La dama della nebbia

di Matt1103
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


CAPITOLO 1
 
 
Avete mai avuto un sogno? No, non uno di quei sogni irrealizzabili, ma uno di quelli concreti che scalpita pur di uscire dal cassetto in cui è represso. Sogni semplici, come formare una famiglia o più ambiziosi come vivere dei propri racconti, diventare uno scrittore. Proprio di uno scrittore parla la mia storia, o meglio, di un giornalista che lo vorrebbe diventare.


Il soffitto è un grande amico quando cerchi di riordinare i pensieri. È taciturno, ma riesce a consigliarti anche standosene in silenzio. Come si sa, però i momenti di serenità durano ben poco, infatti, quegli istanti di quiete furono interrotti dal suono metallico della sveglia. Quel giorno, tuttavia, la sveglia si rivelò inutile, visto che Frederick era sveglio già da un’ora; riuscì solo a fargli perdere il filo del discorso che ripeteva a mente ormai da mezz’ora. Non sapeva se alzarsi o rimanere a fissare il soffitto, ma alla fine decise che il momento era arrivato. Si eresse in piedi e in pochi minuti riuscì a vestirsi, cosa che gli riusciva facile grazie all’allenamento che faceva ogni giorno. Decise di non fare colazione e uscì di casa lentamente, quasi a sperare che la casa da un momento all’altro prendesse vita e riuscisse a tenerlo prigioniero. Camminare è un ottimo rimedio per pensare, ma è difficile camminare e essere concentrato su un’altra cosa contemporaneamente, infatti rischiò più di una volta di scontrarsi con un lampione. Quando finalmente arrivò, pregò mentalmente affinché tutto andasse per il meglio. Raggiunse il suo ufficio e si mise a sedere alla scrivania. L’aria tetra che si respirava in quel luogo non rispecchiava lo stato d’animo di Frederick. Per troppe volte aveva desiderato che quel giorno arrivasse e ora che era giunto gli sembrò troppo presto. Si alzò e tirò un pezzo di carta accartocciata nel cestino lontano qualche metro da lui. Con quel gesto non aveva gettato solo il lavoro di un giorno, ma anche la sua vecchia vita per ricominciare da capo. Percorse il lungo corridoio che portava all’ufficio del direttore. I muri sembravano guardarlo, erano ricoperti di fotografie che ritraevano l’ “Impiegato del mese”, riconoscimento che per quanto ci provasse Frederick non era mai arrivato ad ottenere. E alla fine arrivò alla porta. Restò fermo per qualche secondo a osservare la targhetta sull’ingresso, in cui era inciso il nome “M. Davidson”. Prese un profondo respiro e alla fine trovò il coraggio di bussare.  –Avanti!- tuonò una voce dall’altro lato della soglia. La luce all’interno della stanza lo abbagliò per un istante. Quell’ufficio luminoso e ben curato non aveva nulla a che vedere con il buco in cui era costretto a lavorare Frederick, l’unica nota fuori posto in quella stanza era data da un omino tozzo e occhialuto che sedeva alla scrivania. –Che c’è Faraday, dovresti essere nel tuo ufficio a lavorare all’articolo sulla sparatoria di ieri. - disse il direttore.  –Do le dimissioni. - rispose Frederick con un pizzico di orgoglio misto a impertinenza che meravigliò anche se stesso. –Cosa significa che dai le dimissioni? Non mi puoi piantare in asso in questo modo!-
-Senta, io non voglio fare questo nella vita. Voglio scrivere libri, non dieci righe che verranno messe in un angolino del giornale. Voglio alzarmi la mattina e pensare che potrò scrivere quello che voglio. -Detto questo Frederick si voltò e uscì dalla stanza, incalzato dalle urla del signor Davidson. Era arrabbiato, ma non sapeva nemmeno lui perché lo fosse, forse era arrabbiato con il direttore perché non l’aveva mai nominato impiegato del mese o forse, più semplicemente, era arrabbiato con se stesso perché aveva rinunciato al suo sogno per troppo tempo. Raggiunse il suo ufficio consapevole che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe messo piede in quell’antro e raccolse le sue cose, soddisfatto e pensieroso. Uscito dall’edificio, si voltò a guardare quello stabile, gli sembrò imponente come non mai e pensò che forse avesse sbagliato a lasciare il lavoro.

