Just a shell of what I dreamed

di Franfiction6277
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5. ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. ***


                              Just a shell of what I dreamed



Penso che fossero appena passate le sei del mattino, quando lo vidi per la prima volta. Sì, ne ero certa. Ne ero certa perché avevano appena iniziato a portare le medicine, e Molly l’Invasata, come la chiamavo io, stava già pregustando la sua doppia razione di medicine spappola-cervello, come aveva richiesto un paio di giorni prima, ma non sapeva che le sue non erano vere e proprie medicine: erano qualcosa di molto simile alle Tic-Tac; impressionante come il nostro cervello si senta rassicurato e così anche il resto del nostro corpo.
Quando avevo chiesto del placebo al mio psichiatra personale, lui mi aveva semplicemente risposto che Molly era in uno stato terminale e che non aveva senso imbottirla di sedativi… ma quella non era la mia domanda.
Non ero particolarmente interessata a Molly a o qualsiasi altro paziente del Mental Health Hospital di Los Angeles, ma amavo osservarli tutti: ne conoscevo nomi, routine e comportamenti.
Il tipo misterioso, era impossibile non notarlo: indossava una canottiera nera aperta ai lati, che lasciava intravedere parecchi tatuaggi che non riuscivo minimamente a decifrare. Di certo non era una di quelle persone banali che si tatuano solo il simbolo dell’infinito, stelline o cuoricini: i suoi tatuaggi erano complessi, intricati, specialmente quello che aveva sul bicipite sinistro.
Come prima cosa, vedendolo entrare dalla porta aperta solo dall’esterno, notai che era senza dubbio un maschio alfa, con una di quelle aure virili che ti investono con prepotenza, quasi a farti comprendere immediatamente quale ruolo avesse nel mondo.
Non si girò nemmeno a guardare i vari pazienti seduti ai tavolini da colazione, sembrava avere una certa urgenza mentre si dirigeva a passi veloci verso il corridoio che portava agli uffici dei vari medici che seguivano i pazienti passo dopo passo nell’avanzamento della loro malattia.
Il Mental Health Hospital non si curava di guarire i propri pazienti, ma di capire piuttosto in che modo funzionasse il cervello umano e trovare un modo per prevenire gli esaurimenti nervosi, piuttosto che curarli; insomma, in breve eravamo delle cavie da laboratorio.
In quel momento, ragionando sulla mia condizione mentale, non riuscii a trovare una spiegazione logica sul motivo per cui mi trovassi in quella sottospecie di manicomio; ricordavo che semplicemente, a un certo punto, i miei genitori dissero che avrei dovuto farmi curare. Per cosa, vi chiederete? Beh, la mia diagnosi risultava una visione completamente diversa del mondo, e talvolta questo poteva recare danni a me stessa e agli altri.
Mi alzai dal mio posto, sistemai la mia lunga treccia in modo che cadesse su una spalla e seguii furtivamente il tipo misterioso e incredibilmente sexy (sì, in genere non mi andava di fare commenti superficiali) senza farmi notare. Alle 6 del mattino il corridoio era deserto, i dottori arrivavano sempre alle 8… tranne uno. Improvvisamente capii che l’uomo misterioso era venuto per il mio psichiatra personale.
Come avevo predetto, l’uomo si fermò proprio di fronte allo studio che immaginavo e bussò una volta sola, quasi non fosse entusiasta all’idea di trovarsi lì.
Guardò un attimo verso la mia direzione, ma io ero nascosta tra il corridoio che portava alle stanze dei pazienti e quello degli uffici dei dottori.
“Avanti” sentii dire da una voce familiare, terribilmente familiare.
L’uomo entrò e chiuse la porta dietro di sé, tagliandomi fuori.
Mi avvicinai a grandi passi verso la porta, intenzionata a origliare.
Non ero una persona che si faceva gli affari altrui, ma stavolta sentivo che c’era qualcosa di speciale, qualcosa che mi doveva portare a seguire la vicenda da vicino.
E poi non volevo che al mio psichiatra succedesse qualcosa, in fondo ero affezionata a quella strana creatura… strana anche secondo il mio concetto di “strano”.
“Sai di non avere altre possibilità, Shannon” disse il mio psichiatra. Ah, l’uomo misterioso si chiamava Shannon.
“Senti, non ce la faccio a passare dai demolition derby a questo. Per me è troppo” rispose Shannon, con una voce roca, decisamente da fumatore.
La mia bocca si inaridì improvvisamente, e inghiottii a vuoto, mentre delle sensazioni sconosciute si agitavano dentro di me. Avevo forse bisogno di qualche medicina extra? O di una seduta extra con lo psichiatra che non aveva la minima idea del mio origliare? Cosa diavolo mi stava succedendo?
“Lo so, ma cos’altro puoi fare? Non abbiamo abbastanza soldi, lo stipendio mi basta a malapena per mantenerci entrambi” disse il mio psichiatra.
“Non dovresti essere qui” esclamò qualcuno al mio fianco, con voce dura.
Trasalii, portandomi una mano alla bocca per non urlare per lo spavento.
“Tomo, dannazione a te” sbottai, pestando un piede per terra come una bambina a cui avevano tolto il suo giocattolo preferito.
“Stai zitto” continuai, indicando la porta chiusa.
“Come ti chiami oggi?” sbuffò il giovane infermiere del Mental Health Hospital e forse l’unico amico che avevo lì dentro.
“Christine” risposi distrattamente, cercando di ascoltare la conversazione che stava avvenendo oltre la porta chiusa.
“Christine” ripeté Tomo, sovrappensiero, come se stesse cercando di capire perché quel giorno avessi scelto quel nome. Non lo sapevo nemmeno io, francamente.
“Lo sai che se accetto, tratterò di merda tutti i pazienti, vero?” sentii dire a Shannon.
Sgranai gli occhi, pensando che qualcuno di maleducato avrebbe potuto smuovere l’apparente monotonia di quel manicomio. Molto interessante, non ero assolutamente spaventata all’idea che qualcuno mi trattasse male.
“Tu hai mai il desiderio di trattare di merda i pazienti?” chiesi a Tomo, guardandolo intensamente. Lui arrossì, schiarendosi la voce.
“No, direi di no” rispose, ma non aggiunse altro.
“D’accordo, accetto, ma sappi che la cosa non mi piace per niente” disse Shannon, e sentii il mio psichiatra sospirare con rassegnazione.
Appena sentimmo dei passi avvicinarsi alla porta, io e Tomo sobbalzammo; lo presi per il braccio e lo trascinai nell’angolo nascosto più vicino.
Shannon aprì la porta di scatto e camminò a grandi passi vicino a noi.
