rain ☂

di grenade_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** barley and honey ***
Capitolo 2: *** tea & biscuits ***



Capitolo 1
*** barley and honey ***


 
 Perrie

 
Da piccola sognavo la fama mondiale. Mi piaceva gironzolare per la mia stanza con addosso i tacchi di mia madre e gli occhiali da sole e fingermi una grande star internazionale, occasionalmente avvolta in una coperta con gli orsacchiotti stampati sopra che usavo a mo’ di abito da sera. E così camminavo sulle piastrelle in marmo facendo un grande sforzo ogni volta che cercavo di alzare quelle scarpe grandi circa il doppio della mia misura, rischiando anche di inciamparci e farmi male. Ma non m’importava finché mi trovavo nella mia tenera bolla, in cui ogni abitante sulla faccia della Terra conosceva il mio nome e tutti sognavano di conoscermi, stringermi la mano, fare una foto.
«Edwards, tavolo 5!»
Emisi un lungo sospiro stanco, ma ancora una volta mi sforzai di esibire il mio falso sorriso di circostanza. «Vado subito, Josh.»
Ecco cos’ero veramente, invece: “Edwards”, la bionda ossigenata del bar dietro l’angolo.
Se fossi venuta a sapere prima che avrei finito col lavorare come cameriera in un monotono Starbucks, avrei gettato via tacchi e occhiali da sole e sarei corsa ad aiutare mamma in cucina con le stoviglie, così da tenermi preparata per il futuro.
Sbuffai silenziosamente e mi legai il grembiule alla vita, dichiarando il mio turno di lavoro ufficialmente iniziato.
Era il mio terzo anno di lavoro lì dentro, e mai qualcosa in vita mia mi era pesato così tanto come il solo pensiero di alzarmi e recarmi in quel locale al mattino. Per qualche strano motivo mi sembrava di seguire sempre il solito copione, tutte le mattine: stesso tragico risveglio, stesso giornaliero ritardo, stesso rimprovero da parte del capo. E poi stessa giornata, stessi clienti, persino le stesse identiche ordinazioni; di certo non si poteva dire che i londinesi avessero fantasia.
«Un frappuccino con molto latte e un soffio di cacao e un milkshake al cioccolato con panna al tavolo 5.» enunciai a Jesy l’ordinazione della coppietta al tavolo, picchiettando la penna sul blocchetto con fare annoiato.
E lei aggrottò la fronte, leggermente confusa. «Non è quello che hanno ordinato anche ieri?» domandò retorica, e tutto quello che ricevette in risposta fu un indifferente scrollata di spalle, seguita da un sonoro sbadiglio.
«Dovresti dormire di più.»
E come escludere le critiche dalla mia fantastica routine? Ne ricevevo a bizzeffe, tutti i giorni.
Jesy era la mia più vecchia collega, aveva iniziato a lavorare qui esattamente un mese prima di me, ed eravamo le più esperte nel settore, per quanto potesse essere da esperti preparare caffè e servirli ai tavoli fingendoti entusiasta.
Era una ragazza particolare, e non aveva peli sulla lingua: era la cosa che più mi aveva colpito di lei, sin dall’inizio. Possedeva un’inspiegabile allegria che non smetteva di sfoderare in modo irritante, tuttavia dentro di lei era nascosta una persona ben differente, che avevo conosciuto solo un anno prima e solo per una sera. Non lasciava che gli altri vedessero ciò c’era davvero dietro, sapeva nascondere bene le sue emozioni. Al contrario mio, che dovevo essere sollecitata tutte le mattine a mostrarmi sorridente ai clienti senza lasciar trasparire la mia innegabile antipatia nei confronti di tutti loro e di quell’occupazione in generale.
«Non ce l’ho il tempo per dormire Jesy, sto segregata qui dentro otto ore al giorno, l’hai dimenticato?» replicai, poggiandomi stancamente al bancone, come una studentessa appena tornata dalla sua giornata scolastica all’università. Io non sapevo nemmeno come fosse fatta un’università.
«Anch’io seguo i tuoi stessi turni, ma non sembro un relitto al mattino.»
Le rivolsi un’occhiata fulminante, assottigliando gli occhi azzurri. «Io non sono un relitto.»
E lei ignorò il mio commento a proposito, come sempre quando entrava in modalità “mamma iperansiosa”.
«Mi piacerebbe sapere cos’è che fai una volta fuori da qui dentro per ridurti così; non hai nemmeno un ragazzo.». Alzò le spalle in un’espressione di sufficienza, mentre le sue dita si muovevano veloci tra pentolini e tazze, con una destrezza che non avrei saputo eguagliare.
Sospirai rumorosamente e mi distesi lungo il bancone con le braccia, preparandomi psicologicamente a quella che sarebbe stata la prossima domanda.
«Da quanto tu e Zayn non vi sentite?»
