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“Boromir. Boromir!” La voce
familiare, un sussurro urgente nell’oscurità, proveniva da un punto molto
vicino. Voltò la testa nella direzione del suono, e la voce sibilò nuovamente.
“Boromir!”
“Aragorn?”
L’intero volto gli doleva
così tanto che non riusciva nemmeno a muovere la mascella, tuttavia, chissà
come, riuscì a parlare. L’uomo accanto a lui doveva aver compreso il suo
mormorio, perché, con sua sorpresa, rispose.
“Non usare quel nome.
Chiamami Grampasso”.
“Cosa è accaduto? Dove
siamo?”
“Gli Orchi ci hanno
catturato”.
Boromir tentò di alzarsi, ma
scoprì che non riusciva a muoversi. Si sentiva come se fosse stato calpestato da
una mandria di cavalli impazziti, ed era pervaso da una terribile stanchezza.
“Non ti muovere”, disse
Aragorn. “Hanno estratto le frecce e fasciato le ferite, ma hai perso molto
sangue”.
“Frecce…”
Boromir si lasciò cadere
nuovamente contro le dure pietre e cercò di pensare. Di ricordare. L’ultima cosa
che ricordava, prima di svegliarsi in quella fredda e dolorosa oscurità, era che
stava combattendo disperatamente contro un’orda ripugnante di orchi, squarciando
e fendendo, e ruggendo il suo disprezzo e la sua sfida verso la loro
schiacciante superiorità numerica. Alle sue spalle gli Hobbit si stavano
ritirando lentamente tra gli alberi, riluttanti ad abbandonarlo eppure
terrorizzati di fronte ad un nemico troppo grande per le loro piccole spade.
E poi...poi la prima freccia
lo aveva colpito, e lui aveva gridato a Merry di fuggire…di fuggire finché
poteva…e di portare Pipino con lui! Merry era il più ragionevole dei due.
Avrebbe capito che era la cosa giusta da fare, e avrebbe protetto Pipino.
Un’altra freccia. Ricordava
l’impatto distruttivo di un’altra freccia, che lo aveva fatto cadere in
ginocchio, e l’orrore dipinto nei visi degli Hobbit mentre cadeva. Ma era sicuro
che alla fine erano fuggiti… se non era soltanto un inganno dettato dalla sua
disperazione. Era sicuro di averli visti voltarsi e svanire tra gli alberi. Poi
si era fatto coraggio, e si era preparato al colpo finale. Al colpo mortale.
Perché non l’avevano ucciso?
Che cosa stava dimenticando? Ricordava una voce, gutturale e sgradevole, che
gridava, “Prendete l’Uomo!” E poi? Poi un’enorme sagoma che incombeva su di lui,
la spada alzata per colpire, e un colpo violento, non sul collo ma…
Boromir rabbrividì e si
voltò verso l’uomo al suo fianco.
Non ricordava che Aragorn
fosse nella battaglia, ma sapeva di avere suonato Corno di Gondor. Forse il
suono aveva fatto accorrere il Ramingo in suo aiuto… condannando anch'egli al
suo stesso destino.
“Mi dispiace, Grampasso”,
mormorò, esitando nell’adoperare l’insolito e irrispettoso nome.
“No, Boromir. Sono io che ho
fallito. Sono arrivato troppo tardi per salvare anche uno solo di noi”.
Aragorn non parlò dello
shock e dell’orrore che aveva provato quando, arrivato nella radura di Parth
Galen, aveva visto il capo degli orchi abbattere la sua mostruosa spada di
piatto sul viso di Boromir, frantumando ossa e carne insieme e facendo schizzare
il sangue da sotto la lama, mentre il valoroso guerriero crollava al suolo,
esanime.
Aragorn aveva combattuto
quell’ultima, disperata battaglia nella certezza che Boromir fosse morto. E ora,
mentre conversavano sottovoce distesi tra le aride rocce dell’ Emyn Muil, non
poté reprimere il terribile pensiero che forse sarebbe stato meglio per Boromir
essere davvero morto sotto i colpi degli Orchi.
Boromir giaceva
assolutamente immobile, assorbendo le sue parole, poi, con un tremito nella voce
sussurrò, “I piccoletti?”
“Non li hanno presi. Non…
non so esattamente cosa è stato di loro, ma non sono qui”.
“Ti prego…fa che siano salvi
lontano da qui”.
“Hai fatto tutto quello che
potevi per loro, Boromir. Il loro destino non è più nelle nostre mani”.
Prima che l’altro uomo
potesse rispondere, una figura imponente apparve sopra di loro. “Conversazione
piacevole, ragazzi?” ringhiò.
Aragorn sollevò lo sguardo
verso l’odiosa faccia piatta e squamosa di Uglùk, il capitano delle forze di
Saruman, e gemette silenziosamente.
“Lascialo in pace, Uglùk”,
disse.
“Non posso farlo. Portare
gli Uomini vivi, questi sono i miei ordini. E se lo lascio in pace, il soldatino
morirà”. Uglùk afferrò Boromir per la tunica e lo sollevò senza sforzo dal
terreno. Boromir emise un rantolo involontario al riaccendersi del dolore nel
suo corpo e nella sua testa, e Uglùk gli spinse tra i denti il collo di una
bottiglia. “Avanti, fa’ il bravo soldato e bevi”.
Boromir non aveva scelta. Se
non voleva soffocare doveva ingoiare il liquido bollente che gli veniva versato
in gola.
Dopo che lo ebbe costretto a
deglutire, Uglùk allentò la presa e lasciò cadere il corpo martoriato ed esausto
sul terreno roccioso. Boromir urlò di dolore.
Era ancora troppo stordito e
spossato per il rude trattamento di Uglùk per accorgersi che l’orco aveva
cominciato a sollevare le bende che gli fasciavano le ferite alla spalla e al
fianco. Uglùk sembrò soddisfatto di quello che trovò, poiché con uno strattone
risistemò le bende e diede a Boromir un buffetto sulla guancia che avrebbe
abbattuto un troll di caverna.
“Splendido. Sai, se non
avessi fatto a pezzi tanti dei miei ragazzi, penso che potresti anche cominciare
a piacermi, soldatino. Peccato che sei solo un Uomo, e diretto ai sotterranei di
Isengard, per di più.” La sua orribile zampa scostò leggermente la pesante benda
che copriva il viso di Boromir. “Peccato. Lurtz non ha lasciato un granché,
comunque”.
Uglùk si voltò bruscamente
verso Aragorn per dargli un calcio col suo piede calloso. Lo prese in pieno
petto, strappandogli un gemito di dolore, e con un secondo calcio lo colpì in
viso. “Poi sei arrivato tu e gli hai tagliato la testa, che tu sia maledetto!”
Aragorn sputò una boccata di
sangue e rivolse a Uglùk uno sguardo distante, privo di emozioni. “E farò lo
stesso a te, Uglùk.”
“Bella gratitudine da parte
tua, dopo che io salvo la tua miserabile vita e ti trascino attraverso queste
dannate colline! E’ ora di darci una mossa, ragazzi!”
Rivolgendosi a uno del suo
gruppo indicò in direzione di Aragorn e ringhiò, “Lugdush, tu porterai questa
carogna per il primo tratto. Tu invece,” e afferrò Boromir per il mantello
costringendolo ad alzarsi, “puoi camminare”.
Boromir barcollò e cadde in
ginocchio, guadagnandosi un altro violento calcio da Uglùk. Poi l’orco lo
afferrò per il braccio sinistro, e quando lo sollevò in piedi, Boromir si lasciò
sfuggire un lacerante grido di dolore, causando l’ilarità di Uglùk.
“Se pensi che faccia male
adesso, aspetta di avere camminato per tutta la strada fino ad Orthanc”.
Un istante dopo, Boromir
sentì il cappio di una corda che veniva stretto attorno al suo collo, poi uno
strattone all’altra estremità che lo fece quasi cadere di nuovo. “Grampasso?”
chiamò, mentre l’orco che teneva la corda cominciava a trascinarlo via.
“Sono qui”.
La voce era vicina, ma c’era
qualcosa che disorientava Boromir. Sembrava attutita, e proveniva da un’altezza
sbagliata. Gli ci volle un momento per rendersi conto che Aragorn stava venendo
trasportato sulle spalle di un orco.
“Cosa ti hanno fatto?”
domandò Boromir. “Perché non puoi camm…” L’orco che teneva la corda diede uno
strattone e il cappio gli tolse l’aria, soffocando sue parole.
“Non è nulla. Una ferita
alla gamba”.
Boromir ritrovò
l’equilibrio, ma stavolta ebbe la prontezza di stringere il suo pugno attorno
alla corda, allentando la tensione del cappio e proteggendo la sua gola dagli
eccessi d’entusiasmo del suo guardiano. “Grampasso”, chiamò ancora, “hai un’idea
di dove siamo?”
“Vicino alla riva
occidentale dell’Emyn Muil, credo”.
“Silenzio, voi”, ringhiò un
Orco da poco lontano.
“Quanto tempo è passato?”,
domandò Boromir, ignorando l’orco.
“Dalla b… NO!” Gridò
Aragorn, col panico nella voce. “Non sul viso!”
“Ho detto silenzio!”
Poi un improvviso,
abbagliante dolore esplose nella testa di Boromir, che si accasciò al suolo. Per
un periodo interminabile di tempo non conobbe altro che indicibile sofferenza, e
una paura confusa, urlante, che quella fosse la morte, e che avrebbe dovuto
sopportarla per l’eternità.
Molto lentamente ritornò ad
avere consapevolezza delle sue mani che afferravano il suo viso, di sangue
fresco che scorreva tra le sue dita, e di qualcosa o qualcuno che gemeva lì
accanto. Sembrava un animale ferito, una creatura colpita così mortalmente da
non poter emettere un suono vero e proprio, eppure troppo disperata nel suo
dolore per restare in silenzio.
Avrebbe voluto aiutare
quella creatura, o almeno tagliarle la gola e mettere fine alla sua agonia, ma
non riusciva a muoversi per cercarla. Il suo corpo era rigido e tremante, i suoi
muscoli come bloccati, la sua mente paralizzata.
E poi capì. Capì che lo
spaventoso suono proveniva dalla sua stessa gola, risalendo dai suoi polmoni che
non riuscivano a respirare, oltre la sua mascella serrata per bloccare il panico
crescente.
Mani dagli artigli di ferro
lo afferrarono per le spalle, voltandolo sulla schiena e inchiodandolo contro le
rocce. Poi altre zampe strinsero i suoi polsi, togliendogli con la forza le mani
dal viso.
Una voce nota ringhiò da
qualche parte sopra di lui. “Idiota! Devono essere consegnati vivi!”
Ancora una volta gli
portarono la bottiglia alla bocca, e Boromir fu costretto a inghiottire un
secondo sorso del disgustoso liquore orchesco.
“Se l’hai ucciso ti scuoierò
con le mie mani, Snaga, e ti darò in pasto ai ragazzi per cena!”
“Avevi detto che non
dovevano parlare”, piagnucolò Snaga.
“Se parla fagli il solletico
con la tua frusta! Insegnagli un po’ di buone maniere, ma non ucciderlo, razza
di stupida scimmia! Ora lo porti tu fino alla scalinata”.
“Bah. Questi pelle-bianca
sono pesanti. Troppo pesanti per portarli a spalla fino a Isengard”.
“Questo ti insegnerà a stare
più attento. Fallo alzare, e muoviti, oppure molto presto sarai tu ad
assaggiare la mia frusta!”
Boromir sentì braccia
robuste che lo sollevavano, poi fu gettato sopra una spalla ampia, squamosa e
brutalmente dura, con entrambe le braccia che oscillavano a peso morto. Ogni
movimento riaccendeva una nuova fiammata di dolore nelle ferite al suo fianco
sinistro.
Ma nonostante tutto era
grato di non dover stare in piedi e camminare da solo, grato per la solida forza
dell’orco che lo sosteneva, e grato di essere ancora vivo. Lasciò che la testa
poggiasse sulla schiena dell’orco e cercò di ignorare il sangue che scorreva
lungo il suo viso, gocciolando sulle rocce sotto di lui.
La truppa di orchi si rimise
in marcia di corsa sobbalzando. Boromir soffocò un lamento e si disse che poteva
sopportarlo. Poteva sopportare ogni cosa, se significava che la Compagnia, i
suoi amici, erano potuti sfuggire alle grinfie degli orchi.
Quando la truppa raggiunse
il dirupo occidentale dell’ Emyn Muil, Uglùk chiamò l’alt. Avevano viaggiato per
tutta la notte e parte della mattinata, con grande disagio di alcuni degli orchi
più piccoli, e ora si trovavano ad affrontare la minaccia delle aperte pianure
di Rohan. Uglùk avrebbe voluto proseguire rapidamente per Isengard, ma con il
peso aggiuntivo di due prigionieri e i Rohirrim che pattugliavano le pianure
dubitava che i suoi compagni ce l’avrebbero fatta. Mentre gli orchi si
riposavano e discutevano sulla strada da prendere, aspettando che il sole
tramontasse, i loro prigionieri giacevano uno accanto all’altro sulle dure rocce
e cercavano di raccogliere le forze per la successiva tappa del viaggio.
Ma a Boromir la sosta non
dava alcun sollievo. L'andatura sobbalzante degli orchi non tormentava per il
momento il suo corpo ferito, e Boromir era grato di quel piccolo miglioramento,
ma i suoi soli compagni erano ancora oscurità, sofferenza, e dolore. Nemmeno i
suoi pensieri gli offrivano conforto, riportandolo sempre alla radura di Amon
Hen, al suo fallimento e al suo tradimento.
Aveva distrutto così tanto,
in quel solo, unico istante, così tanto che non avrebbe mai potuto porvi
rimedio. Un odio amaro verso se stesso lo invase, mentre rivedeva il disgusto e
l’orrore negli occhi di Frodo, sentiva la paura nella sua voce, e vedeva il
piccolo hobbit affannarsi disperatamente per sfuggire alle sue mani che lo
afferravano.
Quel ricordo da solo era
sufficiente per farlo avvampare di vergogna. Non aveva bisogno di ricordare alla
sua coscienza che aveva infranto il suo giuramento, insudiciato il suo onore e
il suo buon nome, che era caduto preda delle menzogne sussurrate dal Nemico, e
che aveva condotto il suo re alla prigionia, forse anche alla morte per mano di
Saruman. Tutte queste cose erano come sale nella più crudele delle ferite.
Accanto a lui Aragorn si
mosse, strisciando contro la ghiaia e le rocce smosse. Un tenue lamento gli
sfuggì dalle labbra, e Boromir si chiese ancora una volta quali altre ferite
avesse subito Aragorn delle quali non parlava.
Sembrava impossibile che una
squadra di orchi fosse riuscita a prendere il Ramingo vivo, e ancora più
impossibile che riuscissero a tenerlo prigioniero, eppure Aragorn non aveva
nemmeno fatto un tentativo per fuggire. O le sue ferite erano troppo gravi per
permetterglielo, oppure aveva altre ragioni per restare. Quale fosse la verità,
Boromir non voleva saperlo. Quel pensiero non faceva che gravare ancora di più
il fardello della sua colpa.
Aragorn si spostò finché la
sua spalla andò a toccare il braccio di Boromir e la sua testa fu così vicina
che Boromir poté sentire il calore del suo respiro. “Come stai?” mormorò il
ramingo.
“Abbastanza bene”, rispose
Boromir, a voce così bassa da essere a stento udibile. “E tu?”
“Abbastanza male”. Esitò,
poi aggiunse, “La prossima tappa sarà molto dura. Dovresti riposare”.
“Non ci riesco”.
“Nemmeno io”.
Rimasero in silenzio,
ascoltando il rumori del campo e indugiando nei loro pensieri. Poco dopo,
Boromir si mosse, e cominciò a parlare di quello che gli opprimeva l’animo.
“Sono andati nella Terra
Oscura senza di noi. Nel cuore dell’Ombra”.
“E’ sempre stato quello il
sentiero che volevano percorrere, con noi o senza di noi”.
“La strada è troppo buia per
i piccoletti. Il dolore li coglierà. Si perderanno nell’Ombra. E io… io che
avrei dovuto proteggerli da ogni pericolo…” Si interruppe, incapace di dare voce
al suo fallimento.
“Hai combattuto per loro,
anche di fronte alla morte,” mormorò Aragorn. “Nessun uomo avrebbe potuto fare
di più”.
Alle parole di Aragorn,
Boromir sentì l’amarezza assalirlo di nuovo. Nella sua voce c’erano
comprensione, il desiderio di guarire e di perdonare, e con tutto il cuore
avrebbe voluto meritare una tale generosità. Ma sapeva di non esserne degno, e
l’offerta lo irritava. Cercò invano le parole per dire ad Aragorn del suo
tradimento. Nessuna sembrava abbastanza orribile per descrivere la verità. Si
stava ancora dibattendo nel suo silenzio, quando Aragorn parlò nuovamente.
“So quale nemico hai
affrontato, ma ho lasciato che tu lo combattessi da solo. E quando mi hai
chiesto aiuto, sono arrivato troppo tardi. Mi dispiace, Boromir. Mi dispiace di
averti deluso”.
“Non lo hai fatto. Anche tu
avevi orchi da combattere”.
“Non sto parlando degli
orchi”. Tacque un istante, dando a Boromir il tempo per capire il significato
delle sue parole. “Mi dispiace, amico mio”, ripeté con dolcezza.
“No”. Boromir voltò il capo
in segno di diniego, turbato. Sentì la voce venirgli meno. “Non chiamarmi amico.
Non sai quello che ho fatto”.
“Invece lo so. Ho parlato
con Frodo”.
Boromir deglutì per
allentare la tensione nella sua gola, lottando per nascondere la profondità del
suo turbamento. “Gli avrei fatto del male, Grampasso. Avrei fatto qualunque
cosa, per avere l’Anello anche solo per un istante”.
“Lo so”.
Il dolore e la comprensione
nella voce del Ramingo non fecero altro che peggiorare l’angoscia di Boromir.
“Ho tradito la Compagnia. Ho
attaccato il portatore dell’Anello. Ho disonorato me stesso e la mia gente.
Tutto questo”, e indicò con un gesto vago della mano, “è solo quello che mi
merito”.
“Non parlare così! Non c’è
disonore nell’essere Umani”, mormorò Aragorn, con voce greve per le lacrime.
“Io, tra tutti gli uomini,
dovrei saperlo bene. E qualunque colpa possa mai essere ricaduta su di te è
stata sollevata dal tuo essere pronto a combattere e a morire per i tuoi
compagni. Se c’è qualcuno da incolpare qui, quello sono io. Ero il capo della
Compagnia, responsabile della salvezza di tutti i suoi componenti, compresa la
tua. Sono stato io che, chiamato alla battaglia, sono arrivato troppo tardi.
Sono io quello che gli orchi cercavano, quello per cui tu hai dovuto pagare
questo prezzo”.
“E io sono quello che ti ha
attirato nella loro trappola”. Voltandosi di nuovo verso il Ramingo, Boromir
continuò. “Perché Saruman vuole te, Aragorn?”
“Perché io sonoAragorn, l’ Erede di Isildur. Forse crede che io abbia l’ Anello, o forse
spera di sapere da me dove trovarlo”.
“Allora lui sa chi sei”.
“Sì”.
“Conosce anche il tuo viso,
o soltanto il tuo nome? Sa chi noi due è quello che cerca?”
“Lo saprà”.
“Ma gli orchi non lo sanno.”
Non era una domanda. Il buon senso di Boromir gli diceva che Saruman non aveva
rivelato ai suoi servi più di quanto fosse strettamente necessario, e il fatto
che li avessero presi entrambi vivi provava che non sapevano quale dei due
uomini fosse l’obiettivo dello stregone.
“Grampasso, tu non devi
andare a Isengard”.
Aragorn rise mestamente.
“Sembra che non abbia molta scelta”.
“Non devi. Saruman non ti
terrà a lungo. Ti consegnerà a Sauron, e finirai la tua vita tra i tormenti, nei
neri abissi di Barad-dûr”.
“So quale
destino mi aspetta, Boromir”.
“Tu devi
fuggire prima che raggiungiamo Isengard. Forse posso convincere gli orchi che
sono io quello che Saruman cerca, e loro ti sorveglieranno meno attentamente…”
“No. Non fuggirò, se questo
significa abbandonare te nelle mani di Saruman”.
“Ma tu devi. Io
troverò un modo!”
Aragorn non rispose per
alcuni istanti, e Boromir ebbe l’impressione che il Ramingo fosse stato colto
impreparato dalla sua veemenza. Infine, in un silenzio carico di tensione,
Aragorn mormorò, “Trovane uno che ci faccia sopravvivere entrambi”.
Boromir non disse nulla. Non
avrebbe discusso con Aragorn, ma aveva poca speranza di fuggire, e ancora meno
desiderio di farlo. La sua vita come l’aveva conosciuta fino ad allora era
finita - disonorata e degradata dal suo attacco al Portatore dell’ Anello,
frantumata dalla lama di una spada orchesca - perciò cosa importava se esalava
il suo ultimo respiro nei sotterranei di Orthanc? Se solo avesse potuto
garantire ad Aragorn vita e libertà, per condurre le armate dell’Ovest contro
Sauron, Boromir avrebbe considerato la sua vita ben spesa.
Giaceva immobile e
silenzioso, fingendo di dormire, mentre valutava nella sua mente piani per la
fuga di Aragorn, usando quel compito per impedire ai pensieri e ai ricordi di
riaffiorare. Era qualcosa di solido sul quale appoggiarsi, una ritrovata
sicurezza e uno scopo, un terreno familiare sotto i piedi. Tattiche e strategie,
scelte di vita o di morte, le dure necessità della guerra, quello era il pane
quotidiano che sosteneva un comandante sul campo di battaglia, e ora sosteneva
Boromir.
Al tramonto Uglùk fece
alzare le truppe e risvegliò a calci i prigionieri. Fu dato loro un pasto
frettoloso che non riuscirono a consumare. Poi Aragorn fu issato sulla spalla di
un grosso orco, mentre Boromir, ora abbastanza in forze da reggersi sulle
proprie gambe, fu legato con una fune al suo guardiano e ammonito perché non
tentasse di fuggire. A un grido dì Uglùk e allo schioccare di una frusta, il
gruppo si mise in marcia per un ripido sentiero roccioso in mezzo alle colline,
diretto verso le dolci pianure di Rohan.
Merry sussultò, svegliandosi
di soprassalto da un sonno irrequieto, il selvaggio suono di un corno ancora
vivido nelle sue orecchie. Si guardò attorno confuso per un attimo, poi capì.
Era solo l'eco morente di un sogno. Lentamente, si lasciò ricadere sull'erba e
si avvolse più stretto nel mantello.
Era l'ora più buia prima
dell'alba. La luna era tramontata da tempo, e la prima promessa del mattino non
aveva ancora rischiarato il cielo a oriente. Le stelle erano offuscate da nuvole
basse, e le pianure di Rohan si stendevano nella più completa oscurità. Merry si
raggomitolò cercando di raccogliere tutto il calore del suo mantello elfico e
guardò il cielo, che sapeva essere da qualche parte lassù, sopra la sua testa,
anche se non riusciva a vederlo.
Per un doloroso istante si
illuse di udire ancora il suono incalzante del corno, portato dalla fresca
brezza della notte. Tese l’orecchio per sentirlo ancora, ma tutto ciò che udì fu
il fruscio dell'erba alta. Nulla più.
La figura accanto a lui si
mosse.
"Sei sveglio, Merry?" mormorò
Pipino.
Non ricevendo alcuna
risposta, Pipino si girò e si sollevò su un gomito per guardare l’amico.
"Non riesci a dormire?"
"Ci riuscirei", bisbigliò
Merry, "ma preferisco non farlo".
"Ti ho sentito gridare nel
sonno".
Ancora una volta non ebbe
risposta.
"Ho fatto anch'io lo stesso
sogno".
Merry rabbrividì e chiuse gli
occhi. Fu un errore.
L'oscurità della notte fu
sostituita da quella della sua mente, e dietro le sue palpebre ricominciarono a
danzare le immagini che lo perseguitavano ormai già da due giorni.
Orchi, orchi dappertutto, che
avanzavano tra gli alberi come erompendo dalle rocce, con le zanne scoperte,
occhi fiammeggianti, spade che colpivano e distruggevano qualunque cosa si
muovesse.
Boromir si ergeva forte e
alto, uno scudo vivente tra loro e l’urlante massa di nemici, la sua spada che
abbatteva un orco dopo l'altro ad ogni colpo. Eppure continuavano ad arrivare, e
ad arrivare, finché anche la sua spada, pur se nelle mani di un tale guerriero,
non poté più arginare la marea.
Boromir sollevò il corno per
chiamare aiuto, e il suono riecheggiò contro il picco di Amon Hen scatenando il
panico tra i nemici.
Gli orchi esitarono, dando
loro tempo di ritirarsi tra gli alberi, mentre Boromir teneva gli hobbit dietro
di sé proteggendoli con la sua imponente presenza. Ma l'aiuto non arrivava, e
gli aggressori ritrovarono il coraggio. Boromir continuava a combattere senza
sosta, instancabile.
Fino al momento in cui la
prima freccia lo colpì, e Merry vide l'impossibile accadere.
Boromir vacillò.
Rimase in piedi, ma lasciò
cadere la sua spada e barcollò, mentre il sangue sgorgava caldo e brillante
dalla ferita. Merry afferrò la spada, pronto a gettarsi nella lotta, ma uno
sguardo di Boromir lo fermò.
Il ricordo era così vivido
che fu come se la freccia avesse colpito lui. La sconfitta nello sguardo di un
soldato. Gli occhi di Boromir incontrarono i suoi per un terribile momento, poi
l'uomo, con voce potente quanto il suono del suo corno, gridò:
"Fuggite! Fuggite finché
potete!"
Merry scosse la testa,
rifiutando di obbedire, ma Boromir non lo stava più guardando. Si era rituffato
nella battaglia, la sua spada che volteggiava di nuovo spargendo morte tra i
nemici.
"Prendi Pipino e fuggi!"
aveva gridato di nuovo mentre combatteva.
E così Merry era fuggito.
Aveva afferrato Pipino per un braccio, trascinandolo via dalla radura, e insieme
avevano corso come se tutti i Nove Spettri fossero alle loro calcagna. Mentre si
allontanava dalla battaglia aveva sentito il sibilo di un'altra freccia, il
rumore sordo del dardo che andava a segno, e il ringhio di trionfo del capitano
degli orchi, ma non si era voltato indietro a guardare. Se lo avesse fatto, non
avrebbe più trovato il coraggio di andare avanti, e Boromir gli aveva detto di
fuggire. E così era fuggito.
"Non avremmo dovuto
andarcene", sussurrò Pipino, come se avesse letto nei pensieri di Merry.
"Cos'altro avremmo potuto
fare?"
"Restare e combattere. Non
era la prima volta che affrontavamo gli orchi. Perché mi hai costretto a
scappare, Merry?"
Merry rabbrividì nuovamente,
pieno di paura e di orrore per quello che aveva fatto. Pipino aveva ragione.
Sarebbero dovuti restare, anche se avrebbe significato la cattura, o la morte.
Il pensiero lo aveva tormentato fin dal momento in cui era ritornato alla radura
con Legolas e Gimli, e Boromir non c'era più. Forse se fosse rimasto sarebbe
morto. Ma almeno avrebbe potuto forse trafiggere un piede di un orco, ostacolare
un colpo, o addirittura uccidere anche un solo orco per guadagnare un po’ di
tempo, e permettere a Boromir di resistere fino all'arrivo di Aragorn. Perché
Merry era sicuro che insieme, i due uomini avrebbero potuto tenere testa a
qualunque esercito.
Invece era fuggito, prendendo
con sé Pipino, e Boromir era caduto. Quando Aragorn era arrivato, aveva dovuto
affrontare il nemico da solo. Ora entrambi gli uomini erano stati presi, e negli
abissi della sua disperazione, Meriadoc Brandybuck incolpava se stesso del loro
destino.
"Mi dispiace, Pip", disse
piano, con la voce resa aspra dal pianto. "Mi dispiace".
Per alcuni momenti Pipino non
rispose nulla, e Merry sentì le lacrime che cominciavano a scorrergli lungo le
guance.
"Ah, saremmo riusciti solo a
farci ammazzare, comunque. E siamo ancora in tempo, se mai li dovessimo
raggiungere", squittì Pipino.
Merry non poté trattenere una
risata. Per quanto si sentisse infelice, con Pipino era impossibile restarlo a
lungo.
"Non temere" ribatté, "non li
raggiungeremo mai, con un lumacone come te che ci fa da zavorra!"
Pipino sbuffò. "Non avrò le
gambe lunghe degli elfi, ma sono sempre più veloce di te".
"Si, a correre a tavola,
forse".
Merry non era dell'umore
giusto per scherzare, e anche quel bonario punzecchiarsi gli suonava forzato, ma
lo accettò comunque, come un segno che tutto andava bene tra loro. Rassicurato,
si accoccolò di nuovo nell'erba, aspettando che la notte finisse. Non voleva
riaddormentarsi di nuovo, non avrebbe sopportato un altro incubo. Avrebbe
riposato ugualmente e guardato l'orizzonte a est aspettando di vedere i primi
segni del giorno che spuntava.
Ma a dispetto delle sue
risoluzioni presto il sonno lo vinse, e quando Legolas venne per svegliarlo gli
sembrò che fossero passati soltanto pochi minuti.
"L'alba si avvicina", disse
l'elfo, con il suo consueto tono calmo e impenetrabile, "dobbiamo riprendere
l'inseguimento. Andiamo, Merry".
Pipino si mise seduto,
sbadigliando e stropicciandosi gli occhi. "Che c'è per colazione?"
"Lo stesso che hai mangiato
per cena", rispose Legolas.
"Lembas, acqua e male ai
piedi", piagnucolò Pipino.
"Proprio così." Legolas gli
offrì una mano per alzarsi, poi si rivolse a Gimli, in tono più grave.
"Il mio cuore mi mette in
guardia. Ho il presentimento che gli orchi non si siano fermati per riposare, e
che si stiano avvicinando sempre più a Fangorn".
"Allora è troppo tardi,"
ringhiò il nano, con gli occhi che ardevano di sfida, "ma dobbiamo tentare
ugualmente".
"Dobbiamo". Legolas si voltò
a guardare i due piccoli hobbit infreddoliti e corrugò la fronte.
"Non riusciremo mai a
raggiungerli. Dobbiamo trovare il modo di aggirarli".
"E cosa proponi di fare?
Assalire le mura di Isengard?"
"Sì, se non abbiamo altra
scelta. Non conosco bene Saruman, e senza i consigli di Mithrandir non oso
arrischiarmi a prendere il serpente per la coda. Ma di una cosa sono certo.
Aragorn figlio di Arathorn non deve cadere nelle mani del nemico. Se dovesse
arrivare a Orthanc dobbiamo trovare il modo di liberarlo, anche se questo
significa assalire le mura".
Merry aveva ascoltato il
dialogo in tetro silenzio fino alle ultime parole di Legolas, poi non poté più
trattenersi. "E Boromir?" domandò.
Legolas lo guardò, sorpreso
dal suo tono accusatorio. "Boromir? Anche lui è nelle mani degli orchi. Lo
troveremo quando troveremo Aragorn".
"Parli come se Saruman fosse
un pericolo solo per Aragorn…"
"Lo è, infatti", confermò
Gimli.
"Ma cosa sarà di Boromir?"
Legolas lanciò a Merry uno
sguardo così penetrante che a Merry sembrò che l'elfo potesse vedere attraverso
di lui, leggendo tutta la vergogna e il dolore che erano nel suo cuore.
"Non lo so. Prima dobbiamo
trovarli, poi lo scopriremo".
Pipino gettò via una foglia
di Mallorn vuota e si scosse le briciole di lembas dalle dita.
"E allora cosa stiamo
aspettando?" domandò, con impazienza.
Legolas sorrise,
incamminandosi verso la traccia lasciata dagli orchi.
"Aspettavamo solo che gli
hobbit finissero la colazione. Andiamo".
E così i quattro compagni
ripresero la loro caccia.
*** *** ***
Quando Uglùk ordinò al gruppo
di fermarsi Aragorn sospirò di sollievo. Il sole era quasi allo zenit, e avevano
viaggiato praticamente senza sosta dal tramonto del giorno precedente. L'intero
corpo gli doleva a causa della camminata sobbalzante dell'orco che lo
trasportava, la ferita alla gamba bruciava ferocemente, e le costole rotte
mandavano fitte di dolore ad ogni respiro. Ma la cosa peggiore di tutte era la
sensazione di gelo nelle braccia. Si stava diffondendo, pungente come aghi, dai
polsi legati su fino alle spalle, e le sue dita erano fredde e insensibili. Dal
momento della cattura Uglùk non aveva permesso che gli fossero slegate le mani
se non per i pochi momenti necessari a trangugiare un magro pasto. Durante quel
periodo il sangue aveva smesso di arrivare alle sue mani, ed esse erano divenute
un peso freddo e inutile contro la sua schiena.
Lugdush si fermò traballando
e scaricò Aragorn dalla sua spalla, senza preoccuparsi di come poteva cadere.
Aragorn toccò terra con la gamba ferita, e boccheggiando per il dolore, crollò
sull'erba calpestata e annerita. Non tentò nemmeno di rialzarsi, ma rimase come
era caduto, felice del contatto con la terra immobile sotto di lui, cercando di
bandire il dolore dalla sua mente.
Sentendo i passi di un altro orco che si avvicinavano aprì gli occhi. L'orco
stringeva in pugno la corda all'estremità della quale era legato Boromir. Quando
raggiunse Aragorn l'orco si voltò e raccolse la corda, costringendo Boromir a
fermarsi bruscamente stringendo il pugno attorno al cappio alla sua gola. L'orco
diede un violento strattone, poi imprecando, spinse Boromir all’indietro di
alcuni passi.
"Siediti, soldatino", sbottò
l'Orco, "Meglio che ti riposi finché puoi, perché non trascinerò oltre la tua
sudicia carcassa, per oggi".
Boromir, che non aveva
mostrato nessuna reazione al rude trattamento dell'orco, si lasciò cadere al
suolo accanto ad Aragorn. Non si mosse né parlò, nemmeno quando l'orco sfogò
nuovamente il suo malumore sferrandogli un calcio nelle costole, ma rimase
seduto a testa bassa, con i gomiti appoggiati alle ginocchia. Aragorn non
avrebbe saputo dire se stava aspettando qualcosa, nascondendo il suo viso e i
suoi pensieri dagli occhi delle guardie, o se era semplicemente troppo esausto
per muoversi. Era del tutto immobile, come chiuso in se stesso in qualche luogo
dove né Aragorn né i suoi rapitori potevano raggiungerlo.
Aragorn lo aveva osservato
durante la lunga e faticosa marcia dagli Emyn Muil. Boromir aveva percorso la
maggior parte del tragitto camminando sulle proprie gambe, anche se gli orchi
erano stati costretti a trasportarlo per brevi tratti, quando le forze gli
mancavano e Uglùk non permetteva di fermarsi. Stranamente, Uglùk non aveva
ritenuto necessario legargli i polsi. Aragorn ne aveva dedotto che gli orchi lo
consideravano innocuo, e Boromir, nonostante stesse recuperando un po' delle sue
forze grazie alla medicina di Uglùk, faceva il possibile per incoraggiare quell'opinione.
Aragorn non aveva dubbi che
buona parte di quella debolezza fosse reale. Boromir aveva subito gravi ferite,
che solo da poco erano state medicate e bendate, e aveva ricevuto un violento
colpo alla testa che lo aveva lasciato privo di sensi per molte ore. Nel
guardare il suo viso, una volta così orgoglioso e bello, Aragorn non poté
evitare di rabbrividire, e ripensando al disastro causato dalla lama dell'orco
gli salirono le lacrime agli occhi.
Boromir non ne parlava. Non
una parola, non un gesto che si riferissero al massacro di carne e ossa
frantumate che una volta erano stati il suo zigomo e il suo occhio destro, e
alla brutta contusione che gli deturpava l'intera parte destra del viso, o alla
benda insanguinata che gli copriva entrambi gli occhi. Aragorn non sapeva
esattamente cosa nascondesse la benda, ma aveva visto il colpo che aveva
abbattuto il guerriero, e sapeva che solo un miracolo avrebbe potuto salvare
qualcosa dalla devastazione della spada di Lurtz.
Aragorn non sapeva che fare.
Poteva commiserare l'amico per la sua sfortuna. Poteva chiedersi quali pensieri
passassero per la mente di Boromir, mentre sedeva, immobile, sulle pianure di
Rohan. Poteva cercare di capire la portata delle sue ferite e il dolore che gli
causavano. Ma fino a quando quei pensieri e quel dolore fossero restati chiusi
dietro il suo viso impassibile, Aragorn sapeva che non avrebbe avuto il coraggio
di avvicinarglisi. Avrebbe aspettato e guardato, sperando che Boromir gli
concedesse la fiducia di confidarsi con lui come aveva già fatto in passato.
Il Ramingo stava ancora
tentando di stabilire quanto stremato e impaurito fosse in realtà l’amico, e
quanto invece fosse uno stratagemma per tentare di liberarsi, quando i suoi
pensieri furono interrotti dal ritorno di Lugdush alla testa di una rumorosa
truppa di orchi.
"Ve lo dico io, ragazzi!"
gridò allegramente Lugdush ai suoi compagni", il Gambelunghe si muoverà
abbastanza in fretta, se gli diamo un buon motivo!"
Le guardie addette alla
sorveglianza dei prigionieri guardarono dubbiosamente Lugdush, ma questi era il
fidato luogotenente di Uglùk, e non osavano interferire con il suo divertimento.
Lugdush afferrò una lancia dalle mani dell'Orco più vicino e gettò un'occhiata
ad Aragorn.
"In piedi!"
Aragorn guardò la punta
dell'arma e si chiese quanto lontano Uglùk avrebbe lasciato andare la cosa,
prima di intervenire. Lentamente, con il corpo che protestava ad ogni movimento,
il Ramingo si girò sul lato destro per fare forza sulla gamba sana, e cercò di
alzarsi. Lugdush rise forte, poi con una mano lo prese per i capelli e lo
trascinò in piedi. Aragorn ricadde seduto appoggiandosi alla gamba destra, la
sinistra stesa malamente in avanti, combattendo contro l'improvviso senso di
vertigine che lo aveva colto.
Deridendolo, gli orchi applaudirono, pestando i piedi per il divertimento.
Lugdush, incoraggiato dalle loro roche grida, cominciò a fintare colpi con la
lancia, portandosi sempre più vicino al Ramingo, legato e inerme.
"Ho detto in piedi,
pelle-bianca!"
Aragorn si irrigidì al
contatto con la lama, ma riuscì a non urlare quando questa lacerò stoffa e pelle
facendo scorrere sangue fresco lungo il suo fianco. Lugdush lo guardò, fintò di
nuovo con la lancia, poi la spinse violentemente in avanti. Aragorn non poté
farci niente. Cercò di schivarla, ma si procurò ugualmente un taglio all'altezza
delle costole, quando la lancia scivolò tra il suo braccio e la sua schiena.
Indietreggiò, e gli orchi scoppiarono a ridere nel vedere il sangue attraverso i
suoi abiti laceri.
Con la lancia incastrata
dietro la schiena, Aragorn barcollò e cadde. La punta della lancia si conficcò
per terra, impedendo ad Aragorn di spostarsi e costringendolo a stare a faccia
in giù nell'erba. Lugdush e Snaga si gettarono in avanti, tra le grida dei loro
compagni, e afferrarono ciascuno un'estremità della lancia. Sollevando Aragorn
in questo modo, lo costrinsero ad alzarsi in piedi.
Aragorn si sporse in avanti, per alleviare il dolore che lo attraversava dai
polsi alle spalle, ma così facendo portò inavvertitamente il suo peso sulla
gamba ferita. Il dolore divenne insopportabile, i muscoli si rifiutarono di
sorreggerlo, e l'uomo si accasciò con un grido.
Per un momento fu colto dalla
nausea, e la sua mente nuotò nell'oscurità, ai limiti dell'incoscienza. Ma poi
un altro suono lo raggiunse, al di sopra dei frenetici ululati degli orchi, un
suono che lo richiamò alla realtà nonostante l'invitante oblio, e lo costrinse
ad aprire gli occhi.
Era Boromir, che gridava agli
orchi la sua rabbia e la sua sfida. Sollevando la testa, Aragorn riuscì a
mettere a fuoco la vista in tempo per vedere Boromir che si lanciava contro
Lugdush, colpendolo al petto con una spallata.
"Fermati!" gridò Aragorn.
"Boromir, fermati!"
Me nessuno gli prestò
attenzione - né l'uomo né l'orco- e le grida eccitate degli spettatori
sovrastarono le sue proteste. Lugdush ruggì infuriato e tentò di afferrare
l'uomo tra le sue enormi mani, ma Boromir non gli diede il tempo di stringere la
presa. Grazie ai suoi riflessi innati di soldato si abbassò schivando il braccio
che tentava di colpirlo e si allontanò, dopo aver trovato e afferrato il pugnale
che Lugdush portava in cintura.
Boromir si fermò a pochi passi dall'orco, brandendo con sicurezza il coltello,
pronto all'attacco. Nonostante i vestiti laceri e sporchi, il sangue incrostato
sul suo viso e la livida benda sugli occhi, Boromir sembrava esattamente quello
che era - un guerriero. Feroce, orgoglioso e letale come gli eroi delle
leggende.
"Se lo tocchi un'altra volta
morirai" ruggì Boromir.
L'orco imprecò e sputò.
"Romperò le tue gambe come bastoni e ti trascinerò per i piedi fino a Isengard,
soldatino!"
Non aveva ancora finito di
parlare che si lanciò contro l'uomo. La sua velocità era sorprendente, e prima
che Aragorn avesse il tempo di gridare un avvertimento l'orco fu addosso a
Boromir, facendoli finire entrambi a terra in una lotta furibonda. Gli orchi
proruppero in un grido di esultanza, ma ammutolirono increduli quando Lugdush
improvvisamente rotolò via da sopra Boromir con l'elsa del pugnale che gli
sporgeva dal petto.
Gli orchi ulularono di
rabbia, e si gettarono su Boromir in una zuffa impazzita e ringhiante che lo
nascose completamente alla vista di Aragorn.
Il Ramingo cercò di
rialzarsi, ma con la gamba ferita inerte sotto di lui, le braccia intorpidite e
inutili, e la lancia che gli impediva il movimento, non poté fare altro che
stare a guardare, cercando di vedere qualcosa in mezzo al groviglio formato
dalle gambe degli orchi.
Un ruggito più forte degli
altri annunciò l'arrivo di Uglùk. Si fece strada a spintoni nella mischia,
agitando la frusta e imprecando contro chiunque si trovasse davanti. Gli orchi
più piccoli si ritirarono velocemente, facendogli spazio, e Aragorn poté vedere
che due orchi stavano bloccando Boromir al suolo e tentavano di tenerlo fermo,
mentre l'uomo, con la forza della disperazione, si divincolava minacciando di
liberarsi da un momento all'altro. In pochi passi Uglùk fu sopra di loro, dando
un calcio alle gambe di Boromir e vibrando un colpo di frusta su tutti e tre i
corpi indistintamente. Lo schiocco della frusta riportò il silenzio e
l'immobilità.
"Fatelo alzare!" ringhiò
Uglùk.
Gli orchi strisciarono
velocemente via, preoccupati tanto della frusta del loro capo quanto dal
prigioniero. Boromir con prontezza rotolò su un fianco per rialzarsi,
appoggiandosi al suo braccio sano, ma Uglùk schioccò nuovamente la frusta,
colpendolo sulle spalle, e sebbene gli abiti e la maglia metallica offrissero
una qualche protezione, la violenza del colpo lo schiacciò a terra. Rimase così,
ansimante, con il viso premuto contro il terreno brullo e l'erba calpestata,
accontentandosi per il momento di aspettare.
Il capo degli orchi premette il suo enorme piede sulla spalla ferita di Boromir,
bloccandolo efficacemente a terra, e si chinò su di lui sibilando, "Non sei
tanto sveglio, eh, soldatino? Sono stato tanto buono da lasciarti le mani libere
così che tu non cadessi a faccia in giù ad ogni radice, e tu come mi ripaghi?
Infilzando uno dei miei ragazzi".
Uglùk fece un passo
all'indietro per avere più spazio, poi lo colpì nuovamente. La frustata cadde di
traverso sul viso di Boromir, aprendogli un profondo taglio sulla guancia.
Boromir emise un grido soffocato, e si coprì il taglio sanguinante con la mano.
Uglùk rise malignamente.
"Questo è solo un assaggio di
quello che ho serbo per te. ‘Portateli vivi’, ha detto, ma non ha specificato
tutti interi, oh no. E io farò di te un bravo soldatino, dovessi lasciare pezzi
della tua carne da qui fino a Isengard!"
Chinandosi ancora e
abbassando la voce a un sussurro, aggiunse, "Prima o poi la Mano Bianca avrà
finito con te, e allora tu sarai mio. Capito? Ma certo che non hai capito, razza
di stupido, debole pelle-bianca, ma imparerai! Conoscerai il prezzo che si paga
per avere ucciso un Uruk-hai".
Rivolgendosi all'orco più
vicino ringhiò, "Legatelo! E fate in modo che gli faccia male!"
L'orco obbedì, legando
Boromir con le braccia dietro la schiena senza troppe cerimonie, mentre un altro
orco gli assicurava le caviglie. Quando ebbero finito, l'uomo era prostrato,
immobile. Uglùk lo osservò con sospetto, poi lo prese per il mantello e lo
trascinò accanto ad Aragorn. Gettandolo a terra con disprezzo fissò lo sguardo
crudele sul Ramingo.
Chinatosi per raccogliere la
lancia ancora incastrata tra le braccia di Aragorn, la rigirò portandone la
punta davanti agli occhi furenti dell'uomo. "Hai intenzione di creare problemi
anche tu?" domandò.
Vedendo che Aragorn non rispondeva, limitandosi a guardare Uglùk in silenzio,
l'orco gli sollevò il mento con la lancia, premendo la lama contro la sua gola.
Una goccia di sangue colò da sotto la lama, ma Aragorn ancora non tradiva alcuna
emozione.
"Vi terrò d'occhio. E aspetto
solo l'occasione di farvela pagare. Non crediate che un po' di frustate bastino
per la morte di Lugdush, e non aspettatevi che io creda che sia stata solo
un'idea del soldatino". Uglùk strinse gli occhi con aria astuta.
"Tu porti guai. Lo sento.
Quell'altro uccide, ma anche tu porti guai".
Aspettò un altro po' che
Aragorn rispondesse, poi mostrò le zanne gialle in un sorriso terrificante e
ringhiò, "Sei troppo furbo, per i miei gusti. E hai gli occhi di un dannato
elfo".
Sputò con gesto eloquente
nella polvere, poi si allontanò a grandi passi, gridando alle guardie, "Niente
cibo per loro! Teneteli legati finché non gli si staccano le mani! E se muovono
un muscolo, pestateli!"
Aragorn rimase in silenzio,
impassibile, finché Uglùk non fu scomparso in mezzo alla folla di orchi e solo
le guardie rimasero a sorvegliarlo. Poi, cautamente, rotolò su un fianco,
voltandosi verso la figura inerte di Boromir.
"Sei uscito di senno?"
sussurrò con veemenza. Boromir non si mosse, ma Aragorn capì che lo stava
ascoltando.
"Avresti potuto farti
ammazzare, per un gesto di stupido coraggio".
Quando Boromir rispose, la
sua voce era bassa ma piena di rabbia. "Avresti dovuto fuggire quando ne hai
avuta la possibilità".
"Tu non hai ucciso quell'orco
per permettermi di fuggire". Non era una domanda, ma un'affermazione, piena di
incredulità.
"Forse. In parte". Boromir
esitò, con un'espressione sinistra in viso, al di sotto della maschera di sangue
e lividi, poi ripeté, "Avresti dovuto correre".
"Non posso correre. Non posso
nemmeno camminare. E non ti lascerò qui".
Boromir non disse nulla, ma
la sua amarezza era quasi palpabile.
"Ci sarà un'altra occasione",
insistette Aragorn, sommessamente, "e se non ci sarà, allora affronteremo la
morte come abbiamo affrontato la vita, con onore".
"Io non ho onore".
"Ti sbagli. La tua colpa è
già stata perdonata da tempo, Boromir. Come posso fartelo capire?"
"Non chiedo il perdono, ma
solo la possibilità di riparare almeno in parte al danno che ho commesso".
"E devi morire per farlo?"
"Non desidero morire. Non si
tratta di morte, o di onore. È che… " Si interruppe, a Aragorn vide che lottava
per trovare le parole giuste per esprimere i suoi pensieri.
Quando finalmente parlò, la
sua voce non era che un flebile sussurro, e Aragorn dovette sforzarsi per
udirlo.
"Per tutta la vita ho
guardato mio padre governare Gondor dal seggio del Sovrintendente, mentre il
trono restava vuoto dietro di lui. Per tutta la vita non ho desiderato altro che
servire la mia terra, la mia città, il mio popolo, in tutti i modi in cui mi era
dato farlo. Ma il trono… il trono resta sempre vuoto, a ricordare che io, mio
padre e mio fratello non siamo abbastanza. Noi lottiamo, combattiamo e moriamo
affinché gli altri popoli vivano nell'innocenza, al sicuro dalla grande Ombra,
eppure non siamo degni di governare come re.
So che la mia nascita non è
alta abbastanza da darmi il diritto al trono. Lo so. Ma è soltanto il mio
lignaggio che manca, non il mio spirito. E se l'amore per un popolo può fare di
un uomo un re, allora Gondor ha un re".
"Gondor ha un grande
difensore, che egli porti la corona o no", mormorò Aragorn.
"Non più. Sono finito. Ma
anche adesso posso vibrare un colpo per la mia gente. Posso mandare loro il
campione di cui hanno bisogno, mandare loro un re! Per nascita, per diritto e
per valore, tu sei il Re di Gondor, Aragorn".
Aragorn lo guardò pieno di
stupore, meditando sul dono che gli era stato fatto. Non era l'offerta di
sacrificare una vita per la sua libertà che lo commuoveva - il suo senso
dell'onore e la situazione non avrebbero permesso un tale scambio - ma il dono
più grande del rispetto e dell'accettazione di Boromir. Solo quando Boromir lo
aveva chiamato Re, Aragorn aveva capito quanto avesse desiderato la sua stima.
Ma ora che l'aveva ottenuta, la disperazione che aleggiava nelle sue parole
rendeva il trionfo amaro.
"Noi due cavalcheremo verso
la Città Bianca insieme", disse Aragorn con fermezza, "e insieme condurremo il
nostro esercito contro il Nemico".
"E' il tuo esercito, ora".
"Se devo governare Gondor,
avrò bisogno del mio Sovrintendente accanto a me".
"Denethor è il Sovrintendente
di Gondor, e Faramir dopo di lui. Io non siederò mai nel seggio di mio padre".
"Allora non avrò alcun
Sovrintendente".
Boromir si voltò verso
Aragorn, colpito, e fece per parlare, ma Aragorn lo anticipò.
"Un re deve essere circondato
da persone di cui si fida, e io non voglio alcun altro alla mia destra per
consigliarmi. Io ti giuro, Boromir, sul sangue di Isildur e Elendil che scorre
nelle mie vene, e sull'amore che ho per il mio popolo, che ci sarà un solo
Sovrintendente a Gondor, fino a che io sarò Re. Tu sarai il mio Sovrintendente,
o nessun altro".
Ora fu il turno di Boromir di
cadere in un attonito silenzio. Giaceva col viso rivolto verso l'alto, e Aragorn
non riusciva a decifrare l'espressione sui suoi lineamenti insanguinati. Solo il
suo respiro rapido tradiva l'effetto delle parole di Aragorn su di lui. Infine,
con una voce che non riuscì a nascondere la sua emozione mormorò,
"Potresti rimpiangere questo
giorno".
"Sì. Rimpiango di non essere
fuggito quando ne avevo la possibilità".
Boromir sorrise e fece per
rispondere, ma un improvviso tramestio tra gli orchi li distrasse entrambi, e
Aragorn si voltò per cercare la causa della confusione.
Diversi orchi stavano
correndo per la zona sud del campo, mentre altri si alzavano in piedi e
afferravano le loro armi. Un grido si levò dalle sentinelle esterne.
"Pelle-bianca! I cavalieri ci
hanno scoperto!"
La potente voce di Uglùk si
levò sulle altre, urlando. "Restate fermi, sono solo in due! Aspettate che
assaggino le frecce degli invincibili Uruk-hai!"
Una pioggia di frecce si
abbatté sui cavalieri che si avvicinavano. Uno cadde di sella, tra le grida di
gioia degli orchi, ma l'altro voltò il suo cavallo e si allontanò al galoppo
verso sud. Gli orchi scagliarono un'altra inutile scarica di frecce dietro di
lui, finché Uglùk li fermò con un grido.
"Basta frecce, maledizione!
Se ne è andato! Se non raggiungiamo la foresta prima che quei maledetti ci
raggiungano siamo nei guai! In piedi!" Si fece strada tra la massa agitata e
ululante di orchi, dando calci a tutti quelli che ancora sedevano sull'erba e
colpendoli con la fusta.
"Su, razza di lumache, se ci
tenete alla pelle!"
In mezzo al caos e alle grida
gli orchi si mossero con velocità frenetica. Si alzarono in piedi, raccolsero le
armi e l’equipaggiamento e seguirono gli esploratori di corsa, via
dall'accampamento. Mani di ferro afferrarono i due prigionieri e li issarono
senza tanti riguardi sulle spalle di due orchi vicini. Poi l'intera massa di
orchi si mise in marcia correndo in una fila disordinata verso la lontana ombra
della fitta foresta. Tenevano le teste abbassate e le loro possenti gambe si
muovevano senza sosta con un ritmo instancabile, brutale, divorando leghe e
leghe sotto di loro. Uglùk veniva per ultimo, con la frusta che mordeva i
calcagni dei ritardatari e la sua voce che incitava i primi del gruppo.
"Muovetevi, canaglie!
Correte! Correte o morirete!"
Boromir si divincolò nelle
corde, cercando di liberarsi, riuscendo però solo a peggiorare la sua
situazione. Le funi che lo legavano al tronco del grande albero premevano
dolorosamente contro le sue ferite, e la corteccia nodosa dell’albero gli
martoriava la schiena, le braccia e i polsi. Aragorn era seduto accanto a lui,
legato allo stesso albero, ma il frastuono delle voci degli orchi e il rumore
delle asce che battevano sul legno rendevano difficile parlare: nonostante la
loro vicinanza, i due uomini si sentivano isolati.
Con un sospiro di
frustrazione, Boromir piegò la testa all’indietro appoggiandola al tronco,
desiderando solo di poter chiudere gli occhi e dormire. Da quando l’oscurità era
caduta su di lui aveva trovato stranamente difficile dormire, nonostante la sua
stanchezza. Sapeva che questo era dovuto alla paura che si annidava nella sua
mente - paura di non risvegliarsi, o peggio, paura di non riuscire più a
distinguere, in quell’eterna oscurità, tra sonno e veglia, tra vita e morte. Era
una paura infantile, lo sapeva, considerando che restare sveglio significava
dolore e miseria, ma ciononostante non riusciva a liberarsene. Desiderava
soltanto il semplice, riposante conforto di poter chiudere gli occhi e fuggire
lontano dalla realtà.
Sospirò di nuovo, trasalendo
quando la corda urtò contro la ferita nel suo fianco.
Come richiamato dal suo
silenzioso sibilo di dolore, Uglùk arrivò a grandi passi, fermandosi accanto
all’albero per schernire i due prigionieri.
“Non mettetevi troppo comodi”
rise, “Appena farà buio e arriveranno i ragazzi di Mauhùr ce ne andremo”.
Boromir fece una smorfia, la
cosa più simile ad un'espressione di sfida che gli riuscì, avendo gli occhi
bendati. “Non se vi trovano prima i Cavalieri”, disse. “Vi trafiggeranno sulle
loro picche e vi arrostiranno su vostri stessi falò, Uglùk”.
Uglùk sembrò trovare quelle
parole estremamente divertenti. “Che vengano pure! Sono pronto ad affrontare
quegli allevatori di cavalli e le loro lance lucenti. Che vengano pure, dico
io!”
Si incamminò con passo
pesante verso il frastuono, ridendo, lasciando Boromir intento a chiedersi che
cosa gli orchi avessero in serbo per i Rohirrim. I biondi Figli di Eorl
sarebbero stati abbattuti dalle spade di quelle vili creature, e Boromir
rabbrividì, sapendo che non avrebbe potuto fare nulla per impedirlo. Digrignò i
denti, frustrato dalla sua inutilità. Boromir di Gondor non poteva sopportare di
essere inutile. La rabbia lo rendeva inquieto, impaziente, desideroso di azione.
Non riuscendo più a stare in
silenzio, parlò cercando di farsi sentire al di sopra del rumore degli orchi.
“Grampasso?”, chiamò.
“Si?”
“Cosa stanno costruendo?”
“Una barricata. Ormai è già
alta quanto un uomo, e piega verso la foresta per proteggere i lati”.
A Boromir bastarono pochi
instanti per capire la strategia di Uglùk. Il capitano degli orchi avrebbe
piazzato i suoi arcieri dietro la barricata di legno, e sterminato i soldati a
cavallo, coprendo nel frattempo la ritirata del resto del gruppo verso la
foresta. Un piano semplice e efficace, pensò Boromir, ma c’era qualcosa che non
lo convinceva. Poi capì.
“Da quando gli orchi sono in
grado di costruire?”, chiese ad Aragorn. “Credevo che non sapessero fare altro
che uccidere e distruggere”.
“Non è forse quello che
stanno facendo? Abbattono alberi, così da poter uccidere i Cavalieri.”
“Certo, ma non lo trovi
strano? Un orco che mette a punto una strategia? Mi aspettavo che Uglùk fuggisse
semplicemente nella foresta, contando sul fatto che i Cavalieri non osassero
seguirlo. E invece si è fermato qui a costruire una fortificazione, a coprire la
ritirata, a preparare un contrattacco…”
“Combatte come un uomo”,
completò Aragorn, “Come un soldato”.
Rimasero entrambi senza
parlare per un lungo momento, poi Aragorn aggiunse, cupamente: “Un altro degli
inganni di Saruman. Gandalf disse che Saruman aveva creato questa razza di orchi
più forti e più resistenti. Sembra che gli abbia dato anche qualcosa che Gandalf
non aveva previsto”.
“Così i Rohirrim cavalcano
verso la morte senza saperlo. Stanno inseguendo un gruppo di fuggiaschi.
Incontreranno un esercito”.
Dopo quell’amara
considerazione restarono entrambi in silenzio. Non avevano nient’altro da dirsi,
nessun conforto da offrire; insieme ai Cavalieri sarebbe morta anche la loro
speranza. Nessuno di loro ne aveva parlato esplicitamente, ma entrambi avevano
sperato che la venuta dei Rohirrim avrebbe significato salvezza. Ora invece
temevano che avrebbe portato solo altre sofferenze e altro dolore da aggiungere
ai misfatti di Saruman. Altro sangue sulle mani dello stregone.
Gli orchi continuarono a
lavorare, abbattendo un albero dopo l’altro per innalzare la loro barricata.
Uglùk camminava avanti e indietro gridando ordini e calando la frusta ovunque il
lavoro non procedesse abbastanza rapidamente per i suoi gusti. Gli occhi degli
orchi continuavano a correre verso le colline che si estendevano ai margini
della foresta, cercando di scorgere in lontananza l’arrivo dei primi cavalieri,
e di tanto in tanto se ne udiva uno lamentarsi.
“Mi domando che cosa ha in
mente Uglùk! A quest’ora dovremmo già essere al sicuro nella foresta buia, dove
quei dannati Cavalieri non potrebbero trovarci, invece che essere qui ad
aspettare di ritrovarci con una lancia piantata in gola. A che gioco sta
giocando?”
“Giocando?”, ringhiò Uglùk,
“Ti farò vedere io come giocano gli Uruk-hai, razza di scimmia! E quando avremo
ammazzato tutti i cavalieri, mi ringrazierai di non dovere correre fino a
Isengard con loro alle calcagna! Ora muovi la tua pigra carcassa, prima che te
la scortichi a frustate! Muoviti!”
Gli orchi si mossero, gli
alberi caddero, e la barricata si innalzò lentamente attorno a loro. Quando il
sole fu calato oltre le montagne a ovest, dalla foresta giunse marciando
frettolosamente un altro gruppo di orchi. Arrivarono accompagnati da una babele
di grida, risate e fragore di spade, e la squadra di Uglùk li accolse con
entusiasmo.
“Mauhùr!”, muggì Uglùk, “Dove
diavolo vi eravate nascosti tu e i tuoi vermi? Qui c’è lavoro da fare. Gente da
uccidere!”
Mauhùr, un orco parecchio più
piccolo di Uglùk, sbattendo le palpebre rapidamente per evitare la luce del sole
che tramontava, ribatté alla provocazione con una risataccia. “Vermi, dici? Beh,
questi fermi ti faranno comodo quando arriveremo alle montagne. Abbiamo
aspettato il tramonto. I miei ragazzi non stanno a cuocersi sotto il sole quando
c’è una bella foresta a portata di mano per nascondersi”.
Ringhiando di disgusto per la
loro debolezza, Uglùk mandò gli orchi delle montagne ad aiutare i suoi Uruk-hai
con la barricata, mentre si ritirava in disparte con Mauhùr per una
conversazione privata.
L’attività si fece ben presto
febbrile, alimentata dall’energia dei nuovi arrivati e dal sollievo causato
dall’assenza del sole. Ma a un tratto, il trambusto cessò all’improvviso, e un
silenzio innaturale cadde sulla truppa. Niente più grida, niente più rumore di
asce, nemmeno il fruscio delle foglie. La stessa Fangorn sembrava trattenere il
respiro in attesa.
In quel silenzio innaturale,
Boromir sentì il terreno sotto di sé vibrare in profondità. Zoccoli di cavalli.
“Stanno arrivando”, mormorò
Aragorn. Come ad un segnale, gli orchi cominciarono a gridare tutti insieme.
“Ai! I Cavalieri! I
Pelle-bianca ci sono addosso!”
“Arcieri sulla barricata!”,
tuonò Uglùk, sovrastando con la sua voce il frastuono. “Snaga, tu sul lato
destro, Durbàk, sul sinistro! Sbrigatevi, ragazzi!”
Gli orchi obbedirono,
lasciando cadere qualunque cosa avessero in mano per prendere le armi e si
affrettarono verso la barricata. Nonostante la confusione, sembravano sapere
esattamente che cosa ci si aspettava da loro, e gli ordini di Uglùk arrivavano
con regolarità, arginando il panico, calmando le grida, e ingondendo negli orchi
una rabbia feroce e determinata.
“Tenete giù la testa, non
tirate ancora! Aspettate, ragazzi, aspettate! Lasciate che superino le colline e
poi dateci dentro! Fermi ora…”
Nell’aperta pianura, i
Cavalieri arrivarono galoppando in una veloce colonna, cavalcando in file da
tre. Tenevano le lance alzate, con l’asta che poggiava sullo stivale e la punta
che scintillava verso il cielo. Un manipolo di arcieri cavalcava a fianco della
colonna, ma non avevano le frecce incoccate: stavano seguendo le tracce di un
gruppo di orchi in fuga e non si attendevano un attacco. Nella luce del sole
morente, con le loro cotte di maglia rilucenti e i chiari capelli che
svolazzavano da sotto gli elmi, apparivano splendidi e letali.
Quando si furono avvicinati
al limite del territorio collinoso, trovandosi di fronte la fitta ombra di
Fangorn, il loro capo si alzò sulle staffe per osservare la traccia degli orchi.
Piegava attraverso le praterie di Rohan, incontrando le secche fangose dell’Entalluvio,
nel punto in cui usciva dalla foresta per poi seguire la riva orientale del
fiume fino al limite degli alberi. Il cavaliere si sedette di nuovo sulla sella
e si voltò, il viso orgoglioso sotto l’elmo splendente, per dare un ordine al
suo secondo. A quelle parole, l’intera colonna svoltò apparentemente senza
sforzo a destra, seguendo la traccia di erba annerita verso la foresta.
Il sole era ormai scomparso
oltre i picchi che torreggiavano alla loro sinistra, e le prime ombre della
notte cadevano sulla foresta ai piedi della montagna. In alto, il cielo era
ancora illuminato dalla luce serale, ma le praterie erano già nell’ombra, e
l’oscurità minacciosa della foresta si profilava davanti a loro. Eppure i
cavalieri continuavano a galoppare, senza preoccuparsene, poiché la loro traccia
era chiara.
Èomer, Terzo Maresciallo del
Riddermark, cacciava orchi sin da quando aveva imparato a stare su un cavallo.
Sapeva che non si sarebbero mai voltati ad affrontare soldati a cavallo, a meno
che non fossero in schiacciante superiorità numerica, o fossero con le spalle al
muro e costretti a combattere. Ma questi orchi non erano in numero sufficiente,
e se avessero raggiunto i margini di Fangorn, avrebbero avuto tutte le valli
ombrose per nascondersi. Non avrebbero combattuto. Sarebbero fuggiti, e il
compito di Èomer sarebbe finito solo quando si fosse assicurato che i loro piedi
non avrebbero più calpestato i prati del Mark.
L’èored risalì
rapidamente la riva orientale del fiume, verso i primi alberi più esterni. Èomer
si alzò nuovamente sulle staffe per scrutare la traccia, ma non poté vedere
nulla al di sotto dei fitti rami della foresta. La pista rimaneva parallela all’Entalluvio,
tuffandosi insieme ad esso tra gli alberi, verso la fitta oscurità. Il Cavaliere
corrugò la fronte. Non temeva la foresta, sebbene la trattasse con il dovuto
rispetto, ma mentre osservava quell’ombra impenetrabile, cercando un punto dove
i Cavalieri avrebbero potuto passare, ricordò tutti i racconti che aveva sentito
da bambino, e un involontario brivido lo percorse.
Scuotendosi di dosso il suo
disagio, Èomer segnalò all’èored di proseguire, e guidò il suo cavallo in
mezzo alla fitta vegetazione. Quando passò sotto i primi rami, l’ombra gli si
parò davanti all’improvviso. Stava ancora cavalcando verso di essa, quando, con
sorpresa, si accorse che era solida. Una muraglia di tronchi rozzamente
tagliati, gettati sul loro sentiero. Con un grido di avvertimento, sollevò la
mano per fermare i Cavalieri, ma la sua voce fu coperta da un assordante
frastuono di grida e ululati provenenti dalla sommità del muro. Una pioggia di
frecce si abbatté sui Cavalieri, trafiggendo elmi, armature, carne e animali. I
cavalli nitrirono di dolore e gli uomini gridarono di rabbia.
Èomer fermò il suo cavallo
così repentinamente che quasi lo fece sedere sulle zampe posteriori, spronandolo
verso destra in un galoppo selvaggio. Si trovò a percorrere l’intera lunghezza
di una barricata che si ergeva bloccando il passaggio accanto all’Entalluvio. Il
muro cominciava dal fiume sulla sinistra, curvando fino a una fitta macchia di
alberi sulla destra, ed era alto quasi quanto la testa di un uomo a cavallo.
Sulla sua sommità di affollavano gli orchi, che scagliavano le loro frecce nere
sulla massa dei Cavalieri.
Èomer aggirò la colonna di
combattenti e voltò il cavallo verso le pianure, richiamando i suoi uomini
mentre galoppava, “A me, Cavalieri di Rohan, a me!”. Accanto a lui, Èothain
suonò il suo corno per segnalare la ritirata.
Un’altra raffica di frecce
sibilò e si abbatté su di loro mentre fuggivano. Un uomo gridò di dolore e cadde
di sella. Un cavallo inciampò, il collo trafitto da una freccia. Eppure i
Cavalieri, disciplinati, si disposero attorno al loro capitano e sotto il suo
comando si allontanarono dalla barriera letale.
Ma altri ancora caddero,
poiché le potenti frecce, lanciate a distanza ravvicinata, perforavano le
armature e trovavano aperture negli elmi. Un arciere alla fine della colonna
rispose scagliando a sua volta una freccia, e un orco precipitò dalla sua
postazione col dardo conficcato nell’occhio, mentre l’èored si affrettava
verso lo spazio aperto delle colline, lasciando una schiera di morti e moribondi
alle sue spalle.
Boromir sentì le grida dei
cavalli e degli uomini morenti, e chinò la testa, afflitto. Per quanto tentasse,
non riusciva a ignorare il familiare rumore della battaglia, e attendeva con
dolorosa apprensione l’attacco successivo. I cavalieri avrebbero attaccato di
nuovo, lo sapeva, perché l’onore li avrebbe costretti a vendicare la morte dei
loro compagni, e il dovere imponeva loro di distruggere i nemici che avevano
invaso i loro confini. Molte volte aveva combattuto a fianco dei Cavalieri di
Rohan, e non dubitava che essi tenessero in considerazione l’onore e il dovere
quanto qualsiasi soldato di Gondor.
Due volte i cavalieri si
gettarono contro la barricata, e una volta tentarono di sorprendere gli orchi
attaccando il lato destro. Gli orchi li respinsero con facilità, e Boromir
rabbrividì d’orrore nel sentire i loro ululati di gioia mentre finivano con le
spade i cavalieri caduti. Poi, quando la notte fu troppo buia per vedere, i
Rohirrim si ritirarono appena fuori dalla portata delle frecce, e accesero
numerosi falò in uno stretto semicerchio attorno alla barricata.
Gli orchi si divertirono per
un po’ gettando una serie di proiettili improvvisati verso i Cavalieri
silenziosi, in attesa, accompagnandoli con insulti e insolenze. Ma ben presto,
vedendo che i Cavalieri non si muovevano oltre il cerchio di luce formato dai
fuochi, si stancarono del passatempo e persero interesse. Gli orchi
ricominciarono a lamentarsi della capacità di comando di Uglùk, dimenticando il
massacro e il saccheggio che aveva appena procurato loro, e stavano già per
abbandonare le loro postazioni sulla barricata quando il grido di una sentinella
li fece correre di nuovo alle armi.
Un istante dopo Boromir udì
l’inconfondibile sibilo delle frecce, e un altro rumore che non riuscì a
identificare subito - una specie di crepitio che non aveva niente a che fare con
le frecce.
“I Cavalieri stanno usando la
testa”, disse Aragorn. “Stanno usando frecce infuocate. Vogliono dare fuoco alla
barricata”.
“Un legno così verde
brucerà?”
“La corteccia sicuramente”.
Come per dimostrare la verità
di quelle parole, una freccia vagante superò la barricata, conficcandosi in alto
nell’albero al quale erano legati i due uomini. Boromir, sentendola, alzò
istintivamente lo sguardo. Un pezzo di tessuto infuocato gli cadde sul viso, e
lui lo scosse via con un’imprecazione. L’odore del fumo riempì l’aria, insieme
alle grida crescenti degli orchi furiosi, ma i due uomini non stavano più
prestando alcuna attenzione alla battaglia. Erano ben più preoccupati delle
fiamme che stavano cominciando a lambire i rami più bassi dell’albero cui erano
legati, divorandone la corteccia antica e raggrinzita, divampando fin su alle
foglie secche.
“E noi ci preoccupavamo di
Saruman”, osservò Aragorn, amaramente.
Boromir rise senza allegria,
scostando un altro tizzone ardente.
“Credevo di essere pronto a
morire per il mio Re, ma a quanto pare mi ero sbagliato. Se compiace a Vostra
Maestà, il vostro Sovrintendente umilmente richiede di farci uscire da questa
situazione prima che finiamo arrostiti come due cinghiali allo spiedo!”
“E’ con grande rammarico che
rispondiamo al nostro Sovrintendente, ma abbiamo le mani legate…”
Boromir imprecò di nuovo,
quando altri frammenti di corteccia in fiamme caddero sulla sua gamba,
rischiando di incendiare la stoffa dei calzoni. Aragorn sibilò per il dolore, e
cominciò ad agitarsi per liberarsi dalle corde. Il fuoco, che stava divorando
rapidamente l’albero, cominciò a diffondersi anche verso il basso, avvicinandosi
ai due uomini seduti. I loro visi erano coperti di cenere e sudore, l’aria era
troppo densa per respirare, e il legno dietro di loro diventava sempre più
rovente.
Boromir si fece forza,
preparandosi ad affrontare la morte e a pronunciare l’ultimo giuramento di
fedeltà davanti al suo Re, ma i suoi pensieri furono interrotti dall’improvvisa
ristata stridula di Uglùk.
“Ci siamo, ragazzi, è ora di
andare!”
Quando il grande orco si fece
strada verso di loro e recise le funi con un solo colpo di coltello, Boromir si
lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. L’orco se ne accorse e rise di nuovo.
“Non avrete pensato che avrei lasciato arrostire la preda di Saruman per colpa
di una manciata di pelle-bianca, vero? Ci siamo divertiti abbastanza con i
cavalieri, ora è il turno di Mauhùr. Lui li terrà a bada, mentre noi Uruk-hai ce
ne torniamo al lavoro. Muovetevi, ragazzi!”, gridò a un gruppo vicino di orchi.
“Domani a quest’ora saremo alle caverne, e poi si torna a casa! A Isengard!”
Ruvide mani afferrarono
Boromir, che si trovò sballottato di nuovo sulla spalla di un orco. Poi, con un
grido di incitamento, gli Uruk-hai si inoltrarono a grandi balzi nella foresta.
Una lunga spirale di fumo
saliva verso il cielo pallido, indicando il luogo dove si trovavano i cadaveri.
Alla piccola e stanca compagnia di cacciatori esso era parso un cattivo
presagio, e i loro cuori ne erano stati turbati ancora prima di sapere che cosa
preannunciava. Ora, mentre cercavano di farsi strada tra gli spaventosi resti
del campo di battaglia, i loro cuori erano pieni di fredda disperazione.
I Cavalieri avevano già
esaminato i corpi, separando gli uomini dagli orchi, e stavano lavorando per
erigere sopra i loro compagni caduti un tumulo di rocce, detriti e zolle d’erba.
Al di là dei resti incandescenti della barricata giaceva un cumulo di orchi, in
attesa di essere divorati dalle fiamme. Anche i cavalli uccisi sarebbero stati
bruciati, ma sulle colline, dove il loro fumo non si sarebbe mischiato col
fetore degli orchi, e dove avrebbero ricevuto i dovuti onori.
Merry seguì docilmente
Legolas e Gimli, ma i suoi occhi continuavano a correre verso gli Uomini di
Rohan, fieri e belli, intenti al loro mesto lavoro. Alti e dagli occhi severi,
gli ricordavano Boromir e Aragorn, e Merry si sentiva rincuorato dalla loro
vicinanza. Capì che desiderava restare con loro, ascoltare le parole del loro
capitano, assaporando l’accento del Sud nella sua voce profonda, come se potesse
trovare qualche traccia dei suoi amici nelle sue parole e nei suoi gesti. Era
l’unica cosa che lo faceva sentire vicino a loro, e per quanto piccola, era pur
sempre un conforto in mezzo all’orrore di quel luogo.
Legolas balzò con grazia
sulla barricata, fermandosi sopra un tronco inclinato. Merry esitò un momento,
poi si arrampicò seguendo l’elfo. I suoi occhi percorsero il campo di battaglia
oltre la palizzata, dove i Cavalieri erano finalmente riusciti a intrappolare
gli orchi e li avevano sterminati, e Merry rabbrividì.
La radura era come una
ferita aperta nella foresta, scavata dalle asce degli orchi per costruire le
loro fortificazioni. Al centro restava solo un albero di una certa grandezza,
ormai ridotto a un ammasso fumante di corteccia annerita e contorta. Tutto ciò
che rimaneva degli orchi era un cumulo disgustoso di corpi e rottami.
Merry alzò lo sguardo verso
Legolas, chiedendosi quali fossero i suoi pensieri al di là del suo viso
impassibile. L’elfo osservò tranquillamente il mucchio di orchi, senza alcun
segno di emozione, poi si voltò e chiamò Gimli.
“Dobbiamo controllare tra i
morti, tu ed io. Questo non è un lavoro adatto ai mezzuomini.”
“D’accordo”, rispose il nano
con un borbottio.
Gimli aggirò la barricata,
non avendo né l’agilità né l’altezza necessaria per scavalcarla, mentre invece
Pipino decise di arrampicarsi su di essa con Merry. I due hobbit ridiscesero
insieme nella radura, e cominciarono a gironzolare senza meta, raccogliendo qua
e là pezzi di armatura e cianfrusaglie lasciate cadere dagli orchi. Guardavano
l’elfo e il nano con aria afflitta, desiderando di avere la forza o il coraggio
di aiutarli nel loro mesto compito, e restavano in silenzio. Quello non era
luogo adatto alla conversazione, c’era troppa morte nell’aria.
Un rumore sordo di zoccoli
annunciò l’arrivo di un cavaliere. Merry si voltò, e vide
Éomer oltrepassare al galoppo leggero la barricata,
fino alla radura. Fermò il cavallo accanto all’albero bruciato, e scese
agilmente di sella. Legolas e Gimli lasciarono il loro lavoro e gli andarono
incontro per salutarlo.
“Avete trovato
traccia dei prigionieri che cercavate?”
Legolas scosse
la testa. “No, soltanto orchi.”
“Ed è tutto
quello che troverete. Non abbandoneremmo mai degli uomini in mezzo a queste
carogne, nemmeno degli stranieri o dei nemici. Ve lo garantisco, non ci sono
uomini qui”.
“Ma sono
stati qui”, insistette Legolas, “di questo siamo certi. Alcuni orchi devono
averli portati nella foresta”.
“È probabile.
Hanno avuto molte ore di oscurità a disposizione in cui fuggire, e quando
abbiamo preso la barricata abbiamo trovato solo questi”.
Gimli diede un
colpetto col piede al corpo più vicino e disse, “Questi non sono gli stessi
orchi che abbiamo combattuto ad Amon Hen. Sembrano più simili agli orchi di
Moria”.
“Infatti. Le
montagne ne sono infestate”. Èomer indicò verso ovest. “Le Montagne Nebbiose
terminano laggiù, a Nan Curunìr, dove si trova Isengard, e i grandi speroni di
roccia che circondano la vallata sono percorsi dai cunicoli degli orchi di
montagna. C’è chi sostiene che lo stregone che vive là sorvegli i nostri
confini, impedendo loro il passaggio. Altri dicono che sia lui stesso a
comandarli”.
Il viso di
Éomer si indurì, e suoi occhi grigi lampeggiarono di rabbia.
“Qualunque sia
la verità, aumentano giorno dopo giorno, e ci temono sempre meno. E ora hanno
osato spingersi fino alle pianure di Rohan, portando guerra e morte”.
“Non lasciarti
ingannare,” disse Gimli, “è Saruman che li manda. Gli orchi che hanno preso i
nostri compagni sono stati creati nelle fornaci di Isengard, e marciano agli
ordini dello stregone. Saruman non è vostro alleato, Éomer del Mark”.
“Lo so”. Le
semplici parole erano piene di amarezza e rabbia.
Legolas si
volse nuovamente verso la catasta di cadaveri, con la mente rivolta al destino
dei suoi amici.
“Se a
combattere sono rimasti soltanto questi, significa che gli orchi più grandi sono
fuggiti ad ovest, portando con sè Aragorn e Boromir.”
Éomer sollevò
di scatto il capo, fissando Legolas. “Boromir? Di quale Boromir state parlando?”
“Boromir di
Gondor, figlio di Denethor. Egli ti è noto?”
“Ahimè!”
L’uomo parve colpito, e i suoi occhi si volsero verso l’oscurità della foresta,
pieni di disperazione. “Ahimè, mastro Elfo, porti notizie funeste! Se avessimo
saputo che il figlio di Denethor era prigioniero avremmo lottato fino all’ultimo
uomo per liberarlo!”
Merry si
avvicinò al biondo straniero, osservandolo con nuovo interesse. “Sei un suo
amico?”
“Non sono così
fortunato da potermi definire suo amico, ma lo conosco. E ho combattuto al suo
fianco”.
Merry
raddrizzò le spalle, orgogliosamente. “Anche io.”
Èomer si girò
verso di lui, guardandolo con curiosità. “Tu hai combattuto a fianco del
Capitano di Gondor? Devi essere considerato un grande guerriero presso il tuo
popolo”.
“Beh…non so se
qualcuno del mio popolo possa essere definito guerriero… ma ho ucciso un orco o
due con la mia piccola spada. Ed è stato Boromir che mi ha insegnato ad usarla”.
“Dunque è tuo
amico?”
“Sì.”
Merry sentì le
lacrime pungergli gli occhi, ma si sforzò di trattenerle, e sostenne con
orgoglio lo sguardo di Èomer.
"Sì, è mio
amico, e lo seguirò fino ai sotterranei di Isengard. Gli devo la vita”.
Èomer si
inginocchiò per essere alla stessa altezza di Merry. Il suo viso, benché severo,
era tuttavia gentile, e il suo sorriso era cordiale ma triste.
“Ti auguro un
viaggio veloce, e fortuna nella tua impresa, piccolo guerriero.”
“Ci farebbe
comodo una spada in più, quando assaliremo le mura,” osservò Pipino in tono
pratico.
Èomer
considerò quelle parole con serietà.
“Vorrei con
tutto il cuore potervi offrire la mia spada e quelle del mio èored, ma il
dovere viene prima di tutto, e in questo momento mi impone di tornare dal mio
Re. Deve essere informato di ciò che è accaduto qui, e avvertito del tradimento
di Saruman”.
“Forse il tuo
Re ci potrebbe aiutare?”
L’Uomo non
disse nulla, e dalla sua espressione tesa gli hobbit capirono che avevano
affrontato un argomento pericoloso. Pipino esitò un istante, poi prontamente
cambiò discorso.
“Non mi
piacciono questi boschi. Scommetto che qui vivono cose peggiori degli orchi.”
“Cose più
antiche, certamente,” mormorò Legolas, scrutando la foresta circostante col suo
sguardo acuto.
Èomer si alzò
in piedi e si diresse verso il suo cavallo.
“Se volete il
mio consiglio, non avventuratevi dentro Fangorn. Ha una fama sinistra”.
“Ma non lo
sembra,” rispose Legolas. “E comunque non ha importanza, perché dove sono andati
gli orchi anche noi andremo. Tu non ti rendi conto dell’urgenza della nostra
missione, uomo di Rohan”.
L’uomo scrollò
le spalle, come a indicare che non si sarebbe aspettato niente di meno dalle sue
nuove conoscenze, poi montò in sella.
“Andranno a
ovest verso le pendici delle Montagne nebbiose, ma saperlo non vi aiuterà se vi
perderete nelle ombre impenetrabili di Fangorn. Se mai doveste ripensarci e
riuscirete a tornare vivi dalla foresta, allora venite a Meduseld alla Sala di
Re Thèoden. Dovete promettermi sul vostro onore che vi presenterete al Signore
del Mark e chiederete il suo permesso per attraversare le sue terre”.
“Hai la nostra
parola, sul nostro onore”.
“Allora
addio.” Voltò il suo cavallo e si fermò per guardare Merry, con un sorriso.
“Buona caccia.” Poi partì al galoppo, lasciando i quattro viaggiatori soli in
mezzo ai corpi dei caduti.
A mezzogiorno
i quattro cacciatori erano ormai nel profondo della foresta. Seguivano il corso
dell’Entalluvio, restando sulla riva orientale, dove Legolas poteva trovare le
impronte degli orchi nel fango. Si muovevano in una tetra, grigia oscurità.
Tutto attorno a loro gravava un opprimente senso di disagio, quasi rabbioso, che
sembrava alitare sui loro colli mentre passavano.
Legolas teneva
il passo più veloce che il calore soffocante e l’aria sottile della foresta gli
consentivano. L’urgenza della caccia li sosteneva, e ogni ora che passava
aumentava la loro risolutezza, ma le loro forze diminuivano. Gli hobbit stavano
già barcollando per la stanchezza, e il nano era sprofondato in un cupo
silenzio, quando a un tratto Legolas gridò.
“Guardate! Il
sole ha trovato la strada per salutarci!”
Gli altri
alzarono lo sguardo, e videro uno splendente raggio si sole che passava
attraverso il fitto fogliame della foresta davanti a loro, a ovest. A quella
vista, Merry sentì il suo spirito risollevarsi.
“Andiamo da
quella parte,” propose. “Vorrei tanto poter sentire il sole sulla faccia ancora
una volta!”
“E io vorrei
respirare liberamente, senza tutti questi alberi che mi osservano,” disse
Pipino.
L’elfo e il
nano non si opposero, e la compagnia lasciò il fiume per immergersi nella
penombra della foresta. Ci volle un po’ di tempo perché raggiungessero il loro
obiettivo, ma finalmente lasciarono le ombre per uscire nella luce calda e
limpida del primo pomeriggio. Si trovarono ai piedi di una ripida collina che
saliva verso l’aria aperta. Molti alberi affollavano la sua base, come se
lottassero tra di loro per avere un po’ di luce, ma le pendici della collina
erano nude e rocciose, coperte solo di arbusti e radi cespugli.
Sulla roccia
davanti a loro si inerpicava una sorta di rozza scalinata, che conduceva a una
sporgenza dalla quale si poteva avere un’ampia visuale della foresta
sottostante, e che forniva un ottimo posto per riposare. I viaggiatori non
fecero caso alla squallida desolazione della collina, o ai cardi che crescevano
a fatica lungo i suoi fianchi. Vedevano solo il cielo aperto e la promessa di
una sosta nella loro caccia. Sorridendo nonostante la stanchezza e le
preoccupazioni, salirono i gradini irregolari fino a giungere alla sporgenza. Là
gettarono i loro zaini e si lasciarono cadere a terra, guardando il cielo come
se non lo avessero mai visto prima d’allora.
Merry consumò
una magra porzione di lembas e acqua, e stava già cominciando a
sonnecchiare al sole, quando un sibilo d’avvertimento di Legolas lo riportò
bruscamente alla realtà. Si alzò faticosamente in piedi e corse al limite della
sporgenza dove stava Legolas, osservando le ombre al di sotto degli alberi.
L’elfo aveva una freccia già incoccata al suo arco.
“Cosa succede,
Mastro Elfo?” domandò Gimli.
Legolas indicò
con un cenno del capo verso gli alberi ai piedi della collina. “Là, qualcosa si
sta muovendo verso di noi. Vedi?”
In quel
momento, una figura uscì dagli alberi e si fermò alla base della scalinata. Era
un uomo, curvo per gli anni, vestito di grigi stracci, che si appoggiava a un
bastone. Il suo viso era nascosto da un grande cappuccio e dalla falda del
cappello. Quando sollevò la testa per guardarli, Merry vide solo la punta del
suo naso e una lunga barba grigia. Nessuno si mosse né parlò, come se lo
straniero li tenesse sotto un qualche incantesimo, e l’arco di Legolas rimase
inutilizzato.
“Ben trovati,
amici miei,” disse il vecchio, con una voce gentile e potente allo stesso tempo.
“Desidero
parlarvi. Scenderete voi o dovrò salire io stesso?” Senza attendere risposta,
cominciò a salire.
Con grande
sforzo Gimli si liberò dell’incantesimo, e mentre il vecchio si avvicinava, gli
andò incontro con l’ascia in mano. “Fermati, straniero! Non avvicinarti oltre, o
assaggerai la mia lama!”
“È così che
accogliete un vecchio che desidera solo fare un po’ di conversazione?” L’uomo si
fermò, guardando il nano con occhi scintillanti da sotto il suo cappuccio.
“Metti via la
tua arma, mio buon nano. Non ne avrai bisogno.”
Gimli arretrò
inciampando, con la sorpresa e la confusione dipinte sul suo volto. La sua ascia
scivolò a terra ai suoi piedi. I quattro cacciatori non poterono fare altro che
osservare, sbigottiti, mentre il vecchio saliva d’un balzo gli ultimi gradini,
raggiungendoli con le braccia aperte in segno di benvenuto. Con un gesto si
scrollò di dosso il logoro mantello e rimase in piedi di fronte a loro, vestito
interamente di bianco scintillante, con il capo scoperto e il viso in piena
luce. I suoi occhi sorridevano loro da sotto le folte sopracciglia.
“Di nuovo, ben
trovati!”
“Aiee!”
Legolas proruppe in un alto grido e lasciò partire una freccia verso l’alto. Il
dardo scomparve in una fiammata.
“Mithrandir!
Mithrandir!”
Merry udì il
nome e capì, ma non riusciva a muoversi. I suoi piedi erano come inchiodati al
suolo e le sue membra erano intorpidite per lo stupore. Guardando la creatura
splendente e sorridente che era ritornata dalla morte, lacrime di gioia
cominciarono a scendergli dagli occhi, eppure era ancora come paralizzato. Poi i
suoi occhi si posarono su di lui, e un sorriso li illuminò.
“Mio caro
Merry.”
Quelle parole
lo liberarono. Il suo corpo ritornò a rispondere ai suoi comandi, e senza
chiedersi che cosa stesse succedendo, Merry lasciò cadere la spada e corse
incontro allo stregone, abbracciandolo. “Gandalf, Gandalf! Sei tornato!”
*** *** ***
Gandalf sedeva
con la testa abbassata, ascoltando Gimli che raccontava della loro caccia
attraverso i campi di Rohan, con il viso in ombra sotto l’ampia falda del suo
cappello. Quando il nano ebbe terminato il suo racconto, il mago posò lo sguardo
sui quattro restanti membri della Compagnia, con il viso teso e carico di
dolore. Per alcuni momenti non disse nulla, ma gli altri rimasero in attesa,
sperando che egli avrebbe avuto qualche parola saggia per loro, qualche
consiglio.
Poi Gandalf
sospirò e disse, “Ahimè, questo è davvero un male. L’Erede di Isildur è un’arma
che non possiamo permetterci di perdere, e il mio cuore soffre nel sapere che
uomini così valorosi sono caduti nelle mani del Nemico.”
Gimli strinse
l’impugnatura dell’ascia e ringhiò, “Ma non li abbiamo ancora perduti! Abbiamo
giurato di liberarli e li libereremo, anche se dovessimo inseguirli per tutta la
Terra di Mezzo!”
“La vostra
caccia è finita, mio buon nano. Ormai gli orchi saranno vicini alle montagne e
al riparo delle caverne. Raggiungeranno Isengard. Non potete impedirlo.”
“Non possiamo
nemmeno abbandonare i nostri amici!” Protestò Merry.
“Certo che no.
Ma se volete aiutarli dovrete trovare un altro modo. Un piano che abbia qualche
possibilità di riuscire”.
Legolas si
agitò inquieto, guardando tra il fitto fogliame della foresta come se sperasse
di scorgere qualche traccia degli orchi al di sotto di esso. “E tu cosa vedi,
Gandalf, che noi non riusciamo a vedere?” Si voltò a guardare Gandalf, e i suoi
occhi erano cupi per la disperazione, la loro luce elfica oscurata.
“Anche senza
speranza, noi dobbiamo andare avanti”.
Lo stregone
increspò le labbra pensierosamente, mentre sotto le sue folte sopracciglia i
suoi occhi scintillavano. “E noi andremo avanti, Legolas, fino alle mura di
Isengard! Ma non da soli! Non da soli”.
“E chi verrà
con noi?” chiese Pipino. “I Cavalieri?”
“Sì, se
riusciremo a far comprendere a Re Thèoden il pericolo che corre. Ma i Rohirrim
sono solo uno dei problemi di Saruman. Egli ha dimenticato i suoi altri
vicini di casa: molto più vecchi, saggi e potenti di qualsiasi razza di Uomini…
e se interpreto bene i sussurri degli alberi, ben presto egli si troverà
circondato da ogni parte”.
“Parli per
enigmi,” lo rimproverò Legolas sorridendo.
Gandalf rise.
“La risposta a questi enigmi è tutta attorno a te, mastro Elfo. Saruman ha
risvegliato l’antico potere che dormiva accanto a lui. Ha risvegliato l’ira di
Fangorn.”
“La foresta?”,
chiese Pipino.
“Fangorn è
molto più di quello che tu vedi attorno a te, Pipino. Fangorn è il pastore degli
alberi e il guardiano della foresta. È il più vecchio degli Ent”.
Legolas gli
lanciò un’occhiata incredula. “Gli Ent! Dunque gli Onodrim vivono ancora nella
Terra di Mezzo? Questo è davvero un giorno di prodigi!”
“Più di quanto
tu creda. Fangorn è lento all’ira e ancor più lento all’azione, ma il tradimento
di Saruman ha fatto ribollire la sua rabbia. E presto traboccherà, scorrendo
come una marea verso Orthanc. E allora saranno guai per Saruman, i suoi orchi e
le loro asce!”
Ogni traccia
di vecchiaia e di stanchezza scomparve dal volto di Gandalf, che balzò in piedi
allargando le braccia per abbracciare i suoi compagni, e annunciò, “Questo è il
momento, amici miei! Il nemico sta allungando la mano per afferrare la preda di
Saruman, proprio ora mentre parliamo, e non abbiamo tempo di aspettare saggi
consigli. Dobbiamo risvegliare l’ira degli Ent e degli Uomini, incitarli alla
guerra, e assalire insieme le mura di Isengard!”
Gimli brandì
la sua ascia, alzandola al cielo, e ruggì, “A Isengard!”
“A Isengard”,
fecero eco gli altri, balzando in piedi.
“Ma prima,
dobbiamo andare dagli Ent,” disse Gandalf, ammiccando. “Venite”.
Rinfoderando
le armi, i membri superstiti della compagnia si avvolsero nei mantelli elfici e
seguirono Gandalf nelle ombre di Fangorn.
*** *** ***
Aragorn stava
in piedi appoggiato con la schiena ad una di pietra grezza di fronte all’unica
porta della stanza. Ai lati della porta ardevano due torce accese, il cui fumo
acre saliva fino al soffitto, dove rimaneva ad aleggiare come un’ombra vivente,
agitandosi ad ogni spostamento d’aria. Il Ramingo era vestito soltanto di un
pezzo di stoffa grezza ai suoi fianchi, ma a causa del calore soffocante dei
sotterranei il sudore scorreva lungo il suo corpo seminudo. La ferita alla gamba
sinistra pulsava e bruciava dolorosamente, e sangue scuro fuoriusciva dalle
escoriazioni. Il dolore era terribile, ma almeno dava ad Aragorn qualcosa su cui
concentrarsi in quel pauroso incubo soffocante. Faceva sì che la sua mente
restasse lucida, ricordandogli quanto reale e grave fosse la sua situazione.
Da quando era
uscito dalle buie caverne ai piedi delle Montagne Nebbiose per giungere nella
valle di Isengard, Aragorn aveva perso completamente il senso della realtà. La
vallata, un tempo verde e rigogliosa, ora era una distesa arida, percorsa da
fuoco e abissi, dominata dalla tetra torre di Orthanc. Fumo, vapore e voli di
neri uccelli costellavano il cielo, e le grida degli orchi si mescolavano allo
stridere del metallo e al gracchiare degli uccelli. Nulla ormai viveva più
attorno a Isengard, e il cuore di Aragorn piangeva per quella dissacrazione.
Gli orchi
avevano portato i loro prigionieri nelle viscere della terra attraverso caverne
che sembravano pulsare al calore delle fiamme, tunnel scavati nella roccia e
illuminati da file di torce gocciolanti, fonderie, armerie, fornaci, canali di
scolo e depositi di rifiuti che puzzavano di corruzione. Aragorn aveva visto
creature e congegni che superavano ogni sua immaginazione – gruppi di schiavi
frustati da orchi che controllavano il loro lavoro, macchine che cigolavano ed
emettevano un fetore orribile - e ovunque dominava l’odore di bruciato.
Quando
finalmente erano giunti alla sua cella, Aragorn si era sentito momentaneamente
sollevato nel vedere la porta di legno chiudersi, separandolo dagli orrori del
regno di Saruman. Poi avevano portato via Boromir, e per la prima volta dalla
loro cattura, Aragorn si era trovato completamente solo.
In tutti gli
anni che aveva trascorso come un Ramingo e un vagabondo, Aragorn non aveva mai
provato un senso di isolamento così terribile. Era abbastanza coraggioso da
ammettere la sua paura, e abbastanza saggio da riconoscere che era la sua
amicizia con Boromir che lo rendeva così vulnerabile. Non aveva paura per sé
stesso, anche se sapeva che lo attendeva una sofferenza come mai ne aveva
provata. Temeva per il suo amico, e per la pressione che Saruman avrebbe
esercitato su di lui per sfruttare il legame di amicizia che li univa. E in
quella cella, incatenato al muro mani e piedi, immobilizzato e inerme, Aragorn
conobbe una solitudine e un terrore più terribili di qualunque dolore fisico.
Non poteva
fare altro che attendere. Si appoggiò al muro, sollevando il peso dalla gamba
ferita, e piegò la testa. Ad un osservatore esterno sarebbe potuto apparire
sconfitto, spaventato, fiaccato nello spirito, ma in realtà stava raccogliendo
le forze, cercando dentro di sé l’energia per affrontare sia Saruman che
l’Oscuro Signore. Tutte le sofferenze che aveva sopportato durante la marcia,
tutti gli insulti, i maltrattamenti e le privazioni erano state solo un
assaggio, e doveva essere pronto.
Infine
arrivarono gli orchi, accompagnati dal rumore degli stivali ferrati sulla pietra
grezza del tunnel, con le torce che gettavano profonde ombre lungo i muri.
Aragorn non sollevò lo sguardo al loro arrivo, ma si limitò ad aspettare,
immobile. Poco lontano da lui, un fagotto fu gettato al suolo. Aprendosi, rivelò
al suo interno il suo equipaggiamento e i suoi abiti, tagliati e strappati nella
foga della perquisizione. Aragorn vide la furia e la frustrazione di Saruman in
ogni taglio e in ogni strappo.
“Aragorn,
figlio di Arathorn”.
La voce sembrò
riempire la stanza col suo timbro profondo e melodioso, e fece scattare la testa
di Aragorn nella sua direzione. Si ritrovò a fissare due occhi scuri e senza
fondo come la voce, occhi penetranti che scintillavano, e che versavano il
balsamo della pietà sulle sue ferite, intimorendolo con la loro saggezza.
“A lungo ho
desiderato la tua venuta, Erede di Gondor. A lungo ho atteso che il Re
ascoltasse i consigli di Saruman il Saggio”.
La splendente
figura sulla porta mosse un passo verso il prigioniero, allontanandosi dalle
guardie al suo fianco, e mentre camminava, la luce rossastra delle torce
scivolava sui suoi abiti, facendoli brillare di una miriade di colori. In mano
aveva un bastone, la cui sommità era una replica in miniatura delle guglie di
Orthanc, e su un dito di quella mano, indossava un anello. Vedendo quella mano
affusolata e pallida, Aragorn si ricordò di quello che Gandalf aveva detto al
Concilio di Elrond, di come Saruman avesse forgiato un anello di potere per sé,
a imitazione degli antichi orafi elfici. Il ricordo di Gandalf, suo amico e
guida, dissipò la magia della voce dello stregone e gli schiarì i pensieri.
Incontrò di nuovo quello sguardo compassionevole, ma stavolta senza traccia di
turbamento.
“Non sono
ancora Re, Saruman, e tu non sei il mio consigliere”.
“Ah, la follia
degli Uomini.” Aragorn non rispose, e Saruman sorrise freddamente. “È grazie a
questa follia che l’Oscuro Signore è tornato a risorgere, per minacciare tutta
la Terra di Mezzo con la sua Ombra”.
Aragorn non se
la sentì di controbattere. In lui era anche troppo vivo il senso di colpa per i
fallimenti della sua razza. Aveva ereditato il trono di Isildur, ma anche le
conseguenze della sua follia, e finché non avesse rimediato a quest’ultima, non
avrebbe potuto rivendicare il trono. Quello era il conflitto che segnava la sua
vita, riassunto da Saruman il traditore in una sola frase.
“Ti offro ora
la possibilità di cancellare gli errori dei tuoi antenati e di rivendicare ciò
che è tuo, libero da macchie e da dubbi,” insistette Saruman, la sua voce
morbida come velluto e intessuta di potenza.
“Ti offro di
porre fine al tuo vagabondare, al tuo esilio, alla guerra e all’ombra. Guarda
nel tuo cuore, Aragorn, figlio di Arathorn, e ammetti che ti sto offrendo il tuo
più grande desiderio”.
Aragorn non
aveva bisogno di guardare nel suo cuore. Sapeva che Saruman diceva il vero, ma
sapeva anche che la verità nascondeva un inganno. “E qual è il prezzo del mio
desiderio?”
“Un’alleanza.”
Di nuovo, Aragorn non disse nulla, e il suo silenzio parve infondere nuova
eloquenza nello stregone.
“Unisciti a
me. Porta il tuo vessillo alla testa del mio esercito, cosicché tutte le genti
dell’Ovest sappiano che il loro Re è tornato, e io ti guiderò alla vittoria
contro l’Ombra. Io posso farlo, Aragorn. Io posso metterti sul trono di Gondor,
e bandire Sauron dalla Terra di Mezzo per sempre!”
“Se io ti darò
l’Anello”.
Gli occhi di
Saruman lampeggiarono. “L’Anello. L’arma del Nemico. Quale modo migliore di
sconfiggerlo, se non usare la sua stessa arma contro di lui?”
Il suono
familiare di quelle parole e la fiera passione negli occhi dello stregone
mandarono un brivido lungo la schiena di Aragorn. Immaginò il viso di Boromir
nel momento in cui aveva tentato di prendere l’Anello a Frodo, e la vista del
tormento e del desiderio che l’Anello poteva infliggere lo atterrì, eppure tenne
nascosto il suo orrore e parlò con voce ferma.
“Io non ho
l’Anello”.
“Ma sai dove
si trova. Sai dove l’ha nascosto Gandalf”.
“Dirtelo
significherebbe tradire un amico”.
“Per il bene
delle Terra di Mezzo!”
Aragorn si
ritrasse per quanto gli era possibile dalle sue catene, nauseato dalle parole di
Saruman, eppure affascinato suo malgrado.
“E così ora
vorresti tradire Sauron, come tradisti il Consiglio Bianco prima di lui”.
“Se il male
viene annientato, cosa importa quale mezzo si usa? Preferiresti che consegnassi
l’Anello a lui?”
“Tu non hai
l’Anello, né da tenere, né da consegnare”.
“No, ma ho te,
e per Sauron tu sei importante quasi quanto l’Anello del Potere. Sa che i miei
schiavi ti hanno catturato. Presto, molto presto, i Nazgûl verranno a prenderti.
Gondor sarà privata del suo Re, del simbolo della sua antica gloria, e cadrà
nella disperazione”.
“A che servono
allora le tue promesse? Che vantaggio può darmi un’alleanza con Saruman, se sono
condannato a morire nelle prigioni di Sauron?”
Saruman
sorrise, come se provasse pietà per la diffidenza di Aragorn nei suoi confronti.
“I Nazgûl
vengono in cerca di un Erede, e un Erede avranno. E mentre loro se ne andranno
con la loro preda, noi andremo a recuperare l’Anello. Quando Sauron si accorgerà
di avere catturato un Sovrintendente invece di un Re, noi avremo già la vittoria
in pugno!”
Le sue parole
echeggiarono nel silenzio. Aragorn lo osservò impassibile, contemplando la
brama, l’avidità e i trionfo sul suo viso, celati a stento dalla sua apparente
calma. Saruman stava probabilmente pensando che il suo prigioniero stesse
valutando la sua offerta, tentato da essa, e Aragorn lasciò che sorridesse.
Infine parlò,
con voce sommessa e pericolosamente calma. “Così dovrei tradire due amici”.
“Il figlio di
Denethor non è tuo amico! È un uomo arrogante, orgoglioso e ambizioso, che non
si inchinerà mai di fronte ad alcun re”.
Nonostante
Aragorn fosse in catene, nudo e sudicio, e costretto ad ascoltare le infide
parole di Saruman, sorrise.
Nella sua
mente sentì di nuovo la voce dell'amico, un sussurro dall’oscurità, che lo
chiamava Re, e giurava di mandarlo a Gondor, al suo trono e alla sua gente, come
ultimo dono da parte del loro Capitano caduto. Rivide il dolore e il rimpianto
sul volto di Boromir, la sofferenza causata dalla sua debolezza, quando aveva
infranto il suo giuramento e tradito la Compagnia. E Aragorn capì che Saruman li
aveva sottovalutati entrambi.
“Non ti darò
l’Anello, Saruman, e non tradirò la fiducia dei miei amici. Non ci sarà
alleanza”.
Aragorn
non aveva mai provato un dolore simile prima di allora. Non era lama, frusta né
fuoco. Scaturiva in profondità dentro di lui, come se il tocco leggero della
mano dello stregone lacerasse la fibra stessa del suo corpo. Non poteva
resistervi, non poteva evitarlo, e il dolore avanzava lento e inesorabile
attraverso ogni suo nervo e ogni tendine, impedendogli quasi di respirare.
Si
impose di non gridare, di non mostrare la sua debolezza davanti a Saruman, e per
un po’ ci riuscì, ingoiando la sua sofferenza, agitandosi inutilmente nelle sue
catene. Inarcò la schiena e tese il collo, spingendo con violenza la testa
contro il muro di pietra, finché il sangue non cominciò a scorrergli sulla cute.
Cercò di soffocare i lamenti, ma il dolore aumentò ancora.
La voce
di Saruman giunse da un punto vicino, un mormorio velenoso nel suo orecchio.
“Non
credere di poter rifiutare così facilmente. Io non sono come quel vecchio
sciocco Grigio che hai seguito ciecamente verso la morte e la sconfitta”.
Aragorn
avrebbe voluto rispondere, ma non osava farlo. Temeva che se avesse aperto la
bocca per parlare ne sarebbe uscito soltanto un informe grido di dolore che
avrebbe potuto durare in eterno, e Saruman si sarebbe preso gioco di lui. Aprì
gli occhi e si voltò verso la voce, vedendo che il viso di Saruman era a meno di
un palmo dal suo, con i grandi occhi liquidi infiammati di rabbia e di follia.
Saruman
sorrise. Un ghigno terribile, disumano.
“Credi
di conoscere gli stregoni solo perché hai seguito Gandalf come un cane, vivendo
delle sue briciole e leccandogli la mano. Ma ti dico, Aragorn, che io ho poteri
che Gandalf nemmeno immaginava. Quella che senti ora è solo una piccola parte,
ma se lo volessi potrei infliggerti tormenti tali che tu stesso mi
supplicheresti di liberartene con la morte. Questo è il potere della Mano
Bianca”.
Mentre
parlava, Saruman sollevò la mano dal fianco di Aragorn, tenendola davanti ai
suoi occhi. Immediatamente il dolore cessò, e il Ramingo si abbandonò contro le
catene, tremando per il sollievo. Con la vista annebbiata per lo sfinimento,
posò lo sguardo sulla pallida mano dello stregone. Sembrava scintillare quando
si muoveva, ma Aragorn si rese conto che era la gemma dell’anello che catturava
la luce delle torce e la rifrangeva in una miriade di schegge danzanti.
“Sfidami pure, Aragorn figlio di Arathorn. Rifiuta. Continua pure a sputar fuori
i tuoi giuramenti di onore e fedeltà. Alla fine non ti servirà a nulla. Avrò
quello che voglio da te, non dubitarne”.
“Fa’
ciò che vuoi,” sussurrò Aragorn, con la voce incrinata dal dolore. “Ti ho già
dato la mia risposta”.
L’agonia esplose di nuovo, inaspettata, strappandogli un lungo, terribile grido
che perforò la densa aria della stanza. Saruman scoprì i denti in un ghigno, e
spinse più forte la mano sul petto di Aragorn, facendo scorrere il suo potere
nel corpo tremante dell’uomo. Aragorn si gettò contro le catene, cercando di
sfuggire al crudele tocco, gridando con tutto il fiato che aveva in gola. Era
intrappolato e inerme, ancora una volta alla mercé della terribile sofferenza
che infondeva Saruman. Non poteva respirare senza gridare, e non poteva gridare
abbastanza forte da sovrastare la risata di Saruman.
Così
come era cominciato, il dolore svanì. Saruman si allontanò da Aragorn con
un’espressione disgustata sul viso. Rise, vedendo Aragorn che si abbandonava a
peso morto sulle catene.
“Mi hai
dato la tua risposta,” sibilò il mago, “ma hai soltanto incominciato ad
assaggiare il potere della Mano Bianca. Prima che io abbia finito mi sarai grato
per non aver accettato questa riposta”.
Voltatosi, Saruman uscì a grandi passi dalla stanza, lasciando Aragorn in preda
al timore. Il Ramingo non aveva idea di che cosa lo stregone avesse in serbo per
lui. Non permetteva alla sua mente di indugiare troppo a lungo sul quel
pensiero. Ma da qualche parte dentro di lui, nel luogo profondo dove nasceva la
paura, sapeva che la sua prova era appena cominciata. Saruman aveva tentato con
il potere insidioso della sua voce, e aveva fallito. Aveva tentato col dolore e
aveva fallito. Ora gli rimaneva soltanto un’arma, l’unica che Aragorn temesse
veramente, e visto il poco tempo a disposizione, Aragorn era sicuro che lo
stregone non avrebbe esitato ad usarla.
Quando
udì i passi degli orchi nel corridoio, Aragorn era ormai passato dal timore al
panico assoluto. La sua immaginazione, nonostante i suoi sforzi, continuava a
evocare scene di devastazione, follia e tortura, mantenendolo in uno stato di
agitazione tormentosa. Aragorn si dimenò digrignando i denti, in preda a una
furia impotente. In un’altra parte di quel labirinto infernale, lungo un altro
corridoio, in un’altra misera cella, Saruman stava torturando nel corpo e nella
mente un uomo già spinto oltre il limite della disperazione.
Aragorn
non poteva fare nulla per impedirlo, e per quanto grande fosse il suo affetto e
il suo desiderio di vedere il suo amico ritornare alla salute e alla speranza,
non poteva nulla di fronte alla malvagia astuzia di Saruman.
Poi la
porta si aprì, e Saruman entrò con passo solenne nella stanza. Dietro di lui
venivano due orchi portando torce, e poi altri due, scortando un prigioniero tra
loro. Aragorn sapeva che ora avrebbe dovuto avere doppiamente paura, ma nel
momento in cui lo riconobbe, tutto quello che provò fu un immenso sollievo,
perché Boromir era di nuovo con lui, e ora non avrebbero dovuto affrontare
quell'orrore da soli.
“Boromir!” gridò, con voce piena di gioia.
Boromir
sollevò la testa di scatto e il viso gli si illuminò in un debole sorriso.
“Come
stai?” chiese Aragorn.
Il
sorriso si allargò. “Abbastanza bene. E tu?”
“Abbastanza male”. Ci mancò poco che il Ramingo non scoppiasse a ridere, tanto
grande era il suo sollievo. Da quel breve scambio aveva capito che lo spirito di
Boromir non era ancora stato spezzato, e che il suo coraggio era immutato. Era
vestito allo stesso modo di Aragorn, ma aveva ancora la benda che gli copriva
gli occhi e le mani legate dietro la schiena. Aragorn non vide ferite recenti
sul suo corpo e nessuna traccia di paura nel suo portamento, e provò un impeto
di gratitudine per l’ostinata forza d'animo del soldato di Gondor.
“Come
vedi, so anche essere generoso,” commentò Saruman, con ingannevole mitezza.
Entrambi gli uomini si voltarono nella sua direzione, con la stessa espressione
sprezzante sui loro visi. Lo stregone rise.
“I Re e
il suo leale servitore, riuniti, per grazia della mia benevolenza. Aragorn dice
grandi cose di te, figlio di Denethor. Sostiene che saresti pronto a
inginocchiarti davanti a lui e a fargli giuramento di fedeltà. Mi piacerebbe
proprio vederlo. L’orgoglioso Capitano-Generale in ginocchio davanti a uno
straccione vagabondo…da non credere”.
Boromir
sollevò il mento con fierezza.
“Questo
non ti riguarda, stregone”, ribatté.
“Eppure
vorrei vederlo ugualmente”. La voce di Saruman si fece vellutata, pericolosa,
carica di una minaccia latente. “Inginocchiati davanti al tuo re”.
Boromir
voltò la testa dall’altra parte.
“In
ginocchio!” ordinò lo stregone, facendo un cenno a una delle guardie.
Prima
che l’orco si potesse muovere Aragorn gridò con ferocia: “Boromir!”
L’uomo
voltò lo sguardo bendato verso il suo signore, stupito dalla veemenza nella sua
voce, poi annuì brevemente e cadde in ginocchio sul pavimento di pietra.
Saruman
rise piano. “È davvero portentoso il legame che vi unisce, se può fare
inginocchiare un uomo simile con una sola parola”.
Boromir
non disse nulla. Il suo viso, calmo e inespressivo, non tradiva alcuna emozione.
Saruman
si avvicinò lentamente a lui, posandogli una mano sulla spalla.
“Hai
dimostrato la tua buona fede”, disse lo stregone. “Ora è tempo che il tuo
signore dimostri la sua. Ha giurato che non avrebbe tradito il suo amico. Gli
credi?”
“Sì”.
“Speriamo che la tua fiducia sia ben riposta, Boromir di Gondor”. Sollevando lo
sguardo verso Aragorn, continuò in tono misurato: “Te lo chiederò di nuovo,
Aragorn. Stringerai alleanza con me per salvare la Terra di Mezzo?”
“Sai
che non lo farò”.
“E che
ne sarà del tuo amico?”
“La sua
vita sarà sacrificata alla tua ambizione, così come la mia”.
“Forse
hai bisogno di un’ulteriore dimostrazione…della mia buona fede”. Saruman
si voltò verso Boromir, posando delicatamente le mani sulla sua testa.
“No!”
esclamò Aragorn, ricordando agonia di quel tocco. “Non farlo!”
“Osserva e taci”. Le lunghe dita di Saruman si avvolsero attorno alla testa di
Boromir, apparendo ancora più pallide e spettrali in contrasto con i lividi e il
sangue sul suo viso. I palmi premevano leggermente contro gli zigomi fratturati
e sfregiati, i pollici poggiavano sugli occhi bendati. Boromir era inginocchiato
tra le due guardie, passivo sotto le mani dello stregone, e non mostrava alcun
segno di sofferenza.
Nulla
si muoveva all’interno della cella. Nulla cambiò. Ad Aragorn sembrava che anche
le guardie si fossero tramutate in statue, diventando parte del pavimento. Non
osava muoversi per paura di rompere quel silenzio così completo, intento com’era
a osservare la scena che si svolgeva nel mezzo della stanza.
Mentre
guardava, la figura di Saruman parve sfuocarsi e ondeggiare. Il potere magico
cominciò a fluire, come una cosa viva, sopra il suo abito e i suoi capelli
scintillanti. Danzava lungo le sue dita, attorno alla testa di Boromir,
accendendo l’anello e creando giochi di luce e ombre sui lineamenti devastati
dell’uomo. Il respiro dello stregone si fece più rapido, e le sue mani
cominciarono a tremare. Stretto in quella presa, Boromir non sembrava neppure
respirare.
Poi lo
stregone emise un profondo sospiro. Il potere svanì, la tensione si allentò, e
Saruman tornò a posare le mani sulle spalle di Boromir.
A quel
gesto la stanza parve ritornare alla vita: gli orchi si mossero, le torce
crepitarono, e Boromir si lasciò scivolare lentamente fino a sedere sui talloni.
“Boromir?” chiamò Aragorn.
Boromir
si voltò verso di lui, e Aragorn rimase a bocca aperta per lo stupore.
A
dispetto di ogni logica, contro ogni speranza, il viso di Boromir era guarito.
Le ossa, brutalmente frantumate dalla spada di Lurtz, erano risanate e integre,
lo sfregio della frusta che gli aveva lacerato la guancia non era che l’ombra di
una cicatrice, e al di sotto dei lividi che andavano scomparendo, vi era il viso
orgoglioso e bello del Capitano di Gondor come Aragorn lo ricordava.
“Non fa
più male”, mormorò Boromir incredulo.
Aragorn
deglutì, cercando di allentare la tensione nella sua gola. “I tuoi occhi?”
Boromir
esitò un istante, poi scosse la testa.
“Non
ancora, Aragorn,” intervenne Saruman. “Non prima che tu abbia pagato il prezzo”.
Aragorn
sentì il suo stomaco contrarsi, e la domanda che non voleva fare gli sfuggì
dalle labbra. “Quale prezzo?”
“L’Anello”.
Nessuno
dei sue uomini parlò. Entrambi si erano aspettati quella risposta, ma saperlo
non aveva mitigato il colpo. Aragorn cercò le parole per riempire il silenzio
che seguì, senza trovarle. Vide le spalle di Boromir incurvarsi
impercettibilmente e la sua testa chinarsi. Poi Saruman sollevò il mento di
Boromir per far sì che il suo viso fosse illuminato dalla luce delle torce.
“La
scelta è tua, Aragorn. La scelta è semplice”. La mano di Saruman indugiò sulla
guancia di Boromir mentre parlava, come silenzioso monito del potere che
amministrava.
“Dammi
ciò che ti chiedo. Dammi l’Anello e il giuramento solenne che ti unirai a me
nella guerra come mio Generale, e io ti darò tutto quello che desideri. Il tuo
trono, la tua corona, la libertà del tuo popolo…e la vita del tuo amico”.
Boromir
fece un visibile sforzo per sollevarsi, raddrizzando orgogliosamente le spalle.
“Io sono pronto a morire per il mio Re”.
Saruman
rise con freddezza, facendosi gioco del coraggio di Boromir come se fosse una
stupida pazzia.
“Oh no,
tu non morirai. Non per mano mia. Ma io ti piegherò, ti schiaccerò, finché non
piangerai e implorerai la morte, e poi ti consegnerò a Sauron al posto del tuo
signore. Che cosa farà lui di te non mi riguarda. La scelta è tua,
Aragorn figlio di Arathorn. Vincere tutto o perdere tutto”.