Si girò di scatto, forse sentendo il respiro di uno di noi, e mi guardò con espressione vuota che ad un tratto si accese di un flebile interesse, forse vedendo il mio sguardo da ebete. Tutto a un tratto realizzai che, nella foga della corsa, io e Tomo eravamo avvinghiati come se stessimo avendo qualche tresca.
Shannon guardò brevemente Tomo e sentii le mie guance arrossarsi, cosa che non mi era mai successa in tutta la mia miserabile vita.
Aveva gli occhi verdi, o dorati, o castani… stavo andando fuori di testa.
Ci sorrise come se avesse capito qualcosa che a noi sfuggiva e si diresse a grandi passi verso lo spogliatoio degli infermieri.
“Tomo, mi stai schiacciando una tetta col tuo braccio” sibilai, e lui si staccò di scatto da me, come se avessi preso improvvisamente fuoco.
“Ci vediamo dopo… Christine” disse lui, camminando verso lo spogliatoio degli infermieri e scuotendo la testa in continuazione, come se avesse qualche tic nervoso.
“Stavi ascoltando, non è così?” disse il mio psichiatra, appoggiandosi con nonchalance al muro vicino a me.
“Sì” risposi con la stessa disinvoltura, incrociando le braccia al petto in un gesto di sfida.
Lui sospirò e mi fece segno di entrare nel suo ufficio, senza dubbio per farmi un bel lavaggio del cervello mattutino; non vedevo l’ora.
Mi sedetti sulla solita chaise longue, con la schiena rivolta verso la scrivania del buon dottore, mentre lo sentivo prendere il registratore e sedersi.
“Dottor Jared Leto, psichiatra del Mental Health Hospital di Los Angeles, California. Sessione numero 6277 della paziente…”
Smisi di ascoltare in quel momento, il mio nome di battesimo non aveva importanza.
“Come ti chiami, oggi?” chiese il dottor Leto.
“Christine” risposi come avevo fatto prima con Tomo.
“Perché Christine?” chiese con tutta calma il mio psichiatra. La sua voce era così
bella, tanto per scherzare gli dicevo sempre che, se gli andava, poteva cantarmi una ninna nanna ogni notte; non mi sarebbe dispiaciuto affatto.
“Christine?” chiese il dottore, impaziente.
Improvvisamente mi ricordai perché quel giorno mi chiamassi Christine.
“C’è una canzone dei KISS, si intitola Christine Sixteen” risposi.
“Sai che non ti è permesso ascoltare musica qui dentro, vero?” chiese il dottor Leto, sarcastico.
“Lo so, ma Tomo è così fissato con la musica che mi infila le sue cuffiette a forza, ormai” ribattei, facendo spallucce.
“Chi è Tomo?” chiese sorpreso il mio psichiatra.
“Un infermiere” risposi pensando a quel bizzarro ragazzo dai capelli lunghi e neri, che era l’unico a calmarmi, dentro quella gabbia di matti.
“E che rapporti hai con Tomo?” continuò con insistenza Jared… un po’ troppa insistenza.
Mi alzai dalla chaise longue e mi girai a guardarlo in faccia: i suoi lunghissimi capelli ondulati e la barba incolta lo facevano sembrare un Gesù Cristo raffinato, in netto contrasto con il camice bianco immacolato che portava tutti i giorni.
Lui sostenne il mio sguardo, gli occhi azzurri che brillavano come fuoco immerso nel ghiaccio.
Lui non abbassava mai lo sguardo. MAI. Eri sempre tu ad avere la sensazione di essere studiata nel profondo e inevitabilmente abbassavi lo sguardo. Capivo perché fosse diventato uno psichiatra: vedeva cose che agli altri sfuggivano, ma non capii mai cosa ci facesse in quel buco di manicomio dimenticato da Dio.
Mi sedetti comodamente su una delle due poltrone di pelle nera di fronte alla scrivania e accavallai le gambe, senza distogliere lo sguardo dal suo.
Sapevo perché mi avevano affidata alle sue cure: lui sapeva tenermi testa come nessun altro avessi mai conosciuto prima.
“Sai che è vietato guardare in faccia il tuo dottore nel bel mezzo di una seduta” sospirò, ormai sconfitto dalla mia insistenza.
“Dottor Leto, lei sa meglio di me che le regole imposte da questo mondo non fanno per me” risposi, con un gesto sbrigativo del braccio.
“Lo so, ecco perché sei qui dentro: aver dato fuoco alla casa della tua professoressa di inglese perché non ti aveva messo il massimo dei voti in pagella è una spiegazione più che sufficiente sulla tua riluttanza a seguire le regole imposte dalla società” ribatté con un sorrisetto, come se non fosse per niente impressionato.
“L’ho fatto davvero?” chiesi, fingendomi sorpresa. L’avevo decisamente fatto.
Alzò gli occhi al cielo, aggrottando poi la fronte e scrivendo distrattamente sul suo diario.
Mi avvicinai alla scrivania, sporgendomi per leggere cosa avesse scritto.
Improvvisamente alzò lo sguardo, e notai che in quel momento eravamo vicini come non lo eravamo mai stati.
I suoi occhi erano quasi grigi, dipendeva dal modo in cui la luce lo catturava.
“Jared, dimenticavo che…” sentimmo dire da qualcuno, e ci girammo allo stesso tempo verso la porta.
Shannon ci guardava rigido, senza dubbio a disagio nella sua nuova divisa blu da infermiere.
Lo scollo a V della maglia lasciava intravedere le clavicole, il modo in cui i tatuaggi erano parzialmente nascosti mi attirava inevitabilmente, spingendomi a chiedere cosa ci fosse sotto.
“Oh, Shannon. Lei è Christine” si affrettò a dire Jared, presentandoci.
Io mi scostai bruscamente dal buon dottore, come risvegliata da una trance.
“Christine, a quanto pare ti piace stare a stretto contatto con gli uomini” disse ironicamente Shannon con un sorrisetto, riferendosi al malinteso con Tomo.
Per la prima volta nella mia vita non fui capace di replicare in maniera altrettanto ironica, perché era in quel modo che prendevo la mia vita… come un gioco.
“E a quanto pare a te non piacerà lavorare qui” surrurrai un momento dopo, non sapendo cos’altro dire.
Jared mi fulminò, sicuramente aveva paura che il fratello prendesse i bagagli e abbandonasse quel miserabile lavoro ancora prima di cominciare.
“Dottor Leto, abbiamo finito?” chiesi con nonchalance, avvicinandomi alla porta e di conseguenza a Shannon.
Aveva un profumo buonissimo, molto forte e virile, come un riflesso della sua personalità.
“Sì” rispose Jared, e allora avanzai a grandi passi verso l’uscita.
Nel momento in cui passai di fianco a Shannon, mi guardò intensamente negli occhi.
Mi costrinse a mettere un muro invalicabile tra me e lui, non permettevo a nessuno di leggermi dentro.
Chiusi la porta dietro di me, fermandomi per un secondo.
“C’è qualcosa di inquietante in quella ragazza, è come se fosse il guscio vuoto di una persona” sentii dire a Shannon.
Feci una risatina amara, avviandomi verso il corridoio.



