Ragazzo Sorriso e Lenticchia: l'epilogo di un viaggio iniziato male

di Shomer
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima Parte ***
Capitolo 2: *** Seconda Parte ***



Capitolo 1
*** Prima Parte ***


Ragazzo Sorriso e Lenticchia: l'epilogo di un viaggio iniziato male


 

La strada dalla Pennsylvania Station sembrava attraversasse il continente,
come se non tornasse più all'indietro, ma andasse sempre avanti ad occidente
fra tombe in ferro, vetro, pianura, pali e gente. E indietro, invece, e in fretta ci torna

ma in certi miei momenti forse oziosi, mi chiedo dove sei e che cosa fai
e come passi i tuoi giorni noiosi, io che non ti risposi
in questa casa mia che sai e non sai.
100 Pennsylvania Ave - Francesco Guccini

 

Meno sei ore all'arrivo

 

Il vento mi scompigliava i capelli e mi pizzicava gli occhi. Tenevo il finestrino aperto per metà, le dita strette intorno alla sigaretta all'aria, e ogni tanto lanciavo un'occhiata a Lenticchia Due che dormiva beato sul sedile posteriore. Gioele si lamentava continuamente del fumo che impregnava la tappezzeria di quel macinino della Fiat degli anni '70.
Eravamo in viaggio da più di un'ora, ne mancavano sei all'arrivo, e davvero non sapevo se sarei arrivata viva a destinazione, non perché il ragazzo al volante guidasse male, ma perché le sue parole senza senso e i suoi continui lamenti mi stavano martellando il cervello.
«Senti» sbottai, d'un tratto «Sei stato tu ad offrirti di darmi un passaggio, quindi adesso smettila di stressarmi e guarda la strada, che con questo buio non si vede niente!»
Gioele blaterò qualcosa sul fatto che il fumo che gli copriva gli occhi non gli permetteva certo di mantenere una guida ottimale, ma io lo ignorai consapevole che volesse solo un'altra scusa per lamentarsi di me.
Rimase in silenzio per un po', lanciandomi di tanto in tanto occhiate contrariate a cui io cercai di non dar peso.
Quando i miei nervi si tendevano troppo e mi domandavo per quale assurda ragione avevo accettato di fare il viaggio con lui, il coinquilino in assoluto più odioso che sarebbe mai potuto capitarmi, mi ripetevo mentalmente le parole di Freddie e cercavo di tranquillizzarmi.
Senti, fai in modo di trovare un posto. Altrimenti manderà qualcuno a prenderti. E non vorrei che questo qualcuno fosse Janis.”
No, non l'avrei voluto neanche io. E probabilmente non l'avrebbe voluto neanche il diretto interessato, considerando che aveva delegato a qualcun altro anche il compito di telefonarmi.
Ma che mi aspettavo, poi? Avevamo promesso entrambi che non ci saremmo sentiti durante la mia assenza. Io non avevo provato neanche una volta l'impulso di chiamarlo, anzi, cercavo di scacciare via la sua immagine dalla mia mente come meglio potevo e negli ultimi mesi ce l'avevo fatta benissimo.
Mi tenevo occupata con lo studio e sfogavo tutte le mie frustrazioni su Gioele, che sembrava incredibilmente divertito ogni qualvolta me la prendessi con lui.
«Ma perché non vuoi mai tornare a casa?» buttò lì, le mani strette sul volante e lo sguardo fisso sulla strada.
Io sussultai. Non me l'aveva mai chiesto. In realtà non si era mai interessato a qualunque cosa mi riguardasse, a parte al cibo che tenevo in frigo o ai miei appunti di biochimica che, in ogni caso, non gli avevo mai prestato.
«Non sono affari tuoi» borbottai, buttando la sigaretta fuori dal finestrino e appoggiandomi al vetro.
Lui ridacchiò, come faceva sempre quando gli rispondevo male. «Sai, me lo domando dall'anno scorso» rivelò «L'ho chiesto pure a Sara, ma ha detto che non lo sapeva.»
Io gli lanciai un'occhiataccia, ma non se ne accorse. «E tutto questo improvviso interessamento?» domandai, scettica.
«E' una cosa che da nell'occhio» spiegò, scostandosi i capelli neri dal viso «Di solito gli studenti fuori sede non vedono l'ora di tornare al paesello.»
«Beh, io no» sbottai, torva.
Gioele sorrise ancora e scosse la testa quasi impercettibilmente. Io chiusi gli occhi e tentai in tutti i modi di addormentarmi senza risultato.
Nella mia mente si affacciavano le immagini che avevo lottato tanto per dimenticare: Janis che mi voltava le spalle e scendeva le scale del mio pianerottolo, mentre io sbattevo la porta e correvo in bagno a bagnarmi il viso con l'acqua fredda; Freddie che mi guardava compassionevole e mi diceva che prima o poi tutto sarebbe tornato al suo posto, il viso di Febri che mi sorrideva radioso dalla foto sul marmo bianco, Rob che mi diceva di tornare presto.
La domanda giusta non era “perché non vuoi mai tornare a casa?”, ma “perché mai dovresti voler tornare?”.

 

Tre giorni alla partenza

«Sei pazza se credi di poter fare come l'anno scorso, signorina!»
Sospirai, esausta, e chiusi gli occhi. Quella conversazione si ripeteva perfettamente identica ad ogni telefonata, e ormai non avevo più carte da giocare. Decisi allora di insistere sul punto che stava più a cuore a mia madre: lo studio.
«Sto preparando un esame importante, mamma» dissi, avvicinandomi la cornetta alla bocca «Mi servono i libri della biblioteca... lo sai che giù in paese non siamo attrezzati...»
Il sospiro di mia madre giunse metallico e contrariato alle mie orecchie. «Non sarà certo più importante di quello che ti ha impedito di tornare a casa per Natale» si infervorò «O di quello che ti ha fatto perdere il matrimonio di tuo cugino.»
Sussultai. Feci un respiro profondo, chiusi gli occhi e contai fino a quindici. Avevo imparato a gestire situazioni del genere. Avevo imparato a non farmi prendere dalla tristezza e dallo sconforto. Accarezzai la testa di Lenticchia Due, che scodinzolava felice ai miei piedi, e deglutii.
«E' più importante» dissi, con voce rotta.
«Sono sicura che potrai prenderti una settimana di pausa» decretò mia madre «Ti aspetto a casa giovedì, prima che apra il ristorante. Cerca di prendere un treno che ti faccia arrivare in orario.»
Riattaccò prima che potessi rispondere. Mia madre era una donna molto dolce e comprensiva.
Misi giù la cornetta, affranta e sconsolata come non lo ero mai stata negli ultimi mesi. Lei aveva sempre insistito tanto affinché tornassi a casa per le feste, ma in un modo o nell'altro ero sempre riuscita a inventare qualche scusa plausibile per convincerla a farmi restare in città. Mi accasciai lungo il muro con gli occhi chiusi, sfinita, mentre Lenticchia Due cercava di leccarmi la faccia e saltarmi addosso.
«Stai buono» borbottai. Era cresciuto molto nell'ultimo anno, e le sue chiazze marroni si erano fatte sempre più imponenti sul pelo bianco. Adesso arrivava quasi fino al mio ginocchio, ma sapevo che non sarebbe cresciuto più. Vederlo ogni mattina mi provocava una stilettata dritta al cuore, e forse sarei stata meglio senza averlo tra i piedi, ma non potevo liberarmi di lui. Era l'unica cosa che in un modo o nell'altro mi teneva aggrappata alla mia vita precedente, ed ero troppo codarda per tagliare definitivamente tutti i ponti.
Allora mi piaceva pensare, invece, di essere diventata più forte. Tenevo la foto del compleanno di Febri sul comodino, e ogni tanto ascoltavo la cassetta che lui e mio cugino mi avevano regalato per il compleanno di due anni prima.
Ma non ero forte. Non lo ero mai stata. Ero solo pateticamente e ridicolmente debole.
“Il matrimonio di tuo cugino”, aveva detto mia madre. Non sentivo quelle parole da tanto tempo e facevo di tutto per non pensarci. Avevo sempre saputo che prima o poi avrei dovuto affrontare quella questione, ma cercavo di rimandare il momento più a lungo possibile, magari all'estate che ormai si faceva sempre più vicina.
A volte pensavo che se avessi pensato ad una scusa buona, avrei potuto evitare di tornare a casa ad agosto, ma poi, puntualmente, mi chiamava Freddie e tutti i miei buoni propositi per staccarmi dal mondo andavano in frantumi.
Aprii gli occhi. La stanza in cui mi trovavo era arredata in modo spartano, con le pareti spoglie: era presente un tavolo, un angolo cottura, un piccolo divano e uno sgabello per il telefono. L'ideale per accogliere tre studenti fuori sede che non avevano grosse pretese. Su un lato c'era la porta di ingresso, e sull'altro un piccolo corridoio su cui si affacciavano le tre camere da letto e il bagno. Paradossalmente mi sentivo più a casa in quel tugurio buio piuttosto che con i miei genitori.
«Hai deciso di spazzare il pavimento con il sedere, nervosetta?»
Chiusi di nuovo gli occhi e feci un profondo sospiro, cercando di mantenere i nervi saldi almeno per quella volta. Contai di nuovo fino a quindici, tecnica efficace per controllare gli spiriti che mi aveva insegnato la mia coinquilina Sara e, quando pensai di essere sufficientemente calma, alzai lo sguardo sul mio improbabile coinquilino.
«Lasciami in pace, Gioele» dissi.
L'esempio più lampante della totale assenza di pudore si presentò davanti ai miei occhi, in tutto il suo patetico splendore dato dai capelli neri che gocciolavano sul pavimento e gli occhi altrettanto scuri stretti in uno sguardo ironico.
Il suo sorrisetto odioso aveva il potere di farmi innervosire come poche altre cose sapevano fare, come per esempio il suo torace glabro al vento e i jeans sbottonati.
Quando usciva di casa, era sempre vestito di tutto punto: maglioncino di marca super-costosa, pantaloni stretti da una cintura e capelli ordinati e composti. Ma probabilmente pensava che né io né Sara meritassimo di vederlo in tutta la sua eleganza, quindi dentro le nostre quattro mura si lasciava andare come le donne che dopo il matrimonio prendono trenta chili.
«Brutta giornata?» domandò ancora, passandosi una mano tra i capelli.
«Era radiosa, finché non sei arrivato tu» borbottai, alzandomi da terra. Intanto Lenticchia Due era andato a fargli le feste: non ero ancora riuscita a capire perché il mio cane amasse tanto quell'esempio lampante di inciviltà.
Lanciai un'ultima occhiata sprezzante a Gioele e poi mi diressi in camera mia, sbattendo la porta.