Aragorn
guardò l’amico, ancora inginocchiato sul pavimento con la pallida mano di
Saruman posata sul viso. La vista del sangue scuro che macchiava la benda,
simile a orrende lacrime, avrebbe perseguitato Aragorn per il resto della sua
vita. Lo sapeva, ma sapeva anche qual era la sua strada. Sapeva che qualunque
cosa Saruman avesse fatto a Boromir l’avrebbe fatta anche a lui, perché quello
era il destino di un sovrano. Fare scelte che mandavano uomini a morire per lui,
e morire un poco lui stesso insieme ad ogni soldato caduto. Era pronto ad
accettare quel sacrificio, per quanto durissimo, e sapeva di avere la forza per
affrontarne le conseguenze. La sua unica paura era che Boromir non avrebbe
capito.
Parlò
con voce chiara e calma, senza alcun tremito che tradisse il suo dolore.
“Non mi
unirò a te. Non ti consegnerò l’Anello. Non accetterò la corona dalle tue mani,
macchiate di sangue innocente. E, Boromir,” la sua voce divenne un mormorio, “
Mi dispiace”.
Il viso
di Saruman si contorse per la rabbia, e i suoi occhi lampeggiarono. Il potere
sembrò balzare fuori da lui, fiammeggiando nell’aria densa della cella, e nello
stesso istante, Boromir emise un grido straziante, spaventoso. Inarcò la schiena
e si scagliò in avanti, cercando di sottrarsi al tocco dello stregone sul suo
viso, ma gli orchi lo tennero fermo. Non poteva sfuggire. Cercò di combattere,
cercò di liberarsi per poter respirare, per avere tregua dal dolore, ma gli
orchi lo bloccavano in ginocchio davanti allo stregone, intrappolandolo sotto la
carezza di quella mano spietata. Le dita di Saruman si curvarono attorno alla
sua testa, affondando nei suoi lunghi capelli in un gesto che sarebbe potuto
sembrare di tenerezza, se non fosse stato per lo sguardo di selvaggio piacere
dipinto sul volto del mago, e per le grida agonizzanti che riecheggiavano
attraverso la stanza.
Con un
ultimo residuo di forza Boromir riuscì a liberarsi dagli artigli degli orchi, e
ricadde pesantemente al suolo, rompendo il contatto con Saruman.
“Tenetelo fermo”, disse lo stregone. Un orco piantò un ginocchio nel fianco di
Boromir, inchiodandolo al suolo, mentre l’altro si chinò e gli sollevò la testa
tra le mani.
“Aragorn!”
Il
Ramingo trasalì sentendo il disperato dolore nella voce di Boromir, e, in un
momento di codardia, chiuse gli occhi. Poi Boromir ricominciò a gridare, un
suono terribile, lacerante. Aragorn riaprì gli occhi e vide Saruman chino sul
prigioniero. In una mano teneva il bastone, incoronato dalla luce spettrale del
globo alla sua sommità, mentre l’altra mano era appoggiata sul petto di Boromir,
all’altezza del cuore. Vedere la gioia feroce sul viso di Saruman, il piacere
che provava nell’infliggere dolore, era quasi terribile quanto vedere la
sofferenza dell’uomo torturato, e Aragorn si ritrasse, nauseato.
“Aragorn!”
Saruman
rise, e Aragorn gemette involontariamente.
“Il tuo
re ti ascolta”, disse Saruman in tono derisorio. “Implora il suo favore. Forse
sarà misericordioso”.
Boromir
cercò di parlare, ma le sue parole si spezzarono in un informe grido di dolore.
Il suo corpo tremava e si contorceva sul pavimento di pietra, ma senza più
tentare veramente di sottrarsi ai suoi aguzzini. Tutto era dolore, e Boromir non
aveva più la forza o la volontà di resistere. Poteva solo aspettare, e gridare e
chiamare nell’intensità della sua agonia l’unico essere umano che potesse
udirlo.
Improvvisamente Saruman sollevò la mano e si alzò in piedi. La stanza parve
ripiombare nell’oscurità, mentre il potere dello stregone si affievoliva, e il
corpo del prigioniero ai suoi piedi ricadde immobile. Saruman gli diede un
colpetto col suo bastone, e disse:
“Non
hai niente da dire al tuo signore?”
Molto
lentamente, Boromir si mosse, voltandosi verso Aragorn. I suoi lineamenti erano
distorti dalla sofferenza e sulle sue labbra c’era sangue fresco. Prima che
potesse parlare, Aragorn gridò, disperato: “Perdonami! Non ho altra scelta,
Boromir! Lo fermerei, se potessi!”
Boromir
parlò a fatica, e le sue parole uscirono insieme a un rivolo di sangue, ma la
sua risposta giunse comunque chiara. “Non c’è scelta. Sono pronto…a morire per
il mio Re”.
“Non
sarà così facile, te lo prometto!” sibilò Saruman, chinandosi accanto a lui e
stendendo la sua mano aperta sul costato di Boromir.
Il
fiato uscì dai polmoni di Boromir in un lungo gemito inarticolato. L'uomo si
ripiegò su se stesso, stringendosi protettivamente attorno alla fonte del suo
dolore. Gli orchi non tentarono nemmeno di tenerlo fermo, ritraendosi dallo
stregone, dal prigioniero e dall’aura incandescente che li circondava. Saruman
si chinò a mormorare a Boromir qualcosa che Aragorn non riuscì a capire al di
sopra delle sue agghiaccianti grida.
Sollevò
la testa di scatto, e gridò furiosamente, con voce roca: “Non c’è scelta! Non
c’è s…Aragorn!”
“Fermati!” ruggì Aragorn, in un’inutile protesta, strattonando le catene fino a
farsi sanguinare i polsi. “Basta!”
Improvvisamente Saruman ritrasse la mano, e Boromir crollò esanime al suolo. La
luce abbagliante della magia si dissipò. Saruman osservò la figura immobile
dell’uomo con occhi privi di qualunque emozione, e posò una mano sulla testa di
Boromir. In quel momento non c’era agonia nel tocco, e Boromir non si mosse.
Lo
stregone fu il primo a parlare, dopo un lungo silenzio.
“Ti
basta? Sei pronto a darmi ciò che ti chiedo?”
“È
morto?” sussurrò Aragorn, ignorando la domanda dello stregone.
Saruman
spostò lo sguardo su Aragorn, e si alzò lentamente in piedi. “No”.
Si
avvicinò all’uomo incatenato, con occhi ardenti di follia che risaltavano sul
pallore del suo viso.
“Ascoltami, Aragorn figlio di Arathorn! Tu non puoi ostacolarmi. Non verrò
derubato della vittoria da un esule vagabondo e dal relitto inutile di un
soldato. Tu mi darai quello che voglio, e io non gli darò il conforto della
morte finché tu non lo farai! Mi hai capito, Re di Gondor?”
Sputò
fuori il titolo con un tale astio che Aragorn indietreggiò nelle sue catene.
Ma fu
Boromir che rispose, con un debole sussurro. “Non c’è scelta…”
“Silenzio!” Saruman si voltò, e brandendo il bastone, colpì Boromir alla nuca,
illuminando per un attimo la stanza con l’improvvisa scarica di potere. Boromir
ebbe un sussulto involontario, poi ricadde privo di sensi.
Saruman
si rivolse ai due orchi, stizzito. “Portatelo nella sua cella. Uno di voi stia
di guardia. Se si muove o parla, fatemelo sapere”.
Obbedienti, gli orchi sollevarono Boromir tra di loro e lo trasportarono fuori
dalla stanza. Saruman fece cenno alle altre guardie di andarsene e chiuse la
porta dietro di loro, restando così solo con Aragorn, alla luce delle torce.
Mentre si avvicinava alla parete dove era incatenato, Aragorn notò che la pazzia
sembrava essere improvvisamente scomparsa dal suo sguardo, e i suoi occhi scuri
ora apparivano pieni di autentica compassione.
“L’orrore di questi tempi è tale da mettere uomo contro uomo, amico contro
amico”.
“Nonostante tutti i tuoi sforzi nessuno ha tradito un amico, Saruman”.
Lo
stregone sorrise con gentilezza. “Credilo pure, se ti fa piacere, ma ricorda
questo, Erede di Isildur. Se non fosse stato per te, il tuo amico sarebbe potuto
uscire da questa stanza sulle sue gambe, sano e forte, avrebbe potuto respirare
di nuovo la dolce aria di Gondor, e rivedere le bianche mura di Minas Tirith
scintillanti sulle pendici del Mindolluin. Se non fosse stato per te”.
Saruman
fece per andarsene, ma, giunto sulla porta si fermò, con fare pensoso.
“Avevi
ragione riguardo al figlio di Denethor. Mi ero sbagliato, lo ammetto. Ha
dimostrato di esserti amico. Non ha tradito la tua fiducia”. Saruman spalancò la
porta, e un mesto sorriso gli comparve sulle labbra. “Peccato non si possa dire
la stessa cosa di te”.
E con
un fruscio di stoffa iridescente lo stregone se ne andò, lasciando Aragorn da
solo.
*** ***
***
Boromir
era raggomitolato sul pavimento della sua cella, tremante, sebbene il suo corpo
fosse coperto da un sottile velo di sudore. Tremava per il dolore, per la
disperazione, e per la paura. Ma soprattutto tremava per il peso dell'angoscia
che gravava su di lui. Aveva resistito alla tortura dello stregone, era riuscito
a non implorare la morte e a non chiedere la misericordia di Aragorn, ma questo
sforzo gli era costato l’ultimo residuo della sua volontà, e ora giaceva
abbandonato, momentaneo vincitore, scosso dal dolore di un’angoscia senza
speranza.
Gondor…Gondor…
Nella sua mente invocava quel nome piangendo, non osando farlo ad alta voce.
Quanto avrebbe desiderato camminare di nuovo per i fertili campi del suo paese,
cavalcare sotto le foreste della bella Anòrien. Salire all’alba le pendici del
Monte Mindolluin e vedere la sua amata città scintillare come un gioiello nella
luce. Stare in piedi sulle mura della cittadella con suo fratello al suo fianco,
e sentire le bandiere sventolare sopra di loro mentre osservavano insieme la
terra che proteggevano, per la quale versavano il proprio sangue, e per la quale
avrebbero volentieri dato la vita…
Morire
per Gondor. Lo aveva detto tante volte, e in certe occasioni lo aveva anche
sperato. Ora però, di fronte al quella crudele realtà, si rendeva conto che non
desiderava morire. Nemmeno per Gondor. Eppure doveva, oppure finire i suoi
giorni gridando in quell’inferno peggiore di qualsiasi morte, perché il dovere e
l’onore glielo imponevano.
Per
Gondor, per Aragorn, suo amico e sovrano, per Frodo, Sam, Merry e Pipino e per
ogni speranza che avevano di distruggere l’Anello. Per loro e per tutto ciò che
aveva di più caro al mondo, doveva morire.
Lo
sapeva. Lo accettava. Avrebbe affrontato il suo destino con tutto il coraggio di
cui sarebbe stato capace. Eppure, al ricordo delle false promesse di Saruman,
Boromir pianse, ripensando a quel terribile momento di gioia in cui aveva
creduto di vedere le mura di Minas Tirith scintillare di nuovo davanti ai suoi
occhi, bianche e bellissime.
Perso
com’era nell’abisso della sua disperazione, Boromir non udì i passi degli orchi
che si avvicinavano alla sua cella. Non si accorse dei suoi visitatori fino a
quando una fredda mano si posò sulla sua fronte. Una voce familiare scivolò su
di lui come velluto.
“Ora
capisci quanto vale la fiducia in un re? Guarda come ti ha ridotto”.
Boromir
si scosse e cercò di sollevare il capo, ma non ne ebbe la forza. Saruman gli
sollevò la testa con la mano, appoggiando il palmo sulla sua guancia. Boromir
sussultò per il contatto, sebbene fosse inaspettatamente gentile.
“La tua
fedeltà è ricompensata con la sofferenza”, continuò lo stregone, dolcemente, “e
tu paghi con la vita il prezzo del suo ostinato orgoglio. Tu, che hai servito
Gondor con onore per tutta la vita, devi essere sacrificato affinché l’erede
vagabondo possa rivendicare il suo trono”.
“Servito con onore…” mormorò Boromir con la bocca piena di sangue. “Morire con
onore…come un soldato”.
“Non
c’è onore nel morire così, per un uomo che ti ha tradito”.
“Non mi
ha tradito”.
“Invece
lo ha fatto. Lo hai sentito anche tu, Boromir. Lascerà che tu sia consegnato a
Sauron al suo posto, piuttosto che allearsi con me contro il Nemico”.
Boromir
trasse un respiro affannoso. “Tu sei il nemico”, sussurrò.
Saruman
gli accarezzò la guancia in un gesto di commiserazione. “Sei uno sciocco”. Il
rimprovero era benevolo, quasi affettuoso. “Credi di aver provato dolore per
mano mia? Aspetta di sentire il tocco del Grande Occhio. Allora conoscerai il
vero dolore, e desidererai il conforto della Mano Bianca”.
Boromir
rabbrividì involontariamente, pentendosene subito dopo. Non avrebbe dovuto
essere così debole da mostrare a Saruman la propria paura. La delicata carezza
della sua mano lo confortava, ma sue le parole lo riempivano di terrore. Avrebbe
voluto ruggire la sua sfida, ma tutto ciò che gli uscì fu un debole singhiozzo.
“Aragorn…”
“Non
aspettarti misericordia da lui, Boromir. Ha fatto la sua scelta, ti ha
abbandonato al tuo destino”.
Di
nuovo, come seguendo una luce nelle tenebre, Boromir ripeté le ostinate parole.
“Non c’è scelta”.
“Per
lui forse no. Ma per te? Per te c’è un altro modo”. Le mani di Saruman
afferrarono più strettamente la sua testa. Il suo viso era così vicino che
Boromir potava sentire il suo fiato caldo sulla pelle. “Io posso risparmiarti
gli orrori di Barad-dûr. Posso farti tornare a casa”.
“Gondor…”
“Sì,
Gondor. A casa, da tuo padre che ti cerca invano e da tuo fratello che piange la
tua perdita, incerto del tuo destino. Tu puoi mettere fine alla loro sofferenza,
così come alla tua”.
“Come?”
La domanda gli uscì spontaneamente dalla bocca, senza che Boromir potesse farci
nulla. Non voleva ammettere il rimpianto che le parole di Saruman gli avevano
risvegliato nel cuore, ma la sua voce sembrava essere in grado di strappargli
sempre e comunque la verità, che lo volesse o no.
“È
semplice. Per salvare Gondor, mi serve l’Anello”.
“Non ce
l’ho”. Boromir non provò alcuno stupore alla richiesta, solo la dolente
tristezza che veniva sempre insieme al pensiero dell’Anello. L’Anello del
nemico, non suo. Mai suo. Doveva ricordarsene, ricordare l’orrore sul viso di
Frodo quando aveva tentato di impadronirsene. Frodo, che si era fidato di lui e
che era stato tradito. Frodo, che era stato suo amico, e che ora era
perduto…come l’Anello. “Non ce l’ho,” ripeté.
“Tu sai
chi lo porta. Sai dove si trova”. La voce di Saruman divenne incalzante, e le
sue mani strinsero più forte la testa di Boromir. “Dov’è l’Anello?”
“L’Anello…L’Anello è andato…” Si interruppe con un sussulto, quando i primi
tentacoli di dolore lo raggiunsero.
Saruman
aumentò il potere che scorreva dalle sue dita. “Parla! Dimmi il nome! A chi è
andato?”
“…di
pericolo in pericolo…” Boromir gemette, cercando di sottrarsi al tocco dello
stregone.
Saruman
strinse ancora la presa, aumentando il dolore. “Cosa significa? Dove si trova?”
“...lontano
da noi”.
“Salva
te stesso, Boromir. Salva Gondor! Dimmi dove di trova l’Anello, e io ti darò
tutto ciò che ami!”
“E
tradire…tradire il mio Re...” Boromir respirava affannosamente. Poi, disperato,
gridò: “Aragorn è Gondor!”
“E
allora ti darò Aragorn, se è questo quello che vuoi! Dammi l’Anello, e io ti
darò il tuo Re!”
Boromir
urlò di nuovo, un grido straziante, orribile, mentre il dolore dentro di lui
cresceva.
“Avevo
torto! Avevo torto! Non è per me!”
“È per
me, idiota! Dammi ciò che mi appartiene! Dammelo, e io porrò fine ai tuoi
tormenti!”
“Mi
dispiace! Mi dispiace!” singhiozzò Boromir, senza più sentire le promesse di
Saruman attraverso le ondate di dolore e di rimorso nella sua mente. “Avevo
torto! L’Anello…non può salvarci! Ho fallito…Gondor cadrà…”
“Chi lo
porta?!” ringhiò Saruman, stringendo la presa finché le nocche non gli divennero
bianche e le braccia non incominciarono a tremargli per lo sforzo. “Dov’è?!
Dimmelo e ti lascerò vivere! Dimmelo, e ti lascerò morire!”
“Siamo
perduti!” L’agonia scuoteva il corpo di Boromir, trovando strada fino alla sua
gola, gridando un unico nome nell’aria densa della cella. “Aragorn!”
Con
un’imprecazione, lo stregone lasciò la presa. L’uomo crollò a terra privo di
sensi, finalmente libero dal dolore. Saruman si alzò in piedi, pulendosi le mani
sulla veste, con il volto rigido per il disprezzo.
“Morire
con onore?”, lo schernì con astio. “Morirai come un animale, privato del senno e
di ogni umanità. E quando griderai solo le bestie ti sentiranno. Dov’è il tuo
onore adesso, mio coraggioso Capitano?”
Gettando un ultimo sguardo furioso al suo prigioniero, Saruman si voltò ed uscì
a grandi passi dalla stanza, seguito dagli orchi.
La
guerra era giunta a Nan Curunìr. Nell'ora più buia di una notte senza luna né
stelle, i Cavalieri di Rohan avevano attraversato i Guadi dell'Isen attaccando i
maestosi cancelli di Isengard. Era un'azione disperata. Nessuna forza umana
poteva sperare di espugnarli. Eppure i Rohirrim erano arrivati, scagliandosi
contro i bastioni verticali delle mura con una selvaggia determinazione che
sfidava la sconfitta.
Dall'alto della sua finestra
nella torre di Orthanc, Saruman li guardò arrivare, e rise. Erano patetici visti
da quell'altezza, con le loro lance che ondeggiavano come fili d'erba, e le
creste dei loro elmi che si scuotevano nel vento. Illuminati dalla luce
rossastra del fuoco, gli elmi d'argento sembravano macchiati di sangue, dolce
promessa di vittoria per la Mano Bianca.
Mentre li osservava
sorridendo, una truppa di cavalieri uscì galoppando dagli alberi, portandosi a
tiro degli arcieri che erano posizionati sulle mura. Una pioggia di frecce
accolse la loro sortita. I Cavalieri restarono fermi sotto quell'assalto,
rispondendo a loro volta con le proprie frecce, mentre le file più arretrate
avanzavano a riempire i posti lasciati vuoti dai caduti. Poi un ululato risuonò
dal tunnel del cancello, e gli Uruk-hai si riversarono fuori, verso la
battaglia.
Pur essendo a cavallo, i
Rohirrim non riuscirono a far fronte alla ferocia e alla superiorità numerica
dei nemici. Arretrarono lentamente continuando a combattere attirando con sé gli
orchi, che, intenti al massacro e al saccheggio, li inseguirono fin sotto
l’ombra dei rami degli alberi.
Alberi? Saruman si sporse
bruscamente dalla feritoia per osservare la battaglia sotto di lui, corrugando
la fronte. Alberi? Non c'erano alberi vicino al muro meridionale. Li aveva fatti
abbattere molto tempo prima, sostituendoli con eleganti pilastri d'acciaio che
marcavano la strada. Davanti ai cancelli di Isengard ora crescevano solo rovi e
arbusti e poche, ostinate piante sparse. Come potevano esserci degli alberi?
Dalla foresta giunsero grida
di panico e di furore. Saruman imprecò a bassa voce, vedendo due orchi solitari
uscire dalla foresta inciampando, senza più armi e con i visi deformati da un
lungo ululato di terrore. Saruman li vide arrivare all'ingresso del tunnel, e
pochi istanti dopo, uscirne correndo a perdifiato per la strada che conduceva
dal cancello alla porta di Orthanc. Dietro di loro le grida continuavano, mentre
i Cavalieri si avvicinavano ancora una volta alle mura. Questa volta però, gli
alberi li seguirono, e mentre si allontanava dalla finestra Saruman udì un rombo
fragoroso di pietre che crollavano.
Saruman imprecò di nuovo,
picchiando a terra il bastone con rabbia. Un piccolo, sgradito brivido di paura
gli percorse la schiena. Come aveva potuto dimenticare? E d'altronde, come
avrebbe potuto prevedere che Fangorn si sarebbe risvegliato? Quale stregoneria
aveva ridestato il dormiente e ozioso pastore degli alberi con una tale furia
vendicativa? E chi aveva costruito quell'impossibile alleanza tra gli antichi
Onodrim e il giovane popolo degli Uomini di Rohan?
Asce e fuoco. Saruman smise
di camminare e si affacciò di nuovo alla finestra, i suoi occhi pieni di
malignità. La condanna di Fangorn sarebbe stata l'antico flagello degli alberi,
e la Mano Bianca avrebbe avuto ugualmente la sua vittoria. Doveva riorganizzare
le difese e mandare ordini a tutti i capitani: asce e fuoco. Poi avrebbe
scambiato due parole con quel miserabile figlio di Nùmenor nei sotterranei,
l'aspirante Re, per scoprire che cosa sapeva dell'attacco.
*** *** ***
Nella luce incerta e
tremolante dell'arida pianura di Isengard due piccole figure scivolavano da
un'ombra all'altra. Si muovevano con cautela, lungo lo scosceso pendio che
portava verso l'entrata più vicina alle caverne, avvolti in mantelli di grigio
cangiante che li nascondevano alla vista di eventuali osservatori. Sulle mura
dietro di loro si aprivano finestre e porte a centinaia, e sulla sommità
pattuglie di orchi sorvegliavano incessantemente la zona. Davanti a loro, oscura
e terribile, si ergeva la tagliente guglia di Orthanc.
Erano soli in un territorio
ostile, circondati dai nemici, impegnati in una missione disperata e temeraria.
E avevano paura. Ad ogni passo che faceva Merry era sempre più spaventato, ma
costrinse le sue gambe a sostenerlo e a portarlo sempre avanti, in quella valle
arida e soffocante, verso quelle fauci spalancate che sembravano aspettare solo
di divorarli.
Sotto il suo manto elfico
stava sudando per la paura. Tuffandosi al riparo di un pilastro durante il
passaggio di una pattuglia di orchi, udì Pipino battere i denti. Lo hobbit più
giovane lo guardò con gli occhi spalancati, il viso teso e pallido alla luce
spettrale delle fornaci degli orchi. Merry non riuscì a sorridere, ma annuì per
indicare che era pronto, afferrò la sua spada sotto il mantello, e uscì dal
nascondiglio.
Nonostante la paura, Merry
non pensò mai neanche per un momento di tornare indietro. Lui e Pipino avevano
convinto Gandalf che due hobbit avrebbero fatto ciò che nemmeno le forze unite
di uomini ed Ent avrebbero potuto: infiltrarsi nei sotterranei di Saruman e
trovare i prigionieri prima che Saruman si rendesse conto del pericolo e
fuggisse, portandoli con sé. Gandalf stesso non aveva dato la sua approvazione
fino a quando Barbalbero in persona, il capo degli Ent, non aveva parlato in
loro favore.
Ora che vedeva l'interno
dell'anello di Isengard, Merry era sempre più convinto che lui e Pipino fossero
la migliore speranza di salvezza per i loro amici. Un gruppo di guerrieri
avrebbe dovuto conquistare combattendo ogni metro di terreno, con il rischio non
trovare mai il sotterraneo giusto, nascosto chissà dove in quell'immenso,
labirintico nido infestato da orchi. I due piccoli hobbit, silenziosi sui loro
piedi nudi, mascherati dai mantelli elfici, potevano invece scivolare non visti
attraverso le innumerevoli caverne e le gallerie e trovare i prigionieri. Gli
altri sarebbero venuti dietro di loro, seguendo il sentiero da loro indicato.
Merry sentiva il cuore
martellagli nel petto mentre si affrettava verso l'apertura della caverna. Alla
sua destra una lunga scala saliva dalle viscere della terra, sostenuta da catene
di ferro fissate a pali ai limiti del baratro. I pilastri gettavano lunghe ombre
scure, nascondendo i due hobbit alla vista degli orchi che si riversavano fuori
dall'abisso.
Merry udì le loro grida, le
risate, e il clangore delle armi. Si aspettavano una facile vittoria, marciando
verso la battaglia oltre i cancelli, e Merry si sentì stranamente rassicurato
dalla loro spavalderia. Finché Saruman avesse avuto la certezza della vittoria
loro avrebbero avuto ancora tempo. Saruman sarebbe rimasto al sicuro nella sua
fortezza, e Barbalbero avrebbe trattenuto le acque dell'Isen al di là degli
argini. Ma la battaglia avrebbe presto volto a sfavore di Saruman, e solo
allora, quando lo stregone si sarebbe trovato in trappola, sarebbe arrivato il
vero attacco. Gli orchi sarebbero fuggiti verso la massa di Ucorni che attendeva
fuori dalle mura, Barbalbero avrebbe aperto le dighe, e chiunque si fosse
trovato ancora nei sotterranei sarebbe morto. Chiunque.
Gli ultimi orchi si
allontanarono con le torce che brillavano lungo la strada verso sud. Nulla si
muoveva sulla scalinata. Merry si sporse con cautela in avanti, guardando oltre
il margine della fossa il rosso chiarore all'interno. Il calore lo investì con
violenza, facendogli lacrimare gli occhi, e l'odore di bruciato gli invase le
narici. Ritrasse la testa per guardare Pipino con gli occhi arrossati.
"Ci siamo dentro, vero Pip?",
sussurrò.
Pipino annuì risolutamente.
"Fino al collo".
"Andiamo, allora".
Gli hobbit si alzarono in
piedi, si tirarono il cappuccio sopra la testa ed estrassero le spade. L'unica
via per scendere era la scala, sospesa sopra un inferno pestilenziale di fiamme,
rocce bruciate, e nere gallerie. Catene, funi e carrucole oscillavano sopra le
fosse. Minacciosi rumori metallici provenivano da abissi che non potevano vedere
insieme alle stridenti voci degli orchi. Persino le rocce di quelle caverne
sembravano trasudare malvagità, pensò Merry mentre strisciava lungo la rampa
cercando di nascondersi dagli occhi dei nemici.
Raggiunsero la base della
scala e scivolarono nell'oscura imboccatura di una galleria. Si fermarono solo
il tempo necessario perché Pipino incidesse con la punta della spada una freccia
sul muro, in basso, dove solo un hobbit avrebbe potuto pensare di cercarla, poi
ripartirono lungo il corridoio accidentato.
La galleria si dirigeva a
ovest, verso la torre di Orthanc, e pendeva leggermente verso il basso. Lungo le
pareti erano appese torce gocciolanti, ma la loro luce irregolare serviva più a
nascondere gli intrusi che a rivelarli. Gli hobbit camminavano rasente ai muri,
nelle ombre profonde, dove nemmeno gli acuti occhi degli orchi potevano vederli,
e passavano come folate di fumo nell'aria pesante.
*** *** ***
Merry si appiattì contro il
muro, chiudendo gli occhi e ansimando per il panico. Accanto a lui sentiva
Pipino singhiozzare. La sua mano cercò a tentoni quella di Pipino, e i due
hobbit si strinsero disperatamente l’uno all'altro.
Potevano udire delle voci in
lontananza, troppo basse per distinguere le parole, ma abbastanza forti da
riconoscere il tono mellifluo di Saruman e le risposte secche di Aragorn. Ci fu
un momento di silenzio, poi un grido lacerante che fece quasi sfuggire un
lamento a Merry. Sentì Pipino che si allontanava dal muro e lo tirava per la
mano. Poi cominciarono a correre, inciampando lungo il corridoio per sfuggire a
quel suono terribile.
Corsero fino a raggiungere
l'ultimo bivio della galleria, dove Pipino di fermò per incidere un'altra
freccia sul muro per marcare il loro percorso. Li si fermarono, riluttanti ad
andare avanti ma troppo spaventati per tornare indietro, e rimasero a guardarsi
l'un l'altro senza sapere cosa fare.
"Non riusciremo mai a
tirarlo fuori di lì", sussurrò Pipino, "Ci sono troppi orchi e…che cosa gli
stava facendo Saruman?"
Merry scosse la testa,
ripensando alla disperata agonia che aveva visto sul viso di Grampasso quando il
mago lo aveva toccato. Aveva guardato dentro la stanza solo per un attimo,
intravedendo l'uomo seminudo incatenato al muro, il suo corpo ricoperto di
sangue e di sporcizia, gli orchi che facevano la guardia con le loro enormi
spade, e la figura vestita di bianco scintillante, ma l'orrore sarebbe rimasto
impresso per sempre nella sua memoria.
"Come facciamo a farlo
uscire?" domandò Pipino.
"Non lo facciamo. Portiamo
qui Gandalf e lasciamo che sia lui a occuparsi di Saruman".
Pipino cominciò a correre
lungo la diramazione orientale della galleria, incapace di restare fermo per la
tensione. "Devono essere ormai vicini. Se ritorniamo indietro fino alle scale
e…"
"Aspetta!" Merry afferrò il
braccio di Pipino per fermarlo. "Dobbiamo trovare Boromir!"
Pipino lo guardò con occhi
spalancati per il terrore, e Merry vide che il suo viso era rigato dalle
lacrime. "Ma Grampasso…"
"Gli altri ci stanno
seguendo più velocemente che possono. Non possiamo aiutarli se torniamo indietro
adesso, e non possiamo…" , deglutì per scacciare il nodo che gli si stava
formando in gola, e disse, più bruscamente di quanto non avesse voluto, "non
possiamo lasciare il nostro lavoro a metà".
"Hai ragione".
Pipino si spazzò via le
lacrime dagli occhi con la manica e annuì con decisione.
"Abbiamo detto che li
avremmo trovati tutti e due, e lo faremo. Boromir deve essere qui vicino, in una
di queste celle…"
Scostando la mano di Merry,
Pipino estrasse la sua spada e si chinò di fronte al segno che aveva fatto sul
muro. Lavorò per qualche momento con la punta della sua spada. Quando si rialzò
in piedi, Merry vide che aveva inciso una runa accanto alla freccia.
"Così Gandalf saprà che
abbiamo trovato Aragorn".
"Buona idea, Pip".
Fece un cenno in direzione
dell'unico ramo del corridoio rimasto inesplorato.
"Proviamo da questa parte".
"Dopo di te, cugino
Brandibuck".
Merry gli strinse il braccio
in un gesto di muta gratitudine, poi fece strada nel tunnel. Non dovettero
andare molto lontano. Circa cinque minuti più tardi, Merry sbirciò dietro un
angolo e vide la massiccia forma di un orco che bloccava il passaggio. La
mostruosa creatura aveva la schiena rivolta verso una porta di legno, e
osservava con aria assente la parete di fronte a sé. In cintura portava una
lunga spada dal filo dentellato. Sembrava annoiato, e prossimo ad addormentarsi,
ma non al punto da non notare due hobbit che fossero passati lungo il
corridoio.
Merry si ritrasse
silenziosamente fuori dalla sua visuale, e trascinò Pipino dove l’orco non
poteva sentirli.
"Quella deve essere la cella
di Boromir!" sussurrò. "È l'unica guardia che abbiamo visto".
"Perfetto. Andiamocene da
qui, allora, e troviamo Gandalf".
Merry scosse la testa,
serrando la mascella con piglio ostinato. "Io vado là dentro".
"Oh, certo," ironizzò
Pipino, "andrai lì e chiederai per favore all'orco di aprirti la porta".
Quando Merry non rispose
nulla, limitandosi a fissarlo, Pipino spalancò la bocca incredulo.
"Che cosa hai intenzione di
fare?"
"Uccidere l'orco", disse
Merry con un sogghigno, poi sussurrò, "Lo hai detto tu stesso Pip. Non è la
prima volta che affrontiamo un orco".
"Non credi che qualcuno si
accorgerà di un orco morto nel corridoio?"
"Chi?"
"Saruman, per esempio".
Merry indurì il viso,
determinato. Sapeva che Pipino aveva ragione, che avrebbero dovuto andarsene
immediatamente e raggiungere gli altri, ma non poteva andarsene senza sapere che
cosa c'era dietro quella porta. Per quanto grande fosse l’amore che portava per
Grampasso e volesse disperatamente liberarlo, la ragione per cui Merry era
arrivato fin lì era una sola: trovare Boromir. Doveva la sua vita al soldato di
Gondor, e aveva giurato che non lo avrebbe lasciato mai più a combattere da
solo.
"Andrò là dentro, Pip, che
tu mi aiuti o no. Deciditi".
"Non ho detto che non ti
avrei aiutato", mormorò Pipino.
"Bene. Ecco cosa faremo".
Pochi minuti dopo, l’orco fu
scosso dal suo torpore da un rumore di passi. Si raddrizzò e si guardò attorno
con aria colpevole, come se temesse di essere stato sorpreso a sonnecchiare, ma
i passi non appartenevano al suo padrone. Una piccola creatura scalza, avvolta
in un mantello scuro, arrivò correndo da dietro l'angolo e lo oltrepassò di
corsa. L'orco si accigliò, confuso, vagamente consapevole del fatto che quella
creatura non doveva essere lì, ma, poiché non rappresentava una minaccia e non
aveva fatto alcun tentativo di disturbare il prigioniero che sorvegliava, rimase
incerto, non sapendo come comportarsi.
Mosse un passo verso di lui
e gridò, "Ehi, tu! Fermati!"
La creatura si voltò a
guardarlo, inciampò, e squittì per la paura. L'orco sogghignò ed estrasse la
spada, avvicinandosi alla sua terrorizzata preda. Improvvisamente, un acuto
dolore gli perforò la gamba. Sorpreso, l'orco si fermò.
Merry affondò la spada
nell'incavo del ginocchio dell'orco, spingendo con tutta la sua forza fino a
sentire l'osso. L'orco gridò e imprecò, voltandosi per vedere il suo assalitore,
ma Merry era già balzato via, con la spada fumante di disgustoso sangue nero.
L'orco barcollò quando la gamba ferita cedette sotto di lui, e cadde in
ginocchio. In un attimo Merry gli fu addosso, saltandogli sulla schiena. Allo
stesso momento Pipino balzò in piedi e si gettò nella mischia. Si scagliò con
tutto il suo peso contro l'orco piantandogli la spada sotto il mento, mentre
Merry colpiva a sua volta l'orco alla gola.
L'orco emise un ultimo
gorgoglio di protesta, poi cadde al suolo con un tremendo sferragliare di
armatura. Gli hobbit si rialzarono dal pavimento insanguinato, guardando
increduli quello che avevano fatto, pallidi e sconcertati. L'orco non si muoveva
più.
Merry fu il primo a
ritornare in sé. Pulendo la spada sulla tunica dell'orco si arrampicò sulle sue
gambe per raggiungere la porta che sorvegliava. Era bloccata da una grossa
sbarra di ferro. Merry cercò di sollevarla facendo leva per liberarla dai
sostegni, ma non ci riuscì fino a quando Pipino non si unì ai suoi sforzi.
Insieme sollevarono la sbarra, inclinandola fino a farla scivolare dai sostegni
e mandandola a cadere sul pavimento con un rumore assordante che rimbombò tra le
pietre del corridoio.
Merry e Pipino si
scambiarono un sguardo nervoso, e rimasero ad ascoltare eventuali nemici in
arrivo, ma il cunicolo era di nuovo perfettamente silenzioso. Impugnata più
saldamente la spada, Merry spinse la porta, la aprì, e guardò cautamente
all'interno.
La cella era piccola e
spoglia, illuminata da una singola torcia che gettava ombre striscianti sui
muri. Al lato opposto della porta pendevano delle catene vuote, e in un angolo
vi era un mucchio di stoffa, cuoio e maglia metallica. Ma Merry non prestò
attenzione a questi particolari, perché, raggomitolato sul pavimento al centro
della stanza, c'era un uomo.
Con un grido Merry spalancò
la porta ed entrò. Si inginocchiò accanto alla figura immobile, e, gettata via
la spada, si chinò a guardare il viso nascosto nell'ombra. Un altro grido eruppe
dalla gola di Merry, un grido di dolore. Era lui.
"Boromir?" la sua mano
tremava, mentre scostava i capelli dal viso di Boromir. "Sono Merry. Siamo
venuti a portarti fuori di qui. Riesci a sentirmi? Ti prego…"
L'uomo si agitò, e Merry
sentì la speranza rinascergli nel cuore. Boromir mosse leggermente la testa, e
alla luce della torcia Merry vide che le sue labbra si muovevano senza emettere
alcun suono. A Merry salì un nodo in gola e sentì le lacrime pungergli gli
occhi. Con una mano sollevò la testa di Boromir. L'uomo si mosse di nuovo,
mormorando qualcosa, e Merry ritrasse la mano, temendo di fargli male.
"Che cosa ti hanno fatto?"
sussurrò Merry, inorridito, mentre osservava il sangue che usciva dalla bocca di
Boromir gocciolando sulle pietre sotto la sua testa. L'uomo non rispose. Il
breve momento di lucidità se ne era andato, e l’uomo ricadde immobile.
Merry udì la voce calma di
Pipino dietro di lui. "Dobbiamo trovare Gandalf. Lui saprà cosa fare".
Merry si voltò a guardarlo,
con gli occhi velati dalle lacrime. "Sì. Presto, Pip! Vai!"
"Tu puoi trovarlo. So che
puoi riuscirci. Torna indietro per dove siamo venuti, verso la grande caverna,
e…"
"Tu verrai con me!" Sibilò
Pipino, in preda al panico.
"Non posso". Il viso di
Merry si contrasse in una smorfia, e altre lacrime gli bagnarono le guance. "Ho
fatto una promessa".
"Una promessa a chi? Di che
cosa stai parlando? Merry, questa è una pazzia!"
"No. Avevi ragione tu quando
dicesti che non saremmo dovuti scappare. Avremmo dovuto restare e combattere, a
tutti i costi, ed è colpa mia se non lo abbiamo fatto".
Deglutì rumorosamente, poi
riprese. "Sono fuggito una volta. Non lo rifarò di nuovo. Non posso".
"Ma questa volta è diverso.
Andiamo a cercare aiuto…"
"È la stessa cosa che
abbiamo fatto al fiume, e guarda che cosa è successo".
Sconvolto, Pipino guardò il
corpo ferito, immobile, dell'uomo che li aveva protetti così ferocemente,
sacrificandosi per salvarli, e Merry capì che si stava convincendo. Ma essendo
Pipino, doveva fare un altro tentativo. "E se non trovo gli altri in tempo? E se
arriva l'inondazione? O Saruman?"
Merry scrollò le spalle, a
disagio. Sapeva che quel piccolo, ostinato atto di lealtà a avrebbe potuto
costargli la vita, ma trovava ancora più terribile il pensiero che Boromir
morisse da solo in quella misera cella. Dopo tutto quello che aveva sopportato,
morire solo e abbandonato sarebbe stata un'ingiustizia, una ferita di troppo.
Una ferita che Merry poteva risparmiargli.
Raddrizzando le sue piccole
spalle, Merry parlò con fermezza. "Ho promesso che non lo avrei lasciato mai più
a combattere da solo, e non lo farò. Qualunque cosa accada sarò qui…per
guardargli le spalle".
Pipino annuì con solennità,
e Merry fu grato per la comprensione del cugino. Pipino lo criticava sempre, e a
volte lo distraeva, ma Merry sapeva che, nel momento del bisogno, poteva sempre
contare su di lui.
"Ti prego, Pip, sbrigati".
"Ci proverò, Merry, ma…"
"Lo so".
Entrambi pensarono alle ore
che avevano passato vagando per le gallerie, cercando quella stanza, mentre
sopra di loro infuriava la battaglia. Non doveva essere rimasto molto tempo.
Forse proprio in quel momento le possenti mura di Isengard stavano crollando
sotto l'attacco degli Ent. Forse Barbalbero stava già riversando le acque dell'Isen
per intrappolare Saruman l'uccisore di alberi nella sua alta torre. Non avevano
modo di sapere quanto tempo restava loro per uscire dalle caverne ed essere al
sicuro.
Improvvisamente Merry fu
colto dal timore che non avrebbe mai più rivisto Pipino, e si alzò in piedi per
abbracciare il suo giovane cugino. Pipino lo strinse a sé per un momento, poi si
allontanò, asciugandosi le lacrime con la manica. Nella luce incerta delle torce
sembrava pallido e spaventato, troppo giovane e troppo fragile per il peso che
doveva portare.
"Quando Boromir si
sveglierà, raccontagli come abbiamo ucciso l'orco. Si farà una bella risata".
"Lo farò".
Pipino si diresse verso la
porta ma si fermò sulla soglia, riluttante ad andarsene. "E non dimenticare la
parte dove io ho fatto finta di inciampare, e poi gli ho piantato la spada nel
collo".
"Non lo dimenticherò",
rispose Merry, solennemente.
"Scommetto che anche Boromir
non avrebbe saputo fare di meglio".
"Credo di no".
Pipino esitò un momento, poi
alzando la mano in segno di saluto, chinò la testa e scivolò fuori dalla porta.
Lentamente la porta si richiuse cigolando, lasciando Merry solo nella misera
cella insieme a Boromir. Merry si inginocchiò di nuovo accanto a lui,
guardandolo tristemente.
Per un lungo tempo non si
mosse né parlò. Non sapeva cosa dire, sentendosi inutile di fronte a tanta
sofferenza. Poi ripensò alle parole di Pipino, e un sorriso gli sfiorò le
labbra. Come avrebbe riso Boromir nel vedere i due hobbit abbattere quell'enorme
orco! No, si corresse Merry, Boromir non avrebbe riso. Li avrebbe spinti fuori
dai piedi e avrebbe ucciso l'orco lui stesso. Poi avrebbe detto che erano una
maledetta seccatura, rimproverandoli come se pensasse che non vedessero il suo
affetto per loro.
"Avresti davvero dovuto
vederci uccidere quell'orco", mormorò Merry all'uomo provo di sensi. Posò lo
sguardo sulla fasciatura che copriva gli occhi di Boromir, e pianse. "Saresti
stato orgoglioso di noi".
Recuperò la sua spada da
dove l'aveva gettata e cominciò a tagliare le corde che legavano i polsi di
Boromir. Le lacrime scorrevano copiose dai suoi occhi, bagnandogli le maniche
mentre lavorava, ma le ignorò. Le parole vennero alle sue labbra senza che lui
le cercasse, parole che non significavano nulla per Boromir, ma che
alleggerivano il cuore di Merry nella solitudine, facendolo sentire meglio, come
se potesse confortare Boromir ricordandogli che non era solo.
Continuò a parlare mentre si
affaccendava per aiutare il ferito. Parlava in un tono basso e regolare che
tradiva le lacrime sul suo viso e il tremito delle sue mani. Raccontò a Boromir
del loro inseguimento attraverso le pianure di Rohan, raccontò di Barbalbero e
dell' Entaconsulta, e dell'alleanza di uomini che aveva marciato contro Saruman.
Descrisse come Sveltolampo aveva aperto una breccia nel muro orientale, tanto
facilmente quanto un hobbit avrebbe spezzato un pezzo di pane, per lasciare
entrare i supersiti della Compagnia a Isengard, e di come i Cavalieri ai
cancelli avevano attirato volontariamente su di sé l'ira dello stregone e le
frecce degli orchi per aprire un varco per il salvataggio.
Mentre parlava recise le
corde che legavano Boromir, e gli massaggiò le mani fino a riportare la vita
nelle sue dita intorpidite. Frugò in mezzo al mucchio di vestiti strappati
nell'angolo, trovando il mantello elfico di Boromir e i resti della sua tunica
di broccato. Fece scivolare la tunica sotto la testa dell'uomo, e coprì il suo
corpo tremante con il mantello. Poi si inginocchiò accanto all'amico, e usando
un pezzo della camicia di Boromir come straccio, lo bagnò con l'acqua della sua
borraccia e cominciò a pulire i sangue e la sporcizia che gli incrostavano il
volto.
Durante tutto il tempo in
cui Merry gli offriva i suoi soccorsi goffi ma gentili, Boromir rimase immobile,
indifferente, apparentemente incurante degli sforzi dello hobbit. Per Merry era
sufficiente tentare di offrigli conforto, che l'amico lo sapesse o no. Il suo
cuore soffriva nel vedere Boromir trattato con tanto disprezzo - spogliato,
legato, e lasciato ferito sul pavimento - e desiderava restituirgli almeno un
po' della sua dignità, anche se non poteva alleviare il suo dolore.
Da qualche parte nella mente
di Merry c'era un ricordo di Brandy Hall, e dell'infermiera che lo aveva
accudito ogni volta che era stato malato da bambino. Era una delle innumerevoli
parenti da parte di suo padre, una lontana zia o una cugina, e la sua voce era
ruvida come sabbia, ma Merry l'aveva ascoltata e ne aveva fatto tesoro, e la
ricordava ancora, nonostante molto di quel tempo fosse stato dimenticato. La
voce del conforto. E ora, nell'oscuro inferno del sotterraneo di Saruman, Merry
poteva udirla di nuovo, e mentre parlava, si ritrovò a ricorrere alle stesse
cadenze rassicuranti.
Il tempo strisciò via,
indistinto, misurato solo dall'oziosa conversazione di Merry. Solo una volta
Boromir diede segno di prendere coscienza. Lo hobbit stava pulendo le macchie di
sangue sul suo viso, cercando di decidere se aveva il coraggio di rimuovere la
benda e di guardare cosa celava, quando Boromir improvvisamente si ritrasse dal
tocco di Merry, mormorando qualcosa a bassa voce. Merry si bloccò. Si inclinò
ansiosamente in avanti.
"Boromir? Sei sveglio?"
appoggiò lo straccio sulla fronte di Boromir, proprio al di sopra della benda, e
chiese, supplichevole, "Riesci a sentirlo?"
Boromir emise un suono
soffocato di dolore, e dalla sua bocca uscì un rivolo scuro di sangue.
"Shhh", insistette Merry.
"Non muoverti".
"Aragorn…"
"Aragorn non è qui. Ma non
preoccuparti per lui". Ripulì il sangue dalla bocca di Boromir, cercando di
ignorare le lacrime che avevano ricominciato a scendere sulle sue guance.
"Pipino sa dove trovarlo, e
porterà là Gandalf. Libereremo anche lui, lo prometto".
Le parole gli si bloccarono
in gola, ma non riusciva a trovare nient'altro da dire per confortare l'amico, e
così le disse ugualmente, cercando di non pensare a quanto sarebbe stato
difficile mantenere quella promessa.
Boromir si mosse di nuovo,
Merry non avrebbe saputo dire se per il dolore o l'angoscia, e le sue labbra si
mossero, formando il nome del Ramingo. Altro sangue corse lungo il suo mento,
scintillando nero alla luce delle torce. Merry lo spazzò via, in un gesto
gentile quanto inutile.
"Non preoccuparti per lui",
ripeté Merry. "non preoccuparti di nulla." ma stava parlando di nuovo a sé
stesso.
Boromir era scivolato di
nuovo nel suo mondo crepuscolare, dove né la voce né il tocco lo potevano
raggiungere, e Merry attese. Non aveva più la forza di parlare. Il dolore gli
attanagliava la gola, e le lacrime gli inondavano gli occhi. La terribile attesa
aveva prosciugato il suo coraggio, schiacciandolo, riempiendolo di disperazione.
Aveva promesso di restare, e sarebbe restato, ma non poteva fare nient'altro. La
sua presenza accanto al soldato di Gondor era inutile come la sua spada in un
combattimento. Aveva fallito nell'aiutare Boromir a Parth Galen, solo per
seguirlo lì, attraverso pericoli, battaglie e fuoco, e fallire di nuovo. Se solo
fosse arrivato Pipino! Se solo Gandalf fosse venuto a salvarli!
Un suono di voci echeggiò
nel corridoio, strappando Merry dai suoi pensieri lugubri e facendolo schizzare
in piedi. Per un attimo la speranza gli si accese nel petto, e fece un passo
frettoloso verso la porta. Poi udì la roca, inconfondibile voce di un orco, e il
calpestio di stivali sulla pietra. La speranza si tramutò in terrore, e Merry si
arrestò nel mezzo della stanza, troppo spaventato per muoversi o pensare.
"Gah! Qualcuno ci ha
preceduto!" disse una voce ringhiante. "Tenete pronte le armi, ragazzi!"
Ci fu un forte rumore di
metallo che scivolava su metallo, e i "ragazzi" sfoderarono le spade e i
pugnali. In risposta, Merry estrasse la sua arma e si piazzò tra Boromir e la
porta, con i piedi ben piantati a terra e l'elsa della spada stretta con
entrambe le mani. La porta fu spalancata, e tre orchi si precipitarono nella
stanza.
Erano creature enormi, alte
più del doppio di Merry, tanto da superare anche Boromir e Grampasso. Il loro
capo aveva una spada alta almeno quanto Merry, che brandiva con una facilità
terrificante. Balzò oltre la porta, pronto al combattimento, poi si fermò e
scrutò le tenebre in cerca di nemici nascosti. I suoi occhi si fermarono su
Merry, e sogghignò snudando le sue zanne gialle.
"Guarda qua, Snaga! Ho
trovato un ratto con uno spillo! Hai usato quello per infilzare il verme qua
fuori, piccolo ratto?"
Merry si erse in tutta la
sua altezza, che a stento raggiungeva la cintura dell'orco, e cercò di imitare
il ringhio feroce della creatura. "Sono stato io. E farò lo stesso con te, se
non te ne vai immediatamente!"
L'orco rise. "È un piccolo
ratto coraggioso, in ogni caso. Piantala coi tuoi piagnistei e scansati, prima
che…"
Merry non diede all'orco la
possibilità di finire la sua minaccia. Raccogliendo il coraggio per un ultimo,
disperato attacco, si scagliò contro la creatura con la sua spada, penosamente
piccola, mirando al ventre. L'orco sembrò sorpreso, ma anche così si mosse con
una velocità incredibile. Spinse Merry di lato con la spada, facendolo
inciampare, poi lo sollevò per il collo e lo scosse dolorosamente.
"Getta quell'arnese, o ti
torco il collo".
Merry lasciò cadere la
spada, obbediente. Riusciva a stento a respirare, e certo non poteva resistere
alla tremenda forza dell'orco.
"Bravo il mio piccolo ratto.
Ora comportati bene, e può anche darsi che tu riesca a uscire vivo da Isengard.
Dammi dei guai, e ti taglio la gola. Oppure ti lascerò qui ad annegare".
Rivolgendosi a uno dei suoi
subordinati, l'orco disse, "Prendi questo, Dùrbhak. Potrebbe tornare utile,
quando incontreremo i ragazzi dei Cavalli". Lanciò Merry senza sforzo all'altro
orco, e, con un ringhio d'avvertimento, aggiunse, "Ma se fiata, strozzalo".
Il terzo orco era chino sul
corpo immobile di Boromir. Si girò per chiamare il suo capitano, "Non è questo
quello che vogliamo, Uglùk!"
Il capitano si avvicinò
all'uomo e lo spostò con un calcio. "È questo. Tiralo su, Snaga".
"Avevi detto che era l'altro
che contava. Il gambelunghe".
"Per Saruman, forse. Ma a
noi basta un ostaggio per passare oltre i Cavalieri, e questo qua andrà bene lo
stesso. E poi," Uglùk ebbe un ringhio da lupo, "ho un conto in sospeso col
soldatino".
Snaga sembrò irritato, ma
Uglùk pareva molto soddisfatto di sé. Mandò Snaga nel corridoio a ordinare agli
altri di mettersi in marcia, poi sollevò Boromir gettandoselo su una spalla. Il
peso di un uomo adulto sembrava essere insignificante per l'orco. Aveva ancora
la spada in mano, quando si voltò sogghignando, e uscì dalla porta col suo
carico. Dùrbhak lo seguì tenendo ben stretto Merry.
Nel tunnel, Merry vide più
di una dozzina di orchi che aspettavano, tutti simili a Uglùk per statura e
forza. Erano disposti su due file come soldati addestrati, aspettando l'ordine
di marciare. Uglùk si mise alla testa della colonna e parlò con voce
autoritaria.
"Dunque, ragazzi! Ci
dirigeremo dritti verso il nord della valle e prenderemo il grande tunnel sotto
le mura. Andremo verso le montagne. Restate con me e andrà tutto bene.
Allontanatevi, restate indietro, e vi ritroverete a galleggiare nei sotterranei.
Le caverne più basse sono già allagate, e il livello dell'acqua sta salendo
velocemente, così dobbiamo muoverci. Quando saremo fuori dalle mura, lasciate
parlare me".
Diede un colpetto con la
zampa a Boromir con evidente soddisfazione. "Qui ho il nostro salvacondotto.
Ora, fuori!"
Gli orchi correvano a un
ritmo spaventoso. Sballottato in braccio a Dùrbhak, Merry si stupì della loro
velocità, straordinaria per creature così grandi e apparentemente goffe. Ora
capì come avevano potuto lasciarsi alle spalle i quattro agili cacciatori nella
loro fuga attraverso le pianure. E ora, fuggendo dalle caverne, quella velocità
sarebbe stata loro indispensabile.
L'acqua era ormai dietro di
loro. Barbalbero aveva aperto la diga dell'Isen e inondato Nan Curunìr, e le
acque si alzavano inesorabili. Nei punti in cui il sentiero scendeva più in
basso, gli orchi erano costretti a guadare acque sudice e fosche in cui
sprofondavano fino al ginocchio, e Merry ne sentì più di una volta il disgustoso
tocco sui piedi. Non tentò nemmeno una volta di liberarsi della presa di Dùrbhak
per dare l'allarme. Sapeva che la sua unica speranza di farcela in tempo era di
farsi trasportare dagli orchi. E in quel momento non avrebbe scambiato la
compagnia di Uglùk con quella di nessun altro.
Si fecero strada verso nord
tra le caverne, alzandosi sempre più sopra il livello dell'acqua. Centinaia di
orchi stavano correndo nella stessa direzione, ma la strada davanti a Uglùk era
sempre libera. Nessun abitante di Isengard avrebbe osato ostacolare il cammino
del più temuto capitano di Saruman.
Finalmente entrarono in un
corridoio che si inerpicava ripido verso l'alto. Gli orchi accelerarono,
sentendo la salvezza vicina, e quando spuntarono sotto le mura, in una radura
nella foresta, stavano ansimando per lo sforzo. Uglùk si fermò improvvisamente.
I suoi occhi percorsero la radura, e Merry lo udì ringhiare un avvertimento a
Snaga. Gli altri orchi si affollarono attorno a lui, rumoreggiando confusi per
lo scontento. Le montagne erano davanti a loro, alte nella fredda notte, e la
sicurezza dei cunicoli degli orchi era là davanti a loro. Perché Uglùk non li
lasciava andare?
Merry lo sapeva anche meglio
di Uglùk. Sapeva che cosa si celava dietro le ombre fitte e sinistre che
avvolgevano la foresta. Uglùk lo percepiva, pur non avendo un nome per esso:
sapeva che da quel lato della collina, ripido e roccioso, non avrebbe dovuto
esserci alcuna foresta. Continuò a guardarsi sospettosamente intorno, cercando
di vedere oltre la nebbia con la sua vista acuta.
Per la prima volta da quando
Uglùk lo aveva catturato, Merry parlò. "Non andate negli alberi" gemette, con la
paura che gli rendeva la voce stridula. "Non vi lasceranno passare!"
"Taci, piccolo ratto".
"Non vedi la nebbia?
Significa pericolo mortale!"
"Non mi fanno paura gli
alberi", ringhiò l'orco, portando la mano sulla spada.
"Non sono alberi!" Il panico
si impadronì di Merry quando capì che Uglùk li voleva portare attraverso la
foresta di Ucorni. Gli Ucorni non avrebbero fatto distinzione tra Uomo, Hobbit e
orchi, e tutti sarebbero periti nelle micidiali nebbie. "Odiano gli orchi, e non
si curano degli ostaggi".
"Ti ho detto di tacere!"
Rivolgendosi ai soldati Uglùk disse, "Questi alberi non dovrebbero essere qui,
ragazzi, ma a noi non importa! Le montagne sono da quella parte, ed è là che
andremo! Chi di voi ha un'ascia stia pronto. Il resto, state allegri e non
perdete la testa!"
"No!" Merry cominciò a
dimenarsi e a combattere per liberarsi, gridando a pieni polmoni.
"No! Vi prego!! Non
portateci laggiù!" E poi disperato, gridò, "Aiuto!! Aiuto!! Siamo qui! Aiuto!!"
Hum, hah. Hurah hum.
La tromba risuonò in lontananza tra gli alberi, e, sebbene il suonatore fosse
nascosto dall'ombra e dall'oscurità, Merry riconobbe la sua voce profonda, e
un'improvvisa gioia lo invase.
"Barbalbero!" gridò. Dùrbhak
gli mise una mano sulla bocca per farlo stare zitto, ma Merry gli diede un
morso. L'orco aveva un sapore orribile e la sua pelle sembrava cuoio mal
conciato.
"Quaggiù! Siamo qui!!"
"Fate tacere quel ratto, o
uccidetelo!" disse Uglùk infuriato.
Ma nessuno degli orchi
prestava attenzione alle urla e alle proteste dello hobbit. Tutti gli occhi
erano puntati verso le nebbie, nella direzione da cui veniva la voce che
sembrava scuotere le pietre. Uglùk imprecò a bassa voce e gettò la spada.
Scrollando le spalle, lasciò cadere Boromir al suolo, poi si fermò e sollevò
l'uomo di peso contro il proprio petto, sostenendolo con un braccio. Con la mano
libera estrasse il pugnale e con la lama sollevò il mento di Boromir, spingendo
la testa dell'uomo all'indietro, nell'incavo della sua spalla.
L'Ent arrivò a grandi passi
nella radura, materializzandosi improvvisamente dalle nebbie della tetra
foresta, e gli orchi indietreggiarono pieni di paura. Solo Uglùk restò dov'era,
e mentre i grandi occhi verdi e profondi lo studiavano, premette la lama del
coltello contro la gola di Boromir, con un sorriso crudele.
"Io sono Uglùk, capitano dei
guerrieri Uruk-hai. Sta' indietro, demone-albero, o l'uomo morirà ".
"Hum hum, che cosa
abbiamo qui? Orchi, è così?" Barbalbero emise un profondo burarùm di
disgusto, e guardò Merry pensierosamente. "Mi era parso di sentire la tua voce,
Merry."
"Ci hanno trovato nei
sotterranei e ci hanno presi in ostaggio. Ti prego, Barbalbero, non lasciare che
ci portino nella foresta! Gli Ucorni…"
"Calma". Barbalbero lo
interruppe con una sola, rombante parola. Quando Merry tacque, si rivolse
nuovamente all'orco.
"Non puoi lasciare questa
radura vivo, orco. Consegnaci l'uomo e lo hobbit, e ritorna dal tuo padrone a
Isengard. Forse lui sarà clemente con voi. Io non lo sarò".
Uglùk fece scorrere lo
sguardo attorno la radura con intenzione. "Ho una dozzina di soldati forti,
armati di asce e spade. Dov'è l’esercito col quale vorresti minacciarmi?"
"Tutto attorno a te. Guarda
gli alberi che hai mutilato e massacrato, e vedrai il mio esercito. L'hobbit
dice il vero. Non potete passare vivi attraverso la foresta".
Uglùk si agitò nervosamente
e guardò l'oscuro muro di alberi che lo circondava. Aveva sentito che c'era
qualcosa che non andava in quella foresta fin da quando vi aveva messo piede, e
non dubitava delle parole di Barbalbero. Sentiva il fiato gelido della morte
soffiargli sul collo.
"Sono solo alberi,"
insistette. "Ne ho abbattuti a centinaia come quelli".
"Non ne dubito. Ecco perché
stanotte tu morirai in mezzo a loro".
L'orco si inumidì le labbra
nervosamente. "Loro rispondono ai tuoi ordini? Se tu…se tu ci dai il permesso di
passare, potremo farlo indisturbati?"
"Se io vi do il permesso, ma
non lo farò”.
"Nemmeno per la vita di
questo piccolo ratto, qui, a cui sembri tenere così tanto?" Disse, indicando con
un cenno Merry.
"Hm hum." Barbalbero
osservò l'orco per un momento, considerando le sue parole.
"La vita dello hobbit per un
salvacondotto fino alle montagne".
"No!" Esclamò Merry. "Io
andrò con Boromir! Se prendono lui, prendono anche me!"
Barbalbero volse i suoi
occhi senza fondo su Merry, e allo hobbit parve di vedere una risata nella loro
profondità scintillante. "Sembra che io non abbia scelta. L'hobbit ha deciso per
tutti noi".
"E se…" Uglùk esitò,
riluttante a dire le parole che sapeva doveva dire. "…se vi consegno anche
l'uomo?"
"Hum, ora…questa è
un'altra cosa. Tutta un'altra cosa".
Ora fu la volta dell'Ent di
meditare e di ponderare una difficile scelta. Il suo sguardo si spostò dall'orco
all'uomo e poi allo hobbit, e rombò per lo scontento. Infine, sollevò lo sguardo
solenne su Uglùk e disse, "Siamo d'accordo. Consegnateci i prigionieri e le
asce, e né Ent né Ucorni vi faranno del male questa notte".
"Come può un Uruk-hai
fidarsi della parola di un demone-albero?"
Barbalbero emise un
minaccioso Hum hum e sembrò improvvisamente diventare più alto
nell'oscurità.
"Io, Fangorn, capo degli Ent,
Pastore degli alberi, la più antica di tutte le creature viventi che camminano
sulla Terra di Mezzo, non tollererò insulti da un…buràrum…da un
ripugnante orco. Se do la mia parola la mantengo, ma guai alla creatura che
viene meno ai suoi patti con me".
Uglùk lo fissava con
evidente terrore, ma non avrebbe mai ammesso la sua paura. Con un cenno secco
del capo, ordinò alla sua truppa di gettare le armi. Le pesanti asce caddero
rumorosamente ai piedi di Barbalbero. Poi ordinò a Durbhàk di lasciare andare
Merry.
L'orco lo lasciò come se
fosse stato un tizzone ardente, e Merry corse attraverso la radura per mettersi
al riparo sotto i rami di Barbalbero. Si strinse al tronco dell'Ent guardando
gli orchi con la paura che gli attanagliava la gola.
"Ora l'uomo", disse
Barbalbero.
"Solo quando vedrò il
sentiero libero davanti a me".
In risposta, Barbalbero
sollevò le mani alla bocca e fece echeggiare un richiamo attraverso gli alberi.
Merry non vide gli Ucorni muoversi. Erano troppo ben nascosti nella nebbia e tra
le ombre della notte. Ma udì il loro fruscio come di foglie mosse da un forte
vento, e vide la nebbia volteggiare e muoversi al loro passaggio. Lentamente,
comparì un buio sentiero. Si dirigeva a nord, stretto tra gli alberi, verso i
piedi delle montagne e la salvezza degli orchi.
Uglùk continuò ad osservare,
cercando una qualche trappola, ma vide solo il sentiero buio, gli alberi ai
lati, e la fredda nebbia che li avvolgeva. Con un cenno di approvazione, abbassò
il pugnale.
"Passaggio sicuro".
"Solo per questa notte. Se
tu o chiunque altro della tua razza rimettete piede nella valle dello stregone,
incontrerete il destino che avete scampato stanotte".
Uglùk annuì di nuovo, e
lasciò la presa su Boromir. L'uomo cadde inerte sull'erba ai suoi piedi. Poi,
con sorpresa di Merry, l'orco rivolse a Barbalbero un saluto, e condusse la sua
truppa tra gli alberi. L'oscurità li avvolse, e Uglùk scomparve.
*** *** ***
Merry sedeva accanto
all'uomo disteso a terra come aveva fatto nel sotterraneo di Isengard, immobile,
vigilante, piangendo silenziosamente. Non si muoveva, se non per passare lo
straccio sulle labbra di Boromir, pulendole dal sangue che di tanto in tanto gli
sgorgava dalla bocca. Non faceva caso alle lacrime che gli bagnavano le guance
sporche.
Nelle oscure ore trascorse
nella fortezza di Saruman, Merry aveva ingenuamente pensato che il salvataggio
dei suoi amici avrebbe posto fine al tormento dell'attesa. Aveva pregato che
Gandalf e gli altri arrivassero, per portare al sicuro i prigionieri e mettere
fine all'orrore. Non aveva pensato, nella sua innocenza, che l'orrore era appena
cominciato, e che il salvataggio era solo il primo passo di una lunga, faticosa
strada. Solo ora si rendeva conto del suo errore.
Barbalbero li aveva lasciati
in quel luogo solitario, lontani dalla battaglia, e poi era sparito di nuovo
gettandosi in mezzo alla marea di Ent, Uomini, Cavalli e orchi che si muovevano
e gridavano attorno alle mura di Orthanc. Quanti minuti o ore fossero trascorsi
da quel momento Merry non lo avrebbe saputo dire. Il tempo si trascinava
indistinto, e per misurarlo non aveva che il battito affannoso del suo cuore, e
i mormorii sconnessi e sofferenti dell'amico.
Boromir si mosse di nuovo,
tossendo. In mezzo a una boccata di sangue sussurrò un nome familiare.
"Aragorn…"
Era l'unica parola che Merry
era riuscito a riconoscere in mezzo ai suoi deliranti mormorii. L'hobbit avrebbe
desiderato dal più profondo del cuore che il Ramingo fosse lì per
tranquillizzare Boromir, ma non sapeva dove fosse. Tutto ciò che sapeva lo aveva
udito da Barbalbero, che per ingannare gli orchi aveva detto che Aragorn era
vivo e che era uscito dai sotterranei. Ma Merry non poteva né portarlo da
Boromir, né alleviare il dolore che tormentava il suo amico o curare le sue
orribili ferite. L'unica cosa che poteva fare era offrirgli un poco di conforto
nella notte solitaria.
Come aveva già fatto
innumerevoli volte, Merry si chinò su Boromir e disse, "Aragorn è al sicuro".
Asciugò un altro rivolo di sangue, mormorando, "Non temere, lui è qui. È al
sicuro, te lo prometto".
Merry era così intento al
suo compito che non si accorse della piccola figura che correva rumorosamente
verso di lui. Era curvo su Boromir, e gli parlava con voce sommessa, quando
improvvisamente qualcosa lo investì e lo fece rotolare di lato. Il momento
successivo si trovò sdraiato nell'erba, guardando il viso sorridente di Pipino.
"Merry! Merry, vecchio mio!
Ti ho cercato dappertutto!"
"Pipino!" Merry si rialzò
faticosamente abbracciando il cugino, mentre entrambi piangevano senza vergogna.
"Allora è proprio vero! Ce l'hai fatta!"
"Tutti ce l'abbiamo fatta!
Anche se, non posso negarlo, ho avuto i miei dubbi. Se Éomer non mi avesse
portato per l'ultimo tratto, avrei dovuto farlo a nuoto!" La luce svanì dai suoi
occhi, e aggiunse, in tono grave, "Quando abbiamo trovato la cella vuota, ho
pensato…"
"Anch'io l'ho pensato".
Merry sorrise mestamente. "Ma non parliamo di questo, ora".
"Ecco". Pipino frugò tra le
pieghe del suo mantello ed estrasse un oggetto familiare, che gettò tra le mani
di Merry. "L'ho trovata sul pavimento e ho pensato che avresti potuto averne
ancora bisogno. O almeno lo speravo".
"Grazie Pip". Merry strinse
al petto la spada scintillante, pieno di gratitudine e sollievo. Non si era
accorto di quanto fosse importante quella spada per lui fino a quando non
l'aveva creduta perduta per sempre. "Grazie".
In quel momento, Gandalf
arrivò a grandi passi, inginocchiandosi accanto a Boromir. Lanciò un veloce
sguardo a Merry e gli sorrise.
"Ben trovato, Mastro
Brandibuck. E ben fatto!"
Merry si sentì arrossire,
grato di essere nascosto dall’oscurità. "Come sta Grampasso?" chiese.
"Si riprenderà in fretta. Le
sue ferite erano più della mente che del corpo, temo, il che significa che la
guarigione sarà lunga. Ma il suo corpo guarirà presto".
"E…e Boromir?"
Gandalf guardò l'uomo
davanti a lui con occhi stanchi, velati. "Aiutami ora, Mastro Brandibuck, e
vedremo".
Seguendo le istruzioni di
Gandalf, Merry sollevò Boromir per le spalle e lo fece coricare sulla schiena.
Lo hobbit cercò di ignorare i visibili tremiti di dolore che scuotevano il corpo
dell'uomo, e i deboli suoni agonizzanti che uscivano dalla sua gola insieme al
sangue, ma, quando lo stregone gli disse di restare fermo, le lacrime avevano
ripreso a bagnargli il viso copiose. Merry si accovacciò accanto a Boromir,
sostenendogli la testa, mentre Gandalf gli posava una mano sulla fronte e
l'altra sul petto. Un senso di attesa silenziosa riempì l'aria, e Merry non
osava guardare il viso di Gandalf per paura di leggervi la conferma dei suoi
timori.
Finalmente, lo stregone
diede un lungo sospiro, e sollevò gli occhi opachi per la stanchezza e il
dolore, incontrando lo sguardo di Merry.
"Saruman è cresciuto molto
in malvagità…più di quanto credessi".
"Ti prego, Gandalf…"
"Usare uomini valorosi per i
suoi scopi malvagi. Distruggerne uno per tormentare l'altro. Infliggere
sofferenza per la sola gioia di vedere il dolore nel viso di un'altra creatura.
È la più orribile corruzione dello spirito".
"Deve pur esserci qualcosa
che tu possa fare", implorò Merry.
"C'è sempre qualcosa che io
posso fare," rispose, con la sua solita asprezza. "Non temere, Merry. Non vedo
ferite mortali. Un po' dell'elisir curativo di Barbalbero, un mantello per
tenerlo caldo…"
"Ma…"
"Tienigli la testa. Gli
faremo bere un po' di questo. Gli Ent giurano che sarebbe in grado di fare
rivivere persino un albero fatto a pezzi dalle asce degli orchi".
Mentre parlava, Gandalf aprì
una piccola fiaschetta di legno e versò un chiaro liquido nella bocca di
Boromir. L'uomo tossì, mandando la maggior parte del liquido a scorrere lungo il
suo mento, ma riuscì a inghiottirne a sufficienza da soddisfare il mago. Poi,
con mani sorprendentemente abili e gentili, Gandalf gli fece appoggiare la testa
sul giaciglio, e sfiorò con le dita la benda livida che gli copriva gli occhi.
"Riposa, ora, figlio di
Gondor. Non pensare più a spade, battaglie e sotterranei. Riposa, e guarisci".
Merry chinò la testa per
nascondere le sue lacrime allo stregone.
Con sua sorpresa, Gandalf
non accennò ad andarsene, anche ora che il suo compito immediato era finito.
Rimase chinato davanti a Merry, con Boromir che giaceva tra loro, e posò una
mano sulla spalla di Merry.
"Cosa c'è, Merry?"
"Stavo pensando".
"A che cosa?"
"A Boromir e a Grampasso e…a
quello che hanno fatto a Boromir". Deglutì per sciogliere il nodo che aveva in
gola, poi continuò, "Volevano Grampasso. Lo sapevi questo? Ho sentito gli orchi
che ne parlavano. Saruman voleva Grampasso, così li ha catturati entrambi e ha
torturato Boromir costringendo Aragorn a guardare. E gli altri - Legolas e Gimli
- loro piangevano per Grampasso, mentre venivamo qui. Hanno attraversato la
foresta per lui, combattuto per lui, portato i Cavalieri e gli Ent, tutto
questo, per Grampasso.
Ma quando gli orchi sono
arrivati, è stato Boromir a combattere per noi. Quando è crollato il ponte di
Moria lui ci ha sollevati e ha saltato con noi oltre l'abisso. Quando la valanga
ci ha investiti…"
"Merry, nessuno di noi
dubita del coraggio di Boromir. Noi tutti lo teniamo in grande considerazione, e
vorremmo che si potesse cancellare ciò che è stato fatto".
"Forse. Ma per voi lui è
semplicemente il Sovrintendente di Aragorn, il figlio di Denethor, il soldato di
Gondor, sempre secondo a qualcosa o a qualcuno". Merry guardò Gandalf con occhi
furiosi, pieni di lacrime. "Non per me, Gandalf. Forse non sarà un re, ma è il
migliore uomo che io conosca, ed è mio amico, e non è secondo a nessuno".
"So come ti senti, e ti
ammiro per questo". Merry non rispose, ma abbassò gli occhi per nascondere il
suo dolore. Gandalf gli strinse la spalla, con calore. "Hai il cuore di un eroe,
Mastro Brandibuck".
"Non sono un eroe", mormorò,
asciugandosi il naso con la manica, "Sono soltanto uno hobbit. E noi hobbit
restiamo fedeli agli amici".
"Soltanto uno hobbit".
Gandalf rise tra sé e sé. "Soltanto uno hobbit. Oh mio buon Merry. Vorrei che la
stessa cosa si potesse dire di tutti noi".
Stringendo un'ultima volta
la spalla di Merry, si alzò in piedi e si tolse il suo lungo mantello, poi lo
usò per coprire Boromir.
"C'è una battaglia da
vincere questa notte, e un serpente in trappola a cui bisogna strappare i denti.
Devo andare. Ma i Rohirrim stanno raccogliendo i loro feriti per riportarli a
Edoras, e voi dovete andare con loro. Resta con Boromir e Grampasso, guarda che
siano ben assistiti, e se tutto va bene, ci rincontreremo nel Palazzo d'Oro di
Re Thèoden".
Merry si alzò in piedi
rigidamente e abbracciò Pipino, congedandosi. Poi restò a guardare mentre lo
stregone e il piccolo hobbit si allontanavano insieme. Verso la guerra. Con un
profondo sospiro di stanchezza, Merry si lasciò cadere sull'erba e si
raggomitolò per proteggersi dal freddo. I suoi occhi vagavano verso est, lungo
il rilievo che segnava la fine delle Montagne Nebbiose. Il cielo sopra di esse
era pallido, e si schiariva sotto i suoi occhi, e a quella vista il cuore di
Merry si allietò.
Boromir si ritrasse dal tocco
freddo del metallo sulle sue labbra. Non voleva bere. C'era una voce che
disturbava il suo riposo e mani che gli sostenevano la testa, portandogli una
coppa alle labbra, impedendogli di muoversi. Nel sonno era protetto dal dolore,
dalla frustrazione. Avrebbe voluto continuare a dormire per sempre, ma la voce
non glielo permetteva. E ora era sveglio contro la sua volontà, e veniva
trattato come un bambino malato. La sua volontà veniva ignorata, e il suo senso
di impotenza cresceva ad ogni momento.
“Bevi, poi potrai riposare”.
Sollevò una mano per
rifiutare l’offerta. Sentiva il sapore acre del sangue in bocca, e, con voce
impastata per la sete, mormorò, “Aragorn”.
“Non preoccuparti per
Aragorn”, rispose la voce.
La coppa fu avvicinata alle
sue labbra, nonostante tutti suoi sforzi per evitarla, e l'acqua fu versata
nella sua bocca. Deglutì solo perché non aveva scelta, notando distrattamente il
sollievo che il liquido recava alla sua gola riarsa, lavando via il sapore del
sangue.
“Trovatelo…” riprese, quando
fu di nuovo in grado di parlare, “devo trovare Aragorn”.
“Aragorn è salvo. Non
pensare a lui, ora. Devi riposare”.
La voce parlava con un tono
calmo, rassicurante, come se dicesse parole già ripetute innumerevoli volte a
qualcuno che non le poteva sentire né comprendere. Quella calma non faceva che
irritare Boromir ancora di più.
La rabbia gli diede una nuova
forza, e quando la coppa toccò di nuovo le sue labbra, spinse da parte la mano
che la reggeva, ringhiando, “Lascia stare!”
Ci fu un momento di silenzio,
e Boromir ebbe l’impressione di avere spaventato il suo interlocutore. La mano
scivolò via da sotto la sua testa. La coppa fu posata con un chiaro tintinnio
metallico.
Approfittando di quel
momentaneo vantaggio, Boromir si alzò su un gomito, domandando, “Dov’è? Dov’è
Aragorn? E…dove mi trovo?”
“Boromir?”
La voce aveva perduto tutta
la sua calma. Ora vi era in essa qualcosa di simile al panico, e Boromir ebbe
l’improvvisa e sconcertante sensazione che avrebbe dovuto riconoscerla.
“Boromir? Sei davvero
sveglio stavolta?”
“Sì”.
Cercò di alzarsi, ma il suo
braccio era stranamente debole, e per poco non cedette sotto il suo peso, mentre
la testa cominciò a giragli in modo allarmante. Piccole mani lo afferrarono per
le spalle e lo raddrizzarono, tenendolo fermo. Boromir corrugò la fronte,
cercando di capire dove si trovava e di collegare un nome a quella voce così
misteriosamente familiare.
“Sono sveglio. Oppure…questo
non è un sogno, vero? Sono davvero in un…” si guardò attorno, come aspettandosi
di vedere attraverso la benda che gli copriva gli occhi, e poi aggrottò la
fronte, confuso. “…in un letto?”
“Non è un sogno, e tu sei
davvero in un letto”. La voce rise brevemente, ma Boromir poté sentire che era
una risata resa aspra dalle lacrime.
“Sei a Edoras, nella casa di
Re Théoden”.
Boromir toccò il fine tessuto
della sua camicia, poi sollevò la mano per sfiorare la benda. Era pulita e
soffice, non più incrostata di sangue e di sporcizia.
“Questa non è Orthanc”,
mormorò la voce, “te lo giuro. Sei al sicuro a Edoras, e anche Grampasso è in
salvo”.
Quel nome fece scattare
qualcosa nella sua mente, e Boromir cominciò a capire. Senza pensare, posò la
mano su quella del suo interlocutore, mentre stupore e incredulità si
alternavano sul suo viso.
“Merry?” Le sue dita si
chiusero attorno alla piccola mano che gli afferrava il braccio, e a quel
contatto, seppe che non si sbagliava.
“Merry! Sei vivo!”
Merry singhiozzò, e baciò il
dorso della mano di Boromir.
“No, Merry, non farlo!”
protestò Boromir.
In risposta, Merry afferrò
ancora più forte la mano tra le sue, stringendola al suo petto. Boromir sentì i
singhiozzi che scuotevano il piccolo hobbit e le lacrime che gli cadevano sulla
mano. La sorpresa cedette il posto alla compassione. “Perché piangi?” domandò
dolcemente.
“Sono così felice di sentirti
pronunciare ancora il mio nome, che è come una lama conficcata nel cuore. Non
sapevo che la gioia potesse fare tanto male”.
Boromir aprì la bocca per
parlare, ma non trovò le parole. Ammutolito per lo stupore e l’imbarazzo,
sentiva un profondo e insolito senso di gratitudine crescere in lui. Esitando,
posò l’altra mano sulla testa di Merry. Sentì i suoi folti riccioli sotto le
dita, e per un attimo gli sembrò di rivedere la sua testa arruffata davanti a
lui, mentre si arrampicavano insieme lungo una ripida montagna.
“Sono io che sono felice di
sentire la tua voce, piccoletto,” mormorò.
“Ti ho creduto perduto ad
Amon Hen. Come puoi essere qui?”
Merry sollevò la testa, e
tirò su col naso in modo piuttosto prosaico.
“Ti abbiamo seguito. Abbiamo
dato la caccia agli orchi attraverso Rohan, fino a Isengard. Non potevo…non
potevo lasciarti morire, sapendo che eravamo fuggiti, che ti avevamo
abbandonato. Per come la vedo, io e Pipino te lo dovevamo”.
Boromir sorrise a quell’ultima
osservazione.
“Allora anche Pipino è qui?”
“Era qui. Ora è andato a
Minas Tirith con Gandalf”.
Ancora una volta la sorpresa
fece restare Boromir senza parole. Doveva apparire piuttosto ridicolo, a bocca
aperta davanti allo hobbit, poiché Merry ridacchiò e disse, col tono più
indifferente del mondo, “Ho dimenticato di dirti che Gandalf è vivo?”
Boromir richiuse di scatto la
bocca, e gentilmente, ma con fermezza, rimosse la sua mano dalla stretta di
Merry. “Non scherzare con me, mezzuomo. Non sono nelle condizioni giuste per i
tuoi scherzi”.
“Non è uno scherzo”, assicurò
Merry, con serietà, “non scherzerei mai su una cosa del genere. È solo che
sembravi così…così…”
“Ridicolo?”
“Colto di sorpresa”.
Boromir sorrise, sentendo di
nuovo il calore e l’allegria che gli hobbit portavano ovunque con loro. Persino
ora, dopo tutto quello che era accaduto, non poteva ascoltare le facezie di
Merry senza immaginarsi la scintilla giocosa nei suoi occhi, e improvvisamente
gli venne voglia di ridere.
“Non ho capito nulla di tutto
ciò”, disse, “E comincio a pensare che la ragione mi abbia abbandonato. Ma sono
grato che tu sia qui con me, Merry. Più grato di quanto non possa esprimere!”
“E dove altro potrei essere?”
Chiese Merry, con la voce ancora rauca per il pianto.
“Sulla via per Mordor, con
Frodo. Oppure anche lui è qui?” Mentre ancora parlava, Boromir provò un brivido
di colpevole eccitazione al pensiero che l’Anello potesse essere ancora vicino a
lui. Eccitazione che fu subito seguita dal consueto senso di profonda vergogna.
“Frodo è andato a Mordor”.
“Da solo?”
“Sam è andato con lui”.
“Loro due soli. Due hobbit
nella Terra Oscura da soli”.
“Frodo ha voluto così”.
Boromir scosse la testa
lentamente, sperando che ciò che aveva sentito non fosse vero, e desiderò
tornare in dietro a quel fatidico giorno, accanto al Grande Fiume, per annullare
la sua terribile azione. Provava rimorso per il suo tradimento, che aveva
portato Frodo ad abbandonare la Compagnia e a proseguire da solo senza guida e
difensori, provava vergogna per quel desiderio persistente che ancora gli
avvelenava il cuore, e disperazione per la rovina che sarebbe venuta, quando il
Nemico avrebbe ripreso ciò che era suo.
“Non era quello che voleva”,
disse Boromir, cupo.
“Io l’ho visto partire,
Boromir. Ha scelto lui di andarsene”.
Raccogliendo tutto il suo
coraggio, Boromir sollevò il mento con orgoglio, e disse la verità senza mezzi
termini, preparandosi ad affrontare il disprezzo dello hobbit.
“Sono stato io a costringerlo
a quella scelta. Ho cercato di prendere l’Anello”.
Per un lungo momento Merry
non disse nulla, e Boromir sentì la paura attanagliargli le viscere. Soltanto
due settimane prima non avrebbe creduto possibile temere a tal punto di perdere
la fiducia e l’affetto di Merry, ma ora, con solo la sua voce e le sue piccole
mani tra lui e la vasta oscurità, trovava il pensiero quasi insopportabile.
Eppure non avrebbe taciuto la verità, non avrebbe aggiunto la menzogna o la
codardia alla lista delle sue colpe.
Quando Merry finalmente
parlò, sembrava triste, più che indignato.
“Non gli hai fatto del male,
vero?”
“No, non l’ho fatto. Ma se lo
avessi preso…”
“Non l’hai fatto. Io so che
tu non avresti potuto fargli del male”.
“Merry, io ho attaccato il
tuo amico, ho tradito la Compagnia, ho cercato di prendere l’Anello con la
forza. Non puoi sapere che cos’altro potrei avere fatto”.
Una mano si strinse attorno
al suo avambraccio, interrompendo la sua protesta, e la voce di Merry lo
raggiunse, bassa e ruvida per il dolore, ma piena di sicurezza.
“Non pretendo di capire il
potere dell’Anello, Boromir, ma di questo sono sicuro. Tu ci hai protetti,
difesi, e ti sei preso cura di noi fin dal giorno in cui ci siamo incontrati. Ho
perso il conto di tutte le volte che tu ti sei messo in mezzo tra me e la morte.
Non crederò mai che tu ci possa tradire o fare del male volontariamente”.
“Eppure l’ho fatto, e non
posso dare la colpa solo all’Anello. È il mio cuore che è stato spinto
alla violenza e al tradimento. Mio è il peso della colpa”.
Merry tacque un istante, poi
disse, semplicemente, “E mia è la scelta di perdonare l’errore di un amico”.
Boromir chinò la testa per
sottrarsi agli occhi di Merry. Non riusciva a capire perché i suoi compagni
potessero perdonarlo - prima Aragorn, e ora Merry - ma durante gli ultimi
giorni, dopo essere passato attraverso tante prove e sofferenze, aveva capito
quanto fosse importante per lui la loro amicizia, e quanto tenesse al loro
perdono. E in quel momento di limpida felicità, gli sembrò quasi di essere di
nuovo integro, guarito, sia nel corpo che nello spirito, semplicemente grazie
all’affetto di uno hobbit.
“Sembra che tu stia per
svenire”, disse Merry.
Boromir scosse la testa.
“Faresti meglio a sdraiarti.
Non avrei dovuto tenerti alzato a parlare così a lungo”.
“Merry, io…”
“No. Entrambi abbiamo detto
anche troppo”. Strinse il braccio di Boromir per scusarsi, poi, allegramente,
continuò, “Se non ti comporti bene, mi accuseranno di farti stancare e mi
bandiranno dalla tua stanza. E allora chi sarà qui per sopportare il tuo
caratteraccio?”
“Sono stato così terribile?”
chiese Boromir remissivamente, lasciandosi scivolare di nuovo sul cuscino,
obbedendo al suggerimento di Merry.
“Una maledetta seccatura”.
Boromir si lasciò sfuggire un
sorriso ironico. “Povero Merry. Se ti prometto di comportarmi bene, resterai
qui a parlare con me?”
“Non hai già parlato
abbastanza per oggi?”
“No, voglio sapere tutto
quello che è successo da quando siamo stati catturati dagli orchi. Evidentemente
devo essermi perso un bel po’”.
“Sei stanco, e…”
“Non sono stanco”, mentì “e
non dormirò finché non saprò tutta la storia”.
Rassegnato, Merry sospirò e
si sedette sul bordo del letto. “D’accordo allora, se ti farà stare tranquillo”.
Il racconto fu lungo. Merry
sedeva a gambe incrociate sul letto, con la mano di Boromir posata sul ginocchio
in un gesto di fiducia che gli aveva fatto venire le lacrime agli occhi, e parlò
fino a quando la voce non gli divenne roca. Boromir rimase tranquillo, anche
durante i momenti peggiori, e Merry traeva coraggio dalla sua apparente calma.
L’orrore, il dolore e la paura che aveva provato erano ancora freschi nella sua
mente, ma uno sguardo al viso di Boromir gli ricordò il perché li aveva
sopportati e cosa era riuscito a fare.
Scoprì che raccontare
alleviava in parte la sua angoscia, ma scoprì anche che molte cose non riusciva
affatto a condividerle. Non disse nulla del senso di colpa che lo aveva
tormentato per tutto il lungo, infruttuoso inseguimento attraverso Rohan, e
sorvolò sull’orrore della sua veglia solitaria nella cella di Boromir,
sforzandosi di ridere e negando i ringraziamenti di Boromir.
Non gli sembrava più
necessario parlare di queste cose, ora che Boromir era stato trovato e salvato
da Isengard. L’unica cosa che restava, l’unica cosa che rimaneva, era la
promessa che aveva fatto a se stesso e al suo amico.
Quando fosse venuto il
momento, avrebbe parlato a Boromir di quella promessa, ma non ancora. Non finché
il soldato, ancora debole per le sue ferite, l’avesse potuta accettare come un
gesto d’amore e di rispetto, invece che di pietà.
Anche di Pipino e del
palantìr non disse nulla. Spettava a Pipino raccontare quella storia, o non
raccontarla, se meglio credeva. E, sorvolando su quella parte della storia, fu
lieto che Boromir non chiedesse il motivo per cui Pipino era andato a Minas
Tirith con Gandalf invece che restare coi suoi compagni.
Stranamente, dopo tutti i
pericoli e le difficoltà che aveva superato, era di Théoden che Merry parlava
più a fatica. Quando tentò di parlare a Boromir della sua amicizia con l’anziano
sovrano e del voto di fedeltà che gli aveva fatto, le parole gli morirono in
gola. Pensò al sorriso gentile di Théoden, alla sua generosità verso un hobbit
solo e spaventato, e provò una fitta di rimorso. Perché per quanto lo volesse,
Merry non poteva negare che ora rimpiangeva il suo voto.
Lo aveva fatto nelle
profondità della solitudine e della disperazione, quando temeva che tutti i suoi
sforzi fossero stati vani, quando Pipino se ne era andato e Boromir era perso in
un sogno oscuro che sembrava volesse tenerlo prigioniero per sempre. Merry aveva
seduto, sconsolato, alla tavola del re, ascoltando i soldati che parlavano di
una guerra che lui non avrebbe potuto combattere, e aveva avuto un brivido,
pensando che Pipino era andato verso il cuore dell’oscurità e che presto anche
Aragorn lo avrebbe seguito. Théoden gli aveva messo un amano sulla spalla,
sorridendo, e gli aveva chiesto di parlare della Contea per rallegrare gli
animi. E Merry aveva pianto per la sua inaspettata gentilezza.
Avevano seduto per ore
insieme - lo hobbit e il re - parlando di molte cose. La Contea, l’erbapipa, i
giardini, e la cultura degli hobbit. Per un po’ Merry aveva dimenticato le pene
che lo affliggevano. E quando Théoden gli aveva messo una mano sulla testa e gli
aveva sorriso, Merry aveva pensato che non avrebbe potuto fare cosa migliore che
offrirsi come scudiero al re. E quel che era peggio, era che ora avrebbe voluto
ritirare quel giuramento e offrirlo a un altro, che ne aveva tanto poco bisogno
quanto il primo.
Inciampando nelle sue parole,
si stava perdendo in un contorto tentativo di spiegare le ragioni per quello che
aveva fatto, quando Boromir lo interruppe.
“Hai una grande stima per il
Signore del Mark”, disse.
“Lui…mi ha parlato con
gentilezza. Mi ha offerto un seggio accanto a lui alla sua tavola e ha ascoltato
i miei racconti sulla Contea. Non avevo mai incontrato un re, prima…”
“Eccetto Aragorn”.
“Re Théoden è diverso. È come
un anziano padre gentile”.
Esitò, poi aggiunse, “Sono
suo servitore. Gli ho giurato fedeltà, a lui e al Mark”.
Boromir rispose, con serietà,
“Théoden è un uomo buono e valoroso, un saggio governante, e un amico leale. Non
avresti potuto scegliere signore migliore da servire”.
Il viso di Merry si
imporporò, e chinò la testa, mormorando, “Sono orgoglioso di indossare l’insegna
del cavallo bianco di Rohan, ma avrei preferito che fosse l’Albero Bianco di
Gondor. Se avessi saputo…se avessi pensato…” deglutì con difficoltà e mormorò,
“Preferirei essere tuo scudiero, invece che del re”.
Boromir rimase in silenzio
per un po’, meditando le sue parole, poi parlò, molto tranquillamente.
“Ne sarei onorato, Merry, ma
ora non ho alcun bisogno di vassalli”.
“Quando tornerai a Minas
Tirith, non sarai Sovrintendente?”
“Un giorno. Forse. Se mai
rivedrò Minas Tirith di nuovo”.
“Aragorn ti manderà a
chiamare, quando la città sarà sicura. L’ho sentito mentre lo diceva a Théoden”.
“Lui farà cosa?” Nella
voce di Boromir c’era un tono che colse Merry alla sprovvista.
“Ti lascerà qui, alle cure di
Rohan, finché non avrà portato il suo esercito a Minas Tirith e scacciato il
nemico dalle terre di Gondor. Poi tu arriverai e lo aiuterai a progettare per
bene la guerra. Théoden aveva suggerito che tu restassi qui fino a quando la
guerra non sarà vinta, ma Aragorn ha fatto notare che…beh, è molto probabile che
la guerra non sarà vinta, e che avrà bisogno di tutto l’aiuto possibile,
specialmente da parte del Capitano-Generale di Gondor, se dobbiamo resistere a
lungo contro Mordor…Boromir, che cosa stai facendo?”
Boromir si alzò a sedere e
spinse indietro le coperte. “Che esercito condurrà? E quando partiranno per
Minas Tirith?”
“Non sono sicuro. Hanno detto
un mucchio di cose senza senso riguardo a vecchi poemi e voti spezzati
e…qualcosa chiamato Sentieri dei Morti. Ha i suoi Raminghi con lui, e i figli di
Elrond. Evidentemente pensano che dovrà andare per questi sentieri o arriverà a
Minas Tirith troppo tardi per la battaglia”.
Stette a guardare, mentre
Boromir gettava via le coperte e scendeva dal letto.
“Non vorrai andare a cercare
Aragorn!”, gridò.
“Invece sì”.
“Devi restare a letto e
riposare. Gandalf è stato inflessibile”.
“Gandalf non è qui, e io non
sono soggetto ai suoi ordini. Hai intenzione di portarmi da Aragorn, oppure devo
vagare per Meduseld da solo fino a quando non gli inciampo addosso?”
Merry sospirò e scese dal
letto. Avrebbe dovuto stare più attento a quello che diceva, ma era ormai troppo
tardi.
“Lascia almeno che ti trovi
dei vestiti”, disse mestamente. “Non puoi andare a chiedere di farti uccidere in
camicia da notte”.
*** *** ***
Aragorn era seduto sul letto,
appoggiato a un mucchio di cuscini, flettendo con cautela la sua gamba ferita.
Gli doleva terribilmente, e la debolezza dei muscoli danneggiati lo preoccupava,
poiché sapeva che il giorno dopo avrebbe dovuto essere in grado di cavalcare. Ma
non era né il dolore né la preoccupazione a causare l’espressione accigliata del
suo viso.
“Sarai pronto, Aragorn, non
temere. Il tuo tempo è giunto, finalmente. L’Erede di Isildur cavalcherà con i
Dúnedain alle sue spalle, e rivendicherà il suo diritto di nascita”.
Aragorn osservò in modo
pensieroso l’uomo alto, vestito di grigio, che aveva parlato. “Sì, Halbarad.
Cavalcherò.” Non disse il resto del suo pensiero - che doveva cavalcare, che il
suo tempo fosse giunto oppure no, perché la guerra non avrebbe aspettato le sue
ferite, o i suoi dubbi.
I suoi occhi corsero allo
stendardo arrotolato contro il muro, poi al piccolo oggetto coperto da un panno
e alla spada nel fodero appoggiata al tavolo accanto ad esso. Lo stendardo del
Re, il palantír e la spada di Elendil. Erano i simboli della sua eredità, le
armi che lo avrebbero portato al trono, e la loro presenza in quel luogo,
insieme alla truppa dei Dúnedain, ricordava ad Aragorn che il destino non gli
lasciava molto tempo. Dopo innumerevoli anni di vagabondaggi e di esilio, di
attesa e di vigilanza, combattendo l’Ombra da quella stessa ombra che era dentro
di lui, Aragorn, figlio di Arathorn, avrebbe cavalcato verso Gondor.
Una fitta lo scosse, e guardò
di nuovo il viso del suo consanguineo. Halbarad era il suo compagno d’armi, un
uomo di cui si fidava come della sua stessa spada. Avevano combattuto per i
grigi anni insieme, e non c’era nessun altro che avrebbe voluto avere al suo
fianco, in quell’ora decisiva. O così aveva creduto.
Come evocato
dalla sua muta richiesta, un bussare leggero risuonò alla sua porta, e due
figure entrarono nella stanza, entrambe vestite semplicemente in verde e bianco,
i colori della casa di Théoden,
ed entrambi terribilmente familiari nonostante gli abiti insoliti. Si fermarono
subito dopo l’ingresso, il loro cammino ostacolato da Halbarad. Aragorn sollevò
lo sguardo, sorpreso, e nell’attonito silenzio Boromir disse,
“Vorrei parlare
con te, Aragorn, da solo”.
Il tono
risoluto della sua voce fece capire ad Aragorn che quello non era il momento per
le presentazioni o per i convenevoli. Con uno sguardo veloce ad Halbarad, fece
un cenno verso la porta. Il Ramingo chinò la testa, obbediente, e scomparve
oltre la porta, senza fare alcun rumore sul pavimento di pietra mentre
camminava.
“Siamo soli”.
“Ti ringrazio”.
“Sono felice di
vederti, Boromir”. Aragorn si rese conto di quanto questo fosse riduttivo, ma,
dato che nessuno dei due era incline a grandi discorsi, sarebbe bastato.
“Avrei voluto
che Merry mi dicesse che eri sveglio”.
“Non gliene ho
dato il tempo”.
“È vero”,
confermò Merry, “non l’ha fatto”.
Aragorn sorrise
allo hobbit, poi si rivolse di nuovo all’uomo che stava in piedi accanto a
Merry, con una mano posata delicatamente sulla sua testa.
“Come stai?”,
chiese Aragorn, sorridendo di autentica gioia.
“Abbastanza
bene. E tu?”
Aragorn rise
sommessamente e tese la mano verso l’altro uomo.
“Conosci la
risposta. Vieni, siediti accanto a me, Boromir, ti prego”.
Boromir rimase
in piedi presso la porta, con un’espressione tesa e impenetrabile, finché Merry
non lo guidò verso il letto. Boromir lo seguì. Lo hobbit rivolse ad Aragorn un
sorriso supplichevole. “Avrei da fare nelle cucine, e voi non avete bisogno di
me, ora, vero?”
“Non è per caso
l’ora della seconda colazione, Mastro Brandibuck?”
“Infatti”.
Lanciando uno sguardo a Boromir aggiunse, “Sarò a portata di voce, se avete
bisogno di me…per qualsiasi cosa”.
Boromir indicò
la porta con un cenno, e disse, “Vai pure, Merry. Sembri affamato”.
“Sono sempre
affamato!” Lo hobbit si affrettò fuori dalla stanza, fermandosi per chiudere
delicatamente la porta dietro di lui.
Aragorn osservò
l’amico, trovando le tracce del dolore e della debolezza ancora evidenti sul suo
viso, e capì che quello non sarebbe stato un incontro piacevole. Battendo con la
mano sul letto accanto a lui, disse, “Siediti”.
Obbedendo,
Boromir si sedette sul bordo del letto, e Aragorn continuò, cordialmente, “Non
sei venuto qui solo per chiedermi come sto, non è vero?”
Boromir scosse
la testa, con le labbra serrate e un’espressione grave sul volto.
“Perché,
allora?”
Boromir non
ripose neanche stavolta. Appoggiandosi coi gomiti sulle ginocchia, intrecciò le
dita posando il mento sulle mani, mentre il suo sguardo bendato sembrava fissare
il muro di fronte a sé, e il suo viso era contratto per il dolore.
“Andiamo,
Boromir. Dopo tutto quello che abbiamo passato insieme, non possiamo parlare con
sincerità?”
“Sì”, rispose
Boromir, sommessamente.
“E allora dimmi
che cosa ti turba.”
“Lascerai
Edoras”.
Aragorn si
agitò, a disagio. “Sì. Domani”.
“Per andare a
Minas Tirith”.
“Non per la via
diretta, e non è affatto sicuro che raggiungeremo la Città Bianca”.
Boromir chinò
il capo per un momento, appoggiando la fronte alle sue mani intrecciate. Poi si
sollevò e si voltò direttamente verso Aragorn.
“Non mi importa
quale strada prenderai. Andrai a Minas Tirith, verso la guerra”.
“Sì”.
“Speravi di
andartene senza dirmelo?”
“Sperarlo? No,
non lo speravo, lo temevo. Eri in condizioni gravissime, e non potevo fare nulla
per aiutarti. Ma non potevo ritardare la partenza”.
“Non ne avrai
bisogno. Sono pronto a cavalcare con te oggi, per ogni strada che indicherai.
Ora, guardami e dimmi che andrai a Minas Tirith senza di me”
“Devo”.
Boromir
contrasse il viso in una smorfia di dolore, poi si ritrasse dallo sguardo di
Aragorn.
“Per tutti i
giorni oscuri del nostro viaggio, avevo pensato di essere un uomo morto. Poi mi
sono svegliato, qui, e ho scoperto che mi era stata restituita la vita. E in un
momento di vana follia, ho pensato che forse mi era stata offerta una seconda
possibilità. La possibilità di stessere accanto al mio Re quando avrebbe posto
la corona di Gondor sul suo capo”.
“Non c’è nessun
altro che vorrei al mio fianco”, disse Aragorn.
“Eppure andrai
a Minas Tirith senza di me”. Aragorn non rispose, e le spalle di Boromir si
curvarono visibilmente sotto il peso del suo dolore.
“Tu mi hai
fatto un giuramento, Aragorn, e io ti ho preso in parola. Tu dicesti che io
sarei stato il tuo Sovrintendente, e io ti ho creduto”.
Aragorn ebbe un
involontario sussulto di dolore. “E ora dubiti di me?”
“Non voglio
farlo. So che sei un uomo d’onore, un uomo degno di essere il mio re e il re di
Gondor, ma…”
Esitò, e
Aragorn lo incalzò. “Parla liberamente”.
“Tu ora vai a
Minas Tirith e alla guerra, ma mi lasci indietro. Dici che mi vuoi come tuo
Sovrintendente, ma non ti fidi di me abbastanza per avermi al tuo fianco. Come
posso essere un Sovrintendente, come posso servire il mio Re e il mio popolo, se
non sono degno di combattere per loro nel momento del maggior pericolo?”
Aragorn
sospirò, lentamente, e stancamente appoggiò la testa all’indietro, contro i
cuscini. Con le palpebre semi-socchiuse studiò il viso di Boromir, e un nodo di
dolore gli attanagliò lo stomaco. Sapeva che avrebbe dovuto far male al suo
amico, ferire il suo orgoglio di soldato tanto gravemente quanto una spada
avrebbe potuto ferirgli il corpo, ma saperlo non lo rendeva certo più facile.
Per quanto sapesse che non aveva altra scelta, Aragorn si sentiva come se stesse
tradendo la sua fiducia.
Raccogliendo
tutto il coraggio che riuscì a trovare, Aragorn parlò.
“Proprio perché
voglio che tu viva per servire me e il nostro popolo, non ti porterò con me in
un pericolo sconosciuto”.
Boromir non
disse nulla, restando immobile col viso rivolto al pavimento.
“Non è quello
che voglio, Boromir, ma è ciò che devo fare. Se potessi seguire il mio
desiderio, cavalcherei insieme a te verso la gloria o la morte, o qualunque
destino ci attenda. Ma tu sai che non ho questa libertà. Nei sotterranei di
Isengard hai capito le scelte che deve fare un re. Perché non puoi capirle ora?”
Ancora una
volta, Boromir posò il mento sulle mani. Rimase immobile, lasciando Aragorn a
domandarsi se aveva saputo trovare le parole giuste per alleviare quel terribile
colpo. Boromir doveva credergli, altrimenti tutta la fiducia tra di loro sarebbe
andata perduta, e il figlio di Gondor sarebbe caduto ancora una volta nella
disperazione. Aragorn non poteva sperare di riuscire a salvarlo una seconda
volta.
Ci volle un po’
di tempo, prima che Boromir parlasse di nuovo. Quando lo fece, non si mosse né
alzò la testa, ma il suo tono era di nuovo calmo e pensieroso, senza più traccia
della rabbia di prima.
“Mi sembra di
stare ancora sognando”, mormorò, “O di essere impazzito. Com’è possibile che da
Isengard siamo giunti a Edoras? Com’è possibile che siamo vivi e liberi? Tutto
ciò non sembra reale”.
“Neanche a me
sembra reale, anche se sono stato sveglio per tutto il tempo”.
“Sento ancora
la voce di Saruman, come un veleno nelle mie orecchie. Ogni volta che stendo la
mano ho paura di toccarlo. Mi perseguita”.
“Hai appena
cominciato a liberarti da quel veleno. Ci vorrà tempo per guarire”.
Boromir scosse la testa
lievemente. “Non guarirò. Non questa volta. Tu…tu sai che cosa mi ha offerto,
Aragorn?”
“Sì”.
“Era come se tenessi di nuovo
l’Anello in mano, sentendo le sue promesse”.
Boromir rabbrividì, e si
coprì il volto con le mani. “Le sento ancora adesso”.
La compassione oscurò lo
sguardo di Aragorn, serrandogli il cuore in una morsa.
“Mi dispiace, Boromir. Vorrei
potere farle tacere”.
“Niente e nessuno può farlo”.
Boromir sollevò la testa e lasciò ricadere le mani, permettendo così ad Aragorn
di vedere l’infinita stanchezza sul suo viso. “Ma devo vivere con quei sussurri,
così come devo vivere con…tutto il resto. Una folle parte di me vorrebbe sapere
se avrebbe potuto farlo. Se avrebbe potuto darmi ciò che prometteva, o se era
solo un’altra delle sue menzogne”.
“Non lo so”.
“Forse dovrei bussare alla
porta di Orthanc e chiederlo a lui”.
Aragorn sorrise tristemente.
“Non fare nulla di avventato, mentre io non ci sono”.
Boromir si rabbuiò, e voltò
di nuovo il viso verso il muro.
“Ti prego, Boromir. Non te lo
chiedo come tuo re, ma come tuo amico. Resta qui, sotto le cure del Re Théoden,
riposa e guarisci, e tieniti pronto per quando avrò bisogno di te”.
“Non farò nulla di avventato,
e quando il mio re mi chiamerà, sarò pronto”.
Aragorn si accigliò,
consapevole di tutto ciò che Boromir non aveva detto, ma capì che non avrebbe
ottenuto una promessa più esplicita.
“Grazie”.
Boromir annuì e si alzò
stancamente in piedi. Barcollava in modo preoccupante, e Aragorn lo afferrò per
un braccio per sostenerlo.
“Devi riposare.”
“Sì”. Boromir fece per
avviarsi verso la porta, ma Aragorn lo trattenne, rifiutando di lasciare il suo
braccio.
“Boromir?” Aragorn attese che
Boromir si voltasse, poi continuò. “Riuscirai a vivere così? Con i
sussurri e tutto il resto?”
“E cos’altro potrei fare?”
Aragorn non disse nulla, e nel silenzio, Boromir comprese. Il suo volto si
rilassò in un sorriso.
“No, non temere per quello.
Vai a Minas Tirith, Aragorn, e conquista la tua corona. Quando avrai bisogno di
me, io ci sarò”.
E con queste parole, si voltò
e uscì dalla stanza, lasciando Aragorn a meditare sulle difficili scelte di un
re.
*** *** ***
La Grigia
Compagnia era già a cavallo, in procinto di lasciare Edoras. Avevano preso
congedo dal Re e dalla sua casata, portando i loro cavalli ai piedi della verde
collina sulla quale sorgeva Meduseld, e ora aspettavano la loro guida. Aragorn
aveva salutato Théoden ed
Éomer, aveva bevuto la coppa d’addio con la Dama Éowyn, ed era pronto per
partire. Eppure restava in disparte, circondato da ciò che restava della
Compagnia, riluttante a dare l’ordine che li avrebbe infine separati.
Si inginocchiò
per abbracciare Merry.
“Addio, Merry,
il più coraggioso e fedele degli hobbit. Elrond fu saggio, quando approvò la tua
presenza nella Compagnia, sebbene anche lui non immaginasse il tuo valore, o
l’importanza del tuo aiuto per noi. Non ti dimenticheremo, anche se dovessimo
percorrere tutta la Terra di Mezzo prima di rivederci”.
“Addio,
Grampasso”. Merry non tentò nemmeno di nascondere le lacrime, mentre guardava
negli occhi l’uomo che era stato la sua guida e il suo protettore attraverso
tanti pericoli, l’uomo che un giorno sarebbe stato il suo re, se mai fossero
riusciti a sopravvivere all’Ombra. “Vorrei poter venire con te”.
“No, tu mi
servi qui”. Lanciò una veloce occhiata a Boromir, poi sorrise vedendo lo sguardo
dolente negli occhi di Merry. “Ti affido ciò che non affiderei ad alcun altro”.
Merry ingoiò le
lacrime, e sollevò il mento con determinazione.
“Non
preoccuparti per noi. Ho fatto una promessa, e intendo mantenerla”.
“Tu sollevi il
mio spirito, Mastro Brandibuck”.
Aragorn lo
baciò delicatamente sulla fronte, poi si alzò, e affrontò Boromir.
I due uomini si
fronteggiarono in silenzio, Boromir teso e scuro in volto, Aragorn pieno di
dolore ma risoluto. Gli altri membri della compagnia si ritirarono, non volendo
intromettersi in un commiato così intimo. Finalmente, quando il silenzio si era
ormai protratto fino al punto di far male, Boromir si riscosse e tese la mano
verso Aragorn.
“Addio, mio
Re”.
Aragorn ignorò
la mano offertagli e lo abbracciò. Dopo un momento di esitazione, Boromir
ricambiò l’abbraccio.
“Ti ho dato la
mia parola”, disse Aragorn, “e proverò la mia buona fede”.
“Non è
necessario”.
Si
allontanarono di un passo, ma Aragorn continuò a tenere le mani sulle spalle di
Boromir, parlando con voce così bassa che solo lui lo udì.
“Ti rivedrò
presto, a Minas Tirith. Insieme, noi sfideremo il potere di Mordor. Insieme,
vedremo la gloria di Gondor ristabilita”.
“Se tu
giungerai sano e salvo a Gondor, allora sarà già ristabilita”. Boromir tacque un
istante, poi aggiunse, con voce ruvida per la tensione, “Tutto ciò che amo lo
affido nelle tue mani, Aragorn. Non tradire la mia fiducia. Non lasciare che
Gondor cada”.
Aragorn lo
abbracciò di nuovo, e sussurrò, “Non lo farò”.
Mentre si
voltava per raggiungere la sua compagnia, Aragorn sentì una lacrima scivolargli
lungo la guancia. Non la asciugò, sollevando invece la testa deliberatamente per
permettere al sole di splendere sul suo viso. La Compagnia lo seguì fino al suo
cavallo, e Legolas lo aiutò a montare in sella senza danneggiare la sua gamba
ferita. Aragorn si chinò per dire un’ultima parola a Merry e stringere di nuovo
la mano di Boromir, poi voltò il cavallo e galoppò via, seguito in silenzio dai
Dúnedain.
Merry e Boromir
restarono a lungo ai piedi della scalinata. Il Re ed Éomer li avevano lasciati
senza una parola, intuendo che non desideravano né conforto né compagnia, e fu
soltanto dopo che la corte del Re ebbe lasciato la terrazza sovrastante che
Boromir finalmente si voltò e cominciò a salire le scale. Merry camminava
quietamente al suo fianco, senza parlare, anche quando Boromir scelse di restare
sul camminamento di pietra lungo la terrazza, invece che ritornare nella sala.
Si
allontanarono dalle guardie che erano in cima alla scalinata e si diressero
verso le mura che sovrastavano Edoras e i tumuli sepolcrali oltre i suoi
cancelli.
Quando furono
lontani, soli sulla cima della collina spazzata dal vento, Boromir si sedette
sul parapetto, gettando le lunghe gambe oltre di esso, in modo da essere rivolto
verso l’esterno, verso le colline, e si rinchiuse in un ostinato silenzio che
fece sentire Merry superfluo e indesiderato.
Appoggiandosi
al muro, apparentemente dimenticato, Merry osservava l’espressione tetra di
Boromir. Gli ricordava dolorosamente i giorni in cui la Compagnia aveva lasciato
Granburrone, quando se ne stava in silenzio alla coda del gruppo, evitando la
conversazione e gli sguardi dei compagni. Già allora Merry aveva intuito che
qualcosa lo tormentava, e ora lo conosceva abbastanza bene da esserne sicuro.
“Grampasso li
condurrà a destinazione sani e salvi”, disse, certo di avere compreso la ragione
del turbamento di Boromir.
Boromir si
limitò a grugnire un assenso, tenendo sempre il viso rivolto alla strada dalla
quale erano partiti i cavalieri.
“Vorresti
ancora andare con lui?”
“Sì”.
“Alla guerra?”
“Fino alla fine
della sua strada, ovunque essa condurrà”.
La domanda
successiva di Merry suonò inadeguata alle sue stesse orecchie.
“Non hai già
visto abbastanza guerra nella tua vita, Boromir?”
Finalmente
Boromir si voltò verso di lui, e il suo viso di addolcì in un sorriso
malinconico. “Sì, amico mio”.
“Ne sono
felice”, disse Merry semplicemente, e un pallido sorriso gli sfiorò il volto.
“Ma questo non
cambia chi sono, o il mio dovere verso il mio re o la mia gente”. Boromir si
rivolse nuovamente verso la pianura davanti a lui. “Il mio posto è con Aragorn,
eppure lui va a salvare Minas Tirith, e io resto seduto qui. Messo da parte
insieme ai vecchi e ai bambini”.
“E agli hobbit”,
aggiunse Merry, cupamente. “Non sei il solo a essere lasciato indietro dal suo
re”.
“Théoden
cavalca senza di te? Ma tu sei il suo scudiero, votato al suo servizio!”
“Sembra che non
abbia bisogno della mia spada. Io e te saremo spediti a Dunclivo, insieme al
resto del bagaglio inutile. Merry incrociò le braccia sul parapetto,
appoggiandovi il mento per osservare la strada. Ancora un giorno di tempo, e
anche lui sarebbe partito per quella strada, ma non verso Gondor e il suo
sovrano. La sua sola consolazione era che Boromir sarebbe andato con lui a
Dunclivo. Li mandavano lì insieme. “Ecco quello che sono in questo viaggio.
Bagaglio”.
La cupa
espressione di Boromir si adattava perfettamente a quella di Merry.
“Non sono
abituato a essere trattato come bagaglio. Non lo accetterò così facilmente”.
“Almeno tu sei
alto abbastanza perché ti ascoltino. Con me invece si limitano a guardare sopra
la mia testa facendo finta che io non sia lì”.
Boromir emise un suono
disgustato, e disse, con amarezza, “Preferirei che ignorassero anche me. Se
qualcun altro mi chiama “mio signore” con quel tono di commiserazione o si offre
di aprire la porta per me, io…io lo passo a fil di spada!”
Merry, ricordandosi di come
si era affrettato ad aprire la porta per Boromir quando erano usciti dalla sala,
arrossì furiosamente e balbettò le sue scuse.
“No, non mi riferivo a te,
piccoletto!” Ora fu il turno di Boromir di interrompersi, pieno di imbarazzo.
“Ti chiedo perdono. Non è un nome adatto a un guerriero”.
“Mi piace”, disse Merry. Poi
sorrise timidamente, e aggiunse, “Ora che ti conosco meglio. Una volta mi dava
fastidio, ma questo era quando avevo paura di te”.
“Questa è una bugia bella e
buona, Merry. Tu non hai mai avuto paura di me”.
“Certo che ce l’avevo! Non
facevi altro che ringhiare, sai…”
Boromir in risposta diede un
esempio del miglior ringhio che riuscì a produrre, e Merry scoppiò a ridere.
“Non puoi pretendere di
trasportarci per tutto l’Agrifogliere, salvarci dalle nevi del Caradhras, darci
il tuo mantello come tenda e metà della tua cena quando Pipino si lamenta della
fame, e poi tentare di farci credere che non ci tieni a noi”.
“Cercavo solo di tenervi
fuori dai guai,” ribatté Boromir.
“Se lo dici tu, mio signore,”
rispose Merry, umilmente.
Boromir gli rivolse
un’espressione amareggiata. “Non chiamarmi così. Non sono il tuo signore”. Esitò
un momento, poi disse, con tranquilla sincerità, “Non ho bisogno di vassalli o
servitori, Merry. Solo di amici”.
“Quello lo sarò sempre”.
“E allora dimmi sinceramente,
amico mio, perché desideri seguire Théoden? Speri di dimostrare il tuo valore in
battaglia?”
Merry sospirò e appoggiò di
nuovo il mento sulle braccia. “Non lo so. Ho già visto la guerra, e non mi è
piaciuta. Non credo di avere la stoffa di un soldato. Ma non sono nemmeno un
codardo, ed è un disonore per me restare indietro”.
Alzò lo sguardo verso il viso
del soldato accanto a lui, veterano di tante battaglie, e mormorò, “Sono solo un
piccolo hobbit, e temo di non potere fare molto in una guerra così grande, ma
per amore di Grampasso, di Théoden, e di Gandalf, vorrei provarci ugualmente. È
una ragione tanto stupida per andare in guerra?”
“È l’unica ragione”.
La mano di Boromir strinse la sua spalla, e Merry sentì la passione che ardeva
dietro quelle parole. All’improvviso, l’uomo si voltò con uno scatto e scese dal
muro. Sembrava avere ritrovato tutto a un tratto la sua fiera energia, e il suo
viso era pieno di determinazione. “Vieni, Merry! Non abbiamo tempo da perdere!”
Merry lo raggiunse
inciampando e lo guardò con curiosità, quando la mano di Boromir si posò sulla
sua testa. “Cosa dobbiamo fare?”
“Il nostro dovere, mastro
scudiero, nonostante gli ordini dei nostri sovrani”.
Merry sorrise, trovando
contagioso il suo stato d’animo.
“Guidami, mio signore!”
“No, sarai tu a
guidare me. Portami da Éomer,
e vedremo se il nome di Boromir ha ancora qualche potere a Rohan”.