Note dell'autrice:
Salve a tutti! Sono tornata con una nuova fanfiction, spero che stavolta l'esperimento vada a buon fine.
Grazie a coloro che recensiscono e anche a coloro che leggono e basta!
Al prossimo capitolo!
- Fran

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Capitolo 2
*** Capitolo 2. ***


"Sveglia!" sentii esclamare tra il sonno e la veglia, mentre la persiana della finestra della mia camera veniva brutalmente alzata, facendo penetrare improvvisamente la luce, che per poco non mi accecò.
"No, mamma, ancora cinque minuti" gemetti, strizzando gli occhi.
Sentii qualcuno sghignazzare, ma non sembrava una voce femminile... tutt'altro.
Aprii gli occhi di colpo, imprecando come mai prima d'ora.
"Cosa diavolo stai facendo?" sibilai a quell'uomo, quello che mi stava tormentando da quando era arrivato al Mental Healt Hospital, due settimane prima. Il fratello del mio psichiatra... Shannon.
La mia mente ripeté quel nome come un'imprecazione.
"Sono le sei, devi prendere l'ansiolitico" rispose lui, incrociando le braccia al petto e guardandomi con un sorriso beffardo.
"E dimmi, quando ti avrei dato il permesso di darmi del tu?" ribattei, comprendomi le gambe con la coperta, visto che avevo l'abitudine di dormire solo con una maglietta addosso.
"E a te, invece?" chiese lui, facendomi zittire all'istante. Dannato uomo, non riuscivo mai a prevalere su di lui.
"Sì, d'accordo" mugugnai, prendendo il bicchierino con le pastiglie dal vassoio che Shannon aveva posato sopra il comodino.
"Dopo che ti fai la doccia e fai colazione, ricordati che devi andare a lezione" mi informò Shannon, e io feci una smorfia disgustata: non mi piaceva andare a scuola quando ero normale, figuriamoci dentro questo manicomio abbandonato da Dio.
"A te piaceva andare a scuola?" chiesi improvvisamente a Shannon, guardandolo incuriosita.
Lui inarcò le sopracciglia, sorpreso dalla mia domanda.
"No, lo odiavo. Mi sentivo in prigione, ho sempre amato la libertà" rispose, rabbuiandosi leggermente.
"E allora perché sei qui?" chiesi sorpresa, riferendomi agli orari decisamente sfiancanti degli infermieri.
"Meglio questa prigione che una definitiva" sussurrò, più a se stesso che a me.
Prima che gli chiedessi un'ulteriore spiegazione, lui alzò una mano per impedirmelo.
"Sei in ritardo" disse solamente.
"Fuori, devo cambiarmi" ribattei, ancora punta sul vivo per essere stata zittita dal novellino Leto.
Lui mi sorrise un po' maliziosamente, come per dire: "Ma devo proprio?".
"FUORI!" esclamai, stringendo i pugni, rossa in viso.
La sua risata risuonò per tutto il corridoio.
Andai a fare colazione, leggermente intontita dagli ansiolitici presi mezz'ora prima.
"Bella cravatta" disse Tomo, che come al solito provvedeva a portarmi la colazione ogni mattina.
"Grazie" risposi: indossavo un gilet nero con una cravatta a strisce nere e rosse con una camicia anch'essa nera. Ero una patita del nero, il nero era il riflesso della mia vita.
"Mi ricordi un cantante di una band, si chiama Gerard Way" rifletté Tomo.
"Sai che non ho la più pallida idea di chi tu stia parlando", risposi, dato che era proibito ascoltare musica.
Il motivo era semplice: la musica scatenava emozioni forti, mi disse il mio psichiatria, e le emozioni forti possono esserlo nel bene e nel male quindi, per non alterare l'equilibrio che il cervello di una persona malata ha già pericolosamente in bilico, la musica non era ammessa all'interno di questo manicomio.
"...però potrei comunque farti ascoltare qualcosa" continuò Tomo, facendomi illuminare.
Adoravo la musica che mi faceva ascoltare di nascosto, era così piena di sensazioni.
"Hai finito di mangiare?" chiese una voce alle spalle di Tomo, che ci fece sobbalzare entrambi.
"Ehi, Shannon" lo salutò Tomo.
"Ehi, Mofo" rispose lui, dandogli una pacca sulla spalla.
La cosa mi sorprese parecchio, non avevo mai visto due infermieri stringere amicizia come loro.
C'era qualcosa tra quei due, come se stessero giocando a un gioco di cui solo loro comprendevano le regole e nessun altro vi era ammesso.
Nella mia mente risuonò una voce familiare, una voce che conoscevo da tutta la vita e che mi faceva male come un pugno allo stomaco:"Sei solo una povera pazza, non voglio mai più vederti in tutta la mia vita".
"Non ho finito" risposi, acidamente. Vederli così aveva risvegliato in me qualcosa che volevo rimanesse assopito.
Entrambi mi guardarono leggermente sorpresi: Christine era sempre quella indifferente.
No, quel giorno mi chiamavo Layla.
Non sapevo perché, ma Christine mi era rimasto impresso come nessun altro nome inventato prima d'ora.
Shannon si sedette di fronte a me, i muscoli delle sue braccia che si contraevano mentre le incrociava al petto. Tomo era sparito, come al solito.
Cercai di non guardarlo, mentre con una minuziosità quasi maniacale dosavo il caffè da versare nel latte.
"Non esagerare col caffè" mi riprese, mettendo una mano sulla mia. Quel contatto mi si riverberò in tutto il corpo, nessuno mi toccava mai.
Tirai via la sua mano come se mi stesse scottando, ma lui non si offese: sapeva che odiavo essere toccata.
Sapeva tutto di me, lo leggevo nei suoi occhi. Non ne rimasi sorpresa, d'altronde suo fratello era il mio psichiatra. La cosa che mi sorprese fu il fatto che non me la presi perché in qualche modo volevo che mi conoscesse, che mi considerasse speciale, diversa da tutti gli altri pazienti.
"Sbrigati a bere il latte... Jared mi ucciderà" sospirò, guardando l'orologio sopra il camino di fronte a noi.
Automaticamente portai la tazza alla bocca, mentre lo guardavo attentamente: il modo in cui la divisa azzurra si tendeva a contatto con i suoi muscoli, i tatuaggi, la piega del collo, la mascella, l'accenno di barba, le labbra piene, il naso sproporzionato rispetto al viso ma che in qualche modo non sfigurava. Lasciai gli occhi per ultimi, certa che sostenere il suo sguardo mi avrebbe fatto arrossire: quel giorno erano verdi, di quel verde scuro assolutamente affascinante.
Il respiro mi si bloccò quando notai che mi fissava incuriosito.
Lasciai la tazza ancora mezza piena e mi alzai in piedi, dirigendomi verso l'aula dove sapevo che si sarebbero tenute le lezioni.
Shannon mi seguì silenziosamente, senza nemmeno stuzzicarmi come faceva sempre.
La lezione era già iniziata, quando aprii la porta dell'aula. Rimasi sorpresa dal fatto che quel giorno ci fosse il dottor Leto come insegnante. I suoi occhi azzurri mi sondarono come al solito, e con noncuranza andai a sedermi al mio solito banco, un banco per due il cui secondo posto era sempre vuoto.
Mi accorsi solo in quel momento che mi ero scordata di portare un quaderno e una penna.
Feci per alzarmi, ma Shannon mi trattenne giù. Mi aveva seguita fino al mio banco?
"Ci penso io" disse, correndo fuori dall'aula e tornando a tempo di record.
Mi porse un quaderno e la mia penna preferita, quella grossa con inchiostri di diversi colori, e si mise silenziosamente in piedi in fondo all'aula, mentre Jared parlava di non so cosa, di un antico manoscritto chiamato Argus Apocraphex.
Mi misi a disegnare un occhio, un occhio grande con delle ciglia lunghe e delle sopracciglia arcuate e... strappai all'improvviso il foglio, facendolo in mille pezzi.
Tutti si fermarono a guardarmi, sorpresi dal baccano e dalla mia furia.
"Beh, non siamo forse in un manicomio? Non abbiamo tutti il diritto di sclerare?" sbraitai, e sentii Shannon trattenere una risata dietro di me.
"È un istituto di igiene mentale" mi rimproverò Jared, appoggiando le mani sopra la cattedra.
"Si è svegliata così stamattina, dottor Leto" lo informò Shannon: anche se erano fratelli, sul posto di lavoro mantenevano comunque una certa professionalità.
Jared annuì, comprendendo che non era proprio giornata.
"Dopo vieni nel mio ufficio..." si interruppe, chiedendomi tacitamente che nome avessi scelto quel giorno.
"Layla" lo informai.
"Io preferisco Christine" sussurrò Shannon tra sé.
"Nessuno qui ha chiesto il tuo parere, infermiere Leto" dissi, senza nemmeno girarmi, ma dentro di me stavo sorridendo.
Lui sbuffò, ma non raccolse la provocazione.
Dopo la lezione del dottor Leto, di cui non avevo ascoltato nemmeno mezza parola, Shannon mi accompagnò al salone generale in cui tutti erano immersi in varie attività, tra cui disegno, cucito, TV, le attività che rilassavano ognuno dei pazienti.
"Torno a prenderti tra mezz'ora per andare nello studio di Jared" mi informò Shannon.
Sbuffai e lui scosse bonariamente la testa, lasciandomi perdere.
Giocai con la mia treccia, aspettando che Shannon tornasse.
"Ehi, ragazzina" mi chiamò Molly, interrompendo la sua attività preferita: urlare agli infermieri che voleva una doppia dose di medicinali e, quando non le rispondevano, urlagli insulti.
"Sì?" chiesi. Con lei non si poteva essere arrabbiati, mai. Poteva saltarti addosso e spezzarti qualche arto, se non stavi attento.
"Sei troppo giovane per essere qui" mi disse come faceva ogni giorno, e io alzai gli occhi al cielo.
"Lo so, Molly" sospirai.
"E allora perché sei qui?" chiese.
"E tu perché sei qui?" chiesi a mia volta.
"Mio marito. Mi aveva tradita. Lo amavo così tanto..." rispose, e capii che per amore non si poteva di certo morire, ma impazzire sì.
"Pronta?" chiese Shannon dietro di me, apparendo improvvisamente.
Sobbalzai per la seconda volta nel giro di un paio d'ore, a sentire la sua voce roca.
"Shannon!" esclamò Molly, improvvisamente adorante.
Cosa diavolo stava succedendo? Non le avevo mai sentito usare quel tono.
"Salve, signora Williams" la salutò Shannon, con un sorriso smagliante.
Lo guardai con sguardo inquisitorio: a che gioco stava giocando?
"Sei proprio un caro ragazzo. E pure bello. Non lo trovi bello, ragazzina?" mi chiese Molly, e arrossii violentemente.
"Troppo gentile, signora Williams" rispose Shannon con una risata, facendomi alzare dolcemente ma con insistenza dalla sedia.
"Ti ho già detto di non toccarmi" sibilai, perché il mio cuore stava già battendo all'impazzata per la sua sola presenza.
Shannon alzò gli occhi al cielo, facendomi strada verso lo studio di Jared.
"Stai sempre a toccarmi, non rispetti i miei spazi, li invadi sempre, te ne freghi di quello che vogliono gli altri, non badi alle loro debolezze, sei il peggior infermiere che... mmm..." venni interrotta da Shannon che mi baciò profondamente.
Gemetti nella sua bocca, a occhi spalancati, mentre lui continuava la sua quasi brutale invasione.
Le sue labbra erano così morbide, ardenti e... cosa?
Mi staccai improvvisamente, spingendolo via da me.
"Cosa diavolo stai facendo?" gridai, furiosa.
Le guance di Shannon erano leggermente arrossate, mentre le mie probabilmente stavano andando a fuoco.
"Almeno hai smesso di parlare" rispose, semplicemente.
Cosa? Come si permetteva? Che razza di infermiere assurdo.
"Brutto stronzo" sibilai, dandogli uno schiaffo.
Il suo viso si girò dall'altra parte, talmente il colpo era stato forte. Quasi quasi mi dispiacque... quasi.
"Cosa sta succedendo qui?" chiese Jared, alle nostre spalle.
Oh, no.