La via che prendeva sempre per tornare a casa quel giorno non gli sembrò la stessa, era cosparsa di dettagli che lui non aveva mai notato: la ragazza che arrancava per stare al passo del suo cane, gli sguardi tra gli innamorati seduti sulle panchine, le monetine che scintillavano nella fontana. Anche quando arrivò sul portone del suo monolocale, pensò che ci fosse qualcosa di diverso, non aveva mai notato che la pianta all’ingresso era appassita e se ne restava lì, senza dare fastidio a nessuno, anche lui sarebbe diventato così se non avesse abbandonato il lavoro. Si mise a sedere nel divano a fissare il vuoto per qualche minuto. Poi decise che se voleva diventare uno scrittore non doveva perdere neanche un secondo e pensò all’argomento che poteva trattare il suo libro. Se c’era una cosa che aveva imparato dall’esperienza appena fatta era che doveva fare quello che più gli piaceva, quindi anche l’argomento del suo libro lo doveva rispecchiare. Non c’era risposta più semplice a questa domanda. Gli bastò guardare la sua libreria per capire che quello che più lo incuriosiva erano le leggende, famose o meno, ogni scaffale ne era pieno. Compiaciuto per aver trovato la sua strada si addormentò, cullato dai pensieri di diventare un giorno un grande scrittore.


 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2
 
 
Il giorno successivo Frederick si alzò svegliato dal suono del campanello. Prese in fretta e furia alcuni vestiti e li indossò come meglio poteva, il risultato finale non era dei migliori, ma quantomeno presentabile. Fu costretto ad accelerare il passo verso la porta da un altro rintocco del campanello. Sull’uscio si presentò una ragazza sulla trentina. I suoi occhi azzurri e i capelli castani assomigliavano molto a quelli del ragazzo. Accanto a lei un bambino di cinque anni giocava con il suo videogioco.
–Jeanette? Perché sei qui?- sbottò Frederick. –Oh, bell’accoglienza che riservi a tua sorella! Comunque oggi devi tenere Peter, non mi dire che te ne sei dimenticato!- rispose infastidita.
-Ma oggi non posso! Devo fare delle ricerche per scrivere un libro. -
-Da quando sei uno scrittore?-
-Da quando mi sono licenziato.-
-Interessante, comunque fai pure le tue ricerche, ma stando attento che Peter sia accanto a te- Jeanette spinse in avanti il bambino, rivolse un sorriso a Frederick e ritornò alla macchina, senza lasciare al fratello il tempo di ribattere.
-Fantastico!- disse Frederick tra sé e sé. –Zio?- chiese timidamente Peter. –Si?-
-Mi annoio. Che cosa facciamo?-
-Beh, io devo condurre delle ricerche, mi vuoi aiutare?- rispose Frederick incerto.
-Certo.- disse entusiasta il bambino.
I minuti successivi furono confusi per Frederick, non era il tipo da bambini, e il suo nipote non era certo un angioletto, in trenta minuti ottenne una casa sottosopra (più di quanto non lo fosse già) e zero idee per il libro. Il caos finì solo quando Peter ormai stremato per le sue imprese eroiche non cadde sfinito sul letto dello zio. Finalmente per Frederick era arrivato il momento di intraprendere la sua carriera di scrittore. Passò le successive tre ore a cercare tra i suoi infiniti volumi una leggenda valida per il suo libro, ma tutte erano già state trattate approfonditamente. Si sentì un rumore provenire della stanza da letto, era il segno che le ricerche di Frederick erano già arrivate al termine. Peter arrivò dal corridoio ancora assonato. –Zio, possiamo andare dalla nonna?- chiese Peter, strofinandosi l’occhio.
-Perché vuoi andare dalla nonna?-
-Lì ci sono i miei giocattoli!-
-Oh…va bene.- sbuffò Frederick.


