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di InnomineMamie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo e I CAPITOLO ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO V ed EPILOGO ***



Capitolo 1
*** Prologo e I CAPITOLO ***


§§§**§§§

PROLOGO

‒ Hai fatto tardi stasera – esclamò Tochiro sentendo la porta aprirsi e richiudersi quando stava già per addormentarsi, ma quando si voltò a guardare Harlock che entrava nella camera saltò in piedi come una molla.
‒ Santo cielo! Cosa ti è successo? Il ragazzo si teneva sul volto un fazzoletto abbondantemente insanguinato. Anche la parte davanti della sua divisa era tutta macchiata.
‒ Non è niente – rispose ‒ sembra peggio di quello che è.
‒ Fa’ vedere… Tochiro trascinò l’amico nel minuscolo bagno e gli tolse il fazzoletto zuppo dalla faccia. Una lunga ferita gli solcava la guancia sinistra fino al naso. Era un taglio netto, ma continuava a sanguinare abbondantemente.
‒ Devi andare in infermeria! – esclamò.
‒ Neanche per idea! – rispose l’altro. ‒ Vuoi vedermi agli arresti per due mesi? Dammi una mano tu.
‒ Maledizione, non sono un dottore… ‒ Non importa. Basterà del disinfettante e qualche punto.
Tochiro sospirò e cominciò a darsi da fare come poteva. ‒ È stato il caro Heinz, vero? – chiese dopo un po’.
‒ È colpa mia – rispose Harlock cercando di stringere i denti mentre l’amico si dava da fare con l’ago e il filo. ‒ Non dovevo lasciarmi coinvolgere – mugugnò.
‒ Beh, almeno adesso ti lasceranno in pace – commentò l’amico guardando con occhio critico il proprio lavoro. ‒ Ti resterà la cicatrice – commentò.
Harlock alzò le spalle. ‒ Resterà anche a lui – rispose.

CAPITOLO I – L’Accademia

Ehi, hai visto quelli?
Il ragazzo che si era appena messo a ridere, indicando al crocchio di amici che gli stavano attorno gli ultimi due arrivati all’Accademia Militare Marziana, aveva lo splendore della perfetta gioventù dorata di quegli anni: i capelli di un perfetto biondo tagliati con cura, gli occhi di un limpido azzurro d’acciaio e una mandibola convenientemente quadrata. La sua divisa, nuovissima e impeccabile, come se ci fosse nato dentro, non sembrava neanche imparentata con le giacche di seconda mano indossate dai due nuovi venuti.
Gli amici del giovane Heinrich Böll si voltarono a guardare l’oggetto di tanta ilarità. Effettivamente formavano una stranissima coppia. Uno molto alto, magro, dallo sguardo attento; l’altro basso, robusto, con un paio di occhiali spessi come fondi di bottiglia. Agli azzimati junker dotati di tutti i quarti di nobiltà parvero come una manna dal cielo. I soggetti ideali per sfogare la propria giovanile insicurezza.
Heinrich si era subito avvicinato, strizzando l’occhio ai propri amici e, fingendosi distratto, era andato a sbattere di proposito contro di loro mandando a gambe all’aria il piccoletto.
‒ Oh, chiedo scusa – aveva poi esordito in tono beffardo. – Non vi avevo proprio visti. Per un attimo gli occhi di quello alto lo fulminarono con uno sguardo duro, per nulla intimorito. Heinrich in un certo senso se ne compiacque. Forse, nella noia di quella scuola dove tutti sembravano docili burattini, aveva trovato qualcuno con cui divertirsi davvero.