Note dell'autrice:
Prima di tutto mi scuso tantissimo per l'infinita attesa, ma ho avuto dei problemi a partorire questo secondo capitolo per via dei problemi che i Mars ci stanno un po' dando in questo periodo. Confido di riuscire a scrivere il terzo capitolo entro una settimana! Grazie a tutti coloro che stanno seguendo e supportando questa storia!
- Fran

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Capitolo 3
*** Capitolo 3. ***



"Che cosa sta succedendo qui?" ripeté Jared, con voce irritata.
Io e Shannon eravamo immobilizzati, ma Jared sapeva che cosa era successo pochi secondi prima. Forse era addirittura riuscito ad assistere a tutta la scena, visto il baccano che stavo facendo mentre urlavo contro Shannon.
"Forza" sospirò Jared, indicandomi il suo ufficio con un gesto sbrigativo del braccio.
Entrai senza dire una parola, mentre guardavo Shannon con la coda dell'occhio: i suoi occhi erano luminosi di rabbia, la sua guancia ancora rossa nel punto in cui l'avevo colpito.
Sentii la porta chiudersi dietro di me, e come al solito mi sedetti di fronte alla scrivania del buon dottore, che sicuramente in quel momento non era poi così buono.
"Allora?" chiese con la sua voce melodiosa.
"Sa che potrebbe fare tranquillamente il cantante?" dissi di getto, anche se l'argomento non era decisamente quello.
Jared sbuffò dalle narici, mentre chiudeva gli occhi e si toccava la base del naso con le dita.
"Ok, lei sa già cosa sia successo là fuori" continuai, e lui riaprì gli occhi, quasi grigi come una tempesta.
"Lo so molto bene, Layla" rispose, prendendo il suo taccuino e scrivendo il mio nuovo nome tra gli appunti.
"Sai, non sono sorpreso. D'altronde mio fratello è un donnaiolo fatto e finito" continuò, guardandomi.
"Che bella opinione che ha di suo fratello" ridacchiai maliziosamente, senza fargli notare quanto quell'informazione mi avesse colpita nel profondo.
"Io so quello che sono, e so anche quello che è mio fratello, e so che non ha mai avuto una relazione seria in tutta la sua vita" ribatté.
"Forse si potrebbe dire lo stesso di lei, visto che nessuna ragazza ha mai interrotto le nostre conversazioni, a parte sua madre... Constance" ricordai dopo un momento.
Jared sgranò gli occhi, stringendo la penna quasi fino a spezzarla.
"Non sono affari tuoi" balbettò, abbassando lo sguardo verso il suo diario pieno di appunti.
Intravidi la data di quel giorno: 30 Agosto 2001.
Da quanto tempo ero lì dentro e per quanto tempo vi sarei rimasta?
"...dovremo prendere serie misure cautelari. Mi stai ascoltando?" borbottò il buon dottore, fulminandomi con i suoi occhi azzurri che potevano diventare glaciali.
"Mi scusi" farfugliai, ma in realtà non ero affatto spiacente.
"I rapporti tra pazienti e personale sono fermamente proibiti, lo capisci?" mormorò, come se fosse una frase che stava ripetendo per l'ennesima volta, a memoria.
Arrossii al ricordo di quel bacio impetuoso con Shannon.
"Abbiamo finito?" replicai, senza rispondere alla sua affermazione.
"Sì" sospirò, sconfitto ma al contempo irritato.
Mi alzai in tutta fretta, uscendo dall'ufficio prima che il dottor Leto potesse rispondermi per l'ennesima volta.
Voltai di riflesso la testa verso la stanza in cui gli infermieri si cambiavano quando arrivavano o dovevano andarsene via, e vidi qualcosa che mi lasciò a bocca aperta: Shannon era girato di schiena, e proprio in quel momento si stava togliendo la parte superiore della divisa, incurante del pubblico che stava assistendo.
La sua schiena era ampia, forte, ogni muscolo si tendeva al suo minimo movimento, e in quel momento mi sentii andare completamente a fuoco.
Mi misi una mano sulla bocca e sussurrai una preghiera.
Non so cosa lo avesse fatto voltare, forse non ero così silenziosa come credevo, fatto sta che in quel preciso momento mi ritrovai i suoi occhi magnetici addosso, verdi con delle pagliuzze dorate.
La sua espressione inizialmente indecifrabile lasciò il posto a un'espressione maliziosa, che mi fece comprendere quanto in realtà fosse consapevole della reazione del sesso femminile alla sua vista.
"Se vuoi guardarmi più spesso, basta chiedere" disse con un tono beffardo.
Arrossii violentemente, balbettando cose senza senso.
"Stronzo" borbottai, e sentii la sua risata risuonare per tutto il corridoio.

