Winterville

di NickyH
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 0,01 s ***
Capitolo 2: *** 0,02 s ***
Capitolo 3: *** 0,03 s ***



Capitolo 1
*** 0,01 s ***


Ceraunofobia = paura di tuoni e fulmini; causa attacchi di panico, tachicardia e affanno. Può spingere le persone a cercare ripari in cui non è visibile il fenomeno atmosferico.


 

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Élodie Wymerick era una ragazza terribilmente affrettata. Dall’alto dei suoi quindici anni non trovava spazio per inutili perdite di tempo e ancor più effimeri svaghi popolari. Aveva il suo da fare, e nulla poteva infrangere la sua quotidiana tabella di marcia. Portava avanti la politica del “pochi ma buoni” e così ramificava amicizie serene, risultato assai positivo e fondamentale per la semplice complessità di una teenager. Al contrario delle sue coetanee, comunque, non pensava a cosa avrebbe fatto nella vita, e viveva giorno per giorno lasciando in un polveroso angolo i pensieri relativi all’età adulta.

Viveva in un paese imprecisato, sulle coste oceaniche di una nazione ancor meno significativa. Ciò che importa è che Élodie amava il mare. Un’ammirazione infantile che la faceva fermare ogni volta che, passeggiando nel tornare a casa da scuola, scorgeva un panorama interessante. Incantata guardava le onde colpire sotto i suoi piedi i pali del molo o le rocce che costeggiavano il lungomare. Ogni giorno, immancabilmente, iniziava una silenziosa e meditata conversazione di sguardi con l’oceano stesso.

«E “lui” come ti rispondeva?» le chiedevano in molti, con un antipatico velo d’ironia.

La vista era sì piacevole, ma amici e adulti non comprendevano a fondo il motivo di questa sua naturale e semplice passione che, con tutte le probabilità, non capiva nemmeno lei.

Era convinta che i bambini sentissero ciò che poi, crescendo, non si può più cogliere, allo stesso modo in cui gli adulti possono imparare nozioni ed azioni che non sono alla portata dei più piccoli.

«È uno scambio di abilità,» spiegava Élodie «muore la prima e ne nasce una nuova, finiamo d’essere ingenui e impariamo l’arte della società, ci prepariamo a dare il nostro al mondo affrontando quell’umanità, nell’infanzia, col suo genuino egoismo, era sempre rimasta alla finestra, come il paesaggio di una favola della buonanotte.»

Tuttavia c’è da fare una precisazione che la nostra protagonista non soleva dire, ben sapendo che il novanta per cento dei suoi ascoltatori non avrebbe nemmeno colto il senso della spiegazione appena citata: secondo lei, perdere quel linguaggio infantile non implicava anche dimenticare del tutto le immagini immagazzinate, ed è per questo che ritroviamo nel corso della nostra vita sensazioni misteriosamente istintive che ci caratterizzavano fin dalla nascita, anche se noi consciamente non riusciamo a stabilire un collegamento preciso o stabile.

Nulla di scientifico, solo un’interessante conclusione che Élodie aveva plasmato per spiegare il suo esagerato attaccamento all’oceano. Quando il sole risplendeva alto nei pomeriggi estivi e quando era nascosto da nubi frastagliate e minacciose lei era lì, con le braccia sulle ringhiere di metallo della via più esterna. Quando la neve aveva ghiacciato la spiaggia, quando la pioggia allagava il marciapiede e il vento alzava le gocce, osservava convinta. E riusciva a sognare anche quando la notte avvolgeva pacificamente la città, da sola, col rumore delle onde scroscianti a tenerla sveglia. Rimaneva ancor più affascinata nei momenti in cui larghi fulmini squarciavano il cielo sopra al mare, congiungendo le loro terminazioni col bordo dell’orizzonte. 

Ma lei non si accontentava di far la parte della spettatrice. Oh, no, per nulla. Ogni singolo giorno, utilizzando un apposito quadernetto, prendeva accuratamente nota di tutti i pensieri le riflessioni che l’oceano le ispirava, per poi ricopiare al computer i suoi appunti inserendoli in un diario segreto che battezzò “tidalnet”, giusto per avere un nome in codice. Amava immergersi mentalmente in quel mare di fantasia, e, mentre lo faceva, era solita piegare la testa verso sinistra, come se volesse ruotare di novanta gradi il panorama per vederlo in modi sempre diversi.