 

Mi svegliai di soprassalto, mettendoci un po' a capire dove, ma soprattutto quando, mi trovassi. Per tutto il pomeriggio le parole di mia madre mi erano rimbombate in testa, martellandomi il cervello e sfinendomi come la peggiore delle torture.
“Il matrimonio di tuo cugino”. Era da tanto che non sentivo quelle parole e probabilmente non ero preparata. Forse non lo sarei stata mai.
Durante i mesi che avevo passato lontana da casa avevo completamente escluso dalla mia mente quei pensieri. Quando avevo saputo del matrimonio, avevo reagito come se la cosa non mi riguardasse.
Adesso invece mi ritrovavo a pensarci, anche quando dormivo, e a chiedermi le cose più strane. Mi domandavo se avessero costretto Janis a tagliare i capelli. Li portava lunghi da quando aveva diciott'anni, non li aveva mai tagliati. Ormai non riuscivo neanche più a ricordarlo senza la chioma color miele stretta stretta in un elastico nero.
Mi chiedevo se fosse cambiato. Era il destino di tutti, alla fine. Come Marco, che parlava tanto del fatto di non voler finire come i suoi genitori, che diceva che l'essenza delle cose si trovava tra le pagine di autori ormai belli che andati, che avrebbe passato la vita a studiare le loro parole. E adesso lavorava alle poste, come suo padre.
Magari anche Janis adesso era diventato un padre di famiglia, con la camicia dentro i pantaloni e neanche un filo di barba. Sarebbe stato curioso vederlo in quel modo. Da instancabile sognatore a ombra arresa e, infine, uomo responsabile che porta il pane in tavola.
Sarebbe stato divertente. E mi avrebbe fatto un male cane.
Alla fine, tutti erano andati avanti tranne me.
Mi alzai dal quaderno sopra il quale avevo sonnecchiato nelle ultime ore e uscii dalla mia camera, abbassandomi ad accarezzare Lenticchia Due che mi aspettava fuori dalla porta.
Lanciai un'occhiataccia a Gioele, cosa che ormai era una prassi, che era al telefono a pochi passi da me. Lui mi ignorò, preso com'era da quella che doveva essere una conversazione esilarante, considerata la sua grassa risata, e io passai avanti.
Poi però sentii quello che stava dicendo.
«Hai detto Lenticchia?» chiese con un sopracciglio alzato.
Il mio improbabile coinquilino fece un espressione stralunata e parlò lentamente, scandendo bene le parole.
«Forse non ho capito» disse «Vorresti che ti passassi al telefono il cane di Mara?»
Sussultai e andai verso di lui, credendo con orrore di aver capito ciò che stava succedendo. Tesi la mia mano con un gesto autoritario, ordinandogli con gli occhi di passarmi immediatamente il telefono.
«Non riesco a capirti» disse lui, ignorandomi spudoratamente e continuando a parlare con il suo interlocutore «Mara è la mia coinquilina, Lenticchia è il suo cane. E' impossibile che Mara sia Lenticchia, perché questo dovrebbe voler dire che Mara è una cagna.»
Spalancai gli occhi con indignazione, sentendo il sangue che cominciava ad affluirmi sul volto. Strinsi i pugni talmente forte lasciare i segni delle unghie sui miei palmi e strappai velocemente il telefono dalle mani di Gioele, che era divertito come un bambino di fronte ad un clown.
«Questa me la paghi» sibilai, avvicinandomi la cornetta all'orecchio.
«Non fare promesse che non puoi mantenere, Lenticchia» disse lui, con un sorrisetto sarcastico e con una maggiore enfasi sul soprannome che aveva appena scoperto. «E poi, perché hai deciso di disegnarti un anello di benzene sulla faccia?»
Lo guardai un attimo senza capire, poi mi passai una mano sulla guancia e guardandola scoprii che era sporca di inchiostro.
Lo incenerii con lo sguardo e mi posai la cornetta all'orecchio, fissandolo mentre se ne andava nella sua camera divertito.
«Freddie?» domandai, cercando ancora di cancellare con la mano libera l'inchiostro che mi ero spalmata sulla faccia.
«Sì, sono io» disse la sua voce metallica «Senti, mi dispiace per il tuo coinquilino, è l'abitudine...»
«Non ti preoccupare» lo rassicurai, anche se già mi ribolliva il sangue al pensiero di Gioele che mi chiamava Lenticchia.
«Come stai?» mi chiese.
«Bene. Come sempre. E tu?»
«Non c'è male...» disse, esitante. Stette in silenzio per un po', poi ricominciò a parlare. «Senti, vado dritto al punto» disse, deciso ma timoroso «Tua madre vuole che torni a casa per Pasqua. Cerca di accontentarla.»
Sospirai. «E ha mandato te a cercare di convincermi?» domandai, scettica.
Freddie esitò ancora. «No» disse, poi «Aveva mandato Janis.»
Ci fu una lunga pausa.
Durante le nostre conversazioni al telefono, lunghe o corte che fossero, nessuno dei due nominava mai mio cugino. Non avevamo mai detto una parola riguardo tutto ciò che era successo, non parlavamo più neanche di Febri. Mia madre, chiaramente, non aveva la più pallida idea di ciò che ci era capitato, quindi capivo perché aveva mandato proprio lui a cercare di convincermi. E capivo anche perché lo nominava assiduamente in ogni telefonata, in cui io dovevo far finta di sapere tutte le novità che mi raccontava.
La realtà era che io non volevo sapere niente che lo riguardasse. Freddie lo sapeva bene.
«Mi dispiace» mormorò.
«I treni saranno tutti pieni» dissi decisa, ignorando le sue scuse «Pur volendo, non ce la farei.»
«Senti, fai in modo di trovare un posto» borbottò lui «Altrimenti manderà qualcuno a prenderti. E non vorrei che questo qualcuno fosse Janis.»
Strinsi gli occhi e feci un profondo respiro. Potevo farcela. «E va bene» dissi «Troverò un modo per tornare a casa, ma cercate di non mettere in mezzo lui.»

