'idea di staccarsi dalla tranquillità e dalla comodità che la vita con mamma e papà le forniva.

Aveva fatto diversi lavoretti tra cui la cameriera, la barista e la babysitter. E infine aveva trovato lavoro come gelataia, in una piccola gelateria del centro.

Lavorava cinque ore al giorno, guadagnando quello che le era necessario per vivere tranquillamente.

Non poteva permettersi grandi lussi, ma non le erano mai interessati.

La casa in cui viveva gliel'avevano comprata i suoi, quindi niente affitto. Tutto quello che faceva coi soldi guadagnati era pagare le bollette, fare la spesa e permettersi un'uscita con Renee per un  film o una cena fuori ogni tanto.

Per il resto faceva una vita abbastanza tranquilla.

Lavorava, tornava a casa, si preparava da mangiare, accudiva i suoi due pesciolini rossi, e poi guardava la televisione, oppure leggeva un buon libro.

Niente stravaganze, e niente follie notturne nella Grande Mela.

Non facevano per lei.

Era una trottola di giorno, ma non di notte.

Sospirò e legò i capelli facendo due treccine. Poi indossò un paio di pantaloni neri, una camicia bianca e i suoi immancabili stivaletti.

Prese la borsa ed uscì di corsa.

Aveva lasciato la casa in uno stato caotico, ma era in ritardo per un appuntamento molto importante.

Avrebbe messo in ordine al suo ritorno.

 

 

Lo studio del Dott. Martin era uno studio piuttosto deprimente.

Una stanza di media grandezza, pareti bianche piuttosto anonime e un silenzio quasi contemplativo.

Era un po' inquietante a dire il vero, e il gorgheggiare dell'acqua dentro il distributore automatico fissato alla parete, urtava i nervi dopo un po' che lo si ascoltava.

Ma tutto sommato poteva essere peggio.

Una volta Cecilia si era ritrovata casualmente in un poliambulatorio gratuito.

Era andata a prendere Renee, che di mestiere faceva il paramedico, alla fine del turno.

Era rimasta scioccata, senza parole davanti allo spettacolo che si era offerto ai suoi occhi.

C'erano bambini col naso colante che piangevano accorati, madri e padri che litigavano per i lunghi tempi d'attesa, e vecchietti che tossivano diventando paonazzi quasi stessero per soffocare.

In quello studio quel giorno, era diventata tristemente consapevole, di quanto il mondo fosse disonesto.

I ricchi avevano ospedali con parcheggi privati e medici con macchine di lusso.

Quelli meno agiati invece dovevano accontentarsi di poliambulatori colmi di buone intenzioni, ma dimenticati da Dio e dal resto della città.

Era stato deprimente, più di quello studio in cui si trovava ora e per un paio di settimane si era sentita triste dentro, perdendo la solarità e l'allegria che la caratterizzavano da sempre.

Poi però aveva seppellito quel ricordo, cercando di non pensarci più, amaramente certa che non avrebbe potuto fare nulla per cambiare quella situazione.

Lo studio del Dott. Martin comunque, era avvilente anche per la specializzazione del dottore stesso: oncologia.

L'oncologo era un dottore che una persona sperava di non incontrare mai nella propria vita, eppure molto spesso, quella stessa gente che ardentemente desiderava di non averci mai a che fare, si ritrovava seduta in uno studio come quello in cui era seduta lei, ad aspettare pazientemente il proprio turno per conoscere il proprio destino.

Ora toccava a lei, ed era pronta ad affrontare qualunque cosa il dottore le avrebbe detto.

Prese una rivista, sfogliandola distrattamente.

Era una rivista di moda, satura di pubblicità di abiti costosi che lei non avrebbe mai indossato.

Erano piuttosto orrendi.

C'erano piume, paillettes e strane fantasie che, per quel che la riguardava erano come ricevere un pugno in un occhio.

La poggiò nuovamente sulla sedia accanto a lei e si alzò avvicinandosi alla segretaria.

«Mi scusi,» le disse sorridendo «crede che ci vorrà ancora molto?»

La segretaria, una ragazza alta, bionda e con due occhi azzurro cielo, la guardò e le riservò un sorriso compassionevole.

«Dovrebbe essere questione di minuti oramai.» disse.

Poi guardò il dottore uscire salutando un paziente e volse di nuovo lo sguardo verso di lei.

«Ecco qui. È il suo turno adesso.» le annunciò.

Cecilia alzò un sopracciglio perplessa e annuì gentile.