Potrete darle della ragazza sensibile, della sognatrice, la potrete definire come una persona al di fuori apatica ma più viva che mai all’interno. E avreste tutti ragione, anche se in modo sottile.

«Se avessi una forza più grande di essere intelligente e sensibile?» si chiedeva delle volte, spinta dai banali e monotematici complimenti che soleva ricevere.

Certamente non era una ragazza di facile analisi psicologica, né una che esternava facilmente i suoi pensieri più intimi. E siccome nessuno era a conoscenza delle parole contenute nel tidalnet, nessuno la conosceva veramente.

Viveva con la sua famiglia in una tranquilla località ai bordi del trafficato centro cittadino, in una piccola villetta. A scuola otteneva buoni risultati, e per questo riusciva a ritagliarsi spesso e volentieri un cospicuo spicchio di tempo libero, che puntualmente infarciva di attività da svolgere in rigoroso ordine. Suonava il violino a discreti livelli, e faceva parte della banda scolastica. La musica riempiva ancor di più le sue giornate e, secondo lei, “le colorava di affettuosi sollievi”. 

Nei rari momenti in cui non aveva nulla da fare andava entusiasta ad aiutare sua madre in semplici lavoretti, spesso in giardino, dov’era presente un orticello esiguo per dimensioni ma ricco per varietà e colori. Era talmente piccolo che sua madre, quando comprava un nuovo sacchetto di semi, ne avanzava sempre una manciata. Élodie, grande amante della natura, non li buttava mai via: così, dopo averli puliti, essiccati e purificati, li conservava in ermetici barattoli di latta, che custodiva in uno scaffale di camera sua come se facessero parte di una collezione. Non le dispiaceva passare il tempo con la sua famiglia, specialmente con suo fratello maggiore. Durante l’infanzia passarono insieme una moltitudine inquantificabile di momenti felici, e costruirono insieme un rapporto più che ottimo.

Il ricordo più piacevole che conservava riguardava una fresca serata di primavera. Era domenica, e andarono insieme alla fatidica cerimonia d’apertura di Pleasantown, un suggestivo parco a tema permanente costruito a fianco della spiaggia. Si divertirono come mai avevano fatto, provando quasi tutte le numerose nuove attrazioni: l’alta e sfavillante ruota panoramica divenne subito la preferita di Élodie.

«Ti prego, fammi fare un altro giro!»

«Lo sai che è tardi.»

«Ma quella ruota è così carina. Le luci sembrano stelle che ballano in cerchio.»

«E vorresti tornare a danzare con loro, a costo di essere sgridata dalla mamma? Alla fine si tratta di stare seduti immobili ad aspettare che il giro finisca.»

«Ma si vede l'oceano, da lassù!»

«Lo si vede bene anche da terra. E poi è notte! Cosa pensi di vedere?»

«L'oceano. Mentre dorme, però.»

«Immagino che non abbia speranze di convincerti, sorellina.»

Anche se non lo sbandierava affatto, nutriva un’enorme stima per suo fratello, e ogni volta che parlava con lui percepiva un'educata aurea di bontà che la faceva sentire più al sicuro.

«Vedo che hai capito.»

«Poi mi spiegherai cosa sei riuscita a vedere!»

«Un giorno, forse, lo saprai.»

Ma non glie lo disse mai. 

Non perché si vergognasse a raccontargli cosa fosse riuscita a scorgere in quel buio panorama, ma semplicemente perché non trovò più occasioni per farlo. Infatti, le cose andarono improvvisamente peggiorando una volta che il fratello compì diciassette anni. Cioè qualche giorno dopo dall'apertura di Pleasantown. Più o meno da quel momento sembrò comportarsi in modo sempre meno trasparente e iniziò ad allontanarsi affettivamente dalla famiglia. Nessuno ne parlava chiaramente in casa: o non si sapeva nulla, o si sapeva troppo. Una sfilata di domande eluse e teorie represse.

Giunti al momento della linea del tempo in cui è ambientata questa narrazione, gli allarmanti comportamenti del fratello divennero abitudine e ogni volta che tornava da scuola appariva stanco, nervoso e colmo di rabbia. Élodie iniziò a vederlo arrivare a casa sempre più affranto, finché, ad un certo punto, non lo vide più tornare.

