Nel vuoto cosmico

di KeyLimner
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Damon ***
Capitolo 2: *** Incontro ***
Capitolo 3: *** Giù nell'abisso ***
Capitolo 4: *** Tic toc... ***
Capitolo 5: *** Superficialità ***
Capitolo 6: *** Lost in translation ***
Capitolo 7: *** In viaggio ***
Capitolo 8: *** La precarietà di un balcone ***
Capitolo 9: *** Rivelazione ***
Capitolo 10: *** Disordine ***
Capitolo 11: *** Parole anarchiche ***



Capitolo 1
*** Damon ***


Damon si trascinò lungo il corridoio esausto.
Le borse lo tiravano verso terra con una forza tale da farlo dubitare delle proprie capacità di arrivare fino alla camera. Avrebbe potuto perfino passare la notte lì, nel corridoio, sdraiato sotto l'accappatoio verde che portava sempre con sé (gli era capitato di dormirci sotto ed aveva constatato che era caldo come una coperta, sicché lo preferiva sempre - nonostante fosse così ingombrante - a quei comodi accappatoi da viaggio che si ficcano in valigia con tanta semplicità, per via di quella sua seconda utilissima funzione).
L'inserviente continuava a blaterare con tono stridulo qualcosa circa l'orario della colazione, il cambio delle lenzuola... Dio! Ma non deglutiva, ogni tanto?
Ma ecco che erano finalmente arrivati davanti alla sua porta.
«Sì... sì... grazie mille. Se mi serve qualcosa non esiterò a chiamarla, ok? Allora buonanotte anche a lei».
E prima ancora che la poveretta avesse modo di rispondere (aveva già spalancato come un forno quella sua maledetta boccaccia) si infilò nella stanza e chiuse rapidamente la porta.
Quando fu dentro, tirò un lungo, esasperato sospiro di sollievo.
Finalmente libero, pensò. Libero da quella piattola dell'inserviente. Dal viavai continuo di gente che anche nei giorni di festa - soprattutto nei giorni di festa - inonda le strade sommergendo ogni passante come una mandria imbufalita. Dal personale orribilmente cordiale e sorridente dell'aereo. Quanto appaiono falsi quei sorrisi! Pare che siano stati scolpiti in serie da enormi blocchi di identico gesso, inseriti in finte gengive di silicone e solo successivamente sistemati all'interno della cavità orale delle hostess che fanno avanti e indietro per lo stretto corridoio del velivolo con il loro carrello di salatini striminziti, succhi di frutta e biscotti rinsecchiti. "Come, signore? Un bicchiere d'acqua? Sono tre euro e settantacinque, grazie". E con quello stesso sorriso smagliante, la bionda di turno ficca i tuoi tre euro e settantacinque nel suo carrellino e ti porge una bottiglietta con una quantità d'acqua appena sufficiente a riempire un ditale.
Damon aveva sempre odiato gli aerei.
Non perché lo spaventasse volare - anche se, se si soffermava a pensarci, l'idea di trovarsi in una scatoletta di metallo sospesa a più di trecento metri da terra non lo rendeva particolarmente tranquillo... malgrado le ragionevoli osservazioni di tutti circa la sicurezza degli aerei...  "il mezzo di trasporto più sicuro del mondo"... Ecco, forse in effetti era proprio questo a infastidirlo: quell'ossessione per la sicurezza, gli interminabili rituali di controlli minuziosi su ogni cosa… sulle valigie, sui vestiti, sulle scarpe (gli era capitato addirittura che lo costringessero a passare scalzo sotto il metal detector perché gli stivali avrebbero potuto avere delle parti in metallo... un accorgimento del tutto inutile, dal momento che continuava a suonare sempre perché si dimenticava puntualmente - forse in una sorta di orgogliosa e inconsapevole ribellione - di sfilarsi l'orecchino, o il bracciale, o l'anellino a forma di serpente)... a momenti ti controllavano pure le mutande. Per lui invece la magia di un viaggio stava in parte anche in quella specie di tensione latente… in quel piacevole sottofondo costituito dal rischio sempre presente che sul veicolo si nascondesse un terrorista pronto a dare fuoco alla sua riserva di esplosivi... che qualcuno gli soffiasse la valigia sotto il naso se si assopiva per un istante.
Quindi, in definitiva... sì, all'ambiente falso e asettico degli aerei preferiva il treno. Il treno e la sua pigra lentezza. Il treno e la sua concretezza… la sua vicinanza al suolo, dal quale era separato solo da pochi centimetri di rotaie contro cui sfregava stridendo mentre sfrecciava senza fretta verso la sua meta. Per di più, le ore passate a fare la fila per il check-in, per imbarcare i bagagli, per salire sul pulmino che porta alla pista di lancio... ad ascoltare l'interminabile pappardella del tizio venuto a snocciolare una sequela di norme di sicurezza in quattordici lingue (come se qualcuno vi prestasse ascolto... e soprattutto come se mettersi la mascherina per l'ossigeno o il giubbino gonfiabile avrebbe potuto salvarlo da un eventuale disastro aereo)... lo irritavano molto di più di dieci o anche quindici ore in più sul sedile di un treno, in cui perlomeno poteva guardare il paesaggio e perdersi in riflessioni sul senso dell'esistenza ascoltando la musica dall'iPod, o chiacchierare con un compagno di viaggio... o con uno sconosciuto seduto vicino - se si aveva la fortuna di trovarne uno socievole.
Gettò le valigie a casaccio in un angolo, e lo stesso fece con le scarpe. Dedicò alla camera solo una breve occhiata - il tempo di registrare uno per uno gli elementi del mobilio che avrebbero potuto tornargli utili; tanto le camere d'albergo sono tutte uguali. Poi si lasciò ricadere su una poltrona imbottita. Lasciò che i nervi si distendessero, adattandosi alle morbide pieghe del tessuto, e che le ossa irrigidite scricchiolassero.
Quando si fu un po' riavuto, agguantò un paio degli asciugamani bianchi che aveva individuato sul comò di mogano e andò in bagno. Sapeva bene che il prezzo del suo alloggio era calcolato in modo tale che, qualunque cifra sarebbero stati obbligati a spendere per via delle sue esigenze, avrebbero comunque avuto da guadagnarci. Pertanto - naturalmente - si premurò di lasciare tutte le luci accese per consumare più energia possibile, e aprì il getto della doccia alla massima intensità per farla riscaldare.
Nel frattempo, si guardò nel grande specchio lucido. Aveva un aspetto terribile.
Fece un lungo bagno rigenerante per riprendersi, usando un'abbondante quantità di bagnoschiuma. Quando uscì con il suo accappatoio verde addosso, si sentì una persona nuova. Gli asciugamani che aveva portato in bagno rimasero intatti dove li aveva lasciati, abbandonati sulla tavoletta del water. Magari più tardi li avrebbe imbrattati in qualche modo giusto per il gusto di farlo.
Si asciugò rapidamente, poi lanciò un’occhiata alla sua valigia, considerando per un attimo l'idea di prendere un paio di mutande e il pigiama. Alla fine mandò tutto al diavolo e s'infilò sotto le coperte nudo come un verme, troppo stanco per fare alcunché, anche per lasciare l'accappatoio in un luogo diverso dal comodino a lato del letto.
Si addormentò subito.

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Capitolo 2
*** Incontro ***


Vi capita mai, quando siete circondati da persone che parlano una lingua straniera, di avere l’impressione che gli altri vi stiano prendendo in giro? Che le incomprensibili sequenze di suoni che emettono altro non siano se non versi senza senso, elaborati al solo scopo di farsi beffe di voi?
Ricordo che qualche anno fa andai con alcuni miei amici in un college estivo a Cambridge. La sera ci riunivamo tutti in un parchetto dove ragazzi di ogni nazionalità andavano a ubriacarsi insieme allegramente. Si potevano sentire lingue di ogni tipo, come in una gigantesca Babele. Una sera eravamo un po’ alticci, e su iniziativa di uno dei più brilli dei miei compagni intraprendemmo un gioco piuttosto bizzarro: parlavamo fra noi rivolgendoci suoni inarticolati, come se anche noi stessimo confabulando in una nostra lingua sconosciuta agli altri… mentre in realtà facevamo solo i cretini. Il pensiero che la gente intorno avrebbe potuto effettivamente crederci stranieri, originari di chissà quale lontano Paese, ci divertiva a tal punto che non potevamo fare a meno di parlare a gran voce e ridere sguaiatamente.
Di tal genere appunto erano i pensieri che mi attraversavano la mente, mentre con i miei compagni mi incamminavo lungo i corridoi dell’aeroporto di Parigi e vedevo la gente fluire accanto a me come mossa da una qualche forza invisibile. Mi sarebbe piaciuto studiare il francese, pensai, sentendo per l’ennesima volta quelle parole dal suono così musicale fluire dalle labbra di una signora di mezza età che mi sfrecciava accanto tirando per il braccio una ragazzina urlante. Purtroppo, nella mia scuola alle medie si studiava solo spagnolo. Non che in quella lingua avessi acquisito chissà quale competenza, in quei tre anni; quando lo avevo rivenduto, il mio libro di testo era praticamente nuovo.
Mi guardai intorno in modo apparentemente casuale, simulando una certa nonchalance. In realtà, sapevo perfettamente cosa stavo cercando.
I nostri occhi s’incontrarono a mezz’aria, come si scontrano le nubi durante le tempeste.
I suoi erano inconfondibili come sempre. Come sempre spalancati e attenti, neanche avessero deciso di assumersi il gravoso incarico di scrutare in ogni angolo per captare tutti i particolari… quelli che sfuggono ai più, e che solo qualcuno si sforza di trovare. La loro forma, il loro colore, facevano pensare a dei cavalloni impetuosi coperti di spuma, che si levavano dal buco nero della pupilla irrompendo verso l’esterno in un atto di ribellione… fuggendo coraggiosamente al vuoto che tentava di ingoiarli.
Mi sorrise appena, tanto per dimostrare di avermi visto. Quel sorriso bastò a far battere il mio cuore come un tamburo. Poi lui si voltò, e avvicinandosi prese a salutare gli altri ad uno ad uno.