Lord Denethor, Sovrintendente
di Gondor, fissava intensamente la piccola sfera tra le sue mani. La luce
incerta che emanava da essa gettava ombre misteriose sul suo viso, accentuando
le rughe scavate dall’età e dalla disperazione, rendendo i suoi occhi neri come
la notte.
Una luce fioca raggiungeva le
finestre istoriate della torre, irradiando un chiarore intermittente nella
notte, mostrando a chiunque guardasse verso la Cittadella che il loro
Sovrintendente era nuovamente impegnato a lottare con il Nemico.
Il sudore bagnava i capelli
argentati sulle tempie di Denethor e scorreva a rivoli lungo il suo viso. Le sue
mani e la sua veste erano umide, eppure i suoi occhi continuavano a fissare la
scintillante superficie del palantìr senza smettere di cercare, anche se la
stanchezza sfiniva il suo corpo e il dolore consumava il suo cuore.
‘Boromir! Boromir!’,
gridava nella sua mente, cercando invano di evocare anche una sola immagine del
suo figlio perduto, che fosse di conforto o di disperazione, purché ponesse fine
a quell’incertezza. ‘Figlio mio’, piangeva silenziosamente, ‘Lasciati vedere! Risparmia a tuo padre questa
tortura, questo terribile tormento. Mostrami il tuo amato viso ancora una volta,
anche nella morte, ti prego!’
Ma nulla apparve nel globo
lucido. Soltanto la fitta, maligna oscurità del Nemico, che velava la sua vista.
Denethor cominciò a tremare per lo sforzo. Il palantìr non aveva mai opposto
tanta resistenza alla sua volontà. Denehtor comprese che non avrebbe mai
rivelato quell’unico, vitale segreto, ed ebbe paura. Quale potere controllava la
pietra, rifiutando la sua richiesta? E se quel potere poteva negargli la vista
di suo figlio, quali altre cose gli nascondeva? Queste domande gli balenarono
per un istante nella mente, ma poi scomparvero, perse nell’urgenza disperata
della sua ricerca.
Ormai da molti giorni, da
quando aveva udito il selvaggio richiamo del corno di Gondor portato dal vento,
Denethor stava riversando tutta la sua forza e la sua volontà nel palantìr,
cercando il viso di suo figlio tra la miriade di immagini che gli restituiva la
pietra. E aveva visto Boromir. Lo aveva visto, abbattuto dalla lama dell’orco,
trascinato attraverso le pianure di Rohan, torturato da Saruman. Nell’ultima
immagine che era riuscito a vedere, Boromir, solo e ferito, giaceva morente in
una cella di pietra. Quella visione lo perseguitava. Tormentava i suoi sogni,
divorava il suo cuore, attirandolo sempre in quella stanza, a quella sedia, dove
sedeva curvo sul palantìr con rabbia e disperazione, cercando invano di
conoscere il destino di suo figlio.
Mithrandir affermava che
Boromir era stato tratto in salvo, e anche il perian diceva lo stesso. Ma
Denethor non si fidava della parola del Grigio Pellegrino. Sapeva che Mithrandir
non avrebbe esitato a distorcere la verità per i suoi fini, ma non vedeva tracce
di inganno o di falsità nel mezzuomo. Forse dicevano la verità, forse Boromir
era davvero vivo quando lo avevano visto l’ultima volta. Ma quello era stato
molti giorni prima, e anche lo scaltro Mithrandir aveva ammesso che Boromir era
in condizioni gravissime quando lo avevano lasciato.
Denethor non voleva credere
che suo figlio fosse morto. Amava Boromir sopra ogni altra cosa, e il pensiero
della sua perdita era intollerabile. Ma, al contrario delle degli stregoni o
degli uomini, il palantìr non gli aveva mai mentito, e il palantìr gli aveva
mostrato suo figlio morente, abbandonato in un buio inferno di pietra. Dopo
quella immagine, il globo di pietra aveva mostrato solo ombre, sempre più fitte,
e Denethor era certo che quelle ombre preannunciassero la morte del suo erede.
Odiava Saruman per il suo
tradimento. Odiava i membri di quella cosiddetta Compagnia, che si erano serviti
del forte braccio di Boromir per difendersi durante la loro missione, per poi
lasciarlo a morire tra i tormenti nei sotterranei di Isengard. Odiava Mithrandir
per averlo illuso con le sue vane speranze per piegarlo alla sua volontà. Odiava
e disprezzava quello straccione ramingo del nord, che osava proclamarsi Erede di
Isildur, il bugiardo che aveva rubato l’affetto di suo figlio conducendolo verso
quella follia, e che sperava di togliergli ciò che gli spettava per diritto
nascita. E più di tutti, come un veleno che gli corrodeva il sangue, odiava
colui che avrebbe dovuto morire al posto di Boromir.
Se solo fosse riuscito a
vedere! Se solo avesse potuto sapere! Le confuse ombre vorticavano
davanti ai suoi occhi, offuscando la lucida superficie del palantìr. C’era morte
in quelle ombre, lutto e dolore, e un vuoto troppo grande da sopportare. Il suo
Boromir era perduto…per sempre. Se anche fosse ritornato, vivo e sano,
cavalcando attraverso i cancelli di Minas Tirith, non sarebbe mai più stato il
suo figlio prediletto, ma un amico di stregoni e di vagabondi. Non sarebbe stato
diverso da suo fratello.
Eppure, Denethor non poteva
rassegnarsi senza conoscere la verità. Gli occhi gli dolevano per lo sforzo, e
brividi di stanchezza e di impazienza lo scuotevano, mentre si curvava ancora
una volta sul palantìr ordinandogli di mostrargli suo figlio. La luce lampeggiò
di nuovo sul suo volto e illuminò le alte finestre. Nel Cortile della Fontana ai
piedi della torre, le guardie della Cittadella sollevarono lo sguardo e videro
che il loro signore era ancora una volta impegnato a lottare contro il Nemico.
*** *** ***
Merry sedeva sul basso muro
di pietra consumata dal tempo, osservando l’adunata dei Cavalieri. Migliaia e
migliaia. Tutta la potenza di Rohan si era raccolta per accorrere in aiuto di
Gondor. I cavalli scalpitavano e sbuffavano, mordendo le redini, eccitati
dall’impazienza dei loro cavalieri. Gli elmi scintillavano cupi nella luce
fioca, e le lance si innalzavano fitte verso il cielo coperto di nuvole, gli
scudi sbattevano contro le cotte di maglia, e i corni chiamavano gli uomini alle
loro posizioni nei ranghi.
Si prepararono a partire in
una tetra luce crepuscolare, sebbene l’alba fosse ormai passata da un’ora. Il
sole non era sorto quel mattino, e guardando a est, verso la fonte di quelle
oscure ombre che macchiavano il cielo, Merry si domandò se qualcuno di loro
sarebbe vissuto per vedere un’altra vera alba. Gli parve un cattivo presagio che
tanti uomini fieri e valorosi dovessero cavalcare verso il loro destino sotto il
cielo del Nemico. In quel momento, Merry non era più tanto sicuro di voler
condividere quel destino.
Accanto a lui, Boromir si
agitava inquieto. “I carri sono già pronti per muoversi?”
Merry si voltò per
controllare l’attività sul campo dietro di loro. Avevano scelto quel tratto di
muro come punto d’osservazione, poiché era la linea di confine che divideva il
luogo di adunata dei Cavalieri da quello in cui si raccoglievano i profughi in
partenza per Dunclivo. Da una parte l’esercito, schierato in parata con le armi
e le armature, dall’altra, l’ultimo convoglio di carri e cavalli da trasporto.
Lo hobbit e il soldato ferito avrebbero dovuto partire con la carovana dei
bagagli, così la loro presenza sul campo non causò alcuno stupore.
“Stanno ancora caricando dei
barili. E ci sono persone intorno dall’aria infelice”.
“Allora c’è ancora tempo”.
“Pensi
che Éomer si sia dimenticato
di noi?”
“Se è così,
dobbiamo trovare un altro modo. Ma non lo credo”.
Merry lanciò un
altro sguardo alla mesta moltitudine che affollava il campo dietro di loro, poi
si voltò risolutamente. Il suo destino non era tra loro. Boromir gli aveva
promesso che avrebbero cavalcato verso Minas Tirith insieme all’esercito di
Thèoden, e Merry sapeva che avrebbe mantenuto quella promessa. La paura sarebbe
scomparsa non appena sarebbe stato in sella a un cavallo da guerra con la spada
al fianco insieme al più grande soldato di Gondor.
Per il momento
Boromir e Merry vestivano con la semplice divisa della casa di Thèoden, senza
armi o armature. Così abbigliati, si confondevano con la folla da entrambe le
parti del muro, e una volta che avessero indossato l’equipaggiamento che ora era
nascosto tra l’erba ai loro piedi, avrebbero avuto l’aspetto di tutti gli altri
soldati. Per lo meno Boromir, in ogni caso.
Non che a
Boromir servisse una spada o uno scudo per apparire un soldato, pensò Merry. Era
evidente dal modo in cui si muoveva e da come camminava, da come sollevava il
capo al rumore delle armi che si urtavano o al suono di un corno, dalla severa
gioia che gli illuminava il volto alla promessa della battaglia. L’unica cosa
che guastava l’immagine era la striscia di tessuto nero che gli copriva gli
occhi, a ricordare crudelmente il motivo per cui erano costretti alla menzogna
e al sotterfugio per ottenere un posto con l’esercito.
Merry si era
chiesto spesso il motivo per cui Boromir avesse voluto una benda di tessuto nero
al posto di quella bianca che aveva indossato da quando era stato salvato, e lo
aveva stuzzicato un po’ per quella piccola vanità. Ma quando Boromir aveva
legato la benda e sistemato l’elmo sulla sua testa, Merry aveva capito. Gli elmi
di Rohan avevano delle lunghe protezioni per il naso e le guance che coprivano
buona parte del viso, lasciando scoperti solo la bocca e il mento, nascondendo
gli occhi in un’ombra profonda. Con la benda scura e l’elmo che nascondeva il
suo viso, gli occhi di Boromir erano praticamente invisibili. Merry doveva stare
di fronte a lui e guardare direttamente attraverso le fessure dell’elmo per
poter vedere la benda.
Per il momento,
Boromir non cercava né di confondersi tra i cavalieri né di nascondere la sua
menomazione agli occhi dei curiosi. A capo scoperto, con lo sguardo bendato
rivolto al clamore marziale dell’esercito in adunata, sedeva rigidamente con la
dignità ferita di un uomo che non è abituato a essere messo da parte e che non
lo accetta facilmente. Merry lo guardava in silenzio, ma soffriva nel vedere
tanto coraggio, orgoglio e dignità scartati come fossero inutili. Poteva
perdonare quei signori degli uomini per sottovalutare un insignificante hobbit,
ma Boromir avrebbe dovuto cavalcare al fianco di Thèoden, non starsene seduto su
un muro diroccato ad attendere favori da altri. E se Éomer non avesse mantenuto
la sua promessa, chi avrebbe aiutato il figlio di Gondor questa volta?
L’avvicinarsi
di un cavaliere sconosciuto lo distolse dai suoi malinconici pensieri. La figura
si mosse verso di loro, seguendo il muro per evitare il viavai, conducendo due
cavalli. Quando si fu avvicinato, Merry si accorse che in realtà si trattava di
un ragazzo, dal corpo esile che non aveva ancora raggiunto la virilità e il
mento privo di barba. Eppure aveva le movenze di un guerriero esperto, e
controllava i due cavalli senza sforzo.
Il Cavaliere si
fermò a pochi passi da loro, e i suoi occhi brillarono da dietro l’elmo che li
celava.
“Mio lord
Boromir?”
Boromir si
voltò prontamente verso la voce e si alzò in piedi. “Sì”.
Il Cavaliere si
raddrizzò in tutta la sua altezza, snello e diritto come una lancia, e si esibì
in un inchino formale.
“Éomer, terzo
Maresciallo del Riddermark, manda il suo omaggio e i suoi servizi al suo
fratello di Gondor”, recitò, con voce rigida quanto la postura. “Ti prega di
accettare questo nobile destriero come dono del tuo amico e alleato, affinché ti
possa condurre sano e salvo a Dunclivo e per ogni strada che in seguito
sceglierai”.
Boromir annuì
gravemente in risposta al breve discorso, poi allungò la mano per prendere le
redini. Il cavaliere gliele pose sul palmo, e rimase ad osservare mentre Boromir
le raccoglieva e traeva il cavallo vicino a lui.
“Porgi i miei
ringraziamenti a Éomer”, disse Boromir, accarezzando distrattamente il muso
dell’animale con una mano.
A Merry sembrò
che quella richiesta mettesse a disagio il Cavaliere. Il giovane perse la sua
formale rigidezza e al posto dell' orgoglioso messaggero apparve un ragazzo
timido, imbarazzato dal vedersi chiamato in causa.
“Non è stato il
lord Éomer a dirmi di portarti il cavallo”, disse, “ma la dama sua sorella. Lei
vi precede a Dunclivo, per fare il suo dovere verso il suo re e il suo popolo,
altrimenti sarebbe venuta personalmente a portare il dono di suo fratello. È
stata lei a ordinare le provviste per il vostro viaggio”.
Merry osservò con crescente
sospetto le borse strapiene sulla sella e i giacigli arrotolati. Il viaggio per
Dunclivo durava meno di un giorno, eppure il cavallo portava abbastanza
equipaggiamento per una settimana.
“Pensa forse che ci
perderemo?”
“Calmati,
Merry”, lo rimproverò Boromir. “Allora porgo i miei ringraziamenti a te e alla
dama Éowyn. Cavalcherai con il
re?”
“Sì”. Il
Cavaliere esitò per un momento, poi aggiunse, piano, “E tu, mio signore?”
Boromir sorrise
impercettibilmente. “Chi ti ha incaricato di chiedermelo?”
“Nessuno. Io ho
fatto il mio dovere e ho detto ciò che dovevo dire. Ora ti chiedo, da soldato
dimenticato a soldato dimenticato, cavalcherai con noi, Boromir di Gondor?”
“Sì".
Il Cavaliere
annuì soddisfatto e rivolse a Merry un gelido sorriso.
“Sarei onorato
se accettaste la mia compagnia. Potete chiamarmi Dernhelm. Preparatevi, vi
porterò al luogo dove si raduna il mio èored”.
Boromir e Merry non persero
tempo con altre domande. Scavalcato il muro per recuperare le loro armi e
l’equipaggiamento, si affrettarono ad armarsi. Mentre si allacciava alla cintura
la spada, aiutando allo stesso tempo Boromir con i fermagli e le fibbie, Merry
chiese,
“Éomer
sa davvero dove vogliamo andare con questo cavallo?”
“Non è uno
sciocco, Merry. Se fosse lui al mio posto non accetterebbe docilmente di andare
a nascondersi, e non si aspetta certo che lo faccia io. Ma quello che sa o non
sa, lo tiene per sé”.
“Allora chi è
questo Dernhelm, e come ha indovinato i nostri piani?”
Boromir scosse
la testa, sorridendo.“Non lo so”.
“Si che lo
sai!” Protestò Merry, immediatamente sicuro che Boromir gli stesse nascondendo
qualcosa. “Hai combattuto con lui in passato? È in qualche genere di guaio, o è
caduto in disgrazia presso il re, visto che dice di essere stato dimenticato e
si offre di cavalcare con noi?”
“Dobbiamo
fare presto. I Rohirrim non aspetteranno i nostri comodi, mastro hobbit”.
Merry sospirò rassegnato e
si assicurò lo scudo su una spalla. “Sono pronto”.
Osservò Boromir con sguardo
critico, e vide completata la trasformazione dell’amico in un Cavaliere del Mark.
Ora Boromir indossava una cotta di maglia leggera sotto la tunica, un lungo
mantello sulle spalle, una spada al fianco, e l’elmo, che nascondeva sia la sua
ferita che la sua identità. Nessuno l’avrebbe preso per un soldato di Gondor, e
tanto meno per Boromir, figlio di Denethor.
“Supererò l’ispezione?”
domandò Boromir.
“Neanche tuo padre ti
riconoscerebbe”.
Boromir si rabbuiò
inspiegabilmente a quel piccolo scherzo. “Credo che tu abbia ragione”, disse.
Voltandosi improvvisamente, si appoggiò alla sommità del muro e lo superò con un
balzo. Poi offrì una mano a Merry, “Vieni, piccoletto. È ora. Cavalchiamo verso
la gloria o la morte”.
“Purché cavalchiamo insieme…”
ribatté Merry, mettendo la mano in quella di Boromir.
I Cavalieri galoppavano
veloci verso la tempesta, sotto le insegne del Re Thèoden. Tra di loro tre
fuggitivi – il Cavaliere misterioso, il soldato cieco, e lo hobbit - diretti
verso Minas Tirith e la guerra. Parlavano poco tra loro, e per nulla con gli
altri soldati dell’èored. Per gran parte del viaggio sembrò quasi che
fossero loro stessi un piccolo esercito, silenziosi e invisibili in mezzo alla
grande truppa.
Per Merry il viaggio fu
noioso, stancante, e pieno di tempo per scomode riflessioni. Non aveva molto
altro da fare se non pensare, e spesso i suoi pensieri si rivolgevano agli amici
che aveva perduto lungo la strada da Granburrone. Era stanco e spaventato,
depresso dalle tenebre sempre più fitte che oscuravano il cielo, e gli mancavano
le risate di Pipino. Solo la presenza di Boromir gli impediva di cadere preda
della disperazione.
Sedeva davanti a Boromir sul
suo principesco destriero, con le sue piccole mani posate sulle grandi mani del
guerriero che tenevano le redini. Merry non era in grado di governare un cavallo
da solo, e Boromir non poteva guidarlo senza l’aiuto di Merry, e così
cavalcavano, mangiavano, dormivano, parlavano e ricordavano insieme. E col
passare del tempo, Merry si accorse di trovarsi sempre più a suo agio nel ruolo
di amico e guida del soldato di Gondor. Pipino gli mancava ancora tremendamente,
ed era in pensiero per i suoi amici, ma non poteva sentirsi completamente solo
finché Boromir era con lui.
Dernhelm invece non era di
grande conforto, anche se dimostrava un certo interesse verso Merry. Sembrava
profondamente impressionato dal suo giuramento di fedeltà a Théoden e dal suo
atto di coraggio nel seguire il re in guerra anche contro i suoi ordini.
“Fai bene, mastro Holbytla”,
disse a Merry, in un momento di rara loquacità. “Non c’è onore più grande che
portare le armi al servizio del tuo signore, e non c’è signore più meritevole
della tua spada e del tuo amore che Re Théoden”.
Merry arrossì all’elogio, e
giocherellò nervosamente con le redini. Non poteva confessare a quel giovane
onesto quanto fosse diviso il suo cuore, e l’angoscia che gli causava il suo
giuramento al re del Mark. Voleva davvero bene a Théoden, e desiderava
dimostrare il suo amore in modo più utile che non raccontare vecchie storie o
condividere una pipa. Ma la paura che il suo giuramento a Théoden contrastasse
con la promessa che aveva fatto a se stesso lo assillava. Se servire il re
significava lasciare Boromir, cosa avrebbe scelto?
“Spero di fargli onore”,
disse finalmente Merry, con voce bassa e incerta.
“Non dubito che lo farai”,
rispose il cavaliere, chinando la testa in segno di rispetto. “Lo hai già fatto,
scegliendo di seguirlo nel pericolo”.
Merry scrollò le spalle, a
disagio, e arrossì ancora di più.
Da dietro di lui Boromir
sembrò avvertire il suo imbarazzo, e cominciò a parlare al Cavaliere,
distogliendolo dal suo solenne elogio di Merry.
“E tu, Dernhelm? Perché
cavalchi verso la guerra contro gli ordini del tuo re?”
Dernhelm si irrigidì. La sua
voce, quando parlò, era fredda e distaccata, ma Merry percepì il dolore che si
celava dietro il tono gelido.
“Tu, tra tutti gli uomini,
dovresti comprendere le mie ragioni, mio signore”.
Boromir si volse con aria
interrogativa nella sua direzione. “Cosa ne so delle tue ragioni?”
“Sono anche le tue”. Quando
Boromir non rispose, Dernhelm continuò, amareggiato. “Il tuo re ti ha scartato.
L’amore e la fedeltà che tu gli hai offerto li considera un nulla. Ti giudica
inadatto e si rivolge ad altri per sostenerlo nell’ora del suo trionfo,
lasciandoti indietro a prendere la strada dei codardi, a nasconderti
nell’oscurità. E per questo, per l’amore che gli porti, e perché non vuoi essere
chiamato codardo, cerchi il tuo sentiero per raggiungerlo, nella battaglia,
nella vittoria, nella morte…”
Boromir cavalcò per alcuni
istanti in silenzio, lasciando sospese nell’aria le parole angosciate di
Dernhelm. Poi, con voce piena di dolore, domandò, “È per il tuo re o per il mio
che fai questo?”
“Per entrambi, e per nessuno.
A uno appartiene la mia fedeltà, all’altro il mio amore, e per entrambi avrei
combattuto le armate dell’Oscuro Signore. Ma entrambi mi hanno giudicato
indegno, e mi hanno messo da parte, e così combatterò per un dovere non
riconosciuto, per un amore negato, e per la mia liberazione”.
“Che genere di liberazione?”
Ma il tono di Boromir tradiva che sapeva già la risposta, e temeva allo stesso
tempo di sentirla.
“Morire con la spada nella
mia mano, con la musica dei corni e della battaglia intorno. Portare onore al
Mark e alla mia famiglia. Lasciare una fama di gloria e di coraggio dietro di
me. Questo è il mio desiderio”.
Merry aprì la bocca per
parlare, ma la mano di Boromir sulla sua spalla lo zittì. Obbediente alla
stretta delle sue dita, chiuse la bocca e lasciò cadere la conversazione.
Dernhelm spronò il suo cavallo e si allontanò risolutamente da loro, lasciandoli
indietro, e Merry perse l’occasione di commentare le sue tetre affermazioni.
Dernhelm cavalcò davanti a
loro per tutto il resto della giornata, e Boromir cadde in uno stato d’animo
taciturno che non invitava alla conversazione. Nessuno di loro parlò più fino a
che la truppa non fece tappa per la notte. Dopo un pasto silenzioso, Dernhelm si
ritirò per dormire nelle ombre oltre il fuoco, mentre Merry e Boromir si
avvolsero nelle loro coperte appoggiando la testa ciascuno a un lato della sella
di Fedranth.
Merry aveva presto scoperto
che ogni notte, più o meno a quell’ora, Boromir diventava improvvisamente molto
loquace. Non importava quanto scontroso e riservato fosse stato durante la
giornata, ogni volta che si coricavano per dormire Boromir voleva parlare. E
Merry lo accontentava, benché esausto e desideroso di dormire, perché intuiva
che quell’insolito bisogno nasceva dalla paura.
Paura dell’oscurità, del
silenzio, del tempo da trascorrere solo con i suoi pensieri. Una paura che lo
circondava come una nebbia palpabile, tanto che anche Merry la sentì strisciare
fredda sulla sua pelle. Sapeva che Boromir non riusciva a dormire, che vegliava
in silenzio nelle lunghe ore della notte, tormentato da una tensione silenziosa
che controllava con ferocia, riluttante a mostrare la sua paura ma incapace di
negarla. L’unico modo in cui poteva trovare riposo era parlare fino allo
sfinimento e all’oblio, e Merry metteva volentieri da parte la sua stanchezza
per ascoltarlo.
Quella notte, la quarta del
loro viaggio, Merry non aspettò che Boromir cominciasse a parlare, ma iniziò lui
stesso nel momento in cui la sua testa toccò il caldo cuoio della sella. Col
tono basso e privato che usavano sempre nelle loro conversazioni notturne,
cominciò,
“Perché Dernhelm cerca la
morte? Tu sai qualcosa di lui, Boromir, qualche segreto. Tu sai perché vuole
morire”.
“Sì, io lo capisco”. Boromir
esitò un momento, come se stesse cercando le parole, poi continuò. “Ha perso la
speranza, e la disperazione può portare un uomo alla follia. O alla morte”.
“Non è una follia cercare la
morte, nel pieno della giovinezza, solo perché il suo re lo ha lasciato
indietro?”
“Hai mai provato la vera
disperazione, Merry?”
Merry rifletté, ricordando il
profondo, logorante dolore di quei giorni trascorsi a dare la caccia agli orchi
attraverso Rohan, il tormento di quelle ore nei sotterranei di Orthanc, e
l’impotente dolore di vedere un amico soffrire senza poter fare nulla per
aiutarlo. Poi pensò alla tetra desolazione negli occhi di Dernhelm, e capì che
non aveva mai provato quel genere di disperazione. Anche se la sua strada gli
era sembrata a volte buia, aveva sempre visto con chiarezza la sua direzione.
Una via folle e pericolosa, forse, ma pur sempre una via.
“No”. Rispose alla fine,
“Non così. Non tanto da rinunciare a tutte le speranze”.
“Io sì. E ho desiderato la
morte, come una liberazione dal dolore”.
Merry si alzò su un gomito e
si voltò per guardare l’amico. “E adesso? La desideri ancora?”
“No. Non posso dire di
essermi liberato dalla disperazione, perché mi perseguita sempre, ancora, in
ogni momento, ma ho deciso di non arrendermi. Ho trovato abbastanza speranza per
tenermi in vita”.
“È solo questo che hai
trovato?”
“La speranza non è una
piccola cosa, per un uomo che muore. Dammi tempo, Merry. Troverò la mia strada,
prima o poi. E così farà Dernhelm, se sopravviverà a questa battaglia”.
Merry si coricò di nuovo, ma
non aveva più voglia di dormire. Restò con gli occhi aperti, pensando alle
implicazioni di quello che Boromir aveva detto e di quello che aveva taciuto,
con un familiare dolore nel cuore. Era chiaro che per Boromir il discorso era
concluso, ma Merry continuò a chiedersi come poteva alleviare la sofferenza
dell’amico, e non riuscendoci, ne soffriva lui stesso.
“Non mi hai ancora detto il
segreto di Dernhelm”, borbottò, mascherando il suo vero stato d’animo con
l’irritazione.
“Non spetta a me farlo”.
“Beh, almeno non neghi che ne
ha uno”.
Boromir grugnì qualcosa,
sancendo definitivamente la fine della discussione. Rimasero entrambi in
silenzio per alcuni minuti, mentre la tensione di Boromir aumentava lentamente.
Era perfettamente immobile, ma Merry poteva quasi sentirlo digrignare i denti e
stringere i pugni per combattere l’impulso di alzarsi in piedi e cominciare a
camminare avanti e indietro.
Dopo alcuni momenti di
silenzio carico di tensione, Boromir improvvisamente parlò. “Ci sono stelle,
stanotte?”
“No”. Merry guardò su verso
il cielo buio e pensò che non era neanche sicuro che fosse notte. Per quanto ne
sapeva il sole poteva anche essere alto sopra la fitta cappa di fumo e nuvole.
“Mi è sempre piaciuto dormire
sotto le stelle. Quando ero bambino, io e mio fratello uscivamo di nascosto
dalla città e passavamo la notte sulle pendici del Mindolluin, sotto il cielo
stellato. Quando eravamo un po’ più grandi ci spingevamo anche più lontano,
nelle foreste dell’Anòrien, e camminavamo sotto gli alberi finché non eravamo
esausti, poi dormivamo dove ci fermavamo, incuranti del pericolo. Faramir sapeva
tante storie sugli Elfi, le foreste e le stelle. Ricordo che i suoi occhi
scintillavano nell’oscurità, mentre le raccontava”.
“Non avevate paura degli
orchi o dei briganti?”
“Eravamo soldati di Gondor, e
temevamo una sola cosa nella Terra di Mezzo”.
“Che cosa?”
“Nostro padre.” Merry rise
piano, e Boromir ribatté, “Ridi perché non hai mai conosciuto Lord Denethor”.
“È stato un cattivo padre?”
“No, non per me. Severo ed
esigente, forse, preoccupato degli affari della città e con poco tempo da
dedicare ai suoi figli. Ma con me è sempre stato giusto, e a suo modo,
amorevole”. Boromir si fermò, poi aggiunse, con amarezza. “Non così con
Faramir”.
“Non…non ama Faramir come ama
te?”
“Sono sempre stato il figlio
prediletto, anche se non so perché. Non abbiamo nulla in comune, tranne forse
l’orgoglio. Non ho la sottigliezza di mio padre, né il suo amore per la
politica. Quando vedo uomini addobbati con toghe e gioielli il mio più grande
desiderio è di cacciarli dalla stanza con la spada in pugno, invece che mettermi
ad ascoltare le loro adulazioni. Mio padre non si è mai rassegnato, eppure mi
ama”. Boromir restò in silenzio per un momento, poi aggiunse, tranquillamente,
“Mi chiedo cosa farà di me ora…”
“Non accoglierà a casa il suo
figlio prediletto?”
Boromir rise senza allegria.
“Vedremo”.
“Tuo padre non sembra un uomo
gentile”.
“È difficile essere grandi e
allo stesso tempo gentili”.
“Grampasso lo è”.
“Certo. Ma anche Grampasso a
volte deve fare delle scelte crudeli”.
“Come quando ti ha lasciato
indietro?”
Boromir esitò, poi rispose,
“Proprio così”.
Il silenzio cadde di nuovo,
finché Merry parlò di nuovo. “Boromir?”
“Sì?”
“Mi dispiace se ho detto
qualcosa che non avrei dovuto – su tuo padre, o Grampasso, o…”
“Non lo hai fatto”.
“Sei molto silenzioso”.
“Sto pensando a casa”.
“Vuoi parlarmi di Minas
Tirith?”
“Non questa notte,
piccoletto. Riposati, finché puoi”.
“E tu?”
“Non preoccuparti per me,
Merry. Dormi”.
Il mattino portò strane
notizie ai Cavalieri di Rohan. In qualche modo, le notizie di quello che li
attendeva e di ciò che progettavano i comandanti erano filtrate attraverso i
ranghi dell’esercito, e ormai tutti sapevano che la via attraverso l’Anòrien era
infestata da orchi e altre creature del Nemico. L’aiuto era giunto in un modo
inaspettato e tutt’altro che attraente. Gli Uomini Selvaggi della Foresta di
Druadan si erano offerti come guide per condurre gli Uomini di Rohan in salvo
oltre l’imboscata.
La marcia fu ritardata,
mentre Théoden parlamentava con il capo degli Uomini Selvaggi, e alcuni strani
uomini, piccoli di statura e dall’aspetto contorto, strisciavano fuori dalla
foresta scura per accostarsi alle truppe a cavallo. Poi finalmente partirono,
percorrendo la loro strada sotto il buio fogliame degli alberi.
Il primo tratto del viaggio
dovette essere fatto a piedi, conducendo i cavalli a mano lungo la cresta
boscosa che separava la strada principale dalla valle segreta attraverso la
quale gli uomini dei boschi intendevano portarli. Merry si arrampicò cautamente
lungo il ripido e stretto sentiero, guidando Boromir, che non poteva camminare
con la stessa sicurezza dello hobbit.
Boromir conduceva il cavallo,
Fedranth, e dietro di lui veniva Dernhelm con Windfola. Era un lavoro faticoso e
impegnativo, e Merry fu grato quando, arrivato alla sommità della cresta, vide
la lunga valle rigogliosa estendersi sotto di lui.
Per tutto il resto del
giorno, se davvero era giorno, cavalcarono lungo la valle. E tra le fila dei
cavalieri le voci si rincorrevano. Minas Tirith stava bruciando. Il Pelennor era
bloccato dall’esercito di Mordor, affollato di orchi e di crudeli Haradrim, un
luogo di massacro. Mentre i Rohirrim si arrampicavano lentamente tra le colline
la Città Bianca stava morendo tra le fiamme e il terrore.
Boromir sentì quei racconti,
e il suo viso si fece pallido e teso. Merry avrebbe voluto confortarlo, ma era
sconvolto quanto lui, e non gli veniva in mente nulla che potesse aiutarlo.
Pipino e Gandalf si trovavano laggiù, in mezzo al massacro, e a Merry il piccolo
manipolo di soldati non sembrava sufficiente per salvare la città morente.
Quando si fermarono per l’ultima sosta prima di gettarsi nella battaglia, Merry
era ormai caduto in una profonda depressione che non credeva potesse peggiorare.
Ma si sbagliava.
Boromir non aveva fatto alcun
preparativo per accamparsi, sebbene il Maresciallo Elfhelm, che guidava il loro
èored, avesse detto che avevano molte ore a disposizione prima di
cavalcare di nuovo. Boromir aveva semplicemente appoggiato a terra la sella di
Fedranth e ci si era seduto sopra, mordendosi le nocche di una mano, assorto nei
suoi pensieri. Dernhelm si offrì di accendere un fuoco, ma Boromir lo ignorò.
Merry, che non aveva voglia né di mangiare né di parlare, si sedette ai suoi
piedi in un simile atteggiamento abbattuto.
“Dal tuo comportamento si
potrebbe pensare che stiamo fuggendo dalla battaglia, invece di andarle
incontro”, osservò Dernhelm.
“Non è la battaglia che
cerco”, rispose Boromir.
Sia Dernhelm che Merry si
voltarono a guardarlo sorpresi.
“Non è per questo che siamo
qui?” Domandò Merry.
“Io sono qui per aiutare la
mia città”.
“Certo, distruggendo i suoi
nemici”, disse Dernhelm.
Boromir rivolse al cavaliere
il suo sguardo bendato, e aprì le braccia in un gesto di impotenza. “A cosa
potrei servire in battaglia? Quale aiuto potrei portare a Minas Tirith, morendo
sui campi innanzi ai suoi cancelli?”
“Quale onore è più grande che
morire per la propria città? Per il proprio popolo?”
Una smorfia amara incurvò le
labbra di Boromir. “Non servirò a nulla al mio popolo se sarò morto”, disse a
bassa voce. “Certo, combatterò se devo, ma avevo sperato di arrivare a Minas
Tirith con Théoden, e poi unirmi alla difesa della città. Ora trovo tutti gli
eserciti di Mordor tra me e il cancello”.
Merry scrollò le spalle, e in
tutta innocenza, domandò, “Il Cancello è l’unica entrata?”
Dernhelm sbuffò con fare
indignato, disprezzando la sua codardia, ma Boromir si raddrizzò con
un’espressione di speranza sul viso.
“No, non lo è”. Si rivolse a
Merry, sorridendo in modo strano, e disse, “Dove siamo accampati?”
“Non lo so”, rispose lo
hobbit. “Devo chiederlo a Elfhelm?”
“Glielo chiederemo insieme”.
Trovarono il Maresciallo
presso un fuoco da campo. Elfhelm sembrò piuttosto sorpreso nel vedere due dei
suoi clandestini presentarsi a lui così apertamente, e ordinò rapidamente ai
suoi compagni di lasciarlo. Quando Merry e Boromir raggiunsero il fuoco, Elfhelm
era solo. Lanciò a Merry un’occhiata in tralice, ma si inchinò cortesemente a
Boromir.
“Cosa desideri da me, mio
signore? Cerchi notizie di Mundberg e della battaglia?”
“No, ho già sentito i
racconti dei soldati. Vorrei sapere dove siamo accampati e quando intendiamo
ripartire”.
“Siamo accampati nella valle
Cavapietra, a sette leghe dal Rammas Echor. Al tramonto, o quando le guide
riterranno sia il tramonto, partiremo per Mundberg. Il Re Théoden spera di
unirsi alla battaglia prima del sorgere del sole”.
Elfhelm studiò il viso di
Boromir nella luce fioca, e Merry credette di vedere sia pietà che rispetto
negli occhi del Cavaliere. “Il mattino ci dirà se la Torre di Guardia vive o
muore”.
“Vive”, lo rassicurò Boromir,
“Così come me. E presto starò di nuovo sui suoi bastioni”.
“Se con la forza delle armi è
possibile passare i cancelli del Mundberg, allora i Cavalieri di Rohan lo
faranno”.
“Non dubito del tuo valore,
Elfhelm, ma non posso sperare nella vittoria. Il mio posto è con la gente di
Minas Tirith, non con i Rohirrim, e con il tuo permesso, mi unirò a loro”.
Elfhelm sorrise. “Non hai
chiesto il mio permesso per cavalcare con noi e non hai bisogno di chiederlo per
andartene. Va’ dove il tuo dovere ti guida, Capitano di Gondor”.
“Mi aiuterai?”
Il viso del Maresciallo
divenne guardingo. “Che genere di aiuto ti posso dare?”
“Trova uno degli Uomini
Selvaggi che parli la lingua comune, e che sappia come guidarmi attraverso la
foresta, e portalo da me”.
Elfhelm
considerò la richiesta per un istante, poi annuì. “Sì, posso farlo. Aspettami al
tuo accampamento, così che
Éomer non ti trovi qui, e io ti porterò la tua guida".
Poco dopo,
Elfhelm raggiunse Boromir presso il falò che aveva acceso, con un Uomo Selvaggio
al suo fianco. Indicò Boromir e fece segno all’Uomo Selvaggio di andare avanti.
“Non dice il suo nome, ma parla la lingua comune abbastanza bene, e dice di
conoscere ogni roccia e fessura di queste montagne”.
Boromir
cominciò a ringraziare Elfhelm, ma il maresciallo scomparve rapidamente come era
venuto, evidentemente per evitare di farsi vedere insieme ai cavalieri
fuggitivi. L’Uomo Selvaggio si rannicchiò accanto al fuoco e rivolse i suoi
brillanti occhi nocciola verso l’uomo che sedeva davanti a lui.
“Tu vai a Città
di Pietra”.
“Sì. Devo
andare alla Città di Pietra per i sentieri della foresta che portano alle
montagne. Conosci quei sentieri?”
“Conosco tutti
i sentieri”.
“Dove finiscono
le Montagne Bianche, c’è uno sperone di roccia. Unisce le pendici delle montagne
al fianco del monte Mindolluin, dove si trova la Città di Pietra. Quel ponte è
l’unica via per andare dalle foreste dell’Anòrien al Mindolluin senza
attraversare le pianure”.
“Sentiero di
pietra. Conosciamo sentiero di pietra. Noi attraversiamo”.
“Puoi portarmi
al sentiero di pietra?”
L’Uomo
Selvaggio sollevò un dito, simile a legno levigato, e toccò la benda che copriva
gli occhi di Boromir. “Uomo senza occhi bisogno di Uomo Selvaggio”.
“Sì. Conosco i
sentieri della Foresta di Druadan. Ci andavo spesso da ragazzo. Ma ora, non
posso trovare la strada da solo, e nessuno dei Cavalieri la conosce. Se mi
porterai al cancello posteriore alla fine del sentiero di pietra, la piccola
porta nel muro della Città di Pietra, accanto alle Case dei Morti, ti darò tutto
ciò che è in mio potere per ricompensarti”.
Il
grottesco sorriso comparve di nuovo. “Uomo senza occhi può uccidere gorgûn?”
“Gorgûn?”
L’Uomo
Selvaggio sputò nella polvere. “Orchi”.
“Certo. Sono in
grado di uccidere orchi, se è necessario”.
“Bene. Uccidi
gorgûn, e io ti porto a città”.
“Hai la mia
parola. Ucciderò ogni orco che incontrerò, e con piacere”.
L’Uomo
Selvaggio balzò in piedi. “Uomini a cavallo vanno con buio. Io ti trovo. Ti
guido”.
“Grazie”.
Merry attese
finché la piccola, agile figura non fu scomparsa nelle ombre, poi si rivolse a
Boromir trattenendo un grido. “Non puoi lasciare i Cavalieri! Cosa accadrà se
quell’uomo dei boschi sbaglia la strada? Se vi perdete nella foresta?”
“Sarò comunque
più sicuro che sul campo di battaglia. Merry, devo andare”.
“Allora verrò
con te”.
“Non puoi. Hai
giurato di servire Re Théoden”.
“Che mi
importa?” gridò lo hobbit, con la disperazione nella voce e le lacrime che
cominciavano a salirgli agli occhi.
“Significa che
il tuo dovere verso di lui viene prima di ogni altra cosa”.
“Non mi importa
del mio dovere”, insistette, anche se il dolore nella sua voce smentiva le sue
parole. “Ho promesso…” Si interruppe mordendosi le labbra e arrossì
furiosamente.
"Che cosa hai
promesso?”
Chinando la
testa vergognandosi della sua stessa audacia, mormorò, “Ho promesso che non ti
avrei mai più lasciato a combattere da solo”.
Un lungo
silenzio pensieroso seguì le sue parole. Poi Boromir tese la mano e aspettò che
Merry la prendesse nella sua. “Tu mi fai più onore di quanto io meriti”.
“Dico sul
serio. Non ti lascerò andare da solo”.
“Non vado per
combattere, Merry, ma per evitare la battaglia. Sei tu che vai verso la guerra,
e se l’onore me lo permettesse, ti prenderei con me per proteggerti dai
pericoli”.
“Sarebbe così
grave se venissi con te, invece che andare con Théoden?”
Una voce bassa
ma decisa venne dalla zona appena fuori dal cerchio di luce del fuoco. “Saresti
uno spergiuro”.
Dernhelm entrò
nella zona illuminata, chinandosi per scaldarsi le mani sulle fiamme danzanti.
Lo sguardo che rivolse a Merry era pieno di comprensione, ma freddo e
implacabile. “Ti sei legato al Re del Mark, e gli devi la tua obbedienza e la
tua vita”.
“Anche a
Boromir devo la vita”.
“No,
piccoletto”, mormorò Boromir, “Hai già ripagato i miei miseri sforzi mille e
mille volte. Puoi tranquillizzarti: non infrangerai alcuna promessa lasciandomi
andare per la mia strada a Minas Tirith”.
Merry tirò su
col naso, sconsolato. “Che cosa succede? Perché non capisco quello che voi due
vedete così chiaramente e che vi rende così sicuri di quello che devo fare?”
“È una questione di onore,
Merry. Il tuo onore è legato per sempre al Re Théoden, e se lo abbandoni adesso
lo perderai. Diventerai quello che sono io”.
Boromir sollevò un mano per
fermare la protesta di Merry. “Pensaci. Pensa a cosa significa camminare per il
campo di battaglia, dopo la fine dei combattimenti, e vedere attorno a te i
Cavalieri del Mark caduti, abbattuti dal nemico, e sapere che tu non eri lì con
loro per combattere per il tuo Re”.
“Preferiresti che io morissi
in battaglia?” domandò Merry, con voce sottile.
“No!” Con sorpresa di Merry,
Boromir lo afferò per la mano, stringendolo a sé in un fiero abbraccio.
“No, mai. Ma io so che cosa
significa perdere il proprio onore, vedere la tua stima di te stesso distrutta
dalle tue cattive scelte, ed è un dolore peggiore di qualsiasi ferita. Ti chiedo
solo di pensarci, Merry”.
Merry ci pensò. Non dormì né
mangiò, ma rimase seduto accanto al fuoco a pensare a tutte le scelte che aveva
fatto durante il lungo viaggio dalla Contea all’Anòrien. Pensò all’idea di
lasciare andare Boromir senza di lui, e pianse. Poi pensò alla battaglia che
incombeva, e la paura gli attanagliò le viscere. Ma i suoi pensieri tornavano
sempre al momento in cui si era inginocchiato davanti a Théoden, con la sua
piccola spada tra le mani, e aveva chinato il capo con la mano gentile del re
tra i suoi riccioli. Gli tornarono in mente le sue parole a Boromir, quando
aveva detto che sarebbe stato un disonore per lui restare indietro, quando tutti
i suoi amici erano andati alla guerra. Sapeva che andare a Minas Tirith con
Boromir non significava certo prendere la via dei codardi, ma non era la stessa
cosa che adempiere al suo voto, e infliggere il suo piccolo colpo in nome della
Compagnia e della Contea, in quella terribile guerra dell’Anello.
Non riusciva a prendere una
decisione, e non trovò pace per tutto il giorno. Molte lacrime gli scorsero
lungo le guance. Molte parole di rabbia gli affiorarono alle labbra, ma le
inghiottì prima uscissero. Guardò Boromir che fingeva di dormire, e per
l’ennesima volta si augurò che l’uomo accettasse di cavalcare con i Rohirrim,
liberandolo dal fardello di quella scelta. Ma Boromir non avrebbe cambiato idea,
e Merry non riusciva a trovare alcun argomento che potesse persuaderlo.
Quando i corni suonarono per
richiamare i Cavalieri ai loro ranghi, Merry sellò meccanicamente il cavallo e
preparò la sua roba. Boromir lavorò in silenzio accanto a lui. Quando avevano
ormai finito, l’Uomo Selvaggio apparve dagli alberi circostanti e si avvicinò a
Fedranth.
“Noi andiamo”. Disse, senza
preamboli o saluti.
Boromir annuì e si voltò in
direzione di Merry. Lo hobbit restò come intorpidito davanti a lui, con la testa
abbassata, strascicando un piede nella polvere.
“Che cosa hai deciso,
piccoletto?”
“Se tu…se tu credi che io
debba andare con Théoden, allora forse devo farlo”.
Al secondo altro richiamo del
corno Dernhelm giunse presso di loro, conducendo a mano il suo cavallo. “Cavalca
con me, mastro Holbytla”.
Montò in sella, poi tese una
mano per sollevare Merry, ma Merry ignorò l’offerta. I suoi occhi rimasero fissi
sul viso di Boromir, cercando di vedere il dolore che sapeva esservi. Con gli
occhi bendati, solo la mascella contratta e le labbra tese tradivano lo stato
d’animo del guerriero. Boromir sollevò facilmente Merry sulla sella di Dernhelm,
poi si mosse verso il suo cavallo. I suoi gesti erano bruschi, quasi rabbiosi, e
Merry capì che stava cercando di sottrarsi agli occhi dello hobbit mentre
controllava le sue emozioni.
Una volta in sella, Boromir
trafficò nervosamente con le staffe, le cinghie e la bardatura, infine sollevò
la testa, rivolgendo un viso apparentemente calmo allo hobbit. Dernhelm guidò il
suo cavallo vicino a quello di Boromir, e Merry si allungò a stringere il
braccio del guerriero.
“Lasciami venire con te”,
implorò un’ultima volta.
“No, mastro Scudiero. Il tuo
dovere è con il tuo Re e il tuo signore. Devi restare a combattere al suo
fianco”.
“Lui non mi vuole”.
Boromir sorrise comprensivo.
“E Aragorn non vuole me. Ma hanno ugualmente bisogno di noi”.
“Vorrei combattere al tuo
fianco, Boromir. Ho perso la mia occasione a Parth Galen, e tutto quello che è
successo dopo è stata colpa mia”.
Con grande sorpresa di Merry,
Boromir rise. Era la prima volta che lo sentiva ridere da tanto tempo.
“Nulla di tutto ciò è stato
per colpa tua, Merry. Né di Pipino, e nemmeno mia, anche se accettarlo mi è
costato grande dolore e dubbio. Non mi piace essere una pedina nelle mani di re
e stregoni. Sono un uomo abituato a decidere il mio destino. Ma in questo, sono
solo una delle tante pedine, una delle tante armi, passata di mano in mano in
una battaglia senza fine. Tutto ciò che posso fare è colpire dove posso, e dove
il colpo può fare più danno. E tu devi fare lo stesso”.
Merry strinse forte il suo
avambraccio, e scacciò le sue lacrime, così poco adatte a un soldato. “Ti
rivedrò ancora?”
“Lo spero, Merry. Quando la
battaglia sarà finita, e i nostri eserciti si incontreranno sul campo, vieni a
cercarmi”.
“Lo farò. Io…io non so cosa
dire…”
“Calmati, piccoletto. Cavalca
col tuo re verso la gloria, e uccidi un nemico o due per me”.
Merry sorrise attraverso le
lacrime. “Solo due?”
“Ho imparato l’umiltà. Due mi
basteranno.” La sua mano rispose alla stretta dello hobbit e la sua voce si
abbassò a un mormorio. “Cavalca bene, combatti con coraggio, e ricorda ciò che
ti ho insegnato. I miei pensieri e le mie speranze sono con te, Guerriero della
Contea”.
“E i miei con te, Capitano di
Gondor. Addio”.
“Addio.” Boromir diede
un’ultima stretta al braccio di Merry, poi si rivolse alla sua piccola guida.
“Andiamo”.
L’Uomo Selvaggio afferrò la
cavezza del cavallo e cominciò a camminare senza una parola. L’animale lo seguì
obbediente, mentre Boromir lasciava le redini allentate sul suo collo. Merry lo
osservò allontanarsi, e si sentì come se il suo ultimo amico sulla Terra di
Mezzo lo avesse abbandonato. Ora era davvero solo, e cavalcava verso la guerra
con un esercito che non lo voleva, nient’altro che bagaglio issato alla sella di
Dernhelm.
Quando il cavallo di Boromir
stava per raggiungere gli alberi, nascondendo l’uomo alla sua vista, Merry
sollevò la mano e gridò, “Porta il mio affetto a Pipino, quando lo trovi!”
Boromir fermò il cavallo, si
voltò e annuì, sorridendo. Poi si inoltrò nelle fitte ombre della foresta, e
scomparve. Merry si lasciò scivolare all’indietro stancamente, tirandosi il
cappuccio sul viso per nascondere le lacrime al giovane cavaliere dietro di lui.
Un mano gli si posò sulla spalla, e la voce di Dernhelm risuonò vicina al suo
orecchio.
“Fatti coraggio, piccolo
guerriero. Andiamo alla guerra, dove molte ferite possono essere curate nella
furia della battaglia”.
“Pensavo che le spade e le
lance fossero fatte per infliggere ferite, non per guarirle”.
“Per dimenticarle, allora. O
per porvi fine, come alla vita, col taglio di una lama”.
Merry non disse nulla. Sapeva
che quelle parole intendevano confortarlo, ma le parole di Dernhelm non gli
recavano alcun sollievo.
La sua guida era veloce e il
passo del suo cavallo sicuro. Boromir non doveva fare altro che stare in sella e
ascoltare i suoni della foresta. Sentiva che il sentiero stava salendo, e man
mano che gli alberi si infittivano accadeva di frequente che qualche ramo o
cespuglio lo schiaffeggiasse, rischiando di farlo cadere. Si stavano inoltrando
nelle profondità delle foreste dell’Anorien, risalendo le pendici delle Montagne
Bianche, verso il Mindolluin, verso casa.
L’Uomo Selvaggio camminava in
silenzio, lasciando Boromir con la sgradita compagnia dei suoi pensieri. Lo
scorrere del tempo era penoso, perché non aveva alcun pensiero sicuro a cui
aggrapparsi. Come tutte le vie conducevano a Minas Tirith e alla guerra, così
anche tutti i suoi pensieri lo riportavano inevitabilmente al rimpianto, al
dolore e alla paura. Boromir cercò di distrarsi calcolando la direzione che
percorrevano e il passare delle ore. Era un compito impossibile e frustrante, ma
almeno lo tenne occupato per la maggior parte del viaggio.
Nonostante tutti i suoi
sforzi, i pensieri di Boromir tornavano sempre all’esercito dei Rohirrim e al
piccolo hobbit che cavalcava insieme a loro. Avrebbe preferito avere Merry con
lui, invece che saperlo in battaglia, ma cercò di allontanare quel pensiero.
Sapeva che era meschino e ignobile, da parte sua, anteporre le sue paure e le
sue insicurezze al dovere e all’onore di Merry, ma era più forte di lui. Merry
gli era caro, e la possibilità che potesse andare incontro alla morte sul campo
di battaglia lo riempiva di un terrore indicibile.
Come avrebbe fatto ad
affrontare l’interminabile oscurità degli anni a venire senza Merry a dargli
luce e risate? Se Merry fosse caduto quel giorno, come avrebbe potuto dormire di
nuovo? Con un moto di disgusto scacciò quei tetri pensieri e si dedicò
nuovamente a contare i tonfi degli zoccoli del cavallo sul sentiero e il numero
dei rami che gli schiaffeggiavano il viso. Ma sempre, inesorabilmente, ritornava
alla sua mente la stessa terribile domanda. E se Merry fosse morto? E se la loro
stretta di mano d’addio fosse stata l’ultima volta che avrebbe sentito la
piccola mano del mezzuomo tra le sue? E se le tristi suppliche di Merry di
prenderlo con sé fossero state le ultime parole che avrebbe sentito da lui? E se
Dernhelm, nella sua assoluta devozione al dovere, avesse condannato il gentile
hobbit alla morte?
Non aveva risposte a queste
domande, ma continuava a ripetersele ugualmente. Le leghe scorrevano lente sotto
i pazienti passi di Fedranth, l’Uomo Selvaggio camminava con calma davanti al
cavallo, la notte svanì, e l’umore di Boromir divenne ancora più depresso.
Finalmente il loro sentiero
cominciò a scendere. Avanzava ancora tra gli alberi, stretto e contorto, ma la
sua regolare pendenza in discesa diceva a Boromir che si stavano avvicinando
alla fine del loro viaggio. Avevano raggiunto il limite orientale delle Montagne
Bianche e l’ultimo bastione di roccia che si alzava sulle ampie pianure
meridionali.
Uscendo da una profonda
rientranza della montagna, senza più nulla che li separasse dal monte Mindolluin,
Boromir udì il chiaro, distante richiamo dei corni nel vento. Tirò le redini e
fermò Fedranth, alzando la testa per sentire di nuovo il suono.
“Uomini del Cavallo”, osservò
la sua guida, brevemente.
“Sì”. Mormorò Boromir, e
nella sua mente immaginò Merry che galoppava selvaggiamente verso la battaglia,
appollaiato sulla sella di Dernhelm. Impallidì, e la bocca prese una piega
ansiosa, ma rimase calmo e immobile in sella. “I Rohirrim sono arrivati a Minas
Tirith”.
Rilasciando le redini, diede
di sprone al cavallo con i talloni. L’Uomo Selvaggio proseguì, incamminandosi
lungo il sentiero nella foresta. Boromir sentì che il vento era cambiato, anche
se non sapeva cosa significasse. Portava altri rumori ora, nessuno dei quali
rassicurante, e dopo poco giunse anche odore di bruciato. Se anche la sua guida
se ne era accorta non disse nulla, e Boromir tenne per sé la sua inquietudine.
Agitandosi non avrebbe certo reso più breve la strada, ma a si trattenne stento
dallo strappare le redini di mano all’Uomo Selvaggio e spronare Fedranth al
galoppo, correndo giù per la montagna da solo. È una follia, si disse.
Un atto stolto e sconsiderato. Strinse i pugni per evitare la tentazione di
prendere le redini.
L’ombra alata piombò su di
loro come un’onda di freddo e di paura. Boromir stava ascoltando i rumori di
battaglia in lontananza, cercando di non pensare al destino del piccolo hobbit,
quando sentì il gelo passare sopra di lui. Fedranth si fermò all’improvviso,
diventando come di marmo tra le sue ginocchia. L’Uomo Selvaggio mormorò
un’imprecazione nella sua lingua e scappò a nascondersi. Boromir rimase seduto
sul cavallo spaventato, curvo come per proteggersi dall’ombra, con il corpo teso
e tremante.
Nazgûl! I
Nazgûl erano stati mandati da Minas Morgul per gettare la loro ombra sui dolci
campi di Gondor, e per qualche nuova stregoneria del Nemico ora avevano le ali!
In passato Boromir aveva già provato quel gelo e quello sgomento, una volta in
cui vagando si era avvicinato troppo a Imlad Morgul e aveva sentito gli occhi
della torre su di lui. Ma solo ora che aveva viaggiato con Aragorn ed era stato
prigioniero nelle celle di Saruman aveva un nome con cui chiamarli. Nazgûl, Gli
Spettri dell’Anello. Solo il nome bastava a infondere il terrore nel cuore degli
uomini. E ora quegli esseri erano giunti a Gondor.
L’ombra passò
velocemente, volando in circoli verso il Mindolluin e la battaglia sulle
pianure. Una volta passata, il cavallo e l’uomo si riebbero, e ricominciarono a
respirare normalmente. Un nuovo senso di urgenza si impossessò di Boromir. Con
il tocco del Respiro Nero era arrivata la certezza: quella era la resa dei conti
con il Nemico. Sauron aveva scatenato la sua arma più potente per distruggere
Minas Tirith e i suoi difensori, e Boromir figlio di Denethor sarebbe stato tra
loro al momento dell’attacco, anche se avesse dovuto volare sulle stesse ali dei
Nazgûl!
Udì i passi
dell’Uomo Selvaggio che si avvicinavano di nuovo, e una mano afferrò le redini
di Fedranth.
“Male
nell’aria”, mormorò l’Uomo Selvaggio.
“Sì. Dobbiamo
fare presto.” Reso impaziente dall’inquietudine, Boromir spronò Fedranth al
galoppo leggero, senza aspettare che la sua guida lo conducesse. L’Uomo
Selvaggio si affrettò per raggiungerli, e insieme, scesero per il sentiero
serpeggiante.
*** *** ***
Denethor sedeva
nella stanza buia nella torre, con le spalle curve per l’età e il dolore, e il
viso scavato dalla sofferenza. Teneva il palantìr appoggiato sulle ginocchia,
stretto tra le sue mani stranamente immobili e sottili, ma i suoi occhi non
guardavano la scintillante superficie del globo. Pieni di rimpianto, rimanevano
fissi solo sul viso di suo figlio.
Faramir si
agitava delirante sul suo giaciglio, consumato dalla febbre, inconsapevole del
padre che lo vegliava. Denethor si sforzava inutilmente di capire le sue parole
incoerenti. Nell’abisso del suo rimorso pregava silenziosamente che suo figlio
trovasse anche solo un momento di lucidità, una sola parola d’amore o di perdono
per suo padre, ma sapeva che le sue preghiere sarebbero state vane.
Un crudele
destino si era abbattuto sull’Ovest, e benché tutti gli Uomini stessero
soffrendo, nessuno soffriva tanto quanto il signore di Minas Tirith. I suoi
figli gli erano stati strappati. E presto la città li avrebbe seguiti. A quel
punto, nulla più sarebbe rimasto tra Mordor e la Terra di Mezzo se non una folla
dispersa di uomini spaventati, guidati da uno stregone semi-folle e da un re
profugo e vagabondo.
Denethor sapeva
esattamente quale destino lo attendesse, lo aveva visto nel palantìr e non
poteva dubitare l’evidenza di ciò che aveva visto con i suoi occhi. Ma anche
sconfitto, non si sarebbe inchinato alla volontà del Nemico. Non si sarebbe
arreso docilmente all’esilio, alla prigionia o alla morte per mano del nemico.
Lui era Denethor figlio di Echtelion, della stirpe di Nùmenor, e non si piegava
alla volontà di alcuna creatura, neppure all’Oscuro Signore.
Distogliendo a
fatica lo sguardo dal viso del figlio, Denethor osservò il globo posato sulle
sue ginocchia. La sua superficie, dapprima velata dalla nebbia, mutò per
mostrare la battaglia che stava infuriando davanti alle sue mura. Schiere di
orchi, eserciti di uomini feroci, mûmakil con torri d’assedio sul dorso.
Tutta la potenza della Terra di Tenebra si era scatenata contro la città
fortificata. Avrebbero compiuto il loro dovere e sopraffatto le misere forze di
Gondor e dei suoi alleati, che apparivano ai suoi occhi come piccoli residui di
speranza nell’oscurità che avanzava. E infine, come a sigillare il fato di Minas
Tirith e del suo signore, apparve sulle acque dell’Anduin una grande flotta di
navi dalle vele nere.
Un inspiegabile
sorriso danzò sulle labbra del Sovrintendente, mentre metteva da parte il
palantìr e si alzava in piedi. Sembrava vecchio e curvo per le preoccupazioni,
ma una luce stana gli illuminava gli occhi. Si rivolse al mezzuomo, che
attendeva in un tetro silenzio presso la porta. “Convoca i miei servitori e poi
vai, Peregrino figlio di Paladino. Ti esonero dal mio servizio. Vai a morire
come meglio ti aggrada”.
*** *** ***
La grande nave
galleggiava all’ancora nel porto di Harlond. Dalla plancia scendeva una colonna
di orgogliosi guerrieri, vestiti di cotte di maglia e armati per la guerra,
guidando cavalli fieri e letali come i loro cavalieri. Il primo a mettere piede
sul molo, il primo a toccare il suolo di Gondor, fu Aragorn. Avvertì la risposta
del contatto attraverso tutto il corpo, come se la terra stessa stesse gridando
il suo benvenuto. Sollevò il capo e i suoi occhi cercarono il pallido scintillio
delle mura della città, che si innalzavano eleganti al di sopra della cortina di
fumo e fiamme della battaglia.
Halbarad si
avvicinò a lui, seguito dai figli di Elrond. Il Ramingo portava lo stendardo di
Re Elessar, lo stendardo tessuto dalle mani di Arwen Stella del Vespro, quello
stesso stendardo che era stato arrotolato presso il suo letto a Edoras, e che
aveva spiegato al vento per la prima volta, appendendolo all’albero maestro
della nave nera. Ora sventolava orgogliosamente su una lunga asta, e le gemme di
cui era intessuto catturavano la luce del sole.
Aragorn montò
in sella. Attorno a lui, i guerrieri che avevano affrontato al suo fianco i
Sentieri dei Morti, ora si preparavano a una prova di diverso genere. Aragorn
gettò uno sguardo allo stendardo, poi rivolse la sua attenzione al nemico
davanti a lui, e alla battaglia che lo attendeva.
Sguainando
Andùril, indicò con la spada le mura di Minas Tirith, distanti appena un miglio,
e con voce forte e chiara gridò, “Quella è la nostra via!”
“Il tuo trono
ti attende, Re Elessar”, disse Halbarad. “A lungo ho atteso di vederti camminare
in trionfo attraverso le strade della Città Bianca”.
“Non siamo
ancora arrivati, amico mio.”
Aragorn trovava
sconcertante la sicurezza di Halbarad, ma non disse nulla. Guardando di nuovo il
simbolo dell’Albero Bianco sullo stendardo, rimpianse per un istante che fosse
Halbarad, e non un altro, a entrare a Minas Tirith al suo fianco quel giorno.
Poi si liberò di quel pensiero e di tutte le distrazioni e i dubbi, per
concentrare la sua mente e il suo cuore sul compito che lo attendeva.
“A Minas
Tirith!” gridò, e condusse il suo esercito verso la lotta.
*** *** ***
L’odore di
bruciato diventava sempre più forte, rendendo arida la gola di Boromir. La
cenere gli ricopriva i capelli e il mantello, facendolo starnutire. Erano usciti
dal riparo degli alberi, e per la prima volta da molti giorni, Boromir sentì il
sole sul suo viso. Le nubi si stavano diradando ed era pieno giorno, ma, davanti
a loro, tutto era fumo.
L’Uomo
Selvaggio fermò Fedranth tenendo una mano sulla briglia. “La Città di Pietra
brucia”, disse.
“Le truppe di
Mordor hanno assediato la città e incendiato le sue strade”.
“Fuoco laggiù,
alla fine del sentiero di roccia. Vedo fiamme e fumo. Alte fiamme. Uomo senza
occhi troverà fuoco oltre la porta”.
Boromir
aggrottò la fronte, confuso. Il cancello posteriore alla fine del ponte di
roccia si apriva su Rath Dìnen, la Via Silente. Nessuno mai andava alle case dei
morti, se non per curare le tombe o deporre un signore della città a riposare
nelle loro aule. Come poteva il fuoco essere giunto a quel luogo sacro, a meno
che la città non fosse già caduta e gli orchi la stessero profanando dandosi al
saccheggio? Il rumore della battaglia sulle pianure continuava, dicendogli che
la battaglia non era ancora perduta, ma più vicino, come un presagio minaccioso,
sentiva lo scoppiettare delle fiamme.
“Andiamo.
Facciamo presto”, disse.
“Uomo sta
attento. Sentiero di roccia è brutto posto per cavallo, brutto posto per uomo.
Tu fai un passo falso, e cadi lontano”.
Boromir non
dubitò per un momento della verità delle sue parole, e fu quasi grato di non
poter vedere lo spaventoso abisso che si apriva ai lati del ponte, mentre si
incamminavano sull’ esile striscia di roccia che conduceva al Monte Mindolluin e
alla sua città.
Si muovevano
lentamente ma con passo regolare, e Fedranth non dava segni di nervosismo,
guidato dalla mano sicura dell’Uomo Selvaggio.
Erano a metà
strada, quando l’ombra piombò nuovamente su di loro.
Fu più rapida
questa volta, e più vicina, volando rasente al sentiero lasciando una scia di
freddo mortale e il nauseante fetore della corruzione. Fedranth nitrì per il
terrore e si impennò, scalciando l’aria con gli zoccoli. Boromir, colto alla
sprovvista, perse l’equilibrio e cadde di sella con violenza. Udì il rumore
degli zoccoli che colpivano il terreno accanto a lui, un altro nitrito, e
istintivamente rotolò via allontanandosi dall’animale imbizzarrito.
Il momento
successivo sentì mancare il terreno sotto di lui, e cominciò a scivolare oltre
il limite del precipizio. Cercò di trovare un appiglio nel terreno, piantando le
dita inutilmente nel terriccio smosso e nella ghiaia, mentre i suoi piedi
cercavano a tentoni un sostegno nella parte verticale di roccia, ma lo slancio
lo trascina inesorabilmente verso la sua fine.
Improvvisamente
la sua mano sinistra trovò una fessura nella roccia al limite del precipizio. La
afferrò con veemenza, affondando le dita nel piccolo spazio, spostando il suo
peso su quel braccio. Il dolore esplose improvvisamente nelle recenti ferite
alla spalla e al fianco, e Boromir gridò di dolore e di rabbia.
*** *** ***
Merry affondò la spada con
tutta la forza e il terrore che aveva. La lama perforò tessuto e ferro,
penetrando in profondità nella carne della creatura, e il Cavaliere Nero crollò
in avanti con un orribile grido. Merry cadde in ginocchio, con il braccio che
perdeva sensibilità, e la spada scivolò dalla sua mano inerte.
“Éowyn!
Éowyn!” gridò.
La Bianca Dama
di Rohan, con le ultime forze rimaste si alzò in piedi affrontando la grande
ombra e affondando la spada sotto la sua corona scintillante. Il mantello,
l’armatura, la corona, e la spada spezzata caddero al suolo insieme, e Éowyn
crollò esanime sopra di esse. Merry, terrorizzato, acquattato tra i morti, sentì
il raccapricciante lamento del Nazgûl morente.
*** *** ***
Il grido terrificante riempì
Boromir di terrore e disperazione. Aggrappandosi al liscio muro di roccia, con
il corpo che bruciava di dolore e la mente annebbiata dal panico, poteva solo
stringersi alla fredda roccia, e pregare che la morte fosse rapida. Il freddo
mortale del Nazgûl lo avvolgeva, e il suo grido
sembrava lacerare l’aria. Gridò in risposta la sua sfida. In quel momento
estremo gli pareva che il grido dello spettro volesse burlarsi di lui.
Improvvisamente
come era venuto, il gelo svanì. Il calore ritornò a scorrere nelle vene di
Boromir, e con esso nuovo dolore, ma la disperazione era scomparsa insieme
all’ombra dello spettro. Gemendo di dolore e di rabbia ad ogni respiro, si
sforzò di trovare un qualche appoggio per i suoi piedi, di riguadagnare il
sentiero. Il suo piede destro trovò una piccola sporgenza, e spostò il peso su
di esso, lasciandosi sfuggire un doloroso sospiro per il sollievo alla sua
spalla ferita.
Stava
raccogliendo le forze per un altro tentativo, quando una voce risuonò spora di
lui.
“Tieni forte.”
Boromir sollevò
la testa verso la voce, ma non ebbe la forza di rispondere. Un momento dopo,
dure mani familiari lo afferrarono per l’avambraccio sinistro, e sentì una corda
stringersi attorno al suo polso.
“Il cavallo ti
tira su”, spiegò l’Uomo Selvaggio.
Boromir ebbe
appena il tempo di serrare la mano destra alla corda tesa e di riflettere.
Sarebbe stato doloroso. Molto doloroso. Poi sentì il rumore di zoccoli sul
terreno roccioso, la corda si conficcò nella sua carne, e il dolore esplose di
nuovo dentro di lui.
Lentamente,
troppo lentamente per il suo corpo stremato, le forze unite di cavallo e uomo,
sollevarono Boromir fino al sentiero di roccia. Quando finalmente fu di nuovo
sdraiato sul terreno, non poté fare altro che stringere a sé il suo braccio
intorpidito, ansimando in preda a un violento tremito. L’Uomo Selvaggio si
acquattò accanto a lui, mormorando qualcosa tra sé e sé, mentre Fedranth gli
dava piccoli colpetti col muso. Boromir li ignorò entrambi. Era vivo. Esausto e
sfinito dal dolore delle sue ferite, ma vivo.
Questo pensiero
lo spinse a muoversi di nuovo. Si alzò con cautela dal solido conforto del
terreno, aiutandosi con il braccio dell’Uomo Selvaggio e con le redini di
Fedranth per mantenere l’equilibrio. Il cavallo, ora che il terrore alato era
passato, era tranquillo e paziente, e lasciò che Boromir si arrampicasse in
sella senza muoversi. Nuovamente in sella, Boromir scacciò il dolore e la
debolezza e si costrinse a raddrizzare la schiena.
Erano ormai in
vista delle mura di Minas Tirith. Erano ormai alle sue porte. Un altro piccolo
sforzo e sarebbe stato a casa. Serrando la mascella e sollevando il mento,
spronò gentilmente il cavallo e riprese il cammino.
Raggiunsero la
fine del sentiero senza altri incidenti. All’ombra del muro alto e silenzioso,
Boromir scese di sella e porse le redini alla sua guida. In due passi fu davanti
al cancello. Si fermò, con la mano che poggiava delicatamente sul legno grezzo
del cancello, e gridò a pieni polmoni,
“Sentinella!
Apri il cancello!”
Nessun grido
giunse in risposta. Nessun rumore di sbarre o chiavistelli che si aprivano.
Boromir rimase in ascolto per qualche istante, poi estrasse la spada e picchiò
con l’elsa contro la porta. Il legno scricchiolò sotto la potenza dei colpi.
“Aprite, in nome del Lord Denethor!”
Ma ancora
nessuno rispose, e Boromir si accigliò, frustrato per la mancata risposta. Il
cancello posteriore era sempre sorvegliato. Giorno e notte, in pace e in guerra,
i soldati della Guardia Cittadina restavano di guardia al cancello. Era l’unica
via per un eventuale nemico di introdursi nelle mura della città senza prima
attraversare i Campi dei Pelennor, e perciò era il punto più vulnerabile delle
difese cittadine. Non era mai lasciato incustodito.
Eppure, in quel
momento di crisi per la città e per tutta Gondor, il cancello era stato
abbandonato. Quanto più gridava e bussava, tanto più Boromir si allarmava.
Sentiva l’odore del fumo e lo scoppiettio delle fiamme al di là del muro, e fu
colto da una sorta di frenesia. Rath Dìnen stava bruciando. Le case dei morti
erano state attaccate da qualche nemico sconosciuto, e il cuore stesso della sua
città era in fiamme.
Colpì la porta
un ultima volta, poi arretrò. “Devo entrare”, ringhiò.
L’Uomo
Selvaggio rimase fermo pazientemente accanto a lui, tenendo le redini di
Fedranth.
“Ho portato
Uomo senza occhi a Città di Pietra. Io vado, prima che ombra nera ritorni”.
“Aspetta! Resta
un altro poco. Ti prego”.
“Porta è
chiusa”, insistette l’Uomo Selvaggio.
“Allora
dobbiamo trovare un altro modo”.
“Non esiste
altro modo. Muri di pietra sono alti e duri. Non puoi scalare”.
“L’ho fatto, da
ragazzo. Io e mio fratello avevamo trovato una via. Quando non volevamo
corrompere le sentinelle o subire l’ira di nostro padre, ci arrampicavamo per il
muro, nel punto in ombra dietro il riparo delle guardie. Mi chiedo…”
Avvicinandosi
al cancello, Boromir stese la mano sul legno e sollevò i suoi occhi rovinati
come a guardare la cima dell’alto muro.
“Era a destra”,
ricordò a bassa voce, cominciando a camminare lentamente verso destra, “dietro
un albero”.
Molto
lentamente, camminò lungo la base del muro verso sud. Ricordava molto bene quel
sentiero, una stretta striscia di nuda roccia e terra smossa che aderiva ai
piedi del muro, con un salto di centinaia di piedi sotto di essa, che lo
attendeva al primo passo falso. Quello che per un bambino sembrava un sentiero
stretto, si rivelò non essere affatto un sentiero per un uomo della statura e
della mole di Boromir. Quando sentì i rami impigliarsi alla sua manica, si
accorse che stava strisciando tenendosi al muro, praticamente sospeso nel vuoto.
Si aggrappò con
gratitudine ai robusti rami dell’albero e di avvicinò al grande tronco nodoso.
Circondandolo con le braccia vi girò attorno, e trovò uno spazio
sufficientemente largo per poggiare i piedi tra le sue radici. Lì si fermò per
prendere fiato e considerare il compito che aveva iniziato. E il coraggio gli
venne meno.
Non poteva
scalare quel muro. Le crepe e le sporgenze che erano bastate come scala a un
agile ragazzino non avrebbero mai sostenuto il suo peso. Dubitava che sarebbe
anche solo riuscito a trovarle, e sapeva, nauseato per la vergogna e la
frustrazione, che non avrebbe avuto il coraggio di tentare.
Rimase
appoggiato al muro, lottando per raccogliere tutto il suo coraggio e cominciare
l’arrampicata, quando sentì l’Uomo Selvaggio arrivare rumorosamente lungo
l’insidioso sentiero. Boromir si spostò il più possibile per fare posto
all’uomo, ma questo decise invece di arrampicarsi su uno dei rami più bassi,
dove rimase comodamente appollaiato.
“Uomo senza
occhi non può scalare muro,” disse laconicamente.
Boromir
borbottò qualcosa stizzito, e si voltò facendo scorrere le mani sulla ruvida
superficie.
“Uomo cadrà.
Morirà sulle rocce. Diventerà cibo per i corvi.”
“Devi proprio
godere così tanto a ricordarmelo?”
“Uomini
Selvaggi hanno tentato di scalare mura, una volta…”
Boromir colse
il tono astuto della sua voce, e si rivolse a lui con rinnovato interesse. “Sì?
E tu l’hai fatto?”
“Uomini
Selvaggi possono scalare le cime più alte, i pendii più ripidi. Uomini Selvaggi
non cadono mai”.
“E allora Uomo
Selvaggio scala muro della Città di Pietra e apre il maledetto Cancello!”
ringhiò Boromir, spazientito.
“Uomini alti mi
uccidono con spade scintillanti. Uomini selvaggi non entrano”.
“Non c’è
nessuno lì dentro che ti possa uccidere!” scattò Boromir. “Se ci fossero Uomini
Alti con spade scintillanti, avrebbero aperto il cancello.” Esitò un istante,
poi continuò, con voce disperata per l’urgenza. “Io devo entrare. La mia
città è assediata, la mia gente sta morendo, e io sono bloccato qui, senza
poterli aiutare! Devo entrare!”
Seguì qualche
istante di silenzio, mentre l’Uomo Selvaggio considerava le sue parole.
Finalmente, Boromir udì un fruscio sopra di lui, e alcune foglie caddero sul suo
viso. La voce dell’Uomo Selvaggio, quando la udì di nuovo, proveniva da un punto
più alto dell’albero.
“Uomo senza
occhi torna alla porta. Aspetta.”
Boromir
aspettò. Attese fino a quando udì le ossute mani dell’Uomo Selvaggio che
grattavano la roccia del muro, poi ritornò alla sicurezza dello sperone di
roccia davanti al cancello sbarrato. Una volta lì chiamò Fedranth, che arrivò
con un leggero rumore di zoccoli, e presto sentì il suo fiato caldo sul suo
collo.
Gli accarezzò
il naso, per tenere occupate le mani e per rassicurare un poco il cavallo
nervoso, poi si appoggiò al solido legno della porta, e attese.
Finalmente, quando ormai i
suoi nervi sembravano sul punto di cedere per la tensione, udì un rumore
metallico, e sentì la porta di legno vibrare contro la sua schiena. Strinse le
redini di Fedranth e si girò proprio nel momento in cui il portone si aprì.
Boromir esitò, travolto dall’improvvisa e soffocante vampata di calore, fumo e
rumore che si riversò fuori dalla porta. Poi la mano dell’Uomo Selvaggio gli
strinse il braccio, e lo trascinò senza troppe cerimonie oltre il cancello.
“L’accordo è finito”, disse
la sua guida, in tono fermo. Colpì il posteriore di Fedranth per farlo passare
oltre la porta, poi si voltò per fronteggiare Boromir. “Uomo è dentro a Città di
Pietra. Ho scalato muro, ho aperto cancello. Fatto ciò che uomo ha chiesto.
L’accordo è finito.”
“Sì, l’accordo è finito. Ti
ringrazio”.
“Non ringraziamenti. Uccidi
gorgûn.” Una
mano nodosa toccò la spada di Boromir, poi salì a sfiorare il tessuto sopra il
suo occhio sinistro. “Uomo senza occhi mantiene patto e uccide molti gorgûn.
Fa’ andare via la malvagia oscurità. Riporta il sole alle montagne. Porta la
pace.”
“Ti do la mia
parola di Soldato di Gondor. Farò tutto ciò che è in mio potere per scacciare il
nemico e riportare la pace alle tue foreste.”
L’Uomo
Selvaggio disse qualcosa nel suo linguaggio gutturale, poi prese la mano di
Boromir tra le sue e la portò alla sua fronte.
“Addio”, disse
Boromir.
I passi
dell’Uomo Selvaggio si allontanarono oltre l’arco del portone, e il pesante
cancello si richiuse dietro di lui, lasciando Boromir solo tra le case dei
morti. Col volto teso e pallido, Boromir mise il piede in una staffa e montò a
cavallo. Fedranth scartò nervosamente, innervosito dalla cenere incandescente
che gli cadeva di tanto intanto sul mantello, ma Boromir riuscì a governarlo.
“C’è una sola
via d’uscita, amico mio”, disse. “Spero che tu la trovi”.
Percorse la via
Silente pieno di timore, con il ruggito delle fiamme e il rumore di rocce che
cadevano a pochi passi da lui. Il cavallo divenne sempre più recalcitrante man
mano che si avvicinavano alla fonte del frastuono e dal calore, e Boromir
dovette trattenerlo con fermezza per impedirgli di schizzare via nella direzione
da cui erano venuti. Dopo alcune false partenze, l’animale finalmente obbedì ai
suoi comandi, e continuò lungo la strada, ma scartò bruscamente, quando un muro
di pietra alla loro sinistra crollò al suolo in una nuvola incandescente di
polvere e scintille.
Boromir imprecò
e lo spronò coi talloni. Fedranth non aveva certo bisogno di incoraggiamento, Si
lanciò in avanti, fuggendo dal terrore e dal fuoco, e Boromir lo lasciò
galoppare a briglia sciolta. Rath Dìnen aveva solo una strada. Il cavallo non
poteva deviare, a meno che non cercasse di arrampicarsi sui gradini delle case
dei morti, e Boromir era certo che non lo avrebbe fatto.
La strada era
libera davanti a loro, decorata con sculture di re morti tanto tempo prima ed
eleganti pilastri di marmo. Si inerpicava lungo il fianco del Monte Mindolluin,
all’ombra delle mura della città, portando uomo e cavallo fuori dall’aria
soffocante di Rath Dìnen, nella fresca brezza che spazzava il cielo limpido
sopra di loro. Una volta usciti dal fumo Fedranth rallentò l’andatura, ma
continuò obbediente ad avanzare lungo la ripida strada.
Improvvisamente
il cavallo sbuffò allarmato e scartò di lato, costringendo Boromir ad
aggrapparsi alla criniera per non cadere. L’uomo sollevò la testa, come per
interrogare il vento su ciò che aveva innervosito la sua cavalcatura. Sentì il
suono distante di corni e trombe, il fragore delle armi, le grida di uomini e
bestie, ma quei rumori venivano dalle pianure sotto di loro. La città era
stranamente silenziosa, come se stesse trattenendo il respiro. Non sentiva nulla
vicino a lui.
“Ehi!
Guardiano!” chiamò. Sapeva che dovevano essere vicino al portone che conduceva
al Sesto Circolo della città. Un guardiano sorvegliava il cancello e la strada
che portava alle Case dei Morti. Viveva in una piccola casa accanto alla strada.
“Guardiano!” gridò di nuovo, più forte che poté.
Nessuno gli
rispose. Si morse le labbra per la rabbia, e spronò di nuovo il cavallo, che era
riluttante a proseguire. Fedranth mosse alcuni passi indecisi, e Boromir sentì
il suo elmo sbattere contro la roccia. Vacillò per un attimo ma rimase in sella,
e quando Fedranth si mosse ancora in avanti, Boromir si chinò sul suo collo.
Gli zoccoli del
cavallo rimbombavano su una strada di ciottoli, e un sorriso sicuro apparve
sulle labbra di Boromir. Sapeva esattamente dove si trovava: aveva appena
oltrepassato Fen Hollen, la Porta Chiusa, sul retro delle mura del Sesto Circolo
della città.
Era a Minas
Tirith. Era a casa.
Ma c’era
qualcosa di sbagliato. Attorno a lui gravava uno strano, soffocante senso di
tensione. Nelle strade si aggiravano solo poche persone silenziose e spaventate.
Persino i passi e le grida sembravano furtivi. Il vento era fresco, ma portava
il fetore della morte e delle fiamme dal campo di battaglia, e, immaginò
Boromir, dai circoli inferiori della città. Minas Tirith era sotto assedio, e
grande doveva essere stata la sua sofferenza in quel momento estremo. Ora,
mentre la battaglia infuriava davanti alle sue mura, si era ritirata a medicare
le sue ferite e ad attendere la fine.
Boromir spronò
leggermente Fedranth, lasciando le redini allentate sul collo del cavallo. C’era
solo una che potevano prendere, quella verso il cancello della Cittadella che
conduceva al Settimo Circolo e al Cortile della Fontana. Era sempre sorvegliato
da una sentinella della Torre di Guardia, e Boromir attese il suo richiamo.
Ma di nuovo non
arrivò. Continuarono a muoversi lungo la strada serpeggiante finché Boromir non
fu sicuro che avevano raggiunto il cancello, ma nessuno li fermò. Nessuna voce.
Questo fatto, insieme al cancello posteriore incustodito e alle fiamme che
divampavano incontrollate a Rath Dìnen, alimentò i cattivi presentimenti di
Boromir.
C’era qualcosa
di terribilmente sbagliato in città. Non era la paura della battaglia: Minas
Tirith non era certo nuova alle guerre. Di sicuro la sua gente sarebbe stata
spaventata, furiosa, forse avrebbe potuto anche nascondersi, inveire contro
l’esercito che non era riuscito a respingere il nemico. Ma i soldati, le
Guardie, gli ufficiali che li guidavano e i signori della città non avrebbero
dovuto essere sconvolti da una cosa tanto familiare come la guerra.
Ma allora
dov’erano le sentinelle? Dov’erano i soldati che avrebbero dovuto proteggere la
Cittadella? Perché la città sembrava essere in preda al panico e senza una
guida? Dove era suo padre?
Boromir fermò
Fedranth e ascoltò con attenzione. Doveva assolutamente raggiungere la
Cittadella e trovare suo padre. Di certo Lord Denethor avrebbe saputo spiegargli
quale pazzia si era impossessata della città. Di certo aveva già organizzato le
difese, disposto le truppe, protetto i cancelli…Di certo quel panico nasceva
dalla sua immaginazione. Ma senza la sentinella che gli indicasse il cancello,
era perduto.
Boromir scese
di sella e rimase accanto al cavallo. Si sentiva stranamente vulnerabile e
insicuro, per essere un uomo che era appena ritornato a casa dopo lunghi mesi di
vagabondaggi. La città sembrava più grande di come la ricordava, e non riusciva
a richiamare alla mente un’ immagine chiara delle strade. Era disorientato dal
frastuono della battaglia, dal fetore di morte e di bruciato, dalle voci
allarmate che si rincorrevano nelle strade. Non certo per la prima volta,
desiderò di avere portato Merry con lui.
Fedranth sbuffò
e scosse la testa, percependo lo stato d’animo del suo cavaliere. Passi veloci
risuonarono sul selciato dietro di loro, e il cavallo si spostò nervosamente di
lato, costringendo Boromir a seguirlo. Un passo affrettato, qualcosa che
sbatteva contro la sua gamba, e inciampò. Un momento dopo cadde addosso alla
figura in corsa. Qualcosa di grande e pesante sbatté contro il suo petto con un
rumore secco di paglia che si rompeva, e una voce femminile gridò allarmata. Sia
Boromir che la donna sconosciuta furono sbalzati all’indietro, allontanandosi
l’uno dall’altra.
Boromir ritrovò
l’equilibrio e fece un passo avanti, con la mano tesa, pronto a scusarsi. Il suo
piede scese su qualcosa che scricchiolò sotto il suo stivale. Le mani della
donna lo spinsero bruscamente per le spalle, facendogli perdere l’equilibrio e
sbattere contro la sua paziente cavalcatura, e la donna urlò, infuriata,
“Ah, goffo
imbranato che non sei altro! Guarda che cos’hai combinato!”
“Ti chiedo
perdono”, disse Boromir, lieto che l’elmo nascondesse la sua umiliazione. Poi
aggiunse, in tutta onestà, “Non ti avevo visto.”
“Hai distrutto
le mie erbe, e i guaritori mi aspettano! Dovrò andare a raccoglierne delle
altre.”
La voce ora
proveniva dal basso, mentre la ragazza si affaccendava in ginocchio a
raccogliere le piante sparse sul selciato ai suoi piedi. “Soldati dappertutto”,
borbottò, “fanno solo rumore e confusione…Non c’è da stupirsi che le Case di
Guarigione siano piene di feriti e malati, con voi soldati in giro”.
Boromir si
allontanò cautamente da lei, mentre il suo innato senso di cavalleria lottava
con il suo buonsenso. “C’è qualcosa che posso fare per aiutarti?”
“Sì. Spostatevi
dalle mie erbe, tu e il tuo cavallo, prima di calpestarne delle altre.”
Boromir arretrò
di un altro passo, portando con sé il cavallo. Si sentiva inutile e umiliato,
con lo stomaco attanagliato dall’imbarazzo. Non voleva irritare ulteriormente la
donna, ma non poteva nemmeno vagare per la città senza meta, e se lasciava quel
circolo, non avrebbe più ritrovato la via per la Cittadella. Lei avrebbe potuto
guidarlo, se lo avesse voluto. Quel pensiero lo trattenne, nonostante le parole
sdegnose della giovane.
Infine udì il
fruscio dei suoi abiti e del cesto, che gli indicarono che si era alzata in
piedi. I passi lo oltrepassarono frettolosi, mentre lei si affrettava al suo
compito.
“Aspetta!”
chiamò Boromir, tendendo la mano per fermarla, non osando bloccarle la strada.
Lei si fermò.
“Sono in
ritardo, e lo sarò ancora di più, grazie al pasticcio che hai combinato. Cosa
vuoi da me?”
Boromir ebbe
per un attimo la tentazione di togliersi l’elmo e di mostrarle i suoi occhi
bendati, sia per giustificare la sua goffaggine che per chiederle aiuto, ma
esitava a esporsi a quel modo. Il disprezzo potava sopportarlo. La pietà no.
Raddrizzando le
spalle rigidamente per nascondere il suo disagio disse, “Anch’io ho fretta. Devo
raggiungere la Torre, ma non conosco la città e mi sono perso. Dove si trova il
cancello della Cittadella?”
“A ovest, al
centro del muro”, rispose lei brevemente. “Lo hai appena passato.” Schioccando
la lingua in segno di disgusto, si voltò e si allontanò rapidamente da lui,
mormorando a voce abbastanza forte perché lui la sentisse, “Imbranato e
cieco…non dovrebbero lasciargli portare la spada…”
Con un sospiro
frustrato, Boromir si appoggiò contro la spalla del cavallo e si levò l’elmo per
lasciare che l’aria gli rinfrescasse il viso. Non avrebbe dovuto chiedere aiuto
a una simile bisbetica. Avrebbe dovuto farla mettere ai ferri per aver insultato
l’erede del Sovrintendente. O meglio ancora, torcerle il collo. Come diavolo
poteva sapere da che parte era l’ovest? E come faceva a trovare il cancello, a
meno che non ci finisse contro?
Si passò una
mano tra i capelli bagnati, guardandosi attorno come se potesse risolvere i suoi
problemi semplicemente sforzandosi di vedere le strade silenziose. Cercò di dare
un senso ai suoni familiari ma confusi che gli giungevano, lottando per
ritrovare il senso di equilibrio che aveva perso entrando a Minas Tirith.
Atre voci
arrivarono dal clamore della battaglia, voci di uomini, accompagnate dai passi
di stivali pesanti. Boromir si raddrizzò e si allontanò dal cavallo, sempre
tenendo una mano sulle redini per non perderlo. Le voci si avvicinarono, e si
voltò verso di loro.
Improvvisamente, in mezzo al rumore, chiara come il suono di un corno nel
mattino, udì la voce di uno hobbit. “Boromir!”
Boromir lasciò
le redini e mosse un passo malfermo verso la voce. “Pipino?”
Ci fu uno
scalpiccio di piedi scalzi sulla pietra, e la voce acuta di Pipino risuonò piena
di gioia, “Boromir! Sei tu!”
Boromir ebbe
appena il tempo di inginocchiarsi che una piccola figura si lanciò su di lui
correndo a perdifiato gridando “Lo sapevo che saresti venuto! Lo sapevo!”
Il Mezzuomo si
buttò tra le sue braccia, e Boromir lo prese al volo. La stretta di Pipino
attorno al suo collo era così forte da non lasciarlo quasi respirare, ma Boromir
riuscì lo stesso a salutarlo con una risata.
Allentando un
po’la presa, Pipino si girò e gridò gioiosamente, “Gandalf! Guarda chi c’è!
Sapevo sarebbe arrivato nel momento del bisogno!”
“Davvero”, la
voce asciutta di Gandalf veniva proprio da sopra di loro, “e proprio al momento
opportuno. Ben incontrato, Boromir.”
Boromir si
staccò gentilmente da Pipino e si alzò in piedi. Inconsciamente posò la mano
sulla testa riccioluta dello hobbit, e, dopo un breve istante di sorpresa,
Pipino accettò il gesto.
“Sono felice di
trovarti qui, Gandalf”. Un sorriso di autentica gioia gli illuminò il viso, e
aggiunse, “Sono felice di trovarti vivo.”
“Lo stesso vale
per me, amico mio.”
Per qualche
strana ragione, quella parola non suonò strana sulle labbra di Gandalf, e
Boromir si rese improvvisamente conto che davvero considerava Gandalf un amico.
Suo padre non lo avrebbe mai perdonato per questo, ma era così.
“E sono ancora
più felice”, continuò Gandalf, perché, come ha giustamente osservato Pipino,
abbiamo bisogno di te. La tua venuta non avrebbe potuto essere più opportuna.”
“Che cosa è
accaduto?”
“Gli orchi si
stanno raccogliendo ai cancelli, e non c’è nessuno che guidi la guardia della
città contro di loro. Li ho già dispersi una volta, e se occorre posso farlo di
nuovo, ma c’è bisogno di me altrove.”
Boromir rimase
a bocca aperta per lo stupore. “Nessuno a guidarli? Dove sono i signori della
città? Dov’è Denethor, mio padre? Dov’è Faramir?”
“Non è più in
grado di portare questo fardello. È tuo ora, Boromir, come lo è sempre stato.”
“Faramir?” Di
nuovo, il panico si impossessò di Boromir. “Dov’è? Che cosa gli è accaduto?!”
“Ti racconterò
tutto quando ce ne sarà il tempo, ma non ora, Boromir. Non ora! Tutto ciò che
devi sapere è che le armate di Minas Tirith combattono sotto lo stendardo di Dol
Amroth, e il Principe è con loro sul campo. Solo la Guardia cittadina è rimasta
in città, ed è senza guida. Qualcuno che li conosce, qualcuno che gode della
loro fiducia e della loro lealtà deve guidarli contro le forze del nemico, che
si sta radunando proprio ora per assaltare i cancelli crollati, oppure la città
cadrà. Ascolta, Boromir!”
Tutti tacquero,
e improvvisamente Boromir udì le grida degli orchi portate dalla brezza. Un
aspro suono di tromba li radunò, seguito da grida selvagge.
Boromir volse
il suo sguardo bendato verso lo stregone, e il suo viso era risoluto. “Non posso
guidare dei soldati in battaglia.”
“Tu sei il loro
capitano. Non c’è nessun altro.”
“Non mi
seguiranno”.
Un rumore
proveniente da dietro Gandalf attirò l’attenzione di Boromir, e una nuova voce
gli parlò. “Lo faranno, mio signore, se tu li guiderai.”
Boromir si
accigliò, sapendo che avrebbe dovuto riconoscere quella voce, ma senza riuscire
a capire.
“Sono Beregond,
signore, della Terza Compagnia della Guardia. Parlo a nome della mia compagnia e
di tutti quelli che combattono sotto il bianco stendardo del Sovrintendente. Noi
seguiremo il nostro Capitano Generale in battaglia. Scacceremo il nemico dai
nostri cancelli.”
Boromir corrugò
ancor più la fronte, mentre meditava su ciò che gli chiedevano Gandalf e
Beregond. Poteva percepire la disperazione nelle loro voci, e sapeva qual era il
suo dovere. Ma non riuscì a scacciare del tutto la paura che il suo nome e i suo
rango da soli non sarebbero stati sufficienti a valergli la fiducia dei suoi
uomini. Un tempo lo avrebbero seguito anche nell’ombra del Cancello Nero stesso.
Ma ora?
Accanto a lui
Pipino saltò in punta di piedi e disse, “Io cavalcherò con te!”
Strappato dai
suoi pensieri, Boromir si rivolse allo hobbit con aria interrogativa. “Tu,
Pipino?”
“Sono un
soldato di Gondor, ora, votato al servizio di Denethor! È il mio dovere!”
Boromir
sorrise, mentre i suoi dubbi si scioglievano al calore dell’entusiasmo di
Pipino. “Allora cavalchiamo.”
Boromir non
poté vedere il sollievo nello sguardo di Gandalf, ma sentì una rinnovata energia
nella sua voce, quando questi parlò di nuovo. “Beregond, suona il corno e raduna
la Guardia! Al secondo Cancello, presto, o arriveremo troppo tardi!”
Dei passi
corsero lungo le strade verso la Cittadella, e Boromir udì un chiaro suono di
tromba. Gandalf lo guidò prendendolo per un braccio, Pipino per la mano, e
improvvisamente tutto fu caos e grida e passi attorno a lui. Lo stregone lo
condusse a gran velocità verso il Secondo Circolo, lungo le strade della città
assediata, dove si erano già radunati gli uomini della guardia. All’ombra del
cancello lo stregone si fermò, per impartire alcuni ordini a bassa voce, mentre
gli uomini della guardia si affollavano attorno a loro.
“Arriva
soltanto fino alla prima linea di trincee. Beregond segnalerà con un richiamo
quando ci sarete arrivati. Non devi permettere che la compagnia sia tagliata
fuori dalla città, Boromir, o Minas Tirith resterà senza difesa.”
“Non c’è
bisogno che mi insegni come si fa la guerra, Gandalf il Grigio”. Le sue parole
potevano sembrare brusche, ma il tono era gentile, quasi divertito. “Conosco il
mio mestiere”.
“Sì, ma io
conosco la forma di questa battaglia, e tu no. Dammi ascolto, Boromir, non
lasciare che il tuo orgoglio ti tragga in errore.”
Le parole,
calcolate per umiliare la presunzione di Boromir, avrebbero dovuto irritarlo, ma
la consapevolezza degli errori che aveva commesso a causa del suo orgoglio, e la
nuova umiltà che aveva trovato dopo quel fallimento non lasciavano posto alla
rabbia. Boromir si limitò ad annuire e disse, “Non lo farò.”
“Bene”. Gandalf
gli strinse il braccio in un gesto di approvazione. “Tu mi dai speranza, figlio
di Denethor. Presto, ora. Devi fare presto!”
Mentre il
capitano e lo stregone parlavano, e le compagnie della Guardia si radunavano
dietro di loro, Beregond silenziosamente si dedicò a equipaggiare il suo
comandante in un modo più confacente al Capitano di Gondor. Sistemò una fascia
bianca - il colore dei Sovrintendenti - di traverso sulla sua spalla destra,
coprendo quasi interamente il cavallo rampante di Rohan raffigurato sulla sua
tunica. Poi sostituì il mantello verde di Boromir con il suo, un grande mantello
da guerra nero rifinito d’argento.
Quando Boromir
fece per mettersi l’elmo, Gandalf lo fermò. “Lascia la testa scoperta. Mostra il
tuo viso agli uomini, affinché sappiano chi li conduce.”
Boromir esitò
per un momento, assalito di nuovo dai dubbi, poi scosse le spalle e affidò
l’elmo nelle mani di Gandalf. Mise il piede nella staffa e montò in sella su
Fedranth. Allungando una mano verso Pipino disse, “Vieni, soldato di Gondor.”
Pipino rise per
l’eccitazione, mentre prendeva la mano di Boromir e veniva sollevato con
facilità in sella. Le trombe suonarono, voci gridarono ordini ai ranghi. Il
rimbombo degli zoccoli annunciò l’arrivo di quegli ufficiali che avevano trovato
dei cavalli in città, e Beregond prese posto silenziosamente alla destra di
Boromir, su un cavallo che gli avevano portato. Avvicinando il cavallo a
Fedranth disse, “Ho il tuo stendardo, Capitano, il vessillo del Sovrintendente
di Gondor. Chiedo il permesso di portarlo al tuo fianco.”
Boromir
rifletté per un momento, poi tese la mano. “Lo porterò io. Tu lo prenderai dopo
di me, se io dovessi cadere.”
Beregond mise
la pesante e lunga asta nella sua mano, e Boromir appoggiò la sua base sul suo
stivale. Sentì la seta che si muoveva al vento, e immaginò il bianco stendardo
che scintillava sopra di lui. Quante volte aveva visto quel vessillo sulle mura
della Cittadella? Quante volte lo aveva guardato con un misto di orgoglio e di
amarezza, desiderando che fosse il vessillo del Re, e non quello del
Sovrintendente, a sventolare sui bastioni della Città Bianca? Ora non più. Non
era più il tempo per l’amarezza e per la vana ambizione. Con il sangue e il
dolore si era guadagnato il diritto di portare quel simbolo, e lo avrebbe
portato con fierezza per tutto il tempo che gli restava.
Il cuore gli
diceva che stava andando verso la morte, quel giorno, poiché non poteva più
sperare di affrontare l’orrore della battaglia e sopravvivere, ma Boromir non
provava alcun dolore a quel pensiero. Non sarebbe stata una morte inutile o
folle. Era una possibilità di salvare la sua città, e se gli fosse costata la
vita sarebbe morto con la certezza di avere almeno riconquistato il suo onore.
Era di nuovo alla luce del sole, nel posto che gli spettava, e nessun’ombra
avrebbe potuto intimidirlo.
Alzandosi in
piedi sulle staffe, Boromir alzò la voce per sovrastare il frastuono, e gridò,
con la voce che echeggiava sulle mura attorno a loro,
“Uomini di
Gondor! Io sono Boromir, figlio di Denethor, Capitano Generale di Minas Tirith,
e sono ritornato a casa attraverso fiamme, oscurità e massacro per combattere di
nuovo al vostro fianco!” Un grido si alzò dagli uomini che ascoltavano. “Il
nemico è alle porte! Il nostro destino ci attende! Verrete con me a
incontrarlo?”
Cento voci
gridarono il loro assenso, cento spade cozzarono contro gli scudi in segno di
saluto.
Boromir si
risedette in sella e avvolse le redini nella mano sinistra. Chinandosi su
Pipino, mormorò, “Prendi le redini, piccoletto. Io governerò il cavallo, tu devi
guidarlo.”
“Come farò a
tenere le redini e la spada allo stesso tempo?” chiese Pipino nervosamente.
“Non estrarre
la spada finché non te lo dirò io. Fidati di me, Pipino.”
“Mi fido.”
Boromir diede
di sprone a Fedranth, e il cavallo balzò via, attraverso il cancello nelle
strade sconvolte del primo circolo. Gli altri soldati a cavallo lo seguivano, e
gli uomini a piedi correvano dietro di loro. Boromir sentiva la cenere nel vento
e l’odore nauseabondo della morte e della corruzione. I rumori della battaglia
erano assordanti, ma non potevano sovrastare le grida di trionfo degli orchi
alla carica.
Improvvisamente, mentre ormai erano lanciati lungo l’ampia strada verso i
cancelli, Pipino si piegò all’indietro e gridò, “I cancelli sono crollati! La
via è bloccata!”
Dalle sue
spalle giunse la voce di Beregond, “Saltate la barricata! Saltate!”
Boromir piantò
i talloni nel fianco del cavallo, spronandolo. Pipino proruppe in un grido
indistinto e selvaggio, in cui terrore ed eccitazione si confondevano, e si
piegò tenendosi forte alle redini. Istintivamente Boromir chinò la testa, mentre
Fedranth saltava oltre i resti distrutti del cancello, oltre l’arcata di pietra,
per atterrare sulla strada al galoppo lanciato. Boromir udì il rumore metallico
di una spada che veniva sguainata, Pipino gridò, con la sua voce acuta nel
clamore della battaglia, “Gondor!”
Il grido si
levò tutto attorno a loro, “Gondor! Gondor!”, e i Soldati della Torre di
guardia si riversarono attraverso i cancelli piombando sugli orchi di Sauron
come una tempesta.
Aragorn si
fermò per un momento di riposo in mezzo alla battaglia, con i suoi capitani,
Éomer, Imrahil, Halbarad, Legolas e Gimli attorno a lui, e vide la truppa di
soldati che si avvicinava. Cavalcavano sotto il vessillo bianco del
Sovrintendente, e indossavano la livrea nera e argento della Torre di Guardia,
con gli elmi che scintillavano fieri alla luce del sole, e le lance sporche di
sangue. Era una vista che infondeva coraggio, e il cuore di Aragorn fu pieno di
orgoglio. Poi vide il capitano che cavalcava alla loro testa.
L’uomo non
indossava elmo e non portava scudo. La sua tunica e la cotta erano quelle dei
Rohirrim, ma in diagonale sul petto portava una fascia bianca, che copriva il
simbolo di Rohan, e sulle spalle aveva un mantello nero bordato d’argento. Una
striscia di tessuto nero era legata sopra i suoi occhi, e nella mano destra
portava il vessillo bianco. Con la sinistra teneva le redini del cavallo.
Davanti a lui sulla sella era appollaiata una piccola figura entusiasta, vestita
nella livrea della Guardia, che brandiva una spada gocciolante di sangue.
Il cavaliere si
diresse verso Aragorn che era anch’egli in sella, e attendeva in un silenzio
incredulo. Di tutti gli astanti, l’ unico a non essere paralizzato dalla
sorpresa fu Imrahil. Il Principe diede uno sguardo al viso del Capitano e spronò
il cavallo in avanti con un grido di benvenuto.
“Mio signore!
Boromir, amico mio!”
Mentre i due
cavalli si avvicinavano la Guardia si ritirò. Avevano fatto cerchio attorno al
loro comandante sul campo di battaglia, e ora sapevano che non avevano nulla da
temere per lui in compagnia del Principe Imrahil. Boromir riconobbe la voce e
cedette lo stendardo al suo compagno più vicino, per poter ricambiare
l’abbraccio del suo consanguineo.
“Ben
incontrato!” Disse Imrahil ridendo. “Ben incontrato davvero! Ti credevamo
perduto!”
“Ma certo mio
padre vi avrà detto…” Boromir si ritrasse da Imrahil e corrugò la fronte.
“Gandalf è giunto qui prima di me. Avrà detto a Denethor che stavo arrivando.”
A quel punto,
Aragorn decise che era il momento di interrompere quell’incontro e di far valere
la sua autorità. “Nessuno sapeva che stavi arrivando, Boromir.” La sua voce era
dura, ma i suoi occhi ridevano. “In verità, mi pare di ricordare che ti avessi
ordinato di non venire affatto.”
Boromir gli
rivolse un sorriso privo di qualsiasi traccia di umiliazione. Estrasse la spada
e fece un saluto militare, in una mossa che avrebbe potuto decapitare Pipino, se
fosse stata eseguita da una mano meno esperta.
“Ordinarmi di
non venire e lasciarmi indietro come un bagaglio dimenticato sono due cose
diverse, mio re. E poiché questo particolare bagaglio ha gambe e una volontà
propria, ha deciso di andare dove c’era più bisogno di lui.”
Aragorn guardò
Boromir stupito, confuso dal suo atteggiamento e dalle sue parole audaci. Fu
allora, quando vide l’ampio sorriso del suo amico e l’energia che irradiava da
lui come luce sull’oro, che Aragorn capì che stava finalmente vedendo Boromir,
Capitano di Gondor, quale era veramente. In tutti i lunghi mesi del loro viaggio
e della loro conoscenza, Aragorn aveva visto Boromir riservato, tormentato,
inquieto. Avvelenato dall’Anello, scosso dal senso di colpa, vacillante sotto il
peso del dolore e della disperazione. Quello era l’uomo che Aragorn aveva
conosciuto. Ma questo - quest’uomo dai rapidi sorrisi e dall’ancor più rapido
coraggio, dalla fiera determinazione, dall’innato carisma, dal portamento
marziale e dalla gioiosa forza - questo era l’uomo che Gondor conosceva. Amato
dai soldati, adorato dal suo severo padre, stimato dagli alleati, temuto dai
nemici, e capace di incitare gli uomini alla guerra con una sola parola, anche
così, anche adesso.
Un sorriso
apparve lentamente sul viso di Aragorn, e si sporse per stringere il braccio di
Boromir in segno di benvenuto.
“Sei giunto al
momento giusto, amico mio Bagaglio.”
“Ed è stata
anche una grande impresa”, si intromise Pipino. “Se non avessimo scacciato
quegli orchi dal cancello, non avresti più una città da governare. Io ne ho
uccisi almeno una mezza dozzina!”
“Allora hai la
mia gratitudine, oltre al mio benvenuto.”
“Non è stato
nulla”, disse Boromir, con soddisfazione.
“Per te,
forse”, ribatté Pipino, “perché avevi un hobbit che faceva tutto il lavoro
sporco al tuo posto!”
I lord radunati
dietro Aragorn guardarono di traverso il piccolo mezzuomo insolente, ma Legolas
e Gimli sorrisero, mentre Aragorn e Boromir risero apertamente. Boromir appoggiò
la mano libera sulla spalla di Pipino e la strinse in un gesto di gratitudine.
“È vero,
Pipino. La mia spada non è nemmeno sporca di sangue.” Poi il viso di Boromir
divenne triste. “Neanche un orco ucciso! Come farò ad affrontare Merry?”
“Andiamo a
cercarne degli altri”, suggerì Pipino. “Te ne lascerò uno.”
“Fermi!” Gridò
Aragorn. Boromir trattenne obbediente il suo cavallo, impedendogli di galoppare
via nella mischia. “Non andrete a cercare nessun orco. Mastro Peregrino. Tu
accompagnerai Boromir di nuovo in città. E giurami sul tuo onore di soldato di
Gondor che non permetterai che gli venga fatto un graffio. Nemmeno un solo
graffio!”
Ora fu il turno
di Pipino di apparire afflitto. “E perdermi la guerra?”
“La guerra è
ben lontana dall’essere finita, Pipino. Ma per oggi, voi non combatterete più.”
Con grande
sorpresa e sollievo di Aragorn, Boromir non fece alcuna obiezione ai suoi
ordini. Si limitò a sorridere e salutò i capitani radunati, poi stese la mano
per prendere il vessillo, lo sollevò alto sulla testa con orgoglio, e galoppò
verso la città con i suoi uomini in formazione stretta attorno a lui. Aragorn li
guardò allontanarsi, con il sorriso ancora sulle labbra.
“Dunque il lord
Boromir non è morto, come si dice in giro.” Il Principe Imrahil aveva avvicinato
il cavallo a quello di Aragorn e aveva parlato a bassa voce.
“E come è nata
questa diceria? Gandalf non era andato a Minas Tirith portando la notizia che
Boromir vive?”
“Non è stato
creduto.”
Aragorn gli
lanciò uno sguardo penetrante. “Chi oserebbe contraddire Gandalf?”
“Denethor non
si è mai fidato del Grigio Pellegrino. E…non so come, ma lord Denethor giura di
avere visto suo figlio cadere abbattuto dalla spada di un orco.”
“È la verità.
Anch’io l’ho visto. Ma eccolo qui, come hai visto, sano e salvo.”
“Sano?” La voce
di Imrahil era cautamente neutrale, priva di toni di sfida, ma fredda e
incredula. Puntò un dito guantato verso il gruppo di cavalieri, ormai lontani.
“Lo chiami forse sano?”
“Sì,” rispose
Aragorn, pacato. Sapeva cosa turbava Imrahil. Si era aspettato quella reazione
da parte dei nobili di Gondor, ma la sua determinazione era immutata.
“È vivo,
certo”, continuò Imrahil, “e in salute. Non fraintendermi, Aragorn. Sono
felicissimo di rivederlo, ma…” Imrahil si interruppe, e Aragorn lo guardò a
lungo.
“Dubiti la sua
capacità di servire Gondor come faceva un tempo?”
“È cieco.”
“Sì.”
“Come possono
le armate di Gondor seguire in battaglia un capitano cieco?”
Aragorn evitò
di dire che non aveva intenzione di permettere a Boromir di condurre l’esercito
in battaglia, mai più. Non avrebbe umiliato il suo amico e Sovrintendente a quel
modo, davanti ai suoi pari. Invece accennò col capo ai cavalieri. “Oggi lo hanno
fatto.”
“Non lo hanno
seguito”, ribatté Imrahil. “Lo hanno difeso. Quanti uomini saranno morti,
secondo te, per proteggere il principesco portatore del vessillo?”
Voltandosi per
rivolgersi ai guerrieri dietro di lui Aragorn gridò, “Ditemi, miei capitani, che
cosa avete visto sui visi di quegli uomini? Paura?”
Gimli esplose
in una risata. “Orgoglio!”
“La gioia della
vittoria”, disse Legolas.
“Lealtà, e
amore”, disse Éomer, “Sufficienti a portarli fino ai Cancelli Neri, se lui
glielo avesse chiesto”.
Aragorn sorrise
al Re del Mark. “Tu lo seguiresti?”
“Fino al
Cancello Nero, se me lo chiedesse.”
Aragorn strinse
gli occhi colto da un improvviso sospetto. “Gli hai dato tu quel cavallo?”
Éomer
sogghignò. “Sì.”
“Allora io e te
dovremo parlare, più tardi.”
“Non è
necessario che mi ringrazi, mio signore”, disse il Cavaliere.
Aragorn
sorrise, poi scoppiò a ridere di cuore, per la gioia della battaglia,
l’amicizia, e la vittoria. “Basta così! In battaglia, prima che gli hobbit la
vincano per noi!”
*** *** ***
Merry camminava
barcollando, incapace di restare diritto o di vedere dove metteva i piedi. Non
sentiva alcun dolore, solo un freddo terribile che gli intorpidiva il braccio
destro, e si espandeva, inesorabilmente, per tutto il suo corpo. Scure nebbie
gli offuscavano la vista, e quando sollevava la testa, non riusciva più a
distinguere le figure dei portatori della lettiga o le torce che portavano.
Voleva seguirli. Voleva rimanere al suo posto al fianco del suo re, anche
allora. Ma le lunghe gambe degli uomini andavano troppo veloci per lui, e le
ombre li avvolsero, lasciando Merry solo sulla pianura dei morti.
Si arrampicò a
fatica sui mucchi di cadaveri - orchi, uomini, e cavalli tutti ammassati insieme
- per raggiungere i cancelli, e nel suo stato confusionale, non si rese nemmeno
conto del contatto con la carne morta.
All’ombra delle
mura, si arrampicò oltre i resti in rovina del cancello della città, superando
la barricata di legno e metallo contorto con la stessa indifferenza con sui
aveva superato i mucchi di cadaveri.
Una volta
dentro le mura, si fermò per guardarsi attorno. Non sapeva nulla della città e
non aveva idea di dove andare, ma vide un luccicare di torce che salivano lungo
un’ampia strada serpeggiante. Così, chinando di nuovo la testa, costrinse le sue
gambe pesanti a camminare…scalare…mentre il freddo penetrava sempre più in
profondità nelle sue ossa e l’oscurità si chiudeva su di lui.
“Merry!”
Merry sollevò
lo sguardo verso la voce familiare, e per un attimo la nebbia davanti ai suoi
occhi si diradò, e vide Pipino, che correva a tutta velocità verso di lui,
gridando, “Merry! Grazie al cielo ti abbiamo trovato!”
Vide che stava
camminando in uno stretto vicolo, deserto se non per lui, suo cugino, e una
figura alta, ammantata di nero, che stava ferma nel punto in cui la via curvava.
Merry si fermò e si guardò attorno, confuso.
Pipino gli
corse incontro e gli afferrò le mani in una forte stretta, anche se Merry non
poté sentirne la pressione sulla mano destra. “Povero vecchio Merry!” disse
Pipino. “Ti abbiamo cercato per tutta la città, temevamo che fossi disperso da
qualche parte sul campo di battaglia!”
“Dov’è il Re?”
Chiese Merry, con aria stordita. “Dov’è Éowyn?”
“Sono stati
portati alla Cittadella.”
“Devo
seguirli.”
Cercò di
muovere le gambe, di riprendere il suo cammino senza fine, ma non ne aveva più
la forza. Pipino gli mise un braccio in vita e lo aiutò a risalire la collina.
Merry avanzava inciampando al suo fianco.
“Ho freddo,
Pip. Un freddo terribile.”
“Ancora pochi
passi, Merry.”
“È stato
tremendo! La mia spada…si è fusa! E il mio braccio sembra morto. Aiutami,
Pipino!”
“Certo che ti
aiuteremo. Non pensare alla battaglia, ora, né al freddo.”
“Merry?”
Al suono della
nuova voce, Merry si fermò, barcollando per lo sfinimento, e sollevò lo sguardo
verso la figura sopra di lui. Per un terribile momento il mantello nero lo
ingannò, e credette che il Signore dei Nazgûl fosse di nuovo sopra di lui. Ma la
voce non era quella giusta, e non c’era alcun gelo di terrore malefico
nell’aria. Il freddo era dentro di lui, non fuori.
La figura fece
un passo, avvicinandosi a lui, e si inginocchiò fino al suo livello. “Sei
ferito, Merry?”
Merry sbatté le
palpebre per schiarirsi la vista e si trovò a guardare il viso preoccupato di
Boromir. Cercò di sorridere, ma i suoi muscoli non rispondevano. “Boromir. Sei
qui.”
Boromir gli
diede una breve stretta sulle spalle, poi spostò le mani ai lati della testa di
Merry. Merry fu vagamente consapevole di un’insolita gentilezza nella voce e nel
tocco. “Certo. Dove altro potrei essere? Pipino, è ferito?”
“Non sembra”,
rispose Pipino.
“Ho soltanto
freddo”, lo assicurò Merry, “e non ci vedo bene. Tutto è così buio…” Si
interruppe, singhiozzando. “Mi dispiace, Boromir. Ti prego non essere arrabbiato
con me. Ho cercato di combattere come mi hai insegnato, ma non sono riuscito…non
sono riuscito a salvare Re Théoden, e quando ho cercato di aiutare Éowyn ho solo
fatto fondere la mia spada.”
“Shhh,
calmati.” Il grande mantello nero fu sistemato attorno alle spalle di Merry, e
le braccia dell’uomo lo sollevarono con facilità. “Ti sei comportato da eroe,
piccoletto.”
Merry continuò
a borbottare, in modo confuso, “Tu lo sapevi che era lei, vero? È stata lei a
uccidere lo spettro. Gli ha piantato la spada in testa, e lo spettro si è
volatilizzato con un grido terribile. Volevo aiutarla. Ho tentato. Volevo che tu
fossi fiero di me”, mormorò, mentre affondava la testa nella comoda spalla di
Boromir, chiudendo gli occhi.
“E lo sono. Non
dubitarne. Portaci alle case di guarigione, Pipino. Presto!”
Merry non sentì
più nulla. Sicuro che nessun incubo alato potesse raggiungerlo, ora che era con
Boromir e Pipino, si abbandonò all’oblio e scivolò nell’oscurità.
“Morto? Che follia è mai
questa?” gridò Boromir, con i nervi logorati dal dolore e dalla stanchezza,
sfogando la sua rabbia su chi non lo meritava. “Non ho sentito nessuno in città
parlare della morte del Sovrintendente! Come può essere che mio padre sia
morto?”
Gandalf, esausto e sfinito
quanto lui, riuscì tuttavia a mantenere la calma. “Per sua stessa mano, Boromir.
Ha ordinato di preparare un rogo funebre a Rath Dìnen, nella Casa dei
Sovrintendenti, e si è lasciato bruciare.”
“No, non è possibile. È una
follia, una menzogna…”
“Nulla di tutto ciò. L’ho
visto io stesso salire sulla pira e accenderla, e sono stato io a portare
Faramir fuori dalla tomba.”
“Faramir!” Quell’ultima
osservazione fece perdere definitivamente il controllo a Boromir. Impallidì,
serrando i pugni con rabbia e impotenza. “Mi avevi detto che mio fratello era
nelle Case di Guarigione, accudito e al sicuro in attesa dell’arrivo di
Aragorn.”
“Ora sì. Ma tuo padre
credeva che fosse ormai troppo tardi per salvarlo, e lo aveva portato alle Case
dei Morti, con l’intenzione di bruciarlo insieme a lui. Se non fosse stato per
la prontezza di Pipino e il valore di Beregond, tuo fratello ora giacerebbe tra
le rovine fumanti della tomba di Denethor.”