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Capitolo 2
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0,02                                                                               _ giorno 1


 

Élodie Wymerick, il giorno dopo, si risvegliò con una criptica sensazione di surreale gelo. 

Una volta aperti gli occhi, tuttavia, il freddo non risultò così misterioso: immersa in almeno mezzo metro di neve, si trovava ai piedi di un ripido pendio ghiacciato. Non era nemmeno vestita in modo pesante, e tremava di freddo. Alzò la schiena dal bianco.

No, nessun sogno, tutta realtà.

Élodie, tra l’altro, non sembrò curarsi troppo dell’assurda situazione, come se fosse ancora stordita da una qualche caduta. Si fece coraggio, ma non trovò nemmeno la forza di reggersi in piedi. Notò che sotto la sua schiena c’era un antico libro verde, rilegato finemente con fili dorati. Non esitò a coglierlo e ad aprirlo, e constatò in qualche attimo che era pieno di pagine vuote. Non si chiese dove fosse, né cosa fosse quel libro. Quello che voleva sapere, invece, era chi fosse lei stessa. Ricordava facilmente il suo nome, ricordava la sua felpa rossa e i suoi stivaletti invernali, ricordava i suoi capelli chiari e gli occhi celesti, ma null’altro. Aveva la netta e fastidiosa sensazione di aver qualcosa d’importante sulla punta della lingua, ma, pur sforzandosi, non riusciva a mettere in moto la sua memoria più profonda. In quel momento, però, aveva un problema maggiore da risolvere: si trovava ancora seduta nel gelo più totale, senza forze e senza meta.

«Cugina, oltre i pini solo il bianco più totale.» disse qualcuno in lontananza, catturando naturalmente l’attenzione di Miss Wymerick.

«Damian, dobbiamo riuscirci. Con quella taglia potremo risolvere tutti i nostri problemi.» replicò una donna, ancor meno vicina della prima voce.

Élodie, sentendoli avvicinare, cominciò a preoccuparsi. Che stessero cercando proprio lei? Perché no.

«Tranquilla. Prendiamola con filosofia. Alla fine, che speranze abbiamo? Siamo solo sulle tracce della persona più ricercata della contea. Chiunque lo vuole ritrovare, vista la posta in gioco. E cosa ti fa pensare che sia proprio…» e intravide la ragazza seduta nella neve «Hey, Kristine, corri qui, subito!»

«L’hai trovato?!»

«No, no. Ma vieni lo stesso.»

Davanti ai chiari e innocenti occhi della sventurata Élodie apparvero le due figure di cui, fino a quel preciso momento, aveva udito soltanto le voci. Vide un uomo alto dai tipici e squadrati lineamenti nordici e una giovane donna bionda dagli occhi scuri che brandiva una falce. Non la visione più rassicurante del mondo, senza dubbio, ma i due non sembravano affatto malintenzionati. Entrambi erano vestiti con una larga giacca imbottita color verde oliva. Attorno al cappuccio, una soffice pelliccia. L’uomo aveva in spalle un più che sovraccarico zaino nero.

«Che ci fai qui, ragazza? Tutto bene?!» chiese quest’ultimo, notando i leggeri vestiti di Élodie e il forte tremolio delle sue gambe.

«Damian, che domande, è ovvio che non sta bene. Dalle una coperta, presto, ce l’hai nello zaino!»

L’uomo estrasse rapidamente una morbida coperta dal suo inventario e la porse delicatamente alla spaesata dispersa.

«Meglio?» domandò la donna, senza ricevere ancora risposta «Riesci a parlare, almeno? Come ti chiami, da dove vieni?»

Élodie tirò fuori le forze che aveva.

«Élodie… Wymerick. Io… non so… non ricordo null’altro.»

«Amnesia, cugino, amnesia! Portiamola da un medico prima che perda i sensi.»

Detto ciò, Damian prese in braccio la povera e infreddolita ragazza (che non mollò il suo libro vuoto) e corse indietro con la sua collega d’escursioni.

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Capitolo 3
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0,03                                                                               _ giorno 1

 

 

«Una classica ipotermia, signori Cailean. Pericolosa, anche letale, ma non in questo caso. La ragazza non è stata troppo a lungo al gelo, anzi, sembra che sia stata là fuori per meno tempo di quanto pensassi.»

«Si rimetterà, quindi.»  disse Damian, profondamente rincuorato.