Si sistemò la borsa sulla spalla e raggiunse il dottore sul limitare della porta.

Lentamente, quasi come per ritardare il suo incontro col destino, varcò la soglia rendendosi conto che, non era poi tanto pronta.

Si mise a sedere sulla sedia rossa imbottita e osservò attentamente il dottore e i suoi movimenti, notando che tradivano una certa… amarezza.

Fece un grosso respiro e si mise seduta più dritta puntando gli occhi dentro i suoi, quando anche lui si mise a sedere dall'altra parte della scrivania.

«Signorina Baker, purtroppo ho delle brutte notizie.» le disse «Gli esami che le ho fatto fare hanno rilevato la presenza di una massa tumorale di natura maligna al suo seno sinistro.»

Cecilia deglutì a vuoto, annuendo ingenuamente «Cosa significa?»

«Significa che si prospetta un momento molto duro per lei.» le spiegò «Faremo tutto quello che è necessario. Operazioni, cure e trattamenti, e sono sicuro che con la sua forza di volontà lei potrà…»

«Guarirò?» chiese Cecilia interrompendolo «Voglio dire, con queste cure, questi… trattamenti, questi interventi, guarirò e starò di nuovo bene?»

«Onestamente?» chiese il dottore «Non credo. Il suo tumore è ad uno stadio piuttosto avanzato. Ma il corpo umano è una macchina meravigliosa. Potrebbe guarire perfettamente.»

«E se,» Cecilia si fermò sporgendosi in avanti per poggiare le mani sul freddo legno della scrivania «se non mi sottopongo a nessuna cura, o a nessun intervento, quanto tempo mi rimane?»

Il Dott. Martin fece un grosso respiro.

Un respiro amaro, triste, desolato ma quasi rassegnato.

Chissà quante di quelle risposte e di quelle spiegazioni dava al giorno, a chissà quante persone.

«Un anno al massimo.» disse infine.

Un anno al massimo.

Quello studio ora le sembrava ancora più triste di quanto già non fosse.

Scosse il capo incredula, indietreggiando fino a poggiare la schiena alla spalliera della sedia, e si sentì improvvisamente incapace di respirare.

Si portò una mano sulla bocca, come per reprimere un conato di vomito, e poi gli occhi le si bagnarono di lacrime.

Si ritrovò a piangere, disperata e singhiozzante, nello studio dell'uomo che le aveva appena comunicato l'approssimativa data della sua morte.

Le sembrò surreale ritrovarsi in quella situazione, e la pelle spenta che aveva visto allo specchio quella stessa mattina, ebbe un senso.

Il suo corpo l'aveva avvertita che qualcosa non andava, ma lei si era trovata comunque impreparata.

Chi mai potrebbe essere preparata per una cosa del genere?

Si alzò dalla sedia, schivando le mani del dottore che, avvicinatosi cercava di abbracciarla, e raggiunse la piccola finestra.

Si perse nel mondo fuori da quella stanza. Quel mondo che probabilmente tra un anno non avrebbe più visto.

I paesaggi malinconici dell'autunno, i bambini che correvano gioiosi inseguiti dai loro amici a quattro zampe.

Si inginocchiò a terra, scossa dai singulti.

La sua vita le passò davanti aderendo perfettamente al cliché “la vita ti passa davanti tutta d'un fiato un attimo prima della fine”.

E benché quello fosse per lei solo l'inizio della sua fine, le restava solo un anno e un anno era pressappoco un soffio davanti alla prospettiva di vivere a lungo, per tutta una vita.

 

 

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Capitolo 2
*** 2 ***


NDA: Questa è una vecchia storia scritta tanto tempo fa. Non ero neppure sicura di volerla postare ma poi l'ho vista lì e ho pensato ma si perchè no?... ed eccola qui. Buona lettura :D

2.

 

 

 

Central Park – New York

 

 

«Coraggio signori.. Solo dieci dollari per il miglior ritratto che vi sia mai stato fatto.»

Samuel Micovich sospirò alzando le braccia al cielo.

Per un attimo gli venne voglia di lanciare la sua tavolozza a terra e saltarci sopra fino a frantumarla.

Ma quei colori erano costati troppo per permettere alla sua rabbia di distruggerli.

E, anche se molto meno di quello che lui sperava, erano la fonte del suo guadagno.

Certo, non gli procuravano la possibilità di mangiare in un ristorante di lusso, ma perlomeno, poteva permettersi, con qualche sporadica difficoltà, di mantenere la sua casa.