Il viaggio in macchina gli sembrò il più lungo della sua vita, quel bambino non era cattivo, solo tremendamente curioso, così chiedeva a Frederick ogni cosa gli passasse per la testa, dal “perché i gatti non vedono i colori?” al “perché non compri un pullman invece di un’auto?”. Le sofferenze di Frederick terminarono quando accostarono accanto ad una piccola casa di campagna. Era da molto tempo che non vedeva quella casa, gli sembrava più decadente del solito, ma i ricordi che emergevano sembravano ricostruirla pezzo per pezzo. Nella veranda un’anziana signora dai capelli ormai segnati dal tempo si era appisolata. -Nonna!- esclamò Peter. La vecchietta sobbalzò per lo spavento, ma assunse immediatamente un sorriso dolce che il figlio conosceva fin troppo bene. –Tesoro! Mi hai fatto prendere un colpo. - pronunciò con tono sereno. -Ciao mamma. - disse Frederick sorridendo.
–Oh, amore come stai?- chiese la gentile signora.
-Beh … non esattamente bene-
-Cosa c’è che non va?-
-Mi sono licenziato-
-In che senso?- domandò cercando di capire la situazione.
-Nel senso che ho dato le dimissioni. Non voglio più essere un giornalista, ma uno scrittore!- spiegò con determinazione. Peter guardava i due parlare cercando di afferrare il filo del discorso.
-Ho sempre saputo che avresti fatto lo scrittore, già da quando mi facevi leggere i racconti che scrivevi da bambino. - sostenne la signora con l’espressione di chi la sa lunga.
-Comunque non ho ancora idea di cosa scrivere, vorrei parlare di leggende nel mio libro, ma nessuna di quelle che ho letto mi affascina tanto da convincermi a puntare su di esse. - ammise Frederick.
-Se è una leggenda che cerchi ti posso aiutare io.-
-In che modo?-
-Ti racconto una cosa che mi è successa da piccola. -
-Si nonna, racconta!- disse elettrizzato Peter mentre Frederick fissava la madre con sguardo interrogativo.
-è una cosa che mi è successa a dieci anni, quando vivevo ancora a Clasten . La città era circondata boschi e, anche se pericoloso, era lì che amavamo giocare noi bambine. Era un ambiente affascinante, da favola, soprattutto quando ci si addentrava, perché nel cuore del bosco si trovava una piccola radura con un laghetto. L’unico difetto di quel posto era la nebbia. Un giorno io e le mie compagne andammo al laghetto, era una giornata particolarmente brumosa. Quando venne l’ora di tornare a casa mi accorsi di aver dimenticato la mia bambola di pezza, così mi allontanai dalle altre, quando a fatica raggiunsi il bacino a causa della nebbia, intravidi nell’altra riva una ragazza, riuscii a vederla perché i suoi capelli erano talmente rossi che era impossibile non notarla. Conquistata da quella ragazza decisi di avvicinarmi, così riuscii a osservare che il suo corpo era coperto solo da un leggero velo che le cingeva il petto e arrivava, svolazzante, fino alle ginocchia. Sfortunatamente a causa della nebbia la persi di vista. A quel punto in lontananza sentì le voci delle mie amiche chiamare il mio nome. Le raggiusi. Tornate in città andai da mio nonno per raccontargli tutto, lo trovai a giocare a carte. Quando finì di esporre tutto per filo e per segno, mi dissero “Hai incontrato la dama della nebbia.”. Mi spiegarono che quella ragazza si faceva vedere solo durante le giornate di nebbia e non era facile incontrarla, infatti parlarle era pressoché impossibile. Rimasi ammaliata, così andai spesso nel bosco a cercare di trovarla, ma non la vidi mai più. - quando finì di raccontare era ormai senza fiato.
-Wow!- esclamò Peter. Nel volto di Frederick era apparso uno strano sorrisetto, era segno che aveva trovato la storia che cercava.
-Perché non me ne hai mai parlato?- chiese il ragazzo.
-Oh, non ce n’è mai stata l’occasione .-
A questo punto sapeva dove andare e chi cercare. Finalmente qualcosa andava per il verso giusto e nulla avrebbe potuto fermarlo.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO 3
 