«Questo è sicuro e ovvio. In ogni caso, la ragazza…»

«Prego, dottor Tess?»

«Dove avete detto di averla trovata?»

Kristine guardò il suo fidato cugino con un velo di dubbio.

«Nel bosco a ovest, quello delle galaverne.» rispose lui. «La cosa strana è che non c’erano impronte attorno a lei, né segni di caduta.»

Le ultime parole colpirono particolarmente il dottore.

«C’è qualcosa che dobbiamo sapere?» chiese Kristine, quasi spazientita.

«Il nome… come vi ha detto che si chiamava?»

«Le avevo fatto io una domanda. In ogni caso, sosteneva di chiamarsi Élodie Win… Wik-qualcosa.»

«Wymerick.» aggiunse Damian «Non ricordava nulla se non il suo nome. Aveva uno strano libro con sé. E soprattutto, non sembra essere una locale.»

«Credo che lo sia, invece. Più di quanto lo siamo noi tre.» annunciò il dottore, sistemandosi gli occhiali con fare serio.

«Ripeto: c’è qualcosa che noi non sappiamo? Lei conosce questa ragazza?»

«Forse, ma non vi posso spiegare ora. Penso, e allo stesso modo spero, che si tratti di un affare di delicata importanza, signori Cailean.»

I modesti Damian e Kristine Cailean non erano altro che giovani avventurieri capitati al momento giusto per essere al posto sbagliato. O almeno era quello che pensavano in quel momento. Spinti all’azione più da motivi di sussistenza che per vero lavoro, erano, a seconda delle circostanze, cacciatori, esploratori o mercenari. Uniti nella vita quotidiana fin dall’infanzia, avevano fatto del loro legame di sangue una profonda amicizia, e grazie alla loro determinazione nel lavorare in coppia e nell’abbassarsi a qualsiasi tipo di compito, riuscivano a far fronte ai grandi problemi di una vita umile.

«Veramente noi eravamo andati a cercare Matthew…» ammise Damian.

«Oh, come tutti, d’altronde.» replicò il dottor Tess «Ma, a questo punto, penso che dovremmo fare una visita al conte.»

I cugini Cailean capirono subito di esser piombati nel bel mezzo di qualcosa di importante. Se c’era da guadagnarci, perché non andare a fondo?

In quell’esatto istante, Élodie, ancora stesa di fronte ai tre, si riprese di colpo tossendo fortemente.

«Signorina Wymerick, cerchi di respirare! Come si sente?» domandò Tess con prontezza.

La voce della ragazza era fievole ma ben chiara.

«Fermati, non far… io… dove sono? Chi siete?» si chiedeva impaurita, alzandosi di scatto.

«Va tutto bene, signorina. Ha solo preso un po’ troppo freddo e l’abbiamo curata. È stata una fortuna che i qui presenti signori Cailean l’abbiano trovata!»

Élodie riprese lentamente coscienza.

«Ma che posto è questo?» domandò scrutando il pittoresco soffitto di legno scurissimo.

«Non ricorda? In tal caso, bentornata a Nifleimur, la città del ghiaccio infinito e della ventisettesima costante.» spiegò il dottore, ingarbugliando ancor di più le poche idee di Miss Wymerick.

«Io… non sono mai stata qui.» ribatté Élodie, piegando la testa in segno di dubbio «Né ricordo nulla di voi. Ma… “ghiaccio infinito”, ha detto?»

«Beh, certamente. L’intera contea di Nifleimur consiste in un’immensa landa ghiacciata di cui nessuno conosce i confini.»

«E perché la ragazza dovrebbe conoscerci?» chiese Damian «Perché non potrebbe essere finalmente un’oceàna?»

«Questo lo scoprirà quando saremo dal conte. Ora, signorina Wymerick, se non le dispiace dovremmo…»

«A me piace la neve.» annunciò di getto Élodie, non curandosi troppo del fatto di aver interrotto il dottore.

«Stai forse riprendendo la memoria?» le domandò Kristine.

«Non l’ho mai vista, ma non posso non volerla. La mia mente è vuota, ma ricordo tutto il calore che dà pensare di poter ghiacciare per sempre.»

Tess esitò qualche secondo.

«Quindi deve essere Lei, per forza.» esclamò quindi «Per farle riprendere la memoria, andremo dal conte di Nifleimur. Ci segue, signorina?»