Ed arrivò dritta e puntuale, insieme al mio disappunto per la scelta dell’argomento che aveva deciso di tirare in ballo.
«Qualche settimana, mi sembra.» risposi vaga, col viso rivolto alla parete color avorio del locale.
«O mese.» puntualizzò lei.
«Comunque non mi interessa.»
Fece un piccolo sorriso che mi parve sarcastico, e che evitai di considerare, per non darle un ulteriore incentivo a iniziare una lunga predica completamente inutile.
Non ero interessata ad una relazione; era così che giustificavo la mia solitudine sentimentale. Eppure Zayn non sarebbe stato poi così male come candidato: era senza dubbio un bel ragazzo, uno di quelli che potrebbe essere circondato da ragazze con un semplice schiocco di dita, ma non mi sentivo affatto interessata a lui. Era simpatico, piacevole, mi corteggiava in un modo tutto suo da quattro mesi a quella parte, ed ero certa che molte ragazze avrebbero voluto essere al mio posto, ma non potevo certo fingere interesse per fargli un favore. Non mi prendeva sentimentalmente, non mi piaceva e non rispondevo mai alle sue chiamate, o annullavo i nostri appuntamenti con qualche scusa stupida.
Strano che ancora mi corresse dietro, d’altronde avrebbe dovuto sapere che quando una ragazza rifiuta di baciarti c’è sicuramente qualcosa che non va. Ma Zayn Malik viveva in un mondo tutto suo, che elogiava qualsiasi cosa facesse da riflesso alla sua messa in piega. Mondo al quale non mi interessava partecipare.
Il campanellino in cima alla porta prese a tintinnare non appena questa fu aperta con delicatezza, quasi potesse staccarsi dagli infissi. Ad entrare nel locale fu una ragazza minuta coperta dalla testa ai piedi, il che mi suggerì che doveva fare un gran freddo fuori. Tirò indietro il cappuccio del giubbotto e si guardò intorno un attimo, poi andò ad accomodarsi all’unico tavolo libero rimasto, quello accanto alla finestra. Poggiò la borsa sul tavolo e srotolò la sciarpa che teneva attorcigliata intorno al collo, poi ravvivò la chioma castana passandovi le dita.
Rimasi ad osservarla per un po’. Aveva dei tratti particolari nel viso, estremamente delicati e raffinati, che la facevano sembrare una quindicenne, nonostante la sua età dovesse oscillare tra i diciotto e ventidue anni. Gli zigomi non troppo pronunciati e le labbra sottili, il naso piccolo e gli occhi grandi, di un marrone non troppo scuro che nel campo del quale ero addetta avrei paragonato a un caffè con orzo e un cucchiaino di miele. E i capelli non erano scuri, neppure biondi, ma di un castano piuttosto chiaro che rasentava il colore del grano.
«Ma ti sei incantata?»
Scossi la testa come a disincantarmi, e vidi gli occhi di Jesy scrutarmi confusi, mentre una sua mano faceva su e giù nella mia visuale. Mi allontanai repentina, chiedendole con lo sguardo cosa diavolo stesse facendo.
Scrollò le spalle. «Sembrava avessi visto un fantasma»; poi tornò a pulire delle tazzine. «Vai al tavolo sette, bella addormentata» mi indicò la destinazione con un cenno del capo, e sorrisi interiormente quando mi resi conto che si trattava del tavolo dov’era seduta la nuova arrivata.
Sistemai l’orrido grembiule di colore bordeaux e passai una ciocca ribelle dietro l’orecchio, poi raggiunsi il tavolo a passo svelto; non dovetti nemmeno esibire un falso sorriso stavolta.
«Buongiorno» sfoderai il mio miglior sorriso, avvicinatami.
Lei alzò cautamente lo sguardo sul mio, e allora li notai: i suoi occhi. Erano ricchi di una dolcezza infinita e con una tonalità calda che mi fece quasi arrossire. Fortunatamente lei non poteva sapere che la mia carnagione era in realtà di un bianco naturale e non di quel colorito roseo che avevano assunto le mie guance.
«Salve» salutò cordiale, la voce tenue e un sorriso accennato che le donava un aspetto tranquillo, rilassato.
Ricambiai il suo sorriso in modo automatico, e tossicchiai per donarmi nuovamente un contegno. «Cosa vorresti ordinare?».
 
Si prospettava un temporale. Il cielo si era così oscurato da far sembrare inverosimile fossero solo le quattro del pomeriggio, e continui tuoni minacciavano l’arrivo di un acquazzone sulla bella cittadina inglese.
Erano questi i momenti in cui ringraziavo di avere un lavoro ed essere al coperto, anziché buttarmi in strada e correre disperatamente per evitare di cogliere l’acqua, come vedevo fare molte persone attraverso i vetri perfettamente trasparenti che Jesy stava lucidando. Anche se, senza dubbio, avrei preferito di gran lunga restare a casa mia, nel mio letto, a godere del caldo delle mie lenzuola e di una buona cioccolata calda.