 

 

Ero sdraiata sul letto, a pancia in giù, e fissavo la foto sul mio comodino. Ci ritraeva tutti insieme, felici, al compleanno di Febri. E poi cos'era successo? Lui se ne era andato. Marco si era trovato un lavoro sicuro e una ragazza. Gaia aveva un figlio e ormai era sposata. Freddie era sempre lo stesso, non sarebbe cambiato mai. E Janis mi aveva abbandonata, delegava agli amici i compiti che erano stati affidati a lui pur di non sentire la mia voce, mi aveva voltato le spalle su quel pianerottolo e non si era voltato indietro. Esattamente come avevo fatto io.
Un sonoro bussare alla porta mi riscosse dai miei pensieri.
«Sara, entra» dissi.
«Sono io.»
Mi alzai di scatto e mi misi a sedere, sconvolta. La porta della mia camera si aprì e Gioele piombò dentro, stranamente vestito e con i capelli in ordine.
«Da quando bussi alla porta?» chiesi, con un sopracciglio alzato.
Dal principio della nostra convivenza, il mio odiosissimo coinquilino non si era mai premurato di annunciarsi prima di entrare in una stanza, cosa che aveva fatto sì che il mio astio verso di lui crescesse giorno dopo giorno.
«Ti ho sentita al telefono, prima» disse, guardandomi negli occhi.
«Hai origliato» lo accusai.
«Ovvio» ammise. Non si era mai fatto scrupoli ad invadere brutalmente la mia privacy, quindi lo disse come se fosse la cosa più normale del mondo. «E insomma, ti ho sentito mentre dicevi che i treni sono tutti pieni» continuò «Come ben sai, anche io vivo dalle tue parti. E ho una macchina.»
Lo fissai attentamente, capendo dove volesse andare a parare ma senza riuscire a spiegarmi il perché.
«Mi stai offrendo un passaggio?» domandai, scettica.
«Beh, sì.»

 

 

Autostrada, meno cinque ore all'arrivo

 

Il vento fresco della notte ci solleticava la pelle. Eravamo seduti sul marciapiede, fermi all'autogrill, con una lattina di bibita gassata stretta in mano e lo sguardo perso sulla strada. Lenticchia Due scodinzolava, felice di potersi sgranchire le zampe, Gioele era allegro come un bambino, non so per quale motivo, e tentava sempre di fare conversazione.
«Sai, penso che dovresti smetterla di inventare scuse ridicole per non tornare a casa» disse.
«Ma che cosa ne vuoi sapere, tu?» sbottai, acida.
Gioele sbuffò e mi lanciò un'occhiataccia. Io lo guardai con le sopracciglia aggrottate. Si era arrabbiato? Lui non si arrabbiava mai, con me. Mi prendeva solamente in giro, facendo crescere minuto dopo minuto il mio astio nei suoi confronti, divertito come un ragazzino al circo, noncurante del fatto che fosse la persona più molesta e invadente del mondo.
«Senti, perché non ci dai un taglio?» disse, acido «Dobbiamo passare insieme altre cinque ore. Cerchiamo di renderle il più piacevoli possibile, anche se a te piace sguazzare nel melodramma e nella tristezza...»
Spalancai gli occhi e la bocca. «Ma che diavolo dici?» mi adirai.
Lui si alzò dal marciapiede e buttò la lattina nella spazzatura, poi si piazzò davanti a me. «E' vero!» esclamò, allargando le braccia «Te ne stai sempre lì a girare per casa come un'ombra, ogni volta che ricevi una telefonata stai in silenzio per ore, non ti si può dire mezza parola che scatti e cominci ad innervosirti come una matta...»
«Non hai pensato che, magari, il tuo continuo girare per casa mezzo nudo e tuo impertinente modo di entrare nelle camere altrui senza bussare possano, in qualche modo, arrecarmi un certo fastidio?»
Lui ghignò. «Sì, lo faccio apposta» disse «Così almeno la smetti di essere mezza morta.»
Lo incenerii con lo sguardo, stringendo la lattina tra le mani. «Una mossa davvero intelligente, per guadagnarti l'odio delle persone.»
Gioele ridacchiò, chiudendo per un attimo gli occhi scuri. «Facciamo un patto» disse, con un sorriso «Io la smetto di infastidirti e tu la smetti di rispondere male.»
«Se ci riesci, per me non c'è problema.»
«Iniziamo da adesso, ti va, nervosetta?»
Mi porse la mano. Io, riluttante e scettica, la strinsi.

 

 

 

Autostrada, meno quattro ore all'arrivo

 

 

Mentre cercavo di distinguere i contorni sfuocati del paesaggio che sfrecciava veloce fuori dal finestrino, l'immagine di mio cugino con un disgustoso anello al dito mi si parava davanti senza lasciarmi scampo.
La situazione aveva un nonsoché di ironico. Lui che aveva sempre predicato libertà, che aveva sempre giurato che non avrebbe fatto la fine di altre centinaia di uomini, adesso si era incastrato in un matrimonio riparatore.
Alla fine, era diventato proprio come tutti gli altri. Forse è inevitabile e magari anche io avrei fatto la fine sua, di Marco e di Gaia, prima o poi. Forse anche Freddie. E forse l'unico che veramente era riuscito a scappare era Febri. Andato via in un soffio, lasciandosi alle spalle solo le minuscole e innumerevoli schegge che aveva piantato nei nostri stomaci. Lui che diceva che ci sarebbe sempre stato.
No, aveva fallito anche lui. Avevamo fallito tutti.
«Non mi piace tornare a casa perché ci sono delle persone che non voglio vedere» dissi a Gioele in un sussurro veloce, sperando di soddisfare così la sua curiosità.
Lui fece un sorriso quasi impercettibile e non si voltò. «Anche io» ammise «Ma ci sono anche delle persone che mi mancano, per questo torno sempre. Lo faccio per loro.»
Lo guardai con la coda dell'occhio. Aveva le labbra strette e i capelli scompigliati, i muscoli del collo tesi e le mani quasi bianche mentre stringevano con forza il volante. Tamburellava con l'indice e il medio a ritmo di musica ininterrottamente, e smetteva di canticchiare solo quando doveva dire qualcosa.
«Beh, io non sono come te» borbottai, seguendo con lo sguardo le sue dita che si muovevano.
«No, infatti» rispose «Però ogni volta che vado via di casa penso che ho fatto bene a tornare. Forse dovresti cambiare il modo di vedere le cose, e domandarti se sono più importanti le persone che odi o quelle che ami. Io faccio così. Il tuo amico che ti chiama ogni tre giorni, con cui stai al telefono ore senza parlare praticamente di nulla... penso che valga la pena tornare almeno per lui.»
«Freddie se la cava alla grande anche senza di me.»
Non era vero. Ultimamente la sua voce era molto più incrinata e triste. Forse da quando Janis aveva cominciato la sua nuova e patetica esistenza, lui si era ritrovato da solo. Senza nessuno con cui uscire la sera, con cui parlare durante le pause dal lavoro.
Forse ormai non andava neanche più alla nostra collinetta per bere una birra. Forse non ci andava più nessuno.
«Qualsiasi cosa ti sia successa» continuò «Devi affrontarla, prima di lasciartela alle spalle. Se continui a scappare in questo modo... arriverà il momento in cui non potrai mai più prendere di petto la cosa. Sarà troppo tardi.»
Rimasi impassibile, anche se dentro di me mi domandavo da dove Gioele stesse tirando fuori tutta quella saggezza. Avevo sempre pensato che fosse l'apoteosi dell'idiota donnaiolo, che non fosse capace di formulare una frase di senso compiuto senza infilarci dentro qualche ridicolo riferimento sessuale, e adesso se ne stava lì a fissare la strada e a pretendere di farmi da maestro di vita.
«Non sai niente di me» dissi «Quindi smettila di provare a darmi consigli.»
Lui sventolò una mano con noncuranza. «Ti dico quello che è successo a me, allora. Un giorno sono andato a casa del mio migliore amico senza preavviso e l'ho trovato a letto con la mia ragazza. Sembravano due contorsionisti. Gliele ho date, ma lui era più forte di me e mi ha mandato all'ospedale. Quando mi sono rimesso in forma, gliele ho date di nuovo. Da quel momento, ho smesso di starci male.»
Lo fissai attentamente, chiedendomi per quale assurdo motivo si stesse confidando con me.
«Stai dicendo che dovrei iniziare pure io a picchiare la gente?»
«No» ridacchiò «Sto dicendo che non dovresti sacrificare le persone che ami per quelle che non vuoi vedere.»
«Non c'è nessun altro modo» dissi, cupa.
Era strano stare lì a fare discorsi seri con un ragazzo che ritenevo un perfetto idiota. Ma forse durante tutti litigi che avevamo avuto nel corso della nostra convivenza, lui mi aveva capito meglio di quanto io avessi fatto in tanti anni. E questo mi fece sentire, per l'ennesima volta, una debole senza speranza.