Quella sera ci riunimmo tutti in una piazzetta nei pressi del nostro albergo. Venne anche lui.
Non saprei dire perché quando aveva saputo la meta del nostro camposcuola avesse deciso di seguirci. Di rado riuscivo a spiegarmi le sue azioni… e forse questa era una delle ragioni che lo rendevano tanto affascinante ai miei occhi. Non frequentava più la nostra scuola ormai: aveva fatto la maturità l’anno precedente, e per quanto ne sapevo si era iscritto alla facoltà di Filosofia. Era lì a Parigi già da un paio di giorni. Era arrivato con un paio di amici che conoscevo solo di vista, e che in quel momento non erano con lui.
Non parlammo granché. Per un po' mi limitai a osservarlo da lontano. Lui di tanto in tanto si voltava a fronteggiare il mio sguardo, e ci guardavamo a lungo, intensamente, finché uno dei due non si decideva a mollare la presa. 
Ricordavo come fosse ieri quel giorno, l’anno precedente… quando nell’aureola del tramonto vermiglio, sul terrazzino della casa al mare di Susanna, mentre tutti gli altri erano al piano di sotto e potevamo sentire le loro risa sguaiate… i nostri occhi erano sprofondati gli uni negli altri fino a fondersi… la sua mano mi aveva accarezzato dolcemente i capelli… e le nostre labbra si erano incontrate. Le sue erano morbide come un fiore di pesco.
Non so perché allora mi ritrassi. Forse fu perché la sua mano, pian piano, dai capelli aveva preso a scendere sempre più giù… sempre più giù… e a un certo punto era arrivata troppo in basso, e non avevo avuto il coraggio di prolungare ancora quel bacio. Fatto sta, che da allora non l’avevo più rivisto. E avevo passato mesi interi a riassaporare nel ricordo il sapore di quel bacio, e a mangiarmi le mani per aver permesso che mi sfuggisse. E adesso… era di nuovo qui. Sembrava così irreale…
Dopo un po’, rientrammo in albergo. Lui ci venne dietro. Si nascose fra di noi perché i professori non lo vedessero entrare.
Eravamo già tutti piuttosto brilli. Perduta ogni inibizione, quando mi ritrovai distesa vicino a lui, non provavo più un filo di imbarazzo. Cominciammo a parlare come due vecchi amici. Io ridevo stupidamente; solo dopo mi sarei vergognata ripensando a quanto apparissi sciocca in quel momento. Lui mi sussurrava con voce profonda. Non ricordo più cosa disse. Solo la sua voce vellutata, che mi risuonava nel petto come fossi uno strumento che lui faceva vibrare con dolcezza.
Ad un tratto, gli altri cominciarono ad andarsene pian piano a dormire. Erano le tre passate. Ci fu una mezzoretta di baccano generale, mentre ciascuno cercava il proprio letto premurandosi di buttare giù gli eventuali occupanti o trascinandosi alla ricerca di un altro giaciglio libero.
Quando scese il silenzio, lui si voltò piano verso di me… e mi guardò senza dire una parola. I suoi occhi erano come le maree. Come un mare ghiacciato, ma non nel suo stato di quiete: il gelo del suo sguardo pietrificava le onde proprio quando erano sul punto di rifrangersi sulla riva dell’iride… le catturava nell’istante di massima violenza, quando stavano per dilaniare il bianco della cornea con le loro zanne acuminate e la spuma spruzzava da ogni parte come bava dalle fauci di una bestia famelica; a contenerle, un solido cerchio di metallo scintillante. Le gocce d’acqua erano congelate in tanti piccoli e minacciosi cristalli che scintillavano sotto la luce come minuscoli diamanti.
Impossibile non restare incantati.
Quegli occhi mi stavano rivolgendo un’implicita domanda. E sapevo… lo sapevo anche se in quel momento non ero lucida e capivo poco o niente (ma “capire”, nel senso in cui lo si intende comunemente, era una cosa inutile, specialmente allora, che ero consapevole di non poter fare affidamento sul mio cervello, ma sapevo che in ogni caso mi sarebbe servito a poco o a niente, anzi, mi sarebbe probabilmente stato di impaccio…)… sapevo che i miei occhi gli stavano rispondendo di sì.
Sorrisi. Abbassai lo sguardo, e non era per il vino.
Dopo un po’, chiusi gli occhi. Sospirai. Stavo proprio bene. Come avrei voluto restare così per sempre… La mia testa girava… girava… I rumori erano confusi. Le sensazioni che mi giungevano dal mondo formavano una strana amalgama, in cui mi era difficile distinguerle. Ma stavo bene.
Quando cominciai a sentire un solletichio al polpaccio, ci misi un po’ a rendermi conto che era la sua mano. No… ti pego, no…, pensai. Era tutto così perfetto che avevo paura che adesso rovinasse tutto. Ma per un po’ mi sfiorò in modo così lieve che potevo fingere si trattasse di un contatto casuale. Pian piano, però, la mano si fece più insistente. Tutt’a un tratto, cambiò posizione, e appoggiò la testa sulla mia pancia. Trattenni il respiro.
La mano saliva. Io continuavo a restare immobile, senza reagire in alcun modo.
D’un tratto, sentii il mio atteggiamento cambiare. Il corpo rilassarsi. Ora volevo che continuasse. Volevo che avesse la meglio su di me. Non avevo intenzione di arrendermi, però. Semplicemente, cessai di oppormi, ponendomi in un atteggiamento di sfida.
Vediamo se ci riesci, disse una vocetta maliziosa nella mia testa.
Si spostò ancora. Salì ancora di più. Ora era dietro di me. Gli davo le spalle.
Ecco, è il momento, pensai. Sapevo cosa voleva. E sapevo di volerlo anch’io. Ma avevo paura. Paura di cosa sarebbe accaduto. Se lo avessi assecondato, avrei mandato in frantumi il mio alibi: quel che mi stava chiedendo era una risposta. E chi risponde non può più restare neutrale…
Mi sfiorò le labbra. Io le dischiusi, ma non mi voltai. Poi lui iniziò a chiamarmi, piano, con un filo di voce.
Alla fine, cedetti. Mi girai verso di lui, e per la seconda volta le nostre labbra si incontrarono. Fu un bacio lungo… più lungo di quello precedente. E stavolta, quando la sua mano iniziò a scendere, non la fermai…

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Capitolo 3
*** Giù nell'abisso ***


La mattina dopo, quando mi svegliai, era sparito.
Tastai a tentoni le lenzuola accanto a me, e sentendole vuote scattai a sedere. Non c'era nessuno.
Gli altri mi dissero che se ne era andato la mattina presto. Susanna venne subito a tirarmi da parte per tempestarmi di domande, supplicandomi di non tralasciare i dettagli. Io ero ancora stordita. Avevo ricordi molto confusi. 

Non c'è niente di più terribile che sentire le parole finire, quando non finisce affatto ciò che esse dovebbero esprimere.
Le sento affievolirsi sempre più, mentre invece la mia angoscia cresce... cresce... Posso percepirla ribollirmi sotto la pelle come pece rovente, che mi lambisce le viscere con tocco insinuante al di sotto del sottile velo della cute. I suoi occhi demoniaci mi guardano dai recessi del mio animo con aria famelica. Non aspettano che il momento giusto per divorarmi.

