Il Capitano e il Re

di beanazgul
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un viaggio nell'oscurità ***
Capitolo 2: *** Le pianure di Rohan ***
Capitolo 3: *** La battaglia di Uglùk ***
Capitolo 4: *** Alleanze ***
Capitolo 5: *** La Mano Bianca ***
Capitolo 6: *** Notte a Isengard ***
Capitolo 7: *** Bagaglio principesco ***
Capitolo 8: *** Fuggitivi ***
Capitolo 9: *** Il Nemico alle Porte ***
Capitolo 10: *** Un'Inquieta Pace ***
Capitolo 11: *** Sussurri Notturni ***
Capitolo 12: *** Guardando a Est ***
Capitolo 13: *** Dal dubbio e dalle Tenebre ***
Capitolo 14: *** Verso il Giorno ***
Capitolo 15: *** Una nuova battaglia ***
Capitolo 16: *** L'Albero Bianco ***
Capitolo 17: *** Compagnia ***
Capitolo 18: *** La via prosegue senza fine ***
Capitolo 19: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Un viaggio nell'oscurità ***


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Capitolo 1: Un viaggio nell’Oscurità

 

“Boromir. Boromir!” La voce familiare, un sussurro urgente nell’oscurità, proveniva da un punto molto vicino. Voltò la testa nella direzione del suono, e la voce sibilò nuovamente. “Boromir!”

“Aragorn?”

L’intero volto gli doleva così tanto che non riusciva nemmeno a muovere la mascella, tuttavia, chissà come, riuscì a parlare. L’uomo accanto a lui doveva aver compreso il suo mormorio, perché, con sua sorpresa, rispose.

“Non usare quel nome. Chiamami Grampasso”.

“Cosa è accaduto? Dove siamo?”

“Gli Orchi ci hanno catturato”.

Boromir tentò di alzarsi, ma scoprì che non riusciva a muoversi. Si sentiva come se fosse stato calpestato da una mandria di cavalli impazziti, ed era pervaso da una terribile stanchezza.

“Non ti muovere”, disse Aragorn. “Hanno estratto le frecce e fasciato le ferite, ma hai perso molto sangue”.

“Frecce…”

Boromir si lasciò cadere nuovamente contro le dure pietre e cercò di pensare. Di ricordare. L’ultima cosa che ricordava, prima di svegliarsi in quella fredda e dolorosa oscurità, era che stava combattendo disperatamente contro un’orda ripugnante di orchi, squarciando e fendendo, e ruggendo il suo disprezzo e la sua sfida verso la loro schiacciante superiorità numerica. Alle sue spalle gli Hobbit si stavano ritirando lentamente tra gli alberi, riluttanti ad abbandonarlo eppure terrorizzati di fronte ad un nemico troppo grande per le loro piccole spade.

E poi...poi la prima freccia lo aveva colpito, e lui aveva gridato a Merry di fuggire…di fuggire finché poteva…e di portare Pipino con lui! Merry era il più ragionevole dei due. Avrebbe capito che era la cosa giusta da fare, e avrebbe protetto Pipino.

Un’altra freccia. Ricordava l’impatto distruttivo di un’altra freccia, che lo aveva fatto cadere in ginocchio, e l’orrore dipinto nei visi degli Hobbit mentre cadeva. Ma era sicuro che alla fine erano fuggiti… se non era soltanto un inganno dettato dalla sua disperazione. Era sicuro di averli visti voltarsi e svanire tra gli alberi. Poi si era fatto coraggio, e si era preparato al colpo finale. Al colpo mortale.

Perché non l’avevano ucciso? Che cosa stava dimenticando? Ricordava una voce, gutturale e sgradevole, che gridava, “Prendete l’Uomo!” E poi? Poi un’enorme sagoma che incombeva su di lui, la spada alzata per colpire, e un colpo violento, non sul collo ma…

Boromir rabbrividì e si voltò verso l’uomo al suo fianco.

Non ricordava che Aragorn fosse nella battaglia, ma sapeva di avere suonato Corno di Gondor. Forse il suono aveva fatto accorrere il Ramingo in suo aiuto… condannando anch'egli al suo stesso destino.

“Mi dispiace, Grampasso”, mormorò, esitando nell’adoperare l’insolito e irrispettoso nome.

“No, Boromir. Sono io che ho fallito. Sono arrivato troppo tardi per salvare anche uno solo di noi”.

Aragorn non parlò dello shock e dell’orrore che aveva provato quando, arrivato nella radura di Parth Galen, aveva visto il capo degli orchi abbattere la sua mostruosa spada di piatto sul viso di Boromir, frantumando ossa e carne insieme e facendo schizzare il sangue da sotto la lama, mentre il valoroso guerriero crollava al suolo, esanime.

Aragorn aveva combattuto quell’ultima, disperata battaglia nella certezza che Boromir fosse morto. E ora, mentre conversavano sottovoce distesi tra le aride rocce dell’ Emyn Muil, non poté reprimere il terribile pensiero che forse sarebbe stato meglio per Boromir essere davvero morto sotto i colpi degli Orchi.

Boromir giaceva assolutamente immobile, assorbendo le sue parole, poi, con un tremito nella voce sussurrò, “I piccoletti?”

“Non li hanno presi. Non… non so esattamente cosa è stato di loro, ma non sono qui”.

“Ti prego…fa che siano salvi lontano da qui”.

“Hai fatto tutto quello che potevi per loro, Boromir. Il loro destino non è più nelle nostre mani”.

Prima che l’altro uomo potesse rispondere, una figura imponente apparve sopra di loro. “Conversazione piacevole, ragazzi?” ringhiò.

Aragorn sollevò lo sguardo verso l’odiosa faccia piatta e squamosa di Uglùk, il capitano delle forze di Saruman, e gemette silenziosamente.

“Lascialo in pace, Uglùk”, disse.

“Non posso farlo. Portare gli Uomini vivi, questi sono i miei ordini. E se lo lascio in pace, il soldatino morirà”. Uglùk afferrò Boromir per la tunica e lo sollevò senza sforzo dal terreno. Boromir emise un rantolo involontario al riaccendersi del dolore nel suo corpo e nella sua testa, e Uglùk gli spinse tra i denti il collo di una bottiglia. “Avanti, fa’ il bravo soldato e bevi”.

Boromir non aveva scelta. Se non voleva soffocare doveva ingoiare il liquido bollente che gli veniva versato in gola.

Dopo che lo ebbe costretto a deglutire, Uglùk allentò la presa e lasciò cadere il corpo martoriato ed esausto sul terreno roccioso. Boromir urlò di dolore.

Era ancora troppo stordito e spossato per il rude trattamento di Uglùk per accorgersi che l’orco aveva cominciato a sollevare le bende che gli fasciavano le ferite alla spalla e al fianco. Uglùk sembrò soddisfatto di quello che trovò, poiché con uno strattone risistemò le bende e diede a Boromir un buffetto sulla guancia che avrebbe abbattuto un troll di caverna.

“Splendido. Sai, se non avessi fatto a pezzi tanti dei miei ragazzi, penso che potresti anche cominciare a piacermi, soldatino. Peccato che sei solo un Uomo, e diretto ai sotterranei di Isengard, per di più.” La sua orribile zampa scostò leggermente la pesante benda che copriva il viso di Boromir. “Peccato. Lurtz non ha lasciato un granché, comunque”.

Uglùk si voltò bruscamente verso Aragorn per dargli un calcio col suo piede calloso. Lo prese in pieno petto, strappandogli un gemito di dolore, e con un secondo calcio lo colpì in viso. “Poi sei arrivato tu e gli hai tagliato la testa, che tu sia maledetto!”

Aragorn sputò una boccata di sangue e rivolse a Uglùk uno sguardo distante, privo di emozioni. “E farò lo stesso a te, Uglùk.”

“Bella gratitudine da parte tua, dopo che io salvo la tua miserabile vita e ti trascino attraverso queste dannate colline! E’ ora di darci una mossa, ragazzi!”

Rivolgendosi a uno del suo gruppo indicò in direzione di Aragorn e ringhiò, “Lugdush, tu porterai questa carogna per il primo tratto. Tu invece,” e afferrò Boromir per il mantello costringendolo ad alzarsi, “puoi camminare”.

Boromir barcollò e cadde in ginocchio, guadagnandosi un altro violento calcio da Uglùk. Poi l’orco lo afferrò per il braccio sinistro, e quando lo sollevò in piedi, Boromir si lasciò sfuggire un lacerante grido di dolore, causando l’ilarità di Uglùk.

“Se pensi che faccia male adesso, aspetta di avere camminato per tutta la strada fino ad Orthanc”.

Un istante dopo, Boromir sentì il cappio di una corda che veniva stretto attorno al suo collo, poi uno strattone all’altra estremità che lo fece quasi cadere di nuovo. “Grampasso?” chiamò, mentre l’orco che teneva la corda cominciava a trascinarlo via.

“Sono qui”.

La voce era vicina, ma c’era qualcosa che disorientava Boromir. Sembrava attutita, e proveniva da un’altezza sbagliata. Gli ci volle un momento per rendersi conto che Aragorn stava venendo trasportato sulle spalle di un orco.

“Cosa ti hanno fatto?” domandò Boromir. “Perché non puoi camm…” L’orco che teneva la corda diede uno strattone e il cappio gli tolse l’aria, soffocando sue parole.

“Non è nulla. Una ferita alla gamba”.

Boromir ritrovò l’equilibrio, ma stavolta ebbe la prontezza di stringere il suo pugno attorno alla corda, allentando la tensione del cappio e proteggendo la sua gola dagli eccessi d’entusiasmo del suo guardiano. “Grampasso”, chiamò ancora, “hai un’idea di dove siamo?”

“Vicino alla riva occidentale dell’Emyn Muil, credo”.

“Silenzio, voi”, ringhiò un Orco da poco lontano.

“Quanto tempo è passato?”, domandò Boromir, ignorando l’orco.

“Dalla b… NO!” Gridò Aragorn, col panico nella voce. “Non sul viso!”

“Ho detto silenzio!

Poi un improvviso, abbagliante dolore esplose nella testa di Boromir, che si accasciò al suolo. Per un periodo interminabile di tempo non conobbe altro che indicibile sofferenza, e una paura confusa, urlante, che quella fosse la morte, e che avrebbe dovuto sopportarla per l’eternità.

Molto lentamente ritornò ad avere consapevolezza delle sue mani che afferravano il suo viso, di sangue fresco che scorreva tra le sue dita, e di qualcosa o qualcuno che gemeva lì accanto. Sembrava un animale ferito, una creatura colpita così mortalmente da non poter emettere un suono vero e proprio, eppure troppo disperata nel suo dolore per restare in silenzio.

Avrebbe voluto aiutare quella creatura, o almeno tagliarle la gola e mettere fine alla sua agonia, ma non riusciva a muoversi per cercarla. Il suo corpo era rigido e tremante, i suoi muscoli come bloccati, la sua mente paralizzata.

E poi capì. Capì che lo spaventoso suono proveniva dalla sua stessa gola, risalendo dai suoi polmoni che non riuscivano a respirare, oltre la sua mascella serrata per bloccare il panico crescente.

Mani dagli artigli di ferro lo afferrarono per le spalle, voltandolo sulla schiena e inchiodandolo contro le rocce. Poi altre zampe strinsero i suoi polsi, togliendogli con la forza le mani dal viso.

Una voce nota ringhiò da qualche parte sopra di lui. “Idiota! Devono essere consegnati vivi!”

Ancora una volta gli portarono la bottiglia alla bocca, e Boromir fu costretto a inghiottire un secondo sorso del disgustoso liquore orchesco.

“Se l’hai ucciso ti scuoierò con le mie mani, Snaga, e ti darò in pasto ai ragazzi per cena!”

“Avevi detto che non dovevano parlare”, piagnucolò Snaga.

“Se parla fagli il solletico con la tua frusta! Insegnagli un po’ di buone maniere, ma non ucciderlo, razza di stupida scimmia! Ora lo porti tu fino alla scalinata”.

“Bah. Questi pelle-bianca sono pesanti. Troppo pesanti per portarli a spalla fino a Isengard”.

“Questo ti insegnerà a stare più attento. Fallo alzare, e muoviti, oppure molto presto sarai tu ad assaggiare la mia frusta!”

Boromir sentì braccia robuste che lo sollevavano, poi fu gettato sopra una spalla ampia, squamosa e brutalmente dura, con entrambe le braccia che oscillavano a peso morto. Ogni movimento riaccendeva una nuova fiammata di dolore nelle ferite al suo fianco sinistro.

Ma nonostante tutto era grato di non dover stare in piedi e camminare da solo, grato per la solida forza dell’orco che lo sosteneva, e grato di essere ancora vivo. Lasciò che la testa poggiasse sulla schiena dell’orco e cercò di ignorare il sangue che scorreva lungo il suo viso, gocciolando sulle rocce sotto di lui.

La truppa di orchi si rimise in marcia di corsa sobbalzando. Boromir soffocò un lamento e si disse che poteva sopportarlo. Poteva sopportare ogni cosa, se significava che la Compagnia, i suoi amici, erano potuti sfuggire alle grinfie degli orchi.

Quando la truppa raggiunse il dirupo occidentale dell’ Emyn Muil, Uglùk chiamò l’alt. Avevano viaggiato per tutta la notte e parte della mattinata, con grande disagio di alcuni degli orchi più piccoli, e ora si trovavano ad affrontare la minaccia delle aperte pianure di Rohan. Uglùk avrebbe voluto proseguire rapidamente per Isengard, ma con il peso aggiuntivo di due prigionieri e i Rohirrim che pattugliavano le pianure dubitava che i suoi compagni ce l’avrebbero fatta. Mentre gli orchi si riposavano e discutevano sulla strada da prendere, aspettando che il sole tramontasse, i loro prigionieri giacevano uno accanto all’altro sulle dure rocce e cercavano di raccogliere le forze per la successiva tappa del viaggio.

Ma a Boromir la sosta non dava alcun sollievo. L'andatura sobbalzante degli orchi non tormentava per il momento il suo corpo ferito, e Boromir era grato di quel piccolo miglioramento, ma i suoi soli compagni erano ancora oscurità, sofferenza, e dolore. Nemmeno i suoi pensieri gli offrivano conforto, riportandolo sempre alla radura di Amon Hen, al suo fallimento e al suo tradimento.

Aveva distrutto così tanto, in quel solo, unico istante, così tanto che non avrebbe mai potuto porvi rimedio. Un odio amaro verso se stesso lo invase, mentre rivedeva il disgusto e l’orrore negli occhi di Frodo, sentiva la paura nella sua voce, e vedeva il piccolo hobbit affannarsi disperatamente per sfuggire alle sue mani che lo afferravano.

Quel ricordo da solo era sufficiente per farlo avvampare di vergogna. Non aveva bisogno di ricordare alla sua coscienza che aveva infranto il suo giuramento, insudiciato il suo onore e il suo buon nome, che era caduto preda delle menzogne sussurrate dal Nemico, e che aveva condotto il suo re alla prigionia, forse anche alla morte per mano di Saruman. Tutte queste cose erano come sale nella più crudele delle ferite.

Accanto a lui Aragorn si mosse, strisciando contro la ghiaia e le rocce smosse. Un tenue lamento gli sfuggì dalle labbra, e Boromir si chiese ancora una volta quali altre ferite avesse subito Aragorn delle quali non parlava.

Sembrava impossibile che una squadra di orchi fosse riuscita a prendere il Ramingo vivo, e ancora più impossibile che riuscissero a tenerlo prigioniero, eppure Aragorn non aveva nemmeno fatto un tentativo per fuggire. O le sue ferite erano troppo gravi per permetterglielo, oppure aveva altre ragioni per restare. Quale fosse la verità, Boromir non voleva saperlo. Quel pensiero non faceva che gravare ancora di più il fardello della sua colpa.

Aragorn si spostò finché la sua spalla andò a toccare il braccio di Boromir e la sua testa fu così vicina che Boromir poté sentire il calore del suo respiro. “Come stai?” mormorò il ramingo.

“Abbastanza bene”, rispose Boromir, a voce così bassa da essere a stento udibile. “E tu?”

“Abbastanza male”. Esitò, poi aggiunse, “La prossima tappa sarà molto dura. Dovresti riposare”.

“Non ci riesco”.

“Nemmeno io”.

Rimasero in silenzio, ascoltando il rumori del campo e indugiando nei loro pensieri. Poco dopo, Boromir si mosse, e cominciò a parlare di quello che gli opprimeva l’animo.

“Sono andati nella Terra Oscura senza di noi. Nel cuore dell’Ombra”.

“E’ sempre stato quello il sentiero che volevano percorrere, con noi o senza di noi”.

“La strada è troppo buia per i piccoletti. Il dolore li coglierà. Si perderanno nell’Ombra. E io… io che avrei dovuto proteggerli da ogni pericolo…” Si interruppe, incapace di dare voce al suo fallimento.

“Hai combattuto per loro, anche di fronte alla morte,” mormorò Aragorn. “Nessun uomo avrebbe potuto fare di più”.

Alle parole di Aragorn, Boromir sentì l’amarezza assalirlo di nuovo. Nella sua voce c’erano comprensione, il desiderio di guarire e di perdonare, e con tutto il cuore avrebbe voluto meritare una tale generosità. Ma sapeva di non esserne degno, e l’offerta lo irritava. Cercò invano le parole per dire ad Aragorn del suo tradimento. Nessuna sembrava abbastanza orribile per descrivere la verità. Si stava ancora dibattendo nel suo silenzio, quando Aragorn parlò nuovamente.

“So quale nemico hai affrontato, ma ho lasciato che tu lo combattessi da solo. E quando mi hai chiesto aiuto, sono arrivato troppo tardi. Mi dispiace, Boromir. Mi dispiace di averti deluso”.

“Non lo hai fatto. Anche tu avevi orchi da combattere”.

“Non sto parlando degli orchi”. Tacque un istante, dando a Boromir il tempo per capire il significato delle sue parole. “Mi dispiace, amico mio”, ripeté con dolcezza.

“No”. Boromir voltò il capo in segno di diniego, turbato. Sentì la voce venirgli meno. “Non chiamarmi amico. Non sai quello che ho fatto”.

“Invece lo so. Ho parlato con Frodo”.

Boromir deglutì per allentare la tensione nella sua gola, lottando per nascondere la profondità del suo turbamento. “Gli avrei fatto del male, Grampasso. Avrei fatto qualunque cosa, per avere l’Anello anche solo per un istante”.

“Lo so”.

Il dolore e la comprensione nella voce del Ramingo non fecero altro che peggiorare l’angoscia di Boromir.

“Ho tradito la Compagnia. Ho attaccato il portatore dell’Anello. Ho disonorato me stesso e la mia gente. Tutto questo”, e indicò con un gesto vago della mano, “è solo quello che mi merito”.

“Non parlare così! Non c’è disonore nell’essere Umani”, mormorò Aragorn, con voce greve per le lacrime.

“Io, tra tutti gli uomini, dovrei saperlo bene. E qualunque colpa possa mai essere ricaduta su di te è stata sollevata dal tuo essere pronto a combattere e a morire per i tuoi compagni. Se c’è qualcuno da incolpare qui, quello sono io. Ero il capo della Compagnia, responsabile della salvezza di tutti i suoi componenti, compresa la tua. Sono stato io che, chiamato alla battaglia, sono arrivato troppo tardi. Sono io quello che gli orchi cercavano, quello per cui tu hai dovuto pagare questo prezzo”.

“E io sono quello che ti ha attirato nella loro trappola”. Voltandosi di nuovo verso il Ramingo, Boromir continuò. “Perché Saruman vuole te, Aragorn?”

“Perché io sono Aragorn, l’ Erede di Isildur. Forse crede che io abbia l’ Anello, o forse spera di sapere da me dove trovarlo”.

“Allora lui sa chi sei”.

“Sì”.

“Conosce anche il tuo viso, o soltanto il tuo nome? Sa chi noi due è quello che cerca?”

“Lo saprà”.

“Ma gli orchi non lo sanno.” Non era una domanda. Il buon senso di Boromir gli diceva che Saruman non aveva rivelato ai suoi servi più di quanto fosse strettamente necessario, e il fatto che li avessero presi entrambi vivi provava che non sapevano quale dei due uomini fosse l’obiettivo dello stregone.

“Grampasso, tu non devi andare a Isengard”.

Aragorn rise mestamente. “Sembra che non abbia molta scelta”.

“Non devi. Saruman non ti terrà a lungo. Ti consegnerà a Sauron, e finirai la tua vita tra i tormenti, nei neri abissi di Barad-dûr”.

“So quale destino mi aspetta, Boromir”.

“Tu devi fuggire prima che raggiungiamo Isengard. Forse posso convincere gli orchi che sono io quello che Saruman cerca, e loro ti sorveglieranno meno attentamente…”

“No. Non fuggirò, se questo significa abbandonare te nelle mani di Saruman”.

“Ma tu devi. Io troverò un modo!”

Aragorn non rispose per alcuni istanti, e Boromir ebbe l’impressione che il Ramingo fosse stato colto impreparato dalla sua veemenza. Infine, in un silenzio carico di tensione, Aragorn mormorò, “Trovane uno che ci faccia sopravvivere entrambi”.

Boromir non disse nulla. Non avrebbe discusso con Aragorn, ma aveva poca speranza di fuggire, e ancora meno desiderio di farlo. La sua vita come l’aveva conosciuta fino ad allora era finita - disonorata e degradata dal suo attacco al Portatore dell’ Anello, frantumata dalla lama di una spada orchesca - perciò cosa importava se esalava il suo ultimo respiro nei sotterranei di Orthanc? Se solo avesse potuto garantire ad Aragorn vita e libertà, per condurre le armate dell’Ovest contro Sauron, Boromir avrebbe considerato la sua vita ben spesa.

Giaceva immobile e silenzioso, fingendo di dormire, mentre valutava nella sua mente piani per la fuga di Aragorn, usando quel compito per impedire ai pensieri e ai ricordi di riaffiorare. Era qualcosa di solido sul quale appoggiarsi, una ritrovata sicurezza e uno scopo, un terreno familiare sotto i piedi. Tattiche e strategie, scelte di vita o di morte, le dure necessità della guerra, quello era il pane quotidiano che sosteneva un comandante sul campo di battaglia, e ora sosteneva Boromir.

Al tramonto Uglùk fece alzare le truppe e risvegliò a calci i prigionieri. Fu dato loro un pasto frettoloso che non riuscirono a consumare. Poi Aragorn fu issato sulla spalla di un grosso orco, mentre Boromir, ora abbastanza in forze da reggersi sulle proprie gambe, fu legato con una fune al suo guardiano e ammonito perché non tentasse di fuggire. A un grido dì Uglùk e allo schioccare di una frusta, il gruppo si mise in marcia per un ripido sentiero roccioso in mezzo alle colline, diretto verso le dolci pianure di Rohan.

 

Continua…

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Capitolo 2
*** Le pianure di Rohan ***


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Capitolo 2: Le pianure di Rohan

 

Merry sussultò, svegliandosi di soprassalto da un sonno irrequieto, il selvaggio suono di un corno ancora vivido nelle sue orecchie. Si guardò attorno confuso per un attimo, poi capì. Era solo l'eco morente di un sogno. Lentamente, si lasciò ricadere sull'erba e si avvolse più stretto nel mantello.

Era l'ora più buia prima dell'alba. La luna era tramontata da tempo, e la prima promessa del mattino non aveva ancora rischiarato il cielo a oriente. Le stelle erano offuscate da nuvole basse, e le pianure di Rohan si stendevano nella più completa oscurità. Merry si raggomitolò cercando di raccogliere tutto il calore del suo mantello elfico e guardò il cielo, che sapeva essere da qualche parte lassù, sopra la sua testa, anche se non riusciva a vederlo.

Per un doloroso istante si illuse di udire ancora il suono incalzante del corno, portato dalla fresca brezza della notte. Tese l’orecchio per sentirlo ancora, ma tutto ciò che udì fu il fruscio dell'erba alta. Nulla più.

La figura accanto a lui si mosse.

"Sei sveglio, Merry?" mormorò Pipino.

Non ricevendo alcuna risposta, Pipino si girò e si sollevò su un gomito per guardare l’amico.

"Non riesci a dormire?"

"Ci riuscirei", bisbigliò Merry, "ma preferisco non farlo".

"Ti ho sentito gridare nel sonno".

Ancora una volta non ebbe risposta.

"Ho fatto anch'io lo stesso sogno".

Merry rabbrividì e chiuse gli occhi. Fu un errore.

L'oscurità della notte fu sostituita da quella della sua mente, e dietro le sue palpebre ricominciarono a danzare le immagini che lo perseguitavano ormai già da due giorni.

Orchi, orchi dappertutto, che avanzavano tra gli alberi come erompendo dalle rocce, con le zanne scoperte, occhi fiammeggianti, spade che colpivano e distruggevano qualunque cosa si muovesse.

Boromir si ergeva forte e alto, uno scudo vivente tra loro e l’urlante massa di nemici, la sua spada che abbatteva un orco dopo l'altro ad ogni colpo. Eppure continuavano ad arrivare, e ad arrivare, finché anche la sua spada, pur se nelle mani di un tale guerriero, non poté più arginare la marea.

Boromir sollevò il corno per chiamare aiuto, e il suono riecheggiò contro il picco di Amon Hen scatenando il panico tra i nemici.

Gli orchi esitarono, dando loro tempo di ritirarsi tra gli alberi, mentre Boromir teneva gli hobbit dietro di sé proteggendoli con la sua imponente presenza. Ma l'aiuto non arrivava, e gli aggressori ritrovarono il coraggio. Boromir continuava a combattere senza sosta, instancabile.

Fino al momento in cui la prima freccia lo colpì, e Merry vide l'impossibile accadere.

Boromir vacillò.

Rimase in piedi, ma lasciò cadere la sua spada e barcollò, mentre il sangue sgorgava caldo e brillante dalla ferita. Merry afferrò la spada, pronto a gettarsi nella lotta, ma uno sguardo di Boromir lo fermò.


Il ricordo era così vivido che fu come se la freccia avesse colpito lui. La sconfitta nello sguardo di un soldato. Gli occhi di Boromir incontrarono i suoi per un terribile momento, poi l'uomo, con voce potente quanto il suono del suo corno, gridò:


"Fuggite! Fuggite finché potete!"


Merry scosse la testa, rifiutando di obbedire, ma Boromir non lo stava più guardando. Si era rituffato nella battaglia, la sua spada che volteggiava di nuovo spargendo morte tra i nemici.

"Prendi Pipino e fuggi!" aveva gridato di nuovo mentre combatteva.

E così Merry era fuggito. Aveva afferrato Pipino per un braccio, trascinandolo via dalla radura, e insieme avevano corso come se tutti i Nove Spettri fossero alle loro calcagna. Mentre si allontanava dalla battaglia aveva sentito il sibilo di un'altra freccia, il rumore sordo del dardo che andava a segno, e il ringhio di trionfo del capitano degli orchi, ma non si era voltato indietro a guardare. Se lo avesse fatto, non avrebbe più trovato il coraggio di andare avanti, e Boromir gli aveva detto di fuggire. E così era fuggito.

"Non avremmo dovuto andarcene", sussurrò Pipino, come se avesse letto nei pensieri di Merry.

"Cos'altro avremmo potuto fare?"

"Restare e combattere. Non era la prima volta che affrontavamo gli orchi. Perché mi hai costretto a scappare, Merry?"

Merry rabbrividì nuovamente, pieno di paura e di orrore per quello che aveva fatto. Pipino aveva ragione. Sarebbero dovuti restare, anche se avrebbe significato la cattura, o la morte. Il pensiero lo aveva tormentato fin dal momento in cui era ritornato alla radura con Legolas e Gimli, e Boromir non c'era più. Forse se fosse rimasto sarebbe morto. Ma almeno avrebbe potuto forse trafiggere un piede di un orco, ostacolare un colpo, o addirittura uccidere anche un solo orco per guadagnare un po’ di tempo, e permettere a Boromir di resistere fino all'arrivo di Aragorn. Perché Merry era sicuro che insieme, i due uomini avrebbero potuto tenere testa a qualunque esercito.

Invece era fuggito, prendendo con sé Pipino, e Boromir era caduto. Quando Aragorn era arrivato, aveva dovuto affrontare il nemico da solo. Ora entrambi gli uomini erano stati presi, e negli abissi della sua disperazione, Meriadoc Brandybuck incolpava se stesso del loro destino.

"Mi dispiace, Pip", disse piano, con la voce resa aspra dal pianto. "Mi dispiace".

Per alcuni momenti Pipino non rispose nulla, e Merry sentì le lacrime che cominciavano a scorrergli lungo le guance.

"Ah, saremmo riusciti solo a farci ammazzare, comunque. E siamo ancora in tempo, se mai li dovessimo raggiungere", squittì Pipino.

Merry non poté trattenere una risata. Per quanto si sentisse infelice, con Pipino era impossibile restarlo a lungo.

"Non temere" ribatté, "non li raggiungeremo mai, con un lumacone come te che ci fa da zavorra!"

Pipino sbuffò. "Non avrò le gambe lunghe degli elfi, ma sono sempre più veloce di te".

"Si, a correre a tavola, forse".

Merry non era dell'umore giusto per scherzare, e anche quel bonario punzecchiarsi gli suonava forzato, ma lo accettò comunque, come un segno che tutto andava bene tra loro. Rassicurato, si accoccolò di nuovo nell'erba, aspettando che la notte finisse. Non voleva riaddormentarsi di nuovo, non avrebbe sopportato un altro incubo. Avrebbe riposato ugualmente e guardato l'orizzonte a est aspettando di vedere i primi segni del giorno che spuntava.

Ma a dispetto delle sue risoluzioni presto il sonno lo vinse, e quando Legolas venne per svegliarlo gli sembrò che fossero passati soltanto pochi minuti.

"L'alba si avvicina", disse l'elfo, con il suo consueto tono calmo e impenetrabile, "dobbiamo riprendere l'inseguimento. Andiamo, Merry".

Pipino si mise seduto, sbadigliando e stropicciandosi gli occhi. "Che c'è per colazione?"

"Lo stesso che hai mangiato per cena", rispose Legolas.

"Lembas, acqua e male ai piedi", piagnucolò Pipino.

"Proprio così." Legolas gli offrì una mano per alzarsi, poi si rivolse a Gimli, in tono più grave.

"Il mio cuore mi mette in guardia. Ho il presentimento che gli orchi non si siano fermati per riposare, e che si stiano avvicinando sempre più a Fangorn".

"Allora è troppo tardi," ringhiò il nano, con gli occhi che ardevano di sfida, "ma dobbiamo tentare ugualmente".

"Dobbiamo". Legolas si voltò a guardare i due piccoli hobbit infreddoliti e corrugò la fronte.

"Non riusciremo mai a raggiungerli. Dobbiamo trovare il modo di aggirarli".

"E cosa proponi di fare? Assalire le mura di Isengard?"

"Sì, se non abbiamo altra scelta. Non conosco bene Saruman, e senza i consigli di Mithrandir non oso arrischiarmi a prendere il serpente per la coda. Ma di una cosa sono certo. Aragorn figlio di Arathorn non deve cadere nelle mani del nemico. Se dovesse arrivare a Orthanc dobbiamo trovare il modo di liberarlo, anche se questo significa assalire le mura".

Merry aveva ascoltato il dialogo in tetro silenzio fino alle ultime parole di Legolas, poi non poté più trattenersi. "E Boromir?" domandò.

Legolas lo guardò, sorpreso dal suo tono accusatorio. "Boromir? Anche lui è nelle mani degli orchi. Lo troveremo quando troveremo Aragorn".

"Parli come se Saruman fosse un pericolo solo per Aragorn…"

"Lo è, infatti", confermò Gimli.

"Ma cosa sarà di Boromir?"

Legolas lanciò a Merry uno sguardo così penetrante che a Merry sembrò che l'elfo potesse vedere attraverso di lui, leggendo tutta la vergogna e il dolore che erano nel suo cuore.

"Non lo so. Prima dobbiamo trovarli, poi lo scopriremo".

Pipino gettò via una foglia di Mallorn vuota e si scosse le briciole di lembas dalle dita.

"E allora cosa stiamo aspettando?" domandò, con impazienza.

Legolas sorrise, incamminandosi verso la traccia lasciata dagli orchi.

"Aspettavamo solo che gli hobbit finissero la colazione. Andiamo".

E così i quattro compagni ripresero la loro caccia.



*** *** ***


Quando Uglùk ordinò al gruppo di fermarsi Aragorn sospirò di sollievo. Il sole era quasi allo zenit, e avevano viaggiato praticamente senza sosta dal tramonto del giorno precedente. L'intero corpo gli doleva a causa della camminata sobbalzante dell'orco che lo trasportava, la ferita alla gamba bruciava ferocemente, e le costole rotte mandavano fitte di dolore ad ogni respiro. Ma la cosa peggiore di tutte era la sensazione di gelo nelle braccia. Si stava diffondendo, pungente come aghi, dai polsi legati su fino alle spalle, e le sue dita erano fredde e insensibili. Dal momento della cattura Uglùk non aveva permesso che gli fossero slegate le mani se non per i pochi momenti necessari a trangugiare un magro pasto. Durante quel periodo il sangue aveva smesso di arrivare alle sue mani, ed esse erano divenute un peso freddo e inutile contro la sua schiena.

Lugdush si fermò traballando e scaricò Aragorn dalla sua spalla, senza preoccuparsi di come poteva cadere. Aragorn toccò terra con la gamba ferita, e boccheggiando per il dolore, crollò sull'erba calpestata e annerita. Non tentò nemmeno di rialzarsi, ma rimase come era caduto, felice del contatto con la terra immobile sotto di lui, cercando di bandire il dolore dalla sua mente.
Sentendo i passi di un altro orco che si avvicinavano aprì gli occhi. L'orco stringeva in pugno la corda all'estremità della quale era legato Boromir. Quando raggiunse Aragorn l'orco si voltò e raccolse la corda, costringendo Boromir a fermarsi bruscamente stringendo il pugno attorno al cappio alla sua gola. L'orco diede un violento strattone, poi imprecando, spinse Boromir all’indietro di alcuni passi.

"Siediti, soldatino", sbottò l'Orco, "Meglio che ti riposi finché puoi, perché non trascinerò oltre la tua sudicia carcassa, per oggi".

Boromir, che non aveva mostrato nessuna reazione al rude trattamento dell'orco, si lasciò cadere al suolo accanto ad Aragorn. Non si mosse né parlò, nemmeno quando l'orco sfogò nuovamente il suo malumore sferrandogli un calcio nelle costole, ma rimase seduto a testa bassa, con i gomiti appoggiati alle ginocchia. Aragorn non avrebbe saputo dire se stava aspettando qualcosa, nascondendo il suo viso e i suoi pensieri dagli occhi delle guardie, o se era semplicemente troppo esausto per muoversi. Era del tutto immobile, come chiuso in se stesso in qualche luogo dove né Aragorn né i suoi rapitori potevano raggiungerlo.

Aragorn lo aveva osservato durante la lunga e faticosa marcia dagli Emyn Muil. Boromir aveva percorso la maggior parte del tragitto camminando sulle proprie gambe, anche se gli orchi erano stati costretti a trasportarlo per brevi tratti, quando le forze gli mancavano e Uglùk non permetteva di fermarsi. Stranamente, Uglùk non aveva ritenuto necessario legargli i polsi. Aragorn ne aveva dedotto che gli orchi lo consideravano innocuo, e Boromir, nonostante stesse recuperando un po' delle sue forze grazie alla medicina di Uglùk, faceva il possibile per incoraggiare quell'opinione.

Aragorn non aveva dubbi che buona parte di quella debolezza fosse reale. Boromir aveva subito gravi ferite, che solo da poco erano state medicate e bendate, e aveva ricevuto un violento colpo alla testa che lo aveva lasciato privo di sensi per molte ore. Nel guardare il suo viso, una volta così orgoglioso e bello, Aragorn non poté evitare di rabbrividire, e ripensando al disastro causato dalla lama dell'orco gli salirono le lacrime agli occhi.

Boromir non ne parlava. Non una parola, non un gesto che si riferissero al massacro di carne e ossa frantumate che una volta erano stati il suo zigomo e il suo occhio destro, e alla brutta contusione che gli deturpava l'intera parte destra del viso, o alla benda insanguinata che gli copriva entrambi gli occhi. Aragorn non sapeva esattamente cosa nascondesse la benda, ma aveva visto il colpo che aveva abbattuto il guerriero, e sapeva che solo un miracolo avrebbe potuto salvare qualcosa dalla devastazione della spada di Lurtz.

Aragorn non sapeva che fare. Poteva commiserare l'amico per la sua sfortuna. Poteva chiedersi quali pensieri passassero per la mente di Boromir, mentre sedeva, immobile, sulle pianure di Rohan. Poteva cercare di capire la portata delle sue ferite e il dolore che gli causavano. Ma fino a quando quei pensieri e quel dolore fossero restati chiusi dietro il suo viso impassibile, Aragorn sapeva che non avrebbe avuto il coraggio di avvicinarglisi. Avrebbe aspettato e guardato, sperando che Boromir gli concedesse la fiducia di confidarsi con lui come aveva già fatto in passato.

Il Ramingo stava ancora tentando di stabilire quanto stremato e impaurito fosse in realtà l’amico, e quanto invece fosse uno stratagemma per tentare di liberarsi, quando i suoi pensieri furono interrotti dal ritorno di Lugdush alla testa di una rumorosa truppa di orchi.

"Ve lo dico io, ragazzi!" gridò allegramente Lugdush ai suoi compagni", il Gambelunghe si muoverà abbastanza in fretta, se gli diamo un buon motivo!"

Le guardie addette alla sorveglianza dei prigionieri guardarono dubbiosamente Lugdush, ma questi era il fidato luogotenente di Uglùk, e non osavano interferire con il suo divertimento.
Lugdush afferrò una lancia dalle mani dell'Orco più vicino e gettò un'occhiata ad Aragorn.

"In piedi!"

Aragorn guardò la punta dell'arma e si chiese quanto lontano Uglùk avrebbe lasciato andare la cosa, prima di intervenire. Lentamente, con il corpo che protestava ad ogni movimento, il Ramingo si girò sul lato destro per fare forza sulla gamba sana, e cercò di alzarsi. Lugdush rise forte, poi con una mano lo prese per i capelli e lo trascinò in piedi. Aragorn ricadde seduto appoggiandosi alla gamba destra, la sinistra stesa malamente in avanti, combattendo contro l'improvviso senso di vertigine che lo aveva colto.
Deridendolo, gli orchi applaudirono, pestando i piedi per il divertimento. Lugdush, incoraggiato dalle loro roche grida, cominciò a fintare colpi con la lancia, portandosi sempre più vicino al Ramingo, legato e inerme.

"Ho detto in piedi, pelle-bianca!"

Aragorn si irrigidì al contatto con la lama, ma riuscì a non urlare quando questa lacerò stoffa e pelle facendo scorrere sangue fresco lungo il suo fianco. Lugdush lo guardò, fintò di nuovo con la lancia, poi la spinse violentemente in avanti. Aragorn non poté farci niente. Cercò di schivarla, ma si procurò ugualmente un taglio all'altezza delle costole, quando la lancia scivolò tra il suo braccio e la sua schiena. Indietreggiò, e gli orchi scoppiarono a ridere nel vedere il sangue attraverso i suoi abiti laceri.

Con la lancia incastrata dietro la schiena, Aragorn barcollò e cadde. La punta della lancia si conficcò per terra, impedendo ad Aragorn di spostarsi e costringendolo a stare a faccia in giù nell'erba. Lugdush e Snaga si gettarono in avanti, tra le grida dei loro compagni, e afferrarono ciascuno un'estremità della lancia. Sollevando Aragorn in questo modo, lo costrinsero ad alzarsi in piedi.
Aragorn si sporse in avanti, per alleviare il dolore che lo attraversava dai polsi alle spalle, ma così facendo portò inavvertitamente il suo peso sulla gamba ferita. Il dolore divenne insopportabile, i muscoli si rifiutarono di sorreggerlo, e l'uomo si accasciò con un grido.

Per un momento fu colto dalla nausea, e la sua mente nuotò nell'oscurità, ai limiti dell'incoscienza. Ma poi un altro suono lo raggiunse, al di sopra dei frenetici ululati degli orchi, un suono che lo richiamò alla realtà nonostante l'invitante oblio, e lo costrinse ad aprire gli occhi.

Era Boromir, che gridava agli orchi la sua rabbia e la sua sfida. Sollevando la testa, Aragorn riuscì a mettere a fuoco la vista in tempo per vedere Boromir che si lanciava contro Lugdush, colpendolo al petto con una spallata.

"Fermati!" gridò Aragorn. "Boromir, fermati!"

Me nessuno gli prestò attenzione - né l'uomo né l'orco- e le grida eccitate degli spettatori sovrastarono le sue proteste. Lugdush ruggì infuriato e tentò di afferrare l'uomo tra le sue enormi mani, ma Boromir non gli diede il tempo di stringere la presa. Grazie ai suoi riflessi innati di soldato si abbassò schivando il braccio che tentava di colpirlo e si allontanò, dopo aver trovato e afferrato il pugnale che Lugdush portava in cintura.
Boromir si fermò a pochi passi dall'orco, brandendo con sicurezza il coltello, pronto all'attacco. Nonostante i vestiti laceri e sporchi, il sangue incrostato sul suo viso e la livida benda sugli occhi, Boromir sembrava esattamente quello che era - un guerriero. Feroce, orgoglioso e letale come gli eroi delle leggende.

"Se lo tocchi un'altra volta morirai" ruggì Boromir.

L'orco imprecò e sputò. "Romperò le tue gambe come bastoni e ti trascinerò per i piedi fino a Isengard, soldatino!"

Non aveva ancora finito di parlare che si lanciò contro l'uomo. La sua velocità era sorprendente, e prima che Aragorn avesse il tempo di gridare un avvertimento l'orco fu addosso a Boromir, facendoli finire entrambi a terra in una lotta furibonda. Gli orchi proruppero in un grido di esultanza, ma ammutolirono increduli quando Lugdush improvvisamente rotolò via da sopra Boromir con l'elsa del pugnale che gli sporgeva dal petto.

Gli orchi ulularono di rabbia, e si gettarono su Boromir in una zuffa impazzita e ringhiante che lo nascose completamente alla vista di Aragorn.

Il Ramingo cercò di rialzarsi, ma con la gamba ferita inerte sotto di lui, le braccia intorpidite e inutili, e la lancia che gli impediva il movimento, non poté fare altro che stare a guardare, cercando di vedere qualcosa in mezzo al groviglio formato dalle gambe degli orchi.

Un ruggito più forte degli altri annunciò l'arrivo di Uglùk. Si fece strada a spintoni nella mischia, agitando la frusta e imprecando contro chiunque si trovasse davanti. Gli orchi più piccoli si ritirarono velocemente, facendogli spazio, e Aragorn poté vedere che due orchi stavano bloccando Boromir al suolo e tentavano di tenerlo fermo, mentre l'uomo, con la forza della disperazione, si divincolava minacciando di liberarsi da un momento all'altro. In pochi passi Uglùk fu sopra di loro, dando un calcio alle gambe di Boromir e vibrando un colpo di frusta su tutti e tre i corpi indistintamente. Lo schiocco della frusta riportò il silenzio e l'immobilità.

"Fatelo alzare!" ringhiò Uglùk.

Gli orchi strisciarono velocemente via, preoccupati tanto della frusta del loro capo quanto dal prigioniero. Boromir con prontezza rotolò su un fianco per rialzarsi, appoggiandosi al suo braccio sano, ma Uglùk schioccò nuovamente la frusta, colpendolo sulle spalle, e sebbene gli abiti e la maglia metallica offrissero una qualche protezione, la violenza del colpo lo schiacciò a terra. Rimase così, ansimante, con il viso premuto contro il terreno brullo e l'erba calpestata, accontentandosi per il momento di aspettare.
Il capo degli orchi premette il suo enorme piede sulla spalla ferita di Boromir, bloccandolo efficacemente a terra, e si chinò su di lui sibilando, "Non sei tanto sveglio, eh, soldatino? Sono stato tanto buono da lasciarti le mani libere così che tu non cadessi a faccia in giù ad ogni radice, e tu come mi ripaghi? Infilzando uno dei miei ragazzi".

Uglùk fece un passo all'indietro per avere più spazio, poi lo colpì nuovamente. La frustata cadde di traverso sul viso di Boromir, aprendogli un profondo taglio sulla guancia. Boromir emise un grido soffocato, e si coprì il taglio sanguinante con la mano.

Uglùk rise malignamente.

"Questo è solo un assaggio di quello che ho serbo per te. ‘Portateli vivi’, ha detto, ma non ha specificato tutti interi, oh no. E io farò di te un bravo soldatino, dovessi lasciare pezzi della tua carne da qui fino a Isengard!"

Chinandosi ancora e abbassando la voce a un sussurro, aggiunse, "Prima o poi la Mano Bianca avrà finito con te, e allora tu sarai mio. Capito? Ma certo che non hai capito, razza di stupido, debole pelle-bianca, ma imparerai! Conoscerai il prezzo che si paga per avere ucciso un Uruk-hai".

Rivolgendosi all'orco più vicino ringhiò, "Legatelo! E fate in modo che gli faccia male!"

L'orco obbedì, legando Boromir con le braccia dietro la schiena senza troppe cerimonie, mentre un altro orco gli assicurava le caviglie. Quando ebbero finito, l'uomo era prostrato, immobile. Uglùk lo osservò con sospetto, poi lo prese per il mantello e lo trascinò accanto ad Aragorn. Gettandolo a terra con disprezzo fissò lo sguardo crudele sul Ramingo.

Chinatosi per raccogliere la lancia ancora incastrata tra le braccia di Aragorn, la rigirò portandone la punta davanti agli occhi furenti dell'uomo. "Hai intenzione di creare problemi anche tu?" domandò.
Vedendo che Aragorn non rispondeva, limitandosi a guardare Uglùk in silenzio, l'orco gli sollevò il mento con la lancia, premendo la lama contro la sua gola. Una goccia di sangue colò da sotto la lama, ma Aragorn ancora non tradiva alcuna emozione.

"Vi terrò d'occhio. E aspetto solo l'occasione di farvela pagare. Non crediate che un po' di frustate bastino per la morte di Lugdush, e non aspettatevi che io creda che sia stata solo un'idea del soldatino". Uglùk strinse gli occhi con aria astuta.

"Tu porti guai. Lo sento. Quell'altro uccide, ma anche tu porti guai".

Aspettò un altro po' che Aragorn rispondesse, poi mostrò le zanne gialle in un sorriso terrificante e ringhiò, "Sei troppo furbo, per i miei gusti. E hai gli occhi di un dannato elfo".

Sputò con gesto eloquente nella polvere, poi si allontanò a grandi passi, gridando alle guardie, "Niente cibo per loro! Teneteli legati finché non gli si staccano le mani! E se muovono un muscolo, pestateli!"

Aragorn rimase in silenzio, impassibile, finché Uglùk non fu scomparso in mezzo alla folla di orchi e solo le guardie rimasero a sorvegliarlo. Poi, cautamente, rotolò su un fianco, voltandosi verso la figura inerte di Boromir.

"Sei uscito di senno?" sussurrò con veemenza. Boromir non si mosse, ma Aragorn capì che lo stava ascoltando.

"Avresti potuto farti ammazzare, per un gesto di stupido coraggio".

Quando Boromir rispose, la sua voce era bassa ma piena di rabbia. "Avresti dovuto fuggire quando ne hai avuta la possibilità".

"Tu non hai ucciso quell'orco per permettermi di fuggire". Non era una domanda, ma un'affermazione, piena di incredulità.

"Forse. In parte". Boromir esitò, con un'espressione sinistra in viso, al di sotto della maschera di sangue e lividi, poi ripeté, "Avresti dovuto correre".

"Non posso correre. Non posso nemmeno camminare. E non ti lascerò qui".

Boromir non disse nulla, ma la sua amarezza era quasi palpabile.

"Ci sarà un'altra occasione", insistette Aragorn, sommessamente, "e se non ci sarà, allora affronteremo la morte come abbiamo affrontato la vita, con onore".

"Io non ho onore".

"Ti sbagli. La tua colpa è già stata perdonata da tempo, Boromir. Come posso fartelo capire?"

"Non chiedo il perdono, ma solo la possibilità di riparare almeno in parte al danno che ho commesso".

"E devi morire per farlo?"

"Non desidero morire. Non si tratta di morte, o di onore. È che… " Si interruppe, a Aragorn vide che lottava per trovare le parole giuste per esprimere i suoi pensieri.

Quando finalmente parlò, la sua voce non era che un flebile sussurro, e Aragorn dovette sforzarsi per udirlo.

"Per tutta la vita ho guardato mio padre governare Gondor dal seggio del Sovrintendente, mentre il trono restava vuoto dietro di lui. Per tutta la vita non ho desiderato altro che servire la mia terra, la mia città, il mio popolo, in tutti i modi in cui mi era dato farlo. Ma il trono… il trono resta sempre vuoto, a ricordare che io, mio padre e mio fratello non siamo abbastanza. Noi lottiamo, combattiamo e moriamo affinché gli altri popoli vivano nell'innocenza, al sicuro dalla grande Ombra, eppure non siamo degni di governare come re.

So che la mia nascita non è alta abbastanza da darmi il diritto al trono. Lo so. Ma è soltanto il mio lignaggio che manca, non il mio spirito. E se l'amore per un popolo può fare di un uomo un re, allora Gondor ha un re".

"Gondor ha un grande difensore, che egli porti la corona o no", mormorò Aragorn.

"Non più. Sono finito. Ma anche adesso posso vibrare un colpo per la mia gente. Posso mandare loro il campione di cui hanno bisogno, mandare loro un re! Per nascita, per diritto e per valore, tu sei il Re di Gondor, Aragorn".

Aragorn lo guardò pieno di stupore, meditando sul dono che gli era stato fatto. Non era l'offerta di sacrificare una vita per la sua libertà che lo commuoveva - il suo senso dell'onore e la situazione non avrebbero permesso un tale scambio - ma il dono più grande del rispetto e dell'accettazione di Boromir. Solo quando Boromir lo aveva chiamato Re, Aragorn aveva capito quanto avesse desiderato la sua stima. Ma ora che l'aveva ottenuta, la disperazione che aleggiava nelle sue parole rendeva il trionfo amaro.

"Noi due cavalcheremo verso la Città Bianca insieme", disse Aragorn con fermezza, "e insieme condurremo il nostro esercito contro il Nemico".

"E' il tuo esercito, ora".

"Se devo governare Gondor, avrò bisogno del mio Sovrintendente accanto a me".

"Denethor è il Sovrintendente di Gondor, e Faramir dopo di lui. Io non siederò mai nel seggio di mio padre".

"Allora non avrò alcun Sovrintendente".

Boromir si voltò verso Aragorn, colpito, e fece per parlare, ma Aragorn lo anticipò.

"Un re deve essere circondato da persone di cui si fida, e io non voglio alcun altro alla mia destra per consigliarmi. Io ti giuro, Boromir, sul sangue di Isildur e Elendil che scorre nelle mie vene, e sull'amore che ho per il mio popolo, che ci sarà un solo Sovrintendente a Gondor, fino a che io sarò Re. Tu sarai il mio Sovrintendente, o nessun altro".

Ora fu il turno di Boromir di cadere in un attonito silenzio. Giaceva col viso rivolto verso l'alto, e Aragorn non riusciva a decifrare l'espressione sui suoi lineamenti insanguinati. Solo il suo respiro rapido tradiva l'effetto delle parole di Aragorn su di lui. Infine, con una voce che non riuscì a nascondere la sua emozione mormorò,

"Potresti rimpiangere questo giorno".

"Sì. Rimpiango di non essere fuggito quando ne avevo la possibilità".

Boromir sorrise e fece per rispondere, ma un improvviso tramestio tra gli orchi li distrasse entrambi, e Aragorn si voltò per cercare la causa della confusione.

Diversi orchi stavano correndo per la zona sud del campo, mentre altri si alzavano in piedi e afferravano le loro armi. Un grido si levò dalle sentinelle esterne.

"Pelle-bianca! I cavalieri ci hanno scoperto!"

La potente voce di Uglùk si levò sulle altre, urlando. "Restate fermi, sono solo in due! Aspettate che assaggino le frecce degli invincibili Uruk-hai!"

Una pioggia di frecce si abbatté sui cavalieri che si avvicinavano. Uno cadde di sella, tra le grida di gioia degli orchi, ma l'altro voltò il suo cavallo e si allontanò al galoppo verso sud. Gli orchi scagliarono un'altra inutile scarica di frecce dietro di lui, finché Uglùk li fermò con un grido.

"Basta frecce, maledizione! Se ne è andato! Se non raggiungiamo la foresta prima che quei maledetti ci raggiungano siamo nei guai! In piedi!" Si fece strada tra la massa agitata e ululante di orchi, dando calci a tutti quelli che ancora sedevano sull'erba e colpendoli con la fusta.

"Su, razza di lumache, se ci tenete alla pelle!"

In mezzo al caos e alle grida gli orchi si mossero con velocità frenetica. Si alzarono in piedi, raccolsero le armi e l’equipaggiamento e seguirono gli esploratori di corsa, via dall'accampamento. Mani di ferro afferrarono i due prigionieri e li issarono senza tanti riguardi sulle spalle di due orchi vicini. Poi l'intera massa di orchi si mise in marcia correndo in una fila disordinata verso la lontana ombra della fitta foresta. Tenevano le teste abbassate e le loro possenti gambe si muovevano senza sosta con un ritmo instancabile, brutale, divorando leghe e leghe sotto di loro. Uglùk veniva per ultimo, con la frusta che mordeva i calcagni dei ritardatari e la sua voce che incitava i primi del gruppo.


"Muovetevi, canaglie! Correte! Correte o morirete!"

 

 

 

Continua...

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Capitolo 3
*** La battaglia di Uglùk ***


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Capitolo 3: La battaglia di Uglùk

 

Boromir si divincolò nelle corde, cercando di liberarsi, riuscendo però solo a peggiorare la sua situazione. Le funi che lo legavano al tronco del grande albero premevano dolorosamente contro le sue ferite, e la corteccia nodosa dell’albero gli martoriava la schiena, le braccia e i polsi. Aragorn era seduto accanto a lui, legato allo stesso albero, ma il frastuono delle voci degli orchi e il rumore delle asce che battevano sul legno rendevano difficile parlare: nonostante la loro vicinanza, i due uomini si sentivano isolati.

 

 

Con un sospiro di frustrazione, Boromir piegò la testa all’indietro appoggiandola al tronco, desiderando solo di poter chiudere gli occhi e dormire. Da quando l’oscurità era caduta su di lui aveva trovato stranamente difficile dormire, nonostante la sua stanchezza. Sapeva che questo era dovuto alla paura che si annidava nella sua mente - paura di non risvegliarsi, o peggio, paura di non riuscire più a distinguere, in quell’eterna oscurità, tra sonno e veglia, tra vita e morte. Era una paura infantile, lo sapeva, considerando che restare sveglio significava dolore e miseria, ma ciononostante non riusciva a liberarsene. Desiderava soltanto il semplice, riposante conforto di poter chiudere gli occhi e fuggire lontano dalla realtà.

Sospirò di nuovo, trasalendo quando la corda urtò contro la ferita nel suo fianco.

 

Come richiamato dal suo silenzioso sibilo di dolore, Uglùk arrivò a grandi passi, fermandosi accanto all’albero per schernire i due prigionieri.

 

 

“Non mettetevi troppo comodi” rise, “Appena farà buio e arriveranno i ragazzi di Mauhùr ce ne andremo”.

 

Boromir fece una smorfia, la cosa più simile ad un'espressione di sfida che gli riuscì, avendo gli occhi bendati. “Non se vi trovano prima i Cavalieri”, disse. “Vi trafiggeranno sulle loro picche e vi arrostiranno su vostri stessi falò, Uglùk”.

 

 

Uglùk sembrò trovare quelle parole estremamente divertenti. “Che vengano pure! Sono pronto ad affrontare quegli allevatori di cavalli e le loro lance lucenti. Che vengano pure, dico io!”

 

Si incamminò con passo pesante verso il frastuono, ridendo, lasciando Boromir intento a chiedersi che cosa gli orchi avessero in serbo per i Rohirrim. I biondi Figli di Eorl sarebbero stati abbattuti dalle spade di quelle vili creature, e Boromir rabbrividì, sapendo che non avrebbe potuto fare nulla per impedirlo. Digrignò i denti, frustrato dalla sua inutilità. Boromir di Gondor non poteva sopportare di essere inutile. La rabbia lo rendeva inquieto, impaziente, desideroso di azione.

 

Non riuscendo più a stare in silenzio, parlò cercando di farsi sentire al di sopra del rumore degli orchi.

 

 

“Grampasso?”, chiamò.

 

 

“Si?”

 

 

“Cosa stanno costruendo?”

 

 

“Una barricata. Ormai è già alta quanto un uomo, e piega verso la foresta per proteggere i lati”.

 

 

A Boromir bastarono pochi instanti per capire la strategia di Uglùk. Il capitano degli orchi avrebbe piazzato i suoi arcieri dietro la barricata di legno, e sterminato i soldati a cavallo, coprendo nel frattempo la ritirata del resto del gruppo verso la foresta. Un piano semplice e efficace, pensò Boromir, ma c’era qualcosa che non lo convinceva. Poi capì.

 

 

“Da quando gli orchi sono in grado di costruire?”, chiese ad Aragorn. “Credevo che non sapessero fare altro che uccidere e distruggere”.

 

 

“Non è forse quello che stanno facendo? Abbattono alberi, così da poter uccidere i Cavalieri.”

 

 

“Certo, ma non lo trovi strano? Un orco che mette a punto una strategia? Mi aspettavo che Uglùk fuggisse semplicemente nella foresta, contando sul fatto che i Cavalieri non osassero seguirlo. E invece si è fermato qui a costruire una fortificazione, a coprire la ritirata, a preparare un contrattacco…”

 

 

“Combatte come un uomo”, completò Aragorn, “Come un soldato”.

 

 

Rimasero entrambi senza parlare per un lungo momento, poi Aragorn aggiunse, cupamente: “Un altro degli inganni di Saruman. Gandalf disse che Saruman aveva creato questa razza di orchi più forti e più resistenti. Sembra che gli abbia dato anche qualcosa che Gandalf non aveva previsto”.

 

 

“Così i Rohirrim cavalcano verso la morte senza saperlo. Stanno inseguendo un gruppo di fuggiaschi. Incontreranno un esercito”.

 

 

Dopo quell’amara considerazione restarono entrambi in silenzio. Non avevano nient’altro da dirsi, nessun conforto da offrire; insieme ai Cavalieri sarebbe morta anche la loro speranza. Nessuno di loro ne aveva parlato esplicitamente, ma entrambi avevano sperato che la venuta dei Rohirrim avrebbe significato salvezza. Ora invece temevano che avrebbe portato solo altre sofferenze e altro dolore da aggiungere ai misfatti di Saruman. Altro sangue sulle mani dello stregone.

 

 

Gli orchi continuarono a lavorare, abbattendo un albero dopo l’altro per innalzare la loro barricata. Uglùk camminava avanti e indietro gridando ordini e calando la frusta ovunque il lavoro non procedesse abbastanza rapidamente per i suoi gusti. Gli occhi degli orchi continuavano a correre verso le colline che si estendevano ai margini della foresta, cercando di scorgere in lontananza l’arrivo dei primi cavalieri, e di tanto in tanto se ne udiva uno lamentarsi.

 

 

“Mi domando che cosa ha in mente Uglùk! A quest’ora dovremmo già essere al sicuro nella foresta buia, dove quei dannati Cavalieri non potrebbero trovarci, invece che essere qui ad aspettare di ritrovarci con una lancia piantata in gola. A che gioco sta giocando?”

 

 

“Giocando?”, ringhiò Uglùk, “Ti farò vedere io come giocano gli Uruk-hai, razza di scimmia! E quando avremo ammazzato tutti i cavalieri, mi ringrazierai di non dovere correre fino a Isengard con loro alle calcagna! Ora muovi la tua pigra carcassa, prima che te la scortichi a frustate! Muoviti!

 

 

Gli orchi si mossero, gli alberi caddero, e la barricata si innalzò lentamente attorno a loro. Quando il sole fu calato oltre le montagne a ovest, dalla foresta giunse marciando frettolosamente un altro gruppo di orchi. Arrivarono accompagnati da una babele di grida, risate e fragore di spade, e la squadra di Uglùk li accolse con entusiasmo.

 

 

“Mauhùr!”, muggì Uglùk, “Dove diavolo vi eravate nascosti tu e i tuoi vermi? Qui c’è lavoro da fare. Gente da uccidere!”

 

Mauhùr, un orco parecchio più piccolo di Uglùk, sbattendo le palpebre rapidamente per evitare la luce del sole che tramontava, ribatté alla provocazione con una risataccia. “Vermi, dici? Beh, questi fermi ti faranno comodo quando arriveremo alle montagne. Abbiamo aspettato il tramonto. I miei ragazzi non stanno a cuocersi sotto il sole quando c’è una bella foresta a portata di mano per nascondersi”.

 

 

Ringhiando di disgusto per la loro debolezza, Uglùk mandò gli orchi delle montagne ad aiutare i suoi Uruk-hai con la barricata, mentre si ritirava in disparte con Mauhùr per una conversazione privata.

 

L’attività si fece ben presto febbrile, alimentata dall’energia dei nuovi arrivati e dal sollievo causato dall’assenza del sole. Ma a un tratto, il trambusto cessò all’improvviso, e un silenzio innaturale cadde sulla truppa. Niente più grida, niente più rumore di asce, nemmeno il fruscio delle foglie. La stessa Fangorn sembrava trattenere il respiro in attesa.

In quel silenzio innaturale, Boromir sentì il terreno sotto di sé vibrare in profondità. Zoccoli di cavalli.

 

 

“Stanno arrivando”, mormorò Aragorn. Come ad un segnale, gli orchi cominciarono a gridare tutti insieme.

 

 

“Ai! I Cavalieri! I Pelle-bianca ci sono addosso!”

 

 

“Arcieri sulla barricata!”, tuonò Uglùk, sovrastando con la sua voce il frastuono. “Snaga, tu sul lato destro, Durbàk, sul sinistro! Sbrigatevi, ragazzi!”

 

 

Gli orchi obbedirono, lasciando cadere qualunque cosa avessero in mano per prendere le armi e si affrettarono verso la barricata. Nonostante la confusione, sembravano sapere esattamente che cosa ci si aspettava da loro, e gli ordini di Uglùk arrivavano con regolarità, arginando il panico, calmando le grida, e ingondendo negli orchi una rabbia feroce e determinata.

 

 

“Tenete giù la testa, non tirate ancora! Aspettate, ragazzi, aspettate! Lasciate che superino le colline e poi dateci dentro! Fermi ora…”

 

 

Nell’aperta pianura, i Cavalieri arrivarono galoppando in una veloce colonna, cavalcando in file da tre. Tenevano le lance alzate, con l’asta che poggiava sullo stivale e la punta che scintillava verso il cielo. Un manipolo di arcieri cavalcava a fianco della colonna, ma non avevano le frecce incoccate: stavano seguendo le tracce di un gruppo di orchi in fuga e non si attendevano un attacco. Nella luce del sole morente, con le loro cotte di maglia rilucenti e i chiari capelli che svolazzavano da sotto gli elmi, apparivano splendidi e letali.

 

Quando si furono avvicinati al limite del territorio collinoso, trovandosi di fronte la fitta ombra di Fangorn, il loro capo si alzò sulle staffe per osservare la traccia degli orchi. Piegava attraverso le praterie di Rohan, incontrando le secche fangose dell’Entalluvio, nel punto in cui usciva dalla foresta per poi seguire la riva orientale del fiume fino al limite degli alberi. Il cavaliere si sedette di nuovo sulla sella e si voltò, il viso orgoglioso sotto l’elmo splendente, per dare un ordine al suo secondo. A quelle parole, l’intera colonna svoltò apparentemente senza sforzo a destra, seguendo la traccia di erba annerita verso la foresta.

 

 

Il sole era ormai scomparso oltre i picchi che torreggiavano alla loro sinistra, e le prime ombre della notte cadevano sulla foresta ai piedi della montagna. In alto, il cielo era ancora illuminato dalla luce serale, ma le praterie erano già nell’ombra, e l’oscurità minacciosa della foresta si profilava davanti a loro. Eppure i cavalieri continuavano a galoppare, senza preoccuparsene, poiché la loro traccia era chiara.

 

 

Èomer, Terzo Maresciallo del Riddermark, cacciava orchi sin da quando aveva imparato a stare su un cavallo. Sapeva che non si sarebbero mai voltati ad affrontare soldati a cavallo, a meno che non fossero in schiacciante superiorità numerica, o fossero con le spalle al muro e costretti a combattere. Ma questi orchi non erano in numero sufficiente, e se avessero raggiunto i margini di Fangorn, avrebbero avuto tutte le valli ombrose per nascondersi. Non avrebbero combattuto. Sarebbero fuggiti, e il compito di Èomer sarebbe finito solo quando si fosse assicurato che i loro piedi non avrebbero più calpestato i prati del Mark.

 

 

L’èored risalì rapidamente la riva orientale del fiume, verso i primi alberi più esterni. Èomer si alzò nuovamente sulle staffe per scrutare la traccia, ma non poté vedere nulla al di sotto dei fitti rami della foresta. La pista rimaneva parallela all’Entalluvio, tuffandosi insieme ad esso tra gli alberi, verso la fitta oscurità. Il Cavaliere corrugò la fronte. Non temeva la foresta, sebbene la trattasse con il dovuto rispetto, ma mentre osservava quell’ombra impenetrabile, cercando un punto dove i Cavalieri avrebbero potuto passare, ricordò tutti i racconti che aveva sentito da bambino, e un involontario brivido lo percorse.

 

 

Scuotendosi di dosso il suo disagio, Èomer segnalò all’èored di proseguire, e guidò il suo cavallo in mezzo alla fitta vegetazione. Quando passò sotto i primi rami, l’ombra gli si parò davanti all’improvviso. Stava ancora cavalcando verso di essa, quando, con sorpresa, si accorse che era solida. Una muraglia di tronchi rozzamente tagliati, gettati sul loro sentiero. Con un grido di avvertimento, sollevò la mano per fermare i Cavalieri, ma la sua voce fu coperta da un assordante frastuono di grida e ululati provenenti dalla sommità del muro. Una pioggia di frecce si abbatté sui Cavalieri, trafiggendo elmi, armature, carne e animali. I cavalli nitrirono di dolore e gli uomini gridarono di rabbia.

 

Èomer fermò il suo cavallo così repentinamente che quasi lo fece sedere sulle zampe posteriori, spronandolo verso destra in un galoppo selvaggio. Si trovò a percorrere l’intera lunghezza di una barricata che si ergeva bloccando il passaggio accanto all’Entalluvio. Il muro cominciava dal fiume sulla sinistra, curvando fino a una fitta macchia di alberi sulla destra, ed era alto quasi quanto la testa di un uomo a cavallo. Sulla sua sommità di affollavano gli orchi, che scagliavano le loro frecce nere sulla massa dei Cavalieri.

 

Èomer aggirò la colonna di combattenti e voltò il cavallo verso le pianure, richiamando i suoi uomini mentre galoppava, “A me, Cavalieri di Rohan, a me!”. Accanto a lui, Èothain suonò il suo corno per segnalare la ritirata.

 

 

Un’altra raffica di frecce sibilò e si abbatté su di loro mentre fuggivano. Un uomo gridò di dolore e cadde di sella. Un cavallo inciampò, il collo trafitto da una freccia. Eppure i Cavalieri, disciplinati, si disposero attorno al loro capitano e sotto il suo comando si allontanarono dalla barriera letale.

Ma altri ancora caddero, poiché le potenti frecce, lanciate a distanza ravvicinata, perforavano le armature e trovavano aperture negli elmi. Un arciere alla fine della colonna rispose scagliando a sua volta una freccia, e un orco precipitò dalla sua postazione col dardo conficcato nell’occhio, mentre l’èored si affrettava verso lo spazio aperto delle colline, lasciando una schiera di morti e moribondi alle sue spalle.

 

 

Boromir sentì le grida dei cavalli e degli uomini morenti, e chinò la testa, afflitto. Per quanto tentasse, non riusciva a ignorare il familiare rumore della battaglia, e attendeva con dolorosa apprensione l’attacco successivo. I cavalieri avrebbero attaccato di nuovo, lo sapeva, perché l’onore li avrebbe costretti a vendicare la morte dei loro compagni, e il dovere imponeva loro di distruggere i nemici che avevano invaso i loro confini. Molte volte aveva combattuto a fianco dei Cavalieri di Rohan, e non dubitava che essi tenessero in considerazione l’onore e il dovere quanto qualsiasi soldato di Gondor.

 

 

Due volte i cavalieri si gettarono contro la barricata, e una volta tentarono di sorprendere gli orchi attaccando il lato destro. Gli orchi li respinsero con facilità, e Boromir rabbrividì d’orrore nel sentire i loro ululati di gioia mentre finivano con le spade i cavalieri caduti. Poi, quando la notte fu troppo buia per vedere, i Rohirrim si ritirarono appena fuori dalla portata delle frecce, e accesero numerosi falò in uno stretto semicerchio attorno alla barricata.

 

 

Gli orchi si divertirono per un po’ gettando una serie di proiettili improvvisati verso i Cavalieri silenziosi, in attesa, accompagnandoli con insulti e insolenze. Ma ben presto, vedendo che i Cavalieri non si muovevano oltre il cerchio di luce formato dai fuochi, si stancarono del passatempo e persero interesse. Gli orchi ricominciarono a lamentarsi della capacità di comando di Uglùk, dimenticando il massacro e il saccheggio che aveva appena procurato loro, e stavano già per abbandonare le loro postazioni sulla barricata quando il grido di una sentinella li fece correre di nuovo alle armi.

 

 

Un istante dopo Boromir udì l’inconfondibile sibilo delle frecce, e un altro rumore che non riuscì a identificare subito - una specie di crepitio che non aveva niente a che fare con le frecce.

 

 

“I Cavalieri stanno usando la testa”, disse Aragorn. “Stanno usando frecce infuocate. Vogliono dare fuoco alla barricata”.

 

 

“Un legno così verde brucerà?”

 

 

“La corteccia sicuramente”.

 

 

Come per dimostrare la verità di quelle parole, una freccia vagante superò la barricata, conficcandosi in alto nell’albero al quale erano legati i due uomini. Boromir, sentendola, alzò istintivamente lo sguardo. Un pezzo di tessuto infuocato gli cadde sul viso, e lui lo scosse via con un’imprecazione. L’odore del fumo riempì l’aria, insieme alle grida crescenti degli orchi furiosi, ma i due uomini non stavano più prestando alcuna attenzione alla battaglia. Erano ben più preoccupati delle fiamme che stavano cominciando a lambire i rami più bassi dell’albero cui erano legati, divorandone la corteccia antica e raggrinzita, divampando fin su alle foglie secche.

 

 

“E noi ci preoccupavamo di Saruman”, osservò Aragorn, amaramente.

 

 

Boromir rise senza allegria, scostando un altro tizzone ardente.

 

 

“Credevo di essere pronto a morire per il mio Re, ma a quanto pare mi ero sbagliato. Se compiace a Vostra Maestà, il vostro Sovrintendente umilmente richiede di farci uscire da questa situazione prima che finiamo arrostiti come due cinghiali allo spiedo!”

 

 

“E’ con grande rammarico che rispondiamo al nostro Sovrintendente, ma abbiamo le mani legate…”

 

 

Boromir imprecò di nuovo, quando altri frammenti di corteccia in fiamme caddero sulla sua gamba, rischiando di incendiare la stoffa dei calzoni. Aragorn sibilò per il dolore, e cominciò ad agitarsi per liberarsi dalle corde. Il fuoco, che stava divorando rapidamente l’albero, cominciò a diffondersi anche verso il basso, avvicinandosi ai due uomini seduti. I loro visi erano coperti di cenere e sudore, l’aria era troppo densa per respirare, e il legno dietro di loro diventava sempre più rovente.

 

 

Boromir si fece forza, preparandosi ad affrontare la morte e a pronunciare l’ultimo giuramento di fedeltà davanti al suo Re, ma i suoi pensieri furono interrotti dall’improvvisa ristata stridula di Uglùk.

 

 

“Ci siamo, ragazzi, è ora di andare!”

 

 

Quando il grande orco si fece strada verso di loro e recise le funi con un solo colpo di coltello, Boromir si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. L’orco se ne accorse e rise di nuovo. “Non avrete pensato che avrei lasciato arrostire la preda di Saruman per colpa di una manciata di pelle-bianca, vero? Ci siamo divertiti abbastanza con i cavalieri, ora è il turno di Mauhùr. Lui li terrà a bada, mentre noi Uruk-hai ce ne torniamo al lavoro. Muovetevi, ragazzi!”, gridò a un gruppo vicino di orchi. “Domani a quest’ora saremo alle caverne, e poi si torna a casa! A Isengard!”

 

 

Ruvide mani afferrarono Boromir, che si trovò sballottato di nuovo sulla spalla di un orco. Poi, con un grido di incitamento, gli Uruk-hai si inoltrarono a grandi balzi nella foresta.

 

 

 

 

Continua…

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Capitolo 4
*** Alleanze ***


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Capitolo 4: Alleanze

 

Una lunga spirale di fumo saliva verso il cielo pallido, indicando il luogo dove si trovavano i cadaveri. Alla piccola e stanca compagnia di cacciatori esso era parso un cattivo presagio, e i loro cuori ne erano stati turbati ancora prima di sapere che cosa preannunciava. Ora, mentre cercavano di farsi strada tra gli spaventosi resti del campo di battaglia, i loro cuori erano pieni di fredda disperazione.

I Cavalieri avevano già esaminato i corpi, separando gli uomini dagli orchi, e stavano lavorando per erigere sopra i loro compagni caduti un tumulo di rocce, detriti e zolle d’erba. Al di là dei resti incandescenti della barricata giaceva un cumulo di orchi, in attesa di essere divorati dalle fiamme. Anche i cavalli uccisi sarebbero stati bruciati, ma sulle colline, dove il loro fumo non si sarebbe mischiato col fetore degli orchi, e dove avrebbero ricevuto i dovuti onori.

Merry seguì docilmente Legolas e Gimli, ma i suoi occhi continuavano a correre verso gli Uomini di Rohan, fieri e belli, intenti al loro mesto lavoro. Alti e dagli occhi severi, gli ricordavano Boromir e Aragorn, e Merry si sentiva rincuorato dalla loro vicinanza. Capì che desiderava restare con loro, ascoltare le parole del loro capitano, assaporando l’accento del Sud nella sua voce profonda, come se potesse trovare qualche traccia dei suoi amici nelle sue parole e nei suoi gesti. Era l’unica cosa che lo faceva sentire vicino a loro, e per quanto piccola, era pur sempre un conforto in mezzo all’orrore di quel luogo.

Legolas balzò con grazia sulla barricata, fermandosi sopra un tronco inclinato. Merry esitò un momento, poi si arrampicò seguendo l’elfo. I suoi occhi percorsero il campo di battaglia oltre la palizzata, dove i Cavalieri erano finalmente riusciti a intrappolare gli orchi e li avevano sterminati, e Merry rabbrividì.

La radura era come una ferita aperta nella foresta, scavata dalle asce degli orchi per costruire le loro fortificazioni. Al centro restava solo un albero di una certa grandezza, ormai ridotto a un ammasso fumante di corteccia annerita e contorta. Tutto ciò che rimaneva degli orchi era un cumulo disgustoso di corpi e rottami.

Merry alzò lo sguardo verso Legolas, chiedendosi quali fossero i suoi pensieri al di là del suo viso impassibile. L’elfo osservò tranquillamente il mucchio di orchi, senza alcun segno di emozione, poi si voltò e chiamò Gimli.

“Dobbiamo controllare tra i morti, tu ed io. Questo non è un lavoro adatto ai mezzuomini.”

“D’accordo”, rispose il nano con un borbottio.

Gimli aggirò la barricata, non avendo né l’agilità né l’altezza necessaria per scavalcarla, mentre invece Pipino decise di arrampicarsi su di essa con Merry. I due hobbit ridiscesero insieme nella radura, e cominciarono a gironzolare senza meta, raccogliendo qua e là pezzi di armatura e cianfrusaglie lasciate cadere dagli orchi. Guardavano l’elfo e il nano con aria afflitta, desiderando di avere la forza o il coraggio di aiutarli nel loro mesto compito, e restavano in silenzio. Quello non era luogo adatto alla conversazione, c’era troppa morte nell’aria.

Un rumore sordo di zoccoli annunciò l’arrivo di un cavaliere. Merry si voltò, e vide Éomer oltrepassare al galoppo leggero la barricata, fino alla radura. Fermò il cavallo accanto all’albero bruciato, e scese agilmente di sella. Legolas e Gimli lasciarono il loro lavoro e gli andarono incontro per salutarlo.

“Avete trovato traccia dei prigionieri che cercavate?”

Legolas scosse la testa. “No, soltanto orchi.”

“Ed è tutto quello che troverete. Non abbandoneremmo mai degli uomini in mezzo a queste carogne, nemmeno degli stranieri o dei nemici. Ve lo garantisco, non ci sono uomini qui”.

“Ma sono stati qui”, insistette Legolas, “di questo siamo certi. Alcuni orchi devono averli portati nella foresta”.

“È probabile.  Hanno avuto molte ore di oscurità a disposizione in cui fuggire, e quando abbiamo preso la barricata abbiamo trovato solo questi”.

Gimli diede un colpetto col piede al corpo più vicino e disse, “Questi non sono gli stessi orchi che abbiamo combattuto ad Amon Hen. Sembrano più simili agli orchi di Moria”.

“Infatti. Le montagne ne sono infestate”. Èomer indicò verso ovest. “Le Montagne Nebbiose terminano laggiù, a Nan Curunìr, dove si trova Isengard, e i grandi speroni di roccia che circondano la vallata sono percorsi dai cunicoli degli orchi di montagna. C’è chi sostiene che lo stregone che vive là sorvegli i nostri confini, impedendo loro il passaggio. Altri dicono che sia lui stesso a comandarli”.

Il viso di Éomer si indurì, e suoi occhi grigi lampeggiarono di rabbia.

“Qualunque sia la verità, aumentano giorno dopo giorno, e ci temono sempre meno. E ora hanno osato spingersi fino alle pianure di Rohan, portando guerra e morte”.

“Non lasciarti ingannare,” disse Gimli, “è Saruman che li manda. Gli orchi che hanno preso i nostri compagni sono stati creati nelle fornaci di Isengard, e marciano agli ordini dello stregone. Saruman non è vostro alleato, Éomer del Mark”.

“Lo so”. Le semplici parole erano piene di amarezza e rabbia.

Legolas si volse nuovamente verso la catasta di cadaveri, con la mente rivolta al destino dei suoi amici.

“Se a combattere sono rimasti soltanto questi, significa che gli orchi più grandi sono fuggiti ad ovest, portando con sè  Aragorn e Boromir.”

Éomer sollevò di scatto il capo, fissando Legolas. “Boromir? Di quale Boromir state parlando?”

“Boromir di Gondor, figlio di Denethor. Egli ti è noto?”

“Ahimè!” L’uomo parve colpito, e i suoi occhi si volsero verso l’oscurità della foresta, pieni di disperazione. “Ahimè, mastro Elfo, porti notizie funeste! Se avessimo saputo che il figlio di Denethor era prigioniero avremmo lottato fino all’ultimo uomo per liberarlo!”

Merry si avvicinò al biondo straniero, osservandolo con nuovo interesse. “Sei un suo amico?”

“Non sono così fortunato da potermi definire suo amico, ma lo conosco. E ho combattuto al suo fianco”.

Merry raddrizzò le spalle, orgogliosamente. “Anche io.”

Èomer si girò verso di lui, guardandolo con curiosità. “Tu hai combattuto a fianco del Capitano di Gondor? Devi essere considerato un grande guerriero presso il tuo popolo”.

“Beh…non so se qualcuno del mio popolo possa essere definito guerriero… ma ho ucciso un orco o due con la mia piccola spada. Ed è stato Boromir che mi ha insegnato ad usarla”.

“Dunque è tuo amico?”

“Sì.”

Merry sentì le lacrime pungergli gli occhi, ma si sforzò di trattenerle, e sostenne con orgoglio lo sguardo di Èomer.

"Sì, è mio amico, e lo seguirò fino ai sotterranei di Isengard. Gli devo la vita”.

Èomer si inginocchiò per essere alla stessa altezza di Merry. Il suo viso, benché severo, era tuttavia gentile, e il suo sorriso era cordiale ma triste.

“Ti auguro un viaggio veloce, e fortuna nella tua impresa, piccolo guerriero.”

“Ci farebbe comodo una spada in più, quando assaliremo le mura,”  osservò Pipino in tono pratico.

Èomer considerò quelle parole con serietà.

“Vorrei con tutto il cuore potervi offrire la mia spada e quelle del mio èored, ma il dovere viene prima di tutto, e in questo momento mi impone di tornare dal mio Re.  Deve essere informato di ciò che è accaduto qui, e avvertito del tradimento di Saruman”.

“Forse il tuo Re ci potrebbe aiutare?”

L’Uomo non disse nulla, e dalla sua espressione tesa gli hobbit capirono che avevano affrontato un argomento pericoloso. Pipino esitò un istante, poi prontamente cambiò discorso.

“Non mi piacciono questi boschi. Scommetto che qui vivono cose peggiori degli orchi.”

“Cose più antiche, certamente,” mormorò Legolas, scrutando la foresta circostante col suo sguardo acuto.

Èomer si alzò in piedi e si diresse verso il suo cavallo.

“Se volete il mio consiglio, non avventuratevi dentro Fangorn. Ha una fama sinistra”.

“Ma non lo sembra,” rispose Legolas. “E comunque non ha importanza, perché dove sono andati gli orchi anche noi andremo. Tu non ti rendi conto dell’urgenza della nostra missione, uomo di Rohan”.

L’uomo scrollò le spalle, come a indicare che non si sarebbe aspettato niente di meno dalle sue nuove conoscenze, poi montò in sella.

“Andranno a ovest verso le pendici delle Montagne nebbiose, ma saperlo non vi aiuterà se vi perderete nelle ombre impenetrabili di Fangorn. Se mai doveste ripensarci e riuscirete a tornare vivi dalla foresta, allora venite a Meduseld alla Sala di Re Thèoden. Dovete promettermi sul vostro onore che vi presenterete al Signore del Mark e chiederete il suo permesso per attraversare le sue terre”.

“Hai la nostra parola, sul nostro onore”.

“Allora addio.” Voltò il suo cavallo e si fermò per guardare Merry, con un sorriso. “Buona caccia.” Poi partì al galoppo, lasciando i quattro viaggiatori soli in mezzo ai corpi dei caduti.

 

A mezzogiorno i quattro cacciatori erano ormai nel profondo della foresta. Seguivano il corso dell’Entalluvio, restando sulla riva orientale, dove Legolas poteva trovare le impronte degli orchi nel fango. Si muovevano in una tetra, grigia oscurità. Tutto attorno a loro gravava un opprimente senso di disagio, quasi rabbioso, che sembrava alitare sui loro colli mentre passavano.

Legolas teneva il passo più veloce che il calore soffocante e l’aria sottile della foresta gli consentivano. L’urgenza della caccia li sosteneva, e ogni ora che passava aumentava la loro risolutezza, ma le loro forze diminuivano. Gli hobbit stavano già barcollando per la stanchezza, e il nano era sprofondato in un cupo silenzio, quando a un tratto Legolas gridò.

“Guardate! Il sole ha trovato la strada per salutarci!”

Gli altri alzarono lo sguardo, e videro uno splendente raggio si sole che passava attraverso il fitto fogliame della foresta davanti a loro, a ovest.  A quella vista, Merry sentì il suo spirito risollevarsi.

“Andiamo da quella parte,” propose. “Vorrei tanto poter sentire il sole sulla faccia ancora una volta!”

“E io vorrei respirare liberamente, senza tutti questi alberi che mi osservano,” disse Pipino.

L’elfo e il nano non si opposero, e la compagnia lasciò il fiume per immergersi nella penombra della foresta. Ci volle un po’ di tempo perché raggiungessero il loro obiettivo, ma finalmente lasciarono le ombre per uscire nella luce calda e limpida del primo pomeriggio. Si trovarono ai piedi di una ripida collina che saliva verso l’aria aperta. Molti alberi affollavano la sua base, come se lottassero tra di loro per avere un po’ di luce, ma le pendici della collina erano nude e rocciose, coperte solo di arbusti e radi cespugli.

Sulla roccia davanti a loro si inerpicava una sorta di rozza scalinata, che conduceva a una sporgenza dalla quale si poteva avere un’ampia visuale della foresta sottostante, e che forniva un ottimo posto per riposare. I viaggiatori non fecero caso alla squallida desolazione della collina, o ai cardi che crescevano a fatica lungo i suoi fianchi. Vedevano solo il cielo aperto e la promessa di una sosta nella loro caccia. Sorridendo nonostante la stanchezza e le preoccupazioni, salirono i gradini irregolari fino a giungere alla sporgenza. Là gettarono i loro zaini e si lasciarono cadere a terra, guardando il cielo come se non lo avessero mai visto prima d’allora.

Merry consumò una magra porzione di lembas e acqua, e stava già cominciando a sonnecchiare al sole, quando un sibilo d’avvertimento di Legolas lo riportò bruscamente alla realtà. Si alzò faticosamente in piedi e corse al limite della sporgenza dove stava Legolas, osservando le ombre al di sotto degli alberi. L’elfo aveva una freccia già incoccata al suo arco.

“Cosa succede, Mastro Elfo?” domandò Gimli.

Legolas indicò con un cenno del capo verso gli alberi ai piedi della collina. “Là, qualcosa si sta muovendo verso di noi. Vedi?”

In quel momento, una figura uscì dagli alberi e si fermò alla base della scalinata. Era un uomo, curvo per gli anni, vestito di grigi stracci, che si appoggiava a un bastone.  Il suo viso era nascosto da un grande cappuccio e dalla falda del cappello. Quando sollevò la testa per guardarli, Merry vide solo la punta del suo naso e una lunga barba grigia. Nessuno si mosse né parlò, come se lo straniero li tenesse sotto un qualche incantesimo, e l’arco di Legolas rimase inutilizzato.

“Ben trovati, amici miei,” disse il vecchio, con una voce gentile e potente allo stesso tempo.

“Desidero parlarvi. Scenderete voi o dovrò salire io stesso?” Senza attendere risposta, cominciò a salire.

Con grande sforzo Gimli si liberò dell’incantesimo, e mentre il vecchio si avvicinava, gli andò incontro con l’ascia in mano. “Fermati, straniero! Non avvicinarti oltre, o assaggerai la mia lama!”

“È così che accogliete un vecchio che desidera solo fare un po’ di conversazione?” L’uomo si fermò,  guardando il nano con occhi scintillanti da sotto il suo cappuccio.

“Metti via la tua arma, mio buon nano. Non ne avrai bisogno.”

Gimli arretrò inciampando, con la sorpresa e la confusione dipinte sul suo volto. La sua ascia scivolò a terra ai suoi piedi. I quattro cacciatori non poterono fare altro che osservare, sbigottiti, mentre il vecchio saliva d’un balzo gli ultimi gradini, raggiungendoli con le braccia aperte in segno di benvenuto. Con un gesto si scrollò di dosso il logoro mantello e rimase in piedi di fronte a loro, vestito interamente di bianco scintillante, con il capo scoperto e il viso in piena luce. I suoi occhi sorridevano loro da sotto le folte sopracciglia.

“Di nuovo, ben trovati!”

“Aiee!” Legolas proruppe in un alto grido e lasciò partire una freccia verso l’alto. Il dardo scomparve in una fiammata.

“Mithrandir! Mithrandir!”

Merry udì il nome e capì, ma non riusciva a muoversi. I suoi piedi erano come inchiodati al suolo e le sue membra erano intorpidite per lo stupore. Guardando la creatura splendente e sorridente che era ritornata dalla morte, lacrime di gioia cominciarono a scendergli dagli occhi, eppure era ancora come paralizzato. Poi i suoi occhi si posarono su di lui, e un sorriso li illuminò.

“Mio caro Merry.”

Quelle parole lo liberarono. Il suo corpo ritornò a rispondere ai suoi comandi, e senza chiedersi che cosa stesse succedendo, Merry lasciò cadere la spada e corse incontro allo stregone, abbracciandolo. “Gandalf, Gandalf! Sei tornato!”

*** *** ***

Gandalf sedeva con la testa abbassata, ascoltando Gimli che raccontava della loro caccia attraverso i campi di Rohan, con il viso in ombra sotto l’ampia falda del suo cappello. Quando il nano ebbe terminato il suo racconto, il mago posò lo sguardo sui quattro restanti membri della Compagnia, con il viso teso e carico di dolore. Per alcuni momenti non disse nulla, ma gli altri rimasero in attesa, sperando che egli avrebbe avuto qualche parola saggia per loro, qualche consiglio.

Poi Gandalf sospirò e disse, “Ahimè, questo è davvero un male. L’Erede di Isildur è un’arma che non possiamo permetterci di perdere, e il mio cuore soffre nel sapere che uomini così valorosi sono caduti nelle mani del Nemico.”

Gimli strinse l’impugnatura dell’ascia e ringhiò, “Ma non li abbiamo ancora perduti! Abbiamo giurato di liberarli e li libereremo, anche se dovessimo inseguirli per tutta la Terra di Mezzo!”

“La vostra caccia è finita, mio buon nano. Ormai gli orchi saranno vicini alle montagne e al riparo delle caverne. Raggiungeranno Isengard. Non potete impedirlo.”

“Non possiamo nemmeno abbandonare i nostri amici!” Protestò Merry.

“Certo che no. Ma se volete aiutarli dovrete trovare un altro modo. Un piano che abbia qualche possibilità di riuscire”.

Legolas si agitò inquieto, guardando tra il fitto fogliame della foresta come se sperasse di scorgere qualche traccia degli orchi al di sotto di esso. “E tu cosa vedi, Gandalf, che noi non riusciamo a vedere?” Si voltò a guardare Gandalf, e i suoi occhi erano cupi per la disperazione, la loro luce elfica oscurata.

“Anche senza speranza, noi dobbiamo andare avanti”.

Lo stregone increspò le labbra pensierosamente, mentre sotto le sue folte sopracciglia i suoi occhi scintillavano. “E noi andremo avanti, Legolas, fino alle mura di Isengard! Ma non da soli! Non da soli”.

“E chi verrà con noi?” chiese Pipino. “I Cavalieri?”

“Sì, se riusciremo a far comprendere a Re Thèoden il pericolo che corre. Ma i Rohirrim sono solo uno dei problemi di Saruman. Egli ha dimenticato i suoi altri vicini di casa: molto più vecchi, saggi e potenti di qualsiasi razza di Uomini… e se interpreto bene i sussurri degli alberi, ben presto egli si troverà circondato da ogni parte”.

“Parli per enigmi,” lo rimproverò Legolas sorridendo.

Gandalf rise. “La risposta a questi enigmi è tutta attorno a te, mastro Elfo. Saruman ha risvegliato l’antico potere che dormiva accanto a lui. Ha risvegliato l’ira di Fangorn.”

“La foresta?”, chiese Pipino.

“Fangorn è molto più di quello che tu vedi attorno a te, Pipino. Fangorn è il pastore degli alberi e il guardiano della foresta. È il più vecchio degli Ent”.

Legolas gli lanciò un’occhiata incredula. “Gli Ent! Dunque gli Onodrim vivono ancora nella Terra di Mezzo? Questo è davvero un giorno di prodigi!”

“Più di quanto tu creda. Fangorn è lento all’ira e ancor più lento all’azione, ma il tradimento di Saruman ha fatto ribollire la sua rabbia. E presto traboccherà, scorrendo come una marea verso Orthanc. E allora saranno guai per Saruman, i suoi orchi e le loro asce!”

Ogni traccia di vecchiaia e di stanchezza scomparve dal volto di Gandalf, che balzò in piedi allargando le braccia per abbracciare i suoi compagni, e annunciò, “Questo è il momento, amici miei! Il nemico sta allungando la mano per afferrare la preda di Saruman, proprio ora mentre parliamo, e non abbiamo tempo di aspettare saggi consigli. Dobbiamo risvegliare l’ira degli Ent e degli Uomini, incitarli alla guerra, e assalire insieme le mura di Isengard!”

Gimli brandì la sua ascia, alzandola al cielo, e ruggì, “A Isengard!”

“A Isengard”, fecero eco gli altri, balzando in piedi.

“Ma prima, dobbiamo andare dagli Ent,” disse Gandalf, ammiccando. “Venite”.

Rinfoderando le armi, i membri superstiti della compagnia si avvolsero nei mantelli elfici e seguirono Gandalf nelle ombre di Fangorn.

 

*** *** ***

 

Aragorn stava in piedi appoggiato con la schiena ad una di pietra grezza di fronte all’unica porta della stanza. Ai lati della porta ardevano due torce accese, il cui fumo acre saliva fino al soffitto, dove rimaneva ad aleggiare come un’ombra vivente, agitandosi ad ogni spostamento d’aria. Il Ramingo era vestito soltanto di un pezzo di stoffa grezza ai suoi fianchi, ma a causa del calore soffocante dei sotterranei il sudore scorreva lungo il suo corpo seminudo. La ferita alla gamba sinistra pulsava e bruciava dolorosamente, e sangue scuro fuoriusciva dalle escoriazioni. Il dolore era terribile, ma almeno dava ad Aragorn qualcosa su cui concentrarsi in quel pauroso incubo soffocante. Faceva sì che la sua mente restasse lucida, ricordandogli quanto reale e grave fosse la sua situazione.

Da quando era uscito dalle buie caverne ai piedi delle Montagne Nebbiose per giungere nella valle di Isengard, Aragorn aveva perso completamente il senso della realtà. La vallata, un tempo verde e rigogliosa, ora era una distesa arida, percorsa da fuoco e abissi, dominata dalla tetra torre di Orthanc. Fumo, vapore e voli di neri uccelli costellavano il cielo, e le grida degli orchi si mescolavano allo stridere del metallo e al gracchiare degli uccelli. Nulla ormai viveva più attorno a Isengard, e il cuore di Aragorn piangeva per quella dissacrazione.

Gli orchi avevano portato i loro prigionieri nelle viscere della terra attraverso caverne che sembravano pulsare al calore delle fiamme, tunnel scavati nella roccia e illuminati da file di torce gocciolanti, fonderie, armerie, fornaci, canali di scolo e depositi di rifiuti che puzzavano di corruzione. Aragorn aveva visto creature e congegni che superavano ogni sua immaginazione – gruppi di schiavi frustati da orchi che controllavano il loro lavoro, macchine che cigolavano ed emettevano un fetore orribile - e ovunque dominava l’odore di bruciato.

Quando finalmente erano giunti alla sua cella, Aragorn si era sentito momentaneamente sollevato nel vedere la porta di legno chiudersi, separandolo dagli orrori del regno di Saruman. Poi avevano portato via Boromir, e per la prima volta dalla loro cattura, Aragorn si era trovato completamente solo.

In tutti gli anni che aveva trascorso come un Ramingo e un vagabondo, Aragorn non aveva mai provato un senso di isolamento così terribile. Era abbastanza coraggioso da ammettere la sua paura, e abbastanza saggio da riconoscere che era la sua amicizia con Boromir che lo rendeva così vulnerabile. Non aveva paura per sé stesso, anche se sapeva che lo attendeva una sofferenza come mai ne aveva provata. Temeva per il suo amico, e per la pressione che Saruman avrebbe esercitato su di lui per sfruttare il legame di amicizia che li univa. E in quella cella, incatenato al muro mani e piedi, immobilizzato e inerme, Aragorn conobbe una solitudine e un terrore più terribili di qualunque dolore fisico.

Non poteva fare altro che attendere. Si appoggiò al muro, sollevando il peso dalla gamba ferita, e piegò la testa. Ad un osservatore esterno sarebbe potuto apparire sconfitto, spaventato, fiaccato nello spirito, ma in realtà stava raccogliendo le forze, cercando dentro di sé l’energia per affrontare sia Saruman che l’Oscuro Signore. Tutte le sofferenze che aveva sopportato durante la marcia, tutti gli insulti, i maltrattamenti e le privazioni erano state solo un assaggio, e doveva essere pronto.

Infine arrivarono gli orchi, accompagnati dal rumore degli stivali ferrati sulla pietra grezza del tunnel, con le torce che gettavano profonde ombre lungo i muri. Aragorn non sollevò lo sguardo al loro arrivo, ma si limitò ad aspettare, immobile. Poco lontano da lui, un fagotto fu gettato al suolo. Aprendosi, rivelò al suo interno il suo equipaggiamento e i suoi abiti, tagliati e strappati nella foga della perquisizione. Aragorn vide la furia e la frustrazione di Saruman in ogni taglio e in ogni strappo.

“Aragorn, figlio di Arathorn”.

La voce sembrò riempire la stanza col suo timbro profondo e melodioso, e fece scattare la testa di Aragorn nella sua direzione. Si ritrovò a fissare due occhi scuri e senza fondo come la voce, occhi penetranti che scintillavano, e che versavano il balsamo della pietà sulle sue ferite, intimorendolo con la loro saggezza.

“A lungo ho desiderato la tua venuta, Erede di Gondor. A lungo ho atteso che il Re ascoltasse i consigli di Saruman il Saggio”.

La splendente figura sulla porta mosse un passo verso il prigioniero, allontanandosi dalle guardie al suo fianco, e mentre camminava, la luce rossastra delle torce scivolava sui suoi abiti, facendoli brillare di una miriade di colori. In mano aveva un bastone, la cui sommità era una replica in miniatura delle guglie di Orthanc, e su un dito di quella mano, indossava un anello. Vedendo quella mano affusolata e pallida, Aragorn si ricordò di quello che Gandalf aveva detto al Concilio di Elrond, di come Saruman avesse forgiato un anello di potere per sé, a imitazione degli antichi orafi elfici. Il ricordo di Gandalf, suo amico e guida, dissipò la magia della voce dello stregone e gli schiarì i pensieri. Incontrò di nuovo quello sguardo compassionevole, ma stavolta senza traccia di turbamento.

“Non sono ancora Re, Saruman, e tu non sei il mio consigliere”.

“Ah, la follia degli Uomini.” Aragorn non rispose, e Saruman sorrise freddamente. “È grazie a questa follia che l’Oscuro Signore è tornato a risorgere, per minacciare tutta la Terra di Mezzo con la sua Ombra”.

Aragorn non se la sentì di controbattere. In lui era anche troppo vivo il senso di colpa per i fallimenti della sua razza. Aveva ereditato il trono di Isildur, ma anche le conseguenze della sua follia, e finché non avesse rimediato a quest’ultima, non avrebbe potuto rivendicare il trono. Quello era il conflitto che segnava la sua vita, riassunto da Saruman il traditore in una sola frase.

“Ti offro ora la possibilità di cancellare gli errori dei tuoi antenati e di rivendicare ciò che è tuo, libero da macchie e da dubbi,” insistette Saruman, la sua voce morbida come velluto e intessuta di potenza.

“Ti offro di porre fine al tuo vagabondare, al tuo esilio, alla guerra e all’ombra. Guarda nel tuo cuore, Aragorn, figlio di Arathorn, e ammetti che ti sto offrendo il tuo più grande desiderio”.

Aragorn non aveva bisogno di guardare nel suo cuore. Sapeva che Saruman diceva il vero, ma sapeva anche che la verità nascondeva un inganno. “E qual è il prezzo del mio desiderio?”

“Un’alleanza.” Di nuovo, Aragorn non disse nulla, e il suo silenzio parve infondere nuova eloquenza nello stregone.

“Unisciti a me. Porta il tuo vessillo alla testa del mio esercito, cosicché tutte le genti dell’Ovest sappiano che il loro Re è tornato, e io ti guiderò alla vittoria contro l’Ombra. Io posso farlo, Aragorn. Io posso metterti sul trono di Gondor, e bandire Sauron dalla Terra di Mezzo per sempre!”

“Se io ti darò l’Anello”.

Gli occhi di Saruman lampeggiarono. “L’Anello. L’arma del Nemico. Quale modo migliore di sconfiggerlo, se non usare la sua stessa arma contro di lui?”

Il suono familiare di quelle parole e la fiera passione negli occhi dello stregone mandarono un brivido lungo la schiena di Aragorn. Immaginò il viso di Boromir nel momento in cui aveva tentato di prendere l’Anello a Frodo, e la vista del tormento e del desiderio che l’Anello poteva infliggere lo atterrì, eppure tenne nascosto il suo orrore e parlò con voce ferma.

“Io non ho l’Anello”.

“Ma sai dove si trova. Sai dove l’ha nascosto Gandalf”.

“Dirtelo significherebbe tradire un amico”.

“Per il bene delle Terra di Mezzo!”

Aragorn si ritrasse per quanto gli era possibile dalle sue catene, nauseato dalle parole di Saruman, eppure affascinato suo malgrado.

“E così ora vorresti tradire Sauron, come tradisti il Consiglio Bianco prima di lui”.

“Se il male viene annientato, cosa importa quale mezzo si usa? Preferiresti che consegnassi l’Anello a lui?”

“Tu non hai l’Anello, né da tenere, né da consegnare”.

“No, ma ho te, e per Sauron tu sei importante quasi quanto l’Anello del Potere. Sa che i miei schiavi ti hanno catturato. Presto, molto presto, i Nazgûl verranno a prenderti. Gondor sarà privata del suo Re, del simbolo della sua antica gloria, e cadrà nella disperazione”.

“A che servono allora le tue promesse? Che vantaggio può darmi un’alleanza con Saruman, se sono condannato a morire nelle prigioni di Sauron?”

Saruman sorrise, come se provasse pietà per la diffidenza di Aragorn nei suoi confronti.

“I Nazgûl vengono in cerca di un Erede, e un Erede avranno. E mentre loro se ne andranno con la loro preda, noi andremo a recuperare l’Anello. Quando Sauron si accorgerà di avere catturato un Sovrintendente invece di un Re, noi avremo già la vittoria in pugno!”

Le sue parole echeggiarono nel silenzio. Aragorn lo osservò impassibile, contemplando la brama, l’avidità e i trionfo sul suo viso, celati a stento dalla sua apparente calma. Saruman stava probabilmente pensando che il suo prigioniero stesse valutando la sua offerta, tentato da essa, e Aragorn lasciò che sorridesse.

Infine parlò, con voce sommessa e pericolosamente calma. “Così dovrei tradire due amici”.

“Il figlio di Denethor non è tuo amico! È un uomo arrogante, orgoglioso e ambizioso, che non si inchinerà mai di fronte ad alcun re”.

Nonostante Aragorn fosse in catene, nudo e sudicio, e costretto ad ascoltare le infide parole di Saruman, sorrise.

Nella sua mente sentì di nuovo la voce dell'amico, un sussurro dall’oscurità, che lo chiamava Re, e giurava di mandarlo a Gondor, al suo trono e alla sua gente, come ultimo dono da parte del loro Capitano caduto. Rivide il dolore e il rimpianto sul volto di Boromir, la sofferenza causata dalla sua debolezza, quando aveva infranto il suo giuramento e tradito la Compagnia. E Aragorn capì che Saruman li aveva sottovalutati entrambi.

“Non ti darò l’Anello, Saruman, e non tradirò la fiducia dei miei amici. Non ci sarà alleanza”.

 

Continua…

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Capitolo 5
*** La Mano Bianca ***


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Capitolo 5: La Mano Bianca

 

Aragorn non aveva mai provato un dolore simile prima di allora. Non era lama, frusta né fuoco. Scaturiva in profondità dentro di lui, come se il tocco leggero della mano dello stregone lacerasse la fibra stessa del suo corpo. Non poteva resistervi, non poteva evitarlo, e il dolore avanzava lento e inesorabile attraverso ogni suo nervo e ogni tendine, impedendogli quasi di respirare. 

Si impose di non gridare, di non mostrare la sua debolezza davanti a Saruman, e per un po’ ci riuscì, ingoiando la sua sofferenza, agitandosi inutilmente nelle sue catene. Inarcò la schiena e tese il collo, spingendo con violenza la testa contro il muro di pietra, finché il sangue non cominciò a scorrergli sulla cute. Cercò di soffocare i lamenti, ma il dolore aumentò ancora.

La voce di Saruman giunse da un punto vicino, un mormorio velenoso nel suo orecchio.

“Non credere di poter rifiutare così facilmente. Io non sono come quel vecchio sciocco Grigio che hai seguito ciecamente verso la morte e la sconfitta”.

Aragorn avrebbe voluto rispondere, ma non osava farlo. Temeva che se avesse aperto la bocca per parlare ne sarebbe uscito soltanto un informe grido di dolore che avrebbe potuto durare in eterno, e Saruman si sarebbe preso gioco di lui. Aprì gli occhi e si voltò verso la voce, vedendo che il viso di Saruman era a meno di un palmo dal suo, con i grandi occhi liquidi infiammati di rabbia e di follia.

Saruman sorrise. Un ghigno terribile, disumano.

“Credi di conoscere gli stregoni solo perché hai seguito Gandalf come un cane, vivendo delle sue briciole e leccandogli la mano. Ma ti dico, Aragorn, che io ho poteri che Gandalf nemmeno immaginava. Quella che senti ora è solo una piccola parte, ma se lo volessi potrei infliggerti tormenti tali che tu stesso mi supplicheresti di liberartene con la morte. Questo è il potere della Mano Bianca”.

Mentre parlava, Saruman sollevò la mano dal fianco di Aragorn, tenendola davanti ai suoi occhi. Immediatamente il dolore cessò, e il Ramingo si abbandonò contro le catene, tremando per il sollievo. Con la vista annebbiata per lo sfinimento, posò lo sguardo sulla pallida mano dello stregone. Sembrava scintillare quando si muoveva, ma Aragorn si rese conto che era la gemma dell’anello che catturava la luce delle torce e la rifrangeva in una miriade di schegge danzanti.

“Sfidami pure, Aragorn figlio di Arathorn. Rifiuta. Continua pure a sputar fuori i tuoi giuramenti di onore e fedeltà. Alla fine non ti servirà a nulla. Avrò quello che voglio da te, non dubitarne”.

“Fa’ ciò che vuoi,” sussurrò Aragorn, con la voce incrinata dal dolore. “Ti ho già dato la mia risposta”.

L’agonia esplose di nuovo, inaspettata, strappandogli un lungo, terribile grido che perforò la densa aria della stanza. Saruman scoprì i denti in un ghigno, e spinse più forte la mano sul petto di Aragorn, facendo scorrere il suo potere nel corpo tremante dell’uomo. Aragorn si gettò contro le catene, cercando di sfuggire al crudele tocco, gridando con tutto il fiato che aveva in gola. Era intrappolato e inerme, ancora una volta alla mercé della terribile sofferenza che infondeva Saruman. Non poteva respirare senza gridare, e non poteva gridare abbastanza forte da sovrastare la risata di Saruman.

Così come era cominciato, il dolore svanì. Saruman si allontanò da Aragorn con un’espressione disgustata sul viso. Rise, vedendo Aragorn che si abbandonava a peso morto sulle catene.

“Mi hai dato la tua risposta,” sibilò il mago, “ma hai soltanto incominciato ad assaggiare il potere della Mano Bianca. Prima che io abbia finito mi sarai grato per non aver accettato questa riposta”.

Voltatosi, Saruman uscì a grandi passi dalla stanza, lasciando Aragorn in preda al timore. Il Ramingo non aveva idea di che cosa lo stregone avesse in serbo per lui. Non permetteva alla sua mente di indugiare troppo a lungo sul quel pensiero. Ma da qualche parte dentro di lui, nel luogo profondo dove nasceva la paura, sapeva che la sua prova era appena cominciata. Saruman aveva tentato con il potere insidioso della sua voce, e aveva fallito. Aveva tentato col dolore e aveva fallito. Ora gli rimaneva soltanto un’arma, l’unica che Aragorn temesse veramente, e visto il poco tempo a disposizione, Aragorn era sicuro che lo stregone non avrebbe esitato ad usarla.

Quando udì i passi degli orchi nel corridoio, Aragorn era ormai passato dal timore al panico assoluto. La sua immaginazione, nonostante i suoi sforzi, continuava a evocare scene di devastazione, follia e tortura, mantenendolo in uno stato di agitazione tormentosa. Aragorn si dimenò digrignando i denti, in preda a una furia impotente. In un’altra parte di quel labirinto infernale, lungo un altro corridoio, in un’altra misera cella, Saruman stava torturando nel corpo e nella mente un uomo già spinto oltre il limite della disperazione.

Aragorn non poteva fare nulla per impedirlo, e per quanto grande fosse il suo affetto e il suo desiderio di vedere il suo amico ritornare alla salute e alla speranza, non poteva nulla di fronte alla malvagia astuzia di Saruman.

Poi la porta si aprì, e Saruman entrò con passo solenne nella stanza. Dietro di lui venivano due orchi portando torce, e poi altri due, scortando un prigioniero tra loro. Aragorn sapeva che ora avrebbe dovuto avere doppiamente paura, ma nel momento in cui lo riconobbe, tutto quello che provò fu un immenso sollievo, perché Boromir era di nuovo con lui, e ora non avrebbero dovuto affrontare quell'orrore da soli.

“Boromir!” gridò, con voce piena di gioia.

Boromir sollevò la testa di scatto e il viso gli si illuminò in un debole sorriso.

“Come stai?” chiese Aragorn.

Il sorriso si allargò. “Abbastanza bene. E tu?”

“Abbastanza male”. Ci mancò poco che il Ramingo non scoppiasse a ridere, tanto grande era il suo sollievo. Da quel breve scambio aveva capito che lo spirito di Boromir non era ancora stato spezzato, e che il suo coraggio era immutato. Era vestito allo stesso modo di Aragorn, ma aveva ancora la benda che gli copriva gli occhi e le mani legate dietro la schiena. Aragorn non vide ferite recenti sul suo corpo e nessuna traccia di paura nel suo portamento, e provò un impeto di gratitudine per l’ostinata forza d'animo del soldato di Gondor.

“Come vedi, so anche essere generoso,” commentò Saruman, con ingannevole mitezza.

Entrambi gli uomini si voltarono nella sua direzione, con la stessa espressione sprezzante sui loro visi. Lo stregone rise.

“I Re e il suo leale servitore, riuniti, per grazia della mia benevolenza. Aragorn dice grandi cose di te, figlio di Denethor. Sostiene che saresti pronto a inginocchiarti davanti a lui e a fargli giuramento di fedeltà. Mi piacerebbe proprio vederlo. L’orgoglioso Capitano-Generale in ginocchio davanti a uno straccione vagabondo…da non credere”.

Boromir sollevò il mento con fierezza.

“Questo non ti riguarda, stregone”, ribatté.

“Eppure vorrei vederlo ugualmente”. La voce di Saruman si fece vellutata, pericolosa, carica di una minaccia latente. “Inginocchiati davanti al tuo re”.

Boromir voltò la testa dall’altra parte.

“In ginocchio!” ordinò lo stregone, facendo un cenno a una delle guardie.

Prima che l’orco si potesse muovere Aragorn gridò con ferocia: “Boromir!”

L’uomo voltò lo sguardo bendato verso il suo signore, stupito dalla veemenza nella sua voce, poi annuì brevemente e cadde in ginocchio sul pavimento di pietra.

Saruman rise piano. “È davvero portentoso il legame che vi unisce, se può fare inginocchiare un uomo simile con una sola parola”.

Boromir non disse nulla. Il suo viso, calmo e inespressivo, non tradiva alcuna emozione.

Saruman si avvicinò lentamente a lui, posandogli una mano sulla spalla.

“Hai dimostrato la tua buona fede”, disse lo stregone. “Ora è tempo che il tuo signore dimostri la sua. Ha giurato che non avrebbe tradito il suo amico. Gli credi?”

“Sì”.

“Speriamo che la tua fiducia sia ben riposta, Boromir di Gondor”. Sollevando lo sguardo verso Aragorn, continuò in tono misurato: “Te lo chiederò di nuovo, Aragorn. Stringerai alleanza con me per salvare la Terra di Mezzo?”

“Sai che non lo farò”.

“E che ne sarà del tuo amico?”

“La sua vita sarà sacrificata alla tua ambizione, così come la mia”.

 “Forse hai bisogno di un’ulteriore dimostrazione…della mia buona fede”. Saruman si voltò verso Boromir, posando delicatamente le mani sulla sua testa.

 “No!” esclamò Aragorn, ricordando agonia di quel tocco. “Non farlo!”

“Osserva e taci”. Le lunghe dita di Saruman si avvolsero attorno alla testa di Boromir, apparendo ancora più pallide e spettrali in contrasto con i lividi e il sangue sul suo viso. I palmi premevano leggermente contro gli zigomi fratturati e sfregiati, i pollici poggiavano sugli occhi bendati. Boromir era inginocchiato tra le due guardie, passivo sotto le mani dello stregone, e non mostrava alcun segno di sofferenza.

Nulla si muoveva all’interno della cella. Nulla cambiò. Ad Aragorn sembrava che anche le guardie si fossero tramutate in statue, diventando parte del pavimento. Non osava muoversi per paura di rompere quel silenzio così completo, intento com’era a osservare la scena che si svolgeva nel mezzo della stanza.

Mentre guardava, la figura di Saruman parve sfuocarsi e ondeggiare. Il potere magico cominciò a fluire, come una cosa viva, sopra il suo abito e i suoi capelli scintillanti. Danzava lungo le sue dita, attorno alla testa di Boromir, accendendo l’anello e creando giochi di luce e ombre sui lineamenti devastati dell’uomo. Il respiro dello stregone si fece più rapido, e le sue mani cominciarono a tremare. Stretto in quella presa, Boromir non sembrava neppure respirare.

Poi lo stregone emise un profondo sospiro. Il potere svanì, la tensione si allentò, e Saruman tornò a posare le mani sulle spalle di Boromir.

A quel gesto la stanza parve ritornare alla vita: gli orchi si mossero, le torce crepitarono, e Boromir si lasciò scivolare lentamente fino a sedere sui talloni.

“Boromir?” chiamò Aragorn.

Boromir si voltò verso di lui, e Aragorn rimase a bocca aperta per lo stupore.

A dispetto di ogni logica, contro ogni speranza, il viso di Boromir era guarito. Le ossa, brutalmente frantumate dalla spada di Lurtz, erano risanate e integre, lo sfregio della frusta che gli aveva lacerato la guancia non era che l’ombra di una cicatrice, e al di sotto dei lividi che andavano scomparendo, vi era il viso orgoglioso e bello del Capitano di Gondor come Aragorn lo ricordava.

“Non fa più male”, mormorò Boromir incredulo.

Aragorn deglutì, cercando di allentare la tensione nella sua gola. “I tuoi occhi?”

Boromir esitò un istante, poi scosse la testa.