Ore 17:00.
Quel pomeriggio riuscii per la prima volta a uscire alla luce del sole dopo chissà quanto tempo, e venni subito colpita dal caldo afoso di Los Angeles, di cui non ricordavo nemmeno l'esistenza.
Il sole in generale era piacevole, così mi sedetti su una panchina e respirai quell'aria pulita di campagna a occhi chiusi.
Un ricordo mi investì con prepotenza prima che potessi evitarlo.
"Ehi, vieni a giocare con noi?" chiese una ragazzina: era bionda, con degli occhi azzurri limpidi, veramente bella.
"Non posso, devo studiare matematica" balbettai, giocando con la mia treccia appoggiata su una spalla.
La ragazzina con un viso angelico si trasformò improvvisamente in un essere diabolico.
"Nessuno dice di no a Natalie" sibilò, voltandomi le spalle con aria stizzita.
"Io non sono nessuno" risposi, con un sorrisetto soddisfatto per il duplice senso di quella frase.
"Tu sei solo una povera pazza, lo sanno tutti qui a scuola. Tutti ti odiano, persino i tuoi genitori. Ti porteranno in un manicomio, sì sì" ridacchiò.
Venni bruscamente risvegliata da quel ricordo a causa del rombo di una moto che si stava fermando proprio di fronte alla mia panchina.
Mi alzai di scatto, spaventata dalla figura nascosta da un casco con visiera oscurata.
Quel fisico mi era familiare.
Quando il conducente si tolse il casco, per poco non svenni.
"Shannon, cosa diamine ci fai qui? Il tuo turno è finito 5 ore fa" sibilai.
Non poteva lasciarmi in pace par almeno qualche ora?
"Lo so, ma ho saputo che avevi fatto richiesta per uscire in cortile, e non potevo perdermi lo spettacolo" rispose malizioso, squadrandomi da testa a piedi.
"Sai, sei molto meglio alla luce del sole" continuò soddisfatto, come se già sapesse che sarebbe stato così.
Notò il mio sguardo turbato e si rabbuiò.
"Va tutto bene?" chiese, scendendo dalla moto.
Annuii automaticamente, ma in realtà niente andava bene.
Quel ricordo, assieme a tanti altri, si stavano facendo strada dentro di me, ricordi che avrei voluto solo cancellare per sempre.
"Senti, io... mi dispiace per ciò che è successo stamattina. È stato un terribile sbaglio baciarti. Mi dispiace davvero" sussurrò.
Uno sbaglio? Per lui era stato uno sbaglio? Il mio stomaco si contorse improvvisamente per il dolore.
"Scuse accettate" replicai con decisione, nonostante dentro di me ci fosse la devastazione più assoluta.
"Bene" disse, facendo uno dei suoi sorrisi calorosi, come se avesse a che fare con una bambina.
Strinsi i pugni, ripetendomi di controllarmi.
"Sì" borbottai, mettendo a tacere quella discussione una volta per tutte.
"Layla, sono le 18. Devi venire a cena" mi urlò Tomo dalla porta di ingresso dell'istituto, e Shannon si irrigidì di fronte a me.
"Vai, ci vediamo domani" mi disse, sedendosi sulla moto e preparandosi per andarsene via.
Quanto avrei voluto sedermi con lui, andare via, lontano dai miei fantasmi del passato, talmente veloci da non poterci raggiungere.
Quando si mise il casco, fu come se avessi di fronte a me un uomo sconosciuto.
Di riflesso mi avvicinai e gli alzai la visiera per guardarlo negli occhi: mi restituì uno sguardo confuso.
"Promettimelo" sussurrai, con voce rotta per il pianto trattenuto a fatica.
"Che cosa?" mi chiese sorpreso.
"Promettimi che un giorno mi porterai a fare un giro" replicai.
"Promettimi che mi porterai fuori di qui", era la mia domanda inespressa.
Il suo sguardo si fece caldo, quasi più del sole che in quel momento rendeva i suoi occhi dorati.
La sua mano si posò sulla mia guancia, dove una ciocca di capelli era sfuggita dalla treccia. Me la mise dietro l'orecchio, facendomi avvampare.
"Te lo prometto, Christine" rispose, come se intendesse davvero farlo.
Ricacciai giù il nodo in gola che avevo, distogliendo lo sguardo dal suo bellissimo viso e correndo verso l'istituto, verso il mio inferno personale, verso il mio rifugio, lasciandomi alle spalle il paradiso, che mi scrutava anch'egli con sguardo tormentato.


Note dell'autrice:
Chiedo ancora una volta umilmente scusa, ma purtroppo la mia ispirazioni ha i suoi tempi e preferisco aspettare piuttosto che scrivere cose pessime. Grazie come al solito a coloro che recensiscono e anche a coloro che leggono! Alla prossima!
- Fran

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Capitolo 4
*** Capitolo 4. ***


Shannon's POV.

Promettimelo.
Promettimelo.