 

Autostrada, meno tre ore all'arrivo

 

Ci eravamo fermati un'altra volta. Gioele voleva prendere l'ennesimo caffè e io volevo ritardare il più possibile il mio arrivo a casa. Ancora non sapevo come mi sarei comportata quando avessi visto mio cugino. Avrei dovuto far finta di niente, parlargli come se non fosse successo nulla. Sapevo che lui ce l'avrebbe fatta. Ormai non pensava più a me, aveva altre priorità. Io, invece? Non avevo altri pensieri per la testa. Non ce li avevo mai avuti. Ero rimasta ferma esattamente al punto in cui mi aveva lasciata mesi prima.
Non ero andata avanti.
Gioele camminava avanti e indietro, di fronte a me, pensieroso e mi chiesi per la prima volte che cosa diavolo passasse per quella mente bacata.
Non capivo perché si comportava sempre come un cafone stupido quando, evidentemente, non lo era. Ipotizzai che fosse un modo come un altro per proteggersi. Mi dissi che sicuramente la mia tecnica di protezione era migliore. Sorrisi pensando che non sarebbe certo bastato quello, per farmelo stare simpatico.
«Dammi una sigaretta» mi disse poi, avvicinandosi.
Io lo guardai sorpresa. «Tu non fumi» gli feci notare «A casa non mi fai fumare in cucina e prima hai rotto tanto perché ti si impregnavano i sedili.»
Lui sorrise enigmaticamente e mi porse la mano. Io, scuotendo la testa, gli passai una sigaretta e l'accendino.
Accese la sigaretta tirando una lunga boccata di fumo. Poi, mi voltò le spalle e si mise l'altra mano in tasca, con il capo alzato.
Stava guardando il cielo. All'orizzonte, si riuscivano a vedere i primi raggi del sole che sorgeva, coperto da un filo di nuvole. Sarebbe stata una settimana serena. Io avrei preferito ci fosse la pioggia.
«Non è stato un brutto viaggio, tutto sommato» disse Gioele, la voce un po' dispersa dal vento leggero.
«Siamo ancora a metà» constatai in un sussurro.
«Potremmo fare insieme anche il viaggio di ritorno» continuò «Martedì.»
«Cioè dovrei passare altre sette ore da sola con te?» domandai, con un sopracciglio alzato «Grazie dell'offerta, ma mi basta averti tra i piedi a casa.»
Lui scrollò le spalle. «Come ti pare, nervosetta.»

 

 

Paesello, arrivo

Qualcuno mi stava tirando i capelli.
Aprii gli occhi e mugugnai qualcosa, infastidita. Il sole era già alto nel cielo e ci misi un po' ad abituarmi a tutta quella luce.
«Svegliati, nervosetta» la voce di Gioele era bassa e inspiegabilmente dolce. Storsi il naso.
«Era il caso di svegliarmi tirandomi i capelli?» domandai contrariata, mettendomi seduta in una posizione normale.
«Forse no» rispose lui con un sorriso «Ma sicuramente era più divertente.»
Feci una smorfia e scossi la testa, profondamente seccata. «Dove siamo?» chiesi.
«Arrivati» disse lui, occhiali da sole sul naso e sorriso raggiante.
Io chiusi gli occhi, sentendo un improvviso senso di nausea pervadermi. Era troppo presto. Quel viaggio era durato troppo poco. Guardai fuori dal finestrino, ansiosa, sentendo la testa che mi si comprimeva dolorosamente e una morsa che mi stringeva le viscere. Riconobbi le casette colorate e la piazza, i bar e le edicole. Ero veramente arrivata a casa.
«Pensi che potremmo fermarci da qualche parte? Solo dieci minuti. Per favore» chiesi stupidamente, in preda al panico.
«No» rispose Gioele, categorico «Dimmi dove devo girare, piuttosto. Non so dov'è casa tua.»
«Fermiamoci, prima. Ti offro la colazione» lo supplicai.
Lui si scostò gli occhiali dagli occhi e se li mise sulla testa, tirandosi i capelli neri all'indietro. Mi guardò con un'espressione compassionevole che mi fece aumentare la nausea.
Era questo ciò che suscitavo nelle persone: compassione, pena. Tutto ciò mi disgustava.
Gioele scosse la testa e strinse le labbra. «Devi smetterla di fare così» disse serio «Adesso mi dici dove abiti, scendi dalla macchina e passi questa settimana con la testa alta.»
«Perché ti importa di queste cose?» domandai, gli occhi che mi si stavano per riempire di lacrime «Non siamo mai stati amici, io e te. E adesso ti comporti così.»
Lui scrollò le spalle. «Perché anche io facevo come te, prima. Non avrei mai smesso se qualcuno non mi avesse costretto.»
Deglutii e ingoiai lacrime amare, con la fronte aggrottata. Gli spiegai cupamente dove si trovasse casa mia e tentai di prepararmi al supplizio che mi attendeva, senza riuscirci.
Nella mia mente era passato poco più di un secondo, quando Gioele svoltò l'angolo. Io mi voltai e guardai dritto davanti a me. Quello che vidi mi spezzò il cuore e mi compresse lo stomaco in una morsa talmente forte che per poco non vomitai lì, in macchina.
Sul marciapiede, c'era Janis. Come avevo ipotizzato, adesso portava i capelli corti. Aveva gli occhiali da sole, una bella camicia infilata nei pantaloni che erano di un colore assolutamente neutro.
In braccio teneva un bambino.
Istintivamente presi il polso di Gioele.
«Gira!» esclamai «Metti la retromarcia e torna indietro!»
Lui strattonò il mio braccio, incredulo e spaventato. «Non posso ormai!» urlò arrabbiato «E toglimi le mani di dosso, altrimenti andiamo a sbattere, stupida!»
Lo lasciai e mi morsi il labbro, sentendo il sapore metallico del sangue in bocca. Janis ci vide e si fermò, lo sguardo fisso su di noi. Sul suo volto non c'era neanche l'ombra di un sorriso. Forse non sapeva che sarei arrivata proprio quella mattina.
Io chiusi gli occhi e contai fino a quindici, respirando profondamente. Quando li riaprii, Gioele si era già fermato.
«Chi è quello?» domandò, inserendo il freno a mano e spegnendo la macchina.
Janis era fermo davanti all'auto, con il bambino in braccio, e ci guardava. Lenticchia Due aveva cominciato ad abbaiare e a scodinzolare.
«Mio cugino» mormorai, cupa.
«E' a causa sua se stavamo quasi finendo contro il muretto?» domandò Gioele, ancora arrabbiato, dandomi un colpetto sul braccio.
«Sì.»
«Bene» disse lui, aprendo lo sportello «Scendi.»
Scesi dalla macchina lentamente, fermandomi davanti a Janis senza sapere cosa dire. Forse avrei dovuto fargli le congratulazioni per il matrimonio o dirgli che suo figlio era bellissimo. Aveva gli occhi di Gaia, ma i colori erano quelli di mio cugino.
Non dissi niente. Cercai di sorridere, ma non ce la feci.
«Ciao» disse poi Gioele, rivolto a lui. Non mi ero neanche accorta che era venuto vicino a me. «Io sono Gioele, il coinquilino di Mara.»
Mio cugino si portò gli occhiali da sole sopra la testa e lo fissò serio per un attimo. Sembrava un uomo adulto. La spensieratezza e sorrisi brillanti degli anni passati erano completamente svaniti dal suo volto.
«Janis» disse, stringendogli la mano. Poi posò lo sguardo su di me. Io lo salutai a voce bassa e gli voltai le spalle, andando ad aprire lo sportello a Lenticchia Due, che scese e cominciò a fargli le feste. Strano che si ricordasse ancora di lui.
«Avete fatto un buon viaggio?» chiese.
«Tutto bene, grazie» risposi, andando verso il portabagagli. Feci per prendere le valige, ma Gioele mi precedette lanciandomi occhiate strane.
«Faccio io» disse, aprendo il cofano della macchina.
«Non c'è bisogno» mormorai, tenendo lo sguardo basso.
Lui mi ignorò e prese la mia valigia e la borsa.
Lanciai uno sguardo alla mia casa e dall'assenza della macchina dedussi che non doveva esserci nessuno. Forse eravamo in ritardo e i miei erano già al ristorante.
Gioele andò con i miei bagagli davanti al cancello, in attesa. «Vuoi aprirmi o rimaniamo qui tutta la mattina?» sbottò.
«Li porto io dentro» dissi «Tu vai a casa, ti staranno aspettando.»
Gioele scosse la testa, un po' arrabbiato, ma in quel momento conoscerne il motivo era l'ultimo dei miei pensieri.
La mia attenzione era concentrata sul non guardare assolutamente mio cugino e suo figlio, che erano ancora fermi lì dove li avevo lasciati. Proprio mentre mi domandavo quando Janis avesse intenzione di andarsene, parlò. «Beh, io devo andare. È stato un piacere conoscerti, Gioele» disse, stringendogli nuovamente la mano da uomo perbene «Ci vediamo, Lenticchia.»
«Ciao» dissi.
Ci voltò le spalle ed entrò in casa sua.
Il mio molesto coinquilino si voltò a guardarmi, impaziente e scocciato. «Allora?» sbottò «Mi inviti a prendere un caffè, o no? Ti ricordo che ti ho scarrozzato in macchina per sette ore.»
Sospirai, distogliendo lo sguardo da mio cugino. Era diventato un uomo qualunque. Sposato con una donna che non amava, lavoratore presso suo padre e col simbolo della costrizione stretto all'anulare.
Era l'emblema di tutto ciò che avevamo sempre odiato. Febri l'avrebbe preso in giro.