“Non ancora, Aragorn,” intervenne Saruman. “Non prima che tu abbia pagato il prezzo”.

Aragorn sentì il suo stomaco contrarsi, e la domanda che non voleva fare gli sfuggì dalle labbra. “Quale prezzo?”

“L’Anello”.

Nessuno dei sue uomini parlò. Entrambi si erano aspettati quella risposta, ma saperlo non aveva mitigato il colpo. Aragorn cercò le parole per riempire il silenzio che seguì, senza trovarle. Vide le spalle di Boromir incurvarsi impercettibilmente e la sua testa chinarsi. Poi Saruman sollevò il mento di Boromir per far sì che il suo viso fosse illuminato dalla luce delle torce.

“La scelta è tua, Aragorn. La scelta è semplice”. La mano di Saruman indugiò sulla guancia di Boromir mentre parlava, come silenzioso monito del potere che amministrava.

“Dammi ciò che ti chiedo. Dammi l’Anello e il giuramento solenne che ti unirai a me nella guerra come mio Generale, e io ti darò tutto quello che desideri. Il tuo trono, la tua corona, la libertà del tuo popolo…e la vita del tuo amico”.

Boromir fece un visibile sforzo per sollevarsi, raddrizzando orgogliosamente le spalle. “Io sono pronto a morire per il mio Re”.

Saruman rise con freddezza, facendosi gioco del coraggio di Boromir come se fosse una stupida pazzia.

“Oh no, tu non morirai. Non per mano mia. Ma io ti piegherò, ti schiaccerò, finché non piangerai e implorerai la morte, e poi ti consegnerò a Sauron al posto del tuo signore. Che cosa farà lui di te non mi riguarda. La scelta è tua, Aragorn figlio di Arathorn. Vincere tutto o perdere tutto”.

Aragorn guardò l’amico, ancora inginocchiato sul pavimento con la pallida mano di Saruman posata sul viso. La vista del sangue scuro che macchiava la benda, simile a orrende lacrime, avrebbe perseguitato Aragorn per il resto della sua vita. Lo sapeva, ma sapeva anche qual era la sua strada. Sapeva che qualunque cosa Saruman avesse fatto a Boromir l’avrebbe fatta anche a lui, perché quello era il destino di un sovrano. Fare scelte che mandavano uomini a morire per lui, e morire un poco lui stesso insieme ad ogni soldato caduto. Era pronto ad accettare quel sacrificio, per quanto durissimo, e sapeva di avere la forza per affrontarne le conseguenze. La sua unica paura era che Boromir non avrebbe capito.

Parlò con voce chiara e calma, senza alcun tremito che tradisse il suo dolore.

“Non mi unirò a te. Non ti consegnerò l’Anello. Non accetterò la corona dalle tue mani, macchiate di sangue innocente. E, Boromir,” la sua voce divenne un mormorio, “ Mi dispiace”.

Il viso di Saruman si contorse per la rabbia, e i suoi occhi lampeggiarono. Il potere sembrò balzare fuori da lui, fiammeggiando nell’aria densa della cella, e nello stesso istante, Boromir emise un grido straziante, spaventoso. Inarcò la schiena e si scagliò in avanti, cercando di sottrarsi al tocco dello stregone sul suo viso, ma gli orchi lo tennero fermo. Non poteva sfuggire. Cercò di combattere, cercò di liberarsi per poter respirare, per avere tregua dal dolore, ma gli orchi lo bloccavano in ginocchio davanti allo stregone, intrappolandolo sotto la carezza di quella mano spietata. Le dita di Saruman si curvarono attorno alla sua testa, affondando nei suoi lunghi capelli in un gesto che sarebbe potuto sembrare di tenerezza, se non fosse stato per lo sguardo di selvaggio piacere dipinto sul volto del mago, e per le grida agonizzanti che riecheggiavano attraverso la stanza.

Con un ultimo residuo di forza Boromir riuscì a liberarsi dagli artigli degli orchi, e ricadde pesantemente al suolo, rompendo il contatto con Saruman.

“Tenetelo fermo”, disse lo stregone. Un orco piantò un ginocchio nel fianco di Boromir, inchiodandolo al suolo, mentre l’altro si chinò e gli sollevò la testa tra le mani.

“Aragorn!”

Il Ramingo trasalì sentendo il disperato dolore nella voce di Boromir, e, in un momento di codardia, chiuse gli occhi. Poi Boromir ricominciò a gridare, un suono terribile, lacerante. Aragorn riaprì gli occhi e vide Saruman chino sul prigioniero. In una mano teneva il bastone, incoronato dalla luce spettrale del globo alla sua sommità, mentre l’altra mano era appoggiata sul petto di Boromir, all’altezza del cuore. Vedere la gioia feroce sul viso di Saruman, il piacere che provava nell’infliggere dolore, era quasi terribile quanto vedere la sofferenza dell’uomo torturato, e Aragorn si ritrasse, nauseato.

Aragorn!

Saruman rise, e Aragorn gemette involontariamente.

“Il tuo re ti ascolta”, disse Saruman in tono derisorio. “Implora il suo favore. Forse sarà misericordioso”.

Boromir cercò di parlare, ma le sue parole si spezzarono in un informe grido di dolore. Il suo corpo tremava e si contorceva sul pavimento di pietra, ma senza più tentare veramente di sottrarsi ai suoi aguzzini. Tutto era dolore, e Boromir non aveva più la forza o la volontà di resistere. Poteva solo aspettare, e gridare e chiamare nell’intensità della sua agonia l’unico essere umano che potesse udirlo.

Improvvisamente Saruman sollevò la mano e si alzò in piedi. La stanza parve ripiombare nell’oscurità, mentre il potere dello stregone si affievoliva, e il corpo del prigioniero ai suoi piedi ricadde immobile. Saruman gli diede un colpetto col suo bastone, e disse:

“Non hai niente da dire al tuo signore?”

Molto lentamente, Boromir si mosse, voltandosi verso Aragorn. I suoi lineamenti erano distorti dalla sofferenza e sulle sue labbra c’era sangue fresco. Prima che potesse parlare, Aragorn gridò, disperato: “Perdonami! Non ho altra scelta, Boromir! Lo fermerei, se potessi!”

Boromir parlò a fatica, e le sue parole uscirono insieme a un rivolo di sangue, ma la sua risposta giunse comunque chiara. “Non c’è scelta. Sono pronto…a morire per il mio Re”.

“Non sarà così facile, te lo prometto!” sibilò Saruman, chinandosi accanto a lui e stendendo la sua mano aperta sul costato di Boromir.

Il fiato uscì dai polmoni di Boromir in un lungo gemito inarticolato. L'uomo si ripiegò su se stesso, stringendosi protettivamente attorno alla fonte del suo dolore. Gli orchi non tentarono nemmeno di tenerlo fermo, ritraendosi dallo stregone, dal prigioniero e dall’aura incandescente che li circondava. Saruman si chinò a mormorare a Boromir qualcosa che Aragorn non riuscì a capire al di sopra delle sue agghiaccianti grida.

Sollevò la testa di scatto, e gridò furiosamente, con voce roca: “Non c’è scelta! Non c’è s…Aragorn!”

“Fermati!” ruggì Aragorn, in un’inutile protesta, strattonando le catene fino a farsi sanguinare i polsi. “Basta!”

Improvvisamente Saruman ritrasse la mano, e Boromir crollò esanime al suolo. La luce abbagliante della magia si dissipò. Saruman osservò la figura immobile dell’uomo con occhi privi di qualunque emozione, e posò una mano sulla testa di Boromir. In quel momento non c’era agonia nel tocco, e Boromir non si mosse.

Lo stregone fu il primo a parlare, dopo un lungo silenzio.

“Ti basta? Sei pronto a darmi ciò che ti chiedo?”

“È morto?” sussurrò Aragorn, ignorando la domanda dello stregone.

Saruman spostò lo sguardo su Aragorn, e si alzò lentamente in piedi. “No”.

Si avvicinò all’uomo incatenato, con occhi ardenti di follia che risaltavano sul pallore del suo viso.

“Ascoltami, Aragorn figlio di Arathorn! Tu non puoi ostacolarmi. Non verrò derubato della vittoria da un esule vagabondo e dal relitto inutile di un soldato. Tu mi darai quello che voglio, e io non gli darò il conforto della morte finché tu non lo farai! Mi hai capito, Re di Gondor?”

Sputò fuori il titolo con un tale astio che Aragorn indietreggiò nelle sue catene.

Ma fu Boromir che rispose, con un debole sussurro. “Non c’è scelta…”

“Silenzio!” Saruman si voltò, e brandendo il bastone, colpì Boromir alla nuca, illuminando per un attimo la stanza con l’improvvisa scarica di potere. Boromir ebbe un sussulto involontario, poi ricadde privo di sensi.

Saruman si rivolse ai due orchi, stizzito. “Portatelo nella sua cella. Uno di voi stia di guardia. Se si muove o parla, fatemelo sapere”.

Obbedienti, gli orchi sollevarono Boromir tra di loro e lo trasportarono fuori dalla stanza. Saruman fece cenno alle altre guardie di andarsene e chiuse la porta dietro di loro, restando così solo con Aragorn, alla luce delle torce. Mentre si avvicinava alla parete dove era incatenato, Aragorn notò che la pazzia sembrava essere improvvisamente scomparsa dal suo sguardo, e i suoi occhi scuri ora apparivano pieni di autentica compassione.

“L’orrore di questi tempi è tale da mettere uomo contro uomo, amico contro amico”.

“Nonostante tutti i tuoi sforzi nessuno ha tradito un amico, Saruman”.

Lo stregone sorrise con gentilezza. “Credilo pure, se ti fa piacere, ma ricorda questo, Erede di Isildur. Se non fosse stato per te, il tuo amico sarebbe potuto uscire da questa stanza sulle sue gambe, sano e forte, avrebbe potuto respirare di nuovo la dolce aria di Gondor, e rivedere le bianche mura di Minas Tirith scintillanti sulle pendici del Mindolluin. Se non fosse stato per te”.

Saruman fece per andarsene, ma, giunto sulla porta si fermò, con fare pensoso.

“Avevi ragione riguardo al figlio di Denethor. Mi ero sbagliato, lo ammetto. Ha dimostrato di esserti amico. Non ha tradito la tua fiducia”. Saruman spalancò la porta, e un mesto sorriso gli comparve sulle labbra. “Peccato non si possa dire la stessa cosa di te”.

E con un fruscio di stoffa iridescente lo stregone se ne andò, lasciando Aragorn da solo.

 

*** *** ***

Boromir era raggomitolato sul pavimento della sua cella, tremante, sebbene il suo corpo fosse coperto da un sottile velo di sudore. Tremava per il dolore, per la disperazione, e per la paura. Ma soprattutto tremava per il peso dell'angoscia che gravava su di lui. Aveva resistito alla tortura dello stregone, era riuscito a non implorare la morte e a non chiedere la misericordia di Aragorn, ma questo sforzo gli era costato l’ultimo residuo della sua volontà, e ora giaceva abbandonato, momentaneo vincitore, scosso dal dolore di un’angoscia senza speranza.

Gondor…Gondor… Nella sua mente invocava quel nome piangendo, non osando farlo ad alta voce. Quanto avrebbe desiderato camminare di nuovo per i fertili campi del suo paese, cavalcare sotto le foreste della bella Anòrien. Salire all’alba le pendici del Monte Mindolluin e vedere la sua amata città scintillare come un gioiello nella luce. Stare in piedi sulle mura della cittadella con suo fratello al suo fianco, e sentire le bandiere sventolare sopra di loro mentre osservavano insieme la terra che proteggevano, per la quale versavano il proprio sangue, e per la quale avrebbero volentieri dato la vita…

Morire per Gondor. Lo aveva detto tante volte, e in certe occasioni lo aveva anche sperato. Ora però, di fronte al quella crudele realtà, si rendeva conto che non desiderava morire. Nemmeno per Gondor. Eppure doveva, oppure finire i suoi giorni gridando in quell’inferno peggiore di qualsiasi morte, perché il dovere e l’onore glielo imponevano.

Per Gondor, per Aragorn, suo amico e sovrano, per Frodo, Sam, Merry e Pipino e per ogni speranza che avevano di distruggere l’Anello. Per loro e per tutto ciò che aveva di più caro al mondo, doveva morire.

Lo sapeva. Lo accettava. Avrebbe affrontato il suo destino con tutto il coraggio di cui sarebbe stato capace. Eppure, al ricordo delle false promesse di Saruman, Boromir pianse, ripensando a quel terribile momento di gioia in cui aveva creduto di vedere le mura di Minas Tirith scintillare di nuovo davanti ai suoi occhi, bianche e bellissime.

Perso com’era nell’abisso della sua disperazione, Boromir non udì i passi degli orchi che si avvicinavano alla sua cella. Non si accorse dei suoi visitatori fino a quando una fredda mano si posò sulla sua fronte. Una voce familiare scivolò su di lui come velluto.

“Ora capisci quanto vale la fiducia in un re? Guarda come ti ha ridotto”.

Boromir si scosse e cercò di sollevare il capo, ma non ne ebbe la forza. Saruman gli sollevò la testa con la mano, appoggiando il palmo sulla sua guancia. Boromir sussultò per il contatto, sebbene fosse inaspettatamente gentile.

“La tua fedeltà è ricompensata con la sofferenza”, continuò lo stregone, dolcemente, “e tu paghi con la vita il prezzo del suo ostinato orgoglio. Tu, che hai servito Gondor con onore per tutta la vita, devi essere sacrificato affinché l’erede vagabondo possa rivendicare il suo trono”.

“Servito con onore…” mormorò Boromir con la bocca piena di sangue. “Morire con onore…come un soldato”.

“Non c’è onore nel morire così, per un uomo che ti ha tradito”.

“Non mi ha tradito”.

“Invece lo ha fatto. Lo hai sentito anche tu, Boromir. Lascerà che tu sia consegnato a Sauron al suo posto, piuttosto che allearsi con me contro il Nemico”.

Boromir trasse un respiro affannoso. “Tu sei il nemico”, sussurrò.

Saruman gli accarezzò la guancia in un gesto di commiserazione. “Sei uno sciocco”. Il rimprovero era benevolo, quasi affettuoso. “Credi di aver provato dolore per mano mia? Aspetta di sentire il tocco del Grande Occhio. Allora conoscerai il vero dolore, e desidererai il conforto della Mano Bianca”.

Boromir rabbrividì involontariamente, pentendosene subito dopo. Non avrebbe dovuto essere così debole da mostrare a Saruman la propria paura. La delicata carezza della sua mano lo confortava, ma sue le parole lo riempivano di terrore. Avrebbe voluto ruggire la sua sfida, ma tutto ciò che gli uscì fu un debole singhiozzo.

“Aragorn…”

“Non aspettarti misericordia da lui, Boromir. Ha fatto la sua scelta, ti ha abbandonato al tuo destino”.

Di nuovo, come seguendo una luce nelle tenebre, Boromir ripeté le ostinate parole. “Non c’è scelta”.

“Per lui forse no. Ma per te? Per te c’è un altro modo”. Le mani di Saruman afferrarono più strettamente la sua testa. Il suo viso era così vicino che Boromir potava sentire il suo fiato caldo sulla pelle. “Io posso risparmiarti gli orrori di Barad-dûr. Posso farti tornare a casa”.

“Gondor…”

“Sì, Gondor. A casa, da tuo padre che ti cerca invano e da tuo fratello che piange la tua perdita, incerto del tuo destino. Tu puoi mettere fine alla loro sofferenza, così come alla tua”.

“Come?” La domanda gli uscì spontaneamente dalla bocca, senza che Boromir potesse farci nulla. Non voleva ammettere il rimpianto che le parole di Saruman gli avevano risvegliato nel cuore, ma la sua voce sembrava essere in grado di strappargli sempre e comunque la verità, che lo volesse o no.

“È semplice. Per salvare Gondor, mi serve l’Anello”.

“Non ce l’ho”. Boromir non provò alcuno stupore alla richiesta, solo la dolente tristezza che veniva sempre insieme al pensiero dell’Anello. L’Anello del nemico, non suo. Mai suo. Doveva ricordarsene, ricordare l’orrore sul viso di Frodo quando aveva tentato di impadronirsene. Frodo, che si era fidato di lui e che era stato tradito. Frodo, che era stato suo amico, e che ora era perduto…come l’Anello. “Non ce l’ho,” ripeté.

“Tu sai chi lo porta. Sai dove si trova”. La voce di Saruman divenne incalzante, e le sue mani strinsero più forte la testa di Boromir. “Dov’è l’Anello?”

“L’Anello…L’Anello è andato…” Si interruppe con un sussulto, quando i primi tentacoli di dolore lo raggiunsero.

Saruman aumentò il potere che scorreva dalle sue dita.  “Parla! Dimmi il nome! A chi è andato?”

“…di pericolo in pericolo…” Boromir gemette, cercando di sottrarsi al tocco dello stregone.

Saruman strinse ancora la presa, aumentando il dolore. “Cosa significa? Dove si trova?”

“...lontano da noi”. 

“Salva te stesso, Boromir. Salva Gondor! Dimmi dove di trova l’Anello, e io ti darò tutto ciò che ami!”

“E tradire…tradire il mio Re...” Boromir respirava affannosamente.  Poi, disperato, gridò: “Aragorn è Gondor!”

“E allora ti darò Aragorn, se è questo quello che vuoi! Dammi l’Anello, e io ti darò il tuo Re!”

Boromir urlò di nuovo, un grido straziante, orribile, mentre il dolore dentro di lui cresceva.

“Avevo torto! Avevo torto! Non è per me!”

“È per me, idiota! Dammi ciò che mi appartiene! Dammelo, e io porrò fine ai tuoi tormenti!” 

“Mi dispiace! Mi dispiace!” singhiozzò Boromir, senza più sentire le promesse di Saruman attraverso le ondate di dolore e di rimorso nella sua mente. “Avevo torto! L’Anello…non può salvarci! Ho fallito…Gondor cadrà…”

“Chi lo porta?!” ringhiò Saruman, stringendo la presa finché le nocche non gli divennero bianche e le braccia non incominciarono a tremargli per lo sforzo. “Dov’è?! Dimmelo e ti lascerò vivere! Dimmelo, e ti lascerò morire!”

“Siamo perduti!” L’agonia scuoteva il corpo di Boromir, trovando strada fino alla sua gola, gridando un unico nome nell’aria densa della cella. “Aragorn!”

Con un’imprecazione, lo stregone lasciò la presa. L’uomo crollò a terra privo di sensi, finalmente libero dal dolore. Saruman si alzò in piedi, pulendosi le mani sulla veste, con il volto rigido per il disprezzo.

“Morire con onore?”, lo schernì con astio. “Morirai come un animale, privato del senno e di ogni umanità. E quando griderai solo le bestie ti sentiranno. Dov’è il tuo onore adesso, mio coraggioso Capitano?”

Gettando un ultimo sguardo furioso al suo prigioniero, Saruman si voltò ed uscì a grandi passi dalla stanza, seguito dagli orchi.

 

Continua…

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Capitolo 6
*** Notte a Isengard ***


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Capitolo 6: Notte a Isengard

 

 La guerra era giunta a Nan Curunìr. Nell'ora più buia di una notte senza luna né stelle, i Cavalieri di Rohan avevano attraversato i Guadi dell'Isen attaccando i maestosi cancelli di Isengard. Era un'azione disperata. Nessuna forza umana poteva sperare di espugnarli. Eppure i Rohirrim erano arrivati, scagliandosi contro i bastioni verticali delle mura con una selvaggia determinazione che sfidava la sconfitta. 

Dall'alto della sua finestra nella torre di Orthanc, Saruman li guardò arrivare, e rise. Erano patetici visti da quell'altezza, con le loro lance che ondeggiavano come fili d'erba, e le creste dei loro elmi che si scuotevano nel vento. Illuminati dalla luce rossastra del fuoco, gli elmi d'argento sembravano macchiati di sangue, dolce promessa di vittoria per la Mano Bianca. 

Mentre li osservava sorridendo, una truppa di cavalieri uscì galoppando dagli alberi, portandosi a tiro degli arcieri che erano posizionati sulle mura. Una pioggia di frecce accolse la loro sortita. I Cavalieri restarono fermi sotto quell'assalto, rispondendo a loro volta con le proprie frecce, mentre le file più arretrate avanzavano a riempire i posti lasciati vuoti dai caduti. Poi un ululato risuonò dal tunnel del cancello, e gli Uruk-hai si riversarono fuori, verso la battaglia.  

Pur essendo a cavallo, i Rohirrim non riuscirono a far fronte alla ferocia e alla superiorità numerica dei nemici. Arretrarono lentamente continuando a combattere attirando con sé gli orchi, che, intenti al massacro e al saccheggio, li inseguirono fin sotto l’ombra dei rami degli alberi. 

Alberi? Saruman si sporse bruscamente dalla feritoia per osservare la battaglia sotto di lui, corrugando la fronte. Alberi? Non c'erano alberi vicino al muro meridionale. Li aveva fatti abbattere molto tempo prima, sostituendoli con eleganti pilastri d'acciaio che marcavano la strada. Davanti ai cancelli di Isengard ora crescevano solo rovi e arbusti e poche, ostinate piante sparse. Come potevano esserci degli alberi? 

Dalla foresta giunsero grida di panico e di furore. Saruman imprecò a bassa voce, vedendo due orchi solitari uscire dalla foresta inciampando, senza più armi e con i visi deformati da un lungo ululato di terrore. Saruman li vide arrivare all'ingresso del tunnel, e pochi istanti dopo, uscirne correndo a perdifiato per la strada che conduceva dal cancello alla porta di Orthanc. Dietro di loro le grida continuavano, mentre i Cavalieri si avvicinavano ancora una volta alle mura. Questa volta però, gli alberi li seguirono, e mentre si allontanava dalla finestra Saruman udì un rombo fragoroso di pietre che crollavano. 

Saruman imprecò di nuovo, picchiando a terra il bastone con rabbia. Un piccolo, sgradito brivido di paura gli percorse la schiena. Come aveva potuto dimenticare? E d'altronde, come avrebbe potuto prevedere che Fangorn si sarebbe risvegliato? Quale stregoneria aveva ridestato il dormiente e ozioso pastore degli alberi con una tale furia vendicativa? E chi aveva costruito quell'impossibile alleanza tra gli antichi Onodrim e il giovane popolo degli Uomini di Rohan? 

Asce e fuoco. Saruman smise di camminare e si affacciò di nuovo alla finestra, i suoi occhi pieni di malignità. La condanna di Fangorn sarebbe stata l'antico flagello degli alberi, e la Mano Bianca avrebbe avuto ugualmente la sua vittoria. Doveva riorganizzare le difese e mandare ordini a tutti i capitani: asce e fuoco. Poi avrebbe scambiato due parole con quel miserabile figlio di Nùmenor nei sotterranei, l'aspirante Re, per scoprire che cosa sapeva dell'attacco. 

 

*** *** ***

Nella luce incerta e tremolante dell'arida pianura di Isengard due piccole figure scivolavano da un'ombra all'altra. Si muovevano con cautela, lungo lo scosceso pendio che portava verso l'entrata più vicina alle caverne, avvolti in mantelli di grigio cangiante che li nascondevano alla vista di eventuali osservatori. Sulle mura dietro di loro si aprivano finestre e porte a centinaia, e sulla sommità pattuglie di orchi sorvegliavano incessantemente la zona. Davanti a loro, oscura e terribile, si ergeva la tagliente guglia di Orthanc. 

Erano soli in un territorio ostile, circondati dai nemici, impegnati in una missione disperata e temeraria. E avevano paura. Ad ogni passo che faceva Merry era sempre più spaventato, ma costrinse le sue gambe a sostenerlo e a portarlo sempre avanti, in quella valle arida e soffocante, verso quelle fauci spalancate che sembravano aspettare solo di divorarli. 

Sotto il suo manto elfico stava sudando per la paura. Tuffandosi al riparo di un pilastro durante il passaggio di una pattuglia di orchi, udì Pipino battere i denti. Lo hobbit più giovane lo guardò con gli occhi spalancati, il viso teso e pallido alla luce spettrale delle fornaci degli orchi. Merry non riuscì a sorridere, ma annuì per indicare che era pronto, afferrò la sua spada sotto il mantello, e uscì dal nascondiglio. 

Nonostante la paura, Merry non pensò mai neanche per un momento di tornare indietro. Lui e Pipino avevano convinto Gandalf che due hobbit avrebbero fatto ciò che nemmeno le forze unite di uomini ed Ent avrebbero potuto: infiltrarsi nei sotterranei di Saruman e trovare i prigionieri prima che Saruman si rendesse conto del pericolo e fuggisse, portandoli con sé. Gandalf stesso non aveva dato la sua approvazione fino a quando Barbalbero in persona, il capo degli Ent, non aveva parlato in loro favore. 

Ora che vedeva l'interno dell'anello di Isengard, Merry era sempre più convinto che lui e Pipino fossero la migliore speranza di salvezza per i loro amici. Un gruppo di guerrieri avrebbe dovuto conquistare combattendo ogni metro di terreno, con il rischio non trovare mai il sotterraneo giusto, nascosto chissà dove in quell'immenso, labirintico nido infestato da orchi. I due piccoli hobbit, silenziosi sui loro piedi nudi, mascherati dai mantelli elfici, potevano invece scivolare non visti attraverso le innumerevoli caverne e le gallerie e trovare i prigionieri. Gli altri sarebbero venuti dietro di loro, seguendo il sentiero da loro indicato. 

Merry sentiva il cuore martellagli nel petto mentre si affrettava verso l'apertura della caverna. Alla sua destra una lunga scala saliva dalle viscere della terra, sostenuta da catene di ferro fissate a pali ai limiti del baratro. I pilastri gettavano lunghe ombre scure, nascondendo i due hobbit alla vista degli orchi che si riversavano fuori dall'abisso. 

Merry udì le loro grida, le risate, e il clangore delle armi. Si aspettavano una facile vittoria, marciando verso la battaglia oltre i cancelli, e Merry si sentì stranamente rassicurato dalla loro spavalderia. Finché Saruman avesse avuto la certezza della vittoria loro avrebbero avuto ancora tempo. Saruman sarebbe rimasto al sicuro nella sua fortezza, e Barbalbero avrebbe trattenuto le acque dell'Isen al di là degli argini. Ma la battaglia avrebbe presto volto a sfavore di Saruman, e solo allora, quando lo stregone si sarebbe trovato in trappola, sarebbe arrivato il vero attacco. Gli orchi sarebbero fuggiti verso la massa di Ucorni che attendeva fuori dalle mura, Barbalbero avrebbe aperto le dighe, e chiunque si fosse trovato ancora nei sotterranei sarebbe morto. Chiunque. 

Gli ultimi orchi si allontanarono con le torce che brillavano lungo la strada verso sud. Nulla si muoveva sulla scalinata. Merry si sporse con cautela in avanti, guardando oltre il margine della fossa il rosso chiarore all'interno. Il calore lo investì con violenza, facendogli lacrimare gli occhi, e l'odore di bruciato gli invase le narici. Ritrasse la testa per guardare Pipino con gli occhi arrossati.

"Ci siamo dentro, vero Pip?", sussurrò. 

Pipino annuì risolutamente. "Fino al collo". 

"Andiamo, allora". 

Gli hobbit si alzarono in piedi, si tirarono il cappuccio sopra la testa ed estrassero le spade. L'unica via per scendere era la scala, sospesa sopra un inferno pestilenziale di fiamme, rocce bruciate, e nere gallerie. Catene, funi e carrucole oscillavano sopra le fosse. Minacciosi rumori metallici provenivano da abissi che non potevano vedere insieme alle stridenti voci degli orchi. Persino le rocce di quelle caverne sembravano trasudare malvagità, pensò Merry mentre strisciava lungo la rampa cercando di nascondersi dagli occhi dei nemici. 

Raggiunsero la base della scala e scivolarono nell'oscura imboccatura di una galleria. Si fermarono solo il tempo necessario perché Pipino incidesse con la punta della spada una freccia sul muro, in basso, dove solo un hobbit avrebbe potuto pensare di cercarla, poi ripartirono lungo il corridoio accidentato.

La galleria si dirigeva a ovest, verso la torre di Orthanc, e pendeva leggermente verso il basso. Lungo le pareti erano appese torce gocciolanti, ma la loro luce irregolare serviva più a nascondere gli intrusi che a rivelarli. Gli hobbit camminavano rasente ai muri, nelle ombre profonde, dove nemmeno gli acuti occhi degli orchi potevano vederli, e passavano come folate di fumo nell'aria pesante.

 

*** *** ***

 

Merry si appiattì contro il muro, chiudendo gli occhi e ansimando per il panico. Accanto a lui sentiva Pipino singhiozzare. La sua mano cercò a tentoni quella di Pipino, e i due hobbit si strinsero disperatamente l’uno all'altro.

Potevano udire delle voci in lontananza, troppo basse per distinguere le parole, ma abbastanza forti da riconoscere il tono mellifluo di Saruman e le risposte secche di Aragorn. Ci fu un momento di silenzio, poi un grido lacerante che fece quasi sfuggire un lamento a Merry. Sentì Pipino che si allontanava dal muro e lo tirava per la mano. Poi cominciarono a correre, inciampando lungo il corridoio per sfuggire a quel suono terribile. 

Corsero fino a raggiungere l'ultimo bivio della galleria, dove Pipino di fermò per incidere un'altra freccia sul muro per marcare il loro percorso. Li si fermarono, riluttanti ad andare avanti ma troppo spaventati per tornare indietro, e rimasero a guardarsi l'un l'altro senza sapere cosa fare. 

"Non riusciremo mai a tirarlo fuori di lì", sussurrò Pipino, "Ci sono troppi orchi e…che cosa gli stava facendo Saruman?" 

Merry scosse la testa, ripensando alla disperata agonia che aveva visto sul viso di Grampasso quando il mago lo aveva toccato. Aveva guardato dentro la stanza solo per un attimo, intravedendo l'uomo seminudo incatenato al muro, il suo corpo ricoperto di sangue e di sporcizia, gli orchi che facevano la guardia con le loro enormi spade, e la figura vestita di bianco scintillante, ma l'orrore sarebbe rimasto impresso per sempre nella sua memoria. 

"Come facciamo a farlo uscire?" domandò Pipino. 

"Non lo facciamo. Portiamo qui Gandalf e lasciamo che sia lui a occuparsi di Saruman". 

Pipino cominciò a correre lungo la diramazione orientale della galleria, incapace di restare fermo per la tensione. "Devono essere ormai vicini. Se ritorniamo indietro fino alle scale e…" 

"Aspetta!" Merry afferrò il braccio di Pipino per fermarlo. "Dobbiamo trovare Boromir!" 

Pipino lo guardò con occhi spalancati per il terrore, e Merry vide che il suo viso era rigato dalle lacrime. "Ma Grampasso…" 

"Gli altri ci stanno seguendo più velocemente che possono. Non possiamo aiutarli se torniamo indietro adesso, e non possiamo…" , deglutì per scacciare il nodo che gli si stava formando in gola, e disse, più bruscamente di quanto non avesse voluto, "non possiamo lasciare il nostro lavoro a metà". 

"Hai ragione". 

Pipino si spazzò via le lacrime dagli occhi con la manica e annuì con decisione. 

"Abbiamo detto che li avremmo trovati tutti e due, e lo faremo. Boromir deve essere qui vicino, in una di queste celle…"  

Scostando la mano di Merry, Pipino estrasse la sua spada e si chinò di fronte al segno che aveva fatto sul muro. Lavorò per qualche momento con la punta della sua spada. Quando si rialzò in piedi, Merry vide che aveva inciso una runa accanto alla freccia. 

"Così Gandalf saprà che abbiamo trovato Aragorn". 

"Buona idea, Pip". 

Fece un cenno in direzione dell'unico ramo del corridoio rimasto inesplorato.  

"Proviamo da questa parte". 

"Dopo di te, cugino Brandibuck". 

Merry gli strinse il braccio in un gesto di muta gratitudine, poi fece strada nel tunnel. Non dovettero andare molto lontano. Circa cinque minuti più tardi, Merry sbirciò dietro un angolo e vide la massiccia forma di un orco che bloccava il passaggio. La mostruosa creatura aveva la schiena rivolta verso una porta di legno, e osservava con aria assente la parete di fronte a sé. In cintura portava una lunga spada dal filo dentellato. Sembrava annoiato, e prossimo ad addormentarsi, ma non al punto da non notare due hobbit che fossero passati lungo il corridoio. 

Merry si ritrasse silenziosamente fuori dalla sua visuale, e trascinò Pipino dove l’orco non poteva sentirli. 

"Quella deve essere la cella di Boromir!" sussurrò. "È l'unica guardia che abbiamo visto". 

"Perfetto. Andiamocene da qui, allora, e troviamo Gandalf". 

Merry scosse la testa, serrando la mascella con piglio ostinato. "Io vado là dentro". 

"Oh, certo," ironizzò Pipino, "andrai lì e chiederai per favore all'orco di aprirti la porta".  

Quando Merry non rispose nulla, limitandosi a fissarlo, Pipino spalancò la bocca incredulo.  

"Che cosa hai intenzione di fare?" 

"Uccidere l'orco", disse Merry con un sogghigno, poi sussurrò, "Lo hai detto tu stesso Pip. Non è la prima volta che affrontiamo un orco". 

"Non credi che qualcuno si accorgerà di un orco morto nel corridoio?" 

"Chi?" 

"Saruman, per esempio". 

Merry indurì il viso, determinato. Sapeva che Pipino aveva ragione, che avrebbero dovuto andarsene immediatamente e raggiungere gli altri, ma non poteva andarsene senza sapere che cosa c'era dietro quella porta. Per quanto grande fosse l’amore che portava per Grampasso e volesse disperatamente liberarlo, la ragione per cui Merry era arrivato fin lì era una sola: trovare Boromir. Doveva la sua vita al soldato di Gondor, e aveva giurato che non lo avrebbe lasciato mai più a combattere da solo. 

"Andrò là dentro, Pip, che tu mi aiuti o no. Deciditi". 

"Non ho detto che non ti avrei aiutato", mormorò Pipino. 

"Bene. Ecco cosa faremo". 

Pochi minuti dopo, l’orco fu scosso dal suo torpore da un rumore di passi. Si raddrizzò e si guardò attorno con aria colpevole, come se temesse di essere stato sorpreso a sonnecchiare, ma i passi non appartenevano al suo padrone. Una piccola creatura scalza, avvolta in un mantello scuro, arrivò correndo da dietro l'angolo e lo oltrepassò di corsa. L'orco si accigliò, confuso, vagamente consapevole del fatto che quella creatura non doveva essere lì, ma, poiché non rappresentava una minaccia e non aveva fatto alcun tentativo di disturbare il prigioniero che sorvegliava, rimase incerto, non sapendo come comportarsi. 

Mosse un passo verso di lui e gridò, "Ehi, tu! Fermati!" 

La creatura si voltò a guardarlo, inciampò, e squittì per la paura. L'orco sogghignò ed estrasse la spada, avvicinandosi alla sua terrorizzata preda. Improvvisamente, un acuto dolore gli perforò la gamba. Sorpreso, l'orco si fermò. 

Merry affondò la spada nell'incavo del ginocchio dell'orco, spingendo con tutta la sua forza fino a sentire l'osso. L'orco gridò e imprecò, voltandosi per vedere il suo assalitore, ma Merry era già balzato via, con la spada fumante di disgustoso sangue nero. L'orco barcollò quando la gamba ferita cedette sotto di lui, e cadde in ginocchio. In un attimo Merry gli fu addosso, saltandogli sulla schiena. Allo stesso momento Pipino balzò in piedi e si gettò nella mischia. Si scagliò con tutto il suo peso contro l'orco piantandogli la spada sotto il mento, mentre Merry colpiva a sua volta l'orco alla gola. 

L'orco emise un ultimo gorgoglio di protesta, poi cadde al suolo con un tremendo sferragliare di armatura. Gli hobbit si rialzarono dal pavimento insanguinato, guardando increduli quello che avevano fatto, pallidi e sconcertati. L'orco non si muoveva più. 

Merry fu il primo a ritornare in sé. Pulendo la spada sulla tunica dell'orco si arrampicò sulle sue gambe per raggiungere la porta che sorvegliava. Era bloccata da una grossa sbarra di ferro. Merry cercò di sollevarla facendo leva per liberarla dai sostegni, ma non ci riuscì fino a quando Pipino non si unì ai suoi sforzi. Insieme sollevarono la sbarra, inclinandola fino a farla scivolare dai sostegni e mandandola a cadere sul pavimento con un rumore assordante che rimbombò tra le pietre del corridoio. 

Merry e Pipino si scambiarono un sguardo nervoso, e rimasero ad ascoltare eventuali nemici in arrivo, ma il cunicolo era di nuovo perfettamente silenzioso. Impugnata più saldamente la spada, Merry spinse la porta, la aprì, e guardò cautamente all'interno. 

La cella era piccola e spoglia, illuminata da una singola torcia che gettava ombre striscianti sui muri. Al lato opposto della porta pendevano delle catene vuote, e in un angolo vi era un mucchio di stoffa, cuoio e maglia metallica. Ma Merry non prestò attenzione a questi particolari, perché, raggomitolato sul pavimento al centro della stanza, c'era un uomo. 

Con un grido Merry spalancò la porta ed entrò. Si inginocchiò accanto alla figura immobile, e, gettata via la spada, si chinò a guardare il viso nascosto nell'ombra. Un altro grido eruppe dalla gola di Merry, un grido di dolore. Era lui. 

"Boromir?" la sua mano tremava, mentre scostava i capelli dal viso di Boromir. "Sono Merry. Siamo venuti a portarti fuori di qui. Riesci a sentirmi? Ti prego…" 

L'uomo si agitò, e Merry sentì la speranza rinascergli nel cuore. Boromir mosse leggermente la testa, e alla luce della torcia Merry vide che le sue labbra si muovevano senza emettere alcun suono. A Merry salì un nodo in gola e sentì le lacrime pungergli gli occhi. Con una mano sollevò la testa di Boromir. L'uomo si mosse di nuovo, mormorando qualcosa, e Merry ritrasse la mano, temendo di fargli male. 

"Che cosa ti hanno fatto?" sussurrò Merry, inorridito, mentre osservava il sangue che usciva dalla bocca di Boromir gocciolando sulle pietre sotto la sua testa. L'uomo non rispose. Il breve momento di lucidità se ne era andato, e l’uomo ricadde immobile. 

Merry udì la voce calma di Pipino dietro di lui. "Dobbiamo trovare Gandalf. Lui saprà cosa fare". 

Merry si voltò a guardarlo, con gli occhi velati dalle lacrime. "Sì. Presto, Pip! Vai!" 

"Cosa?" Pipino indietreggiò, allarmato. "No! Io?!" 

"Tu puoi trovarlo. So che puoi riuscirci. Torna indietro per dove siamo venuti, verso la grande caverna, e…" 

"Tu verrai con me!" Sibilò Pipino, in preda al panico. 

"Non posso". Il viso di Merry si contrasse in una smorfia, e altre lacrime gli bagnarono le guance. "Ho fatto una promessa". 

"Una promessa a chi? Di che cosa stai parlando? Merry, questa è una pazzia!" 

"No. Avevi ragione tu quando dicesti che non saremmo dovuti scappare. Avremmo dovuto restare e combattere, a tutti i costi, ed è colpa mia se non lo abbiamo fatto".  

Deglutì rumorosamente, poi riprese. "Sono fuggito una volta. Non lo rifarò di nuovo. Non posso". 

"Ma questa volta è diverso. Andiamo a cercare aiuto…" 

"È la stessa cosa che abbiamo fatto al fiume, e guarda che cosa è successo". 

Sconvolto, Pipino guardò il corpo ferito, immobile, dell'uomo che li aveva protetti così ferocemente, sacrificandosi per salvarli, e Merry capì che si stava convincendo. Ma essendo Pipino, doveva fare un altro tentativo. "E se non trovo gli altri in tempo? E se arriva l'inondazione? O Saruman?" 

Merry scrollò le spalle, a disagio. Sapeva che quel piccolo, ostinato atto di lealtà a avrebbe potuto costargli la vita, ma trovava ancora più terribile il pensiero che Boromir morisse da solo in quella misera cella. Dopo tutto quello che aveva sopportato, morire solo e abbandonato sarebbe stata un'ingiustizia, una ferita di troppo. Una ferita che Merry poteva risparmiargli. 

Raddrizzando le sue piccole spalle, Merry parlò con fermezza. "Ho promesso che non lo avrei lasciato mai più a combattere da solo, e non lo farò. Qualunque cosa accada sarò qui…per guardargli le spalle". 

Pipino annuì con solennità, e Merry fu grato per la comprensione del cugino. Pipino lo criticava sempre, e a volte lo distraeva, ma Merry sapeva che, nel momento del bisogno, poteva sempre contare su di lui. 

"Ti prego, Pip, sbrigati". 

"Ci proverò, Merry, ma…" 

"Lo so". 

Entrambi pensarono alle ore che avevano passato vagando per le gallerie, cercando quella stanza, mentre sopra di loro infuriava la battaglia. Non doveva essere rimasto molto tempo. Forse proprio in quel momento le possenti mura di Isengard stavano crollando sotto l'attacco degli Ent. Forse Barbalbero stava già riversando le acque dell'Isen per intrappolare Saruman l'uccisore di alberi nella sua alta torre. Non avevano modo di sapere quanto tempo restava loro per uscire dalle caverne ed essere al sicuro. 

Improvvisamente Merry fu colto dal timore che non avrebbe mai più rivisto Pipino, e si alzò in piedi per abbracciare il suo giovane cugino. Pipino lo strinse a sé per un momento, poi si allontanò, asciugandosi le lacrime con la manica. Nella luce incerta delle torce sembrava pallido e spaventato, troppo giovane e troppo fragile per il peso che doveva portare. 

"Quando Boromir si sveglierà, raccontagli come abbiamo ucciso l'orco. Si farà una bella risata". 

"Lo farò". 

Pipino si diresse verso la porta ma si fermò sulla soglia, riluttante ad andarsene. "E non dimenticare la parte dove io ho fatto finta di inciampare, e poi gli ho piantato la spada nel collo". 

"Non lo dimenticherò", rispose Merry, solennemente. 

"Scommetto che anche Boromir non avrebbe saputo fare di meglio". 

"Credo di no". 

Pipino esitò un momento, poi alzando la mano in segno di saluto, chinò la testa e scivolò fuori dalla porta. Lentamente la porta si richiuse cigolando, lasciando Merry solo nella misera cella insieme a Boromir. Merry si inginocchiò di nuovo accanto a lui, guardandolo tristemente.  

Per un lungo tempo non si mosse né parlò. Non sapeva cosa dire, sentendosi inutile di fronte a tanta sofferenza. Poi ripensò alle parole di Pipino, e un sorriso gli sfiorò le labbra. Come avrebbe riso Boromir nel vedere i due hobbit abbattere quell'enorme orco! No, si corresse Merry, Boromir non avrebbe riso. Li avrebbe spinti fuori dai piedi e avrebbe ucciso l'orco lui stesso. Poi avrebbe detto che erano una maledetta seccatura, rimproverandoli come se pensasse che non vedessero il suo affetto per loro. 

"Avresti davvero dovuto vederci uccidere quell'orco", mormorò Merry all'uomo provo di sensi. Posò lo sguardo sulla fasciatura che copriva gli occhi di Boromir, e pianse. "Saresti stato orgoglioso di noi". 

Recuperò la sua spada da dove l'aveva gettata e cominciò a tagliare le corde che legavano i polsi di Boromir. Le lacrime scorrevano copiose dai suoi occhi, bagnandogli le maniche mentre lavorava, ma le ignorò. Le parole vennero alle sue labbra senza che lui le cercasse, parole che non significavano nulla per Boromir, ma che alleggerivano il cuore di Merry nella solitudine, facendolo sentire meglio, come se potesse confortare Boromir ricordandogli che non era solo. 

Continuò a parlare mentre si affaccendava per aiutare il ferito. Parlava in un tono basso e regolare che tradiva le lacrime sul suo viso e il tremito delle sue mani. Raccontò a Boromir del loro inseguimento attraverso le pianure di Rohan, raccontò di Barbalbero e dell' Entaconsulta, e dell'alleanza di uomini che aveva marciato contro Saruman. Descrisse come Sveltolampo aveva aperto una breccia nel muro orientale, tanto facilmente quanto un hobbit avrebbe spezzato un pezzo di pane, per lasciare entrare i supersiti della Compagnia a Isengard, e di come i Cavalieri ai cancelli avevano attirato volontariamente su di sé l'ira dello stregone e le frecce degli orchi per aprire un varco per il salvataggio. 

Mentre parlava recise le corde che legavano Boromir, e gli massaggiò le mani fino a riportare la vita nelle sue dita intorpidite. Frugò in mezzo al mucchio di vestiti strappati nell'angolo, trovando il mantello elfico di Boromir e i resti della sua tunica di broccato. Fece scivolare la tunica sotto la testa dell'uomo, e coprì il suo corpo tremante con il mantello. Poi si inginocchiò accanto all'amico, e usando un pezzo della camicia di Boromir come straccio, lo bagnò con l'acqua della sua borraccia e cominciò a pulire i sangue e la sporcizia che gli incrostavano il volto. 

Durante tutto il tempo in cui Merry gli offriva i suoi soccorsi goffi ma gentili, Boromir rimase immobile, indifferente, apparentemente incurante degli sforzi dello hobbit. Per Merry era sufficiente tentare di offrigli conforto, che l'amico lo sapesse o no. Il suo cuore soffriva nel vedere Boromir trattato con tanto disprezzo - spogliato, legato, e lasciato ferito sul pavimento - e desiderava restituirgli almeno un po' della sua dignità, anche se non poteva alleviare il suo dolore. 

Da qualche parte nella mente di Merry c'era un ricordo di Brandy Hall, e dell'infermiera che lo aveva accudito ogni volta che era stato malato da bambino. Era una delle innumerevoli parenti da parte di suo padre, una lontana zia o una cugina, e la sua voce era ruvida come sabbia, ma Merry l'aveva ascoltata e ne aveva fatto tesoro, e la ricordava ancora, nonostante molto di quel tempo fosse stato dimenticato. La voce del conforto. E ora, nell'oscuro inferno del sotterraneo di Saruman, Merry poteva udirla di nuovo, e mentre parlava, si ritrovò a ricorrere alle stesse cadenze rassicuranti. 

Il tempo strisciò via, indistinto, misurato solo dall'oziosa conversazione di Merry. Solo una volta Boromir diede segno di prendere coscienza. Lo hobbit stava pulendo le macchie di sangue sul suo viso, cercando di decidere se aveva il coraggio di rimuovere la benda e di guardare cosa celava, quando Boromir improvvisamente si ritrasse dal tocco di Merry, mormorando qualcosa a bassa voce. Merry si bloccò. Si inclinò ansiosamente in avanti. 

"Boromir? Sei sveglio?" appoggiò lo straccio sulla fronte di Boromir, proprio al di sopra della benda, e chiese, supplichevole, "Riesci a sentirlo?" 

Boromir emise un suono soffocato di dolore, e dalla sua bocca uscì un rivolo scuro di sangue. 

"Shhh", insistette Merry. "Non muoverti". 

"Aragorn…" 

"Aragorn non è qui. Ma non preoccuparti per lui". Ripulì il sangue dalla bocca di Boromir, cercando di ignorare le lacrime che avevano ricominciato a scendere sulle sue guance. 

"Pipino sa dove trovarlo, e porterà là Gandalf. Libereremo anche lui, lo prometto".  

Le parole gli si bloccarono in gola, ma non riusciva a trovare nient'altro da dire per confortare l'amico, e così le disse ugualmente, cercando di non pensare a quanto sarebbe stato difficile mantenere quella promessa. 

Boromir si mosse di nuovo, Merry non avrebbe saputo dire se per il dolore o l'angoscia, e le sue labbra si mossero, formando il nome del Ramingo. Altro sangue corse lungo il suo mento, scintillando nero alla luce delle torce. Merry lo spazzò via, in un gesto gentile quanto inutile. 

"Non preoccuparti per lui", ripeté Merry. "non preoccuparti di nulla." ma stava parlando di nuovo a sé stesso. 

Boromir era scivolato di nuovo nel suo mondo crepuscolare, dove né la voce né il tocco lo potevano raggiungere, e Merry attese. Non aveva più la forza di parlare. Il dolore gli attanagliava la gola, e le lacrime gli inondavano gli occhi. La terribile attesa aveva prosciugato il suo coraggio, schiacciandolo, riempiendolo di disperazione. Aveva promesso di restare, e sarebbe restato, ma non poteva fare nient'altro. La sua presenza accanto al soldato di Gondor era inutile come la sua spada in un combattimento. Aveva fallito nell'aiutare Boromir a Parth Galen, solo per seguirlo lì, attraverso pericoli, battaglie e fuoco, e fallire di nuovo. Se solo fosse arrivato Pipino! Se solo Gandalf fosse venuto a salvarli!

Un suono di voci echeggiò nel corridoio, strappando Merry dai suoi pensieri lugubri e facendolo schizzare in piedi. Per un attimo la speranza gli si accese nel petto, e fece un passo frettoloso verso la porta. Poi udì la roca, inconfondibile voce di un orco, e il calpestio di stivali sulla pietra. La speranza si tramutò in terrore, e Merry si arrestò nel mezzo della stanza, troppo spaventato per muoversi o pensare. 

"Gah! Qualcuno ci ha preceduto!" disse una voce ringhiante. "Tenete pronte le armi, ragazzi!" 

Ci fu un forte rumore di metallo che scivolava su metallo, e i "ragazzi" sfoderarono le spade e i pugnali. In risposta, Merry estrasse la sua arma e si piazzò tra Boromir e la porta, con i piedi ben piantati a terra e l'elsa della spada stretta con entrambe le mani. La porta fu spalancata, e tre orchi si precipitarono nella stanza. 

Erano creature enormi, alte più del doppio di Merry, tanto da superare anche Boromir e Grampasso. Il loro capo aveva una spada alta almeno quanto Merry, che brandiva con una facilità terrificante. Balzò oltre la porta, pronto al combattimento, poi si fermò e scrutò le tenebre in cerca di nemici nascosti. I suoi occhi si fermarono su Merry, e sogghignò snudando le sue zanne gialle. 

"Guarda qua, Snaga! Ho trovato un ratto con uno spillo! Hai usato quello per infilzare il verme qua fuori, piccolo ratto?" 

Merry si erse in tutta la sua altezza, che a stento raggiungeva la cintura dell'orco, e cercò di imitare il ringhio feroce della creatura. "Sono stato io. E farò lo stesso con te, se non te ne vai immediatamente!" 

L'orco rise. "È un piccolo ratto coraggioso, in ogni caso. Piantala coi tuoi piagnistei e scansati, prima che…" 

Merry non diede all'orco la possibilità di finire la sua minaccia. Raccogliendo il coraggio per un ultimo, disperato attacco, si scagliò contro la creatura con la sua spada, penosamente piccola, mirando al ventre. L'orco sembrò sorpreso, ma anche così si mosse con una velocità incredibile. Spinse Merry di lato con la spada, facendolo inciampare, poi lo sollevò per il collo e lo scosse dolorosamente. 

"Getta quell'arnese, o ti torco il collo". 

Merry lasciò cadere la spada, obbediente. Riusciva a stento a respirare, e certo non poteva resistere alla tremenda forza dell'orco.  

"Bravo il mio piccolo ratto. Ora comportati bene, e può anche darsi che tu riesca a uscire vivo da Isengard. Dammi dei guai, e ti taglio la gola. Oppure ti lascerò qui ad annegare".

Rivolgendosi a uno dei suoi subordinati, l'orco disse, "Prendi questo, Dùrbhak. Potrebbe tornare utile, quando incontreremo i ragazzi dei Cavalli". Lanciò Merry senza sforzo all'altro orco, e, con un ringhio d'avvertimento, aggiunse, "Ma se fiata, strozzalo". 

Il terzo orco era chino sul corpo immobile di Boromir. Si girò per chiamare il suo capitano, "Non è questo quello che vogliamo, Uglùk!" 

Il capitano si avvicinò all'uomo e lo spostò con un calcio. "È questo. Tiralo su, Snaga". 

"Avevi detto che era l'altro che contava. Il gambelunghe". 

"Per Saruman, forse. Ma a noi basta un ostaggio per passare oltre i Cavalieri, e questo qua andrà bene lo stesso. E poi," Uglùk ebbe un ringhio da lupo, "ho un conto in sospeso col soldatino". 

Snaga sembrò irritato, ma Uglùk pareva molto soddisfatto di sé. Mandò Snaga nel corridoio a ordinare agli altri di mettersi in marcia, poi sollevò Boromir gettandoselo su una spalla. Il peso di un uomo adulto sembrava essere insignificante per l'orco. Aveva ancora la spada in mano, quando si voltò sogghignando, e uscì dalla porta col suo carico. Dùrbhak lo seguì tenendo ben stretto Merry.

Nel tunnel, Merry vide più di una dozzina di orchi che aspettavano, tutti simili a Uglùk per statura e forza. Erano disposti su due file come soldati addestrati, aspettando l'ordine di marciare. Uglùk si mise alla testa della colonna e parlò con voce autoritaria.

"Dunque, ragazzi! Ci dirigeremo dritti verso il nord della valle e prenderemo il grande tunnel sotto le mura. Andremo verso le montagne. Restate con me e andrà tutto bene. Allontanatevi, restate indietro, e vi ritroverete a galleggiare nei sotterranei. Le caverne più basse sono già allagate, e il livello dell'acqua sta salendo velocemente, così dobbiamo muoverci. Quando saremo fuori dalle mura, lasciate parlare me".

Diede un colpetto con la zampa a Boromir con evidente soddisfazione. "Qui ho il nostro salvacondotto. Ora, fuori!"

Gli orchi correvano a un ritmo spaventoso. Sballottato in braccio a Dùrbhak, Merry si stupì della loro velocità, straordinaria per creature così grandi e apparentemente goffe. Ora capì come avevano potuto lasciarsi alle spalle i quattro agili cacciatori nella loro fuga attraverso le pianure. E ora, fuggendo dalle caverne, quella velocità sarebbe stata loro indispensabile. 

L'acqua era ormai dietro di loro. Barbalbero aveva aperto la diga dell'Isen e inondato Nan Curunìr, e le acque si alzavano inesorabili. Nei punti in cui il sentiero scendeva più in basso, gli orchi erano costretti a guadare acque sudice e fosche in cui sprofondavano fino al ginocchio, e Merry ne sentì più di una volta il disgustoso tocco sui piedi. Non tentò nemmeno una volta di liberarsi della presa di Dùrbhak per dare l'allarme. Sapeva che la sua unica speranza di farcela in tempo era di farsi trasportare dagli orchi. E in quel momento non avrebbe scambiato la compagnia di Uglùk con quella di nessun altro. 

Si fecero strada verso nord tra le caverne, alzandosi sempre più sopra il livello dell'acqua. Centinaia di orchi stavano correndo nella stessa direzione, ma la strada davanti a Uglùk era sempre libera. Nessun abitante di Isengard avrebbe osato ostacolare il cammino del più temuto capitano di Saruman. 

Finalmente entrarono in un corridoio che si inerpicava ripido verso l'alto. Gli orchi accelerarono, sentendo la salvezza vicina, e quando spuntarono sotto le mura, in una radura nella foresta, stavano ansimando per lo sforzo. Uglùk si fermò improvvisamente. I suoi occhi percorsero la radura, e Merry lo udì ringhiare un avvertimento a Snaga. Gli altri orchi si affollarono attorno a lui, rumoreggiando confusi per lo scontento. Le montagne erano davanti a loro, alte nella fredda notte, e la sicurezza dei cunicoli degli orchi era là davanti a loro. Perché Uglùk non li lasciava andare? 

Merry lo sapeva anche meglio di Uglùk. Sapeva che cosa si celava dietro le ombre fitte e sinistre che avvolgevano la foresta. Uglùk lo percepiva, pur non avendo un nome per esso: sapeva che da quel lato della collina, ripido e roccioso, non avrebbe dovuto esserci alcuna foresta. Continuò a guardarsi sospettosamente intorno, cercando di vedere oltre la nebbia con la sua vista acuta.

Per la prima volta da quando Uglùk lo aveva catturato, Merry parlò. "Non andate negli alberi" gemette, con la paura che gli rendeva la voce stridula. "Non vi lasceranno passare!" 

"Taci, piccolo ratto". 

"Non vedi la nebbia? Significa pericolo mortale!" 

"Non mi fanno paura gli alberi", ringhiò l'orco, portando la mano sulla spada. 

"Non sono alberi!" Il panico si impadronì di Merry quando capì che Uglùk li voleva portare attraverso la foresta di Ucorni. Gli Ucorni non avrebbero fatto distinzione tra Uomo, Hobbit e orchi, e tutti sarebbero periti nelle micidiali nebbie. "Odiano gli orchi, e non si curano degli ostaggi". 

"Ti ho detto di tacere!" Rivolgendosi ai soldati Uglùk disse, "Questi alberi non dovrebbero essere qui, ragazzi, ma a noi non importa! Le montagne sono da quella parte, ed è là che andremo! Chi di voi ha un'ascia stia pronto. Il resto, state allegri e non perdete la testa!" 

"No!" Merry cominciò a dimenarsi e a combattere per liberarsi, gridando a pieni polmoni. 

"No! Vi prego!! Non portateci laggiù!" E poi disperato, gridò, "Aiuto!! Aiuto!! Siamo qui! Aiuto!!" 

Hum, hah. Hurah hum. La tromba risuonò in lontananza tra gli alberi, e, sebbene il suonatore fosse nascosto dall'ombra e dall'oscurità, Merry riconobbe la sua voce profonda, e un'improvvisa gioia lo invase. 

"Barbalbero!" gridò. Dùrbhak gli mise una mano sulla bocca per farlo stare zitto, ma Merry gli diede un morso. L'orco aveva un sapore orribile e la sua pelle sembrava cuoio mal conciato. 

"Quaggiù! Siamo qui!!" 

"Fate tacere quel ratto, o uccidetelo!" disse Uglùk infuriato.  

Ma nessuno degli orchi prestava attenzione alle urla e alle proteste dello hobbit. Tutti gli occhi erano puntati verso le nebbie, nella direzione da cui veniva la voce che sembrava scuotere le pietre. Uglùk imprecò a bassa voce e gettò la spada. Scrollando le spalle, lasciò cadere Boromir al suolo, poi si fermò e sollevò l'uomo di peso contro il proprio petto, sostenendolo con un braccio. Con la mano libera estrasse il pugnale e con la lama sollevò il mento di Boromir, spingendo la testa dell'uomo all'indietro, nell'incavo della sua spalla. 

L'Ent arrivò a grandi passi nella radura, materializzandosi improvvisamente dalle nebbie della tetra foresta, e gli orchi indietreggiarono pieni di paura. Solo Uglùk restò dov'era, e mentre i grandi occhi verdi e profondi lo studiavano, premette la lama del coltello contro la gola di Boromir, con un sorriso crudele. 

"Io sono Uglùk, capitano dei guerrieri Uruk-hai. Sta' indietro, demone-albero, o l'uomo morirà ". 

"Hum hum, che cosa abbiamo qui? Orchi, è così?" Barbalbero emise un profondo burarùm di disgusto, e guardò Merry pensierosamente. "Mi era parso di sentire la tua voce, Merry." 

"Ci hanno trovato nei sotterranei e ci hanno presi in ostaggio. Ti prego, Barbalbero, non lasciare che ci portino nella foresta! Gli Ucorni…" 

"Calma". Barbalbero lo interruppe con una sola, rombante parola. Quando Merry tacque, si rivolse nuovamente all'orco. 

"Non puoi lasciare questa radura vivo, orco. Consegnaci l'uomo e lo hobbit, e ritorna dal tuo padrone a Isengard. Forse lui sarà clemente con voi. Io non lo sarò". 

Uglùk fece scorrere lo sguardo attorno la radura con intenzione. "Ho una dozzina di soldati forti, armati di asce e spade. Dov'è l’esercito col quale vorresti  minacciarmi?" 

"Tutto attorno a te. Guarda gli alberi che hai mutilato e massacrato, e vedrai il mio esercito. L'hobbit dice il vero. Non potete passare vivi attraverso la foresta". 

Uglùk si agitò nervosamente e guardò l'oscuro muro di alberi che lo circondava. Aveva sentito che c'era qualcosa che non andava in quella foresta fin da quando vi aveva messo piede, e non dubitava delle parole di Barbalbero. Sentiva il fiato gelido della morte soffiargli sul collo.

"Sono solo alberi," insistette. "Ne ho abbattuti a centinaia come quelli". 

"Non ne dubito. Ecco perché stanotte tu morirai in mezzo a loro". 

L'orco si inumidì le labbra nervosamente. "Loro rispondono ai tuoi ordini? Se tu…se tu ci dai il permesso di passare, potremo farlo indisturbati?" 

"Se io vi do il permesso, ma non lo farò”. 

"Nemmeno per la vita di questo piccolo ratto, qui, a cui sembri tenere così tanto?" Disse, indicando con un cenno Merry. 

"Hm hum." Barbalbero osservò l'orco per un momento, considerando le sue parole.  

"La vita dello hobbit per un salvacondotto fino alle montagne". 

"No!" Esclamò Merry. "Io andrò con Boromir! Se prendono lui, prendono anche me!" 

Barbalbero volse i suoi occhi senza fondo su Merry, e allo hobbit parve di vedere una risata nella loro profondità scintillante. "Sembra che io non abbia scelta. L'hobbit ha deciso per tutti noi". 

"E se…" Uglùk esitò, riluttante a dire le parole che sapeva doveva dire. "…se vi consegno anche l'uomo?" 

"Hum, ora…questa è un'altra cosa. Tutta un'altra cosa". 

Ora fu la volta dell'Ent di meditare e di ponderare una difficile scelta. Il suo sguardo si spostò dall'orco all'uomo e poi allo hobbit, e rombò per lo scontento. Infine, sollevò lo sguardo solenne su Uglùk e disse, "Siamo d'accordo. Consegnateci i prigionieri e le asce, e né Ent né Ucorni vi faranno del male questa notte". 

"Come può un Uruk-hai fidarsi della parola di un demone-albero?"

Barbalbero emise un minaccioso Hum hum e sembrò improvvisamente diventare più alto nell'oscurità.  

"Io, Fangorn, capo degli Ent, Pastore degli alberi, la più antica di tutte le creature viventi che camminano sulla Terra di Mezzo, non tollererò insulti da un…buràrum…da un ripugnante orco. Se do la mia parola la mantengo, ma guai alla creatura che viene meno ai suoi patti con me". 

Uglùk lo fissava con evidente terrore, ma non avrebbe mai ammesso la sua paura. Con un cenno secco del capo, ordinò alla sua truppa di gettare le armi. Le pesanti asce caddero rumorosamente ai piedi di Barbalbero. Poi ordinò a Durbhàk di lasciare andare Merry.

L'orco lo lasciò come se fosse stato un tizzone ardente, e Merry corse attraverso la radura per mettersi al riparo sotto i rami di Barbalbero. Si strinse al tronco dell'Ent guardando gli orchi con la paura che gli attanagliava la gola. 

"Ora l'uomo", disse Barbalbero. 

"Solo quando vedrò il sentiero libero davanti a me". 

In risposta, Barbalbero sollevò le mani alla bocca e fece echeggiare un richiamo attraverso gli alberi. Merry non vide gli Ucorni muoversi. Erano troppo ben nascosti nella nebbia e tra le ombre della notte. Ma udì il loro fruscio come di foglie mosse da un forte vento, e vide la nebbia volteggiare e muoversi al loro passaggio. Lentamente, comparì un buio sentiero. Si dirigeva a nord, stretto tra gli alberi, verso i piedi delle montagne e la salvezza degli orchi. 

Uglùk continuò ad osservare, cercando una qualche trappola, ma vide solo il sentiero buio, gli alberi ai lati, e la fredda nebbia che li avvolgeva. Con un cenno di approvazione, abbassò il pugnale. 

"Passaggio sicuro". 

"Solo per questa notte. Se tu o chiunque altro della tua razza rimettete piede nella valle dello stregone, incontrerete il destino che avete scampato stanotte". 

Uglùk annuì di nuovo, e lasciò la presa su Boromir. L'uomo cadde inerte sull'erba ai suoi piedi. Poi, con sorpresa di Merry, l'orco rivolse a Barbalbero un saluto, e condusse la sua truppa tra gli alberi. L'oscurità li avvolse, e Uglùk scomparve.

 

*** *** ***

 

Merry sedeva accanto all'uomo disteso a terra come aveva fatto nel sotterraneo di Isengard, immobile, vigilante, piangendo silenziosamente. Non si muoveva, se non per passare lo straccio sulle labbra di Boromir, pulendole dal sangue che di tanto in tanto gli sgorgava dalla bocca. Non faceva caso alle lacrime che gli bagnavano le guance sporche. 

Nelle oscure ore trascorse nella fortezza di Saruman, Merry aveva ingenuamente pensato che il salvataggio dei suoi amici avrebbe posto fine al tormento dell'attesa. Aveva pregato che Gandalf e gli altri arrivassero, per portare al sicuro i prigionieri e mettere fine all'orrore. Non aveva pensato, nella sua innocenza, che l'orrore era appena cominciato, e che il salvataggio era solo il primo passo di una lunga, faticosa strada. Solo ora si rendeva conto del suo errore. 

Barbalbero li aveva lasciati in quel luogo solitario, lontani dalla battaglia, e poi era sparito di nuovo gettandosi in mezzo alla marea di Ent, Uomini, Cavalli e orchi che si muovevano e gridavano attorno alle mura di Orthanc. Quanti minuti o ore fossero trascorsi da quel momento Merry non lo avrebbe saputo dire. Il tempo si trascinava indistinto, e per misurarlo non aveva che il battito affannoso del suo cuore, e i mormorii sconnessi e sofferenti dell'amico. 

Boromir si mosse di nuovo, tossendo. In mezzo a una boccata di sangue sussurrò un nome familiare. "Aragorn…"  

Era l'unica parola che Merry era riuscito a riconoscere in mezzo ai suoi deliranti mormorii. L'hobbit avrebbe desiderato dal più profondo del cuore che il Ramingo fosse lì per tranquillizzare Boromir, ma non sapeva dove fosse. Tutto ciò che sapeva lo aveva udito da Barbalbero, che per ingannare gli orchi aveva detto che Aragorn era vivo e che era uscito dai sotterranei. Ma Merry non poteva né portarlo da Boromir, né alleviare il dolore che tormentava il suo amico o curare le sue orribili ferite. L'unica cosa che poteva fare era offrirgli un poco di conforto nella notte solitaria. 

Come aveva già fatto innumerevoli volte, Merry si chinò su Boromir e disse, "Aragorn è al sicuro". Asciugò un altro rivolo di sangue, mormorando, "Non temere, lui è qui. È al sicuro, te lo prometto". 

Merry era così intento al suo compito che non si accorse della piccola figura che correva rumorosamente verso di lui. Era curvo su Boromir, e gli parlava con voce sommessa, quando improvvisamente qualcosa lo investì e lo fece rotolare di lato. Il momento successivo si trovò sdraiato nell'erba, guardando il viso sorridente di Pipino. 

"Merry! Merry, vecchio mio! Ti ho cercato dappertutto!" 

"Pipino!" Merry si rialzò faticosamente abbracciando il cugino, mentre entrambi piangevano senza vergogna. "Allora è proprio vero! Ce l'hai fatta!" 

"Tutti ce l'abbiamo fatta! Anche se, non posso negarlo, ho avuto i miei dubbi. Se Éomer non mi avesse portato per l'ultimo tratto, avrei dovuto farlo a nuoto!" La luce svanì dai suoi occhi, e aggiunse, in tono grave, "Quando abbiamo trovato la cella vuota, ho pensato…" 

"Anch'io l'ho pensato". Merry sorrise mestamente. "Ma non parliamo di questo, ora". 

"Ecco". Pipino frugò tra le pieghe del suo mantello ed estrasse un oggetto familiare, che gettò tra le mani di Merry. "L'ho trovata sul pavimento e ho pensato che avresti potuto averne ancora bisogno. O almeno lo speravo". 

"Grazie Pip". Merry strinse al petto la spada scintillante, pieno di gratitudine e sollievo. Non si era accorto di quanto fosse importante quella spada per lui fino a quando non l'aveva creduta perduta per sempre. "Grazie". 

In quel momento, Gandalf arrivò a grandi passi, inginocchiandosi accanto a Boromir. Lanciò un veloce sguardo a Merry e gli sorrise. 

"Ben trovato, Mastro Brandibuck. E ben fatto!" 

Merry si sentì arrossire, grato di essere nascosto dall’oscurità. "Come sta Grampasso?" chiese. 

"Si riprenderà in fretta. Le sue ferite erano più della mente che del corpo, temo, il che significa che la guarigione sarà lunga. Ma il suo corpo guarirà presto". 

"E…e Boromir?" 

Gandalf guardò l'uomo davanti a lui con occhi stanchi, velati. "Aiutami ora, Mastro Brandibuck, e vedremo". 

Seguendo le istruzioni di Gandalf, Merry sollevò Boromir per le spalle e lo fece coricare sulla schiena. Lo hobbit cercò di ignorare i visibili tremiti di dolore che scuotevano il corpo dell'uomo, e i deboli suoni agonizzanti che uscivano dalla sua gola insieme al sangue, ma, quando lo stregone gli disse di restare fermo, le lacrime avevano ripreso a bagnargli il viso copiose. Merry si accovacciò accanto a Boromir, sostenendogli la testa, mentre Gandalf gli posava una mano sulla fronte e l'altra sul petto. Un senso di attesa silenziosa riempì l'aria, e Merry non osava guardare il viso di Gandalf per paura di leggervi la conferma dei suoi timori. 

Finalmente, lo stregone diede un lungo sospiro, e sollevò gli occhi opachi per la stanchezza e il dolore, incontrando lo sguardo di Merry.  

"Saruman è cresciuto molto in malvagità…più di quanto credessi". 

"Ti prego, Gandalf…" 

"Usare uomini valorosi per i suoi scopi malvagi. Distruggerne uno per tormentare l'altro. Infliggere sofferenza per la sola gioia di vedere il dolore nel viso di un'altra creatura. È la più orribile corruzione dello spirito". 

"Deve pur esserci qualcosa che tu possa fare", implorò Merry. 

"C'è sempre qualcosa che io posso fare," rispose, con la sua solita asprezza. "Non temere, Merry. Non vedo ferite mortali. Un po' dell'elisir curativo di Barbalbero, un mantello per tenerlo caldo…" 

"Ma…" 

"Tienigli la testa. Gli faremo bere un po' di questo. Gli Ent giurano che sarebbe in grado di fare rivivere persino un albero fatto a pezzi dalle asce degli orchi". 

Mentre parlava, Gandalf aprì una piccola fiaschetta di legno e versò un chiaro liquido nella bocca di Boromir. L'uomo tossì, mandando la maggior parte del liquido a scorrere lungo il suo mento, ma riuscì a inghiottirne a sufficienza da soddisfare il mago. Poi, con mani sorprendentemente abili e gentili, Gandalf gli fece appoggiare la testa sul giaciglio, e sfiorò con le dita la benda livida che gli copriva gli occhi. 

"Riposa, ora, figlio di Gondor. Non pensare più a spade, battaglie e sotterranei. Riposa, e guarisci". 

Merry chinò la testa per nascondere le sue lacrime allo stregone. 

Con sua sorpresa, Gandalf non accennò ad andarsene, anche ora che il suo compito immediato era finito. Rimase chinato davanti a Merry, con Boromir che giaceva tra loro, e posò una mano sulla spalla di Merry. 

"Cosa c'è, Merry?" 

"Stavo pensando". 

"A che cosa?" 

"A Boromir e a Grampasso e…a quello che hanno fatto a Boromir". Deglutì per sciogliere il nodo che aveva in gola, poi continuò, "Volevano Grampasso. Lo sapevi questo? Ho sentito gli orchi che ne parlavano. Saruman voleva Grampasso, così li ha catturati entrambi e ha torturato Boromir costringendo Aragorn a guardare. E gli altri - Legolas e Gimli - loro piangevano per Grampasso, mentre venivamo qui. Hanno attraversato la foresta per lui, combattuto per lui, portato i Cavalieri e gli Ent, tutto questo, per Grampasso.

Ma quando gli orchi sono arrivati, è stato Boromir a combattere per noi. Quando è crollato il ponte di Moria lui ci ha sollevati e ha saltato con noi oltre l'abisso. Quando la valanga ci ha investiti…" 

"Merry, nessuno di noi dubita del coraggio di Boromir. Noi tutti lo teniamo in grande considerazione, e vorremmo che si potesse cancellare ciò che è stato fatto". 

"Forse. Ma per voi lui è semplicemente il Sovrintendente di Aragorn, il figlio di Denethor, il soldato di Gondor, sempre secondo a qualcosa o a qualcuno". Merry guardò Gandalf con occhi furiosi, pieni di lacrime. "Non per me, Gandalf. Forse non sarà un re, ma è il migliore uomo che io conosca, ed è mio amico, e non è secondo a nessuno". 

"So come ti senti, e ti ammiro per questo". Merry non rispose, ma abbassò gli occhi per nascondere il suo dolore. Gandalf gli strinse la spalla, con calore. "Hai il cuore di un eroe, Mastro Brandibuck". 

"Non sono un eroe", mormorò, asciugandosi il naso con la manica, "Sono soltanto uno hobbit. E noi hobbit restiamo fedeli agli amici". 

"Soltanto uno hobbit". Gandalf rise tra sé e sé. "Soltanto uno hobbit. Oh mio buon Merry. Vorrei che la stessa cosa si potesse dire di tutti noi". 

Stringendo un'ultima volta la spalla di Merry, si alzò in piedi e si tolse il suo lungo mantello, poi lo usò per coprire Boromir.  

"C'è una battaglia da vincere questa notte, e un serpente in trappola a cui bisogna strappare i denti. Devo andare. Ma i Rohirrim stanno raccogliendo i loro feriti per riportarli a Edoras, e voi dovete andare con loro. Resta con Boromir e Grampasso, guarda che siano ben assistiti, e se tutto va bene, ci rincontreremo nel Palazzo d'Oro di Re Thèoden". 

Merry si alzò in piedi rigidamente e abbracciò Pipino, congedandosi. Poi restò a guardare mentre lo stregone e il piccolo hobbit si allontanavano insieme. Verso la guerra. Con un profondo sospiro di stanchezza, Merry si lasciò cadere sull'erba e si raggomitolò per proteggersi dal freddo. I suoi occhi vagavano verso est, lungo il rilievo che segnava la fine delle Montagne Nebbiose. Il cielo sopra di esse era pallido, e si schiariva sotto i suoi occhi, e a quella vista il cuore di Merry si allietò. 

Il mattino era finalmente giunto a Isengard.

 

Continua...

 

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Capitolo 7
*** Bagaglio principesco ***


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Capitolo 7: Bagaglio Principesco

 

“Avanti, mio signore, bevi”.

Boromir si ritrasse dal tocco freddo del metallo sulle sue labbra. Non voleva bere. C'era una voce che disturbava il suo riposo e mani che gli sostenevano la testa, portandogli una coppa alle labbra, impedendogli di muoversi. Nel sonno era protetto dal dolore, dalla frustrazione. Avrebbe voluto continuare a dormire per sempre, ma la voce non glielo permetteva. E ora era sveglio contro la sua volontà, e veniva trattato come un bambino malato. La sua volontà veniva ignorata, e il suo senso di impotenza cresceva ad ogni momento.

“Bevi, poi potrai riposare”.

Sollevò una mano per rifiutare l’offerta. Sentiva il sapore acre del sangue in bocca, e, con voce impastata per la sete, mormorò, “Aragorn”.

“Non preoccuparti per Aragorn”, rispose la voce.

La coppa fu avvicinata alle sue labbra, nonostante tutti suoi sforzi per evitarla, e l'acqua fu versata nella sua bocca. Deglutì solo perché non aveva scelta, notando distrattamente il sollievo che il liquido recava alla sua gola riarsa, lavando via il sapore del sangue.

 “Trovatelo…” riprese, quando fu di nuovo in grado di parlare, “devo trovare Aragorn”.

 “Aragorn è salvo. Non pensare a lui, ora. Devi riposare”.

La voce parlava con un tono calmo, rassicurante, come se dicesse parole già ripetute innumerevoli volte a qualcuno che non le poteva sentire né comprendere. Quella calma non faceva che irritare Boromir ancora di più.

La rabbia gli diede una nuova forza, e quando la coppa toccò di nuovo le sue labbra, spinse da parte la mano che la reggeva, ringhiando, “Lascia stare!”

Ci fu un momento di silenzio, e Boromir ebbe l’impressione di avere spaventato il suo interlocutore. La mano scivolò via da sotto la sua testa. La coppa fu posata con un chiaro tintinnio metallico.

Approfittando di quel momentaneo vantaggio, Boromir si alzò su un gomito, domandando, “Dov’è? Dov’è Aragorn? E…dove mi trovo?”

 “Boromir?”

 La voce aveva perduto tutta la sua calma. Ora vi era in essa qualcosa di simile al panico, e Boromir ebbe l’improvvisa e sconcertante sensazione che avrebbe dovuto riconoscerla.

 “Boromir? Sei davvero sveglio stavolta?”

 “Sì”.

Cercò di alzarsi, ma il suo braccio era stranamente debole, e per poco non cedette sotto il suo peso, mentre la testa cominciò a giragli in modo allarmante. Piccole mani lo afferrarono per le spalle e lo raddrizzarono, tenendolo fermo. Boromir corrugò la fronte, cercando di capire dove si trovava e di collegare un nome a quella voce così misteriosamente familiare.

“Sono sveglio. Oppure…questo non è un sogno, vero? Sono davvero in un…” si guardò attorno, come aspettandosi di vedere attraverso la benda che gli copriva gli occhi, e poi aggrottò la fronte, confuso. “…in un letto?”

“Non è un sogno, e tu sei davvero in un letto”. La voce rise brevemente, ma Boromir poté sentire che era una risata resa aspra dalle lacrime.

“Sei a Edoras, nella casa di Re Théoden”.

Boromir toccò il fine tessuto della sua camicia, poi sollevò la mano per sfiorare la benda. Era pulita e soffice, non più incrostata di sangue e di sporcizia.

“Questa non è Orthanc”, mormorò la voce, “te lo giuro. Sei al sicuro a Edoras, e anche Grampasso è in salvo”.

Quel nome fece scattare qualcosa nella sua mente, e Boromir cominciò a capire. Senza pensare, posò la mano su quella del suo interlocutore, mentre stupore e incredulità si alternavano sul suo viso.

“Merry?” Le sue dita si chiusero attorno alla piccola mano che gli afferrava il braccio, e a quel contatto, seppe che non si sbagliava.

“Merry! Sei vivo!”

Merry singhiozzò, e baciò il dorso della mano di Boromir.

“No, Merry, non farlo!” protestò Boromir.

In risposta, Merry afferrò ancora più forte la mano tra le sue, stringendola al suo petto. Boromir sentì i singhiozzi che scuotevano il piccolo hobbit e le lacrime che gli cadevano sulla mano. La sorpresa cedette il posto alla compassione. “Perché piangi?” domandò dolcemente.

“Sono così felice di sentirti pronunciare ancora il mio nome, che è come una lama conficcata nel cuore. Non sapevo che la gioia potesse fare tanto male”.

Boromir aprì la bocca per parlare, ma non trovò le parole. Ammutolito per lo stupore e l’imbarazzo, sentiva un profondo e insolito senso di gratitudine crescere in lui. Esitando, posò l’altra mano sulla testa di Merry. Sentì i suoi folti riccioli sotto le dita, e per un attimo gli sembrò di rivedere la sua testa arruffata davanti a lui, mentre si arrampicavano insieme lungo una ripida montagna.

“Sono io che sono felice di sentire la tua voce, piccoletto,” mormorò.

“Ti ho creduto perduto ad Amon Hen. Come puoi essere qui?”

Merry sollevò la testa, e tirò su col naso in modo piuttosto prosaico.

“Ti abbiamo seguito. Abbiamo dato la caccia agli orchi attraverso Rohan, fino a Isengard. Non potevo…non potevo lasciarti morire, sapendo che eravamo fuggiti, che ti avevamo abbandonato. Per come la vedo, io e Pipino te lo dovevamo”.

Boromir sorrise a quell’ultima osservazione.

“Allora anche Pipino è qui?”

“Era qui. Ora è andato a Minas Tirith con Gandalf”.

Ancora una volta la sorpresa fece restare Boromir senza parole. Doveva apparire piuttosto ridicolo, a bocca aperta davanti allo hobbit, poiché Merry ridacchiò e disse, col tono più indifferente del mondo, “Ho dimenticato di dirti che Gandalf è vivo?”

Boromir richiuse di scatto la bocca, e gentilmente, ma con fermezza, rimosse la sua mano dalla stretta di Merry. “Non scherzare con me, mezzuomo. Non sono nelle condizioni giuste per i tuoi scherzi”.

“Non è uno scherzo”, assicurò Merry, con serietà, “non scherzerei mai su una cosa del genere. È solo che sembravi così…così…”

“Ridicolo?”

“Colto di sorpresa”.

Boromir sorrise, sentendo di nuovo il calore e l’allegria che gli hobbit portavano ovunque con loro. Persino ora, dopo tutto quello che era accaduto, non poteva ascoltare le facezie di Merry senza immaginarsi la scintilla giocosa nei suoi occhi, e improvvisamente gli venne voglia di ridere.

“Non ho capito nulla di tutto ciò”, disse, “E comincio a pensare che la ragione mi abbia abbandonato. Ma sono grato che tu sia qui con me, Merry. Più grato di quanto non possa esprimere!”

“E dove altro potrei essere?” Chiese Merry, con la voce ancora rauca per il pianto.

“Sulla via per Mordor, con Frodo. Oppure anche lui è qui?” Mentre ancora parlava, Boromir provò un brivido di colpevole eccitazione al pensiero che l’Anello potesse essere ancora vicino a lui. Eccitazione che fu subito seguita dal consueto senso di profonda vergogna.

“Frodo è andato a Mordor”.

“Da solo?”

“Sam è andato con lui”.

“Loro due soli. Due hobbit nella Terra Oscura da soli”.

“Frodo ha voluto così”.

Boromir scosse la testa lentamente, sperando che ciò che aveva sentito non fosse vero, e desiderò tornare in dietro a quel fatidico giorno, accanto al Grande Fiume, per annullare la sua terribile azione. Provava rimorso per il suo tradimento, che aveva portato Frodo ad abbandonare la Compagnia e a proseguire da solo senza guida e difensori, provava vergogna per quel desiderio persistente che ancora gli avvelenava il cuore, e disperazione per la rovina che sarebbe venuta, quando il Nemico avrebbe ripreso ciò che era suo.

“Non era quello che voleva”, disse Boromir, cupo.

“Io l’ho visto partire, Boromir. Ha scelto lui di andarsene”.

Raccogliendo tutto il suo coraggio, Boromir sollevò il mento con orgoglio, e disse la verità senza mezzi termini, preparandosi ad affrontare il disprezzo dello hobbit.

“Sono stato io a costringerlo a quella scelta. Ho cercato di prendere l’Anello”.

Per un lungo momento Merry non disse nulla, e Boromir sentì la paura attanagliargli le viscere. Soltanto due settimane prima non avrebbe creduto possibile temere a tal punto di perdere la fiducia e l’affetto di Merry, ma ora, con solo la sua voce e le sue piccole mani tra lui e la vasta oscurità, trovava il pensiero quasi insopportabile. Eppure non avrebbe taciuto la verità, non avrebbe aggiunto la menzogna o la codardia alla lista delle sue colpe.

Quando Merry finalmente parlò, sembrava triste, più che indignato.

“Non gli hai fatto del male, vero?”

“No, non l’ho fatto. Ma se lo avessi preso…”

“Non l’hai fatto. Io so che tu non avresti potuto fargli del male”.

“Merry, io ho attaccato il tuo amico, ho tradito la Compagnia, ho cercato di prendere l’Anello con la forza. Non puoi sapere che cos’altro potrei avere fatto”.

Una mano si strinse attorno al suo avambraccio, interrompendo la sua protesta, e la voce di Merry lo raggiunse, bassa e ruvida per il dolore, ma piena di sicurezza.

“Non pretendo di capire il potere dell’Anello, Boromir, ma di questo sono sicuro. Tu ci hai protetti, difesi, e ti sei preso cura di noi fin dal giorno in cui ci siamo incontrati. Ho perso il conto di tutte le volte che tu ti sei messo in mezzo tra me e la morte. Non crederò mai che tu ci possa tradire o fare del male volontariamente”.

“Eppure l’ho fatto, e non posso dare la colpa solo all’Anello. È il mio cuore che è stato spinto alla violenza e al tradimento. Mio è il peso della colpa”.

Merry tacque un istante, poi disse, semplicemente, “E mia è la scelta di perdonare l’errore di un amico”.

Boromir chinò la testa per sottrarsi agli occhi di Merry. Non riusciva a capire perché i suoi compagni potessero perdonarlo - prima Aragorn, e ora Merry - ma durante gli ultimi giorni, dopo essere passato attraverso tante prove e sofferenze, aveva capito quanto fosse importante per lui la loro amicizia, e quanto tenesse al loro perdono. E in quel momento di limpida felicità, gli sembrò quasi di essere di nuovo integro, guarito, sia nel corpo che nello spirito, semplicemente grazie all’affetto di uno hobbit.

“Sembra che tu stia per svenire”, disse Merry.

Boromir scosse la testa.

“Faresti meglio a sdraiarti. Non avrei dovuto tenerti alzato a parlare così a lungo”.

“Merry, io…”

“No. Entrambi abbiamo detto anche troppo”. Strinse il braccio di Boromir per scusarsi, poi, allegramente, continuò, “Se non ti comporti bene, mi accuseranno di farti stancare e mi bandiranno dalla tua stanza. E allora chi sarà qui per sopportare il tuo caratteraccio?”

“Sono stato così terribile?” chiese Boromir remissivamente, lasciandosi scivolare di nuovo sul cuscino, obbedendo al suggerimento di Merry.

“Una maledetta seccatura”.

Boromir si lasciò sfuggire un sorriso ironico. “Povero Merry. Se  ti prometto di comportarmi bene, resterai qui a parlare con me?”

“Non hai già parlato abbastanza per oggi?”

“No, voglio sapere tutto quello che è successo da quando siamo stati catturati dagli orchi. Evidentemente devo essermi perso un bel po’”.

“Sei stanco, e…”

“Non sono stanco”, mentì “e non dormirò finché non saprò tutta la storia”.

Rassegnato, Merry sospirò e si sedette sul bordo del letto. “D’accordo allora, se ti farà stare tranquillo”.

 

 

Il racconto fu lungo. Merry sedeva a gambe incrociate sul letto, con la mano di Boromir posata sul ginocchio in un gesto di fiducia che gli aveva fatto venire le lacrime agli occhi, e parlò fino a quando la voce non gli divenne roca. Boromir rimase tranquillo, anche durante i momenti peggiori, e Merry traeva coraggio dalla sua apparente calma. L’orrore, il dolore e la paura che aveva provato erano ancora freschi nella sua mente, ma uno sguardo al viso di Boromir gli ricordò il perché li aveva sopportati e cosa era riuscito a fare.

Scoprì che raccontare alleviava in parte la sua angoscia, ma scoprì anche che molte cose non riusciva affatto a condividerle. Non disse nulla del senso di colpa che lo aveva tormentato per tutto il lungo, infruttuoso inseguimento attraverso Rohan, e sorvolò sull’orrore della sua veglia solitaria nella cella di Boromir, sforzandosi di ridere e negando i ringraziamenti di Boromir.

Non gli sembrava più necessario parlare di queste cose, ora che Boromir era stato trovato e salvato da Isengard. L’unica cosa che restava, l’unica cosa che rimaneva, era la promessa che aveva fatto a se stesso e al suo amico.

Quando fosse venuto il momento, avrebbe parlato a Boromir di quella promessa, ma non ancora. Non finché il soldato, ancora debole per le sue ferite, l’avesse potuta accettare come un gesto d’amore e di rispetto, invece che di pietà.

Anche di Pipino e del palantìr non disse nulla. Spettava a Pipino raccontare quella storia, o non raccontarla, se meglio credeva. E, sorvolando su quella parte della storia, fu lieto che Boromir non chiedesse il motivo per cui Pipino era andato a Minas Tirith con Gandalf invece che restare coi suoi compagni.

Stranamente, dopo tutti i pericoli e le difficoltà che aveva superato, era di Théoden che Merry parlava più a fatica. Quando tentò di parlare a Boromir della sua amicizia con l’anziano sovrano e del voto di fedeltà che gli aveva fatto, le parole gli morirono in gola. Pensò al sorriso gentile di Théoden, alla sua generosità verso un hobbit solo e spaventato, e provò una fitta di rimorso. Perché per quanto lo volesse, Merry non poteva negare che ora rimpiangeva il suo voto.

Lo aveva fatto nelle profondità della solitudine e della disperazione, quando temeva che tutti i suoi sforzi fossero stati vani, quando Pipino se ne era andato e Boromir era perso in un sogno oscuro che sembrava volesse tenerlo prigioniero per sempre. Merry aveva seduto, sconsolato, alla tavola del re, ascoltando i soldati che parlavano di una guerra che lui non avrebbe potuto combattere, e aveva  avuto un brivido, pensando che Pipino era andato verso il cuore dell’oscurità e che presto anche Aragorn lo avrebbe seguito. Théoden gli aveva messo un amano sulla spalla, sorridendo, e gli aveva chiesto di parlare della Contea per rallegrare gli animi. E Merry aveva pianto per la sua inaspettata gentilezza.

Avevano seduto per ore insieme - lo hobbit e il re - parlando di molte cose. La Contea, l’erbapipa, i giardini, e la cultura degli hobbit. Per un po’ Merry aveva dimenticato le pene che lo affliggevano. E quando Théoden gli aveva messo una mano sulla testa e gli aveva sorriso, Merry aveva pensato che non avrebbe potuto fare cosa migliore che offrirsi come scudiero al re. E quel che era peggio, era che ora avrebbe voluto ritirare quel giuramento e offrirlo a un altro, che ne aveva tanto poco bisogno quanto il primo.

Inciampando nelle sue parole, si stava perdendo in un contorto tentativo di spiegare le ragioni per quello che aveva fatto, quando Boromir lo interruppe.

“Hai una grande stima per il Signore del Mark”, disse.

“Lui…mi ha parlato con gentilezza. Mi ha offerto un seggio accanto a lui alla sua tavola e ha ascoltato i miei racconti sulla Contea. Non avevo mai incontrato un re, prima…”

“Eccetto Aragorn”.

“Re Théoden è diverso. È come un anziano padre gentile”.

Esitò, poi aggiunse, “Sono suo servitore. Gli ho giurato fedeltà, a lui e al Mark”.

Boromir rispose, con serietà, “Théoden è un uomo buono e valoroso, un saggio governante, e un amico leale. Non avresti potuto scegliere signore migliore da servire”.

Il viso di Merry si imporporò, e chinò la testa, mormorando, “Sono orgoglioso di indossare l’insegna del cavallo bianco di Rohan, ma avrei preferito che fosse l’Albero Bianco di Gondor. Se avessi saputo…se avessi pensato…” deglutì con difficoltà e mormorò, “Preferirei essere tuo scudiero, invece che del re”.

Boromir rimase in silenzio per un po’, meditando le sue parole, poi parlò, molto tranquillamente.

“Ne sarei onorato, Merry, ma ora non ho alcun bisogno di vassalli”.

“Quando tornerai a Minas Tirith, non sarai Sovrintendente?”

“Un giorno. Forse. Se mai rivedrò Minas Tirith di nuovo”.

“Aragorn ti manderà a chiamare, quando la città sarà sicura. L’ho sentito mentre lo diceva a Théoden”.

“Lui farà cosa?” Nella voce di Boromir c’era un tono che colse Merry alla sprovvista.

“Ti lascerà qui, alle cure di Rohan, finché non avrà portato il suo esercito a Minas Tirith e scacciato il nemico dalle terre di Gondor. Poi tu arriverai e lo aiuterai a progettare per bene la guerra. Théoden aveva suggerito che tu restassi qui fino a quando la guerra non sarà vinta, ma Aragorn ha fatto notare che…beh, è molto probabile che la guerra non sarà vinta, e che avrà bisogno di tutto l’aiuto possibile, specialmente da parte del Capitano-Generale di Gondor, se dobbiamo resistere a lungo contro Mordor…Boromir, che cosa stai facendo?”

Boromir si alzò a sedere e spinse indietro le coperte. “Che esercito condurrà? E quando partiranno per Minas Tirith?”

“Non sono sicuro. Hanno detto un mucchio di cose senza senso riguardo a vecchi poemi e voti spezzati e…qualcosa chiamato Sentieri dei Morti. Ha i suoi Raminghi con lui, e i figli di Elrond. Evidentemente pensano che dovrà andare per questi sentieri o arriverà a Minas Tirith troppo tardi per la battaglia”.

Stette a guardare, mentre Boromir gettava via le coperte e scendeva dal letto.

“Non vorrai andare a cercare Aragorn!”, gridò.

“Invece sì”.

“Devi restare a letto e riposare. Gandalf è stato inflessibile”.

“Gandalf non è qui, e io non sono soggetto ai suoi ordini. Hai intenzione di portarmi da Aragorn, oppure devo vagare per Meduseld da solo fino a quando non gli inciampo addosso?”

Merry sospirò e scese dal letto. Avrebbe dovuto stare più attento a quello che diceva, ma era ormai troppo tardi.

“Lascia almeno che ti trovi dei vestiti”, disse mestamente. “Non puoi andare a chiedere di farti uccidere in camicia da notte”.

 

*** *** ***

 

Aragorn era seduto sul letto, appoggiato a un mucchio di cuscini, flettendo con cautela la sua gamba ferita. Gli doleva terribilmente, e la debolezza dei muscoli danneggiati lo preoccupava, poiché sapeva che il giorno dopo avrebbe dovuto essere in grado di cavalcare. Ma non era né il dolore né la preoccupazione a causare l’espressione accigliata del suo viso.

“Sarai pronto, Aragorn, non temere. Il tuo tempo è giunto, finalmente. L’Erede di Isildur cavalcherà con i Dúnedain alle sue spalle, e rivendicherà il suo diritto di nascita”.

Aragorn osservò in modo pensieroso l’uomo alto, vestito di grigio, che aveva parlato. “Sì, Halbarad. Cavalcherò.” Non disse il resto del suo pensiero - che doveva cavalcare, che il suo tempo fosse giunto oppure no, perché la guerra non avrebbe aspettato le sue ferite, o i suoi dubbi.

I suoi occhi corsero allo stendardo arrotolato contro il muro, poi al piccolo oggetto coperto da un panno e alla spada nel fodero appoggiata al tavolo accanto ad esso. Lo stendardo del Re, il palantír e la spada di Elendil. Erano i simboli della sua eredità, le armi che lo avrebbero portato al trono, e la loro presenza in quel luogo, insieme alla truppa dei Dúnedain, ricordava ad Aragorn che il destino non gli lasciava molto tempo. Dopo innumerevoli anni di vagabondaggi e di esilio, di attesa e di vigilanza, combattendo l’Ombra da quella stessa ombra che era dentro di lui, Aragorn, figlio di Arathorn, avrebbe cavalcato verso Gondor.

Una fitta lo scosse, e guardò di nuovo il viso del suo consanguineo. Halbarad era il suo compagno d’armi, un uomo di cui si fidava come della sua stessa spada. Avevano combattuto per i grigi anni insieme, e non c’era nessun altro che avrebbe voluto avere al suo fianco, in quell’ora decisiva. O così aveva creduto.

Come evocato dalla sua muta richiesta, un bussare leggero risuonò alla sua porta, e due figure entrarono nella stanza, entrambe vestite semplicemente in verde e bianco, i colori della casa di Théoden, ed entrambi terribilmente familiari nonostante gli abiti insoliti. Si fermarono subito dopo l’ingresso, il loro cammino ostacolato da Halbarad. Aragorn sollevò lo sguardo, sorpreso, e nell’attonito silenzio Boromir disse,

“Vorrei parlare con te, Aragorn, da solo”.

Il tono risoluto della sua voce fece capire ad Aragorn che quello non era il momento per le presentazioni o per i convenevoli. Con uno sguardo veloce ad Halbarad, fece un cenno verso la porta. Il Ramingo chinò la testa, obbediente, e scomparve oltre la porta, senza fare alcun rumore sul pavimento di pietra mentre camminava.

“Siamo soli”.

“Ti ringrazio”.

“Sono felice di vederti, Boromir”. Aragorn si rese conto di quanto questo fosse riduttivo, ma, dato che nessuno dei due era incline a grandi discorsi, sarebbe bastato.

“Avrei voluto che Merry mi dicesse che eri sveglio”.

“Non gliene ho dato il tempo”.

“È vero”, confermò Merry, “non l’ha fatto”.

Aragorn sorrise allo hobbit, poi si rivolse di nuovo all’uomo che stava in piedi accanto a Merry, con una mano posata delicatamente sulla sua testa.

“Come stai?”, chiese Aragorn, sorridendo di autentica gioia.

“Abbastanza bene. E tu?”

Aragorn rise sommessamente e tese la mano verso l’altro uomo.

“Conosci la risposta. Vieni, siediti accanto a me, Boromir, ti prego”.

Boromir rimase in piedi presso la porta, con un’espressione tesa e impenetrabile, finché Merry non lo guidò verso il letto. Boromir lo seguì. Lo hobbit rivolse ad Aragorn un sorriso supplichevole. “Avrei da fare nelle cucine, e voi non avete bisogno di me, ora, vero?”

“Non è per caso l’ora della seconda colazione, Mastro Brandibuck?” 

“Infatti”. Lanciando uno sguardo a Boromir aggiunse, “Sarò a portata di voce, se avete bisogno di me…per qualsiasi cosa”.

Boromir indicò la porta con un cenno, e disse, “Vai pure, Merry. Sembri affamato”.

“Sono sempre affamato!” Lo hobbit si affrettò fuori dalla stanza, fermandosi per chiudere delicatamente la porta dietro di lui.

Aragorn osservò l’amico, trovando le tracce del dolore e della debolezza ancora evidenti sul suo viso, e capì che quello non sarebbe stato un incontro piacevole. Battendo con la mano sul letto accanto a lui, disse, “Siediti”.

Obbedendo, Boromir si sedette sul bordo del letto, e Aragorn continuò, cordialmente, “Non sei venuto qui solo per chiedermi come sto, non è vero?”

Boromir scosse la testa, con le labbra serrate e un’espressione grave sul volto.

“Perché, allora?”

Boromir non ripose neanche stavolta. Appoggiandosi coi gomiti sulle ginocchia, intrecciò le dita posando il mento sulle mani, mentre il suo sguardo bendato sembrava fissare il muro di fronte a sé, e il suo viso era contratto per il dolore.

“Andiamo, Boromir. Dopo tutto quello che abbiamo passato insieme, non possiamo parlare con sincerità?”

“Sì”, rispose Boromir, sommessamente.

“E allora dimmi che cosa ti turba.”

“Lascerai Edoras”.

Aragorn si agitò, a disagio. “Sì. Domani”.

“Per andare a Minas Tirith”.

“Non per la via diretta, e non è affatto sicuro che raggiungeremo la Città Bianca”.

Boromir chinò il capo per un momento, appoggiando la fronte alle sue mani intrecciate. Poi si sollevò e si voltò direttamente verso Aragorn.

“Non mi importa quale strada prenderai. Andrai a Minas Tirith, verso la guerra”.

“Sì”.

“Speravi di andartene senza dirmelo?”

“Sperarlo? No, non lo speravo, lo temevo. Eri in condizioni gravissime, e non potevo fare nulla per aiutarti. Ma non potevo ritardare la partenza”.

“Non ne avrai bisogno. Sono pronto a cavalcare con te oggi, per ogni strada che indicherai. Ora, guardami e dimmi che andrai a Minas Tirith senza di me”

“Devo”.

Boromir contrasse il viso in una smorfia di dolore, poi si ritrasse dallo sguardo di Aragorn.

“Per tutti i giorni oscuri del nostro viaggio, avevo pensato di essere un uomo morto. Poi mi sono svegliato, qui, e ho scoperto che mi era stata restituita la vita. E in un momento di vana follia, ho pensato che forse mi era stata offerta una seconda possibilità. La possibilità di stessere accanto al mio Re quando avrebbe posto la corona di Gondor sul suo capo”.

“Non c’è nessun altro che vorrei al mio fianco”, disse Aragorn.

“Eppure andrai a Minas Tirith senza di me”. Aragorn non rispose, e le spalle di Boromir si curvarono visibilmente sotto il peso del suo dolore.

“Tu mi hai fatto un giuramento, Aragorn, e io ti ho preso in parola. Tu dicesti che io sarei stato il tuo Sovrintendente, e io ti ho creduto”.

Aragorn ebbe un involontario sussulto di dolore. “E ora dubiti di me?”

“Non voglio farlo. So che sei un uomo d’onore, un uomo degno di essere il mio re e il re di Gondor, ma…”

Esitò, e Aragorn lo incalzò. “Parla liberamente”.

“Tu ora vai a Minas Tirith e alla guerra, ma mi lasci indietro. Dici che mi vuoi come tuo Sovrintendente, ma non ti fidi di me abbastanza per avermi al tuo fianco. Come posso essere un Sovrintendente, come posso servire il mio Re e il mio popolo, se non sono degno di combattere per loro nel momento del maggior pericolo?”

Aragorn sospirò, lentamente, e stancamente appoggiò la testa all’indietro, contro i cuscini. Con le palpebre semi-socchiuse studiò il viso di Boromir, e un nodo di dolore gli attanagliò lo stomaco. Sapeva che avrebbe dovuto far male al suo amico, ferire il suo orgoglio di soldato tanto gravemente quanto una spada avrebbe potuto ferirgli il corpo, ma saperlo non lo rendeva certo più facile. Per quanto sapesse che non aveva altra scelta, Aragorn si sentiva come se stesse tradendo la sua fiducia.

Raccogliendo tutto il coraggio che riuscì a trovare, Aragorn parlò.

“Proprio perché voglio che tu viva per servire me e il nostro popolo, non ti porterò con me in un pericolo sconosciuto”.

Boromir non disse nulla, restando immobile col viso rivolto al pavimento.

“Non è quello che voglio, Boromir, ma è ciò che devo fare. Se potessi seguire il mio desiderio, cavalcherei insieme a te verso la gloria o la morte, o qualunque destino ci attenda. Ma tu sai che non ho questa libertà. Nei sotterranei di Isengard hai capito le scelte che deve fare un re. Perché non puoi capirle ora?”

Ancora una volta, Boromir posò il mento sulle mani. Rimase immobile, lasciando Aragorn a domandarsi se aveva saputo trovare le parole giuste per alleviare quel terribile colpo. Boromir doveva credergli, altrimenti tutta la fiducia tra di loro sarebbe andata perduta, e il figlio di Gondor sarebbe caduto ancora una volta nella disperazione. Aragorn non poteva sperare di riuscire a salvarlo una seconda volta.

Ci volle un po’ di tempo, prima che Boromir parlasse di nuovo. Quando lo fece, non si mosse né alzò la testa, ma il suo tono era di nuovo calmo e pensieroso, senza più traccia della rabbia di prima.

“Mi sembra di stare ancora sognando”, mormorò, “O di essere impazzito. Com’è possibile che da Isengard siamo giunti a Edoras? Com’è possibile che siamo vivi e liberi? Tutto ciò non sembra reale”.

“Neanche a me sembra reale, anche se sono stato sveglio per tutto il tempo”.

“Sento ancora la voce di Saruman, come un veleno nelle mie orecchie. Ogni volta che stendo la mano ho paura di toccarlo. Mi perseguita”.

“Hai appena cominciato a liberarti da quel veleno. Ci vorrà tempo per guarire”.

Boromir scosse la testa lievemente. “Non guarirò. Non questa volta. Tu…tu sai che cosa mi ha offerto, Aragorn?”

“Sì”.

“Era come se tenessi di nuovo l’Anello in mano, sentendo le sue promesse”.

Boromir rabbrividì, e si coprì il volto con le mani. “Le sento ancora adesso”.

La compassione oscurò lo sguardo di Aragorn, serrandogli il cuore in una morsa.

“Mi dispiace, Boromir. Vorrei potere farle tacere”.

“Niente e nessuno può farlo”. Boromir sollevò la testa e lasciò ricadere le mani, permettendo così ad Aragorn di vedere l’infinita stanchezza sul suo viso. “Ma devo vivere con quei sussurri, così come devo vivere con…tutto il resto. Una folle parte di me vorrebbe sapere se avrebbe potuto farlo. Se avrebbe potuto darmi ciò che prometteva, o se era solo un’altra delle sue menzogne”.

“Non lo so”.

“Forse dovrei bussare alla porta di Orthanc e chiederlo a lui”.

Aragorn sorrise tristemente. “Non fare nulla di avventato, mentre io non ci sono”.

Boromir si rabbuiò, e voltò di nuovo il viso verso il muro.

“Ti prego, Boromir. Non te lo chiedo come tuo re, ma come tuo amico. Resta qui, sotto le cure del Re Théoden, riposa e guarisci, e tieniti pronto per quando avrò bisogno di te”.

“Non farò nulla di avventato, e quando il mio re mi chiamerà, sarò pronto”.

Aragorn si accigliò, consapevole di tutto ciò che Boromir non aveva detto, ma capì che non avrebbe ottenuto una promessa più esplicita.

“Grazie”.

Boromir annuì e si alzò stancamente in piedi. Barcollava in modo preoccupante, e Aragorn lo afferrò per un braccio per sostenerlo.

“Devi riposare.”

“Sì”. Boromir fece per avviarsi verso la porta, ma Aragorn lo trattenne, rifiutando di lasciare il suo braccio.

“Boromir?” Aragorn attese che Boromir si voltasse, poi continuò. “Riuscirai a vivere così? Con i sussurri e tutto il resto?”

“E cos’altro potrei fare?” Aragorn non disse nulla, e nel silenzio, Boromir comprese. Il suo volto si rilassò in un sorriso.

“No, non temere per quello. Vai a Minas Tirith, Aragorn, e conquista la tua corona. Quando avrai bisogno di me, io ci sarò”.

E con queste parole, si voltò e uscì dalla stanza, lasciando Aragorn a meditare sulle difficili scelte di un re.

 

*** *** ***

 

La Grigia Compagnia era già a cavallo, in procinto di lasciare Edoras. Avevano preso congedo dal Re e dalla sua casata, portando i loro cavalli ai piedi della verde collina sulla quale sorgeva Meduseld, e ora aspettavano la loro guida. Aragorn aveva salutato Théoden ed Éomer, aveva bevuto la coppa d’addio con la Dama Éowyn, ed era pronto per partire. Eppure restava in disparte, circondato da ciò che restava della Compagnia, riluttante a dare l’ordine che li avrebbe infine separati.

Si inginocchiò per abbracciare Merry.

“Addio, Merry, il più coraggioso e fedele degli hobbit. Elrond fu saggio, quando approvò la tua presenza nella Compagnia, sebbene anche lui non immaginasse il tuo valore, o l’importanza del tuo aiuto per noi. Non ti dimenticheremo, anche se dovessimo percorrere tutta la Terra di Mezzo prima di rivederci”.

“Addio, Grampasso”. Merry non tentò nemmeno di nascondere le lacrime, mentre guardava negli occhi l’uomo che era stato la sua guida e il suo protettore attraverso tanti pericoli, l’uomo che un giorno sarebbe stato il suo re, se mai fossero riusciti a sopravvivere all’Ombra. “Vorrei poter venire con te”.

“No, tu mi servi qui”. Lanciò una veloce occhiata a Boromir, poi sorrise vedendo lo sguardo dolente negli occhi di Merry. “Ti affido ciò che non affiderei ad alcun altro”.

Merry ingoiò le lacrime, e sollevò il mento con determinazione.

“Non preoccuparti per noi. Ho fatto una promessa, e intendo mantenerla”.

“Tu sollevi il mio spirito, Mastro Brandibuck”.

Aragorn lo baciò delicatamente sulla fronte, poi si alzò, e affrontò Boromir.

I due uomini si fronteggiarono in silenzio, Boromir teso e scuro in volto, Aragorn pieno di dolore ma risoluto. Gli altri membri della compagnia si ritirarono, non volendo intromettersi in un commiato così intimo. Finalmente, quando il silenzio si era ormai protratto fino al punto di far male, Boromir si riscosse e tese la mano verso Aragorn.

“Addio, mio Re”.

Aragorn ignorò la mano offertagli e lo abbracciò. Dopo un momento di esitazione, Boromir ricambiò l’abbraccio.

“Ti ho dato la mia parola”, disse Aragorn, “e proverò la mia buona fede”.

“Non è necessario”.

Si allontanarono di un passo, ma Aragorn continuò a tenere le mani sulle spalle di Boromir, parlando con voce così bassa che solo lui lo udì.

“Ti rivedrò presto, a Minas Tirith. Insieme, noi sfideremo il potere di Mordor. Insieme, vedremo la gloria di Gondor ristabilita”.

“Se tu giungerai sano e salvo a Gondor, allora sarà già ristabilita”. Boromir tacque un istante, poi aggiunse, con voce ruvida per la tensione, “Tutto ciò che amo lo affido nelle tue mani, Aragorn. Non tradire la mia fiducia. Non lasciare che Gondor cada”.

Aragorn lo abbracciò di nuovo, e sussurrò, “Non lo farò”.

Mentre si voltava per raggiungere la sua compagnia, Aragorn sentì una lacrima scivolargli lungo la guancia. Non la asciugò, sollevando invece la testa deliberatamente per permettere al sole di splendere sul suo viso. La Compagnia lo seguì fino al suo cavallo, e Legolas lo aiutò a montare in sella senza danneggiare la sua gamba ferita. Aragorn si chinò per dire un’ultima parola a Merry e stringere di nuovo la mano di Boromir, poi voltò il cavallo e galoppò via, seguito in silenzio dai Dúnedain.

Merry e Boromir restarono a lungo ai piedi della scalinata. Il Re ed Éomer li avevano lasciati senza una parola, intuendo che non desideravano né conforto né compagnia, e fu soltanto dopo che la corte del Re ebbe lasciato la terrazza sovrastante che Boromir finalmente si voltò e cominciò a salire le scale. Merry camminava quietamente al suo fianco, senza parlare, anche quando Boromir scelse di restare sul camminamento di pietra lungo la terrazza, invece che ritornare nella sala.

Si allontanarono dalle guardie che erano in cima alla scalinata e si diressero verso le mura che sovrastavano Edoras e i tumuli sepolcrali oltre i suoi cancelli.

Quando furono lontani, soli sulla cima della collina spazzata dal vento, Boromir si sedette sul parapetto, gettando le lunghe gambe oltre di esso, in modo da essere rivolto verso l’esterno, verso le colline, e si rinchiuse in un ostinato silenzio che fece sentire Merry superfluo e indesiderato.

Appoggiandosi al muro, apparentemente dimenticato, Merry osservava l’espressione tetra di Boromir. Gli ricordava dolorosamente i giorni in cui la Compagnia aveva lasciato Granburrone, quando se ne stava in silenzio alla coda del gruppo, evitando la conversazione e gli sguardi dei compagni. Già allora Merry aveva intuito che qualcosa lo tormentava, e ora lo conosceva abbastanza bene da esserne sicuro.

“Grampasso li condurrà a destinazione sani e salvi”, disse, certo di avere compreso la ragione del turbamento di Boromir.

Boromir si limitò a grugnire un assenso, tenendo sempre il viso rivolto alla strada dalla quale erano partiti i cavalieri.

“Vorresti ancora andare con lui?”

“Sì”.

“Alla guerra?”

“Fino alla fine della sua strada, ovunque essa condurrà”.

La domanda successiva di Merry suonò inadeguata alle sue stesse orecchie.

“Non hai già visto abbastanza guerra nella tua vita, Boromir?”

Finalmente Boromir si voltò verso di lui, e il suo viso di addolcì in un sorriso malinconico. “Sì, amico mio”.

“Ne sono felice”, disse Merry semplicemente, e un pallido sorriso gli sfiorò il volto.

“Ma questo non cambia chi sono, o il mio dovere verso il mio re o la mia gente”. Boromir si rivolse nuovamente verso la pianura davanti a lui. “Il mio posto è con Aragorn, eppure lui va a salvare Minas Tirith, e io resto seduto qui. Messo da parte insieme ai vecchi e ai bambini”.

“E agli hobbit”, aggiunse Merry, cupamente. “Non sei il solo a essere lasciato indietro dal suo re”.

“Théoden cavalca senza di te? Ma tu sei il suo scudiero, votato al suo servizio!”

“Sembra che non abbia bisogno della mia spada. Io e te saremo spediti a Dunclivo, insieme al resto del bagaglio inutile. Merry incrociò le braccia sul parapetto, appoggiandovi il mento per osservare la strada. Ancora un giorno di tempo, e anche lui sarebbe partito per quella strada, ma non verso Gondor e il suo sovrano. La sua sola consolazione era che Boromir sarebbe andato con lui a Dunclivo. Li mandavano lì insieme. “Ecco quello che sono in questo viaggio. Bagaglio”.

La cupa espressione di Boromir si adattava perfettamente a quella di Merry.

“Non sono abituato a essere trattato come bagaglio. Non lo accetterò così facilmente”.

“Almeno tu sei alto abbastanza perché ti ascoltino. Con me invece si limitano a guardare sopra la mia testa facendo finta che io non sia lì”.

Boromir emise un suono disgustato, e disse, con amarezza, “Preferirei che ignorassero anche me. Se qualcun altro mi chiama “mio signore” con quel tono di commiserazione o si offre di aprire la porta per me, io…io lo passo a fil di spada!”

Merry, ricordandosi di come si era affrettato ad aprire la porta per Boromir quando erano usciti dalla sala, arrossì furiosamente e balbettò le sue scuse.

“No, non mi riferivo a te, piccoletto!” Ora fu il turno di Boromir di interrompersi, pieno di imbarazzo. “Ti chiedo perdono. Non è un nome adatto a un guerriero”.

“Mi piace”, disse Merry. Poi sorrise timidamente, e aggiunse, “Ora che ti conosco meglio. Una volta mi dava fastidio, ma questo era quando avevo paura di te”.

“Questa è una bugia bella e buona, Merry. Tu non hai mai avuto paura di me”.

“Certo che ce l’avevo! Non facevi altro che ringhiare, sai…”

Boromir in risposta diede un esempio del miglior ringhio che riuscì a produrre, e Merry scoppiò a ridere.

“Non puoi pretendere di trasportarci per tutto l’Agrifogliere, salvarci dalle nevi del Caradhras, darci il tuo mantello come tenda e metà della tua cena quando Pipino si lamenta della fame, e poi tentare di farci credere che non ci tieni a noi”.

“Cercavo solo di tenervi fuori dai guai,” ribatté Boromir.