Boromir emise un gemito
soffocato, vacillando sotto il peso di quel colpo. Aragorn lo prese per un
braccio per sorreggerlo, e lo guidò verso una panca di pietra, dove Boromir si
lasciò cadere con la testa fra le mani.
Era ormai notte, e le stelle
erano già apparse, scintillando intermittenti attraverso gli ultimi lembi di
nubi che indugiavano attorno alla cima della montagna. Le torce e i falò
brillavano nella pianura sotto di loro, trasformando il campo di battaglia del
giorno passato in un tappeto luccicante, che faceva a gara con le stelle in
cielo. In alcune parti della città ardevano ancora dei fuochi, bagliori di rosso
cupo nell’oscurità, e le strade erano strette in una morsa di immobilità
sfinita; ma la paura, almeno per quella notte, se ne era andata.
La bellezza della notte non
confortava però i tre amici riuniti nel giardino per parlare di fiamme e di
morte. Quel giorno tutti e tre avevano conosciuto l’esaltazione, il trionfo e
l’amarezza del lutto. Tutti e tre avevano combattuto al limite delle loro forze
ed erano sopravvissuti, per ritrovarsi nelle rovine fumanti dopo la battaglia.
Boromir non aveva riposato
fin dalla breve sosta con i Cavalieri nella valle Cavapietra, un intero giorno e
una notte prima, e anche allora non aveva dormito. Dopo la sua cavalcata oltre i
cancelli, aveva trascorso molte ore lavorando per organizzare le difese della
città, rimuovere i morti e le macerie dalle strade, e rassicurare la gente
spaventata. Poi era rimasto al capezzale di Faramir, ascoltando i suoi mormorii
e le grida deliranti, ed ora era in uno stato tale che nessuna bellezza né
conforto potevano raggiungerlo. Solo il dolore. L’ardore della battaglia si era
raffreddato tra le ceneri insanguinate, e il suo trionfo ai cancelli era già
dimenticato in mezzo alle macerie dello scontro.
Sedeva nei giardini
tranquilli e solitari vicino alle Case di Guarigione, ascoltando Gandalf che gli
parlava del crudele destino di suo padre, e chiedendosi perché mai aveva lottato
così tanto per tornare a casa …per tornare a quello. La sua città sull’orlo
della rovina, suo padre morto, suo fratello in fin di vita, e tutti i suoi
sforzi per riconquistare il suo onore e il suo posto derisi.
Aragorn sedeva accanto a
lui, cercando di confortarlo senza parole, ma anche il Ramingo, sconvolto dalla
notizia della follia di Denethor, non sapeva come reagire.
“Quando ci hai incontrato in
strada”, continuò Gandalf, imperterrito, “avevamo appena portato Faramir dai
Guaritori.”
“Sono entrato in città da
Rath Dìnen.” Boromir si prese la testa fra le mani, come se la pressione delle
sue dita potesse forzare quelle insopportabili parole fuori dalla sua mente. “Le
ceneri mi soffocavano…le ceneri di mio padre… e mi sono chiesto quale tradimento
aveva potuto portare fuoco e distruzione nel luogo più sacro di Minas Tirith.”
“È stato davvero un
tradimento. Il braccio di Sauron si è allungato, ma anche così non avrebbe
potuto raggiungere i luoghi sacri di questa città, senza che il Sovrintendente
gli aprisse la strada.”
“Osi chiamare mio padre un
traditore?!” ringhiò Boromir, infiammandosi di nuova ostilità.
“E che altro nome daresti a
un uomo che apre il suo cuore ai sussurri del Nemico, accecato dalla speranza,
condotto alla disperazione, e che infine si consegna spontaneamente alla morte
progettata dal suo nemico?”
Boromir fissò il suo sguardo
bendato sullo stregone. Sentiva la verità di quelle parole, come il dolore di
un’antica ferita nel cuore, ma quella verità non gli dava alcun conforto.
Gandalf, rispondendo alla
sua domanda inespressa, disse, “Tuo padre possedeva una delle antiche Pietre
Veggenti, i palantìri, che usava per sorvegliare nemici e alleati allo
stesso modo. Ha gettato lo sguardo troppo lontano senza avvedersi del pericolo.
L’Occhio e la volontà di Sauron lo hanno irretito, e il palantìr è divenuto
schiavo del Nemico, ma Denethor non voleva credere che la sua potente arma
potesse essere usata contro di lui. Era troppo orgoglioso per ammettere che una
volontà più forte della sua controllasse il palantìr, o che questo non fosse
fatta per essere usata da lui. Credeva solo a ciò che vedeva nella pietra e non
ascoltava nessuno che contraddicesse le sue visioni.”
Gandalf esitò un momento,
poi aggiunse, con dolcezza, “Ti credeva morto. Per volontà del Nemico ha visto
solo la tua caduta e la tua cattura, ma non la tua liberazione. Io e Pipino gli
abbiamo detto che eri vivo, ma non ci ha dato ascolto. Eravamo solo creature in
carne ed ossa - capaci di tradimenti e di inganni, che complottavano contro
Gondor e il suo signore con le nostre storie di speranza - mentre il palantìr
non aveva mai mentito.”
“Mi credeva morto,” mormorò
Boromir, con tono assente. Un profondo dolore lo travolse, il dolore della
perdita, ma ancora peggiore, il dolore dovuto alla consapevolezza che Gandalf
aveva ragione. Per quanto cercasse di rifiutare la verità, sapeva che lo
stregone aveva visto bene nel cuore orgoglioso del padre, e lo aveva ben
compreso. “Un altro tradimento da mettere sul mio conto.”
Gandalf sorrise stancamente.
“Non puoi addossarti questa colpa, Boromir. Certo, la tua presunta morte è stata
un colpo terribile per Denethor, ma non sarebbe bastata, da sola, a condurlo
alla follia.”
In risposta Boromir ebbe un
sorriso sarcastico. “Mi consoli.”
“È quello che intendo fare.
Hai imparato molte cose da quando sei partito da Minas Tirith alla ricerca di
Imladris. Non ricadere nell’arroganza.”
“È arroganza assumermi la
colpa della morte di mio padre?”
“Sì, perché è una colpa
immeritata, e solo un modo per esasperare la tua sofferenza.”
Boromir meditò le sue parole
per un momento, poi scosse le spalle in segno di resa. “Sei spietato, Gandalf il
Grigio. E come al solito hai ragione. Piangerò mio padre, ma non porterò la
colpa per la sua morte.”
“Molto saggio, mio Lord
Sovrintendente. Ben presto Faramir scoprirà di non essere l’unico della famiglia
ad avere la vista acuta.” Boromir trasalì alla scelta delle parole, ma lo
stregone non diede segno di essersene accorto. “Chissà se ne sarà stupito.”
Al sentire nominare Faramir,
Aragorn si alzò in piedi. “Devo andare a vedere i feriti e i malati. Ioreth avrà
trovato le erbe che le avevo chiesto, e non posso indugiare. Boromir, piango
insieme a te, e a tutta la città, la morte di tuo padre.”
Boromir annuì senza parlare.
“Vieni anche tu? Vorrei che
tu fossi lì, quando Faramir si sveglierà.”
Boromir si alzò in piedi, ma
non si mosse per seguire il Ramingo. “Verrò. Ma prima voglio parlare da solo con
Gandalf.”
Aragorn gli strinse il
braccio in un gesto di comprensione, e si incamminò velocemente verso la Casa.
Boromir attese fino a quando udì il rumore dei passi echeggiare sul pavimento di
pietra e la porta che si chiudeva, poi si rivolse allo stregone, che aspettava
pazientemente. Ora che era da solo con Gandalf si sentì improvvisamente a
disagio, e le parole gli vennero meno.
Infine, lo stregone ebbe
pietà di lui, e con insolita dolcezza gli chiese, “Che cosa ti turba?”
“Faramir”.
“Allora faresti meglio a
chiedere ad Aragorn. Se c’è qualcuno che può salvare Faramir, è lui.”
“Non è per la sua malattia.
Vorrei sapere se gli hai parlato, prima che fosse ferito.”
“Brevemente. Non è stato a
lungo in città.”
“Come ti è sembrato?”
“Stanco e oppresso dal
dolore.” Gandalf fece una pausa, poi riprese con tono tagliente. “Ma tu non mi
stai chiedendo notizie degli scontri di tuo fratello con Denethor, né dello
stato della guarnigione nell’Ithilien. Che cosa vuoi sapere, Boromir?”
“Ha parlato di me? Della
nostra separazione?”
“No, non direttamente. Mi ha
chiesto della tua cattura, e di Saruman. Non credeva alle voci riguardo la tua
morte, perché lui, al contrario di Denethor, si fidava della mia parola, ma ha
voluto sapere che cosa ti era accaduto dopo che hai lasciato Granburrone.”
“E glielo hai detto?”
“Soltanto quello che
spettava a me dire. In molte altre cose non avevo parte, e non sarebbe stato
giusto parlarne.”
Boromir avvertì la tensione
nella sua stessa voce mentre chiedeva, “E l’Anello?”
“Cosa vuoi sapere
dell’Anello?”
“Non prenderti gioco di me,
Gandalf! Hai detto a mio fratello che ho tentato di rubare l’Anello?
“No, lo sapeva già.”
“Cosa?! Come può
essere?”
“Ha incontrato Frodo
nell’Ithilien.”
“Frodo…” Boromir si
ritrasse, sentendo il bisogno di camminare per sfogare la crescente angoscia, ma
si trovava in uno spazio poco familiare, e non osava muoversi. Il suo ginocchio
premette contro la fredda roccia della panca, e vi si sedette pesantemente,
mormorando, “Frodo glielo ha detto.” Serrò i pugni sulle sue ginocchia,
imprecando. “Frodo glielo ha detto!”
“Non condannare Frodo per la
sua indiscrezione. Penso che Faramir abbia indovinato più di quanto Frodo non
abbia detto.”
Boromir rise amaramente. “Io
condannare Frodo? Non potrei mai osare tanto.”
“Preferiresti che tuo
fratello non conoscesse la prova che hai affrontato?”
“La prova che ho fallito,
vuoi dire.” Boromir aprì le mani, sforzandosi di calmarsi, di accettare la
situazione. Ma la paura, la vergogna e il dolore che gli attanagliavano le
viscere non diminuirono affatto. “No, è giusto che Faramir sappia. Il mio
tradimento non può restare nascosto. Eppure avrei voluto essere io a dirglielo.
E vorrei che…”
Si interruppe per ingoiare
il dolore soffocante nella sua gola, e gli sembrò di sentire gli occhi acuti
dello stregone che lo fissavano, gentili ma penetranti, che leggevano nel suo
cuore che lui lo volesse o no.
“Vorrei che questo …la mia
più grande follia, non fosse tra di noi al nostro primo incontro.”
“Credi che faccia differenza
per tuo fratello? Credi che intacchi il suo affetto o la sua felicità per il tuo
ritorno?”
“Ci siamo lasciati
nell’amarezza”, mormorò Boromir, parlando più a se stesso che allo stregone.
“Voleva essere lui a compiere la missione, ma io ho convinto mio padre a mandare
me al suo posto. Lui si arrabbiò, ma la cosa peggiore è che ne fu ferito, in un
modo che non avevo mai visto. Temo che non potrà perdonarmi per il male che gli
ho fatto, usurpando il suo posto e tradendo la missione che avrebbe dovuto
essere sua.”
“Faramir non è incline al
risentimento. Le ferite saranno profonde, ma riuscirai a sanarle.”
“Spero tanto che tu abbia
ragione, Gandalf. Vorrei trovare almeno una cosa, in mezzo a tutta questa
rovina, che possa ancora essere sanata.”
“Non tutto è rovina”, disse
lo stregone, con tono burbero ma stranamente affettuoso, “e molto di ciò che era
spezzato ha già cominciato a guarire.”
Boromir piegò la testa
all’indietro per sentire il vento della notte sul viso, e sospirò profondamente.
“E molto non guarirà mai più.”
“Non stiamo più parlando di
tuo fratello o di tuo padre”, disse Gandalf, con tono penetrante. “Di che cosa,
allora?”
“È sciocco parlarne ora che
Isengard è dietro di me, le offerte di Saruman rifiutate, e la mia occasione
perduta. Ma devo chiedertelo ugualmente.” Trasse un altro profondo respiro, poi
disse, con l’ansia nella voce, “Dimmelo, Gandalf, prima che io impazzisca:
Saruman avrebbe potuto curare la mia ferita come aveva promesso? Ha davvero
questo potere?”
Un lungo silenzio seguì le
sue parole, e Boromir sentì la speranza e l’imbarazzo lottare dentro di lui
mentre aspettava. Infine Gandalf sospirò, e disse, “Non lo so.”
“Tu sei del suo ordine. Lo
hai sconfitto davanti alle porte di Orthanc, hai spezzato il suo bastone. Se non
lo sai tu, chi può saperlo?”
“Soltanto Saruman stesso, ma
non otterrai una riposta chiara da lui. Sì, un tempo appartenevo al suo ordine,
ma allora non aveva il potere di forgiare anelli o curare le ferite. Era un
maestro di sapienza, forte, saggio, e acuto. Poi i suoi occhi si sono rivolti a
est, alla Terra Nera, e la saggezza di Saruman fu consumata dalla malvagità di
Sauron.”
“Non mi dici nulla che io
già non sappia.”
“Nel suo desiderio di
rivaleggiare con Sauron, Saruman volse le sue grandi abilità ad arti che non gli
appartenevano. Ha usurpato poteri che non competono agli stregoni, né ad alcuna
razza nella Terra di Mezzo. Non so dove abbia imparato a forgiare anelli di
potere o a creare nuove razze di orchi, ma lo ha fatto. E io non so quanto siano
grandi questi suoi poteri. Ho visto il suo anello e ho visto gli Uruk-Hai. Vedo
il tuo viso, ora integro e guarito, benché Aragorn giuri che era stato devastato
e ridotto a una rovina insanguinata dalla lama di un orco. So che Saruman può
fare questo, ma non so altro.”
Boromir digrignò i denti per
la frustrazione, e scattò, “Ma tu che cosa pensi, Gandalf? Che cosa credi?”
Lo stregone sospirò di
nuovo, e Boromir udì il frusciare del suo mantello mentre si sedeva sulla panca
accanto a lui. “Ciò che credo io non ti aiuterà a trovare le risposte che
cerchi, Boromir.”
“Forse mi darà un po’ di
pace.”
“Molto bene. Io non credo
che Saruman abbia il potere di restituirti la vista.”
“Eppure ha guarito il mio
viso.”
“Ha risanato ciò che era
ferito, ma è differente dal ricreare ciò che è distrutto. Conosci la reale
gravità delle tue lesioni?”
Boromir voltò la testa, come
guardando altrove, per nascondere allo stregone la sua emozione.
“Sì.”
“Allora sai che non era
rimasto nulla che Saruman potesse guarire. Mi dispiace, Boromir, ma non credo
che egli abbia il potere di ricreare qualcosa che è andato completamente
perduto. Nessuna forza del male può davvero creare: può modificare, plasmare,
forse persino affrettare gli effetti del tempo e della natura, ma non creare.
Ecco perché i poteri oscuri della Prima Era poterono produrre gli orchi soltanto
deformando gli Elfi. Ed ecco perché Saruman, il cui potere è molto minore di
quello che vorrebbe imitare, non può fare altro che perfezionare gli orchi già
esistenti per fare i suoi Uruk-Hai. Sono terrificanti per la loro forza e
intelligenza, ma sono solo orchi, in fin dei conti. Ridarti la vista
richiederebbe un potere molto più grande di quello di Saruman.”
“Allora era soltanto
un’altra menzogna.” Disse Boromir.
“Così io credo, ma se tu
scegli di non crederlo, nessuno ti biasimerà.”
“No. Mi fido di te.” Boromir
esitò, raccogliendo il coraggio per fare la domanda in cui risiedeva la sua
ultima speranza. Sentiva la presenza di Gandalf accanto a lui, e sapeva che lo
stregone stava aspettando quella domanda. “E tu, Gandalf? Tu sei lo stregone più
potente di questa Era. Tu puoi farlo?”
La risposta fu dolce e
compassionevole, ma decisa. “No, non posso. Se avessi avuto quel potere lo avrei
fatto subito, fuori dalle mura di Isengard, risparmiandoti questi giorni di
dubbio e di oscurità.” Boromir annuì impercettibilmente, con il viso contratto
per lo sforzo di controllare il suo dolore. “Non credo che in tutta la Terra di
Mezzo esista un tale potere.”
Boromir annuì di nuovo, più
deciso. Poi con voce spezzata, disse, “Ti ringrazio per la tua franchezza.”
“Sono davvero addolorato.
Vorrei poterti dare speranza, invece che altra oscurità.”
“In un certo senso è un
sollievo. Almeno ora potrò voltare le spalle definitivamente a Isengard e alle
menzogne di Saruman.”
“Bene.” Lo stregone si alzò
in piedi, appoggiandosi al bastone. “Molto bene. Comincio ad avere davvero
fiducia in te, Boromir di Gondor.”
Boromir ignorò il
complimento, e chiese, “Stai andando da Aragorn?”
“Sì”.
Boromir si alzò e fece per
porgere la mano allo stregone, ma poi ci ripensò e lasciò ricadere il braccio al
suo fianco. Si raddrizzò rigidamente e disse, “Devo essere con mio fratello
quando si risveglia.”
“Sarebbe la cosa migliore.”
Per un attimo di imbarazzo nessuno dei due parlò, poi Gandalf, ridendo, disse,
“Vieni con me.”
Afferrando il braccio di
Boromir lo stregone si incamminò verso la porta, poi aggiunse, “La prossima
lezione che devi imparare, mio testardo amico, è di chiedere aiuto quando ne hai
bisogno. Altrimenti passerai troppo tempo restando lì con aria dignitosa, senza
arrivare da nessuna parte.”
Boromir protestò con un
grugnito, e seguì Gandalf all’interno della Casa.
Passarono per un freddo
corridoio dal pavimento di pietra, che odorava di sapone e di erbe fresche. Non
c’era posto per camminare in due fianco a fianco, e Boromir dovette stare dietro
a Gandalf, usando il muro e il ticchettio del bastone di Gandalf sul pavimento
come guida. Fu sollevato di essere libero dalla stretta di Gandalf. Una cosa era
accettare la guida di Merry o Pipino, ma affidarsi a una persona che aveva
appena cominciato a considerare un amico era tutta un’altra cosa.
Seguì Gandalf oltre un
angolo e sentì delle voci proprio davanti a lui. Il tono basso e insistente di
Aragorn e la voce di un altro uomo che gli rispondeva. All’udire quest’ultima
voce Boromir si sentì pervadere dall’ esaltazione, e dimenticando la cautela,
corse in avanti. Prima di aver fatto due passi fu costretto ad arretrare
inciampando, investito dalle acute proteste di una voce femminile, mentre una
massa di tessuto cadeva ai sui piedi.
Si appoggiò al muro per
ritrovare l’equilibrio, poi cercò di spostare la stoffa con i piedi.
“Chiedo perdono”, mormorò
Boromir, a metà tra l’imbarazzato e l’irritato. Sentiva la voce di suo fratello
che parlava piano con Aragorn, ed era ansioso di raggiungerlo, ma una massa
insidiosa di biancheria rovesciata e una donna infuriata gli sbarravano la
strada.
La donna emise un gemito
soffocato e Boromir si accigliò confuso. “Mio signore!”, gridò la donna.
“Ci conosciamo?” chiese
Boromir.
“No! Voglio dire…noi…ci
siamo incontrati in strada, vicino al cancello della Cittadella.”
Improvvisamente Boromir
comprese, e sentì un imbarazzante rossore salirgli al viso. Restò fermo in
silenzio, incerto se sfogare su di lei la sua rabbia e la sua umiliazione, o
semplicemente andarsene e lasciarla con il suo bucato sparso. Poi si accorse
della comicità della situazione, e rise mestamente.
“Chiedo perdono per la mia
scortesia, mio signore”, disse la donna, con voce neutrale.
“Non avevo capito che foste
il figlio del nostro Sovrintendente, in quegli abiti stranieri.”
Boromir non poté trattenersi
dal domandare, “Sei così cortese solo con i figli di Denethor? O solo con i
soldati di Minas Tirith?”
“Avevo fretta, mio signore,
ed ero spaventata da tutto quel rumore. E voi avete rovesciato le mie erbe”,
aggiunse, con un accenno di rimprovero nella voce.
“Sì, è così. E ora ho
rovesciato anche il tuo bucato. Mi dispiace.”
La ragazza aveva di nuovo
assunto un contegno umile e formale, e rispose, “Non importa, mio signore. Non
vi preoccupate.”
Boromir stava per chinarsi e
aiutarla a raccogliere le lenzuola sparse, quando Gandalf arrivò a grandi passi,
calpestando la stoffa sotto i suoi piedi.
“Andiamo, Boromir. C’è
bisogno di te.”
La ragazza non disse nulla,
anche quando Boromir alzandosi passò sopra le lenzuola guidato da Gandalf. Lo
stregone si scusò sbrigativamente con la donna e condusse via Boromir.
Chiaramente c’erano cose più importanti che il bucato sporco, e Boromir fu
contagiato dalla sua eccitazione.
Raggiunta la porta della
stanza di Faramir, Gandalf si arrestò di colpo. Boromir si fermò, con una mano
sulla spalla dello stregone, e aspettò un qualche segnale da parte degli uomini
che erano dentro la stanza. Sentì la voce di Faramir bassa e debole, eppure
stranamente esaltata che parlava ad Aragorn, chiamandolo Re. Un sorriso apparve
sul volto di Boromir, mentre la gelida paura che non aveva voluto ammettere si
scioglieva come neve al sole. Faramir era vivo. Era vivo e conosceva il suo Re!
“Devi riposare ora”, disse
Aragorn al ferito. “Riposa, guarisci, e non camminare più nell’ombra. Qui c’è
qualcuno che non pensavi di rivedere, e che ti aiuterà a dimenticare i tuoi
brutti sogni.”
Mentre Aragorn parlava,
Gandalf si fece da parte, e il Ramingo prese il braccio di Boromir per condurlo
verso il letto. Boromir si fermò quando la sua gamba urtò contro al materasso, e
volse la testa nella direzione da cui era venuta la voce di suo fratello, con un
sorriso incerto.
“Boromir?” La voce dell’uomo
più giovane era incredula, ma Boromir non poté stabilire se fosse gioia o
disappunto che si celava oltre la sorpresa. Le lenzuola frusciarono, mentre
Faramir si alzò a sedere sul letto, e mani febbricitanti afferrarono quelle di
Boromir con fermezza. Quando tornò a parlare, Boromir non ebbe più dubbi: era
gioia. “Boromir! Sapevo che Gandalf aveva ragione! Sapevo che saresti tornato!”
“Sì, fratello mio.” Boromir
non sapeva che cosa dire. Era travolto da un’ondata di sollievo, dolore e
gratitudine mischiate insieme, che non lasciavano posto alle parole.
Tirandolo per la mano,
Faramir lo fece sedere sul letto, poi lo abbracciò calorosamente, come faceva da
bambino. Boromir ricambiò l’abbraccio, stringendo il corpo del fratello, ancora
ardente per la febbre, ricordando tutti gli anni di affetto, litigi, pericoli e
avventure che avevano condiviso. Come aveva potuto dubitare che Faramir lo
avrebbe accolto a casa? Come aveva potuto temere che l’unica persona al mondo
che lo conosceva e lo amava per quello che era veramente non riuscisse a
perdonarlo?
“Nostro padre aveva detto al
Consiglio che eri morto”, disse Faramir, con voce roca per le lacrime, “ma io
non lo credevo. Abbiamo sentito il suono del tuo corno da ovest, e ho avuto
paura, ma non potevo rassegnarmi alla tua morte senza prima averne un segno…”
“Sei ferito e debole,” lo
rimproverò Boromir, ritornando istintivamente a ricoprire il suo ruolo
protettivo di fratello maggiore, “E Aragorn ti ha ordinato di riposare. Coricati
e non ti muovere.”
Obbediente, Faramir si
appoggiò all’indietro sui cuscini, ma continuò a stringere la mano di Boromir
tra le sue, come se temesse che lasciandola sarebbe scomparso. Aragorn, che era
restato in disparte in silenzio mentre i due fratelli si salutavano, ritornò
accanto a Faramir.
“Devo occuparmi degli altri
ospiti di questa casa, così lo affido alle tue cure, Boromir. Deve riposare. Non
farlo alzare, e non stancarlo troppo. Puoi restare con lui fino al mio ritorno.”
“Mio re e signore,” Faramir
parlò con reverenza e semplicità, come se avesse detto quelle parole per tutta
la vita, “hai riportato tu mio fratello a casa?”
“La mia parte è stata molto
piccola. È una lunga storia, Faramir, e dovrà aspettare. Ma se vuoi ringraziare
qualcuno, comincia con i mezzuomini, Meriadoc e Peregrino.”
“Lo farò.”
Aragorn posò una mano sulla
spalla di Boromir e mormorò, “Digli quello che ritieni saggio, ma non
angustiarlo troppo.”
Boromir annuì la sua
comprensione. “Come stanno Merry ed Éowyn?”
“Andrò da loro
adesso. Ti farò sapere.”
Aragorn se ne
andò, portando con sé Gandalf e i guaritori, e lasciando Boromir solo con il
fratello.
Nell’improvviso silenzio che era sceso su di loro, Faramir strinse la sua presa
sulla mano di Boromir, e mormorò, “Mi fa bene al cuore rivederti, fratello.”
Boromir
sorrise tristemente, ricordando le amare parole che avevano scambiato al momento
della loro separazione e le sue paure. “Ho pensato spesso a te, desiderando di
avere la tua saggezza a guidarmi nel mio viaggio.”
Faramir rise,
e le lacrime nella sua voce rendevano il suono ancora più dolce. “Non mi avresti
dato ascolto. Non lo hai mai fatto. Ah, Boromir, mi sei mancato!”
“Anche tu.”
I due uomini
restarono in silenzio, sopraffatti dalle emozioni, dalla miriade di domande che
dovevano fare, le storie che dovevano raccontare, e quelle che dovevano evitare
in quel primo, incerto incontro. Infine, Faramir spostò la mano per afferrare
l’avambraccio di Boromir in un saluto da soldati, un gesto di rispetto tra
eguali, e Boromir ricambiò il saluto.
La voce di
Faramir era ancora roca per le lacrime che tentava di trattenere, ma riuscì a
dominarsi abbastanza da parlare con tono fermo. “Lo sapevo che eri vivo, e non
ho mai perso la speranza di rivederti sulle mura di Minas Tirith ancora una
volta.”
“Avresti
dovuto sapere che nessun potere nella Terra di Mezzo potrebbe tenermi lontano
dalla mia città in un’ora come questa, finché sono vivo e ho una spada in
pugno.”
“Nostro padre
disperava della tua salvezza.”
“È stato
tradito, portato alla disperazione dal Nemico.”
“Eppure ha
visto il tuo destino chiaramente. Ha parlato del tuo imprigionamento, delle
torture…”
“Non so cosa
ha visto, o cosa ha creduto di vedere,” ringhiò Boromir, interrompendolo, “ma
non importa, ora. Non sono morto, né abbandonato nei sotterranei di Isengard, ma
qui nella Città Bianca, al posto che mi compete.”
“Non
importa?!” balbettò Faramir.
Boromir colse
l’indignazione nella voce del fratello e sentì il proprio viso indurirsi. “Non
voglio parlare di stregoni, orchi o sotterranei,” disse, soffocando sul nascere
lo scoppio d’ira di Faramir. “Non sono importanti, ora che ce ne siamo liberati
e Aragorn è venuto a Gondor. Ti ho portato il tuo re delle leggende, fratello.
Accontentati di questo e dimentica il resto.”
“Tu hai
portato il re?”
“Ho fatto la
mia parte, come lui ha fatto la sua nel portarmi a casa.” Boromir si interruppe,
un po’ deluso per l’incredulità di Faramir. Con voce mitigata dal dolore,
continuò, “Speravo che la sua venuta avrebbe sanato la spaccatura tra di noi,
Faramir. Speravo che ti avrebbe ridato fiducia in me.”
“Non ho mai
perso la fiducia in te.”
“Anche quando
Frodo ti ha detto dell’Anello?” Ci fu un momento di silenzio, e la presa di
Faramir si allentò. “Sì, Gandalf mi ha raccontato del tuo incontro con il
portatore dell’Anello. Non ti biasimo per esserti ritirato da me. Farei anch’io
la stessa cosa, se si trattasse di un altro, e anch’io mi sono creduto a lungo
perduto. Ma Aragorn mi ha salvato dalla disperazione. Mi ha convinto a sperare,
e mi ha offerto una possibilità di redimere il mio onore. Ho giurato che avrei
mandato l’Erede di Isildur a Gondor, al suo trono, per salvarla dall’Ombra
dell’Est, e per risparmiarmi una morte da traditore. Ho mantenuto quel voto,
Faramir, per te, per me stesso, e per tutta Gondor.”
Faramir non
parlò per alcuni momenti, e quando lo fece, le parole furono lente, quasi
riluttanti.
“So perché lo
vuoi. Ti darebbe tutto ciò che hai sempre desiderato.”
“L’Anello?”
“Sì.”
“L’Anello non
mi darebbe - non mi ha dato- che dolore e sofferenza. È una cosa
malvagia, e sono grato che il mezzuomo lo abbia portato lontano da me.”
“Eppure lo
desideri ancora.”
La bocca di
Boromir si serrò con durezza. Come sempre, la perspicacia e la franchezza del
fratello lo irritavano, ma ingoiò la risposta irata che gli era salita alle
labbra, e rispose con la stessa onestà. “Lo desidero ancora, ma ora sono
preparato. Non crederò mai più ai suoi sussurri.” Sorrise a Faramir senza gioia,
e aggiunse, “Tu non li sentivi i sussurri, vero, fratello?”
“No, non mi ha
mai parlato. L’Anello non esercita alcuna tentazione su di me, solo paura e
orrore.”
“Allora sei
più forte e più saggio di me.”
“Non ti
mancano né la saggezza né la forza, Boromir, ma tu somigli molto a nostro
padre”, mormorò Faramir.
“Sì, è quello
che temo.”
Questo catturò
l’attenzione di Faramir. La sua voce divenne tagliente. “Temi? Che vuoi dire?”
Boromir
sospirò e si passò le mani sul viso, cercando di scacciare la stanchezza e il
dolore, e di trovare un modo delicato per dire a suo fratello che il loro padre
si era ucciso dandosi fuoco in preda alla follia. La lingua lo aveva tradito,
portandolo in una conversazione che non avrebbe voluto avere, e mettendo nella
mente di Faramir dubbi che gli avrebbe volentieri risparmiato.
Era già
abbastanza grave che Denethor fosse morto e che il Seggio del Sovrintendente
fosse tenuto da un cieco, in un momento di tale crisi. Faramir non aveva alcun
bisogno di conoscere il destino di Denethor, né di sapere quanto da vicino il
viaggio di Boromir nel tradimento e nella disperazione rispecchiasse quello del
padre impazzito.
“Non sono solo
i ricordi che ti turbano,” disse Faramir, acutamente. “Che notizie mi nascondi,
fratello?”
Con un altro
sospiro, Boromir raddrizzò le spalle e si rivolse con determinazione al
fratello. Sapeva che i suoi lineamenti si erano induriti e la sua voce era
diventata aspra, ma era una corazza di cui aveva bisogno per difendersi dal
dolore e della reazione di Faramir.
“Nostro padre
è morto, Faramir.”
“Denethor?
Morto?” Faramir si sollevò su un gomito, e afferrò il braccio di Boromir con la
mano libera. “Come può essere?!”
“Ti ho detto
che è stato tradito dal Nemico…”
“Tradimento
nella nostra città?! Chi oserebbe fare del male al Sovrintendente di Gondor?”
“Solo lui
stesso, incitato dalle menzogne di Sauron. Si è tolto la vita.”
“No…” Faramir
ricadde all’indietro contro i cuscini, e la sua mano lasciò il braccio di
Boromir.
“No, non può
essere…Denehtor, figlio di Echtelion, si è tolto la vita? Nel momento in cui si
decide il nostro destino? È follia.”
“Sì.”
“Eri lì? Gli
hai parlato prima che morisse?”
Boromir scosse
la testa. “Sono arrivato troppo tardi anche solo per dirgli addio. Io stesso non
l’ho saputo che poco fa, quando me lo ha detto Gandalf.”
"Come…come è
morto?”
“Questo può
aspettare. Per ora ti basti sapere che Denethor è morto e che per il momento, io
sono il Sovrintendente di Gondor.”
Faramir, come
suo solito, si avvide della strana espressione usata e non la lasciò passare
inosservata. “Per il momento?”
“L’Erede di
Isildur è tornato. Gondor ha un re, e tutto è cambiato.”
“Sì…” Faramir
abbassò la voce a un sussurro, poi aggiunse, meditando tra sé e sé, “Nostro
padre è morto, e la Sovrintendenza è finita con lui.”
“Aragorn avrà
bisogno di un Sovrintendente per aiutarlo a reggere il regno.”
“Ma non per
governare Minas Tirith al suo posto, come ti è stato insegnato a fare. Né per
governare come un re, come a lungo hai sperato.”
“Tutto è
cambiato”, ripeté Boromir con decisione. Non gli piaceva il tono dubbioso nella
voce del fratello, e l’implicito riferimento ai loro disaccordi riguardo il
futuro di Gondor e al figlio prediletto di Gondor. Soltanto il tempo avrebbe
convinto Faramir della sua sincera lealtà verso il re, e finché Faramir non gli
avesse creduto, non avrebbe messo da parte i dubbi e le antiche ferite. Come
sempre Gandalf aveva compreso la verità della situazione.
“Il re farà la
sua scelta” continuò Boromir, con un tono che non ammetteva repliche, “e noi ci
atterremo ad essa. Io mi fido del suo giudizio.”
“Anche io.”
Mormorò Faramir.
“Allora
possiamo solo aspettare, e proteggere la città in attesa del suo ritorno.”
Faramir esitò,
poi disse, “Ora dormirò meglio, sapendo che la città è affidata a te. Ci sei
mancato, Boromir, a me e a Gondor. Terribilmente.”
“Vi è mancata
la mia spada, in ogni caso.” Boromir si sforzò di mostrarsi allegro per
scacciare l’aria malinconica del fratello. “Ritorno a casa e ritrovo la città
nel caos, il nemico che preme alle porte, e tu che ti riposi a letto.
Chiaramente non puoi farcela senza di me. Avrei dovuto darti ascolto e restare a
casa.”
Faramir rise.
“Dovresti sempre darmi ascolto.”
“Sì. Tra te,
Aragorn e Gandalf sono circondato da grandi menti. Mi sento svantaggiato.”
Boromir si
grattò il mento con aria meditabonda, poi aggiunse, “Credo che mi metterò a
coltivare la terra e lascerò gli affari degli uomini a chi ha le idee più chiare
e la vista più acuta della mia.”
Faramir rise
di nuovo, ma Boromir percepì il dubbio nella sua risata, come se non fosse
sicuro che il fratello stesse scherzando.
“Ho parlato
abbastanza delle mie avventure e dei miei errori. Dimmi qualcosa di te, Faramir.
Che cosa hai fatto in tutti questi mesi?”
“Sono stati
mesi difficili - per me e per il nostro popolo.”
“Non ne
dubito. Raccontami.”
Faramir sentì
l’impazienza nella sua voce, il desiderio di sapere notizie della terra e della
gente che amava con tutto sé stesso, e si lanciò in un racconto di tutto ciò che
era accaduto dal giorno della sua partenza. Parlò della lunga, spietata guerra,
dell’abbandono della guarnigione in Ithilien, della perdita dell’ultimo ponte di
Osgiliath, e della venuta dell’ombra alata. Del padre parlò poco, ma Boromir
conosceva abbastanza bene la sua famiglia da riconoscere la mano del padre in
molto di ciò che il fratello aveva fatto. E capiva che ogni lacuna nel racconto
di Faramir andava riempita con un’altra scena di tensione e di amarezza tra lui
e Denethor.
Boromir
ascoltava con un crescente senso di colpa per aver lasciato Faramir solo così a
lungo, senza la sua presenza protettiva. Aveva bisogno di ricordare a sé stesso
che Faramir era ormai un uomo adulto, con anni di esperienza nel trattare con un
padre freddo e critico. E trovò una sorta di perversa consolazione nel fatto che
Denethor avesse scelto di portare Faramir nella morte con sé - un ultimo,
disperato gesto d’amore, seppure al momento sbagliato. Quando Faramir fosse
stato più in forze, e pronto per ascoltare l’intera storia della morte di suo
padre, forse anche lui avrebbe tratto qualche consolazione dalla certezza che
Denethor lo aveva amato.
Nel bel mezzo
del racconto di Faramir, Aragorn entrò nella stanza. Portava con sé il Custode
delle Case di Guarigione, e la vecchia, Ioreth. Quando lo sguardo di Faramir si
posò sul suo re, interruppe il suo racconto e cadde in un silenzio rispettoso.
Boromir si girò verso i nuovi arrivati, corrugando la fronte, finché non udì la
voce di Aragorn.
“È tempo che
tuo fratello riposi, Boromir.”
Obbediente,
Boromir si alzò per andarsene, ma si chinò ancora sul letto per stringere la
mano di Faramir per salutarlo. Il fratello si aggrappò a lui con forza
sorprendente.
“Devi proprio
andare?” Chiese Faramir, e per un momento, la sua voce sembrò quella del bambino
che Boromir aveva amato, viziato, istruito e protetto con tanta feroce
devozione. Era stato tanto, tanto tempo prima, ma quella voce supplicante sembrò
spazzare via gli anni e riportarlo alla sua giovinezza, con il fratellino che si
aggrappava insistente alla sua mano.
“Devo, ma non
sarò lontano.” Appoggiò la mano sui capelli spettinati di Faramir, resistendo
all’impulso di chinarsi e di dargli un bacio sulla fronte.
“Grazie”,
sussurrò Faramir.
“Di cosa?”
“Di essere
tornato a casa.”
Boromir
sorrise, strinse di nuovo la sua mano, poi si voltò e lasciò che Aragorn lo
guidasse fuori dalla stanza.
“Guarirà?”,
chiese Boromir, avvicinandosi al Ramingo.
“Sì, e con te
vicino ancora più velocemente. Ma ora va’ da Merry. È sveglio e chiede di te.”
“Merry?”
Boromir riprese forza e si avviò per il corridoio. Era solo a pochi passi dalla
porta di Faramir quando si rese conto che non aveva idea di dove fosse lo hobbit.
Si fermò e si voltò per chiedere ad Aragorn, ma questi era già rientrato al
capezzale di Faramir, e Boromir lo sentì parlare in tono sommesso a suo
fratello.
Perplesso,
restò fermo in mezzo al corridoio, chiedendosi per quanto tempo avrebbe dovuto
aspettare Aragorn, e pensando a quanto doveva sembrare ridicolo. Dei passi
leggeri gli si avvicinarono, e una profonda voce maschile gli parlò.
“Posso
aiutarvi, mio Lord Sovrintendente?”
Boromir
nascose il suo imbarazzo corrugando la fronte, e domandò, “Chi siete?”
“Il Custode di
queste Case. Sono venuto qui per occuparmi di vostro fratello, ma è già nelle
migliori mani possibili e non ha bisogno di me. E voi mio signore?”
“Sto cercando
il mezzuomo, Meriadoc.”
“Ah, il
perian. Non so quale sia la sua stanza, ma troverò qualcuno che vi scorti.”
L’uomo si allontanò, la veste che frusciava come foglie secche, poi chiamò,
“Gil! Vieni qui, ragazza!”
Altri passi si
avvicinarono. “Signore?”
“Tu sai dove
alloggia il perian, vero? Porta il Lord Boromir alla sua stanza.”
“Chiedo
perdono, signore, ma Ioreth mi ha detto di finire il bucato.” Boromir percepì
qualcosa di simile al panico nella voce della ragazza, e ne ebbe compassione. La
sua guida altri non era che la sguattera nella quale si era imbattuto già due
volte, con risultati disastrosi.
“Sciocchezze,
ragazza. Il tuo compito può aspettare”, insistette il Custode. “Mostra a Lord
Boromir dove trovare il suo amico, ci penserò io a spiegare a Ioreth cosa ti ha
trattenuto.”
“Va bene”. La
sua voce era divenuta nuovamente fredda e inespressiva. “Se vuoi seguirmi, mio
signore…”
La sua mano
scivolò sotto il gomito di Boromir, e a Boromir sembrò che le sue dita
tremassero. Quando si avviò lungo il corridoio, allontanandosi dal Custode,
Boromir ebbe pietà di lei e disse, “Non devi avere paura di me.” Poi il suo
senso del ridicolo prese il sopravvento e aggiunse, “Non ho la spada con me,
stanotte, così sono piuttosto innocuo.”
“Ti prego, mio
signore, dimentica le parole che ti ho detto.”
“Come
desideri…Gil? È giusto?” Esitò nel pronunciare l’insolito nome.
“Gilthaethil.”
Anche usando il suo solito tono distaccato, riuscì a investire il nome di una
nota di disgusto. “Ioreth mi ha chiamata così. L’ha preso da qualche vecchia
leggenda ammuffita. Non so quale.”
“Ioreth? La
vecchia che non smette mai di parlare?”
“Sì.”
“È tua madre?”
“No, ma è la
cosa più simile a una madre che io abbia mai avuto.” Di nuovo, al di sotto della
piattezza del suo tono era chiaro il messaggio che l’argomento era chiuso e che
non aveva intenzione di discuterne oltre.
Boromir
scrollò le spalle e restò in silenzio. La sua guida era un mistero, un momento
bisbetica e dalla lingua tagliente, il momento dopo umile e piena di scuse, con
un modo di parlare discontinuo che la faceva sembrare sempre arrabbiata,
indipendentemente dalle parole che uscivano dalla sua bocca. Boromir ne era
vagamente incuriosito, e si chiese che aspetto avesse, o come fosse finita a
lavorare nelle Case di Guarigione, ma fu un interesse passeggero. Il risuonare
di voci acute e familiari lungo il corridoio gli fece dimenticare ogni altro
pensiero.
Sollevò la
testa, e un sorriso gli apparve sul volto, quando sentì Merry dire, “Quello che
vorrei veramente è uno spuntino e una pipa. E dove sarà Boromir, mi chiedo?”
Gil spostò la
mano dal suo braccio e disse, bruscamente, “È proprio qui davanti, mio signore.
Meglio fare in fretta. Sei atteso.”
Boromir fece
un cenno di ringraziamento ed entrò nella stanza, e il suo sorriso si allargò
quando fu salutato da un gioioso coro di benvenuto e di loquaci richieste per la
cena.
*** *** ***
Il mattino
seguente albeggiò chiaro e sereno. Imrahil, Principe di Dol Amroth, si incamminò
per la città verso i cancelli distrutti, convocato ad un concilio di guerra dal
suo nuovo re. Ma Aragorn non era ancora il suo re, essendosi ritirato insieme ai
suoi uomini per accamparsi sul campo di battaglia, come un qualunque cavaliere
che attendesse udienza dal signore della città. Imrahil si accigliò a quel
pensiero. Capiva la saggezza della decisione di Aragorn per non gettare lo
scompiglio su Minas Tirith rivendicando il trono in quel momento, ma dentro di
sé pensava che il futuro re stesse scatenando tutto un altro genere di
scompiglio con la sua esitazione. Imrahil aveva sentito delle lamentele durante
la notte, voci scontente, moleste, di soldati e capi che rispettava, e che non
poteva ignorare completamente.
Camminando per
la città, il Principe non poté non stupirsi di fronte alla diligenza del popolo
e ai progressi che erano già stati fatti per restituirle la sua scalfita
bellezza. Ogni traccia dei morti e dei feriti era scomparsa dalle strade,
insieme ai macabri proiettili lanciati dagli orchi oltre le mura. Qualche fuoco
ardeva ancora, ma ormai non erano che tizzoni incandescenti. Anche i cancelli
erano stati rimossi, il legno spezzato era stato gettato nella spianata per
essere usato nelle pire funebri. Il Principe, con giustizia, ne diede il credito
all’uomo che sapeva essere al comando della città, e in qualche modo le sue
preoccupazioni furono alleviate da quelle prove tangibili dell’abilità del
Sovrintendente.
Imrahil
oltrepassò l’arcata per ritrovarsi nei campi insanguinati di Pelennor, e si
diresse verso le tende dei Dùnedain. La tenda di Aragorn era disadorna, priva di
insegne o di vessilli. Solo le sentinelle al suo ingresso, guerrieri
grigio-vestiti dai visi fieri, la distinguevano dalle altre. Imrahil rispose al
saluto delle guardie ed entrò nella tenda.
Vi trovò
Aragorn e Mithrandir ad attenderlo, insieme ai figli di Elrond, Éomer, Boromir,
e il luogotenente di Aragorn, Halbarad. Le sedie erano disposte attorno a un
tavolo da campo, sul quale erano ammucchiate mappe e liste scritte in fretta su
pezzi di pergamena, e tutti i presenti tranne Halbarad erano seduti. Il Ramingo
aveva preferito restare in piedi in silenzio alle spalle di Aragorn, come una
protettiva ombra grigia, in disparte rispetto al concilio ma sempre vigilante.
Imrahil si
sedette tra uno dei signori degli Elfi - non avrebbe saputo dire quale - e il Re
del Mark. Aragorn gli rivolse un sorriso stanco, poi spinse una mappa al centro
del tavolo, dove tutti la potevano vedere.
“Miei signori,
siamo qui riuniti per decidere la nostra morte.”
Il concilio
che seguì fu eccitante e sconfortante allo stesso tempo per il Principe di Dol
Amroth. Sentì la morte nelle parole del re, la disperazione nelle profezie dello
stregone, e vide il destino che attendeva la Terra di Mezzo con una nuova,
terribile chiarezza. Eppure non poteva rinunciare alla speranza, non finché
l’Erede di Isildur sedeva di fronte a lui e la Spada che era stata rotta
scintillava davanti ai suoi occhi, riforgiata e temprata nel sangue dei nemici
di Gondor. Aragorn e Mithrandir non consigliavano la disperazione, cosa di cui
Imrahil fu molto grato. Invece, infiammarono gli animi proponendo di sfidare il
Nemico, e parlando di vittoria. Dell’Anello del Potere. Di una missione
disperata dalla quale dipendevano tutte le loro speranze.
Quando Aragorn
comunicò la sua intenzione di marciare contro il Cancello Nero, Imrahil sentì il
sangue ribollirgli per l’orgoglio e l’ eccitazione. Avrebbe marciato col suo re
fino alle mura di Mordor, e sarebbe morto in quell’ultimo, disperato tentativo
di conquistare la libertà dall’Ombra. I cavalieri di Dol Amroth sarebbero stati
ricordati nelle canzoni e nelle leggende, se qualcuno fosse vissuto per
raccontarle.
Finalmente,
dopo che furono disposte le truppe e decise le strategie, e stabilita la data
per la loro coraggiosa e folle offensiva, Aragorn si sedette di nuovo, e si
rivolse all’uomo alla sua destra.
“Mi dispiace,
Boromir, ma tu non potrai cavalcare con noi. E questa volta è un ordine.”
Con sorpresa
di Imrahil, Boromir si limitò a sorridere con amarezza, e disse, “Non ne avevo
intenzione.”
“Conto su di
te per reggere Minas Tirith in mia assenza. Se io non dovessi tornare, la città
e l’ultima difesa di Gondor spetteranno a te.”
Alle spalle di
Aragorn, Halbarad si agitò inquieto, e Imrahil colse lo scintillio dei suoi
occhi nella luce fioca, quando i loro sguardi si incontrarono. Né il Principe né
il Ramingo parlarono, e i figli di Elrond non sembrarono colpiti dalle parole di
Aragorn. Solo Éomer rispose, chinandosi per afferrare il braccio di Boromir, e
disse, “Io, per quanto mi riguarda, partirò con il cuore più sereno, sapendo che
tu sei qui a sorvegliare la strada dietro di noi.”
“Cerca di
ritornare, da quella strada, amico mio”, rispose Boromir.
“Allora siamo
d’accordo”, disse Aragorn, spingendo indietro la sedia e alzandosi in piedi.
“Tra due giorni marceremo con i nostri due eserciti. Elfhelm e il grosso dei
Rohirrim andranno incontro ai nostri nemici nell’Anòrien. Boromir comanderà la
guarnigione rimasta a Minas Tirith, compresa la Torre di Guardia, e governerà
come Sovrintendente fino al mio ritorno.”
Halbarad parlò
per la prima volta, la sua voce calma e grave. “E se tu non dovessi tornare?”
“Allora tutto
sarà come era prima che noi arrivassimo con le nere navi spiegando il vessillo
di Re Elessar al di sopra del fumo della battaglia. Sarà come se il Re non fosse
mai tornato.”
Aragorn si
avvicinò all’uscita e sollevò un lembo della tenda. Incorniciate dall’apertura,
tutti poterono vedere le mura di Minas Tirith che si innalzavano, e sollevando
lo sguardo, in alto sulla torre più alta, lo stendardo bianco che si agitava al
vento. Aragorn non ebbe bisogno di parlare. A nessuno sfuggì il significato di
quel semplice vessillo che sventolava sulla Torre di Guardia, da così tanti anni
che nessuno dei mortali tra di loro poteva enumerare.
I principi, i
re e i signori uscirono dalla tenda ordinatamente, in un silenzio pensieroso.
Imrahil uscì alla luce del sole e si discostò leggermente dalle guardie, mentre
il suo sguardo indugiava sulle mura che si innalzavano di fronte a lui. Éomer e
Boromir lo sorpassarono, dirigendosi verso i cancelli crollati. Imrahil non si
mosse per salutare o trattenere il suo consanguineo, ma lasciò che andassero
avanti. Li stava ancora guardando, immobile, quando un’altra figura gli si
avvicinò e una voce mormorò nel suo orecchio.
“Fra due
giorni muoveremo contro Sauron.”
Imrahil si
voltò, trovandosi davanti Halbarad, chiedendosi come mai il Ramingo avesse
scelto di parlare con lui. Non vedeva altro che calma e distacco nei suoi occhi,
mentre seguivano le due figure che si avvicinavano al cancello, ma quando
Imrahil guardò più in basso, vide che la mano sinistra di Halbarad si apriva e
si chiudeva nervosamente sull’elsa della sua spada.
Cautamente,
Imrahil rispose, “Verso la morte, sembra. Eppure non posso perdere la speranza
sapendo di cavalcare con questa compagnia. Non vedo la morte nel viso di
Aragorn.”
“Sei saggio.
Non sono coloro che cavalcheranno con i Dùnedain che dovrebbero temere, ma
piuttosto quelli che restano indietro.”
Imrahil lo
affrontò direttamente, mantenendosi cauto, e domandò, “Parla chiaramente, ti
prego.”
“Molto bene.
In breve, sono restio ad andarmene in guerra, lasciando Minas Tirith nelle mani
del figlio di Denethor. Non mi fido a lasciarlo a governare a nome di Aragorn,
né mi fido delle sue ragioni per cercare il favore del suo signore.”
“Stai parlando
di un mio consanguineo, per il quale nutro un profondo affetto.”
“Certo. Ma
forse il tuo affetto per Boromir ti rende cieco ai suoi difetti.”
“Cosa ne sai
dei suoi difetti?” ribatté Imrahil.
“Conoscevo
bene suo padre - troppo bene per i miei gusti - e so quanto il figlio sia simile
al padre. Denethor è sempre stato ostile verso gli esuli di Nùmenor. Credi che
abbia insegnato a suo figlio a rispettarli più di quanto facesse lui? Credi che
l’orgoglioso Boromir metterebbe da parte le sue ambizioni e gli insegnamenti di
suo padre per restare all’ombra di Aragorn per tutta la vita?”
“Non ho visto
né orgoglio né ambizione in Boromir oggi, solo lealtà e il desiderio di servire
il suo re.”
“Forse.”
Halbarad fissò fermamente il principe, come se stesse considerando con
attenzione le sue parole. “Forse ha davvero messo da parte le sue ambizioni per
riguardo al re. Ma perché?”
“Perché
Aragorn è un uomo che sa guadagnarsi il rispetto. Non abbiamo fatto lo stesso
tutti noi?”
“Non tutti
siamo Boromir di Gondor.” Halbarad fece una pausa, lasciando l’affermazione
sospesa tra loro per un lungo momento, poi, a bassa voce, disse, con tono
insinuante, “Se Boromir ha accettato di essere secondo ad Aragorn è solo perché
sa che non è in grado di governare.”
“Non
persuaderai mai Aragorn di questo, né il popolo di Minas Tirith, che lo ama
profondamente.”
“Aragorn è
legato da una promessa che ha fatto in un momento di estrema difficoltà. È un
uomo generoso e nobile, e non sopporta di vedere un’altra creatura soffrire
inutilmente. Ha fatto quella promessa a Boromir quando credeva che entrambi
fossero destinati alla tortura e alla morte, e ora deve vivere con quella
promessa, per quanto fatta a cuor leggero. Ma se i nobili e gli alleati di
Gondor gli daranno una via d’uscita onorevole, se riusciremo a convincere
Boromir stesso a sciogliere Aragorn da quella promessa, potremmo trovare un uomo
migliore per aiutarlo nel governare.”
Imrahil non
disse nulla, e Halbarad prese il suo silenzio come una conferma. Con voce carica
d’urgenza continuò, “I casi sono due:o Boromir sta solo aspettando il momento
giusto per rivendicare lui stesso il trono, oppure è davvero ferito nello
spirito come lo è nel corpo e non è più in grado di governare bene. In entrambi
i casi i suo posto non è al fianco di Aragorn. Sai che è vero, ne hai parlato tu
stesso sul campo di battaglia. E se lo sappiamo noi due, quanti altri principi e
capitani di cui Aragorn si fida si faranno avanti per impedire questo male?”
“Male? Tu
chiami il mio consanguineo un male?”
“Anche
Denethor cadde vittima del male, prima di morire. Forse che Boromir è di tempra
più forte di suo padre? Non oso sperarlo. E in confidenza, ti dico che il figlio
di Denethor ha commesso qualcosa di molto malvagio sulla via del ritorno da
Imladris. Non so che cosa abbia fatto, Aragorn non ne parla apertamente, ma la
sua ombra grava sul cuore del re e di tutta la Compagnia. Boromir è già caduto
nella malvagità una volta. Come resisterà in questa ora, quando sarà messo di
fronte al Nemico? Noi cavalchiamo verso la nostra rovina, ma io credo che
Boromir abbia già incontrato la sua.”
Imrahil lo
squadrò attentamente, mantenendo un’espressione neutrale. “Se io facessi come
dici tu e persuadessi Boromir a rifiutare il seggio del Sovrintendente, chi
prenderebbe il suo posto?”
“Denethor ha
due figli.”
“Sì, ma essere
figlio di Denethor è proprio la colpa più grande che imputi a Boromir. Forse che
Faramir non è suo figlio? Non merita allora la stessa sfiducia di suo fratello?”
“Tu li conosci
bene, principe. Cosa ne dici?”
Lentamente,
con riluttanza, Imrahil rispose, “Dico che Faramir è più simile di Boromir al
padre per quanto riguarda la capacità, ma senza il suo orgoglio e la sua
arroganza. È il più …nobile di una nobile stirpe, saggio, giusto e onorevole.
Non chiederei di meglio per guidare il mio popolo, tranne il re stesso.”
“Allora perché
esiti?”
“Perché il
valore di Faramir non sminuisce certo quello di Boromir. Io li ammiro e li
rispetto entrambi, e dubito delle tue ragioni per farmi pressione in questo
modo. Dimmi, Halbarad dei Dùnedain, perché ti preoccupi tanto del Sovrintendente
di Gondor e dei suoi affari?”
“Sono anche i
miei affari. Pensi forse che io sia un qualunque vagabondo del Nord, reclutato
per riempire le fila dell’esercito? No, Principe Imrahil. Io sono un leale amico
di Aragorn, sangue del suo sangue, il suo luogotenente e consigliere. Per tutti
i lunghi anni dell’esilio ho combattuto al suo fianco, perché lo stesso sangue
di Nùmenor scorre nelle mie vene, e lo stesso desiderio di ritornare. A Gondor.
A Minas Tirith. Al regno, al nostro diritto di nascita, e al ritorno della
nostra gloria perduta. Mi sono guadagnato il diritto di stare al suo fianco,
quando metterà la corona di Eärnur sul suo capo, e per tutti gli anni a venire.
Così non venire a parlare a me degli affari di Gondor!”
Il principe
sorrise e fece un piccolo inchino. “Ti chiedo perdono. E comincio a capire.”
“Capire cosa?”
domandò Halbarad, la sua calma esteriore sconvolta dal suo sfogo appassionato e
dal tono divertito di Imrahil.
“Le tue vere
ragioni. No, Ramingo”, sollevò una mano per zittire la protesta di Halbarad,
“Non intendo offenderti. E in verità sono più incline ad aiutarti, ora che so
perché me lo chiedi. Ma non pensare di ingannarmi con le tue altisonanti pretese
di proteggere Gondor e la sua gente da un governante inadatto.”
Piantò lo
sguardo diritto negli occhi fiammeggianti di Halbarad e disse, in tono piatto,
“Tu sei geloso dell’affetto del tuo signore per un altro. Vuoi togliere Boromir
dalle sale del potere, così nessuno minaccerà il tuo posto al fianco di
Aragorn.”
“Se pensi che
queste siano le mie ragioni, perché prendi anche solo in considerazione la
possibilità di appoggiarmi?”
Il sorriso di
Imrahil si spense, e il suo viso divenne tetro. “Qualunque siano i tuoi motivi,
il tuo ragionamento è giusto. E i miei motivi li terrò per me.”
Halbarad fu
momentaneamente colto alla sprovvista dal suo tono duro, ma recuperò in fretta
la padronanza di sé, e chiese, con decisione, “Parlerai a Boromir?”
“No, non mi
darebbe ascolto! C’è un solo uomo che potrebbe convincerlo.”
“Chi?”
“Suo fratello,
Faramir.”
“Boromir si
farebbe da parte, se glielo chiedesse suo fratello? Gli cederebbe il suo diritto
di primogenito e il suo potere?”
“Se Faramir
glielo chiedesse, credo che lo farebbe.”
“E cosa
convincerà il lord Faramir a chiedere una cosa simile al suo amato fratello?”
“Il suo stesso
giudizio che ciò sia giusto e necessario.”
“Allora
dobbiamo aspettare il giudizio di Faramir?”
Ancora una
volta Imrahil si trattenne dal rispondere al tono derisorio del Ramingo.
“Parlerò io a Faramir, lo illuminerò sulla faccenda. Ma fai attenzione a ciò che
chiedi, Halbarad. Faramir non è meno temibile del fratello, e non lo troverai
certo più facile da manipolare o da mettere da parte, se dovesse sedere nel
seggio del Sovrintendente.”
Halbarad di
raddrizzò, rigido. “Hai deciso di vedermi come un mastino geloso che fa la
guardia ad un osso, ma mi tratti ingiustamente, principe Imrahil. In completa
buona fede, non desidero altro che la gloria di Gondor e il bene del re. Non mi
piace il lord Boromir, lo ammetto. È un’avversione nata da anni di cattivo
sangue e sfiducia tra i nostri signori e le nostre terre. Eppure accetterò la
tua assicurazione che suo fratello non è come lui, e che potrà servire il mio re
con onore e fedeltà. Sono disposto a sostenere le pretese alla sovrintendenza di
un altro figlio di Denethor, se tu lo ritieni degno, così come difenderei
l’attuale Sovrintendente, nonostante la mia avversione, se lo credessi adatto a
quel titolo.”
Imrahil
sorrise, ma fu un sorriso che non raggiunse i suoi occhi. “Risparmia i tuoi
discorsi per la camera del consiglio del Re. Ho detto che parlerò a Faramir, e
lo farò, ma a parte questo non ti prometto niente. Non sarà facile persuadere
Faramir a mettere da parte suo fratello, e sarà ancora più difficile persuadere
Boromir dopo di lui. Poi c’è Aragorn. Lascio a te il giudizio su quanto disposto
sarà il nostro re a infrangere la sua promessa.”
“Lo farà”.
Imrahil
sorrise di nuovo, debolmente, sentendo la sicurezza nella voce dell’altro. “Ti
auguro una buona giornata, allora, Ramingo.” Si voltò, prima che Halbarad
potesse parlare di nuovo, e si incamminò a grandi passi verso la città, diretto
alle Case di Guarigione e a un incontro che avrebbe desiderato con tutto il
cuore potere evitare.
Imrahil trovò
Faramir nella sua stanza nelle Case di Guarigione. Giaceva tranquillo a letto,
con lo sguardo rivolto alla finestra che si apriva sui giardini e i bastioni
della città, un’espressione di tristezza sul volto. Al rumore dei passi nel
corridoio rivolse lo sguardo alla porta. Un sorriso di benvenuto gli illuminò il
viso. Tese una mano al Principe.
“Imrahil!”
Quando il
principe attraversò la stanza e arrivò presso il letto, notò che Faramir era
pallido, e che i suoi occhi erano stanchi e grevi per il dolore. Sembrava
soffrire per ferite del corpo e dello spirito allo stesso modo. Stringendo la
sua mano con calore, Imrahil disse, “Sono lieto di vederti sveglio e in via di
guarigione, Faramir.”
“Dobbiamo
ringraziare il re per questo.”
Imrahil
sorrise al calore e alla meraviglia nella sua voce. “Sì, per questa e per molte
altre cose. Ha ottenuto una grande vittoria, ieri.”
Il viso di
Faramir divenne più teso, e i suoi occhi tornarono a rivolgersi alla finestra,
verso l’oscurità che ancora incombeva ad est come un presagio di rovina. “Ma che
cosa abbiamo ottenuto?”
“Tempo. Una
breve, inquieta pace, in cui radunare le nostre forze e prepararci per la
battaglia finale.”
Due occhi
grigi pieni di angoscia si fissarono sul viso di Imrahil, e Faramir domandò, a
bassa voce, “Sei venuto dal concilio di guerra di Aragorn.”
“Sì.”
“Cosa dicono
Aragorn e Mithrandir? Quando giungerà l’attacco finale su di noi, e che cosa
hanno intenzione di fare?”
“Corrergli
incontro.” Imrahil si sedette sul bordo del letto e lasciò vagare lo sguardo
fuori dalla finestra. Il suo viso, che lo sapesse o no, era teso e preoccupato
come quello del malato davanti a lui. “Tra due giorni, le armate dell’Ovest
marceranno verso Mordor.”
Faramir non
fece alcun commento, e Imrahil lo guardò con curiosità, poi disse, con aria
astuta,
“Questo non
sembra sorprenderti.”
“No. È l’unica
via che ci rimane.”
“Non possiamo
sperare di far breccia nelle sue mura o di sfondare i suoi cancelli. Gli
eserciti di Sauron ci annienteranno.”
“Ci sono altri
modi per vincere una guerra oltre agli eserciti.”
Un sorriso
apparve lentamente sul viso di Imrahil. “Tu conosci la speranza segreta di
Mithrandir. Hai dunque la chiaroveggenza di tuo padre?”
La bocca di
Faramir si contrasse in una smorfia di dolore, e distolse lo sguardo da quello
di Imrahil.
“Mi dispiace,
Faramir. Per un attimo ho dimenticato…”
Faramir parlò
a voce così bassa che Imrahil dovette sforzarsi per cogliere le sue parole.
“Piangiamo per
mio padre. Piangiamo Denethor, figlio di Echtelion.”
“Piangiamo per
tutti noi” aggiunse Imrahil, con amarezza.
“Perché parli
così?”
Ora Imrahil
aveva tutta l’attenzione di Faramir, e trovò che la cosa lo turbava. I suoi
occhi grigi sembravano perforare la sua pelle per scandagliare il suo cuore.
“Non è forse vero che tutta Gondor piange per la morte del Sovrintendente?”
Lo sguardo di
Faramir divenne ancora più penetrante. “Ti conosco bene, Imrahil, e so che non
amavi il lord Denethor. Lo rispettavi, certo, e gli eri legato da vincoli di
sangue. Giuramenti di lealtà che non hai mai infranto. Ma amarlo? No. Non mi
serve la chiaroveggenza di mio padre per intuire un altro significato nelle tue
parole. Ti supplico, fammi la cortesia di parlare chiaramente.”
Incontrando il
suo sguardo franco, Imrahil imprecò silenziosamente contro le insinuazioni e le
mezze verità di Halbarad. Il principe di Dol Amroth non si sarebbe abbassato a
tali astuzie, né il figlio di Denethor vi sarebbe caduto. Se aveva ragione
riguardo al destino di Gondor e al nuovo Sovrintendente, allora Faramir avrebbe
capito, e avrebbe agito per proteggere la sua gente. Se si sbagliava, allora era
Faramir l’uomo più adatto per dirglielo. Questo gli lasciava solo una via: dire
onestamente a Faramir cosa aveva nel cuore.
Abbandonando
il suo contegno cortese e formale, il Principe disse, improvvisamente, “Non
piango per Denethor. Piango per la sua città e per i sui figli, che ha lasciato
in un momento di estrema difficoltà a causa della sua arroganza e della sua
follia.”
“Non è colpa
di mio padre se Sauron si è risvegliato.”
“No, ma è
colpa di tuo padre se Minas Tirith e Gondor sono impreparate per la sua venuta.
Ed è stata la follia di tuo padre che ci ha privato di un capo proprio quando ne
abbiamo il più disperato bisogno.”
“Il re ci
guida.”
“Sì, ma non
accetterà la corona fino a che la guerra non sarà finita. E tra due giorni
ritornerà in battaglia, portando con se tutti i nobili e gli alleati di Gondor,
senza speranza di vittoria. Anche se l’arma nascosta che abbiamo mandato contro
il nemico dovesse avere successo, che certezza abbiamo che Aragorn – o chiunque
di noi - ritornerà vivo a Minas Tirith?”
“Nessuna.
Questa è la guerra.”
“Questa è la
guerra, e noi siamo soldati. Ma quelli che rimangono? Se Aragorn dovesse cadere
davanti al Cancello Nero, chi si occuperà di Gondor al suo posto?”
“Mio
fratello.”
Imrahil esitò
per un lungo momento carico di tensione, poi chiese, “Hai parlato con Boromir?”
“Sì. Era qui
quando mi sono svegliato ieri notte.”
“Come ti è
sembrato?”
Ora fu il
turno di Faramir di restare in silenzio, mentre cercava nella sua memoria e
vagliava le parole. Quando infine parlò, la sua voce era pensierosa e triste.
“Soffre molto
per nostro padre. È passato attraverso molte battaglie e continue sofferenze. È
stanco e sconvolto, tormentato dalle preoccupazioni, e segnato da ferite
profonde che ancora lo addolorano. Non l’ho mai visto così oppresso dagli
affanni.”
“È quello che
penso anch’io. E credo che sia nostro dovere sollevarlo dalle sue preoccupazioni
prima che lo schiaccino.”
Faramir si
rabbuiò. “Che cosa vuoi dire?”
“Che Boromir
non è più in grado di governare Gondor - sia come Sovrintendente di Aragorn che
come unico reggente in caso di morte del re. Mi hai chiesto di parlare
chiaramente, Faramir, e questa è la pura verità come io la vedo.”
“Con che
diritto dai un tale giudizio?”
“Per diritto
di sangue, e per il mio affetto. Perché vi conosco entrambi fin dall’infanzia,
vi amo e vi ho visto crescere e diventare gli uomini che ora siete. Perché so
che tu non ti tirerai indietro dalla verità, per quanto dolorosa possa essere.”
Faramir rimase
immobile, cercando di assorbire il senso delle sue parole, e Imrahil rimpianse
che fosse toccato proprio a lui forzare a quel modo la mano di un fratello. Solo
Faramir, in tutta Gondor, riusciva a vedere Boromir per quello che era
veramente, eppure lo amava ancora di più proprio per questo. Perdonava le colpe
di suo fratello mentre le riconosceva e le condannava. E non le avrebbe ignorate
ora.
Lo sguardo che
Faramir rivolse al suo consanguineo fu calmo e serio, ma più freddo del solito.
“Tu credi che
mio fratello sia inadatto a governare solo perché non ci vede.”
Imrahil aprì
la bocca per protestare, poi ci ripensò e si trattenne. Aveva offerto a Faramir
la verità, e ora spettava a lui dargliela, non importava quanto poco lusinghiera
fosse per se stesso.
“Non me lo
sarei aspettato da te ”, disse Faramir, a bassa voce, e Imrahil trasalì al quel
rimprovero.
“È vero, la
cecità di tuo fratello mi preoccupa, ma non per i motivi che credi tu.”
“Io non credo
nulla.”
Imrahil ebbe
l’improvvisa, inquietante sensazione di trovarsi di fronte a una versione più
giovane e pacata di Denethor, ma con tutta l’acutezza del vecchio Sovrintendente
e tutta la sua implacabilità. Si inumidì le labbra nervosamente, come aveva
fatto da ragazzo quando si era ritrovato davanti al terrificante sovrano
costretto ad ammettere qualche monelleria.
“Di certo
Boromir non potrà più condurre un esercito”, disse Imrahil. “Anche se i soldati
lo seguissero, sarebbe follia mandare in battaglia un capitano cieco.”
“Sono certo
che sia Aragorn che Boromir ne sono consapevoli.”
“Eppure è
proprio ciò che ha fatto ieri.”
“Lui cosa?” La
calma di Faramir andò in frantumi, e Faramir si sollevò su un gomito per
domandare, “Vuoi dire che mio fratello ha combattuto nella battaglia?”
“Proprio così.
Ha guidato la Guardia contro una compagnia di orchi e li ha respinti dai
cancelli. Ha salvato la città.”
Faramir restò
a fissarlo a bocca aperta, stupito. “Aragorn glielo ha permesso?”
“Aragorn non
ne sapeva nulla, finché non lo ha visto cavalcare verso di noi sul campo. In
realtà, pare che il re avesse ordinato a Boromir di restare a Rohan finché non
lo avesse mandato a chiamare - un ordine che ha deciso di ignorare.”
Faramir si
lasciò ricadere sui cuscini, un sorriso sulle labbra. “Sì, immagino.” Il
sorriso divenne una risata. “Tipico di mio fratello.”
“Esattamente.”
Faramir
ridivenne serio sentendo la severità nella voce di Imrahil. “Boromir ha
combattuto per tutta la vita per proteggere Minas Tirith e la sua gente.
Vorresti che si fermasse ora, quando la sopravvivenza della Terra di Mezzo è in
gioco?”
Imrahil scosse
la testa. “Anch’io non mi sarei aspettato altro dal Capitano Generale di Gondor,
ma è proprio qui il problema. Pensaci bene, Faramir. Guarda oltre il tuo amore e
la tua ammirazione per lui e consideralo per l’uomo che veramente è. Un uomo che
è capace di vivere solo con la spada in mano, che non sopporta di essere secondo
a nessuno, che pretende da sé solo il meglio. È questo l’uomo che conosci?”
“Sì.”
“Ora pensa…che
cosa farà quell’uomo, quando tutto quello che ha conosciuto, tutto quello che ha
sempre considerato suo di diritto gli sarà tolto? La corona di Gondor andrà ad
Aragorn, i suoi eserciti a te, e che cosa resterà a Boromir?”
“La
Sovrintendenza, per la quale è stato addestrato sin dalla nascita.”
“Ma non così.
Non senza il vero potere di governare o di guidare gli eserciti. Vedo solo due
strade davanti a lui. O sfida ogni logica, sfida il re stesso, e mantiene il suo
ruolo nell’esercito…”
“...il che
significherebbe la sua morte”, mormorò Faramir.
“…o ripone
spada e scudo ad arrugginire, e diventa ciò che ha sempre disprezzato. Inutile,
debole, senza potere. Un soldato scartato senza più forza.”
Faramir non
disse nulla, e Imrahil si protese in avanti per stringergli un braccio, mettendo
tutta la sua sincerità nelle sue parole, desiderando ardentemente che l’altro lo
capisse e gli credesse. “Ho paura per lui, Faramir. Quando lo guardo, vedo solo
la sconfitta, la disperazione, e la lenta rovina di un uomo valoroso.”
“C’è una terza
possibilità.”
“Quale?”
“Mio fratello
accetta il suo destino, impara altri compiti, e serve il suo re nei modi che ha
a disposizione.”
“Non è nella
sua natura accettare un tale destino.”
“Non gli rendi
giustizia, amico mio. Boromir è un uomo forte.”
“O forse
intendi dire orgoglioso?” Di nuovo Faramir rimase in silenzio, e di nuovo
Imrahil lo incalzò. “Ha l’orgoglio che gli ha insegnato suo padre, e l’arroganza
che gli fa scambiare quell’orgoglio per forza. Ma cosa sarà della sua forza,
quando il suo orgoglio sarà finito nella polvere e la sua vita sarà ridotta a
trascinarsi nell’oscurità dietro il suo re?” Faramir trasalì, e Imrahil fece una
pausa per lasciare che le sue dure parole avessero effetto. Poi continuò, con
calma intensità, “Dimmi onestamente, Faramir, credi davvero che tuo fratello
abbia tanta forza? O lo speri soltanto?”
Ci vollero
alcuni minuti prima che Faramir rispondesse. Rimase sdraiato a guardare fuori
dalla finestra, il viso una maschera di dolore, mentre Imrahil aspettava
pazientemente la sua decisione. Quando finalmente parlò, la sua voce era piatta
e senza speranza.
“Non lo so. Il
fratello che ricordo non sopporterebbe mai una vita come quella che hai
descritto tu. Lui…” Faramir si interruppe, deglutendo per allentare il nodo
nella sua gola.
“Finirebbe
come suo padre.” Completò Imrahil.
“Sì.”
“Orgoglio e
disperazione sono una mistura mortale.”
“Ma l’uomo con
cui ho parlato ieri notte non è il fratello che ricordavo. È cambiato.”
“Il veleno è
già entrato in lui. Lo sta combattendo; lo nasconde con le sue bravate e gli
atti di coraggio, come il suo attacco ai cancelli, ma la disperazione è lì, e lo
sta già consumando.”
Faramir scosse
la testa. “Non lo so. Forse hai ragione, ma anche così, non posso pensare che
negargli la Sovrintendenza lo aiuterebbe. Non calpesterebbe il suo orgoglio
ancora di più?”
“Sì, e questo
mi addolora. Ma tu ed io, per quanto grande sia il nostro amore per Boromir,
dobbiamo prima pensare a Minas Tirith. Se ho ragione io, e Boromir è destinato a
seguire suo padre nella disperazione, fino alla follia e alla morte, non c’è più
nulla che possiamo fare per salvarlo. Possiamo solo sperare di impedire che la
sua caduta infligga un’altra ferita a una terra già sanguinante.”
“Così vorresti
che io prendessi il posto di mio fratello al fianco di Aragorn e lo rinchiudessi
una stanza oscura, dove i suoi vaneggiamenti non disturbino gli ospiti a cena?”
Fu la volta di
Imrahil di trasalire per la brutalità del quadro dipinto da Faramir, ma
ciononostante non arretrò. “Vorrei che tu persuadessi Boromir che è suo dovere
verso Gondor, verso il suo re e verso se stesso farsi da parte e lasciare che tu
assuma la Sovrintendenza. Lui lo farebbe, per te!
“Sì.” La voce
di Faramir era divenuta pericolosamente mite, “forse lo farebbe. Ecco perché sei
venuto da me, invece che andare a parlare delle tue preoccupazioni con il lord
Aragorn.”
“Lord Aragorn
ha fatto un giuramento: ha giurato che avrà Boromir come suo sovrintendente o
non avrà nessuno. Non romperà quel giuramento, a meno che Boromir stesso non
glielo chieda.”
Faramir
continuò a fissare il principe, impassibile. “Ah. Comincio a capire. Io mi
persuado a parlare con Boromir, lui si persuade a farsi da parte, e Aragorn è
persuaso a diventare uno spergiuro. È una via piuttosto contorta la tua, amico
mio.”
Imrahil
distolse lo sguardo, incapace di incontrare gli occhi di Faramir. “È una via
brutta e difficile, ma devo percorrerla. Non posso venir meno al mio dovere.”
“Chi ti ha
messo su questa via? Non sei solo, né hai progettato tu questo piano.”
“È vero, non
sono solo. Il lord Halbarad dei Dùnedain mi ha chiesto di parlarti, ma ci sono
altri. Molti altri.”
“Lo immagino.
A mio fratello non sono mai mancati rivali e nemici.”
“Alcuni sono
antichi rivali, lo ammetto. E ti avviso io stesso che non c’è da fidarsi di
Halbarad.
Parla del bene
di Gondor, ma è mosso dall’invidia e dall’odio per tuo fratello, non da altri
motivi.”
“Ciononostante, sei venuto qui su sua richiesta.”
“Sono venuto
da te perché mi sta a cuore il bene di Gondor. A volte non si possono scegliere
i propri alleati.”
Faramir rimase
immobile, con uno sguardo colpito, e suoi occhi si fecero distanti, come se
stesse ricordando una qualche scena del passato. Qualunque fosse il ricordo non
doveva essere piacevole, e le rughe sulla fronte di Faramir divennero più
profonde. Imrahil non osò interromperlo, né forzarlo a dargli una risposta. Si
limitò ad aspettare, finché l’uomo non emise un sospiro stanco e rivolse i suoi
limpidi occhi grigi al viso del principe.
“Io so
qualcosa delle prove che mio fratello ha affrontato durante il suo viaggio. Non
ne parlerò, perché significherebbe tradire segreti che non mi appartengono, ma
ti dirò questo. Boromir ha incontrato un nemico molto più forte di Saruman, e ha
combattuto contro un’oscurità molto più grande della cecità. Il fatto che ora
sia vivo e sorrida, e goda del favore del suo re, non è certo una piccola
vittoria per lui, e mi dà grande speranza. Ma ho anche paura, perché non so
quali altre ferite nasconda che potrebbero avvelenarlo.
Non ti
prometto di essere al tuo fianco, Imrahil, ma capisco le tue paure. Ti prometto
che osserverò mio fratello e penserò a quello che mi hai detto.”
“Non c’è
tempo. L’esercito marcerà presto…”
“E Boromir
proteggerà la città fino al vostro ritorno. Di questo puoi essere certo.
Accontentati, Imrahil.”
“Sta
abbastanza bene, per il momento, immagino.”
“Sta bene. E
se le la nostra ultima speranza cadrà, se il nostro esercito perirà negli
artigli del Nemico e l’Ombra invaderà la Terra di Mezzo, che cosa importa se
sarà un pazzo cieco a guidarci?”
“Penserai a
ciò che ti ho detto?”
“Ci penserò.”
“Allora sono
soddisfatto.” Imrahil si alzò in piedi e strinse la mano di Faramir in segno di
saluto. “Ritornerò, se ne avrò il tempo.”
“O verrò io da
te. Dovrei essere in piedi in tempo per la partenza dell’esercito.”
“Ne sono
felice.” Imrahil gli strinse il braccio e sorrise di genuina felicità. “ Ne sono
molto felice. Addio, amico mio.”
“Addio.”
Dopo che
Imrahil fu scomparso nel corridoio buio, Faramir udì un mormorio di voci
provenire dall’altra parte della Casa. Riconobbe il tono secco del fratello e
l’acuta voce del mezzuomo. Sembrava che si stessero avvicinando, ma
improvvisamente, furono interrotti da un rumore e da un grido di protesta.
Dopo un
momento di stupore, udì la voce di Boromir. “Gil?”
“Sì, mio
signore”, rispose una donna. “Ti chiedo perdono, signore. È colpa mia.”
“No che non lo
è. Cosa c’era nel secchio, Gil?” La voce di Boromir era rassegnata e leggermente
preoccupata, anche se attutita dalla distanza.
“Soltanto
l’acqua del bucato, mio signore.” Stava ridendo? A Faramir parve di sentire un
tremito di divertimento nella sua voce, si infuriò al pensiero che una sguattera
potesse ridere di suo fratello.
“Posso
aiutarti a pulire?”
“No, mio
signore! Ci vorrà solo un attimo…attento alla pozzanghera!”
Ci fu un altro
schianto e un’imprecazione, seguiti dalla voce umiliata di Boromir, che diceva,
“Chiedo
perdono. Non dovrei parlare così davanti a una dama.”
“Non sono una
dama, e non hai offeso le mie orecchie. Ma ti prego, mio signore, vai fuori …da
qualche parte dove è asciutto, prima che di spezzarti il collo!”
Il mezzuomo
intervenne, dicendo, “Non ci sono pozzanghere da questa parte, e la stanza di
Merry è proprio dietro l’angolo. Vediamo se è sveglio. Boromir, il tuo mantello
è fradicio. E schizzi mentre cammini!”
“Già, grazie,
Pipino”, ringhiò Boromir. “Non me ne sarei accorto, senza di te.”
“Stai facendo
un gran pasticcio…guarda che impronte!”
“Fuori da qui,
mastro Perian”, scattò la sguattera, “lascia che sia io a occuparmi dei
pavimenti.”
“Bel modo di
rivolgersi a un soldato di Gondor”, osservò Pipino, mentre si allontanava nei
meandri della Casa. “Come se fossi un bambino, invece che un veterano di molte
battaglie!”
Faramir restò
in silenzio, ascoltando i rumori dei passi che si avvicinavano alla sua porta,
sperando e temendo allo stesso tempo che suo fratello lo venisse a cercare. Ma
non udì altro che la sguattera che passava lo straccio per raccogliere l’acqua
rovesciata, e il secchio che sbatteva sulle pietre del pavimento ogni volta che
lo spostava. Quando anche quel rumore si fu allontanato, senza che Boromir fosse
venuto, Faramir si rilassò. Lasciò sprofondare la testa tra i cuscini, chiuse
gli occhi e li coprì con una mano incerta.
Troppe cose
erano accadute. Un peso troppo grande gravava sue spalle, e troppo poco tempo
dopo la ferita che gli era quasi costata la vita. Ma almeno gli era stata
risparmiata la prova di affrontare suo fratello con gli oscuri avvertimenti di
Imrahil ancora freschi in testa. Aveva almeno un breve intervallo in cui
pensare, e in cui prepararsi per la prossima battaglia, in quella guerra senza
fine che era la vita del figlio di Denethor.
La notte prima che le Armate
dell’Ovest muovessero verso Mordor, Aragorn convocò gli amici alla sua tenda. Al
mattino la Compagnia si sarebbe separata di nuovo, ma per quella notte potevano
restare comodamente seduti a parlare della strada lunga e oscura che avevano
percorso assieme. Solo di rado i loro discorsi si rivolgevano a Frodo e Sam, ma
il portatore dell’Anello e il suo fedele servitore, e il carico di speranza che
portavano con loro, erano una presenza quasi palpabile tra di loro.
Un braciere ardeva nella
tenda, e attorno ad essa i più alti della Compagnia avevano sistemato delle
sedie, mentre gli hobbit avevano optato per sedere su un tappeto. Bevvero i
migliori vini che offrivano le cantine della città. Il vino scaldò le loro
membra stanche e li rese più inclini alla conversazione, e persino il burbero
Gandalf si rilassò in uno stato d’animo cameratesco. Soltanto Merry, ancora
debole per la sua malattia, e Boromir, che si era sempre tenuto in disparte
dalla Compagnia, restavano in silenzio. Gli altri pensarono che il loro silenzio
fosse dovuto al fatto che non avrebbero potuto marciare con l’esercito il
mattino seguente, e non li disturbarono.
Quando l’ultimo otre di vino
fu consumato era ormai notte fonda, e le loro voci si erano abbassate a mormorii
pensierosi. Aragorn si alzò in piedi e si stiracchiò, con un sorriso compiaciuto
sul viso nel guardare il circolo di visi familiari.
“Il dovere chiama, amici miei.
Dobbiamo alzarci prima dell’alba.”
Gimli scoppiò a ridere. “Forse
gli Uomini devono dormire prima della marcia. Ai Nani basta solo avere la pancia
piena e una strada libera davanti a sé.”
“E mentre sono impegnati a
riempirsi lo stomaco, gli Elfi sono già arrivati alla fine della strada”,
ribatté Legolas.
Pipino sbadigliò vistosamente.
“Gli Hobbit hanno bisogno sia di sonno che della pancia piena. È da un
pezzo che sto sognando il mio letto.”
“E allora vai, Mastro
Peregrino,” disse Aragorn, ridendo.
Gandalf si alzò in piedi e
raccolse il suo bastone. “Ci andremo tutti. Il mattino giungerà prima che noi ce
ne accorgiamo, e dobbiamo essere pronti ad affrontarlo con cuore saldo e membra
riposate. Merry, Boromir, vi saluto, e vi auguro la migliore fortuna possibile.
Confido che ci incontreremo di nuovo nella Terra di Mezzo. Lo spero. Ma se così
non accadrà, portate l’amore e l’amicizia di Gandalf il Bianco con voi,
qualunque sia il vostro destino.”
Rivolgendosi a Boromir gli
pose una mano sul braccio e mormorò, in modo che solo lui potesse sentire,
“Ricorda ciò che hai imparato, Sovrintendente di Gondor, e abbi fiducia
nell’uomo che sei diventato. Ti vedrò porre la corona di
Ëarnur sulla fronte del Re, prima che
tutto sia finito. Addio.”
Poi si chinò per
abbracciare Merry offrendogli un fazzoletto per asciugarsi le lacrime.
Lentamente, i
membri della Compagnia si congedarono dagli amici che dovevano lasciare
indietro. Merry si strinse vicino a Boromir, come se allontanandosi fisicamente
dagli altri potesse mitigare in qualche modo il dolore della separazione. Pianse
amaramente, quando Legolas si inginocchiò davanti a lui per salutarlo, e quando
Gimli offrì solennemente la sua ascia al suo servizio, se mai ne avesse avuto
bisogno. I quattro cacciatori, che avevano attraversato tutta la terra di Rohan
per salvare i loro amici, non avrebbero più cacciato insieme.
Gandalf se ne
andò, seguito da Legolas e Gimli, che progettarono di prendere un po’ d’aria e
di osservare come gli Uomini del Sud si preparavano per la guerra. Nella tenda
restarono solo Merry, Pipino, Aragorn e Boromir. Pipino si guardò attorno e tirò
su col naso.
“Non credo di
essere pronto per dire addio. Vieni, Merry, facciamo due passi. Hai visto le
grandi tende di Lossarnach? Voglio mostrartele.”
“Non andare
troppo lontano, Pipino”, lo ammonì Aragorn. “Gli accampamenti sono abbastanza
sicuri, ma sono grandi, e potreste perdervi. Tutti i falò sono uguali.”
“Presto dovremo
ritornare in città”, aggiunse Boromir.
“Sì, lo so.”
Merry si asciugò gli occhi con la manica, dimentico del fazzoletto di Gandalf.
“Ti prometto che non ci metteremo tanto. È solo che…beh, è stato più facile a
Edoras, quando Gandalf ha preso Pipino e lo ha portato via, senza darmi il tempo
di pensarci.”
Aragorn sorrise,
comprensivo. “Fate una passeggiata e ditevi addio. Ma tornate presto.”
“Lo faremo.”
Gli hobbit
arrancarono fuori dalla tenda, lasciando Boromir e Aragorn da soli. I due uomini
si sedettero accanto al braciere, lasciando che il silenzio si allungasse tra
loro, mentre i loro pensieri erano rivolti alla partenza e al significato di
quell’ultimo incontro. Fu Aragorn a rompere il silenzio, parlando con voce bassa
e malinconica.
“Sai a che cosa
andiamo incontro. Quanto esili sono le nostre speranze.”
“Sì.”
“E quando noi
falliremo, la guerra giungerà a voi.”
“Saremo pronti.”
Aragorn sospirò.
“Vorrei con tutto il cuore che potessimo combattere quest’ultima battaglia
insieme. È così che combattiamo al meglio, io e te. Insieme.”
“Come un
Capitano e il suo Re.”
“Come amici.”
“Sempre.”
Boromir chinò la
testa per un momento, e quando la sollevò di nuovo, ad Aragorn sembrò che stesse
piangendo, anche se dai suoi occhi rovinati non potevano scorrere lacrime. “Io
sono pronto a morire per il mio Re. Se tu me lo chiedi, io cavalcherò con te
domani.”
“No, Boromir.
Forse dovrai davvero morire per Gondor, ma non al mio fianco. Ho bisogno che tu
sia qui.”
Boromir annuì,
gravemente. “Qui è il mio dovere, come è sempre stato, ma sentirò la tua
mancanza, amico mio.”
“E io la tua.”
Boromir sospirò
con un tremito, e quando parlò, la sua voce era roca per l'emozione.
“Domani te ne
vai a morire. Come faccio a dirti addio, sapendo questo?”
“Non farlo. E
non disperare. Può darsi che ci rivedremo ancora.”
“E se non
dovesse essere così?”
Aragorn deglutì
per schiarirsi la gola. “Lascio Gondor nelle tue mani. È la migliore speranza
che posso darle.”
“Tu sei la
speranza migliore. Tu sei Gondor.”
A quelle parole,
le lacrime cominciarono a scorrere sul viso di Aragorn. “Allora tu combatterai
per me, così come hai combattuto per Gondor per tutta la vita, con tutta la
forza e tutto il cuore.”
“Sai che lo
farò.”
“Lo so.” Allungò
una mano per stringere forte il braccio di Boromir. “E ti ringrazio.”
“Tu ritornerai,
Aragorn. Devo crederlo. Cavalcheremo insieme attraverso i cancelli di Minas
Tirith e saremo accolti a casa dal suono delle trombe.”
“I Signori di
Gondor sono tornati…”
“Sì.”
“Sì.”
“Conserverò
Minas Tirith per te. Proteggerò la sua gente. E aspetterò il tuo ritorno, mio
re.”
*** *** ***
Aragorn
camminava avanti e indietro per la tenda, immerso nei pensieri, la sua mente
rivolta alla battaglia che avrebbe dovuto affrontare il giorno seguente. Cercò
di rilassarsi e di mettere da parte le sue preoccupazioni, per dormire un poco,
ma non ci riuscì. C’era come una voce nell’aria, un avvertimento che gli
soffiava sul collo, freddo e inconfondibile, che gli impediva di riposare.
Qualcosa non andava, a Gondor, quella notte.
Un rumore di
passi e di voci sommesse lo raggiunse. Le sentinelle chiamarono l’alt, seguito
da un mormorio. Aragorn si voltò velocemente, aspettandosi di vedere entrare
Halbarad, ma invece fu Legolas ad entrare, seguito da Gimli.
“Ci sono strane
voci nell’accampamento stanotte, Aragorn”, esordì Legolas mentre salutava. “I
soldati sono inquieti e spaventati. Riempiono le tenebre con i loro sussurri.”
Aragorn sorrise
tristemente. “Forse non vogliono seguire i loro signori verso una morte
certa…chi potrebbe biasimarli?”
“No,
seguirebbero volentieri la bandiera di re Elessar fino alla morte. Non è per la
marcia che protestano, ma per ciò che si lasciano dietro.”
“Assurdità!”
ringhiò Gimli, prima che Aragorn potesse chiedere spiegazioni. “Stupide
superstizioni! Bah! Uomini!” Pronunciò la parola con un tale disprezzo
che Aragorn lo guardò stupito. Il nano se ne accorse e rispose con un grugnito
imbarazzato che avrebbe voluto essere di scusa.
“Che genere di
stupida superstizione ti ha offeso a tal punto, Mastro Nano?”
“Tradimento,
ecco cos’è!”
“No, Gimli, non
è tradimento,” prese tempo Legolas, “soltanto ignoranza e paura. Tutti gli
uomini hanno paura in tempi come questi.”
“Ve lo chiedo di
nuovo”, disse Aragorn, con calma esasperata, “Di che cosa parlate?”
Legolas zittì
l’amico adirato con uno sguardo severo, poi si rivolse ad Aragorn. “Si dice che
avere scelto Boromir come Sovrintendente abbia segnato la rovina della città.”
“Non ho scelto
io il Sovrintendente”, protestò Aragorn. “Quel ruolo spetta a Boromir per
diritto di nascita!”
“Sia come sia, i
soldati comuni temono che la sua cecità sia un cattivo presagio, una maledizione
che condannerà la città all’oscurità dell’Ombra dell’Est. Dicono che il Re vuole
abbandonare Minas Tirith nel momento del bisogno e ritirare l’esercito che la
protegge. Dicono che la vuole lasciare cadere nell’ombra insieme al suo
Sovrintendente.”
Aragorn
ricominciò a camminare avanti e indietro, con la testa china e le mani dietro la
schiena. “Un cattivo presagio, lo chiamano.”
“Sì. Lo abbiamo
sentito ripetere molte volte - un cieco tra le truppe è presagio di sconfitta.
Ho visto soldati che barattavano simboli e talismani per scacciare il male. Tu
sai niente di questa superstizione? Qualche antica credenza degli uomini?”
Aragorn scosse
la testa con impazienza. “Non ne ho mai sentito parlare. Da dove può essere
nata?”
“Da lingue
infide”, scattò Gimli. “È un tradimento deliberato, nient’altro, volto a
spargere l’inquietudine tra le truppe e alimentare la discordia tra la gente.
Non prestar fede a questa antica credenza, Aragorn.”
“Certo che no.
Ma il problema è che i soldati ci credono.”
Legolas annuì.
“In molti.”
Aragorn si fermò
improvvisamente e osservò l’elfo con occhi penetranti. “Quanti, esattamente?”
“Gli uomini di
Gondor, di Dol Amroth e di Lossarnach non hanno creduto ai sussurri. Sembrano
calmi e tranquilli. I più turbati erano quelli che vengono da lontano, e quelli
di stirpe più umile. Non conosco tutti gli stendardi, e i nomi dei capitani mi
sono estranei, ma ho riconosciuto gli uomini di Lamedon e i popoli pescatori
delle foci dell’Anduin. Alcuni di loro attribuivano la morte dei loro signori
alla presenza di Boromir sui campi di Pelennor.”
“Ma gli uomini
di Gondor restano fedeli.”
“Sì.”
“Certo che lo
sono”, intervenne Gimli. “Loro lo conoscono. Li ha condotti molte volte in
battaglia. Chi mai tra loro potrebbe credere a una tale stupidaggine?”
“Tu mi conforti,
Gimli.” Aragorn si rilassò visibilmente, e un sorriso stanco gli apparve sul
viso. “Quale uomo che ha combattuto al fianco di Boromir potrebbe mai dubitare
di lui? Sono quelli gli uomini che restano con lui a governare la città. La
Torre di Guardia. I suoi soldati.”
“Non soltanto la
Guardia,” precisò Legolas.
“È la parte
maggiore della guarnigione, e protegge la Cittadella. Dobbiamo fidarci di loro,
e di Boromir. Sa badare a se stesso.”
*** *** ***
Boromir e Merry
camminavano lentamente lungo la strada che si inerpicava attraverso la città.
Era notte fonda, e oltre alla guardia cittadina, per le strade c’erano poche
persone, trattenute da qualche dovere. Eppure Minas Tirith non dormiva. Giaceva
in un silenzio teso e carico di aspettative, osservando le stelle che compivano
il loro cammino sopra le sue torri bianche e ascoltando le voci dei suoi amati
figli, dei suoi soldati, che si preparavano alla guerra.
Merry avvertiva
quel senso di vigilanza sulla pelle, e rabbrividì, ma non di paura. Era una
sensazione di tristezza, come se il cuore e la mente di Minas Tirith si stessero
preparando per il lutto e la morte. La città vegliava in tributo agli uomini che
avrebbe perduto il mattino seguente.
Dal canto suo,
Merry era esausto. Il braccio gli faceva male, e si sentiva come di piombo.
Avrebbe voluto chiedere a Boromir di portarlo in braccio fino al suo letto caldo
e sicuro, dove avrebbe potuto rintanarsi sotto le coperte e dimenticare il
dolore che aleggiava nell’aria attorno a lui. La città era grande, e Merry si
sentiva insopportabilmente piccolo. Ma Boromir non poteva muoversi per le strade
senza il suo aiuto, e Merry sapeva che anch’egli era stanco, afflitto e logorato
dal pensiero di quello che sarebbe accaduto l’indomani quanto lui. Non poteva
chiedergli di portare il peso di due cuori così grevi, quella notte.
E così, con
passi risoluti, risalirono la lunga strada che conduceva dai campi di Pelennor
al sesto circolo di Minas Tirith, dove si trovavano le Case di Guarigione.
Davanti al
cancello della Cittadella Merry esitò, preparandosi a condurre Boromir alle sue
camere nell’alta torre. La sentinella lanciò un chiaro richiamo e Boromir
rispose. Poi il Sovrintendente si allontanò dal cancello, comunicando a Merry
che non aveva intenzione di entrare nella cittadella. Obbediente, Merry continuò
a dirigersi verso le Case di Guarigione. Lungo il tragitto incrociarono un altro
paio di guardie che pattugliavano il circolo, ma il piccolo cancello di legno
bianco che dava sui giardini era incustodito. Merry ne fu allietato, poiché era
segno che la guerra non era giunta a quel luogo pacifico. Non ancora, almeno.
Oltrepassarono
il cancello, lungo un sentiero ghiaiato che correva lungo le mura esterne. In
quel luogo vi era una panca di pietra intagliata in una piccola nicchia nel
muro. Un uomo della statura di Boromir poteva facilmente sedervisi, tenendo le
spalle appoggiate al parapetto, e godere di un’ottima vista sui circoli
inferiori della città e sul Pelennor, oltre la lontana curva argentea dell’Anduin,
fino all’inquietante ombra che incombeva dall’Est. Per vedere oltre, uno hobbit
avrebbe dovuto arrampicarsi sulla panca e sporgersi dal parapetto, ma questo a
Merry non importava. Non desiderava guardare il loro minaccioso destino, quella
notte.
Quando
raggiunsero la panca, Boromir spostò la mano dalla testa di Merry alla sua
spalla, e la strinse in segno di ringraziamento. Posò un ginocchio sulla panca e
si appoggiò contro la pietra.
“Stai
sbadigliando tanto da romperti la mascella, piccoletto. Vai a dormire.”
Come per
sottolineare l’affermazione, Merry sbadigliò rumorosamente. “Prima uno spuntino,
poi me ne vado a letto. Tu hai fame?” Boromir scosse la testa. “Vuoi restare
qui?”
Boromir rispose
alla domanda con un’altra. “Ci sono stelle, stanotte?”
Merry alzò lo
sguardo, e restò senza fiato di fronte al meraviglioso tappeto di stelle che
punteggiavano il cielo vellutato sopra di lui. Prima, tutto preso dalle sue
preoccupazioni, non se ne era accorto. Era come se se ogni stella in cielo fosse
apparsa a danzare quella notte. Erano venute per dire addio agli eserciti degli
Uomini? O per vedere per l’ultima volta la Terra di Mezzo, prima che fosse
cancellata per sempre dall’Ombra? Oppure il motivo era semplicemente che la
bellezza del mondo continuava, inconsapevole, incurante delle sofferenze delle
creature mortali, anche in una notte come quella?
“Sì”, mormorò lo
hobbit, pieno di meraviglia, “Non ne ho mai viste così tante in vita mia.”
Boromir alzò la
testa, forse per sentire il fresco tocco del vento sul suo viso, o forse per
ascoltare la musica delle stelle. “Bene. Resterò qui. Dormi bene, Merry, e
grazie.”
“Non
ringraziarmi.” Merry sbadigliò di nuovo e mosse i primi passi verso le Case che
dormivano dietro di loro nell’oscurità. “Solo non svegliarmi domattina.
Buonanotte.”
Lo scalpiccio di
piedi scalzi svanì lungo il sentiero, e Boromir seppe che era solo. Con un
sospiro, si appoggiò all’indietro contro l’incavo del parapetto, e si voltò
verso est. Verso la strada che all’alba avrebbero percorso il suo Re e i suoi
amici.
Era esausto.
Così stanco che le ossa gli dolevano, ma non era ancora pronto per affrontare il
sonno. La notte era solitaria e fredda, piena di dolore, greve per le lacrime
dei figli di Gondor, ma anche una notte come quella era preferibile al senso di
costrizione che gli davano le mura di pietra, le porte di legno e le torce
fumanti. Porte chiuse, rumori attutiti di passi sui pavimenti di pietra, aria
immobile densa per l’odore di bruciato…erano comuni in ogni casa, in ogni
fortezza, ma per Boromir rimandavano a un unico luogo, e non aveva intenzione di
ritornarvi, nemmeno con l’immaginazione.
Meglio una notte
di veglia solitaria sui bastioni di Minas Tirith, che il freddo alito del muri
di una prigione sul suo corpo.
Lentamente,
stancamente, si rilassò sulla panca, rovesciando la testa all’indietro per
rivolgere il suo sguardo bendato alle stelle. Cercò di immaginarsele come le
aveva viste tante volte, nel corso degli anni, quando giaceva sdraiato su un
mucchio di foglie e felci, guardando attraverso i rami scuri, ascoltando la voce
di suo fratello che mormorava accanto a lui. Faramir gli aveva raccontato
innumerevoli storie che parlavano di stelle e di elfi, cantando canzoni in
lingue che Boromir non conosceva, e ridendo quando gli chiedeva di tradurle
nella propria lingua.
“Non c’è nulla
di comune nelle canzoni degli elfi”, lo scherniva Faramir. “Non si possono
tradurre nella lingua comune.”
“E allora a che
mi servono?” gli rispondeva lui, irritato dall’aria di superiorità del fratello
minore.
“Parlano di cose
più grandi di Gondor, di Minas Tirith e del destino degli Uomini.”
“Se non
riguardano il destino degli Uomini non mi interessano!”
Quelle
discussioni finivano sempre allo stesso modo - con finte lotte tra le risate,
con Faramir che sfidava Boromir mentre lui lo bloccava al suolo intimandogli di
arrendersi. Le canzoni elfiche erano dimenticate, e le stelle non ridiventavano
che luci distanti.
Boromir avrebbe
voluto udire di nuovo quelle storie e quelle canzoni. Avrebbe voluto sentire la
voce di suo fratello nel buio, mentre tesseva immagini di antico potere, di
bellezza e di dolore, e sentire gli occhi degli Eldar su di loro. Ma più di
tutto, avrebbe voluto dire a Faramir che ora credeva a quelle leggende, come non
aveva mai fatto prima. Ma Faramir stava dormendo nelle Case di Guarigione,
Boromir era solo sulle mura della città, e tra loro si apriva un abisso di
dolore, rimpianto, colpa, e ferite che non potevano condividere. Boromir non
aveva la forza per attraversare quell’abisso quella notte - era troppo stanco e
troppo timoroso di nuove delusioni - ma aveva pur sempre la notte e le stelle, e
i ricordi delle storie che Faramir amava così tanto.
Sforzandosi di
rilassarsi e di concentrarsi, Boromir tentò di evocare il suono della voce del
fratello, la cadenza delle sue parole mentre raccontava le sue storie. Il freddo
e la solitudine svanirono. Non udiva più i rumori notturni della città, ma solo
frammenti di leggende richiamate dalla sua memoria.
Immerso nei
ricordi, non udì il rumore del cancello che si apriva. Non prestò attenzione ai
nuovi arrivati, inconsapevole della loro presenza, finché non furono molto
vicino a lui. Improvvisamente, udì qualcuno respirare e il rumore di passi sulla
ghiaia, e fu strappato bruscamente dalla sua fantasticheria. Istintivamente si
voltò verso il rumore e fece per alzarsi in piedi. Quel movimento gli salvò la
vita.
La punta della
spada, mirata alle sue costole, scivolò lacerando stoffa e carne, sfiorando
l’osso, ma grazie alla rapida reazione di Boromir non affondò in profondità.
La spinta del
movimento lo portò in piedi, e girandosi, Boromir spostò il braccio destro
colpendo il braccio dell’aggressore, deviando la forza del colpo. Si sentì
invadere dalla rabbia, alimentata dal familiare dolore di una lama nella carne,
e i suoi riflessi di soldato gli vennero in aiuto.
Senza pensare,
sferrò un pugno di destro senza mirare a nulla in particolare, cercando solo di
sbilanciare il suo aggressore. Colpì un viso scoperto, e l’uomo arretrò sotto il
suo colpo, ma mantenne la posizione. Poi Boromir gli sferrò un potente calcio,
che si ripercosse nei muscoli e nelle ossa, e l’uomo grugnì di dolore e
sorpresa, arretrando e roteando la spada.
Boromir estrasse
a sua volta la spada, proprio mentre udiva il rapido respiro e i passi di un
secondo aggressore alla sua sinistra. Saltò sulla panca e brandì la spada di
fronte a lui sulla difensiva. I due uomini esitarono, forse colti alla
sprovvista dalla sua resistenza o forse semplicemente spaventati dalla spada
scintillante che li minacciava. Boromir era consapevole di avere solo pochi
secondi prima che lo attaccassero di nuovo, e non poteva sperare di affrontarli
da solo.
“Sapete chi
sono?”, domandò per guadagnare tempo e per costringerli a tradire la loro
posizione. “Volete morire da traditori per un furto?”
Il primo uomo,
quello alla sua destra, sputò per terra e ringhiò, “Come moriamo noi non
importa! È come muori tu che importa, Sovrintendente!”
“Avanti, fallo”,
sibilò l’altro uomo, con la paura nella voce. “Spingilo giù dal muro. Troveranno
il suo corpo in strada.”
Il compagno
rise. “Penseranno che è caduto. Il destino ha dato una mano a salvare
l’esercito, eh?”. Rise di nuovo.
Boromir continuò
a muovere la spada in modo casuale, per non dare agli aggressori la possibilità
di prevedere il movimento successivo, mentre cercava con freddezza di trovare
una via d’uscita. Il sangue gli scorreva caldo lungo il fianco destro, e il
dolore era bruciante, ma Boromir spinse da parte quelle distrazioni per
concentrarsi sulla mossa successiva. Dietro di lui c’era un muro con un
precipizio mortale, su entrambi i lati due aggressori, e davanti a lui il
giardino vuoto. La sua unica speranza era di richiamare l’attenzione delle
Guardie che pattugliavano le strade, ma nel momento in cui avesse gridato, i
suoi aggressori avrebbero abbandonato ogni cautela e per lui sarebbe stata la
fine.
“Siete due folli
traditori!” ringhiò.
Quello alla sua
destra gli rispose, con amarezza, “Facciamo il nostro dovere per portare la
vittoria e per vendicare i nostri giovani signori.”
Mentre ancora
parlava, l’uomo si gettò in avanti con la spada. Per puro caso Boromir stava
spostando la sua verso destra e intercettò la lama. Il metallo scivolò sul
metallo, poi la spada dell’aggressore si liberò della sua maldestra guardia
affondandogli nell’avambraccio e lacerando i muscoli proprio sopra il gomito.
Nello stesso istante Boromir udì l’uomo alla sua sinistra attaccare, e capì di
essere in trappola.
Abbandonando
ogni tentativo di difendersi, sfidando tutte le regole del combattimento,
Boromir ignorò la lama nel suo braccio e gli uomini che lo caricavano.
Concentrato solo sulla fuga, raccolse le energie e si lanciò in avanti con tutta
la forza che aveva, in quello che sperava essere uno spazio tra i due sicari. La
lama si liberò dal suo braccio, mentre un’altra si impigliava nella sua tunica.
E poi Boromir si trovò dietro di loro, e cadde pesantemente sull’erba umida.
Cercando di ritrovare l’equilibrio, gridò a squarciagola,
“Guardie!
Guardie, a me!”
Qualcosa di
pesante gli colpì le gambe. Le ginocchia gli cedettero, e ricadde sull’erba.
Boromir capì che lo avevano anticipato. In un attimo furono sopra di lui,
imprecando e bloccandolo al suolo, cercando di togliergli la spada. Riuscì a
gridare ancora un frenetico “Guardie, a me!”, poi una mano gli spinse la
testa contro l’erba per soffocare la sua voce, e un calcio si abbatté
violentemente il suo avambraccio ferito. La spada gli scivolò dalle dita
intorpidite.
Merry sedeva a
letto appoggiato a una pila di cuscini, con un vassoio di legno in grembo,
contemplando lo spuntino notturno che Gil gli aveva portato. Quella donna doveva
essere in parte hobbit, pensò. Come avrebbe potuto altrimenti sapere che pane
fresco, formaggio stagionato e un bel boccale di birra erano il modo migliore
per concludere la giornata? Un sorriso illuminò le ombre sul suo viso, e Merry
cominciò a tagliare il formaggio con il coltello.
Stava per
addentare una generosa porzione di pane e formaggio, quando udì il clangore
inconfondibile del metallo contro il metallo. I suoi occhi corsero fuori dalla
finestra, verso il giardino, e capì che erano spade. Ultimamente quel suono gli
era diventato anche troppo familiare. Non poteva sbagliarsi.
Spingendo via le
coperte e il vassoio, scese dal letto e corse alla finestra. Fuori, tutto era
immerso nell’oscurità, ma riuscì a vedere qualcosa che si muoveva in fondo al
giardino, presso il muro, dove aveva lasciato Boromir. Per un attimo restò in
preda all’indecisione. Poi vide un lampo di luce argentea – il riflesso della
luce delle stelle sull’acciaio - e udì Boromir che gridava, furiosamente, “Guardie,
a me!”
Con un grido di
risposta, Merry abbandonò ogni esitazione. Non aveva una spada, poiché la sua si
era fusa sul campo di battaglia, ma questo non lo avrebbe fermato. Il coltello
da formaggio era ancora sul letto, e Merry lo afferrò. Poi corse alla finestra e
si arrampicò sul davanzale.
Un momento dopo
atterrò sull’erba sotto la sua finestra, correndo a tutta velocità lungo la
leggera pendenza verso le figure che lottavano accanto al muro.
“Boromir!”
gridò, perforando la quiete notturna con la sua voce acuta. “Boromir,
sto arrivando!”
Una delle figure
in ombra si allontanò dalla lotta e si mosse verso di lui. Merry intuì la sagoma
di un uomo imponente, tarchiato, vestito di cuoio scuro e maglia di ferro, poi i
suoi occhi si posarono sul sangue che macchiava la sua spada. La rabbia lo
invase, e si precipitò incontro all’uomo armato, brandendo il suo ridicolo
coltello come se fosse stato Andùril stessa.
L’uomo arrestò
il suo passo quando vide che genere di creatura lo stava assalendo, ma Merry non
gli permise di ritirarsi. Caricò l’uomo, gridando, “Fermati e combatti con me,
codardo!”
L’uomo rise, ma
un affondo del coltello gli fece scomparire il sorriso dalla faccia. “Bene,
allora. Vieni avanti e muori insieme al tuo padrone!”
Merry lanciò uno
sguardo inorridito al corpo disteso scompostamente nell’erba, con un secondo
sicario inginocchiato sulla sua schiena, e i suoi occhi si riempirono di
lacrime. Preparandosi a balzare addosso all’uomo, gridò, con tono di sfida,
“Gondor!”
Ma il suo atto
di coraggio suicida fu bruscamente interrotto da un grido proveniente dal
cancello. Lo hobbit e il sicario si voltarono entrambi e videro due soldati
vestiti con la livrea della Guardia Cittadina correre verso di loro attraverso
il giardino con le spade sguainate. Il sicario imprecò sottovoce. Voltando
sdegnosamente le spalle a Merry e alla sua ridicola arma, afferrò il suo compare
per il mantello e lo fece alzare in piedi. Poi entrambi corsero via, svanendo
nella notte profonda, lontani dalle lame e dalle torce delle guardie.
Merry fece
alcuni passi di corsa verso i soldati e indicò freneticamente gli uomini in
fuga. “Sono andati da quella parte! Attraverso il giardino, verso ovest!”
“Chi è andato da
quella parte?!”, domandò una delle guardie, con voce sospettosa.
“Due
uomini…assassini! Hanno ucciso il Sovrintendente!”
“No, non
proprio.”
Merry si voltò e
vide Boromir che si rialzava faticosamente. Con un grido di sollievo lo hobbit
gli corse incontro gettandogli le braccia al collo in un abbraccio stritolante.
Boromir lo afferrò con il braccio sano, e Merry affondò il viso nella spalla di
Boromir per nascondere le sue lacrime alle guardie.
“Ti credevo
morto”, mormorò Merry premendo il viso contro il tessuto della tunica di
Boromir.
Boromir si
limitò ad stringere più forte Merry, rivolgendo la sua attenzione alle guardie.
“Cercate nel giardino e nel sesto circolo. Due uomini mi hanno attaccato e sono
fuggiti verso ovest quando siete arrivati. Non possono essere lontani.”
Altre guardie si
unirono alle prime due, insieme ad un ufficiale, il quale mandò alcuni uomini a
inseguire i sicari con un gesto secco. Poi si fece aventi rivolgendosi al suo
comandante. “Li avete visti in…” L’ufficiale si fermò e si schiarì la gola,
imbarazzato.
“Avete
riconosciuto qualcosa di loro, Capitano? Come faremo a identificarli?”
“Sono soldati,
ma non di Minas Tirith. L’accento era del sud.”
“Indossavano
tuniche di cuoio marrone, senza stemmi, e cotta di maglia”, aggiunse Merry, “E
portavano degli elmetti.”
“Che tipo di
elmetti?”
“Piuttosto
stretti, di cuoio, penso, con un lembo che pendeva sulle spalle.”
Boromir li
riconobbe. “Morthond. Cercate dei soldati di Morthond. Non sono assegnati alla
guarnigione, non dovrebbero essercene stanotte in città.”
“Questo renderà
più facile la nostra ricerca. Siete ferito, Capitano?”, chiese l’ufficiale.
“Solo alcuni
graffi. Se ne occuperanno i guaritori, mentre voi cercherete i responsabili.”
“Con tutto il
dovuto rispetto, Capitano, non dovreste andare in giro per la città senza
scorta.”
“L’unica scorta
di cui ho bisogno è Merry. Ha la mente sveglia e la spada pronta.”
Merry lasciò
andare Boromir e si sedette sui talloni, nascondendo il coltello dietro la
schiena. Arrossì furiosamente. “Non ho una spada.” Gli occhi di tutti si
rivolsero allo hobbit.
“Non hai una
spada?” chiese Boromir. “E cosa hai usato, allora, per affrontare i miei
aggressori?”
Il rossore
aumentò. “Un coltello…un coltello da formaggio.”
Gli ufficiali
della Guardia risero, e anche alcuni dei suoi uomini, ma Boromir considerò lo
hobbit pensierosamente. “Hai attaccato due soldati armati utilizzando un
coltello da formaggio?”
“Beh, è stato
tutto quello che ho trovato…nella furia del momento.”
Boromir fece un
ampio sorriso. “Che tu sia benedetto, Merry. Tu vali come una dozzina di guardie
armate.”
“Ma non lo sono.
Non ho una spada, e non posso proteggerti se i sicari ritornano. È stato
l’effetto sorpresa che li ha ingannati, non il coltello.”
“Capisco.”
Alzandosi dolorosamente in piedi, Boromir si rivolse all’ufficiale con tono
energico e autoritario. “Ponete delle sentinelle al cancello e alle porte di
questa Casa. Mandate una truppa al cancello principale e non consentite a
nessuno di lasciare la città prima che sia stato perquisito e identificato.
Cercate specialmente uomini di Morthond. Se trovate i sicari, portateli qui.” Si
interruppe e si guardò attorno, scoraggiato. “Ho perso la mia spada.”
Uno dei soldati
la recuperò dal punto in cui era caduta nell’erba. Mentre la sollevava, Merry
vide che la punta era macchiata di sangue.
“Eccola, mio
signore.” Disse il soldato.
“Ne hai ferito
uno?” chiese Merry.
“Non lo so.”
Boromir tese la mano per prendere la spada, poi fece scorrere il dito sul piatto
della lama finché non sentì che il metallo divenne appiccicoso. Sorridendo
leggermente all’ufficiale, disse, “Cercate un uomo che sanguina.”
Con un brusco
cenno del capo, Boromir congedò la Guardia. Merry attese pazientemente che
Boromir pulisse la spada in un lembo della sua tunica non macchiato di sangue e
rinfoderasse la spada. Poi lo hobbit si avvicinò a lui e sorrise quando la mano
dell’uomo si posò sulla sua testa.
“Alle Case?”
“Sì, il più
silenziosamente possibile.”
Merry si
incamminò risalendo la collina verso le Case, adattando la sua andatura a quella
di Boromir. Sentiva che l’uomo dietro di lui era stanco e sofferente, e sebbene
Boromir camminasse abbastanza speditamente, a schiena eretta e con la testa
alta, il suo passo non aveva la solita energia.
“Sei ferito
gravemente?” chiese lo hobbit.
“È solo un
graffio.” Al silenzio scettico di Merry, Boromir sogghignò e aggiunse,
mestamente, “Molti graffi, a dire la verità, e piuttosto profondi. Non
preoccuparti, piccoletto. Dammi sono un po’ di acqua bollente e bende pulite, e
me ne occuperò subito.”
“I guaritori se
ne occuperanno, vorrai dire.”
Boromir emise un
suono di disgusto, e ringhiò, “Guaritori! Non mi serve l’aiuto di un guaritore
per fasciare una ferita! L’ho fatto fin da quando sono stato in grado di usare
una spada. Ti prego, Merry, non dire a nessuno quello che è accaduto stanotte!
La notizia dell’aggressione non deve diffondersi finché non abbiamo preso quegli
uomini. Non voglio nessuno tra i piedi che cerchi di rendersi utile. E
soprattutto, non voglio confusione. Capito?”
“Ho capito, ma…”
Merry si interruppe e deglutì, a disagio.
“Ma cosa?”
domandò Boromir.
“Credo che sia
troppo tardi per evitare la confusione.”
Merry non aveva
mai visto il lord Faramir prima d’allora, ma non poté sbagliare nel riconoscere
l’uomo che stava in piedi sulla soglia della Casa, con la camicia allentata e un
paio di pantaloni indossati frettolosamente, i capelli spettinati dal sonno e
gli occhi grigi spalancati per l’apprensione. In una mano teneva una candela, e
nell’altra una spada sguainata, e la somiglianza con il fratello era
impressionante.