 

Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta,
ma la gente che ci andava a bere fuori e dentro e tutta morta:
qualcuno è andato per età, qualcuno perché già dottore e insegue una maturità,
si è sposato, fa carriera, ed è una morte un po' peggiore...
Canzone delle osterie di fuori porta – Francesco Guccini

 

 

 

***

Sapevo che sarebbe successo questo ancora prima che finissi di scrivere "La triste storia di un vicolo cieco"... l'unica cosa che non sapevo, era se l'avrei mai battuto al computer. Alla fine, però, durante una nottata insonne più deprimente del solito, ho deciso di farlo. Probabilmente vi deluderò tutte, e mi dispiace per questo.
Metterò il secondo e ultimo capitolo in questi giorni, forse anche stasera!
Vi lascio i miei contatti: 
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Un abbraccio 

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Capitolo 2
*** Seconda Parte ***


Parte Seconda

 

Qui un poco piove e un poco il sole,
aspettiamo ogni giorno che questa estate finisca,
che ogni incertezza svanisca.
E tu? Io non ricordo più che voce hai. Che cosa fai?
io non credo davvero che quel tempo ritorni,
ma ricordo quei giorni.
Ti ricordi quei giorni? - Francesco Guccini

 

Paesello, meno cinque giorni alla partenza

Casa mia era esattamente come la ricordavo. I mobili eleganti erano tutti al posto giusto, così come le foto di quando ero piccola e i soprammobili orrendi che mia madre amava tanto.
Ero seduta al tavolo della cucina mentre fissavo un punto imprecisato del muro. Gioele, che aveva ritirato fuori tutte le sue qualità da cafone, si stava preparando da solo il caffè borbottando imprecazioni che non riuscivo a capire.
Vedere Janis con suo figlio era stato come ricevere una coltellata sulla schiena. Ero stata una stupida a pensare che avrei potuto comportarmi normalmente. Ormai era evidente che non ce l'avrei mai fatta.
«Ti sei comportata da perfetta imbecille, prima» disse Gioele, dandomi qualche colpetto sul viso in modo da attirare la mia attenzione.
«Lasciami in pace» sbottai, allontanando la sua mano.
«Perché non vai d'accordo con tuo cugino?» mi chiese.
Io strinsi gli occhi e le labbra, sentendo che stavo cominciando ad innervosirmi. Gioele aveva quel potere particolare che nessun altro possedeva: riusciva a farmi impazzire. Quando mi arrabbiavo con lui, provavo sul serio l'impulso di prendergli il collo e stringerlo con tutte le forze che avevo.
«Allora?» continuò «Ha picchiato un tuo ex ragazzo? Ha fatto la spia con i tuoi genitori? Sembra un tipo tutto d'un pezzo, uno di quelli che pedina le cuginette per assicurarsi che escano solo con ragazzi di buona famiglia...»
Mi lanciai in una risata sprezzante, scuotendo la testa. «Sei fuori strada» dissi.
Lui si appoggiò al ripiano della cucina e si toccò il mento con una mano, in una posa pensierosa. «E allora cosa può averti fatto?» domandò tra sé e sé, guardando in alto «Da piccola ti sgridava perché prendevi voti bassi a scuola? Oppure...»
«Gioele» lo fermai «Guarda che ha venticinque anni. Quando ero piccola io, era piccolo pure lui.»
Il mio coinquilino sgranò gli occhi. «Però!» esclamò «Ne dimostra almeno trenta.»
Io risi tristemente. «È sempre sembrato più grande. Erano le espressioni che... non importa» dissi, alzando lo sguardo su di lui per la prima volta da quando era entrato in casa «Una volta non era così.»
«È lui la persona che non vuoi vedere?»
Il suo volto si era fatto improvvisamente serio e mi guardava come se volesse trapassarmi. Io stringevo spasmodicamente i pugni, cercando di allontanare sempre di più il momento in cui avrei cominciato a sfogarmi su di lui.
«Sì. Adesso basta, però» dissi lentamente.
Il suo sguardo si rabbuiò. «Beh, sicuramente non è questo il modo di comportarti» sbottò, alzando la voce «Se ti metti a fare la vittima e a piagnucolare in questo modo patetico non risolverai mai la situazione, anzi! Starai depressa come una stupida per tutta la vita!»
Mi alzai lentamente, incenerendolo con lo sguardo. «Ma che diavolo ne vuoi sapere tu?» esplosi «Te ne stai qui a pretendere di farmi da maestro di vita quando neanche mi conosci! Perché non torni a fare l'idiota come al solito, eh? Ti preferivo quando giravi per casa senza maglietta ignorando qualsiasi senso della decenza o del pudore! Eri molto meno fastidioso!»
Lui aveva un'espressione sconvolta e del tutto impreparata a quello sfogo. «Ah sì?» esclamò, scostandosi dal ripiano della cucina e venendomi in contro «Scusami tanto se mi sono permesso di suggerirti un modo per farti stare meno male! Davvero, sono proprio una persona terribile! Ma guarda tu cosa mi tocca sentire...»
Io mi passai le mani tra i capelli, sentendo che stavo diventando tutta rossa. «Che cosa vorresti, di preciso? Che ti ringraziassi per questi consigli ridicoli? Pensi che se ci fosse stato un modo per risolvere la situazione non l'avrei trovato da sola, senza bisogno dell'aiuto di uno come te?»
«Uno come me?» ripeté lui, incredulo.
«Uno come te» confermai, soddisfatta.
Mi lanciò un'occhiata sprezzante, prese le chiavi della macchina dal tavolo e mi voltò le spalle. Mi lasciò in cucina da sola con il caffè che schizzava fuori dalla macchinetta.
Proprio quando mi resi conto di essere stata orribile e ingiusta, sentii il rombo della sua macchina.