“Se lo dici tu, mio signore,” rispose Merry, umilmente.

Boromir gli rivolse un’espressione amareggiata. “Non chiamarmi così. Non sono il tuo signore”. Esitò un momento, poi disse, con tranquilla sincerità, “Non ho bisogno di vassalli o servitori, Merry. Solo di amici”.

“Quello lo sarò sempre”.

“E allora dimmi sinceramente, amico mio, perché desideri seguire Théoden? Speri di dimostrare il tuo valore in battaglia?”

Merry sospirò e appoggiò di nuovo il mento sulle braccia. “Non lo so. Ho già visto la guerra, e non mi è piaciuta. Non credo di avere la stoffa di un soldato. Ma non sono nemmeno un codardo, ed è un disonore per me restare indietro”.

Alzò lo sguardo verso il viso del soldato accanto a lui, veterano di tante battaglie, e mormorò, “Sono solo un piccolo hobbit, e temo di non potere fare molto in una guerra così grande, ma per amore di Grampasso, di Théoden, e di Gandalf, vorrei provarci ugualmente. È una ragione tanto stupida per andare in guerra?”

“È l’unica ragione”. La mano di Boromir strinse la sua spalla, e Merry sentì la passione che ardeva dietro quelle parole. All’improvviso, l’uomo si voltò con uno scatto e scese dal muro. Sembrava avere ritrovato tutto a un tratto la sua fiera energia, e il suo viso era pieno di determinazione. “Vieni, Merry! Non abbiamo tempo da perdere!”

Merry lo raggiunse inciampando e lo guardò con curiosità, quando la mano di Boromir si posò sulla sua testa. “Cosa dobbiamo fare?”

“Il nostro dovere, mastro scudiero, nonostante gli ordini dei nostri sovrani”.

Merry sorrise, trovando contagioso il suo stato d’animo. “Guidami, mio signore!”

“No, sarai tu a guidare me. Portami da Éomer, e vedremo se il nome di Boromir ha ancora qualche potere a Rohan”.

  

Continua…

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Capitolo 8
*** Fuggitivi ***


Capitolo 8: Fuggitivi

 

Lord Denethor, Sovrintendente di Gondor, fissava intensamente la piccola sfera tra le sue mani. La luce incerta che emanava da essa gettava ombre misteriose sul suo viso, accentuando le rughe scavate dall’età e dalla disperazione,  rendendo i suoi occhi neri come la notte.

Una luce fioca raggiungeva le finestre istoriate della torre, irradiando un chiarore intermittente nella notte, mostrando a chiunque guardasse verso la Cittadella che il loro Sovrintendente era nuovamente impegnato a lottare con il Nemico.

Il sudore bagnava i capelli argentati sulle tempie di Denethor e scorreva a rivoli lungo il suo viso. Le sue mani e la sua veste erano umide, eppure i suoi occhi continuavano a fissare la scintillante superficie del palantìr senza smettere di cercare, anche se la stanchezza sfiniva il suo corpo e il dolore consumava il suo cuore.

‘Boromir! Boromir!’, gridava nella sua mente, cercando invano di evocare anche una sola immagine del suo figlio perduto, che fosse di conforto o di disperazione, purché ponesse fine a quell’incertezza. ‘Figlio mio’, piangeva silenziosamente, ‘Lasciati vedere! Risparmia a tuo padre questa tortura, questo terribile tormento. Mostrami il tuo amato viso ancora una volta, anche nella morte, ti prego!’

Ma nulla apparve nel globo lucido. Soltanto la fitta, maligna oscurità del Nemico, che velava la sua vista. Denethor cominciò a tremare per lo sforzo. Il palantìr non aveva mai opposto tanta resistenza alla sua volontà. Denehtor comprese che non avrebbe mai rivelato quell’unico, vitale segreto, ed ebbe paura. Quale potere controllava la pietra, rifiutando la sua richiesta? E se quel potere poteva negargli la vista di suo figlio, quali altre cose gli nascondeva? Queste domande gli balenarono per un istante nella mente, ma poi scomparvero, perse nell’urgenza disperata della sua ricerca.

Ormai da molti giorni, da quando aveva udito il selvaggio richiamo del corno di Gondor portato dal vento, Denethor stava riversando tutta la sua forza e la sua volontà nel palantìr, cercando il viso di suo figlio tra la miriade di immagini che gli restituiva la pietra. E aveva visto Boromir. Lo aveva visto, abbattuto dalla lama dell’orco, trascinato attraverso le pianure di Rohan, torturato da Saruman. Nell’ultima immagine che era riuscito a vedere, Boromir, solo e ferito, giaceva morente in una cella di pietra. Quella visione lo perseguitava. Tormentava i suoi sogni, divorava il suo cuore, attirandolo sempre in quella stanza, a quella sedia, dove sedeva curvo sul palantìr con rabbia e disperazione, cercando invano di conoscere il destino di suo figlio.

Mithrandir affermava che Boromir era stato tratto in salvo, e anche il perian diceva lo stesso. Ma Denethor non si fidava della parola del Grigio Pellegrino. Sapeva che Mithrandir non avrebbe esitato a distorcere la verità per i suoi fini, ma non vedeva tracce di inganno o di falsità nel mezzuomo. Forse dicevano la verità, forse Boromir era davvero vivo quando lo avevano visto l’ultima volta. Ma quello era stato molti giorni prima, e anche lo scaltro Mithrandir aveva ammesso che Boromir era in condizioni gravissime quando lo avevano lasciato.

Denethor non voleva credere che suo figlio fosse morto. Amava Boromir sopra ogni altra cosa, e il pensiero della sua perdita era intollerabile. Ma, al contrario delle degli stregoni o degli uomini, il palantìr non gli aveva mai mentito, e il palantìr gli aveva mostrato suo figlio morente, abbandonato in un buio inferno di pietra. Dopo quella immagine, il globo di pietra aveva mostrato solo ombre, sempre più fitte, e Denethor era certo che quelle ombre preannunciassero la morte del suo erede.

Odiava Saruman per il suo tradimento. Odiava i membri di quella cosiddetta Compagnia, che si erano serviti del forte braccio di Boromir per difendersi durante la loro missione, per poi lasciarlo a morire tra i tormenti nei sotterranei di Isengard. Odiava Mithrandir per averlo illuso con le sue vane speranze per piegarlo alla sua volontà. Odiava e disprezzava quello straccione ramingo del nord, che osava proclamarsi Erede di Isildur, il bugiardo che aveva rubato l’affetto di suo figlio conducendolo verso quella follia, e che sperava di togliergli ciò che gli spettava per diritto nascita. E più di tutti, come un veleno che gli corrodeva il sangue, odiava colui che avrebbe dovuto morire al posto di Boromir.

Se solo fosse riuscito a vedere! Se solo avesse potuto sapere! Le confuse ombre vorticavano davanti ai suoi occhi, offuscando la lucida superficie del palantìr. C’era morte in quelle ombre, lutto e dolore, e un vuoto troppo grande da sopportare. Il suo Boromir era perduto…per sempre. Se anche fosse ritornato, vivo e sano, cavalcando attraverso i cancelli di Minas Tirith, non sarebbe mai più stato il suo figlio prediletto, ma un amico di stregoni e di vagabondi. Non sarebbe stato diverso da suo fratello.

Eppure, Denethor non poteva rassegnarsi senza conoscere la verità. Gli occhi gli dolevano per lo sforzo, e brividi di stanchezza e di impazienza lo scuotevano, mentre si curvava ancora una volta sul palantìr ordinandogli di mostrargli suo figlio. La luce lampeggiò di nuovo sul suo volto e illuminò le alte finestre. Nel Cortile della Fontana ai piedi della torre, le guardie della Cittadella sollevarono lo sguardo e videro che il loro signore era ancora una volta impegnato a lottare contro il Nemico.

 

*** *** ***

 

Merry sedeva sul basso muro di pietra consumata dal tempo, osservando l’adunata dei Cavalieri. Migliaia e migliaia. Tutta la potenza di Rohan si era raccolta per accorrere in aiuto di Gondor. I cavalli scalpitavano e sbuffavano, mordendo le redini, eccitati dall’impazienza dei loro cavalieri. Gli elmi scintillavano cupi nella luce fioca, e le lance si innalzavano fitte verso il cielo coperto di nuvole, gli scudi sbattevano contro le cotte di maglia, e i corni chiamavano gli uomini alle loro posizioni nei ranghi.

Si prepararono a partire in una tetra luce crepuscolare, sebbene l’alba fosse ormai passata da un’ora. Il sole non era sorto quel mattino, e guardando a est, verso la fonte di quelle oscure ombre che macchiavano il cielo, Merry si domandò se qualcuno di loro sarebbe vissuto per vedere un’altra vera alba. Gli parve un cattivo presagio che tanti uomini fieri e valorosi dovessero cavalcare verso il loro destino sotto il cielo del Nemico. In quel momento, Merry non era più tanto sicuro di voler condividere quel destino.

 

Accanto a lui, Boromir si agitava inquieto. “I carri sono già pronti per muoversi?”

 

Merry si voltò per controllare l’attività sul campo dietro di loro. Avevano scelto quel tratto di muro come punto d’osservazione, poiché era la linea di confine che divideva il luogo di adunata dei Cavalieri da quello in cui si raccoglievano i profughi in partenza per Dunclivo. Da una parte l’esercito, schierato in parata con le armi e le armature, dall’altra, l’ultimo convoglio di carri e cavalli da trasporto. Lo hobbit e il soldato ferito avrebbero dovuto partire con la carovana dei bagagli, così la loro presenza sul campo non causò alcuno stupore.

 “Stanno ancora caricando dei barili. E ci sono persone intorno dall’aria infelice”.

 “Allora c’è ancora tempo”.

 “Pensi che Éomer si sia dimenticato di noi?”

 “Se è così, dobbiamo trovare un altro modo. Ma non lo credo”.

Merry lanciò un altro sguardo alla mesta moltitudine che affollava il campo dietro di loro, poi si voltò risolutamente. Il suo destino non era tra loro. Boromir gli aveva promesso che avrebbero cavalcato verso Minas Tirith insieme all’esercito di Thèoden, e Merry sapeva che avrebbe mantenuto quella promessa. La paura sarebbe scomparsa non appena sarebbe stato in sella a un cavallo da guerra con la spada al fianco insieme al più grande soldato di Gondor.

Per il momento Boromir e Merry vestivano con la semplice divisa della casa di Thèoden, senza armi o armature. Così abbigliati, si confondevano con la folla da entrambe le parti del muro, e una volta che avessero indossato l’equipaggiamento che ora era nascosto tra l’erba ai loro piedi, avrebbero avuto l’aspetto di tutti gli altri soldati. Per lo meno Boromir, in ogni caso.

Non che a Boromir servisse una spada o uno scudo per apparire un soldato, pensò Merry. Era evidente dal modo in cui si muoveva e da come camminava, da come sollevava il capo al rumore delle armi che si urtavano o al suono di un corno, dalla severa gioia che gli illuminava il volto alla promessa della battaglia. L’unica cosa che guastava l’immagine era la striscia di tessuto nero che gli copriva gli occhi, a ricordare crudelmente  il motivo per cui erano costretti alla menzogna e al sotterfugio per ottenere un posto con l’esercito.

Merry si era chiesto spesso il motivo per cui Boromir avesse voluto una benda di tessuto nero al posto di quella bianca che aveva indossato da quando era stato salvato, e lo aveva stuzzicato un po’ per quella piccola vanità. Ma quando Boromir aveva legato la benda e sistemato l’elmo sulla sua testa, Merry aveva capito. Gli elmi di Rohan avevano delle lunghe protezioni per il naso e le guance che coprivano buona parte del viso, lasciando scoperti solo la bocca e il mento, nascondendo gli occhi in un’ombra profonda. Con la benda scura e l’elmo che nascondeva il suo viso, gli occhi di Boromir erano praticamente invisibili. Merry doveva stare di fronte a lui e guardare direttamente attraverso le fessure dell’elmo per poter vedere la benda.

Per il momento, Boromir non cercava né di confondersi tra i cavalieri né di nascondere la sua menomazione agli occhi dei curiosi. A capo scoperto, con lo sguardo bendato rivolto al clamore marziale dell’esercito in adunata, sedeva rigidamente con la dignità ferita di un uomo che non è abituato a essere messo da parte e che non lo accetta facilmente. Merry lo guardava in silenzio, ma soffriva nel vedere tanto coraggio, orgoglio e dignità scartati come fossero inutili. Poteva perdonare quei signori degli uomini per sottovalutare un insignificante hobbit, ma Boromir avrebbe dovuto cavalcare al fianco di Thèoden, non starsene seduto su un muro diroccato ad attendere favori da altri. E se Éomer non avesse mantenuto la sua promessa, chi avrebbe aiutato il figlio di Gondor questa volta?

L’avvicinarsi di un cavaliere sconosciuto lo distolse dai suoi malinconici pensieri. La figura si mosse verso di loro, seguendo il muro per evitare il viavai, conducendo due cavalli. Quando si fu avvicinato, Merry si accorse che in realtà si trattava di un ragazzo, dal corpo esile che non aveva ancora raggiunto la virilità e il mento privo di barba. Eppure aveva le movenze di un guerriero esperto, e controllava i due cavalli senza sforzo.

Il Cavaliere si fermò a pochi passi da loro, e i suoi occhi brillarono da dietro l’elmo che li celava.

“Mio lord Boromir?”

Boromir si voltò prontamente verso la voce e si alzò in piedi. “Sì”.

Il Cavaliere si raddrizzò in tutta la sua altezza, snello e diritto come una lancia, e si esibì in un inchino formale.

“Éomer, terzo Maresciallo del Riddermark, manda il suo omaggio e i suoi servizi al suo fratello di Gondor”, recitò, con voce rigida quanto la postura. “Ti prega di accettare questo nobile destriero come dono del tuo amico e alleato, affinché ti possa condurre sano e salvo a Dunclivo e per ogni strada che in seguito sceglierai”.

Boromir annuì gravemente in risposta al breve discorso, poi allungò la mano per prendere le redini. Il cavaliere gliele pose sul palmo, e rimase ad osservare mentre Boromir le raccoglieva e traeva il cavallo vicino a lui.

“Porgi i miei ringraziamenti a Éomer”, disse Boromir, accarezzando distrattamente il muso dell’animale con una mano.

A Merry sembrò che quella richiesta mettesse a disagio il Cavaliere. Il giovane perse la sua formale rigidezza e al posto dell' orgoglioso messaggero apparve un ragazzo timido, imbarazzato dal vedersi chiamato in causa.

“Non è stato il lord Éomer a dirmi di portarti il cavallo”, disse, “ma la dama sua sorella. Lei vi precede a Dunclivo, per fare il suo dovere verso il suo re e il suo popolo, altrimenti sarebbe venuta personalmente a portare il dono di suo fratello. È stata lei a ordinare le provviste per il vostro viaggio”.

Merry osservò con crescente sospetto le borse strapiene sulla sella e i giacigli arrotolati. Il viaggio per Dunclivo durava meno di un giorno, eppure il cavallo portava abbastanza equipaggiamento per una settimana.

“Pensa forse che ci perderemo?”

“Calmati, Merry”, lo rimproverò Boromir. “Allora porgo i miei ringraziamenti a te e alla dama Éowyn. Cavalcherai con il re?”

“Sì”. Il Cavaliere esitò per un momento, poi aggiunse, piano, “E tu, mio signore?”

Boromir sorrise impercettibilmente. “Chi ti ha incaricato di chiedermelo?”

“Nessuno. Io ho fatto il mio dovere e ho detto ciò che dovevo dire. Ora ti chiedo, da soldato dimenticato a soldato dimenticato, cavalcherai con noi, Boromir di Gondor?”

“Sì".

Il Cavaliere annuì soddisfatto e rivolse a Merry un gelido sorriso.

“Sarei onorato se accettaste la mia compagnia. Potete chiamarmi Dernhelm. Preparatevi, vi porterò al luogo dove si raduna il mio èored”.

Boromir e Merry non persero tempo con altre domande. Scavalcato il muro per recuperare le loro armi e l’equipaggiamento, si affrettarono ad armarsi. Mentre si allacciava alla cintura la spada, aiutando allo stesso tempo Boromir con i fermagli e le fibbie, Merry chiese,

Éomer sa davvero dove vogliamo andare con questo cavallo?”

“Non è uno sciocco, Merry. Se fosse lui al mio posto non accetterebbe docilmente di andare a nascondersi, e non si aspetta certo che lo faccia io. Ma quello che sa o non sa, lo tiene per sé”.

 “Allora chi è questo Dernhelm, e come ha indovinato i nostri piani?”

 Boromir scosse la testa, sorridendo.“Non lo so”.

 “Si che lo sai!” Protestò Merry, immediatamente sicuro che Boromir gli stesse nascondendo qualcosa. “Hai combattuto con lui in passato? È in qualche genere di guaio, o è caduto in disgrazia presso il re, visto che dice di essere stato dimenticato e si offre di cavalcare con noi?”

 “Dobbiamo fare presto. I Rohirrim non aspetteranno i nostri comodi, mastro hobbit”.

 Merry sospirò rassegnato e si assicurò lo scudo su una spalla. “Sono pronto”.

Osservò Boromir con sguardo critico, e vide completata la trasformazione dell’amico in un Cavaliere del Mark. Ora Boromir indossava una cotta di maglia leggera sotto la tunica, un lungo mantello sulle spalle, una spada al fianco, e l’elmo, che nascondeva sia la sua ferita che la sua identità. Nessuno l’avrebbe preso per un soldato di Gondor, e tanto meno per Boromir, figlio di Denethor.

“Supererò l’ispezione?” domandò Boromir.

“Neanche tuo padre ti riconoscerebbe”.

Boromir si rabbuiò inspiegabilmente a quel piccolo scherzo. “Credo che tu abbia ragione”, disse. Voltandosi improvvisamente, si appoggiò alla sommità del muro e lo superò con un balzo. Poi offrì una mano a Merry, “Vieni, piccoletto. È ora. Cavalchiamo verso la gloria o la morte”.

“Purché cavalchiamo insieme…” ribatté Merry, mettendo la mano in quella di Boromir.

 

 

I Cavalieri galoppavano veloci verso la tempesta, sotto le insegne del Re Thèoden. Tra di loro tre fuggitivi – il Cavaliere misterioso, il soldato cieco, e lo hobbit - diretti verso Minas Tirith e la guerra. Parlavano poco tra loro, e per nulla con gli altri soldati dell’èored. Per gran parte del viaggio sembrò quasi che fossero loro stessi un piccolo esercito, silenziosi e invisibili in mezzo alla grande truppa.

Per Merry il viaggio fu noioso, stancante, e pieno di tempo per scomode riflessioni. Non aveva molto altro da fare se non pensare, e spesso i suoi pensieri si rivolgevano agli amici che aveva perduto lungo la strada da Granburrone. Era stanco e spaventato, depresso dalle tenebre sempre più fitte che oscuravano il cielo, e gli mancavano le risate di Pipino. Solo la presenza di Boromir gli impediva di cadere preda della disperazione.

Sedeva davanti a Boromir sul suo principesco destriero, con le sue piccole mani posate sulle grandi mani del guerriero che tenevano le redini. Merry non era in grado di governare un cavallo da solo, e Boromir non poteva guidarlo senza l’aiuto di Merry, e così cavalcavano, mangiavano, dormivano, parlavano e ricordavano insieme. E col passare del tempo, Merry si accorse di trovarsi sempre più a suo agio nel ruolo di amico e guida del soldato di Gondor. Pipino gli mancava ancora tremendamente, ed era in pensiero per i suoi amici, ma non poteva sentirsi completamente solo finché Boromir era con lui.

Dernhelm invece non era di grande conforto, anche se dimostrava un certo interesse verso Merry. Sembrava profondamente impressionato dal suo giuramento di fedeltà a Théoden e dal suo atto di coraggio nel seguire il re in guerra anche contro i suoi ordini.

“Fai bene, mastro Holbytla”, disse a Merry, in un momento di rara loquacità. “Non c’è onore più grande che portare le armi al servizio del tuo signore, e non c’è signore più meritevole della tua spada e del tuo amore che Re Théoden”.

Merry arrossì all’elogio, e giocherellò nervosamente con le redini. Non poteva confessare a quel giovane onesto quanto fosse diviso il suo cuore, e l’angoscia che gli causava il suo giuramento al re del Mark. Voleva davvero bene a Théoden, e desiderava dimostrare il suo amore in modo più utile che non raccontare vecchie storie o condividere una pipa. Ma la paura che il suo giuramento a Théoden contrastasse con la promessa che aveva fatto a se stesso lo assillava. Se servire il re significava lasciare Boromir, cosa avrebbe scelto?

“Spero di fargli onore”, disse finalmente Merry, con voce bassa e incerta.

“Non dubito che lo farai”, rispose il cavaliere, chinando la testa in segno di rispetto. “Lo hai già fatto, scegliendo di seguirlo nel pericolo”.

Merry scrollò le spalle, a disagio, e arrossì ancora di più.

Da dietro di lui Boromir sembrò avvertire il suo imbarazzo, e cominciò a parlare al Cavaliere, distogliendolo dal suo solenne elogio di Merry.

“E tu, Dernhelm? Perché cavalchi verso la guerra contro gli ordini del tuo re?”

Dernhelm si irrigidì. La sua voce, quando parlò, era fredda e distaccata, ma Merry percepì il dolore che si celava dietro il tono gelido.

“Tu, tra tutti gli uomini, dovresti comprendere le mie ragioni, mio signore”.

Boromir si volse con aria interrogativa nella sua direzione. “Cosa ne so delle tue ragioni?”

“Sono anche le tue”. Quando Boromir non rispose, Dernhelm continuò, amareggiato. “Il tuo re ti ha scartato. L’amore e la fedeltà che tu gli hai offerto li considera un nulla. Ti giudica inadatto e si rivolge ad altri per sostenerlo nell’ora del suo trionfo, lasciandoti indietro a prendere la strada dei codardi, a nasconderti nell’oscurità. E per questo, per l’amore che gli porti, e perché non vuoi essere chiamato codardo, cerchi il tuo sentiero per raggiungerlo, nella battaglia, nella vittoria, nella morte…”

Boromir cavalcò per alcuni istanti in silenzio, lasciando sospese nell’aria le parole angosciate di Dernhelm. Poi, con voce piena di dolore, domandò, “È per il tuo re o per il mio che fai questo?”

“Per entrambi, e per nessuno. A uno appartiene la mia fedeltà, all’altro il mio amore, e per entrambi avrei combattuto le armate dell’Oscuro Signore. Ma entrambi mi hanno giudicato indegno, e mi hanno messo da parte, e così combatterò per un dovere non riconosciuto, per un amore negato, e per la mia liberazione”.

“Che genere di liberazione?” Ma il tono di Boromir tradiva che sapeva già la risposta, e temeva allo stesso tempo di sentirla.

“Morire con la spada nella mia mano, con la musica dei corni e della battaglia intorno. Portare onore al Mark e alla mia famiglia. Lasciare una fama di gloria e di coraggio dietro di me. Questo è il mio desiderio”.

Merry aprì la bocca per parlare, ma la mano di Boromir sulla sua spalla lo zittì. Obbediente alla stretta delle sue dita, chiuse la bocca e lasciò cadere la conversazione. Dernhelm spronò il suo cavallo e si allontanò risolutamente da loro, lasciandoli indietro, e Merry perse l’occasione di commentare le sue tetre affermazioni.

Dernhelm cavalcò davanti a loro per tutto il resto della giornata, e Boromir cadde in uno stato d’animo taciturno che non invitava alla conversazione. Nessuno di loro parlò più fino a che la truppa non fece tappa per la notte. Dopo un pasto silenzioso, Dernhelm si ritirò per dormire nelle ombre oltre il fuoco, mentre Merry e Boromir si avvolsero nelle loro coperte appoggiando la testa ciascuno a un lato della sella di Fedranth.

Merry aveva presto scoperto che ogni notte, più o meno a quell’ora, Boromir diventava improvvisamente molto loquace. Non importava quanto scontroso e riservato fosse stato durante la giornata, ogni volta che si coricavano per dormire Boromir voleva parlare. E Merry lo accontentava, benché esausto e desideroso di dormire, perché intuiva che quell’insolito bisogno nasceva dalla paura.

Paura dell’oscurità, del silenzio, del tempo da trascorrere solo con i suoi pensieri. Una paura che lo circondava come una nebbia palpabile, tanto che anche Merry la sentì strisciare fredda sulla sua pelle. Sapeva che Boromir non riusciva a dormire, che vegliava in silenzio nelle lunghe ore della notte, tormentato da una tensione silenziosa che controllava con ferocia, riluttante a mostrare la sua paura ma incapace di negarla. L’unico modo in cui poteva trovare riposo era parlare fino allo sfinimento e all’oblio, e Merry metteva volentieri da parte la sua stanchezza per ascoltarlo.

Quella notte, la quarta del loro viaggio, Merry non aspettò che Boromir cominciasse a parlare, ma iniziò lui stesso nel momento in cui la sua testa toccò il caldo cuoio della sella. Col tono basso e privato che usavano sempre nelle loro conversazioni notturne, cominciò,

“Perché Dernhelm cerca la morte? Tu sai qualcosa di lui, Boromir, qualche segreto. Tu sai perché vuole morire”.

“Sì, io lo capisco”. Boromir esitò un momento, come se stesse cercando le parole, poi continuò. “Ha perso la speranza, e la disperazione può portare un uomo alla follia. O alla morte”.

“Non è una follia cercare la morte, nel pieno della giovinezza, solo perché il suo re lo ha lasciato indietro?”

“Hai mai provato la vera disperazione, Merry?”

Merry rifletté, ricordando il profondo, logorante dolore di quei giorni trascorsi a dare la caccia agli orchi attraverso Rohan, il tormento di quelle ore nei sotterranei di Orthanc, e l’impotente dolore di vedere un amico soffrire senza poter fare nulla per aiutarlo. Poi pensò alla tetra desolazione negli occhi di Dernhelm, e capì che non aveva mai provato quel genere di disperazione. Anche se la sua strada gli era sembrata a volte buia, aveva sempre visto con chiarezza la sua direzione. Una via folle e pericolosa, forse, ma pur sempre una via.

 “No”. Rispose alla fine, “Non così. Non tanto da rinunciare a tutte le speranze”.

 “Io sì. E ho desiderato la morte, come una liberazione dal dolore”.

 Merry si alzò su un gomito e si voltò per guardare l’amico. “E adesso? La desideri ancora?”

“No. Non posso dire di essermi liberato dalla disperazione, perché mi perseguita sempre, ancora, in  ogni momento, ma ho deciso di non arrendermi. Ho trovato abbastanza speranza per tenermi in vita”.

“È solo questo che hai trovato?”

“La speranza non è una piccola cosa, per un uomo che muore. Dammi tempo, Merry. Troverò la mia strada, prima o poi. E così farà Dernhelm, se sopravviverà a questa battaglia”.

Merry si coricò di nuovo, ma non aveva più voglia di dormire. Restò con gli occhi aperti, pensando alle implicazioni di quello che Boromir aveva detto e di quello che aveva taciuto, con un familiare dolore nel cuore. Era chiaro che per Boromir il discorso era concluso, ma Merry continuò a chiedersi come poteva alleviare la sofferenza dell’amico, e non riuscendoci, ne soffriva lui stesso.

“Non mi hai ancora detto il segreto di Dernhelm”, borbottò, mascherando il suo vero stato d’animo con l’irritazione.

“Non spetta a me farlo”.

“Beh, almeno non neghi che ne ha uno”.

Boromir grugnì qualcosa, sancendo definitivamente la fine della discussione. Rimasero entrambi in silenzio per alcuni minuti, mentre la tensione di Boromir aumentava lentamente. Era perfettamente immobile, ma Merry poteva quasi sentirlo digrignare i denti e stringere i pugni per combattere l’impulso di alzarsi in piedi e cominciare a camminare avanti e indietro.

Dopo alcuni momenti di silenzio carico di tensione, Boromir improvvisamente parlò. “Ci sono stelle, stanotte?”

“No”. Merry guardò su verso il cielo buio e pensò che non era neanche sicuro che fosse notte. Per quanto ne sapeva il sole poteva anche essere alto sopra la fitta cappa di fumo e nuvole.

“Mi è sempre piaciuto dormire sotto le stelle. Quando ero bambino, io e mio fratello uscivamo di nascosto dalla città e passavamo la notte sulle pendici del Mindolluin, sotto il cielo stellato. Quando eravamo un po’ più grandi ci spingevamo anche più lontano, nelle foreste dell’Anòrien, e camminavamo sotto gli alberi finché non eravamo esausti, poi dormivamo dove ci fermavamo, incuranti del pericolo. Faramir sapeva tante storie sugli Elfi, le foreste e le stelle. Ricordo che i suoi occhi scintillavano nell’oscurità, mentre le raccontava”.

“Non avevate paura degli orchi o dei briganti?”

“Eravamo soldati di Gondor, e temevamo una sola cosa nella Terra di Mezzo”.

“Che cosa?”

“Nostro padre.” Merry rise piano, e Boromir ribatté, “Ridi perché non hai mai conosciuto Lord Denethor”.

“È stato un cattivo padre?”

“No, non per me. Severo ed esigente, forse, preoccupato degli affari della città e con poco tempo da dedicare ai suoi figli. Ma con me è sempre stato giusto, e a suo modo, amorevole”. Boromir si fermò, poi aggiunse, con amarezza. “Non così con Faramir”.

“Non…non ama Faramir come ama te?”

“Sono sempre stato il figlio prediletto, anche se non so perché. Non abbiamo nulla in comune, tranne forse l’orgoglio. Non ho la sottigliezza di mio padre, né il suo amore per la politica. Quando vedo uomini addobbati con toghe e gioielli il mio più grande desiderio è di cacciarli dalla stanza con la spada in pugno, invece che mettermi ad ascoltare le loro adulazioni. Mio padre non si è mai rassegnato, eppure mi ama”. Boromir restò in silenzio per un momento, poi aggiunse, tranquillamente, “Mi chiedo cosa farà di me ora…”

“Non accoglierà a casa il suo figlio prediletto?”

Boromir rise senza allegria. “Vedremo”.

“Tuo padre non sembra un uomo gentile”.

“È difficile essere grandi e allo stesso tempo gentili”.

“Grampasso lo è”.

“Certo. Ma anche Grampasso a volte deve fare delle scelte crudeli”.

“Come quando ti ha lasciato indietro?”

Boromir esitò, poi rispose, “Proprio così”.

Il silenzio cadde di nuovo, finché Merry parlò di nuovo. “Boromir?”

“Sì?”

“Mi dispiace se ho detto qualcosa che non avrei dovuto – su tuo padre, o Grampasso, o…”

“Non lo hai fatto”.

“Sei molto silenzioso”.

“Sto pensando a casa”.

“Vuoi parlarmi di Minas Tirith?”

“Non questa notte, piccoletto. Riposati, finché puoi”.

“E tu?”

“Non preoccuparti per me, Merry. Dormi”.

 

 

Il mattino portò strane notizie ai Cavalieri di Rohan. In qualche modo, le notizie di quello che li attendeva e di ciò che progettavano i comandanti erano filtrate attraverso i ranghi dell’esercito, e ormai tutti sapevano che la via attraverso l’Anòrien era infestata da orchi e altre creature del Nemico. L’aiuto era giunto in un modo inaspettato e tutt’altro che attraente. Gli Uomini Selvaggi della Foresta di Druadan si erano offerti come guide per condurre gli Uomini di Rohan in salvo oltre l’imboscata.

La marcia fu ritardata, mentre Théoden parlamentava con il capo degli Uomini Selvaggi, e alcuni strani uomini, piccoli di statura e dall’aspetto contorto, strisciavano fuori dalla foresta scura per accostarsi alle truppe a cavallo. Poi finalmente partirono, percorrendo la loro strada sotto il buio fogliame degli alberi.

Il primo tratto del viaggio dovette essere fatto a piedi, conducendo i cavalli a mano lungo la cresta boscosa che separava la strada principale dalla valle segreta attraverso la quale gli uomini dei boschi intendevano portarli. Merry si arrampicò cautamente lungo il ripido e stretto sentiero, guidando Boromir, che non poteva camminare con la stessa sicurezza dello hobbit.

Boromir conduceva il cavallo, Fedranth, e dietro di lui veniva Dernhelm con Windfola. Era un lavoro faticoso e impegnativo, e Merry fu grato quando, arrivato alla sommità della cresta, vide la lunga valle rigogliosa estendersi sotto di lui.

Per tutto il resto del giorno, se davvero era giorno, cavalcarono lungo la valle. E tra le fila dei cavalieri le voci si rincorrevano. Minas Tirith stava bruciando. Il Pelennor era bloccato dall’esercito di Mordor, affollato di orchi e di crudeli Haradrim, un luogo di massacro. Mentre i Rohirrim si arrampicavano lentamente tra le colline la Città Bianca stava morendo tra le fiamme e il terrore.

Boromir sentì quei racconti, e il suo viso si fece pallido e teso. Merry avrebbe voluto confortarlo, ma era sconvolto quanto lui, e non gli veniva in mente nulla che potesse aiutarlo. Pipino e Gandalf si trovavano laggiù, in mezzo al massacro, e a Merry il piccolo manipolo di soldati non sembrava sufficiente per salvare la città morente. Quando si fermarono per l’ultima sosta prima di gettarsi nella battaglia, Merry era ormai caduto in una profonda depressione che non credeva potesse peggiorare. Ma si sbagliava.

Boromir non aveva fatto alcun preparativo per accamparsi, sebbene il Maresciallo Elfhelm, che guidava il loro èored, avesse detto che avevano molte ore a disposizione prima di cavalcare di nuovo. Boromir aveva semplicemente appoggiato a terra la sella di Fedranth e ci si era seduto sopra, mordendosi le nocche di una mano, assorto nei suoi pensieri. Dernhelm si offrì di accendere un fuoco, ma Boromir lo ignorò. Merry, che non aveva voglia né di mangiare né di parlare, si sedette ai suoi piedi in un simile atteggiamento abbattuto.

“Dal tuo comportamento si potrebbe pensare che stiamo fuggendo dalla battaglia, invece di andarle incontro”, osservò Dernhelm.

“Non è la battaglia che cerco”, rispose Boromir.

Sia Dernhelm che Merry si voltarono a guardarlo sorpresi.

“Non è per questo che siamo qui?” Domandò Merry.

“Io sono qui per aiutare la mia città”.

“Certo, distruggendo i suoi nemici”, disse Dernhelm.

Boromir rivolse al cavaliere il suo sguardo bendato, e aprì le braccia in un gesto di impotenza. “A cosa potrei servire in battaglia? Quale aiuto potrei portare a Minas Tirith, morendo sui campi innanzi ai suoi cancelli?”

“Quale onore è più grande che morire per la propria città? Per il proprio popolo?”

Una smorfia amara incurvò le labbra di Boromir. “Non servirò a nulla al mio popolo se sarò morto”, disse a bassa voce. “Certo, combatterò se devo, ma avevo sperato di arrivare a Minas Tirith con Théoden, e poi unirmi alla difesa della città. Ora trovo tutti gli eserciti di Mordor tra me e il cancello”.

Merry scrollò le spalle, e in tutta innocenza, domandò, “Il Cancello è l’unica entrata?”

Dernhelm sbuffò con fare indignato, disprezzando la sua codardia, ma Boromir si raddrizzò con un’espressione di speranza sul viso.

“No, non lo è”. Si rivolse a Merry, sorridendo in modo strano, e disse, “Dove siamo accampati?”

“Non lo so”, rispose lo hobbit. “Devo chiederlo a Elfhelm?”

“Glielo chiederemo insieme”.

Trovarono il Maresciallo presso un fuoco da campo. Elfhelm sembrò piuttosto sorpreso nel vedere due dei suoi clandestini presentarsi a lui così apertamente, e ordinò rapidamente ai suoi compagni di lasciarlo. Quando Merry e Boromir raggiunsero il fuoco, Elfhelm era solo. Lanciò a Merry un’occhiata in tralice, ma si inchinò cortesemente a Boromir.

“Cosa desideri da me, mio signore? Cerchi notizie di Mundberg e della battaglia?”

“No, ho già sentito i racconti dei soldati. Vorrei sapere dove siamo accampati e quando intendiamo ripartire”.

“Siamo accampati nella valle Cavapietra, a sette leghe dal Rammas Echor. Al tramonto, o quando le guide riterranno sia il tramonto, partiremo per Mundberg. Il Re Théoden spera di unirsi alla battaglia prima del sorgere del sole”.

Elfhelm studiò il viso di Boromir nella luce fioca, e Merry credette di vedere sia pietà che rispetto negli occhi del Cavaliere. “Il mattino ci dirà se la Torre di Guardia vive o muore”.

“Vive”, lo rassicurò Boromir, “Così come me. E presto starò di nuovo sui suoi bastioni”.

“Se con la forza delle armi è possibile passare i cancelli del Mundberg, allora i Cavalieri di Rohan lo faranno”.

“Non dubito del tuo valore, Elfhelm, ma non posso sperare nella vittoria. Il mio posto è con la gente di Minas Tirith, non con i Rohirrim, e con il tuo permesso, mi unirò a loro”.

Elfhelm sorrise. “Non hai chiesto il mio permesso per cavalcare con noi e non hai bisogno di chiederlo per andartene. Va’ dove il tuo dovere ti guida, Capitano di Gondor”.

“Mi aiuterai?”

Il viso del Maresciallo divenne guardingo. “Che genere di aiuto ti posso dare?”

“Trova uno degli Uomini Selvaggi che parli la lingua comune, e che sappia come guidarmi attraverso la foresta, e portalo da me”.

Elfhelm considerò la richiesta per un istante, poi annuì. “Sì, posso farlo. Aspettami al tuo accampamento, così che Éomer non ti trovi qui, e io ti porterò la tua guida".

Poco dopo, Elfhelm raggiunse Boromir presso il falò che aveva acceso, con un Uomo Selvaggio al suo fianco. Indicò Boromir e fece segno all’Uomo Selvaggio di andare avanti. “Non dice il suo nome, ma parla la lingua comune abbastanza bene, e dice di conoscere ogni roccia e fessura di queste montagne”.

Boromir cominciò a ringraziare Elfhelm, ma il maresciallo scomparve rapidamente come era venuto, evidentemente per evitare di farsi vedere insieme ai cavalieri fuggitivi. L’Uomo Selvaggio si rannicchiò accanto al fuoco e rivolse i suoi brillanti occhi nocciola verso l’uomo che sedeva davanti a lui.

“Tu vai a Città di Pietra”.

“Sì. Devo andare alla Città di Pietra per i sentieri della foresta che portano alle montagne. Conosci quei sentieri?”

“Conosco tutti i sentieri”.

“Dove finiscono le Montagne Bianche, c’è uno sperone di roccia. Unisce le pendici delle montagne al fianco del monte Mindolluin, dove si trova la Città di Pietra. Quel ponte è l’unica via per andare dalle foreste dell’Anòrien al Mindolluin senza attraversare le pianure”.

“Sentiero di pietra. Conosciamo sentiero di pietra. Noi attraversiamo”.

“Puoi portarmi al sentiero di pietra?”

L’Uomo Selvaggio sollevò un dito, simile a legno levigato, e toccò la benda che copriva gli occhi di Boromir. “Uomo senza occhi bisogno di Uomo Selvaggio”.

“Sì. Conosco i sentieri della Foresta di Druadan. Ci andavo spesso da ragazzo. Ma ora, non posso trovare la strada da solo, e nessuno dei Cavalieri la conosce. Se mi porterai al cancello posteriore alla fine del sentiero di pietra, la piccola porta nel muro della Città di Pietra, accanto alle Case dei Morti, ti darò tutto ciò che è in mio potere per ricompensarti”.

Il grottesco sorriso comparve di nuovo. “Uomo senza occhi può uccidere gorgûn?”

“Gorgûn?”

L’Uomo Selvaggio sputò nella polvere. “Orchi”.

“Certo. Sono in grado di uccidere orchi, se è necessario”.

“Bene. Uccidi gorgûn, e io ti porto a città”.

“Hai la mia parola. Ucciderò ogni orco che incontrerò, e con piacere”.

L’Uomo Selvaggio balzò in piedi. “Uomini a cavallo vanno con buio. Io ti trovo. Ti guido”.

“Grazie”.

Merry attese finché la piccola, agile figura non fu scomparsa nelle ombre, poi si rivolse a Boromir trattenendo un grido. “Non puoi lasciare i Cavalieri! Cosa accadrà se quell’uomo dei boschi sbaglia la strada? Se vi perdete nella foresta?”

“Sarò comunque più sicuro che sul campo di battaglia. Merry, devo andare”.

“Allora verrò con te”.

“Non puoi. Hai giurato di servire Re Théoden”.

“Che mi importa?” gridò lo hobbit, con la disperazione nella voce e le lacrime che cominciavano a salirgli agli occhi.

“Significa che il tuo dovere verso di lui viene prima di ogni altra cosa”.

“Non mi importa del mio dovere”, insistette, anche se il dolore nella sua voce smentiva le sue parole. “Ho promesso…” Si interruppe mordendosi le labbra e arrossì furiosamente.

"Che cosa hai promesso?”

Chinando la testa vergognandosi della sua stessa audacia, mormorò, “Ho promesso che non ti avrei mai più lasciato a combattere da solo”.

Un lungo silenzio pensieroso seguì le sue parole. Poi Boromir tese la mano e aspettò che Merry la prendesse nella sua. “Tu mi fai più onore di quanto io meriti”.

“Dico sul serio. Non ti lascerò andare da solo”.

“Non vado per  combattere, Merry, ma per evitare la battaglia. Sei tu che vai verso la guerra, e se l’onore me lo permettesse, ti prenderei con me per proteggerti dai pericoli”.

“Sarebbe così grave se venissi con te, invece che andare con Théoden?”

Una voce bassa ma decisa venne dalla zona appena fuori dal cerchio di luce del fuoco. “Saresti uno spergiuro”.

Dernhelm entrò nella zona illuminata, chinandosi per scaldarsi le mani sulle fiamme danzanti. Lo sguardo che rivolse a Merry era pieno di comprensione, ma freddo e implacabile. “Ti sei legato al Re del Mark, e gli devi la tua obbedienza e la tua vita”.

 “Anche a Boromir devo la vita”.

“No, piccoletto”, mormorò Boromir, “Hai già ripagato i miei miseri sforzi mille e mille volte. Puoi tranquillizzarti: non infrangerai alcuna promessa lasciandomi andare per la mia strada a Minas Tirith”.

Merry tirò su col naso, sconsolato. “Che cosa succede? Perché non capisco quello che voi due vedete così chiaramente e che vi rende così sicuri di quello che devo fare?”

“È una questione di onore, Merry. Il tuo onore è legato per sempre al Re Théoden, e se lo abbandoni adesso lo perderai. Diventerai quello che sono io”.

Boromir sollevò un mano per fermare la protesta di Merry. “Pensaci. Pensa a cosa significa camminare per il campo di battaglia, dopo la fine dei combattimenti, e vedere attorno a te i Cavalieri del Mark caduti, abbattuti dal nemico, e sapere che tu non eri lì con loro per combattere per il tuo Re”.

“Preferiresti che io morissi in battaglia?” domandò Merry, con voce sottile.

“No!” Con sorpresa di Merry, Boromir lo afferò per la mano, stringendolo a sé in un fiero abbraccio.

“No, mai. Ma io so che cosa significa perdere il proprio onore, vedere la tua stima di te stesso distrutta dalle tue cattive scelte, ed è un dolore peggiore di qualsiasi ferita. Ti chiedo solo di pensarci, Merry”.

Merry ci pensò. Non dormì né mangiò, ma rimase seduto accanto al fuoco a pensare a tutte le scelte che aveva fatto durante il lungo viaggio dalla Contea all’Anòrien. Pensò all’idea di lasciare andare Boromir senza di lui, e pianse. Poi pensò alla battaglia che incombeva, e la paura gli attanagliò le viscere. Ma i suoi pensieri tornavano sempre al momento in cui si era inginocchiato davanti a Théoden, con la sua piccola spada tra le mani, e aveva chinato il capo con la mano gentile del re tra i suoi riccioli. Gli tornarono in mente le sue parole a Boromir, quando aveva detto che sarebbe stato un disonore per lui restare indietro, quando tutti i suoi amici erano andati alla guerra. Sapeva che andare a Minas Tirith con Boromir non significava certo prendere la via dei codardi, ma non era la stessa cosa che adempiere al suo voto, e infliggere il suo piccolo colpo in nome della Compagnia e della Contea, in quella terribile guerra dell’Anello.

Non riusciva a prendere una decisione, e non trovò pace per tutto il giorno. Molte lacrime gli scorsero lungo le guance. Molte parole di rabbia gli affiorarono alle labbra, ma le inghiottì prima uscissero. Guardò Boromir che fingeva di dormire, e per l’ennesima volta si augurò che l’uomo accettasse di cavalcare con i Rohirrim, liberandolo dal fardello di quella scelta. Ma Boromir non avrebbe cambiato idea, e Merry non riusciva a trovare alcun argomento che potesse persuaderlo.

Quando i corni suonarono per richiamare i Cavalieri ai loro ranghi, Merry sellò meccanicamente il cavallo e preparò la sua roba. Boromir lavorò in silenzio accanto a lui. Quando avevano ormai finito, l’Uomo Selvaggio apparve dagli alberi circostanti e si avvicinò a Fedranth.

“Noi andiamo”. Disse, senza preamboli o saluti.

Boromir annuì e si voltò in direzione di Merry. Lo hobbit restò come intorpidito davanti a lui, con la testa abbassata, strascicando un piede nella polvere.

“Che cosa hai deciso, piccoletto?”

“Se tu…se tu credi che io debba andare con Théoden, allora forse devo farlo”.

Al secondo altro richiamo del corno Dernhelm giunse presso di loro, conducendo a mano il suo cavallo. “Cavalca con me, mastro Holbytla”.

Montò in sella, poi tese una mano per sollevare Merry, ma Merry ignorò l’offerta. I suoi occhi rimasero fissi sul viso di Boromir, cercando di vedere il dolore che sapeva esservi. Con gli occhi bendati, solo la mascella contratta e le labbra tese tradivano lo stato d’animo del guerriero. Boromir sollevò facilmente Merry sulla sella di Dernhelm, poi si mosse verso il suo cavallo. I suoi gesti erano bruschi, quasi rabbiosi, e Merry capì che stava cercando di sottrarsi agli occhi dello hobbit mentre controllava le sue emozioni.

Una volta in sella, Boromir trafficò nervosamente con le staffe, le cinghie e la bardatura, infine sollevò la testa, rivolgendo un viso apparentemente calmo allo hobbit. Dernhelm guidò il suo cavallo vicino a quello di Boromir, e Merry si allungò a stringere il braccio del guerriero.

“Lasciami venire con te”, implorò un’ultima volta.

“No, mastro Scudiero. Il tuo dovere è con il tuo Re e il tuo signore. Devi restare a combattere al suo fianco”.

“Lui non mi vuole”.

Boromir sorrise comprensivo. “E Aragorn non vuole me. Ma hanno ugualmente bisogno di noi”.

“Vorrei combattere al tuo fianco, Boromir. Ho perso la mia occasione a Parth Galen, e tutto quello che è successo dopo è stata colpa mia”.

Con grande sorpresa di Merry, Boromir rise. Era la prima volta che lo sentiva ridere da tanto tempo.

“Nulla di tutto ciò è stato per colpa tua, Merry. Né di Pipino, e nemmeno mia, anche se accettarlo mi è costato grande dolore e dubbio. Non mi piace essere una pedina nelle mani di re e stregoni. Sono un uomo abituato a decidere il mio destino. Ma in questo, sono solo una delle tante pedine, una delle tante armi, passata di mano in mano in una battaglia senza fine. Tutto ciò che posso fare è colpire dove posso, e dove il colpo può fare più danno. E tu devi fare lo stesso”.

Merry strinse forte il suo avambraccio, e scacciò le sue lacrime, così poco adatte a un soldato. “Ti rivedrò ancora?”

“Lo spero, Merry. Quando la battaglia sarà finita, e i nostri eserciti si incontreranno sul campo, vieni a cercarmi”.

“Lo farò. Io…io non so cosa dire…”

“Calmati, piccoletto. Cavalca col tuo re verso la gloria, e uccidi un nemico o due per me”.

Merry sorrise attraverso le lacrime. “Solo due?”

“Ho imparato l’umiltà. Due mi basteranno.” La sua mano rispose alla stretta dello hobbit e la sua voce si abbassò a un mormorio. “Cavalca bene, combatti con coraggio, e ricorda ciò che ti ho insegnato. I miei pensieri e le mie speranze sono con te, Guerriero della Contea”.

“E i miei con te, Capitano di Gondor. Addio”.

“Addio.” Boromir diede un’ultima stretta al braccio di Merry, poi si rivolse alla sua piccola guida. “Andiamo”.

L’Uomo Selvaggio afferrò la cavezza del cavallo e cominciò a camminare senza una parola. L’animale lo seguì obbediente, mentre Boromir lasciava le redini allentate sul suo collo. Merry lo osservò allontanarsi, e si sentì come se il suo ultimo amico sulla Terra di Mezzo lo avesse abbandonato. Ora era davvero solo, e cavalcava verso la guerra con un esercito che non lo voleva, nient’altro che bagaglio issato alla sella di Dernhelm.

Quando il cavallo di Boromir stava per raggiungere gli alberi, nascondendo l’uomo alla sua vista, Merry sollevò la mano e gridò, “Porta il mio affetto a Pipino, quando lo trovi!”

Boromir fermò il cavallo, si voltò e annuì, sorridendo. Poi si inoltrò nelle fitte ombre della foresta, e scomparve. Merry si lasciò scivolare all’indietro stancamente, tirandosi il cappuccio sul viso per nascondere le lacrime al giovane cavaliere dietro di lui. Un mano gli si posò sulla spalla, e la voce di Dernhelm risuonò vicina al suo orecchio.

“Fatti coraggio, piccolo guerriero. Andiamo alla guerra, dove molte ferite possono essere curate nella furia della battaglia”.

“Pensavo che le spade e le lance fossero fatte per infliggere ferite, non per guarirle”.

“Per dimenticarle, allora. O per porvi fine, come alla vita, col taglio di una lama”.

Merry non disse nulla. Sapeva che quelle parole intendevano confortarlo, ma le parole di Dernhelm non gli recavano alcun sollievo.

 

Continua…

 

 

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Capitolo 9
*** Il Nemico alle Porte ***


Nuova pagina 1

Capitolo 9: Il nemico alle porte

 

La sua guida era veloce e il passo del suo cavallo sicuro. Boromir non doveva fare altro che stare in sella e ascoltare i suoni della foresta. Sentiva che il sentiero stava salendo, e man mano che gli alberi si infittivano accadeva di frequente che qualche ramo o cespuglio lo schiaffeggiasse, rischiando di farlo cadere. Si stavano inoltrando nelle profondità delle foreste dell’Anorien, risalendo le pendici delle Montagne Bianche, verso il Mindolluin, verso casa.

L’Uomo Selvaggio camminava in silenzio, lasciando Boromir con la sgradita compagnia dei suoi pensieri. Lo scorrere del tempo era penoso, perché non aveva alcun pensiero sicuro a cui aggrapparsi. Come tutte le vie conducevano a Minas Tirith e alla guerra, così anche tutti i suoi pensieri lo riportavano inevitabilmente al rimpianto, al dolore e alla paura. Boromir cercò di distrarsi calcolando la direzione che percorrevano e il passare delle ore. Era un compito impossibile e frustrante, ma almeno lo tenne occupato per la maggior parte del viaggio.

Nonostante tutti i suoi sforzi, i pensieri di Boromir tornavano sempre all’esercito dei Rohirrim e al piccolo hobbit che cavalcava insieme a loro. Avrebbe preferito avere Merry con lui, invece che saperlo in battaglia, ma cercò di allontanare quel pensiero. Sapeva che era meschino e ignobile, da parte sua, anteporre le sue paure e le sue insicurezze al dovere e all’onore di Merry, ma era più forte di lui. Merry gli era caro, e la possibilità che potesse andare incontro alla morte sul campo di battaglia lo riempiva di un terrore indicibile.

Come avrebbe fatto ad affrontare l’interminabile oscurità degli anni a venire senza Merry a dargli luce e risate? Se Merry fosse caduto quel giorno, come avrebbe potuto dormire di nuovo? Con un moto di disgusto scacciò quei tetri pensieri e si dedicò nuovamente a contare i tonfi degli zoccoli del cavallo sul sentiero e il numero dei rami che gli schiaffeggiavano il viso. Ma sempre, inesorabilmente, ritornava alla sua mente la stessa terribile domanda. E se Merry fosse morto? E se la loro stretta di mano d’addio fosse stata l’ultima volta che avrebbe sentito la piccola mano del mezzuomo tra le sue? E se le tristi suppliche di Merry di prenderlo con sé fossero state le ultime parole che avrebbe sentito da lui? E se Dernhelm, nella sua assoluta devozione al dovere, avesse condannato il gentile hobbit alla morte?

Non aveva risposte a queste domande, ma continuava a ripetersele ugualmente. Le leghe scorrevano lente sotto i pazienti passi di Fedranth, l’Uomo Selvaggio camminava con calma davanti al cavallo, la notte svanì, e l’umore di Boromir divenne ancora più depresso.

Finalmente il loro sentiero cominciò a scendere. Avanzava ancora tra gli alberi, stretto e contorto, ma la sua regolare pendenza in discesa diceva a Boromir che si stavano avvicinando alla fine del loro viaggio. Avevano raggiunto il limite orientale delle Montagne Bianche e l’ultimo bastione di roccia che si alzava sulle ampie pianure meridionali.

Uscendo da una profonda rientranza della montagna, senza più nulla che li separasse dal monte Mindolluin, Boromir udì il chiaro, distante richiamo dei corni nel vento. Tirò le redini e fermò Fedranth, alzando la testa per sentire di nuovo il suono.

“Uomini del Cavallo”, osservò la sua guida, brevemente.

“Sì”. Mormorò Boromir, e nella sua mente immaginò Merry che galoppava selvaggiamente verso la battaglia, appollaiato sulla sella di Dernhelm. Impallidì, e la bocca prese una piega ansiosa, ma rimase calmo e immobile in sella. “I Rohirrim sono arrivati a Minas Tirith”.

Rilasciando le redini, diede di sprone al cavallo con i talloni. L’Uomo Selvaggio proseguì, incamminandosi lungo il sentiero nella foresta. Boromir sentì che il vento era cambiato, anche se non sapeva cosa significasse. Portava altri rumori ora, nessuno dei quali rassicurante, e dopo poco giunse anche odore di bruciato. Se anche la sua guida se ne era accorta non disse nulla, e Boromir tenne per sé la sua inquietudine. Agitandosi non avrebbe certo reso più breve la strada, ma a si trattenne stento dallo strappare le redini di mano all’Uomo Selvaggio e spronare Fedranth al galoppo, correndo giù per la montagna da solo. È una follia, si disse. Un atto stolto e sconsiderato. Strinse i pugni per evitare la tentazione di prendere le redini.

L’ombra alata piombò su di loro come un’onda di freddo e di paura. Boromir stava ascoltando i rumori di battaglia in lontananza, cercando di non pensare al destino del piccolo hobbit, quando sentì il gelo passare sopra di lui. Fedranth si fermò all’improvviso, diventando come di marmo tra le sue ginocchia. L’Uomo Selvaggio mormorò un’imprecazione nella sua lingua e scappò a nascondersi. Boromir rimase seduto sul cavallo spaventato, curvo come per proteggersi dall’ombra, con il corpo teso e tremante.

Nazgûl! I Nazgûl erano stati mandati da Minas Morgul per gettare la loro ombra sui dolci campi di Gondor, e per qualche nuova stregoneria del Nemico ora avevano le ali! In passato Boromir aveva già provato quel gelo e quello sgomento, una volta in cui vagando si era avvicinato troppo a Imlad Morgul e aveva sentito gli occhi della torre su di lui. Ma solo ora che aveva viaggiato con Aragorn ed era stato prigioniero nelle celle di Saruman aveva un nome con cui chiamarli. Nazgûl, Gli Spettri dell’Anello. Solo il nome bastava a infondere il terrore nel cuore degli uomini. E ora quegli esseri erano giunti a Gondor.

L’ombra passò velocemente, volando in circoli verso il Mindolluin e la battaglia sulle pianure. Una volta passata, il cavallo e l’uomo si riebbero, e ricominciarono a respirare normalmente. Un nuovo senso di urgenza si impossessò di Boromir. Con il tocco del Respiro Nero era arrivata la certezza: quella era la resa dei conti con il Nemico. Sauron aveva scatenato la sua arma più potente per distruggere Minas Tirith e i suoi difensori, e Boromir figlio di Denethor sarebbe stato tra loro al momento dell’attacco, anche se avesse dovuto volare sulle stesse ali dei Nazgûl!

Udì i passi dell’Uomo Selvaggio che si avvicinavano di nuovo, e una mano afferrò le redini di Fedranth.

“Male nell’aria”, mormorò l’Uomo Selvaggio.

“Sì. Dobbiamo fare presto.” Reso impaziente dall’inquietudine, Boromir spronò Fedranth al galoppo leggero, senza aspettare che la sua guida lo conducesse. L’Uomo Selvaggio si affrettò per raggiungerli, e insieme, scesero per il sentiero serpeggiante.

 

*** *** ***

 

Denethor sedeva nella stanza buia nella torre, con le spalle curve per l’età e il dolore, e il viso scavato dalla sofferenza. Teneva il palantìr appoggiato sulle ginocchia, stretto tra le sue mani stranamente immobili e sottili, ma i suoi occhi non guardavano la scintillante superficie del globo. Pieni di rimpianto, rimanevano fissi solo sul viso di suo figlio.

Faramir si agitava delirante sul suo giaciglio, consumato dalla febbre, inconsapevole del padre che lo vegliava. Denethor si sforzava inutilmente di capire le sue parole incoerenti. Nell’abisso del suo rimorso pregava silenziosamente che suo figlio trovasse anche solo un momento di lucidità, una sola parola d’amore o di perdono per suo padre, ma sapeva che le sue preghiere sarebbero state vane.

Un crudele destino si era abbattuto sull’Ovest, e benché tutti gli Uomini stessero soffrendo, nessuno soffriva tanto quanto il signore di Minas Tirith. I suoi figli gli erano stati strappati. E presto la città li avrebbe seguiti. A quel punto, nulla più sarebbe rimasto tra Mordor e la Terra di Mezzo se non una folla dispersa di uomini spaventati, guidati da uno stregone semi-folle e da un re profugo e vagabondo.

Denethor sapeva esattamente quale destino lo attendesse, lo aveva visto nel palantìr e non poteva dubitare l’evidenza di ciò che aveva visto con i suoi occhi. Ma anche sconfitto, non si sarebbe inchinato alla volontà del Nemico. Non si sarebbe arreso docilmente all’esilio, alla prigionia o alla morte per mano del nemico. Lui era Denethor figlio di Echtelion, della stirpe di Nùmenor, e non si piegava alla volontà di alcuna creatura, neppure all’Oscuro Signore.

Distogliendo a fatica lo sguardo dal viso del figlio, Denethor osservò il globo posato sulle sue ginocchia. La sua superficie, dapprima velata dalla nebbia, mutò per mostrare la battaglia che stava infuriando davanti alle sue mura. Schiere di orchi, eserciti di uomini feroci, mûmakil con torri d’assedio sul dorso. Tutta la potenza della Terra di Tenebra si era scatenata contro la città fortificata. Avrebbero compiuto il loro dovere e sopraffatto le misere forze di Gondor e dei suoi alleati, che apparivano ai suoi occhi come piccoli residui di speranza nell’oscurità che avanzava. E infine, come a sigillare il fato di Minas Tirith e del suo signore, apparve sulle acque dell’Anduin una grande flotta di navi dalle vele nere.

Un inspiegabile sorriso danzò sulle labbra del Sovrintendente, mentre metteva da parte il palantìr e si alzava in piedi. Sembrava vecchio e curvo per le preoccupazioni, ma una luce stana gli illuminava gli occhi. Si rivolse al mezzuomo, che attendeva in un tetro silenzio presso la porta. “Convoca i miei servitori e poi vai, Peregrino figlio di Paladino. Ti esonero dal mio servizio. Vai a morire come meglio ti aggrada”.

 

*** *** ***

La grande nave galleggiava all’ancora nel porto di Harlond. Dalla plancia scendeva una colonna di orgogliosi guerrieri, vestiti di cotte di maglia e armati per la guerra, guidando cavalli fieri e letali come i loro cavalieri. Il primo a mettere piede sul molo, il primo a toccare il suolo di Gondor, fu Aragorn. Avvertì la risposta del contatto attraverso tutto il corpo, come se la terra stessa stesse gridando il suo benvenuto. Sollevò il capo e i suoi occhi cercarono il pallido scintillio delle mura della città, che si innalzavano eleganti al di sopra della cortina di fumo e fiamme della battaglia.

Halbarad si avvicinò a lui, seguito dai figli di Elrond. Il Ramingo portava lo stendardo di Re Elessar, lo stendardo tessuto dalle mani di Arwen Stella del Vespro,  quello stesso stendardo che era stato arrotolato presso il suo letto a Edoras, e che aveva spiegato al vento per la prima volta, appendendolo all’albero maestro della nave nera. Ora sventolava orgogliosamente su una lunga asta, e le gemme di cui era intessuto catturavano la luce del sole.

Aragorn montò in sella. Attorno a lui, i guerrieri che avevano affrontato al suo fianco i Sentieri dei Morti, ora si preparavano a una prova di diverso genere. Aragorn gettò uno sguardo allo stendardo, poi rivolse la sua attenzione al nemico davanti a lui, e alla battaglia che lo attendeva.

Sguainando Andùril, indicò con la spada le mura di Minas Tirith, distanti appena un miglio, e con voce forte e chiara gridò, “Quella è la nostra via!”

“Il tuo trono ti attende, Re Elessar”, disse Halbarad. “A lungo ho atteso di vederti camminare in trionfo attraverso le strade della Città Bianca”.

“Non siamo ancora arrivati, amico mio.”

Aragorn trovava sconcertante la sicurezza di Halbarad, ma non disse nulla. Guardando di nuovo il simbolo dell’Albero Bianco sullo stendardo, rimpianse per un istante che fosse Halbarad, e non un altro, a entrare a Minas Tirith al suo fianco quel giorno. Poi si liberò di quel pensiero e di tutte le distrazioni e i dubbi, per concentrare la sua mente e il suo cuore sul compito che lo attendeva.

A Minas Tirith!” gridò, e condusse il suo esercito verso la lotta.

 

*** *** ***

 

L’odore di bruciato diventava sempre più forte, rendendo arida la gola di Boromir. La cenere gli ricopriva i capelli e il mantello, facendolo starnutire. Erano usciti dal riparo degli alberi, e per la prima volta da molti giorni, Boromir sentì il sole sul suo viso. Le nubi si stavano diradando ed era pieno giorno, ma, davanti a loro, tutto era fumo.

L’Uomo Selvaggio fermò Fedranth tenendo una mano sulla briglia. “La Città di Pietra brucia”, disse.

“Le truppe di Mordor hanno assediato la città e incendiato le sue strade”.

“Fuoco laggiù, alla fine del sentiero di roccia. Vedo fiamme e fumo. Alte fiamme. Uomo senza occhi troverà fuoco oltre la porta”.

Boromir aggrottò la fronte, confuso. Il cancello posteriore alla fine del ponte di roccia si apriva su Rath Dìnen, la Via Silente. Nessuno mai andava alle case dei morti, se non per curare le tombe o deporre un signore della città a riposare nelle loro aule. Come poteva il fuoco essere giunto a quel luogo sacro, a meno che la città non fosse già caduta e gli orchi la stessero profanando dandosi al saccheggio? Il rumore della battaglia sulle pianure continuava, dicendogli che la battaglia non era ancora perduta, ma più vicino, come un presagio minaccioso, sentiva lo scoppiettare delle fiamme.

“Andiamo. Facciamo presto”, disse.

“Uomo sta attento. Sentiero di roccia è brutto posto per cavallo, brutto posto per uomo. Tu fai un passo falso, e cadi lontano”.

Boromir non dubitò per un momento della verità delle sue parole, e fu quasi grato di non poter vedere lo spaventoso abisso che si apriva ai lati del ponte, mentre si incamminavano sull’ esile striscia di roccia che conduceva al Monte Mindolluin e alla sua città.

Si muovevano lentamente ma con passo regolare, e Fedranth non dava segni di nervosismo, guidato dalla mano sicura dell’Uomo Selvaggio.

Erano a metà strada, quando l’ombra piombò nuovamente su di loro.

Fu più rapida questa volta, e più vicina, volando rasente al sentiero lasciando una scia di freddo mortale e il nauseante fetore della corruzione. Fedranth nitrì per il terrore e si impennò,  scalciando l’aria con gli zoccoli. Boromir, colto alla sprovvista, perse l’equilibrio e cadde di sella con violenza. Udì il rumore degli zoccoli che colpivano il terreno accanto a lui, un altro nitrito, e istintivamente rotolò via allontanandosi dall’animale imbizzarrito.

Il momento successivo sentì mancare il terreno sotto di lui, e cominciò a scivolare oltre il limite del precipizio. Cercò di trovare un appiglio nel terreno, piantando le dita inutilmente nel terriccio smosso e nella ghiaia, mentre i suoi piedi cercavano a tentoni un sostegno nella parte verticale di roccia, ma lo slancio lo trascina inesorabilmente verso la sua fine.

Improvvisamente la sua mano sinistra trovò una fessura nella roccia al limite del precipizio. La afferrò con veemenza, affondando le dita nel piccolo spazio, spostando il suo peso su quel braccio. Il dolore esplose improvvisamente nelle recenti ferite alla spalla e al fianco, e Boromir gridò di dolore e di rabbia.

 

*** *** ***

 

Merry affondò la spada con tutta la forza e il terrore che aveva. La lama perforò tessuto e ferro, penetrando in profondità nella carne della creatura, e il Cavaliere Nero crollò in avanti con un orribile grido. Merry cadde in ginocchio, con il braccio che perdeva sensibilità, e la spada scivolò dalla sua mano inerte.

Éowyn! Éowyn!” gridò.

La Bianca Dama di Rohan, con le ultime forze rimaste si alzò in piedi affrontando la grande ombra e affondando la spada sotto la sua corona scintillante. Il mantello, l’armatura, la corona, e la spada spezzata caddero al suolo insieme, e Éowyn crollò esanime sopra di esse. Merry, terrorizzato, acquattato tra i morti, sentì il raccapricciante lamento del Nazgûl morente.

 

*** *** ***

 

Il grido terrificante riempì Boromir di terrore e disperazione. Aggrappandosi al liscio muro di roccia, con il corpo che bruciava di dolore e la mente annebbiata dal panico, poteva solo stringersi alla fredda roccia, e pregare che la morte fosse rapida. Il freddo mortale del Nazgûl lo avvolgeva, e il suo grido sembrava lacerare l’aria. Gridò in risposta la sua sfida. In quel momento estremo gli pareva che il grido dello spettro volesse burlarsi di lui.

Improvvisamente come era venuto, il gelo svanì. Il calore ritornò a scorrere nelle vene di Boromir, e con esso nuovo dolore, ma la disperazione era scomparsa insieme all’ombra dello spettro. Gemendo di dolore e di rabbia ad ogni respiro, si sforzò di trovare un qualche appoggio per i suoi piedi, di riguadagnare il sentiero. Il suo piede destro trovò una piccola sporgenza, e spostò il peso su di esso, lasciandosi sfuggire un doloroso sospiro per il sollievo alla sua spalla ferita.

Stava raccogliendo le forze per un altro tentativo, quando una voce risuonò spora di lui.

“Tieni forte.”

Boromir sollevò la testa verso la voce, ma non ebbe la forza di rispondere. Un momento dopo, dure mani familiari lo afferrarono per l’avambraccio sinistro, e sentì una corda stringersi attorno al suo polso.

“Il cavallo ti tira su”, spiegò l’Uomo Selvaggio.

Boromir ebbe appena il tempo di serrare la mano destra alla corda tesa e di riflettere. Sarebbe stato doloroso. Molto doloroso. Poi sentì il rumore di zoccoli sul terreno roccioso, la corda si conficcò nella sua carne, e il dolore esplose di nuovo dentro di lui.

Lentamente, troppo lentamente per il suo corpo stremato, le forze unite di cavallo e uomo, sollevarono Boromir fino al sentiero di roccia. Quando finalmente fu di nuovo sdraiato sul terreno, non poté fare altro che stringere a sé il suo braccio intorpidito, ansimando in preda a un violento tremito. L’Uomo Selvaggio si acquattò accanto a lui, mormorando qualcosa tra sé e sé, mentre Fedranth gli dava piccoli colpetti col muso. Boromir li ignorò entrambi. Era vivo. Esausto e sfinito dal dolore delle sue ferite, ma vivo.

Questo pensiero lo spinse a muoversi di nuovo. Si alzò con cautela dal solido conforto del terreno, aiutandosi con il braccio dell’Uomo Selvaggio e con le redini di Fedranth per mantenere l’equilibrio. Il cavallo, ora che il terrore alato era passato, era tranquillo e paziente, e lasciò che Boromir si arrampicasse in sella senza muoversi. Nuovamente in sella, Boromir scacciò il dolore e la debolezza e si costrinse a raddrizzare la schiena.

Erano ormai in vista delle mura di Minas Tirith. Erano ormai alle sue porte. Un altro piccolo sforzo e sarebbe stato a casa. Serrando la mascella e sollevando il mento, spronò gentilmente il cavallo e riprese il cammino.

Raggiunsero la fine del sentiero senza altri incidenti. All’ombra del muro alto e silenzioso, Boromir scese di sella e porse le redini alla sua guida. In due passi fu davanti al cancello. Si fermò, con la mano che poggiava delicatamente sul legno grezzo del cancello, e gridò a pieni polmoni,

“Sentinella! Apri il cancello!”

Nessun grido giunse in risposta. Nessun rumore di sbarre o chiavistelli che si aprivano. Boromir rimase in ascolto per qualche istante, poi estrasse la spada e picchiò con l’elsa contro la porta. Il legno scricchiolò sotto la potenza dei colpi. “Aprite, in nome del Lord Denethor!”

Ma ancora nessuno rispose, e Boromir si accigliò, frustrato per la mancata risposta. Il cancello posteriore era sempre sorvegliato. Giorno e notte, in pace e in guerra, i soldati della Guardia Cittadina restavano di guardia al cancello. Era l’unica via per un eventuale nemico di introdursi nelle mura della città senza prima attraversare i Campi dei Pelennor, e perciò era il punto più vulnerabile delle difese cittadine. Non era mai lasciato incustodito.

Eppure, in quel momento di crisi per la città e per tutta Gondor, il cancello era stato abbandonato. Quanto più gridava e bussava, tanto più Boromir si allarmava. Sentiva l’odore del fumo e  lo scoppiettio delle fiamme al di là del muro, e fu colto da una sorta di frenesia. Rath Dìnen stava bruciando. Le case dei morti erano state attaccate da qualche nemico sconosciuto, e il cuore stesso della sua città era in fiamme.

Colpì la porta un ultima volta, poi arretrò. “Devo entrare”, ringhiò.

L’Uomo Selvaggio rimase fermo pazientemente accanto a lui, tenendo le redini di Fedranth.

“Ho portato Uomo senza occhi a Città di Pietra. Io vado, prima che ombra nera ritorni”.

“Aspetta! Resta un altro poco. Ti prego”.

“Porta è chiusa”, insistette l’Uomo Selvaggio.

“Allora dobbiamo trovare un altro modo”.

“Non esiste altro modo. Muri di pietra sono alti e duri. Non puoi scalare”.

“L’ho fatto, da ragazzo. Io e mio fratello avevamo trovato una via. Quando non volevamo corrompere le sentinelle o subire l’ira di nostro padre, ci arrampicavamo per il muro, nel punto in ombra dietro il riparo delle guardie. Mi chiedo…”

Avvicinandosi al cancello, Boromir stese la mano sul legno e sollevò i suoi occhi rovinati come a guardare la cima dell’alto muro.

“Era a destra”, ricordò a bassa voce, cominciando a camminare lentamente verso destra, “dietro un albero”.

Molto lentamente, camminò lungo la base del muro verso sud. Ricordava molto bene quel sentiero, una stretta striscia di nuda roccia e terra smossa che aderiva ai piedi del muro, con un salto di centinaia di piedi sotto di essa, che lo attendeva al primo passo falso. Quello che per un bambino sembrava un sentiero stretto, si rivelò non essere affatto un sentiero per un uomo della statura e della mole di Boromir. Quando sentì i rami impigliarsi alla sua manica, si accorse che stava strisciando tenendosi al muro, praticamente sospeso nel vuoto.

Si aggrappò con gratitudine ai robusti rami dell’albero e di avvicinò al grande tronco nodoso. Circondandolo con le braccia vi girò attorno, e trovò uno spazio sufficientemente largo per poggiare i piedi tra le sue radici. Lì si fermò per prendere fiato e considerare il compito che aveva iniziato. E il coraggio gli venne meno.

Non poteva scalare quel muro. Le crepe e le sporgenze che erano bastate come scala a un agile ragazzino non avrebbero mai sostenuto il suo peso. Dubitava che sarebbe anche solo riuscito a trovarle, e sapeva, nauseato per la vergogna e la frustrazione, che non avrebbe avuto il coraggio di tentare.

Rimase appoggiato al muro, lottando per raccogliere tutto il suo coraggio e cominciare l’arrampicata, quando sentì l’Uomo Selvaggio arrivare rumorosamente lungo l’insidioso sentiero. Boromir si spostò il più possibile per fare posto all’uomo, ma questo decise invece di arrampicarsi su uno dei rami più bassi, dove rimase comodamente appollaiato.

“Uomo senza occhi non può scalare muro,” disse laconicamente.

Boromir borbottò qualcosa stizzito, e si voltò facendo scorrere le mani sulla ruvida superficie.

“Uomo cadrà. Morirà sulle rocce. Diventerà cibo per i corvi.”

“Devi proprio godere così tanto a ricordarmelo?”

“Uomini Selvaggi hanno tentato di scalare mura, una volta…”

Boromir colse il tono astuto della sua voce, e si rivolse a lui con rinnovato interesse. “Sì? E tu l’hai fatto?”

“Uomini Selvaggi possono scalare le cime più alte, i pendii più ripidi. Uomini Selvaggi non cadono mai”.

“E allora Uomo Selvaggio scala muro della Città di Pietra e apre il maledetto Cancello!” ringhiò Boromir, spazientito.

“Uomini alti mi uccidono con spade scintillanti. Uomini selvaggi non entrano”.

“Non c’è nessuno lì dentro che ti possa uccidere!” scattò Boromir. “Se ci fossero Uomini Alti con spade scintillanti, avrebbero aperto il cancello.” Esitò un istante, poi continuò, con voce disperata per l’urgenza. “Io devo entrare. La mia città è assediata, la mia gente sta morendo, e io sono bloccato qui, senza poterli aiutare! Devo entrare!”

Seguì qualche istante di silenzio, mentre l’Uomo Selvaggio considerava le sue parole. Finalmente, Boromir udì un fruscio sopra di lui, e alcune foglie caddero sul suo viso. La voce dell’Uomo Selvaggio, quando la udì di nuovo, proveniva da un punto più alto dell’albero.

“Uomo senza occhi torna alla porta. Aspetta.”

Boromir aspettò. Attese fino a quando udì le ossute mani dell’Uomo Selvaggio che grattavano la roccia del muro, poi ritornò alla sicurezza dello sperone di roccia davanti al cancello sbarrato. Una volta lì chiamò Fedranth, che arrivò con un leggero rumore di zoccoli, e presto sentì il suo fiato caldo sul suo collo.

Gli accarezzò il naso, per tenere occupate le mani e per rassicurare un poco il cavallo nervoso, poi si appoggiò al solido legno della porta, e attese.

Finalmente, quando ormai i suoi nervi sembravano sul punto di cedere per la tensione, udì un rumore metallico, e sentì la porta di legno vibrare contro la sua schiena. Strinse le redini di Fedranth e si girò proprio nel momento in cui il portone si aprì. Boromir esitò, travolto dall’improvvisa e soffocante vampata di calore, fumo e rumore che si riversò fuori dalla porta. Poi la mano dell’Uomo Selvaggio gli strinse il braccio, e lo trascinò senza troppe cerimonie oltre il cancello.

“L’accordo è finito”, disse la sua guida, in tono fermo. Colpì il posteriore di Fedranth per farlo passare oltre la porta, poi si voltò per fronteggiare Boromir. “Uomo è dentro a Città di Pietra. Ho scalato muro, ho aperto cancello. Fatto ciò che uomo ha chiesto. L’accordo è finito.”

“Sì, l’accordo è finito. Ti ringrazio”.

“Non ringraziamenti. Uccidi gorgûn.” Una mano nodosa toccò la spada di Boromir, poi salì a sfiorare il tessuto sopra il suo occhio sinistro. “Uomo senza occhi mantiene patto e uccide molti gorgûn. Fa’ andare via la malvagia oscurità. Riporta il sole alle montagne. Porta la pace.”

“Ti do la mia parola di Soldato di Gondor. Farò tutto ciò che è in mio potere per scacciare il nemico e riportare la pace alle tue foreste.”

L’Uomo Selvaggio disse qualcosa nel suo linguaggio gutturale, poi prese la mano di Boromir tra le sue e la portò alla sua fronte.

“Addio”, disse Boromir.

I passi dell’Uomo Selvaggio si allontanarono oltre l’arco del portone, e il pesante cancello si richiuse dietro di lui, lasciando Boromir solo tra le case dei morti. Col volto teso e pallido, Boromir mise il piede in una staffa e montò a cavallo. Fedranth scartò nervosamente, innervosito dalla cenere incandescente che gli cadeva di tanto intanto sul mantello, ma Boromir riuscì a governarlo.

“C’è una sola via d’uscita, amico mio”, disse. “Spero che tu la trovi”.

Percorse la via Silente pieno di timore, con il ruggito delle fiamme e il rumore di rocce che cadevano a pochi passi da lui. Il cavallo divenne sempre più recalcitrante man mano che si avvicinavano alla fonte del frastuono e dal calore, e Boromir dovette trattenerlo con fermezza per impedirgli di schizzare via nella direzione da cui erano venuti. Dopo alcune false partenze, l’animale finalmente obbedì ai suoi comandi, e continuò lungo la strada, ma scartò bruscamente, quando un muro di pietra alla loro sinistra crollò al suolo in una nuvola incandescente di polvere e scintille.

Boromir imprecò e lo spronò coi talloni. Fedranth non aveva certo bisogno di incoraggiamento, Si lanciò in avanti, fuggendo dal terrore e dal fuoco, e Boromir lo lasciò galoppare a briglia sciolta. Rath Dìnen aveva solo una strada. Il cavallo non poteva deviare, a meno che non cercasse di arrampicarsi sui gradini delle case dei morti, e Boromir era certo che non lo avrebbe fatto.

La strada era libera davanti a loro, decorata con sculture di re morti tanto tempo prima ed eleganti pilastri di marmo. Si inerpicava lungo il fianco del Monte Mindolluin, all’ombra delle mura della città, portando uomo e cavallo fuori dall’aria soffocante di Rath Dìnen, nella fresca brezza che spazzava il cielo limpido sopra di loro. Una volta usciti dal fumo Fedranth rallentò l’andatura, ma continuò obbediente ad avanzare lungo la ripida strada.

 

Improvvisamente il cavallo sbuffò allarmato e scartò di lato, costringendo Boromir ad aggrapparsi alla criniera per non cadere. L’uomo sollevò la testa, come per interrogare il vento su ciò che aveva innervosito la sua cavalcatura. Sentì il suono distante di corni e trombe, il fragore delle armi, le grida di uomini e bestie, ma quei rumori venivano dalle pianure sotto di loro. La città era stranamente silenziosa, come se stesse trattenendo il respiro. Non sentiva nulla vicino a lui.

“Ehi! Guardiano!” chiamò. Sapeva che dovevano essere vicino al portone che conduceva al Sesto Circolo della città. Un guardiano sorvegliava il cancello e la strada che portava alle Case dei Morti. Viveva in una piccola casa accanto alla strada. “Guardiano!” gridò di nuovo, più forte che poté.

Nessuno gli rispose. Si morse le labbra per la rabbia, e spronò di nuovo il cavallo, che era riluttante a proseguire. Fedranth mosse alcuni passi indecisi, e Boromir sentì il suo elmo sbattere contro la roccia. Vacillò per un attimo ma rimase in sella, e quando Fedranth si mosse ancora in avanti, Boromir si chinò sul suo collo.

Gli zoccoli del cavallo rimbombavano su una strada di ciottoli, e un sorriso sicuro apparve sulle labbra di Boromir. Sapeva esattamente dove si trovava: aveva appena oltrepassato Fen Hollen, la Porta Chiusa, sul retro delle mura del Sesto Circolo della città.

Era a Minas Tirith. Era a casa.

Ma c’era qualcosa di sbagliato. Attorno a lui gravava uno strano, soffocante senso di tensione. Nelle strade si aggiravano solo poche persone silenziose e spaventate. Persino i passi e le grida sembravano furtivi. Il vento era fresco, ma portava il fetore della morte e delle fiamme dal campo di battaglia, e, immaginò Boromir, dai circoli inferiori della città. Minas Tirith era sotto assedio, e grande doveva essere stata la sua sofferenza in quel momento estremo. Ora, mentre la battaglia infuriava davanti alle sue mura, si era ritirata a medicare le sue ferite e ad attendere la fine.

Boromir spronò leggermente Fedranth, lasciando le redini allentate sul collo del cavallo. C’era solo una che potevano prendere, quella verso il cancello della Cittadella che conduceva al Settimo Circolo e al Cortile della Fontana. Era sempre sorvegliato da una sentinella della Torre di Guardia, e Boromir attese il suo richiamo.

Ma di nuovo non arrivò. Continuarono a muoversi lungo la strada serpeggiante finché Boromir non fu sicuro che avevano raggiunto il cancello, ma nessuno li fermò. Nessuna voce. Questo fatto, insieme al cancello posteriore incustodito e alle fiamme che divampavano incontrollate a Rath Dìnen, alimentò i cattivi presentimenti di Boromir.

C’era qualcosa di terribilmente sbagliato in città. Non era la paura della battaglia: Minas Tirith non era certo nuova alle guerre. Di sicuro la sua gente sarebbe stata spaventata, furiosa, forse avrebbe potuto anche nascondersi, inveire contro l’esercito che non era riuscito a respingere il nemico. Ma i soldati, le Guardie, gli ufficiali che li guidavano e i signori della città non avrebbero dovuto essere sconvolti da una cosa tanto familiare come la guerra.

Ma allora dov’erano le sentinelle? Dov’erano i soldati che avrebbero dovuto proteggere la Cittadella? Perché la città sembrava essere in preda al panico e senza una guida? Dove era suo padre?

Boromir fermò Fedranth e ascoltò con attenzione. Doveva assolutamente raggiungere la Cittadella e trovare suo padre. Di certo Lord Denethor avrebbe saputo spiegargli quale pazzia si era impossessata della città. Di certo aveva già organizzato le difese, disposto le truppe, protetto i cancelli…Di certo quel panico nasceva dalla sua immaginazione. Ma senza la sentinella che gli indicasse il cancello, era perduto.

Boromir scese di sella e rimase accanto al cavallo. Si sentiva stranamente vulnerabile e insicuro, per essere un uomo che era appena ritornato a casa dopo lunghi mesi di vagabondaggi. La città sembrava più grande di come la ricordava, e non riusciva a richiamare alla mente un’ immagine chiara delle strade. Era disorientato dal frastuono della battaglia, dal fetore di morte e di bruciato, dalle voci allarmate che si rincorrevano nelle strade. Non certo per la prima volta, desiderò di avere portato Merry con lui.

Fedranth sbuffò e scosse la testa, percependo lo stato d’animo del suo cavaliere. Passi veloci risuonarono sul selciato dietro di loro, e il cavallo si spostò nervosamente di lato, costringendo Boromir a seguirlo. Un passo affrettato, qualcosa che sbatteva contro la sua gamba, e inciampò. Un momento dopo cadde addosso alla figura in corsa. Qualcosa di grande e pesante sbatté contro il suo petto con un rumore secco di paglia che si rompeva, e una voce femminile gridò allarmata. Sia Boromir che la donna sconosciuta furono sbalzati all’indietro, allontanandosi l’uno dall’altra.

Boromir ritrovò l’equilibrio e fece un passo avanti, con la mano tesa, pronto a scusarsi. Il suo piede scese su qualcosa che scricchiolò sotto il suo stivale. Le mani della donna lo spinsero bruscamente per le spalle, facendogli perdere l’equilibrio e sbattere contro la sua paziente cavalcatura, e la donna urlò, infuriata,

“Ah, goffo imbranato che non sei altro! Guarda che cos’hai combinato!”

“Ti chiedo perdono”, disse Boromir, lieto che l’elmo nascondesse la sua umiliazione. Poi aggiunse, in tutta onestà, “Non ti avevo visto.”

“Hai distrutto le mie erbe, e i guaritori mi aspettano! Dovrò andare a raccoglierne delle altre.”

La voce ora proveniva dal basso, mentre la ragazza si affaccendava in ginocchio a raccogliere le piante sparse sul selciato ai suoi piedi. “Soldati dappertutto”, borbottò, “fanno solo rumore e confusione…Non c’è da stupirsi che le Case di Guarigione siano piene di feriti e malati, con voi soldati in giro”.

Boromir si allontanò cautamente da lei, mentre il suo innato senso di cavalleria lottava con il suo buonsenso. “C’è qualcosa che posso fare per aiutarti?”

“Sì. Spostatevi dalle mie erbe, tu e il tuo cavallo, prima di calpestarne delle altre.”

Boromir arretrò di un altro passo, portando con sé il cavallo. Si sentiva inutile e umiliato, con lo stomaco attanagliato dall’imbarazzo. Non voleva irritare ulteriormente la donna, ma non poteva nemmeno vagare per la città senza meta, e se lasciava quel circolo, non avrebbe più ritrovato la via per la Cittadella. Lei avrebbe potuto guidarlo, se lo avesse voluto. Quel pensiero lo trattenne, nonostante le parole sdegnose della giovane.

Infine udì il fruscio dei suoi abiti e del cesto, che gli indicarono che si era alzata in piedi. I passi lo oltrepassarono frettolosi, mentre lei si affrettava al suo compito.

“Aspetta!” chiamò Boromir, tendendo la mano per fermarla, non osando bloccarle la strada.

Lei si fermò.

“Sono in ritardo, e lo sarò ancora di più, grazie al pasticcio che hai combinato. Cosa vuoi da me?”

Boromir ebbe per un attimo la tentazione di togliersi l’elmo e di mostrarle i suoi occhi bendati, sia per giustificare la sua goffaggine che per chiederle aiuto, ma esitava a esporsi a quel modo. Il disprezzo potava sopportarlo. La pietà no.

Raddrizzando le spalle rigidamente per nascondere il suo disagio disse, “Anch’io ho fretta. Devo raggiungere la Torre, ma non conosco la città e mi sono perso. Dove si trova il cancello della Cittadella?”

“A ovest, al centro del muro”, rispose lei brevemente. “Lo hai appena passato.” Schioccando la lingua in segno di disgusto, si voltò e si allontanò rapidamente da lui, mormorando a voce abbastanza forte perché lui la sentisse, “Imbranato e cieco…non dovrebbero lasciargli portare la spada…”

Con un sospiro frustrato, Boromir si appoggiò contro la spalla del cavallo e si levò l’elmo per lasciare che l’aria gli rinfrescasse il viso. Non avrebbe dovuto chiedere aiuto a una simile bisbetica. Avrebbe dovuto farla mettere ai ferri per aver insultato l’erede del Sovrintendente. O meglio ancora, torcerle il collo. Come diavolo poteva sapere da che parte era l’ovest? E come faceva a trovare il cancello, a meno che non ci finisse contro?

Si passò una mano tra i capelli bagnati, guardandosi attorno come se potesse risolvere i suoi problemi semplicemente sforzandosi di vedere le strade silenziose. Cercò di dare un senso ai suoni familiari ma confusi che gli giungevano, lottando per ritrovare il senso di equilibrio che aveva perso entrando a Minas Tirith.

Atre voci arrivarono dal clamore della battaglia, voci di uomini, accompagnate dai passi di stivali pesanti. Boromir si raddrizzò e si allontanò dal cavallo, sempre tenendo una mano sulle redini per non perderlo. Le voci si avvicinarono, e si voltò verso di loro.

Improvvisamente, in mezzo al rumore, chiara come il suono di un corno nel mattino, udì la voce di uno hobbit. “Boromir!”

Boromir lasciò le redini e mosse un passo malfermo verso la voce. “Pipino?”

Ci fu uno scalpiccio di piedi scalzi sulla pietra, e la voce acuta di Pipino risuonò piena di gioia, “Boromir! Sei tu!

Boromir ebbe appena il tempo di inginocchiarsi che una piccola figura si lanciò su di lui correndo a perdifiato gridando “Lo sapevo che saresti venuto! Lo sapevo!”

Il Mezzuomo si buttò tra le sue braccia, e Boromir lo prese al volo. La stretta di Pipino attorno al suo collo era così forte da non lasciarlo quasi respirare, ma Boromir riuscì lo stesso a salutarlo con una risata.

Allentando un po’la presa, Pipino si girò e gridò gioiosamente, “Gandalf! Guarda chi c’è! Sapevo sarebbe arrivato nel momento del bisogno!”

“Davvero”, la voce asciutta di Gandalf veniva proprio da sopra di loro, “e proprio al momento opportuno. Ben incontrato, Boromir.”

Boromir si staccò gentilmente da Pipino e si alzò in piedi. Inconsciamente posò la mano sulla testa riccioluta dello hobbit, e, dopo un breve istante di sorpresa, Pipino accettò il gesto.

“Sono felice di trovarti qui, Gandalf”. Un sorriso di autentica gioia gli illuminò il viso, e aggiunse, “Sono felice di trovarti vivo.”

“Lo stesso vale per me, amico mio.”

Per qualche strana ragione, quella parola non suonò strana sulle labbra di Gandalf, e Boromir si rese improvvisamente conto che davvero considerava Gandalf un amico. Suo padre non lo avrebbe mai perdonato per questo, ma era così.

“E sono ancora più felice”, continuò Gandalf, perché, come ha giustamente osservato Pipino, abbiamo bisogno di te. La tua venuta non avrebbe potuto essere più opportuna.”

“Che cosa è accaduto?”

“Gli orchi si stanno raccogliendo ai cancelli, e non c’è nessuno che guidi la guardia della città contro di loro. Li ho già dispersi una volta, e se occorre posso farlo di nuovo, ma c’è bisogno di me altrove.”

Boromir rimase a bocca aperta per lo stupore. “Nessuno a guidarli? Dove sono i signori della città? Dov’è Denethor, mio padre? Dov’è Faramir?”

“Non è più in grado di portare questo fardello. È tuo ora, Boromir, come lo è sempre stato.”

“Faramir?” Di nuovo, il panico si impossessò di Boromir. “Dov’è? Che cosa gli è accaduto?!”

“Ti racconterò tutto quando ce ne sarà il tempo, ma non ora, Boromir. Non ora! Tutto ciò che devi sapere è che le armate di Minas Tirith combattono sotto lo stendardo di Dol Amroth, e il Principe è con loro sul campo. Solo la Guardia cittadina è rimasta in città, ed è senza guida. Qualcuno che li conosce, qualcuno che gode della loro fiducia e della loro lealtà deve guidarli contro le forze del nemico, che si sta radunando proprio ora per assaltare i cancelli crollati, oppure la città cadrà. Ascolta, Boromir!”

Tutti tacquero, e improvvisamente Boromir udì le grida degli orchi portate dalla brezza. Un aspro suono di tromba li radunò, seguito da grida selvagge.

Boromir volse il suo sguardo bendato verso lo stregone, e il suo viso era risoluto. “Non posso guidare dei soldati in battaglia.”

“Tu sei il loro capitano. Non c’è nessun altro.”

“Non mi seguiranno”.

Un rumore proveniente da dietro Gandalf attirò l’attenzione di Boromir, e una nuova voce gli parlò. “Lo faranno, mio signore, se tu li guiderai.”

Boromir si accigliò, sapendo che avrebbe dovuto riconoscere quella voce, ma senza riuscire a capire.

“Sono Beregond, signore, della Terza Compagnia della Guardia. Parlo a nome della mia compagnia e di tutti quelli che combattono sotto il bianco stendardo del Sovrintendente. Noi seguiremo il nostro Capitano Generale in battaglia. Scacceremo il nemico dai nostri cancelli.”

Boromir corrugò ancor più la fronte, mentre meditava su ciò che gli chiedevano Gandalf e Beregond. Poteva percepire la disperazione nelle loro voci, e sapeva qual era il suo dovere. Ma non riuscì a scacciare del tutto la paura che il suo nome e i suo rango da soli non sarebbero stati sufficienti a valergli la fiducia dei suoi uomini. Un tempo lo avrebbero seguito anche nell’ombra del Cancello Nero stesso. Ma ora?

Accanto a lui Pipino saltò in punta di piedi e disse, “Io cavalcherò con te!”

Strappato dai suoi pensieri, Boromir si rivolse allo hobbit con aria interrogativa. “Tu, Pipino?”

“Sono un soldato di Gondor, ora, votato al servizio di Denethor! È il mio dovere!”

Boromir sorrise, mentre i suoi dubbi si scioglievano al calore dell’entusiasmo di Pipino. “Allora cavalchiamo.”

Boromir non poté vedere il sollievo nello sguardo di Gandalf, ma sentì una rinnovata energia nella sua voce, quando questi parlò di nuovo. “Beregond, suona il corno e raduna la Guardia! Al secondo Cancello, presto, o arriveremo troppo tardi!”

 

Dei passi corsero lungo le strade verso la Cittadella, e Boromir udì un chiaro suono di tromba. Gandalf lo guidò prendendolo per un braccio, Pipino per la mano, e improvvisamente tutto fu caos e grida e passi attorno a lui. Lo stregone lo condusse a gran velocità verso il Secondo Circolo, lungo le strade della città assediata, dove si erano già radunati gli uomini della guardia. All’ombra del cancello lo stregone si fermò, per impartire alcuni ordini a bassa voce, mentre gli uomini della guardia si affollavano attorno a loro.

 

“Arriva soltanto fino alla prima linea di trincee. Beregond segnalerà con un richiamo quando ci sarete arrivati. Non devi permettere che la compagnia sia tagliata fuori dalla città, Boromir, o Minas Tirith resterà senza difesa.”

“Non c’è bisogno che mi insegni come si fa la guerra, Gandalf il Grigio”. Le sue parole potevano sembrare brusche, ma il tono era gentile, quasi divertito. “Conosco il mio mestiere”.

“Sì, ma io conosco la forma di questa battaglia, e tu no. Dammi ascolto, Boromir, non lasciare che il tuo orgoglio ti tragga in errore.”

Le parole, calcolate per umiliare la presunzione di Boromir, avrebbero dovuto irritarlo, ma la consapevolezza degli errori che aveva commesso a causa del suo orgoglio, e la nuova umiltà che aveva trovato dopo quel fallimento non lasciavano posto alla rabbia. Boromir si limitò ad annuire e disse, “Non lo farò.”

“Bene”. Gandalf gli strinse il braccio in un gesto di approvazione. “Tu mi dai speranza, figlio di Denethor. Presto, ora. Devi fare presto!”

Mentre il capitano e lo stregone parlavano, e le compagnie della Guardia si radunavano dietro di loro, Beregond silenziosamente si dedicò a equipaggiare il suo comandante in un modo più confacente al Capitano di Gondor. Sistemò una fascia bianca - il colore dei Sovrintendenti - di traverso sulla sua spalla destra, coprendo quasi interamente il cavallo rampante di Rohan raffigurato sulla sua tunica. Poi sostituì il mantello verde di Boromir con il suo, un grande mantello da guerra nero rifinito d’argento.

Quando Boromir fece per mettersi l’elmo, Gandalf lo fermò. “Lascia la testa scoperta. Mostra il tuo viso agli uomini, affinché sappiano chi li conduce.”

Boromir esitò per un momento, assalito di nuovo dai dubbi, poi scosse le spalle e affidò l’elmo nelle mani di Gandalf. Mise il piede nella staffa e montò in sella su Fedranth. Allungando una mano verso Pipino disse, “Vieni, soldato di Gondor.”

Pipino rise per l’eccitazione, mentre prendeva la mano di Boromir e veniva sollevato con facilità in sella. Le trombe suonarono, voci gridarono ordini ai ranghi. Il rimbombo degli zoccoli annunciò l’arrivo di quegli ufficiali che avevano trovato dei cavalli in città, e Beregond prese posto silenziosamente alla destra di Boromir, su un cavallo che gli avevano portato. Avvicinando il cavallo a Fedranth disse, “Ho il tuo stendardo, Capitano, il vessillo del Sovrintendente di Gondor. Chiedo il permesso di portarlo al tuo fianco.”

Boromir rifletté per un momento, poi tese la mano. “Lo porterò io. Tu lo prenderai dopo di me, se io dovessi cadere.”

Beregond mise la pesante e lunga asta nella sua mano, e Boromir appoggiò la sua base sul suo stivale. Sentì la seta che si muoveva al vento, e immaginò il bianco stendardo che scintillava sopra di lui. Quante volte aveva visto quel vessillo sulle mura della Cittadella? Quante volte lo aveva guardato con un misto di orgoglio e di amarezza, desiderando che fosse il vessillo del Re, e non quello del Sovrintendente, a sventolare sui bastioni della Città Bianca? Ora non più. Non era più il tempo per l’amarezza e per la vana ambizione. Con il sangue e il dolore si era guadagnato il diritto di portare quel simbolo, e lo avrebbe portato con fierezza per tutto il tempo che gli restava.

Il cuore gli diceva che stava andando verso la morte, quel giorno, poiché non poteva più sperare di affrontare l’orrore della battaglia e sopravvivere, ma Boromir non provava alcun dolore a quel pensiero. Non sarebbe stata una morte inutile o folle. Era una possibilità di salvare la sua città, e se gli fosse costata la vita sarebbe morto con la certezza di avere almeno riconquistato il suo onore. Era di nuovo alla luce del sole, nel posto che gli spettava, e nessun’ombra avrebbe potuto intimidirlo.

Alzandosi in piedi sulle staffe, Boromir alzò la voce per sovrastare il frastuono, e gridò, con la voce che echeggiava sulle mura attorno a loro,

“Uomini di Gondor! Io sono Boromir, figlio di Denethor, Capitano Generale di Minas Tirith, e sono ritornato a casa attraverso fiamme, oscurità e massacro per combattere di nuovo al vostro fianco!” Un grido si alzò dagli uomini che ascoltavano. “Il nemico è alle porte! Il nostro destino ci attende! Verrete con me a incontrarlo?”

Cento voci gridarono il loro assenso, cento spade cozzarono contro gli scudi in segno di saluto.

Boromir si risedette in sella e avvolse le redini nella mano sinistra. Chinandosi su Pipino, mormorò, “Prendi le redini, piccoletto. Io governerò il cavallo, tu devi guidarlo.”

“Come farò a tenere le redini e la spada allo stesso tempo?” chiese Pipino nervosamente.

“Non estrarre la spada finché non te lo dirò io. Fidati di me, Pipino.”

“Mi fido.”

Boromir diede di sprone a Fedranth, e il cavallo balzò via, attraverso il cancello nelle strade sconvolte del primo circolo. Gli altri soldati a cavallo lo seguivano, e gli uomini a piedi correvano dietro di loro. Boromir sentiva la cenere nel vento e l’odore nauseabondo della morte e della corruzione. I rumori della battaglia erano assordanti, ma non potevano sovrastare le grida di trionfo degli orchi alla carica.

Improvvisamente, mentre ormai erano lanciati lungo l’ampia strada verso i cancelli, Pipino si piegò all’indietro e gridò, “I cancelli sono crollati! La via è bloccata!”

Dalle sue spalle giunse la voce di Beregond, “Saltate la barricata! Saltate!”

Boromir piantò i talloni nel fianco del cavallo, spronandolo. Pipino proruppe in un grido indistinto e selvaggio, in cui terrore ed eccitazione si confondevano, e si piegò tenendosi forte alle redini. Istintivamente Boromir chinò la testa, mentre Fedranth saltava oltre i resti distrutti del cancello, oltre l’arcata di pietra, per atterrare sulla strada al galoppo lanciato. Boromir udì il rumore metallico di una spada che veniva sguainata, Pipino gridò, con la sua voce acuta nel clamore della battaglia, “Gondor!”

Il grido si levò tutto attorno a loro, “Gondor! Gondor!”, e i Soldati della Torre di guardia si riversarono attraverso i cancelli piombando sugli orchi di Sauron come una tempesta.

Aragorn si fermò per un momento di riposo in mezzo alla battaglia, con i suoi capitani, Éomer, Imrahil, Halbarad, Legolas e Gimli attorno a lui, e vide la truppa di soldati che si avvicinava. Cavalcavano sotto il vessillo bianco del Sovrintendente, e indossavano la livrea nera e argento della Torre di Guardia, con gli elmi che scintillavano fieri alla luce del sole, e le lance sporche di sangue. Era una vista che infondeva coraggio, e il cuore di Aragorn fu pieno di orgoglio. Poi vide il capitano che cavalcava alla loro testa.

L’uomo non indossava elmo e non portava scudo. La sua tunica e la cotta erano quelle dei Rohirrim, ma in diagonale sul petto portava una fascia bianca, che copriva il simbolo di Rohan, e sulle spalle aveva un mantello nero bordato d’argento. Una striscia di tessuto nero era legata sopra i suoi occhi, e nella mano destra portava il vessillo bianco. Con la sinistra teneva le redini del cavallo. Davanti a lui sulla sella era appollaiata una piccola figura entusiasta, vestita nella livrea della Guardia, che brandiva una spada gocciolante di sangue.

Il cavaliere si diresse verso Aragorn che era anch’egli in sella, e attendeva in un silenzio incredulo. Di tutti gli astanti, l’ unico a non essere paralizzato dalla sorpresa fu Imrahil. Il Principe diede uno sguardo al viso del Capitano e spronò il cavallo in avanti con un grido di benvenuto.

“Mio signore! Boromir, amico mio!”

Mentre i due cavalli si avvicinavano la Guardia si ritirò. Avevano fatto cerchio attorno al loro comandante sul campo di battaglia, e ora sapevano che non avevano nulla da temere per lui in compagnia del Principe Imrahil. Boromir riconobbe la voce e cedette lo stendardo al suo compagno più vicino, per poter ricambiare l’abbraccio del suo consanguineo.

“Ben incontrato!” Disse Imrahil ridendo. “Ben incontrato davvero! Ti credevamo perduto!”

“Ma certo mio padre vi avrà detto…” Boromir si ritrasse da Imrahil e corrugò la fronte. “Gandalf è giunto qui prima di me. Avrà detto a Denethor che stavo arrivando.”

A quel punto, Aragorn decise che era il momento di interrompere quell’incontro e di far valere la sua autorità. “Nessuno sapeva che stavi arrivando, Boromir.” La sua voce era dura, ma i suoi occhi ridevano. “In verità, mi pare di ricordare che ti avessi ordinato di non venire affatto.”

Boromir gli rivolse un sorriso privo di qualsiasi traccia di umiliazione. Estrasse la spada e fece un saluto militare, in una mossa che avrebbe potuto decapitare Pipino, se fosse stata eseguita da una mano meno esperta.

“Ordinarmi di non venire e lasciarmi indietro come un bagaglio dimenticato sono due cose diverse, mio re. E poiché questo particolare bagaglio ha gambe e una volontà propria, ha deciso di andare dove c’era più bisogno di lui.”

Aragorn guardò Boromir stupito, confuso dal suo atteggiamento e dalle sue parole audaci. Fu allora, quando vide l’ampio sorriso del suo amico e l’energia che irradiava da lui come luce sull’oro, che Aragorn capì che stava finalmente vedendo Boromir, Capitano di Gondor, quale era veramente. In tutti i lunghi mesi del loro viaggio e della loro conoscenza, Aragorn aveva visto Boromir riservato, tormentato, inquieto. Avvelenato dall’Anello, scosso dal senso di colpa, vacillante sotto il peso del dolore e della disperazione. Quello era l’uomo che Aragorn aveva conosciuto. Ma questo - quest’uomo dai rapidi sorrisi e dall’ancor più rapido coraggio, dalla fiera determinazione, dall’innato carisma, dal portamento marziale e dalla gioiosa forza - questo era l’uomo che Gondor conosceva. Amato dai soldati, adorato dal suo severo padre, stimato dagli alleati, temuto dai nemici, e capace di incitare gli uomini alla guerra con una sola parola, anche così, anche adesso.

Un sorriso apparve lentamente sul viso di Aragorn, e si sporse per stringere il braccio di Boromir in segno di benvenuto.

“Sei giunto al momento giusto, amico mio Bagaglio.”

“Ed è stata anche una grande impresa”, si intromise Pipino. “Se non avessimo scacciato quegli orchi dal cancello, non avresti più una città da governare. Io ne ho uccisi almeno una mezza dozzina!”

“Allora hai la mia gratitudine, oltre al mio benvenuto.”

“Non è stato nulla”, disse Boromir, con soddisfazione.

“Per te, forse”, ribatté Pipino, “perché avevi un hobbit che faceva tutto il lavoro sporco al tuo posto!”

I lord radunati dietro Aragorn guardarono di traverso il piccolo mezzuomo insolente, ma Legolas e Gimli sorrisero, mentre Aragorn e Boromir risero apertamente. Boromir appoggiò la mano libera sulla spalla di Pipino e la strinse in un gesto di gratitudine.

“È vero, Pipino. La mia spada non è nemmeno sporca di sangue.” Poi il viso di Boromir divenne triste. “Neanche un orco ucciso! Come farò ad affrontare Merry?”

“Andiamo a cercarne degli altri”, suggerì Pipino. “Te ne lascerò uno.”

“Fermi!” Gridò Aragorn. Boromir trattenne obbediente il suo cavallo, impedendogli di galoppare via nella mischia. “Non andrete a cercare nessun orco. Mastro Peregrino. Tu accompagnerai Boromir di nuovo in città. E giurami sul tuo onore di soldato di Gondor che non permetterai che gli venga fatto un graffio. Nemmeno un solo graffio!”

Ora fu il turno di Pipino di apparire afflitto. “E perdermi la guerra?”

“La guerra è ben lontana dall’essere finita, Pipino. Ma per oggi, voi non combatterete più.”

Con grande sorpresa e sollievo di Aragorn, Boromir non fece alcuna obiezione ai suoi ordini. Si limitò a sorridere e salutò i capitani radunati, poi stese la mano per prendere il vessillo, lo sollevò alto sulla testa con orgoglio, e galoppò verso la città con i suoi uomini in formazione stretta attorno a lui. Aragorn li guardò allontanarsi, con il sorriso ancora sulle labbra.

“Dunque il lord Boromir non è morto, come si dice in giro.” Il Principe Imrahil aveva avvicinato il cavallo a quello di Aragorn e aveva parlato a bassa voce.

“E come è nata questa diceria? Gandalf non era andato a Minas Tirith portando la notizia che Boromir vive?”

“Non è stato creduto.”

Aragorn gli lanciò uno sguardo penetrante. “Chi oserebbe contraddire Gandalf?”

“Denethor non si è mai fidato del Grigio Pellegrino. E…non so come, ma lord Denethor giura di avere visto suo figlio cadere abbattuto dalla spada di un orco.”

“È la verità. Anch’io l’ho visto. Ma eccolo qui, come hai visto, sano e salvo.”

“Sano?” La voce di Imrahil era cautamente neutrale, priva di toni di sfida, ma fredda e incredula. Puntò un dito guantato verso il gruppo di cavalieri, ormai lontani. “Lo chiami forse sano?”

“Sì,” rispose Aragorn, pacato. Sapeva cosa turbava Imrahil. Si era aspettato quella reazione da parte dei nobili di Gondor, ma la sua determinazione era immutata.

“È vivo, certo”, continuò Imrahil, “e in salute. Non fraintendermi, Aragorn. Sono felicissimo di rivederlo, ma…” Imrahil si interruppe, e Aragorn lo guardò a lungo.

“Dubiti la sua capacità di servire Gondor come faceva un tempo?”

“È cieco.”

“Sì.”

“Come possono le armate di Gondor seguire in battaglia un capitano cieco?”

Aragorn evitò di dire che non aveva intenzione di permettere a Boromir di condurre l’esercito in battaglia, mai più. Non avrebbe umiliato il suo amico e Sovrintendente a quel modo, davanti ai suoi pari. Invece accennò col capo ai cavalieri. “Oggi lo hanno fatto.”

“Non lo hanno seguito”, ribatté Imrahil. “Lo hanno difeso. Quanti uomini saranno morti, secondo te, per proteggere il principesco portatore del vessillo?”

Voltandosi per rivolgersi ai guerrieri dietro di lui Aragorn gridò, “Ditemi, miei capitani, che cosa avete visto sui visi di quegli uomini? Paura?”

Gimli esplose in una risata. “Orgoglio!”

“La gioia della vittoria”, disse Legolas.

“Lealtà, e amore”, disse Éomer, “Sufficienti a portarli fino ai Cancelli Neri, se lui glielo avesse chiesto”.

Aragorn sorrise al Re del Mark. “Tu lo seguiresti?”

“Fino al Cancello Nero, se me lo chiedesse.”

Aragorn strinse gli occhi colto da un improvviso sospetto. “Gli hai dato tu quel cavallo?”

Éomer sogghignò. “Sì.”

“Allora io e te dovremo parlare, più tardi.”

“Non è necessario che mi ringrazi, mio signore”, disse il Cavaliere.

Aragorn sorrise, poi scoppiò a ridere di cuore, per la gioia della battaglia, l’amicizia, e la vittoria. “Basta così! In battaglia, prima che gli hobbit la vincano per noi!”

 

*** *** ***

 

Merry camminava barcollando, incapace di restare diritto o di vedere dove metteva i piedi. Non sentiva alcun dolore, solo un freddo terribile che gli intorpidiva il braccio destro, e si espandeva, inesorabilmente, per tutto il suo corpo. Scure nebbie gli offuscavano la vista, e quando sollevava la testa, non riusciva più a distinguere le figure dei portatori della lettiga o le torce che portavano. Voleva seguirli. Voleva rimanere al suo posto al fianco del suo re, anche allora. Ma le lunghe gambe degli uomini andavano troppo veloci per lui, e le ombre li avvolsero, lasciando Merry solo sulla pianura dei morti.

Si arrampicò a fatica sui mucchi di cadaveri - orchi, uomini, e cavalli tutti ammassati insieme - per raggiungere i cancelli, e nel suo stato confusionale, non si rese nemmeno conto del contatto con la carne morta.

All’ombra delle mura, si arrampicò oltre i resti in rovina del cancello della città, superando la barricata di legno e metallo contorto con la stessa indifferenza con sui aveva superato i mucchi di cadaveri.

Una volta dentro le mura, si fermò per guardarsi attorno. Non sapeva nulla della città e non aveva idea di dove andare, ma vide un luccicare di torce che salivano lungo un’ampia strada serpeggiante. Così, chinando di nuovo la testa, costrinse le sue gambe pesanti a camminare…scalare…mentre il freddo penetrava sempre più in profondità nelle sue ossa e l’oscurità si chiudeva su di lui.

“Merry!”

Merry sollevò lo sguardo verso la voce familiare, e per un attimo la nebbia davanti ai suoi occhi si diradò, e vide Pipino, che correva a tutta velocità verso di lui, gridando, “Merry! Grazie al cielo ti abbiamo trovato!”

Vide che stava camminando in uno stretto vicolo, deserto se non per lui, suo cugino, e una figura alta, ammantata di nero, che stava ferma nel punto in cui la via curvava. Merry si fermò e si guardò attorno, confuso.

Pipino gli corse incontro e gli afferrò le mani in una forte stretta, anche se Merry non poté sentirne la pressione sulla mano destra. “Povero vecchio Merry!” disse Pipino. “Ti abbiamo cercato per tutta la città, temevamo che fossi disperso da qualche parte sul campo di battaglia!”

“Dov’è il Re?” Chiese Merry, con aria stordita. “Dov’è Éowyn?”

“Sono stati portati alla Cittadella.”

“Devo seguirli.”

Cercò di muovere le gambe, di riprendere il suo cammino senza fine, ma non ne aveva più la forza. Pipino gli mise un braccio in vita e lo aiutò a risalire la collina. Merry avanzava inciampando al suo fianco.

“Ho freddo, Pip. Un freddo terribile.”

“Ancora pochi passi, Merry.”

“È stato tremendo! La mia spada…si è fusa! E il mio braccio sembra morto. Aiutami, Pipino!”

“Certo che ti aiuteremo. Non pensare alla battaglia, ora, né al freddo.”

“Merry?”

Al suono della nuova voce, Merry si fermò, barcollando per lo sfinimento, e sollevò lo sguardo verso la figura sopra di lui. Per un terribile momento il mantello nero lo ingannò, e credette che il Signore dei Nazgûl fosse di nuovo sopra di lui. Ma la voce non era quella giusta, e non c’era alcun gelo di terrore malefico nell’aria. Il freddo era dentro di lui, non fuori.

La figura fece un passo, avvicinandosi a lui, e si inginocchiò fino al suo livello. “Sei ferito, Merry?”

Merry sbatté le palpebre per schiarirsi la vista e si trovò a guardare il viso preoccupato di Boromir. Cercò di sorridere, ma i suoi muscoli non rispondevano. “Boromir. Sei qui.”

Boromir gli diede una breve stretta sulle spalle, poi spostò le mani ai lati della testa di Merry. Merry fu vagamente consapevole di un’insolita gentilezza nella voce e nel tocco. “Certo. Dove altro potrei essere? Pipino, è ferito?”

“Non sembra”, rispose Pipino.

“Ho soltanto freddo”, lo assicurò Merry, “e non ci vedo bene. Tutto è così buio…” Si interruppe, singhiozzando. “Mi dispiace, Boromir. Ti prego non essere arrabbiato con me. Ho cercato di combattere come mi hai insegnato, ma non sono riuscito…non sono riuscito a salvare Re Théoden, e quando ho cercato di aiutare Éowyn ho solo fatto fondere la mia spada.”

“Shhh, calmati.” Il grande mantello nero fu sistemato attorno alle spalle di Merry, e le braccia dell’uomo lo sollevarono con facilità. “Ti sei comportato da eroe, piccoletto.”

Merry continuò a borbottare, in modo confuso, “Tu lo sapevi che era lei, vero? È stata lei a uccidere lo spettro. Gli ha piantato la spada in testa, e lo spettro si è volatilizzato con un grido terribile. Volevo aiutarla. Ho tentato. Volevo che tu fossi fiero di me”, mormorò, mentre affondava la testa nella comoda spalla di Boromir, chiudendo gli occhi.