"Shannon, svegliati" sentii mugugnare qualcuno.
Mmm, capelli neri, una treccia, occhi insondabili...
Aprii gli occhi di scatto, ma la mia vista non venne soddisfatta da ciò che speravo.
Una ragazza bionda e con gli occhi azzurri mi fissava con malcelata irritazione, come se avessi disturbato il suo sonno o qualcosa del genere.
"Quella maledetta sveglia sta suonando da 10 minuti. Chi diavolo si alza alle 4:30 del mattino?" borbottò Mary... no, si chiamava Nina... oppure Jean?
Mi misi seduto sul letto, ancora intontito dalla voce di Christine che mi supplicava di prometterle che l'avrei portata via in moto.
Erano passate due settimane da quello strano episodio, ma io sognavo ogni notte la sua voce che mi supplicava.
Sentii delle mani scorrere per la mia schiena, e rabbrividii per il fastidio.
Mi alzai dal letto, interrompendo quel contatto.
"Dai, Shannon, resta ancora un po' con me" piagnucolò la ragazza sdraiata sul mio letto.
"Devo andare a lavorare" borbottai, con un tono più duro di quello che intendessi usare.
D'altronde che colpa poteva avere una semplice ragazza che avevo abbordato in un bar la sera prima? In quel momento mi pareva un'idea fantastica.
"Vai a casa" continuai, entrando in bagno per farmi una doccia. Ero già in ritardo per andare al lavoro.
Mi lavai e mi vestii con gesti meccanici, rassicurato dal fatto che non odorassi più di sesso e di quello schifoso profumo da puttana.
Perché poi mi lamentassi, ancora non l'avevo capito: ero io che andavo a sbronzarmi e a rimorchiare una ragazza diversa ogni notte, no? Eppure ultimamente lo trovato più sbagliato del solito, anche senza che mio fratello Jared mi facesse la paternale.
Sapevo che in qualche modo c'era di mezzo il pensiero di Christine, e non perché la volessi o qualcosa del genere... beh, in realtà la volevo, ma nel modo in cui desideravo qualsiasi ragazza attraente e lei lo era di certo, dannazione.
Ma lei non era una ragazza da scopare, era una ragazza da non toccare, nemmeno con un dito.
Lei era malata, non era internata al Mental Health Hospital per gioco.
Mio fratello me lo diceva sempre, mi aveva parlato di lei già da prima che potessi conoscerla di persona, e sapevo che aveva avuto dei problemi gravi con la sua famiglia e con la società in generale.
Eppure era così bella, mi sorprendeva il fatto che non avesse mai avuto amici o un'adolescenza normale.
Questa curiosità mi spingeva verso di lei, mi attirava inevitabilmente verso di lei come una calamita, ed era una cosa che detestavo.
Scuotendo la testa, mi accorsi che avevo già preparato il caffè sovrappensiero e che mio fratello era seduto sul tavolo di cucina dietro di me.
"A cosa stai pensando?" mi chiese con malcelata curiosità, e sapeva già la risposta.
"A niente in particolare, non tentare di psicoanalizzarmi come fai con ogni persona che ti capita a tiro" borbottai.
Cristo santo, ero veramente di pessimo umore.
"Sai che devi stare lontano da lei, non è una di quelle bamboline che puoi usare a tuo piacimento" ribatté, tremendamente serio.
Mi irrigidii, pensando che Christine era davvero fuori dalla mia portata, dalla portata di chiunque.
Ciò che non sapevo era che in quel momento Jared mi stava nascondendo un sacco di cose, un sacco di cose che non poteva rivelarmi per via del segreto professionale, o che forse non intendeva rivelarmi perché anche lui ormai c'era dentro fino al collo.
"Vi ho visti quel giorno, fuori" continuò, senza che ci fosse bisogno di aggiungere altro.
"E allora?" ribattei, punto sul vivo.
"Le hai sfiorato una guancia come se foste... amanti" disse, inclinando la testa di lato: quel giorno aveva raccolto i capelli in una coda perfetta. Lui e le sue manie di perfezione.
"Non dire cazzate, siamo solo amici" risposi, sbattendo la tazza vuota del caffè dentro il lavello.
"Shannon, non puoi averla. Mi hai capito?" sibilò, alzandosi e mettendosi di fronte a me.
Era più alto di un paio di centimetri, ma la sua espressione fredda non mi aveva mai intimorito.
"Devo andare a lavorare, sono in ritardo" replicai, spostandolo con una manata sul petto.
Lui indietreggiò per la forza di quel gesto, ma mi lasciò passare.
Salii sulla moto, mi misi il casco e partii a tutta velocità fra le strade deserte di Los Angeles.
120, 140, 160 km/h.
Arrivai all'istituto molto prima dell'inizio del mio turno, cosa che accadeva spesso, per cui nessuno mi disse niente quando entrai nella stanza in cui gli infermieri erano soliti cambiarsi.
Andai dritto al mio armadietto senza salutare nessuno, altra cosa a cui tutti erano abituati.
L'unico infermiere con cui avevo stretto un legame era Tomo Milicevic, che sarebbe arrivato a momenti, visto che casualmente avevamo sempre gli stessi turni.
Mi misi la divisa senza guardare nessuno, intrappolato in quel cazzo di lavoro che non volevo fare, per l'ennesima volta.
Ma ammetto che quel lavoro aveva i suoi pro, era un lavoro abbastanza tranquillo, a parte quando...
"Hai saputo? Stanotte ha avuto una crisi" disse Greg, entrando nella stanza.
... appunto. Aguzzai l'udito, fingendo di cercare qualcosa dentro  il mio armadietto.
"Sì, è stato assurdo: ho visto Mark e Jim cercare di fermarla, ma scalciava come una bestia. Supplicava che qualcuno la portasse via di qui. Come se potesse andarsene: è uno dei casi più gravi, qui" rispose Bob, con una risatina nervosa.
Mi irrigidii e sgranai gli occhi, capendo immediatamente a chi si riferissero.
Mi misi le pantofole da infermiere e corsi fuori, senza far caso alle loro occhiate perplesse.
Corsi a perdifiato per tutto il corridoio, raggiungendo in un baleno la SUA stanza.
Dal vetro vidi che era distesa supina, bianca come un cencio, con la coperta fino al mento, e aveva delle occhiaie spaventose.
Entrai silenziosamente, chiudendo la porta dietro di me.
Dannazione, avrei dovuto almeno portare le sue medicine... cosa avrebbe pensato, se mi avesse trovato lì a fissarla?
Mi inginocchiai di fronte al suo letto, con il suo viso a pochi centimetri dal mio.
Le accarezzai piano i capelli: erano tutti scompigliati, sicuramente a causa del fatto che aveva tentato di lottare contro gli infermieri.
Le sue mani erano piene di cicatrici, sapevo che le iniezioni che le facevano per prendere delle fialette di sangue avevano effetto solo sulle mani, visto che le vene delle sue braccia non davano sangue.
"Mi dispiace così tanto di non esserci stato" sussurrai, più a me stesso che a lei.