Le pareti mi serrano fino a soffocarmi. A tratti le vedo chiudersi su di me, rompere la loro rigida geometria per venirmi incontro come per risucchiarmi nella loro struttura, trasformando anche il mio corpo in un agglomerato di intonaco secco. 
Ma più di tutto mi opprime la tua immagine. 
Potresti stringermi, abbracciarmi. Potresti darmi il tuo calore, come hai già fatto mille volte nei miei sogni. Ma so... lo so quando le tue braccia mi abbandonano e resto sola, chiusa in una stanza che mi divora... so che quel calore non era che il mio stesso tepore che fuggiva, mentre tu me lo rubavi per restituirmi solo un freddo glaciale.
La distanza che ci separa, e che sembra espandersi come lo spazio cosmico sotto l'effetto del big bang (e chissà che gli atomi in fuga non tornino ad unirsi un giorno... o forse continueranno a viaggiare nel vuoto sempre più lontani e sempre più soli... sempre più freddi), si estende come un crepaccio sotto le mie piante. La distanza è un baratro in cui ho una folle paura di cadere. 
Non so starti lontana perché non so stare da sola con me stessa. La mia anima mi attira verso di sé come un buco nero, verso l'annullamento totale... o verso un'altra dimensione, chissà, ma una dimensione sconosciuta e lontana, in cui non potrei esistere così come sono, con il mio fiato caldo e la mia carne candida. La tua mano è un'ancora gettata negli abissi delle tenebre. Mi ci aggrappo con tutte le mie forze perché non ho altro a cui appigliarmi... e so che se lascerai la presa sarò perduta per sempre, perché non c'è niente in questo infinito oceano d'inchiostro se non il tuo volto, le tue dita affusolate, i tuoi occhi di ghiaccio che eppure posandosi su di me sciolgono i giganteschi iceberg che mi pesano sul petto.
So che non vuoi salvarmi. Ma la tua indifferenza è tutto ciò che mi rimane. La mia unica arma: un corpo che presto avvizzirà come un fiore alla fine del maggio, che sento già sfiorire inesorabilmente su di me come carta che si ritrae al contatto con una fiamma. 
Su quel corpo le tue mani hanno preso la via per la mia salvezza. Cercavano qualcos'altro, ma io ho fatto pressione affinché affondassero dove il mio cuore avvelenato palpitava stremato, sepolto da qualche parte sotto chili di catrame e sangue rappreso. Ho ignorato il tuo disgusto mentre sentivi quell'enorme massa tumorale pulsarti avida sotto le dita, e ho stretto forte i tuoi polsi per indurre le tue unghie a strapparla via... a gettarla lontano. 
Ma adesso che non ci sei, sento già le cellule infette moltiplicarsi intorno alla piaga. E tu sei fuggito lontano. Resta solo il tuo volto a guardarmi con orrore... al limite con un po' di compassione, che non basta però ad avvicinarti al mostro che ti rantola ai piedi. 
Le mie mani sono troppo deboli per sostituire le tue, così grandi e calde e sincere anche nella menzogna. Scivolano sulle piaghe inermi e ricadono sul pavimento, si serrano sui vetri infranti di una passione illusoria, fatta solo di vanità.
È solo un gioco. Un gioco a cui sono per forza io a perdere.
Ma non importa. Tanto la mia partita era già giunta a un punto di stallo, e da troppo tempo giacevo in bilico. Tu non hai fatto altro che tagliare quell'ultimo esile filo che mi teneva ancora appesa, come fa l'impassibile Atropo recidendo le vite umane che la sorte le ha assegnato.
Perché vi ostinate a dire che si è approfittato di me? Ha usato armi del tutto leali per sconfiggermi. Ed io gliel'ho permesso. Forse perché ero troppo debole - o troppo stanca - per oppormi. Forse perché nella vita bisogna per forza arrendersi a qualcosa... ed io ho solo fatto la mia scelta.
Ad ogni modo la sua vittoria è stata semplice. Strategica. Mi ha spinto a desiderare di essere vinta da lui... al punto che anche resistergli sarebbe stato per me una sconfitta. E a queste condizioni, perché non concedergli la sua ora di gloria?
È quasi con malsana dolcezza che accolgo le tenebre che ora pian piano si arrampicano su di me, mentre la notte mi inghiotte nel tentativo di saziare il suo stomaco senza fondo. Ho paura di chiudere gli occhi. Paura degli spettri che popoleranno i miei sogni. So che alle porte infuocate, tra i miei giudici infernali, ci sarai anche tu. Avrai un paio di ali nere sulla schiena, e mi guarderai in attesa di spiccare il volo sulla mia carcassa esangue, sventolando sul capo il tuo trofeo.
Sì. Hai vinto.
Hai avuto il mio corpo, e ora hai anche la mia anima. Prendila pure. Non so che farmene. Almeno appesa alla parete, imbalsamata, ti servirà da vanto, servirà a chi siede nel tuo salotto per ricordare la tua vittoria. Prendila e fanne ciò che vuoi.
Io resterò qui, nel buio, rannicchiata, impaurita, in attesa che la morte venga a prendermi. Chissà che qualcuno non arrivi prima di lei..

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Capitolo 4
*** Tic toc... ***


Ero tornata già da qualche giorno. La routine quotidiana aveva ripreso a scorrere inalterata, come se niente fosse successo. Eppure… sentivo che qualcosa era successo. Questa incongruenza mi lasciava spaesata. Non mi riusciva di conciliare le due cose.
La scuola... i compiti... le uscite con gli amici... Tutto era così irreale! Non c'era spazio fra tutte queste cose per quel dolore sordo che sentivo arrampicarmisi nel petto, quindi cercavo di ricacciarlo indietro, di soffocarlo… ma per farlo ero costretta a sopprimere ogni impeto del mio animo fino a ridurlo ad un sommesso rumore di fondo. Il problema era che assieme al dolore moriva anche tutto il resto.
Di colpo, ero di nuovo piombata in quell'insopportabile stato di passività in cui la mia mente, il mio corpo e la mia anima si trovavano a soccombere a quello spietato tiranno che prende il nome di tempo. Ecco che lo sentivo di nuovo impossessarsi di me: ecco che per l'ennesima volta io - l'individualità che mi rappresentava - non esistevo più nelle giornate, attraverso le giornate; erano piuttosto le giornate in cui ero immersa ad esistere al mio posto. Non esistevo nonostante il tempo... o quantomeno dentro il tempo. Io ero il tempo. O meglio: il tempo esisteva nonostante me.
Le mie giornate non erano un flusso continuo, che scorreva al ritmo della vita. Erano uno schema scandito in ore, minuti e secondi. E il mio vivere non era che riempire le ore, i minuti e i secondi... senza riempire me stessa. 
E lo sentivo. Lo sentivo, il vuoto, dentro di me, mentre le giornate si riempivano, si riempivano sempre più… divoravano tutto fino a traboccare. E tra le loro fauci, brani delle mie carni. Rivoli di sangue secco.
Quella sensazione non mi era sconosciuta. In un certo senso, si può dire che avevo imparato a conviverci, come avessi un ammortizzatore incorporato che attutiva gli urti... e tutto il resto. Ma lui... lui mi aveva come accesa. E senza la sua luce non riuscivo più a vedere nella penombra come prima. Strizzare gli occhi nelle tenebre non era più così semplice. Quando ci provavo, mi stancavo subito ed ero presto costretta a smettere. Restavo raggomitolata nella mia oscurità in una sorta di stanca rassegnazione.
Continuavo a rivivere quel momento. Anzi, in quel momento. Era l'unica casa che mi rimanesse. E mi ci aggrappavo come un moribondo si aggrappa all'ultimo sorso d'acqua che gli viene offerto. Ma l'acqua svelta evapora, come i ricordi.
Che ne sarà di questo momento?, mi chiedevo. E di tutti quelli che lo seguiranno? E che cos'è in fondo un momento, se non una frazione infinitesimale del nastro della vita che scorre? E come può davvero esistere... come possiamo davvero credere che esista... se non ci riesce di fissarlo, se il più delle volte fugge via, come impalpabile pulviscolo tra gli spazi immensi delle galassie... senza che ci facciamo neanche caso? 
Che fine fanno tutti quei momenti?
Me lo domandavo a volte, la sera, quando persa in contemplazione del cielo notturno fuori dalla finestra della mia camera mi scoprivo alla ricerca di una stella lontana, una stella amica che mi potesse riconoscere. Esiste, da qualche parte nell'universo, una discarica dove vanno a finire tutti gli attimi consumati... le anime spente... i progetti mai portati a termine... e tutti i pensieri... le emozioni... i sogni di coloro che non ci sono più? O siamo solo un esile organismo in decomposizione, i cui frammenti disgregandosi tornano a nutrire la terra che li ha generati… che ora, nuovamente affamata, li inghiotte?
 
Una donna sulla cinquantina esce dal palazzo.
Ha i capelli biondi ossigenati, le punte bruciate dalla piastra; a tenere su quella fragile struttura non può che essere una tonnellata di lacca. Il seno trabocca dalla maglia attillata a fiori, che la fascia come un bruco nel bozzolo. Mi chiedo come faccia a stare su. Deve avere un reggiseno rinforzato di metallo... oppure è il caso di buttare via i miei vecchi libri di fisica. Cammina sbarellando come fosse ubriaca, con quei seni informi che si agitano assecondando la sua andatura e le braccia larghe che penzolano mollemente. 
Quando si accorge che la sto guardando, fa una faccia stupita. Subito dopo, un sorriso lusingato squarcia quel volto sbilenco, fendendo quelle guance orribilmente cascanti.
Inorridisco.
Mi volto di scatto. Faccio appena in tempo a vedere le sue labbrone rifatte arricciarsi interdette prima di sottrarmi a quello spettacolo raccapricciante. Mentre mi allontano a larghe falcate, sento i suoi passi incerti alle mie spalle, il ticchettio irregolare dei suoi tacconi a spillo sull'asfalto.
Aveva due buste della spazzatura in mano. Per questo teneva le braccia larghe. Per tenerle a distanza.
Chiudo gli occhi.
Non riesco a escludere quel fastidioso prurito dalla mente. Inutile urlare alla mia testa che quelli che mi camminano sulle braccia non sono insetti ma silenziosi brividi, che sorgono spontaneamente dalla mia pelle come minuscole larve.
Un ronzio improvviso mi fa riaprire gli occhi di scatto.
Una mosca mi è sfrecciata davanti, ma troppo rapida perché potessi seguirla. Le mie pupille scrutano nervose l'aria, ma vedo solo l'albero di mimose all'imboccatura della strada. Il suo profumo dolciastro pian piano m'invade. Lo sento insinuarsi sotto la mia pelle, penetrarmi nelle ossa, finché non ne resto totalmente impregnata. A quel punto devo di nuovo distogliere lo sguardo. L'interruzione del contatto visivo mi provoca un immediato sollievo.
Com'è possibile?, mi chiedo. È possibile vedere un odore? In effetti l'albero è troppo lontano perché io ne senta veramente il profumo.
È tardi... è tardi... urla il mio cervello. La sua voce somiglia al suono stridulo della mia sveglia. Squilla a intermittenza, come la sirena di un'ambulanza.
Ma il cielo ha ancora le tinte livide del crepuscolo. Saranno sì e no le sei di mattina.
Aggrotto la fronte. Sono confusa.
Mi ridesta di colpo il rumore dei passi della signora di prima, che torna indietro con la stesso incedere caracollante. Stavolta ho solo una visione della sua schiena e delle sue natiche, altrettanto flaccide dei seni. Non ha più le buste della spazzatura in mano. Ritorna mesta da dove era venuta, stavolta senza degnarmi di uno sguardo. Quando si sbatte la porta del cancello alle spalle sobbalzo.
Forse dovrei tornare a casa.
Perché sono uscita? Non ricordo più.
Ho ancora il pigiama addosso, mi rendo conto lanciandomi una rapida occhiata.
Scrollo le spalle come per liberarmi da una sensazione spiacevole.
Sì: decisamente meglio tornare a casa...