 
Nebbia. Ovunque guardasse il bianco aveva la meglio sugli altri colori. Non riusciva a vedere nemmeno il suo corpo. No, non aveva un corpo. Non era circondato dalla nebbia, lui era la nebbia. Come tale riuscì a volteggiare nell’aria, ma non era lui a decidere come spostarsi, ogni movimento era dettato dal vento. Era trasportato attraverso il bosco e riusciva a dividere le proprie molecole per evitare gli alberi che infestavano quel luogo. Un debole bagliore che s’intravedeva attraverso la foschia attirò la sua attenzione e a quanto pare anche quella del vento, perché era proprio quella la direzione che decise di imboccare. Man mano che si avvicinava il bagliore diveniva sempre più intenso, finché non lasciò spazio a un’esigua radura, colmata in parte da un laghetto. In lontananza dei capelli rossi catturarono il suo interesse. Venivano trasportati dal vento e come tentacoli rossi svolazzavano nell’aria. Si avvicinò, ma ben presto la perse di vista, comunque non era questo che lo preoccupava, quanto una strana sensazione che lo attraversava. La nebbia perse il suo colore naturale per tingersi di rosso. La vista si offuscò.
 
Quando si svegliò Frederick era ricoperto di sudore. Era ancora turbato dal sogno che aveva fatto, ma si riprese in fretta. Decise che il primo passo da compiere fosse quello di approfondire la storia della madre, così decise di andare a trovarla.
-Come mai sei venuto a trovarmi per due giorni consecutivi?- chiese la madre meravigliata.
-Perché volevo vedere come stai.- inventò Frederick cercando di non dare a vedere l’evidente bugia.
-Sei venuto qua per la storia di ieri, vero?- indovinò lei. Non si può ingannare una madre neanche volendolo.
-Anche. - ammise il ragazzo. –Ti volevo fare alcune domande su quella ragazza. -
-Sarò contenta di aiutarti, ma prima vado a fare del thè, ne vuoi?-
-Sì- rispose Frederick. La madre andò in cucina mentre lui restò ad aspettarla nella veranda. I suoi occhi furono catturati da una scena che si consumava in un albero poco lontano da lui. Una mamma uccello dava da mangiare ai suoi piccoli, li aiutava e proprio così stava facendo anche la madre di Frederick, lo aiutava ogni qualvolta ne aveva bisogno e forse lui non faceva abbastanza per lei.
Le sue riflessioni furono interrotte da una mano che gli porse una tazza di thè. La madre si mise a sedere accanto a lui, bevve un sorso e poi interruppe quel silenzio – Che cosa vuoi sapere?-
-Ci sono tante cose che vorrei chiederti. Per prima cosa, perché la chiamavano “Dama”?-
-Beh, non me lo sono mai chiesto a dir la verità, ma credo che sia per il fatto che fosse...irraggiungibile. - la risposta non convinceva Frederick.
-Cosa intendi per  “irraggiungibile”?-
-Una dama raramente parla con le persone comuni, così anche lei non parlava con gli uomini che la cercavano.- spiegò la madre. Frederick decise di passare ad un’altra domanda.
-Come faceva tuo nonno a conoscerla?- chiese il ragazzo.
-Lui l’aveva vista, cercò di inseguirla e un giorno riuscì a raggiungerla- rispose.
-E poi?- domandò Frederick incuriosito.
-Poi le parlò-
-Le parlò?- chiese con stupore, come se avesse ascoltato il quarto segreto di Fatima.
-In realtà lo rivelò solo a me, ma sì, le parlo- rispose la madre.
-E cosa le disse?- la incalzò il figlio.
-Gli disse solo una frase “Non sei lui, ma manca poco”- pronunciò cercando di ricordarsi le esatte parole.
-Cosa significa?- Frederick era confuso, ma quelle parole avevano un fascino che conferivano a quella leggenda una nota di mistero.
-Non lo so e prima che tu me lo chieda, non lo sapeva nemmeno mio nonno. - lo anticipò la madre.
-Ok, credo che per oggi sia abbastanza, grazie- rivolse un sorriso alla madre.
-Se vuoi chiedermi qualcos’altro ritorna pure- Frederick si alzò e tornò a casa.