 

 

Paesello, meno quattro giorni alla partenza

 

Dopo che Gioele era andato via, mi ero sentita come un verme strisciante. Non si era meritato quelle parole, e io dovevo smetterla di scaricare i miei nervi su di lui. Un paio di volte fui tentata di cercare il suo numero sull'elenco telefonico per chiedergli scusa, ma non trovai mai il coraggio. Sicuramente non voleva sentirmi né vedermi e aveva tutte le ragioni del mondo.
Per quanto lui mi avesse infastidito durante tutta la nostra convivenza, non mi aveva mai insultata in modo cattivo come avevo fatto io. Mi aveva presa in giro, mi aveva stuzzicata, ma quella che si arrabbiava ero sempre io. Lui non era così, si limitava a ridere a dirmi cose che mi facevano innervosire ancora di più come “sei più carina quando ti arrabbi” o “brava, mettiti a strillare, così almeno la smetto di scambiarti per un cadavere” o ancora “è tornata la nervosetta. Dove eri sparita per tutto questo tempo?”.
Giurai a me stessa che una volta tornata in città mi sarei scusata. Alla fine, non mi aveva detto niente di sbagliato. Anzi, aveva solo cercato di aiutarmi e l'aveva fatto nonostante tutti i nostri trascorsi non proprio idilliaci.
Qualche ora dopo la sua partenza, ero andata in officina da Freddie. Mi aveva detto che Janis l'aveva già informato del mio arrivo insieme ad un tipo sconosciuto. Mi fece qualche domanda iperprotettiva su Gioele, con tanto di sguardo torvo e braccia incrociate, ma poi parlammo del più e del meno.
Mi accorsi che era vero, che era più triste. Si sentiva solo. Non mi parlò di mio cugino, ma mi bastò uno un suo sguardo a farmi capire che neanche lui se la passava tanto bene.
Pensai che prima o poi si sarebbe abituato a Gaia. E che comunque c'era il bambino ad unirli e che bene o male sarebbero riusciti ad andare d'accordo per lui. Era un bambino davvero bellissimo.
Passai tutto il giorno insieme a Freddie, che staccò prima dal lavoro e mi accompagnò a salutare Rob, anche lui felice di vedermi. Stemmo tutti insieme per un po' e poi tornai a casa a salutare i miei genitori.
Passai una notte tormentata. Sognai il viaggio in macchina con Gioele e le lunghe camminate che facevo con Janis, i panini di Rob e i capelli verdi di Febri.
Sicuramente lui si sarebbe arrabbiato esattamente come il mio coinquilino e mi avrebbe detto che ero una rammollita senza speranza o qualcosa del genere.
Mi svegliai tardi, quella mattina, e non appena scesi le scale sentii bussare alla porta. Andai ad aprire sbadigliando e, con un sussulto, dall'altra parte dell'uscio vidi Janis.
Rimasi ferma a fissarlo per un periodo infinito. I capelli, che ormai non gli arrivavano alla spalla, ma fin sotto l'orecchio, erano scompigliati e lievemente mossi. Forse era il fatto che li teneva sempre legati stretti stretti a renderli così lisci.
Fece un sorrisetto triste. «Ti ho svegliata?» domandò.
«No» risposi. Era vestito di tutto punto e sembrava fosse in piedi già da molte ore. Lanciai un'occhiata all'orologio ed erano le dieci. Un anno prima non avrebbe mai messo il piede fuori dal letto prima delle undici. Le tre del pomeriggio, nei giorni in cui non lavorava.
Lo guardai negli occhi e notai che era in attesa. Con un piccolo sussulto mi spostai dalla porta e lo feci entrare.
«Vuoi il caffè?» gli dissi, sentendomi imbarazzata e a disagio come non mai.
«L'ho già preso» rispose, seguendomi in cucina.
Si sedette su una sedia mentre armeggiavo con la macchinetta con una lentezza che io stessa avrei giudicato esasperante, e quando la posai finalmente sul fuoco e mi voltai a guardarlo, mi accorsi che sorrideva.
La situazione mi ricordava terribilmente quella in cui io, un anno prima, ero andata a casa sua senza preavviso per dirgli che avevo cambiato idea. L'aria tesa e i momenti di silenzio poco familiare. Avrei voluto dirgli di andarsene.
«Mi dispiace per ieri» disse poi, mentre il suo sorriso moriva «Mi hai colto di sorpresa, e poi ero di fretta... stavo andando dai miei per... insomma...»
«Per lasciargli il bambino» completai, atona.
«Già» rispose imbarazzato «Fabrizio.»
«Lo so.»
Ci guardammo negli occhi a lungo. In quello sguardo c'erano tutte le cose che non avremmo mai più potuto dirci, tutti i tempi andati e ormai persi e tutte le nostre sconfitte.
Janis era diventato un succube, arreso e rassegnato. Io invece continuavo ad andare avanti senza il coraggio di reagire.
Durò qualche attimo. Proprio mentre sentivo che non ce l'avrei più fatta a sostenerlo, lui si riscosse e io gli voltai le spalle, spegnendo il fornello del caffè e versandomene una tazzina. Rimasi un po' con lo sguardo fisso sul liquido nero, cercando a tutti i costi di non piangere, e quando fui convinta che il pericolo fosse scampato, mi girai.
«Non ti avevo mai vista così, sai?» mi disse. Mi accorsi che anche lui aveva gli occhi un po' lucidi.
«In che senso?» chiesi, tenendo stretta la tazzina con tutte e due le mani.
«Irritata. Con il tuo coinquilino» disse, abbozzando un sorriso. Gli occhi non gli si piegavano più. «Ieri, quando stavate litigando, le vostre urla si sentivano fino a casa dei miei.»
“Casa dei miei”. Era strano sentirlo parlare così. Mi chiesi se mi ci sarei mai abituata.
«Te l'avevo detto, che non andiamo d'accordo.»
«Sì, lo so. Ma è il tuo modo di arrabbiarti con lui che è strano. Tu non ti innervosisci con le persone. Sei paziente, pacata... e non ti arrabbi. Al massimo sei triste e abbattuta per qualcosa che è successo, ti disperi, ma non ti arrabbi.»
«Non capisco dove vuoi arrivare.»
«Da nessuna parte» si affrettò a rispondere «Però ti preferisco così... meno passiva.»
Non so perché, ma quel commento mi diede fastidio. «Io ti preferivo con i capelli» mi lasciai sfuggire, pentendomene subito dopo.
Lui ebbe un lieve sussulto, punto sul vivo. Pensai che le sue guance si fossero colorate un po', mentre mi rispondeva. «Me li hanno fatti tagliare mesi fa per...» fece una pausa, in confusione «E poi ancora per il battesimo... li sto facendo ricrescere, però.»
Guardai fuori dalla finestra, fingendo di trovare particolarmente interessante il paesaggio. Il silenzio che nacque era decisamente troppo pesante affinché qualcuno di noi potesse sostenerlo. Per questo motivo, Janis si alzò, borbottò qualcosa riguardo la sua pausa lavorativa che stava finendo e se ne andò.

 

 

Paesello, meno tre giorni alla partenza

 