Élodie sembrò accettare di buon grado la proposta del dottore. I Cailean, al contrario, non sembrarono fidarsi molto, probabilmente perché vedevano il conte come una figura misteriosa e per loro gerarchicamente lontana anni luce.

I tre adulti accompagnarono Miss Wymerick fino all’uscita del centro medico. Le regalarono una pesante giacca blu e bianca e un paio di stivali nuovissimi e resistenti. Ma ciò che più importò fu l’uscita alla luce. La scena che Élodie vide nell’uscire da quell’edificio fu la realizzazione di ciò che più aveva desiderato, pur senza volerlo o ricordarsene. Il bianco abbagliante della neve depositata sul suolo si mischiava a tratti col grigio della pavimentazione pietrosa della strada. Tutto attorno, lunghe serie di edifici dalla difficile collocazione storica: case di legno, palazzetti più moderni e ville antiche. Ciò che si presentava agli occhi dei visitatori (ammesso che esistessero) era una sorta di vasto borgo medievale contaminato da strutture ed elementi urbanistici assai più recenti e complessi. La cosa non toccò Élodie, dato che non rimembrava nemmeno le coordinate storiche della sua vita prima di Nifleimur. La neve, al contrario, la affascinava tremendamente. Non ne cadeva nemmeno un fiocco in quel momento, ma era sparsa ovunque, dai tetti alle panchine, dai lampioni agli stivali dei passanti. La strada era percorsa da maestose carrozze trainate da veloci cavalli, e il marciapiede era affiancato da negozi e bancarelle d’ogni genere. Una sottile nebbia poco fastidiosa ma efficacemente presente garantiva quel velo di chiaro ignoto che circondava l’ambiente rendendolo pressoché magico. 

«Però… gli orologi. Ce ne sono tanti, in cima ai palazzi.» notò Élodie «Perché mai segnano ore diverse?»

«Cosa intendi, cara?» replicò Kristine, che sembrò assai incuriosita dalla domanda.

«Tutti gli orologi. Sono impostati a caso!»

«“Orologi”?»

Élodie rimase evidentemente stupita dal fatto che i suoi accompagnatori non capissero una parola così semplice.

«Sì, ne avete a decine. Fin troppi. In cima ad ogni palazzo, quelli di muratura però.»

«Intendi forse i cianchi? Quegli aggeggi rotondi con delle barre lineari che partono dal centro?»

«Quelli, sì, quelli!»

«Oh, sono vecchi attrezzi dei nostri antenati. Nessuno li usa da secoli, presumo. E poi noi viviamo in periferia, ormai abbiamo anche dimenticato a cosa servissero.» spiegò Kristine, camminando verso la residenza del conte.

Élodie, in realtà, non ricordava nemmeno la vera funzione degli orologi. Eppure, paradossalmente, le parve strano vederli immobili o impostati in modo diverso l’uno dall’altro. La sua mente era diventata una costellazione di idee sconosciute, strappata violentemente dello spazio più profondo e trascinata in un universo non suo. Per Miss Wymerick quel microcosmo ghiacciato era una riscoperta continua di déjà vu senza risposte, una replica di un film muto senza sottotitoli.

Attraversarono per qualche minuto alcune altre vie di Nifleimur, sempre più gremite e vivaci, fino a quando arrivarono di fronte ad un imponente edificio protetto da un altissimo cancello di ferro. L’ingresso consisteva in una sorta di rudimentale arco di trionfo, con al centro un colorato stemma che sembrava preso in prestito da una qualsiasi popolazione celtica o nordica.

«Ci siamo.» annunciò solennemente il dottor Tess.

Kristine e Damian erano elettrizzati e allo stesso tempo spaventati dall’idea di incontrare il primo cittadino (in quanto a potere) di tutto il mondo a loro noto. In effetti, essendo di umili origini, mai avevano osato avvicinarsi così tanto alla nobiltà di Nifleimur.

Tess proferì qualche parola alle guardie della villa. Dopo aver per più volte indicato Élodie, gli fu dato il permesso di entrare liberamente.

«Benvenuti a Castel Newcomen.» esclamò un servitore, vedendo arrivare i quattro attraverso il lungo sentiero innevato «Permettetemi di introdurvi all’interno nel modo più accogliente possibile.»

«Non male trovare ragazze nel bosco, cugina.» sussurrò Damian «Anche se non ho idea di cosa stia succedendo, penso che ne usciremo con qualche soldino.»