Dovevo ammettere però che ultimamente le mie giornate lavorative erano diventate più interessanti, se non altro perché Josh sembrava essersi stranamente addolcito con le dipendenti, e le visite della ragazza misteriose erano divenute così assidue che non passava giornata senza che potessi ammirare il suo dolce viso.
Erano passati tre giorni dal suo primo ingresso, e da allora aveva preso la strana abitudine di rifugiarsi all’interno del locale ogni pomeriggio. Ed io mi riducevo quindi ad aspettare il suo arrivo secondo un orario prestabilito e poi rimanere ad osservare ogni sua azione come un poliziotto, sebbene le mie mansioni lì dentro fossero ben altre.
Avevo speso parecchio del mio tempo ad analizzare ed esaminare ogni suo minimo gesto, ed ero giunta alla conclusione che la ragazza misteriosa – di cui avrei dovuto scoprire il nome – compiva ogni volta le stesse azioni, senza cambiare mai di un dettaglio da giorno a giorno. Solito tavolo accanto alla finestra, stessa cioccolata calda con caramello e marshmallows, e poi il solito libricino che tirava magicamente fuori da qualche parte e su cui passava tutto il suo tempo, scrivendo e annotando chissà quali pensieri.
Supponevo fosse un diario. Era di dimensioni medie, con una copertina rosa decorata da farfalle di colore fucsia e viola, ed una piccola scritta in glitter sul fondo che non ero riuscita a decifrare. Quello che sapevo era che morivo dalla voglia di leggere quelle pagine, di sapere ciò che pensava e di conoscerla meglio, perché ero certa che nessun’altra cosa più di quel diario avrebbe saputo descriverla.
E anche in quel momento era lì, racchiusa nella sua bolla. Teneva il capo chino sul piccolo diario, e con una penna riempiva le pagine, adornandole di chissà quale pensiero. Si fermava ogni tanto a riflettere, poi di nuovo a scrivere.
Aveva un’aria così tranquilla da riuscire a far rilassare chi le era affianco o chi la guardava, come stavo facendo io.
«Si può sapere cosa diavolo hai da fissare?»
Sobbalzai a quelle parole, colta di sorpresa. Mi voltai ad osservare il suo interlocutore, e tutto ciò che incontrai furono gli occhi di Jesy che, straniti dalla mia esagerata attenzione, avevano cercato di seguire la traiettoria del mio sguardo. Fortuna che ero riuscita a distoglierlo prima che se ne accorgesse.
Scrollai le spalle, impercettibilmente. «Credo che verrà giù un temporale.» minimizzai, portando lo sguardo alla finestra, dove le prime gocce cominciavano a farsi vive, scivolando lungo il vetro.
Jesy restò indispettita dalla mia risposta, ma comunque non replicò. Si limitò ad affiancare il mio sguardo, e storse lievemente le labbra alla vista della prima pioggerellina, che portava sempre più clienti all’interno del locale, se non altro per ripararsi dall’acqua. «Il tuo turno è finito, io mi affretterai ad andarmene.» disse soltanto, dandomi una piccola pacca sulla spalla; poi andò via.
Corrugai la fronte confusa, quindi voltai lo sguardo sull’orologio alla parete. Quello segnava le cinque precise, ergo Jesy aveva ragione. Tornai a guardare fuori dalla finestra, e constatai che avrei fatto meglio a sbrigarmi, o avrei rischiato di tornare a casa bagnata fradicia.
Corsi velocemente nel ripostiglio a slacciarmi il grembiule e lo attaccai ad uno dei ganci affissati alla parete. Sciolsi i capelli e li scossi lievemente per sistemarli, poi uscii e mi recai al bancone, dove salutai Jesy con due sonori baci sulle guance.
Volsi lo sguardo al tavolo accanto alla finestra, e la mia espressione dovette trasformarsi radicalmente quando lo notai completamente vuoto. Non c’era traccia di quella ragazza, né delle sue cose, e mi sentii così delusa che rimasi a fissare quello stesso punto per un piccolo arco di tempo, come se quello che era stato l’oggetto dei miei studi recenti potesse ricomparire da un momento all’altro.
Ma non accadde. Ed io mi lasciai andare ad un piccolo sospiro, poi recuperai le mie cose e aprii la porta d’ingresso, ricordandomi di aprire l’ombrello non appena fui fuori.
La pioggia era senza dubbio aumentata d’intensità, tanto che ora alle auto era impossibile vedere la strada senza l’aiuto dei tergicristalli. Imprecai sottovoce quando inciampai con lo stivale in una pozzanghera, convincendomi ancora una volta di quanto odiassi la pioggia. Decisi di alzare il passo e percorsi velocemente il marciapiede sino ad arrivare ad un incrocio, sostenendo con forza l’ombrello sopra la testa per evitare di bagnarmi.