Mentre i due si
avvicinavano Faramir chiamò, senza preavviso, “Boromir?!”
Merry sollevò lo
sguardo e vide la bocca di Boromir serrarsi per l’irritazione. Boromir accelerò
il passo, costringendo lo hobbit a correre sulle sue corte gambe, e raggiunse la
porta in tempo per impedire un secondo grido.
“Non occorre
svegliare tutta la casa, fratello.”
“Cosa è
accaduto? Sei ferito? Ho sentito delle grida, e…”
Boromir lo
interruppe con un gesto brusco e sussurrò, con urgenza, “Ti supplico, Faramir,
non qui.”
Faramir tacque
immediatamente e fece un passo indietro, permettendo a Merry e a Boromir di
oltrepassare la porta. Mentre entravano nel corridoio, Merry notò che Faramir
non era solo. Gil, la sguattera, stava aspettando dietro di lui, con un’altra
candela.
“C’è un posto
dove possiamo andare in modo da non disturbare la Casa?” chiese Boromir, con
voce affaticata per la stanchezza e per la sofferenza che non riusciva più a
nascondere.
“La cucina”,
rispose Gil, prontamente.
Boromir si voltò
verso la voce, corrugando la fronte. “Gil?”
“Sì, mio
signore.”
“Ma tu non dormi
mai?”
“Non quando ci
sono soldati che gridano e combattono sotto la mia finestra. Vuoi seguirmi in
cucina, mio signore? O preferisci restare lì e sanguinare sul mio pavimento
pulito?”
“In cucina, e
sia. Merry, guidami.”
Raggiunsero la
cucina senza svegliare nessun altro. Gil condusse Boromir ad una sedia accanto
alla stufa e lo fece sedere con fermezza, mentre Merry chiudeva la porta. Stava
per chiuderla a chiave, quando qualcuno bussò con forza, e una voce chiamò,
“Mio signore!
Mio signore! C’è qualcosa che non va?”
Merry aprì la
porta, e guardò stupito la donna dall’altra parte. Alla fioca luce delle
candele, vestita solo dei suoi abiti da notte e di una vestaglia di lana bianca,
con i capelli sciolti sulle spalle e il braccio ferito al collo, la bellezza di
dama Éowyn era straordinaria e gelida.
Abbassò la mano
che aveva alzato per bussare e guardò Merry senza sorridere.
“Bentrovato,
mastro Scudiero.”
“Bentrovata, mia
signora.”
“Sono venuta per
vedere il Sovrintendente.”
“Éowyn?” Boromir
sembrò irritato - e ne aveva tutto il diritto, pensò Merry. Gil stava sollevando
la stoffa che si era attaccata alla ferita sul braccio, facendo scorrere sangue
fresco. “Lasciaci, dama, te ne prego. Questa non è la tua battaglia.”
Invece Éowyn
entrò nella stanza, vedendo il taglio che Gil aveva scoperto. “Sei ferito.”
Boromir sospirò
pazientemente. “Merry, chiudi a chiave la porta. Fratello, se mi ami, uccidi la
prossima persona che entra in questa stanza. Gil…devi proprio farlo?”
“No, mio
signore. Deve farlo un guaritore.” Gil si alzò in piedi e si diresse verso la
porta. “Ne chiamerò uno.”
“Non lo farai!”
Boromir quasi si alzò dalla sedia, furente. “Faramir, uccidi la prima persona
che esce da questa stanza!”
Faramir gli
lanciò uno sguardo si disapprovazione e posò la spada sul tavolo, assicurandosi
che Boromir udisse il rumore del metallo sul legno.
“Io non sono in
grado di medicarti, mio signore” insistette Gil. “Sono solo una sguattera, non
un chirurgo.”
“Dammi le
fasciature, mi medicherò da solo.”
Gil impallidì e
la sua voce divenne inespressiva, mentre voltava le spalle a Boromir e metteva
la mano sulla maniglia della porta. “È il mio dovere. Non verrò meno al mio
dovere verso i guaritori, o verso il mio Sovrintendente.” Con queste parole,
girò il catenaccio e scomparì nel corridoio buio.
Boromir si
abbandonò contro lo schienale della sedia, imprecando a bassa voce. Merry si
accorse della sua stanchezza e della sua frustrazione dal modo in cui teneva
incurvate le spalle. Non poteva alleviare le preoccupazioni dell’amico, quella
notte, ma almeno su una cosa poteva tranquillizzarlo. Con voce conciliante,
disse, “Gil è una persona assennata. Non farà trambusto. Ed è meglio che le tue
ferite vengano viste da un guaritore.”
“L’ holbytla
parla con saggezza” disse Éowyn, spostandosi fino al tavolo al centro della
stanza. Posando la candela sulla ruvida superficie di legno si appoggiò al
tavolo con l’altra mano. Alla luce tremolante delle candele, sembrò a Merry che
tutto il colore fosse scomparso dal suo viso. La sua pelle era pallida e fredda
come marmo, gli occhi spenti per il dolore e la disperazione. Eppure, anche così
provata nello spirito, trovò la forza per stare in piedi con orgoglio, e osservò
con preoccupazione le ferite di Boromir. “Dimmi, mio signore, come ti sei
ferito?”
“Non
preoccuparti. Non è nulla di grave, e non c’è alcun pericolo per gli ospiti di
questa Casa.”
Éowyn si
raddrizzò con fierezza. “Non temo il pericolo. Sono venuta solo per vedere se
potevo aiutare in qualche modo il mio compagno d’armi di un tempo.”
Prima che
Boromir potesse replicare, Faramir intervenne, “Il tuo coraggio ti fa onore,
dama, ma tu sei ancora debole, e gravemente ferita.” Il suo sguardo, oscurato
per il dolore e per l’apprensione, corse al braccio bendato, al pallore
innaturale del suo viso, e al lieve tremito della mano posata sul tavolo.
“Lascia che ti scorti alle tue stanze, perché mi sembra che anche tu sia
un’ospite di questa Casa, come lo sono io, e non dovresti essere in piedi a
quest’ora.”
Éowyn lo osservò
con gravità per un momento, poi scosse la testa. “Non incomodarti per me, mio
signore.”
“Temo di non
poterti obbedire.” Con un inchino e un sorriso malinconico disse, “Sono Faramir,
figlio di Denethor, fratello del Sovrintendente.”
“Io sono Éowyn,
nipote di Re Théoden”
“E Dernhelm,
Cavaliere di Rohan”, aggiunse Boromir. “È stato Dernhelm a scortarci da Edoras,
quando Théoden ed Éomer avrebbero voluto che ci nascondessimo da qualche parte.”
“Allora devo
ringraziarti, mia signora.” Disse Faramir, con un altro inchino. “Hai reso un
grande servizio a me e a Gondor.”
“Un servizio che
qualcuno ha cercato di vanificare” disse Éowyn. Rivolgendo il suo sguardo
distante eppure ansioso a Boromir, chiese. “Chi oserebbe attaccare il
Sovrintendente di Gondor all’interno delle mura della sua città?”
Boromir le
riferì l’accaduto in poche concise frasi. Non disse nulla dell’assalto di Merry
con un coltello da cucina, cosa della quale lo hobbit fu grato, ma concluse
semplicemente dicendo che Merry aveva interrotto l’attacco e salvato la sua
vita.
Il viso di
Faramir divenne pallido e teso. “Le guardie stanno cercando questi sicari?”
“Sì.”
“Sei certo che
non fossero semplici ladri che speravano in un ricco bottino?”
“Mi hanno
chiamato Sovrintendente.”
Faramir emise un
suono simile a un gemito. “Chi oserebbe compiere un omicidio a Minas Tirith, e
in un momento come questo?”
“Traditori”,
disse Éowyn, con voce tesa per la rabbia, “e codardi. Attaccare alle spalle
nell’oscurità…”
“Ma perché?”
Negli occhi di Faramir Merry vedeva la domanda, che più di ogni altra lo
tormentava. “Perché tentare di uccidere il loro signore?”
“E che
importanza ha? È stato un atto senza onore, un tradimento, in un momento in cui
tutti i popoli liberi della Terra di Mezzo si preparano per la guerra sotto lo
stendardo di Gondor. Qualunque ragione abbiano, la verità è chiara. Sono
traditori, e strumenti del Nemico.”
“Come lo fui
anch’io, un tempo” mormorò Boromir, così piano che solo Merry, che era vicino
alla sua sedia, lo udì.
“Ha sempre
importanza sapere perché gli uomini sono portati al male”, rispose Faramir,
dolcemente. “Altrimenti, come possiamo guardarcene noi stessi?”
“Ciononostante,
ciò che compiono è sempre male. Quegli uomini sono traditori senza onore.”
“Certo.”
In quel momento
la porta si aprì, e il Custode delle Case entrò nella stanza. Dietro di lui
venivano Ioreth e Gil, e con la loro venuta improvvisamente la grande cucina
sembrò rimpicciolirsi. Il Custode si fermò sulla porta osservando la stanza con
occhi tranquilli e limpidi, poi si avvicinò alla sedia di Boromir e offrì al
Sovrintendente un rispettoso inchino.
“Mio signore. Mi
hanno detto che hai necessità delle mie cure.”
“Non è nulla”,
disse Boromir, con rude cortesia. “Non c’era bisogno di disturbare il tuo
riposo.”
“Certo che ce ne
era bisogno. Violenza e omicidio nei miei giardini, pazienti che lasciano i loro
letti per andarsene in giro armati di spada, i signori della città chiusi nella
mia cucina a parlare di tradimenti…non accadono spesso tali eventi in queste
Case. Come potrei continuare a dormire?”
Boromir rivolse
al Custode un mesto sorriso, mentre la sua tensione svaniva visibilmente. Poi
Ioreth parlò, e Boromir si irrigidì nuovamente.
“Ah questi
avvenimenti! È una disgrazia, un oltraggio! Il nostro signore non è al sicuro
nemmeno nella sua città, mentre il Re è accampato fuori dai cancelli, come un
comune vagabondo. E tu, mio signore Faramir, non dovresti essere alzato a
quest’ora…se mi è concesso dirlo, mio signore.”
Ioreth si fermò
per prendere fiato, poi si lanciò in una nuova seria di proteste, osservazioni e
commenti, mentre camminava affaccendata per la stanza. Insieme alle parole
arrivarono velocemente tutti gli strumenti dei guaritori - bende, unguenti,
aghi, coltelli e recipienti pieni di acqua bollente. I presenti nella stanza la
osservavano stupefatti, ma nessuno osava interrompere il flusso continuo di
parole e di gesti.
Mentre Ioreth
svolgeva il suo compito rumorosamente, il Custode si occupò del suo con relativa
tranquillità. Condusse Gil dove era seduto Boromir, e insieme lo spogliarono dei
vari strati di vestiti. Quando Ioreth ebbe finito di portare l’ultimo vasetto di
unguento sul tavolo, Boromir era vestito solo dei calzoni e della camicia
insanguinata.
La vecchia si
fermò improvvisamente, piantò le mani sui fianchi, e rivolse uno sguardo esperto
a Éowyn. “Ritorna a letto, mia signora, finché riesci ancora a reggerti in
piedi.”
Senza sollevare
gli occhi dal suo lavoro, il Custode disse, “Ha ragione, Dama Éowyn. Devi
riposare, se vuoi guarire. Sire Aragorn è stato molto chiaro su questo punto.”
Prima che Éowyn
potesse protestare, Faramir si fece avanti e disse, “Consentimi di scortarti
alla tua stanza, mia signora.”
“Non ho bisogno
di scorta”, protestò Éowyn.
Faramir, con la
grazia e la disinvoltura che gli erano naturali, rispose, “Solo per questa
notte, dama, lascia che ti accompagni. Potrebbero esserci altri malintenzionati
in giro, e il tuo braccio della spada è ferito.” Mentre parlava, sollevò la sua
spada dal tavolo e salutò con questa Éowyn.
Éowyn, in
inferiorità numerica e congedata da un cortese ma fermo saluto di Boromir,
permise a Faramir di scortarla fuori dalla stanza. Quando la porta si fu chiusa,
Ioreth cominciò ad affaccendarsi attorno a Boromir passando gli strumenti al
Custode, mentre continuava ininterrottamente a parlare.
Il Custode la
lasciò fare per alcuni minuti, poi notò l’espressione tesa sul viso di Boromir e
il modo in cui trasaliva al suono della voce di Ioreth. Poi, con il suo modo
mite ma autoritario, la interruppe.
“Alcuni pazienti
ci hanno sentiti, quando siamo entrati. È meglio se li tranquillizziamo, prima
che vengano a cercarci, disturbando il Sovrintendente. Vai tu, Ioreth, e falli
ritornare a dormire. Dì loro ciò che vuoi, ma non farli uscire dalle loro
stanze.”
“Ma non dire
nulla dell’agguato o degli assassini!”,aggiunse Boromir, bruscamente.
“Agguati e
assassini!” Ioreth alzò una mano protestando. “Spaventare i feriti e i malati
con storie di agguati e assassini? Tremo al sono pensarci, mio signore!”
“Bene”, grugnì
Boromir.
Il Custode
trattenne a stento un sorriso e fece gesto a Ioreth di uscire per svolgere i
suoi compiti. Quando la porta si fu richiusa, lasciando la stanza in un pacifico
silenzio, Boromir si lasciò sprofondare nella sedia con un gemito.
“Per amor del
cielo, Gil, perché hai portato quella donna?”
“L’ho portata
io,” rispose il Custode. “Dietro l’apparenza si nasconde un’abile infermiera e
una donna molto saggia.”
“Allora è molto
ben nascosta”, mormorò Boromir.
Dopo aver
sfogato un po’del suo malumore, Boromir si tranquillizzò e lasciò lavorare il
guaritore senza interromperlo. Nel mezzo del procedimento, Faramir scivolò nella
stanza, ancora con la spada in mano. Boromir lo salutò con un cenno, ma non
sembrò avere intenzione di rompere il silenzio. Faramir appoggiò la spada sul
tavolo, prese una sedia, e si sedette con un sospiro di stanchezza.
“Tutto è
tranquillo.” In risposta ebbe un altro cenno e un grugnito di assenso. “Ho
parlato con le sentinelle. Non hanno sentito nulla.” Quando capì che Boromir non
avrebbe parlato, Faramir lo guardò con severità e disse, “È tempo che tu mi
racconti quello che sai dell’aggressione, fratello. Chi ha tentato di ucciderti?
E perché?”
Boromir si
accigliò, irritato dal tono autoritario del fratello, ma rispose con prontezza.
“Soldati di
Morthond, della valle di Cepponero, a giudicare dagli abiti e dall’accento. Non
so dirti il motivo.”
“Gli uomini
della valle di Cepponero sono per tradizione arcieri, non spadaccini.”
“Infatti. Questo
potrebbe spiegare il fatto che non sono morto con una spada piantata in gola.
Hanno avuto abbastanza coraggio da fare il tentativo ma non l’abilità per
portarlo a termine. Hanno esitato quando avrebbero dovuto attaccare. Uno di loro
avrebbe avuto la possibilità di uccidermi quando ero a terra, ma ha trattenuto
la mano.”
Faramir annuì
pensierosamente, con lo sguardo fisso sul tavolo mentre la sua mente correva.
“Soldati, spinti da un qualche oscuro motivo, che si servono di armi non
familiari e contro i dettami dell’onore. Ma cosa ha potuto spingerli a un atto
così disperato?”
Merry, che era
rimasto seduto in silenzio fino a quel momento su uno sgabello mangiando una
mela, non poté più trattenersi. “Niente poteva costringerli ad
assassinare il loro signore! Hanno scelto loro di farlo!”
“È vero, Merry”
disse Boromir, con gravità. “Ma a volte, facciamo le scelte sbagliate con le
migliori intenzioni.”
Merry ingoiò le
parole successive, ricordando il momento in cui aveva saputo del tradimento di
Boromir, e il suo desiderio di perdonarlo. Non provava quel desiderio riguardo
agli assassini, ma poteva capire perché Boromir esitasse a condannarli a priori.
Dentro di sé, Merry fu felice di avere la possibilità di odiare quei due uomini,
indipendentemente dalle loro ragioni, e di non dover essere giusto con loro. I
re e i sovrintendenti non si potevano permettere quel lusso.
“Di una cosa
possiamo essere certi”, continuò Boromir. “Duinhir di Morthond marcia domani,
portando con sé i suoi uomini e i nostri problemi.”
Faramir alzò la
testa di scatto, accigliandosi, poi saltò in piedi. “Dobbiamo fare presto. Il re
vorrà interrogare Duinhir e scoprire la fonte di questa agitazione…”
“Aragorn non ne
saprà nulla.”
Faramir fissò il
fratello sbalordito. “Non vuoi mandargli un messaggero per avvertirlo
dell’aggressione?”
“No.”
“Ma deve
saperlo!”
“Non voglio che
Aragorn sia turbato per qualcosa per cui non può fare nulla. Ci sarà tempo per
questo quando ritornerà.”
Con sorpresa di
Merry, Faramir sembrò non fare caso al tono definitivo della voce di Boromir.
Continuò invece ostinatamente, sfidando la crescente rabbia del fratello.
“Certo il re
vorrà sapere che un omicidio è stato tentato all’interno della sua città.”
Boromir perse la
calma. Alzandosi di scatto dalla sedia, sottraendosi alle mani del guaritore,
gridò, “Questa non è la città di Aragorn! Non ha ancora il dominio sulla città,
né lo hai tu, fratello! Non sono forse io il Sovrintendente qui?”
Le gote di
Faramir si infiammarono di rabbia, ma controllò la sua voce e si mantenne calmo.
“Sì.”
“E allora
lasciami governare come ritengo giusto!”
“Naturalmente,
mio signore.” Faramir si inchinò rigidamente. Merry studiò il suo viso per
trovarvi qualche traccia di ironia, ma non la trovò.
“Chiedo
perdono.”
Lasciandosi
ricadere sulla sedia Boromir si passò una mano sul viso, stancamente.
“Che la peste ti
colga, Faramir, perché devi sempre spingermi oltre il limite? Ti diverte tanto
vedermi fare il tiranno?”
“No, certo che
no.”
Merry colse il
turbamento e il rimprovero nella voce di Faramir, e si chiese che cosa lo avesse
scosso così profondamente. Non conosceva abbastanza bene suo fratello da
riconoscere la stanchezza che lo opprimeva? E non capiva che erano l’ansia e
l’amarezza della frustrazione a spingerlo a perdere la calma? Boromir non aveva
parlato così per arroganza, ma perché era esausto e al limite della pazienza, e
perché desiderava risparmiare alla sua malridotta città un’ ulteriore ferita, e
al suo re un altro fardello. Tutto ciò era dolorosamente chiaro a Merry, perché
allora suo fratello non riusciva a capirlo?
Nel pesante
silenzio che era caduto, udirono un calpestio di passi nel corridoio. Il Custode
sollevò la testa brevemente per ascoltare, poi fissò rapidamente l’ultimo
fermaglio alle bende sul fianco di Boromir, e si diresse verso la porta. Non si
affrettò, anche quando un colpo rimbombò sulla porta facendo tremare il legno.
Aprì la porta, e si pose con fermezza davanti agli uomini dall’altro lato.
Merry notò un
luccichio di elmi d’argento e stoffa nera, poi una voce vagamente familiare
disse, “Cerco il lord Boromir. È qui?”
“Sì, ma è ferito
e ha bisogno di riposo.”
“Veniamo sotto
suo comando, Custode. Abbiamo preso uno dei sicari.”
“Fateli
entrare,” disse Boromir. Con l’aiuto di Gil, era riuscito a indossare di nuovo
la sua camicia strappata, e ora si raddrizzò sulla sedia, rivestendosi della sua
autorità come di un’armatura. Quattro guardie, guidate dal luogotenente che
avevano incontrato nel giardino, entrarono rumorosamente nella cucina,
rimpicciolendo la stanza nuovamente in modo allarmante. Due di essi camminavano
con le spade sguainate, trascinando un terzo uomo tra loro. Il prigioniero aveva
le mani legate dietro la schiena, la testa scoperta, e il viso macchiato di
sangue secco per un taglio sulla guancia sinistra. Era vestito di cuoio nero,
con una cotta di maglia leggera che si intravedeva al collo e ai polsi. Gli
stivali erano incrostati di fango. Il fodero pendeva vuoto al suo fianco. Non
aveva ornamenti, né simboli, a parte il fermaglio della sua cintura, a foggia di
testa di cervo, ma alcuni fili allentati sulle spalle e sul petto mostravano che
qualche altro stemma era stato rimosso frettolosamente.
Il luogotenente
si avvicinò a Boromir e salutò energicamente. Rivolse lo stesso saluto anche a
Faramir. “Abbiamo preso quest’uomo mentre si nascondeva in una baracca per i
carri, nel secondo circolo. Non vuole dire il suo nome, ma indossa la divisa
degli arcieri di Morthond e ha un taglio di spada recente sul viso.” Prese una
spada e un copricapo di cuoio da uno dei suoi uomini, e li pose sul tavolo
davanti a Faramir.
“Ha consegnato
la sua arma. Non è sporca di sangue.”
Merry studiò il
viso del prigioniero, cercando qualcosa che potesse riconoscere, qualcosa che
potesse marchiarlo come uno dei sicari, ma non trovò nulla. L’uomo stava in
piedi rigidamente, con orgoglio, senza mostrare alcuna debolezza di fronte ai
figli di Denethor, e soltanto il suo sguardo, che saettava rapidamente da un
fratello all’altro, tradiva la sua paura.
Boromir si
rivolse al prigioniero con viso freddo e inespressivo. “Come ti chiami?”
“Hirluin di
Morthond.” A nessuno sfuggì l’ostilità nella sua voce, e l’esplicito rifiuto di
riconoscere il rango di Boromir.
“Sai chi sono,
Hirluin di Morthond?”
“Boromir, figlio
di Denethor, colui che occupa il seggio del Sovrintendente.”
“E sapevi chi
ero quando hai tentato di uccidermi?”
Hirluin esitò,
inumidendosi le labbra con nervosismo. “Sono un soldato. Uccido solo per ordine
del mio signore.”
“Volevi gettarmi
giù dalle mura, così che il mio corpo fosse trovato fracassato sulla strada.
Anche questo era un ordine del tuo signore?” L’uomo non rispose, e Boromir
continuò, gelido, “Non posso vedere il tuo viso, Hirluin, ma non sono né sordo
né demente. Riconosco la tua voce. Sei un traditore e un assassino.”
Negli occhi del
prigioniero lampeggiò il panico, e, con le mani dietro la schiena, formò un
gesto per scacciare il male. “Esigo la protezione del mio signore! Non sono
soggetto al capriccio di Gondor!”
“Sei stato
chiamato a combattere sotto la bandiera di Gondor, e sarà a Gondor che
risponderai del tuo tradimento.”
Lo sguardo di
Hirluin correva da un viso all’altro, senza trovare pietà né comprensione. Si
inumidì di nuovo le labbra e cercò di recuperare il suo contegno orgoglioso, ma
il peso della rabbia che aleggiava nella stanza lo opprimeva e lo schiacciava
nelle mani dei suoi guardiani.
“Ho fatto ciò
che dovevo. Ho fatto il mio dovere”, mormorò.
Faramir si
sporse verso di lui, con i fieri occhi grigi esigevano obbedienza. “Vuoi dire
che hai agito per ordine di altri? Stai accusando il lord Duinhir o uno dei suoi
capitani per questo vile atto?”
“No, loro non ne
sanno nulla! Ma era il nostro dovere, come leali figli di Morthond, e come
alleati al regno di Gondor…” I suoi occhi percorsero la stanza pieni di panico,
evitando Boromir, e le parole vennero velocemente alle sue labbra. “L’esercito
fallirà! Cadranno le tenebre! E dove andremo allora, se non a Minas Tirith?
Senza di essa non ci sarà ritorno da Mordor, per nessuno di noi! Senza di essa,
saremo condannati a morire nell’ Ombra!”
“Spiegati
meglio, soldato”, lo incalzò Faramir. “Noi tutti sappiamo il destino che ci
attende, e dobbiamo combatterlo come meglio possiamo. Minas Tirith non cadrà,
finché ci saranno abbastanza spade a difenderla, e darà rifugio a tutti i nemici
di Sauron che accorreranno ai suoi cancelli.”
“No, no, non
potrà farlo, finché l’Ombra camminerà per le sue strade!” puntò un dito tremante
verso Boromir, e la sua voce si alzò. “Lui porterà Gondor verso le Tenebre! È un
presagio di sconfitta, un’arma del Nemico puntata alla nostra gola! Se comanderà
le armate di Minas Tirith saremo condannati a cadere! Dicono che suo padre abbia
sognato la sua venuta e sia impazzito per il dolore!”
Il luogotenente
reagì prontamente, colpendo Hirluin al viso con un pugno. Il prigioniero
barcollò all’indietro ma non cadde, sostenuto per le braccia dai soldati armati.
“Bada a come parli, traditore, o ti taglierò la lingua! Non avvelenerai l’aria
con le tue menzogne!”
“Basta così”,
disse Faramir, stancamente. “Portatelo via.”
“Aspettate.”
Tutti gli sguardi si posarono su Boromir, e il prigioniero si irrigidì
allarmato. “Parli della caduta di Gondor con molta sicurezza, Hirluin. Come fai
a conoscere il destino che ci attende?”
“I segni sono
chiari”, insistette Hirluin.
“Non per me. Tu
mi definisci un presagio di sconfitta, eppure io ho combattuto per Gondor tutta
la mia vita. Come posso ora essere un’arma puntata contro di essa?”
Qualcosa nella
franchezza e nella semplicità con cui Boromir aveva posto la domanda, fece
sfumare la rabbia di Hirluin. Per la prima volta da quando era stato portato al
cospetto del Sovrintendente sembrò incerto, persino turbato per la vergogna.
“Non lo so”,
mormorò. “So solo ciò che sa tutto l’esercito - che tu cammini nelle Tenebre e
porterai anche tutti noi all’Oscurità.”
“Così volevi
uccidermi per una superstizione di soldati?”
Hirluin si
agitò, a disagio, sempre evitando di guardare Boromir, e serrò la mascella.
Boromir si
appoggiò all’indietro contro lo schienale della sedia. Al luogotenente comandò,
“Portatelo alla Cittadella.”
L’ufficiale fece
un rapido saluto e segnalò alla scorta di condurre il prigioniero fuori dalla
porta. Hirluin, raccogliendo di nuovo attorno a sé i resti del suo orgoglio di
soldato, si incamminò tra le guardie a testa alta. Dopo che la porta si fu
chiusa dietro di loro, il luogotenente chiese, “Avete altri ordini, Capitano?”
“Trovate il suo
complice, se ci riuscite, e colui che ha messo loro in testa questa stupida
idea.”
“Lo troveremo,
Capitano. La Guardia non vi deluderà!”
Boromir sorrise
a quel giuramento fervente, ma il suo viso rimase teso e contratto.
“Sorvegliate
strettamente il prigioniero. Non dite a nessuno al di fuori della vostra
compagnia ciò che ha rivelato, e non lasciatelo parlare con nessuno senza il mio
permesso. Non voglio che circolino voci di omicidi e tradimenti per la città.”
Emise un breve
sospiro e aggiunse, piano, “Ci saranno già abbastanza preoccupazioni per il
nostro popolo nei giorni a venire.”
Ci volle
un’eternità prima che tutti uscissero dalla stanza. Boromir fece del suo meglio
per mantenersi calmo e cortese, anche se tutto il corpo gli doleva e la testa
gli girava per lo sfinimento, ma quando il luogotenente, sotto suggerimento di
Faramir, insistette per assegnargli una scorta di due guardie, non poté più
contenere la sua rabbia e ordinò a tutti di andarsene. Il Custode se andò, così
silenziosamente e discretamente come era venuto, portando con sé Faramir. Le
guardie uscirono per ritornare ai loro compiti. Merry fu l’ultimo ad andare, e
il più difficile da persuadere, ma Boromir non ascoltò le sue proteste. Il
mezzuomo non si reggeva in piedi per la stanchezza ed era ancora debilitato
dalla sua ferita. Boromir lo sentiva nella sua voce. Finalmente, quando minacciò
di chiamare Ioreth e di farlo portare a letto, Merry si arrese e gli augurò con
riluttanza la buonanotte.
Finalmente era
solo. O quasi. Soltanto una persona si muoveva ancora indaffarata per la stanza,
con le gonne che frusciavano contro le pietre del pavimento. Per qualche ragione
Boromir trovava la sua presenza stranamente confortante. Ascoltava i lievi
rumori che lei faceva mentre lavorava, che lo aiutavano a dimenticare le
preoccupazioni e le ansie che lo assediavano. Lentamente, cominciò a rilassarsi,
e si lasciò scivolare all’indietro contro la sedia, allungando le gambe di
fronte a lui, mentre un piacevole torpore lo avvolgeva.
Un aroma ricco e
invitante si diffuse nell’aria, facendogli venire l’acquolina in bocca, e
Boromir si raddrizzò sulla sedia. “Cosa stai preparando?” domandò.
“Vino speziato”,
rispose Gil, nel suo solito modo brusco. Attraversò la stanza avvicinandosi a
lui e appoggiò qualcosa di metallico sul tavolo di legno. “Lenirà il dolore
delle ferite.”
Boromir attese
che lei si dirigesse nuovamente verso il focolare, poi trovò a tentoni il
boccale che aveva posto davanti a lui, e lo strinse con gratitudine tra le mani.
Soltanto il profumo sembrava già avere effetti benefici. Ne bevve un sorso, e un
sorriso gli illuminò il volto.
“Mi chiedo come
mai non ho mai assaggiato questa medicina prima d’ora…”
“Non sei mai
venuto da me per curare le tue ferite, mio Signore.”
Boromir rise
piano. “Forza, Gil, unisciti a me. Anche tu devi pur avere qualche ferita che
questa medicina possa curare.”
“Chiedo perdono,
mio signore, ma non funzionerà.”
“Che cosa?”
“Io che bevo
insieme al Sovrintendente. È sconveniente.”
Gil sembrava
indignata, ma non aveva adottato il suo solito tono freddo, e Boromir ne dedusse
che non era veramente offesa. Adottando il tono di rimprovero scherzoso che
riservava normalmente a Merry e a Pipino, ribatté, “Ciò che è davvero
sconveniente è discutere con il tuo Sovrintendente. Ora versati una coppa e
siediti.”
“Sì, mio
signore. Se insisti, mio signore.”
Resistendo
all’impulso di mettersi a ridere, Boromir attese che Gil si versasse un boccale
di vino speziato e che tirasse una sedia accanto al tavolo. Trovava divertente
la sua umiltà, se paragonata alla sua lingua impertinente e al temperamento
bisbetico, ma non era sicuro di come lei avrebbe reagito al suo divertimento.
Non sapeva quasi nulla di lei, e considerando l’imbarazzo del loro primo
incontro, decise che sarebbe stato meglio essere cauti.
Quando la sentì
bere un sorso di vino con un leggero sospiro di soddisfazione, Boromir abbassò
il suo boccale e disse, gentilmente, “Ti ringrazio per il tuo aiuto di
stanotte.”
“Ho fatto solo
il mio dovere, mio signore.”
“Ma l’hai fatto
senza perdere la calma e con poco trambusto, cosa di cui ti sono grato.”
Lei rispose con
una breve risata priva di allegria. “Fare trambusto non aiuta a fasciare le
ferite, o a pulire i pavimenti.”
“Sei una donna
pratica, Gil”
“Non ho tempo
per essere altro.”
“E non ti sei
mai chiesta cos’altro potresti essere?”
“Questi pensieri
sono per i ricchi e per gli oziosi. Io non sono nessuna delle due cose. Sei
fantasioso, questa notte, mio signore.”
“Stavo pensando
alle stelle, cercavo di ricordare le storie che mi raccontava mio fratello.
Leggende elfiche. Forse una di loro parlava di Gilthaethil.” Le sorrise
pigramente, sentendo gli effetti del vino nelle sue vene, che gli scaldava le
membra affaticate, rendendolo loquace e di buon umore. “Gilthaethil, la
Principessa degli Elfi. Chissà che cosa ha fatto per meritarsi un posto tra le
leggende. Ha ucciso draghi? Sconfitto eserciti? Salvato il suo amore mortale
dagli oscuri abissi di Angband?”
“Quella mi
sembra di conoscerla”, commentò Gil.
“È probabile. Ho
sempre confuso tutti quegli eroi elfici. Ma scommetto che non puliva i
pavimenti.”
“Quelle
principesse non lo fanno mai.”
Il tono asciutto
della sua voce lo fece sorridere. “Ioreth ti ha mai raccontato la storia di
Gilthaethil?”
“Se lo ha fatto,
l’ho dimenticata.”
“Mio fratello la
conoscerà sicuramente. Lui le conosce tutte. Vuoi che glielo chieda?”
“Non
incomodatelo con queste sciocchezze, ve ne prego.”
Boromir sorrise
di nuovo e sorseggiò il suo vino, lasciando cadere il discorso. Dopo alcuni
istanti di confortevole silenzio, domandò, “Come mai sei qui, Gil?”
“Mi avete
svegliato con le vostre grida.”
“No, non qui in
cucina. In questa Casa. Come mai vivi nelle Case di Guarigione?”
“Sono sempre
stata qui. Questa è la mia casa, la mia vita.”
“Sei nata qui?”
“No, sono stata
trovata appena nata, in un terreno abbandonato, avvolta in un vecchio sacco.” Il
suo tono indifferente non ammetteva commiserazione. “Ioreth mi ha trovata, mi ha
portata qui, e mi ha reso quello che sono.”
“E non sai nulla
della tua famiglia? Della tua gente?”
“Nulla.”
“Allora potresti
davvero essere una Principessa degli Elfi, dopotutto.”
Gil rispose al
suo gentile scherzo con uno sbuffo di disgusto. “Queste cose accadono solo nelle
favole che racconta tuo fratello.”
“Ah, ma sono
tutte vere! Chiedilo a Faramir. Chiedi a Legolas. Chiedi ad Aragorn, Re Elessar,
che è lui stesso una leggenda vivente! Anche tu potresti esserlo.”
“Le principesse
non lavano i pavimenti, e io non credo alle belle favole.”
“Ti chiedo
perdono.” Boromir si rilassò nuovamente sulla sedia, stringendo la coppa tra le
mani, tenendola in equilibrio sulla fibbia della sua cintura. “Ma certo, hai
ragione.” Esitò, poi aggiunse. “Ma perché mai Ioreth ti ha chiamata così?”
“Lei è ancora
più fantasiosa di te.”
Boromir rise,
incuriosito dalla visione che aveva di lui. Nessuno lo aveva mai definito
fantasioso prima di allora, e si domandò quale natura fossi così arida da
considerare lui fantasioso. Gil non sembrava priva di passioni, eppure rifiutava
ostinatamente ogni tipo di emozione, ogni traccia di sogni e fantasticherie e di
pensieri che riguardavano la vita al di fuori dei muri di pietra di quella Casa.
In quel momento - annebbiato dalla stanchezza e riscaldato dal potente vino -
Boromir accarezzò l’idea di rompere quel guscio di cui Gil si circondava, per
fare uscire la creatura che viveva dentro di esso. Era in grado di farlo, lo
sapeva, e voleva scoprire che tipo di donna Gil fosse realmente.
Poi la sua voce
lo raggiunse, fredda, pratica, richiamandolo alla realtà.
“Ioreth crede
che io abbia sangue elfico. Il Custode pensa che sia possibile. Dice che ho i
tratti dei popoli del sud, delle terre in cui il sangue elfico ancora si mescola
a quello umano.”
“Dol Amroth. Una
nobile stirpe.”
“Per rivendicare
una stirpe bisogna avere una famiglia. Io non ce l’ho.”
“Potrei
invidiarti per questo,” rifletté Boromir, pensando alla propria tormentata
famiglia. Per quanto amore portasse al proprio padre e al fratello, c’erano
momenti in cui avrebbe voluto non avere famiglia, né nome, né un fardello
d’amore, di colpa o di speranza da portare per loro. “Quando sento il peso di
tutte quelle generazioni, la lunga stirpe dei Sovrintendenti alle mie spalle,
che mi guardano e mi giudicano…”
Gil posò la
coppa con uno scatto, interrompendo il suo mormorio. “Sei ubriaco.”
“Non è vero.”
Boromir si raddrizzò sulla sedia, con qualche difficoltà a causa delle recenti
ferite, e aggrottò la fronte. “Sono stanco. Troppo stanco, forse, per frenare la
lingua. Ma non sono ubriaco.”
“Allora andate a
letto e riposate.”
Boromir pensò
brevemente alle sue stanze private, lassù nella torre della Cittadella, e al
grande e soffice letto che lo attendeva. Rabbrividì impercettibilmente e si alzò
in piedi. “Una passeggiata nei giardini mi schiarirà le idee.”
Nello stesso
momento Gil scattò in piedi per fermarlo. Boromir fece un passo falso e si
scontrarono, versando il contenuto dei loro boccali. Boromir arretrò
velocemente, ma inciampò nella gamba della sedia e perse l’equilibrio. Gil lo
afferrò per l’avambraccio, evitandogli una caduta dolorosa e imbarazzante, ma la
sua mano si strinse con forza sulle fasciature, riaprendo le ferite e facendo
scorrere nuovo sangue.
Boromir trasalì
per il dolore, e Gil ritrasse la mano, inorridita.
“Ti chiedo
perdono, mio Signore!”
Era la prima
volta che Boromir sentiva Gil in ansia - non arrabbiata o scontrosa, ma
realmente terrorizzata – e questo rese ancora più acuto il suo imbarazzo.
Sorrise impacciato, sentendo il suo viso avvampare. “No, come sempre, sono io
che devo chiedere perdono a te.”
Gil si schiarì
la gola e si ravviò la gonna. Con il suo solito tono asciutto, disse, “Mi ci sto
abituando. Ma se vai a passeggiare per il giardino in questo stato, finirai per
cadere a capofitto dalle mura, e completerai il lavoro di quel traditore. Non
vuoi andare a dormire, mio signore?”
Il viso di
Boromir si contrasse per il dolore, e si ritrasse dallo sguardo penetrante di
Gil. Il suo primo impulso fu quello di scattare, di respingerla prima che
potesse vedere la sua debolezza e l’insicurezza che disprezzava cosi tanto, e
che ora lo assalivano, divorandolo, ma il pensiero di quello che era accaduto
tra loro quella notte lo trattenne. Nel suo strano modo, Gil aveva lasciato
vedere qualcosa di lei. Aveva abbassato la guardia, dimenticando di chiamarlo
‘mio signore’ ogni volta, gli aveva permesso di trattarla come un’amica, anche
di ridere di lei. Non poteva ripagare con la freddezza quella precaria fiducia.
Le avrebbe detto la verità.
“Non riesco a
più a dormire bene, specialmente all’interno di mura di pietra.” Si sedette sul
bordo del tavolo e curvò le spalle sotto il peso della stanchezza. Mentre
parlava stringeva inconsapevolmente la mano destra a pugno, flettendo i muscoli
danneggiati del braccio. “Non riesco a rilassarmi, se non sento l’ aria fresca e
il vento sul mio viso. E quando sono solo, i miei pensieri mi tengono sveglio…e
inquieto. Non andrò nella Torre di notte, quando tutto è pietra fredda e
corridoi deserti. Sento il crepitare delle torce. Odio il loro rumore. E
l’odore.”
Per un lungo
momento, Gil non disse nulla. Boromir udiva il suo respiro regolare e il
mormorio del fuoco della stufa, ma null’altro. Cosa Gil pensasse della sua
confessione, Boromir non poté dirlo. Una donna che aveva vissuto tutta la vita
in quelle Case non poteva sapere nulla di sotterranei, stregoni, o del terribile
odore di bruciato in uno spazio chiuso e senz’aria. Ma forse aveva percepito
un’eco di quell’orrore, e capiva il motivo che lo spingeva a vagare per i
giardini di notte.
“C’è una stanza
in queste Case dove riusciresti a dormire?” chiese Gil, finalmente.
Subito Boromir
pensò a Merry - il leale, paziente Merry, che aveva parlato con lui durante le
lunghe notti della loro cavalcata da Edoras. Merry era in quelle Case.
“Merry, il
mezzuomo. C’è una finestra nella sua camera?”
“Certo.”
Il sollievo
apparve sul viso di Boromir, e tese la mano a Gil. “Bene. Là potrò dormire.”
Senza una
parola, Gil lo prese per mano, e insieme uscirono dalla stanza.
Elenard era chinato in un angolo buio dietro la
tenda, con un secchio pieno d’acqua davanti a sé. Era scalzo e a torso nudo,
sporco per le lunghe ore trascorse a nascondersi in una baracca semi bruciata,
e aveva la bocca piena di cenere. Si rinfrescò la bocca con una sorsata d’acqua
e sputò per terra. Poi sollevò il secchio e si rovesciò il resto dell’acqua
sulla testa.
Attorno a lui l’accampamento cominciava a
risvegliarsi.
Il cielo a oriente non era ancora stato raggiunto
dall’alba, avvolto da scuri vapori e ombre, ma le stelle erano svanite, e il
cielo, dove rispendevano gloriose la notte prima, era di un grigio opaco.
Elenard scosse l’acqua dai suoi capelli e si alzò
in piedi, restando però curvo in modo da nascondersi dietro il profilo della
tenda. Muovendosi con l’agilità di un abitatore dei boschi, posò il secchio
vuoto in un mucchio di utensili accanto al falò da campo, poi entrò nella
tenda.
Divideva la tenda con altri tre uomini, arcieri del
suo paese, che ancora russavano sui loro giacigli. Su una cassa accanto al palo
centrale era posta una candela, ma Elenard la ignorò. Scavalcò cautamente i due
compagni, stese i vestiti e l’armatura accanto al suo giaciglio il più silenziosamente
possibile, poi scivolò sotto la coperta. E là, nella semioscurità, restò in
attesa del richiamo di trombe che avrebbe destato l’esercito dal suo riposo.
Una volta raggiunta la sicurezza, Elenard si
concesse di rilassarsi lievemente.
I suoi compagni non lo avrebbero tradito. Non aveva
nulla da temere da loro, Con il loro silenzio, avevano implicitamente
appoggiato il suo attentato alla vita del Sovrintendente. Hirluin era rimasto
indietro in città, troppo spaventato per rischiare la cattura dalle guardie al
cancello, e in quel momento il poveretto era quasi certamente in catene. Ma ci
sarebbe voluto tempo per piegarlo, e il tempo era una cosa che il
Sovrintendente-Ombra non aveva.
Elenard non temeva di morire in guerra. Era felice
di marciare a fianco del suo signore, sotto lo stendardo del Re. L’unica cosa
che temeva era l’oscurità e la schiavitù del Nemico, un destino che li
minacciava tutti, presi tra la sconfitta davanti a loro e l’Ombra che cresceva
alle loro spalle. Elenard sperava soltanto di morire in battaglia, con onore,
perché gli fosse risparmiato l’orrore che sarebbe venuto dopo. Se quella notte
fosse riuscito nel suo intento, avrebbe potuto aprire una via di fuga per tutti
loro.
Ma aveva fallito. Fallito completamente.
Giaceva con lo sguardo rivolto alla tenda sopra di
lui, ripensando a quella strana, quasi ridicola lotta nel giardino, e fece una
smorfia. Avrebbe dovuto essere più facile sorprendere e uccidere un uomo cieco,
solo e colto alla sprovvista nel cuore della notte. Quale stregoneria aveva mai
protetto il figlio di Denethor? Quale genio malvagio aveva guidato la sua mano?
Forse il Nemico poteva spingersi così lontano da raggiungere il suo prescelto
anche nel cuore di Minas Tirith?
Elenard rabbrividì e fece un furtivo gesto contro
il male. Era fortunato a essere ancora vivo. La Guardia della Torre aveva agito
rapidamente, chiudendo il Cancello e passando al vaglio la città con
incredibile meticolosità. Elenard era riuscito a fuggire solo nascondendosi tra
le rovine di unedificio semidistrutto
dalle fiamme nel primo circolo, travestendosi con gli abiti rubati di un
lavoratore, e ricoprendosi il viso di cenere per nascondere la sua identità. E
lì aveva atteso, fino a quando l’alba ormai prossima aveva svegliato i contadini
e il traffico ai cancelli era diventato abbastanza intenso da offrire
sufficiente protezione.
Aveva preso un piccolo carretto nella baracca in
cui si era separato ha Hirluin. Riempiendo il carro di corde, ganci, finimenti,
e catene - il genere di attrezzatura che veniva usata per ripulire i campi di
Cormallen dai resti dei macchinari d’assedio e di difesa - era riuscito a
nascondere i propri abiti e le armi. Quando i primi operai avevano cominciato a
passare sotto il cancello allo spuntare dell’alba, era semplicemente uscito
camminando dalla città. Qualche domanda, una sommaria perquisizione del carro,
uno sguardo indagatore ai suoi abiti sudici e rammendati, e le guardie lo
avevano lasciato passare indisturbato.
L’unica paura di Elenard era che non avrebbe fatto
in tempo a ritornare all’accampamento prima che le trombe radunassero
l’esercito. Non poteva mettersi a correre. Nessun operaio mandato a lavorare
nei campi tra pire funebri, mucchi di orchi e cadaveri giganteschi di mûmakil
si sarebbe mai affrettato a un simile compito. Così aveva continuato a
camminare lentamente e con riluttanza, a testa bassa e con le spalle curve. Una
volta lontano dalla vista delle guardie aveva abbandonato il carro in una
trincea e recuperato la sua attrezzatura. Gettò gli abiti da contadino in un
falò incustodito. La patina di cenere e sporcizia gli era stata utile e gli
aveva permesso di passare oltre le sentinelle che pattugliavano il campo senza
essere visto. Poi, finalmente, aveva raggiunto la sua tenda, e in quel breve
momento di riposo, attendeva il segnale dell’adunata.
Il segnale suonò quando la prima luce del giorno
cominciò a entrare dall’apertura della tenda. Un richiamo chiaro e acuto che
parve svegliare tutto l' esercito. I corni echeggiarono da ogni parte dell’accampamento,
e ognuno attese il proprio richiamo, precipitandosi a rispondere.
Elenard rispose all’adunata con sollievo. Si finse
assonnato, ma il suo cuore impazziva per il desiderio della battaglia. Presto
si sarebbero radunati nei loro ranghi e avrebbero marciato, volgendo le spalle
alla Città Bianca e alla morte da traditore che lo attendeva in quel luogo.
*** *** ***
Merry si svegliò al distante suono dei corni. Aprì
gli occhi. La stanza era ancora immersa nell’oscurità della notte, ma la tenue
alba arancione era già visibile dalla finestra aperta. Lo hobbit aveva fatto
l’abitudine a quelle albe riluttanti. Anche se il cielo sopra il Monte
Mindolluin era limpido e chiaro, una cortina di fumo continuava ad avvolgere
l’oriente, soffocando la luce del sole e ricordando la terribile battaglia che
sarebbe avvenuta.
Merry sbadigliò e si stropicciò gli occhi, poi
corrugò la fronte, confuso. Boromir stava dormendo con un gomito appoggiato
alla mensola della sua finestra. Non riusciva a vederlo in viso, poiché era in
controluce, ma non poteva sbagliarsi. Nessun altro avrebbe mai messo una sedia
accanto alla sua finestra, addormentandosi con la testa sul davanzale di
pietra. Non ricordava che Boromir fosse già lì quando era andato a dormire. In
realtà, ricordava chiaramente di essere stato cacciato fuori dalla cucina con
l’ordine di andare a letto, con Boromir ancora ben sveglio.
Stava per gettare indietro le coperte e lasciare il
tepore del suo letto per indagare, quando un’altra figura apparve sulla soglia.
Gil entrò con fare affaccendato, portando un grande vassoio di legno che
profumava di colazione.
Merry le rivolse un sincero sorriso di benvenuto.
“Come sapevi che avevo fame?”, chiese a bassa voce.
“Quando sei sveglio, hai sempre fame”, rispose Gil.
La sua voce era asciutta e inespressiva come sempre, ma i suoi occhi tradivano
una scintilla di divertimento.
Merry rise. “Come sapevi che ero sveglio?”
Lei indicò la finestra con un cenno del capo. “Quel
rumore sveglierebbe i morti.” Poi posò lo sguardo su Boromir, e inarcò un
sopracciglio. “Ma non il nostro Sovrintendente, a quanto pare.”
“Come mai è qui?”
“L’ho portato io.”
Merry si sedette sul letto e osservò Gil
pensierosamente, mentre faceva il giro del letto per portare il vassoio sul piccolo
tavolo che era alla sua destra. Era una donna minuta, di corporatura snella, le
sue forme nascoste sotto i pratici e ordinari indumenti che indossavano tutte
le donne in quelle Case. Portava un grembiule bianco immacolato sopra una
tunica grigia, e un fazzoletto dello stesso colore le copriva i capelli
incorniciandole il viso. Forse poteva essere attraente o di bell’aspetto, al di
là degli abiti anonimi e dei suoi modi distaccati, ma Merry non avrebbe saputo
dirlo. Teneva la testa abbassata, il viso ostinatamente inespressivo, e tutto
in lei era così anonimo che Merry non avrebbe saputo ricordare il suo viso
cinque minuti dopo che aveva lasciato la stanza.
Gil fece il giro attorno al letto, portando il
pesante vassoio apparentemente senza fatica tra le sue mani esili. Boromir era
seduto con le gambe distese, ostacolandole il passaggio, e Gil lo scavalcò con
cautela. Ma un po’ a causa del grande vassoio, e un po’ per le sue lunghe
gonne, calcolò male la lunghezza del passo e lo urtò.
L’uomo si svegliò all’improvviso. Si alzò in piedi
di scatto guardandosi attorno con stupore. Il suo movimento repentino colse Gil
alla sprovvista. Inciampò contro i suoi piedi e perse l’equilibrio, finendo
contro il tavolo.
Merry gridò per la disperazione, e un istante dopo
gridò anche Gil, mentre i piatti e i vassoi di terracotta si fracassavano al
suolo in un ammasso fumante. Il tè bollente si rovesciò addosso a Gil,
macchiando di marrone il suo grembiule. La teiera si ruppe in mille pezzi
mandando schegge per tutto il pavimento. Boromir si voltò verso il rumore,
cercando istintivamente la spada, ma Merry si lanciò in avanti gridando, “No! È
soltanto Gil!”
Boromir si bloccò, e nel teso silenzio che seguì,
Merry vide l’espressione sul suo volto cambiare, segno che si era svegliato del
tutto e aveva compreso la situazione. Boromir lasciò ricadere la mano lungo il
fianco. “Gil? Cosa è stato? Cos’era quel rumore?”
Gli non poteva rispondere. Respirava
affannosamente, tirando inutilmente i suoi abiti fradici, con le lacrime agli
occhi.
“La mia colazione,” disse Merry, sperando di
riuscire a nascondere il disappunto nella sua voce. Non era certo colpa di Gil,
né di Boromir, ma la vista di tutte quelle belle salsicce, uova e pane cadute
in una pozza di tè che si raffreddava gli fece venire voglia di piangere.
Boromir fece per muoversi in direzione della voce,
ma sia Merry che Gil gridarono, insieme, “Fermo!”
Si fermò, corrugando la fronte. “Uno di voi
dovrebbe dirmi cosa sta succedendo.”
“Ho fatto cadere il vassoio,” disse Gil. “C’è cibo
sparso ovunque, mio signore, e cocci.”
“E tè bollente sui suoi vestiti”, aggiunse Merry.
Boromir divenne ancora più serio. “Hai bisogno di
cure?”
“Non è nulla. Devo pulire.” Si chinò per
raccogliere il vassoio.
Boromir aprì la bocca per protestare, ma poi la
richiuse di scatto e si incamminò con decisione verso di lei. Sotto i suoi
stivali sentì scricchiolare schegge di terracotta e pezzi di salsicce. Poi la
sua mano trovò la spalla di Gil. Fece scorrere le sue dita lungo il suo braccio,
la fece alzare in piedi, e la sollevò con facilità tra le braccia.
“Mio signore!”
Boromir rise nel sentire l’indignazione nella sua
voce, mentre camminava facendosi strada tra il pasticcio scivoloso che era
accanto al letto.
“Insisto! Mettimi giù!”
“Non sei nella condizione di insistere su alcunché.
E se sei troppo testarda per ammettere che per camminare sui cocci rotti sono
meglio i miei stivali delle tue scarpette, sei una sciocca. Merry?”
“Sì?”
“Mi serve un tratto di pavimento pulito.”
Ridacchiando, Merry strisciò alla fine del letto e
prese il Braccio di Boromir per guidarlo fuori dal disastro che era stato la
loro colazione. Boromir, seguendo le indicazioni di Merry, girò attorno al
letto poi si fermò. Rimise Gil in piedi, con tutta la gentilezza che gli
consentiva il suo contorcersi, e si allontanò prudentemente da lei.
Gil si sistemò il fazzoletto sulla testa e si passò
le mani sulle gonne con gesti bruschi e stizziti, che tradivano quanto fosse
vicina a perdere la calma. Guardandola in viso, Merry fu stupito dal vedere la
completa mortificazione che vi appariva. “Se mi scusate, mio signore, andrò a
prendere un nuovo vassoio”, disse Gil, con voce tesa e irritata.
“No che non lo farai.”
Merry aprì la bocca per protestare, ma Boromir
continuò, inesorabile, “Vai da Ioreth e fatti medicare le ustioni.”
“Non sono ustionata, è solo una scottatura.”
“Vai.” Boromir indicò nella direzione in cui sapeva
essere la porta, inflessibile. “Ci penserà qualcun altro a ripulire. Non sei
l’unica sguattera in questa Casa.”
Gil gli lanciò uno sguardo furente, si diede
un’ultima strizzata alla gonna, e uscì con decisione dalla stanza. Non appena
fu fuori dalla portata d’orecchio, a Merry sembrò di sentirla mormorare
qualcosa di rude riguardo ai soldati, ma non poté dirlo con certezza.
“Non sei stato un po’ troppo prepotente?” osservò
lo hobbit.
Boromir seguì il suono della sua voce fino al letto
e si sedette sul bordo del materasso. “Era necessario. Gil è troppo testarda.
Sarebbe rimasta qui anche sanguinante e coi vestiti in fiamme, pretendendo che
le si lasciasse pulire il pavimento.”
Merry si astenne dall’osservare che quella era una
cosa che aveva in comune con Boromir.
“E la nostra colazione?”
“Manderà qualcuno con un vassoio. E uno straccio
per pavimenti.”
Lo hobbit ci pensò su per un momento, poi decise
che Boromir aveva ragione. Gil non si sarebbe dimenticata di loro. “Perché le
hai parlato in quel modo?”, chiese.
“Non volevo che restasse qui.”
Merry si accigliò. “Pensavo che Gil ti piacesse.”
“Certo che mi piace, ma non volevo correre il
rischio di perdere un’altra colazione.” Un mesto sorriso gli apparve sul volto.
“Lo so, sono stato io a rovesciare il vassoio. È la stessa cosa che accade ogni
volta che sono vicino a lei: rompo, rovescio o calpesto qualcosa, perciò deve
essere colpa mia.”
“Bè…”
“Non temere di ferire i miei sentimenti, Mastro
hobbit. Posso accettare la verità. Ho rovinato la tua colazione, e tu sei in
grado di perdonarmi solo in virtù della nostra grande amicizia. Ma persino il
migliore degli amici può essere spinto troppo oltre, e non credo che la nostra
amicizia sarebbe in grado di sopportare la perdita di due colazioni in un solo
mattino! Così ho creduto meglio che qualche altra sguattera ti portasse da
mangiare, questa volta.”
Merry rise e si appoggiò al cuscino. Si sentiva
bene, a suo agio, nonostante lo stomaco vuoto e l’ombra che incombeva fuori
dalla sua finestra. E se anche la colazione avrebbe dovuto aspettare, era in
ottima compagnia. La migliore compagnia che potesse desiderare, e il migliore
degli amici.
Poi, in quel piacevole silenzio, si udirono le
trombe suonare. I suoi occhi corsero al viso di Boromir, e Merry vi vide
riflessa la sua stessa angoscia. Il breve momento di distrazione era passato,
il calore lasciò la stanza, e il silenzio tra di loro divenne improvvisamente
malinconico.
Improvvisamente Merry si alzò e posò la mano sul
braccio di Boromir. Il nodo che aveva in gola gli impediva di parlare, ma Boromir
parve capirlo anche senza parole. L’uomo coprì la piccola mano dello hobbit con
la sua e gli sorrise. Inconsciamente si avvicinarono, e sedettero insieme
immobili, ascoltando la musica della guerra nel vento.
Due ore dopo l’alba, in un luminoso mattino
spazzato da una forte brezza, l’esercito dell’Ovest si mosse. Il popolo di
Minas Tirith si riversò attraverso i cancelli crollati per salutarlo, mentre
coloro che non se la sentivano di affrontare i campi insanguinati di Pelennor
stavano a guardare dalle mura della città. Non vi furono canti, né incitamenti,
né lanci di fiori. Tutti erano silenziosi e gravi, incantati dalla crudele
bellezza dei soldati, coi loro scudi, le lance, gli elmi e gli stendardi, e
guardavano intimiditi lo spiegamento di forze davanti a loro, rattristati dalla
certezza della sconfitta. Le trombe suonarono, e compagnia dopo compagnia, la
grande truppa si allontanò dalla Torre di Guardia e volse i passi verso
l’Oscurità dell’ Est.
In alto sulle mura della città, osservando l’esercito
che si allontanava, stavano due figure. Merry si era arrampicato su uno scalino
per vedere oltre il parapetto, appoggiando i gomiti sulla ruvida pietra e
allungandosi in punta di piedi per guardare giù, nelle pianure. Accanto a lui,
Boromir era immobile, carico di tensione, e sembrava incombere sul piccolo
hobbit, appoggiato con le mani al parapetto, ascoltando i distanti richiami
delle trombe. Quel suono rattristava Merry, ricordandogli le persone che
conosceva e che amava, e che presto sarebbero andate incontro alla morte. Non
era in grado di capire l’effetto che avevano su Boromir. Il suo viso era
enigmatico.
Dopo che le compagnie in partenza ebbero svoltato
verso Est cavalcando sotto lo stendardo nero e argento di Aragorn, verso lo
scintillante Anduin, Merry sospirò.
Boromir rivolse il suo sguardo bendato allo hobbit,
domandando, “Vorresti essere con loro?”
“No. A parte, forse, per guardare le spalle a
Pipino.”
Boromir sorrise. “Pipino sa badare a se stesso.”
“Ha bisogno di qualcuno che lo tenga fuori dai
guai.”
“Ci sono Gandalf, Aragorn, Legolas e Gimli. Se non
ci riescono loro quattro…”
Merry rise, ma il suo cuore era pesante. Così tanti
amici che partivano per la guerra. Così tante persone che amava, e che avrebbe
potuto non rivedere mai più. Una parte di lui era lieta di essere lì al sicuro,
con Boromir al suo fianco e tutte le spade di Minas Tirith tra lui e il Nemico,
ma un’altra parte di lui desiderava andare con i suoi compagni, condividere il
loro destino, piuttosto che affrontare l’oscurità senza di loro.
Sospirò e lasciò vagare il suo sguardo dallo
spiegamento sotto di lui alla tetra oscurità che li attendeva. “La guerra
arriverà anche qui, vero?”
“Sì.”
“E dovremo combattere di nuovo.”
“Sì.”
“Ho paura.”
“Anch’io, piccoletto.”
Merry lo osservò attentamente. “Non sembra.”
“Sono un soldato, ho imparato da tempo a nascondere
la mia paura.” Boromir tacque un momento, poi sorrise e aggiunse, “Ma in questo
caso hai ragione, Merry. Non provo paura ora, ma eccitazione. Sento la battaglia
nell’aria, e desidero esserne parte.”
“Non avrai intenzione di andare con loro!” Gridò
Merry, improvvisamente allarmato.
“No, non andrò.”
“Promettimelo, Boromir! Dammi la tua parola di
Sovrintendente di Gondor che non andrai senza di me!”
L’espressione attonita di Boromir si trasformò in
una risata. “Senza di te? Non andrò da nessuna parte senza di te, mastro
Hobbit. Tu sei la mia guardia e la mia guida. Preferirei andare in guerra senza
la mia spada.”
Merry si calmò, rassicurato, ma non poté trattenersi
dal mormorare, “Eppure l’ultima volta sei andato senza di me.”
“Per necessità, non per scelta. E poi c'era Pipino
con me. Non risentirti, Merry. Hai conquistato più fama tu in quella battaglia
che tutti gli Uomini di Gondor messi insieme.”
“Non sono risentito. Sono solo stanco, e il braccio
mi duole.”
“Dovresti riposare.”
Merry distolse lo sguardo dalla pianura e si
sedette sulla panca, con la schiena appoggiata al muro.
“Mi riposerò quando se ne saranno andati.” Dopo
qualche istante di silenzio, aggiunse, “Suppongo che avrò bisogno di una
spada.”
“Ne troveremo una nell’armeria, se ce ne sarà
bisogno.”
“Se ce sarà bisogno? Allora tu credi che ci sia una
possibilità che non dovremo combattere? Una possibilità di vittoria?”
“C’è sempre una possibilità, finché Aragorn e
Gandalf sono con noi.”
A dispetto della sua paura, a dispetto di tutto,
Merry rise di autentica gioia. Boromir sembrò stupito dalla sua reazione, cosa
che fece ridere Merry ancora di più. “Tu trovi la speranza nei momenti più
strani.”
Boromir gli sorrise con gentilezza. “Tu, Pipino e
Aragorn siete i miei maestri. Trovo difficile disperare con tali amici accanto
a me.”
Merry scosse la testa incredulo. Non avrebbe
contraddetto la saggezza del Sovrintendente riguardo quell’argomento, e in
effetti il suo cuore si riscaldò a quelle parole di speranza, ma non poteva
liberarsi dalla sensazione che i pensieri di Boromir fossero sempre in
contrasto con quelli del resto della città. In un momento in cui tutti i soldati
dell’Ovest attendevano la sconfitta, Boromir parlava di vittoria. In un momento
in cui l’oscurità dell’ Est minacciava di avvolgere tutto ciò che amava al
mondo, Boromir gettava via l’oscurità che aveva oppresso il suo cuore per così
a lungo, e guardava al futuro con speranza. Come poteva trovare la speranza in
un’ora così disperata?
Credeva davvero che Grampasso e Gandalf potessero
sconfiggere le armate di Mordor con quello che ora sembrava solo un pugno di
soldati?
Merry interruppe le sue meditazioni con un ampio
sbadiglio e si allungò all’indietro sulla panca, rilassato. Si rese conto che
non importava con quanta convinzione Boromir dicesse quelle parole, o quanto
profonda fosse la sua fiducia in Grampasso. Merry voleva credere. E Boromir gli
aveva dato il permesso di farlo. Ora poteva riposare con la certezza che
c’erano uomini coraggiosi e forti, come Grampasso, Boromir e il Principe
Imrahil, a proteggere Minas Tirith e il piccolo hobbit stanco e spaventato
all’interno delle sue mura.
Sbadigliò di nuovo, attirando l’attenzione di
Boromir.
“Vai a dormire, piccoletto.”
“No, non voglio andare nella mia stanza. Sono
stanco di vedere sempre le stesse mura. Ma potrei riposare, se…” Guardò su
verso l’amico con preoccupazione, incerto se lasciarlo solo.
Boromir intuì facilmente i suoi pensieri. “Io non
ho alcun altro posto dove andare, tanto vale che resti qui. Non preoccuparti
dei sicari. Sono in piena vista della città, alla luce del sole.”
“D’accordo, allora.” Merry si alzò in piedi e si
stiracchiò le membra stanche. Accanto alla porta delle Case vide una panca
intagliata nella roccia, all’ombra del muro, circondata da un’aiuola di fiori
ben curati. Sembrava un posto fresco e invitante. “Mi farò un sonnellino.
Chiamami se hai bisogno di qualcosa.”
“Non ti disturberò.”
Merry non discusse. Boromir era evidentemente in
uno stato d’animo ostinato e indipendente, e preferiva mandare Merry a dormire
piuttosto che ammettere di avere bisogno di compagnia. Col tempo gli sarebbe
passata, e Merry non se ne preoccupò.
Congedandosi con un mormorio, lo hobbit risalì il
sentiero che attraversava il giardino verso le case di Guarigione. Mentre si
avvicinava alla porta ne uscì Gil. Portava un catino d’acqua che andò a versare
tra i fiori. Merry la raggiunse, sorridendo, e lei lo guardò con occhi seri.
“Buongiorno, Gil.”
Lei gli fece un cenno rispettoso del capo, ma non
parlò.
“Cosa ha detto Ioreth delle tue ustioni?”
“Non ero ustionata. Come vedi, sto bene.”
“Ne sono felice.” Guardando il suo viso cauto, a
Merry venne un’idea. “Per fortuna che non era nulla di grave, così non sarai
arrabbiata con Boromir.”
Il viso di Gil divenne ancora più teso. “Non spetta
a me essere arrabbiata con il Sovrintendente.”
Ignorando il suo velato sarcasmo, Merry sorrise
ancora più apertamente. “Bene. Allora puoi andare a tenerlo d’occhio, mentre io
faccio un sonnellino.”
“Tenerlo d’occhio? Cosa vuoi dire, Mastro Perian?”
Merry indicò con la mano verso il muro e l’uomo che
stava in piedi accanto ad esso. “Io non riesco più a tenere gli occhi aperti, e
il mio signore Boromir non vuole essere ragionevole e venire dentro. Mi ha
congedato, e ora è laggiù tutto solo. Io non mi preoccuperei, se non fosse che
qualcuno ha tentato di ucciderlo in quello stesso luogo appena la notte scorsa.
Mi rende molto nervoso.”
Gil posò la catinella sulla panca con uno scatto, e
si piantò le mani sui fianchi. “Il Sovrintendente è più che in grado di badare
a se stesso, e non ti ringrazierà di certo per mandarmi a importunarlo.”
“No, non lo farà. Ma Grampasso - sire Aragorn,
voglio dire - mi ha detto che devo riposare molto, e non posso riposare bene se
sono preoccupato per Boromir.” Merry fece un grosso sbadiglio, come per
sottolineare la sua stanchezza.
“Sei senza vergogna, mastro Perian.”
“No, sono solo molto stanco, e voglio guadagnarmi
un lungo sonnellino indisturbato. E poi,” aggiunse candidamente, “Voglio che
voi siate di nuovo amici. Boromir ha bisogno di tutti gli amici che può trovare.”
Gil rispose con un suono disgustato, ma Merry capì
che l’aveva colta alla sprovvista. Gli ci vollero alcuni minuti per convincerla
che il suo dovere era tenere d’occhio il Sovrintendente, piuttosto che pulire
vasi da camera. Ma alla fine mise a tacere le sue promesse e la mandò lungo il
sentiero verso il punto dove si trovava Boromir.
Merry sedette sulla panca e posò la testa
all’indietro contro il muro dell’edificio, guardando tra le palpebre semiabbassate
Gil che si avvicinava a Boromir. Era rigida e contegnosa, altera e umile allo
stesso tempo, sempre guardinga. Ma Boromir semplicemente ignorò il suo
sarcasmo, accogliendola con un sorriso, e prendendo la sua mano con familiarità
sotto il suo braccio. Gil era indecisa tra l’obbedienza che doveva al suo
signore e il suo senso di proprietà violata, ma il suo rigido codice di
comportamento la costringeva ad accettare il suo braccio e camminare al suo
fianco.
Merry non riusciva a sentire la loro conversazione,
ma non aveva dubbi che entrambi fossero ostinati e recalcitranti come al
solito. Gil recitava la parte della serva timorosa, e Boromir la stuzzicava per
farle perdere la pazienza, mentre nessuno dei due si preoccupava dello strano
quadro che formavano - il Signore di Gondor e la sguattera senza nome. Lo
hobbit sorrise soddisfatto e chiuse gli occhi. Tutto andava bene per il suo
amico, e ora poteva godersi il suo riposo.
“Non gli stai facendo un favore.”
Merry trasalì e si voltò allarmato, vedendo Faramir
in piedi sulla soglia alla sua destra. Non lo aveva sentito arrivare, e la sua
improvvisa apparizione lo innervosì.
“Mio Signore Faramir.” Fece per alzarsi, per
mostrare a Faramir il rispetto che era dovuto al fratello di Boromir e a un
Signore di Gondor, ma Faramir lo fermò con un gesto. I suoi occhi corsero alle
due figure presso le mura, e il suo viso era ancora più tetro e severo della
sera prima.
Faramir indicò verso suo fratello e Gil. “Non gli
fai un favore, incoraggiando il suo affetto per lei.”
“Sono amici.”
“Il Sovrintendente di Gondor non si può permettere
certi amici.”
Passato il sonno e la sorpresa iniziale, Merry
sentì che cominciava a perdere la calma. “Mi sembra che Boromir abbia bisogno
di tutti gli amici che può trovare, anche nelle cucine di Minas Tirith. Certo
non li sta trovando dove dovrebbe, tra i suoi pari.”
Il tono della sua voce gli valse la completa
attenzione di Faramir, e per la prima volta dal loro incontro, Merry sentì il
potere di quegli acuti occhi grigi fissi su di lui. Un sorriso apparve sulle
labbra di Faramir, ma non arrivò ai suoi occhi. “Ne ha trovato uno in te,
Mastro Perian.”
“Si, lo ha trovato.”
Merry non si sgomentò dinanzi a quello sguardo che
sembrava strappargli la pelle ed esporre i suoi più intimi pensieri. Non aveva
nulla da nascondere a quell’uomo, anzi, aveva tutto da guadagnare nel
conquistarne il rispetto.
Faramir scrutò il suo viso per un momento, poi
sorrise di nuovo, più calorosamente. “Mio fratello è fortunato ad avere il tuo
amore.”
“Molte persone lo amano”, rispose Merry con
fermezza, “e non se ne staranno lì senza far niente, mentre i suoi nemici
tentano di portagli via ciò che gli appartiene col tradimento o con l’inganno.”
A Faramir non sfuggì il tono di minaccia nelle sue
parole, ma sembrò compiaciuto, invece che offeso.
“Mi dai una buona lezione, piccolo Mastro. Avevo
cominciato a dubitare che mio fratello avesse ancora il potere di conquistare i
cuori della gente.”
Poi rivolse lo sguardo verso le due figure presso
il muro, e il suo sorriso scomparve. “Ma forse li conquista anche troppo
facilmente.”
“Lei è sua amica”, ripetè Merry. “Perché ti dà
tanto fastidio?”
“Per molte ragioni che tu non approveresti. Nella
tua lealtà verso di lui, non vedi la follia… il danno che causa, a se stesso e
a Gondor, quando si comporta in un modo così estraneo al suo carattere.”
Merry si morse la lingua per trattenere le parole
irate che gli erano venute in mente. Avrebbe potuto elencare innumerevoli
ragioni per cui Boromir si rivolgeva a Gil per avere un po’ di amicizia - in
cima alle quali stava la sfiducia di Faramir stesso nei suoi confronti - ma non
pensava che le sue motivazioni avrebbero convinto Faramir, non più di quanto le
ragioni di Faramir avrebbero potuto convincere lui.
Faramir si preoccupava di affari di stato e del
buon nome della sua casata. Merry si preoccupava soltanto del bene del suo
amico.
Costringendosi a parlare educatamente, Merry disse,
“Le nostre opinioni sul suo carattere devono essere molto diverse, mio
signore.”
“Sì, così penso. E questo è il problema. Quando tu
lo guardi non vedi nulla di strano nei suoi modi. Quando lo guardo io, non vedo
che un estraneo. Non è il fratello che conoscevo. Evita la compagnia dei suoi
pari preferendo quella delle sguattere. Resta in queste Case anche se non è né
malato né ferito, e si rifiuta di entrare nella Cittadella, dove lo attende il
suo seggio di potere. Le sue stanze restano vuote, inutilizzate, mentre lui
vaga per le strade di notte e dorme nessuno sa dove.”
Merry arrossì di rabbia, constatando che Faramir
aveva spiato il fratello. Non disse nulla, ma Faramir intuì i suoi pensieri con
tanta facilità come se li avesse urlati.
“Il Ciambellano è venuto da me, preoccupato per il
suo signore. Ha preparato le stanze di Boromir ogni notte dal suo ritorno, ma
mio fratello non ci ha messo piede se non per cambiarsi d’abito. Non dorme nel
suo letto e non mangia nella Torre.”
“Gli piace dormire sotto le stelle”, ribatté Merry.
“Dovresti saperlo! Lo ha fatto spesso insieme a te, o così mi ha detto!”
“Ragazzate. Giochi infantili per cui non c’è posto
in questi tempi di pericolo. L’aggressione di ieri notte dovrebbe esserne una
prova più che sufficiente, anche per uno così testardo come mio fratello.
Boromir è il Sovrintendente di Gondor, non un ragazzino ribelle che contesta le
regole della corte di suo padre. Non può continuare così e sperare di mantenere
il dominio sui signori e sui capitani dell’Ovest! Perderà la loro fiducia!”
Merry serrò le labbra e scosse la testa. Nella voce
di Faramir sentiva dolore e rimprovero, e intuì che l’uomo voleva che le sue
paure fossero dissipate.
Ma tutto ciò che Merry diceva sembrava invece
ingigantirle. Quando Faramir guardò di nuovo verso Boromir, il suo viso si fece
ancora più teso e triste, le rughe sulla sua fronte più pronunciate.
Un pesante silenzio cadde tra loro, e Faramir
sembrava quasi non essere consapevole della presenza dello hobbit.
Merry osservò pensierosamente l’uomo accanto a lui.
Faramir gli piaceva, sia per la somiglianza con il fratello che per la sua aria
di severa nobiltà, e nel suo cuore non riusciva a condannarlo per i suoi dubbi.
Faramir non aveva percorso la lunga strada da
Granburrone accanto a Boromir. Non aveva inseguito gli orchi attraverso Rohan,
affrontato gli abissi infuocati di Isengard, o ascoltato la voce tranquilla del
fratello durante le notti senza stelle nell’Anòrien. Non poteva riconoscere
l’uomo che Boromir era diventato, accettare i suoi cambiamenti come chi aveva
compiuto quel viaggio nell’oscurità insieme a lui.
La lealtà di Merry verso Boromir era incrollabile.
Non avrebbe permesso che nessuno, nemmeno un suo consanguineo, parlasse male
del signore che amava. Ma doveva comportarsi in modo giusto, come avrebbe fatto
Boromir, e dare a Faramir il tempo di capire tutto quello che era accaduto
durante i mesi trascorsi dalla loro separazione. Faramir avvertì lo sguardo
dello hobbit su di lui, e distolse lo sguardo dalle figure nel giardino per guardare
Merry. Non disse nulla, ma il suo sguardo fermo e pensieroso sembrò invitare
Merry a parlare.
“Chiedo perdono, mio signore, ma non credo che tu
conosca molto bene tuo fratello.”
Il volto di Faramir fu attraversato da un lampo di
sorpresa. “Non lo conosco?”
“Beh, no. Se lo conoscessi, non ti preoccuperesti
di…di queste sciocchezze.”
“Non pensi che il bene del Sovrintendente sia
importante?”
“Certo che lo è, ma tu non stai parlando del bene
di Boromir. Stai parlando di pettegolezzi sentiti dal Ciambellano della Torre
di Guardia. Che cosa ti importa di dove dorme? Perché ti interessano i suoi
amici? Da quando è tornato si è occupato di Minas Tirith con abilità. Nessuno
può contestarlo!”
“Certo. Si è preso bene cura della nostra città,
Mastro Perian, anche meglio di come avrebbe fatto nostro padre.”
“Allora qual è il problema?”
“È proprio quello che vorrei sapere, mastro Perian.
Quali ombre, quali demoni tormentano mio fratello a tal punto che, pur
governando Gondor con tanta cura, è così poco sé stesso?”
“Ma è sé stesso. Tu non lo capisci, perché hai
deciso di vedere solo i segni esteriori del suo cambiamento. La sua cecità…”
“Anche un amico fedele come te non può pretendere
che la cecità di mio fratello sia soltanto un cambiamento esteriore.”
“Certo che no. Ma non lo ha reso certo inferiore
all’uomo che era…né al soldato, al capitano, al sovrintendente…o all’amico.”
“Non lo giudicherei mai inferiore perché non ci
vede.”
“Eppure lo giudichi inferiore perché stringe
amicizia con le sguattere e dorme su una sedia nella mia stanza, invece che
nelle sue ricche camere.”
“Credo che queste siano conseguenze di cambiamenti
più profondi, di dolori più grandi che lo affliggono. Porta ferite molto più
orribili di quella che ora nasconde sotto una benda di tessuto. Ferite dello
spirito. Ombre sul suo cuore. Vedo che sta soffrendo, anche se cerca di
nascondermelo, e temo che il veleno di quelle ferite lo distruggerà.”
Merry lo osservò per un momento, considerando le
sue opzioni, poi decise che con quell’uomo la verità sarebbe stata il migliore
argomento.
“Tu hai cavalcato sotto le ali dei Nazgûl e sentito
il Respiro Nero. Soltanto la voce del Re ha potuto salvarti dall’ombra. Ma non
dubiti della tua salute e della tua abilità nel guidare il vostro popolo.”
I suoi occhi guardarono fissi quelli di Faramir,
sfidandolo a protestare.
“Boromir è tanto più debole di te, che il suo cuore
e la sua mente non possano essere guariti, mentre i tuoi lo sono stati?”
Faramir sembrò sorpreso, ma non si ritrasse dalla
sfida negli occhi dello hobbit. Il suo sguardo rimase franco, pensieroso e
fermo come sempre. “Tu credi che mio fratello sia guarito.”
“Ci sta lavorando.”
“Ah.”
Nell’ udire lo scetticismo nella voce di Faramir
Merry sentì che stava per perdere di nuovo la calma. “Tu saresti capace di
dimenticare quegli orrori tutto a un tratto?”
“Non lo so, perché non so quali orrori ha
affrontato! Come posso giudicare la sua capacità…”
“E che cosa ti da il diritto di giudicarlo, se è
per questo?” domandò Merry, interrompendo le misurate parole di Faramir.
Faramir lo osservò severamente, e Merry arrossì.
Non avrebbe ritirato le sue parole, ma il dolore sul viso di Faramir lo fece
vergognare del suo tono appassionato.
“È più che mio diritto. È mio dovere. Io amo mio
fratello, mastro hobbit, come credo anche tu, ma io sono più che il fratello di
Boromir. Sono il figlio di Denethor, Capitano di Gondor, il successore alla
Sovrintendenza, e ho giurato di proteggere il mio popolo con tutte le mie forze.
Neanche mio fratello viene prima di Gondor nel mio dovere, sebbene venga prima
di ogni cosa nel mio cuore.”
“Non hai bisogno di proteggere Gondor da Boromir.”
“E come faccio a saperlo?”
“Parlagli! Vedrai!”
Faramir sorrise tristemente. “Non me ne parlerà -
non delle cose che contano.”
“Quando è stata l’ultima volta che ci hai provato?
Sai com’è fatto Boromir…”
“Lo so?” Il tono di Faramir fece capire a Merry che
la sua osservazione di prima aveva toccato un tasto dolente.
“Beh, dovresti. Non credo che sia cambiato così
tanto.”
“Non ama parlare delle cose che lo toccano più da
vicino.”
“È testardo come un troll di caverna. Ma persino io
- che ti conosco solo da poche ore - capisco che tu sei l’unica persona sulla
Terra di Mezzo che può persuaderlo a parlarne… se solo ci provassi.” Guardò
Faramir con un misto di esasperazione e di compassione. “Non posso dirti le
cose che vorresti sentire per mettere a tacere i tuoi dubbi. Solo Boromir può
farlo. Ma posso dirti con certezza che lui vuole che tu creda di nuovo in lui.”
“Ho sempre creduto in lui.”
Merry lo zittì con un gesto, impaziente. “Questo
riguarda te e Boromir. Non ti deve interessare ciò che penso io. Vai e
parlagli, prima che uno di voi faccia un qualche stupido errore che dopo sarà
troppo orgoglioso per aggiustare!”
Faramir
trascorse gran parte della mattinata a meditare sulle parole di Merry, così
amare per lui, e lentamente cominciò a comprendere la loro verità. Il Mezzuomo
aveva ragione. Non avrebbe trovato le risposte che cercava stando a guardare
suo fratello da lontano e ascoltando i pettegolezzi dei servitori - o persino
dei suoi stessi consanguinei. Doveva parlare di persona con Boromir, e scoprire
che cosa gli era veramente accaduto durante tutti quei mesi che aveva trascorso
lontano da Minas Tirith. Solo allora, forse, avrebbe imparato a conoscere di
nuovo suo fratello.
Era
doloroso, per Faramir, ammettere che non conosceva più Boromir. Il Mezzuomo,
una conoscenza fatta casualmente lungo la strada, vedeva molto più chiaramente
di lui nel cuore di suo fratello, e questo lo addolorava profondamente. Più
pensava all’enormità della sua perdita, più profondo diventava il suo rimpianto
per Boromir, il suo dolore, e il suo desiderio di ritrovarlo.
Fu quel
desiderio, più che un senso di dovere o di giustizia, a condurlo finalmente
fuori dalle Case a cercare Boromir. Con sua sorpresa, scoprì che suo fratello
aveva lasciato quella zona e, rifiutandosi di prendere con sé una scorta, se ne
era andato insieme al Mezzuomo. I due soldati di guardia al cancello gli
dissero che il loro capitano aveva ordinato loro di restare lì, affermando che
sarebbe soltanto andato alla Cittadella e non avrebbe avuto bisogno di scorta.
A quella
notizia Faramir corrugò la fronte, preoccupato nel sapere Boromir in giro per
la città senza la sua guardia personale, ma non poteva dare la colpa alle
sentinelle per avere obbedito agli ordini, né insistere affinché pedinassero il
loro Sovrintendente contro la sua volontà. In realtà, se Boromir era andato
alla Cittadella, era abbastanza al sicuro. Con un misto di irritazione e di
curiosità, Faramir si diresse verso il Settimo Circolo.
I
soldati della Guardia della Torre, splendenti nelle loro livree nere e argento,
lo salutarono quando oltrepassò il cancello. Faramir avanzò nel Cortile della
Fontana e esitò. Era vuoto, ma dalle alte finestre decorate della sala del
Consiglio in fondo alla corte, provenivano delle voci. Una apparteneva al lord
Taleris, l’alto consigliere di suo padre. L’altra aveva il tono secco e formale
di un soldato che si rivolge ai suoi superiori. Poi una terza voce,
infinitamente familiare, li interruppe,
“Basta
così! E’ fuggito. È chiaro.”
Faramir
si diresse immediatamente alle grandi porte della Torre. Gli spessi muri di
pietra attutivano le voci, e non sentì le parole seguenti del fratello, ma
Boromir stava ancora parlando quando Faramir entrò nella sala del Consiglio.
“C’è un
solo posto dove un soldato si può nascondere tanto a lungo. Se è riuscito a
lasciare la città prima dell’alba, allora significa che se ne è andato insieme
all’esercito.”
“Dobbiamo
avvertire il Re”, insistette Taleris.
“Sì.”
Boromir chinò la testa pensierosamente, mentre gli altri attendevano in
silenzio la sua decisione.
Faramir
si ritrasse nel corridoio, non volendo intromettersi negli affari del
Sovrintendente senza essere stato invitato, e osservò i presenti con
attenzione. La grande sala era buia e fredda, poiché nessuna torcia era stata
accesa, e il sole del pomeriggio era ormai sceso oltre l’alta cima del
Mindolluin, gettando in ombra le finestre. Boromir sedeva nel profondo incavo
di una di quelle finestre, dominando la corte e la triste fontana che faceva
scendere l’acqua dai rami dell’albero morto. Il Lord Taleris e i luogotenente
della Guardia che aveva incontrato la notte precedente stavano in piedi accanto
a Boromir, mentre il Mezzuomo sedeva in una delle sedie intagliate al tavolo
del Consiglio, mangiando una mela e cercando di non apparire troppo interessato
agli affari del suo signore. In quell’ambiente sembrava assurdamente piccolo,
dondolando i piedi a una spanna dal pavimento, perso nella grandiosità della
stanza e rimpicciolito dalla vicinanza con gli Uomini.
Faramir
sorrise tra sé e sé nel vedere Merry, poi rivolse lo sguardo ai due uomini che
attendevano la risposta del Sovrintedente. Taleris e il luogotenente si
tenevano a debita distanza l’uno dall’altro, e non si scambiavano sguardi né
parole, segno che il soldato e il nobile non si fidavano l’uno dell’altro. Il
capo delle Guardie appoggiava Boromir incondizionatamente. Faramir aveva avuto
modo di vedere di persona la sua lealtà. Il ché poteva significare soltanto che
Taleris non era altrettanto sincero, e che non era stato abbastanza astuto da
tenere per sé i suoi dubbi.
“Un
messaggero a cavallo può raggiungere l’esercito prima che riparta domattina”,
disse Boromir.
Taleris
grugnì in segno di assenso, anche se non sembrava per nulla soddisfatto.
“A
quest’ora avranno già oltrepassato Osgiliath e si staranno preparando per
accamparsi. Preparerò un dispaccio per Aragorn, informandolo di una possibile
cospirazione contro di lui tra le truppe del sud.”
“Sarei
onorato di comporre la lettera, mio signore.”
“Lo farò
io.”
Taleris
si trattenne al tono brusco di Boromir, ma non osò protestare. Cambiando
tattica, disse,
“Se i
signori della città fossero stati avvertiti di questa minaccia, avremmo potuto
consigliarci con il Re prima che partisse, forse anche ritardare la marcia fino
a che il sicario non fosse stato catturato e punito.”
“Proprio
per questo non ve l’ho detto”, sbottò Boromir. “Il compito del Re è andare a
Mordor. Il mio è di restare a Minas Tirith. I nostri problemi non devono
ritardarlo. Sono restio anche a distrarlo ora per dei semplici sospetti, quando
sembra molto improbabile che il sicario sia una minaccia per lui.”
“Non
possiamo saperlo!”
Faramir
ritenne che fosse il momento opportuno per intervenire, prima che Taleris
spingesse troppo oltre la capacità di sopportazione di Boromir. Facendosi
avanti, incrociò lo sguardo dello hobbit e gli rivolse un cenno di saluto.
Merry si alzò immediatamente in piedi, facendo il giro attorno al tavolo, e si
avvicinò a lui con tutta la solenne cortesia di un abile scudiero. L’inchino
del Mezzuomo era preciso ed esperto come tutto il resto del suo portamento, ma
mentre si sollevò, un sorriso gli balenò sul viso.
Faramir
non poté resistere al fascino di quella creatura, nonostante la sua impudenza, e
gli sorrise di rimando. “Vedi, ho accolto il tuo suggerimento, mastro Perian,”
lanciò uno sguardo penetrante verso Boromir e il petulante Taleris, “anche se
avrei potuto scegliere un momento migliore”.
“Credo
che il momento sia quello giusto. Devo annunciarti come farebbe un vero
ciambellano?”
Lo
sguardo luminoso di Faramir abbracciò la mela mezza mangiata e la sedia vuota.
“É questo il tuo compito oggi?”
Merry
scrollò le spalle. “Qualunque cosa di cui Boromir abbia bisogno. Fa’ presto,
prima che sia troppo arrabbiato per ascoltare chiunque.”
Sorridendo,
Faramir seguì il Mezzuomo lungo la fila di alte finestre. Al loro arrivo,
Taleris interruppe le sue lamentele e tutti gli sguardo si rivolsero su di
loro. Il sollievo apparve sul viso di Taleris quando riconobbe Faramir, ma il
giovane lord lo sorpassò con niente di più che una fredda occhiata. Aveva un
grande rispetto per le abilità e la sapienza di lord Taleris, ma il vecchio non
gli era mai piaciuto, e non lo avrebbe incoraggiato a considerarlo come un
alleato.
“Tuo
fratello è qui, mio signore”, annunciò Merry, dimenticando la sua offerta di
una presentazione formale.
Boromir
rivolse il suo sguardo bendato al fratello, e si alzò prontamente in piedi.
“Faramir? Pensavo che fossi ancora prigioniero dei guaritori.”
“Ho
comprato la libertà con la promessa che sarei tornato.” I suoi occhi passarono
in rassegna il luogotenente e il nobile, poi si posarono di nuovo sul fratello.
“Non era questa la mia intenzione, ma sono lieto di essere arrivato ora e di
avere sentito i tuoi timori per la sicurezza del Re. Ho delle notizie a questo
riguardo.”
“Che
notizie? Che cosa sai del sicario?”
Ora che
era il momento, Faramir trovava difficile parlarne in presenza di altri. Erano
fatti che toccavano la sua famiglia molto da vicino, e coinvolgevano un
consanguineo. Dopo un istante di riflessione, decise che quel tradimento, se di
tradimento si trattava, non poteva restare nascosto, e disse, “Non sul sicario,
ma so qualcosa su chi potrebbe averlo istigato.”
Taleris
si lasciò sfuggire un mormorio di sorpresa, e la mano del luogotenente si
contrasse in modo inconscio sull’elsa della spada.
“È
venuto da me qualcuno a noi vicino,” Faramir continuò, “E ha parlato di una…
una cospirazione, perché non saprei in che altro modo chiamarla, per rimuovere
il legittimo Sovrintendente e mettere me al suo posto.”
Stavolta
la mano del luogotenente si strinse con decisione sull’elsa. “Il nome del
traditore, Capitano!Dimmi il nome, così che possa mettergli le mani addosso!”
Boromir
lo zittì con un gesto, e disse, “Chi è venuto da te?”
“Il
principe Imrahil.”
Un
silenzio incredulo seguì le sue parole, e Faramir poté percepire quasi
fisicamente il disagio di Taleris. Solo Merry osò muoversi, scivolando tra gli
alti uomini per mettersi a fianco di Boromir. Quando si fu avvicinato, la mano
di Boromir si posò istintivamente sulla testa ricciuta dello hobbit.
Dopo un
breve attimo in cui cercò ferocemente di riacquistare un’apparenza di calma, Boromir
domandò, “E mentre il nostro consanguineo ti incoraggiava al tradimento, ha per
caso parlato anche di omicidio?”
“No. Mi
ha solo chiesto di usare la mia influenza su di te per convincere te e il lord
Aragorn a farti rinunciare alla sovrintendenza.”
Boromir
serrò le mascelle in modo quasi udibile, e Faramir immaginò la miriade di irate
domande che si stavano formando nella sua mente, e tra tutte la più urgente:
quale era stata la sua risposta. Ma la cautela e la disciplina ebbero la meglio
sulla rabbia, e Boromir tenne a freno la lingua.
“L’hai
chiamata una cospirazione”, azzardò Taleris. “Ha fatto altri nomi?”
Faramir
esitò, cercando un compromesso tra la lealtà verso il fratello e il suo senso
di giustizia. Non c’era modo di soddisfarli entrambi, ma Faramir sapeva quale
era il suo dovere. Quando finalmente parlò, il suo tono era teso e riluttante.
“Non metterò a rischio la vita di un altro uomo per dicerie e sospetti. Ho
parlato con Imrahil e con lui soltanto.”
“Ma il
principe ha menzionato i suoi sostenitori,” insistette Taleris.
“Avete
già avuto la mia risposta, lord Taleris.”
Boromir
parlò di nuovo. “Imrahil è andato con Aragorn a Mordor. E gli altri? Sono
andati anche loro?”
“Io sono
a conoscenza di uno solo, ed è andato anch’egli con il Re.”
“Il che
ci riporta alla questione se rappresentino o meno una minaccia per Aragorn.
Imrahil e i suoi alleati oserebbero fargli del male?”
“No.”
“Sembri
molto sicuro.”
“Lo
sono. Non sono certo che i sicari siano stati mandati da loro, ma sembra
probabile, dato il momento e il tipo di menzogne che li spingevano. E se è
così, i cospiratori faranno del loro meglio per proteggere il re. Vogliono solo
toglierti la sovrintendenza, non minacciare il re. Aragorn è al sicuro.”
“Mio
lord Sovrintendente, con tutto il dovuto rispetto, non sappiamo quali complotti
o tradimenti possano minacciare il re, mentre è così fuori dalla portata del
nostro aiuto!”, intervenne Taleris, col viso arrossato per la violenta
emozione. “Dobbiamo mandargli ben più di un semplice messaggio. Io stesso
raggiungerò l’esercito. Posso raggiungere Osgiliath tanto in fretta quanto
qualunque altro messaggero, e fare un rapporto completo di quello che è
accaduto al nostro signore!”
Boromir
ignorò lo scoppio d’ira di Taleris. Fece un passo verso Faramir e tese una
mano, dicendo semplicemente, “Voglio parlare in privato con mio fratello.”
Faramir
si avvicinò obbediente alla mano aperta di Boromir, e trasalì, stupito, quando
il fratello gli afferrò il braccio con forza. Boromir si incamminò e Faramir lo
seguì, ma ben presto fu lui a guidarlo attraverso la grande stanza, verso la
porta. Il nobile e il soldato li osservarono in un confuso silenzio, mentre lo
hobbit riprendeva in silenzio il suo posto al tavolo.
Avevano
quasi raggiunto la tranquillità dell’anticamera esterna, quando Taleris
raccolse il suo coraggio e protestò, “Mio Signore!”
“Ho
bisogno di un po’ d’aria fresca,” ribatté Boromir. Poi varcò la soglia,
trovandosi nella fresca, silenziosa magnificenza dell’anticamera della
fortezza.
“Andiamo
fuori”, mormorò, con semplicità, e Faramir volse i passi verso la porta che
dava sulla corte.
Mentre
attraversavano l’anticamera e i loro passi echeggiavano nel soffitto a volta, Boromir
cominciò a parlare in tono basso e urgente. “Taleris è un bastardo infido, e
probabilmente è dentro fino al collo nella cospirazione di Imrahil, ma su una
cosa ha ragione. Il mio Re… il mio amico, sta andando verso la guerra
circondato da traditori e assassini, con l’Ombra davanti e il Nemico tutto
attorno, e io non ho nient’altro che la tua parola ad assicurarmi che lui sia
al sicuro. Solo l’amore e la fiducia che nutro per te, fratello, mi trattengono
dal partire io stesso per avvertirlo.”
“L’altro
è Halbarad.” Le parole uscirono dalla bocca di Faramir prima che si fosse reso
conto di averle pronunciate.
Boromir
si fermò improvvisamente e si voltò per fronteggiare il fratello, stringendogli
il braccio con dita d’acciaio. “Halbarad? Il Ramingo?”
“Il
secondo di Aragorn.”
Boromir
non poté fare altro che restare a bocca aperta, senza parole.
“Ora
capisci perché non ne ho parlato di fronte a Taleris e alla guardia. Non
possiamo diffondere sospetti su uno così vicino al Re, senza averne la certezza
assoluta. E mettere in dubbio Halbarad è come mettere in dubbio Aragorn
stesso.”
“In un
momento il cui tutta Gondor guarda a lui per la speranza. Certo. Questo deve
saperlo solo Aragorn.”
“Capisci
anche perché non temo per il re.”
Boromir
annuì e si rivolse verso le porte. Faramir lo condusse, più prontamente questa
volta.
“Halbarad
non farebbe mai del male ad Aragorn, qualunque cosa voglia fare a me.”
Camminarono
in un silenzio pensieroso attraverso le grandi porte e nella corte. Faramir lo
condusse istintivamente verso la parte occidentale del circolo, dove la curva
delle mura esterne incontrava le pendici del Mindolluin, e dove erano le porte
della grande biblioteca di Minas Tirith. Lì nessuno li avrebbe disturbati. Le
sentinelle erano dalla parte opposta della corte, e gli uomini nella sala del
Consiglio non potevano sentirli.
L’edificio
conferiva al luogo uno speciale fascino per Faramir. Molte ore vi aveva
trascorso, appoggiato al parapetto di pietra, guardando a nord e a ovest, sognando
le cose al di là dell’orizzonte. Quando era stanco del peso che portava e della
vista della tormentata terra di Gondor, poteva volgere gli occhi verso
l’interno, e ammirare i freschi, bianchi muri della biblioteca che amava, le
porte intagliate al di sotto degli archi di roccia. Tutto questo gli dava
forza, e una pace che non trovava in nessun altro luogo nella città di suo
padre.
Era la
città di suo fratello, ora. La città di Boromir. Appoggiandosi al parapetto e
osservando il fratello, Faramir si domandò di nuovo che significato avessero
per lui i numerosi cambiamenti che erano avvenuti, non ultimo il ritorno di
Boromir.
Ma
l’uomo che occupava così prepotentemente i suoi pensieri, in quel momento era
perso nelle sue meditazioni. Boromir era in piedi con le mani appoggiate al
muro, lo sguardo rivolto all’esterno e il capo leggermente sollevato per poter
sentire la brezza sul viso. A Faramir sembrò stanco e triste, come se il suo
incarico di Sovrintendente non gli desse alcuna gioia. Anche in questo, suo
fratello era cambiato.
“Dunque
Imrahil è un traditore.” Non c’era rabbia alcuna nella voce di Boromir, solo
dolore.
Faramir
rispose con la stessa calma. “Se ti può essere di conforto, non ha mai parlato
di tradimenti o di omicidi, né di usare la violenza per ottenere i suoi fini.
Mi ha chiesto solo di persuaderti a farti da parte. È nostro parente, Boromir,
e ci è vicino nell’affetto come lo è nel sangue. Non posso credere che voglia
farti del male.”
“Eppure
complotta con traditori e cerca di trascinare mio fratello nelle sue
cospirazioni.”
Boromir
rivolse lo sguardo bendato verso Faramir, e il giovane ebbe la spiacevole
sensazione di poter vedere oltre il tessuto nero e leggere il conflitto sul suo
volto. “Ci è riuscito?”
Faramir
si era aspettato questa domanda, ma non riuscì a dire una parola, col viso
tormentato di Boromir davanti a lui. Boromir lo considerò per un momento, poi
si voltò con un sospiro.
“Mi
dispiace, fratello. Per entrambi.”
“Non
sono un traditore, né verso Gondor né verso il suo legittimo Sovrintendente”,
ribatté Faramir.
“Né lo è
Imrahil, secondo la tua opinione. Dimmi, Faramir, qual è stata la tua
risposta?”
“Gli ho
solo promesso che avrei aspettato, osservato, e preso in considerazione le sue
parole.”
Boromir
sembrò raccogliere le forze per affrontare il dolore che lo travolgeva. Le sue
spalle si irrigidirono e sollevò la testa orgogliosamente, ma sul suo viso era
dipinta la sconfitta. “Ti conosco abbastanza bene da capire il senso della tua
risposta.”
“Davvero?”
“Non
deciderai finché non sarai sicuro, e tu non puoi fidarti di me.” Esitò, poi
proseguì, “Non ti sei mai fidato di me, non è vero?”
Faramir
non poté fare altro che restare a guardarlo, ammutolito per il dolore, preso
alla sprovvista dall’improvvisa franchezza del fratello.
“Non ti
biasimo,” continuò Boromir. “Conosci anche troppo bene la mia debolezza, la mia
follia, la mia colpa…Tu solo, in mezzo a tutti quelli che vorrebbero
condannarmi, sai quanto in basso sono caduto. Tu solo hai il diritto di
giudicare.”
“Io non
voglio giudicare mio fratello.”
“Non hai
scelta. Non è nella tua natura ignorare la verità, o evitare il fardello che
devi portare. Imrahil lo sapeva quando è venuto da te e ha piantato i semi del
dubbio nella tua mente. Ha scelto saggiamente il suo giudice.”
“Ha
scelto me perché, come lui, voglio solo proteggere il nostro Re e il nostro
popolo.”
“Forse
io non lo voglio?”
“Sono certo
che tu lo voglia, fratello, ma non sono certo che tu ne sia in grado.”
Boromir
si voltò per fronteggiare il fratello, spostandosi in modo da avere tutta la
sua attenzione su Faramir. “Il mio mandato è sul piatto di una bilancia, si
direbbe. Mio fratello è di fronte a me, pronto a farla pendere da un lato o
dall’altro, offrendomi la Sovrintendenza se io…. Se io cosa? Che cosa devo fare
per avere ciò che mi spetta di diritto?”
“No,
Boromir. Non sono qui per dettare condizioni! E non ho la Sovrintendenza nelle
mie mani!”
“Faramir
il prudente. Sempre modesto e umile. Non sprecare la tua umiltà con me,
fratello, sappiamo entrambi il potere che detieni. Dimmi solo ciò che devo
fare.”
Faramir
studiò i suoi lineamenti contratti per un lungo momento, cercando inutilmente
di leggervi i suoi pensieri. “Vuoi sapere cosa desidero veramente?”, disse
infine.
“Sì.”
“Sapere
cosa ti è accaduto durante il viaggio di ritorno.”
La bocca
di Boromir si contrasse in una smorfia di dolore. “Una storia così piena di
orrore ti aiuterebbe a dormire la notte? O forse cerchi di placare la tua
coscienza per quando mi condannerai di fronte al mio Re?”
“Voglio
solo mettere fine ai miei dubbi, far tacere i sussurri che mi tormentano.”
La
smorfia divenne ancora più dolorosa, e Boromir disse, “Anche io. Ma non certo
ricordando il mio disonore e la mia rovina.”
“Ho
paura, fratello”, insistette Faramir, desiderando che Boromir lo ascoltasse e
lo capisse. “Non riesco a dormire, non riesco a pensare, per la paura che
cresce ogni giorno dentro di me.”
“Paura
di cosa?”
“Di
perderti, come ho perso mio padre, nell’oscurità e nella disperazione.”
“Dunque
è questo che temi? Che io finisca come Denethor?”
“Sì.
Imrahil fa un gran parlare del bene di Gondor, ma io non mi spingo così
lontano. Io non ho paura per Gondor. Ho paura per me, per te, e per il crudele
destino che ti attende, se insieme all’orgoglio di Denethor hai ereditato anche
la sua debolezza.”
Boromir
sembrò osservarlo con attenzione attraverso le bende, poi chinò la testa. “Non
sei il solo. Io stesso a volte mi sono chiesto quanto di Denethor sia in me, e
ho accarezzato l’idea di porre fine alle mie angosce come ha fatto lui.”
Il
dubbio in Faramir si congelò in orrore a queste parole, ma non disse nulla,
lasciando che Boromir continuasse.
“Quanto
io sia figlio di mio padre tu lo sai meglio di chiunque altro, ma c’è una
grande differenza tra noi. E un grande errore nel tuo ragionamento. Io ho già
visitato l’oscurità, ho già provato la disperazione che ha distrutto la vita di
mio padre. Ho dormito in esse, ne ho vissuto, le ho sognate. Ho pianto
per il loro peso, e ho pregato perché la morte mi liberasse. Non c’è più nulla
sull’oscurità o la disperazione che tu o chiunque altro possiate insegnarmi,
Faramir, poiché esse sono le mie costanti compagne.”
“Come lo
erano per Denethor”, disse Faramir.
“No.
Rifletti. Io ho avuto la possibilità di morire - molte possibilità - eppure
sono vivo. Forse vivrò nelle tenebre, ma sono vivo, e l’oscurità non ha più
potere su di me. Non capisci? Io ho fatto la mia scelta, come nostro padre ha
fatto la sua. Io ho scelto di tornare a casa.”
Faramir
sentì le lacrime salirgli agli occhi, ma non tentò di trattenerle. “Sì, sei a
casa. Ma a che prezzo?”
“C’è
forse un prezzo troppo alto per stare di nuovo sulle mura di Minas Tirith e
sentire la musica delle sue trombe nel vento?”
“Questo
è il fratello che conosco!”
“Io sono
sempre tuo fratello, Faramir, nonostante le cicatrici che porto. Credevo che i
tuoi occhi, i più acuti di tutta Gondor, potessero vedere oltre queste bende,
vedere l’uomo che sono veramente.”
“Non
sono le bende che mi turbano.”
“No? Ti
ho sentito trasalire, quando ti ho preso il braccio.”
Faramir
si costrinse a guardare il fratello dritto in viso, nel suo sguardo celato,
vedendo il dolore che consumava così atrocemente il suo portamento fiero. “Non
è stato per la repulsione o il disprezzo, ma per la sorpresa. Forse per la
pietà. Mi servirà un po’ di tempo per abituarmi alla tua cecità.”
“Anche a
me.”
L’amaro
tentativo di umorismo di Boromir fece salire nuove lacrime in gola a Faramir.
Desiderava disperatamente trovare una qualche connessione con il fratello, un
modo per bandire l’immagine di quello straniero bendato e segnato da cicatrici,
e sentire nel suo cuore che l’uomo che stava davanti a lui era davvero Boromir.
“Sono
felice che tu abbia deciso di ritornare da me, fratello”, disse, con voce più
calma di quanto si sarebbe aspettato. “Vedo come governi la città in assenza
del suo Re, e il mio cuore si gonfia di orgoglio. Penso a tutto quello che hai
sofferto per tornare a casa, e soffro con te. Quando mi parli con la voce di
Boromir, mi rimproveri con i suoi modi bruschi, rifiuti i miei consigli con la
sua arroganza, esulto di averti di nuovo al mio fianco. Ma poi te ne vai,
ritorni ai tuoi strani vagabondaggi, ai tuoi inadeguati amici, alle tue
meditazioni solitarie - e mio fratello scompare. E resta un uomo che non
riconosco.”
Un
leggero sorriso increspò le labbra di Boromir. “La mia arroganza ti rassicura?
Questo è uno strano scherzo del destino. Ora mi rimproveri per il troppo poco
orgoglio, per le compagnie che frequento e i luoghi dove vado, mentre in
passato hai così spesso accumulato rimproveri su rimproveri sulla mia testa per
un eccesso di quello stesso orgoglio. Tu, che hai cercato di cambiarmi tante
volte, ora ti ritrai da me perché ho fatto esattamente quello. Cambiare.”
“Boromir…”
La sua stessa voce lo tradiva, ma Faramir non poteva sopportare in silenzio lo
sfogo del fratello. Boromir non stava urlando, né era adirato. Parlava con lo
stesso tono quieto e pensieroso che aveva usato per tutta la loro
conversazione, ma le sue parole parevano bruciare l’aria tra di loro.
“O sono
troppo orgoglioso o non lo sono abbastanza, o troppo cauto o troppo
vulnerabile. Mi chiedi di parlarti dei momenti più bui della mia vita, eppure
quando mi rivolgo a te per chiederti aiuto, ti ritrai dal mio tocco.”
“Mi
dispiace!”
“Ho
detto che non ti biasimo per i tuoi dubbi, ed è vero. Capisco che hai bisogno
di tempo per abituarti a me, e non ti farò pressioni. Ma se dobbiamo stare
fianco a fianco come fratelli dovrai imparare ad accettare l’uomo che sono
diventato.”
“È tutto
quello che chiedo!” gridò Faramir. “Io voglio conoscerti di nuovo. Voglio
guardarti e vedere Boromir, non un estraneo con gli occhi bendati!”
“Non
posso far scomparire le bende, nemmeno per te.”
“Ma puoi
lasciare che io conosca l’uomo che le porta, come una volta conoscevo mio
fratello.”
“E
come?”
“Parlami
di Orthanc.”
Il viso
di Boromir si contrasse. Non si mosse, ma sembrò volersi ritrarre dal fratello.
“Perché ti interessa tanto saperlo?”
“Quei
momenti oscuri - i più bui della tua vita, li hai chiamati - sono sospesi tra
di noi. Gettano un’ombra su di te che mi è penoso vedere. Per tutta la vita
abbiamo combattuto insieme, come fratelli, inseparabili e invincibili, ma
quando tu hai combattuto la tua battaglia più grande, io non ero accanto a te.
Ora l’ombra è su di te, e io sono solo.”
“Non sei
solo. Sono sempre Boromir, anche se porto cicatrici di battaglie che non
abbiamo condiviso.”
“So che
lo sei. Ma io sono solo e ho paura, e voglio che siamo vicini come eravamo un
tempo, e la fiducia che avevamo l’uno nell’altro che mi ha sostenuto in così
tante prove. Rivoglio mio fratello.”
“Come
posso restituirtelo?”
“Fidandoti
di me.”
“Vuoi
dire mostrandoti le mie ferite.”
“Fidati
di me, Boromir. Non tradirò la tua fiducia.”
Un lungo
silenzio seguì le sue parole. Infine, Boromir sollevò lo sguardo verso Faramir
e domandò, bruscamente, “Nostro padre ti ha detto cosa ha visto nel palantìr?”
“Solo
una piccola parte. Mi… mi ha detto della tua cattura, della tua prigionia.
Della tua tortura per mano di Saruman.”
“La
pietra non ha mentito. Aragorn e io siamo stati portati dagli orchi di Saruman
nei sotterranei di Orthanc, dove siamo stati torturati per il suo divertimento,
e per i suoi scopi traditori. Voleva l’Anello.” Boromir rise senza allegria,
con il viso contratto per la tensione.
“Credeva
che Aragorn glielo avrebbe dato.”
Improvvisamente
Boromir si distolse dallo sguardo severo e compassionevole del fratello, e posò
di nuovo le mani sul parapetto. Reclinò la testa all’indietro per sentire la
brezza. La sua voce si abbassò a un mormorio amareggiato. “Ricordo poco di quei
giorni, a parte l’orrore della voce di Saruman e l’agonia nelle sue mani. Ma
quel sotterraneo è inciso per sempre nella mia memoria.
È un
luogo terribile, Faramir. L’aria è bollente, e così densa che sembra strisciare
sulla pelle. Ogni cosa è di pietra e ferro, e il caldo è soffocante. E le torce
bruciavano sempre. Sempre.” Boromir si sostenne con le mani sul muro, le dita
che scavavano nella roccia spietata, e chinò il capo. “Non le sopporto.”
“Le
torce?”
“E i
muri di pietra, e i suono di passi che si avvicinano… gli stivali degli orchi
fanno un rumore particolare sui pavimenti di pietra. Saruman cammina
silenziosamente, ma non si muove mai senza i suoi orchi, riesco ancora a
sentirli mentre scendono lungo il corridoio…”
Faramir
rabbrividì, come toccato da un improvviso gelo. Per un momento gli parve di
udire il rumore di passi degli orchi in lontananza, e allora capì. “Ecco perché
eviti la Torre”, disse, gettando a Boromir un’occhiata penetrante.
Boromir
annuì. “Ho creduto che sarei morto in quel fetido abisso, circondato da pietra,
e soffocato da fumo e menzogne. Desideravo solo un po’ d’aria fresca per
andarmene in pace.”
“Saruman
ti ha promesso la libertà, se gli avessi detto dove era l’Anello?”
A
Boromir sfuggì un’altra risata priva di allegria. “Che cosa non mi ha promesso?
Ma erano tutte menzogne… menzogne. Così belle e tremende che bruciano come
veleno nelle mie vene, persino adesso. Prima l’Anello, poi Saruman, hanno
versato quel veleno nel mio cuore, fino al punto che non ero più me stesso.”
“Ma non
ti sei perduto, non hai ceduto a quelle menzogne. Come hai potuto resistere?”
“Aragorn.
È stato Aragorn che mi ha dato la volontà di resistere. Non dico la forza,
perché non c’era più alcuna forza in me, solo la certezza del mio dovere, e la
determinazione a seguirlo. Avevo già tradito il mio re e la mia missione una
volta. Non avrei potuto farlo di nuovo e continuare a vivere. E non potevo
aumentare il tormento di Aragorn mostrandomi sconfitto.
Alla
fine… alla fine, forse ho invocato il suo nome. Implorato la sua pietà. Non ne
sono sicuro. Ma lui non poteva sentirmi, e non credo che mi avrebbe biasimato
per la mia debolezza. Non ho tradito né lui né l’Anello, anche quando Saruman
mi ha offerto di rendermi la vista in cambio del tradimento…”
“Che
cosa?!” sibilò Faramir.
“Ha
detto che avrebbe guarito le mie ferite e mi avrebbe ridato la vista se gli
avessi detto dove era l’Anello.”
Un
gemito sfuggì dalle labbra di Faramir. “Non c’è da stupirsi che una tale
menzogna ti perseguiti! Bella e terribile, davvero! Aragorn conosce il
sacrificio che hai fatto?”
“Sì. Ha
fatto anche lui la stessa scelta, prima che toccasse a me. È un re, Faramir, un
vero re, e non poteva fare altro. Avresti preferito che avesse tradito il suo
popolo per me?”
Faramir
scosse la testa, ammirato. “No.”
“Non
fingerò che sia stato facile. A volte, credo che la speranza sia la tortura più
raffinata. Anche quando è una menzogna.” Boromir sollevò di nuovo il capo,
lasciando che il sole gli illuminasse il viso. A Faramir sembrò che stesse
piangendo, ma sulle sue guance non vi erano lacrime. “Il ricordo non mi
abbandonerà mai, anche se corressi per tutta la Terra di Mezzo per fuggirlo. Il
morso della pietra grezza nella mia carne, il fetore delle torce, le atroci
carezze della voce dello stregone, e le visioni… le visioni delle bianche mura
che si innalzavano di fronte a me, scintillanti nella luce, invitandomi a
casa.” Deglutì convulsamente, e sussurrò, “E’ un’agonia che porterò con me per
il resto dei miei giorni.”
“Sei
sicuro che fosse una menzogna?” azzardò Faramir.
“Gandalf
ne è sicuro.”
“E tu ti
fidi del suo giudizio?” Boromir annuì, senza parole. “Allora lo farò anch’io,
anche se mi addolora stare qui senza poter fare nulla.”
“Non c’è
niente da fare. Non posso fare altro che imparare ad accettarlo come meglio
posso, Faramir. Se mi ami, anche tu farai lo stesso.”
“Ci
proverò.”
Qualcosa
di simile a un sorriso apparve sulle labbra di Boromir, poi scomparve rapidamente
come era venuto. Faramir intuì che Boromir aveva esaurito la sua riserva di
forze e di coraggio riguardo quell’argomento, e capì che era il momento di
passare a discorsi meno dolorosi. Cambiando bruscamente argomento, Faramir
disse,
“Mithrandir
mi ha raccontato della distruzione di Isengard, ma non di come sei stato tratto
in salvo. Come hai fatto a fuggire dai sotterranei?”
Stavolta
sul viso di Boromir apparve un sorriso genuino. “Meglio che tu lo chieda a
Merry. Adora raccontarlo, specialmente la parte di Uglùk.”
“Uglùk?”
Boromir
scosse la testa in diniego. “Uglùk dovrà attendere. Della nostra fuga non
ricordo nulla se non una voce - quella di Merry, credo - che mi diceva che
Aragorn era in salvo. Il resto è oscurità… cosa di cui sono grato.”
Boromir
tacque, e Faramir non insistette. Sapeva che suo fratello aveva appena
accennato agli orrori del suo viaggio, ma Faramir era soddisfatto. In quello
sguardo sugli abissi infuocati di Isengard, per quanto orribile, aveva anche
intravisto di nuovo suo fratello. Più che intravisto. Aveva ritrovato Boromir
che lo aspettava al di là delle ombre e delle mura che si era eretto attorno.
Aveva ottenuto ciò che voleva, e non avrebbe messo alla prova oltre la pazienza
del fratello.
D’impulso,
Faramir allungò la mano per stringere il braccio di Boromir. Questi si voltò
verso di lui, con un’espressione interrogativa in viso, e Faramir sorrise.
“Grazie,
fratello.”
“Per che
cosa?” chiese Boromir.
“Per
essere tornato a casa.”
“Mi
avevi già ringraziato per questo.”
“Ma
questa volta so che resterai.”
Boromir
sorrise. Posò la mano su quella di Faramir e la strinse con forza. Aprì la
bocca per parlare, poi sembrò cambiare idea, come colto da un nuovo pensiero.
Con espressione interrogativa disse, “Intendevo chiedertelo, ma me ne sono
dimenticato, in mezzo a tutto quello che è successo. Conosci la storia di
Gilthaethil?”
“Si
tratta di qualche leggenda elfica, non è vero? Piena di azioni valorose e
malinconia?”
“Gilthaethil
era una principessa degli elfi della Seconda Era.” Faramir ritrasse la mano da
quella di Boromir e si piantò i pugni sui fianchi, squadrando sospettosamente
il fratello. “Perché lo vuoi sapere?”
“Cercavo
di ricordare se avevo mai sentito quella storia, ma sai che le confondo tutte.”
Sorrise in modo irriverente. “Le principesse degli elfi si somigliano tutte.”
Faramir
emise un suono di disapprovazione, e Boromir rise tra sé.
“Accontentami,
fratello. Siedi con me, una sera, quando la guerra non ci opprimerà così da
vicino, e raccontami la storia di Gilthaethil.”
“Te la
posso raccontare ora, se vuoi.”
“No. Per
le storie elfiche ci vogliono stelle elfiche in cielo. E ora non è il momento
per indulgere a queste cose.”
“Sotto
le stelle, dunque. Ma ti prego dimmi, Boromir, perché questo improvviso
interesse in ciò che hai sempre definito ‘antica spazzatura’?”
“Ho
incontrato alcune delle tue leggende che vagano sotto il cielo della Terra di
Mezzo, e ho imparato alcune cose su di loro. E ora so che sono tanto al di
sopra del mio disprezzo quanto lo sono le stelle in cielo.”
“E
perché proprio Gilthaethil?”
“Ah, è
per Gil.”
Faramir
inarcò le sopracciglia, sorpreso. “Gil? Vuoi dire la sguattera?”
“Sì. Il
suo vero nome è Gilthaethil.”
Sul viso
di Faramir si alternarono disapprovazione e curiosità, facendogli assumere
un’espressione accigliata che lo rendeva straordinariamente simile al fratello.
“Hai forse qualche vana speranza che sia una sorta di elfo vagabondo? O la
discendente perduta di una nobile famiglia?”