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Capitolo 5
*** Superficialità ***


«Alessandra».
Mi riscossi con un sobbalzo. Non mi ero resa conto di quanto profondamente fossi rimasta immersa nelle mie riflessioni, prima che Clara si decidesse a risvegliarmi dal coma.
«Sì, scusa. Hai ragione. Ti sto ascoltando».
«No, Alessandra. Non mi stai ascoltando. Senti. Non si può andare avanti così. Sono giorni che giri con quella faccia da zombie. È arrivato il momento di darti una svegliata. Non ti ha più chiamata… magari non vuole avere più niente a che fare con te. È stata una cosa di una notte. Un gioco. Ok? Vi siete divertiti, d'accordo, ma adesso basta. Il gioco è finito. Fattene una ragione. Scusami se sono brutale, ma penso che tu ne abbia bisogno».
«Ma no, Clara… figurati… non è per lui… è che è tutto così…». Annaspai alla ricerca delle parole. Alla fine allargai le braccia in segno di impotenza.
Lei mi scrutò a lungo. «Se non riesci a parlare di quello che senti… prova a scriverlo».
«Non so che scrivere…».
«Sì che lo sai. È un po' come scrivere un racconto. La trama è già tutta nella tua testa. È qualcosa che hai vissuto… Lo conosci bene».
«Sì… ma non so come dirlo. Non so come esprimermi per far sì che si colga il messaggio».
«Lascia che la storia esca da te. Guardala oggettivamente, con lo sguardo lucido di un macellaio. E non avere remore a tagliare e amputare se farlo rende migliore il disegno. È questo l'unico segreto».
Restai in silenzio.
«Fidati», insisté. «È estremamente liberatorio. Vedrai che poi ti sentirai meglio. Scrivere ti permette di guardare le cose sotto una nuova luce… le oggettivizza in un certo senso. Le separa da te. E poi, dammi retta, è bello vedere i brutti pensieri trasformarsi in qualcosa che valga la pena di essere letto. Dà come un senso alla tua sofferenza».
Decisi di provare a seguire il suo consiglio.
Non so quanto tempo sedetti alla scrivania, quella sera, davanti al foglio immacolato della mia prima pagina di diario.
Quel diario era un regalo di almeno due anni prima, non ricordo più nemmeno da parte chi. Ricordo solo che allora pensai che era stato uno spreco di soldi, visto che in tutta la mia vita non ho mai tenuto un diario - se si escludono un paio di pagine spiegazzate risalenti alle elementari… tentativi goffi cui avevo presto rinunciato.
Trovavo ripugnante il pensiero di trascrivere ogni singolo minuto della mia noiosa esistenza, e ancora più rivoltante quello di rileggere quelle pagine a posteriori, obbligando me stessa a ricordare quanto fossi sciocca, quando il mio cervello aveva sicuramente riposto tanto impegno nel cancellare i dettagli più imbarazzanti del mio passato prima che io vanificassi del tutto i suoi sforzi.
Mi chiedevo stupita come facesse Clara a passare ore e ore a vomitare la propria vita sul suo diario… e quasi altrettante a sfogliare compiaciuta quelle pagine, commuovendosi ogni volta. Io sapevo già, prima ancora di posare la penna sul foglio, che sarebbe venuto un giorno in cui avrei volentieri bruciato quelle mie memorie.
Che scrivere?
Io, a differenza di Clara, non scrivevo mai dei miei sentimenti.
La penna giaceva sterile sul foglio. Nessuna parola germogliava dalla sua punta fredda.
 
Pensandoci, poi, mi resi conto che era come se mi mancassero le parole. Quelle che descrivevano i miei sentimenti sembravano tutte fuori luogo, obsolete.
Raggiunsi questa consapevolezza mentre sfogliavo pigramente le pagine di un libro che avevo appena ritrovato in soffitta rovistando fra le cose vecchie, contenente una raccolta di lettere d'amore scritte da Edgar Allan Poe.
La società in cui viviamo ci ha resi incapaci di tollerare la profondità. Incapaci di prenderla sul serio, pensai, chiudendo il libro e fissando il soffitto in attesa di un sonno che - ormai mi ero rassegnata - non dava segni di arrivare a breve. Leggendo quelle lettere d'amore vergate più di un secolo prima dalla mano di un illustre poeta, soffrivo nel constatare come quelle parole descrivessero perfettamente i miei stati d’animo, come fossero dolorosamente mie, consapevole - nel contempo - di quanto ridicole quelle stesse parole sarebbero suonate nella bocca di una ragazza del mio tempo, anche se accompagnate dal più nobile dei sentimenti.
Per poter esprimere quei sentimenti, avrei dovuto sforzarmi di trovare termini più semplici, più frivoli… più intonati alla superficialità e alla cafonaggine del secolo del consumismo, della televisione, delle macchinette digitali e delle chiacchiere a vuoto, in cui persino le dichiarazioni d'amore devono essere confezionate e impacchettate in serie sulla base di un modello progettato a tavolino al quale poteva essere apportato solo un numero limitato di varianti.
Il guaio era che non era possibile descrivere le mie emozioni tramite espressioni canonizzate. Sarebbe stato come svendere una raccolta di sonetti di Shakespeare agli strilloni e ai colori sgargianti delle inserzioni pubblicitarie, lasciando che venissero accompagnati - perché no? Al pubblico piace, fa audience - da qualche velina mezza nuda con una farfallina tatuata in qualche punto troppo vicino a “L'origine du monde”.
Meglio tacere, dunque, e lasciare quel sentimento inconfessato nei recessi della mia anima, dove avrebbe potuto germogliare e dar vita ai più splendidi fiori.
Non c’era posto per quel timido e delicato bocciolo nella realtà. Gli slogan pubblicitari - urlati a squarciagola da ogni centimetro calpestabile -, lo smog, le insegne costellate di accecanti luci al neon, l'avrebbero senz'altro terrorizzato. In una simile giungla spietata, non avrebbe certo avuto modo di attecchire. Sarebbe avvizzito prima ancora di toccare quel suolo gremito, già dilaniato da migliaia di radici rapaci che facevano a cazzotti per cercare di succhiarne tutto il contenuto.
“Ti amo” non è sufficiente.
Dio, quanto suona ridicola e affettata questa frase al giorno d’oggi.
È già scritta a caratteri cubitali su migliaia di cartelloni pubblicitari, sui bigliettini spiegazzati di innumerevoli Baci Perugina esportati in tutto il mondo. Un’intera generazione di sfaccendati ha contribuito a far evaporare da essa tutto il significato, lasciando giù a stagnare niente più che una melma melensa, troppo densa persino per volare via in un tubo catodico.
Ma aspetta… da mo che siamo passati dal tubo catodico alla rete satellitare. Non sono trascorsi ancora diciassette anni dalla mia nascita e sono già obsoleta nel modo di esprimermi. E meno male che sono giovane, io.
Ma dov’è finito il contenuto delle frasi d’amore con cui un tempo ci scaldava il cuore nelle pigre serate d’agosto trascorse al lume di un falò in spiaggia? Consumato, avvilito, è ormai da restaurare. Ma… dimenticavo che siamo nel Paese in cui “Con la cultura non si mangia”. Quindi, niente finanziamenti per i restauri. Ci terremo i nostri melensi e vuoti “Ti amo”, per servircene quando non ci saranno rimaste altre carte da giocare nel mazzo della solitudine…
 