Alzai lo sguardo sul semaforo di un rosso lampeggiante, e fu allora che la vidi: stava dall’altro lato della strada, era quasi del tutto bagnata, e aveva trovato riparo sotto un piccolo balconcino; teneva le braccia conserte e percepii un piccolo sbuffo uscire dalla sua bocca, ma non ne ero del tutto convinta. Sentii gli angoli delle mie labbra sollevarsi in un sorriso quasi automaticamente, e decisi che quella poteva essere la mia occasione per parlarle.
Aspettai con impazienza di poter attraversare, picchiettando nervosamente lo stivale sul marciapiede bagnato, e quando quello si illuminò di verde scattai veloce, camminando sulle strisce pedonali sino ad avvicinarmi sempre di più. Sentivo il respiro essersi fatto più veloce, ero nervosa, ma non potevo lasciare che lei scappasse ancora una volta, non adesso che ero così vicina a fare la sua conoscenza.
Feci un passo sul marciapiede e proseguii verso la sua direzione, fin quando non le fui così vicina che il suo riparo era diventato il mio. Lei alzò lo sguardo su di me, osservandomi dapprima confusa, poi si sciolse in un piccolo sorriso.
Il pensiero che potesse avermi riconosciuta mi balenò nella mente, e così ricambiai il suo sorriso, dolcemente.
«Posso accompagnarti a casa io, se ti va.»

 
 

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Capitolo 2
*** tea & biscuits ***



 Jade 
 
Spensi la fiamma sotto al bollitore, ora bollente. Tirai fuori due tazze dalla credenza e le posai sul tavolo della cucina, poi le riempii con l’acqua calda. Indugiai leggermente sui vari tipi di infusi – chissà come preferisce il tè, continuavo a chiedermi – ma infine optai per quello alle erbe, che era il più naturale potesse esserci, e almeno sarei andata sul sicuro. Immersi le due bustine nelle tazze e lasciai che le erbe si sciogliessero al loro interno, intanto recuperai un vassoio e alcuni biscotti, che vi sistemai.
Quando il composto nelle tazze mi sembrò aver assunto abbastanza colore, tirai fuori le bustine e le gettai nella pattumiera, dandovi una leggera mescolata servendomi d’un cucchiaino. Controllai che ogni cosa fosse al suo ordine  ed afferrai il vassoio dai due manici, dirigendomi verso il salotto.
La ragazza bionda che si era offerta di accompagnarmi a casa e aveva diviso il suo ombrello con me per qualche chilometro stava seduta composta sul divano a due posti, e continuava a guardarsi attorno. Sembrava stesse esaminando ogni dettaglio della stanza, come fosse un’ispettrice, e aveva fatto solo quello da quando avevamo messo piede in casa. Ero salita in bagno ad asciugarmi per evitare di prendere l’influenza, viste le mie difese immunitarie quasi inesistenti, e quando ero tornata di sotto l’avevo trovata ad osservare attentamente una fotografia, che aveva posato di scatto dopo essersi accorta della mia presenza, con le guance di un leggero color porpora che spiccava così tanto a contrasto con la sua carnagione chiarissima.
Tutto quello che sapevo di lei era che lavorava allo Starbucks in fondo alla via, dove avevo preso l’abitudine di recarmi quasi tutti i giorni da un bel po’ di tempo, e dai suoi atteggiamenti avrei potuto presumere che lavorare lì non le piacesse, ma questa era solo una mia ipotesi. Però era stata parecchio gentile ad offrirmi un passaggio fino a casa, nonostante non mi conoscesse e fossi una completa estranea per lei, e mi accorsi solo in quel momento di non averla ringraziata affatto.
Mi avvicinai a lei e le sorrisi, poi mi chinai a posare il vassoio sul tavolino di fronte al divano, stando attenta a non rovesciare il contenuto delle tazze com’era mio solito. Mi sedetti accanto a lei e afferrai con le mani una delle tazze, porgendogliela. «Grazie per avermi accompagnata a casa, sei stata gentile.» le sorrisi grata, mentre lei la prendeva con le dita esili. Le piantò attorno alla ceramica e dovette scottarsi, perché esibì una leggera smorfia e allontanò le dita. Infine mi sorrise cordiale, e soffiò sulla bevanda per farla raffreddare.
«E’ stato un piacere.» rispose sorridente, per poi prendere cautamente un sorso di tè dalla tazza, per paura di scottarsi nuovamente.
Le rivolsi un piccolo sorriso e feci lo stesso, afferrando la mia tazza e avvicinandomi ad essa con le labbra. Presi un lungo sorso, poi allontanai la bocca. Lei fece lo stesso, e quando mi permisi di voltarmi notai che mi stava già guardando. Sollevò gli angoli delle labbra in un sorriso, quasi non riuscisse a fare a meno di farlo.
«Grazie per il tè, ci voleva proprio.»
«Figurati, è il minimo.»