Dopo aver pianto per un tempo decisamente lungo, mi ero sentita subito meglio. Era come se il peso che portavo sulle spalle si fosse alleggerito, dopo aver parlato con Janis. Nel pomeriggio avevo anche avuto il coraggio di andare a salutare i miei zii, pur sapendo che in casa loro c'era il bambino, e avevo giocato un po' con lui. Fabrizio.
Sapevo, fin dal primo momento, che l'avrebbero chiamato così. Quando mia madre mi aveva telefonato per dirmi che era nato e mi aveva informata del nome che Janis e Gaia avevano scelto per lui, non ero rimasta sorpresa. Non avrei mai potuto immaginare qualcosa di diverso. Era naturale.
Il mattino seguente, poi, ero andata a trovare Febri e gli avevo portato dei fiori. Avevo chiacchierato un po' con lui, raccontandogli delle ultime cose che erano successe, e gli avevo detto anche di Gioele.
Ormai non mi svegliavo più, di notte, pensando che la sua morte fosse solo un incubo atroce. Avevo imparato ad accettare la cosa e me ne ero fatta una ragione, anche se faceva male esattamente come all'inizio.
Tutto il tempo in cui non studiavo e non aiutavo al ristorante, lo passavo in compagnia di Freddie, che minuto dopo minuto allargava il suo sorriso facendolo ritornare quello di un anno prima, quando le cose stavano iniziando a precipitare, ma eravamo abbastanza ingenui da credere che quello che vedevamo fosse uno spiraglio di luce.
Lui lavorava ancora all'officina e mi confessò che stava mettendo i soldi da parte per comprarsela. Ci avrebbe impiegato molti anni, comunque, considerando lo stipendio che gli davano.
Diceva di aver smesso di bere, ma che ogni tanto andava ancora alla nostra collinetta e fantasticava riguardo ad un futuro che nella sua mente era uguale al passato che non sarebbe tornato mai più.
Gli dissi che ogni tanto ci fantasticavo su anche io e mi abbracciò forte, facendomi piangere per la seconda volta da quando ero tornata in città.
«Giuro che non farò mai più così» dissi, mentre le mie lacrime gli bagnavano la maglietta «Non ti lascerò mai più per così tanto tempo.»
Lo sentii ridacchiare sulla mia spalla. «Magari potrei iniziare a venire io, a trovarti, se per te non è un problema.»
Lo strinsi un po' più forte. «Come potrebbe essere un problema?» biascicai «Puoi venire quando vuoi. Puoi anche trasferirti a casa mia.»
«Da quello che ho sentito in giro, al tuo coinquilino non piacerebbe.»
Aggrottai le sopracciglia, certa che quella cosa ridicola l'avesse sentita da Janis, e decisi di ignorare quel commento, felice di essere tra le braccia di Freddie dopo tutto quel tempo. «Tu vieni quando vuoi» ripetei «Ma comunque tornerò qui anche io, stavolta per davvero.»
Con il cuore ancora più leggero, andai a casa. Adesso c'era solo una cosa che dovevo fare, e andava fatta in fretta.
Mi precipitai in salotto, presi l'elenco telefonico e cercai il numero di Gioele. Per fortuna, nel suo paese c'era solo una famiglia con quel cognome. Composi il numero sul ricevitore, sperando che mi rispondesse lui. Odiavo quando mi rispondevano genitori, fratelli o altri membri della famiglia.
Sentii squillare un paio di volte e poi rispose.
«Pronto?» disse la sua voce.
«Gioele?» chiesi «Sono Mara.»
Silenzio. Pensai che dovesse essere ancora molto arrabbiato e che mi avrebbe chiuso il telefono in faccia.
Non avrei potuto biasimarlo.
«Che c'è?» domandò «Ti manco già? Non riesci a stare lontana da uno come me
Il suo tono era risentito e infastidito. Non avrei mai immaginato di poterlo vedere – o sentire, in questo caso – arrabbiato. Pensavo che lui fosse uno di quelli che non si arrabbiano, che si fanno scivolare le cose addosso come fossero olio, che prendono tutto a ridere. Una persona leggera.
«Mi dispiace» mormorai, rigirandomi il filo del telefono tra le dita «Non avrei dovuto parlarti in quel modo.»
«No, non avresti dovuto.»
Non dissi niente, ascoltando il rumore lieve del suo respiro che si infrangeva contro la cornetta.
«Stai bene?» mi chiese, dopo un po'.
«Sì. Tu?»
«Tutto bene.»
«Ok...» cominciai, esitante «Allora ci vediamo a casa tra un paio di giorni.»
«Non devi dirmi nient'altro?» la sua voce stava ricominciando a prendere il tono che mi era più familiare.
«Ti ho già detto che mi dispiace...» mormorai, incerta.
«È tutto ok» disse poi, velocemente «Ci vediamo a casa.»
E riattaccò.

 

 

 

Paesello, meno due giorni alla partenza

 

Fui molto fortunata. Passai la mattina di Pasqua nella più completa ansia, consapevole che da lì a poche ore mi sarebbe toccato il pranzo di famiglia che, come ogni anno, facevamo a casa di Janis.
Non ebbi il coraggio di chiedere a mia madre se mio cugino e Gaia ci sarebbero stati, perché non volevo che, in caso di risposta affermativa, mi potesse chiedere come mai il mio volto si fosse dipinto d'orrore.
Forse ero pronta per scambiare due parole inutili con mio cugino e forse lo ero anche per giocare con suo figlio mentre nessuno poteva vedermi, ma partecipare ad un pranzo di famiglia con lui e sua moglie? No, decisamente non lo ero.
Per un attimo pensai di darmi malata, ma poi mi ricordai le parole di Gioele e decisi che, in ogni caso, sarei entrata in casa dei miei zii a testa alta. Se li avessi visti lì, seduti vicini a tavola, avrei salutato come se niente fosse e avrei passato il resto del pranzo a cercare di non scoppiare il lacrime e di non disperarmi. Forse i miei genitori si sarebbero chiesti come mai non rivolgevo la parola ai novelli sposini, ma era un rischio che potevo correre. Mi dissi che dovevo cercare di passare quelle ore il più composta possibile, che poi avrei avuto un sacco di tempo per piangere.
Quando entrai in casa e non li vidi, tirai un sospiro di sollievo. In compenso, però, c'era mia cugina Eva. Non la vedevo dall'estate precedente e l'ultima volta che ci avevo parlato era stata quella in cui aveva visto me e Janis baciarci. Le volte successive, mi aveva solamente guardata con una disgustata aria di sufficienza.
Quel giorno, invece, mi lanciava occhiate trionfanti dall'altra parte del tavolo. Come se io fossi una nullità che aveva provato a trascinare suo fratello in un qualche baratro oscuro e aveva fallito.
Guardavo il cibo nel piatto e cercavo in ogni modo di non dar peso alle sue occhiate e alle cose che diceva. Parlava di quanto fosse felice che Janis avesse trovato finalmente una brava ragazza e si fosse “sistemato”, ma non riuscii a stare in silenzio quando parlò della sua macchina.
«A proposito» disse, passandosi il fazzoletto sulla bocca «Devo dire a Janis che ho trovato qualcuno interessato a comprare la sua macchina per ristrutturarla.»
Mi cadde la forchetta nel piatto e alzai lo sguardo su di lei. «In che senso?» biascicai, confusa «Janis non darebbe mai via quell'apriscatole.»
Lei assottigliò gli occhi e sorrise, viscida. «Sai, Mara, si deve crescere, prima o poi» disse, altezzosa «Di certo non può portare in giro Fabrizio con quel rottame.»
Io strinsi le labbra, punta sul vivo. «Conoscendo Janis, preferirebbe tenerla per tutta la vita chiusa nel garage piuttosto che venderla!» esclamai «Chi gli ha messo in testa una cosa simile?»
Mio padre, accanto a me, mi posò una mano sul braccio. «Che ti importa, Mara?» mi domandò «È solo una macchina.»
Io abbassai lo sguardo e strinsi i pugni sotto il tavolo. «Non è solo una macchina» mormorai.
Sentii la risata leggera di Eva e potrei giurare che in quel momento mi abbia guardata ancora più trionfante. «Non so che significato dai tu a quel catorcio arrugginito, Mara» mi disse, con un tono che nascondeva molti sottintesi «Ma ti assicuro che per lui è solo una macchina.»
Sentivo cinque paia di occhi puntati su di me e decisi di non rispondere e lasciar cadere la conversazione.
L'apriscatole di Janis non era solo una macchina. Era un ricettacolo di ricordi. Si riusciva a percepire l'essenza di Febri nell'abitacolo, c'erano ancora le cassette che aveva dimenticato lì, un suo accendino nel cruscotto e alcune sue matite colorate.
Era la macchina che usavamo per andare in giro, senza meta, fino al mattino. Era quella che ci portava su in collina per guardare tutte le luci che illuminavano il paese. Era il simbolo di quello che eravamo stati, di quello che avevamo vissuto, ma soprattutto era il simbolo dell'indipendenza di Janis, che l'aveva comprata con le sue sole forze.
Non poteva davvero volersi staccare da tutto quello. Non poteva voler dimenticare.

 

 

«Janis vuole vendere la macchina» dissi a Freddie, quella stessa sera, mentre eravamo da Rob a mangiare un panino. «Lo sapevi?»
Lui si stuzzicò una ciocca di capelli biondi con le dita e chiuse gli occhi. «Lo sapevo» sospirò.
«Perché?» esclamai, sbattendo le mani sul tavolo «Non può farlo!»
Il mio amico si fece scivolare lungo la panca di legno e incrociò le mani al petto. Notai che stava guardando fuori dalla finestra, nel punto esatto in cui mio cugino era solito parcheggiare quell'apriscatole.
«Ha l'affitto da pagare» rispose semplicemente, anche se con una punta di rammarico «E i pannolini da comprare... e una moglie esigente.»
Io scossi la testa, incredula. «Non può...» ripetei confusamente «Che cosa gli stanno facendo? Prima i capelli, poi questo... non sono cose che vengono da lui, Freddie, non capisci?»
«Lo capisco, Lenticchia» disse, continuando a non guardarmi «Gli mettono continue pressioni. Fai questo, fai quello, dovresti essere così, questa cosa non va più bene... si sente in gabbia. Gaia è una pazza, ultimamente. E lui ha solo me con cui parlare.»
Appoggiai i gomiti sul tavolo e mi ressi la testa con le mani. «Sta perdendo sé stesso» mormorai «Non è che l'ombra di ciò che era prima.»
«Non ha neanche il coraggio di guardarti in faccia» continuò «Mi ha detto che è stato da te, qualche giorno fa.»
«Già» risposi, cupa «Mi ha detto... ha detto...»
«Cosa ha detto?»
«Lascia stare» scossi la testa «Non si può fare niente?»
«No» si strinse nelle spalle, col dolore nel profondo degli occhi «Non si può fare niente.»
Io mi passai una mano tra i capelli, incredula e amareggiata. «Quindi finisce così?»
Gli angoli della sua bocca erano piegati verso il basso e i suoi occhi, un tempo così dolci, adesso erano stretti in un'espressione sofferente. «Penso proprio di sì» sospirò «Stavolta per davvero.»
Ma io non potevo permetterlo. Stavo imparando a convivere con quella mia nuova esistenza fatta sostanzialmente di nulla, avevo capito di aver fatto troppi errori a cui ormai non avrei potuto rimediare e speravo che, in futuro, sarei stata capace di non farmi più scivolare le cose importanti tra le dita. Potevo accettare il mio malessere, che era dipeso solo e soltanto da me stessa, con la speranza che prima o poi se ne sarebbe andato.
Potevo restare il silenzio mentre vedevo Janis che diventava tutto quello che aveva sempre odiato, potevo far finta di niente di fronte al suo sorriso triste e ai suoi occhi che si accendevano solo quando vicino a lui c'era suo figlio, potevo far finta che fosse una cosa normale. Che alla fine lo facevano tutti.
Ma non potevo permettergli di cancellare tutto ciò che era stato.
Per questo mi feci dire l'indirizzo della sua nuova casa da Freddie e, quella stessa sera, lasciai un biglietto nella sua cassetta della posta.
Non venderla”, scrissi.