L'inquietudine ha il contorno denso di una nube di fumo. Come quell’alone spesso che l'asfalto rovente emana a contatto con l’aria, offuscando la visuale.
Il vento solleva mulinelli di carte di gelato e scontrini sul pavimento lastricato all'uscita del bar sotto casa mia, turbando la loro quiete come un cupo avvertimento. Il fumo che fuoriesce dalla sigaretta nella mia mano sale in circolo seguendo la loro danza.
Quand’è che ho cominciato a fumare?
Osservo il tubetto di carta e tabacco nella mia mano destra quasi stupita di vederlo lì. Giace tra le mie dita inerte, come un corpo estraneo che aspetta solo di essere espulso in qualche modo.
Guardo quelle grigie particelle gassose espandersi nell’aria e colorarsi di mille sfumature sotto i raggi del sole, come tante minuscole bolle di sapone. Per un attimo, mi sembrano quasi degli aquiloni variopinti, sfuggiti alle mani di un bambino sfortunato. Chissà quanto piange ora quel bambino…
Finita la sigaretta, mi ritrovo a osservare la facciata scrostata del palazzo di fronte attraverso la ringhiera del balcone. Man mano che il tempo passa, rendendo inconsistente l’immagine della facciata, sbiadendo il rosa già pallido dell’intonaco e appiattendone le imperfezioni, quelle aste verticali disposte a distanze regolari mi appaiono sempre più come le sbarre di una prigione. Non posso fare a meno di constatare che oggi indosso una salopette a righe che mi fa assomigliare ad una carcerata.
Dopo un po’, comincio a giocare pigramente con la cenere nel bicchiere di plastica di Trilly al mio fianco. Non c'è nessun posacenere a casa mia. I miei non fumano. Mio padre fumava da giovane, poi ha smesso. 
Ripensandoci… credo di non aver mai visto una casa senza un posacenere, a parte la nostra. Di solito se ne trovano anche presso le case dei non fumatori; li si tiene per gli ospiti, o anche solo per bellezza. Una volta, ad un laboratorio di ceramica, ne avevo realizzato uno e lo avevo portato a casa. L'unica ad averne usufruito era stata mia zia, quando ancora veniva a trovarci. Poi lei e mamma avevano litigato, e allora il posacenere aveva cominciato pian piano a riempirsi delle cianfrusaglie che non si sapeva bene dove mettere, e così aveva perso la sua funzione: a nessuno infatti sarebbe mai venuto in mente di svuotarlo per usarlo allo scopo che gli era idoneo, e così chi veniva da noi finiva per usare bicchieri o tappi di bottiglia… come me adesso.
Che fine aveva fatto poi il mio posacenere?
Doveva essersi rotto cadendo… oppure semplicemente nessuno si ricordava più della sua esistenza. Tante cose semplicemente si dimenticano… poi tornano a galla quando meno te l'aspetti, portate in volo da ali leggere come il fumo di una sigaretta.
Perché allora io non dimentico? Perché non riesco a dimenticare?

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Capitolo 6
*** Lost in translation ***


L’icona di digitazione lampeggiava sul riquadro della chat. Davanti, solo uno spazio bianco. Il suo nome, lì in alto, sembrava fissarmi minaccioso.
Le mie dita protese sulla tastiera tamburellavano senza decidersi a premere sui tasti.
Rimasi per un po’ così, a fissare quell’icona lampeggiante. Poi mi arresi. Allontanai la sedia dalla scrivania e chiusi il portatile di scatto.
Non potevo davvero pensare di scrivergli su Facebook. Non avrebbe significato nulla. Sarebbe stato solo un modo per rendere ancora più futile e inconsistente ciò che c’era stato fra noi.
La tecnologia ci rende sempre più distanti. 
Sembra che ci avvicini, collegandoci tramite un’immensa rete a quelli che abbiamo attorno, ma in realtà finisce per allontanarci ancora di più. 
La tecnologia contribuisce alla nostra alienazione come fecero a suo tempo prima la parola e poi la scrittura, ponendo tra noi e gli altri barriere di simboli per tradurre semplici messaggi con complicate sequenze. Barriere su barriere, tra le barriere che già ci dividono. E guardare attraverso quel vetro sempre più opaco diventa via via più difficile: gli occhi si socchiudono intenti, finché, stremati, non si stancano di guardare. 
E su ogni vetro, un codice diverso, un miliardo di codici sovrapposti, che devono essere tradotti uno dopo l’altro… e ogni traduzione richiede un grande sforzo e un certo grado di approssimazione, che aumenta l'incertezza del risultato finale, la sua imprecisione… sicché, al crescere delle variabili, cresce anche il numero delle possibili soluzioni. È un'equazione che si fa sempre più complessa. Finché il messaggio iniziale - anche il più semplice - risulta del tutto incomprensibile…
È che la complessità delle strutture traballanti su cui abbiamo costretto il nostro pensiero (o meglio, dove esso stesso si è segregato) ci impedisce di accettare che l’animo umano sia in realtà tanto semplice. Semplice come quello di una bestia. Perché l’uomo ha tanto orrore di essere definito per quello che è? Perché tanta vergogna della propria natura?
Continuiamo dunque a sedarci per dimenticarci di essere vivi. Per dimenticarci di essere bestie.
 
«Sono solo un gioco?».
Silenzio.
«Dimmelo. Devo saperlo».
Si guarda le scarpe imbarazzato. Non c’è bisogno di aggiungere altro.
«D'accordo. Allora giochiamo».

Hai barato. Hai preso la parte di me che ti faceva comodo prendere… poi hai buttato il resto alle ortiche.
È troppo comodo così… Regalare a una ragazza una notte di piacere, sorbire avidamente la linfa vitale che galleggia in superficie come un liquore dolce e poi lasciare il residuo amaro sul fondo, a corroderla. Portare la luce in una cantina buia, rubare tutti i gioielli preziosi…. e poi uscire sbattendo la porta.
Dove mi hai lasciato fa freddo, e l’umidità mi entra nelle ossa, mi si arrampica dentro come edera. Un sorriso amaro mi solca il volto mentre giaccio a terra in mezzo alla polvere.
Lo so. Me la sono cercata. Sapevo che era solo un gioco… ma credevo di essere in grado di affrontarlo. Volevo giocare anch’io. Ma io non ho mai saputo giocare con leggerezza, neanche da piccola: ogni gioco era un momento cruciale, una rivelazione… tutto aveva la serietà della vita.
Adesso gioco col fuoco. Col fuoco che mi arde dentro… e che ora si è spento.
Sei stato tu a soffiarci sopra, sai?
L’hai alimentato abilmente, perché le sue lingue si protendessero verso di te, poi, col tuo respiro caldo, sbadato, hai rotto l’incantesimo, e mi hai lasciata al freddo.
Le mie mani si allungano sul pavimento come tentacoli, afferrano manciate di polvere come se cercassero di trasformarla in qualcos’altro. Le mie mani mi accarezzano dolcemente, disperatamente il corpo, cercando la scia delle tue, cercando di sostituirsi alle tue. Ma lungo quelle scie, solo carne bruciata e insensibile. E se abbraccio l'aria, nel vuoto lasciato dalla tua assenza, abbraccio solo me stessa.
È comodo conoscere di una ragazza solo ciò che risplende… e lasciare tutta la sofferenza, l'insicurezza, la precarietà, la confusione, la malinconia… nell'ombra.

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Capitolo 7
*** In viaggio ***


Sono seduta sul treno.
Sono sola: le altre sono già partite ieri col treno della mattina; io avevo delle faccende da sbrigare, quindi ho detto loro che le avrei raggiunte.
Detesto viaggiare da sola: sembra che il tempo non passi mai… forse perché non faccio che guardare l'orologio con aria impaziente.
Il mio vagone è vuoto, fatta eccezione per un vecchietto seduto dall’altra parte della cabina con una pipa in bocca (naturalmente spenta) che continua a rigirarsi nervosamente fra le labbra mentre sfoglia il suo giornale. Di tanto in tanto controlla la valigetta ai suoi piedi come se avesse il terrore di perderla. Non bada minimamente a me, né io a lui.
A un certo punto, il treno si ferma.
Le porte si aprono ed entra una signora di colore, il corpo imponente fasciato da un vestito dal colore azzurro acceso, nelle mani tre enormi borsoni di tela variopinta che sembrano pesare un quintale, ma che maneggia come fossero bambole di pezza.
Viene a riporli accanto ai miei, sul bagagliaio sopra la mia testa. Non sembra fare il minimo sforzo. Poi mi si siede accanto.
La cosa inizialmente mi infastidisce. Tutto il vagone è libero: perché questa scocciatrice deve sedersi proprio vicino a me? Non siamo nemmeno nel verso delle rotaie, e il sedile accanto al finestrino è già occupato da me. Ma il fastidio dura poco; dopo un po' torno a ignorarla.
Passata una mezzoretta, mi rendo conto all’improvviso che per tutto il viaggio non ha mai mosso un muscolo. È rimasta perfettamente immobile al suo posto, le mani abbandonate in grembo, a guardare fuori dal finestrino. Mi accorgo con un certo imbarazzo che io invece non sono stata ferma un minuto: per tutto il tempo non ho fatto che agitarmi, frugare nella borsa per trarne l’mp3, o un libro da leggere; dopo aver letto un po’ o ascoltato un po’ di musica cominciavo a innervosirmi e tornavo a frugare nella borsa; ogni tanto armeggiavo col cellulare e poi guardavo fisso davanti a me cercando qualcosa da fare.
Tento di osservare la mia compagna di viaggio senza farmi notare, lanciandole occhiate furtive.
Ha i capelli neri raccolti in treccine, fermate dietro il capo da un fermaglio di legno che ha tutta l’aria di essere stato intagliato a mano. Le sue mani sono grandi, un po’ grassocce, e sono completamente abbandonate sul tessuto leggero del vestito. Emana un profumo esotico, insolito. Ne sono stata vagamente consapevole per tutto il viaggio, ma ci faccio veramente caso soltanto adesso.
La cosa più sorprendente, però, sono gli occhi. Sono grandi, scuri, col bianco che spicca sulla pelle bruna come una perla su un piano d’ebano. Il loro sguardo è carico d’un’intensità sconcertante: sembra agganciarsi ad ogni elemento del paesaggio che le sfreccia sotto gli occhi come se volesse trarne tutto il significato, pur continuando ad apparire in qualche modo calmo, distaccato. Non batte quasi mai le palpebre. Quando lo fa, le sue enormi ciglia corvine fremono come le ali di un colibrì.
Al confronto con lei, mi sento molto sciocca e frivola.
Cosa non darei per conoscere i pensieri che si agitano dietro quegli occhi!
Forse non vi troverei altro che gli spazi sterminati di una savana, su cui sorge la silhouette di radi alberi… col sole che sale lento all’orizzonte come in certe scene del Re Leone - magari con una musichetta dal sapore tribale in sottofondo.
Quella visione si insinua pian piano dentro di me e lentamente invade tutta la mia visuale.
Dopo un po’, la mia vicina prende a tamburellarsi sul grembo. Le sue dita sono incredibilmente aggraziate, malgrado siano così grassocce. Sembra seguano un ritmo preciso. Guardandole mi pare quasi di riuscire a intuirlo. Comincio a canticchiare un motivetto a bocca chiusa, quasi senza avvedermene.
Si accorge che la sto osservando. Quando alzo lo sguardo, vedo che mi guarda anche lei. Mi sorride con dolcezza. Io le sorrido timidamente. Poi torniamo a farci ognuna gli affari propri, ovvero io ricomincio a leggere il mio libro e lei torna a guardare in silenzio fuori dal finestrino. Dopo un po’, quando mi stufo, provo a rivolgere la parola, ma evidentemente non capisce la mia lingua perché scuote il capo sorridendo. Allora rinuncio del tutto a ogni contatto e passo il resto del viaggio ad ascoltare De Andrè con le cuffiette.
La sua presenza silenziosa, accanto a me, ha un che di rassicurante. Sembra quasi che mi sorvegli, spandendo su di me la sua calda aura protettiva.
Quando arrivo alla mia fermata, mi viene spontaneo salutarla prima di scendere. Lei risponde al mio saluto con un cenno, elargendomi uno dei suoi caldi sorrisi, e mi sento un po’come se stessi dicendo addio ad una vecchia amica… come se la conoscessi da sempre.
Mentre mi avvio con la valigia verso la fermata della corriera, continuo a ripensare a quella figura enigmatica. Chissà se la incontrerò mai di nuovo, in qualche momento della mia vita. Chissà se mi riconoscerebbe… se anche allora mi guarderebbe con un sorriso, quasi a dire “Eccoci di nuovo qui”.
Quante cose nella vita ci sfiorano appena, senza toccarci davvero… ma lasciano su di noi un segno indelebile, che nessuna marea potrà trascinare via. Restano sepolte sotto un cumulo di faccende più urgenti ma in fondo infinitamente più insignificanti, eppure sono sempre lì, pronte a riaffiorare alla minima sollecitazione… come dopo un incontro fortuito.
So che nella mia memoria il profilo di quel volto, il contorno di quegli occhi svaniranno presto, ma non farò fatica a ricordarmene qualora mi ricapitasse di imbattermi di nuovo in essi in qualche angolo di questo sconfinato universo.
Tutto pian piano svanisce. Ma niente se ne va per sempre. Ogni persona, ogni cosa non fanno che una sosta temporanea nelle nostre vite; una sosta che può durare anni come alcuni secondi… a volte persino una vita intera.
Ma chi può saperlo?