Boromir
rise. “No, voglio semplicemente sapere la leggenda.”
Faramir
lo osservò per un momento, poi domandò, “Cosa hai intenzione di fare con lei?”
“Fare
con lei?” la sorpresa di Boromir si tramutò in ironia sardonica. “Ma ovviamente
renderla la Regina di Gondor. Dopo che avrò usurpato il trono di Aragorn avrò
bisogno di una consorte per governare il mio regno.”
“Non sei
divertente.”
“Non ti
preoccupare, fratello. Non intendo fare nulla con Gilthaethil. Lei mi
piace. Ecco tutto.”
“Perché
ti piace? Che cosa può avere una serva priva di famiglia e di cultura, per
piacerti?”
Boromir
meditò la sua risposta con attenzione, pensando attentamente. Infine rispose.
“È onesta, sincera e pratica, senza secondi fini. E senza un briciolo di
commiserazione.”
Faramir
accettò la spiegazione in perplesso silenzio. Non poteva approvare il crescente
affetto di Boromir per una come Gil, ma quel giorno aveva capito che non doveva
giudicare suo fratello dal suo comportamento esteriore. Forse era solo un
effetto del suo attuale stato di esclusione dai suoi pari, della sua lotta per
riconquistare il suo posto tra loro. Forse, una volta che Boromir si fosse
insediato come Sovrintendente, Gil sarebbe ricaduta nell’oblio. O forse la loro
amicizia era più profonda di quanto potesse razionalmente spiegare, e Faramir
doveva semplicemente rassegnarsi. Qualunque fosse la verità, avrebbe aspettato
e osservato. Non aveva la forza di affrontare un altro argomento così delicato,
in quel giorno così denso di rivelazioni.
Boromir
sembrò udire i suoi pensieri. Distese la mano verso di lui, e quando Faramir la
afferrò, disse, “Ritorna alla Torre e dai lord che aspettano. Agisci come
meglio credi. Io non me la sento ancora di ritornare al chiuso.”
“Boromir,
io…”
“Va
tutto bene, fratello. Abbiamo già detto abbastanza per oggi.”
“Quando
Aragorn ritornerà…”
“Tu
dovrai scegliere da che parte stare. Fino ad allora, fai come hai promesso.
Aspetta, osserva, e giudica. Non ti chiedo altro.”
Faramir
gli strinse la mano e si avviò.
“Mandami
Merry”, disse Boromir.
Faramir
annuì, poi gli sovvenne che quel gesto era inutile con il fratello. “Lo farò.”
Poi se ne andò silenziosamente.
*** ***
***
Elenard
guardò il cavaliere spronare il cavallo coperto di schiuma attraverso
l’accampamento. Il rumore di zoccoli e i richiami delle sentinelle lo avevano
svegliato da un sonno inquieto, e ora osservava la notte con occhi spalancati
pieni d’angoscia. L’alba non aveva ancora toccato il cielo, e alla luce morente
dei falò da campo, Elenard non riusciva a distinguere il simbolo sulla divisa
del cavaliere, ma non aveva alcun dubbio sulla sua provenienza. Il grande e
veloce cavallo, e il contenitore di cuoio cilindrico con i suoi sigilli
pendente dalla sua schiena, lo identificavano chiaramente come un messaggero di
Gondor.
Un
messaggero che inseguiva l’esercito nella notte fino quasi a sfiancare il suo
cavallo, per portare un dispaccio al lord Elessar. Per la mente sovraeccitata
di Elenard, potava significare soltanto una cosa. Hirluin lo aveva tradito. Non
era riuscito a scappare, in fin dei conti.
Continuò
a guardare la figura finché non si perse nell’oscurità, poi si coricò di nuovo
sul suo giaciglio e fissò lo sguardo al cielo sopra di lui. Cercava di cogliere
qualche rumore proveniente dall’accampamento - voci concitate, rumori di passi,
qualunque cosa che potesse annunciare l’arrivo degli uomini grigiovestiti dai
visi severi e dagli occhi spietati.
Non
pensò nemmeno alla possibilità di fuggire. Il Sovrintendente Ombra potava
chiamarlo traditore, ma lui non era né un codardo né un disertore. Quando i
Raminghi sarebbero venuti a prenderlo, lo avrebbero trovato insieme ai suoi
compagni d’arme, pronto per la guerra, come si addiceva a un soldato di
Morthond.
Aragorn
camminava avanti e indietro per la tenda incessantemente, con gli occhi
abbassati e le mani unite dietro la schiena. Sentiva che gli altri lo stavano
guardando, in attesa, e la loro preoccupazione che si abbatteva su di lui come
una marea. Imrahil e Éomer, i suoi più valorosi generali. Legolas e Gimli, i
suoi compagni più leali. E Halbarad, la sua fedele ombra grigia. Erano tutti
venuti per apprendere le notizie da Minas Tirith e offrire al loro signore i
loro aiuto e il loro consiglio.
Aragorn
continuò a camminare, mentre Legolas leggeva il dispaccio, tenendo la pergamena
in modo che anche Gimli potesse vederla. Il nano sbuffò per la rabbia, mentre leggeva
le righe vergate con cura, e la sua mano si strinse sul manico dell’ascia.
Imrahil
gli lanciò un’occhiata preoccupata. “Che notizie, mio signore?”
Fermandosi,
Aragorn si rivolse al principe con occhi rannuvolati. “Boromir mi avverte di
una possibile minaccia alla mia vita.”
Solo
Legolas e Gimli, che avevano letto la lettera, non mostrarono alcuna reazione.
Imrahil e Éomer lanciarono un’esclamazione di protesta, mentre Halbarad si
accigliò vistosamente e si avvicinò all’apertura della tenda. Aprì i lembi
dell’ingresso e guardò fuori, come per assicurarsi che all’esterno non vi
fossero sicari in agguato.
“Due
uomini hanno tentato di assassinare il Sovrintendente ieri notte. Sembra che
uno di loro sia riuscito a fuggire e ora sia in marcia insieme a noi.”
Imrahil
impallidì, e il suo viso era teso alla luce della candela. “Il Sovrintendente?
Chi oserebbe alzare la mano contro il Sovrintendente di Gondor?”
Le
labbra di Aragorn si serrarono con rabbia. “Soldati di Morthond.”
Il
Principe imprecò a bassa voce. “E Boromir? Come sta?”
Fu
Legolas a rispondere. “Scrive che sta bene, e che non è stato ferito
gravemente.” Un sorriso apparve per un istante negli occhi dell’elfo, mentre
aggiungeva, “Merry è corso in suo aiuto, e uno degli aggressori è stato
catturato.”
Gimli
prese la pergamena dalle mani di Legolas per studiarla più da vicino. “Secondo
il suo rapporto, il farabutto parla delle stesse sciocchezze che abbiamo
sentito nell’accampamento prima di partire. Superstizioni e paure, trasformate
in bugie traditrici!”
“Sì”,
disse Aragorn, “avrei dovuto prestare più attenzione a quei sussurri notturni.”
Éomer si
fece rapidamente avanti, con il viso carico di rabbia e preoccupazione. “Mio signore,
cosa dobbiamo fare? Non possiamo portare con noi alla battaglia il traditore, e
non possiamo lasciare solo Boromir…”
“Possiamo,
e dobbiamo. Boromir mi ha messo in guardia, affinché nessun tranello mi colga
impreparato, ma non chiede né desidera che io ritorni indietro. Pensaci, Éomer.
Tutto questo,” indicò la pergamena tra le mani di Gimli, “non servirà a nulla,
se Sauron ci sconfigge. Dobbiamo marciare contro di lui e scacciarlo dai
Cancelli Neri, anche se soltanto un pugno di guerrieri coraggiosi verrà con
noi.”
“Non è
un tradimento diffuso”, asserì Halbarad. “I Dùnedain ne avrebbero sentito
parlare tra i soldati.”
“Io ne
ho sentito parlare abbastanza,” disse Legolas, con tranquillità solo apparente.
“Cospirazione
contro il re? E non me ne hai parlato?”
“Ne ho
parlato al re.”
“I
discorsi dei soldati erano contro Boromir, non contro di me,” disse Aragorn.
“Lo ritenevo in grado di affrontare qualunque problema sarebbe sorto, e
chiaramente è quello che ha fatto. Mi garantisce che la città è sicura, il
popolo non è a conoscenza della minaccia che incombe sul suo Sovrintendente, e
la situazione non è preoccupante.”
“Ma cosa
ne sarà di te?” gridò Éomer. “Il sicario ora è nascosto in mezzo al tuo
esercito!”
Aragorn
riflettè per un momento, poi scosse le spalle. “È improbabile che tenti
qualcosa contro di me. E se lo fa, noi saremo pronti.”
“Se gli
uomini di Morthond proteggono quel traditore, allora io dico che la Duinhir
deve trovarlo! Lasciamo che sia lui a pensare ai suoi uomini…”
“Pace,
Éomer.” Aragorn si rivolse a Imrahil e disse, “Tu conosci bene Duinhir, vero?”
“Sì, mio
signore. Pensi che ci sia Duinhir dietro questo vile atto? Non posso crederlo.”
“Non lo
so, ma sono d’accordo con Éomer. Il signore di Morthond dovrà rispondere di
molte cose. Conducetelo da me quando ci accamperemo stasera, e saprò la verità.
E ora, miei signori, dobbiamo prepararci a marciare. Andate alle vostre tende.
Imrahil
e Éomer se ne andarono, ma Halbarad restò indietro.
“Con il
tuo permesso, Aragorn, manderò i miei Raminghi tra i soldati per raccogliere
informazioni. Possono passare inosservati e silenziosi, e gli uomini in loro
presenza diranno cose che non rivelerebbero mai davanti ai loro ufficiali.”
Aragorn
annuì.
“E
raddoppierò la tua scorta durante la marcia.”
“Come
vuoi, Halbarad. Pensaci tu.”
Il
Ramingo uscì dalla tenda, lasciando soli Aragorn, Gimli e Legolas. Nessuno si
mosse o parlò fino a quando le voci delle sentinelle furono svanite nel
silenzio e i passi di Halbarad si furono allontanati nell’accampamento. Poi
Legolas si mosse. Prendendo la pergamena dalle mani Gimli, la arrotolò con cura
e la ripose nel cilindro di cuoio.
“Non hai
intenzione di dire loro il resto?” domandò.
“No.”
“Mi
rifiuto di credere che chiunque dei presenti stanotte possa agire contro di
te.”
Gimli
ringhiò, “Coloro che ti sono più vicini, ha detto Boromir. E chi, a
parte noi, è più vicino al re di quei tre uomini?”
Aragorn
ricominciò a camminare. “Vorrei che Boromir fosse stato più esplicito.”
“E
rischiare che il dispaccio venisse letto da tutti i presenti nella tenda?”
Legolas alzò le sopracciglia meravigliato. “È troppo esperto per farlo. Ti ha
detto tutto quello che poteva, sono pronto a garantirlo, e come lui stesso dice,
non ha prove del tradimento, solo voci e sospetti. Non puoi condannare un uomo
per questo.”
“No.
Capisco il motivo della sua cautela, eppure avrei voluto sapere di più. Vorrei
avere solo un nome - solo un traditore - su cui mettere le mani!” Protese le
mani come per afferrare qualcosa, e ringhiò, “Giuro che qualcuno pagherà per
questo!”
Legolas
lanciò un gelido sorriso a Gimli e mormorò, “Il nostro re ha bisogno di una
spada in mano e di una battaglia da combattere.”
“Sì”,
disse il nano, “ne troveremo una, molto presto.”
Aragorn
abbassò le mani. La rabbia nei suoi occhi svanì nella sua solita grave
pensierosità.
“Finché
non troveremo il nostro nemico, dovremo essere cauti. Solo noi tre conosciamo i
sospetti di Boromir, e così deve rimanere.”
“E se
Imrahil o Halbarad stanno complottando contro il Sovrintendente?”
Aragorn
sorrise a Gimli. “Noto che non hai incluso Éomer nella lista.”
Gimli
rise. “Éomer non farebbe mai del male a Boromir. Anzi, io credo che quando
troveremo il traditore, sarà difficile impedire al Re del Mark di farlo a
pezzi!”
Il
sorriso del Ramingo si allargò. “Forse glielo lascerò fare. Andiamo, è tempo di
svegliare lo hobbit e di preparaci per la marcia.”
“Non hai
risposto alla domanda di Gimli,” osservò Legolas.
“Che
cosa dovrei dire? In questo momento ho bisogno di tutti i miei alleati, almeno
finché hanno coraggio abbastanza per impugnare le armi contro il Nemico. Quando
avremo finito di combattere, allora il veleno uscirà allo scoperto, e i
traditore sarà rivelato. Allora, se sarò ancora vivo per respirare la dolce
aria della Terra di Mezzo, punirò coloro che hanno osato fare del male al mio
amico.”
Il suono
delle trombe fece sobbalzare Elenard sul suo giaciglio, costringendolo ad
alzarsi in piedi. L’alba rischiarava il cielo, e tutto attorno a lui,
l’accampamento si svegliava. Obbedendo ai familiari richiami dei corni si
affrettò a smontare il campo e a raccogliere la sua attrezzatura, ma per tutto
il tempo i suoi occhi esaminarono i soldati attorno a lui.
Non
c’era nulla di allarmante - nessuna guardia in nero e argento, nessun Ramingo
con la spada sguainata. I suoi ufficiali si muovevano come al solito tra gli
uomini, spronandoli ad affrettarsi e gridando ordini al di sopra del frastuono.
Elenard vide un solo estraneo in mezzo a loro. Una figura solitaria che passava
tra i falò da campo, apparentemente intenta al suo lavoro eppure senza fretta.
Si avvicinò al falò di Elenard, e l’arciere poté osservarlo bene. Per un
terribile momento pensò che l’uomo lo avesse riconosciuto, ma i suoi occhi
passarono indifferenti sul suo viso, e continuò il suo cammino senza fermarsi.
Elenard
si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo, mentre si voltava e riprendeva la
sua attività. Nonostante tutto sembrava che il destino gli sorridesse ancora.
Non era stato scoperto. Non sarebbe finito nei sotterranei di Minas Tirith.
Avrebbe avuto la possibilità di morire da soldato.
Mettendosi
lo zaino sulle spalle e prendendo le armi, Elenard prese il suo posto nella
lunga fila di soldati. Le trombe suonarono un richiamo familiare, e, con la
testa alta e un sorriso sulle labbra, Elenard cominciò a marciare.
*** ***
***
“Sei
pensieroso, mio signore, e più silenzioso del solito.”
La voce
ridestò Faramir dalla sua fantasticheria, e voltandosi, vide la donna seduta
accanto a lui. Era illuminata da un raggio di sole che trasformava i suoi
capelli in oro liquido, e donava un tocco di colore alle sue gote pallide.
Sullo sfondo del verde del giardino, scintillava come una lama lucente,
bellissima e terribile. Ogni volta che Faramir guardava la dama Éowyn, era
sempre colpito dalla sua bellezza e dalla sua tristezza.
“Perdonami,
mia signora.” Sollevò la mano di lei e la portò alle labbra. “In tua compagnia
dovrei essere sempre lieto.”
“Che
cosa ti turba?” chiese lei.
Il
dolore che la sua voce aveva momentaneamente bandito cadde su di lui
nuovamente, mentre rispondeva, “Mio fratello.”
Éowyn lo
osservò con gravità, senza mostrare nel suo sguardo né comprensione né
rimprovero. “Hai condiviso con me una parte dei tuoi dubbi, abbastanza perché
io sappia che temi sia per lui che per il vostro popolo.”
“Sì, ma
ora non stavo pensando a Gondor.” Distolse lo sguardo dalla sua gelida
bellezza, incapace di sopportarla con un cuore così pieno di angoscia. “Solo a
Boromir. Il suo destino mi addolora.”
Un
pesante silenzio seguì le sue parole, rotto da Éowyn, che disse, con voce ferma
e tranquilla, “Non è mio compito dirti il tuo dovere verso tuo fratello e il
tuo paese, mio signore, ma devo parlare.”
“Istruiscimi
come credi, dama. Ascolterò volentieri quello che mi dirai.”
“È molto
semplice. Il lord Boromir è un uomo d’onore. Non mi sentirai mai parlare male
di lui o mettere in dubbio la sua capacità di governare Gondor al posto del
Re.”
Faramir
la osservò con meraviglia, commosso dalle sue parole e dalla luce nei suoi
occhi, che non le aveva mai visto prima di allora. “Parli in questo modo di mio
fratello anche se lo conosci appena?”
“Non
conosco i suoi pensieri, ma so di che fibra è fatto. È tutto onore, dovere,
grandezza di spirito. L’ho visto guarire da ferite che quasi gli sono costate
la vita, per seguire il suo re fino alla minaccia di Mordor. Ho cavalcato nella
tempesta al suo fianco, insieme all’ holbytla, e l’ho visto rinunciare
al conforto della compagnia di Merry piuttosto che fare rompere al piccolo il
suo giuramento al Re Thèoden. Nessuno di loro voleva quella separazione, che
significava un grave pericolo per entrambi, ma l’onore e il dovere lo
richiedevano. L’ holbytla, inesperto dei nostri usi, avrebbe messo da
parte il suo giuramento per amore del suo signore, ma Boromir non ne ha voluto
sapere. Per merito di Boromir, Merry ha combattuto al mio fianco sui campi di
Pelennor, e insieme abbiamo sconfitto il Re degli Spettri.”
“Boromir
ha rinunciato alla battaglia, lasciando una fanciulla e un mezzuomo a
combattere da soli? Non è cosa da mio fratello.”
“Ha
rinunciato alla sua possibilità di ottenere la gloria sul campo di battaglia,
per portare la sua spada e la sua saggezza a casa, a Mundberg, dove ce ne era
più bisogno. Io non sono come lui. Non potevo abbandonare la battaglia, eppure
so che ciò che ha fatto è giusto e saggio, e del tutto onorevole. E lo ammiro
tantissimo per questo.”
Faramir
restò seduto in silenzio, soppesando le sue parole. Éowyn non si intromise nei
suoi pensieri.
Infine,
Faramir sollevò il capo e la guardò. “Ti ringrazio per la tua franchezza, mia
signora. Mi hai dato molto a cui pensare.”
“Se vuoi
saperne di più sul Lord Boromir, su quello che ha nel cuore, parla con l’holbytla.
Hanno viaggiato insieme per tutta la strada da Imladris, e il loro affetto è
incrollabile.”
“L’ho
già fatto. Merry è altrettanto eloquente nel difendere mio fratello come tu lo
sei nell’elogiarlo.”
Di nuovo
Faramir si perse nei suoi pensieri. Ripensò a tutto quello che gli era stato
detto dal giorno in cui Boromir era tornato, e notò che nessuno che avesse
viaggiato con Boromir, nella Compagnia o dopo, aveva mai detto male di lui. Non
il fedele hobbit, né l’elfo, né il nano, né Éowyn, né Aragorn stesso. Aragorn
era passato attraverso le fiamme e la sofferenza di Orthanc accanto a Boromir,
e ora gli riconosceva ciò che gli spettava per diritto di nascita senza alcuna
esitazione.
“Aragorn
lo ha scelto”, riflettè Faramir.
“Sì, e
chi potrà contraddire il Re?”
“Io ero
pronto a farlo. Ma ora…”
Esitò, e
Éowyn insistette, gentilmente, “Ora, mio signore?”
“Ora
conosco parte di ciò che gli è accaduto, e comincio a comprendere. Comincio a
vedere attraverso i suoi occhi, almeno in parte.”
Éowyn
quasi sorrise, o almeno era la cosa più simile a un sorriso che Faramir le
avesse mai visto in viso. “Una strana scelta di parole, mio signore.”
“Ma
adatta. La sua visione del mondo non è piacevole, né priva di dolore, e non
posso dire che mi sia congeniale.”
“C’è
forse qualcuno di noi che può guardare al mondo senza dolore, in questa ora?”
Faramir
scosse la testa, e, senza rendersene conto, lasciò correre il suo sguardo verso
Est.
Quando
il Re ritornerà, tutto sarà guarito”, mormorò Éowyn, riflettendo la sua
speranza inespressa.
Faramir
la guardò e sentì la sua bellezza che lo trafiggeva. “C’è una cosa che mi ha
detto Merry,” mormorò, “Ha detto che Aragorn mi ha salvato dall’ Ombra. È stata
la voce del re che mi ha riportato indietro, ma sei stata tu, dama, a guarire
il mio cuore.”
Èowyn
chinò il capo per sottrarsi al suo sguardo. “Anche io sono stata riportata
indietro dalla sua voce, ma non ho ancora trovato la guarigione.”
“Verrà
col tempo. E con la speranza, io credo.” Restò in silenzio di nuovo,
pensieroso, poi mormorò, “Non si può affrettare la guarigione. Ci vuole tempo.”
Un
improvviso, brillante sorriso gli illuminò il viso, e Faramir afferrò la mano
di Éowyn, portandola alle sue labbra in gesto di saluto. “Ti ringrazio, dama!
Mi hai istruito meglio di quanto tu non immagini!”
Éowyn
non ritirò la sua mano. “Mi basterebbe avere rasserenato il tuo cuore, mio
signore.”
“Lo hai
fatto.” Le baciò di nuovo la mano e sorrise ai suoi occhi solenni. “Anche in
questa ora così oscura, mi hai dato speranza.”
*** ***
***
Il
settimo giorno di attesa albeggiò, freddo e uggioso. Tutti gli occhi della
città erano rivolti a est, verso i pericoli a cui andavano i suoi signori, i
suoi capitani e i suoi valorosi soldati, e tutti i cuori erano grevi.
Alcuni
osservavano l’Ombra con l’aria di conosce molte cose, calcolando le leghe che
separavano la Torre di Guardia dal nemico, e gridavano, “Ormai avranno
raggiunto il Cancello Nero! Certo oggi giungeranno notizie!” Altri, misurando
la distanza, scuotevano la testa, e dicevano, “No, non possono essere arrivati
così presto. C’è ancora tempo. Non tutto è perduto.”
Il sole
salì lentamente nel cielo. Una sensazione di attesa e di timore crebbe nel
popolo di Minas Tirith, e sebbene la gente si ripetesse che quello era un
giorno proprio come tutti gli altri, la paura cominciò a pesare su di loro,
fino a quando tutte le attività della città si interruppero. La gente rimase in
piedi in mezzo alle strade o sulle mura, guardando verso est, sforzandosi di
cogliere un qualche bagliore di elmi o lance, anche se sapevano che ormai
l’esercito era troppo lontano perché potessero vederlo. L’ora del loro destino
gravava pesantemente su di loro.
Nel
momento in cui il sole raggiunse lo zenit, il vento cessò all’improvviso, e
l’aria stessa sembrò restare sospesa, pronta a qualche evento. Un teso silenzio
carico di aspettativa cadde su tutta la terra. Tutti gli occhi erano rivolti
alle Montagne dell’Ombra in lontananza, e tutte le voci tacquero.
In
quella timorosa immobilità si udì un rombo basso e minaccioso. Una enorme massa
di fumo nero si innalzò nel cielo, espandendosi fino a nascondere il sole,
perforata a tratti da fulmini e lingue di fuoco. Ogni cuore a Gondor tremò,
ogni respiro cessò, e fu come se la città rabbrividisse sul suo alto seggio. Le
mura tremarono. La torre fu scossa. Poi, con un sospiro, Minas Tirith riprese a
vivere.
In tutta
la città, uomini e donne levarono lo sguardo al cielo increduli. Perché dalle
terribili tenebre cominciò a soffiare un vento freddo, e portata dal vento
giunse una figura alata, dal cuore dell’Ombra. Era una grande Aquila, e le sue
ali erano grandi e possenti quanto le montagne che l’avevano vista crescere.
Mentre volava in circolo sopra la città, gridò con voce chiara,
Cantate
ora, gente della Torre di Anor,
perché
il Regno di Sauron è finito per sempre,
e la
Torre Oscura è crollata.
Cantate
e gioite, gente della torre di Guardia,
perché
non fu vana l’attesa,
e il
Cancello Nero è spezzato,
e il
vostro Re l’ha varcato,
ed
egli è vittorioso.
Cantate
e godete, voi tutti Figli dell’Ovest,
perché
il vostro Re tornerà,
e
abiterà con voi per sempre,
tutti
i giorni della vostra vita.
E
l’Albero appassito rifiorirà,
ed
egli nei luoghi alti lo pianterà,
e la
Città sarà benedetta.
Cantate
quindi, o gente!*
Elenard
udì la voce dell’Aquila mentre volava verso Ovest sul campo di battaglia. Era
in piedi in mezzo ai caduti, con la spada macchiata di sangue che pendeva
inerte al suo fianco, e osservava il messaggero della vittoria. Si sentì
pervadere da una gioia selvaggia, e sollevò la sua arma, scuotendola e gridando
la sua esultanza. Ma in quello stesso momento fu colto da un improvviso, gelido
terrore. Aveva scommesso tutto sulla certezza che sarebbe morto onorevolmente,
combattendo il Nemico, e facendo ammenda per il male che aveva commesso, per
quanto neccessario. Ma l’esercito dell’Ovest aveva vinto, il Re sarebbe
ritornato a Minas Tirith dal suo Sovrintendente Ombra, e Elenard avrebbe dovuto
marciare con lui. Verso un altro genere di morte. Cadendo in ginocchio sul
campo, Elenard chinò il campo e pianse per la vergogna.
Hirluin
udì la voce dalla sua buia cella sotto la Torre di Guardia. Si precipitò verso
la porta sbarrata, ascoltando la musica distante, e sorrise attraverso un velo
di lacrime. Non faceva alcuna differenza per lui che il Re Gemma Elfica avesse
sconfitto il Nemico. Era condannato in ogni caso. Ma ripensando alle fresche
foreste e a dolci pascoli del suo paese, e ai suoi figli che correvano liberi
sotto il cielo sereno, al sicuro dalla schiavitù e dalla minaccia di Mordor,
pianse per la gioia.
Faramir
udì la voce mentre era insieme a Éowyn sulle mura della città. Il suo cuore si
gonfiò di una felicità troppo profonda per essere espressa a parole. Lacrime
bagnarono le sue guance. I suoi occhi scintillarono come la luce di Nimloth
alla prima alba del mondo. E accanto a lui stava la Bianca Dama di Rohan, con
la mano nella sua, i suoi chiari capelli mescolati ai suoi nel vento. Mentre
l’Aquila passò sopra di loro, gettando la sua ombra sui loro visi, Faramir si
voltò verso Éowyn, e, in piena vista della città in festa, la baciò sulla fronte.
Merry
udì la voce e si avvicinò a Boromir. Erano nella Corte della Fontana, dove
erano rimasti in attesa tutta la mattina, e ascoltavano in silenzio il canto di
vittoria. Quando l’Aquila ebbe finito, Merry sospirò e rivolse gli occhi velati
di lacrime all’amico. Boromir non si mosse né parlò, ma Merry vide che tremava
per la violenza dell’emozione.
Lo
hobbit mise la sua piccola mano in quella dell’uomo, e rivolse nuovamente lo
sguardo a est, verso la torbida oscurità che segnava la fine del potere di
Sauron.
“Ce l’ha
fatta,” disse Merry. “Ha distrutto l’Anello.”
“Frodo…”
“La
missione non è fallita.”
Con una
rapidità che sorprese lo hobbit, Boromir si inginocchiò accanto a lui e lo
strinse in un fiero abbraccio. Merry si strinse a lui, con le lacrime che
cominciavano a scorrergli sul viso, e all’improvviso fu enormemente felice che,
tra tutte le creature della Terra di Mezzo, ci fosse proprio quell’uomo con
lui, al momento della vittoria.
“L’Anello
è stato distrutto”, mormorò Boromir.
Merry
rise, pieno di gioia. “E il Re ritorna a casa!”
Continua…
* Da Il
ritorno del Re, capitolo Il Sovrintendente e il Re.
Un’estate
dorata cominciava a stendersi sui campi di Gondor, quando il Sovrintendente
cavalcò fuori dai cancelli dei Minas Tirith per rispondere alla chiamata del
suo Re.
Merry,
scudiero di Re Éomer, cavalcava con lui, insieme a una compagnia di uomini
armati e un convoglio di carri, carichi di vettovaglie per l’esercito accampato
a Cair Andros. Fedranth, il grigio stallone di Rohan, portava l’uomo e lo
hobbit verso il luogo dove si sarebbe celebrata la vittoria, così come prima li
aveva portati verso la guerra, e Merry gioì nel montare nuovamente a cavallo in
compagnia dell’amico.
La
lettera di Aragorn aveva dissipato le loro ultime preoccupazioni, assicurandoli
che tutti coloro che amavano erano sopravvissuti alla battaglia, e quelli che
avevano ricevuto ferite stavano guarendo, sotto le cure del Re. Solo un’ombra
oscurava ancora la felicità di Merry: la decisione di Faramir era ancora una
questione aperta.
Merry
sapeva che la cosa non lo riguardava, e non ne aveva fatto parola con nessuno
dei due fratelli sin da dopo la conversazione con Faramir nelle Case di
Guarigione. Ma ora Boromir partiva da Minas Tirith, lasciando il suo incarico
nelle mani del fratello, e per Merry, che pensava soprattutto a Boromir, quella
decisione non poteva essere buona. Aveva osservato Boromir che consegnava lo
scettro bianco del potere nelle mani di Faramir, ma aveva tenuto a freno la
lingua. Ora, mentre si allontanavano dai cancelli, guardò indietro per osservare
l’uomo alto e regale che stava in piedi proprio davanti alle mura - così simile
al fratello eppure così diverso - con tutta la nobiltà di Gondor radunata
dietro di lui, e lo hobbit si sentì prendere dal timore.
Distogliendo
lo sguardo da quella vista, chiese a Boromir, a voce bassa, “Credi che sia
stato saggio affidare il tuo diritto a tuo fratello?”
“È
l’ ordine di Aragorn”, rispose Boromir con semplicità, “e anche il mio
desiderio.”
“Ma
non ha fatto nulla per sostenerti contro Imrahil, e…”
“Basta
così, Merry.”
“Lo
hobbit si guardò attorno per accertarsi che nessuno della scorta avesse sentito
il suo discorso, e scrollò le spalle. “Certo la Guardia saprà tutto della…
della parte del tuo consanguineo nella cospirazione.”
“Forse,
ma ciononostante ti sarei grato se non lo annunciassi ai quattro venti.”
Strinse con un gesto comprensivo il braccio di Merry, e la sua voce perse ogni
traccia di irritazione. “Non temere, piccoletto. Faramir non usurperà il mio
incarico. Qualunque sarà la sua scelta finale, farà il suo dovere come
Sovrintendente con onore, e mi restituirà ciò che è mio al mio ritorno. Non
devi preoccuparti di questo.”
Merry
rifletté per un po’, poi decise che Boromir aveva ragione. Faramir non era tipo
da prendere il potere con il sotterfugio e l’inganno. Se avesse deciso di
rivendicare per sé la Sovrintendenza, lo avrebbe fatto apertamente, davanti al
Re e al Consiglio, e solo perché sentiva che sarebbe stata la cosa giusta.
Ora che
la sua mente era - anche se solo per un po’- libera dalle preoccupazioni, lo
spirito di Merry si sollevò. Erano ancora in vista della città, e la voce
chiara dello hobbit si alzò in un canto, mescolandosi alle voci più profonde
degli uomini che cavalcavano attorno a loro. C’era un’atmosfera festosa nella
compagnia, anche se erano soldati armati per la guerra, e le loro risate
risuonavano come squilli di tromba.
Soltanto
Boromir cavalcava in silenzio, con viso serio e grave. Merry si chiese come
mai, ma non osava intromettersi nei suoi pensieri per chiedergli spiegazioni.
Da quando il messaggero era giunto dall’Ithilien, con l’invito del Re a
raggiungerlo, Boromir era diventato stranamente ombroso e imprevedibile. Una
qualche nuova inquietudine si era abbattuta su di lui, rendendolo un momento
pieno di felicità, e il momento dopo silenzioso e malinconico. In un primo
momento Merry aveva creduto che si trattasse di preoccupazione nel lasciare
Minas Tirith nelle mani di Faramir, ma chiaramente si sbagliava. Qualunque cosa
fosse, sembrava opprimerlo sempre più mano a mano che si avvicinavano
all’Ithilien e a Aragorn.
Verso
mezzogiorno arrivarono a Osgiliath, dove, tra le tristi rovine della città un
tempo grande, li attendeva una nave ormeggiata. Merry si guardò attorno con
curiosità, osservando i ponti distrutti e le strade vuote, piangendo la
desolazione dell'antica città in rovina. Caricarono la nave e levarono
l’ancora, lasciando rapidamente Osgiliath sulle onde del grande Anduin.
Sceso
dalla nave, Merry si ritrovò immerso in un mondo pieno di colori e di simboli
come non ne aveva mai visti prima. Ovunque si vedevano le insegne di qualche
esercito, ma non si trattava di insegne guerra come quelle che Merry aveva
visto fino a quel momento. Qui tutto era gioia, scintillante celebrazione, le
lance erano decorate con ghirlande di fiori, e i volti dei veterani, segnati
dalle cicatrici, erano raggianti.
Araldi
annunciarono il loro arrivo, e una scorta li condusse sul campo dove li
attendevano le Armate dell’Ovest.
La
magnificenza del momento travolse Merry. Non sapeva che gli uomini potessero
apparire così feroci e terribili, e così felici allo stesso tempo. Si strinse
accanto a Boromir, al riparo della sua presenza, e osservò con soggezione il
dispiegamento di uomini davanti a sé.
Tra gli
innumerevoli stendardi che decoravano l’accampamento, Merry riconobbe le
insegne di Dol-Amroth e di Rohan, insieme a dozzine di altre che
rappresentavano i paesi che avevano combattuto sul Pelennor davanti alle porte
di Minas Tirith. Al centro dell’accampamento, sollevato fieramente dal vento,
ondeggiava il grande stendardo di Re Elessar. E sotto di esso, a capo scoperto,
con una cotta di maglia scintillante coperta da un mantello nero di zibellino,
stava in piedi il Re in persona, sorridente.
La
guardia d’onore si fece da parte mentre si avvicinavano ad Aragorn, e Merry
condusse Boromir da solo attraverso lo spiazzo, con le ginocchia che gli
tremavano per la sua temerarietà. Poi il suo sguardo incrociò quello di
Aragorn, e la paura svanì. Egli era il Re di Gondor, ma era anche Grampasso,
Ramingo del Nord, suo amico e guida. Il contegno regale di Aragorn si tramutò
in uno sguardo d’affetto, quando vide il piccolo hobbit, e si fece avanti per
andare incontro ai nuovi arrivati.
“Mio
lord Sovrintendente, mastro Scudiero, vi do il benvenuto.”
Con
grande stupore di Merry, Boromir si inginocchiò davanti ad Aragorn e chinò il
capo. “Mio Re.”
“No,
non farlo.” Aragorn afferrò Boromir per le spalle e lo fece alzare in piedi.
“Non porto ancora la corona di Gondor.”
Aragorn
strinse più forte le braccia di Boromir, e i suoi occhi sorrisero con così
tanto calore da stupire Merry ancora più che l’atto di sottomissione di
Boromir. All’improvviso, obbedendo a uno stesso impulso, i due uomini si
abbracciarono.
“Come
stai, Boromir?” Chiese Aragorn, con la voce che gli tremava per la felicità.
Boromir
esitò per un istante, poi rispose, “Abbastanza bene. E tu?”
Dalle
labbra di Aragorn scaturì una gioiosa risata. Fece un passo indietro,
mantenendo però sempre la presa sulle braccia di Boromir, come se non volesse
interrompere il contatto. “L’Ombra è caduta e la Compagnia è di nuovo riunita!
Come altro potrei stare se non bene?”
Il
sorriso di Boromir vacillò. “Frodo e Sam?”
“Stanno
dormendo, devono recuperare le forze. Non temere per loro.”
“Allora
va davvero tutto bene.”
A
quel punto Aragorn lasciò andare l’amico, e come se fosse stato un segnale, la
folla attorno a loro cominciò ad animarsi. Amici e nobili si fecero avanti.
Aragorn si inginocchiò per abbracciare Merry, e, prima che avesse il tempo di
alzarsi di nuovo in piedi, Pipino li investì con un turbinio di velluto nero,
maglia d’argento e incontenibile entusiasmo. Subito dietro Pipino vennero
Legolas, Gimli, e un Gandalf insolitamente gioviale. Tutto era gioia e grida di
benvenuto. In quel luogo così verde e sereno, con i suoi amici attorno a sé e
la musica delle risate nell’aria, Merry sentì che i lunghi mesi di oscurità
scivolavano via, come il ricordo di un brutto sogno.
Dal suo
accampamento sulla collina boscosa, Elenard osservava l’arrivo del
Sovrintendente nella pianura sottostante. Le armate dell’Ovest erano sparse
lungo il fiume, alcune di esse accampate a Cair Andros sulla riva sud, altre
più lontane, nelle foreste dell’Ithilien. Quando gli arcieri di Morthond erano
stati stazionati così vicino all’accampamento principale, in vista dei
padiglioni dei generali, lo avevano considerato un tributo al loro coraggio in
battaglia e un segno del rispetto che il nuovo Re nutriva per Morthond. Solo
Elenard, divorato dai sospetti e dai sensi di colpa, dubitava che quella
vicinanza fosse davvero un tributo al loro valore.
I
Dùnedain grigiovestiti perlustravano incessantemente l’accampamento. Parlavano
con aria noncurante con i soldati che sedevano accanto ai falò la sera,
ricordando i lunghi anni di guerra che avevano afflitto Gondor, ma ad Elenard
pareva che ascoltassero più di quanto parlassero. Quei Raminghi avevano un modo
particolare di guardare le persone, occhi che vedevano più di quello che
avrebbero dovuto, e facevano domande apparentemente innocenti, che scioglievano
la lingua agli uomini. A Elenard non piacevano affatto, e non si fidava del
loro improvviso interesse verso Morthond. Essi erano gli occhi e le orecchie di
lord Elessar nell’accampamento, e un segnale che il Re sapeva da dove giungeva
la minaccia al suo Sovrintendente.
E
ora il Sovrintendente-Ombra in persona si era unito all’esercito, portando con
sé l’unica creatura nella Terra di Mezzo, che, oltre allo sfortunato Hirluin,
poteva riconoscere Elenard. Il mezzuomo.
Il
mezzuomo lo aveva visto in viso, aveva persino incrociato la lama con lui. Il
mezzuomo poteva testimoniare contro di lui e condannarlo a una morte da
traditore.
Gli
occhi di Elenard rimasero fissi sulla piccola figura che camminava a fianco del
Sovrintendente, e i suoi pugni si serrarono con rabbia impotente. Per un
momento ebbe l’impulso di estrarre il suo arco e mettere a tacere quella
creatura con una freccia in gola, vendicandosi, guadagnando qualche momento in
cui essere relativamente al sicuro. Ma quel pensiero svanì così rapidamente
come era venuto, e la sua rabbia scemò.
Il
mezzuomo aveva mandato a monte il suo tentativo di togliere la vita al
Sovrintendente, ma lo aveva fatto in tutta innocenza, per amore del suo
signore. Elenard non poteva condannarlo per questo. Né avrebbe ucciso a sangue
freddo una creatura innocente per salvarsi la vita. Poteva anche essere un
assassino e un traditore, ma non aveva ancora perduto tutto il suo onore. Aveva
alzato la spada contro il figlio di Denethor nella ferma convinzione che fosse
la cosa giusta, e poiché credeva che la presenza del cieco sul campo di
battaglia avesse causato la morte dei figli di Lord Duinhir.
Ora,
la vittoria su colui che era innominabile lo aveva privato di qualunque
possibilità di recuperare il suo onore. Nessuno avrebbe più creduto che Boromir
di Gondor fosse una maledizione per il suo stesso popolo. Nessuno lo avrebbe
ritenuto responsabile del massacro di quegli uomini valorosi sui campi di
Pelennor, o di avere sparso il terrore e l’oscurità su Minas Tirith. Nessuno
avrebbe creduto che Elenard avesse agito secondo la sua coscienza e il suo
dovere, quando aveva tentato di uccidere il Sovrintendente-Ombra.
Chino
presso il fuoco osservando con indolenza le distanti figure del Re e del
Sovrintendente, Elenard meditò su quale sarebbe stato il destino che i due gli
avrebbero riservato. Lo avrebbero giustiziato come un traditore, una fine amara
per un soldato. Se avesse avuto meno orgoglio, o fosse stato meno leale verso
il suo signore e verso la corona di Gondor, avrebbe provato meno vergogna. Ma
allora non sarebbe nemmeno stato in quel luogo, ad aspettare che la spada
scendesse sul suo collo. Sarebbe fuggito, scomparso nelle lussureggianti
foreste dell’Ithilien, e da lì nelle Terre Selvagge, dove un uomo coraggioso e
abile poteva vivere senza Re né signore, senza città né mura di pietra. Avrebbe
rinunciato al suo onore in cambio della vita.
Il viso
di Elenard era teso, quando finalmente si alzò in piedi per sgranchire i suoi
muscoli intorpiditi. Il suo sguardo si posò sulle fila dei soldati e degli
ufficiali sul campo, sulle lance, le cotte di maglia, e gli elmi che
riflettevano gli ultimi raggi del sole morente, e nei suoi occhi c’era un
desiderio, un dolore che rendeva il suo viso ancora più cupo. Si chinò per
raccogliere le sue armi, si mise l’arco sulle spalle, e si voltò. Con passi
lenti, cominciò a salire la collina.
*** ***
***
“Avanti,
amico mio, dimmi”. Aragorn si sporse in avanti per raccogliere l’otre di vino
che era posato accanto a Gimli, e lanciò a Boromir uno sguardo complice.
“Abbiamo parlato a lungo della battaglia, del valore dei soldati, dell’incontro
di Pipino con il troll e delle bellezze naturali dell’Ithilien. Abbiamo
dimenticato qualcosa di importante?”
Boromir
sorrise al tono canzonatorio, ma non disse nulla. Sedeva su uno sgabello da
campo, accanto al fuoco, coi gomiti appoggiati sulle ginocchia e un boccale
vuoto tra le mani. Il resto della Compagnia, a parte Frodo e Sam, che stavano
ancora dormendo nella tenda di Aragorn, era radunato attorno al fuoco insieme
ai due Uomini. Sedevano per terra o su sgabelli, sorseggiando vino, fumando la
pipa, e guardando il cielo stellato mentre parlavano.
Quel
senso di calore e di cameratismo era molto diverso da quello che avevano
condiviso la notte prima della partenza dell’esercito. Ora non c’era più
tristezza, nessuna partenza imminente a gravare i loro cuori, nessuna Ombra che
li minacciava. Erano immersi in un senso di pace così poco familiare a quelli
tra loro che erano guerrieri. Ma non avevano ancora vinto tutte le battaglie, e
Aragorn non era ancora pronto a riporre la spada.
“Ho
lasciato che ci distraessi con le tue domande, ma la mia pazienza ha un
limite,” disse Aragorn. “Ora è il mio turno di fare domande, e tu dovrai
rispondermi.”
Boromir
continuò a tacere.
“Boromir.”
Il Sovrintendente reagì al tono di comando nella voce di Aragorn, e si voltò
nella sua direzione. Aragorn si allungò per riempirgli il boccale, e aggiunse,
più mitemente. “Non ho dimenticato gli avvertimenti che mi hai mandato nel
dispaccio. E ho notato la freddezza con cui hai salutato Imrahil. Cosa puoi
dirmi di questa cospirazione? Quale minaccia ci troveremo davanti, una volta
tornati a Minas Tirith?”
“Non
hai nulla da temere.”
Aragorn
sbuffò con disgusto. “Ciò che minaccia il mio Sovrintendente minaccia anche me.
O credi forse che voglia restarmene in disparte mentre la nobiltà di Gondor
organizza il mio regno a suo piacimento?”
“E
se avessero ragione, Aragorn?”
“Sarò
io a giudicare. Sarò io a scegliere chi mi starà accanto nel mio regno, e lo
sosterrò.” Aragorn osservò pensierosamente Boromir, chiedendosi che cosa avesse
risvegliato in lui questo dubbio. Certo c’era qualcosa in più che non manovre
politiche di rivali. Con voce bassa, Aragorn disse, “Ora dimmi, che cosa stai
cercando così disperatamente di evitare?”
Boromir
sospirò. Passò distrattamente il boccale tra una mano e l’altra, con lo sguardo
bendato fisso su di esso e il viso teso per la stanchezza. “Avrei preferito
parlarne con te in privato. Non è un discorso piacevole da fare tra amici.”
“Con
chi altri vorresti parlare del tradimento se non con coloro di cui ti fidi?”
“Non
ci sono prove di tradimento. Solo voci e sussurri.”
Gimli
abbatté con forza il pugno sul tavolo, e proruppe, irato, “Voci e sussurri che
tu sono quasi costati la vita, Boromir!”
“Certo,
proprio per questo. Vorresti che io facessi lo stesso a un altro innocente?”
Gandalf
si tolse la pipa dalla bocca e parlò, con voce burbera ma gentile. “Non
giudicheremo nessuno per sentito dire. Conosciamo la differenza tra il sospetto
e la certezza, tra dicerie e realtà. Puoi parlare con noi senza paura.”
Un
silenzio carico d’attesa seguì le sue parole, mentre tutti gli sguardi erano
rivolti a Boromir. L’uomo esitò, ancora incerto, poi si volse verso Aragorn e
disse, bruscamente, “Se le voci sono veritiere, il tradimento viene da coloro
che più amiamo.”
Aragorn
sentì un gelido terrore attanagliargli le viscere. “Continua.”
“Imrahil
ha avvicinato mio fratello e gli ha chiesto di prendere il mio posto come
Sovrintendente di Gondor.”
Pipino
trasalì involontariamente. “No! Il lord Faramir non farebbe mai una cosa del
genere!”
“Sì
che lo farebbe”, mormorò Merry.
Aragorn
lanciò al mezzuomo uno sguardo penetrante, poi si rivolse di nuovo a Boromir.
“Cosa dice Faramir?”
“Non
ha ancora fatto la sua scelta.”
“La
scelta non spetta a lui. Ha forse dimenticato che Gondor ha un re?”
Boromir
scosse il capo. “Non credo che mio fratello andrebbe contro gli ordini del Re.
Imrahil e i suoi alleati non cercano di rimuovermi con la forza, ma di
persuadermi a farmi da parte in favore di Faramir, e Faramir è il loro
portavoce. Se io sono persuaso, sono certi che anche tu lo sarai.”
“Ah.
Comincio a capire.” Aragorn si accigliò, sempre più preoccupato. Se Faramir
stava facendo pressioni a Boromir perché rinunciasse alla sovrintendenza,
Aragorn poteva ben comprendere i nuovi dubbi che lo affliggevano. Per Boromir,
di tutti gli uomini della Terra di Mezzo, solo Aragorn sarebbe stato più difficile
da contraddire di suo fratello. “Per fortuna non cambio le mie decisioni così
facilmente.”
“Non
sottovalutarli, Aragorn. Potrebbero sempre trovare un’argomentazione, o un
portavoce, a cui non potrai controbattere.”
Legolas
si sporse in avanti sullo sgabello, i suoi occhi che brillavano acuti alla luce
del fuoco. “Di che messaggero parli, Boromir? Chi mai potrebbe tradire
Aragorn?”
Boromir
esitò, e il timore di Aragorn si congelò in certezza. Sapeva il nome che
avrebbe udito ancora prima che Boromir lo pronunciasse, ma ciononostante il
colpo fu tremendo. “Halbarad.”
Gli
occhi dell’Elfo si strinsero pericolosamente. “Halbarad…” sibilò.
“Come
lo sai?”, chiese Aragorn, e la sua voce risuonò estranea alle sue orecchie -
aspra e piena di gelida rabbia.
“Non
lo so. Solo la parola di mio fratello mi assicura che Halbarad sia coinvolto.”
rispose Boromir.
“Allora
potrebbe essere un errore. Halbarad potrebbe essere innocente quanto Faramir.”
“Tutti
potrebbero essere innocenti, Aragorn. Non puoi chiamare un uomo traditore solo
perché non è d’accordo con le scelte del suo Re.”
“Ma
puoi chiamarlo traditore quando istiga altri all’omicidio!” ribatté Gimli. “Chi
altri in questo vasto esercito potrebbe spargere paura e discordia meglio di un
Ramingo? Si muovono a piacimento per i vari accampamenti, sono i benvenuti da
sire Aragorn, e ciò che dicono viene creduto dai soldati.”
“Nessuno
oserebbe spargere maldicenze contro il mio Sovrintendente in mio nome!”
proruppe Aragorn.
“Non
ha bisogno di farlo in tuo nome. Non c’è nemmeno bisogno che faccia sapere di
essere un ramingo.
Pensi che sia difficile per Halbarad cambiare il suo mantello, coprirsi il
volto, e scivolare indisturbato tra i ranghi, in mezzo a soldati stanchi e
spaventati, con menzogne mortali sulle sue labbra?”
Boromir
fece per protestare, ma Gandalf lo precedette. “Condanneresti un uomo sulla
base di dicerie, Gimli, figlio di Glòin?”
Fu
Legolas a rispondergli. “Non giudicherò nessuno, e mi ripugna dubitare del
luogotenente di Aragorn, così vicino al nostro re per affetto e parentela. Ma
una cosa vi dirò, e voi ne farete ciò che riterrete più giusto. Non mi sono
sentito a mio agio in compagnia di Halbarad, fin da quando abbiamo lasciato
Minas Tirith. In lui c’è qualcosa che mi preoccupa, e non mi piace il modo in
cui parla di Aragorn. E’ come se il Re di Gondor appartenesse a lui, e
noi fedeli compagni che abbiamo combattuto al suo fianco fin sotto il Cancello
Nero non avessimo parte nella sua vittoria, né diritto al suo affetto o a chiamarlo
amico. C’è un’ombra su di lui, Aragorn. Divento sempre più oscura man mano che
attorno a noi si fa la luce. Non mi fido di lui.”
“Bisognerebbe
sempre seguire il consiglio di un Elfo”, intervenne Gimli, con aria sapiente.
“Grazie
per le tue parole di saggezza, mastro Nano,” disse Gandalf, la sua voce
infinitamente asciutta. Il suo sguardo si posò a turno sui visi turbati e
adirati dei suoi amici, e infine su quello di Aragorn, dove si fermò.
“Bisognerebbe sempre seguire il consiglio di un elfo, quando se ne ha uno a
portata di mano. Ma anche il nostro acuto Legolas non può dirti se Halbarad ti
ha tradito oppure no. Questo dovrai giudicarlo da solo, senza basarti su voci e
dicerie.”
Aragorn
sostenne lo sguardo dello stregone per un lungo momento, cercando invano di
leggere i pensieri di Gandalf e di capire quale fosse la strada migliore. Ma i
suoi occhi, pur se pieni di comprensione, erano imperscrutabili come sempre,
nel viso vecchio e barbuto. Con un sospiro, Aragorn rivolse lo sguardo verso il
fuoco.
Rabbia,
dolore, risentimento gli lottavano in petto. Il messaggio di Boromir non lo
aveva sorpreso, ma non per questo il colpo non era stato più facile da
accettare. Come Legolas, Aragorn aveva intuito che qualcosa nel suo
luogotenente era cambiato. Ma a differenza dell'elfo, Aragorn se ne era accorto
fin dall’arrivo dei Dùnedain a Edoras. Da quando aveva raccontato a Halbarad le
sofferenze che aveva patito nei sotterranei di Isengard. Da quando egli stesso
aveva innescato il processo, spendendo parole di lode per un uomo che Halbarad
aveva sempre disprezzato per i suoi natali, e che ora temeva come un rivale.
Aragorn
provò una familiare fitta al cuore, mentre meditava sul difficile compito di
essere re. Ancora una volta, la sua missione per liberare la Terra di Mezzo e
rivendicare il suo trono avevano portato in pericolo mortale coloro che amava.
Non poteva abbandonare la sua missione, né rinunciare a ciò che gli spettava
per nascita, ma non poteva nemmeno ignorare il fatto che Halbarad, come Boromir
prima di lui, stava soffrendo a causa della sua devozione verso l’erede di
Isildur. Se fosse rimasto Grampasso, Ramingo del Nord, se avesse lasciato
Gondor nelle abili mani del suo Sovrintendente, forse avrebbe risparmiato ai
due uomini tutta quella sofferenza.
Scuotendo
il capo per bandire quegli inutili pensieri, Aragorn alzò lo sguardo e vide che
Pipino lo stava fissando. Pipino si fidava di lui, del suo amico Grampasso, per
risolvere quel brutto pasticcio, senza che nessuno di quelli che amava ne soffrisse.
Pipino credeva ancora in lui, e la fiducia dello hobbit non poteva essere
delusa.
Aragorn
decise immediatamente. “Sapremo la verità da Imrahil. È stato lui a parlare con
Faramir, e saprà sicuramente chi è coinvolto. Pipino, vai alla mia tenda e…”
Si
interruppe sorpreso, quando una figura grigiovestita comparve improvvisamente
nel cerchio di luce proiettato dal falò. Nessuno, a parte Legolas, aveva
sentito i passi del Ramingo sul terreno morbido, e il suo arrivo ebbe l’effetto
di una magia, e anche Aragorn ne fu sconcertato.
Il
Ramingo salutò il suo Capitano con un cenno informale e disse, “Duinhir di
Morthond desidera parlare con te, mio signore. Gli ho detto che stavi riposando
e che non volevi essere disturbato, ma ha insistito.”
“Fallo
venire”, rispose prontamente Aragorn, “E manda a dire al Principe Imrahil che
ho bisogno di lui.”
L’uomo
annuì e scomparve nella notte silenziosamente come era venuto. Aragorn si alzò
e girò attorno al fuoco per salutare il Signore di Morthond con la dovuta
cortesia. Contrariamente al silenzioso Ramingo, Duinhir annunciò il suo arrivo
con il tintinnio di cotte di maglia e il calpestio di stivali, e Aragorn non fu
sorpreso di vedere che era accompagnato da una mezza dozzina di uomini. Il
vecchio signore avanzò nel cerchio di luce, alto e orgoglioso, con la mano sul
pomo della spada e il cervo simbolo di Morthond ricamato sul petto, ma c’era
qualcosa di simile alla paura nei suoi occhi. Si fermò lontano da Aragorn e si
inchinò rigidamente.
“Mio
signore. Chiedo perdono per la mia intrusione, ma si tratta di qualcosa che non
poteva aspettare fino al mattino.”
“Non
c'è bisogno di scusarsi, lord Duinhir.” Gli occhi di Aragorn ispezionarono la
scorta dietro di lui, e le parole di benvenuto gli morirono in gola. “Come
posso servirti?”, chiese semplicemente.
“Sono
io che vengo per servire il mio re, e spero, così facendo, di riabilitare il
nome di Morthond.” Con un gesto secco all’uomo dietro di lui, disse, “Mi avevi
affidato un incarico, mio signore. L’ho eseguito.”
La
scorta si aprì, e dai ranghi uscirono due uomini - un soldato e un prigioniero.
Il prigioniero camminava di sua spontanea volontà, obbedendo all’ufficiale che
lo guidava per un braccio, anche se aveva le mani legate, e il suo viso era
tetro e risoluto. Indossava la cotta di maglia e il corpetto in cuoio degli
arcieri di Morthond, con lo stemma del cervo sulla spalla, e si muoveva con la
sicurezza di un veterano. L’ufficiale lo fece cadere in ginocchio davanti ad
Aragorn.
“Quest’uomo
è il sicario che era fuggito, sire Gemma Elfica”, ringhiò selvaggiamente
Duinhir. Fece un cenno a un altro uomo che gli porse una spada sguainata.
Porgendo a sua volta la spada ad Aragorn disse, “Lo consegno alla tua
giustizia, e ti chiedo di guardare a Morthond come a un tuo fedele alleato, in
questa e in tutte le cose.”
Aragorn
accettò la spada, senza distogliere lo sguardo dall’uomo inginocchiato. “Come
lo avete trovato?” chiese a Duinhir.
“Si
è costituito e ha ammesso la sua colpa.” Un mormorio di sorpresa corse
attraverso la Compagnia.
“Non
c’è alcun dubbio che sia stato lui a progettare e a mettere in atto
l’aggressione al Sovrintendente. I dettagli che mi ha dato sul luogo, l’ora e
gli eventi coincidono con ciò che hai detto tu.”
“Voglio
sentirlo da lui”, disse Aragorn.
Un
movimento alle sue spalle catturò la sua attenzione, e Aragorn si voltò,
vedendo Legolas che gli porgeva la sedia. Lo ringraziò con un cenno e si
sedette, assumendo inconsciamente una posa regale e minacciosa, tenendo la
spada del prigioniero di traverso sulle ginocchia. Il resto della Compagnia si
sistemò alle sue spalle e ai lati, come un pubblico formale. Boromir stava in
piedi alla sua destra, con Merry al suo fianco, e Aragorn non poté trattenersi
dal guardare per un istante il suo viso, cercando di cogliere la sua reazione.
Il Sovrintendente aveva un aspetto impassibile che anche Aragorn si augurava di
avere.
Rivolgendo
uno sguardo gelido all’uomo inginocchiato, Aragorn domandò, “Chi sei?”
“Elenard
di Morthond, mio signore.”
“Elenard
di Morthond, è vero che hai tentato di assassinare il Sovrintendente di
Gondor?”
“È
vero.” Elenard spostò lo sguardo su Boromir, e sembrò intuire che il cieco
voleva udire un altro poco la sua voce. Obbediente, continuò. “La notte prima
che marciassimo, io e il mio compagno abbiamo trovato il Sovrintendente in un
giardino, nella parte alta della città. Era solo - indifeso, pensavamo - una
facile preda. Abbiamo tentato, e abbiamo fallito. Quella piccola creatura,” e
indicò verso Merry, “ce lo ha impedito.”
Prima
che chiunque altro potesse parlare, Merry balzò in avanti abbandonando il suo
posto accanto a Boromir, col viso furente e gli occhi che lampeggiavano di
rabbia.
“Codardo!
Io ti conosco! Tu sei il vigliacco che non ha voluto combattere contro di me!
Beh, ora ho una vera spada, e ti insegnerò io cosa accade a chi vuole uccidere
i miei amici! Slegalo, Aragorn, e dagli la sua arma…”
“Pace,
Merry.” Il pacato ordine di Aragorn calmò lo sfogo di rabbia dello hobbit, e lo
fece tornare al suo posto, ma il fuoco della vendetta bruciava ancora negli
occhi di Merry.
“Boromir?
È lui?”
“Sì.”
“Allora
non ci sono dubbi. Sei un vile traditore, Elenard, e hai disonorato il nome del
tuo popolo.”
Elenard
chinò il capo e attese in silenzio.
“Pagherai
con la vita. Non c’è perdono per il tuo crimine, e non ti posso promettere
alcuna pietà. Ma se vuoi morire con una qualche parvenza di onore, o chiedere
perdono per il male che hai commesso, ti concedo di farlo.”
“Non
cerco pietà,” ringhiò Elenard, e per la prima volta, Aragorn udì una nota di
sfida nella sua voce, “ma nemmeno tu puoi privarmi del mio onore. Io sono
fedele al mio signore e alla Corona di Gondor! Non sono un traditore!”
“E
chi governa Gondor in assenza del re?” domandò Aragorn, sentendo la rabbia in
lui crescere pericolosamente. “A chi devi la tua fedeltà, se non a lui? Non
puoi alzare la tua spada contro il Sovrintendente di Gondor e dire che sei
fedele alla Corona di Gondor! Per quello che hai fatto, ti ucciderei volentieri
con le mie mani, e se non fossi un re con dei doveri verso il mio popolo che
chiede giustizia, anche per quelli come te, tu non usciresti vivo da questo
luogo!”
Le
sue parole infuriate risuonarono nel silenzio, e nessuno attorno a lui osò
romperlo, tanto era il peso della sua ira che aleggiava nell’aria. Elenard
continuava a tenere gli occhi bassi e le spalle incurvate, ogni traccia di
sfida scomparsa dal suo contegno. Gli uomini di Duinhir si agitarono
nervosamente, mentre con lo sguardo cercavano la sicurezza della notte oltre il
falò, ritirandosi dai visi immobili e spietati dei compagni del Re.
Aragorn
abbassò lo sguardo sull’uomo prostrato, e si ricordò che questi non era che un
mezzo, una pedina nelle mani del Nemico. Si era consegnato spontaneamente al
suo signore, sapendo che gli sarebbe costato la vita, piuttosto che fuggire
ricoprendosi di infamia, e Aragorn doveva trattarlo con giustizia. Giustizia,
non vendetta. Il dovere prima di tutto.
“Chi
ti ha spinto a fare questo?” chiese, di nuovo calmo e controllato.
Elenard
esitò per un solo momento. “Hirluin, anch’egli di Valle Cepponero.”
“È
l’uomo che teniamo prigioniero a Minas Tirith,” disse Boromir.
Aragorn
annuì, ma non distolse lo sguardo da Elenard. “Ci sono altri?”
“No,
mio signore.”
“Nessuno
vi ha aiutato a progettare il vostro atto o a coprire la vostra fuga?”
“No.”
“Molto
bene, per il momento questa risposta mi basta. Ora, Elenard, ti concedo di
giustificare le tue azioni.”
“Cosa
dovrei dire?” chiese il soldato.
“Dimmi
perché hai tentato di uccidere il mio amico.”
La
minaccia nella voce di Aragorn fece trasalire Elenard, ma l’uomo mantenne il
suo contegno, e rispose con decisione. “Ho fatto ciò che ritenevo giusto per
scacciare il Nemico dalla città e per dare all’esercito una speranza di
vittoria.” Esitò, poi aggiunse, bruscamente, “E per vendicare i miei giovani
signori.”
“I
tuoi signori?” Aragorn guardò Duinhir e vide un’espressione addolorata e
sconvolta sul suo viso. L’anziano signore si voltò per nascondere il suo
turbamento.
“I
figli di Duinhir sono morti innanzi ai cancelli di Minas Tirith, quando il
Sovrintendente-Ombra cavalcava tra noi”, ruggì Elenard.
“Boromir
ha forse ucciso i tuoi signori?”
“Sono
stati gli orchi di Mordor a ucciderli, ma è stata la sua presenza sul campo di
battaglia che ha segnato la loro condanna! Non sarebbero morti, se lui se ne
fosse restato entro le mura della città, con la spada nel fodero e il suo
sventurato volto nascosto, come si addice a un relitto inutile di soldato!”
Un
mormorio di rabbia si alzò dagli astanti, ma Elenard li ignorò. Per la prima
volta, si rivolse direttamente a Boromir, e ad Aragorn parve che i due uomini
fossero soli, intenti a una battaglia di volontà che non riguardava nessun
altro. “Come hai potuto, tu, veterano di tante guerre, portare su di noi una
tale disgrazia? Come hai potuto gettare la tua oscurità su di noi in un momento
come questo?”
“Che
cosa avresti fatto al mio posto?” domandò Boromir. “Avresti lasciato la tua
spada nel fodero e nascosto il tuo viso, mentre un esercito di orchi si
riversava attraverso i cancelli della città? Io non temo alcuna maledizione,
Elenard. Non ho colpa per la morte dei tuoi signori. Ma se invece avessi
lasciato che la Città Bianca cadesse nelle mani del nemico senza alzare un dito
per proteggerla, allora sì che sarei stato una disgrazia per il mio popolo!”
“Certo,
hai scacciato gli orchi dai cancelli. Ma i segni? I presagi?”
“Quali
presagi? Sauron è caduto, Minas Tirith è libera, e io vivo. Che segno è
questo?”
“È
stato il Re a sconfiggere l’Innominabile. Il sire Gemma Elfica, uscito dalla
leggenda per salvarci dall’Ombra. Non tu, figlio di Denethor.”
Boromir
scosse le spalle. “È vero. Ma non ho nemmeno gettato Gondor nell’oscurità, né
causato la sconfitta dell’esercito dell’Ovest cavalcando con loro. Se davvero
fossi una maledizione non sarei certo un granché.”
La
risposta di Elenard andò persa nell’agitazione dovuta all’arrivo di Imrahil. Il
Principe si avvicinò al fuoco, seguito dalla sua scorta, un Ramingo solitario
che si muoveva senza rumore accanto a lui. Quando i due uomini entrarono nel
cerchio di luce, Aragorn vide che il Ramingo era Halbarad. Il Re lo osservò con
sospetto, incerto se essere lieto o irritato che il suo luogotenente avesse
deciso da sé di unirsi alla riunione, ma non fece alcun commento.
Imrahil
si fermò a qualche passo da Aragorn e dal prigioniero inginocchiato, e il suo
sguardo stupito vagò sui membri del gruppo. “Mi hai mandato a chiamare, mio
signore?”
“Sì.
Grazie per essere venuto così in fretta.”
Imrahil
annuì, e corrugò la fronte quando guardò il prigioniero. “Questo chi è?”
“Il
sicario scomparso.” Imrahil si accigliò ancora di più, e fece un passo avanti.
Stava per parlare, ma Aragorn lo fermò con un gesto della mano.
“Chiedo
la tua pazienza, Imrahil. Quando avrò finito con quest’uomo, ti dirò perché ti
ho mandato a chiamare.”
Imrahil
obbedì, ritirandosi accanto ad Halbarad. Aragorn notò il modo in cui i due si
avvicinarono, in quell’atmosfera carica di tensione. Rivolgendosi a Elenard,
disse, “È chiaro che sei stato solo uno strumento nelle mani di una mente più
subdola e scaltra, e provo pietà per te.”
“Tutti
nell’esercito sanno che la venuta del Sovrintendente-Ombra porterà sconfitta e
oscurità! Chiedetelo a qualunque soldato, attorno a qualunque falò, e vi dirà
la stessa cosa!”
“Lo
so, perché tutti avete prestato ascolto alle stesse maldicenze. Ora ascolta me,
Elenard di Morthond. Non sono forse io il sire Gemma Elfica, uscito dalla
leggenda per salvarvi dall’Ombra?”
“Sì…”
“Allora
prestami ascolto e credi a ciò che dico. Non esiste una tale credenza, non c’è
nessun presagio di sventura. Questa superstizione è stata diffusa tra voi per
alimentare la vostra paura e indebolire la vostra ragione. È una menzogna,
Elenard. Nulla di più. Poiché tu l’hai creduta, hai perduto il tuo onore,
infangato il tuo nome, e ti sei condannato a una fine da traditore.”
Elenard
si inumidì le labbra nervosamente, e lanciò a Boromir uno sguardo furtivo.
“Forse…forse ho dubitato…dopo la nostra vittoria davanti al Cancello Nero.”
“Per
questo ti sei consegnato al Lord Duinhir?”
L’uomo
esitò, poi fece un cenno col capo che passò per un assenso.
Aragorn
si sporse in avanti sul suo scranno. “Guardami.” Riluttante, Elenard sollevò lo
sguardo per incontrare quello del re, e Aragorn lo fissò intensamente negli
occhi, cercando qualche traccia di falsità o di inganno. “Chi ti ha messo in
testa questa menzogna?” domandò a bassa voce.
Elenard
scosse la testa. “Nessuno. Non lo so!”
“Non
sperare di ingannarmi, Elenard. Dimmi chi ha versato questo veleno nelle tue
orecchie.”
“L’ho
sentito dire in tutto l’accampamento. Dalla notte dopo la battaglia, quando si
diffuse la storia della morte dei giovani signori, e dell’incursione del
Sovrintendente fuori dai cancelli… era sulla bocca di ogni soldato!”
Aragorn
continuò a fissarlo ancora per un momento, poi si sedette di nuovo all’indietro
con un sospiro. Osservò il prigioniero pensierosamente, poi posò lo sguardo sui
visi pallidi e tesi che lo circondavano. Duinhir e i suoi uomini sembravano i
più scossi.
“Solo
un’altra domanda. Hai visto estranei nel tuo accampamento quella notte, o prima
che partissimo da Minas Tirith?”
“Certo.”
Elenard lo guardò confuso. “Molti. Eravamo in mezzo a tanti soldati. Uomini di
Anfalas, dell’Ethir, di Lamedon…tutti si muovevano liberamente tra le tende e
parlavano con gli amici.”
“E
c’era qualcuno le cui insegne non conoscevi? O la cui presenza era sospetta?”
“Non
che io ricordi, mio signore.”
“Molto
bene.” Alzandosi dal suo scranno, Aragorn porse la spada di Elenard a Pipino, e
fece il giro attorno al fuoco. Si avvicinò a Duinhir tendendogli la mano. Il
signore di Morthond rispose alla sua stretta con gratitudine. “Mi hai reso un
grande servizio, Duinhir, e ti ringrazio. Ma ho un ulteriore compito da
affidarti.”
“Sarò
lieto di servirti come potrò.”
“Parla
ai tuoi uomini. Trova chi è stato il primo a diffondere la diceria del
Sovrintendente-Ombra, risali alle origini. Chiedi ai signori delle terre
vicine, a quelli che sono accampati attorno a voi, e i cui uomini vagano
liberamente per il vostro accampamento. Non credo che questo vile tradimento
venga da voi, ma è venuto alla luce tra i vostri uomini, e perciò è tra loro
che dobbiamo cominciare a cercare.”
“Farò
tutto ciò che è in mio potere per trovare i traditori, mio signore.”
“So
che lo farai. E ora, ritornate alle vostre tende con i miei ringraziamenti, e
lasciate a me questo disgraziato.”
Duinhir
si inchinò e si voltò per andarsene, con i suoi uomini dietro si lui. Non
appena i loro passi furono svaniti nell’oscurità della notte, la tensione
accanto al fuoco si allentò visibilmente. Legolas e Gimli affiancarono il
prigioniero, posando le mani sulle loro armi con un’aria di calma vigilanza.
Pipino posò con cautela la spada di Elenard sull’erba, poi prese il suo boccale
di vino e si sedette su una sedia vuota per osservare comodamente gli altri.
Anche Gandalf si sedette, ma non trascurò il compito che li aspettava oltre il
tempo necessario per accendersi la pipa.
Boromir
si sarebbe volentieri ritirato in un posto tranquillo lontano dal falò, ad
aspettare, ma Imrahil lo prevenne, posandogli una mano sul braccio e chiedendo,
“E' vero, Boromir? Hanno preso l’assassino e svelato la cospirazione?”
“Sì.”
“Abbiamo
trovato soltanto l’arma, non il traditore”, disse Aragorn, più aspramente di
quanto avesse voluto.
Imrahil
si voltò rapidamente verso di lui. “Che cosa vuoi dire, mio signore?”
Aragorn
ignorò la sua domanda. Ritornando presso il fuoco, si avvicinò al prigioniero,
e per la prima volta, non c’era rabbia nei suoi occhi mentre guardava l’uomo
legato.
“È
il Principe di Dol Amroth, mio signore. Abbiamo combattuto molte volte sotto lo
stendardo del Cigno.”
L’arciere
chinò la testa in un piccolo inchino a Imrahil. “Mio signore, principe.”
Imrahil
si accigliò , senza rispondere al saluto.
“Hai
mai parlato con lui?”
“No,
signore.”
“Lo
hai mai visto parlare con qualcuno dei tuoi compagni nell’accampamento di
Morthond?”
“No,
signore. Prima di stanotte non lo avevo mai visto che sul campo di battaglia, e
anche lì solo da lontano.”
“Che
follia è mai questa?” domandò il principe.
“Pazienza,
Imrahil. Ho quasi finito.” Spostò lo sguardo dal Principe al Ramingo
silenzioso, che si era tenuto un po’ in disparte, al limite del cerchio di
luce.
“Vieni
avanti, Halbarad.”
Halbarad
si mosse come un’ombra sull’erba, avvicinandosi fino a essere accanto a
Aragorn. Il suo viso era tranquillo e impassibile, i suoi occhi non tradivano
altro che curiosità mentre osservavano Elenard.
“Conosci
quest’uomo?” Chiese Aragorn al prigioniero.
“Certo,
è uno dei vostri Raminghi, mio signore.”
“Lo
hai mai visto nel tuo accampamento?”
“Molte
volte.”
“Davvero?
Quando?”
“Durante
la marcia sulla Terra Nera. I Raminghi vagavano per il nostro accampamento -
cercandomi, così pensavo - e lui è venuto spesso.”
“E
prima di lasciare Minas Tirith?”
“Elenard
osservò attentamente il viso immobile, poi scosse le spalle. “Forse. Non
ricordo.”
Halbarad
non ebbe alcuna reazione, ma Imrahil stava perdendo la calma. Con le guance in
fiamme, spalancò gli occhi e disse, “Dobbiamo ora essere esaminati da un
traditore? Te lo chiedo di nuovo, mio Re, cosa significa tutto ciò?!”
“È
bene che tu ricordi chi sono!” ribatté Aragorn, sfogando un po’ della sua
rabbia. “Stai attento alle condanne che lanci, Principe Imrahil, perché
potrebbero ricadere sul tuo capo! Elenard, tu andrai con questo Elfo e questo
Nano, che ti condurranno dai tuoi carcerieri. Rimarrai sotto stretta
sorveglianza fino a che non raggiungeremo Minas Tirith, e là deciderò il tuo
destino. Non parlerai a nessuno senza il mio permesso, e non tenterai di
fuggire, o sarai ucciso senza pietà. Mi capisci?”
“Sì,
mio signore.”
“Bene.
Legolas, Gimli, portatelo da Éomer. Credo che con gli uomini di Rohan sarà al
sicuro e ben sorvegliato.”
Gimli
proruppe in una breve risata. “Non se Éomer sa di chi si tratta!”
“Voi
direte a Éomer da parte mia che voglio che mi consegni il prigioniero nella
Torre di Guardia, illeso. E ditegli che affido a lui questo compito perché mi
fido di lui completamente. Fallo alzare, Legolas.”
Legolas
prese Elenard per un braccio e lo fece alzare con facilità. L’uomo si inchinò
ad Aragorn, e, dopo un momento di esitazione, anche a Boromir e a Imrahil.
L’Elfo e il Nano lo afferrarono per le braccia e lo condussero lontano dal
fuoco, e Gimli andandosene lanciò un ultimo sguardo minaccioso a Halbarad.
Aragorn
distolse lo sguardo dalle figure che si allontanavano, e vide che Boromir era
rimasto in piedi accanto a lui. Lo sguardo del Re si posò sul viso del
Sovrintendente per un momento, vedendovi tensione e stanchezza, e Aragorn
improvvisamente desiderò di potergli risparmiare ulteriori amarezze, almeno per
quella notte. Vedendo il dolore scolpito in quel viso familiare, capì quanto
profondamente Boromir soffrisse nell’essere la causa di tanta agitazione, e
l’oggetto di tanto disprezzo.
“Non
c’è bisogno che tu resti, Boromir,” disse Aragorn. “Tu e Merry venite da un
lungo viaggio e dovreste riposare.”
Boromir
sorrise senza allegria, facendo apparire il suo viso ancora più teso. “Vorrei
sentire quello che ha da dire il mio consanguineo.” Tese una mano a Merry, che
non era mai più lontano di un passo o due da lui, e il mezzuomo si avvicinò
prontamente. “Sei stanco, Merry? Forse tu e Pipino volete stare un po’
insieme.”
“No.”
Merry mise la sua piccola mano nella grande mano di Boromir. “Anch’io voglio
sentire.”
“Lo
vogliamo tutti,” intervenne Gandalf, bruscamente. “Hai molto da spiegare, Dol
Amroth.”
Imrahil
osservò un viso dopo l’altro, trovando solo sguardi implacabili e visi
contratti, senza comprensione. Il suo viso era innaturalmente pallido, perché
l’indignazione aveva lasciato il posto alla consapevolezza. “Hai parlato con
Faramir”, disse infine, con voce piena di dolore.
“Mi ha
detto della tua cospirazione”, rispose Boromir.
Imrahil
raddrizzò il capo orgogliosamente, irrigidendosi. “Cospirazione? È una parola
dura per una leale alleanza tra uomini per una giusta causa”.
“Chiamala
come vuoi, il fine è il medesimo. Stai cercando si privarmi del mio diritto di
nascita per darlo a mio fratello, andando contro le leggi di successione e il
volere del tuo Re.”
“Non
farò nulla contro il volere del mio Re, ma come suo leale vassallo è mio
diritto e dovere esprimere le mie preoccupazioni a questo riguardo. Se le mie
parole non contano per lui, allora sia. Mi inchinerò al suo volere, in questa
come nelle altre cose. Ma non resterò fermo a guardare senza consigliare la sua
scelta su un argomento così importante come il futuro di Gondor!”
Aragorn
fissava il Principe con uno sguardo fermo e neutrale che sapeva essere
irritante quanto uno scoppio d'ira. “Un bel discorso, Imrahil, ma non risponde
alla domanda riguardo al tradimento.”
“Quale
tradimento?” Aragorn poteva vedere lo stupore oltre il suo orgoglio ferito.
“Che
cosa ho fatto, se non parlare con un mio consanguineo a proposito del bene di
suo fratello?”
“Non
lo so. Che altro hai fatto?”
Imrahil
si agitò, a disagio, ma sostenne lo sguardo di Aragorn senza tirarsi indietro.
“Se hai parlato con Faramir, sapete tutto il mio ruolo in questa storia.”
“Te
lo chiederò apertamente, Principe Imrahil, ed esigo una risposta diretta. Sei
stato tu a diffondere dicerie tra gli eserciti del Sud per incitare gli uomini
a fare del male a Boromir?”
Gli
occhi di Imrahil si spalancarono per lo sconforto. “Non sono stato io”.
“Hai
parlato con qualcuno che ha suggerito una tale azione, o che si vantava di
averlo fatto?”
“No!
Santo cielo, Aragorn, per chi mi hai preso?! Boromir è mio consanguineo! Pensi
che avrei alzato la mano contro di lui, o che avrei permesso a un altro di
farlo?”
“Volevi
privarlo della sua primogenitura.”
“Per
proteggerlo! Per risparmiargli gli orrori sofferti da suo padre!” Rivolgendosi
a Boromir, tese una mano e disse, quasi implorando, “Sai che non avrei mai
fatto una cosa del genere, Boromir! Non puoi crederlo!”
“Non
voglio crederlo,” rispose Boromir, la voce bassa e carica di emozione, “Ma
nulla è stato come io volevo, da quando sono tornato. Sono tornato a casa per
porre la mia spada e la mia vita al servizio di Gondor, come un suo figlio
devoto, solo per scoprire che essa non mi riconosce più.”
Il viso
di Imrahil si fece pallido, e la sua bocca si contrasse. Restò a bocca aperta.
“Ve lo giuro, a entrambi, sul mio onore. Non ho commesso una tale viltà.”
Aragorn
continuò a fissarlo per un momento, esaminando la sincerità dei suoi occhi, poi
annuì brevemente. “Ascolterò le tue preoccupazioni riguardo il mio
Sovrintendente quando terrò Consiglio a Minas Tirith. Fino ad allora, mi
aspetto che tu lo appoggi in tutto e per tutto con onore. Ricorda, mio lord
Principe, che la Corona di Eärnur non è ancora sul
mio capo. Non sono ancora il vostro Re. È a Boromir, Sovrintendente di Gondor,
che devi la tua fedeltà.”
“Non l’ho dimenticato.”
“Molto bene.”
“Posso congedarmi, ora, sire Aragorn?”
“Dimmi solo un’altra cosa. Chi altri fa parte di questa…
alleanza?” Aragorn vide che Imrahil esitava, e lesse il sospetto sul suo viso.
“Ti riterrò innocente dall’accusa di tradimento, Imrahil, così come chiunque
sia con te e agisca in buona fede. Ma qualcuno ha tentato di fare del male a
una persona a cui tengo come a me stesso. Non posso permettere che resti
impunito.”
“Avete il vostro sicario.”
“Sai bene quanto me che Elenard è stato semplicemente
lo strumento di qualcuno di più scaltro. Forse troverò il colpevole tra i tuoi
alleati. Forse no. Ma devo pur cominciare da qualche parte.”
Imrahil considerò le sue parole per un altro momento, poi
finalmente annuì. Diede ad Aragorn molti nomi, rappresentanti di molti nobili
casate di Gondor, e un buon numero di alleati più distanti, compresi Lord
Taleris e Faramir. Quando ebbe finito, lanciò uno sguardo penetrante a Halbarad
e disse, “È stato il tuo luogotenente a venirmi a cercare per convincermi a
parlarne con Faramir.”
“Halbarad?”
“Sì.”
Aragorn non ebbe il coraggio di guardare il ramingo mentre
parlava. Temeva che la sua forza non sarebbe stata sufficiente, e non voleva
perdere la calma di fronte a Imrahil. Tenendo lo sguardo fisso sul principe,
disse, “Grazie per il tuo aiuto.”
Imrahil si inchinò con rigidezza. “Spero che troverete il
colpevole di questo crimine.” Rivolgendosi a Boromir aggiunse, “E spero che tu
capisca la ragione per cui faccio questo, Boromir. Come te, voglio solo
proteggere il mio paese.”
“Non ne discuteremo ora,” rispose Boromir, calmo.
“No, non ora. Vi auguro una buona notte.” Con un altro rigido
inchino rivolto a tutti i membri della Compagnia, si voltò e si allontanò con
fierezza verso l’oscurità oltre il fuoco.
Ancora prima che il Principe fosse fuori portata della sua
voce, Gandalf si alzò in piedi. Sorridendo a Pipino, con il suo solito luccichio
divertito negli occhi, disse, “Vieni, Mastro Took. Andiamo a cercare una panca
dove riposare le nostre stanche membra mentre fumiamo la pipa insieme.”
Pipino scese dalla sedia e mise le mani in tasca. “Ho
lasciato il sacchetto nella tenda.”
“Allora andremo a prenderlo, se hai qualche buona foglia di
Pianilungone da dividere con un vecchio amico.” Lo stregone condusse lo hobbit
verso il limite dello spiazzo illuminato dal fuoco, e mentre passava lanciò ad
Aragorn uno sguardo grave e carico di comprensione. “Merry? Boromir? Volete
unirvi a noi?”
Boromir arruffò i capelli di Merry in un inconsapevole gesto
di affetto, e disse, “Io andrò all’accampamento di Rohan. Credo che Èomer abbia
un posto tranquillo dove farmi dormire, e ho intenzione di passare la notte con
i Rohirrim. E tu Merry?”
“Io verrò con te”, disse Merry. “Il Re mi ha offerto un
posto alla sua tavola e un letto nella sua tenda, se li desidero.”
“Allora andiamo, mastro scudiero.”
Congedandosi a bassa voce da Aragorn, i quattro compagni si
allontanarono rapidamente. Aragorn ne fu grato ma allo stesso tempo
dispiaciuto. Non voleva che assistessero a quello che stava per accadere, ma
avrebbe voluto avere la loro presenza accanto per sostenerlo. Tenne lo sguardo
fisso verso le ombre notturne che li avevano inghiottiti, mentre cercava di
dominare le sue emozioni contrastanti, e di trovare le parole per rivolgersi al
suo consanguineo.
Dietro di lui, Halbarad si mosse, e parlò, con voce calma.
“Devo occuparmi del cambio delle sentinelle.”
“No, non andare!” Aragorn si voltò all’improvviso e vide che
Halbarad non si era mosso. I suoi occhi incontrarono quelli di Aragorn, fieri e
solenni, e sebbene la sua mano fosse posata sull’elsa della spada, non c’era
minaccia nel gesto. Era la posizione di attesa che usava sempre quando
ascoltava gli ordini del suo capitano. Aragorn ricambiò il suo sguardo, senza
cercare di nascondere il suo turbamento.
ra Halbarad, che ora stava in piedi di fronte a lui. Quello era un
uomo che conosceva quanto se stesso - un uomo che aveva combattuto e sofferto
accanto a lui durante i lunghi anni di esilio, che lo aveva aiutato nei momenti
più oscuri della sua vita e non aveva mai vacillato nella sua lealtà. Erano
dello stesso sangue. Condividevano un comune destino e un affetto non comune.
Quando un’ombra cadeva su di uno, anche l’altro la sentiva. E ora, quando
avrebbero dovuto rallegrarsi per quel legame d’affetto, ne erano invece feriti.
Era una tortura per Aragorn pensare che il suo consanguineo
potesse averlo tradito. E che la motivazione di Halbarad fosse stato il suo
amore per il suo re lo rendeva ancora più difficile da sopportare. Era vero che
il Ramingo non aveva ancora fatto nulla per meritare il nome di traditore, per
quanto ne sapeva Aragorn, ma il suo ruolo nella coalizione contro Boromir
dimostrava che era capace di una gelosia e di un rancore che Aragorn trovava
terribili. Anche se Halbarad si fosse dimostrato innocente da ogni torto,
Aragorn non sarebbe più stato capace di guardarlo con la stessa fiducia e lo
stesso amore incondizionato di prima.
Halbarad doveva aver capito il conflitto che lo tormentava,
e certo sapeva come anticipare i suoi pensieri. Un piccolo sorriso apparve sul
suo viso, disturbandone la solennità, senza però raggiungere i suoi occhi
gelidi.
“Vuoi interrogare anche me? Dove mi trovavo in quel momento?
Con chi ho parlato?”
“Devo farlo.” La voce di Aragorn suonò inespressiva alle sue
orecchie. “Devo sapere da che parte stai, Halbarad.”
“Io sto con te, come sempre. Se lo metti in dubbio, allora
non sei più l’uomo che ho seguito per tutta la Terra di Mezzo.”
“Uno di noi è cambiato. Questo è chiaro.” Improvvisamente,
l’amarezza e il dolore riaffiorarono con violenza, facendo perdere il controllo
ad Aragorn, e spingendolo a fare una difficile domanda. “Come hai potuto
tradirmi così, Halbarad? Perché?”
Il viso di Halbarad si irrigidì in una maschera furiosa, e i
suoi occhi fiammeggiarono. “Hai dimenticato di chi è figlio? Hai dimenticato
gli insulti, il disprezzo, il disdegno che hai sofferto per colpa di suo
padre?”
“Boromir non è suo padre!”
“Ma è stato cresciuto da lui! Allevato e viziato, e
incoraggiato da lui nelle sue vili ambizioni! Come puoi guardarlo in viso senza
vedere l’orgoglio di Denethor? Ricordati di Thorongil, non fidarti del figlio
di Denehtor!”
“Lo ricordo, Halbarad. Ma più di tutto, ricordo l’amarezza
che tu hai provato, quando l’ostilità di Denethor costrinse Thorongil a
lasciare Gondor. Ma te lo dissi allora, e te lo ripeto ora, il tempo non era
maturo per la mia venuta. Era giusto lasciare Minas Tirith al suo legittimo
signore e aspettare il momento per conquistare la corona apertamente, sul campo
di battaglia, sconfiggendo il nostro nemico. Ho seguito il consiglio di Gandalf
e non l’ho mai rimpianto.”
“Certo.” La mano di Halbarad si strinse attorno all’elsa
della spada, mentre cercava di dominare la sua rabbia. “Tu hai sempre
considerato il consiglio di Gandalf più di ogni altra cosa.”
“Mi stai dicendo che non ti fidi di Gandalf?”
“Ti sto ricordando che è stato Gandalf a metterti in guardia
contro Boromir.”
“Ti sbagli.”
“Ti ha detto che Boromir era troppo il figlio di suo padre
per ascoltare i consigli dei saggi. Gandalf non ha forse sempre guardato a
Faramir, per il bene di Gondor? Secondo la sua opinione, Faramir è un uomo
saggio, capace di giudizio e di comprensione, mentre Boromir è un uomo
orgoglioso, ambizioso ed egoista!”
“Gandalf ha cambiato la sua opinione. Ma tu… tu non conosci
Boromir! Non sai quello che ha passato e sofferto per conquistare il suo posto
al mio fianco.”
“So solo che tu hai lasciato che la pietà offuscasse il tuo
giudizio.”
na grande rabbia, cieca e furibonda come quella di Halbarad,
si impadronì di Aragorn. Amarezza, dolore, rimpianto - tutto era scomparso,
divorato da quella rabbia. Ma contrariamente ad Halbarad, Aragorn non perse la
calma. Rimase fermo e immobile, il suo viso freddo e duro come il diamante, e la
sua voce bassa e pericolosa. Solo i suoi occhi tradivano la sua emozione.
Scintillavano feroci alla luce del fuoco, e per un terribile momento, Aragorn
sembrò poter fustigare l’altro uomo solo con la forza del suo sguardo,
strappare carne e vestiti per scoprire la sua anima e leggere la sua
colpevolezza.
“Stai dimenticando te stesso, Halbarad.”
Il Ramingo trasalì impercettibilmente, riconoscendo la
pericolosità che si nascondeva nella sua voce calma, ma non cedette. “Non
dimenticherò mai ciò che devo all’Erede di Isildur. Ti servirò fino alla morte,
che tu lo accetti o no, e combatterò finché avrò forza per proteggerti!”
“Se hai spinto i fedeli vassalli di Gondor alla violenza
contro il loro Sovrintendente, allora sei un traditore. Ma non avrai una fine da
traditore.”
Il dubbio balenò negli occhi di Halbarad. “Che cosa intendi
dire?”
Aragorn si avvicinò di un passo, portando con sé la minaccia
silenziosa della sua rabbia. “Tu non morirai insieme a Elenard e Hirluin. Non
arriverai al patibolo. Se scopro che hai tentato di assassinare Boromir, ti
ucciderò io con le mie stesse mani.”
Halbarad deglutì, e la tensione nell’aria fece sembrare il
rumore penosamente forte. “E se non l’ho fatto?”
“Allora non sei un traditore.” Non aggiunse altro, perché
non sapeva cos’altro poteva offrire. Le parole erano state troppo crude, troppo
amare, e la possibilità del tradimento era troppo reale per ammettere un gesto
più amichevole.
“Crederai alla mia parola? O l’amore per il figlio di
Denethor ti ha avvelenato a tal punto da metterti irrimediabilmente contro di
me?
Aragorn sentì il viso contrarsi, e vide una nuova paura negli
occhi di Halbarad. “Dimmi la verità, e io lo saprò.”
“Non ho spinto Elenard all’omicidio”, disse il Ramingo, con
una nota di ostilità nella sua voce che non riuscì a controllare. “Non ho
parlato a nessuno con quell’intenzione, né desidero la morte del legittimo
governante di Gondor. Tutto ciò che ho fatto e che faccio, è per il tuo bene.
Non voglio altro che tu prenda la Corona e che Gondor sia in pace nelle tue
mani.”
Aragorn osservava il suo viso intensamente mentre parlava, e
capì che Halbarad diceva il vero. Non gli sfuggì l’attenta scelta di parole da
parte del Ramingo, e non poté fare a meno di chiedersi quali altre verità, meno
piacevoli, si celavano dietro quelle accorte frasi, ma non disse nulla. Non
aveva prove che Halbarad gli stesse nascondendo qualcosa, e non aveva alcuna
ragione di dubitare di lui se non i suoi stessi dubbi. Per quella notte, le sue
nude verità, per quanto insoddisfacenti, avrebbero dovuto bastare.
“Cosa ne dici, Aragorn?” domandò Halbarad. “Ti ho detto la
verità?”
“Sì.” Aragorn si ritrasse da lui, improvvisamente troppo
stanco per sostenere ancora il suo sguardo. Le parole successive gli si
bloccarono in gola, ma si sforzò di pronunciarle ugualmente. “Ti ringrazio.”
Halbarad non disse nulla per un lungo momento, e Aragorn si
accorse che il suo buon senso stava lottando contro il suo orgoglio ferito,
oscillando tra uno e l’altro. Alla fine il buon senso ebbe la meglio, e il
Ramingo parlò senza tradire alcuna emozione. “Mi occuperò del cambio delle
sentinelle. E poiché tu ritieni che non sia l’arciere il vero nemico, e che un
traditore sia ancora in libertà tra di noi, rinforzerò la sorveglianza alla tua
tenda.”
“Non è necessario. Io sono al sicuro.”
“Non deve accadere alcun male al nostro Re.” Halbarad eseguì
un breve inchino, al quale Aragorn rispose con un cenno del capo, poi si voltò
e se ne andò rapidamente.
Aragorn si lasciò cadere sulla sedia più vicina, e si prese
il viso tra le mani. Restò così, immobile, per un lunghissimo tempo, cercando
la forza di ritrovare il controllo di se stesso. Infine sollevò la testa.
L’incerta luce del fuoco rivelò un viso calmo e rilassato, la stanchezza nei
suoi occhi l’unica cosa che tradiva il costo di quella pace. Si alzò in piedi,
gettò indietro il mantello, e scomparve nella notte.
*** *** ***
Frodo sedeva alla grande tavolata, tra Sam e Gandalf, con un
banchetto regale davanti a sé. Il re in persona presiedeva al gioioso evento,
anche se il suo seggio non era più maestoso né i suoi abiti più ricchi di
quelli degli altri partecipanti. Guardare il viso di Aragorn era guardare il
più grande tra gli uomini. Più di una volta, Frodo si trovò a fissare la regale
figura vestita di nero e di argento, con il diadema sul capo e la verde gemma
elfica al collo, domandandosi dove fosse andato a finire il suo vecchio amico
Grampasso.
Per tutto quel lungo giorno, a Frodo sembrò di vivere in un sogno.
Attorno a lui si affollavano visi familiari, ma tutti erano pieni di una strana
luce e illuminati da una nuova saggezza, e lo guardavano come se fosse stato un
qualche principe uscito da una leggenda, invece che Frodo Baggins della Contea.
Canzoni risuonavano nell’aria, celebrando le lodi di guerrieri, eroi e re. Il
suo nome era quello che più di tutti usciva dalle labbra del menestrello, ma
Frodo ancora non riusciva ad ascoltare quei canti pensando al suo viaggio
oscuro. Ascoltava le canzoni come avrebbe fatto con quelle degli Elfi,
godendone la bellezza e i racconti di gesta lontane - senza avere l’impressione
di esserne parte.
Accanto a lui, Sam ammirava la scena con gli occhi spalancati per
l’ammirazione, e un sorriso imbarazzato sul viso. Caro Sam. Il solo appiglio
con la realtà che aveva in quel fantastico, scintillante sogno. Quando guardava
Sam, Frodo si sentiva di nuovo integro e sano. Se distoglieva lo sguardo troppo
a lungo, una strana leggerezza si impadroniva di lui, facendolo sentire come la
Fiala di Galadriel, svuotato di tutta la sua sostanza e riempito della chiara
luce delle stelle.
Non era una sensazione spiacevole. Era fatta di felicità, assenza
di dolore, e sollievo da un terribile fardello che aveva portato per così tanto
tempo da non riuscire a ricordare il tempo in cui ne era libero. Ora, almeno,
non esisteva più. E con la sua scomparsa era giunta quella sensazione di
leggerezza, di un vuoto che poteva essere riempito solo con la luce. O col
dolore, se il dolore lo avesse raggiunto di nuovo.
Lì, su quel verde campo, circondato da tutta quella gioia, Frodo
non riusciva a concepire la possibilità di altro dolore. Ma la consapevolezza
che sarebbe arrivato di nuovo non lo abbandonava mai del tutto. Il vuoto
lasciato dalla distruzione dell’Anello era nato dal dolore, creato per esso,
uno spazio che sarebbe stato inevitabilmente riempito di nuovo.
Frodo applaudì il cantastorie, e accettò un’altra porzione di cibo
mentre rimproverava scherzosamente Pipino, che stava accanto ad Aragorn con una
fiasca di vino in mano. Tutto sembrava facile e bello. E Frodo si concesse di
accettarlo così come era, finché durava, senza paure o domande. Era tra amici,
e nessun’ombra oscurava il suo cuore.
I suoi occhi si spostarono verso l’estremità opposta del tavolo,
abbracciando tutta la Compagnia che sedeva vicino a lui. Solo un viso non
sorrideva, e Frodo non poté fare a meno di soffermarsi su quel viso, familiare
eppure cambiato più di ogni altro. Boromir sedeva alla destra di Aragorn, ma
non sembrava essere a suo agio. Non sorrideva, mangiava e beveva pochissimo, e
quando nessuno lo coinvolgeva in una conversazione sembrava ritirarsi in se
stesso come se volesse scomparire.
Sulle prime la presenza di Boromir aveva messo in imbarazzo Frodo.
Non poteva dimenticare il modo in cui si erano separati ad Amon Hen. Frodo
sapeva meglio di chiunque altro ciò che l’Anello poteva fare, piegando la mente
e la volontà di coloro che stavano troppo a lungo in sua presenza o davano
ascolto ai suoi sussurri, e non incolpava Boromir per le sue azioni. Ma non
riusciva a sentirsi a suo agio in compagnia dell’uomo, specialmente ora che non
sapeva che effetto avevano avuto su di lui la distruzione dell’Anello e la
guerra che ne era seguita.
Ma col passare del tempo, osservando Boromir, il suo nervosismo
cessò. Tanto per cominciare, Boromir si teneva il più lontano possibile da lui.
Era rimasto accanto ad Aragorn durante le cerimonie formali della giornata, e
ora sedeva al suo fianco, ma quando era possibile cercava di restare in
disparte, lasciando Frodo libero di divertirsi in pace, senza doversi
preoccupare del suo stato d’animo, e lasciando tempo al mezzuomo di osservarlo.
Più osservava Boromir, più Frodo si rendeva conto che quello non
era lo stesso uomo che lo aveva aggredito ad Amon Hen. Non era solo per la
benda di tessuto nero che gli copriva gli occhi - per la quale sulle prime
Frodo aveva provato orrore, ma che ora lo rattristava immensamente - anche
tutto il suo modo di essere era cambiato. Se Frodo non lo avesse compreso così
bene avrebbe potuto credere che l’Ombra lo tenesse ancora in suo potere, tanto
sembrava scuro e chiuso in se stesso, ma Frodo non si lasciò ingannare. Sapeva
riconoscere il dolore quando lo vedeva. E credeva di conoscere la causa di quel
dolore.
Era seduto a tavola, osservando Boromir con aria pensierosa,
quando Sam si agitò inquieto accanto a lui ed emise una sorta di brontolio.
Frodo si voltò verso di lui, inarcando le sopracciglia con aria interrogativa.
"Qualcosa non va, Sam?"
Sam lanciò uno sguardo cupo verso la fine del tavolo. “Sembra un
grande corvo nero. Se ne sta seduto lì accigliato. Mi fa passare l’appetito”.
"Chi?"
"Padron Boromir. Il Sovrintendente, dovrei dire. Non mi
piace, padron Frodo, e lo dirò anche a Grampasso, se me lo chiede. Cosa che non
farà mai.”
Frodo abbozzò un sorriso. “No, non lo farà, e non credo che tu
debba dirgli niente del genere. Boromir non ha nulla che non va, Sam, non più
di me o di te. Tutti noi abbiamo camminato un po’ troppo a lungo per strade
oscure, e alcuni di noi hanno dimenticato com’è la luce del sole. Ma lo
ricorderemo.” I suoi occhi indugiarono sul viso di Boromir, e ripeté, piano,
“Lo ricorderemo.”
Sam emise un altro brontolio. “Io dico solo che farà meglio a non
avvicinarsi troppo a voi, o dovrà fare i conti con me”.
“Mi dispiace che tu la pensi così, perchè andrò io stesso a
parlare con lui, se si presenta l’occasione”.
“No, padron Frodo, adesso non cercate di creare scompiglio! Padron
Boromir si sta comportando bene, anche se ha l’aria di chi preferirebbe essere
a caccia di orchi. Lasciatelo in pace!”
Frodo non potè trattenersi dal ridere. “É me che stai cercando di
proteggere, o lui?”
“Non ho dimenticato ciò che ha fatto, anche se voi sembrate averlo
fatto”.
“Non l’ho dimenticato”. Frodo sorseggiò il suo vino e gettò un
altro sguardo all’uomo silenzioso. “Ma ora lo capisco meglio”.
Sam commentò con uno sbuffo e ricominciò a mangiare. Frodo rivolse
la sua attenzione a Gandalf e alla storia che stava raccontando a Pipino, e per
un po’ non pensò più a Boromir. Non fu sorpreso quando il Sovrintendente si
alzò per lasciare il tavolo molto presto. Il banchetto non era ancora finito, i
menestrelli stavano ancora cantando le loro storie di imprese valorose, quando
Boromir spostò la sedia e si alzò. Merry apparve immediatamente al suo fianco,
e insieme lasciarono il padiglione.
Frodo non disse nulla, anche se continuò a guardarli finché la
tenda non li nascose alla sua vista. Quando Merry ritornò, solo, Frodo fu
tentato di chiedergli dove fosse andato Boromir, ma dubitava che Merry glielo
avrebbe detto. C’era un legame di affetto tra lo hobbit e l’uomo che Frodo non
riusciva a capire completamente. Veniva prima del dovere di Merry verso il suo
sovrano, Éomer, dal quale si era congedato con appena una parola quando Boromir
aveva avuto bisogno di lui. Merry non avrebbe mai fatto nulla contro la volontà
di Boromir. E chiaramente l’uomo non voleva conversare con Frodo in privato,
quindi Merry non gli avrebbe certo detto dove trovarlo. Avrebbe dovuto andarlo
a cercare da solo, al momento opportuno.
Lentamente, i partecipanti al banchetto lasciarono i loro tavoli
per sedere sull’erba all’aria parta, sotto il cielo dell’Ithilien. Cominciarono
a girare otri e fiasche di vino. I menestrelli ricevettero da bere e
ricominciarono a cantare da capo le loro canzoni. Le parole scorrevano come il
vino, e molte voci si unirono al canto dei menestrelli.
Frodo lasciò che Sam lo conducesse dove era radunato il resto
della Compagnia. Si sedette insieme agli altri hobbit, ascoltando Gandalf,
insolitamente espansivo, che raccontava i giorni gloriosi di Moria, quando
Nanosterro scintillava alla luce di innumerevoli torce e risuonava della musica
di mille martelli. Secondo Gimli lo stregone non rendeva pienamente giustizia
ai suoi antenati, e lo interrompeva di frequente con eloquenti descrizioni,
provocando sommesse risate da parte di Legolas, o qualche risposta acida di
Gandalf riguardo al fatto che lui, che aveva visto le sale di Moria al tempo
del loro splendore, era meglio qualificato per raccontare la storia che non
Gimli figlio di Glóin.
Soltanto quando gli altri furono profondamente rapiti dalla
conversazione, Frodo scivolò via. Non voleva che si preoccupassero, e non
voleva che Sam lo seguisse, guidato da un mal indirizzato desiderio di
proteggerlo. Ma ora Sam stava sonnecchiando sulla sua coppa, con un sorriso
soddisfatto sul volto, e Frodo poté allontanarsi indisturbato.
Non dovette andare troppo lontano per trovare quello che cercava.
Il padiglione del re era a ridosso dell’estremità settentrionale
dell’accampamento, dove la torbiera incontrava i primi gruppi di alberi. Tra
quegli stessi alberi, con la schiena appoggiata a un grande tronco, sedeva
Boromir, immobile, il suo viso sereno come Frodo non lo aveva mai visto.
Frodo si avvicinò all’uomo che sedeva da solo sull’erba, e si
fermò a pochi passi da lui. Aspettò qualche istante, per capire se Boromir si
era accorto della sua presenza, poi si schiarì la voce con discrezione. Boromir
girò la testa di scatto, il suo viso improvvisamente guardingo.
“Posso unirmi a te?” chiese Frodo.
Boromir si irrigidì, e sembrò ritrarsi dalla presenza dello hobbit
come da un fuoco. “Frodo!”
“Voglio parlarti”.
L’uomo si guardò attorno come per cercare un aiuto che non sarebbe
arrivato, poi scosse le spalle e tentò di sorridere, goffamente. “Stanno
cantando le tue gesta. Non preferisci restare con gli altri ad ascoltare?”
“No”. Frodo si sedette a gambe incrociate accanto a lui, senza
attendere il suo permesso. Per un lungo momento nessuno disse nulla, mentre
echi della canzone dal menestrello giungevano a tratti fino a loro. Poi Frodo
parlò, a bassa voce. “Mi stai evitando”.
“Credo sia meglio così”. L’uomo esitò, poi aggiunse, in tono di
scherzo, “Il tuo fedele Sam non ti ha messo in guardia contro di me?”
“Certo. Ma Sam... Sam non può capire veramente.”
Boromir sembrò guardarlo in modo così penetrante che Frodo
dimenticò per un attimo la benda che gli copriva gli occhi e i lunghi mesi di
oscurità che erano trascorsi dal loro ultimo incontro. “Capire cosa?”
“Che ormai è troppo tardi per proteggermi.” Un mesto sorriso
incurvò le labbra di Frodo, colorando anche la sua voce. “Il danno è già stato
fatto.”
La luce fiera abbandonò il viso di Boromir, che sembrò ritirarsi
in se stesso. In un attimo era di nuovo la figura tormentata che Frodo aveva
osservato durante il giorno, avvolto nel dolore nel rimorso, curvo sotto il
peso della sua sofferenza. “Sì, il danno è già stato fatto e non può essere
cancellato. Ecco perché ho tentato di evitarti”. Voltò la testa per sottrarsi
allo sguardo di Frodo. “Questo è il tuo momento, Frodo. Il tuo trionfo. Dovresti
essere laggiù a godertelo, invece che offuscarlo con brutti ricordi del
passato”.
“Tu non sei un brutto ricordo, Boromir. Tu sei - o almeno eri - un
mio amico. Non lo sei più, ora che l’Anello è distrutto?” Vide Boromir
trasalire nel sentir nominare l’Anello, e i suoi occhi si fecero tristi.
Credeva di capire il motivo dell’imbarazzo che aleggiava tra di loro, e temeva
che nessun potere nella Terra di Mezzo avrebbe potuto abbattere quella
barriera. Ma doveva tentare. “Ho dovuto distruggerlo”.
Boromir sembrò sorpreso delle sue parole. “Lo so. Tu ci hai
salvato dal Nemico. Tu hai fatto una cosa... una cosa che nessun Uomo avrebbe
potuto fare.”
“Ma la sua scomparsa è come una ferita che non guarisce mai, come
un vuoto che non può essere colmato.” Frodo chinò la testa, mentre gli occhi
gli si riempivano di lacrime. “Il dolore della sua perdita non mi abbandonerà
mai.”
Boromir sollevò una mano per toccarlo, per confortarlo, ma cambiò
idea, e lasciò cadere la mano. Frodo lo guardò con comprensione.
“So che l’Anello ha toccato anche te, e se non potrai perdonarmi
per averlo distrutto...”
“Perdonarti? Frodo, sono io che ho bisogno di essere perdonato,
non tu”.
“No. Non eri tu, quello. Non è colpa tua quello che ha fatto
l’Anello”.
“Ero io, e lo sono ancora. Io ti ho allontanato dalla Compagnia,
ho mandato te e Sam ad affrontare il pericolo da soli. Io ho tradito te, ho
infranto il mio voto, distrutto la Compagnia, e quasi causato la rovina di
tutti noi.”
Frodo rise. Sapeva che era strano, dopo la tormentata confessione
di Boromir, ma non poté trattenersi. Un grande sollievo lo invase, e una risata
che non riuscì a fermare. “La rovina? E’ stata la nostra salvezza!”
Boromir sembrò incupirsi ancora di più. “Sì, ma grazie alla forza
e al coraggio di altri”.
"Se io fossi rimasto con la Compagnia non staremmo avendo
questa conversazione, perché non ci sarebbe nessuna vittoria da festeggiare, e
nemmeno il lusso di decidere chi è colpevole e chi è innocente. E se tu non mi
avessi costretto ad andare, non ne avrei mai trovato il coraggio."
"Non importa cosa è successo, Frodo. La colpa di ciò che è
accaduto ad Amon Hen pesa su di me."
Frodo guardò quel viso orgoglioso e bello, ora contratto per il
dolore e segnato da cicatrici che non sarebbero mai più guarite. Si era spesso
chiesto, durante il suo lungo viaggio nell’ombra, che cosa fosse stato di
quell’uomo. Non aveva pensato che avrebbe rivisto più nessuno dei suoi amici, e
si era rassegnato a non conoscere il loro destino, ma con il crescere del
potere dell’Anello nella sua mente, il suo pensiero si era rivolto sempre più
spesso a colui che aveva percorso quella strada prima di lui. Ora sapeva che
Boromir era sopravvissuto sia alla guerra che al veleno dell’Anello. L’unica
ferita che ancora aperta era la colpa del suo tradimento, e soltanto Frodo
poteva guarirla.
Posando i gomiti sulle ginocchia e il mento sulle mani, Frodo
lasciò che la sua voce si abbassasse a un sussurro che solo Boromir poteva
udire. “Posso dirti una cosa che nessun altro conosce? Nessuno tranne Sam?”
"Se lo desideri."
"Sì, lo desidero. Tutti quanti stanno cantando canzoni su
quello che ho fatto, ma loro non sanno che… in realtà non l’ho fatto. Io non ho
distrutto l’Anello, Boromir. Non ne sono stato capace. Quando è giunto il tempo
di gettarlo nel fuoco me lo sono messo al dito e l’ho rivendicato come mio.
L’Anello mi aveva preso, e se non fosse stato per Gollum, ora lo avrebbe
Sauron. Così, ora lo sai, non sei stato l’unico che non ha potuto resistere al
suo potere. Hai detto che io ho fatto ciò che nessun uomo avrebbe potuto fare. Ti
sbagliavi. È stato Gollum - Gollum e il caso, a distruggere l’Anello, non io.
Se tu sei colpevole allora lo sono anch’io. Se tu hai tradito la Compagnia
allora l’ho fatto anch’io. Io, Frodo dalle nove dita! Quello di cui parlano le
canzoni!
Ti dirò quello che credo, quello che ho sempre creduto, anche ad Amon Hen
mentre fuggivo via da te. Io credo che nessuno di noi fosse abbastanza forte da
resistere all’Anello. Quelli che gli sono sfuggiti sono solo stati solo così
fortunati da allontanarsene prima che si impossessasse di loro. Ecco tutto. Io
e te non abbiamo avuto questa fortuna, e ora dobbiamo portare il peso di ciò
che ci ha costretto a fare, insieme alla ferita lasciata dalla sua perdita, per
il resto dei nostri giorni. E ti dirò un’altra cosa, Boromir". Lo hobbit
posò una mano sul suo braccio, e Boromir trasalì per la sorpresa, volgendo il
suo sguardo bendato verso Frodo. "Quella ferita è una punizione
sufficiente per qualsiasi crimine”.
Boromir sembrò combattere una battaglia con se stesso per un
momento, e il suo viso era teso, quando infine mormorò, "Io cerco di
sentire i suoi sussurri nella mia mente. Se ne sono andati, e sono felice di
essermene liberato. Ma mi sforzo ancora di sentirli. E... mi mancano."
"Lo so. È una terribile solitudine, sentire la mancanza di
qualcosa che ti dava così tanto dolore quando era vicina a te. "
"Frodo..." Di nuovo, l’uomo sembrò sforzarsi per
pronunciare parole che erano chiuse da una barriera. "Puoi davvero
perdonarmi così facilmente?"
"Non c’è nulla di facile in questo, per nessuno di noi. Ma,
sì. Io ti perdono."
"Perché tu credi che sia stato l’Anello, e non io, a farti torto?”
"Perché so esattamente come ti sei sentito, quando hai capito
cosa avevi fatto e sapevi che non potevi fermarti. E perché so perfettamente
come ti senti in questo stesso istante, seduto qui, ad ascoltare me che ti dico
che non è stata colpa tua mentre la tua coscienza ti tortura. Non credo che tu
abbia bisogno del mio perdono, Boromir, ma so che me lo stai chiedendo. Perciò
voglio fare un patto con te. Io ti perdonerò per aver cercato di rubare
l’Anello, e tu mi perdonerai per averlo gettato nell’abisso di Monte Fato,
lasciandoci entrambi a soffrire per questo."
"Ma non avevi scelta..."
Frodo sogghignò alla perplessità del guerriero, vedendo la
comprensione apparire gradualmente sul suo viso. "Allora, siamo
d’accordo?"
Boromir sorrise mestamente. "Sì".
"Ne sono felice." Frodo sentì che l’ultimo residuo di
tensione abbandonava il suo corpo. Si stirò le menbra stanche e rise
sommessamente. "Ora la Compagnia è davvero riunita."
"Dovresti ritornare alle tue canzoni e ai tuoi racconti,
prima che si accorgano della tua mancanza."
"Non vuoi venire con me? I Nove viandanti dovrebbero stare
insieme in questo giorno, per festeggiare la loro vittoria. "
Boromir rimase seduto in un silenzio pensieroso per un momento,
poi improvvisamente sorrise, e il suo viso fu come trasformato. Si alzò in
piedi agilmente, muovendosi con l’antica energia e grazia che Frodo ricordava.
Anche il suo mantello sembrava volteggiare attorno alle sue spalle in modo
diverso. “Molto bene, ma devi promettermi di proteggermi dall’ira di Sam. Non
ho la mia spada con me”.
Frodo si alzò in piedi, sorridendo. “Lo farò”.
Esitò, improvvisamente imbarazzato, indeciso sul da farsi. Boromir
era in piedi accanto a lui, altrettanto indeciso, e Frodo ebbe l’impressione
che avesse paura di toccarlo. Abbandonando il suo nervosismo, Frodo prese la
mano di Boromir e cominciò a camminare. Boromir lo seguì, adattandosi alla sua
andatura, ma dopo un momento liberò gentilmente la sua mano da quella di Frodo
e la posò sulla testa dello hobbit. Procedendo in questo modo, discesero
facilmente la lieve pendenza della collina e si diressero verso le tende e i
festeggiamenti sotto di loro.
*** *** ***
Le armate dell’Ovest marciarono verso casa in trionfo. Quando
infine giunsero in vista delle mura della città, trovarono Minas Tirith
adornata in tutta la sua bellezza per accoglierli. Stendardi, fiori e teli di
seta scintillante, ricamati con le armi e le insegne dei signori vittoriosi,
sventolavano sui suoi bastioni. Persone vestite per la festa si accalcavano
lungo le mura e si riversavano fuori dai cancelli – persone di ogni landa del
sud e dell’ovest, che erano accorse alla Città Bianca per dare il loro saluto
al loro Re – e mentre salutavano i soldati cantavano, e lanciavano fiori sulle
strade sulle quali sarebbero passati con le loro armature.
Faramir restava in disparte dalla folla, insieme a Húrin, Custode
delle Chiavi, e un gruppo di soldati della Guardia alle sue spalle. Con
solennità attesero in mezzo alla confusione dei festeggiamenti che i Capitani
che cavalcavano alla testa dell’esercito si avvicinassero.
Infine giunsero, Aragorn a cavallo di Roheryn, vestito di una
cotta di maglia nera cinta d’argento, un mantello bianco come la neve sulle
spalle e una stella sulla sua fronte. Boromir e Merry cavalcavano Fedranth,
seguiti da Éomer, Legolas e Gimli. Venivano poi Pipino, Frodo e Sam, con
Gandalf e il Principe di Dol Amroth come scorta. E poi vi erano trenta uomini
tutti vestiti di grigio e argento – i Dunedain del Nord.
Mentre il grande esercito si sistemava ordinatamente sui campi di
Pelennor con le lance levate e gli elmi lucenti, la piccola compagnia smontò da
cavallo e continuò a piedi. Percorsero il vasto spazio vuoto fino a Faramir e
ai cancelli distrutti, e al loro arrivo, un silenzio carico di aspettative cadde
su tutti i presenti.
Faramir si fece avanti per accoglierli. Tra le mani reggeva il
bianco scettro dei Sovrintendenti, e la sua tunica era di seta bianca,
rilucente nella luce, senza alcuna insegna. Si inchinò con rispetto davanti ad
Aragorn, ma fu a Boromir che si avvicinò. Quando ebbe raggiunto il fratello si
inchinò nuovamente, porgendogli il simbolo della sua carica.
"Bentornato, fratello. Ho eseguito i tuoi comandi e retto la
città fino al tuo ritorno. Ora ti rendo ciò che ti appartiene, Sovrintendente
di Gondor”.
Boromir tese la mano, e Faramir gli posò lo scettro tra le dita.
“Ti ringrazio per aver avuto cura del nostro popolo e della nostra città”. I
fratelli si abbracciarono, e, a bassa voce, Boromir aggiunse, “E ti ringrazio
per avermi accolto”.
Quando si separarono, Boromir si rivolse ad Aragorn e si
inginocchiò davanti a lui. Tendendo lo scettro tra le mani davanti a lui,
parlò. “L’ultimo Sovrintendente di Gondor chiede il permesso di terminare il suo
incarico”.
"L’incarico non è finito”, replicò Aragorn, rendendo lo
scettro a Boromir e chiudendogli le mani attorno ad esso. “Prendi dalla mano
del Re di Gondor ciò che ti appartiene per diritto e per merito. Prendilo,
insieme alla mia imperitura gratitudine, Boromir figlio di Denethor,
Sovrintendente di Gondor. Alzati, e assumi il tuo incarico”.
Poi, con solenne cerimonia, Aragorn figlio di Arathorn fu
incoronato Re di Gondor, per mano di coloro che avevano faticato così tanto per
portarlo al trono. Boromir pronunciò un discorso di presentazione al popolo,
esortandolo a riconoscere il suo legittimo Re. Faramir prese la corona alata di
Eärnur dallo scrigno nero e argento in cui era rimasta per molte generazioni,
attendendo quel momento. Frodo prese la corona dalle mani di Faramir e la portò
dove Aragorn attendeva in ginocchio, infine Gandalf il Bianco, il più potente
degli stregoni, saggio tra i saggi, pose la corona sul capo di Aragorn.
Quando si alzò in piedi ogni voce tacque, e la città rimase in
silenzio ammirando il suo Re. Sembrò al popolo di Gondor che le leggende degli
antichi Re del Mare tornassero alla vita davanti ai loro occhi, e che la figura
in piedi sul campo non fosse soltanto un Uomo, ma uno degli eroi dei tempi
antichi, giunto per salvarli dall’Oscurità. Poi il Sovrintendente posò il suo
sguardo cieco sul Re, e a tutti quelli che lo guardarono parve che anch’egli
potesse vedere la luce che avvolgeva il Re scintillando sul suo nobile viso,
splendente come le gemme che adornavano la sua corona.