***

Avevano cominciato con piccole provocazioni: spintoni dati apparentemente per caso, frecciatine dette a mezza voce, lamentele discrete per metterli in cattiva luce. Tochiro pareva bellamente ignorarli e Harlock, che pure a volte si sentiva prudere le mani a tanta impudenza, lasciava perdere anche lui per non turbare l’amico. La cosa che irritava di più i baldi giovani era che i due presi di mira erano indiscutibilmente bravi. I migliori del proprio corso per la precisione.
Heinrich non sopportava di essere superato in intelligenza da quel tappetto e in destrezza da quello spilungone, cosa che tuttavia avveniva regolarmente.
Il giorno in cui uno dei componenti della banda, tale Manfred, si presentò in aula con un vistoso cerotto sul sopracciglio spaccato, tutta l’aula cominciò a sussurrare eccitata.
Era quello un giochetto di gran moda fra i cadetti dell’Accademia, proibitissimo, e per questo ancora più popolare. I contendenti si sfidavano ad un duello la cui regola principale era quella di combattere senza muoversi di un passo, cosa che facilmente lasciava delle visibili conseguenze. Una bravata, un modo per dimostrare di non aver paura di nulla, e chi sfoggiava qualche cicatrice era trattato alla stregua di un eroe. Manfred infatti fu accolto con grandi pacche sulle spalle e manifestazioni di ammirazione.
Ad Heinrich parve il momento propizio per avvicinarsi ad Harlock con un largo sorriso. ‒ Che ne diresti se anche noi, stasera, ci facessimo insieme una passeggiatina qui fuori? Dovrebbero vedersi tutti e due i satelliti di Marte…
‒ Io non combatto per divertimento* – rispose Harlock lapidario voltandogli le spalle.
Il sorriso di Heirich si trasformò in una smorfia di disprezzo: ‒ Ma certo! Le passeggiate notturne non sono adatte per i codardi!
I suoi compagni risero, ma Harlock non si voltò nemmeno, continuando dritto per la sua strada.


___________________________

Note:
*battuta presa dalla serie SSX

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Harlock sospirò.

La lezione di balistica era una delle cose che trovava più noiose, anche se si rendeva conto di quanto fosse importante. Tochiro invece sembrava perfettamente a suo agio in mezzo a tutte quelle formule. Quando suonò la campanella Harlock si affrettò ad alzarsi. Stava per infilare la porta quando si avvide che il gruppetto capeggiato da Heinz stava confabulando senza smettere di lanciare, di tanto in tanto, delle occhiate all’indirizzo di Tochiro, tutto intento a ripassare compitamente i suoi appunti, seduto al suo banco.

Si avvicinò facendo finta di riporre dei libri nello scaffale.

‒ Basterà farlo bere un po’, vedrete – diceva uno.

‒ Sarà una passeggiata. Tanto senza quegli occhiali non ci vede a un palmo dal naso.

-- Sì, ma… non penso che ne ricaveremo molto… è sempre al verde.

Heinrich alzò le spalle: ‒ Sarà una soddisfazione lo stesso. Dopo una bella ripassata abbasserà un bel po’ la cresta.

Era chiaro che i giovinastri stessero architettando un brutto scherzo alle spalle del suo amico. Non ci vide più. Attese che il gruppetto uscisse dall’aula, e, una volta nel corridoio, afferrò Heinz per il colletto e lo sbatté contro la parete. Stavano per intervenire gli altri teppistelli, ma un cenno del loro capo li fece desistere.

‒ Si può sapere che ti piglia, Harlock?

‒ Come sarebbe, “che cosa mi piglia”, Heinrich? Ho sentito chiaramente cosa diavolo stavate complottando, tutti quanti voi! Guai a voi, se farete del male al mio amico! Mi sono spiegato? - gli intimò furibondo, sbattendolo contro la parete a più riprese.

‒ La colpa è solo tua e della tua codardia. Ti ho invitato ad una mensur… ma tu, invece di batterti con me, ti nascondi come una femminuccia. Be’, il mio invito è sempre valido… sempreché tu non preferisca che a farne le spese sia il tappetto…

Harlock mollò la presa, indignato. Il caro Heinz aveva ragione, purtroppo. Se non gli dimostrava sul muso di cosa era capace, non li avrebbero mai lasciati stare. E lui non poteva esserci accanto a Tochiro tutto il tempo.

‒ E va bene. Dimmi l’ora ed il luogo e facciamola finita.

‒ Domani sera al tramonto: ti aspetto nella sala di scherma. Sii puntuale… mi raccomando.

‒ D’accordo, ci sarò. Quanto a te ed ai tuoi amici, siete pregati di lasciare in pace Tochiro, oggi e per il futuro. Sono stato chiaro?

‒ Chiarissimo… del resto, Tochiro è talmente incolore da non interessarci minimamente. Detto ciò, Heinz si allontanò, ridacchiando.
 
***

La sala scherma era l’orgoglio dell’Accademia. Le lampade solari erano state spente per la notte e dall’enorme cupola che la chiudeva si poteva scorgere in lontananza il profilo grandioso del monte Olympus che riempiva con la sua mole tutto l’orizzonte. Il cielo, fuori, da rossastro si era fatto di un cupo color porpora. I due satelliti di Marte, Deimos e Phobos, brillavano debolmente in alto.