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Capitolo 8
*** La precarietà di un balcone ***


Ma è questo l’amore?, mi chiesi.
Scossi la testa. No. Non era possibile. C’è differenza fra l’amore e l’ossessione. Una differenza sostanziale. Un amore può diventare ossessione e viceversa. Ma bisogna stare attenti a non confondere le due cose.
Ricordai i brividi, quella notte. Brividi magici, che mi attraversavano tutta.
Saprò di amarti quando il tuo sorriso farà germogliare nel mio corpo brividi più dolci delle tue mani sul mio seno. Solo allora potrò fidarmi davvero del mio giudizio.
Si può dire che passiamo tutta la vita a combattere la terribile prospettiva che tutto potrebbe essere niente e niente potrebbe essere tutto… Se il senso della tua esistenza è trovare un senso alla tua esistenza, allora molto probabilmente finirai per suicidarti.
È la vita: gustiamo la felicità a cucchiaini e inghiottiamo ogni giorno cucchiaiate di amaro sciroppo. Ma siamo disposti a mandarne giù tonnellate solo per poter godere di un singolo dolce compenso…
Pallidi flash come quelli seguitavano ad accendersi fra i miei pensieri pigri. Non riuscivo a scrollarmeli di dosso… ma nemmeno a dar loro una forma degna di questo nome. Continuarono ad agitarsi mollemente su quei binari arrugginiti, senza risolversi a intraprendere una direzione precisa.
Diamine. Possibile che i fantasmi continuassero a seguirmi ovunque andassi? Possibile che non riuscissi in alcun modo a liberarmene? Avevo sperato che con la fine della scuola… l’inizio dell’estate… il caldo avrebbe finito per far evaporare quei pensieri stagnanti, che una volta condensatisi sopra la mia testa mi avrebbero concesso una breve tregua… prima che la stagione delle piogge me li facesse precipitare di nuovo addosso.
E invece no.
Persino allora… che di ritorno da un’intera estenuante giornata di mare giacevo a pancia in su sul letto della mia stanzetta solitaria (c’erano sempre grandi discussioni per decidere a chi toccasse la stanzetta e a chi i matrimoniali… ma stavolta mi ero immolata spontaneamente alla causa con molto stupore da parte di tutti), in attesa del mio turno per la doccia, con il sale che mi pizzicava la pelle seccata dal sole… persino in quel momento non riuscivo a smettere di pensare. E il mio cervello continuava a cozzare sempre sugli stessi punti, come un CD in uno stereo difettoso.
Presi a rigirarmi nel letto con un certo nervosismo, arrotolandomi una ciocca di capelli attorno al dito, sulle labbra una smorfia infastidita, come il broncio di una bambina irrequieta.
D’un tratto, mi ricordai che era un sacco di tempo che non chiamavo Pietro. Avevo voglia di sentirlo, in effetti. Quindi allungai la mano per afferrare il telefono sul comodino e digitai il numero, che sapevo a memoria dopo tanti pomeriggi passati a chiacchierare di tutto e di niente… a “costruire castelli sulle nuvole”, come avrebbe detto lui.
«Pronto?».
«Ehilà. Come te la passi?».
«Salve! Quanto tempo. Io sto schiumando. Qui fanno settanta gradi, o qualcosa del genere».
«Ah sì? Pensa che io ho quasi freddo. C’è vento. E sto in pantaloncini perché ho dimenticato di portare un paio di jeans. Sono una persona sveglia».
«Io invece sono nudo… perché purtroppo non posso levarmi la pelle di dosso. Ma dove sei?».
«A casa di Susanna. Il mare però è off-limits - causa: maltempo. Quindi ci limitiamo a lunghe passeggiate e chiacchierate in balcone».
A quel punto sapevo che avrei dovuto parlare di qualche stronzata, chiedergli com’era andata a scuola… se aveva preso debiti… come stava sua nonna dopo l’operazione al femore. Ma una morsa come d’una tenaglia mi serrò lo stomaco soffocando le parole che stavo per emettere.
Rimasi così, paralizzata, finché non mi decisi a ritrarmi con uno strattone per liberarmi da quel senso d’oppressione. Allora altre parole sostituirono in modo anarchico quelle che non volevano uscire. Non le controllavo più. Né volevo farlo.
«I balconi mi hanno sempre messo un’ansia terribile, sai?», dissi di getto. «Sono così precari i balconi… Un po’ come le relazioni e i rapporti. Si tiene tutto sul cemento del compromesso. Alla fine la sospensione è un compromesso con la fisica: gli avvocati che ti difendono cercano un appiglio nei mille commi della legge che ti tiene attaccato al suolo, per riuscire ad aggirarla… ma è solo una vittoria temporanea. La giuria che deve giudicarti ti riporterà presto coi piedi per terra».
Fortunatamente, Pietro non era il tipo da scomporsi innanzi a questo genere di uscite. Forse Clarissa (cavolo, quant’era che non sentivo Clarissa?! Ma ripensandoci, in realtà non avevo una gran voglia di sentirla) sarebbe rimasta un po’ in silenzio, perplessa, e mi avrebbe attaccato in faccia.
Lui invece ci rifletté come se gli avessi sottoposto una questione di vitale importanza.
«Bah», disse dopo un po’. «Sai… credo di essere arrivato alla conclusione che la vita intera è una forma di compromesso, e che quindi bisogna imparare a trovarsi a proprio agio nei compromessi per trovarsi a proprio agio nella vita».
«Ma io non voglio trovarmi a mio agio nel compromesso».
Ecco. Cominciavo già a scaldarmi.
«Farò compromessi con tutti. Mai con me stessa. Non mi arrenderò mai. Non voglio diventare una specie di vegetante, pronta a strisciare davanti a tutti pur di elemosinare una briciola di considerazione».
«Ma fare compromessi non implica diventare vegetanti… implica trovare un equilibrio con il proprio habitat».
«Bah. La vita in fondo è sostanzialmente il tempo che ci è concesso di utilizzare fino alla morte. Perché sprecare minuti preziosi dietro compromessi? Sta solo a noi costruire balconi sul vuoto o essere felici».
«Sì, ma anche per costruire sono necessari dei compromessi. Cioè… ti serviranno pure delle fondamenta su cui cominciare a erigere i tuoi castelli, no? Ma… nello specifico, quale sarebbe il compromesso che non vuoi assolutamente accettare? Perché i fossi si trova sempre il modo di aggirarli, e se non ci riesci alle brutte salti».
Rimasi per un attimo in silenzio, trattenendo il respiro. Poi esplosi.
«Non voglio accettare il compromesso di dover ubbidire a regole che non mi appartengono in alcun modo. Non voglio aderire al compromesso dell’amore finché dura. Non voglio aderire al compromesso dell’essere umani a tutti i costi… al compromesso della stabilità sociale e a mille altri. Non voglio invecchiare. Non voglio calma piatta, né continuo clamore».
«Capito… se hai bisogno di parlarne io sono qui… se non ti va di entrare nello specifico, puoi continuare a farlo per metafore e io cercherò di aiutarti - per metafore - quanto posso. Sennò puoi mandarmi a quel paese e tanti saluti».
Non ero convinta. «Mah. Tu come stai?».
«Non saprei. Felice a tratti. Piccoli isolotti che emergono nel mare dell’ansia esistenziale che mi caratterizza. Penso però di aver deciso che voglio provare ad essere felice sul serio. E se questo significa accettare qualche compromesso… lo farò. Entro certi limiti».
«Mm. Interessante. E qual è il tuo piano esattamente? Perché io non riesco proprio ad elaborare una strategia d’attacco, al momento».
«Be’… non so se ho esattamente una strategia in questo momento. Credo di essermi semplicemente svegliato una mattina ed essermi accorto che avevo smesso di cercare… e allora… semplicemente ho trovato. A volte la verità è che non c’è niente da cercare. Perché tutto ciò che dobbiamo trovare non siamo altro che noi».
«Già. Questo sacchetto di carne, ossa e pensieri socialmente inaccettabili che ci trasciniamo dietro e con cui ci tocca imparare a convivere».
«C’è molto altro oltre al sacchetto. C’è l’infinito. Fuori e dentro. Il sacchetto è limitante. E il limite è necessario nella misura in cui ti fornisce un’identità in cui ritrovarti. C’è chi se lo cuce su misura e chi lascia che siano altri a cucirglielo addosso. Differenze, insomma, tra personalità e io. Il sacchetto è la personalità, per capirci. L’io è l'infinito che lo abita».
«Ma puta caso che ad un certo punto decidi di far entrare qualcuno nel tuo sacchetto insieme a te».
«Ah». Potei immaginare il sorrisetto malizioso che in quel momento gli solcava il volto. «Bel casino allora. È l’inizio della fine. Ma qualcosa mi dice che hai qualcosa da raccontarmi…».
«E nel frattempo», proseguii io, come se non l’avessi sentito, «il tuo io viene stuprato, il tuo sacchetto lacerato e gettato a terra, il contenuto rovesciato senza alcun riguardo… e tu resti sola come una stronza... fra il nulla cosmico e Sperlonga, a raccogliere i granelli del tuo essere senza sapere bene dove ficcarli».
Ci fu una pausa di silenzio.
«Sì», fece Pietro dopo un po’, pensieroso. «Capisco cosa intendi. Purtroppo, non conoscendo la situazione specifica… è troppo tempo che non ci vediamo, tesoro, quando torni a Roma dovremmo vederci e parlarne meglio, che dici?... comunque l’unica cosa che posso dirti è che mi dispiace un casino che tu stia così… anche se dirlo aiuta quanto un dito nel culo, ne sono consapevole».
«Nah. Sei carino invece».
«Ma non dovresti darti troppa pena, sai? Perché qui subentra un altro giochino dell’essere, e cioè: la vita continua. E te ne devi fare una ragione. Legge della sopravvivenza. È spietata, ma efficace. C’è sempre tempo per mettere qualche toppa su quel famoso sacchetto».
«Sì, ma… quante toppe ha il mio sacchetto? Poi scado nel vittimismo. O almeno così sembra. In realtà è solo nuda pratica».
«Tesoro… vorrei tanto star qui ad ascoltarti, ma mi sta chiamando mia madre. Credo abbia bisogno d'aiuto con degli scatoloni. Ha avuto la brillante idea di svuotare la cantina oggi pomeriggio per liberare un po' di spazio… e ovviamente la cosa non può che coinvolgermi. Se hai bisogno di parlare… io sono qui, ok? Basta un colpo di telefono. Oppure puoi fare direttamente irruzione a casa mia, non è un problema. Solo… l’unica cosa che avrei da offrirti sono gallette dietetiche e succo di frutta senza zuccheri aggiunti - mia madre mi ha messo di nuovo a dieta».
Scoppiai a ridere. «Brutta storia. Hai tutta la mia compassione».
«Sopravviverò anche a questa. Piuttosto… sul serio, cerca di non arrovellarti troppo il cervello. Finirà per ingarbugliarti anche le budella. E quelle sono già abbastanza ingarbugliate di loro. Sai che i primi labirinti furono costruiti nell’antica Mesopotamia ed erano fatti a immagine degli intestini di animali? Gli abitanti della Mesopotamia avevano una grande considerazione delle forme tortuose degli intestini. Credevano di potervi leggere il futuro. Chissà, forse non avevano tutti i torti. Fico, eh? Un labirinto esteriore che ricalca quello interiore. Intestino… cervello… non fa una gran differenza, no? Dopotutto, c’è chi pensa con la testa… e chi con la pancia. Forse dovresti provare a ragionare più con la pancia che con la testa, almeno per un po’. Potrebbe essere utile».
Ormai avevo quasi le lacrime agli occhi per le risate. Me le asciugai col palmo della mano.
«Ci proverò».
«D’accordo. Stammi bene».
«Ciao».
Quando attaccai, rimasi con un senso di vuoto. Ora in quel vuoto, però, c’era una piccola lucina.
Pietro riusciva sempre a tirarmi un po’ su il morale, anche se alla fine finivamo per non parlare assolutamente di nulla. Certe volte rimpiangevo di non essere mai riuscita a innamorarmi di lui. Una storia con lui doveva essere la cosa più naturale del mondo: altro che gli arzigogoli tra cui mi ostinavo a lambiccarmi il cervello. Ma che potevo farci. Era rimasto sempre e solo un amico. Forse era destino che io rimanessi sempre infelice.
«Ale! Tocca a te!».
Avevano finito. Finalmente.
«Arrivo!», urlai.
Lanciai un’ultima occhiata al cellulare. Poi agguantai spugna e accappatoio e andai di là a farmi la doccia.