Sollevando le braccia al cielo, Boromir gridò con voce chiara. “Guardate,
il Re!”
A quelle parole ogni tromba risuonò sulle mura della città e il
popolo cantò. In mezzo al tumulto, Aragorn fece un cenno per farsi portare i
cavalli, e la compagnia montò di nuovo in sella. Tutti si volsero verso i
cancelli di Minas Tirith, ma rimasero indietro, lasciando che il Re avanzasse
per primo sulla strada.
Aragorn spronò Roheryn avanti di alcuni passi, finché il cavallo
si trovò ad avanzare su un tappeto di petali di fiori, poi si fermò, sollevando
il capo per guardare la torre che scintillava alta sopra di lui. Vide i
vessilli catturati dal vento, sentì le trombe suonare, e osservò le bianche
mura che si ergevano maestose dalle pendici del Mindolluin. Un sorriso gli
sfiorò le labbra, e si voltò all’indietro.
Tendendo una mano, gridò, “Boromir!”
Il Sovrintendente sembrò perplesso alla chiamata, e non si mosse.
Ma Merry, seduto davanti a lui sulla sella, vide il gesto di Aragorn che li
invitava ad avvicinarsi, e spronò Fedranth in avanti. Cavalcarono fino al punto
dove Aragorn attendeva, e Fedranth si affiancò all’altro cavallo.
Aragorn afferrò il braccio di Boromir. "Le senti? Le trombe
stanno suonando”.
Boromir sollevò il capo esattamente come aveva fatto Aragorn, e
dalla sue espressione l’amico capì che stava vedendo con la mente le alte
torri, i vessilli splendenti e le grandiose mura davanti a loro.
Le dita di Aragorn si strinsero attorno al suo braccio, e nei suoi
occhi apparvero lacrime di gioia. “Vieni. Ci stanno accogliendo a casa”.
E insieme, Il Sovrintendente e il Re entrarono cavalcando
attraverso i cancelli di Minas Tirith.
Il
sole del mattino, splendente come la promessa di una pace duramente
conquistata, riversava la sua luce attraverso le finestre, inondando la stanza
della torre. Un grande tavolo occupava la maggior parte dello spazio, ricoperto
da uno strato di pergamene, mappe, penne e calamai. Dietro al tavolo si trovava
una grande sedia decorata – non un trono, ma chiaramente studiata per
trasmettere un senso di potere. Aragorn, colui che deteneva quel potere, aveva
abbandonato la sedia per camminare attorno alla stanza, mentre il suo
sovrintendente occupava il seggio regale.
Boromir
si appoggiò con i gomiti sul tavolo, scompigliando una pila di documenti e
guadagnandosi un mite rimprovero del suo Re.
"Quelle
carte erano state sistemate con cura”, osservò Aragorn.
Boromir
diede un colpetto alla pila con un gomito, poi prese in mano la pergamena che
stava in cima. "Cos’è questo?"
"Liste.
Dispacci. Proposte alla mia considerazione. Rapporti sulle condizioni delle
nostre difese e dei nostri alleati”.
"Spazzatura",
ringhiò Boromir.
Aragorn
smise di camminare e si appoggiò al davanzale della finestra. Sorrise
leggermente divertito per l’irascibilità del suo Sovrintendente. “Questo detto
dall’uomo che voleva tanto essere Re?”
"Abbiamo
tutti i nostri momenti di follia”.
"Ora
che sei guarito dalla tua follia potresti aiutare il tuo re assediato dai suoi
compiti, invece di mettere in disordine la sua scrivania”.
A
quelle parole, Boromir sogghignò perversamente. “A questo posso pensare io!
Portami una candela, e ripulirò la tua scrivania in men che non si dica…”
Aragorn
rise. “Non ti serve una candela. Ti serve solo un segretario che legga per te
tutta quella spazzatura. Allora potrai essere davvero d’aiuto”.
"Segretari!"
La voce di Boromir era carica di disprezzo. “Voci melliflue e mani
delicate...bah! non voglio segretari attorno”.
“Ne
troveremo uno che non sia troppo viscido”.
“Non
voglio alcun segretario, ti dico!”
“Magari
un soldato in congedo, uno che sappia leggere. O uno scudiero che possa
occuparsi di queste faccende come tu desideri”.
“Tu
non mi stai ascoltando, Aragorn”.
“Avrai
bisogno di uno scudiero, in ogni caso. E se ne scegliessimo uno che può...”
“Se
mi manderai un qualsiasi tipo di scudiero”, interruppe Boromir con
violenza “lo getterò fuori dalla prima finestra che mi trovo davanti!”
Aragorn
lo osservò con curiosità, per nulla turbato dal suo accesso di furore. “Da
quando hai sviluppato questo odio verso gli scudieri? Anche tu lo sei stato, o
sbaglio?”
“Certo
che lo sono stato. Tutti i figli dei nobili ricevono il loro primo
addestramento come scudieri…” Si interruppe e corrugò la fronte rivolto al Re. “Non
cercare di distrarmi, Aragorn. So cosa hai in mente. Vuoi mettermi alle costole
una schiera di assistenti che mi guidino, mi proteggano e mi facciano uscire di
senno!”
“Che
altre possibilità hai? Senza servitori di cui ti puoi fidare, come potrai
adempiere ai tuoi doveri di Sovrintendente?”
“Ho
già persone di cui mi posso fidare”.
“Ma
non serviranno allo scopo. Anche se non è Sovrintendente, tuo fratello sarà
comunque troppo occupato per leggere i dispacci per te. E anche io lo sarò”.
Boromir
sembrò improvvisamente a disagio. “Non era a Faramir che stavo pensando”.
Aragorn
esitò per un attimo, leggendo i suoi pensieri sul suo viso. “Merry se ne
andrà”, disse.
“Offrigli
il cavalierato, e il libero accesso alle cucine reali, e resterà”.
“Merry
se ne andrà”, ripeté Aragorn, con fermezza, e la fronte di Boromir si corrugò ancora
di più, “Resterà solo fino alla venuta di Arwen e al mio matrimonio, poi
ritornerà alla Contea".
“Lo
so”.
“Quella
è la sua casa, Boromir”.
“Lo
so!” scattò Boromir. “Era uno scherzo. Solo uno scherzo. Merry non è un misero
subalterno qualsiasi, destinato a passare i suoi giorni tallonandomi e leggendo
mucchi di maledette liste”.
Aragorn
cercò di sorridere, ma lo trovò troppo difficile. “Troveremo qualcuno che tu
riesca a sopportare”.
“Non
ho bisogno di nessuno. Ciò di cui ho davvero bisogno sono due occhi
nuovi!” E con quel grido di frustrazione, Boromir diede un violento colpo al
tavolo, facendolo ribaltare con un terribile frastuono e mandando le pergamene
a volare sul pavimento.
Aragorn
si alzò in piedi allarmato, ma si fermò lontano dal disastro, dall’altra parte
della stanza. Lo scoppio d’ira di Boromir fu seguito da un momento di totale
immobilità, in cui il Re osservò il danno fatto e il Sovrintendente rimase
immobile sulla sua sedia, visibilmente imbarazzato dal suo comportamento.
Dopo
un momento di silenzio, Aragorn parlò di nuovo, con un lieve tono di
rimprovero: “Quelle carte erano state sistemate con cura”.
“Ti
chiedo perdono”, disse Boromir, rigidamente. “Metterò in ordine”.
“Non
preoccuparti. A questo servono i miseri subalterni”.
Un
bussare discreto alla porta annunciò l’arrivo di uno di tali subalterni,
richiamato dal rumore e preoccupato per il suo signore. Aragorn aprì la porta,
attento a non calpestare i preziosi documenti mentre attraversava la stanza, e
trovò il Ciambellano che attendeva fuori. L’uomo fece un lieve inchino, la
fronte corrugata per la disapprovazione mentre il suoi occhi vagavano per la
stanza osservando il disordine.
“Qualcosa
non va, mio signore?”
“No,
va tutto bene”. Il Ciambellano si schiarì la voce con perplessità e si voltò
per andarsene, ma Aragorn lo trattenne con un cenno dalla mano. “Quando le
trombe suoneranno il cambio della guardia andremo alla Stanza del Consiglio. Manda
qualcuno per riordinare. Ma prima di quel momento non voglio essere
disturbato”.
“Come
comandi, mio signore”.
Aragorn
chiuse la porta e si rivolse a Boromir, ancora immobile sul seggio, che
sembrava fissare un punto nello spazio con la fronte corrugata. Da quando aveva
incontrato Frodo a Cormallen, Boromir sembrava molto più sereno, come se avesse
trovato un po’di pace dentro di sé. Sorrideva più spesso, a volte rideva, e
quando la sua cecità lo costringeva ad accettare la guida o l’aiuto di qualcuno
dei suoi amici, lo accettava con un garbo che prima non possedeva. Vederlo
ricadere nel suo malumore era doloroso per Aragorn.
“Che
cosa ti turba?”, domandò Aragorn, all’improvviso. Ora che c’era un forte legame
di fiducia tra loro, aveva imparato a non essere troppo delicato riguardo agli
stati d’animo di Boromir. Il tatto avrebbe soltanto dato all’amico una scusa
per evitare le domande, mentre la franchezza era il modo migliore per
convincerlo a confidarsi. “Si tratta della partenza di Merry, o del Consiglio?”
“Di
entrambi”. Boromir si appoggiò all’indietro nella sedia, ancora accigliato.
Dopo una lunga pausa, chiese: “Hai considerato la possibilità che Faramir
scelga di stare dalla parte di Imrahil?”
“Certo.
E se lo facesse?”
“Sarà
piuttosto difficile affrontare l’intero Consiglio, se Faramir li sosterrà”.
“No,
non lo sarà”.
“Lo
sarà per me”.
“Allora
è un bene che quel compito spetti a me”.
Boromir
si dibatté per un momento, lottando per trovare parole che una barriera dentro
di sé gli impediva di pronunciare. Quando infine parlò, la sua voce era
stranamente disperata. “Perché deve avvenire in pubblico, Aragorn? Non
potreste, tu e Faramir, parlare in privato? Se lui deciderà di schierarsi con
Imrahil e il Consiglio li sostiene, io mi farò da parte. Non c’è bisogno di
arrivare a una pubblica dimostrazione di rancore e divisione!”
“No,
Boromir, così deve essere”.
“Ho
detto che mi atterrò alla scelta di Faramir…”
“Basta
così”. Il tono di Aragorn, per quanto mite, zittì Boromir. Il Re attraversò la
stanza fino al grande tavolo e vi girò attorno. Sedendosi sul bordo incrociò le
braccia sul petto e osservò l’amico con sguardo gentile ma fermo. “Non ne
discuteremo più. Tu sei il mio Sovrintendente, e lo sarai sempre,
indipendentemente da ciò che pensa tuo fratello. Mi sono spiegato?”
Boromir
unì le mani e piegò il capo, sottraendo il suo visto allo sguardo di Aragorn.
“Allora perché la farsa del Consiglio?”
“Non
è una farsa, ma un passo necessario per stabilire il mio potere. Non posso
governare Gondor come un tiranno, e non posso agire di nascosto, nell’ombra,
dove i sussurri e le dicerie prosperano. La gente deve vedere che il suo Re
agisce giustamente sia con i nobili che con i comuni cittadini, e che affronta
le sue sfide alla luce del sole”.
“E
mio fratello?”
“Deve
schierarsi. Io devo sapere dove pone la sua lealtà e sentire le ragioni della
sua scelta”.
Boromir
si agitò, a disagio. “E io dovrò ascoltarlo mentre elenca le mie colpe”.
“C’è
qualcosa che lui o altri possano dire che non abbiamo già sentito?”
“Nulla
che sia vero. Tu conosci il peggio di me, Aragorn”.
“Allora
non hai nulla da temere. Abbi fiducia in me, Boromir, e nell’amore che ti
porto. Non ti deluderò”.
“So
che non lo farai”. Boromir continuò a tenere lo sguardo abbassato per un
momento, poi aggiunse: “Sono io che deluderò te, mio Re. In verità, preferirei
andare via con Merry invece che restare a Minas Tirith a combattere questa
battaglia contro i miei stessi consanguinei. Potrei abitare nella Contea,
vivere come uno hobbit, e trascorrere i miei giorni a pescare sul
Brandivino”.
Aragorn
gli sorrise con affetto. “Saresti un pessimo hobbit”.
“Non
peggiore del soldato o del Sovrintendente che sarei qui”.
“Oh,
molto peggio!” Attese un istante, poi domandò, semplicemente: “Pensi che la tua
cecità sarebbe più facile da sopportare nella Contea – tra un popolo straniero
dagli usi stranieri – di quanto non lo sia qui?”
Boromir
meditò a lungo sulla risposta. Infine rispose: “Anch’io sarei uno straniero,
laggiù, uno sconosciuto, giudicato solo per quello che sono ora, e non per
quello che ero un tempo”.
“Ma
pur sempre un estraneo, e a causa della tua diversità sempre oggetto di
sospetto. Meglio che tu resti a Minas Tirith, affronti il Consiglio, e aspetti
che il tumulto si plachi. Quando tutto sarà finito sarai riconosciuto
Sovrintendente e potrai fare l’unica cosa che ti renderà felice”.
“Prendermi
cura della mia terra e della mia gente”.
“Esatto.
Sei un vero figlio di Gondor, Boromir. È qui che riposa il tuo cuore”.
“Ma
non completamente”. Boromir sollevò il capo, permettendo ad Aragorn di vedere
la sua espressione turbata e dubbiosa. “Una parte di esso dimorerà sempre tra
le verdi colline della Contea, con Merry. È difficile essere legati a qualcuno
che non si può avere vicino”.
Una
visione di Arwen venne subito alla mente di Aragorn, accompagnata dall’intenso
desiderio e dalla tristezza che sempre seguivano i pensieri che la
riguardavano. Ora che il giorno del matrimonio si avvicinava, la tristezza lo
stava abbandonando, ma vi aveva vissuto per così tanti anni che non poteva
dimenticarla facilmente. Era intessuta nell’immagine del volto di lei, nell’eco
musicale della sua voce.
“So
bene cosa si prova”, mormorò.
Fece
per parlare, per tentare di calmare Boromir condividendo con lui la sua lunga
esperienza, ma l’improvviso richiamo di una tromba lo interruppe. Rapidamente
si avvicinò alla finestra e osservò il cortile sottostante. La tromba squillò
di nuovo, annunciando il cambio della guardia. Nella strada che veniva dal
Sesto Circolo, una piccola compagnia di guardie in uniforme marciò verso il
cancello, mentre nel Cortile della Fontana, un gruppo di uomini vestiti in
ricchi abiti e cotte di maglia brunite interruppe le conversazioni e si diresse
verso le porte aperte della Cittadella. Le guardie che fiancheggiavano le
grandi porte li salutarono mentre passavano.
Rivolgendosi
di nuovo verso Boromir, disse: “E’ ora”.
Boromir
si alzò in piedi e attese che Aragorn si avvicinasse. Le sue dita si chiusero
un po’ troppo strette attorno al braccio di Aragorn, e mormorò: “Andiamo, e
finiamola una volta per tutte”.
“Non
avere così tanta fretta”, lo rimproverò Aragorn. “Dobbiamo arrivare per ultimi,
così dovranno attenderci e stare un po’sulle spine”.
Boromir
rispose con un suono a metà tra il disgustato e il divertito, e un sorriso
ironico gli apparve sulle labbra. “Il Re deve fare un ingresso appropriato”.
“Precisamente”.
Lasciarono
insieme la stanza e si incamminarono lungo il corridoio con il passo misurato
che Aragorn ritenne appropriato alla loro dignità. Avanzando al suo fianco,
Boromir aveva assunto il portamento austero e orgoglioso che aveva intimorito
tanti uomini durante la sua illustre carriera, e che ora serviva a dissimulare
il suo crescente panico. Non era abbastanza per ingannare Aragorn, ma sarebbe
servito durante il Consiglio. Aragorn sorrise tra sé e sé, fiducioso che
insieme, il Re e il Sovrintendente avrebbero potuto affrontare ogni sfida e
ogni minaccia.
Che
Aragorn avesse ben calcolato il momento del loro ingresso fu subito chiaro a
Boromir dal vociare che proveniva dalla stanza davanti a loro. Tutto il
Consiglio doveva ormai essere radunato, in attesa, sempre più impaziente e
inquieto col passare dei minuti. Strinse la presa sul braccio di Aragorn e
raddrizzò le spalle, dominando il suo nervosismo mentre faceva il suo ingresso
nella sala a fianco del re. Il loro ingresso fu accolto da un assordante
silenzio, poi si udì il rumore delle sedie che venivano tirate indietro e gli
uomini si alzarono con un fruscio di cuoio e un tintinnare di metallo.
Boromir
non poté vedere il modo in cui Aragorn salutò questa dimostrazione di rispetto,
ma qualcosa nel suo portamento e nel suo passo sicuro gli diede l’impressione
che si fosse calato appieno nel suo ruolo di governante. Quando era in quei
momenti, Aragorn poteva trasformarsi da quieto vagabondo vestito di stracci a
immagine vivente degli antichi re Númenóreani nello spazio di un respiro.
Boromir aveva passato la mattinata conversando con il suo amico Aragorn, ma ora
il concilio di nobili avrebbe affrontato Re Elessar. E a giudicare dalla
tensione quasi palpabile che aleggiava nell’aria, dovevano esserne tutti
consapevoli.
Insieme,
Boromir e Aragorn attraversarono la stanza fino all’estremità del tavolo a cui
si trovava la sedia del re. Aragorn si fermò, e gentilmente interruppe il
contatto con Boromir.
“Il
posto tradizionale del Sovrintendente sarebbe all’altro capo del tavolo, di
fronte al suo Re”, disse Aragorn, “ma io preferisco avere i miei più validi
consiglieri al mio fianco. Siedi qui alla mia destra”.
Boromir
trovò con la mano l’alto schienale intagliato della sedia. Lo strinse
leggermente e attese il segnale di Aragorn affinché tutti si sedessero. Quando
udì il rumore delle sedie che venivano spostate, Boromir fece altrettanto, e si
sedette. Non si sporse in avanti né posò i gomiti sul tavolo, come udì altri
fare, ma rimase appoggiato all’indietro allo schienale della sedia,
apparentemente a suo agio, distanziandosi dall’aria di eccitazione che si
respirava nella stanza. Se anche le sue mani si chiudevano attorno ai braccioli
della sedia un po’ più strettamente del normale nessuno poteva accorgersene. E
se i suoi lineamenti erano innaturalmente tesi, solo pochi tra i presenti
potevano conoscerne la ragione.
Aragorn
attese che i suoi consiglieri si fossero messi comodi, poi si alzò di nuovo in
piedi. Il mormorio cessò di colpo. Quando parlò di nuovo, fu in un tono grave e
calmo, che celava un grande potere e una volontà fiera.
“Miei
signori, vi do il benvenuto alla Cittadella di Minas Tirith e al Consiglio di
Re Elessar. Vi ho convocati qui perché ho necessità della vostra saggezza.
Abbiamo conseguito una grande vittoria. Ora dobbiamo forgiare una pace durevole
che salvaguardi il nostro popolo, una pace che faccia onore al sangue che è
stato versato e alle vite che sono state perdute per farci arrivare a questo
risultato. Vi chiedo di aiutarmi a forgiare questa pace.
“Quelli
di voi che sono ormai da tempo membri del Consiglio potrebbero guardarsi
attorno e domandarsi che cosa hanno a che fare il Re del Mark e Gandalf il
Bianco con la pace di Gondor. Ma io vi dico che Sauron non è stato distrutto
solo grazie a Gondor, e che i nostri doveri non terminano entro i nostri
confini. Tutta la Terra di Mezzo è con noi in questa nuova era che inizia, e i
suoi capi saranno sempre benvenuti al mio Consiglio”.
Aragorn
attese che i mormorii cessassero nuovamente. Quando riprese a parlare, la sua
voce era cambiata in modo impercettibile. Boromir vi notò una nota di sarcasmo,
forse anche un avvertimento, anche se il re rimase scrupolosamente impassibile.
“Ma
prima di cominciare a lavorare alla pace dobbiamo appianare i conflitti
all’interno delle nostre stesse mura. Alcuni di voi hanno messo in discussione
la mia scelta riguardo al Sovrintendente. Non ho bisogno di farvi notare quanto
sia grave questo problema, poiché siete tutti consapevoli di quale potere
detenga il Sovrintendente di Gondor, e quale responsabilità gravi sulle sue
spalle. Voi avete vissuto sotto il governo di un Sovrintendente, e lo avete
visto cadere nell’oscurità”.
Un
fremito di tensione percorse la tavola, silenzioso eppure abbastanza intenso da
far serrare la mascella di Boromir per la tensione. Si sforzò di rimanere
calmo, anche se le parole di Aragorn suonavano stonate alle sue orecchie, così
come a quelle dei presenti.
“A
causa dell’orrore della morte di Denethor le vostre menti sono ancora turbate,
e per questo non vi biasimo per le vostre presenti paure. Sono comprensibili. E
sono pronto ad ascoltare quello che avete da dire contro il mio Sovrintendente.
Ma ricordate le mie parole, miei signori. I Sovrintendenti hanno governato
Gondor in una linea ininterrotta da Mardil Voronwë fino a Denethor II, passando
di padre in figlio lo scettro della carica per ventisei generazioni. Boromir è
il primogenito di Denethor, il legittimo erede alla Sovrintendenza di Gondor e
il vostro signore. Se io non fossi giunto dall’Ovest per rivendicare la corona,
egli ora sarebbe il vostro re in tutto tranne che nel nome”.
L’improvviso
rumore di una sedia che veniva mossa interruppe le parole di Aragorn e annunciò
che qualcuno, da qualche parte alla destra di Boromir, si era alzato in piedi
per parlare.
“Mio
sire”, iniziò Imrahil, con deferenza, “nessuno di noi dubita il diritto del
figlio di Denethor alla Sovrintendenza. Né vogliamo negare la fedeltà che gli
dobbiamo”.
“Se
non volete negare il suo diritto né ritirare la vostra lealtà allora qual è la
tua argomentazione, Imrahil?”
Boromir
serrò la mascella preparandosi al dolore che le parole successive gli avrebbero
causato. Dalla tristezza riluttante nella voce di Imrahil capì che il suo
consanguineo non le trovò facili da dire. “Non è il suo diritto che mettiamo in
dubbio, ma la sua capacità”.
Un
mormorio si diffuse lungo il tavolo, ma se fu di approvazione o di malcontento
Boromir non poté capirlo. L’uomo seduto immediatamente alla sua destra si mosse
e gli afferrò per un attimo il braccio. La voce di Éomer giunse benvenuta al
suo orecchio: “Il Re sistemerà le cose in men che non si dica”.
Boromir
cerò di sorridere per ringraziarlo, ma il suo viso era troppo teso. “Non può
farlo. Deve ascoltarli fino in fondo”.
Éomer
strinse la sua presa in segno di comprensione, poi riprese la sua posizione.
Boromir percepiva la sua inquietudine e sapeva che Éomer, il suo più fedele
sostenitore al di fuori della Compagnia, stava fremendo per l’impazienza di far
tacere quei mormorii e sfogare la propria rabbia. Come Boromir, Éomer era un
uomo che preferiva l’approccio diretto: estrarre l’arma, una sfida e
un’imprecazione, e concludere tutto velocemente e con onore, invece di parlare
alle spalle. Ma questa volta Boromir sapeva che la spada non gli sarebbe
servita a nulla. Doveva restare seduto in rigido silenzio, mentre un uomo che
aveva amato e rispettato per tutta la vita lo calunniava e esponeva le sue
colpe, vere e presunte, alla considerazione di tutti.
Stava
andando esattamente come Boromir aveva temuto. Il Re incoraggiò Imrahil a
esporre i suoi dubbi e le sue preoccupazioni davanti al Consiglio, facendo di
tanto in tanto alcune domande ma senza commentare e senza tentare di frenare
l’eloquenza del principe. Molto di quello che gli aveva detto Faramir, così
doloroso perché veniva da suo fratello, ora era ripetuto da Imrahil e arricchito
da riferimenti a Gondor che davano al tutto un’aria meschina, come se Boromir,
oltre che un pericolo in sé, fosse anche disinteressato al bene del suo popolo.
Boromir
non poteva lasciare la stanza del consiglio, e non avrebbe mai dato ai suoi
denigratori la soddisfazione di vederlo trasalire sotto le sferzate verbali di
Imrahil. Anche se il suo animo era in tumulto, il suo aspetto esteriore doveva
apparire calmo.
Fingendo
indifferenza posò la testa all’indietro contro l’alto schienale intagliato
della sedia. La benda che portava sugli occhi gli dava una certa misura di
libertà. Non era costretto a incontrare gli sguardi ostili dei suoi nemici o a
mascherare le sue emozioni. Poteva rivolgere i suoi pensieri dove voleva,
fuggendo lontano da quella scena di amaro tradimento che si svolgeva attorno a
lui, e nessuno se ne sarebbe accorto.
Respirava
lentamente, tenendo le mani strette sui braccioli della sedia, costringendo il
suo corpo a fingere una calma che non aveva. Era un trucco familiare, lo
stratagemma di un soldato per mettere da parte le distrazioni e schiarirsi la
mente. Gli era stato utile in molte battaglie, e lo fu anche in quella, e dopo
un poco gli riuscì di rilassarsi.
Sul
viso sentiva aria fresca, e Boromir capì che era seduto sul lato opposto della
parete dove si apriva una serie di alte finestre ad arco. Qualcuno doveva
averne aperta una, così da lasciare entrare la brezza. Senza dubbio era stato
Aragorn a ordinarlo, proprio come aveva ordinato di estinguere tutte le torce e
di non accendere il fuoco. Boromir poteva ancora sentire l’odore delle ceneri
spente e la traccia amara del fumo sulla pietra, ma erano odori lievi e li
ignorò con facilità. Chiaramente Aragorn aveva cercato di rendere la stanza più
confortevole per lui, e in un giorno di primavera come quello nessuno dei
nobili avrebbe avuto da obiettare riguardo all’assenza delle torce.
Si
rilassò ancora di più, sentendo gli odori della città portati dal vento attorno
a lui. Minas Tirith d’estate era un luogo pungente, ma Boromir amava gli odori
della sua città, così come amava ogni cosa in essa, dalle superbe torri ai suoi
vicoli rumorosi. Aragorn aveva detto il vero quando aveva detto che Boromir era
un autentico figlio di Gondor: anche più del suo stesso Re, poiché era vissuto
e cresciuto tra quelle bianche mura, immerso nella bellezza, nell’orgoglio, nel
rumore e anche nella sporcizia che appartenevano a Minas Tirith, e il suo cuore
avrebbe sempre dimorato lì.
Un
movimento al tavolo interruppe i suoi pensieri e costrinse il Sovrintendente a
prestare di nuovo attenzione a quello che accadeva attorno a lui. Imrahil stava
attraversando la stanza verso il seggio di Aragorn. Posò qualcosa sul tavolo
con un fruscio di pergamena e il lieve rumore dei sigilli di ceralacca che
urtavano il legno. Aragorn attese fino a quando Imrahil ebbe ripreso il suo
posto, poi srotolò la pergamena, aprendola con entrambe le mani sul tavolo.
Boromir avvertì un nuovo fremito di tensione nella stanza, mentre tutti coloro
che erano rimasti seduti sostenendo silenziosamente Imrahil ora si preparavano
ad aggiungere le loro voci alla sua.
Aragorn
lesse in silenzio, deliberatamente impassibile di fronte al crescente disagio
dei suoi consiglieri. Finalmente, lasciò che la pergamena si richiudesse
arrotolandosi, e sospirò in modo udibile. Boromir si chiese se fosse un sospiro
di sollievo nel non aver trovato una particolare firma.
“Molti
signori e molti paesi sono elencati qui”, disse Aragorn, “ma molti ne mancano. Morthond,
Lossarnach, Anfalas. E
naturalmente Rohan”.
Éomer
soffiò disgustato, senza tentare di nascondere la sua disapprovazione agli
astanti, e Boromir sentì un nuovo impeto di gratitudine per il suo
incondizionato e esplicito appoggio.
Aragorn
non si curò dell’interruzione. “Manca anche un nome, il più importante per il
vostro proposito. Cosa ne pensa il Lord Faramir?”
Fu
Imrahil a rispondere. “Non abbiamo chiesto a Faramir di firmare il documento,
mio signore. Il suo posto non è tra i partecipanti, ma sulla sedia del
Sovrintendente”."
Un
basso mormorio si alzò dagli uomini seduti, sollevati che finalmente qualcuno
avesse pronunciato quelle parole. Coloro che erano seduti accanto ad Aragorn,
fedeli al Sovrintendente prescelto dal Re, rimasero in un ostinato silenzio.
Boromir sentiva solo un timore soffocante, gelido.
“Ci
hai chiesto di ricordare che la Sovrintendenza spetta al figlio di Denethor.
Ora io chiedo a te di ricordare, Re Elessar, che Denethor ha due figli,
e tanto uno quanto l’altro può prendere il posto di suo padre”. Imrahil esitò
per un momento, poi riprese a parlare con più urgenza, come se parlasse da solo
con Aragorn. “So che ami molto Boromir, e vuoi averlo come Sovrintendente
nonostante tutte le nostre obiezioni. Io ti rispetto per questo. Sono
orgoglioso di chiamarti Re e di mettere al tuo servizio la mia spada, perché so
che sei un uomo che stima i suoi amici e mantiene le sue promesse”.
“Eppure
ti sei alzato in piedi davanti al mio Consiglio per chiedermi di venire meno ad
esse”, disse Aragorn, la sua voce pericolosamente calma.
“No,
ciò che chiedo è che sia Boromir a scioglierti dal giuramento, così che tu
possa scegliere un Sovrintendente più adatto, mantenendo intatto l’onore”.
“E
se lui non lo farà?”
“Allora
non avrai altra scelta che romperlo tu stesso, per il bene di Gondor. Ma io ho
fiducia che il mio consanguineo sappia mettere il bene di Gondor prima del suo
orgoglio ferito, e risparmi al suo al re questo disonore”.
Boromir
si alzò di scatto in piedi trattenendo un grido, spingendo con forza la sedia
all’indietro. Le sue mani si chiusero attorno al bordo del tavolo come se
volesse rovesciarlo, e scoprì i denti in un ringhio pieno di rabbia.
Improvvisamente sentì la mano di Aragorn su sul suo polso, e fermò il suo
scatto.
“Pace,
Boromir”.
“Ho
ascoltato troppo a lungo queste calunnie!” sibilò Boromir. “Non permetterò che
il tuo nome venga infangato insieme al mio!”
“Entrambi
i nostri nomi sono ben al di sopra della sua calunnia”.
“Vuole
disonorarti, facendo di me il suo strumento!”
“Io
ho detto solo la verità!” ribatté Imrahil, con voce tagliente di rabbia. “Non
mi sorprende che tu rifiuti di ascoltarla! Sei sempre stato troppo testardo e
arrogante per farti guidare da chi è migliore di te!”
“Migliore
di me!” Boromir si agitò, incurante della stretta di Aragorn e delle sue
parole. “Cosa ne sai tu di chi è migliore di me, Imrahil, e dei consigli che mi
hanno dato? Chiedi al Re, a Gandalf, al Portatore dell’Anello. È a loro che
chiedo consigli, non allo stormo di avvoltoi che si affolla alle tue spalle!”
“Avvoltoi?!
Davvero un bel modo di chiamare i tuoi alleati e consiglieri, mio lord
Sovrintendente! Uomini che cercano solo di aiutarti…”
“Sì,
aiutarmi a finire con una ciotola a mendicare all’angolo sudicio di una
strada!”
“E’
questo che pensi di me? Io che sono sangue del tuo sangue, tuo amico? E cosa ne
dici di tuo fratello?”
Boromir
strinse involontariamente i pugni, lottando con una rabbia impotente. “Lascia
Faramir fuori da questo!”
“Anche
lui è un avvoltoio? Vuoi insultare e disprezzare anche lui, perché non si
lascia guidare docilmente dove tu vorresti?”
“No,
Imrahil, non mi farò guidare. E non ho bisogno che tu parli in mio nome”. La
voce di Faramir venne dall’altro capo del tavolo - il posto tradizionale del
Sovrintendente - comprese Boromir con un sussulto di premonizione. Boromir
sentì il fruscio degli stivali e della stoffa mentre il fratello si alzava in
piedi. “Vorrei tanto restare fuori da questa storia, fratello, per il bene di
entrambi. Ma ormai è troppo tardi per farlo”.
Boromir
ricadde sulla sua sedia, stringendo ancora con le mani i bracciali levigati
come se volesse ridurre il legno in povere. Dietro di lui udì un respiro, e
percepì una presenza alle sue spalle. Sentì i capelli rizzarsi alla base del
collo, e pensò alla spada che aveva lasciato nelle sue stanze, ritenendola
inappropriata per la situazione. All’improvviso, irrazionalmente, desiderò
avere un’arma in mano.
“Non
ho altra scelta che parlare io stesso, o diventare un’arma muta nelle mani di
altri”, disse Faramir, “Chiedo il permesso del Re di parlare davanti al
Consiglio”.
***
*** ***
L’esplosione
di voci giunse attraverso la finestra aperta fino al cortile, dove due giovani
hobbit stavano raggomitolati insieme su una panca di pietra all’ombra del muro
della libreria. Merry trasalì, e Pipino strinse le mani in grembo. Accanto a
loro Legolas sedeva a gambe incrociate sull’erba, curvo sull’arco che teneva in
mano. Non reagì al suono delle voci irate, anche se il suo orecchio acuto
riusciva probabilmente a cogliere le parole che i suoi compagni non
distinguevano. Rimase concentrato sul suo lavoro, provando la corda e
verificandole la tensione, ignorando il furore che proveniva dalla stanza del
concilio. Gimli, che stava camminando sul prato con l’ascia in mano, lanciò uno
sguardo preoccupato alla finestra, ma non interruppe il suo cammino.
Merry
invidiò la loro calma, e non per la prima volta desiderò di poter avere una
qualche distrazione. I suoi occhi si soffermarono sulle mani di Legolas,
osservando i suoi gesti regolari e sicuri, lasciando che la tranquillità
dell’elfo si comunicasse a lui. Un altro grido in lontananza gli causò una
fitta allo stomaco, rompendo l’incantesimo.
“Non
sta andando bene”, disse Pipino con aria afflitta.
Merry
annuì. “Quello era Boromir. Aveva promesso che non avrebbe perso la calma, ma
suppongo che fosse pretendere troppo”.
Pipino
rabbrividì, poi domandò, incredulo, “Davvero Faramir tenterà di portargli via
la Sovrintendenza?”
“Non
lo so”. Merry prese la mano di Pipino tra le sue e la strinse forte. “Spero di
no, Pip”.
“Non
posso crederlo! Non Faramir! E’un brav’uomo, Merry, nobile e saggio, e ha occhi
che ti vedono dentro e sorridono sempre. Come Grampasso, solo... più gentile.
Potrei parlargli di qualunque cosa, seguirlo ovunque, affrontare ogni pericolo
per lui. Basta guardarlo in viso per volergli bene!"
Legolas
parlò senza sollevare lo sguardo dal suo lavoro. “Hai occhi acuti, Pipino, e un
cuore saggio”.
“Come
potrebbe un uomo simile tradire suo fratello?” chiese Pipino.
“Non
è si tratta di tradimento, ma di ciò che Faramir ritiene giusto. Il suo dovere
verso Gondor e il Re viene prima di tutto, anche di Boromir”.
Gimli
sbuffò. “Puoi cercare di addolcirlo come vuoi, mastro Elfo, ma quando un uomo
deruba suo fratello del suo diritto, io lo chiamo tradimento".
“Anche
io”. Mormorò Merry.
Legolas
abbandonò il suo lavoro e fissò lo sguardo su Merry. “Sei così sicuro che
Faramir starà dalla parte dei cospiratori?”
“Non
sono sicuro di niente, ma ho paura. Tanta paura”.
“Di
cosa? Sai bene che Aragorn e Mithrandir non permetteranno che Boromir venga
soppiantato. Il suo posto accanto al Re è già deciso”.
“Questo
lo so”.
“E
allora cosa temi?”
“Faramir”.
Merry lasciò andare la mano di Pipino e incrociò le braccia, stringendole
protettivamente attorno a sé come per allontanare il gelo. “Tu e Pipino avete
ragione, ma questo peggiora solo le cose. Boromir conosce bene suo fratello. Si
fida di lui. E se Faramir dirà al Consiglio che Boromir non può governare,
Boromir gli crederà”.
“Ma
si fida anche di Aragorn”, precisò Legolas, “e Aragorn non permetterà che la
sua fede vacilli”.
Merry
chinò il capo per nascondere il viso ai suoi amici. “Appunto per questo. Ognuno
di loro lo tirerà nella sua direzione… finiranno per distruggerlo”.
Le
sue parole furono seguite da un lungo silenzio. Legolas riprese a tendere il
suo arco, anche se il suo sguardo perso nel vuoto tradiva che il suo pensiero
era altrove. Gimli riprese a camminare avanti e indietro. Pipino si rimise ad
osservare le finestre lontane, col viso teso per la preoccupazione. Merry si
ritirò in sé stesso, solo con le sue paure che non voleva condividere.
E
così attesero.
***
*** ***
“E’un
fardello gravoso che mi avete lasciato, miei signori”. La voce di Faramir era
calma e grave, e riecheggiava sui muri di pietra risuonando contro il soffitto
a volta, mentre i nobili riuniti nella sala ascoltavano le sue parole in avido
silenzio. “Ma non posso tirarmi indietro, sebbene possa costarmi ciò che di più
caro ho al mondo: l’amore di mio fratello”.
Boromir
strinse convulsamente le mani sul bordo del tavolo, pronto ad alzarsi in piedi,
ma Aragorn gli toccò il braccio, e questa volta Boromir obbedì al muto comando.
Si appoggiò allo schienale della sedia, con le mascelle serrate e il viso
contratto per il dolore.
Faramir
continuò, imperterrito. “Per Gondor, per il mio Re, io sono pronto a rischiare
questa terribile perdita. Lo sapevate, quando avete mandato il mio consanguineo
a persuadermi di partecipare a questo complotto, e quando mi avete costretto a
divenire giudice di mio fratello”.
“Ti
ho solo chiesto di fare il tuo dovere”, lo interruppe Imrahil.
“Ed
è ciò che ho fatto. Ho osservato, e ho meditato su quello che ho visto. Ho
soppesato i vostri timori e le azioni di Boromir, i vostri dubbi e gli
argomenti di coloro che lo sostengono. E ho guardato nel profondo del mio
cuore, dove dimora quella cosa fatta di oscurità, di dolore e di amore, che io
chiamo con il nome di mio fratello, per meglio comprendere le mie paure. Ora
sono pronto a dare il mio giudizio davanti al consiglio, se volete udirlo”.
Fu
il Re a parlare. “Parla, dunque, Faramir. Ritieni che tuo fratello sia in grado
di reggere il peso della Sovrintendenza, o credi che sia meglio sollevarlo da
esso in tuo favore?”
“Io
dico che Boromir figlio di Denethor è il legittimo Sovrintendente di Gondor:
nato e cresciuto per questo, provato sul campo di battaglia e nelle sale del
potere, amato dal suo popolo e prescelto dal suo re”. Si alzò un mormorio di
protesta, ma Faramir non si interruppe, alzando la voce per farsi sentire
al di sopra del rumore. “Egli è il mio signore, il mio Sovrintendente, secondo
solo a Re Elessar nel potere e secondo a nessuno nella mia stima! Io lo servirò
con tutta la mia lealtà e il mio amore, finché vivrò!”
Il
caos esplose nella sala, mentre le furiose proteste dei nemici di Boromir si
scontravano con le grida di trionfo dei suoi amici. L’uomo che era al centro di
questa tempesta si lasciò ricadere sulla sedia, stordito per il sollievo e
incapace di parlare per l’emozione. Avrebbe tanto desiderato poter piangere,
sciogliere quel nodo che gli stringeva la gola, versare l’unguento delle
lacrime sulle profonde ferite causate dal sospetto, dalla lontananza e dal
dubbio che gli avevano avvelenato il cuore così a lungo.
Ma
non poteva piangere. E non poteva nemmeno parlare con Faramir in privato per
dare sfogo ai suoi sentimenti. Sentiva lo sguardo del fratello su di lui, che
lo cercava ansioso, e sollevò il viso verso di lui. Anni e anni di fiducia
reciproca gli dissero che Faramir aveva visto il suo viso dall’altra parte
della stanza, e vi aveva letto la sua gratitudine, al di là della maschera tesa
e pallida che indossava.
All’improvviso,
Boromir avvertì che la presenza ignota alle sue spalle si era avvicinata.
Coperta dal frastuono, una voce sussurrò nel suo orecchio. “Cosa gli hai
promesso, in cambio delle sue bugie, Sovrintendente-Ombra?”
Boromir
si irrigidì, voltandosi istintivamente verso l’interlocutore, ma l’uomo se ne
era già andato l’istante stesso in cui le parole avevano lasciato le sue
labbra. Non aveva fatto alcun rumore, né fruscio di stoffa né scricchiolio di
stivali, ma Boromir non aveva bisogno di questi segni per sapere di chi si
trattava. Aveva riconosciuto sia la voce che il senso delle sue parole. E
sapeva con assoluta certezza dove trovare quella silenziosa ombra grigia che
era il suo nemico, quando sarebbe stato il momento.
“Per
quale motivo, Faramir, hai dimenticato il tuo dovere verso Gondor?!” gridò
Imrahil, riuscito infine a calmare il tumulto dei suoi alleati e ad avere
nuovamente l’attenzione su di sé. “Come puoi conciliare questo tradimento col
tuo senso dell’onore? Con la tua promessa di fedeltà?”
Boromir
era sul punto di entrare nella discussione in difesa del fratello, ma Faramir
non aveva bisogno di aiuto.
“Tu
accusi me di tradimento?” domandò stupito. “Dopo che ho messo a repentaglio
tutto ciò che mi è caro, l’amore di mio fratello e la fiducia del mio Re, per
compiacerti? Credevo che ti stesse a cuore il bene di Gondor, Imrahil,
altrimenti non avrei mai accettato il compito che mi hai affidato. Ma a te non
importa né di Gondor né della verità. Tu volevi solo qualcuno che portasse il
vessillo durante la tua battaglia, un campione che ti desse la vittoria senza
spargimento di sangue!”
“Non
è vero! Da te volevo solo giustizia!”
“E
io te l’ho data”.
“Hai
barattato il tuo onore in cambio del favore di tuo fratello!”
“E
tu hai dimenticato con chi stai parlando". Boromir sentì un brivido gelido
corrergli lungo la schiena udendo lo sdegno e l’orgoglio nella voce di Faramir.
Era come se l’ombra di Denethor rivivesse in Faramir attraverso quelle parole.
Evidentemente Boromir non fu l’unico a notarlo, perché anche Imrahil cadde in
un attonito silenzio.
“Nessuno
farà di me uno spergiuro: né tu, né Boromir, nemmeno il Re. Suggerire una
simile cosa è insultare me e degradare te stesso”.
“Per
tutti i Valar!” mormorò uno dei signori, e, dalla parte opposta del tavolo, di
fronte a Boromir, Gandalf rise sommessamente.
“Basta,
miei signori!” Aragorn si era alzato in piedi, e la sua voce ferma attraversò
la stanza riportando istantaneamente la calma. “Questa pubblica dimostrazione
di rancore è sconveniente e non porta a nulla. E in ogni caso la decisione
finale non spetta a voi”.
“Chiedo
perdono”, sussurrò Faramir, e si sedette.
Imrahil
però restò in piedi, e Aragorn si rivolse a lui direttamente. “Hai altro da
aggiungere a ciò che è stato detto in questo consiglio, Principe?”
“No”.
Imrahil si lasciò cadere pesantemente sulla sedia. “Ho finito”.
Aragorn
volse la sua attenzione ai visi tesi che lo osservavano colmi di attesa da
entrambi i lati del tavolo. “Qualcun’altro di voi desidera parlare?” Nessuno si
mosse. “Allora ho sentito tutte le vostre argomentazioni? Non c’é null’altro da
mettere sui piatti della bilancia?”
Boromir
udì un frusciare di stoffa alla sua sinistra, dove Halbarad restava in piedi in
disparte dietro la sedia di Aragorn, ma il Ramingo non si fece avanti.
“E
sia. Mi avete manifestato i vostri pensieri, ora io vi manifesterò il mio”.
Sollevò la grossa pergamena, la arrotolò e la fece battere leggermente sul
palmo della sua mano mentre parlava. I sigilli tintinnarono leggermente.
“Io
scelsi Boromir come mio Sovrintendente quando ancora la corona non era per me
che una lontana promessa. Mentre viaggiavamo, combattevamo e soffrivamo insieme
sotto la minaccia dell’Ombra, senza speranza di vittoria. Ma non l’ho scelto
per pietà, o per disperazione. No. Io l’ho scelto perché ho visto in lui un
uomo d’onore, valoroso e leale. Un uomo che ama il suo paese più della sua
vita, e che ha imparato a caro prezzo il costo del tradimento. Lo sapevo allora
e lo so ora: non c’è altro uomo nella Terra di Mezzo più adatto a servire
Gondor e il suo Re. E non avrò alcun altro al mio fianco, quando assumerò il
fardello della mia corona”.
Accompagnato
dal mormorio dei presenti, Aragorn lasciò il suo posto e si avvicinò a Boromir.
“Vieni,
Boromir”.
Con
la mano sul suo braccio guidò il Sovrintendente lontano dal tavolo, poi si
fermò per guardarlo in faccia. Afferrò Boromir per i polsi e unì le sue mani,
palmo conto palmo, coprendole con le sue.
“Ricordi
le parole che ti dissi quando attendevamo la morte sui prati di Rohan?”
Boromir
annuì silenziosamente.
“Non
posso dimenticarle", continuò Aragorn. "Sono incise nel mio cuore dal
momento in cui le ho pronunciate, e quella promessa mi legherà per sempre. Ora,
amico mio, le ripeterò ancora una volta, rinnoverò quel voto davanti a questi
principi e questi nobili, in modo che anche loro possano udirlo ed esserne
testimoni”.
“Aragorn...”
“Pace”.
Boromir non poteva vedere il sorriso sul volto dell’amico, ma lo percepì nella
sua voce, e ancora una volta sentì le lacrime stringergli la gola.
“Io
ti giuro, Boromir, sul sangue di Isildur e Elendil che scorre nelle mie vene,
sull’amore che ho per il mio popolo e sulla corona alata che porto, che ci sarà
solo un Sovrintendente a Gondor, fino a che io sarò Re. Tu sarai il mio
Sovrintendente, o nessun’altro”.
Boromir
chinò il capo, troppo sopraffatto dalle emozioni per poter parlare.
Improvvisamente udì un’altra voce, una che non aveva parlato da tempo, e capì
che Gandalf era in piedi accanto ad Aragorn. “Ben fatto, Aragorn”.
Lo
stregone prese delicatamente una mano di Boromir dalla stretta di Aragorn e la
strinse attorno a un oggetto familiare. Boromir sentì la superficie liscia e
levigata, e capì immediatamente di cosa si trattava. Era lo scettro della
Sovrintendenza, il simbolo della sua carica. Prima che potesse reagire, lo
stregone gli prese il capo tra le mani e posò un bacio sulla sua fronte.
“Ben
fatto davvero”, ripeté Gandalf, a voce così bassa che solo Boromir poté udirlo.
“Non dubitarne mai, figlio di Denethor, e non dimenticare mai che porti con te
l’amore e il rispetto di Gandalf il Bianco. Ho grande fiducia in te”.
Il
sorriso di Boromir era distorto dall’emozione e dalle lacrime che non poteva
versare, ma Boromir sapeva che Gandalf lo avrebbe interpretato nel modo giusto.
“Non lo dimenticherò. E che tu ci creda o no, te ne sono grato”.
Gandalf
rise piano, lasciandolo andare.
Poi
Aragorn si rivolse agli uomini seduti al tavolo, e gridò: “Miei signori, è
tempo che facciate la vostra scelta! Le vostre azioni fino a questo momento
sono prive di colpa. Ora vi ho dato un Sovrintendente, e il vostro dovere è
chiaro. Se lo riconoscerete resterete senza colpa, e nessun sospetto ricadrà su
di voi. Se lo rifiuterete sarete chiamati traditori”.
Prima
ancora che Aragorn avesse finito di parlare, Faramir si alzò in piedi,
dirigendosi verso il fratello. Boromir consegnò lo scettro a Gandalf per poter
abbracciare Faramir. Con sua sorpresa però Faramir gli prese le mani e si
inginocchiò davanti a lui.
“Alzati,
Faramir!” protestò Boromir. “Non inginocchiarti davanti a me!”
“No
fratello, io devo farlo”. Strinse le mani di Boromir, con la voce tesa per
l’emozione. “Ho atteso troppo a lungo per offrirti la mia fedeltà. Ora lascia
che lo faccia come è appropriato”. Poi, senza dare ascolto alle proteste di
Boromir, chinò il capo pronunciando le solenni parole del giuramento di
fedeltà, poi le suggellò baciando il dorso della mano di Boromir. Infine,
lasciò che Boromir lo facesse alzare in piedi e lo abbracciasse come un
fratello.
Faramir
si rivolse poi a Imrahil, sangue del suo sangue, che era ancora seduto in tetro
silenzio. Sembrava che gli altri membri del consiglio attendessero l’esempio di
Imrahil, poiché ancora nessuno si era alzato per rispondere alla sfida di
Aragorn. Anche coloro che si erano schierati con Boromir fin dall’inizio
stavano aspettando che il principe facesse la sua scelta.
“Vieni,
Imrahil. So che non sei un traditore”. La voce di Faramir era suadente, e
portava con sé il ricordo di una vita di fiducia e di amicizia.
Al
contrario la voce di Imrahil era aspra e forzata. “Non lo sono”.
“Allora
abbandona la tua rabbia e umiliati, per questa volta, per il bene di Gondor”.
Lentamente,
Imrahil si alzò e percorse la distanza che lo separava da Boromir, fermandosi
in silenzio davanti a lui per un momento. Poi, con un sospiro, parlò: “Quando
mossi il primo passo lungo questa strada, giurai che mi sarei attenuto al
giudizio di Faramir, per seguirla o abbandonarla come lui mi avesse comandato. Per
poco non sono diventato uno spergiuro. Per poco non ho lasciato che il mio
orgoglio mi trascinasse verso una follia. Ma nessuno potrà mai dire che Dol
Amroth ha macchiato con il tradimento il ritorno del Re. Accetterai la mia
amicizia, Boromir?”
Boromir
tese la mano, sorridendo quando Imrahil la afferrò in un familiare saluto da
soldati. “Sarò sempre tuo amico e consanguineo, Principe Imrahil”.
“E
io sarò sempre tuo servitore, mio Sovrintendente”.
Uno
dopo l’altro, guidati dalla resa di Imrahil, i nobili vennero a stringere la
mano di Boromir riconoscendogli il suo titolo così duramente conquistato.
Boromir accettò il gesto senza esitare e senza chiedersi se celasse qualche
amarezza. Faramir aveva fiducia in lui, e Imrahil, una volta data la sua
parola, sarebbe stato leale. Era abbastanza per quel giorno.
Alcuni
dei nobili che si avvicinarono a lui non gli portavano segreti rancori. Non
avevano avuto parte alla cospirazione ed erano onestamente felici di chiamarlo
Sovrintendente, così come Boromir era felice di udire le loro voci amichevoli
nella calca. Il vecchio Duinhir, Golasgil di Anfalas, e Forthond, figlio di
Forlong il Grasso che era morto sui Campi del Pelennor. Per ultimo venne Éomer.
Abbracciò Boromir come un amico e un compagno d’armi, gioendo apertamente della
sua vittoria. Dopo che Éomer gli ebbe giurato fedeltà, Boromir si voltò per
sedersi di nuovo, ma Aragorn lo trattenne, mettendogli una mano sul braccio.
“Halbarad”.
Ci
fu una lunga pausa, piena di tensione, mentre i nobili si rendevano conto che
il Re non aveva ancora finito, e rimasero in silenzio. Boromir non riusciva a
capire dove fosse Halbarad, ma percepì che Aragorn si era rivolto verso il
camino spento nel lato ovest della stanza.
“Non
vieni a prestare giuramento davanti al Sovrintendente?”
Infine,
Halbarad si mosse, e il leggero rumore del cuoio su metallo mentre camminava
era l’unica cosa che diceva a Boromir che si trattava di un essere vivo, di
carne e sangue, e non di un’ombra fatta di fumo e sussurri. “Non gli devo
alcuna obbedienza”.
Le
dita di Aragorn si strinsero dolorosamente sul braccio di Boromir. “Ma devi
obbedienza a me. Vuoi disobbedire ai miei ordini?”
“Non
insistere, Aragorn” disse Boromir. “Così finirai per spezzarlo. È l’unico modo
in cui potrà mai inchinarsi al Sovrintendente-Ombra”.
Aragorn
si girò di scatto verso Boromir. “Che cosa hai detto?”
“Solo
quello che lui ha sussurrato al mio orecchio poco fa. Non è forse vero,
Ramingo?”
“Perché
dovrei negarlo?” rispose Halbarad con freddezza. “Sei già stato chiamato così,
e a ragione”.
Aragorn
si immobilizzò, raggelato, pieno di incredula rabbia. La sua espressione doveva
essere terribile, perché prima che potesse parlare, Gandalf intervenne,
posizionandosi accanto al Re. Con voce che non ammetteva repliche, disse:
“Credo che questa non sia una questione da dibattere davanti al Consiglio. Forse
dovreste ritirarvi in un luogo più privato”.
“Sì”.
Con un evidente sforzo, il Re si riscosse e si rivolse ai nobili ancora riuniti
nella sala. “Il Consiglio è terminato. Vi ringrazio, e vi auguro una buona
giornata. Faramir, non c’è una piccola sala per le udienze accanto al Grande
Salone?”
“Sì”.
“Accompagna
Halbarad. Gandalf, verrai con noi?”
Mentre
Aragorn si faceva strada attraverso la folla, guidando Boromir per un braccio,
Imrahil si fece avanti e lo fermò. “Questo mi riguarda da vicino, mio signore! Ti
prego...”
“Vieni”,
disse Aragorn, senza rallentare il passo.
Attraversarono
la vasta anticamera, riecheggiante di voci e di fresche ombre, raccolti in un
silenzioso gruppo. Faramir li guidò verso la piccola stanza, in cui Boromir
ricordava che loro padre usava ricevere i dignitari in visita per colloqui
privati quando non voleva intimidirli con la grandezza del Grande Salone o non
voleva ricordare loro il trono vuoto alle sue spalle. Puzzava di fumo, del fumo
di innumerevoli torce e candele che avevano bruciato nel corso degli anni tra le
sue fredde mura, e Boromir si fermò sulla soglia, esitando per il disagio che
gli procurava quello spazio ristretto. Aragorn lo spinse con poche cerimonie
dentro la stanza e chiuse la posta dietro di loro.
Boromir
si mosse di alcuni passi, fermandosi nel sentire un tappeto sotto i suoi piedi.
Non conosceva la stanza abbastanza bene per muoversi al suo interno da solo, e
la tensione che aleggiava nell’aria mischiata al puzzo delle torce gli
ottenebrava i sensi. Si sentiva come alla deriva, senza nulla a cui aggrapparsi.
Con un profondo respiro si costrinse a rilassarsi e a concentrarsi sulle voci
attorno a lui, cercando di capire la posizione degli altri, e di ridimensionare
l’oscurità a una proporzione accettabile.
“Ora
farai meglio a spiegarti, Halbarad". Era la voce di Gandalf, proveniente
dalla destra di Boromir, e più aspra del normale.
Halbarad
rispose da davanti a lui, verso il fondo della stanza. “Non devo risponderne a
te, Gandalf il Bianco”.
“Sembra
che tu non risponda a nessuno, ultimamente”.
“Risponderà
a me”, disse Aragorn, e la sua voce era bassa e pericolosa. Allontanandosi
dalla porta passò accanto a Boromir e si avvicinò ad Halbarad con passo da
Ramingo, silenzioso e letale. “E questa volta, mi dirà la verità”.
“Io
non ti ho mai mentito, Aragorn”, disse Halbarad, in tono piatto.
“Allora
devo averti fatto le domande sbagliate”.
Faramir
parlò stando accanto ad Halbarad, sconvolto e turbato. “E’stato dunque lui a
mandare i sicari a uccidere mio fratello?”
“Rispondigli,
Halbarad”, disse Aragorn.
“Io
non ho mandato nessuno”.
“Sei
stato tu a mettere in circolo la voce che Boromir fosse una minaccia per
l’esercito?”
Halbarad
non rispose, e Aragorn lo incalzò: “Sei stato tu a inventare la storia del
Sovrintendente-Ombra? Sei stato tu a gettare il seme della paura e della
superstizione tra i soldati?”
“Sì”.
“Perché?”
La voce del Re era piena di una rabbia che riusciva a dominare a stento, che
cresceva più forte a ogni parola che usciva dalla sua bocca. “Perché? Cosa
speravi di ottenere dalla morte di Boromir?”
“Non
avevo intenzione di fargli del male, anche se non posso dire di essere pentito
per quello che è accaduto dopo. Ora posso solo rimpiangere che i sicari abbiano
fallito”.
“Infame
traditore!” sibilò Imrahil. Boromir udì il rumore di una spada che veniva
sguainata, poi un grido di protesta di Faramir.
Halbarad
rise con freddezza. “Credi che le tue mire fossero più nobili delle mie, mio
signor Avvoltoio?”
“Preferirei
morire, piuttosto che versare il sangue di un mio consanguineo!”
“Belle
parole, visto che hai qualcun altro a fare il lavoro al posto tuo”.
“Silenzio!”,
ruggì Aragorn. “Basta così, Imrahil! Lascialo a me!”
Imrahil
rinfoderò la spada con rabbia e attraversò la stanza, mettendosi davanti alla
porta, come se volesse impedire la fuga di Halbarad.
“Che
cosa speravi di ottenere con i tuoi sussurri velenosi, Halbarad?”
“Volevo
indebolire la posizione di Boromir presso l’esercito”.
“E
questo è tutto?”
“L’esercito
era la sua forza. La sua unica indiscussa fonte di potere. Senza di esso non
avrebbe avuto nessuno a sostenerlo dopo la nostra partenza”.
“Così
speravi di mettere l’esercito contro di lui e lasciarlo qui senza alcuna difesa
mentre io non ero qui a sostenerlo”.
“Sì”.
Aragorn
restò di nuovo immobile, stretto nella morsa della sua rabbia che ribolliva. Il
suo respiro affannoso era l’unico suono che disturbava il silenzio. Quando
finalmente parlò, non lo fece né come Re né come Ramingo, ma semplicemente come
un uomo spinto ai limiti della sopportazione. Boromir non aveva mai sentito
nella sua voce tanto dolore e tanta incredulità. “Tu mi hai tradito, Halbarad”.
“No,
mai! Io non ti tradirei mai, mio Re!”
L’angoscia
del suo luogotenente non sembrò raggiungere Aragorn. Continuò con lo stesso
tono spezzato, come se fosse il suo cuore a sanguinare attraverso quelle
parole. “Hai abusato della mia fiducia, nascondendo i tuoi vili misfatti dietro
un viso di cui non potevo sospettare, mentre tu lavoravi per la causa del
nemico”.
“Aragorn!”
esclamò il Ramingo, più un rantolo di orrore che un nome.
“Una
volta ti dissi che cosa avrei fatto se avessi scoperto che eri stato tu a
tentare di uccidere Boromir”.
“Aragorn,
ti prego! Non mettere fine alla nostra amicizia con odio e spargimento di
sangue!”
“Ho
giurato di consegnare alla giustizia i traditori che lo avevano minacciato, e
lo farò. Ti sei condannato da solo, e pagherai con la tua vita!”
“No,
Aragorn”. Boromir fece un passo verso l’altro uomo, dimenticando che non sapeva
cosa poteva trovarsi sul suo percorso. “Non puoi farlo”.
Halbarad
sibilò di rabbia. “Non sprecare il fiato con me, figlio di Denethor! Non voglio
la tua pietà!”
Boromir
si voltò verso di lui, mosso a compassione. Certo il suo sguardo doveva ferire
Halbarad più di qualsiasi minaccia, ma non poteva fare diversamente. La disperazione
che udiva nella voce del Ramingo mentre parlava con Aragorn aveva toccato una
corda familiare nella sua memoria, portando con sé l’antica vergogna. Non
poteva permettere che il suo Re abbandonasse a quella follia qualcuno che amava
così tanto. Non per Halbarad doveva farlo, ma per Aragorn.
Con
la mano trovò la spalla di Aragorn, e avvicinandosi a lui mormorò: “Ha
disobbedito ai tuoi ordini, e per questo deve essere punito, ma non è un
assassino. Non ha alzato la mano contro di me, e non ha istigato Elenard e
Hirluin a farlo. Tu sai che è vero”.
“Qualunque
fosse il suo intento avrebbe potuto costarti la vita, Boromir. Per questo non
potrò mai perdonarlo”.
“Hai
perdonato me per un’azione ancora più grave. Lui avrebbe potuto causare la
morte di un solo uomo. Io avrei potuto causare la rovina di tutta la Terra di
Mezzo. Perché puoi perdonare me e non lui?”
La
mano di Aragorn salì ad afferrare quella di Boromir sulla sua spalla. “Perché
tu me lo hai chiesto”.
“Forse
anche lui te lo chiederà, col tempo. Ti prego, Aragorn, non farti accecare
dalla rabbia. Dagli tempo”.
Aragorn
lasciò andare la sua mano e si rivolse ad Halbarad. La sua voce era piena di
furia, ma riuscì a dominarsi. “Boromir ha ragione. Hai agito da vile e da
traditore, ma non meriti di morire. Non prenderò la tua vita, Halbarad. Ma non
voglio nemmeno la tua presenza accanto a me”.
“Che
cosa vuoi fare di me?”
“Ti
bandirò”.
Halbarad
emise un suono soffocato a metà tra un gemito e un ringhio. “Allora mi hai
ucciso comunque”.
"Halbarad
dei Dúnedain, ti dichiaro traditore e ti condanno all’esilio. Da adesso in poi
sei bandito da Gondor e da tutte le terre sulle quali si estende il mio
dominio, per tutta la tua vita”.
“Non
farmi questo, Aragorn! Non farlo!”
“Hai
tempo fino alla prossima luna per attraversare i confini del mio regno. Se dopo
quella data metterai piede di nuovo a Gondor, morirai”.
“Ho
sempre vissuto per te” gridò Halbarad, con voce piena di disperazione. “Sarei
stato pronto a morire per te! E ora tu mi scacci per mettere quel figlio
di un cane al mio posto?!”
“Tu
avevi già il tuo posto al mio fianco, se solo lo avessi voluto vedere. Ma hai
scelto l’ostilità, il sotterfugio e l’odio al posto del mio amore. Ora devi
vivere con le conseguenze della tua scelta, o morire per esse. Non mi importa,
purché non debba vedere mai più il tuo viso”.
“Idiota!”
Sibilò Halbarad, e Boromir sentì le viscere contrarsi a quel suono familiare.
Per
un terribile momento gli sembrò di sentire la sua stessa voce gridare quelle
stesse parole al mezzuomo spaventato, e rivide le sue mani che cercavano di
afferrare l’oggetto luccicante che era appeso al collo di Frodo. Il ricordo lo
fece trasalire, e la sua mano strinse più forte la spalla di Aragorn. “No!”
esclamò. “Non sarò la sua arma una seconda volta!”
Aragorn
afferrò il suo braccio. La preoccupazione per Boromir lo distolse
momentaneamente dalla rabbia verso Halbarad. “Che cosa vuoi dire? Boromir! Stai
bene?”
Boromir
inspirò con difficoltà, combattendo la nausea che sentiva sorgere dentro di sé.
“Ti supplico, mio Re. Non distruggere il tuo più vecchio amico per causa mia”.
“E’stato
lui a distruggere se stesso. Non è colpa tua, Boromir”.
“E’
opera del Nemico anche questa. Sauron è scomparso, ma la sua malvagità è ancora
tra noi. Lo sento nella sua voce...”
Aragorn
si rivolse a Boromir afferrando le sue braccia con una stretta rassicurante.
“Un motivo in più per allontanarlo prima che il suo veleno si sparga”.
Boromir
scosse la testa. “E cosa accadrà il giorno in cui capirà il suo errore? Se
troverà chiuse tutte le porte, dove andrà nella sua disperazione? Aragorn, che
cosa avrei fatto io, se tu non mi avessi aiutato a trovare la strada per
uscire da quell’oscurità?”
Molto
lentamente, Aragorn lasciò andare Boromir e si rivolse ancora una volta verso
il suo consanguineo. A fatica, con riluttanza, parlò. “Per amore di Boromir, ti
offrirò questa possibilità”.
Halbarad
sibilò di rabbia e sputò sul pavimento.
“Se
ti inginocchierai davanti a tutti e due in presenza di questi testimoni e giurerai
fedeltà alla Corona di Gondor e al suo Sovrintendente, ti concederò di restare
nei confini del mio reame. Ti saranno date terre nel nord, tra Fornost e le
Colline Vento, dove potrai vivere come ti piacerà, vicino a quelli del nostro
popolo che ancora vivono in Eriador. Finché terrai fede al tuo giuramento
rimarrai un mio onorato consanguineo. Ma il giorno in cui lo infrangerai, con
fatti o con parole, pagherai il fio con la vita. Cosa hai da dire, Halbarad?”
“Dico
che non accetterò alcun dono dalle mani del figlio di Denethor. Esiliami o
uccidimi, non fa’alcuna differenza. Ma qualunque cosa tu faccia, falla in
fretta”.
“E
sia. Allora vattene”.
Halbarad
si incamminò verso la porta, scontrandosi con Aragorn mentre passava. “Posso
prendere il mio cavallo e la mia spada?”
“Prendi
ciò che vuoi, purché tu passi il Rammas Echor entro il tramonto”.
“Non
dubitarne!”
“No,
Halbarad, pensa a cosa stai facendo!” protestò Boromir. Fece qualche passo per
seguire il Ramingo, ma Aragorn lo trattenne per un braccio.
Halbarad
rise con amarezza. “Farai bene a mettergli la museruola, Aragorn, altrimenti
potrebbe rivoltarsi contro di te e morderti!”. Detto questo, uscì e sbatté la
porta.
Boromir
liberò il suo braccio con uno strattone dalla presa di Aragorn e mosse un passo
verso la porta. Sentiva i passi attutiti di Halbarad sulle pietre del
corridoio, che lo portavano sempre più lontano dal suo signore, dal suo amico,
dalla sua casa, e dalla sua ultima possibilità di redimersi. Si sentì ribollire
di frustrazione, e azzardò qualche altro passo nell’oscurità.
“Lascialo
andare, Boromir. Ha fatto la sua scelta”.
“Io
so che cosa lo tormenta. Ho sentito anche io quegli stessi sussurri nella mia
mente, e so quanto sia difficile metterli a tacere! Ti prego, Aragorn, lascia
che sia io a parlargli!”
“Non
ti ascolterà, e inoltre diventa pericoloso quando è in questo stato d’animo”.
“Farò
in modo che mi ascolti! Chi altro potrebbe farlo, se non uno che ha camminato
in quella strada prima di lui? Devo tentare, mio Re, devo tentare”.
Aragorn
sospirò, e disse stancamente: “Faramir, vai con lui”.
Insieme,
i fratelli si affrettarono attraverso l’anticamera verso le porte della
cittadella. Boromir sentiva i passi del Ramingo davanti a sé e capì che
Halbarad era troppo furibondo per muoversi con la sua consueta cautela. Non
tentava nemmeno di essere silenzioso, ma camminava a grandi passi pieno di ira
fiammeggiante, incurante di chi gli stava attorno.
Correndo,
Boromir gridò: “Halbarad! Fermati!”
Sentì
i passi esitare per un momento, per poi riprendere più veloci. “E’ uscito”,
mormorò Faramir.
“Halbarad!”
Boromir accelerò la corsa. Uscendo nel tepore del giardino gridò con rabbia:
“Sei così codardo da non osare affrontarmi, Ramingo?”
“Nessuno
mi può chiamare codardo e vivere!” ringhiò Halbarad.
Faramir
si fermò repentinamente, trattenendo il fratello. “E’ armato, Boromir. Ha un
pugnale alla cintola”.
“Lo
so”.
“Vieni
avanti, figlio di Denethor! Vieni e affrontami da uomo a uomo!”
Boromir
lasciò il braccio di Faramir e fece qualche passo lontano da lui. “Lasciaci,
fratello. Non ti riguarda”.
Faramir
esitò per un momento, poi mormorò, “Se lo desideri. Si trova all’altezza del
cancello superiore, proprio davanti a te. Stai attento. Non mi piace il suo
sguardo.”
Boromir
annuì e mosse un passo in avanti. Poteva vedere nella sua mente l’ampio cortile
pavimentato di bianco, che si estendeva dalle porte della Cittadella fino
all’arcata scura che segnava la cima del Settimo Cancello. Nessun ostacolo lo
separava da Halbarad, di questo era sicuro. Eppure il suo cuore batteva
selvaggiamente, e il suo respiro era affannoso per il panico, mentre si
avventurava un passo dopo l’altro nel vuoto. Solo il disperato bisogno di
raggiungere l’altro uomo, di trovarlo e di aiutarlo, spingeva Boromir ad andare
avanti, a dispetto della paura che cresceva minacciosa in lui, minacciando di
sopraffarlo.
“Fermati
dove sei, Sovrintendente, se ti è cara la tua vita”. Boromir, obbediente, si
fermò, fissando il suo sguardo bendato sul Ramingo. “Perché mi tenti così? Sai
benissimo che ti vorrei morto. Perché metterti alla mia mercé?”
“Tu
non mi farai del male mentre sono solo e disarmato. Sarai forse amareggiato e
furioso, ingannato dai sussurri dell’invidia, ma sei ancora un uomo d’onore”.
Halbarad
rise con crudeltà. “E sei disposto a scommettere la tua vita su questo?”
“Sì,
se devo”.
“A
che scopo?”
“Per
mettere fine a questo odio, prima che si prenda un’altra vita”.
“La
mia vita non ti riguarda”.
“Invece
mi riguarda, se tu la vuoi gettare via a causa del tuo disprezzo per me. Pensa,
Halbarad! Perché rinunciare a tutto quello che ami, condannare te stesso alla
morte vivente dell’esilio, solo per ferire me? Sei tu l’unico che soffre, non
io”.
Halbarad
emise un suono che poteva essere una risata o un singhiozzo. “Questo è
abbastanza vero. Perché dovrei pagare per qualcosa che non ho fatto?”
“Se
darai ad Aragorn una possibilità di farlo, lui ti perdonerà. Ma devi farlo ora,
prima che tutte le leghe delle terre selvagge e il dolore del tradimento vi
separino, o non ci sarà modo di tornare indietro. Non essere la causa della tua
condanna, Halbarad!”
“Non
temere! Farò in modo che giustizia sia fatta!”
Le
parole non avevano ancora lasciato le sue labbra che Halbarad estrasse il
pugnale dal fodero che portava alla cintura. Udendo il rumore del metallo,
Boromir indietreggiò, sollevando le mani vuote verso il suo aggressore.
“Halbarad...”
Ma
il Ramingo era già su di lui, piombando con tutto il suo peso contro il petto
di Boromir, affondando il pugnale tra le sue costole. Un dolore lancinante
attraversò Boromir, che, investito dalla forza dell’impatto, cadde pesantemente
all’indietro. La sua testa batté violentemente contro il terreno, e il dolore
svanì nell’oscurità.
Legolas
sentì l’inconfondibile rumore di una lama che veniva estratta, e sollevò la
testa di scatto. Aveva visto gli uomini uscire dalla Torre, Faramir che si
allontanava, mentre Boromir si avvicinava ad Halbarad. Aveva distolto lo
sguardo di proposito cercando di ignorare le loro voci, non volendo intromettersi
nel loro confronto. Ma quel suono, in quel momento, non poteva essere ignorato.
La
luce del sole scintillò sulla lama, mentre Halbarad alzava il braccio e si
gettava addosso al suo rivale. Legolas balzò in piedi con agilità mentre Merry
gridava allarmato, e cominciò a correre. Vide Boromir scaraventato al suolo
dalla forza dell’affondo, e Halbarad che con un salto superava agilmente il suo
corpo esanime. In un attimo Legolas fu dall’altra parte del cortile, con l’arco
pronto tra le mani, ma il Ramingo correva rapido come un elfo, e ormai si
trovava a soli pochi passi dal cancello superiore.
Mentre
Halbarad scompariva nel buio della galleria, Legolas udì Gimli che gridava a
gran voce, “Ehi! Guardie! Fermate quell’uomo!”
Gli
occhi acuti dell’elfo compresero immediatamente la situazione. C’erano due
guardie alle porte della Cittadella armate di lancia e spada, che non avrebbero
mai raggiunto Halbarad in tempo. Sapeva che c’erano altre due guardie alla fine
della galleria, appena fuori dal Settimo Cancello. Sarebbero accorse se
chiamate, ma ci avrebbero messo troppo tempo a rendersi conto di ciò che era
accaduto, e non avrebbero pensato a fermare il luogotenente di Aragorn. Nel
momento in cui avessero capito la situazione, il traditore sarebbe già stato
lontano.
Senza
fermarsi, Legolas si voltò e corse direttamente verso le mura. Con un solo
balzo fu in piedi sul parapetto, dove si fermò, perfettamente in equilibrio
sull’ampia balaustra di pietra. Il suo sguardo corse sulla strada sottostante.
Sotto di lui venivano le grida delle sentinelle e il rumore di armi sguainate,
ma nessuno aveva ancora raggiunto la fine della galleria. Nessuno a parte il
Ramingo e le due confuse sentinelle. Halbarad stava fuggendo lungo curva della
strada, diretto verso il Sesto Cancello inseguito a distanza da una sola
guardia.
Veloce
come il pensiero, Legolas incoccò una freccia. Gli occhi come due fessure,
prese la mira tendendo l’arco. Attese l’avvertimento della sentinella.
“Fermati, in nome del Re!”. Ma Halbarad non gli prestò alcuna attenzione. Poi
lasciò partire il colpo.
La
freccia aveva appena lasciato l’arco che subito Legolas incoccò di nuovo. Con
l’arco teso seguì il suo bersaglio mentre correva attraverso il Sesto Cancello,
ma non ci fu bisogno di una seconda freccia. Il Ramingo fece alcuni passi poi
inciampò, cadendo ai piedi delle mura. Legolas abbassò l’arco e restò con le
braccia inerti lungo il corpo, osservando senza espressione la figura distesa
all’ombra del cancello.
Halbarad,
Dúnadan del Nord, giaceva morto sul selciato in una pozza di sangue scuro, con
una freccia elfica che gli trapassava il collo.
Quando
Boromir riprese conoscenza, fu accolto da un dolore sordo e insistente che
gli martellava in testa, e dalle voci di molte persone attorno a sé. Aveva
perduto il senso del tempo e dello spazio. Non ricordava il motivo per cui
si trovava disteso a terra sulla tiepida pietra, circondato dal rumore di
passi e grida. L’unico pensiero che riusciva a farsi strada nella sua mente
era la speranza che tutto quello finisse presto, prima che ne fosse
schiacciato completamente.
Dall’oscurità sopra di lui giunse una voce familiare, un respiro caldo sul
suo viso, e mani gentili sul suo capo. "Boromir... fratello..." Poi,
altrettanto rapidamente di come era venuto, il calore attorno a lui svanì, e
la voce sibilò con disperazione.
"Maledetto me! Che idiota sono stato! Non avrei mai dovuto lasciarlo!”
"No,
Faramir, la colpa è mia”, disse un’altra voce.
Sembrava Aragorn. Ma i sensi
di Boromir erano troppo confusi, e c’era così tanto rumore attorno a lui,
che non ne era sicuro. "Sono stato io a dargli il permesso di seguirlo,
anche se sapevo che Halbarad era fuori di sé".
Halbarad! Il nome
suscitò in lui un’ondata di panico, causandogli un dolore acuto quanto
quello che gli pulsava in testa. Doveva trovare Halbarad, prima che ad
Aragorn succedesse qualcosa di terribile. Non poteva ricordare che cosa
minacciasse il suo re, ma sapeva che era qualcosa di molto grave.
E solo il Ramingo poteva impedirlo. Doveva trovare Halbarad!
Guidato
da quell’unico pensiero cercò di liberarsi dalla stretta di Faramir e di
alzarsi su un gomito. Non appena mosse la testa, però, un fortissimo dolore
gli esplose nel cranio, mandando ondate di nausea attraverso di lui e
strappandogli un gemito.
Le mani di Faramir aumentarono la presa, tenendolo fermo, e suo fratello
gridò “Si sveglia!”
"Halbarad!" gemette Boromir.
"Non ti agitare, Boromir. Stai tranquillo". La voce di
Aragorn era come un balsamo curativo, e le sue mani di guaritore lo
afferrarono per le spalle tenendolo fermo.
“Non c’è nulla da temere”.
"Halbarad..."
"Resta
fermo, lascia che ti aiuti”.
"...devo trovarlo".
"No,
devi restare fermo. Gandalf!" Boromir sentì una fresca ombra sul suo viso,
quando lo stregone rispose alla chiamata di Aragorn.
"Ti prego, sgombera il cortile. Imrahil,
corri alle Case di Guarigione...”
"Niente
guaritori", mormorò Boromir, cercando di nuovo di liberarsi dalle mani che
lo immobilizzavano.
“Non ho bisogno... di guaritori”.
"Boromir, devi restare fermo!”Il tono di
comando nella voce era imperioso, e Boromir, obbediente, si abbandonò sul
pavimento. “Avverti i guaritori del nostro arrivo. Chiama qualcuno con una
lettiga e delle bende per una ferita di pugnale”.
"Non è
niente”, sussurrò Boromir, sollevando una mano a coprirsi gli occhi bendati.
Fu stupito e spaventato nel sentire il tremito delle sue dita e la debolezza
del suo braccio. Per quanto si sforzasse di capire che cosa gli era
accaduto, tutto quello che riusciva a ricordare erano frammenti di emozioni.
Rabbia. Impotenza. Disperazione. E, più
importante di tutti, il bisogno di trovare Halbarad.
“Lasciate che mi alzi...devo trovarlo”.
"Non serve, amico mio".
La voce di Aragorn era stanca e tetra, velata di una sofferenza che turbava
Boromir ancora più del dolore nel suo corpo. Che cosa era accaduto? Perchè
non riusciva a ricordare?
"Devo
estrarre la lama prima di poterlo spostare”, disse Aragorn, rivolto ai
presenti ancora affollati attorno a lui, che riempivano l’oscurità con la
loro paura.
"Legolas, prendi questo e stai pronto a tamponare la ferita. Merry, tienilo
fermo”.
Come
risposta a quelle parole, Boromir sentì una piccola mano stringersi attorno
al suo braccio sinistro, e per la prima volta notò la presenza dietro di
lui. Cominciò a voltarsi verso lo hobbit, cercando di rassicurarlo, quando,
un improvviso, lancinante dolore al suo fianco sinistro gli tolse il
respiro, mandando un violento fremito attraverso il suo corpo. Le sue dita
si strinsero con forza su quelle di Merry mentre la sua mano libera andava a
raggiungere la fonte del suo dolore. Ma Legolas fu più veloce. Spinse via la
sua mano e premette un tampone improvvisato sulla ferita.
Il sangue ruscellò caldo sulla sua pelle.
Fu
Merry a parlare, tra le lacrime. "Va tutto bene, Boromir.
Ora è finita".
"Merry..." Boromir inspirò ed espirò dolorosamente, cercando di ritrovare il
controllo. La stretta
di Merry lo rassicurava, e la sua voce lo confortava.
"Merry."
"Sono qui".
"Non
perde molto sangue", disse Legolas, "e respira regolarmente”.
"Hai ragione”. Aragorn sembrava confuso. "Guarda il pugnale”.
"Dovrebbe essere insanguinato fino all’elsa!”. Quello era Gimli, senza alcun
dubbio. Nessun altro avrebbe potuto mettere tanto stupore e belligeranza in
un’unica esclamazione.
“Come può essere? Che cosa ha deviato la lama?”
"Non è
nulla... solo un graffio…” mormorò Boromir. Non riusciva ancora a capire il
senso delle loro parole, ma ricordava abbastanza da essere certo che tutta
quell’agitazione non era necessaria. Pensavano forse che Boromir, soldato di
Gondor, fosse così sciocco da cadere due volte nella stessa trappola?
“È
quello che dici ogni volta che stai sanguinando!” ribatté Merry.
Aragorn si chinò su Boromir. “Sì, ma
forse questa volta è la verità. Vediamo cosa c’è sotto questa tunica, amico
mio”. Abili dita rimossero il bendaggio di Legolas, e Boromir udì il rumore
del pesante broccato che veniva strappato. Aragorn si chinò per osservare
meglio, e Boromir poté sentire il suo respiro rapido, poi improvvisamente il
re si alzò, ridendo. “Avrei dovuto immaginarlo!”
"Che cosa?” Domandò Pipino.
"Un
giaco di maglia! Sta indossando un giaco di maglia!”
Boromir
ebbe un moto di irritazione. “Sarò anche cieco… ma non sono uno stupido”.
"Grazie ai Valar!" Aragorn strinse la mano sulla sua spalla, e rise di
nuovo. “Sono stato io lo stupido a dubitare di te! E ad averti esposto a
questo pericolo...”
"Non è
stata colpa tua”, mormorò Boromir, anche se non aveva idea di quale fosse il
pericolo di cui parlava Aragorn. Sentì la mano di suo fratello che si posava
delicatamente sulla sua fronte, e ricordò le prime parole che aveva sentito
al suo risveglio.
"E nemmeno tua, fratello", aggiunse piano.
Faramir
inspirò bruscamente, e sussurrò, con voce rotta, “Pensavo di aver perso mio
fratello e il mio signore allo stesso tempo.
E tutto a causa della mia stupidità!”
"Non ti impadronirai della primogenitura così facilmente", cercò di
scherzare Boromir.
La sola
risposta di Faramir fu chinare il capo e premere le labbra per un momento
sulla fronte di Boromir.
Poi si rialzò, e ritrovata la voce, domandò “E ora, mio Re?”
“Dobbiamo bendare bene la ferita, per evitare che perda altro sangue. Anche se
non è profonda, è una brutta ferita, e dobbiamo medicarla in fretta. Ma temo
che il colpo alla testa sia la cosa più grave”.
“Non capisco!” protestò Merry! “Se sta
indossando un giaco di maglia, come ha fatto la lama a raggiungerlo?”
“Questo
è un pugnale elfico, come molte delle armi dei Dùnedain". Nuovamente le dita
di Aragorn presero il posto di quelle di Legolas, spostando la benda per
tastare delicatamente la ferita. “La lama è abbastanza affilata da penetrare
attraverso gli anelli di ferro, ma non ha potuto danneggiare organi vitali.
Il polmone è intatto”.
Si
interruppe per concentrarsi sul suo compito, le sue mani che si muovevano
con esperienza. Boromir sopportò in cupo silenzio, stringendo i denti per
resistere al dolore che gli causava anche solo quel tocco gentile. Stringeva
saldamente la mano di Merry, cercando di distogliere la sua mente da ciò che
accadeva attorno a lui.
Nel momento di quiete che seguì, un ricordo affiorò all'improvviso.
"Halbarad". Cercò di
alzarsi, ottenendo solo una protesta da parte di Faramir e un deciso ordine
di Aragorn. Lasciò che suo corpo si rilassasse sulla pietra sotto di lui e
disse, "Stavo parlando con Halbarad. Lui era... fuori di sé”.
“Non
ricordi cosa è successo?” domandò Aragorn, la sua voce stranamente dura.
“No. Solo...”
Fu
interrotto dalla vibrazione di passi di corsa sul pavimento, che si
ripercossero attraverso le pietre strappandogli un gemito di dolore.
Nell'immobilità che si era creata aveva quasi dimenticato il dolore alla
testa.
Il rimbombo degli stivali glielo fece ricordare anche troppo chiaramente.
“Ecco
le bende”, ansimò Imrahil.
“La lettiga sta arrivando”.
"Bene”.
Aragorn
tornò a dedicarsi al suo lavoro, e Boromir lo sentì rimuovere tessuto e
maglia di ferro per scoprire la ferita. Faramir teneva ferma la sua testa,
sostenendola, cosa di cui Boromir era grato, e Merry si aggrappava alla sua
mano. Quando Boromir si lasciò sfuggire alcuni lamenti soffocati, Aragorn
mormorò le sue scuse.
"È la
testa che mi fa male, non la ferita!” boccheggiò Boromir.
“Lo so.
Ma non possiamo portarti fino alle Case di Guarigione finché non abbiamo
fermato la perdita di sangue”.
Stringendo i denti, Boromir domandò, “Aragorn... come... come è successo?”
Il
Ramingo esitò, occupato a fermare la perdita di sangue, poi rispose
semplicemente, “Halbarad ha tentato di ucciderti”.
Dunque
era questo il motivo della furia silente che li animava tutti. Era questa la
causa della disperazione che udiva nelle loro voci e che faceva sì che tutti
si stringessero attorno a lui così protettivamente.
“È fuggito?”
“Ha tentato. Non è
andato lontano”.
"Cosa... cosa gli farai?"
"Nulla”. Aragorn
diede un brusco strattone alla benda.
“È morto”.
Il
gemito spezzato di Boromir era dovuto tanto al dolore per la ferita quanto
alla disperazione.
"No!”
Aragorn
non disse nulla. Fu Legolas a parlare, alla sinistra di Boromir, con voce
calma ma piena di rabbia tagliente.
“Piangi per lui se vuoi, Boromir, ma non dare la colpa ad Aragorn. Halbarad
ha suggellato il suo destino con la sua stessa pugnalata".
Boromir
sollevò di nuovo una mano a coprirsi gli occhi, cercando di nascondere il
suo viso alla vista degli amici.
“Io so di chi è la colpa”.
"Non
tua, Sovrintendente di Gondor”.
Scosse
la testa impercettibilmente, ingoiando le lacrime che gli stringevano la
gola, e sussurrò, “Sono stanco di queste ombre, stanco del sangue.
Quando sarà finita?”
Fu Aragorn a rispondergli. “È finita.
E ora, mio sovrintendente, tu riposerai”.
*** *** ***
Le
foglie tritate di athelas galleggiavano in una ciotola di acqua
bollente accanto al letto, riempiendo l’aria della loro fragranza
medicamentosa. L’odore fece venire in mente a Merry la Contea in primavera,
rigogliosa e bella oltre ogni dire, come viveva solo nei suoi più dolci
sogni, e il suo cuore si alleggerì. Era seduto a gambe incrociate ai piedi
del letto, e guardava gli Uomini lavorare senza dire nulla. Il suo senso di
benessere fu messo a dura prova quando vide il viso esausto e pallido di
Boromir, ma poi si ricordò la promessa di Grampasso.
“Andrà
tutto bene, Merry”, aveva detto, Mentre Legolas e Faramir sollevavano
Boromir sulla barella, “hai la mia parola.
Non lascerò che gli accada nulla di male”. Poi aveva
preso la mano di Merry e si era incamminato verso le case di Guarigione,
sempre tenendo accanto a sé lo hobbit spaventato, proteggendolo con la sua
presenza rassicurante.
Andrà
tutto bene. La promessa di un amico e di un guaritore. La promessa di un Re
che li aveva condotti attraverso il fuoco e l’oscurità fino a una splendente
aurora. Come poteva dubitare di Grampasso?
Guardò
le agili dita di Aragorn lavorare alla ferita nel fianco di Boromir, e,
rincuorato dall'aroma dell'athelas, non distolse nemmeno lo sguardo.
Boromir non sembrava accorgersi del dolore, ora che era di nuovo padrone di
sé. La spaventata confusione e lo smarrimento che aveva mostrato poco prima
nel cortile erano scomparsi, lasciando il posto al suo consueto contegno, e
a una tetra rassegnazione a sopportare i mali che non poteva evitare. Aveva
ostinatamente rifiutato la presenza dei guaritori, accettando solo Aragorn,
e aveva mandato Faramir a chiamare Gil, mettendo a tacere le proteste del
fratello con un ordine imperioso. Persino il Re si era arreso al suo
desiderio, impedendo l’ingresso a tutti fuorché alla sguattera. Ora che
aveva vinto quella piccola battaglia, Boromir sembrò lieto di lasciare il
comando ad Aragorn.
Aragorn lasciò cadere un panno insanguinato nel catino ai suoi piedi e fece
cenno a Faramir di porgergli la fasciatura. Insieme
bendarono strettamente la ferita, mentre Gil si occupava del catino,
raccogliendo i bendaggi insanguinati ai piedi del letto. A una parola di
Aragorn, la ragazza uscì dalla stanza per ritornare poco dopo con una grande
tazza d’argento che fumava tra le sue mani.
Dopo
che Aragorn ebbe finito di fissare il bendaggio, Gil gli porse la tazza.
Aragorn la prese, ringraziandola, e la posò sul tavolino accanto al letto.
Gil cominciò a raccogliere i vari capi di vestiario sparsi per la stanza.
Aragorn fece un passo indietro, osservando il suo lavoro.
"Ora puoi respirare, Boromir. Ho finito di torturarti. La ferita
è pulita e ora ha solo bisogno di tempo per guarire".
"Ti
ringrazio”, disse Boromir, con voce tirata. “Ti sarei ancora più grato se
potessi far smettere il pulsare nella mia testa”.
"Bevi questo." Sollevò la coppa, mettendola tra le mani di Boromir. "Lenirà
il dolore e favorirà il sonno".
Boromir, che stava già per prendere la tazza, si tirò indietro di scatto.
"Sonno?" Il suo viso divenne sospettoso. "Non ho bisogno di droghe per
dormire."
"Non ti
fidi del tuo Re e guaritore? Ho preparato io stesso questa medicina, e ti
garantisco la sua efficacia.
Bevila, Boromir. Non soffrire senza motivo."
"No."
Lasciò cadere le mani per afferrare i lati del letto, cercando inutilmente
di nascondere il tremito che le scuoteva. "Il dolore è poca cosa, e
preferisco guarire naturalmente".
Aragorn lo guardò con comprensione. Boromir
continuava a tenere il capo abbassato, stringendo ostinatamente i bordi del
letto, mentre Faramir guardava prima uno poi l’altro con espressione
ansiosa. Poi finalmente Aragorn ruppe il silenzio, posando la tazza sul
tavolo con un rumore secco.
Si voltò e lanciò un veloce sguardo a Gil.
Gil
comprese di essere stata congedata, e si avviò verso l'uscita dopo un breve
inchino e un rispettoso "mio signore". Né Aragorn né Faramir notarono la
piega preoccupata della sua bocca, o il sordo dolore nei suoi occhi mentre
guardava in direzione di Boromir. Solo Merry se ne accorse, ma Gil se ne
andò prima che lui potesse confortarla. Non che sapesse in che modo farlo -
o se lei avrebbe accettato il suo conforto.
Aragorn
attese finché i suoi passi non si furono spenti lungo il corridoio di
pietra, poi si sedette sul bordo del letto e parlò a Boromir.
"Perché non vuoi dormire?"
Merry
lanciò un veloce sguardo a Faramir, e vide che anch’egli era sporto in
avanti, come il suo re, ansioso di sentire la risposta di suo fratello. A
Merry sembrava assurdo fare una simile domanda, ma d'altronde loro non
avevano viaggiato a fianco di Boromir per tutti quei giorni di oscurità,
ascoltando il tormento nella sua voce la notte. Mosso da un impulso
protettivo, Merry si avvicinò a Boromir, abbastanza perché l’uomo avvertisse
la sua presenza, e attese la sua risposta.
Boromir per tutti guqoromir per tutti guq d'altrone
"Ti
sfinisci senza sosta giorno dopo giorno”, continuò Aragorn, “e la notte
vaghi per queste case come uno spettro senza pace. Se continui così, il tuo
corpo ne sarà provato al punto da non poter guarire.
Io voglio aiutarti, Boromir, ma devi dirmi come. Dimmi perché non vuoi
dormire”.
Boromir non rispose. Rimase
seduto fissando con lo sguardo bendato le proprie mani, aprendo e chiudendo
le dita in un gesto smarrito. Il suo viso era teso e rabbuiato, ma distante,
come se i suoi pensieri stessero vagando lontano da quella piccola stanza e
dalle attenzioni dei suoi amici.
Aragorn attendeva pazientemente. Faramir osservava il fratello con il
dolore evidente nei suoi occhi, ma non osava dire nulla per non disturbarlo.
Fu
Merry che ruppe quell'immobilità, posando una mano sul braccio di Boromir.
Il tocco parve richiamare Boromir alla realtà. Sollevò la testa di scatto,
con un'espressione confusa in volto.
"Boromir?" Aragorn parlò dolcemente, non più in tono di comando, ma di
supplica.
"Cosa non va?"
Con un
visibile sforzo, Boromir rispose, in un sussurro.
“Ho paura”.
"Paura di cosa?"
"Dell’oscurità. Quando
sono solo diventa così grande. Soprattutto nel sonno. Ho paura che una volta
che vi sono entrato, non troverò mai più la via del ritorno."
Lo sguardo di Aragorn era così pieno di dolore e compassione che Merry sentì
le lacrime salirgli agli occhi. E in quel
momento, lo hobbit capì, come mai prima, quanto fosse profondo il legame tra
i due uomini.
Era stato forgiato tra le fiamme di Isengard e messo alla prova dal Nemico
stesso. Nulla poteva spezzarlo. E
l'oscurità non avrebbe mai vinto Boromir, finché Aragorn fosse stato lì per
portarlo indietro.
"Non
permetterò che tu ti smarrisca”, lo rassicurò Aragorn, dando voce ai
pensieri di Merry.
"Fidati di me, Boromir. Io ti richiamerò, se mai dovessi vagare troppo
lontano”.
"Ha
fatto la stessa cosa con me”, disse Faramir. “Quando il Respiro Nero mi
imprigionava, è stata la voce del Re che mi ha liberato".
"E
anche con me", mormorò Merry.
La mano
di Boromir si posò su quella di Merry, stringendola convulsamente. “Come
farai a sapere se...” deglutì dolorosamente, “...se sarò perduto?”
"Ci
sarà sempre qualcuno qui con te, a vegliarti quando non ci sarò io. Qualcuno
di cui ti fidi. E di tanto in tanto ti sveglieremo, per assicurarci che tu
non cada troppo profondamente nel sonno". Boromir non disse nulla,
continuando a tenere il capo abbassato con espressione spaventata.
"Non ti lasceremo solo", aggiunse Aragorn, " te lo giuro".
Boromir
sospirò. “Ora mi disprezzerete”.
Gli
occhi di Aragorn scintillavano, e Merry si accorse che erano pieni li
lacrime. “Io penso solo che troppo a lungo ho messo il regno al di sopra del
benessere del mio amico. E come sempre, tu stai soffrendo per causa mia."
"No,
Aragorn. Io non mi aspetto certo che tu curi le mie ferite o scacci le mie
paure”.
"E’ mio
dovere, tanto quanto radunare gli eserciti o promulgare le leggi. Io sono la
Gemma Elfica, Speranza dell’Ovest, guaritore e Re, e fratello d’armi di
Boromir di Gondor fino alla morte. Io posso darti riposo e pace, liberarti
dalle tue paure. Tutto quello che devi fare è fidarti di me."
Per un
lungo momento, Boromir restò a capo chino in silenzio, impegnato in una
lotta con se stesso.
Alla fine, sollevò il capo e annuì. Faramir
sorrise sollevato, e si chinò a togliere gli stivali al fratello. Merry si
spostò per dare ai due uomini spazio per muoversi, e li osservò mentre
adagiavano il corpo martoriato ed esausto di Boromir in una posizione più
comoda.
Quando
ebbero finito, il viso di Boromir aveva perso ogni colore. Sembrava così
debole che Merry si spaventò, ma quando Aragorn si curvò su di lui per
sistemare le coperte, Boromir protestò con forza.
“Non mi affliggerai con i guaritori, vero? O con
quella vecchia che non la smette mai di parlare?
"
"Niente guaritori. Ma deve
rimanere qualcuno di guardia alla tua stanza”.
"Merry
è la sola guardia che mi serva”.
Lo hobbit sorrise, e mormorò, “Non ho ancora una spada”.
“Le
guardie possono proteggerti tanto dai sicari che dai visitatori
indesiderati”, osservò Aragorn. “Avranno ordine di non entrare nella stanza
a meno che tu non li chiami, e di non lasciare entrare nessuno senza il mio
permesso”. Prese la tazza che fumava lievemente sul tavolo e la portò alle
labbra di Boromir, che però voltò la testa ostinatamente da un lato. "Bevi,
Boromir. Questa è la fiducia di cui parlavo, e la medicina di cui hai
bisogno."
"La
berrò, ma... non ora. Il mio stomaco non è in grado di sopportarla in questo
momento. Lasciala qui. Merry si assicurerà che io beva."
Aragorn
lo osservò per un momento. Non credeva che Boromir si sentisse così male da
non bere la pozione curativa, ma decise di non insistere oltre.
“Molto bene. Ma se al
mio ritorno non l’avrai bevuta non sarò così indulgente. Scoprirai che ho
metodi convincenti per fare eseguire i miei ordini”.
Boromir
mormorò riluttante il suo assenso, e Aragorn giudicò che fosse il momento
giusto per andarsene, prima che il suo paziente trovasse qualcos’altro da
obiettare. Stringendo in segno di commiato la mano di Boromir, disse, “Ora
riposa. Lascia che l’athelas faccia il suo lavoro. Merry rimarrà fino
a quando verrò a dargli il cambio, ma se hai bisogno di me, chiamami. Io
verrò.”
"E
anche io," assicurò Faramir.
Aragorn uscì dalla stanza, ma Merry lo fermò sulla soglia, tendendogli una
mano. "Credi davvero che sia ancora in pericolo, Grampasso?" Domandò Merry,
guardandolo con preoccupazione.
"Non lo
so, ma non voglio correre rischi”.
"Forse
sarebbe meglio se avessi una spada”.
"Sì, credo di sì.” Aragorn
rifletté per un istante, poi estrasse dal fodero il pugnale elfico di
Halbarad, che aveva infilato nella sua cintura. La lama era lunga e sottile,
un oggetto di mortale bellezza. E la sua punta era ancora macchiata del
sangue del Sovrintendente di Gondor. Mentre l’acciaio elegante scivolava
fuori dal fodero, Aragorn vide la macchia ed esitò, e il suo volto si fece
duro per la repulsione.
Stava per rinfoderarla di nuovo, ma Merry lo fermò.
"E' una
lama così buona?", domandò.
"Lo è davvero”. Aragorn la
soppesò nella sua mano, come se cercasse di ricordare le innumerevoli volte
in cui l'aveva vista nella mano del suo amico, l'amico che aveva amato e di
cui si era fidato, non il traditore che era morto sulla strada nemmeno
un'ora prima. "Questa lama è stata adoperata con onore per molte vite degli
Uomini, e mai, fino a oggi, era stata insudiciata con la codardia o il
tradimento”.
Merry tese la mano, e Aragorn vi pose il pugnale. Merry
strinse le dita attorno all’elsa, provandone il bilanciamento, e per un
momento pensò che era davvero uno strano caso del destino, che ora lo faceva
stare al cospetto di un re discutendo le virtù di una lama elfica nella sua
mano.
"Posso tenerla?"
"Con piacere." Prendendo il pugnale per la guardia, Aragorn pulì la lama
nell’angolo del suo mantello. “Ma, al
contrario del tuo Re, tu dovresti sempre ricordarti di pulire la sua lama,
Mastro Scudiero. Ora hai tutto ciò che ti serve per difendere il tuo
signore”. Poi fece un passo indietro e rivolse a Merry un solenne inchino.
Merry
arrossì leggermente mentre ricambiava il saluto al suo Re. Attese in
silenzio accanto alla porta fino a che anche Faramir non si fu congedato da
Boromir, poi, quando sia lui che Aragorn se ne furono andati, entrò
chiudendo a porta delicatamente. Poi posò la sua nuova spada sul piccolo
tavolo accanto al letto, e si arrampicò sul letto sedendosi accanto a
Boromir, prendendo la sua mano nelle sue. Boromir gli sorrise brevemente, ma
la tensione non abbandonò il suo viso, e la sua fronte rimase corrugata.
"Ora ho
una vera spada”, disse Merry in tono pratico, “Così non hai più nulla da
temere”.
Il
sorriso apparve ancora, e Boromir mormorò, “Riposerò più sereno, sapendo che
sei qui a guardarmi le spalle”.
Merry
non fu in grado di decidere se il tono della sua voce era serio o
bonariamente derisorio. Piegò la testa di lato, con aria sospettosa. “Dici
sul serio?”
Boromir
sembrò sorpreso. "Sì, naturalmente!"
"Bene.
Pensavo che ti stessi prendendo gioco di me per via del coltello da
formaggio".
"Non
potrei mai prendermene gioco. È stato un atto di supremo coraggio, degno dei
più grandi eroi di Gondor”.
"Ora
sì che ti stai prendendo gioco di me".
"No."
Boromir strinse le dita con fermezza attorno a quelle di Merry, e per la
prima volta, un genuino sorriso gli illuminò il viso. “Io ti sono grato,
Piccoletto, e non solo per quello, ma anche per tutte le ore che hai
trascorso con me a parlare, ridere e ricordare."
Le
lacrime giunsero improvvise agli occhi di Merry, e un nodo gli strinse la
gola. Non che avesse mai dubitato dell'affetto di Boromir, né della fiducia
che il cauto soldato riponeva in lui, ma sentirlo parlare in modo così
naturale e aperto era come un balsamo per il suo cuore. In quel giorno di
ansia, la paura, la rabbia e il panico più cieco avevano lasciato il loro
segno su di lui. Era passato attraverso la tensione snervante e il terrore
assoluto, per poi ritrovarsi alla fine ancora una volta nel ruolo di
protettore e compagno paziente. La testa gli doleva a tal punto che le
lacrime erano il suo unico sfogo.
Forse
Boromir aveva udito i suoi singhiozzi sommessi, o forse anche i suoi
pensieri si erano rivolti allo stesso tempo verso oscuri sentieri, perché
quando parlò di nuovo il calore aveva lasciato la sua voce. Sembrava stanco
e triste, e c’era una traccia dell’antica disperazione nelle sue parole.
“Presto questi momenti tranquilli che trascorriamo insieme non saranno che
un’altro ricordo."
"Mi
dispiace” Merry si dovette schiarire rumorosamente la gola prima di poter
continuare. “Darei qualunque cosa per poter restare qui con te. Tutto,
tranne...”
“Tranne
la possibilità di rivedere la Contea”.
La
quieta rassegnazione nella voce di Boromir fu come un macigno sul cuore di
Merry. Sapeva che Boromir aveva accettato la sua decisione di andarsene, per
quanto gli era possibile, ma sentiva comunque il bisogno di giustificarsi.
Forse voleva vincere la piena approvazione dell’Uomo, invece di quella cupa
resa a labbra serrate. "Gandalf dice che ci sarà bisogno di me nella Contea,
prima che questa guerra sia finita. Pensavo che adesso sarei potuto andare a
casa a riposare, ma lui ha detto che abbiamo ancora del lavoro da fare."
"Te ne
vai perché te lo ha ordinato lo Stregone?
"
"No. Io
gli credo, ma anche se così non fosse, anche se tutto quello che mi aspetta
nella Contea fosse solo un comodo buco Hobbit e una pipa piena di foglia di
Pianilungone, nonostante questo tornerei comunque.
Quello è il mio posto, Boromir."
"Non
sei più la creatura innocente e spensierata che ha lasciato la Terra di Buck
tutti quei mesi fa. Tu hai visto gli eventi più grandi e terribili della
nostra era, e ormai sei abituato a ben altre cose che gli svaghi degli
hobbit. Forse non ti sentirai più tanto a casa nella Contea, ora".
"Minas
Tirith ti è sembrata forse meno casa tua, dopo tutti i mesi che hai
trascorso lontano da essa? O per quello che vi hai trovato al tuo ritorno?
"
"No."
Boromir esitò un istante, poi aggiunse, sussurrando. “Anche se fosse
bruciata e annerita come la mano di Sauron, ridotta in macerie, e il suo
popolo disperso nelle terre selvagge, il mio cuore abiterebbe sempre nella
Bianca Torre”.
"Allora tu mi capisci."
"Sì." Boromir trasse un profondo respiro, spezzato a causa del dolore che
gli causava la ferita al fianco. “Non posso trattenerti qui, e non posso
segurivi all'Ovest. Non ho altra scelta che trovare la mia strada senza di
te".
"Anche
io dovrò trovare la mia."
Entrambi rimasero in silenzio, ma nonostante i tetri pensieri, era un
silenzio piacevole. Merry scoprì di non avere altre parole o consigli per il
suo amico. Nulla avrebbe potuto cancellare il dolore di lasciare Gondor e il
suo Sovrintendente, ma il pensiero che il suo Re li avrebbe protetti
entrambi gli fu di conforto. E anche se Boromir avrebbe sentito la mancanza
della sua guida, avrebbe trovato comunque la sua strada attraverso gli
oscuri sentieri che lo attendevano. Merry non aveva dubbi in proposito.
Tutto ciò che gli restava da fare era mettersi in strada, e seguirla fino a
casa.
Quando
Boromir si mosse, sollevando la mano a coprirsi gli occhi, Merry si riscosse
dal pensiero delle lunghe leghe che separavano la Contea da Minas Tirith e
rivolse la sua attenzione all’uomo ferito. Il suo gesto tradiva il dolore e
la stanchezza, e fece tornare alla mente di Merry il suo dovere.
"Ora
sei pronto per dormire?”, domandò.
Boromir
rispose con un grugnito che Merry non avrebbe saputo interpretare.
"Hai
promesso ad Aragorn che avresti bevuto la sua medicina."
"Sì."
Merry prese la coppa, ormai fredda, dal tavolo, e la annusò cautamente.
“Profuma di erbe e di miele. Non sembra per niente male."
"Puoi
berla tu. Dormi, e io veglierò sul di te.”
Merry
ridacchiò. Fece per passare una mano dietro la testa di Boromir, in modo da
sollevargli la testa per aiutarlo a bere più facilmente, ma l'uomo gemette
al suo tocco, e scostò bruscamente la sua mano.
Il viso di Merry era rosso di umiliazione. "Scusami! Non ci avevo pensato!”
"Va
tutto bene… tutto bene. Ma, per il cielo, fa male!" riuscì a dire. “Penso
proprio che mi farebbe bene un po’di sonno drogato per sfuggirgli!”
"Sai
che puoi fidarti di Aragorn. Non ti darebbe mai nulla che potrebbe farti del
male.
Ti prego Boromir, bevi e riposa”.
"Per te, lo farò."
Tese la
mano, permettendo a Merry di dargli la tazza. Insieme, la portarono alle sue
labbra, e Boromir deglutì la pozione dall’odore dolce. Quando la tazza fu
vuota, la restituì a Merry, e si lasciò sprofondare nel cuscino con un
sospiro di sollievo.
Tese ancora una volta la mano verso lo hobbit. Merry la
afferrò stringendola tra le sue, e sorrise quando Boromir parlò di nuovo.
"Raccontami una storia che parla della Contea, Merry. Qualcosa... qualcosa
di caldo, che profumi d’estate”.
Quando Aragorn ritornò alle Case di Guarigione era ormai il tramonto. Trovò
Merry raggomitolato su una sedia intento a mangiare una mela, mentre Boromir
era immerso in un sonno profondo. Posando le foglie fresche di athelas
sul tavolo, si chinò a osservarlo attentamente.
"Non si muove da ore”, disse Merry.
"Questo è bene."
"Dobbiamo proprio svegliarlo? Sembra
così tranquillo... non voglio disturbarlo. E poi, anche dopo aver preso la
tua pozione per dormire, gli ci sono volute due storie hobbit e una delle
vecchie canzoni di Bilbo, prima che si addormentasse”.
"Non
temere, Mastro Perian, non si ricorderà nemmeno che lo abbiamo svegliato.”
Aragorn
fece portare altra acqua calda dalle cucine per mettervi l’athelas, e
svegliò Boromir quel tanto che bastava per fagli bere un'altra pozione. Poi,
il Re portò una sedia accanto al letto e allungò le gambe posandole sul
bordo del materasso. In quella posizione somigliava tanto al Grampasso che
Merry ricordava al Puledro Impennato, che lo hobbit si sarebbe quasi
aspettato di vederlo prendere la pipa e chiedere una pinta di birra.
Mancavano soltanto il mantello sdrucito e gli stivali infangati a completare
il quadro.
Osservando Merry con le palpebre semiabbassate, disse “Vai a cenare, Merry.
Resterò io con lui durante la notte".
"Se non ti dispiace, preferisco restare”.
Gli
occhi di Aragorn scintillarono per un instante. “Hai paura di lasciarlo
solo?”
Lo hobbit sorrise imbarazzato. “Un po’. Non so che
cosa gli potrebbe succedere quando non posso vederlo”.
"Per
stanotte, si limiterà a dormire.
Hai la mia parola”.
"Non è
che non mi fidi di te…
"
"Ma preferisci restare”. Grampasso rise. “Allora resta, piccoletto. Un po' di
compagnia mi farà piacere”.
Sorridendo, Merry diede un grande morso alla sua mela e si sistemò
comodamente sulla sua grande sedia in attesa di far trascorrere la notte.
Al suono del respiro regolare di Grampasso, si addormentò.
*** *** ***
Salsicce. Qualcuno
stava cucinando salsicce, e il loro profumo invitante raggiungeva Boromir,
strappandolo dal suo sonno ormai leggero.
Il suo stomaco rumoreggiò in segno di protesta. Boromir si
sollevò cautamente puntellandosi sui gomiti, facendo appena caso al dolore
sordo al fianco, e cercando di capire chi fosse nella stanza con lui.
Sapeva
che c’era sempre stato qualcuno nella stanza a vegliarlo, poiché in tutti i
giorni della sua convalescenza, svegliandosi, non si era mai ritrovato solo.
All’inizio, era sprofondato in un sonno profondo causato dallo sfinimento e
dalle ferite. Quando qualcuno veniva a svegliarlo, riemergeva riluttante
alla consapevolezza per poi scivolare nuovamente nell’abisso oscuro
dell’oblio non appena lo lasciavano andare. In quei momenti beveva le
medicine che gli venivano portate alle labbra e consumava i pasti leggeri
che gli somministravano, ma non riusciva a ricordare chi era stato a
parlargli durante i suoi brevi momenti di veglia.
Man
mano che il suo corpo guariva, il suo sonno era diventato più naturale, meno
profondo. Si svegliava da solo, a volte, e cercava di prestare attenzione a
ciò che lo circondava. Poi finalmente aveva cominciato a riconoscere le voci
che gli parlavano.
Merry, Pipino, Faramir, Aragorn. Tutti loro, a turno, lo avevano vegliato.
Una
volta, svegliandosi, gli sembrò di trovare Gandalf seduto accanto al suo
letto, che fumava la pipa e mormorava qualcosa tra sé e sé. Boromir si
chiese se non l'avesse sognato. Il vecchio Stregone sembrava un'improbabile
infermiere.
Quel
mattino, con il profumo dell’estate e del cibo che si diffondeva nell'aria,
Boromir si svegliò affamato e con tutti i sensi all’erta. Fu una specie di
sorpresa per lui, dopo giorni di oblio, con lo stomaco troppo debole per
mangiare e di totale disinteresse verso tutto ciò che non era sonno. Forse
le pozioni di Aragorn alla fine lo avevano stancato, e ora il suo stomaco
reclamava qualcosa di più sostanzioso che una tazza di tè e pane tostato.
Salsicce, ad esempio.
Un
rumore leggero di passi e il fruscio di una gonna si avvicinarono al letto.
Boromir si sedette meglio, combattendo contro le vertigini che lo
coglievano, e sorrise in direzione del suono.
"Buongiorno, Gil."
In modo
totalmente compito, la sguattera rispose, “Mio Signore”.
"Sento profumo di colazione".
Gil si interruppe, annusando l’aria, e ribattè, “Quello che senti è il
concime che Mamma Ioreth ha sparso sulle erbe del giardino".
Boromir scoppiò a ridere, ma fu colto improvvisamente da un'ondata di
vertigine, e ondeggiò come un ubriaco, sbiancando in volto. Gil lo afferrò
prontamente, sostenendolo con una mano sul suo braccio. Con l'altra mano,
sistemò i cuscini sparsi in modo da formare una pila di guanciali dietro la
sua schiena. Boromir vi si appoggiò, rovesciando la testa all'indietro e
sospirando con gratitudine.
"Sembra
che non potrò mangiare salsicce, dopotutto”.
"Hm.
Non hai nulla che non va, mio Signore, se non lo stomaco vuoto e troppo
tempo trascorso a letto. Il Re ha mandato a dire di prepararti una vera
colazione questa mattina.
Poi un bagno e vestiti puliti".
"Già, e
poi una battaglia con gli Esterling e un’incursione nelle Montagne
dell’Ombra per abbattere qualche orco”, mormorò Boromir, sollevando la testa
mentre Gil gli poneva in vassoio sulle ginocchia. Il profumo della carne e
del pane appena sfornato era invitante.
“Devo recuperare le forze”.
"Proprio così".
Gil
prese un tovagliolo e lo aprì spiegandolo sul suo petto, poi posò sul
vassoio una tazza colma di tè, con il musicale rumore della ceramica sul
legno. Boromir decise che aveva bisogno di bere, più che di mangiare, e
allungò la mano per prendere la tazza. Ma proprio mentre toccava la liscia
porcellana, qualcosa di pesante e di terribilmente caldo cadde sul dorso
della sua mano. Istintivamente ritrasse la mano, proprio mentre Gil,
interrompendosi nel suo movimento, spostava la teiera. La tazza si rovesciò,
versando il liquido bollente sul suo braccio. Boromir trasalì per il dolore,
facendo quasi rovesciare il vassoio che aveva sulle ginocchia.
Con i
fulminei riflessi di un guerriero elfico o di un’esperta cameriera, Gil fece
roteare la teiera lontano da loro, e afferrò allo stesso tempo il vassoio,
fermando la sua corsa verso il caos.
"Non ti
muovere!" esclamò.
Boromir
obbedì prontamente, immobilizzandosi nella posizione in cui si trovava, con
la mano destra che afferrava il bordo del letto, il ginocchio sinistro
sollevato, e il braccio sinistro fradicio tenuto cautamente lontano dal
corpo. Restò per un momento in quella posizione ridicola, mentre il
frusciare del tessuto e il rumore di piatti sul tavolo lo informavano che
Gil stava riordinando le cose sistemando la teiera dove non poteva fare
danni. Poi si occupò del vassoio, sollevandolo dal ginocchio di Boromir.
Boromir distese cautamente la gamba, poi si appoggiò si nuovo all’indietro
contro il cuscino, senza proferire parola e tenendo il viso voltato in modo
che Gil non potesse vedere la sua umiliazione.
"Ti sei
scottato?" domandò lei.
"No."
Boromir si strattonò la manica, sulla quale il liquido si stava raffreddando
rapidamente. La pelle gli bruciava ancora, ma questo evitò di menzionarlo.
Dopo un momento di imbarazzo, aggiunse, “Almeno questa volta non era la
colazione del Mezzuomo”.
Gil
assentì con un mugolio, mentre posava nuovamente il vassoio in grembo a
Boromir. “Questa volta il cibo si è salvato. Mangia, mio signore, prima che
mi tocchi raccogliere tutto quanto dal pavimento”.
Boromir
sorrise, e, con un'esagerata mitezza che causò un soffio di disapprovazione
da parte di Gil, domandò, "C'è rimasto un po' di tè nella teiera?"
Gil
prese la teiera, si allontanò leggermente dal letto per riempirgli la coppa,
e gliela mise tra le mani. Boromir sorseggiò l’infuso caldo con evidente
sollievo, e poi attese fino a che il rumore di passi non lo informò che Gil
si era voltata. Poi posò la tazza sul vassoio e cercò un coltello. Non gli
piaceva mangiare in presenza di altre persone, lo faceva sentire goffo e
vulnerabile come un bambino, e detestava non sapere che cosa aveva nel
piatto – ma gli piaceva ancora meno ammettere di avere bisogno di aiuto. Ma
quella mattina era troppo affamato per badare alla sua vigilante infermiera,
e così, non appena lei si voltò, Boromir abbandonò ogni cautela, trovò il
coltello, e infilzò la prima cosa che trovò nel piatto. Fu fortunato, poiché
si trattava di una saporita salsiccia.
Quando
finalmente Gil si sedette nella sedia accanto alla finestra, Boromir stava
ormai divorando la sua colazione incurante delle apparenze. Gil rimase in
silenzio, la sua presenza rivelata soltanto dall’occasionale frusciare del
tessuto. Boromir mangiò fino a quando la sensazione di vertigine non lo
abbandonò, sentendosi decisamente di umore più allegro. Quando posò la tazza
dopo aver finito di bere il tè, Gil si alzò per spostare il vassoio e
riempire la tazza di nuovo.
"Sono
state un’idea di Aragorn, le salsicce? " domandò Boromir oziosamente.
"I
contenuti della nostra dispensa non sono certo un compito del Re”, Rispose
Gil.
"Allora
è stata un’idea tua. Ti ringrazio."
Rimettendosi a sedere accanto alla finestra, Gil rispose, in tono piatto “Io
servo il mio signore come meglio posso”.
Boromir
sbuffò con scetticismo, ma non commentò. Dopo un momento di silenzio, parlò
di nuovo. "Cosa stai facendo?"