“E lo sono. Non dubitarne. Portaci alle case di guarigione, Pipino. Presto!”

Merry non sentì più nulla. Sicuro che nessun incubo alato potesse raggiungerlo, ora che era con Boromir e Pipino, si abbandonò all’oblio e scivolò nell’oscurità.

 

Continua…

 

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Capitolo 10
*** Un'Inquieta Pace ***


Nuova pagina 1

Capitolo 10: Un’inquieta pace

 

“Morto? Che follia è mai questa?” gridò Boromir, con i nervi logorati dal dolore e dalla stanchezza, sfogando la sua rabbia su chi non lo meritava. “Non ho sentito nessuno in città parlare della morte del Sovrintendente! Come può essere che mio padre sia morto?”

Gandalf, esausto e sfinito quanto lui, riuscì tuttavia a mantenere la calma. “Per sua stessa mano, Boromir. Ha ordinato di preparare un rogo funebre a Rath Dìnen, nella Casa dei Sovrintendenti, e si è lasciato bruciare.”

“No, non è possibile. È una follia, una menzogna…”

“Nulla di tutto ciò. L’ho visto io stesso salire sulla pira e accenderla, e sono stato io a portare Faramir fuori dalla tomba.”

“Faramir!” Quell’ultima osservazione fece perdere definitivamente il controllo a Boromir. Impallidì, serrando i pugni con rabbia e impotenza. “Mi avevi detto che mio fratello era nelle Case di Guarigione, accudito e al sicuro in attesa dell’arrivo di Aragorn.”

“Ora sì. Ma tuo padre credeva che fosse ormai troppo tardi per salvarlo, e lo aveva portato alle Case dei Morti, con l’intenzione di bruciarlo insieme a lui. Se non fosse stato per la prontezza di Pipino e il valore di Beregond, tuo fratello ora giacerebbe tra le rovine fumanti della tomba di Denethor.”

Boromir emise un gemito soffocato, vacillando sotto il peso di quel colpo. Aragorn lo prese per un braccio per sorreggerlo, e lo guidò verso una panca di pietra, dove Boromir si lasciò cadere con la testa fra le mani.

Era ormai notte, e le stelle erano già apparse, scintillando intermittenti attraverso gli ultimi lembi di nubi che indugiavano attorno alla cima della montagna. Le torce e i falò brillavano nella pianura sotto di loro, trasformando il campo di battaglia del giorno passato in un tappeto luccicante, che faceva a gara con le stelle in cielo. In alcune parti della città ardevano ancora dei fuochi, bagliori di rosso cupo nell’oscurità, e le strade erano strette in una morsa di immobilità sfinita; ma la paura, almeno per quella notte, se ne era andata.

La bellezza della notte non confortava però i tre amici riuniti nel giardino per parlare di fiamme e di morte. Quel giorno tutti e tre avevano conosciuto l’esaltazione, il trionfo e l’amarezza del lutto. Tutti e tre avevano combattuto al limite delle loro forze ed erano sopravvissuti, per ritrovarsi nelle rovine fumanti dopo la battaglia.

Boromir non aveva riposato fin dalla breve sosta con i Cavalieri nella valle Cavapietra, un intero giorno e una notte prima, e anche allora non aveva dormito. Dopo la sua cavalcata oltre i cancelli, aveva trascorso molte ore lavorando per organizzare le difese della città, rimuovere i morti e le macerie dalle strade, e rassicurare la gente spaventata. Poi era rimasto al capezzale di Faramir, ascoltando i suoi mormorii e le grida deliranti, ed ora era in uno stato tale che nessuna bellezza né conforto potevano raggiungerlo. Solo il dolore. L’ardore della battaglia si era raffreddato tra le ceneri insanguinate, e il suo trionfo ai cancelli era già dimenticato in mezzo alle macerie dello scontro.

Sedeva nei giardini tranquilli e solitari vicino alle Case di Guarigione, ascoltando Gandalf che gli parlava del crudele destino di suo padre, e chiedendosi perché mai aveva lottato così tanto per tornare a casa …per tornare a quello. La sua città sull’orlo della rovina, suo padre morto, suo fratello in fin di vita, e tutti i suoi sforzi per riconquistare il suo onore e il suo posto derisi.

Aragorn sedeva accanto a lui, cercando di confortarlo senza parole, ma anche il Ramingo, sconvolto dalla notizia della follia di Denethor, non sapeva come reagire.

“Quando ci hai incontrato in strada”, continuò Gandalf, imperterrito, “avevamo appena portato Faramir dai Guaritori.”

“Sono entrato in città da Rath Dìnen.” Boromir si prese la testa fra le mani, come se la pressione delle sue dita potesse forzare quelle insopportabili parole fuori dalla sua mente. “Le ceneri mi soffocavano…le ceneri di mio padre… e mi sono chiesto quale tradimento aveva potuto portare fuoco e distruzione nel luogo più sacro di Minas Tirith.”

“È stato davvero un tradimento. Il braccio di Sauron si è allungato, ma anche così non avrebbe potuto raggiungere i luoghi sacri di questa città, senza che il Sovrintendente gli aprisse la strada.”

“Osi chiamare mio padre un traditore?!” ringhiò Boromir, infiammandosi di nuova ostilità.

“E che altro nome daresti a un uomo che apre il suo cuore ai sussurri del Nemico, accecato dalla speranza, condotto alla disperazione, e che infine si consegna spontaneamente alla morte progettata dal suo nemico?”

Boromir fissò il suo sguardo bendato sullo stregone. Sentiva la verità di quelle parole, come il dolore di un’antica ferita nel cuore, ma quella verità non gli dava alcun conforto.

Gandalf, rispondendo alla sua domanda inespressa, disse, “Tuo padre possedeva una delle antiche Pietre Veggenti, i palantìri, che usava per sorvegliare nemici e alleati allo stesso modo. Ha gettato lo sguardo troppo lontano senza avvedersi del pericolo. L’Occhio e la volontà di Sauron lo hanno irretito, e il palantìr è divenuto schiavo del Nemico, ma Denethor non voleva credere che la sua potente arma potesse essere usata contro di lui. Era troppo orgoglioso per ammettere che una volontà più forte della sua controllasse il palantìr, o che questo non fosse fatta per essere usata da lui. Credeva solo a ciò che vedeva nella pietra e non ascoltava nessuno che contraddicesse le sue visioni.”

Gandalf esitò un momento, poi aggiunse, con dolcezza, “Ti credeva morto. Per volontà del Nemico ha visto solo la tua caduta e la tua cattura, ma non la tua liberazione. Io e Pipino gli abbiamo detto che eri vivo, ma non ci ha dato ascolto. Eravamo solo creature in carne ed ossa - capaci di tradimenti e di inganni, che complottavano contro Gondor e il suo signore con le nostre storie di speranza - mentre il palantìr non aveva mai mentito.”

“Mi credeva morto,” mormorò Boromir, con tono assente. Un profondo dolore lo travolse, il dolore della perdita, ma ancora peggiore, il dolore dovuto alla consapevolezza che Gandalf aveva ragione. Per quanto cercasse di rifiutare la verità, sapeva che lo stregone aveva visto bene nel cuore orgoglioso del padre, e lo aveva ben compreso. “Un altro tradimento da mettere sul mio conto.”

Gandalf sorrise stancamente. “Non puoi addossarti questa colpa, Boromir. Certo, la tua presunta morte è stata un colpo terribile per Denethor, ma non sarebbe bastata, da sola, a condurlo alla follia.”

In risposta Boromir ebbe un sorriso sarcastico. “Mi consoli.”

“È quello che intendo fare. Hai imparato molte cose da quando sei partito da Minas Tirith alla ricerca di Imladris. Non ricadere nell’arroganza.”

“È arroganza assumermi la colpa della morte di mio padre?”

“Sì, perché è una colpa immeritata, e solo un modo per esasperare la tua sofferenza.”

Boromir meditò le sue parole per un momento, poi scosse le spalle in segno di resa. “Sei spietato, Gandalf il Grigio. E come al solito hai ragione. Piangerò mio padre, ma non porterò la colpa per la sua morte.”

“Molto saggio, mio Lord Sovrintendente. Ben presto Faramir scoprirà di non essere l’unico della famiglia ad avere la vista acuta.” Boromir trasalì alla scelta delle parole, ma lo stregone non diede segno di essersene accorto. “Chissà se ne sarà stupito.”

Al sentire nominare Faramir, Aragorn si alzò in piedi. “Devo andare a vedere i feriti e i malati. Ioreth avrà trovato le erbe che le avevo chiesto, e non posso indugiare. Boromir, piango insieme a te, e a tutta la città, la morte di tuo padre.”

Boromir annuì senza parlare.

“Vieni anche tu? Vorrei che tu fossi lì, quando Faramir si sveglierà.”

Boromir si alzò in piedi, ma non si mosse per seguire il Ramingo. “Verrò. Ma prima voglio parlare da solo con Gandalf.”

Aragorn gli strinse il braccio in un gesto di comprensione, e si incamminò velocemente verso la Casa. Boromir attese fino a quando udì il rumore dei passi echeggiare sul pavimento di pietra e la porta che si chiudeva, poi si rivolse allo stregone, che aspettava pazientemente. Ora che era da solo con Gandalf si sentì improvvisamente a disagio, e le parole gli vennero meno.

Infine, lo stregone ebbe pietà di lui, e con insolita dolcezza gli chiese, “Che cosa ti turba?”

“Faramir”.

“Allora faresti meglio a chiedere ad Aragorn. Se c’è qualcuno che può salvare Faramir, è lui.”

“Non è per la sua malattia. Vorrei sapere se gli hai parlato, prima che fosse ferito.”

“Brevemente. Non è stato a lungo in città.”

“Come ti è sembrato?”

“Stanco e oppresso dal dolore.” Gandalf fece una pausa, poi riprese con tono tagliente. “Ma tu non mi stai chiedendo notizie degli scontri di tuo fratello con Denethor, né dello stato della guarnigione nell’Ithilien. Che cosa vuoi sapere, Boromir?”

“Ha parlato di me? Della nostra separazione?”

“No, non direttamente. Mi ha chiesto della tua cattura, e di Saruman. Non credeva alle voci riguardo la tua morte, perché lui, al contrario di Denethor, si fidava della mia parola, ma ha voluto sapere che cosa ti era accaduto dopo che hai lasciato Granburrone.”

“E glielo hai detto?”

“Soltanto quello che spettava a me dire. In molte altre cose non avevo parte, e non sarebbe stato giusto parlarne.”

Boromir avvertì la tensione nella sua stessa voce mentre chiedeva, “E l’Anello?”

“Cosa vuoi sapere dell’Anello?”

“Non prenderti gioco di me, Gandalf! Hai detto a mio fratello che ho tentato di rubare l’Anello?

“No, lo sapeva già.”

Cosa?! Come può essere?”

“Ha incontrato Frodo nell’Ithilien.”

“Frodo…” Boromir si ritrasse, sentendo il bisogno di camminare per sfogare la crescente angoscia, ma si trovava in uno spazio poco familiare, e non osava muoversi. Il suo ginocchio premette contro la fredda roccia della panca, e vi si sedette pesantemente, mormorando, “Frodo glielo ha detto.” Serrò i pugni sulle sue ginocchia, imprecando. “Frodo glielo ha detto!”

“Non condannare Frodo per la sua indiscrezione. Penso che Faramir abbia indovinato più di quanto Frodo non abbia detto.”

Boromir rise amaramente. “Io condannare Frodo? Non potrei mai osare tanto.”

“Preferiresti che tuo fratello non conoscesse la prova che hai affrontato?”

“La prova che ho fallito, vuoi dire.” Boromir aprì le mani, sforzandosi di calmarsi, di accettare la situazione. Ma la paura, la vergogna e il dolore che gli attanagliavano le viscere non diminuirono affatto. “No, è giusto che Faramir sappia. Il mio tradimento non può restare nascosto. Eppure avrei voluto essere io a dirglielo. E vorrei che…”

Si interruppe per ingoiare il dolore soffocante nella sua gola, e gli sembrò di sentire gli occhi acuti dello stregone che lo fissavano, gentili ma penetranti, che leggevano nel suo cuore che lui lo volesse o no.

“Vorrei che questo …la mia più grande follia, non fosse tra di noi al nostro primo incontro.”

“Credi che faccia differenza per tuo fratello? Credi che intacchi il suo affetto o la sua felicità per il tuo ritorno?”

“Ci siamo lasciati nell’amarezza”, mormorò Boromir, parlando più a se stesso che allo stregone. “Voleva essere lui a compiere la missione, ma io ho convinto mio padre a mandare me al suo posto. Lui si arrabbiò, ma la cosa peggiore è che ne fu ferito, in un modo che non avevo mai visto. Temo che non potrà perdonarmi per il male che gli ho fatto, usurpando il suo posto e tradendo la missione che avrebbe dovuto essere sua.”

“Faramir non è incline al risentimento. Le ferite saranno profonde, ma riuscirai a sanarle.”

“Spero tanto che tu abbia ragione, Gandalf. Vorrei trovare almeno una cosa, in mezzo a tutta questa rovina, che possa ancora essere sanata.”

“Non tutto è rovina”, disse lo stregone, con tono burbero ma stranamente affettuoso, “e molto di ciò che era spezzato ha già cominciato a guarire.”

Boromir piegò la testa all’indietro per sentire il vento della notte sul viso, e sospirò profondamente. “E molto non guarirà mai più.”

“Non stiamo più parlando di tuo fratello o di tuo padre”, disse Gandalf, con tono penetrante. “Di che cosa, allora?”

“È sciocco parlarne ora che Isengard è dietro di me, le offerte di Saruman rifiutate, e la mia occasione perduta. Ma devo chiedertelo ugualmente.” Trasse un altro profondo respiro, poi disse, con l’ansia nella voce, “Dimmelo, Gandalf, prima che io impazzisca: Saruman avrebbe potuto curare la mia ferita come aveva promesso? Ha davvero questo potere?”

Un lungo silenzio seguì le sue parole, e Boromir sentì la speranza e l’imbarazzo lottare dentro di lui mentre aspettava. Infine Gandalf sospirò, e disse, “Non lo so.”

“Tu sei del suo ordine. Lo hai sconfitto davanti alle porte di Orthanc, hai spezzato il suo bastone. Se non lo sai tu, chi può saperlo?”

“Soltanto Saruman stesso, ma non otterrai una riposta chiara da lui. Sì, un tempo appartenevo al suo ordine, ma allora non aveva il potere di forgiare anelli o curare le ferite. Era un maestro di sapienza, forte, saggio, e acuto. Poi i suoi occhi si sono rivolti a est, alla Terra Nera, e la saggezza di Saruman fu consumata dalla malvagità di Sauron.”

“Non mi dici nulla che io già non sappia.”

“Nel suo desiderio di rivaleggiare con Sauron, Saruman volse le sue grandi abilità ad arti che non gli appartenevano. Ha usurpato poteri che non competono agli stregoni, né ad alcuna razza nella Terra di Mezzo. Non so dove abbia imparato a forgiare anelli di potere o a creare nuove razze di orchi, ma lo ha fatto. E io non so quanto siano grandi questi suoi poteri. Ho visto il suo anello e ho visto gli Uruk-Hai. Vedo il tuo viso, ora integro e guarito, benché Aragorn giuri che era stato devastato e ridotto a una rovina insanguinata dalla lama di un orco. So che Saruman può fare questo, ma non so altro.”

Boromir digrignò i denti per la frustrazione, e scattò, “Ma tu che cosa pensi, Gandalf? Che cosa credi?”

Lo stregone sospirò di nuovo, e Boromir udì il frusciare del suo mantello mentre si sedeva sulla panca accanto a lui. “Ciò che credo io non ti aiuterà a trovare le risposte che cerchi, Boromir.”

“Forse mi darà un po’ di pace.”

“Molto bene. Io non credo che Saruman abbia il potere di restituirti la vista.”

“Eppure ha guarito il mio viso.”

“Ha risanato ciò che era ferito, ma è differente dal ricreare ciò che è distrutto. Conosci la reale gravità delle tue lesioni?”

Boromir voltò la testa, come guardando altrove, per nascondere allo stregone la sua emozione.

“Sì.”

“Allora sai che non era rimasto nulla che Saruman potesse guarire. Mi dispiace, Boromir, ma non credo che egli abbia il potere di ricreare qualcosa che è andato completamente perduto. Nessuna forza del male può davvero creare: può modificare, plasmare, forse persino affrettare gli effetti del tempo e della natura, ma non creare. Ecco perché i poteri oscuri della Prima Era poterono produrre gli orchi soltanto deformando gli Elfi. Ed ecco perché Saruman, il cui potere è molto minore di quello che vorrebbe imitare, non può fare altro che perfezionare gli orchi già esistenti per fare i suoi Uruk-Hai. Sono terrificanti per la loro forza e intelligenza, ma sono solo orchi, in fin dei conti. Ridarti la vista richiederebbe un potere molto più grande di quello di Saruman.”

“Allora era soltanto un’altra menzogna.” Disse Boromir.

“Così io credo, ma se tu scegli di non crederlo, nessuno ti biasimerà.”

“No. Mi fido di te.” Boromir esitò, raccogliendo il coraggio per fare la domanda in cui risiedeva la sua ultima speranza. Sentiva la presenza di Gandalf accanto a lui, e sapeva che lo stregone stava aspettando quella domanda. “E tu, Gandalf? Tu sei lo stregone più potente di questa Era. Tu puoi farlo?”

La risposta fu dolce e compassionevole, ma decisa. “No, non posso. Se avessi avuto quel potere lo avrei fatto subito, fuori dalle mura di Isengard, risparmiandoti questi giorni di dubbio e di oscurità.” Boromir annuì impercettibilmente, con il viso contratto per lo sforzo di controllare il suo dolore. “Non credo che in tutta la Terra di Mezzo esista un tale potere.”

Boromir annuì di nuovo, più deciso. Poi con voce spezzata, disse, “Ti ringrazio per la tua franchezza.”

“Sono davvero addolorato. Vorrei poterti dare speranza, invece che altra oscurità.”

“In un certo senso è un sollievo. Almeno ora potrò voltare le spalle definitivamente a Isengard e alle menzogne di Saruman.”

“Bene.” Lo stregone si alzò in piedi, appoggiandosi al bastone. “Molto bene. Comincio ad avere davvero fiducia in te, Boromir di Gondor.”

Boromir ignorò il complimento, e chiese, “Stai andando da Aragorn?”

“Sì”.

Boromir si alzò e fece per porgere la mano allo stregone, ma poi ci ripensò e lasciò ricadere il braccio al suo fianco. Si raddrizzò rigidamente e disse, “Devo essere con mio fratello quando si risveglia.”

“Sarebbe la cosa migliore.” Per un attimo di imbarazzo nessuno dei due parlò, poi Gandalf, ridendo, disse, “Vieni con me.”

Afferrando il braccio di Boromir lo stregone si incamminò verso la porta, poi aggiunse, “La prossima lezione che devi imparare, mio testardo amico, è di chiedere aiuto quando ne hai bisogno. Altrimenti passerai troppo tempo restando lì con aria dignitosa, senza arrivare da nessuna parte.”

Boromir protestò con un grugnito, e seguì Gandalf all’interno della Casa.

Passarono per un freddo corridoio dal pavimento di pietra, che odorava di sapone e di erbe fresche. Non c’era posto per camminare in due fianco a fianco, e Boromir dovette stare dietro a Gandalf, usando il muro e il ticchettio del bastone di Gandalf sul pavimento come guida. Fu sollevato di essere libero dalla stretta di Gandalf. Una cosa era accettare la guida di Merry o Pipino, ma affidarsi a una persona che aveva appena cominciato a considerare un amico era tutta un’altra cosa.

Seguì Gandalf oltre un angolo e sentì delle voci proprio davanti a lui. Il tono basso e insistente di Aragorn e la voce di un altro uomo che gli rispondeva.  All’udire quest’ultima voce Boromir si sentì pervadere dall’ esaltazione, e dimenticando la cautela, corse in avanti. Prima di aver fatto due passi fu costretto ad arretrare inciampando, investito dalle acute proteste di una voce femminile, mentre una massa di tessuto cadeva ai sui piedi.

Si appoggiò al muro per ritrovare l’equilibrio, poi cercò di spostare la stoffa con i piedi.

“Il mio bucato!”, gridò una voce vagamente familiare. “Lo stai calpestando!”

“Chiedo perdono”, mormorò Boromir, a metà tra l’imbarazzato e l’irritato. Sentiva la voce di suo fratello che parlava piano con Aragorn, ed era ansioso di raggiungerlo, ma una massa insidiosa di biancheria rovesciata e una donna infuriata gli sbarravano la strada.

La donna emise un gemito soffocato e Boromir si accigliò confuso. “Mio signore!”, gridò la donna.

“Ci conosciamo?” chiese Boromir.

“No! Voglio dire…noi…ci siamo incontrati in strada, vicino al cancello della Cittadella.”

Improvvisamente Boromir comprese, e sentì un imbarazzante rossore salirgli al viso. Restò fermo in silenzio, incerto se sfogare su di lei la sua rabbia e la sua umiliazione, o semplicemente andarsene e lasciarla con il suo bucato sparso. Poi si accorse della comicità della situazione, e rise mestamente.

“Chiedo perdono per la mia scortesia, mio signore”, disse la donna, con voce neutrale.

“Non avevo capito che foste il figlio del nostro Sovrintendente, in quegli abiti stranieri.”

Boromir non poté trattenersi dal domandare, “Sei così cortese solo con i figli di Denethor? O solo con i soldati di Minas Tirith?”

“Avevo fretta, mio signore, ed ero spaventata da tutto quel rumore. E voi avete rovesciato le mie erbe”, aggiunse, con un accenno di rimprovero nella voce.

“Sì, è così. E ora ho rovesciato anche il tuo bucato. Mi dispiace.”

La ragazza aveva di nuovo assunto un contegno umile e formale, e rispose, “Non importa, mio signore. Non vi preoccupate.”

Boromir stava per chinarsi e aiutarla a raccogliere le lenzuola sparse, quando Gandalf arrivò a grandi passi, calpestando la stoffa sotto i suoi piedi.

“Andiamo, Boromir. C’è bisogno di te.”

La ragazza non disse nulla, anche quando Boromir alzandosi passò sopra le lenzuola guidato da Gandalf. Lo stregone si scusò sbrigativamente con la donna e condusse via Boromir. Chiaramente c’erano cose più importanti che il bucato sporco, e Boromir fu contagiato dalla sua eccitazione.

Raggiunta la porta della stanza di Faramir, Gandalf si arrestò di colpo. Boromir si fermò, con una mano sulla spalla dello stregone, e aspettò un qualche segnale da parte degli uomini che erano dentro la stanza. Sentì la voce di Faramir bassa e debole, eppure stranamente esaltata che parlava ad Aragorn, chiamandolo Re. Un sorriso apparve sul volto di Boromir, mentre la gelida paura che non aveva voluto ammettere si scioglieva come neve al sole. Faramir era vivo. Era vivo e conosceva il suo Re!

“Devi riposare ora”, disse Aragorn al ferito. “Riposa, guarisci, e non camminare più nell’ombra. Qui c’è qualcuno che non pensavi di rivedere, e che ti aiuterà a dimenticare i tuoi brutti sogni.”

Mentre Aragorn parlava, Gandalf si fece da parte, e il Ramingo prese il braccio di Boromir per condurlo verso il letto. Boromir si fermò quando la sua gamba urtò contro al materasso, e volse la testa nella direzione da cui era venuta la voce di suo fratello, con un sorriso incerto.

“Boromir?” La voce dell’uomo più giovane era incredula, ma Boromir non poté stabilire se fosse gioia o disappunto che si celava oltre la sorpresa. Le lenzuola frusciarono, mentre Faramir si alzò a sedere sul letto, e mani febbricitanti afferrarono quelle di Boromir con fermezza. Quando tornò a parlare, Boromir non ebbe più dubbi: era gioia. “Boromir! Sapevo che Gandalf aveva ragione! Sapevo che saresti tornato!”

“Sì, fratello mio.” Boromir non sapeva che cosa dire. Era travolto da un’ondata di sollievo, dolore e gratitudine mischiate insieme, che non lasciavano posto alle parole.

Tirandolo per la mano, Faramir lo fece sedere sul letto, poi lo abbracciò calorosamente, come faceva da bambino. Boromir ricambiò l’abbraccio, stringendo il corpo del fratello, ancora ardente per la febbre,  ricordando tutti gli anni di affetto, litigi, pericoli e avventure che avevano condiviso. Come aveva potuto dubitare che Faramir lo avrebbe accolto a casa? Come aveva potuto temere che l’unica persona al mondo che lo conosceva e lo amava per quello che era veramente non riuscisse a perdonarlo?

“Nostro padre aveva detto al Consiglio che eri morto”, disse Faramir, con voce roca per le lacrime, “ma io non lo credevo. Abbiamo sentito il suono del tuo corno da ovest, e ho avuto paura, ma non potevo rassegnarmi alla tua morte senza prima averne un segno…”

“Sei ferito e debole,” lo rimproverò Boromir, ritornando istintivamente a ricoprire il suo ruolo protettivo di fratello maggiore, “E Aragorn ti ha ordinato di riposare. Coricati e non ti muovere.”

Obbediente, Faramir si appoggiò all’indietro sui cuscini, ma continuò a stringere la mano di Boromir tra le sue, come se temesse che lasciandola sarebbe scomparso. Aragorn, che era restato in disparte in silenzio mentre i due fratelli si salutavano, ritornò accanto a Faramir.

“Devo occuparmi degli altri ospiti di questa casa, così lo affido alle tue cure, Boromir. Deve riposare. Non farlo alzare, e non stancarlo troppo. Puoi restare con lui fino al mio ritorno.”

“Mio re e signore,” Faramir parlò con reverenza e semplicità, come se avesse detto quelle parole per tutta la vita, “hai riportato tu mio fratello a casa?”

“La mia parte è stata molto piccola. È una lunga storia, Faramir, e dovrà aspettare. Ma se vuoi ringraziare qualcuno, comincia con i mezzuomini, Meriadoc e Peregrino.”

“Lo farò.”

Aragorn posò una mano sulla spalla di Boromir e mormorò, “Digli quello che ritieni saggio, ma non angustiarlo troppo.”

Boromir annuì la sua comprensione. “Come stanno Merry ed Éowyn?”

“Andrò da loro adesso. Ti farò sapere.”

Aragorn se ne andò, portando con sé Gandalf e i guaritori, e lasciando Boromir solo con il fratello.

Nell’improvviso silenzio che era sceso su di loro, Faramir strinse la sua presa sulla mano di Boromir, e mormorò, “Mi fa bene al cuore rivederti, fratello.”

Boromir sorrise tristemente, ricordando le amare parole che avevano scambiato al momento della loro separazione e le sue paure. “Ho pensato spesso a te, desiderando di avere la tua saggezza a guidarmi nel mio viaggio.”

Faramir rise, e le lacrime nella sua voce rendevano il suono ancora più dolce. “Non mi avresti dato ascolto. Non lo hai mai fatto. Ah, Boromir, mi sei mancato!”

“Anche tu.”

I due uomini restarono in silenzio, sopraffatti dalle emozioni, dalla miriade di domande che dovevano fare, le storie che dovevano raccontare, e quelle che dovevano evitare in quel primo, incerto incontro. Infine, Faramir spostò la mano per afferrare l’avambraccio di Boromir in un saluto da soldati, un gesto di rispetto tra eguali, e Boromir ricambiò il saluto.

La voce di Faramir era ancora roca per le lacrime che tentava di trattenere, ma riuscì a dominarsi abbastanza da parlare con tono fermo. “Lo sapevo che eri vivo, e non ho mai perso la speranza di rivederti sulle mura di Minas Tirith ancora una volta.”

“Avresti dovuto sapere che nessun potere nella Terra di Mezzo potrebbe tenermi lontano dalla mia città in un’ora come questa, finché sono vivo e ho una spada in pugno.”

“Nostro padre disperava della tua salvezza.”

“È stato tradito, portato alla disperazione dal Nemico.”

“Eppure ha visto il tuo destino chiaramente. Ha parlato del tuo imprigionamento, delle torture…”

“Non so cosa ha visto, o cosa ha creduto di vedere,” ringhiò Boromir, interrompendolo, “ma non importa, ora. Non sono morto, né abbandonato nei sotterranei di Isengard, ma qui nella Città Bianca, al posto che mi compete.”

“Non importa?!” balbettò Faramir.

Boromir colse l’indignazione nella voce del fratello e sentì il proprio viso indurirsi. “Non voglio parlare di stregoni, orchi o sotterranei,” disse, soffocando sul nascere lo scoppio d’ira di Faramir. “Non sono importanti, ora che ce ne siamo liberati e Aragorn è venuto a Gondor. Ti ho portato il tuo re delle leggende, fratello. Accontentati di questo e dimentica il resto.”

Tu hai portato il re?”

“Ho fatto la mia parte, come lui ha fatto la sua nel portarmi a casa.” Boromir si interruppe, un po’ deluso per l’incredulità di Faramir. Con voce mitigata dal dolore, continuò, “Speravo che la sua venuta avrebbe sanato la spaccatura tra di noi, Faramir. Speravo che ti avrebbe ridato fiducia in me.”

“Non ho mai perso la fiducia in te.”

“Anche quando Frodo ti ha detto dell’Anello?” Ci fu un momento di silenzio, e la presa di Faramir si allentò. “Sì, Gandalf mi ha raccontato del tuo incontro con il portatore dell’Anello. Non ti biasimo per esserti ritirato da me. Farei anch’io la stessa cosa, se si trattasse di un altro, e anch’io mi sono creduto a lungo perduto. Ma Aragorn mi ha salvato dalla disperazione. Mi ha convinto a sperare, e mi ha offerto una possibilità di redimere il mio onore. Ho giurato che avrei mandato l’Erede di Isildur a Gondor, al suo trono, per salvarla dall’Ombra dell’Est, e per risparmiarmi una morte da traditore. Ho mantenuto quel voto, Faramir, per te, per me stesso, e per tutta Gondor.”

Faramir non parlò per alcuni momenti, e quando lo fece, le parole furono lente, quasi riluttanti.

“So perché lo vuoi. Ti darebbe tutto ciò che hai sempre desiderato.”

“L’Anello?”

“Sì.”

“L’Anello non mi darebbe - non mi ha dato- che dolore e sofferenza. È una cosa malvagia, e sono grato che il mezzuomo lo abbia portato lontano da me.”

“Eppure lo desideri ancora.”

La bocca di Boromir si serrò con durezza. Come sempre, la perspicacia e la franchezza del fratello lo irritavano, ma ingoiò la risposta irata che gli era salita alle labbra, e rispose con la stessa onestà. “Lo desidero ancora, ma ora sono preparato. Non crederò mai più ai suoi sussurri.” Sorrise a Faramir senza gioia, e aggiunse, “Tu non li sentivi i sussurri, vero, fratello?”

“No, non mi ha mai parlato. L’Anello non esercita alcuna tentazione su di me, solo paura e orrore.”

“Allora sei più forte e più saggio di me.”

“Non ti mancano né la saggezza né la forza, Boromir, ma tu somigli molto a nostro padre”, mormorò Faramir.

“Sì, è quello che temo.”

Questo catturò l’attenzione di Faramir. La sua voce divenne tagliente. “Temi? Che vuoi dire?”

Boromir sospirò e si passò le mani sul viso, cercando di scacciare la stanchezza e il dolore, e di trovare un modo delicato per dire a suo fratello che il loro padre si era ucciso dandosi fuoco in preda alla follia. La lingua lo aveva tradito, portandolo in una conversazione che non avrebbe voluto avere, e mettendo nella mente di Faramir dubbi che gli avrebbe volentieri risparmiato.

Era già abbastanza grave che Denethor fosse morto e che il Seggio del Sovrintendente fosse tenuto da un cieco, in un momento di tale crisi. Faramir non aveva alcun bisogno di conoscere il destino di Denethor, né di sapere quanto da vicino il viaggio di Boromir nel tradimento e nella disperazione rispecchiasse quello del padre impazzito.

“Non sono solo i ricordi che ti turbano,” disse Faramir, acutamente. “Che notizie mi nascondi, fratello?”

Con un altro sospiro, Boromir raddrizzò le spalle e si rivolse con determinazione al fratello. Sapeva che i suoi lineamenti si erano induriti e la sua voce era diventata aspra, ma era una corazza di cui aveva bisogno per difendersi dal dolore e della reazione di Faramir.

“Nostro padre è morto, Faramir.”

“Denethor? Morto?” Faramir si sollevò su un gomito, e afferrò il braccio di Boromir con la mano libera. “Come può essere?!”

“Ti ho detto che è stato tradito dal Nemico…”

“Tradimento nella nostra città?! Chi oserebbe fare del male al Sovrintendente di Gondor?”

“Solo lui stesso, incitato dalle menzogne di Sauron. Si è tolto la vita.”

“No…” Faramir ricadde all’indietro contro i cuscini, e la sua mano lasciò il braccio di Boromir.

“No, non può essere…Denehtor, figlio di Echtelion, si è tolto la vita? Nel momento in cui si decide il nostro destino? È follia.”

“Sì.”

“Eri lì? Gli hai parlato prima che morisse?”

Boromir scosse la testa. “Sono arrivato troppo tardi anche solo per dirgli addio. Io stesso non l’ho saputo che poco fa, quando me lo ha detto Gandalf.”

"Come…come è morto?”

“Questo può aspettare. Per ora ti basti sapere che Denethor è morto e che per il momento, io sono il Sovrintendente di Gondor.”

Faramir, come suo solito, si avvide della strana espressione usata e non la lasciò passare inosservata. “Per il momento?”

“L’Erede di Isildur è tornato. Gondor ha un re, e tutto è cambiato.”

“Sì…” Faramir abbassò la voce a un sussurro, poi aggiunse, meditando tra sé e sé, “Nostro padre è morto, e la Sovrintendenza è finita con lui.”

“Aragorn avrà bisogno di un Sovrintendente per aiutarlo a reggere il regno.”

“Ma non per governare Minas Tirith al suo posto, come ti è stato insegnato a fare. Né per governare come un re, come a lungo hai sperato.”

“Tutto è cambiato”, ripeté Boromir con decisione. Non gli piaceva il tono dubbioso nella voce del fratello, e l’implicito riferimento ai loro disaccordi riguardo il futuro di Gondor e al figlio prediletto di Gondor. Soltanto il tempo avrebbe convinto Faramir della sua sincera lealtà verso il re, e finché Faramir non gli avesse creduto, non avrebbe messo da parte i dubbi e le antiche ferite. Come sempre Gandalf aveva compreso la verità della situazione.

“Il re farà la sua scelta” continuò Boromir, con un tono che non ammetteva repliche, “e noi ci atterremo ad essa. Io mi fido del suo giudizio.”

“Anche io.” Mormorò Faramir.

“Allora possiamo solo aspettare, e proteggere la città in attesa del suo ritorno.”

Faramir esitò, poi disse, “Ora dormirò meglio, sapendo che la città è affidata a te. Ci sei mancato, Boromir, a me e a Gondor. Terribilmente.”

“Vi è mancata la mia spada, in ogni caso.” Boromir si sforzò di mostrarsi allegro per scacciare l’aria malinconica del fratello. “Ritorno a casa e ritrovo la città nel caos, il nemico che preme alle porte, e tu che ti riposi a letto. Chiaramente non puoi farcela senza di me. Avrei dovuto darti ascolto e restare a casa.”

Faramir rise. “Dovresti sempre darmi ascolto.”

“Sì. Tra te, Aragorn e Gandalf sono circondato da grandi menti. Mi sento svantaggiato.”

Boromir si grattò il mento con aria meditabonda, poi aggiunse, “Credo che mi metterò a coltivare la terra e lascerò gli affari degli uomini a chi ha le idee più chiare e la vista più acuta della mia.”

Faramir rise di nuovo, ma Boromir percepì il dubbio nella sua risata, come se non fosse sicuro che il fratello stesse scherzando.

“Ho parlato abbastanza delle mie avventure e dei miei errori. Dimmi qualcosa di te, Faramir. Che cosa hai fatto in tutti questi mesi?”

“Sono stati mesi difficili - per me e per il nostro popolo.”

“Non ne dubito. Raccontami.”

Faramir sentì l’impazienza nella sua voce, il desiderio di sapere notizie della terra e della gente che amava con tutto sé stesso, e si lanciò in un racconto di tutto ciò che era accaduto dal giorno della sua partenza. Parlò della lunga, spietata guerra, dell’abbandono della guarnigione in Ithilien, della perdita dell’ultimo ponte di Osgiliath, e della venuta dell’ombra alata. Del padre parlò poco, ma Boromir conosceva abbastanza bene la sua famiglia da riconoscere la mano del padre in molto di ciò che il fratello aveva fatto. E capiva che ogni lacuna nel racconto di Faramir andava riempita con un’altra scena di tensione e di amarezza tra lui e Denethor.

Boromir ascoltava con un crescente senso di colpa per aver lasciato Faramir solo così a lungo, senza la sua presenza protettiva. Aveva bisogno di ricordare a sé stesso che Faramir era ormai un uomo adulto, con anni di esperienza nel trattare con un padre freddo e critico. E trovò una sorta di perversa consolazione nel fatto che Denethor avesse scelto di portare Faramir nella morte con sé - un ultimo, disperato gesto d’amore, seppure al momento sbagliato. Quando Faramir fosse stato più in forze, e pronto per ascoltare l’intera storia della morte di suo padre, forse anche lui avrebbe tratto qualche consolazione dalla certezza che Denethor lo aveva amato.

Nel bel mezzo del racconto di Faramir, Aragorn entrò nella stanza. Portava con sé il Custode delle Case di Guarigione, e la vecchia, Ioreth. Quando lo sguardo di Faramir si posò sul suo re, interruppe il suo racconto e cadde in un silenzio rispettoso. Boromir si girò verso i nuovi arrivati, corrugando la fronte, finché non udì la voce di Aragorn.

“È tempo che tuo fratello riposi, Boromir.”

Obbediente, Boromir si alzò per andarsene, ma si chinò ancora sul letto per stringere la mano di Faramir per salutarlo. Il fratello si aggrappò a lui con forza sorprendente.

“Devi proprio andare?” Chiese Faramir, e per un momento, la sua voce sembrò quella del bambino che Boromir aveva amato, viziato, istruito e protetto con tanta feroce devozione. Era stato tanto, tanto tempo prima, ma quella voce supplicante sembrò spazzare via gli anni e riportarlo alla sua giovinezza, con il fratellino che si aggrappava insistente alla sua mano.

“Devo, ma non sarò lontano.” Appoggiò la mano sui capelli spettinati di Faramir, resistendo all’impulso di chinarsi e di dargli un bacio sulla fronte.

“Grazie”, sussurrò Faramir.

“Di cosa?”

“Di essere tornato a casa.”

Boromir sorrise, strinse di nuovo la sua mano, poi si voltò e lasciò che Aragorn lo guidasse fuori dalla stanza.

“Guarirà?”, chiese Boromir, avvicinandosi al Ramingo.

“Sì, e con te vicino ancora più velocemente. Ma ora va’ da Merry. È sveglio e chiede di te.”

“Merry?” Boromir riprese forza e si avviò per il corridoio. Era solo a pochi passi dalla porta di Faramir quando si rese conto che non aveva idea di dove fosse lo hobbit. Si fermò e si voltò per chiedere ad Aragorn, ma questi era già rientrato al capezzale di Faramir, e Boromir lo sentì parlare in tono sommesso a suo fratello.

Perplesso, restò fermo in mezzo al corridoio, chiedendosi per quanto tempo avrebbe dovuto aspettare Aragorn, e pensando a quanto doveva sembrare ridicolo. Dei passi leggeri gli si avvicinarono, e una profonda voce maschile gli parlò.

“Posso aiutarvi, mio Lord Sovrintendente?”

Boromir nascose il suo imbarazzo corrugando la fronte, e domandò, “Chi siete?”

“Il Custode di queste Case. Sono venuto qui per occuparmi di vostro fratello, ma è già nelle migliori mani possibili e non ha bisogno di me. E voi mio signore?”

“Sto cercando il mezzuomo, Meriadoc.”

“Ah, il perian. Non so quale sia la sua stanza, ma troverò qualcuno che vi scorti.” L’uomo si allontanò, la veste che frusciava come foglie secche, poi chiamò, “Gil! Vieni qui, ragazza!”

Altri passi si avvicinarono. “Signore?”

“Tu sai dove alloggia il perian, vero? Porta il Lord Boromir alla sua stanza.”

“Chiedo perdono, signore, ma Ioreth mi ha detto di finire il bucato.” Boromir percepì qualcosa di simile al panico nella voce della ragazza, e ne ebbe compassione. La sua guida altri non era che la sguattera nella quale si era imbattuto già due volte, con risultati disastrosi.

“Sciocchezze, ragazza. Il tuo compito può aspettare”, insistette il Custode. “Mostra a Lord Boromir dove trovare il suo amico, ci penserò io a spiegare a Ioreth cosa ti ha trattenuto.”

“Va bene”. La sua voce era divenuta nuovamente fredda e inespressiva. “Se vuoi seguirmi, mio signore…”

La sua mano scivolò sotto il gomito di Boromir, e a Boromir sembrò che le sue dita tremassero. Quando si avviò lungo il corridoio, allontanandosi dal Custode, Boromir ebbe pietà di lei e disse, “Non devi avere paura di me.” Poi il suo senso del ridicolo prese il sopravvento e aggiunse, “Non ho la spada con me, stanotte, così sono piuttosto innocuo.”

“Ti prego, mio signore, dimentica le parole che ti ho detto.”

“Come desideri…Gil? È giusto?” Esitò nel pronunciare l’insolito nome.

“Gilthaethil.” Anche usando il suo solito tono distaccato, riuscì a investire il nome di una nota di disgusto. “Ioreth mi ha chiamata così. L’ha preso da qualche vecchia leggenda ammuffita. Non so quale.”

“Ioreth? La vecchia che non smette mai di parlare?”

“Sì.”

“È tua madre?”

“No, ma è la cosa più simile a una madre che io abbia mai avuto.” Di nuovo, al di sotto della piattezza del suo tono era chiaro il messaggio che l’argomento era chiuso e che non aveva intenzione di discuterne oltre.  

Boromir scrollò le spalle e restò in silenzio. La sua guida era un mistero, un momento bisbetica e dalla lingua tagliente, il momento dopo umile e piena di scuse, con un modo di parlare discontinuo che la faceva sembrare sempre arrabbiata, indipendentemente dalle parole che uscivano dalla sua bocca. Boromir ne era vagamente incuriosito, e si chiese che aspetto avesse, o come fosse finita a lavorare nelle Case di Guarigione, ma fu un interesse passeggero. Il risuonare di voci acute e familiari lungo il corridoio gli fece dimenticare ogni altro pensiero.

Sollevò la testa, e un sorriso gli apparve sul volto, quando sentì Merry dire, “Quello che vorrei veramente è uno spuntino e una pipa. E dove sarà Boromir, mi chiedo?”

Gil spostò la mano dal suo braccio e disse, bruscamente, “È proprio qui davanti, mio signore. Meglio fare in fretta. Sei atteso.”

Boromir fece un cenno di ringraziamento ed entrò nella stanza, e il suo sorriso si allargò quando fu salutato da un gioioso coro di benvenuto e di loquaci richieste per la cena.

*** *** ***

Il mattino seguente albeggiò chiaro e sereno. Imrahil, Principe di Dol Amroth, si incamminò per la città verso i cancelli distrutti, convocato ad un concilio di guerra dal suo nuovo re. Ma Aragorn non era ancora il suo re, essendosi ritirato insieme ai suoi uomini per accamparsi sul campo di battaglia, come un qualunque cavaliere che attendesse udienza dal signore della città. Imrahil si accigliò a quel pensiero. Capiva la saggezza della decisione di Aragorn per non gettare lo scompiglio su Minas Tirith rivendicando il trono in quel momento, ma dentro di sé pensava che il futuro re stesse scatenando tutto un altro genere di scompiglio con la sua esitazione. Imrahil aveva sentito delle lamentele durante la notte, voci scontente, moleste, di soldati e capi che rispettava, e che non poteva ignorare completamente.

Camminando per la città, il Principe non poté non stupirsi di fronte alla diligenza del popolo e ai progressi che erano già stati fatti per restituirle la sua scalfita bellezza. Ogni traccia dei morti e dei feriti era scomparsa dalle strade, insieme ai macabri proiettili lanciati dagli orchi oltre le mura. Qualche fuoco ardeva ancora, ma ormai non erano che tizzoni incandescenti. Anche i cancelli erano stati rimossi, il legno spezzato era stato gettato nella spianata per essere usato nelle pire funebri. Il Principe, con giustizia, ne diede il credito all’uomo che sapeva essere al comando della città, e in qualche modo le sue preoccupazioni furono alleviate da quelle prove tangibili dell’abilità del Sovrintendente.

Imrahil oltrepassò l’arcata per ritrovarsi nei campi insanguinati di Pelennor, e si diresse verso le tende dei Dùnedain. La tenda di Aragorn era disadorna, priva di insegne o di vessilli. Solo le sentinelle al suo ingresso, guerrieri grigio-vestiti dai visi fieri, la distinguevano dalle altre. Imrahil rispose al saluto delle guardie ed entrò nella tenda.

Vi trovò Aragorn e Mithrandir ad attenderlo, insieme ai figli di Elrond, Éomer, Boromir, e il luogotenente di Aragorn, Halbarad. Le sedie erano disposte attorno a un tavolo da campo, sul quale erano ammucchiate mappe e liste scritte in fretta su pezzi di pergamena, e tutti i presenti tranne Halbarad erano seduti. Il Ramingo aveva preferito restare in piedi in silenzio alle spalle di Aragorn, come una protettiva ombra grigia, in disparte rispetto al concilio ma sempre vigilante.

Imrahil si sedette tra uno dei signori degli Elfi - non avrebbe saputo dire quale - e il Re del Mark. Aragorn gli rivolse un sorriso stanco, poi spinse una mappa al centro del tavolo, dove tutti la potevano vedere.

“Miei signori, siamo qui riuniti per decidere la nostra morte.”

Il concilio che seguì fu eccitante e sconfortante allo stesso tempo per il Principe di Dol Amroth. Sentì la morte nelle parole del re, la disperazione nelle profezie dello stregone, e vide il destino che attendeva la Terra di Mezzo con una nuova, terribile chiarezza. Eppure non poteva rinunciare alla speranza, non finché l’Erede di Isildur sedeva di fronte a lui e la Spada che era stata rotta scintillava davanti ai suoi occhi, riforgiata e temprata nel sangue dei nemici di Gondor. Aragorn e Mithrandir non consigliavano la disperazione, cosa di cui Imrahil fu molto grato. Invece, infiammarono gli animi proponendo di sfidare il Nemico, e parlando di vittoria. Dell’Anello del Potere. Di una missione disperata dalla quale dipendevano tutte le loro speranze.

Quando Aragorn comunicò la sua intenzione di marciare contro il Cancello Nero, Imrahil sentì il sangue  ribollirgli per l’orgoglio e l’ eccitazione. Avrebbe marciato col suo re fino alle mura di Mordor, e sarebbe morto in quell’ultimo, disperato tentativo di conquistare la libertà dall’Ombra. I cavalieri di Dol Amroth sarebbero stati ricordati nelle canzoni e nelle leggende, se qualcuno fosse vissuto per raccontarle.

Finalmente, dopo che furono disposte le truppe e decise le strategie, e stabilita la data per la loro coraggiosa e folle offensiva, Aragorn si sedette di nuovo, e si rivolse all’uomo alla sua destra.

“Mi dispiace, Boromir, ma tu non potrai cavalcare con noi. E questa volta è un ordine.”

Con sorpresa di Imrahil, Boromir si limitò a sorridere con amarezza, e disse, “Non ne avevo intenzione.”

“Conto su di te per reggere Minas Tirith in mia assenza. Se io non dovessi tornare, la città e l’ultima difesa di Gondor spetteranno a te.”

Alle spalle di Aragorn, Halbarad si agitò inquieto, e Imrahil colse lo scintillio dei suoi occhi nella luce fioca, quando i loro sguardi si incontrarono. Né il Principe né il Ramingo parlarono, e i figli di Elrond non sembrarono colpiti dalle parole di Aragorn. Solo Éomer rispose, chinandosi per afferrare il braccio di Boromir, e disse, “Io, per quanto mi riguarda, partirò con il cuore più sereno, sapendo che tu sei qui a sorvegliare la strada dietro di noi.”

“Cerca di ritornare, da quella strada, amico mio”, rispose Boromir.

“Allora siamo d’accordo”, disse Aragorn, spingendo indietro la sedia e alzandosi in piedi. “Tra due giorni marceremo con i nostri due eserciti. Elfhelm e il grosso dei Rohirrim andranno incontro ai nostri nemici nell’Anòrien. Boromir comanderà la guarnigione rimasta a Minas Tirith, compresa la Torre di Guardia, e governerà come Sovrintendente fino al mio ritorno.”

Halbarad parlò per la prima volta, la sua voce calma e grave. “E se tu non dovessi tornare?”

“Allora tutto sarà come era prima che noi arrivassimo con le nere navi spiegando il vessillo di Re Elessar al di sopra del fumo della battaglia. Sarà come se il Re non fosse mai tornato.”

Aragorn si avvicinò all’uscita e sollevò un lembo della tenda. Incorniciate dall’apertura, tutti poterono vedere le mura di Minas Tirith che si innalzavano, e sollevando lo sguardo, in alto sulla torre più alta, lo stendardo bianco che si agitava al vento. Aragorn non ebbe bisogno di parlare. A nessuno sfuggì il significato di quel semplice vessillo che sventolava sulla Torre di Guardia, da così tanti anni che nessuno dei mortali tra di loro poteva enumerare.

I principi, i re e i signori uscirono dalla tenda ordinatamente, in un silenzio pensieroso. Imrahil uscì alla luce del sole e si discostò leggermente dalle guardie, mentre il suo sguardo indugiava sulle mura che si innalzavano di fronte a lui. Éomer e Boromir lo sorpassarono, dirigendosi verso i cancelli crollati. Imrahil non si mosse per salutare o trattenere il suo consanguineo, ma lasciò che andassero avanti. Li stava ancora guardando, immobile, quando un’altra figura gli si avvicinò e una voce mormorò nel suo orecchio.

“Fra due giorni muoveremo contro Sauron.”

Imrahil si voltò, trovandosi davanti Halbarad, chiedendosi come mai il Ramingo avesse scelto di parlare con lui. Non vedeva altro che calma e distacco nei suoi occhi, mentre seguivano le due figure che si avvicinavano al cancello, ma quando Imrahil guardò più in basso, vide che la mano sinistra di Halbarad si apriva e si chiudeva nervosamente sull’elsa della sua spada.

Cautamente, Imrahil rispose, “Verso la morte, sembra. Eppure non posso perdere la speranza sapendo di cavalcare con questa compagnia. Non vedo la morte nel viso di Aragorn.”

“Sei saggio. Non sono coloro che cavalcheranno con i Dùnedain che dovrebbero temere, ma piuttosto quelli che restano indietro.”

Imrahil lo affrontò direttamente, mantenendosi cauto, e domandò, “Parla chiaramente, ti prego.”

“Molto bene. In breve, sono restio ad andarmene in guerra, lasciando Minas Tirith nelle mani del figlio di Denethor. Non mi fido a lasciarlo a governare a nome di Aragorn, né mi fido delle sue ragioni per cercare il favore del suo signore.”

“Stai parlando di un mio consanguineo, per il quale nutro un profondo affetto.”

“Certo. Ma forse il tuo affetto per Boromir ti rende cieco ai suoi difetti.”

“Cosa ne sai dei suoi difetti?” ribatté Imrahil.

“Conoscevo bene suo padre - troppo bene per i miei gusti - e so quanto il figlio sia simile al padre. Denethor è sempre stato ostile verso gli esuli di Nùmenor. Credi che abbia insegnato a suo figlio a rispettarli più di quanto facesse lui? Credi che l’orgoglioso Boromir metterebbe da parte le sue ambizioni e gli insegnamenti di suo padre per restare all’ombra di Aragorn per tutta la vita?”

“Non ho visto né orgoglio né ambizione in Boromir oggi, solo lealtà e il desiderio di servire il suo re.”

“Forse.” Halbarad fissò fermamente il principe, come se stesse considerando con attenzione le sue parole. “Forse ha davvero messo da parte le sue ambizioni per riguardo al re. Ma perché?”

“Perché Aragorn è un uomo che sa guadagnarsi il rispetto. Non abbiamo fatto lo stesso tutti noi?”

“Non tutti siamo Boromir di Gondor.” Halbarad fece una pausa, lasciando l’affermazione sospesa tra loro per un lungo momento, poi, a bassa voce, disse, con tono insinuante, “Se Boromir ha accettato di essere secondo ad Aragorn è solo perché sa che non è in grado di governare.”

“Non persuaderai mai Aragorn di questo, né il popolo di Minas Tirith, che lo ama profondamente.”

“Aragorn è legato da una promessa che ha fatto in un momento di estrema difficoltà. È un uomo generoso e nobile, e non sopporta di vedere un’altra creatura soffrire inutilmente. Ha fatto quella promessa a Boromir quando credeva che entrambi fossero destinati alla tortura e alla morte, e ora deve vivere con quella promessa, per quanto fatta a cuor leggero. Ma se i nobili e gli alleati di Gondor gli daranno una via d’uscita onorevole, se riusciremo a convincere Boromir stesso a sciogliere Aragorn da quella promessa, potremmo trovare un uomo migliore per aiutarlo nel governare.”

Imrahil non disse nulla, e Halbarad prese il suo silenzio come una conferma. Con voce carica d’urgenza continuò, “I casi sono due:o Boromir sta solo aspettando il momento giusto per rivendicare lui stesso il trono, oppure è davvero ferito nello spirito come lo è nel corpo e non è più in grado di governare bene. In entrambi i casi i suo posto non è al fianco di Aragorn. Sai che è vero, ne hai parlato tu stesso sul campo di battaglia. E se lo sappiamo noi due, quanti altri principi e capitani di cui Aragorn si fida si faranno avanti per impedire questo male?”

“Male? Tu chiami il mio consanguineo un male?”

“Anche Denethor cadde vittima del male, prima di morire. Forse che Boromir è di tempra più forte di suo padre? Non oso sperarlo. E in confidenza, ti dico che il figlio di Denethor ha commesso qualcosa di  molto malvagio sulla via del ritorno da Imladris. Non so che cosa abbia fatto, Aragorn non ne parla apertamente, ma la sua ombra grava sul cuore del re e di tutta la Compagnia. Boromir è già caduto nella malvagità una volta. Come resisterà in questa ora, quando sarà messo di fronte al Nemico? Noi cavalchiamo verso la nostra rovina, ma io credo che Boromir abbia già incontrato la sua.”

Imrahil lo squadrò attentamente, mantenendo un’espressione neutrale. “Se io facessi come dici tu e persuadessi Boromir a rifiutare il seggio del Sovrintendente, chi prenderebbe il suo posto?”

“Denethor ha due figli.”

“Sì, ma essere figlio di Denethor è proprio la colpa più grande che imputi a Boromir. Forse che Faramir non è suo figlio? Non merita allora la stessa sfiducia di suo fratello?”

“Tu li conosci bene, principe. Cosa ne dici?”

Lentamente, con riluttanza, Imrahil rispose, “Dico che Faramir è più simile di Boromir al padre per quanto riguarda la capacità, ma senza il suo orgoglio e la sua arroganza. È il più …nobile di una nobile stirpe, saggio, giusto e onorevole. Non chiederei di meglio per guidare il mio popolo, tranne il re stesso.”

“Allora perché esiti?”

“Perché il valore di Faramir non sminuisce certo quello di Boromir. Io li ammiro e li rispetto entrambi, e dubito delle tue ragioni per farmi pressione in questo modo. Dimmi, Halbarad dei Dùnedain, perché ti preoccupi tanto del Sovrintendente di Gondor e dei suoi affari?”

“Sono anche i miei affari. Pensi forse che io sia un qualunque vagabondo del Nord, reclutato per riempire le fila dell’esercito? No, Principe Imrahil. Io sono un leale amico di Aragorn, sangue del suo sangue, il suo luogotenente e consigliere. Per tutti i lunghi anni dell’esilio ho combattuto al suo fianco, perché lo stesso sangue di Nùmenor scorre nelle mie vene, e lo stesso desiderio di ritornare. A Gondor. A Minas Tirith. Al regno, al nostro diritto di nascita, e al ritorno della nostra gloria perduta. Mi sono guadagnato il diritto di stare al suo fianco, quando metterà la corona di Eärnur sul suo capo, e per tutti gli anni a venire. Così non venire a parlare a me degli affari di Gondor!”

Il principe sorrise e fece un piccolo inchino. “Ti chiedo perdono. E comincio a capire.”

“Capire cosa?” domandò Halbarad, la sua calma esteriore sconvolta dal suo sfogo appassionato e dal tono divertito di Imrahil.

“Le tue vere ragioni. No, Ramingo”, sollevò una mano per zittire la protesta di Halbarad, “Non intendo offenderti. E in verità sono più incline ad aiutarti, ora che so perché me lo chiedi. Ma non pensare di ingannarmi con le tue altisonanti pretese di proteggere Gondor e la sua gente da un governante inadatto.”

Piantò lo sguardo diritto negli occhi fiammeggianti di Halbarad e disse, in tono piatto, “Tu sei geloso dell’affetto del tuo signore per un altro. Vuoi togliere Boromir dalle sale del potere, così nessuno minaccerà il tuo posto al fianco di Aragorn.”

“Se pensi che queste siano le mie ragioni, perché prendi anche solo in considerazione la possibilità di appoggiarmi?”

Il sorriso di Imrahil si spense, e il suo viso divenne tetro. “Qualunque siano i tuoi motivi, il tuo ragionamento è giusto. E i miei motivi li terrò per me.”

Halbarad fu momentaneamente colto alla sprovvista dal suo tono duro, ma recuperò in fretta la padronanza di sé, e chiese, con decisione, “Parlerai a Boromir?”

“No, non mi darebbe ascolto! C’è un solo uomo che potrebbe convincerlo.”

“Chi?”

“Suo fratello, Faramir.”

“Boromir si farebbe da parte, se glielo chiedesse suo fratello? Gli cederebbe il suo diritto di primogenito e il suo potere?”

“Se Faramir glielo chiedesse, credo che lo farebbe.”

“E cosa convincerà il lord Faramir a chiedere una cosa simile al suo amato fratello?”

“Il suo stesso giudizio che ciò sia giusto e necessario.”

“Allora dobbiamo aspettare il giudizio di Faramir?”

Ancora una volta Imrahil si trattenne dal rispondere al tono derisorio del Ramingo. “Parlerò io a Faramir, lo illuminerò sulla faccenda. Ma fai attenzione a ciò che chiedi, Halbarad. Faramir non è meno temibile del fratello, e non lo troverai certo più facile da manipolare o da mettere da parte, se dovesse sedere nel seggio del Sovrintendente.”

Halbarad di raddrizzò, rigido. “Hai deciso di vedermi come un mastino geloso che fa la guardia ad un osso, ma mi tratti ingiustamente, principe Imrahil. In completa buona fede, non desidero altro che la gloria di Gondor e il bene del re. Non mi piace il lord Boromir, lo ammetto. È un’avversione nata da anni di cattivo sangue e sfiducia tra i nostri signori e le nostre terre. Eppure accetterò la tua assicurazione che suo fratello non è come lui, e che potrà servire il mio re con onore e fedeltà. Sono disposto a sostenere le pretese alla sovrintendenza di un altro figlio di Denethor, se tu lo ritieni degno, così come difenderei l’attuale Sovrintendente, nonostante la mia avversione, se lo credessi adatto a quel titolo.”

Imrahil sorrise, ma fu un sorriso che non raggiunse i suoi occhi. “Risparmia i tuoi discorsi per la camera del consiglio del Re. Ho detto che parlerò a Faramir, e lo farò, ma a parte questo non ti prometto niente. Non sarà facile persuadere Faramir a mettere da parte suo fratello, e sarà ancora più difficile persuadere Boromir dopo di lui. Poi c’è Aragorn. Lascio a te il giudizio su quanto disposto sarà il nostro re a infrangere la sua promessa.”

“Lo farà”.

Imrahil sorrise di nuovo, debolmente, sentendo la sicurezza nella voce dell’altro. “Ti auguro una buona giornata, allora, Ramingo.” Si voltò, prima che Halbarad potesse parlare di nuovo, e si incamminò a grandi passi verso la città, diretto alle Case di Guarigione e a un incontro che avrebbe desiderato con tutto il cuore potere evitare.

Imrahil trovò Faramir nella sua stanza nelle Case di Guarigione. Giaceva tranquillo a letto, con lo sguardo rivolto alla finestra che si apriva sui giardini e i bastioni della città, un’espressione di tristezza sul volto. Al rumore dei passi nel corridoio rivolse lo sguardo alla porta. Un sorriso di benvenuto gli illuminò il viso. Tese una mano al Principe.

“Imrahil!”

Quando il principe attraversò la stanza e arrivò presso il letto, notò che Faramir era pallido, e che i suoi occhi erano stanchi e grevi per il dolore. Sembrava soffrire per ferite del corpo e dello spirito allo stesso modo. Stringendo la sua mano con calore, Imrahil disse, “Sono lieto di vederti sveglio e in via di guarigione, Faramir.”

“Dobbiamo ringraziare il re per questo.”

Imrahil sorrise al calore e alla meraviglia nella sua voce. “Sì, per questa e per molte altre cose. Ha ottenuto una grande vittoria, ieri.”

Il viso di Faramir divenne più teso, e i suoi occhi tornarono a rivolgersi alla finestra, verso l’oscurità che ancora incombeva ad est come un presagio di rovina. “Ma che cosa abbiamo ottenuto?”

“Tempo. Una breve, inquieta pace, in cui radunare le nostre forze e prepararci per la battaglia finale.”

Due occhi grigi pieni di angoscia si fissarono sul viso di Imrahil, e Faramir domandò, a bassa voce, “Sei venuto dal concilio di guerra di Aragorn.”

“Sì.”

“Cosa dicono Aragorn e Mithrandir? Quando giungerà l’attacco finale su di noi, e che cosa hanno intenzione di fare?”

“Corrergli incontro.” Imrahil si sedette sul bordo del letto e lasciò vagare lo sguardo fuori dalla finestra. Il suo viso, che lo sapesse o no, era teso e preoccupato come quello del malato davanti a lui. “Tra due giorni, le armate dell’Ovest marceranno verso Mordor.”

Faramir non fece alcun commento, e Imrahil lo guardò con curiosità, poi disse, con aria astuta,

“Questo non sembra sorprenderti.”

“No. È l’unica via che ci rimane.”

“Non possiamo sperare di far breccia nelle sue mura o di sfondare i suoi cancelli. Gli eserciti di Sauron ci annienteranno.”

“Ci sono altri modi per vincere una guerra oltre agli eserciti.”

Un sorriso apparve lentamente sul viso di Imrahil. “Tu conosci la speranza segreta di Mithrandir. Hai dunque la chiaroveggenza di tuo padre?”

La bocca di Faramir si contrasse in una smorfia di dolore, e distolse lo sguardo da quello di Imrahil.

“Mi dispiace, Faramir. Per un attimo ho dimenticato…”

Faramir parlò a voce così bassa che Imrahil dovette sforzarsi per cogliere le sue parole.

“Piangiamo per mio padre. Piangiamo Denethor, figlio di Echtelion.”

“Piangiamo per tutti noi” aggiunse Imrahil, con amarezza.

“Perché parli così?”

Ora Imrahil aveva tutta l’attenzione di Faramir, e trovò che la cosa lo turbava. I suoi occhi grigi sembravano perforare la sua pelle per scandagliare il suo cuore. “Non è forse vero che tutta Gondor piange per la morte del Sovrintendente?”

Lo sguardo di Faramir divenne ancora più penetrante. “Ti conosco bene, Imrahil, e so che non amavi il lord Denethor. Lo rispettavi, certo, e gli eri legato da vincoli di sangue. Giuramenti di lealtà che non hai mai infranto. Ma amarlo? No. Non mi serve la chiaroveggenza di mio padre per intuire un altro significato nelle tue parole. Ti supplico, fammi la cortesia di parlare chiaramente.”

Incontrando il suo sguardo franco, Imrahil imprecò silenziosamente contro le insinuazioni e le mezze verità di Halbarad. Il principe di Dol Amroth non si sarebbe abbassato a tali astuzie, né il figlio di Denethor vi sarebbe caduto. Se aveva ragione riguardo al destino di Gondor e al nuovo Sovrintendente, allora Faramir avrebbe capito, e avrebbe agito per proteggere la sua gente. Se si sbagliava, allora era Faramir l’uomo più adatto per dirglielo. Questo gli lasciava solo una via: dire onestamente a Faramir cosa aveva nel cuore.

Abbandonando il suo contegno cortese e formale, il Principe disse, improvvisamente, “Non piango per Denethor. Piango per la sua città e per i sui figli, che ha lasciato in un momento di estrema difficoltà a causa della sua arroganza e della sua follia.”

“Non è colpa di mio padre se Sauron si è risvegliato.”

“No, ma è colpa di tuo padre se Minas Tirith e Gondor sono impreparate per la sua venuta. Ed è stata la follia di tuo padre che ci ha privato di un capo proprio quando ne abbiamo il più disperato bisogno.”

“Il re ci guida.”

“Sì, ma non accetterà la corona fino a che la guerra non sarà finita. E tra due giorni ritornerà in battaglia, portando con se tutti i nobili e gli alleati di Gondor, senza speranza di vittoria. Anche se l’arma nascosta che abbiamo mandato contro il nemico dovesse avere successo, che certezza abbiamo che Aragorn – o chiunque di noi - ritornerà vivo a Minas Tirith?”

“Nessuna. Questa è la guerra.”

“Questa è la guerra, e noi siamo soldati. Ma quelli che rimangono? Se Aragorn dovesse cadere davanti al Cancello Nero, chi si occuperà di Gondor al suo posto?”

“Mio fratello.”

Imrahil esitò per un lungo momento carico di tensione, poi chiese, “Hai parlato con Boromir?”

“Sì. Era qui quando mi sono svegliato ieri notte.”

“Come ti è sembrato?”

Ora fu il turno di Faramir di restare in silenzio, mentre cercava nella sua memoria e vagliava le parole. Quando infine parlò, la sua voce era pensierosa e triste.

“Soffre molto per nostro padre. È passato attraverso molte battaglie e continue sofferenze. È stanco e sconvolto, tormentato dalle preoccupazioni, e segnato da ferite profonde che ancora lo addolorano. Non l’ho mai visto così oppresso dagli affanni.”

“È quello che penso anch’io. E credo che sia nostro dovere sollevarlo dalle sue preoccupazioni prima che lo schiaccino.”

Faramir si rabbuiò. “Che cosa vuoi dire?”

“Che Boromir non è più in grado di governare Gondor - sia come Sovrintendente di Aragorn che come unico reggente in caso di morte del re. Mi hai chiesto di parlare chiaramente, Faramir, e questa è la pura verità come io la vedo.”

“Con che diritto dai un tale giudizio?”

“Per diritto di sangue, e per il mio affetto. Perché vi conosco entrambi fin dall’infanzia, vi amo e vi  ho visto crescere e diventare gli uomini che ora siete. Perché so che tu non ti tirerai indietro dalla verità, per quanto dolorosa possa essere.”

Faramir rimase immobile, cercando di assorbire il senso delle sue parole, e Imrahil rimpianse che fosse toccato proprio a lui forzare a quel modo la mano di un fratello. Solo Faramir, in tutta Gondor, riusciva a vedere Boromir per quello che era veramente, eppure lo amava ancora di più proprio per questo. Perdonava le colpe di suo fratello mentre le riconosceva e le condannava. E non le avrebbe ignorate ora.

Lo sguardo che Faramir rivolse al suo consanguineo fu calmo e serio, ma più freddo del solito.

“Tu credi che mio fratello sia inadatto a governare solo perché non ci vede.”

Imrahil aprì la bocca per protestare, poi ci ripensò e si trattenne. Aveva offerto a Faramir la verità, e ora spettava a lui dargliela, non importava quanto poco lusinghiera fosse per se stesso.

“Non me lo sarei aspettato da te ”, disse Faramir, a bassa voce, e Imrahil trasalì al quel rimprovero.

“È vero, la cecità di tuo fratello mi preoccupa, ma non per i motivi che credi tu.”

“Io non credo nulla.”

Imrahil ebbe l’improvvisa, inquietante sensazione di trovarsi di fronte a una versione più giovane e pacata di Denethor, ma con tutta l’acutezza del vecchio Sovrintendente e tutta la sua implacabilità. Si inumidì le labbra nervosamente, come aveva fatto da ragazzo quando si era ritrovato davanti al terrificante sovrano costretto ad ammettere qualche monelleria.

“Di certo Boromir non potrà più condurre un esercito”, disse Imrahil. “Anche se i soldati lo seguissero, sarebbe follia mandare in battaglia un capitano cieco.”

“Sono certo che sia Aragorn che Boromir ne sono consapevoli.”

“Eppure è proprio ciò che ha fatto ieri.”

“Lui cosa?” La calma di Faramir andò in frantumi, e Faramir si sollevò su un gomito per domandare, “Vuoi dire che mio fratello ha combattuto nella battaglia?”

“Proprio così. Ha guidato la Guardia contro una compagnia di orchi e li ha respinti dai cancelli. Ha salvato la città.”

Faramir restò a fissarlo a bocca aperta, stupito. “Aragorn glielo ha permesso?”

“Aragorn non ne sapeva nulla, finché non lo ha visto cavalcare verso di noi sul campo. In realtà, pare che il re avesse ordinato a Boromir di restare a Rohan finché non lo avesse mandato a chiamare - un ordine che ha deciso di ignorare.”

Faramir si lasciò ricadere sui cuscini, un sorriso sulle labbra. “Sì,  immagino.” Il sorriso divenne una risata. “Tipico di mio fratello.”

“Esattamente.”

Faramir ridivenne serio sentendo la severità nella voce di Imrahil. “Boromir ha combattuto per tutta la vita per proteggere Minas Tirith e la sua gente. Vorresti che si fermasse ora, quando la sopravvivenza della Terra di Mezzo è in gioco?”

Imrahil scosse la testa. “Anch’io non mi sarei aspettato altro dal Capitano Generale di Gondor, ma è proprio qui il problema. Pensaci bene, Faramir. Guarda oltre il tuo amore e la tua ammirazione per lui e consideralo per l’uomo che veramente è. Un uomo che è capace di vivere solo con la spada in mano, che non sopporta di essere secondo a nessuno, che pretende da sé solo il meglio. È questo l’uomo che conosci?”

“Sì.”

“Ora pensa…che cosa farà quell’uomo, quando tutto quello che ha conosciuto, tutto quello che ha sempre considerato suo di diritto gli sarà tolto? La corona di Gondor andrà ad Aragorn, i suoi eserciti a te, e che cosa resterà a Boromir?”

“La Sovrintendenza, per la quale è stato addestrato sin dalla nascita.”

“Ma non così. Non senza il vero potere di governare o di guidare gli eserciti. Vedo solo due strade davanti a lui. O sfida ogni logica, sfida il re stesso, e mantiene il suo ruolo nell’esercito…”

“...il che significherebbe la sua morte”, mormorò Faramir.

“…o ripone spada e scudo ad arrugginire, e diventa ciò che ha sempre disprezzato. Inutile, debole, senza potere. Un soldato scartato senza più forza.”

Faramir non disse nulla, e Imrahil si protese in avanti per stringergli un braccio, mettendo tutta la sua sincerità nelle sue parole, desiderando ardentemente che l’altro lo capisse e gli credesse. “Ho paura per lui, Faramir. Quando lo guardo, vedo solo la sconfitta, la disperazione, e la lenta rovina di un uomo valoroso.”

“C’è una terza possibilità.”

“Quale?”

“Mio fratello accetta il suo destino, impara altri compiti, e serve il suo re nei modi che ha a disposizione.”

“Non è nella sua natura accettare un tale destino.”

“Non gli rendi giustizia, amico mio. Boromir è un uomo forte.”

“O forse intendi dire orgoglioso?” Di nuovo Faramir rimase in silenzio, e di nuovo Imrahil lo incalzò. “Ha l’orgoglio che gli ha insegnato suo padre, e l’arroganza che gli fa scambiare quell’orgoglio per forza. Ma cosa sarà della sua forza, quando il suo orgoglio sarà finito nella polvere e la sua vita sarà ridotta a trascinarsi nell’oscurità dietro il suo re?” Faramir trasalì, e Imrahil fece una pausa per lasciare che le sue dure parole avessero effetto. Poi continuò, con calma intensità, “Dimmi onestamente, Faramir, credi davvero che tuo fratello abbia tanta forza? O lo speri soltanto?”

Ci vollero alcuni minuti prima che Faramir rispondesse. Rimase sdraiato a guardare fuori dalla finestra, il viso una maschera di dolore, mentre Imrahil aspettava pazientemente la sua decisione. Quando finalmente parlò, la sua voce era piatta e senza speranza.

“Non lo so. Il fratello che ricordo non sopporterebbe mai una vita come quella che hai descritto tu. Lui…” Faramir si interruppe, deglutendo per allentare il nodo nella sua gola.

“Finirebbe come suo padre.” Completò Imrahil.

“Sì.”

“Orgoglio e disperazione sono una mistura mortale.”

“Ma l’uomo con cui ho parlato ieri notte non è il fratello che ricordavo. È cambiato.”

“Il veleno è già entrato in lui. Lo sta combattendo; lo nasconde con le sue bravate e gli atti di coraggio, come il suo attacco ai cancelli, ma la disperazione è lì, e lo sta già consumando.”

Faramir scosse la testa. “Non lo so. Forse hai ragione, ma anche così, non posso pensare che negargli la Sovrintendenza lo aiuterebbe. Non calpesterebbe il suo orgoglio ancora di più?”

“Sì, e questo mi addolora. Ma tu ed io, per quanto grande sia il nostro amore per Boromir, dobbiamo prima pensare a Minas Tirith. Se ho ragione io, e Boromir è destinato a seguire suo padre nella disperazione, fino alla follia e alla morte, non c’è più nulla che possiamo fare per salvarlo. Possiamo solo sperare di impedire che la sua caduta infligga un’altra ferita a una terra già sanguinante.”

“Così vorresti che io prendessi il posto di mio fratello al fianco di Aragorn e lo rinchiudessi una stanza oscura, dove i suoi vaneggiamenti non disturbino gli ospiti a cena?”

Fu la volta di Imrahil di trasalire per la brutalità del quadro dipinto da Faramir, ma ciononostante non arretrò. “Vorrei che tu persuadessi Boromir che è suo dovere verso Gondor, verso il suo re e verso se stesso farsi da parte e lasciare che tu assuma la Sovrintendenza. Lui lo farebbe, per te!

“Sì.” La voce di Faramir era divenuta pericolosamente mite, “forse lo farebbe. Ecco perché sei venuto da me, invece che andare a parlare delle tue preoccupazioni con il lord Aragorn.”

“Lord Aragorn ha fatto un giuramento: ha giurato che avrà Boromir come suo sovrintendente o non avrà nessuno. Non romperà quel giuramento, a meno che Boromir stesso non glielo chieda.”

Faramir continuò a fissare il principe, impassibile. “Ah. Comincio a capire. Io mi persuado a parlare con Boromir, lui si persuade a farsi da parte, e Aragorn è persuaso a diventare uno spergiuro. È una via piuttosto contorta la tua, amico mio.”

Imrahil distolse lo sguardo, incapace di incontrare gli occhi di Faramir. “È una via brutta e difficile, ma devo percorrerla. Non posso venir meno al mio dovere.”

“Chi ti ha messo su questa via? Non sei solo, né hai progettato tu questo piano.”

“È vero, non sono solo. Il lord Halbarad dei Dùnedain mi ha chiesto di parlarti, ma ci sono altri. Molti altri.”

“Lo immagino. A mio fratello non sono mai mancati rivali e nemici.”

“Alcuni sono antichi rivali, lo ammetto. E ti avviso io stesso che non c’è da fidarsi di Halbarad.

Parla del bene di Gondor, ma è mosso dall’invidia e dall’odio per tuo fratello, non da altri motivi.”

“Ciononostante, sei venuto qui su sua richiesta.”

“Sono venuto da te perché mi sta a cuore il bene di Gondor. A volte non si possono scegliere i propri alleati.”

Faramir rimase immobile, con uno sguardo colpito, e suoi occhi si fecero distanti, come se stesse ricordando una qualche scena del passato. Qualunque fosse il ricordo non doveva essere piacevole, e le rughe sulla fronte di Faramir divennero più profonde. Imrahil non osò interromperlo, né forzarlo a dargli una risposta. Si limitò ad aspettare, finché l’uomo non emise un sospiro stanco e rivolse i suoi limpidi occhi grigi al viso del principe.

“Io so qualcosa delle prove che mio fratello ha affrontato durante il suo viaggio. Non ne parlerò, perché significherebbe tradire segreti che non mi appartengono, ma ti dirò questo. Boromir ha incontrato un nemico molto più forte di Saruman, e ha combattuto contro un’oscurità molto più grande della cecità. Il fatto che ora sia vivo e sorrida, e goda del favore del suo re, non è certo una piccola vittoria per lui, e mi dà grande speranza. Ma ho anche paura, perché non so quali altre ferite nasconda che potrebbero avvelenarlo.

Non ti prometto di essere al tuo fianco, Imrahil, ma capisco le tue paure. Ti prometto che osserverò mio fratello e penserò a quello che mi hai detto.”

“Non c’è tempo. L’esercito marcerà presto…”

“E Boromir proteggerà la città fino al vostro ritorno. Di questo puoi essere certo. Accontentati, Imrahil.”

“Sta abbastanza bene, per il momento, immagino.”

“Sta bene. E se le la nostra ultima speranza cadrà, se il nostro esercito perirà negli artigli del Nemico e l’Ombra invaderà la Terra di Mezzo, che cosa importa se sarà un pazzo cieco a guidarci?”

“Penserai a ciò che ti ho detto?”

“Ci penserò.”

“Allora sono soddisfatto.” Imrahil si alzò in piedi e strinse la mano di Faramir in segno di saluto. “Ritornerò, se ne avrò il tempo.”

“O verrò io da te. Dovrei essere in piedi in tempo per la partenza dell’esercito.”

“Ne sono felice.” Imrahil gli strinse il braccio e sorrise di genuina felicità. “ Ne sono molto felice. Addio, amico mio.”

“Addio.”

Dopo che Imrahil fu scomparso nel corridoio buio, Faramir udì un mormorio di voci provenire dall’altra parte della Casa. Riconobbe il tono secco del fratello e l’acuta voce del mezzuomo. Sembrava che si stessero avvicinando, ma improvvisamente, furono interrotti da un rumore e da un grido di protesta.

Dopo un momento di stupore, udì la voce di Boromir. “Gil?”

“Sì, mio signore”, rispose una donna. “Ti chiedo perdono, signore. È colpa mia.”

“No che non lo è. Cosa c’era nel secchio, Gil?” La voce di Boromir era rassegnata e leggermente preoccupata, anche se attutita dalla distanza.

“Soltanto l’acqua del bucato, mio signore.” Stava ridendo? A Faramir parve di sentire un tremito di divertimento nella sua voce, si infuriò al pensiero che una sguattera potesse ridere di suo fratello.

“Posso aiutarti a pulire?”

“No, mio signore! Ci vorrà solo un attimo…attento alla pozzanghera!”

Ci fu un altro schianto e un’imprecazione, seguiti dalla voce umiliata di Boromir, che diceva,

“Chiedo perdono. Non dovrei parlare così davanti a una dama.”

“Non sono una dama, e non hai offeso le mie orecchie. Ma ti prego, mio signore, vai fuori …da qualche parte dove è asciutto, prima che di spezzarti il collo!”

Il mezzuomo intervenne, dicendo, “Non ci sono pozzanghere da questa parte, e la stanza di Merry è proprio dietro l’angolo. Vediamo se è sveglio. Boromir, il tuo mantello è fradicio. E schizzi mentre cammini!”

“Già, grazie, Pipino”, ringhiò Boromir. “Non me ne sarei accorto, senza di te.”

“Stai facendo un gran pasticcio…guarda che impronte!”

“Fuori da qui, mastro Perian”, scattò la sguattera, “lascia che sia io a occuparmi dei pavimenti.”

“Bel modo di rivolgersi a un soldato di Gondor”, osservò Pipino, mentre si allontanava nei meandri della Casa. “Come se fossi un bambino, invece che un veterano di molte battaglie!”

Faramir restò in silenzio, ascoltando i rumori dei passi che si avvicinavano alla sua porta, sperando e temendo allo stesso tempo che suo fratello lo venisse a cercare. Ma non udì altro che la sguattera che passava lo straccio per raccogliere l’acqua rovesciata, e il secchio che sbatteva sulle pietre del pavimento ogni volta che lo spostava. Quando anche quel rumore si fu allontanato, senza che Boromir fosse venuto, Faramir si rilassò. Lasciò sprofondare la testa tra i cuscini, chiuse gli occhi e li coprì con una mano incerta.

Troppe cose erano accadute. Un peso troppo grande gravava sue spalle, e troppo poco tempo dopo la ferita che gli era quasi costata la vita. Ma almeno gli era stata risparmiata la prova di affrontare suo fratello con gli oscuri avvertimenti di Imrahil ancora freschi in testa. Aveva almeno un breve intervallo in cui pensare, e in cui prepararsi per la prossima battaglia, in quella guerra senza fine che era la vita del figlio di Denethor.

 

Continua…

 

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Capitolo 11
*** Sussurri Notturni ***


Nuova pagina 2

Capitolo 11: Sussurri notturni

 

La notte prima che le Armate dell’Ovest muovessero verso Mordor, Aragorn convocò gli amici alla sua tenda. Al mattino la Compagnia si sarebbe separata di nuovo, ma per quella notte potevano restare comodamente seduti a parlare della strada lunga e oscura che avevano percorso assieme. Solo di rado i loro discorsi si rivolgevano a Frodo e Sam, ma il portatore dell’Anello e il suo fedele servitore, e il carico di speranza che portavano con loro, erano una presenza quasi palpabile tra di loro.

Un braciere ardeva nella tenda, e attorno ad essa i più alti della Compagnia avevano sistemato delle sedie, mentre gli hobbit avevano optato per sedere su un tappeto. Bevvero i migliori vini che offrivano le cantine della città. Il vino scaldò le loro membra stanche e li rese più inclini alla conversazione, e persino il burbero Gandalf si rilassò in uno stato d’animo cameratesco. Soltanto Merry, ancora debole per la sua malattia, e Boromir, che si era sempre tenuto in disparte dalla Compagnia, restavano in silenzio. Gli altri pensarono che il loro silenzio fosse dovuto al fatto che non avrebbero potuto marciare con l’esercito il mattino seguente, e non li disturbarono.

Quando l’ultimo otre di vino fu consumato era ormai notte fonda, e le loro voci si erano abbassate a mormorii pensierosi. Aragorn si alzò in piedi e si stiracchiò, con un sorriso compiaciuto sul viso nel guardare il circolo di visi familiari.

“Il dovere chiama, amici miei. Dobbiamo alzarci prima dell’alba.”

Gimli scoppiò a ridere. “Forse gli Uomini devono dormire prima della marcia. Ai Nani basta solo avere la pancia piena e una strada libera davanti a sé.”

“E mentre sono impegnati a riempirsi lo stomaco, gli Elfi sono già arrivati alla fine della strada”, ribatté Legolas.

Pipino sbadigliò vistosamente. “Gli Hobbit hanno bisogno sia di sonno che della pancia piena. È da un pezzo che sto sognando il mio letto.”

“E allora vai, Mastro Peregrino,” disse Aragorn, ridendo.

Gandalf si alzò in piedi e raccolse il suo bastone. “Ci andremo tutti. Il mattino giungerà prima che noi ce ne accorgiamo, e dobbiamo essere pronti ad affrontarlo con cuore saldo e membra riposate. Merry, Boromir, vi saluto, e vi auguro la migliore fortuna possibile. Confido che ci incontreremo di nuovo nella Terra di Mezzo. Lo spero. Ma se così non accadrà, portate l’amore e l’amicizia di Gandalf il Bianco con voi, qualunque sia il vostro destino.”

Rivolgendosi a Boromir gli pose una mano sul braccio e mormorò, in modo che solo lui potesse sentire, “Ricorda ciò che hai imparato, Sovrintendente di Gondor, e abbi fiducia nell’uomo che sei diventato. Ti vedrò porre la corona di Ëarnur sulla fronte del Re, prima che tutto sia finito. Addio.”

Poi si chinò per abbracciare Merry offrendogli un fazzoletto per asciugarsi le lacrime.

Lentamente, i membri della Compagnia si congedarono dagli amici che dovevano lasciare indietro. Merry si strinse vicino a Boromir, come se allontanandosi fisicamente dagli altri potesse mitigare in qualche modo il dolore della separazione. Pianse amaramente, quando Legolas si inginocchiò davanti a lui per salutarlo, e quando Gimli offrì solennemente la sua ascia al suo servizio, se mai ne avesse avuto bisogno. I quattro cacciatori, che avevano attraversato tutta la terra di Rohan per salvare i loro amici, non avrebbero più cacciato insieme.

Gandalf se ne andò, seguito da Legolas e Gimli, che progettarono di prendere un po’ d’aria e di osservare come gli Uomini del Sud si preparavano per la guerra. Nella tenda restarono solo Merry, Pipino, Aragorn e Boromir. Pipino si guardò attorno e tirò su col naso.

“Non credo di essere pronto per dire addio. Vieni, Merry, facciamo due passi. Hai visto le grandi tende di Lossarnach? Voglio mostrartele.”

“Non andare troppo lontano, Pipino”, lo ammonì Aragorn. “Gli accampamenti sono abbastanza sicuri, ma sono grandi, e potreste perdervi. Tutti i falò sono uguali.”

“Presto dovremo ritornare in città”, aggiunse Boromir.

“Sì, lo so.” Merry si asciugò gli occhi con la manica, dimentico del fazzoletto di Gandalf. “Ti prometto che non ci metteremo tanto. È solo che…beh, è stato più facile a Edoras, quando Gandalf ha preso Pipino e lo ha portato via, senza darmi il tempo di pensarci.”

Aragorn sorrise, comprensivo. “Fate una passeggiata e ditevi addio. Ma tornate presto.”

“Lo faremo.”

Gli hobbit arrancarono fuori dalla tenda, lasciando Boromir e Aragorn da soli. I due uomini si sedettero accanto al braciere, lasciando che il silenzio si allungasse tra loro, mentre i loro pensieri erano rivolti alla partenza e al significato di quell’ultimo incontro. Fu Aragorn a rompere il silenzio, parlando con voce bassa e malinconica.

“Sai a che cosa andiamo incontro. Quanto esili sono le nostre speranze.”

“Sì.”

“E quando noi falliremo, la guerra giungerà a voi.”

“Saremo pronti.”

Aragorn sospirò. “Vorrei con tutto il cuore che potessimo combattere quest’ultima battaglia insieme. È così che combattiamo al meglio, io e te. Insieme.”

“Come un Capitano e il suo Re.”

“Come amici.”

“Sempre.”

Boromir chinò la testa per un momento, e quando la sollevò di nuovo, ad Aragorn sembrò che stesse piangendo, anche se dai suoi occhi rovinati non potevano scorrere lacrime. “Io sono pronto a morire per il mio Re. Se tu me lo chiedi, io cavalcherò con te domani.”

“No, Boromir. Forse dovrai davvero morire per Gondor, ma non al mio fianco. Ho bisogno che tu sia qui.”

Boromir annuì, gravemente. “Qui è il mio dovere, come è sempre stato, ma sentirò la tua mancanza, amico mio.”

“E io la tua.”

Boromir sospirò con un tremito, e quando parlò, la sua voce era roca per l'emozione.

“Domani te ne vai a morire. Come faccio a dirti addio, sapendo questo?”

“Non farlo. E non disperare. Può darsi che ci rivedremo ancora.”

“E se non dovesse essere così?”

Aragorn deglutì per schiarirsi la gola. “Lascio Gondor nelle tue mani. È la migliore speranza che posso darle.”

“Tu sei la speranza migliore. Tu sei Gondor.”

A quelle parole, le lacrime cominciarono a scorrere sul viso di Aragorn. “Allora tu combatterai per me, così come hai combattuto per Gondor per tutta la vita, con tutta la forza e tutto il cuore.”

“Sai che lo farò.”

“Lo so.” Allungò una mano per stringere forte il braccio di Boromir. “E ti ringrazio.”

“Tu ritornerai, Aragorn. Devo crederlo. Cavalcheremo insieme attraverso i cancelli di Minas Tirith e saremo accolti a casa dal suono delle trombe.”

“I Signori di Gondor sono tornati…”

“Sì.”

“Sì.”

“Conserverò Minas Tirith per te. Proteggerò la sua gente. E aspetterò il tuo ritorno, mio re.”

 

*** *** ***

 

Aragorn camminava avanti e indietro per la tenda, immerso nei pensieri, la sua mente rivolta alla battaglia che avrebbe dovuto affrontare il giorno seguente. Cercò di rilassarsi e di mettere da parte le sue preoccupazioni, per dormire un poco, ma non ci riuscì. C’era come una voce nell’aria, un avvertimento che gli soffiava sul collo, freddo e inconfondibile, che gli impediva di riposare. Qualcosa non andava, a Gondor, quella notte.

Un rumore di passi e di voci sommesse lo raggiunse. Le sentinelle chiamarono l’alt, seguito da un mormorio. Aragorn si voltò velocemente, aspettandosi di vedere entrare Halbarad, ma invece fu Legolas ad entrare, seguito da Gimli.

“Ci sono strane voci nell’accampamento stanotte, Aragorn”, esordì Legolas mentre salutava. “I soldati sono inquieti e spaventati. Riempiono le tenebre con i loro sussurri.”

Aragorn sorrise tristemente. “Forse non vogliono seguire i loro signori verso una morte certa…chi potrebbe biasimarli?”

“No, seguirebbero volentieri la bandiera di re Elessar fino alla morte. Non è per la marcia che protestano, ma per ciò che si lasciano dietro.”

“Assurdità!” ringhiò Gimli, prima che Aragorn potesse chiedere spiegazioni. “Stupide superstizioni! Bah! Uomini!” Pronunciò la parola con un tale disprezzo che Aragorn lo guardò stupito. Il nano se ne accorse e rispose con un grugnito imbarazzato che avrebbe voluto essere di scusa.

“Che genere di stupida superstizione ti ha offeso a tal punto, Mastro Nano?”

“Tradimento, ecco cos’è!”

“No, Gimli, non è tradimento,” prese tempo Legolas, “soltanto ignoranza e paura. Tutti gli uomini hanno paura in tempi come questi.”

“Ve lo chiedo di nuovo”, disse Aragorn, con calma esasperata, “Di che cosa parlate?”

Legolas zittì l’amico adirato con uno sguardo severo, poi si rivolse ad Aragorn. “Si dice che avere scelto Boromir come Sovrintendente abbia segnato la rovina della città.”

“Non ho scelto io il Sovrintendente”, protestò Aragorn. “Quel ruolo spetta a Boromir per diritto di nascita!”

“Sia come sia, i soldati comuni temono che la sua cecità sia un cattivo presagio, una maledizione che condannerà la città all’oscurità dell’Ombra dell’Est. Dicono che il Re vuole abbandonare Minas Tirith nel momento del bisogno e ritirare l’esercito che la protegge. Dicono che la vuole lasciare cadere nell’ombra insieme al suo Sovrintendente.”

Aragorn ricominciò a camminare avanti e indietro, con la testa china e le mani dietro la schiena. “Un cattivo presagio, lo chiamano.”

“Sì. Lo abbiamo sentito ripetere molte volte - un cieco tra le truppe è presagio di sconfitta. Ho visto soldati che barattavano simboli e talismani per scacciare il male. Tu sai niente di questa superstizione? Qualche antica credenza degli uomini?”

Aragorn scosse la testa con impazienza. “Non ne ho mai sentito parlare. Da dove può essere nata?”

“Da lingue infide”, scattò Gimli. “È un tradimento deliberato, nient’altro, volto a  spargere l’inquietudine tra le truppe e alimentare la discordia tra la gente. Non prestar fede a questa antica credenza, Aragorn.”

“Certo che no. Ma il problema è che i soldati ci credono.”

Legolas annuì. “In molti.”

Aragorn si fermò improvvisamente e osservò l’elfo con occhi penetranti. “Quanti, esattamente?”

“Gli uomini di Gondor, di Dol Amroth e di Lossarnach non hanno creduto ai sussurri. Sembrano calmi e tranquilli. I più turbati erano quelli che vengono da lontano, e quelli di stirpe più umile. Non conosco tutti gli stendardi, e i nomi dei capitani mi sono estranei, ma ho riconosciuto gli uomini di Lamedon e i popoli pescatori delle foci dell’Anduin. Alcuni di loro attribuivano la morte dei loro signori alla presenza di Boromir sui campi di Pelennor.”

“Ma gli uomini di Gondor restano fedeli.”

“Sì.”

“Certo che lo sono”, intervenne Gimli. “Loro lo conoscono. Li ha condotti molte volte in battaglia. Chi mai tra loro potrebbe credere a una tale stupidaggine?”

“Tu mi conforti, Gimli.” Aragorn si rilassò visibilmente, e un sorriso stanco gli apparve sul viso. “Quale uomo che ha combattuto al fianco di Boromir potrebbe mai dubitare di lui? Sono quelli gli uomini che restano con lui a governare la città. La Torre di Guardia. I suoi soldati.”

“Non soltanto la Guardia,” precisò Legolas.

“È la parte maggiore della guarnigione, e protegge la Cittadella. Dobbiamo fidarci di loro, e di Boromir. Sa badare a se stesso.”

 

*** *** ***

 

Boromir e Merry camminavano lentamente lungo la strada che si inerpicava attraverso la città. Era notte fonda, e oltre alla guardia cittadina, per le strade c’erano poche persone, trattenute da qualche dovere. Eppure Minas Tirith non dormiva. Giaceva in un silenzio teso e carico di aspettative, osservando le stelle che compivano il loro cammino sopra le sue torri bianche e ascoltando le voci dei suoi amati figli, dei suoi soldati, che si preparavano alla guerra.

Merry avvertiva quel senso di vigilanza sulla pelle, e rabbrividì, ma non di paura.  Era una sensazione di tristezza, come se il cuore e la mente di Minas Tirith si stessero preparando per il lutto e la morte. La città vegliava in tributo agli uomini che avrebbe perduto il mattino seguente.

Dal canto suo, Merry era esausto. Il braccio gli faceva male, e si sentiva come di piombo. Avrebbe voluto chiedere a Boromir di portarlo in braccio fino al suo letto caldo e sicuro, dove avrebbe potuto rintanarsi sotto le coperte e dimenticare il dolore che aleggiava nell’aria attorno a lui. La città era grande, e Merry si sentiva insopportabilmente piccolo. Ma Boromir non poteva muoversi per le strade senza il suo aiuto, e Merry sapeva che anch’egli era stanco, afflitto e logorato dal pensiero di quello che sarebbe accaduto l’indomani quanto lui. Non poteva chiedergli di portare il peso di due cuori così grevi, quella notte.

E così, con passi risoluti, risalirono la lunga strada che conduceva dai campi di Pelennor al sesto circolo di Minas Tirith, dove si trovavano le Case di Guarigione.

Davanti al cancello della Cittadella Merry esitò, preparandosi a condurre Boromir alle sue camere nell’alta torre. La sentinella lanciò un chiaro richiamo e Boromir rispose. Poi il Sovrintendente si allontanò dal cancello, comunicando a Merry che non aveva intenzione di entrare nella cittadella. Obbediente, Merry continuò a dirigersi verso le Case di Guarigione. Lungo il tragitto incrociarono un altro paio di guardie che pattugliavano il circolo, ma il piccolo cancello di legno bianco che dava sui giardini era incustodito. Merry ne fu allietato, poiché era segno che la guerra non era giunta a quel luogo pacifico. Non ancora, almeno.

Oltrepassarono il cancello, lungo un sentiero ghiaiato che correva lungo le mura esterne. In quel luogo vi era una panca di pietra intagliata in una piccola nicchia nel muro. Un uomo della statura di Boromir poteva facilmente sedervisi, tenendo le spalle appoggiate al parapetto, e godere di un’ottima vista sui circoli inferiori della città e sul Pelennor, oltre la lontana curva argentea dell’Anduin, fino all’inquietante ombra che incombeva dall’Est. Per vedere oltre, uno hobbit avrebbe dovuto arrampicarsi sulla panca e sporgersi dal parapetto, ma questo a Merry non importava. Non desiderava guardare il loro minaccioso destino, quella notte.

Quando raggiunsero la panca, Boromir spostò la mano dalla testa di Merry alla sua spalla, e la strinse in segno di ringraziamento. Posò un ginocchio sulla panca e si appoggiò contro la pietra.

“Stai sbadigliando tanto da romperti la mascella, piccoletto. Vai a dormire.”

Come per sottolineare l’affermazione, Merry sbadigliò rumorosamente. “Prima uno spuntino, poi me ne vado a letto. Tu hai fame?” Boromir scosse la testa. “Vuoi restare qui?”

Boromir rispose alla domanda con un’altra. “Ci sono stelle, stanotte?”

Merry alzò lo sguardo, e restò senza fiato di fronte al meraviglioso tappeto di stelle che punteggiavano il cielo vellutato sopra di lui. Prima, tutto preso dalle sue preoccupazioni, non se ne era accorto. Era come se se ogni stella in cielo fosse apparsa a danzare quella notte. Erano venute per dire addio agli eserciti degli Uomini? O per vedere per l’ultima volta la Terra di Mezzo, prima che fosse cancellata per sempre dall’Ombra? Oppure il motivo era semplicemente che la bellezza del mondo continuava, inconsapevole, incurante delle sofferenze delle creature mortali, anche in una notte come quella?

“Sì”, mormorò lo hobbit, pieno di meraviglia, “Non ne ho mai viste così tante in vita mia.”

Boromir alzò la testa, forse per sentire il fresco tocco del vento sul suo viso, o forse per ascoltare la musica delle stelle. “Bene. Resterò qui. Dormi bene, Merry, e grazie.”

“Non ringraziarmi.” Merry sbadigliò di nuovo e mosse i primi passi verso le Case che dormivano dietro di loro nell’oscurità. “Solo non svegliarmi domattina. Buonanotte.”

Lo scalpiccio di piedi scalzi svanì lungo il sentiero, e Boromir seppe che era solo. Con un sospiro, si appoggiò all’indietro contro l’incavo del parapetto, e si voltò verso est. Verso la strada che all’alba avrebbero percorso il suo Re e i suoi amici.

Era esausto. Così stanco che le ossa gli dolevano, ma non era ancora pronto per affrontare il sonno. La notte era solitaria e fredda, piena di dolore, greve per le lacrime dei figli di Gondor, ma anche una notte come quella era preferibile al senso di costrizione che gli davano le mura di pietra, le porte di legno e le torce fumanti. Porte chiuse, rumori attutiti di passi sui pavimenti di pietra, aria immobile densa per l’odore di bruciato…erano comuni in ogni casa, in ogni fortezza, ma per Boromir rimandavano a un unico luogo, e non aveva intenzione di ritornarvi, nemmeno con l’immaginazione.

Meglio una notte di veglia solitaria sui bastioni di Minas Tirith, che il freddo alito del muri di una prigione sul suo corpo.

Lentamente, stancamente, si rilassò sulla panca, rovesciando la testa all’indietro per rivolgere il suo sguardo bendato alle stelle. Cercò di immaginarsele come le aveva viste tante volte, nel corso degli anni, quando giaceva sdraiato su un mucchio di foglie e felci, guardando attraverso i rami scuri, ascoltando la voce di suo fratello che mormorava accanto a lui. Faramir gli aveva raccontato innumerevoli storie che parlavano di stelle e di elfi, cantando canzoni in lingue che Boromir non conosceva, e ridendo quando gli chiedeva di tradurle nella propria lingua.

“Non c’è nulla di comune nelle canzoni degli elfi”, lo scherniva Faramir. “Non si possono tradurre nella lingua comune.”

“E allora a che mi servono?” gli rispondeva lui, irritato dall’aria di superiorità del fratello minore.

“Parlano di cose più grandi di Gondor, di Minas Tirith e del destino degli Uomini.”

“Se non riguardano il destino degli Uomini non mi interessano!”

Quelle discussioni finivano sempre allo stesso modo - con finte lotte tra le risate, con Faramir che sfidava Boromir mentre lui lo bloccava al suolo intimandogli di arrendersi. Le canzoni elfiche erano dimenticate, e le stelle non ridiventavano che luci distanti.

Boromir avrebbe voluto udire di nuovo quelle storie e quelle canzoni. Avrebbe voluto sentire la voce di suo fratello nel buio, mentre tesseva immagini di antico potere, di bellezza e di dolore, e sentire gli occhi degli Eldar su di loro. Ma più di tutto, avrebbe voluto dire a Faramir che ora credeva a quelle leggende, come non aveva mai fatto prima. Ma Faramir stava dormendo nelle Case di Guarigione, Boromir era solo sulle mura della città, e tra loro si apriva un abisso di dolore, rimpianto, colpa, e ferite che non potevano condividere. Boromir non aveva la forza per attraversare quell’abisso quella notte - era troppo stanco e troppo timoroso di nuove delusioni - ma aveva pur sempre la notte e le stelle, e i ricordi delle storie che Faramir amava così tanto.

Sforzandosi di rilassarsi e di concentrarsi, Boromir tentò di evocare il suono della voce del fratello, la cadenza delle sue parole mentre raccontava le sue storie. Il freddo e la solitudine svanirono. Non udiva più i rumori notturni della città, ma solo frammenti di leggende richiamate dalla sua memoria.

Immerso nei ricordi, non udì il rumore del cancello che si apriva. Non prestò attenzione ai nuovi arrivati, inconsapevole della loro presenza, finché non furono molto vicino a lui. Improvvisamente, udì qualcuno respirare e il rumore di passi sulla ghiaia, e fu strappato bruscamente dalla sua fantasticheria. Istintivamente si voltò verso il rumore e fece per alzarsi in piedi. Quel movimento gli salvò la vita.

La punta della spada, mirata alle sue costole, scivolò lacerando stoffa e carne, sfiorando l’osso, ma grazie alla rapida reazione di Boromir non affondò in profondità.

La spinta del movimento lo portò in piedi, e girandosi, Boromir spostò il braccio destro colpendo il braccio dell’aggressore, deviando la forza del colpo. Si sentì invadere dalla rabbia, alimentata dal familiare dolore di una lama nella carne, e i suoi riflessi di soldato gli vennero in aiuto.

Senza pensare, sferrò un pugno di destro senza mirare a nulla in particolare, cercando solo di sbilanciare il suo aggressore. Colpì un viso scoperto, e l’uomo arretrò sotto il suo colpo, ma mantenne la posizione. Poi Boromir gli sferrò un potente calcio, che si ripercosse nei muscoli e nelle ossa, e l’uomo grugnì di dolore e sorpresa, arretrando e roteando la spada.

Boromir estrasse a sua volta la spada, proprio mentre udiva il rapido respiro e i passi di un secondo aggressore alla sua sinistra. Saltò sulla panca e brandì la spada di fronte a lui sulla difensiva. I due uomini esitarono, forse colti alla sprovvista dalla sua resistenza o forse semplicemente spaventati dalla spada scintillante che li minacciava. Boromir era consapevole di avere solo pochi secondi prima che lo attaccassero di nuovo, e non poteva sperare di affrontarli da solo.

“Sapete chi sono?”, domandò per guadagnare tempo e per costringerli a tradire la loro posizione. “Volete morire da traditori per un furto?”

Il primo uomo, quello alla sua destra, sputò per terra e ringhiò, “Come moriamo noi non importa! È come muori tu che importa, Sovrintendente!”

“Avanti, fallo”, sibilò l’altro uomo, con la paura nella voce. “Spingilo giù dal muro. Troveranno il suo corpo in strada.”

Il compagno rise. “Penseranno che è caduto. Il destino ha dato una mano a salvare l’esercito, eh?”. Rise di nuovo.

Boromir continuò a muovere la spada in modo casuale, per non dare agli aggressori la possibilità di prevedere il movimento successivo, mentre cercava con freddezza di trovare una via d’uscita. Il sangue gli scorreva caldo lungo il fianco destro, e il dolore era bruciante, ma Boromir spinse da parte quelle distrazioni per concentrarsi sulla mossa successiva. Dietro di lui c’era un muro con un precipizio mortale, su entrambi i lati due aggressori, e davanti a lui il giardino vuoto. La sua unica speranza era di richiamare l’attenzione delle Guardie che pattugliavano le strade, ma nel momento in cui avesse gridato, i suoi aggressori avrebbero abbandonato ogni cautela e per lui sarebbe stata la fine.

“Siete due folli traditori!” ringhiò.

Quello alla sua destra gli rispose, con amarezza, “Facciamo il nostro dovere per portare la vittoria e per vendicare i nostri giovani signori.”

Mentre ancora parlava, l’uomo si gettò in avanti con la spada. Per puro caso Boromir stava spostando la sua verso destra e intercettò la lama. Il metallo scivolò sul metallo, poi la spada dell’aggressore si liberò della sua maldestra guardia affondandogli nell’avambraccio e lacerando i muscoli proprio sopra il gomito. Nello stesso istante Boromir udì l’uomo alla sua sinistra attaccare, e capì di essere in trappola.

Abbandonando ogni tentativo di difendersi, sfidando tutte le regole del combattimento, Boromir ignorò la lama nel suo braccio e gli uomini che lo caricavano. Concentrato solo sulla fuga, raccolse le energie e si lanciò in avanti con tutta la forza che aveva, in quello che sperava essere uno spazio tra i due sicari. La lama si liberò dal suo braccio, mentre un’altra si impigliava nella sua tunica. E poi Boromir si trovò dietro di loro, e cadde pesantemente sull’erba umida. Cercando di ritrovare l’equilibrio, gridò a squarciagola,

Guardie! Guardie, a me!”

Qualcosa di pesante gli colpì le gambe. Le ginocchia gli cedettero, e ricadde sull’erba. Boromir capì che lo avevano anticipato. In un attimo furono sopra di lui, imprecando e bloccandolo al suolo, cercando di togliergli la spada. Riuscì a gridare ancora un frenetico “Guardie, a me!”, poi una mano gli spinse la testa contro l’erba per soffocare la sua voce, e un calcio si abbatté violentemente il suo avambraccio ferito. La spada gli scivolò dalle dita intorpidite.

Merry sedeva a letto appoggiato a una pila di cuscini, con un vassoio di legno in grembo, contemplando lo spuntino notturno che Gil gli aveva portato. Quella donna doveva essere in parte hobbit, pensò. Come avrebbe potuto altrimenti sapere che pane fresco, formaggio stagionato e un bel boccale di birra erano il modo migliore per concludere la giornata? Un sorriso illuminò le ombre sul suo viso, e Merry cominciò a tagliare il formaggio con il coltello.

Stava per addentare una generosa porzione di pane e formaggio, quando udì il clangore inconfondibile del metallo contro il metallo. I suoi occhi corsero fuori dalla finestra, verso il giardino, e capì che erano spade. Ultimamente quel suono gli era diventato anche troppo familiare. Non poteva sbagliarsi.

Spingendo via le coperte e il vassoio, scese dal letto e corse alla finestra. Fuori, tutto era immerso nell’oscurità, ma riuscì a vedere qualcosa che si muoveva in fondo al giardino, presso il muro, dove aveva lasciato Boromir. Per un attimo restò in preda all’indecisione. Poi vide un lampo di luce argentea – il riflesso della luce delle stelle sull’acciaio - e udì Boromir che gridava, furiosamente, “Guardie, a me!”

Con un grido di risposta, Merry abbandonò ogni esitazione. Non aveva una spada, poiché la sua si era fusa sul campo di battaglia, ma questo non lo avrebbe fermato. Il coltello da formaggio era ancora sul letto, e Merry lo afferrò. Poi corse alla finestra e si arrampicò sul davanzale.

Un momento dopo atterrò sull’erba sotto la sua finestra, correndo a tutta velocità lungo la leggera pendenza verso le figure che lottavano accanto al muro.

Boromir!” gridò, perforando la quiete notturna con la sua voce acuta. “Boromir, sto arrivando!”

Una delle figure in ombra si allontanò dalla lotta e si mosse verso di lui. Merry intuì la sagoma di un uomo imponente, tarchiato, vestito di cuoio scuro e maglia di ferro, poi i suoi occhi si posarono sul sangue che macchiava la sua spada. La rabbia lo invase, e si precipitò incontro all’uomo armato, brandendo il suo ridicolo coltello come se fosse stato Andùril stessa.

L’uomo arrestò il suo passo quando vide che genere di creatura lo stava assalendo, ma Merry non gli permise di ritirarsi. Caricò l’uomo, gridando, “Fermati e combatti con me, codardo!”

L’uomo rise, ma un affondo del coltello gli fece scomparire il sorriso dalla faccia. “Bene, allora. Vieni avanti e muori insieme al tuo padrone!”

Merry lanciò uno sguardo inorridito al corpo disteso scompostamente nell’erba, con un secondo sicario inginocchiato sulla sua schiena, e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Preparandosi a balzare addosso all’uomo, gridò, con tono di sfida,

“Gondor!”

Ma il suo atto di coraggio suicida fu bruscamente interrotto da un grido proveniente dal cancello. Lo hobbit e il sicario si voltarono entrambi e videro due soldati vestiti con la livrea della Guardia Cittadina correre verso di loro attraverso il giardino con le spade sguainate. Il sicario imprecò sottovoce. Voltando sdegnosamente le spalle a Merry e alla sua ridicola arma, afferrò il suo compare per il mantello e lo fece alzare in piedi. Poi entrambi corsero via, svanendo nella notte profonda, lontani dalle lame e dalle torce delle guardie.

Merry fece alcuni passi di corsa verso i soldati e indicò freneticamente gli uomini in fuga. “Sono andati da quella parte! Attraverso il giardino, verso ovest!”

“Chi è andato da quella parte?!”, domandò una delle guardie, con voce sospettosa.

“Due uomini…assassini! Hanno ucciso il Sovrintendente!”

“No, non proprio.”

Merry si voltò e vide Boromir che si rialzava faticosamente. Con un grido di sollievo lo hobbit gli corse incontro gettandogli le braccia al collo in un abbraccio stritolante. Boromir lo afferrò con il braccio sano, e Merry affondò il viso nella spalla di Boromir per nascondere le sue lacrime alle guardie.

“Ti credevo morto”, mormorò Merry premendo il viso contro il tessuto della tunica di Boromir.

Boromir si limitò ad stringere più forte Merry, rivolgendo la sua attenzione alle guardie. “Cercate nel giardino e nel sesto circolo. Due uomini mi hanno attaccato e sono fuggiti verso ovest quando siete arrivati. Non possono essere lontani.”

Altre guardie si unirono alle prime due, insieme ad un ufficiale, il quale mandò alcuni uomini a inseguire i sicari con un gesto secco. Poi si fece aventi rivolgendosi al suo comandante. “Li avete visti in…” L’ufficiale si fermò e si schiarì la gola, imbarazzato.

“Avete riconosciuto qualcosa di loro, Capitano? Come faremo a identificarli?”

“Sono soldati, ma non di Minas Tirith. L’accento era del sud.”

“Indossavano tuniche di cuoio marrone, senza stemmi, e cotta di maglia”, aggiunse Merry, “E portavano degli elmetti.”

“Che tipo di elmetti?”

“Piuttosto stretti, di cuoio, penso, con un lembo che pendeva sulle spalle.”

Boromir li riconobbe. “Morthond. Cercate dei soldati di Morthond. Non sono assegnati alla guarnigione, non dovrebbero essercene stanotte in città.”

“Questo renderà più facile la nostra ricerca. Siete ferito, Capitano?”, chiese l’ufficiale.

“Solo alcuni graffi. Se ne occuperanno i guaritori, mentre voi cercherete i responsabili.”

“Con tutto il dovuto rispetto, Capitano, non dovreste andare in giro per la città senza scorta.”

“L’unica scorta di cui ho bisogno è Merry. Ha la mente sveglia e la spada pronta.”

Merry lasciò andare Boromir e si sedette sui talloni, nascondendo il coltello dietro la schiena. Arrossì furiosamente. “Non ho una spada.” Gli occhi di tutti si rivolsero allo hobbit.

“Non hai una spada?” chiese Boromir. “E cosa hai usato, allora, per affrontare i miei aggressori?”

Il rossore aumentò. “Un coltello…un coltello da formaggio.”

Gli ufficiali della Guardia risero, e anche alcuni dei suoi uomini, ma Boromir considerò lo hobbit pensierosamente. “Hai attaccato due soldati armati utilizzando un coltello da formaggio?”

“Beh, è stato tutto quello che ho trovato…nella furia del momento.”

Boromir fece un ampio sorriso. “Che tu sia benedetto, Merry. Tu vali come una dozzina di guardie armate.”

“Ma non lo sono. Non ho una spada, e non posso proteggerti se i sicari ritornano. È stato l’effetto sorpresa che li ha ingannati, non il coltello.”

“Capisco.” Alzandosi dolorosamente in piedi, Boromir si rivolse all’ufficiale con tono energico e autoritario. “Ponete delle sentinelle al cancello e alle porte di questa Casa. Mandate una truppa al cancello principale e non consentite a nessuno di lasciare la città prima che sia stato perquisito e identificato. Cercate specialmente uomini di Morthond. Se trovate i sicari, portateli qui.” Si interruppe e si guardò attorno, scoraggiato. “Ho perso la mia spada.”

Uno dei soldati la recuperò dal punto in cui era caduta nell’erba. Mentre la sollevava, Merry vide che la punta era macchiata di sangue.

“Eccola, mio signore.” Disse il soldato.

“Ne hai ferito uno?” chiese Merry.

“Non lo so.” Boromir tese la mano per prendere la spada, poi fece scorrere il dito sul piatto della lama finché non sentì che il metallo divenne appiccicoso. Sorridendo leggermente all’ufficiale, disse, “Cercate un uomo che sanguina.”

Con un brusco cenno del capo, Boromir congedò la Guardia. Merry attese pazientemente che Boromir pulisse la spada in un lembo della sua tunica non macchiato di sangue e rinfoderasse la spada. Poi lo hobbit si avvicinò a lui e sorrise quando la mano dell’uomo si posò sulla sua testa.

“Alle Case?”

“Sì, il più silenziosamente possibile.”

Merry si incamminò risalendo la collina verso le Case, adattando la sua andatura a quella di Boromir. Sentiva che l’uomo dietro di lui era stanco e sofferente, e sebbene Boromir camminasse abbastanza speditamente, a schiena eretta e con la testa alta, il suo passo non aveva la solita energia.