Annuì lievemente spostando lo sguardo sugli oggetti intorno a lei, come se guardarmi la imbarazzasse. «Comunque io sono Perrie.» mi si rivolse di nuovo.
Perrie, mi ripetei nella mente. Assottigliai leggermente lo sguardo, pensierosa, ed una vaga immagine del nome impresso sulla targhetta della sua divisa si fece spazio nella mia testa, lasciandomi ricordare che conoscevo già il suo nome, ma non vi avevo mai prestato attenzione.
«Io sono Jade.» mi presentai, esibendo un timido sorriso. Mi fermai un attimo ad osservare i suoi occhi azzurri, fin quando non tornò a parlare.
«Hai una bella casa.» si pronunciò, dando una rapida occhiata intorno – nonostante sospettassi che avesse osservato quella stanza così tanto durante la mia assenza da conoscerla meglio della sottoscritta. «Vivi da sola?» puntò nuovamente gli occhi su di me, sollevando la tazza per dare un altro lungo sorso alla bevanda.
Scossi la testa. «Vivo con la mia coinquilina» le spiegai, «ma lei sta fuori i tre quarti del tempo» aggiunsi.
«Lavora?»
Annuii, sorridendo in maniera quasi fiera. «E’ una ballerina di hip hop.»
«E’ la ragazza nelle foto?»
Aggrottai un attimo la fronte, chiedendomi di quali foto stesse parlando. Poi colsi che doveva aver osservato anche quelle, visto che stavano affissate alle pareti un po’ dappertutto. Vi diedi una veloce occhiata, e sorrisi quando vidi la figura di Leigh Anne campeggiare accanto alla mia nella maggior parte delle foto. Quindi annuii, rivolgendomi nuovamente a Perrie.
Leigh Anne era la mia più cara amica, fin dai tempi dell’asilo. Era sempre stata un tipo vivace, esuberante, carismatico, e il suo sogno fin da quando giocava ancora con le bambole era stato quello di diventare una ballerina. Ero così felice e orgogliosa che stesse riuscendo nel suo intento, anche se questo la costringeva a stare via da casa quasi tutto il giorno. Ma mi ero abituata alla sua assenza, e così avevo deciso di colmare il mio tempo vuoto recandomi alla caffetteria, se non altro per non restare in casa a guardare la tv. Molte volte Leigh Anne mi aveva invitata ad assistere alle sue prove, ma le poche volte che l’avevo accontentata non avevo fatto che annoiarmi, e così alla fine avevo rinunciato, limitandomi a lasciarmi raccontare ogni dettaglio della sua giornata quando rientrava e piombava sul letto, esausta.
Avrei voluto fare qualcosa di importante come lei anch’io, ma la verità era che per realizzare il mio obbiettivo avrei dovuto possedere almeno la metà della sua ambizione, e non avevo mai avuto grandi ideali nel corso della mia vita. Adoravo scrivere, e cantare, e ricordo che da piccola l’idea di diventare una scrittrice mi entusiasmava tantissimo, ma all’alba dei miei sedici anni avevo capito che quello era solo un sogno, e realizzarlo avrebbe richiesto tantissimo impegno e una buona dose di fortuna che non ritenevo di avere. Mi ero accontentata di qualche lavoretto part-time, di abitare nell’appartamento della mia migliore amica, e di vivere il mio grande sogno attraverso una penna e un piccolo block-notes, che tenevo assiduamente nella mia borsa.
Mi piaceva scrivere. Sin da piccola avevo dimostrato una grande passione per la scrittura, e fu quando mia madre mi regalò il mio primo diario all’età di sei anni, che cominciai a coltivare seriamente questo hobby. Scrivevo pensieri personali, annotazioni, piccole fiabe, semplicemente per il piacere di riempire pagine e pagine, da poter mostrare poi con orgoglio a mia madre. Lei stessa diceva che possedevo fantasia, e una certa dose di talento, nonostante fossi solo una bambina, e da allora non avevo mai smesso, partecipando persino al giornalino scolastico a scuola. Lo avevo fatto finché mia madre, l’unica persona che sostenesse questa mia passione, non se n’era andata, e da quel giorno la mia voglia di scrivere era scomparsa, e le mie ambizioni erano notevolmente diminuite. Fu Leigh Anne a tirarmi su dal mio stato di apatia, e da quando ci eravamo trasferite a Londra le cose andavano decisamente meglio.
«Jade?»
Mi scossi dallo stato di trans in cui sembravo essere caduta e tornai a rivolgermi a Perrie, che mi fissava leggermente preoccupata. Doveva avermi fatto una domanda, o qualcos’altro, ma io ero stata affollata dai miei pensieri per ascoltarla.
«Scusami, pensavo.» mi giustificai, abbozzando un sorriso. Tornai quasi immediatamente con lo sguardo a guardare la bevanda colorata nella tazza, imbarazzata. Mi capitava spesso di perdermi tra i miei pensieri, e sapevo che questo mi faceva sembrare un po’ matta agli occhi degli altri, e il fatto che fosse successo con Perrie mi metteva in forte disagio.