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Capitolo 9
*** Rivelazione ***


Siamo di ritorno dalla spiaggia.
I fusti recisi degli arbusti che costeggiano la strada somigliano agli arti di animali sofferenti che sbucano dalla terra. Non posso fare a meno di fissare un esile ceppo che pare la zampa di un cinghiale… o l’occhio gigantesco di qualche creatura sconosciuta.
Mi fa specie che le altre non abbiano sentore della presenza di questi strani esseri disseminati sul nostro cammino. Procedono tranquillamente, ascoltando canzoni allegre per spronarsi ad affrontare la salita. Io resto indietro, celando loro la mia inquietudine.
Non riesco a liberarmi dalla spiacevole sensazione che la foresta ci stia osservando…
 
«Ma qual è il problema? Forse è questo che dovresti chiederti».
Mi arrotolai una ciocca di capelli tra le dita, tenendo il broncio.
«Se riesci a capire cos’è che ti fa star male, è già un buon punto di partenza».
«Lo so. È che semplicemente non riesco a trovarlo, un punto di partenza. Mi sembra di essere sempre ferma allo stesso punto. Voglio dire… un giorno morirò. No… non alzare gli occhi al cielo. Non è per essere catastrofica. È semplicemente una constatazione oggettiva. Un giorno invecchierò e morirò. Succederà. E… ho paura che anche allora mi ritroverò sempre ferma a questo punto. Che allora mi renderò conto di non essermi mai mossa di un passo. E allora sarà già troppo tardi».
Susanna annuì. «Ok… ok… ho capito. Allora, ascolta un attimo. Immagina un corridoio».
«Un corridoio?».
«Sì… sì… un corridoio. Ce l’hai? Perfetto. Allora, sei nel corridoio e senti della musica, e perciò sai che in fondo dev’esserci una stanza. Ma per quanto avanzi, non riesci a raggiungerla, come se il corridoio non avesse fine».
«Che ansia…».
«Già. Ma ora aspetta. E se tutto ciò che desideri - tutto ciò che hai sempre desiderato - fosse in quel corridoio… che bisogno ci sarebbe di raggiungere la stanza?».
Tacqui un attimo, riflettendo. Susanna mi fissava intenta.
«Ok, credo di aver afferrato. Stai dicendo che la vita è il corridoio e l’ultima stanza è la morte?».
«Esatto».
«E quindi questo è il tuo modo per dirmi che non devo aver paura della morte?».
«È il mio modo per dirti che non c’è motivo di aver paura della meta. Ti fa perdere tutto il gusto del viaggio».
 