Harlock aveva cercato di comportarsi normalmente per tutta la sera per non mettere Tochiro sull’avviso ed era poi uscito inventandosi un appuntamento con una ragazza. Tochiro gli aveva sorriso e strizzato l’occhio dicendo che sarebbe andato a letto presto.

Al suo ingresso erano già tutti lì ad aspettarlo. Heinrich con la sua solita aria strafottente e i suoi compagni con quell’espressione falsa che gli dava sommamente sui nervi.

Si impose di stare calmo, anche quando Heinz gli disse: ‒ Mi compiaccio della tua puntualità, ma vedo che non hai portato i tuoi padrini. Ti accontenti dei miei?

‒ Spicciamoci con questa buffonata – rispose l’altro senza tanti giri di parole.

Un mormorio ostile venne dal gruppo, ma Heinrich si limitò ad alzare un sopracciglio e a sorridere serafico. ‒ Allora d’accordo – esclamò facendo segno agli altri di cominciare.

Due dei ragazzi misurarono la distanza e segnarono col gesso le righe bianche sul pavimento. Altri portarono le protezioni.

‒ Queste non ci servono – disse Heinrich sprezzante – Non sei d’accordo? Harlock si limitò ad alzare le spalle. Se voleva giocare duro avrebbe trovato pane per i suoi denti.

Le sciabole furono esaminate: quella di Heinz era un’arma elegantissima, recante, in acciaio sbalzato, il blasone con le insegne della sua antica e nobile famiglia. Quella di Harlock era molto semplice, ma aveva per lui un enorme valore, dato che era appartenuta al suo antenato, quel Phantom Harlock che aveva sfidato i cieli d’Europa con i primi biplani. Erano entrambe estremamente affilate.

‒ Misura! – esclamò il testimone. I due contendenti si posizionarono sulle righe e si salutarono con le sciabole. Erano entrambi molto seri, come se avessero capito che quello non era il solito giochetto da sbruffoni, ma qualcosa che sarebbe andato oltre. Poi incrociarono le lame e si fermarono, in attesa.

‒ A voi! Il comando risuonò nitido nella sala, subito seguito dal rumore metallico del ferro. Heinrich maneggiava la lama con la disinvoltura di chi ha fatto un esercizio molte volte e può rifarlo quasi ad occhi chiusi. Pensava che avrebbe avuto ragione in poche mosse di quel “plebeo” chiaramente inesperto a quel tipo di duello. Tuttavia Harlock era dannatamente rapido e l’altezza lo aiutava, specialmente da quella distanza così ravvicinata. Dopo un’abile finta da destra, con una efficace presa di ferro, mossa con cui deviò la lama di Heinz, Harlock colpì di striscio il lato destro del suo viso con un rapido fendente. Il colpo gli recise di netto il lobo dell’orecchio e strisciò fino alla mandibola. Fiotti di sangue sgorgarono dalla ferita: Heinz lasciò cadere la sciabola a terra, portandosi ambo le mani alla faccia e cadde in ginocchio, gemendo per il dolore.

‒ Direi che la finiamo qui… vieni, ti accompagno in infermeria… Harlock si chinò per porgere la mano ad Heinrich, quando questi, con una mossa repentina, riacciuffò la sciabola e gli inferse un veloce colpo di punta, dal basso verso l’alto, con cui strisciò la lama in diagonale sulla sua guancia sinistra, sino al setto nasale. Fu la volta di Harlock di portare le mani al suo viso, incredulo. Provava dolore e rabbia: la sua lealtà di combattente era stata vilmente tradita da uno stupido ragazzino che non sapeva e non voleva perdere.

‒ Siamo pari… tutti e due ‒ disse Heinz con un ghigno, sempre tenendosi la guancia dolorante con la mano sinistra.

‒ Ti sbagli: tu ed io non saremo mai uguali – rispose Harlock, voltandogli le spalle ed andandosene.
 
***

‒ Che piccolo serpente! – sbottò Tochiro dopo che Harlock gli ebbe raccontato tutto, o quasi (si era ben guardato, infatti, di rivelargli che era proprio lui il motivo della lite, l’amico ne sarebbe stato dispiaciuto e forse anche umiliato). ‒ Che vuoi fare, ora? – chiese.