«Sta’ tranquilla.» lei mi sorrise rassicurante, quasi non le importasse che l’avessi appena ignorata; «Mi chiedevo perché passassi così tanto tempo al locale, non è il massimo del divertimento.».
Bevvi un lungo sorso dal mio tè e nascosi un sorriso attraverso la tazza. Abbassai la tazza e puntai i miei occhi sui suoi, intenta ad assaggiare uno dei biscotti sul vassoio.
«Per colmare la noia che c’è qui dentro, credo.» alzai le spalle, «E poi mi piace l’aria che c’è.».
Perrie diede un morso al biscotto e inarcò un sopracciglio, perplessa. «Intendi l’aria di delirio?» domandò, quando ebbe ingoiato il boccone.
Scossi la testa, in disaccordo. «Forse per te è così, ma io lo trovo un posto tranquillo. Non c’è mai troppa gente, e quella che c’è non è mai troppo invadente, si sta bene dopotutto.»
Sembrò rifletterci per qualche secondo, mentre mordeva nuovamente il suo biscotto. Infine alzò le spalle ed esibì una semi-smorfia, che lasciava intendere quanto non fosse d’accordo con la mia idea, tuttavia non espresse il suo giudizio. Si limitò ad annuire alla mia affermazione, comprensiva, finì il suo tè e prese a mordicchiare un altro biscotto.
«Tu? Perché lavori lì?» stavolta fui io a chiederle qualcosa, sinceramente interessata.
Perrie sembrò sorpresa dal fatto che avessi preso parola, ma infine si lasciò andare ad un sospiro, che trasudava un misto di rassegnazione. «Non ho molta scelta, o lavoro lì oppure non lavoro.» scrollò le spalle, come se lei stessa non avesse scelto da sé di prendere quell’impiego, e quello stesso la annoiasse. Il dubbio che avevo avuto osservandola al locale, dunque, era del tutto fondato e veritiero.  D’altronde non credevo che fare la cameriera fosse il massimo delle sue ambizioni. Era una bella ragazza, forse una delle più belle che avessi conosciuto, e aveva un aspetto che lasciava trasparire determinazione. Avrebbe potuto fare qualsiasi cosa le sarebbe piaciuto, tuttavia non sembrava avere voglia di cambiare la sua vita, ma piuttosto si era rassegnata alla monotonia, più o meno come avevo fatto io. Non eravamo poi così diverse.
Posò la tazza sul vassoio e prese a guardarmi, intensamente. Sentii chiaramente le mie guance arrossarsi al suo sguardo fisso, e così posai anch’io la mia tazza e tossicchiai appena, per camuffare l’imbarazzo. Invece Perrie non distolse lo sguardo e, proprio mentre stavo per proferire parola, parlò.
«Qual è il tuo sogno nel cassetto?»
Fu una domanda semplice, che lei accompagnò con una nota di curiosità e di malizia, percepibili dal tono della sua voce, quando mi aveva posto quella domanda. Teneva le labbra distese in un sorriso, e anche se normalmente non mi sarei mai azzardata a raccontare ad una sconosciuta i miei segreti più intimi, sentivo che di lei potevo fidarmi.
 
Passammo gran parte della serata a finire il pacco dei biscotti e a parlare, scherzare, stravaccate sul divano come fossimo due vecchie amiche. Lei mi raccontò della sua innaturale passione per il mondo dello spettacolo, dei suoi innumerevoli spettacolini davanti al caminetto le sere delle feste, con tutti i parenti attorno, e scoprii che era proprio come me l’ero immaginata: un vulcano di esuberanza e stravaganza, pronto a travolgerti. D’altra parte, io le raccontai parte della mia vita e del mio amore per la scrittura, e fui colta di sorpresa quando Perrie ammise di aver percepito qualcosa di simile, visto che scrivere era la mia unica occupazione ogni volta che mi recavo alla caffetteria. Mi metteva un po’ in imbarazzo, sinceramente, che qualcuno avesse potuto osservare le mie azioni come aveva fatto lei, ma non lo diedi a vedere, limitandomi ad annuire e sorridere, continuando col mio racconto. D’altronde, se c’era una cosa che avevo percepito quasi immediatamente di lei, era il suo grande spirito di osservazione.