Beh, tecnicamente era la sua auto.

Ma per lui fungeva anche da casa e tutto il resto.

Era una vecchia Renault Kangoo, grigia.

Di un grigio triste e deprimente. Non era una tonalità scura, e nemmeno una tonalità chiara.

Era un colore indefinito che lo angosciava.

Ma era l'unica cosa che aveva e che, malgrado tutto, lo teneva al riparo dalla pioggia evitandogli di dormire sotto un cartone.

La sua vita non era andata come si aspettava. E non era andata nemmeno come si aspettavano i suoi genitori.

Suo padre, di origini russe, aveva sempre lavorato come imbianchino.

Se ne andava girando col suo accento russo facendo sorridere i bambini e imbiancando le pareti di ogni palazzo gli venisse affidato.

E così, nella speranza che lui seguisse le sue orme, gli aveva regalato quel deprimente furgoncino.

Grande abbastanza per gli strumenti da lavoro, ma facilmente adattabile. Così da poterlo usare come una normale auto, per poter portare in giro la tua futura moglie di origine russa e di nome Svetlana.

Così gli aveva detto.

Mettendo in chiaro, sin dalle prime parole, che si aspettava diventasse un imbianchino come lui, e che sposasse una donna russa di nome Svetlana.

Strano.. Considerando che lui aveva sposato una donna interamente americana.

Sua madre, Kirsten, era stata in gioventù una bravissima sarta.

Creava dal nulla, rattoppava e qualche volta si divertiva persino a disegnare, abiti che sembravano impossibili da creare o rimettere a nuovo.

Aveva le mani d'oro.

Da piccolo gli raccontava sempre che, un noto stilista, di cui non aveva mai voluto fare il nome, le aveva offerto di lavorare per lui.

E lei, preferendo prendersi cura della sua famiglia aveva rifiutato.

Glielo raccontava con una tristezza negli occhi che trasmetteva una strana sensazione di pentimento e rimpianto.

Ma alla fine, ogni volta che raccontava della sua occasione perduta, si affrettava a specificare che non era affatto pentita della sua scelta, e che la rifarebbe migliaia di volte.

A differenza di suo padre, severo per natura, sua madre era sempre stata caratterizzata da quella lieve follia che caratterizza gli artisti.

La sua follia non era proprio lieve se si considera che un giorno, dinnanzi al suo desiderio di ritrarre una donna senza veli, si era proposta come modella.

Però lui le somigliava molto, fisicamente e caratterialmente.

Era, come lei, desideroso di inseguire e realizzare i suoi sogni. Pieno di sprint e di aspettative.

A differenza di lei però, aveva scelto di inseguire la possibilità di un successo e non la sicurezza che la famiglia poteva offrire.

Anche se alla fine era costretto a dormire su un'auto, e a mangiare economici sandwich, non era pentito.

No.

Era stato tenace e determinato, e anche se ora gli sembrava di trovarsi sull'orlo di un misero fallimento, era speranzoso che le cose sarebbero andate meglio.

Strinse forte la tavolozza tra le dita e tornò al suo posto, serio e composto.

Nessuno voleva farsi un ritratto? Avrebbe riprodotto su tela il paesaggio intorno.

Non era la sua specialità, ma l'avrebbe fatto comunque.

Si guardò intorno, scrutando l'orizzonte e poi la vide.

Era seduta su una panchina, con le mani una dentro l'altra e lo sguardo triste e malinconico.

Fissava l'asfalto, quasi come se cercasse di guardarci attraverso.

Era.. affascinante e Samuel ebbe la sensazione si riuscire a vedere la sua anima.

Anche se vedeva solo il suo profilo, era perfetto.

Il naso grazioso, la bella bocca e armonici lineamenti.

Era il profilo più bello che avesse mai visto e di colpo, sentì il bisogno di trasformare l'estasi che provava in colori.

Poggiò il pennello sulla tela e fu come se un nuovo mondo gli si presentasse davanti.

 

 

 

****

 

 

 

Finì dopo quarantacinque minuti circa.

La sua nuova musa ispiratrice non si era mossa di un solo millimetro.
Chiusa nelle stesse emozioni che le coloravano il viso, era stata la modella perfetta, senza che lui nemmeno le chiedesse di esserlo.

Prese il ritratto, ancora bagnato in alcuni punti e si avvicinò a lei.