‒ Niente. Domattina ci presenteremo in classe come al solito e nessuno farà domande. Tanto qui sanno bene come funzionano le cose. Mi è scivolato il rasoio facendomi la barba, chiaro? Tochiro sogghignò: ‒ È un incidente che da queste parti capita con frequenza allarmante. Dovrebbero rendere queste impugnature meno scivolose.

Harlock, nonostante la guancia gli facesse un male cane, scoppiò a ridere.

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Capitolo 3
*** CAPITOLO III ***


Alieni. Invasori. Nemici. Alleati. Superiori.

Durante l’ultimo anno dell’accademia militare Harlock aveva assistito con grande sconcerto alla scalata al potere degli Illumidas. I Cadetti erano tenuti chiusi in quelle bolle di vetro, letteralmente. Le comunicazioni sulla Terra erano poche e controllate. All’inizio si erano trovati davanti qualcuno di quegli ufficiali, rigidi forse, ma corretti. Almeno così pareva.

Qualcuno l’aveva trovato un miglioramento. ‒ Vedrete, faranno piazza pulita di tutti gli ufficiali corrotti che girano da queste parti – mormoravano soddisfatti. L’avevano fatto. Il loro vecchio comandante era stato rimosso dopo pochi mesi. Così anche gran parte dello stato maggiore. Gli istruttori ora erano quasi tutti Illumidas. Heinrich e la sua cricca parevano entusiasti del cambiamento.

Tochiro, invece, pareva sempre più cupo e preoccupato. Quella sera, nella loro piccola stanza, continuava a trafficare con dei pezzi che aveva trovato nel magazzino dove di solito tenevano i pezzi rotti, i macchinari non più funzionanti e tutto quello che era ritenuto inservibile. Harlock gli aveva già chiesto due volte cosa stesse facendo, senza ottenere una risposta, si era quindi steso sul letto aspettando che il suo amico si decidesse, come del resto faceva sempre, a metterlo a parte dei suoi progetti. Dopo un po’ tuttavia si era addormentato. Lo svegliò un rumore strano. Tochiro stava trafficando con delle manopole, mentre degli sfrigolanti rumori di fondo uscivano dalla grossa e sgraziata scatola davanti a lui.

‒ Tochiro… ‒ chiamò.

L’amico si voltò a guardarlo, raggiante. ‒ Ho costruito una radio! – esclamò. – Possiamo captare le trasmissioni dalla Terra! 

Ogni tanto si sentivano sprazzi di canzoni in voga, pezzi di talk show, commenti sportivi, ma Tochiro continuava a regolare le sue manopole con grande attenzione.

‒ Cosa stai cercando? – chiese Harlock, ma l’altro lo zittì piuttosto bruscamente. Dopo alcuni altri minuti di sfrigolii e voci contrastanti si sentì, chiarissimo, il segnale di quattro note cupe, seguite da un lungo silenzio.

‒ Eccolo, eccolo… ‒ mormorò Tochiro eccitato. ‒ Ascolta!

“Qui Radio Libera. Buonasera. Abbiamo appreso ora che un altro attacco indiscriminato degli Illumidas ha centrato in pieno un rifugio antiaereo nella zona di Tokio. Ci sono cinquantaquattro vittime, in maggioranza donne e bambini. A Berlino sono stati fucilati all’alba i sedici ribelli catturati due giorni fa, dopo un processo sommario. Tuttavia le forme di protesta spontanea continuano ad aumentare in ogni paese…”. Ascoltarono fino in fondo. Poi Tochiro spense la radio. Harlock era scolorito. Poi si era alzato in piedi, tremando. Sarebbe uscito sbattendo la porta, se l’amico non l’avesse fermato.

‒ So cosa stai pensando, ma non lo fare – gli disse Tochiro, pacato. Lo teneva per un braccio, e lo sentiva rigido come ferro. Sapeva che avrebbe potuto sbatterlo via in un attimo, ma sapeva anche che non l’avrebbe fatto mai, perché lui era l’unico in grado di farsi ascoltare da uno come Harlock. ‒ Se ti fai imprigionare o ammazzare adesso, sarebbe forse un gesto molto nobile, ma del tutto inutile. Fra pochi mesi avremo il diploma, e allora potremo fare qualcosa. Ci tengono qui perché vogliono della gente docile al loro servizio. E noi gliela daremo. Dobbiamo solo aspettare l’occasione giusta.