Era strano come fosse servito solo un passaggio a casa ed una tazza di tè caldo per trovare una nuova amica, per me che tendevo ad isolarmi quasi naturalmente in quasi tutte le occasioni. Non ero un tipo estroverso come si era rivelato Perrie, e le mie amicizie reali potevano davvero contarsi sulle dita di una mano. Non che non mi sarebbe piaciuto essere circondata da amici durante la mia adolescenza, semplicemente non riuscivo a relazionarmi con nessuno dei miei coetanei se non con alcuni, a causa dei nostri interessi fin troppo diversi. Con Perrie era stato diverso, avevo sentito di potermi fidare di lei dal primo istante. Forse era stata l’influenza della sua gentilezza e magari mi sentivo in debito con lei, oppure era stati i suoi occhi a convincermi, di una tonalità così intensa e profonda che mai ne avevo visti di più belli. Il suo solo sguardo era capace di esprimere sincerità e conforto, e non avevo avuto problemi a confidarmi con lei.
«Sul serio non hai mai imparato ad andare in bicicletta?» esclamò, esterrefatta. Doveva essere rimasta parecchio sorpresa o turbata dalla mia ultima ammissione, perché aveva sgranato gli occhi azzurri e dischiuso la bocca, incredula.
Mi limitai ad alzare le spalle, dandovi poco peso. «Non ne ho mai avuto l’occasione, e poi non sono molto sportiva.»
«Beh nemmeno io, ma…»
Non fece in tempo a finire la sua frase, perché lo squillo di un cellulare la interruppe. Alzò gli occhi al cielo e sbuffò, quasi irritata, lasciando squillare il cellulare.
«Perché non rispondi?» le chiesi, confusa.
«Perché me ne pentirei.» fu la sua risposta enigmatica, che accompagnò con un sorriso forzato.
«Magari è qualcuno di importante.» tentai ancora, dato che gli squilli non finivano di cessare.
Mi guardò per qualche secondo, incerta sul da farsi, infine si lasciò andare ad un altro sbuffo e si arrese, tirando fuori il cellulare dalla tasca dei jeans. Diede una rapida occhiata al display ed esibì un’espressione irritata, poi rifiutò la chiamata.
Aggrottai la fronte, perplessa dal suo gesto. «Chi era?» le domandai.
«Solo uno scocciatore.» si limitò a rispondermi, il tono di voce visibilmente annoiato.
Annuii piano, in modo comprensivo. La sua non era stata una risposta esauriente, ma non me la sentivo di chiedere ulteriori spiegazioni ed addentrarmi nella sua vita privata, non ero nemmeno sicura che me lo avrebbe lasciato fare.
«Si chiama Zayn, e ignoro le sue telefonate da un bel po’.» ammise infine.
«E’ il tuo ragazzo?» le chiesi, a bruciapelo.
Inarcò le sopracciglia, quasi avessi appena detto una delle cose più strane avesse mai sentito. «Non lo è, ma gli piace pensarlo e riempirmi di messaggi e chiamate.».
Non potei fare a meno di accennare una piccola risata a quell’affermazione, sinceramente divertita. «Perché non gli dici la verità, allora?»
«L’ho fatto, ma lui vive nel suo mondo!» commentò, esasperata.
Stavolta non mi trattenni dal ridere, a causa del tuo tono di voce che sembrava quasi esausto. Perrie mi fissò dapprima con aria interrogativa, per poi sciogliersi in una risata anche lei, accompagnandomi.
«E tu? Hai un ragazzo, o un corteggiatore, o sei innamorata di qualcuno?»
Smisi quasi subito di ridere, stavolta colta dal più completo imbarazzo. Avrei potuto dirle che sì, ero fidanzata e felice, ma avrei mentito e lei lo avrebbe capito. Il fatto di non aver mai avuto un vero e proprio ragazzo nei miei ventun anni di vita mi metteva in serio imbarazzo; mi faceva sentire a disagio, inadatta, ed era proprio quella la sensazione che avevo provato quando Perrie aveva posto la domanda. Ma lei attendeva ancora la mia risposta, e sembrava non voler mollare la presa. Così mi schiarii la voce e mi feci coraggio, senza comunque azzardarmi a guardarla negli occhi, perché sapevo che il mio colorito era diventato ormai di un rossastro-violaceo.
«Non ho mai avuto un ragazzo in vita mia.» mormorai a bassa voce e imbarazzata, sperando vivamente che lei non mi avesse sentita.
«Andiamo, non ci credo.» commentò, col tono di voce di voce di una alla quale avevano appena raccontato una barzelletta. Questo mi imbarazzò ulteriormente, e quando Perrie capì che ero sincera, allora assunse un’espressione seria. «Davvero?» mormorò, incredula.
Annuii piano e mi strinsi le braccia al busto, sentendomi prettamente a disagio. Già raccontarlo a Leigh Anne era stato traumatico, ma adesso dirlo a Perrie si era rivelato ancora più imbarazzante. In quel momento pensai che forse avrei fatto meglio ad accettare uno degli appuntamenti al buio organizzatomi da Leigh Anne, così da non dover mai affrontare quella situazione. Il punto era che non ero mai stata interessata ad avere un ragazzo, non l’avevo mai considerata una priorità.
«Non hai nemmeno mai avuto il tuo primo bacio?»
Scossi la testa.