Passo l’intero pomeriggio a rimuginare su quella frase “Non sei lui, ma manca poco”, cosa poteva significare? Quella ragazza cercava qualcuno? Troppe domande affollavano la sua testa e scontrandosi tra loro causavano disordine.
Ritornò a fissare il soffitto, forse era lui il suo migliore amico, anche perché di amici non ne aveva molti, ma lui era sempre lì, oh, non aveva la minima intenzione di muoversi.

Frederick in quei lunghi pomeriggi s’isolava dal mondo e il non avere amici non era dato dal fatto che non fosse abbastanza socievole, ma era una sua scelta. Non aveva tempo per loro, lui doveva pensare, era la cosa che gli riusciva meglio.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


CAPITOLO 4
 
 
Frederick se ne stava affacciato dal terrazzo, a guardare giù. Era uno dei suoi passatempi preferiti. Diceva gli permettesse di guardare il mondo da una prospettiva diversa, non sua né di nessun altro. Da lassù riusciva a intuire i pensieri delle persone, si credeva un Dio. Poi guardando verso l’orizzonte, ritornava a sentirsi piccolo, il mondo era troppo grande per lui. Ogni uomo che passava sotto l’occhio attento di Frederick sembrava avere uno scopo nella vita, qualcosa da portare avanti e gli scappò un sorriso perché finalmente qualcosa accomunava lui con qualunque altra persona, finalmente anche lui aveva un obiettivo da raggiungere.
 