“Sei ferito gravemente?” chiese lo hobbit.

“È solo un graffio.” Al silenzio scettico di Merry, Boromir sogghignò e aggiunse, mestamente, “Molti graffi, a dire la verità, e piuttosto profondi. Non preoccuparti, piccoletto. Dammi sono un po’ di acqua bollente e bende pulite, e me ne occuperò subito.”

“I guaritori se ne occuperanno, vorrai dire.”

Boromir emise un suono di disgusto, e ringhiò, “Guaritori! Non mi serve l’aiuto di un guaritore per fasciare una ferita! L’ho fatto fin da quando sono stato in grado di usare una spada. Ti prego, Merry, non dire a nessuno quello che è accaduto stanotte! La notizia dell’aggressione non deve diffondersi finché non abbiamo preso quegli uomini. Non voglio nessuno tra i piedi che cerchi di rendersi utile. E soprattutto, non voglio confusione. Capito?”

“Ho capito, ma…” Merry si interruppe e deglutì, a disagio.

“Ma cosa?” domandò Boromir.

“Credo che sia troppo tardi per evitare la confusione.”

Merry non aveva mai visto il lord Faramir prima d’allora, ma non poté sbagliare nel riconoscere l’uomo che stava in piedi sulla soglia della Casa, con la camicia allentata e un paio di pantaloni indossati frettolosamente, i capelli spettinati dal sonno e gli occhi grigi spalancati per l’apprensione. In una mano teneva una candela, e nell’altra una spada sguainata, e la somiglianza con il fratello era impressionante.

Mentre i due si avvicinavano Faramir chiamò, senza preavviso, “Boromir?!”

Merry sollevò lo sguardo e vide la bocca di Boromir serrarsi per l’irritazione. Boromir accelerò il passo, costringendo lo hobbit a correre sulle sue corte gambe, e raggiunse la porta in tempo per impedire un secondo grido.

“Non occorre svegliare tutta la casa, fratello.”

“Cosa è accaduto? Sei ferito? Ho sentito delle grida, e…”

Boromir lo interruppe con un gesto brusco e sussurrò, con urgenza, “Ti supplico, Faramir, non qui.”

Faramir tacque immediatamente e fece un passo indietro, permettendo a Merry e a Boromir di oltrepassare la porta. Mentre entravano nel corridoio, Merry notò che Faramir non era solo. Gil, la sguattera, stava aspettando dietro di lui, con un’altra candela.

“C’è un posto dove possiamo andare in modo da non disturbare la Casa?” chiese Boromir, con voce affaticata per la stanchezza e per la sofferenza che non riusciva più a nascondere.

“La cucina”, rispose Gil, prontamente.

Boromir si voltò verso la voce, corrugando la fronte. “Gil?”

“Sì, mio signore.”

“Ma tu non dormi mai?”

“Non quando ci sono soldati che gridano e combattono sotto la mia finestra. Vuoi seguirmi in cucina, mio signore? O preferisci restare lì e sanguinare sul mio pavimento pulito?”

“In cucina, e sia. Merry, guidami.”

Raggiunsero la cucina senza svegliare nessun altro. Gil condusse Boromir ad una sedia accanto alla stufa e lo fece sedere con fermezza, mentre Merry chiudeva la porta. Stava per chiuderla a chiave, quando qualcuno bussò con forza, e una voce chiamò,

“Mio signore! Mio signore! C’è qualcosa che non va?”

Merry aprì la porta, e guardò stupito la donna dall’altra parte. Alla fioca luce delle candele, vestita solo dei suoi abiti da notte e di una vestaglia di lana bianca, con i capelli sciolti sulle spalle e il braccio ferito al collo, la bellezza di dama Éowyn era straordinaria e gelida.

Abbassò la mano che aveva alzato per bussare e guardò Merry senza sorridere.

“Bentrovato, mastro Scudiero.”

“Bentrovata, mia signora.”

“Sono venuta per vedere il Sovrintendente.”

“Éowyn?” Boromir sembrò irritato - e ne aveva tutto il diritto, pensò Merry. Gil stava sollevando la stoffa che si era attaccata alla ferita sul braccio, facendo scorrere sangue fresco. “Lasciaci, dama, te ne prego. Questa non è la tua battaglia.”

Invece Éowyn entrò nella stanza, vedendo il taglio che Gil aveva scoperto. “Sei ferito.”

Boromir sospirò pazientemente. “Merry, chiudi a chiave la porta. Fratello, se mi ami, uccidi la prossima persona che entra in questa stanza. Gil…devi proprio farlo?”

“No, mio signore. Deve farlo un guaritore.” Gil si alzò in piedi e si diresse verso la porta. “Ne chiamerò uno.”

“Non lo farai!” Boromir quasi si alzò dalla sedia, furente. “Faramir, uccidi la prima persona che esce da questa stanza!”

Faramir gli lanciò uno sguardo si disapprovazione e posò la spada sul tavolo, assicurandosi che Boromir udisse il rumore del metallo sul legno.

“Io non sono in grado di medicarti, mio signore” insistette Gil. “Sono solo una sguattera, non un chirurgo.”

“Dammi le fasciature, mi medicherò da solo.”

Gil impallidì e la sua voce divenne inespressiva, mentre voltava le spalle a Boromir e metteva la mano sulla maniglia della porta. “È il mio dovere. Non verrò meno al mio dovere verso i guaritori, o verso il mio Sovrintendente.” Con queste parole, girò il catenaccio e scomparì nel corridoio buio. 

Boromir si abbandonò contro lo schienale della sedia, imprecando a bassa voce. Merry si accorse della sua stanchezza e della sua frustrazione dal modo in cui teneva incurvate le spalle. Non poteva alleviare le preoccupazioni dell’amico, quella notte, ma almeno su una cosa poteva tranquillizzarlo. Con voce conciliante, disse, “Gil è una persona assennata. Non farà trambusto. Ed è meglio che le tue ferite vengano viste da un guaritore.”

“L’ holbytla parla con saggezza” disse Éowyn, spostandosi fino al tavolo al centro della stanza. Posando la candela sulla ruvida superficie di legno si appoggiò al tavolo con l’altra mano. Alla luce tremolante delle candele, sembrò a Merry che tutto il colore fosse scomparso dal suo viso. La sua pelle era pallida e fredda come marmo, gli occhi spenti per il dolore e la disperazione. Eppure, anche così provata nello spirito, trovò la forza per stare in piedi con orgoglio, e osservò con preoccupazione le ferite di Boromir. “Dimmi, mio signore, come ti sei ferito?”

“Non preoccuparti. Non è nulla di grave, e non c’è alcun pericolo per gli ospiti di questa Casa.”

Éowyn si raddrizzò con fierezza. “Non temo il pericolo. Sono venuta solo per vedere se potevo aiutare in qualche modo il mio compagno d’armi di un tempo.”

Prima che Boromir potesse replicare, Faramir intervenne, “Il tuo coraggio ti fa onore, dama, ma tu sei ancora debole, e gravemente ferita.” Il suo sguardo, oscurato per il dolore e per l’apprensione, corse al braccio bendato, al pallore innaturale del suo viso, e al lieve tremito della mano posata sul tavolo. “Lascia che ti scorti alle tue stanze, perché mi sembra che anche tu sia un’ospite di questa Casa, come lo sono io, e non dovresti essere in piedi a quest’ora.”

Éowyn lo osservò con gravità per un momento, poi scosse la testa. “Non incomodarti per me, mio signore.”

“Temo di non poterti obbedire.” Con un inchino e un sorriso malinconico disse, “Sono Faramir, figlio di Denethor, fratello del Sovrintendente.”

“Io sono Éowyn, nipote di Re Théoden”

“E Dernhelm, Cavaliere di Rohan”, aggiunse Boromir. “È stato Dernhelm a scortarci da Edoras, quando Théoden ed Éomer avrebbero voluto che ci nascondessimo da qualche parte.”

“Allora devo ringraziarti, mia signora.” Disse Faramir, con un altro inchino. “Hai reso un grande servizio a me e a Gondor.”

“Un servizio che qualcuno ha cercato di vanificare” disse Éowyn. Rivolgendo il suo sguardo distante eppure ansioso a Boromir, chiese. “Chi oserebbe attaccare il Sovrintendente di Gondor all’interno delle mura della sua città?”

Boromir le riferì l’accaduto in poche concise frasi. Non disse nulla dell’assalto di Merry con un coltello da cucina, cosa della quale lo hobbit fu grato, ma concluse semplicemente dicendo che Merry aveva interrotto l’attacco e salvato la sua vita.

Il viso di Faramir divenne pallido e teso. “Le guardie stanno cercando questi sicari?”

“Sì.”

“Sei certo che non fossero semplici ladri che speravano in un ricco bottino?”

“Mi hanno chiamato Sovrintendente.”

Faramir emise un suono simile a un gemito. “Chi oserebbe compiere un omicidio a Minas Tirith, e in un momento come questo?”

“Traditori”, disse Éowyn, con voce tesa per la rabbia, “e codardi. Attaccare alle spalle nell’oscurità…”

“Ma perché?” Negli occhi di Faramir Merry vedeva la domanda, che più di ogni altra lo tormentava. “Perché tentare di uccidere il loro signore?”

“E che importanza ha? È stato un atto senza onore, un tradimento, in un momento in cui tutti i popoli liberi della Terra di Mezzo si preparano per la guerra sotto lo stendardo di Gondor. Qualunque ragione abbiano, la verità è chiara. Sono traditori, e strumenti del Nemico.”

“Come lo fui anch’io, un tempo” mormorò Boromir, così piano che solo Merry, che era vicino alla sua sedia, lo udì.

“Ha sempre importanza sapere perché gli uomini sono portati al male”, rispose Faramir, dolcemente. “Altrimenti, come possiamo guardarcene noi stessi?”

“Ciononostante, ciò che compiono è sempre male. Quegli uomini sono traditori senza onore.”

“Certo.”

In quel momento la porta si aprì, e il Custode delle Case entrò nella stanza. Dietro di lui venivano Ioreth e Gil, e con la loro venuta improvvisamente la grande cucina sembrò rimpicciolirsi. Il Custode si fermò sulla porta osservando la stanza con occhi tranquilli e limpidi, poi si avvicinò alla sedia di Boromir e offrì al Sovrintendente un rispettoso inchino.

“Mio signore. Mi hanno detto che hai necessità delle mie cure.”

“Non è nulla”, disse Boromir, con rude cortesia. “Non c’era bisogno di disturbare il tuo riposo.”

“Certo che ce ne era bisogno. Violenza e omicidio nei miei giardini, pazienti che lasciano i loro letti per andarsene in giro armati di spada, i signori della città chiusi nella mia cucina a parlare di tradimenti…non accadono spesso tali eventi in queste Case. Come potrei continuare a dormire?”

Boromir rivolse al Custode un mesto sorriso, mentre la sua tensione svaniva visibilmente. Poi Ioreth parlò, e Boromir si irrigidì nuovamente.

“Ah questi avvenimenti! È una disgrazia, un oltraggio! Il nostro signore non è al sicuro nemmeno nella sua città, mentre il Re è accampato fuori dai cancelli, come un comune vagabondo. E tu, mio signore Faramir, non dovresti essere alzato a quest’ora…se mi è concesso dirlo, mio signore.”

Ioreth si fermò per prendere fiato, poi si lanciò in una nuova seria di proteste, osservazioni e commenti, mentre camminava affaccendata per la stanza. Insieme alle parole arrivarono velocemente tutti gli strumenti dei guaritori - bende, unguenti, aghi, coltelli e recipienti pieni di acqua bollente. I presenti nella stanza la osservavano stupefatti, ma nessuno osava interrompere il flusso continuo di parole e di gesti.

Mentre Ioreth svolgeva il suo compito rumorosamente, il Custode si occupò del suo con relativa tranquillità. Condusse Gil dove era seduto Boromir, e insieme lo spogliarono dei vari strati di vestiti. Quando Ioreth ebbe finito di portare l’ultimo vasetto di unguento sul tavolo, Boromir era vestito solo dei calzoni e della camicia insanguinata.

La vecchia si fermò improvvisamente, piantò le mani sui fianchi, e rivolse uno sguardo esperto a Éowyn. “Ritorna a letto, mia signora, finché riesci ancora a reggerti in piedi.”

Senza sollevare gli occhi dal suo lavoro, il Custode disse, “Ha ragione, Dama Éowyn. Devi riposare, se vuoi guarire. Sire Aragorn è stato molto chiaro su questo punto.”

Prima che Éowyn potesse protestare, Faramir si fece avanti e disse, “Consentimi di scortarti alla tua stanza, mia signora.”

“Non ho bisogno di scorta”, protestò Éowyn.

Faramir, con la grazia e la disinvoltura che gli erano naturali, rispose, “Solo per questa notte, dama, lascia che ti accompagni. Potrebbero esserci altri malintenzionati in giro, e il tuo braccio della spada è ferito.” Mentre parlava, sollevò la sua spada dal tavolo e salutò con questa Éowyn.

Éowyn, in inferiorità numerica e congedata da un cortese ma fermo saluto di Boromir, permise a Faramir di scortarla fuori dalla stanza. Quando la porta si fu chiusa, Ioreth cominciò ad affaccendarsi attorno a Boromir passando gli strumenti al Custode, mentre continuava ininterrottamente a parlare.

Il Custode la lasciò fare per alcuni minuti, poi notò l’espressione tesa sul viso di Boromir e il modo in cui trasaliva al suono della voce di Ioreth. Poi, con il suo modo mite ma autoritario, la interruppe.

“Alcuni pazienti ci hanno sentiti, quando siamo entrati. È meglio se li tranquillizziamo, prima che vengano a cercarci, disturbando il Sovrintendente. Vai tu, Ioreth, e falli ritornare a dormire. Dì loro ciò che vuoi, ma non farli uscire dalle loro stanze.”

“Ma non dire nulla dell’agguato o degli assassini!”,aggiunse Boromir, bruscamente.

“Agguati e assassini!” Ioreth alzò una mano protestando. “Spaventare i feriti e i malati con storie di agguati e assassini? Tremo al sono pensarci, mio signore!”

“Bene”, grugnì Boromir.

Il Custode trattenne a stento un sorriso e fece gesto a Ioreth di uscire per svolgere i suoi compiti. Quando la porta si fu richiusa, lasciando la stanza in un pacifico silenzio, Boromir si lasciò sprofondare nella sedia con un gemito.

“Per amor del cielo, Gil, perché hai portato quella donna?”

“L’ho portata io,” rispose il Custode. “Dietro l’apparenza si nasconde un’abile infermiera e una donna molto saggia.”

“Allora è molto ben nascosta”, mormorò Boromir.

Dopo aver sfogato un po’del suo malumore, Boromir si tranquillizzò e lasciò lavorare il guaritore senza interromperlo. Nel mezzo del procedimento, Faramir scivolò nella stanza, ancora con la spada in mano. Boromir lo salutò con un cenno, ma non sembrò avere intenzione di rompere il silenzio. Faramir appoggiò la spada sul tavolo, prese una sedia, e si sedette con un sospiro di stanchezza.

“Tutto è tranquillo.” In risposta ebbe un altro cenno e un grugnito di assenso. “Ho parlato con le sentinelle. Non hanno sentito nulla.” Quando capì che Boromir non avrebbe parlato, Faramir lo guardò con severità e disse, “È tempo che tu mi racconti quello che sai dell’aggressione, fratello. Chi ha tentato di ucciderti? E perché?”

Boromir si accigliò, irritato dal tono autoritario del fratello, ma rispose con prontezza.

“Soldati di Morthond, della valle di Cepponero, a giudicare dagli abiti e dall’accento. Non so dirti il motivo.”

“Gli uomini della valle di Cepponero sono per tradizione arcieri, non spadaccini.”

“Infatti. Questo potrebbe spiegare il fatto che non sono morto con una spada piantata in gola. Hanno avuto abbastanza coraggio da fare il tentativo ma non l’abilità per portarlo a termine. Hanno esitato quando avrebbero dovuto attaccare. Uno di loro avrebbe avuto la possibilità di uccidermi quando ero a terra, ma ha trattenuto la mano.”

Faramir annuì pensierosamente, con lo sguardo fisso sul tavolo mentre la sua mente correva. “Soldati, spinti da un qualche oscuro motivo, che si servono di armi non familiari e contro i dettami dell’onore. Ma cosa ha potuto spingerli a un atto così disperato?”

Merry, che era rimasto seduto in silenzio fino a quel momento su uno sgabello mangiando una mela, non poté più trattenersi. “Niente poteva costringerli ad assassinare il loro signore! Hanno scelto loro di farlo!”

“È vero, Merry” disse Boromir, con gravità. “Ma a volte, facciamo le scelte sbagliate con le migliori intenzioni.”

Merry ingoiò le parole successive, ricordando il momento in cui aveva saputo del tradimento di Boromir, e il suo desiderio di perdonarlo. Non provava quel desiderio riguardo agli assassini, ma poteva capire perché Boromir esitasse a condannarli a priori. Dentro di sé, Merry fu felice di avere la possibilità di odiare quei due uomini, indipendentemente dalle loro ragioni, e di non dover essere giusto con loro. I re e i sovrintendenti non si potevano permettere quel lusso.

“Di una cosa possiamo essere certi”, continuò Boromir. “Duinhir di Morthond marcia domani, portando con sé i suoi uomini e i nostri problemi.”

Faramir alzò la testa di scatto, accigliandosi, poi saltò in piedi. “Dobbiamo fare presto. Il re vorrà interrogare Duinhir e scoprire la fonte di questa agitazione…”

“Aragorn non ne saprà nulla.”

Faramir fissò il fratello sbalordito. “Non vuoi mandargli un messaggero per avvertirlo dell’aggressione?”

“No.”

“Ma deve saperlo!”

“Non voglio che Aragorn sia turbato per qualcosa per cui non può fare nulla. Ci sarà tempo per questo quando ritornerà.”

Con sorpresa di Merry, Faramir sembrò non fare caso al tono definitivo della voce di Boromir. Continuò invece ostinatamente, sfidando la crescente rabbia del fratello.

“Certo il re vorrà sapere che un omicidio è stato tentato all’interno della sua città.”

Boromir perse la calma. Alzandosi di scatto dalla sedia, sottraendosi alle mani del guaritore, gridò, “Questa non è la città di Aragorn! Non ha ancora il dominio sulla città, né lo hai tu, fratello! Non sono forse io il Sovrintendente qui?”

Le gote di Faramir si infiammarono di rabbia, ma controllò la sua voce e si mantenne calmo. “Sì.”

“E allora lasciami governare come ritengo giusto!”

“Naturalmente, mio signore.” Faramir si inchinò rigidamente. Merry studiò il suo viso per trovarvi qualche traccia di ironia, ma non la trovò.

“Chiedo perdono.”

Lasciandosi ricadere sulla sedia Boromir si passò una mano sul viso, stancamente.

“Che la peste ti colga, Faramir, perché devi sempre spingermi oltre il limite? Ti diverte tanto vedermi fare il tiranno?”

“No, certo che no.”

 

Merry colse il turbamento e il rimprovero nella voce di Faramir, e si chiese che cosa lo avesse scosso così profondamente. Non conosceva abbastanza bene suo fratello da riconoscere la stanchezza che lo opprimeva? E non capiva che erano l’ansia e l’amarezza della frustrazione a spingerlo a perdere la calma? Boromir non aveva parlato così per arroganza, ma perché era esausto e al limite della pazienza, e perché desiderava risparmiare alla sua malridotta città un’ ulteriore ferita, e al suo re un altro fardello. Tutto ciò era dolorosamente chiaro a Merry, perché allora suo fratello non riusciva a capirlo?

Nel pesante silenzio che era caduto, udirono un calpestio di passi nel corridoio. Il Custode sollevò la testa brevemente per ascoltare, poi fissò rapidamente l’ultimo fermaglio alle bende sul fianco di Boromir, e si diresse verso la porta. Non si affrettò, anche quando un colpo rimbombò sulla porta facendo tremare il legno. Aprì la porta, e si pose con fermezza davanti agli uomini dall’altro lato.

Merry notò un luccichio di elmi d’argento e stoffa nera, poi una voce vagamente familiare disse, “Cerco il lord Boromir. È qui?”

“Sì, ma è ferito e ha bisogno di riposo.”

“Veniamo sotto suo comando, Custode. Abbiamo preso uno dei sicari.”

“Fateli entrare,” disse Boromir. Con l’aiuto di Gil, era riuscito a indossare di nuovo la sua camicia strappata, e ora si raddrizzò sulla sedia, rivestendosi della sua autorità come di un’armatura. Quattro guardie, guidate dal luogotenente che avevano incontrato nel giardino, entrarono rumorosamente nella cucina, rimpicciolendo la stanza nuovamente in modo allarmante. Due di essi camminavano con le spade sguainate, trascinando un terzo uomo tra loro. Il prigioniero aveva le mani legate dietro la schiena, la testa scoperta, e il viso macchiato di sangue secco per un taglio sulla guancia sinistra. Era vestito di cuoio nero, con una cotta di maglia leggera che si intravedeva al collo e ai polsi. Gli stivali erano incrostati di fango. Il fodero pendeva vuoto al suo fianco. Non aveva ornamenti, né simboli, a parte il fermaglio della sua cintura, a foggia di testa di cervo, ma alcuni fili allentati sulle spalle e sul petto mostravano che qualche altro stemma era stato rimosso frettolosamente.

Il luogotenente si avvicinò a Boromir e salutò energicamente. Rivolse lo stesso saluto anche a Faramir. “Abbiamo preso quest’uomo mentre si nascondeva in una baracca per i carri, nel secondo circolo. Non vuole dire il suo nome, ma indossa la divisa degli arcieri di Morthond e ha un taglio di spada recente sul viso.” Prese una spada e un copricapo di cuoio da uno dei suoi uomini, e li pose sul tavolo davanti a Faramir.

“Ha consegnato la sua arma. Non è sporca di sangue.”

Merry studiò il viso del prigioniero, cercando qualcosa che potesse riconoscere, qualcosa che potesse marchiarlo come uno dei sicari, ma non trovò nulla. L’uomo stava in piedi rigidamente, con orgoglio, senza mostrare alcuna debolezza di fronte ai figli di Denethor, e soltanto il suo sguardo, che saettava rapidamente da un fratello all’altro, tradiva la sua paura.

Boromir si rivolse al prigioniero con viso freddo e inespressivo. “Come ti chiami?”

“Hirluin di Morthond.” A nessuno sfuggì l’ostilità nella sua voce, e l’esplicito rifiuto di riconoscere il rango di Boromir.

“Sai chi sono, Hirluin di Morthond?”

“Boromir, figlio di Denethor, colui che occupa il seggio del Sovrintendente.”

“E sapevi chi ero quando hai tentato di uccidermi?”

Hirluin esitò, inumidendosi le labbra con nervosismo. “Sono un soldato. Uccido solo per ordine del mio signore.”

“Volevi gettarmi giù dalle mura, così che il mio corpo fosse trovato fracassato sulla strada. Anche questo era un ordine del tuo signore?” L’uomo non rispose, e Boromir continuò, gelido, “Non posso vedere il tuo viso, Hirluin, ma non sono né sordo né demente. Riconosco la tua voce. Sei un traditore e un assassino.”

Negli occhi del prigioniero lampeggiò il panico, e, con le mani dietro la schiena, formò un gesto per scacciare il male. “Esigo la protezione del mio signore! Non sono soggetto al capriccio di Gondor!”

“Sei stato chiamato a combattere sotto la bandiera di Gondor, e sarà a Gondor che risponderai del tuo tradimento.”

Lo sguardo di Hirluin correva da un viso all’altro, senza trovare pietà né comprensione. Si inumidì di nuovo le labbra e cercò di recuperare il suo contegno orgoglioso, ma il peso della rabbia che aleggiava nella stanza lo opprimeva e lo schiacciava nelle mani dei suoi guardiani.

“Ho fatto ciò che dovevo. Ho fatto il mio dovere”, mormorò.

Faramir si sporse verso di lui, con i fieri occhi grigi esigevano obbedienza. “Vuoi dire che hai agito per ordine di altri? Stai accusando il lord Duinhir o uno dei suoi capitani per questo vile atto?”

“No, loro non ne sanno nulla! Ma era il nostro dovere, come leali figli di Morthond, e come alleati al regno di Gondor…” I suoi occhi percorsero la stanza pieni di panico, evitando Boromir, e le parole vennero velocemente alle sue labbra. “L’esercito fallirà! Cadranno le tenebre! E dove andremo allora, se non a Minas Tirith? Senza di essa non ci sarà ritorno da Mordor, per nessuno di noi! Senza di essa, saremo condannati a morire nell’ Ombra!”

“Spiegati meglio, soldato”, lo incalzò Faramir. “Noi tutti sappiamo il destino che ci attende, e dobbiamo combatterlo come meglio possiamo. Minas Tirith non cadrà, finché ci saranno abbastanza spade a difenderla, e darà rifugio a tutti i nemici di Sauron che accorreranno ai suoi cancelli.”

“No, no, non potrà farlo, finché l’Ombra camminerà per le sue strade!” puntò un dito tremante verso Boromir, e la sua voce si alzò. “Lui porterà Gondor verso le Tenebre! È un presagio di sconfitta, un’arma del Nemico puntata alla nostra gola! Se comanderà le armate di Minas Tirith saremo condannati a cadere! Dicono che suo padre abbia sognato la sua venuta e sia impazzito per il dolore!”

Il luogotenente reagì prontamente, colpendo Hirluin al viso con un pugno. Il prigioniero barcollò all’indietro ma non cadde, sostenuto per le braccia dai soldati armati. “Bada a come parli, traditore, o ti taglierò la lingua! Non avvelenerai l’aria con le tue menzogne!”

“Basta così”, disse Faramir, stancamente. “Portatelo via.”

“Aspettate.” Tutti gli sguardi si posarono su Boromir, e il prigioniero si irrigidì allarmato. “Parli della caduta di Gondor con molta sicurezza, Hirluin. Come fai a conoscere il destino che ci attende?”

“I segni sono chiari”, insistette Hirluin.

“Non per me. Tu mi definisci un presagio di sconfitta, eppure io ho combattuto per Gondor tutta la mia vita. Come posso ora essere un’arma puntata contro di essa?”

Qualcosa nella franchezza e nella semplicità con cui Boromir aveva posto la domanda, fece sfumare la rabbia di Hirluin. Per la prima volta da quando era stato portato al cospetto del Sovrintendente sembrò incerto, persino turbato per la vergogna.

“Non lo so”, mormorò. “So solo ciò che sa tutto l’esercito - che tu cammini nelle Tenebre e porterai anche tutti noi all’Oscurità.”

“Così volevi uccidermi per una superstizione di soldati?”

Hirluin si agitò, a disagio, sempre evitando di guardare Boromir, e serrò la mascella.

Boromir si appoggiò all’indietro contro lo schienale della sedia. Al luogotenente comandò, “Portatelo alla Cittadella.”

L’ufficiale fece un rapido saluto e segnalò alla scorta di condurre il prigioniero fuori dalla porta. Hirluin, raccogliendo di nuovo attorno a sé i resti del suo orgoglio di soldato, si incamminò tra le guardie a testa alta. Dopo che la porta si fu chiusa dietro di loro, il luogotenente chiese, “Avete altri ordini, Capitano?”

“Trovate il suo complice, se ci riuscite, e colui che ha messo loro in testa questa stupida idea.”

“Lo troveremo, Capitano. La Guardia non vi deluderà!”

Boromir sorrise a quel giuramento fervente, ma il suo viso rimase teso e contratto.

“Sorvegliate strettamente il prigioniero. Non dite a nessuno al di fuori della vostra compagnia ciò che ha rivelato, e non lasciatelo parlare con nessuno senza il mio permesso. Non voglio che circolino voci di omicidi e tradimenti per la città.”

Emise un breve sospiro e aggiunse, piano, “Ci saranno già abbastanza preoccupazioni per il nostro popolo nei giorni a venire.”

Ci volle un’eternità prima che tutti uscissero dalla stanza. Boromir fece del suo meglio per mantenersi calmo e cortese, anche se tutto il corpo gli doleva e la testa gli girava per lo sfinimento, ma quando il luogotenente, sotto suggerimento di Faramir, insistette per assegnargli una scorta di due guardie, non poté più contenere la sua rabbia e ordinò a tutti di andarsene. Il Custode se andò, così silenziosamente e discretamente come era venuto, portando con sé Faramir. Le guardie uscirono per ritornare ai loro compiti. Merry fu l’ultimo ad andare, e il più difficile da persuadere, ma Boromir non ascoltò le sue proteste. Il mezzuomo non si reggeva in piedi per la stanchezza ed era ancora debilitato dalla sua ferita. Boromir lo sentiva nella sua voce. Finalmente, quando minacciò di chiamare Ioreth e di farlo portare a letto, Merry si arrese e gli augurò con riluttanza la buonanotte.

Finalmente era solo. O quasi. Soltanto una persona si muoveva ancora indaffarata per la stanza, con le gonne che frusciavano contro le pietre del pavimento. Per qualche ragione Boromir trovava la sua presenza stranamente confortante. Ascoltava i lievi rumori che lei faceva mentre lavorava, che lo aiutavano a dimenticare le preoccupazioni e le ansie che lo assediavano. Lentamente, cominciò a rilassarsi, e si lasciò scivolare all’indietro contro la sedia, allungando le gambe di fronte a lui, mentre un piacevole torpore lo avvolgeva.

Un aroma ricco e invitante si diffuse nell’aria, facendogli venire l’acquolina in bocca, e Boromir si raddrizzò sulla sedia. “Cosa stai preparando?” domandò.

“Vino speziato”, rispose Gil, nel suo solito modo brusco. Attraversò la stanza avvicinandosi a lui e appoggiò qualcosa di metallico sul tavolo di legno. “Lenirà il dolore delle ferite.”

Boromir attese che lei si dirigesse nuovamente verso il focolare, poi trovò a tentoni il boccale che aveva posto davanti a lui, e lo strinse con gratitudine tra le mani. Soltanto il profumo sembrava già avere effetti benefici. Ne bevve un sorso, e un sorriso gli illuminò il volto.

“Mi chiedo come mai non ho mai assaggiato questa medicina prima d’ora…”

“Non sei mai venuto da me per curare le tue ferite, mio Signore.”

Boromir rise piano. “Forza, Gil, unisciti a me. Anche tu devi pur avere qualche ferita che questa medicina possa curare.”

“Chiedo perdono, mio signore, ma non funzionerà.”

“Che cosa?”

“Io che bevo insieme al Sovrintendente. È sconveniente.”

Gil sembrava indignata, ma non aveva adottato il suo solito tono freddo, e Boromir ne dedusse che non era veramente offesa. Adottando il tono di rimprovero scherzoso che riservava normalmente a Merry e a Pipino, ribatté, “Ciò che è davvero sconveniente è discutere con il tuo Sovrintendente. Ora versati una coppa e siediti.”

“Sì, mio signore. Se insisti, mio signore.”

Resistendo all’impulso di mettersi a ridere, Boromir attese che Gil si versasse un boccale di vino speziato e che tirasse una sedia accanto al tavolo. Trovava divertente la sua umiltà, se paragonata alla sua lingua impertinente e al temperamento bisbetico, ma non era sicuro di come lei avrebbe reagito al suo divertimento. Non sapeva quasi nulla di lei, e considerando l’imbarazzo del loro primo incontro, decise che sarebbe stato meglio essere cauti.

Quando la sentì bere un sorso di vino con un leggero sospiro di soddisfazione, Boromir abbassò il suo boccale e disse, gentilmente, “Ti ringrazio per il tuo aiuto di stanotte.”

“Ho fatto solo il mio dovere, mio signore.”

“Ma l’hai fatto senza perdere la calma e con poco trambusto, cosa di cui ti sono grato.”

Lei rispose con una breve risata priva di allegria. “Fare trambusto non aiuta a fasciare le ferite, o a pulire i pavimenti.”

“Sei una donna pratica, Gil”

“Non ho tempo per essere altro.”

“E non ti sei mai chiesta cos’altro potresti essere?”

“Questi pensieri sono per i ricchi e per gli oziosi. Io non sono nessuna delle due cose. Sei fantasioso, questa notte, mio signore.”

“Stavo pensando alle stelle, cercavo di ricordare le storie che mi raccontava mio fratello. Leggende elfiche. Forse una di loro parlava di Gilthaethil.” Le sorrise pigramente, sentendo gli effetti del vino nelle sue vene, che gli scaldava le membra affaticate, rendendolo loquace e di buon umore. “Gilthaethil, la Principessa degli Elfi. Chissà che cosa ha fatto per meritarsi un posto tra le leggende. Ha ucciso draghi? Sconfitto eserciti? Salvato il suo amore mortale dagli oscuri abissi di Angband?”

“Quella mi sembra di conoscerla”, commentò Gil.

“È probabile. Ho sempre confuso tutti quegli eroi elfici. Ma scommetto che non puliva i pavimenti.”

“Quelle principesse non lo fanno mai.”

Il tono asciutto della sua voce lo fece sorridere. “Ioreth ti ha mai raccontato la storia di Gilthaethil?”

“Se lo ha fatto, l’ho dimenticata.”

“Mio fratello la conoscerà sicuramente. Lui le conosce tutte. Vuoi che glielo chieda?”

“Non incomodatelo con queste sciocchezze, ve ne prego.”

Boromir sorrise di nuovo e sorseggiò il suo vino, lasciando cadere il discorso. Dopo alcuni istanti di confortevole silenzio, domandò, “Come mai sei qui, Gil?”

“Mi avete svegliato con le vostre grida.”

“No, non qui in cucina. In questa Casa. Come mai vivi nelle Case di Guarigione?”

“Sono sempre stata qui. Questa è la mia casa, la mia vita.”

“Sei nata qui?”

“No, sono stata trovata appena nata, in un terreno abbandonato, avvolta in un vecchio sacco.” Il suo tono indifferente non ammetteva commiserazione. “Ioreth mi ha trovata, mi ha portata qui, e mi ha reso quello che sono.”

“E non sai nulla della tua famiglia? Della tua gente?”

“Nulla.”

“Allora potresti davvero essere una Principessa degli Elfi, dopotutto.”

Gil rispose al suo gentile scherzo con uno sbuffo di disgusto. “Queste cose accadono solo nelle favole che racconta tuo fratello.”

“Ah, ma sono tutte vere! Chiedilo a Faramir. Chiedi a Legolas. Chiedi ad Aragorn, Re Elessar, che è lui stesso una leggenda vivente! Anche tu potresti esserlo.”

“Le principesse non lavano i pavimenti, e io non credo alle belle favole.”

“Ti chiedo perdono.” Boromir si rilassò nuovamente sulla sedia, stringendo la coppa tra le mani, tenendola in equilibrio sulla fibbia della sua cintura. “Ma certo, hai ragione.” Esitò, poi aggiunse. “Ma perché mai Ioreth ti ha chiamata così?”

“Lei è ancora più fantasiosa di te.”

Boromir rise, incuriosito dalla visione che aveva di lui. Nessuno lo aveva mai definito fantasioso prima di allora, e si domandò quale natura fossi così arida da considerare lui fantasioso. Gil non sembrava priva di passioni, eppure rifiutava ostinatamente ogni tipo di emozione, ogni traccia di sogni e fantasticherie e di pensieri che riguardavano la vita al di fuori dei muri di pietra di quella Casa. In quel momento - annebbiato dalla stanchezza e riscaldato dal potente vino - Boromir accarezzò l’idea di rompere quel guscio di cui Gil si circondava, per fare uscire la creatura che viveva dentro di esso. Era in grado di farlo, lo sapeva, e voleva scoprire che tipo di donna Gil fosse realmente.

Poi la sua voce lo raggiunse, fredda, pratica, richiamandolo alla realtà.

“Ioreth crede che io abbia sangue elfico. Il Custode pensa che sia possibile. Dice che ho i tratti dei popoli del sud, delle terre in cui il sangue elfico ancora si mescola a quello umano.”

“Dol Amroth. Una nobile stirpe.”

“Per rivendicare una stirpe bisogna avere una famiglia. Io non ce l’ho.”

“Potrei invidiarti per questo,” rifletté Boromir, pensando alla propria tormentata famiglia. Per quanto amore portasse al proprio padre e al fratello, c’erano momenti in cui avrebbe voluto non avere famiglia, né nome, né un fardello d’amore, di colpa o di speranza da portare per loro. “Quando sento il peso di tutte quelle generazioni, la lunga stirpe dei Sovrintendenti alle mie spalle, che mi guardano e mi giudicano…”

Gil posò la coppa con uno scatto, interrompendo il suo mormorio. “Sei ubriaco.”

“Non è vero.” Boromir si raddrizzò sulla sedia, con qualche difficoltà a causa delle recenti ferite, e aggrottò la fronte. “Sono stanco. Troppo stanco, forse, per frenare la lingua. Ma non sono ubriaco.”

“Allora andate a letto e riposate.”

Boromir pensò brevemente alle sue stanze private, lassù nella torre della Cittadella, e al grande e soffice letto che lo attendeva. Rabbrividì impercettibilmente e si alzò in piedi. “Una passeggiata nei giardini mi schiarirà le idee.”

Nello stesso momento Gil scattò in piedi per fermarlo. Boromir fece un passo falso e si scontrarono, versando il contenuto dei loro boccali. Boromir arretrò velocemente, ma inciampò nella gamba della sedia e perse l’equilibrio. Gil lo afferrò per l’avambraccio, evitandogli una caduta dolorosa e imbarazzante, ma la sua mano si strinse con forza sulle fasciature, riaprendo le ferite e facendo scorrere nuovo sangue.

Boromir trasalì per il dolore, e Gil ritrasse la mano, inorridita.

“Ti chiedo perdono, mio Signore!”

Era la prima volta che Boromir sentiva Gil in ansia - non arrabbiata o scontrosa, ma realmente terrorizzata – e questo rese ancora più acuto il suo imbarazzo. Sorrise impacciato, sentendo il suo viso avvampare. “No, come sempre, sono io che devo chiedere perdono a te.”

Gil si schiarì la gola e si ravviò la gonna. Con il suo solito tono asciutto, disse, “Mi ci sto abituando. Ma se vai a passeggiare per il giardino in questo stato, finirai per cadere a capofitto dalle mura, e completerai il lavoro di quel traditore. Non vuoi andare a dormire, mio signore?”

Il viso di Boromir si contrasse per il dolore, e si ritrasse dallo sguardo penetrante di Gil. Il suo primo impulso fu quello di scattare, di respingerla prima che potesse vedere la sua debolezza e l’insicurezza che disprezzava cosi tanto, e che ora lo assalivano, divorandolo, ma il pensiero di quello che era accaduto tra loro quella notte lo trattenne. Nel suo strano modo, Gil aveva lasciato vedere qualcosa di lei. Aveva abbassato la guardia, dimenticando di chiamarlo ‘mio signore’ ogni volta, gli aveva permesso di trattarla come un’amica, anche di ridere di lei. Non poteva ripagare con la freddezza quella precaria fiducia. Le avrebbe detto la verità.

“Non riesco a più a dormire bene, specialmente all’interno di mura di pietra.” Si sedette sul bordo del tavolo e curvò le spalle sotto il peso della stanchezza. Mentre parlava stringeva inconsapevolmente la mano destra a pugno, flettendo i muscoli danneggiati del braccio. “Non riesco a rilassarmi, se non sento l’ aria fresca e il vento sul mio viso. E quando sono solo, i miei pensieri mi tengono sveglio…e inquieto. Non andrò nella Torre di notte, quando tutto è pietra fredda e corridoi deserti. Sento il crepitare delle torce. Odio il loro rumore. E l’odore.”

Per un lungo momento, Gil non disse nulla. Boromir udiva il suo respiro regolare e il mormorio del fuoco della stufa, ma null’altro. Cosa Gil pensasse della sua confessione, Boromir non poté dirlo. Una donna che aveva vissuto tutta la vita in quelle Case non poteva sapere nulla di sotterranei, stregoni, o del terribile odore di bruciato in uno spazio chiuso e senz’aria. Ma forse aveva percepito un’eco di quell’orrore, e capiva il motivo che lo spingeva a vagare per i giardini di notte.

“C’è una stanza in queste Case dove riusciresti a dormire?” chiese Gil, finalmente.

Subito Boromir pensò a Merry - il leale, paziente Merry, che aveva parlato con lui durante le lunghe notti della loro cavalcata da Edoras. Merry era in quelle Case.

“Merry, il mezzuomo. C’è una finestra nella sua camera?”

“Certo.”

Il sollievo apparve sul viso di Boromir, e tese la mano a Gil. “Bene. Là potrò dormire.”

Senza una parola, Gil lo prese per mano, e insieme uscirono dalla stanza.

 

Continua…

 

 

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Capitolo 12
*** Guardando a Est ***


Nuova pagina 2

Capitolo 12: Guardando a Est

Elenard era chinato in un angolo buio dietro la tenda, con un secchio pieno d’acqua davanti a sé. Era scalzo e a torso nudo, sporco per le lunghe ore trascorse a nascondersi in una baracca semi bruciata, e aveva la bocca piena di cenere. Si rinfrescò la bocca con una sorsata d’acqua e sputò per terra. Poi sollevò il secchio e si rovesciò il resto dell’acqua sulla testa.

Attorno a lui l’accampamento cominciava a risvegliarsi.

Il cielo a oriente non era ancora stato raggiunto dall’alba, avvolto da scuri vapori e ombre, ma le stelle erano svanite, e il cielo, dove rispendevano gloriose la notte prima, era di un grigio opaco.

Elenard scosse l’acqua dai suoi capelli e si alzò in piedi, restando però curvo in modo da nascondersi dietro il profilo della tenda. Muovendosi con l’agilità di un abitatore dei boschi, posò il secchio vuoto in un mucchio di utensili accanto al falò da campo, poi entrò nella tenda.

Divideva la tenda con altri tre uomini, arcieri del suo paese, che ancora russavano sui loro giacigli. Su una cassa accanto al palo centrale era posta una candela, ma Elenard la ignorò. Scavalcò cautamente i due compagni, stese i vestiti e l’armatura accanto al suo giaciglio il più silenziosamente possibile, poi scivolò sotto la coperta. E là, nella semioscurità, restò in attesa del richiamo di trombe che avrebbe destato l’esercito dal suo riposo.

Una volta raggiunta la sicurezza, Elenard si concesse di rilassarsi lievemente.

I suoi compagni non lo avrebbero tradito. Non aveva nulla da temere da loro, Con il loro silenzio, avevano implicitamente appoggiato il suo attentato alla vita del Sovrintendente. Hirluin era rimasto indietro in città, troppo spaventato per rischiare la cattura dalle guardie al cancello, e in quel momento il poveretto era quasi certamente in catene. Ma ci sarebbe voluto tempo per piegarlo, e il tempo era una cosa che il Sovrintendente-Ombra non aveva.

Elenard non temeva di morire in guerra. Era felice di marciare a fianco del suo signore, sotto lo stendardo del Re. L’unica cosa che temeva era l’oscurità e la schiavitù del Nemico, un destino che li minacciava tutti, presi tra la sconfitta davanti a loro e l’Ombra che cresceva alle loro spalle. Elenard sperava soltanto di morire in battaglia, con onore, perché gli fosse risparmiato l’orrore che sarebbe venuto dopo. Se quella notte fosse riuscito nel suo intento, avrebbe potuto aprire una via di fuga per tutti loro.

Ma aveva fallito. Fallito completamente.

Giaceva con lo sguardo rivolto alla tenda sopra di lui, ripensando a quella strana, quasi ridicola lotta nel giardino, e fece una smorfia. Avrebbe dovuto essere più facile sorprendere e uccidere un uomo cieco, solo e colto alla sprovvista nel cuore della notte. Quale stregoneria aveva mai protetto il figlio di Denethor? Quale genio malvagio aveva guidato la sua mano? Forse il Nemico poteva spingersi così lontano da raggiungere il suo prescelto anche nel cuore di Minas Tirith?

Elenard rabbrividì e fece un furtivo gesto contro il male. Era fortunato a essere ancora vivo. La Guardia della Torre aveva agito rapidamente, chiudendo il Cancello e passando al vaglio la città con incredibile meticolosità. Elenard era riuscito a fuggire solo nascondendosi tra le rovine di un edificio semidistrutto dalle fiamme nel primo circolo, travestendosi con gli abiti rubati di un lavoratore, e ricoprendosi il viso di cenere per nascondere la sua identità. E lì aveva atteso, fino a quando l’alba ormai prossima aveva svegliato i contadini e il traffico ai cancelli era diventato abbastanza intenso da offrire sufficiente protezione.

Aveva preso un piccolo carretto nella baracca in cui si era separato ha Hirluin. Riempiendo il carro di corde, ganci, finimenti, e catene - il genere di attrezzatura che veniva usata per ripulire i campi di Cormallen dai resti dei macchinari d’assedio e di difesa - era riuscito a nascondere i propri abiti e le armi. Quando i primi operai avevano cominciato a passare sotto il cancello allo spuntare dell’alba, era semplicemente uscito camminando dalla città. Qualche domanda, una sommaria perquisizione del carro, uno sguardo indagatore ai suoi abiti sudici e rammendati, e le guardie lo avevano lasciato passare indisturbato.

L’unica paura di Elenard era che non avrebbe fatto in tempo a ritornare all’accampamento prima che le trombe radunassero l’esercito. Non poteva mettersi a correre. Nessun operaio mandato a lavorare nei campi tra pire funebri, mucchi di orchi e cadaveri giganteschi di mûmakil si sarebbe mai affrettato a un simile compito. Così aveva continuato a camminare lentamente e con riluttanza, a testa bassa e con le spalle curve. Una volta lontano dalla vista delle guardie aveva abbandonato il carro in una trincea e recuperato la sua attrezzatura. Gettò gli abiti da contadino in un falò incustodito. La patina di cenere e sporcizia gli era stata utile e gli aveva permesso di passare oltre le sentinelle che pattugliavano il campo senza essere visto. Poi, finalmente, aveva raggiunto la sua tenda, e in quel breve momento di riposo, attendeva il segnale dell’adunata.

Il segnale suonò quando la prima luce del giorno cominciò a entrare dall’apertura della tenda. Un richiamo chiaro e acuto che parve svegliare tutto l' esercito. I corni echeggiarono da ogni parte dell’accampamento, e ognuno attese il proprio richiamo, precipitandosi a rispondere.

Elenard rispose all’adunata con sollievo. Si finse assonnato, ma il suo cuore impazziva per il desiderio della battaglia. Presto si sarebbero radunati nei loro ranghi e avrebbero marciato, volgendo le spalle alla Città Bianca e alla morte da traditore che lo attendeva in quel luogo.

*** *** ***

Merry si svegliò al distante suono dei corni. Aprì gli occhi. La stanza era ancora immersa nell’oscurità della notte, ma la tenue alba arancione era già visibile dalla finestra aperta. Lo hobbit aveva fatto l’abitudine a quelle albe riluttanti. Anche se il cielo sopra il Monte Mindolluin era limpido e chiaro, una cortina di fumo continuava ad avvolgere l’oriente, soffocando la luce del sole e ricordando la terribile battaglia che sarebbe avvenuta.

Merry sbadigliò e si stropicciò gli occhi, poi corrugò la fronte, confuso. Boromir stava dormendo con un gomito appoggiato alla mensola della sua finestra. Non riusciva a vederlo in viso, poiché era in controluce, ma non poteva sbagliarsi. Nessun altro avrebbe mai messo una sedia accanto alla sua finestra, addormentandosi con la testa sul davanzale di pietra. Non ricordava che Boromir fosse già lì quando era andato a dormire. In realtà, ricordava chiaramente di essere stato cacciato fuori dalla cucina con l’ordine di andare a letto, con Boromir ancora ben sveglio.

Stava per gettare indietro le coperte e lasciare il tepore del suo letto per indagare, quando un’altra figura apparve sulla soglia. Gil entrò con fare affaccendato, portando un grande vassoio di legno che profumava di colazione.

Merry le rivolse un sincero sorriso di benvenuto. “Come sapevi che avevo fame?”, chiese a bassa voce.

“Quando sei sveglio, hai sempre fame”, rispose Gil. La sua voce era asciutta e inespressiva come sempre, ma i suoi occhi tradivano una scintilla di divertimento.

Merry rise. “Come sapevi che ero sveglio?”

Lei indicò la finestra con un cenno del capo. “Quel rumore sveglierebbe i morti.” Poi posò lo sguardo su Boromir, e inarcò un sopracciglio. “Ma non il nostro Sovrintendente, a quanto pare.”

“Come mai è qui?”

“L’ho portato io.”

Merry si sedette sul letto e osservò Gil pensierosamente, mentre faceva il giro del letto per portare il vassoio sul piccolo tavolo che era alla sua destra. Era una donna minuta, di corporatura snella, le sue forme nascoste sotto i pratici e ordinari indumenti che indossavano tutte le donne in quelle Case. Portava un grembiule bianco immacolato sopra una tunica grigia, e un fazzoletto dello stesso colore le copriva i capelli incorniciandole il viso. Forse poteva essere attraente o di bell’aspetto, al di là degli abiti anonimi e dei suoi modi distaccati, ma Merry non avrebbe saputo dirlo. Teneva la testa abbassata, il viso ostinatamente inespressivo, e tutto in lei era così anonimo che Merry non avrebbe saputo ricordare il suo viso cinque minuti dopo che aveva lasciato la stanza.

Gil fece il giro attorno al letto, portando il pesante vassoio apparentemente senza fatica tra le sue mani esili. Boromir era seduto con le gambe distese, ostacolandole il passaggio, e Gil lo scavalcò con cautela. Ma un po’ a causa del grande vassoio, e un po’ per le sue lunghe gonne, calcolò male la lunghezza del passo e lo urtò.

L’uomo si svegliò all’improvviso. Si alzò in piedi di scatto guardandosi attorno con stupore. Il suo movimento repentino colse Gil alla sprovvista. Inciampò contro i suoi piedi e perse l’equilibrio, finendo contro il tavolo.

Merry gridò per la disperazione, e un istante dopo gridò anche Gil, mentre i piatti e i vassoi di terracotta si fracassavano al suolo in un ammasso fumante. Il tè bollente si rovesciò addosso a Gil, macchiando di marrone il suo grembiule. La teiera si ruppe in mille pezzi mandando schegge per tutto il pavimento. Boromir si voltò verso il rumore, cercando istintivamente la spada, ma Merry si lanciò in avanti gridando, “No! È soltanto Gil!”

Boromir si bloccò, e nel teso silenzio che seguì, Merry vide l’espressione sul suo volto cambiare, segno che si era svegliato del tutto e aveva compreso la situazione. Boromir lasciò ricadere la mano lungo il fianco. “Gil? Cosa è stato? Cos’era quel rumore?”

Gli non poteva rispondere. Respirava affannosamente, tirando inutilmente i suoi abiti fradici, con le lacrime agli occhi.

“La mia colazione,” disse Merry, sperando di riuscire a nascondere il disappunto nella sua voce. Non era certo colpa di Gil, né di Boromir, ma la vista di tutte quelle belle salsicce, uova e pane cadute in una pozza di tè che si raffreddava gli fece venire voglia di piangere.

Boromir fece per muoversi in direzione della voce, ma sia Merry che Gil gridarono, insieme, “Fermo!”

Si fermò, corrugando la fronte. “Uno di voi dovrebbe dirmi cosa sta succedendo.”

“Ho fatto cadere il vassoio,” disse Gil. “C’è cibo sparso ovunque, mio signore, e cocci.”

“E tè bollente sui suoi vestiti”, aggiunse Merry.

Boromir divenne ancora più serio. “Hai bisogno di cure?”

“Non è nulla. Devo pulire.” Si chinò per raccogliere il vassoio.

Boromir aprì la bocca per protestare, ma poi la richiuse di scatto e si incamminò con decisione verso di lei. Sotto i suoi stivali sentì scricchiolare schegge di terracotta e pezzi di salsicce. Poi la sua mano trovò la spalla di Gil. Fece scorrere le sue dita lungo il suo braccio, la fece alzare in piedi, e la sollevò con facilità tra le braccia.

“Mio signore!”

Boromir rise nel sentire l’indignazione nella sua voce, mentre camminava facendosi strada tra il pasticcio scivoloso che era accanto al letto.

“Insisto! Mettimi giù!”

“Non sei nella condizione di insistere su alcunché. E se sei troppo testarda per ammettere che per camminare sui cocci rotti sono meglio i miei stivali delle tue scarpette, sei una sciocca. Merry?”

“Sì?”

“Mi serve un tratto di pavimento pulito.”

Ridacchiando, Merry strisciò alla fine del letto e prese il Braccio di Boromir per guidarlo fuori dal disastro che era stato la loro colazione. Boromir, seguendo le indicazioni di Merry, girò attorno al letto poi si fermò. Rimise Gil in piedi, con tutta la gentilezza che gli consentiva il suo contorcersi, e si allontanò prudentemente da lei.

Gil si sistemò il fazzoletto sulla testa e si passò le mani sulle gonne con gesti bruschi e stizziti, che tradivano quanto fosse vicina a perdere la calma. Guardandola in viso, Merry fu stupito dal vedere la completa mortificazione che vi appariva. “Se mi scusate, mio signore, andrò a prendere un nuovo vassoio”, disse Gil, con voce tesa e irritata.

“No che non lo farai.”

Merry aprì la bocca per protestare, ma Boromir continuò, inesorabile, “Vai da Ioreth e fatti medicare le ustioni.”

“Non sono ustionata, è solo una scottatura.”

“Vai.” Boromir indicò nella direzione in cui sapeva essere la porta, inflessibile. “Ci penserà qualcun altro a ripulire. Non sei l’unica sguattera in questa Casa.”

Gil gli lanciò uno sguardo furente, si diede un’ultima strizzata alla gonna, e uscì con decisione dalla stanza. Non appena fu fuori dalla portata d’orecchio, a Merry sembrò di sentirla mormorare qualcosa di rude riguardo ai soldati, ma non poté dirlo con certezza.

“Non sei stato un po’ troppo prepotente?” osservò lo hobbit.

Boromir seguì il suono della sua voce fino al letto e si sedette sul bordo del materasso. “Era necessario. Gil è troppo testarda. Sarebbe rimasta qui anche sanguinante e coi vestiti in fiamme, pretendendo che le si lasciasse pulire il pavimento.”

Merry si astenne dall’osservare che quella era una cosa che aveva in comune con Boromir.

“E la nostra colazione?”

“Manderà qualcuno con un vassoio. E uno straccio per pavimenti.”

Lo hobbit ci pensò su per un momento, poi decise che Boromir aveva ragione. Gil non si sarebbe dimenticata di loro. “Perché le hai parlato in quel modo?”, chiese.

“Non volevo che restasse qui.”

Merry si accigliò. “Pensavo che Gil ti piacesse.”

“Certo che mi piace, ma non volevo correre il rischio di perdere un’altra colazione.” Un mesto sorriso gli apparve sul volto. “Lo so, sono stato io a rovesciare il vassoio. È la stessa cosa che accade ogni volta che sono vicino a lei: rompo, rovescio o calpesto qualcosa, perciò deve essere colpa mia.”

“Bè…”

“Non temere di ferire i miei sentimenti, Mastro hobbit. Posso accettare la verità. Ho rovinato la tua colazione, e tu sei in grado di perdonarmi solo in virtù della nostra grande amicizia. Ma persino il migliore degli amici può essere spinto troppo oltre, e non credo che la nostra amicizia sarebbe in grado di sopportare la perdita di due colazioni in un solo mattino! Così ho creduto meglio che qualche altra sguattera ti portasse da mangiare, questa volta.”

Merry rise e si appoggiò al cuscino. Si sentiva bene, a suo agio, nonostante lo stomaco vuoto e l’ombra che incombeva fuori dalla sua finestra. E se anche la colazione avrebbe dovuto aspettare, era in ottima compagnia. La migliore compagnia che potesse desiderare, e il migliore degli amici.

Poi, in quel piacevole silenzio, si udirono le trombe suonare. I suoi occhi corsero al viso di Boromir, e Merry vi vide riflessa la sua stessa angoscia. Il breve momento di distrazione era passato, il calore lasciò la stanza, e il silenzio tra di loro divenne improvvisamente malinconico.

Improvvisamente Merry si alzò e posò la mano sul braccio di Boromir. Il nodo che aveva in gola gli impediva di parlare, ma Boromir parve capirlo anche senza parole. L’uomo coprì la piccola mano dello hobbit con la sua e gli sorrise. Inconsciamente si avvicinarono, e sedettero insieme immobili, ascoltando la musica della guerra nel vento.

Due ore dopo l’alba, in un luminoso mattino spazzato da una forte brezza, l’esercito dell’Ovest si mosse. Il popolo di Minas Tirith si riversò attraverso i cancelli crollati per salutarlo, mentre coloro che non se la sentivano di affrontare i campi insanguinati di Pelennor stavano a guardare dalle mura della città. Non vi furono canti, né incitamenti, né lanci di fiori. Tutti erano silenziosi e gravi, incantati dalla crudele bellezza dei soldati, coi loro scudi, le lance, gli elmi e gli stendardi, e guardavano intimiditi lo spiegamento di forze davanti a loro, rattristati dalla certezza della sconfitta. Le trombe suonarono, e compagnia dopo compagnia, la grande truppa si allontanò dalla Torre di Guardia e volse i passi verso l’Oscurità dell’ Est.

In alto sulle mura della città, osservando l’esercito che si allontanava, stavano due figure. Merry si era arrampicato su uno scalino per vedere oltre il parapetto, appoggiando i gomiti sulla ruvida pietra e allungandosi in punta di piedi per guardare giù, nelle pianure. Accanto a lui, Boromir era immobile, carico di tensione, e sembrava incombere sul piccolo hobbit, appoggiato con le mani al parapetto, ascoltando i distanti richiami delle trombe. Quel suono rattristava Merry, ricordandogli le persone che conosceva e che amava, e che presto sarebbero andate incontro alla morte. Non era in grado di capire l’effetto che avevano su Boromir. Il suo viso era enigmatico.

Dopo che le compagnie in partenza ebbero svoltato verso Est cavalcando sotto lo stendardo nero e argento di Aragorn, verso lo scintillante Anduin, Merry sospirò.

Boromir rivolse il suo sguardo bendato allo hobbit, domandando, “Vorresti essere con loro?”

“No. A parte, forse, per guardare le spalle a Pipino.”

Boromir sorrise. “Pipino sa badare a se stesso.”

“Ha bisogno di qualcuno che lo tenga fuori dai guai.”

“Ci sono Gandalf, Aragorn, Legolas e Gimli. Se non ci riescono loro quattro…”

Merry rise, ma il suo cuore era pesante. Così tanti amici che partivano per la guerra. Così tante persone che amava, e che avrebbe potuto non rivedere mai più. Una parte di lui era lieta di essere lì al sicuro, con Boromir al suo fianco e tutte le spade di Minas Tirith tra lui e il Nemico, ma un’altra parte di lui desiderava andare con i suoi compagni, condividere il loro destino, piuttosto che affrontare l’oscurità senza di loro.

Sospirò e lasciò vagare il suo sguardo dallo spiegamento sotto di lui alla tetra oscurità che li attendeva. “La guerra arriverà anche qui, vero?”

“Sì.”

“E dovremo combattere di nuovo.”

“Sì.”

“Ho paura.”

“Anch’io, piccoletto.”

Merry lo osservò attentamente. “Non sembra.”

“Sono un soldato, ho imparato da tempo a nascondere la mia paura.” Boromir tacque un momento, poi sorrise e aggiunse, “Ma in questo caso hai ragione, Merry. Non provo paura ora, ma eccitazione. Sento la battaglia nell’aria, e desidero esserne parte.”

“Non avrai intenzione di andare con loro!” Gridò Merry, improvvisamente allarmato.

“No, non andrò.”

“Promettimelo, Boromir! Dammi la tua parola di Sovrintendente di Gondor che non andrai senza di me!”

L’espressione attonita di Boromir si trasformò in una risata. “Senza di te? Non andrò da nessuna parte senza di te, mastro Hobbit. Tu sei la mia guardia e la mia guida. Preferirei andare in guerra senza la mia spada.”

Merry si calmò, rassicurato, ma non poté trattenersi dal mormorare, “Eppure l’ultima volta sei andato senza di me.”

“Per necessità, non per scelta. E poi c'era Pipino con me. Non risentirti, Merry. Hai conquistato più fama tu in quella battaglia che tutti gli Uomini di Gondor messi insieme.”

“Non sono risentito. Sono solo stanco, e il braccio mi duole.”

“Dovresti riposare.”

Merry distolse lo sguardo dalla pianura e si sedette sulla panca, con la schiena appoggiata al muro.

“Mi riposerò quando se ne saranno andati.” Dopo qualche istante di silenzio, aggiunse, “Suppongo che avrò bisogno di una spada.”

“Ne troveremo una nell’armeria, se ce ne sarà bisogno.”

“Se ce sarà bisogno? Allora tu credi che ci sia una possibilità che non dovremo combattere? Una possibilità di vittoria?”

“C’è sempre una possibilità, finché Aragorn e Gandalf sono con noi.”

A dispetto della sua paura, a dispetto di tutto, Merry rise di autentica gioia. Boromir sembrò stupito dalla sua reazione, cosa che fece ridere Merry ancora di più. “Tu trovi la speranza nei momenti più strani.”

Boromir gli sorrise con gentilezza. “Tu, Pipino e Aragorn siete i miei maestri. Trovo difficile disperare con tali amici accanto a me.”

Merry scosse la testa incredulo. Non avrebbe contraddetto la saggezza del Sovrintendente riguardo quell’argomento, e in effetti il suo cuore si riscaldò a quelle parole di speranza, ma non poteva liberarsi dalla sensazione che i pensieri di Boromir fossero sempre in contrasto con quelli del resto della città. In un momento in cui tutti i soldati dell’Ovest attendevano la sconfitta, Boromir parlava di vittoria. In un momento in cui l’oscurità dell’ Est minacciava di avvolgere tutto ciò che amava al mondo, Boromir gettava via l’oscurità che aveva oppresso il suo cuore per così a lungo, e guardava al futuro con speranza. Come poteva trovare la speranza in un’ora così disperata?

Credeva davvero che Grampasso e Gandalf potessero sconfiggere le armate di Mordor con quello che ora sembrava solo un pugno di soldati?

Merry interruppe le sue meditazioni con un ampio sbadiglio e si allungò all’indietro sulla panca, rilassato. Si rese conto che non importava con quanta convinzione Boromir dicesse quelle parole, o quanto profonda fosse la sua fiducia in Grampasso. Merry voleva credere. E Boromir gli aveva dato il permesso di farlo. Ora poteva riposare con la certezza che c’erano uomini coraggiosi e forti, come Grampasso, Boromir e il Principe Imrahil, a proteggere Minas Tirith e il piccolo hobbit stanco e spaventato all’interno delle sue mura.

Sbadigliò di nuovo, attirando l’attenzione di Boromir.

“Vai a dormire, piccoletto.”

“No, non voglio andare nella mia stanza. Sono stanco di vedere sempre le stesse mura. Ma potrei riposare, se…” Guardò su verso l’amico con preoccupazione, incerto se lasciarlo solo.

Boromir intuì facilmente i suoi pensieri. “Io non ho alcun altro posto dove andare, tanto vale che resti qui. Non preoccuparti dei sicari. Sono in piena vista della città, alla luce del sole.”

“D’accordo, allora.” Merry si alzò in piedi e si stiracchiò le membra stanche. Accanto alla porta delle Case vide una panca intagliata nella roccia, all’ombra del muro, circondata da un’aiuola di fiori ben curati. Sembrava un posto fresco e invitante. “Mi farò un sonnellino. Chiamami se hai bisogno di qualcosa.”

“Non ti disturberò.”

Merry non discusse. Boromir era evidentemente in uno stato d’animo ostinato e indipendente, e preferiva mandare Merry a dormire piuttosto che ammettere di avere bisogno di compagnia. Col tempo gli sarebbe passata, e Merry non se ne preoccupò.

Congedandosi con un mormorio, lo hobbit risalì il sentiero che attraversava il giardino verso le case di Guarigione. Mentre si avvicinava alla porta ne uscì Gil. Portava un catino d’acqua che andò a versare tra i fiori. Merry la raggiunse, sorridendo, e lei lo guardò con occhi seri.

“Buongiorno, Gil.”

Lei gli fece un cenno rispettoso del capo, ma non parlò.

“Cosa ha detto Ioreth delle tue ustioni?”

“Non ero ustionata. Come vedi, sto bene.”

“Ne sono felice.” Guardando il suo viso cauto, a Merry venne un’idea. “Per fortuna che non era nulla di grave, così non sarai arrabbiata con Boromir.”

Il viso di Gil divenne ancora più teso. “Non spetta a me essere arrabbiata con il Sovrintendente.”

Ignorando il suo velato sarcasmo, Merry sorrise ancora più apertamente. “Bene. Allora puoi andare a tenerlo d’occhio, mentre io faccio un sonnellino.”

“Tenerlo d’occhio? Cosa vuoi dire, Mastro Perian?”

Merry indicò con la mano verso il muro e l’uomo che stava in piedi accanto ad esso. “Io non riesco più a tenere gli occhi aperti, e il mio signore Boromir non vuole essere ragionevole e venire dentro. Mi ha congedato, e ora è laggiù tutto solo. Io non mi preoccuperei, se non fosse che qualcuno ha tentato di ucciderlo in quello stesso luogo appena la notte scorsa. Mi rende molto nervoso.”

Gil posò la catinella sulla panca con uno scatto, e si piantò le mani sui fianchi. “Il Sovrintendente è più che in grado di badare a se stesso, e non ti ringrazierà di certo per mandarmi a importunarlo.”

“No, non lo farà. Ma Grampasso - sire Aragorn, voglio dire - mi ha detto che devo riposare molto, e non posso riposare bene se sono preoccupato per Boromir.” Merry fece un grosso sbadiglio, come per sottolineare la sua stanchezza.

“Sei senza vergogna, mastro Perian.”

“No, sono solo molto stanco, e voglio guadagnarmi un lungo sonnellino indisturbato. E poi,” aggiunse candidamente, “Voglio che voi siate di nuovo amici. Boromir ha bisogno di tutti gli amici che può trovare.”

Gil rispose con un suono disgustato, ma Merry capì che l’aveva colta alla sprovvista. Gli ci vollero alcuni minuti per convincerla che il suo dovere era tenere d’occhio il Sovrintendente, piuttosto che pulire vasi da camera. Ma alla fine mise a tacere le sue promesse e la mandò lungo il sentiero verso il punto dove si trovava Boromir.

Merry sedette sulla panca e posò la testa all’indietro contro il muro dell’edificio, guardando tra le palpebre semiabbassate Gil che si avvicinava a Boromir. Era rigida e contegnosa, altera e umile allo stesso tempo, sempre guardinga. Ma Boromir semplicemente ignorò il suo sarcasmo, accogliendola con un sorriso, e prendendo la sua mano con familiarità sotto il suo braccio. Gil era indecisa tra l’obbedienza che doveva al suo signore e il suo senso di proprietà violata, ma il suo rigido codice di comportamento la costringeva ad accettare il suo braccio e camminare al suo fianco.

Merry non riusciva a sentire la loro conversazione, ma non aveva dubbi che entrambi fossero ostinati e recalcitranti come al solito. Gil recitava la parte della serva timorosa, e Boromir la stuzzicava per farle perdere la pazienza, mentre nessuno dei due si preoccupava dello strano quadro che formavano - il Signore di Gondor e la sguattera senza nome. Lo hobbit sorrise soddisfatto e chiuse gli occhi. Tutto andava bene per il suo amico, e ora poteva godersi il suo riposo.

“Non gli stai facendo un favore.”

Merry trasalì e si voltò allarmato, vedendo Faramir in piedi sulla soglia alla sua destra. Non lo aveva sentito arrivare, e la sua improvvisa apparizione lo innervosì.

“Mio Signore Faramir.” Fece per alzarsi, per mostrare a Faramir il rispetto che era dovuto al fratello di Boromir e a un Signore di Gondor, ma Faramir lo fermò con un gesto. I suoi occhi corsero alle due figure presso le mura, e il suo viso era ancora più tetro e severo della sera prima.

Faramir indicò verso suo fratello e Gil. “Non gli fai un favore, incoraggiando il suo affetto per lei.”

“Sono amici.”

“Il Sovrintendente di Gondor non si può permettere certi amici.”

Passato il sonno e la sorpresa iniziale, Merry sentì che cominciava a perdere la calma. “Mi sembra che Boromir abbia bisogno di tutti gli amici che può trovare, anche nelle cucine di Minas Tirith. Certo non li sta trovando dove dovrebbe, tra i suoi pari.”

Il tono della sua voce gli valse la completa attenzione di Faramir, e per la prima volta dal loro incontro, Merry sentì il potere di quegli acuti occhi grigi fissi su di lui. Un sorriso apparve sulle labbra di Faramir, ma non arrivò ai suoi occhi. “Ne ha trovato uno in te, Mastro Perian.”

“Si, lo ha trovato.”

Merry non si sgomentò dinanzi a quello sguardo che sembrava strappargli la pelle ed esporre i suoi più intimi pensieri. Non aveva nulla da nascondere a quell’uomo, anzi, aveva tutto da guadagnare nel conquistarne il rispetto.

Faramir scrutò il suo viso per un momento, poi sorrise di nuovo, più calorosamente. “Mio fratello è fortunato ad avere il tuo amore.”

“Molte persone lo amano”, rispose Merry con fermezza, “e non se ne staranno lì senza far niente, mentre i suoi nemici tentano di portagli via ciò che gli appartiene col tradimento o con l’inganno.”

A Faramir non sfuggì il tono di minaccia nelle sue parole, ma sembrò compiaciuto, invece che offeso.

“Mi dai una buona lezione, piccolo Mastro. Avevo cominciato a dubitare che mio fratello avesse ancora il potere di conquistare i cuori della gente.”

Poi rivolse lo sguardo verso le due figure presso il muro, e il suo sorriso scomparve. “Ma forse li conquista anche troppo facilmente.”

“Lei è sua amica”, ripetè Merry. “Perché ti dà tanto fastidio?”

“Per molte ragioni che tu non approveresti. Nella tua lealtà verso di lui, non vedi la follia… il danno che causa, a se stesso e a Gondor, quando si comporta in un modo così estraneo al suo carattere.”

Merry si morse la lingua per trattenere le parole irate che gli erano venute in mente. Avrebbe potuto elencare innumerevoli ragioni per cui Boromir si rivolgeva a Gil per avere un po’ di amicizia - in cima alle quali stava la sfiducia di Faramir stesso nei suoi confronti - ma non pensava che le sue motivazioni avrebbero convinto Faramir, non più di quanto le ragioni di Faramir avrebbero potuto convincere lui.

Faramir si preoccupava di affari di stato e del buon nome della sua casata. Merry si preoccupava soltanto del bene del suo amico.

Costringendosi a parlare educatamente, Merry disse, “Le nostre opinioni sul suo carattere devono essere molto diverse, mio signore.”

“Sì, così penso. E questo è il problema. Quando tu lo guardi non vedi nulla di strano nei suoi modi. Quando lo guardo io, non vedo che un estraneo. Non è il fratello che conoscevo. Evita la compagnia dei suoi pari preferendo quella delle sguattere. Resta in queste Case anche se non è né malato né ferito, e si rifiuta di entrare nella Cittadella, dove lo attende il suo seggio di potere. Le sue stanze restano vuote, inutilizzate, mentre lui vaga per le strade di notte e dorme nessuno sa dove.”

Merry arrossì di rabbia, constatando che Faramir aveva spiato il fratello. Non disse nulla, ma Faramir intuì i suoi pensieri con tanta facilità come se li avesse urlati.

“Il Ciambellano è venuto da me, preoccupato per il suo signore. Ha preparato le stanze di Boromir ogni notte dal suo ritorno, ma mio fratello non ci ha messo piede se non per cambiarsi d’abito. Non dorme nel suo letto e non mangia nella Torre.”

“Gli piace dormire sotto le stelle”, ribatté Merry. “Dovresti saperlo! Lo ha fatto spesso insieme a te, o così mi ha detto!”

“Ragazzate. Giochi infantili per cui non c’è posto in questi tempi di pericolo. L’aggressione di ieri notte dovrebbe esserne una prova più che sufficiente, anche per uno così testardo come mio fratello. Boromir è il Sovrintendente di Gondor, non un ragazzino ribelle che contesta le regole della corte di suo padre. Non può continuare così e sperare di mantenere il dominio sui signori e sui capitani dell’Ovest! Perderà la loro fiducia!”

Merry serrò le labbra e scosse la testa. Nella voce di Faramir sentiva dolore e rimprovero, e intuì che l’uomo voleva che le sue paure fossero dissipate.

Ma tutto ciò che Merry diceva sembrava invece ingigantirle. Quando Faramir guardò di nuovo verso Boromir, il suo viso si fece ancora più teso e triste, le rughe sulla sua fronte più pronunciate.

Un pesante silenzio cadde tra loro, e Faramir sembrava quasi non essere consapevole della presenza dello hobbit.

Merry osservò pensierosamente l’uomo accanto a lui. Faramir gli piaceva, sia per la somiglianza con il fratello che per la sua aria di severa nobiltà, e nel suo cuore non riusciva a condannarlo per i suoi dubbi.

Faramir non aveva percorso la lunga strada da Granburrone accanto a Boromir. Non aveva inseguito gli orchi attraverso Rohan, affrontato gli abissi infuocati di Isengard, o ascoltato la voce tranquilla del fratello durante le notti senza stelle nell’Anòrien. Non poteva riconoscere l’uomo che Boromir era diventato, accettare i suoi cambiamenti come chi aveva compiuto quel viaggio nell’oscurità insieme a lui.

La lealtà di Merry verso Boromir era incrollabile. Non avrebbe permesso che nessuno, nemmeno un suo consanguineo, parlasse male del signore che amava. Ma doveva comportarsi in modo giusto, come avrebbe fatto Boromir, e dare a Faramir il tempo di capire tutto quello che era accaduto durante i mesi trascorsi dalla loro separazione. Faramir avvertì lo sguardo dello hobbit su di lui, e distolse lo sguardo dalle figure nel giardino per guardare Merry. Non disse nulla, ma il suo sguardo fermo e pensieroso sembrò invitare Merry a parlare.

“Chiedo perdono, mio signore, ma non credo che tu conosca molto bene tuo fratello.”

Il volto di Faramir fu attraversato da un lampo di sorpresa. “Non lo conosco?”

“Beh, no. Se lo conoscessi, non ti preoccuperesti di…di queste sciocchezze.”

“Non pensi che il bene del Sovrintendente sia importante?”

“Certo che lo è, ma tu non stai parlando del bene di Boromir. Stai parlando di pettegolezzi sentiti dal Ciambellano della Torre di Guardia. Che cosa ti importa di dove dorme? Perché ti interessano i suoi amici? Da quando è tornato si è occupato di Minas Tirith con abilità. Nessuno può contestarlo!”

“Certo. Si è preso bene cura della nostra città, Mastro Perian, anche meglio di come avrebbe fatto nostro padre.”

“Allora qual è il problema?”

“È proprio quello che vorrei sapere, mastro Perian. Quali ombre, quali demoni tormentano mio fratello a tal punto che, pur governando Gondor con tanta cura, è così poco sé stesso?”

“Ma è sé stesso. Tu non lo capisci, perché hai deciso di vedere solo i segni esteriori del suo cambiamento. La sua cecità…”

“Anche un amico fedele come te non può pretendere che la cecità di mio fratello sia soltanto un cambiamento esteriore.”

“Certo che no. Ma non lo ha reso certo inferiore all’uomo che era…né al soldato, al capitano, al sovrintendente…o all’amico.”

“Non lo giudicherei mai inferiore perché non ci vede.”

“Eppure lo giudichi inferiore perché stringe amicizia con le sguattere e dorme su una sedia nella mia stanza, invece che nelle sue ricche camere.”

“Credo che queste siano conseguenze di cambiamenti più profondi, di dolori più grandi che lo affliggono. Porta ferite molto più orribili di quella che ora nasconde sotto una benda di tessuto. Ferite dello spirito. Ombre sul suo cuore. Vedo che sta soffrendo, anche se cerca di nascondermelo, e temo che il veleno di quelle ferite lo distruggerà.”

Merry lo osservò per un momento, considerando le sue opzioni, poi decise che con quell’uomo la verità sarebbe stata il migliore argomento.

“Tu hai cavalcato sotto le ali dei Nazgûl e sentito il Respiro Nero. Soltanto la voce del Re ha potuto salvarti dall’ombra. Ma non dubiti della tua salute e della tua abilità nel guidare il vostro popolo.”

I suoi occhi guardarono fissi quelli di Faramir, sfidandolo a protestare.

“Boromir è tanto più debole di te, che il suo cuore e la sua mente non possano essere guariti, mentre i tuoi lo sono stati?”

Faramir sembrò sorpreso, ma non si ritrasse dalla sfida negli occhi dello hobbit. Il suo sguardo rimase franco, pensieroso e fermo come sempre. “Tu credi che mio fratello sia guarito.”

“Ci sta lavorando.”

“Ah.”

Nell’ udire lo scetticismo nella voce di Faramir Merry sentì che stava per perdere di nuovo la calma. “Tu saresti capace di dimenticare quegli orrori tutto a un tratto?”

“Non lo so, perché non so quali orrori ha affrontato! Come posso giudicare la sua capacità…”

“E che cosa ti da il diritto di giudicarlo, se è per questo?” domandò Merry, interrompendo le misurate parole di Faramir.

Faramir lo osservò severamente, e Merry arrossì. Non avrebbe ritirato le sue parole, ma il dolore sul viso di Faramir lo fece vergognare del suo tono appassionato.

“È più che mio diritto. È mio dovere. Io amo mio fratello, mastro hobbit, come credo anche tu, ma io sono più che il fratello di Boromir. Sono il figlio di Denethor, Capitano di Gondor, il successore alla Sovrintendenza, e ho giurato di proteggere il mio popolo con tutte le mie forze. Neanche mio fratello viene prima di Gondor nel mio dovere, sebbene venga prima di ogni cosa nel mio cuore.”

“Non hai bisogno di proteggere Gondor da Boromir.”

“E come faccio a saperlo?”

“Parlagli! Vedrai!”

Faramir sorrise tristemente. “Non me ne parlerà - non delle cose che contano.”

“Quando è stata l’ultima volta che ci hai provato? Sai com’è fatto Boromir…”

“Lo so?” Il tono di Faramir fece capire a Merry che la sua osservazione di prima aveva toccato un tasto dolente.

“Beh, dovresti. Non credo che sia cambiato così tanto.”

“Non ama parlare delle cose che lo toccano più da vicino.”

“È testardo come un troll di caverna. Ma persino io - che ti conosco solo da poche ore - capisco che tu sei l’unica persona sulla Terra di Mezzo che può persuaderlo a parlarne… se solo ci provassi.” Guardò Faramir con un misto di esasperazione e di compassione. “Non posso dirti le cose che vorresti sentire per mettere a tacere i tuoi dubbi. Solo Boromir può farlo. Ma posso dirti con certezza che lui vuole che tu creda di nuovo in lui.”

“Ho sempre creduto in lui.”

Merry lo zittì con un gesto, impaziente. “Questo riguarda te e Boromir. Non ti deve interessare ciò che penso io. Vai e parlagli, prima che uno di voi faccia un qualche stupido errore che dopo sarà troppo orgoglioso per aggiustare!”

Continua…

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Capitolo 13
*** Dal dubbio e dalle Tenebre ***


Il Capitano e il Re

Il Capitano e il Re

Capitolo 13: Dal dubbio e dalle tenebre

Faramir trascorse gran parte della mattinata a meditare sulle parole di Merry, così amare per lui, e lentamente cominciò a comprendere la loro verità. Il Mezzuomo aveva ragione. Non avrebbe trovato le risposte che cercava stando a guardare suo fratello da lontano e ascoltando i pettegolezzi dei servitori - o persino dei suoi stessi consanguinei. Doveva parlare di persona con Boromir, e scoprire che cosa gli era veramente accaduto durante tutti quei mesi che aveva trascorso lontano da Minas Tirith. Solo allora, forse, avrebbe imparato a conoscere di nuovo suo fratello.

Era doloroso, per Faramir, ammettere che non conosceva più Boromir. Il Mezzuomo, una conoscenza fatta casualmente lungo la strada, vedeva molto più chiaramente di lui nel cuore di suo fratello, e questo lo addolorava profondamente. Più pensava all’enormità della sua perdita, più profondo diventava il suo rimpianto per Boromir, il suo dolore, e il suo desiderio di ritrovarlo.

Fu quel desiderio, più che un senso di dovere o di giustizia, a condurlo finalmente fuori dalle Case a cercare Boromir. Con sua sorpresa, scoprì che suo fratello aveva lasciato quella zona e, rifiutandosi di prendere con sé una scorta, se ne era andato insieme al Mezzuomo. I due soldati di guardia al cancello gli dissero che il loro capitano aveva ordinato loro di restare lì, affermando che sarebbe soltanto andato alla Cittadella e non avrebbe avuto bisogno di scorta.

A quella notizia Faramir corrugò la fronte, preoccupato nel sapere Boromir in giro per la città senza la sua guardia personale, ma non poteva dare la colpa alle sentinelle per avere obbedito agli ordini, né insistere affinché pedinassero il loro Sovrintendente contro la sua volontà. In realtà, se Boromir era andato alla Cittadella, era abbastanza al sicuro. Con un misto di irritazione e di curiosità, Faramir si diresse verso il Settimo Circolo.

I soldati della Guardia della Torre, splendenti nelle loro livree nere e argento, lo salutarono quando oltrepassò il cancello. Faramir avanzò nel Cortile della Fontana e esitò. Era vuoto, ma dalle alte finestre decorate della sala del Consiglio in fondo alla corte, provenivano delle voci. Una apparteneva al lord Taleris, l’alto consigliere di suo padre. L’altra aveva il tono secco e formale di un soldato che si rivolge ai suoi superiori. Poi una terza voce, infinitamente familiare, li interruppe,

“Basta così! E’ fuggito. È chiaro.”

Faramir si diresse immediatamente alle grandi porte della Torre. Gli spessi muri di pietra attutivano le voci, e non sentì le parole seguenti del fratello, ma Boromir stava ancora parlando quando Faramir entrò nella sala del Consiglio.

“C’è un solo posto dove un soldato si può nascondere tanto a lungo. Se è riuscito a lasciare la città prima dell’alba, allora significa che se ne è andato insieme all’esercito.”

“Dobbiamo avvertire il Re”, insistette Taleris.

“Sì.” Boromir chinò la testa pensierosamente, mentre gli altri attendevano in silenzio la sua decisione.

Faramir si ritrasse nel corridoio, non volendo intromettersi negli affari del Sovrintendente senza essere stato invitato, e osservò i presenti con attenzione. La grande sala era buia e fredda, poiché nessuna torcia era stata accesa, e il sole del pomeriggio era ormai sceso oltre l’alta cima del Mindolluin, gettando in ombra le finestre. Boromir sedeva nel profondo incavo di una di quelle finestre, dominando la corte e la triste fontana che faceva scendere l’acqua dai rami dell’albero morto. Il Lord Taleris e i luogotenente della Guardia che aveva incontrato la notte precedente stavano in piedi accanto a Boromir, mentre il Mezzuomo sedeva in una delle sedie intagliate al tavolo del Consiglio, mangiando una mela e cercando di non apparire troppo interessato agli affari del suo signore. In quell’ambiente sembrava assurdamente piccolo, dondolando i piedi a una spanna dal pavimento, perso nella grandiosità della stanza e rimpicciolito dalla vicinanza con gli Uomini.

Faramir sorrise tra sé e sé nel vedere Merry, poi rivolse lo sguardo ai due uomini che attendevano la risposta del Sovrintedente. Taleris e il luogotenente si tenevano a debita distanza l’uno dall’altro, e non si scambiavano sguardi né parole, segno che il soldato e il nobile non si fidavano l’uno dell’altro. Il capo delle Guardie appoggiava Boromir incondizionatamente. Faramir aveva avuto modo di vedere di persona la sua lealtà. Il ché poteva significare soltanto che Taleris non era altrettanto sincero, e che non era stato abbastanza astuto da tenere per sé i suoi dubbi.

“Un messaggero a cavallo può raggiungere l’esercito prima che riparta domattina”, disse Boromir.

Taleris grugnì in segno di assenso, anche se non sembrava per nulla soddisfatto.

“A quest’ora avranno già oltrepassato Osgiliath e si staranno preparando per accamparsi. Preparerò un dispaccio per Aragorn, informandolo di una possibile cospirazione contro di lui tra le truppe del sud.”

“Sarei onorato di comporre la lettera, mio signore.”

“Lo farò io.”

Taleris si trattenne al tono brusco di Boromir, ma non osò protestare. Cambiando tattica, disse,

“Se i signori della città fossero stati avvertiti di questa minaccia, avremmo potuto consigliarci con il Re prima che partisse, forse anche ritardare la marcia fino a che il sicario non fosse stato catturato e punito.”

“Proprio per questo non ve l’ho detto”, sbottò Boromir. “Il compito del Re è andare a Mordor. Il mio è di restare a Minas Tirith. I nostri problemi non devono ritardarlo. Sono restio anche a distrarlo ora per dei semplici sospetti, quando sembra molto improbabile che il sicario sia una minaccia per lui.”

“Non possiamo saperlo!”

Faramir ritenne che fosse il momento opportuno per intervenire, prima che Taleris spingesse troppo oltre la capacità di sopportazione di Boromir. Facendosi avanti, incrociò lo sguardo dello hobbit e gli rivolse un cenno di saluto. Merry si alzò immediatamente in piedi, facendo il giro attorno al tavolo, e si avvicinò a lui con tutta la solenne cortesia di un abile scudiero. L’inchino del Mezzuomo era preciso ed esperto come tutto il resto del suo portamento, ma mentre si sollevò, un sorriso gli balenò sul viso.

Faramir non poté resistere al fascino di quella creatura, nonostante la sua impudenza, e gli sorrise di rimando. “Vedi, ho accolto il tuo suggerimento, mastro Perian,” lanciò uno sguardo penetrante verso Boromir e il petulante Taleris, “anche se avrei potuto scegliere un momento migliore”.

“Credo che il momento sia quello giusto. Devo annunciarti come farebbe un vero ciambellano?”

Lo sguardo luminoso di Faramir abbracciò la mela mezza mangiata e la sedia vuota. “É questo il tuo compito oggi?”

Merry scrollò le spalle. “Qualunque cosa di cui Boromir abbia bisogno. Fa’ presto, prima che sia troppo arrabbiato per ascoltare chiunque.”

Sorridendo, Faramir seguì il Mezzuomo lungo la fila di alte finestre. Al loro arrivo, Taleris interruppe le sue lamentele e tutti gli sguardo si rivolsero su di loro. Il sollievo apparve sul viso di Taleris quando riconobbe Faramir, ma il giovane lord lo sorpassò con niente di più che una fredda occhiata. Aveva un grande rispetto per le abilità e la sapienza di lord Taleris, ma il vecchio non gli era mai piaciuto, e non lo avrebbe incoraggiato a considerarlo come un alleato.

“Tuo fratello è qui, mio signore”, annunciò Merry, dimenticando la sua offerta di una presentazione formale.

Boromir rivolse il suo sguardo bendato al fratello, e si alzò prontamente in piedi. “Faramir? Pensavo che fossi ancora prigioniero dei guaritori.”

“Ho comprato la libertà con la promessa che sarei tornato.” I suoi occhi passarono in rassegna il luogotenente e il nobile, poi si posarono di nuovo sul fratello. “Non era questa la mia intenzione, ma sono lieto di essere arrivato ora e di avere sentito i tuoi timori per la sicurezza del Re. Ho delle notizie a questo riguardo.”

“Che notizie? Che cosa sai del sicario?”

Ora che era il momento, Faramir trovava difficile parlarne in presenza di altri. Erano fatti che toccavano la sua famiglia molto da vicino, e coinvolgevano un consanguineo. Dopo un istante di riflessione, decise che quel tradimento, se di tradimento si trattava, non poteva restare nascosto, e disse, “Non sul sicario, ma so qualcosa su chi potrebbe averlo istigato.”

Taleris si lasciò sfuggire un mormorio di sorpresa, e la mano del luogotenente si contrasse in modo inconscio sull’elsa della spada.

“È venuto da me qualcuno a noi vicino,” Faramir continuò, “E ha parlato di una… una cospirazione, perché non saprei in che altro modo chiamarla, per rimuovere il legittimo Sovrintendente e mettere me al suo posto.”

Stavolta la mano del luogotenente si strinse con decisione sull’elsa. “Il nome del traditore, Capitano!Dimmi il nome, così che possa mettergli le mani addosso!”

Boromir lo zittì con un gesto, e disse, “Chi è venuto da te?”

“Il principe Imrahil.”

Un silenzio incredulo seguì le sue parole, e Faramir poté percepire quasi fisicamente il disagio di Taleris. Solo Merry osò muoversi, scivolando tra gli alti uomini per mettersi a fianco di Boromir. Quando si fu avvicinato, la mano di Boromir si posò istintivamente sulla testa ricciuta dello hobbit.

Dopo un breve attimo in cui cercò ferocemente di riacquistare un’apparenza di calma, Boromir domandò, “E mentre il nostro consanguineo ti incoraggiava al tradimento, ha per caso parlato anche di omicidio?”

“No. Mi ha solo chiesto di usare la mia influenza su di te per convincere te e il lord Aragorn a farti rinunciare alla sovrintendenza.”

Boromir serrò le mascelle in modo quasi udibile, e Faramir immaginò la miriade di irate domande che si stavano formando nella sua mente, e tra tutte la più urgente: quale era stata la sua risposta. Ma la cautela e la disciplina ebbero la meglio sulla rabbia, e Boromir tenne a freno la lingua.

“L’hai chiamata una cospirazione”, azzardò Taleris. “Ha fatto altri nomi?”

Faramir esitò, cercando un compromesso tra la lealtà verso il fratello e il suo senso di giustizia. Non c’era modo di soddisfarli entrambi, ma Faramir sapeva quale era il suo dovere. Quando finalmente parlò, il suo tono era teso e riluttante. “Non metterò a rischio la vita di un altro uomo per dicerie e sospetti. Ho parlato con Imrahil e con lui soltanto.”

“Ma il principe ha menzionato i suoi sostenitori,” insistette Taleris.

“Avete già avuto la mia risposta, lord Taleris.”

Boromir parlò di nuovo. “Imrahil è andato con Aragorn a Mordor. E gli altri? Sono andati anche loro?”

“Io sono a conoscenza di uno solo, ed è andato anch’egli con il Re.”

“Il che ci riporta alla questione se rappresentino o meno una minaccia per Aragorn. Imrahil e i suoi alleati oserebbero fargli del male?”

“No.”

“Sembri molto sicuro.”

“Lo sono. Non sono certo che i sicari siano stati mandati da loro, ma sembra probabile, dato il momento e il tipo di menzogne che li spingevano. E se è così, i cospiratori faranno del loro meglio per proteggere il re. Vogliono solo toglierti la sovrintendenza, non minacciare il re. Aragorn è al sicuro.”

“Mio lord Sovrintendente, con tutto il dovuto rispetto, non sappiamo quali complotti o tradimenti possano minacciare il re, mentre è così fuori dalla portata del nostro aiuto!”, intervenne Taleris, col viso arrossato per la violenta emozione. “Dobbiamo mandargli ben più di un semplice messaggio. Io stesso raggiungerò l’esercito. Posso raggiungere Osgiliath tanto in fretta quanto qualunque altro messaggero, e fare un rapporto completo di quello che è accaduto al nostro signore!”

Boromir ignorò lo scoppio d’ira di Taleris. Fece un passo verso Faramir e tese una mano, dicendo semplicemente, “Voglio parlare in privato con mio fratello.”

Faramir si avvicinò obbediente alla mano aperta di Boromir, e trasalì, stupito, quando il fratello gli afferrò il braccio con forza. Boromir si incamminò e Faramir lo seguì, ma ben presto fu lui a guidarlo attraverso la grande stanza, verso la porta. Il nobile e il soldato li osservarono in un confuso silenzio, mentre lo hobbit riprendeva in silenzio il suo posto al tavolo.

Avevano quasi raggiunto la tranquillità dell’anticamera esterna, quando Taleris raccolse il suo coraggio e protestò, “Mio Signore!”

“Ho bisogno di un po’ d’aria fresca,” ribatté Boromir. Poi varcò la soglia, trovandosi nella fresca, silenziosa magnificenza dell’anticamera della fortezza.

“Andiamo fuori”, mormorò, con semplicità, e Faramir volse i passi verso la porta che dava sulla corte.

Mentre attraversavano l’anticamera e i loro passi echeggiavano nel soffitto a volta, Boromir cominciò a parlare in tono basso e urgente. “Taleris è un bastardo infido, e probabilmente è dentro fino al collo nella cospirazione di Imrahil, ma su una cosa ha ragione. Il mio Re… il mio amico, sta andando verso la guerra circondato da traditori e assassini, con l’Ombra davanti e il Nemico tutto attorno, e io non ho nient’altro che la tua parola ad assicurarmi che lui sia al sicuro. Solo l’amore e la fiducia che nutro per te, fratello, mi trattengono dal partire io stesso per avvertirlo.”

“L’altro è Halbarad.” Le parole uscirono dalla bocca di Faramir prima che si fosse reso conto di averle pronunciate.

Boromir si fermò improvvisamente e si voltò per fronteggiare il fratello, stringendogli il braccio con dita d’acciaio. “Halbarad? Il Ramingo?”

“Il secondo di Aragorn.”

Boromir non poté fare altro che restare a bocca aperta, senza parole.

“Ora capisci perché non ne ho parlato di fronte a Taleris e alla guardia. Non possiamo diffondere sospetti su uno così vicino al Re, senza averne la certezza assoluta. E mettere in dubbio Halbarad è come mettere in dubbio Aragorn stesso.”

“In un momento il cui tutta Gondor guarda a lui per la speranza. Certo. Questo deve saperlo solo Aragorn.”

“Capisci anche perché non temo per il re.”

Boromir annuì e si rivolse verso le porte. Faramir lo condusse, più prontamente questa volta.

“Halbarad non farebbe mai del male ad Aragorn, qualunque cosa voglia fare a me.”

Camminarono in un silenzio pensieroso attraverso le grandi porte e nella corte. Faramir lo condusse istintivamente verso la parte occidentale del circolo, dove la curva delle mura esterne incontrava le pendici del Mindolluin, e dove erano le porte della grande biblioteca di Minas Tirith. Lì nessuno li avrebbe disturbati. Le sentinelle erano dalla parte opposta della corte, e gli uomini nella sala del Consiglio non potevano sentirli.

L’edificio conferiva al luogo uno speciale fascino per Faramir. Molte ore vi aveva trascorso, appoggiato al parapetto di pietra, guardando a nord e a ovest, sognando le cose al di là dell’orizzonte. Quando era stanco del peso che portava e della vista della tormentata terra di Gondor, poteva volgere gli occhi verso l’interno, e ammirare i freschi, bianchi muri della biblioteca che amava, le porte intagliate al di sotto degli archi di roccia. Tutto questo gli dava forza, e una pace che non trovava in nessun altro luogo nella città di suo padre.

Era la città di suo fratello, ora. La città di Boromir. Appoggiandosi al parapetto e osservando il fratello, Faramir si domandò di nuovo che significato avessero per lui i numerosi cambiamenti che erano avvenuti, non ultimo il ritorno di Boromir.

Ma l’uomo che occupava così prepotentemente i suoi pensieri, in quel momento era perso nelle sue meditazioni. Boromir era in piedi con le mani appoggiate al muro, lo sguardo rivolto all’esterno e il capo leggermente sollevato per poter sentire la brezza sul viso. A Faramir sembrò stanco e triste, come se il suo incarico di Sovrintendente non gli desse alcuna gioia. Anche in questo, suo fratello era cambiato.

“Dunque Imrahil è un traditore.” Non c’era rabbia alcuna nella voce di Boromir, solo dolore.

Faramir rispose con la stessa calma. “Se ti può essere di conforto, non ha mai parlato di tradimenti o di omicidi, né di usare la violenza per ottenere i suoi fini. Mi ha chiesto solo di persuaderti a farti da parte. È nostro parente, Boromir, e ci è vicino nell’affetto come lo è nel sangue. Non posso credere che voglia farti del male.”

“Eppure complotta con traditori e cerca di trascinare mio fratello nelle sue cospirazioni.”

Boromir rivolse lo sguardo bendato verso Faramir, e il giovane ebbe la spiacevole sensazione di poter vedere oltre il tessuto nero e leggere il conflitto sul suo volto. “Ci è riuscito?”

Faramir si era aspettato questa domanda, ma non riuscì a dire una parola, col viso tormentato di Boromir davanti a lui. Boromir lo considerò per un momento, poi si voltò con un sospiro.

“Mi dispiace, fratello. Per entrambi.”

“Non sono un traditore, né verso Gondor né verso il suo legittimo Sovrintendente”, ribatté Faramir.

“Né lo è Imrahil, secondo la tua opinione. Dimmi, Faramir, qual è stata la tua risposta?”

“Gli ho solo promesso che avrei aspettato, osservato, e preso in considerazione le sue parole.”

Boromir sembrò raccogliere le forze per affrontare il dolore che lo travolgeva. Le sue spalle si irrigidirono e sollevò la testa orgogliosamente, ma sul suo viso era dipinta la sconfitta. “Ti conosco abbastanza bene da capire il senso della tua risposta.”

“Davvero?”

“Non deciderai finché non sarai sicuro, e tu non puoi fidarti di me.” Esitò, poi proseguì, “Non ti sei mai fidato di me, non è vero?”

Faramir non poté fare altro che restare a guardarlo, ammutolito per il dolore, preso alla sprovvista dall’improvvisa franchezza del fratello.

“Non ti biasimo,” continuò Boromir. “Conosci anche troppo bene la mia debolezza, la mia follia, la mia colpa…Tu solo, in mezzo a tutti quelli che vorrebbero condannarmi, sai quanto in basso sono caduto. Tu solo hai il diritto di giudicare.”

“Io non voglio giudicare mio fratello.”

“Non hai scelta. Non è nella tua natura ignorare la verità, o evitare il fardello che devi portare. Imrahil lo sapeva quando è venuto da te e ha piantato i semi del dubbio nella tua mente. Ha scelto saggiamente il suo giudice.”

“Ha scelto me perché, come lui, voglio solo proteggere il nostro Re e il nostro popolo.”

“Forse io non lo voglio?”

“Sono certo che tu lo voglia, fratello, ma non sono certo che tu ne sia in grado.”

Boromir si voltò per fronteggiare il fratello, spostandosi in modo da avere tutta la sua attenzione su Faramir. “Il mio mandato è sul piatto di una bilancia, si direbbe. Mio fratello è di fronte a me, pronto a farla pendere da un lato o dall’altro, offrendomi la Sovrintendenza se io…. Se io cosa? Che cosa devo fare per avere ciò che mi spetta di diritto?”

“No, Boromir. Non sono qui per dettare condizioni! E non ho la Sovrintendenza nelle mie mani!”

“Faramir il prudente. Sempre modesto e umile. Non sprecare la tua umiltà con me, fratello, sappiamo entrambi il potere che detieni. Dimmi solo ciò che devo fare.”

Faramir studiò i suoi lineamenti contratti per un lungo momento, cercando inutilmente di leggervi i suoi pensieri. “Vuoi sapere cosa desidero veramente?”, disse infine.

“Sì.”

“Sapere cosa ti è accaduto durante il viaggio di ritorno.”

La bocca di Boromir si contrasse in una smorfia di dolore. “Una storia così piena di orrore ti aiuterebbe a dormire la notte? O forse cerchi di placare la tua coscienza per quando mi condannerai di fronte al mio Re?”

“Voglio solo mettere fine ai miei dubbi, far tacere i sussurri che mi tormentano.”

La smorfia divenne ancora più dolorosa, e Boromir disse, “Anche io. Ma non certo ricordando il mio disonore e la mia rovina.”

“Ho paura, fratello”, insistette Faramir, desiderando che Boromir lo ascoltasse e lo capisse. “Non riesco a dormire, non riesco a pensare, per la paura che cresce ogni giorno dentro di me.”

“Paura di cosa?”

“Di perderti, come ho perso mio padre, nell’oscurità e nella disperazione.”

“Dunque è questo che temi? Che io finisca come Denethor?”

“Sì. Imrahil fa un gran parlare del bene di Gondor, ma io non mi spingo così lontano. Io non ho paura per Gondor. Ho paura per me, per te, e per il crudele destino che ti attende, se insieme all’orgoglio di Denethor hai ereditato anche la sua debolezza.”

Boromir sembrò osservarlo con attenzione attraverso le bende, poi chinò la testa. “Non sei il solo. Io stesso a volte mi sono chiesto quanto di Denethor sia in me, e ho accarezzato l’idea di porre fine alle mie angosce come ha fatto lui.”

Il dubbio in Faramir si congelò in orrore a queste parole, ma non disse nulla, lasciando che Boromir continuasse.

“Quanto io sia figlio di mio padre tu lo sai meglio di chiunque altro, ma c’è una grande differenza tra noi. E un grande errore nel tuo ragionamento. Io ho già visitato l’oscurità, ho già provato la disperazione che ha distrutto la vita di mio padre. Ho dormito in esse, ne ho vissuto, le ho sognate. Ho pianto per il loro peso, e ho pregato perché la morte mi liberasse. Non c’è più nulla sull’oscurità o la disperazione che tu o chiunque altro possiate insegnarmi, Faramir, poiché esse sono le mie costanti compagne.”

“Come lo erano per Denethor”, disse Faramir.

“No. Rifletti. Io ho avuto la possibilità di morire - molte possibilità - eppure sono vivo. Forse vivrò nelle tenebre, ma sono vivo, e l’oscurità non ha più potere su di me. Non capisci? Io ho fatto la mia scelta, come nostro padre ha fatto la sua. Io ho scelto di tornare a casa.”

Faramir sentì le lacrime salirgli agli occhi, ma non tentò di trattenerle. “Sì, sei a casa. Ma a che prezzo?”

“C’è forse un prezzo troppo alto per stare di nuovo sulle mura di Minas Tirith e sentire la musica delle sue trombe nel vento?”

“Questo è il fratello che conosco!”

“Io sono sempre tuo fratello, Faramir, nonostante le cicatrici che porto. Credevo che i tuoi occhi, i più acuti di tutta Gondor, potessero vedere oltre queste bende, vedere l’uomo che sono veramente.”

“Non sono le bende che mi turbano.”

“No? Ti ho sentito trasalire, quando ti ho preso il braccio.”

Faramir si costrinse a guardare il fratello dritto in viso, nel suo sguardo celato, vedendo il dolore che consumava così atrocemente il suo portamento fiero. “Non è stato per la repulsione o il disprezzo, ma per la sorpresa. Forse per la pietà. Mi servirà un po’ di tempo per abituarmi alla tua cecità.”

“Anche a me.”

L’amaro tentativo di umorismo di Boromir fece salire nuove lacrime in gola a Faramir. Desiderava disperatamente trovare una qualche connessione con il fratello, un modo per bandire l’immagine di quello straniero bendato e segnato da cicatrici, e sentire nel suo cuore che l’uomo che stava davanti a lui era davvero Boromir.

“Sono felice che tu abbia deciso di ritornare da me, fratello”, disse, con voce più calma di quanto si sarebbe aspettato. “Vedo come governi la città in assenza del suo Re, e il mio cuore si gonfia di orgoglio. Penso a tutto quello che hai sofferto per tornare a casa, e soffro con te. Quando mi parli con la voce di Boromir, mi rimproveri con i suoi modi bruschi, rifiuti i miei consigli con la sua arroganza, esulto di averti di nuovo al mio fianco. Ma poi te ne vai, ritorni ai tuoi strani vagabondaggi, ai tuoi inadeguati amici, alle tue meditazioni solitarie - e mio fratello scompare. E resta un uomo che non riconosco.”

Un leggero sorriso increspò le labbra di Boromir. “La mia arroganza ti rassicura? Questo è uno strano scherzo del destino. Ora mi rimproveri per il troppo poco orgoglio, per le compagnie che frequento e i luoghi dove vado, mentre in passato hai così spesso accumulato rimproveri su rimproveri sulla mia testa per un eccesso di quello stesso orgoglio. Tu, che hai cercato di cambiarmi tante volte, ora ti ritrai da me perché ho fatto esattamente quello. Cambiare.”

“Boromir…” La sua stessa voce lo tradiva, ma Faramir non poteva sopportare in silenzio lo sfogo del fratello. Boromir non stava urlando, né era adirato. Parlava con lo stesso tono quieto e pensieroso che aveva usato per tutta la loro conversazione, ma le sue parole parevano bruciare l’aria tra di loro.

“O sono troppo orgoglioso o non lo sono abbastanza, o troppo cauto o troppo vulnerabile. Mi chiedi di parlarti dei momenti più bui della mia vita, eppure quando mi rivolgo a te per chiederti aiuto, ti ritrai dal mio tocco.”

“Mi dispiace!”

“Ho detto che non ti biasimo per i tuoi dubbi, ed è vero. Capisco che hai bisogno di tempo per abituarti a me, e non ti farò pressioni. Ma se dobbiamo stare fianco a fianco come fratelli dovrai imparare ad accettare l’uomo che sono diventato.”

“È tutto quello che chiedo!” gridò Faramir. “Io voglio conoscerti di nuovo. Voglio guardarti e vedere Boromir, non un estraneo con gli occhi bendati!”

“Non posso far scomparire le bende, nemmeno per te.”

“Ma puoi lasciare che io conosca l’uomo che le porta, come una volta conoscevo mio fratello.”

“E come?”

“Parlami di Orthanc.”

Il viso di Boromir si contrasse. Non si mosse, ma sembrò volersi ritrarre dal fratello. “Perché ti interessa tanto saperlo?”

“Quei momenti oscuri - i più bui della tua vita, li hai chiamati - sono sospesi tra di noi. Gettano un’ombra su di te che mi è penoso vedere. Per tutta la vita abbiamo combattuto insieme, come fratelli, inseparabili e invincibili, ma quando tu hai combattuto la tua battaglia più grande, io non ero accanto a te. Ora l’ombra è su di te, e io sono solo.”

“Non sei solo. Sono sempre Boromir, anche se porto cicatrici di battaglie che non abbiamo condiviso.”

“So che lo sei. Ma io sono solo e ho paura, e voglio che siamo vicini come eravamo un tempo, e la fiducia che avevamo l’uno nell’altro che mi ha sostenuto in così tante prove. Rivoglio mio fratello.”

“Come posso restituirtelo?”

“Fidandoti di me.”

“Vuoi dire mostrandoti le mie ferite.”

“Fidati di me, Boromir. Non tradirò la tua fiducia.”

Un lungo silenzio seguì le sue parole. Infine, Boromir sollevò lo sguardo verso Faramir e domandò, bruscamente, “Nostro padre ti ha detto cosa ha visto nel palantìr?”

“Solo una piccola parte. Mi… mi ha detto della tua cattura, della tua prigionia. Della tua tortura per mano di Saruman.”

“La pietra non ha mentito. Aragorn e io siamo stati portati dagli orchi di Saruman nei sotterranei di Orthanc, dove siamo stati torturati per il suo divertimento, e per i suoi scopi traditori. Voleva l’Anello.” Boromir rise senza allegria, con il viso contratto per la tensione.

“Credeva che Aragorn glielo avrebbe dato.”

Improvvisamente Boromir si distolse dallo sguardo severo e compassionevole del fratello, e posò di nuovo le mani sul parapetto. Reclinò la testa all’indietro per sentire la brezza. La sua voce si abbassò a un mormorio amareggiato. “Ricordo poco di quei giorni, a parte l’orrore della voce di Saruman e l’agonia nelle sue mani. Ma quel sotterraneo è inciso per sempre nella mia memoria.

È un luogo terribile, Faramir. L’aria è bollente, e così densa che sembra strisciare sulla pelle. Ogni cosa è di pietra e ferro, e il caldo è soffocante. E le torce bruciavano sempre. Sempre.” Boromir si sostenne con le mani sul muro, le dita che scavavano nella roccia spietata, e chinò il capo. “Non le sopporto.”

“Le torce?”

“E i muri di pietra, e i suono di passi che si avvicinano… gli stivali degli orchi fanno un rumore particolare sui pavimenti di pietra. Saruman cammina silenziosamente, ma non si muove mai senza i suoi orchi, riesco ancora a sentirli mentre scendono lungo il corridoio…”

Faramir rabbrividì, come toccato da un improvviso gelo. Per un momento gli parve di udire il rumore di passi degli orchi in lontananza, e allora capì. “Ecco perché eviti la Torre”, disse, gettando a Boromir un’occhiata penetrante.

Boromir annuì. “Ho creduto che sarei morto in quel fetido abisso, circondato da pietra, e soffocato da fumo e menzogne. Desideravo solo un po’ d’aria fresca per andarmene in pace.”

“Saruman ti ha promesso la libertà, se gli avessi detto dove era l’Anello?”

A Boromir sfuggì un’altra risata priva di allegria. “Che cosa non mi ha promesso? Ma erano tutte menzogne… menzogne. Così belle e tremende che bruciano come veleno nelle mie vene, persino adesso. Prima l’Anello, poi Saruman, hanno versato quel veleno nel mio cuore, fino al punto che non ero più me stesso.”

“Ma non ti sei perduto, non hai ceduto a quelle menzogne. Come hai potuto resistere?”

“Aragorn. È stato Aragorn che mi ha dato la volontà di resistere. Non dico la forza, perché non c’era più alcuna forza in me, solo la certezza del mio dovere, e la determinazione a seguirlo. Avevo già tradito il mio re e la mia missione una volta. Non avrei potuto farlo di nuovo e continuare a vivere. E non potevo aumentare il tormento di Aragorn mostrandomi sconfitto.

Alla fine… alla fine, forse ho invocato il suo nome. Implorato la sua pietà. Non ne sono sicuro. Ma lui non poteva sentirmi, e non credo che mi avrebbe biasimato per la mia debolezza. Non ho tradito né lui né l’Anello, anche quando Saruman mi ha offerto di rendermi la vista in cambio del tradimento…”

“Che cosa?!” sibilò Faramir.

“Ha detto che avrebbe guarito le mie ferite e mi avrebbe ridato la vista se gli avessi detto dove era l’Anello.”

Un gemito sfuggì dalle labbra di Faramir. “Non c’è da stupirsi che una tale menzogna ti perseguiti! Bella e terribile, davvero! Aragorn conosce il sacrificio che hai fatto?”

“Sì. Ha fatto anche lui la stessa scelta, prima che toccasse a me. È un re, Faramir, un vero re, e non poteva fare altro. Avresti preferito che avesse tradito il suo popolo per me?”

Faramir scosse la testa, ammirato. “No.”

“Non fingerò che sia stato facile. A volte, credo che la speranza sia la tortura più raffinata. Anche quando è una menzogna.” Boromir sollevò di nuovo il capo, lasciando che il sole gli illuminasse il viso. A Faramir sembrò che stesse piangendo, ma sulle sue guance non vi erano lacrime. “Il ricordo non mi abbandonerà mai, anche se corressi per tutta la Terra di Mezzo per fuggirlo. Il morso della pietra grezza nella mia carne, il fetore delle torce, le atroci carezze della voce dello stregone, e le visioni… le visioni delle bianche mura che si innalzavano di fronte a me, scintillanti nella luce, invitandomi a casa.” Deglutì convulsamente, e sussurrò, “E’ un’agonia che porterò con me per il resto dei miei giorni.”

“Sei sicuro che fosse una menzogna?” azzardò Faramir.

“Gandalf ne è sicuro.”

“E tu ti fidi del suo giudizio?” Boromir annuì, senza parole. “Allora lo farò anch’io, anche se mi addolora stare qui senza poter fare nulla.”

“Non c’è niente da fare. Non posso fare altro che imparare ad accettarlo come meglio posso, Faramir. Se mi ami, anche tu farai lo stesso.”

“Ci proverò.”

Qualcosa di simile a un sorriso apparve sulle labbra di Boromir, poi scomparve rapidamente come era venuto. Faramir intuì che Boromir aveva esaurito la sua riserva di forze e di coraggio riguardo quell’argomento, e capì che era il momento di passare a discorsi meno dolorosi. Cambiando bruscamente argomento, Faramir disse,

“Mithrandir mi ha raccontato della distruzione di Isengard, ma non di come sei stato tratto in salvo. Come hai fatto a fuggire dai sotterranei?”

Stavolta sul viso di Boromir apparve un sorriso genuino. “Meglio che tu lo chieda a Merry. Adora raccontarlo, specialmente la parte di Uglùk.”

“Uglùk?”

Boromir scosse la testa in diniego. “Uglùk dovrà attendere. Della nostra fuga non ricordo nulla se non una voce - quella di Merry, credo - che mi diceva che Aragorn era in salvo. Il resto è oscurità… cosa di cui sono grato.”

Boromir tacque, e Faramir non insistette. Sapeva che suo fratello aveva appena accennato agli orrori del suo viaggio, ma Faramir era soddisfatto. In quello sguardo sugli abissi infuocati di Isengard, per quanto orribile, aveva anche intravisto di nuovo suo fratello. Più che intravisto. Aveva ritrovato Boromir che lo aspettava al di là delle ombre e delle mura che si era eretto attorno. Aveva ottenuto ciò che voleva, e non avrebbe messo alla prova oltre la pazienza del fratello.

D’impulso, Faramir allungò la mano per stringere il braccio di Boromir. Questi si voltò verso di lui, con un’espressione interrogativa in viso, e Faramir sorrise.

“Grazie, fratello.”

“Per che cosa?” chiese Boromir.

“Per essere tornato a casa.”

“Mi avevi già ringraziato per questo.”

“Ma questa volta so che resterai.”

Boromir sorrise. Posò la mano su quella di Faramir e la strinse con forza. Aprì la bocca per parlare, poi sembrò cambiare idea, come colto da un nuovo pensiero. Con espressione interrogativa disse, “Intendevo chiedertelo, ma me ne sono dimenticato, in mezzo a tutto quello che è successo. Conosci la storia di Gilthaethil?”

“Gilthaethil?” chiese Faramir, sospettoso. “Perché?”

“Si tratta di qualche leggenda elfica, non è vero? Piena di azioni valorose e malinconia?”

“Gilthaethil era una principessa degli elfi della Seconda Era.” Faramir ritrasse la mano da quella di Boromir e si piantò i pugni sui fianchi, squadrando sospettosamente il fratello. “Perché lo vuoi sapere?”

“Cercavo di ricordare se avevo mai sentito quella storia, ma sai che le confondo tutte.” Sorrise in modo irriverente. “Le principesse degli elfi si somigliano tutte.”

Faramir emise un suono di disapprovazione, e Boromir rise tra sé.

“Accontentami, fratello. Siedi con me, una sera, quando la guerra non ci opprimerà così da vicino, e raccontami la storia di Gilthaethil.”