Fu guardando il tramonto che compresi. Il tramonto su cui ancora si stagliavano i fantasmi del nostro io passato.
Ogni tanto bisogna toccare il fondo. Sperimentare la percezione del suolo viscido del pozzo per poter apprezzare davvero ciò che la natura lassù offre ai sensi.
Non puoi aspettare che la vita cambi per iniziare a viverla. Non c’è niente in te che non vada bene, a parte il pensiero che qualcosa in te non va bene. Ma quel pensiero purtroppo è più concreto del resto. Non sai come sbarazzartene. È come un cancro. Ci vorrebbe un’operazione chirurgica per asportarlo.
Scrivere può essere considerato un surrogato di quest’operazione.
Scrivendo di esse, le emozioni diventano imparziale e distaccata contemplazione delle emozioni stesse.
Puoi guardarle affascinato dall’esterno. Ma non sono più tue. Sono eleganti arabeschi su un pezzo di carta.
Ed è come se imprimendole su quella carta le staccassi contemporaneamente da te, come recidendo un qualche invisibile cordone ombelicale.
È il parto che ti libera del dolore che hai generato in seguito ad un rapporto incauto con le tenebre. Preparandoti allo stesso tempo alla prossima gravidanza. Perché tanto sai che ancora mille e più volte ti ritroverai a fare lo stesso errore… che ancora una volta ti getterai incoscientemente tra le braccia della vita, e delle tante che il mostro possiede, sempre quelle sbagliate… senza prendere precauzioni…

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Capitolo 10
*** Disordine ***


Quando le cose sono al loro posto, cessano di vivere.
Catalogare oggetti significa porre fine al loro incostante movimento, fissarli in una forma rigida che li terrà imprigionati finché non saremo noi stessi a liberarli. E se la vita è movimento, incessante fluire… non equivale forse questo ad un’esecuzione?
Come tanti prigionieri decapitati stanno i cimeli della nostra vita nelle nostre camere ordinate, corpi penzolanti privi di un volto che permetta loro di essere riconosciuti.
Non è forse vero che quando riordiniamo le nostre stanze, riponendo gli oggetti fuori posto che ingombrano le scrivanie, i comodini, i letti, i pavimenti… non è forse vero che quegli stessi oggetti che a lungo (non di rado per intere settimane) si sono imposti alla nostra attenzione, spesso con nostro grande fastidio… all’improvviso sembrano quasi scomparire?
Che ne è di quel libro che per più di un mese è rimasto lì sul vostro davanzale, ricordandovi ogni giorno del compleanno a cui lo avete ricevuto, delle mani che ve lo hanno affettuosamente porto, di tutte le orecchie che gli avete fatto mentre lo leggevate… finché non vi siete finalmente decisi a collocarlo sulla mensola - magari la più alta - per non averlo più costantemente sotto gli occhi?
Non ci badate più. 
E forse passeranno anni prima che il pensiero di quel libro… e quindi di quel compleanno… e quindi della persona che ve ne ha fatto dono… vi sfiorino nuovamente e vi spingano ad arrampicarvi su una sedia per recuperare quel libro dalla mensola più alta e tornare a sfogliare le sue pagine, accarezzando tutte le orecchie con un dolce sorriso nostalgico.
Le cose che stanno al loro posto ci passano davanti agli occhi come spettri. Solo quelle che si trovano al posto sbagliato s’impongono con prepotenza alla nostra attenzione. Non sono dove dovrebbero essere, e quindi esistono… esistono per se stesse, e non per il contesto che le ha generate.
Così è con le persone.
Le persone a posto… quelle che seguono le regole, non fanno mai passi falsi, non si espongono più di tanto e fanno sempre ciò che è giusto, ci scorrono davanti senza che il loro passaggio lasci alcun segno su di noi. Non abbiamo nulla da appuntare alla loro perfetta esistenza. Ma la loro ombra svanisce nella memoria come una chiazza d’umido al sole.
Restano invece come un segno indelebile coloro che hanno il potere di sconvolgerci con il loro anticonformismo… con il loro essere fuori posto… con il loro essere sbagliati.
Ed è con loro che speriamo di poter muovere i nostri passi. In una direzione in cui possiamo rivendicare il nostro diritto a esistere, anziché sparire in un’anonima massa.
Resta da vedere se abbiamo abbastanza coraggio…

La scrivania di Damon era un disastro.
Cianfrusaglie di ogni genere stavano sparse sulla sua superficie, al punto che il legno sottostante non era più visibile; fra queste, libri dei più disparati argomenti, il cui accostamento spesso provocava un certo contrasto: non si poteva non notare, ad esempio, come sulla costa sfasciata di un ricettario abbandonato col dorso rivolto verso l’alto fossero appoggiati un saggio sgualcito sul marxismo e un libro altrettanto malandato di fiabe dei fratelli Grimm. Se qualcuno - per puro caso - avesse preso la coraggiosa decisione di mettere un po’ d’ordine, non avrebbe saputo dove mettere le mani. Sarebbe sicuramente rimasto per un po’ a guardare quello spettacolare collage spaesato, incerto su come cominciare.
Damon però stava sdraiato supino sul letto con l’aria di non badare minimamente alla confusione che regnava nella camera. Sopra di lui, sulla parete, campeggiava un enorme poster degli Apocalyptica. Era profondamente immerso nella lettura di “Guida intergalattica per autostoppisti”: leggeva con estrema concentrazione, le sopracciglia contratte e il labbro arricciato, come se cercasse di cavarne un qualche significato profondo.
A un certo punto, abbandonò di colpo la lettura gettando il libro per terra.
Si sedette a gambe incrociate sul materasso e frugò nel borsone ai piedi del letto alla ricerca di tabacco e cartine. Quando li ebbe trovati, tirò fuori dalla tasca un cartoccetto e ne sparse il contenuto sul lenzuolo assieme al resto. Aveva un aspetto buffo. A vederlo lì seduto, mentre si girava la sua canna con aria assorta, con un filtro ricavato da un vecchio biglietto dell’autobus fra le labbra serrate, aveva quasi l’aspetto di un enigmatico Buddha… di quelli che si trovano a volte come soprammobili sugli scaffali di certi appartamenti.
Iniziò a fumare nervosamente, fissando il vuoto con intensità, come fosse alla ricerca di qualcosa.
Dopo un po’, lanciò un’occhiata all’orologio. Le tre e quarantacinque. 
Fece un rapido calcolo. Faceva ancora in tempo a montare al volo sul treno delle quattro e mezza, se si sbrigava. Sarebbe arrivato per le sei, a occhio e croce… forse dopo, se calcolava anche il tempo di attesa della corriera.
Rimase lì immobile per un po’, senza decidersi. Di tanto in tanto, osservava intento la valigia aperta a ridosso della parete opposta, da cui spuntavano vestiti e capi di biancheria intima. Non l’aveva ancora svuotata dall’ultimo viaggio, che risaliva… non lo ricordava neanche più.
Alla fine prese una risoluzione.
Spense la canna su un pezzo di cartone che si trovava a portata di mano, andò a passo deciso verso la valigia, estrasse in fretta un po’ di vestiti da lavare, gettandoli in un angolo, prese qualche altro indumento a casaccio, un costume pulito, l’mp3. Tentò di chiuderla, ma non voleva saperne. Spazientito, la riaprì di scatto e buttò fuori un po’ di roba, senza badare troppo a cosa fosse. Vi montò sopra per schiacciarne il contenuto il più possibile, e stavolta riuscì un po’ a fatica a chiudere la zip.
Dopo aver preso la valigia in una mano, agguantò con l’altra un mazzo di chiavi e il portafoglio, ficcandoli di corsa nelle tasche dei pantaloni alla zuava.
Guardò di nuovo l’orologio: le quattro e diciassette. Era ancora in tempo.

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Capitolo 11
*** Parole anarchiche ***


«Ehi!».
Rivederlo così fu strano. Non me lo aspettavo. Tante volte la mia mente aveva dipinto lo scenario di quell’incontro, e col tempo aveva finito per esagerare i colori, le sfumature. Le tinte di quel giorno, invece, erano molto più tenui. Più gentili.
Mi sorrise. C’era qualcosa di infinitamente tenero in quel sorriso. Sembrava un bambino che dopo aver rubato una caramella tornava dalla mamma mortificato e un po’ imbarazzato.
«Come va?».
«Si tira avanti».
Pausa.
«Tu come te la passi?».
«Bah. Fra una cosa e l’altra, non ho neanche il tempo di chiedermelo. Ho ripreso a seguire i corsi all’università. Mi ero preso una piccola pausa. Tu? Con la scuola? Tutto a posto?».
«Al solito. La prof di matematica è una stronza. Ho paura che quest’anno mi metterà il debito…».
«Greve… I quadri non sono ancora usciti?».
«No. Escono la settimana prossima. Sto strippando…».
«Vabbè, dai. Se anche te lo mette, hai una materia sola. Gli esami sono a settembre quest’anno, no? Hai tutto il tempo per recuperare».
«Sì… c’è ancora tempo per recuperare».
Lo guardai. Mi guardò. C’era nei miei occhi un’implicita richiesta… un’attesa ansiosa e un po’ titubante. Mi sorrise, e si avvicinò per baciarmi.
Quando si allontanò, scoppiai a ridere. Lui rimase un po’ interdetto. Poi sogghignò, e infine rise anche lui.
Fu allora… guardando il suo sorriso, che sentii quel brivido rivelatore percorrermi la schiena come un ragnetto dispettoso. E allora seppi.
Clara aveva ragione. In fondo, non si stava poi così male in quel corridoio…
 
Qualche ora dopo, ero a casa.
Guardai la scrivania. Stavolta non ci fu esitazione. Mi diressi a passo deciso verso il comodino. Primo cassetto, quello in alto. Il diario, penna alla mano… e via!
Per me la scrittura era una forma di anarchia, scoprii, mentre scrivevo… scrivevo… finché la mano non cominciò a dolermi per lo sforzo. Scrivevo febbrilmente, come se le tante parole che mi erano sfuggite fino ad allora mi assalissero ora tutte assieme. Sapevo dentro di me che scrivere, in quel momento, non avrebbe avuto senso se avessi cercato di direzionare quelle parole, di dare loro una forma… Perciò le lasciai andare. Fiduciosa che infine sarebbero arrivate da qualche parte.
 
Penna! Corri sul foglio! Non ti curare di lasciarmi indietro. Chissà, forse arriverai a destinazione prima di me…

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