Il bussare di qualcuno alla porta interruppe i suoi pensieri, odiava quando questo succedeva. Se gli avessero proposto di vivere nel deserto per evitare le seccature, ci sarebbe andato, consapevole che qualcosa lo avrebbe infastidito comunque. Stavolta, però, lui stesso aveva dato fonte ai suoi problemi.
-Cugino!- esclamò Jeremiah, abbracciando Frederick in una morsa ferrea, che dall’espressione del suo volto s’intuiva chiaramente non gradisse.
-Benvenuto. - mentì, mentre il cugino era intento a fotografare ogni anfratto della casa.
-Vedo, che non hai perso le tue abitudini. - disse Frederick.
-Ovvio che no! Non si può abbandonare una passione. - pronunciò Jeremiah con tono solenne.
-Quindi sei diventato un fotografo?-
-Ovvio che no!- ripeté. -Non vendo la mia arte. È un piacere che solo io posso assaporare. - disse estremamente convinto delle sue parole. Difficile chiamare artista, una persona che fotografa ogni cosa che si muove e non.
-Ma potresti fare un po’ di soldi con quello che ti piace fare. -
-No. Un fotografo per fare soldi non ritrae ciò che piace a lui. - la sua espressione era stranamente seria, ma finalmente il desiderio di non fare parte degli schemi li avvicinava.
-Accomodati. - chiese Frederick, per cercare di fermare il suo impeto da fotografo.
Il cugino si mise a sedere, ma continuò a fotografare anche da lì.
-Allora, come mai mi hai fatto venire qua?- domandò, riprendendo la sua aria seriosa.
-Ho bisogno del tuo aiuto. - disse guardandolo fisso negli occhi, quasi cercando di ipnotizzarlo per ottenere ciò che voleva.
-Beh, spiega. -
-Devo scrivere un libro, parla della “Dama della nebbia"- Frederick raccontò la storia a Jeremiah, senza tralasciare nemmeno un dettaglio.
-Capisco, ma io cosa dovrei fare?- chiese il cugino, ancora -Per scrivere questo libro non mi basta sapere la storia, la devo verificare di persona e ovviamente avrò bisogno di foto e filmati, anche per intervistare gli abitanti del posto. - disse con fermezza Frederick. –Per questo ho bisogno di te- aggiunse.
-Mh…non vedo perché no, potrei scattare delle foto meravigliose- rispose entusiasta Jeremiah. Frederick tirò un sospiro di sollievo e per quanto non considerasse il cugino un’artista, scattando ogni momento della sua vita, aveva affinato la sua tecnica e si, era proprio bravo.
Jeremiah mise un braccio sulle spalle di Frederick e fece una fotografia.
-Che fai?- chiese a disagio.
-Una foto per commemorare il fatto che siamo diventati soci-
-La stai facendo diventare più grande di quanto non è-
Jeremiah si alzò e andò ad affacciarsi sul terrazzo, proprio come prima stava facendo il cugino. Stranamente aveva lasciato la sua Nikon sul tavolo. Frederick la prese e andò a guardare le foto mentre si avvicinava a lui. Si aspettava che il cugino gliela strappasse dalle mani, invece non fu così, rimase lì a guardare le foto attraverso il riflesso dei suoi occhi.
-Frederick…ti volevo dire grazie. - disse con voce malinconica.
-Grazie? Se è per il libro, dovrei dirtelo io grazie-
-Non parlo del libro. - Frederick cominciava a intuire di cosa stesse parlando.
-Grazie perché da piccolo mi sei stato sempre vicino…- Una lacrima gli rigava il viso, ma il cugino essendo dal lato opposto non si accorse di nulla.
-Soprattutto quando è morta… -
-Non ti preoccupare, so quanto è stato difficile per te- disse Frederick guardando il vuoto, per non osservare la tristezza negli occhi di Jeremiah.
-È da allora che ho cominciato a scattare foto, volevo immortalare ogni istante per paura che mi potesse sfuggire dalle mani. Facendo così posso congelare ogni attimo e sono sicuro che potrò rivederlo per una seconda volta. - confessò.
-Non pensavo fosse per questo…- ammise Frederick.
-Già…patetico.- sorrise con freddezza.
-Non è patetico... – Jeremiah lo interruppe con un gesto, voleva la fotocamera, che ebbe senza alcuna resistenza.
-Vieni- disse a Frederick, che adesso poteva osservare la lacrima che scendeva solitaria. I due si misero a tavola. Jeremiah sembrava cercare una foto in particolare, tra la miriade che aveva scattato.
-Ecco- disse porgendo la macchina digitale a Frederick.
La foto che cercava con insistenza raffigurava loro due da piccoli mentre giocavano a pallone.
-Hai ancora questa foto?- disse sorridendo il cugino.
-L’ho messa nella mia Nikon per portarla sempre con me.- spiegò Jeremiah.
Quella era una foto particolare, perché non raffigurava solo un momento di gioia, infatti, lo stesso giorno a distanza di qualche ora la madre di Jeremiah morì. Forse lui non voleva ricordare solo quegli istanti di allegria, ma anche quelli di tristezza, quasi non volesse separarsene.
Frederick si alzò e si avvicinò a un cassetto della cucina. Prese una foto e la porse al cugino. Era la stessa foto.
-Non me lo sarei mai aspettato da te- confessò.
-Beh, nemmeno io…- ammise Frederick.
-Sono felice di poterti aiutare a inseguire il tuo sogno. - disse Jeremiah andando verso la porta. Poi si voltò e andò ad abbracciare il cugino. Quell’incontro era finito così com’era cominciato.

Frederick si trovò in quella stanza di nuovo da solo, gli doleva ammetterlo, ma anche lui aveva un lato tenero, neanche tanto nascosto.

Qualcuno bussò di nuovo alla porta.
-Ancora qui?- disse Frederick a Jeremiah.
-Mi sono ricordato una cosa. Sali in macchina. - rispose entusiasta il cugino.