“Te la posso raccontare ora, se vuoi.”

“No. Per le storie elfiche ci vogliono stelle elfiche in cielo. E ora non è il momento per indulgere a queste cose.”

“Sotto le stelle, dunque. Ma ti prego dimmi, Boromir, perché questo improvviso interesse in ciò che hai sempre definito ‘antica spazzatura’?”

“Ho incontrato alcune delle tue leggende che vagano sotto il cielo della Terra di Mezzo, e ho imparato alcune cose su di loro. E ora so che sono tanto al di sopra del mio disprezzo quanto lo sono le stelle in cielo.”

“E perché proprio Gilthaethil?”

“Ah, è per Gil.”

Faramir inarcò le sopracciglia, sorpreso. “Gil? Vuoi dire la sguattera?”

“Sì. Il suo vero nome è Gilthaethil.”

Sul viso di Faramir si alternarono disapprovazione e curiosità, facendogli assumere un’espressione accigliata che lo rendeva straordinariamente simile al fratello. “Hai forse qualche vana speranza che sia una sorta di elfo vagabondo? O la discendente perduta di una nobile famiglia?”

Boromir rise. “No, voglio semplicemente sapere la leggenda.”

Faramir lo osservò per un momento, poi domandò, “Cosa hai intenzione di fare con lei?”

Fare con lei?” la sorpresa di Boromir si tramutò in ironia sardonica. “Ma ovviamente renderla la Regina di Gondor. Dopo che avrò usurpato il trono di Aragorn avrò bisogno di una consorte per governare il mio regno.”

“Non sei divertente.”

“Non ti preoccupare, fratello. Non intendo fare nulla con Gilthaethil. Lei mi piace. Ecco tutto.”

“Perché ti piace? Che cosa può avere una serva priva di famiglia e di cultura, per piacerti?”

Boromir meditò la sua risposta con attenzione, pensando attentamente. Infine rispose. “È onesta, sincera e pratica, senza secondi fini. E senza un briciolo di commiserazione.”

Faramir accettò la spiegazione in perplesso silenzio. Non poteva approvare il crescente affetto di Boromir per una come Gil, ma quel giorno aveva capito che non doveva giudicare suo fratello dal suo comportamento esteriore. Forse era solo un effetto del suo attuale stato di esclusione dai suoi pari, della sua lotta per riconquistare il suo posto tra loro. Forse, una volta che Boromir si fosse insediato come Sovrintendente, Gil sarebbe ricaduta nell’oblio. O forse la loro amicizia era più profonda di quanto potesse razionalmente spiegare, e Faramir doveva semplicemente rassegnarsi. Qualunque fosse la verità, avrebbe aspettato e osservato. Non aveva la forza di affrontare un altro argomento così delicato, in quel giorno così denso di rivelazioni.

Boromir sembrò udire i suoi pensieri. Distese la mano verso di lui, e quando Faramir la afferrò, disse, “Ritorna alla Torre e dai lord che aspettano. Agisci come meglio credi. Io non me la sento ancora di ritornare al chiuso.”

“Boromir, io…”

“Va tutto bene, fratello. Abbiamo già detto abbastanza per oggi.”

“Quando Aragorn ritornerà…”

“Tu dovrai scegliere da che parte stare. Fino ad allora, fai come hai promesso. Aspetta, osserva, e giudica. Non ti chiedo altro.”

Faramir gli strinse la mano e si avviò.

“Mandami Merry”, disse Boromir.

Faramir annuì, poi gli sovvenne che quel gesto era inutile con il fratello. “Lo farò.” Poi se ne andò silenziosamente.

*** *** ***

Elenard guardò il cavaliere spronare il cavallo coperto di schiuma attraverso l’accampamento. Il rumore di zoccoli e i richiami delle sentinelle lo avevano svegliato da un sonno inquieto, e ora osservava la notte con occhi spalancati pieni d’angoscia. L’alba non aveva ancora toccato il cielo, e alla luce morente dei falò da campo, Elenard non riusciva a distinguere il simbolo sulla divisa del cavaliere, ma non aveva alcun dubbio sulla sua provenienza. Il grande e veloce cavallo, e il contenitore di cuoio cilindrico con i suoi sigilli pendente dalla sua schiena, lo identificavano chiaramente come un messaggero di Gondor.

Un messaggero che inseguiva l’esercito nella notte fino quasi a sfiancare il suo cavallo, per portare un dispaccio al lord Elessar. Per la mente sovraeccitata di Elenard, potava significare soltanto una cosa. Hirluin lo aveva tradito. Non era riuscito a scappare, in fin dei conti.

Continuò a guardare la figura finché non si perse nell’oscurità, poi si coricò di nuovo sul suo giaciglio e fissò lo sguardo al cielo sopra di lui. Cercava di cogliere qualche rumore proveniente dall’accampamento - voci concitate, rumori di passi, qualunque cosa che potesse annunciare l’arrivo degli uomini grigiovestiti dai visi severi e dagli occhi spietati.

Non pensò nemmeno alla possibilità di fuggire. Il Sovrintendente Ombra potava chiamarlo traditore, ma lui non era né un codardo né un disertore. Quando i Raminghi sarebbero venuti a prenderlo, lo avrebbero trovato insieme ai suoi compagni d’arme, pronto per la guerra, come si addiceva a un soldato di Morthond.

Aragorn camminava avanti e indietro per la tenda incessantemente, con gli occhi abbassati e le mani unite dietro la schiena. Sentiva che gli altri lo stavano guardando, in attesa, e la loro preoccupazione che si abbatteva su di lui come una marea. Imrahil e Éomer, i suoi più valorosi generali. Legolas e Gimli, i suoi compagni più leali. E Halbarad, la sua fedele ombra grigia. Erano tutti venuti per apprendere le notizie da Minas Tirith e offrire al loro signore i loro aiuto e il loro consiglio.

Aragorn continuò a camminare, mentre Legolas leggeva il dispaccio, tenendo la pergamena in modo che anche Gimli potesse vederla. Il nano sbuffò per la rabbia, mentre leggeva le righe vergate con cura, e la sua mano si strinse sul manico dell’ascia.

Imrahil gli lanciò un’occhiata preoccupata. “Che notizie, mio signore?”

Fermandosi, Aragorn si rivolse al principe con occhi rannuvolati. “Boromir mi avverte di una possibile minaccia alla mia vita.”

Solo Legolas e Gimli, che avevano letto la lettera, non mostrarono alcuna reazione. Imrahil e Éomer lanciarono un’esclamazione di protesta, mentre Halbarad si accigliò vistosamente e si avvicinò all’apertura della tenda. Aprì i lembi dell’ingresso e guardò fuori, come per assicurarsi che all’esterno non vi fossero sicari in agguato.

“Due uomini hanno tentato di assassinare il Sovrintendente ieri notte. Sembra che uno di loro sia riuscito a fuggire e ora sia in marcia insieme a noi.”

Imrahil impallidì, e il suo viso era teso alla luce della candela. “Il Sovrintendente? Chi oserebbe alzare la mano contro il Sovrintendente di Gondor?”

Le labbra di Aragorn si serrarono con rabbia. “Soldati di Morthond.”

Il Principe imprecò a bassa voce. “E Boromir? Come sta?”

Fu Legolas a rispondere. “Scrive che sta bene, e che non è stato ferito gravemente.” Un sorriso apparve per un istante negli occhi dell’elfo, mentre aggiungeva, “Merry è corso in suo aiuto, e uno degli aggressori è stato catturato.”

Gimli prese la pergamena dalle mani di Legolas per studiarla più da vicino. “Secondo il suo rapporto, il farabutto parla delle stesse sciocchezze che abbiamo sentito nell’accampamento prima di partire. Superstizioni e paure, trasformate in bugie traditrici!”

“Sì”, disse Aragorn, “avrei dovuto prestare più attenzione a quei sussurri notturni.”

Éomer si fece rapidamente avanti, con il viso carico di rabbia e preoccupazione. “Mio signore, cosa dobbiamo fare? Non possiamo portare con noi alla battaglia il traditore, e non possiamo lasciare solo Boromir…”

“Possiamo, e dobbiamo. Boromir mi ha messo in guardia, affinché nessun tranello mi colga impreparato, ma non chiede né desidera che io ritorni indietro. Pensaci, Éomer. Tutto questo,” indicò la pergamena tra le mani di Gimli, “non servirà a nulla, se Sauron ci sconfigge. Dobbiamo marciare contro di lui e scacciarlo dai Cancelli Neri, anche se soltanto un pugno di guerrieri coraggiosi verrà con noi.”

“Non è un tradimento diffuso”, asserì Halbarad. “I Dùnedain ne avrebbero sentito parlare tra i soldati.”

“Io ne ho sentito parlare abbastanza,” disse Legolas, con tranquillità solo apparente.

“Cospirazione contro il re? E non me ne hai parlato?”

“Ne ho parlato al re.”

“I discorsi dei soldati erano contro Boromir, non contro di me,” disse Aragorn. “Lo ritenevo in grado di affrontare qualunque problema sarebbe sorto, e chiaramente è quello che ha fatto. Mi garantisce che la città è sicura, il popolo non è a conoscenza della minaccia che incombe sul suo Sovrintendente, e la situazione non è preoccupante.”

“Ma cosa ne sarà di te?” gridò Éomer. “Il sicario ora è nascosto in mezzo al tuo esercito!”

Aragorn riflettè per un momento, poi scosse le spalle. “È improbabile che tenti qualcosa contro di me. E se lo fa, noi saremo pronti.”

“Se gli uomini di Morthond proteggono quel traditore, allora io dico che la Duinhir deve trovarlo! Lasciamo che sia lui a pensare ai suoi uomini…”

“Pace, Éomer.” Aragorn si rivolse a Imrahil e disse, “Tu conosci bene Duinhir, vero?”

“Sì, mio signore. Pensi che ci sia Duinhir dietro questo vile atto? Non posso crederlo.”

“Non lo so, ma sono d’accordo con Éomer. Il signore di Morthond dovrà rispondere di molte cose. Conducetelo da me quando ci accamperemo stasera, e saprò la verità. E ora, miei signori, dobbiamo prepararci a marciare. Andate alle vostre tende.

Imrahil e Éomer se ne andarono, ma Halbarad restò indietro.

“Con il tuo permesso, Aragorn, manderò i miei Raminghi tra i soldati per raccogliere informazioni. Possono passare inosservati e silenziosi, e gli uomini in loro presenza diranno cose che non rivelerebbero mai davanti ai loro ufficiali.”

Aragorn annuì.

“E raddoppierò la tua scorta durante la marcia.”

“Come vuoi, Halbarad. Pensaci tu.”

Il Ramingo uscì dalla tenda, lasciando soli Aragorn, Gimli e Legolas. Nessuno si mosse o parlò fino a quando le voci delle sentinelle furono svanite nel silenzio e i passi di Halbarad si furono allontanati nell’accampamento. Poi Legolas si mosse. Prendendo la pergamena dalle mani Gimli, la arrotolò con cura e la ripose nel cilindro di cuoio.

“Non hai intenzione di dire loro il resto?” domandò.

“No.”

“Mi rifiuto di credere che chiunque dei presenti stanotte possa agire contro di te.”

Gimli ringhiò, “Coloro che ti sono più vicini, ha detto Boromir. E chi, a parte noi, è più vicino al re di quei tre uomini?”

Aragorn ricominciò a camminare. “Vorrei che Boromir fosse stato più esplicito.”

“E rischiare che il dispaccio venisse letto da tutti i presenti nella tenda?” Legolas alzò le sopracciglia meravigliato. “È troppo esperto per farlo. Ti ha detto tutto quello che poteva, sono pronto a garantirlo, e come lui stesso dice, non ha prove del tradimento, solo voci e sospetti. Non puoi condannare un uomo per questo.”

“No. Capisco il motivo della sua cautela, eppure avrei voluto sapere di più. Vorrei avere solo un nome - solo un traditore - su cui mettere le mani!” Protese le mani come per afferrare qualcosa, e ringhiò, “Giuro che qualcuno pagherà per questo!”

Legolas lanciò un gelido sorriso a Gimli e mormorò, “Il nostro re ha bisogno di una spada in mano e di una battaglia da combattere.”

“Sì”, disse il nano, “ne troveremo una, molto presto.”

Aragorn abbassò le mani. La rabbia nei suoi occhi svanì nella sua solita grave pensierosità.

“Finché non troveremo il nostro nemico, dovremo essere cauti. Solo noi tre conosciamo i sospetti di Boromir, e così deve rimanere.”

“E se Imrahil o Halbarad stanno complottando contro il Sovrintendente?”

Aragorn sorrise a Gimli. “Noto che non hai incluso Éomer nella lista.”

Gimli rise. “Éomer non farebbe mai del male a Boromir. Anzi, io credo che quando troveremo il traditore, sarà difficile impedire al Re del Mark di farlo a pezzi!”

Il sorriso del Ramingo si allargò. “Forse glielo lascerò fare. Andiamo, è tempo di svegliare lo hobbit e di preparaci per la marcia.”

“Non hai risposto alla domanda di Gimli,” osservò Legolas.

“Che cosa dovrei dire? In questo momento ho bisogno di tutti i miei alleati, almeno finché hanno coraggio abbastanza per impugnare le armi contro il Nemico. Quando avremo finito di combattere, allora il veleno uscirà allo scoperto, e i traditore sarà rivelato. Allora, se sarò ancora vivo per respirare la dolce aria della Terra di Mezzo, punirò coloro che hanno osato fare del male al mio amico.”

Il suono delle trombe fece sobbalzare Elenard sul suo giaciglio, costringendolo ad alzarsi in piedi. L’alba rischiarava il cielo, e tutto attorno a lui, l’accampamento si svegliava. Obbedendo ai familiari richiami dei corni si affrettò a smontare il campo e a raccogliere la sua attrezzatura, ma per tutto il tempo i suoi occhi esaminarono i soldati attorno a lui.

Non c’era nulla di allarmante - nessuna guardia in nero e argento, nessun Ramingo con la spada sguainata. I suoi ufficiali si muovevano come al solito tra gli uomini, spronandoli ad affrettarsi e gridando ordini al di sopra del frastuono. Elenard vide un solo estraneo in mezzo a loro. Una figura solitaria che passava tra i falò da campo, apparentemente intenta al suo lavoro eppure senza fretta. Si avvicinò al falò di Elenard, e l’arciere poté osservarlo bene. Per un terribile momento pensò che l’uomo lo avesse riconosciuto, ma i suoi occhi passarono indifferenti sul suo viso, e continuò il suo cammino senza fermarsi.

Elenard si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo, mentre si voltava e riprendeva la sua attività. Nonostante tutto sembrava che il destino gli sorridesse ancora. Non era stato scoperto. Non sarebbe finito nei sotterranei di Minas Tirith. Avrebbe avuto la possibilità di morire da soldato.

Mettendosi lo zaino sulle spalle e prendendo le armi, Elenard prese il suo posto nella lunga fila di soldati. Le trombe suonarono un richiamo familiare, e, con la testa alta e un sorriso sulle labbra, Elenard cominciò a marciare.

*** *** ***

“Sei pensieroso, mio signore, e più silenzioso del solito.”

La voce ridestò Faramir dalla sua fantasticheria, e voltandosi, vide la donna seduta accanto a lui. Era illuminata da un raggio di sole che trasformava i suoi capelli in oro liquido, e donava un tocco di colore alle sue gote pallide. Sullo sfondo del verde del giardino, scintillava come una lama lucente, bellissima e terribile. Ogni volta che Faramir guardava la dama Éowyn, era sempre colpito dalla sua bellezza e dalla sua tristezza.

“Perdonami, mia signora.” Sollevò la mano di lei e la portò alle labbra. “In tua compagnia dovrei essere sempre lieto.”

“Che cosa ti turba?” chiese lei.

Il dolore che la sua voce aveva momentaneamente bandito cadde su di lui nuovamente, mentre rispondeva, “Mio fratello.”

Éowyn lo osservò con gravità, senza mostrare nel suo sguardo né comprensione né rimprovero. “Hai condiviso con me una parte dei tuoi dubbi, abbastanza perché io sappia che temi sia per lui che per il vostro popolo.”

“Sì, ma ora non stavo pensando a Gondor.” Distolse lo sguardo dalla sua gelida bellezza, incapace di sopportarla con un cuore così pieno di angoscia. “Solo a Boromir. Il suo destino mi addolora.”

Un pesante silenzio seguì le sue parole, rotto da Éowyn, che disse, con voce ferma e tranquilla, “Non è mio compito dirti il tuo dovere verso tuo fratello e il tuo paese, mio signore, ma devo parlare.”

“Istruiscimi come credi, dama. Ascolterò volentieri quello che mi dirai.”

“È molto semplice. Il lord Boromir è un uomo d’onore. Non mi sentirai mai parlare male di lui o mettere in dubbio la sua capacità di governare Gondor al posto del Re.”

Faramir la osservò con meraviglia, commosso dalle sue parole e dalla luce nei suoi occhi, che non le aveva mai visto prima di allora. “Parli in questo modo di mio fratello anche se lo conosci appena?”

“Non conosco i suoi pensieri, ma so di che fibra è fatto. È tutto onore, dovere, grandezza di spirito. L’ho visto guarire da ferite che quasi gli sono costate la vita, per seguire il suo re fino alla minaccia di Mordor. Ho cavalcato nella tempesta al suo fianco, insieme all’ holbytla, e l’ho visto rinunciare al conforto della compagnia di Merry piuttosto che fare rompere al piccolo il suo giuramento al Re Thèoden. Nessuno di loro voleva quella separazione, che significava un grave pericolo per entrambi, ma l’onore e il dovere lo richiedevano. L’ holbytla, inesperto dei nostri usi, avrebbe messo da parte il suo giuramento per amore del suo signore, ma Boromir non ne ha voluto sapere. Per merito di Boromir, Merry ha combattuto al mio fianco sui campi di Pelennor, e insieme abbiamo sconfitto il Re degli Spettri.”

“Boromir ha rinunciato alla battaglia, lasciando una fanciulla e un mezzuomo a combattere da soli? Non è cosa da mio fratello.”

“Ha rinunciato alla sua possibilità di ottenere la gloria sul campo di battaglia, per portare la sua spada e la sua saggezza a casa, a Mundberg, dove ce ne era più bisogno. Io non sono come lui. Non potevo abbandonare la battaglia, eppure so che ciò che ha fatto è giusto e saggio, e del tutto onorevole. E lo ammiro tantissimo per questo.”

Faramir restò seduto in silenzio, soppesando le sue parole. Éowyn non si intromise nei suoi pensieri.

Infine, Faramir sollevò il capo e la guardò. “Ti ringrazio per la tua franchezza, mia signora. Mi hai dato molto a cui pensare.”

“Se vuoi saperne di più sul Lord Boromir, su quello che ha nel cuore, parla con l’holbytla. Hanno viaggiato insieme per tutta la strada da Imladris, e il loro affetto è incrollabile.”

“L’ho già fatto. Merry è altrettanto eloquente nel difendere mio fratello come tu lo sei nell’elogiarlo.”

Di nuovo Faramir si perse nei suoi pensieri. Ripensò a tutto quello che gli era stato detto dal giorno in cui Boromir era tornato, e notò che nessuno che avesse viaggiato con Boromir, nella Compagnia o dopo, aveva mai detto male di lui. Non il fedele hobbit, né l’elfo, né il nano, né Éowyn, né Aragorn stesso. Aragorn era passato attraverso le fiamme e la sofferenza di Orthanc accanto a Boromir, e ora gli riconosceva ciò che gli spettava per diritto di nascita senza alcuna esitazione.

“Aragorn lo ha scelto”, riflettè Faramir.

“Sì, e chi potrà contraddire il Re?”

“Io ero pronto a farlo. Ma ora…”

Esitò, e Éowyn insistette, gentilmente, “Ora, mio signore?”

“Ora conosco parte di ciò che gli è accaduto, e comincio a comprendere. Comincio a vedere attraverso i suoi occhi, almeno in parte.”

Éowyn quasi sorrise, o almeno era la cosa più simile a un sorriso che Faramir le avesse mai visto in viso. “Una strana scelta di parole, mio signore.”

“Ma adatta. La sua visione del mondo non è piacevole, né priva di dolore, e non posso dire che mi sia congeniale.”

“C’è forse qualcuno di noi che può guardare al mondo senza dolore, in questa ora?”

Faramir scosse la testa, e, senza rendersene conto, lasciò correre il suo sguardo verso Est.

Quando il Re ritornerà, tutto sarà guarito”, mormorò Éowyn, riflettendo la sua speranza inespressa.

Faramir la guardò e sentì la sua bellezza che lo trafiggeva. “C’è una cosa che mi ha detto Merry,” mormorò, “Ha detto che Aragorn mi ha salvato dall’ Ombra. È stata la voce del re che mi ha riportato indietro, ma sei stata tu, dama, a guarire il mio cuore.”

Èowyn chinò il capo per sottrarsi al suo sguardo. “Anche io sono stata riportata indietro dalla sua voce, ma non ho ancora trovato la guarigione.”

“Verrà col tempo. E con la speranza, io credo.” Restò in silenzio di nuovo, pensieroso, poi mormorò, “Non si può affrettare la guarigione. Ci vuole tempo.”

Un improvviso, brillante sorriso gli illuminò il viso, e Faramir afferrò la mano di Éowyn, portandola alle sue labbra in gesto di saluto. “Ti ringrazio, dama! Mi hai istruito meglio di quanto tu non immagini!”

Éowyn non ritirò la sua mano. “Mi basterebbe avere rasserenato il tuo cuore, mio signore.”

“Lo hai fatto.” Le baciò di nuovo la mano e sorrise ai suoi occhi solenni. “Anche in questa ora così oscura, mi hai dato speranza.”

*** *** ***

Il settimo giorno di attesa albeggiò, freddo e uggioso. Tutti gli occhi della città erano rivolti a est, verso i pericoli a cui andavano i suoi signori, i suoi capitani e i suoi valorosi soldati, e tutti i cuori erano grevi.

Alcuni osservavano l’Ombra con l’aria di conosce molte cose, calcolando le leghe che separavano la Torre di Guardia dal nemico, e gridavano, “Ormai avranno raggiunto il Cancello Nero! Certo oggi giungeranno notizie!” Altri, misurando la distanza, scuotevano la testa, e dicevano, “No, non possono essere arrivati così presto. C’è ancora tempo. Non tutto è perduto.”

Il sole salì lentamente nel cielo. Una sensazione di attesa e di timore crebbe nel popolo di Minas Tirith, e sebbene la gente si ripetesse che quello era un giorno proprio come tutti gli altri, la paura cominciò a pesare su di loro, fino a quando tutte le attività della città si interruppero. La gente rimase in piedi in mezzo alle strade o sulle mura, guardando verso est, sforzandosi di cogliere un qualche bagliore di elmi o lance, anche se sapevano che ormai l’esercito era troppo lontano perché potessero vederlo. L’ora del loro destino gravava pesantemente su di loro.

Nel momento in cui il sole raggiunse lo zenit, il vento cessò all’improvviso, e l’aria stessa sembrò restare sospesa, pronta a qualche evento. Un teso silenzio carico di aspettativa cadde su tutta la terra. Tutti gli occhi erano rivolti alle Montagne dell’Ombra in lontananza, e tutte le voci tacquero.

In quella timorosa immobilità si udì un rombo basso e minaccioso. Una enorme massa di fumo nero si innalzò nel cielo, espandendosi fino a nascondere il sole, perforata a tratti da fulmini e lingue di fuoco. Ogni cuore a Gondor tremò, ogni respiro cessò, e fu come se la città rabbrividisse sul suo alto seggio. Le mura tremarono. La torre fu scossa. Poi, con un sospiro, Minas Tirith riprese a vivere.

In tutta la città, uomini e donne levarono lo sguardo al cielo increduli. Perché dalle terribili tenebre cominciò a soffiare un vento freddo, e portata dal vento giunse una figura alata, dal cuore dell’Ombra. Era una grande Aquila, e le sue ali erano grandi e possenti quanto le montagne che l’avevano vista crescere. Mentre volava in circolo sopra la città, gridò con voce chiara,

Cantate ora, gente della Torre di Anor,

perché il Regno di Sauron è finito per sempre,

e la Torre Oscura è crollata.

Cantate e gioite, gente della torre di Guardia,

perché non fu vana l’attesa,

e il Cancello Nero è spezzato,

e il vostro Re l’ha varcato,

ed egli è vittorioso.

Cantate e godete, voi tutti Figli dell’Ovest,

perché il vostro Re tornerà,

e abiterà con voi per sempre,

tutti i giorni della vostra vita.

E l’Albero appassito rifiorirà,

ed egli nei luoghi alti lo pianterà,

e la Città sarà benedetta.

Cantate quindi, o gente!*

Elenard udì la voce dell’Aquila mentre volava verso Ovest sul campo di battaglia. Era in piedi in mezzo ai caduti, con la spada macchiata di sangue che pendeva inerte al suo fianco, e osservava il messaggero della vittoria. Si sentì pervadere da una gioia selvaggia, e sollevò la sua arma, scuotendola e gridando la sua esultanza. Ma in quello stesso momento fu colto da un improvviso, gelido terrore. Aveva scommesso tutto sulla certezza che sarebbe morto onorevolmente, combattendo il Nemico, e facendo ammenda per il male che aveva commesso, per quanto neccessario. Ma l’esercito dell’Ovest aveva vinto, il Re sarebbe ritornato a Minas Tirith dal suo Sovrintendente Ombra, e Elenard avrebbe dovuto marciare con lui. Verso un altro genere di morte. Cadendo in ginocchio sul campo, Elenard chinò il campo e pianse per la vergogna.

Hirluin udì la voce dalla sua buia cella sotto la Torre di Guardia. Si precipitò verso la porta sbarrata, ascoltando la musica distante, e sorrise attraverso un velo di lacrime. Non faceva alcuna differenza per lui che il Re Gemma Elfica avesse sconfitto il Nemico. Era condannato in ogni caso. Ma ripensando alle fresche foreste e a dolci pascoli del suo paese, e ai suoi figli che correvano liberi sotto il cielo sereno, al sicuro dalla schiavitù e dalla minaccia di Mordor, pianse per la gioia.

Faramir udì la voce mentre era insieme a Éowyn sulle mura della città. Il suo cuore si gonfiò di una felicità troppo profonda per essere espressa a parole. Lacrime bagnarono le sue guance. I suoi occhi scintillarono come la luce di Nimloth alla prima alba del mondo. E accanto a lui stava la Bianca Dama di Rohan, con la mano nella sua, i suoi chiari capelli mescolati ai suoi nel vento. Mentre l’Aquila passò sopra di loro, gettando la sua ombra sui loro visi, Faramir si voltò verso Éowyn, e, in piena vista della città in festa, la baciò sulla fronte.

Merry udì la voce e si avvicinò a Boromir. Erano nella Corte della Fontana, dove erano rimasti in attesa tutta la mattina, e ascoltavano in silenzio il canto di vittoria. Quando l’Aquila ebbe finito, Merry sospirò e rivolse gli occhi velati di lacrime all’amico. Boromir non si mosse né parlò, ma Merry vide che tremava per la violenza dell’emozione.

Lo hobbit mise la sua piccola mano in quella dell’uomo, e rivolse nuovamente lo sguardo a est, verso la torbida oscurità che segnava la fine del potere di Sauron.

“Ce l’ha fatta,” disse Merry. “Ha distrutto l’Anello.”

“Frodo…”

“La missione non è fallita.”

Con una rapidità che sorprese lo hobbit, Boromir si inginocchiò accanto a lui e lo strinse in un fiero abbraccio. Merry si strinse a lui, con le lacrime che cominciavano a scorrergli sul viso, e all’improvviso fu enormemente felice che, tra tutte le creature della Terra di Mezzo, ci fosse proprio quell’uomo con lui, al momento della vittoria.

“L’Anello è stato distrutto”, mormorò Boromir.

Merry rise, pieno di gioia. “E il Re ritorna a casa!”

Continua…

* Da Il ritorno del Re, capitolo Il Sovrintendente e il Re.

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Capitolo 14
*** Verso il Giorno ***


Capitolo 14: Verso il giorno

Capitolo 14: Verso il giorno

Un’estate dorata cominciava a stendersi sui campi di Gondor, quando il Sovrintendente cavalcò fuori dai cancelli dei Minas Tirith per rispondere alla chiamata del suo Re.

Merry, scudiero di Re Éomer, cavalcava con lui, insieme a una compagnia di uomini armati e un convoglio di carri, carichi di vettovaglie per l’esercito accampato a Cair Andros. Fedranth, il grigio stallone di Rohan, portava l’uomo e lo hobbit verso il luogo dove si sarebbe celebrata la vittoria, così come prima li aveva portati verso la guerra, e Merry gioì nel montare nuovamente a cavallo in compagnia dell’amico.

La lettera di Aragorn aveva dissipato le loro ultime preoccupazioni, assicurandoli che tutti coloro che amavano erano sopravvissuti alla battaglia, e quelli che avevano ricevuto ferite stavano guarendo, sotto le cure del Re. Solo un’ombra oscurava ancora la felicità di Merry: la decisione di Faramir era ancora una questione aperta.

Merry sapeva che la cosa non lo riguardava, e non ne aveva fatto parola con nessuno dei due fratelli sin da dopo la conversazione con Faramir nelle Case di Guarigione. Ma ora Boromir partiva da Minas Tirith, lasciando il suo incarico nelle mani del fratello, e per Merry, che pensava soprattutto a Boromir, quella decisione non poteva essere buona. Aveva osservato Boromir che consegnava lo scettro bianco del potere nelle mani di Faramir, ma aveva tenuto a freno la lingua. Ora, mentre si allontanavano dai cancelli, guardò indietro per osservare l’uomo alto e regale che stava in piedi proprio davanti alle mura - così simile al fratello eppure così diverso - con tutta la nobiltà di Gondor radunata dietro di lui, e lo hobbit si sentì prendere dal timore.

Distogliendo lo sguardo da quella vista, chiese a Boromir, a voce bassa, “Credi che sia stato saggio affidare il tuo diritto a tuo fratello?”

“È l’ ordine di Aragorn”, rispose Boromir con semplicità, “e anche il mio desiderio.”

“Ma non ha fatto nulla per sostenerti contro Imrahil, e…”

“Basta così, Merry.”

“Lo hobbit si guardò attorno per accertarsi che nessuno della scorta avesse sentito il suo discorso, e scrollò le spalle. “Certo la Guardia saprà tutto della… della parte del tuo consanguineo nella cospirazione.”

“Forse, ma ciononostante ti sarei grato se non lo annunciassi ai quattro venti.” Strinse con un gesto comprensivo il braccio di Merry, e la sua voce perse ogni traccia di irritazione. “Non temere, piccoletto. Faramir non usurperà il mio incarico. Qualunque sarà la sua scelta finale, farà il suo dovere come Sovrintendente con onore, e mi restituirà ciò che è mio al mio ritorno. Non devi preoccuparti di questo.”

Merry rifletté per un po’, poi decise che Boromir aveva ragione. Faramir non era tipo da prendere il potere con il sotterfugio e l’inganno. Se avesse deciso di rivendicare per sé la Sovrintendenza, lo avrebbe fatto apertamente, davanti al Re e al Consiglio, e solo perché sentiva che sarebbe stata la cosa giusta.

Ora che la sua mente era - anche se solo per un po’- libera dalle preoccupazioni, lo spirito di Merry si sollevò. Erano ancora in vista della città, e la voce chiara dello hobbit si alzò in un canto, mescolandosi alle voci più profonde degli uomini che cavalcavano attorno a loro. C’era un’atmosfera festosa nella compagnia, anche se erano soldati armati per la guerra, e le loro risate risuonavano come squilli di tromba.

Soltanto Boromir cavalcava in silenzio, con viso serio e grave. Merry si chiese come mai, ma non osava intromettersi nei suoi pensieri per chiedergli spiegazioni. Da quando il messaggero era giunto dall’Ithilien, con l’invito del Re a raggiungerlo, Boromir era diventato stranamente ombroso e imprevedibile. Una qualche nuova inquietudine si era abbattuta su di lui, rendendolo un momento pieno di felicità, e il momento dopo silenzioso e malinconico. In un primo momento Merry aveva creduto che si trattasse di preoccupazione nel lasciare Minas Tirith nelle mani di Faramir, ma chiaramente si sbagliava. Qualunque cosa fosse, sembrava opprimerlo sempre più mano a mano che si avvicinavano all’Ithilien e a Aragorn.

Verso mezzogiorno arrivarono a Osgiliath, dove, tra le tristi rovine della città un tempo grande, li attendeva una nave ormeggiata. Merry si guardò attorno con curiosità, osservando i ponti distrutti e le strade vuote, piangendo la desolazione dell'antica città in rovina. Caricarono la nave e levarono l’ancora, lasciando rapidamente Osgiliath sulle onde del grande Anduin.

Sceso dalla nave, Merry si ritrovò immerso in un mondo pieno di colori e di simboli come non ne aveva mai visti prima. Ovunque si vedevano le insegne di qualche esercito, ma non si trattava di insegne guerra come quelle che Merry aveva visto fino a quel momento. Qui tutto era gioia, scintillante celebrazione, le lance erano decorate con ghirlande di fiori, e i volti dei veterani, segnati dalle cicatrici, erano raggianti.

Araldi annunciarono il loro arrivo, e una scorta li condusse sul campo dove li attendevano le Armate dell’Ovest.

La magnificenza del momento travolse Merry. Non sapeva che gli uomini potessero apparire così feroci e terribili, e così felici allo stesso tempo. Si strinse accanto a Boromir, al riparo della sua presenza, e osservò con soggezione il dispiegamento di uomini davanti a sé.

Tra gli innumerevoli stendardi che decoravano l’accampamento, Merry riconobbe le insegne di Dol-Amroth e di Rohan, insieme a dozzine di altre che rappresentavano i paesi che avevano combattuto sul Pelennor davanti alle porte di Minas Tirith. Al centro dell’accampamento, sollevato fieramente dal vento, ondeggiava il grande stendardo di Re Elessar. E sotto di esso, a capo scoperto, con una cotta di maglia scintillante coperta da un mantello nero di zibellino, stava in piedi il Re in persona, sorridente.

La guardia d’onore si fece da parte mentre si avvicinavano ad Aragorn, e Merry condusse Boromir da solo attraverso lo spiazzo, con le ginocchia che gli tremavano per la sua temerarietà. Poi il suo sguardo incrociò quello di Aragorn, e la paura svanì. Egli era il Re di Gondor, ma era anche Grampasso, Ramingo del Nord, suo amico e guida. Il contegno regale di Aragorn si tramutò in uno sguardo d’affetto, quando vide il piccolo hobbit, e si fece avanti per andare incontro ai nuovi arrivati.

“Mio lord Sovrintendente, mastro Scudiero, vi do il benvenuto.”

Con grande stupore di Merry, Boromir si inginocchiò davanti ad Aragorn e chinò il capo. “Mio Re.”

“No, non farlo.” Aragorn afferrò Boromir per le spalle e lo fece alzare in piedi. “Non porto ancora la corona di Gondor.”

Aragorn strinse più forte le braccia di Boromir, e i suoi occhi sorrisero con così tanto calore da stupire Merry ancora più che l’atto di sottomissione di Boromir. All’improvviso, obbedendo a uno stesso impulso, i due uomini si abbracciarono.

“Come stai, Boromir?” Chiese Aragorn, con la voce che gli tremava per la felicità.

Boromir esitò per un istante, poi rispose, “Abbastanza bene. E tu?”

Dalle labbra di Aragorn scaturì una gioiosa risata. Fece un passo indietro, mantenendo però sempre la presa sulle braccia di Boromir, come se non volesse interrompere il contatto. “L’Ombra è caduta e la Compagnia è di nuovo riunita! Come altro potrei stare se non bene?”

Il sorriso di Boromir vacillò. “Frodo e Sam?”

“Stanno dormendo, devono recuperare le forze. Non temere per loro.”

“Allora va davvero tutto bene.”

A quel punto Aragorn lasciò andare l’amico, e come se fosse stato un segnale, la folla attorno a loro cominciò ad animarsi. Amici e nobili si fecero avanti. Aragorn si inginocchiò per abbracciare Merry, e, prima che avesse il tempo di alzarsi di nuovo in piedi, Pipino li investì con un turbinio di velluto nero, maglia d’argento e incontenibile entusiasmo. Subito dietro Pipino vennero Legolas, Gimli, e un Gandalf insolitamente gioviale. Tutto era gioia e grida di benvenuto. In quel luogo così verde e sereno, con i suoi amici attorno a sé e la musica delle risate nell’aria, Merry sentì che i lunghi mesi di oscurità scivolavano via, come il ricordo di un brutto sogno.

Dal suo accampamento sulla collina boscosa, Elenard osservava l’arrivo del Sovrintendente nella pianura sottostante. Le armate dell’Ovest erano sparse lungo il fiume, alcune di esse accampate a Cair Andros sulla riva sud, altre più lontane, nelle foreste dell’Ithilien. Quando gli arcieri di Morthond erano stati stazionati così vicino all’accampamento principale, in vista dei padiglioni dei generali, lo avevano considerato un tributo al loro coraggio in battaglia e un segno del rispetto che il nuovo Re nutriva per Morthond. Solo Elenard, divorato dai sospetti e dai sensi di colpa, dubitava che quella vicinanza fosse davvero un tributo al loro valore.

I Dùnedain grigiovestiti perlustravano incessantemente l’accampamento. Parlavano con aria noncurante con i soldati che sedevano accanto ai falò la sera, ricordando i lunghi anni di guerra che avevano afflitto Gondor, ma ad Elenard pareva che ascoltassero più di quanto parlassero. Quei Raminghi avevano un modo particolare di guardare le persone, occhi che vedevano più di quello che avrebbero dovuto, e facevano domande apparentemente innocenti, che scioglievano la lingua agli uomini. A Elenard non piacevano affatto, e non si fidava del loro improvviso interesse verso Morthond. Essi erano gli occhi e le orecchie di lord Elessar nell’accampamento, e un segnale che il Re sapeva da dove giungeva la minaccia al suo Sovrintendente.

E ora il Sovrintendente-Ombra in persona si era unito all’esercito, portando con sé l’unica creatura nella Terra di Mezzo, che, oltre allo sfortunato Hirluin, poteva riconoscere Elenard. Il mezzuomo.

Il mezzuomo lo aveva visto in viso, aveva persino incrociato la lama con lui. Il mezzuomo poteva testimoniare contro di lui e condannarlo a una morte da traditore.

Gli occhi di Elenard rimasero fissi sulla piccola figura che camminava a fianco del Sovrintendente, e i suoi pugni si serrarono con rabbia impotente. Per un momento ebbe l’impulso di estrarre il suo arco e mettere a tacere quella creatura con una freccia in gola, vendicandosi, guadagnando qualche momento in cui essere relativamente al sicuro. Ma quel pensiero svanì così rapidamente come era venuto, e la sua rabbia scemò.

Il mezzuomo aveva mandato a monte il suo tentativo di togliere la vita al Sovrintendente, ma lo aveva fatto in tutta innocenza, per amore del suo signore. Elenard non poteva condannarlo per questo. Né avrebbe ucciso a sangue freddo una creatura innocente per salvarsi la vita. Poteva anche essere un assassino e un traditore, ma non aveva ancora perduto tutto il suo onore. Aveva alzato la spada contro il figlio di Denethor nella ferma convinzione che fosse la cosa giusta, e poiché credeva che la presenza del cieco sul campo di battaglia avesse causato la morte dei figli di Lord Duinhir.

Ora, la vittoria su colui che era innominabile lo aveva privato di qualunque possibilità di recuperare il suo onore. Nessuno avrebbe più creduto che Boromir di Gondor fosse una maledizione per il suo stesso popolo. Nessuno lo avrebbe ritenuto responsabile del massacro di quegli uomini valorosi sui campi di Pelennor, o di avere sparso il terrore e l’oscurità su Minas Tirith. Nessuno avrebbe creduto che Elenard avesse agito secondo la sua coscienza e il suo dovere, quando aveva tentato di uccidere il Sovrintendente-Ombra.

Chino presso il fuoco osservando con indolenza le distanti figure del Re e del Sovrintendente, Elenard meditò su quale sarebbe stato il destino che i due gli avrebbero riservato. Lo avrebbero giustiziato come un traditore, una fine amara per un soldato. Se avesse avuto meno orgoglio, o fosse stato meno leale verso il suo signore e verso la corona di Gondor, avrebbe provato meno vergogna. Ma allora non sarebbe nemmeno stato in quel luogo, ad aspettare che la spada scendesse sul suo collo. Sarebbe fuggito, scomparso nelle lussureggianti foreste dell’Ithilien, e da lì nelle Terre Selvagge, dove un uomo coraggioso e abile poteva vivere senza Re né signore, senza città né mura di pietra. Avrebbe rinunciato al suo onore in cambio della vita.

Il viso di Elenard era teso, quando finalmente si alzò in piedi per sgranchire i suoi muscoli intorpiditi. Il suo sguardo si posò sulle fila dei soldati e degli ufficiali sul campo, sulle lance, le cotte di maglia, e gli elmi che riflettevano gli ultimi raggi del sole morente, e nei suoi occhi c’era un desiderio, un dolore che rendeva il suo viso ancora più cupo. Si chinò per raccogliere le sue armi, si mise l’arco sulle spalle, e si voltò. Con passi lenti, cominciò a salire la collina.

*** *** ***

“Avanti, amico mio, dimmi”. Aragorn si sporse in avanti per raccogliere l’otre di vino che era posato accanto a Gimli, e lanciò a Boromir uno sguardo complice. “Abbiamo parlato a lungo della battaglia, del valore dei soldati, dell’incontro di Pipino con il troll e delle bellezze naturali dell’Ithilien. Abbiamo dimenticato qualcosa di importante?”

Boromir sorrise al tono canzonatorio, ma non disse nulla. Sedeva su uno sgabello da campo, accanto al fuoco, coi gomiti appoggiati sulle ginocchia e un boccale vuoto tra le mani. Il resto della Compagnia, a parte Frodo e Sam, che stavano ancora dormendo nella tenda di Aragorn, era radunato attorno al fuoco insieme ai due Uomini. Sedevano per terra o su sgabelli, sorseggiando vino, fumando la pipa, e guardando il cielo stellato mentre parlavano.

Quel senso di calore e di cameratismo era molto diverso da quello che avevano condiviso la notte prima della partenza dell’esercito. Ora non c’era più tristezza, nessuna partenza imminente a gravare i loro cuori, nessuna Ombra che li minacciava. Erano immersi in un senso di pace così poco familiare a quelli tra loro che erano guerrieri. Ma non avevano ancora vinto tutte le battaglie, e Aragorn non era ancora pronto a riporre la spada.

“Ho lasciato che ci distraessi con le tue domande, ma la mia pazienza ha un limite,” disse Aragorn. “Ora è il mio turno di fare domande, e tu dovrai rispondermi.”

Boromir continuò a tacere.

“Boromir.” Il Sovrintendente reagì al tono di comando nella voce di Aragorn, e si voltò nella sua direzione. Aragorn si allungò per riempirgli il boccale, e aggiunse, più mitemente. “Non ho dimenticato gli avvertimenti che mi hai mandato nel dispaccio. E ho notato la freddezza con cui hai salutato Imrahil. Cosa puoi dirmi di questa cospirazione? Quale minaccia ci troveremo davanti, una volta tornati a Minas Tirith?”

“Non hai nulla da temere.”

Aragorn sbuffò con disgusto. “Ciò che minaccia il mio Sovrintendente minaccia anche me. O credi forse che voglia restarmene in disparte mentre la nobiltà di Gondor organizza il mio regno a suo piacimento?”

“E se avessero ragione, Aragorn?”

“Sarò io a giudicare. Sarò io a scegliere chi mi starà accanto nel mio regno, e lo sosterrò.” Aragorn osservò pensierosamente Boromir, chiedendosi che cosa avesse risvegliato in lui questo dubbio. Certo c’era qualcosa in più che non manovre politiche di rivali. Con voce bassa, Aragorn disse, “Ora dimmi, che cosa stai cercando così disperatamente di evitare?”

Boromir sospirò. Passò distrattamente il boccale tra una mano e l’altra, con lo sguardo bendato fisso su di esso e il viso teso per la stanchezza. “Avrei preferito parlarne con te in privato. Non è un discorso piacevole da fare tra amici.”

“Con chi altri vorresti parlare del tradimento se non con coloro di cui ti fidi?”

“Non ci sono prove di tradimento. Solo voci e sussurri.”

Gimli abbatté con forza il pugno sul tavolo, e proruppe, irato, “Voci e sussurri che tu sono quasi costati la vita, Boromir!”

“Certo, proprio per questo. Vorresti che io facessi lo stesso a un altro innocente?”

Gandalf si tolse la pipa dalla bocca e parlò, con voce burbera ma gentile. “Non giudicheremo nessuno per sentito dire. Conosciamo la differenza tra il sospetto e la certezza, tra dicerie e realtà. Puoi parlare con noi senza paura.”

Un silenzio carico d’attesa seguì le sue parole, mentre tutti gli sguardi erano rivolti a Boromir. L’uomo esitò, ancora incerto, poi si volse verso Aragorn e disse, bruscamente, “Se le voci sono veritiere, il tradimento viene da coloro che più amiamo.”

Aragorn sentì un gelido terrore attanagliargli le viscere. “Continua.”

“Imrahil ha avvicinato mio fratello e gli ha chiesto di prendere il mio posto come Sovrintendente di Gondor.”

Pipino trasalì involontariamente. “No! Il lord Faramir non farebbe mai una cosa del genere!”

“Sì che lo farebbe”, mormorò Merry.

Aragorn lanciò al mezzuomo uno sguardo penetrante, poi si rivolse di nuovo a Boromir. “Cosa dice Faramir?”

“Non ha ancora fatto la sua scelta.”

“La scelta non spetta a lui. Ha forse dimenticato che Gondor ha un re?”

Boromir scosse il capo. “Non credo che mio fratello andrebbe contro gli ordini del Re. Imrahil e i suoi alleati non cercano di rimuovermi con la forza, ma di persuadermi a farmi da parte in favore di Faramir, e Faramir è il loro portavoce. Se io sono persuaso, sono certi che anche tu lo sarai.”

“Ah. Comincio a capire.” Aragorn si accigliò, sempre più preoccupato. Se Faramir stava facendo pressioni a Boromir perché rinunciasse alla sovrintendenza, Aragorn poteva ben comprendere i nuovi dubbi che lo affliggevano. Per Boromir, di tutti gli uomini della Terra di Mezzo, solo Aragorn sarebbe stato più difficile da contraddire di suo fratello. “Per fortuna non cambio le mie decisioni così facilmente.”

“Non sottovalutarli, Aragorn. Potrebbero sempre trovare un’argomentazione, o un portavoce, a cui non potrai controbattere.”

Legolas si sporse in avanti sullo sgabello, i suoi occhi che brillavano acuti alla luce del fuoco. “Di che messaggero parli, Boromir? Chi mai potrebbe tradire Aragorn?”

Boromir esitò, e il timore di Aragorn si congelò in certezza. Sapeva il nome che avrebbe udito ancora prima che Boromir lo pronunciasse, ma ciononostante il colpo fu tremendo. “Halbarad.”

Gli occhi dell’Elfo si strinsero pericolosamente. “Halbarad…” sibilò.

“Come lo sai?”, chiese Aragorn, e la sua voce risuonò estranea alle sue orecchie - aspra e piena di gelida rabbia.

“Non lo so. Solo la parola di mio fratello mi assicura che Halbarad sia coinvolto.” rispose Boromir.

“Allora potrebbe essere un errore. Halbarad potrebbe essere innocente quanto Faramir.”

“Tutti potrebbero essere innocenti, Aragorn. Non puoi chiamare un uomo traditore solo perché non è d’accordo con le scelte del suo Re.”

“Ma puoi chiamarlo traditore quando istiga altri all’omicidio!” ribatté Gimli. “Chi altri in questo vasto esercito potrebbe spargere paura e discordia meglio di un Ramingo? Si muovono a piacimento per i vari accampamenti, sono i benvenuti da sire Aragorn, e ciò che dicono viene creduto dai soldati.”

“Nessuno oserebbe spargere maldicenze contro il mio Sovrintendente in mio nome!” proruppe Aragorn.

“Non ha bisogno di farlo in tuo nome. Non c’è nemmeno bisogno che faccia sapere di essere un ramingo.
Pensi che sia difficile per Halbarad cambiare il suo mantello, coprirsi il volto, e scivolare indisturbato tra i ranghi, in mezzo a soldati stanchi e spaventati, con menzogne mortali sulle sue labbra?”

Boromir fece per protestare, ma Gandalf lo precedette. “Condanneresti un uomo sulla base di dicerie, Gimli, figlio di Glòin?”

Fu Legolas a rispondergli. “Non giudicherò nessuno, e mi ripugna dubitare del luogotenente di Aragorn, così vicino al nostro re per affetto e parentela. Ma una cosa vi dirò, e voi ne farete ciò che riterrete più giusto. Non mi sono sentito a mio agio in compagnia di Halbarad, fin da quando abbiamo lasciato Minas Tirith. In lui c’è qualcosa che mi preoccupa, e non mi piace il modo in cui parla di Aragorn. E’ come se il Re di Gondor appartenesse a lui, e noi fedeli compagni che abbiamo combattuto al suo fianco fin sotto il Cancello Nero non avessimo parte nella sua vittoria, né diritto al suo affetto o a chiamarlo amico. C’è un’ombra su di lui, Aragorn. Divento sempre più oscura man mano che attorno a noi si fa la luce. Non mi fido di lui.”

“Bisognerebbe sempre seguire il consiglio di un Elfo”, intervenne Gimli, con aria sapiente.

“Grazie per le tue parole di saggezza, mastro Nano,” disse Gandalf, la sua voce infinitamente asciutta. Il suo sguardo si posò a turno sui visi turbati e adirati dei suoi amici, e infine su quello di Aragorn, dove si fermò. “Bisognerebbe sempre seguire il consiglio di un elfo, quando se ne ha uno a portata di mano. Ma anche il nostro acuto Legolas non può dirti se Halbarad ti ha tradito oppure no. Questo dovrai giudicarlo da solo, senza basarti su voci e dicerie.”

Aragorn sostenne lo sguardo dello stregone per un lungo momento, cercando invano di leggere i pensieri di Gandalf e di capire quale fosse la strada migliore. Ma i suoi occhi, pur se pieni di comprensione, erano imperscrutabili come sempre, nel viso vecchio e barbuto. Con un sospiro, Aragorn rivolse lo sguardo verso il fuoco.

Rabbia, dolore, risentimento gli lottavano in petto. Il messaggio di Boromir non lo aveva sorpreso, ma non per questo il colpo non era stato più facile da accettare. Come Legolas, Aragorn aveva intuito che qualcosa nel suo luogotenente era cambiato. Ma a differenza dell'elfo, Aragorn se ne era accorto fin dall’arrivo dei Dùnedain a Edoras. Da quando aveva raccontato a Halbarad le sofferenze che aveva patito nei sotterranei di Isengard. Da quando egli stesso aveva innescato il processo, spendendo parole di lode per un uomo che Halbarad aveva sempre disprezzato per i suoi natali, e che ora temeva come un rivale.

Aragorn provò una familiare fitta al cuore, mentre meditava sul difficile compito di essere re. Ancora una volta, la sua missione per liberare la Terra di Mezzo e rivendicare il suo trono avevano portato in pericolo mortale coloro che amava. Non poteva abbandonare la sua missione, né rinunciare a ciò che gli spettava per nascita, ma non poteva nemmeno ignorare il fatto che Halbarad, come Boromir prima di lui, stava soffrendo a causa della sua devozione verso l’erede di Isildur. Se fosse rimasto Grampasso, Ramingo del Nord, se avesse lasciato Gondor nelle abili mani del suo Sovrintendente, forse avrebbe risparmiato ai due uomini tutta quella sofferenza.

Scuotendo il capo per bandire quegli inutili pensieri, Aragorn alzò lo sguardo e vide che Pipino lo stava fissando. Pipino si fidava di lui, del suo amico Grampasso, per risolvere quel brutto pasticcio, senza che nessuno di quelli che amava ne soffrisse. Pipino credeva ancora in lui, e la fiducia dello hobbit non poteva essere delusa.

Aragorn decise immediatamente. “Sapremo la verità da Imrahil. È stato lui a parlare con Faramir, e saprà sicuramente chi è coinvolto. Pipino, vai alla mia tenda e…”

Si interruppe sorpreso, quando una figura grigiovestita comparve improvvisamente nel cerchio di luce proiettato dal falò. Nessuno, a parte Legolas, aveva sentito i passi del Ramingo sul terreno morbido, e il suo arrivo ebbe l’effetto di una magia, e anche Aragorn ne fu sconcertato.

Il Ramingo salutò il suo Capitano con un cenno informale e disse, “Duinhir di Morthond desidera parlare con te, mio signore. Gli ho detto che stavi riposando e che non volevi essere disturbato, ma ha insistito.”

“Fallo venire”, rispose prontamente Aragorn, “E manda a dire al Principe Imrahil che ho bisogno di lui.”

L’uomo annuì e scomparve nella notte silenziosamente come era venuto. Aragorn si alzò e girò attorno al fuoco per salutare il Signore di Morthond con la dovuta cortesia. Contrariamente al silenzioso Ramingo, Duinhir annunciò il suo arrivo con il tintinnio di cotte di maglia e il calpestio di stivali, e Aragorn non fu sorpreso di vedere che era accompagnato da una mezza dozzina di uomini. Il vecchio signore avanzò nel cerchio di luce, alto e orgoglioso, con la mano sul pomo della spada e il cervo simbolo di Morthond ricamato sul petto, ma c’era qualcosa di simile alla paura nei suoi occhi. Si fermò lontano da Aragorn e si inchinò rigidamente.

“Mio signore. Chiedo perdono per la mia intrusione, ma si tratta di qualcosa che non poteva aspettare fino al mattino.”

“Non c'è bisogno di scusarsi, lord Duinhir.” Gli occhi di Aragorn ispezionarono la scorta dietro di lui, e le parole di benvenuto gli morirono in gola. “Come posso servirti?”, chiese semplicemente.

“Sono io che vengo per servire il mio re, e spero, così facendo, di riabilitare il nome di Morthond.” Con un gesto secco all’uomo dietro di lui, disse, “Mi avevi affidato un incarico, mio signore. L’ho eseguito.”

La scorta si aprì, e dai ranghi uscirono due uomini - un soldato e un prigioniero. Il prigioniero camminava di sua spontanea volontà, obbedendo all’ufficiale che lo guidava per un braccio, anche se aveva le mani legate, e il suo viso era tetro e risoluto. Indossava la cotta di maglia e il corpetto in cuoio degli arcieri di Morthond, con lo stemma del cervo sulla spalla, e si muoveva con la sicurezza di un veterano. L’ufficiale lo fece cadere in ginocchio davanti ad Aragorn.

“Quest’uomo è il sicario che era fuggito, sire Gemma Elfica”, ringhiò selvaggiamente Duinhir. Fece un cenno a un altro uomo che gli porse una spada sguainata. Porgendo a sua volta la spada ad Aragorn disse, “Lo consegno alla tua giustizia, e ti chiedo di guardare a Morthond come a un tuo fedele alleato, in questa e in tutte le cose.”

Aragorn accettò la spada, senza distogliere lo sguardo dall’uomo inginocchiato. “Come lo avete trovato?” chiese a Duinhir.

“Si è costituito e ha ammesso la sua colpa.” Un mormorio di sorpresa corse attraverso la Compagnia.

“Non c’è alcun dubbio che sia stato lui a progettare e a mettere in atto l’aggressione al Sovrintendente. I dettagli che mi ha dato sul luogo, l’ora e gli eventi coincidono con ciò che hai detto tu.”

“Voglio sentirlo da lui”, disse Aragorn.

Un movimento alle sue spalle catturò la sua attenzione, e Aragorn si voltò, vedendo Legolas che gli porgeva la sedia. Lo ringraziò con un cenno e si sedette, assumendo inconsciamente una posa regale e minacciosa, tenendo la spada del prigioniero di traverso sulle ginocchia. Il resto della Compagnia si sistemò alle sue spalle e ai lati, come un pubblico formale. Boromir stava in piedi alla sua destra, con Merry al suo fianco, e Aragorn non poté trattenersi dal guardare per un istante il suo viso, cercando di cogliere la sua reazione. Il Sovrintendente aveva un aspetto impassibile che anche Aragorn si augurava di avere.

Rivolgendo uno sguardo gelido all’uomo inginocchiato, Aragorn domandò, “Chi sei?”

“Elenard di Morthond, mio signore.”

“Elenard di Morthond, è vero che hai tentato di assassinare il Sovrintendente di Gondor?”

“È vero.” Elenard spostò lo sguardo su Boromir, e sembrò intuire che il cieco voleva udire un altro poco la sua voce. Obbediente, continuò. “La notte prima che marciassimo, io e il mio compagno abbiamo trovato il Sovrintendente in un giardino, nella parte alta della città. Era solo - indifeso, pensavamo - una facile preda. Abbiamo tentato, e abbiamo fallito. Quella piccola creatura,” e indicò verso Merry, “ce lo ha impedito.”

Prima che chiunque altro potesse parlare, Merry balzò in avanti abbandonando il suo posto accanto a Boromir, col viso furente e gli occhi che lampeggiavano di rabbia.

“Codardo! Io ti conosco! Tu sei il vigliacco che non ha voluto combattere contro di me! Beh, ora ho una vera spada, e ti insegnerò io cosa accade a chi vuole uccidere i miei amici! Slegalo, Aragorn, e dagli la sua arma…”

“Pace, Merry.” Il pacato ordine di Aragorn calmò lo sfogo di rabbia dello hobbit, e lo fece tornare al suo posto, ma il fuoco della vendetta bruciava ancora negli occhi di Merry.

“Boromir? È lui?”

“Sì.”

“Allora non ci sono dubbi. Sei un vile traditore, Elenard, e hai disonorato il nome del tuo popolo.”

Elenard chinò il capo e attese in silenzio.

“Pagherai con la vita. Non c’è perdono per il tuo crimine, e non ti posso promettere alcuna pietà. Ma se vuoi morire con una qualche parvenza di onore, o chiedere perdono per il male che hai commesso, ti concedo di farlo.”

“Non cerco pietà,” ringhiò Elenard, e per la prima volta, Aragorn udì una nota di sfida nella sua voce, “ma nemmeno tu puoi privarmi del mio onore. Io sono fedele al mio signore e alla Corona di Gondor! Non sono un traditore!”

“E chi governa Gondor in assenza del re?” domandò Aragorn, sentendo la rabbia in lui crescere pericolosamente. “A chi devi la tua fedeltà, se non a lui? Non puoi alzare la tua spada contro il Sovrintendente di Gondor e dire che sei fedele alla Corona di Gondor! Per quello che hai fatto, ti ucciderei volentieri con le mie mani, e se non fossi un re con dei doveri verso il mio popolo che chiede giustizia, anche per quelli come te, tu non usciresti vivo da questo luogo!”

Le sue parole infuriate risuonarono nel silenzio, e nessuno attorno a lui osò romperlo, tanto era il peso della sua ira che aleggiava nell’aria. Elenard continuava a tenere gli occhi bassi e le spalle incurvate, ogni traccia di sfida scomparsa dal suo contegno. Gli uomini di Duinhir si agitarono nervosamente, mentre con lo sguardo cercavano la sicurezza della notte oltre il falò, ritirandosi dai visi immobili e spietati dei compagni del Re.

Aragorn abbassò lo sguardo sull’uomo prostrato, e si ricordò che questi non era che un mezzo, una pedina nelle mani del Nemico. Si era consegnato spontaneamente al suo signore, sapendo che gli sarebbe costato la vita, piuttosto che fuggire ricoprendosi di infamia, e Aragorn doveva trattarlo con giustizia. Giustizia, non vendetta. Il dovere prima di tutto.

“Chi ti ha spinto a fare questo?” chiese, di nuovo calmo e controllato.

Elenard esitò per un solo momento. “Hirluin, anch’egli di Valle Cepponero.”

“È l’uomo che teniamo prigioniero a Minas Tirith,” disse Boromir.

Aragorn annuì, ma non distolse lo sguardo da Elenard. “Ci sono altri?”

“No, mio signore.”

“Nessuno vi ha aiutato a progettare il vostro atto o a coprire la vostra fuga?”

“No.”

“Molto bene, per il momento questa risposta mi basta. Ora, Elenard, ti concedo di giustificare le tue azioni.”

“Cosa dovrei dire?” chiese il soldato.

“Dimmi perché hai tentato di uccidere il mio amico.”

La minaccia nella voce di Aragorn fece trasalire Elenard, ma l’uomo mantenne il suo contegno, e rispose con decisione. “Ho fatto ciò che ritenevo giusto per scacciare il Nemico dalla città e per dare all’esercito una speranza di vittoria.” Esitò, poi aggiunse, bruscamente, “E per vendicare i miei giovani signori.”

“I tuoi signori?” Aragorn guardò Duinhir e vide un’espressione addolorata e sconvolta sul suo viso. L’anziano signore si voltò per nascondere il suo turbamento.

“I figli di Duinhir sono morti innanzi ai cancelli di Minas Tirith, quando il Sovrintendente-Ombra cavalcava tra noi”, ruggì Elenard.

“Boromir ha forse ucciso i tuoi signori?”

“Sono stati gli orchi di Mordor a ucciderli, ma è stata la sua presenza sul campo di battaglia che ha segnato la loro condanna! Non sarebbero morti, se lui se ne fosse restato entro le mura della città, con la spada nel fodero e il suo sventurato volto nascosto, come si addice a un relitto inutile di soldato!”

Un mormorio di rabbia si alzò dagli astanti, ma Elenard li ignorò. Per la prima volta, si rivolse direttamente a Boromir, e ad Aragorn parve che i due uomini fossero soli, intenti a una battaglia di volontà che non riguardava nessun altro. “Come hai potuto, tu, veterano di tante guerre, portare su di noi una tale disgrazia? Come hai potuto gettare la tua oscurità su di noi in un momento come questo?”

“Che cosa avresti fatto al mio posto?” domandò Boromir. “Avresti lasciato la tua spada nel fodero e nascosto il tuo viso, mentre un esercito di orchi si riversava attraverso i cancelli della città? Io non temo alcuna maledizione, Elenard. Non ho colpa per la morte dei tuoi signori. Ma se invece avessi lasciato che la Città Bianca cadesse nelle mani del nemico senza alzare un dito per proteggerla, allora sì che sarei stato una disgrazia per il mio popolo!”

“Certo, hai scacciato gli orchi dai cancelli. Ma i segni? I presagi?”

“Quali presagi? Sauron è caduto, Minas Tirith è libera, e io vivo. Che segno è questo?”

“È stato il Re a sconfiggere l’Innominabile. Il sire Gemma Elfica, uscito dalla leggenda per salvarci dall’Ombra. Non tu, figlio di Denethor.”

Boromir scosse le spalle. “È vero. Ma non ho nemmeno gettato Gondor nell’oscurità, né causato la sconfitta dell’esercito dell’Ovest cavalcando con loro. Se davvero fossi una maledizione non sarei certo un granché.”

La risposta di Elenard andò persa nell’agitazione dovuta all’arrivo di Imrahil. Il Principe si avvicinò al fuoco, seguito dalla sua scorta, un Ramingo solitario che si muoveva senza rumore accanto a lui. Quando i due uomini entrarono nel cerchio di luce, Aragorn vide che il Ramingo era Halbarad. Il Re lo osservò con sospetto, incerto se essere lieto o irritato che il suo luogotenente avesse deciso da sé di unirsi alla riunione, ma non fece alcun commento.

Imrahil si fermò a qualche passo da Aragorn e dal prigioniero inginocchiato, e il suo sguardo stupito vagò sui membri del gruppo. “Mi hai mandato a chiamare, mio signore?”

“Sì. Grazie per essere venuto così in fretta.”

Imrahil annuì, e corrugò la fronte quando guardò il prigioniero. “Questo chi è?”

“Il sicario scomparso.” Imrahil si accigliò ancora di più, e fece un passo avanti. Stava per parlare, ma Aragorn lo fermò con un gesto della mano.

“Chiedo la tua pazienza, Imrahil. Quando avrò finito con quest’uomo, ti dirò perché ti ho mandato a chiamare.”

Imrahil obbedì, ritirandosi accanto ad Halbarad. Aragorn notò il modo in cui i due si avvicinarono, in quell’atmosfera carica di tensione. Rivolgendosi a Elenard, disse, “È chiaro che sei stato solo uno strumento nelle mani di una mente più subdola e scaltra, e provo pietà per te.”

“Tutti nell’esercito sanno che la venuta del Sovrintendente-Ombra porterà sconfitta e oscurità! Chiedetelo a qualunque soldato, attorno a qualunque falò, e vi dirà la stessa cosa!”

“Lo so, perché tutti avete prestato ascolto alle stesse maldicenze. Ora ascolta me, Elenard di Morthond. Non sono forse io il sire Gemma Elfica, uscito dalla leggenda per salvarvi dall’Ombra?”

“Sì…”

“Allora prestami ascolto e credi a ciò che dico. Non esiste una tale credenza, non c’è nessun presagio di sventura. Questa superstizione è stata diffusa tra voi per alimentare la vostra paura e indebolire la vostra ragione. È una menzogna, Elenard. Nulla di più. Poiché tu l’hai creduta, hai perduto il tuo onore, infangato il tuo nome, e ti sei condannato a una fine da traditore.”

Elenard si inumidì le labbra nervosamente, e lanciò a Boromir uno sguardo furtivo. “Forse…forse ho dubitato…dopo la nostra vittoria davanti al Cancello Nero.”

“Per questo ti sei consegnato al Lord Duinhir?”

L’uomo esitò, poi fece un cenno col capo che passò per un assenso.

Aragorn si sporse in avanti sul suo scranno. “Guardami.” Riluttante, Elenard sollevò lo sguardo per incontrare quello del re, e Aragorn lo fissò intensamente negli occhi, cercando qualche traccia di falsità o di inganno. “Chi ti ha messo in testa questa menzogna?” domandò a bassa voce.

Elenard scosse la testa. “Nessuno. Non lo so!”

“Non sperare di ingannarmi, Elenard. Dimmi chi ha versato questo veleno nelle tue orecchie.”

“L’ho sentito dire in tutto l’accampamento. Dalla notte dopo la battaglia, quando si diffuse la storia della morte dei giovani signori, e dell’incursione del Sovrintendente fuori dai cancelli… era sulla bocca di ogni soldato!”

Aragorn continuò a fissarlo ancora per un momento, poi si sedette di nuovo all’indietro con un sospiro. Osservò il prigioniero pensierosamente, poi posò lo sguardo sui visi pallidi e tesi che lo circondavano. Duinhir e i suoi uomini sembravano i più scossi.

“Solo un’altra domanda. Hai visto estranei nel tuo accampamento quella notte, o prima che partissimo da Minas Tirith?”

“Certo.” Elenard lo guardò confuso. “Molti. Eravamo in mezzo a tanti soldati. Uomini di Anfalas, dell’Ethir, di Lamedon…tutti si muovevano liberamente tra le tende e parlavano con gli amici.”

“E c’era qualcuno le cui insegne non conoscevi? O la cui presenza era sospetta?”

“Non che io ricordi, mio signore.”

“Molto bene.” Alzandosi dal suo scranno, Aragorn porse la spada di Elenard a Pipino, e fece il giro attorno al fuoco. Si avvicinò a Duinhir tendendogli la mano. Il signore di Morthond rispose alla sua stretta con gratitudine. “Mi hai reso un grande servizio, Duinhir, e ti ringrazio. Ma ho un ulteriore compito da affidarti.”

“Sarò lieto di servirti come potrò.”

“Parla ai tuoi uomini. Trova chi è stato il primo a diffondere la diceria del Sovrintendente-Ombra, risali alle origini. Chiedi ai signori delle terre vicine, a quelli che sono accampati attorno a voi, e i cui uomini vagano liberamente per il vostro accampamento. Non credo che questo vile tradimento venga da voi, ma è venuto alla luce tra i vostri uomini, e perciò è tra loro che dobbiamo cominciare a cercare.”

“Farò tutto ciò che è in mio potere per trovare i traditori, mio signore.”

“So che lo farai. E ora, ritornate alle vostre tende con i miei ringraziamenti, e lasciate a me questo disgraziato.”

Duinhir si inchinò e si voltò per andarsene, con i suoi uomini dietro si lui. Non appena i loro passi furono svaniti nell’oscurità della notte, la tensione accanto al fuoco si allentò visibilmente. Legolas e Gimli affiancarono il prigioniero, posando le mani sulle loro armi con un’aria di calma vigilanza. Pipino posò con cautela la spada di Elenard sull’erba, poi prese il suo boccale di vino e si sedette su una sedia vuota per osservare comodamente gli altri. Anche Gandalf si sedette, ma non trascurò il compito che li aspettava oltre il tempo necessario per accendersi la pipa.

Boromir si sarebbe volentieri ritirato in un posto tranquillo lontano dal falò, ad aspettare, ma Imrahil lo prevenne, posandogli una mano sul braccio e chiedendo, “E' vero, Boromir? Hanno preso l’assassino e svelato la cospirazione?”

“Sì.”

“Abbiamo trovato soltanto l’arma, non il traditore”, disse Aragorn, più aspramente di quanto avesse voluto.

Imrahil si voltò rapidamente verso di lui. “Che cosa vuoi dire, mio signore?”

Aragorn ignorò la sua domanda. Ritornando presso il fuoco, si avvicinò al prigioniero, e per la prima volta, non c’era rabbia nei suoi occhi mentre guardava l’uomo legato.

Indicando Imrahil chiese, tranquillamente, “Conosci quell’uomo, Elenard?”

“È il Principe di Dol Amroth, mio signore. Abbiamo combattuto molte volte sotto lo stendardo del Cigno.”

L’arciere chinò la testa in un piccolo inchino a Imrahil. “Mio signore, principe.”

Imrahil si accigliò , senza rispondere al saluto.

“Hai mai parlato con lui?”

“No, signore.”

“Lo hai mai visto parlare con qualcuno dei tuoi compagni nell’accampamento di Morthond?”

“No, signore. Prima di stanotte non lo avevo mai visto che sul campo di battaglia, e anche lì solo da lontano.”

“Che follia è mai questa?” domandò il principe.

“Pazienza, Imrahil. Ho quasi finito.” Spostò lo sguardo dal Principe al Ramingo silenzioso, che si era tenuto un po’ in disparte, al limite del cerchio di luce.

“Vieni avanti, Halbarad.”

Halbarad si mosse come un’ombra sull’erba, avvicinandosi fino a essere accanto a Aragorn. Il suo viso era tranquillo e impassibile, i suoi occhi non tradivano altro che curiosità mentre osservavano Elenard.

“Conosci quest’uomo?” Chiese Aragorn al prigioniero.

“Certo, è uno dei vostri Raminghi, mio signore.”

“Lo hai mai visto nel tuo accampamento?”

“Molte volte.”

“Davvero? Quando?”

“Durante la marcia sulla Terra Nera. I Raminghi vagavano per il nostro accampamento - cercandomi, così pensavo - e lui è venuto spesso.”

“E prima di lasciare Minas Tirith?”

“Elenard osservò attentamente il viso immobile, poi scosse le spalle. “Forse. Non ricordo.”

Halbarad non ebbe alcuna reazione, ma Imrahil stava perdendo la calma. Con le guance in fiamme, spalancò gli occhi e disse, “Dobbiamo ora essere esaminati da un traditore? Te lo chiedo di nuovo, mio Re, cosa significa tutto ciò?!”

“È bene che tu ricordi chi sono!” ribatté Aragorn, sfogando un po’ della sua rabbia. “Stai attento alle condanne che lanci, Principe Imrahil, perché potrebbero ricadere sul tuo capo! Elenard, tu andrai con questo Elfo e questo Nano, che ti condurranno dai tuoi carcerieri. Rimarrai sotto stretta sorveglianza fino a che non raggiungeremo Minas Tirith, e là deciderò il tuo destino. Non parlerai a nessuno senza il mio permesso, e non tenterai di fuggire, o sarai ucciso senza pietà. Mi capisci?”

“Sì, mio signore.”

“Bene. Legolas, Gimli, portatelo da Éomer. Credo che con gli uomini di Rohan sarà al sicuro e ben sorvegliato.”

Gimli proruppe in una breve risata. “Non se Éomer sa di chi si tratta!”

“Voi direte a Éomer da parte mia che voglio che mi consegni il prigioniero nella Torre di Guardia, illeso. E ditegli che affido a lui questo compito perché mi fido di lui completamente. Fallo alzare, Legolas.”

Legolas prese Elenard per un braccio e lo fece alzare con facilità. L’uomo si inchinò ad Aragorn, e, dopo un momento di esitazione, anche a Boromir e a Imrahil. L’Elfo e il Nano lo afferrarono per le braccia e lo condussero lontano dal fuoco, e Gimli andandosene lanciò un ultimo sguardo minaccioso a Halbarad.

Aragorn distolse lo sguardo dalle figure che si allontanavano, e vide che Boromir era rimasto in piedi accanto a lui. Lo sguardo del Re si posò sul viso del Sovrintendente per un momento, vedendovi tensione e stanchezza, e Aragorn improvvisamente desiderò di potergli risparmiare ulteriori amarezze, almeno per quella notte. Vedendo il dolore scolpito in quel viso familiare, capì quanto profondamente Boromir soffrisse nell’essere la causa di tanta agitazione, e l’oggetto di tanto disprezzo.

“Non c’è bisogno che tu resti, Boromir,” disse Aragorn. “Tu e Merry venite da un lungo viaggio e dovreste riposare.”

Boromir sorrise senza allegria, facendo apparire il suo viso ancora più teso. “Vorrei sentire quello che ha da dire il mio consanguineo.” Tese una mano a Merry, che non era mai più lontano di un passo o due da lui, e il mezzuomo si avvicinò prontamente. “Sei stanco, Merry? Forse tu e Pipino volete stare un po’ insieme.”

“No.” Merry mise la sua piccola mano nella grande mano di Boromir. “Anch’io voglio sentire.”

“Lo vogliamo tutti,” intervenne Gandalf, bruscamente. “Hai molto da spiegare, Dol Amroth.”

Imrahil osservò un viso dopo l’altro, trovando solo sguardi implacabili e visi contratti, senza comprensione. Il suo viso era innaturalmente pallido, perché l’indignazione aveva lasciato il posto alla consapevolezza. “Hai parlato con Faramir”, disse infine, con voce piena di dolore.

“Mi ha detto della tua cospirazione”, rispose Boromir.

Imrahil raddrizzò il capo orgogliosamente, irrigidendosi. “Cospirazione? È una parola dura per una leale alleanza tra uomini per una giusta causa”.

“Chiamala come vuoi, il fine è il medesimo. Stai cercando si privarmi del mio diritto di nascita per darlo a mio fratello, andando contro le leggi di successione e il volere del tuo Re.”

“Non farò nulla contro il volere del mio Re, ma come suo leale vassallo è mio diritto e dovere esprimere le mie preoccupazioni a questo riguardo. Se le mie parole non contano per lui, allora sia. Mi inchinerò al suo volere, in questa come nelle altre cose. Ma non resterò fermo a guardare senza consigliare la sua scelta su un argomento così importante come il futuro di Gondor!”

Aragorn fissava il Principe con uno sguardo fermo e neutrale che sapeva essere irritante quanto uno scoppio d'ira. “Un bel discorso, Imrahil, ma non risponde alla domanda riguardo al tradimento.”

“Quale tradimento?” Aragorn poteva vedere lo stupore oltre il suo orgoglio ferito.

“Che cosa ho fatto, se non parlare con un mio consanguineo a proposito del bene di suo fratello?”

“Non lo so. Che altro hai fatto?”

Imrahil si agitò, a disagio, ma sostenne lo sguardo di Aragorn senza tirarsi indietro. “Se hai parlato con Faramir, sapete tutto il mio ruolo in questa storia.”

“Te lo chiederò apertamente, Principe Imrahil, ed esigo una risposta diretta. Sei stato tu a diffondere dicerie tra gli eserciti del Sud per incitare gli uomini a fare del male a Boromir?”

Gli occhi di Imrahil si spalancarono per lo sconforto. “Non sono stato io”.

“Hai parlato con qualcuno che ha suggerito una tale azione, o che si vantava di averlo fatto?”

“No! Santo cielo, Aragorn, per chi mi hai preso?! Boromir è mio consanguineo! Pensi che avrei alzato la mano contro di lui, o che avrei permesso a un altro di farlo?”

“Volevi privarlo della sua primogenitura.”

“Per proteggerlo! Per risparmiargli gli orrori sofferti da suo padre!” Rivolgendosi a Boromir, tese una mano e disse, quasi implorando, “Sai che non avrei mai fatto una cosa del genere, Boromir! Non puoi crederlo!”

“Non voglio crederlo,” rispose Boromir, la voce bassa e carica di emozione, “Ma nulla è stato come io volevo, da quando sono tornato. Sono tornato a casa per porre la mia spada e la mia vita al servizio di Gondor, come un suo figlio devoto, solo per scoprire che essa non mi riconosce più.”

Il viso di Imrahil si fece pallido, e la sua bocca si contrasse. Restò a bocca aperta. “Ve lo giuro, a entrambi, sul mio onore. Non ho commesso una tale viltà.”

Aragorn continuò a fissarlo per un momento, esaminando la sincerità dei suoi occhi, poi annuì brevemente. “Ascolterò le tue preoccupazioni riguardo il mio Sovrintendente quando terrò Consiglio a Minas Tirith. Fino ad allora, mi aspetto che tu lo appoggi in tutto e per tutto con onore. Ricorda, mio lord Principe, che la Corona di Eärnur non è ancora sul mio capo. Non sono ancora il vostro Re. È a Boromir, Sovrintendente di Gondor, che devi la tua fedeltà.”

“Non l’ho dimenticato.”

“Molto bene.”

“Posso congedarmi, ora, sire Aragorn?”

“Dimmi solo un’altra cosa. Chi altri fa parte di questa… alleanza?” Aragorn vide che Imrahil esitava, e lesse il sospetto sul suo viso. “Ti riterrò innocente dall’accusa di tradimento, Imrahil, così come chiunque sia con te e agisca in buona fede. Ma qualcuno ha tentato di fare del male a una persona a cui tengo come a me stesso. Non posso permettere che resti impunito.”

“Avete il vostro sicario.”

“Sai bene quanto me che Elenard è stato semplicemente lo strumento di qualcuno di più scaltro. Forse troverò il colpevole tra i tuoi alleati. Forse no. Ma devo pur cominciare da qualche parte.”

Imrahil considerò le sue parole per un altro momento, poi finalmente annuì. Diede ad Aragorn molti nomi, rappresentanti di molti nobili casate di Gondor, e un buon numero di alleati più distanti, compresi Lord Taleris e Faramir. Quando ebbe finito, lanciò uno sguardo penetrante a Halbarad e disse, “È stato il tuo luogotenente a venirmi a cercare per convincermi a parlarne con Faramir.”

“Halbarad?”

“Sì.”

Aragorn non ebbe il coraggio di guardare il ramingo mentre parlava. Temeva che la sua forza non sarebbe stata sufficiente, e non voleva perdere la calma di fronte a Imrahil. Tenendo lo sguardo fisso sul principe, disse, “Grazie per il tuo aiuto.”

Imrahil si inchinò con rigidezza. “Spero che troverete il colpevole di questo crimine.” Rivolgendosi a Boromir aggiunse, “E spero che tu capisca la ragione per cui faccio questo, Boromir. Come te, voglio solo proteggere il mio paese.”

“Non ne discuteremo ora,” rispose Boromir, calmo.

“No, non ora. Vi auguro una buona notte.” Con un altro rigido inchino rivolto a tutti i membri della Compagnia, si voltò e si allontanò con fierezza verso l’oscurità oltre il fuoco.

Ancora prima che il Principe fosse fuori portata della sua voce, Gandalf si alzò in piedi. Sorridendo a Pipino, con il suo solito luccichio divertito negli occhi, disse, “Vieni, Mastro Took. Andiamo a cercare una panca dove riposare le nostre stanche membra mentre fumiamo la pipa insieme.”

Pipino scese dalla sedia e mise le mani in tasca. “Ho lasciato il sacchetto nella tenda.”

“Allora andremo a prenderlo, se hai qualche buona foglia di Pianilungone da dividere con un vecchio amico.” Lo stregone condusse lo hobbit verso il limite dello spiazzo illuminato dal fuoco, e mentre passava lanciò ad Aragorn uno sguardo grave e carico di comprensione. “Merry? Boromir? Volete unirvi a noi?”

Boromir arruffò i capelli di Merry in un inconsapevole gesto di affetto, e disse, “Io andrò all’accampamento di Rohan. Credo che Èomer abbia un posto tranquillo dove farmi dormire, e ho intenzione di passare la notte con i Rohirrim. E tu Merry?”

“Io verrò con te”, disse Merry. “Il Re mi ha offerto un posto alla sua tavola e un letto nella sua tenda, se li desidero.”

“Allora andiamo, mastro scudiero.”

Congedandosi a bassa voce da Aragorn, i quattro compagni si allontanarono rapidamente. Aragorn ne fu grato ma allo stesso tempo dispiaciuto. Non voleva che assistessero a quello che stava per accadere, ma avrebbe voluto avere la loro presenza accanto per sostenerlo. Tenne lo sguardo fisso verso le ombre notturne che li avevano inghiottiti, mentre cercava di dominare le sue emozioni contrastanti, e di trovare le parole per rivolgersi al suo consanguineo.

Dietro di lui, Halbarad si mosse, e parlò, con voce calma. “Devo occuparmi del cambio delle sentinelle.”

“No, non andare!” Aragorn si voltò all’improvviso e vide che Halbarad non si era mosso. I suoi occhi incontrarono quelli di Aragorn, fieri e solenni, e sebbene la sua mano fosse posata sull’elsa della spada, non c’era minaccia nel gesto. Era la posizione di attesa che usava sempre quando ascoltava gli ordini del suo capitano. Aragorn ricambiò il suo sguardo, senza cercare di nascondere il suo turbamento.

ra Halbarad, che ora stava in piedi di fronte a lui. Quello era un uomo che conosceva quanto se stesso - un uomo che aveva combattuto e sofferto accanto a lui durante i lunghi anni di esilio, che lo aveva aiutato nei momenti più oscuri della sua vita e non aveva mai vacillato nella sua lealtà. Erano dello stesso sangue. Condividevano un comune destino e un affetto non comune. Quando un’ombra cadeva su di uno, anche l’altro la sentiva. E ora, quando avrebbero dovuto rallegrarsi per quel legame d’affetto, ne erano invece feriti.

Era una tortura per Aragorn pensare che il suo consanguineo potesse averlo tradito. E che la motivazione di Halbarad fosse stato il suo amore per il suo re lo rendeva ancora più difficile da sopportare. Era vero che il Ramingo non aveva ancora fatto nulla per meritare il nome di traditore, per quanto ne sapeva Aragorn, ma il suo ruolo nella coalizione contro Boromir dimostrava che era capace di una gelosia e di un rancore che Aragorn trovava terribili. Anche se Halbarad si fosse dimostrato innocente da ogni torto, Aragorn non sarebbe più stato capace di guardarlo con la stessa fiducia e lo stesso amore incondizionato di prima.

Halbarad doveva aver capito il conflitto che lo tormentava, e certo sapeva come anticipare i suoi pensieri. Un piccolo sorriso apparve sul suo viso, disturbandone la solennità, senza però raggiungere i suoi occhi gelidi.

“Vuoi interrogare anche me? Dove mi trovavo in quel momento? Con chi ho parlato?”

“Devo farlo.” La voce di Aragorn suonò inespressiva alle sue orecchie. “Devo sapere da che parte stai, Halbarad.”

“Io sto con te, come sempre. Se lo metti in dubbio, allora non sei più l’uomo che ho seguito per tutta la Terra di Mezzo.”

“Uno di noi è cambiato. Questo è chiaro.” Improvvisamente, l’amarezza e il dolore riaffiorarono con violenza, facendo perdere il controllo ad Aragorn, e spingendolo a fare una difficile domanda. “Come hai potuto tradirmi così, Halbarad? Perché?”

Il viso di Halbarad si irrigidì in una maschera furiosa, e i suoi occhi fiammeggiarono. “Hai dimenticato di chi è figlio? Hai dimenticato gli insulti, il disprezzo, il disdegno che hai sofferto per colpa di suo padre?”

“Boromir non è suo padre!”

“Ma è stato cresciuto da lui! Allevato e viziato, e incoraggiato da lui nelle sue vili ambizioni! Come puoi guardarlo in viso senza vedere l’orgoglio di Denethor? Ricordati di Thorongil, non fidarti del figlio di Denehtor!”

“Lo ricordo, Halbarad. Ma più di tutto, ricordo l’amarezza che tu hai provato, quando l’ostilità di Denethor costrinse Thorongil a lasciare Gondor. Ma te lo dissi allora, e te lo ripeto ora, il tempo non era maturo per la mia venuta. Era giusto lasciare Minas Tirith al suo legittimo signore e aspettare il momento per conquistare la corona apertamente, sul campo di battaglia, sconfiggendo il nostro nemico. Ho seguito il consiglio di Gandalf e non l’ho mai rimpianto.”

“Certo.” La mano di Halbarad si strinse attorno all’elsa della spada, mentre cercava di dominare la sua rabbia. “Tu hai sempre considerato il consiglio di Gandalf più di ogni altra cosa.”

“Mi stai dicendo che non ti fidi di Gandalf?”

“Ti sto ricordando che è stato Gandalf a metterti in guardia contro Boromir.”

“Ti sbagli.”

“Ti ha detto che Boromir era troppo il figlio di suo padre per ascoltare i consigli dei saggi. Gandalf non ha forse sempre guardato a Faramir, per il bene di Gondor? Secondo la sua opinione, Faramir è un uomo saggio, capace di giudizio e di comprensione, mentre Boromir è un uomo orgoglioso, ambizioso ed egoista!”

“Gandalf ha cambiato la sua opinione. Ma tu… tu non conosci Boromir! Non sai quello che ha passato e sofferto per conquistare il suo posto al mio fianco.”

“So solo che tu hai lasciato che la pietà offuscasse il tuo giudizio.”

na grande rabbia, cieca e furibonda come quella di Halbarad, si impadronì di Aragorn. Amarezza, dolore, rimpianto - tutto era scomparso, divorato da quella rabbia. Ma contrariamente ad Halbarad, Aragorn non perse la calma. Rimase fermo e immobile, il suo viso freddo e duro come il diamante, e la sua voce bassa e pericolosa. Solo i suoi occhi tradivano la sua emozione. Scintillavano feroci alla luce del fuoco, e per un terribile momento, Aragorn sembrò poter fustigare l’altro uomo solo con la forza del suo sguardo, strappare carne e vestiti per scoprire la sua anima e leggere la sua colpevolezza.

“Stai dimenticando te stesso, Halbarad.”

Il Ramingo trasalì impercettibilmente, riconoscendo la pericolosità che si nascondeva nella sua voce calma, ma non cedette. “Non dimenticherò mai ciò che devo all’Erede di Isildur. Ti servirò fino alla morte, che tu lo accetti o no, e combatterò finché avrò forza per proteggerti!”

“Se hai spinto i fedeli vassalli di Gondor alla violenza contro il loro Sovrintendente, allora sei un traditore. Ma non avrai una fine da traditore.”

Il dubbio balenò negli occhi di Halbarad. “Che cosa intendi dire?”

Aragorn si avvicinò di un passo, portando con sé la minaccia silenziosa della sua rabbia. “Tu non morirai insieme a Elenard e Hirluin. Non arriverai al patibolo. Se scopro che hai tentato di assassinare Boromir, ti ucciderò io con le mie stesse mani.”

Halbarad deglutì, e la tensione nell’aria fece sembrare il rumore penosamente forte. “E se non l’ho fatto?”

“Allora non sei un traditore.” Non aggiunse altro, perché non sapeva cos’altro poteva offrire. Le parole erano state troppo crude, troppo amare, e la possibilità del tradimento era troppo reale per ammettere un gesto più amichevole.

“Crederai alla mia parola? O l’amore per il figlio di Denethor ti ha avvelenato a tal punto da metterti irrimediabilmente contro di me?

Aragorn sentì il viso contrarsi, e vide una nuova paura negli occhi di Halbarad. “Dimmi la verità, e io lo saprò.”

“Non ho spinto Elenard all’omicidio”, disse il Ramingo, con una nota di ostilità nella sua voce che non riuscì a controllare. “Non ho parlato a nessuno con quell’intenzione, né desidero la morte del legittimo governante di Gondor. Tutto ciò che ho fatto e che faccio, è per il tuo bene. Non voglio altro che tu prenda la Corona e che Gondor sia in pace nelle tue mani.”

Aragorn osservava il suo viso intensamente mentre parlava, e capì che Halbarad diceva il vero. Non gli sfuggì l’attenta scelta di parole da parte del Ramingo, e non poté fare a meno di chiedersi quali altre verità, meno piacevoli, si celavano dietro quelle accorte frasi, ma non disse nulla. Non aveva prove che Halbarad gli stesse nascondendo qualcosa, e non aveva alcuna ragione di dubitare di lui se non i suoi stessi dubbi. Per quella notte, le sue nude verità, per quanto insoddisfacenti, avrebbero dovuto bastare.

“Cosa ne dici, Aragorn?” domandò Halbarad. “Ti ho detto la verità?”

“Sì.” Aragorn si ritrasse da lui, improvvisamente troppo stanco per sostenere ancora il suo sguardo. Le parole successive gli si bloccarono in gola, ma si sforzò di pronunciarle ugualmente. “Ti ringrazio.”

Halbarad non disse nulla per un lungo momento, e Aragorn si accorse che il suo buon senso stava lottando contro il suo orgoglio ferito, oscillando tra uno e l’altro. Alla fine il buon senso ebbe la meglio, e il Ramingo parlò senza tradire alcuna emozione. “Mi occuperò del cambio delle sentinelle. E poiché tu ritieni che non sia l’arciere il vero nemico, e che un traditore sia ancora in libertà tra di noi, rinforzerò la sorveglianza alla tua tenda.”

“Non è necessario. Io sono al sicuro.”

“Non deve accadere alcun male al nostro Re.” Halbarad eseguì un breve inchino, al quale Aragorn rispose con un cenno del capo, poi si voltò e se ne andò rapidamente.

Aragorn si lasciò cadere sulla sedia più vicina, e si prese il viso tra le mani. Restò così, immobile, per un lunghissimo tempo, cercando la forza di ritrovare il controllo di se stesso. Infine sollevò la testa. L’incerta luce del fuoco rivelò un viso calmo e rilassato, la stanchezza nei suoi occhi l’unica cosa che tradiva il costo di quella pace. Si alzò in piedi, gettò indietro il mantello, e scomparve nella notte.

*** *** ***

Frodo sedeva alla grande tavolata, tra Sam e Gandalf, con un banchetto regale davanti a sé. Il re in persona presiedeva al gioioso evento, anche se il suo seggio non era più maestoso né i suoi abiti più ricchi di quelli degli altri partecipanti. Guardare il viso di Aragorn era guardare il più grande tra gli uomini. Più di una volta, Frodo si trovò a fissare la regale figura vestita di nero e di argento, con il diadema sul capo e la verde gemma elfica al collo, domandandosi dove fosse andato a finire il suo vecchio amico Grampasso.

Per tutto quel lungo giorno, a Frodo sembrò di vivere in un sogno. Attorno a lui si affollavano visi familiari, ma tutti erano pieni di una strana luce e illuminati da una nuova saggezza, e lo guardavano come se fosse stato un qualche principe uscito da una leggenda, invece che Frodo Baggins della Contea. Canzoni risuonavano nell’aria, celebrando le lodi di guerrieri, eroi e re. Il suo nome era quello che più di tutti usciva dalle labbra del menestrello, ma Frodo ancora non riusciva ad ascoltare quei canti pensando al suo viaggio oscuro. Ascoltava le canzoni come avrebbe fatto con quelle degli Elfi, godendone la bellezza e i racconti di gesta lontane - senza avere l’impressione di esserne parte.

Accanto a lui, Sam ammirava la scena con gli occhi spalancati per l’ammirazione, e un sorriso imbarazzato sul viso. Caro Sam. Il solo appiglio con la realtà che aveva in quel fantastico, scintillante sogno. Quando guardava Sam, Frodo si sentiva di nuovo integro e sano. Se distoglieva lo sguardo troppo a lungo, una strana leggerezza si impadroniva di lui, facendolo sentire come la Fiala di Galadriel, svuotato di tutta la sua sostanza e riempito della chiara luce delle stelle.

Non era una sensazione spiacevole. Era fatta di felicità, assenza di dolore, e sollievo da un terribile fardello che aveva portato per così tanto tempo da non riuscire a ricordare il tempo in cui ne era libero. Ora, almeno, non esisteva più. E con la sua scomparsa era giunta quella sensazione di leggerezza, di un vuoto che poteva essere riempito solo con la luce. O col dolore, se il dolore lo avesse raggiunto di nuovo.

Lì, su quel verde campo, circondato da tutta quella gioia, Frodo non riusciva a concepire la possibilità di altro dolore. Ma la consapevolezza che sarebbe arrivato di nuovo non lo abbandonava mai del tutto. Il vuoto lasciato dalla distruzione dell’Anello era nato dal dolore, creato per esso, uno spazio che sarebbe stato inevitabilmente riempito di nuovo.

Frodo applaudì il cantastorie, e accettò un’altra porzione di cibo mentre rimproverava scherzosamente Pipino, che stava accanto ad Aragorn con una fiasca di vino in mano. Tutto sembrava facile e bello. E Frodo si concesse di accettarlo così come era, finché durava, senza paure o domande. Era tra amici, e nessun’ombra oscurava il suo cuore.

I suoi occhi si spostarono verso l’estremità opposta del tavolo, abbracciando tutta la Compagnia che sedeva vicino a lui. Solo un viso non sorrideva, e Frodo non poté fare a meno di soffermarsi su quel viso, familiare eppure cambiato più di ogni altro. Boromir sedeva alla destra di Aragorn, ma non sembrava essere a suo agio. Non sorrideva, mangiava e beveva pochissimo, e quando nessuno lo coinvolgeva in una conversazione sembrava ritirarsi in se stesso come se volesse scomparire.

Sulle prime la presenza di Boromir aveva messo in imbarazzo Frodo. Non poteva dimenticare il modo in cui si erano separati ad Amon Hen. Frodo sapeva meglio di chiunque altro ciò che l’Anello poteva fare, piegando la mente e la volontà di coloro che stavano troppo a lungo in sua presenza o davano ascolto ai suoi sussurri, e non incolpava Boromir per le sue azioni. Ma non riusciva a sentirsi a suo agio in compagnia dell’uomo, specialmente ora che non sapeva che effetto avevano avuto su di lui la distruzione dell’Anello e la guerra che ne era seguita.

Ma col passare del tempo, osservando Boromir, il suo nervosismo cessò. Tanto per cominciare, Boromir si teneva il più lontano possibile da lui. Era rimasto accanto ad Aragorn durante le cerimonie formali della giornata, e ora sedeva al suo fianco, ma quando era possibile cercava di restare in disparte, lasciando Frodo libero di divertirsi in pace, senza doversi preoccupare del suo stato d’animo, e lasciando tempo al mezzuomo di osservarlo.

Più osservava Boromir, più Frodo si rendeva conto che quello non era lo stesso uomo che lo aveva aggredito ad Amon Hen. Non era solo per la benda di tessuto nero che gli copriva gli occhi - per la quale sulle prime Frodo aveva provato orrore, ma che ora lo rattristava immensamente - anche tutto il suo modo di essere era cambiato. Se Frodo non lo avesse compreso così bene avrebbe potuto credere che l’Ombra lo tenesse ancora in suo potere, tanto sembrava scuro e chiuso in se stesso, ma Frodo non si lasciò ingannare. Sapeva riconoscere il dolore quando lo vedeva. E credeva di conoscere la causa di quel dolore.

Era seduto a tavola, osservando Boromir con aria pensierosa, quando Sam si agitò inquieto accanto a lui ed emise una sorta di brontolio. Frodo si voltò verso di lui, inarcando le sopracciglia con aria interrogativa.

"Qualcosa non va, Sam?"

Sam lanciò uno sguardo cupo verso la fine del tavolo. “Sembra un grande corvo nero. Se ne sta seduto lì accigliato. Mi fa passare l’appetito”.

"Chi?"

"Padron Boromir. Il Sovrintendente, dovrei dire. Non mi piace, padron Frodo, e lo dirò anche a Grampasso, se me lo chiede. Cosa che non farà mai.”

Frodo abbozzò un sorriso. “No, non lo farà, e non credo che tu debba dirgli niente del genere. Boromir non ha nulla che non va, Sam, non più di me o di te. Tutti noi abbiamo camminato un po’ troppo a lungo per strade oscure, e alcuni di noi hanno dimenticato com’è la luce del sole. Ma lo ricorderemo.” I suoi occhi indugiarono sul viso di Boromir, e ripeté, piano, “Lo ricorderemo.”

Sam emise un altro brontolio. “Io dico solo che farà meglio a non avvicinarsi troppo a voi, o dovrà fare i conti con me”.

“Mi dispiace che tu la pensi così, perchè andrò io stesso a parlare con lui, se si presenta l’occasione”.

“No, padron Frodo, adesso non cercate di creare scompiglio! Padron Boromir si sta comportando bene, anche se ha l’aria di chi preferirebbe essere a caccia di orchi. Lasciatelo in pace!”

Frodo non potè trattenersi dal ridere. “É me che stai cercando di proteggere, o lui?”

“Non ho dimenticato ciò che ha fatto, anche se voi sembrate averlo fatto”.

“Non l’ho dimenticato”. Frodo sorseggiò il suo vino e gettò un altro sguardo all’uomo silenzioso. “Ma ora lo capisco meglio”.

Sam commentò con uno sbuffo e ricominciò a mangiare. Frodo rivolse la sua attenzione a Gandalf e alla storia che stava raccontando a Pipino, e per un po’ non pensò più a Boromir. Non fu sorpreso quando il Sovrintendente si alzò per lasciare il tavolo molto presto. Il banchetto non era ancora finito, i menestrelli stavano ancora cantando le loro storie di imprese valorose, quando Boromir spostò la sedia e si alzò. Merry apparve immediatamente al suo fianco, e insieme lasciarono il padiglione.

Frodo non disse nulla, anche se continuò a guardarli finché la tenda non li nascose alla sua vista. Quando Merry ritornò, solo, Frodo fu tentato di chiedergli dove fosse andato Boromir, ma dubitava che Merry glielo avrebbe detto. C’era un legame di affetto tra lo hobbit e l’uomo che Frodo non riusciva a capire completamente. Veniva prima del dovere di Merry verso il suo sovrano, Éomer, dal quale si era congedato con appena una parola quando Boromir aveva avuto bisogno di lui. Merry non avrebbe mai fatto nulla contro la volontà di Boromir. E chiaramente l’uomo non voleva conversare con Frodo in privato, quindi Merry non gli avrebbe certo detto dove trovarlo. Avrebbe dovuto andarlo a cercare da solo, al momento opportuno.

Lentamente, i partecipanti al banchetto lasciarono i loro tavoli per sedere sull’erba all’aria parta, sotto il cielo dell’Ithilien. Cominciarono a girare otri e fiasche di vino. I menestrelli ricevettero da bere e ricominciarono a cantare da capo le loro canzoni. Le parole scorrevano come il vino, e molte voci si unirono al canto dei menestrelli.

Frodo lasciò che Sam lo conducesse dove era radunato il resto della Compagnia. Si sedette insieme agli altri hobbit, ascoltando Gandalf, insolitamente espansivo, che raccontava i giorni gloriosi di Moria, quando Nanosterro scintillava alla luce di innumerevoli torce e risuonava della musica di mille martelli. Secondo Gimli lo stregone non rendeva pienamente giustizia ai suoi antenati, e lo interrompeva di frequente con eloquenti descrizioni, provocando sommesse risate da parte di Legolas, o qualche risposta acida di Gandalf riguardo al fatto che lui, che aveva visto le sale di Moria al tempo del loro splendore, era meglio qualificato per raccontare la storia che non Gimli figlio di Glóin.

Soltanto quando gli altri furono profondamente rapiti dalla conversazione, Frodo scivolò via. Non voleva che si preoccupassero, e non voleva che Sam lo seguisse, guidato da un mal indirizzato desiderio di proteggerlo. Ma ora Sam stava sonnecchiando sulla sua coppa, con un sorriso soddisfatto sul volto, e Frodo poté allontanarsi indisturbato.

Non dovette andare troppo lontano per trovare quello che cercava. Il padiglione del re era a ridosso dell’estremità settentrionale dell’accampamento, dove la torbiera incontrava i primi gruppi di alberi. Tra quegli stessi alberi, con la schiena appoggiata a un grande tronco, sedeva Boromir, immobile, il suo viso sereno come Frodo non lo aveva mai visto.

Frodo si avvicinò all’uomo che sedeva da solo sull’erba, e si fermò a pochi passi da lui. Aspettò qualche istante, per capire se Boromir si era accorto della sua presenza, poi si schiarì la voce con discrezione. Boromir girò la testa di scatto, il suo viso improvvisamente guardingo.

“Posso unirmi a te?” chiese Frodo.

Boromir si irrigidì, e sembrò ritrarsi dalla presenza dello hobbit come da un fuoco. “Frodo!”

“Voglio parlarti”.

L’uomo si guardò attorno come per cercare un aiuto che non sarebbe arrivato, poi scosse le spalle e tentò di sorridere, goffamente. “Stanno cantando le tue gesta. Non preferisci restare con gli altri ad ascoltare?”

“No”. Frodo si sedette a gambe incrociate accanto a lui, senza attendere il suo permesso. Per un lungo momento nessuno disse nulla, mentre echi della canzone dal menestrello giungevano a tratti fino a loro. Poi Frodo parlò, a bassa voce. “Mi stai evitando”.

“Credo sia meglio così”. L’uomo esitò, poi aggiunse, in tono di scherzo, “Il tuo fedele Sam non ti ha messo in guardia contro di me?”

“Certo. Ma Sam... Sam non può capire veramente.”

Boromir sembrò guardarlo in modo così penetrante che Frodo dimenticò per un attimo la benda che gli copriva gli occhi e i lunghi mesi di oscurità che erano trascorsi dal loro ultimo incontro. “Capire cosa?”

“Che ormai è troppo tardi per proteggermi.” Un mesto sorriso incurvò le labbra di Frodo, colorando anche la sua voce. “Il danno è già stato fatto.”

La luce fiera abbandonò il viso di Boromir, che sembrò ritirarsi in se stesso. In un attimo era di nuovo la figura tormentata che Frodo aveva osservato durante il giorno, avvolto nel dolore nel rimorso, curvo sotto il peso della sua sofferenza. “Sì, il danno è già stato fatto e non può essere cancellato. Ecco perché ho tentato di evitarti”. Voltò la testa per sottrarsi allo sguardo di Frodo. “Questo è il tuo momento, Frodo. Il tuo trionfo. Dovresti essere laggiù a godertelo, invece che offuscarlo con brutti ricordi del passato”.

“Tu non sei un brutto ricordo, Boromir. Tu sei - o almeno eri - un mio amico. Non lo sei più, ora che l’Anello è distrutto?” Vide Boromir trasalire nel sentir nominare l’Anello, e i suoi occhi si fecero tristi. Credeva di capire il motivo dell’imbarazzo che aleggiava tra di loro, e temeva che nessun potere nella Terra di Mezzo avrebbe potuto abbattere quella barriera. Ma doveva tentare. “Ho dovuto distruggerlo”.

Boromir sembrò sorpreso delle sue parole. “Lo so. Tu ci hai salvato dal Nemico. Tu hai fatto una cosa... una cosa che nessun Uomo avrebbe potuto fare.”

“Ma la sua scomparsa è come una ferita che non guarisce mai, come un vuoto che non può essere colmato.” Frodo chinò la testa, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime. “Il dolore della sua perdita non mi abbandonerà mai.”

Boromir sollevò una mano per toccarlo, per confortarlo, ma cambiò idea, e lasciò cadere la mano. Frodo lo guardò con comprensione.

“So che l’Anello ha toccato anche te, e se non potrai perdonarmi per averlo distrutto...”

“Perdonarti? Frodo, sono io che ho bisogno di essere perdonato, non tu”.

“No. Non eri tu, quello. Non è colpa tua quello che ha fatto l’Anello”.

“Ero io, e lo sono ancora. Io ti ho allontanato dalla Compagnia, ho mandato te e Sam ad affrontare il pericolo da soli. Io ho tradito te, ho infranto il mio voto, distrutto la Compagnia, e quasi causato la rovina di tutti noi.”

Frodo rise. Sapeva che era strano, dopo la tormentata confessione di Boromir, ma non poté trattenersi. Un grande sollievo lo invase, e una risata che non riuscì a fermare. “La rovina? E’ stata la nostra salvezza!”

Boromir sembrò incupirsi ancora di più. “Sì, ma grazie alla forza e al coraggio di altri”.

"Se io fossi rimasto con la Compagnia non staremmo avendo questa conversazione, perché non ci sarebbe nessuna vittoria da festeggiare, e nemmeno il lusso di decidere chi è colpevole e chi è innocente. E se tu non mi avessi costretto ad andare, non ne avrei mai trovato il coraggio."

"Non importa cosa è successo, Frodo. La colpa di ciò che è accaduto ad Amon Hen pesa su di me."

Frodo guardò quel viso orgoglioso e bello, ora contratto per il dolore e segnato da cicatrici che non sarebbero mai più guarite. Si era spesso chiesto, durante il suo lungo viaggio nell’ombra, che cosa fosse stato di quell’uomo. Non aveva pensato che avrebbe rivisto più nessuno dei suoi amici, e si era rassegnato a non conoscere il loro destino, ma con il crescere del potere dell’Anello nella sua mente, il suo pensiero si era rivolto sempre più spesso a colui che aveva percorso quella strada prima di lui. Ora sapeva che Boromir era sopravvissuto sia alla guerra che al veleno dell’Anello. L’unica ferita che ancora aperta era la colpa del suo tradimento, e soltanto Frodo poteva guarirla.

Posando i gomiti sulle ginocchia e il mento sulle mani, Frodo lasciò che la sua voce si abbassasse a un sussurro che solo Boromir poteva udire. “Posso dirti una cosa che nessun altro conosce? Nessuno tranne Sam?”

"Se lo desideri."

"Sì, lo desidero. Tutti quanti stanno cantando canzoni su quello che ho fatto, ma loro non sanno che… in realtà non l’ho fatto. Io non ho distrutto l’Anello, Boromir. Non ne sono stato capace. Quando è giunto il tempo di gettarlo nel fuoco me lo sono messo al dito e l’ho rivendicato come mio. L’Anello mi aveva preso, e se non fosse stato per Gollum, ora lo avrebbe Sauron. Così, ora lo sai, non sei stato l’unico che non ha potuto resistere al suo potere. Hai detto che io ho fatto ciò che nessun uomo avrebbe potuto fare. Ti sbagliavi. È stato Gollum - Gollum e il caso, a distruggere l’Anello, non io. Se tu sei colpevole allora lo sono anch’io. Se tu hai tradito la Compagnia allora l’ho fatto anch’io. Io, Frodo dalle nove dita! Quello di cui parlano le canzoni!
Ti dirò quello che credo, quello che ho sempre creduto, anche ad Amon Hen mentre fuggivo via da te. Io credo che nessuno di noi fosse abbastanza forte da resistere all’Anello. Quelli che gli sono sfuggiti sono solo stati solo così fortunati da allontanarsene prima che si impossessasse di loro. Ecco tutto. Io e te non abbiamo avuto questa fortuna, e ora dobbiamo portare il peso di ciò che ci ha costretto a fare, insieme alla ferita lasciata dalla sua perdita, per il resto dei nostri giorni. E ti dirò un’altra cosa, Boromir". Lo hobbit posò una mano sul suo braccio, e Boromir trasalì per la sorpresa, volgendo il suo sguardo bendato verso Frodo. "Quella ferita è una punizione sufficiente per qualsiasi crimine”.

Boromir sembrò combattere una battaglia con se stesso per un momento, e il suo viso era teso, quando infine mormorò, "Io cerco di sentire i suoi sussurri nella mia mente. Se ne sono andati, e sono felice di essermene liberato. Ma mi sforzo ancora di sentirli. E... mi mancano."

"Lo so. È una terribile solitudine, sentire la mancanza di qualcosa che ti dava così tanto dolore quando era vicina a te. "

"Frodo..." Di nuovo, l’uomo sembrò sforzarsi per pronunciare parole che erano chiuse da una barriera. "Puoi davvero perdonarmi così facilmente?"

"Non c’è nulla di facile in questo, per nessuno di noi. Ma, sì. Io ti perdono."

"Perché tu credi che sia stato l’Anello, e non io, a farti torto?”

"Perché so esattamente come ti sei sentito, quando hai capito cosa avevi fatto e sapevi che non potevi fermarti. E perché so perfettamente come ti senti in questo stesso istante, seduto qui, ad ascoltare me che ti dico che non è stata colpa tua mentre la tua coscienza ti tortura. Non credo che tu abbia bisogno del mio perdono, Boromir, ma so che me lo stai chiedendo. Perciò voglio fare un patto con te. Io ti perdonerò per aver cercato di rubare l’Anello, e tu mi perdonerai per averlo gettato nell’abisso di Monte Fato, lasciandoci entrambi a soffrire per questo."

"Ma non avevi scelta..."

Frodo sogghignò alla perplessità del guerriero, vedendo la comprensione apparire gradualmente sul suo viso. "Allora, siamo d’accordo?"

Boromir sorrise mestamente. "Sì".

"Ne sono felice." Frodo sentì che l’ultimo residuo di tensione abbandonava il suo corpo. Si stirò le menbra stanche e rise sommessamente. "Ora la Compagnia è davvero riunita."

"Dovresti ritornare alle tue canzoni e ai tuoi racconti, prima che si accorgano della tua mancanza."

"Non vuoi venire con me? I Nove viandanti dovrebbero stare insieme in questo giorno, per festeggiare la loro vittoria. "

Boromir rimase seduto in un silenzio pensieroso per un momento, poi improvvisamente sorrise, e il suo viso fu come trasformato. Si alzò in piedi agilmente, muovendosi con l’antica energia e grazia che Frodo ricordava. Anche il suo mantello sembrava volteggiare attorno alle sue spalle in modo diverso. “Molto bene, ma devi promettermi di proteggermi dall’ira di Sam. Non ho la mia spada con me”.

Frodo si alzò in piedi, sorridendo. “Lo farò”.

Esitò, improvvisamente imbarazzato, indeciso sul da farsi. Boromir era in piedi accanto a lui, altrettanto indeciso, e Frodo ebbe l’impressione che avesse paura di toccarlo. Abbandonando il suo nervosismo, Frodo prese la mano di Boromir e cominciò a camminare. Boromir lo seguì, adattandosi alla sua andatura, ma dopo un momento liberò gentilmente la sua mano da quella di Frodo e la posò sulla testa dello hobbit. Procedendo in questo modo, discesero facilmente la lieve pendenza della collina e si diressero verso le tende e i festeggiamenti sotto di loro.

*** *** ***

Le armate dell’Ovest marciarono verso casa in trionfo. Quando infine giunsero in vista delle mura della città, trovarono Minas Tirith adornata in tutta la sua bellezza per accoglierli. Stendardi, fiori e teli di seta scintillante, ricamati con le armi e le insegne dei signori vittoriosi, sventolavano sui suoi bastioni. Persone vestite per la festa si accalcavano lungo le mura e si riversavano fuori dai cancelli – persone di ogni landa del sud e dell’ovest, che erano accorse alla Città Bianca per dare il loro saluto al loro Re – e mentre salutavano i soldati cantavano, e lanciavano fiori sulle strade sulle quali sarebbero passati con le loro armature.

Faramir restava in disparte dalla folla, insieme a Húrin, Custode delle Chiavi, e un gruppo di soldati della Guardia alle sue spalle. Con solennità attesero in mezzo alla confusione dei festeggiamenti che i Capitani che cavalcavano alla testa dell’esercito si avvicinassero.

Infine giunsero, Aragorn a cavallo di Roheryn, vestito di una cotta di maglia nera cinta d’argento, un mantello bianco come la neve sulle spalle e una stella sulla sua fronte. Boromir e Merry cavalcavano Fedranth, seguiti da Éomer, Legolas e Gimli. Venivano poi Pipino, Frodo e Sam, con Gandalf e il Principe di Dol Amroth come scorta. E poi vi erano trenta uomini tutti vestiti di grigio e argento – i Dunedain del Nord.

Mentre il grande esercito si sistemava ordinatamente sui campi di Pelennor con le lance levate e gli elmi lucenti, la piccola compagnia smontò da cavallo e continuò a piedi. Percorsero il vasto spazio vuoto fino a Faramir e ai cancelli distrutti, e al loro arrivo, un silenzio carico di aspettative cadde su tutti i presenti.

Faramir si fece avanti per accoglierli. Tra le mani reggeva il bianco scettro dei Sovrintendenti, e la sua tunica era di seta bianca, rilucente nella luce, senza alcuna insegna. Si inchinò con rispetto davanti ad Aragorn, ma fu a Boromir che si avvicinò. Quando ebbe raggiunto il fratello si inchinò nuovamente, porgendogli il simbolo della sua carica.

"Bentornato, fratello. Ho eseguito i tuoi comandi e retto la città fino al tuo ritorno. Ora ti rendo ciò che ti appartiene, Sovrintendente di Gondor”.

Boromir tese la mano, e Faramir gli posò lo scettro tra le dita. “Ti ringrazio per aver avuto cura del nostro popolo e della nostra città”. I fratelli si abbracciarono, e, a bassa voce, Boromir aggiunse, “E ti ringrazio per avermi accolto”.

Quando si separarono, Boromir si rivolse ad Aragorn e si inginocchiò davanti a lui. Tendendo lo scettro tra le mani davanti a lui, parlò. “L’ultimo Sovrintendente di Gondor chiede il permesso di terminare il suo incarico”.

"L’incarico non è finito”, replicò Aragorn, rendendo lo scettro a Boromir e chiudendogli le mani attorno ad esso. “Prendi dalla mano del Re di Gondor ciò che ti appartiene per diritto e per merito. Prendilo, insieme alla mia imperitura gratitudine, Boromir figlio di Denethor, Sovrintendente di Gondor. Alzati, e assumi il tuo incarico”.

Poi, con solenne cerimonia, Aragorn figlio di Arathorn fu incoronato Re di Gondor, per mano di coloro che avevano faticato così tanto per portarlo al trono. Boromir pronunciò un discorso di presentazione al popolo, esortandolo a riconoscere il suo legittimo Re. Faramir prese la corona alata di Eärnur dallo scrigno nero e argento in cui era rimasta per molte generazioni, attendendo quel momento. Frodo prese la corona dalle mani di Faramir e la portò dove Aragorn attendeva in ginocchio, infine Gandalf il Bianco, il più potente degli stregoni, saggio tra i saggi, pose la corona sul capo di Aragorn.