Le sue palpebre tremolarono, e mi alzai, temendo che si svegliasse all'improvviso.
In quel momento era sotto sedativi, probabilmente sarebbe rimasta intontita per tutto il giorno.
Andai a prendere le sue medicine delle 6, e notai che Tomo era entrato proprio in quel momento: i suoi capelli lunghi fino alle spalle nascondevano molto bene le sue cuffie, che fu costretto a togliersi appena varcò la soglia dell'istituto.
"Ciao" lo salutai, correndo di nuovo verso la camera di Christine.
"Ciao, Shan" rispose, perplesso dalla mia fretta.
Posai il vassoio con le medicine sopra il suo comodino, e lei scelse proprio quel momento per svegliarsi. Sospirai di sollievo.
"Ho sentito che hai fatto arrabbiare Mark e Jim" dissi beffardo.
"Sono loro che mi hanno fatto arrabbiare: volevano che non uscissi in giardino senza permesso. Roba da matti" rispose, sbadigliando.
Risi: era sempre la solita testarda che infrangeva le regole.
"Tieni" le porsi le medicine, e lei le mandò giù senza dire una parola.
"Ho annullato i tuoi programmi scolastici di oggi, penso che farai meglio a riposarti. Ti hanno dato dei sedativi, e a quanto vedo anche forti. Sei stata una bambina cattiva" dissi, guardandola con un sorriso sghembo.
Lei arrossì, e la cosa mi divertì più di quanto avrebbe dovuto farlo.
L'avevo vista guardarmi la schiena con aria attonita, un giorno: la sua attrazione verso di me era innegabile.
La cosa era reciproca, solo che io ero più bravo a nasconderlo.
"Stai cercando di impedire la mia istruzione?" ribatté divertita, slegandosi i capelli, che ricaddero in onde nere attorno al suo collo.
La mia bocca si inaridì di colpo, e la voglia di toccare quelle onde soffici si fece violentemente strada dentro di me.
La vidi ansimante, sotto di me, con il viso rosso e gli occhi socchiusi.
"Solo per oggi, promesso. Poi potrai ammazzarti con lezioni su Shakespeare e tutte quelle cavolate poetiche" risposi, schiarendomi la gola.
"Non sono cavolate" rise lei, intrecciando i suoi capelli, che come al solito ricaddero da una parte.
Mi ricordava Lara Croft, in qualche modo, con quella grossa treccia perfetta.
"Perché non li lasci slegati, qualche volta?" le chiesi, prima che potessi trattenermi.
Lei si irrigidì alla mia domanda, mentre qualche brutto ricordo si faceva strada dentro di lei e i suoi diventavano vitrei.
Corsi immediatamente di fronte a lei, inginocchionandomi per averla all'altezza dei miei occhi.
"Mi dispiace, mi dispiace davvero. Non volevo" sussurrai, intrecciando le mie mani alle sue: erano così fredde, come se le avesse immerse in un congelatore.
I suoi occhi mi misero di nuovo a fuoco, e in quegli occhi vidi un dolore che non avevo mai visto negli occhi di nessun altro.
"Va tutto bene, stupido" ridacchiò, dandomi un buffetto sul braccio e alzandosi dal letto.
"Andiamo a farci un giro fuori, ti va?" chiesi, sapendo che non avrebbe mai rifiutato. E invece...
"No, oggi preferirei stare dentro" rispose, spingendomi fuori dalla porta perché doveva cambiarsi.
Se rifiutava un giro fuori, la cosa doveva essere più grave di quanto pensassi.
Mentre camminavo per il corridoio, andando in cucina per iniziare a distribuire la colazione, incrociai mio fratello, che stava entrando proprio in quel momento.
Non ci rivolgemmo la parola, arrabbiati entrambi per la piccola discussione che avevamo avuto di mattina presto.
Tomo si avvicinò per prendere dei vassoi, e dal suo sguardo desolato capii che aveva saputo della crisi notturna di Christine.
"Sta bene, sono andato a controllarla proprio poco fa" lo rassicurai, e il suo sguardo si illuminò di nuovo.
Sapevo che era stato per tanto tempo l'unico amico di Christine, prima che entrassi a lavorare io.
Lui era il suo fornitore ufficiale di musica illegale, così lo chiamava lei.
Forse anche io avrei potuto procurarle un po' di musica: Led Zeppelin, Pink Floyd, KISS.
Presi anch'io un vassoio, e Christine entrò nel soggiorno proprio in quel momento, con un paio di jeans stretti e una felpa più grande non so di quante taglie rispetto alla sua.
Tentava sempre di nascondere le sue curve, come se non si piacesse.
Non si truccava mai, anche se non ne aveva bisogno: chi l'avrebbe notata lì dentro?
Presi il vassoio con la sua colazione e lo posai di fronte a lei: caffellatte, biscotti, una bustina di zucchero.
"Siediti" borbottò sovrappensiero, senza guardarmi.
La accontentai, sedendomi di fronte a lei e incrociando le braccia al petto.
"Ti disegno" mi spiegò, prendendo l'albo e la matita che ormai erano un prolungamento del suo braccio.
Mi schiarii la gola, improvvisamente imbarazzato.
"Non dovresti mangiare, prima?" le chiesi, indicando con un gesto sbrigativo il suo vassoio ancora pieno.
"Lo farò mentre ti disegno. E adesso zitto" rispose, con un sorrisetto impertinente.
Sbuffai e rimasi a fissarla mentre mi disegnava: aveva la testa inclinata di lato, come se mi stesso studiando attentamente.
Oh, dannazione.
"Senti, ho un sacco di lavoro da fare" mentii, cercando di alzarmi.
Lei mi prese per un braccio, stringendolo dolcemente, e mi spinse di nuovo verso la sedia.
Come potevo dirle di no?
Passò non so quanto tempo, ma mi tranquillizzai vedendo che almeno mangiava sovrappensiero mentre mi disegnava.
Cosa c'era di così pazzesco in me, da averle fatto venire voglia di disegnarmi?
"Finito" esclamò entusiasta, e girò l'albo verso di me.
Era... stupendo. Ero io, in tutti i dettagli più minuziosi.
Aveva sottolineato persino i miei tatuaggio, marcandoli come se le piacessero.
Avevo uno sguardo imbronciato, e sapevo che aveva colto la parte di me che predominava quel giorno.
Capii che mi trovava bello, lo capii dal modo in cui le sue dita erano andate a sottolineare l'ombra delle mie ciglia, la forma delle mie sopracciglia, la curva del mio collo.
"Sei brava" riflettei: non era brava, la sua mano era quella di Dio.
"Grazie" rispose soddisfatta, poi mise con cura il ritratto nell'albo per non sciuparlo.
"Hai intenzione di tenertelo tu?" chiesi imbarazzato, alzandomi.
"Certo... su qualcuno dovrò pur sbavare" rispose divertita, e rimasi a bocca aperta.
Scoppiai a ridere, cercando di prenderle l'albo, mentre lei ridacchiava e mi diceva di smetterla.
Le avvolsi le braccia attorno alla vita, cercando di farle il solletico, e il suo sguardo incrociò il mio.
Oh, merda. La volevo.
"Shannon! Nel mio ufficio!" esclamò Jared, furioso.
Lo sapevo, lo sapevo.