"Rammendo le lenzuola."
"Come,
non dovresti spargere il concime?"
"Il
concime dovrà aspettare dopo che avrò finito qui.”
"Ma tu
non riposi mai?"
"Ho
riposato a sufficienza, prima dell’alba. Non sei un paziente esigente...
quando dormi".
"Devo
chiederti perdono per essermi svegliato e averti disturbata?"
"Come
tu desideri, mio signore."
"Dannazione, Gil, smettila di rammendare e parlami!"
Le mani
di Gil si fermarono, e Boromir immaginò di vedere lo sguardo di muta,
assente obbedienza fissato su di lui. “Ti ho forse arrecato offesa, per
meritarmi solo questa fredda cortesia?” domandò.
"No,
mio signore, non pensarlo." La sua voce divenne più ruvida. “E’ solo che…
sono felice di rivederti in buona salute”.
A
qualcuno meno familiare con il modo di fare spinoso di Gil, quest’ultima
affermazione avrebbe potuto apparire irrilevante.
Ma per Boromir spiegava ogni cosa. Era, in
realtà, la cosa più significativa che Gil avesse detto quella mattina.
Boromir
rimase immobile, senza far trasparire i suoi pensieri, per un lungo momento.
Poi, improvvisamente, sorrise con spensieratezza. “Avevi parlato di un
bagno?”
Boromir sedeva sul bordo del letto, infilandosi cautamente gli stivali.
Lavato, pulito e rasato, ora cercava di vestirsi in modo presentabile, prima
che Gil irrompesse di nuovo nella stanza. I lacci e le fibbie lo facevano
innervosire, e aveva ormai esaurito le sue scarse riserve di forza. Ma il
suo orgoglio aveva sofferto abbastanza quella mattina, e così continuò, a
dispetto della debolezza che lo incalzava.
Era
riuscito a indossare la camicia e i pantaloni abbastanza facilmente, ma il
tremito delle dita non gli permise di allacciare i complicati fermagli della
tunica. E, chinandosi per raccogliere gli stivali, la testa prese a girargli
in modo allarmante. Quando ebbe finito di vestirsi, si sentiva debole e in
preda alla nausea. Un sorso di tè freddo servì a calmargli lo stomaco, ma
non si sentiva ancora pronto per lasciare il porto sicuro del suo letto.
Quando
udì un rumore fuori dalla porta, credette che fosse Gil che ritornava. Ma il
visitatore che entrò nella stanza indossava stivali, ed era accompagnato dal
rumore di pesante broccato che frusciava contro il cuoio, non dal tenue
frusciare di gonne. Attraversò la stanza a grandi passi e si fermò di fronte
a Boromir.
Ci fu una breve pausa, poi la voce di Aragorn lo raggiunse, piena di gioia,
“Come stai, mio Sovrintendente?”
Un
ampio sorriso illuminò il viso di Boromir.
“Abbastanza bene. E tu, mio Re?”
"Bene." Rise forte, afferrando le braccia di Boromir e stringendolo in un
abbraccio. “Bene davvero!”
Mentre
si separavano, Boromir continuò a sorridere al suo re con aria confusa. Non
aveva bisogno di vedere il viso di Aragorn per capire che era ricolmo di
gioia, regale e nobile. Percepiva la sua nobiltà, il sangue di Elendil che
cantava nelle sue vene, l’orgoglio dell’antica Númenor che incoronava la sua
fronte di luce, ma c’era qualcosa d’altro. Questo era un uomo così pieno di
felicità che non poteva quasi contenerla nel suo corpo mortale, e irradiava
da lui come acqua da una fontana.
"E’successo qualcosa," disse Boromir. Poi gli venne un'ispirazione, e
domandò, “E’ forse giunta la dama Arwen?”
"No, ma
quel giorno si avvicina. E’ molto vicino ormai, se leggo correttamente i
segni.”
"Quali segni, Aragorn?"
"Vieni con me, te li mostrerò. A lungo ho
atteso questo giorno, aspettando e sperando. Ora finalmente è giunto.”
Posando una mano tremante sulla spalla di Boromir, disse “Andiamo, Boromir,
vieni a vedere la nostra vittoria definitiva”.
"Verrò
con te volentieri, ma non capisco cosa vuoi dire!”
"Presto
tutto sarà chiaro! Il segno è indirizzato tanto a me quanto a te.
Ne sono certo. E la sua
bellezza... ah Boromir, guarirà il tuo cuore!”
Dopo
aver sistemato gli ultimi fermagli della tunica di Boromir, Aragorn lo
condusse fuori dalle Case di Guarigione, attraverso i giardini inondati di
sole, entrando attraverso l'ampia strada nel Sesto Circolo. Le guardie li
salutarono e si misero sull’attenti al loro passaggio. Mentre passavano
sotto la fresca ombra della galleria, Boromir domandò, ”Dove stiamo
andando?”
"Pazienza," rispose Aragorn .
Passarono anche il cancello successivo, e Boromir intuì che il Re lo stava
conducendo alla Torre. Invece, attraversarono il Cortile fermandosi nel
piccolo prato al centro di esso. Boromir udì il mormorio della fontana e
lanciò uno sguardo interrogativo a Aragorn. Accanto a lui, Aragorn inspirò
profondamente, pieno di esaltazione, e sembrò ergersi più alto di prima. La
gioia in lui era come una presenza viva, che vibrava attraverso la sua
persona come la corda di un'arpa.
Insieme
scesero il gradino, camminando sull'erba soffice. Aragorn liberò con
gentilezza il suo braccio dalla stretta di Boromir, prendendolo per mano e
conducendolo in avanti.
Guidato
da Aragorn, Boromir salì il gradino fino al luogo dove si trovava l’albero
Bianco di Gondor. Boromir si avvicinò con riluttanza. Non aveva desiderio di
toccare il suo tronco secco, e di rivedere nella sua mente l’orgoglio di
Gondor morto e inaridito che marciva accanto alla pozza d'acqua. Ma mentre
si avvicinava colse il profumo di fiori nell'aria. Si fermò, stupefatto, e
mentre ascoltava gli sembrò quasi che la musica della fontana, si solito
così malinconica alle sue orecchie, ora suonasse gaia tra foglie verdi e
rami rigogliosi.
"L’ho
trovato sulle pendici alte del Mindolluin alle prime luci del mattino”,
disse Aragorn, con tono reverente.
"Gandalf mi ha condotto lì”.
"Che cos’è?"
"Il
segno che ho aspettato per tutta la mia lunga vita”.
Di
nuovo, invitò Boromir ad avanzare, e Boromir obbedì senza opporre
resistenza. La sua mano protesa toccò una corteccia liscia. Lentamente,
lasciò che il suo palmo seguisse la curva del delicato ramo, facendo
scivolare le dita sul legno vivo. Era una cosa piccola, apparentemente
fragilissima, che gli arrivava a malapena alla cintola.
Sulla cima c'erano delle foglie fresche e tenere. Ed era vivo.
Miracolosamente, gloriosamente vivo.
L'incredulità e la meraviglia si riversarono nel petto di Boromir,
togliendogli il respiro e stringendogli la gola di lacrime. Cadde in
ginocchio sull’erba, la sua mano ancora protesa a toccare le foglie.
“E’ vivo”, sussurrò.
"Sì, e
lo sarà sempre, finché Gondor prospererà sotto la nostra cura”. Prendendo
gentilmente la mano di Boromir tra le sue, Aragorn la spostò nel punto in
cui un grappolo di fiori incoronava la chioma verdeggiante dell’albero.
“Questa è la nostra vittoria, Boromir. Tua e mia. Che cresce e fiorisce nel
cuore della nostra città”.
"L’Albero Bianco."
"Questo
è il segno che il nostro lavoro è appena cominciato.
Ma se lo affrontiamo insieme, non possiamo fallire.”
"Sì."
Boromir lasciò che la sua mano indugiasse sui petali per un momento ancora,
poi si alzò rigidamente in piedi, e riprese il suo posto al fianco di
Aragorn. "Io sono pronto, mio Re”.
Boromir rimase ad ascoltare passi attutiti
dei piedi nudi sul terreno che si allontanavano inesorabilmente da lui, e
gli sembrò di immaginare Merry che camminava a capo chino, sconsolato.
Avrebbe dovuto richiamarlo. Avrebbe dovuto gettar via quell'umore tetro,
raccogliere il suo coraggio e tornare insieme a Merry al banchetto di nozze
dove Aragorn e i Grandi della Terra di Mezzo stavano festeggiando riuniti.
Invece, tornò ad appoggiarsi contro la pietra scaldata dal sole del
parapetto, ascoltando quei passi strascicati, riluttanti, che si
allontanavano verso la Cittadella senza di lui.
Ripensò alle parole di congedo di Merry, e si
stupì di se stesso, di come si era ridotto, se i suoi amici temevano a
lasciarlo solo per un’ora o due. "Sei sicuro che sia una buona idea?", aveva
chiesto Merry. "Non mi piace l’idea di lasciarti qui da solo." Poi aveva
aggiunto, "Cerca di stare fuori dai guai, Boromir!"
Come se potesse mettersi nei guai in quel
pacifico giardino, in piena luce del sole, con l’intera città intenta a
festeggiare nelle strade sotto di lui. Il Sovrintendente di Gondor non aveva
bisogno di una balia che lo seguisse ad ogni passo che faceva!
Ma, mentre si appoggiava con le spalle contro
il muro rivolgendo il viso verso la brezza, gli parve evidente che una balia
era esattamente quello di cui aveva bisogno. Respinse con violenza quel
pensiero lontano da lui, prima che lo ferisse troppo profondamente, e si
impose di liberare la sua mente. Di ignorare quel familiare senso di
solitudine che gli attagliava lo stomaco ogni volta che Merry se ne andava.
Dopo la confusione della Torre, non voleva compagnia. Voleva solo
tranquillità, solitudine e pace per riposare.
Sotto di lui, per le strade di Minas Tirith,
i canti continuavano dal sorgere del sole, mentre il popolo di Gondor
accoglieva la sua nuova Regina, e insieme alle voci giungeva il dolce
profumo dei fiori nell’aria tiepida dell’estate. Musica e
profumo. Lo avevano circondato per tutta la giornata, aderendo alla
sua pelle come le pieghe del suo mantello, pesando su di lui come la cotta
di maglia che indossava sotto gli abiti preziosi. Nonostante ne fosse
felice, li trovava stranamente opprimenti.
Il Sovrintendente sapeva che la sua
stanchezza e il suo abbattimento non avevano a che fare con le celebrazioni
di quel giorno. In verità era stata una splendida giornata, una giornata di
prodigi, che rivaleggiava persino con il giorno in cui Aragorn aveva
rivendicato la sua corona. Tutta la città festeggiava l’unione di Elessar e
Arwen Undómiel, partecipando della felicità a lungo attesa del suo Re, e
Boromir condivideva in pieno quella gioia. Ma al di sotto della gioia era in
agguato una quieta, dolorosa malinconia, che non riusciva a scacciare.
Secondo ogni logica avrebbe dovuto vivere
quel giorno con la medesima esaltazione di Aragorn. Segnava un nuovo inizio,
non solo per il Re e la sua sposa, ma per tutta Gondor e la razza degli
Uomini, e per nessuno più di Boromir figlio di Denehtor.
La sua mano trovò il pesante fermaglio che
gli chiudeva il mantello, sfiorandolo quasi con reverenza. Le sue dita
corsero sullo smalto liscio, seguendo i contorni marcati da dure gemme.
Erano piccole, come stelle in un cielo notturno. E
al centro dell’ovale, inconfondibile, era incisa la familiare sagoma di un
grande corno. Boromir poteva sentire il freddo argento inserito in fili
sottili nel più caldo smalto, formando i contorni del corno tra le gemme che
rappresentavano le stelle.
Di tutti i prodigi di quel giorno, questo era
il più grande. Boromir poteva ancora sentire il calore nella voce di Aragorn
mentre gli applicava il fermaglio al mantello con le sue stesse mani,
dicendo, "Il Corno di Gondor non è spezzato. Si trova tra le stelle dell'
Anórien, e io consegno entrambi nella tua custodia. Io nomino te, Boromir
figlio di Denethor, Sovrintendente di Gondor, Principe di Anórien."
Boromir sentì le lacrime salirgli alla gola a
quel ricordo. Aragorn gli aveva fatto dono dell’Anórien. E a Faramir era
andato l’Ithilien, quella terra verde e segreta che suo fratello amava come
nessun'altra. Il Re non avrebbe potuto scegliere doni che toccassero i due
fratelli più profondamente o che lo legassero più a lui, se mai i due
avessero avuto bisogno di ulteriori dimostrazioni del suo affetto.
Boromir tracciò di nuovo
l’aggraziata sagoma del corno, e deglutì dolorosamente le lacrime che non
poteva piangere. Pricipe di Anórien. Quel nome evocava alla sua mente
l’immagine di svettanti montagne incoronate di neve, di alberi scuri alla
luce della luna, di un cielo notturno visto attraverso rami contorti,
punteggiato di stelle.
Lasciò ricadere la mano, stringendo il pugno
come per conservare la memoria di quello che aveva toccato. Quel giorno
Boromir si sentiva allo stesso tempo fiero e abbattuto, felice e addolorato,
perché quel dono senza eguali aveva un prezzo: la perdita di suo fratello.
Anche Faramir, ora, aveva un regno su cui
governare, e nulla lo tratteneva ormai a Minas Tirith se non l’affetto che
aveva per Boromir. Il dovere e il desiderio lo richiamavano in Ithilien. Si
sarebbe costruito una principesca dimora nelle Emyn Arnen, dove sarebbe
andato a vivere con la sua bellissima moglie. Éowyn,
Bianca Dama di Rohan. La gioia di Faramir era quasi palpabile, il suo
rimpianto nel lasciare Boromir e la Città Bianca appena un'eco di tristezza,
presto dimenticato. Boromir non poteva incolparlo per la
sua felicità, e non voleva rattristarlo con il suo dolore.
Anche se il suo amore per Minas Tirith era
profondo e il suo cuore aveva le sue radici nella Città Bianca, Boromir si
sentiva sempre più alla deriva, senza ancora e senza guida. Rimaneva ancora
Aragorn, ma non poteva chiedere aiuto a lui. Al contrario, era il
sovrintendente che avrebbe dovuto sostenere e aiutare il Re, non viceversa,
e Aragorn certamente si aspettava che Boromir fosse al suo fianco, pronto,
quando il peso del dovere si fosse fatto troppo pesante per lui solo. Ma
come poteva Boromir prendere posto a fianco del suo Re, senza una mano amica
che lo guidasse?
Era quello il cuore del problema, la fonte
della sua malinconia, e della paura che lo aspettava dietro ogni angolo
oscuro. Tutte le persone che amava e di cui si fidava lo stavano
abbandonando, in un modo o nell'altro, lasciandolo solo a districarsi come
meglio poteva, circondato da estranei. Forse quello era il modo di Aragorn
per costringerlo a prendere una decisione, per fargli accettare la vita che
lo aspettava e spronare il suo coraggio, perché affrontasse il futuro senza
fratelli o amici al suo fianco. Se era così, la partenza di Faramir era per
il suo bene, e avrebbe dovuto esserne grato. Ma per il momento, non poteva
trovare alcuna gratitudine dentro di sé, solo dolore e solitudine.
"Mio signore?"
La voce lo strappò bruscamente dalle sue
meditazioni, facendolo alzare in piedi di scatto, tutti i sensi all’erta.
"Mio signore, non ti senti bene?"
Boromir si lasciò ricadere sulla panca,
sentendosi il viso avvampare per l'imbarazzo. Era talmente assorto nei suoi
pensieri che non aveva udito il rumore dei passi sulla ghiaia o il frusciare
delle gonne. Ora non sapeva se essere umiliato o divertito dall'essere stato
colto alla sprovvista.
"Gil. Non ti avevo sentita."
"Mi dispiace averti
disturbato."
"No. Solo non me l'aspettavo." Riprendendo a
fatica il controllo, si appoggiò di nuovo al parapetto, rivolgendo a Gil il
suo sguardo bendato, con un mesto sorriso sulle labbra.
“Non dovresti strisciarmi alle spalle in questo modo, Gil. Avrei
potuto passarti a fil di spada prima di accorgermi che fossi tu”.
"Avrei più paura di essere calpestata,
ustionata o spinta giù dalle mura”, ribatté lei, in tono asciutto.
Boromir stavolta sorrise apertamente,
rilassandosi nel familiare duello verbale con Gil. “E
avresti il coraggio di venire più vicino?”
"Sono abbastanza al
sicuro. Non ho la teiera con me”. Poi, all’improvviso, Gil mise da
parte l’ironia, e con voce piena di autentica preoccupazione, disse: “Sei
qui da quasi un’ora, mio signore. C’è qualcosa di cui hai
bisogno? Dove si trova Mastro Merry?”
"Merry è al banchetto, al seguito di Re
Éomer. Avrebbe lasciato anche lui la festa, ma deve stare con il suo
signore, e non può farlo."
"E così tu sei solo."
"Sì, per mia scelta."
"Ti chiedo perdono.
Ora me ne vado”, disse Gil in tono formale.
"No, non andare!" Le sue parole la fermarono,
e Boromir udì i suoi piedi che grattavano sulla ghiaia mentre si voltava
verso di lui ancora una volta. Alzandosi in piedi, Boromir le rivolse un
cortese inchino, accompagnato dal suo sorriso più affascinante. “Ti prego,
cammina per un po’ con me nei giardini. Non lasciarmi
alla mercè dei miei pensieri".
"Mio signore, io..."
Boromir le offrì il braccio, invitandola.
"Andiamo, Gil. Non vuoi venire con me?"
Gil sospirò con aria di disapprovazione, come
per far capire a Boromir che le sue maniere cortesi non la ingannavano, ma
accettò ugualmente il braccio di Boromir. “Non c'è bisogno di fare questi
giochetti con me", lo rimproverò, "il dovere mi impone di obbedirti".
Ridendo, Boromir si incamminò verso ovest,
allontanandosi dalle Case di Guarigione, seguendo la curva del muro. Gil
accordò la sua andatura con quella di Boromir, seguendo la direzione da lui
scelta, e guidando i suoi passi soltanto quando trovavano qualche ostacolo
lungo il cammino. Insieme, discesero lungo il dolce
pendio del prato verso occidente.
Camminavano in un piacevole silenzio, e
Boromir non fece alcun tentativo di romperlo, accontentandosi di sentire
l’odore dell’erba, il sole sul suo viso, e godendo della compagnia di Gil.
Con lei accanto, non sentiva più quel senso di perdita e di tristezza.
Lasciò che il suo spirito si sollevasse, sciogliendo il nodo di dolore
dentro di sè. A dire la verità, dal momento il cui la voce di Gil lo aveva
strappato alle sue meditazioni, non aveva più pensato agli addii futuri, ma
solo al conforto che gli portava la sua presenza amica.
In quel momento di tranquilla felicità,
Boromir non si preoccupò di guardare dentro al suo cuore o di considerare
dove questo avrebbe potuto condurlo. Non voleva pensare a quanto apparisse
assurda la sua amicizia con Gil agli occhi dei suoi pari. E non voleva
pensare a tutti i doveri che in futuro lo avrebbero inevitabilmente
intrappolato nella Cittadella, lontano dalle Case di Guarigione e da quel
giardino. Che una comune sguattera non avesse posto nella vita del
Sovrintendente era un fatto, spiacevole ma inevitabile, e da qualche parte
dentro di sé, Boromir sapeva che presto avrebbe dovuto accettarlo.
E allora sarebbe stato un altro addio, un'altra guida e
un'altra amicizia perduta.
Come facendo eco ai suoi pensieri, Gil parlò
all'improvviso. “Non pensavo che ti avrei mai più rivisto qui, mio signore.
Non ci hai visitato da molti giorni, da quando sire Gemma Elfica è venuto a
cercarti”.
Boromir rispose a cuor leggero, senza
pensare, con il solito tono ironico. "E’ per caso un
rimprovero? Come mai Gil, forse ti sono mancato?"
Gil trasalì, e fece per ritirare la mano, ma
Boromir la anticipò. La sua mano afferrò quella della ragazza, tenendola con
fermezza attorno al suo braccio. “Perdonami. Non volevo
offenderti”, disse con dolcezza.
"Non l’hai fatto."
"Invece sì. Ma sono
sciocchezze, Gil. Non devi avere paura di me”.
"Non ho paura" affermò Gil, con voce
tremante.
"Tu sei mancata a me." Nel momento
stesso in cui le parole lasciarono le sue labbra, la loro verità lo colpì
come un fulmine, facendolo fermare all'improvviso. Lei gli era mancata. Gli
era mancata terribilmente, e un nodo freddo gli strinse lo stomaco al
pensiero che non avrebbe potuto mai più camminare accanto a lei, sentire il
suo tono irriverente, o che quella sarebbe potuta essere la loro ultima
scaramuccia verbale. In quel momento capì che non avrebbe
potuto sopportare di dire addio anche a lei.
"Gil." Si voltò verso di lei, afferrandola
per le braccia. Lei si irrigidì in modo allarmante sotto il suo tocco, e a
Boromir sembrò di avere tra le mani una statua di marmo. Spietato, strinse
la presa, rifiutando di lasciarla andare, consapevole di trovarsi sull'orlo
del totale disastro. "Gil, io non ti sono mancato, anche solo un poco?”
La voce di lei era piena di oltraggio e
panico. “Non chiedermi questo, mio signore!”
"Devo farlo. Io ti
dico con sincerità che tu mi sei mancata, che sono felice di essere di nuovo
con te e che non voglio lasciarti, perché so che potrebbero passare
settimane, mesi, o un’infinità di tempo, prima di incontrarti di nuovo."
Boromir lasciò andare la presa, liberandola. “Non posso comandare la tua
fiducia. Se non me la doni liberamente, se non vuoi considerarmi un amico,
non c’è nulla che io possa fare per costringerti. Ma
sappi che tu hai la mia, completamente. E la fiducia non è cosa che
dia facilmente”.
"Io non posso essere tua amica. Tu sei il
Sovrintendente di Gondor, e io sono una sguattera. Una domestica”.
“So bene chi sei, e tu certo non permetti che
io lo dimentichi. So anche chi sono io, e so quale abisso si apre tra di
noi, ed è per questo che ho bisogno di averti vicina. Non
posso perderti nell’oscurità”.
"Non mi piace questo scherzo, mio signore!
Ti prego, smettila!”
“Non è uno scherzo".
Cautamente, per non spaventarla e farla fuggire, Boromir sollevò una
mano e la posò sulla spalla di Gil. “Avrei dovuto capirlo prima, ma ero
troppo preso a leccarmi le ferite e a piangermi addosso. Era così semplice!”
"Che cosa?"
"Aragorn vuole che io trovi uno scudiero che
mi faccia da guida e da attendente. Io ho sempre rimandato, nella vana
speranza di trovare qualche ispirazione, qualche via di fuga, ma sono stato
tre volte stupido! Gil, mia cara, ostinata Gil, tu sei la sola guida
di cui ho bisogno!"
Un tremito percorse il corpo di Gil, e
Boromir sapeva che solo una vita intera di rigida disciplina la tratteneva
dal fuggire, lasciandolo solo in quel luogo poco familiare. "Sei crudele a
prenderti gioco di me in questo modo!”, sibilò.
"Non mi sto prendendo gioco di te. Dico sul
serio”.
"Sei uscito di senno."
"Allora devi assecondarmi nella mia follia."
"No che non lo farò. E’
una folle assurdità!”
"Perché?"
Gil esitò per un momento, emettendo suoni
inarticolati come se si dibattesse per cercare una motivazione.
Poi finalmente sbottò, “Gli scudieri sono figli di
nobili!”
"Sì, certo, lo so”.
"E cosa sono io? Una creatura di umili
origini, senza nome, analfabeta e senza esperienza alcuna nelle cose di
corte! Una donna?! Farei proprio una bella figura in mezzo ai nobili
rampolli di Gondor, con il mio grembiule da sguattera e il fazzoletto in
testa!”
Boromir stava quasi per ridere, tanto grande
era il bisogno di sfogare l’ansia e la tensione che provava, ma riuscì a
controllarsi, e con voce che tremava impercettibilmente, disse.
"Ti potremmo trovare degli abiti più consoni alla tua
posizione".
"So qual è la mia posizione. E i miei abiti
vanno benissimo”.
"Per una sguattera, forse, ma non per lo
scudiero del Sovrintendente. Le tue gonne sarebbero molto scomode,
specialmente per andare a cavallo”.
"A cavallo!" Gil si
ritrasse da lui con veemenza, gridando sconvolta, “Sei davvero impazzito!”
"Non sai andare a
cavallo?”
Gil rabbrividì.
"No. E non intendo nemmeno avvicinarmi a quelle bestie!”
"I cavalli non sono così male, una volta che
sai come trattarli”, osservò Boromir, con una traccia di supplica nella sua
voce.
"Io non imparerò a cavalcare. Mai.” Boromir
aprì la bocca per rispondere, ma lei lo precedette, quasi gridando, "Nemmeno
il Re in persona potrebbe costringermi!”
"Molto bene." In contrasto
al panico di Gil, Boromir sembrava innaturalmente calmo e ragionevole.
Era consapevole che la sua era una calma nata dalla disperazione, ma
Gil non lo sapeva. "Troverò un paggio per cavalcare con
me."
"Cavalcare con te?", ripeté Gil
scandalizzata. “Tu vorresti che io salissi su un cavallo… con te?”
"No, abbiamo concordato che non cavalcherai.
E forse sei saggia a rifiutare. Non sarebbe appropriato per una giovane
donna stare in sella con me, indipendentemente dai suoi abiti".
"Certo che no!"
"Ma credo comunque che una tunica e dei
calzoni sarebbero più appropriati per la mansione di scudiero, piuttosto che
la gonna”.
Gil cercò di ridere, ma
fallì completamente. “Pensi che potrei passare per un ragazzo?"
"Non lo so. E tu?" La sola risposta di Gil fu
una specie di ringhio senza parole, e Boromir lasciò perdere il suo
tentativo di scherzare. “Sto solo pensando alla tua
comodità, Gil. Tu sei abituata a muoverti nelle Case e nel giardino,
col tuo grembiule da sguattera, passando inosservata".
"Mi piace così."
"Certo. Ma se
dovessi stare in mezzo ai paggi e agli scudieri della corte vestita in quel
modo, tutti gli occhi del Grande Salone sarebbero su di te. Vestita da
scudiero, invece, non attirerai l'attenzione, anche se sarà chiaro a tutti
che sei una donna. Saresti anonima e sconosciuta a gran
parte della città, come lo sei adesso”.
"Fino a che tutta Gondor non comincerà a
mormorare che lo scudiero del Sovrintendente è una ragazza trovatella”.
"I mormorii ti fanno paura? A me no. Ti
proteggerò io da loro, e difenderò il tuo onore come farei con il mio”.
Gil esitò, e Boromir percepì i suoi dubbi dal
modo in cui si spostava da un piede all'altro e passava le sue mani sulla
ruvida stoffa della sua gonna. Non accennò a muoversi, lasciandole spazio
per respirare e la possibilità di fuggire se lo avesse voluto, ma dovette
trattenere l'impulso di afferrarla, scuoterla, e dirle di non essere così
cieca e sciocca. Sapeva come avrebbe reagito lui stesso a un simile
trattamento, e conosceva Gil abbastanza bene da essere certo che anche lei
avrebbe reagito allo stesso modo. L’unica cosa che poteva fare era
attendere, e pregare che lei si fidasse di lui abbastanza da prendere in
considerazione le sue parole.
"Tu ti batteresti... per me?" sussurrò
finalmente Gil.
"Certamente. E’ mio dovere come tuo signore,
e mio privilegio come tuo amico”.
"Perché?"
"Perché tu sei mia amica. E io sono il
tuo Sovrintendente, che tu decida o meno di diventare il mio scudiero”.
Ancora una volta, Gil esitò, poi, con una
quieta e fiera intensità domandò, “Perché questo è così importante per te,
mio signore?”
Le dita di Boromir si chiusero a pugno, le
sua braccia abbandonate lungo i suoi fianchi, e il suo viso si indurì per la
tensione. Sapeva di avere toccato una corda in Gil, di essere riuscito a
farla aprire, e ora lei gli stava chiedendo la verità. E lui gliela doveva.
Non sarebbe bastato nulla di meno, anche se al solo pensiero si sentiva
stringere dalla fredda morsa della paura.
"Io ho bisogno del tuo aiuto, Gil." La sua
voce era aspra. “Non posso portare il peso dei miei doveri da solo, e se non
riesco a essere Sovrintendente nei fatti oltre che di nome, allora non sono
nulla. Spezzato e inutile. Buono solo per mendicare agli angoli delle
strade, come vorrebbero i miei nemici."
"Ci saranno altri più adatti di me ad
aiutarti."
"Ma nessuno di cui mi fidi come mi fido di
te."
Boromir tese entrambe le mani, e aspettò,
fino a quando sentì le dita di Gil posarsi sui suoi palmi aperti. Erano
fredde e tremavano leggermente, ma Gil non fece alcun tentativo di ritrarsi
quando lui strinse la presa. Il contatto lo calmò e gli diede
coraggio."Riesci a capire cosa significa essere circondati da estranei?
Sentire che la tua vita dipende dal loro aiuto?” La sua voce tremava, e si
fermò per un momento, cercando di riprendere il controllo. “E’ una cosa
spaventosa sapere che la tua vita, il tuo onore, tutto il tuo valore come
Sovrintendente e Principe è nelle mani di estranei senza volto."
"Puoi sempre imparare a fidarti di loro."
"Non ho tempo per imparare. Devo assumere i
miei doveri e affidarmi a una legione di segretari, scudieri, domestici,
paggi... Avranno accesso a tutte le lettere, scriveranno ogni mio dispaccio,
guideranno i miei passi e serviranno il mio cibo. Non posso neppure vestirmi
senza un servitore che scelga per me che mantello e che stivali devo
indossare!" Scosse la testa con rabbia, sentendo la familiare amarezza che
lo assaliva. "Se anche uno solo dei miei attendenti è pigro nel suo lavoro,
corrotto dall'ambizione, o troppo frettoloso nei suoi giudizi, sarò io a
doverne rispondere. E il mio Re dovrà correggere i miei errori. No, non ho
tempo di imparare la fiducia, e non posso permettermi di fallire".
"E io cosa dovrei fare? Non so né leggere né
scrivere. Non so cavalcare e non posso assisterti nelle tue stanze. Avrai
bisogno lo stesso della tua schiera di attendenti, sia che io sia tra loro o
meno. Non capisco come potrei aiutarti."
"Tu sarai la presenza amica al mio fianco, la
voce nell’oscurità, il braccio che non si ritrae al mio tocco. Tu renderai
sopportabile tutto il resto”.
"Questo... è davvero questo che pensi di me?”
Boromir chinò il capo, nascondendo il viso
dal suo sguardo, e parlò a bassa voce, lentamente, dal profondo del suo
animo stanco e ferito. "Ogni volta che prendo il braccio di qualcuno e
lascio che guidi i miei passi, mi metto nelle sue mani.
Non è una scelta che posso o non posso fare. E' l’unico modo che ho
di muovermi per più di qualche passo. E ogni volta, mi fa ricordare che cosa
fragile e vitale sia la fiducia. Anche l’amicizia più forte, persino il
legame di sangue sono fonte di dubbio in quei momenti, quando devo ingoiare
il mio orgoglio e rimettere la mia completa fiducia a un'altra creatura che
non posso vedere.
Sono pochi quelli di cui mi posso fidare
completamente e senza timore alcuno. Aragorn, Merry,
Pipino, mio fratello. E poi ci sei tu. Non chiedermi come hai fatto a
entrare a far parte di quei pochi, perché non saprei spiegartelo. Forse è
per la tua mancanza di commiserazione. Non mi hai mai mostrato pietà, e il
tuo timore è dovuto al mio titolo, non alla mia cecità. Qualunque sia la
ragione, io so che posso prendere il tuo braccio, seguire i tuoi passi,
ascoltare la tua voce che mi rimprovera per la mia goffaggine, e che in tua
compagnia mi sentirò a casa. E questo è ben più che importante per me, Gil.
E’tutto. Senza di questo, sono perduto e solo... e
ho paura."
Gil rimase in silenzio, meditando sulle sue
parole e lottando coi suoi dubbi, mentre Boromir aspettava. Non poteva fare
altro. Il suo spirito era come di piombo, i suoi nervi tesi al punto di far
male. Quando finalmente Gil si mosse, emettendo un lungo sospiro e
ricambiando leggermente la stretta delle sue dita, Boromir capì che aveva
deciso. La sua voce era atona e distante, ma le sue parole furono musica per
Boromir.
"Credo che sia un errore
riporre in me una tale fiducia, ma se lo vuoi, sarà un onore e un piacere
per me servirti."
Il sollievo e la gratitudine travolsero
Boromir, illuminandogli il volto con un raggiante sorriso. Boromir provò per
un attimo l’impulso di abbracciarla, ma si trattenne, limitandosi a portarsi
al petto le loro mani intrecciate, e dicendo, con semplicità, “Grazie, Gil”.
"Sei certo che sia questo
che vuoi?”
"Senza alcun dubbio”.
"Allora, siamo
d’accordo... niente cavalli”.
Boromir rise, ma il suono somigliò più a un
singhiozzo. “Niente cavalli”.
Mentre Gil procedeva ad elencare tutte le
cose che poteva e non poteva fare, sembrò riguadagnare la sua solita
compostezza. La sua voce assunse il consueto tono formale, e le sue parole
divennero richieste. "Sai che non so ne leggere ne
scrivere”.
"Puoi imparare.
Oppure hai tanta paura delle parole quanta ne hai dei cavalli?"
Gil mormorò un assenso inarticolato, e poi
aggiunse, “Non entrerò nelle tue stanze dopo che ti sarai ritirato per la
notte o prima di colazione".
"Certo che no."
"Non voglio certo pettegolezzi tra la
servitù!”
"Nemmeno io."
"E poi mi serve la tua autorizzazione a
trattare con gli altri scudieri a modo mio. I ragazzi possono essere molto
fastidiosi, e più crescono più peggiorano. Se devo avere posto tra di loro,
devo guadagnarmelo e mantenerlo!”
"Se qualcuno ti dovesse importunare basterà
una parola e…”
"No, quella è una battaglia che spetta a me”.
Poi un nuovo dubbio la colpì, e, allarmata, domandò, “Dove vivrò, mio
signore? Non posso certo dormire con gli altri ragazzi!”
"Ti troverò una stanza nella Torre. Il
Ciambellano saprà dove alloggiarti meglio di me”.
"Ah."
"C’è qualcos’altro che ti turba, Gil?"
"Tutta questa faccenda mi turba. Come ho
detto, è un pazzia...ma ho detto che lo farò".
"Forse è davvero una follia, ma spero che
entrambi ne saremo felici. Potresti scoprire che ti piace essere qualcosa in
più di una sguattera”.
"O forse no."
"Se sarai davvero infelice, dovrai dirmelo.
Non ti costringerò a rimanere in una situazione che ti ferisce. Ma se le tue
paure e le tue ferite sono tali che io possa guarirle, lo farò.
Fidati di me, Gil”.
"Mi fido. Ecco
perché ho acconsentito a questa pazzia."
Offrendole un altro ampio sorriso, Boromir
sollevò la mano di Gil, posando un bacio sul suo dorso. Gil tentò di
ritrarsi, ma Boromir la trattenne, guidandola in modo che si ritrovasse al
suo fianco, e sistemando la sua mano nella curva del suo braccio. "Andiamo
allora, dobbiamo parlare con il Custode delle Case. Chiederemo il suo
permesso e quello del Re, e poi ti faremo vestire come uno scudiero, prima
di mandarti in giro per la corte ignara".
Mentre parlava, Boromir si voltò verso la
discesa, e cominciò a camminare. Gil si mosse insieme a lui per abitudine,
ma dopo pochi passi, si fermò e ritirò la mano dal suo braccio.
"Aspetta, mio signore, questo non è
appropriato. Non si può offrire il braccio a uno scudiero.
In che modo cammini con il mezzuomo? O con tuo fratello?”
"Quando indosserai i calzoni ti tratterò come
uno scudiero. Ma finché indosserai la gonna, ti tratterò come una dama”.
"Ma io non sono..."
"Basta così. La
prima lezione che devi imparare è non contraddire ogni cosa che dico”.
La voce di Gil era divertita, quando domandò,
"E la seconda?."
"Non fare domande impertinenti."
Gil grugnì qualcosa di incomprensibile e
tornò a prendere il braccio di Boromir. “Sì, mio signore”.
"Sospetto che presto sarò annoiato a morte di
sentire queste parole."
Gil esitò, poi disse,
timidamente, “Sì, mio signore”.
Boromir stava ancora ridendo, quando si
incamminarono insieme attraverso il giardino.
*** *** ***
"Non strisciare i piedi!” gridò Merry
esasperato. “E tieni alta la testa!”
La figura esile, vestita di nero e argento,
si fermò per fissarlo negli occhi. “Non sto strisciando i piedi, Mastro
Perian."
"Invece sì," ribatté Merry, senza tentare di
nascondere la propria irritazione. Dopo un’intera mattinata trascorsa con lo
scudiero del Sovrintendente, cercando di aiutarla ad abituarsi alla sua
nuova posizione e ai suoi nuovi abiti, aveva capito che a volte le maniere
brusche erano più efficaci della cortesia."Cammini come una sguattera”
"Io sono una sguattera”.
"Non più. Sei uno
scudiero, con una certa posizione a corte, e devi portarti con più
contegno”.
"Un vero scudiero può avere una posizione, un
padre nobile e forse un cavalierato, ma io…”
"Tu sei più in alto di tutti loro”.
Scendendo con un salto dal davanzale della finestra, Merry attraversò la
stanza per raggiungere Gil e la guardò di traverso, come sfidandola a
contraddirlo. “Tu indossi la livrea del
Sovrintendente”.
La mano della ragazza si portò sull’orlo
della sua tunica, tracciando i contorni del simbolo ricamato sul petto, e la
sua espressione divenne pensierosa. “Sì. Ma questo non fa
di me un vero scudiero."
“Allora devi diventarlo, sia per Boromir che
per te stessa. Ora riprova. E non strisciare i piedi”.
Gil gli lanciò uno sguardo omicida, ma
obbediente cominciò di nuovo a camminare lungo la stanza, con passo a tratti
esitante, a tratti spavaldo. Merry la guardava con occhio critico, scuotendo
il capo, tutto preso nella concentrazione.
Aveva trascorso gran parte della mattinata
con Gil nella grande sala del Consiglio. Lì avevano tranquillità e spazio
per muoversi liberamente, e Aragorn aveva dato ordine che non venissero
disturbati. Era ormai quasi mezzogiorno, e i raggi del sole, già alto sulle
pianure, cadevano verticali senza entrare oltre le finestre ad arco. Lame di
luce si proiettavano sulle pietre levigate sotto le finestre, ma la maggior
parte della stanza rimaneva immersa in una fresca penombra.
Gil, nella sua uniforme scura, sembrava
essere parte di quelle ombre. Era di corporatura minuta, e da lontano poteva
anche sembrare il giovane di alto lignaggio che i suoi abiti indicavano. Ma
guardandola in viso, si scopriva che quell'esile ragazzino era in realtà una
donna adulta. E quando guardava Merry con aria sospettosa e camminava
lievemente curva con quel suo passo strano, Merry riconosceva la sguattera
che c’era in lei.
Se solo fosse stata capace di stare diritta e
camminare con sicurezza, pensò Merry, sarebbe stata perfetta per il ruolo.
Ma naturalmente non ci riusciva. Aveva trascorso
tutta la vita facendo la domestica, affrettandosi al suo lavoro con il capo
chino, evitando gli sguardi e l’attenzione dei suoi superiori. Solo da
qualche giorno era uno scudiero, e solo di nome, perché non avrebbe assunto
il suo incarico finché Merry fosse rimasto in città con il suo signore. E
inoltre i suoi abiti non erano stati pronti prima: una tunica da ragazzo che
si adattava alla sua figura femminile, con i colori del Sovrintendente che
decoravano il velluto nero.
Quella mattina però non aveva avuto più scuse
per rimandare. La sua uniforme era stata consegnata pronta nella sua stanza,
e Merry sarebbe partito all’alba dell’indomani. Era giunto il momento che lo
scudiero del Sovrintendente prendesse posto al fianco del suo signore. Gil
aveva tentato di protestare, dicendo che Ioreth avrebbe avuto bisogno di lei
ancora per un giorno, ma Ioreth stessa aveva smentito, portando Gil di
persona fino alla Torre e convincendola a prendere alloggio nelle sue nuove
stanze. La vecchia pianse lacrime di gioia, vedendo la sua bambina adottiva
vestita con i ricchi abiti da scudiero, con il Corno e le Stelle dell’Anórien
ricamate sul petto e l’orlo di seta bianca sulla tunica nera. Come gesto
d’amore e di orgoglio, Ioreth aveva acconciato con le sue mani i capelli di
Gil, intrecciandoli e sistemandoli attorno alla sua testa in una coroncina,
che coprì poi con un copricapo di velluto.
Era questa creatura piena di contraddizioni
che ora stava in piedi davanti a Merry, curva come per proteggersi, con gli
occhi scuri e cauti nelle ombre. Né vecchia né giovane, in parte simile a un
elfo e in parte sguattera, apparentemente fragile ma temprata da anni di
duro lavoro, Gil possedeva una dignità che non aveva niente a che fare con
la sua importanza agli occhi degli Uomini. Lo guardò da dietro la sua
maschera inespressiva che era di per sé una sorta di provocazione, e
domandò,
"Cosa ne dici, Mastro Merry? Sarò un disonore
per il nostro Sovrintendente?”
Merry sospirò. “Hai un aspetto un po’strano
quando cammini a quel modo, ma non credo che a Boromir importerà”.
"A meno che tu non gli vada a dire che io non
sono adatta a fare lo scudiero”.
"Perché dovrei farlo?"
Sospirando a sua volta, Gil si sedette sul
gradino davanti al caminetto. Merry si avvicinò a lei, sedendosi al suo
fianco. Sembrava così abbattuta che avrebbe voluto consolarla, prenderla per
mano, ma si trattenne e tenne le mani fermamente serrate sulle proprie
ginocchia.
"E’ davvero questo che vuoi, Gil? Vuoi che
vada a dire a Boromir che non puoi farlo?”
"Non importa quello che io voglio”. Incrociò
le braccia in un gesto protettivo e chinò il capo, ritirandosi in se stessa.
“Per lui sarebbe come un tradimento”.
"No... non proprio..."
Merry sapeva quanto fosse
importante l’aiuto di Gil per Boromir. Aveva visto il sollievo nel
viso dell’amico, aveva sentito la speranza farsi strada nella sua voce
quando aveva detto che Gil sarebbe divenuta il suo scudiero. Per la prima
volta Merry era riuscito a pensare al giorno della partenza senza sentirsi
attanagliare il cuore dalla tristezza. Se Gil avesse perso il coraggio
abbandonando Boromir ora, Merry sapeva che non avrebbe mai avuto la forza di
partire. E se non fosse partito allora, non sarebbe partito mai più.
"Non funzionerà, Mastro Perian. Sai che non
funzionerà."
"Non dire così, ti prego”.
"E’ una pazzia."
"Qualunque cosa sia, deve
funzionare. Deve." Merry si fece prendere dalla disperazione,
lasciando libero sfogo alle emozioni che aveva cercato di dominare per tutta
la mattina. Il dolore si fece strada in lui, e le lacrime gli salirono agli
occhi. “Ti prego, Gil”, disse con voce ansiosa, “Se non lo fai per Boromir o
per te stessa, fallo almeno per me. Promettimi che starai al suo fianco,
come scudiero e come amica. Promettimelo!”
Gil sollevò il capo e lo guardò intensamente.
“Per te? E’ questo che vuoi?”
"Sì."
"Allora sei tu quello che dovrebbe restare
con lui, non io. Tu gli vuoi bene come nessun altro, e lui vuole bene a te.
Come posso sperare di prendere il tuo posto?”
"Promettimelo”, ripeté Merry, ostinato.
"E se non lo faccio…" Merry scosse la testa,
troppo soffocato dalle lacrime per rispondere. Con sua sorpresa, Gil si
sporse per prendere la mano di Merry nella sua. “Non
puoi restare tu a servirlo, Merry?”
"Non posso." Deglutì
convulsamente e si sforzò di spingere le parole oltre il nodo che aveva in
gola. “Devo tornare a casa”.
"Anche se questo ti spezza il cuore?"
"Non succederà, se ho la tua parola che non
lo lascerai solo".
Gil rimase un po’in
silenzio, poi, quando ritrovò la sua voce, mormorò. “E’ così importante per
te?”
"Sì."
Tanta era la forza e la convinzione di quella
singola parola, che Merry vide Gil vacillare sotto il suo peso. Per un
momento, sul suo viso furono evidenti la paura e l’emozione, ma poi si
voltò, nascondendo i suoi pensieri dietro l'espressione neutra che Merry
conosceva così bene. Finalmente, con appena una traccia di ironia nella
voce, disse, “Allora, dovrò cercare di non disonorare nessuno di voi”.
"Non lo farai", la rassicurò Merry, tirando
su col naso. Asciugandosi il viso con una manica, si alzò in piedi sul
gradino. “Almeno, non lo farai se ti ricorderai di non strisciare i piedi.
Avanti, riprovaci”.
Gil per un attimo sembrò
divertita, e si alzò per guardarlo negli occhi. “Per quanto tempo
continuerai a frustare un cavallo zoppo, Mastro Perian?"
Merry sorrise,
visibilmente sollevato. “Finché non imparerà a camminare".
"O finché non morirà di fatica".
"Cammina!"
*** *** ***
Frodo stava in piedi sulla panca di pietra,
sporgendosi dal parapetto per guardare le ombre che si allungavano sui campi
sotto di lui. Il sole stava scendendo dietro la cima del Mindolluin,
lasciando in ombra il Pelennor, e accarezzando la lontana curva dell'Anduin
con i suoi ultimi raggi. Oltre il fiume torreggiavano i Monti d’Ombra,
dipinti di rosa e oro nella luce morente, con ai loro piedi il verde
scintillante e misterioso dell'Ithilien.
"E’ un luogo bellissimo”, mormorò.
Accanto a lui, Merry incrociò le braccia sul
parapetto, appoggiandovi il mento. I suoi occhi vagavano lontano, pieni di
ricordi e di malinconia. “Mi piace stare qui. E’il mio
posto preferito in tutta la città“. Si fermò per un momento, sempre
guardando l’orizzonte, e aggiunse, “E’ strano pensare che forse è l’ultima
volta che guardiamo queste montagne, o che vediamo il fiume d’argento
scorrere nella pianura. Mi sono abituato a tutta questa grandiosità, e non
so come mi sembrerà la cara vecchia Contea quando la rivedrò”.
"Sarà difficile tornare a casa, ma sono
contento di farlo".
"Di sicuro io lo sono," mormorò Sam.
Merry e Frodo si voltarono a guardarlo,
mentre si affaccendava attorno a un’aiuola, e Frodo sorrise.
“Ne hai avuto abbastanza di montagne e grandi città,
Sam?”
"Proprio così, padron
Frodo. Datemi una casa hobbit con un giardino come si deve, e
tenetevi le vostre città”.
"Mi manca il mormorio del Brandivino nelle
sere d’estate", ammise Merry, “e la luce che entra dalle finestre di Villa
Brandy."
"E una pinta al Drago Verde", aggiunse Frodo.
"E un sacchetto di foglia del Decumano Sud".
"L’odore delle torte che cuociono...”
"...nella cucina di Casa Baggins!"
Frodo sorrise felice.
“Sarà bello tornare a casa!”
Merry sospirò e si voltò
verso il cancello del giardino. “Anche io vorrei sentirmi così”. Si laciò
cadere sulla panca, appoggiando i gomiti alle ginocchia. “Se solo
Boromir arrivasse”.
"Quando ha detto che sarebbe venuto?"
"Al tramonto, o giù di lì. Ma era impegnato a
parlare con Aragorn e Imrahil, e a giudicare dalla pila di documenti che
aveva sul tavolo, potrebbero averne per tutta la notte.”
"Non preoccuparti, non mancherà. La Compagnia
trascorrerà le ultime ore insieme".
Come richiamato dalle sue parole, un rumore
di passi risuonò sul sentiero. Merry conosceva bene quel passo, così come la
figura alta e orgogliosa che avanzava verso di loro. Saltò giù dalla panca
prima ancora che Boromir chiamasse il suo nome, e gli corse incontro. Frodo
lo guardò pensieroso, e Sam dubbioso, ma Merry li ignorò entrambi, troppo
sollevato e felice per preoccuparsi di cosa gli altri pensassero di lui.
"Boromir! Sei in ritardo! Ciao, Gil."
Gil si voltò verso di lui, senza sorridere né
fermarsi, ma inclinò semplicemente il capo in segno di saluto. La mano di
Boromir era posata sulla sua spalla, ma Merry sapeva che non era il senso di
responsabilità che la faceva muovere così cautamente, ma l'insicurezza.
Sotto la sua guida, era riuscita a mettere da parte la sua camminata da
sguattera, ma non aveva ancora imparato a muoversi con naturalezza in quegli
abiti insoliti. Spingeva avanti i piedi come se indossasse ancora la pesante
gonna, piantandoli sul terreno con ostinata determinazione.
"Non sono in ritardo," ribatté Boromir,
posando la sua mano libera sulla testa di Merry, quando questo gli si
avvicinò. “E’ il tramonto del sole, e io sono qui, come
avevo promesso”.
"E’vero, ma io ho aspettato per tanto tempo!”
Sbirciò oltre Boromir per guardare Gil. “E temevo che Gil avrebbe perso il
coraggio”.
La ragazza-scudiero sollevò il mento con
orgoglio. “Conosco il mio dovere, Mastro Perian."
Si diressero verso la panca, e Merry guidò
Boromir nel punto in cui si sedeva di solito, con la schiena contro la curva
del muro. Dopo che Boromir si fu seduto, Frodo si mosse, rompendo la sua
immobilità perfetta, e facendo sollevare di scatto il capo all'uomo.
"Ciao, Boromir," disse.
"Frodo." Boromir dovette sforzarsi
visibilmente di rilassarsi, come gli accadeva ogni volta che si trovava in
presenza di Frodo, ma alla fine ci riuscì. La tensione nelle sue spalle si
alleviò, e l'espressione guardinga lasciò il suo volto.
Poi sorrise, con genuino calore. “Sam deve essere qui, da qualche parte.
Buonasera a te, Samwise."
"Mastro Boromir." Sam
abbandonò l’aiuola per spostarsi accanto a frodo. Come Boromir, anche
Sam era cauto ai loro incontri, ma al contrario dell’uomo, non fece alcun
tentativo di mettere da parte la sua circospezione. Nonostante Frodo lo
avesse rassicurato molte volte che Boromir non volesse fargli del male, e
che era veramente un amico, i dubbi di Sam erano svaniti solo in parte, e si
sentiva ancora a disagio in presenza dell'uomo. Il Sovrintendente e il
giardiniere si trattavano reciprocamente con uno scrupoloso, cauto rispetto.
“Chiedo perdono, Mastro Boromir, ma chi è il ragazzo che avete portato con
voi? O meglio, il ragazzo che ha portato voi con lui?"
"Non è un ragazzo. E’ il mio scudiero, Gil,
ed è una dama”.
Sia Frodo che Sam fissarono Gil con aperta
curiosità, e Merry notò che la donna arrossì vistosamente. Anche Sam se ne
accorse, e si scusò prontamente. “Non ho mai visto una donna vestita in modo
così bizzarro, ma immagino che siate uno scudiero come si deve.” Chinò la
testa in segno di rispetto, e aggiunse, “Samwise Gamgee, al vostro
servizio."
Gil fece per rispondere con una riverenza, ma
si accorse troppo tardi che non portava la gonna, e ne risultò un goffo
inchino. “Mastro Perian."
Frodo, con la sua innata
gentilezza, cominciò a convesare con Gil, cercando di trarla dall’imbarazzo.
Sam salì sulla panca accanto a Frodo, ascoltando la loro rigida
conversazione. Merry fu immensamente grato al cugino per aver tentato
di mettere a proprio agio Gil, dando allo stesso tempo a lui la possibilità
di parlare da solo con Boromir. Ma quando si avvicinò all'amico, un po' in
disparte dagli altri, scoprì che non aveva nulla da dire.
Per tutto il giorno lo aveva accompagnato la
consapevolezza che il tempo stava correndo via, e che ogni ora che passava
lo portava più vicino al momento della partenza. Mentre Boromir non era con
lui, aveva pensato a innumerevoli parole di commiato, di lealtà e di
affetto, di imperitura amicizia, ma ora che guardava il suo viso, vedendovi
riflessi il suo dolore e la sua paura, le parole gli vennero meno. Aveva
ancora solo poche ore. Poche ore per stare accanto a Boromir, sentire la sua
voce, e fingere che il domani non sarebbe mai arrivato.
Con un sospiro, Merry si sedette sull’erba,
ai piedi di Boromir, posando la testa contro il suo ginocchio. In quel
momento si sentì immensamente felice, tutti i suoi timori scomparsi, e capì
che anche Boromir si sentiva a quel modo dal modo protettivo in cui la sua
mano si posò sulla sua testa. Per quel momento, Merry si concesse di essere
felice, si concesse di dimenticare.a mandeva che
anche Boromir si sentiva a quel modo dal modo i capo.ni non sarbeer tutta la
notte."
Gli altri membri della Compagnia giunsero
alla spicciolata, dopo aver abbandonato i loro compiti, per riunirsi sulle
mura della Città Bianca un'ultima volta. Legolas e Gimli arrivarono per
primi, risalendo insieme il pendio occidentale del giardino, ridendo a un
qualche loro scherzo segreto. Pipino salutò Bergil al Cancello e corse lungo
il sentiero chiamando ad alta voce gli amici nell’aria fresca della sera.
Poi arrivò Gandalf, da dove nessuno poté capirlo, con il bastone, la pipa, e
un sacchetto di erbapipa da condividere con gli amici.
Per ultimo giunse Aragorn, con sorpresa di
Merry accompagnato da Faramir.
Quando quest’ultimo capì a che incontro lo aveva portato il suo Re fece
qualche passo indietro, insistendo che non voleva intromettersi, ma alla
fine dovette cedere.
"Sciocchezze," disse
Gandalf. "Presto ci stancheremo della nostra compagnia durante il viaggio.
Sei il benvenuto tra noi, finché riuscirai a sopportare le
chiacchiere degli hobbit."
"E il brontolio degli stregoni”, ribatté
Pipino.
Nell’aria risuonarono saluti e risate. Non
potevano esserci barriere tra quel gruppo di amici, e la consapevolezza che
il mattino dopo sarebbero partiti per un altro viaggio li attirava uno
vicino all’altro, alleggerendo i loro cuori e sciogliendo le loro lingue. Si
sedettero sull’erba o sul parapetto di pietra, mettendosi a proprio agio,
riempiendo la fresca aria del sud con il calore delle loro risate e l’odore
dell’erbapipa.
Gil restò in disparte dal
resto del gruppo, nascosta nelle ombre a ovest dell'affaccio dove si
trovavano tutti gli altri. Quasi tutti i membri della Compagnia, a parte
Frodo e Sam, l'avevano conosciuta nelle sue vesti di sguattera, ed erano a
conoscenza del suo nuovo incarico. La trattavano tutti con cortesia,
e gli hobbit cercavano di spingerla a uscire dal suo umore taciturno, ma lei
restava ugualmente distante.
Sembrava molto nervosa all’incontrare
Faramir, ma Merry immaginò che Aragorn avesse parlato al giovane, pregandolo
di trattarla con gentilezza, perché Faramir la salutò con un semplice cenno
del capo al suo arrivo. Quali che fossero le sue opinioni personali, Faramir
era un uomo giusto, e amava suo fratello. Non avrebbe mai fatto del male a
Boromir, anche se questo significava che avrebbe dovuto tollerare la
presenza della sguattera.
Merry sospettava inoltre che Faramir fosse
stato portato lì per un motivo ben preciso, su richiesta di Boromir – o
almeno con il suo consenso – perchè il Sovrintendente non si mostrò
minimamente sorpreso al suo arrivo, e insistette affichè restasse. Questa
idea cominciò a frullare in testa a Merry, sempre intento a cercare di
interpretare i pensieri di Boromir. Forse voleva semplicemente godere della
compagnia di Faramir finché poteva, visto che suo fratello sarebbe partito
insieme al Re di Rohan l'indomani. Ma se era quello il motivo, se ne stava
stranamente in silenzio, senza fare alcun tentativo di avviare una
conversazione.
I discorsi scorrevano veloci mentre il sole
tramontava a ovest, e le stelle cominciarono a scintillare nel cielo.
Inevitabilmente, i pensieri di tutti si volsero al viaggio che alcuni di
loro avrebbero intrapreso, e cominciarono parlare del loro percorso. Merry
cercò di non ascoltare, tenendosi fermamente appigliato alla sua sensazione
di gioia, ma l’apprensione per quello che avrebbe portato il mattino
strisciava inesorabilmente nel suo cuore.
Improvvisamente le parole di una canzone
della sua infanzia gli salirono spontanee alle labbra.
La via prosegue senza fine
Lungi dall’uscio dal quale parte.
Ora la via è fuggita avanti,
devo inseguirla ad ogni costo...
Fu solo dopo che Frodo si fu messo a ridere
che Merry si rese conto di aver parlato ad alta voce. Si interruppe,
imbarazzato di aver lasciato vedere a tutti la sua malinconia.
Ma Frodo ne fu felice.
"Grazie, Merry! La
vecchia canzone del cammino di Bilbo è proprio quello che ci vuole per
accompagnare il nostro ritorno a casa!"
"Purché la nostra via conduca a casa”,
intervenne Sam, “E non a un’altra avventura. Ne ho
abbastanza di avventure”.
Frodo gli sorrise, i suoi occhi stranamente
stanchi nella crescente oscurità. "Anch’io, Sam.
Tutto ciò che voglio è una bella passeggiata per la Terra di Mezzo in
estate, senza dovermi preoccupare di altro che della legna per il fuoco e di
selvaggina fresca per lo stufato”.
"E un posto asciutto dove dormire, senza
ghiande sotto la schiena”, aggiunse Sam.
"Speriamo che siate accontentati," disse
Gandalf, attenuando il suo solito tono burbero con una nota di tenerezza.
“Ve lo siete di certo meritati. Tutti quanti voi”.
"Tu verrai con noi, non è vero, Gandalf?",
domandò Pipino.
"Sì, almeno per una parte del viaggio."
"Allora ti occuperai tu di noi”.
Gandalf rise. "La
tua fiducia in me è toccante, Pipino, ma quando mai io vi ho condotto
lontano dall'avventura?"
"Beh, c’è una prima volta per tutto. E mi
sembra che ora le avventure non siano più così terribili come erano una
volta, da quando tu, Grampasso e Frodo avete sistemato le cose”.
"Sono più facili da affrontare, in ogni
caso." Il vecchio Stregone tirò dalla sua pipa e mormorò tra sé e sé, “A
misura di hobbit, oserei dire”.
Merry, che era seduto abbastanza vicino da
poterlo udire, rabbrividì. Boromir se ne accorse, percependo la sua
inquietudine. Raddrizzandosi e sollevando la testa come per vedere il cielo
domandò, “Ci sono stelle, stanotte?"
Merry guardò lo scintillante, magnificente
spettacolo sopra di loro e sorrise. “Sì”.
"Allora è il momento che io chieda la vostra
pazienza, e un favore a mio fratello".
"Che cosa posso fare per te?" domandò
Faramir, divertito e un po’sospettoso.
"Raccontare una storia."
Faramir rise. "No, fratello. So bene come mi
ripaghi per le mie storie! Siamo troppo vecchi per questi
scherzi ormai!”
"Questa me l’hai promessa.
Non ricordi? Una storia elfica sotto un cielo di stelle elfiche."
Il sorriso svanì dalle labbra di Faramir.
“Sì. La leggenda di Gilthaethil." I suoi occhi corsero a cercare la figura
di Gil seminascosta dalle ombre, e a Merry sembrò di cogliere un fuggevole
disappunto nel suo sguardo. “Ci sono altri qui che la conoscono meglio di
me. Chiedi a Legolas o ad Aragorn, o a Mithrandir, che conosce le leggende
sia degli uomini che degli elfi!"
La risposta di Boromir fu udita da tutta la
Compagnia, eppure Merry intuì che era rivolta a Faramir e a nessun altro.
“E’ la tua voce che voglio sentire. Ti prego, fratello,
prima di lasciare la nostra città e la nostra casa, fallo per me.”
Faramir esitò un momento,
spostando di nuovo lo sguardo sullo scudiero silenzioso, poi sorrise. “Come
vuoi”.
Frodo scese immediatamente
dalla panca per fare posto a Faramir, sedendosi accanto a Sam sull'erba.
Faramir si alzò agilmente e andò a prendere posto sul seggio designato per
il narratore. Merry fu colpito dal modo in cui ispirava rispetto e
attenzione, e dal modo in cui tutti gli sguardi lo seguivano. Persino Gil
lasciò il suo nascondiglio per avvicinarsi in modo da vedere il suo viso
mentre parlava. La luce della luna sembrò splendere più luminosa su di lui,
illuminando i suoi occhi e i suoi capelli, mettendo in evidenza il suo viso
nella notte.
"Questa è la storia di Maeldhuin e
Gilthaethil,* come l’ho sentita tempo fa”. Faramir chiuse
gli occhi, e il suo viso assunse un'epressione remota e sognante. In tono
lieve, quasi reverente, cantò alcuni versi in elfico. Merry non
capiva le parole, ma sentì il dolore e il desiderio in esse. Dopo che le
ultime note si furono spente, Frodo sospirò.
"Conosci tutta la canzone?" domandò.
Faramir sorrise scuotendo le spalle. "E’un
poema molto lungo, e sono passati molti anni da quando l'ho sentito”.
"La conosce," disse Boromir prontamente.
Faramir rise. "Forse.
Ma questa notte, cercherò di tradurla come meglio posso nella lingua
comune. E’una storia di coraggio, lealtà e pericolo mortale, una storia
piena di dolore ma anche di speranza. Ed è una storia d'amore, in un certo
senso".
"Sì, è così", mormorò Legolas, solennemente.
“Una storia d'amore elfica".
"Tutte le storie elfiche
che conosco finiscono male”, disse Pipino, “Specialmente quelle d'amore".
Faramir rise di nuovo, ma il suo viso era
malinconico. "Giudicherai tu stesso come finisce questa, Mastro Perian, e mi
dirai se è abbastanza elfica per te".
Si sporse in avanti perché la sua voce
raggiungesse tutti, lasciando che Merry vedesse lo scintillio dei suoi occhi
nella luce della luna. "Conoscete tutti la storia degli
Anelli del Potere". Tutte le teste annuirono all'unisono. "Nel tempo
antico, Sauron sedusse i fabbri elfici dell'Eregion con le sue parole
ingannevoli e i suoi doni infidi. Allo scopo di carpire i loro segreti e di
soggiogarli, li spinse e li guidò alla forgiatura di molti anelli, e infine
li tradì. Nascostamente, forgiò nel cuore della Montagna di Fuoco l’Unico
Anello, che avrebbe legato gli altri anelli al proprio volere. Ma quando
l’Oscuro Signore se lo mise al dito, Celebrimbor comprese il suo tradimento
e nascose i tre anelli che aveva forgiato."
Faramir fece una pausa, lasciando che ognuno
di loro ricordasse a modo suo la storia in cui avevano giocato un ruolo così
importante. Poi, con solennità, riprese, “L'ira di Sauron
fu terribile. Il suo piano per rendere schiava la razza degli Elfi era
fallito, e gli Eldar erano ora contro di lui. I tre Anelli Elfici,
che bramava più di tutti, furono nascosti, e il loro potere gli fu negato.
Sauron comprese che la finzione non gli avrebbe più portato alcun vantaggio,
e così gettò via la maschera e radunò i suoi eserciti per mandarli contro
gli Elfi.
"Celebrimbor previde l’arrivo dell’Oscuro
Signore, e si affrettò a fortificare la sua città, ma sapeva bene che la
forza del suo popolo consisteva nell'abilità nel manipolare le ricchezze
della terra, non nell'uso delle armi. Temendo la sconfitta, decise di
mandare i Tre Anelli ai più potenti e i più saggi della sua razza che ancora
abitavano nella Terra di Mezzo, con l’avvertimento che non avrebbero mai
dovuto essere usati apertamente, fintanto che Sauron avesse avuto in mano
l’Unico. E così, alla pallida luce di un’alba invernale, tre messaggeri
lasciarono Ost-en-Edhil, diretti in Eriador verso il reame segreto di
Forlindon.
“E’ per il ruolo che ebbero in questa
disperata impresa che Maeldhuin e Githaethil sono stati ricordati attraverso
le ere”.
Ancora una volta, Faramir si interruppe.
Quando riprese a parlare, aveva abbandonato il tono magniloquente in favore
di uno più intimo.
"Maeldhuin era un araldo al servizio di
Celebrimbor. Non era un guerriero, e non usava arco né spada, né era versato
nella lavorazione delle gemme o del metallo. Ma era lesto di piede e sapeva
parlare molte lingue, e amava grandemente il suo signore e la sua città.
"Quando Celebrimbor scelse i suoi messaggeri,
diede a Falathar, il capo dei suoi araldi, il compito di portare gli anelli
a Gil-Galad. Insieme a Falathar andarono Maeldhuin e un altro giovane Elfo
suo congiunto. Gli elfi più giovani non erano al corrente del vero scopo
della missione, ma sapevano soltanto che il loro signore li aveva scelti per
portare doni e messaggi di grande importanza al Re.
"I tre messaggeri si inoltrarono così
nell’Eriador, giungendo quasi fino al Golfo di Lhûn e a Mithlond. Ma prima
che raggiungessero i Porti, nel luogo oggi chiamato Colline Turrite, fu loro
tesa un’imboscata dagli orchi, e il giovane parente di Maeldhuin perse la
vita. Falathar, temendo un altro attacco, affidò al veloce Maeldhuin il suo
prezioso carico, facendogli promettere che lo avrebbe affidato solo alle
mani del Re e a nessun altro. Poi si separarono prendendo strade diverse,
sperando di sfuggire ai loro nemici, e Falathar perì. Rimasto solo,
Maeldhuin sfuggì agli orchi, e vagò sperduto e disperato nella notte che
avanzava, fino a quando si imbatté nel rifugio segreto di Gilthaethil.
"Nulla si conosce di Gilthaethil e della sua
stirpe”. A queste parole, Merry lanciò uno sguardo sbigottito a Gil, ma lei
continuava a guardare fisso Faramir, impassibile. “Si crede che appartenesse
agli Elfi Silvani, anche se nessuno rivendicava una parentela con lei, e
amava abitare la verde solitudine della foresta, vivendo con la sola
compagnia delle bestie selvatiche. Era veloce e agile come un cervo, versata
nelle arti guaritrici, e misteriosa come una statua scolpita nella roccia.
Sebbene non appartenesse al suo popolo, Círdan il Capentiere, Signore di
Mithlond, l’amava come una figlia e lei era la benvenuta nelle sue terre.
"A lei giunse dunque Maeldhuin nell’ora della
disperazione. E con il loro incontro fu cambiato per sempre il destino
dell’Ovest. Perché gli occhi acuti della fanciulla elfo compresero il
fardello che gravava su Maeldhuin e il grande amore che aveva per il suo
signore e per la sua città, e, commossa, decise di aiutarlo come poteva.
Così Gilthaethil divenne guida e compagna di Maeldhuin.
"Per prima cosa si recarono da Círdan,
chiedendo il suo aiuto per raggiungere il Re. Ma Gil-Galad si trovava
nell’estremo Nord, impegnato a preparare guerra contro un nuovo nemico senza
nome. Círdan, preoccupato dalle voci di guerra ad Est, non prestava fede
alle parole di un messaggero che non voleva rivelare nulla sulla sua
missione. Senza dare ascolto alle suppliche di Gilthaethil, la figlia del
suo cuore, decise di trattenere Maeldhuin a Mithlond mentre chiedeva il
consiglio dei Saggi.
"Ma Gilthaethil non poteva permettere che
Maeldhuin fosse imprigionato. Facendolo travestire da suo servitore, riuscì
a farlo fuggire, e insieme risalirono il Fiume Lhûn, verso le tetre distese
di Forochel in cerca dell’esercito del Re..
"Lungo e arduo fu il loro viaggio,
innumerevoli i pericoli affrontati. E mentre percorrevano il loro cammino
periglioso verso nord, quello che era nato come un semplice aiuto dovuto
alla necessità si trasformò in un legame di fiducia e di profonda amicizia.
"Ma accadde un giorno che mentre Gilthaethil
si era allontanata sola nella foresta, Maeldhuin fu attaccato dagli orchi, e
il loro numero era tale che egli non poteva affrontarli. Sapendo di essere
perduto, gettò via gli Anelli, sperando che Gilthaethil li avrebbe trovati e
avrebbe portato a termine la sua missione consegnandoli al Re.
"La sua fiducia non venne tradita.
Gilthaethil, richiamata dai rumori della battaglia, tornò velocemente, ma
Maeldhuin era scomparso e il sacchetto dove teneva gli Anelli giaceva
abbandonato tra le foglie ai suoi piedi. Lei capì immediatamente di cosa si
trattava, e seppe che ora la missione gravava unicamente sulle sue spalle.
Amaro fu il suo dolore nel dover abbandonare l'amico al tormento e alla
morte. Ma era determinata a far sì che Maeldhuin non soffrisse invano. Così
prese gli Anelli e volse i suoi passi verso l'accampamento di Re Gil-Galad.
"Era sola in una terra crudele. I loro
cavalli erano stati uccisi nell’attacco, non trovava alcun riparo, ed era
come se l’aria stessa si fosse rivoltata contro di lei. Sauron, per
accelerare la vittoria del suo Capitano, aveva mandato le tempeste di Mordor
a perseguitare l’esercito di Gil-Galad, e terribile era la loro ira.
Gilthaethil corse dritta nelle fauci della tempesta, veloce come il cervo
delle foreste, instancabile come i venti che ululavano attorno a lei. Lega
dopo lega, attraverso foreste, deserti, rocce e fiumi, giorno e notte, ella
correva senza sosta, fino a sembrare una creatura della tempesta più che
un'elfo. Era una vista strana e terribile, con i vestiti strappati e i
capelli che le volavano attorno, bagnati e sporchi, mentre i suoi piedi
sanguinanti volavano sul terreno crudele.
"Finalmente, al morire di un giorno terribile
e senza sole, Gilthaethil giunse innanzi a Re Gil-Galad e mise nella sua
mano il dono di Celebrimbor. In questo modo, i Tre furono salvati dalla
rovina di Ost-en-Edhil, e portati, al sicuro dalla malizia di Sauron, al
cospetto del Re degli Elfi. E fu così che il giuramento di Maeldhuin fu
mantenuto."
Le parole finali di Faramir si spensero nel
silenzio, ma nessuno si mosse, tanto era potente l’incantesimo che la sua
voce aveva gettato su di loro.
"E cosa ne fu di Maeldhuin?" chiese infine
Frodo. "Anch’egli morì?"
"Maeldhuin fu portato prigioniero nei
sotterranei di Forochel e gettato in un profondo abisso. Là fu costretto a
lavorare in schiavitù insieme a prigionieri di altre razze, per fortificare
la fortezza del Re Stregone, il capitano di Sauron. Quando Gil-Galad mosse
guerra contro di lui, i prigionieri, guidati da Maeldhuin, si ribellarono,
soverchiarono i propri aguzzini, e aiutarono il Re a sconfiggere il Nemico.
"Ora che il suo esercito aveva trionfato al
Nord, Gil-Galad poteva finalmente rivolgersi all’Eregion per salvare il
popolo di Celebrimbor. Mandò un grande contingente a Ost-en-Edhil sotto il
comando di Elrond Mezzelfo, a cui affidò una potente arma, simbolo del
favore del Re per sostenerlo nella sua guerra contro Sauron. Maeldhuin, che
desiderava ardentemente tornare a casa, disse addio a Gilthaethil e partì
con Elrond verso l’Eregion.
"Molto dolorosa fu la loro separazione. Ma
ancora più dolorosa fu la vista che Maeldhuin si trovò innanzi una volta
tornato alla sua amata città. L’aiuto era giunto troppo
tardi. Ost-en-Edhil era in rovina, il suo popolo disperso o ucciso.
Il potere di Sauron si era abbattuto sui fabbri elfici che avevano osato
sfidarlo, annientandoli completamente.
"Elrond riunì tutti i superstiti che riuscì a
trovare e li condusse a nord, nelle terre selvagge, per costruire in segreto
un rifugio per gli Eldar per gli anni a venire. Ma
Maeldhuin non andò con lui. L’araldo di Ost-en-Edhil sapeva che non avrebbe
trovato pace nè guarigione in quel luogo, e così rivolse i suoi stanchi
passi verso Ovest e i Porti Grigi. Quando finalmente giunse a
Mithlond, scoprì che la sua ultima speranza lo aveva abbandonato.
Gilthaethil se ne era andata, scomparsa nelle foreste da cui era venuta."
"E quindi lui salì su una di quelle navi, non
è così?” sbottò Sam, “Se ne andò e la abbandonò!”
Faramir sorrise brevemente. "No, Sam, non
andò così. In quanto appartenente agli Eldar, era suo diritto partire per
l’Ovest, se lo avesse voluto, ma Maeldhuin non voleva lasciare la Terra di
Mezzo e la misteriosa fanciulla che aveva rapito il suo cuore.
"Volgendo le spalle al mare, si incamminò di
nuovo tra le colline invernali. A lungo cercò, e dei pericoli che incontrò
per quelle contrade nulla si conosce. Ma finalmente giunse al rifugio di
Gilthaethil, e la trovò lì, che lo aspettava. La notte della prima neve, si
scambiarono i voti d’amore, e per molti anni abitarono insieme nella
foresta. Questo è tutto quello che si sa, perché di tanto in tanto sono
stati visti camminare insieme tra gli alberi o cavalcare nei campi alla luce
della luna. E Círdan li conosce bene, perchè lo andavano
a visitare spesso.
"Ma con il passare dagli anni, e
l’oscuramento dei cieli della Terra di Mezzo, si spinsero sempre più di rado
a Mithlond, fino a che la loro esistenza fu dimenticata da tutti fuorché da
Círdan. Lentamente svanirono nel ricordo, e dal ricordo nella leggenda. Se
Gilthaethil e il suo amato vivono ancora nelle foreste dell’Eriador, o se
sono partiti per l’Ovest con le ultime navi, nessuno può dirlo.”
Nel silenzio che seguì, Pipino sospirò
silenziosamente. Faramir sorrise al giovane hobbit. “Cosa ne dici, Mastro
Perian? E’abbastanza elfica per te questa storia?"
"Altrochè! Ma
perché tutte le storie elfiche sono così malinconiche?"
Fu Legolas a rispondergli. “Ricorda, Pipino,
che la vita di un elfo comprende molte ere degli Uomini, e che in quel
periodo di tempo può conoscere grande gioia, grande dolore e grandi
pericoli. Ma col trascorrere degli anni, il dolore comincia a pesare molto
più della gioia, e l’animo si stanca del suo fardello. Allora i suoi occhi
si rivolgono al mare, i suoi sogni alle Terre Immortali, e nemmeno la
bellezza della Terra di Mezzo può più trattenerlo."
"E’per questo che se ne vanno tutti?"
"Sì."
Pipino scosse la testa, con gli occhi cupi.
“Sono felice di non dover vivere per sempre per vedere i miei ricordi più
belli diventare tristi".
Legolas gli sorrise con
calore. “Non è adatto a te il lento e triste declinare degli Elfi,
piccoletto. I mezzuomini sono fatti per le risate, non per le
lacrime”.
"E per i letti e i pasti caldi, non per le
lunghe notti sotto le stelle”. Lo hobbit si stiracchiò
sbadigliando, poi osservò speranzoso Gandalf. “Immagino che insieme
all'erbapipa tu non abbia portato niente da bere o da mangiare, vero?”.
Lo stregone rise.
"Non potrei mai portare tanto cibo da soddisfare quattro hobbit!” Guardò le
stelle e la luna che compivano il loro corso sopra di loro, poi sollevò un
sopracciglio in direzione di Pipino. “Vai a dormire, e dimentica il tuo
stomaco. Dobbiamo alzarci prima del sole, e non possiamo aspettare i pigri
Tuc!”
Pipino sbadigliò di nuovo."Legami alla sella
allora, Gandalf, dormirò fino a Rohan."
"E’ questo il modo di viaggiare di un soldato
di Gondor?” scherzò Aragorn. “impacchettato come un
bagaglio? Vergogna, Pipino.”
Seguendo l’esempio di Gandalf e Aragorn, i
membri della Compagnia si alzarono uno ad uno e si avviarono verso il
Cancello. L’incantesimo della storia di Faramir era ancora su di loro, così
come lo scintillante cielo notturno, e le loro voci erano appena un
mormorio, mentre si congedavano. Solo Boromir e Merry rimasero seduti senza
accennare a muoversi. Gil si alzò in piedi, incerta, restando accanto a
Boromir senza sapere cosa fare.
Faramir si alzò, stringendo in segno di
saluto il braccio del fratello. “Non ritorni alla
Cittadella?” domandò.
"No. Ho più bisogno di aria fresca che di
sonno, stanotte.” La sua mano arruffò i riccioli di Merry, e Boromir
aggiunse, con un sorriso, “Merry mi terrà fuori dai guai."
"E il tuo scudiero?"
"Vuoi che rimanga, mio signore?" chiese Gil,
chiaramente incerta se una notte trascorsa sulle mura della città con il
Sovrintendente avrebbe offeso il suo senso dell’onore più di lasciarlo solo
senza la sua guida.
"No, Gil, vai pure a dormire. Domani sarà un
lungo giorno”. Gil annuì, mormorando un sommesso “Mio signore”, e fece per
andarsene. Ma Boromir tese una mano per fermarla.
“Aspetta! Non mi hai datto che cosa ne pensi della storia”.
Gil si fermò, guardando con calma il volto
del Sovrintendente. “Come il perian ha detto, è una storia malinconica. Ma
fantasiosa, nonostante tutto, con una principessa misteriosa e amanti
immortali. Capisco perchè a Ioreth sia piaciuta tanto.”
"E anche perché abbia deciso di chiamarti
Gilthaethil,"aggiunse Merry.
Gil sbuffò come suo
solito. “Sciocchezze. Eppure..." I suoi occhi si
rivolsero esitanti a Faramir, e il suo viso abbandonò la formale rigidezza.
“Sono lieta di avere conosciuto qualcosa del mio nome, anche non so
nulla di me stessa. Ti ringrazio, mio principe”.
Faramir, colto alla
sprovvista dalla sua cortesia, si inchinò leggermente.
"E grazie anche a te, mio signore", disse
semplicemente a Boromir.
Boromir le sorrise, poi fece un gesto di
diniego, ringhiando scontroso, “Ah, finiscila, Gil! Tutta questa gratitudine
mi convincerà che sei malata e che stai per morire!
Vattene prima che mandi a chiamare i Guaritori!”
Gil non sorrise alla battuta, ma Merry la
conosceva abbastanza bene da capire che era divertita vedendo il modo in cui
socchiudeva gli occhi. "Come desideri, mio signore.
Buonanotte”.
Mentre se ne andava, anche Faramir si avviò,
camminando accanto a lei fino al cancello, con le mani intrecciate dietro la
schiena e gli occhi fissi su un punto lontano. Boromir e Merry poterono
ugualmente sentire le sue parole. “Se me lo permetti,
Gil, desidero accompagnarti alla Torre”.
La ragazza gli rispose con cautela, ancora
più rigida del solito. Ma Faramir non si fece
scoraggiare.
"E’ stata Ioreth a scegliere il tuo nome? Non
sapevo che conoscesse le leggende elfiche. Che storie ti ha raccontato
quando eri bambina?
Boromir attese fino a che il rumore di passi
si fu allontanato sulla ghiaia e il mormorio si fu spento nella notte, poi
si rivolse a Merry, osservando, “Mio fratello a quanto pare ha trovato
un’anima gemella”.
"Chi, Gil?"
"No, Ioreth."
Merry rise. "Pensi che riuscirà mai a
piacergli? Gil, intendo, non Ioreth."
"Non lo so." Boromir
scompigliò i capelli di Merry affettuosamente. “Sei stanco, piccoletto? Non
preferisci dormire in un letto caldo, finchè puoi ancora farlo?”
"No. Voglio stare qui con te, sotto le
stelle”.
Merry si alzò in piedi andando a sedersi
sulla panca accanto a Boromir. Poi entrambi si strinsero nei loro mantelli
appoggiandosi al muro, allungando le gambe davanti a loro. A dire la verità
le corte gambe di Merry arrivavano appena al limite della panca, e i suoi
piedi nudi restavano fuori dal mantello, ma era un notte tiepida, ed era
lieto di sentire il vento sulla pelle.
Mentre sedevano in pacifico silenzio, a Merry
ritornò in mente di nuovo la canzone di Bilbo. Non si era
mai accorto di quanto fosse triste. Ma a pensarci bene, non si era mai
sentito triste al pensiero di mettersi in strada. Visto che non
trovava un altro modo di esprimere i propri pensieri e le parole gli
venivano meno quanto più gli servivano, recitò ad alta voce i familiari
versi.
La via prosegue senza fine
Lungi dall’uscio dal quale parte.
Ora la via è fuggita avanti,
devo inseguirla ad ogni costo
rincorrendola con piedi alati,
sino all’incrocio con una più larga
dove si uniscono piste e sentieri. E poi dove andrò? Nessuno lo sa.
"Non ho mai chiesto a
Bilbo se c’era un’altra strofa", meditò, "una che parlava di stare al sicuro
in casa, dove la strada non possa portarti via".
"O forse una che parla della strada verso
casa” suggerì Boromir.
"Casa. Ogni strada conduce alla casa di
qualcuno, immagino”.
Si interruppe e deglutì faticosamente. La
notte stava scivolando via, così come il giorno precedente, e il tempo era
breve. Troppo presto avrebbe dovuto pronunciare un balbettante addio, e
Frodo, Pipino, e il richiamo della sua amata Contea lo avrebbero
inesorabilmente portato via, senza lasciargli il tempo di dire le parole che
davvero contavano.
Raccogliendo il coraggio e confidando che le
parole sarebbero venute da sole, Merry cominciò, "Boromir, io..." Ma non
riuscì a dire nulla, e la voce gli morì in gola tra le lacrime.
Boromir lo fissò con il
suo sguardo bendato. "Pace, piccoletto".
"Presto sarà mattina."
"Non così presto. Abbiamo ancora molte ore di
oscurità davanti a noi”.
"Mi sembra solo un momento.” Merry chinò il
capo, e le lacrime gli caddero calde sulle mani intrecciate.
"Non piangere." La mano di Boromir trovò
quella di Merry e la strinse con calore."Non dobbiamo dirci addio prima del
tempo, e non è bene sprecare il tempo piangendo”.
"Che cosa faremo, allora?"
"Ascolteremo le stelle.
Saremo felici almeno per un po’. Aspetteremo il mattino insieme”.
"E poi ci diremo addio”.
"Quando sarà il momento."
Con un ultimo sconsolato singhiozzo, Merry si
pulì il viso con la manica e si mise ad aspettare. Protetto dal calore
dell’uomo, abbandonò il suo dolore e si rilassò nella bellezza della notte,
senza ansia né preoccupazione. Poi, finalmente, il sonno lo vinse, e la sua
testa scivolò fino a posarsi contro il fianco di Boromir. Boromir coprì la
piccola figura raggomitolata con il suo mantello, e da qualche parte in
mezzo al canto delle stelle, si addormentò.
Continua...
*Nota:La leggenda di Maeldhuin e
Gilthaethil è stata scritta da Annys. Il personaggio di Maeldhuin
appartiene a lei, mentre Gilthaethil appartiene a PlasticChevy e Annys
(PlasticChevy ha inventato il nome e fornito la cornice storica, Annys ha
fatto il resto.) La storia completa verrà pubblicata probabilmente come
un'Appendice a "Il Capitano e il Re".
Al sorgere del giorno, gli Uomini di Rohan portarono il
corpo del loro Re caduto dai Luoghi Sacri attraverso la città con solenne
cerimonia. Ai lati del feretro camminavano re Éomer e sua sorella, Éowyn,
accompagnati da Meriadoc, scudiero di Théoden. Dietro di loro venivano i
soldati di Gondor e la grigia compagnia dei Dúnedain, con le armi sguainate
in segno di saluto, come guardia d’onore. Tra di loro vi erano Re Elessar e
il suo Sovrintendente, Gandalf, Legolas l’elfo, Gimli il nano, e una piccola
figura vestita nella livrea della Torre di Guardia. Éomer in persona aveva
chiesto che si unissero all’ultima marcia di Re Théoden, in ricordo delle
battaglie che avevano affrontato insieme nei giorni oscuri.
Le strade erano affollate di persone, come lo erano state
di recente solo in occasione dell’arrivo a Minas Tirith della Regina. Ma in
questo mattino d'estate non c'erano fiori né canzoni, solo un rispettoso
silenzio, e volti tristi e gravi. Nessuno in città aveva dimenticato il
suono dei corni nel vento o gli elmi d’argento che scintillavano nella luce
mentre Rohan cavalcava in aiuto di Gondor. Nessuno aveva
dimenticato il prezzo che Rohan aveva pagato per quella vittoria.
Lentamente, il corteo uscì dai cancelli nei campi di
Pelennor, dove il resto della scorta attendeva. A un segnale di Éomer, la
portantina di Théoden fu sollevata sopra un carro sopra il quale sventolava
lo stendardo con il cavallo bianco di Rohan. Poi il Re del Mark salì a
cavallo, imitato dal suo seguito.
Merry lasciò in silenzio il suo posto a fianco di Théoden
per avvicinarsi a Boromir, che stava in piedi accanto a Fedranth. Prima di
partire dalla Via Silente davanti alle Case dei Re, Merry aveva chiesto a
Éomer questo favore – di poter percorrere l’ultimo miglio verso il Rammas
Echor insieme a Boromir. Éomer aveva sorriso e posato una mano sulla testa
di Merry, dicendo, “A Re Théoden non dispiacerà se lo lascerai per un
miglio. Vai pure”.
Così lo scudiero di Théoden non salì
sul carro accanto al suo signore, ma montò in sella insieme al
Sovrintendente di Gondor. Poi, dall’alto della sua posizione, si
voltò verso nord, lasciandosi alle spalle le bianche mura di Minas Tirith,
verso il viaggio che lo aspettava. Le sue mani si posarono su quelle di
Boromir, aiutandolo a dirigere il cavallo, e i suoi occhi si inondarono di
lacrime.
Il carro di Théoden segnava il passo della loro
cavalcata. Fedranth rimase al seguito del corteo, senza mai andare oltre il
passo, e Merry ebbe tutto il tempo di guardarsi attorno. Lui e Boromir
cavalcavano insieme al resto della Compagnia, leggermente in disparte
rispetto al gruppo principale. Alla testa del gruppo vi erano i Dúnedain di
Grampasso e i figli di Elrond. Merry riusciva a intravedere il riflesso
dell’oro oltre le loro sagome che indicava il punto in cui cavalcavano
Galadriel e Celeborn insieme agli Elfi di Lórien. Non riusciva a vedere la
regina Arwen, ma immaginò che Elrond l’avesse tratta in disparte per parlare
con lei in privato. Faramir e Imrahil cavalcavano insieme a Éowyn, accanto
al corpo del Re, e una compagnia della Guardia della Torre chiudeva il
corteo.
Erano davvero i più saggi e i più potenti della Terra di
Mezzo, quelli che erano riuniti in quella piccola compagnia. Se non fosse
stato per le sue esperienze nei mesi passati, Merry avrebbe potuto essere
intimidito dallo spiegamento attorno a sé. Ma ora poteva guardare le divise
di Gondor e Rohan, l’elegante bellezza degli elfi e l’austero coraggio degli
Uomini provando solo meraviglia e ammirazione.
In realtà Merry non era molto interessato ai suoi futuri
compagni di viaggio. Tutti i suoi pensieri andavano a colui che avrebbe
dovuto presto lasciare indietro, e all’addio che avrebbe dovuto pronunciare
di lì a poco.
Anche se lento, il loro viaggio era stato comunque troppo
breve per Merry. Davanti a sé vide il muro di pietra di Rammas Echor, e il
cuore nel suo petto si fece greve. Il sole non aveva ancora raggiunto lo
zenit, quando il corteo funebre si fermò innanzi al cancello che li avrebbe
introdotti nell’Anórien. Il luogo in cui infine i Nove Viandanti della
Compagnia dell’Anello avrebbero preso strade diverse. Questo era soltanto
uno dei molti addii che sarebbero dovuti seguire, ma per almeno due di loro,
sarebbe stato il più amaro.
Gandalf e Aragorn spronarono i cavalli
in avanti attraverso le fila silenziose di Uomini ed Elfi, verso il
Cancello, seguiti dalla Compagnia. Merry teneva gli occhi fissi sulle
pallide torce che ardevano accanto al corpo del re, cercando ostinatamente
di ignorare la compassione e il dolore sui volti di quelli che superavano.
Quando si affiancò a Éomer, vide che i signori degli Elfi e i Principi di
Gondor erano davanti a lui, in attesa di prendere commiato dal
Sovrintendente.
Durante gli addii che seguirono, Merry rimase seduto in
sella a Fedranth, in silenzio, a capo chino. Non gli importava sentire i
loro discorsi di vittoria, di amicizia, di commiato. L’unica cosa di cui era
consapevole era che ogni persona che sfilava davanti a lui, stringendo la
mano di Boromir e dicendogli addio, lo portava sempre più vicino al momento
del suo commiato. La maggior parte dei presenti si congedò a cuor leggero,
in previsione di un rapido ritorno. Altri, come Faramir e Aragorn, avevano
già detto in altra sede ciò che dovevano, e si limitarono a un veloce
abbraccio e poche parole all'orecchio di Boromir. Tra la Compagnia, solo
Gandalf e gli hobbit indugiarono nei saluti, poiché erano quelli che
viaggiavano più lontano, e che avevano meno speranze di rivedere mai più
Gondor o il suo Sovrintendente.
Merry sopportò in silenzio senza
capire una parola di quello che veniva detto, perso nella sua tristezza,
cercando disperatamente le parole adatte per separarsi dal suo signore, e la
forza per pronunciarle senza vacillare. Fallì in entrambi i tentativi, e il
suo cuore venne meno quando alzò gli occhi per vedere un solo cavaliere
davanti a sè. Con sua sorpresa, vide che si trattava di Éowyn.
Quando gli occhi di Merry incontrarono i suoi, lei
sorrise, ma c’era tristezza sul suo volto. “Cavalcherai con me, mastro
Holbytla? Sarei fiera di essere in tua compagnia ancora una volta.”
Merry cercò di rispondere, ma non ci
riuscì. La guardò per un attimo a bocca spalancata, poi si voltò per
guardare l’uomo seduto dietro di lui. Boromir gli mise
una mano sulla spalla, gentilmente.
"Va’con lei, Merry," disse.
"Non siamo più fuggiaschi”, disse Éowyn, "e non andiamo
verso guerra e morte. Eppure il nostro futuro è sconosciuto, e dietro di noi
sono dolore e lutto. Credo che potremo esserci di reciproco conforto. Non
vuoi cavalcare di nuovo con Dernhelm ?"
Merry osservò la dama, orgogliosa e bella in sella al suo
destriero, e si chiese se quella era davvero lo stesso Dernhelm che aveva
conosciuto. Non sembrava esserci traccia di quel ragazzo disperato nella
graziosa dama vestita di bianco, con un mantello verde sulle spalle e i
capelli biondi che le scendevano sulle spalle. Era sempre esile e bella,
diritta e luminosa, ma più simile a un fiore su un alto stelo che a una lama
affilata. Si era addolcita al tepore del sole. Ma
quando lo guardò con i suoi occhi che parevano riflettere anni di oscurità
senza fine, grevi di dolore eppure troppo remoti e fieri per mostrarlo,
Merry riconobbe in lei il suo compagno d’armi di un tempo.
"Andiamo, Merry. Terremo
compagnia al nostro re caduto lungo il suo viaggio verso casa”.
Merry non riuscì ancora a rispondere,
ma fu Boromir a mettere fine a quel momento. Scese agilmente di
sella, poi fece scendere anche lo hobbit, e disse, risoluto, "Vieni, è il
momento".
Merry obbediente si lasciò posare a terra, ma una volta
sceso non si diresse verso Windfola. Afferrò invece le mani di Boromir,
facendolo inginocchiare sulla strada davanti a lui. Rimasero a lungo in
silenzio, stringendosi le mani.
"Ho cercato di trovare le parole giuste”, disse infine
Merry.
Boromir scosse la testa. “Non esistono”.
Lasciò andare le mani di Merry per cercare qualcosa a
tentoni tra le pieghe del suo mantello.Poi, lentamente, tese la mano,
mostrando un oggetto nel palmo aperto, che Merry guardò attraverso un velo
di lacrime. Era un corno – più piccolo di quelli dei soldati di Gondor, ma
grazioso ed elegante, decorato con fili d’argento, appeso a un balteo di
velluto e cuoio lavorato.
Boromir porse il corno a Merry, e lo hobbit lo prese con
riluttanza. Sapeva che era un dono d’addio, e, nel suo dolore, non voleva
alcun oggetto a sottolineare il momento del commiato. Il corno era freddo e
solido, e si adattava perfettamente alla sua mano. Scintillava nella luce
del sole, attirando il suo sguardo al delicato intreccio dell’argento.
Attraverso le lacrime, vide che vi era incisa l’immagine dell’Albero Bianco,
e una singola runa. La osservò, troppo annebbiato dal dolore per capire il
suo significato. Poi, lentamente, capì: era la prima lettera del nome di
Boromir.
"Apparteneva a me. Mi fu dato quando indossai per la
prima volta l’uniforme di Gondor per andare al confine ad imparare il mio
compito”, disse Boromir. “Guarda su entrambi i lati”.
Merry, obbediente, girò il corno.
Dall’altro lato l’argento era lavorato in modo simile, ma la runa
stavolta era una M, incisa da poco e ancora non consumata dagli anni di uso.
Merry sospirò.
"Ora è tuo, amico mio. Ma ho lasciato la mia iniziale su
di esso, così che ricordi da dove viene, e il figlio di Gondor che un tempo
lo portava".
"Io... io ricorderò", sussurrò Merry.
"Se mai avrai bisogno di me, suona il corno.
Io lo sentirò”.
"E se sarai tu ad avere bisogno di
me?"
"Tu lo saprai”. Boromir sollevò
un dito per toccare il centro del petto di Merry. “Come
sempre. Addio, Meriadoc della Contea. Prego che tu non abbia mai più
bisogno di usare il corno o la spada, e che tu viva in pace tutti giorni
della tua vita!”
Merry scoppiò a piangere, e prendendo
la mano di Boromir tra le sue, la baciò come aveva fatto un tempo. E come
allora, Boromir non si ritrasse, anche se il suo viso divenne più triste, e
chinò il capo. "Non posso lasciarti", gridò lo hobbit. "Come farai senza di
me?"
"Sarà difficile," ammise il Sovrintendente di Gondor, con
un sorriso che però tradiva le lacrime nella sua voce, “ma imparerò.
E tu devi andare a casa, mio caro Merry. Devi andare,
finchè riesco a lasciarti andare”.
Merry piangeva apertamente, il suo
viso rigato dalle lacrime. Attorno a lui, i grandi della Terra di
Mezzo attendevano in rispettoso silenzio, con espressioni gravi,
distogliendo lo sguardo per non intromettersi nel loro commiato e nel loro
dolore. Solo Pipino incrociò lo sguardo di Merry, mentre questo si guardava
attorno come per cercare aiuto, ma anche negli occhi di Pipino c'era solo
dolore.
Si voltò di nuovo verso Boromir e disse, supplicante,
“Lascia che ti riaccompagni in città... almeno fino al cancello!
Lascia che sia ancora per un po’ la tua guida!”
"No, Merry, quello non è più il tuo posto. E io... non
posso sopportare tutto questo una seconda volta." Sciogliendosi dalla
stretta di Merry, Boromir si alzò in piedi, sollevò lo hobbit tra le braccia
e lo consegnò nelle mani di Éowyn. Mentre Merry si sistemava in sella,
Boromir si voltò verso Fedranth. Il cavallo strofinò il muso contro la sua
mano, e Boromir lo accarezzò, nascondendo il viso contro il collo
dell’animale. Rimase così per un momento, celando il suo dolore, poi
raddrizzò le spalle, sollevò il capo, e montò in sella.
Una volta a cavallo, Boromir si affiancò a Éowyn,
seguendo il suono dei singhiozzi di Merry, e posò la mano sulla testa dello
hobbit. La sua voce era un sussurro, che nessuno a parte loro tre udì, ed
era ruvida per le lacrime che non poteva piangere. “Sii
felice, Merry. Che la tua vita sia piena di canzoni, cibo e gioia,
come sarebbe sempre dovuta essere. E quando penserai a
me...”
Noncurante dell’altezza a cui si trovava, Merry si sporse
pericolosamente dalla sella per abbracciare di nuovo Boromir. Premendo il
viso nel velluto della sua tunica fino a sentire la maglia di ferro sotto di
esso, gridò, “…ricorderò il più grande uomo e il migliore amico che abbia
mai conosciuto!”.
Boromir chinò il capo, sussurrando, “Se ricorderai che ti
voglio bene, sarà sufficiente”. Poi, gentilmente, scostò
Merry da sè, rimettendolo a posto sulla sua sella. Éowyn gli mise un
braccio attorno alla vita, sia per confortarlo che per trattenerlo.
“Addio”.
"Ritornerò! Lo prometto!” Come
a un implicito segnale, la truppa di cavalieri si mise in marcia.
“Addio, Boromir!"
Éowyn spronò il suo cavallo, unendosi alla colonna, e
Merry fu portato inesorabilmente attraverso il cancello di Rammas Echor. Si
voltò all’indietro sulla sella mentre superavano le mura, cercando con lo
sguardo la figura di Boromir, immobile sul grigio destriero di Rohan, con
una schiera di soldati alle sue spalle. Boromir non poteva vederlo, ma in
quel preciso istante, sollevò una mano in segno di saluto.
"Addio!" Gridò Merry, con voce acuta
per la disperazione. “Addio!”, poi si voltò, sollevando il cappuccio
per nascondere il suo viso, e pianse.
Le torce sussultarono all’aprirsi delle
maestose porte in fondo alla sala. Aragorn vide le fiamme vacillare e
riprendersi, e capì che il tempo per il suo dolore privato era finito.
Eppure non si voltò ad accogliere gli uomini che giungevano camminando
attraverso il Grande Salone. I suoi occhi rimasero fissi sulle fiamme che
vegliavano solenni al di sopra della piattaforma, le sue mani strette
attorno allo scettro bianco posato sulle sue ginocchia.
Uno dei due uomini, il più giovane, si fermò a
qualche passo dalle scale, mentre l’altro salì fino al primo gradino, dove
si trovava il Seggio del Sovrintendente, e attese in rispettoso silenzio che
il Re lo interpellasse.
Finalmente, Aragorn parlò, senza voltarsi.
“E’ il momento?”
"Questo spetta a te
deciderlo, mio Re”, rispose Faramir.
Aragorn inspirò
profondamente per cercare di guadagnare un po’di calma, poi si alzò
lentamente, faticosamente in piedi. Aveva trascorso tutte le veglie
della notte su quella sedia di pietra, ripetendo ancora e ancora le parole
di addio che non riusciva a credere nel suo cuore, e piangendo lacrime che
non sembravano finire mai. Con l’approssimarsi del giorno, aveva trovato un
po’ di calma, se non la pace, e suoi occhi erano asciutti. Ma il suo corpo
era stanco, rigido per gli anni e per il freddo, e ogni momento dei suoi
centoventi anni gravava pesantemente sulle sue spalle.
Faramir si avvicinò salendo un altro gradino, come per aiutarlo ad alzarsi,
ma Aragorn lo fermò con un gesto. Andò incontro a Faramir fermandosi sul
gradino più basso, e posò lo scettro di traverso sul seggio del
Sovrintendente.
"Grazie per essere venuti”, disse. Volgendo
uno sguardo desolato al più giovane dei due, aggiunse, “Grazie a entrambi”.
"Tutto ciò che devi fare è chiedere, mio
signore. Siamo ai tuoi ordini”.
Aragorn scosse il capo stancamente, voltandosi
di nuovo verso le torce gocciolanti. “Questo non è tempo per gli ordini,
amico mio, ma per il dolore, e le difficili decisioni”.
Abbandonando le formalità, Faramir strinse con
fermezza il braccio del Re, e disse, “Sai bene che io e i miei siamo con te,
qualunque cosa tu decida. Non avere paura di noi,
Aragorn, e non dubitare di te stesso”.
"Ecco perché ti ho convocato qui prima degli
altri. Devo essere certo che tu capisca”, mormorò Aragorn.
"Io capisco. E non vorrei che fosse
diversamente”.
Aragorn si volse nuovamente per guardare
Faramir, con occhi così scuri e vuoti che sembravano divorare la luce con la
loro disperazione. “Io non infrangerò il mio giuramento”.
Le lacrime affiorarono agli occhi di Faramir.
"Né io ti chiederei mai di farlo”.
"E tu, Elboron?" Aragorn lanciò uno sguardo
penetrante al giovane che stava in piedi dietro il padre.
“Accetti la decisione del tuo Re? Ti accontenterai del futuro che egli ha
scelto per te?”
Elboron si fece avanti rapidamente, mettendo
il ginocchio a terra davanti al suo signore con il capo chino, la sua mano
sull’elsa della spada. "Sono soddisfatto, mio Sire."
"Alzati, lascia che ti guardi”.
Il giovane si alzò in piedi con naturalezza, e
sollevò lo sguardo incontrando gli occhi del Re. Aragorn lesse nel suo volto
l’orgoglio, la saggezza e la comprensione, accompagnati da un velo di
tristezza che lo faceva apparire più vecchio dei suoi anni. Somigliava a
Faramir tanto nel volto che nel carattere, e mai per un attimo Aragorn aveva
dubitato della sua lealtà o del suo valore come soldato e alleato.
Cercando di sorridere, mise le mani sulle
spalle di Elboron, e lo baciò sulla fronte. “Sei un
grande conforto per me, figlio di Faramir."
"E cosa sarà di Caladmir?", chiese Faramir a
bassa voce. "Cosa sarà del figlio di Boromir?”
Aragorn lasciò andare Elboron e fece un passo
indietro. Di nuovo i suoi occhi corsero alle torce, e alla figura che
giaceva immobile tra loro, e non rispose.
"Non è forse degno
anch’egli dell’amore del suo Re?”
"Sì. Certo che ne è degno".
"Non prenderà dunque il posto di suo padre?"
Ancora una volta Aragorn si sentì investire
dal peso della sua perdita, e le sue spalle si incurvarono sotto di esso. “I
figli di Boromir avranno tutto quello che potrò dare loro, sul mio onore”.
Prima che Faramir potesse parlare di nuovo,
Aragorn si voltò e salì gli ampi gradini fino alla piattaforma.
Faramir lo seguì, e insieme si avvicinarono alla
portantina. Le torce danzarono al loro passaggio, come ritirandosi
dalla loro venuta.
Aragorn le osservò con disprezzo. “Perché
hanno messo le torce così vicino a lui?”
"La Guardia della Torre le ha accese come
segno di onore. Non pensavano di fare male, e ora a Boromir non possono più
dare fastidio”.
"Lo so. Eppure non
posso fare a meno di rabbrividire al pensiero”.
"Anche io." Faramir osservò ancora le sinistre
luci, poi si affiancò al re per guardare la figura distesa tra di esse.
Lì, su una lettiga decorata con drappi bianchi
e argento, giaceva Boromir, figlio di Denethor, Principe di Anórien e
Sovrintendente di Gondor. Le sue mani erano incrociate sul suo petto, vuote,
e il suo capo era scoperto, tranne che per la nera benda che copriva i suoi
occhi. Il tempo era stato generoso con lui, come era solito con i
discendenti di Númenor, anche con quelli di lignaggio inferiore come i figli
di Denethor, ma le ferite e la malattia avevano scavato la sua carne,
dandogli un aspetto smagrito e a prima vista severo. Per Aragorn, che
conosceva quel volto meglio del proprio, e che aveva visto la morte in molte
guise, non appariva né innaturalmente austero né particolarmente pacifico.
Era semplicemente morto, come tutti gli uomini quando la passione e il fuoco
della vita li abbandonano. Boromir aveva bruciato di un fuoco più caldo e
più ardente di molti altri, ed era per questo che, ora, la sua immobilità
causava un dolore così insopportabile a coloro che lo guardavano.
In quel silenzio carico di emozione, Aragorn
poteva sentire il sibilo e lo schioccare delle torce, e percepiva il dolore
di Faramir come una presenza viva tra di loro, un respiro freddo che
soffiava timore nell’aria. Il suo dolore era perso nell’oblio dello
sfinimento, per il momento domato, ma a un grave costo. Gli era occorsa
tutta la notte per farlo, e aveva costretto il suo corpo e il suo spirito
quasi al limite della sopportazione, e sapeva che prima o poi il dolore lo
avrebbe assalito di nuovo, affondando artigli avvelenati nel suo cuore. Ma
non poteva permetterlo ancora, non fino a quando il suo dovere fosse
terminato, e il suo amico riposasse nella Casa dei Re, dove un giorno
Aragorn lo avrebbe raggiunto.
In quel pensiero risiedeva il suo tormento e
la sua speranza. Il dono di Ilúvatar era davvero amaro, eppure almeno era
concesso a tutti gli Uomini. Persino ai Re venuti dalla leggenda. Da una
parte aveva davanti a sé la sua Regina e il suo regno, che lo chiamavano ai
suoi doveri verso la Terra di Mezzo, dall’altra la speranza di ritrovare un
caro amico, e Aragorn si sentiva preso e strappato tra queste due strade,
insanguinato dall'agonia della perdita e dei lunghi anni.
Ma Aragorn sapeva che i suoi dubbi non
potevano durare. Sapeva che presto avrebbe dovuto aprire le porte della
sala, sopportare mentre il corpo del suo Sovrintendente veniva portato
fuori, e guardare il suo viaggio senza ritorno verso la Casa dei Re. Poi
avrebbe dovuto riprendere la sua corona e i suoi doveri, nonostante la
ferita nel suo cuore e il posto vuoto alla sua destra, e nessuno avrebbe mai
immaginato quanto vicino Aragorn fosse stato a scegliere l’altra strada,
mentre sedeva in solitudine piangendo nell’oscurità. Ma anche questo era il
fardello di un Re.
Rivestendosi della sua regalità come di un
mantello, Aragorn si raddrizzò e sollevò il mento. Non portava ornamenti
tranne una stella sulla fronte legata con un filo d’argento, la stessa che
aveva indossato alla sua incoronazione, sui campi di Pelennor, eppure
sembrava che la corona alata di Eärnur scintillasse sulla sua fronte.
Rivolgendosi all’uomo accanto a lui, disse piano,
"E’il momento. Chiama la Guardia e fa’venire i
Mezzuomini”.
Uscirono dalla fresca penombra dell’anticamera
nel sole brillante di una mattina d’autunno. Eppure ad Aragorn parve che la
città fosse ricoperta da un manto di neve. Drappi bianchi erano appesi a
ogni finestra e balconata, ondeggiavano sui tetti dei palazzi, legati alle
aste, e il bianco adornava gli abiti di ogni creatura che affollava le
strade della silenziosa città in lutto. Fiori, bandiere, nastri e tessuti
legati o intrecciati. Dalle finestre superiori della Cittadella sventolavano
bianchi stendardi di seta, ammantando la pietra di bianco scintillante. La
Guardia della Torre, rispendente nella livrea nera e argento, portava
strisce bianche di traverso sul petto, che coprivano l’emblema dell’Albero e
delle Stelle, in ricordo della leggendaria cavalcata del loro capitano fuori
dai Cancelli. Persino l’Albero Bianco aveva deciso di onorare il figlio di
Gondor. Sebbene il tempo della fioritura fosse ormai passato, durante la
notte un grande bocciolo si era aperto, mostrando su un ramo basso, proprio
a portata di mano, il suo dono profumato.
Aragorn entrò nel Cortile,
e sotto gli occhi di tutti si avvicinò all’Albero. Dietro di lui,
quattro uomini della Guardia portavano la lettiga, fermandosi al limite
dello spazio verde. Ai lati della portantina stavano due piccole figure, che
avrebbero potuto essere scambiate per bambini tra gli alti Uomini del Sud,
se la loro fama non li avesse preceduti e il loro portamento non li
annunciasse come Principi della loro razza. Merry e Pipino avevano raggiunto
la città appena una settimana prima, inattesi, in tempo per dire addio al
loro amico prima che scivolasse oltre la portata delle loro voci. Merry
aveva vegliato con Aragorn durante gli ultimi giorni della malattia di
Boromir e aveva posato un bacio di addio sulla sua fronte quando era morto.
Ora gli hobbit stavano accanto a lui insieme ad Aragorn, all'ombra
dell'Albero in fiore.
Inchinandosi davanti all’Albero in segno di
rispetto, Aragorn ne spiccò il fiore. Voltandosi verso il punto dove giaceva
l’amico, si portò il fiore alle labbra e vi depose un bacio, mormorando
alcune parole in elfico, poi lo posò delicatamente sul petto di Boromir,
sopra il simbolo ricamato del Corno di Gondor. Accanto a lui, Merry
singhiozzò senza vergogna, e quel suono fu alle orecchie di Aragorn più
straziante e bello di tutti i discorsi dei saggi. Posò una mano sulla testa
di Merry, come aveva visto fare a Boromir così tante volte, e si rivolse
alla folla silente.
"Sono prostrato dal dolore, e non ho animo per
i discorsi". La sua voce, sebbene bassa e resa ruvida dal pianto, risuonava
chiara nel Cortile e sembrava quasi echeggiare nelle strade sottostanti.
“Questo dovrebbe essere il momento per solenni parole, ma non so che cosa
dire. La mia perdita non posso esprimerla. La vostra perdita, che affligge
tutta Gondor e tutta la razza degli Uomini, la conoscete bene quanto me.
Boromir è morto”.
Aragorn dovette fermarsi per riguadagnare la
voce che gli si spegneva in gola. Poi proseguì.
“La linea dei Sovrintendenti è giunta al termine. La Casa dei Sovrintendenti
a Rath Dínen è in rovina, e mai più sarà ricostruita. E Boromir, figlio di
Denethor, ultimo Sovrintendente di Gondor, riposerà per sempre a fianco di
Elessar nella Casa dei Re."
Un leggero mormorio di sorpresa attraversò la
folla, e Aragorn sollevò una mano per zittirlo. I suoi occhi percorsero i
visi che lo circondavano, vedendo il loro dolore misto a curiosità,
soffermandosi sui volti che conosceva, che amava, che commiserava. Ma più a
lungo di tutti, gli occhi del Re si soffermarono su una piccola figura
quieta un po’in disparte, vestita interamente di nero, poco distante da
Faramir ed Éowyn, che stava con lo sguardo abbassato, attorniata dai suoi
tre figli. I suoi abiti erano sobri e non portava ornamenti, salvo una gemma
bianca al collo. Un fazzoletto copriva la sua testa abbassata, nascondendo
gran parte del suo viso. Aragorn conosceva molto bene quel viso, e per un
attimo fu grato che lei non incrociasse il suo sguardo. Non avrebbe
sopportato di vedere il dolore nei suoi occhi, mentre il suo era ancora così
vivo e terribile.
Il suo sguardo si spostò da Gil al giovane in
piedi al suo fianco, e il suo cuore si strinse per il dolore e il rimpianto.
Così somigliante al padre nel viso e nel portamento, così simile a lui nel
carattere, che spesso, quando lo guardava, ad Aragorn sembrava di vedere la
giovinezza di Boromir replicarsi davanti ai suoi occhi. Un giovane guerriero
appena entrato nella virilità, con la luce della speranza e del valore che
ardeva nei suoi occhi, splendente come il sole che scintillava sull’Anduin.
Caladmir. Gioiello di luce. Il gioiello di Boromir, il
dono che egli lasciava a Gondor e al suo Re in quest’ora oscura.
Fu a Caladmir, alle sue
sorelle e alla madre che soffriva in silenzio, che Aragorn parlò, ma le sue
parole commossero ogni creatura che le udì.
"Un Re deve portare molti fardelli. Alcuni
sono facili da sopportare, altri spezzerebbero la volontà di un uomo non
sostenuto dall’onore e dal senso del dovere. Boromir questo lo sapeva bene,
perché per amore del suo Re, ha sofferto per le mie scelte come nessun
altro. Ma lo ha fatto volontariamente, perché mi amava. E io amavo lui, lo
amerò sempre, anche se dovesse giacere cent’anni nella morte senza di me.
Spesso sono stato costretto a scegliere tra il bene di Gondor e il suo, e
ogni volta, egli ha accettato che i doveri di un re vengono prima di tutto.
Che Gondor viene prima di tutto. Perché anch’egli
considerava Gondor più preziosa di ogni legame di sangue o di amicizia.
"E per questo, poiché egli ha condiviso i miei
dolori e sofferto per me, è mio dovere continuare dove Boromir ha iniziato,
per Gondor. Udite ora i giuramenti del vostro Re,
pronunciati in onore di Boromir.
"La sua famiglia avrà sempre posto nel mio
cuore, e sarà sotto la mia protezione finché vivrò, onorata per i propri
meriti e per quelli di Boromir. Faranno delle loro vite ciò che più piacerà
loro, e, sebbene come Re non possa dar loro benefici ereditari, come amico
farò per loro tutto ciò che è in mio potere.
"Il suo titolo di principe ritornerà alla
Corona di Gondor, fino al momento in cui troverò un altro degno di portarlo.
Faramir rimarrà principe di Ithilien e Capitano-Generale del nostro
esercito. I Figli di Faramir e i figli dei suoi figli reggeranno l’Ithilien
in nome del Re, come nostri amati e stimati consiglieri, fino a che durerà
la loro stirpe.
"Per quanto riguarda la Sovrintendenza..." Di
nuovo un mormorio percorse il Cortile, ma stavolta si spense spontaneamente.
Aragorn si mosse dalla sua posizione dietro il feretro e tese la mano verso
Faramir, che stava in piedi, con Éowyn e Elboron al suo fianco. Faramir si
avvicinò, portando lo scettro bianco del Sovrintendente nelle sue mani. Si
inchinò rapidamente a Aragorn, porgendogli lo scettro sui palmi aperti.
Aragorn lo prese, sollevandolo sulla testa, così che tutti coloro che erano
radunati nel Cortile e sulle mura potessero vederlo, bianco e scintillante
nella luce del sole.
Poi gridò, con voce forte e ruvida per le
lacrime, “Una volta, in un’ora oscura e disperata, mentre giacevo sui campi
di Rohan aspettando la morte, feci un voto. Giurai che Boromir sarebbe stato
il mio Sovrintendente, o nessun altro. Giurai che ci sarebbe stato un solo
Sovrintendente a Gondor, fino a che io sarei stato Re. Ascoltate le mie
parole, popolo di Minas Tirith, e siate testimoni del mio giuramento!
Boromir, figlio di Denethor, il migliore degli amici e il più coraggioso dei
guerrieri, fratello nel mio cuore anche se non nel sangue, è il mio
Sovrintendente oggi e per tutti i giorni del mio regno!”
A queste parole, un chiaro squillo di tromba
echeggiò sulle mura. Lo stendardo bianco che ondeggiava sulla Torre di
Echtelion volò a terra, il nastro reciso da un coltello. Poi caddero tutte
le grandi bandiere di seta appese alle finestre della torre. E da ogni mano,
da ogni casa e da ogni muro, le persone lasciarono cadere i pegni che
portavano, in una dolce tempesta bianca. La neve che aveva ammantato le mura
di Minas Tirith ora giaceva ai suoi piedi, e ogni voce nella città si
innalzò nell’antico canto di lutto per l'ultimo Sovrintendente di Gondor.
Durante il canto funebre, Aragorn abbassò lo
scettro, posandolo delicatamente sul corpo di Boromir, come la spada di un
eroe. Merry lo aiutò a chiudere le mani di Boromir su di esso, anche se
poteva a stento vedere per le lacrime. Poi Aragorn si chinò, posando un
bacio sulla fronte fredda.
“Addio, fratello”, mormorò. “Possa il dono di
Ilúvatar portarti finalmente la luce”.
Fine.
*** *** ***
Qualche nota dell’autrice sull’Epilogo...
L’anno 30 della Quarta era cade 32 anni dopo la distruzione dell'Anello.
Boromir ha 73 anni, Aragorn 120, Faramir 68. Aragorn vivrà ancora 90 anni, e
Faramir 52. Imrahil, che ha 95 anni, morirà circa tre o quattro anni dopo
(la data esatta non si conosce).
Elboron è il nome dato da Tolkien al figlio di Faramir.
I nomi dei figli di Boromir sono naturalmente inventati. Il maschio si
chiama Caladmir, che significa “gioiello di luce". Le femmine si chiamano
Estellas e Merilin. Estellas, la maggiore, è stata chiamata così in onore di
Aragorn/Estel. Merilin è la parola Sindarin che significa usignolo.
So che molti di voi mi staranno gridando (metaforicamente parlando) che
vogliono sapere come è accaduto che Boromir ha avuto tre figli, come è
morto, che cosa è accaduto negli anni tra la partenza di Merry e la sua
morte… Beh, ve lo dirò... col tempo, come al solito!
(Nota di Bea: il seguito a “Il Capitano e il Re” è in lavorazione, vi
tradurrò anche quello, tranquilli!)