Quando si alzò in piedi ogni voce tacque, e la città rimase in silenzio ammirando il suo Re. Sembrò al popolo di Gondor che le leggende degli antichi Re del Mare tornassero alla vita davanti ai loro occhi, e che la figura in piedi sul campo non fosse soltanto un Uomo, ma uno degli eroi dei tempi antichi, giunto per salvarli dall’Oscurità. Poi il Sovrintendente posò il suo sguardo cieco sul Re, e a tutti quelli che lo guardarono parve che anch’egli potesse vedere la luce che avvolgeva il Re scintillando sul suo nobile viso, splendente come le gemme che adornavano la sua corona.

Sollevando le braccia al cielo, Boromir gridò con voce chiara. “Guardate, il Re!”

A quelle parole ogni tromba risuonò sulle mura della città e il popolo cantò. In mezzo al tumulto, Aragorn fece un cenno per farsi portare i cavalli, e la compagnia montò di nuovo in sella. Tutti si volsero verso i cancelli di Minas Tirith, ma rimasero indietro, lasciando che il Re avanzasse per primo sulla strada.

Aragorn spronò Roheryn avanti di alcuni passi, finché il cavallo si trovò ad avanzare su un tappeto di petali di fiori, poi si fermò, sollevando il capo per guardare la torre che scintillava alta sopra di lui. Vide i vessilli catturati dal vento, sentì le trombe suonare, e osservò le bianche mura che si ergevano maestose dalle pendici del Mindolluin. Un sorriso gli sfiorò le labbra, e si voltò all’indietro.

Tendendo una mano, gridò, “Boromir!”

Il Sovrintendente sembrò perplesso alla chiamata, e non si mosse. Ma Merry, seduto davanti a lui sulla sella, vide il gesto di Aragorn che li invitava ad avvicinarsi, e spronò Fedranth in avanti. Cavalcarono fino al punto dove Aragorn attendeva, e Fedranth si affiancò all’altro cavallo.

Aragorn afferrò il braccio di Boromir. "Le senti? Le trombe stanno suonando”.

Boromir sollevò il capo esattamente come aveva fatto Aragorn, e dalla sue espressione l’amico capì che stava vedendo con la mente le alte torri, i vessilli splendenti e le grandiose mura davanti a loro.

Le dita di Aragorn si strinsero attorno al suo braccio, e nei suoi occhi apparvero lacrime di gioia. “Vieni. Ci stanno accogliendo a casa”.

E insieme, Il Sovrintendente e il Re entrarono cavalcando attraverso i cancelli di Minas Tirith.

Continua...

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Capitolo 15
*** Una nuova battaglia ***


Capitolo 15: Una nuova battaglia

Il sole del mattino, splendente come la promessa di una pace duramente conquistata, riversava la sua luce attraverso le finestre, inondando la stanza della torre. Un grande tavolo occupava la maggior parte dello spazio, ricoperto da uno strato di pergamene, mappe, penne e calamai. Dietro al tavolo si trovava una grande sedia decorata – non un trono, ma chiaramente studiata per trasmettere un senso di potere. Aragorn, colui che deteneva quel potere, aveva abbandonato la sedia per camminare attorno alla stanza, mentre il suo sovrintendente occupava il seggio regale.

Boromir si appoggiò con i gomiti sul tavolo, scompigliando una pila di documenti e guadagnandosi un mite rimprovero del suo Re.

"Quelle carte erano state sistemate con cura”, osservò Aragorn.

Boromir diede un colpetto alla pila con un gomito, poi prese in mano la pergamena che stava in cima. "Cos’è questo?"

"Liste. Dispacci. Proposte alla mia considerazione. Rapporti sulle condizioni delle nostre difese e dei nostri alleati”.

"Spazzatura", ringhiò Boromir.

Aragorn smise di camminare e si appoggiò al davanzale della finestra. Sorrise leggermente divertito per l’irascibilità del suo Sovrintendente. “Questo detto dall’uomo che voleva tanto essere Re?”

"Abbiamo tutti i nostri momenti di follia”.

"Ora che sei guarito dalla tua follia potresti aiutare il tuo re assediato dai suoi compiti, invece di mettere in disordine la sua scrivania”.

A quelle parole, Boromir sogghignò perversamente. “A questo posso pensare io! Portami una candela, e ripulirò la tua scrivania in men che non si dica…”

Aragorn rise. “Non ti serve una candela. Ti serve solo un segretario che legga per te tutta quella spazzatura. Allora potrai essere davvero d’aiuto”.

"Segretari!" La voce di Boromir era carica di disprezzo. “Voci melliflue e mani delicate...bah! non voglio segretari attorno”.

“Ne troveremo uno che non sia troppo viscido”.

“Non voglio alcun segretario, ti dico!”

“Magari un soldato in congedo, uno che sappia leggere. O uno scudiero che possa occuparsi di queste faccende come tu desideri”.

“Tu non mi stai ascoltando, Aragorn”.

“Avrai bisogno di uno scudiero, in ogni caso. E se ne scegliessimo uno che può...”

“Se mi manderai un qualsiasi tipo di scudiero”, interruppe Boromir con violenza “lo getterò fuori dalla prima finestra che mi trovo davanti!”

Aragorn lo osservò con curiosità, per nulla turbato dal suo accesso di furore. “Da quando hai sviluppato questo odio verso gli scudieri? Anche tu lo sei stato, o sbaglio?”

“Certo che lo sono stato. Tutti i figli dei nobili ricevono il loro primo addestramento come scudieri…” Si interruppe e corrugò la fronte rivolto al Re. “Non cercare di distrarmi, Aragorn. So cosa hai in mente. Vuoi mettermi alle costole una schiera di assistenti che mi guidino, mi proteggano e mi facciano uscire di senno!”

“Che altre possibilità hai? Senza servitori di cui ti puoi fidare, come potrai adempiere ai tuoi doveri di Sovrintendente?”

“Ho già persone di cui mi posso fidare”.

“Ma non serviranno allo scopo. Anche se non è Sovrintendente, tuo fratello sarà comunque troppo occupato per leggere i dispacci per te. E anche io lo sarò”.

Boromir sembrò improvvisamente a disagio. “Non era a Faramir che stavo pensando”.

Aragorn esitò per un attimo, leggendo i suoi pensieri sul suo viso. “Merry se ne andrà”, disse.

“Offrigli il cavalierato, e il libero accesso alle cucine reali, e resterà”.

“Merry se ne andrà”, ripeté Aragorn, con fermezza, e la fronte di Boromir si corrugò ancora di più, “Resterà solo fino alla venuta di Arwen e al mio matrimonio, poi ritornerà alla Contea".

“Lo so”.

“Quella è la sua casa, Boromir”.

“Lo so!” scattò Boromir. “Era uno scherzo. Solo uno scherzo. Merry non è un misero subalterno qualsiasi, destinato a passare i suoi giorni tallonandomi e leggendo mucchi di maledette liste”.

Aragorn cercò di sorridere, ma lo trovò troppo difficile. “Troveremo qualcuno che tu riesca a sopportare”.

“Non ho bisogno di nessuno. Ciò di cui ho davvero bisogno sono due occhi nuovi!” E con quel grido di frustrazione, Boromir diede un violento colpo al tavolo, facendolo ribaltare con un terribile frastuono e mandando le pergamene a volare sul pavimento.

Aragorn si alzò in piedi allarmato, ma si fermò lontano dal disastro, dall’altra parte della stanza. Lo scoppio d’ira di Boromir fu seguito da un momento di totale immobilità, in cui il Re osservò il danno fatto e il Sovrintendente rimase immobile sulla sua sedia, visibilmente imbarazzato dal suo comportamento.

Dopo un momento di silenzio, Aragorn parlò di nuovo, con un lieve tono di rimprovero: “Quelle carte erano state sistemate con cura”.

“Ti chiedo perdono”, disse Boromir, rigidamente. “Metterò in ordine”.

“Non preoccuparti. A questo servono i miseri subalterni”.

Un bussare discreto alla porta annunciò l’arrivo di uno di tali subalterni, richiamato dal rumore e preoccupato per il suo signore. Aragorn aprì la porta, attento a non calpestare i preziosi documenti mentre attraversava la stanza, e trovò il Ciambellano che attendeva fuori. L’uomo fece un lieve inchino, la fronte corrugata per la disapprovazione mentre il suoi occhi vagavano per la stanza osservando il disordine.

“Qualcosa non va, mio signore?”

“No, va tutto bene”. Il Ciambellano si schiarì la voce con perplessità e si voltò per andarsene, ma Aragorn lo trattenne con un cenno dalla mano. “Quando le trombe suoneranno il cambio della guardia andremo alla Stanza del Consiglio. Manda qualcuno per riordinare. Ma prima di quel momento non voglio essere disturbato”.

“Come comandi, mio signore”.

Aragorn chiuse la porta e si rivolse a Boromir, ancora immobile sul seggio, che sembrava fissare un punto nello spazio con la fronte corrugata. Da quando aveva incontrato Frodo a Cormallen, Boromir sembrava molto più sereno, come se avesse trovato un po’di pace dentro di sé. Sorrideva più spesso, a volte rideva, e quando la sua cecità lo costringeva ad accettare la guida o l’aiuto di qualcuno dei suoi amici, lo accettava con un garbo che prima non possedeva. Vederlo ricadere nel suo malumore era doloroso per Aragorn.

“Che cosa ti turba?”, domandò Aragorn, all’improvviso. Ora che c’era un forte legame di fiducia tra loro, aveva imparato a non essere troppo delicato riguardo agli stati d’animo di Boromir. Il tatto avrebbe soltanto dato all’amico una scusa per evitare le domande, mentre la franchezza era il modo migliore per convincerlo a confidarsi. “Si tratta della partenza di Merry, o del Consiglio?”

“Di entrambi”. Boromir si appoggiò all’indietro nella sedia, ancora accigliato. Dopo una lunga pausa, chiese: “Hai considerato la possibilità che Faramir scelga di stare dalla parte di Imrahil?”

“Certo. E se lo facesse?”

“Sarà piuttosto difficile affrontare l’intero Consiglio, se Faramir li sosterrà”.

“No, non lo sarà”.

“Lo sarà per me”.

“Allora è un bene che quel compito spetti a me”.

Boromir si dibatté per un momento, lottando per trovare parole che una barriera dentro di sé gli impediva di pronunciare. Quando infine parlò, la sua voce era stranamente disperata. “Perché deve avvenire in pubblico, Aragorn? Non potreste, tu e Faramir, parlare in privato? Se lui deciderà di schierarsi con Imrahil e il Consiglio li sostiene, io mi farò da parte. Non c’è bisogno di arrivare a una pubblica dimostrazione di rancore e divisione!”

“No, Boromir, così deve essere”.

“Ho detto che mi atterrò alla scelta di Faramir…”

“Basta così”. Il tono di Aragorn, per quanto mite, zittì Boromir. Il Re attraversò la stanza fino al grande tavolo e vi girò attorno. Sedendosi sul bordo incrociò le braccia sul petto e osservò l’amico con sguardo gentile ma fermo. “Non ne discuteremo più. Tu sei il mio Sovrintendente, e lo sarai sempre, indipendentemente da ciò che pensa tuo fratello. Mi sono spiegato?”

Boromir unì le mani e piegò il capo, sottraendo il suo visto allo sguardo di Aragorn. “Allora perché la farsa del Consiglio?”

“Non è una farsa, ma un passo necessario per stabilire il mio potere. Non posso governare Gondor come un tiranno, e non posso agire di nascosto, nell’ombra, dove i sussurri e le dicerie prosperano. La gente deve vedere che il suo Re agisce giustamente sia con i nobili che con i comuni cittadini, e che affronta le sue sfide alla luce del sole”.

“E mio fratello?”

“Deve schierarsi. Io devo sapere dove pone la sua lealtà e sentire le ragioni della sua scelta”.

Boromir si agitò, a disagio. “E io dovrò ascoltarlo mentre elenca le mie colpe”.

“C’è qualcosa che lui o altri possano dire che non abbiamo già sentito?”

“Nulla che sia vero. Tu conosci il peggio di me, Aragorn”.

“Allora non hai nulla da temere. Abbi fiducia in me, Boromir, e nell’amore che ti porto. Non ti deluderò”.

“So che non lo farai”. Boromir continuò a tenere lo sguardo abbassato per un momento, poi aggiunse: “Sono io che deluderò te, mio Re. In verità, preferirei andare via con Merry invece che restare a Minas Tirith a combattere questa battaglia contro i miei stessi consanguinei. Potrei abitare nella Contea, vivere come uno hobbit, e trascorrere i miei giorni a pescare sul Brandivino”.

Aragorn gli sorrise con affetto. “Saresti un pessimo hobbit”.

“Non peggiore del soldato o del Sovrintendente che sarei qui”.

“Oh, molto peggio!” Attese un istante, poi domandò, semplicemente: “Pensi che la tua cecità sarebbe più facile da sopportare nella Contea – tra un popolo straniero dagli usi stranieri – di quanto non lo sia qui?”

Boromir meditò a lungo sulla risposta. Infine rispose: “Anch’io sarei uno straniero, laggiù, uno sconosciuto, giudicato solo per quello che sono ora, e non per quello che ero un tempo”.

“Ma pur sempre un estraneo, e a causa della tua diversità sempre oggetto di sospetto. Meglio che tu resti a Minas Tirith, affronti il Consiglio, e aspetti che il tumulto si plachi. Quando tutto sarà finito sarai riconosciuto Sovrintendente e potrai fare l’unica cosa che ti renderà felice”.

“Prendermi cura della mia terra e della mia gente”.

“Esatto. Sei un vero figlio di Gondor, Boromir. È qui che riposa il tuo cuore”.

“Ma non completamente”. Boromir sollevò il capo, permettendo ad Aragorn di vedere la sua espressione turbata e dubbiosa. “Una parte di esso dimorerà sempre tra le verdi colline della Contea, con Merry. È difficile essere legati a qualcuno che non si può avere vicino”.

Una visione di Arwen venne subito alla mente di Aragorn, accompagnata dall’intenso desiderio e dalla tristezza che sempre seguivano i pensieri che la riguardavano. Ora che il giorno del matrimonio si avvicinava, la tristezza lo stava abbandonando, ma vi aveva vissuto per così tanti anni che non poteva dimenticarla facilmente. Era intessuta nell’immagine del volto di lei, nell’eco musicale della sua voce.

“So bene cosa si prova”, mormorò.

Fece per parlare, per tentare di calmare Boromir condividendo con lui la sua lunga esperienza, ma l’improvviso richiamo di una tromba lo interruppe. Rapidamente si avvicinò alla finestra e osservò il cortile sottostante. La tromba squillò di nuovo, annunciando il cambio della guardia. Nella strada che veniva dal Sesto Circolo, una piccola compagnia di guardie in uniforme marciò verso il cancello, mentre nel Cortile della Fontana, un gruppo di uomini vestiti in ricchi abiti e cotte di maglia brunite interruppe le conversazioni e si diresse verso le porte aperte della Cittadella. Le guardie che fiancheggiavano le grandi porte li salutarono mentre passavano.

Rivolgendosi di nuovo verso Boromir, disse: “E’ ora”.

Boromir si alzò in piedi e attese che Aragorn si avvicinasse. Le sue dita si chiusero un po’ troppo strette attorno al braccio di Aragorn, e mormorò: “Andiamo, e finiamola una volta per tutte”.

“Non avere così tanta fretta”, lo rimproverò Aragorn. “Dobbiamo arrivare per ultimi, così dovranno attenderci e stare un po’sulle spine”.

Boromir rispose con un suono a metà tra il disgustato e il divertito, e un sorriso ironico gli apparve sulle labbra. “Il Re deve fare un ingresso appropriato”.

“Precisamente”.

Lasciarono insieme la stanza e si incamminarono lungo il corridoio con il passo misurato che Aragorn ritenne appropriato alla loro dignità. Avanzando al suo fianco, Boromir aveva assunto il portamento austero e orgoglioso che aveva intimorito tanti uomini durante la sua illustre carriera, e che ora serviva a dissimulare il suo crescente panico. Non era abbastanza per ingannare Aragorn, ma sarebbe servito durante il Consiglio. Aragorn sorrise tra sé e sé, fiducioso che insieme, il Re e il Sovrintendente avrebbero potuto affrontare ogni sfida e ogni minaccia.

Che Aragorn avesse ben calcolato il momento del loro ingresso fu subito chiaro a Boromir dal vociare che proveniva dalla stanza davanti a loro. Tutto il Consiglio doveva ormai essere radunato, in attesa, sempre più impaziente e inquieto col passare dei minuti. Strinse la presa sul braccio di Aragorn e raddrizzò le spalle, dominando il suo nervosismo mentre faceva il suo ingresso nella sala a fianco del re. Il loro ingresso fu accolto da un assordante silenzio, poi si udì il rumore delle sedie che venivano tirate indietro e gli uomini si alzarono con un fruscio di cuoio e un tintinnare di metallo.

Boromir non poté vedere il modo in cui Aragorn salutò questa dimostrazione di rispetto, ma qualcosa nel suo portamento e nel suo passo sicuro gli diede l’impressione che si fosse calato appieno nel suo ruolo di governante. Quando era in quei momenti, Aragorn poteva trasformarsi da quieto vagabondo vestito di stracci a immagine vivente degli antichi re Númenóreani nello spazio di un respiro. Boromir aveva passato la mattinata conversando con il suo amico Aragorn, ma ora il concilio di nobili avrebbe affrontato Re Elessar. E a giudicare dalla tensione quasi palpabile che aleggiava nell’aria, dovevano esserne tutti consapevoli.

Insieme, Boromir e Aragorn attraversarono la stanza fino all’estremità del tavolo a cui si trovava la sedia del re. Aragorn si fermò, e gentilmente interruppe il contatto con Boromir.

“Il posto tradizionale del Sovrintendente sarebbe all’altro capo del tavolo, di fronte al suo Re”, disse Aragorn, “ma io preferisco avere i miei più validi consiglieri al mio fianco. Siedi qui alla mia destra”.

Boromir trovò con la mano l’alto schienale intagliato della sedia. Lo strinse leggermente e attese il segnale di Aragorn affinché tutti si sedessero. Quando udì il rumore delle sedie che venivano spostate, Boromir fece altrettanto, e si sedette. Non si sporse in avanti né posò i gomiti sul tavolo, come udì altri fare, ma rimase appoggiato all’indietro allo schienale della sedia, apparentemente a suo agio, distanziandosi dall’aria di eccitazione che si respirava nella stanza. Se anche le sue mani si chiudevano attorno ai braccioli della sedia un po’ più strettamente del normale nessuno poteva accorgersene. E se i suoi lineamenti erano innaturalmente tesi, solo pochi tra i presenti potevano conoscerne la ragione.

Aragorn attese che i suoi consiglieri si fossero messi comodi, poi si alzò di nuovo in piedi. Il mormorio cessò di colpo. Quando parlò di nuovo, fu in un tono grave e calmo, che celava un grande potere e una volontà fiera.

“Miei signori, vi do il benvenuto alla Cittadella di Minas Tirith e al Consiglio di Re Elessar. Vi ho convocati qui perché ho necessità della vostra saggezza. Abbiamo conseguito una grande vittoria. Ora dobbiamo forgiare una pace durevole che salvaguardi il nostro popolo, una pace che faccia onore al sangue che è stato versato e alle vite che sono state perdute per farci arrivare a questo risultato. Vi chiedo di aiutarmi a forgiare questa pace.

“Quelli di voi che sono ormai da tempo membri del Consiglio potrebbero guardarsi attorno e domandarsi che cosa hanno a che fare il Re del Mark e Gandalf il Bianco con la pace di Gondor. Ma io vi dico che Sauron non è stato distrutto solo grazie a Gondor, e che i nostri doveri non terminano entro i nostri confini. Tutta la Terra di Mezzo è con noi in questa nuova era che inizia, e i suoi capi saranno sempre benvenuti al mio Consiglio”.

Aragorn attese che i mormorii cessassero nuovamente. Quando riprese a parlare, la sua voce era cambiata in modo impercettibile. Boromir vi notò una nota di sarcasmo, forse anche un avvertimento, anche se il re rimase scrupolosamente impassibile.

“Ma prima di cominciare a lavorare alla pace dobbiamo appianare i conflitti all’interno delle nostre stesse mura. Alcuni di voi hanno messo in discussione la mia scelta riguardo al Sovrintendente. Non ho bisogno di farvi notare quanto sia grave questo problema, poiché siete tutti consapevoli di quale potere detenga il Sovrintendente di Gondor, e quale responsabilità gravi sulle sue spalle. Voi avete vissuto sotto il governo di un Sovrintendente, e lo avete visto cadere nell’oscurità”.

Un fremito di tensione percorse la tavola, silenzioso eppure abbastanza intenso da far serrare la mascella di Boromir per la tensione. Si sforzò di rimanere calmo, anche se le parole di Aragorn suonavano stonate alle sue orecchie, così come a quelle dei presenti.

“A causa dell’orrore della morte di Denethor le vostre menti sono ancora turbate, e per questo non vi biasimo per le vostre presenti paure. Sono comprensibili. E sono pronto ad ascoltare quello che avete da dire contro il mio Sovrintendente. Ma ricordate le mie parole, miei signori. I Sovrintendenti hanno governato Gondor in una linea ininterrotta da Mardil Voronwë fino a Denethor II, passando di padre in figlio lo scettro della carica per ventisei generazioni. Boromir è il primogenito di Denethor, il legittimo erede alla Sovrintendenza di Gondor e il vostro signore. Se io non fossi giunto dall’Ovest per rivendicare la corona, egli ora sarebbe il vostro re in tutto tranne che nel nome”.

L’improvviso rumore di una sedia che veniva mossa interruppe le parole di Aragorn e annunciò che qualcuno, da qualche parte alla destra di Boromir, si era alzato in piedi per parlare.

“Mio sire”, iniziò Imrahil, con deferenza, “nessuno di noi dubita il diritto del figlio di Denethor alla Sovrintendenza. Né vogliamo negare la fedeltà che gli dobbiamo”.

“Se non volete negare il suo diritto né ritirare la vostra lealtà allora qual è la tua argomentazione, Imrahil?”

Boromir serrò la mascella preparandosi al dolore che le parole successive gli avrebbero causato. Dalla tristezza riluttante nella voce di Imrahil capì che il suo consanguineo non le trovò facili da dire. “Non è il suo diritto che mettiamo in dubbio, ma la sua capacità”.

Un mormorio si diffuse lungo il tavolo, ma se fu di approvazione o di malcontento Boromir non poté capirlo. L’uomo seduto immediatamente alla sua destra si mosse e gli afferrò per un attimo il braccio. La voce di Éomer giunse benvenuta al suo orecchio: “Il Re sistemerà le cose in men che non si dica”.

Boromir cerò di sorridere per ringraziarlo, ma il suo viso era troppo teso. “Non può farlo. Deve ascoltarli fino in fondo”.

Éomer strinse la sua presa in segno di comprensione, poi riprese la sua posizione. Boromir percepiva la sua inquietudine e sapeva che Éomer, il suo più fedele sostenitore al di fuori della Compagnia, stava fremendo per l’impazienza di far tacere quei mormorii e sfogare la propria rabbia. Come Boromir, Éomer era un uomo che preferiva l’approccio diretto: estrarre l’arma, una sfida e un’imprecazione, e concludere tutto velocemente e con onore, invece di parlare alle spalle. Ma questa volta Boromir sapeva che la spada non gli sarebbe servita a nulla. Doveva restare seduto in rigido silenzio, mentre un uomo che aveva amato e rispettato per tutta la vita lo calunniava e esponeva le sue colpe, vere e presunte, alla considerazione di tutti.

Stava andando esattamente come Boromir aveva temuto. Il Re incoraggiò Imrahil a esporre i suoi dubbi e le sue preoccupazioni davanti al Consiglio, facendo di tanto in tanto alcune domande ma senza commentare e senza tentare di frenare l’eloquenza del principe. Molto di quello che gli aveva detto Faramir, così doloroso perché veniva da suo fratello, ora era ripetuto da Imrahil e arricchito da riferimenti a Gondor che davano al tutto un’aria meschina, come se Boromir, oltre che un pericolo in sé, fosse anche disinteressato al bene del suo popolo.

Boromir non poteva lasciare la stanza del consiglio, e non avrebbe mai dato ai suoi denigratori la soddisfazione di vederlo trasalire sotto le sferzate verbali di Imrahil. Anche se il suo animo era in tumulto, il suo aspetto esteriore doveva apparire calmo.

Fingendo indifferenza posò la testa all’indietro contro l’alto schienale intagliato della sedia. La benda che portava sugli occhi gli dava una certa misura di libertà. Non era costretto a incontrare gli sguardi ostili dei suoi nemici o a mascherare le sue emozioni. Poteva rivolgere i suoi pensieri dove voleva, fuggendo lontano da quella scena di amaro tradimento che si svolgeva attorno a lui, e nessuno se ne sarebbe accorto.

Respirava lentamente, tenendo le mani strette sui braccioli della sedia, costringendo il suo corpo a fingere una calma che non aveva. Era un trucco familiare, lo stratagemma di un soldato per mettere da parte le distrazioni e schiarirsi la mente. Gli era stato utile in molte battaglie, e lo fu anche in quella, e dopo un poco gli riuscì di rilassarsi.

Sul viso sentiva aria fresca, e Boromir capì che era seduto sul lato opposto della parete dove si apriva una serie di alte finestre ad arco. Qualcuno doveva averne aperta una, così da lasciare entrare la brezza. Senza dubbio era stato Aragorn a ordinarlo, proprio come aveva ordinato di estinguere tutte le torce e di non accendere il fuoco. Boromir poteva ancora sentire l’odore delle ceneri spente e la traccia amara del fumo sulla pietra, ma erano odori lievi e li ignorò con facilità. Chiaramente Aragorn aveva cercato di rendere la stanza più confortevole per lui, e in un giorno di primavera come quello nessuno dei nobili avrebbe avuto da obiettare riguardo all’assenza delle torce.

Si rilassò ancora di più, sentendo gli odori della città portati dal vento attorno a lui. Minas Tirith d’estate era un luogo pungente, ma Boromir amava gli odori della sua città, così come amava ogni cosa in essa, dalle superbe torri ai suoi vicoli rumorosi. Aragorn aveva detto il vero quando aveva detto che Boromir era un autentico figlio di Gondor: anche più del suo stesso Re, poiché era vissuto e cresciuto tra quelle bianche mura, immerso nella bellezza, nell’orgoglio, nel rumore e anche nella sporcizia che appartenevano a Minas Tirith, e il suo cuore avrebbe sempre dimorato lì.

Un movimento al tavolo interruppe i suoi pensieri e costrinse il Sovrintendente a prestare di nuovo attenzione a quello che accadeva attorno a lui. Imrahil stava attraversando la stanza verso il seggio di Aragorn. Posò qualcosa sul tavolo con un fruscio di pergamena e il lieve rumore dei sigilli di ceralacca che urtavano il legno. Aragorn attese fino a quando Imrahil ebbe ripreso il suo posto, poi srotolò la pergamena, aprendola con entrambe le mani sul tavolo. Boromir avvertì un nuovo fremito di tensione nella stanza, mentre tutti coloro che erano rimasti seduti sostenendo silenziosamente Imrahil ora si preparavano ad aggiungere le loro voci alla sua.

Aragorn lesse in silenzio, deliberatamente impassibile di fronte al crescente disagio dei suoi consiglieri. Finalmente, lasciò che la pergamena si richiudesse arrotolandosi, e sospirò in modo udibile. Boromir si chiese se fosse un sospiro di sollievo nel non aver trovato una particolare firma.

“Molti signori e molti paesi sono elencati qui”, disse Aragorn, “ma molti ne mancano. Morthond, Lossarnach, Anfalas. E naturalmente Rohan”.

Éomer soffiò disgustato, senza tentare di nascondere la sua disapprovazione agli astanti, e Boromir sentì un nuovo impeto di gratitudine per il suo incondizionato e esplicito appoggio.

Aragorn non si curò dell’interruzione. “Manca anche un nome, il più importante per il vostro proposito. Cosa ne pensa il Lord Faramir?”

Fu Imrahil a rispondere. “Non abbiamo chiesto a Faramir di firmare il documento, mio signore. Il suo posto non è tra i partecipanti, ma sulla sedia del Sovrintendente”."

Un basso mormorio si alzò dagli uomini seduti, sollevati che finalmente qualcuno avesse pronunciato quelle parole. Coloro che erano seduti accanto ad Aragorn, fedeli al Sovrintendente prescelto dal Re, rimasero in un ostinato silenzio. Boromir sentiva solo un timore soffocante, gelido.

“Ci hai chiesto di ricordare che la Sovrintendenza spetta al figlio di Denethor. Ora io chiedo a te di ricordare, Re Elessar, che Denethor ha due figli, e tanto uno quanto l’altro può prendere il posto di suo padre”. Imrahil esitò per un momento, poi riprese a parlare con più urgenza, come se parlasse da solo con Aragorn. “So che ami molto Boromir, e vuoi averlo come Sovrintendente nonostante tutte le nostre obiezioni. Io ti rispetto per questo. Sono orgoglioso di chiamarti Re e di mettere al tuo servizio la mia spada, perché so che sei un uomo che stima i suoi amici e mantiene le sue promesse”.

“Eppure ti sei alzato in piedi davanti al mio Consiglio per chiedermi di venire meno ad esse”, disse Aragorn, la sua voce pericolosamente calma.

“No, ciò che chiedo è che sia Boromir a scioglierti dal giuramento, così che tu possa scegliere un Sovrintendente più adatto, mantenendo intatto l’onore”.

“E se lui non lo farà?”

“Allora non avrai altra scelta che romperlo tu stesso, per il bene di Gondor. Ma io ho fiducia che il mio consanguineo sappia mettere il bene di Gondor prima del suo orgoglio ferito, e risparmi al suo al re questo disonore”.

Boromir si alzò di scatto in piedi trattenendo un grido, spingendo con forza la sedia all’indietro. Le sue mani si chiusero attorno al bordo del tavolo come se volesse rovesciarlo, e scoprì i denti in un ringhio pieno di rabbia. Improvvisamente sentì la mano di Aragorn su sul suo polso, e fermò il suo scatto.

“Pace, Boromir”.

“Ho ascoltato troppo a lungo queste calunnie!” sibilò Boromir. “Non permetterò che il tuo nome venga infangato insieme al mio!”

“Entrambi i nostri nomi sono ben al di sopra della sua calunnia”.

“Vuole disonorarti, facendo di me il suo strumento!”

“Io ho detto solo la verità!” ribatté Imrahil, con voce tagliente di rabbia. “Non mi sorprende che tu rifiuti di ascoltarla! Sei sempre stato troppo testardo e arrogante per farti guidare da chi è migliore di te!”

“Migliore di me!” Boromir si agitò, incurante della stretta di Aragorn e delle sue parole. “Cosa ne sai tu di chi è migliore di me, Imrahil, e dei consigli che mi hanno dato? Chiedi al Re, a Gandalf, al Portatore dell’Anello. È a loro che chiedo consigli, non allo stormo di avvoltoi che si affolla alle tue spalle!”

“Avvoltoi?! Davvero un bel modo di chiamare i tuoi alleati e consiglieri, mio lord Sovrintendente! Uomini che cercano solo di aiutarti…”

“Sì, aiutarmi a finire con una ciotola a mendicare all’angolo sudicio di una strada!”

“E’ questo che pensi di me? Io che sono sangue del tuo sangue, tuo amico? E cosa ne dici di tuo fratello?”

Boromir strinse involontariamente i pugni, lottando con una rabbia impotente. “Lascia Faramir fuori da questo!”

“Anche lui è un avvoltoio? Vuoi insultare e disprezzare anche lui, perché non si lascia guidare docilmente dove tu vorresti?”

“No, Imrahil, non mi farò guidare. E non ho bisogno che tu parli in mio nome”. La voce di Faramir venne dall’altro capo del tavolo - il posto tradizionale del Sovrintendente - comprese Boromir con un sussulto di premonizione. Boromir sentì il fruscio degli stivali e della stoffa mentre il fratello si alzava in piedi. “Vorrei tanto restare fuori da questa storia, fratello, per il bene di entrambi. Ma ormai è troppo tardi per farlo”.

Boromir ricadde sulla sua sedia, stringendo ancora con le mani i bracciali levigati come se volesse ridurre il legno in povere. Dietro di lui udì un respiro, e percepì una presenza alle sue spalle. Sentì i capelli rizzarsi alla base del collo, e pensò alla spada che aveva lasciato nelle sue stanze, ritenendola inappropriata per la situazione. All’improvviso, irrazionalmente, desiderò avere un’arma in mano.

“Non ho altra scelta che parlare io stesso, o diventare un’arma muta nelle mani di altri”, disse Faramir, “Chiedo il permesso del Re di parlare davanti al Consiglio”.

*** *** ***

L’esplosione di voci giunse attraverso la finestra aperta fino al cortile, dove due giovani hobbit stavano raggomitolati insieme su una panca di pietra all’ombra del muro della libreria. Merry trasalì, e Pipino strinse le mani in grembo. Accanto a loro Legolas sedeva a gambe incrociate sull’erba, curvo sull’arco che teneva in mano. Non reagì al suono delle voci irate, anche se il suo orecchio acuto riusciva probabilmente a cogliere le parole che i suoi compagni non distinguevano. Rimase concentrato sul suo lavoro, provando la corda e verificandole la tensione, ignorando il furore che proveniva dalla stanza del concilio. Gimli, che stava camminando sul prato con l’ascia in mano, lanciò uno sguardo preoccupato alla finestra, ma non interruppe il suo cammino.

Merry invidiò la loro calma, e non per la prima volta desiderò di poter avere una qualche distrazione. I suoi occhi si soffermarono sulle mani di Legolas, osservando i suoi gesti regolari e sicuri, lasciando che la tranquillità dell’elfo si comunicasse a lui. Un altro grido in lontananza gli causò una fitta allo stomaco, rompendo l’incantesimo.

“Non sta andando bene”, disse Pipino con aria afflitta.

Merry annuì. “Quello era Boromir. Aveva promesso che non avrebbe perso la calma, ma suppongo che fosse pretendere troppo”.

Pipino rabbrividì, poi domandò, incredulo, “Davvero Faramir tenterà di portargli via la Sovrintendenza?”

“Non lo so”. Merry prese la mano di Pipino tra le sue e la strinse forte. “Spero di no, Pip”.

“Non posso crederlo! Non Faramir! E’un brav’uomo, Merry, nobile e saggio, e ha occhi che ti vedono dentro e sorridono sempre. Come Grampasso, solo... più gentile. Potrei parlargli di qualunque cosa, seguirlo ovunque, affrontare ogni pericolo per lui. Basta guardarlo in viso per volergli bene!"

Legolas parlò senza sollevare lo sguardo dal suo lavoro. “Hai occhi acuti, Pipino, e un cuore saggio”.

“Come potrebbe un uomo simile tradire suo fratello?” chiese Pipino.

“Non è si tratta di tradimento, ma di ciò che Faramir ritiene giusto. Il suo dovere verso Gondor e il Re viene prima di tutto, anche di Boromir”.

Gimli sbuffò. “Puoi cercare di addolcirlo come vuoi, mastro Elfo, ma quando un uomo deruba suo fratello del suo diritto, io lo chiamo tradimento".

“Anche io”. Mormorò Merry.

Legolas abbandonò il suo lavoro e fissò lo sguardo su Merry. “Sei così sicuro che Faramir starà dalla parte dei cospiratori?”

“Non sono sicuro di niente, ma ho paura. Tanta paura”.

“Di cosa? Sai bene che Aragorn e Mithrandir non permetteranno che Boromir venga soppiantato. Il suo posto accanto al Re è già deciso”.

“Questo lo so”.

“E allora cosa temi?”

“Faramir”. Merry lasciò andare la mano di Pipino e incrociò le braccia, stringendole protettivamente attorno a sé come per allontanare il gelo. “Tu e Pipino avete ragione, ma questo peggiora solo le cose. Boromir conosce bene suo fratello. Si fida di lui. E se Faramir dirà al Consiglio che Boromir non può governare, Boromir gli crederà”.

“Ma si fida anche di Aragorn”, precisò Legolas, “e Aragorn non permetterà che la sua fede vacilli”.

Merry chinò il capo per nascondere il viso ai suoi amici. “Appunto per questo. Ognuno di loro lo tirerà nella sua direzione… finiranno per distruggerlo”.

Le sue parole furono seguite da un lungo silenzio. Legolas riprese a tendere il suo arco, anche se il suo sguardo perso nel vuoto tradiva che il suo pensiero era altrove. Gimli riprese a camminare avanti e indietro. Pipino si rimise ad osservare le finestre lontane, col viso teso per la preoccupazione. Merry si ritirò in sé stesso, solo con le sue paure che non voleva condividere.

E così attesero.

*** *** ***

“E’un fardello gravoso che mi avete lasciato, miei signori”. La voce di Faramir era calma e grave, e riecheggiava sui muri di pietra risuonando contro il soffitto a volta, mentre i nobili riuniti nella sala ascoltavano le sue parole in avido silenzio. “Ma non posso tirarmi indietro, sebbene possa costarmi ciò che di più caro ho al mondo: l’amore di mio fratello”.

Boromir strinse convulsamente le mani sul bordo del tavolo, pronto ad alzarsi in piedi, ma Aragorn gli toccò il braccio, e questa volta Boromir obbedì al muto comando. Si appoggiò allo schienale della sedia, con le mascelle serrate e il viso contratto per il dolore.

Faramir continuò, imperterrito. “Per Gondor, per il mio Re, io sono pronto a rischiare questa terribile perdita. Lo sapevate, quando avete mandato il mio consanguineo a persuadermi di partecipare a questo complotto, e quando mi avete costretto a divenire giudice di mio fratello”.

“Ti ho solo chiesto di fare il tuo dovere”, lo interruppe Imrahil.

“Ed è ciò che ho fatto. Ho osservato, e ho meditato su quello che ho visto. Ho soppesato i vostri timori e le azioni di Boromir, i vostri dubbi e gli argomenti di coloro che lo sostengono. E ho guardato nel profondo del mio cuore, dove dimora quella cosa fatta di oscurità, di dolore e di amore, che io chiamo con il nome di mio fratello, per meglio comprendere le mie paure. Ora sono pronto a dare il mio giudizio davanti al consiglio, se volete udirlo”.

Fu il Re a parlare. “Parla, dunque, Faramir. Ritieni che tuo fratello sia in grado di reggere il peso della Sovrintendenza, o credi che sia meglio sollevarlo da esso in tuo favore?”

“Io dico che Boromir figlio di Denethor è il legittimo Sovrintendente di Gondor: nato e cresciuto per questo, provato sul campo di battaglia e nelle sale del potere, amato dal suo popolo e prescelto dal suo re”. Si alzò un mormorio di protesta, ma Faramir non si interruppe, alzando la voce per farsi sentire al di sopra del rumore. “Egli è il mio signore, il mio Sovrintendente, secondo solo a Re Elessar nel potere e secondo a nessuno nella mia stima! Io lo servirò con tutta la mia lealtà e il mio amore, finché vivrò!”

Il caos esplose nella sala, mentre le furiose proteste dei nemici di Boromir si scontravano con le grida di trionfo dei suoi amici. L’uomo che era al centro di questa tempesta si lasciò ricadere sulla sedia, stordito per il sollievo e incapace di parlare per l’emozione. Avrebbe tanto desiderato poter piangere, sciogliere quel nodo che gli stringeva la gola, versare l’unguento delle lacrime sulle profonde ferite causate dal sospetto, dalla lontananza e dal dubbio che gli avevano avvelenato il cuore così a lungo.

Ma non poteva piangere. E non poteva nemmeno parlare con Faramir in privato per dare sfogo ai suoi sentimenti. Sentiva lo sguardo del fratello su di lui, che lo cercava ansioso, e sollevò il viso verso di lui. Anni e anni di fiducia reciproca gli dissero che Faramir aveva visto il suo viso dall’altra parte della stanza, e vi aveva letto la sua gratitudine, al di là della maschera tesa e pallida che indossava.

All’improvviso, Boromir avvertì che la presenza ignota alle sue spalle si era avvicinata. Coperta dal frastuono, una voce sussurrò nel suo orecchio. “Cosa gli hai promesso, in cambio delle sue bugie, Sovrintendente-Ombra?”

Boromir si irrigidì, voltandosi istintivamente verso l’interlocutore, ma l’uomo se ne era già andato l’istante stesso in cui le parole avevano lasciato le sue labbra. Non aveva fatto alcun rumore, né fruscio di stoffa né scricchiolio di stivali, ma Boromir non aveva bisogno di questi segni per sapere di chi si trattava. Aveva riconosciuto sia la voce che il senso delle sue parole. E sapeva con assoluta certezza dove trovare quella silenziosa ombra grigia che era il suo nemico, quando sarebbe stato il momento.

“Per quale motivo, Faramir, hai dimenticato il tuo dovere verso Gondor?!” gridò Imrahil, riuscito infine a calmare il tumulto dei suoi alleati e ad avere nuovamente l’attenzione su di sé. “Come puoi conciliare questo tradimento col tuo senso dell’onore? Con la tua promessa di fedeltà?”

Boromir era sul punto di entrare nella discussione in difesa del fratello, ma Faramir non aveva bisogno di aiuto.

“Tu accusi me di tradimento?” domandò stupito. “Dopo che ho messo a repentaglio tutto ciò che mi è caro, l’amore di mio fratello e la fiducia del mio Re, per compiacerti? Credevo che ti stesse a cuore il bene di Gondor, Imrahil, altrimenti non avrei mai accettato il compito che mi hai affidato. Ma a te non importa né di Gondor né della verità. Tu volevi solo qualcuno che portasse il vessillo durante la tua battaglia, un campione che ti desse la vittoria senza spargimento di sangue!”

“Non è vero! Da te volevo solo giustizia!”

“E io te l’ho data”.

“Hai barattato il tuo onore in cambio del favore di tuo fratello!”

“E tu hai dimenticato con chi stai parlando". Boromir sentì un brivido gelido corrergli lungo la schiena udendo lo sdegno e l’orgoglio nella voce di Faramir. Era come se l’ombra di Denethor rivivesse in Faramir attraverso quelle parole. Evidentemente Boromir non fu l’unico a notarlo, perché anche Imrahil cadde in un attonito silenzio.

“Nessuno farà di me uno spergiuro: né tu, né Boromir, nemmeno il Re. Suggerire una simile cosa è insultare me e degradare te stesso”.

“Per tutti i Valar!” mormorò uno dei signori, e, dalla parte opposta del tavolo, di fronte a Boromir, Gandalf rise sommessamente.

“Basta, miei signori!” Aragorn si era alzato in piedi, e la sua voce ferma attraversò la stanza riportando istantaneamente la calma. “Questa pubblica dimostrazione di rancore è sconveniente e non porta a nulla. E in ogni caso la decisione finale non spetta a voi”.

“Chiedo perdono”, sussurrò Faramir, e si sedette.

Imrahil però restò in piedi, e Aragorn si rivolse a lui direttamente. “Hai altro da aggiungere a ciò che è stato detto in questo consiglio, Principe?”

“No”. Imrahil si lasciò cadere pesantemente sulla sedia. “Ho finito”.

Aragorn volse la sua attenzione ai visi tesi che lo osservavano colmi di attesa da entrambi i lati del tavolo. “Qualcun’altro di voi desidera parlare?” Nessuno si mosse. “Allora ho sentito tutte le vostre argomentazioni? Non c’é null’altro da mettere sui piatti della bilancia?”

Boromir udì un frusciare di stoffa alla sua sinistra, dove Halbarad restava in piedi in disparte dietro la sedia di Aragorn, ma il Ramingo non si fece avanti.

“E sia. Mi avete manifestato i vostri pensieri, ora io vi manifesterò il mio”. Sollevò la grossa pergamena, la arrotolò e la fece battere leggermente sul palmo della sua mano mentre parlava. I sigilli tintinnarono leggermente.

“Io scelsi Boromir come mio Sovrintendente quando ancora la corona non era per me che una lontana promessa. Mentre viaggiavamo, combattevamo e soffrivamo insieme sotto la minaccia dell’Ombra, senza speranza di vittoria. Ma non l’ho scelto per pietà, o per disperazione. No. Io l’ho scelto perché ho visto in lui un uomo d’onore, valoroso e leale. Un uomo che ama il suo paese più della sua vita, e che ha imparato a caro prezzo il costo del tradimento. Lo sapevo allora e lo so ora: non c’è altro uomo nella Terra di Mezzo più adatto a servire Gondor e il suo Re. E non avrò alcun altro al mio fianco, quando assumerò il fardello della mia corona”.

Accompagnato dal mormorio dei presenti, Aragorn lasciò il suo posto e si avvicinò a Boromir.

“Vieni, Boromir”.

Con la mano sul suo braccio guidò il Sovrintendente lontano dal tavolo, poi si fermò per guardarlo in faccia. Afferrò Boromir per i polsi e unì le sue mani, palmo conto palmo, coprendole con le sue.

“Ricordi le parole che ti dissi quando attendevamo la morte sui prati di Rohan?”

Boromir annuì silenziosamente.

“Non posso dimenticarle", continuò Aragorn. "Sono incise nel mio cuore dal momento in cui le ho pronunciate, e quella promessa mi legherà per sempre. Ora, amico mio, le ripeterò ancora una volta, rinnoverò quel voto davanti a questi principi e questi nobili, in modo che anche loro possano udirlo ed esserne testimoni”.

“Aragorn...”

“Pace”. Boromir non poteva vedere il sorriso sul volto dell’amico, ma lo percepì nella sua voce, e ancora una volta sentì le lacrime stringergli la gola.

“Io ti giuro, Boromir, sul sangue di Isildur e Elendil che scorre nelle mie vene, sull’amore che ho per il mio popolo e sulla corona alata che porto, che ci sarà solo un Sovrintendente a Gondor, fino a che io sarò Re. Tu sarai il mio Sovrintendente, o nessun’altro”.

Boromir chinò il capo, troppo sopraffatto dalle emozioni per poter parlare. Improvvisamente udì un’altra voce, una che non aveva parlato da tempo, e capì che Gandalf era in piedi accanto ad Aragorn. “Ben fatto, Aragorn”.

Lo stregone prese delicatamente una mano di Boromir dalla stretta di Aragorn e la strinse attorno a un oggetto familiare. Boromir sentì la superficie liscia e levigata, e capì immediatamente di cosa si trattava. Era lo scettro della Sovrintendenza, il simbolo della sua carica. Prima che potesse reagire, lo stregone gli prese il capo tra le mani e posò un bacio sulla sua fronte.

“Ben fatto davvero”, ripeté Gandalf, a voce così bassa che solo Boromir poté udirlo. “Non dubitarne mai, figlio di Denethor, e non dimenticare mai che porti con te l’amore e il rispetto di Gandalf il Bianco. Ho grande fiducia in te”.

Il sorriso di Boromir era distorto dall’emozione e dalle lacrime che non poteva versare, ma Boromir sapeva che Gandalf lo avrebbe interpretato nel modo giusto. “Non lo dimenticherò. E che tu ci creda o no, te ne sono grato”.

Gandalf rise piano, lasciandolo andare.

Poi Aragorn si rivolse agli uomini seduti al tavolo, e gridò: “Miei signori, è tempo che facciate la vostra scelta! Le vostre azioni fino a questo momento sono prive di colpa. Ora vi ho dato un Sovrintendente, e il vostro dovere è chiaro. Se lo riconoscerete resterete senza colpa, e nessun sospetto ricadrà su di voi. Se lo rifiuterete sarete chiamati traditori”.

Prima ancora che Aragorn avesse finito di parlare, Faramir si alzò in piedi, dirigendosi verso il fratello. Boromir consegnò lo scettro a Gandalf per poter abbracciare Faramir. Con sua sorpresa però Faramir gli prese le mani e si inginocchiò davanti a lui.

“Alzati, Faramir!” protestò Boromir. “Non inginocchiarti davanti a me!”

“No fratello, io devo farlo”. Strinse le mani di Boromir, con la voce tesa per l’emozione. “Ho atteso troppo a lungo per offrirti la mia fedeltà. Ora lascia che lo faccia come è appropriato”. Poi, senza dare ascolto alle proteste di Boromir, chinò il capo pronunciando le solenni parole del giuramento di fedeltà, poi le suggellò baciando il dorso della mano di Boromir. Infine, lasciò che Boromir lo facesse alzare in piedi e lo abbracciasse come un fratello.

Faramir si rivolse poi a Imrahil, sangue del suo sangue, che era ancora seduto in tetro silenzio. Sembrava che gli altri membri del consiglio attendessero l’esempio di Imrahil, poiché ancora nessuno si era alzato per rispondere alla sfida di Aragorn. Anche coloro che si erano schierati con Boromir fin dall’inizio stavano aspettando che il principe facesse la sua scelta.

“Vieni, Imrahil. So che non sei un traditore”. La voce di Faramir era suadente, e portava con sé il ricordo di una vita di fiducia e di amicizia.

Al contrario la voce di Imrahil era aspra e forzata. “Non lo sono”.

“Allora abbandona la tua rabbia e umiliati, per questa volta, per il bene di Gondor”.

Lentamente, Imrahil si alzò e percorse la distanza che lo separava da Boromir, fermandosi in silenzio davanti a lui per un momento. Poi, con un sospiro, parlò: “Quando mossi il primo passo lungo questa strada, giurai che mi sarei attenuto al giudizio di Faramir, per seguirla o abbandonarla come lui mi avesse comandato. Per poco non sono diventato uno spergiuro. Per poco non ho lasciato che il mio orgoglio mi trascinasse verso una follia. Ma nessuno potrà mai dire che Dol Amroth ha macchiato con il tradimento il ritorno del Re. Accetterai la mia amicizia, Boromir?”

Boromir tese la mano, sorridendo quando Imrahil la afferrò in un familiare saluto da soldati. “Sarò sempre tuo amico e consanguineo, Principe Imrahil”.

“E io sarò sempre tuo servitore, mio Sovrintendente”.

Uno dopo l’altro, guidati dalla resa di Imrahil, i nobili vennero a stringere la mano di Boromir riconoscendogli il suo titolo così duramente conquistato. Boromir accettò il gesto senza esitare e senza chiedersi se celasse qualche amarezza. Faramir aveva fiducia in lui, e Imrahil, una volta data la sua parola, sarebbe stato leale. Era abbastanza per quel giorno.

Alcuni dei nobili che si avvicinarono a lui non gli portavano segreti rancori. Non avevano avuto parte alla cospirazione ed erano onestamente felici di chiamarlo Sovrintendente, così come Boromir era felice di udire le loro voci amichevoli nella calca. Il vecchio Duinhir, Golasgil di Anfalas, e Forthond, figlio di Forlong il Grasso che era morto sui Campi del Pelennor. Per ultimo venne Éomer. Abbracciò Boromir come un amico e un compagno d’armi, gioendo apertamente della sua vittoria. Dopo che Éomer gli ebbe giurato fedeltà, Boromir si voltò per sedersi di nuovo, ma Aragorn lo trattenne, mettendogli una mano sul braccio.

“Halbarad”.

Ci fu una lunga pausa, piena di tensione, mentre i nobili si rendevano conto che il Re non aveva ancora finito, e rimasero in silenzio. Boromir non riusciva a capire dove fosse Halbarad, ma percepì che Aragorn si era rivolto verso il camino spento nel lato ovest della stanza.

“Non vieni a prestare giuramento davanti al Sovrintendente?”

Infine, Halbarad si mosse, e il leggero rumore del cuoio su metallo mentre camminava era l’unica cosa che diceva a Boromir che si trattava di un essere vivo, di carne e sangue, e non di un’ombra fatta di fumo e sussurri. “Non gli devo alcuna obbedienza”.

Le dita di Aragorn si strinsero dolorosamente sul braccio di Boromir. “Ma devi obbedienza a me. Vuoi disobbedire ai miei ordini?”

“Non insistere, Aragorn” disse Boromir. “Così finirai per spezzarlo. È l’unico modo in cui potrà mai inchinarsi al Sovrintendente-Ombra”.

Aragorn si girò di scatto verso Boromir. “Che cosa hai detto?”

“Solo quello che lui ha sussurrato al mio orecchio poco fa. Non è forse vero, Ramingo?”

“Perché dovrei negarlo?” rispose Halbarad con freddezza. “Sei già stato chiamato così, e a ragione”.

Aragorn si immobilizzò, raggelato, pieno di incredula rabbia. La sua espressione doveva essere terribile, perché prima che potesse parlare, Gandalf intervenne, posizionandosi accanto al Re. Con voce che non ammetteva repliche, disse: “Credo che questa non sia una questione da dibattere davanti al Consiglio. Forse dovreste ritirarvi in un luogo più privato”.

“Sì”. Con un evidente sforzo, il Re si riscosse e si rivolse ai nobili ancora riuniti nella sala. “Il Consiglio è terminato. Vi ringrazio, e vi auguro una buona giornata. Faramir, non c’è una piccola sala per le udienze accanto al Grande Salone?”

“Sì”.

“Accompagna Halbarad. Gandalf, verrai con noi?”

Mentre Aragorn si faceva strada attraverso la folla, guidando Boromir per un braccio, Imrahil si fece avanti e lo fermò. “Questo mi riguarda da vicino, mio signore! Ti prego...”

“Vieni”, disse Aragorn, senza rallentare il passo.

Attraversarono la vasta anticamera, riecheggiante di voci e di fresche ombre, raccolti in un silenzioso gruppo. Faramir li guidò verso la piccola stanza, in cui Boromir ricordava che loro padre usava ricevere i dignitari in visita per colloqui privati quando non voleva intimidirli con la grandezza del Grande Salone o non voleva ricordare loro il trono vuoto alle sue spalle. Puzzava di fumo, del fumo di innumerevoli torce e candele che avevano bruciato nel corso degli anni tra le sue fredde mura, e Boromir si fermò sulla soglia, esitando per il disagio che gli procurava quello spazio ristretto. Aragorn lo spinse con poche cerimonie dentro la stanza e chiuse la posta dietro di loro.

Boromir si mosse di alcuni passi, fermandosi nel sentire un tappeto sotto i suoi piedi. Non conosceva la stanza abbastanza bene per muoversi al suo interno da solo, e la tensione che aleggiava nell’aria mischiata al puzzo delle torce gli ottenebrava i sensi. Si sentiva come alla deriva, senza nulla a cui aggrapparsi. Con un profondo respiro si costrinse a rilassarsi e a concentrarsi sulle voci attorno a lui, cercando di capire la posizione degli altri, e di ridimensionare l’oscurità a una proporzione accettabile.

“Ora farai meglio a spiegarti, Halbarad". Era la voce di Gandalf, proveniente dalla destra di Boromir, e più aspra del normale.

Halbarad rispose da davanti a lui, verso il fondo della stanza. “Non devo risponderne a te, Gandalf il Bianco”.

“Sembra che tu non risponda a nessuno, ultimamente”.

“Risponderà a me”, disse Aragorn, e la sua voce era bassa e pericolosa. Allontanandosi dalla porta passò accanto a Boromir e si avvicinò ad Halbarad con passo da Ramingo, silenzioso e letale. “E questa volta, mi dirà la verità”.

“Io non ti ho mai mentito, Aragorn”, disse Halbarad, in tono piatto.

“Allora devo averti fatto le domande sbagliate”.

Faramir parlò stando accanto ad Halbarad, sconvolto e turbato. “E’stato dunque lui a mandare i sicari a uccidere mio fratello?”

“Rispondigli, Halbarad”, disse Aragorn.

“Io non ho mandato nessuno”.

“Sei stato tu a mettere in circolo la voce che Boromir fosse una minaccia per l’esercito?”

Halbarad non rispose, e Aragorn lo incalzò: “Sei stato tu a inventare la storia del Sovrintendente-Ombra? Sei stato tu a gettare il seme della paura e della superstizione tra i soldati?”

“Sì”.

“Perché?” La voce del Re era piena di una rabbia che riusciva a dominare a stento, che cresceva più forte a ogni parola che usciva dalla sua bocca. “Perché? Cosa speravi di ottenere dalla morte di Boromir?”

“Non avevo intenzione di fargli del male, anche se non posso dire di essere pentito per quello che è accaduto dopo. Ora posso solo rimpiangere che i sicari abbiano fallito”.

“Infame traditore!” sibilò Imrahil. Boromir udì il rumore di una spada che veniva sguainata, poi un grido di protesta di Faramir.

Halbarad rise con freddezza. “Credi che le tue mire fossero più nobili delle mie, mio signor Avvoltoio?”

“Preferirei morire, piuttosto che versare il sangue di un mio consanguineo!”

“Belle parole, visto che hai qualcun altro a fare il lavoro al posto tuo”.

Silenzio!”, ruggì Aragorn. “Basta così, Imrahil! Lascialo a me!”

Imrahil rinfoderò la spada con rabbia e attraversò la stanza, mettendosi davanti alla porta, come se volesse impedire la fuga di Halbarad.

“Che cosa speravi di ottenere con i tuoi sussurri velenosi, Halbarad?”

“Volevo indebolire la posizione di Boromir presso l’esercito”.

“E questo è tutto?”

“L’esercito era la sua forza. La sua unica indiscussa fonte di potere. Senza di esso non avrebbe avuto nessuno a sostenerlo dopo la nostra partenza”.

“Così speravi di mettere l’esercito contro di lui e lasciarlo qui senza alcuna difesa mentre io non ero qui a sostenerlo”.

“Sì”.

Aragorn restò di nuovo immobile, stretto nella morsa della sua rabbia che ribolliva. Il suo respiro affannoso era l’unico suono che disturbava il silenzio. Quando finalmente parlò, non lo fece né come Re né come Ramingo, ma semplicemente come un uomo spinto ai limiti della sopportazione. Boromir non aveva mai sentito nella sua voce tanto dolore e tanta incredulità. “Tu mi hai tradito, Halbarad”.

“No, mai! Io non ti tradirei mai, mio Re!”

L’angoscia del suo luogotenente non sembrò raggiungere Aragorn. Continuò con lo stesso tono spezzato, come se fosse il suo cuore a sanguinare attraverso quelle parole. “Hai abusato della mia fiducia, nascondendo i tuoi vili misfatti dietro un viso di cui non potevo sospettare, mentre tu lavoravi per la causa del nemico”.

“Aragorn!” esclamò il Ramingo, più un rantolo di orrore che un nome.

“Una volta ti dissi che cosa avrei fatto se avessi scoperto che eri stato tu a tentare di uccidere Boromir”.

“Aragorn, ti prego! Non mettere fine alla nostra amicizia con odio e spargimento di sangue!”

“Ho giurato di consegnare alla giustizia i traditori che lo avevano minacciato, e lo farò. Ti sei condannato da solo, e pagherai con la tua vita!”

“No, Aragorn”. Boromir fece un passo verso l’altro uomo, dimenticando che non sapeva cosa poteva trovarsi sul suo percorso. “Non puoi farlo”.

Halbarad sibilò di rabbia. “Non sprecare il fiato con me, figlio di Denethor! Non voglio la tua pietà!”

Boromir si voltò verso di lui, mosso a compassione. Certo il suo sguardo doveva ferire Halbarad più di qualsiasi minaccia, ma non poteva fare diversamente. La disperazione che udiva nella voce del Ramingo mentre parlava con Aragorn aveva toccato una corda familiare nella sua memoria, portando con sé l’antica vergogna. Non poteva permettere che il suo Re abbandonasse a quella follia qualcuno che amava così tanto. Non per Halbarad doveva farlo, ma per Aragorn.

Con la mano trovò la spalla di Aragorn, e avvicinandosi a lui mormorò: “Ha disobbedito ai tuoi ordini, e per questo deve essere punito, ma non è un assassino. Non ha alzato la mano contro di me, e non ha istigato Elenard e Hirluin a farlo. Tu sai che è vero”.

“Qualunque fosse il suo intento avrebbe potuto costarti la vita, Boromir. Per questo non potrò mai perdonarlo”.

“Hai perdonato me per un’azione ancora più grave. Lui avrebbe potuto causare la morte di un solo uomo. Io avrei potuto causare la rovina di tutta la Terra di Mezzo. Perché puoi perdonare me e non lui?”

La mano di Aragorn salì ad afferrare quella di Boromir sulla sua spalla. “Perché tu me lo hai chiesto”.

“Forse anche lui te lo chiederà, col tempo. Ti prego, Aragorn, non farti accecare dalla rabbia. Dagli tempo”.

Aragorn lasciò andare la sua mano e si rivolse ad Halbarad. La sua voce era piena di furia, ma riuscì a dominarsi. “Boromir ha ragione. Hai agito da vile e da traditore, ma non meriti di morire. Non prenderò la tua vita, Halbarad. Ma non voglio nemmeno la tua presenza accanto a me”.

“Che cosa vuoi fare di me?”

“Ti bandirò”.

Halbarad emise un suono soffocato a metà tra un gemito e un ringhio. “Allora mi hai ucciso comunque”.

"Halbarad dei Dúnedain, ti dichiaro traditore e ti condanno all’esilio. Da adesso in poi sei bandito da Gondor e da tutte le terre sulle quali si estende il mio dominio, per tutta la tua vita”.

“Non farmi questo, Aragorn! Non farlo!”

“Hai tempo fino alla prossima luna per attraversare i confini del mio regno. Se dopo quella data metterai piede di nuovo a Gondor, morirai”.

“Ho sempre vissuto per te” gridò Halbarad, con voce piena di disperazione. “Sarei stato pronto a morire per te! E ora tu mi scacci per mettere quel figlio di un cane al mio posto?!”

“Tu avevi già il tuo posto al mio fianco, se solo lo avessi voluto vedere. Ma hai scelto l’ostilità, il sotterfugio e l’odio al posto del mio amore. Ora devi vivere con le conseguenze della tua scelta, o morire per esse. Non mi importa, purché non debba vedere mai più il tuo viso”.

Idiota!” Sibilò Halbarad, e Boromir sentì le viscere contrarsi a quel suono familiare.

Per un terribile momento gli sembrò di sentire la sua stessa voce gridare quelle stesse parole al mezzuomo spaventato, e rivide le sue mani che cercavano di afferrare l’oggetto luccicante che era appeso al collo di Frodo. Il ricordo lo fece trasalire, e la sua mano strinse più forte la spalla di Aragorn. “No!” esclamò. “Non sarò la sua arma una seconda volta!”

Aragorn afferrò il suo braccio. La preoccupazione per Boromir lo distolse momentaneamente dalla rabbia verso Halbarad. “Che cosa vuoi dire? Boromir! Stai bene?”

Boromir inspirò con difficoltà, combattendo la nausea che sentiva sorgere dentro di sé. “Ti supplico, mio Re. Non distruggere il tuo più vecchio amico per causa mia”.

“E’stato lui a distruggere se stesso. Non è colpa tua, Boromir”.

“E’ opera del Nemico anche questa. Sauron è scomparso, ma la sua malvagità è ancora tra noi. Lo sento nella sua voce...”

Aragorn si rivolse a Boromir afferrando le sue braccia con una stretta rassicurante. “Un motivo in più per allontanarlo prima che il suo veleno si sparga”.

Boromir scosse la testa. “E cosa accadrà il giorno in cui capirà il suo errore? Se troverà chiuse tutte le porte, dove andrà nella sua disperazione? Aragorn, che cosa avrei fatto io, se tu non mi avessi aiutato a trovare la strada per uscire da quell’oscurità?”

Molto lentamente, Aragorn lasciò andare Boromir e si rivolse ancora una volta verso il suo consanguineo. A fatica, con riluttanza, parlò. “Per amore di Boromir, ti offrirò questa possibilità”.

Halbarad sibilò di rabbia e sputò sul pavimento.

“Se ti inginocchierai davanti a tutti e due in presenza di questi testimoni e giurerai fedeltà alla Corona di Gondor e al suo Sovrintendente, ti concederò di restare nei confini del mio reame. Ti saranno date terre nel nord, tra Fornost e le Colline Vento, dove potrai vivere come ti piacerà, vicino a quelli del nostro popolo che ancora vivono in Eriador. Finché terrai fede al tuo giuramento rimarrai un mio onorato consanguineo. Ma il giorno in cui lo infrangerai, con fatti o con parole, pagherai il fio con la vita. Cosa hai da dire, Halbarad?”

“Dico che non accetterò alcun dono dalle mani del figlio di Denethor. Esiliami o uccidimi, non fa’alcuna differenza. Ma qualunque cosa tu faccia, falla in fretta”.

“E sia. Allora vattene”.

Halbarad si incamminò verso la porta, scontrandosi con Aragorn mentre passava. “Posso prendere il mio cavallo e la mia spada?”

“Prendi ciò che vuoi, purché tu passi il Rammas Echor entro il tramonto”.

“Non dubitarne!”

“No, Halbarad, pensa a cosa stai facendo!” protestò Boromir. Fece qualche passo per seguire il Ramingo, ma Aragorn lo trattenne per un braccio.

Halbarad rise con amarezza. “Farai bene a mettergli la museruola, Aragorn, altrimenti potrebbe rivoltarsi contro di te e morderti!”. Detto questo, uscì e sbatté la porta.

Boromir liberò il suo braccio con uno strattone dalla presa di Aragorn e mosse un passo verso la porta. Sentiva i passi attutiti di Halbarad sulle pietre del corridoio, che lo portavano sempre più lontano dal suo signore, dal suo amico, dalla sua casa, e dalla sua ultima possibilità di redimersi. Si sentì ribollire di frustrazione, e azzardò qualche altro passo nell’oscurità.

“Lascialo andare, Boromir. Ha fatto la sua scelta”.

“Io so che cosa lo tormenta. Ho sentito anche io quegli stessi sussurri nella mia mente, e so quanto sia difficile metterli a tacere! Ti prego, Aragorn, lascia che sia io a parlargli!”

“Non ti ascolterà, e inoltre diventa pericoloso quando è in questo stato d’animo”.

“Farò in modo che mi ascolti! Chi altro potrebbe farlo, se non uno che ha camminato in quella strada prima di lui? Devo tentare, mio Re, devo tentare”.

Aragorn sospirò, e disse stancamente: “Faramir, vai con lui”.

Insieme, i fratelli si affrettarono attraverso l’anticamera verso le porte della cittadella. Boromir sentiva i passi del Ramingo davanti a sé e capì che Halbarad era troppo furibondo per muoversi con la sua consueta cautela. Non tentava nemmeno di essere silenzioso, ma camminava a grandi passi pieno di ira fiammeggiante, incurante di chi gli stava attorno.

Correndo, Boromir gridò: “Halbarad! Fermati!”

Sentì i passi esitare per un momento, per poi riprendere più veloci. “E’ uscito”, mormorò Faramir.

“Halbarad!” Boromir accelerò la corsa. Uscendo nel tepore del giardino gridò con rabbia: “Sei così codardo da non osare affrontarmi, Ramingo?”

“Nessuno mi può chiamare codardo e vivere!” ringhiò Halbarad.

Faramir si fermò repentinamente, trattenendo il fratello. “E’ armato, Boromir. Ha un pugnale alla cintola”.

“Lo so”.

“Vieni avanti, figlio di Denethor! Vieni e affrontami da uomo a uomo!”

Boromir lasciò il braccio di Faramir e fece qualche passo lontano da lui. “Lasciaci, fratello. Non ti riguarda”.

Faramir esitò per un momento, poi mormorò, “Se lo desideri. Si trova all’altezza del cancello superiore, proprio davanti a te. Stai attento. Non mi piace il suo sguardo.”

Boromir annuì e mosse un passo in avanti. Poteva vedere nella sua mente l’ampio cortile pavimentato di bianco, che si estendeva dalle porte della Cittadella fino all’arcata scura che segnava la cima del Settimo Cancello. Nessun ostacolo lo separava da Halbarad, di questo era sicuro. Eppure il suo cuore batteva selvaggiamente, e il suo respiro era affannoso per il panico, mentre si avventurava un passo dopo l’altro nel vuoto. Solo il disperato bisogno di raggiungere l’altro uomo, di trovarlo e di aiutarlo, spingeva Boromir ad andare avanti, a dispetto della paura che cresceva minacciosa in lui, minacciando di sopraffarlo.

“Fermati dove sei, Sovrintendente, se ti è cara la tua vita”. Boromir, obbediente, si fermò, fissando il suo sguardo bendato sul Ramingo. “Perché mi tenti così? Sai benissimo che ti vorrei morto. Perché metterti alla mia mercé?”

“Tu non mi farai del male mentre sono solo e disarmato. Sarai forse amareggiato e furioso, ingannato dai sussurri dell’invidia, ma sei ancora un uomo d’onore”.

Halbarad rise con crudeltà. “E sei disposto a scommettere la tua vita su questo?”

“Sì, se devo”.

“A che scopo?”

“Per mettere fine a questo odio, prima che si prenda un’altra vita”.

“La mia vita non ti riguarda”.

“Invece mi riguarda, se tu la vuoi gettare via a causa del tuo disprezzo per me. Pensa, Halbarad! Perché rinunciare a tutto quello che ami, condannare te stesso alla morte vivente dell’esilio, solo per ferire me? Sei tu l’unico che soffre, non io”.

Halbarad emise un suono che poteva essere una risata o un singhiozzo. “Questo è abbastanza vero. Perché dovrei pagare per qualcosa che non ho fatto?”

“Se darai ad Aragorn una possibilità di farlo, lui ti perdonerà. Ma devi farlo ora, prima che tutte le leghe delle terre selvagge e il dolore del tradimento vi separino, o non ci sarà modo di tornare indietro. Non essere la causa della tua condanna, Halbarad!”

“Non temere! Farò in modo che giustizia sia fatta!”

Le parole non avevano ancora lasciato le sue labbra che Halbarad estrasse il pugnale dal fodero che portava alla cintura. Udendo il rumore del metallo, Boromir indietreggiò, sollevando le mani vuote verso il suo aggressore.

“Halbarad...”

Ma il Ramingo era già su di lui, piombando con tutto il suo peso contro il petto di Boromir, affondando il pugnale tra le sue costole. Un dolore lancinante attraversò Boromir, che, investito dalla forza dell’impatto, cadde pesantemente all’indietro. La sua testa batté violentemente contro il terreno, e il dolore svanì nell’oscurità.

Legolas sentì l’inconfondibile rumore di una lama che veniva estratta, e sollevò la testa di scatto. Aveva visto gli uomini uscire dalla Torre, Faramir che si allontanava, mentre Boromir si avvicinava ad Halbarad. Aveva distolto lo sguardo di proposito cercando di ignorare le loro voci, non volendo intromettersi nel loro confronto. Ma quel suono, in quel momento, non poteva essere ignorato.

La luce del sole scintillò sulla lama, mentre Halbarad alzava il braccio e si gettava addosso al suo rivale. Legolas balzò in piedi con agilità mentre Merry gridava allarmato, e cominciò a correre. Vide Boromir scaraventato al suolo dalla forza dell’affondo, e Halbarad che con un salto superava agilmente il suo corpo esanime. In un attimo Legolas fu dall’altra parte del cortile, con l’arco pronto tra le mani, ma il Ramingo correva rapido come un elfo, e ormai si trovava a soli pochi passi dal cancello superiore.

Mentre Halbarad scompariva nel buio della galleria, Legolas udì Gimli che gridava a gran voce, “Ehi! Guardie! Fermate quell’uomo!”

Gli occhi acuti dell’elfo compresero immediatamente la situazione. C’erano due guardie alle porte della Cittadella armate di lancia e spada, che non avrebbero mai raggiunto Halbarad in tempo. Sapeva che c’erano altre due guardie alla fine della galleria, appena fuori dal Settimo Cancello. Sarebbero accorse se chiamate, ma ci avrebbero messo troppo tempo a rendersi conto di ciò che era accaduto, e non avrebbero pensato a fermare il luogotenente di Aragorn. Nel momento in cui avessero capito la situazione, il traditore sarebbe già stato lontano.

Senza fermarsi, Legolas si voltò e corse direttamente verso le mura. Con un solo balzo fu in piedi sul parapetto, dove si fermò, perfettamente in equilibrio sull’ampia balaustra di pietra. Il suo sguardo corse sulla strada sottostante. Sotto di lui venivano le grida delle sentinelle e il rumore di armi sguainate, ma nessuno aveva ancora raggiunto la fine della galleria. Nessuno a parte il Ramingo e le due confuse sentinelle. Halbarad stava fuggendo lungo curva della strada, diretto verso il Sesto Cancello inseguito a distanza da una sola guardia.

Veloce come il pensiero, Legolas incoccò una freccia. Gli occhi come due fessure, prese la mira tendendo l’arco. Attese l’avvertimento della sentinella. “Fermati, in nome del Re!”. Ma Halbarad non gli prestò alcuna attenzione. Poi lasciò partire il colpo.

La freccia aveva appena lasciato l’arco che subito Legolas incoccò di nuovo. Con l’arco teso seguì il suo bersaglio mentre correva attraverso il Sesto Cancello, ma non ci fu bisogno di una seconda freccia. Il Ramingo fece alcuni passi poi inciampò, cadendo ai piedi delle mura. Legolas abbassò l’arco e restò con le braccia inerti lungo il corpo, osservando senza espressione la figura distesa all’ombra del cancello.

Halbarad, Dúnadan del Nord, giaceva morto sul selciato in una pozza di sangue scuro, con una freccia elfica che gli trapassava il collo.

Continua…

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Capitolo 16
*** L'Albero Bianco ***


Capitolo 16: L’Albero Bianco

Quando Boromir riprese conoscenza, fu accolto da un dolore sordo e insistente che gli martellava in testa, e dalle voci di molte persone attorno a sé. Aveva perduto il senso del tempo e dello spazio. Non ricordava il motivo per cui si trovava disteso a terra sulla tiepida pietra, circondato dal rumore di passi e grida. L’unico pensiero che riusciva a farsi strada nella sua mente era la speranza che tutto quello finisse presto, prima che ne fosse schiacciato completamente.

Dall’oscurità sopra di lui giunse una voce familiare, un respiro caldo sul suo viso, e mani gentili sul suo capo. "Boromir... fratello..." Poi, altrettanto rapidamente di come era venuto, il calore attorno a lui svanì, e la voce sibilò con disperazione. "Maledetto me! Che idiota sono stato! Non avrei mai dovuto lasciarlo!”

"No, Faramir, la colpa è mia”, disse un’altra voce. Sembrava Aragorn. Ma i sensi di Boromir erano troppo confusi, e c’era così tanto rumore attorno a lui, che non ne era sicuro. "Sono stato io a dargli il permesso di seguirlo, anche se sapevo che Halbarad era fuori di sé".

Halbarad! Il nome suscitò in lui un’ondata di panico, causandogli un dolore acuto quanto quello che gli pulsava in testa. Doveva trovare Halbarad, prima che ad Aragorn succedesse qualcosa di terribile. Non poteva ricordare che cosa minacciasse il suo re, ma sapeva che era qualcosa di molto grave. E solo il Ramingo poteva impedirlo. Doveva trovare Halbarad!

Guidato da quell’unico pensiero cercò di liberarsi dalla stretta di Faramir e di alzarsi su un gomito. Non appena mosse la testa, però, un fortissimo dolore gli esplose nel cranio, mandando ondate di nausea attraverso di lui e strappandogli un gemito.

Le mani di Faramir aumentarono la presa, tenendolo fermo, e suo fratello gridò “Si sveglia!”

"Halbarad!" gemette Boromir.

"Non ti agitare, Boromir. Stai tranquillo". La voce di Aragorn era come un balsamo curativo, e le sue mani di guaritore lo afferrarono per le spalle tenendolo fermo. “Non c’è nulla da temere”.

"Halbarad..."

"Resta fermo, lascia che ti aiuti”.

"...devo trovarlo".

"No, devi restare fermo. Gandalf!" Boromir sentì una fresca ombra sul suo viso, quando lo stregone rispose alla chiamata di Aragorn. "Ti prego, sgombera il cortile. Imrahil, corri alle Case di Guarigione...”

"Niente guaritori", mormorò Boromir, cercando di nuovo di liberarsi dalle mani che lo immobilizzavano. “Non ho bisogno... di guaritori”.

"Boromir, devi restare fermo!” Il tono di comando nella voce era imperioso, e Boromir, obbediente, si abbandonò sul pavimento. “Avverti i guaritori del nostro arrivo. Chiama qualcuno con una lettiga e delle bende per una ferita di pugnale”.

"Non è niente”, sussurrò Boromir, sollevando una mano a coprirsi gli occhi bendati. Fu stupito e spaventato nel sentire il tremito delle sue dita e la debolezza del suo braccio. Per quanto si sforzasse di capire che cosa gli era accaduto, tutto quello che riusciva a ricordare erano frammenti di emozioni. Rabbia. Impotenza. Disperazione. E, più importante di tutti, il bisogno di trovare Halbarad. “Lasciate che mi alzi...devo trovarlo”.

"Non serve, amico mio".

La voce di Aragorn era stanca e tetra, velata di una sofferenza che turbava Boromir ancora più del dolore nel suo corpo. Che cosa era accaduto? Perchè non riusciva a ricordare?

"Devo estrarre la lama prima di poterlo spostare”, disse Aragorn, rivolto ai presenti ancora affollati attorno a lui, che riempivano l’oscurità con la loro paura. "Legolas, prendi questo e stai pronto a tamponare la ferita. Merry, tienilo fermo”.

Come risposta a quelle parole, Boromir sentì una piccola mano stringersi attorno al suo braccio sinistro, e per la prima volta notò la presenza dietro di lui. Cominciò a voltarsi verso lo hobbit, cercando di rassicurarlo, quando, un improvviso, lancinante dolore al suo fianco sinistro gli tolse il respiro, mandando un violento fremito attraverso il suo corpo. Le sue dita si strinsero con forza su quelle di Merry mentre la sua mano libera andava a raggiungere la fonte del suo dolore. Ma Legolas fu più veloce. Spinse via la sua mano e premette un tampone improvvisato sulla ferita. Il sangue ruscellò caldo sulla sua pelle.

Fu Merry a parlare, tra le lacrime. "Va tutto bene, Boromir. Ora è finita".

"Merry..." Boromir inspirò ed espirò dolorosamente, cercando di ritrovare il controllo. La stretta di Merry lo rassicurava, e la sua voce lo confortava. "Merry."

"Sono qui".

"Non perde molto sangue", disse Legolas, "e respira regolarmente”.

"Hai ragione”. Aragorn sembrava confuso. "Guarda il pugnale”.

"Dovrebbe essere insanguinato fino all’elsa!”. Quello era Gimli, senza alcun dubbio. Nessun altro avrebbe potuto mettere tanto stupore e belligeranza in un’unica esclamazione. “Come può essere? Che cosa ha deviato la lama?”

"Non è nulla... solo un graffio…” mormorò Boromir. Non riusciva ancora a capire il senso delle loro parole, ma ricordava abbastanza da essere certo che tutta quell’agitazione non era necessaria. Pensavano forse che Boromir, soldato di Gondor, fosse così sciocco da cadere due volte nella stessa trappola?

“È quello che dici ogni volta che stai sanguinando!” ribatté Merry.

Aragorn si chinò su Boromir. “Sì, ma forse questa volta è la verità. Vediamo cosa c’è sotto questa tunica, amico mio”. Abili dita rimossero il bendaggio di Legolas, e Boromir udì il rumore del pesante broccato che veniva strappato. Aragorn si chinò per osservare meglio, e Boromir poté sentire il suo respiro rapido, poi improvvisamente il re si alzò, ridendo. “Avrei dovuto immaginarlo!”

"Che cosa?” Domandò Pipino.

"Un giaco di maglia! Sta indossando un giaco di maglia!”

Boromir ebbe un moto di irritazione. “Sarò anche cieco… ma non sono uno stupido”.

"Grazie ai Valar!" Aragorn strinse la mano sulla sua spalla, e rise di nuovo. “Sono stato io lo stupido a dubitare di te! E ad averti esposto a questo pericolo...”

"Non è stata colpa tua”, mormorò Boromir, anche se non aveva idea di quale fosse il pericolo di cui parlava Aragorn. Sentì la mano di suo fratello che si posava delicatamente sulla sua fronte, e ricordò le prime parole che aveva sentito al suo risveglio. "E nemmeno tua, fratello", aggiunse piano.

Faramir inspirò bruscamente, e sussurrò, con voce rotta, “Pensavo di aver perso mio fratello e il mio signore allo stesso tempo. E tutto a causa della mia stupidità!”

"Non ti impadronirai della primogenitura così facilmente", cercò di scherzare Boromir.

La sola risposta di Faramir fu chinare il capo e premere le labbra per un momento sulla fronte di Boromir. Poi si rialzò, e ritrovata la voce, domandò “E ora, mio Re?”

“Dobbiamo bendare bene la ferita, per evitare che perda altro sangue. Anche se non è profonda, è una brutta ferita, e dobbiamo medicarla in fretta. Ma temo che il colpo alla testa sia la cosa più grave”.

“Non capisco!” protestò Merry! “Se sta indossando un giaco di maglia, come ha fatto la lama a raggiungerlo?”

“Questo è un pugnale elfico, come molte delle armi dei Dùnedain". Nuovamente le dita di Aragorn presero il posto di quelle di Legolas, spostando la benda per tastare delicatamente la ferita. “La lama è abbastanza affilata da penetrare attraverso gli anelli di ferro, ma non ha potuto danneggiare organi vitali. Il polmone è intatto”.

Si interruppe per concentrarsi sul suo compito, le sue mani che si muovevano con esperienza. Boromir sopportò in cupo silenzio, stringendo i denti per resistere al dolore che gli causava anche solo quel tocco gentile. Stringeva saldamente la mano di Merry, cercando di distogliere la sua mente da ciò che accadeva attorno a lui. Nel momento di quiete che seguì, un ricordo affiorò all'improvviso.

"Halbarad". Cercò di alzarsi, ottenendo solo una protesta da parte di Faramir e un deciso ordine di Aragorn. Lasciò che suo corpo si rilassasse sulla pietra sotto di lui e disse, "Stavo parlando con Halbarad. Lui era... fuori di sé”.

“Non ricordi cosa è successo?” domandò Aragorn, la sua voce stranamente dura.

“No. Solo...”

Fu interrotto dalla vibrazione di passi di corsa sul pavimento, che si ripercossero attraverso le pietre strappandogli un gemito di dolore. Nell'immobilità che si era creata aveva quasi dimenticato il dolore alla testa. Il rimbombo degli stivali glielo fece ricordare anche troppo chiaramente.

“Ecco le bende”, ansimò Imrahil. “La lettiga sta arrivando”.

"Bene”.

Aragorn tornò a dedicarsi al suo lavoro, e Boromir lo sentì rimuovere tessuto e maglia di ferro per scoprire la ferita. Faramir teneva ferma la sua testa, sostenendola, cosa di cui Boromir era grato, e Merry si aggrappava alla sua mano. Quando Boromir si lasciò sfuggire alcuni lamenti soffocati, Aragorn mormorò le sue scuse.

"È la testa che mi fa male, non la ferita!” boccheggiò Boromir.

“Lo so. Ma non possiamo portarti fino alle Case di Guarigione finché non abbiamo fermato la perdita di sangue”.

Stringendo i denti, Boromir domandò, “Aragorn... come... come è successo?”

Il Ramingo esitò, occupato a fermare la perdita di sangue, poi rispose semplicemente, “Halbarad ha tentato di ucciderti”.

Dunque era questo il motivo della furia silente che li animava tutti. Era questa la causa della disperazione che udiva nelle loro voci e che faceva sì che tutti si stringessero attorno a lui così protettivamente. “È fuggito?”

“Ha tentato. Non è andato lontano”.

"Cosa... cosa gli farai?"

"Nulla”. Aragorn diede un brusco strattone alla benda. “È morto”.

Il gemito spezzato di Boromir era dovuto tanto al dolore per la ferita quanto alla disperazione. "No!”

Aragorn non disse nulla. Fu Legolas a parlare, alla sinistra di Boromir, con voce calma ma piena di rabbia tagliente. “Piangi per lui se vuoi, Boromir, ma non dare la colpa ad Aragorn. Halbarad ha suggellato il suo destino con la sua stessa pugnalata".

Boromir sollevò di nuovo una mano a coprirsi gli occhi, cercando di nascondere il suo viso alla vista degli amici. “Io so di chi è la colpa”.

"Non tua, Sovrintendente di Gondor”.

Scosse la testa impercettibilmente, ingoiando le lacrime che gli stringevano la gola, e sussurrò, “Sono stanco di queste ombre, stanco del sangue. Quando sarà finita?”

Fu Aragorn a rispondergli. “È finita. E ora, mio sovrintendente, tu riposerai”.

*** *** ***

Le foglie tritate di athelas galleggiavano in una ciotola di acqua bollente accanto al letto, riempiendo l’aria della loro fragranza medicamentosa. L’odore fece venire in mente a Merry la Contea in primavera, rigogliosa e bella oltre ogni dire, come viveva solo nei suoi più dolci sogni, e il suo cuore si alleggerì. Era seduto a gambe incrociate ai piedi del letto, e guardava gli Uomini lavorare senza dire nulla. Il suo senso di benessere fu messo a dura prova quando vide il viso esausto e pallido di Boromir, ma poi si ricordò la promessa di Grampasso.

“Andrà tutto bene, Merry”, aveva detto, Mentre Legolas e Faramir sollevavano Boromir sulla barella, “hai la mia parola. Non lascerò che gli accada nulla di male”. Poi aveva preso la mano di Merry e si era incamminato verso le case di Guarigione, sempre tenendo accanto a sé lo hobbit spaventato, proteggendolo con la sua presenza rassicurante.

Andrà tutto bene. La promessa di un amico e di un guaritore. La promessa di un Re che li aveva condotti attraverso il fuoco e l’oscurità fino a una splendente aurora. Come poteva dubitare di Grampasso?

Guardò le agili dita di Aragorn lavorare alla ferita nel fianco di Boromir, e, rincuorato dall'aroma dell'athelas, non distolse nemmeno lo sguardo. Boromir non sembrava accorgersi del dolore, ora che era di nuovo padrone di sé. La spaventata confusione e lo smarrimento che aveva mostrato poco prima nel cortile erano scomparsi, lasciando il posto al suo consueto contegno, e a una tetra rassegnazione a sopportare i mali che non poteva evitare. Aveva ostinatamente rifiutato la presenza dei guaritori, accettando solo Aragorn, e aveva mandato Faramir a chiamare Gil, mettendo a tacere le proteste del fratello con un ordine imperioso. Persino il Re si era arreso al suo desiderio, impedendo l’ingresso a tutti fuorché alla sguattera. Ora che aveva vinto quella piccola battaglia, Boromir sembrò lieto di lasciare il comando ad Aragorn.

Aragorn lasciò cadere un panno insanguinato nel catino ai suoi piedi e fece cenno a Faramir di porgergli la fasciatura. Insieme bendarono strettamente la ferita, mentre Gil si occupava del catino, raccogliendo i bendaggi insanguinati ai piedi del letto. A una parola di Aragorn, la ragazza uscì dalla stanza per ritornare poco dopo con una grande tazza d’argento che fumava tra le sue mani.

Dopo che Aragorn ebbe finito di fissare il bendaggio, Gil gli porse la tazza. Aragorn la prese, ringraziandola, e la posò sul tavolino accanto al letto. Gil cominciò a raccogliere i vari capi di vestiario sparsi per la stanza. Aragorn fece un passo indietro, osservando il suo lavoro.

"Ora puoi respirare, Boromir. Ho finito di torturarti. La ferita è pulita e ora ha solo bisogno di tempo per guarire".

"Ti ringrazio”, disse Boromir, con voce tirata. “Ti sarei ancora più grato se potessi far smettere il pulsare nella mia testa”.

"Bevi questo." Sollevò la coppa, mettendola tra le mani di Boromir. "Lenirà il dolore e favorirà il sonno".

Boromir, che stava già per prendere la tazza, si tirò indietro di scatto. "Sonno?" Il suo viso divenne sospettoso. "Non ho bisogno di droghe per dormire."

"Non ti fidi del tuo Re e guaritore? Ho preparato io stesso questa medicina, e ti garantisco la sua efficacia. Bevila, Boromir. Non soffrire senza motivo."

"No." Lasciò cadere le mani per afferrare i lati del letto, cercando inutilmente di nascondere il tremito che le scuoteva. "Il dolore è poca cosa, e preferisco guarire naturalmente".

Aragorn lo guardò con comprensione. Boromir continuava a tenere il capo abbassato, stringendo ostinatamente i bordi del letto, mentre Faramir guardava prima uno poi l’altro con espressione ansiosa. Poi finalmente Aragorn ruppe il silenzio, posando la tazza sul tavolo con un rumore secco. Si voltò e lanciò un veloce sguardo a Gil.

Gil comprese di essere stata congedata, e si avviò verso l'uscita dopo un breve inchino e un rispettoso "mio signore". Né Aragorn né Faramir notarono la piega preoccupata della sua bocca, o il sordo dolore nei suoi occhi mentre guardava in direzione di Boromir. Solo Merry se ne accorse, ma Gil se ne andò prima che lui potesse confortarla. Non che sapesse in che modo farlo - o se lei avrebbe accettato il suo conforto.

Aragorn attese finché i suoi passi non si furono spenti lungo il corridoio di pietra, poi si sedette sul bordo del letto e parlò a Boromir.

"Perché non vuoi dormire?"

Merry lanciò un veloce sguardo a Faramir, e vide che anch’egli era sporto in avanti, come il suo re, ansioso di sentire la risposta di suo fratello. A Merry sembrava assurdo fare una simile domanda, ma d'altronde loro non avevano viaggiato a fianco di Boromir per tutti quei giorni di oscurità, ascoltando il tormento nella sua voce la notte. Mosso da un impulso protettivo, Merry si avvicinò a Boromir, abbastanza perché l’uomo avvertisse la sua presenza, e attese la sua risposta. Boromir per tutti guqoromir per tutti guq d'altrone

"Ti sfinisci senza sosta giorno dopo giorno”, continuò Aragorn, “e la notte vaghi per queste case come uno spettro senza pace. Se continui così, il tuo corpo ne sarà provato al punto da non poter guarire. Io voglio aiutarti, Boromir, ma devi dirmi come. Dimmi perché non vuoi dormire”.

Boromir non rispose. Rimase seduto fissando con lo sguardo bendato le proprie mani, aprendo e chiudendo le dita in un gesto smarrito. Il suo viso era teso e rabbuiato, ma distante, come se i suoi pensieri stessero vagando lontano da quella piccola stanza e dalle attenzioni dei suoi amici. Aragorn attendeva pazientemente. Faramir osservava il fratello con il dolore evidente nei suoi occhi, ma non osava dire nulla per non disturbarlo. Fu Merry che ruppe quell'immobilità, posando una mano sul braccio di Boromir. Il tocco parve richiamare Boromir alla realtà. Sollevò la testa di scatto, con un'espressione confusa in volto.

"Boromir?" Aragorn parlò dolcemente, non più in tono di comando, ma di supplica. "Cosa non va?"

Con un visibile sforzo, Boromir rispose, in un sussurro. “Ho paura”.

"Paura di cosa?"

"Dell’oscurità. Quando sono solo diventa così grande. Soprattutto nel sonno. Ho paura che una volta che vi sono entrato, non troverò mai più la via del ritorno."

Lo sguardo di Aragorn era così pieno di dolore e compassione che Merry sentì le lacrime salirgli agli occhi. E in quel momento, lo hobbit capì, come mai prima, quanto fosse profondo il legame tra i due uomini. Era stato forgiato tra le fiamme di Isengard e messo alla prova dal Nemico stesso. Nulla poteva spezzarlo. E l'oscurità non avrebbe mai vinto Boromir, finché Aragorn fosse stato lì per portarlo indietro.

"Non permetterò che tu ti smarrisca”, lo rassicurò Aragorn, dando voce ai pensieri di Merry. "Fidati di me, Boromir. Io ti richiamerò, se mai dovessi vagare troppo lontano”.

"Ha fatto la stessa cosa con me”, disse Faramir. “Quando il Respiro Nero mi imprigionava, è stata la voce del Re che mi ha liberato".

"E anche con me", mormorò Merry.

La mano di Boromir si posò su quella di Merry, stringendola convulsamente. “Come farai a sapere se...” deglutì dolorosamente, “...se sarò perduto?”

"Ci sarà sempre qualcuno qui con te, a vegliarti quando non ci sarò io. Qualcuno di cui ti fidi. E di tanto in tanto ti sveglieremo, per assicurarci che tu non cada troppo profondamente nel sonno". Boromir non disse nulla, continuando a tenere il capo abbassato con espressione spaventata. "Non ti lasceremo solo", aggiunse Aragorn, " te lo giuro".

Boromir sospirò. “Ora mi disprezzerete”.

Gli occhi di Aragorn scintillavano, e Merry si accorse che erano pieni li lacrime. “Io penso solo che troppo a lungo ho messo il regno al di sopra del benessere del mio amico. E come sempre, tu stai soffrendo per causa mia."

"No, Aragorn. Io non mi aspetto certo che tu curi le mie ferite o scacci le mie paure”.

"E’ mio dovere, tanto quanto radunare gli eserciti o promulgare le leggi. Io sono la Gemma Elfica, Speranza dell’Ovest, guaritore e Re, e fratello d’armi di Boromir di Gondor fino alla morte. Io posso darti riposo e pace, liberarti dalle tue paure. Tutto quello che devi fare è fidarti di me."

Per un lungo momento, Boromir restò a capo chino in silenzio, impegnato in una lotta con se stesso. Alla fine, sollevò il capo e annuì. Faramir sorrise sollevato, e si chinò a togliere gli stivali al fratello. Merry si spostò per dare ai due uomini spazio per muoversi, e li osservò mentre adagiavano il corpo martoriato ed esausto di Boromir in una posizione più comoda.

Quando ebbero finito, il viso di Boromir aveva perso ogni colore. Sembrava così debole che Merry si spaventò, ma quando Aragorn si curvò su di lui per sistemare le coperte, Boromir protestò con forza. “Non mi affliggerai con i guaritori, vero? O con quella vecchia che non la smette mai di parlare? "

"Niente guaritori. Ma deve rimanere qualcuno di guardia alla tua stanza”.

"Merry è la sola guardia che mi serva”.

Lo hobbit sorrise, e mormorò, “Non ho ancora una spada”.

“Le guardie possono proteggerti tanto dai sicari che dai visitatori indesiderati”, osservò Aragorn. “Avranno ordine di non entrare nella stanza a meno che tu non li chiami, e di non lasciare entrare nessuno senza il mio permesso”. Prese la tazza che fumava lievemente sul tavolo e la portò alle labbra di Boromir, che però voltò la testa ostinatamente da un lato. "Bevi, Boromir. Questa è la fiducia di cui parlavo, e la medicina di cui hai bisogno."

"La berrò, ma... non ora. Il mio stomaco non è in grado di sopportarla in questo momento. Lasciala qui. Merry si assicurerà che io beva."

Aragorn lo osservò per un momento. Non credeva che Boromir si sentisse così male da non bere la pozione curativa, ma decise di non insistere oltre.

“Molto bene. Ma se al mio ritorno non l’avrai bevuta non sarò così indulgente. Scoprirai che ho metodi convincenti per fare eseguire i miei ordini”.

Boromir mormorò riluttante il suo assenso, e Aragorn giudicò che fosse il momento giusto per andarsene, prima che il suo paziente trovasse qualcos’altro da obiettare. Stringendo in segno di commiato la mano di Boromir, disse, “Ora riposa. Lascia che l’athelas faccia il suo lavoro. Merry rimarrà fino a quando verrò a dargli il cambio, ma se hai bisogno di me, chiamami. Io verrò.”

"E anche io," assicurò Faramir.

Aragorn uscì dalla stanza, ma Merry lo fermò sulla soglia, tendendogli una mano. "Credi davvero che sia ancora in pericolo, Grampasso?" Domandò Merry, guardandolo con preoccupazione.

"Non lo so, ma non voglio correre rischi”.

"Forse sarebbe meglio se avessi una spada”.

"Sì, credo di sì.” Aragorn rifletté per un istante, poi estrasse dal fodero il pugnale elfico di Halbarad, che aveva infilato nella sua cintura. La lama era lunga e sottile, un oggetto di mortale bellezza. E la sua punta era ancora macchiata del sangue del Sovrintendente di Gondor. Mentre l’acciaio elegante scivolava fuori dal fodero, Aragorn vide la macchia ed esitò, e il suo volto si fece duro per la repulsione. Stava per rinfoderarla di nuovo, ma Merry lo fermò.

"E' una lama così buona?", domandò.

"Lo è davvero”. Aragorn la soppesò nella sua mano, come se cercasse di ricordare le innumerevoli volte in cui l'aveva vista nella mano del suo amico, l'amico che aveva amato e di cui si era fidato, non il traditore che era morto sulla strada nemmeno un'ora prima. "Questa lama è stata adoperata con onore per molte vite degli Uomini, e mai, fino a oggi, era stata insudiciata con la codardia o il tradimento”.

Merry tese la mano, e Aragorn vi pose il pugnale. Merry strinse le dita attorno all’elsa, provandone il bilanciamento, e per un momento pensò che era davvero uno strano caso del destino, che ora lo faceva stare al cospetto di un re discutendo le virtù di una lama elfica nella sua mano.

"Posso tenerla?"

"Con piacere." Prendendo il pugnale per la guardia, Aragorn pulì la lama nell’angolo del suo mantello. “Ma, al contrario del tuo Re, tu dovresti sempre ricordarti di pulire la sua lama, Mastro Scudiero. Ora hai tutto ciò che ti serve per difendere il tuo signore”. Poi fece un passo indietro e rivolse a Merry un solenne inchino.

Merry arrossì leggermente mentre ricambiava il saluto al suo Re. Attese in silenzio accanto alla porta fino a che anche Faramir non si fu congedato da Boromir, poi, quando sia lui che Aragorn se ne furono andati, entrò chiudendo a porta delicatamente. Poi posò la sua nuova spada sul piccolo tavolo accanto al letto, e si arrampicò sul letto sedendosi accanto a Boromir, prendendo la sua mano nelle sue. Boromir gli sorrise brevemente, ma la tensione non abbandonò il suo viso, e la sua fronte rimase corrugata.

"Ora ho una vera spada”, disse Merry in tono pratico, “Così non hai più nulla da temere”.

Il sorriso apparve ancora, e Boromir mormorò, “Riposerò più sereno, sapendo che sei qui a guardarmi le spalle”.

Merry non fu in grado di decidere se il tono della sua voce era serio o bonariamente derisorio. Piegò la testa di lato, con aria sospettosa. “Dici sul serio?”

Boromir sembrò sorpreso. "Sì, naturalmente!"

"Bene. Pensavo che ti stessi prendendo gioco di me per via del coltello da formaggio".

"Non potrei mai prendermene gioco. È stato un atto di supremo coraggio, degno dei più grandi eroi di Gondor”.

"Ora sì che ti stai prendendo gioco di me".

"No." Boromir strinse le dita con fermezza attorno a quelle di Merry, e per la prima volta, un genuino sorriso gli illuminò il viso. “Io ti sono grato, Piccoletto, e non solo per quello, ma anche per tutte le ore che hai trascorso con me a parlare, ridere e ricordare."

Le lacrime giunsero improvvise agli occhi di Merry, e un nodo gli strinse la gola. Non che avesse mai dubitato dell'affetto di Boromir, né della fiducia che il cauto soldato riponeva in lui, ma sentirlo parlare in modo così naturale e aperto era come un balsamo per il suo cuore. In quel giorno di ansia, la paura, la rabbia e il panico più cieco avevano lasciato il loro segno su di lui. Era passato attraverso la tensione snervante e il terrore assoluto, per poi ritrovarsi alla fine ancora una volta nel ruolo di protettore e compagno paziente. La testa gli doleva a tal punto che le lacrime erano il suo unico sfogo.

Forse Boromir aveva udito i suoi singhiozzi sommessi, o forse anche i suoi pensieri si erano rivolti allo stesso tempo verso oscuri sentieri, perché quando parlò di nuovo il calore aveva lasciato la sua voce. Sembrava stanco e triste, e c’era una traccia dell’antica disperazione nelle sue parole. “Presto questi momenti tranquilli che trascorriamo insieme non saranno che un’altro ricordo."

"Mi dispiace” Merry si dovette schiarire rumorosamente la gola prima di poter continuare. “Darei qualunque cosa per poter restare qui con te. Tutto, tranne...”

“Tranne la possibilità di rivedere la Contea”.

La quieta rassegnazione nella voce di Boromir fu come un macigno sul cuore di Merry. Sapeva che Boromir aveva accettato la sua decisione di andarsene, per quanto gli era possibile, ma sentiva comunque il bisogno di giustificarsi. Forse voleva vincere la piena approvazione dell’Uomo, invece di quella cupa resa a labbra serrate. "Gandalf dice che ci sarà bisogno di me nella Contea, prima che questa guerra sia finita. Pensavo che adesso sarei potuto andare a casa a riposare, ma lui ha detto che abbiamo ancora del lavoro da fare."

"Te ne vai perché te lo ha ordinato lo Stregone? "

"No. Io gli credo, ma anche se così non fosse, anche se tutto quello che mi aspetta nella Contea fosse solo un comodo buco Hobbit e una pipa piena di foglia di Pianilungone, nonostante questo tornerei comunque. Quello è il mio posto, Boromir."

"Non sei più la creatura innocente e spensierata che ha lasciato la Terra di Buck tutti quei mesi fa. Tu hai visto gli eventi più grandi e terribili della nostra era, e ormai sei abituato a ben altre cose che gli svaghi degli hobbit. Forse non ti sentirai più tanto a casa nella Contea, ora".

"Minas Tirith ti è sembrata forse meno casa tua, dopo tutti i mesi che hai trascorso lontano da essa? O per quello che vi hai trovato al tuo ritorno? "

"No." Boromir esitò un istante, poi aggiunse, sussurrando. “Anche se fosse bruciata e annerita come la mano di Sauron, ridotta in macerie, e il suo popolo disperso nelle terre selvagge, il mio cuore abiterebbe sempre nella Bianca Torre”.

"Allora tu mi capisci."

"Sì." Boromir trasse un profondo respiro, spezzato a causa del dolore che gli causava la ferita al fianco. “Non posso trattenerti qui, e non posso segurivi all'Ovest. Non ho altra scelta che trovare la mia strada senza di te".

"Anche io dovrò trovare la mia."

Entrambi rimasero in silenzio, ma nonostante i tetri pensieri, era un silenzio piacevole. Merry scoprì di non avere altre parole o consigli per il suo amico. Nulla avrebbe potuto cancellare il dolore di lasciare Gondor e il suo Sovrintendente, ma il pensiero che il suo Re li avrebbe protetti entrambi gli fu di conforto. E anche se Boromir avrebbe sentito la mancanza della sua guida, avrebbe trovato comunque la sua strada attraverso gli oscuri sentieri che lo attendevano. Merry non aveva dubbi in proposito. Tutto ciò che gli restava da fare era mettersi in strada, e seguirla fino a casa.

Quando Boromir si mosse, sollevando la mano a coprirsi gli occhi, Merry si riscosse dal pensiero delle lunghe leghe che separavano la Contea da Minas Tirith e rivolse la sua attenzione all’uomo ferito. Il suo gesto tradiva il dolore e la stanchezza, e fece tornare alla mente di Merry il suo dovere.

"Ora sei pronto per dormire?”, domandò.

Boromir rispose con un grugnito che Merry non avrebbe saputo interpretare.

"Hai promesso ad Aragorn che avresti bevuto la sua medicina."

"Sì."

Merry prese la coppa, ormai fredda, dal tavolo, e la annusò cautamente. “Profuma di erbe e di miele. Non sembra per niente male."

"Puoi berla tu. Dormi, e io veglierò sul di te.”

Merry ridacchiò. Fece per passare una mano dietro la testa di Boromir, in modo da sollevargli la testa per aiutarlo a bere più facilmente, ma l'uomo gemette al suo tocco, e scostò bruscamente la sua mano. Il viso di Merry era rosso di umiliazione. "Scusami! Non ci avevo pensato!”

"Va tutto bene… tutto bene. Ma, per il cielo, fa male!" riuscì a dire. “Penso proprio che mi farebbe bene un po’di sonno drogato per sfuggirgli!”

"Sai che puoi fidarti di Aragorn. Non ti darebbe mai nulla che potrebbe farti del male. Ti prego Boromir, bevi e riposa”.

"Per te, lo farò."

Tese la mano, permettendo a Merry di dargli la tazza. Insieme, la portarono alle sue labbra, e Boromir deglutì la pozione dall’odore dolce. Quando la tazza fu vuota, la restituì a Merry, e si lasciò sprofondare nel cuscino con un sospiro di sollievo. Tese ancora una volta la mano verso lo hobbit. Merry la afferrò stringendola tra le sue, e sorrise quando Boromir parlò di nuovo.

"Raccontami una storia che parla della Contea, Merry. Qualcosa... qualcosa di caldo, che profumi d’estate”.

Quando Aragorn ritornò alle Case di Guarigione era ormai il tramonto. Trovò Merry raggomitolato su una sedia intento a mangiare una mela, mentre Boromir era immerso in un sonno profondo. Posando le foglie fresche di athelas sul tavolo, si chinò a osservarlo attentamente.

"Non si muove da ore”, disse Merry.

"Questo è bene."

"Dobbiamo proprio svegliarlo? Sembra così tranquillo... non voglio disturbarlo. E poi, anche dopo aver preso la tua pozione per dormire, gli ci sono volute due storie hobbit e una delle vecchie canzoni di Bilbo, prima che si addormentasse”.

"Non temere, Mastro Perian, non si ricorderà nemmeno che lo abbiamo svegliato.”

Aragorn fece portare altra acqua calda dalle cucine per mettervi l’athelas, e svegliò Boromir quel tanto che bastava per fagli bere un'altra pozione. Poi, il Re portò una sedia accanto al letto e allungò le gambe posandole sul bordo del materasso. In quella posizione somigliava tanto al Grampasso che Merry ricordava al Puledro Impennato, che lo hobbit si sarebbe quasi aspettato di vederlo prendere la pipa e chiedere una pinta di birra. Mancavano soltanto il mantello sdrucito e gli stivali infangati a completare il quadro.

Osservando Merry con le palpebre semiabbassate, disse “Vai a cenare, Merry. Resterò io con lui durante la notte".

"Se non ti dispiace, preferisco restare”.

Gli occhi di Aragorn scintillarono per un instante. “Hai paura di lasciarlo solo?”

Lo hobbit sorrise imbarazzato. “Un po’. Non so che cosa gli potrebbe succedere quando non posso vederlo”.

"Per stanotte, si limiterà a dormire. Hai la mia parola”.

"Non è che non mi fidi di te… "

"Ma preferisci restare”. Grampasso rise. “Allora resta, piccoletto. Un po' di compagnia mi farà piacere”.

Sorridendo, Merry diede un grande morso alla sua mela e si sistemò comodamente sulla sua grande sedia in attesa di far trascorrere la notte. Al suono del respiro regolare di Grampasso, si addormentò.

*** *** ***

Salsicce. Qualcuno stava cucinando salsicce, e il loro profumo invitante raggiungeva Boromir, strappandolo dal suo sonno ormai leggero. Il suo stomaco rumoreggiò in segno di protesta. Boromir si sollevò cautamente puntellandosi sui gomiti, facendo appena caso al dolore sordo al fianco, e cercando di capire chi fosse nella stanza con lui.

Sapeva che c’era sempre stato qualcuno nella stanza a vegliarlo, poiché in tutti i giorni della sua convalescenza, svegliandosi, non si era mai ritrovato solo. All’inizio, era sprofondato in un sonno profondo causato dallo sfinimento e dalle ferite. Quando qualcuno veniva a svegliarlo, riemergeva riluttante alla consapevolezza per poi scivolare nuovamente nell’abisso oscuro dell’oblio non appena lo lasciavano andare. In quei momenti beveva le medicine che gli venivano portate alle labbra e consumava i pasti leggeri che gli somministravano, ma non riusciva a ricordare chi era stato a parlargli durante i suoi brevi momenti di veglia.

Man mano che il suo corpo guariva, il suo sonno era diventato più naturale, meno profondo. Si svegliava da solo, a volte, e cercava di prestare attenzione a ciò che lo circondava. Poi finalmente aveva cominciato a riconoscere le voci che gli parlavano. Merry, Pipino, Faramir, Aragorn. Tutti loro, a turno, lo avevano vegliato. Una volta, svegliandosi, gli sembrò di trovare Gandalf seduto accanto al suo letto, che fumava la pipa e mormorava qualcosa tra sé e sé. Boromir si chiese se non l'avesse sognato. Il vecchio Stregone sembrava un'improbabile infermiere.

Quel mattino, con il profumo dell’estate e del cibo che si diffondeva nell'aria, Boromir si svegliò affamato e con tutti i sensi all’erta. Fu una specie di sorpresa per lui, dopo giorni di oblio, con lo stomaco troppo debole per mangiare e di totale disinteresse verso tutto ciò che non era sonno. Forse le pozioni di Aragorn alla fine lo avevano stancato, e ora il suo stomaco reclamava qualcosa di più sostanzioso che una tazza di tè e pane tostato. Salsicce, ad esempio.

Un rumore leggero di passi e il fruscio di una gonna si avvicinarono al letto. Boromir si sedette meglio, combattendo contro le vertigini che lo coglievano, e sorrise in direzione del suono.

"Buongiorno, Gil."

In modo totalmente compito, la sguattera rispose, “Mio Signore”.

"Sento profumo di colazione".

Gil si interruppe, annusando l’aria, e ribattè, “Quello che senti è il concime che Mamma Ioreth ha sparso sulle erbe del giardino".

Boromir scoppiò a ridere, ma fu colto improvvisamente da un'ondata di vertigine, e ondeggiò come un ubriaco, sbiancando in volto. Gil lo afferrò prontamente, sostenendolo con una mano sul suo braccio. Con l'altra mano, sistemò i cuscini sparsi in modo da formare una pila di guanciali dietro la sua schiena. Boromir vi si appoggiò, rovesciando la testa all'indietro e sospirando con gratitudine.

"Sembra che non potrò mangiare salsicce, dopotutto”.

"Hm. Non hai nulla che non va, mio Signore, se non lo stomaco vuoto e troppo tempo trascorso a letto. Il Re ha mandato a dire di prepararti una vera colazione questa mattina. Poi un bagno e vestiti puliti".

"Già, e poi una battaglia con gli Esterling e un’incursione nelle Montagne dell’Ombra per abbattere qualche orco”, mormorò Boromir, sollevando la testa mentre Gil gli poneva in vassoio sulle ginocchia. Il profumo della carne e del pane appena sfornato era invitante. “Devo recuperare le forze”.

"Proprio così".

Gil prese un tovagliolo e lo aprì spiegandolo sul suo petto, poi posò sul vassoio una tazza colma di tè, con il musicale rumore della ceramica sul legno. Boromir decise che aveva bisogno di bere, più che di mangiare, e allungò la mano per prendere la tazza. Ma proprio mentre toccava la liscia porcellana, qualcosa di pesante e di terribilmente caldo cadde sul dorso della sua mano. Istintivamente ritrasse la mano, proprio mentre Gil, interrompendosi nel suo movimento, spostava la teiera. La tazza si rovesciò, versando il liquido bollente sul suo braccio. Boromir trasalì per il dolore, facendo quasi rovesciare il vassoio che aveva sulle ginocchia.

Con i fulminei riflessi di un guerriero elfico o di un’esperta cameriera, Gil fece roteare la teiera lontano da loro, e afferrò allo stesso tempo il vassoio, fermando la sua corsa verso il caos.

"Non ti muovere!" esclamò.

Boromir obbedì prontamente, immobilizzandosi nella posizione in cui si trovava, con la mano destra che afferrava il bordo del letto, il ginocchio sinistro sollevato, e il braccio sinistro fradicio tenuto cautamente lontano dal corpo. Restò per un momento in quella posizione ridicola, mentre il frusciare del tessuto e il rumore di piatti sul tavolo lo informavano che Gil stava riordinando le cose sistemando la teiera dove non poteva fare danni. Poi si occupò del vassoio, sollevandolo dal ginocchio di Boromir. Boromir distese cautamente la gamba, poi si appoggiò si nuovo all’indietro contro il cuscino, senza proferire parola e tenendo il viso voltato in modo che Gil non potesse vedere la sua umiliazione.

"Ti sei scottato?" domandò lei.

"No." Boromir si strattonò la manica, sulla quale il liquido si stava raffreddando rapidamente. La pelle gli bruciava ancora, ma questo evitò di menzionarlo. Dopo un momento di imbarazzo, aggiunse, “Almeno questa volta non era la colazione del Mezzuomo”.

Gil assentì con un mugolio, mentre posava nuovamente il vassoio in grembo a Boromir. “Questa volta il cibo si è salvato. Mangia, mio signore, prima che mi tocchi raccogliere tutto quanto dal pavimento”.

Boromir sorrise, e, con un'esagerata mitezza che causò un soffio di disapprovazione da parte di Gil, domandò, "C'è rimasto un po' di tè nella teiera?"

Gil prese la teiera, si allontanò leggermente dal letto per riempirgli la coppa, e gliela mise tra le mani. Boromir sorseggiò l’infuso caldo con evidente sollievo, e poi attese fino a che il rumore di passi non lo informò che Gil si era voltata. Poi posò la tazza sul vassoio e cercò un coltello. Non gli piaceva mangiare in presenza di altre persone, lo faceva sentire goffo e vulnerabile come un bambino, e detestava non sapere che cosa aveva nel piatto – ma gli piaceva ancora meno ammettere di avere bisogno di aiuto. Ma quella mattina era troppo affamato per badare alla sua vigilante infermiera, e così, non appena lei si voltò, Boromir abbandonò ogni cautela, trovò il coltello, e infilzò la prima cosa che trovò nel piatto. Fu fortunato, poiché si trattava di una saporita salsiccia.

Quando finalmente Gil si sedette nella sedia accanto alla finestra, Boromir stava ormai divorando la sua colazione incurante delle apparenze. Gil rimase in silenzio, la sua presenza rivelata soltanto dall’occasionale frusciare del tessuto. Boromir mangiò fino a quando la sensazione di vertigine non lo abbandonò, sentendosi decisamente di umore più allegro. Quando posò la tazza dopo aver finito di bere il tè, Gil si alzò per spostare il vassoio e riempire la tazza di nuovo.

"Sono state un’idea di Aragorn, le salsicce? " domandò Boromir oziosamente.

"I contenuti della nostra dispensa non sono certo un compito del Re”, Rispose Gil.

"Allora è stata un’idea tua. Ti ringrazio."

Rimettendosi a sedere accanto alla finestra, Gil rispose, in tono piatto “Io servo il mio signore come meglio posso”.

Boromir sbuffò con scetticismo, ma non commentò. Dopo un momento di silenzio, parlò di nuovo. "Cosa stai facendo?"