‒ Intanto che aspettiamo l’occasione giusta la gente muore! – esclamò Harlock, che non si era affatto calmato a quel ragionevole discorso.

Tochiro abbassò il braccio. ‒ Va bene – disse a bassa voce. – Qualsiasi cosa tu faccia, io verrò con te.

‒ Tu starai qui e continuerai come hai sempre fatto – rispose Harlock, allarmato dalla determinazione che aveva visto nello sguardo dell’altro.

‒ Io ti seguirò perché sono tuo amico. Ne ho il diritto e non potrai fermarmi. Se vai dal Comandante vengo con te.

Harlock mandò un lungo respiro guardandosi attorno. Sapeva che Tochiro aveva ragione, sapeva che avrebbe dovuto imparare a controllarsi, imparare ad aspettare. Si gettò di nuovo sul letto, sconsolato. Intanto l’amico riponeva la preziosa radio ben nascosta nell’armadio, sotto una pila di coperte.

***

‒ Allora, non ti sei ancora deciso a mollare quel tappetto e a metterti con delle persone perbene? – Heinrich ridacchiò compiaciuto all’indirizzo di Harlock, seguito dalle sghignazzate dei suoi compari. Questa volta Tochiro non riuscì a trattenerlo. Il biondo cadetto si ritrovò a terra con un labbro spaccato prima ancora di capire cosa potesse essere successo. Non ci mise molto a reagire però, si pulì il sangue con la manica e si gettò sull’avversario con un ghigno soddisfatto, mentre i suoi compagni facevano cerchio incitandolo.

‒ Allora sei umano! – esultò Heinrich cominciando a pestarlo con entusiasmo. Harlock continuava a picchiare a testa bassa. Era come se l’autocontrollo di tutti quegli anni fosse evaporato di colpo, lasciando solo rabbia e frustrazione che dovevano sfogarsi in qualche modo. Non gli importava più niente. Quello che aveva ascoltato la sera prima nella sua stanza aveva colmato la misura. Se Heinz voleva provocarlo, be’, avrebbe accettato tutte le sue provocazioni. Ci misero poco a separarli, scrollarli e sbatterli in isolamento per qualche giorno. Heirich, naturalmente, se la cavò con meno, dicendo di essersi solo difeso. Harlock non provò nemmeno a giustificarsi. Si chiuse in un mutismo orgoglioso. Quando le sbarre sferragliarono dietro le sue spalle si sedette per terra e affondò il viso nelle ginocchia.

Il futuro sarebbe stato molto difficile da affrontare.

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Alla fine il giorno del diploma era arrivato.

Harlock non era stato sbattuto fuori dopo la lite con Heinrich come si era aspettato. Forse perché era bravo e anche loro avevano bisogno di gente in gamba.

Una volta attribuitogli il titolo di sotto tenente, gli Illumidas non gli avevano affidato, tuttavia, incarichi di grande responsabilità: per esempio, lo avevano aggregato alle operazioni che servivano ad evacuare i profughi: gente di cui, in fondo, non importava niente a nessuno.

Nel corso degli anni, Harlock era salito nella graduatoria dell’aeronautica spaziale sino a diventare uno dei capitani più giovani e capaci, tanto che poi gli venne affidata l’imponente astronave di evacuazione profughi meglio nota con il nome di Death Shadow.

Tochiro invece venne assegnato ad un team di scienziati che studiavano nuovi prototipi di astronavi e di navette da guerra. I due amici non riuscivano più a vedersi molto.

Tutte le mattine, guardandosi allo specchio mentre si faceva la barba, Harlock era costretto a vedere la cicatrice che aveva sulla faccia e in quei momenti la nostalgia di quel tempo, quando il massimo che dovevano affrontare era un bulletto borioso, lo mordeva acutamente. Quell’ultima sera si erano ritrovati in un bar, nell’angolo più buio e tranquillo di un locale anonimo, con una bottiglia di sakè… due vecchi amici che parlavano del più e del meno, almeno questa era l’impressione che potevano dare visti dal di fuori.

‒ Che cosa farai adesso? Tochiro era preoccupato. Aveva saputo dell’ultima bravata del suo amico: distruggere la Death Shadow in fase di atterraggio senza che nessuno si facesse male… solo lui era in grado di fare una cosa simile. Ma ora si era forse scoperto troppo. D’altra parte nessuno di loro era più al sicuro, ormai.