Kristine annuì convinta, sistemandosi le pieghe sulla giacca per apparire di quell’un per cento migliore allo sguardo del conte.

Il mastodontico portone d’ingresso si aprì non senza qualche scricchiolio, e i nostri protagonisti entrarono con grande cautela. Dinanzi ai loro sguardi apparì una magnifica sala tappezzata di carta da parati bianca, colma di preziosi mobili e ornamenti rigorosamente antichi. Vasi, anfore, tavoli intagliati a mano, sedie ricoperte di velluto beige, quadri di paesaggi invernali. Il candido colore del salone sembrava quasi una continuazione del freddo paesaggio esterno, adornato però da un manto di raffinatezza grandiosa e secolare, tanto da far sembrare il luogo più un museo che l’ingresso di un’abitazione.

Il padrone di casa non si fece di certo aspettare, e arrivò dopo qualche minuto. Il conte Pascal Newcomen era, praticamente, il governatore di tutta Nifleimur. Nessun altro uomo era dotato di simile potere. Seppur non abituato a mostrarsi spesso in pubblico, governava la sua contea con estremo giudizio e prendeva in ogni occasione la parte del popolo. Quindi, anche se pochi lo conoscevano di persona, tutti in qualche modo lo stimavano. C’è da aggiungere che i cugini Cailean si aspettavano una figura molto più anziana. Al contrario, Newcomen aveva circa quarant’anni e ne dimostrava perfino di meno. Era vestito con un’elegante giacca blu e azzurra, arricchita da risvolti dorati e spille luccicanti.

«Sono stato informato del vostro arrivo, e con grande piacere vi accolgo nel mio castello.» disse, dall’alto delle scale del salone principale.

«Onore nostro, conte.» rispose Tess.

«Se quel che dite è vero, l’onore non potrà che essere mio.» continuò il conte, scendendo le scale e adocchiando Élodie, mentre Kristine e Damian si stringevano nelle spalle dalla soggezione.

«Dev’essere proprio lei.» continuò il medico.

Newcomen si avvicinò all’impassibile e dubbiosa Miss Wymerick, che replicò con un’occhiataccia di disagio. Il conte la esaminò come se si trovasse di fronte ad una statua di cera.

«Crius. Esattamente lei.» annunciò quindi Newcomen, senza nascondere l’emozione «Pensavo che fossimo davvero spacciati. È un momento storico per l’umanità, finalmente spiriti e uomini coesistono per un futuro più prospero.»

Così parlò, e si inginocchiò in onore dell’ospite.

«No, io sono Élodie Wymerick.» replicò sfacciatamente la ragazza, allungando la mano al conte in segno d’amicizia.

Tess la guardò male.

«Chi? Non si ricorda nulla, Lady Crius?» chiese il conte, sorpreso.

Élodie scosse la testa.

«Oh, questo però non era previsto nei libri.» commentò Newcomen, rivolgendosi a Tess.

«Immagino, ma il caso è proprio quello narrato.» disse quest’ultimo «La memoria mancante è un pezzo chiave, ma presumo che ritornerà presto. Ad ogni modo, signor conte, se le spiegasse la vera storia, potrebbe aiutarla a ripristinare la sua mente. Così anche i qui presenti signori Cailean si informeranno dell’accaduto.»

Pascal Newcomen apprezzò la proposta del savio dottore e iniziò a parlare sotto gli attenti occhi cristallini di Élodie.

«Dunque, carissima, non si deve preoccupare. Risolveremo tutto. Come ben saprete, Nifleimur è per definizione “la città del ghiaccio infinito e della ventisettesima costante”. Solo e sempre freddo glaciale, neve e tormente. La città nacque sopra i ruderi di una civiltà antica, che a sua volta, a quanto pare, aveva fondato i suoi pilastri su una cultura ancor più primitiva. Dalla fondazione di Nifleimur, di cui non rimangono fonti storiche, abbiamo sempre vissuto senza espanderci e senza allontanarci eccessivamente dai limiti che conosciamo. Semplicemente perché non ce n’è bisogno. Quello della pace è un concetto universale, e risiede nei desideri d’ognuno. Quindi perché cercare l’impossibile? Sopravviviamo con la caccia, e grazie ai nostri numerosi bio-orti sistemati in zone strategiche e miracolosamente tenute fertili dal vento nordico. Oh, i miracoli: qui entra in gioco lei, Lady Crius.» e indicò Élodie.