Ne seguì un piccolo periodo fatto da silenzio, e fu tremendo, perché non sapevo quale potesse essere stata la sua reazione, e non avevo il coraggio di alzare lo sguardo su di lei per scoprirla. Me ne stavo in silenzio, intenta a fissarmi le scarpe con attenzione, nell’attesa che lei tornasse a parlarmi oppure qualcuno venisse a rapirmi, o mi facesse scomparire.
«Chiudi gli occhi.» mormorò dolcemente, ora stranamente vicina al mio viso.
Non l’avevo avvertita avvicinarsi, e quando finalmente alzai lo sguardo su di lei, mi sentii persa nelle sue iridi azzurre. Ancora una volta quelle mi diedero coraggio e mi rassicurarono, e così feci come lei mi aveva detto. Chiusi gli occhi e deglutii, senza sapere cosa aspettarmi esattamente.
Ci fu qualche attimo di attesa, poi il suo respiro si fece sempre più vicino, fin quando non sentii qualcosa premere contro le mie labbra, delicatamente. Capii che mi stava baciando nell’esatto momento in cui colsi la morbidezza delle sue labbra, premere con dolcezza contro le mie.
Aprii gli occhi di scatto, presa alla sprovvista. Non sapevo cosa fare, non mi era mai capitato di essere in una situazione simile prima d’ora, e pertanto restai immobile, quasi pietrificata, mentre Perrie aveva spostato una delle sue mani sul mio viso, e mi accarezzava con delicatezza la guancia, sfiorando la mie pelle col pollice.
Per una volta nella mia vita decisi di lasciarmi andare a quella nuova sensazione, quindi richiusi gli occhi, più rilassata. Piano iniziai a rispondere ai movimenti delle sue labbra, seppure totalmente inesperta, e sentii chiaramente  le labbra di lei distendersi in un sorriso, quasi soddisfatto.
Dischiuse le labbra e premette cautamente la punta della lingua contro le mie, passando poi a segnarvi il contorno, inumidendo le mie labbra e lasciandomi rabbrividire. Così feci lo stesso anch’io, permettendole l’accesso, e sentii presto la sua lingua insinuarsi nella mia bocca e cercare la mia, mentre il suo busto mi spingeva piano a stendermi sulla lunghezza del divano, e la sua mano era scesa ad accarezzare il mio fianco. Feci come il suo corpo mi suggeriva e lei si distese sopra di me, senza farmi alcun peso.
I suoi baci cominciarono ad intensificarsi, che le nostre lingue s’erano incontrate. Io vi rispondevo meglio che potevo, ora che sembravo essere abbastanza a mio agio, e portai timidamente i palmi delle mani alla base della sua schiena.
Era senza dubbio una sensazione nuova, ma fu piacevole. Era come se qualcuno ti stesse scacciando via i pensieri attraverso il bacio, e le sue labbra costituivano un diversivo perfetto alla monotonia della mia vita. E poi erano così morbide che nemmeno la avvertivo baciarmi, o forse ero solo io a non saperlo distinguere. Però mi piaceva, e anche tanto, e avrei voluto che continuasse a baciarmi per il resto della mia vita, perché quel solo bacio era riuscito a far rilassare ogni mio muscolo, con un effetto più efficace di quello della tisana.
Ci baciammo lentamente e a lungo, fin quando sentii la sua bocca allontanarsi dalla mia e dovetti, a malincuore, anch’io staccarmi dalle sue labbra.
Quando tornai a guardarla, Perrie sorrideva. Era ancora ad una piccolissima distanza dal mio viso, e passò il pollice sul mio labbro gonfio e arrossato, distendendo poi le sue labbra in un sorriso ancora più ampio. Non potei fare a meno di ricambiare quel sorriso, senza interrompere il contatto con i suoi occhi.
«Come ti è sembrato?» sussurrò piano contro la mia bocca, così vicina che sentivo il suo fiato soffiare involontariamente contro essa.
Le sorrisi, sollevando gli angoli delle labbra in un dolce sorriso. «Il miglior primo bacio che abbia mai avuto.» mormorai, con un tono di voce tenue e addolcito. Mi godetti il suo sorriso ancora un altro po’ e poi tornai a baciarla, desiderosa del contatto con le sue labbra.
Per la prima volta nella mia vita, la pioggia aveva portato qualcosa di positivo.




Ciao a tutti! 
Questa è la mia prima one shot a tema Jerrie, e l'ho scritta principalmente perché quando le guardo, tutto quello che riesco a pensare è a quanto sarebbero tenere come coppia. Quindi, quando mi è venuta l'idea di questa one shot, non ho avuto scrupoli a scriverla. 
Devo dire che è venuta molto più lunga di quello che immaginassi, ma ancora meglio! ahah sento di aver descritto abbastanza bene i sentimenti delle ragazze, o almeno io ci ho messo tutta me stessa. 
Spero vi sia piaciuta :)


 

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