Frederick non sapeva dove stessero andando, ma non aveva voglia di chiederlo.
Capì solo quando imboccarono un piccolo sentiero, quella strada portava al fiume.
Scendendo dall’automobile Jeremiah stava quasi per inciampare.
-Bene!- esclamò, poi ispezionò il terreno lì tutto intorno. Si fermò accanto ad un albero, assunse una posa da soldato e contò ad alta voce i passi che faceva, svoltando a destra e a sinistra quando lo riteneva opportuno.
-Eccoci- Jeremiah cominciò a scavare con le mani, Frederick in un primo momento non capì, ma poi si unì al cugino.
-Sei sicuro che sia qui sotto?- domandò dubbioso.
-Certo che si! Ricordo la mappa a memoria. - Continuarono a scavare per una trentina di secondi, finché le loro dita non incontrarono qualcosa di duro.
Jeremiah rinvenne una scatoletta di pelle, ormai logora.
La aprirono. Dentro vi trovarono un pallone sgonfio, lo stesso con cui giocavano nella fotografia. Quella scatola era la tomba del loro fedele compagno di giochi.
-Wow, c’è ancora!- esclamò Jeremiah
-Perché avevi paura che qualcuno potesse rubare un pallone rotto?- ironizzò Frederick. Il cugino prese la Nikon puntualmente ancorata al collo e scattò una foto al pallone che poi rimise nella scatola.
-Mi prometti una cosa?- chiese Jeremiah.
-Cosa?-
-Mi devi promettere che quando saremo ormai vecchi ritorneremo qui, a fare visita al nostro amico. -
-Te lo prometto, ma te ne dovrai ricordare tu, perché non credo che avrò una buona memoria a quell’età. - Scoppiarono a ridere, ma non allegramente. Le loro erano risate malinconiche.

Si sedettero in riva al fiume a osservare lo scorrere dell’acqua. Frederick lo paragonava allo scorrere del tempo, tempo che un giorno li avrebbe portati a ritornare in quel luogo, per osservare i cambiamenti apportati all’ambiente e a loro stessi.

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


CAPITOLO 5
 
 
Frederick aspettava seduto, fissando la porta. Era ansioso perché era arrivata l’ora di fare una visita alla Dama della nebbia. Qualcuno bussò, ma stavolta non ne fu scontento, anzi, era stranamente felice, forse perché poteva aggiungere un tassello in più verso il raggiungimento del suo sogno o forse perché aveva solamente voglia di sfamare la sua curiosità verso quella ragazza tanto sfuggente quanto misteriosa.

-Buongiorno! Sei pronto per partire?- chiese Jeremiah entusiasta.
-Mentalmente o fisicamente?-
-Fisicamente, conoscendoti sono sicuro che tu non sia pronto sull’altro fronte, ma non voglio tornare a casa a disfare le valigie, quindi non te lo chiedo. - rispose il cugino.
-Sì, sono pronto!- disse deciso Frederick per convincere anche se stesso. -Hai fatto benzina?- aggiunse.
-Certo!- replicò l’altro, ma il cugino non si fidava molto.
-Qualcosa mi dice che resteremo a piedi- sussurrò.

I lunghi viaggi in macchina erano una cosa che Frederick odiava, perché non essendoci abituato la maggior parte delle volte finiva per avere la nausea. Tuttavia quel giorno il rumore della macchina riuscì a rilassarlo, non tanto perché emettesse un bel suono, bensì perché riusciva a placare ogni pensiero, negativo o positivo che fosse, sovrastandolo in intensità.

Dal finestrino il paesaggio offriva una vista incantevole, ogni albero, maestoso, si stagliava sull’orizzonte e l’alba ne delimitava le sagome nere, quasi non volendo svelare tutta la loro bellezza, ma tenendola per sé, incrementando l’attesa dello spettatore.
Eppure la cosa che più colpì Frederick furono le zolle di fieno che sostavano solitarie sui campi, si rispecchiava in loro. Erano grandi in confronto a un uomo ma minute se paragonate alla distesa. E anche lui come loro era grande, ma non in statura, psicologicamente, anche se non l’aveva ancora dimostrato agli altri.