‒ Voglio andare a trovare Maya – aveva sussurrato Harlock - e poi vedremo. Non credo di poter restare ancora per molto.

‒ Stai pensando di disertare? – esclamò l’amico, con un tono di voce un po’ troppo alto, tappandosi poi subito la bocca per la sua stessa sorpresa.

‒ Shhhhhh! Zitto!... In ogni caso non ho intenzione di passare la vita al servizio degli Illumidas. Quello che potevo fare l’ho fatto, ma adesso basta.

Tochiro rimase per un po’ fermo a guardare il suo amico, con uno strano luccichio negli occhi. ‒ E se ti dicessi che c’è una nave pronta per salpare al tuo comando?

Harlock trasecolò. ‒ Cosa?

‒ Nemmeno io voglio passare la vita al servizio degli Illumidas. Il lavoro nel laboratorio mi ha permesso di mettere le mani su un bel po’ di roba.

‒ Ma… com’è possibile? Come hai fatto? Tochiro sorrise, malizioso.

‒ Chi mai fa caso ad uno come me? Nessuno si chiede mai dove vado quando ho finito il mio turno e nessuno si offre mai di accompagnarmi. Io sono il tappetto ingenuo da prendere in giro. Lo sono sempre stato, ti ricordi? Usciamo, dai, stasera è tutto tranquillo, ti faccio vedere!

***

Harlock era rimasto letteralmente a bocca aperta. Davanti a lui si stendeva l’imponente chiglia di una corazzata dalle linee micidiali ed eleganti.

‒ Come diavolo hai fatto a costruire una cosa del genere? Da solo, poi?

‒ Beh, qualche amico mi ha dato una mano. Sai, c’è molta più gente di quanto tu creda che non è molto contenta di stare al servizio di quelli. Anche Esmeralda mi ha aiutato.

‒ Chi? Quella fuorilegge che è ricercata da tutta la flotta illumida? Tochiro era leggermente arrossito nel nominare la bella piratessa e Harlock l’aveva guardato con curiosità, ma sul momento aveva preferito tacere. ‒ Hai corso molti rischi senza dirmi niente! – aveva invece risposto, leggermente risentito.

‒ Ma no! Lo sai che sono un tipo prudente. Nessuno ha mai sospettato niente, te lo garantisco! È questo il bello, faremo loro una magnifica sorpresa! E tu sarai il nostro capitano!

Harlock aveva sorriso alla prospettiva come un bambino cui avessero offerto un dolcetto particolarmente goloso. ‒ Perché io? – aveva chiesto senza smettere di sorridere.

‒ E chi altri? – aveva risposto Tochiro ridendo. Quella notte i due amici si erano separati col cuore più leggero.

***

Poi erano successe tante cose.

Troppe e troppo dolorose.

Harlock e Tochiro avevano preso la strada che pareva loro più giusta. Ci credevano: credevano nella libertà, nel coraggio, nella giustizia...

Erano pronti a sacrificare la loro stessa vita per quei meravigliosi ideali, ma non erano ancora pronti a pagare il prezzo più alto, quello costituito dal sacrificio delle persone più amate.

I due giovani se n’erano resi conto troppo tardi.

Harlock stesso se ne era reso conto troppo tardi, perché quello che gli rimaneva ora era un bellissimo e struggente ricordo di ciò che avrebbe potuto essere e che ormai era perduto per sempre. Un ricordo che gli avrebbe dato le ali per volare ancora più lontano, ed un dolore che non l’avrebbe abbandonato, mai più.

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Capitolo 5
*** CAPITOLO V ed EPILOGO ***


Era esaltante lavorare al servizio degli Illumidas.

Questo Heinz aveva creduto per alcuni anni: subito dopo il diploma all’Accademia, si era messo a disposizione degli invasori della Terra e del sistema solare. Credeva di essere forte perché asservito ai poteri forti.

Quanto di sbagliava.

Sarfat, Colonnello del Dipartimento di Coordinamento Illumidas, trattava il giovane junker con malcelato disprezzo, essendo uno “sporco terrestre e traditore dei suoi”: lo sottoponeva ad esercitazioni sfiancanti e, in presenza degli altri ufficiali, lo umiliava in mille e più modi. Ma Heinz continuava, stoicamente, a sopportare tutto pur di far parte “dei vincenti” come li riteneva lui. Gli Illumidas avevano ritenuto, nella loro sciagurata politica, di “distruggere per ricostruire” i pianeti conquistati: solo la vile piaggeria del Primo Ministro Terrestre aveva scongiurato la strage di tutti gli esseri umani. Ben diverso destino era stato vissuto da altri popoli, primo tra tutti quello di Tokarga: sebbene fosse alleato degli Illumidas, questi ne paventavano un’eventuale ribellione.