«Ricordo il mio nome, e non è “Crius. Non sono nemmeno “Lady”, se le può interessare.» replicò cortesemente.

«Lei è lo spirito dell’inverno, la ninfa del ghiaccio. Colei che mantiene viva la neve e ci permette di sopravvivere. La nostra divinità.» spiegò fieramente Newcomen.

«Io non faccio nulla di tutto ciò. O almeno, non ricordo di poterlo fare. Ne è sicuro, signor conte?»

«Certamente. Crius non si vede quasi mai, ed è in contatto solo con il suo richiamatore, un uomo in grado di poter evocarla per farle svolgere il suo lavoro. È un ruolo imprescindibile, ed essere richiamatore è un fatto di famiglia, di sangue. Tuttavia, l’ultimo discendente di questa nobile e fondamentale stirpe, il giovane Matthew, è misteriosamente scomparso qualche giorno fa. E, secondo i libri dei nostri antenati, in casi come questo Crius sarebbe riapparsa pubblicamente per aiutarci a ritrovarlo. Guarda caso, proprio oggi, ecco una ragazza del tutto simile alle descrizioni di Matthew che compare dal nulla in un bosco.»

Élodie, pur avendo assimilato con cura la breve storia del conte Newcomen, non era ancora molto convinta. Non che le dispiacesse l’idea di essere una semi-divinità spirituale, anzi, però temeva che non avrebbe saputo reggere un onere così pesante. E, contemporaneamente, la sua stessa parte del cervello che le faceva dubitare sugli orologi la spingeva a non credere di essere Crius.

«Ma non ha spiegato perché Nifleimur è anche la città della ventisettesima costante, signor conte.» domandò, mettendo in notevole difficoltà Newcomen, che non voleva sfigurare agli occhi di un cittadino così di spicco come il dottor Tess.

«Non tutto, nella vita, ha una spiegazione.» rispose con incertezza «Trovarono la “definizione” di Nifleimur incisa su una targhetta di metallo rinvenuta una cinquantina d’anni fa durante alcuni scavi archeologici. Da allora, abbiamo usato il numero 27 come simbolo e portafortuna. Non so nulla di più. In ogni caso, ha compreso il suo compito? Capirà che senza di lei i ghiacciai si scioglierebbero, e Nifleimur finirebbe completamente sommersa e distrutta dalle inondazioni. Per questo eravamo così ansiosi di trovare Matthew. O lei, signorina Crius.»

 Con grande sorpresa della cugina, avendo preso coraggio, intervenne anche Damian.

«Ma signor conte! C’è un problema di fondo.»

«Dica, signor Cailean.»

«Se la ragazza non si ricorda nulla ed è ancora preda all’amnesia, come può sapere come si comporta una buona Crius? Come può usare i suoi “poteri”?»

Effettivamente, ognuno era così immerso nella spiegazione del conte che nessuno aveva pensato al fatto che Élodie, almeno in quel momento, non sapesse fare niente.

«Dottor Tess… propone qualcosa?» domandò speranzoso Newcomen, aggrottando le sopracciglia dal disappunto.

«Onestamente, sì. Penso che dovremmo far vivere qualche giorno la ragazza in città, o meglio, in periferia, lontana da possibili curiosi. Così, abituandosi alla vita di Nifleimur, potrebbe capire come ritrovare Matthew, o riacquistare le sue abilità spiritiche.»

A Élodie non piacevano molto tutti quei paroloni e quelle teorie riguardanti la salvaguardia della contea e del popolo, e si sentiva considerata quasi come un automa, una macchina da preservare e adibita a svolgere un solo determinato compito. E poi, in cuor suo, nonostante tutte le prove, era convinta di non essere nessuno di così speciale.

«Orsù, è deciso.» stabilì il conte, rivolgendosi a Miss Wymerick «Andrai a vivere con i tuoi salvatori, i cugini Cailean, finché non ritroverai la memoria.»

Siccome non avrebbero potuto in alcun modo prendersi cura di una preziosissima divinità, Kristine e Damian stavano per protestare in nome della loro povertà. Tuttavia, Newcomen menzionò una futura, lauta, ricompensa. Scontato aggiungere che i due accettarono senza indugio.

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