-Tieni- Jeremiah diede la Nikon a Frederick.
-Cosa dovrei farci?- domandò.
-Quello che si fa con una macchina fotografica, io sto guidando e non posso fare due cose contemporaneamente. - ribatté Jeremiah. –Mi hai chiesto di aiutarti a creare un’immagine d’insieme del posto, beh, aiutami ad aiutarti. -
Frederick non oppose ulteriore resistenza.

Scattò le prime foto, ma si accorse che il riflesso causato dal finestrino le rovinava, così lo abbassò. Il vento, entrando, gli scompigliò i capelli, ma lui continuò imperterrito a fotografare tutto, come aveva visto fare al cugino. Proprio quando Frederick ci stava prendendo gusto, l’auto accostò accanto a una stazione di servizio.
-Facciamo colazione. - disse Jeremiah.
Appena scesi dall’auto il profumo di caffè li assalì. Proveniva dal “Rescue Party”, un edificio che non si presentava molto bene, l’intonaco delle pareti stava cadendo a pezzi e i muri erano ricoperti da un orribile color salmone, ormai sbiadito. Entrando si accorsero che quel posto era tutt’altro che trascurato, c’erano molte persone e i tavoli erano quasi tutti occupati, così decisero di affrettarsi a prenderne uno.
Appena seduti, si presentò al loro tavolo una cameriera, che li aveva adocchiati da quando erano entrati e che come un avvoltoio si era tuffata su di loro.
Avete mai visto un topo con un becco e una divisa da lavoro? Ecco, questa è la perfetta combinazione per descrivere quella donna. Le orecchie a sventola facevano da contorno a un volto il cui elemento predominante era l’enorme naso. La divisa rendeva tutto più strambo e meno spaventoso (o almeno ci provava).
-Cosa volete ordinare?- chiese con lo sguardo inchiodato sul suo taccuino.
-Io prendo un cappuccino. - disse Jeremiah.
-Io un caffè e un cornetto- rispose incerto Frederick.
La cameriera si volatilizzò sotto i loro occhi e ricomparve subito dopo, con tutto quello che avevano ordinato.
Cominciarono a mangiare e Frederick rimase sorpreso quando capì che il sapore era persino meglio dell’odore. Nel frattempo Jeremiah controllava le foto che il cugino aveva fatto con la sua Nikon.
-Alcune foto sono davvero stupende. - si meravigliò.
-La fortuna del principiante.-
-Sì, lo credo anch’io.- ironizzò Jeremiah.
Finito di mangiare lasciarono i soldi sul tavolo e andarono via, probabilmente per paura di dover guardare quella cameriera per una seconda volta.

Frederick notò che il cielo era più buio di quando erano entrati. Le nuvole avevano coperto quasi completamente il sole e tutto faceva pensare a un imminente pioggia, che non tardò ad arrivare. L’acqua scandì ogni centimetro compiuto dalla macchina, con i suoi ticchettii ritmici contro il parabrezza  per il resto della giornata e a causa della foga con cui si schiantava al suolo riusciva a coprire anche il rumore dell’auto. La violenza sembrava aumentare quando Frederick e Jeremiah scesero dall’auto per andare a pranzare e a cenare. La pioggia frenava con il suo rumore ogni tentativo di dialogo e quando finalmente cessò subentrò un altro ostacolo.

-Non vedo niente- esclamò Jeremiah.
-Nebbia.- disse Frederick affascinato e impaurito contemporaneamente.
-Lo vedo anche io, cioè, non lo vedo, è questo il problema.-
-Stai attentò.- lo avvertì. –Guarda!- Frederick indicava un cartello che a stento si intravedeva tra tutto quel bianco. C’era scritto: Benvenuti a Cleston. Erano arrivati.
 

 

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