"Rammendo le lenzuola."

"Come, non dovresti spargere il concime?"

"Il concime dovrà aspettare dopo che avrò finito qui.”

"Ma tu non riposi mai?"

"Ho riposato a sufficienza, prima dell’alba. Non sei un paziente esigente... quando dormi".

"Devo chiederti perdono per essermi svegliato e averti disturbata?"

"Come tu desideri, mio signore."

"Dannazione, Gil, smettila di rammendare e parlami!"

Le mani di Gil si fermarono, e Boromir immaginò di vedere lo sguardo di muta, assente obbedienza fissato su di lui. “Ti ho forse arrecato offesa, per meritarmi solo questa fredda cortesia?” domandò.

"No, mio signore, non pensarlo." La sua voce divenne più ruvida. “E’ solo che… sono felice di rivederti in buona salute”.

A qualcuno meno familiare con il modo di fare spinoso di Gil, quest’ultima affermazione avrebbe potuto apparire irrilevante. Ma per Boromir spiegava ogni cosa. Era, in realtà, la cosa più significativa che Gil avesse detto quella mattina.

Boromir rimase immobile, senza far trasparire i suoi pensieri, per un lungo momento. Poi, improvvisamente, sorrise con spensieratezza. “Avevi parlato di un bagno?”

Boromir sedeva sul bordo del letto, infilandosi cautamente gli stivali. Lavato, pulito e rasato, ora cercava di vestirsi in modo presentabile, prima che Gil irrompesse di nuovo nella stanza. I lacci e le fibbie lo facevano innervosire, e aveva ormai esaurito le sue scarse riserve di forza. Ma il suo orgoglio aveva sofferto abbastanza quella mattina, e così continuò, a dispetto della debolezza che lo incalzava.

Era riuscito a indossare la camicia e i pantaloni abbastanza facilmente, ma il tremito delle dita non gli permise di allacciare i complicati fermagli della tunica. E, chinandosi per raccogliere gli stivali, la testa prese a girargli in modo allarmante. Quando ebbe finito di vestirsi, si sentiva debole e in preda alla nausea. Un sorso di tè freddo servì a calmargli lo stomaco, ma non si sentiva ancora pronto per lasciare il porto sicuro del suo letto.

Quando udì un rumore fuori dalla porta, credette che fosse Gil che ritornava. Ma il visitatore che entrò nella stanza indossava stivali, ed era accompagnato dal rumore di pesante broccato che frusciava contro il cuoio, non dal tenue frusciare di gonne. Attraversò la stanza a grandi passi e si fermò di fronte a Boromir.

Ci fu una breve pausa, poi la voce di Aragorn lo raggiunse, piena di gioia, “Come stai, mio Sovrintendente?”

Un ampio sorriso illuminò il viso di Boromir. “Abbastanza bene. E tu, mio Re?”

"Bene." Rise forte, afferrando le braccia di Boromir e stringendolo in un abbraccio. “Bene davvero!”

Mentre si separavano, Boromir continuò a sorridere al suo re con aria confusa. Non aveva bisogno di vedere il viso di Aragorn per capire che era ricolmo di gioia, regale e nobile. Percepiva la sua nobiltà, il sangue di Elendil che cantava nelle sue vene, l’orgoglio dell’antica Númenor che incoronava la sua fronte di luce, ma c’era qualcosa d’altro. Questo era un uomo così pieno di felicità che non poteva quasi contenerla nel suo corpo mortale, e irradiava da lui come acqua da una fontana.

"E’successo qualcosa," disse Boromir. Poi gli venne un'ispirazione, e domandò, “E’ forse giunta la dama Arwen?”

"No, ma quel giorno si avvicina. E’ molto vicino ormai, se leggo correttamente i segni.”

"Quali segni, Aragorn?"

"Vieni con me, te li mostrerò. A lungo ho atteso questo giorno, aspettando e sperando. Ora finalmente è giunto.” Posando una mano tremante sulla spalla di Boromir, disse “Andiamo, Boromir, vieni a vedere la nostra vittoria definitiva”.

"Verrò con te volentieri, ma non capisco cosa vuoi dire!”

"Presto tutto sarà chiaro! Il segno è indirizzato tanto a me quanto a te. Ne sono certo. E la sua bellezza... ah Boromir, guarirà il tuo cuore!”

Dopo aver sistemato gli ultimi fermagli della tunica di Boromir, Aragorn lo condusse fuori dalle Case di Guarigione, attraverso i giardini inondati di sole, entrando attraverso l'ampia strada nel Sesto Circolo. Le guardie li salutarono e si misero sull’attenti al loro passaggio. Mentre passavano sotto la fresca ombra della galleria, Boromir domandò, ”Dove stiamo andando?”

"Pazienza," rispose Aragorn .

Passarono anche il cancello successivo, e Boromir intuì che il Re lo stava conducendo alla Torre. Invece, attraversarono il Cortile fermandosi nel piccolo prato al centro di esso. Boromir udì il mormorio della fontana e lanciò uno sguardo interrogativo a Aragorn. Accanto a lui, Aragorn inspirò profondamente, pieno di esaltazione, e sembrò ergersi più alto di prima. La gioia in lui era come una presenza viva, che vibrava attraverso la sua persona come la corda di un'arpa.

Insieme scesero il gradino, camminando sull'erba soffice. Aragorn liberò con gentilezza il suo braccio dalla stretta di Boromir, prendendolo per mano e conducendolo in avanti.

Guidato da Aragorn, Boromir salì il gradino fino al luogo dove si trovava l’albero Bianco di Gondor. Boromir si avvicinò con riluttanza. Non aveva desiderio di toccare il suo tronco secco, e di rivedere nella sua mente l’orgoglio di Gondor morto e inaridito che marciva accanto alla pozza d'acqua. Ma mentre si avvicinava colse il profumo di fiori nell'aria. Si fermò, stupefatto, e mentre ascoltava gli sembrò quasi che la musica della fontana, si solito così malinconica alle sue orecchie, ora suonasse gaia tra foglie verdi e rami rigogliosi.

"L’ho trovato sulle pendici alte del Mindolluin alle prime luci del mattino”, disse Aragorn, con tono reverente. "Gandalf mi ha condotto lì”.

"Che cos’è?"

"Il segno che ho aspettato per tutta la mia lunga vita”.

Di nuovo, invitò Boromir ad avanzare, e Boromir obbedì senza opporre resistenza. La sua mano protesa toccò una corteccia liscia. Lentamente, lasciò che il suo palmo seguisse la curva del delicato ramo, facendo scivolare le dita sul legno vivo. Era una cosa piccola, apparentemente fragilissima, che gli arrivava a malapena alla cintola. Sulla cima c'erano delle foglie fresche e tenere. Ed era vivo. Miracolosamente, gloriosamente vivo.

L'incredulità e la meraviglia si riversarono nel petto di Boromir, togliendogli il respiro e stringendogli la gola di lacrime. Cadde in ginocchio sull’erba, la sua mano ancora protesa a toccare le foglie. “E’ vivo”, sussurrò.

"Sì, e lo sarà sempre, finché Gondor prospererà sotto la nostra cura”. Prendendo gentilmente la mano di Boromir tra le sue, Aragorn la spostò nel punto in cui un grappolo di fiori incoronava la chioma verdeggiante dell’albero. “Questa è la nostra vittoria, Boromir. Tua e mia. Che cresce e fiorisce nel cuore della nostra città”.

"L’Albero Bianco."

"Questo è il segno che il nostro lavoro è appena cominciato. Ma se lo affrontiamo insieme, non possiamo fallire.”

"Sì." Boromir lasciò che la sua mano indugiasse sui petali per un momento ancora, poi si alzò rigidamente in piedi, e riprese il suo posto al fianco di Aragorn. "Io sono pronto, mio Re”.

Continua…

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Capitolo 17
*** Compagnia ***


Il Capitano e il Re
Il Capitano e il Re

Chapter 17: Compagnia

Boromir rimase ad ascoltare passi attutiti dei piedi nudi sul terreno che si allontanavano inesorabilmente da lui, e gli sembrò di immaginare Merry che camminava a capo chino, sconsolato. Avrebbe dovuto richiamarlo. Avrebbe dovuto gettar via quell'umore tetro, raccogliere il suo coraggio e tornare insieme a Merry al banchetto di nozze dove Aragorn e i Grandi della Terra di Mezzo stavano festeggiando riuniti. Invece, tornò ad appoggiarsi contro la pietra scaldata dal sole del parapetto, ascoltando quei passi strascicati, riluttanti, che si allontanavano verso la Cittadella senza di lui.

Ripensò alle parole di congedo di Merry, e si stupì di se stesso, di come si era ridotto, se i suoi amici temevano a lasciarlo solo per un’ora o due. "Sei sicuro che sia una buona idea?", aveva chiesto Merry. "Non mi piace l’idea di lasciarti qui da solo." Poi aveva aggiunto, "Cerca di stare fuori dai guai, Boromir!"

Come se potesse mettersi nei guai in quel pacifico giardino, in piena luce del sole, con l’intera città intenta a festeggiare nelle strade sotto di lui. Il Sovrintendente di Gondor non aveva bisogno di una balia che lo seguisse ad ogni passo che faceva!

Ma, mentre si appoggiava con le spalle contro il muro rivolgendo il viso verso la brezza, gli parve evidente che una balia era esattamente quello di cui aveva bisogno. Respinse con violenza quel pensiero lontano da lui, prima che lo ferisse troppo profondamente, e si impose di liberare la sua mente. Di ignorare quel familiare senso di solitudine che gli attagliava lo stomaco ogni volta che Merry se ne andava. Dopo la confusione della Torre, non voleva compagnia. Voleva solo tranquillità, solitudine e pace per riposare.

Sotto di lui, per le strade di Minas Tirith, i canti continuavano dal sorgere del sole, mentre il popolo di Gondor accoglieva la sua nuova Regina, e insieme alle voci giungeva il dolce profumo dei fiori nell’aria tiepida dell’estate. Musica e profumo. Lo avevano circondato per tutta la giornata, aderendo alla sua pelle come le pieghe del suo mantello, pesando su di lui come la cotta di maglia che indossava sotto gli abiti preziosi. Nonostante ne fosse felice, li trovava stranamente opprimenti.

Il Sovrintendente sapeva che la sua stanchezza e il suo abbattimento non avevano a che fare con le celebrazioni di quel giorno. In verità era stata una splendida giornata, una giornata di prodigi, che rivaleggiava persino con il giorno in cui Aragorn aveva rivendicato la sua corona. Tutta la città festeggiava l’unione di Elessar e Arwen Undómiel, partecipando della felicità a lungo attesa del suo Re, e Boromir condivideva in pieno quella gioia. Ma al di sotto della gioia era in agguato una quieta, dolorosa malinconia, che non riusciva a scacciare.

Secondo ogni logica avrebbe dovuto vivere quel giorno con la medesima esaltazione di Aragorn. Segnava un nuovo inizio, non solo per il Re e la sua sposa, ma per tutta Gondor e la razza degli Uomini, e per nessuno più di Boromir figlio di Denehtor.

La sua mano trovò il pesante fermaglio che gli chiudeva il mantello, sfiorandolo quasi con reverenza. Le sue dita corsero sullo smalto liscio, seguendo i contorni marcati da dure gemme. Erano piccole, come stelle in un cielo notturno. E al centro dell’ovale, inconfondibile, era incisa la familiare sagoma di un grande corno. Boromir poteva sentire il freddo argento inserito in fili sottili nel più caldo smalto, formando i contorni del corno tra le gemme che rappresentavano le stelle.

Di tutti i prodigi di quel giorno, questo era il più grande. Boromir poteva ancora sentire il calore nella voce di Aragorn mentre gli applicava il fermaglio al mantello con le sue stesse mani, dicendo, "Il Corno di Gondor non è spezzato. Si trova tra le stelle dell' Anórien, e io consegno entrambi nella tua custodia. Io nomino te, Boromir figlio di Denethor, Sovrintendente di Gondor, Principe di Anórien."

Boromir sentì le lacrime salirgli alla gola a quel ricordo. Aragorn gli aveva fatto dono dell’Anórien. E a Faramir era andato l’Ithilien, quella terra verde e segreta che suo fratello amava come nessun'altra. Il Re non avrebbe potuto scegliere doni che toccassero i due fratelli più profondamente o che lo legassero più a lui, se mai i due avessero avuto bisogno di ulteriori dimostrazioni del suo affetto.

Boromir tracciò di nuovo l’aggraziata sagoma del corno, e deglutì dolorosamente le lacrime che non poteva piangere. Pricipe di Anórien. Quel nome evocava alla sua mente l’immagine di svettanti montagne incoronate di neve, di alberi scuri alla luce della luna, di un cielo notturno visto attraverso rami contorti, punteggiato di stelle.

Lasciò ricadere la mano, stringendo il pugno come per conservare la memoria di quello che aveva toccato. Quel giorno Boromir si sentiva allo stesso tempo fiero e abbattuto, felice e addolorato, perché quel dono senza eguali aveva un prezzo: la perdita di suo fratello.

Anche Faramir, ora, aveva un regno su cui governare, e nulla lo tratteneva ormai a Minas Tirith se non l’affetto che aveva per Boromir. Il dovere e il desiderio lo richiamavano in Ithilien. Si sarebbe costruito una principesca dimora nelle Emyn Arnen, dove sarebbe andato a vivere con la sua bellissima moglie. Éowyn, Bianca Dama di Rohan. La gioia di Faramir era quasi palpabile, il suo rimpianto nel lasciare Boromir e la Città Bianca appena un'eco di tristezza, presto dimenticato. Boromir non poteva incolparlo per la sua felicità, e non voleva rattristarlo con il suo dolore.

Anche se il suo amore per Minas Tirith era profondo e il suo cuore aveva le sue radici nella Città Bianca, Boromir si sentiva sempre più alla deriva, senza ancora e senza guida. Rimaneva ancora Aragorn, ma non poteva chiedere aiuto a lui. Al contrario, era il sovrintendente che avrebbe dovuto sostenere e aiutare il Re, non viceversa, e Aragorn certamente si aspettava che Boromir fosse al suo fianco, pronto, quando il peso del dovere si fosse fatto troppo pesante per lui solo. Ma come poteva Boromir prendere posto a fianco del suo Re, senza una mano amica che lo guidasse?

Era quello il cuore del problema, la fonte della sua malinconia, e della paura che lo aspettava dietro ogni angolo oscuro. Tutte le persone che amava e di cui si fidava lo stavano abbandonando, in un modo o nell'altro, lasciandolo solo a districarsi come meglio poteva, circondato da estranei. Forse quello era il modo di Aragorn per costringerlo a prendere una decisione, per fargli accettare la vita che lo aspettava e spronare il suo coraggio, perché affrontasse il futuro senza fratelli o amici al suo fianco. Se era così, la partenza di Faramir era per il suo bene, e avrebbe dovuto esserne grato. Ma per il momento, non poteva trovare alcuna gratitudine dentro di sé, solo dolore e solitudine.

"Mio signore?"

La voce lo strappò bruscamente dalle sue meditazioni, facendolo alzare in piedi di scatto, tutti i sensi all’erta.

"Mio signore, non ti senti bene?"

Boromir si lasciò ricadere sulla panca, sentendosi il viso avvampare per l'imbarazzo. Era talmente assorto nei suoi pensieri che non aveva udito il rumore dei passi sulla ghiaia o il frusciare delle gonne. Ora non sapeva se essere umiliato o divertito dall'essere stato colto alla sprovvista.

"Gil. Non ti avevo sentita."

"Mi dispiace averti disturbato."

"No. Solo non me l'aspettavo." Riprendendo a fatica il controllo, si appoggiò di nuovo al parapetto, rivolgendo a Gil il suo sguardo bendato, con un mesto sorriso sulle labbra. “Non dovresti strisciarmi alle spalle in questo modo, Gil. Avrei potuto passarti a fil di spada prima di accorgermi che fossi tu”.

"Avrei più paura di essere calpestata, ustionata o spinta giù dalle mura”, ribatté lei, in tono asciutto.

Boromir stavolta sorrise apertamente, rilassandosi nel familiare duello verbale con Gil. “E avresti il coraggio di venire più vicino?”

"Sono abbastanza al sicuro. Non ho la teiera con me”. Poi, all’improvviso, Gil mise da parte l’ironia, e con voce piena di autentica preoccupazione, disse: “Sei qui da quasi un’ora, mio signore. C’è qualcosa di cui hai bisogno? Dove si trova Mastro Merry?”

"Merry è al banchetto, al seguito di Re Éomer. Avrebbe lasciato anche lui la festa, ma deve stare con il suo signore, e non può farlo."

"E così tu sei solo."

"Sì, per mia scelta."

"Ti chiedo perdono. Ora me ne vado”, disse Gil in tono formale.

"No, non andare!" Le sue parole la fermarono, e Boromir udì i suoi piedi che grattavano sulla ghiaia mentre si voltava verso di lui ancora una volta. Alzandosi in piedi, Boromir le rivolse un cortese inchino, accompagnato dal suo sorriso più affascinante. “Ti prego, cammina per un po’ con me nei giardini. Non lasciarmi alla mercè dei miei pensieri".

"Mio signore, io..."

Boromir le offrì il braccio, invitandola. "Andiamo, Gil. Non vuoi venire con me?"

Gil sospirò con aria di disapprovazione, come per far capire a Boromir che le sue maniere cortesi non la ingannavano, ma accettò ugualmente il braccio di Boromir. “Non c'è bisogno di fare questi giochetti con me", lo rimproverò, "il dovere mi impone di obbedirti".

Ridendo, Boromir si incamminò verso ovest, allontanandosi dalle Case di Guarigione, seguendo la curva del muro. Gil accordò la sua andatura con quella di Boromir, seguendo la direzione da lui scelta, e guidando i suoi passi soltanto quando trovavano qualche ostacolo lungo il cammino. Insieme, discesero lungo il dolce pendio del prato verso occidente.

Camminavano in un piacevole silenzio, e Boromir non fece alcun tentativo di romperlo, accontentandosi di sentire l’odore dell’erba, il sole sul suo viso, e godendo della compagnia di Gil. Con lei accanto, non sentiva più quel senso di perdita e di tristezza. Lasciò che il suo spirito si sollevasse, sciogliendo il nodo di dolore dentro di sè. A dire la verità, dal momento il cui la voce di Gil lo aveva strappato alle sue meditazioni, non aveva più pensato agli addii futuri, ma solo al conforto che gli portava la sua presenza amica.

In quel momento di tranquilla felicità, Boromir non si preoccupò di guardare dentro al suo cuore o di considerare dove questo avrebbe potuto condurlo. Non voleva pensare a quanto apparisse assurda la sua amicizia con Gil agli occhi dei suoi pari. E non voleva pensare a tutti i doveri che in futuro lo avrebbero inevitabilmente intrappolato nella Cittadella, lontano dalle Case di Guarigione e da quel giardino. Che una comune sguattera non avesse posto nella vita del Sovrintendente era un fatto, spiacevole ma inevitabile, e da qualche parte dentro di sé, Boromir sapeva che presto avrebbe dovuto accettarlo. E allora sarebbe stato un altro addio, un'altra guida e un'altra amicizia perduta.

Come facendo eco ai suoi pensieri, Gil parlò all'improvviso. “Non pensavo che ti avrei mai più rivisto qui, mio signore. Non ci hai visitato da molti giorni, da quando sire Gemma Elfica è venuto a cercarti”.

Boromir rispose a cuor leggero, senza pensare, con il solito tono ironico. "E’ per caso un rimprovero? Come mai Gil, forse ti sono mancato?"

Gil trasalì, e fece per ritirare la mano, ma Boromir la anticipò. La sua mano afferrò quella della ragazza, tenendola con fermezza attorno al suo braccio. “Perdonami. Non volevo offenderti”, disse con dolcezza.

"Non l’hai fatto."

"Invece sì. Ma sono sciocchezze, Gil. Non devi avere paura di me”.

"Non ho paura" affermò Gil, con voce tremante.

"Tu sei mancata a me." Nel momento stesso in cui le parole lasciarono le sue labbra, la loro verità lo colpì come un fulmine, facendolo fermare all'improvviso. Lei gli era mancata. Gli era mancata terribilmente, e un nodo freddo gli strinse lo stomaco al pensiero che non avrebbe potuto mai più camminare accanto a lei, sentire il suo tono irriverente, o che quella sarebbe potuta essere la loro ultima scaramuccia verbale. In quel momento capì che non avrebbe potuto sopportare di dire addio anche a lei.

"Gil." Si voltò verso di lei, afferrandola per le braccia. Lei si irrigidì in modo allarmante sotto il suo tocco, e a Boromir sembrò di avere tra le mani una statua di marmo. Spietato, strinse la presa, rifiutando di lasciarla andare, consapevole di trovarsi sull'orlo del totale disastro. "Gil, io non ti sono mancato, anche solo un poco?”

La voce di lei era piena di oltraggio e panico. “Non chiedermi questo, mio signore!”

"Devo farlo. Io ti dico con sincerità che tu mi sei mancata, che sono felice di essere di nuovo con te e che non voglio lasciarti, perché so che potrebbero passare settimane, mesi, o un’infinità di tempo, prima di incontrarti di nuovo." Boromir lasciò andare la presa, liberandola. “Non posso comandare la tua fiducia. Se non me la doni liberamente, se non vuoi considerarmi un amico, non c’è nulla che io possa fare per costringerti. Ma sappi che tu hai la mia, completamente. E la fiducia non è cosa che dia facilmente”.

"Io non posso essere tua amica. Tu sei il Sovrintendente di Gondor, e io sono una sguattera. Una domestica”.

“So bene chi sei, e tu certo non permetti che io lo dimentichi. So anche chi sono io, e so quale abisso si apre tra di noi, ed è per questo che ho bisogno di averti vicina. Non posso perderti nell’oscurità”.

"Non mi piace questo scherzo, mio signore! Ti prego, smettila!”

“Non è uno scherzo". Cautamente, per non spaventarla e farla fuggire, Boromir sollevò una mano e la posò sulla spalla di Gil. “Avrei dovuto capirlo prima, ma ero troppo preso a leccarmi le ferite e a piangermi addosso. Era così semplice!”

"Che cosa?"

"Aragorn vuole che io trovi uno scudiero che mi faccia da guida e da attendente. Io ho sempre rimandato, nella vana speranza di trovare qualche ispirazione, qualche via di fuga, ma sono stato tre volte stupido! Gil, mia cara, ostinata Gil, tu sei la sola guida di cui ho bisogno!"

Un tremito percorse il corpo di Gil, e Boromir sapeva che solo una vita intera di rigida disciplina la tratteneva dal fuggire, lasciandolo solo in quel luogo poco familiare. "Sei crudele a prenderti gioco di me in questo modo!”, sibilò.

"Non mi sto prendendo gioco di te. Dico sul serio”.

"Sei uscito di senno."

"Allora devi assecondarmi nella mia follia."

"No che non lo farò. E’ una folle assurdità!”

"Perché?"

Gil esitò per un momento, emettendo suoni inarticolati come se si dibattesse per cercare una motivazione. Poi finalmente sbottò, “Gli scudieri sono figli di nobili!”

"Sì, certo, lo so”.

"E cosa sono io? Una creatura di umili origini, senza nome, analfabeta e senza esperienza alcuna nelle cose di corte! Una donna?! Farei proprio una bella figura in mezzo ai nobili rampolli di Gondor, con il mio grembiule da sguattera e il fazzoletto in testa!”

Boromir stava quasi per ridere, tanto grande era il bisogno di sfogare l’ansia e la tensione che provava, ma riuscì a controllarsi, e con voce che tremava impercettibilmente, disse. "Ti potremmo trovare degli abiti più consoni alla tua posizione".

"So qual è la mia posizione. E i miei abiti vanno benissimo”.

"Per una sguattera, forse, ma non per lo scudiero del Sovrintendente. Le tue gonne sarebbero molto scomode, specialmente per andare a cavallo”.

"A cavallo!" Gil si ritrasse da lui con veemenza, gridando sconvolta, “Sei davvero impazzito!”

"Non sai andare a cavallo?”

Gil rabbrividì. "No. E non intendo nemmeno avvicinarmi a quelle bestie!”

"I cavalli non sono così male, una volta che sai come trattarli”, osservò Boromir, con una traccia di supplica nella sua voce.

"Io non imparerò a cavalcare. Mai.” Boromir aprì la bocca per rispondere, ma lei lo precedette, quasi gridando, "Nemmeno il Re in persona potrebbe costringermi!”

"Molto bene." In contrasto al panico di Gil, Boromir sembrava innaturalmente calmo e ragionevole. Era consapevole che la sua era una calma nata dalla disperazione, ma Gil non lo sapeva. "Troverò un paggio per cavalcare con me."

"Cavalcare con te?", ripeté Gil scandalizzata. “Tu vorresti che io salissi su un cavallo… con te?”

"No, abbiamo concordato che non cavalcherai. E forse sei saggia a rifiutare. Non sarebbe appropriato per una giovane donna stare in sella con me, indipendentemente dai suoi abiti".

"Certo che no!"

"Ma credo comunque che una tunica e dei calzoni sarebbero più appropriati per la mansione di scudiero, piuttosto che la gonna”.

Gil cercò di ridere, ma fallì completamente. “Pensi che potrei passare per un ragazzo?"

"Non lo so. E tu?" La sola risposta di Gil fu una specie di ringhio senza parole, e Boromir lasciò perdere il suo tentativo di scherzare. “Sto solo pensando alla tua comodità, Gil. Tu sei abituata a muoverti nelle Case e nel giardino, col tuo grembiule da sguattera, passando inosservata".

"Mi piace così."

"Certo. Ma se dovessi stare in mezzo ai paggi e agli scudieri della corte vestita in quel modo, tutti gli occhi del Grande Salone sarebbero su di te. Vestita da scudiero, invece, non attirerai l'attenzione, anche se sarà chiaro a tutti che sei una donna. Saresti anonima e sconosciuta a gran parte della città, come lo sei adesso”.

"Fino a che tutta Gondor non comincerà a mormorare che lo scudiero del Sovrintendente è una ragazza trovatella”.

"I mormorii ti fanno paura? A me no. Ti proteggerò io da loro, e difenderò il tuo onore come farei con il mio”.

Gil esitò, e Boromir percepì i suoi dubbi dal modo in cui si spostava da un piede all'altro e passava le sue mani sulla ruvida stoffa della sua gonna. Non accennò a muoversi, lasciandole spazio per respirare e la possibilità di fuggire se lo avesse voluto, ma dovette trattenere l'impulso di afferrarla, scuoterla, e dirle di non essere così cieca e sciocca. Sapeva come avrebbe reagito lui stesso a un simile trattamento, e conosceva Gil abbastanza bene da essere certo che anche lei avrebbe reagito allo stesso modo. L’unica cosa che poteva fare era attendere, e pregare che lei si fidasse di lui abbastanza da prendere in considerazione le sue parole.

"Tu ti batteresti... per me?" sussurrò finalmente Gil.

"Certamente. E’ mio dovere come tuo signore, e mio privilegio come tuo amico”.

"Perché?"

"Perché tu sei mia amica. E io sono il tuo Sovrintendente, che tu decida o meno di diventare il mio scudiero”.

Ancora una volta, Gil esitò, poi, con una quieta e fiera intensità domandò, “Perché questo è così importante per te, mio signore?”

Le dita di Boromir si chiusero a pugno, le sua braccia abbandonate lungo i suoi fianchi, e il suo viso si indurì per la tensione. Sapeva di avere toccato una corda in Gil, di essere riuscito a farla aprire, e ora lei gli stava chiedendo la verità. E lui gliela doveva. Non sarebbe bastato nulla di meno, anche se al solo pensiero si sentiva stringere dalla fredda morsa della paura.

"Io ho bisogno del tuo aiuto, Gil." La sua voce era aspra. “Non posso portare il peso dei miei doveri da solo, e se non riesco a essere Sovrintendente nei fatti oltre che di nome, allora non sono nulla. Spezzato e inutile. Buono solo per mendicare agli angoli delle strade, come vorrebbero i miei nemici."

"Ci saranno altri più adatti di me ad aiutarti."

"Ma nessuno di cui mi fidi come mi fido di te."

Boromir tese entrambe le mani, e aspettò, fino a quando sentì le dita di Gil posarsi sui suoi palmi aperti. Erano fredde e tremavano leggermente, ma Gil non fece alcun tentativo di ritrarsi quando lui strinse la presa. Il contatto lo calmò e gli diede coraggio."Riesci a capire cosa significa essere circondati da estranei? Sentire che la tua vita dipende dal loro aiuto?” La sua voce tremava, e si fermò per un momento, cercando di riprendere il controllo. “E’ una cosa spaventosa sapere che la tua vita, il tuo onore, tutto il tuo valore come Sovrintendente e Principe è nelle mani di estranei senza volto."

"Puoi sempre imparare a fidarti di loro."

"Non ho tempo per imparare. Devo assumere i miei doveri e affidarmi a una legione di segretari, scudieri, domestici, paggi... Avranno accesso a tutte le lettere, scriveranno ogni mio dispaccio, guideranno i miei passi e serviranno il mio cibo. Non posso neppure vestirmi senza un servitore che scelga per me che mantello e che stivali devo indossare!" Scosse la testa con rabbia, sentendo la familiare amarezza che lo assaliva. "Se anche uno solo dei miei attendenti è pigro nel suo lavoro, corrotto dall'ambizione, o troppo frettoloso nei suoi giudizi, sarò io a doverne rispondere. E il mio Re dovrà correggere i miei errori. No, non ho tempo di imparare la fiducia, e non posso permettermi di fallire".

"E io cosa dovrei fare? Non so né leggere né scrivere. Non so cavalcare e non posso assisterti nelle tue stanze. Avrai bisogno lo stesso della tua schiera di attendenti, sia che io sia tra loro o meno. Non capisco come potrei aiutarti."

"Tu sarai la presenza amica al mio fianco, la voce nell’oscurità, il braccio che non si ritrae al mio tocco. Tu renderai sopportabile tutto il resto”.

"Questo... è davvero questo che pensi di me?”

Boromir chinò il capo, nascondendo il viso dal suo sguardo, e parlò a bassa voce, lentamente, dal profondo del suo animo stanco e ferito. "Ogni volta che prendo il braccio di qualcuno e lascio che guidi i miei passi, mi metto nelle sue mani. Non è una scelta che posso o non posso fare. E' l’unico modo che ho di muovermi per più di qualche passo. E ogni volta, mi fa ricordare che cosa fragile e vitale sia la fiducia. Anche l’amicizia più forte, persino il legame di sangue sono fonte di dubbio in quei momenti, quando devo ingoiare il mio orgoglio e rimettere la mia completa fiducia a un'altra creatura che non posso vedere.

Sono pochi quelli di cui mi posso fidare completamente e senza timore alcuno. Aragorn, Merry, Pipino, mio fratello. E poi ci sei tu. Non chiedermi come hai fatto a entrare a far parte di quei pochi, perché non saprei spiegartelo. Forse è per la tua mancanza di commiserazione. Non mi hai mai mostrato pietà, e il tuo timore è dovuto al mio titolo, non alla mia cecità. Qualunque sia la ragione, io so che posso prendere il tuo braccio, seguire i tuoi passi, ascoltare la tua voce che mi rimprovera per la mia goffaggine, e che in tua compagnia mi sentirò a casa. E questo è ben più che importante per me, Gil. E’tutto. Senza di questo, sono perduto e solo... e ho paura."

Gil rimase in silenzio, meditando sulle sue parole e lottando coi suoi dubbi, mentre Boromir aspettava. Non poteva fare altro. Il suo spirito era come di piombo, i suoi nervi tesi al punto di far male. Quando finalmente Gil si mosse, emettendo un lungo sospiro e ricambiando leggermente la stretta delle sue dita, Boromir capì che aveva deciso. La sua voce era atona e distante, ma le sue parole furono musica per Boromir.

"Credo che sia un errore riporre in me una tale fiducia, ma se lo vuoi, sarà un onore e un piacere per me servirti."

Il sollievo e la gratitudine travolsero Boromir, illuminandogli il volto con un raggiante sorriso. Boromir provò per un attimo l’impulso di abbracciarla, ma si trattenne, limitandosi a portarsi al petto le loro mani intrecciate, e dicendo, con semplicità, “Grazie, Gil”.

"Sei certo che sia questo che vuoi?”

"Senza alcun dubbio”.

"Allora, siamo d’accordo... niente cavalli”.

Boromir rise, ma il suono somigliò più a un singhiozzo. “Niente cavalli”.

Mentre Gil procedeva ad elencare tutte le cose che poteva e non poteva fare, sembrò riguadagnare la sua solita compostezza. La sua voce assunse il consueto tono formale, e le sue parole divennero richieste. "Sai che non so ne leggere ne scrivere”.

"Puoi imparare. Oppure hai tanta paura delle parole quanta ne hai dei cavalli?"

Gil mormorò un assenso inarticolato, e poi aggiunse, “Non entrerò nelle tue stanze dopo che ti sarai ritirato per la notte o prima di colazione".

"Certo che no."

"Non voglio certo pettegolezzi tra la servitù!”

"Nemmeno io."

"E poi mi serve la tua autorizzazione a trattare con gli altri scudieri a modo mio. I ragazzi possono essere molto fastidiosi, e più crescono più peggiorano. Se devo avere posto tra di loro, devo guadagnarmelo e mantenerlo!”

"Se qualcuno ti dovesse importunare basterà una parola e…”

"No, quella è una battaglia che spetta a me”. Poi un nuovo dubbio la colpì, e, allarmata, domandò, “Dove vivrò, mio signore? Non posso certo dormire con gli altri ragazzi!”

"Ti troverò una stanza nella Torre. Il Ciambellano saprà dove alloggiarti meglio di me”.

"Ah."

"C’è qualcos’altro che ti turba, Gil?"

"Tutta questa faccenda mi turba. Come ho detto, è un pazzia...ma ho detto che lo farò".

"Forse è davvero una follia, ma spero che entrambi ne saremo felici. Potresti scoprire che ti piace essere qualcosa in più di una sguattera”.

"O forse no."

"Se sarai davvero infelice, dovrai dirmelo. Non ti costringerò a rimanere in una situazione che ti ferisce. Ma se le tue paure e le tue ferite sono tali che io possa guarirle, lo farò. Fidati di me, Gil”.

"Mi fido. Ecco perché ho acconsentito a questa pazzia."

Offrendole un altro ampio sorriso, Boromir sollevò la mano di Gil, posando un bacio sul suo dorso. Gil tentò di ritrarsi, ma Boromir la trattenne, guidandola in modo che si ritrovasse al suo fianco, e sistemando la sua mano nella curva del suo braccio. "Andiamo allora, dobbiamo parlare con il Custode delle Case. Chiederemo il suo permesso e quello del Re, e poi ti faremo vestire come uno scudiero, prima di mandarti in giro per la corte ignara".

Mentre parlava, Boromir si voltò verso la discesa, e cominciò a camminare. Gil si mosse insieme a lui per abitudine, ma dopo pochi passi, si fermò e ritirò la mano dal suo braccio.

"Aspetta, mio signore, questo non è appropriato. Non si può offrire il braccio a uno scudiero. In che modo cammini con il mezzuomo? O con tuo fratello?”

"Quando indosserai i calzoni ti tratterò come uno scudiero. Ma finché indosserai la gonna, ti tratterò come una dama”.

"Ma io non sono..."

"Basta così. La prima lezione che devi imparare è non contraddire ogni cosa che dico”.

La voce di Gil era divertita, quando domandò, "E la seconda?."

"Non fare domande impertinenti."

Gil grugnì qualcosa di incomprensibile e tornò a prendere il braccio di Boromir. “Sì, mio signore”.

"Sospetto che presto sarò annoiato a morte di sentire queste parole."

Gil esitò, poi disse, timidamente, “Sì, mio signore”.

Boromir stava ancora ridendo, quando si incamminarono insieme attraverso il giardino.

*** *** ***

"Non strisciare i piedi!” gridò Merry esasperato. “E tieni alta la testa!”

La figura esile, vestita di nero e argento, si fermò per fissarlo negli occhi. “Non sto strisciando i piedi, Mastro Perian."

"Invece sì," ribatté Merry, senza tentare di nascondere la propria irritazione. Dopo un’intera mattinata trascorsa con lo scudiero del Sovrintendente, cercando di aiutarla ad abituarsi alla sua nuova posizione e ai suoi nuovi abiti, aveva capito che a volte le maniere brusche erano più efficaci della cortesia."Cammini come una sguattera”

"Io sono una sguattera”.

"Non più. Sei uno scudiero, con una certa posizione a corte, e devi portarti con più contegno”.

"Un vero scudiero può avere una posizione, un padre nobile e forse un cavalierato, ma io…”

"Tu sei più in alto di tutti loro”. Scendendo con un salto dal davanzale della finestra, Merry attraversò la stanza per raggiungere Gil e la guardò di traverso, come sfidandola a contraddirlo. Tu indossi la livrea del Sovrintendente”.

La mano della ragazza si portò sull’orlo della sua tunica, tracciando i contorni del simbolo ricamato sul petto, e la sua espressione divenne pensierosa. “Sì. Ma questo non fa di me un vero scudiero."

“Allora devi diventarlo, sia per Boromir che per te stessa. Ora riprova. E non strisciare i piedi”.

Gil gli lanciò uno sguardo omicida, ma obbediente cominciò di nuovo a camminare lungo la stanza, con passo a tratti esitante, a tratti spavaldo. Merry la guardava con occhio critico, scuotendo il capo, tutto preso nella concentrazione.

Aveva trascorso gran parte della mattinata con Gil nella grande sala del Consiglio. Lì avevano tranquillità e spazio per muoversi liberamente, e Aragorn aveva dato ordine che non venissero disturbati. Era ormai quasi mezzogiorno, e i raggi del sole, già alto sulle pianure, cadevano verticali senza entrare oltre le finestre ad arco. Lame di luce si proiettavano sulle pietre levigate sotto le finestre, ma la maggior parte della stanza rimaneva immersa in una fresca penombra.

Gil, nella sua uniforme scura, sembrava essere parte di quelle ombre. Era di corporatura minuta, e da lontano poteva anche sembrare il giovane di alto lignaggio che i suoi abiti indicavano. Ma guardandola in viso, si scopriva che quell'esile ragazzino era in realtà una donna adulta. E quando guardava Merry con aria sospettosa e camminava lievemente curva con quel suo passo strano, Merry riconosceva la sguattera che c’era in lei.

Se solo fosse stata capace di stare diritta e camminare con sicurezza, pensò Merry, sarebbe stata perfetta per il ruolo. Ma naturalmente non ci riusciva. Aveva trascorso tutta la vita facendo la domestica, affrettandosi al suo lavoro con il capo chino, evitando gli sguardi e l’attenzione dei suoi superiori. Solo da qualche giorno era uno scudiero, e solo di nome, perché non avrebbe assunto il suo incarico finché Merry fosse rimasto in città con il suo signore. E inoltre i suoi abiti non erano stati pronti prima: una tunica da ragazzo che si adattava alla sua figura femminile, con i colori del Sovrintendente che decoravano il velluto nero.

Quella mattina però non aveva avuto più scuse per rimandare. La sua uniforme era stata consegnata pronta nella sua stanza, e Merry sarebbe partito all’alba dell’indomani. Era giunto il momento che lo scudiero del Sovrintendente prendesse posto al fianco del suo signore. Gil aveva tentato di protestare, dicendo che Ioreth avrebbe avuto bisogno di lei ancora per un giorno, ma Ioreth stessa aveva smentito, portando Gil di persona fino alla Torre e convincendola a prendere alloggio nelle sue nuove stanze. La vecchia pianse lacrime di gioia, vedendo la sua bambina adottiva vestita con i ricchi abiti da scudiero, con il Corno e le Stelle dell’Anórien ricamate sul petto e l’orlo di seta bianca sulla tunica nera. Come gesto d’amore e di orgoglio, Ioreth aveva acconciato con le sue mani i capelli di Gil, intrecciandoli e sistemandoli attorno alla sua testa in una coroncina, che coprì poi con un copricapo di velluto.

Era questa creatura piena di contraddizioni che ora stava in piedi davanti a Merry, curva come per proteggersi, con gli occhi scuri e cauti nelle ombre. Né vecchia né giovane, in parte simile a un elfo e in parte sguattera, apparentemente fragile ma temprata da anni di duro lavoro, Gil possedeva una dignità che non aveva niente a che fare con la sua importanza agli occhi degli Uomini. Lo guardò da dietro la sua maschera inespressiva che era di per sé una sorta di provocazione, e domandò,

"Cosa ne dici, Mastro Merry? Sarò un disonore per il nostro Sovrintendente?”

Merry sospirò. “Hai un aspetto un po’strano quando cammini a quel modo, ma non credo che a Boromir importerà”.

"A meno che tu non gli vada a dire che io non sono adatta a fare lo scudiero”.

"Perché dovrei farlo?"

Sospirando a sua volta, Gil si sedette sul gradino davanti al caminetto. Merry si avvicinò a lei, sedendosi al suo fianco. Sembrava così abbattuta che avrebbe voluto consolarla, prenderla per mano, ma si trattenne e tenne le mani fermamente serrate sulle proprie ginocchia.

"E’ davvero questo che vuoi, Gil? Vuoi che vada a dire a Boromir che non puoi farlo?”

"Non importa quello che io voglio”. Incrociò le braccia in un gesto protettivo e chinò il capo, ritirandosi in se stessa. “Per lui sarebbe come un tradimento”.

"No... non proprio..."

Merry sapeva quanto fosse importante l’aiuto di Gil per Boromir. Aveva visto il sollievo nel viso dell’amico, aveva sentito la speranza farsi strada nella sua voce quando aveva detto che Gil sarebbe divenuta il suo scudiero. Per la prima volta Merry era riuscito a pensare al giorno della partenza senza sentirsi attanagliare il cuore dalla tristezza. Se Gil avesse perso il coraggio abbandonando Boromir ora, Merry sapeva che non avrebbe mai avuto la forza di partire. E se non fosse partito allora, non sarebbe partito mai più.

"Non funzionerà, Mastro Perian. Sai che non funzionerà."

"Non dire così, ti prego”.

"E’ una pazzia."

"Qualunque cosa sia, deve funzionare. Deve." Merry si fece prendere dalla disperazione, lasciando libero sfogo alle emozioni che aveva cercato di dominare per tutta la mattina. Il dolore si fece strada in lui, e le lacrime gli salirono agli occhi. “Ti prego, Gil”, disse con voce ansiosa, “Se non lo fai per Boromir o per te stessa, fallo almeno per me. Promettimi che starai al suo fianco, come scudiero e come amica. Promettimelo!”

Gil sollevò il capo e lo guardò intensamente. “Per te? E’ questo che vuoi?”

"Sì."

"Allora sei tu quello che dovrebbe restare con lui, non io. Tu gli vuoi bene come nessun altro, e lui vuole bene a te. Come posso sperare di prendere il tuo posto?”

"Promettimelo”, ripeté Merry, ostinato.

"E se non lo faccio…" Merry scosse la testa, troppo soffocato dalle lacrime per rispondere. Con sua sorpresa, Gil si sporse per prendere la mano di Merry nella sua. “Non puoi restare tu a servirlo, Merry?”

"Non posso." Deglutì convulsamente e si sforzò di spingere le parole oltre il nodo che aveva in gola. “Devo tornare a casa”.

"Anche se questo ti spezza il cuore?"

"Non succederà, se ho la tua parola che non lo lascerai solo".

Gil rimase un po’in silenzio, poi, quando ritrovò la sua voce, mormorò. “E’ così importante per te?”

"Sì."

Tanta era la forza e la convinzione di quella singola parola, che Merry vide Gil vacillare sotto il suo peso. Per un momento, sul suo viso furono evidenti la paura e l’emozione, ma poi si voltò, nascondendo i suoi pensieri dietro l'espressione neutra che Merry conosceva così bene. Finalmente, con appena una traccia di ironia nella voce, disse, “Allora, dovrò cercare di non disonorare nessuno di voi”.

"Non lo farai", la rassicurò Merry, tirando su col naso. Asciugandosi il viso con una manica, si alzò in piedi sul gradino. “Almeno, non lo farai se ti ricorderai di non strisciare i piedi. Avanti, riprovaci”.

Gil per un attimo sembrò divertita, e si alzò per guardarlo negli occhi. “Per quanto tempo continuerai a frustare un cavallo zoppo, Mastro Perian?"

Merry sorrise, visibilmente sollevato. “Finché non imparerà a camminare".

"O finché non morirà di fatica".

"Cammina!"

*** *** ***

Frodo stava in piedi sulla panca di pietra, sporgendosi dal parapetto per guardare le ombre che si allungavano sui campi sotto di lui. Il sole stava scendendo dietro la cima del Mindolluin, lasciando in ombra il Pelennor, e accarezzando la lontana curva dell'Anduin con i suoi ultimi raggi. Oltre il fiume torreggiavano i Monti d’Ombra, dipinti di rosa e oro nella luce morente, con ai loro piedi il verde scintillante e misterioso dell'Ithilien.

"E’ un luogo bellissimo”, mormorò.

Accanto a lui, Merry incrociò le braccia sul parapetto, appoggiandovi il mento. I suoi occhi vagavano lontano, pieni di ricordi e di malinconia. “Mi piace stare qui. E’il mio posto preferito in tutta la città“. Si fermò per un momento, sempre guardando l’orizzonte, e aggiunse, “E’ strano pensare che forse è l’ultima volta che guardiamo queste montagne, o che vediamo il fiume d’argento scorrere nella pianura. Mi sono abituato a tutta questa grandiosità, e non so come mi sembrerà la cara vecchia Contea quando la rivedrò”.

"Sarà difficile tornare a casa, ma sono contento di farlo".

"Di sicuro io lo sono," mormorò Sam.

Merry e Frodo si voltarono a guardarlo, mentre si affaccendava attorno a un’aiuola, e Frodo sorrise. “Ne hai avuto abbastanza di montagne e grandi città, Sam?”

"Proprio così, padron Frodo. Datemi una casa hobbit con un giardino come si deve, e tenetevi le vostre città”.

"Mi manca il mormorio del Brandivino nelle sere d’estate", ammise Merry, “e la luce che entra dalle finestre di Villa Brandy."

"E una pinta al Drago Verde", aggiunse Frodo.

"E un sacchetto di foglia del Decumano Sud".

"L’odore delle torte che cuociono...”

"...nella cucina di Casa Baggins!"

Frodo sorrise felice. “Sarà bello tornare a casa!”

Merry sospirò e si voltò verso il cancello del giardino. “Anche io vorrei sentirmi così”. Si laciò cadere sulla panca, appoggiando i gomiti alle ginocchia. “Se solo Boromir arrivasse”.

"Quando ha detto che sarebbe venuto?"

"Al tramonto, o giù di lì. Ma era impegnato a parlare con Aragorn e Imrahil, e a giudicare dalla pila di documenti che aveva sul tavolo, potrebbero averne per tutta la notte.”

"Non preoccuparti, non mancherà. La Compagnia trascorrerà le ultime ore insieme".

Come richiamato dalle sue parole, un rumore di passi risuonò sul sentiero. Merry conosceva bene quel passo, così come la figura alta e orgogliosa che avanzava verso di loro. Saltò giù dalla panca prima ancora che Boromir chiamasse il suo nome, e gli corse incontro. Frodo lo guardò pensieroso, e Sam dubbioso, ma Merry li ignorò entrambi, troppo sollevato e felice per preoccuparsi di cosa gli altri pensassero di lui.

"Boromir! Sei in ritardo! Ciao, Gil."

Gil si voltò verso di lui, senza sorridere né fermarsi, ma inclinò semplicemente il capo in segno di saluto. La mano di Boromir era posata sulla sua spalla, ma Merry sapeva che non era il senso di responsabilità che la faceva muovere così cautamente, ma l'insicurezza. Sotto la sua guida, era riuscita a mettere da parte la sua camminata da sguattera, ma non aveva ancora imparato a muoversi con naturalezza in quegli abiti insoliti. Spingeva avanti i piedi come se indossasse ancora la pesante gonna, piantandoli sul terreno con ostinata determinazione.

"Non sono in ritardo," ribatté Boromir, posando la sua mano libera sulla testa di Merry, quando questo gli si avvicinò. “E’ il tramonto del sole, e io sono qui, come avevo promesso”.

"E’vero, ma io ho aspettato per tanto tempo!” Sbirciò oltre Boromir per guardare Gil. “E temevo che Gil avrebbe perso il coraggio”.

La ragazza-scudiero sollevò il mento con orgoglio. “Conosco il mio dovere, Mastro Perian."

Si diressero verso la panca, e Merry guidò Boromir nel punto in cui si sedeva di solito, con la schiena contro la curva del muro. Dopo che Boromir si fu seduto, Frodo si mosse, rompendo la sua immobilità perfetta, e facendo sollevare di scatto il capo all'uomo.

"Ciao, Boromir," disse.

"Frodo." Boromir dovette sforzarsi visibilmente di rilassarsi, come gli accadeva ogni volta che si trovava in presenza di Frodo, ma alla fine ci riuscì. La tensione nelle sue spalle si alleviò, e l'espressione guardinga lasciò il suo volto. Poi sorrise, con genuino calore. “Sam deve essere qui, da qualche parte. Buonasera a te, Samwise."

"Mastro Boromir." Sam abbandonò l’aiuola per spostarsi accanto a frodo. Come Boromir, anche Sam era cauto ai loro incontri, ma al contrario dell’uomo, non fece alcun tentativo di mettere da parte la sua circospezione. Nonostante Frodo lo avesse rassicurato molte volte che Boromir non volesse fargli del male, e che era veramente un amico, i dubbi di Sam erano svaniti solo in parte, e si sentiva ancora a disagio in presenza dell'uomo. Il Sovrintendente e il giardiniere si trattavano reciprocamente con uno scrupoloso, cauto rispetto. “Chiedo perdono, Mastro Boromir, ma chi è il ragazzo che avete portato con voi? O meglio, il ragazzo che ha portato voi con lui?"

"Non è un ragazzo. E’ il mio scudiero, Gil, ed è una dama”.

Sia Frodo che Sam fissarono Gil con aperta curiosità, e Merry notò che la donna arrossì vistosamente. Anche Sam se ne accorse, e si scusò prontamente. “Non ho mai visto una donna vestita in modo così bizzarro, ma immagino che siate uno scudiero come si deve.” Chinò la testa in segno di rispetto, e aggiunse, “Samwise Gamgee, al vostro servizio."

Gil fece per rispondere con una riverenza, ma si accorse troppo tardi che non portava la gonna, e ne risultò un goffo inchino. “Mastro Perian."

Frodo, con la sua innata gentilezza, cominciò a convesare con Gil, cercando di trarla dall’imbarazzo. Sam salì sulla panca accanto a Frodo, ascoltando la loro rigida conversazione. Merry fu immensamente grato al cugino per aver tentato di mettere a proprio agio Gil, dando allo stesso tempo a lui la possibilità di parlare da solo con Boromir. Ma quando si avvicinò all'amico, un po' in disparte dagli altri, scoprì che non aveva nulla da dire.

Per tutto il giorno lo aveva accompagnato la consapevolezza che il tempo stava correndo via, e che ogni ora che passava lo portava più vicino al momento della partenza. Mentre Boromir non era con lui, aveva pensato a innumerevoli parole di commiato, di lealtà e di affetto, di imperitura amicizia, ma ora che guardava il suo viso, vedendovi riflessi il suo dolore e la sua paura, le parole gli vennero meno. Aveva ancora solo poche ore. Poche ore per stare accanto a Boromir, sentire la sua voce, e fingere che il domani non sarebbe mai arrivato.

Con un sospiro, Merry si sedette sull’erba, ai piedi di Boromir, posando la testa contro il suo ginocchio. In quel momento si sentì immensamente felice, tutti i suoi timori scomparsi, e capì che anche Boromir si sentiva a quel modo dal modo protettivo in cui la sua mano si posò sulla sua testa. Per quel momento, Merry si concesse di essere felice, si concesse di dimenticare.a mandeva che anche Boromir si sentiva a quel modo dal modo i capo.ni non sarbeer tutta la notte."

Gli altri membri della Compagnia giunsero alla spicciolata, dopo aver abbandonato i loro compiti, per riunirsi sulle mura della Città Bianca un'ultima volta. Legolas e Gimli arrivarono per primi, risalendo insieme il pendio occidentale del giardino, ridendo a un qualche loro scherzo segreto. Pipino salutò Bergil al Cancello e corse lungo il sentiero chiamando ad alta voce gli amici nell’aria fresca della sera. Poi arrivò Gandalf, da dove nessuno poté capirlo, con il bastone, la pipa, e un sacchetto di erbapipa da condividere con gli amici.

Per ultimo giunse Aragorn, con sorpresa di Merry accompagnato da Faramir.
Quando quest’ultimo capì a che incontro lo aveva portato il suo Re fece qualche passo indietro, insistendo che non voleva intromettersi, ma alla fine dovette cedere.

"Sciocchezze," disse Gandalf. "Presto ci stancheremo della nostra compagnia durante il viaggio. Sei il benvenuto tra noi, finché riuscirai a sopportare le chiacchiere degli hobbit."

"E il brontolio degli stregoni”, ribatté Pipino.

Nell’aria risuonarono saluti e risate. Non potevano esserci barriere tra quel gruppo di amici, e la consapevolezza che il mattino dopo sarebbero partiti per un altro viaggio li attirava uno vicino all’altro, alleggerendo i loro cuori e sciogliendo le loro lingue. Si sedettero sull’erba o sul parapetto di pietra, mettendosi a proprio agio, riempiendo la fresca aria del sud con il calore delle loro risate e l’odore dell’erbapipa.

Gil restò in disparte dal resto del gruppo, nascosta nelle ombre a ovest dell'affaccio dove si trovavano tutti gli altri. Quasi tutti i membri della Compagnia, a parte Frodo e Sam, l'avevano conosciuta nelle sue vesti di sguattera, ed erano a conoscenza del suo nuovo incarico. La trattavano tutti con cortesia, e gli hobbit cercavano di spingerla a uscire dal suo umore taciturno, ma lei restava ugualmente distante.

Sembrava molto nervosa all’incontrare Faramir, ma Merry immaginò che Aragorn avesse parlato al giovane, pregandolo di trattarla con gentilezza, perché Faramir la salutò con un semplice cenno del capo al suo arrivo. Quali che fossero le sue opinioni personali, Faramir era un uomo giusto, e amava suo fratello. Non avrebbe mai fatto del male a Boromir, anche se questo significava che avrebbe dovuto tollerare la presenza della sguattera.

Merry sospettava inoltre che Faramir fosse stato portato lì per un motivo ben preciso, su richiesta di Boromir – o almeno con il suo consenso – perchè il Sovrintendente non si mostrò minimamente sorpreso al suo arrivo, e insistette affichè restasse. Questa idea cominciò a frullare in testa a Merry, sempre intento a cercare di interpretare i pensieri di Boromir. Forse voleva semplicemente godere della compagnia di Faramir finché poteva, visto che suo fratello sarebbe partito insieme al Re di Rohan l'indomani. Ma se era quello il motivo, se ne stava stranamente in silenzio, senza fare alcun tentativo di avviare una conversazione.

I discorsi scorrevano veloci mentre il sole tramontava a ovest, e le stelle cominciarono a scintillare nel cielo. Inevitabilmente, i pensieri di tutti si volsero al viaggio che alcuni di loro avrebbero intrapreso, e cominciarono parlare del loro percorso. Merry cercò di non ascoltare, tenendosi fermamente appigliato alla sua sensazione di gioia, ma l’apprensione per quello che avrebbe portato il mattino strisciava inesorabilmente nel suo cuore.

Improvvisamente le parole di una canzone della sua infanzia gli salirono spontanee alle labbra.

La via prosegue senza fine
Lungi dall’uscio dal quale parte.
Ora la via è fuggita avanti,
devo inseguirla ad ogni costo...

Fu solo dopo che Frodo si fu messo a ridere che Merry si rese conto di aver parlato ad alta voce. Si interruppe, imbarazzato di aver lasciato vedere a tutti la sua malinconia. Ma Frodo ne fu felice.

"Grazie, Merry! La vecchia canzone del cammino di Bilbo è proprio quello che ci vuole per accompagnare il nostro ritorno a casa!"

"Purché la nostra via conduca a casa”, intervenne Sam, “E non a un’altra avventura. Ne ho abbastanza di avventure”.

Frodo gli sorrise, i suoi occhi stranamente stanchi nella crescente oscurità. "Anch’io, Sam. Tutto ciò che voglio è una bella passeggiata per la Terra di Mezzo in estate, senza dovermi preoccupare di altro che della legna per il fuoco e di selvaggina fresca per lo stufato”.

"E un posto asciutto dove dormire, senza ghiande sotto la schiena”, aggiunse Sam.

"Speriamo che siate accontentati," disse Gandalf, attenuando il suo solito tono burbero con una nota di tenerezza. “Ve lo siete di certo meritati. Tutti quanti voi”.

"Tu verrai con noi, non è vero, Gandalf?", domandò Pipino.

"Sì, almeno per una parte del viaggio."

"Allora ti occuperai tu di noi”.

Gandalf rise. "La tua fiducia in me è toccante, Pipino, ma quando mai io vi ho condotto lontano dall'avventura?"

"Beh, c’è una prima volta per tutto. E mi sembra che ora le avventure non siano più così terribili come erano una volta, da quando tu, Grampasso e Frodo avete sistemato le cose”.

"Sono più facili da affrontare, in ogni caso." Il vecchio Stregone tirò dalla sua pipa e mormorò tra sé e sé, “A misura di hobbit, oserei dire”.

Merry, che era seduto abbastanza vicino da poterlo udire, rabbrividì. Boromir se ne accorse, percependo la sua inquietudine. Raddrizzandosi e sollevando la testa come per vedere il cielo domandò, “Ci sono stelle, stanotte?"

Merry guardò lo scintillante, magnificente spettacolo sopra di loro e sorrise. “Sì”.

"Allora è il momento che io chieda la vostra pazienza, e un favore a mio fratello".

"Che cosa posso fare per te?" domandò Faramir, divertito e un po’sospettoso.

"Raccontare una storia."

Faramir rise. "No, fratello. So bene come mi ripaghi per le mie storie! Siamo troppo vecchi per questi scherzi ormai!”

"Questa me l’hai promessa. Non ricordi? Una storia elfica sotto un cielo di stelle elfiche."

Il sorriso svanì dalle labbra di Faramir. “Sì. La leggenda di Gilthaethil." I suoi occhi corsero a cercare la figura di Gil seminascosta dalle ombre, e a Merry sembrò di cogliere un fuggevole disappunto nel suo sguardo. “Ci sono altri qui che la conoscono meglio di me. Chiedi a Legolas o ad Aragorn, o a Mithrandir, che conosce le leggende sia degli uomini che degli elfi!"

La risposta di Boromir fu udita da tutta la Compagnia, eppure Merry intuì che era rivolta a Faramir e a nessun altro. “E’ la tua voce che voglio sentire. Ti prego, fratello, prima di lasciare la nostra città e la nostra casa, fallo per me.”

Faramir esitò un momento, spostando di nuovo lo sguardo sullo scudiero silenzioso, poi sorrise. “Come vuoi”.

Frodo scese immediatamente dalla panca per fare posto a Faramir, sedendosi accanto a Sam sull'erba. Faramir si alzò agilmente e andò a prendere posto sul seggio designato per il narratore. Merry fu colpito dal modo in cui ispirava rispetto e attenzione, e dal modo in cui tutti gli sguardi lo seguivano. Persino Gil lasciò il suo nascondiglio per avvicinarsi in modo da vedere il suo viso mentre parlava. La luce della luna sembrò splendere più luminosa su di lui, illuminando i suoi occhi e i suoi capelli, mettendo in evidenza il suo viso nella notte.

"Questa è la storia di Maeldhuin e Gilthaethil,* come l’ho sentita tempo fa”. Faramir chiuse gli occhi, e il suo viso assunse un'epressione remota e sognante. In tono lieve, quasi reverente, cantò alcuni versi in elfico. Merry non capiva le parole, ma sentì il dolore e il desiderio in esse. Dopo che le ultime note si furono spente, Frodo sospirò.

"Conosci tutta la canzone?" domandò.

Faramir sorrise scuotendo le spalle. "E’un poema molto lungo, e sono passati molti anni da quando l'ho sentito”.

"La conosce," disse Boromir prontamente.

Faramir rise. "Forse. Ma questa notte, cercherò di tradurla come meglio posso nella lingua comune. E’una storia di coraggio, lealtà e pericolo mortale, una storia piena di dolore ma anche di speranza. Ed è una storia d'amore, in un certo senso".

"Sì, è così", mormorò Legolas, solennemente. “Una storia d'amore elfica".

"Tutte le storie elfiche che conosco finiscono male”, disse Pipino, “Specialmente quelle d'amore".

Faramir rise di nuovo, ma il suo viso era malinconico. "Giudicherai tu stesso come finisce questa, Mastro Perian, e mi dirai se è abbastanza elfica per te".

Si sporse in avanti perché la sua voce raggiungesse tutti, lasciando che Merry vedesse lo scintillio dei suoi occhi nella luce della luna. "Conoscete tutti la storia degli Anelli del Potere". Tutte le teste annuirono all'unisono. "Nel tempo antico, Sauron sedusse i fabbri elfici dell'Eregion con le sue parole ingannevoli e i suoi doni infidi. Allo scopo di carpire i loro segreti e di soggiogarli, li spinse e li guidò alla forgiatura di molti anelli, e infine li tradì. Nascostamente, forgiò nel cuore della Montagna di Fuoco l’Unico Anello, che avrebbe legato gli altri anelli al proprio volere. Ma quando l’Oscuro Signore se lo mise al dito, Celebrimbor comprese il suo tradimento e nascose i tre anelli che aveva forgiato."

Faramir fece una pausa, lasciando che ognuno di loro ricordasse a modo suo la storia in cui avevano giocato un ruolo così importante. Poi, con solennità, riprese, “L'ira di Sauron fu terribile. Il suo piano per rendere schiava la razza degli Elfi era fallito, e gli Eldar erano ora contro di lui. I tre Anelli Elfici, che bramava più di tutti, furono nascosti, e il loro potere gli fu negato. Sauron comprese che la finzione non gli avrebbe più portato alcun vantaggio, e così gettò via la maschera e radunò i suoi eserciti per mandarli contro gli Elfi.

"Celebrimbor previde l’arrivo dell’Oscuro Signore, e si affrettò a fortificare la sua città, ma sapeva bene che la forza del suo popolo consisteva nell'abilità nel manipolare le ricchezze della terra, non nell'uso delle armi. Temendo la sconfitta, decise di mandare i Tre Anelli ai più potenti e i più saggi della sua razza che ancora abitavano nella Terra di Mezzo, con l’avvertimento che non avrebbero mai dovuto essere usati apertamente, fintanto che Sauron avesse avuto in mano l’Unico. E così, alla pallida luce di un’alba invernale, tre messaggeri lasciarono Ost-en-Edhil, diretti in Eriador verso il reame segreto di Forlindon.

“E’ per il ruolo che ebbero in questa disperata impresa che Maeldhuin e Githaethil sono stati ricordati attraverso le ere”.

Ancora una volta, Faramir si interruppe. Quando riprese a parlare, aveva abbandonato il tono magniloquente in favore di uno più intimo.

"Maeldhuin era un araldo al servizio di Celebrimbor. Non era un guerriero, e non usava arco né spada, né era versato nella lavorazione delle gemme o del metallo. Ma era lesto di piede e sapeva parlare molte lingue, e amava grandemente il suo signore e la sua città.

"Quando Celebrimbor scelse i suoi messaggeri, diede a Falathar, il capo dei suoi araldi, il compito di portare gli anelli a Gil-Galad. Insieme a Falathar andarono Maeldhuin e un altro giovane Elfo suo congiunto. Gli elfi più giovani non erano al corrente del vero scopo della missione, ma sapevano soltanto che il loro signore li aveva scelti per portare doni e messaggi di grande importanza al Re.

"I tre messaggeri si inoltrarono così nell’Eriador, giungendo quasi fino al Golfo di Lhûn e a Mithlond. Ma prima che raggiungessero i Porti, nel luogo oggi chiamato Colline Turrite, fu loro tesa un’imboscata dagli orchi, e il giovane parente di Maeldhuin perse la vita. Falathar, temendo un altro attacco, affidò al veloce Maeldhuin il suo prezioso carico, facendogli promettere che lo avrebbe affidato solo alle mani del Re e a nessun altro. Poi si separarono prendendo strade diverse, sperando di sfuggire ai loro nemici, e Falathar perì. Rimasto solo, Maeldhuin sfuggì agli orchi, e vagò sperduto e disperato nella notte che avanzava, fino a quando si imbatté nel rifugio segreto di Gilthaethil.

"Nulla si conosce di Gilthaethil e della sua stirpe”. A queste parole, Merry lanciò uno sguardo sbigottito a Gil, ma lei continuava a guardare fisso Faramir, impassibile. “Si crede che appartenesse agli Elfi Silvani, anche se nessuno rivendicava una parentela con lei, e amava abitare la verde solitudine della foresta, vivendo con la sola compagnia delle bestie selvatiche. Era veloce e agile come un cervo, versata nelle arti guaritrici, e misteriosa come una statua scolpita nella roccia. Sebbene non appartenesse al suo popolo, Círdan il Capentiere, Signore di Mithlond, l’amava come una figlia e lei era la benvenuta nelle sue terre.

"A lei giunse dunque Maeldhuin nell’ora della disperazione. E con il loro incontro fu cambiato per sempre il destino dell’Ovest. Perché gli occhi acuti della fanciulla elfo compresero il fardello che gravava su Maeldhuin e il grande amore che aveva per il suo signore e per la sua città, e, commossa, decise di aiutarlo come poteva. Così Gilthaethil divenne guida e compagna di Maeldhuin.

"Per prima cosa si recarono da Círdan, chiedendo il suo aiuto per raggiungere il Re. Ma Gil-Galad si trovava nell’estremo Nord, impegnato a preparare guerra contro un nuovo nemico senza nome. Círdan, preoccupato dalle voci di guerra ad Est, non prestava fede alle parole di un messaggero che non voleva rivelare nulla sulla sua missione. Senza dare ascolto alle suppliche di Gilthaethil, la figlia del suo cuore, decise di trattenere Maeldhuin a Mithlond mentre chiedeva il consiglio dei Saggi.

"Ma Gilthaethil non poteva permettere che Maeldhuin fosse imprigionato. Facendolo travestire da suo servitore, riuscì a farlo fuggire, e insieme risalirono il Fiume Lhûn, verso le tetre distese di Forochel in cerca dell’esercito del Re..

"Lungo e arduo fu il loro viaggio, innumerevoli i pericoli affrontati. E mentre percorrevano il loro cammino periglioso verso nord, quello che era nato come un semplice aiuto dovuto alla necessità si trasformò in un legame di fiducia e di profonda amicizia.

"Ma accadde un giorno che mentre Gilthaethil si era allontanata sola nella foresta, Maeldhuin fu attaccato dagli orchi, e il loro numero era tale che egli non poteva affrontarli. Sapendo di essere perduto, gettò via gli Anelli, sperando che Gilthaethil li avrebbe trovati e avrebbe portato a termine la sua missione consegnandoli al Re.

"La sua fiducia non venne tradita. Gilthaethil, richiamata dai rumori della battaglia, tornò velocemente, ma Maeldhuin era scomparso e il sacchetto dove teneva gli Anelli giaceva abbandonato tra le foglie ai suoi piedi. Lei capì immediatamente di cosa si trattava, e seppe che ora la missione gravava unicamente sulle sue spalle. Amaro fu il suo dolore nel dover abbandonare l'amico al tormento e alla morte. Ma era determinata a far sì che Maeldhuin non soffrisse invano. Così prese gli Anelli e volse i suoi passi verso l'accampamento di Re Gil-Galad.

"Era sola in una terra crudele. I loro cavalli erano stati uccisi nell’attacco, non trovava alcun riparo, ed era come se l’aria stessa si fosse rivoltata contro di lei. Sauron, per accelerare la vittoria del suo Capitano, aveva mandato le tempeste di Mordor a perseguitare l’esercito di Gil-Galad, e terribile era la loro ira. Gilthaethil corse dritta nelle fauci della tempesta, veloce come il cervo delle foreste, instancabile come i venti che ululavano attorno a lei. Lega dopo lega, attraverso foreste, deserti, rocce e fiumi, giorno e notte, ella correva senza sosta, fino a sembrare una creatura della tempesta più che un'elfo. Era una vista strana e terribile, con i vestiti strappati e i capelli che le volavano attorno, bagnati e sporchi, mentre i suoi piedi sanguinanti volavano sul terreno crudele.

"Finalmente, al morire di un giorno terribile e senza sole, Gilthaethil giunse innanzi a Re Gil-Galad e mise nella sua mano il dono di Celebrimbor. In questo modo, i Tre furono salvati dalla rovina di Ost-en-Edhil, e portati, al sicuro dalla malizia di Sauron, al cospetto del Re degli Elfi. E fu così che il giuramento di Maeldhuin fu mantenuto."

Le parole finali di Faramir si spensero nel silenzio, ma nessuno si mosse, tanto era potente l’incantesimo che la sua voce aveva gettato su di loro.

"E cosa ne fu di Maeldhuin?" chiese infine Frodo. "Anch’egli morì?"

"Maeldhuin fu portato prigioniero nei sotterranei di Forochel e gettato in un profondo abisso. Là fu costretto a lavorare in schiavitù insieme a prigionieri di altre razze, per fortificare la fortezza del Re Stregone, il capitano di Sauron. Quando Gil-Galad mosse guerra contro di lui, i prigionieri, guidati da Maeldhuin, si ribellarono, soverchiarono i propri aguzzini, e aiutarono il Re a sconfiggere il Nemico.

"Ora che il suo esercito aveva trionfato al Nord, Gil-Galad poteva finalmente rivolgersi all’Eregion per salvare il popolo di Celebrimbor. Mandò un grande contingente a Ost-en-Edhil sotto il comando di Elrond Mezzelfo, a cui affidò una potente arma, simbolo del favore del Re per sostenerlo nella sua guerra contro Sauron. Maeldhuin, che desiderava ardentemente tornare a casa, disse addio a Gilthaethil e partì con Elrond verso l’Eregion.

"Molto dolorosa fu la loro separazione. Ma ancora più dolorosa fu la vista che Maeldhuin si trovò innanzi una volta tornato alla sua amata città. L’aiuto era giunto troppo tardi. Ost-en-Edhil era in rovina, il suo popolo disperso o ucciso. Il potere di Sauron si era abbattuto sui fabbri elfici che avevano osato sfidarlo, annientandoli completamente.

"Elrond riunì tutti i superstiti che riuscì a trovare e li condusse a nord, nelle terre selvagge, per costruire in segreto un rifugio per gli Eldar per gli anni a venire. Ma Maeldhuin non andò con lui. L’araldo di Ost-en-Edhil sapeva che non avrebbe trovato pace nè guarigione in quel luogo, e così rivolse i suoi stanchi passi verso Ovest e i Porti Grigi. Quando finalmente giunse a Mithlond, scoprì che la sua ultima speranza lo aveva abbandonato. Gilthaethil se ne era andata, scomparsa nelle foreste da cui era venuta."

"E quindi lui salì su una di quelle navi, non è così?” sbottò Sam, “Se ne andò e la abbandonò!”

Faramir sorrise brevemente. "No, Sam, non andò così. In quanto appartenente agli Eldar, era suo diritto partire per l’Ovest, se lo avesse voluto, ma Maeldhuin non voleva lasciare la Terra di Mezzo e la misteriosa fanciulla che aveva rapito il suo cuore.

"Volgendo le spalle al mare, si incamminò di nuovo tra le colline invernali. A lungo cercò, e dei pericoli che incontrò per quelle contrade nulla si conosce. Ma finalmente giunse al rifugio di Gilthaethil, e la trovò lì, che lo aspettava. La notte della prima neve, si scambiarono i voti d’amore, e per molti anni abitarono insieme nella foresta. Questo è tutto quello che si sa, perché di tanto in tanto sono stati visti camminare insieme tra gli alberi o cavalcare nei campi alla luce della luna. E Círdan li conosce bene, perchè lo andavano a visitare spesso.

"Ma con il passare dagli anni, e l’oscuramento dei cieli della Terra di Mezzo, si spinsero sempre più di rado a Mithlond, fino a che la loro esistenza fu dimenticata da tutti fuorché da Círdan. Lentamente svanirono nel ricordo, e dal ricordo nella leggenda. Se Gilthaethil e il suo amato vivono ancora nelle foreste dell’Eriador, o se sono partiti per l’Ovest con le ultime navi, nessuno può dirlo.”

Nel silenzio che seguì, Pipino sospirò silenziosamente. Faramir sorrise al giovane hobbit. “Cosa ne dici, Mastro Perian? E’abbastanza elfica per te questa storia?"

"Altrochè! Ma perché tutte le storie elfiche sono così malinconiche?"

Fu Legolas a rispondergli. “Ricorda, Pipino, che la vita di un elfo comprende molte ere degli Uomini, e che in quel periodo di tempo può conoscere grande gioia, grande dolore e grandi pericoli. Ma col trascorrere degli anni, il dolore comincia a pesare molto più della gioia, e l’animo si stanca del suo fardello. Allora i suoi occhi si rivolgono al mare, i suoi sogni alle Terre Immortali, e nemmeno la bellezza della Terra di Mezzo può più trattenerlo."

"E’per questo che se ne vanno tutti?"

"Sì."

Pipino scosse la testa, con gli occhi cupi. “Sono felice di non dover vivere per sempre per vedere i miei ricordi più belli diventare tristi".

Legolas gli sorrise con calore. “Non è adatto a te il lento e triste declinare degli Elfi, piccoletto. I mezzuomini sono fatti per le risate, non per le lacrime”.

"E per i letti e i pasti caldi, non per le lunghe notti sotto le stelle”. Lo hobbit si stiracchiò sbadigliando, poi osservò speranzoso Gandalf. “Immagino che insieme all'erbapipa tu non abbia portato niente da bere o da mangiare, vero?”.

Lo stregone rise. "Non potrei mai portare tanto cibo da soddisfare quattro hobbit!” Guardò le stelle e la luna che compivano il loro corso sopra di loro, poi sollevò un sopracciglio in direzione di Pipino. “Vai a dormire, e dimentica il tuo stomaco. Dobbiamo alzarci prima del sole, e non possiamo aspettare i pigri Tuc!”

Pipino sbadigliò di nuovo."Legami alla sella allora, Gandalf, dormirò fino a Rohan."

"E’ questo il modo di viaggiare di un soldato di Gondor?” scherzò Aragorn. “impacchettato come un bagaglio? Vergogna, Pipino.”

Seguendo l’esempio di Gandalf e Aragorn, i membri della Compagnia si alzarono uno ad uno e si avviarono verso il Cancello. L’incantesimo della storia di Faramir era ancora su di loro, così come lo scintillante cielo notturno, e le loro voci erano appena un mormorio, mentre si congedavano. Solo Boromir e Merry rimasero seduti senza accennare a muoversi. Gil si alzò in piedi, incerta, restando accanto a Boromir senza sapere cosa fare.

Faramir si alzò, stringendo in segno di saluto il braccio del fratello. “Non ritorni alla Cittadella?” domandò.

"No. Ho più bisogno di aria fresca che di sonno, stanotte.” La sua mano arruffò i riccioli di Merry, e Boromir aggiunse, con un sorriso, “Merry mi terrà fuori dai guai."

"E il tuo scudiero?"

"Vuoi che rimanga, mio signore?" chiese Gil, chiaramente incerta se una notte trascorsa sulle mura della città con il Sovrintendente avrebbe offeso il suo senso dell’onore più di lasciarlo solo senza la sua guida.

"No, Gil, vai pure a dormire. Domani sarà un lungo giorno”. Gil annuì, mormorando un sommesso “Mio signore”, e fece per andarsene. Ma Boromir tese una mano per fermarla. “Aspetta! Non mi hai datto che cosa ne pensi della storia”.

Gil si fermò, guardando con calma il volto del Sovrintendente. “Come il perian ha detto, è una storia malinconica. Ma fantasiosa, nonostante tutto, con una principessa misteriosa e amanti immortali. Capisco perchè a Ioreth sia piaciuta tanto.”

"E anche perché abbia deciso di chiamarti Gilthaethil,"aggiunse Merry.

Gil sbuffò come suo solito. “Sciocchezze. Eppure..." I suoi occhi si rivolsero esitanti a Faramir, e il suo viso abbandonò la formale rigidezza. “Sono lieta di avere conosciuto qualcosa del mio nome, anche non so nulla di me stessa. Ti ringrazio, mio principe”.

Faramir, colto alla sprovvista dalla sua cortesia, si inchinò leggermente.

"E grazie anche a te, mio signore", disse semplicemente a Boromir.

Boromir le sorrise, poi fece un gesto di diniego, ringhiando scontroso, “Ah, finiscila, Gil! Tutta questa gratitudine mi convincerà che sei malata e che stai per morire! Vattene prima che mandi a chiamare i Guaritori!”

Gil non sorrise alla battuta, ma Merry la conosceva abbastanza bene da capire che era divertita vedendo il modo in cui socchiudeva gli occhi. "Come desideri, mio signore. Buonanotte”.

Mentre se ne andava, anche Faramir si avviò, camminando accanto a lei fino al cancello, con le mani intrecciate dietro la schiena e gli occhi fissi su un punto lontano. Boromir e Merry poterono ugualmente sentire le sue parole. “Se me lo permetti, Gil, desidero accompagnarti alla Torre”.

La ragazza gli rispose con cautela, ancora più rigida del solito. Ma Faramir non si fece scoraggiare.

"E’ stata Ioreth a scegliere il tuo nome? Non sapevo che conoscesse le leggende elfiche. Che storie ti ha raccontato quando eri bambina?

Boromir attese fino a che il rumore di passi si fu allontanato sulla ghiaia e il mormorio si fu spento nella notte, poi si rivolse a Merry, osservando, “Mio fratello a quanto pare ha trovato un’anima gemella”.

"Chi, Gil?"

"No, Ioreth."

Merry rise. "Pensi che riuscirà mai a piacergli? Gil, intendo, non Ioreth."

"Non lo so." Boromir scompigliò i capelli di Merry affettuosamente. “Sei stanco, piccoletto? Non preferisci dormire in un letto caldo, finchè puoi ancora farlo?”

"No. Voglio stare qui con te, sotto le stelle”.

Merry si alzò in piedi andando a sedersi sulla panca accanto a Boromir. Poi entrambi si strinsero nei loro mantelli appoggiandosi al muro, allungando le gambe davanti a loro. A dire la verità le corte gambe di Merry arrivavano appena al limite della panca, e i suoi piedi nudi restavano fuori dal mantello, ma era un notte tiepida, ed era lieto di sentire il vento sulla pelle.

Mentre sedevano in pacifico silenzio, a Merry ritornò in mente di nuovo la canzone di Bilbo. Non si era mai accorto di quanto fosse triste. Ma a pensarci bene, non si era mai sentito triste al pensiero di mettersi in strada. Visto che non trovava un altro modo di esprimere i propri pensieri e le parole gli venivano meno quanto più gli servivano, recitò ad alta voce i familiari versi.

La via prosegue senza fine
Lungi dall’uscio dal quale parte.
Ora la via è fuggita avanti,
devo inseguirla ad ogni costo
rincorrendola con piedi alati,
sino all’incrocio con una più larga
dove si uniscono piste e sentieri.
E poi dove andrò? Nessuno lo sa.

"Non ho mai chiesto a Bilbo se c’era un’altra strofa", meditò, "una che parlava di stare al sicuro in casa, dove la strada non possa portarti via".

"O forse una che parla della strada verso casa” suggerì Boromir.

"Casa. Ogni strada conduce alla casa di qualcuno, immagino”.

Si interruppe e deglutì faticosamente. La notte stava scivolando via, così come il giorno precedente, e il tempo era breve. Troppo presto avrebbe dovuto pronunciare un balbettante addio, e Frodo, Pipino, e il richiamo della sua amata Contea lo avrebbero inesorabilmente portato via, senza lasciargli il tempo di dire le parole che davvero contavano.

Raccogliendo il coraggio e confidando che le parole sarebbero venute da sole, Merry cominciò, "Boromir, io..." Ma non riuscì a dire nulla, e la voce gli morì in gola tra le lacrime.

Boromir lo fissò con il suo sguardo bendato. "Pace, piccoletto".

"Presto sarà mattina."

"Non così presto. Abbiamo ancora molte ore di oscurità davanti a noi”.

"Mi sembra solo un momento.” Merry chinò il capo, e le lacrime gli caddero calde sulle mani intrecciate.

"Non piangere." La mano di Boromir trovò quella di Merry e la strinse con calore."Non dobbiamo dirci addio prima del tempo, e non è bene sprecare il tempo piangendo”.

"Che cosa faremo, allora?"

"Ascolteremo le stelle. Saremo felici almeno per un po’. Aspetteremo il mattino insieme”.

"E poi ci diremo addio”.

"Quando sarà il momento."

Con un ultimo sconsolato singhiozzo, Merry si pulì il viso con la manica e si mise ad aspettare. Protetto dal calore dell’uomo, abbandonò il suo dolore e si rilassò nella bellezza della notte, senza ansia né preoccupazione. Poi, finalmente, il sonno lo vinse, e la sua testa scivolò fino a posarsi contro il fianco di Boromir. Boromir coprì la piccola figura raggomitolata con il suo mantello, e da qualche parte in mezzo al canto delle stelle, si addormentò.

Continua...

*Nota: La leggenda di Maeldhuin e Gilthaethil è stata scritta da Annys. Il personaggio di Maeldhuin appartiene a lei, mentre Gilthaethil appartiene a PlasticChevy e Annys (PlasticChevy ha inventato il nome e fornito la cornice storica, Annys ha fatto il resto.) La storia completa verrà pubblicata probabilmente come un'Appendice a "Il Capitano e il Re".

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Capitolo 18
*** La via prosegue senza fine ***


Il Capitano e il Re
Il Capitano e il Re

Capitolo 18: La via prosegue senza fine

Al sorgere del giorno, gli Uomini di Rohan portarono il corpo del loro Re caduto dai Luoghi Sacri attraverso la città con solenne cerimonia. Ai lati del feretro camminavano re Éomer e sua sorella, Éowyn, accompagnati da Meriadoc, scudiero di Théoden. Dietro di loro venivano i soldati di Gondor e la grigia compagnia dei Dúnedain, con le armi sguainate in segno di saluto, come guardia d’onore. Tra di loro vi erano Re Elessar e il suo Sovrintendente, Gandalf, Legolas l’elfo, Gimli il nano, e una piccola figura vestita nella livrea della Torre di Guardia. Éomer in persona aveva chiesto che si unissero all’ultima marcia di Re Théoden, in ricordo delle battaglie che avevano affrontato insieme nei giorni oscuri.

Le strade erano affollate di persone, come lo erano state di recente solo in occasione dell’arrivo a Minas Tirith della Regina. Ma in questo mattino d'estate non c'erano fiori né canzoni, solo un rispettoso silenzio, e volti tristi e gravi. Nessuno in città aveva dimenticato il suono dei corni nel vento o gli elmi d’argento che scintillavano nella luce mentre Rohan cavalcava in aiuto di Gondor. Nessuno aveva dimenticato il prezzo che Rohan aveva pagato per quella vittoria.

Lentamente, il corteo uscì dai cancelli nei campi di Pelennor, dove il resto della scorta attendeva. A un segnale di Éomer, la portantina di Théoden fu sollevata sopra un carro sopra il quale sventolava lo stendardo con il cavallo bianco di Rohan. Poi il Re del Mark salì a cavallo, imitato dal suo seguito.

Merry lasciò in silenzio il suo posto a fianco di Théoden per avvicinarsi a Boromir, che stava in piedi accanto a Fedranth. Prima di partire dalla Via Silente davanti alle Case dei Re, Merry aveva chiesto a Éomer questo favore – di poter percorrere l’ultimo miglio verso il Rammas Echor insieme a Boromir. Éomer aveva sorriso e posato una mano sulla testa di Merry, dicendo, “A Re Théoden non dispiacerà se lo lascerai per un miglio. Vai pure”.

Così lo scudiero di Théoden non salì sul carro accanto al suo signore, ma montò in sella insieme al Sovrintendente di Gondor. Poi, dall’alto della sua posizione, si voltò verso nord, lasciandosi alle spalle le bianche mura di Minas Tirith, verso il viaggio che lo aspettava. Le sue mani si posarono su quelle di Boromir, aiutandolo a dirigere il cavallo, e i suoi occhi si inondarono di lacrime.

Il carro di Théoden segnava il passo della loro cavalcata. Fedranth rimase al seguito del corteo, senza mai andare oltre il passo, e Merry ebbe tutto il tempo di guardarsi attorno. Lui e Boromir cavalcavano insieme al resto della Compagnia, leggermente in disparte rispetto al gruppo principale. Alla testa del gruppo vi erano i Dúnedain di Grampasso e i figli di Elrond. Merry riusciva a intravedere il riflesso dell’oro oltre le loro sagome che indicava il punto in cui cavalcavano Galadriel e Celeborn insieme agli Elfi di Lórien. Non riusciva a vedere la regina Arwen, ma immaginò che Elrond l’avesse tratta in disparte per parlare con lei in privato. Faramir e Imrahil cavalcavano insieme a Éowyn, accanto al corpo del Re, e una compagnia della Guardia della Torre chiudeva il corteo.

Erano davvero i più saggi e i più potenti della Terra di Mezzo, quelli che erano riuniti in quella piccola compagnia. Se non fosse stato per le sue esperienze nei mesi passati, Merry avrebbe potuto essere intimidito dallo spiegamento attorno a sé. Ma ora poteva guardare le divise di Gondor e Rohan, l’elegante bellezza degli elfi e l’austero coraggio degli Uomini provando solo meraviglia e ammirazione.

In realtà Merry non era molto interessato ai suoi futuri compagni di viaggio. Tutti i suoi pensieri andavano a colui che avrebbe dovuto presto lasciare indietro, e all’addio che avrebbe dovuto pronunciare di lì a poco.

Anche se lento, il loro viaggio era stato comunque troppo breve per Merry. Davanti a sé vide il muro di pietra di Rammas Echor, e il cuore nel suo petto si fece greve. Il sole non aveva ancora raggiunto lo zenit, quando il corteo funebre si fermò innanzi al cancello che li avrebbe introdotti nell’Anórien. Il luogo in cui infine i Nove Viandanti della Compagnia dell’Anello avrebbero preso strade diverse. Questo era soltanto uno dei molti addii che sarebbero dovuti seguire, ma per almeno due di loro, sarebbe stato il più amaro.

Gandalf e Aragorn spronarono i cavalli in avanti attraverso le fila silenziose di Uomini ed Elfi, verso il Cancello, seguiti dalla Compagnia. Merry teneva gli occhi fissi sulle pallide torce che ardevano accanto al corpo del re, cercando ostinatamente di ignorare la compassione e il dolore sui volti di quelli che superavano. Quando si affiancò a Éomer, vide che i signori degli Elfi e i Principi di Gondor erano davanti a lui, in attesa di prendere commiato dal Sovrintendente.

Durante gli addii che seguirono, Merry rimase seduto in sella a Fedranth, in silenzio, a capo chino. Non gli importava sentire i loro discorsi di vittoria, di amicizia, di commiato. L’unica cosa di cui era consapevole era che ogni persona che sfilava davanti a lui, stringendo la mano di Boromir e dicendogli addio, lo portava sempre più vicino al momento del suo commiato. La maggior parte dei presenti si congedò a cuor leggero, in previsione di un rapido ritorno. Altri, come Faramir e Aragorn, avevano già detto in altra sede ciò che dovevano, e si limitarono a un veloce abbraccio e poche parole all'orecchio di Boromir. Tra la Compagnia, solo Gandalf e gli hobbit indugiarono nei saluti, poiché erano quelli che viaggiavano più lontano, e che avevano meno speranze di rivedere mai più Gondor o il suo Sovrintendente.

Merry sopportò in silenzio senza capire una parola di quello che veniva detto, perso nella sua tristezza, cercando disperatamente le parole adatte per separarsi dal suo signore, e la forza per pronunciarle senza vacillare. Fallì in entrambi i tentativi, e il suo cuore venne meno quando alzò gli occhi per vedere un solo cavaliere davanti a sè. Con sua sorpresa, vide che si trattava di Éowyn.

Quando gli occhi di Merry incontrarono i suoi, lei sorrise, ma c’era tristezza sul suo volto. “Cavalcherai con me, mastro Holbytla? Sarei fiera di essere in tua compagnia ancora una volta.”

Merry cercò di rispondere, ma non ci riuscì. La guardò per un attimo a bocca spalancata, poi si voltò per guardare l’uomo seduto dietro di lui. Boromir gli mise una mano sulla spalla, gentilmente.

"Va’con lei, Merry," disse.

"Non siamo più fuggiaschi”, disse Éowyn, "e non andiamo verso guerra e morte. Eppure il nostro futuro è sconosciuto, e dietro di noi sono dolore e lutto. Credo che potremo esserci di reciproco conforto. Non vuoi cavalcare di nuovo con Dernhelm ?"

Merry osservò la dama, orgogliosa e bella in sella al suo destriero, e si chiese se quella era davvero lo stesso Dernhelm che aveva conosciuto. Non sembrava esserci traccia di quel ragazzo disperato nella graziosa dama vestita di bianco, con un mantello verde sulle spalle e i capelli biondi che le scendevano sulle spalle. Era sempre esile e bella, diritta e luminosa, ma più simile a un fiore su un alto stelo che a una lama affilata. Si era addolcita al tepore del sole. Ma quando lo guardò con i suoi occhi che parevano riflettere anni di oscurità senza fine, grevi di dolore eppure troppo remoti e fieri per mostrarlo, Merry riconobbe in lei il suo compagno d’armi di un tempo.

"Andiamo, Merry. Terremo compagnia al nostro re caduto lungo il suo viaggio verso casa”.

Merry non riuscì ancora a rispondere, ma fu Boromir a mettere fine a quel momento. Scese agilmente di sella, poi fece scendere anche lo hobbit, e disse, risoluto, "Vieni, è il momento".

Merry obbediente si lasciò posare a terra, ma una volta sceso non si diresse verso Windfola. Afferrò invece le mani di Boromir, facendolo inginocchiare sulla strada davanti a lui. Rimasero a lungo in silenzio, stringendosi le mani.

"Ho cercato di trovare le parole giuste”, disse infine Merry.

Boromir scosse la testa. “Non esistono”.

Lasciò andare le mani di Merry per cercare qualcosa a tentoni tra le pieghe del suo mantello.Poi, lentamente, tese la mano, mostrando un oggetto nel palmo aperto, che Merry guardò attraverso un velo di lacrime. Era un corno – più piccolo di quelli dei soldati di Gondor, ma grazioso ed elegante, decorato con fili d’argento, appeso a un balteo di velluto e cuoio lavorato.

Boromir porse il corno a Merry, e lo hobbit lo prese con riluttanza. Sapeva che era un dono d’addio, e, nel suo dolore, non voleva alcun oggetto a sottolineare il momento del commiato. Il corno era freddo e solido, e si adattava perfettamente alla sua mano. Scintillava nella luce del sole, attirando il suo sguardo al delicato intreccio dell’argento. Attraverso le lacrime, vide che vi era incisa l’immagine dell’Albero Bianco, e una singola runa. La osservò, troppo annebbiato dal dolore per capire il suo significato. Poi, lentamente, capì: era la prima lettera del nome di Boromir.

"Apparteneva a me. Mi fu dato quando indossai per la prima volta l’uniforme di Gondor per andare al confine ad imparare il mio compito”, disse Boromir. “Guarda su entrambi i lati”.

Merry, obbediente, girò il corno. Dall’altro lato l’argento era lavorato in modo simile, ma la runa stavolta era una M, incisa da poco e ancora non consumata dagli anni di uso. Merry sospirò.

"Ora è tuo, amico mio. Ma ho lasciato la mia iniziale su di esso, così che ricordi da dove viene, e il figlio di Gondor che un tempo lo portava".

"Io... io ricorderò", sussurrò Merry.

"Se mai avrai bisogno di me, suona il corno. Io lo sentirò”.

"E se sarai tu ad avere bisogno di me?"

"Tu lo saprai”. Boromir sollevò un dito per toccare il centro del petto di Merry. “Come sempre. Addio, Meriadoc della Contea. Prego che tu non abbia mai più bisogno di usare il corno o la spada, e che tu viva in pace tutti giorni della tua vita!”

Merry scoppiò a piangere, e prendendo la mano di Boromir tra le sue, la baciò come aveva fatto un tempo. E come allora, Boromir non si ritrasse, anche se il suo viso divenne più triste, e chinò il capo. "Non posso lasciarti", gridò lo hobbit. "Come farai senza di me?"

"Sarà difficile," ammise il Sovrintendente di Gondor, con un sorriso che però tradiva le lacrime nella sua voce, “ma imparerò. E tu devi andare a casa, mio caro Merry. Devi andare, finchè riesco a lasciarti andare”.

Merry piangeva apertamente, il suo viso rigato dalle lacrime. Attorno a lui, i grandi della Terra di Mezzo attendevano in rispettoso silenzio, con espressioni gravi, distogliendo lo sguardo per non intromettersi nel loro commiato e nel loro dolore. Solo Pipino incrociò lo sguardo di Merry, mentre questo si guardava attorno come per cercare aiuto, ma anche negli occhi di Pipino c'era solo dolore.

Si voltò di nuovo verso Boromir e disse, supplicante, “Lascia che ti riaccompagni in città... almeno fino al cancello! Lascia che sia ancora per un po’ la tua guida!”

"No, Merry, quello non è più il tuo posto. E io... non posso sopportare tutto questo una seconda volta." Sciogliendosi dalla stretta di Merry, Boromir si alzò in piedi, sollevò lo hobbit tra le braccia e lo consegnò nelle mani di Éowyn. Mentre Merry si sistemava in sella, Boromir si voltò verso Fedranth. Il cavallo strofinò il muso contro la sua mano, e Boromir lo accarezzò, nascondendo il viso contro il collo dell’animale. Rimase così per un momento, celando il suo dolore, poi raddrizzò le spalle, sollevò il capo, e montò in sella.

Una volta a cavallo, Boromir si affiancò a Éowyn, seguendo il suono dei singhiozzi di Merry, e posò la mano sulla testa dello hobbit. La sua voce era un sussurro, che nessuno a parte loro tre udì, ed era ruvida per le lacrime che non poteva piangere. “Sii felice, Merry. Che la tua vita sia piena di canzoni, cibo e gioia, come sarebbe sempre dovuta essere. E quando penserai a me...”

Noncurante dell’altezza a cui si trovava, Merry si sporse pericolosamente dalla sella per abbracciare di nuovo Boromir. Premendo il viso nel velluto della sua tunica fino a sentire la maglia di ferro sotto di esso, gridò, “…ricorderò il più grande uomo e il migliore amico che abbia mai conosciuto!”.

Boromir chinò il capo, sussurrando, “Se ricorderai che ti voglio bene, sarà sufficiente”. Poi, gentilmente, scostò Merry da sè, rimettendolo a posto sulla sua sella. Éowyn gli mise un braccio attorno alla vita, sia per confortarlo che per trattenerlo. “Addio”.

"Ritornerò! Lo prometto!” Come a un implicito segnale, la truppa di cavalieri si mise in marcia. “Addio, Boromir!"

Éowyn spronò il suo cavallo, unendosi alla colonna, e Merry fu portato inesorabilmente attraverso il cancello di Rammas Echor. Si voltò all’indietro sulla sella mentre superavano le mura, cercando con lo sguardo la figura di Boromir, immobile sul grigio destriero di Rohan, con una schiera di soldati alle sue spalle. Boromir non poteva vederlo, ma in quel preciso istante, sollevò una mano in segno di saluto.

"Addio!" Gridò Merry, con voce acuta per la disperazione. “Addio!”, poi si voltò, sollevando il cappuccio per nascondere il suo viso, e pianse.

Continua...

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Capitolo 19
*** Epilogo ***


Il Capitano e il Re

Epilogo: L’ultimo Sovrintendente

26 settembre, 30 Quarta Era.

Le torce sussultarono all’aprirsi delle maestose porte in fondo alla sala. Aragorn vide le fiamme vacillare e riprendersi, e capì che il tempo per il suo dolore privato era finito. Eppure non si voltò ad accogliere gli uomini che giungevano camminando attraverso il Grande Salone. I suoi occhi rimasero fissi sulle fiamme che vegliavano solenni al di sopra della piattaforma, le sue mani strette attorno allo scettro bianco posato sulle sue ginocchia.

Uno dei due uomini, il più giovane, si fermò a qualche passo dalle scale, mentre l’altro salì fino al primo gradino, dove si trovava il Seggio del Sovrintendente, e attese in rispettoso silenzio che il Re lo interpellasse.

Finalmente, Aragorn parlò, senza voltarsi. “E’ il momento?”

"Questo spetta a te deciderlo, mio Re”, rispose Faramir.

Aragorn inspirò profondamente per cercare di guadagnare un po’di calma, poi si alzò lentamente, faticosamente in piedi. Aveva trascorso tutte le veglie della notte su quella sedia di pietra, ripetendo ancora e ancora le parole di addio che non riusciva a credere nel suo cuore, e piangendo lacrime che non sembravano finire mai. Con l’approssimarsi del giorno, aveva trovato un po’ di calma, se non la pace, e suoi occhi erano asciutti. Ma il suo corpo era stanco, rigido per gli anni e per il freddo, e ogni momento dei suoi centoventi anni gravava pesantemente sulle sue spalle. Faramir si avvicinò salendo un altro gradino, come per aiutarlo ad alzarsi, ma Aragorn lo fermò con un gesto. Andò incontro a Faramir fermandosi sul gradino più basso, e posò lo scettro di traverso sul seggio del Sovrintendente.

"Grazie per essere venuti”, disse. Volgendo uno sguardo desolato al più giovane dei due, aggiunse, “Grazie a entrambi”.

"Tutto ciò che devi fare è chiedere, mio signore. Siamo ai tuoi ordini”.

Aragorn scosse il capo stancamente, voltandosi di nuovo verso le torce gocciolanti. “Questo non è tempo per gli ordini, amico mio, ma per il dolore, e le difficili decisioni”.

Abbandonando le formalità, Faramir strinse con fermezza il braccio del Re, e disse, “Sai bene che io e i miei siamo con te, qualunque cosa tu decida. Non avere paura di noi, Aragorn, e non dubitare di te stesso”.

"Ecco perché ti ho convocato qui prima degli altri. Devo essere certo che tu capisca”, mormorò Aragorn.

"Io capisco. E non vorrei che fosse diversamente”.

Aragorn si volse nuovamente per guardare Faramir, con occhi così scuri e vuoti che sembravano divorare la luce con la loro disperazione. “Io non infrangerò il mio giuramento”.

Le lacrime affiorarono agli occhi di Faramir. "Né io ti chiederei mai di farlo”.

"E tu, Elboron?" Aragorn lanciò uno sguardo penetrante al giovane che stava in piedi dietro il padre. “Accetti la decisione del tuo Re? Ti accontenterai del futuro che egli ha scelto per te?”

Elboron si fece avanti rapidamente, mettendo il ginocchio a terra davanti al suo signore con il capo chino, la sua mano sull’elsa della spada. "Sono soddisfatto, mio Sire."

"Alzati, lascia che ti guardi”.

Il giovane si alzò in piedi con naturalezza, e sollevò lo sguardo incontrando gli occhi del Re. Aragorn lesse nel suo volto l’orgoglio, la saggezza e la comprensione, accompagnati da un velo di tristezza che lo faceva apparire più vecchio dei suoi anni. Somigliava a Faramir tanto nel volto che nel carattere, e mai per un attimo Aragorn aveva dubitato della sua lealtà o del suo valore come soldato e alleato.

Cercando di sorridere, mise le mani sulle spalle di Elboron, e lo baciò sulla fronte. “Sei un grande conforto per me, figlio di Faramir."

"E cosa sarà di Caladmir?", chiese Faramir a bassa voce. "Cosa sarà del figlio di Boromir?”

Aragorn lasciò andare Elboron e fece un passo indietro. Di nuovo i suoi occhi corsero alle torce, e alla figura che giaceva immobile tra loro, e non rispose.

"Non è forse degno anch’egli dell’amore del suo Re?”

"Sì. Certo che ne è degno".

"Non prenderà dunque il posto di suo padre?"

Ancora una volta Aragorn si sentì investire dal peso della sua perdita, e le sue spalle si incurvarono sotto di esso. “I figli di Boromir avranno tutto quello che potrò dare loro, sul mio onore”.

Prima che Faramir potesse parlare di nuovo, Aragorn si voltò e salì gli ampi gradini fino alla piattaforma. Faramir lo seguì, e insieme si avvicinarono alla portantina. Le torce danzarono al loro passaggio, come ritirandosi dalla loro venuta.

Aragorn le osservò con disprezzo. “Perché hanno messo le torce così vicino a lui?”

"La Guardia della Torre le ha accese come segno di onore. Non pensavano di fare male, e ora a Boromir non possono più dare fastidio”.

"Lo so. Eppure non posso fare a meno di rabbrividire al pensiero”.

"Anche io." Faramir osservò ancora le sinistre luci, poi si affiancò al re per guardare la figura distesa tra di esse.

Lì, su una lettiga decorata con drappi bianchi e argento, giaceva Boromir, figlio di Denethor, Principe di Anórien e Sovrintendente di Gondor. Le sue mani erano incrociate sul suo petto, vuote, e il suo capo era scoperto, tranne che per la nera benda che copriva i suoi occhi. Il tempo era stato generoso con lui, come era solito con i discendenti di Númenor, anche con quelli di lignaggio inferiore come i figli di Denethor, ma le ferite e la malattia avevano scavato la sua carne, dandogli un aspetto smagrito e a prima vista severo. Per Aragorn, che conosceva quel volto meglio del proprio, e che aveva visto la morte in molte guise, non appariva né innaturalmente austero né particolarmente pacifico. Era semplicemente morto, come tutti gli uomini quando la passione e il fuoco della vita li abbandonano. Boromir aveva bruciato di un fuoco più caldo e più ardente di molti altri, ed era per questo che, ora, la sua immobilità causava un dolore così insopportabile a coloro che lo guardavano.

In quel silenzio carico di emozione, Aragorn poteva sentire il sibilo e lo schioccare delle torce, e percepiva il dolore di Faramir come una presenza viva tra di loro, un respiro freddo che soffiava timore nell’aria. Il suo dolore era perso nell’oblio dello sfinimento, per il momento domato, ma a un grave costo. Gli era occorsa tutta la notte per farlo, e aveva costretto il suo corpo e il suo spirito quasi al limite della sopportazione, e sapeva che prima o poi il dolore lo avrebbe assalito di nuovo, affondando artigli avvelenati nel suo cuore. Ma non poteva permetterlo ancora, non fino a quando il suo dovere fosse terminato, e il suo amico riposasse nella Casa dei Re, dove un giorno Aragorn lo avrebbe raggiunto.

In quel pensiero risiedeva il suo tormento e la sua speranza. Il dono di Ilúvatar era davvero amaro, eppure almeno era concesso a tutti gli Uomini. Persino ai Re venuti dalla leggenda. Da una parte aveva davanti a sé la sua Regina e il suo regno, che lo chiamavano ai suoi doveri verso la Terra di Mezzo, dall’altra la speranza di ritrovare un caro amico, e Aragorn si sentiva preso e strappato tra queste due strade, insanguinato dall'agonia della perdita e dei lunghi anni.

Ma Aragorn sapeva che i suoi dubbi non potevano durare. Sapeva che presto avrebbe dovuto aprire le porte della sala, sopportare mentre il corpo del suo Sovrintendente veniva portato fuori, e guardare il suo viaggio senza ritorno verso la Casa dei Re. Poi avrebbe dovuto riprendere la sua corona e i suoi doveri, nonostante la ferita nel suo cuore e il posto vuoto alla sua destra, e nessuno avrebbe mai immaginato quanto vicino Aragorn fosse stato a scegliere l’altra strada, mentre sedeva in solitudine piangendo nell’oscurità. Ma anche questo era il fardello di un Re.

Rivestendosi della sua regalità come di un mantello, Aragorn si raddrizzò e sollevò il mento. Non portava ornamenti tranne una stella sulla fronte legata con un filo d’argento, la stessa che aveva indossato alla sua incoronazione, sui campi di Pelennor, eppure sembrava che la corona alata di Eärnur scintillasse sulla sua fronte. Rivolgendosi all’uomo accanto a lui, disse piano,

"E’il momento. Chiama la Guardia e fa’venire i Mezzuomini”.

Uscirono dalla fresca penombra dell’anticamera nel sole brillante di una mattina d’autunno. Eppure ad Aragorn parve che la città fosse ricoperta da un manto di neve. Drappi bianchi erano appesi a ogni finestra e balconata, ondeggiavano sui tetti dei palazzi, legati alle aste, e il bianco adornava gli abiti di ogni creatura che affollava le strade della silenziosa città in lutto. Fiori, bandiere, nastri e tessuti legati o intrecciati. Dalle finestre superiori della Cittadella sventolavano bianchi stendardi di seta, ammantando la pietra di bianco scintillante. La Guardia della Torre, rispendente nella livrea nera e argento, portava strisce bianche di traverso sul petto, che coprivano l’emblema dell’Albero e delle Stelle, in ricordo della leggendaria cavalcata del loro capitano fuori dai Cancelli. Persino l’Albero Bianco aveva deciso di onorare il figlio di Gondor. Sebbene il tempo della fioritura fosse ormai passato, durante la notte un grande bocciolo si era aperto, mostrando su un ramo basso, proprio a portata di mano, il suo dono profumato.

Aragorn entrò nel Cortile, e sotto gli occhi di tutti si avvicinò all’Albero. Dietro di lui, quattro uomini della Guardia portavano la lettiga, fermandosi al limite dello spazio verde. Ai lati della portantina stavano due piccole figure, che avrebbero potuto essere scambiate per bambini tra gli alti Uomini del Sud, se la loro fama non li avesse preceduti e il loro portamento non li annunciasse come Principi della loro razza. Merry e Pipino avevano raggiunto la città appena una settimana prima, inattesi, in tempo per dire addio al loro amico prima che scivolasse oltre la portata delle loro voci. Merry aveva vegliato con Aragorn durante gli ultimi giorni della malattia di Boromir e aveva posato un bacio di addio sulla sua fronte quando era morto. Ora gli hobbit stavano accanto a lui insieme ad Aragorn, all'ombra dell'Albero in fiore.

Inchinandosi davanti all’Albero in segno di rispetto, Aragorn ne spiccò il fiore. Voltandosi verso il punto dove giaceva l’amico, si portò il fiore alle labbra e vi depose un bacio, mormorando alcune parole in elfico, poi lo posò delicatamente sul petto di Boromir, sopra il simbolo ricamato del Corno di Gondor. Accanto a lui, Merry singhiozzò senza vergogna, e quel suono fu alle orecchie di Aragorn più straziante e bello di tutti i discorsi dei saggi. Posò una mano sulla testa di Merry, come aveva visto fare a Boromir così tante volte, e si rivolse alla folla silente.

"Sono prostrato dal dolore, e non ho animo per i discorsi". La sua voce, sebbene bassa e resa ruvida dal pianto, risuonava chiara nel Cortile e sembrava quasi echeggiare nelle strade sottostanti. “Questo dovrebbe essere il momento per solenni parole, ma non so che cosa dire. La mia perdita non posso esprimerla. La vostra perdita, che affligge tutta Gondor e tutta la razza degli Uomini, la conoscete bene quanto me. Boromir è morto”.

Aragorn dovette fermarsi per riguadagnare la voce che gli si spegneva in gola. Poi proseguì. “La linea dei Sovrintendenti è giunta al termine. La Casa dei Sovrintendenti a Rath Dínen è in rovina, e mai più sarà ricostruita. E Boromir, figlio di Denethor, ultimo Sovrintendente di Gondor, riposerà per sempre a fianco di Elessar nella Casa dei Re."

Un leggero mormorio di sorpresa attraversò la folla, e Aragorn sollevò una mano per zittirlo. I suoi occhi percorsero i visi che lo circondavano, vedendo il loro dolore misto a curiosità, soffermandosi sui volti che conosceva, che amava, che commiserava. Ma più a lungo di tutti, gli occhi del Re si soffermarono su una piccola figura quieta un po’in disparte, vestita interamente di nero, poco distante da Faramir ed Éowyn, che stava con lo sguardo abbassato, attorniata dai suoi tre figli. I suoi abiti erano sobri e non portava ornamenti, salvo una gemma bianca al collo. Un fazzoletto copriva la sua testa abbassata, nascondendo gran parte del suo viso. Aragorn conosceva molto bene quel viso, e per un attimo fu grato che lei non incrociasse il suo sguardo. Non avrebbe sopportato di vedere il dolore nei suoi occhi, mentre il suo era ancora così vivo e terribile.

Il suo sguardo si spostò da Gil al giovane in piedi al suo fianco, e il suo cuore si strinse per il dolore e il rimpianto. Così somigliante al padre nel viso e nel portamento, così simile a lui nel carattere, che spesso, quando lo guardava, ad Aragorn sembrava di vedere la giovinezza di Boromir replicarsi davanti ai suoi occhi. Un giovane guerriero appena entrato nella virilità, con la luce della speranza e del valore che ardeva nei suoi occhi, splendente come il sole che scintillava sull’Anduin. Caladmir. Gioiello di luce. Il gioiello di Boromir, il dono che egli lasciava a Gondor e al suo Re in quest’ora oscura.

Fu a Caladmir, alle sue sorelle e alla madre che soffriva in silenzio, che Aragorn parlò, ma le sue parole commossero ogni creatura che le udì.

"Un Re deve portare molti fardelli. Alcuni sono facili da sopportare, altri spezzerebbero la volontà di un uomo non sostenuto dall’onore e dal senso del dovere. Boromir questo lo sapeva bene, perché per amore del suo Re, ha sofferto per le mie scelte come nessun altro. Ma lo ha fatto volontariamente, perché mi amava. E io amavo lui, lo amerò sempre, anche se dovesse giacere cent’anni nella morte senza di me. Spesso sono stato costretto a scegliere tra il bene di Gondor e il suo, e ogni volta, egli ha accettato che i doveri di un re vengono prima di tutto. Che Gondor viene prima di tutto. Perché anch’egli considerava Gondor più preziosa di ogni legame di sangue o di amicizia.

"E per questo, poiché egli ha condiviso i miei dolori e sofferto per me, è mio dovere continuare dove Boromir ha iniziato, per Gondor. Udite ora i giuramenti del vostro Re, pronunciati in onore di Boromir.

"La sua famiglia avrà sempre posto nel mio cuore, e sarà sotto la mia protezione finché vivrò, onorata per i propri meriti e per quelli di Boromir. Faranno delle loro vite ciò che più piacerà loro, e, sebbene come Re non possa dar loro benefici ereditari, come amico farò per loro tutto ciò che è in mio potere.

"Il suo titolo di principe ritornerà alla Corona di Gondor, fino al momento in cui troverò un altro degno di portarlo. Faramir rimarrà principe di Ithilien e Capitano-Generale del nostro esercito. I Figli di Faramir e i figli dei suoi figli reggeranno l’Ithilien in nome del Re, come nostri amati e stimati consiglieri, fino a che durerà la loro stirpe.

"Per quanto riguarda la Sovrintendenza..." Di nuovo un mormorio percorse il Cortile, ma stavolta si spense spontaneamente. Aragorn si mosse dalla sua posizione dietro il feretro e tese la mano verso Faramir, che stava in piedi, con Éowyn e Elboron al suo fianco. Faramir si avvicinò, portando lo scettro bianco del Sovrintendente nelle sue mani. Si inchinò rapidamente a Aragorn, porgendogli lo scettro sui palmi aperti. Aragorn lo prese, sollevandolo sulla testa, così che tutti coloro che erano radunati nel Cortile e sulle mura potessero vederlo, bianco e scintillante nella luce del sole.

Poi gridò, con voce forte e ruvida per le lacrime, “Una volta, in un’ora oscura e disperata, mentre giacevo sui campi di Rohan aspettando la morte, feci un voto. Giurai che Boromir sarebbe stato il mio Sovrintendente, o nessun altro. Giurai che ci sarebbe stato un solo Sovrintendente a Gondor, fino a che io sarei stato Re. Ascoltate le mie parole, popolo di Minas Tirith, e siate testimoni del mio giuramento! Boromir, figlio di Denethor, il migliore degli amici e il più coraggioso dei guerrieri, fratello nel mio cuore anche se non nel sangue, è il mio Sovrintendente oggi e per tutti i giorni del mio regno!”

A queste parole, un chiaro squillo di tromba echeggiò sulle mura. Lo stendardo bianco che ondeggiava sulla Torre di Echtelion volò a terra, il nastro reciso da un coltello. Poi caddero tutte le grandi bandiere di seta appese alle finestre della torre. E da ogni mano, da ogni casa e da ogni muro, le persone lasciarono cadere i pegni che portavano, in una dolce tempesta bianca. La neve che aveva ammantato le mura di Minas Tirith ora giaceva ai suoi piedi, e ogni voce nella città si innalzò nell’antico canto di lutto per l'ultimo Sovrintendente di Gondor.

Durante il canto funebre, Aragorn abbassò lo scettro, posandolo delicatamente sul corpo di Boromir, come la spada di un eroe. Merry lo aiutò a chiudere le mani di Boromir su di esso, anche se poteva a stento vedere per le lacrime. Poi Aragorn si chinò, posando un bacio sulla fronte fredda.

“Addio, fratello”, mormorò. “Possa il dono di Ilúvatar portarti finalmente la luce”.

Fine.

*** *** ***

Qualche nota dell’autrice sull’Epilogo...

L’anno 30 della Quarta era cade 32 anni dopo la distruzione dell'Anello. Boromir ha 73 anni, Aragorn 120, Faramir 68. Aragorn vivrà ancora 90 anni, e Faramir 52. Imrahil, che ha 95 anni, morirà circa tre o quattro anni dopo (la data esatta non si conosce).

Elboron è il nome dato da Tolkien al figlio di Faramir.

I nomi dei figli di Boromir sono naturalmente inventati. Il maschio si chiama Caladmir, che significa “gioiello di luce". Le femmine si chiamano Estellas e Merilin. Estellas, la maggiore, è stata chiamata così in onore di Aragorn/Estel. Merilin è la parola Sindarin che significa usignolo.

So che molti di voi mi staranno gridando (metaforicamente parlando) che vogliono sapere come è accaduto che Boromir ha avuto tre figli, come è morto, che cosa è accaduto negli anni tra la partenza di Merry e la sua morte… Beh, ve lo dirò... col tempo, come al solito!

(Nota di Bea: il seguito a “Il Capitano e il Re” è in lavorazione, vi tradurrò anche quello, tranquilli!)

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