Era molto che Heinz non pensava più ai tempi dell’Accademia. Gli parevano episodi di un passato lontanissimo. Ora era un ufficiale in servizio e aveva un suo ruolo preciso. Invece quel giorno, mentre era seduto a mangiare da solo ad un tavolo della mensa, delle chiacchiere sentite per caso gliel’avevano fatto ricordare. Phantom Harlock, comandante della Death Shadow, si era orgogliosamente rifiutato di decollare alla volta di Tokarga per distruggerla.

Per questo motivo egli era stato dichiarato un disertore e condannato a morte. Sentir nominare il suo antico rivale gli fece rimescolare il sangue. Lasciò il pranzo a metà e si andò a presentare al Colonnello Sarfat. ‒ Andrò io al posto di Harlock – annunciò una volta davanti a lui.

L’Illumida lo scrutò a lungo, cercando di capire. ‒ È una questione personale? – chiese infine.

‒ Sissignore – rispose, gelido, Heinrich.

Sarfat si permise un sorriso sarcastico. Forse aveva finalmente trovato l’uomo che faceva per lui. Sfruttare le rivalità dei Terrestri fra loro si era rivelato proficuo fin dall’inizio. Ebbene, avrebbe dato a quel giovane ufficiale quello che voleva.

‒ Bene, Capitano Böll, le metteremo a disposizione una corazzata.

Heinrich se ne andò soddisfatto. Non l’avrebbe fatta passare liscia al suo vecchio nemico. Sebbene, dopo l’accademia, non si fossero più rivisti, Heinrich portava ancora rancore a quell’uomo, ma non voleva, nemmeno a se stesso, rivelarne la ragione.

Fu facile distruggere Tokarga.

Quasi troppo facile per averne qualche soddisfazione. Heinz dette l’ordine ai bombardamenti: per prima cosa venne distrutto il palazzo del Governo di Tokarga, i principali edifici istituzionali; poi fu la volta dei capannoni contenenti le riserve di cibo ed acqua, dei campi coltivati, delle aziende agricole e di allevamento del bestiame, delle industrie. Le truppe ebbero facilmente ragione della debole resistenza. Privi di navette, cingolati, bombe e cannoni, i soldati tokarghiani opposero una disperata ed inutile resistenza negli scontri corpo a corpo, muniti solo di armi da fuoco. Gli ordini erano chiari. Dovevano essere tutti sterminati. Gli Illumidas non potevano permettersi di mantenere in vita un popolo che, sebbene si fosse dichiarato alleato, avrebbe potuto potenzialmente pugnalarli alle spalle. Pochi giorni di sangue e l’impresa fu portata a termine in modo eccellente.

***

Terminata l’”operazione” e ritornato a bordo dell’ammiraglia, Heinz si ritirò nella sua cabina.

Esaurita l’adrenalina delle ultime ore, si accasciò sul letto, esausto. “Questa è la guerra” si diceva mentre gli si affacciarono nella mente le immagini di centinaia di uomini, donne e bambini fucilati dai soldati da lui stesso capeggiati, i cadaveri ammassati in decine di fosse comuni e coperti di calce, ogni altra cosa distrutta sistematicamente.

Questa è la guerra, e in guerra non puoi avere pietà o sei morto. In guerra devi eseguire gli ordini o sei morto.

Questa è la guerra.

È inevitabile. Quant’era lontana dagli ideali arroganti, ma cavallereschi, che aveva vagheggiato da ragazzo? Contro chi si stava battendo veramente? Come si era ridotto a sterminare una massa di civili inermi? Improvvisamente provò un moto di disgusto. Si guardò le mani. Si alzò e si diresse nella stanza da bagno. Cominciò a lavarsele con acqua e sapone, freneticamente. Le sue mani erano sporche, erano lorde di sangue. Continuavano ad essere insozzate.

“Via, maledetta macchia ”.*

Ora Shakespeare, che amava tanto da ragazzo, non gli sarebbe venuto in aiuto. Il sangue non si lava più, lo sapeva già ancora prima di averne versato una sola goccia. Si guardò allo specchio e rise, rise fino alle lacrime.