Note dell'autrice:
HA, questa volta sono riuscita a scrivere un altro capitolo in 5 giorni, sono fiera di me stessa!
Spero che l'aver cambiato il punto di vista non vi abbia scosso troppo, ma direi che per me è stato un piacere entrare nella testa di Shannon per un po'.
Alla prossima!
- Fran

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Capitolo 5
*** Capitolo 5. ***


SLAM.
La porta dell'ufficio di mio fratello si chiuse con un rumore fortissimo.
No, era la mia schiena che sbatteva violentemente contro di essa.
"Cosa credi di fare, fratello?" chiese Jared, le sue mani che strattonavano rudemente il colletto della mia divisa.
I suoi occhi mi fissavano glaciali, ma allo stesso tempo bruciavano, bruciavano di rabbia.
"Lasciami andare, fratellino" risposi con calma, tergiversando.
Lui obbedì quasi immediatamente e andò a sedersi alla scrivania, strattonando con violenza i documenti che teneva lì sopra, un vero e proprio casino.
Era sempre stato disordinato, come se gli oggetti che lo circondavano fossero un riflesso del casino che c'era dentro la sua testa.
"Tu credi che sia tutto un maledetto gioco, non è vero? Che lei possa diventare la tua bambolina personale e che poi possa liberartene quando vuoi, come un giocattolino vecchio con cui non piace più giocare" sibilò Jared.
Strinsi i pugni contro i fianchi così forte che pensai le ossa avrebbero perforato la mia pelle.
Perché doveva sempre umiliarmi in questo modo, accennando alla mia poca serietà in fatto di relazioni con le donne?
Christine non era un giocattolo, non volevo che si rivolgesse a lei in questi termini.
In un lampo di lucidità però pensai che d'altronde era così che trattavo le donne, io le usavo e loro usavano me, uno scambio mutuo e soddisfacente per entrambe le posizioni.
Ma avevo mai rimandato qualcuna di loro a casa in lacrime?
Mi tornò in mente Angela, che voleva una relazione che io in passato non potevo offrirle: ero succube della droga, lei era la mia sola amante e pensai che le sarei stato fedele finché avessi avuto vita.
Non pensavo ci potesse essere una vita soddisfacente senza essere sballato a causa della droga e dall'alcol, e in effetti in certi momenti mi mancava sballarmi fino a svenire: almeno non pensavo a niente, alla mia adolescenza incasinata, alla mia vita di merda.
Ma ero sempre andato avanti, in qualche modo, la musica era la sola cosa che avesse un senso nella mia vita, e anche la mia famiglia.
Jared mi aveva aiutato a scacciare i miei demoni, ma più di una notte ero rimasto solo, rannicchiato sul mio letto, sudando freddo senza che potessi fare nulla finché, un giorno dopo l'altro, quel dannato desiderio di autodistruzione si era semplicemente dileguato, ma in un angolo della mia mente sapevo che era ancora lì in silenzio, in attesa che facessi un passo falso.
Come se stesse leggendo nella mia mente, lo sguardò di Jared si ammorbì leggermente, come se in quel momento fosse stato lui il fratello maggiore.
L'avevo protetto per tutta la vita, picchiavo i bambini che volevano fargli del male, gli stavo sempre dietro, e alla fine era lui quello che mi aveva salvato.
Feci un lungo sospiro, chiudendo gli occhi per rilassarmi.
"Non ho nessuna intenzione di trattare Christine come un giocattolo, so che è molto malata" dissi con calma, guardando Jared dritto negli occhi.
"Sai che non si chiama veramente Christine, vero?" replicò mio fratello.
"Certo che lo so, ma è così che l'ho conosciuta" risposi, alzando gli occhi al cielo.
Non sapevo il suo vero nome, Jared non me l'aveva mai detto e penso che avrebbe continuato a non farlo.
Christine sembrava non ricordarlo, aveva delle amnesie spaventose per quanto riguardava il suo passato, l'avevo letto nella pagina del diario di Jared che custodiva tutte le sedute che aveva fatto con lei da quando era arrivata al Mental Health Hospital, due anni prima.
Jared fece un sorrisetto beffardo, dimenticandosi per un momento che era arrabbiato con me perché in breve secondo lui volevo scoparmi Christine e poi dimenticarla per sempre.
Pensai ai suoi capelli neri corvini, alla sua pelle pallida, ai suoi occhi scuri e al modo in cui i gilet maschili che ostinava a mettersi aderivano alle sue forme e sentii improvvisamente una reazione in quel momento sgradita alle parti basse.
"Senti, io devo andare. Devo accompagnare i pazienti a lezione" dissi alla svelta, prima che Jared potesse vedere che cosa mi stava succedendo.
Senza aspettare nemmeno una sua risposta, uscii dal suo studio e feci un respiro profondo, cercando di calmarmi.
"Ehi, com'è andata?" chiese improvvisamente una voce preoccupata.
Sobbalzai, riconoscendo immediatamente la voce. Merda.
Non alzai lo sguardo verso Christine, non potevo permettermelo in quel momento.
"Tutto bene" risposi sbrigativo, praticamente correndo via da lei e andando nella stanza degli infermieri, dove c'era una doccia.
Avevo bisogno di una doccia fredda, subito.
Sapevo di averla offesa, avevo sentito il suo respiro fermarsi con un sussulto al tono della mia voce, ma non potevo farle capire che ero attratto da lei.
Mi misi una divisa pulita nonostante me la fossi cambiata poche ore prima, preparandomi ad accompagnare i pazienti a lezione con la professoressa Morris.
Stare in un ospedale psichiatrico -  o manicomio, come lo chiamava Christine - non impediva ai pazienti di andare a scuola come le persone normali ma non potevano frequentare scuole normali perché erano un pericolo per la società, per cui c'erano delle classi in cui si frequentavano lezioni di inglese, storia europea, geografia, matematica, fisica e chimica.
Rabbrividii pensando ai miei trascorsi scolastici, ma a volte mi divertivo a seguire le lezioni al Mental Health Hospital per via delle domande assurde che facevano i pazienti/studenti.
Presi l'elenco degli studenti e andai verso il salotto in cui erano riuniti tutti i pazienti e chiamai per nome e cognome tutti coloro che dovevano andare a lezione.
"Layla O'Connell" chiamai a un certo punto.... chi diavolo era? Non l'avevo mai sentita nominare.
Sollevai lo sguardo dal foglio e alzai gli occhi al cielo, vedendo la mano alzata di Christine.
Mi venne da ridere, pensando alla sua incredibile immaginazione in fatto di nomi.
La mia bocca si distorse in una smorfia che doveva essere di rimprovero ma i suoi occhi si illuminarono divertiti, e capii che non l'avevo fregata.
Venne al mio fianco e guardai il gilet grigio che indossava, con una camicia bianca sotto che... dannazione, distolsi nervosamente lo sguardo e mi concentrati sul resto dell'appello.
I pazienti mi seguivano come cagnolini in silenzio perché avevano paura dell'uomo tatuato tutto braccia, così mi aveva detto un giorno Christine.
Lei ovviamente camminava al mio fianco, come sempre, dove doveva essere.
Prima che potessi allarmarmi per quel pensiero, una voce flebile interruppe i miei pensieri.
"Infermiere Leto, siamo in ritardo" sussurrò Jonathan, un paziente di 17 anni con la mania della puntualità.
Me lo diceva ogni giorno, praticamente.
Con la coda dell'occhio notai il sorriso divertito di Christine e io scossi la testa.
"Tranquillo, Jonathan, dirò alla professoressa Morris di protrarre la lezione di..." mi interruppi, guardando l'orologio.
"...un minuto e 27 secondi" continuai, mentre arrivavamo alla classe.
"Grazie" rispose Jonathan, con uno sguardo sollevato.
Christine fece una risatina, entrando in classe per ultima.
Io la seguii, ammirando per un attimo la curva del suo sedere avvolta nei jeans stretti.
"Ciao, Shannon" disse una voce sensuale.
Alzai lo sguardo a fatica e incrociai due occhi verdi che mi fissavano con un invito esplicito a fare cose decisamente sporche.
"Ciao, Jennifer" risposi ricambiando il sorriso, più che cortesia che per altro.
Il vecchio Shannon se la sarebbe scopata nel ripostiglio delle scope dopo la lezione.
"Troietta" sentii mormorare Christine, e per poco non scoppiai a ridere.
Andò a sedersi al suo posto all'ultimo banco e io mi appoggiai al muro dietro di lei, come sempre: dovevo stare lì nel caso qualche paziente avesse una crisi, ma non era mai successo.
"Oggi parliamo di Shakespeare" annunciò la professoressa Morris, e notai che quel giorno indossava un vestito abbastanza succinto, decisamente inadatto a un ospedale psichiatrico.
"Oh dannazione, adesso il vestito si buca e le esce il culo fuori" ridacchiò Christine, ma avvertii una nota di nervosismo nella sua voce.
"Ti piacerebbe come spettacolo?" mi chiese piano, facendo dondolare la sedia per sporgersi verso me con aria cospiratoria.
"Non quanto mi piacerebbe se lo facessi tu" le risposi, beffardo.
L'avevo detto davvero? Merda.
Quasi si capovolse con la sedia, ma la sostenni e la riportai a terra.
"Non dondolarti, è pericoloso" le dissi con tono quasi paterno, decisamente opposto al tono che avevo usato prima.
"Tu sei un pervertito, ti scoperesti anche un palo" ringhiò Christine, e alzai gli occhi al cielo di fronte a quello sbalzo di umore.
A volte si arrabbiava con me senza motivo, o così almeno credevo. Pensava che la stessi prendendo in giro?
"Layla, cosa ho appena detto?" chiese la professoressa Morris, con un tono freddo: sapeva che non stava ascoltando la lezione.
"E che ne so? Mica stavo ascoltando" sibilò Christine, inviperita.
"Siamo nei casini" pensai, vedendo la professoressa che praticamente sputava fuoco come un drago inferocito.
"Jennifer, tranquilla, me ne occupo io" le dissi con un sorriso smagliante, sperando di ammaliarla.
Lei rispose al sorriso e capii che non si sarebbe ricordata di questo piccolo incidente.
Presi Christine per i fianchi e la portai fuori quasi di peso, era leggera come una piuma.
"Cosa diavolo ti salta in mente? Non sono una bambina" esclamò: fortunatamente non c'era nessuno nei paraggi.
"Dimmi perché sei arrabbiata" dissi con calma, cercando di farla ragionare.
"Perché, dannazione, mi stai trattando di merda da quando sei uscito dall'ufficio di tuo fratello" sibilò, pestando un piede a terra per la rabbia.
Lo trovavo divertente, ma non glielo dissi.
"Ti sto trattando come sempre" risposi, senza guardarla.
Sentii delle dita fredde avvolgermi il viso e fui costretto a incrociare il suo sguardo.
"Dimmi che mi odi e non ti scoccerò più" disse, e capii che pensava che la odiassi, che non volessi più essere suo amico.
"Non ti odio affatto" risposi, togliendo delicatamente le sue mani dal mio viso prima che qualcuno ci vedesse.
Il suo sguardo si illuminò di sollievo e mi sentii malissimo per averla trattata così, lei meritava di meglio.
Ciò che non mi aspettavo fu quello che accadde dopo.
Avvolse le braccia attorno al mio collo e capii ciò che voleva fare, ma non la fermai: non volevo, non potevo.
Le sue labbra toccarono le mie e in quel momento capii che ero irrimediabilmente fottuto.
Approfondii il bacio e lei gemette, ma questa volta di piacere.
La sentii tremare tra le mie braccia, mentre ci baciavamo come se fossimo due adolescenti inesperti.
Dovetti costringermi a staccarmi dalle sue labbra e la guardai mentre le sue guance erano imporporate e i suoi occhi languidi.
Non l'avevo mai vista così... era come se stesse provando dei veri sentimenti, e fossi stato io a risvegliarla da un sonno profondo.
Ma non ero un dannatissimo principe azzurro e lei non era la Bella Addormentata.
Ero un infermiere e lei era una delle pazienti più malate del Mental Health Hospital, ed eravamo destinati a distruggerci a vicenda.

 
Note dell'autrice:
Salve a tutti! Mi scuso ancora una volta perché posto un capitolo una volta ogni mille anni, ma purtroppo l'ispirazione va e viene. Alla prossima!
- Fran

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