Con cautela, quasi in punta di piedi, la raggiunse e si mise a sedere al suo fianco, rimanendo il silenzio.

Per non disturbare il momento che quella affascinante creatura stava vivendo, e anche perchè non sapeva cosa dire.

Di solito doveva pregare i passanti di mettersi in posa e poi doveva pregarli di acquistare il ritratto.

Con lei tutto era stato quieto e tranquillo. Era stato come se entrambi fossero legati da un sottile filo di magia.

Silenziosa, splendida, artistica magia.

E ora il silenzio sembrava quasi obbligatorio.

Rimase zitto e fermo per parecchi minuti e quando finalmente la sua vicina di panchina alzò gli occhi fissando il laghetto lì di fronte, decise di interrompere la quiete e parlare.

«Dieci dollari.» le disse.

Si pentì subito di averlo detto.

Con quell'anima tanto triste e tanto bella, avrebbe voluto essere più delicato. Escogitare una breve presentazione oratoria per invogliarla ad acquistare quel ritratto che aveva fatto per lei.

E invece, colpa della deformazione professionale, aveva subito buttato le mani avanti sul prezzo, trattandola come tutte le altre persone, e non come la magica musa che l'aveva ispirato.

La ragazza si voltò verso di lui, trasformando la vista del suo profilo in un bel faccia a faccia.

Ma quell'artistico idillio che aveva portato alla realizzazione di quel quadro, non si ruppe.

Anzi, Samuel ebbe voglia di alzarsi e dipingere ancora, stavolta il viso nella sua totalità, nella sua delicatezza e bellezza.

«Dieci dollari per cosa?» chiese la ragazza «Cosa sei, una prostituta?»

Samuel si indignò profondamente.

Benchè nei giorni di solitudine, e nei freddi inverni di New York, avesse imparato a considerare la prostituzione quasi.. un'arte, la sua di arte non poteva essere paragonata a quella.

«Una prostituta ti avrebbe chiesto molto di più di dieci dollari.» precisò «Io sono un tipo che ama l'ottimo rapporto qualità – prezzo.»

La ragazza, o bell'anima, come lui nella sua mente aveva deciso di chiamarla, alzò un sopracciglio perplessa e poi batté le palpebre confusa.

«Cosa? Ma tu chi diavolo sei? E perchè dovrei darti dieci dollari?» chiese.

«Sono Samuel Micovich, pregiato e sottovalutato artista di strada.» si presentò alzandosi e facendo un piccolo inchino «Ho fatto per te questo splendido ritratto.»

«Un ritratto?»

«Esattamente.»

«E chi ti ha chiesto un ritratto?»

Samuel aprì la bocca per ribattere, ma l'ovvietà della domanda lo fece titubare un attimo.

Bell'anima aveva ragione. Lei non gli aveva chiesto nulla.

Per un attimo pensò di regalarglielo, ma quel pensiero durò un attimo, il tempo necessario a trovare una giusta risposta.

«Nessuno.» disse «Ma non ti piacerebbe avere un bellissimo ritratto per rendere immortale il tuo essere?»

Si aspettava di vederla alzarsi e allontanarsi dicendogli parole irripetibili.

Invece negli occhi di bell'anima qualcosa cambiò.

L'espressione perplessa lasciò il posto alla tristezza che aveva dato vita al dipinto, e la sua bella bocca, si vestì di improvviso di falsa malizia e genialità.

Samuel provò timore ed euforia allo stesso tempo e troppo incuriosito per allontanarsi, rimase immobile in attesa di.. qualcosa.

La ragazza si mise in piedi con grazia e delicatezza. Aprì la sua borsetta e tirò fuori un centone.

«Facciamo cento invece di dieci.» gli propose porgendoli.

Contrariamente a quello che molti pensavano, l'ambizione e la smania di guadagno degli artisti di strada, non sfiorava nemmeno lontanamente la disonestà.
Perlomeno non nel caso di Samuel.

E benchè ritenesse quello uno dei suoi migliori ritratti, sapeva perfettamente che non valeva cento dollari.

Scosse il capo e le porse il foglio.

«Sono un artista, non un disonesto.» le disse «È un bel ritratto, ma non vale tanto. Prendilo, te lo regalo.»

Bell'anima sorrise appena, osservando il disegno, poi lo prese e guardò Samuel negli occhi.

«È vero. È un bel ritratto. Ma il centone non era per questo.» disse.

«E per cos'era allora?»

«Qualcosa che dubito non ti piacerà.»

 

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