Giovane junker, per questo avevi frequentato l’Accademia?

*cfr.: battuta dell'opera Macbeth

***

Lei era morta.

L’aveva saputo al suo ritorno. Era morta tra le braccia di quell’altro.

L’unica donna che aveva sperato di portare con sé, l’unica per cui si era battuto tutto quel tempo, cercando di sottrarla ad un destino segnato.

Un bollettino di guerra, alcune parole scritte in fretta in un dispaccio militare, ed era tutto. Manfred glielo aveva raccontato, il buon Manfred, l’ingenuo Manfred, andando a rivoltare inconsapevolmente il coltello in quella piaga che non era mai guarita. Era morta e ora non c’era più niente che avesse da fare al servizio di un popolo alieno e invasore. Fracassò per terra la bottiglia vuota e si alzò in piedi barcollando. Il rumore della porta che sbatteva gli parve il coperchio di una bara che si stesse chiudendo su di lui, ma ora almeno sapeva, e gli era chiaro come non mai, che aveva sbagliato tutto quanto, che non sarebbe potuto tornare indietro, che l’unica cosa che poteva fare era scegliersi con coscienza una bandiera sotto cui andare a morire.

EPILOGO

I reparti dell’esercito terrestre che si erano ribellati agli Illumidas erano stati decimati.

La prima vittoria dei ribelli era stata pagata a caro prezzo e solo con l’intervento provvidenziale dell’Arcadia avevano potuto sopraffare le numerose e ben organizzate truppe aliene.

Harlock e gli altri si aggiravano sul campo cercando di soccorrere i feriti, senza tuttavia poter fare molto di più che recare loro un po’ di conforto. Si rendeva conto, con un certo disgusto, che si stava abituando troppo in fretta alla morte e al sangue. Da quando si era così indurito? Che ne era stato del ragazzo entusiasta che sognava di volare? Perso così in queste amare riflessioni non si accorse dell’uomo steso lì vicino in una pozza di sangue, finché questi non cercò di afferrargli con la mano l’orlo del mantello che sfiorava il suolo. Si chinò subito su di lui cercando di girarlo con delicatezza, ma quando lo vide in faccia spalancò il suo unico occhio per la sorpresa. Non si sarebbe aspettato di trovare in mezzo a quegli uomini quel viso che ricordava bene, pur non avendolo più visto da molto tempo.

‒ Heinz! – esclamò. Non era quasi cambiato. Gli stessi capelli dorati, lo stesso viso da ragazzo, ora terribilmente pallido. L’altro aprì gli occhi sbattendo le palpebre, come per cercare di metterlo a fuoco. Erano sempre dello stesso freddo azzurro, ma ora sembravano persi in una lontananza indistinta.

‒ Harlock? – sussurrò. ‒ Sei tu? Di tutti i fottuti bastardi dell’Universo proprio tu dovevi venirci in aiuto… Ma guarda come ti sei conciato… stai andando a un ballo in maschera?

Il tentativo di fare dell’ironia si perse in un colpo di tosse che gli fece sputare sangue.

‒ Sta’ fermo, adesso chiamo il dottore – disse Harlock cercando di essere rassicurante, ma l’altro tossì ancora, ansimando penosamente.

‒ Non mi prendere in giro… non mi serve più il dottore. Certo che… ‒ continuò a fatica – abbiamo fatto una bella carriera, fra tutti e due… Harlock non rispose, sopraffatto improvvisamente da una pena che non avrebbe mai pensato di provare per uno come Heinrich Böll. Il suo passato gli franò addosso di colpo.

‒ Heinz… ‒ sussurrò, e in quel nome c’era tutta la stanchezza, tutto il dolore, tutto il rimpianto di un tempo che non sarebbe più tornato.

‒ Promettimi… ‒ cercò di dire ancora il ferito, ma non riuscì a terminare.

La sua frase restò così, a mezz’aria, congelandosi nel dispetto della morte. Ma Harlock aveva capito lo stesso. Voleva dire “Promettimi che combatterai, promettimi che non ti arrenderai, promettimi che non dimenticherai, promettimi di farlo anche per me”.

‒ Sì – rispose mettendolo giù dolcemente. ‒ Te lo prometto.

E in quel momento capì, con una chiarezza dolorosa, che l’ultimo brandello della sua giovinezza se n’era andato per sempre.

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