 

 

Paesello, meno un giorno alla partenza

 

Guardavo il soffitto chiedendomi dove mai avessi trovato il coraggio per lasciare quel biglietto a mio cugino. Non sapevo né se avrebbe capito, né se si sarebbe reso conto che ero stata io a scriverlo.
Magari se ne sarebbe accorto e avrebbe pensato che fossi una stupida. Era possibile che, durante tutto quel tempo, lui fosse cambiato talmente tanto da non considerare più importanti le cose che un tempo ci avevano uniti. Non lo sapevo.
Io non mi sarei mai volontariamente liberata di qualcosa che poteva ricordarmi lui, Febri, Freddie e anche Marco e Gaia. Ci avevo provato per lungo tempo, ma mi ero resa conto che non ce l'avrei mai fatta e che in fondo era una cosa che non volevo.
Non avrei mai tolto la loro foto dal comodino. Non avrei mai buttato quella cassetta che nell'etichetta portava la scrittura disordinata di Janis.
E speravo che, nonostante tutto, neanche lui volesse cancellarci.
Prima ancora che potessi rendermene conto, mi ritrovai con la cornetta del telefono in mano a digitare un numero che fino a qualche giorno prima non conoscevo.
«Chi parla?»
«Gioele?» dissi, esitante «Sono Mara.»
Lo sentii ridacchiare dall'altra parte. «Che vuoi?» domandò, ridendo «Non ti sarai innamorata di me, spero.»
«Non essere ridicolo» sbottai.
«Ah. Peccato» fece lui, sempre con quel tono divertito.
Rimasi in silenzio per un po', cercando di farmi tornare in mente il motivo per cui avevo deciso di chiamarlo. Non lo ricordai subito.
«Beh? Rimaniamo al telefono in silenzio?» chiese «Per me non c'è problema, ma tra un paio d'ore devo uscire.»
Sorrisi contro la cornetta e presi fiato. «Sai, forse ho trovato il modo. Ma non ho picchiato nessuno.»
«È tutto merito mio, vero?»
«Penso di sì.»
«Vuoi che venga a prenderti, domattina?»
Ci riflettei su un attimo. «Sì, se non è un problema.»
«Non è un problema.»

 

 

Ritorno a casa

 

Gioele si presentò a casa mia poco prima di pranzo, mentre fumavo l'ultima sigaretta con Freddie. Dopo aver salutato i miei genitori, il mio amico era venuto da me per l'ultimo saluto e per aiutarmi a rifare la valigia, anche se avevo portato con me talmente poche cose che il suo aiuto mi fu inutile.
Eravamo appoggiati al cancello di casa, con i bagagli per terra e Lenticchia Due che ci scodinzolava intorno. Ero più serena di quando, un anno prima, eravamo insieme in camera mia a scegliere le cose che avrei portato in città.
Janis non era venuto a salutarmi, ma non mi ero aspettata niente di diverso. Non sapevo se l'avrei voluto o no, ma sicuramente così sarebbe stato più facile. Non avrei sopportato un saluto come quello dell'anno precedente.
«Allora verrai a trovarmi, vero?» domandai a Freddie «Me l'hai promesso.»
Lui rise passandomi un braccio intorno alle spalle. «Verrò» disse «Il prima possibile.»
Appoggiai la testa sulla sua spalla e sentii il rombo di una macchina che si avvicinava. Gioele era arrivato.
Parcheggiò proprio davanti a noi e quando scese ci fece un sorriso radioso. Freddie si scostò da me e andò a presentarsi, scambiando qualche parola col mio coinquilino. Io lo salutai con un cenno e con un sorriso, prendendo la mia valigia e la borsa da terra.
«Allora la lascio in buone mani?» domandò Freddie.
Gioele mi strappò i bagagli di mano con poca grazia, ignorò la mia smorfia e li caricò sul sedile posteriore. «Non preoccuparti» disse «Bado io a lei.»
Aggrottai un sopracciglio. «Ah sì? E come?» domandai, scettica «Finendomi puntualmente il latte? O lasciando aperta la porta del bagno quando ti fai la doccia?»
Freddie scoppiò a ridere e il mio coinquilino scrollò le spalle. «Soffro di claustrofobia» si giustificò.
«Certo, come no» borbottai.
Feci salire Lenticchia Due sul sedile posteriore e andai ad abbracciare Freddie, promettendogli ancora che sarei tornata presto e ricordandogli che sarebbe dovuto venire a trovarmi. Lui si frugò nelle tasche e mi mise in mano un biglietto. «Leggilo dopo» disse.
Io e Gioele salimmo in macchina e, con una botta di clacson e altri saluti urlati dal finestrino, partimmo.
Vidi casa mia e quella che una volta era di Janis allontanarsi sempre di più con una stretta al cuore, ma adesso sapevo che le avrei riviste presto e che l'avrei affrontato con uno spirito un po' diverso.
«Ora vuoi dirmi che cosa ti era successo di così catastrofico da impedirti di tornare a casa?» domandò Gioele, mentre sorrideva come un bambino.
«Sei troppo curioso» dissi.
Lui rise e si mise gli occhiali da sole. «Magari puoi raccontarmelo stasera» azzardò «Davanti ad una birra... in un locale carino...»
Lo guardai imbambolata e con gli occhi sgranati per un lungo periodo e poi scoppiai a ridere senza riuscire a controllarmi.
«Beh?» fece lui, fingendosi offeso «Che ho detto di strano?»
Smisi di ridere e mi voltai verso di lui, ancora divertita e con le sopracciglia alzate. «Offri tu» dissi.
Borbottò qualcosa su quanto fossi viziata e difficile e scosse la testa, anche se stava sorridendo.
Io srotolai il bigliettino che mi aveva dato Freddie e, quando vidi la calligrafia disordinata di Janis, permisi ad una sola lacrima di cadere.

Se è quello che vuoi, non la venderò.”








 

 

Ma il tempo, il tempo chi me lo rende? Chi mi da indietro quelle stagioni di vetro e sabbia,
chi mi riprende la rabbia, il gesto, donne e canzoni, gli amici persi, i libri mangiati,
la gioia piana degli appetiti, l'arsura sana degli assetati, la fede cieca in poveri miti?
Come vedi tutto è usuale, solo che il tempo stringe la borsa e c'è il sospetto che sia triviale
l'affanno e l'ansimo dopo una corsa, l'ansia volgare del giorno dopo, la fine triste della partita,
il lento scorrere senza uno scopo di questa cosa che chiami vita.
Lettera – Francesco Guccini

 

 











Stavolta è finita per davvero. Spero di non avervi deluso troppo :)
Ringrazio infinitamente ale93, che ha commentato e che mi sostiene sempre.... e benedico il giorno in cui ci siamo conosciute! XD
Poi ringrazio tutti quelli che hanno messo mi piace e che hanno messo la storia tra i preferiti, ricordate e seguite. Grazie infinite!
E infine lascio i miei contatti:

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Un abbraccio

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